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IL COLORE DEL MALE (The Dark Descent, 1987) a cura di DAVID G. HARTWELL A Tom Doherty e Harriet P. McDougal e alla Tor Books Horror, in special modo a Melissa Ann Singer, editor, per l'assistenza e la pazienza. A Kathryn Cramer e Peter D. Pautz per il loro entusiasmo e duro lavoro, e per la bella quanto stimolante discussione. A Patricia W. Hartwell per aver lasciato che ammucchiassi cataste di libri e sparpagliassi mucchi di fogli in tutta la casa e, nonostante ciò, ha continuato a amarmi. Indice Ringraziamenti Introduzione PARTE I Il colore del male Stephen King Lo stretto M. R. James Il frassino Lucy Clifford La nuova madre Russell Kirk C'è una lunga, lunga strada tortuosa H. P. Lovecraft Il richiamo di Cthulhu Shirley Jackson Gente d'estate Nathaniel Hawthorne Il giovane Goodman Brown J. Sheridan Le Fanu Il signor giudice di giustizia Harbottle RayBradbury La folla Michael Shea L'autopsia Edit Nesbit Il matrimonio di John Charrington Karl Edward Wagner I graticci di legno Robert Aickman Più forte di noi Fritz Leiber L'Espresso per Belsen Robert Bloch Sinceramente tuo, Jack lo Squartatore
Charles L. Grant Se viene Damon Manly Wade Wellman Vandy, Vandy PARTE II Lo sguardo della Medusa Robert Aickman Le spade Thomas M. Disch Gli scarafaggi Theodore Sturgeon La parentesi felice Clive Barker Terrore Edgar Allan Poe La rovina della Casa Usher Stephen King La scimmia Michael Bishop Dentro le mura di Tiro H. P. Lovecraft I ratti nei muri J. Sheridan Le Fanu Il pittore Schalken Charlotte Perkins Gilman La tappezzeria gialla Robert Hichens Come il professor Guildea trovò l'amore Richard Matheson Nato di uomo e di donna Joanna Russ Cara Emily Dennis Etchison Adesso puoi andare D.H. Lawrence Il vincitore sul cavallo a dondolo Tanith Lee Tre giorni Ramsey Campbell Mackintosh Willy Henry James L'angolo allegro PARTE III Una raccapricciante oscurità senza forma Fritz Leiber Fantasma di fumo Gene Wolfe Sette notti americane Charles Dickens Il segnalatore Stephen King Crouch End Joyce Carol Oates Lato notte Ivan Turgenev Clara Militch Robert W. Chambers L 'aggiustareputazioni Fitz-James O'Brien Che cos'era? Shirley Jackson Il meraviglioso estraneo Ambrose Bierce La Cosa Maledetta
Edith Wharton Dopo Thomas M. Disch La costa asiatica Robert Aickman L'ospizio Philip K.Dick Qualcosa per noi temponauti Ringraziamenti Quest'antologia è il frutto di tre anni di incontri settimanali e di riflessioni congiunte con Peter D. Pautz e Kathryn Cramer sulla natura e i pregi della letteratura dell'orrore, e sull'evoluzione storica di cui questo genere narrativo è stato protagonista. Le conoscenze maturate da Peter sulle tendenze attuali del filone fantastico e l'esperienza teorica di Kathryn hanno avuto un ruolo determinante nella genesi del mio approccio critico al genere horror e alle diverse interpretazioni narrative che lo hanno caratterizzato nel tempo. Accanto alla fertile collaborazione di Peter e Kathryn, è doveroso menzionare il particolare contributo fornito da Jack Sullivan, Kirby McCauley e Peter Straub nell'analisi dei diversi aspetti della letteratura dell'orrore; e il prezioso apporto di Samuel R. Delaney, a cui va anche il merito di avere concepito il titolo della Parte III («A Faboulous Formless Darkness». N.d.R.). Inoltre, sono profondamente debitore nei confronti di quei grandi compilatori di antologie, da M.R. James, Dashiell Hammett, Elizabeth Bowen e Dorothy Sayers a Wise e Fraser, Boris Karloff e August Derleth, fino a Kirby McCauley, Ramsey Campbell e Jack Sullivan che, con competenza, costante spirito di ricerca e sensibilità artistica hanno guidato le mie letture nei decenni passati. Insieme a loro, la mia gratitudine va a Robert Hadji e Jessica Salmonson, per il prezioso sostegno nelle lunghe discussioni che ci hanno visto spesso impegnati fino a tarda notte; e alla World Fantasy Convention: anno dopo anno la World ha portato alla ribalta ottimi scrittori e saggisti che hanno fatto della letteratura dell'orrore un genere narrativo vivo e fecondo. Infine, i miei sinceri ringraziamenti a Stephen King, per avermi concesso di citare un passo di Danse Macabre. Introduzione «Per apprezzare appieno lo spirito di questi racconti è necessario affrontarli con mente metodica e una ragionevole dose di fiducia se non in quelle che un tempo si solevano chiamare le leggi della natura, almeno nelle consuetudini che oggi sospettiamo le siano
proprie... Per il vero superstizioso ogni evento strano e misterioso ha un solo significato: è qualcosa che ha realmente luogo.» DASHIELL HAMMETT, Creeps by Night «In genere, il fascino esercitato dalla componente spettrale e macabra è limitato, perché richiede da parte del lettore un certo grado d'immaginazione e la capacità di distaccarsi dalla realtà quotidiana. È relativamente esiguo il numero di coloro che sono sufficientemente immuni dall'incantesimo della routine giornaliera...» H.P. LOVECRAFT, Supernatural Horror in Literature I Tutto ebbe inizio una domenica mattina di luglio in cui presenziavo, in qualità di moderatore, a un dibattito pubblico organizzato nell'ambito di un piccolo congresso sulla letteratura dell'orrore che si svolgeva a Necon, nel New England (USA). Fra gli esperti chiamati a prendere parte alla tavola rotonda c'erano Alan Ryan, Whitley Strieber, Peter Straub, Charles L. Grant e, se la memoria non mi tradisce, Les Daniels, tutti scrittori di narrativa dell'orrore. L'argomento su cui verteva l'incontro riguardava gli influssi letterari, e quindi gli autori che, a giudizio degli scrittori convocati, avevano rivestito un particolare significato nella genesi della propria carriera artistica. Mentre si susseguivano gli interventi e venivano menzionati, via via, tutti i nomi classici della letteratura horror — Poe, Bradbury, Leiber, Lovecraft, Kafka e altri — io notai che, eccezion fatta per un omaggio d'obbligo a Stephen King, tutti gli altri autori citati avevano scritto essenzialmente racconti brevi. Allora interruppi il dibattito e invitai i partecipanti a dedicare gli ultimi minuti dell'incontro a un breve commento su quella mia osservazione. Il contenuto dei loro interventi fu più o meno il seguente: nell'ambito del genere horror i lavori validi sono quasi tutti racconti brevi. Dopo alcuni mesi di riflessione, trascorsi una posticipata notte di Halloween alla World Fantasy Convention in compagnia di Peter Straub; in quell'occasione ebbi modo di esporgli le idee che andavo maturando sulla recente evoluzione della letteratura dell'orrore dalla formula narrativa del'racconto breve a quella del romanzo. Il risultato della nostra conversazione fu quello di consolidare ulteriormente la mia convinzione che il racconto lungo dell'orrore rappresentasse un'avanguardia, un esperimento, un
problema estetico ancora irrisolto che Straub, King e altri autori contemporanei stavano affrontando con energia e determinazione. Ma mi sembrava prematuro esprimere un giudizio generale sulla natura della nuova formula narrativa per la quale propendeva la letteratura horror. Che cosa ne era stato, mi chiesi allora, del racconto breve? Il racconto dell'orrore non poteva certamente essere scomparso nel nulla dopo 160 anni di crescita feconda e di popolarità. In qualità di responsabile dell'assegnazione dei premi della World Fantasy Convention dal 1975, ero consapevole dell'enorme fortuna goduta, nel decennio precedente, dal racconto horror. Da siffatte considerazioni nacque l'idea di pubblicare questa antologia, un'opera che siglasse la fine dell'egemonia del racconto breve attraverso una raccolta di brani che tentasse di riassumere, in maniera esatta e conclusiva, l'intera evoluzione di questa formula narrativa, dalle sue origini fino ai giorni d'oggi, e di descrivere e indicare i confini del genere horror così come è stato ridefinito in epoca contemporanea. Perché a me sembra evidente che l'approccio tradizionale a questo filone letterario, nella forma codificata dalle antologie degli anni '40, sia obsoleto, anzi che fosse già obsoleto nel momento in cui quelle antologie venivano pubblicate; purtroppo, però, tale approccio ha continuato a informare l'analisi dei critici, a detrimento di una più chiara interpretazione di questo genere letterario. E, ancora, la sua influenza è stata tale che a tutt'oggi la maggior parte degli appassionati di questo tipo di narrativa si limita a leggere quei romanzi e quei racconti catalogati ufficialmente come testi dell'orrore, perdendo, così, l'occasione di apprezzare alcune delle migliori opere horror scritte in questo secolo. Nella redazione de Il colore del male la mia aspirazione è stata dunque quella di raccogliere il maggior numero di racconti che potessero essere contenuti in un unico grande volume, con l'intento di analizzare con chiarezza la natura di questo genere letterario e di fornire un utile spunto per più approfondite interpretazioni future. «La paura ha regole estetiche proprie — come Le Fanu, Henry James, Montagu James e Walter de la Mare hanno ripetutamente dimostrato — e deve rispettare norme precise. Idealmente, in una storia che ha a che fare con la paura dovrebbe essere sempre mantenuto un certo livello di tensione. E quell'altro mondo diverso e austero, il mondo dei fantasmi, non dovrebbe suscitare tanto repulsione o emozioni violente nel suo impatto con il nostro, quanto piuttosto una specie di riverente timore.»
ELIZABETH BOWEN, The Second Ghost Book «L'unica prova della reale presenza del mistero in un racconto, consiste nel verificare se la narrazione suscita nel lettore un profondo senso di terrore e di presa di contatto con sfere e forze sconosciute.» H.P. LOVECRAFT, Supernatural Horror in Literature. II L'evoluzione della narrativa dell'orrore La narrativa dell'orrore rappresenta da oltre 150 anni una componente vitale della letteratura inglese e americana. Inventata insieme alla formula del racconto breve, essa ne ha, al tempo stesso, profondamente influenzato l'evoluzione. Fino al decennio scorso, infatti, la letteratura dell'orrore trovava la sua principale forma di espressione proprio nel racconto breve e nella novella. Oggi non più. A partire dai primi anni settanta, e nell'arco di un periodo assai breve, queste formule narrative hanno ceduto il passo al romanzo. La nuova tendenza fu siglata inizialmente dal successo straordinario di un ristretto numero di opere, quali Rosemary's Baby, The Other, The Exorcist, The Mephisto Waltz, e dei film che da esse furono tratti e che ottennero altrettanti consensi di pubblico; poi, nel 1973, il diluvio, con Stephen King sulla cresta dell'onda, destinato a mutare la natura della letteratura dell'orrore nell'immediato futuro, e a trascinare con sé tutti gli autori viventi di racconti brevi. Furono molto pochi gli scrittori dell'orrore, giovani e meno giovani, che resistettero alla tentazione commerciale o estetica di adottare la soluzione del romanzo, una tentazione che portò alla creazione di alcune fra le migliori opere horror di tutti i tempi, ma che, al tempo stesso, favorì la pubblicazione affrettata di un gran numero di libri privi di alcun valore artistico. I modelli ai quali si ispiravano questi nuovi romanzi erano i bestseller che li avevano preceduti, i filmdi maggior successo e i migliori racconti brevi dei decenni antecedenti. Quando, all'inizio degli anni '80, quest'ondata si placò, gran parte dei lavori più scadenti rimasero sepolti nei cataloghi degli editori meno qualificati. Ma il romanzo dell'orrore si era ormai imposto definitivamente. Questa radicale innovazione formale si è rivelata estremamente significativa, e per una molteplicità di ragioni: in primo luogo, ha stimolato la sperimentazione e ha incoraggiato una rapida evoluzione artistica; inoltre, grazie ad
essa, tutta la letteratura dell'orrore ha tratto giovamento dall'apporto concettuale e tecnico di altri generi letterari e di altre espressioni artistiche — quali il cinema, la televisione e i fumetti — dalle quali la narrativa horror ha «preso in prestito» ogni possibile elemento capace di ispirare terrore o raccapriccio. Il giudizio più utile e provocatore che possiamo esprimere sul romanzo dell'orrore degli ultimi anni è che esso rappresenta una forma d'avanguardia, una forma letteraria sperimentale che tenta di tradurre quegli effetti terrificanti, un tempo ritenuti prerogativa esclusiva del racconto breve, in una struttura narrativa di più ampio respiro ma capace di conservare inalterate l'atmosfera e l'efficacia. Prima di questo avvento, la tradizione annoverava già alcuni esempi isolati di romanzi dell'orrore più o meno famosi da Frankestein e Dracula a The Haunting of Hill House, ma si trattava di esempi relativamente sporadici rispetto alla proliferazione costante e ricca di racconti brevi da Poe ai giorni nostri. Dunque, i romanzi dell'orrore del passato non avevano dato vita, nel loro complesso, a un corpus letterario e tecnico tradizionale e, pertanto, non è da questa fonte che ha tratto origine il romanzo moderno dell'orrore. Sia dalle opere più recenti sia dalle dichiarazioni pubbliche di molti scrittori, emerge con chiarezza come Stephen King, Peter Straub, Ramsey Campbell e numerosi altri romanzieri abbiano analizzato insieme i problemi derivanti dal tentativo di trasformare il romanzo dell'orrore in una formula narrativa valida e raffinata, e abbiano cercato di risolverli attraverso la propria arte. In questo processo, essi hanno espresso l'auspicio di vedere pubblicato un testo che, come Il colore del male, fosse in grado d'illustrare il contesto dal quale ha preso avvio la narrativa horror, e quello in cui essa si muove oggi. Il romanzo dell'orrore nella sua forma attuale affonda in larga misura le proprie radici nelle novelle ampiamente elaborate e nei racconti brevi di cui questo libro offre un saggio. Di fatto, la nostra concezione della letteratura dell'orrore è mutata e si è evoluta così rapidamente nel corso degli ultimi decenni, che per porre in luce il carattere composito assunto da questo genere narrativo si è reso necessario compilare un'antologia di racconti dell'orrore secondo criteri nuovi. Prima di passare al paragrafo successivo e di procedere a uno studio anatomico della narrativa horror, è interessante notare che, benché a partire dalla prima guerra mondiale ogni decennio di questo secolo abbia conosciuto momenti di rinnovato interesse per il genere dell'orrore, quello at-
tuale è il primo decennio in cui tale «revival» sia culminato nella pubblicazione di un numero così elevato di romanzi. Negli anni venti, grazie all'opera di autori come M.R. James, insigne scrittore e compilatore di antologie, e di altri maestri quali Algernon Blackwod, Walter de la Mare, Edith Wharton e così via, si assiste a un generale aumento d'interesse per il filone horror, e soprattutto per la ghost-story. È infatti a quegli anni che risale la fondazione, negli Stati Uniti, della grande rivista dell'orrore Weird Tales. Nel decennio successivo, la narrativa del fantastico e i racconti «neri» godettero di particolare fama grazie all'impulso offerto dalla rivista sopra citata, dalla crescita del circolo di scrittori seguaci di H.P. Lovecraft e dalla proliferazione di antologie, sia sotto forma di collane che di grandi compendi, pubblicate per celebrare i cento anni della letteratura dell'orrore. Dopo i film e i libri di questo decennio, l'inizio degli anni '40 vide la nascita delle più raffinate collezioni di «grandi opere», fra le quali ricordiamo And the Darkness Falls a cura di Boris Karloff, e Great Tales of Terror and the Supernatural curato da Herbert Wise e Phyllis Fraser; a quello stesso periodo risale inoltre la fondazione della Arkham House, la grande casa editrice voluta dallo scrittore Donald Wandrei per pubblicare l'opera omnia di H.P. Lovecraft e che, ancor oggi, è specializzata nella divulgazione delle collezioni dei più grandi autori di racconti e romanzi horror. Dopo la guerra fu la volta degli orrori della fantascienza degli anni cinquanta, resi famosi dai film sui mostri e dalle opere di Richard Matheson, Jack Finney, Theodore Sturgeon e Ray Bradbury. All'inizio degli anni '60, con l'avvento e la fortuna dei film horror di mezzanotte trasmessi in televisione, scoppiò la moda delle antologie o delle collezioni tascabili di quanto di peggio proponeva la letteratura dell'orrore. Ma, come abbiamo sottolineato in precedenza, in tutti questi anni il racconto breve continuò a rivestire un ruolo di primo piano: perfino i romanzieri erano famosi soprattutto per i loro racconti. Da allora molto è cambiato. «L'atmosfera è l'elemento più importante, perché il criterio finale di valutazione dell'autenticità (di un'opera) non è la coerenza della trama, ma la creazione di una determinata sensazione.» H.P. LOVECRAFT, Supernatural Horror in Literature «Anche se non possiamo fare a meno di ricercarlo, il frisson dell'orrore è, fra le stranezze della nostra vita emotiva, quella più
strana. Tanto per cominciare, in genere è una risposta a qualche cosa che non c'è. In altre parole, in circostanze normali esso è presente solo in alcuni casi, come negli incubi, nelle fobie e in letteratura. In questo senso è diverso dal terrore, che è la paura estrema e improvvisa che si prova di fronte a una minaccia materiale... Il terrore può venire dissipato da una raffica di pallottole. L'orrore, invece, è quella paura piena di fascino che si prova di fronte a una causa immateriale. Le paure degli incubi non possono venire dissipate da una raffica di pallottole; fuggirle significa imbattersi in esse dietro ogni angolo.» SIGMUND FREUD, The Uncanny III Che cos'è Sigmund Freud ha osservato che l'uomo riconosce immediatamente le scene intese ad evocare orrore «anche se, in realtà, suscitano (soltanto) risolini soffocati». A me sembra, tuttavia, che la letteratura dell'orrore sia sempre stata collegata o classificata in base alla presenza nel testo di determinati elementi, e che questo, nel tempo, abbia creato non poca confusione fra i critici. Definizioni quali racconti del mistero, racconti gotici, racconti del terrore, racconti di fantasmi, racconti fantastici, racconti «neri» — tutti caratterizzati da un'intrusione, reale, sottintesa o falsa, del soprannaturale nel mondo naturale, un'intrusione che suscita paura — sono le etichette con le quali viene indicato l'intero corpus letterario oggetto della nostra analisi: e talvolta esse vengono perfino utilizzate interscambiabilmente da uno stesso autore. Inoltre, poiché spesso, e in molte delle opere migliori, tale intrusione ha assunto le spoglie di un fantasma, in circa la metà dei casi si assiste a un uso indistinto dei termini «racconto dell'orrore» e «storia di fantasmi» o «ghost-story». E questo, nonostante sia stato unanimemente riconosciuto che l'orrore soprannaturale in letteratura si esprime attraverso una molteplicità di manifestazioni (dai diavoli ai vampiri, dai lupi mannari agli dei pagani e così via), e che in un discreto numero di ghost-stories i fantasmi non hanno affatto lo scopo d'ispirare orrore. Il grande studioso J.A. Cuddon riteneva che in origine i due generi fossero separabili, e ha individuato la nascita di un primo connubio fra le storie di fantasmi e i racconti dell'orrore nel periodo compreso fra il 1820 ed 1870: «In questo periodo l'evoluzione della ghost-story e quella del rac-
conto dell'orrore tendono a coincidere: di fatto è difficile individuare criteri oggettivi in base ai quali distinguerli. In un approccio tassonomico la classificazione inizia invariabilmente a uno stadio precedente. .. Tutto sommato è probabile che una storia di fantasmi contenga sempre un elemento di orrore». Jack Sullivan, un altro illustre studioso e compilatore di antologie, sintetizza questo problema terminologico nel modo seguente: «Ci troviamo intrappolati in una ragnatela di definizioni e di permutazioni che cresce inesorabilmente come i funghi della Casa Usher». Sullivan opta per il termine racconto di fantasmi come definizione generica, adatta, presumibilmente, ad assolvere entrambe le funzioni. Noi adottiamo, invece, l'etichetta letteratura dell'orrore, sia per attenerci all'uso invalso nella realtà commerciale [è questo infatti il nome con cui si designano le sezioni in cui compaiono i romanzi e le antologie appartenenti a questo genere letterario], sia perché esso sottolinea quel rapporto fra il lettore e il testo che costituisce l'essenza stessa dell'esperienza di lettura della narrativa horror, e non i singoli elementi della trama (come ad esempio la presenza di un fantasma, concreto o figurato che sia). E inoltre, H.P. Lovecraft, il teorico e critico che ha descritto con maggior attenzione questo genere letterario nel suo Supernatural Horror in Literature, e che si configura, senza dubbio, come il più importante scrittore americano di narrativa dell'orrore della prima metà di questo secolo, non ha incluso, se la memoria non mi tradisce, alcun racconto convenzionale sui fantasmi, nel corpus delle sue opere. È il saggio di Lovecraft che fornisce la chiave di volta sulla quale deve strutturarsi l'architettura dell'orrore: l'atmosfera. E mi sembra che questo criterio sia in armonia con l'osservazione di Freud. In altri termini questo significa che è virtualmente possibile sperimentare reali sensazioni di orrore leggendo qualsiasi opera di narrativa, sia che si tratti di un romanzo ambientato nel Far West, di un racconto gotico contemporaneo, di un libro di fantascienza, di un giallo o di un testo appartenente a qualsiasi altra categoria letteraria. Qualsiasi opera può essere inclusa nel genere dell'orrore (come quelle presentate in questa antologia), se l'atmosfera della narrazione lo consente. Ciò implica, quindi, che l'orrore non è legato alla dimensione del soprannaturale e che non è indispensabile che all'interno della storia figurino apparizioni, materializzazioni o altri espedienti di questo genere. Se l'atmosfera della narrazione risponde a certi requisiti, l'interazione emotiva è sempre presente e si esprime al massimo livello, e noi percepiamo l'orrore anche quando non sortisce l'effetto desiderato dall'autore.
«Loro (le persone che non leggono libri dell'orrore), li considerano alla stregua della pornografia, una pornografia che provoca orripilazioni anziché erezioni. E il lettore che assapora tali sensazioni... be' è un masochista, schiavo di una droga perversa, una bestia psicotica e decadente.» DAVID AYLWARD, Revenge of the Past «In primo luogo: il desiderio di vìvere un'esperienza mistica che sembra palesarsi in periodi di confusione sociale, quando il processo politico subisce una battuta di arresto — non appena percepiamo che il nostro mondo ci viene meno, andiamo alla ricerca di prove dell'esistenza di un altro mondo —; in secondo luogo: l'istinto di vaccinarsi contro la paura degli orrori reali presenti intorno a noi... attraverso iniezioni di orrore immaginario, che ci tranquillizzano con la temporanea illusione che le forze della follia e dell'omicidio possano essere domate e obbligate a offrirci un intrattenimento meramente teatrale.» EDMUND WILSON, A Literary Chronicle «Avevo l'abitudine di leggere libri dell'orrore — quando mi sentivo depressa per provare emozioni forti che mi scuotessero - ma ne traevo solo un sollievo temporaneo.» KATHRYN CRAMER (carteggio privato) «Ciò dimostra che il racconto dell'orrore e/o del soprannaturale è serio, è importante, è necessario... non solo per quegli esseri umani che leggono per pensare, ma anche per quelli che leggono per sentire. È possibile addirittura dimostrare che, mentre questo secolo folle volge alla fine — una fine che si prospetta sempre più infausta e assurda — questo potrebbe essere il genere narrativo più importante e utile di cui uno scrittore moralmente retto potrebbe servirsi.» STEPHEN KING, Introduzione a The Arbor House Treasury of Horror and the Supernatural IV La morte del genere horror
La morte del romanzo e la morte del racconto breve sono argomenti letterari sui quali scherziamo spesso; ragione per cui non avrebbe dovuto destare particolare sorpresa l'annuncio, contenuto in una recente raccolta di saggi sulla narrativa del soprannaturale in America dal 1820 al 1920, della triste scomparsa, avvenuta nel 1920, di questo filone letterario. Tale genere, sostengono i curatori di questo testo — per altri aspetti, ineccepibile — si è smaterializzato per lasciare il posto alla psicoanalisi, che attualmente ne farebbe le veci. Mi sorprende non poco la tesi secondo la quale un genere narrativo che incarna la verità psicologica sotto forma di metafora possa venire sostituito dalla scienza: sarebbe come rimpiazzare la pittura con la fotografia. Ma questo è solo uno degli ultimi esempi di «approccio necrologico» a una questione letteraria, uno stratagemma efficace per eliminare radicalmente un problema indesiderato e uno strumento di cui spesso si servono coloro che si autonominano arbitri del gusto. Riesumiamo per un attimo Edmund Wilson, il grande critico modernista. All'inizio degli anni '40 Wilson scrisse un saggio sulla letteratura dell'orrore che metteva in discussione i criteri di fondo su cui si basavano alcune importanti opere appartenenti a questo genere: criteri che erano stati definiti dai compilatori di antologie degli anni '30 e '40 come Dorothy Sayers, M.R. James, Hugh Walpole, Marjorie Browen e Wise, Fraser e Karloff. Wilson propose un suo elenco di capolavori letterari che, partendo da Poe, Gogol — il maestro più insigne —, Melville e Turgenev, comprendeva Hardy, Stevenson, Kipling, The Heart of Darkness di Conrad, The Turn of the Screw di Henry James, Walter De la Mare e, infine, Kafka - che andava diritto alle morbosità della psiche —. In quest'opera Wilson sembra essere sul punto di giungere a una ridefinzione della letteratura dell'orrore, ma sfortunatamente il suo saggio è pervaso dal senso di disagio sperimentato dall'autore, umanista e razionalista, di fronte al soprannaturale. Egli rifiuta di annoverare fra le opere dell'orrore gran parte dei testi classificati come tali secondo i canoni classici, e nega l'appellativo di scrittore horror ad autori famosi soprattutto per avere pubblicato scritti di questo genere; Wilson dimostra inoltre una particolare antipatia per H.P. Lovecraft, l'antimodernista, — sottoponendolo a una critica spietata in un saggio distinto e dedicato interamente al famoso scrittore. Per meglio comprendere la posizione di questo critico è opportuno soffermarsi alcuni istanti sulla sua analisi dell'opera kafkiana: «La visione dell'orrore morale» di Kafka si esprime attraverso «una narrazione che cat-
tura la nostra attenzione e fantasie che fanno rabbrividire più di tutta l'opera di Algernon Blackwood e M.R. James messe assieme». I personaggi di Kafka «sono gli abitanti di un mondo in cui, per quanto sia prosaico, non esiste alcuna possibilità di appiglio certo alla realtà, e nel quale non si è mai sicuri se gli uomini si salveranno o saranno dannati... egli andava diritto alle morbosità della psiche senza quelle burattinate di diavoli e spettri che gli scrittori precedenti si portavano ancora dietro». L'ottica in cui Wilson considera l'evoluzione del genere horror è implicita in queste osservazioni: egli vede in essa una progressione lineare verso fantasie della psiche del tutto scevre di orpelli soprannaturali. E giudica chi mostra interesse per simili orpelli un retrogrado, perché non comprende come una formula narrativa così obsoleta possa avere valore alcuno per il lettore moderno. Poiché Wilson parte dal presupposto che l'evoluzione del genere horror si sia conclusa nell'opera kafkiana, il suo giudizio sulle letture dei contemporanei — che accusa d'indulgere a un gusto redivivo per una forma narrativa obsoleta — gli consente di decretare innanzi tutto la morte della ghoststory, una morte avvenuta in concomitanza con l'avvento della luce elettrica, e di affermare che ogni pubblicazione di racconti di questo genere non rappresenta che un vano tentativo di riesumare un filone narrativo ormai definitivamente scomparso. Vi suona familiare? È il solito vecchio ritornello necrologico della morte di un genere letterario. Be', ritorna alla tua tomba caro Edmund. Tu sei morto, mentre la letteratura dell'orrore è viva e vegeta, e si sta felicemente evolvendo in molteplici direzioni. Ma l'apparato critico di Wilson all'analisi di questo genere narrativo fu all'epoca, e resta ancora oggi ricco di spunti interessanti. Perché è chiaro che se in questo secolo la letteratura horror è stata protagonista di un certo processo evolutivo, questo si è svolto principalmente nell'ambito delle morbosità della psiche e delle rappresentazioni di un mondo in cui, per quanto prosaico sia, non esiste alcuna possibilità di appiglio certo alla realtà. «Per raggiungere la dimensione del fantastico non è né necessario né sufficiente descrivere cose straordinarie. L'evento più strano può rientrare nell'ordine dell'universo se è un evento isolato in un mondo governato da leggi... È impossibile imporre limiti al fantastico: o non esiste affatto, oppure si estrinseca in tutto l'universo. È un mondo intero nel quale le cose palesano un pensiero tormentato e prigioniero, un pensiero bizzarro e incatenato al tempo stes-
so, che tenta di erodere gli anelli della catena che lo trattiene, senza riuscire mai a esprimersi. In questo mondo la materia non è mai interamente materia, perché compie solo tentativi costantemente vani verso il determinismo, e la mente non mai completamente mente, perché è caduta in schiavitù, si è impregnata di materia e si è offuscata. Tutto è dolore. Le cose soffrono e tendono all'inerzia, senza mai raggiungerla; la mente, avvilita e schiava, si sforza invano di pervenire alla coscienza e alla libertà.» JEAN-PAUL SARTRE, Aminadab o The Fantastic Considered as a Language V Le Tre Correnti Riprendiamo la nostra analisi della narrativa dell'orrore contemporanea. Attualmente questo genere letterario si presenta articolato in tre correnti, o categorie principali o raggruppamenti a tema specifico, nei quali il fattore discriminante è rappresentato dalla prevalenza di uno dei tre elementi seguenti: 1. allegoria morale; 2. metafora psicologica; 3. fantastico. I racconti proposti in questa antologia sono ripartiti, in ottemperanza a questo criterio, in tre sezioni. Nessuna di queste categorie esclude le altre, ma esse descrivono un ampio spettro in cui l'accento cade di volta in volta su tematiche specifiche, da quella dichiaratamente etica a un'estremità, a quella della quasi totale ambiguità all'estremità opposta. In questo contesto, la psicologia umana rappresenta sempre un fattore significativo, ma solo talvolta costituisce l'elemento su cui si focalizza il processo narrativo. Forse sarebbe piuttosto vantaggioso considerarle tre correnti di uno stesso oceano. Tratto distintivo dei racconti appartenenti al primo di questi gruppi è quello di avere per oggetto il mondo del soprannaturale: nella maggior parte dei casi la vicenda verte intorno all'intrusione di una forza sovrumana del male in una realtà ordinaria — ovvero comunemente accettata dalla collettività in quanto consueta — e molto spesso la narrazione è caratterizzata da una particolare concessione agli effetti speciali, orridi e pittoreschi, del male. Sono storie di bambini posseduti da demoni o da spiriti maligni del passato (come nella maggior parte dei racconti sui fantasmi), storie di luoghi perniciosi (perché infestati da presenze o retaggi malefici dei secoli precedenti), storie di stregoneria e di culti satanici. Oggi questi racconti vengono spesso scritti e letti da cristiani apostati, che hanno perso la pro-
pria fede nel bene, ma continuano a credere nel male: una credenza che però si rivela scomoda. Questo genere di racconti implica o asserisce l'esistenza di quell'universo manicheo così difficile da percepire nella vita quotidiana, in cui il male è così evidente e l'orrore così diffuso che in questa nuova era post-Olocausto e post-Vietnam la nostra sensibilità non è più in grado di avvertirli, o quasi. A mio parere, un grande pregio extra letterario esercitato da questo genere di narrativa è proprio quello di stimolare violentemente la sensibilità emotiva affievolita del lettore moderno. E l'allegoria morale esercita un profondo fascino extra letterario in se stessa per quell'ampia fascia di lettori che auspica un calcolo morale (solitamente di natura teleologica), basato sull'interazione di quelle forme supreme e metafisiche del bene e del male che si celano dietro gli eventi della realtà quotidiana. In quest'ottica Ginjer Buchanan sostiene: «Le migliori opere dell'orrore sono state scritte da cattolici apostati.» Quando parliamo dei racconti o dei romanzi appartenenti a questa prima categoria, parliamo del genere di narrativa horror che incontra attualmente i maggiori favori del pubblico, i bestseller commerciali come Rosemary's Baby, The Exorcist e la maggior parte dei romanzi di Stephen King. Sono questi i libri preferiti dai lettori più superficiali, e quindi meno sensibili alla validità artistica delle opere che leggono (indipendentemente dall'ottima qualità di alcune di esse), lettori che hanno bisogno di ripetute dosi di questo genere di narrazioni per mantenere inalterato l'effetto emotivo da esse prodotto. La seconda corrente individuata in apertura di paragrafo, raggruppa storie di aberrazioni della psicologia umana narrate in termini metaforici: racconti che riguardano dimensioni essenzialmente soprannaturali, come in Dracula, o indagano realtà meramente psicologiche, come in Psycho di Robert Bloch. Tratto distintivo e denominatore comune di tutte queste opere è la presenza, quale figura centrale, del mostro, da Frankenstein a Carmilla, all'assassino della sega a catena: si tratta di esseri umani o di altre creature chiaramente anormali che, con le loro gesta o il loro stesso essere, ispirano orrore. Il piccolo ragazzo di D.H. Lawrence, la Emily di Faulkner e, ancora più sottile, il newyorkese di The Jolly Corner di Henry James sono esempi della misura in cui questa seconda corrente compenetra e si fonde con il filone principale della narrativa psicologica di questo secolo. Sia Lovecraft che Edmund Wilson, sebbene da prospettive diverse, hanno giudicato The Heart of Darkness di Joseph Conrad essenzialmente un romanzo dell'orrore. Tuttavia, molti critici, da Wilson fino ai giorni nostri,
hanno opposto una netta resistenza all'ammissione della letteratura horror di carattere psicologico ma non soprannaturale nell'ambito del genere dell'orrore, consentendo così a molti di decretare la morte del filone horror, e di giudicarlo, a partire dagli anni '30, una categoria letteraria di puro interesse antiquario. L'instaurarsi di questa tendenza è stato favorito probabilmente dall'analisi superficiale del gusto per l'antichità di R.M. James che di H.P. Lovecraft. Ma nel 1939 si individuavano con chiarezza i segni di un processo evolutivo estremamente significativo, in particolare nella rivista americana Weird Tales. Dal canto loro, il circolo di scrittori seguaci di Lovecraft e il successo di alcuni film avevano già fatto della narrativa dell'orrore una parte importante della cultura popolare, e avevano creato un vasto pubblico di appassionati di pulp magazines all'interno di una popolazione generalmente non dedita alla lettura di opere letterarie: un pubblico di basso ceto. Ed è proprio nel 1939 che John W. Campbell, il famoso curatore di libri di fantascienza, fonda la rivoluzionaria rivista Unknown, un pulp magazine in cui trovano spazio testi di genere fantastico. Dal 1923 al 1939 Weird Tales aveva rappresentato il maggior veicolo di divulgazione di letteratura dell'orrore e del soprannaturale in lingua inglese: sulle sue pagine erano comparse le opere di tutti gli autori horror tradizionali, scrittori che spesso, però, tendevano a una narrazione fiorita e legata allo studio del passato. Unknown era invece destinata a rappresentare un elemento di rottura estetica rispetto alla letteratura orrorifica convenzionale. Campbell voleva per la sua rivista racconti ambientati nella realtà contemporanea, vicende inserite preferibilmente sullo sfondo di un contesto urbano, e che dovevano essere raccontate in un linguaggio chiaro e privo di orpelli. Unknown diede quindi ampio spazio ai racconti di tutti quei giovani scrittori di fantascienza, che in quegli anni stavano dando un volto nuovo a questo genere letterario sulla rivista Astounding, sempre diretta da Campbell: Alfred Bester, Eric Frank Russell, Robert A. Heinlein, A.E. Van Vogt, L. Ron Hubbard ed altri, soprattutto fantasisti come Theodore Sturgeon, Jane Rice, Anthony Boucher, Fredric Brown e Fritz Leiber. I racconti pubblicati su Unknown tendevano a porre l'accento sia su temi soprannaturali che psicologici; e spesso la psicologia rappresentava chiaramente la base di sostegno dell'orrore come in He Didn't Like Cats, di Hubbard, in cui i due personaggi secondari discutono a lungo se il problema che affligge il protagonista sia di natura soprannaturale o psicologica... un dilemma che resta insoluto, perché in entrambi i casi il destino dell'eroe
è segnato. Unknown pose fine al dominio assoluto di Weird Tales e influenzò la carriera artistica di giovani talenti del calibro di Ray Bradbury e Shirley Jackson. Inoltre questa rivista favorì la riunione in un unico genere di alcuni specifici tipi di narrativa psicologica, e incoraggiò al tempo stesso il fertile incrocio fra una buona parte della letteratura horror e il crescente filone della fantascienza. A sua volta, questo processo rafforzò il trend culturale già delineatosi nei film sui mostri e gli scienziati pazzi degli anni '30, e destinato a culminare in quella gigantesca produzione di film di orrore/fantascienza che dominò il decennio del 1950 e gli anni seguenti. È interessante notare come, a mano a mano che la nostra concezione della narrativa dell'orrore e il nostro giudizio su che cosa vada compreso sotto questa etichetta si modificano nel tempo, opere di diversa natura vengano incluse o escluse da questo genere letterario. In ultima analisi sembra, però, che le potenzialità offerte dall'horror psicologico rendano sempre più vaghi i confini di questa categoria letteraria, e non vi è dubbio che essa tenda a essere sempre più onnicomprensiva. Il leitmotiv delle opere appartenenti al filone fantastico, ovvero alla terza corrente in cui abbiamo suddiviso il genere horror contemporaneo, è quello della natura ambigua della realtà che ci circonda. Ed è proprio tale ambiguità a evocare nel lettore immagini e sensazioni terrificanti. Spesso questi racconti narrano di eventi manifestamente soprannaturali (o certamente anormali), ma chi legge ne viene a conoscenza solo per allusioni. Spesso la descrizione di alcuni elementi essenziali della trama è vaga o inesistente, cosicché il lettore non è in grado di stabilire con certezza, ma neppure di escludere, la presenza di spiriti o fantasmi. Tuttavia, la differenza fra questi racconti e quelli della seconda corrente non consiste semplicemente nella propensione degli autori per una spiegazione di natura soprannaturale anziché psicologica; infatti, nei racconti che abbiamo incluso nel terzo gruppo è assente qualsiasi forma di spiegazione che trovi corrispondenza e significato nella realtà quotidiana: il lettore non è in grado di comprendere ciò che accade e il dubbio lo attanaglia, lo turba e lo atterrisce. È questo il genere di narrativa a cui allude Sartre, la narrativa del fantastico. Nelle sue manifestazioni estreme, da Kafka ai giorni nostri, essa si fonde indistintamente con il realismo magico, il surreale, l'assurdo, con tutte quelle forme letterarie che affrontano la realtà frapponendole uno iato paradossale. È la narrativa del dubbio radicale. Una volta Thomas M. Disch ha osservato come sia proficuo, ai fini della valutazione critica, ricordare che Poe era un contemporaneo di Kierkegaard. Ed è chiaro che questo tipo di narrativa si
sviluppa, fin dalla nascita del genere horror, attraverso la formula del racconto breve e nella realtà contemporanea essa rappresenta, senza dubbio, uno dei filoni più importanti della letteratura dell'orrore. I racconti appartenenti a questo gruppo toccano, tendenzialmente, tutti i temi cari al genere horror, ma di norma non si servono dell'elemento soprannaturale convenzionale come di un espediente per sottolineare la distanza che separa la realtà ordinaria da quella straordinaria. E, mentre la maggior parte della narrativa dell'orrore si rivela, a un certo punto, attraverso la violazione delle leggi naturali, i mondi fantastici dei racconti di questa terza corrente utilizzano, quale espediente principale, quello che Sartre definisce il linguaggio del fantastico. Giunto al termine di uno di questi racconti, il lettore perviene a una nuova percezione della natura della realtà. Nelle opere in cui predomina l'allegoria morale, invece, lo scopo dell'autore sembra quello di volere affermare che il mondo da lui presentato (cioè un mondo in cui agiscono forze soprannaturali) è esattamente quello in cui viviamo e in cui abbiamo sempre vissuto, una realtà che però noi non abbiamo mai potuto o voluto riconoscere come tale. Nei racconti incentrati sulla metafora psicologica, infine, l'intrusione dell'elemento anormale concorre a liberare nel lettore stati psicologici repressi o ancora inespressi. Nel suo libro Pouvoirs de l'Horreur, il critico Julia Kristeva ha osservato che l'orrore agisce su condizioni psicologiche al limite della repressione, ma non completamente represse e inaccessibili. I racconti appartenenti alla seconda categoria utilizzano l'elemento anormale per creare uno stato crescente di tensione che porta alla liberazione di questi stati d'animo. I racconti della terza corrente, invece, mantengono la simulazione della realtà quotidiana solo per poi annullarla e lasciarci in balia di un mondo completamente diverso nel quale ci ritroviamo imprigionati. È proprio nella percezione di questa mutata realtà e della sua natura che si estrinsecano il piacere ed il potere illuminante che contraddistinguono queste opere. Ed è questa la caratteristica che rende questo filone della narrativa horror superiore alle altre forme di letteratura dell'orrore. Ragione per cui nei racconti appartenenti alla terza corrente quell'interazione fra lettore e testo, che caratterizza tutta la narrativa dell'orrore, è così diversa rispetto ai canoni più tradizionali (la presenza del terrore è nulla o assai rara), che è più difficile riconoscerla e classificarla di quanto non lo sia per i casi limite di racconti o romanzi psicologici. A mio giudizio, per esempio, il racconto di Gene Wolfe Seven American Nights, ricco di spunti profondamente inquietanti ma non terrificante secondo i ca-
noni classici, si colloca al limite estremo del terzo filone di letteratura horror da noi individuata. Ma indipendentemente dalla validità artistica delle singole opere, questa corrente non esercita un particolare fascino sul lettore medio di narrativa dell'orrore, perché suscita in lui una reazione diversa da quella intensamente emotiva alla quale è abituato. «Benché le immagini manifeste dell'orrore siano numerosissime, i loro significati latenti sono pochi. I lettori e gli scrittori di narrativa horror, come i lettori e gli scrittori di tutti i generi di successo sembrano sempre costretti a replicare. È indubbio che i bisogni soddisfatti dalla letteratura dell'orrore siano ricorrenti e insopprimibili.» GEORGE STADE, The New York Times, ottobre, 27, 1985 «Io considero il terrore la più raffinata delle emozioni e così cerco di terrorizzare il lettore. Ma quando mi accorgo di non riuscire a terrorizzarlo cerco di inorridirlo, e quando mi accorgo di non riuscire a inorridirlo, opto per un effetto grossolano.» STEPHEN KING, Danse Macabre VI Il colore del male Nella sua storia — dalla sua nascita, nel XIX secolo, alle molteplici e sofisticate forme in cui si articola attualmente — la letteratura dell'orrore ha trovato espressione formale nel racconto breve. Ma ora che il romanzo ha preso il sopravvento, è assai improbabile che i maggiori scrittori di opere horror concentrino i propri sforzi su questa formula narrativa. Pertanto riteniamo che questo filone letterario sia giunto a una fase cruciale della propria evoluzione, e che ciò consenta ai critici di esaminare la vasta gamma di racconti brevi in cui si è estrinsecato e di valutarne i pregi e il contributo a tutta la storia della letteratura. I racconti presentati in questo volume sono stati ripartiti in tre sezioni, corrispondenti alle tre correnti descritte nel paragrafo precedente: questa scelta risponde al duplice scopo di fornire al lettore un nutrito numero di esempi e di offrire lo spunto per ulteriori riflessioni su questo tema. Il racconto breve occupa ancora un ruolo vitale e fecondo nell'ambito della letteratura horror contemporanea, e fa spesso capolino nelle riviste, nelle antologie e nelle collezioni. Dedicategli,
per un momento, tutta la vostra attenzione. I migliori racconti dell'orrore dei nostri giorni eguagliano le migliori opere horror di tutti i tempi e di tutti i Paesi. Titolo originale: Introduction Traduzione Elisabetta Svaluto Parte I IL COLORE DEL MALE Stephen King Lo Stretto Da Charles Dickens in poi, Stephen King è in assoluto il più famoso scrittore di genere horror nonché uno dei romanzieri di maggior successo nei paesi di lingua inglese. Il fenomeno King è legato a quel filone di narrativa al quale comunemente si associa l'aggettivo popolare. Così come a Elvis Presley venne attribuito il tìtolo di re del rock and roll, Stephen King è definito re dell'horror e, al pari di Presley, vanta schiere di fedelissimi fans. È autore di Danse Macabre, uno dei saggi più interessanti sull'horror, in cui esprime con forte entusiasmo il proprio apprezzamento per gli effetti raccappriccianti esibiti in certi programmi televisivi e radiofonici, film, fumetti, racconti. In Danse Macabre King formula inoltre geniali critiche sull'opera di scrittori suoi contemporanei dei quali ha raccolto anche acute osservazioni sul rapporto fra scrittura e orrore. L'eclettismo di King e il suo desiderio di misurarsi di volta in volta con stili e approcci artistici diversi dimostrano che è giunto il momento di valutare pregi e difetti del racconto dell'orrore lasciando da parte i pregiudizi e l'atteggiamento di superiorità che molti assumono nei confronti di questo genere letterario. Fra i numerosissimi racconti e romanzi di King vanno ricordati: Salem's Lot e Carrie, The Shining e The Stand, Night Shift e Skeleton Crew ai quali si aggiungono tutti i bestseller che ogni anno questo prolifico autore propone ai suoi lettori. King è l'unico scrittore contemporaneo di horror dotato di un prorompente talento innovatore ed è proprio in virtù di questo talento che egli riesce a non farsi imprigionare entro i confini di un'unico genere letterario. Qualsiasi forma espressiva King adotti, ciò che scaturisce dalla sua penna è destinato a suscitare l'entusiasmo di un vastissimo pubblico di lettori. Nell'ultimo decennio, sulla sua scia numerosi scrittori
di racconti si sono cimentati nella stesura di romanzi dando origine a un forte boom editoriale e preparando così un fertile terreno a un genere letterario che sta dimostrando di saper resistere alle mode. The Reach (Lo Stretto), originariamente pubblicato con il titolo Do the Dead Sing, viene spesso citato come il racconto più riuscito di King. Si tratta di un'opera gravida di pathos in cui l'autore esprime una singolare sensibilità letteraria: è un racconto di fantasmi in cui si avvicendano i temi dell'amore e della morte, un virtuosismo dove l'orrore pare tenuto a distanza benché percorra come un brivido l'intera storia. L'atmosfera che caratterizza Lo Stretto è la stessa che ritroveremo nei racconti che seguono e che costituiscono la prima parte dell'antologia. È proprio attraverso racconti come questo che King meglio esprime il proprio credo riguardo al genere horror che, secondo le sue parole, «è forse la forma letteraria più importante e utile di cui uno scrittore disponga». «A quei tempi lo Stretto era più largo», cominciò a raccontare ai pronipoti Stella Flanders l'ultima estate della sua vita, l'estate prima che cominciasse a vedere i fantasmi. I bambini la fissavano senza aprir bocca, gli occhi sgranati, e suo figlio Alden si voltò a guardarla dalla sedia sotto il portico su cui se ne stava seduto intento a intagliare un ceppo di legno. Era una domenica e Alden non usciva mai in barca di domenica; nemmeno quando il prezzo delle aragoste era alle stelle. «Cosa vuol dire, nonna?» le chiese Tom, ma la vecchia non gli rispose. Continuò a fare dondolare la sedia sulla quale sedeva accanto alla stufa spenta; le ciabatte che portava ai piedi toccavano senza rumore il pavimento. «Che cosa vuol dire?» chiese di nuovo Tom questa volta rivolgendosi alla madre. Lois si limitò a scrollare la testa, abbozzò un sorriso e mandò ì bambini a raccogliere more con i secchielli. «Non ricorda,» pensò Stella. O forse non ne ha mai saputo niente? Sì, a quei tempi lo Stretto era più largo. Se al mondo c'era qualcuno che lo sapeva bene, quel qualcuno era Stella Flanders. Stella era nata nel 1884, era l'abitante più vecchia sull'Isola delle Capre, e mai in vita sua aveva messo piedi sulla terraferma. Tu ami? Quella domanda aveva preso a tormentarla senza che nemmeno lei sapesse cosa significava.
Arrivò l'autunno, e tanto sull'isola quando a Capo Procione, al di là dello Stretto, fu un autunno gelido e avaro di quelle piogge che colorano gli alberi. Il vento fischiava note lunghe e fredde che risuonavano nel cuore di Stella. Il 19 novembre, quando un cielo color cromo biancastro lasciò cadere i primi mulinelli di neve, Stella festeggiò il suo compleanno. Quasi tutto il villaggio andò a farle gli auguri. Ci andò Hattie Stoddard, che aveva perso la madre nel 1954, morta di pleurite, e il padre nel 1941, anche lui fra i dispersi del Dancer. Ci andarono Richard e Mary Dodge, lui avanzava a passetti lungo il viottolo sorreggendosi al bastone e portandosi appresso la sua artrite come un penoso compagno invisibile. E naturalmente non mancò Sarah Havelock; la madre di Sarah, Annabelle, era stata la migliore amica di Stella. Avevano frequentato la stessa scuola sull'isola, dalla prima elementare alla terza media, e Annabelle aveva sposato Tommy Frane, lo stesso Tommy che in quinta le aveva tirato i capelli facendola scoppiare in lacrime, proprio come Stella aveva sposato Bill Flanders che una volta le aveva fatto cadere i libri di scuola in una pozza fangosa (lei però era riuscita a trattenere le lacrime). Ora sia Annabelle sia Tommy erano morti e Sarah era l'unica dei loro sette figli che ancora abitava sull'isola. Il marito di Sarah, George Havelock, che tutti chiamavano Big George, era morto in un orribile incidente accadutogli sulla terraferma nel 1967, una pessima annata per la pesca. A Big George era sfuggita di mano l'ascia; aveva perso tanto sangue, troppo, e tre giorni dopo sull'isola si era tenuto il funerale. Quando Sarah arrivò alla festa di Stella e gridò: «Tanti auguri, nonna!» Stella la strinse forte a sé e chiuse gli occhi (tu, tu ami?) ma non pianse. La torta di compleanno era fantastica. Hattie l'aveva preparata assieme alla sua migliore amica, Vera Spruce. Quando ci furono tutti, cantarono: «Tanti auguri a te» e la voce di ciascuno di loro era così alta da coprire il sibilio del vento... almeno per un po'. Si uni al coro persino Alden che normalmente si esibiva soltanto in Coraggio, soldati cristiani o nella dossologia durante la messa e che se non si fosse trattato di un'occasione speciale si sarebbe limitato a muovere le labbra senza emettere un suono, a testa bassa e con gli enormi orecchi rossi come pomodori. Sulla torta campeggiavano novantacinque candeline e lei, anche al di sopra del coro, benché il suo udito non fosse più quello di un tempo, il vento lo sentiva ugual-
mente. Era come se la chiamasse con il suo ululato. «Non ero l'unica», avrebbe detto ai bambini di Lois se ci fosse riuscita. «Ai miei tempi erano molti quelli che nascevano e morivano su quest'isola. Non esisteva il battello della posta; se c'erano lettere arrivava Bull Symes a portarle. Non c'era nemmeno il traghetto. Se dovevi sbrigare qualche faccenda a Capo Procione, ti facevi portare là da tuo marito con la barca delle aragoste. E per quanto ne so io, in tutta l'isola non si è mai visto un solo gabinetto con lo sciacquone prima del 1964. Fu Harold, il figlio di Bull, a installare il primo sciacquone. Era stato l'anno dopo la morte di Bull, stroncato da un infarto mentre era in mare a calare le reti. Ricordo quel giorno, quando riportarono a casa Bull. Ricordo che avevano avvolto il cadavere in una tela cerata da sotto la quale spuntava uno dei suoi stivaloni verdi. Ricordo...». E loro le avrebbero chiesto: «Cosa, nonna? Cosa ricordi?» E lei cosa avrebbe risposto? C'erano altri ricordi? Era il primo giorno d'inverno, era passato un mese, poco più poco meno, dalla sua festa di compleanno, quando Stella aprì la porta che dava sul retro per andare a prendere la legna e vide a terra un passero morto. Si abbassò piano piano, lo prese per una zampetta e lo esaminò. «Congelato,» dichiarò ma dentro di sé sentì vibrare una corda, come se avesse pronunciato un'altra paiola. Erano passati quarant'anni dall'ultima volta che aveva visto un uccello morto per il freddo: era il 1938. L'anno in cui anche lo Stretto si era congelato. Stella rabbrividì, si strinse nel cappotto e prima di rientrare gettò il passero morto nel vecchio inceneritore arrugginito. Era una giornata di freddo pungente. Il cielo terso era color cobalto. La notte del suo compleanno erano caduti dieci centimetri di neve che ormai si era sciolta; poi non aveva più nevicato. «Nevicherà presto» prediceva in tono solenne Larry McKeen giù al negozio dell'Isola delle Capre, come se volesse minacciare l'inverno che tardava ad arrivare. Stella raggiunse la catasta di legna, ne prese una bracciata e si diresse di nuovo verso casa. La sua ombra esile ma decisa la seguì. Quando arrivò alla porta che dava sul retro, là dove aveva trovato il passero, le sembrò di sentire la voce di Bill, ma Bill se l'era portato via il cancro dodici anni prima. «Stella,» la chiamò e lei vide la sua ombra scendere
vicino alla propria, un po' più lunga ma altrettanto decisa, era proprio l'ombra di Bill, lo confermava il cappello messo di sgembo come era solito sistemarselo lui. Stella sentì un grido nascerle in gola; ma era troppo grande per uscirle dalla bocca. «Stella,» ripeté lui, «quando verrai sulla terraferma? Ci faremo prestare la vecchia Ford da Norm Jolley e andremo a spassarcela un po' da Bean a Freeport. Che ne dici?» Stella si voltò di scatto lasciando quasi cadere la legna; ma non vide nessuno. Non c'era anima viva né sui gradini di casa che degradavano verso la collina né sull'erba bianca e selvatica. E al di là di ogni cosa, così nitido da sembrare persino ingrandito, lo Stretto... e poi oltre di esso la terraferma. «Nonna, cos'è lo Stretto?» Avrebbe potuto chiederle Lona... anche se non l'aveva mai fatto. E Stella avrebbe ripetuto ai bambini la risposta che tutti i pescatori dell'isola conoscevano a memoria. Lo Stretto è una lingua d'acqua tra due lingue di terra, una lingua d'acqua aperta alle estremità. La vecchia barzelletta del pescatore d'aragoste faceva così: imparate a leggere bene la bussola per quando scende la nebbia, ragazzi, che da Joneport a Londra la lingua è lunga lunga. «Lo Stretto è l'acqua che c'è fra l'isola e la terraferma,» avrebbe potuto aggiungere mentre distribuiva loro biscotti alla melassa e tè caldo zuccheratissimo. «Questo lo so bene, e non mi sbaglio come non potrei sbagliarmi sul nome di mio marito... e sul suo modo di portare il cappello.» «Nonna? Come mai tu non hai mai attraversato lo Stretto?» le avrebbe chiesto Lona. «Perché, vedi tesoro, non ho mai avuto ragioni per attraversarlo,» le avrebbe risposto. In gennaio, due mesi dopo la festa di compleanno, lo Stretto gelò: era la prima volta dal 1938. La radio avvertì gli abitanti dell'isola e della terraferma di non fidarsi del ghiaccio, ma Stewie McClelland e Russel Bowie uscirono ugualmente con il gatto delle nevi, dopo un pomeriggio passato a sbronzarsi di sidro, e, c'era d'aspettarselo, lo Stretto si inghiottì il gatto. Stewie riuscì a mettersi in salvo, anche se ci rimise un piede per congelamento. Ma lo Stretto si prese Russel Bowie e se lo portò via. Il 25 gennaio ci fu una funzione in memoria di Russell. Stella vi partecipò al braccio di suo figlio Alden il quale accompagnò gli inni con il solo
movimento delle labbra e, prima della benedizione, cantò la dossologia con la sua vibrante voce stonata. Dopo la funzione Stella rimase seduta per un po' con Hattie Stoddard e Vera Spruce nel seminterrato del municipio; tutte e tre avvolte dal bagliore del fuoco che ardeva nella stufa. Avevano organizzato lì una festa d'addio per Russell; con punch marca Za-Rex e ottimi tramezzini alla crema di formaggio per tutti. Gli uomini, naturalmente, facevano la spola per andare a bere un goccetto di qualcosa di più forte del punch. La vedova di Russel Bowie, attonita e con gli occhi arrossati, se ne stava seduta vicino al reverendo Ewell McCracken. Era incinta di sette mesi, era il quinto figlio, e Stella intorpidita dal calore della stufa a legna, pensò: Scommetto che presto se ne andrà dall'altra parte dello Stretto. Si trasferirà a Freeport o a Lewiston e si troverà un posto come cameriera. Stella fissò lo sguardo su Vera e Hattie cercando di capire di cosa stessero parlando. «No, non ho sentito,» disse Hattie. «Che cosa ha detto Freddy?» Si riferiva a Freddy Dinsmore, il più vecchio dell'isola (ma pur sempre più giovane di me di due anni, pensò Stella con un pizzico di orgoglio), il quale nel 1960 aveva venduto il negozio a Larry McKeen e che adesso tirava avanti con i soldi della pensione. «Ha detto che non ha mai visto un inverno come questo in vita sua,» ripeté Vera tirando fuori da una borsa il lavoro a maglia. «Dice che questo freddo ci farà ammalare tutti quanti.» Sarah Havelock guardò Stella e le chiese se avesse mai visto un inverno simile. Dopo la prima nevicata non era più caduto un solo fiocco di neve e il terreno era duro, brullo e scuro. Il giorno prima Stella era andata a fare quattro passi nel campo dietro casa; aveva provato a tenere la mano destra all'altezza della coscia e l'erba si era spezzata di netto con un rumore di vetri infranti. «No,» rispose Stella. Anche nel '38 lo Stretto era gelato, però quell'anno era caduta anche molta neve. Hattie, ti ricordi di Bull Symes? Hattie scoppiò a ridere. «Eccome, mi sa tanto che ho ancora il livido del pizzicotto che mi assestò alla festa di capodanno del '53. Un pizzicotto così.... Perché?» «Quell'anno Bull e mio marito andarono a piedi sulla terraferma,» disse Stella. «Era il febbraio del 1938. Si misero le scarpe da neve e s'incamminarono alla volta della taverna di Dorrit sul Capo, una volta arrivati si scolarono un bel bicchiere di whisky e poi tornarono indiero. Mi avevano chiesto di andare con loro. Erano come due ragazzini che non stanno nella
pelle al pensiero di andare a slittare con il toboga.» Gli occhi della gente erano fissi su Stella, erano tutti commossi dal suo racconto accorato. Anche Vera la guardava con gli occhi sgranati e di certo non era la prima volta che lei sentiva quella storia. Correva voce un tempo che Bull e Vera erano vissuti sotto lo stesso tetto, anche se guardando Vera adesso era difficile credere che fosse mai stata giovane. «E tu non ci andasti?» chiese Sarah che, forse, nella sua immaginazione vedeva lo Stretto illuminato dal freddo sole invernale così bianco da sembrare quasi azzurro, il luccichio della neve cristallina, e la terraferma sempre più vicina mentre i due uomini camminavano, sì, camminavano sull'oceano proprio come Gesù quando scese dalla barca e si mise a camminare sull'acqua, e lasciavano l'isola per la prima e unica volta a piedi... «No,» rispose Stella. All'improvviso sentì la mancanza del lavoro a maglia. «No, non ci andai.» «E perché mai?» chiese Hattie con fare quasi indignato. «Era giorno di bucato,» rispose Stella con una nota irata nella voce e poi Missy Bowie, la vedova di Russell proruppe in un pianto dirotto e stonato. Stella si voltò verso di lei e vide Bill Flanders seduto con la sua giacca a scacchi rossi e neri, il berretto sghembo, che fumava un Herbert Tarevytbn mentre un altro se l'era infilato dietro l'orecchio per dopo. Sentì il cuore farle una capriola nel petto e arrestarsi un attimo fra un battito e l'altro. Stella emise un suono, ma in quel medesimo istante un nodo in un ceppo di legno esplose nella stufa come un colpo di fucile e nessuna delle donne la sentì. «Poverina,» sussurrò Sarah. «Non si meritava altra fine quel buono a nulla,» grugnì Hattie. Rifletté un poco sul lato più oscuro della storia che riguardava lo scomparso Russel Bowie e infine disse: «Quello valeva meno di un soldo bucato. La sua morte sarà più un affare che altro per la moglie.» Stella udì a malapena quei commenti. Bill era ancora seduto lì, tanto vicino al reverendo McCracken da potergli pizzicare il naso, se così gli fosse saltato in mente di fare. Non dimostrava più di quarant'anni, attorno agli occhi si cominciavano appena a notare le prime zampe di gallina che in seguito gli avrebbero solcato la pelle. Indossava i calzoni di flanella e gli stivali di gomma; i calzettoni di lana grigia ben rimboccati sopra l'orlo degli stivali. «Stiamo aspettando te, Stella,» le disse. «Coraggio, vieni a vedere la terraferma. Non avrai bisogno degli scarponi quest'anno.»
Era seduto proprio lì nel seminterrato del municipio, grande e grosso come se fosse stato finto, poi un altro nodo del legno esplose e Bill non c'era più. E il reverendo McCracken continuò a consolare Missy Bowie come se niente fosse. Quella sera Vera chiamò Annie Philipps al telefono e durante la conversazione disse ad Annie che secondo lei Stella aveva una brutta cera, brutta davvero. «Sarebbe un bel grattacapo per Alden, se Stella si ammalasse e lui dovesse portarla sulla terraferma,» osservò Annie. Le piaceva Alden perché lei era rigorosamente astemia e suo figlio Toby le aveva detto che Alden non toccava alcolici, niente di più forte della birra. «Riuscirebbe a portarla via da casa soltanto se lei fosse in coma,» commentò Vera biascicando la parola coma alla maniera di quelli del profondo sud. «Stella non fa a tempo ad aprire bocca che Alden le ubbidisce come un cagnolino. Parliamoci chiaro, Alden non è una cima. Stella deve stargli sempre dietro come a un bambino.» «Davvero?» A un tratto la linea fu disturbata da un crepitio metallico. Vera sentì Annie Phillips ancora per un attimo — non le parole, soltanto la sua voce che riaffiorava a stento fra uno schiocco e l'altro, poi più niente. Si era alzato un forte vento e le linee telefoniche erano cadute, forse nello stagno di Godlin o forse nei pressi della Baia di Borrow, là dove la gente bardata di muta si immergeva nello Stretto. Ma poteva anche darsi che fossero cadute dall'altra parte dello Stretto, sul Capo... e magari qualcuno avrebbe detto, un po' per scherzo e un po' sul serio, che quel mascalzone di Russell Bowie aveva allungato una mano gelida per rompere il cavo, tanto per il gusto di fare uno scherzo. A meno di duecento metri da lì, sotto la trapunta patchwork, Stella se ne stava in ascolto della stonata sinfonia, proveniente dalla stanza attigua, che Alden eseguiva russando. Stella ascoltava i suoi versi per non sentire il vento.... lo sentiva ugualmente, eccome se lo sentiva; soffiava sopra la distesa di ghiaccio dello Stretto, un miglio e mezzo d'acqua coperto da uno strato di ghiaccio, e là sotto in profondità c'erano le aragoste, e le cernie e forse anche il ritorto cadavere danzante di Russell Bowie che ogni anno in aprile munito di erpice andava a dissodarle il giardino. E adesso chi mi dissoderà il giardino in aprile? si chiese mentre, infreddolita, giaceva rannicchiata come un gambero sotto la trapunta. E, come in
un sogno nel sogno, domanda e risposta vennero formulate dalla stessa voce: tu ami? Raffiche di vento si abbattevano sulle persiane percuotendole. Stella aveva la sensazione che le persiane le stessero parlando; ma lei ignorò le loro parole voltando la faccia dall'altra parte. E non pianse. «Ma, nonna,» avrebbe insistito Lona (non si dava mai per vinta, Lona, era come sua madre e, prima ancora di lei, come sua nonna), «non ci hai ancora detto come mai non hai mai attraversato lo Stretto». «Perché, bambina, ho sempre trovato tutto quello di cui avevo bisogno qui su quest'isola». «Ma l'isola è così piccola. Noi viviamo a Portland. Là ci sono gli autobus, nonna!» «Quello che succede in città mi basta vederlo alla televisione. Credo proprio che non mi muoverò mai di qui». Hal che era più piccolo, ma più dotato di intuito, non avrebbe insistito come faceva sua sorella, eppure con un'unica domanda, lui, avrebbe colpito nel segno: «Non ti è mai venuta voglia di attraversare lo Stretto, nonna? Proprio mai?» Allora Stella si sarebbe avvicinata un po' di più a lui, gli avrebbe accarezzato le manine e gli avrebbe raccontato di sua madre e suo padre che erano venuti ad abitare sull'isola dopo essersi sposati e del nonno di Bull Symes che il padre di Stella aveva preso a lavorare con sé come apprendista sulla barca. Gli avrebbe raccontato anche di sua madre che era rimasta incinta quattro volte, ma che aveva perso un bambino durante la gravidanza mentre un'altro era morto una settimana dopo essere venuto al mondo — sua madre avrebbe lasciato l'isola se all'ospedale al di là dello Stretto avessero potuto salvarlo; ma naturalmente tutto si era svolto prima ancora che lei avesse avuto il tempo di pensarci. E poi avrebbe raccontato loro che Bill aveva aiutato Jane, la nonna, a partorire, ma non avrebbe accennato al fatto che subito dopo era andato a rintanarsi nel gabinetto dove aveva prima vomitato e poi pianto come una donnicciola isterica in preda a dolori mestruali insolitamente forti. Jane, naturalmente, a quattordici anni aveva lasciato l'isola per frequentare il liceo; le ragazze non si sposavano più così giovani e quando Stella aveva visto Jane partire in barca con Bradley Maxwell, quel mese era stato affidato a lui l'incarico di traghettare i ragazzini avanti e indietro dalla terraferma, aveva sentito in cuor suo che Jane se ne andava per sempre, anche se sarebbe tornata per un po'. Avrebbe detto loro che Alden aveva fatto la
sua comparsa dieci anni più tardi, quando ormai nessuno sperava più in un suo ritorno, e, come per scusarsi di tanti anni d'assenza, adesso era ancora lì, scapolone incallito, e in un certo senso a Stella faceva piacere che le cose stessero così perché Alden non era un granché sveglio e in giro c'erano un sacco di donne smaniose di accaparrarsi uno come lui, con poco cervello e un cuore grande come una casa (ma a pensarci bene quelle non erano cose da dire a dei bambini). Avrebbe proseguito: «Louis e Margaret Godlin misero al mondo Stella Godlin, che divenne Stella Flanders. Bill e Stella Flanders misero al mondo Jane e Alden Flanders e Jane Flanders divenne Jane Wakefield. Richard e Jane Wakefield misero al mondo Lois Wakefield che divenne Lois Perrault: David e Lois Perrault misero al mondo Lona e Hal. Lona e Hal siete voi, bambini: siete Godlin-Flanders-Wakefield-Perrault. I vostri avi sono tutti sepolti su quest'isola, e io rimango qui perché la terraferma è troppo lontana. Sì, io amo. Ho amato, comunque, quantomeno ho cercato di amare, ma i ricordi sono tanti e così prof ondi, e io non posso dimenticare. Godlin-Flanders-Wakefield-Perrault...». Quello fu il febbraio più freddo da quando anche sull'isola aveva cominciato a funzionare il Servizio Meteorologico Nazionale, e a metà del mese sul ghiaccio che copriva lo stretto ci si poteva camminare. I gatti delle nevi ronzavano e cigolavano e qualche volta si ribaltavano nel tentativo di arrampicarsi su cumuli di neve ghiacciata. I bambini provarono a pattinare, ma la superficie del ghiaccio era troppo gibbosa perché si divertissero, così andarono allo stagno di Godlin, dall'altra parte della collina, non prima, però, che Justin McCracken, il figlio del reverendo, si fosse rotto una caviglia rimanendo incastrato con un pattino in una spaccatura nel ghiaccio. Lo portarono all'ospedale sulla terraferma dove un dottore che girava a bordo di una Corvette gli disse: «Figliolo, vedrai, tornerà come nuova». Freddy Dinsmore morì, all'improvviso, tre giorni dopo l'incidente di Justin McCraken. Prese l'influenza alla fine di gennaio e non volle farsi visitare, andava dicendo a tutti: «È solo un raffreddore che mi sono buscato uscendo a ritirare la posta senza la sciarpa». Si mise a letto e morì prima ancora che qualcuno avesse il tempo di portarlo all'ospedale sulla terraferma dove lo avrebbero collegato a una di quelle macchine complicate messe a punto per aiutare i malati gravi. Suo figlio George, che era ancora un ubriacone di primo grado, nonostante la non più tenera età, aveva sessantotto anni, trovò Freddy con una copia del Bangor Daily News in una mano e
il Remington, scarico, vicino all'altra. Appena prima di morire doveva essergli venuto in mente di dargli una pulitina. George Dinsmore si abbandonò a tre settimane di sbornie alle spese di qualcuno al corrente del fatto che presto George sarebbe entrato in possesso dei soldi dell'assicurazione del padre. Hattie Stoddard andava sbandierando ai quattro venti che il vecchio George Dinsmore era una disgrazia in terra, e che valeva tanto quanto un barbone. L'influenza risparmiò poche persone quell'anno. A febbraio la scuola chiuse per due settimane, anziché per una soltanto, tanti erano gli scolari a letto con la febbre. «Quando non nevica i germi proliferano» sentenziava Sarah Havelock. Verso la fine del mese, proprio quando la gente cominciava, troppo presto, a rallegrarsi perché marzo era alle porte, anche Alden Flanders si beccò l'influenza. La prima settimana la fece in piedi dopodiché si mise a letto con la febbre a quaranta. Anche lui, come Freddy, non volle saperne di farsi visitare, e Stella cominciò a preoccuparsi e a lasciarsi prendere dall'ansia e dall'agitazione. Certo Alden era più giovane di Freddy, ma a maggio avrebbe compiuto anche lui i suoi bei sessant'anni. Finalmente venne la neve. Quindici centimetri il giorno di San Valentino, poi altri quindici il venti febbraio e poi il ventinove altri trenta centimetri accompagnati da una bufera come non se ne vedevano da un pezzo. La neve era caduta strana e immacolata fra la baia e la terraferma, e faceva pensare a un campo di pecore mentre da sempre lì, per quanto riusciva a ricordare la gente del luogo, in quel periodo dell'anno s'erano viste soltanto acque gonfie incupite da un denso grigiore. Molte persone attraversarono lo Stretto a piedi. Quell'anno non c'era bisogno degli scarponi perché la neve era gelata così bene da formare una solida crosta brillante. Avrebbero anche potuto bersi un bicchierino, pensò Stella, ma non da Dorrit. Dorrit era stato distrutto da un incendio nel 1958. E tutte e quattro le volte Stella vide Bill. Una di queste volte lui le disse: «Dovresti sbrigarti a venire, Stella. Ci andiamo a piedi. Allora?» Stella non riusciva a dire una sola parola. Il suo pugno serrato le riempiva la bocca. «Tutto ciò che ho desiderato nella vita o di cui avevo bisogno l'ho trovato qui,» avrebbe detto ai due nipotini. «Avevamo la radio e adesso abbiamo la televisione, e al di là dello Stretto non c'è niente di più. Un anno sì e uno no avevo persino il mio bel giardino fiorito. Le aragoste? Figlioli
miei, c'era sempre una tegame di aragoste in umido sulla stufa, e sapete cosa facevamo quando veniva a trovarci il reverendo? Correvamo a nasconderlo dietro la porta della dispensa perché non vedesse che mangiavamo «il cibo dei poveri». «Bambini miei, ho visto il bello e il cattivo tempo, e se ci sono stati dei momenti in cui mi sono chiesta cosa avrei provato nel trovarmi nei grandi magazzini Sears, anziché dover fare le ordinazioni dal catalogo, o nel mettere piede in uno di quei mercatoni che fanno vedere alla televisione, anziché fare le spese al negozietto dell'isola o, nelle occasioni speciali, per il cappone a Natale e per il prosciutto a Pasqua, mandare di là Alden... e se un paio di volte mi è capitato anche di sognare di trovarmi in Congress Street a Portland e guardare la gente sfrecciare lungo la strada con le maccchine o camminare sul marciapiede, e di vedere più persone con una sola occhiata di quante ce ne siano adesso su tutta l'isola... se mai ho desiderato queste cose, ciò che desideravo ancora più forte era di rimanere qui. Non dite che sono strana. Non sono un tipo bizzarro e neppure troppo stravagante per la mia età. Mia madre mi ripeteva spesso: «L'unica grande differenza che esiste al mondo sta fra il lavoro e il desiderio,» e io sono convinta con tutta l'anima che avesse ragione. Credo che sia più importante la qualità di ciò che si possiede piuttosto che la quantità. «Questa è casa mia, e io ci sono affezionata.» Un giorno di metà marzo che il cielo era bianco e incombeva come una mente vuota di memoria, Stella Flanders sedette in cucina per l'ultima volta, si allacciò gli stivali attorno ai polpacci scarni per l'ultima volta e si avvolse attorno al collo la vivace sciarpa di lana rossa (un regalo che Hattie le aveva fatto tre Natali prima) per l'ultima volta. Sotto il vestito indossava la biancheria di Alden. La vita dei mutandoni le arrivava fin sotto i seni vizzi mentre la maglia le copriva quasi le ginocchia ossute. Fuori il vento si stava alzando di nuovo; il bollettino meteorologico prevedeva neve per il pomeriggio. Stella infilò il cappotto e i guanti. Dopo un attimo di esitazione, indossò un altro paio di guanti di Alden. Alden si era ripreso dall'influenza e quella mattina lui e Harley Blood erano andati ad aggiustare gli infissi della porta di casa a Missy Bowie, che aveva appena avuto una bambina. Stella l'aveva vista; povera piccolina era tutta sua padre. Stella si fermò per un istante davanti alla finestra, guardò lo Stretto e vide che Bill era lì come lei s'aspettava, a metà strada fra l'isola e il Capo,
sulle acque dello stretto proprio come Gesù quando era sceso dalla barca, le faceva dei cenni e a Stella sembrò di capire quello che voleva dirle. Le diceva che doveva affrettarsi se almeno una volta nella vita voleva mettere piede sulla terraferma. «Se questo è ciò che desideri, Bill,» pensò con aria affaticata. «Ma Dio sa che io non lo desidero affatto». Ma il vento portò con sé altre parole. Stella lo desiderava. Voleva vivere quell'avventura. Era stato un inverno duro per lei — l'artrite che andava e veniva era tornata ad affliggerla come se volesse vendicarsi di lei, si accaniva sulle giunture delle dita e delle ginocchia con lance di fuoco e spilli di ghiaccio. Un occhio aveva cominciato a procurarle strani disturbi annebbiandosi di tanto in tanto (e un paio di giorni prima Sarah aveva accennato, con una punta di imbarazzo, che quel difetto alla vista si era fatto avvertire già quando Stella era sulla sessantina, dopodiché era andato accentuandosi sempre più). Ma il peggio era che Stella aveva cominciato ad avvertire di nuovo quelle lancinanti fitte allo stomaco; due mattine prima quegli stessi dolori le avevano dato la sveglia alle cinque. Stella aveva raggiunto a fatica il bagno camminando a piedi nudi sul pavimento gelido e là aveva sputato nella tazza un grumo di sangue rosso come il fuoco. E quella mattina le era capitato un'altra volta, sangue disgustoso, color ruggine, da far venire i brividi. Negli ultimi cinque anni il dolore allo stomaco si era fatto vivo a periodi alterni, a volte sopportabile, altre volte insostenibile, e fin dall'inizio Stella aveva avuto il sospetto che fosse cancro. Il cancro s'era portato via sua madre e suo padre e anche suo nonno. Nessuno dei tre aveva varcato la soglia dei sessant'anni e quindi lei immaginava di aver scombinato i pronostici di quei tizi dell'assicurazione che si riunivano nel cortile del falegname. «Mangi come un lupo», le aveva detto Alden con un sorriso poco dopo che i dolori avevano cominciato a tormentarla quando lei aveva notato per la prima volta del sangue nelle feci del mattino. «Non lo sai che le vecchie bacucche come te dovrebbero stare a stecchetto?» «Sparisci se non vuoi che te le suoni!» aveva ribattuto Stella sollevando la mano minacciosa all'indirizzo del figlio ormai irrigidito che si era ingobbito tutto e, fingendo terrore, aveva gridato: «No, mamma! Ritiro tutto!» Ma ora sembrava che il cancro avesse cominciato a dilaniare anche quello che gli «erremoscia» chiamavano pièce de résistence.
Mentre varcava la soglia, vide appeso all'attaccapanni nell'entrata il cappello di Alden, quello con il paraorecchie di pelliccia. Se lo mise in testa e la visiera scese a coprirle le folte sopracciglia sale e pepe, poi si guardò in giro un'ultima volta per accertarsi di non aver dimenticato niente. La stufa era sul minimo e, come al solito, Alden aveva lasciato aperto lo sportelletto più del dovuto — lei continuava a ricordarglielo di chiuderlo un po' di più, ma era come parlare al muro. «Alden, quando non ci sarò più tu brucerai ogni inverno un quarto di catasta di legna di troppo», borbottò Stella e aprì la stufa. Vi guardò dentro e un soffocato grido di terrore le sfuggì dalla gola. Richiuse la stufa e sistemò lo sportello con dita tremanti. Per un istante, solo per un istante, aveva visto fra le braci la sua cara amica Annabelle France. Era la sua faccia, identica in tutto e per tutto a com'era da viva, persino nel neo che aveva sulla guancia. Ma Annabelle le aveva davvero strizzato l'occhio? Pensò di lasciare un biglietto ad Alden, nel quale gli spiegava dov'era andata, poi decise che comunque lui avrebbe capito da solo, anche se un po' in ritardo come sempre. Continuando a scrivere messaggi a mente — Da che è cominciato l'inverno non faccio che vedere tuo padre. Mi ripete che morire non è poi così brutto. Almeno, così interpreto le sue parole — Stella si addentrò in quella giornata di latte. Il vento la investì e dovette pigiarsi il cappello sulla testa prima che il vento glielo rubasse per gioco e lo facesse rotolare lontano. Il freddo si insinuava sottile sotto gli abiti per poi penetrarle fin dentro le ossa; freddo umido di marzo con sentore di neve. Stella proseguì giù per la collina, verso la baia, cercando di camminare sulla cenere e sulle scorie che George Dinsmore aveva sparso. Una volta a George era stato affidato un aratro giù a Capo Procione, ma durante la forte bufera del '77, lui non aveva trovato niente di meglio da fare che sbronzarsi a suon di whiskey e non si era accontentato di andare a schiantarsi con tutto il suo bell'aratro contro un palo della luce, e nemmeno due pali gli erano bastati, dovette atterrarne tre per sentirsi a posto. Capo Procione era rimasto al buio per ben cinque giorni. Stella ricordava quanto fosse strano guardare al di là dello Stretto e non vedere nient'altro che il buio, tanta era l'abitudine che s'era fatta a quel baldanzoso piccolo nido di luci. Adesso George lavorava sull'isola e dal momento che non c'era nulla da arare, era al riparo dai guai.
Quando passò davanti alla casa di Russel Bowie, vide Missy, pallida come un lenzuolo che la guardava. Stella la salutò agitando la mano. Missy fece altrettanto. Avrebbe detto loro queste parole: «Sull'isola eravamo come una grande famiglia. Quando a Gerd Henreid venne l'embolia, per un'estate intera tutti quanti tirammo la cinghia sui pasti per pagargli l'operazione a Boston — e Gerd tornò a casa sano e salvo, Grazie a Dio. E quando George Dinsmore abbatté quei pali della luce e la Hydro gli confiscò la casa, noi facemmo in modo che la società avesse il suo denaro e che a George venisse affidato un lavoro che gli permettesse almeno di comprarsi le sigarette e qualche bicchierìno... perché no? Dopo una giornata di lavoro George non era buono per nient'altro, anche se quando attaccava a lavorare sgobbava come un mulo. Quella volta che si ficcò nei guai fu perché era notte, e di notte George beve. Suo padre almeno gli dava anche da mangiare. Adesso Missy Bowie è sola con un altro bambino. Forse rimarrà sull'isola e riceverà i soldi della previdenza sociale, probabilmente non basteranno, ma troverà qualcuno che le darà una mano. O forse se ne andrà da qui, ma se deciderà di rimanere una cosa è certa, non morirà di fame... e statemi bene a sentire, Lona e Hal: se rimarrà qui forse riuscirà ad apprezzare qualcosa di questo piccolo mondo con il piccolo Stretto da una parte e il grande Stretto dall'altra, qualcosa che non troverebbe mai servendo polpettoni a Lewiston, ciambelle a Portland o bibite al Nashivvle North di Bangor. E io ho dalla mia parte abbastanza anni per non menare il can per l'aia a proposito di ciò che potrebbe essere questo qualcosa: un modo di stare al mondo e un modo di vivere: un sentimento.» Sull'isola si erano arrangiati anche in altre occasioni, ma questo ai nipoti non lo avrebbe raccontato. I bambini non avrebbero capito, così come non avrebbero capito Lois e David, anche se Jane aveva conosciuto la verità. C'era il bambino di Norman e Ettie Wilson nato mongoloide, i piccoli piedi girati all'indietro, la testolina calva coperta di protuberanze e depressioni, le dita unite come se avesse sognato troppo a lungo mentre nuotava in quello Stretto interiore. Il reverendo McCracken era venuto a battezzare il bambino e il giorno dopo era venuta anche Mary Dodge che già a quell'epoca aveva assistito più di un centinaio di partorienti. Norman aveva deciso di scendere dalla collina assieme a Ettie e di portarla a vedere la nuova barca di Frank Child e nonostante Ettie riuscisse a malape-
na a reggersi in piedi aveva accettato senza lamentarsi; ma prima di uscire di casa si era fermata sulla soglia e aveva rivolto lo sguardo verso Mary Dodge che se ne stava tranquillamente seduta sferruzzando vicino alla culla del piccolo minorato. Mary aveva sollevato lo sguardo e quando i loro occhi si erano incontrati Ettie era scoppiata a piangere. «Coraggio, Ettie, coraggio», le aveva detto Norman, affranto. E quando tornarono un'ora più tardi il bambino era morto, una di quelle morti nella culla, e grazie a Dio non aveva sofferto. E molti anni prima che tutto questo accadesse, prima della guerra, durante la Depressione, tre bambine erano state molestate mentre tornavano a casa da scuola, niente di troppo grave, quantomeno nessuna di loro aveva riportato ferite visibili, e tutte e tre avevano riferito di un uomo che aveva proposto loro di vedere un mazzo di carte, su ciascuna carta, diceva, era disegnato un cane di razza diversa. L'uomo aveva promesso di mostrare loro quello stupendo mazzo a patto che le bambine accettassero di andare con lui fra i cespugli e una volta nei cespugli, disse: «Prima dovete toccare questo.» Una delle bambine era Gert Syes, che nel 1978 sarebbe stata eletta Maestra dell'Anno del Maine, per il suo ottimo lavoro alla Brunswick Hig. E Gert, che allora aveva soltanto cinque anni, riferì a suo padre che all'uomo mancavano un paio di dita da una mano. Una delle altre due bambine confermò quel particolare. La terza, invece, non ricordava nulla. Stella rammentava che quell'estate, un giorno che imperversava il temporale, Alden era uscito senza dirle dove andava, benché lei glielo avesse chiesto. Dalla finestra aveva visto Alden incontrarsi con Bull Symes in fondo al sentiero dove li aveva raggiunti anche Fredy Dinsmore, e giù dalla baia Stella vide suo marito che anche quel mattino, come sempre, era uscito di casa con la sportina della colazione sottobraccio. Altri uomini si unirono al gruppo e quando infine si avviarono tutti insieme, Stella ne contò undici in tutto. Tra loro c'era anche il predecessore del reverendo McCracken. E quella sera, il cadavere di un certo Daniels fu rinvenuto ai piedi di Slyder's Point, dove gli scogli affioravano dal mare come le fauci di un drago annegato con la bocca aperta. Quel Daniels era un tizio che Big George Havelocks aveva assunto per farsi aiutare a mettere nuove solette sotto la casa e munire di un nuovo motore il suo camioncino Modello A. Veniva dal New Hampshire ed era un tipo così convincente che altre persone avevano promesso di affidargli qualche lavoretto, una volta avesse finito dagli Havlock... e aveva un vocione che in chiesa si sentiva soltanto lui! Si diceva in giro che Daniels era scivolato mentre cercava di raggiungere la cima di Slyder's Point e
che si era fatto una bella caduta ruzzoloni fino in fondo alla collina. Aveva il collo rotto e il cranio fracassato. Poiché non aveva parenti, venne seppellito sull'isola, e il predecessore del reverendo McCraken tenne l'elogio funebre durante il quale ricordò che gran lavoratore era Daniels e quanto era stato d'aiuto a tutti nonostante gli mancassero due dita della mano destra. Dopo la lettura della benedizione, i partecipanti al corteo funebre si erano riuniti nel seminterrato del municipio dove li aspettavano punch marca Za-Rex e sandwich alla crema di formaggio, e Stella non osò mai chiedere ai suoi due uomini dove erano loro il giorno in cui Daniels cadde dalla cima di Slyder's Point. «Bambini,» avrebbe detto loro, «sull'isola ce la siamo sembra sbrigata da soli. Non c'era altro modo, poiché lo Stretto era più largo a quei tempi e quando il vento ululava e le onde spumeggiavano e il buio scendeva presto, noi ci sentivamo impotenti, niente più che granelli di polvere in balia del Signore. E così per noi era una cosa naturale prenderci per mano e aiutarci l'un l'altro. «Ci prendevamo per mano, bambini, e se qualche volta ci veniva voglia di chiederci perché lo facevamo, o se esisteva davvero un sentimento chiamato amore, era soltanto perché tutti noi avevamo sentito il vento ululare e le onde spumeggiare nelle lunghe notti d'inverno e avevamo paura. «No, non ho mai sentito il bisogno di lasciare l'isola. La mia vita era qui. Lo Stretto era più largo a quei tempi.» Stella raggiunse la baia. Guardò a destra e a sinistra, il vento le sollevava il vestito sbattacchiandolo come una bandiera. Se ci fosse stato qualcuno sarebbe scesa ancora e si sarebbe avventurata sugli scogli, benché fossero coperti da uno strato di ghiaccio. Ma non c'era anima viva e allora Stella proseguì lungo il molo e oltrepassò la darsena del vecchio Symes. Arrivò fino in fondo dopodiché rimase ferma per qualche istante, la testa sollevata, il vento che soffiava con un mugghio ovattato sfiorando il paraorecchie di pelliccia del cappello di Alden. Bill era laggiù e la chiamava. Alle sue spalle, oltre allo Stretto, Stella scorgeva la chiesa sul Capo, la sua cuspide pressoché invisibile sullo sfondo del cielo latteo. Stella emise un sospiro, si sedette sulla punta estrema del molo poi si lasciò scivolare sulla crosta di neve sottostante. Gli stivali affondarono un po', ma non troppo. Si pigiò il cappello di Alden sulla testa, il vento insi-
steva proprio con il volerglielo rubare!, e cominciò a camminare verso Bill. Una volta soltanto provò il desiderio di voltarsi indietro, ma non lo fece. Sapeva che se ci avesse provato il suo cuore non l'avrebbe sopportato. Camminava, gli stivali affondavano nella crosta di neve accompagnati da uno scricchiolio, e Stella ascoltava il debole rumore del ghiaccio che si spezzava. Eccolo là Bill, più lontano adesso, ma continuava a chiamarla. Stella tossì, sputò un grumo di sangue sulla neve immacolata che copriva la lastra di ghiaccio. Ora lo Stretto si estendeva tutt'attorno a lei, e, per la prima volta in vita sua, riusciva a leggere senza il binocolo di Alden l'insegna che campeggiava laggiù: DA STANTON ESCHE E BARCHE IN AFFITTO. Vedeva le macchine sfrecciare lungo la strada principale del Capo e pensò con un genuino stupore: Possono andare dove vogliono... a Portland... Boston ... New York. Incredibile! E riuscì quasi a immaginare una strada che si snodava per miglia e miglia mentre i confini del mondo si dilatavano per accoglierla. Un fiocco di neve le mulinò davanti agli occhi. Un altro. Poi un terzo. Ben presto prese a nevicare piano piano e lei si ritrovò a camminare nel mezzo di un mondo ovattato d'un bianco luminoso e oscillante. Attraverso il velo trasparente che di tanto in tanto si dissolveva scorse Capo Procione. Si riassestò il cappello di Alden e la neve che si era depositata sulla visiera le cadde negli occhi. Il vento sollevava mulinelli di neve fresca dando vita a impalpabili forme, e in una di esse Stelle riconobbe Carl Abersham, annegato assieme al marito di Hattie Stoddard quando il Dancer era andato a picco. Ben presto, però, la luminosità cominciò a offuscarsi a mano a mano che i fiocchi di neve si infittivano. La strada principale del Capo si oscurò, si oscurò, e poi sparì alla vista. Ancora per un po' riuscì a distinguere la croce in cima alla chiesa e poi anche quella si dissolse, come un sogno inventato. L'ultima a sparire fu la vivace insegna giallonera che diceva: DA STANTON ESCHE E BARCHE IN AFFITTO, ma dove si potevano trovare anche olio lubrificante, carta moschicida, panini italiani e Budweiser a ufo. Poi Stella fece il suo ingresso in un mondo assolutamente incolore, un sogno di neve bianco e grigio. Proprio come Gesù quando scese dalla barca, pensò, e finalmente si guardò alle spalle, ma adesso anche l'isola si era dissolta. Riusciva a vedere le proprie impronte che tornavano indietro e a poco a poco si facevano meno definite finché soltanto il semicerchio appena abbozzato del tacco era distinguibile... e poi più niente. Niente.
Pensò: Non si vede a un passo. Devi stare attenta, Stella, o non riuscirai mai a raggiungere la terraferma. Continuerai a camminare in tondo finché esausta, morirai di freddo qui sullo Stretto. Le vennero in mente le parole di Bill il quale una volta le aveva detto che, quando ci si perde in un bosco, bisogna fingere che la gamba dalla parte della mano destra sia zoppa. Altrimenti quella gamba comincia a portarti dove vuole lei e tu ti ritrovi a camminare in tondo e non te ne accorgi nemmeno finché non ritrovi le tue stesse impronte. Stella sapeva che era meglio non le accadesse niente del genere. Neve oggi, neve stanotte e neve anche domani, aveva previsto la radio e dal momento che tutt'attorno imperava un accecante biancore non si sarebbe nemmeno accorta di girare in tondo, perché il vento e la neve fresca avrebbero cancellato le sue impronte nel medesimo istante in cui avrebbe posato il piede per terra. Non sentiva più le dita, nonostante le due paia di guanti, e i piedi le si erano intorpiditi ormai da un bel po'. In un certo senso provava quasi sollievo. Quantomeno l'intirizzimento metteva fuori combattimento anche i dolori lancinanti dell'artrite. Stella cominciò a zoppicare, appoggiando tutto il peso del corpo sulla gamba sinistra. L'artrite che le rodeva le ginocchia non voleva saperne di lasciarla un poco in pace e prese a tormentarla con più accanimento. Il vento giocava con i suoi capelli candidi. Le labbra lasciavano scoperti i denti (tutti suoi, tranne quattro) e Stella guardava dritto davanti a sé, aspettando che l'insegna giallonera si materializzasse dietro quel velo di fiocchi di neve. Ma non accadde. Un po' più tardi si accorse che il biancore accecante della giornata tendeva ora a un grigio diffuso. La neve scendeva più fitta e i fiocchi erano più grossi che mai. Sotto i piedi Stella sentiva ancora la crosta di ghiaccio, quantunque avanzasse su uno strato spessissimo di neve fresca. Diede un'occhiata all'orologio, ma si era fermato. Poi le venne il sospetto di aver dimenticato di caricarlo al mattino, per la prima volta da trent'anni a quella parte. O forse aveva smesso definitivamente di funzionare? Quell'orologio era di sua madre che lo aveva affidato ad Alden due volte perché lo portasse al Capo dal signor Dostie il quale decantandone la bellezza lo aveva pulito. L'orologio, almeno quello, era stato sulla terraferma. Cadde una prima volta un quarto d'ora dopo aver notato l'incombente grigiore. Per un attimo rimase carponi, immobile, pensando che sarebbe stato così facile non rialzarsi più, raggomitolandosi e ascoltare il vento; ma
poi la determinazione che l'aveva spinta così lontano si risvegliò in lei e Stella si tirò in piedi a fatica. Era in balia del vento, lo sguardo fisso davanti a sé, e pregò il cielo affinché i suoi occhi riuscissero a vedere qualcosa... ma non videro niente. Buio, scendi presto. Già, si era persa. Doveva aver deviato a destra anziché a sinistra, o viceversa. Altrimenti avrebbe dovuto trovarsi già sulla terraferma. Eppure non si capacitava di aver sbagliato tanto da ritrovarsi a camminare parallelamente alla terraferma o addirittura nella direzione opposta, di nuovo verso l'isola. Un'immaginario compagno di viaggio dentro di lei le sussurrava che aveva camminato troppo a lungo appoggiandosi sulla gamba sinistra e che aveva finito con il deviare in quella direzione. Stella si illudeva di essere ancora in tempo a raggiungere la terraferma; ma oramai procedeva lungo una diagonale rispetto alla costa. Il compagno di viaggio le diceva di voltare a destra, ma Stella non voleva ascoltarlo. Proseguì dritta, invece, smettendo di zoppicare. D'un tratto fu scossa da un accesso di tosse che le fece sputare sulla neve sangue cremisi. Dieci minuti più tardi, quando oramai tutt'attorno a lei incombeva il grigiore e il crepuscolo irreale che precede una bufera di neve, Stella cadde di nuovo, cercò di risollevarsi e un primo tentativo fallì, ma poi riuscì a rimettersi in piedi. Vacillò sotto la neve, sospinta dal vento a malapena si reggeva in equilibrio. Ondate di debolezza s'impadronivano di lei infondendole la sensazione di essere a tratti pesantissima e leggerissima. Forse non era soltanto per effetto del vento che le sue orecchie sibilavano a quel modo, ma fu senza dubbio il vento che finalmente riuscì a portarle via il cappello di Alden. Cercò di riafferrarlo, ma un refolo lo sospinse più in là, e Stella riuscì a vederlo solo per un altro istante mentre volava allegramente come una vivace macchia arancione lontano, lontano nel grigiore che andava infittendosi. Planò sulla neve, rotolò, riprese il volo e sparì. Ora sì che il vento poteva giocare liberamente con i suoi capelli. «Non preoccuparti, Stella,» le disse Bill. «Ti presterò il mio.» Lei rimase senza fiato e si guardò attorno nel mezzo di quella distesa di bianco. Istintivamente si era portata le mani al petto e sentì unghie aguzze che le dilaniavano il cuore. Non riusciva a scorgere più nulla se non fluttuanti lenzuoli di neve e poi, dalla gola buia della sera, accompagnato dal vento che ululava con la voce di un demone prigioniero in una galleria di neve, uscì suo marito. Dappri-
ma era solo un'accozzaglia di colori che danzavano sotto la neve: rosso, nero, verde scuro, verde chiaro. Poi quei colori si fecero distinti fino a dare forma a una giacca di flanella con il bavero sollevato dal vento, a un paio di pantaloni di flanella e di stivali verdi. Bill le porgeva il cappello con un atteggiamento ridicolmente galante, sì era proprio sua quella faccia non ancora scavata dal cancro che se l'era portato via (era questa la paura che così a lungo aveva covato? Che un giorno tornasse a trovarla l'ombra avvilente di suo marito, uno scheletro come quelli dei campi di concentramento dalla pelle tesa e inconsistente sugli zigomi e dagli occhi incavati nelle orbite?) e per questo Stella trasse un sospiro di sollievo. «Bill? Sei proprio tu?» «Certo.» «Bill,» ripeté di nuovo lei muovendo un passo deciso verso di lui. Poi le gambe la tradirono e per un attimo Stella temette di cadere, di cadere attraverso quell'ombra — dopotutto quel Bill non era altro che un fantasma — e invece lui la prese fra le sue braccia forti con la stessa sicurezza che aveva ostentato quando l'aveva portata oltre la soglia della casa che da anni ormai divideva soltanto con Alden. Bill la sorresse e un attimo dopo Stella sentì che le pigiava il cappello sulla testa. «Sei proprio tu?» gli chiese di nuovo guardandolo in faccia, scrutando le zampe di gallina che gli contornavano gli occhi, occhi che non erano ancora incavati, soffermando lo sguardo prima sui fiocchi di neve che imbiancavano le spalle della giacca da caccia a quadri e poi sui suoi bei capelli castani. «Sono io,» risposte lui. «Siamo tutti noi.» Si voltarono insieme e Stella vide gli altri prendere forma nella neve che il vento soffiava sullo Stretto nell'oscurità che s'infittiva. Un grido intriso di gioia e di paura le uscì dalla gola non appena vide Madeline Stoddard, la madre di Hattie con un vestito blu che il vento gonfiava a campana. Madeline avanzava mano nella mano con il padre di Hattie, non uno scheletro putrescente andato a fondo con il Dancer in mezzo al mare, ma un bel giovanotto vivo e vegeto. E dietro a loro due ... «Annabelle!» gridò Stella. «Annabelle France, sei proprio tu?» Si era Annabelle. Anche attraverso il grigiore che accompagnava la bufera di neve Stella riconobbe il vestito giallo di Annabelle che aveva indossato il giorno in cui lei e Bill si erano sposati. Mosse qualche passo stanco verso l'amica sorreggendosi al braccio di Bill mentre tutt'intorno a lei l'aria profumava di rose.
«Annabelle!» «Siamo quasi arrivate, cara,» disse Annabelle prendendola sottobraccio. Il vestito giallo che indossava, e che ai loro tempi la gente considerava un po' audace, ma, grazie al cielo, non scandaloso (ciò giovò alla reputazione di Annabelle e fu di gran sollievo a tutti), le lasciava le spalle scoperte, ma a quanto pareva Annabelle non sentiva freddo. I soffici capelli ramati svolazzavano nel vento. «Mancava ancora poco.» Annabelle sistemò meglio il braccio sotto quello di Stella e così unite avanzarono. Altre figure presero forma nella notte nevosa (perché ormai era scesa la notte). Stella riconobbe molti amici, ma erano tante le facce nuove. Tommy Frane aveva raggiunto Annabelle mentre Big George Havelock, che era morto da solo come un cane nel bosco, procedeva dietro a Bill. C'era anche quel tizio che per più di vent'anni era stato guardiano del faro del Capo e che un volta all'anno veniva sull'isola per partecipare al grande torneo di carte che Freddy Dinsmore organizzava sempre a febbraio; ma come si chiamava?, aveva il suo nome sulla punta della lingua. E c'era anche Freddy in persona! E di fianco a Freddy, ma un po' in disparte e con l'aria spaesata, camminava Russel Bowie. «Guarda, Stella,» le disse Bill e lei vide un groviglio nero che si solleva dalla lattea distesa di neve, pareva fossero le prue spezzate di una flotta di navi. Ma non si trattava di navi, erano scogli spaccati da fenditure. Avevano raggiunto il Capo. Avevano attraversato lo Stretto. Stella avvertì delle voci, ma non era sicura che fossero voci vere e proprie. Prendi la mia mano, Stella (coraggio) Prendi la mìa mano, Bill (oh, sì, coraggio) Annabelle... Freddy ... Russell... John... Ettie... Frank ... prendete la mia mano, prendere la mia mano ... la mia mano... (tu ami) «Vuoi darmi la mano, Stella?» chiese una nuova voce. Si guardò in giro e vide Bull Symes. Le sorrideva con un'aria dolce, eppure Stella non riuscì a trattenere un moto di repulsione per quella strana luce che aveva negli occhi e arretrò di qualche passo stringendo forte la mano di Bill. «È forse...» «Il momento?» le chiese Bull. «Oh, già, Stella, credo proprio di sì. Ma,
vedrai, non fa male. Almeno, tutti dicono che non fa male.» D'un tratto Stella scoppiò a piangere — versò tutte le lacrime che aveva trattenuto in vita sua — e diede la mano a Bull. «Sì,» sussurrò, «sì, verrò... vengo.» Formarono un cerchio mentre la bufera continuava a imperversare. Il vento strideva attorno a loro, i morti dell'Isola delle Capre, sollevando turbini di neve e una sorta di strana canzone uscì dalla gola di ciascuno. Salì nel vento e il vento se la portò via. Cantarono tutti insieme come cantano in coro i bambini con le loro vocine alte e tenere mentre la sera d'estate sfuma lentamente nella notte. Cantavano e Stella sentì di unirsi a loro e di fondersi in loro, finalmente dall'altra parte dello Stretto. Provò sì una fitta di dolore, ma nulla che non potesse sopportare, aveva sofferto di più quando aveva perso la verginità. Era notte e tenendosi per mano formavano un cerchio. La neve avviluppava i loro corpi mentre tutti cantavano. Cantavano e... Alden non riuscì a raccontarlo a David e Lois, ma l'estate dopo la morte di Stella, quando i bambini vennero sull'isola per trascorrervi le solite due settimane, lo raccontò a Lona e ad Hal. Raccontò loro che durante le forti bufere invernali il vento sembrava cantare quasi con voce umana e che qualche volta aveva persino avuto la sensazione di distinguere le parole: «Lode a te o Signore che mandi sulla Terra ogni bene — Lodate il Signore, voi creature della Terra...» Ma non disse loro (figuratevi Alden Flanders, rimbambito e privo di fantasia com'era, raccontare certe cose, e a dei bambini per giunta!) che a volte sentiva quel suono e che un brivido di freddo lo percorreva tutto anche se era seduto accanto alla stufa; allora smetteva di intagliare il legno o posava la trappola che doveva riparare e si convinceva che il vento cantava con la voce di tutti quelli che erano morti... e che si trovavano al largo dello Stretto e cantavano come un coro di bambini. Gli sembrava di distinguere le loro voci e certe notti gli capitava di addormentarsi e di sognare che cantava la dossologia in chiesa e che nessuno lo vedeva né lo sentiva mentre il prete celebrava il suo funerale. Ci sono cose che bisogna tacere, e ci sono cose che, se non proprio segrete, tuttavia è meglio non tirare in ballo. Avevano trovato Stella sulla terraferma morta di freddo il giorno dopo la bufera di neve. Era seduta su uno scoglio a forma di sedia a un centinaio di metri a sud dei confini della città di Capo Procione, congelata dalla testa al piedi. Il dottore, quello che andava in giro in Corvette, si dichiarò alquanto stupito. Per arrivare fin lì Stella doveva aver camminato per sei chilometri buoni e l'autopsia,
richiesta dalla legge in caso di morte improvvisa e insolita, evidenziava un cancro in fase avanzata, anzi, per dirla tutta, la poveretta ne era ormai dilaniata. Alden doveva dire a David e a Lois che il cappello che Stella indossava non era il suo? Larry McKeen aveva riconosciuto il cappello. Così pure John Bensohn. Alden glielo aveva letto negli occhi e supponeva che loro lo avessero letto nei suoi. Non era vissuto abbastanza a lungo per dimenticare il cappello che suo padre aveva in testa quando era morto, la foggia della visiera e i punti in cui questa si era strappata. «Sono cose su cui bisogna ragionare con calma,» avrebbe detto ai bambini se fosse riuscito a trovare le parole. Cose da rimuginare, mentre le mani lavorano e un buon caffè aspetta di essere bevuto da una solida tazza di porcellana. Sono domande che forse nascondono una risposta: i morti cantano? I morti amano i vivi? Nelle notti che seguirono il ritorno di Lona e Hal sulla terraferma, erano partiti con la barca di Al Curry carica di bambini che salutavano agitando le mani a poppa, Alden riconsiderò quella domanda assieme a molte altre e al mistero del cappello di suo padre. I morti cantano? E i morti amano? E durante quelle lunghe notti solitarie, ora che sua madre Stella Flanders riposava in pace sotto terra, Alden avrebbe giurato di sì. Titolo originale: The Reach Traduzione: Susanna Molinari M.R. James Il frassino M.R. James fu il maestro della ghost story nella quale un demone venuto dal lontano passato si attarda nel presente ed è visto sopra di noi come un'eredità. Le sue ghost stories da antiquariato costituiscono un corpo di lavoro che ha codificato tutto un filone tradizionale dell'horror per il ventesimo secolo. Nella prosa narrativa jamesiana, il peso del passato ci perseguita, arido e severo paesaggio morale ricco di dettagli. Il frassino è tematicamente interessante in contrasto con Hawthorne e Wellman come storia di stregoneria. James guarda a J S. Le Fanu e ne fa il proprio paradigma (a lui si deve una certa rinascita d'interesse verso Le Fanu attraverso la sua famosa edizione delle storie di questo autore. Madame Crowl's Ghost, 1923), ma l'orrore visibile nel momento culminante de Il fras-
sino è contributo di James, avvincente e mostruoso, nel suo genere. Chiunque si sia trovato a viaggiare per l'Inghilterra orientale conosce le case di cui è disseminata, costruzioni piccole e scure, solitamente in stile italiano, circondate da parchi alcuni anche di ottanta, cento acri. Hanno sempre esercitato su di me una forte attrazione, con quella grigia palizzata di querce fronzute, gli alberi secolari, i laghetti con i cannetti e la linea lontana dei boschi. Mi piacciono poi i portici a colonnato, magari aggiunti a una casa di mattoni rossi Queen Anne con la facciata rifatta di stucco per renderla in sintonia con il gusto «greco» di fine diciottesimo secolo; l'ingresso, dentro, che sale fino al tetto, ingresso che dovrebbe sempre essere provvisto di una balconata e di un piccolo organo. Mi piace anche la biblioteca, una biblioteca dove puoi trovare di tutto, da uno Psalter del tredicesimo secolo a uno Shakespeare in quarto. Mi piacciono i quadri, naturalmente; e forse, più di tutto, mi piace immaginare il genere di vita che deve esservi stato condotto ai tempi in cui la casa fu costruita, e ai tempi sereni dei signorotti di campagna, e, non ultima, quella che vi si svolge adesso, quando, se non c'è molto denaro, il gusto è più variato e l'esistenza altrettanto interessante. Vorrei avere una di quelle case e abbastanza denaro da mantenerla e ospitarvi modestamente i miei amici. Ma questa è una disgressione. Devo raccontarvi piuttosto di una curiosa serie di eventi accaduti in una casa come quella che ho tentato di descrivere. Siamo a Castringham Hall, nel Suffolk. Suppongo che dai tempi della mia storia l'edificio abbia subito molte modifiche, ma le caratteristiche essenziali che ho delineato ci sono ancora... portico italiano, casa bianca e squadrata, vecchia dentro più che fuori, parco con bosco attorno, e laghetto. L'unico particolare che avrebbe potuto distinguere la casa dalle numerose altre non esiste più. Quando la si guardava dal parco, si vedeva un grande e antico frassino che cresceva a una dozzina di metri dal muro e quasi toccava la casa con i suoi rami. Suppongo che fosse lì fino da quando Castringham cessò di essere un posto fortificato, il fossato fu riempito e fu eretta una casa elisabettiana. A ogni modo, nel 1690, l'albero era nel pieno della sua maturità. In quell'anno, il distretto nel quale è situata la Hall era teatro di molti processi alle streghe. Sarebbe lungo, penso, arrivare a stabilire l'esatto numero delle ragioni, ammesso che ce ne fossero, che a quei tempi erano alle radici della universale paura delle streghe. Che le persone accusate di questo reato immaginassero davvero di possedere un qualche insolito potere;
che possedessero almeno la volontà, se non il potere, di compiere misfatti nei confronti dei propri vicini; che le confessioni di tali misfatti, e ce ne sono molte, fossero estorte dalla crudeltà dei cacciatori di streghe, sono problemi, suppongo, ancora irrisolti. E il presente narrativo mi dà paura. Non posso spazzare via tutto come semplice invenzione. Il lettore deve giudicare da sé. Castringham offrì una vittima all'autodafè. La signora Mothersole, questo era il suo nome, si differenziava dalla norma delle altre streghe del villaggio per essere di gran lunga più brava e in una posizione più influente. Da parte di molti parrocchiani ci fu qualche tentativo per salvarla. Quella gente fece del suo meglio per dare testimonianza del suo carattere e mostrò parecchia preoccupazione sull'inevitabile verdetto della giuria. Ma quella che sembra sia stata fatale alla donna fu la testimonianza fornita dall'allora proprietario di Castringham Hall, Sir Matthew Fell. Il gentiluomo dichiarò di averla osservata dalla finestra in tre diverse occasioni, in notti di luna piena, raccogliere ramoscelli «dal frassino vicino a casa mia». Si era arrampicata sui rami, con indosso la sola camicia da notte, e aveva tagliato rametti con un coltello curvo, parlando come a se stessa mentre lo faceva. In tutte e tre le occasioni, Sir Matthew aveva fatto del suo meglio per catturare la donna, ma quando era sceso in giardino tutto ciò che aveva visto era stata un lepre che correva lungo il sentiero in direzione del villaggio. La terza notte, si era messo a correre a perdifiato ed era andato dritto alla casa della signora Mothersole; ma aveva dovuto bussare per un buon quarto d'ora prima che lei venisse ad aprire, apparentemente agitata, ma con l'aria assonnata di chi fosse stato buttato giù da letto; e non aveva avuto spiegazioni valide da darle a giustificazione di quella sua visita. Fu soprattutto a causa di questa testimonianza, sebbene ne fossero state prodotte altre di più o meno evidente scalpore da parte dei parrocchiani, che la signora Mothersole fu giudicata colpevole e condannata a morte. Fu impiccata una settimana dopo il processo, con altre cinque o sei infelici creature, a Bury St. Edmunds. Sir Matthew, allora rappresentante dello sceriffo, presenziò all'esecuzione. Era un'umida e piovigginosa mattina di marzo quando il carretto si avviò su per la collina erbosa di Northgate dove erano state erette le forche. Le altre vittime erano apatiche o spezzate dalla propria miseria; ma la signora Mothersole fu nella vita come nella morte, di un carattere completamente diverso. La sua «velenosa rabbia» come un giornalista del tempo
ebbe a dire, «ha avuto un tale effetto sui presenti.. sì, perfino sul boia... che tutti coloro che l'hanno vista hanno affermato che aveva l'aspetto di un demone vivente. Tuttavia, non ha offerto resistenza ai funzionari della legge; guardava quelli che le mettevano le mani addosso con un'espressione così funesta e velenosa che... come uno di loro mi ha riferito in seguito... al solo pensarci, anche dopo sei mesi, non si poteva fare a meno di rivolgere mentalmente una preghiera». A ogni modo, tutto quello che si riferisce abbia detto, furono delle parole apparentemente senza significato: «Ci saranno ospiti alla Hall». Parole che lei ripeté più volte sottovoce. Sir Matthew Fell non fu impressionato dal vaticinio della donna. Parlò della faccenda con il vicario della parrocchia, mentre con lui tornava a casa dopo l'esecuzione della sentenza. Non aveva fornito di buon grado la sua testimonianza al processo, non era particolarmente affetto dalla mania della caccia alle streghe, ma dichiarò, allora come in seguito, di non avere potuto dare altro resoconto diverso da quello che aveva dato e che non aveva potuto sbagliarsi su quello che aveva visto. L'intera faccenda gli aveva fatto ripugnanza perché era un uomo al quale piaceva essere in buoni rapporti con tutti, ma riteneva fosse stato suo dovere testimoniare e aveva testimoniato. Questo era il fondamento dei suoi sentimenti e il vicario, come qualsiasi altra ragionevole persona avrebbe fatto, ebbe per lui parole di plauso. Qualche settimana dopo, era luna piena di maggio, vicario e gentiluomo s'incontrarono di nuovo nel parco e s'incamminarono insieme verso la Hall. Lady Fell era con sua madre, gravemente ammalata, e Sir Matthew, solo a casa, era riuscito a convincere il vicario, signor Crome, a venire a cena. Sir Matthew non fu di buona compagnia, quella sera. La conversazione verté principalmente su questioni di famiglia e di parrocchia e, per sua fortuna, Sir Matthew prese appunti scritti di certe sue intenzioni o desideri sul futuro delle sue proprietà, la qualcosa si rivelò in seguito di moltissima utilità. Quando il signor Crome pensò che fosse arrivato il momento di avviarsi verso casa, erano circa le nove e mezzo, fece prima due passi con Sir Matthew lungo il sentiero ghiaioso sul retro della casa. Ci fu un solo particolare che colpì il signor Crome. I due erano in vista del frassino che, come ho descritto, cresceva vicinissimo alle finestre della casa, quando Sir Matthew si arrestò e disse: «Cos'è che corre su e giù per il tronco del frassino? Non può essere uno scoiattolo. Saranno nelle loro tane, a quest'ora».
Il vicario guardò e vide la creatura che si muoveva, sebbene non ne scorgesse che il colore soltanto al chiaro di luna. I contorni precisi, a ogni modo, rimasero impressi nella sua mente cosicché avrebbe potuto giurare, per quanto la cosa potesse sembrare sciocca, che, scoiattolo o no, la creatura avesse più di quattro zampe. Tuttavia, siccome non si poteva dedurre gran che da una visione soltanto momentanea, i due uomini ripresero il loro cammino e di lì a poco si separarono. Forse in seguito si sarebbero di nuovo incontrati ma la cosa non si sarebbe verificata per un buon numero di anni. Il giorno seguente, Sir Matthew Fell non scese alle sei del mattino, com'era suo solito, né alle sette e non lo aveva ancora fatto alle otto. Al che i servitori andarono di sopra e bussarono alla sua camera. Non voglio dilungarmi nella descrizione del loro ansioso stare ad ascoltare gli eventuali rumori che provenissero dall'interno in risposta ai colpi alla porta. La quale venne infine aperta dall'esterno. Trovarono il loro padrone morto e nero. Sul momento non parve che avesse subito violenza, ma la finestra era aperta. Uno degli uomini andò a chiamare il prete e poi, su sue indicazioni, corse a dare la notizia al magistrato. Lo stesso signor Crome si precipitò non appena poté alla Hall e fu condotto nella stanza dove l'uomo giaceva morto. Ha lasciato degli appunti tra le sue carte a dimostrazione del sincero rispetto e dispiacere che provò per Sir Matthew e c'è anche questo passaggio che io trascrivo per amore della luce che getta sul corso degli eventi e sulle credenze comuni di quei tempi: Non c'era la minima traccia che qualcuno fosse entrato nella stanza con la forza, ma la finestra era aperta come il mio povero amico l'aveva sempre tenuta in quella stagione. Egli aveva la sua porzione serale di birra in una brocchetta di argento della capacità di una pinta; ma non l'aveva bevuta. Il contenuto della brocchetta fu esaminato dal medico di Bury, un certo signor Hodgkins, il quale comunque non scoprì, come lui stesso, in seguito, ebbe a dichiarare sotto giuramento al coroner, che alcun genere di veleno vi fosse stato aggiunto. Questo perché, com'era naturale, a causa del gonfiore e del colore nero del cadavere, si era sparsa la voce dell'avvelenamento. Il corpo giaceva piuttosto scompostamente nel letto, contorto dopo quell'estremo avvenimento, e questo originò la probabile congettura che il mio va-
loroso amico e patrono fosse spirato in preda a grande dolore e agonia. Ciò che ancora è inspiegabile — ed è per me la tesi di un qualche orrido quanto abile disegno degli esecutori di questo barbaro assassinio — è questo: le donne incaricate della deposizione del cadavere e del suo lavaggio, persone molto rispettate nella loro dolorosa professione, vennero da me affrante e preoccupate sia nella mente sia nel corpo, dicendo — cosa questa che constatai direttamente — che non appena avevano toccato il torace del cadavere con le loro mani nude avevano avvertito dolore violento ai palmi e a tutto l'avambraccio, che l'arto si era in breve tempo gonfiato smoderatamente, che il dolore continuava e che, come verificato in seguito, per molte settimane furono costrette ad astenersi dall'esercizio della loro professione... cionondimeno non c'era alcun segno sulla loro pelle. Non appena sentito questo, andai a cercare il dottore, che era ancora nella casa, e, con l'aiuto di una piccola lente d'ingrandimento, insieme cercammo una qualche prova della condizione della pelle in quella parte del corpo; ma con lo strumento che avevamo a disposizione non riuscimmo a scorgere alcunché di importante tranne un paio di piccole punture o rossori, che, concludemmo, dovevano essere le zone per le quali il veleno poteva essere stato introdotto, ricordandoci a quel punto della famiglia del Papa Borgia, e di altri esempi dell'orrida arte degli avvelenatori italiani degli ultimi tempi. Va detto molto a proposito dei sintomi osservati sul cadavere. Per quello che sto per aggiungere io, devo dire che si tratta di un mio personale esperimento da lasciare al giudizio dei posteri per il valore che può avere. Sul tavolino accanto al letto, c'era una Bibbia di piccole dimensioni di cui il mio amico... in circostanze normali così come in quell'ultima... era solito leggere un brano la sera, ma anche la mattina appena alzato. Prendendola, non senza un devoto pensiero rivolto a lui che dallo studio di quei suoi poveri presentimenti era ora passato alla contemplazione del grande disegno originale, mi venne da pensare — come succede nei momenti di scoraggiamento di aggrapparci al più piccolo barlume che ci prometta luce — di ricorrere a quell'antica, e da molti tenuta in considerazione, pratica superstiziosa di tirare a sorte; pratica della quale, prendendo a esempio il caso dell'ultima sacra
maestà e benedetto martire Re Charles e Lord Falkland, di questi tempi si parla molto. Devo ammettere che dai miei tentativi non ho ricevuto molta assistenza: tuttavia, anche se la causa e l'origine di questi spaventosi avvenimenti devono ancora essere scoperti, devo parlare dei risultati, nel caso in cui si dovesse scoprire che indichino la vera strada a un'intelligenza più pronta della mia. Feci, quindi, tre tentativi, aprendo la Bibbia e mettendo il dito su parole a caso: il che mi diede al primo tentativo questa parola, da Luca XIII, 7, Abbattilo; al secondo, Isaia XIII, 20, Non sarà mai abitato; e al terzo, Giobbe XXXIX, 30, Succhiò il sangue anche dei suoi giovani piccoli. Questo è quanto ritengo necessario citare dalle carte del signor Crome. Sir Matthew fu debitamente messo nella bara e deposto nella terra, e il sermone funebre, pronunciato dal signor Crome la domenica seguente, venne stampato con il titolo di L'imperscrutabile via; ovvero, Pericolo e funesti rapporti con l'Anticristo d'Inghilterra, essendo il punto di vista del vicario, come pure di gran parte della gente comune, che il gentiluomo fosse stato vittima di una recrudescenza del complotto papista. Suo figlio, Sir Matthew secondo, ereditò il titolo e le proprietà. E così finisce il primo atto della tragedia di Castringham. Va detto, sebbene il fatto possa non soprendere, che il nuovo baronetto non occupò la stanza in cui morì suo padre. Né, per la verità, nella stanza dormì nessun altro tranne qualche occasionale visitatore. Morì nel 1735 e non ho trovato nulla che abbia segnato in modo particolare la sua esistenza, salvo una strana e persistente mortalità tra il suo bestiame, una mortalità che andò via via aumentando con il trascorrere del tempo. Coloro i quali sono interessati ai particolari, troveranno un resoconto statistico in una lettera al Gentlemen's Magazine del 1772, una lettera che prende i fatti dai documenti del baronetto. Questi mise fine al fenomeno con un espediente molto semplice, mettendo di notte tutte le sue bestie al chiuso e liberandosi delle pecore. Aveva infatti notato che non accadeva assolutamente nulla a qualsiasi cosa che, di notte, si trovasse all'interno. Dopo quell'accorgimento, gli episodi furono circoscritti a qualche uccello selvatico e a qualche animale da caccia. Ma dal momento che non abbiamo alcuna buona descrizione dei sintomi, e non essendo stata per la gente del posto di alcuna utilità l'osservazione notturna, non mi dilungherò su ciò
che i contadini del Suffolk chiamarono la «malattia di Castringham». Il secondo Sir Matthew morì nel 1735, come ho detto, e a lui succedette il figlio, Sir Richard. Fu durante il suo tempo che venne costruito il grande banco di famiglia nel lato nord della chiesa parrocchiale. Così grandi erano le idee del gentiluomo che molte delle tombe di quel lato sconsacrato dell'edificio dovettero essere rimosse per soddisfare le sue richieste. Tra le tombe c'era quella della signora Mothersole, la cui posizione era precisamente conosciuta grazie a una nota del disegno della chiesa e del cortile, scritta dal signor Crome. Nel villaggio nacque un certo interesse quando si seppe che la famigerata strega, di cui ancora qualcuno si ricordava, stava per essere riesumata. E la sorpresa, mista a una certa inquietudine, fu molto grande quando si scoprì che, sebbene la bara fosse ancora pressoché intatta, dentro non c'era traccia di corpo, o di ossa, o di polvere. Si tratta certamente di uno strano fenomeno perché ai tempi della sepoltura della signora Mothersole cose come la resurrezione dei corpi erano impensabili, ed è difficile concepire un qualsiasi motivo razionale per il furto di un corpo se non per usi connessi al sezionamento. L'incidente fece rivivere per qualche tempo tutte le storie connesse a processi per stregoneria, storie rimaste in quiescenza per quarant'anni, cosicché gli ordini di Sir Richard di bruciare la bara furono presi da molti come una stravaganza un po' eccessiva, anche se poi furono scrupolosamente eseguiti. Sir Richard, è certo, fu un pestilente innovatore. Prima del suo tempo, la Hall era stata una bella costruzione di allegri mattoni rossi; ma Sir Richard aveva viaggiato in Italia ed era rimasto influenzato dal gusto italiano, e, possedendo più denaro dei suoi predecessori, decise di costruire un palazzo italiano laddove lui aveva trovato una casa inglese. Perciò, stucco e concio mascherarono il mattone; alcuni marmi romani, neppure di prima qualità, furono piazzati qua e là nell'ingresso e nei giardini; una riproduzione del tempio della Sibilla di Tivoli venne eretta sulla riva del laghetto; e Castringham assunse un aspetto completamente nuovo e, devo dire, meno attraente. Ma fu ammirata e presa a modello per molte altre case che negli anni seguenti furono costruite nelle vicinanze. Una mattina (era il 1754), Sir Richard si svegliò dopo una notte agitata. C'era stato vento, il camino aveva fatto fumo per tutto il tempo e tuttavia faceva così freddo che bisognava tenere il fuoco acceso. Qualcosa aveva grattato in continuazione contro la finestra e nessuno riuscì a prendere son-
no per via di quel rumore. Per di più, c'era da pensare ai numerosi ospiti di riguardo che sarebbero arrivati nel corso della giornata. Ospiti che s'aspettavano certamente di essere intrattenuti in un qualche sport, e l'epidemia di cimurro (che continuava ad affliggere la sua cacciagione) era stata di recente così seria da mettere in pericolo la sua reputazione di ottimo riservista. Ma ciò che realmente occupava la sua mente era l'altro motivo della sua notte insonne. No, non avrebbe più dormito in quella stanza. Fu l'oggetto principale dei suoi pensieri anche a colazione, tanto che quando ebbe finito cominciò una verifica sistematica delle stanze alla ricerca di quello che meglio avrebbe soddisfatto le sue pretese. Ci mise parecchio per trovarne una. Questa aveva la finestra a oriente... quella a settentrione... qui c'era una porta che i servi avrebbero aperto in continuazione... in quell'altra non gli sarebbe piaciuto avere il letto... No, doveva avere una stanza che guardasse a occidente, cosicché non ci fosse il sole a svegliarlo la mattina, e che si trovasse fuori dai percorsi ordinari della casa. La governante era ormai alla fine delle sue risorse. «Be', Sir Richard» disse, sapete che c'è soltanto una stanza come quella in tutta la casa. «E quale sarebbe?» disse Sir Richard. «Quella dove Sir Matthew... la Camera Ovest». «Portatemici, perché dormirò lì questa notte» disse il padrone. «Oh, Sir Richard, ma non ci dorme nessuno da quarant'anni. Credo che non sia stata neppure cambiata l'aria da quando morì Sir Matthew» protestò la donna, ma si affrettò dietro di lui. «Venite ad aprire la porta, signora Chiddock. Voglio almeno vederla. Fu aperta e, in effetti, dentro c'era un forte odore di chiuso. Sir Richard andò alla finestra e, con un gesto d'impazienza, com'era nel suo carattere, spinse gli scuri e la spalancò. Essendo stata quella parte della casa poco toccata dai cambiamenti apportati, il grande frassino, cresciuto nel frattempo, copriva interamente la visuale. «Arieggiatela tutto il giorno, signora Chiddock, e trasferite nel pomeriggio il mio arredamento. Mettete il vescovo di Kilmore nella mia vecchia stanza». «Prego, Sir Richard» disse una nuova voce, inserendosi in quel discorso «posso avere il piacere di parlarvi?» Sir Richard si voltò e vide un uomo vestito di nero fermo sulla soglia, il quale s'inchinò. «Vi chiedo indulgenza per questa intrusione, Sir Richard. Forse vi ricor-
derete a malapena di me. Mi chiamo William Crome e mio nonno era vicario ai tempi del vostro». «Signore» disse Sir Richard «il nome Crome è sempre un passaporto per Castringham. Sono lieto di rinnovare un'amicizia di due generazioni. In che cosa posso servirvi? A giudicare dall'ora della vostra visita... e se il vostro abbigliamento non mi inganna... direi che avete una certa premura». «Niente di più vero, signore. Vengo da Norwich e vado a Bury St. Edmunds con tutta la premura che posso metterci. Mi sono fermato lungo la strada solo per lasciarvi dei documenti nei quali ci siamo imbattuti guardando tra le cose che mio nonno ha lasciato alla sua morte. Penso che potrete trovarci questioni di interesse familiare.» «Vi sono molto obbligato, signor Crome. Se volete essere così gentile da seguirmi nello studio... Berremo un bicchiere di vino e intanto daremo un'occhiata insieme a quelle carte. Quanto a voi, signora Chiddock, fate come vi ho detto. Arieggiate questa camera... Sì, è dove morì mio nonno... Sì, l'albero, forse, renderà un po' umido il posto... No, non voglio ascoltare altro. Non fate difficoltà, vi prego. Avete i vostri ordini... andate. Volete seguirmi, signore?» Andarono nello studio. Il pacchetto che il signor Crome aveva portato... è opportuno dire che il giovane era appena divenuto membro di Clare Hall, a Cambridge, e di conseguenza esibiva una rispettabile edizione di Polyaenus... conteneva tra le altre cose gli appunti che il vecchio vicario aveva scritto in occasione della morte di Sir Matthew Fell. E per la prima volta, Sir Richard si trovò a confronto con le enigmatiche Sorti Bibliche di cui abbiamo parlato. Ne fu parecchio divertito. «Be'» disse, «devo dire che la Bibbia del nonno ha dato un prudente consiglio... Abbattilo. Se si riferisce al frassino, può stare sicuro che non lo ignorerò. Non ho mai visto una fonte altrettanto portatrice di catarro e febbri». Lo studio conteneva i libri di famiglia che, minacciati dall'arrivo di una nuova collezione che Sir Richard si era procurata in Italia e in attesa che la casa avesse una stanza adatta a riceverli, non erano molti. Sir Richard sollevò la testa dal documento che stava leggendo e guardò lo scaffale. «Mi chiedo se ci sia ancora il vecchio profeta» disse. «Sarei curioso di vederlo.» Attraversò la stanza e andò a prendere una voluminosa Bibbia che sulla pagina bianca d'inizio recava l'iscrizione: «A Matthew Fell, dalla sua affe-
zionata madrina, Anne Aldous, 2 settembre 1659.» «Non sarebbe male metterlo di nuovo alla prova, signor Crome. Scommetto che otterremmo un paio di nomi dai Paralipomeni. Hmm! Che cosa abbiamo qui? Verrai a cercarmi la mattina e non ci sarò. Bene, bene! Vostro nonno avrebbe tratto un buon presagio, vero? Basta profeti per me! Sono tutte fandonie. E adesso, signor Crome, vi sono infinitamente grato per il vostro pacchetto. Temo che sarete impaziente di ripartire. Vi prego, permettete... un altro bicchiere.» Con offerte di ospitalità, sinceramente presentate (Sir Richard era rimasto ben impressionato dai modi del giovane), i due si separarono. Nel pomeriggio, arrivarono gli ospiti. Il vescovo di Kilmore, Lady Mary Hervey, Sir William Kentfield, etc. Spuntino alle cinque, vino, carte, cena e a Ietto. Il mattino seguente, Sir Richard è restio a imbracciare il fucile con gli altri. Parla con il vescovo di Kilmore. Il prelato, diversamente da molti altri vescovi irlandesi dei suoi tempi, aveva visitato la sua sede e, in realtà, vi risiedeva da parecchio tempo. Quella mattina, mentre camminavano per la terrazza e parlavano dei cambiamenti e dei miglioramenti della casa, indicando la finestra della Camera Ovest, il vescovo disse: «Non riuscireste mai a convincere un irlandese a occupare quella stanza, Sir Richard.» «Come, mylord? Ma è la mia stanza». «Be', i nostri paesani dicono da sempre che porta la peggiore delle sfortune dormire vicino a un frassino, e voi ne avete un bell'esemplare a meno di due metri dalla finestra. Forse, continuò il vescovo con un sorriso, vi ha già toccato con qualcuna delle sue qualità perché non mi sembra, se posso dirlo, che ricaviate giovamento dal riposo notturno come i vostri amici vorrebbero che fosse. «Sarà l'albero, o qualcos'altro, fatto è che in realtà non riesco a dormire da mezzanotte alle quattro, mylord. Ma domani l'albero sarà abbattuto, così non ne sentirò più parlare.» «Approvo la vostra decisione. Non può fare bene respirare l'aria che passa attraverso tutto quel fogliame.» «Penso che abbiate ragione, anche se non sempre ho lasciato aperta la finestra la notte scorsa. Penso che sia stato piuttosto il rumore... senza dubbio quello dei rami che frusciavano contro i vetri... a tenermi sveglio.» «Non può essere stato quello, Sir Richard. Ecco, guardate da questo punto. Nessuno dei rami più vicini tocca la finestra, a meno che la notte scorsa non ci sia stato un forte vento. Ci sono trenta centimetri buoni di distanza.
«È vero, signore. Ma allora, mi chiedo: che cosa può essere stato a grattare, a frusciare... e a lasciare linee e segni sulla polvere del davanzale?» Convennero alla fine che dovevano essere stati i topi, arrivati fin lassù risalendo l'edera. Il giorno trascorse tranquillamente, arrivò la notte e gli ospiti, augurata a Sir Richard la buonanotte, raggiunsero le loro stanze. Adesso noi siamo nella camera da letto di Sir Richard, la luce è spenta e il gentiluomo è coricato. La stanza si trova proprio sopra la cucina, la notte fuori è calda e immobile, perciò la finestra è aperta. C'è pochissima luce vicino alla testiera del letto, ma c'è un movimento strano. È come se Sir Richard stesse muovendo rapidamente la testa avanti e indietro facendo il minimo rumore possibile. Adesso per esempio supporreste, così ingannevole è la semioscurità, che abbia diverse teste, rotonde e scure che si muovono indietro e avanti, abbassandosi fino al petto. È un'orribile illusione. Niente di più? Ecco! Qualcosa cade dal letto con un tonfo attutito, come un gattino, e in un lampo è fuori dalla finestra. Un altro... quattro... e dopo è tutto di nuovo tranquillo. Verrai a cercarmi la mattina e non ci sarò. Come con Sir Matthew, così con Sir Richard... Morto e nero nel suo letto! Un pallido e silenzioso gruppo di ospiti e servi si raccolse sotto la finestra quando si venne a sapere della cosa. Avvelenatori italiani, emissari papisti, aria infetta... tutte queste supposizioni e altre ancora furono avanzate, e il vescovo di Kilmore guardò l'albero. Accovacciato sulla biforcazione di due rami bassi, c'era un gatto bianco che guardava con interesse nella cavità che gli anni avevano scavato nel tronco. C'era evidentemente qualcosa dentro che attirava la sua attenzione. All'improvviso, si eresse e si stirò, rimanendo per un momento sospeso sulla cavità. Poi il ramo che lo sosteneva cedette e il gatto finì dentro. Tutti sollevarono la testa al rumore della caduta. La maggior parte di noi saprà che un gatto può gridare, ma pochi avranno sentito un simile grido provenire dall'interno del tronco di un grande frassino. Furono due o tre i versi... nessuno dei testimoni è sicuro... poi pervenne un rumore di lotta, attutito, e fu tutto. Ma lady Mary Hervey svenne e la governante si coprì le orecchie e scappò via, finendo per cadere sulla terrazza. Il vescovo di Kilmore e Sir William Kentfield resistettero. Ciononostante erano piuttosto colpiti, anche se si era trattato soltanto del lamento di un
gatto. Sir William deglutì un paio di volte prima di riuscire a dire: «C'è qualcosa che non sappiamo in quell'albero, mylord. Sono per una ricerca immediata». L'idea venne accolta. Fu portata una scala e uno dei giardinieri salì e guardò nella cavità. Non riuscì a vedere niente tranne qualche debole segnale di qualcosa che si muoveva. Si procurarono una lanterna. «Dobbiamo andare fino in fondo» disse il vescovo. «Sono pronto a scommettere la vita, mylord, ma il segreto di queste terribili morti è qui». Fu mandato di nuovo il giardiniere sulla scala perché calasse con una corda la lanterna nella cavità. Videro la luce gialla illuminargli il viso chino, poi videro quel viso deformarsi per il terrore prima che, gridando con una voce spaventosa, il giardiniere, lasciando cadere la lanterna nell'albero, cadesse dalla scala, fortunatamente ricevuto dagli altri due uomini. Rimase svenuto e gli occorse qualche tempo per riprendersi. Nel frattempo, gli altri ebbero qualcosa a cui guardare. La lanterna doveva essersi rotta in fondo all'albero dando fuoco alle foglie secche e a quant'altra roba giaceva ai suoi piedi. In pochi minuti, si levò una colonna di fumo e di fiamme e tutto l'albero ne fu avvolto. I presenti si tennero a debita distanza. Sir William e il vescovo mandarono degli uomini a prendere tutte le armi e gli attrezzi che avessero trovato. Chiunque stesse usando quell'albero come rifugio, sarebbe stato costretto dal fuoco a uscire. E così fu. Dapprima, alla biforcazione dei due rami principali, apparve un corpo rotondo avvolto dalle fiamme, grosso quanto la testa di un uomo... Sembrò cadere e abbattersi all'indietro, questo cinque o sei volte. Poi un corpo rotondo simile balzò nell'aria e cadde sull'erba dove, dopo un momento, giacque immobile. Il vescovo si avvicinò quanto più la cautela glielo consentì e vide... ciò che rimaneva di un enorme ragno, venoso e disseccato! E via via che il fuoco divorava l'interno dell'albero, altri terribili corpi come quello cominciarono a emergere dal tronco, e si vide che questi avevano una peluria grigiastra. Il frassino bruciò tutto il giorno e fino a quando non cadde a pezzi gli uomini rimasero lì, di tanto in tanto amazzavano qualche bestiaccia via via che emergeva dalla terra. Alla fine, quando constatarono che dopo un lungo intervallo non ne venivano più fuori, si avvicinarono con cautela all'albero e ne esaminarono le radici. «Trovammo una cavità nella terra» disse poi il vescovo di Kilmore, e un paio di quelle creature incenerite dal fuoco. La cosa per me più curiosa è
che, ripiegato contro la parete dell'anfratto, c'era uno scheletro umano con la pelle disseccata sulle ossa e qualche resto di capelli neri. Gli esperti che lo esaminarono, dichiararono che apparteneva indubbiamente a una donna morta da almeno cinquant'anni». Titolo originale: The Ash-Tree Traduzione: Grazia Alineri Lucy Clifford La nuova madre Lucy Clifford è una scrittrice inglese, del periodo vittoriano, nota come autrice di storie fantastiche per bambini. The New Mother (La nuova madre) è un curioso esempio di contrapposizione letteraria che prende di mira gli aspetti sociali, umani e psicologici del moralismo vittoriano. La struttura del romanzo, l'impianto, l'humus, si rifanno alla costruzione classica della fiaba; si ha, quindi, il bisticcio manicheo tra il Bene e il Male con l'inevitabile morale conclusiva che, rifacendosi a parametri della tradizione popolare, potrebbe essere assunta e assimilata all'adagio: Chi smarrisce la retta via, Belzebù se lo porta via. I Da sempre le bambine erano state chiamate Occhi Azzurri e Pavoncella. Occhi Azzurri somigliava all'adorato padre che era lontano, in mare. Il padre aveva i più azzurri tra gli occhi azzurri; la figlia anche e, col tempo, Occhi Azzurri fu chiamata e Occhi Azzurri divenne il suo nome: qualunque fosse quello primigenio. La minore, un tempo, ancora neonata, aveva pianto amaramente perché un pavone che viveva nei pressi della casetta era improvvisamente scomparso nel bel mezzo dell'inverno; e fu così che, per consolarla, venne chiamata Pavoncella. Ora, la madre, Occhi Azzurri, Pavoncella e una terza bimba, appena nata, vivevano tutte insieme in una casetta solitaria ai margini della foresta. Erano distanti dal villaggio, quasi un miglio e mezzo, e la madre doveva lavorare molto e, spesso... quasi sempre, non aveva tempo per recarsi all'ufficio postale per vedere se fosse arrivata una lettera del marito diletto; così, non di rado, nel pomeriggio era solita mandarci Occhi Azzurri e Pavoncella. Le due bambine erano molto fiere di poterci andare da sole.
Quando tornavano stanche della lunga passeggiata, c'era la madre ad aspettarle e ad accudirle, il tè era pronto e la neonata emetteva gridolini di gioia. E se, per caso, c'era una lettera dal mare, allora tutte in casa erano veramente felici. L'interno della casetta era molto intimo; le sue pareti erano bianche come neve, sia dentro che fuori. Il seggiolone della neonata stava in un angolo e nell'altro c'era la credenza nella quale la mamma conservava ogni genere di sorprese. «Care bambine» disse la madre in un tardo pomeriggio d'autunno. «Fa molto freddo per andare al villaggio. Camminate dunque di buon passo, e chissà che non torniate con una lettera che dice che il vostro caro padre è già di ritorno per l'Inghilterra. Non state via tanto» proseguì la madre e, come diceva sempre prima della loro partenza, «mi raccomando, fate la strada più corta; non badate agli estranei che incontrate e assolutamente non parlate con loro.» «No, mamma» risposero Occhi Azzurri e Pavoncella; quindi, lei le baciò, le chiamò brave bambine ed esse allegramente partirono. Il villaggio era più vivace del solito poiché c'era stata una fiera il giorno prima. «Oh, vorrei tanto essere stata qui ieri» disse Occhi Azzurri mentre andavano dalla droghiera, che era anche la postina. La postina era molto occupata e disse soltanto: «Nessuna lettera per voi oggi». Quindi, Occhi Azzurri e Pavoncella si incamminarono per tornare a casa. Avevano lasciato il villaggio e camminato per un po' quando notarono, appoggiata a una pila di pietre accanto alla strada, una strana ragazza dall'aspetto selvaggio che sembrava molto infelice. Così pensarono di chiederle se potessero fare qualcosa per aiutarla, poiché erano bambine gentili e sicuramente dispiaciute per chiunque si trovasse in difficoltà. La ragazza dimostrava una quindicina d'anni circa. Era vestita con abiti molto logori. Sulle spalle indossava un vecchio scialle marrone. Non portava cappello, i suoi capelli erano neri come il carbone e scendevano arruffati e sciolti. Aveva qualcosa nascosto sotto lo scialle. Quando vide venire verso di lei le due bambine, appallottolò lo scialle e ci si sedette sopra. Non si mosse né si spostò finché Occhi Azzurri e Pavoncella non furono a circa un metro da lei. Solo allora, si strofinò gli occhi come se avesse pianto disperatamente e alzò lo sguardo. Le bambine si fermarono per un momento e la fissarono. «Stai piangendo?» chiesero timidamente.
Sorprendentemente lei disse con la più allegra delle voci: «Oh no! tutto il contrario». «Forse ti sei persa?» chiesero gentilmente. Ma la ragazza rispose prontamente: «No di certo. Poiché mi avete appena trovato. Inoltre,» aggiunse «io abito al villaggio.» Le bambine erano sorprese: non l'avevano mai vista prima e loro credevano di conoscere tutta la gente del villaggio, di vista almeno. Allora, Pavoncella, che aveva una mente sveglia e curiosa, chiese: «Su che cosa sei seduta?» «Su di un peardrum» la ragazza rispose. «Che cos'è un peardrum?» chiesero. «Sono sorpresa che voi non sappiate che cos'è un peardrum» la ragazza rispose. «La maggior parte delle persone della buona società ne possiede uno.» E, così dicendo, svolse lo scialle e glielo mostrò. Era un curioso strumento, molto simile a una chitarra nella forma: aveva tre corde, ma soltanto due bischeri per accordarle. E la cosa strana non era la musica che emetteva, bensì una piccola scatola quadrata attaccata a un lato. «Dove l'hai preso?» chiesero le bambine. «L'ho comprato» la ragazza rispose. «Costa molti soldi?» domandarono. «Sì» rispose lentamente la ragazza, annuendo con la testa. «Costa molti soldi, ma io sono ricchissima» aggiunse. «Tu non sembri ricca» dissero Occhi Azzurri e Pavoncella con un tono di voce il più educato possibile. «Forse non lo sono» rispose allegramente la ragazza. A questo punto, le bambine trovarono coraggio e osarono osservare: «Sembri piuttosto malvestita». «Davvero?» disse la ragazza col tono di chi ha udito un'affermazione piacevole, ma sorprendente. «Una certa trascuratezza è molto rispettabile» dichiarò con voce soddisfatta. «Glielo devo veramente raccontare» continuò. E le bambine si chiesero che cosa intendesse dire. La ragazza aprì la piccola scatola posta sul lato del peardrum e disse, come se stesse parlando con qualcuno che potesse sentirla: «Dicono che sembro piuttosto trasandata. Che fortuna, vero?» «Ma tu non stai parlando con nessuno!» esclamarono, più stupite che mai le bambine. «Ma sì! Sto parlando con entrambi.»
«Entrambi chi?» «Ho qui un piccolo uomo vestito come un contadino e una piccola donna che fa coppia con lui. Hanno gli occhi di vetro e la coda di legno, ma quando li metto sul coperchio della scatola e, quando suono, essi danzano meravigliosamente.» «Oh! facci vedere, facci vedere, ti prego!» esclamarono Occhi Azzurri e Pavoncella. Allora la ragazza li guardò dubbiosa. «Farvi vedere!» esclamò. «Beh, non sono sicura di poterlo fare. Ditemi, siete buone?» «Sì, sì» le bambine risposero con entusiasmo. «Siamo molto buone!» «Allora, è impossibile» dichiarò la ragazza chiudendo con decisione il coperchio della scatola. Le bambine la fissarono stupite. «Ma noi siamo buone!» esclamarono, pensando che lei avesse frainteso. «Noi siamo molto buone. Perché non puoi farci vedere il piccolo uomo e la piccola donna con gli occhi di vetro e la coda di legno?» «Oh, no!» rispose la ragazza. «Io li mostro soltanto ai bambini cattivi. E più i bambini sono cattivi, più e meglio i miei due amici danzano.» La ragazza ripose con cura il peardrum sotto il logoro mantello: «Non avrei mai creduto che voi foste così buone» disse con tono di rimprovero, come se le bambine avessero accusato se stesse di qualche grave crimine. «Be', buona giornata!» concluse. «Oh, ma noi saremo cattive» affermarono disperate Occhi Azzurri e Pavoncella. «Temo che non possiate esserlo» rispose la ragazza scuotendo la testa. Questo richiede molta abilità». E rapidamente si incamminò mentre le bambine sentivano gli occhi riempirsi di lacrime e il cuore dolere per la delusione. «Ah, se solo fossimo cattive» dissero. «Li avremmo visti ballare.» «Magari» disse Pavoncella «se noi riusciamo a essere cattive oggi lei ce li farà vedere domani.» «Oh,» disse Occhi Azzurri, «ma io non so come si fa a essere cattive; nessuno me l'ha mai insegnato.» Pavoncella meditò per alcuni istanti in silenzio. «Io penso proprio di riuscire a essere cattiva se voglio» disse. «Ci proverò stanotte.» «Oh, non essere cattiva senza di me!» esclamò Occhi Azzurri. «Sarebbe davvero scortese da parte tua. Tu sai che desidero vedere il piccolo uomo e
la piccola donna tanto quanto te.» E così, discutendo e gridando, raggiunsero casa. Quando la madre le vide, rimase molto sorpresa e, temendo che si fossero fatte del male, corse loro incontro. «Oh, bambine mie, oh, mie care, care bambine» esclamò. «Che cosa vi è accaduto?» Ma Occhi Azzurri e Pavoncella non osarono raccontare alla madre della ragazza del villaggio, del piccolo uomo e della piccola donna; così dissero: «Nulla» e urlarono ancora più forte. «Povere bimbe!» disse la madre. «Siete stanche, e forse anche affamate; dopo il tè starete sicuramente meglio.» Così, tornò alla casetta, accese il fuoco, vi mise sopra l'acqua per il tè e dispose le tazze sul tavolo. Poi, dalla piccola credenza, prese del pane e lo tagliò, e disse con voce affettuosa: «Occhi Azzurri... Pavoncella... venite a prendere il tè. E... sentite... la piccola si è svegliata... ascoltate le sue piccole grida di gioia!» Sollevò la neonata dalla culla e prese a ninnarla. Ma le due bambine non risposero all'adorata madre: erano lì in piedi accanto alla finestra e non dicevano nulla. «Venite, bambine» disse di nuovo la madre. «Vieni, Occhi Azzurri; vieni, mia Pavoncella; qui c'è del buon pane dolce per il tè.» Poi, improvvisamente, alzò lo sguardo e vide che gli occhi di Pavoncella erano pieni di lacrime. «Pavoncella!» esclamò. «Mia cara piccola Pavoncella! Che cosa c'è? Vieni dalla mamma, mio tesoro.» E, mettendo giù la neonata aprì le braccia. Subito Pavoncella corse dalla madre. «Oh, mamma» singhiozzò. «Oh, cara mamma! Io voglio essere cattiva. Voglio essere molto, molto cattiva!» Quindi, anche Occhi Azzurri si alzò dalla sedia e, strofinando il viso sulla spalla della madre, si lamentò tristemente: «Anch'io lo voglio, mamma. Oh, darei qualunque cosa per essere molto, molto cattiva». «Ma, mie care bambine» chiese la madre stupita. «Perché mai volete essere cattive?» «Perché sì. Oh, che cosa dobbiamo fare?» strillarono insieme Occhi Azzurri e Pavoncella. «Io mi arrabbierei molto se voi foste cattive. Ma voi non potete esserlo» rispose la madre. «Perché non possiamo?» chiesero.
Allora la madre pensò un attimo prima di rispondere, e sembrava che stesse parlando più con se stessa che con le figlie. «Perché se qualcuno ama» disse dolcemente «il proprio amore è più forte di tutti i sentimenti malvagi e li conquista tutti.» «Non capiamo che cosa intendi dire» esclamarono Occhi Azzurri «ma noi vogliamo essere cattive.» «Allora io dovrei arguire che voi non mi amate» disse la madre. «Se noi fossimo molto, molto cattive... cattivissime, che cosa accadrebbe?» chiesero Occhi Azzurri e Pavoncella con occhi, forse, un po' cattivi. «Allora» disse la madre mestamente... e, mentre parlava, le venivano le lacrime agli occhi e un singhiozzo quasi la soffocava «allora» pianse «io dovrei andare via e lasciarvi per sempre e mandarvi una nuova mamma e un nuovo papà con gli occhi di vetro e la coda di legno.» II «Buongiorno,» disse la ragazza del villaggio, vedendo Occhi Azzurri e Pavoncella avvicinarsi. Era sempre seduta nello stesso posto, vicino al mucchio di pietre, e sotto lo scialle nascondeva il peardrum. «Ci sono ancora il piccolo uomo e la piccola donna?», chiesero le bambine. «Sì,» rispose la ragazza. «Grazie per l'interessamento. Sono tutti e due qui e stanno bene. La piccola donna è venuta a conoscenza di un segreto... che rivela mentre danza.» «Oh, facceli vedere,» la implorarono le due sorelline. «È assolutamente impossibile,» replicò lesta la ragazza, «perché voi siete buone.» «Oh!», esclamò Occhi Azzurri con voce triste. «Ma la mamma ci ha detto che se saremo cattive lei se ne andrà, e al suo posto ci manderà un'altra mamma, con gli occhi di vetro e la coda di legno.» «Davvero?» chiese la ragazza con la sua solita voce indifferente e proseguì: «Questo è quello che dicono tutte le mamme. Minacciano sempre di fare cose del genere. Ma in realtà non esistono madri con gli occhi di vetro e la coda di legno: sarebbero madri con gli occhi di vetro e la coda di legno: sarebbero troppo costose da fabbricare.» Le bambine riconobbero immediatamente che si trattava di un'osservazione molto sensata. «Noi pensiamo che tu potresti farci vedere l'omino e la donnina ballare.» «Questo è quello che pensate voi,» replicò la ragazza del villaggio.
«Ma tu ce li farai vedere se noi faremo le cattive?» le chiesero accorate. «Temo che voi non riuscireste mai a essere cattive, è questo il problema, neppure se ci provaste», rispose lei con disprezzo. «Ma se questa sera noi facciamo le cattive, tu ci farai vedere i tuoi amichetti domani?» «Le domande poste oggi trovano sempre miglior risposta domani,» ribatté la ragazza alzandosi e accennando a riprendere il proprio cammino. Poi, con tono allegro, aggiunse: «Buona giornata. Devo proprio andare... Andrò a suonare un po' il peardrum per conto mio.» Le bambine rimasero a fissarla alcuni istanti mentre si allontanava, poi scoppiarono a piangere. Pavoncella fu la prima ad asciugarsi le lacrime. «Andiamo a casa», disse alla sorella, «e facciamo le cattive. Così forse domani potremo vedere l'omino e la donnina ballare.» Quello fu un pomeriggio assai triste per la loro povera mamma, perché anziché sedersi a tavola e bere il tè allegre e sorridenti come sempre, Occhi Azzurri e Pavoncella ruppero le tazze e gettarono il pane imburrato per terra. Inoltre, ogni volta che la madre chiedeva loro di fare una cosa, per dispetto facevano tutto il contrario, e alla fine quando lei le mandò in camera in castigo, pestarono i piedi con rabbia. «Vi ricordate che cosa vi avevo detto che avrei fatto se foste state tanto cattive?» chiese infine loro con voce mesta. «Sì, ce lo ricordiamo, ma non è vero,» urlarono le bambine. «Le madri con gli occhi di vetro e la coda di legno non esistono, e poi se una venisse da noi, noi la pungeremmo con gli spilli e la cacceremmo via. Ma tanto non esistono.» Allora la loro mamma si arrabbiò e le spedì a letto. Ma loro anziché piangere ed essere dispiaciute per averla fatta inquietare, ridevano di contentezza e cantavano a squarciagola. Il mattino seguente, Occhi Azzurri e Pavoncella si alzarono di buon ora e, senza chiedere il permesso alla madre, corsero, con tutta la velocità che le gambette permettevano loro, alla ricerca della ragazza del villaggio. La trovarono seduta, come sempre, vicino al mucchio di pietre, con il peardrum nascosto sotto lo scialle. «Adesso facci vedere il piccolo uomo e la piccola donna, per favore,» dissero le bambine, «e facci sentire il peardrum. Siamo state molto cattive ieri sera.» Ma la ragazza continuava a tenere il peardrum accuratamente nascosto. «Questo è quello che pensate voi,» rispose. «Ma non siete state cattive
nemmeno la metà di quanto avreste dovuto esserlo. Come vi ho spiegato ieri, bisogna essere molto abili per essere davvero cattivi.» «Ma noi abbiamo rotto le tazze, abbiamo gettato il pane imburrato per terra e abbiamo fatto tutto il possibile per renderci davvero insopportabili.» «Sciocchezze,» ribatté la ragazza con disprezzo. «Avete gettato l'acqua sul fuoco? Avete rotto l'orologio? Avete buttato per terra tutte le padelle di rame appese al muro?» «L'avevo immaginato,» rispose la ragazza. «Sono così tante le persone che scambiano un po' di confusione e qualche stupido capriccio per vera cattiveria.» E prima che loro potessero aggiungere verbo, scomparve. «Oggi saremo molto più cattive di ieri,» dichiararono Occhi Azzurri e Pavoncella, esasperate. «Ritorneremo a casa e faremo quello che lei ci ha detto.» E così fu. E quando la loro mamma vide quello che combinavano, non le sgridò come aveva fatto il giorno prima, ma scoppiò in singhiozzi e disse: «Bambine mie, se domani non sarete buone, sarò costretta ad andarmene via per sempre, e la mamma di cui vi ho parlato verrà a stare con voi.» Ma le due sorelline non le credettero. Tuttavia, vedendola così triste, si sentirono stringere il cuore e decisero che, dopo aver visto il piccolo uomo e la piccola donna danzare, non le avrebbero mai più dato nessun dispiacere. Il mattino seguente, prima del sorgere del sole, le bambine scivolarono di soppiatto fuori dalla porta e, dopo aver attraversato di corsa i campi raggiunsero il villaggio. Trovarono la ragazza seduta vicino al mucchio di pietre, proprio come se quella fosse la sua casa. «Siamo state molto cattive», esordirono. «Abbiamo fatto tutto quello che ci hai detto. Adesso possiamo vedere i tuoi piccoli amici?» La ragazza le guardò in modo strano. «Sembrate molto eccitate,» disse con la sua solita voce. «Calmatevi.» «Abbiamo fatto tutto quello che ci hai detto,» protestarono nuovamente Occhi Azzurri e Pavoncella, «e desideriamo tanto sentire il segreto della piccola donna. Ieri siamo state così cattive che la mamma ci ha detto che se oggi non fossimo ritornate ad essere buone, se ne sarebbe andata per sempre e avrebbe mandato al suo posto una nuova mamma.» «Davvero?», chiese la ragazza. «Hmm, fatemi pensare. Quando ha detto che se ne sarebbe andata?» «Ma se lei se ne va, noi che cosa faremo?», singhiozzarono le sorelline disperate. «Noi non vogliamo che lei vada via, perché le vogliamo molto
bene.» «Fareste meglio a tornarvene a casa e fare le brave bambine, visto che non siete proprio capaci di fare nient'altro. Il segreto della piccola donna è troppo importante e lei non può rivelarlo a chi finge soltanto di essere cattivo.» «Ma abbiamo fatto tutto quello che ci hai detto», gridarono Occhi Azzurri e Pavoncella. «Ma non avete gettato lo specchio dalla finestra e non avete neppure messo la vostra sorellina a testa in giù.» «No, questo non l'abbiamo fatto,» risposero affannosamente. «Lo sapevo!», disse la ragazza con aria trionfante. «Bene, addio mie care. Domani non sarò più qui.» «Oh, non andartene!», la supplicarono. «Facci vedere i tuoi amici una volta soltanto!». «Mm. Questa mattina, verso le undici, passerò vicino a casa vostra,» riprese la ragazza del villaggio. «E chissà, forse, suonerò il peardrum.» «E ci mostrerai l'omino e la donnina?», le domandarono in coro le bambine. «Non credo proprio», replicò la ragazza. «A meno che non ve lo meritiate; la falsa cattiveria è solo bontà sprecata. Certo, se rompete lo specchio e combinate altri guai del genere...» «Oh, sì lo faremo,» promisero Occhi Azzurri e Pavoncella. «Saremo cattivissime fino a quando non ti sentiremo arrivare.» Allora le bambine fecero ritorno a casa e si comportarono in modo tanto malvagio che alla loro povera mamma si spezzò il cuore e gli occhi le si riempirono di lacrime. Alla fine, salì al piano superiore e indossò lentamente il suo abito più bello e la sua nuova cuffietta da sole; poi vestì la neonata con gli abiti della festa, scese di nuovo al pian terreno e si fermò davanti alle due figlie: in quello stesso istante Pavoncella aprì la finestra e scagliò fuori lo specchio, che si frantumò con gran fragore sul terreno. «Addio, bimbe mie,» disse loro, con voce triste, mentre le baciava. «La vostra nuova mamma sarà qui fra poco. O povere bambine mie!». Poi prese in braccio la neonata e, singhiozzando, si avviò verso la porta. «Ma mamma, alle undici e mezza saremo di nuovo buone! Ritorna alle undici e mezza,» la implorarono le figlie, «e saremo tutte e due buone, dobbiamo fare le cattive soltanto fino alle undici.» Ma la madre afferrò il piccolo fagotto in cui aveva riposto il suo grembiule di cotone e se ne andò. Giunta all'angolo, dove i prati finivano, si fermò e si voltò a salutare le
bambine che la guardavano dalla finestra: agitò il fazzoletto intriso di lacrime, ne fece baciare l'estremità alla neonata che stringeva al petto e poi scomparve. Le bambine furono sopraffatte da un profondo dolore ed iniziarono a piangere amaramente, anche se non riuscivano a credere che la loro mamma se ne fosse andata per sempre. Poi l'orologio che avevano gettato per terra batté le undici e improvvisamente esse udirono un suono, un suono metallico, rapido e stridente, intervallato da una nota strana e dissonanate. Occhi Azzurri e Pavoncella si precipitarono verso la finestra, che era rimasta aperta, e videro la ragazza del villaggio che suonava il suo misterioso strumento, danzando al ritmo della musica. «Abbiamo fatto tutto quello che ci hai detto,» gridarono le due sorelline. «Vieni a vedere tu stessa e poi mostraci il piccolo uomo e la piccola donna.» La ragazza continuò a suonare e a ballare e, in parte parlando, in parte cantando, disse: «Avete fatto tutto male. Avete gettato l'acqua dalla parte sbagliata del camino, non avete rotto a dovere l'orologio, le pentole di rame non erano in mezzo alla stanza e non avete messo la vostra sorellina a testa in giù.» Poi, senza mai smettere di cantare, la ragazza del villaggio si accinse ad oltrepassare la piccola casa, mentre le parole della sua canzone rieccheggiavano crudeli nell'aria: «Vado verso la mia terra, la terra in cui sono nata.» «Ma la nostra mamma se ne è andata,» gridarono le bambine. «Quando ritornerà da noi?» «Non tornerà mai più,» proseguì, cantando, la ragazza. «Non tornerà mai più da voi. È salita su un battello che la porterà al mare; là raggiungerà vostro padre e continueranno a navigare insieme.» Poi, mentre si allontanava e la sua voce si faceva sempre più fioca, la ragazza si rivolse nuovamente alle bambine: «La vostra nuova mamma sta per arrivare. È già in cammino, ma procede lentamente perché ha una coda lunga lunga e ha dimenticato gli occhiali; ma sta arrivando, sta arrivando... arrivando... arrivando.» L'eco delle ultime parole, le ultime che avrebbero sentito pronunciare dalla ragazza del villaggio, si spense in lontananza. Allora le bambine si voltarono, si guardarono negli occhi e poi guardarono la piccola casa al limitare della foresta che fino alla settimana prima era stata una dimora felice, accogliente e immacolata. Il fuoco era spento;
l'orologio era rotto e inservibile. In un angolo c'era il seggiolone, che adesso era vuoto; appoggiata al muro c'era la credenza, ma dentro non c'era più neanche un pezzetto di pane dolce. E per terra c'erano i cocci delle tazze e i pezzetti di pane imburrato, che avevano unto il pavimento che la loro mamma puliva, inginocchiata per terra, fino a renderlo candido come la neve. Con gli occhi pieni di lacrime e le mani contratte per il dolore, Occhi Azzurri e Pavoncella osservarono il frutto delle loro malefatte. «Non so che cosa faremo quando arriverà la nuova mamma,» singhiozzò Occhi Azzurri. «Non vorrò mai bene a nessun'altra mamma.» Pavoncella smise di piangere per alcuni istanti e pensò al da farsi. «Sprangheremo la porta, chiuderemo la finestra e quando busserà noi faremo finta di niente.» Per tutto il pomeriggio rimasero in attesa, attente ad ogni rumore e tremando all'idea che la minaccia si avverasse. Poi vedendo che non giungeva nessuno, cominciarono a temere sempre meno l'arrivo della nuova mamma. Si procurarono un secchio d'acqua e lavarono il pavimento; presero alcuni stracci e lucidarono le pentole di rame; poi raccolsero i cocci delle tazze e pulirono la stanza meglio che poterono. Non c'era pane dolce da mettere in tavola, ma forse, pensavano, la mamma avrebbe portato a casa qualcosa dal villaggio. Alla fine, quando ogni cosa era a posto, Occhi Azzurri e Pavoncella si lavarono il viso e le mani, poi si sedettero ad aspettare; sì, perché, non credevano a una sola parola di quello che aveva detto la ragazza del villaggio, e certo la loro mamma sarebbe ritornata da un momento all'altro. Poi, d'un tratto, mentre se ne stavano sedute accanto al fuoco, udirono uno strano rumore, come di qualcosa di pesante che venisse trascinato per terra e, subito dopo, qualcuno bussò forte alla porta. Non poteva certo essere la loro mamma, perché avrebbe abbassato la maniglia e sarebbe entrata senza bussare. Un secondo, terribile colpo le fece sobbalzare. «Picchiando così forte, finirà per romperla,» singhiozzò Occhi Azzurri. «Appoggiati con la schiena alla porta,» le sussurrò Pavoncella, «mentre io sbircio dalla finestra per vedere se è davvero la nuova mamma.» Così, tremando come una foglia, Occhi Azzurri si appoggiò alla porta e Pavoncella andò alla finestra. Ciò che intravide fu un cappello di satin nero a tesa larga, sulla quale spiccava un grande fiocco, ed un braccio lungo ed ossuto dal quale pendeva una borsa di pelle nera. Da sotto il cappello balenava una luce stranamente viva... Pavoncella si sentì mancare il cuore e
impallidì. Scivolò accanto a Occhi Azzurri e, con la voce che le tremava, le disse in un soffio: «È lei! È la nuova mamma!». Atterrite, aderirono entrambe con la loro piccola schiena alla porta. Seguì un lungo silenzio. Le sorelline pensarono che forse la nuova mamma si era convinta che in casa non ci fosse nessuno, e aveva deciso di andarsene. Ma subito dopo, attraverso le assi sottili la udirono allontanarsi un poco e dire: «Sarò costretta ad aprirla con la coda.» Per un istante terribile regnò un silenzio di tomba, nel quale, però, le bambine riuscirono a percepire il rumore della coda che si alzava, seguito un attimo dopo dal fragore delle assi della piccola porta dipinta che erano andate in mille pezzi. Con un urlo le sorelline spiccarono un balzo in direzione della porticina che dava sul retro della casa, e di qui fuggirono nella foresta. Rimasero al buio e al freddo tutta la notte, e poi tutto il giorno e la notte successivi, e così per tutti i giorni, freddi e tristi, e lunghe notti buie che seguirono. E sono ancora nella foresta, cari bambini. E da quando sono là, non hanno che giunchi verdi per cuscino, e foglie secche per coperta; d'estate si nutrono di fragole selvatiche e di nocciole, quando, ad agosto, pendono verdi dai rami. D'autunno si cibano di more, e d'inverno devono accontentarsi delle piccole bacche rosse che maturano nella neve. Vagano fra le betulle alte e scure o fra i grandi alberi che vi crescono sotto. Talvolta sostano un poco nei pressi dello stagno che costeggia la boscaglia e desiderano, desiderano con un ardore molto più grande di quanto le parole potrebbero esprimere, rivedere la loro mamma ancora una volta, una volta soltanto, per dirle che saranno buone per sempre... ancora una volta soltanto. E la loro nuova madre vive nella piccola casa ai margini della foresta: ma le finestre sono chiuse, le porte sono sbarrate e nessuno sa in che stato sia l'interno. Di tanto in tanto, quando cala la sera e tutto è silenzio intorno, Occhi Azzurri e Pavoncella si avvicinano di soppiatto alla casetta in cui erano state tanto felici e, con il cuore in gola, sbirciano e stanno in ascolto: qualche volta, balena una luce accecante attraverso la finestra, e loro sanno che quella luce proviene dagli occhi di vetro della loro nuova madre; oppure odono un rumore strano e smorzato: il rumore della coda di legno che lei trascina sul pavimento. Titolo originale: The New Mother Traduzione Stefania Grandi e Elisabetta Svaluto
Russell Kirk C'è una lunga, lunga strada tortuosa Russell Kirk, vivace esponente dell'ala conservatrice statunitense, è considerato uno dei maestri contemporanei del gotico, del soprannaturale e dell'arcano Le sue opere, che gravitano nel filone onorifico, sono brillanti allegorie della morale cristiana L'Autore ha illustrato il suo particolare approccio a questo genere letterario in A Cautionary Note on the Ghostly Tale, saggio contenuto nella sua prima raccolta di opere The Surly Sullen Bell (1962) Kirk era legato da profonda amicizia con T S Eliot, con il quale condivideva l'impegno intellettuale e morale nei confronti del mondo spirituale cristiano, elemento, questo, che in effetti permea l'intera produzione letteraria di Kirk There's a Long, Long Trail A-Winding, una delle sue opere più recenti, gli ha valso, nel 1977 il World Fantasy Award per il migliore racconto breve dell'anno Disse poi ai suoi discepoli: «È impossibile che non avvengano scandali; ma guai a colui per cui avvengono! Meglio per lui sarebbe che una macina da mulino gli fosse messa al collo e fosse gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno solo di questi piccoli. Luca, 17:1-2 Lungo l'ampia e vuota autostrada a sei corsie, la tormenta infuriava come se volesse inghiottire ogni forma vivente. Frank Sarsfield correva, malgrado fosse di corporatura massiccia, e sembrava un pesante aquilone sospinto dal vento impetuoso. La neve s'impigliava nei suoi folti capelli bianchi, formando una specie di berretto frigio; i grossi fiocchi turbinavano così vorticosamente intorno al suo viso dai tratti vichinghi che egli poteva a malapena scorgere la campagna desolata ai lati della strada. In qualche modo doveva trovare ricovero. Correva alla ricerca di un riparo e l'ultima automobile gli era sfrecciata accanto due ore prima, lasciandolo li, con il pollice proteso, senza dubbio diretta alla cittadina della contea situata a circa trentacinque chilometri ad est. A ovest, tra le colline, l'autostrada doveva essere già stata bloccata dalla neve. Era un rigido dodici gennaio. «Soffia, soffia, vento invernale!» si disse Frank Sarsfield. Era quasi il crepuscolo, doveva trovare alloggio in fretta o, altrimenti, sarebbe congelato sul ciglio della strada.
Aveva percorso circa cinquanta chilometri quel giorno. Con in tasca la somma di ventinove dollari e trenta centesimi, avrebbe potuto prendere una camera in uno dei due motel che aveva superato... se non fossero stati chiusi per l'inverno. Era vestito decorosamente, come sempre: un buon completo che non richiedeva stiratura e un cappotto nero pulito. Era sbarbato, pulito e cortese, come sempre. Qualche contadino o qualche abitante di un villaggio lo avrebbe di sicuro accolto se avesse bussato tenendo una banconota da dieci dollari in mano. La gente talvolta lo scambiava per un automobilista benestante con la macchina in panne e, in qualche caso, Frank non disdegnava di disilluderli. Ma a chi rivolgersi? Era una paese desolato, le foreste ormai distrutte dall'industria del legname, le miniere esaurite. L'autostrada attraversava l'abominio della desolazione. Non amava particolarmente camminare lungo le autostrade, ma in giornate come queste non c'erano automobili lungo le strade minori. Quando aveva quattordici anni era fuggito da una misera fattoria e da allora, fatta eccezione per i lunghi periodi in cui aveva lavorato, aveva vagabondato o era stato in prigione. Ora era prossimo al suo sessantesimo compleanno. C'erano pochi uomini più corpulenti di Frank Sarsfield e nessuno d'indole più solitaria. Dove poteva trovare una casa ospitale? Per pochi istanti, la furia della tempesta diminuì. Frank si guardò intorno. Lontano, sulla sinistra, a quasi due chilometri di distanza, riuscì a distinguere un agglomerato di edifici alti e sinistri, posto su di un pendio e circondato da un muro. L'edificio centrale era privo di tetto. Sarsfield sorrise; sapeva perfettamente che cos'era quel gruppo di edifici: una prigione abbandonata. Aveva trascorso anche troppe notti in quella prigione. Riparandosi gli occhi dal vento del nord con la mano, guardò alla sua destra. In una valle riparata, accanto a un piccolo fiume e a un vasto acquitrino, intravvide un villaggio o un piccolo agglomerato rurale: un campanile bianco, tre o quattro edifici commerciali, qualche casetta e, dietro, un parco di aceri spogli. La vecchia autostrada doveva attraversare o passare in prossimità di questo luogo dimenticato, ma la nuova lo aveva completamente tagliato fuori. Non c'erano tracce di svincoli che conducessero al villaggio; probabilmente lo si poteva raggiungere, in automobile, solo facendo un giro vizioso per qualche stradina di campagna. In una cittadina talmente decrepita di sicuro avrebbe trovato ospitalità... forse per amore dei dieci dollari che offriva; forse, perché no?, semplicemente per carità
cristiana e per il gusto di parlare con uno sconosciuto divertente in grado di recitare ogni tipo di poesia. Scese goffamente lungo il terrapieno, aiutandosi con le mani e con i piedi. In quel punto, per fortuna, nessuna terribile rete metallica rendeva inaccessibile l'altezzosa autostrada. Le sue cosce muscolose lo condussero attraverso i cumuli di neve, benché il suo cuore martellasse mentre la tormenta riprendeva a infuriare. Il villaggio era più lontano di quanto avesse creduto. Attraversò, ansimante, vecchi campi coltivati con pioppi e betulle. Un po' più lontano, a ovest notò quella che pareva essere una miniera, un insieme di edifici in mattoni semi-diroccati. Con difficoltà si arrampicò su una vecchia massicciata, senza più né rotaie né traversine; probabilmente, la nuova autostrada aveva dato il colpo di grazia alla ferrovia. Lì camminare era un po' più facile. Il suono che udiva, confuso con l'urlo del vento, era forse quello di una campana? Gli abitanti del villaggio stavano forse partecipando a una funzione religiosa con quel maltempo? Arrivò a un piccolo scalo ferroviario, tutto bruciato. Sulla banchina vide un cartello con la scritta ANTHONYVILLE. Stava camminando su una sorta di strada senza tuttavia notare alcuna traccia di pneumatici o d'impronte umane nella neve. La chiesa metodista di Anthonyville troneggiava di fronte a lui. Quello che aveva sentito era proprio il suono di una campana che di tanto in tanto rintoccava debolmente nella sua torre campanaria; e campanaro maligno era il vento che si dilettava con quei rintocchi funebri graziosamente dedicati alla derelitta cittadina di Anthonyville. La porta della chiesa sbatteva violentemente, si spalancava e poi si chiudeva di nuovo, come una macchina del moto perpetuo. Le finestre non avevano ormai più vetri. Sarsfield superò a fatica la carcassa della chiesa. La parte anteriore dell'Emmons's General Store era tutta coperta di tavole e così era anche la facciata di quello che un tempo doveva essere stato un emporio. Il municipio era in rovina. La scuola doveva ergersi su quelle rade fondamenta che spuntavano dalla neve. Da nessun camino delle fatiscenti casette e casupole lungo la Main Street, l'unica strada esistente, si alzava un filo di fumo. Sarsfield non aveva mai visto un villaggio più desolato. Su di una finestra ai pieni superiori di quella che sembrava una scuderia trasformata in officina, uno scolorito cartello di cartone diceva: PENSA AL TUO FUTURO
APPOGGIA IL TOWSEND PLAN Possibile che non ci fosse nessuno in paese? Nemmeno una paruta coppia di vecchi che campava con la pensione sociale? Avrebbe dovuto scassinare uno dei negozi oppure una delle case benché, per principio e per prudenza, in genere non volesse correre il rischio di essere accusato di effrazione. Se, tuttavia, non lo avesse fatto, avrebbe avuto una misera (e fredda!) consolazione. Nella povera Anthonyville doveva esserci ancora almeno un'anima. Coprendosi le orecchie tutte rosse con le mani inguantate, Sarsfield aveva arrancato sino quasi alla fine della Main Street. Anthonyville era Endsville, ora lo capì: il fiume, la palude e la nuova autostrada l'avevano completamente tagliata fuori dal resto del mondo congelato, fatta eccezione per la strada interamente ricoperta dalla neve che serpeggiava in direzione sud, Dio solo sa verso dove. Poteva ritenersi fortunato se, in qualche baracca, avesse trovato una stufa, ed avesse potuto alimentarla con le tavole strappate dalle pareti. La Main Street terminava in quel boschetto, o parco, di vecchi aceri. Aceri da zucchero come quelli che aveva inciso durante la sua adolescenza sotto la guida severa di suo padre. Aceri, sì, ma se ora questi non fossero stati privi di foglie, lui, Frank non avrebbe potuto scorgere la grande casa di pietra, l'unico solido edificio ancora intatto ad Anthonyville. Per un istante lo vide, prima che la tormenta lo nascondesse di nuovo ai suoi occhi. Anche i pilastri del cancello erano in pietra, e uno di loro recava una targa. Sarsfield pulì l'iscrizione dalla neve e lesse: CASA DEI LARICI. Incespicando tra gli aceri verso la salvezza, quasi si scontrò contro un masso di forma rotondeggiante, alto e ghiacciato. Un altro, simile al primo, si ergeva a pochi passi, sulla destra, a metà strada tra i pilastri del cancello e la casa e recava una targa in bronzo. Frank si fermò per leggerla: IN MEMORIA DI JEROME ANTHONY 4 LUGLIO 1836 - 14 GENNAIO 1915 GENERALE DI BRIGATA DEL GENIO ESERCITO DELLA REPUBBLICA, FONDATORE DI QUESTA CITTÀ, ARCHITETTO DELLA PRIGIONE STATALE DI ANTHONYVILLE MORÌ COME VISSE, CON ONORE
E qui ti terrò per sempre Sì, per sempre, per l'eternità Sinché le mura non si sgretoleranno in rovina E si ridurranno in polvere «È proprio l'epitaffio giusto per un architetto dedito a costruire prigioni» pensò Sarsfield. Faceva troppo freddo quella sera per ispezionare l'altro masso ed egli si affrettò a raggiungere il portico della Casa dei Larici. Era una casa veramente bella, una casa nel cosiddetto bracketed style, tutta in pietra grezza che emanava suggestivi riflessi, con in cima una lanterna. Una volta Sarsfield, rifugiatosi in una biblioteca pubblica per ripararsi dal freddo, si era letto attentamente un libro illustrato sugli stili architettonici americani. C'era un termine per definire lo stile di questo tipo di casa: italianizzato forse? Sì, gli ritornò in mente. Non era fiero di nessun'altra sua dote eccetto che della sua capacità di ricordare. Sì, quella era la parola. Aveva già visitato la casa? Non riusciva in effetti a spiegarsi quella vaga familiarità: forse nel libro che aveva letto c'era una fotografia proprio di quella costruzione. Ogni finestra era saldamente sbarrata e nemmeno un filo di fumo saliva dai numerosi camini. Sarsfield salì gli scalini in pietra che portavano al portone di quercia, un portone imponente che probabilmente era stato forzato: infatti, un quadrato di quercia di grana diversa era stato mortasato nell'area intorno alla serratura. C'era un battacchio gigante con una strana faccia scolpita. Sarsfield bussò ripetutamente. Nessuno rispose. Era concepibile che la tormenta avesse coperto il martellare del batacchio, impedendo agli abitanti della casa di sentire? Ma chi mai poteva trascorrere un inverno in una casa sprangata e senza fuoco? Un'altra targa in bronzo era stata avvitata sulla porta: LA CASA DEI LARICI PROPRIETÀ DELL'AMMINISTRAZIONE FIDUCIARIA DELLA FAMIGLIA ANTHONY SORVEGLIATA DAL SERVIZIO DI VIGILANZA Sarsfield dubitava della veridicità dell'ultima frase. Si diresse verso il retro. Nessuno rispose neanche quando bussò alle porte di servizio, tutte chiuse a chiave.
Ma infine scorse ciò che sperava di trovare: una vecchia porta che conduceva alle cantine ricavata nelle fondamenta dell'edificio. Certo non era saggio né legale entrare senza permesso, ma si consolò pensando che, almeno in questo caso, non ci sarebbe stata l'aggravante dell'effrazione. Le sue dita, benché maldestre, erano forti come tutto il suo corpo. Con molta difficoltà e con l'aiuto di un temperino che portava sempre con sé, estrasse i pioli dei tre cardini, tolse la porta e scese con passo pesante nell'oscurità. In prigione, con il passare degli anni, era diventato alquanto esperto di questioni legali. Aveva preferito darsi un'infarinatura sui meccanismi della legge piuttosto che annoiarsi ascoltando i giovani detenuti che raccontavano le gesta di criminali come Miranda ed Escobedo. In quel momento pensò alla cosiddetta Attenuante dello stato di necessità. Se fosse stato colto sul fatto, avrebbe potuto difendersi sostenendo legalmente che l'istinto di sopravvivenza è una necessità primaria; e comunque, poteva anche darsi il caso che non lo prendessero per un vagabondo. La debole luce sulle scale dello scantinato — avrebbe rimesso a posto i pioli dei cardini più tardi — gli permise di intravvedere, in fondo al locale, una porta interna, chiusa da un gancio, soltanto da quello. Con un sospiro, Sarsfield diede una spallata alla porta e sentì dall'altra parte il rumore del gancio che cadeva. Era ormai diventato un esperto nel valutare e prevedere simili cose. In quell'oscuro scantinato non trovò nessun interruttore: malgrado non fumasse, portava sempre con sé un pacchetto di fiammiferi per i casi di emergenza. Ne accese uno e scopri una provvidenziale lampada sul tavolo, contenente ancora un po' di cherosene. Sarsfield ispezionò, facendosi luce con la lampada, le altre cantine e, salendo alcuni scalini, raggiunse la dispensa. «C'è nessuno in casa?» gridò. Gli rispose soltanto una eco sinistra. Se ne sarebbe assicurato prima di iniziare l'esplorazione: temeva eventuali guardiani armati. Meglio dare voce alla propria presenza. «Che ne dici di una canzone allegra?» pensò. Nella dispensa gelida Sarsfield prese a cantare a squarciagola un motivo che a suo tempo era stato piuttosto apprezzato al Rotary Club. Una volta, un Rotariano particolarmente amante dell'humor, dopo avere parlato per circa mezz'ora con Frank definendolo lo straordinario vagabondo, l'aveva portato a pranzo al Rotary e gli aveva chiesto di raccontare qualche aneddoto sui suoi vagabondaggi e di cantare una canzone per i membri del club. La voce non educata di Frank Sarsfield poteva farsi potente quando lo voleva. Questa è la canzone che cantò al
Rotary... la stessa che ora stava proponendo ai gelidi muri della casa abbandonata: C'è una lunga, lunga strada tortuosa nella terra dei miei sogni. Dove canta l'usignolo e la bianca luna splende; C'è una lunga, lunga notte di attesa prima che i miei sogni si avverino tutti. C'è una lunga, lunga notte di attesa Sino al giorno in cui verrò verso di te, per quella lunga, lunga strada!. Nessuno rispose: non un grido, non un rumore di passi, nemmeno un fruscio. Anche in una casa così grande non avrebbero potuto fare a meno di sentire la sua voce, talmente potente da risvegliare anche i morti. Padre O'Malley l'aveva definita stentorea: una bella parola, anche se non era ben sicuro del suo significato. Gli piaceva l'ultima strofa, e poco importava che lui, Frank, non avesse nessuno verso cui andare; la ripeté: Sino al giorno in cui verrò verso di te, per quella lunga, lunga strada! Andava tutto bene. Sarsfield entrò nella sala da pranzo dove trovò uno splendido tavolo in noce, alcune sedie con il sedile ricamato, un'elegante credenza, una bella vetrina e un grande lampadario in stile veneziano. La vetrina conteneva il vasellame, la credenza l'argenteria. Ma in nessuna stanza della Casa dei Larici c'era anima viva. Sedutosi scompostamente in una delle poltrone accanto al caminetto nel salotto buono, Sarsfield si riscaldò le ossa ghiacciate. Nella legnaia, collegata alla casa tramite un corridoio che partiva dalla cucina, c'erano ancora parecchi ciocchi. Non era, purtroppo, combustibile di prima qualità, dato che, a giudicare dalle muffe che li ricoprivano, quei ciocchi erano stati accatastati lì tre o quattro anni prima; comunque, erano ancora utilizzabili. Raccolse quindi vecchi giornali e preparò un po' di legna minuta, mescolando rami d'olmo e di betulla per ottenere un bel fuoco. Non era molto rischioso lasciare che il fumo bianco mulinasse dai camini poiché si sarebbe mescolato con la neve e le raffiche di vento lo avrebbero dissipato immediatamente. Inoltre, la popolazione di Anthonyville era inesistente. Dalla lanterna in cima alla casa, durante un momento di calma della tormenta, aveva osservato la campagna gelata senza avvistare alcuna
fattoria abitata lungo la dimenticata strada di terra battuta... che, a ogni buon conto era ormai completamente coperta dalla neve. Non c'era alcuna possibilità di arrivare in automobile dall'autostrada: il fiume e la palude proteggevano il retro. Pensò che la Casa dei Larici fosse abitata solo d'estate, anche se, a quanto pareva, non lo era stata nelle estati precedenti. Il Servizio di vigilanza probabilmente consisteva in un contadino che faceva un'ispezione bisettimanale solo se il tempo era bello. Si stava bene rintanati in una contea remota dove gli scassinatori non parevano esistere. Frank Sarsfield si limitava a svuotare le cassette delle elemosine nelle chiese (preferibilmente cattoliche, non essendo protestante) e soltanto con l'attenuante dello stato di necessità, dopo avere tentato senza molto successo di mendicare. Temeva e detestava i ladri violenti, così numerosi al giorno d'oggi; per evitarli e per evitare a maggiore ragione le città, vagabondava per piccoli paesi in cui il crìmine era assai circoscritto. Aveva cenato, lavando poi rispettosamente i piatti. La stufa economica della cucina funzionava ancora e così anche le pompe a mano per l'acqua dura e l'acqua piovana, nel retrocucina. Per quanto riguardava il cibo, ce n'era a sufficienza per sfamare una prigione alquanto grande: i ripiani della dispensa della cantina minacciavano di crollare sotto il peso dei barattoli di vetro pieni di marmellate, gelatine e composte di pesche, di albicocche, salsa di mele, maiale e trote in salamoia e molte altre buone cose. Tutto gli rievocava i profumi della sua giovinezza nel New England. La maggior parte dei barattoli aveva etichette accuratamente predisposte, con l'anno d'inscatolamento e, talvolta, il nome dell'inscatolatore; nei primi ripiani, la data più recente che aveva trovato era il 1969 ed era scritta su di un vasetto di marmellata di fragole che recava anche il nome «Allegria»: la grafia era inconfondibilmente femminile. Tutto nella casa era in perfetto ordine anche se, a un certo punto, Sarsfield si chiese quanto l'intonaco avrebbe resistito prima di scrostarsi visto che gli ambienti non venivano arieggiati e riscaldati durante l'inverno. Era fiero di sé per aver acceso i fuochi, uno nel caminetto del salotto buono, l'altro nella piccola stufa di ferro antica nella stanza da letto che si era scelto, all'ultimo piano. Aveva esplorato ognuna delle eleganti stanze della Casa dei Larici, con l'intenso piacere di un bambino che fosse riuscito a introdursi in un castello incantato. Ogni stanza era confortevole, ben arredata (stava scaldando vicino al fuoco due lenzuola per il suo letto prese dall'armadio della bianche-
ria) e meravigliosamente antiquata. Non c'era corrente elettrica né riscaldamento centrale né stanze da bagno; c'era una latrina interna sul retro della legnaia ma senza acqua corrente, c'erano in compenso ben due pompe a mano. Scoprì un antiquato telefono: Frank tentò, rischiando molto, di chiamare il centralino ma l'apparecchio non dava segni di vita. Aveva trovato una vecchia radio fuori uso. Si trattava certamente della casa di un'anziana signora che, però, non ci veniva da alcuni anni: forse i suoi parenti la mantenevano in ordine come casa per le vacanze oppure speravano di venderla: a chi? come? chi vuoi l'avrebbe acquistata in quella cittadina completamente disastrata? Pura follia. Aveva scoperto anche due barattoli di tè, uno di caffè in grani e circa quaranta litri di cherosene. Gente davvero previdente! Forse la vecchia signora era morta, sepolta sotto uno dei massi davanti alla casa. Forse era la figlia del Generale... ma no, il Generale era nato nel 1836. Perché quelle tombe nel prato, davanti alla casa? Sarsfield aveva sentito parlare di famiglie di contadini che, abitando ai vecchi tempi vicino alle scuole di medicina, avevano sepolto i morti in prossimità delle proprie case nel timore che li dissotterrassero; ma questo non poteva valere per Anthonyville. Esistevano sì alcuni cimiteri di famiglia, questo comunque doveva essere uno dei più piccoli. Il vecchio Generale che aveva costruito quella casa era morto il quattordici gennaio. Dopodomani, sarebbe stato di nuovo il quattordici gennaio e il suo sessantesimo compleanno. «Brindo alla sua salute con un bicchiere d'acqua, Generale» disse Sarsfield ad alta voce, alzando il calice in vetro tagliato che aveva preso dalla vetrina. Non c'erano alcolici in casa, ma ciò non preoccupava Sarsfield che era astemio. Sua madre lo aveva messo in guardia contro l'acool... e infatti, l'unica volta che aveva bevuto un bel po' di vino, quando era ancora un vagabondo inesperto, era stato male. «Grazie, Generale, per la sua ospitalità!» disse ancora, ma nessuno rispose al suo brindisi. Sua madre era una santa, così i vicini gli avevano detto, e suo padre un maledetto ubriacone. Da quando lui, Frank, era scappato, non aveva più visto nessuno dei due. Non aveva partecipato al funerale di sua madre perché aveva saputo della sua morte soltanto parecchi mesi più tardi; non aveva partecipato a quello di suo padre, molto tempo dopo, perché aveva scelto di non andarci, anche se ora questa decisione gli costava spesso notti insonni. Nel migliore dei casi, Sarsfield dormiva male, aveva degli incubi. Forse quella notte avrebbe dormito abbastanza bene, in quella stanzetta
sotto il tetto, vicino alla laterna. Aveva scoperto che alcune delle stanze da letto nella Casa dei Larici avevano piccole targhette di metallo sulle porte. C'erano la Stanza del Generale, la Stanza di Papà, la Stanza di Mamma, la Stanza di Alice, la Stanza di Allegra, e la Stanza di Edith. Per una felice coincidenza, la stanzetta in cima alle scale di servizio, nel sottotetto della casa, aveva una targhetta con la scritta Stanza di Frank. Ma non l'aveva scelta soltanto per questo: lì era, infatti, più al sicuro dagli sceriffi e dai ladri. Attraverso il lucernario, decorato con fregi, si poteva arrivare al tetto dell'edificio centrale, dal quale si scendeva sopra la legnaia mediante una scala anticendio con i pioli in ferro infissi nella pietra della parete esterna. Dalla legnaia, con un piccolo salto, si arrivava al suolo. Dopodiché in caso di visite inopportune, mentre la legge perquisiva la casa in caccia dell'occupante abusivo, non restava che correre lungo la Main Street e attraversare l'autostrada senza essere scoperti. Proprio come nella fiaba Riccioli d'oro e i tre orsi! L'ampia esperienza accumulata gli aveva insegnato a essere estremamente previdente. L'altro Frank, commemorato sulla porta della stanza, era un figlio o un domestico? Presumibilmente un figlio, malgrado egli non avesse trovato fotografie di ragazzi nel vecchio album ricoperto in velluto nel salotto buono, né di domestici. C'erano molte fotografie del Generale, un ometto con la barba, dall'aria arrogante, del Padre, corpulento e dai simpatici lineamenti, della Madre, assai elegante, di tre bambine che dovevano essere Alice, Allegra ed Edith. Le fotografie di Allegra gli erano particolarmente piaciute: in esse era evidente che la ragazza era alquanto golosa di marmellata di fragole. Tutte e tre le bambime erano carine ma Allegra, che nelle fotografie non doveva avere più di sette anni, era veramente incantevole, con lunghi boccoli, occhi buoni e la bocca delicata con le labbra che si incurvavano all'insù. Sarsfield adorava le bambine diffidandone però quando crescevano. Sua madre lo aveva messo in guardia contro le donne di malaffare, così se n'era tenuto lontano. Dato che amava la tranquillità non si era mai sposato non che si sarebbe potuto sposare, in ogni caso, perché questo lo avrebbe legato a un posto ed era decisamente inetto per guadagnare denaro non sapendo fare nient'altro che lavare i piatti in alberghi estivi. Non sposarsi aveva significato non avere figlie come Allegra. Talvolta aveva sconcertato gli psichiatri della prigione. Lì era bene fingere di essere idioti. Si era astutamente trattenuto da recitare poesie agli psichiatri che, dopo averlo sottoposto a numerosi test lo avevano descritto
come un soggetto normale ma apatico assegnandolo a un lavoro di giardinaggio... che significava andare in giro per i cortili della prigione raccogliendo la spazzatura con un bastone munito di un chiodo a una estremità. Era un lavoro semplice, poco faticoso: lui detestava tutti i lavori pesanti. Tuttavia, quando in carcere c'era da fare qualcosa di veramente pesante, si faceva talvolta avanti per spalare grandi quantità di carbone, trasportare mattoni o sollevare grossi pesi. La sua mossa era in fondo astuta: in questo modo Frank dimostrava la sua enorme forza impressionando gli altri galeotti che lo lasciavano in pace. «Sì, sei proprio un solitario, Frank Sarsfield,» disse a se stesso, ad alta voce. Si guardò in quello splendido specchio nel salotto buono che si estendeva dal soffitto al pavimento. Vide un uomo sovrappeso, ma di viso piuttosto scarno, alto un metro e novantacinque, corpulento come un orso, con un naso forte e alcuni denti mancanti, il mento pronunciato e gli occhi azzurro chiaro dallo sguardo selvaggio. Era un vagabondo alquanto atipico. Guardò deliberatamente la sua immagine con la coda dell'occhio, come faceva sempre, perché era un non violento e il guardare direttamente negli occhi poteva significare guai. «Sembri un vichingo, Frank» gli aveva detto una volta il vecchio padre O'Malley, «ma avresti dovuto farti frate.» «Oh, padre,» aveva risposto «sono troppo stupido per farmi frate.» «Be'» aveva detto padre O'Malley «non sei più stupido di molti tra i miei fratelli, sei celibe e casto, per quel che ne so. Tuttavia, ormai è troppo tardi. Controlla il tuo male, le pazzie furiose dell'intimo Frank. Vai a confessarti, qualche volta, da un prete che non ti conosca, se proprio non puoi venire da me. Se ti confessi, non sarai perseguitato dai demoni che hai dentro.» Ma Frank Sarsfield andava poche volte a messa e non si confessava mai. Tutte quelle cassette delle elemosine in cui aveva rubacchiato, sua madre e suo padre abbandonati, sua sorella trascurata, tutto quell'orribile mortificarsi davanti ai poliziotti, tutto l'orrore e la vergogna delle prigioni! Ormai, non poteva più esserci salvezza per lui. «C'è una lunga, lunga strada tortuosa nella terra dei miei sogni...» cantò. E che sogni! Aveva cercato nel dizionario bersek. Aveva trovato berseker: guerriero leggendario norvegese che combatteva con furia cieca e incontrollabile. «Un pazzo furioso» aveva pensato. Non avrebbe mai potuto diventarlo. Non lui: un uomo doveva mantenere un autocontrollo, per di più, era un pavido non violento e amava la tranquillità.
Quasi tutti gli altri carcerati erano bestie, veramente colpevoli, criminali colpevoli come Miranda o Escobedo. Una volta, condannato per avere svaligiato la cassaforte di una chiesa, era stato messo in cella con un uomo che aveva ucciso la moglie tagliandole la testa. La testa non era mai stata trovata. Sarsfield aveva sognato quella testa nei pochi momenti in cui riusciva a dormire, rinchiuso in cella con l'assassino. Quasi tutta la notte, ogni notte rimaneva sveglio osservandolo furtivamente mentre giaceva nella branda di fronte e tastandosi il collo di tanto in tanto. Restò sorpreso e compiaciuto quando un giorno l'uccisore della moglie ebbe una crisi di nervi e ottenne di essere assegnato ad un'altra cella dicendo alle guardie che non poteva proprio sopportare di essere osservato da quel terribile gigante perennemente muto. Soltanto uno psichiatra delle carceri si era dimostrato gentile ed intelligente: si trattava del vecchio dottore nato a Vienna, che andava di penitenziario in penitenziario per controllare il personale psichiatrico. Quel dottore lo aveva preso in simpatia e aveva scritto un referto da allegare alla petizione per l'ottenimento della parole, libertà su parola, di Frank. Tre mesi dopo, nell'ufficio del funzionario incaricato del rilascio, mentre questi era uscito in fretta per un quarto d'ora, Sarsfield aveva colto l'occasione di leggere l'incartamento lasciato in una cartellina sulla scrivania. Francis Sarsfield possiede una memoria che si potrebbe definire fotografica. È affetto da arresto dello sviluppo emotivo e, sotto certi aspetti, può essere considerato come un bambino alquanto intelligente. Le sue tre evasioni, tutte di breve durata, denotano che la sua intelligenza è stata considerevolmente sottovalutata. In almeno una di queste occasioni, se fosse ricorso alla violenza, avrebbe potuto sfuggire all'agente che lo aveva arrestato. Sarsfield si definisce spesso non violento; non ha precedenti di aggressione in carcere e neppure in connessione con i reati per i quali è stato condannato. Al contrario, pare timido e introverso; in carcere potrebbe essere vittima di aggressioni se non fosse per la sua mole, per la sua forza e per la potenza della sua voce. Sarsfield rimase alquanto soddisfatto leggendo quel paragrafo, ma anche un po' sconcertato da quanto seguiva: Sarsfield è un recidivo che non dovrebbe rimanere in carcere se
esistesse un metodo alternativo per impedirgli di compiere reati minori contro la proprietà. Non è aggressivo nei confronti dei suoi simili, a quanto pare, e non ci sono precedenti nemmeno nei confronti di donne e bambini. Sembra non si abbandoni all'autoerotismo, probabilmente a causa della severa educazione impartitagli da sua madre, cattolica romana, durante gli anni della formazione. Devo tuttavia aggiungere che è lecito supporre che Sarsfield non sia in realtà tanto mite quanto i suoi precedenti farebbero immaginare. Potrebbe rivelarsi brutale in caso di autodifesa, se messo con le spalle al muro. In gioventù fu occasionalmente indotto, con la promessa di cinque o dieci dollari, a battersi come pugile dilettante contro professionisti. Ha ammesso di non essersi battuto con tutte le sue forze e di avere pianto quando fu percosso malamente. Ciononostante, propendo a credere che esista in lui una potenziale pulsione aggressiva, a lungo repressa ma non totalmente estinta fin dagli anni in cui, secondo le sue stesse parole, doveva mortificarsi. Tale eventualità non pare, a mio avviso, così probabile da giustificare un'ulteriore detenzione anche se a Sarsfield rimangono ancora tre anni da scontare. Sì, aveva quasi interamente memorizzato l'analisi del vecchio dottore, quella che gli aveva garantito la libertà sulla parola. C'era stato il paragrafo conclusivo: Francis Sarsfield è afflitto da complesso di colpa. È credente, ma la sua fede sconfina nella superstizione. È un cattolico apostolico romano e si ritiene dannato. Benché per molti aspetti sia esperto della vita, per altri è rimasto sorprendentemente innocente. Il suo spiccato senso dell'umorismo e il suo candore spiegano il successo che ottiene quasi sempre quando chiede l'elemosina. Ha letto molto durante i suoi vagabondaggi e i periodi di detenzione. Apprezza considerevolmente la buona poesia popolare e ha assimilato una cospicua quantità di nozioni eterogenee, molte delle quali risultano di scarsa utilità per la vita che conduce. Benché talvolta di malumore e persino scorbutico, si sottomette quasi sempre all'autorità e lavorerebbe bene se fosse attentamente sorvegliato. Non possiede alcun talento, eccettuata una particolare abilità nel tagliare la legna, acquisita mentre era arruolato nel Ci-
vilian Conservation Corps, che potrebbe essere utile ai fini lavorativi. È di natura incorreggibilmente nomade e, per tale motivo, la detenzione gli risulta più insopportabile che alla maggioranza dei detenuti. È veramente straordinario che continui a essere sufficientemente razionale, considerato il suo isolamento ed il suo forte complesso di colpa. Talvolta evasivo, quando non desidera rispondere a una domanda, mente raramente. Il suo pudore potrebbe essere considerato eccessivo. È pulito, anche se la sua pulizia ricorda quella di Lady Macbeth. Malgrado sia forte e robusto, è affetto da diabete e da un soffio al cuore, che gli provoca talora dolore. Soltanto in situazioni utopistiche, Sarsfield potrebbe riuscire ad astenersi dalle costanti comportamentali che lo hanno condotto a essere ripetutamente processato e condannato. Considerato, tuttavia, l'eccessivo affollamento di questo carcere, consiglio vivamente che venga rilasciato sulla parola. Debbo altresì rilevare, con mio rammarico, che i precedenti referti psichiatrici concernenti il detenuto sono superficiali. Probabilmente la difficoltà principale dal punto di vista psicologico consiste nel fatto che, per cause sconosciute, egli non è in grado di comunicare emotivamente con gli adulti, bensì solo con i bambini. È praticamente un solipsista, fatto che può in gran parte spiegare la sua incapacità di prendere decisioni o di esercitare un'attività lavorativa regolare. In contraddizione con quanto affermato nei precedenti referti, Sarsfield non dovrebbe essere considerato un soggetto normale ma apatico. Decisamente, Francis Xavier Sarsfield non è né apatico né normale. Sarsfield aveva cercato solipsista ma si era trovato a saperne quanto prima. Non si credeva la sola cosa esistente, per lo meno, non il più delle volte. Non era sicuro che il vecchio dottore fosse un essere reale, ma sapeva che sua madre era stata reale prima di andarsene diritta in Paradiso. Sapeva che probabilmente i suoi incubi non erano reali; ma talvolta, mentre era sveglio, vedeva cose che gli altri uomini non riuscivano a vedere. In una casa come quella in cui si era rifugiato, percepiva, con la coda dell'occhio, piccoli movimenti inspiegabili, ma pensava fosse meglio non badarci. Aveva paura di quelle cose che la gente non poteva vedere, ma non era tanto spaventato quanto lo erano le altre persone. Alcuni carcerati lo chiamavano Frank il pazzo, e gli era sempre stato difficile contenere la sua
rabbia. Se puoi percepire più cose di quante gli psichiatri o i carcerati possono vedere, anche se non reali e concrete, perché devi essere un solipsista? Era inutile scervellarsi su ciò. Papà lo aveva tolto dalla scuola per farlo lavorare nella fattoria quando non aveva ancora finito la quarta elementare, così termini come solipsista non significavano nulla per lui. Le parole dei poeti... quelle, le capiva quasi tutte. Aveva imparato alcuni versi che divertivano i bambini quando li recitava: Benché tu non lo sappia, Sei un poeta. I tuoi piedi lo dimostrano: Sono Longfellows. In particolare l'aveva divertito il gioco di parole, autoironico, su Longfellows: cognome dell'autore, sì, ma che tradotto significa lunghi piedi. Non era poesia di gran pregio, ma Henry Wadsworth era comunque un buon poeta. Dovevano averlo amato molto Henry Wadsworth in questa casa, particolarmente The Children's Hour, a causa di quelle tre bambine chiamate Alice, Allegra ed Edith e di quei versi sulla tomba del Generale. Allegra: il più bel nome mai sentito, significa lieta, qualcuno gli aveva detto. Guardò l'orologio di poco valore che aveva comperato con gli ultimi soldi guadagnati lavando i piatti, d'estate, in un albergo sul Lago Superiore. Mezzanotte! «È tempo di andare a nanna per te, Frank Sarsfield» si disse «nella tua calda e accogliente stanzetta sotto le travi. Se stanotte qualcuno viene nella Casa dei Larici, salti fuori dal lucernario e fuggi attraverso la distesa di neve, Frank, ragazzo mio — veloce come il fulmine. Se vuoi sopravvivere, in prigione o fuori, devi farti i fatti tuoi e lasciare che gli altri si cuociano nel loro brodo». Prima di chiudere gli occhi, avrebbe pregato per l'anima della Mamma, non che ne avesse veramente bisogno, e poi avrebbe recitato una piccola preghiera scozzese che aveva trovato in un libro per bambini: Dagli spiriti e dai demoni, dalle bestie dalle lunghe zampe e dalle cose che vanno in giro di notte, liberaci, o Signore! Il mattino dopo, precedente il suo compleanno, Frank Searsfield salì la
scala a chiocciola sino al lucernario, prima di fare colazione con trota in salamoia, pesche e caffè forte. Il vento era calato e nevicava appena, ma i cumuli formatisi sul terreno erano immensi. Nessuno si sarebbe recato ad Anthonyville né alla Casa dei Larici quel giorno: gli spazzaneve sarebbero stati occupati altrove. Da quell'altezza poteva vedere l'autostrada: nessun veicolo sembrava percorrerla. Il villaggio disabitato si trovava sulla sua destra. A est c'erano il fiume e la palude, le rive fiancheggiate da larici maestosi ormai privi di aghi, dai quali la casa aveva preso il nome. Tutto ciò che poteva vedere apparteneva a Frank. Durante la notte aveva sognato. Il vento ululava e gemeva fuori, tutt'intorno alla casa. Egli sapeva di sognare, ma tutto era stato così strano, più del solito, anche se meno terrificante. Nel sogno, si trovava in una sala da pranzo della Casa dei Larici, ma non da solo. Il generale, papà e mamma e le tre bambine stavano cenando, felici, seduti al grande tavolo, e lui, Frank, li serviva. In cucina, una donna anziana che era la cuoca e una ragazza che puliva avevano cenato per conto loro. Quando aveva finito di riempire i piatti della famiglia, si era seduto in fondo al tavolo come se fosse cosa usuale. I membri della famiglia parlavano tra di loro e anche con lui, ma per qualche motivo non riusciva a sentire ciò che gli dicevano. Improvvisamente, aveva rizzato le orecchie poiché Allegra gli stava parlando. «Frank» aveva detto, con aria biricchina «perché ti chiamano testa di rapa?» Il vecchio Generale, a capotavola, aveva aggrottato le sopracciglia e la Mamma aveva detto: «Allegra, non parlare a Frank in quel modo!» Ma egli aveva sorriso ad Allegra, anche se leggermente offeso, rispondendo: «Perché alcuni uomini pensano che io abbia una testa come una zucca vuota, senza nemmeno i semi». «Stupidaggini, Frank» aveva dichiarato la Mamma in sua difesa «hai una testa molto bella.» «Hai una testa carina, Frank» gli avevano detto le tre bambine quasi in coro, con tono consolatorio. Allegra gli si era avvicinata, girando intorno al tavolo, in segno di riconciliazione. «Domani ci sarà una grande sorpresa per te, Frank» gli aveva sussurrato e lo aveva baciato sulla guancia. In quel momento si era svegliato. Per il resto della notte, mentre il vento continuava a ululare, era rimasto sveglio, disteso sul letto, tentando di capire il senso del suo sogno, senza tuttavia riuscirci. Le persone sognate e-
rano più reali di quelle che incontrava sulla sua lunga, lunga strada. Ora stava di nuovo bighellonando per la casa, ammirando ogni cosa. Era come se avesse visto il mobilio, i quadri e i tappeti molto, molto tempo prima. La casa doveva avere un secolo e molte delle belle cose che vi si trovavano risalivano probabilmente alla fondazione. Avrebbe avuto ancora due o tre giorni di tempo per fermarvisi, finché le strade non fossero state sgomberate. Naturalmente, non c'erano giornali che lo informassero riguardo la grande tormenta né un apparecchio radio funzionante, ma non aveva importanza. Trovò una voluminosa ed elegante edizione intitolata Complete Works of Henry Wadsworth Longfellow, in marocchino rosso, ed una copia illustrata delle Rubaiyyât. Non aveva bisogno di leggerlo poiché, in passato, aveva memorizzato tutte le quartine. C'era un nastro di seta nera come segnalibro tra le pagine ed egli lo aprì in quel punto. Alla Quartina 44, lesse: Perché, se l'anima può liberarsi dalla polvere, e nuda andar per l'aere celeste, non siam vergogna — non siam per lui vergogna in tale sciancata carcassa d'argilla attendiamo? Il vecchio dottore di Vienna, Frank sospettava, non credeva nell'immortalità dell'anima. Frank Sarsfield la sapeva più lunga e supponeva che la sua anima mai sarebbe andata, nuda o vestita, per l'Aere Celeste. Anime! Questo gli fece venire in mente sua sorella, un'anima vivente che aveva abbandonato. Avrebbe dovuto scriverle una lettera alla vigilia del suo sessantesimo compleanno... suo, di Frank. Frank viaggiava leggero, il suo bagaglio comprendeva perlopiù un rasoio di sicurezza, una spazzola e un pettine; lavava la camicia, i calzini e la biancheria intima ogni sera e spesso anche il suo completo che non richiedeva stiratura. Portava sempre con sé qualche foglio di carta e una penna a sfera. Seduto alla scrivania della biblioteca — aveva acceso il fuoco anche in quella stanza, del resto la legna non mancava — cominciò a scrivere a Mary Sarsfield, sola nella malandata fattoria nel New Hampshire. La sua ortografia non era molto corretta, lo sapeva, ma oggi avrebbe messo ogni cura nello scrivere la sua lettera di compleanno, utilizzando persino il grosso, vecchio dizionario con l'ex-libris del Generale. La stesura della lettera occupò la maggior parte della giornata. Ne scartò due versioni e infine partorì la terza, il meglio che potesse concepire.
Carissima Mary, mia cara sorella, Sono passati quasi nove anni da quando ti ho visto e mi hai prestato i 78 dollari e poi sono andato via di nuovo e non li ho mai restituiti. Penso tu non voglia vedere ancora tuo fratello Frank dopo quello che ti ha fatto quella volta e le altre volte ma l'Etiope non può cambiare la sua pelle e il leopardo le sue macchie e quando qualche persona come un testimone di Geova o quell'allevatore con tutto il suo denaro mi darà un bel po' di soldi intendo mandarti quello che devo ma l'ufficio postale non è a portata di mano al momento e così lo spendo in regali per bambini che incontro e comprando vestiti nuovi e cose simili così non riesco mai a mandarti quei 78 dollari Mary. Ora ho 29 dollari e più ma l'ufficio postale in questo posto è chiuso e per quando arriverò nella prossima cittadina i soldi saranno quasi finiti e mi dispiace Mary ma forse un giorno vincerò alla lotteria e allora ti darò tutte le migliaia di dollari che vinco. Dunque Mary nostra Madre è passata a miglior vita ormai da 41 anni e 183 giorni io domani ho 60 anni e tu vai per i 56. Spero che la tua tosse vada meglio e che tuo figlio e mio nipote Jack se la stia cavando meglio che a Tallahassee in Florida. Se qualche volta Mary vuoi scrivermi presso Padre Justin O'Malley ad Albatross nel Michigan dove adesso è pastore mi fermerò alla sua canonica e prenderò le tue lettere e le leggerò con gioia. Ma lo so che sono stato un cattivo fratello e non ti biasimo Mary se non scriverai mai a tuo fratello Frank. Mary mi sono tenuto fuori di prigione, lavoro un po' qua e là. Sai Mary cosa odio di più di queste prigioni? Non poter girovagare dirai. No Mary la cosa peggiore è il linguaggio osceno che i detenuti usano dalla mattina alla sera. Pronunciare il nome di Dio invano è il meno che fanno. C'è una bestemmia in ogni frase. Non sono stato educato in questo modo e nemmeno tu Mary e non insulto nessuno donne o bambini che siano. È come stare all'inf... sentirli. Sto piuttosto bene eccetto per il diabete che non va meglio ma prendo le pastiglie quando posso comperarle e non devo fare punture e la mia testa mi fa un male tremendo qualche volta quando sollevo cose pesanti per ore e talvolta mi fa ancora più male di
notte quando sto disteso lì pensando alla vita che ho fatto e che dovrei darti i 78 dollari e restituire i soldi all'altra gente che mi ha aiutato. Devo a Padre O'Malley 497 dollari e 11 centesimi in tutto. Tengo il conto a mente e quando il mio biglietto della lotteria vincerà non sarà dimenticato. Alcune persone sono state molto buone con me e posso ancora farle ridere e recitare versi e generalmente comincio la mia recitazione con quello che L'uomo senza qualità scrisse centinaia d'anni fa: Sette ricche città si contendevano la salma di Omero, Omero che, cantando i morti, elemosinava il pane. Gli piace molto e di solito gli piace anche Elegy in a Country Churchyard di Thomas Gray che lascia il mondo nelle tenebre e io recito tutto questo e talvolta alcune delle Quartine di Omar. Nelle fattorie quando me lo chiedono taglio legna per quelle persone e aiuto a lavare i piatti ma ne rompo ancora molti come tu hai imparato Mary 9 anni fa ma non volevo farlo Mary è perché sono maldestro in tutte le cose. Oh sì sono bravo a recitare Stopping by Woods di Frost ed il suo poema sull'Hired Man. Ho letto le opere di Thomas Stearn Eliot così posso recitare The Hollow Men o la maggior parte di esso e anche il suo Book of Pratical Cats che è comico quando arrivo in città universitarie e qualche professore o sua moglie mi dà un sandwich e forse 2 dollari e forse un passaggio per la città più vicina. Dove sono ora Mary dovrei studiare le poesie di John Greenleaf Whittier perché c'è stata una bufera di neve forse la più grande nello stato da molti anni e sono Snowbound, che è il titolo di una poesia di Whittier ma che sta anche, lo sai, per bloccato dalla neve come in effetti sono. Anni fa cercai di imparare a memoria tutta questa poesia ma arrivai solo ad un certo punto perché è una poesia lunghissima. Non sento molta buona musica Mary perché di sicuro nei motel non c'è nessun grammofono o mangianastri. Vorrei sentire qualche bel quartetto d'archi o forse vecchie canzoni popolari ben cantate, musica che ha fascino e che calma la bestia selvaggia. C'è un vecchio Edison nella casa dove sto adesso e lo sai hanno un disco
di una canzone che tu ed io cantavamo insieme C'è un lungo lungo sentiero tortuoso. È quasi il disco più nuovo in questa casa. Lo ascolterò di nuovo pensando a te Mary mia sorella. C'è una lunga lunga notte di attesa. Mary proprio ora sto in una grande bella casa dove le persone sono andate via per un certo tempo e io guardo la casa per loro e riscaldo alcune delle stanze. Ti assicuro Mary che non prenderò niente da questa buona vecchia casa quando me ne andrò. Queste sono care persone che conosco e sono entrato per ripararmi dalla tormenta e voglio molto bene alle loro 3 care bambine. Ricordo come eri quando scappai per la prima volta e sembravi una di loro che si chiama Alice. Ma quella che mi piace di più è Allegra perché è golosa di marmellata e combina marachelle e ride molto ma è innocente. Sono venuto qui solo ieri ma è come se avessi vissuto in questa casa prima ma certamente non posso averlo fatto e mi sento a casa mia qui. Niente in questa casa mi potrebbe fare paura. Potrebbe non piacerti Mary a causa dei piccoli rumori e apparizioni ma è una casa incantevole e come sai mi piacciono le vecchie case molto vissute. A proposito Mary una volta Padre O'Malley mi ha detto che per il Signore tutto il tempo è eternamente presente. Penso che questo significa che tutto ciò che succede nel mondo ogni giorno succede subito. Così Dio vede quello che è successo in questa casa molto tempo fa e quello che succede in questa casa oggi tutto nello stesso momento. Per fortuna che non possiamo vedere con gli occhi di Dio perché allora sapremmo tutto quello che ci succederà ed io sono un tale peccatore che non voglio sapere. Padre O'Malley dice che Dio può perdonarmi tutto e avere in serbo qualcosa di speciale per me ma non penso proprio. Perché dovrebbe? E Padre O'Malley dice che forse le persone vivono il loro Purgatorio qui sulla terra e potrei essere una di queste. Dice che siamo spiriti nella prigione del corpo che è come se stessimo scontando una Penitenza quaggiù nel mondo e forse Dio mi ha perdonato molto tempo fa e sto soltanto aspettando il mio momento e pagando per quello che ho fatto e alla fine tutto andrà a posto. O forse mi ha dato un'altra possibilità per aggiustare le cose ma come dice Padre O'Malley per fare questo devo fortificare la mia
Volontà e fare un Atto di Contrizione. Padre O'Malley dice anche che non devo fare l'Atto, basta l'intenzione di pentirmi veramente, perché quello che conta per Dio è l'intenzione. Ma penso che le persone che sono in Purgatorio devono sapere che stanno salendo su e devono avere speranza e Mary penso che sto andando giù giù giù anche se sono rimasto fuori dalle prigioni da qualche tempo ormai. Padre O'Malley dice che per ognuno la battaglia è già vinta o persa agli occhi di Dio e che, anche se Satana pensa di poter facilmente vincere, in verità Satana ha perso per sempre ma non lo sa. Mary non ho mai fatto del bene a nessuno ma soltanto del male a quelli che mi hanno amato. Se solo una volta prima di morire potessi fare un Atto che fosse veramente buono allora Dio potrebbe amarmi e farmi avere una Visione. Tuttavia Mary so che sono debole di volontà e vigliacco e pigro e ho perduto la mia occasione per sempre. Dunque Mary mia unica sorella ti ho annoiato abbastanza e volevo salutarti e dirti di stare su. Mi dispiace di lagnarmi e lamentarmi come un bambino piccolo della mia salute perché sono ancora forte e mi merito tutto il dolore che ho. Mary se puoi perdonare il tuo fratello più grande che non è mai cresciuto per favore prega per me qualche volta. Nessuno lo fa eccetto forse Padre O'Malley quando non è occupato con altre preghiere. Prego per nostra Madre ogni sera e ogni due sere prego per te e una volta al mese per Papà. Eri una brava bambina e dolce. Ora ti saluto e chiedo perdono per averti annoiato con le mie sciocchezze. Mi dispiace anche che i tuoi amici abbiano saputo che ero solo un vagabondo quando ero con te 9 anni fa e non ti biasimo per esserti arrabbiata con me allora perché parlavo troppo e so che non era bene alloggiare nella tua casa. Non sono rimasti molti veri vagabondi solo capelloni che non sanno camminare o spaccare legna e penso che sia giusto così. È una vita degradante Mary ma non posso non camminare per quella lunga, lunga strada non sapendo dove finisce. Il tuo affezionato fratello Francis (Frank) P.S.: Non desidero trarti in inganno così aggiungerò Mary che
le persone a cui appartiene questa casa non è che mi abbiano proprio invitato ma è tutto a posto perché non farò niente di male ma un po' di bene se posso. Ancora buona notte Mary. Aveva bisogno di una busta ma si era scordato di prenderne una nell'ultimo motel dove il pastore presbiteriano lo aveva alloggiato, pagandogli la camera. Dovevano essercene, in ogni caso, e, prendendone una sola, non si sarebbe notata la mancanza, tanto più che non avrebbe preso altro. Non trovò alcuna busta nel cassetto della scrivania in biblioteca; così salì le scale e quasi bussò alla porta chiusa della Stanza di Allegra. Che sciocco! Aprì lentamente la porta. Ammirò la piccola scrivania in palissandro di Allegra, nel cui cassetto trovò una cartella per le lettere, con il tampone di carta, contenente parecchie buste ingiallite. Trovò anche una lettera, che giaceva faccia in su, costituita da molti piccoli fogli, scritta con grafia femminile, un po' tremolante. Stava per sedersi e leggere quella lettera di Allegra, mai spedita, ma gli venne in mente che il suo peso avrebbe potuto rompere la fragile sedia in palissandro che apparteneva ad Allegra. Così decise di leggere la lettera stando in piedi. Era datata 14 gennaio 1969. Aveva trascorso quel compleanno nella prigione di Joliet. Come scriveva bene Allegra! Cara Celia, questo è un triste giorno alla Casa dei Larici. Sono passati esattamente cinquantaquattro anni dalla morte del tuo trisavolo, il Generale, e io scrivo alla mia pronipote per dirle quanto io speri che possa venire ad Anthonyville e stare con me la prossima estate — se sarò ancora qui. Il dottore dice che solo Dio sa se ci sarò. Tua nonna vorrebbe che venissi dalle vostre parti per stare con lei per il resto dell'inverno, ma non posso sopportare l'idea di lasciare la Casa dei Larici alla mia età, perché potrebbero dovermi ricoverare in una casa di riposo, laggiù, e non vedrei mai più queste vecchie mura. Sto bene, davvero. Il buon mister Connor viene ogni giorno a vedere come sto e miss William viene a pulire ogni due giorni. Non sto male, mia cara bambina, ma semplicemente sono molto vecchia e sempre più debole. Quando verrai, l'estate prossima, Dio permettendo, ti preparerò quel dolce che ti piace tanto e forse
mister Connor girerà la manovella per fare il gelato e potrò tentare di preparare alcune marmellate, con il tuo aiuto. Non ti sentivi sola, vero, quando sei rimasta con me per un mese intero l'estate scorsa? Naturalmente, sono rimaste meno di un centinaio di persone ad Anthonyville, ora, e molte di queste sono ormai vecchie. Dicono che non resterà pressoché nessuno quando, tra qualche anno, la nuova autostrada sarà completata e la vecchia abbandonata. Pochi anni dopo che il Generale aveva costruito la Casa dei Larici, nella città e nei dintorni vivevano ancora più di duemila persone. Ma prima l'industria del legno è fallita, poi le miniere si sono esaurite e infine l'evasione del 1915 ha fatto fuggire molte persone che non sono più ritornate. Non ci sono più treni passeggeri e dicono che la linea ferroviaria verrà soppressa quando la nuova autostrada — hanno iniziato a costruirla proprio ora ad est — sarà pronta. Ma abbiamo ancora gli aceri ed i larici, e ci sono tantissimi procioni, opossum e scoiattoli che potrai osservare, e una lince, credo, ed una lontra o due, e molti cervi. Celia, la scorsa estate mi chiedevi della morte del Generale e dei fatti che sono successi, avendo sentito qualcosa da tua nonna Edith. Ma non desideravo spaventarti, così non ti ho detto tutto. Ora sei cresciuta e hai il diritto di sapere perché quando sarai adulta, sarai uno degli amministratori fiduciari della famiglia Anthony ed allora questa vecchia casa sarà di tua responsabilità, quando non ci sarò più. La Casa dei Larici non è affatto un luogo spaventoso, salvo forse il mattino di ogni 14 gennaio. Spero proprio che tu e gli altri amministratori teniate la casa per sempre, con il danaro che mio Padre mi ha lasciato — era bravo a far soldi, anche se le foreste erano scomparse e le miniere esaurite, con i suoi investimenti a Chicago — e che lascerò all'amministrazione fiduciaria. Ho mantenuto la casa esattamente com'era, in memoria del Generale ed anche perché l'amo così com'è. Mi avevi chiesto che cosa accadde esattamente il 14 gennaio 1915. All'epoca, in questa casa c'erano sette persone — escludendo la cuoca e Cinthia (che era per noi una specie di bambinaia e di domestica) che dormivano a casa loro, nel villaggio. C'erano il Generale, naturalmente, mio nonno, il tuo bisnonno, che aveva quasi ottant'anni, Papà, Mamma, noi tre sorelline ed il caro Frank. Alice, e talvolta anche la piccola Edith, erano solite allora pren-
dermi in giro, gridando: «Frank è l'amichetto di Allegra! Frank è l'amichetto di Allegra!» Io le rincorrevo, ma presumo dicessero la verità: ero io, Allegra, la ragazza a cui Frank voleva più bene. Naturalmente aveva circa sessant'anni, anche se non era così vecchio quanto lo sono io ora, ed io ero proprio piccina. Mi portava spesso alla palude per mostrarmi le case dei topi muschiati. La prima volta che mi portò a fare una di queste escursioni, Mamma inarcò le sopracciglia, appena egli usci dalla stanza, ma il Generale disse: «Garantisco io per Frank; conosco bene il suo passato.» Alice ed Edith avrebbero potuto benissimo gridare: «Frank è lo schiavo di Allegra!» Mi leggeva .... oh, le poesie di Robert Louis Stevenson ed ogni sorta di libri. Non ho mai avuto un altro innamorato, anche perché, quando ero adolescente, quasi tutti i giovani avevano lasciato Anthonyville in cerca di lavoro e quelli che erano rimasti non piacevano alla Mamma. Noi tre sorelle giocavamo spesso con Frank a Creepmouse, lo ricordo bene. Noi eravamo i Creepmice, i topini, e quando non ci stava guardando gli arrivavamo di soppiatto alle spalle e lo spaventavamo. Egli fingeva di essere terrorizzato. Aveva inventato per noi una canzoncina... o meglio, aveva adattato le parole ad un motivetto che aveva sentito: Giù, giù, giù nella città di Creepmouse Tutte le luci sono basse, E i piedini dei topini Lievi, vanno e vengono C'è un topo nella città di Creepmouse Ed un pipistrello o due: Tutto nella città di Creepmouse all'improvviso ti spaventerebbe! Ricordi, Celia, che il Generale era il Sovraintendente delle Carceri e dei Riformatori dello Stato da tempo immemorabile? Era anche un bravo architetto e aveva progettato il Carcere di Anthonyville senza pretendere alcun compenso per se stesso, un vero carcere modello. Secondo alcuni, nella capitale, lo aveva fatto per dare lavoro alla gente della sua contea, ma in realtà aveva scelto
quel luogo poiché era talmente isolato che i detenuti avrebbero avuto grandi difficoltà ad evadere. Il Generale conosceva il cognome di Frank ma non lo rivelò mai a nessuno di noi. Frank era stato, una volta, nel carcere statale di Anthonyville, poi anche in altre prigioni, e il Generale lo aveva tolto da una di queste... sulla parola, avendo conosciuto Frank quando era rinchiuso ad Anthonyville. Non ho mai saputo che cosa avesse fatto Frank per essere condannato, ma era buono con me e con chiunque altro, sino a quel mattino, di buonora, del 14 gennaio. Il Generale trovava Frank divertente e disse che egli sarebbe stato meglio con noi piuttosto che da qualunque altra parte. Così Frank diventò il nostro uomo tuttofare, spaccava la legna da ardere, manteneva acceso il fuoco nelle stufe e nei caminetti e talvolta serviva in tavola. D'estate avrebbe dovuto falciare i prati, ma naturalmente quell'estate, non venne mai. Frank arrivò alla stazione di Anthonyville in ottobre e gli demmo la stanzetta in cima alla casa. Dunque, il 12 gennaio Papà andò a Chicago per affari. Il Generale era ancora vivo. Ogni notte egli sbarrava le imposte del pianterreno, andando personalmente di stanza in stanza. Mamma sapeva che lui lo faceva perché correva voce che alcuni ergastolani della Prigione ce l'avevano con il Sovrintendente delle Carceri, malgrado fosse andato in pensione cinque anni prima. Pensavano probabilmente che tenesse un bel po' di danaro in casa quando invece, scarseggiando gli alberi da legname ed esaurendosi le miniere, eravamo un po' in difficoltà finanziarie. Per di più, tenevamo il denaro in banca, a Duluth. Ma noi ragazze non sapevamo perché il Generale chiudesse le imposte, intuivamo solo che era uno dei suoi rituali. Oltrettutto, il carcere statale di Anthonyville avrebbe dovuto essere a prova di evasione: noi pensavamo che il Generale fosse molto prudente e che prendesse sempre tante precauzioni pur essendo un uomo coraggioso. Poco prima dell'alba, Celia, in un freddo mattino del 14 gennaio 1915, fummo tutti svegliati dalla sirena del Carcere e tutti ci precipitammo dabbasso in camicia da notte. Parte della prigione era in fiamme, il cielo era tutto rosso! Il Generale tentò di telefonare al Carcere ma non poté ottenere la comunicazione; più tardi ve-
nimmo a sapere che le linee erano state tagliate. Poi — tutto accadde così rapidamente — udimmo qualcuno che gridava da qualche parte sulla Main Street ed in seguito udimmo alcuni spari. Il Generale sapeva che cosa significasse tutto ciò. Si mise addosso i calzoni e gli stivali; si infilò il vecchio cappotto militare; poi prese la vecchia pistola dell'esercito. «Chiudi la porta dietro di me, ragazza» disse a Mamma che piangeva e tentava di farlo rientrare in casa. Ma egli si avviò nella neve, malgrado i suoi ottant'anni suonati. Dopo soli tre o quattro minuti, udimmo altri spari. Il Generale aveva incontrato i carcerati al cancello. Faceva ancora buio ed egli aveva la cataratta. Dicono che avesse sparato lui per primo ed avesse sbagliato mira. Quegli uomini cattivi avevano forzato l'entrata dell'Emmons's General Store e preso armi, asce e whisky. Uccisero il Generale... lo colpirono ancora, ancora ed ancora. Non avevamo capito che cos'era accaduto. Pochi minuti dopo stavano spaccando con le asce la nostra porta d'ingresso. Mamma ci abbracciò. Cara Celia, lo scrivere tutto ciò mi ha stordito! Mi sento strana, devo andare a distendermi per un po' prima di raccontarti il resto. Celia, spero amerai questa vecchia casa quanto me. Se non sarò qui quando verrai, ricorda che dove sono andata troverò il Generale, Mamma, Papa, Alice ed il povero vecchio Frank e con loro sarò molto felice. Comportati bene, piccola mia, la mia Celia. La lettera terminava in questo punto, non firmata. Frank scese pesantemente al piano terra e si diresse verso il salotto buono. Stava piangendo, per la prima volta da quando aveva combattuto con quel pugile professionista il 19 ottobre 1943. La lettera di Allegra... ah!, se soltanto l'avesse finita! Che cos'era accaduto a quelle bambine, alla Mamma e all'altro Frank? Pensò a qualcosa contenuto nella Sacra Bibbia: Meglio per lui sarebbe che una macina da mulino gli fosse messa al collo e fosse gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno solo di questi piccoli. Era quasi sera. Accese lo stoppino della lampada di vetro che pendeva dal centro del soffitto del salotto, salendo in piedi su di una sedia per raggiungerlo. Perché non godersi più luce? Preso da un impulso irrefrenabile,
preparò sul tavolo rotondo alcuni candelieri d'argento poggiati sul caminetto. Ne aveva bisogno di altri tre che prese dalla sala da pranzo. Accese tutte le candele dei candelieri disposti in cerchio: una per il Generale, una per Papà, una per Mamma, una per Alice, una per Allegra, una per Edith, e sì, una per Frank. I nomi così cari di quelle tre bambine! Avrebbe potuto anche recitare ad alta voce, sarebbe stato un buon esercizio per i giorni che si approssimavano sulla lunga, lunga strada: Odo nella stanza sopra di me Lo scalpiccio di piedini Il suono di una porta che si apre, E voci dolci e lievi... Qui terminò. Aveva forse udito qualcosa nel corridoio o qualcosa che discendeva la scalinata? A causa del vento, non poteva esserne certo. Gli costò parecchio alzarsi e aprire la porta del salotto. Naturalmente non vide nessuno nell'atrio o sulle scale. Frank il pazzo lo avevano chiamato nella prigione di Joliet ed anche in altre: aveva serrato i pugni ma si era mantenuto calmo. Non disse San Paolo che i prodi avrebbero conquistato il Regno dei Cieli? Forse si era completamente abbagliato, forse lui, Frank, ne sarebbe stato respinto perché inetto e indegno. Forse... Chiuse la porta e ritornò davanti al caminetto. Quei versi di Longfellow non avevano evocato nulla. Mise nuovamente sul vecchio grammofono La lunga, lunga strada e camminò per la stanza sinché il disco non finì. A una delle pareti era appesa una vecchia stampa di una goletta dei Grandi Laghi che gli piaceva. Accanto, notò, parevano esserci alcuni proiettili conficcati nel montante dell'anta di un'armadio, in seguito dipinto, come se qualcuno, in passato, avesse sparato nel salotto: I prodi conquisteranno... Ammirò il pianoforte. Forse Allegra aveva imparato a suonarlo. C'erano alcune grosse tacche o tagli lungo il bordo del pianoforte, poi verniciati, benché il legno fosse durissimo. Poi Frank sprofondò nuovamente in poltrona e fissò i ciocchi che bruciavano. Per quanto tempo si fosse assopito, non lo sapeva. Si svegliò all'improvviso. Aveva forse udito un sussurro, un vago sussurro? Rimase immobile, teso, pronto a balzare in piedi. Ma prima che potesse muoversi, vide ombre riflesse nel lungo specchio. Qualcosa si era mosso in un angolo della libreria. Non c'erano dubbi:
quel piccolo qualcosa si era mosso nuovamente. Qualcosa d'altro si muoveva furtivamente dietro uno dei divani di raso e ancora qualcosa si intravvedeva vicino al pianoforte. Erano tutti dietro di lui: ne poteva vedere le ombre riflesse nello specchio, come in uno specchio, indistintamente, più spaventose di sagome umane. In quella grande stanza piena d'ombre, la luce della lampada a cherosene e delle sette candele non era sufficiente. La prima ombra emerse alla luce della candela, vicino alla libreria, poi vennero la seconda e la terza. Tutte stavano ridacchiando, ma lui non riusciva a sentirle, ne vedeva soltanto le facce e anche queste poco chiaramente. E non riusciva a muoversi e gli si erano rizzati tutti i peli sulle braccia e i capelli sulla grossa testa. Erano le tre bambine, scalze nelle loro camicie da notte in mussola lunghe sino ai piedi, pronte per andare a letto. Una poteva avere non più di dodici anni e la più piccola era poco più di un infante. L'altra era Allegra, piccolina anche per la sua tenera età e un po' birichina: lo sapeva, lo sapeva! Stavano giocando a Creepmouse. Le tre avanzarono, Allegra in testa, gli occhi illuminati. Le poteva vedere bene, ora, e il terrore lentamente lo stava abbandonando. Avrebbe potuto alzarsi e salutarle, attraverso l'enorme abisso temporale, ma un suo gesto quale effetto avrebbe avuto sulle tre piccoline? Frank rimase seduto nella poltrona, impietrito, guardando le agili ombre nello specchio che si avvicinarono ancora un poco, in perfetto silenzio. Allegra scomparve dallo specchio, il che significava che doveva trovarsi proprio dietro di lui. Doveva divertirle. Poteva parlare? Tentò e le strofe uscirono con fatica: Giù, giù, giù nella città di Creepmouse Tutte le luci sono basse, E i piedini dei topini... Non gli fu concesso di terminare. Ohibò! Sentì un colpetto leggero sui bianchi capelli della nuca. Oh, potere parlare con Allegra, la birichina! Incautamente sollevò la sua massa dalla poltrona e si girò rapidamente: troppo tardi. La porta del salotto si stava chiudendo, ma dall'atrio venne un altro sussurro, debolissimo eppure inconfondibile: «Buonanotte, Frank!» Seguirono delle risatine soffocate, suoni di rapidi passettini poi nuovamente il silenzio. Si diresse a grandi passi verso la porta del salotto. L'atrio era nuovamen-
te vuoto e anche lo scalone. Doveva seguirle? No, tutte e tre dovevano essere ormai a letto. Doveva forse bussare alla porta della Stanza della Mamma, sussurrando: «Mister Anthony, le bambine stanno bene?» No, non ne aveva il coraggio e sarebbe stato presuntuoso. Gli era stato concesso un breve attimo percettivo, ma niente di più. Per qualche ragione sapeva che non sarebbero andate sino al sottotetto. Ah, aveva bisogno di una boccata d'aria! Spense la lampada e le candele eccetto una, quella di Allegra, che prese con sé. Uscì nell'atrio. Aprì la porta d'ingresso con il riquadro in quercia mortasato e uscì sul portico, lasciando la candela accesa proprio sulla soglia. Il vento si era nuovamente alzato, portando con sé altra neve. Fuori era nero come il peccato, come la pece e la temperatura doveva essere sotto zero. Il vento gli portava a tratti i rintocchi della solitaria campana della chiesa di Anthonyville. Quanto forte doveva soffiare il vento il quella cella campanaria! Frank rientrò da quell'impenetrabile oscurità e da quella campana sepolcrale che pareva suonasse a morto per lui. Chiuse a chiave la spessa porta dietro di sé e chiamò a raccolta tutto il suo coraggio per affrontare la scalata verso la sua stanza all'ultimo piano. Ma perché rabbrividire? Ora le amava, Allegra più di tutte. Salì lo scalone sino al secondo piano, udiva soltanto il suono dei propri passi maldestri e passò davanti alle porte sigillate del Generale, di Papà, della Mamma, di Alice, di Allegra e di Edith: nessun mormorio, nessun rumore di passettini. Nella Stanza di Frank, si avvolse nelle coperte e nella trapunta (Allegra aveva forse aiutato a cucirla?) e quasi subito la coscienza lo lasciò. Per la prima volta da quando era bambino e viveva alla fattoria dormì senza sogni. Il suo sonno era stato talmente profondo, quasi come la morte, che la sirena deve avere suonato per parecchi minuti prima che si svegliasse. Frank conosceva quell'orrido suono: aveva suonato per lui tre volte, quando era fuggito di prigione. Chi lo voleva ora? Alzò il suo pesante corpo dal caldo letto. La candela che aveva portato dal salotto buono e che aveva lasciato ardere tutta la notte stava spegnendosi, ma poté ancora vedere l'ora sul suo orologio: le sette, troppo presto per essere l'alba. Attraverso la finestra, mentre si gettava addosso i suoi abiti, vide che il cielo si era tinto di un rosso innaturale poiché mancava ancora molto al sorgere del sole. La sirena del carcere cessò di urlare, come soffocata. Frank raggiunse la piccola finestra e vide, a circa tre chilometri verso nord,
una mostruosa massa di fiamme che si alzava verso il cielo. La prigione stava bruciando. Da fuori provenivano suoni di spari: dapprima quello di una rivoltella, poi quelli irregolari delle doppiette. Frank stava allacciandosi gli stivali con rapidità inconsueta. Mentre s'infilava il cappotto udì provenire da sotto rumori di cose che venivano rotte e abbattute. Conosceva anche quel rumore, era un bravo spaccalegna e quelle erano delle asce che fracassavano la porta d'ingresso. In quel pandemonio, Frank era troppo confuso per capire dove si trovasse o per percepire in quale dimensione temporale stesse succedendo quella catastrofe. Tutto quello che contava era la fuga; il piano di fuga era rimasto ben chiaro nella sua mente. Mettere la sedia sotto il lucernario, portarsi sul tetto, scendere quei pioli di ferro sino alla legnaia, saltare nella neve, raggiungere l'autostrada, poi «dovrai fidarti del caso, Frank. È quella lunga, lunga strada tortuosa per te.» Sentì una donna urlare all'interno della casa; scivolò e armeggiò, allarmato. Era salito sulla sedia, aveva aperto il lucernario e stava tentando di afferrarsi saldamente al bordo quando qualcuno bussò dando anche calci alla porta della sua stanza ... la Stanza di Frank. I colpi e i calci erano tuttavia deboli. Stava per uscire quando, in un momento di quiete relativa — gli urli per un istante erano cessati — udì una vocina acuta fuori dalla sua porta, che supplicava con urgenza: «Frank, Frank, lasciami entrare!» Si fermò a mezz'aria come se alle sue caviglie fossero stati messi dei grossi pesi. Quella vocina la conosceva, come se facesse parte di se stesso: era di Allegra. Per un istante ancora desiderò scappare. Ma la dolce vocina lo supplicava. Scese rovesciando la sedia e in pochi passi fu alla porta. «Sei tu, Allegra?» «Apri, Frank, per favore, apri la porta!» Girò la chiave e tirò il chiavistello. Sulla soglia stava la bambina, indistinta alla luce della candela morente, pallidissima, in lacrime, fuori di sé. Frank la prese tra le sue braccia. Ah, questa era la cara, reale Allegra Anthony, tutta calda, morbida e piangente, carne e ossa! Le baciò delicatamente la guancia. Si aggrappò a lui terrorizzata e poi si dimenò per liberarsi, scuotendo la sua pesante mano. «Oh, Frank, andiamo! Vieni giù! Stanno facendo male alla Mamma!»
«Chi fa del male alla Mamma, bambina?» Teneva la sua piccola mano, il corpo tremante di paura e indecisione. «Chi c'è giù, Allegra?» «Gli uomini cattivi! Frank, Andiamo!» Più coraggioso di lui, quell'esserino si precipitò giù per la scala del sottotetto, nell'oscurità di sotto. «Allegra! torna qui! torna subito qui!» Urlò a squarciagola, ma ormai se n'era andata. Dai due piani di scale si riversava un tumulto di urla, bestemmie, risate e rumori di cose rotte. Dabbasso c'erano parecchi uomini che parlavano con voci roche e farfuglianti. Non aveva bisogno di Allegra per sapere che razza di uomini fossero: aveva udito il gergo dei carcerati e le loro oscenità e cominciò a tremare da capo a piedi... ma c'era sempre il lucernario, la fuga, la salvezza... Sarebbe tornato subito verso quel buco nel tetto se non fosse stato per Allegra che strillava di dolore da qualche parte al secondo piano. Intontito, tremante disarmato Frank scese tre scalini della scala del sottotetto. «Allegra! Bambina mia! Che cosa succede? Allegra!» Qualcuno stava venendo alla carica su per le scale verso di lui. Era un uomo tarchiato con l'uniforme da carcerato; in una mano teneva una lanterna accesa e nell'altra un'ascia lucente. Frank non ebbe il tempo di girarsi. L'uomo gli urlò con voce stridula delle oscenità e sollevò l'ascia. In quello spazio ristretto era un'arma pericolosa, specie se maneggiata da un ubriaco. La lama si conficcò nella parete; l'altra parte colpì la spalla di Frank, che balzò in avanti e strinse la gola dell'uomo in una morsa poderosa. Caddero giù per le ripide scale, i due uomini, l'ascia, la lanterna. L'enorme corpo di Frank atterrò su quello dello sconosciuto e Frank udì le ossa dell'avversario spezzarsi. La lanterna si frantumò in mille pezzi, spegnendosi. La testa del carcerato penzolava di qua e di là. Frank lo sentì mentre a tentoni cercava l'ascia. Poi calpestando l'uomo caduto a terra si gettò lungo il corridoio, stringendo l'ascia tra le mani. «Allegra! Allegra, bambina mia!» Dalla sommità della scala principale, poteva vedere le lampade e le candele accese nell'atrio e nelle stanze del pianterreno. Tutte e tre le bambine erano laggiù, gementi e al di sopra del loro pianto si levarono un'altra volta le grida di Mamma. Tutt'intorno c'era una massa urlante di uomini che calpestavano, distruggevano, gridavano di felicità e di desiderio, dicendo oscenità. Una bottiglia andò in frantumi. Con il cuore che martellava come se volesse esplodere, Frank scese rapidamente le scale e corse in preda a un cieco furore, nel salotto «buono»,
l'ascia roteante in mano. Erano tutti lì: le bambine, Mamma e cinque uomini selvaggi. «Finitela» ruggì Frank con tutta la potenza della sua voce. «Lasciatele andare!» Tutti, nel salotto, si immobilizzarono al suono di quella voce simile alle Trombe della Risurrezione. Allegra stava strattonando pateticamente la gamba di un uomo scuro che aveva afferrato Mamma per la vita; le altre due bambine sputacchiavano e piangevano, in un angolo, mentre un individuo alto versava loro addosso una bottiglia di whisky. L'abito della signora Anthony era quasi interamente strappato e un terzo uomo la teneva riversa all'indietro per i lunghi capelli come se volesse spezzarle la spina dorsale. Vicino alla porta dell'atrio c'era un tipo allampanato, simile a un topo... il Topo della città di Creepmouse, con in mano un fucile. Anche il Topo ristette tacito, a bocca aperta, sorpreso dall'intervento di Frank. Armi e asce giacevano sparpagliate sul tappeto turco. Accanto al caminetto un quinto uomo stava arroventando l'attizzatoio. Per un solo istante la scena si fermò: tutti fissarono stupiti il gigante impazzito che aveva fatto irruzione scagliandosi su di loro; e il gigante, ansimante, li fissava a sua volta con quei suoi strani occhi azzurri. «Oh! Frank!» disse piangendo Allegra: era più un ordine che una supplica, come se, pensò Frank in uno sprazzo di folle allegria, Allegra fosse diventato il bambino della favola che gridava sicuro: «Tagliate tutte le teste fuorché la mia!». Sapeva chi erano quegli uomini, i topi e i pipistrelli della città di Creepmouse: i peggiori uomini di ogni prigione, ergastolani che avevano creato il loro inferno sulla terra, tutti assassini o peggio. Sui loro volti arrossati e ubriachi si leggeva la dannazione delle loro vite corrotte. L'uomo scuro lasciò andare la Mamma e disse con sollievo, raschiandosi la gola e ridendo: «All'inferno, è solo il vecchio Frank testa di rapa, che fa di nuovo il matto! Divertiti un po' anche tu, Frank, ragazzo mio!. «Ehi, Frank, dov'è che il vecchio tiene i soldi?» chiese Musoditopo, con il fucile sotto il braccio. Frank torreggiava lì, perplesso, quasi timido... e impaurito più di quanto lo fosse mai stato in tutti quegli anni di vagabondaggi, mentre la brama di vendetta del guerrierio lo abbandonava. Che cosa doveva fare, ora? Doveva forse gridare? Chi era lui per combattere il male? Erano cinque contro uno e quei cinque erano diavoli, veri diavoli, e quell'uno era un vigliacco. Molto tempo prima lui, Frank, era stato pesato sulla bilancia e non era risultato all'altezza.
Mamma fu la prima a rompere l'incantesimo. L'uomo che la teneva per i capelli aveva mollato la presa; ella sospinse davanti a sé le bambine e insieme fuggirono verso la porta. L'uomo che l'aveva tenuta per i capelli si precipitò immediatamente dietro di lei, ma Mamma corse evitando Musoditopo e il suo fucile. Quest'ultimo, titubante si era avvicinato a Frank; Alice e Edith corsero davanti a lei. Allegra, gli occhi pieni di selvaggia disperazione, inciampò in una sedia rotta. Tutto si svolse in mezzo secondo. L'uomo che aveva tenuto la madre per i capelli afferrò la piccola caviglia di Allegra. Allora Frank urlò di nuovo, più forte di quanto avesse mai fatto in vita sua. Alzò l'ascia al di sopra della sua testa, e calò un fendente micidiale colpendo l'uomo al braccio proprio sotto la spalla. Questi gridò e il sangue sgorgò dalla ferita mentre Allegra fuggiva presso alla madre. Cadendo, l'uomo ferito si scontrò con Musoditopo, facendogli sbagliare mira, ma un colpo comunque partì e Frank sentì dolore al fianco. Brandendo l'ascia insanguinata, si mise tra i cinque uomini e la porta. Tutti i volti fissavano Frank con odio, increduli, chiedendosi come osasse mettersi contro di loro. Tre dei carcerati tentavano, barcollanti, di raccogliere le armi sparse sul pavimento. Mentre Frank si dirigeva verso di loro, vide l'espressione esultante di quelle facce patibolari trasformarsi in disperazione. Frank vibrò il secondo colpo e nella sua mente rivide un collage di carne e di morte che una volta aveva scorto al cancello di una fattoria: i cadaveri di cinque donnole inchiodate a uno dei pilastri dal fattore, con le gelide mascelle spalancate come anime dannate all'inferno. «Tagliate tutte le teste fuorché la mia!» Frank udì la sua voce risuonare alta e rauca. «Tagliate tutte le teste fuorché la mia!» Mutilava e fendeva, le sue urla di follia e di delirio soverchiavano le loro di terrore. In meno di tre minuti, spari, tonfi, grida, schianti, gemiti terribili. Nessuno degli ergastolani poté oltrepassarlo e raggiungere così la soglia. «Avanti il prossimo!» Frank urlava roteando l'ascia. «Tagliate tutte le teste fuorché la mia! Sotto a chi tocca!» Non udì alcuna risposta, soltanto un orrido rantolo da uno dei cinque ammassi che insudiciavano il tappeto. Inzuppato di sangue dalla testa ai piedi, Berserek il pazzo, furioso, mitico guerriero norvegese torreggiava, oscillando, senza muovere un passo. La sua mente cominciò a snebbiarsi. Frank supponeva di essere stato colpito due volte, e il dolore al cuore era tremendo. Nella sua mente sconvolta esplose tutta la gloria di ciò che aveva fatto e anche tutto l'orrore.
Divenne quasi razionale; doveva contare i morti. Uno di sopra, cinque qui. Il conto era giusto: tutti morti e tutti presenti. «Frank, ragazzo mio, Frank Testadirapa, Frank il pazzo, Frank Berserek... tutti morti e tutti presenti» Pensò. Aveva già avuto questo pensiero prima di allora? Aveva forse già fatto questo grottesco appello? Aveva forse già compiuto questo massacro due, tre volte in questa stessa vecchia stanza? Ma dov'erano la Mamma e le tre bambine? Non dovevano vedere questo inferno pieno di sangue che era divenuto il salotto. Si guardò nel grande specchio e vide un uomo grande e grosso, simile a un orso, ripugnante, tutto imbrattato di sangue, suo e degli altri. Pareva un selvaggio. Inorridito, scagliò lontano l'ascia. Nello specchio vide le teste sparse dietro di lui. Lottando contro il dolore al cuore, andò barcollando nell'atrio. «Bambine! Signora Anthony! Allegra, Oh Allegra!» La sua voce era meno forte. «Dove siete? È tutto a posto ora!» Non gli risposero. Salì con enorme fatica la scala principale, tenendosi il fianco. «Allegra, parla al tuo Frank!» Non erano in nessuna delle stanze da letto. Salì le scale del sottotetto, malgrado l'agonia oltrepassò la Stanza di Frank raggiunse la scala del lucernario e salì anche quella, ansimando. Non c'erano nel lucernario, che si fossero nascoste fuori, in mezzo agli alberi? In quella gelida alba, guardò in ogni direzione; pensò che la sua vista stesse annebbiandosi. Non poteva vedere nessuno fuori. I cumuli soffocavano ancora le strade al di là dei pilastri del cancello e quei due massi si erigevano impassibili dalla neve non calpestata. Ritornò sui suoi passi. Di certo Mamma e le bambine non potevano essere tornate nel luogo del massacro. Si morse le labbra e guardò nel salotto. I corpi erano scomparsi. Le chiazze e i rivoli appiccicaticci di sangue erano scomparsi. Tutto era in perfetto ordine, come se la violenza non avesse mai toccato la Casa dei Larici. Era come il sogno ricorrente che aveva tormentato Frank quando era piccolo: si separava dalla Madre nell'oscurità, vagava per lande desolate. Non un'anima vivente in tutto l'universo all'infuori del povero Frank. Eppure, quei tremendi colpi d'ascia avevano staccato carne e ossa viventi e per un istante, là sulle scale, aveva tenuto tra le sue braccia una minuscola, vivace Allegra. Mentre si chiedeva il perché di tutto questo quasi non sentiva il dolore.
Avanzò barcollando verso la porta d'ingresso. Era integra. Alzò la sbarra, girò la chiave, scese gli scalini di pietra e si avventurò sulla neve. Ora si sentiva debole e non sapeva dove stesse andando. Aveva fatto il suo Atto di Contrizione? Voleva forse fargli rivedere per l'ultima volta la piccola Allegra tra quegli alberi? Scivolò su di un cumulo di neve, tentò di rimettersi in piedi, cadde nuovamente, si trascinò per terra. Si trovò ai piedi di uno dei massi... il più lontano, la pietra che precedentemente al suo arrivo, non aveva controllato. La neve si era staccata dalla targa di bronzo. Afferrandosi al masso, Frank si alzò. Avvicinando molto gli occhi alla targa poté leggerne le parole... uomo morente che ansava appoggiato contro l'immortale bronzo: IN MEMORIA DELL'AMATO FRANK SPIRITO PRIGIONIERO, FATTO PER L'ETERNITÀ CHE MORÌ PER SALVARCI 14 GENNAIO 1915 Perché, se l'Anima può liberarsi della Polvere, E nuda andar per l'Aere Celeste, Non siam Vergogna — non siam per Lui Vergogna In tale sciancata carcassa d'argilla attendiamo? Titolo originale: There's a Long, Long Trail A-Winding Traduzione: Adria Tissoni H.P. Lovecraft Il richiamo di Cthulhu Tra Poe e King si colloca un altro grande maestro dell'orrore: H.P. Lovecraft. La sua opera critica Supernatural Horror in Literature è il saggio più importante sulla letteratura del genere, ed egli esercitò sulla sua generazione un'intensa influenza avvertita ancora oggi, sia come mentore che come corrispondente. L'accento posto sulla scala cosmica, lo stile antiquato del New England, aulico e fiorito, la contrapposizione costante tra il soprannaturale e il razionale contribuirono a farne un reietto nell'ambiente letterario della sua epoca. La sua fama crebbe però notevolmente in Francia, com'era avvenuto per Poe, e dura a tutt'oggi negli Stati Uniti,
nonostante il tentativo fatto da Edmund Wilson negli anni '40 per liberarsi di lui una volta per tutte. Lovecraft rifiutava la moralità convenzionale e il soprannaturale, rammaricandosi di non essere nato nel '700 razionalista Il richiamo di Cthulhu parla di un male cosmico che attende di sopraffarci con prospettive talmente terrificanti della realtà e della nostra posizione rispetto a essa che impazziremo, o fuggiremo da quella luce mortale per rifugiarci nella pace e nella sicurezza di una nuova età buia. Interessante dal punto di vista psicologico, ma non per la vita spirituale dei personaggi, interessato alla natura della realtà ma senza alcun dubbio riguardo alla sua natura, Il richiamo di Cthulhu racconta dicose che l'uomo non avrebbe dovuto sapere. Lovecraft fu il genio del racconto popolare dell'orrore e Weird Tales fu la rivista che ospitò molti dei suoi lavori, assieme a quelli di amici e corrispondenti come Clark Ashton Smith, Frank Belknap Long, Robert E. Howard per tutti gli anni '20 e '30. L'influenza del circolo Lovecraft dominò le scene fino agli anni '40 e rimase notevole nella rivista Weird Tales fino alla fine delle pubblicazioni, avvenuta negli anni '50. (Ritrovato fra le carte del defunto Francis Wayland Thurston di Boston) Di tali grandi poteri o esseri può presumibilmente verificarsi la sopravvivenza... una sopravvivenza risalente a un periodo remotissimo in cui... la coscienza si manifestava forse sotto forme e sembianze da tempo scomparse di fronte all'avanzare della marea umana... forme delle quali solo la poesia e il mito hanno catturato un fuggevole ricordo dando loro il nome di dèi, mostri, esseri leggendari di ogni sorta e specie... ALGERNON BLACKWOOD I L'ORRORE D'ARGILLA Penso che il dono più caritatevole mai fatto all'uomo sia l'incapacità della sua mente di mettere in relazione tutti i propri contenuti. Viviamo su un'isola di placida ignoranza circondati dal nero oceano dell'infinito, e non era scritto che dovessimo avventurarci lontano. Fino a oggi le scienze, proseguendo ciascuna nella propria direzione, ci hanno arrecato poco danno, ma un giorno o l'altro la combinazione dei vari elementi di questa conoscenza dissociata ci aprirà prospettive talmente terrificanti della realtà e
della nostra posizione spaventosa rispetto a essa che impazziremo, o fuggiremo da quella luce mortale per rifugiarci nella pace e nella tranquillità di una nuova epoca buia. I teosofi hanno cercato d'immaginare la vastità stupefacente del ciclo cosmico in cui il nostro mondo e la razza umana costituiscono soltanto incidenti effimeri e hanno accennato a incredibili sopravvivenze in termini che avrebbero fatto gelare il sangue se non fossero stati mascherati da un baldo ottimismo. Ma non è da loro che mi giunse quell'unico barlume di epoche proibite che mi fa raggelare il sangue quando lo rammento e mi fa impazzire quando lo sogno. Quel barlume, come tutte le verità più terribili, ebbe origine dalla combinazione accidentale di elementi separati, nel caso specifico un vecchio articolo di giornale e gli appunti di un professore defunto. Spero che nessun altro riesca mai a portare a termine questa ricomposizione; dal canto mio, se vivrò non fornirò mai di mia volontà un altro anello a questa orrenda catena. Penso comunque che anche il professore intendesse tacere su ciò che sapeva, e avrebbe distrutto i suoi appunti se la morte non l'avesse colto improvvisamente. La mia parte nella vicenda iniziò nell'inverno 1926-1927, con la morte del mio prozio George Gammel Angell, Professore Emerito di Lingue Semitiche alla Brown University di Providence, Rhode Island. Il professor Angell era diffusamente noto come un'autorità in materia di iscrizioni antiche, ed era stato spesso interpellato dai curatori di importanti musei, tanto che la sua morte, all'età di novantadue anni, sarà probabilmente ricordata da molti. Nella città dove mio zio risiedeva il decesso suscitò molto interesse perché avvenne in circostanze misteriose. Il professore infatti era morto mentre tornava dal battello di Newport; era caduto improvvisamente, come riferivano alcuni testimoni, dopo essere stato spinto da un negro, probabilmente un marinaio, uscito da uno dei sinistri cortili bui sul fianco ripido della collina che offriva una scorciatoia dal porto alla casa del defunto in Williams Street. I medici non riuscirono a trovare lesioni visibili, ma dopo discussioni e perplessità conclusero che il decesso doveva essere attribuito a un misterioso disturbo cardiaco, conseguente allo sforzo fatto nel salire una collina tanto erta a un passo troppo veloce per la sua età. All'epoca non ebbi motivo di dissentire dalla diagnosi, ma di recente mi sono trovato ad avere dei dubbi, o forse qualcosa di più. Essendo l'unico erede e l'esecutore testamentario del prozio, morto vedovo e senza figli, avrei dovuto esaminare le sue carte con una certa cura; per questo trasferii tutti i suoi schedari e le sue casse nella mia casa di Bo-
ston. Gran parte del materiale da me consultato verrà pubblicato in seguito dalla Società Americana di Archeologia; ma una delle casse conteneva qualcosa di estremamente sconcertante che esitai a mostrare a occhi indiscreti. Era chiusa da un lucchetto di cui non riuscii a trovare la chiave finché non mi venne in mente di esaminare il portachiavi personale che il professore teneva sempre in tasca. Finalmente riuscii ad aprirla, ma a quel punto mi sembrò soltanto di trovarmi di fronte a una barriera ancor più imponente e inaccessibile. Infatti quale poteva essere il significato di quello strano bassorilievo d'argilla e degli appunti frettolosi e deliranti che trovai, assieme a ritagli di giornale privi di qualsiasi connessione reciproca? Che mio zio negli ultimi anni si fosse lasciato abbindolare dalle truffe più volgari? Decisi di cercare lo scultore eccentrico secondo me responsabile di questo evidente disturbo della tranquillità spirituale di un vecchio. Il bassorilievo, chiaramente di fattura moderna, era costituito da un rettangolo irregolare dello spessore di circa due centimetri, con un'area di circa dieci centimetri per quindici. I disegni che recava tuttavia non erano affatto moderni per atmosfera e suggestioni. Infatti nonostante le stravaganze del cubismo siano molte e spesso incredibili, riproducono solo raramente la regolarità misteriosa che è delle scritture preistoriche. E l'insieme di quei disegni aveva tutta l'apparenza di una scrittura di qualche tipo sebbene la mia memoria, nonostante la grande familiarità con le carte e le raccolte dello zio, non riuscisse assolutamente a identificarla, o almeno a rammentarne qualche sua remota affiliazione. Sopra quella specie di geroglifici spiccava una figura dall'evidente intento pittorico, anche se lo stile impressionistico dell'esecuzione impediva di farsi un'idea chiara della sua natura. Sembrava una sorta di mostro, o il simbolo di un mostro, o una forma che soltanto una fantasia malata poteva concepire. Dicendo che alla mia immaginazione piuttosto fervida si presentarono simultaneamente immagini di una piovra, di un drago e di una caricatura umana, non mi discosterò troppo dalla realtà. Il mostro aveva un grottesco corpo squamoso dotato di rozze ali e sormontato da una testa voluminosa ornata di tentacoli; ma era tutto l'insieme dei suoi tratti a renderlo orribilmente spaventoso. Dietro la figura si intravedeva vagamente uno scenario di architettura ciclopica. Gli scritti che accompagnavano quella bizzarria, assieme a una pila di ritagli di giornale, erano di pugno del professor Angell, e non avevano pretese letterarie. Quello che sembrava il documento più importante era intitolato Il culto di Chtulhu, e l'intestazione era scritta a caratteri molto accurati
per evitare letture erronee di una parola tanto insolita. Il manoscritto era suddiviso in due parti, la prima intitolata 1025 - Il sogno e l'opera di H.A. Wilcox, 7 Thomas St., Providence, R.I. e la seconda Racconto dell'ispettore John R. Legrasse, 121 Bienville St., New Orleans, Louisiana, al Convegno della Società Archeologica Americana del 1908; commento e relazione del prof. Webb. Gli altri manoscritti contenevano tutti brevi appunti; alcuni narravano sogni strani fatti da persone diverse, altri contenevano citazioni da riviste e libri teosofici (tra i quali spiccava Atlantide e la perduta Lemuria di W. Scott-Elliot) e il resto commenti su antiche società segrete e culti clandestini, con riferimenti a brani di libri mitologici e antropologici come Il ramo d'oro di Frazer e La stregoneria in Europa occidentale della Murray. I ritagli alludevano soprattutto a insoliti disturbi mentali e a esplosioni di follia o mania collettiva nella primavera del 1925. La prima metà del manoscritto principale narrava un aneddoto molto particolare. Sembra che il primo marzo 1925 un giovane magro e scuro, dall'aria nevrotica e agitata, si fosse presentato al professor Angell per consegnargli il singolare bassorilievo d'argilla, ancora fresco. Il suo biglietto da visita recava il nome di Henry Anthony Wilcox, e mio zio lo riconobbe per il figlio minore di un'ottima famiglia che conosceva superficialmente; di lui sapeva che aveva da poco iniziato a studiare scultura alla Scuola di Belle Arti di Rhode Island e viveva da solo al Fleur-de-Lys Building nei pressi dell'istituto. Wilcox era un giovane precoce d'ingegno riconosciuto ma assai eccentrico, e fin dall'infanzia aveva attratto l'attenzione raccontando storie strane e sogni altrettanto strani. Si definiva psichicamente ipersensibile, ma per la gente posata dell'antica città commerciale era semplicemente strambo. Non avendo mai legato più di tanto con i suoi colleghi, compariva sempre più di rado in società e ormai era noto soltanto a un piccolo gruppo di esteti provenienti da altre città. Persino il Circolo degli Artisti di Providence, ansioso di preservare le proprie tradizioni avrebbe considerato quantomeno sconcertante una sua eventuale iscrizione al Circolo. In occasione della visita, narrava il manoscritto del professore, lo scultore a un tratto aveva chiesto al suo ospite di potersi avvantaggiare della sua cultura archeologica per identificare i geroglifici del bassorilievo. Parlava in un tono sognante e ampolloso, che faceva sospettare una posa e non attirava certamente la simpatia, e mio zio mostrò una certa durezza nel rispondergli, perché l'umidità della tavoletta faceva pensare a tutto tranne che all'archeologia. La replica del giovane Wilcox, che colpì mio zio tanto
da indurlo a ricordarla e a trascriverla parola per parola, era caratterizzata da una fantasiosa sfumatura poetica che doveva avere contraddistinto l'intera conversazione e che da allora considero tipica di quell'uomo. «In effetti è recente,» aveva ammesso lo scultore «perché l'ho creata l'altra notte dopo avere sognato strane città; e i sogni sono più antichi della meditabonda Tiro o della contemplativa Sfinge o di Babilonia cinta di giardini». Iniziò poi un racconto sconnesso che all'improvviso risvegliò un ricordo nella mente di mio zio, accendendo in lui un febbrile interesse. La notte precedente si era verificato un leggero movimento sismico, il più forte avvertito nel New England da alcuni anni, e l'immaginazione di Wilcox ne era stata profondamente colpita. Coricatosi, aveva fatto un sogno senza precedenti in cui comparivano città ciclopiche fatte di edifici titanici e monoliti alti fino al cielo che trasudavano una melma verdastra, e creavano un'atmosfera pregna di un orrore arcano. Le mura e le colonne erano coperte di geroglifici, e da qualche punto indefinito sotto di lui era venuta una voce che voce non era; una sensazione confusa che solo la fantasia poteva tramutare in suono, ma che egli tentò di rendere con il miscuglio quasi impronunciabile di lettere Cthulhu fhtagn. Quel miscuglio di lettere fu la chiave del ricordo che eccitò e allo stesso tempo turbò il professor Angell. Interrogò lo scultore con minuzia scientifica e studiò con zelo frenetico il bassorilievo al quale il giovane si era ritrovato a lavorare, gelato e seminudo, quando il risveglio l'aveva colto all'improvviso. Mio zio aveva incolpato la vecchiaia, mi disse poi Wilcox, per la lentezza con cui aveva riconosciuto i geroglifici e lo stile figurativo. Molte delle sue domande sembrarono estremamente fuori luogo al visitatore, specialmente quelle in cui si adombrava una sua qualche relazione con strani culti o società segrete; e Wilcox non riusciva a capire le ripetute promesse di garantirgli il silenzio se avesse ammesso di appartenere a qualche diffuso culto mistico o pagano. Quando il professore si rese conto che lo scrittore non aveva legami con culti o scienze misteriose, lo pregò insistentemente di raccontargli eventuali sogni futuri. La sua richiesta fu esaudita, perché dopo il primo colloquio, il manoscritto registra visite quotidiane in cui il giovane riferiva frammenti sconcertanti di visioni notturne il cui motivo dominante era sempre qualche terribile panorama dominato da gigantesche pietre scure gocciolanti in cui una voce o un'intelligenza sotterranea gridava monotona formule enigmatiche e tormentose, intrascrivibili se non come parole senza senso. I due suoni che si ripetevano più di frequente erano quelli resi dalle lettere Cthulhu e R'lyeh.
Il 23 marzo, proseguiva il manoscritto, Wilcox non si era presentato all'appuntamento e una visita al suo appartamento rivelò che era stato colpito da una febbre oscura e quindi condotto a casa della sua famiglia in Waterman Street. Aveva gridato tutta la notte svegliando diversi altri artisti che abitavano nell'edificio e da allora aveva manifestato soltanto un'alternanza d'incoscienza e delirio. Mio zio telefonò immediatamente alla famiglia e da quel momento in poi seguì attentamente il caso, visitando spesso nel suo ufficio di Thayer Street il dottor Tobey, che aveva in cura il paziente. La mente febbricitante del giovane si soffermava evidentemente su strane cose, e il medico nel riportarle di tanto in tanto rabbrividiva. Oltre a ripetere ciò che aveva sognato in precedenza, ora accennava con notevole angoscia a una gigantesca cosa alta fino al cielo che avanzava spostandosi faticosamente. Non descrisse mai particolareggiatamente l'oggetto, ma alcune occasionali parole sconnesse da lui pronunciate e riportate dal dottor Tobey convinsero il professore che doveva trattarsi della mostruosità senza nome che aveva tentato di ritrarre nella sua scultura. I riferimenti a quell'oggetto, aggiunse il medico, erano inevitabilmente il preludio a un periodo di incoscienza. Il giovane, stranamente, non aveva la febbre molto alta, ma il suo stato faceva pensare più a una vera e propria febbre che a un disturbo di origine psichica. Il 2 aprile, alle 3 circa del pomeriggio, qualsiasi traccia della malattia di Wilcox svanì all'improvviso. Il giovane si mise a sedere sul letto, stupito di trovarsi a casa dei suoi e ignorando completamente quanto gli era accaduto nel sogno o nella realtà dalla notte del 22 marzo. Dichiarato guarito dal medico, dopo tre giorni tornò nel suo appartamento, ma non fu più di nessun aiuto al professor Angell. Qualsiasi traccia di strani sogni era svanita con la guarigione, e mio zio non aveva più trascritto le sue visioni notturne dopo una settimana di racconti insulsi di sogni normalissimi. Qui terminava la prima parte del manoscritto, ma i riferimenti ad alcuni degli appunti sparsi mi fornirono molto materiale su cui riflettere, tanto che soltanto lo scetticismo inveterato caratteristico della mia filosofia di allora può spiegare la mia persistente sfiducia nell'artista. Gli appunti in questione descrivevano i sogni fatti da diverse persone nello stesso periodo in cui il giovane Wilcox aveva avuto le sue strane visioni. Sembra che mio zio avesse intrapreso un'indagine prodigiosamente vasta tra quasi tutti gli amici che poteva interrogare senza che se ne avessero a male, a cui chiese di raccontare i sogni fatti e le date di eventuali visioni memorabili avute di recente. Sembra che la sua richiesta sia stata accolta in modi diversi, ma
probabilmente ricevette più risposte di quelle che un uomo qualsiasi potesse esaminare senza l'aiuto di un segretario. Gli originali non erano stati conservati, ma gli appunti costituivano un riassunto completo e davvero significativo. Tra i rappresentanti del ceto medio e del mondo degli affari — il tradizionale sale della terra del New England — il risultato fu assolutamente negativo, anche se qualcuno di essi accennò a impressioni notturne penose ma vaghe, sempre tra il 23 marzo e il 2 aprile, periodo in cui il giovane Wilcox cadde in delirio. Tra gli uomini di scienza gli effetti furono maggiormente rimarchevoli: in quattro casi le vaghe descrizioni suggeriscono visioni fuggevoli di strani paesaggi; in un caso si fa menzione del timore di qualcosa di anormale. Ma furono gli artisti e i poeti a narrare le esperienze più impressionanti, e sono certo che si sarebbe scatenato il panico se fossero stati in grado di mettere a confronto i propri racconti. Ma poiché mancavano gli originali, nutrivo il vago sospetto che il professore avesse posto loro domande tendenziose o avesse voluto a tutti i costi vedere in quei racconti quella che era diventata una sua fissazione da un po' di tempo a quella parte. È per questo che continuavo a pensare che Wilcox, venuto in qualche modo a conoscenza dei dati in possesso di mio zio, avesse voluto approfittare di lui. Le risposte degli artisti furono sconvolgenti; dal 28 febbraio al 2 aprile gran parte di loro aveva sognato cose indescrivibili, e l'intensità dei sogni era stata massima nel periodo in cui lo scultore era preda del delirio. Più di un quarto di coloro che riferivano una qualche esperienza parlava di scene e suoni non dissimili da quelli descritti da Wilcox; e alcuni di essi confessarono un timore acuto per la gigantesca figura senza nome che si intravvedeva verso la fine. C'era un caso assai triste, descritto con grande enfasi negli appunti. Il soggetto, un architetto molto noto con una dichiarata passione per la teosofia e l'occultismo, era stato colpito da un violento attacco di follia il giorno in cui il giovane Wilcox aveva manifestato i primi disturbi ed era morto parecchi mesi dopo, continuando a urlare che lo salvassero da chissà quale mostro infernale. Se mio zio avesse indicato i vari casi con il nome invece che con un numero, avrei tentato di verificarli personalmente, ma così riuscii a rintracciare soltanto alcuni dei personaggi coinvolti. Tutti comunque confermarono in pieno gli appunti, e mi sono spesso chiesto se questi individui soggetti e oggetti delle ricerche del professore si sarebbero dimostrati altrettanto perplessi quanto il gruppetto da me interrogato. È meglio comunque che non vengano mai a conoscenza di quanto accadde in seguito.
I ritagli di giornale, come ho già accennato, riguardavano casi di panico, di mania e di strani comportamenti nel periodo considerato. Il professor Angell doveva essersi rivolto a un ufficio apposito per avere quegli estratti, perché ne conservava una quantità enorme proveniente da tutto il mondo. Si parlava di un suicidio notturno a Londra, in cui una persona che dormiva da sola nella sua stanza si era gettata dalla finestra con un urlo agghiacciante. Poi c'era una lettera delirante al direttore di un giornale sudamericano in cui un lettore presagiva un futuro spaventoso da alcune visioni che aveva avuto. Un dispaccio dalla California parlava di una colonia teosofica i cui membri indossavano tutti vesti bianche in attesa di un glorioso adempimento mai arrivato, mentre gli articoli provenienti dall'India parlavano vagamente di gravi tumulti tra gli indigeni verso la fine di marzo. Ad Haiti si erano moltiplicate le orge voodoo mentre gli avamposti africani riferivano di avere udito rumori sinistri. Circa nello stesso periodo alcuni ufficiali americani di stanza nelle Filippine avevano avuto fastidi con certe tribù mentre alcuni poliziotti di New York erano stati assaliti da levantini isterici nella notte tra il 22 e il 23 marzo. Anche l'Irlanda occidentale pullulava di voci inconsulte e di storie inaudite, e un pittore fantasioso di nome Ardois-Bonnot aveva esposto un blasfemo Paesaggio di sogno al Salon de Printemps di Parigi del 1926. E nei manicomi si era verificato un tale numero di incidenti, che solo un miracolo può avere impedito ai medici di notare strane coincidenze e di trarre conclusioni confuse. Nel complesso si trattava di un mazzo di ritagli bizzarri: oggi come oggi non riesco a spiegarmi il razionalismo insensibile che mi indusse a scartarli. Allora però ero convinto che il giovane Wilcox fosse già stato al corrente di vicende precedenti menzionate dal professore. II IL RACCONTO DELL'ISPETTORE LEGRASSE Le vicende che avevano reso il sogno e il bassorilievo dello scultore tanto importanti agli occhi di mio zio costituivano l'argomento della seconda parte del lungo manoscritto. Sembra che il professor Angell avesse avuto modo di vedere già in precedenza la sagoma infernale della mostruosità senza nome, di riflettere sui geroglifici sconosciuti e di udire le sillabe dal suono sinistro che si può rendere soltanto con Cthulhu; e tutto ciò in una circostanza tanto tremenda ed emozionante che c'è poco da meravigliarsi che abbia subissato di domande il giovane Wilcox.
Il fatto si era verificato diciassette anni prima, nel 1908, al convegno annuale della Società Archeologica Americana a St. Louis. Il professor Angell, come si addice a una persona della sua autorità che aveva ottenuto tanti successi, aveva avuto una parte importante nei lavori ed era stato tra i primi a essere avvicinati dai numerosi osservatori esterni che approfittarono dell'incontro per avere una risposta corretta alle proprie domande e una soluzione esperta ai loro problemi. Ma in breve tempo una persona ben precisa si trovò al centro dell'interesse del convegno: era un uomo di mezza età di aspetto ordinario, arrivato fin lì da New Orleans per avere una particolare informazione che non gli era possibile ottenere da fonti locali. Si chiamava John Raymond Legrasse e di professione faceva l'Ispettore di Polizia; portava con sé l'oggetto della sua visita, una statuetta grottesca, ripugnante e all'apparenza molto antica di cui non riusciva a determinare l'origine. Non si deve immaginare che l'ispettore Legrasse nutrisse il minimo interesse per l'archeologia; anzi, il suo desiderio di chiarimenti era dovuto a ragioni puramente professionali. La statuetta, idolo, feticcio o qualunque cosa fosse, era stata requisita alcuni mesi prima nelle paludi boscose a sud di New Orleans, nel corso di un'incursione condotta durante una presunta cerimonia voodoo; la polizia si era trovata di fronte a riti singolari e spaventosi e imbattuta in un tetro culto infinitamente più diabolico delle pratiche più occulte e immonde dei voodoo africani. Non si era riusciti a scoprire nulla delle origini di quel culto... a parte alcuni racconti stravaganti al limite dell'incredibile strappati ai seguaci catturati; da qui l'ansia degli investigatori di mettersi in contatto con qualsiasi scienza antica in grado di aiutarli a collocare quel simbolo spaventoso e rintracciare grazie a esso l'origine del culto. L'ispettore Legrasse non si sarebbe di certo aspettato di creare tanto subbuglio con il suo problema. Uno sguardo all'oggetto era bastato a suscitare un'enorme agitazione tra gli studiosi riuniti, che attorniavano senza indugi l'ispettore per osservare la figurina la cui estrema bizzarria, che richiamava tempi abissalmente remoti, suggeriva vivide visioni inusitate e arcaiche. Quell'oggetto disgustoso non era stato creato da nessuna scuola scultoria riconosciuta, ma sulla sua superficie offuscata e verdastra fatta di una pietra ignota dovevano essere passati secoli se non millenni. La figurina, che alla fine passò di mano in mano per un esame accurato, misurava tra i diciotto e i venti centimetri di altezza ed era di squisita fattura artistica. Rappresentava un mostro dalle fattezze vagamente antropomorfe, con una testa di piovra, il volto formato da una massa di tentacoli, il
corpo disseminato di squame dall'aspetto gommoso, artigli spaventosi alle estremità superiori e inferiori e ali lunghe e strette sul dorso. L'essere, che sembrava emanare una malvagità spaventosa e soprannaturale era piuttosto sproporzionato e se ne stava acquattato in una posa inquietante su un blocco rettangolare, una sorta di piedestallo coperto di caratteri indecifrabili. Con la punta delle ali toccava il lato posteriore del piedestallo, con il deretano ne occupava il centro e con i lunghi artigli delle zampe posteriori piegate si aggrappava alla parte anteriore coprendo un quarto del piedestallo. Il mostro teneva la testa da cefalopodo inclinata in avanti, cosicché le estremità dei tentacoli sfioravano le grosse zampe anteriori con cui si abbracciava le ginocchia sollevate. Se ne ricavava un'impressione generale di anormale realismo, più sottilmente agghiacciante perché proveniente da una fonte totalmente sconosciuta. Indubbiamente risaliva a un'età remotissima, ma non mostrava alcun legame con qualsiasi arte nota appartenente agli albori della civiltà o a qualsiasi altra epoca. Anche il materiale nel quale la statuetta era scolpita rappresentava un mistero, essendo totalmente diverso da qualsiasi altro conosciuto; la pietra saponosa nero-verdastra cosparsa di macchie e strie dorate o iridescenti non assomigliava a nulla di noto in geologia o in mineralogia. Anche i caratteri iscritti sul basamento erano sconcertanti, e nessuno dei presenti, che pure rappresentavano la metà degli esperti mondiali nel campo poteva azzardare la minima ipotesi, fosse pure la più remota, sulla loro origine. Anch'essi, come il soggetto e il materiale usato facevano pensare a qualcosa di orribilmente distante dall'umanità così come la conosciamo; a qualcosa che sapeva di cicli vitali antichi e profani in cui il nostro mondo e i nostri concetti non avevano parte alcuna. E tuttavia, mentre i partecipanti uno alla volta scuotevano la testa, ammettendo la propria sconfitta di fronte al problema dell'ispettore, ce ne fu uno che sembrò avvertire un tocco d'inquietante familiarità nella forma mostruosa e nei geroglifici, e che quindi riferì, seppur con una certa riluttanza, le poche cose che sapeva. La persona in questione era il defunto William Channing Webbe, professore di antropologia all'Università di Princeton ed esploratore di non poca fama. Quarantotto anni prima aveva preso parte a una spedizione in Groenlandia e in Islanda alla ricerca di alcune iscrizioni runiche che però non era riuscito a reperire; sulla costa occidentale della Groenlandia si era invece imbattuto in una singolare tribù o setta di Esquimesi degenerati la cui religione, una sorta di culto del demonio, gli era sembrata agghiacciante per i suoi riti ripugnanti e deliberata-
mente sanguinari. Il culto era poco noto agli altri Esquimesi, che rabbrividivano e dicevano che risaliva a epoche antichissime, precedenti alla creazione del mondo. Oltre a riti senza nome e a sacrifici umani, si dedicavano ad alcune bizzarre cerimonie tradizionali in onore del capo dei demoni, detto tornasuk; il professor Webb ne aveva trascritto il meglio possibile il nome, appreso da un vecchio angekok, o stregone. Ma ora l'interesse andava soprattutto al feticcio adorato da quella setta, attorno al quale i suoi membri danzavano quando l'aurora spuntava oltre le scogliere di ghiaccio. Il professore disse che si trattava di un bassorilievo di pietra molto rozzo in cui era ritratta un'immagine orrenda accompagnata da caratteri misteriosi; per quanto poteva ricordare, nelle caratteristiche essenziali assomigliava alla cosa bestiale che ora si trovava sotto gli occhi dei partecipanti. Il resoconto, accolto con ansia e meraviglia dai convenuti, si dimostrò doppiamente interessante per l'ispettore Legrasse, che subissò di domande il suo informatore. Avendo preso nota delle formule pronunciate dai membri della setta delle paludi arrestati dai suoi uomini, pregò il professore di ricordare il più precisamente possibile le sillabe udite tra gli Esquimesi adoratori del demonio. Ne conseguì un approfondito confronto di particolari e momenti di silenzio sgomento quando sia l'investigatore che l'esploratore concordarono sull'identità della frase, appartenente a due rituali diabolici di mondi tanto distanti fra loro. Il canto intonato dagli stregoni esquimesi e dai sacerdoti delle paludi della Louisiana in onore dei loro idoli tanto simili si potrebbe rendere così, cercando di intuire la suddivisione delle parole dalle pause della cantilena: Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn. Legrasse aveva un punto di vantaggio sul professor Webb, perché parecchi dei suoi prigionieri meticci gli avevano svelato il significato delle parole, appreso dai celebranti più anziani. Il testo da loro riferito diceva pressapoco così: Nella sua dimora di R'lyeh il defunto Cthulhu attende sognando. A quel punto, in risposta a una pressante richiesta, l'ispettore Legrasse riportò il più dettagliatamente possibile la sua esperienza con la setta delle paludi, in un racconto al quale, come ebbi modo di vedere, mio zio attribuì un profondo significato. Aveva il sapore dei sogni più azzardati di un mitomane o di un teosofo, e rivelava un grado d'immaginazione cosmica stupefacente, insospettabile in simili esseri abietti. Il primo di novembre del 1907 la polizia di New Orleans aveva ricevuto una chiamata disperata dalla zona paludosa a sud della città. Gli indigeni
di laggiù, discendenti dell'uomo di Lafitte, estremamente primitivi ma d'indole pacifica, erano in preda a un terrore incontenibile per via di una cosa sconosciuta intrufolatasi tra loro durante la notte. In apparenza si trattava di riti voodoo, più terribili però di quelli a loro familiari, e alcune delle loro donne e dei loro bambini erano scomparsi da quando il malefico tam-tam aveva preso a battere incessantemente lontano nei boschi spettrali dove nessun abitante della zona osava avventurarsi. Si udivano urla folli, grida strazianti e canti da fare gelare di sangue e si vedevano ballare fiamme demoniache; la gente, aveva concluso il messaggero terrorizzato, non resisteva più. Così una squadra di venti poliziotti a bordo di due furgoni e di un'automobile era partita nel tardo pomeriggio, guidata dall'indigeno impaurito. Alla fine della strada transitabile, tutti erano scesi dai veicoli per proseguire a piedi, sguazzando per miglia in silenzio tra quei boschi luttuosi mai raggiunti dalla luce del giorno. Erano circondati da radici contorte e frange di malefico muschio di Spagna; di tanto in tanto una pila di pietre umide o un frammento di muro in rovina, macabre dimore di chissà quali vite nascoste, intensificavano lo sconforto che gli alberi deformi e le isolette simili a venefici funghi infondevano. Finalmente apparve all'orizzonte il villaggio indigeno, un grappolo di misere capanne. Gli abitanti in preda all'isterismo, avvistando la luce delle lanterne, si precipitarono incontro al gruppo di poliziotti. Si poteva udire a grande distanza il tambureggiare fioco dei tam tam, e ogni tanto, quando cambiava il vento, grida agghiaccianti. Dalla vegetazione sbiadita del sottobosco sembrava filtrare un bagliore rossastro, proveniente dai sentieri interminabili che sparivano nella notte della foresta. Ancorché sconvolti all'idea di rimanere nuovamente soli, gli indigeni intimoriti si rifiutarono categoricamente di avvicinarsi anche di poco al luogo dell'empia cerimonia, così l'ispettore Legrasse e i suoi diciannove colleghi dovettero proseguire senza guida nel buio tunnel d'orrore ove nessuno di essi aveva mai messo piede. La regione in cui erano giunti godeva tradizionalmente di una fama sinistra, e in sostanza era sconosciuta agli uomini bianchi che non vi mettevano praticamente piede. Le leggende parlavano di un lago nascosto mai visto da occhio umano in cui dimorava un enorme essere polipoide amorfo e biancastro dagli occhi luminosi; e gli indigeni sussurravano che a mezzanotte demoni dalle ali di pipistrello uscissero in volo da caverne poste nel cuore della terra per adorarlo. Dissero che si trovava lì prima di D'Iberville, prima di La Salle, prima degli Indiani e addirittura prima degli animali
e degli uccelli che popolavano i boschi. Era una presenza da incubo, e il solo vederla avrebbe significato morire; ma faceva sognare gli uomini, che così ne sapevano abbastanza da tenersi alla larga. L'orgia voodoo si svolgeva al limitare di quella zona tanto temuta, ma anche questo non era affatto un luogo raccomandabile; forse era stato soprattutto quello a terrorizzare gli indigeni, ancora più dei suoni spaventosi e degli incidenti. Solo la poesia o la follia avrebbero potuto rendere giustizia ai suoni uditi dagli uomini di Legrasse mentre procedevano faticosamente attraverso la nera palude in direzione del bagliore rossastro e del rullio soffocato dei tam tam. Esistono versi propri degli uomini e versi propri delle bestie; ma è terribile sentire gli uni provenire dalla fonte che dovrebbe produrre gli altri. La furia animalesca e sfrenata aveva raggiunto il culmine, tra ululati e grida di estasi che riecheggiavano in quei boschi oscuri come tempeste perniciose nate dagli abissi dell'inferno. Di tanto in tanto gli ululati sconnessi cessavano, sostituiti dalla nenia di un coro rauco che ripeteva queste agghiaccianti parole: Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn. Nel frattempo i poliziotti avevano raggiunto un punto in cui gli alberi si diradavano e videro improvvisamente davanti a sé lo spettacolo oggetto della loro missione. Quattro di essi barcollarono; uno svenne e due rimasero scossi al punto da lanciare un grido di terrore, sovrastato per fortuna dalla folle cacofonia dell'orgia. Legrasse spruzzò dell'acqua di palude sul volto dell'uomo svenuto e tutti rimasero a guardare tremanti e quasi ipnotizzati dall'orrore. In una radura naturale della palude sorgeva un'isoletta erbosa di circa un acro, priva di alberi e relativamente asciutta, dove si agitava e si contorceva un'orda indescrivibile di deformità umane che solo un Sime o un Angarola avrebbero potuto ritrarre. Quelle creature ibride, totalmente svestite, si dimenavano con versi animaleschi intorno a un mostruoso anello di fuoco; al centro, rivelato da un varco occasionale nella cortina di fiamme, sorgeva un imponente monolito di pietra alto circa due metri e mezzo in cima al quale, incongrua nella sua piccolezza, era posata la repellente statuetta scolpita. Da dieci forche erette a intervalli regolari in modo da formare un vasto circolo intorno al monolito circondato dalle fiamme pendevano i corpi bizzarramente mutilati dei disgraziati indigeni scomparsi. All'interno di quest'ultimo circolo gli adoratori saltavano gettando ruggiti spaventosi, spostandosi da sinistra a destra tra il cerchio formato dai corpi e quello formato dal fuoco, in una sorta di interminabile baccanale.
Forse era stata soltanto l'immaginazione, accesa dagli echi della foresta, ma uno degli uomini, uno spagnolo piuttosto eccitabile, sostenne di avere sentito una voce rispondere quasi in antifona alle frasi del rituale da un punto lontano e buio nel cuore di quei boschi sede di orride leggende. In seguito ebbi modo di incontrare quell'uomo, un certo Joseph D. Galvez, e d'interrogarlo; dimostrò di possedere una fervida immaginazione e affermò persino di avere udito un battito di ali gigantesche e di avere scorto fuggevolmente degli occhi scintillanti e un'enorme massa bianca al di là degli alberi più distanti; ritengo comunque che fosse stato influenzato dalle superstizioni indigene. In realtà il momento di sconforto negli uomini di Legrasse fu di durata relativamente breve. Il dovere veniva prima di tutto e, senza indugiare oltre, fecero irruzione in quella scena orripilante. Il caos e lo strepito che si scatenarono nei cinque minuti seguenti furono indescrivibili. Tra spari e percosse qualcuno tentò la fuga, ma alla fine Legrasse contò quarantasette prigionieri dall'aria truce, che costrinse a vestirsi in fretta e furia e a mettersi in riga tra due ali di poliziotti. Cinque dei partecipanti erano morti e altri due, gravemente feriti, furono trasportati dai loro compagni su barelle improvvisate. Ovviamente Legrasse tolse con cautela la statuina dal monolito e la portò con sé. L'interrogatorio condotto al commissariato centrale, dopo un viaggio estremamente faticoso e stressante, rivelò che tutti i prigionieri erano mezzosangue, appartenenti a un ceto molto basso e presentavano sintomi di aberrazione mentale. Per la maggior parte si trattava di marinai, ma era presente un gruppetto di negri e mulatti, provenienti soprattutto dalle Indie Occidentali e Portoghesi, dalla Costa Brava e dalle Isole di Capo Verde, che conferiva un tocco voodoo a quel culto eterogeneo. Fin dalle prime domande apparve chiaro che qualcosa di più profondo e antico del feticismo si era diffuso tra i negri, e pur nella loro degradazione e nella loro ignoranza, quelle creature credevano con sorprendente fermezza nel concetto fondamentale della loro odiosa fede. Affermarono di adorare i Grandi Antichi, vissuti millenni prima della comparsa dell'uomo e scesi dal cielo quando la terra era ancora giovane. Ora gli Antichi si erano rifugiati sotto terra e nelle profondità sottomarine, ma avevano confidato in sogno i propri segreti ai primi uomini e questi avevano creato un culto mai più scomparso. Era il culto da loro professato, e i prigionieri dissero che esisteva da sempre e sarebbe sempre esistito nel cuore di deserti lontani e di luoghi misteriosi del mondo intero fino al
momento in cui il gran sacerdote Cthulhu non sarebbe risorto dalla sua buia dimora nella potente città sottomarina di R'lyeh per riportare la terra sotto il suo dominio. Un giorno avrebbe lanciato il suo richiamo, col favore delle stelle... e il culto segreto attendeva da sempre il momento di liberarlo. Nel frattempo non si doveva dire altro; c'era un segreto che nemmeno la tortura poteva strappare. L'uomo non era il solo al mondo a possedere il dono della coscienza; esistevano altre forme che a volte uscivano dalle tenebre per visitare i pochi fedeli. Ma non erano i Grandi Antichi, che nessuno aveva mai visto. L'idolo scolpito rappresentava il sommo Cthulhu, ma nessuno poteva dire se gli altri fossero o no uguali a lui. Nessuno sapeva più leggere le antiche scritture, ma il contenuto veniva tramandato oralmente. Il segreto, di cui non si parlava mai ad alta voce ma solo in un sussurro, non si celava nel canto; il canto significava soltanto questo: Nella sua dimora di R'lyeh il defunto Cthulhu attende sognando. Solo due prigionieri furono ritenuti abbastanza sani di mente per essere impiccati; gli altri furono affidati a vari istituti. Tutti comunque negarono di avere commesso gli omicidi rituali e affermarono che gli autori erano stati i neri Alati, giunti dal loro rifugio eterno nel bosco spettrale. Non si poté tuttavia ottenere alcuna descrizione coerente di quegli alleati misteriosi. Le notizie in possesso della polizia provenivano soprattutto da un meticcio di età estremamente avanzata che si chiamava Castro e sosteneva di essere approdato in porti misteriosi e di avere parlato con i capi immortali di quel culto sulle montagne della Cina. Il vecchio Castro rammentava frammenti di leggende spaventose che facevano impallidire le speculazioni dei teosofi e facevano sembrare l'uomo e il mondo qualcosa di recente e di effimero. In epoche remotissime altri Esseri dominavano la Terra, e possedevano grandi città. I loro resti, secondo quello che avevano narrato a Castro i Cinesi immortali, si potevano ancora trovare sotto forma di massi ciclopici su alcune isole del Pacifico. Erano morti tutti prima della comparsa dell'uomo, ma esistevano arti occulte capaci di resuscitarli una volta che le stelle fossero tornate nella posizione giusta rispetto al ciclo dell'eternità. Essi stessi, d'altro canto, erano venuti dalle stelle e avevano portato con sé le loro immagini. Questi Grandi Antichi, proseguì Castro, non erano fatti assolutamente di carne e sangue. Possedevano una forma — non lo provava forse quell'immagine caduta dalle stelle? — ma quella forma non era materiale. Quando le stelle erano nella posizione giusta, potevano passare da un mondo all'al-
tro attraverso il cielo, ma quando erano nella posizione sbagliata, non potevano vivere. Sebbene non fossero più vivi, non sarebbero mai morti veramente. Giacevano tutti in dimore di pietra nella loro grande città di R'lyeh, protetta dagli incantesimi del potente Cthulhu nell'attesa di una gloriosa resurrezione, una volta che le stelle e la Terra fossero state nuovamente pronte ad accoglierli. In quel momento però sarebbe stata necessaria una forza esterna per liberarli, poiché gli incantesimi che li difendevano impedivano loro, nel contempo, di fare la mossa iniziale, ed essi potevano soltanto vegliare nel buio e pensare mentre trascorrevano innumerevoli milioni di anni. Sapevano tutto ciò che accadeva nell'Universo perché comunicavano attraverso la trasmissione del pensiero e ancora oggi parlano dalle loro tombe. Quando dal caos infinito erano comparsi i primi uomini, i Grandi Antichi avevano parlato a quelli più sensibili plasmandone i sogni; perché solo così il loro linguaggio poteva penetrare nella mente materiale di quei mammiferi. Poi, sussurrò Castro, quei primi uomini diedero origine al culto, venerando alcuni idoletti mostrati loro dai Grandi Antichi, idoli creati in foschi meandri di stelle oscure. Il culto non sarebbe mai morto finché le stelle non fossero tornate nella posizione giusta e i sacerdoti non avessero riportato alla luce Cthulhu dalla sua tomba, affinché facesse rivivere i suoi sudditi e riprendesse il dominio sulla Terra. Si sarebbe facilmente riconosciuto il momento cruciale, perché a quel punto gli uomini sarebbero diventati come i Grandi Antichi: liberi e selvaggi, al di là del bene e del male affrancati dalle leggi e dalla morale avrebbero gridato e festeggiato la loro gioia con innumerevoli stragi. Poi gli Antichi, una volta liberi, avrebbero insegnato loro nuovi modi di uccidere e di divertirsi in orge frenetiche, e tutta la Terra si sarebbe infiammata in un olocausto di estasi e libertà. Nel frattempo il culto, con riti appropriati, doveva mantenere vivo il ricordo di quelle tradizioni antiche e profetizzare il loro ritorno. Nei tempi passati alcuni eletti avevano parlato in sogno con gli Antichi chiusi nelle loro tombe, ma poi era accaduto qualcosa: R'lyeh, la grande città di pietra, era affondata tra le onde con i suoi monoliti e i suoi sepolcri; e le acque profonde, piene del solo mistero fondamentale che neppure il pensiero può penetrare, avevano interrotto quel dialogo spettrale. Il ricordo tuttavia non moriva, e i sommi sacerdoti dicevano che la città sarebbe risorta quando le stelle fossero tornate favorevoli. Allora sarebbero venuti in superficie i neri spiriti della terra, pieni di muffa e di ombre, accompagnati da vaghe voci udite in caverne celate sul fondo di mari dimenticati. Ma di
loro Castro non si azzardò e non seppe o non volle dirci più estesamente. S'interruppe di colpo e né con la persuasione né con l'astuzia si riuscì a strappargli qualcosa di più. Curiosamente rifiutò anche di rivelare le dimensioni degli Antichi. Aggiunse soltanto che a suo parere il centro del culto si trovava tra i deserti inesplorati dell'Arabia, dove Irem, la Città delle Colonne, dorme irraggiungibile e inviolata. Il culto inoltre non era legato alla stregoneria europea, e i seguaci di quest'ultima infatti ne erano all'oscuro. Nessun libro vi aveva mai accennato, anche se i Cinesi immortali avevano sostenuto l'esistenza di alcuni doppi sensi nel Necronomicon del pazzo arabo Abdul Alhazred che per gli iniziati potevano riferirsi al culto; si trattava soprattutto del seguente distico, oggetto di molte discussioni: Non è morto ciò che giace per l'eternità e verrà giorno in cui persin la morte forse morirà. Legrasse, profondamente colpito, ma per nulla confuso, aveva indagato invano sulle eventuali affiliazioni storiche del culto. Castro aveva evidentemente detto la verità, affermando che era totalmente segreto. Le autorità dell'Università di Tulane non erano riuscite a fare luce né sul culto né sull'immagine, e anche ora che si era rivolto alle massime autorità del paese, l'investigatore non aveva ottenuto altro che l'aneddoto della Groenlandia narrato dal professor Webb. L'interesse febbrile suscitato dal racconto di Legrasse e dalla statuetta, si riflette nella corrispondenza intercorsa successivamente tra i partecipanti al convegno, anche se nelle pubblicazioni ufficiali della società l'episodio viene menzionato soltanto superficialmente; la cautela infatti è d'obbligo per persone abituate ad avere occasionalmente a che fare con ciarlatani e truffatori. Legrasse prestò per qualche tempo la statuetta al professor Webb, ma alla morte di quest'ultimo la riebbe; l'idoletto si trova tuttora in suo possesso, come ebbi modo di vedere non molto tempo fa. Si tratta davvero di una cosa spaventevole, che presenta indubbie affinità con la scultura nata dal sogno del giovane Wilcox. Che mio zio fosse rimasto elettrizzato dal racconto dello scultore non mi meravigliava più di tanto; dopo il racconto di Legrasse, chi non sarebbe rimasto sconcertato nell'apprendere che un giovane sensibile non solo aveva sognato l'immagine e gli stessi geroglifici iscritti sulla statuetta trovata nelle paludi e sulla diabolica tavoletta groenlandese, ma nel sogno aveva appreso almeno tre delle parole della formula pronunciata sia dagli Esqui-
mesi adoratori del demonio e che dai meticci della Louisiana? Era assolutamente naturale che il professor Angell avesse avviato prontamente un'indagine estremamente accurata, anche se dentro di me sospettavo che il giovane Wilcox avesse sentito parlare indirettamente di quel culto e avesse inventato tutta una serie di sogni per infittire il mistero a spese di mio zio. I racconti di sogni e i ritagli raccolti dal professore erano naturalmente conferme importanti, ma il mio razionalismo e la bizzarria di quella faccenda m'indussero a trarre quelle che consideravo le conclusioni più sensate. Così, dopo avere studiato accuratamente il manoscritto e confrontato gli appunti teosofici e antropologici con il racconto fatto da Legrasse, mi recai a Providence per fare visita allo scultore e rimproverarlo come ritenevo meritasse per avere approfittato tanto sfacciatamente di un uomo colto ma anziano. Wilcox viveva ancora da solo al Fleur-de-Lys Building di Thomas Street, un'orrenda imitazione vittoriana dell'architettura bretone seicentesca, che sfoggia la sua facciata ornata di stucchi tra le deliziose case coloniali dell'antica collina, all'ombra del più bel campanile georgiano d'America. Lo trovai al lavoro nel suo appartamento e dalle creazioni sparse per la stanza dovetti riconoscere che il suo talento era davvero grande e autentico. Credo che un giorno diverrà noto come uno dei più grandi decadenti; infatti è riuscito a plasmare nell'argilla, ciò che un giorno fisserà nel marmo: gli incubi e le fantasie evocati da Arthur Machen nelle sue prose e visualizzati da Clark Ashton Smith nei versi e nella pittura. Bruno, fragile e piuttosto sciatto, Wilcox si girò languidamente quando bussai alla porta e mi chiese che cosa desiderassi senza alzarsi. Quando glielo spiegai, mostrò un certo interesse, poiché mio zio aveva risvegliato la sua curiosità con lo studio dei suoi strani sogni, senza però mai spiegargli il motivo di quelle indagini. Non gli dissi più di quanto già sapesse, ma con una certa astuzia cercai di coglierlo in fallo; in breve però mi convinsi della sua assoluta sincerità giacché parlava dei propri sogni in modo tale che non si poteva fraintenderlo. Quei sogni avevano lasciato nel suo subconscio tracce che avevano influenzato profondamente la sua arte; mi fece infatti vedere una macabra statua le cui fattezze mi fecero quasi rabbrividire per la potenza delle loro suggestioni. Non ricordava di averne visto l'originale se non nel bassorilievo del sogno, ma la sagoma si era formata sotto le sue mani quasi senza che se ne avvedesse. Senza dubbio doveva essere la forma gigantesca di cui parlava nel delirio. Dimostrò ben presto chiaramente di non sapere nulla del culto segreto, a parte ciò che aveva
appreso dall'interrogatorio inesorabile di mio zio; e di nuovo tentai di scoprire in quale modo avesse potuto trarre quelle strane impressioni. Parlava dei suoi sogni in un peculiare linguaggio poetico fornendomi un'immagine tremendamente vivida dell'umida città ciclopica fatta di pietre verdastre e limacciose, la cui geometria, disse curiosamente, era completamente stravolta, e facendomi udire con ansia tremebonda l'incessante richiamo sotterraneo che penetrava nel cervello: Cthulhu fhtagn, Cthulhu fhtagn. Quelle stesse parole costituivano parte del tetro rituale che parlava della veglia sognante del defunto Cthulhu nella sua cripta di pietra a R'lyeh, e nonostante il mio razionalismo ne fui profondamente scosso. Wilcox, ne ero certo, aveva sentito parlare per caso di quel culto e poi l'aveva relegato in un angolo del suo cervello, dove si era mescolato alle impressioni che gli venivano dalle letture e alle sue fantasie altrettanto bizzarre. Poi, la sua grande impressionabilità aveva riportato alla luce il ricordo nel subconscio, producendo i sogni, il bassorilievo e la tremenda statua che ora avevo di fronte; quindi la frode nei confronti di mio zio non era stata intenzionale. Il giovane era uno di quei tipi affettati e allo stesso tempo leggermente maleducati che non ho mai potuto soffrire; ma ero ugualmente disposto a riconoscere il suo genio e la sua onestà. Mi congedai da lui amichevolmente, e gli augurai tutto il successo che il suo talento faceva prevedere. Quel misterioso culto però continuava ad affascinarmi, e a volte sognavo un futuro di fama personale grazie alle ricerche sulle sue origini e sulle sue connessioni. Mi recai a New Orleans, parlai con Legrasse e altri di quell'ispezione svolta tanto tempo prima nella giungla, vidi l'immagine spaventosa e interrogai addirittura alcuni dei meticci ancora in vita. Il vecchio Castro sfortunatamente era morto da alcuni anni. Ma ciò che ora apprendevo di prima mano, pur non essendo altro che una conferma dettagliata di quanto mio zio aveva scritto, faceva nascere in me un'eccitazione nuova; infatti ero certo di trovarmi sulle tracce di una religione estremamente concreta, antica e segreta, la cui scoperta avrebbe fatto di me un antropologo di fama. Il mio atteggiamento continuava però a essere assolutamente materialista... e vorrei tanto che lo fosse ancora; quindi, con caparbietà quasi inspiegabile mi ostinavo ad ignorare le coincidenze tra gli appunti tratti dai sogni e i ritagli raccolti dal professor Angell. Cominciai però a sospettare una cosa, di cui ora temo di avere la certezza: cioè che la morte di mio zio non fosse affatto dovuta a cause naturali. Il professore era caduto su una stretta strada in collina che partiva dall'antico
porto abitato da una folla di meticci stranieri, dopo essere stato spinto da un marinaio negro. Non avevo dimenticato che i seguaci del culto in Louisiana erano di sangue misto e svolgevano attività legate al mare, e non sarei rimasto sorpreso da eventuali ipotesi sull'uso di metodi segreti e di aghi avvelenati, spietati e antichi quanto i riti e le credenze arcane di quella fede. È vero che Legrasse e i suoi uomini non hanno subito conseguenze, ma in Norvegia un marinaio che aveva visto qualcosa d'importante era morto. Le ricerche approfondite condotte da mio zio dopo l'incontro con lo scultore non potrebbero essere giunte a orecchi indiscreti? Penso che il professor Angell sia morto perché sapeva troppo, o forse perché probabilmente sarebbe venuto a sapere troppo con le sue indagini. Resta da vedere se anch'io me ne andrò come lui, perché finora ho appreso molte cose. III LA FOLLIA VENUTA DAL MARE Se il cielo vorrà mai concedermi un dono, sia quello di cancellare le conseguenze di quel caso che mi portò a posare lo sguardo su un certo pezzo di carta usata per foderare uno scaffale. Non mi sarei mai imbattuto in una cosa simile nella routine quotidiana, poiché si trattava di un vecchio numero di un giornale australiano, il Sydney Bulletin del 18 aprile 1925, sfuggito persino all'ufficio che alla data della sua pubblicazione raccoglieva zelantemente materiale per la ricerca di mio zio. Avevo praticamente abbandonato le mie indagini su quello che il professor Angell chiamava il Culto di Cthulhu e mi trovavo in visita presso un amico molto colto di Paterson, New Jersey, curatore di un museo locale e mineralogista di fama. Un giorno, nell'esaminare i campioni di riserva disposti alla rinfusa sugli scaffali del magazzino sul retro del museo, la mia attenzione fu attratta da una strana fotografia su uno dei vecchi giornali stesi sotto le pietre. Era il già citato Sydney Bulletin — il mio amico intrattiene infatti fitte relazioni con tutte le parti del mondo possibili immaginabili — e la foto era una mezzatinta che ritraeva una spaventosa immagine di pietra quasi identica a quella trovata nella palude da Legrasse. Tolsi freneticamente i preziosi campioni dal foglio di giornale e mi misi a leggere accuratamente l'articolo, che con mia grande delusione, era piuttosto corto. L'episodio che descriveva, tuttavia, risultava tremendamente importante per la mia ricerca che da qualche tempo languiva, e quindi lo strappai per passare immediatamente all'azione. Ecco cosa diceva:
TROVATO IN MARE RELITTO MISTERIOSO Il Vigilant rimorchia in porto uno yacht neozelandese in avaria. A bordo un sopravvissuto e un cadavere. Storia di una battaglia disperata e di morti in mare. Il marinaio superstite rifiuta di svelare particolari della strana esperienza. Trovato in suo possesso strano idolo. Seguirà un'inchiesta. La nave mercantile Vigilant della Morrison & Co. salpata da Valparaiso è giunta questa mattina alla sua banchina di Darling Harbour rimorchiando lo yacht a vapore Alert, che nonostante lo spesso rivestimento risulta gravemente danneggiato. L'Alert salpato da Dunedin, Nuova Zelanda, era stato avvistato il 12 aprile a 34° 21' di latitudine sud e 152° 17' di longitudine ovest, con a bordo un sopravvissuto e un cadavere. Il Vigilant era partito il 25 marzo da Valparaiso e il 2 aprile una tempesta eccezionalmente violenta l'aveva dirottato spingendolo verso sud. Il 12 aprile il Vigilant avvistò il relitto che, una volta abbordato, rivelò la presenza di un superstite in stato di semiincoscienza e di un altro uomo morto certamente da più di una settimana. Il superstite stringeva in pungo un orribile idolo di pietra di origine sconosciuta, alto una trentina di centimetri. Le autorità dell'Università di Sydney, della Royal Society e del Museo di College Street che hanno esaminato l'oggetto, ammettono la propria ignoranza riguardo alla sua natura; l'uomo dal canto suo afferma di averlo trovato nella cabina dello yacht, in un comune scrignetto intagliato. Il marinaio, dopo essersi ripreso, narrò una storia quasi incredibile di piraterie e stragi. È un norvegese di nome Gustaf Johansen dotato a quanto pare di una certa intelligenza, ed era ufficiale in seconda sullo schooner a due alberi Emma di Auckland, salpato per Callao il 20 febbraio con un equipaggio di undici uomini. L'Emma, afferma, incontrò molte difficoltà per la violenta tempesta del 10 marzo che ne deviò di molto la rotta verso sud; e il 22 marzo, a 49° 51' di latitudine sud e 128° 34' di longitudine ovest s'imbatté nell'Alert con il suo bizzarro equipaggio di Canachi e
mezzosangue dall'aria poco raccomandabile. Il cap. Collins dell'Emma rifiutò di obbedire all'ordine perentorio di tornare indietro e l'Alert prese a bombardare selvaggiamente lo schooner con i cannoni di bordo, di cui possedeva una batteria piuttosto ben fornita. Narra il superstite che gli uomini dell'Emma non si lasciarono sopraffare e sebbene lo schooner stesse affondando sotto la linea di galleggiamento, riuscirono a virare e ad accostare la nave nemica per abbordarla; vennero così alle prese con l'equipaggio riunito sul ponte e si trovarono costretti a ucciderli tutti, nonostante la superiorità di numero, per la .violenza disperata anche se piuttosto goffa con cui i Canachi e i mezzosangue dell'Alert reagirono. Tre degli uomini dell'Emma, tra i quali il cap. Collins e il primo ufficiale Green rimasero uccisi; gli otto rimasti, al comando del secondo Johansen, si accinsero a rimettere in moto lo yacht catturato senza invertirne la rotta per vedere se l'ordine precedente di tornare indietro avesse avuto qualche motivo valido. Il giorno dopo approdarono su un'isoletta... sebbene non sia nota l'esistenza di alcuna isola in quella parte dell'oceano; sei uomini morirono in qualche modo dopo l'approdo, anche se Johansen si dimostra particolarmente reticente su questo punto e si limita a sostenere che sono caduti in un crepaccio. Pare che in seguito il marinaio assieme a un compagno risalì a bordo dello yacht e tentò di riprendere la navigazione, ma fu sorpreso dalla tempesta del 2 aprile. L'uomo ricorda pochissimo di quanto è accaduto da quel momento fino al 12 aprile, giorno del suo salvataggio, e non rammenta nemmeno quando sia deceduto il suo compagno, William Briden. La morte di Briden comunque non rivela cause apparenti, ed è stata probabilmente causata da un'emozione troppo forte o da assideramento. Messaggi via cavo da Dunedin ci riferiscono che l'Alert era ben noto laggiù come mercantile per i suoi viaggi fra le isole, e nel porto godeva di una cattiva reputazione. Apparteneva infatti a un ambiguo gruppo di mezzosangue le cui frequenti riunioni, seguite da visite notturne nei boschi, suscitavano non poca curiosità, ed era salpato in fretta e furia poco dopo la tempesta e i movimenti sismici del primo di marzo. Il nostro corrispondente di Auckland conferma che l'Emma ed il suo equipaggio godevano di una reputazione eccellente e che Johansen è considerato un uomo
sobrio e degno di rispetto. A partire da domani le autorità portuali avvieranno un'inchiesta sull'intera vicenda, nella quale verrà fatto il possibile per indurre Johansen a parlare più estesamente di quanto non abbia fatto finora. Non c'era altro, oltre alla fotografia dell'immagine infernale, ma quale ondata di pensieri si scatenò nella mia mente! Ecco nuovi dati sul Culto di Cthulhu e le prove che esso aveva inquietanti connessioni in mare oltre che sulla terraferma. Quale ragione aveva spinto l'equipaggio di meticci a ordinare all'Emma di tornare indietro mentre navigava con lo spaventoso idolo a bordo? Qual era l'isola sconosciuta sulla quale erano morti sei uomini dell'Emma e riguardo alla quale Johansen faceva tanti misteri? Che cosa avevano rivelato le indagini e che cosa si sapeva a Dunedin del macabro culto? E, soprattutto quale connesione profonda e soprannaturale legava fra loro le date e conferiva un'aura innegabilmente sinistra ai vari eventi tanto accuratamente registrati da mio zio? Il primo di marzo — che per noi è il 28 febbraio secondo la Linea del cambiamento di data — si erano verificati i movimenti sismici seguiti dalla tempesta. L'Alert e il suo oscuro equipaggio si erano affrettati a partire da Dunedin come in risposta a un ordine inappellabile, e all'altro capo del mondo poeti e artisti avevano iniziato a sognare una strana e umida città ciclopica mentre un giovane scultore nel sonno aveva plasmato l'immagine del temuto Cthulhu. Il 23 di marzo l'equipaggio dell'Emma era approdato su un'isola ignota dov'erano morti sei dei suoi uomini; e in quella stessa data i sogni delle persone sensibili si erano fatti più vividi, dominati dal terrore di un malefico mostro gigantesco, mentre un architetto era impazzito e uno scultore era caduto preda del delirio. E la tempesta del 2 aprile, giorno in cui erano cessati tutti i sogni sull'umida città e in cui Wilcox usci senza conseguenze dalla stretta della febbre misteriosa? Che cosa significava tutto ciò? Era forse legato ai racconti del vecchio Castro sugli Antichi venuti dalle stelle e sprofondati in mare, al loro regno imminente, al culto dei loro fedeli e al loro dominio sui sogni? Mi trovavo forse in procinto di cadere in un abisso di orrori cosmici al di là dell'umana sopportazione? In questo caso doveva trattarsi di orrori puramente psichici, perché in qualche modo il due aprile aveva posto fine alla minaccia, qualunque essa fosse, che assediava l'anima dell'umanità. Quella sera, dopo avere trascorso la giornata tra cablogrammi e prenotazioni, presi congedo dal mio ospite e saltai su un treno per San Francisco.
In meno di un mese raggiunsi Dunedin, dove scoprii che nessuno sapeva molto degli strani seguaci del culto che frequentavano le vecchie taverne in riva al mare. La gentaglia del porto era costituita da persone troppo ordinarie per essere degne di menzione, anche se mi fu riferito che un giorno i meticci si erano diretti verso l'interno e in quell'occasione si erano intraviste fiamme rossastre brillare in lontananza sulle colline, accompagnate da un fioco rullio di tamburi. Ad Auckland seppi che Johansen era tornato da Sydney, dopo un interrogatorio superficiale e infruttuoso, con i capelli non più biondi ma bianchi; aveva venduto la villetta di West Street ed era tornato alla sua vecchia casa di Oslo con la moglie. Della sua sconvolgente esperienza non aveva rivelato agli amici più di quanto avesse detto ai funzionari incaricati dell'inchiesta, e tutto ciò che poterono fare per me fu di darmi il suo indirizzo di Oslo. Quindi mi recai a Sydney, dove ebbi alcuni colloqui infruttuosi con alcuni marinai e alcuni funzionari. Vidi anche l'Alert, che era stato venduto e veniva usato a scopi commerciali, ma il suo scafo insignificante non seppe dirmi nulla. L'immagine dalla testa polipoide, dal corpo di drago e dalle ali squamose, accovacciata sul piedistallo coperto di geroglifici era conservata al museo di Hyde Park; la studiai a lungo ed approfonditamente, e mi sembrò un oggetto di fattura squisita seppure inquietante, che emanava la stessa aria di mistero e di remota antichità, già notata nell'esemplare più piccolo mostratomi da Legrasse e dovuta anche alla singolarità del materiale. Per i geologi, mi disse il curatore, costituiva un tremendo rompicapo perché avrebbero potuto giurare che al mondo non esistesse una roccia simile. Allora rammentai con un brivido ciò che il vecchio Castro aveva detto a Legrasse dei Grandi Antichi: «Erano venuti dalle stelle e avevano portato con sé le loro immagini». In preda a un'agitazione mai provata prima, decisi di fare visita all'ufficiale in seconda Johansen a Oslo. Giunto a Londra, mi reimbarcai subito diretto alla capitale norvegese, e un mattino d'autunno approdai alle banchine dell'Egeberg. Venni a sapere che l'abitazione di Johansen si trovava nella Città Vecchia di re Harold Haardrada, che aveva mantenuto il nome di Oslo per tutti i secoli in cui la capitale si era nascosta sotto il nome di Christiania. Feci il breve tragitto in taxi, e con il cuore in tumulto bussai alla porta di un edificio antico, ma in buono stato dalla facciata intonacata di bianco. Mi venne ad aprire una donna vestita di nero dal volto triste, e fui profondamente deluso quando mi disse in un inglese approssimativo che Johansen era deceduto.
Era sua moglie, e mi raccontò che il marito non era vissuto a lungo dopo il suo ritorno, perché le peripezie affrontate in mare l'avevano molto provato. Anche a lei non aveva rivelato nulla di più di quanto fosse già pubblicamente noto, ma aveva lasciato un lungo manoscritto... su «argomenti tecnici» aveva detto, in lingua inglese, evidentemente per salvaguardarla dal pericolo di eventuali abusi. Un pesante fascio di fogli caduto da un abbaino l'aveva colpito mentre passava per uno stretto vicolo nei pressi dei dock di Gothenburg; due marinai Lascar lo avevano subito aiutato a rimettersi in piedi, ma era morto prima dell'arrivo dell'ambulanza. I medici non riuscirono a scoprire le cause della sua morte, che attribuirono a disturbi cardiaci e a un indebolimento generale. A quel punto prese a rodermi l'oscuro terrore che non mi abbandonerà finché anch'io non avrò lasciato questo mondo... accidentalmente o meno. Riuscii a convincere la vedova che lo stretto legame esistente tra me e gli argomenti tecnici di suo marito mi davano il diritto di leggere il suo manoscritto, quindi lo portai con me e iniziai a leggerlo sul battello diretto a Londra. Era uno scritto semplice e piuttosto sconnesso: il tentativo di un marinaio ingenuo di redarre un diario a posteriori in cui ricordare giorno per giorno quell'ultimo, terribile viaggio. Essendo troppo confuso e prolisso per riportarlo integralmente, mi limiterò a riferirne i punti essenziali, tanto da far capire perché lo sciabordio dell'acqua contro le fiancate del vascello mi divenne talmente insopporabile che dovetti turarmi le orecchie con il cotone. Johansen, grazie a Dio, non sapeva tutto, anche se vide la città e la Cosa, ma io non riuscirò mai più a dormire tranquillo ripensando agli orrori che si celano perpetuamente al di là della vita nel tempo e nello spazio, e a quegli esseri blasfemi, venuti da antiche stelle, che sognano nelle profondità sottomarine, conosciuti e venerati da un culto infernale pronto a riammetterli sulla terra non appena un altro terremoto riporterà alla luce la loro mostruosa città di pietra. Il viaggio di Johansen era iniziato come già avevo saputo dai risultati dell'inchiesta. L'Emma, vuota del carico, era salpata da Auckland il 20 febbraio ed era stata colta in pieno dalla violenta tempesta che seguì il terremoto e che probabilmente sollevò dal fondo marino gli orrori che prima avevano popolato soltanto i sogni. Una volta ripreso il controllo dell'imbarcazione, il viaggio proseguì senza problemi fino all'incontro con l'Alert, e mi sembrò di avvertire il dispiacere dell'ufficiale in seconda nella descri-
zione del bombardamento e dell'affondamento del suo vascello. Johansen parla in tono inorridito dei seguaci del culto imbarcati sull'Alert, e afferma che qualcosa di abominevole in essi faceva scattare l'impulso insopprimibile di distruggerli; dimostrò infatti una certa meraviglia quando il tribunale incaricato dell'inchiesta accusò di crudeltà lui e i suoi compagni. Dopo la cattura della nave, Johansen prese il comando e, spinto dalla curiosità, proseguì nella direzione originaria dell'Alert; ben presto i suoi uomini avvistarono una gigantesca colonna di pietra che sembrava spuntare dal mare, e a 47°9' di latitudine sud e 126°43' di longitudine ovest, si presentò ai loro occhi un litorale di fango e melma sul quale sorgevano mura ciclopiche incrostate di alghe. Non poteva trattarsi altro che dell'espressione tangibile del terrore supremo: l'infame città morta di R'lyeh, costruita in epoche remotissime al di là della storia delle gigantesche forme abominevoli piovute dalle stelle. Là giacevano il grande Cthulhu e le sue orde, nascosti in viscide cripte verdastre, al di là, dopo un numero incalcolabile di millenni, trasmettevano finalmente i pensieri che perseguitavano i sogni delle persone sensibili e ordinavano imperiosamente ai fedeli di mettersi in viaggio per liberarli e riportarli al potere. Johansen non sospettava tutto ciò, ma ben presto vide abbastanza da capire. Suppongo che un solo picco sorgesse dalle acque, quello dove sorgeva l'orrenda cittadella sormontata dal monolito che ospitava il sepolcro del grande Cthulthu. Se solo penso all'orrenda vastità di ciò che si cela laggiù, ho quasi la tentazione di uccidermi subito. Johansen e i suoi uomini rimasero esterefatti di fronte alla maestà cosmica di quella Babilonia gocciolante, dimora di antichi demoni, e pure all'oscuro di tutto dovettero immaginare che non appartenesse a questo o ad altri pianeti normali. Da ogni riga della descrizione del marinaio trapelava chiaramente il sacro terrore ispirato dalle dimensioni incredibili dei blocchi di pietra verdastra, dall'altezza vertiginosa, da capogiro del grande monolito intagliato, e dalle similitudini tra le fattezze sconvolgenti delle statue colossali e dei bassorilievi con la strana immagine ritrovata nella teca dell'Alert. Senza sapere nulla del futurismo, Johansen vi si avvicinò molto nella sua descrizione della città; infatti non parla di strutture o di edifici determinati, ma soltanto di vaghe impressioni di angoli enormi e di superfici di pietra, troppo vaste per essere di questa Terra, fitte di immagini orrende e di geroglifici. Cito il discorso degli angoli perché mi ricorda qualcosa che Wilcox mi aveva riferito riguardo ai suoi sogni paurosi: aveva detto che la geometria di quel luogo da incubo non era di tipo euclideo e dava l'impres-
sione agghiacciante di appartenere a mondi e dimensioni lontani dalla nostra. E un marinaio ignorante provò la stessa sensazione di fronte a quella tremenda realtà. Johansen e i suoi uomini sbarcarono su una proda fangosa digradante ai piedi di quell'Acropoli inusitata e salirono i titanici blocchi coperti di viscida melma che non potevano fare parte di una scala costruita per gli esseri umani. Il sole stesso sembrava brillare di una luce distorta attraverso i miasmi corruttori che emanavano da quella perversione emersa dalle profondità marine, mentre angosce e minacce sembravano acquattarsi in quegli angoli elusivi di roccia scolpita che al primo sguardo apparivano concavi e al secondo convessi. Tutti gli esploratori erano stati colpiti da qualcosa di molto simile al panico anche prima di vedere qualcosa di diverso dalle rocce, dal fango e dalle alghe. Ognuno di essi sarebbe fuggito, se non avesse temuto il disprezzo dei compagni, e fu con scarso zelo che cercarono, invano, qualche oggetto di piccole dimensioni da portare con sé. Fu Rodriguez, il portoghese, ad arrampicarsi sul basamento del monolito e a gridare che aveva trovato qualcosa. I compagni lo raggiunsero e osservarono incuriositi l'immensa porta intagliata con il bassorilievo ormai familiare che ritraeva il drago-piovra. Come disse Johansen, somigliava alla porta di un enorme fienile, e tutti capirono che si trattava di una porta grazie alla presenza di un architrave decorato, di una soglia e degli stipiti ; non riuscirono però a determinare se fosse posta orizzontalmente come una botola o di traverso come le porte esterne delle cantine. Come avrebbe detto Wilcox, la geometria di quel luogo era completamente stravolta; non si poteva essere sicuri che il mare e il suolo fossero orizzontali, quindi la posizione relativa di tutto il resto sembrava irrealmente mutevole. Il marinaio Brides premette la pietra in diversi punti senza risultato; poi il marinaio Donovan ne saggiò delicatamente i bordi, premendo ogni punto singolarmente man mano che proseguiva. Si arrampicò per un lunghissimo tratto lungo la grottesca costruzione di pietra — cioè, si potrebbe dire che si arrampicò se la cosa non fosse stata orizzontale — mentre gli uomini si chiedevano come una porta qualsiasi potesse essere tanto grande. Poi, molto lentamente e senza far rumore il gigantesco pannello iniziò ad aprirsi dall'alto verso l'interno; videro così che si trattava di un sistema di apertura a bilico. Donovan scivolò o forse si trascinò lungo lo stipite per riunirsi ai compagni, e tutti insieme rimasero a osservare lo strano modo in cui si schiudeva quella mostruosa porta scolpita. In quella fantasia di distorsioni
prismatiche si muoveva in maniera anomala, seguendo una linea diagonale, cosicché tutte le regole terrestri della prospettiva sembravano stravolte. L'apertura era buia, immersa in un'oscurità quasi tangibile; quella tenebra era effettivamente concreta, in quanto oscurava parti delle pareti interne che avrebbero dovuto essere esposte alla luce e usciva come un fumo dalla sua prigione millenaria, oscurando visibilmente il sole mentre si allontanava in un cielo raggrinzito e ondulato battendo le ali membranose. Dall'apertura si sprigionava un fetore insopportabile e dopo un po' Hawkins, che aveva un udito finissimo, credette di sentire uno sciabordio inquietante provenire da laggiù. Tutti tesero l'orecchio ed erano ancora intenti ad ascoltare quando la Cosa comparve gocciolante alla vista e spinse goffamente la sua immensa massa verdastra e gelatinosa attraverso la porta oscura per uscire nell'aria corrotta di quella folle città venefica. Nel descrivere quella scena al povero Johansen cadde quasi la penna di mano. Riteneva che, dei sei uomini mai più tornati sulla nave, due fossero morti di spavento in quell'istante maledetto. Non esistevano termini per descrivere la Cosa, per esprimere un tale abisso di terrore e di eterna follia, una tale contraddizione soprannaturale della materia, della forza e dell'ordine cosmico. Era una montagna che camminava ma di tanto in tanto sembrava inciampare. O Dio! C'era da meravigliarsi che un grande architetto fosse impazzito e che il povero Wilcox delirasse per la febbre in quell'istante di frenetici scambi telepatici? La Cosa ritratta negli idoli, la prole verdastra ed appiccicosa delle stelle si era svegliata per riprendersi ciò che le apparteneva. Le stelle erano tornate nella posizione giusta e un gruppo di marinai innocenti era riuscito a compiere per caso ciò che un culto millenario aveva invano tentato di portare a termine. Dopo miliardi di anni il grande Cthulhu era tornato sulla Terra, affamato di piacere. Tre uomini furono afferrati dai suoi artigli prima che qualcuno avesse il tempo di fare una mossa. Dio doni loro la pace, se mai ci sarà pace nell'Universo: erano Donovan, Guerrera e Angstrom. Parker scivolò mentre assieme agli altri due fuggiva lungo un'interminabile serie di rocce incrostate di alghe verso la barca, e Johansen giura che fu inghiottito dall'angolo di un muro che non poteva trovarsi in quel punto: era un angolo acuto ma si comportava come un angolo ottuso. Così soltanto Briden e Johansen raggiunsero la scialuppa e remarono disperatamente verso l'Alert, mentre quella montagna gelatinosa piombava giù dalle rocce viscide e si soffermava sulla riva del mare agitandosi tutta. Per fortuna la pressione nelle caldaie dello yacht non si era esaurita, no-
nostante tutti i marinai si fossero recati a terra e così ci vollero soltanto pochi minuti di corse frenetiche tra le macchine e il timone per rimettere in navigazione l'Alert. Lentamente la nave prese a solcare quelle acque letali, circondata dagli orrori contorti di quella scena indescrivibile, mentre tra le mura di quella spiaggia-ossario che non era di questa terra la Cosa gigantesca venuta dalle stelle sbavava e biascicava come Polifemo davanti alla nave in fuga di Ulisse. Poi, più potente dei mitici ciclopi, il grande Cthulhu scivolò fluidamente nell'acqua e iniziò a inseguire i fuggiaschi sollevando ondate gigantesche con la sua forza soprannaturale. Briden la vide e impazzì, scoppiando in una risata stridula che avrebbe continuato a scuoterlo fino alla morte, avvenuta una notte nella sua cabina mentre Johansen vagava in preda al delirio. Ma il norvegese non si era ancora arreso. Sapendo che la Cosa avrebbe potuto certamente raggiungere l'Alert finché il vapore non avesse raggiunto la pressione massima, decise di tentare il tutto per tutto e mettendo le macchine sull'avanti tutta si precipitò al timone e invertì bruscamente la rotta. Le acque fetide si sollevarono in un turbine di schiuma, e mentre la pressione del vapore continuava ad aumentare, il coraggioso Johansen si avventò a tutta forza con il vascello contro la massa gelatinosa, che galleggiava sulla spuma torbida come un diabolico galeone. L'orrenda testa di piovra agitava i tentacoli e arrivava quasi al bompresso della robusta imbarcazione, ma Johansen non mollò. Si udi uno scoppio come di vescica simile alle carni di un pesce luna sventrato, mentre nell'aria si diffondeva un fetore simile a quello di mille tombe scoperchiate e un suono che il narratore non riuscì a riportare sulla carta. Per un attimo la nave fu circondata da una nube verdastra acre ed accecante, mentre a poppa si intravvedeva soltanto un minaccioso ribollire: la sostanza disintegrata dell'essere stellare senza nome si stava lentamente ricomponendo nell'odiosa originale, ma si faceva sempre più distante man mano che l'Alert si allontanava spinto dalla forza del vapore. Era tutto. Da quel momento in poi Johansen non fece altro che fissare l'idolo della cabina e preparare qualcosa da mangiare per sé e per il pazzo ridanciano che gli stava accanto, e non tentò più di governare la nave dopo quella fuga coraggiosa, che gli aveva strappato qualcosa dell'anima. Poi era venuta la tempesta del 2 aprile e il marinaio era sprofondato nelle nebbie dell'incoscienza: ricordava soltanto la sensazione di turbinii spettrali tra liquidi abissi d'infinito, di corse vertiginose sulla coda di una cometa attraverso universi vacillanti e di un'alternanza pazzesca di ascese e discese
fulminee. Dopo quel sogno giunse la salvezza: il Vigilant, l'inchiesta, le vie di Dunedin e il lungo viaggio verso la vecchia casa accanto all'Egeberg. Non poteva parlare: lo avrebbero preso per pazzo. Avrebbe scritto ciò che sapeva prima di morire, ma sua moglie non doveva scoprirlo. Fu questo il documento che lessi e poi riposi nella scatola metallica accanto al bassorilievo e ai documenti del professor Angell. Accanto a essi troverà posto questa mia storia, questa prova della mia sanità mentale in cui ho ricomposto ciò che spero di non vedere ricomposto mai più. Ho visto tutti gli orrori che cela l'Universo, e persino il cielo primaverile e i fiori dell'estate d'ora in poi saranno veleno per me. Ma non penso che la mia vita sarà molto lunga. Come se n'è andato mio zio e come se n'è andato il povero Johansen, così me ne andrò anch'io; so troppe cose e il culto sopravvive ancora. Anche Cthulhu vive, suppongo, ripiombato nel crepaccio di pietra che l'ha protetto da quando il Sole era giovane. La sua città maledetta è tornata nelle profondità marine, perché il Vigilant tornò nel punto indicato dopo la tempesta di aprile ma non trovò nulla. I ministri di Cthulhu sulla Terra continuano però a urlare, a danzare e a commettere omicidi rituali in luoghi solitari, intorno a monoliti sormontati da idoli. Il mostro dev'essere rimasto intrappolato nel suo abisso tenebroso mentre la città affondava, perché altrimenti il mondo oggi sarebbe in preda a un frenetico terrore. Chi può prevedere la fine? Ciò che è sorto può affondare, e ciò che è affondato può risorgere. Entità odiose attendono sognando negli abissi, e la corruzione si diffonde nelle città decadenti degli uomini. Verrà un giorno... ma non posso, non devo pensarci! Prego soltanto che, se non sopravviverò a questo manoscritto, i miei esecutori antepongano la prudenza all'audacia e facciano sì che nessuno altro possa mai vederlo. Titolo originale: The Call of Cthulhu Traduzione: Elena Colombetta Shirley Jackson Gente d'estate Una parte significativa dell'opera maggiore di Shirley Jackson è dedicata alla narrativa dell'orrore. Oltre ai romanzi The Sundial, The Haunting of Hill House e We Have Always Lived in the Castle, che ha vinto il Na-
tional Book Award, la maggior parte delle novelle tratta l'orrore sottile. Shirley Jackson ha deciso spesso di lavorare nell'area circoscritta della house story di cui The Haunting of Hill House è forse l'esempio più perfetto che sia stato sinora scritto. Durante una conversazione avuta con lei nel 1962, Shirley Jackson mi rivelò che aveva una raccolta completa della rivista Unknown «È la migliore», mi disse. La sua influenza sui racconti dell'orrore continua a crescere da quando è morta, vent'anni fa. In Danse Macabre, Stephen King ha fatto di The Haunting of Hill House una della sue migliori dieci sceneggiature dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. The Summer People è un'altra delle house stories della Jackson. Il signore e la signora Allison hanno trasgredito alla regola e saranno puniti. Questo racconto offre un interessante confronto con The New Mother di Lucy Clifford. Qui, comunque, l'ironia è palese visto che abbiamo la forma del racconto morale privo del tutto di moralità. Il cottage di campagna degli Allison, a sette miglia dalla città più vicina, sorgeva sulla sommità di una collina; dava da tre lati su alberi e prati che raramente, persino in piena estate, erano asciutti. Sul quarto c'era il lago che lambiva il pontile di legno che gli Allison dovevano continuamente riparare e che appariva ugualmente bello sia che lo si guardasse dal portico frontale, sia da quello laterale, sia da qualsiasi altro punto delle scale di legno che scendevano all'acqua. Sebbene gli Allison amassero il loro cottage estivo e non vedessero l'ora di raggiungerlo all'inizio dell'estate e odiassero ripartire in autunno, non si preoccupavano di apportarvi alcun miglioramento, considerando il cottage stesso e il lago già un miglioramento della vita che rimaneva loro da vivere. Il cottage non aveva impianto di riscaldamento, né l'acqua corrente, che loro prendevano dalla pompa nel cortile sul retro, e neppure l'elettricità. Per diciassette estati, Janet Allison aveva cucinato e riscaldato acqua sulla stufa a cherosene, Robert Allison aveva trasportato quotidianamente secchi e secchi pieni d'acqua dalla pompa e letto il giornale, la sera, alla luce della lampada pure a cherosene e tutti e due, nonostante fossero persone di città, si erano abituati al gabinetto in corte. Nei primi due anni, avevano sopportato ogni genere di ironia a causa del gabinetto in cortile e ora che non avevano più ospiti, non di frequente, si erano lasciati andare alla confortevole sicurezza che offriva loro il gabinetto in corte come del resto la pompa e il cherosene, quasi fossero un innegabile vantaggio per la propria vita estiva. Quanto a loro, gli Allison erano persone comuni. La signora Allison a-
veva cinquantotto anni e il signor Allison sessanta; avevano visto i figli diventare troppo grandi per il cottage estivo e andarsene con le loro famiglie nelle stazioni balneari; gli amici morti o sistemarsi in case confortevoli; i nipoti, maschi e femmine, infischiarsene del cottage dei nonni. D'inverno, si dicevano che potevano sopportare il loro appartamento di New York in attesa dell'estate; in estate, che l'inverno era un periodo che valeva la pena di trascorrere in attesa di andare in campagna. Dal momento che erano abbastanza vecchi per non vergognarsi di abitudini regolari, gli Allison lasciavano invariabilmente il cottage estivo il martedì successivo al Labor Day ed erano invariabilmente dispiaciuti quando il mese di settembre e i primi giorni di ottobre si rivelavano belli e quasi sprecati per la città; ogni anno ammettevano che non avevano nulla che li costringesse a tornare a New York, ma fu soltanto in quell'anno che, vinta la tradizionale inerzia, decisero di rimanere al cottage anche dopo il Labor Day. «Non c'è davvero nulla che ci costringa a tornare in città» disse seria la signora Allison al marito come se si trattasse di una nuova idea, e, come se nessuno dei due l'avesse mai presa in considerazione. Lui ribatté: «Potremo goderci la campagna il più a lungo possibile». Di conseguenza, con grande piacere e un leggero senso d'avventura, la signora Allison si recò al villaggio il giorno dopo il Labor Day e annunciò alle persone che conosceva, con l'aria di chi godeva nel rompere una tradizione, che lei e il marito avevano deciso di fermarsi al cottage per almeno un altro mese. «Non abbiamo motivo di tornare in città» disse al signor Babcock, il droghiere. «Ci godiamo la campagna finché possiamo». «Nessuno si è mai fermato al lago dopo il Labor Day» osservò il signor Babcock. Stava riponendo la spesa della signora Allison in una grande scatola di cartone e si fermò per un momento a fissare con aria pensierosa un pacco di gallette. «Nessuno» aggiunse. «Ma... la città!» La signora Allison parlava al signor Babcock della città come di un luogo dove lui sognasse di andare. «È così calda... lei davvero non ne ha idea. Ci dispiace sempre quando dobbiamo ripartire. Odio partire.» Tra le manie più irritanti degli abitanti del villaggio che la signora Allison aveva notato c'era quella di prendere un banale e trito modo di dire e ripeterlo finché non diventava ancora più trito. «Anch'io odio partire» disse dopo averci riflettuto il signor Babcock e sia lui che la signora Allison
sorrisero. «Ma non ho mai sentito che qualcuno sia rimasto al lago dopo il Labor Day.» «Be', noi ci proveremo» concluse la signora Allison e il signor Babcock disse con aria grave: «Non si può mai sapere se non si prova.» Fisicamente, decise la signora Allison come sempre faceva quando usciva da quel negozio dopo una delle sue inconcludenti conversazioni con il signor Babcock, fisicamente il signor Babcock avrebbe potuto fare da modello per una statua di Daniel Webster, ma mentalmente... era orribile pensare come fosse degenerata l'antica razza yankee del New England. Lo disse al signor Allison quando salì in macchina e lui ribatté: «Generazioni di incroci. Questo e la terra cattiva.» Visto che quello era il viaggio grosso che facevano in città soltanto una volta ogni due settimane per comprare cose che non potevano essere consegnate a domicilio, vi trascorsero tutta la giornata, fermandosi a mangiare un sandwich nel negozio dei giornali e della soda e lasciando mucchi di pacchi sul sedile posteriore della macchina. Anche se la signora Allison avrebbe potuto farsi portare regolarmente la spesa a casa, per telefono non era mai capace di farsi un'idea precisa della merce che il signor Babcock aveva a disposizione in quel momento e alla lista delle infinite cose da comprare si aggiungevano sempre, e al di là del necessario, le verdure fresche che il signor Babcock vendeva solo di tanto in tanto o i canditi confezionati che erano magari appena arrivati. In quell'occasione, la signora Allison fu anche tentata da un servizio di teglie di vetro da forno che aveva trovato per caso nel negozio in cui vendevano ferramenta e vestiti e che sembrava aspettare soltanto lei dal momento che la gente di campagna, con la sua istintiva sfiducia per le cose che non fossero durature come gli alberi, le rocce e il cielo, aveva cominciato soltanto di recente a provare le teglie di alluminio invece che quelle di ferro che, a memoria degli abitanti del posto, avevano a loro volta sostituito quelle di terracotta. La signora Allison si fece accuratamente imballare le teglie di vetro perché sopportassero lo scomodo viaggio sulla strada sassosa che portava al cottage degli Allison, mentre il signor Charley Walpole che, con il fratello minore Albert, mandava avanti il negozio (il negozio veniva chiamato Johnson's perché sorgeva al posto della capanna del vecchio Johnson, andata bruciata cinquant'anni prima della nascita di Charley Walpole), avvolgeva le teglie nella carta di giornale, lei disse con aria casuale: «Certo, avrei potuto aspettare a comprare queste teglie a New York, ma non abbiamo intenzione di andarcene così presto quest'anno».
«Ho sentito dire che vi fermate» osservò, di rimando, il signor Charley Walpole. Le sue vecchie dita maneggiavano maldestramente i sottili fogli di giornale nel tentativo d'imballare una teglia per volta. E non sollevò lo sguardo sulla signora Allison quando continuò: «Non so di nessuno che si sia fermato lassù, presso il lago. Non dopo il Labor Day.» «Be', vede» disse la signora Allison, come se sentisse di dovergli una spiegazione «tutti gli anni ce ne tornavamo a New York in fretta e furia quando non era assolutamente necessario farlo. Sa com'è la città in autunno...» e gli sorrise con aria fiduciosa. Lui legò il pacco con dello spago. «Adesso me ne darà un pezzo di scorta» pensò la signora Allison e si affrettò a distogliere lo sguardo per evitare di dargli un qualsiasi segno di impazienza. «Mi sento come se appartenessi un po' a questo posto» disse. «Mi piace l'idea di rimanere quando tutti gli altri se ne sono andati.» E come per dare una dimostrazione al vecchio Charley, sorrise con calore a una donna con un viso familiare che sì trovava anche lei nel negozio. Avrebbe potuto essere quella che tempo prima aveva venduto loro delle bacche, o la tizia che di tanto in tanto dava una mano in drogheria e che probabilmente era la zia del signor Babcock. «Bene» disse il signor Charley Walpole e posò il pacco sul banco, un po' più in là, per mostrare che aveva finito e che ora che aveva fatto un buon affare e una bella confezione, era disposto ad accettare di essere pagato. «Bene» ripeté. «Comunque, mai, prima d'ora, nessun villeggiante è rimasto al lago dopo il Labor Day.» La signora Allison gli diede un biglietto da cinque dollari e lui le consegnò il resto con metodo, dando grande importanza persino ai penny. «Mai dopo il Labor Day» ripeté ancora il vecchio Charley e annuì alla donna prima di raggiungere due signore che osservavano dei vestiti di cotone per la casa. Mentre passava loro accanto per uscire, la signora Allison sentì una delle due che chiedeva acutamente: «Perché quei vestiti costano un dollaro e trentanove e questo soltanto novantotto?» «Sono delle persone fantastiche» riferì la signora Allison al marito quando s'incontrarono davanti al negozio di ferramenta e s'incamminarono lungo il marciapiede. «Solide, ragionevoli e così oneste.» «Ti fa sentir bene sapere che esistono ancora città come questa» commentò il signor Allison. «Sai, forse a New York queste teglie l'avrei pagate qualche cent in meno, ma non ci sarebbe stato alcunché di personale nella transizione.»
«Vi fermate sul lago?» chiese la signora Martin agli Allison, nel negozio dei giornali e dei sandwich. «Ho sentito dire che vi fermate.» «Abbiamo pensato di approfittare del bel tempo di quest'anno» rispose il signor Allison. La signora Martin era relativamente nuova della città; sposandosi, si era trasferita da una fattoria dei dintorni nel negozio di giornali e sandwich e vi era rimasta anche dopo la morte del marito. Serviva bevande analcoliche, uova fritte e sandwich con la cipolla fatti con pane grosso che abbrustoliva sulla sua stufa nel retro del negozio. A volte, quando la signora Martin serviva un sandwich, aveva la ricca fragranza dello stufato o dello spezzatino di maiale che lei cucinava per sé sulla stessa stufa. «Credo che nessuno si sia mai fermato tanto a lungo laggiù» osservò la signora Martin. «Non dopo il Labor Day, comunque». «Di solito partono tutti il giorno del Labor Day» disse agli Allison il signor Hall, il loro vicino, davanti al negozio del signor Babcock dove i due stavano salendo in macchina per tornare a casa. «Mi sorprende che voi, invece, vi fermiate.» «Ci è sembrato un peccato partire così presto» spiegò la signora Allison. Il signor Hall viveva a tre miglia di distanza da loro; riforniva gli Allison di burro e uova e, di tanto in tanto, dalla cima della collina, gli Allison riuscivano a vedere le luci della sua casa, la sera presto, prima che gli Hall andassero a dormire. «Di solito partono tutti il giorno del Labor Day» ripeté il signor Hall. Il viaggio fino a casa fu lungo e pesante; cominciava a fare buio e il signor Allison doveva guidare con prudenza sulla strada polverosa che costeggiava il lago. La signora Allison era appoggiata allo schienale, piacevolmente rilassata dopo quella che poteva sembrare una frenetica giornata di acquisti se paragonata con la loro abituale esistenza. Aveva il pensiero fisso alle nuove teglie di vetro, alle mele rosse e al pacco di puntine colorate con le quali aveva intenzione di fissare un nuovo bordino allo scaffale della cucina. «È bello tornare a casa» disse quando videro il cottage che si stagliava sopra di loro, contro il cielo. «Sono contento che abbiamo deciso di rimanere» convenne il signor Allison. La signora Allison trascorse il mattino seguente a lavare amorevolmente le teglie da forno anche se, certamente senza volerlo, Charley Walpole aveva trascurato di notare una scheggiatura sul bordo di una di esse. Decise, prodigalmente, di usare una parte delle mele rosse per la torta della cena e
mentre il dolce era in forno e il signor Allison era sceso a ritirare la posta, si sedette sul piccolo prato che gli Allison avevano creato in cima alla collina, a guardare il lago che a causa delle nuvole che si spostavano velocemente davanti al sole appariva ora grigio ora azzurro. Il signor Allison tornò un po' di malumore; lo irritava sempre fare un miglio di strada in cattive condizioni fino alla cassetta della posta e tornarsene poi senza niente, anche se pensava che la passeggiata gli facesse bene alla salute. Quella mattina non aveva trovato altro che la pubblicità di un grande magazzino di New York e il loro giornale di New York che arrivava per posta con un ritardo che poteva andare da uno a quattro giorni cosicché certe volte gli Allison ne avevano tre e più frequentemente nessuno. La signora Allison, anche se condivideva l'irritazione del marito per il mancato arrivo della posta... avrebbero gradito tanto che ce ne fosse, guardò con attenzione la pubblicità, ripromettendosi di fare un salto in quel magazzino quando fosse tornata in città per dare un'occhiata alle coperte di lana; era così difficile di quei tempi trovarne di buone e con dei bei colori. Decise di tenere la pubblicità come promemoria, ma dopo essersi proposta di rientrare nel cottage per metterla in qualche posto sicuro, si lasciò cadere sull'erba, accanto alla sedia, e socchiuse gli occhi. «Può anche essere che piova» disse il signor Allison, osservando il cielo. «Farebbe bene ai campi» commentò laconica la signora Allison e tutti e due si misero a ridere. L'uomo del cherosene venne il mattino dopo mentre il signor Allison era andato a prendere la posta; erano a corto di combustibile e la signora Allison accolse l'uomo con calore; lui vendeva cherosene e ghiaccio e, d'estate, portava via i rifiuti dalle case dei villeggianti. I netturbini erano necessari solo per gli abitanti della città; la gente di campagna non aveva immondizia di cui liberarsi. «Sono lieta di vederla» gli disse la signora Allison. «Eravamo un po' a corto.» L'uomo del cherosene, di cui la signora Allison non aveva mai imparato il nome, si serviva di un tubo flessibile per riempire il serbatoio da venti galloni che forniva agli Allison luce e calore; quel giorno, tuttavia, invece di scendere dal furgoncino e di srotolare come al solito il tubo avvolto attorno al suo sostegno, l'uomo guardò a disagio la signora Allison, il motore del furgoncino ancora acceso. «Pensavo che sareste partiti» disse. «Ci fermeremo un altro mese» spiegò allegramente la signora Allison.
«Il tempo è così bello e ci sembra un...» «Me l'hanno detto» fece l'uomo. «Però non posso darvi il cherosene.» «Che cosa intende dire?» La signora Allison inarcò le sopracciglia. «Per noi si tratta soltanto di continuare a...» «È già trascorso il Labor Day» la interruppe l'uomo «e di cherosene a questo punto non ne ho abbastanza neppure per me.» La signora Allison ricordò a se stessa, com'era spesso costretta a fare quando era in disaccordo con i vicini, che i modi di città non andavano bene con la gente di campagna; non potevi pretendere di far fare a un provinciale quello che facevi fare a uno di città. Perciò gli sorrise in modo allettante mentre diceva: «Non può procurarsene dell'altro, almeno finché noi stiamo qui?» «Vede» ribatté l'uomo, esasperato, tamburellando il volante con le dita «vede» ripeté lentamente «io questo combustibile lo ordino, lo faccio arrivare da cinquanta, cinquantacinque miglia di distanza. Lo ordino in giugno per l'estate. Poi lo ordino di nuovo a novembre. Adesso comincia a scarseggiare.» Come se l'argomento fosse chiuso, smise di tamburellare e strinse le mani attorno al volante, preparandosi a partire. «Ma non può darcene nemmeno un po'?» insistette la signora Allison. «Non c'è qualcun altro?» «Non so» rispose l'uomo, pensieroso. «Io non posso darvene.» Prima che la signora Allison avesse il tempo di ribattere, il furgoncino cominciò a muoversi. Poi si fermò e l'uomo si voltò per guardare la signora Allison dal finestrino posteriore. «Ghiaccio?» domandò. «Potrei lasciarle un po' di ghiaccio.» La signora Allison scosse la testa; di ghiaccio ne avevano ancora e lei ora era arrabbiata. Fece qualche passo di corsa per raggiungere il furgoncino, dicendo: «Cercherà di procurarci un po' di cherosene? Per la settimana prossima?» «Non so se potrò. Dopo il Labor Day è difficile.» L'uomo se ne andò e la signora Allison, confortata soltanto dal pensiero che forse sarebbe riuscita a trovare del cherosene dal signor Babcock o, alla peggio, dagli Hall, lo guardò allontanarsi piena di rabbia. «La prossima estate», mormorò, «che provi a farsi vedere la prossima estate!» Di nuovo non c'era posta, ma solo il giornale che adesso sembrava arrivare puntualmente e il signor Allison era visibilmente contrariato quando tornò. La signora Allison gli raccontò del cherosene, ma lui non parve particolarmente colpito.
«Probabilmente lo tiene per venderlo in inverno a un prezzo più alto» commentò. «Che cosa credi che sia accaduto ad Anne e Jerry?» Anne e Jerry erano i loro figli, entrambi sposati, che vivevano uno a Chicago e l'altro sulla lontana costa occidentale. Le loro lettere settimanali erano in ritardo, talmente in ritardo che l'irritazione del signor Allison per la mancanza di posta si stava trasformando in legittima preoccupazione. «Dovrebbero sapere che aspettiamo con ansia le loro lettere» sbottò. «Figli sconsiderati ed egoisti.» «Su, caro» cercò di calmarlo la signora Allison. Il risentimento verso Anne e Jerry non alleviava in lei quello che provava verso l'uomo del cherosene. Qualche minuto dopo, infatti, aggiunse: «Desiderare che scrivano non farà arrivare la posta, caro. Vado a telefonare al signor Babcock per dirgli che, assieme all'ordinazione, ci mandi su anche un po' di cherosene.» «Almeno una cartolina» disse il signor Allison mentre lei se ne andava. Come per la maggior parte degli altri inconvenienti del cottage, gli Allison non badavano più al telefono, ma si sottomettevano alla sua eccentricità senza lamentarsi. Si trattava di un telefono a muro, del tipo che ancora si vede soltanto in qualche comunità; per chiamare il centralino, la signora Allison doveva prima girare la manovella laterale e suonare una prima volta. Di solito occorrevano due o tre tentativi per costringere l'addetto al centralino a rispondere e la signora Allison, quando doveva telefonare, si avvicinava all'apparecchio con un misto di rassegnazione e disperata pazienza. Quella mattina dovette provare tre volte prima di ottenere la risposta e il signor Babcock impiegò un secolo a sollevare la cornetta del suo telefono, posto in un angolo del negozio, dietro al banco della carne. «Sono la signora Allison, signor Babcock. Ho pensato di farle l'ordinazione un giorno prima perché volevo essere sicura e per avere anche un po'...» «Che cosa dice, signora Allison?» Lei parlò un po' più forte e vide il signor Allison, sul prato, voltarsi sulla sedia e guardarla con aria comprensiva. «Ho detto, signor Babcock, che ho pensato di telefonarle presto perché potesse mandarmi...» «Signora Allison?» la interruppe il signor Babcock. «Verrà lei a ritirare la spesa?» «A ritirarla?» La signora Allison era talmente sorpresa che aveva ripreso a parlare col suo normale tono di voce e il signor Babcock domandò: «Al-
lora, signora Allison?» «Be', signora Allison» disse il signor Babcock e seguì una pausa durante la quale la signora Allison rimase a fissare il cielo al di sopra della testa del marito. «Signora Allison» continuò infine il signor Babcock «vede, il ragazzo che lavora per me è tornato a scuola ieri e ora non ho nessuno per le consegne a domicilio. Il fattorino ce l'ho soltanto in estate.» «Credevo che consegnaste sempre a domicilio» ribatté la signora Allison. «Non dopo il Labor Day, signora Allison» disse con decisione il signor Babcock. «Lei non si è mai fermata qui dopo il Labor Day, perciò non poteva saperlo, naturalmente.» «Be'» disse, impotente, la signora Allison, ripetendosi dentro di sé che era inutile arrabbiarsi. «È sicuro?» domandò infine. «Non potrebbe consegnarmi la spesa solo per oggi, signor Babcock?» «Non credo, signora Allison» rispose il signor Babcock. «Non ho convenienza a fare le consegne a domicilio visto che non c'è nessun altro al lago.» «E il signor Hall?» domandò all'improvviso la signora Allison. «La gente che vive a tre miglia da noi? Potrebbe portarcela il signor Hall quando viene.» «Hall?» ripeté il signor Babcock. «John Hall? Sono andati a trovare dei parenti, signora Allison.» «Ma... ci hanno sempre forniti di burro e uova», protestò la signora Allison, scoraggiata. «Sono partiti ieri» spiegò il signor Babcock. «Probabilmente non pensavano che sareste rimasti dopo il Labor Day.» «Eppure, io l'avevo detto al signor Hall...» disse la signora Allison smarrita. Un attimo. Si scosse, riprese tono: «Manderò domani il signor Allison a ritirare la spesa.» «Troverà tutto ciò che le serve» concluse il signor Babcock, soddisfatto, e la sua non era una domanda ma una conferma. La signora Allison riattaccò e andò di nuovo a sedersi accanto al marito. «Niente più consegne a domicilio» annunciò. «Dovrai andare tu, domani. Il cherosene ci basterà fino al tuo ritorno.» «Poteva dircelo prima» disse il signor Allison. Non era possibile rimanere a lungo contrariati con una giornata come quella; la campagna non era mai stata tanto invitante e il lago splendeva
calmo sotto di loro, tra gli alberi, con la dolcezza quasi incredibile di un quadro estivo. La signora Allison diede in un lungo sospiro, felice di avere tutta per loro la vista di quel lago con le colline verdi in lontananza e la brezza che smuoveva gli alberi. Il tempo continuò a mantenersi bello; il mattino seguente, il signor Allison, con la lista della spesa in mano in cima alla quale era stato scritto «cherosene» a grandi lettere, si avviò verso il garage e la signora Allison cominciò a preparare un'altra torta. Aveva appena finito l'impasto e stava tagliando le mele quando il signor Allison spalancò la porta della cucina. «Maledizione, l'auto non parte» annunciò, con la voce disperata dell'uomo che dipende dalla macchina più che dal suo braccio destro. «Che cosa c'è che non va?» domandò la signora Allison, il coltello in una mano, la mela nell'altra. «Andava perfettamente martedì.» «Be', di venerdì non va» ribatté a denti stretti il signor Allison. «Puoi ripararla?» chiese la signora Allison. «No, non posso, Devo chiamare qualcuno.» «Chi?» chiese la signora Allison. «L'uomo della stazione di rifornimento.» Il signor Allison si avvicinò al telefono. «L'estate scorsa, ce l'ha riparata, una volta.» Un po' agitata, la signora Allison continuò a tagliare le mele con aria assente mentre ascoltava il signor Allison che, alle prese con il telefono, chiamava, aspettava, chiamava, aspettava, dava il numero al centralinista, poi aspettava ancora, dava il numero per la seconda, terza volta e poi sbatteva giù la cornetta. «Non c'è nessuno» disse, tornando in cucina. «Forse è uscito per qualche chiamata» azzardò nervosa la signora Allison. Non sapeva con certezza che cosa la rendesse così nervosa, a meno che non fosse per la possibilità che suo marito perdesse completamente la calma. «Immagino che sia solo, perciò se è uscito nessuno può rispondere al telefono.» «Dev'essere così» commentò il signor Allison, ironico. Si sedette pesantemente su una delle sedie della cucina e guardò la moglie che tagliava le mele. Dopo un attimo, la signora Allison disse: «Perché non vai a ritirare la posta e poi non provi a chiamarlo di nuovo?» Il signor Allison ci pensò sopra un momento e alla fine rispose: «Sì, forse è meglio che faccia così.» Si alzò e, giunto alla porta della cucina, disse: «Ma se non ce n'è...», e lasciandosi alle spalle un imbarazzante silenzio, s'incamminò giù per il sentiero.
La signora Allison si affrettò a finire di preparare la torta. Si avvicinò due volte alla finestra e guardò il cielo per vedere se non ci fossero delle nuvole in arrivo. La stanza sembrava inaspettatamente buia e lei si sentiva nello stato di tensione che precede un temporale. Ma il cielo era limpido e sereno e sorrideva indifferente al cottage estivo degli Allison come al resto del mondo. Quando, per la terza volta, e con la torta ormai pronta da infornare, la signora Allison andò alla finestra, vide il marito che tornava su per il sentiero. Sembrava più allegro e, scorgendola, agitò la lettera che aveva in mano. «È di Jerry» gridò quando fu abbastanza vicino da farsi sentire. «Finalmente una lettera!» La signora Allison notò con preoccupazione che non era più in grado di salire il pendio senza avere il fiatone. «Ho resistito alla tentazione di aprirla» disse il signor Allison, porgendole la lettera. La signora Allison scrutò con un'ansia che la sorprese la calligrafia familiare del figlio; non riusciva a capire perché quella lettera la eccitasse tanto... forse era perché era la prima che ricevevano da lungo tempo; sarebbe stata piacevole e piena di notizie di Alice, dei bambini e del lavoro, con qualche commento sul tempo di Chicago e si sarebbe conclusa con tanti saluti a tutti. Se avessero voluto, il signore e la signora Allison avrebbero potuto recitare a memoria le lettere dei loro due figli. Il signor Allison l'aprì con decisione e posò il foglio sul tavolo di cucina in modo che potessero leggerlo entrambi. Cari mamma e papà — scriveva Jerry con la sua calligrafia quasi infantile — sono contento che questa lettera vi arrivi al lago. Abbiamo sempre pensato che tornaste troppo presto e che vi sareste dovuti fermare più a lungo. Alice dice che ora che non siete più giovani come una volta, che in città avete meno amici, che non avete impegni ecc., e che dovreste cercare di divertirvi. Visto che li siete entrambi felici, mi sembra una buona idea che vi fermiate. La signora Allison guardò a disagio il marito che leggeva attentamente e allungò la mano per prendere la busta vuota, senza sapere esattamente che cosa volesse farne. Recava come al solito l'indirizzo scritto da Jerry e il timbro postale di Chicago. Certo che era di Chicago, pensò, perché avrebbe dovuto averne un altro? Tornò a leggere la lettera mentre il marito passava alla seconda pagina.
... e se hanno il morbillo ecc., ora, staranno meglio in seguito. Alice sta bene e io anche. Ultimamente abbiamo giocato molto a bridge con i Carruther, persone giovani, della nostra età, che voi non conoscete. Be', ora chiudo perché temo di annoiarvi dandovi notizie che vi giungono da così lontano. Il vecchio Dickinson del nostro ufficio di Chicaco è morto. Era solito chiedere di papà. Divertitevi al lago e non affrettatevi a tornare. Con affetto da tutti noi. Jerry. «Strano» commentò il signor Allison. «Non sembra Jerry» disse la signora Allison con un filo di voce. «Non ha mai scritto niente di così...» «Di così cosa?» domandò il signor Allison. «Non ha mai scritto niente di così cosa?» La signora Allison voltò la lettera, aggrottando la fronte. Era impossibile trovare una frase, una parola perfino, che non fosse nelle lettere che Jerry regolarmente scriveva. Forse era solo perché la lettera era arrivata con ritardo o perché c'erano più ditate del solito sulla busta. «Non lo so» rispose lei, spazientita. «Riprovo a telefonare» annunciò il signor Allison. La signora Allison rilesse altre due volte la lettera per trovare una frase che suonasse diversa. Poi il signor Allison tornò e, calmissimo, disse: «La linea è interrotta.» «Che cosa?» La signora Allison lasciò cadere la.lettera. «La linea è interrotta» ripeté il signor Allison. Il resto della giornata trascorse velocemente; dopo avere pranzato con craker e latte, gli Allison andarono a sedersi sul prato ma il pomeriggio fu breve perché dal lago si levarono gradatamente delle nuvole che si addensarono sul cottage cosicché alle quattro era già buio come se fosse sera. Il temporale, tuttavia, tardò ad arrivare come se volesse prolungare il piacere di chi stesse aspettando il momento in cui si sarebbe scatenato sopra il cottage estivo. C'era perfino qualche lampo, di tanto in tanto, ma pioggia niente. A sera, il signor e la signora Allison si sedettero vicini e accesero la radio a batterie che si erano portati da New York. Non c'erano lampade accese nel cottage e l'unico chiarore era quello dei lampi e del piccolo quadrante della radio. La fragile struttura del cottage non era abbastanza forte da contenere i
rumori della città, la musica e le voci che provenivano dalla radio e gli Allison li sentivano riecheggiare sul lago, i sassofoni della dance band di New York che gemevano sull'acqua, la piatta voce della solista che si levava inesorabile nell'aria pulita di campagna. Persino lo speaker, quello che metteva in risalto i pregi della tal lametta da barba, non era altro che una voce disumana che usciva dal cottage degli Allison per ritornarvi attraverso l'eco, come se il lago, le colline e gli alberi la respingessero perché indesiderata. Durante una pausa tra le pubblicità, la signora Allison si voltò per sorridere al marito. «Mi chiedo se non dovremmo... fare qualcosa» disse. «No» rispose il signor Allison, dopo averci pensato sopra un momento. «Non credo. Dobbiamo soltanto aspettare.» La signora Allison trattenne il respiro e, mentre la volgare melodia della dance band ricominciava, il signor Allison disse: «L'auto è stata manomessa, l'ho capito persino io.» La signora Allison esitò un istante, poi, con un filo di voce, fece: «Suppongo che il telefono sia stato tagliato.» «Sì.» Dopo un po', la dance music cessò e gli Allison ascoltarono attentamente un altro notiziario con una ricca voce d'annunciatore che diceva di un matrimonio di Hollywood, degli ultimi risultati di baseball e dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari previsto per la settimana successiva. Parlava a loro, nel cottage estivo, come se meritassero di sentire ancora le notizie di un mondo che li raggiungeva soltanto attraverso le batterie della radio che cominciavano già a scaricarsi, come se appartenessero ancora, anche se debolmente, al resto del mondo. La signora Allison lanciò un'occhiata fuori dalla finestra, alla calma superficie del lago, alle masse nere degli alberi e al temporale in attesa e disse: «Ora, capisco meglio la lettera di Jerry.» «Io l'ho capito quando ho visto le luci spente dagli Hall, ieri sera» disse il signor Allison. Il vento che si levò di colpo dal lago investì il cottage estivo, battendo forte contro le finestre. Il signore e la signora Allison si avvicinarono istintivamente e al primo tuono il signor Allison allungò la mano per prendere quella della moglie. Poi, mentre il lampo illuminava la campagna e le voci della radio si facevano confuse, i due si strinsero l'uno all'altro nel loro cottage estivo e attesero.
Titolo originale: The Summer People Traduzione: Grazia Alineri Nathaniel Hawthorne Il giovane Goodman Brown Forse il primo horror nel mito americano emerge dai processi per stregoneria nel puritano New England, nostra versione regionale dell'Inquisizione spagnola. Nathaniel Hawtorne fu il più grande scrittore americano ad avvicinarsi alla questione dei Puritani e dei loro orrori morali. È stato detto che il sermone puritano, con le sue raccapriccianti immagini di inferno e dannazione, fu il modello caratteristico della letteratura horror negli Stati Uniti prima dell'invenzione del racconto. In Hawthorne, la consapevolezza dell'orrore e dei suoi effetti sostiene una delle grandi allegorie del bene e del male: Il giovane Goodman Brown. L'ironia che il nuovo mondo di Dio scelse pochi eletti per opporli all'adorazione del diavolo, letteralmente o metaforicamente, perdura. C'è più di qualcosa del mondo di Hawthorne nel The Reach (Lo Stretto) di Stephen King. Tramontava il sole quando il giovane Goodman Brown uscì nella strada del villaggio di Salem; piegò la testa all'indietro, dopo avere superato la soglia, per scambiare un bacio d'addio con la sua giovane moglie. E Faith, come opportunamente si chiamava la moglie, mise la graziosa testa fuori, lasciando che il vento giocasse con i nastri rosa della sua cuffietta. «Mio caro cuore» mormorò, dolcemente più che tristemente, quando le sue labbra furono vicine all'orecchio del marito «ti prego di mettere fine al tuo viaggio fino al sorgere del sole e di dormire nel tuo letto, questa notte. Una donna sola è afflitta da tali sogni e tali pensieri che ha paura di se stessa, a volte. Ti prego, resta con me questa notte, caro marito, di tutte le notti dell'anno.» «Amore mio e mia Faith» rispose il giovane Goodman Brown. «Di tutte le notti dell'anno, questa è quella in cui devo stare lontano da te. Il mio viaggio, come lo hai chiamato, di andata e ritorno, dev'essere fatto da adesso al sorgere del sole. Che cosa ti fa già dubitare di me, mia dolce, graziosa moglie, dopo soli tre mesi che siamo sposati?» «Dio ti benedica, allora!» disse Faith, con i suoi nastrini rosa «e tu possa stare bene al tuo ritorno.» «Amen» gridò Goodman Brown. «Di le tue preghiere, cara Faith, e va a
letto al calare della sera, e non ti verrà alcun male.» Così si separarono; e il giovane seguì la sua strada fino a quando, in procinto di svoltare l'angolo della casa delle riunioni, si girò e vide la testa di Faith ancora fuori dalla porta che lo guardava con un'aria malinconica, a dispetto dei suoi nastrini rosa. «Povera piccola Faith!» pensò, commosso. «Che miserabile sono a lasciarla così e a intraprendere questo viaggio! Anche lei parla di sogni. Era turbata, mentre parlava, come se il sogno l'avesse in qualche modo avvertita di quello che dev'essere fatto questa notte. Ma no, no; l'avrebbe uccisa il pensarlo. Be', è un angelo benedetto sulla terra; e dopo questa notte resterò accanto alle sue gonne e la seguirò fino in paradiso.» Con quell'ottima risoluzione per il futuro, Goodman Brown si sentì meglio giustificato affrettandosi per il malvagio scopo di quel viaggio. Si era incamminato lungo una strada triste, oscurata da alti alberi cupi che a malapena si aprivano davanti allo stretto sentiero e si richiudevano immediatamente dopo. Era tutto solitudine, come doveva essere; e c'è questa peculiarità nella solitudine: il viaggiatore non sa mai chi può nascondersi dietro gli innumerevoli tronchi e i folti rami sopra, cosicché, con i suoi solitari passi, può anche passare in mezzo a una moltitudine invisibile. «Potrebbe esserci un qualche diabolico pellerossa dietro ogni albero» disse Goodman Brown a se stesso; e si guardò timoroso alle spalle mentre aggiungeva: «E se il diavolo in persona fosse dietro di me?» Con la testa ancora voltata, superò una curva della strada e, tornato a guardare di nuovo davanti a sé, colse la figura di un uomo, in abiti severi, seduto ai piedi di un vecchio albero. L'uomo si alzò all'apparire di Goodman Brown e gli si mise al fianco, camminando con lui. «Siete in ritardo, Goodman Brown» disse. «L'orologio del Vecchio Sud stava battendo quando ho lasciato Boston, e questo era quindici minuti fa». «Faith mi ha trattenuto un po'» rispose il giovane, con un tremito alla voce causato dall'improvvisa, sebbene non inaspettata, apparizione del compagno. Adesso era buio nella foresta e nella parte più profonda c'erano quei due che camminavano. Per quello che se ne poteva capire, il secondo viaggiatore era sui cinquant'anni, apparentemente della stessa classe sociale di Goodman Brown, e con una notevole rassomiglianza al giovane, benché fosse più nell'espressione che nei lineamenti. Ciononostante, avrebbero potuto essere presi per padre e figlio. E tuttavia, sebbene il vecchio fosse vestito semplicemente come il giovane, e fosse anche semplice nelle maniere
come lui, aveva l'indescrivibile aria di chi, conoscendo il mondo, non si sarebbe sentito a disagio se si fosse seduto a tavola con il governatore o si fosse trovato alla corte del re Guglielmo, qualora i suoi affari ve lo avessero chiamato. L'unica cosa che di lui si poteva notare era il bastone, il quale bastone aveva tutte le sembianze di un grosso serpente nero, così curiosamente ricurvo che, nel movimento, pareva contorcersi e dibattersi come un serpente vivo, ed era, questo, un fenomeno da attribuirsi a uno scherzo della vista oltre che alla luce incerta. «Andiamo, Goodman Brown» gridò il suo compagno di viaggio. «Questa è un'andatura un po' lenta per l'inizio di un viaggio. Prendete il mio bastone se siete così stanco.» «Amico» disse l'altro, fermandosi! «Avendo preso il solenne impegno d'incontrarvi qui, è mio proposito adesso di tornarmene indietro. Ho qualche scrupolo ad affrontare la faccenda di cui mi avete parlato.» «Davvero?» replicò l'uomo del serpente, sorridendo apertamente. «Cionondimeno, camminiamo e ragioniamo mentre andiamo; e se non riesco a convincervi, ve ne tornerete indietro. Abbiamo ancora poca strada da fare nella foresta.» «Troppo lontano! Troppo lontano!» esclamò Goodman Brown, riprendendo però inconsciamente a camminare. «Mio padre non si è mai spinto così lontano nei boschi, né lo ha fatto suo padre prima di lui. Siamo una razza di brava gente e di buoni cristiani fin dai tempi dei martiri; e devo essere io il primo dei Brown a prendere questo sentiero e ad avere...» «Simile compagnia, stavate per dire» osservò il vecchio, interpretando la sua pausa. «Ben detto, Goodman Brown! Conosco la vostra famiglia come nessun altro tra i Puritani; e non c'è assolutamente nulla da dire. Aiutai vostro nonno, il conestabile, quando frustò a dovere la donna quacchera per le strade di Salem; e fui io che portai a vostro padre un ramo di pino, acceso nel mio camino, per dare fuoco a un villaggio indiano, durante la guerra di re Filippo. Erano miei buoni amici tutti e due; e abbiamo fatto molte piacevoli passeggiate lungo questo sentiero, ritornando felicemente dopo mezzanotte. Mi piacerebbe essere vostro amico anche per amore loro.» «Se è come dite» replicò Goodman Brown, «mi meraviglio che non mi abbiano mai parlato di simili faccende; o, per la verità, non mi meraviglio affatto perché se se ne fosse sparsa la minima voce sarebbero stati cacciati dal New England. Siamo gente di preghiera e buoni lavoratori, e non sopportiamo simili stregonerie.» «Stregonerie o no» disse il viaggiatore con il bastone contorto «sono
molto conosciuto qui, nel New England. I diaconi di molte chiese bevono con me il vino della comunione; persone eminenti di molte città mi eleggono loro presidente; e la maggioranza della Grande Corte Generale è ferma sostenitrice dei miei interessi. Il governatore e io, poi... Ma questi sono segreti di Stato.» «Come può essere?» gridò Goodman Brown, guardando con occhi colmi di stupore il suo imperturbabile compagno. «A ogni modo, io non ho nulla a che fare con il governatore e il consiglio; hanno i loro sistemi, e non ci sono regole per un marito semplice come me. Ma, venissi con voi, come potrei incontrare gli occhi di quel buon vecchio del nostro ministro, a Salem? Oh, la sua voce mi farebbe tremare il giorno del Sabbath e quello del sermone.» Fino a quel momento, il vecchio viaggiatore era stato ad ascoltare con la dovuta gravità; ma adesso stava dando in una irrefrenabile ilarità, scuotendo la testa così violentemente che il bastone a forma di serpente parve davvero contorcersi come per solidarietà. «Ah! Ah! Ah!» gridò ancora e ancora; poi, ricomponendosi: «Bene, andate avanti, Goodman Brown, andate avanti; ma, vi prego, non fatemi morire dalle risate.» «Be', tanto per mettere subito fine alla cosa» disse Goodman Brown, visibilmente ferito «c'è mia moglie, Faith. Le si spezzerebbe il piccolo cuore; e preferirei piuttosto che si spezzasse il mio.» «No, se è questo il problema» rispose l'altro. «Non è mai andata così, Goodman Brown. Non vorrei per venti donne come quella che abbiamo davanti che a Faith ne venisse alcun male.» Mentre parlava, puntò il bastone verso una figura femminile ferma sul sentiero e nella quale Goodman Brown riconobbe una donna molto pia ed esemplare che, da ragazzo, gli aveva insegnato il catechismo e che era ancora la sua consigliera morale e spirituale, con il ministro e diacono Gookin. «Mi meraviglio, davvero, che Goody Cloyse si trovi in questo posto selvaggio, di notte» disse. «Ma con il vostro permesso, amico, prenderò una scorciatoia per i boschi fino a quando non ci saremo lasciati indietro quella pia donna. Non conoscendovi, potrebbe chiedermi con chi mi stia attardando e accompagnando.» «E sia» disse il suo compagno viaggiatore. «Prendete la vostra scorciatoia. Io continuerò per il sentiero.» Come d'accordo, il giovane piegò di lato ma si fermò a osservare il suo
compagno avanzare tranquillamente per il sentiero fino a quando non fu a lunghezza di bastone della vecchia signora. Lei, nel frattempo, aveva accelerato i passi con un vigore strano per la sua età e mormorava delle parole indistinte... preghiere, senza dubbio... mentre camminava. Il viaggiatore allungò il bastone e le toccò il collo raggrinzito con quella che parve la coda del serpente. «Il diavolo!» strillò la pia, vecchia signora. «Allora Goody Cloyse non riconoscete il vostro vecchio amico?» disse il viaggiatore, fermo davanti a lei e appoggiato al suo divincolante bastone. «Oh sì, in verità, ma si tratta davvero di vostra signoria?» gridò la vecchia donna. «Sì sì, in verità, e con le sembianze del mio vecchio amico Goodman Brown, potreste essere il nonno di quello sciocco ragazzo. Ma... vostra signoria ci crede? ... la mia scopa di ginestra è stranamente scomparsa, rubata, come sospetto, da quella strega da impiccare di Goody Cory. Ed era già tutto pronto, sì sì... quant'è vero che mi ero unta di succo di sedano, e cinquefoglie, e aconito...» «... Mescolati a farina bianca e al grasso di un nuovo nato,» concluse la forma del vecchio Goodman Brown. «Ah, vostra signoria conosce la ricetta» gridò la vecchia signora, ridendo rumorosamente. «Come stavo dicendo, era tutto pronto per la riunione, e non c'era un cavallo da montare, così sono venuta a piedi. Mi è stato detto, che c'è un grazioso giovane da iniziare e affiliare alla nostra comunità, questa notte. Ma adesso, se vostra signoria mi dà il braccio, arriveremo in un lampo.» «Questo è già più difficile» rispose il vecchio in sembianze di Goodman Brown. «Non posso offrirvi il braccio, Goody Cloyse; c'è il mio bastone, se volete favorire.» Così dicendo, lo lanciò ai suoi piedi, dove, così parve, assunse vita, essendo quella una delle verghe usate un tempo da magi egiziani. Di quel fatto, comunque, Goodman Brown non poté prendere conoscenza. Aveva sollevato gli occhi al cielo stupefatto, e quando li aveva riabbassati non c'erano più né Goody Cloyse né il bastone serpentino, ma soltanto il suo compagno viaggiatore il quale lo stava aspettando, calmo come se niente fosse accaduto. «Quella vecchia donna mi ha insegnato il catechismo» disse il giovane; e c'era tutto un mondo di significato nel suo semplice commento. Ripresero ad andare e il viaggiatore più anziano, sollecitando il suo compagno a un'andatura più spedita, parlò di cose che sembravano più sca-
turite dall'animo del suo giovane accompagnatore che da lui stesso. Mentre andavano, raccolse un ramo d'acero per servirsene come bastone e cominciò a spogliarlo dei rami più piccoli e delle foglie che erano inumidite dall'umore della sera. Nel momento in cui le sue dita le toccavano, le foglie divenivano stranamente bianche e secche come dopo una settimana di sole. I due procedettero di buon passo, fino a quando, in un buio avvallamento della strada, Goodman Brown improvvisamente si sedette su un ceppo d'albero e si rifiutò di proseguire. «Amico» disse, con fermezza «ho deciso. Non farò un altro passo di questo viaggio. Non quando una povera vecchia donna decide di andare all'inferno mentre io pensavo che stesse andando verso il paradiso: c'è una qualche ragione per cui dovrei lasciare la mia cara Faith e seguire voi?» «Tra non molto la penserete diversamente» disse senza scomporsi il suo conoscente. «Sedetevi e riposatevi un po'; e quando vi sentirete di riprendere il cammino, ecco, qui c'è il mio bastone che vi aiuterà.» Senza aggiungere altro, lanciò al suo compagno il bastone d'acero e in breve scomparve come se fosse stato inghiottito dal buio crescente. Il giovane rimase seduto per qualche momento ai lati della strada, applaudendosi per quella decisione, e pensando adesso che avrebbe potuto affrontare con la coscienza pulita il ministro di Dio durante la sua passeggiata mattutina e non si sarebbe vergognato agli occhi del buon diacono Gookin. E che sonno tranquillo si sarebbe concesso quella notte, una notte che era stato sul punto di trascorrere tanto peccaminosamente, ma che adesso sarebbe stata pura e dolce tra le braccia di Faith! Mentre era immerso in quelle piacevoli e apprezzabili meditazioni, Goodman Brown udì un rumore di zoccoli che s'avvicinavano e ritenne prudente nascondersi tra la vegetazione che cresceva ai margini della foresta, consapevole del colpevole motivo che l'aveva condotto fin lì, sebbene adesso se ne fosse felicemente allontanato. Al di sopra del rumore degli zoccoli e delle voci dei cavalieri, si potevano udire chiaramente due vecchie voci, gravi, conversare moderatamente tra loro. Tutti quei suoni mescolati sembravano transitare lungo la strada, a pochi metri dal nascondiglio del giovane; ma, senza dubbio a causa del buio, assai più profondo in quel punto, né i viaggiatori né le loro cavalcature erano visibili. Inoltre, sebbene le loro figure sfiorassero i rami ai lati della strada, non una volta, neppure per un breve momento, una di loro aveva intercettato il più piccolo bagliore quando erano passate contro una striscia di cielo ancora chiaro. Goodman Brown si alzava e si abbassava
sulle punte dei piedi, scostando rami, spingendo avanti la testa, ma più che ombre non riuscì a vedere. A turbarlo di più era il fatto che, sarebbe stato pronto a giurarlo, avesse riconosciuto le voci del ministro e del diacono Gookin che passavano tranquillamente, come erano soliti fare quando erano chiamati a qualche ordinazione o consiglio ecclesiastico. Mentre erano ancora a tiro di udito, uno dei due cavalieri si fermò per raccogliere un ramo. «Delle due, reverendo signore» disse la voce che sembrava del diacono «ho preferito mancare a una cena d'ordinazione piuttosto che alla riunione di questa notte. Mi dicono che verranno da Falmouth e anche oltre, e dal Connecticut e da Rhode Island, e che ci saranno diversi powwows indiani che, com'è noto, conoscono diavolerie come i migliori di noi. Per di più, ci sarà una brava giovane donna da ammettere nella comunità.» «Proprio bello, diacono Gookin!» replicarono i solenni toni del ministro. «Spronate, o arriveremo tardi. Sapete che non può essere fatto nulla prima che io arrivi.» Gli zoccoli ripresero a percuotere il terreno e le voci, che così stranamente parlavano nell'aria vuota, si allontanarono nella foresta, una foresta dove nessuna chiesa si era mai raccolta o solitario cristiano aveva mai pregato. Dove, allora, quei santi uomini stavano dirigendosi, così profondamente in quel luogo pagano? Sul punto di lasciarsi cadere per il malessere e il peso che sentiva sul cuore, il giovane Goodman Brown si appoggiò a un albero per sostenersi. Sollevò gli occhi al cielo, dubitando perfino che ci fosse un cielo sopra di lui. E tuttavia l'arco blu c'era, e vi splendevano le stelle. «Con il cielo in cielo e Faith in terra, sarò risoluto contro il diavolo!» gridò Goodman Brown. Mentre ancora guardava il profondo arco del firmamento e giungeva le mani per pregare, una nuvola, sebbene non ci fosse vento a sospingerla, venne a porsi sullo zenith e a coprire le lucenti stelle. Il cielo blu era ancora visibile, salvo che per il tratto sopra la sua testa, dove la nera massa della nuvola stava rapidamente volgendo verso nord. Nell'aria, come proveniente dalle profondità della nuvola, si formò un confuso e incerto suono di voci. Una volta che l'ascoltatore vi si fu abituato, cominciò a distinguere gli accenti della sua gente, uomini e donne, gente pia o senza dio, molti dei quali lui aveva incontrato al tavolo della comunione, e altri aveva visto nelle taverne. Ma nell'istante successivo, così indistinti erano i suoni, dubitò di avere sentito altro che il mormorio della vecchia foresta. Poi arrivò
un'ondata più forte di quelle voci familiari, ma sentite tutti i giorni sotto il sole, nel villaggio di Salem, non provenienti da una nuvola notturna. Ce n'era una di voce, quella di una giovane donna, che profferiva lamenti, tuttavia con incerto dispiacere, e chiedeva un qualche favore, il quale, forse, le stava a cuore di ottenere; e tutta quella moltitudine, di santi e di peccatori, sembrava incoraggiarla ad andare avanti. «Faith!» gridò Goodman Brown, con voce d'agonia e di disperazione; e gli echi della foresta lo schernirono, gridando, Faith! Faith come se tanti increduli miserabili stessero cercandola in quella landa. Il grido di dolore, rabbia e terrore stava ancora perforando la notte quando l'infelice marito trattenne il respiro in attesa della risposta. Ci fu un urlo immediatamente sommerso da un forte mormorio di voci che si dissolveva in una risata lontana via via che anche la nuvola si dissolveva, lasciando il cielo chiaro e silenzioso sopra Goodman Brown. Ma qualcosa fluttuò leggero nell'aria e venne a posarsi su un ramo. Il giovane lo prese: era un nastro rosa. «La mia Faith non c'è più!» gridò, dopo uno stupefatto momento. «Non c'è bene sulla terra; e il peccato non è che un nome. Vieni, diavolo; questo mondo è per te.» E, pazzo di disperazione, ridendo forte e a lungo, Goodman Brown prese il suo bastone e si lanciò in avanti a una tale velocità che sembrava volare attraverso la foresta piuttosto che camminare o correre. La strada divenne più selvaggia e spaventosa e più debolmente tracciata, e svanì infine, lasciandolo nel cuore della più buia desolazione, mentre lui ancora proseguiva con l'istinto che guida un mortale verso il male. L'intera foresta era popolata di suoni spaventosi... lo scricchiolio di un albero, l'ululato di un animale selvatico, l'urlo di un indiano; mentre il vento a volte arrivava come il suono di un campanile lontano e a volte investiva il viaggiatore come un ruggito, come se tutta la natura ridesse di lui. Ma era lui stesso l'orrore della scena e non si ritraeva da altri orrori. «Ah! Ah! Ah!» ruggiva Goodman Brown quando il vento rideva di lui. «Vediamo chi ride più forte. Non pensare di terrorizzarmi con la tua diavoleria. Vieni strega, viene stregone, vieni powwow indiano, vieni diavolo, qui c'è Goodman Brown. Potete impaurirlo come lui impaurisce voi.» In realtà, in tutta la foresta, non avrebbe potuto esserci figura più terrificante di Goodman Brown. Corse il giovane tra i pini neri, brandendo il bastone con gesti frenetici, ora dando la stura a un'ispirazione di orride imprecazioni blasfeme, ora esplodendo in quella sua risata quando gli echi
della foresta tornavano a lui come demoni irridenti. Il demonio nella sua forma è meno odioso di quando infuria nel petto di un uomo. Fin lì lo sospinse il demoniaco, fino a quando, tremolante tra gli alberi, Goodman Brown non vide una luce rossa davanti a lui, come di chi avesse acceso un fuoco in una radura con alberi caduti e rami, un fuoco che lanciava nel cielo della notte ombre spettrali. Si fermò, in un momento di calma della tempesta che lo aveva agitato, e udì il crescendo di quello che sembrava un inno, solenne e distante, e con molte voci. Lo conosceva: era un inno che il coro cantava nella casa delle riunioni, al villaggio. Il cantato cessò bruscamente e fu sostituito da un coro, non di voci umane, ma di tutti i suoni di quella desolazione notturna uniti in una spaventosa armonia. Goodman Brown gridò e il grido andò perso per le sue orecchie perché all'unisono con il grido del deserto. Nell'intervallo di silenzio, avanzò piano piano fino a quando non fu investito in pieno dalla luce. A una estremità di uno spazio aperto, racchiusa dal muro nero della foresta, si ergeva una roccia, rozzamente somigliante a un altare o a un pulpito; c'erano quattro pini attorno a quella, con le cime in fiamme, ma soltanto le cime, come candele a una riunione serale. Il fogliame che si protendeva sopra la cima della roccia era anch'esso in fiamme, fiamme che si levavano alte nella notte e illuminavano tutto il campo: rami e festoni di foglie ardevano. Al rosso chiarore che si levava e s'abbassava, una numerosa congregazione veniva illuminata e poi si compriva nell'ombra, veniva illuminata, più numerosa, e scompariva nuovamente nell'ombra, e s'alternava, ed era come se, uscendo dalle tenebre, venisse a popolare il cuore della foresta solitaria. «Una solenne e scura compagnia» disse Goodman Brown. In verità, scuri e solenni erano. Tra di loro, ora comparendo ora scomparendo, tra buio e splendore, c'erano facce che lui avrebbe visto il giorno dopo al consiglio della provincia, e altre che, Sabbath dopo Sabbath, avevano dato prova di devozione, benignamente affollando i banchi, provenienti dai più santi pulpiti della terra. Qualcuno sostenne poi che ci fosse anche la signora del governatore. C'erano sicuramente alte dame ben note, e mogli di onorati mariti, e vedove, una grande moltitudine, e vecchie balie, tutte di eccellente reputazione, e leggiadre fanciulle, le quali tremavano al pensiero che le loro madri potessero spiarle. Forse Goodman Brown si sbagliava perché abbagliato dalla luce, eppure lì c'era il cuore dei membri della chiesa di Salem, villaggio famoso per la comunitaria santità. Il buon vecchio diacono Gookin era arrivato e aspettava dietro alle sottane del mi-
nistro: quel venerabile santo, il suo reverendo pastore. Ma, irriverentemente associati a quelle serie e pie persone, a quegli anziani della chiesa, a quelle caste dame e rugiadose vergini, c'erano uomini dalle vite dissolute e donne di macchiata fama, miserabili dediti a ogni meschino e sporco vizio, e sospettati perfino di orridi crimini. Era strano vedere come il buono non si ritraesse dal malvagio, come i peccatori non si vergognassero davanti ai santi. Sparsi tra i loro nemici dal viso pallido, c'erano anche i preti indiani, i powwows, i quali avevano spesso spaventato i nativi della foresta con incantesimi più odiosi di quelli di qualsiasi stregone inglese conosciuto. «Ma dov'è Faith?» pensò Goodman Brown; e, quando la speranza gli entrò nel cuore, ebbe un tremito. Si levò un'altra strofa dell'inno, una lenta e triste canzone, come d'amore, ma con parole che esprimevano tutto quello che la natura può concepire in termini di peccato e anche di più. Incommensurabile è per i semplici mortali il richiamo dei demoni. Furono cantate strofe dopo strofe; e tuttavia il coro del deserto soffiava come la più profonda musica di un possente organo; e con lo scampanio finale di quella spaventosa antifona ci fu un suono, come un ruggito del vento, di fiumi precipitosi, di bestie ululanti e di ogni altra cosa di quella discorde desolazione messi insieme e mischiati e accordati con la voce dell'uomo colpevole in omaggio al nero principe di tutto. I quattro pini fiammeggianti lanciarono fiamme più alte e oscuramente svelarono forme e visi di orrore sulle nuvole di fumo addensate sull'empia assemblea. Nello stesso momento, il fuoco sulla roccia saettò in avanti e formò un arco splendente alla sua base, dove adesso era apparsa una figura. Con reverenza parlando, la figura non aveva la benché minima similitudine, sia nel garbo sia nelle maniere, a nessuna delle solenni divinità delle chiese del New England. «Siano condotti i convertiti!» gridò una voce che echeggiò nella radura e si perse nella foresta. A quell'ordine, Goodman Brown si fece avanti dalle ombre degli alberi e si avvicinò alla congregazione, con la quale sentiva una disgustosa fratellanza per quanto di malvagio era nel suo cuore. Avrebbe potuto giurare solennemente che la forma di suo padre morto lo stesse incitando ad avanzare, guardando giù da una nuvola di fumo, mentre un donna, con i lineamenti adombrati dalla disperazione, gli facesse segno con la mano di tornare indietro. Sua madre? Ma lui non ebbe la forza di tornare sui suoi passi, né di resistere, nemmeno col pensiero, quando il ministro e il buon vecchio diacono Gookin lo presero per le braccia e lo condussero alla roccia
infuocata. Lì si avvicinò anche l'esile forma di una femmina velata, condotta da Goody Cloyse, la pia insegnante di catechismo, e Martha Carrier, la quale aveva ricevuto dal diavolo la promessa di diventare regina dell'inferno. Era una strega rampante. E sotto il baldacchino di fuoco i proseliti si fermarono. «Benvenuti, figli miei» disse la figura scura «alla comunione della vostra specie. Avete trovato qui la vostra natura e il vostro destino. Figli miei, guardate dietro di voi!» I proseliti si voltarono dietro di loro; come ondeggiando in un lenzuolo di fiamma, c'erano gli adoratori del diavolo; ogni yiso esternava ai proseliti il suo cupo sorriso di benvenuto. «Quelli» riprese la forma nera «sono tutti coloro che avete riverito da giovani. Li ritenete più santi di voi stessi, e vi ritraete dai vostri peccati in quanto contrastano con le loro vite di rettitudine e di aspirazioni celesti. E tuttavia sono nella mia assemblea. Questa notte vi sarà concesso di conoscere i loro segreti. Saprete di vecchi di chiesa dalla barba bianca che hanno bisbigliato parole lussuriose a giovani donne nelle loro case; di donne, vedove in gramaglie, che, all'ora di andare a letto, hanno dato ai mariti delle bevande che hanno fatto dormire loro l'ultimo sonno; di giovani imberbi che hanno avuto fretta di ereditare la ricchezza dei padri; di innocenti fanciulle... non arrossite, piccole mie... che hanno scavato piccole tombe nel giardino e mi hanno invitato, unico ospite, al funerale di un infante. Per la tendenza dei vostri cuori umani verso il peccato, scoprirete tutti i luoghi... dove è stato commesso un crimine, ed esulterete nel vedere la terra ridotta a uno stagno di colpa, un'enorme macchia di sangue. Di più. Avrete la facoltà di far entrare, in ogni cuore, il profondo mistero del peccato, la sorgente di tutte le arti perverse. E adesso, figli miei, guardatevi l'un l'altro.» I proseliti lo fecero, e al riverbero delle torce infernali, Goodman Brown vide Faith, e Faith vide l'adorato marito, tremanti davanti a quel sacrilego altare. «Vedete, figli miei» disse la figura, con un tono solenne, quasi triste nella sua disperata maestosità, come se l'angelica natura di un tempo potesse ancora piangere per l'umana miserabile specie. «Dipendendo dai vostri reciproci cuori, voi nutrivate ancora la speranza che la virtù non fosse soltanto un sogno. Adesso siete disillusi. Il male è la natura dell'umanità. Il male dev'essere la vostra unica felicità. Benvenuti di nuovo, figli miei, alla comunione della vostra razza.» «Benvenuti» ripeterono gli adoratori, in un unico grido disperato di
trionfo. Ed essi rimasero lì, gli unici due, a quanto sembrava, che ancora esitassero, a questo mondo, sull'orlo della malvagità. Venne portata una bacinella, naturalmente di pietra. Conteneva forse acqua, arrossata da quella luce spettrale? O era sangue? O, forse, una fiamma liquida? Lì dentro l'essenza del male, il principe della dannazione, immerse la mano e si preparò a deporre il segno di battesimo sulle loro fronti: che divenissero al fine partecipi del mistero del peccato, consci delle segrete colpe altrui, discepoli compiuti sia nelle azioni sia nella mente, uniti nel male e dal male posseduti. Il marito lanciò un'occhiata alla sua pallida moglie, e Faith a lui. Quali contaminati miserabili il loro sguardo a venire li avrebbe rivelati l'uno all'altro, e come e quanto orribilmente simili a ciò che avevano scoperto e vedevano! «Faith! Faith!» gridò Goodman Brown, «appellati al cielo e resisti al malvagio.» Che Faith l'avesse subito e obbedito lui non poté saperlo. Non appena ebbe parlato, si ritrovò nella notte calma e solitaria, ad ascoltare il ruggito del vento che si disperdeva nella foresta. Barcollò verso la roccia e la sentì fredda e umida; mentre un ramo, che era stato in fiamme, gli lasciava sulla guancia una traccia di gelido umore. Il mattino seguente, il giovane Goodman Brown ricomparve lentamente nella strada del villaggio di Salem, guardandosi attorno come un uomo stralunato. Come sempre, il buon vecchio ministro percorreva i suoi passi lungo il cimitero per farsi venire l'appetito di colazione e per studiare il suo sermone, e, come sempre, fece dono della sua santa benedizione, mentre passava, a Goodman Brown. Questi si ritrasse dal venerabile uomo come per evitare un anatema. Il vecchio diacono Gookin era intento alle domestiche orazioni, e le sante parole della sua preghiera erano udibili dalla finestra aperta. «Che cosa ne viene a Dio dalla preghiera di uno stregone?» pensò Goodman Brown. Goody Cloyse, quell'ottima vecchia cristiana, era alla sua finestra, al primo sole, e catechizzava una ragazzina che le aveva portato una pinta di latte mattutino. Goodman Brown le strappò via la bambina come dalla morsa del diavolo in persona. Svoltando l'angolo della casa delle riunioni, vide la testa di Faith, con i nastrini rosa, che spiava il suo arrivo ansiosamente, e dava in aperta gioia nel vederlo in strada e quasi lo baciò davanti all'intero villaggio. Ma Goodman Brown fissò severamente e tristemente il suo viso e continuò senza un saluto. Goodman Brown si era forse addormentato nella foresta e aveva soltanto
sognato quella selvaggia adunata di streghe e stregoni? Sia come volete; ma, ahimé, era stato un sogno di cattivi presagi per il giovane Goodman Brown. Dalla notte di quel sogno spaventoso, divenne un uomo severo, triste, cupo, sospettoso se non disperato. Il giorno del Sabbath, mentre la congregazione cantava un salmo santo, non riusciva ad ascoltare perché un'antifona peccaminosa si sovrapponeva a quel canto, nelle sue orecchie, e lo disperdeva. Quando il ministro parlava dal pulpito con forte e fervida eloquenza, con la mano aperta sulla Bibbia, delle sacre verità della nostra religione, e di vite sante e di morti trionfanti, e d'inevitabili benedizione o miserie future, allora Goodman Brown impallidiva, quasi temendo che il tetto sprofondasse su quel grigio blasfemo e i suoi ascoltatori. Spesso, svegliandosi improvvisamente di notte, si ritraeva dal seno di Faith; e al mattino o alla sera, quando la famiglia s'inginocchiava a pregare, lui aggrottava le sopracciglia, e guardava severamente sua moglie, e si scostava. E quando, dopo essere vissuto a lungo, fu condotto alla tomba, seguito dalla moglie, donna avanti negli anni, e da figli e nipoti, una pia processione, fatta anche da non pochi vicini, non scrissero parole di speranza sulla sua tomba, perché buia era stata l'ora della sua morte. Titolo originale: Young Goodman Brown Traduzione: Grazia Alineri J. Sheridan Le Fanu Il signor giudice di giustizia Harbottle Le Fanu e Poe furono, secondo Jack Sullivan «i primi scrittori di racconti di lingua inglese a elaborare strategie di horror accuratamente progettate dal punto di vista estetico. Furono anche tra i primi scrittori moderni di racconti. La loro abituale e ferrea attenzione all'armonia dello stato d'animo e all'economia di mezzi è una qualità che diamo per scontata nella short fiction del giorno d'oggi, ma era virtualmente sconosciuta ai loro contemporanei più didatticamente inclini» (Horror Literature, pp. 221-222). Sullivan continua e sostiene che «Le Fanu fu più rivoluzionano di Poe, perché fu lui a cominciare con lo smantellamento dei costumi gotici e a introdurre il racconto soprannaturale nelle cose di tutti i giorni.». M.R. James e la sua progenie derivano da Le Fanu, e James stesso lo considerò il più grande degli scrittori di ghost story. Ma ai suoi tempi non ottenne un successo popolare degno di nota; i suoi libri sono tra i più rari
tra la letteratura del diciannovesimo secolo. I suoi capolavori comprendono Camilla, Green Tea, The Room in the Dragon Volant, e altri tra i quali Il signor giudice di giustizia Harbottle, presentato qui. Sia Poe che Le Fanu offrirono studi della psiche umana in circostanze anormali, questa fu una caratteristica delle loro storie; ma in Le Fanu, indiscutibilmente c'è maggiore spazio per l'elemento del soprannaturale. PROLOGO Su questo caso, il dottor Hasselius non ha scritto altro che le parole Rapporto Harman e un semplice riferimento al proprio straordinario saggio su Senso interiore e conseguenti condizioni dell'apertura. Il riferimento è al Volume I, sezione 317, nota Za. La nota alla quale viene fatto il riferimento dice semplicemente: «Ci sono due resoconti sul rimarchevole caso dell'Onorevole Signor Giudice di Giustizia Harbottle, uno fornitomi dalla signora Trimmer, di Tunbridge Wells (Giugno 1805); l'altro, parecchio tempo dopo, dall'egregio signor Anthony Harman. Io preferisco di gran lunga il primo; in primo luogo, perché è minuzioso e ricco di particolari, e scritto, mi sembra, con maggiore cautela e conoscenza; e poi perché le lettere del dottor Hedstone, allegate al rapporto, forniscono materiale di alto valore per una esatta comprensione della natura del caso. Fu uno dei più espliciti esempi di apertura del senso interiore in cui mi sia mai imbattuto. Non mancava l'elemento fenomenico spesso presente in accadimenti similari quasi fosse una legge insita in quelle originali condizioni; il che equivale a dire che manifestò ciò che posso definire come il carattere contagioso di questa specie d'intrusione del mondo spirituale nel merito specifico del caso. Non appena lo spirito-azione si è stabilito nel corpo di un paziente, sviluppa un'energia che si irradia, più o meno efficacemente, sugli altri. Fu aperta la visione interiore del bambino; come lo fu anche quella di sua madre, la signora Pyneweck; e, nella stessa occasione, furono aperti visione interiore e udito della sguattera. Apparizioni successive sono il risultato della legge spiegata nel Volume II, dalla sezione 17 alla 49. Il comune centro di associazione, richiamato simultaneamente, si unisce, o si riunisce, a seconda del caso, per un determinato periodo, come vediamo nella sezione 37. Il maximum sarà di giorni, il minimum poco più di un secondo. Osserviamo l'operato di questo principio perfettamente spiegato in certi casi di pazzia, di epilessia, di catalessi e di mania di un particolare e penoso soggetto, sebbene non affetto da incapacità di profes-
sione.» Il resoconto del caso del giudice Harbottle, scritto dalla signora Trimmel, di Tunbridge Wells, che il dottor Hesselius ritenne migliore dei due, non sono riuscito a trovarlo tra le sue carte. Ho trovato però nel suo scrittoio una nota con la quale diceva di avere prestato il Rapporto sul Caso del Giudice Harbottle, quello scritto dalla signora Trimmer, al dottor F. Heyne. Ho scritto di conseguenza a quel dotto e capace gentiluomo e da lui ho ricevuto, come risposta, piena di allarmi e di rincrescimenti, a causa dell'incerto affidamento di quel «prezioso manoscritto», una lettera inviatagli tempo prima dal dottor Hesselius, che lo esonerava completamente, in quanto confermava l'avvenuto ricevimento di ritorno dei documenti. Il fatto narrato dal signor Harman, è quindi l'unico disponibile per questa collezione. Il defunto dottor Hesselius, in un altro passaggio della nota che ho citato, dice: «Quanto ai fatti (non medici) del caso, la narrazione del signor Harman coincide esattamente con quella fornita dalla signora Trimmer». Il punto di vista strettamente scientifico del caso non interesserebbe granché il lettore popolare; e, possibilmente, allo scopo di questa selezione, anche se avessi potuto disporre di entrambe le documentazioni, avrei preferito quella del signor Harman, che è data, pienamente, nelle pagine seguenti. LA CASA DEL GIUDICE Trent'anni fa, un uomo piuttosto avanti con gli anni al quale pagavo trimestralmente una piccola rendita annuale per una mia certa proprietà, venne il giorno della scadenza a riceverla. Era un uomo asciutto, triste, tranquillo, che aveva conosciuto tempi migliori e aveva sempre mantenuto un comportamento ineccepibile. Non si potrebbe quindi immaginare qualcuno meglio di lui per una storia di fantasmi. Me ne raccontò una, sebbene con una manifesta riluttanza; finì la narrazione col volermi spiegare quanto io non avevo rilevato... e cioè che era venuto due giorni prima della settimana successiva al pagamento, una scadenza che non di rado lui lasciava trascorrere. E la ragione stava nell'improvvisa decisione di volere cambiare casa e della conseguente necessità di pagare l'affitto un po' prima del dovuto. Abitava in una buia via di Westminster, in una spaziosa vecchia casa, molto calda, essendo rivestita di pannelli di legno da cima a fondo e fornita di un numero perfino eccessivo di finestre, fatte di pesanti telai scorrevoli e vetri piccoli.
Quella casa era, come diceva un annuncio posto sulle finestre, messa in vendita o data in vendita o data in affitto, ma nessuno sembrava degnarla di un'occhiata. Se ne occupava una magra signora, vestita di nero, molto taciturna — con grandi occhi sempre allarmati che sembravano guardarti in faccia per leggere cosa potevi avere pensato delle stanze buie e dei corridoi per i quali eri passato — con una solitaria cameriera «tuttofare» ai suoi ordini. Il mio povero amico era andato ad abitare in quella casa per via del fatto che era straordinariamente a buon mercato. Ci stava da quasi un anno senza il benché minimo disturbo e ne era l'unico affittuario. Occupava due stanze: un salotto e una camera da letto con un armadio a muro nel quale aveva riposto i suoi libri e le sue carte. Chiudeva sempre a chiave quell'armadio e chiudeva anche la porta della camera da letto quando si coricava. Non riusciva a dormire subito perché solitamente leggeva al lume di candela e poi, dopo un po', metteva da parte il libro. Una sera, poco dopo che il vecchio orologio in cima alle scale aveva battuto l'una, allarmato, aveva visto la porta dell'armadio a muro aprirsi, quando pensava di averla chiusa a chiave, e venirne fuori in punta di piedi un uomo un po' scuro, sinistro, sulla cinquantina, vestito all'antica. Era seguito da un uomo più vecchio, vigoroso, macchiato di scorbuto, e i cui lineamenti, rigidi come quelli di un cadavere, sembravano impressi con spaventosa forza e avevano un carattere di sensualità e villania. Questo vecchio signore indossava una vestaglia di seta a fiori e polsini, e aveva un vistoso anello d'oro al dito, e in testa un berretto di velluto, di quelli che, ai tempi delle parrucche, i gentiluomini si mettevano quando erano svestiti. Nella mano con l'anello stringeva una corda. I due avevano attraversato diagonalmente la stanza passando ai piedi del letto, dalla porta dell'armadio a sinistra vicino alla finestra, a quella della stanza che s'apriva nell'ingresso, vicino alla testiera del letto, a destra. Non cercò di descrivermi le sensazioni che aveva provato nel vedere quelle figure passargli accanto. Disse soltanto che, se non pensava di dormire di nuovo in quella stanza, non ci sarebbe stata spiegazione al mondo in grado di convincerlo a neppure entravi, perfino di giorno. Il mattino dopo, aveva trovato entrambe le porte, quella dell'armadio a muro e quella d'entrata nella stanza, chiuse come le aveva lasciate prima di andare a letto. In risposta a una delle mie domande, disse che i due non erano sembrati neppure accorgersi della sua presenza. Non fluttuavano, camminavano
come esseri viventi, ma senza far rumore. Aveva sentito soltanto una vibrazione del pavimento quando lo avevano attraversato. Lo vidi così recalcitrante a parlarmi ancora delle apparizioni che non gli chiesi altro. C'erano state comunque nella sua descrizione delle coincidenze così singolari da indurmi seduta stante a scrivere a un amico più vecchio di me, che viveva in quel momento in una remota regione dell'Inghilterra, per avere informazioni che sapevo avrebbe potuto darmi. Era stato lui stesso più di una volta a indicarmi quella vecchia casa e a raccontarmi, sebbene brevemente, la strana storia che io adesso gli chiedevo di raccontarmi con maggiori dettagli. La sua risposta mi soddisfece; e le pagine che seguono ne portano la sostanza. La tua lettera (scrisse) mi dice del tuo desiderio di avere particolari sugli ultimi anni di vita del Signor Giudice di Giustizia Harbottle, uno dei giudici del Tribunale dei Ricorsi Comuni. Ti riferisci, naturalmente, agli straordinari avvenimenti che, molto tempo dopo, resero quel periodo della sua vita oggetto per racconti d'inverno e speculazioni metafisiche. Si da il caso che io sappia più di qualsiasi altro uomo vivente di quei misteriosi particolari. L'ultima volta che ho visto quella vecchia casa di famiglia è stato più di trent'anni fa, in occasione di un mio ritorno a Londra. Durante gli anni che sono trascorsi da allora, ho sentito dire che sono state fatte meraviglie nel quartiere di Westminster, dove la casa si trovava, con miglioramenti, demolizioni... Anche se fossi certo che la casa sia stata abbattuta, non avrei alcuna difficoltà a dire il nome della strada in cui si trovava. Quanto a quello che ho da dirti, non è probabile che migliori il suo valore corrente e, anche se non m'importerebbe d'incorrere in qualche fastidio, preferisco stare zitto su questo punto in particolare. Quanto fosse vecchia, non saprei. Si dice che sia stata costruita da Roger Harbottle, un mercante turco, durante il regno di re Giacomo I. Non sono molto bravo in simili questioni, ma essendo stato lì dentro, nonostante lo stato d'abbandono in cui si trovava, posso dirti in via generale come fosse fatta. Era costruita di mattoni rosso scuro e porta e finestre s'aprivano su una facciata di pietra che, col tempo, era diventata gialla. Era leggermente arretrata dalla strada rispetto alle altre case e aveva una bella balaustra di ferro ai lati di ampie scale che invitavano a salire fino alla porta d'ingresso, nella quale erano fissate, sotto una fila di lampade e tra decorazioni varie, due grandi spegnitori, simili ai coni delle fate, nei quali, ai vecchi tempi, i
cocchieri usavano ficcare le fiaccole per spegnerle quando le sedie o le carrozze avevano deposto i loro grandi passeggeri, negli ingressi o sui gradini, a seconda del caso. L'ingresso della nostra casa è ricoperto di pannelli di legno fino al soffitto, e ha un largo camino. Due o tre grandi stanze si aprono su ciascun lato. Le finestre di queste stanze sono alte, con molti piccoli vetri. Passando sotto l'arcata in fondo all'ingresso, si arriva davanti a un ampio scalone. C'è anche una scala posteriore. La casa è grande e non ha molta luce in proporzione alle sue dimensioni, come le case moderne. Quando la vidi, era da lungo tempo disabitata e aveva la fosca reputazione d'essere visitata dagli spiriti. Ragnatele pendevano dai soffitti o ricoprivano gli angoli delle cornici, e ogni cosa giaceva sotto una spessa coltre di polvere. Le finestre erano macchiate della polvere e della pioggia di cinquant'anni, e questo accentuava l'oscurità. Quando la visitai la prima volta, nel 1808, ero con mio padre ed ero ancora un ragazzo. Avevo dodici anni all'incirca e la mia immaginazione era piuttosto influenzabile, come solitamente è a quell'età. Mi guardavo attorno con grande timore. Ero proprio lì, al centro della scena di fatti che avevo sentito raccontare a casa, davanti al camino, con deliziato orrore. Mio padre era un vecchio scapolo di quasi sessant'anni quando si sposò. Da ragazzo, aveva visto il giudice Harbottle sul banco in toga e parrucca almeno una dozzina di volte prima della sua morte, avvenuta nel 1748, e il suo aspetto aveva fatto una grandissima quanto spiacevole impressione, non solo sulla sua immaginazione ma anche sui suoi nervi. Il giudice aveva a quel tempo qualcosa come sessantasette anni. Aveva un viso chiazzato, un grosso naso color rubino, occhi fieri e una bocca brutale e sogghignante. Mio padre, che a quei tempi era giovane, pensava che fosse il più formidabile viso che avesse mai visto, erano visibili tracce di forza intellettuale nella forma e nelle linee della sua fronte. La voce era forte e aspra, e produceva l'effetto del sarcasmo, un sarcasmo che, sul banco, era la sua arma abituale. Quel vecchio gentiluomo aveva reputazione d'essere l'uomo più feroce d'Inghilterra, o quasi. Perfino sul banco, mostrava di tanto in tanto lo sprezzo che provava per l'opinione altrui. Aveva risolto casi a modo suo, si diceva, nonostante consigli, autorità e perfino giurie, adulando, usando violenza, turlupinando, confondendo o prevaricando qualsiasi resistenza. Non si era mai compromesso. Era troppo furbo per farlo. Aveva comunque fama di essere un giudice pericoloso e privo di scrupoli. Ma quella fama non lo infastidiva. I compagni che si sceglieva per le sue ore di libertà,
d'altra parte, se ne infastidivano quanto lui... cioè, nulla. IL SIGNOR PETERS Una sera della sessione del 1746, questo vecchio giudice si assise sulla sedia per aspettare, in una delle stanze della Camera dei Lord, i risultati di una votazione alla quale lui e il suo ordine erano interessati. Quando la cosa ebbe termine, si accinse a tornare a casa, lì vicino, con la sua sedia; ma la sera era così dolce e bella che cambiò idea. Mandò la sedia a casa, vuota, scortata da due valletti, ciascuno con una torcia. Lui, il giudice, preferì fare due passi a piedi. La gotta lo aveva reso lento nei movimenti, perciò ci mise qualche tempo a percorrere le due o tre strade che portavano a casa sua. In una di quelle stradine dalle case altissime, perfettamente silenziosa a quell'ora, incontrò un vecchio gentiluomo dall'aspetto molto singolare che camminava lentamente come lui. Indossava un soprabito verde bottiglia con cappa annessa e grandi bottoni di pietra, e portava un cappello dalla tesa larga, ma con la corona bassa dalla quale sfuggiva una grossa parrucca incipriata; era molto curvo e si sosteneva a un bastone con il manico, e trascinava penosamente i piedi. «Vi chiedo perdono, signore» disse, con una voce assai flebile e quando il robusto giudice gli fu arrivato davanti allungò la mano verso il suo braccio. Il signor giudice di giustizia Harbottle vide che l'uomo era ben lungi dall'essere poveramente vestito e che i suoi modi erano da gentiluomo. Si arrestò di botto e disse, con la sua voce aspra e perentoria: «Ebbene signore, come posso servirvi?» «Potete indirizzarmi verso la casa del giudice Harbottle? Ho certe comunicazioni importanti da fargli.» «Potete farle davanti a testimoni?» domandò il giudice. «Oh no. Quello che ho da dirgli deve arrivare soltanto alle sue orecchie» si affrettò a precisare il vecchio. «Quand'è così, signore, non dovete fare altro che accompagnarmi per pochi passi, raggiungere la mia casa e ottenere udienza privata; perché io sono il giudice Harbottle.» A quell'invito, il cagionevole gentiluomo con la parrucca bianca aderì prontamente; e un minuto dopo si trovava in quello che a quei tempi si chiamava salotto principale della casa del giudice, tête-à-tête con quell'a-
stuto e pericoloso funzionario. Lo sconosciuto dovette sedersi, essendo piuttosto stanco, e non gli fu possibile parlare se non dopo qualche colpo di tosse e qualche rantolo, e così trascorsero due o tre minuti durante i quali il giudice si tolse il mantello, lo depositò sul bracciolo di una poltrona e vi lanciò sopra il suo cappello tricorno. Il venerando pedone con la parrucca bianca recuperò in fretta la voce e, con le porte chiuse, rimasero insieme per qualche tempo. C'erano degli ospiti che aspettavano nelle sale da ricevimento, e i suoni di voci maschili che ridevano e di una voce femminile che cantava a un clavicembalo si sentivano distintamente in cima allo scalone; poiché era stato il giudice Harbottle a organizzare quella festa, poteva essere che quella sera avesse anche deciso di fare rizzare i capelli sulle teste di uomini molto devoti. Quel vecchio gentiluomo con la parrucca bianca incipriata, curvo sotto le sue spalle cadenti, doveva avere avuto qualcosa di molto interessante da dire al giudice; altrimenti non se ne sarebbe andato senza problemi dopo i dieci minuti o poco più che era durato il loro incontro, minuti rubati a una delle festicciole che deliziavano tanto il giudice e durante le quali lui era il re, e per certi aspetti anche il tiranno, della sua compagnia. Il valletto che accompagnò fuori il vecchio gentiluomo osservò che il viso a chiazze del giùdice, naso e tutto il resto si erano schiariti fino ad assumere un colorito giallastro, e che c'era un'astrazione di agitati pensieri nei suoi modi quando augurò la buonanotte allo straniero. Il servitore aveva intuito che la conversazione si era svolta su contenuti molto seri e che il giudice era impaurito. Invece di salire di sopra ansioso di raggiungere i suoi scandalosi divertimenti, la sua profana compagnia e la sua grande coppa cinese piena di punch... la stessa con la quale un defunto arcivescovo di Londra, un uomo alla buona, aveva battezzato il nonno del giudice, e che adesso risuonava dei colpi che mestoli d'argento le davano prima d'immergersi nel punch... invece, dicevo, di precipitarsi di sopra, nella caverna del suo Circeo incantesimo, rimase con il grosso naso appiattito contro il vetro della finestra, a osservare i progressi che il vecchio e debole gentiluomo faceva, tenendosi aggrappato alla balaustra per scendere a uno a uno i gradini di strada. La porta d'ingresso si era appena chiusa che il vecchio giudice tornò nell'ingresso e cominciò a latrare ordini con gli stimolanti espletivi nei quali un vecchio colonnello eccitato può indulgere di tanto in tanto al giorno
d'oggi: un paio di energici colpi dati al pavimento con il suo grosso piede, e un agitare nell'aria del pugno chiuso. Ordinò che un valletto andasse a raggiungere il vecchio gentiluomo con la parrucca bianca, gli offrisse la sua protezione fino a casa e tornasse soltanto dopo avere scoperto dove abitava e chi fosse e quant'altro avesse potuto scoprire. «Per... messere!» ordinò il giudice. «Se mi deludi, dormirai fuori dalla valletteria, questa notte!» Il valletto partì con il suo pesante bastone sotto il braccio, volò per i gradini e perlustrò la strada, aspettandosi di vedere la singolare figura, così facile da riconoscere. Quali furono le sue avventure non starò a dirtele. Il vecchio, durante il colloquio per il quale era stato ammesso nella grande stanza con i pannelli di legno, aveva raccontato al giudice una strana storia. Forse era un cospiratore, forse era pazzo; o forse tutta la sua storia era assolutamente vera. Il vecchio gentiluomo con il soprabito verde bottiglia, trovandosi solo con il signor Justice Harbottle, si era agitato molto. Disse: «C'è, forse voi non lo sapete, milord, un prigioniero nella prigione di Shrewsbury, accusato di avere falsificato una banconota da centoventi sterline, e il suo nome è Lewis Pyneweck, un droghiere di quella città. «C'è?» disse il giudice, il quale sapeva bene che c'era. «Sì, milord» confermò il vecchio. «Allora è meglio che non diciate nulla che riguardi questo caso. Se lo fate, per... vi coinvolgo!» proruppe il giudice, con il suo terribile sguardo e tono. «Non farò niente del genere. Ma un fatto è venuto a mia conoscenza ed è giusto che voi lo prendiate in considerazione.» «E quale può essere questo fatto?» domandò il giudice. «Ho fretta, signore, e vi prego di sbrigarvi». «Sono venuto a conoscenza, milord, che è in formazione un tribunale segreto con lo scopo d'indagare sulla condotta dei giudici; e, per primo, sulla vostra condotta, milord: è una malvagia cospirazione. «E chi ne farebbe parte» chiese il giudice. «Non conosco ancora i nomi. Conosco però il fatto, milord: è assolutamente certo. «Vi porterò davanti al Consiglio Privato, signore» disse il giudice. «È ciò che io più desidero; ma non prima di un giorno o due, milord». «E perché?»
«Non conosco neppure un nome, come ho detto a vostra signoria; ma entro due o tre giorni mi aspetto di avere una lista degli uomini più in vista, e qualche altro documento connesso con il complotto. «Prima avete detto di uno o due giorni» sollecitò il giudice, interessato. «Più o meno, milord». «Si tratta, forse di un complotto giacobita?» «In linea di massima penso di sì, milord». «Allora è una questione politica. Non ho processato prigionieri di stato, né sono in procinto di processarne. Come c'entra tutto questo con me?» «Da quanto ho potuto capire, milord, nel complotto ci sarebbero persone che desiderano vendicarsi privatamente su certi giudici». «Come si fanno chiamare?» «Alta Corte d'Appello, milord». «E voi chi siete, signore? Come vi chiamate?» «Hugh Peters, milord» «È un nome Whig?» «Sì, milord». «Dove alloggiate, signor Peters?» «In Thames Street, milord, proprio di fronte all'insegna dei Tre Re». «Tre Re? Fate attenzione che non siano troppi per voi, signor Peters! E, ditemi: com'è possibile che a voi, un onesto Whig come dite, capiti di essere a conoscenza di un complotto giacobita? Rispondetemi». «Milord, un uomo verso il quale ho un certo interesse è stato indotto a farvi parte; ed essendosi impaurito per l'inaspettata malvagità dei loro piani, si è deciso a diventare informatore della Corona». «Ha deciso da uomo saggio, signore. Che cosa dice di quelle persone? Chi sono quelli del complotto? Non li conosce?» «Ne conosce soltanto due, milord; ma tra pochi giorni sarà presentato agli altri e allora avrà una lista completa e più esatte informazioni sui loro piani, e soprattutto sui loro pronunciamenti, sulle ore e sui luoghi delle riunioni, cose di cui vuole avere conoscenza prima che gli altri possano sospettare di lui. E con quelle informazioni, milord a chi pensate che debba rivolgersi l'uomo in questione? «Al procuratole generale del Re, naturalmente. Ma dite che tutto questo riguarda me, in particolare, signore? E questo prigioniero, questo Lewis Pyneweck? È forse di loro?» «Non saprei dirlo, milord; ma, per una qualche ragione, ho pensato che vostra signoria sarebbe ben consigliata se non lo processasse. Se lo farete,
temo che la cosa potrebbe accorciare i vostri giorni.» «Per quello che posso capire, signor Peters, questa faccenda puzza di sangue e di tradimento. Il procuratore generale del Re saprà come trattare la cosa. Quando vi rivedrò, signore?» «Se me ne date il permesso, signore, prima che il tribunale di vostra signoria si riunisca, o subito dopo, domani. Mi piacerebbe venire da voi e dirvi che cosa è accaduto.» «Fatelo, signor Peters. Alle nove di domani mattina. E vedete di non giocarmi qualche scherzo signore. Se mai ci provaste, per..., signore, vi appenderei per i calcagni! «Non dovete temere scherzi da parte mia, milord; non avessi avuto il desiderio di servirvi, e acquietare la mia coscienza, non avrei fatto tutta questa strada per parlare con vostra signoria. «Voglio credervi, signor Peters; voglio credervi». E con questo, si accommiatarono. «O si è dipinto la faccia, oppure è gravemente ammalato» pensò il vecchio giudice riflettendo sul colorito dello sconosciuto visitatore. La luce aveva avuto un effetto maggiore sui suoi lineamenti quando, con un leggero inchino, si era voltato per andarsene, e quei lineamenti, rifletté, erano sembrati innaturalmente terrei. «Accidenti a lui!» disse, poco graziosamente, il giudice e cominciò a salire di sopra. «Ha quasi rovinato la mia cena». Se il vecchio gentiluomo gliel'avesse davvero rovinata, soltanto il giudice potrebbe dirlo, ma stando alle apparenze non fu proprio così. LEWIS PYNEWECK Nel frattempo, il valletto mandato all'inseguimento del signor Peters lo aveva rapidamente raggiunto. Il vecchio si fermò quando udì i passi dell'inseguitore, ma ogni allarme che poteva avere attraversato la sua mente scomparve quando riconobbe la livrea. Fu molto lieto di accettare l'assistenza e mise il tremulo braccio sotto quello del servitore per avere supporto. Non avevano fatto molta strada, comunque, che il vecchio si fermò improvvisamente, dicendo: «Povero me! Come vivo! L'ho persa! L'avete sentita cadere? I miei occhi, temo, non mi servono e non sono in grado di abbassarmi; ma se voi date un'occhiata, riceverete la metà di quello che trovate. È una ghinea; la portavo nel guanto.» La strada era silenziosa e deserta. Il valletto si era appena accosciato e
aveva cominciato a cercare nel punto in cui il vecchio gli aveva indicato, che il signor Peters, il quale sembrava esausto e respirava con difficoltà, gli vibrò un violento colpo sulla testa, dall'alto, con il suo pesante bastone, e poi colpì di nuovo; e lasciandolo sanguinante e privo di sensi nella strada, corse come un lampo verso un viale sulla destra e scomparve. Quando, un'ora dopo, la guardia notturna ricondusse il valletto alla casa padronale, ancora intontito e coperto di sangue, il giudice Harbottle imprecò violentemente contro di lui, lo accusò di essersi ubriacato, lo minacciò di mandarlo in prigione per avere cercato di tradire il suo padrone, e arrivò perfino a prospettargli la strada che da Old Bailey portava a Tyburn, il carretto dei condannati, la corda del boia. Nonostante quella dimostrazione, il giudice era compiaciuto. Si era trattato di un falso confidente, o di un grassatore, non c'erano dubbi, che era stato assoldato per impaurirlo. Il trucco era stato svelato. Un'Alta Corte d'Appello, come quella che il falso Hugh Peters aveva indicato, con l'assassinio come pena da dispensare, sarebbe stata una disagevole istituzione per un giudice-corda come l'Onorevole Signor Giudice di Giustizia Harbottle. Quel feroce e sarcastico amministratore del codice criminale d'Inghilterra, a quel tempo un sistema giudiziario farisaico e sanguinoso, aveva delle ragioni sue per decidere di processare Lewis Pyneweck, per conto del quale l'audace trucco era stato ideato. E lo avrebbe processato. Nessun essere umano gli avrebbe tolto quel boccone di bocca. Di Lewis Pyneweck, naturalmente, come tutto il mondo avrebbe potuto vedere, lui non sapeva niente. Lo avrebbe processato secondo il suo metodo, senza paure, favori o influenze. Ma davvero non ricordava un uomo magro, vestito a lutto, nella cui casa, a Shrewsbury, il giudice era solito andare, fino a quando non c'era stato uno scandalo e non s'era saputo che maltrattava la moglie? Un droghiere dall'aria riservata, il passo leggero e un viso asciutto e scuro come mogano, con un naso appuntito e lungo, che gli dava un aspetto un po' perverso, e un paio di fermi occhi scuri sotto le sopracciglia nere e debolmente tracciate... un uomo le cui labbra sottili avevano sempre un sorrisetto spiacevole. Non aveva quel furfante un conto da saldare con il giudice? Non era stato turbolento di recente? E non si chiamava Lewis Pyneweck, un tempo droghiere a Shrewsbury e adesso prigioniero nella prigione di quella città? Il lettore può prenderlo, se vuole, come un segno che il giudice Harbottle fosse un buon cristiano, che non avesse rimorsi. Ciò era indubbiamente ve-
ro. Cionondimeno, aveva fatto a quel droghiere, falsario, come volete, qualcosa come cinque o sei anni prima, un grave torto; ma non era questo, quanto un possibile scandalo, e possibili complicazioni, a turbare il dotto giudice adesso. Non sapeva lui, come avvocato, che per portare un uomo dal suo negozio alla sbarra, dovevano esserci almeno novantanove probabilità su cento che fosse colpevole? Un uomo debole come il suo dotto fratello Withershins non era un giudice che potesse rendere sicure le strade e fare tremare il crimine. Il vecchio giudice Harbottle era l'uomo giusto per incutere terrore nel malintenzionato, e rinfrescare il mondo con docce di sangue malvagio, e quindi salvare gli innocenti, come diceva il proverbio antico che lui amava citare: La sciocca pietà Rovina una città Non poteva sbagliare se impiccava quel tale. L'occhio di un uomo abituato a guardare la gabbia degli imputati non poteva non leggere la parola furfante scritta a chiare lettere su un uomo. Sarebbe stato lui a processarlo, naturalmente, e nessun altro. Una donna dall'aspetto sfacciato, ancora bella, con una cuffia dai nastri azzurri, e una vestaglia a fiori tutta lacci e merletti, troppo elegante per essere una governante, anche se del giudice, e ciononostante lei lo era, mise la testa nello studio, il mattino seguente, e vedendo che il giudice era solo, entrò. «C'è un'altra sua lettera, arrivata con la posta di questa mattina. Non puoi fare nulla per lui?» disse, carezzevole, mettendogli un braccio dietro il collo, sfiorandogli con un dito delicato il lobo del suo purpureo orecchio. «Ci proverò» disse il giudice Harbotlle, senza sollevare gli occhi dal documento che stava leggendo. «Lo sapevo che avresti fatto quello che ti avevo chiesto» disse lei. Il giudice si portò il suo gottoso artiglio al cuore e fece un ironico inchino. «Che cosa farai?» domandò lei. «Lo impiccherò» rispose il giudice con una risatina. «Non dirai davvero! No, non lo farai, mio piccolo uomo» disse lei, guardandosi in uno specchio appeso alla parete. «Che io sia m... ma penso che tu ti stia infine innamorando di tuo mari-
to!» esclamò il giudice Harbottle. «Che io sia benedetta, ma penso che tu stia diventando geloso» replicò la signora con una risata. «Ma no, tranquillizzati: è sempre stato un tipaccio con me; ho chiuso con lui molto tempo fa.» «E lui con te, per Giorgio! Quando ha preso la tua fortuna, e la tua argenteria, e i tuoi orecchini, era quello che voleva. Ti ha cacciata di casa; e quando ha scoperto che ti eri sistemata, e ti eri fatta una buona situazione, ti avrebbe portato via tutto di nuovo, concedendoti un'altra mezza dozzina d'anni per preparargli un altro racconto per il suo mulino. Non puoi desiderare per lui alcun bene; e se lo dici, menti.» Lei rise, e fu la sua una risata sguaiata, perversa, e diede al terribile giudice un gioioso buffetto sulla guancia. «Vuole che gli mandi altro denaro per pagarsi un consigliere» disse, mentre lasciava vagare gli occhi sui quadri alle pareti e li riportava poi di nuovo allo specchio; e certamente non aveva un'aria turbata. «L'impudente malfattore» tuonò il giudice, lasciandosi cadere sulla sedia, come faceva sul banco quando era in furore, e le linee della sua bocca erano brutali, gli occhi pronti a balzare fuori dalle orbite. «Se rispondi alla sua lettera dalla mia casa, scriverai la prossima da quella di qualcun altro. Tu capisci, mia graziosa strega, che non voglio essere seccato. Andiamo, non mettere il muso, non è da te uggiolare. Non te ne importa nulla di quel mascalzone, corpo o anima. Non sei venuta qui per fare baccano. Sei una delle gallinelle di Mamma Carey; e qui c'è già tempesta. E adesso vattene, sgualdrina! Vattene!» ripeté, pestando il piede; perché un colpo alla porta rendeva necessario che lei se ne andasse immediatamente. Non ho bisogno di dire che il venerando Hugh Peters non ricomparve. Il giudice non lo nominò mai. Ma, stranamente, considerando come avesse riso della provocazione che aveva al primo insorgere, il ricordo del visitatore con la parrucca bianca e del colloquio avvenuto in salotto tornò spesso nella sua mente. Il suo occhio accorto gli disse che, truccati e mascherati come a teatro, i lineamenti di quell'uomo, il quale aveva così duramente malmenato il suo valletto, erano identici a quelli di Lewis Pyneweck. Il giudice Harbottle mandò il suo cancelliere dall'avvocato della corona per dirgli che c'era un uomo in città con una stupefacente rassomiglianza con un prigioniero di Shrewsbury di nome Lewis Pyneweck. Facesse quindi un'indagine per accertare che qualcun altro non stesse impersonando Pyneweck in prigione, o che quest'ultimo non avesse trovato il modo di
fuggire. Il prigioniero, comunque, fu confermato al sicuro e non emersero dubbi sulla sua identità. INTERRUZIONE IN TRIBUNALE A tempo debito, il giudice Harbottle fece il giro della circoscrizione; e a tempo debito i giudici furono a Shrewsbury. Le notizie viaggiavano lentamente in quei giorni, e i giornali, come i vagoni e le carrozze, si attaccavano facilmente. La signora Pyneweck, nella casa del giudice, con meno lavoro da fare... la maggior parte della servitù del giudice essendo partita con lui che aveva rinunciato ai cavalli e preferito la carrozza di stato... si sentiva piuttosto sola. Nonostante i diverbi, le reciproche offese... alcune delle quali, specie quelle arrecate da lei, enormi... una vita maritale litigiosa... una vita nella quale da anni non sembrava esserci amore o tolleranza... ora che Pyneweck era in grave pericolo qualcosa di simile al rimorso stava nascendo improvvisamente in lei. Sapeva che a Shrewsbury si sarebbero rappresentate le scene che avrebbero determinato il suo destino. Sapeva di non amarlo ma non aveva previsto, neppure la sera prima, che l'ora dell'attesa pesasse così tanto su di lei. Sapeva il giorno in cui si sarebbe celebrato il processo. Non riusciva a toglierselo dalla mente neppure per un minuto; e verso sera si sentiva svenire. Trascorsero due o tre giorni e poi si rese conto che il processo doveva essersi già celebrato. C'erano state delle inondazioni tra Londra e Shrewsbury e le notizie tardavano. Si augurò che le inondazioni durassero per sempre. Era spaventoso aspettare di sapere; spaventoso sapere che l'evento s'era compiuto e che non ne avrebbe sentito nulla fino a quando i fiumi non si fossero ritirati; spaventoso sapere che prima o poi si sarebbero ritirati e le notizie sarebbero infine arrivate. Aveva poca fiducia nella bontà di cuore del giudice e molta di più nelle risorse del caso e del fortuito. Era riuscita a mandargli il denaro che le aveva chiesto. Non sarebbe stato privo di assistenza legale e di valido ed esperto sostegno. Le notizie infine arrivarono... tante e tutte insieme: una lettera da un'amica di Shrewbury; copie delle sentenze mandate al giudice; e, più importante, perché facilmente comprensibili, essendo dati con grande chiarezza e
brevità, i sunti delle Assise di Shrewbury sul Morning Advertiser. Come una impaziente lettrice di novelle la quale legga per prima l'ultima pagina, lesse con occhi ansiosi l'elenco delle esecuzioni. Due erano stati rinviati, sette impiccati; e in quel catalogo capitale c'era la riga: Lewis Pyneweck... falsificazione. Dovette leggerla una mezza dozzina di volte prima di essere sicura di aver capito. Il paragrafo intero diceva: SENTENZA DI MORTE N: 7 GIUSTIZIATI, VENERDÌ 13 DEL CORRENTE MESE: THOMAS PRIMER, ALIAS DUCK, LADRO DI STRADA. FLORA GUY, FURTO DEL VALORE DI II STERLINE. ARTHUR POUNDEN, FURTO NOTTURNO CON SCASSO. MATILDA MUMMERY, TUMULTO. LEWIS PYNEWECK, FALSIFICAZIONE BANCONOTA DI CAMBIO. Lesse quella riga più volte, raggelata e con un senso di nausea. Quell'avvenente governante era conosciuta nella casa con il nome di signora Carwell... che era poi il nome da nubile che lei aveva riesumato. Nessuno nella casa conosceva la sua storia, tranne il padrone. La sua comparsa era stata rapida. Nessuno aveva sospettato che fosse stata concertata tra lei e il vecchio reprobo in scarlatto ed ermellino. Flora Carwell corse su per le scale, prese la sua bambina di neppure sette anni che era emersa sul pianerottolo, l'abbracciò e la portò in camera sua, senza sapere bene che cosa stesse facendo. Là sedette e tenne la bambina accanto a sé. Non riusciva a parlare. Dopo un po', guardandola negli occhi, scoppiò in lacrime di orrore. Pensava che il giudice avrebbe potuto salvarlo. Io oso dire che poteva farlo. Per qualche momento fu furiosa con lui, e abbracciò e baciò la stupita bambina che la guardava con i grandi occhi spalancati. Quella bambina aveva perso il padre e non sapeva nulla della faccenda. Le era sempre stato detto che suo padre era morto molto tempo prima. Una donna rozza, priva d'istruzione, vanitosa e violenta, non ragiona, o sente, distintamente; ma in quelle lacrime di costernazione era mescolato un rimprovero per se stessa. Aveva paura per quella piccola bambina.
Eppure, la signora Carwell non era persona che indugiasse a lungo sui sentimenti; casomai sul roastbeef o sul budino. Si consolò con il punch; non si trastullò a lungo neppure con il risentimento; era una persona grossolana e materiale, e non poteva piangere sull'irrevocabile per più di un limitato numero di ore, nemmeno se avesse voluto. Presto, il giudice Harbottle fu di nuovo a Londra. Fatta eccezione per la gotta, quel vecchio epicureo selvaggio non aveva mai conosciuto un giorno di malattia. Rise, schernì e cancellò gli scrupoli della giovane donna e in poco tempo Lewis Pyneweck non rappresentò più oggetto di turbamento per la signora Carwell; e il giudice ridacchiava segretamente sulla rimozione perfettamente legale di una seccatura che a poco a poco avrebbe potuto diventare qualcosa di molto serio. Toccò al giudice, delle cui avventure sto parlando, celebrare processi criminali alla Old Bailey poco tempo dopo il suo ritorno. Cominciò proprio con un caso di falsificazione e, rivolto alla giuria, stava, come al solito anzi con maggiore cinismo, tuonando la sua arringa contro il prigioniero, quando improvvisamente tacque e nell'aula cadde il silenzio. Invece di guardare la giuria, il giudice stava guardando a bocca aperta una persona presente nell'aula. Tra gli astanti di poca importanza che assistevano al processo, assiepati ai lati dell'aula, c'era una figura che si faceva notare perché più alta delle altre; era quella di un uomo magro, vestito di nero, con un viso scarno e scuro. Aveva appena passato una lettera a un usciere quando era stato notato dal giudice. Il quale giudice aveva scorto in lui, con suo grande stupore, i lineamenti di Lewis Pyneweck. Aveva l'usuale sorrisetto sulle labbra sottili; e con il mento leggermente sollevato in aria, apparentemente ignaro di avere attirato una così rispettabile attenzione, stava sistemandosi la cravatta con le sue dita uncinate, voltando la testa ora da una parte ora dall'altra... un movimento che consentì al giudice di vedere chiaramente una striscia gonfia e azzurrognola attorno al collo che indicava, pensò, la stretta di una corda. Quell'uomo con alcuni altri, era salito di un gradino per meglio vedere lo scranno del giudice. In quel momento ne discese e l'Onorevole Harbottle lo perse di vista. Sua signoria fece energicamente segno con la mano nella direzione in cui l'uomo era svanito. Si voltò verso l'usciere. I suoi sforzi per parlare sfociarono in un rantolo. Si schiarì la gola e disse allo sbalordito ufficiale di arrestare l'uomo che aveva interrotto la corte.
«Un momento fa era proprio lì. Portatelo in custodia davanti a me entro dieci minuti, o vi strapperò le insegne dalle spalle!» tuonò, mentre i suoi occhi lampeggiavano per l'aula in cerca del funzionario. Avvocati, consiglieri, spettatori, tutti guardarono stupiti nella direzione verso la quale il Signor Giudice di Giustizia Harbottle aveva agitato la sua deforme, vecchia mano. Si scambiarono commenti. Nessuno aveva visto nessuno che disturbasse. Si chiesero se il giudice non stesse smarrendo la ragione. La ricerca non diede alcun esito. Sua signoria concluse la sua arringa molto più mollemente del solito e, quando la giuria si ritirò, rimase a fissare distrattamente l'aula, con l'aria di chi non avrebbe dato sei pence per vedere impiccato il prigioniero. CALEB SEARCHER Il giudice aveva ricevuto la lettera; avesse saputo da chi proveniva, l'avrebbe letta immediatamente. Così, invece, lesse semplicemente l'indirizzo: All'Onorevole Lord di Giustizia Elijah Harbottle Giudice di Sua Maestà dell'Onorevole Tribunale dei Ricorsi Comuni. E la lettera gli rimase dimenticata nella tasca fino a quando non tornò a casa. Quando la tirò fuori assieme ad altre dalla capace tasca del soprabito, si era messo la pesante vestaglia di seta ed era seduto in biblioteca. Le assegnò il turno e quando fu il momento di leggerla l'aprì e vide che conteneva un foglio fittamente scritto a mano, con una grafia da cancelliere e la dicitura segretezza in un angolo, come credo a quei tempi fosse sempre scritto sui documenti legali! La lettera diceva: Signor Giudice di Giustizia Horbottle Milord mi è stato ordinato dall'Alta Corte d'Appello d'informare Vostra Signoria, per meglio prepararvi al processo, che è stato presentato atto d'accusa contro di Voi per l'assassinio di Lewis Pyneweck di
Shrewsbury, cittadino erroneamente giustiziato per la falsificazione di una banconota di cambio il giorno... del... Siete accusato di deliberata manomissione della prova, d'indebita pressione esercitata sulla giuria e, infine, d'illegali ammissioni di prove da parte di Vostra Signoria, perfettamente consapevole di siffatte illegalità, le stesse per le quali, promotore della presente accusa davanti all'Alta Corte di Appello, ha perso la vita. E il processo per quanto sopra, mi è stato ordinato inoltre di far conoscere a Vostra Signoria, è stato fissato per il giorno 10 del... prossimo venturo, dall'Onorevole Presidente della Corte Twofold, del tribunale anzidetto. Sono stato anche incaricato di farvi sapere, per evitare sorprese o equivoci, che il Vostro caso sarà il primo di quel giorno, e che la citata Alta Corte d'Appello siede giorno e notte; e, inoltre, per ordine della citata Corte, fornisco a Vostra Signoria una copia (estratto) della registrazione di questo caso, perché, quand'anche incomprensibili, la sostanza e l'effetto di questa notifica siano chiari a Vostra Signoria. Devo infine informarvi che, nel caso in cui la giuria trovi Vostra Signoria colpevole, il molto onorevole Presidente della Corte, davanti a una sentenza di morte, fisserà l'esecuzione per il giorno 10 del....., cioè un mese dopo il giorno della celebrazione del Vostro processo. Era firmata: CALEB SEARCHER CANCELLIERE DELL'AVVOCATO DELLA CORONA DEL REGNO DI VITA E DI MORTE Il giudice guardò attraverso la pergamena. «Idiozie!» sbraitò. «Pensano forse che un uomo come me possa lasciarsi intimorire dalle loro buffonerie?» I suoi grossolani lineamenti erano contratti in uno dei suoi sogghigni; ma lui era pallido. Possibile, dopo tutto, che fosse in atto una qualche cospirazione? Strano. Volevano sparargli nella carrozza? O miravano soltanto a impaurirlo? Il giudice Harbottle possedeva un coraggio animalesco. Non aveva paura dei ladroni di strada e aveva sostenuto la sua brava parte di duelli, essendo stato un avvocato dalla lingua lunga durante le riunioni al bar. Nessuno metteva in dubbio le sue qualità di lottatore. Ma rispetto al caso Pyneweck,
si trovava in una situazione a dir poco delicata. In quella casa, nella sua casa, non viveva la graziosa, supervestita governante dagli occhi scuri, la signora Flora Carwell? Molto facile per la gente che era stata a Shrewsbury riconoscerla come signora Pyneweck, una volta che qualcuno si fosse messo sulle tracce; e lui, non aveva lavorato duro su quel caso? Non sapeva lui stesso che cosa ne pensava la gente comune? Sarebbe stato lo scandalo peggiore che mai avesse coinvolto il giudice. Ma più di tanto quella pericolosa faccenda non sembrava minacciare. Cosicché il giudice fu ombroso per un giorno o due e poi riprese la sua grinta abituale. Chiuse a chiave i documenti; e circa una settimana dopo, un giorno, chiese alla governante, in biblioteca: «Tuo marito non ha mai avuto un fratello?» La signora Carwell sussultò a quella improvvisa introduzione di un argomento tanto funereo, ma rispose esemplarmente con un: «A secchiate» un'espressione che il giudice si compiaceva di usare spesso. Ma lui non era dell'umore giusto e disse severamente: «Andiamo, signora! Un'altra volta. Adesso rispondi alla mia domanda.» Lei lo fece. Pyneweck non aveva fratelli viventi. Ne aveva avuto uno, una volta, ma era morto in Giamaica. «Come sai che è morto?» domandò il giudice. «Perché me lo ha detto lui.» «Non il morto.» «Me lo ha detto Pyneweck.» «È tutto?» sbuffò il giudice. Ponderò la questione; e il tempo passò. E più passava, più il giudice diventava nervoso e meno facile a divertirsi. L'argomento era nei suoi pensieri più di quanto lui avesse voluto. Ma così è con i problemi che non si possono divulgare, e non c'era nessuno a cui lui potesse confidare il suo. Arrivò il nove; e il Signor Giudice di Giustizia Harbottle ne fu contento. Sapeva che non sarebbe accaduto nulla tuttavia era un po' preoccupato; ma l'indomani tutto avrebbe avuto termine. Ricorderete che all'inizio della presente narrazione ho citato un documento. L'ho citato per davvero! Forse. Certo è che nessuno lo vide durante la vita del giudice e nessuno, dopo la sua morte. Il giudice ne parlò con il dottor Hedstone; e ciò che aveva la pretesa di essere una copia, scritta a mano dal vecchio giudice, fu ritrovata... ma l'originale non c'era. Era forse
una copia della sua illusione, un prodotto del suo cervello malato? Così credo. ARRESTATO Il giudice Harbottle andò a teatro in Drury Lane, quella sera. Era uno di quei vecchi buontemponi ai quali non importava nulla di fare le ore piccole, e puntatine occasionali in cerca di piacere. Aveva invitato due suoi amici di Lincoln's Inn a tornare a casa con lui nella sua carrozza per una cenetta, dopo il teatro. Non li trovò nel suo box ma pensò che lo stessero aspettando vicino all'entrata, e vi si recò con la carrozza; e il Signor Giudice di Giustizia Harbottle, il quale odiava aspettare, mostrò un po' di impazienza mentre guardava dal finestrino. Sbadigliò. Disse al valletto di aspettare il consigliere Thavies e il consigliere Beller, i quali stavano venendo; e, con un altro sbadiglio, si tolse il tricorno e se lo appoggiò sulle ginocchia, chiuse gli occhi, si rincantucciò in un angolo, avvolto nel suo mantello, e cominciò a pensare alla graziosa signora Abington. Ed essendo un uomo che riusciva a dormire come un marinaio, a comando, pensò di farsi un pisolino. Male facevano quei due a costringere un giudice ad aspettare. Udì le loro voci. Quegli sciagurati consiglieri ridevano, e cantavano, e battibeccavano com'era loro solito. La cabina oscillò quando uno salì, e oscillò di nuovo quando salì l'altro. Lo sportello sbatté e la carrozza si mosse rimbalzando e rumoreggiando sul lastricato. Il giudice era un po' imbronciato, perciò non pensò di mettersi a sedere e di aprire gli occhi. Avessero pure pensato che stesse dormendo. Li sentì ridere con più malizia che buon umore, pensò, quando i due notarono la cosa. Li avrebbe sistemati quando fossero arrivati a casa; intanto poteva continuare a fingere di dormire. Gli orologi stavano battendo le dodici. Beller e Thavies erano silenziosi come pietre tombali. E sì che di solito erano loquaci e volgari. Il giudice si sentì improvvisamente afferrare dal suo angolo e trascinare in mezzo al sedile e, aprendo gli occhi, si ritrovò istantaneamente tra i suoi due compagni. Prima che potesse profferire l'imprecazione che gli era salita alle labbra,
vide che i due erano degli stranieri... tipi dall'aria diabolica, ciascuno con una pistola in mano, e vestiti come poliziotti di Bow Street. Il giudice tirò il cordone e la carrozza si fermò. Si guardò attorno. Non erano in mezzo alle case, ma attraverso il vetro del finestrino, sotto la luna piena, vide una nera landa che si estendeva senza vita da destra a sinistra, con alberi rinsecchiti che allungavano rami fantastici nell'aria, a gruppi sparsi qui e là, come con le braccia alzate in un orribile gesto d'allegria per l'arrivo del giudice. Un valletto si presentò al finestrino. Il giudice riconobbe la sua lunga faccia e gli occhi affossati. Era Dingly Chuff, un valletto che aveva avuto al suo servizio una quindicina d'anni prima, il quale era poi sparito senza preavviso, sospettato d'essersi portato via anche l'argenteria. L'uomo era morto in prigione di febbre tifoidea. Il giudice si ritrasse, sbalordito. I suoi armati compagni fecero un gesto e la carrozza riprese ad andare per quella landa sconosciuta. Nel suo orrore, l'uomo con la gotta considerò la possibilità di opporre resistenza. Ma i suoi giorni atletici erano andati. Quella landa era un deserto. Impossibile ottenere aiuto. Era nelle mani di strani servi, e anche l'averne riconosciuto uno era stata una delusione, e quei servi erano sotto il comando dei suoi carcerieri. Almeno per il presente, non c'era altro da fare che sottomettersi. All'improvviso, la carrozza rallentò e al prigioniero, dal finestrino, si presentò una vista minacciosa. Era una gigantesca forca costruita sul ciglio della strada; si ergeva su tre lati e da ciascuna delle grosse travi, in cima, pendevano in catene otto o dieci corpi, alcuni privi dei loro sudari di cera cosicché c'erano soltanto i loro scheletri a dondolare leggermente. Una scala raggiungeva la sommità della struttura, e sulla torba, sotto, giacevano delle ossa. In cima alla traversa che fronteggiava la strada, dalla quale, come dalle altre due che formavano quel triangolo di morte, pendevano altri sfortunati in catene, un boia, con una pipa in bocca, come lo vediamo sulla famosa stampa dell'Apprendista Ozioso, sebbene la sua pertica qui fosse molto più alta, portava giù, completamente a suo agio, da un mucchietto al suo lato, ma anche dagli altri scheletri, ora una costola, ora una mano, ora una mezza gamba. Chi avesse avuto una buona vista, avrebbe notato che era un tipo scuro, magro; e per il suo continuo guardare di sotto, dall'elevazione sulla quale si trovava... la stessa, dalla quale, in un certo qualsenso pendeva... da lassù, insomma, il naso, le labbra, il mento erano cascanti e sciolti,
e tirati in una grottesca quanto mostruosa maschera. Nel vedere arrivare la carrozza, si era tolto la pipa di bocca, era salito sulla trave e aveva calato una nuova corda, gridando con voce alta e lontana come quella di un corvo che volteggia su un patibolo: «Una corda, prego, per il giudice Harbottle!» La carrozza stava ora proseguendo al ritmo precedente. Una forca così alta, il giudice non l'aveva sognata neppure nei suoi più ilari momenti. Pensò che forse stava delirando. E il valletto morto! Scosse la testa e sbatté le palpebre; ma se anche si trattava di un sogno, era assolutamente incapace di svegliarsi. Era inutile minacciare quei malfattori. Un brutum fulmen avrebbe potuto portargliene uno vero nella testa. Qualsiasi sottomissione, pur di sfuggire dalle loro mani; e poi il cielo e la terra avrebbe smosso per dare loro la caccia. All'improvviso, la carrozza girò attorno all'angolo di un grande edificio e passò sotto una porte-cochère. IL PRESIDENTE DELLA CORTE TWOFOLD Il giudice si ritrovò in un corridoio illuminato da fioche lampade a olio; le pareti erano di nuda pietra: sembrava il passaggio di una prigione. Le sue guardie lo affidarono ad altre. Scorse occasionalmente dei giganteschi soldati con i moschetti in spalla. Guardavano tutti avanti a sé digrignando i denti, come infuriati, senza però fare alcun rumore tranne che con le scarpe. Erano qui e là, e lui li vedeva per brevissimi momenti, dietro gli angoli, in fondo a certi passaggi; non transitò mai loro accanto. Dopo essere passato sotto un piccolo arco, si ritrovò nella gabbia degli imputati, davanti a un giudice nella sua toga scarlatta, in una vasta aula di tribunale. Non c'era nulla che elevasse quel Tempio di Temi al di sopra del genere volgare riscontrabile altrove: scuro, nonostante le numerose candele accese. Un caso era stato appena chiuso e l'ultimo giurato stava uscendo per una porta nel muro del banco della giuria. C'erano una decina di scrivani, alcuni che scrivevano, altri sepolti tra fascicoli, altri ancora che si aggiravano attorno agli avvocati, di cui non c'era penuria; c'erano impiegati e poliziotti del tribunale, e il cancelliere, il quale stava passando un documento al giudice; e l'usciere il quale stava presentando una nota a un consigliere del Re. Se quella era l'Alta Corte d'Appello, una corte che non si ritirava mai, né di giorno, né di notte, si spiegava perché tutti là dentro fossero pallidi e stanchi d'aspetto. Una indescrivibile oscurità spettrale in-
combeva sui bianchi lineamenti della gente convenuta; nessuno sorrideva e tutti sembravano più o meno segretamente sofferenti. «Il Re contro Elijah Harbottle!» gridò il funzionario. «L'appellante Lewis Pyneweck è in aula?» domandò il presidente della Corte Twofold, con una voce tonante che parve scuotere i legni del tribunale e rimbombò per i corridoi. Si alzò Pyneweck dal suo posto al tavolo. «Si proceda all'accusa del prigioniero!» rombò il presidente: e il giudice Harbottle sentì i pannelli del banco attorno a lui, e il pavimento, e la balaustra, tremare per le vibrazioni di quella voce tremenda. Il prigioniero, in limine, ricusò quel finto tribunale: era una vergogna; non esisteva a termini di legge; e poi, se anche fosse stato un tribunale costituito per legge (il giudice cominciava a essere confuso), non aveva e non poteva avere alcun potere per giudicare la sua condotta sul banco. Al che il presidente della Corte improvvisamente rise, e tutti nell'aula, si voltarono per guardare il prigioniero, e risero anche, e la risata crebbe fino a diventare un ruggito, un'assordante acclamazione; e il giudice non vide altro che occhi lucenti e denti, e uno sguardo e un sogghigno universali; ma sebbene tutte quelle voci ridessero, non una faccia di quelle che si erano voltate verso di lui era allegra. Il giubilo cessò così com'era cominciato. Venne letta l'accusa. E il giudice alla fine si dichiarò! Sì, si dichiarò non colpevole. Fu fatta giurare una giuria. Il processo andò avanti. Il giudice Harbottle era sbalordito. Non poteva essere vero. «O sono pazzo o sto per diventarlo» pensò. Una cosa non poté mancare di colpire perfino lui. Il Presidente della Corte Twofold, il quale lo rintuzzava in continuazione con sogghigni e ironie, e ruggiva con la sua tremenda voce, era l'immagine dilatata di se stesso; un'immagine del Signor Giudice di Giustizia Harbottle, grande almeno il doppio di lui, e con il suo accentuato colorito, e la sua ferocia nello sguardo e sul viso. Nulla che il prigioniero avesse potuto controbattere, citare o constatare poté ritardare per un solo momento la marcia del procedimento verso la sua catastrofe. Il Presidente della Corte sembrava avvertire il proprio potere sulla giuria, ed esultare e godere nel farne sfoggio. Li fissava, annuiva verso di loro; sembrava avere stabilito un rapporto di comprensione con loro. Le luci erano fioche in quella parte dell'aula. I giurati erano semplici ombre, sedute in fila; il prigioniero riusciva a vedere una dozzina di paia d'occhi bian-
chi che scintillavano, freddamente, nell'oscurità; e quando l'accusatore nella sua arringa, sprezzantemente breve, annuiva e sogghignava e scherniva, il prigioniero vedeva, dall'abbassarsi di quelle file d'occhi nell'oscurità, che la giuria annuiva in segno di approvazione. E adesso che l'arringa era finita, l'immenso Presidente della Corte si era voltato ansimante e sprizzante gioia maligna a guardare il prigioniero. Tutti nell'aula si voltarono e fissarono con odio l'uomo nella gabbia. Dai giurati si levò un basso mormorio, unico suono nella generale immobilità; poi, in risposta alla domanda del cancelliere: «Signori della giuria, ritenete l'imputato colpevole o non colpevole?» arrivò un deciso e tassativo: Colpevole. Il posto parve agli occhi del prigioniero divenire gradatamente più buio, fino a quando il giudice non riuscì più a distinguere altro che il bianco degli occhi fissi su di lui, occhi da ogni banco, dai lati dell'aula, dalla galleria... Pensò che adesso sarebbe toccato a lui parlare, e quello che aveva da dire era conclusivo, perché non poteva essere pronunciata una sentenza di morte su di lui; ma il Presidente della Corte passò oltre quella formalità e pronunciò la sentenza di morte, stabilendo il dieci del mese successivo come data dell'esecuzione. Prima che si fosse ripreso dallo sbalordimento di quella sinistra farsa, in obbedienza all'ordine: «Portate via il prigioniero» il giudice fu condotto fuori della gabbia. Le lampade parvero spegnersi del tutto e c'erano stufe e fuochi di carbone qua e là che lanciavano la loro debole luce cremisi sulle pareti dei corridoi, piene di fessure e ineguali. Arrivò in un'ampia fucina dove due uomini nudi fino alla cintola, con teste taurine, spalle grandi, e braccia da giganti, stavano saldando delle catene rosse di fuoco con martelli che piombavano sul metallo come saette. Guardarono il prigioniero con feroci occhi rossi e per un momento smisero di martellare. Il più vecchio disse al suo compagno: «I ferri di Elijah Harbottle»; e con delle tenaglie estrasse dalla fornace quello che stava incandescendo. «Una parte chiude» disse il compagno, afferrando come in una morsa la gamba del giudice e con l'altra mano chiudendo alla caviglia un anello già pronto. «L'altra» disse poi, con un sogghigno. La banda di ferro che doveva formare l'anello per l'altra gamba giaceva, ancora rovente, sul pavimento di pietra. Colui che aveva messo il primo anello, immobilizzò l'altra gamba del giudice e gli tenne fermo il piede sul pavimento; il suo compagno, ammiccando, con un abile lavoro di martello
e tenaglie, prese la banda e la premette ancora incandescente attorno all'altra caviglia; il giudice diede in un urlo che parve raggelare perfino le pietre e fece vibrare le catene sulla parete. Catene, fucina, fabbri, tutto svanì in un momento; ma il dolore continuò. Il Signor Giudice di Giustizia Harbottle stava soffrendo la tortura alla caviglia dove l'infernale fabbro aveva appena lavorato... I suoi amici, Thavies e Beller, sussultarono al grido del giudice, arrivato nel ben mezzo di una loro elegante discussione su un matrimonio, à-lamode che era in procinto di combinarsi. Il giudice era tanto atterrito quanto sofferente. Le lampade della strada e la luce dell'ingresso di casa sua lo rianimarono. «Sto molto male» bofonchiò il giudice tra i denti. «Il mio piede è in fiamme. Chi mi ha fatto male al piede? È la gotta... la gotta!» disse, svegliandosi completamente. «Da quante ore siamo tornati da teatro? Accidenti, che cos'è successo per la strada? Ho dormito metà della sera!» Non c'erano stati intoppi o ritardi ed erano arrivati a casa a buona andatura. Il giudice, comunque, era nel pieno di un attacco di gotta. Aveva anche la febbre; e l'attacco, anche se breve, era acuto; nel giro di una notte, cessò, ma non tornò la giovialità del giudice. Il quale non riusciva a liberarsi del sogno, come preferiva chiamarlo. QUALCUNO È ENTRATO NELLA CASA La gente notò che il giudice aveva fantasie. Il dottore disse che gli avrebbero fatto bene due settimane a Buxton. Quando il giudice si rintanò nel suo studio, rimuginò sui termini della sentenza pronunciata contro di lui nella sua visione... «tra un mese a partire da oggi» e la formula usuale, «e sarete appeso per il collo fino a quando morte sopravvenga» ecc. «Sarà il dieci di...» Non ho alcuna voglia di essere impiccato. So come sono i sogni, e me ne rido; ma questo è continuamente nei miei pensieri, come se fosse foriero di una qualche sfortuna. Vorrei che il giorno assegnatomi dal sogno fosse già trascorso. Vorrei che fossi ben purgato dalla mia gotta. Vorrei essere come ero solito essere. Queste non sono altro che fantasie, niente altro che un'idea fissa.» Lesse e rilesse la copia della pergamena e della lettera con l'annuncio del processo, e la scena e la gente del suo sogno sembravano materializzarsi davanti a lui
nei posti più disparati, e lo trasportavano in un momento dal mondo che lo circondava in un mondo fatto di ombre. Il giudice aveva perso la sua energia di ferro e il suo fare canzonatorio. Stava diventando taciturno e nervoso. Al bar notarono il cambiamento. Gli amici pensarono che fosse malato. Il dottore disse che era afflitto da ipocondria e che la gotta c'entrava in qualche modo, per cui gli ordinò grucce e fanghi a Buxton. Il giudice aveva il morale molto basso; aveva paura di sé; e parlò alla governante — dopo averla mandata a chiamare perché bevesse con lui una tazza di tè, nello studio — dello strano sogno fatto mentre tornava a casa dal teatro in Drury Lane. Stava affondando nello stato di nervoso abbattimento in cui gli uomini perdono la loro fiducia nei consigli più ortodossi e, disperati, consultano ciarlatani, astrologi e governanti. Poteva un sogno così significare che avrebbe avuto un attacco e sarebbe morto il dieci? No, lei non lo pensava. Al contrario, poteva anche essere che quel giorno gli capitasse una grande fortuna. Il giudice si rianimò; e per la prima volta da molti giorni a quella parte parve per un minuto o due di nuovo se stesso, e diede perfino un buffetto alla governante. «Già! Già! Che testa! Avevo dimenticato. C'è il giovane Tom... il giallo Tom, mio nipote. Giace ammalato a Harrogate. Perché non dovrebbe andarsene proprio quel giorno? E se succede, io eredito una proprietà. Che diamine! Ho chiesto proprio ieri al dottor Hedstone se è possibile che mi venga un colpo da un momento all'altro, e lui si è messo a ridere, e ha giurato che ero l'ultimo uomo della città a potersene andare a quel modo.» Il giudice mandò la maggior parte dei suoi servi a Buxton per trovargli un alloggio e rendergli le cose confortevoli al suo arrivo. Li avrebbe raggiunti tra un giorno o due. Era il nove; e una volta che fosse trascorso il giorno seguente, avrebbe potuto ridere delle sue visioni e presagi. La sera del nove, il valletto del dottor Hedstone bussò alla porta del giudice. Il dottore salì le scale buie fino in salotto. Era una sera di marzo, quasi l'ora del tramonto, con un vento da est che fischiava tra i camini. Un vispo fuoco ardeva nel camino. E il giudice Harbottle, in mantello rosso e parrucca, contribuiva all'effetto rilucente della stanza, la quale sembrava rossa come se fosse in fiamme. Il giudice aveva i piedi su uno sgabello e il suo viso era reso ancora più purpureo dalle fiamme. Sembrava respirare a fatica, si alzava e si abbassa-
va come al movimento del fuoco. Era quasi ricaduto nelle sue visioni e stava pensando di ritirarsi dall'incarico e ad altre cinquanta cose. Ma il dottore, che era un energico figlio di Esculapio, e non voleva saperne di predizioni e altre cose del genere, disse al giudice che era sconvolto dalla gotta e, in quelle condizioni, giudice neppure di se stesso, ma promise che si sarebbe pronunciato su quelle malinconiche questioni quindici giorni dopo. Nel frattempo, doveva stare molto attento. Era pieno di gotta e non doveva provocare un altro attacco fino a quando le acque di Buxton non avessero cominciato a produrre il loro benefico effetto. Ma il giudice pensò che il dottore non gli stesse dicendo la verità. Gli disse che voleva riposare e che avrebbe fatto meglio ad andare a letto presto. Il suo valletto, signor Gernigham, lo assistette, gli diede la gocce; e il giudice gli disse di aspettare nella stanza fino a quando lui non si fosse addormentato. Quella notte, tre persone in modo particolare avrebbero avuto cose strane da raccontare. La governante si era liberata dalla fastidiosa incombenza di divertire la sua bambina in quel momento di ansia permettendole di correre per le stanze da ricevimento e di guardare le statuine di porcellana, alle solite condizioni di non toccare niente. Fu soltanto quando l'ultimo raggio di sole al tramonto si era già da qualche momento dissolto, e la penombra era aumentata al punto che non era più possibile distinguere i colori delle statuine sulla mensola del camino o nelle vetrine, che la bambina tornò nella stanza della governante per trovarvi sua madre. A lei raccontò, dopo qualche commento sulle statuine di porcellana e le due grandi parrucche del giudice nello spogliatoio, un'avventura straordinaria. Nell'ingresso, com'era usuale a quei tempi, era situata la portantina che il padrone di casa di tanto in tanto usava, ricoperta di cuoio e punteggiata di chiodi dorati, e con gli scuri di seta rossa abbassati. In quel caso, gli sportelli di quell'antico mezzo di trasporto erano chiusi a chiave, i finestrini alzati e, come ho detto, gli scuri abbassati, ma non fino in fondo, cosicché la curiosa bambina aveva potuto spiare da sotto uno di essi e vedere all'interno. Un riflesso del sole calante, catturato dal vetro di una delle finestre posteriori e passato attraverso la porta aperta, aveva illuminato la portantina,
perforando la seta rossa e rendendola trasparente. Con sua sorpresa, la bambina aveva visto che dentro era seduto un uomo magro, vestito di nero; aveva lineamenti scuri e affilati; il naso era un po' adunco, aveva riso la bimba, e gli occhi marroni guardavano diritti davanti a lui; aveva una mano sulla coscia e non si muoveva più delle statue di cera che lei aveva visto alla fiera di Southwark. Un bambino viene così spesso redarguito perché fa troppe domande, quando dovrebbe apprezzare il silenzio e seguire la saggezza dei vecchi, quella saggezza che accetta la maggior parte delle cose in buona fede; cosicché la bambina aveva pensato che non ci fosse nulla di male nell'occupazione della portantina da parte di quella persona dalla faccia color mogano. Fu soltanto quando chiese a sua madre chi fosse quell'uomo e dopo avere osservato il suo viso spaventato alle ulteriori domande che le fece sull'apparizione dello straniero, che comprese di avere assistito a qualcosa di non raccontabile. La signora Carwell prese la chiave della portantina dal chiodo sullo scaffale del valletto e, con una candela accesa, condusse la bambina per mano nell'ingresso. Si fermò a qualche distanza dalla portantina e mise la candela nella mano della bambina. «Spia dentro, Margery» disse. «Spia di nuovo e guarda se c'è qualcuno» le mormorò. «Tieni la candela vicino alla tendina perché la luce filtri dentro.» La bambina andò a sbirciare, questa volta con un viso solenne, e comunicò subito che l'uomo se n'era andato. «Guarda di nuovo, e bene» la incitò sua madre. La bambina fu sicura; e la signora Carwell, con la sua cuffia dai nastrini multicolori, e i suoi capelli castani, non ancora incipriata, con una faccia pallidissima, aprì lo sportello e guardò dentro. La portantina era vuota. «Ti sei sbagliata, bambina, vedi?» «Là! Mamma! Guarda là! Ha svoltato l'angolo» disse la bambina. «Dove?» chiese la signora Carwell, facendo un passo indietro. «In quella stanza.» «Zitta, bambina! Era l'ombra» gridò la signora Carwell, arrabbiata perché impaurita. «Ho mosso la candela.» Ma afferrò uno dei pali della portantina, che era appoggiato alla parete, nell'angolo, e con quello cominciò a battere furiosamente sul pavimento, terrorizzata al pensiero di oltrepassare la soglia della porta che la bambina aveva indicato.
La cuoca e due cameriere di cucina salirono di corsa per vedere quale fosse la causa di quegli allarmati rumori. Perquisirono tutta la stanza; ma era vuota e senza alcun segno che ci fosse stato qualcuno. Siete tutti liberi di supporre che la direzione impressa ai pensieri della governante da quel piccolo e insolito incidente fosse la causa di un'illusione molto strana che la signora Carwell stessa ebbe circa due ore dopo. IL GIUDICE LASCIA LA SUA CASA La signora Flora Carwell stava salendo la grande scala con una tazza di latte e vino caldo su un vassoio d'argento per il giudice. In cima allo scalone, c'era una balaustra di legno di quercia; sollevando accidentalmente lo sguardo, la signora Carwell vide uno straniero dall'aspetto molto strano, magro e lungo, che vi si appoggiava con noncuranza e teneva una pipa tra indice e pollice. Naso, labbra e mento sembravano cadere verso il basso allungandosi straordinariamente. Nell'altra mano aveva una corda, un'estremità della quale gli sfuggiva da sotto il gomito e cadeva al di qua della balaustra. La signora Carwell in quel momento non sospettò minimamente che non si trattasse di una persona reale, e pensò piuttosto che fosse qualcuno venuto a legare i bagagli del giudice. Gli domandò che cosa facesse lì. Invece di rispondere, il tipo si voltò e s'incamminò lungo il pianerottolo, con la stessa andatura tranquilla con la quale lei stava salendo, ed entrò in una stanza, nella quale lei lo seguì. La stanza non era arredata e sul pavimento c'era un baule vuoto. Accanto al baule c'era la corda. Ma fatta eccezione per quelle cose, nella stanza non c'era nessuno. La signora Carwell ne fu atterrita e pensò che forse la bambina aveva visto lo stesso spettro che era appena apparso a lei. Forse, decise quando fu in grado di pensare con più calma, era meglio così; perché la faccia, la figura e il vestito descritti dalla bambina erano spaventosamente simili a quelli di Pyneweck. Mentre colui che aveva visto in cima alle scale non gli somigliava per niente. Molto spaventata, quasi isterica, la signora Carwell scese di corsa nella sua stanza, paurosa di voltarsi a guardare, e desiderosa come non mai di avere compagnia, e pianse, e parlò, e bevve più di un cordiale, e parlò e pianse di nuovo, e così fino a quando, così era a quei tempi, furono le dieci
e non fu il momento di andare a letto. Dopo che tutta la servitù... quella poca rimasta, come ho detto.. se ne fu andata a letto, per qualche tempo rimase alzata soltanto una sguattera intenta a finire certe sue incombenze. Era una intrepida popolana con i capelli neri, la fronte bassa e la faccia larga, la quale non aveva paura dei fantasmi e trattava l'isteria della governante con smisurato disprezzo. La vecchia casa era tranquilla, adesso. Erano quasi le dodici e non si udiva alcun suono tranne quello attutito del vento che soffiava tra i comignoli o, a folate, nei canali stradali. La spaziosa solitudine della cucina era paurosamente scura e la nostra scettica sguattera era l'unica persona alzata della casa. Per qualche tempo, canticchiò tra sé un motivo; poi si fermò e rimase in ascolto; e poi riprese il suo lavoro. Era destinata a un'esperienza ancora più terrorizzante di quella della governante. C'era una cucina posteriore in quella casa, e da lì la ragazza udì, come proveniente dalle fondamenta, un rumore di pesanti colpi che sembravano scuotere il pavimento sotto i suoi piedi. A volte, una dozzina di seguito, a intervalli regolari; a volte, di meno. Si infilò di soppiatto nel passaggio e rimase sorpresa nel vedere un cupo chiarore provenire da quella stanza, come di un fuoco di carboni. La stanza sembrava anche piena di fumo. Sbirciando dentro, scorse una figura mostruosa sopra una fornace che batteva con un possente martello gli anelli e i ferri di una catena. I colpi, rapidi e pesanti, risuonavano sordi e lontani. L'uomo si fermò e indicò qualcosa sul pavimento, un qualcosa che, attraverso il fumo, sembrava, pensò la ragazza, un corpo morto. Non vide altro; ma i servi che dormivano nella stanza vicina, svegliati da un grido spaventoso, la trovarono svenuta sul pavimento, vicino alla porta dalla quale aveva assistito a quella orribile visione. Incuriositi dalle incoerenti affermazioni della ragazza, la quale disse di avere visto il corpo del giudice sul pavimento, due servi perquisirono dapprima la parte inferiore della casa, poi, impauriti, andarono di sopra per accertarsi che il padrone stesse bene. Lo trovarono, non nel suo letto, ma nella sua stanza. Aveva un tavolo con candele accese accanto al letto e stava rivestendosi; e imprecò e li mandò via in malo modo, secondo il suo vecchio stile, dicendo loro che aveva da fare e che avrebbe licenziato qualsiasi mascalzone avesse osato disturbarlo di nuovo. Perciò il gottoso fu lasciato nella sua irascibile solitudine.
Il mattino seguente corse voce in strada che il giudice fosse morto. Il consigliere Traverse, che abitava tre porte più avanti, mandò un servo a casa del giudice Harbottle. Il valletto che aprì al suo servo era pallido e riservato, e disse soltanto che il giudice era ammalato. Aveva avuto un pericoloso incidente; c'era già stato il dottor Hedstone quella mattina alle sette. C'erano insomma sguardi bassi, mezze risposte, facce pallide e corrucciate e tutti i soliti segni di un segreto che pesava terribilmente sulle loro menti; di un tempo per l'apertura che non era ancora arrivato. Quel tempo sarebbe arrivato con il coroner e lo scandalo mortale che si era abbattuto sulla casa sarebbe stato rivelato. Perché quella mattina, il Signor Giudice di Giustizia Harbottle era stato trovato impiccato per il collo alla balaustra in cima allo scalone. È morto. Non c'era il minimo segno di lotta o di resistenza. Non era stato sentito alcun grido o altro rumore indicativo della benché minima violenza. C'era soltanto la prova medica a testimoniare come nel suo stato atrabiliare il giudice stravolto dal dolore potesse avere deciso di farla finita con se stesso. La giuria stabilì di conseguenza che si trattasse di un caso di suicidio. Ma per quelli che erano venuti a conoscenza della strana storia, una storia che il giudice aveva rivelato ad almeno due persone, il fatto che la catastrofe fosse avvenuta la mattina del 10 marzo parve un'allarmante coincidenza. Qualche giorno dopo, un funerale in pompa magna accompagnò l'Onorevole Giudice di Giustizia Harbottle fino alla tomba. E così, nel linguaggio della Scrittura «l'uomo ricco morì, e fu sepolto.» Titolo originale: Mr Justice Harbottle Traduzione Grazia Alineri Ray Bradbury La folla Per più di un decennio, dagli inizi degli anni quaranta alla fine degli anni cinquanta, Ray Bradbury produsse una straordinaria mole di lavoro sotto forma di novelle, storie di fantascienza, fantasy e horror, lavoro che fu in breve tempo riconosciuto come un significativo contributo alla letteratura americana Le sue opere sono impregnate del filone della tenebrosa fantasy. Il suo primo libro, l'antologia Dark Carnival (Arkham House,
1947), fu essenzialmente un'opera di horror soprannaturale, e i successivi capolavori The Martian Chronicles (1950), The illustrated Man (1951), The Golden Apples of the Sun (1953), The October Country (1955) e Something Wicked This Way Comes (1959), sono tutti delle horror stories nello stile caratteristico dell'autore manifesta consapevolezza morale davanti al male. L'uomo comune si trova faccia a faccia con un demone tutto grande e organizzato perché possa averne ragione. Il signor Spallner si copri il viso con le mani. C'era la sensazione di muoversi nello spazio, l'urlo incredibile della tortura, l'impatto e il rotolare dell'auto sul muro, attraverso il muro, oltre e di sotto come un giocattolo e lui che veniva lanciato fuori. Poi... silenzio. La folla arrivò correndo. Là dove giaceva, lui la sentì venire. Avrebbe potuto dire le loro età e le dimensioni dal rumore dei numerosi passi sull'erba estiva, sul terreno e sull'asfalto della strada; dal calpestio sui mattoni sparsi fino al punto in cui l'auto era mezzo sospesa nel cielo della notte, le ruote che continuavano a girare con un'assurda forza centrifuga. Da dove uscisse quella folla lui non lo capì. Lottò per rimanere cosciente; poi, i visi della folla formarono un cerchio sopra di lui, sospesi come larghe foglie di alberi chini. C'era un anello di facce che si spostavano, si accalcavano e cambiavano, che lo guardavano, guardavano giù, leggendogli sul viso l'ora della vita o della morte, scambiando il suo viso per un quadrante lunare, con la luna che, proiettando sulla sua guancia l'ombra del naso, gli dava un tempo per respirare e un tempo per non respirare più. «Come arriva veloce la folla» pensò lui «come l'iride di un'occhio che si forma dal nulla». Una sirena. La voce della polizia. Movimento. Sangue che gli usciva dalle labbra e lui che veniva trasportato su un'ambulanza. Qualcuno disse: «È morto?» E qualcun altro: «No, non è morto.» E una terza persona: «Non morirà, non morirà». E lui vide le facce della folla dietro di sé, nella notte, e capì dalle loro espressioni che non sarebbe morto. Ed era strano. Vide il viso di un uomo, sottile, pallido; l'uomo deglutì e si morse le labbra, forte. C'era anche una piccola donna, con i capelli rossi e le guance e le labbra troppo rosse. E un ragazzino con le lentiggini. Altre facce. E un vecchio col labbro superiore leporino e una vecchia con un neo sul mento. Tutti erano venuti... da dove? Case, auto, vicoli, dal mondo che si trovava nei dintorni dell'incidente. Venivano dai viali e dagli alberghi, dalle auto e dal nulla.
La folla lo guardava e lui guardava loro e non gli piacevano. C'era qualcosa di enorme che non andava in loro. Lui però non riusciva a individuare che cosa. E quella cosa era, di gran lunga peggiore dell'incidente che gli era appena capitato. Le portiere dell'ambulanza sbatterono. Lui vide dai finestrini la folla che guardava dentro, guardava dentro. Quella folla che si riuniva così in fretta, così stranamente in fretta, per formare un cerchio, per curiosare, per investigare, per scrutare, per chiedere, per indicare, per disturbare; facce, occhi, voci incuranti nella loro franca curiosità di turbare la privacy di un uomo in agonia. L'ambulanza partì. Lui si lasciò andare e chiuse gli occhi: ma i loro visi continuavano a fissarlo. Le ruote dell'auto girarono nella sua mente per giorni. Una ruota, quattro ruote che giravano, giravano e ronzavano attorno, attorno. Lui sapeva che era sbagliato. C'era qualcosa di sbagliato nelle ruote e nell'intero incidente e nei passi che correvano e nella curiosità. I visi della folla si mescolavano e giravano assieme al ruotare selvaggio delle ruote. Si svegliò. La luce del sole, una stanza d'ospedale, una mano che gli tastava il polso. «Come si sente?» chiese il dottore. Le ruote svanirono. Il signor Spallner si guardò attorno. «Bene... credo» rispose. Tentò di trovare le parole. Sull'incidente. «Dottore?» «Sì?» «Quella folla... c'era la notte scorsa?» «Due giorni fa. Lei è qui da giovedì. Ma si rimetterà presto. Sta andando tutto bene. Non cerchi di alzarsi.» «Quella folla. Qualcosa nelle ruote, anche. Gli incidenti... be', scombussolano la gente?» «A volte, temporaneamente.» Giacque a fissare il dottore. «Danneggiano la nozione del tempo?» chiese. «Il panico a volte lo fa». «Fa sembrare un minuto un'ora o forse un'ora un minuto?» «Sì». «Lasci che le racconti, allora» disse Spallner. Sentì il letto sotto di sé, la
luce del sole sulla faccia. «Penserà che sono pazzo. Guidavo troppo velocamente, lo so. Ora mi dispiace. Ho urtato il marciapiede e ho colpito quel muro. Ero ferito e confuso, lo so, ma ricordo ancora le cose. Soprattutto... la folla». Attese un momento e poi decise di continuare perché capì di colpo che cosa l'aveva angosciato e ancora lo angosciasse. «La folla si è riunita laggiù troppo in fretta. Trenta secondi dopo l'incidente li avevo tutti intorno che mi fissavano... e non è normale che corressero tanto veloci, a notte così inoltrata...» «Lei crede che siano stati soltanto trenta secondi» disse il dottore. «Probabilmente erano già trascorsi tre o quattro minuti. I suoi sensi...» «Sì, lo so... i miei sensi, l'incidente. Ma ero cosciente! Ricordo una cosa più significativa delle altre e che rende la situazione buffa. Dio, maledettamente buffa. Le ruote della mia auto capovolta. Le ruote giravano ancora quando la folla è arrivata!» Il dottore sorrise. L'uomo disteso sul letto continuò. «Veramente! Le ruote giravano e giravano, velocemente... le ruote anteriori! Le ruote non girano a lungo, la frizione le blocca. E quelle invece giravano!» «Lei è confuso» commentò il dottore. «Non sono confuso. Quella strada era vuota. Non un'anima in vista. E poi l'incidente e le ruote che continuavano a girare e tutte quelle facce chine su di me, in men che non si dica. E dal modo in cui mi guardavano, ho capito che non sarei morto... «Semplice shock» concluse il dottore e si allontanò nella luce del sole. Lo dimisero dall'ospedale due settimane dopo. Tornò a casa in taxi. La gente era andato a trovarlo in quelle due settimane e a tutti lui aveva raccontato la sua storia, l'incidente, le ruote che giravano, la folla. Tutti avevano riso con lui e ci erano passati sopra. Lui si sporse in avanti e batté sul vetro del taxi. «Qualcosa non va?» chiese al taxista. Il conducente si voltò. «Mi dispiace, signore. È una maledizione guidare in questa città. C'è un incidente là davanti. Vuole che faccia un altro giro?» «Sì. No. No! Aspetti. Prosegua. Andiamo... a dare un'occhiata.» Il conducente proseguì a colpi di claxon. «Che buffonata» disse. «Ehi, tu! Togli quella trappola dalla strada!» Poi, abbassando il tono della voce: «Che buffonata... altri maledetti curiosi. Gente rumorosa.»
Il signor Spallner chinò lo sguardo e si accorse che le dita sul ginocchio tremavano. «L'ha notato anche lei?» «Certo» rispose il conducente. «Sempre. C'è sempre la folla. Ti verrebbe da pensare che hanno ucciso la loro madre.» «Arrivano a una velocità pazzesca» disse Spollner. «Lo stesso dicasi quando scoppia un incendio o c'è un'esplosione. Non c'è nessuno. Boom. Di colpo un sacco di gente.» «Mai visto un incidente... di notte?» chiese Spallner. Il taxista annuì. «Certo. Non c'è alcuna differenza. La folla c'è sempre.» Arrivarono sul luogo dell'incidente. Un corpo giaceva a terra. Avresti capito che c'era un corpo anche senza poterlo vedere. A causa della folla. La folla che gli volgeva la schiena mentre lui, Spallner, sedeva sul sedile posteriore dell'auto. La folla che volgeva la schiena a lui. Il signor Spallner abbassò il finestrino e fu sul punto di mettersi a gridare. Ma non ebbe il coraggio di farlo. Se avesse gridato, quelli si sarebbero voltati. E lui aveva paura di vedere le loro facce. «Sembra che io abbia un'inclinazione per gli incidenti» disse Spallner in ufficio. Era tardo pomeriggio. Il suo amico gli sedeva di fronte, al di là della scrivania, e ascoltava. «Sono uscito questa mattina dall'ospedale e la prima cosa che ho trovato durante il tragitto fino a casa è stato un incidente.» «Gli eventi sono ciclici.» «Lascia che ti racconti il mio incidente.» «Ne ho sentito parlare. So tutto.» «Ma è stato buffo, devi ammetterlo.» «Lo ammetto. Ora che ne dici di bere qualcosa?» Parlarono per una mezz'ora o più. E mentre parlavano, in un angolino della mente di Spallner c'era un piccolo orologio che ticchettava, un orologio che non aveva mai bisogno di essere caricato. Era il ricordo di alcune piccole cose. Ruote e facce. Alle cinque e mezzo si udì un forte rumore metallico provenire dalla strada. Morgan annuì e guardò giù. «Che cosa ti avevo detto? Ciclici. Un camion e una Cadillac beige. Sì, sì.» Spallner si avvicinò alla finestra. Era gelato e, immobile, guardò l'orologio, la lancetta dei minuti. Uno due tre quattro cinque secondi... la gente correva.... otto nove dieci undici dodici... da ogni parte, gente che correva... quindici sedici diciassette diciotto secondi... altra gente, altre macchi-
ne, altri claxon che rombavano. Curiosamente distaccato, Spallner osservava la scena come fosse quella di un'esplosione vista al contrario... al rallenty: i frammenti della detonazione che venivano risucchiati al punto dello scoppio. Diciannove, venti, ventun secondi e la folla era là. Spallner fece un gesto nella loro direzione, in silenzio. La folla era già riunita. Così veloce. Vide il corpo di una donna un momento prima che la folla le si infittisse attorno. Morgan disse: «Hai un'aria spaventosa. Vieni. Finisci il tuo drink.» «Sto bene, sto bene. Lasciami stare. Sto bene. La vedi quella gente? Vedi qualcuno? Vorrei che potessimo vederli più da vicino.» «Dove diavolo vai?» gridò Morgan. Spallner era uscito, Morgan lo seguì, giù per le scale, il più rapidamente possibile. «Vieni, sbrigati!» gridò Spallner. «Calmati, non stai bene!» Uscirono sulla strada. Spallner si fece largo. Pensava di avere visto una donna con i capelli rossi e le guance e le labbra troppo rosse. «Là!» Si voltò verso Morgan. «L'hai vista?» «Vista chi?» «Maledizione, se n'è andata. La folla l'ha inghiottita!» Tutt'attorno c'era la folla che respirava, guardava, si muoveva, si mescolava, borbottava e intralciava quando lui tentò di farsi strada. Evidentemente, la donna con i capelli rossi l'aveva visto ed era fuggita. Vide un altro viso familiare! Un ragazzino con le lentiggini. Ma c'erano tanti ragazzini con le lentiggini al mondo. E, in ogni caso, tutto fu inutile: prima che Spallner lo raggiungesse, quel ragazzino corse via e svanì tra la gente. «È morta?» domandò una voce. «È morta?» «Sta morendo» rispose qualcun altro. «Morirà prima dell'arrivo dell'ambulanza. Non avrebbero dovuto muoverla. Non avrebbero dovuto.» Tutti i visi della folla... familiari e tuttavia sconosciuti, si chinavano, guardavano, guardavano. «Ehi, signore, la smetta di spingere.» «E chi ti spinge?» Spallner vacillò e Morgan lo sorresse in tempo prima che cadesse. «Maledetto pazzo» disse. «Sei ancora debole. Perché diavolo sei dovuto scendere?» domandò Morgan. «Non lo so, davvero non lo so. L'hanno mossa, Morgan, qualcuno l'ha
mossa. Non si dovrebbe mai muovere la vittima di un incidente. Può essere fatale. Può essere fatale.» «Già. Ma la gente è fatta così. Idioti.» Spallner sistemò con cura i ritagli di giornali. Morgan li guardò. «Che idea è questa? Da quando hai avuto quell'incidente, pensi che tutti gli incidenti siano parte di te. Questi che cosa sono?» «Ritagli d'incidenti di moto e di auto con relative foto. Guardale. Non le macchine» disse Spallner, «ma la folla che le circonda. Indicò con la mano. «Qui. Confronta la foto di questo incidente in Whilshire Distric con quella in Westwood. Niente in comune. Ma ora, prendi questa foto di Westwood e mettila accanto a quella scattata dieci anni fa in Whilshire District.» Indicò di nuovo. «Quella donna è in entrambe le foto.» «Coincidenza. A quella donna è capitato di trovarsi presente una volta nel 1936 e di nuovo nel 1946.» «Una coincidenza può darsi una volta... ma dodici volte in un periodo di dieci anni, quando gli incidenti hanno luogo a tre miglia l'uno dall'altro, no. Guarda» disse Spallner e tirò fuori una dozzina di fotografie. «È su tutte!» «Forse è una pervertita.» «È qualcosa di più. Come può capitarle di trovarsi così velocemente sul posto ogni volta che c'è un incidente? E perché appare con gli stessi vestiti su fotografie scattate nell'arco di dieci anni?» «Non chiederlo a me... evidentemente ma lei può.» «E, infine, perché era china su di me la notte del mio incidente, due settimane fa?» Bevvero qualcosa. Morgan si avvicinò allo schedario. «Che cosa fai? Hai incaricato un centro di documentazione, mentre eri in ospedale, di ripassare tutti i giornali per te?» Spallner annuì. Morgan sorseggiò il suo drink. Si stava facendo tardi. Nella strada sotto l'ufficio, le luci cominciavano ad accendersi. «A che cosa ti serve tutto questo?» chiese Morgan. «Non lo so» rispose Spallner «so soltanto che c'è una legge universale negli incidenti. La folla che si raduna. Si raduna sempre. E come me e te, la gente si è meravigliata anno dopo anno. Perché si raduna così in fretta e come? Io conosco la risposta. Eccola!» Colpì con un pugno i ritagli. «Mi spaventa.» «Quelle persone...» disse Morgan «non potrebbero essere dei pervertiti sensazionalisti a caccia del brivido, con il gusto carnale per il sangue e la
morbosità? Spallner scrollò le spalle. «E questa spiegherebbe forse la loro presenza a tutti gli incidenti? Bada bene, mettono le radici in certi territori. L'incidente di Brentwood fa uscire un gruppo. Quello di Huntington Park un altro. Ma c'è una costante per le facce, una certa percentuale appare a tutti gli incidenti.» «Non sono tutte le stesse facce, no?» domandò Morgan. «Naturalmente no. Gli incidenti attraggono anche le persone normali, nel corso del tempo. Ma questi, in queste foto, sono sempre i primi sul posto. «Chi sono? Che cosa vogliono? Tu continui a parlarne ma non lo dici mai. Santo cielo devi pure avere una qualche idea. Ti sei spaventato e ora vuoi spaventare anche me.» «Ho cercato di raggiungerli, ma qualcuno me l'impedisce sempre, arrivo sempre troppo tardi. Si mescolano tra la folla e spariscono. La folla sembra offrire protezione a qualcuno dei suoi membri. Mi vedono arrivare.» «Si direbbe una cricca.» «Hanno una cosa in comune, si mostrano sempre insieme. A un incendio o a un'esplosione o ai margini di una guerra, a una qualsiasi dimostrazione pubblica di questa cosa chiamata morte. Avvoltoi, iene o santi, non so chi siano, non lo so proprio. Ma andrò alla polizia con queste foto, questa sera. È durata abbastanza. Uno di loro ha mosso il corpo di quella donna, oggi. Non avrebbe dovuto toccarla. L'ha uccisa.» Mise i ritagli nella valigetta. Morgan si alzò e s'infilò la giacca. Spallner chiuse la valigetta. «Oh, mi è venuto da pensare...» «Che cosa?» «Forse la volevano morta.» «Perché?» «Chi lo sa. Vieni?» «Mi dispiace. È tardi. Ci vediamo domani. Buona fortuna.» Uscirono. «Salutami i poliziotti. Pensi che ti crederanno?» «Oh, mi crederanno eccome. Buonasera.» Spallner guidava con calma. «Voglio arrivare» si disse, «vivo.» Fu piuttosto scioccato, ma non sorpreso quando un camion sbucò da un vicolo proprio di fronte a lui. Si stava congratulando con se stesso per l'acuto senso d'osservazione e ripeteva mentalmente ciò che avrebbe detto alla polizia quando il camion finì addosso alla sua macchina. Veramente,
non era sua la macchina, e questo era l'aspetto scoraggiante della situazione. Venne sballottato da una parte e dall'altra mentre pensava: «Che vergogna, Morgan mi ha prestato l'auto di scorta per qualche giorno finché non mi riparano la mia e ora eccomi di nuovo coinvolto in un incidente». Il parabrezza gli si schiantò sulla faccia. Lui rimbalzò avanti e indietro. Poi ogni movimento cessò e così pure ogni rumore e solo il dolore si fece strada in lui. Udì i loro piedi che correvano, correvano e correvano. Trafficò con la portiera dell'auto. Si aprì. Lui crollò sulla strada come un ubriaco e giacque, l'orecchio sull'asfalto, ad ascoltare loro che arrivavano. Era come un grande temporale, con molte gocce, pesanti e leggere e medie, che toccavano terra. Attese qualche secondo e ascoltò il loro andare e venire. Poi, debolmente e pieno di aspettativa, girò la testa e vide. La folla era là. Ne sentiva i respiri, gli odori confusi di molte persone che respiravano l'aria di cui un uomo aveva bisogno per vivere. Si accalcavano e spingevano e respiravano... respiravano tutta l'aria attorno al viso ansimante finché lui tentò di dire loro di arretrare, che lo stavano facendo vivere nel vuoto. La testa sanguinava malamente. Tentò di muoversi e si accorse che c'era qualcosa che non andava alla spina dorsale. Non aveva sentito molto male nell'urto, ma la spina dorsale gli doleva. E lui non osava muoversi. Non poteva parlare. Aprendo la bocca, non gli usciva niente. Qualcuno disse: «Datemi una mano. Lo faremo rotolare e lo metteremo in una posizione più comoda.» Il cervello di Spallner scattò. «No! Non muovetemi!» «Lo muoveremo» disse la voce, in tono casuale. «Idioti, mi ucciderete, no!» Ma lui non poteva dirlo ad alta voce. Poteva soltanto pensarlo. Delle mani lo presero e cominciarono a sollevarlo. Lui gridò e fu assalito dalla nausea. Lo distesero in uno spasimo di agonia. Furono due uomini a farlo. Uno era magro, pallido, agile, un uomo giovane. L'altro era vecchio e aveva il labbro superiore leporino. Spallner aveva già visto le loro facce. Una voce familiare disse: «È... è morto?» Un'altra, una voce memorabile, rispose: «No. Non ancora. Ma sarà morto prima dell'arrivo dell'ambulanza.» Era tutto un complotto molto sciocco, folle. Come ogni incidente. Lui gridò a quel solido muro di facce. Gli stavano tutti attorno, quei giudici e
giurati con le facce che lui aveva già visto. Nonostante il dolore, contò i loro visi: il ragazzino con le lentiggini; il vecchio col labbro superiore leporino; la donna con i capelli rossi e le guance rosse; una vecchia con un neo sul mento. «So perché siete qui» pensò. «So perché siete presenti a tutti gli incidenti. Per accertarvi che quelli giusti vivano e quelli giusti muoiano. Ecco perché mi avete mosso. Sapevate che mi avreste ucciso. Sapevate che sarei vissuto se mi aveste lasciato in pace... È così che va quando la folla si raduna. Uccidete più facilmente così. Il vostro alibi è semplicissimo; non sapevate che era pericoloso muovere un uomo ferito. Non voletate fargli del male.» Li guardò sopra di lui e si sentì incuriosito come un uomo che sott'acqua guarda la gente su un ponte: «Chi siete voi? Da dove venite e come siete arrivati qui così in fretta? Siete la folla di sempre che si serve dell'aria di cui hanno bisogno i polmoni di un uomo morente, che si serve dello spazio di cui avrebbe bisogno lui per morire, in pace. Calpestate le persone per accertarvi che muoiano, ecco chi siete. Vi conosco tutti.» Era come un monologo gentile. Loro non dicevano niente. Facce. Il vecchio. La donna con i capelli rossi. Qualcuno raccolse la sua valigetta. «Di chi è?» domandò. «È mia! Contiene le prove contro tutti voi!» Occhi rovesciati sopra di lui. Occhi lucidi sotto capelli scompigliati e sotto cappelli. Facce. Da qualche parte... una sirena. L'ambulanza stava arrivando. Ma, guardando le facce, l'espressione, lo sguardo, la forma delle facce, Spallner capì che era troppo tardi. Lo lesse sulle loro facce. Loro sapevano. Tentò di parlare. Gli uscì dalla gola: «Sembra... che... mi unirò a voi. Credo... che diventerò un membro del... vostro gruppo... ora.» Poi chiuse gli occhi e attese il coroner. Titolo originale: The Crowd Traduzione: Grazia Alineri Michael Shea L'autopsia La fantascienza di Michael Shea ha ricevuto due volte l'investitura per il
Nebula Award (una volta per questo racconto), e il suo libro, Niff the Lean, ha vinto il World Fantasy Award. La sua forza di scrittore, comunque, sta nello stile horror senza riguardi per il genere o la categoria. Quanto a lui, forse è uno dei più sottostimati tra i maggiori talenti contemporanei dell'horror; questa lacuna sarà certamente colmata, almeno in parte, dall'imminente pubblicazione di un sua collezione presso Arkham House. L'autopsia è horror nella categoria della fantascienza, una trasformazione del mito della possessione demoniaca nella realtà della scienza oggettiva. Gli effetti cinematografici di Shea reggono bene il confronto con talenti come Clive Barker, pieni come sono di colore e rigorosamente clinici. In questo racconto l'autore fa uso di alcune delle consuetudini lovecraftiane con un'efficacia mai ritrovata in altri scrittori dell'horror contemporaneo. Shea ha acquistato spessore di trama e di scrittura in poco più di un decennio e fa parte ormai della schiera dei migliori scrittori contemporanei del genere. Era mezzanotte quando il dottor Winters uscì dalla minuscola stazione dei Greyhound e s'incamminò per la strada che, sebbene si trovasse nel cuore della cittadina, odorava di pini e di fiume. Ma era una cittadina con sole cinque strade principali, lunghe meno di un miglio e a mezzo circa dal limite della gola. In fondo a quella gola, scorreva il fiume e il suo lento ruggito si udiva distintamente tra le due file di negozi dalle vetrine buie. Fatta eccezione per un orologio luminoso, diverse porte più avanti, e per la piccola insegna al neon di una birra, a un paio di isolati di distanza, la finestra della stazione era l'unica illuminata solo qualche metro, il dottor Winters depose la valigia, si mise le mani in tasca e guardò le stelle.. come ciottoli nel golfo nero. «Un villaggio di montagna... una città mineraria» disse. «Stelle. Niente luna. Siamo a Bailey.» Stava parlando al suo cancro. L'aveva nello stomaco. Aveva sviluppato l'abitudine di parlargli da quando l'aveva saputo, con questo desiderando mostrare cortesia verso il suo indesiderato ospite. La morte. No, la morte non lo avrebbe trovato scontroso se, naturalmente, sarebbe stata comunque una vittoria assoluta, con o senza le sue ironie. Riprese la valigia e proseguì. La luce delle stelle faceva dell'oscurità delle vetrine tanti deboli specchi che riflettevano l'uomo che passava: magro come una lucertola, capelli bianchi (a cinquantasette anni), un uomo che viaggiava su incarico della morte, che si portava appresso la propria morte
e perfino una valigia con sudari di morte. Perché quella valigia, a parte le sue medicine e qualche genere di prima necessità, era piena di sacchetti mortuari. Lo sceriffo gli aveva detto al telefono dei loro sistemi improvvisati per avvolgere i cadaveri e così il dottore aveva messo in valigia quei sacchetti, disponendoveli con amaro divertimento, controllando che l'ultimo non perdesse dopo averci soffiato dentro ed esserselo premuto contro il petto, come una donna avrebbe fatto con un vestito nuovo prima di metterselo; e dicendo al suo cancro: «Oh, sì, c'è abbastanza posto per tutti e due.» La valigia era pesante e il dottor Winters si fermava spesso per riposare e osservare il cielo. Che notte per lavorare, per toccare marciume senz'anima, occhi rivolti alla terra, con una volta stellata come quella! C'erano voluti cinque giorni per scavarli fuori. L'equinozio autunnale era trascorso, ma il tempo lì era stato uniformemente caldo. Ed era ancora più caldo, non c'era dubbio, sottoterra. Entrò nel municipio per una porta laterale. I suoi passi risuonarono sul pavimento di linoleum del corridoio. Una porta in fondo aveva una targhetta: NATE CRAVEN, SCERIFFO DI CONTEA. Si aprì prima che lui potesse raggiungerla e il suo amico sceriffo gli venne incontro. «Accidenti, Carl, sei così magro che potrebbero usarti come frusta. Dammi quella valigia. Sei già in una forma fin troppo perfetta. Non hai bisogno di fare altri esercizi.» La valigia parve quasi senza peso nella sua mano, non trasmise strappi alle sue spalle taurine. Nonostante certe sue deroghe, era soltanto moderatamente panciuto per un uomo della sua età e delle sue dimensioni. Aveva una faccia dai lineamenti irregolari e le sopracciglia folte, il naso e la mascella facevano apparire più piccoli i suoi occhi verdi fino a quando uno non li fissava con attenzione e allora sentiva l'acuta penetrazione della loro intelligenza. Riempì a metà due tazze dal bollitore del caffè e vi aggiunse del bourbon preso dal cassetto della scrivania. E quand'ebbero finito di bere avevano anche finito di scambiarsi i convenevoli della reciproca amicizia. Lo sceriffo fece un altro giro di caffè e bevve in un silenzio che preludeva chiaramente all'argomento che stavano per affrontare. «Parlano di giustizia» disse. «Ho visto. Uno di quei... pazienti sui quali lavorerai? Un killer. Killer non rende nemmeno la metà dell'idea. Si direbbe che sia stato proprio giustiziato in quell'esplosione. Quella sì è stata giustizia, te lo dico io. Ma non per gli altri nove. E non è ancora finita con la loro morte. Quel baciapile del tuo capo! Si sta spezzando la schiena a forza d'inchinarsi davanti alla Fordham Mutual. Che quadro ti ha fatto del-
la situazione?» «Suppongo che tu ti riferisca allo stimato coroner Waddleton di Forhdam County.» Il dottor Winters fece una pausa per bere il suo caffè. Con un delicato dilatare delle narici trasmise tutto il disgusto, il disprezzo e il divertimento che aveva provato nei suoi quattro anni di patologo per l'ufficio di Waddleton. Lo sceriffo si mise a ridere. «Raramente emergono quadri chiari da quello che dice il coroner» continuò il dottore. «Ha fatto il tuo nome. Vigorosamente e ripetutamente. Sono state le sue esatte espressioni. Ha poi sviluppato il concetto della stretta competenza del nostro ufficio secondo il dettato della legge e della legge di compensazione dei lavoratori in particolare. I benefici per morte spettano alle persone a carico dei deceduti soltanto se questi sono morti a causa del proprio lavoro, e non semplicemente nel corso dello stesso. Le vittime di assalti maniaci, anche se durante lo svolgimento del proprio lavoro, sono ben lungi dall'essere risarciti per legge. Abbiamo poi preso in considerazione la tragica ingiustizia di una compagnia d'assicurazione... qualsiasi compagnia d'assicurazione... che, poveretta! si vide costretta a risarcire persone sprovviste d'ogni titolo... e solo per il lassismo e l'incompetenza di chi ha espletato le indagini. E il tuo nome è saltato di nuovo fuori.» Craven diede in una sequela di furibonde imprecazioni. «L'imparziale servo pubblico! Ah! L'imparziale uomo di merda che è! Dieci a uno che la Fordham Mutual si tirerà fuori senza il suo aiuto, e le famiglie di quegli uomini non vedranno un soldo. Ma le parole furono per lui uno sfogo insufficiente. Si voltò e sputò nel cestino della cartaccia. Vuotò la tazza e sospirò. «Scusami, Carl. È da cinque giorni che stiamo tirando fuori quegli uomini e da due setacciamo quella montagna alla ricerca di altri esplosivi, con quegli investigatori assicurativi alle calcagna che riescono a dire al massimo che c'è la forte prova presuntiva di una bomba. Be', io non mi smuovo perché non devo. Waddleton può tirare fuori tutte le circostanze straordinarie che vuole. Se tu non troverai niente in quei cadaveri, ed è per questo che esiste l'autopsia, allora saranno sepolti qui, dove vogliono le loro famiglie. Il dottore stava sorridendo all'amico. Finì di bere e parlò con il distacco di prima, come se lo sceriffo non lo avesse interrotto: «L'onorevole Coroner ha poi parlato con notevole volubilità dell'argomento moduli in Consenso all'Autopsia e della maliziosa circonvenzione di privati cittadini da parte di funzionari incaricati di fare rispettare la legge. Aveva, per caso, un fascio di tali moduli sulla scrivania, tutti firmati, tutti con una clausola ad-
dizionale apposta in alto, sopra la firma. Un paragrafo convincente. Una clausola che, tra l'altro, ha avuto la proprietà di fare diventare rosso paonazzo il viso del coroner quando lui l'ha letta da alta voce. Me l'ha letta tre volte. E diceva che il consenso dei sopravvissuti era contingente soltanto a due condizioni: che l'autopsia fosse eseguita in locem mortis, che è come dire a Bailey, e che soltanto se il patologo del coroner avesse trovato una prova concreta dell'omicidio i deceduti avrebbero potuto essere soggetti sia alla rimozione da Bailey sia a un ulteriore necroscopia. Era tutto scritto. Ricordo di essermi chiesto chi l'avesse scritto. Lo sceriffo annuì, divertito. Prese la tazza vuota del dottor Winters, la mise accanto alla propria e le riempì tutte e due per i due terzi di bourbon, poi aggiunse caffè, ma solo a quella del dottore. I due amici si guardarono come giocatori di poker allo scoprimento delle carte. Poi lo sceriffo fissò la sua tazza e bevve. «In locem mortis. Cosa significa esattamente?» «Sul posto della morte.» «Oh... Vuoi che te lo rinfreschi?» «Ho già cominciato a farlo, grazie.» Risero entrambi, tacquero, e risero di nuovo come se qualcuno avesse detto qualcosa di smodatamente fatuo. «Mi ha detto soprattutto che dovevo trovare qualcosa che giustificasse una seconda autopsia» riprese infine il dottore. «Avrebbe venduto l'anima... o vi avrebbe messo una seconda ipoteca... per un'unità mobile di raggi X. Ha ragione, naturalmente. Se quei cadaveri hanno intrappolato un qualche frammento di bomba, sarebbe il modo più sicuro e più veloce per trovarlo. Mi stupisce che il tuo dottor Parsons non abbia ancora fatto funzionare il suo impianto.» «Sistema ossa, cuce ferite, scrive prescrizioni e fa scendere dalla montagna i casi dubbi. Si limita a questo. Da un ubriacone non ci si può aspettare molto di più.» «È ridotto così male?» «Tira a campare e basta. Nel suo caso, Waddleton ha avuto ragione a non nominarlo patologo. Dubito che avrebbe trovato una palla di cannone in un topo morto. Qui nessuno glielo dice per non ferirlo e perché è ancora in attività, ma tutti sanno come stanno le cose. Sono i pazienti che devono tenerlo d'occhio per metà del tempo. Ma Waddleton ti avrebbe mandato lo stesso, indipendentemente da chi avessimo avuto qui. Soltanto il meglio per un partito di sostenitori come la Fordham Mutual.»
Il dottore si guardò le mani e si strinse nelle spalle. «Dunque, c'è di mezzo un killer. È stata davvero una bomba?» chiese. Lentamente, lo sceriffo piantò i gomiti sulla scrivania e si premette le mani contro le tempie, come se la domanda avesse scatenato ricordi turbolenti. Per la prima volta, il dottore... distogliendo metà della sua attenzione dagli stimoli di morte sempre presenti in lui... vide la stanchezza dell'amico: nel tremito di una mano, nelle borse sotto gli occhi. «Ti dirò quello che so, Carl. Come ti ho già detto, non credo che troverai un accidenti in quei cadaveri. Probabilmente finirai con l'arrivare alle mie stesse conclusioni: le conclusioni alle quali sono arrivati tutti da queste parti. Si tratta davvero di uno di quegli incubi speciali con i quali il buon Dio tortura gli uomini di legge per poi nascondere per sempre le risposte... Ecco qui, allora. Circa due mesi fa, scomparve un uomo... Ronald Hanley. Lavoratore della maniera, uomo robusto, di famiglia. Non tornò a casa e non se n'è più trovata traccia. D'accordo, a volte succede. Circa una settimana dopo, scomparve anche la signora che gestiva la lavanderia automatica, Sharon Starker. Senza tracce. Ci mettemmo sul chi vive. Feci trasmettere un messaggio dalla radio locale perché la gente sapesse che poteva incappare in qualche stranezza e prendesse quindi tutte le precauzioni del caso. Mettemmo in servizio e in allerta entrambe le nostre squadre di pattuglia notturna e di giorno andammo di casa in casa a verificare alibi per le ore delle due scomparse. Non servì. Tu sei uno di quelli che si lascia ingannare da questa uniforme e pensa che sono un tutore della legge, protettore della gente e cose del genere? Un errore comprensibile. Un sacco di gente si lasciò ingannare. In meno di sette settimane, sparirono sei persone, così come era accaduto in precedenza. Io e i miei vice avremmo potuto fare il giro dell'orologio a letto per il contributo che ci riuscì di dare.» Lo sceriffo scolò la tazza. «A ogni modo, alla fine avemmo fortuna. Adesso non capire male. Non è che all'improvviso fossimo diventati dei portenti e fossimo arrivati a impedire un qualche altro crimine. Trovammo un corpo. Solo che non era di nessuna delle sette persone scomparse. Cominciammo a setacciare i boschi vicini alla città con l'aiuto di alcuni minatori. Be', uno di quei ragazzi era fuori con noi la settimana scorsa. Faceva caldo... com'è da un pezzo, ormai... ed era tutto molto tranquillo. Lui sentì questo ronzio e cominciò a cercarne la causa, arrivando a scoprire uno sciame di api nella biforcazione di un albero. Solo che un alveare d'api non è cosa frequente da queste parti. Quindi non si trattava di api. Erano tafani, una grossa nuvola, tutt'attorno a
qualcosa avvolta in un telone.» Lo sceriffo si studiò le nocche. Nella sua movimentata esistenza, aveva in qualche occasione incontrato persone che conoscevano il significato del suo cognome — e che erano state poco prudenti da riderne, e le nocche... nocche piene di cicatrici.... testimoniavano eloquentemente le sue reazioni. Guardò negli occhi il vecchio amico. «Tirammo giù la cosa e aprimmo il telone» proseguì. «Billy Lee Davis, uno dei miei vice, uno che è stato in Vietnam è che ha visto cose brutte, assai brutte, vomitò lì per lì e stette male. Si trattava di un uomo. Quello che rimaneva di un uomo. Che fosse stato alto sul metro e ottantacinque potevamo vederlo perché le ossa c'erano tutte, e che doveva essere stato tra i novanta e i cento chili, anche, ma, ripiegato, non occupava più spazio di un grosso pacco di lavanderia. Aveva ancora la faccia, le due spalle e il braccio sinistro. Tutto il resto era spolpato. E non era il lavoro di un animale. Era piuttosto il lavoro di un coltello, con tutti gli angoli ben puliti, il lavoro di un macellaio. Solo che la carne macellata, la puoi lasciare a scolare finché vuoi, sanguinerà sempre un po' anche dopo. Lì, invece, non c'era una sola macchia di sangue. Né sul telone, né sulla carne stessa. Era pallida bianchiccia, come quella di pesce.» Al centro del suo corpo, il cancro del dottore lo toccò. Non un attacco devastante... affondò soltanto un dente, tanto per trovare, in carne nuova, non ancora gustata, terreno per il suo appetito. Il dottore nascose il tremore con uno scuotimento della testa. «Un nascondiglio, dunque» disse. Lo sceriffo annuì. «Come tenere l'arrosto nella celletta del ghiaccio per farti uno spuntino, dopo. Feci alcune fotografie della faccia, poi lo rimettemmo al suo posto, cancellando le nostre tracce. Due dei minatori che avevo preso con me come vicesceriffi batterono la zona. Erano tipi in gamba, gente dei boschi. Li lasciammo di guardia e ce ne tornammo indietro... Bene, cercammo di sapere chi fosse, mandammo descrizioni in ogni città del raggio di cento miglia. Non l'avevo mai visto a Bailey, né, a quanto pareva, l'aveva visto nessun altro dopo che avemmo setacciato per tutto il giorno la città con la fotografia. Poi, di punto in bianco, Billy Lee Davis si batte la mano sulla fronte e dice: «Sceriffo, io quest'uomo l'ho visto in città, e neppure molto tempo fa!». Billy si era dato da fare tutto il giorno, e poi, tutt'a un tratto, era saltato su con quel ricordo... ed era sicurissimo! Soltanto, non riusciva a ricordare dove o quando. Si fece schizzare il cervello fuori dalla testa a furia di pensarci. E io l'avrei preso per le caviglie,
appeso a un albero e scosso fino a farglielo venire fuori! Niente. Poco dopo il tramonto, tornammo all'albero... avevamo scovato un posto dove nascondere le auto sapevamo come arrivare all'albero attraverso i boschi. Quando fummo abbastanza vicini, chiamammo con il walkie-talkie gli uomini di guardia perché si facessero vedere. Nessuna risposta. E quando fummo sul posto, trovammo soltanto l'albero: né cadavere, né telone, né vicesceriffi. Niente.» Questa volta, fu il dottor Winters a versare caffè e bourbon. «Troppo caffè» borbottò lo sceriffo, ma bevve lo stesso e proseguì: «Una parte di me avrebbe dato fuoco al mondo. Un'altra era spaventata a morte. Quando tornammo indietro, mi misi alla radio e lanciai un comunicato d'emergenza. Ci lasciai un uomo perché lo ripetesse ogni ora. Raccomandavo a tutti di stare sempre in gruppi di tre, di giorno e di notte, almeno in tre, di uscire il meno possibile, di armarsi e di tenersi d'occhio a vicenda. Sembrava una sciocchezza ma essere in due poteva non bastare se uno dei due fosse stato il killer. Nominai altri vicesceriffi e li mandai per le strade a rafforzare il pattugliamento notturno. «Fu il mattino dopo che le cose precipitarono. Chiamò lo sceriffo di Rakehell... la contea vicina... e disse che il nostro cadavere poteva essere quello di un certo Abel Dougherty, un operaio della Con Wood, una fabbrica di laggiù. Lasciai Bill di servizio e partii sparato. Questo Doughtery aveva una sorella sciancata, più vecchia di lui, alla quale ordinava sempre di stare vicino al telefono quando lui si assentava dalla città per molto tempo, cosa questa di cui nessuno era al corrente. Lo sceriffo Peck lo seppe soltanto quando la donna gli telefonò e gli disse che suo fratello era via da quattro giorni per una vacanza e che non le aveva telefonato neppure una volta. Senza quella segnalazione, Peck forse non sarebbe mai arrivato a Doughtery con la nostra descrizione soltanto, anche se la foto che gli mostrai era quella dell'uomo. Be', avevamo appena appurato la cosa, che arrivò una telefonata per me. Era Billy Lee. Si era ricordato, finalmente! Aveva visto Doughtery la domenica sera, tre giorni prima che lo trovassimo. Lo aveva visto alla Trucker's Tavern, un posto a nord della città. L'uomo stava facendo un po' di casino perché era ubriaco e se la prendeva con un minatore che beveva nello stesso locale, un certo Joe Allen, arrivato alla miniera due mesi prima. Doughtery gli stava dicendo che non era Joe Allen ma il suo vecchio amico Sykes, uno che aveva lavorato con lui alla Conwood.. «Ma che razza di scherzo è questo» diceva. «Vieni e beviti una birra, vecchio mio e dimmi perché te ne sei andato così all'improvviso
e cosa diavolo fai adesso...». Allen aveva preso la cosa in ridere. Doughtery gli aveva dato una pacca sulla spalla. Allen gli aveva restituito la pacca e ogni altro genere di scherzo, aggiungendo qualcosa come: «Date un'altra birra a quest'uomo. Mi ha scambiato per uno dei suoi perduti amici.» Doughtery era un tipo grosso, rumoroso e cocciuto e Billy Lee temeva che scoppiasse una rissa, e non era l'unico. Ma questo Joe Allen era un buon diavolo e aveva saputo contenere ogni eccesso. Avevamo fatto un controllo su di lui alcune settimane prima, come su chiunque altro, ed era un tipo molto popolare tra i minatori. Alla fine, Doughtery aveva sbraitato che voleva portarlo in un altro bar per celebrare la vacanza che si era preso. Joe Allen si era alzato sogghignando e aveva detto che, accidenti, non poteva accontentare Doughtery trasformandosi nel suo amico Sykes, ma poteva concedersi un bicchiere con qualsiasi bevitore degno di questo nome. E, con soddisfazione di tutti, era riuscito con lui, ammiccando verso i presenti.» Craven fece una pausa. Il dottor Winters incontrò i suoi occhi e conobbe i suoi pensieri, due immagini: il jolly ubriaco che strizzava l'occhio e faceva ridere tutti, e la cosa nel telone che marciva ai tafani. «Fu sufficientemente chiaro per me» riprese lo sceriffo. «Dissi a Billy Lee di perquisire la stanza di Allen alla pensione Skettles e poi di andare dritto alla miniera, a prenderlo. Avremmo potuto chiarire le cose una volta che lo avessimo preso. E dal momento che ero già a Rakehell, feci dei controlli prima di tornare indietro. Andai con lo sceriffo Peck alla Con Wood e trovammo una fotografia di Eddie Sykes negli schedari del personale. Avevo visto Joe Allen abbastanza spesso ed era la sua fotografia quella archiviata negli schedari. Scoprimmo poi che Sykes viveva solo, operaio occasionale, molto discreto nel suo andare a venire, e che non si faceva vedere da un po'. Ma uno dei tagliatori della Con Wood disse di essere abbastanza sicuro di quando Sykes se n'era andato da Rakehell perché si era recato al suo capanno la mattina dopo: c'era stata una grossa caduta di meteoriti, circa nove settimane prima, e qualcuno aveva detto che erano cadute poco lontano dal capanno di Sykes, dalla parte della montagna. Il tagliatore quella mattina era andato a vedere e Sykes non c'era... Insomma, sembrava che ogni cosa combaciasse. Anzi, combaciava. Dopo tutte quelle settimane. Ero a meno di un miglio da Bailey e viaggiavo con il pedale a tavoletta. Pieno di rabbia e sentimenti di vendetta. Mi sentivo... come una pallottola, come una grossa pallottola calibro trenta che stesse puntando dritta verso quel sanguinaro cannibale di Sykes alias Joe Allen.. una pal-
lottola che lo inchiodasse un centinaio di volte. Questa era la pista più concreta che avessimo. Così concreta che quasi ne sentii fisicamente il crollo quando se ne andò in merda. «Ti sembro pazzo, lo so. Forse tutto questo mi ha lasciato dentro qualcosa di cui non mi libererò mai. Dovemmo mettere insieme quello che accadde. Billy Lee non aveva altri vicesceriffi con lui. Travis era fuori, sulla montagna con alcuni uomini, a cercare attorno a quell'albero. Per fortuna, era alla macchina proprio mentre Billy Lee cercava di mettersi in contatto con lui. Disse che era stato nella stanza di Allen e che aveva qualcosa che forse lo avrebbe incastrato. Era una sfera, grossa la metà di un pallone da basket, pesante, fatta di qualcosa che non era metallo e neppure vetro, ma un po' di tutti e due. Poteva vederci dentro un po' e sembrava piena di circuiti e componenti. Se qualcuno cercava di mettere le mani su Allen, quello poteva ridurci in poltiglia con quella roba. Sospettavamo cioè che fosse una bomba. Gesù! A ogni modo, disse che era stata l'unica cosa strana che avesse trovato, ma era davvero strana. Disse a Travis di farsi trovare alla miniera. Ci sarebbe andato anche lui e forse avrebbe già avuto Allen quando Travis fosse arrivato. «Tierney, il capo della miniera, aveva un assistente che ci disse il resto. Billy Lee parcheggiò dietro gli uffici, in un posto invisibile per gli uomini dentro la miniera. Salì di sopra con Tierney per procedere all'arresto di Allen. Avevano una mezza dozzina di uomini con loro. Proprio mentre uscivano all'aperto, videro Allen sgusciare dall'auto della squadra con la sfera sotto il braccio. «Si misero tutti in allarme e Tierney telefonò perché chiudessero i cancelli. Allen tagliò a destra e a sinistra, ma la trappola si era chiusa. La sfera lo rallentava, ma aveva ancora un buon vantaggio. Esitò un secondo, poi deviò dritto verso il pozzo principale. C'era una gabbia che stava scendendo con un equipaggio e Allen rischiò l'osso del collo saltando dentro. Atterrò sul tetto della gabbia. Il tempo di arrivare agli interruttori... ma la gabbia aveva già raggiunto il secondo livello e l'equipaggio e Allen ne erano usciti. Tierney richiamò la gabbia. Billy Lee ordinò al resto degli uomini di andare a prendere le armi e di seguirlo, e con Tierney ridiscese. Circa due minuti dopo, la maledetta mina esplose.» Lo sceriffo si fermò come se fosse stato interrotto, le labbra dischiuse come per dire dell'altro, gli occhi che registravano forse per la centesima volta lo stupore che non ci fosse altro da dire, che le settimane di morte e mistificazioni fossero finite con quella ricapitolazione minuto per minuto;
con altra morte, altre incognite senza risposta che sigillavano tutto. «Nate.» «Che cosa?» «Chiudi tutto e và a letto. Non ho bisogno del tuo aiuto. Non ti reggi in piedi.» «Mi reggo in piedi, sta tranquillo.» «Dammi l'esatta posizione delle vittime al momento dell'esplosione. Io mi metterò al lavoro e tu andrai a dormire.» Lo sceriffo scosse la testa con aria assente. «Stavano lavorando in cunicoli d'estrazione. Le gallerie... i livelli... si diramano lateralmente dal pozzo verticale. Da un livello, scavano verso l'alto fino a raggiungere il livello superiore. Scavavano grandi camere e lasciavano dentro gran parte delle rocce frantumate perché potessero salirci sopra e innalzare i soffitti. Lasciavano supporti di pareti tra i cunicoli e in pratica lavoravano sepolti a parecchi cunicoli di distanza dal pozzo. La ricaduta della caverna li ha uccisi. La montagna si è semplicemente richiusa sopra di loro. Nessun frammento li ha raggiunti, ne sono sicuro. Gli unici frammenti che hanno trovato sono quelli di alcune cariche standard che l'esplosione ha fatto brillare ma che non sono neppure arrivate vicine. L'esplosione grossa è avvenuta dove la galleria si congiunge con il pozzo, proprio mentre Billy Lee e Tierney uscivano dalla gabbia. Non c'è rimasto mente, Carl. Niente sfera, niente gabbia, niente Tierney, niente Billy Lee. Solo roccia polverizzata come farina.» Il dottor Winters annuì e dopo un momento si alzò. «Andiamo, Nate. Devo cominciare. Sarò fortunato se avrò finito con qualcuno di loro prima di giorno. Lasciami solo e va a dormire. Domani mattina avrai ancora un bel po' di tempo per assistere a gran parte del lavoro.» Lo sceriffo si alzò, prese la valigia del dottore e lo accompagnò fuori dall'ufficio senza una parola, rassegnato nel suo silenzio. L'auto della pattuglia era dietro l'edificio. Il dottore vide una più crudele bellezza nelle stelle rispetto a un'ora prima. Salirono sull'auto e Craven partì per la strada deserta. Il dottore abbassò il vetro del finestrino e prestò attenzione, ma c'era il rumore del motore a coprire quello del fiume. Davanti ai loro fari, file di antiquati parchimetri lanciavano ombre lunghe sui marciapiedi, ombre che si contorcevano e si dissolvevano al passaggio di una qualche altra auto.
«Tutti quegli altri morti» disse lo sceriffo «Per niente! Neppure per... nutrirlo! Se è stata una bomba, e l'ha fatta lui, doveva anche sapere quanto fosse potente. Non poteva pensare di avere la minima possibilità di scampo. E poi, come faceva a sapere che era nell'auto? Abbiamo scoperto che Allen-Sykes stava finendo il suo turno, ma non era ancora emerso in superficie quando Billy Lee ha parcheggiato, fuori vista.» «Lascia perdere, Nate. Mi racconterai il resto soltanto dopo che ti sarai fatto qualche ora di sonno. Ci saranno le fotografie, i rapporti e tutte le altre testimonianze. Quando avrò visto tutto, saprò come procedere esattamente.» Bailey non aveva né un ospedale, né una morgue, perciò i cadaveri erano stati messi in una fabbrica di ghiaccio in disuso alla periferia della città. Era stato portato un generatore dalla miniera e quello forniva una provvisoria illuminazione e teneva in funzione il sistema di refrigerazione. L'ufficio del dottor Parsons e la minuscola stanza che fungeva da morgue e che era annessa all'ufficio dello sceriffo avevano fornito l'attrezzatura che, oltre a quella che s'era portata dietro, sarebbe servita al dottor Winters. A un quarto di miglio dalla città, si fermarono davanti alla fabbrica. Fiancheggiato da alberi, senza nessun'altra struttura intorno, l'edificio era composto da due parti: la più piccola, l'ufficio, era illuminata. I cadaveri dovevano trovarsi certamente nell'altra, senza finestre, refrigerata. Craven si fermò accanto a una seconda autopattuglia, davanti alla porta dell'ufficio. Ne discese un uomo piccolo e magro con un grande cappello bianco e venne avanti. Craven abbassò il vetro del finestrino. «Questo è il dottor Winters, Trav» disse lo sceriffo. «Nate... Dottor Winters ... Dentro è tutto in ordine. Si sta meglio fuori. L'ultimo cadavere l'hanno portato due ore fa.» «Ne arriveranno sicuramente altri. Smonta, adesso, Trav. Và a dormire e torna all'alba. A che temperatura siamo?» Il cappello chiaro, reso ancora più chiaro dalla luminosità delle stelle, ondeggiò dubbiosamente. «Due, tre gradi. Non si abbasserà di più. Sembra che ci sia una perdita.» «Dovrebbe bastare» disse il dottore. Travis se ne andò con l'auto e lo sceriffo aprì la porta dell'ufficio. Alle sue spalle, il dottor Winters sentì di nuovo il fiume... fresco balsamo, sospiro di libertà... e, su tutto, il sommesso mormorio del generatore piazzato sul retro dell'edificio: un suono mordente, impietoso che sembrava in qualche modo volere sopraffare quello rasserenante del fiume. Entrarono.
I preparativi erano stati solleciti e completi. «Puoi tirarli fuori dalla cella frigorifera e metterli qui per esaminarli» disse lo sceriffo, indicando un tavolo e una barella. «Troverai tutto l'occorrente su quel tavolo grande e potrai scrivere i referti sulla scrivania. Il telefono non è collegato... C'è una cabina telefonica al distributore di benzina che abbiamo incontrato. Se hai bisogno, chiamami.» Il dottore annuì e si chinò per osservare il materiale sul tavolo grande: bisturi, bisturi post-mortem e cartilaginei, forbici per l'intestino, cesoie toraciche, forcipi, sonde, mazza e scalpello, sega elettrica per le ossa, bilancia, contenitori per campioni, aghi e suture, sterilizzatore, guanti... Accanto a tutta quella roba, c'erano alcune scatole e buste con fogli descrittivi attaccati, nelle quali c'erano fotografie e oggetti così come erano stati trovati accanto ai corpi. «Eccellente» mormorò. «La luce sopra è fluorescente, a spettro pieno, come la chiamano. Va meglio per i colori. C'è una pinta di bourbon come si deve nel primo cassetto della scrivania. Pronto a esaminarli?» «Pronto.» Lo sceriffo tolse la sbarra e fece scorrere la grande porta di metallo della camera di refrigerazione. Un denso vapore gelido si riversò nella stanza. La luce, dentro, era bassa — ma più alta non sarebbe stata di alcuna utilità — giallastra, e spioveva su dieci forme oblunghe appoggiate su altrettanti sostegni. I due rimasero in silenzio per un momento, immobili come in una specie di non premeditato omaggio all'eterno mistero. Come se la fredda stanza fosse di fatto un sudario, il dottore provò un che di soggezione verso la velata fila di forme. L'unisona spaventosità della loro morte, la tomba titanica che si era aperta per loro, conferiva alle dieci salme una severa autorità, erano Quelli Scelti dalla Morte. Il cancro si fece sentire e il dottore si premette una mano sullo stomaco. Lanciò un'occhiata a Craven e vide con sollievo che l'amico stava ancora guardando i cadaveri e non aveva quindi notato il suo gesto. «Aiutami a scoprire, Nate.» Cominciando ciascuno dall'estremità opposta, tolsero i teli e li ammonticchiarono in un angolo. Tutti e due adesso si muovevano con movimenti bruschi, senza fermarsi sul discoprirsi di quelle facce gonfie... molte con tre labbra a causa del gonfiore che faceva sporgere loro anche la lingua... e di quelle mani grasse, livide, protese da maniche sporche. Ma, di fronte a
uno dei cadaveri, Craven si fermò. Il dottore lo vide guardare e torcere la bocca. Craven buttò poi via il telo e passò sul successivo. Quando uscirono, il dottor Winters prese la bottiglia e bicchieri che Craven aveva messo nella scrivania e versò per tutti e due. Lo sceriffo fece per parlare, poi scosse la testa e sospirò: «Devo andare a dormire, Carl. Mi vengono pensieri pazzeschi su questa cosa.» Il dottore avrebbe voluto sapere quali fossero quei pensieri, si limitò invece a mettere una mano sulla spalla dell'amico dicendo: «Va a casa, sceriffo Craven. Togliti il distintivo e mettiti a letto. I morti non se ne andranno via. Saremo ancora tutti qui domani mattina.» Quando il rumore dell'auto si fu allontanato, il dottore rimase ad ascoltare il gemito del generatore e il silenzio della morte, ora risorgente. Sia il gemito che il silenzio sembravano prendersi gioco di lui. L'eco delle sue stesse parole lo facevano sentire a disagio. Disse al suo cancro: «Che cosa ne dici, caro collega? Saremo ancora qui, domarli? Tutti noi?» Sorrise, ma sentiva una strana irrequietezza. Era come se avesse azzardato una battuta e dal suo indesiderato compagno si fosse levato un ostile silenzio. Andò alla porta della stanza frigorifera, l'aprì e passò in rassegna i cadaveri nella loro ordinata disposizione, con la loro aria da tribunale. «Allora, signori?» mormorò. «Mi giudicherete? Giocheremo a chi esaminerà chi, questa notte... sempre che voi siate d'accordo e il gioco sia di vostro gradimento.» Tornò nell'ufficio dove la prima cosa che fece fu di esaminare le fotografie fatte dallo sceriffo per vedere in quale posizione fossero i morti nel momento in cui erano stati ritrovati. La terra li aveva abbattuti con terribile subitaneità. Alcuni erano ripiegati, altri parzialmente in piedi, altri ancora in pazzesche e disordinate posizioni. Ogni fotografia mostrava il caos nel quale avevano lavorato pale e picconi. Il dottore le studiò attentamente, notando i nomi che erano stati scritti sui corpi a mano a mano che venivano recuperati completamente. Uno degli uomini, Robert Willet, era morto a qualche metro di distanza da tutti gli altri. Sembrava che si fosse raggomitolato in uno dei cunicoli che dava più direttamente sulla galleria al momento dell'esplosione. Era quindi probabile che lui, più degli altri, fosse stato investito dall'urto della deflagrazione. Se si dovevano cercare frammenti della bomba, il signor Willet era quello che più probabilmente doveva contenerne. Il dottor Win-
ters s'infilò un paio di guanti chirurgici. Robert Willet era a un'estremità della fila. Indossava una camicia termica e una tuta che appariva stranamente nuova sotto lo sporco della sepoltura. Il tessuto ruvido sembrava stridere con la pelle.. azzurrognola, gonfia, apparentemente facile a strapparsi o a esplorare come un frutto maturo. In vita, Willet si pettinava i capelli con la brillantina. Adesso quei capelli erano una scultura di polvere, punte e spire modellate dall'ultima compressione della testa contro la montagna che l'aveva serrata. «Il rigor c'era già stato e se n'era andato...» Willet rotolò mollemente sulla barella. Mentre passava davanti agli altri, il dottore avvertì una specie d'imbarazzo, il senso di un qualche giudizio che emanava dall'assemblea di morte e la cosa lo infastidì fino a irritarlo e a indurlo ad accelerare i tempi di passaggio. Mise Willet sul tavolo esaminatorio e gli tagliò via i vestiti con le cesoie, mettendone i pezzi in una scatola. La tuta era sporca di espulsioni agoniche. Il dottore fissò per un momento con involontaria pietà il suo soggetto nudo. «Non andrai a Fordham, in ogni caso» disse al cadavere. «A meno che io non trovi qualcosa di maledettamente ovvio.» Si adattò meglio i guanti e dispose l'attrezzatura. Waddleton gli aveva detto molto di più di quanto lui non avesse riferito allo sceriffo. Il dottore doveva trovare, e forzatamente registrare di avere trovato, forti indicazioni che richiedessero il trasferimento dei deceduti a Fordham per essere sottoposti ai raggi X e a una esauriente seconda autopsia post-mortem. La continuazione della collaborazione del dottore con l'ufficio del coroner dipendeva strettamente dal compimento di quella missione. Il dottor Winters aveva accolto quella richiesta con un silenzio che Waddleton non aveva ritenuto necessario rompere. Ma la sua attuale decisione non era stata presa al momento. Lasciare che l'ovvio fosse preso come tale. Se gli altri avessero mostrato così chiaramente come Willet i segni esterni di morte per asfissia, non avrebbero ricevuto che un esame esterno. Avrebbe esaminato Willet anche internamente, ma soltanto per stabilire in profondità, e soltanto per lui, quello che sarebbe stato ovvio in tutti gli altri. Altrimenti, soltanto quando l'esame esterno avesse rivelato qualcosa di chiaramente anomalo... e doveva essere chiaro, suggestivo... avrebbe guardato più in profondità. Sciacquò i capelli impiastricciati in una bacinella, versò il sedimento in una bottiglietta e vi mise un'etichetta. Partendo dallo scalpo, cominciò un
minuzioso esame della superficie del corpo, registrando tutte le sue osservazioni via via che procedeva. I segni caratteristici della morte per asfissia erano evidenti, nonostante i complicanti effetti di autolisi e putrefazione. La protuberanza dei globi oculari e della lingua era almeno parzialmente dovuta alla pressione del gas e al tipo di morte, e la lingua stretta tra i denti non lasciava dubbi su quale tipo. La colorazione del cambiamento degenerativo... una tinta gialloverdastra, uno scurirsi ed evidenziarsi delle vene superficiali... era marcata, ma non sufficiente a cancellare il blu della cianosi sul viso e sul collo, né i punti emorragici sul collo, sul petto e sulle spalle. Dalla bocca e dal naso il dottore grattò via ciò che sperava fosse muco misto a sangue, tipica espulsione in un'agonia priva d'aria. Cominciò a trovare un che di comico nel suo lavoro. Che razza di buffone faceva di un uomo la morte! Una cosa blu, con gli occhi all'infuori, con tre labbra... E c'era lui, la sua curiosa, ansiosa intimità con quella clownesca carogna. «Mi scusi, signor Willet, se infilo una sonda in questa lacerazione. Che cosa sente quando lo faccio? Niente? Proprio niente? Bene, e adesso quelle unghie. Se le è spezzate mentre artigliava la terra, non è vero? Sì. Una bella vescica di sangue sotto l'unghia del pollice, vedo... se l'è fatta sul lavoro qualche giorno prima della disgrazia, senza dubbio. Calli notevoli, qui, molto duri...» Il dottore guardò, per una frazione di tempo assai poco analitica, quelle mani... artigli scuri, gonfi, che avevano rinunciato a ogni presa, ogni contatto. Sentì lo spreco di quell'uomo concentrato nelle mani. La dolorosa futilità della meravigliosa articolazione del corpo vista nella morte... l'amarezza che aveva imparato da molto tempo a mettere da parte quando lavorava. Ora lasciava che lo commuovesse un po'. Quel Robert Willet, mentre si avviava al lavoro un pomeriggio, era stato improvvisamente investito, schiacciato e ridotto a un ammasso di materiali non più funzionali e deperibili. Era semplicemente accaduto che la sua vita avesse corso il rischio di avvicinarsi troppo al passaggio di una vita più potente, una di quelle inesorabili e affamate vite che lasciano relitti umani... conosciuti o ignoti... nelle loro scie. «Sfortuna, signor Willet» pensò. «Naturalmente, noi siamo molto spiacenti di questo. Ma questo Joe Allen, suo compagno di lavoro. Sembra che fosse una specie di... cannibale. È complicato. Non capiamo tutto. Ma il fatto è che dobbiamo smontarla, almeno in parte. Non c'è davvero speranza che lei torni a usare un'altra volta queste parti di se stesso, temo. Pronto, adesso?»
Il dottore procedette all'esame interno, con una vaga premura, nella frammentazione di Willet, nella disarticolazione di quella tristezza nella sua forma naturale. Afferrò Willet per la mascella e prese il bisturi, postmortem. Ne affondò la punta sotto il mento e cominciò la lunga incisione che aprì Willet dalla gola all'inguine. Nella coscienziosa separazione degli strati del corpo, il dottor Winters trovò concentrazione e piacere. E tuttavia, mentre lo faceva, sentiva, insistente, il flusso di una corrente d'irrilevanti immagini. Erano le immagini dell'edificio che lo conteneva, della notte che conteneva l'edificio. Come dall'esterno, vide la fabbrica... assi sbiadite, ferri arrugginiti... e gli alberi che le si affollavano intorno, tutto sotto la luce delle stelle, immagine di una città spettrale. E vide la cella frigorifera come se ci stesse dentro, avvertì l'immobilità degli uomini morti sotto la fredda luce giallastra. E via via una domanda si formava in lui, ora insinuandosi chiara, ora indistinta, nella sua concentrazione: perché sentiva ancora, come un agitarsi d'aria, quel senso di muta vigilanza che circondava ogni sua azione, furtivamente toccandogli ogni suo nervo mentre lavorava? Si strinse nelle spalle, un po' irritato, adesso. Chi altro poteva essere se non la Morte? Non era lui un mercenario della Morte, e quello un posto di Morte? Allora tanto valeva che la padrona guardasse. Rovesciando all'indietro la pelle punteggiata di capocchie emorragiche di Willet, il dottor Winters esaminò il cadavere con un crescente distacco, come un testo mortuario. Restrinse la sua ispezione ai polmoni e al mediastino e là trovò la testimonianza inequivocabile della morte per asfissia di Willet. Le pleuri mostravano le ecchimosi classiche... ammaccature nella lucente membrana che avvolgeva i polmoni. Sotto, gli stessi lobuli poliedrici presentavano rigonfiamenti e vesciche... il classico enfisema interstiziale. I polmoni, in sezione, erano intensamente congestionati. La parte sinistra del cuore era contratta e vuota, mentre la destra era in piena estensione e ingorgata di sangue nero, come pure le grosse vene del mediastino superiore. Non c'erano dubbi: era il classico quadro della morte per soffocazione e alla fine il dottore, con ago e filo, richiuse il testo. Rimise il corpo sulla barella e lo avvolse in uno dei suoi sacchetti mortuari, come in un sudario. La mattina dopo, quando ci fosse stato qualcuno a dargli una mano, avrebbe pesato i corpi sulla bilancia e infine li avrebbe chiusi a dovere nei sacchetti. Andò alla cella frigorifera, ma esitò. Fissò la porta, incapace di muoversi, e di capire perché. «Scappa. Esci adesso.»
Il pensiero era suo ma gli giunse con tanta urgenza che si sentì spinto a voltarsi come se qualcun altro avesse parlato. Un uomo magro, in grembiule e guanti, gli occhi in ombra, guardava il dottore dalle finestre nere. Dietro l'uomo, c'era una barella con sudario e, dietro quella, un'ampia porta di metallo. «Scappare da che cosa?» domandò il dottore, con una specie di calmo stupore. L'uomo senza occhi nel vetro era ancora mezzo piegato, timoroso. Era un altro dottor Winters, con un altro cancro... una specie di gemello più scuro e meno definito... Un momento dopo, il dottor Winters si raddrizzò, rovesciò la testa all'indietro e scoppiò a ridere. Andò alla scrivania e sedette spalla a spalla col... gemello. Tirò fuori la bottiglia e bevvero tutti e due, guardandosi a vicenda con identici sorrisi divertiti. Poi il dottore disse: «Te ne verso un altro. Ne hai bisogno, vecchio mio. Rende un uomo di nuovo se stesso». Ciononostante, entrare nuovamente nella cella frigorifera non gli fu facile. Trovò la cosa penosa, ogni passo gli costò un enorme sforzo di volontà. Nella fredda luce gialla, ogni movimento era una sfida. Il suo corpo era come trattenuto dal desiderio di farla finita, di chiudere con la molestia che stava esercitando sulla morte. Restituì Willet al suo sostegno e prese il suo vicino. Il nome sull'etichetta legata con un filo di ferro allo stivale era Ed Moses. Il dottor Winters lo portò nell'ufficio e chiuse la grande porta alle sue spalle. Con Moses il suo lavoro acquistò impeto. Prevedendo di non eseguire ulteriori necroscopie interne, pensò al suo principale, esultando adesso per il proprio atto di sottomissione all'ultimatum di Waddleton. L'impatto sarebbe stato disastroso. Immaginò il coroner in stato di shock, con i referti del patologo in mano, e sorrise. Waddleton ne avrebbe probabilmente fatto un caso di esame incompleto. Tuttavia, i poteri discrezionali di un patologo erano ben definiti. Molti buoni patologi avrebbero approvato l'adeguatezza del metodo del dottor Winters, considerate le circostanze. E la lotta con quelli che chiedevano di essere liquidati sarebbe stata lunga e strenua. Vincente o perdente, Waddleton avrebbe ampiamente dispiegato la sua venale devozione agli interessi della compagnia d'assicurazione. Inoltre, immediatamente dopo le proprie dimissioni, il dottore ne avrebbe rivelato la segreta causa alla stampa. Una querela non avrebbe fatto altro che mettere ulteriormente in evidenza che non era stata la paura di essere licenziato a fargli accettare l'incarico. Risparmi e processo sarebbero durati più della sua vita.
Esternamente, Ed Moses presentava le stesse caratteristiche della morte per asfissia già vista in Willet. Non c'era il minimo segno di una qualche penetrazione di frammento. Il dottore stese il referto e, con movimenti bruschi e precisi, riportò Moses nella cella frigorifera. Il suo disagio era tutt'altro che scomparso. Quell'agitarsi dell'aria... l'aveva davvero sentito? Era stato, forse, un qualche nuovo riverbero della morte che lavorava in lui, un brivido psichico in risposta al sicuro procedere del cancro che gli rosicchiava la vita. Prese il corpo accanto a quello di Moses. Walter Lou Jackson era alto un metro e novanta dai calcagni alla corona e pesava sicuramente più di cento chili. Si era ribellato contro la sua tomba di milioni di tonnellate con una forza agonica che gli aveva lacerato faccia e mani. La morte lo aveva trattato come un leone. Il dottore si mise al lavoro. Le sue mani erano pienamente se stesse, adesso... agili, esatte, articolate nell'esplorazione del cadavere come altre dita avrebbero esplorato una tastiera per trarne melodie. E il dottore se le guardò con un antico piacere, uno dei pochi che ancora non lo avesse mai lasciato, la sua mente discretamente distaccata dalla loro impegnata intelligenza. Tutte quelle morti violente! Un mondo pieno di morti, un tempo e senza fine. Vite che avevano lottato scalciando per non abbandonare il proprio involucro di carne. Walter Lou Jackson era morto atrocemente. «È stato Joe Allen e farle questo scherzo, signor Jackson» disse il patologo. «Forse per un tentativo di sfuggire alla legge.» Ma che fuga raffazzonata! L'irragionevolezza di quella fuga, più che lasciare perplessi, era misteriosa nella sua colossale futilità. Allen era stato senza dubbio astuto. Un demone con una psicopatica finezza sociale. Un buon diavolo che poteva far ridere una taverna piena di uomini mentre sceglieva la sua vittima fra loro, che li faceva applaudire mentre se ne andava con la preda, che usciva giovialmente nel buio con lei, battendole sulla spalla. Intelligente, certamente, e con una strana sofisticatezza tecnica. La sfera. Ma quali altre stregonerie lasciava supporre lo stesso oggetto? Nella sfera era concentrato tutto il mistero mortale del lungo incubo di Bailey. Perché l'esplosione? Il punto in cui era avvenuto lasciava pensare a un agguato per gli inseguitori di Allen, alla detonazione con uno scopo ben preciso. Allen aveva forse pensato di raggiungere una qualche caverna estrema dalla quale progettare una impossibile fuga? Pazzesco se si considerava che era stato Allen a confezionare la bomba e che quindi doveva sapere quanto fosse eccessivamente potente rispetto ai suoi bisogni.
Ma se la sfera non fosse stata una bomba, se avesse avuto una diversa funzione e se solo incidentalmente fosse scoppiata... Allen poteva avere sottovalutato gli effetti dell'esplosione. Sembrava che l'ordigno potesse essere controllato a distanza perché lo svolgimento temporale degli eventi dimostrava che Allen si era precipitato a prenderla... ignorando l'autobus in attesa di riportarlo in città e percorrendo l'intero spiazzo recintato per raggiungere una macchina della polizia, nascosta per di più alla sua visuale. Questo suggeriva qualcosa di più complesso di un semplice congegno esplosivo, qualcosa, forse, che Allen mirava più a distruggere che fare esplodere nella miniera con le conseguenze che c'erano state. Il fatto che avesse rischiato tanto per recuperare la sfera deponeva a favore di quell'interpretazione. Nel momento in cui Allen aveva sentito la presenza dell'oggetto mentre lui era giù nella miniera, aveva capito che gli investigatori l'avevano rintracciato e si apprestavano ad arrestarlo. Ma allora, sapendosi ormai sconfitto e condannato, perché diavolo si era dato tanto da fare per rientrare in possesso di una prova, la sfera, che l'avrebbe incriminato forse meno del possesso di un vero ordigno esplosivo? C'era da pensare, allora, che la sfera fosse qualcosa di più, qualcosa di strumentale per i suoi omicidi che avrebbe potuto destinarlo a una condanna a morte diversamente evitabile. Tuttavia, il suo stratagemma non aveva senso. Dal momento che la sfera... e quindi gli uomini della legge che lui presumeva l'avessero presa... si trovava già nell'ufficio della miniera, avrebbe dovuto aspettarsi che il posto fosse chiuso e pur sorvegliato. Nel frattempo, il cancello era aperto e fuggire sulle montagne non sarebbe stata impresa difficile per un uomo che aveva pedinato e abbattuto due uomini molto esperti di boschi e armati e che, a loro volta, gli stavano tendendo un'imboscata. Perché non era fuggito per la via più comoda e possibile? Eppure, aveva fatto di tutto per non essere catturato... restando però in una zona in cui ogni possibilità di fuga gli era ormai preclusa! Irrazionale. Perché. La sfera? Il dottor Winters vide le proprie dita, come cani da caccia dietro la preda, convergere verso una piccola puntura sotto il processo xilofoideo di Walter Lou Jackson, tra l'ottava costola. Ne toccò i bordi con la mano sinistra, con movimenti rapidi e gentili. Con la destra inserì una sonda nella ferita. La sonda entrò profondamente nel corpo senza incontrare ostacoli, ma curvando poi all'insù, attraverso il diaframma, verso il cuore. Con il cuore che gli batteva forte, il dottore vide le proprie mani spostarsi per registrare l'osservazione, le vide fermarsi, e, senza toccare carta e penna, tornare all'indagine.
L'ispezione non rivelò altre anomalie. Il dottore registrò fedelmente tutto il lesto, chiedendosi il motivo del turbamento che provava. Quando ebbe finito, capì. La causa non risiedeva nella scoperta di una ferita di entrata che avrebbe potuto sostenere le ragioni di Waddleton... infatti aveva deciso d'ignorarla già nel momento in cui si era reso conto di poter trovare il segno della penetrazione di un frammento. Il danno che Joe Allen aveva fatto doveva arrestarsi lì, a quell'ultimo massacro, e non estendersi all'impoverimento dei sopravvissuti alle sue vittime. Niente più esami interni. Quelli esterni, volenti o nolenti, sarebbero dovuti bastare. Il problema era che lui non credeva che la puntura nel torace di Jackson fosse quella dell'entrata di un frammento di bomba. Perché? E perché, non trovando la risposta a quella domanda, ancora una volta aveva paura? Lentamente, firmò il referto su Jackson, lo mise da parte e prese il bisturi postmortem. Dapprima il lungo squarcio per aprire l'involucro mortale. Poi, due grandi lembi quadrati di carne ripiegati lateralmente fino alle ascelle per scoprire la gabbia toracica: con una mano afferrando un lembo, con l'altra resecando con il bisturi, entrando nel tessuto lucente che aderiva al costato, disancorando tutti i muscoli dai loro ormeggi ossei o cartilaginei. Smontaggio della cassa. Cesoie. Il lavoro di un giardiniere... Con la punta ricurva del bisturi tagliò la cartilagine di tutte le costole fino allo sterno. Recise le estremità delle clavicole là dove s'inserivano nello sterno e le liberò dalle loro cavità. La cassa si dischiuse e al dottore bastò inserire il bisturi per aprirla. Qualche minuto dopo, si raddrizzò e arretrò dal suo soggetto. Si muoveva come un ubriaco e i suoi anni sembravano più profondamente segnati nel suo viso. Con disgustata fretta, si tolse i guanti. Andò alla scrivania, si sedette e si versò un altro bourbon. C'era qualcosa che assomigliava all'orrore sul suo viso, ma anche un indurimento della linea della bocca e della mascella. Disse al suo bicchiere: «E sia, vostra eccellenza. Qualcosa di nuovo per il vostro umile servo. State provando i miei nervi?» Il pericardio di Jackson, la capsula che conteneva il suo cuore, avrebbe dovuto essere quasi del tutto nascosto dalle grandi foglie piene di sangue dei polmoni. Il dottore l'aveva trovato invece completamente esposto, con i polmoni flosci ai lati ridotti a un terzo delle loro dimensioni. Non solo, ma la parte sinistra del cuore e le vene del mediastino superiore... regioni che avrebbero dovuto essere irrorate di sangue... completamente asciutte. Il dottore mandò giù il bourbon e tirò fuori nuovamente le fotografie.
Vide che Jackson era stato trovato a pancia in giù, di traverso a un. suo compagno di lavoro, con la parte superiore di un terzo minatore intrappolata tra di loro. Né gli altri due corpi, né la terra circostante mostravano segni del sangue perso che pure doveva essere stato superiore ai due litri. Forse le fotografie, per effetto di qualche ombra, non erano riuscite a catturarlo. Prese il rapporto degli investigatori. Lì Craven avrebbe sicuramente fatto cenno a una qualche significativa traccia di sangue quando avevano smosso la terra. Lo sceriffo non menzionava niente del genere. Il dottor Winters tornò alle fotografie. Ronald Pollock, l'uomo più intimamente attaccato a Jackson nella tomba, era morto sul dorso, sotto e leggermente di sghimbescio rispetto a Jackson, con i due toraci a contatto tranne dove la testa e la spalla del terzo cadavere si erano interposte. Sembrava impossibile che la tuta di Pollock non recasse la menché minima traccia di tanta perdita di sangue da parte di un compagno che pure gli era morto abbracciato. Il dottore si alzò bruscamente, s'infilò un paio di guanti nuovi e tornò da Jackson. Le sue mani avevano ora movimenti più veloci e bruschi mentre chiudevano provvisoriamente la grande incisione con pochi e ampi punti di sutura. Lo rimise nella cella e portò fuori Pollock, faticando non poco con le pesanti forme morte, sempre precedendo, gli parve, urgenti pensieri che non desiderava avere, deformità che sussurravano alle sue spalle emettendo deboli, raggelanti getti di putrido respiro. Scosse la testa... negando, indugiando... e sospinse il nuovo cadavere sul tavolo da lavoro. Le forbici spogliarono Pollock in pochi, avidi morsi. Ma alla fine, quand'ebbe finito di scrutare ogni centimetro di tessuto e non trovando niente che potesse essere una macchia di sangue, il dottore si riposò di nuovo, rinunciando alla soluzione, così semplice e desiderata, che era stato frettoloso di raggiungere. Rimase al tavolo degli strumenti, senza vederlo, sottomettendosi all'avvicinarsi delle cose indistinte che avevano cominciato a prendere forma nella periferia della sua mente. La scoperta dei polmoni raggrinziti di Jackson era stata più che uno shock. Avvertiva ora anche un po' di paura, lo stesso, esplicito terrore di quel posto che lo aveva indotto, col cadavere di Jackson, a interrompere l'autopsia prima del tempo. Si rendeva conto adesso che il germe di quel terrore, rapidamente soppresso, era stato premonitore del fallimento nel trovare tracce del sangue che mancava. Da dove quella premonizione? Doveva avere a che fare con un problema che lui si era troppo frettolosamente rifiutato di considerare: la meccanica di un prosciugamento così completo
dell'intricatissima struttura vascolare dei polmoni. Poteva essere stata la poderosa pressione della terra a lavorare così compiutamente, e da un orifizio così piccolo e stranamente curvo? E le fotografie che aveva guardato? Lo atterriva adesso richiamare l'immagine... come se qualche oscuro significato si agitasse in lei, si dibattesse per essere visto. Il dottor Winters prese la sonda dal tavolo e tornò dal cadavere. Come se fosse stato assolutamente certo della presenza della ferita, si chinò e la toccò: una piccola, netta puntura, proprio sotto il processo xifoideo. Introdusse la sonda e la ferita la ricevette profondamente, dandole una direzione che il dottore conosceva già. Andò alla scrivania e prese di nuovo la fotografia. Le ferite di Pollock e Jackson non erano a diretto contatto. La testa del terzo uomo era infilata tra i loro corpi proprio in quel punto. Cercò un'altra fotografia nella quale si vedesse più chiaramente il terzo uomo e lesse il nome scritto sotto: Joe Allen. Come in un sogno, il dottor Winters andò alla grande porta di metallo, la fece scorrere ed entrò nella cella frigorifera. Non dovette cercare, ma andò dritto al sostegno dove il suo amico sceriffo si era fermato, qualche ora prima, e aveva trovato lo stesso nome sull'etichetta. Il corpo, sotto l'obesità spuria del decadimento, appariva ben fatto e assai proporzionato dal punto di vista muscolare. La faccia era squadrata, con le sopracciglia folte e un naso volpino deformato da un'antica frattura. I denti trattenevano la lingua gonfia, ma il processo di decomposizione non aveva alterato di molto quello che doveva essere stato l'impatto che si riceveva di quell'uomo: bello e aperto e i suoi occhi, ora cerulei, schietti e conviviali. Già, Joe Allen alias Eddie Sykes detto l'Amicone: «Ehi, amico, hai un minuto? Ti vedo tutti i giorni sull'autobus...» Al dottor Winters pareva di sentirlo l'Amicone: «Senti, lo so che è tardi e vuoi andare a casa, a dire a tua moglie che non ti sei fermato a bere dopo avere smontato, giusto? Oh, sì, l'ho sentito. Ma questa maledetta cosa della scomparsa mi rende nervoso e, giuro su Dio, che quando sono venuto c'era qualcuno che si muoveva dietro quella casupola, nella strada. Vedi dove gli alberi si diradano, nel recinto posteriore, quel tratto illuminato dalla luna? Esatto. Be', mi sono portato questa roba da mangiare. Oh, sì, è una bellezza, ce la divideremo. Lo sapevo che avrei trovato un uomo pronto a ogni evenienza.. non sono riuscito a vedere una sola auto di pattuglia, in strada. Sì, proprio lì, tra quei pini. Sta attento, non si vede molto. Esatto...». Il dottore aveva il viso inondato di sudore. Si girò e uscì dalla cella,
chiudendosi alle spalle la pesante porta. Poiché in ufficio faceva più caldo, sentì il sudore inzuppargli la camicia, sotto il grembiule. Lo stomaco gli doleva a intermittenza, ma lui non ci fece caso. Andò da Pollock e prese il bisturi post-mortem. Eseguì il lavoro a una velocità surreale, gli strati di carne e le ossa che s'aprivano senza problemi sotto le sue mani disperate ma precise, finché la cavità toracica non gli espose ciò che conteneva, i polmoni succhiati dal vampiro, due grinzose masse di tessuto grigio. Non andò più a fondo perché sapeva già ciò che cuore e vene gli avrebbero detto. Tornò a sedersi alla scrivania, stanco, il bisturi ancora nella mano sinistra, dimenticato. Guardò la finestra e gli parve che i suoi pensieri avessero avuto origine dall'apparizione di quell'altro dottor Winters, appostato dietro i vetri, come uno spettro. Ma in che mondo viveva? Di sicuro, in vita sua non avrebbe mai potuto supporre una cosa del genere. Nutrirsi a quel modo! C'era già abbastanza orrore soltanto in quello. Ma nutrirsi in quel modo e nella propria tomba. Ma come c'era riuscito... a parte l'inspiegabilità di come avesse potuto lottare abbastanza a lungo contro il soffocamento per fare qualsiasi altra cosa? Come si poteva arrivare a concepire un'avidità che ruggiva a tal punto di nutrirsi anche sulla soglia della propria distruzione? I resti di quell'ultimo festino dovevano certamente trovarsi ancora nel suo stomaco. Il dottor Winters guardò la fotografia, guardò la testa di Allen intrufolata in mezzo agli altri due come quella di un giovane vitello alla poppata. Poi guardò il bisturi che aveva in mano, una mano che si sentiva priva di ogni tecnica. Il suo unico impulso era quello di fare a pezzi, rompere, cancellare i resti di quella ingorda cosa, di quel Joe Allen. Doveva farlo, oppure rinunciare. Non c'era via di mezzo. Non si mosse. «Lo esaminerò» disse lo spettro nel vetro e non si mosse. Nella cella frigorifera ci fu un leggero rumore. No. Era stato qualcosa nel mormorio del generatore. Nulla là dentro poteva muoversi. Ci fu un altro rumore, una breve frizione contro il muro interno della cella. I due Winter scossero la testa in perfetta sintonia. Una chiusura scattò e la porta della cella si aprì. Dietro la fissa immagine del proprio stupore, il dottore vide una forma sporca ergersi sulla soglia con le braccia alzate verso di lui in un gesto di supplica. Il dottore si girò sulla sedia. Dalla forma provenne un gemito fischiante, il frammento in decomposizione di una voce umana. Implorante, Joe Allen mosse la mascella e allargò le mani purpuree.
Come se le parole fossero una larva che si dibattesse per emergere dalla sua bocca, la faccia blu, tumescente, si mosse a fatica, la grossa lingua si voltò impotente tra le viscide labbra. Il dottore allungò la mano verso il telefono, sollevò il ricevitore. E che non facesse alcun rumore all'orecchio non significava niente... Non poteva avere parlato. La cosa che gli stava davanti, al benché minimo movimento che faceva, distruggeva il senso di qualsiasi parola avesse pronunciato, riduceva il mondo stesso attorno a lui a una vastità di silenzio e di tenebra, una rovina stellata dove, dappertutto, l'alieno... l'inimmaginabile già stava scegliendosi il suo nuovo dominio. Il cadavere sollevò e allungò una mano come per dirgli di stare fermo... si voltò e camminò verso il tavolo dell'attrezzatura. Le sue gambe erano rigide, muoveva le spalle come un nuotatore, lottando per farsi strada nella densa gravità media. Raggiunse il tavolo e vi si aggrappò, esausto. Il dottore si ritrovò in piedi, leggermente chino in avanti, immobile, quasi senza peso. Il bisturi che aveva in mano era l'unica cosa che sentisse, ed era come una lingua di fuoco, una fiamma crematoria. Il cadavere di Joe Allen calò una mano tra gli strumenti. Le spesse dita, con una strana inettitudine scimmiesca, arraffarono uno scalpello chirurgico. Entrambe le mani lo afferrarono per il minuscolo manico e Allen affondò la lama nella propria bocca... come un bambino assetato avrebbe fatto con ghiacciolo. Poi, estrasse lo scalpello squarciando la lingua. Un liquido torbido si riversò sul pavimento. La mascella si mosse rigidamente, la bocca produsse le parole in uno stridente sibilo: «Prego. Aiuto. Chiuso in questo» Una mano morta colpì il torace morto. «Fame». «Chi sei?» «Viaggiatore. Non di Terra.» «Un mangiatore di carne umana. Un bevitore di sangue umano,» disse il dottor Winters. «No. No. Nascosto soltanto. Piccolo. Forma odiosa per te. Paura morire.» «Tu hai portato morte.» Il dottore lo disse con la calma dell'incredulità perfetta, lui stesso incredibile quanto la cosa con la quale stava parlando. La cosa scosse la testa, i vitrei occhi prominenti con un'agonia di frustrata espressione. «Ucciso nessuno» sibilò. «Nascosto in questo per non essere ucciso. Cinque giorni. Annegare in putrefazione. Liberami. Prego.» «No. Tu sei venuto per nutrirti di noi, non ti stai nascondendo per paura. Noi siamo il tuo cibo, la tua carne, il tuo beveraggio. Ti sei nutrito dei due
uomini che erano con te nella tomba. La loro tomba. Per te c'è un ritardo. Una diversione che ha posto fine alla tua caccia.» «No! No! Usato solo uomini morti. Per me, cinque giorni, inedia. Anche meno. Nutrito solo per necessità. Orribile necessità.» Il devastato strumento vocale fece un suono lacerante all'ultima parola... un sibilo inumano, da serpente, che il dottore sentì nelle orecche freddo come il dardeggiare di una lingua biforcuta... mentre le braccia morte si muovevano in una stupida approssimazione del linguaggio del corpo che giura la verità. «No» disse il dottore. «Li hai uccisi tutti. Compreso il tuo... abitacolo... quell'uomo. Chi sei?» Tutto il suo panico proruppe nella domanda. Cercò di seppellirlo rispondendo immediatamente a se stesso. «Risoluto, sì. Lo sei. Questo è certo. Hai usato la morte come via di fuga. Forse non hai bisogno di ossigeno.» «Estratto più del mio fabbisogno da gas di putrefazione. Componente minore nostro metabolismo» sibilò l'alieno. La voce stava acquistando chiarezza, sviluppando espedienti per il recupero di toni perduti nella rottura agonica delle valvole, usando pause di discorso, emettendo più efficacemente vocali e consonanti da quella lingua e quelle labbra putride. Nello stesso tempo, era incessante da parte di quel corpo la sperimentazione di nuovi movimenti. Le dita si flettevano e si distendevano, provando la tenuta dei tendini, portando i palmi all'antico punto di funzionamento. Le ginocchia, con caute ripetizioni, acquisivano nuovi limiti alle loro articolazioni. «Che cos'è la sfera?» chiese il patologo. «Mia nave. Sua distruzione nostro primo dovere davanti a scoperta.» La paura colpì il dottore come una pallottola; aveva visto, mentre la cosa parlava, una brusca spastica della lingua, un ritrarsi e arricciarsi come per lo strappo di un qualche aggiustamento interno. «Nessuna possibilità di rientro,» proseguì l'essere. «Lasciare questo richiede troppo. Neppure tempo di distrugg... espellere cilium, chiave chimica per perforare scudo. In pozzo mia sola probabilità fermare ospite.» Il braccio destro provò il polso e lo scalpello che la mano stringeva ancora luccicò nell'aria mentre la parola ospite sembrava una punzecchiatura, un provocatorio abbandono della finzione... sebbene la maschera morta non mostrasse alcuna ironia.. un preliminare dell'attacco. Ma il dottore scoprì che la sua paura era passata. L'impossibilità, l'alieno con cui stava conversando, ed era sul punto di battersi, stava producendo
in lui una schiacciante amplificazione della rabbiosa quanto inutile reazione della sua vita alla morte. Scopriva che la sua limitata pietà per la Terra si estendeva alla prospettiva transtellare che quel viaggiatore comandava, all'intera accozzaglia cosmica, con le sue ramazzate moltitudini di corpi ruote galattiche di carneficina... stelle, pianeti, cenciosi che si radunavano, si ordinavano, si riconcatenavano in futili simmetrie gravide di nuove moltitudini di rifiuti brevemente animati. E quella che gli stava davanti era la morte che gli era stata data e con la quale doveva vedersela... il suo baco era stato richiamato dalla Tesoreria Universale della Morte, e il dottor Winters si scopriva, vecchio guaritore, ansioso di pagare. La sua lama, più letale, gli premeva nella mano con un suo acuto appetito. Si sentiva ancora una volta l'Esaminatore, completamente, conosceva le esatte incisioni da effettuare, in fretta e senza errori. "Molto presto, adesso" pensò e freddamente tentò altre considerazioni prima dell'assalto. «Perché la tua nave doveva essere distrutta, anche a costo della vita del tuo ospite?» chiese. «Non dobbiamo essere riconosciuti.» «Il bestiame non deve sapere che cosa li divora.» «Sì, dottore. Non subito. Ma a uno a uno. Capirai anche tu che cosa ti sta divorando. È essenziale per il mio banchetto.» Il dottore scosse la testa. «Tu sei già nella tua tomba, Viaggiatore. Quel corpo sarà la tua bara. Vi sarai sepolto per la seconda volta, e per sempre.» La cosa si avvicinò di un passo e aprì la bocca. La sua gola vizza si contorse come per parlare, ma ciò che ne proruppe fu un esile filamento bianco, veloce più di una frustata. Il dottor Winters vide soltanto la prima parte del dardeggiare di quella eruzione, poi il suo cervello esplose in una nova, dissolvendosi alla velocità della luce in una bianca nullità. Quando il dottore rinvenne, fu soltanto per una parte di sé. Prima che aprisse gli occhi, scoprì che la sua mente aveva ripreso percettività, ma soltanto di un bizzarro troncamento del corpo. La testa, il collo, la spalla sinistra, il braccio e la mano dichiararono la propria presenza... il resto era silenzio. Quando aprì gli occhi, si ritrovò che giaceva supino sulla barella, e nudo. Qualcosa gli sosteneva la testa. Una cinghia tratteneva il gomito sinistro al bordo della barella, una cinghia che poteva sentire. Anche il torace era trattenuto da una cinghia, ma quella lui non riusciva a sentirla. In real-
tà, fatta eccezione per un qualche suo attivo residuo, il suo corpo avrebbe potuto essere in un blocco di ghiaccio tanto era intorpidito, e tanto impotente era lui a esercitare il benché minimo movimento su quella parte. La stanza era vuota ma dalla porta aperta della cella frigorifera provenivano dei rumori leggeri: il crepitare e la frizione morbida di un grosso telone sollevato per sistemarvi qualcosa che ticchettava e produceva rumori sibilanti. Lacrime di rabbia riempirono gli occhi del dottore. Protendendo l'unico pugno verso l'essere che non riusciva a vedere, strinse i denti e mormorò con la voce strozzata del gemito: «Riprenditi questo piccolo frammento di vita! Te lo cedo volentieri, per quell'orrore che è». Udì il lento risuonare delle scarpe, ingigantito dall'eco della cella, e voltò la testa. Il cadavere di Joe Allen si avvicinò. Si muoveva con nuova energia, sebbene l'andatura fosse grottesca, a balzi, impedita dalla muscolatura in decadimento, mentre sopra quella galvanizzata struttura, la faccia tumefatta era inanimata, immagine pura del distacco. Si rivelava con terrificante chiarezza la cosa che era: un danneggiato fantoccio vigorosamente azionato dall'interno. E quando quella faccia raggelata fu condotta a essere sospesa sopra il dottore, le maleodoranti mani, con il tocco leggero e premuroso di amici al capezzale, si posarono sulla sua coscia nuda. L'essenza di sensazione rese quel contatto anche più terrificante di quello che era. Fece capire al dottore che l'incubo, che in fondo al cuore lui cercava disperatamente di negare, si era annesso il suo corpo mentre lui... fatta eccezione per la testa e il braccio.. era già quasi completamente annegato nella sua mortale paralisi. Li giaceva una parte del suo incubo, una nullità liberamente posseduta da una impronunciabilità. Joe Allen disse: «Sangue putrido. Nutrimento scarso. Soltanto un'ora prima tuo arrivo. Nutrito dal vicino di sinistra... Appena forza estendere sifone. Nutrito dal destro mentre tu lavoravi. Con trucco... tu eri attento. Aspettavo dottor Parsons. Bisogno energia per animare questo...» Una delle mani lasciò la coscia del dottore e percosse la tuta impolverata «... e per trasferimento ospite, molto alto. Quando ti avrò sottoposto a sinapsi, sarò di nuovo all'esaurimento.» Una sequenza d'immagini insopportabili si sviluppò nella mente del dottore, anche quando la carogna-robot lasciò la barella e andò verso il tavolo degli strumenti: Winters pensò, vide l'arrivo dello sceriffo, all'alba, solo naturalmente, perché Craven era sempre rispettoso del riposo dei suoi vi-
cesceriffi, e perché, in quella determinata occasione, avrebbe voluto una certa privacy per considerare le indiscrezioni emerse da parte dei sopravvissuti della miniera; il ritrovamento del vecchio amico, supino e preoccupantemente debole; il suo accorrere, chinarsi... Poi, qualche tempo dopo, un'auto della polizia con il suo carico di ossa ancora fresche che precipitava dalla strada alta in un qualche profondo abisso della gola... Il cadavere prese dal tavolo una delle scatole e ci mise dentro lo scalpello. Poi tornò a recuperare il bisturi mortuario dal pavimento e mise nella scatola anche quello, dicendo mentre lo faceva, senza voltarsi: «Lo sceriffo verrà domani mattina. Avete parlato come amici intimi. Probabilmente verrà solo». La coincidenza con i suoi pensieri doveva essere accidentale, ma l'intento di terrorizzarlo era chiaro. Il tono e il tempo di quella voce rappezzata erano, inequivocabilmente, deliberati... astuti tentativi di sollecitare la sua angoscia, il centro della sua mente. Il dottore osservò il cadavere... voltato di spalle, al tavolo... mentre calava la sua mano scimmiesca ma accurata per prendere cesoie, forbici, pinze e riporre tutto nella scatola. Winters guardò, momentaneamente svuotato dallo shock, ma con la volontà di conoscere la piena estensione dell'orrore che si era impadronito della sua vita. Il corpo di Joe Allen portò la scatola al tavolo di lavoro, di fianco alla barella, e i suoi occhi privi d'espressione incontrarono quelli del dottore. «Ho rischiato» disse.» Un rischio grave. Ma adesso ho vinto. A rischio della scoperta, siamo obbligati a scommetterci, a contrarci, a nasconderci come meglio possiamo nel corpo dell'ospite. Una specie di suicidio. Ho ignorato gli imperativi situazionali, nonostante l'inedia prima del dissotterramento e la susseguente autopsia non del tutto certa. Mi sono unito all'equipaggio e aggregato a Pollock e a Jackson microsecondi prima dell'esplosione. Ho calcolato cinque giorni di sopravvivenza da questa riserva, mi sono sconnesso fino al limite delle forze, altrimenti rischiavo l'autopsia, sapendo che l'alcol avrebbe potuto alterare e vanificare la competenza del dottore. E adesso guarda i risultati. Tu sei un ospite prezioso, puoi nutrire quasi con impunità anche quando uccidere è troppo pericoloso. Pasti sicuri serviti ancora caldi.» Il cadavere aveva diligentemente disposto la barella parallelamente al tavolo operatorio, ma con l'estremità inferiore del tavolo oltre la barella, e con lo spazio in mezzo equivalente alla lunghezza del braccio destro di Joe Allen. Adesso le mani morte stavano distribuendo i ferri lungo il bordo destro del tavolo, fatta eccezione per le forbici e la scatola. Quelle il cadavere
le portò ai piedi del tavolo e lì cominciò a tagliarsi le bretelle della tuta. Intanto che eseguiva quel compito con movimenti sicuri, parlò di nuovo: «L'incisione deve essere medica, professionalmente corretta, anche se più è piccola e meglio è. Bisogna fare attenzione ai muscoli pettorali, o le braccia non mi condurranno. Non sono più una larva... peso più di millecinquecento grammi.» Per allentare il senso di soffocamento di quell'incubo, per liberare una parvenza di volontà da quel sviluppo, il dottore fece una domanda, la sua voce, ora, più rotta di quella dell'altro: «Perché ho il braccio libero?» «L'ultimo trasferimento neurologico ha bisogno di un motore sensorio standard, per rendere perfetta l'aderenza del mio cervello al tuo. Fatto questo, ti libererò dalla paralisi, ci slegheremo, e saremo liberi, insieme.» Gli indumenti erano caduti in un'accozzaglia di frammenti e il cadavere era ora nudo, il rigonfiamento che lo rendeva più simile a una creatura marina, con il sesso venato di nero e disteso dai gas della putrefazione. La voce aveva di nuovo sollecitato la sua paura, aveva pronunciato l'ultima parola con deliberato indugio, e adesso il dottore sentiva l'orrore traboccare; orrore e oltraggio torturavano il suo spirito con brutale alternanza come se tentassero di denudarlo dalla struttura che lo conteneva. Rovesciò la testa, cominciò a dischiudere la bocca per farne prorompere il nascente urlo liberatorio. Il cadavere osservò Winters e fece un solo cenno con la testa, come di approvazione. Poi montò sul tavolo operatorio e, con la concentrata cautela del convalescente ormai esperto nell'arte di rientrare nel suo letto, si distese sul dorso. Gli occhi morti cercarono di nuovo la vita e trovarono il dottore che li fissava, sogghignante come un pazzo. «Furbo cadavere!» gridò il dottore. «Furbo cadavere carnivoro! Abile alieno! Oh, non ti critico. Chi sono io per criticarti? Un braccio e una spalla, una testa parlante, soltanto un pezzo di patologo. Ma c'è qualcosa che non capisco.» Fece una pausa, assaporando l'attento silenzio del mostro e la propria euforia nell'isterica leggerezza che lo aveva liberato. «Vuoi usare la tua forma ospite per tirarti fuori e collocarti in me. Ma una volta che lo avrai tirato fuori, diciamo, dal posto di guida, non morirà e ti pianterà? Potresti ricevere un brutto colpo. Perché non mettere un'asse tra i tavoli... la forma ospite apre la porta e tu te ne esci, zampetti, ti trascini, rotoli, arranchi, non so come altro dire, per il ponte. Senza problemi. E, in ogni caso, non sarebbe un modo strano e goffo per andartene tra il tuo bestiame? Non dovresti portarti dietro almeno un bisturi tuo quando viaggi? C'è sempre il
rischio d'incappare in quell'unico ospite fra un milione che sia già occupato.» Sapeva che quello scherzo era la risposta alla sua disperazione. Esultò, ma solo per il breve tempo che durò la perplessità del predatore... per aver costretto al silenzio, anche se per un momento, quella gongolante sicurezza... per averne rovinato il trionfante festino. La cosa prese con la mano destra il bisturi post-mortem che aveva accanto, con la sinistra ficcò un rotolo di garza sotto il collo di Allen, accentuandone l'inarcazione. La bocca disse al soffitto: «Noi conserviamo forma larvale fin da quando entriamo nell'ospite. Come larve, abbiamo strutture motorie e sensori che funzionano al di fuori dei sensori amplificatori delle nostre navi. Ho aspettato fino a notte avvolto alla gamba del letto di Ed Sykes, sono entrato in lui per la bocca mentre dormiva. La mano di Allen sollevò il bisturi e lo tenne davanti agli occhi opachi, girandolo alla luce. «Una volta collocati, abbiamo tre stadi di adattamento alla forma adulta» continuò la voce, in tono assente... il bisturi avrebbe potuto essere uno specchio nel quale il cadavere vedesse i propri lineamenti. «Da larve, abbiamo soltanto un abbozzo del nostro sistema neuronico completo. La nostra metamorfosi è suggerita e determinata dall'ecologia endosomatica di chi ci ospita. Io sono maturato in tre giorni.» Il polso di Allen si fletté, volgendo all'ingiù la punta del bisturi. «Sacrifichiamo le capacità meno essenziali alle supreme esigenze di adattamento.» Il gomito si fletté lentamente. «I nostri ospiti sono tutti senzienti, ecodominanti, pronti già a trasportare il bagaglio riproduttivo strutturale dell'ambiente planetario. Arti, sensori...» Il pugno piantò sotto il mento il dente dell'attrezzo che stringeva, lo piegò e lo spinse giù per la gola, mentre la voce proseguiva inalterata dallo scempio che l'acciaio stava producendo «...schemi somatici, strumentali...» Giù per lo sterno, il diaframma, l'addome, la lama d'acciaio lasciava la sua traccia nel tessuto spugnoso «...con il cervello di un ospite, noi ereditiamo tutte queste cose, le fondamenta di un qualsiasi pianeta, ci immettiamo nei suoi nessi cerebrali dominanti. Fino a quel momento, i nostri codici genetici sono assolutamente sgombri di dati.» Il dottore sussultò quando la mano di Joe Allen compì quattro sbreghi laterali rispetto all'asse della ferita. L'apparente scempio lasciò due pallidi lembri toracici chiaramente delineati. La mano sinistra sollevò quello di sinistra e la destra v'infilò il bisturi approfondendo l'apertura con tanti piccoli colpi. La posa era quella di un uomo che stesse frugandosi nel taschino, mentre gli occhi morti seguivano il lento indietreggiare del tessuto. La
voce, quando riprese, aveva assunto un tono più acuto: «Galatticamente parlando, c'è abbondanza di sistemi cordati nervi-cervello, e il labirinto neuronico è nostro dominio. Dobbiamo creare un ponte e strisciarvi sopra per arrivare al nostro cibo? Ci sono gli scarafaggi che sono più grandi di noi e hanno quattro zampe per arrampicarsi sui muri e le antenne per trovare la via. Tutti i supporti più strani e nascosti che la vita ci mette a disposizione! Trampoli, pinne, denti, spire, steli, ali e piume... È tutto così variamente munito di uncini, artigli, succhiatoi, forbici, forconi o piccole gabbie di dita! E oltre a tutti gli strumenti che il nostro ospite mette insieme per sopravvivere nel suo mondo, è tutto nodoso, baffuto, crestato, piumato, pieno di orifizi, di aculei o dotato di possibilità aggiuntive di catturare rumore e colore dall'abbondanza ambientale.» Invincibilmente calme e sicure, le mani continuarono a usare attrezzi e a eseguire compiti. Sotto il lembo di destra, fasci di muscoli erano stati ingegnosamente risparmiati e promettevano un solido aspetto quando il tutto fosse stato di nuovo suturato. Impotente, il dottore sentì la propria delirante sfida abbandonarlo mentre un lugubre fascino si impadroniva di lui. «Siamo i tasti e i relé che provvedono alla separazione negli esatti nodi d'integrazione del sistema nervoso-impulso aggregato del nostro ospite» proseguì l'alieno. «Siamo i cervelli che leggono quelle integrazioni e vi immettono nostre specifiche osservazioni sui dati dell'ospite e, per ultimo, lasciamo che le conseguenze fluiscano nel condotto motore... sia le conseguenze che i nostri ospiti cercano spontaneamente, sia quelle che noi desideriamo agiscano su di loro. Siamo inoltre un dinamico sistema circolatorio/alimentare e un apparato riproduttivo. E più di questo non abbiamo bisogno di essere.» Il cadavere aveva finito di spogliare il proprio involucro e le fetide mani stavano ora prendendo le cesoie. La sinistra tonalità della voce assunse una gradazione anche più marcata... le frasi gli scivolavano via dalla lingua con il rapido oscillare di un cobra, avvolgendo il dottore nei loro ritmi liquidi fino a quando un varco nella sua resistenza non avesse permesso di entrare in lui e annientare il poco coraggio rimastogli. «Perché sotto questa forma» disse la cosa «abbiamo abitato più di trecento razze, intricatamente annidati in loro come rampicanti su un traliccio. Abbiamo guardato da troppe maschere munite di finestre per rimpiangere i nostri sensi residuali. Nessuno legge in via definitiva il proprio mondo. Tanto meglio allora la nostra scelta nomade della immutabile residenza di una povera struttura. Tanto meglio allora penetrare completamen-
te, come facciamo, gli esseri viventi e vestirci subito delle loro membra, dei loro organi, dei loro ricordi e dei loro poteri... indossare ciò che possa essere strettamente congruente alla nostra volontà, come un guanto sta alla mano che lo riempie.» Le cesoie recisero le cartilagini, fermandosi alla giuntura, sternoclavicolare del manubrio dove i muscoli della fascia pettorale avevano un importante ancoraggio. «Nessun tipo di cordato consapevole che abbiamo trovato è stato impermeabile alla nostra astuzia» disse l'alieno. «Né abbiamo trovato alcuno schema dentritico, per quanto elaborato, impossibile da interpretare e impraticabile per il nostro adattamento. No: tracciando mappe esattissime di ciascuna giuntura sinaptica, allentandola e ricucendola a nostra misura noi ci siamo sempre... collocati. Abbiamo camminato con fierezza nei corpi di autarchie planetarie, venerabili manichini di moda morale, ma tagliati dal tessuto universale: onda di flotte di filamenti elettrici d'esperienza che abbiamo facilmente piegato all'ordito dei nostri desideri. Dappertutto... riordinato e raccolto... il loro tessuto vivente si piega obbediente alla nostra materia, investendoci d'onore e di influenza illimitati.» L'astuta melodia verbale, mentre il cadavere continuava imperterrito il proprio smembramento... pura orchestrazione neuromuscolare dell'attività del composto... colpì il dottor Winters con il distaccato incanto che un grande suonatore di tastiera avrebbe potuto dargli. Intravide la prospettiva dell'alieno, un Gulliver che aspettava in una tomba brobdingnagiana e che comandava poi un gigante morto contro uno vivente, come un nano in una immensa scatola meccanica che programmava febbrilmente il combattimento su una batteria di leve e pedali, in attesa che i robot dessero l'avvio al remoto, titanico scontro tra i nemici... e si meravigliò per la strategia e la plasticità infinite della vita. Le mani di Joe Allen penetrarono nella cavità addominale semiaperta, frugarono sotto il muscolo anteriore non reciso, visibile nell'incisione dell'epidermide, fino a quando, a giudicare dalla estensione esterna, non giunsero a toccare le cosce. La voce rimase ferma quando gli avambracci ricevettero degli impulsi dalle dita che avevano evidentemente toccato qualcosa di delicato. Le spalle ricaddero. La ricaduta riportò in vista i polsi e le gambe morte ebbero spasmi diffusi. «Hai definito la tua specie cibo e beveraggio per noi» disse l'essere. «Se fosse veramente così, basterebbe una elementare usurpazione dei vostri centri motori a soddisfarci, a darci il controllo perfetto del bestiame... quali rare parole o fine comportamento sarebbero più di un agitarsi di muscoli
vari? Quella insignificante pelle era nostra molto tempo fa. Non è solo il sangue che alimenta questa voglia che sento adesso di averti, questo desiderio di una intimità che anni e anni non faranno mai scemare. Il mio vero banchetto consiste nel costringere te a nutrirti in quel modo e nella completa deformazione della tua volontà che tutto questo comporterà. Fosse stato il nutrimento il mio primo bisogno, allora i miei compagni di tomba... Pollock e Jackson... avrebbero potuto provvedermi di due settimane di vita e forse più. Ma in faccia alla morte io ho disprezzato la vile parsimonia. Ho reinvestito più della metà dell'energia che il loro sangue mi ha dato nella fabbricazione di prodotti chimici che tenessero vivi i loro cervelli, vivi e immersi in fluidi ossigenanti.» Dallo spalancato diaframma, le mani estrassero due lunghe trecce di filamenti argentei che si contorcevano ed emettevano scintille. Le gambe continuarono ad agitarsi ai deboli impulsi che ancora ne percorrevano la muscolatura fino a quando le luminescenti trecce vermiformi non si furono raccolte in due masse sferiche che le mani deposero con infinita cautela nell'incisione. Poi rimasero immobili, come morte. «Io ho terminali neuronici accessori soltanto per economizzare, ma posso accedere a una memoria maggiore, e a tutte le loro risposte cognitive, e avendo nelle mie banche l'intero organo del Corti per la conversione elettrochimica delle parole inglesi, posso bisbigliare loro qualsiasi cosa direttamente nell'ottavo nervo craniale. Questi sono i nostri veri banchetti, dottore: tempeste elettriche incorporee di cognizione impotente, le stesse che io ho risvegliate in quei due piccoli involucri ossei. Sono stato costretto a prosciugarli, ieri, prima del dissotterramento. Loro erano vissuti fino ad allora e avevano capito tutto... tutto quello che avevo fatto loro.» Quando la voce tacque, occhi morti e vivi si fissarono. Rimasero così per un momento, poi la faccia morta sorrise. Ricapitolò tutto l'orrore della prima resurrezione di Allen... quel risvegliarsi di un'anima dai contorni tombali. E fu un'anima demoniaca quella che il dottore vide risvegliarsi: il sorriso aveva delle pieghe di crudeltà agli angoli della bocca, mentre gli occhi manifestavano una languorosa anticipazione di quello che sarebbe stato il suo dolore. Il dottor Winters udì il piatto suono della propria voce domandare: «Ed Eddie Sykes?» «Oh, sì, dottore. È con noi, adesso... Lo è sempre stato. Mi dispiace abbandonare un così caro ospite! Egli è un vero eremita-filosofo, ben letto in quattro lingue. Sta scrivendo una traduzione di Marco Aurelio... stava, voglio dire, nel tempo libero...»
Seguirono lunghi minuti di quella voce che accompagnava la surreale autopsia, ma il dottore giacque immobile, privo di potere reattivo. Tuttavia, la piena comprensione del proprio destino riverberò nella sua mente... stanza vuota nella quale la voce, non udita esattamente, ma in qualche modo impiantata direttamente come nella sotterranea tortura che la cosa aveva appena descritto, mandava ondate di cognizione, amplificazioni dell'Impronunciabile. Il parassita aveva seguito e coperto la complessa interfaccia tra l'integrazione corticale d'immissione e la conseguente emissione neuronica della risposta. Vi aveva interposto il suo cervello, condividendo coscienza e conoscenza, ma comandando le vie di reazione. L'ospite, la personalità imbottigliata, era muto e inerte per quanto riguardava la propria volontà, ma diabolicamente articolato e agile al servizio del parassita. Erano le mani dell'ospite che catturavano ed estinguevano la vita della preda, i suoi organi virili che sperimentavano i ripetuti orgasmi a coronamento delle spoliazioni effettuate dall'altro. E quando le vittime giacevano agonizzanti, pronte per la consumazione, era la sua forza che ne estraeva le viscere fumanti, erano la sua lingua e la sua bocca che affondavano nel palpitante banchetto. E il dottore ebbe squarci della storia esistente dietro quella predazione, la storia di una razza tanto avanzata nell'essenzializzare, dell'inesorabile astrazione del loro tessuto mentale che attraverso impegno scientifico e personale manipolazione genetica era arrivata a incorporare un proprio modello di coscienza perfetta, conformata per permettere l'invasione in altri esseri e la diretta acquisizione dei loro mondi d'esperienza. Tutte esperienze strettamente scolastiche, dapprima, fino a quando non era maturato in quegli scolari l'odio tanto a lungo germinato e adesso sfociato apertamente verso tutte le menti minori radicate e avvolte nel suolo e nella luce di mondi solidi, particolari. Il parassita parlava di musica cerebrale, di sinfonie di paradossi agonizzanti che costituivano il cardine della sua invasione-saccheggio. Il dottore sentiva la verità nascosta dietro quella magniloquenza: il frutto finale della sistematica violazione di personalità chiuse come in bare era l'esperienza di una sterile supremazia di mezzi su vite più primitive, forse, ma immensamente più ricche per la vivacità e l'appassionato interesse di cui la vita era per loro imbevuta. Le mani di Joe Allen avevano prelevato le aggrovigliate matasse di nervature aliene, con il rugoso nodo cerebrale posto fra loro, e per qualche momento avevano aspettato la lenta ritrazione di un ultimo tronco princi-
pale che apparentemente aveva seguito l'asse della spina dorsale. Alla fine, quando soltanto un'esile sottofibra rimase impiantata, il cadavere, sorridendo ancora una volta, esaminò il suo riassemblato padrone. Il dottore lo guardò negli occhi e parlò... non al loro controllore, ma al prigioniero che era stato e che adesso, il dottore lo sapeva, si avvicinava alla sua morte finale: «Addio, Joe Allen. Eddie Sykes» disse. «Non avete colpa. La pace sia infine con voi.» Il sorriso del demone rimase fisso, la mano destra aveva spostato il suo viscido carico oltre il varco tra tavolo operatorio e barella, e lo teneva sospeso sull'inguine del dottore. Questi vide la mano deporre la scintillante testa di medusa... il suo nuovo se stesso... sulla sua carne, ritrarsi verso il tavolo, prendere il bìsturi e tornare per effettuare un'incisione di dieci centimetri nel suo inguine... tutto in una soprannaturale assenza di stimoli tattili. La sottofibra ancora impiantata nel cadavere si liberò all'improvviso dalla fessura mediastinale e si ritrasse accorciandosi fino a diventare una protuberanza del ribollente organismo adagiato sul dottore. Il corpo di Joe Allen crollò, vuoto, molle. Era di nuovo completamente un cadavere, ma con un'anomalia nella sua posizione. Il braccio destro non era ricaduto nell'inclinazione quasi verticale che avrebbe dovuto avere. Nell'istante in cui l'alieno si era disancorato definitivamente, la spalla aveva avuto una violenta contrazione, disarticolandosi e spingendo il braccio verso l'alto. Era quindi rimasto così, orientato come un braccio che stesse per raggiungere il piolo superiore di una immaginaria scala. Il minimo tremore avrebbe ricondotto le giunture nei loro alveoli e lo avrebbe fatto ricadere nel suo assetto gravitazionale. Gli avrebbe anche fatto perdere il bisturi che il palmo rivoltato stringeva ancora precariamente. L'uomo si era reimpadronito di se stesso un microsecondo prima della sua fine. Il cuore del dottore ebbe un sussulto e si risvegliò. Il bisturi era a portata delle sue dita, bastava distendere l'avambraccio per quanto glielo consentiva il legaccio al gomito. L'orrore che era sopra di lui, e che adesso stava lentamente introducendo il tronco-linea principale nelle sue viscere, gli fermò la mano. Poi il dottore ricordò che, fino a quando non fosse completamente impiantato, il nemico era una massa insensibile, irta di terminazioni e di collegamenti per l'immissione nei sensi... una specie di sorda e cieca monade che aspettava in un perfetto solipsismo tra due involucri sensori. Winters vide le sue dita che si tendevano verso il lucente strumento di libertà, e gli parve di scorgere sopra di sé il sorriso di Dio e Adamo nella
volta della Cappella Sistina. Poi, con l'ormai esperto movimento del chirurgo, afferrò il bisturi. Il braccio ricadde. «Dormi» si disse il dottore. «Sogna la vendetta.» Ma scoprì di non avere fatto i conti con l'attenta cautela dell'alieno. Il gomito gli era stato fissato con la parte superiore del braccio quasi ad angolo retto rispetto all'asse del corpo, cosicché l'avambraccio poteva muovere la mano verso l'interno e presentarla al cospetto del parassita, ma non poteva spingerla oltre, nemmeno allungando il bisturi, non poteva raggiungere l'incisione. Intanto, il parassita continuava a introdurre il suo tronco. In tre o quattro minuti al massimo, a giudicare dal tempo che ci aveva messo per uscire da Allen, avrebbe usurpato il controllo motorio del patologo. Freneticamente, il dottore piegò al massimo il polso verso l'interno, cercando così di allentare il legaccio. Ma era impossibile esercitare la pressione giusta senza correre il rischio di perdere il bisturi. Senza problemi, la radice del controllo alieno affondava in lui. Era un'attacco privo di difese contro il quale, anche se mortalmente armato, Winters era comunque privo di capacità di offesa... C'era un mondo, naturalmente. Non per sopravvivere. Ma per sfuggire e vendicarsi. Fissò per un momento il suo carceriere, indurendo il suo coraggio con l'odio che la cosa accendeva in lui. Poi, senza perdere altro tempo, Winters stabilì l'ordine dei suoi movimenti e cominciò. Si allungò il bisturi verso il collo e si aprì la vena superiore tiroidea... il suo calamaio. Depose il bisturi vicino al suo orecchio, intinse un dito nel sangue e cominciò a scrivere sul piano di metallo della barella, a partire dalla coscia e muovendosi verso l'ascella. Stranamente, l'incisione che s'era fatta nel collo, sebbene lui fosse muscolarmente sveglio, era stata indolore, il che gli diede una speranza che aumentò il suo coraggio in previsione di ciò che gli rimaneva da fare. Scrisse senza svolazzi, con orrenda leggibilità e quando ebbe finito il messaggio diceva: PARASSITA MENTALE DA ALLEN IN ME TAGLIATE TUTTO FINO A TROVARE MASSA FIBRE NERVOSE DI 1500 GR Avrebbe voluto scrivere un saluto per l'amico sceriffo, ma l'alieno aveva
cominciato a emettere filamenti ausiliari più piccoli collateralmente a quello principale. Tutto ora procedeva più in fretta. Prese il bisturi, voltò la testa a sinistra e si affondò la lama nell'orecchio. Miracolo! Ultima, fortuita misericordia! Non c'era dolore. Forse stava agendo un qualche potente anestetico procedurale. Con colpi accurati, si distrusse l'orecchio destro e, analogamente, ridusse al silenzio anche quello sinistro. Seguì poi la rescissione delle corde vocali e dei tendini che tenevano eretto il collo. Avrebbe voluto essere libero di recidere i legamenti delle ginocchia e dei gomiti, ma non si poteva fare. Ma una volta cieco e sordo e con i centri di equilibrio fuori uso e in possesso del solo controllo motorio... il suo corpo così sconciato avrebbe ostacolato la fuga dell'alieno, l'avrebbe costretto in primo luogo alla rianimazione di un cadavere privo di sangue nel quale non si era ancora perfettamente integrato. Prima di spegnersi gli occhi, tenne il bisturi alto sopra la sua faccia, e abbassò le palpebre per ricacciare la voglia di piangere. Il destro, poi il sinistro, ed entrambe le retine squarciate annullarono ogni visione. Ultimo compito del bisturi, dopo che lui ebbe voltato la testa dall'altra parte per evitare che l'emorragia di sangue cancellasse il messaggio, fu quello di recidere l'arteria carotidea esterna. Quando l'ebbe fatto, il dottor Winters sospirò di sollievo e depose il bisturi. Anche così, sentiva il profondo formicolio di un'energia estranea... qualcosa che ardeva, crepitava, ardeva, cercava, ma non trovava lo scambio. E dentro di sé, mentre scivolava verso il sonno, cerebralmente, come un uomo senza voce avrebbe potuto fare, il dottore pronunciò al parassita queste ultime parole: «Benvenuto nella tua nuova casa. Temo che ci sia stato qualche vandalismo... la luce non funziona e l'impianto idraulico ha una perdita molto grave. Ci sono altre cose che non vanno bene... il vicinato è forse un po' troppo tranquillo, e probabilmente ti risulterà difficile anche il fare quattro passi. Ma è stata per me una bella casa per cinquantasette anni, e mi auguro che tu ci rimanga...» Il viso, voltato verso il corpo di Joe Allen, parve piangere lacrime scarlatte, ma fu l'ultimo movimento prima che sorridesse la morte. Titolo onginale The Autopsy Traduzione Grazia Alineri Edith Nesbit Il matrimonio di John Charrington
Edith Nesbit è una scrittrice assai autorevole di libri per bambini, e mentre le sue opere in questo filone godono di molta notorietà, meno conosciuta è la sua produzione letteraria nel genere dell'orrore e del soprannaturale A prima vista Il matrimonio di John Charrington sembra soltanto una fantasia romantica sul potere dell'amore, ma in questo racconto breve è qualcosa di più di una semplice analogia con Il pittore Schalken di Le Fanu e Clara Militch di Ivan Turgenev. E ciò conferma la grandezza di questa donna che è stata al centro dei movimenti intellettuali della sua epoca. Nessuno aveva mai pensato che May Forster avrebbe sposato John Charrington; ma lui era di opinione diversa e le cose che John Charrington si riprometteva di ottenere avevano uno strano modo di trasformarsi in realtà. Lui le aveva chiesto di sposarlo prima di partire per Oxford. Lei aveva riso e lo aveva respinto. Lui glielo aveva chiesto di nuovo la volta dopo, quando era tornato a casa. Di nuovo lei aveva riso, aveva scosso la sua deliziosa testolina bionda e di nuovo lo aveva respinto. Poi lui glielo aveva domandato una terza volta: allora lei gli aveva risposto che quella stava diventando una cattiva abitudine e aveva riso di lui più che mai. John non era il solo uomo che avrebbe voluto sposarla. Lei era la reginetta della nostra élite paesana ed eravamo tutti più o meno innamorati di lei; era una specie di moda, come le guarnizioni di eliotropio o i mantelli senza maniche. E fu per questa ragione che, quando John Charrington entrò nel nostro Club — ricordo che la nostra sede era nella soffitta del calzolaio — e ci invitò tutti al suo matrimonio, quell'annuncio ci seccò e ci sorprese di pari grado. «Il tuo matrimonio?» «Stai scherzando?» «E chi è la fortunata? E quando sarà il grande giorno?» John Charrington riempì la pipa e l'accese prima di rispondere. Poi disse: «Amici, mi dispiace privarvi della vostra amatissima reginetta, ma miss Forster e io ci sposeremo in settembre.» «È uno scherzo di pessimo gusto.» «Lei gli ha risposto picche un'altra volta e la cosa gli ha dato alla testa.» «No» dissi io alzandomi in piedi. «Penso proprio che quello che sta dicendo sia vero. Qualcuno mi dia una pistola... o un biglietto di prima classe per la parte opposta del creato. Charrington ha stregato l'unica ragazza
carina nel raggio di venti miglia. Come ci sei riuscito, Jack, con l'ipnotismo o con una pozione magica?» «Con niente di tutto ciò, mio caro, ma con una dote che non possiederai mai, la perseveranza, che è la fortuna più grande che un uomo possa avere a questo mondo». C'era qualcosa nella sua voce che mi zittì, e che indusse anche tutti gli altri amici a smettere di canzonarlo. La cosa più strana fu che quando ci congratulammo con miss Forster, lei arrossì e il suo viso si illuminò di un sorriso radioso, proprio come se fosse sinceramente innamorata di lui e lo fosse sempre stata. E, parola d'onore, io penso che lo fosse davvero. Le donne sono creature strane. Fummo tutti invitati al matrimonio. A Brixham, del resto, chiunque fosse qualcuno conosceva tutti quelli che contavano. Le mie sorelle, ne sono certo, più che alla sposa erano interessate al suo corredo, e io dovevo fare da testimone allo sposo. Il matrimonio, ormai prossimo, era l'argomento di cui più si chiacchierava alle riunioni pomeridiane intorno ai tavolini da tè, e la stessa cosa avveniva nel nostro piccolo Club, sopra il negozio del calzolaio; la domanda che tutti si ponevano era sempre la stessa: «Ma lei lo ama veramente?» Anch'io ero solito pormi questa domanda nei primi tempi del loro fidanzamento, ma dopo una certa sera di agosto non ebbi più alcun dubbio in merito. Ero uscito dal Club e stavo attraversando il cimitero che circonda la chiesa, diretto verso casa. La nostra chiesa sorge su una collina dove cresce rigoglioso il timo e l'erba è così fitta e soffice da attutire completamente l'eco dei passi. Così saltai il muretto coperto di licheni senza fare alcun rumore e cominciai a farmi strada fra le tombe. Fu in quello stesso istante che udii la voce di John Charrington e vidi lei. May sedeva su di una tomba bassa, con il viso rivolto verso il sole, che tramontava in tutta la sua magnificenza. L'espressione del suo volto poneva fine, una volta per tutte, a ogni nostro possibile dubbio sui sentimenti che nutriva per John: i suoi lineamenti erano trasfigurati in una tale bellezza, che mai avrei creduto potesse adornare neppure un visino meraviglioso come il suo. John giaceva ai suoi piedi e fu la sua voce a interrompere il silenzio di quella dorata sera d'agosto. «Mia adorata, mia adorata, credo che potrei fare ritorno dal regno dei morti se tu me lo chiedessi!» Io tossii subito per segnalare la mia presenza, e proseguii nell'ombra, completamente illuminato dalla verità.
Il matrimonio doveva avere luogo ai primi di settembre. Due giorni prima dovetti recarmi in città per affari; il treno era in ritardo come sempre, perché noi siamo sulla linea sud-orientale, e mentre aspettavo, brontolando e guardando di continuo l'orologio, chi ti vedo, se non John Charrington e May Forster? Stavano camminando su e giù lungo il tratto terminale e meno frequentato del marciapiede; si tenevano a braccetto e si guardavano negli occhi, incuranti dell'affettuoso interesse dei facchini. Naturalmente io non esitai neppure un istante a rifugiarmi in biglietteria, e attesi lì che il treno si arrestasse al binario prima di superare, in modo non troppo riguardoso, la coppia con la mia valigia, e sedermi in un angolo della vettura di prima classe per fumatori. Cercai di fare tutto ciò con l'aria indifferente di chi non ha visto nessuno. Ero fiero della mia discrezione, ma se John avesse viaggiato da solo, avrei gradito la sua compagnia. E così fu. «Salve, vecchio mio» mi disse con voce allegra, entrando con il suo bagaglio nella vettura in cui avevo preso posto. «Che fortunata coincidenza! Già mi aspettavo un viaggio noioso!» «Dove stai andando?» gli chiesi. La mia discrezione m'impediva ancora di volgere altrove lo sguardo, anche se percepivo, pur senza vederli, gli occhi di lei commossi e addolorati. «Dal vecchio Branbridge» mi rispose lui chiudendo la porta e sporgendosi dal finestrino per rivolgere ancora qualche parola alla sua amata. «Oh, vorrei tanto che tu non partissi, John» gli stava dicendo lei con voce bassa e grave. «Io sento che succederà qualcosa.» «Pensi forse che io possa permettere che qualcosa mi trattenga là e mi impedisca di sposarti dopodomani?» «Non partire» gli rispose lei con un tono così implorante che avrebbe fatto volare immediatamente il mio bagaglio giù dal treno con il sottoscritto dietro. Ma lei non stava parlando a me. John Charrington era diverso: raramente cambiava idea e non ritornava mai sulle proprie decisioni. Si limitò ad accarezzare la piccola mano nuda appoggiata sulla porta della carrozza. «Devo farlo, May. Quel vecchio è stato meraviglioso con me e adesso che sta per morire devo andare da lui. Ma sarò di ritorno in tempo per...» Le ultime parole del commiato si persero in un sussurro e nello stridio delle ruote del treno che, con un sobbalzo, si era messo in movimento. Lei parlò ancora mentre il treno si allontanava lentamente:
«Sei sicuro di tornare?» «Niente mi tratterrà» fu la sua risposta, dopo di che il treno accelerò. John Charrington seguì con lo sguardo la piccola figura sul marciapiede fino a quando la vide scomparire, poi si abbandonò contro lo schienale e rimase un minuto in silenzio. Quando parlò fu per spiegarmi che il suo patrigno, di cui era l'erede, stava morendo a Peasmarsh Place, a circa una cinquantina di miglia da Brixham: l'aveva mandato a chiamare e lui si sentiva in dovere di andare. «Sarò certamente di ritorno per domani» disse, «e se no, il giorno dopo, ampiamente in tempo per la cerimonia. Grazie a Dio, oggi uno non deve alzarsi nel cuore della notte per sposarsi!» «E se mister Branbridge dovesse morire?» «Vivo o morto, ho intenzione di sposarmi giovedì!» concluse John accendendosi un sigaro e aprendo The Times. Alla stazione di Peasmarsh ci salutammo e lui scese, dopo di che lo vidi salire su una carrozza e partire. Io invece proseguii per Londra dove trascorsi la notte. Il pomeriggio seguente quando feci ritorno a casa — si trattava, tra l'altro, di una giornata particolarmente piovosa — mia sorella Fanny mi accolse chiedendo «Dov'è mister Charrington?» «Lo sa il cielo!» fu la mia risposta testuale. Ogni uomo, dall'epoca di Caino, ha sempre detestato simili domande. «Pensavo che tu lo avessi sentito» continuò mia sorella, «visto che domani devi fargli da testimone». «Non è ancora tornato?» le chiesi, perché ero convinto che John fosse già rientrato.» «No, Geoffrey» (mia sorella aveva sempre l'abitudine di saltare alle conclusioni, e soprattutto a quelle meno propizie per il suo prossimo) «non è ancora tornato, e quel che è peggio è che puoi essere certo che non lo farà. Ascolta bene le mie parole: domani non ci sarà nessun matrimonio.» Mia sorella Fanny ha il potere d'irritarmi più di qualunque altra creatura al mondo. «Ascolta tu le mie parole» le risposi con tono duro. «Faresti meglio a smettere di comportarti in modo così idiota. Domani il matrimonio ci sarà e forse sarà anche l'unico a cui tu prenderai parte in tutta la tua vita!» Una profezia questa che, tra l'altro, era destinata ad avverarsi. Ma per quanto avessi inveito contro mia sorella sicuro del fatto mio, non mi sentii altrettanto tranquillo quando, quella sera, dopo avere bussato alla
porta di John, appresi che non era ancora tornato. Era già tardi e feci malinconicamente ritorno a casa sotto la pioggia. Il mattino seguente portò con sé un cielo radioso, un sole splendente, un'aria così mite e delle nuvole di una tale bellezza da lasciare presagire che sarebbe stato un giorno perfetto. Io mi svegliai con la vaga sensazione di essere andato a letto inquieto e di essere anche piuttosto riluttante all'idea di affrontare quell'inquietudine alla luce del giorno. Ma, con l'acqua per la barba mi fu recapitato anche un biglietto di John che mi rassicurò e mi consentì di andare dai Forster a cuor leggero. May era in giardino. Vidi il suo abito blu fra i malvoni del prato, mentre il cancello del parco si chiudeva alle mie spalle. Così non proseguii fino alla casa, ma piegai lateralmente lungo il sentiero erboso. «Ha scritto anche a lei» mi disse quando la raggiunsi, tralasciando i saluti preliminari. «Sì, devo andarlo a prendere alle tre alla stazione e accompagnarlo immediatamente in chiesa.» Il suo viso era pallido, ma la luce che risplendeva nei suoi occhi e il lieve tremore delle sue labbra lasciavano trasparire una ritrovata felicità. «Mister Branbridge l'ha implorato di fermarsi un'altra notte e lui non ha avuto il coraggio di dirgli di no» continuò. «È così premuroso, ma io avrei preferito che non lo avesse fatto». Arrivai in stazione alle due e mezza. Ero piuttosto seccato per il comportamento di John. Mi sembrava un affronto nei confronti della meravigliosa ragazza che lo amava, arrivare di corsa, e con indosso ancora gli abiti impolverati del viaggio, per prendere la sua mano, una mano per la quale alcuni di noi avrebbero sacrificato gli anni migliori della propria vita. Ma quando il treno delle tre arrivò e ripartì senza che nessun passeggero scendesse nella nostra piccola stazione, ero assai più che seccato. Il treno successivo sarebbe arrivato solo dopo trentacinque minuti: calcolai che, facendo di corsa il percorso che ci separava dalla chiesa, forse saremmo riusciti ad arrivare in tempo per la cerimonia; ma, oh che stupido a perdere quel treno! Quale altro uomo avrebbe potuto fare una cosa simile? Quei trentacinque minuti mi sembrarono un'eternità, mentre vagavo per la stazione leggendo le pubblicità, gli orari dei treni e il regolamento delle ferrovie, e mi arrabbiavo sempre di più con John Charrington. Adesso aveva proprio passato la misura, con quella sua fiducia nel proprio potere di ottenere sempre tutto ciò che voleva nel preciso istante in cui lo desiderava. Io odio aspettare. Tutti odiano aspettare, ma io penso di odiarlo più di
chiunque altro. Il treno delle tre e trentacinque era in ritardo, naturalmente. Masticavo la pipa fra i denti e battevo il piede con impazienza mentre guardavo i segnali. Clic. Il segnale si abbassò. Cinque minuti dopo mi precipitai nella carrozza che avevo noleggiato per John. «Alla chiesa!» urlai, mentre qualcuno chiudeva la porta. «Mr. Charrington non è arrivato neanche con questo treno.» Adesso alla rabbia era subentrata la preoccupazione. Che ne era stato di John? Una malattia improvvisa? Per quanto ne sapevo, in tutta la sua vita non era mai stato malato un giorno. E poi in questo caso avrebbe telegrafato. Doveva essergli accaduto qualche terribile incidente. Il pensiero che avesse ingannato May, no, non mi sfiorò neppure per un istante. Sì, gli era certamente accaduto qualcosa di spaventoso, e a me spettava il compito di dirlo alla sua promessa sposa. Desideravo quasi che la carrozza si rovesciasse e che io mi rompessi la testa, così qualcun altro glielo avrebbe comunicato e non io che... ma questo non ha niente a che vedere con questa storia. Erano le quattro meno cinque quando arrivammo davanti al cancello del cimitero. Lungo il sentiero che dal cancello conduce al portico della chiesa erano allineate due file di curiosi. Saltai giù dalla carrozza e mi feci strada fra di loro. Il nostro giardiniere si era procurato un buon posto, vicino alla porta anteriore. Mi fermai. «Stanno ancora aspettando, Byles?» gli chiesi unicamente per guadagnare tempo, dal momento che potevo constatarlo io stesso osservando l'espressione attenta dei presenti. «Aspettando, signore? No, no, signore. A quest'ora dovrebbe essere già tutto finito.» «Finito? Allora mister Charrington è arrivato!» «In perfetto orario, signore. Per qualche ragione non deve avervi visto, signore, e... signore» proseguì abbassando il tono della voce «non ho mai visto mister John così prima d'ora. Penso che abbia bevuto molto. I suoi abiti erano tutti impolverati e aveva il viso bianco come un lenzuolo. Io le assicuro che il suo aspetto non mi è piaciuto per niente, e la gente dentro sta mormorando di tutto. Certamente dev'essergli successo qualcosa e mister John deve avere bevuto. Sembrava un fantasma ed è entrato guardando fisso davanti a sé, senza un cenno o una parola per nessuno di noi, proprio lui che è sempre stato un gran gentiluomo!» Non avevo mai sentito Byles fare un discorso così lungo. Le persone che affollavano il cimitero bisbigliavano e preparavano il riso da tirare agli
sposi. I campanari erano pronti con le mani sulle corde per sciogliere le campane a festa non appena lo sposo e la sposa avessero varcato la soglia. Un mormorio all'interno della chiesa annunciò il loro arrivo: ed eccoli uscire. Byles aveva ragione. John Charrington non aveva una bella cera. Aveva gli abiti impolverati e i capelli in disordine. Sembrava addirittura che avesse preso parte a una rissa, perché aveva un segno nero sulla fronte. Il suo volto era di un pallore mortale; ma il suo pallore non era maggiore di quello della sua sposa, che sembrava scolpita nell'avorio, abito, velo, fiori d'arancio, viso e tutto. Al loro passaggio i suonatori si fermarono — ne erano stati chiamati sei — e, improvviso, alle orecchie che attendevano lo scampanio gioioso delle nozze giunse il lento rintocco della campana a morto. Di fronte a uno scherzo così stupido dei campanari fummo tutti percorsi da un brivido d'orrore. Ma gli stessi suonatori abbandonarono le corde e corsero come lepri fuori dalla chiesa alla luce del sole. La sposa rabbrividì e ombre grigie si disegnarono intorno alla sua bocca, ma lo sposo la condusse lungo il sentiero dove la gente li attendeva con le mani piene di un riso... che nessuno lanciò e le campane non suonarono a festa. Invano si esortarono i campanari a rimediare al proprio errore: loro protestarono imprecando a bassa voce che piuttosto se la sarebbero data a gambe. In un silenzio simile a quello di una cappella mortuaria, la coppia nuziale prese posto nella carrozza e la porta della vettura venne chiusa alle loro spalle. Allora si sciolsero le lingue. Una babilonia di rabbia, stupore e congetture da parte degli invitati e degli astanti. «Se mi fossi accorto dello stato in cui era, signore» mi disse il vecchio Forster mentre la nostra vettura si muoveva, «l'avrei steso sul pavimento della chiesa! L'avrei fatto com'è vero Iddio, prima di concedergli di sposare mia figlia!» Poi si sporse dal finestrino. «Vai veloce come il vento» gridò al cocchiere. «Non risparmiare i cavalli.» Lui obbedì. Superammo la carrozza della sposa. Io evitai di guardarla e il vecchio Forster girò la testa dall'altra parte imprecando. Raggiungemmo per primi la villa. Ci fermammo sulla soglia dell'atrio, nel sole splendente del pomeriggio, e dopo circa mezzo minuto udimmo il cigolio delle ruote sulla ghiaia. Quando la vettura si arrestò di fronte agli scalini il vecchio Forster e io ci
precipitammo per accogliere gli sposi. «Mio Dio, ma la carrozza è vuota! Eppure...» In un attimo aprii la porta ed ecco quello che vidi: nessuna traccia di John Charrington; solo May, sua moglie, un povero mucchio di satin bianco che giaceva per metà sul sedile e per metà sul pavimento della vettura. «Io sono venuto direttamente qui, signore» disse il cocchiere, mentre il padre della sposa la prendeva fra le braccia. «E giuro che nessuno è uscito dalla carrozza.» Trasportammo di peso la sposa all'interno della casa. Le sollevammo il velo. Bianco, bianco e contratto dall'agonia e dall'orrore, con una tale espressione di terrore negli occhi: non ho mai visto nulla di simile se non negli incubi più paurosi. E i suoi capelli, i suoi capelli biondi e luminosi, vi assicuro che erano bianchi come la neve. Mentre suo padre e io ci rialzavamo, impazziti per l'orrore e il mistero di quanto era accaduto, vidi arrivare dal viale un ragazzo, un fattorino del telegrafo. Mi consegnò una busta arancione che aprii immediatamente strappandola. Lessi: «Mister Charrington è stato buttato giù dal calesse mentre si recava alla stazione all'una e mezza. È morto sul colpo!» E si era sposato con May Forster nella chiesa parrocchiale alle tre e mezza, alla presenza di metà dei parrocchiani! «Vivo o morto ho intenzione di sposarmi!» aveva detto. Che cos'era accaduto in quella carrozza mentre tornavano dalla chiesa? Nessuno lo sa, e nessuno lo saprà mai. Oh, May! Oh, mia adorata! Prima che fosse trascorsa una settimana, la seppellirono accanto al marito nel nostro piccolo cimitero sulla collina ricoperta di timo, il cimitero che era stato il luogo dei loro convegni amorosi. Così si compì il matrimonio di John Charrington. Titolo originale: John Charrington's Wedding Traduzione Elisabetta Svaluto Karl Edward Wagner I graticci di legno Karl Edward Wagner è un giovane e appassionato scrittore di racconti del mistero e dell'orrore ambientati nella realtà odierna. Suo mentore in questo genere è stato Manly Wade Wellman, ma la sua opera risente an-
che dell'influenza di numerosi altri maestri dell'orrore contemporanei. I graticci di legno, il racconto che includiamo in questa antologia, è unanimemente riconosciuto dalla critica come il miglior lavoro prodotto dall'autore fino a oggi. La trama prende spunto da un aneddoto citato da un grande interprete della letteratura dell'orrore, Lee Brown Coye, che nel corso di un incontro accennò al ritrovamento di disegni e manufatti strani e misteriosi in una fattoria abbandonata nella parte settentrionale dello Stato di New York. Benché il racconto di Wagner, un brano sulla conoscenza proibita, si ispiri chiaramente al tema, caro a Lovecraft, del male cosmico e storico, questa storia è al tempo stesso formulata in modo da risvegliare nel lettore potenzialità immaginarie profondamente radicate nel subconscio umano. Fra gli scrittori contemporanei dediti al genere horror Wagner si distingue per la sua forte personalità, e affianca a questa sua primaria attività quella di curatore dell'edizione annuale de The Year's Best Horror Stories, nonché quella di editore della Carcosa House 1 Da un piccolo tumulo accanto al torrente, sporgeva un intreccio di ramoscelli legati assieme. Colin Leverett l'osservò perplesso... poco più di una mezza dozzina di pezzetti di legno, tenuti insieme da un filo metallico a formare tanti piccoli riquadri ad angolo retto, il cui significato appariva incomprensibile. Ricordava una specie di crocifisso bizzarro, ma l'analogia era davvero fuori luogo, e lui si chiese che cosa mai potesse giacere sotto quel tumulo. Era la primavera del 1942, uno di quei giorni che fanno sembrare la guerra lontana e irreale, anche se la comunicazione della chiamata alle armi lo attendeva già sulla sua scrivania. Entro pochi giorni Leverett avrebbe dovuto chiudere il suo studio di campagna, chiedendosi se l'avrebbe mai più rivisto, se sarebbe stato ancora capace di usare le sue penne, i suoi pennelli e i suoi scalpelli quando fosse tornato. Era anche un addio ai boschi e ai torrenti del nord dello Stato di New York. Niente canne da pesca, niente passeggiate nelle campagne dell'Europa di Hitler. Quindi non aveva senso rimandare il suo vecchio progetto di andare a pescare le trote in quel torrente che una volta aveva visto passando in macchina, e di esplorare le strade interne della Otselic Valley. Il Mann Brook, questo era il nome del torrente secondo le vecchie carte di rilevamento geologico, scorreva a sud-est di DeRuyter. A un certo punto
la solitaria strada di campagna incrociava un ponte di pietra costruito assai prima dell'invenzione dell'automobile, ma la Ford di Leverett, procedendo con cautela, riuscì ad attraversarlo, per poi arrestarsi al margine della strada. Nel prendere la canna da pesca e il resto dell'attrezzatura, Leverett incluse anche la borraccia e una padella di ferro per friggere che legò alla cintura. Avrebbe costeggiato il torrente per alcuni chilometri, poi, nel pomeriggio, avrebbe mangiato le trote appena pescate e forse anche qualche coscia di rana toro. Era un bel torrente limpido, nel quale non era facile pescare, perché dalla riva sporgevano diversi cespugli fitti, interrotti da distese d'acqua aperta in cui era difficile muoversi senza farsi vedere. Eppure le trote abboccavano audacemente al suo amo e Leverett era di buon umore. Dal ponte, la valle che costeggiava il Mann Brook iniziava come pascolo aperto, ma circa ottocento metri più oltre la terra era stata abbandonata e dove un tempo si estendevano le coltivazioni sorgeva ora una folta vegetazione di sempreverdi e di meli selvatici. Un altro paio di chilometri più a valle e la boscaglia si trasformava in una fitta foresta, che continuava.ininterrotta. Qui la terra, gli era stato detto, era stata rilevata dallo stato molti anni addietro. Procedendo lungo il torrente, Leverett notò i resti del terrapieno di una vecchia ferrovia. Nessuna traccia di rotaie o di traversine, solo il terrapieno, ricoperto di grandi alberi. L'artista in lui gioì nel vedere i meravigliosi canali di drenaggio, costruiti ancora con la tecnica del muro a secco; seguivano il corso del torrente nel suo fluire lungo la valle. Agli occhi di Leverett questa ferrovia dimenticata, che correva diritta e precisa attraverso una regione praticamente selvaggia, aveva qualcosa di misterioso. Immaginò una vecchia locomotiva a legna con il suo camino conico attraversare la vallata sbuffando e trascinando dietro a sé due o tre carrozze di legno. Doveva essere un ramo della vecchia Oswego Midland Rail Road, concluse, abbandonato alquanto all'improvviso fra il 1870 ed il 1880. Leverett, dotato di buona memoria per i particolari, ricordava di averne sentito parlare da suo nonno, che aveva percorso quella linea nel 1871, da Otselic a DeRuyter, in viaggio di nozze. La locomotiva faticava così tanto per risalire il ripido pendio della collina, che il nonno era sceso. Forse era stata proprio l'eccessiva pendenza di quell'erta a provocare la chiusura della linea. Quando Leverett s'imbatté per caso in un pezzo d'asse inchiodato a numerosi legnetti, conficcati in un muro di pietra, la sua maggiore preoccupazione fu che ci fosse la scritta: «Vietato l'accesso». Ma il tempo e gli a-
genti atmosferici avevano cancellato ogni dicitura, anche se i chiodi, stranamente, sembravano piuttosto nuovi. Leverett vi prestò scarsa attenzione, fino a quando, pochi metri più oltre trovò un altro di quegli affari. E poi un altro ancora. Si accarezzò la mascella pronunciata su cui spuntava la barba lunga di un giorno. Tutto questo non aveva senso. Che fosse uno scherzo? Ma rivolto a chi? Un gioco di bambini? No, avevano una struttura troppo sofisticata. Come artista, Leverett apprezzava la maestria del lavoro, il calcolo attento degli angoli e delle proporzioni, la complessità studiata di quei congegni che lo facevano impazzire perché non riusciva a comprenderne il significato. E l'effetto che producevano era decisamente inquietante. Leverett si ricordò che era andato lì per pescare e riprese il cammino verso valle. Ma mentre cercava di farsi largo attraverso i cespugli si fermò di nuovo in preda allo sconcerto. Era sbucato in una piccola radura e ci aveva trovato un numero ancora maggiore di graticci di legno e alcune pietre lisce disposte sul terreno. Le pietre, prese probabilmente da uno dei numerosi canali di drenaggio, formavano un disegno di circa quattro metri per sei che, a una prima occhiata, somigliava alla pianta del pianterreno di una casa. Incuriosito, Leverett si accorse ben presto che non era così. Se si trattava di una pianta, doveva essere quella di un piccolo labirinto. Tutt'intorno c'erano quegli strani graticci. Ramoscelli d'albero e pezzetti di asse inchiodati insieme a formare composizioni bizzarre. Era impossibile descriverle; non ce n'era una che somigliasse all'altra. Alcune erano formate solo da uno o due legnetti legati insieme in linee parallele o intrecciate. Altre formavano strutture complesse di dozzine di legnetti e pezzi d'asse. Una somigliava a una piccola capanna, come quelle che costruiscono i bambini: era su tre piani, ma così strana e prive d'ogni apparente significato che non poteva essere nient'altro che un folle assemblamento di legnetti e di filo metallico. A volte quei congegni erano conficcati in una catasta di pietre o in un muro, in altri casi erano piantati nel terrapieno della ferrovia o inchiodati a un albero. Tutto ciò avrebbe dovuto apparire ridicolo. Ma non lo era. Anzi aveva un che di sinistro... tutti quei graticci di legno assolutamente inspiegabili e costruiti meticolosamente, sparsi in un luogo selvaggio dove solo un terrapieno ricoperto di alberi o un muro di pietra dimenticato testimoniavano che l'uomo, una volta, vi era passato. Leverett dimenticò le trote e le rane, e infilò una mano in tasca alla ricerca di un taccuino e di un mozzicone di
matita. Laboriosamente cominciò a tracciare qualche schizzo delle strutture più intricate. Forse qualcuno sarebbe stato in grado di dargli qualche spiegazione; forse c'era qualcosa nella loro folle complessità che giustificava uno studio più approfondito, nell'interesse del suo stesso lavoro. Leverett si trovava all'incirca a tre chilometri dal ponte quando s'imbatté nei ruderi di una casa. Era una brutta fattoria in stile coloniale, quadrata, con il tetto spiovente che cadeva a pezzi. Le finestre erano scure e vuote; i camini da entrambe le parti, sembravano fossero lì lì per ruzzolare di sotto. I paradorsi lasciavano intravvedere parti di stanze deserte e le assi dei muri, corrose dalle intemperie, erano marcite in alcuni punti, attraverso i quali si riuscivano a scorgere le travi squadrate. Le fondamenta erano di pietra ed eccessivamente massicce; giudicando dalle dimensioni dei blocchi di roccia, semplicemente sovrapposti gli uni agli altri, era chiaro che nell'intenzione di chi le aveva costruite sarebbero dovute durare in eterno. La casa era stata quasi inghiottita dal sottobosco e dai rigogliosi cespugli di serenella, ma Leverett riuscì ugualmente a distinguere quello che un tempo doveva essere stato un prato con imponenti alberi ombriferi. Più indietro si scorgevano dei meli nodosi e malaticci, e un giardino ormai ricoperto di vegetazione, in cui fiorivano ancora alcuni fiori smarriti, resi pallidi e contorti dai lunghi anni di crescita selvatica. Ovunque vi erano graticci di legno: il prato, gli alberi e perfino la casa erano ricoperti di quelle composizioni arcane. A Leverett ricordavano centinaia di tele di ragno deformi, raggruppate così vicine da racchiudere, quasi in una trappola, la casa e la radura. Perplesso, continuò ad abbozzare quelle forme strane per pagine e pagine sul suo taccuino, mentre, con circospezione, si avvicinava alla casa abbandonata. Non sapeva bene che cosa aspettarsi di trovare all'interno. La fattoria aveva un aspetto francamente minaccioso, immersa com'era in un'atmosfera di cupa desolazione, lì dove la foresta aveva divorato le opere dell'uomo, dove gli unici segni della presenza umana in quel secolo erano quei folli graticci di legnetti e di assi. Qualcun altro, a questo punto, sarebbe tornato indietro. Ma Leverett, la cui arte lasciava trasparire chiaramente la sua passione per il macabro, era invece incuriosito. Tracciò uno schizzo della fattoria e del terreno intorno, invasi da quegli aggeggi enigmatici, e da boschetti di siepi e fiori contorti. Gli dispiaceva pensare che sarebbero dovuti passare parecchi anni prima di potere catturare sulla tela il mistero di quel luogo. La porta era scardinata e Leverett avanzò cautamente, sperando che il
pavimento fosse abbastanza solido da reggere il peso della sua magra figura. Il sole pomeridiano penetrava nelle finestre vuote, screziando le assi marcescenti del pavimento con macchie di luce. La polvere mulinava nel bagliore solare. La casa era vuota, spoglia di mobili, dei quali non restava che un groviglio di macerie imputridite e ricoperte dalle foglie di molte stagioni portate dal vento. Qualcuno era stato lì, e di recente. Qualcuno che aveva letteralmente coperto i muri ammuffiti di riproduzioni grafiche di quei misteriosi graticci. I disegni erano stati realizzati direttamente sui muri, dove linee nere e ben marcate s'incrociavano sulla carta da parati marcita e sull'intonaco sgretolato. Alcuni, di una complessità vertiginosa, coprivano un'intera parete, come un murale dipinto da un pazzo. Altri erano più piccoli, solo alcune linee incrociate, e a Leverett ricordavano incisioni cuneiformi. La sua matita scorreva veloce sulle pagine del taccuino. Leverett osservò affascinato che alcuni di quei disegni erano la riproduzione schematica dei graticci di cui aveva tracciato lo schizzo in precedenza. Che questo fosse lo studio in cui quel pazzo o quel colto idiota aveva progettato e costruito quelle composizioni? Le incisioni impresse dal carboncino nell'intonaco molle sembravano recenti, fatte alcuni giorni o alcuni mesi prima al più. Il vano buio di una porta dava accesso alla cantina. Che anche là ci fossero dei disegni? E che cos'altro? Leverett si chiese se fosse opportuno arrischiarsi per scoprirlo. A eccezione delle strisce di luce che filtravano attraverso le fenditure del pavimento, la cantina era completamente immersa nell'oscurità. «Ehi di casa?» esclamò. «C'è nessuno?» Quella frase non suonava vana in quel momento. Quei graticci di legno non sembravano affatto l'opera di una mente razionale e Leverett non era entusiasta all'idea d'incontrare un individuo del genere in quella cantina buia. Improvvisamente si rese conto che in quel luogo sarebbe potuta accadere qualunque cosa e che nessuno nel mondo del 1942 lo avrebbe mai saputo. E questo fatto da solo esercitava un fascino troppo grande per uno come Leverett. Cautamente cominciò a scendere le scale che portavano alla cantina. Erano di pietra e pertanto solide, ma erano rese infide dalla presenza di muschio e di macerie. La cantina era enorme, e lo sembrava anche di più, così al buio. Leverett scese l'ultimo scalino e si fermò per consentire ai suoi occhi di adattarsi all'oscurità, carica di umidità, della stanza. Gli ritornò alla mente un'impressione che aveva avuto poco prima. Era una cantina troppo grande rispetto
alla casa. Probabilmente in origine vi era sorta un'altra dimora, che forse era stata distrutta e ricostruita da un nuovo proprietario che disponeva di mezzi più modesti. Esaminò i muri. Erano formati da grandi blocchi di scisto che avrebbero potuto sostenere un castello. Osservandoli più attentamente gli venne in mente che poteva trattarsi di una fortezza, sì, perché la tecnica del muro a secco era, sorprendentemente, di tipo miceneo. Come la casa, anche la cantina sembrava vuota, benché in assenza di luce Leverett non potesse essere certo di cosa si celasse dietro quelle ombre. Lungo i muri sembravano delinearsi di tanto in tanto zone di ombra più scura, che indicavano l'esistenza di aperture che introducevano ad altre stanze. Leverett cominciò a sentirsi a disagio. Ecco, là c'era qualcosa... una cosa enorme simile a un tavolo, posta al centro della cantina. Dove i pochi fantasmi di luce che filtravano dal pavimento sovrastante riuscivano a illuminarne i bordi, sembrava fosse fatta di pietra. Facendo molta attenzione Leverett avanzò in direzione del punto in cui si profilava quella grande sagoma, alta fino alla vita, lunga all'incirca venticinque metri e più stretta. Una lastra di gneis dalla forma rozzamente tagliata, giudicò, sostenuta da pilastri di pietra. Nel buio riusciva solo a farsi un'idea vaga di quell'oggetto. Sfiorò la lastra con la mano; sembrava che un solco corresse lungo tutto il bordo. Procedendo a tastoni le sue dita incontrarono un pezzo di tessuto, qualcosa di freddo, di coriaceo e di cedevole. "Finimenti ammuffiti", pensò disgustato. Poi, all'improvviso, qualche cosa si chiuse intorno al suo polso, piantando unghia gelide nella sua carne. Leverett urlò e con tutta la forza che aveva in corpo spiccò un balzo in direzione delle scale. Qualcosa lo bloccava, qualcosa che giaceva sulla lastra di pietra e che adesso si stava alzando. 2 Un raggio di sole malaticcio venne a illuminare un'estremità della lastra. Fu sufficiente. Mentre Leverett cercava di fuggire e la cosa che lo tratteneva si alzava dalla tavola di pietra, il raggio di luce ne illuminò il volto. Era il volto di un cadavere... La carne disseccata aderiva completamente al teschio, rade ciocche di capelli arruffati gli ricoprivano il cranio, labbra ridotte a brandelli scoprivano denti rotti e ingialliti e, affondati nelle loro orbite, gli occhi che avrebbero dovuto essere morti, brillavano, invece, di
una vita spaventosa. Leverett urlò di nuovo, folle di paura. Con la mano libera afferrò la padella di ferro che aveva legata alla cintura. Dopo avere strappato la corda che la tratteneva la scagliò con tutta la forza che aveva in corpo contro quella faccia spettrale. Per un secondo di orrore agghiacciante, la luce del sole gli consentì di vedere la padella abbattersi come una scure su quella fronte divorata dalla muffa, fendendo la carne ormai secca e le fragili ossa. La stretta al polso cedette. La faccia cadaverica ricadde all'indietro, e la visione di quella fronte sfondata e di quegli occhi vitrei, in mezzo ai quali aveva cominciato a fluire lentamente un fiotto denso di sangue era destinata a risvegliare Leverett da quell'incubo per innumerevoli notti. Ma in quel momento Colin si liberò dalla presa e fuggì. E quando, con le gambe doloranti, inciampò e cadde lungo disteso fra gli arbusti, fu spronato a fare appello alle sue ultime forze dal ricordo dei passi che aveva udito incespicare dietro di sé su per le scale della cantina. Quando Colin Leverett ritornò dalla guerra, i suoi amici convennero all'unanimità che era cambiato. Era invecchiato. I suoi capelli erano striati di grigio; il suo passo elastico era diventato lento. La snellezza atletica del suo corpo si era tramutata in una magrezza estrema e malsana. Alcune linee indelebili gli solcavano il volto e aveva gli occhi spiritati. La cosa più preoccupante era il cambiamento che era avvenuto nel suo carattere. Un cinismo mordente aveva corroso la sua abituale aria di asceta capriccioso. La sua predilezione per il macabro aveva assunto toni più cupi, un'ossessione morbosa che i suoi amici trovavano inquietante. Ma era tutta colpa di quell'orribile guerra, specialmente per quelli che avevano combattuto sugli appennini italiani. Leverett avrebbe potuto contraddirli, se avesse avuto voglia di raccontare la sua angosciosa esperienza sul Mann Brook. Ma egli teneva per sé i propri pensieri e ogni volta che gli si riaffacciava alla mente il ricordo macabro della creatura con la quale aveva lottato in quella cantina abbandonata, finiva per convincersi che si era trattato solo di un povero derelitto, un eremita impazzito, il cui aspetto era stato distorto dalla scarsa luce e dalla sua stessa immaginazione. E anche il colpo che gli aveva sferrato era soltanto rimbalzato contro la sua fronte, concludeva alla fine, dal momento che l'altro si era riavuto abbastanza in fretta da lanciarsi al suo inseguimento. Era comunque meglio non indugiare su quei fatti, e questa spiegazione razionale lo aiutava a ritrovare la propria sanità mentale quando si
risvegliava dagli incubi che lo tormentavano. Così Colin Leverett ritornò al suo studio e ancora una volta pose mano alle sue penne, ai suoi pennelli e ai suoi scalpelli. Le riviste popolari, sulle quali i suoi ammiratori avevano acclamato i suoi lavori prima della guerra, salutarono il suo ritorno con lunghe liste di commissioni. Riceveva incarichi da parte di gallerie e di collezionisti, lo studio era pieno di sculture incompiute e modelli in legno. Leverett si gettò a capofitto nel lavoro. Ma presto sorsero alcuni problemi. Short Stories gli aveva rispedito indietro il disegno di una copertina definendolo troppo grottesco. Gli editori di una nuova antologia di racconti dell'orrore avevano respinto un paio delle sue illustrazioni: troppo macabre, soprattutto i volti putrefatti e gonfi degli impiccati. Un cliente gli rispedì una figurina d'argento, protestando per l'eccessivo realismo con cui aveva descritto il martirio del santo. Perfino la rivista Weird Tales, dopo avere diffuso la notizia del suo ritorno sulle sue pagine, popolate di orridi mostri demoniaci, cominciò a rifiutare i suoi disegni, giudicati troppo forti, perfino per i nostri lettori. Senza troppo entusiasmo Leverett cercò di attenuare la violenza delle proprie raffigurazioni, ma ciò che ne risultava gli appariva insulso e privo d'ispirazione. A poco a poco le richieste scemarono. Leverett che con il passare degli anni tendeva a una vita sempre più ritirata e solitaria, cancellò il ricordo delle riviste popolari dalla propria mente. Lavorando tranquillamente nel suo studio isolato, trovò di che guadagnarsi da vivere eseguendo occasionalmente opere su commissione o per le gallerie, e vendendo di tanto in tanto un quadro o una scultura a qualche museo importante. I critici elogiavano molto le sue sculture astratte e bizzarre. 3 La guerra era ormai una storia vecchia di venticinque anni quando Colin Leverett ricevette una lettera da un caro amico dell'epoca delle riviste popolari, Prescott Brandon, ora redattore ed editore di Gothic House, una piccola casa editrice specializzata nella pubblicazione di libri di genere fantastico-soprannaturale. Nonostante la loro corrispondenza si fosse interrotta molti anni prima, Brandon aveva iniziato la sua lettera con il suo solito stile diretto: The Eyrie/Salem, Mass. 2 Agosto Al Macabro Eremita delle Midlands:
Colin, sto mettendo assieme una raccolta in tre volumi, edizione rilegata, dei racconti dell'orrore di H. Kenneth Allard. Ricordo che i racconti di Kent erano fra i tuoi preferiti. Che ne pensi di uscire dal tuo isolamento e d'illustrarli per me? Abbiamo bisogno di sovraccoperte a due colori e di una dozzina d'illustrazioni interne per ogni volume. Mi auguro che tu riesca a far prendere paura ai fantasmi con dei disegni particolarmente spettrali, qualcosa di diverso dai soliti teschi e dai soliti pipistrelli e lupi mannari che trascinano via signore mezze svestite. Ti interessa? Ti spedirò tutto il materiale che ti potrà servire e ti darò carta bianca. Ci sentiamo. SCOTTY Leverett fu felicissimo di quella proposta. Sentiva un po' di nostalgia per i bei tempi in cui disegnava per le riviste, e aveva sempre ammirato la genialità con cui Allard riusciva a tradurre in una prosa convincente le sue immagini di orrore cosmico. Rispose a Brandon in termini entusiastici. Passò ore intere a rileggere le storie che avrebbe dovuto illustrare, prendendo appunti e tracciando alcuni schizzi preliminari. Questa volta non correva il rischio di offendere qualche redattorucolo schizzinoso; Scotty voleva esattamente quello che aveva detto. E Leverett si buttò a capofitto nel lavoro, animato da un piacere maniacale. Qualcosa di diverso, gli aveva chiesto Scotty. Carta bianca. Leverett osservò gli schizzi tracciati a matita con occhio critico. Gli sembrava di essere sulla buona strada per le figure, ma i disegni nel loro complesso avevano bisogno di qualche cosa di più... un quid che trasmettesse l'atmosfera sinistra di male che permeava l'opera di Allard. Teschi ghignanti e pipistrelli coriacei? Cose trite e ritrite. Le storie di Allard meritavano di meglio. L'idea si era inesorabilmente impadronita di lui. Forse perché i racconti di Allard evocavano quello stesso senso dell'orrore, forse perché le sue descrizioni delle fattorie in rovina del Nord e dei loro segreti corrotti gli ricordavano tanto quel pomeriggio di primavera sul Mann Brook.... Benché si fosse sempre rifiutato di sfogliarlo dal giorno in cui aveva fatto ritorno allo studio barcollante e mezzo morto per lo spavento e la stanchezza, Leverett ricordava perfettamente dove avesse gettato il taccuino. Lo recuperò dal fondo di un archivio che usava di rado e scorse pensosamente le pagine raggrinzite. Quegli schizzi tracciati frettolosamente risve-
gliarono in lui il presentimento della disgrazia, l'orrore spettrale di quel pomeriggio. Osservando gli schemi di quegli strani graticci, a Leverett sembrava impossibile che gli altri non dovessero provare lo stesso sentimento di orrore che quelle composizioni di legno suscitavano in lui. Cominciò a inserire alcuni frammenti di quei graticci nei suoi bozzetti. I volti ghignanti delle creature corrotte di Allard assunsero un aspetto ancora più minaccioso. Leverett annuì, soddisfatto dell'effetto ottenuto. 4 Alcuni mesi dopo Colin ricevette una lettera di Brandon che lo informava di avere ricevuto i suoi ultimi disegni e di essere enormemente contento del lavoro. Brandon aveva aggiunto un postscritto: Per l'amor del cielo Colin, che cosa sono quei graticci che hai inserito dappertutto? Dopo un po' quei dannati cosi ti fanno venire i brividi. Come diavolo t'è venuta in mente un'idea simile? Leverett ritenne di dovere a Brandon qualche spiegazione. Gli scrisse una lunga lettera descrivendogli la sua esperienza sul Mann Brook e tralasciando soltanto di parlargli di quella cosa orribile che gli aveva afferrato il polso nella cantina. Che Brandon pensasse pure di lui che era un tipo strano, ma non un pazzo e un assassino. Colin, il tuo racconto di quanto accaduto sul Mann Brook è affascinante... e incredibile! Sembra l'inizio di uno dei racconti di Allard! Mi sono preso la libertà d'inviare la tua lettera ad Alexander Stefroi, a Pelham. Il Dr. Stefroi, come tu forse già sai, è un attento studioso della storia di questa regione. Sono sicuro che il tuo racconto lo interesserà e forse lui potrà darci qualche chiarimento su questo mistero. Penso che il primo volume, Voci dall'Ombra, sarà pronto il mese prossimo. Le bozze erano fantastiche. I miei migliori auguri. SCOTTY La settimana successiva Leverett ricevette una lettera che portava il timbro di Pelham, Massachussets:
Un amico comune, Prescott Brandon, mi ha inviato una sua lettera nella quale raccontava la sua scoperta di strani graticci e manufatti di pietra in una fattoria abbandonata nella regione settentrionale dello stato di New York. Ho trovato la cosa estremamente interessante e mi chiedevo se lei rammentasse qualche ulteriore particolare. Sarebbe in grado di localizzare di nuovo il luogo esatto a distanza di tanti anni? Se fosse possibile, vorrei farvi un sopralluogo in primavera ed esaminare le fondamenta della fattoria, perché richiamano alla mente alcuni siti megalitici rinvenuti in questa regione. Molti di noi sono interessati a localizzare quelli che riteniamo siano i resti di costruzioni megalitiche risalenti all'Età del Bronzo e determinarne la funzione nell'ambito di alcuni riti di magia nera che venivano celebrati in epoca coloniale. Dai reperti archeologici attualmente in nostro possesso risulta che nel 2000-1700 a.C. circa, alcune popolazioni dell'Età del Bronzo provenienti dall'Europa si insediarono nella regione nordorientale del nostro paese. Sappiamo che nell'Età del Bronzo, fiorì una civiltà estremamente avanzata e che, come navigatori, quei popoli non ebbero pari fino all'epoca dei Vichinghi. I resti di una cultura megalitica sorta nell'area mediterranea sono visibili nella Porta dei Leoni a Micene, a Stonehenge, nei dolmen, nelle tombe sotterranee e nei tumuli rinvenuti in tutta Europa. Inoltre, sembra che queste costruzioni rappresentino molto più dello stile architettonico tipico di un'era. Sembra addirittura che esse fossero associate a un culto religioso i cui seguaci adoravano una specie di madre-Terra, che servivano celebrando riti propiziatori della fecondità e sacrifici. Inoltre sappiamo che essi credevano di poter assicurare l'immortalità dell'anima mediante l'inumazione in tombe megalitiche. Che questa cultura sia approdata anche in America non vi sono dubbi, date le centinaia di ruderi megalitici rinvenute, e oggi attestate, nella nostra regione. A tutt'oggi il sito più importante è la Collina dei Misteri, nel New Hampshire, che comprende numerosi muri e dolmen di costruzione megalitica, e in particolare il tumulo e il Tavolo Sacrificale (vedi cartolina) della Caverna a Y. Vi sono poi altri siti meno spettacolari fra i quali il gruppo di tumuli e pietre intagliate sulla Minerai Mountain, camere sotterranee con corridoi in pietra, come a Petersham e a Shutesbury,
e innumerevoli megaliti e celle da monaci sotterranee in tutta la regione. Ancora più interessante è il fatto che, a quanto sembra, questi siti avessero conservato la propria aura mistica per i primi coloni, e che, come testimoniano alcuni reperti, parte di essi fosse stata utilizzata per scopi sinistri da stregoni o alchimisti dell'epoca. Simili pratiche si diffusero in particolar modo in seguito alle persecuzioni contro la stregoneria che spinsero molti di questi maghi verso il selvaggio West; ciò spiega perché nella regione settentrionale dello stato di New York e nel Massachussets occidentale si sia assistito, negli anni seguenti, alla nascita di così tante sette. Di particolare interesse è quella dei Fratelli della Nuova Luce di Shadrach Ireland: credevano che entro breve il mondo sarebbe stato distrutto da sinistri Poteri dall'Esterno e che allora loro, gli eletti, avrebbero raggiunto l'immortalità. Il corpo degli eletti che morivano prima doveva essere conservato su tavoli di pietra fino a quando i Vecchi sarebbero venuti a riportarli alla vita. Abbiamo collegato in modo conclusivo i siti di Shutesbury a pratiche perverse del culto della Nuova Luce svolte in epoca più tarda. Nel 1871 i membri di quel gruppo furono assorbiti dalla setta dei Tremolanti di Madre Ann Lee e il cadavere putrescente di Ireland fu prelevato dal tavolo di marmo della cantina sul quale giaceva e sepolto. Perciò penso che probabilmente la fattoria da lei scoperta sia stata teatro di simili pratiche occulte. A Mistery Hill fu costruita nel 1826 una fattoria che incorporava un dolmen nelle sue fondamenta. La casa fu incendiata nel periodo compreso fra il 1848 e il 1855 ca. e circolano storie raccapriccianti sugli eventi che vi hanno avuto luogo. La mia opinione è che la sua fattoria sia stata costruita sopra, o incorpori nella sua struttura, un sito megalitico di questo genere, e che i graticci da lei trovati indichino che vi viene ancora praticato un culto sconosciuto. Ricordo qualche vago accenno all'impiego di simili legnetti in cerimonie segrete, ma non sono in grado di essere più preciso. Forse rappresentano un'elaborazione di simboli occulti da usare per certe invocazioni solenni, ma questa è soltanto un'ipotesi. Le consiglio di consultare il Cerimoniale Magico di Waites o altri testi analoghi per vedere se riesce a individuare simboli magici simili.
Mi auguro di esserle stato di qualche aiuto e resto in attesa di una sua risposta. Cordiali saluti ALEXANDER STEFROI Allegata alla lettera c'era una cartolina, la fotografia di una lastra di quattro tonnellate e mezzo, sul cui bordo correva un solco profondo che terminava in un beccuccio. Era stata identificata come la Tavola Sacrificale di Mystery Hill. Sul retro Stefroi aveva scritto: Lei deve avere trovato qualcosa di simile a questo. Non sono rari. Ne abbiamo uno anche a Pelham, prelevato da un sito attualmente nel sottosuolo della Quabbin Reservoir. Venivano utilizzati per i sacrifici, sia animali che umani, e il solco serviva, presumibilmente, per raccogliere il sangue in un recipiente. Leverett lasciò cadere la cartolina e rabbrividì. La lettera di Stefroi aveva risvegliato in lui quell'antico orrore, e adesso avrebbe preferito che quella storia se ne fosse rimasta là, dimenticata sul fondo dello schedario. Ma naturalmente non poteva dimenticarla, neppure dopo trent'anni. Scrisse a Stefroi una lettera prudente, ringraziandolo per le sue informazioni e aggiungendo qualche particolare di minore rilievo al suo racconto. La primavera successiva, gli promise, chiedendosi al tempo stesso se mai avrebbe mantenuto quella promessa, avrebbe cercato di ritrovare quella fattoria sul Mann Brook. 5 La primavera arrivò tardi quell'anno, e fu solo ai primi di giugno che Colin Leverett trovò il tempo di ritornare sul Mann Brook, Apparentemente, era cambiato ben poco in tre decenni. C'era ancora l'antico ponte di pietra, e la strada di campagna non era ancora stata lastricata. Leverett si chiese se qualcuno vi avesse mai più messo piede dal giorno di quella sua fuga terrorizzata. Si avviò verso valle e ritrovò con facilità il terrapieno della ferrovia. Trent'anni, disse a se stesso... ma la paura dentro di lui era soltanto aumentata. Il cammino era molto più arduo della volta precedente. In più quel giorno faceva piuttosto caldo e l'umidità era insopportabile. Facendosi
strada a fatica attraverso il sottobosco rigoglioso, Leverett sollevava nugoli di mosche nere che lo mordevano selvaggiamente. Evidentemente dovevano essersi verificate violente alluvioni negli ultimi anni, a giudicare dai tronchi e dalle macerie che ostruivano il sentiero. In alcune zone l'acqua aveva spazzato via tutto, lasciando solo aride rocce e ghiaia. Altrove barriere gigantesche di alberi sradicati e di macerie si ergevano come antiche fortificazioni marcescenti. Mentre cercava di aprirsi un varco attraverso la vallata, si rese conto che la sua ricerca non avrebbe portato a nulla. Tale era stato l'impeto delle passate alluvioni che anche il corso del torrente era cambiato. Molti dei canali sotterranei non costeggiavano più il ruscello, ma si intravvedevano smarriti e solitari, molto lontani dalle sue attuali sponde. Altri erano stati abbattuti e spazzati via, oppure erano sepolti sotto quintali di tronchi putrefatti. A un certo punto Leverett s'imbatté nei resti di un meleto che si insinuava incerto attraverso l'erba e i cespugli. Si ricordò che la casa doveva essere da quelle parti, ma in quel luogo le alluvioni erano state particolarmente violente, ed evidentemente anche quelle poderose fondamenta di pietre erano state rovesciate e ricoperte di detriti. Alla fine Leverett fece ritorno alla macchina. Il suo passo era più leggero. Alcune settimane dopo ricevette una risposta da Stefroi, al quale aveva comunicato il fallimento della sua impresa: Chiedo venia per il ritardo con cui rispondo alla sua lettera del 13 giugno. Ultimamente sto svolgendo delle ricerche che, mi auguro, porteranno alla scoperta di un nuovo sito megalitico di enorme importanza. Naturalmente mi ha molto deluso il fatto che non siano rimaste tracce del sito sul Mann Brook. Mentre cercavo di non perdere le speranze, mi è sovvenuto che probabilmente le fondamenta hanno resistito. Passando in rassegna le informazioni in mio possesso relative a quella zona, ho notato che nella Otselic Valley si sono verificate alluvioni particolarmente violente nel luglio del 1942 e di nuovo nel maggio del 1946. Molto probabilmente la vecchia fattoria con i suoi graticci enigmatici è stata interamente distrutta non molto dopo la sua scoperta del sito. Il nostro è un paese strano e selvaggio, e senza dubbio ci sono molte cose che noi non sapremo mai. Le scrivo questa lettera affranto per la dolorosa scomparsa, due
notti orsono, di Prescott Brandon. Per me è stato un colpo durissimo, come lo è stato, ne sono certo, anche per lei e per tutti quelli che lo conoscevano. Spero soltanto che la polizia arresti i feroci criminali che hanno compiuto questo gesto assurdo. È chiaro che si trattava di ladri sorpresi a saccheggiare il suo ufficio. La polizia ritiene che fossero drogati perché solo così si può spiegare la cieca brutalità con cui hanno compiuto il crimine. Avevo appena ricevuto una copia del terzo volume di Allard, Luoghi Profanati. È un libro illustrato in maniera superba, e la tragedia diventa ancora più immane al pensiero che Scotty non offrirà più al mondo simili tesori. Con dolore, ALEXANDER STEFROI Leverett fissò la lettera in stato di shock. Non sapeva nulla della morte di Brandon... Solo pochi giorni prima aveva ricevuto un pacco dall'editore, contenente una copia di Luoghi Profanati. Gli ritornarono alla mente alcune frasi dell'ultima lettera che Scotty gli aveva scritto e che in quel momento gli erano sembrate divertenti: I tuoi graticci hanno sconcertato moltissimi lettori, Colin, e ho consumato un intero nastro per rispondere alle loro domande. Un tizio in particolare, un certo maggiore George Leonard, mi ha chiesto con insistenza delle informazioni più dettagliate, e io ho paura di avergli detto troppo. Mi ha scritto parecchie volte per avere il tuo indirizzo, ma sapendo quanto tieni alla tua privacy, mi sono offerto semplicemente d'inoltrarti la sua corrispondenza. Da quanto ho capito, vorrebbe vedere i tuoi schizzi originali, ma questi tipi prepotenti e troppo appassionati di occultismo proprio non li reggo. Francamente, non ci terrei affatto a conoscere quel tizio. 6 «Mr. Colin Leverett?» Leverett osservò l'uomo alto e magro che lo guardava, sorridendo, dalla porta del suo studio. La macchina sportiva con la quale era arrivato era nera e sembrava costosa. Entrambe queste caratteristiche valevano anche per il maglione a collo alto e gli ampi pantaloni di pelle che indossava, nonché per la valigetta lucida che teneva in mano. Era magro in volto e tutto quel
nero gli conferiva un pallore mortale. A giudicare dai suoi capelli, piuttosto sottili, doveva essere vicino ai cinquant'anni, pensò Leverett. Un paio di occhiali scuri gli nascondevano gli occhi, guanti neri da guida alle mani. «Scotty Brandon mi ha detto che l'avrei trovata qui» disse lo sconosciuto. «Scotty?» Il tono di Leverett era di diffidenza. «Sì, purtroppo abbiamo perso un comune amico. Gli avevo parlato poco prima... Ma a giudicare dalla sua espressione, Scotty non deve avere avuto il tempo di scriverle in merito. Sono Dana Allard» concluse un po' impacciato. «Allard?» Il visitatore sembrò imbarazzato. «Sì. H. Kenneth Allard era mio zio.» «Non sapevo che Allard avesse dei parenti» si stupì Leverett, stringendo la mano che gli veniva porta. Non aveva mai incontrato lo scrittore di persona, ma notò nel suo interlocutore una forte somiglianza con le poche fotografie che aveva visto. E poi ricordava che Scotty aveva pagato i diritti d'autore a una società immobiliare di qualche tipo. «Mio padre era il fratellastro di Kent. Successivamente ha preso il cognome del padre, ma non ci fu un regolare matrimonio, se capisce quello che voglio dire.» «Sì, certo.» Leverett era confuso. «Prego, si sieda dove trova un posto. Che cosa la conduce da me?» Dana Allard tamburellò con le dita sulla valigetta. «Qualcosa di cui avevo parlato a Scotty. Recentemente ho trovato una grande quantità di manoscritti inediti di mio zio.» Aprì la valigetta e consegnò a Leverett un fascio di fogli ingialliti. «Come parente più prossimo, papà aveva ritirato gli effetti personali di Kent dall'ospedale. Non aveva mai avuto una grande considerazione di mio zio, né del suo lavoro. Aveva riposto tutto in soffitta e se n'era dimenticato. Scotty si era molto entusiasmato quando gli avevo detto della mia scoperta.» Leverett stava dando una scorsa al manoscritto... Pagine e pagine scritte in una calligrafia illeggibile, con correzioni unite insieme come un puzzle indecifrabile. Aveva visto alcune fotografie dei manoscritti di Allard. Erano identici a quello, non c'erano dubbi. Lo stesso poteva dirsi dello stile. Leverett lesse alcuni brani con profonda attenzione. Erano autentici e... fantastici. «Sembra che, con il peggiorare della malattia, la mente di mio zio avesse assunto un'inclinazione più morbosa» azzardò Dana. «Ammiro davvero
molto il suo lavoro, ma trovo che questi ultimi racconti siano... be' un po' troppo terrificanti. Specialmente la sua traduzione del Libro dei Vecchi.» Leverett era completamente affascinato da quelle pagine. Era così assorbito dalla lettura di quei fragili fogli che quasi non si accorgeva del suo ospite. Allard stava descrivendo una struttura megalitica che il protagonista del racconto, la cui sorte era segnata, aveva scoperto nelle cripte di un antico cimitero. Parlava di antiche incisioni che assomigliavano in maniera davvero soprendente ai suoi graticci. «Guardi qui» gli indicò Dana. «Questi incantesimi che riporta dal libro proibito di Alorri-Zrokros: Yogth-Yugth-Sut-Hyrath-Yogng, diavolo, non riesco neppure a leggerli. E ce ne sono pagine e pagine.» «È incredibile!» esclamò Leverett. Provò ad articolare quelle parole sconosciute. Ci riusciva. Anzi, aveva perfino individuato un ritmo. «Bene, sono contento che lei li approvi. Temevo che questi ultimi racconti fossero un po' troppo forti per gli ammiratori di Kent.» «Questo significa che ha intenzione di farli pubblicare?» Dana annuì. «Doveva farlo Scotty. Spero soltanto che non fosse questo che i ladri stavano cercando. Un collezionista li pagherebbe una fortuna. Ma Scotty mi aveva detto che avrebbe tenuto segreta la cosa fino a quando fosse stato pronto per darne l'annuncio.» Il suo volto magro era triste. «E così» proseguì «adesso li pubblicherò io, in un'edizione in brossura. E voglio che lei si occupi delle illustrazioni.» «Ne sarei onorato» dichiarò rapito Leverett, incapace di credere alle proprie orecchie. «Mi sono molto piaciuti i disegni che lei ha realizzato per la trilogia. Mi piacerebbe che ne facesse molti di quel genere, tutti quelli che si sente di fare. E quei graticci...» «Sì?» «Scotty me ne ha raccontato la storia. Affascinante! E mi ha detto che ne ha un intero taccuino! Potrei vederli?» Leverett si affrettò a recuperare il taccuino dall'archivio e ritornò al manoscritto. Dana sfogliò le pagine raggrinzite con timore reverenziale. «Questi affari sono assolutamente bizzarri» disse. «Nel manoscritto vi è qualche accenno a cose del genere, e questo li rende ancora più fantastici. È in grado di riprodurli tutti per il libro?» «Tutti quelli che mi ricordo» gli assicurò Leverett «e io ho buona memoria. Ma non sarà un po' eccessivo?»
«Niente affatto! Sono in perfetta sintonia con il testo e sono assolutamente straordinari. No, metta tutto quello che ha in questo libro. Ho intenzione di intitolarlo Gli abitanti della Terra, come il racconto più lungo. Ho già preso accordi per la stampa, per cui cominciamo non appena ha pronti i disegni. E io so che lei vi si dedicherà anima e corpo.» 7 Stava fluttuando nello spazio. Alcuni oggetti si muovevano accanto a lui. Stelle, pensò lui dapprincipio. Poi gli oggetti si fecero più vicini. Legnetti. Graticci di legno di tutte le forme. E adesso lui ondeggiava in mezzo a loro, ma si accorgeva che non erano di legno. Erano fatti di una sostanza bianca come la morte, simile a raggi di luce stellare congelati. Gli ricordavano le lettere di un alfabeto non terreno, simboli complicati ed enigmatici disposti in modo da significare... che cosa? E certamente erano ordinati secondo uno schema preciso... uno schema tridimensionale. Un labirinto di una complessità assolutamente sconcertante... Poi, come non lo sapeva, si ritrovava in un cunicolo sotterraneo. Un cunicolo stretto, con le pareti di pietra, nel quale era costretto a strisciare sul ventre. Le pietre umide e ricoperte di muschi viscidi si stringevano intorno al suo corpo contorto evocando sussurri striduli di terrore claustrofobico. Dopo essersi trascinato per un tempo indefinito attraverso questo ed altri passaggi rivestiti di pietre, superando, di tanto in tanto, varchi che gli ferivano gli occhi, penetrava in una camera sotterranea. Le pareti e il soffitto della stanza, larga una quarantina di metri, erano formate da grandi lastre di granito, intervallate dalle aperture di altri cunicoli che penetravano nella terra. Simile a un altare, una gigantesca lastra di gneis s'imponeva al centro della stanza. Una sorgente d'acqua nera zampillava fra i pilastri di pietra che sostenevano la tavola. Sul bordo esterno si scorgeva un solco, macchiato di chiazze nauseanti della stessa sostanza che si stava coagulando nel recipiente di pietra alla base del beccuccio di raccoglimento. Altre figure stavano emergendo dai cunicoli oscuri che confluivano a raggiera nella stanza, figure dinoccolate, solo vagamente riconoscibili e vagamente umane. Una di esse, avvolta in un mantello lacero, veniva verso di lui dall'ombra... e allungava una mano simile a un artiglio per afferrargli il polso e trascinarlo verso la tavola sacrificale. Lui la seguiva senza opporre resistenza, sapendo che da lui ci si attendeva qualcosa. Raggiungevano insieme l'altare e, al chiarore dei graticci cuneiformi in-
tagliati nello gneis, egli poteva vedere il volto della sua guida. Un volto di cadavere putrescente, con l'osso decomposto della fronte fracassato dal quale sporgeva lentamente una cosa oscena... E a questo punto Leverett veniva destato dall'eco stesso delle sue grida... Stava lavorando troppo, ripeteva allora a se stesso, mentre, brancolando nel buio, si vestiva, perché aveva i nervi troppo scossi. Non c'era da stupirsi che fosse distrutto. Ma nello studio il lavoro lo attendeva. Quasi cinquanta disegni ultimati finora, e progettava di farne un'altra ventina. Non c'era da stupirsi che quegli incubi lo perseguitassero. Era un ritmo estenuante, ma Dana Allard era estasiato dal suo lavoro. E Gli abitanti della Terra stava aspettando. Nonostante i problemi di tipocomposizione, e quelli per la ricerca di uno speciale tipo di carta che Dana voleva, mancavano soltanto i suoi ultimi disegni per completare l'opera. Benché le ossa gli dolessero per la stanchezza, Leverett arrancava con determinazione nella notte che ingrigiva. Sarebbe stato interessante ritrarre alcune delle figure del sogno. 8 Dopo avere inviato l'ultimo disegno a Dana Allard a Petersham, Leverett, dimagrito di sette chili e distrutto dalla stanchezza, convertì una parte del pagamento straordinario con il quale era stato ricompensato in una cassa di buon whisky. Non appena i disegni erano stati trasferiti sulle lastre Dana aveva messo in moto le macchine offset. Ma nonostante la sua attenta programmazione, le macchine si erano rotte, uno dei tipografi se n'era andato per ragioni imprecisate, il nuovo tipografo aveva subito un brutto incidente... insomma la lista dei contrattempi sembrava interminabile e Dana s'infuriava per ogni ritardo. Eppure, malgrado tutti questi inconvenienti la produzione procedeva speditamente. Leverett scrisse a Dana che quel libro era maledetto, ma questi gli rispose che entro una settimana sarebbe stato pronto. Nel frattempo Leverett si svagava nel suo studio costruendo graticci di legno e cercando di recuperare le ore di sonno perdute. Era in attesa di ricevere una copia del libro quando gli giunse una lettera di Stefroi: Ho cercato di raggiungerla telefonicamente negli ultimi giorni, ma a casa sua non rispondeva nessuno. In questo momento ho po-
chissimo tempo e perciò sarò breve. Ho scoperto un sito megalitico di enorme importanza e di cui nessuno finora sospettava l'esistenza. È situato nella proprietà di un'illustre famiglia del Massachussets, ma poiché non ho ancora ottenuto il permesso di visitarla, non le dirò dove si trova. Una notte ho fatto alcuni sopralluoghi di nascosto (e in modo alquanto illegale), e mi hanno quasi scoperto. Ho trovato alcuni accenni a questo sito in una raccolta di lettere e carte del diciassettesimo secolo conservate nella biblioteca di una scuola di teologia. Uno scrittore che accusava i propri familiari di essere un coacervo di maghi e streghe, faceva allusioni a pratiche alchemiche e ad altre storie meno piacevoli, con descrizioni di stanze di pietra sotterranee, di manufatti megalitici che venivano adibiti ad usi folli e a pratiche diaboliche. Ho dato soltanto un rapido sguardo, ma la sua descrizione non è esagerata. E, mio caro Colin, nell'avvicinarmi furtivamente al sito attraverso il bosco, ho incontrato dozzine dei suoi misteriosi graticci! Ne ho portato uno piccolo a casa per farglielo vedere. È stato costruito di recente ed è esattamente uguale a uno dei suoi disegni. Se sono fortunato, riuscirò a farmi ricevere e scoprirò che cosa sono, perché senza dubbio hanno un significato preciso, anche se in genere i membri di queste sette sono piuttosto restii a rivelare i propri segreti. Spiegherò loro che il mio interesse è prettamente scientifico, che non voglio esporli al ridicolo e vedrò quello che mi diranno. In un modo o nell'altro ho intenzione di approfondire la cosa. E così... adesso parto! Cordialmente, ALEXANDER STEFROI Leverett aggrottò le sopracciglia cespugliose. Allard aveva parlato di certi riti di magia nera in cui venivano impiegati i graticci. Ma Allard aveva scritto i suoi racconti più di trent'anni prima e Leverett ne aveva dedotto che lo scrittore si fosse imbattuto in qualcosa di simile al sito del Mann Brook. Ma Stefroi stava parlando di cose attuali! In cuor suo Leverett sperò quasi che Stefroi scoprisse che si trattava soltanto di una folle montatura. Gli incubi continuavano a perseguitarlo. E, benché quelle scene e quei fantasmi gli facessero visita solo nei sogni, gli erano diventati ormai familiari. Familiari. Ma il terrore che suscitavano in lui era quello di sempre.
Questa volta stava camminando in una foresta, alle pendici di alcune colline che sembravano vicine. Una gigantesca lastra di granito era stata trascinata da una parte e al suo posto si apriva la voragine di un pozzo. Lui entrava nel pozzo senza esitazioni, e i gradini arrotondati che conducevano giù erano noti al suo passo. Poi, si ritrovava in una stanza di pietra sotterranea dalla quale si dipartivano tanti cunicoli scavati nella pietra. Lui sapeva qual era quello nel quale avrebbe dovuto insinuarsi. E di nuovo quella camera con l'altare sacrificale sotto il quale zampillava una sorgente d'acqua nera, e quel circolo di figure che si intravvedevano a malapena. Alcune di loro erano raggruppate intorno al tavolo di pietra e, mentre lui si avvicinava vide che stavano trafiggendo un uomo che si contorceva disperatamente. Era un uomo di struttura robusta, con i capelli arruffati, scarnificato e sudicio. Nonostante avesse i lineamenti contorti gli sembrava di ravvisarne la fisionomia e si chiedeva se avesse dovuto conoscerlo. Ma adesso il cadavere dalla fronte fracassata gli stava sussurrando qualcosa nell'orecchio e lui cercava di non pensare alle cose immonde che facevano capolino da quell'osso spaccato; e così afferrò il coltello di bronzo che gli porgeva la mano scheletrica e lo sollevò in alto e poiché non riusciva a urlare o a svegliarsi, fece con il coltello quello che il sacerdote dal mantello lacero gli aveva sussurrato. E quando, dopo un intervallo di follia scellerata, egli infine si svegliò, quella patina vischiosa che lo copriva non era sudore freddo, e non era un incubo il cuore mezzo divorato che stringeva in mano. 9 In qualche modo Leverett riuscì a recuperare sufficiente lucidità mentale per disfarsi di quel pezzo di carne ridotto a brandelli. Rimase sotto la doccia tutta la mattina, sfregandosi la pelle fino a farla sanguinare. Avrebbe tanto voluto vomitare. Alla radio trasmettevano il notiziario. Il corpo straziato di un noto archeologo, il dottor Alexander Stefroi era stato rinvenuto sotto una lastra di granito nei pressi di Whately. Stando alle prime ricostruzioni fatte dalla polizia, la gigantesca lastra era caduta a causa degli scavi che lo studioso vi stava effettuando alla base. Quando le sue mani cessarono di tremare tanto da consentirgli di guidare, Leverett si precipitò a Petersham, e raggiunse la vecchia casa di pietra di Allard all'imbrunire. Allard tardò a rispondere ai suoi frenetici colpi alla
porta. «Oh! Buonasera Colin! Che coincidenza che tu sia arrivato proprio ora! I libri sono pronti. Sono appena arrivati dalla legatoria.» Leverett entrò e passando lo sfiorò. «Dobbiamo distruggerli!» proruppe. Ci aveva riflettuto a lungo durante tutta la giornata. «Distruggerli?» «C'è qualcosa che nessuno di noi immaginava. Quei graticci di legno... appartengono a un culto, a un culto orribile. I graticci hanno qualche significato nei riti di quel culto. Una volta Stefroi ha ipotizzato che potessero rappresentare incisioni di qualche genere, non so. Ma quel culto è ancora vivo. Hanno ucciso Scotty... hanno ucciso Stefroi. Mi stanno dando la caccia... e non so quali siano le loro intenzioni. E ti uccideranno per impedirti di mettere in vendita il libro!» Il volto di Dana assunse un'espressione preoccupata, ma Leverett comprese che le sue parole non erano riuscite ad avere alcun effetto su di lui. «Ma Colin, tutto questo è assurdo. Probabilmente, ti sei stancato troppo. Vieni, ti faccio vedere i libri. Sono in cantina.» Leverett lasciò che il suo ospite lo conducesse dabbasso. La cantina era piuttosto ampia, rivestita di pietre e asciutta. Una montagna di pacchi marroni li attendeva. «Li ho sistemati qui perché non volevo che sfondassero il pavimento» gli spiegò Dana. «Vanno in distribuzione domani. È un onore per me firmare la tua copia» concluse sorridendo. Distrattamente Leverett sfogliò una copia de Gli abitanti della Terra. Osservò i suoi disegni, così accurati, di creature putrescenti, stanze di pietra sotterranee e altari macchiati... e dappertutto quei graticci enigmatici. Rabbrividì. «Ecco fatto.» Dana Allard consegnò a Leverett il libro che aveva firmato. «E per rispondere alla tua domanda, quelle sono antiche incisioni.» Ma Leverett stava fissando la dedica, scritta in una grafia inconfondibile: A Colin Leverett, senza il quale quest'opera non avrebbe potuto giungere a compimento - H. Kenneth Allard. Allard stava parlando. Leverett vide alcuni tratti del viso in cui il trucco color carne applicato in fretta non riusciva a coprire completamente quello che vi era sotto. «... incisioni che simboleggiano dimensioni ultraterrene, incomprensibili per la mente umana, ma frammenti essenziali di un'evocazione così incredibilmente vasta che il pentagramma, se vuoi, è a mille miglia di distanza. Ci avevamo già provato una volta, ma la tua arma di
ferro ha in parte distrutto il cervello di Athol, e all'ultimo istante lui ha sbagliato, rischiando di annichilirci tutti. Athol aveva iniziato a formulare l'evocazione fin da quando era fuggito all'avanzata del ferro quattro millenni orsono... Poi sei riapparso tu, Colin Leverett, tu con la tua conoscenza di artista e i diagrammi dei simboli di Athol. E adesso, un migliaio di nuove menti, unite alle nostre menti, leggeranno l'evocazione che tu ci hai restituita... mentre noi attenderemo nei Luoghi Nascosti. E i Grandi Vecchi ritorneranno dalla terra e noi, i morti che li abbiamo serviti fedelmente, diventeremo signori dei vivi.» Leverett si voltò per fuggire, ma adesso le figure note dei suoi incubi stavano avanzando lentamente dalle ombre della cantina, mentre le pietre massicce del muro scivolavano verso il fondo, rivelando i cunicoli che vi si celavano dietro. E quando Athol gli venne incontro per condurlo con sé, egli cominciò a urlare, ma non riuscì a svegliarsi. Poté solo seguirlo. Titolo originale: Sticks Traduzione: Elisabetta Svaluto Robert Aickman Più forte di noi Robert Aickman fu il grande maestro del racconto di fantasmi della seconda metà di questo secolo Redattore, teorico e scrittore, egli non ebbe mai il riconoscimento né la fama che si sarebbe meritato per la sua vastissima produzione, anche se gli fu assegnato un World Fantasy Award nel decennio precedente la sua scomparsa. Alla sua morte una parte notevole dei suoi scritti non era ancora stata pubblicata negli Stati Uniti Larger Than Oneself (Più forte di noi) è una reinterpretazione in chiave ironica, beffarda a volte per la nostra era, del racconto morale. La signora Iblis trascorre un fine settimana a un raduno di persone che s'interessano di soprannaturale, metafisica e occultismo, e ne esce particolarmente turbata. Questo racconto può essere paragonato a Lato-notte, di Joyce Carol Oates, nel quale argomenti simili vengono trattati in modo analogo. Più forte di noi è un interessante esempio di fusione delle tre correnti principali della narrativa horror. In seguito alla morte del padre, Vincent Coner abbandonò le miniere, di cui la sua famiglia era sempre stata proprietaria, e investì fortemente nel
giornalismo popolare, assumendo egli stesso la carica di caporedattore di Roundabout, il suo giornale. È difficile immaginare che in qualsiasi altro luogo o tempo, passato o futuro, le sue pubblicazioni avrebbero potuto trovare numerosi lettori, ma si dette il caso che la sua generazione sembrava avere un particolare desiderio proprio di ciò che egli offriva: le cose dolci della vita (le più evidenti) cosparse e contaminate di invidia. Coner, un tipico uomo del suo tempo, prosperava straordinariamente. A Cambridge ebbe luogo un simposio di filosofia moderna al quale la stampa dedicò notevole attenzione e Vincent Coner, in particolare, il proprio impegno di giornalista-redattore-commentatore: ebbene, ben presto egli divenne famoso per la sua propugnazione di una sintesi del meglio di questo e del meglio dell'altro mondo. Egli, a quel tempo, già organizzava incontri similari: con la sua esile figura, caratterizzata da una calvizie precoce, Coner compariva di quando in quando versando gin mentre gli altri parlavano. Occasionalmente riportava la discussione al punto giusto, ovvero quello che lui riteneva fosse tale. Con il tempo affinò una precipua sensibilità nel captare anzitempo l'idea che sarebbe prevalsa o il pensiero che avrebbe prevalso. Con una fama crescente facilmente conquistata, l'interesse principale di Coner si spostò via via sempre più verso una ricerca quasi paranoica di autointegrazione. Lesse Berdyaev, Maritain e C.S. Lewis, e perfino le prime trenta pagine di Ouspensky. Riusciva quasi a convincersi di ciò che leggeva. Le opere di Kierkegaard e Leopardi, rilegate da un artigiano esule, stavano sempre sul suo comodino (egli aveva sposato Eileen, che era stata cantante nei locali notturni). Coner continuava a riscoprire Pascal riuscendo a capire ogni volta cose nuove, alimentando il filone della pazzia mentre metteva in circolazione foto classiste sui giornali. Quando la signora Iblis entrò nella sua vita, egli provava un profondo interesse pei alcuni dei nuovi movimenti spirituali che facevano a gara per offrire a un mondo ormai distrutto una risolutiva immunizzazione metafisica. Aveva deciso d'invitare i diversi capi spirituali a Bunhill durante un fine settimana per dare loro la possibilità di effettuare uno scambio di opinioni in territorio neutrale. Ne sarebbe sortito un simposio per Roundabout... nonché un'ottima occasione per offrire i suoi suggerimenti. La signora Iblis entrò nella vita di Coner per la via più diretta: la porta principale. Mentre attendeva che tale porta le fosse aperta, si unirono a lei sul grande gradino bianco altri due ospiti che si presentarono come David
Stillman e Ruth. Ruth non era la figlia del signor Stillman, ma la signora Iblis non riuscì a sentire il suo cognome né mai lo seppe. Il signor Stillman sembrava un ricco uomo d'affari. Era arrivato a bordo di una grande automobile che ripartì immediatamente. Era una persona a modo, dal comportamento impeccabile: d'altronde, la signora Iblis non conosceva molti ebrei. Ruth era una creatura volubile e ipersensibile, poco più di una bambina, all'apparenza, piccola e magra, con i capelli arruffati, un viso tondo e mani inquiete. Portava pantaloni di fustagno rossi, un maglione sformato e calzava un paio di sandali. La signora Iblis stava parlando con il signor Stillman quando Ruth comparve... emergendo presumibilmente dai folti cespugli che fiancheggiavano il viale di accesso, ma aveva con sé una gonfia borsa di rete con due manici. La signora Iblis aveva una valigia; il signor Stillman un nécessaire da viaggio di un modello che la signora Iblis non credeva esistesse più. Probabilmente il fracasso all'interno della casa aveva impedito al servitore di sentire il campanello, per questo la signora Iblis, su suggerimento del signor Stillman, suonò di nuovo. Ruth continuava ininterrottamente a parlare delle difficoltà che aveva incontrato per raggiungere col treno Bunhill — e, per estensione, qualsiasi altro luogo — e dei propri faticosi tentativi per consultare gli orari. «Spero che non abbiate dovuto aspettare». La porta era stata aperta dalla signora Coner che indossava un abito lungo e stretto di colore bluverde e fumava una sigaretta a cui già da tempo avrebbe dovuto togliere la cenere. «Mio marito ha mandato tutta la servitù a un congresso di Scienze Domestiche a Littlehampton e per questo fine settimana siamo completamente nelle mani di questi organizzatori di banchetti. Prego, entrate.» Nell'entrata c'era una grande figura che indossava un abito da sera su cui erano visibili numerose tracce di bibite. «I vostri nomi, prego» disse, e si apprestò a spuntarli su una lista con una matita indelebile. «Signora Iblis» si presentò, opportunamente, la signora Iblis. L'anfitrione compulsò a fatica tutta la lista fermandosi su ogni nome con la punta della matita. Tre giovani ragazzi in smoking si erano impossessati dei bagagli degli ospiti e stavano pronti sull'attenti. «Potete sillabarlo?» disse lo spuntatore maggiordomo a ore. «I-bi-elle-i-esse». Inutilmente cercò il maggiordomo con matita. Infine, irritato, si volse verso la signora Coner. Nel frattempo la figura autoritaria di Vincent Coner si era staccata dalla
folla. «Ruth, tesoro mio. Che bello vederti!» La baciò sulla bocca con forza, ma senza passione. «Ti abbiamo invitata noi, per questo fine settimana, o sei caduta dal cielo?» «Ovviamente mi avete invitata, Vincent.» «Comunque è bellissimo vederti. Vieni. Sarà proprio interessante avere anche il punto di vista ortodosso.» «Potrei avere un panino, prima?» «Puoi prendere tutto quello che c'è. Non hai pranzato?» «Sono partita da Londra alle dieci e mezzo.» «Se l'avessimo saputo avremmo mandato un'automobile a prenderti. È solo mezz'ora di viaggio. Ma vieni e rifocillati.» Le cinse la vita e la trascinò verso la confusione. «Vincent.» Sua moglie lo tirò per l'altra manica del suo abito grigio di fattura impeccabile. Coner si fermò. «Che cosa c'è, Eileen?» «A che cosa serve quella maledetta lista?» «Te l'ho detto più di una volta. Le persone che abbiamo invitato per questo fine settimana sono state tutte accuratamente selezionate da me per il contributo che possono dare. Dal momento che non conosco ancora praticamente nessuno, dobbiamo tenere quella lista e seguirla. C'è qualcosa che non va?» «Sono arrivate due persone. I loro nomi non compaiono sulla lista. Ambedue dicono di essere stati convocati per le tre. Non posso certo mandarli via.» «A tutti è stato chiesto di arrivare per la prima colazione, se possibile. Chi sono?» «La signora Iblis e il signor Stillman. Non sembrano come gli altri.» I presunti ospiti erano visibili davanti alla porta ancora aperta. Attendevano in pena di conoscere il proprio destino. «Mavis!» gridò Coner più forte che poté. «Scusami un momento, Ruth.» La lasciò dopo una forte stretta. Gli venne incontro una donna alta, ossuta, con i capelli biondicci e apparentemente priva di età. Coner riassunse il problema in modo succinto. «Do un'occhiata al libro degli inviti, signor Coner» disse Mavis e se ne andò. Coner si rivolse alla moglie. «Lascio fare a te, cara. Ma chiunque siano, non li vogliamo se non sono in sintonia con il gruppo. Vieni, Ruth.» Cingendole nuovamente la sottile vita come un pitone egli la spinse davanti a
sé. Mavis fece ritorno con un enorme in folio, una sorta di libro dei verbali, di cinquecento pagine almeno. Era suddiviso per date e pieno zeppo di migliaia di nomi scritti con la sua grafia minuta e chiara. Quasi subito Mavis trovò la risposta. «Erano nel gruppo che avevamo invitato prima che il signor Coner optasse per il Forum» disse. «Non hanno avuto le lettere di proroga?» «Sarà meglio farli entrare» decise la moglie di Coner. «Dovranno dividere le stanze con qualcuno.» «Tutti lo faranno, durante questo fine settimana, signora Coner.» «Volete occuparvene voi, Mavis?» Mentre spiegava il problema delle stanze in poche parole dalle quali non traspariva alcuna emozione, Mavis scorreva con gli occhi la lista degli ospiti e delle sistemazioni che era in mano al temporaneo maggiordomo. «Spero quindi» disse rivolta ai due fuori lista «che non abbiate nulla in contrario a dormire con qualcun altro... Questo fine settimana è piuttosto eccezionale.» Il signor Stillman sorrise in segno di accettazione, anche se non parve eccessivamente felice. La signora Iblis disse: «Vi prego, non preoccupatevi per me.» «Nessun problema.» Mavis aveva deciso. «Il signor Stillman dormirà nella Stanza Louise. Dubito che il Rabbino Morocco venga a questo punto... è molto in ritardo. E lei signora Iblis potrà dormire nella stanza di sorella Nuper, l'infermiera della casa.» «Una parte della casa è adibita forse a ospedale?» «No, no. Si tratta soltanto di un locale attrezzato e disponibile nel caso di malesseri gravi o improvvisi. Inoltre, sorella Nuper ci dà consigli sull'alimentazione e anche su questioni di igiene personale. Vedrete: è una persona squisita. Davvero non potrete dividere la stanza con una persona più disponibile.» Il giovane che si era impadronito del bagaglio di Ruth si era già allontanato da diverso tempo, probabilmente per portarlo nella stanza a lei assegnata. Gli altri due giovani scortarono il signor Stillman e la signora Iblis. «L'ascensore è qui dietro» disse un giovane, scostando pesanti tende di velluto marrone scuro. L'ascensore — marca Waywood-Otis, portata max 12 persone — stava scendendo. Quando giunse al pianterreno ne sortirono due uomini di colore in abito da chierici. Piccoli, compatti e splendidamente lustri, sembra-
vano marionette. Sorrisero e s'inchinarono all'unisono ai nuovi arrivati, quindi si allontanarono tenendo lo stesso passo e conversando entusiasticamente in una qualche lingua africana. Giunti al primo piano (la signora Iblis pensò che avrebbero fatto prima a salire a piedi), il signor Stillman fu subito accompagnato in una stanza enorme che, come la signora Iblis poté vedere attraverso la porta, conteneva almeno due letti con baldacchino. La signora Iblis fu invece accompagnata lungo un interminabile corridoio, non proporzionale, nel quale predominava il colore grigio chiaro. Alle pareti pendevano dipinti religiosi moderni, alcuni addirittura di Vanessa Bell e perfino di Rouault (ma la signora Iblis non era certa che non fossero semplicemente delle buone riproduzioni). Incrociarono una donna bellissima dalle audaci proporzioni; esibiva un grosso reggiseno nero, mutandoni a righe bianche e nere, ed enormi ciabatte pelose. Non parve accorgersi della presenza della signora Iblis, né, tantomeno, di quella del ragazzo che portava i bagagli, e, superato l'ascensore, spari dietro l'angolo oltre la Stanza Louise, come la signora Iblis vide poiché non poté fare a meno di voltarsi per guardare. La stanza dell'infermiera Nuper era meravigliosamente luminosa, piena di armadi a muro. C'era un grande divano letto a due piazze con le lenzuola di seta. Dietro al letto pendeva una disgustosa e scandalosa parodia della Crocifissione opera di Edward Burra. La signora Iblis non riuscì a capire se l'autore fosse favorevole o contrario alla religione. Una libreria di legno indiano, che era stata lisciata e dipinta di bianco come gli altri mobili, conteneva soprattutto i più noti libri per infermieri e riviste mediche (rilegate dall'artigiano esule di Coner). Una porta-finestra e un piccolo balcone davano su un giardino di circa mezzo ettaro dal quale saliva un forte odore di composta... ovverossia di concime misto o letame. Si vedeva una figura in tuta da lavoro intenta all'oscuro compito della concimazione. La signora Iblis sbirciò in uno degli armadi a muro. Era pieno zeppo di vestiti da sera appesi a una grossa rotaia cromata, avvolti uno per uno in custodie di plastica trasparente. Non volendo disfare i bagagli prima di avere parlato con l'infermiera Nuper, la signora Iblis si cambiò indossando l'altro abito che aveva con sé. Cercando un portacenere vide il libro che l'infermiera teneva sul comodino: era intitolato Disciplina intestinale, e si trattava di un'opera minore di un noto membro del partito laburista. Un realistico disegno a colori sulla copertina raffigurava il sistema alimentare circondato da raggi luminosi. Dopo essere scesa (per le scale) nella mischia, la signora Iblis rimase da
sola, senza che qualcuno la notasse per qualche tempo. I circa cinquanta membri del Forum che erano presenti, gravitavano tra il salone, la sala da pranzo e il grande atrio. Gran parte di essi, ovviamente, gridavano a gran voce o discutevano animatamente; ma la signora Iblis notò che alcuni se ne stavano seduti, o addirittura in piedi, in perfetto silenzio e che, di conseguenza, venivano ignorati. Aveva letto un articolo sull'Evening News del giorno precedente riguardo l'importanza dei momenti di meditazione regolarmente distribuiti durante la vita attiva e rumorosa, e osservava queste figure mute con interesse e soggezione. Nella folla si muovevano fotografi di giornali. Infine gli occhi della signora Iblis si posarono su Ruth che stava mangiando un gelato alla fragola. Poiché era l'unica persona presente con cui avesse mai parlato (non vi erano tracce del signor Stillman) la signora Ibis si fece avanti. «Salve. Temo di conoscere solo voi qui dentro. Sapete dirmi chi siano alcune di queste persone?» «Non lo so, io sono rigorosamente ortodossa.» «Che cosa interessante! E di quale confessione?» «Pura anglicana. Accetto i Trentanove Articoli. Incondizionatamente.» Ruth si guardò intorno cercando dove appoggiare la coppa del gelato. «Beh, anch'io, in realtà» disse la signora Iblis. «Recitate l'Articolo Trentatré.» «Le parole esatte non le ricordo...» «Allora non siete anglicana pura.» Ruth dovette infine correre il rischio di posare la coppa sul pavimento. «E voi sapete recitare l'Articolo Trentatré?» Questa debole risposta fu l'unica difesa che la signora Iblis riuscì ad approntare. Era passato tanto tempo da quando era stata a scuola. «Colui il quale» declamò Ruth «per pubbica denuncia della Chiesa viene giustamente allontanato dalla comunità della stessa e scomunicato, deve essere considerato Infedele e Pubblicano fino a quando non sarà pubblicamente riconciliato in seguito a penitenza e verrà riaccolto nella Chiesa da un Giudice che ne possegga la facoltà.» «Non è certo un sentimento molto cristiano» disse quasi involontariamente la signora Iblis. «Perché no?» «Somiglia più alla Chiesa di Roma. Scomunica e penitenza, sapete.» «Io faccio penitenza ogni giorno.» La voce di Ruth era sognante, gli occhi vuoti.
«Non potete essere così depravata!» esclamò la signora Iblis; ma subito le tornò in mente la bellissima in reggiseno e mutandoni che aveva incontrato nel corridoio del piano di sopra e la cosa non le parve impossibile. «Non depravata. Peccaminosa» precisò Ruth. «C'è qualche differenza?» «Peccare è umano. Perseverare nel peccato, siccome depravati, è diabolico.» «Ah, ora capisco.» La signora Iblis iniziò a guardarsi intorno per vedere se da qualche parte vi fosse del tè... che comunque sarebbe stato di certo troppo forte. «Credo che questa» disse «sia una verità difficilmente confutabile e, per converso, condivisa da tutti.» Ma Ruth la ignorava: «Fondersi» esclamò con la sua voce tenue. «Attraversare la barriera e divenire Uno. Una sola persona infinitamente piccola incontra ciò che è infinitamente grande. La fine di ogni pellegrinaggio dev'essere l'ortodossia.» I suoi occhi si fermarono su un altro ospite dalla parte opposta della stanza. «Vedete quell'uomo a sinistra di quel quadro... quella grande Annunciazione!» «Quello con i capelli rossi e l'abito di tweed?» chiese la signora Iblis. «Sì, è un levita. Un pesce fuor d'acqua come me.» «Io credevo che levita fosse il nome di una veste.» Ruth si limitò a dire con indifferenza: «Avete letto Arrival and Departure... Arrivo e Partenza o, se preferite, Venuta e Dipartita?» «No.» «Vado a cercare un altro gelato.» Prima che sparisse la signora Iblis ebbe ancora il tempo di chiedere: «Sapete a che ora si mangia qui?» Ruth rispose: «A qualsiasi ora desiderate. Chiedete al banco nella sala da biliardo.» E se ne andò prima che la signora Iblis potesse rendersi conto appieno del fatto orribile che a Bunhill non si consumavano pasti regolari. Per affrontare meglio la situazione la signora Iblis aprì la borsetta e ne estrase un portacipria. Guardandosi nello specchietto ella non notò che ora davanti a lei si trovavano due uomini che non conosceva. «Permettetemi di presentarvi il mio amico, professor dottor Borgia, direttore della Demokratische Religionsgesellschaft di Zurigo.» Così approcciò la signora Iblis un giovane paffuto dalla parlata colta e dal contegno impeccabile. «Piacere» disse lei. «Immagino che siate abituato a sentirvi chiedere se siete realmente discendente della famiglia Borgia.»
«Ma nattürlich... sono discendente dei Borgia!» Il professore aveva un fortissimo accento teutonico. Era una persona esile, stressata, di aspetto semitico, con grandi occhi frenetici. «I Borgia erano una grande aristocratische famiglia dell'antica Spagna. La mia famiglia.» Il giovane paffuto disse: «Sono sicuro che avrete molto da raccontarvi. Mi scusate un attimo se intanto vado a parlare con il dottor Spade?» E se ne andò. Il professor Borgia strabuzzò gli occhi. «Voi avete trovato la competenza spirituale, gnädige Frau? Come vedete vengo subito al sodo.» La signora Iblis rifletté attentamente. «Beh, veramente non ancora, credo.» «La mia è la strada più breve per giungere alla verità.» Nella sua dizione vi era molto del fascino dell'attore classico tedesco, la capacità di rendere profonde e commoventi le parole più comuni. «In un certo senso sono un commesso viaggiatore di Dio.» Questa frase fu pronunciata in un tono che faceva pensare a Manfred davanti all'abisso. «Prima dovete solo firmare.» Le porse un libretto piuttosto grosso stampato a caratteri fitti che, per qualche motivo, ricordava alla signora Iblis i cataloghi di sementi olandesi. «Molte grazie. Non vedo l'ora di leggerlo.» «Una semplice lettura non sarà sufficiente. Le parole raggiungono solo la mente. Quello che cerchiamo noi è lo spirito, il Geist, nicht wahr?» «Suppongo di sì.» La signora Iblis iniziava a sentirsi a disagio e scossa, inadeguata alla vita. «Voi venite spesso in Switzerland?» chiese il professor dottor Borgia arrischiando una pronuncia inglese di Svizzera così complicata che la signora Iblis fece fatica a capirlo. «Solo per gli sport invernali, purtroppo» rispose. «E da diversi anni neanche per quelli.» «Ach, so? Ma non importa. Noi inizieremo una Enfiedelei a Londra proprio il prossimo inverno. Sarà la vostra rinascita.» A questo punto venne in mente alla signora Iblis che molto probabilmente il giovane grassottelle le aveva semplicemente voluto appioppare una noia più grande del sopportabile... un pondo greve, riconosciuto come tale anche in questa società. Si allontanò con una scusa e si mise alla ricerca della sala del biliardo. Il professor dottor resistette immobile e seguì con gli occhi e con un sorriso la sua figura. Strada facendo la signora Iblis incontrò un gruppo particolarmente frene-
tico al centro del quale c'era un uomo che cancionava: «Ma non potremmo riassumere le nostre controversie in un paio di semplici punti e poi discuterne?» Questi, sebbene la signora Iblis non lo sapesse, era il padrone di casa. «A che cosa servono le parole, se lo spirito è in errore?» gridò una donna che secondo la signora Iblis aveva un aspetto obsoleto e indossava una complicata vestaglia nera. La signora Iblis pensò che nonostante quelle persone dessero così poca importanza alle parole, parevano esserne totalmente dipendenti. Al buffet c'erano solo dieci o undici persone, poiché il cibo e le bevande non erano al centro dell'interesse di quel raduno (cosa che invece si poteva dire per altri raduni a Bunhill). Nella sala da biliardo c'erano anche, cosa apprezzabile, due biliardi: su uno di essi si svolgeva una timida partita tra due giovani camerieri. Sopra la mensola marrone scura del caminetto c'era un enorme dipinto a colori pallidi di una Città Universale opera di Patrick Geddes. Era stato installato un nuovo sistema di illuminazione con tubi fluorescenti, ma doveva essere stato commesso qualche errore e la luce, invece di essere migliore di quella del giorno, era di un colore giallo deprimente con un pallido barlume di rosso al calare della sera. Mentre la signora Iblis stava sorseggiando tè indiano e sgranocchiando un pasticcino, una persona imponente che calzava enormi scarpe lucidissime le si avvicinò. «E voi che cosa ne pensate di tutto questo?» le chiese il tipo con accento transoceanico. «Temo di saperne molto poco» rispose la signora Iblis. «Non sono proprio membro del Forum.» «Neanch'io, signora. Ho solo fatto un salto qui per vedere se Coner sta facendo le cose per bene.» «Ebbene?» chiese lei, anche perché sembrava che non ci fosse null'altro da dire. «Vedete, io sono canadese. Anch'io sono un uomo d'affari e redattore come Coner, ma questo non significa che non dia importanza ai valori spirituali, anzi. Ciò di cui il mondo intero ha bisogno, quello a cui anela il cuore di ogni uomo, e di ogni donna, è una grande rinascita spirituale. E quello che io sostengo è che tocca a noi servitori del pubblico avviare le cose.» «Sono d'accordo. In questo modo e in questo momento la stampa dovrebbe e potrebbe avere un influsso decisamente benefico» disse la signora
Iblis mentre sceglieva un cannolo alla crema. «In fondo è assurdo non prendere le cose come le troviamo.» «Certo, certo. Sono parole sagge, cara signora. Vi giuro che non esce una sola copia di un giornale del mio gruppo senza una citazione dalla Bibbia e qualche plauso d'incoraggiamento dedicato a uno dei ministri più in vista.» «Dev'essere molto bello per i vostri lettori.» La signora Iblis si rammaricò di non avere con sé un fazzoletto più grande per pulirsi le dita così indecorosamente impiastricciate di crema di cioccolata... questo, comunque, non le impedì di prendere un altro cannolo. «Dovreste vedere le lettere di ringraziamento» proseguì il canadese. «Mai meno di sessanta al giorno, spesso anche più di cento. Credete, mi fanno sentire umile. Ma non sono di animo gretto, questo assolutamente no, e vi assicuro che ci vuole qualcosa di più.» «Ah si?» disse la signora Iblis. «In fondo, che cosa sono le sette? E le confessioni, i credi, i dogmi e i rituali? Non siamo tutti eguali nel punto più importante, nel cuore? E che cosa sono le piccole ortodossie di fronte al grande desiderio universale, all'eterna ricerca da parte dell'uomo di qualcosa di più grande della propria debole, caduca effimera persona? Ecco perché sono qui questo pomeriggio. Osservo Coner che rimbocca le maniche all'antico Paese.» Sembrava che i suoi lineamenti quasi rigidi sorridessero alla signora Iblis. «Voi pensate che tutto questo porterà effettivamente a qualcosa di utile?» chiese lei voltandosi verso il buffet. Il cameriere era all'estremità opposta e la signora Iblis alzò la voce: «Posso avere un'altra tazza di tè, per piacere?» «Ma certo, certo. Si può ottenere qualsiasi cosa se in cambio si dà l'anima» disse il canadese. La signora Iblis si voltò verso di lui sorpresa. Quegli, però, aveva afferrato per una manica un giovane cadaverico sopraggiunto con un amico, con la faccia da studioso nella quale spiccava un naso alla Wellington. «E voi, signore, che cosa ne pensate?» Il giovane sottrasse semplicemente la manica alla presa con uno strattone senza una parola né un'occhiata. Sembrava un bambino preoccupato. Si rivolse all'amico con tono accorato: «Sai, Neville, ho scoperto che buona parte dei migliori pensieri moderni, le cose veramente profonde, oggigiorno provengono dall'Esercito della Salvezza.» «Io resto fedele al caro vecchio Hibbert Journal, e al mio Gruppo di Ricerca Karma,» disse l'amico. «Beviamo una tazza di tè, poi ti racconto di
una nuova tecnica che stiamo elaborando per accelerare l'estasi.» Aveva abbassato la voce fino a renderla quasi inaudibile. I due giovani sembrarono amabilmente consapevoli dei segreti che avevano in comune. Ora il canadese conversava con una donna grassissima che indossava una tonaca. Attorno al collo, appeso a una catena di ottone, pendeva un oggetto che la signora Iblis credeva si chiamasse ankh. Oppure si trattava di una crux ansata? A questo punto una donna straordinariamente bella entrò nella sala da biliardo accompagnata da un'autentica folla di giovani di aspetto insolitamente piacevole. La donna indossava un abito grigio da infermiera che era fatto di seta, come le divise delle infermiere nei primi film muti, e un alto colletto bianco. La signora Iblis, che era stata sul punto di abbandonare la sala da biliardo, pensando che potesse essere l'infermiera Nuper si fermò per un attimo. Il gruppo avanzò verso il buffet ridendo e chiedendo a gran voce bibite che venivano servite con alacrità di gran lunga superiore rispetto a quella con la quale erano stati serviti gli altri ospiti. Essi rimasero in gruppo scambiandosi allegri luoghi comuni, spensierati, ed esuberanti. Erano completamente diversi dagli altri membri del Forum, ma nessuno, oltre alla signora Iblis e al cameriere, sembrava dedicare loro particolare attenzione. Alla signora Iblis parve addirittura che essi stessero parodiando quanto accadeva intorno a loro. «E di che fede siete voi, mia bella fanciulla?» gridò un giovane di apollinea bellezza. E l'infermiera Nuper (se era lei) rispose immediatamente con voce amorevole, ma perfettamente chiara: «Io venero San Nicola, signore.» Udito questo tutti i giovani risero forte. Quel gruppo fece ricordare alla signora Iblis i tempi in cui era una ragazza sfrenata. Ma la sala da biliardo si stava vuotando e il cameriere cominciava a raccogliere piatti e bottiglie di birra. La signora Iblis percepì di non potersi fermare più a lungo senza dare nell'occhio o divenire magari oggetto di beffe, non per scortesia (quelle persone non sembravano affatto scortesi) ma semplicemente per qualche battuta di spirito alla quale sarebbe stato necessario replicare in modo altrettanto spiritoso, cosa che lei non avrebbe mai saputo fare, neanche molto tempo dopo l'effettiva necessità. Prima di andarsene notò attraverso la fila di alte finestre che la luce livida all'interno della sala da biliardo sembrava trovare una controparte nel livido bagliore esterno. Si chiese se c'entrasse in qualche modo l'equinozio.
«Volete che vi procuri una sedia?» La domanda le fu rivolta da un uomo peloso, anziano, dall'aspetto paterno. «Sarebbe molto gentile. Questo clima mi stanca così tanto.» Egli la guidò tenendola delicatamente sottobraccio. Raggiunsero un piccolo divano. Si sedette accanto a lei. Non era proprio la compagnia che più avrebbe desiderato. «Permettete che mi presenti: O'Rorke, fondatore e patriarca del Movimento della Nuova Visione, piccolo, per ora, è vero, ma sarà come un seme di senape, se posso citare un testo anacronistico.» «Piacere, Iblis. Signora Iblis.» «Ah... si» Sembrava distratto. «Credo di avere convinto il signor Coner. Credo di averlo persuaso che un mondo nuovo ha bisogno di una fede nuova e che non è possibile rimandare.» L'uomo dimostrava almeno settantacinque anni. «In effetti ci sono stati numerosi mutamenti.» «Eppure continuiamo ad adorare gli stessi dèi falsi! Ci prostriamo ancora davanti a concetti che sono di un antropoformismo medievale». Aveva proprio l'aspetto vescovile di San Pietro. «La vita non è facile» disse la signora Iblis. «E per questo dobbiamo forse squartarci come avvoltoi? Non è possibile che ogni uomo, e ogni donna, cerchi la verità a modo proprio? In fondo, in ogni cuore c'è un mistero incredibile: perché dobbiamo cedere ai cambiavalute del tempio? Il male, dopo tutto, è così infinitamente piccolo.» La signora Iblis alzò lo sguardo: «Davvero?» «Ma si, certo. In quante mitologie il Diavolo viene raffigurato come un nanerottolo, come un ometto? E a ragione! Sono solo i teologi sofisticati che lo credono grande e vigoroso e terribile: in modo che noi lo temiamo e cadiamo in loro potere. Ma fatevi animo, signora, ehm...» O'Rorke non riusciva a ricordare il nome della signora Iblis. «Solo Dio è immenso e grande: che significa Buono; poiché Essi sono un'unica persona.» «Siete proprio convincente!» disse la signora Iblis senz'ombra di ironia. Ma il tempo che peggiorava le stava facendo venire l'emicrania. Quando si passò una mano sulla fronte sentì addirittura un tuono lontano, troppo debole per poter essere udito da tutti al di sopra delle numerose voci, delle conversazioni diverse. «È Dio che parla attraverso di me» disse modestamente il patriarca. «O meglio il bene, lo Spirito dell'Universo, al quale tutti noi dobbiamo dare ascolto.»
La signora Iblis si chiese se l'infermiera Nuper avesse un'aspirina da darle. Per qualche motivo sembrava improbabile. Pareva anzi quasi impossibile chiedergliela. Improvvisamente però la figura elegante, ma esausta della signora Coner si chinò sullo schienale del divano e parlò nell'orecchio alla signora Iblis. «Mavis mi dice che, a suo parere, non vi sentite molto bene. Mi dispiace.» La signora Iblis non credeva di avere visto Mavis da quando era arrivata. «È vero. Ho leggero mal di testa. Ma è una sciocchezza. Il tempo, credo.» «Accettate il mio consiglio e andate a distendervi sul letto. Mavis vi sta preparando una pozione.» Sollevata la signora Iblis si alzò in piedi. «Siete molto gentile.» E rivolta al patriarca: «Vi prego di scusarmi. Non mi sento molto bene. Vado a riposare un pochino. Certamente ci rivedremo più tardi.» O'Rurke afferrò e trattenne la sua mano. «Tenete stretto lo spirito, signora, ehm... attenderò con fiducia il vostro ritorno, purificata e splendida.» Non era proprio quello che in genere si dice in circostanze simili. La signora Coner salì con lei. Mentre passavano davanti alla porta della Stanza Louise la padrona di casa disse: «Abbiamo avuto dei problemi qui. Mavis credeva che il Rabbino Morocco e il vostro amico, il signor Stillman, potessero avere molto in comune. E comunque si era ormai convinta che il Rabbino non sarebbe venuto del tutto. E invece è venuto, e lui e il signor Stillman sembrano essere in un certo qual senso ebrei di tipo diverso. Non ho ben capito. Pare che causino sempre qualche problema, non è così?» Le due donne si scambiarono un'occhiata. Distesa sul letto matrimoniale dell'infermiera c'era una ragazza con addosso solo la biancheria intima e un paio di calze di seta nere. Aveva folti capelli neri raccolti in una crocchia da ballerina e stava leggendo un volume di Karl Barth. «Mi dispiace, signora Coner. Ho pensato che l'infermiera Nuper non avrebbe avuto nulla in contrario» disse sedendosi e squadrando la signora Iblis. «Sono sicura che non avrà niente in contrario, Patacake. Ma non ti avevamo assegnato una stanza?». «Non posso fermarmi. Devo tornare al Rifugio.» «Oh.» La cosa apparentemente non piacque molto alla signora Coner. Ma ella compì il proprio dovere di ospite: «La signora Iblis... Donna Ceci-
lia Capulet.» «Piacere» disse la signora Iblis. «Vi prego, non scomodatevi.» Ma si sentiva scoppiare la testa, e in realtà sperava proprio che Donna Cecilia se ne andasse. «Devo uscire in ogni caso» disse Donna Cecilia. Molto elegantemente si avvicinò alla finestra e guardò fuori tra le tende di colori vivaci. «Oh, no piove.» Comparve Mavis con un grande bicchiere graduato colmo fino all'orlo di un liquore bluverde e bollente. «La specialità di Vincent» esclamò sorridendo la signora Coner. «Bevete.» «Siete veramente molto gentile,» disse debolmente la signora Iblis. Bevve un sorso. Notò che Mavis si era cambiata e che ora indossava un abito color fiamma che stonava molto con il suo temperamento generale. Donna Cecilia si stava lavando le mani e gli avambracci con grande cura. «È praticamente peptomicina pura» disse Mavis con fare incoraggiante. La bevanda sembrava olio per candele liquido divenuto insipido col passare degli anni. «Mandatelo giù!» disse la signora Coner mostrando per la prima volta un'ombra d'impazienza. Vi fu un tuono fortissimo. Le quattro donne si guardarono per un attimo. La signora Iblis si sentiva alquanto terrorizzata. «Cristo!» gridò Donna Cecilia. «Potete prestarmi un impermeabile, Mavis?» «Certo, Patacake, se mi dai cinque minuti.» Mavis prese il bicchiere che ora era vuoto (eccetto il fondo, occupato da un sedimento appiccicoso di colore giallo forte), disse: «Grazie» alla signora Iblis e uscì. Ora tuonava forte. «Bene» disse la signora Coner di nuovo decisamente cordiale. «Distendetevi con i piedi sollevati così i vapori possono salire, e tentate di dormire. Quando vi sentirete meglio potrete scendere. Il Forum continuerà per gran parte della notte, immagino. Non occorre quindi che vi affrettiate.» Tolse il guanciale dal capo-letto e lo pose sotto i piedi della signora Iblis. La signora Iblis si sfilò le scarpe, ma non volle svestirsi. Si rendeva conto che la sua biancheria intima non reggeva il confronto con quella di Donna Cecilia. Ora Donna Cecilia si stava strofinando con cura sotto le ascelle qualcosa che (presumibilmente) doveva essere il dedodorante dell'infermiera Nuper.
«Ciao, ciao» disse la signora Coner con garbo vezzoso; uscì chiudendo la porta che Mavis aveva lasciato aperta. «Questi vestiti fanno proprio puzzare» Donna Cecilia stava indossando una semplice gonna blu scura. La signora Iblis sperava solo che se ne andasse. Infine, Donna Cecilia indossò una tunica del medesimo colore, e la signora Iblis capì. «Non avevo mai incontrato una ragazza dell'Esercito della Salvezza.» «È una cosa che dà un tono» disse Donna Cecilia. «In luoghi come questo e momenti come quello attuale. Il maggiore Barbara aveva capito qualcosa.» Si chiuse i bottoni della tunica fino al collo. «È una divisa maledettamente seducente, sapete!» Tese una gamba di seta nera. «Sareste sorpresa nel vedere i risultati.» «Ne fate la vostra carriera?» «Fino a quando non mi buttano fuori.» Sentirono bussare alla porta. Era Mavis con un impermeabile color verde smeraldo. «Siete terribilmente gentile! Tornerò appena chiude il Rifugio» disse Donna Cecilia. «Affrettatevi» la sollecitò Mavis. «Il Forum si esaurirà se non continuate a mantenere attive le vostre ghiandole.» «Il vostro libro!» gridò la signora Iblis. Evidentemente era stato dimenticato. «Leggetelo voi» disse Donna Cecilia. «Auf Wiedersehen» La signora Iblis aveva sperato di vedere Patacake indossare il cappellino; ma se n'era andata e del berretto non c'era traccia. «Volete che vi chiuda dentro?» chiese Mavis. «Starete più tranquilla e c'è un campanello.» «Grazie mille» disse la signora Iblis «Ma lasciate pure aperto.» La signora Iblis si svegliò con un grande appetito. Abituata a quattro pasti normali al giorno, dopo un veloce e anticipato pranzo alla stazione ferroviaria di Londra, era quantomeno in credito con il proprio stomaco. Aveva spento la luce, ma sul quadrante luminoso del suo orologio vide che erano le undici e mezza. Nonostante le parole della signora Coner, certamente la festa al piano di sotto doveva essere terminata. La signora Iblis pensò con terrore a una notte priva di cibo. Accesa la luce sul comodino, si alzò, tentò di lisciarsi l'abito, e s'infilò le scarpe. Se la festa fosse terminata, certamente l'infermiera Nuper sarebbe stata lì. Sembra che il temporale fosse finito, ma la signora Iblis non si prese il tempo per controllare. Si sentiva nuovamente in piena forma, considerata l'ora. Si acconciò i capelli
alla meglio e scese in fretta. C'era ancora molta gente, ma l'atmosfera era cambiata. La luce era fioca (Bunhill aveva due circuiti diversi, e uno di essi era stato danneggiato dal temporale) e il rumore era stranamente circoscritto. La gente era divisa in piccoli gruppi, seduti anche per terra, e il livello generale di voce superava di poco il mormorio. La signora Iblis si ricordava diverse persone, ma notò (con sollievo) che nessuna di quelle con cui aveva parlato era presente nel salone. Per giungere alla sala da biliardo era necessario attraversare il salotto e percorrere un corridoio laterale che lo collegava con la sala da pranzo. Nel salotto scuro (decorato con dipinti astratti in tinte neutre, con cornici pallide fissate alle pareti) la signora Iblis scorse l'inequivocabile figura di Ruth. Era distesa su una sdraio antica: sul suo viso rotondo c'era uno sguardo totalmente privo di espressione, ed ella era stretta inesorabilmente tra le braccia di un uomo che voltava le spalle alla signora Iblis e indossava un abito nero. La massa incolta dei capelli di Ruth era più disordinata che mai. La signora Iblis non poté fare a meno di chiedersi se fosse felice. Attraverso il corridoio si raggiungeva una stanza nota con il nome di Sala della Musica nella quale la signora Iblis ancora non era stata. La porta di questa stanza era aperta, e da essa proveniva un allegro frastuono che era in contrasto con i toni sottomessi, quasi smorti, udibili nelle altre stanze. Quando la signora Iblis giunse alla porta non poté fare a meno di guardare all'interno. Seduta sopra un grande pianoforte a coda da concerto c'era la donna che lei aveva immaginato fosse l'infermiera, con la divisa grigia e l'alto collare rigido. Sembrava somministrare una serie di allegri quiz agli ammiratori del suo seguito, che nel frattempo parevano aumentati di numero e stavano seduti sul pavimento stretti, attorno a lei. L'atteggiamento prevalente non era affatto quello del riposo, al contrario, molti erano inginocchiati e protesi ansiosamente in avanti. Nonostante la distanza dalla porta non fosse grande, la signora Iblis non riuscì a sentire la domanda posta dall'infermiera con voce dolce e carezzevole, ma sembrava che diversi giovani rispondessero all'unisono. La posizione della signorina Nuper, le cui splendide gambe erano fasciate da calze di seta grigie e penzolavano dal pianoforte, permise alla signora Iblis di constatare che, diversamente dalla maggior parte delle persone che si occupano di malati, ella calzava scarpe con tacchi vertiginosi. La signora Iblis si accorse che nell'ultima fila del coro c'era un tipo che sembrava bramoso di rispondere alla domanda, o di rispondere per primo. Quando l'infermiera fece un'altra domanda la si-
gnora Iblis proseguì pensando di non essere assolutamente d'accordo con Mavis nel ritenere che non vi fosse persona migliore dell'infermiera Nuper con la quale dividere una stanza. La sala da biliardo, tuttora illuminata dal tubo di luce difettoso, aveva il medesimo aspetto di prima, a parte il fatto che ora era rimasto un solo cameriere superstite, l'uomo che si dava da fare dietro il buffet, mentre gli altri due avevano ridotto a malpartito il panno del biliardo e quindi erano tornati a Londra insieme lasciando sul panno verde lacerato una confusione di palle colorate e cubetti di gesso. Come prima c'erano circa una dozzina di ospiti che mangiavano e bevevano. Dal tono pacato col quale si svolgeva la conversazione si poteva dedurre che essi si stessero lamentando l'uno dell'altro con amici intimi. La signora Iblis chiese che cosa ci fosse da mangiare. Sul buffet si vedevano quasi solo avanzi. «È rimasta solo insalata di aragosta». Il cameriere era sfinito. Non era affatto quello che la signora Iblis desiderava. «Va benissimo» disse. Si rendeva conto che era tardi. Il cameriere estrasse da sotto il buffet un piatto preparato molte ore prima. «Sidro? Non c'è birra», propose il cameriere. «Sì, ho proprio voglia di un bicchiere di sidro» disse lei che, per vero dire, non ne aveva poi una gran voglia... non di sidro. Fu prelevato da un barile di compensato; era prodotto da cantine locali sostenute da Coner. L'odore e il sapore erano insoliti, ma la signora Iblis si accorse quasi subito che era forte. Aveva un appetito tale, che l'insalata di aragosta sparì in un baleno nonostante ella in genere tentasse di evitare i crostacei inscatolati. «C'è del dolce» propose il cameriere. «Grazie, ne gradirei un pezzetto». Di nuovo però pensò che in quel momento avrebbe preferito un cibo diverso. Il cameriere le servì due grandi fette di dolce, visto che il buffet avrebbe chiuso di lì a poco. Il piatto era troppo piccolo per quel carico, ma il dolce era un dolce, né buono, né cattivo e neanche indifferente. Questa volta nessuno si avvicinò alla signora Iblis né tentò di parlarle, mentre lei lo avrebbe quasi desiderato (eccezion fatta per tutte le persone che aveva conosciuto precedentemente). «Sarebbe possibile avere un po' di caffè, se ce n'e ancora?» chiese. Non aveva ancora finito il sidro.
Il cameriere la guardò con occhio torvo e si diresse verso l'altra estremità del tavolo. Estrasse una tazza piena di caffè da sotto il banco e tornò da lei senza dire una parola. Rovesciò buona parte del contenuto sul piattino. Il caffè non era affatto caldo e per di più era quasi senza zucchero. Quando lo ebbe bevuto la signora Iblis fu incerta sul da farsi. Bevve lentamente quello che restava dello strano sidro artigianale. Per il cameriere sembrava che lei non esistesse. Per gli altri ospiti, quando essi finirono gli avanzi di cibo e bevande, avrebbe potuto essere un oggetto: né più né meno e fors'anche sgradito. Alla fine rimase quasi da sola e prese in considerazione la possibilità di tornare a letto, quando entrò Coner. La singora Iblis identificò subito in lui quella persona così ansiosa dell'ultima fila attorno a sorella Nuper. Egli avanzò verso il buffet. Aveva la faccia stanca e l'andatura leggermente incerta. «C'è del whisky?» chiese. «È rimasto solo sidro, signor Coner». Incontrando per la prima volta il padrone di casa, la signora Iblis si chiese se le buone maniere non imponevano che lei gli rivolgesse la parola. Pensò che tutto sommato sarebbe stato più facile non fare nulla. Ma fu Coner a prendere l'iniziativa. Guardandosi intorno prima di andare ad aprire il proprio mobile bar, la vide da sola, ancora con il bicchiere in mano. La fissò per alcuni istanti, quindi si fece avanti. «Chi siete voi?» disse più che chiedere. «Sono la signora Iblis. In realtà io qui non c'entro. Il mio invito è stato rimandato per via del Forum, ma vostra moglie mi ha chiesto di restare poiché ancora non avevo ricevuto la lettera di rinvio». «Sono contento che mia moglie l'abbia fatto». Coner aveva tuttora lo sguardo fisso. La carne sul suo viso era come una maschera molle che copriva un'altra faccia sottostante. «Spero che vi sentiate a vostro agio». «Sì, grazie, mi sto proprio divertendo». «Che ve ne pare del Forum? Ho riunito qui tutte le persone più importanti, non credete?» «Temo di non essere all'altezza di tutto questo». Nonostante continuasse a fissarla in un modo che la signora Iblis iniziava a trovare strano, Coner non sembrava prestare attenzione. «Non è emersa una vera sintesi» disse lui. «Nulla a parte i singoli ragionamenti e le esperienze individuali.» Parlava come un generale sconfitto che si rivolgesse ai rinforzi. «Peccato che il Rabbino Morocco sia dovuto
ripartire. Sarebbe stato molto utile». «Come?» la signora Iblis voleva entrare nello spirito della cosa. «L'A.G.S. continua a essere in testa, sapete?» «Sono certa che dovrei saperlo, ma che cos'è l'A.G.S.?» «È l'Avant Garde Synagogue. Una cosa del tutto nuova. È un grande sbaglio non essere al corrente di quello che stanno facendo gli ebrei». «Ho sentito che anche l'Esercito della Salvezza sta dandosi molto da fare» azzardò la signora Iblis. «Naturalmente Patacake è assolutamente insostituibile. Non bisogna neanche pensarci». Ora i suoi occhi andavano su e giù lungo il corpo della signora Iblis in un modo cui lei non era affatto avvezza. Vincent Coner sprofondò nel silenzio. «Pubblicherete qualcosa sul Forum nei vostri giornali?» chise la signora Iblis tanto per dire qualcosa. «Tutto, sul prossimo numero di ogni giornale e, in più, uno sconvolgente servizio speciale su Roundabout. Ma non so se il nostro messaggio verrà captato». Sembrava avesse toccato il fondo della propria tristezza. «Ne sono sicura» disse la signora Iblis tentando di confortarlo. «Tutti quei milioni di copie. Un tale potere sulla mente della gente dev'essere una cosa terribile.» Si rendeva conto che quel sidro forte, dal suo stomaco molto vuoto aveva raggiunto la sua testa molto debole. Le pupille di Coner descrissero un semicerchio completo. Quindi egli disse: «Dovreste vestirvi sempre di nero. Abbastanza scollato. Quel genere che le ragazze giovani non si possono permettere.» Con fare deciso aveva posato la mano sul petto della signora Iblis per indicarle esattamente quanto dovesse essere profonda la scollatura. La signora Iblis indietreggiò leggermente scossa da un visibile brivido. «Grazie per il consiglio» disse. Coner si avvicinò nuovamente a lei. «Trovo qualcosa di particolarmente affascinante in voi. Anche in azzurro pallido». Senza il sidro la signora Iblis sarebbe probabilmente arrossita e si sarebbe sentita lusingata. Invece rispose: «Che assurdità, signor Coner. Non sono proprio così sciocca». Il cameriere aveva appena estratto un cappotto untuoso dalla nicchia che precedentemente aveva ospitato l'insalata di aragoste. Se ne andò infilandosi nel suo indumento con fare viscido. «Lascio le luci accese, signor Coner?» chiese. «Sì, le spengo io».
Poiché anche gli ultimi ospiti se n'erano andati la signora Iblis si trovava nella sala da biliardo da sola con il padrone di casa e un piatto colmo di dolce già tagliato a fette. «Come vi chiamate?» «Iblis. I-B-L-I-S». «Quanto sapete di me?» «Molto poco. Quello che ho letto sui giornali eccetera. Quello che sanno tutti». «Ci sediamo?» C'erano poche cose che la signora Iblis desiderava meno di quella. Egualmente si sedettero nella deprimente luce gialla su sedie blu di vimini portate lì dai frequentatori del buffet. Non faceva neanche molto caldo. «È un impegno soffocante.» Coner si passò il fazzoletto sul collo. «Ma non fa niente. Da dove devo iniziare?» Questa, pensò la signora Iblis, era evidentemente una domanda retorica alla quale avrebbe risposto egli stesso. Chiaramente stava per narrarle la storia della sua vita. «Immagino che tra poco dovrete raggiungere gli altri ospiti, non voglio trattenervi troppo a lungo». «Santo Cielo» disse Coner «il peso del mondo! Il terrore della propria pochezza!» Era ancora più pallido e aveva iniziato a piangere abbondantemente. Il capo gli cadde sulle mani, che ora gli coprivano il volto. Una cascata di lacrime gli passò attraverso le dita e inondò i suoi pantaloni grigi che parvero macchiati d'inchiostro. La signora Iblis, che mai prima di allora aveva visto un uomo comportarsi in quel modo (e forse neanche una donna) era completamente disorientata. Dopo tutte le emozioni della giornata, questo era davvero eccessivo. Il suo corpo era troppo poco nutrito, la sua mente era inondata di sidro fatto in casa. Anch'ella iniziò a piangere ansimando. Vedendoli lì nella sala da biliardo si sarebbe potuto pensare che essi avessero appena perduto le ultime illusioni infantili. Coner pareva proprio desolato. Le lacrime gli inondavano gli abiti. Il corpo tremava. La sua mente, forse, aveva cessato di funzionare. La signora Iblis era meno sconvolta. Le lacrime scorrevano lungo il suo viso, ma in lei c'era ancora la forza per frugare nella borsetta in cerca di un fazzoletto. Lo trovò, lo usò, e dopo pochi minuti in qualche modo si ricompose. «Perdonatemi, per favore, signor Coner» disse lei. «Posso fare qualcosa per aiutarvi?»
Coner continuò a singhiozzare e tremare come un uomo che avesse il cuore spezzato già da molto tempo e al quale episodi come questo accadessero normalmente. «Per favore, signor Coner.» La signora Iblis tese il proprio braccio alquanto malfermo e gli toccò la spalla. «Ditemi, che cosa posso fare?» Timorosa, come gran parte delle donne, di dimostrare troppa tenerezza e che tale atteggiamento venisse interpretato male, la signora Iblis non era mai andata oltre questo punto in tutta la sua vita. Coner iniziò a balbettare angosciato della propria pochezza e incapacità; le sue responsabilità; le sue incertezze; i suoi problemi di salute. «La mente umana è minuscola come un pescolino» farfugliò. «Se solo si potesse trovare un modello universale da seguire!» «La mente umana è come una balena!» A parlare era stato il signor Stillman che era entrato inosservato nella grande stanza scura. Era la prima volta che la signora Iblis lo vedeva da quando era arrivata. Aveva l'aspetto di un ricco uomo d'affari nel suo abito scuro di taglio elegante. Aveva in mano una copia del Jewish Monthly. «La mente umana è come una balena» ribadì Stillman. «È tutto lì, dentro di voi, cose enormi e sconosciute, difficili da raggiungere. E male incolga all'uomo che cerca fuori da sé ciò che solo può trovare dentro di sé. Certamente questo è uno dei concetti che la psicologia moderna ha reso più chiari che mai. Il subconscio, capite. Così immensamente più grande del cosciente. L'Io sublime.» Si fermò. Il suo sguardo si spostava lungo il buffet. «Ah, dolce. C'è gente che ha fame qui. Posso prendere un po' di dolce?» Coner lo squadrava con una faccia idiota. La signora Iblis rispose: «Sono certa di sì». «Grazie» disse il signor Stillman. Afferrò il grande piatto bianco con la mano libera e se ne andò. Coner era tornato parzialmente in sé. «Ecco cosa stiamo cercando di fare tutti» disse. «Di trovare noi stessi». «Credo di no» replicò la signora Iblis quasi con asprezza. «Tutti voi state cercando di trovare qualcosa che è più grande di voi». Si alzò e abbandonò la sala da biliardo lasciando Coner lì disteso come un cencio. Tutti stavano mangiando il dolce e sembravano più allegri. Pareva come il miracolo della moltiplicazione dei pani, ma ben presto la signora Iblis si accorse che un gruppo di volontari aveva perlustrato la casa in cerca di ci-
bo e aveva trovato un deposito di viveri nella piccola dispensa che era stata assegnata ai camerieri. Nella dispensa c'erano anche tracce di cibi proteici che il personale contrattato in quell'occasione aveva trattenuto per rivenderlo. La scoperta aveva deviato gran parte della conversazione su problemi di riserve e quindi rapidamente sulla politica. Tutto sommato, pur non essendo d'accordo su molte delle idee che venivano espresse, solo ora la signora Iblis si sentiva a proprio agio. Perfino il professor Borgia era relativamente piacevole quando dissertava sulle complessità della dietetica svizzera. E la signora Iblis si prese un'altra fetta di dolce, sebbene fosse già trascorsa da un bel pezzo l'ora in cui soleva mangiare. Quando ebbe ingerito l'ultima briciola, dalla Sala della Musica comparve l'infermiera a capo dei suoi giovani. Pigramente curiosa, la signora Iblis li contò. Non erano meno di dodici, tutti egualmente radiosi. L'infermiera Nuper ora che la serata era giunta al termine sarebbe andata a dormire? Sembrava di no: ella si recò direttamente alla porta, l'aprì e uscì nella notte fresca, assistita dai suoi fedeli seguaci. La porta sbatté forte dietro l'ultimo di essi facendo tremare tutta la casa. La signora Iblis si fece coraggio e chiese: «Dove vanno, a quest'ora?» Il suo vicino, un temerario metafisico che poco tempo prima era stato il più giovane laureato specializzato del proprio anno, si fece improvvisamente riservato, quasi aggressivo. «Sono usciti per una passeggiata», rispose bruscamente come se la cosa non dovesse interessarla. La signora Iblis non desiderava essere offesa nuovamente da questa strana gente indagando più a fondo sull'argomento. Nonostante il piacevole alleggerimento della conversazione ella aveva l'antipatica sensazione di essere l'unica (o quasi) esclusa da un generale e vantaggioso segreto. «Questo» pensò «è perché io non sono stata specificamente invitata a questo Forum.» Però si sentiva irritata. Decise di andare a dormire e uscì. Uno o due degli ospiti a cui dette la buona notte (non vide alcuna traccia del signor Coner o della signora Coner, e neanche di Stillman) parvero sorpresi, ma solo leggermente. La signora Iblis spense la luce e aprì le tende, felice di trovarsi per un momento nella fresca oscurità. Nonostante il temporale fosse finito da un pezzo, la notte non era limpida. Sembrava che una densa coltre di nubi basse oscurasse le stelle ma si tingesse di chiaro verso est, un bagliore che la signora Iblis immaginò dovesse venire dalla luna.
La signora Iblis si addormentò ancora una volta nel comodo letto, nonostante l'incertezza relativa ai movimenti della sua compagna di stanza. Dopo un periodo di sonno privo di sogni e di durata ignota fu destata da qualcuno che bussava alla porta, un picchiettare deciso e agitato insieme. «Avanti, avanti» disse la signora Iblis piuttosto irritata. Accese la luce sul comodino. Pensò che si trattasse dell'infermiera (chissà in quali condizioni); invece era Mavis. Indossava un pigiama di seta colore zafferano e era senza vestaglia. Il suo viso era coperto da brutte tracce, la signora Iblis pensò potesse trattarsi di una maschera cosmetica. «Mi dispiace, ma c'è qualcosa che non va. Ho paura.» Mavis tremava visibilmente. La signora Iblis si sentì alquanto inutile. «Avreste dovuto mettervi qualcosa». «Sì, penso che avrei dovuto» Mavis si strinse distrattamente addosso il pigiama. «Volete la mia vestaglia?» «Grazie.» La indossò alquanto esitante. «Scusate se sono venuta da voi. La signora Coner è completamente partita». «Partita?» chiese, la signora Iblis stupita dall'insolito linguaggio. «Prende qualcosa per dormire. Non è mai compos mentis prima di mezzogiorno» spiegò Mavis. «E gli altri ospiti? Non è che io non voglia aiutarvi» aggiunse la signora Iblis. Dentro di sé sentiva che questa era la goccia che faceva traboccare il vaso della personale tolleranza: aveva sopportato fame e stravaganze... per non dire di peggio, emicrania, solitudine e, cosa anche più irritante, farneticanti farneticazioni mistiche. «È questo il punto: non sono nelle loro stanze. Ho paura» ripeté Mavis. «È orribile!». La signora Iblis ora si era alzata a sedere sul letto e non sentiva troppo caldo. «Ditemi esattamente come stanno le cose» ordinò con voce ferma. «C'è una luce strana». Mavis andò alla finestra e spostò leggermente una delle tende. «Guardate!» «È la luna». «Non c'è luna». «Come lo sapete?» «Perché è stato concimato il giardino. Cosa che non si fa quando c'è luna. Devo occuparmene io, come di quasi tutto il resto, per questo lo so».
«Credete che possa trattarsi di un incendio?» chiese la signora Iblis. «No» Mavis aprì di più la tenda. «E voi?» Un bagliore bianco invase la stanza. «Quella luce si è levata quando sono andata a letto. Credevo che fosse la luna. Ma siete proprio sicura?» chiese la signora Iblis. «Sì, sicurissima. Viene dall'altra parte della casa». «Riflettori?» «Non sono fasci di luce. È uniforme». La signora Iblis non sentì un desiderio particolare di lasciare il letto per andare ad investigare. «Avete guardato dall'altra parte della casa?» chiese. «No. Ho avuto paura e cercavo un sostegno morale. Qui succedono delle cose...» Mavis si guardò intorno nella stanza e parve in parte avere scoperto quello che cercava in un modo e in qualcosa che la signora Iblis ritenne piuttosto spiacevole. «Sono stata nella stanza di Ruth, ed era vuota. Poi sono stata in diverse altre stanze: tutte vuote». «Così, infine, avete pensato all'infermiera, alla signorina Nuper?» «No. Ho pensato a voi. Volete scendere con me?» «Sì, certo, se lo desiderate.» La signora Iblis si alzò dal letto. «Ma perché dobbiamo scendere? È proprio la prima cosa da farsi?» «Sono tutti nel salone, li sento». In mancanza di meglio la signora Iblis dovette infilarsi il cappotto. «Bene, andiamo a vedere, allora.» In quella penombra la casa sembrò un po' lugubre alla signora Iblis. Sul pianerottolo del piano ammezzato c'era una statua di Buddha grande metà del normale, serena e minacciosa a un tempo. Attraverso le spesse tende marroni, nella tromba delle scale si udiva un frastuono intermittente. Poi, proprio quando la signora Iblis e la sua compagna giunsero alla base delle scale, una donna urlò forte. L'urlo scemò quasi subito. La scena nel salone era sicuramente la più strana che la signora Iblis avesse mai visto. Tutto il Forum (così pareva) sembrava un gruppo di rifugiati in seguito a una catastrofe. Tutti erano in pigiama e non mancavano i soliti contrasti, comici e trasparenti. L'amico del professor Borgia, il giovane grassoccio, portava una sofisticata vestaglia orientale. Il capo del New Vision Movement una camicia da notte. La signora Iblis cercò subito Coner, ma non lo vide. Alla luce fioca tutta quella gente sembrava osservare attentamente la
porta. Ora stavano abbastanza in silenzio. Ruth, con addosso il maglione largo e i pantaloni che aveva indossato durante il giorno, si stava facendo strada nella calca con una faccia da Giovanna diretta al rogo. La signora Iblis capì che stava andando ad aprire la porta e ne dedusse che qualcuno doveva avere gridato quando Ruth aveva manifestato tale intenzione. Tutte le facce erano lacerate dal conflitto tra una terribile curiosità e l'istinto della fuga. Una persona dall'aspetto truce, alla Kingsley Martin, cadde in ginocchio e, sprofondando il volto tormentato tra le mani, si mise a pregare. Il giovane grassoccio lo guardò e sorrise lievemente. Una donna alta con una specie di cappottone greve iniziò a emettere suoni sommessi. La sua faccia era impietrita dal terrore. La signora Iblis sospettò che potesse essere stata lei a gridare. Ora Ruth aveva raggiunto la porta. Con un gesto solenne e definitivo la aprì. La strana luminosità colpì la sua faccia da martire. Il vano della porta si riempì di luce. Dietro a quello apparve un'enorme forma luminosa. La luce riempi ulteriormente questa forma che sembrò levitare. La forma ricordò alla signora Iblis una citazione comune: qualcosa riguardo i piedi degli dei sulle montagne. I membri del Forum iniziarono a uscire strisciando furtivamente come lumache sotto la luna. «Venite via» disse piano una voce alla signora Iblis. «Salite». Il signor Stillman, con un pigiama di seta bianco e una vestaglia nera le aveva toccato delicatamente il braccio. Aveva ancora in mano una copia del Jewish Monthly e teneva un dito tra le pagine. Al collo portava una sciarpa con i colori di qualche club importante. La signora Iblis lanciò un'occhiata a Mavis. «Venite anche voi» disse il signor Stillman a Mavis. «Mi chiedo dove sia finito il signor Coner» disse lei. «È in buone mani» rispose il signor Stillman, e Mavis parve disposta a non indagare ulteriormente. Il terzetto salì al primo piano. La signora Iblis aveva creduto che si sarebbero fermati lì, ma il signor Stillman disse: «Andiamo sul tetto». Salirono per altri due piani e quindi, guadagnata una scala (marca Slingsby) raggiunsero il tetto che Coner aveva attrezzato per prendere il sole e per i giochi di piscina: oggetti gonfiabili di gomma, un tempo di colori sgrargianti e ora stinti, popolavano il terrazzo. Ogni tanto inciampavano su qualche anello di plastica. La casa era a forma di L, cosicché spor-
gendosi dalla ringhiera la signora Iblis poteva vedere i membri del Forum che continuavano a uscire lentamente dalla porta principale. Era visibile anche la luce nella stanza della signora Coner che di solito, così le era stato detto, restava accesa tutta la notte. Una volta usciti, i membri del Forum parvero privi di iniziativa e si ammucchiarono tutti contro il muro della casa. Tutta l'atmosfera era invasa da quella luce strana, ma la signora Iblis iniziò a rendersi conto che nonostante tutto la luce veniva da una fonte ben precisa, una fonte a se stante. Era come quella concentrazione che è al contempo anche un restringimento delle proprie percezioni, tipica del momento in cui ci si risveglia da un'anestesia. Lo smarrimento era semplicemente dovuto alla vastità della fonte luminosa. Sembrava che lassù l'aria fosse infuocata, invece si trattava di un'immensa sagoma lucente che occupava la parte visibile del cielo e della terra. I singoli membri del Forum, man mano si rendevano conto di ciò, si avvicinavano al gruppo che stava schiacciato contro il muro. Probabilmente i membri del Forum erano terrorizzati, ma la signora Iblis riteneva che l'avvenimento si stesse svolgendo su scala troppo vasta per esserne spaventata. Lei ci aveva riflettuto in modo piuttosto consapevole. Mavis invece tremava come una foglia e pareva sul punto di svenire. La signora Iblis le avvicinò una sedia a sdraio a righe e le fece accomodare sussurrandole nell'orecchio parole di conforto. Notò che la strana luce faceva impallidire il forte colore del pigiama di Mavis. Il signor Stillman sembrava conservare il suo più assoluto equilibrio, mentre osservava queste particolari evoluzioni dell'universo. Il giornale che teneva in mano avrebbe potuto essere il programma degli eventi di quella serata. Improvvisamente la luce aumentò attorno e sopra ai membri del Forum ammucchiati contro il muro a sinistra della porta di casa. Era come se un immenso riflettore avesse separato con un fascio di luce il gruppo dell'opposizione che stava per essere falciato da una mitraglia. In realtà si trattava di quella grandissima sagoma che guardava dall'alto dell'empireo. Il signor Stillman era appoggiato con le braccia alla ringhiera che correva attorno al terrazzo. Mavis aveva sprofondato il capo tra le ginocchia. La signora Iblis era l'unica a guardare verso l'alto, ma quello che vide per poco non le fu fatale. Quando la signora Iblis tornò in sé la luminosità nell'aria era notevolmente diminuita. Mavis e il signor Stillman l'avevano sistemata sulla sedia a sdraio su cui prima era stata distesa Mavis. Faceva freddo.
La signora Iblis sbirciò attraverso la ringhiera. Non c'era nessuno in vista. Solo la luce rossiccia nella stanza della signora Coner brillava in quella luminosità diffusa. «Dove sono?» chiese riferendosi più a se stessa che agli altri. «Si sono incorporati» risposte il signor Stillman, riferendosi agli altri e non alla signora Iblis. «Sono uniti». Stava strofinandole il polso sinistro. Mavis, che apparentemente si era già ripresa, le strofinava il destro. «Ma dove sono andati?» chiese la signora Iblis. Mavis fece un lieve gesto per indicare che si erano allontanati dalla casa. «Non li vedremo mai più» disse. La signora Iblis quasi non aveva il coraggio di seguirla con lo sguardo. Quindi vide che la luminosità era completamente sparita. Era una notte stellata, senza luna e senza una nuvola in cielo. «Non ho più paura» disse. «Neanch'io» disse Mavis. «Solo freddo. Perché non...» «E perché mai dovreste?» disse il signor Stillman. «Hanno avuto ciò che desideravano. Come tutti.» Riannodò la cintura della vestaglia. «Scendiamo?» propose. E fece strada. «Devo cercare il signor Coner» disse Mavis mentre scendevano. La signora Iblis si ricordò di non averlo visto nel gruppo che era in giardino. Lo trovarono seduto nel salotto vuoto. Era ubriaco e stava ancora bevendo. Teneva la chiave del suo rifornimento privato di alcolici stretta in mano. La stanza sembrava essere stata da poco colpita da un ciclone. Il signor Stillman chiuse la porta d'ingresso che era aperta. «Ti prego, Dio» disse Coner con voce debole e impastata. «Ti prego Dio, dammi qualcosa che sia più forte di me». E si afflosciò rovesciando sul pavimento il bicchiere pieno. Nella stanza in disordine l'odore del whisky cominciò a farsi sentire. «Permettete che vi dia una mano» disse il signor Stillman a Mavis. Trascinarono Coner verso l'ascensore. «Penso che voi dovreste cercare di riposare un poco», disse il signor Coner alla signora Iblis. «Buona notte, ci vediamo domattina» rispose sostenuta la signora Iblis. Mavis le sorrise. In quel momento preciso, la porta principale si spalancò ancora una volta. Era l'infermiera, la signorina Nuper con i suoi amici. I loro vestiti sembravano molto rovinati e infangati. Pareva quasi che fossero stati a caccia, a cavallo, con una muta di cani. Ma sembravano tutti più allegri e contenti che mai. La signora Iblis si era nascosta all'ombra. Si aspettava che i festaioli de-
cidessero di concedersi un'ultima bibita. L'infermiera, aggraziata ma esausta, sprofondò nella poltrona che era stata appena liberata da Coner, il suo datore di lavoro. L'illuminazione difettosa delineava i suoi splendidi lineamenti. Il suo viso brillava di una luce che non piacque alla signora Iblis: negli splendidi occhi dell'infermiera c'era una felicità, un tipo di felicità, che le fece venire la pelle d'oca. Senza farsi notare dagli altri la signora Iblis scivolò via. Piuttosto che trascorrere la rimanente parte della notte con una donna così perversamente... malignamente allegra, l'ottima Iblis corse nella stanza... sua... loro... di lei Iblis e di lei Nuper... gettò uno sguardo severo al quadro della Crocefissione... blasfemo, ora lo sapeva... buttò le cose nella valigia alla rinfusa, e abbandonò la casa attraverso una finestra sul retro che era stata lasciata incautamente aperta dai camerieri contrattati per l'occasione. Titolo originale: Larger Than Oneself Traduzione Laura Pignatti Fritz Leiber L'Espresso per Belsen Fritz Leiber intratteneva un fitto carteggio con H. P. Lovecraft ed era un ammiratore di Robert E. Howard, il grande fantasista dell'orrore dei pulp magazines e l'inventore del genere della fantasy eroica (di cui le storie di Conan il Barbaro costituiscono l'esempio più rappresentativo) I primi racconti di Leiber furono pubblicati sulla rivista Unknown e su Astounding e in seguito egli divenne il vessillifero della fantascienza degli anni cinquanta, pubblicando le sue storie rivoluzionarie sulla rivista Galaxy. Ma Leiber ottenne i suoi primi successi nel genere dell'orrore, rispettivamente con il romanzo Conjure Wife, e il suo primo libro di racconti, Night's Black Agents. L'ambientazione delle sue trame fantastiche nella realtà cittadina ha rappresentato un elemento chiave nel delineare il nuovo filone dell'orrore adottato dalla rivista Unknown. Oggi Fritz Leiber è un'autorità in questo genere letterario e, nonostante l'età avanzata, in quest'ultimo decennio ha continuato a scrivere uno o due racconti all'anno. Fra i quali L'Espresso per Belsen, che riportiamo in questa antologia e che gli è valso la vittoria del World Fantasy Award, L'Espresso per Belsen rappresenta un'analisi classica del più famigerato degli orrori del nostro secolo e una storia che si contrappone, in chiave minore, agli orrori urbani di Ellison e
Bradbury. George Simister osservò le fiamme azzurre che si contorcevano magnificamente nel camino, simili a ragazze danzanti cosparse di alcool alle quali fosse stato dato fuoco, e si congratulò con se stesso per essere riuscito a sopravvivere felicemente attraverso il ventesimo secolo senza essere stato costretto ad assolvere il servizio militare, a salvare il mondo o a fare qualsiasi altra cosa che lo avrebbe potuto distogliere dal guadagno e dal godimento del denaro. Fuori piovigginava; dalla periferia un temporale ringhiava minaccioso in direzione della città e improvvise folate di vento producevano nel camino un suono simile al tubare lamentoso dei colombi. Con un brivido, Simister sprofondò ancora di qualche millimetro nella sua comoda poltrona e bevve lentamente un sorso di schotch annacquato — il suo palato era particolarmente sensibile, specie per i liquori di poco prezzo. Simister, del resto, aveva una fisiologia piuttosto delicata, anzi, così delicata che da bambino alcuni sapori e alcuni odori, a causa di una vaga debolezza di cuore, avevano il potere di farlo svenire. Il giornale che stava leggendo cominciò a scivolargli dalle ginocchia. Lui lo trattenne, lasciò vagare lo sguardo sulla pagina successiva, notò un titolo relativo a una rivolta a Praga, simile a quella del 1956 in Ungheria, e mormorò: «Maledetti slavi.» Poi ne vide un altro che riguardava una guerra di confine in Israele e bofonchiò: «Maledetti ebrei» dopo di che lasciò cadere il quotidiano a terra. Bevve un altro sorso di liquore, sbadigliò, e osservò una fiamma vergine dibattersi con terrore per tutta la lunghezza del ceppo prima di tramutarsi in un fantasma di fumo bianco. Qualcuno bussò bruscamente alla porta. Simister trasalì e digrignando i denti per la rabbia si affrettò verso l'ingresso. Ultimamente alcuni bambini del vicinato avevano preso a seccarlo, forse perché la sua era la casa più rispettabile e meglio tenuta del quartiere: suonavano il campanello, disegnavano scarabocchi osceni con gli spray e cose di questo genere. Macché bambini, erano dei giovani teppisti che si meritavano una lezione e una visitina alla stazione di polizia. Questo pensiero fece crescere la sua rabbia e quando raggiunse la porta la spalancò con violenza. Ma fuori non c'era nient'altro che l'oscurità, deserta e piovosa, della notte. Una folata di aria gelida gli spruzzò addosso un paio di gocce di acqua fredda. Forse quel rumore era venuto dal camino. Chiuse la porta e si stava accingendo a fare ritorno verso il soggiorno, quando la sua
attenzione fu attratta da una piccola pila di libri, affastellati in una carta da pacchi sul tavolo dell'ingresso. Fece una smorfia. Si trattava di un pacco con l'indirizzo tutto macchiato, che il postino gli aveva recapitato per sbaglio alcuni giorni prima. Volendo, Simister sarebbe probabilmente riuscito a decifrare il nome del destinatario, perché si trattava chiaramente di una persona che abitava in quella stessa strada, e porre così rimedio all'errore del postino, ma lui aveva preferito non incoraggiare la superficialità di chi usa una penna che perde. E quella consegna doveva essere stata fatta certamente per sbaglio, perché il primo volume di quella pila era intitolato Il Flagello della Svastica e gli altri due avevano titoli simili, mentre Simister aveva una profonda avversione per tutti i libri che continuavano a riesumare quell'incidente storico ormai facilmente sepolto, conosciuto con il nome di nazismo. La ragione di tale avversione affondava le radici in una paura che George Simister, come milioni di altre persone, celava nel profondo del suo cuore e di cui non aveva mai fatto parola neppure alla moglie. Si trattava di una paura piuttosto infondata, e ora del tutto anacronistica, della Gestapo. Questo sentimento era sorto in lui molti anni prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, man mano che giungevano le prime notizie sulle persecuzioni contro le minoranze e sull'esistenza di un teppismo organizzato in Germania... la sensazione che qualcosa si estendesse attraverso le acque oscure dell'Atlantico per minacciare la sua esistenza, la sua sicurezza e la sua fiduciosa convinzione che non avrebbe mai dovuto soffrire, se non in un ospedale. Naturalmente il nazismo non aveva neppure minimamente sfiorato la vita di Simister, ma aveva esercitato una tirannia perniciosa sulla sua immaginazione. Nella sua mente aveva lentamente preso corpo una sequenza di scene angosciose che avevano continuato a tormentarlo per molto tempo. Tutto cominciava con un rumore rimbombante di stivali e calci di fucile contro la porta ed una frase urlata: «Aprite! È la Gestapo.» Subito dopo si ritrovava in mezzo a un fiume di persone impazzite che venivano spinte verso un portale dove un ufficiale le ripartiva in due gruppi: quelle destinate alla morte immediata e quelle la cui condanna veniva rinviata. Alla fine lui saliva su un camion così stipato di prigionieri che gli era impossibile muoversi. Dopo molte ore il furgone si fermava, ma il motore rimaneva acceso, e dal pavimento cominciava a salire, insinuandosi lentamente fra le fessure dei corpi, il gas di scarico intrappolato nell'abitacolo. Adesso, in quell'atrio spettrale, egli aveva assistito a una tardiva proie-
zione di quell'orrido filmato. Simister scosse bruscamente la testa, nel tentativo di scacciare quelle immagini dalla mente, e ripeté a se stesso che la Gestapo era morta e sepolta da più di dieci anni. Sentì l'impulso di gettare nel fuoco i libri che gli avevano fatto rivivere quell'incubo a occhi aperti, ma poi si ricordò che i libri sono difficili da ardere. Li fissò con una certa inquietudine, eccitato dal pensiero delle torture, della prigionia, dei campi di concentramento e di sterminio, ma ben consapevole degli effetti negativi che quelle fantasie avrebbero provocato sulla sua mente. Fu colto di nuovo da un impulso improvviso, questa volta di fare un fascio di quei libri e buttarli nel bidone delle immondizie. Ma questo significava bagnarsi come un pulcino; in fondo, avrebbe potuto aspettare il giorno dopo. Mise uno schermo davanti al fuoco che si era spento e che adesso fumava come un forno crematorio e salì al piano di sopra per andare a dormire. Alcune ore dopo si svegliò con la vaga consapevolezza di avere udito un colpo rimbombante alla porta. Fece un salto sul letto e inveì: «Quei maledetti ragazzi!» Le tende tirate sembravano più scure del solito... molto probabilmente avevano infranto il lampione con un sasso. Appoggiò un piede sul pavimento gelato. Adesso regnava il silenzio più assoluto. Il temporale se n'era andato come un gatto randagio. Simister tese l'orecchio. Accanto a lui sua moglie respirava con regolarità irritante. Aveva voglia di svegliarla e di parlarle di quei giovani delinquenti: era criminale che potessero vagabondare per le strade a quell'ora di notte. E potevi scommetterci che insieme a loro c'erano anche delle ragazze. Nessuno bussò più alla porta. Simister restò immobile in attesa di sentire il rumore dei passi che si allontanavano o lo scricchiolio delle assi, che avrebbe segnala to una presenza furtiva sotto il portico. Dopo un po' cominciò a chiedersi se il colpo sordo che aveva sentito non fosse stato di un sogno, o se non si fosse trattato magari del rombo finale del temporale Ritornò a letto tirandosi le coperte su, fino al mento. Alla fine i suoi muscoli si rilassarono ed egli si riaddormentò. Il giorno dopo a colazione ne parlò a sua moglie. «George, avrebbero potuto essere dei ladri», commentò lei. «Non dire stupidaggini, Joan, i ladri non bussano. Se mai è stato qualcuno si trattava certamente di quei ragazzi». «Chiunque sia stato, preferirei che tu mettessi un catenaccio più grosso alla porta d'ingresso.» «Sciocchezze. Se avessi immaginato che ti saresti agitata tanto, non ti avrei raccontato niente. Ti ho detto che probabilmente era solo il tempora-
le». Ma la notte dopo, all'incirca alla stessa ora, accadde di nuovo. Questa volta non si trattava certo di un sogno. Il rumore gli riecheggiava ancora nelle orecchie. E mescolato a quel suono aveva udito anche una specie di cicaleccio in una lingua straniera. Forse erano i figli di alcuni di quei profughi europei che si erano stabiliti nel loro quartiere. La notte prima l'avevano ingannato restando perfettamente in silenzio dopo avere colpito la porta, ma questa volta sapeva cosa fare. Attraversò la stanza in punta di piedi e scese le scale di corsa ma senza far rumore, perché era scalzo. Nell'ingresso afferrò qualcosa per colpirli e, con un solo movimento, girò la chiave e spalancò la porta. Non c'era nessuno. Simister rimase immobile a fissare l'oscurità. Non riusciva a capire come fossero riusciti a scomparire così in fretta e senza chiasso. Chiuse la porta e accese la luce. Fu allora che si accorse di ciò che stringeva in mano. Era uno dei libri. Con un senso di disgusto lo lasciò cadere sopra gli altri. La mattina dopo, per prima cosa doveva assolutamente ricordarsi di gettarli via. Ma il giorno seguente si svegliò in ritardo e dovette correre al lavoro. Tuttavia il senso di disgusto o d'irritazione, o di qualcos'altro di simile, che aveva provato durante la notte non lo aveva abbandonato, perché quel mattino era particolarmente suscettibile a cose che normalmente non avrebbe notato. Soprattutto la gente. L'uomo dalla mano gonfia gli era sembrato deliberatamente scontroso, mentre contava le monete che Simister gli aveva dato, e gli allungava il giornale. La donna taciturna che controllava i biglietti al cancello, aveva esitato alcuni istanti e l'aveva guardato con aria sospettosa, come se lui avesse cercato di rifilarle un biglietto del mese precedente. E mentre correva su per le scale in risposta al rombo del treno in arrivo, sfiorò un piccolo signore avvolto in un cappotto troppo grande per lui, e ne ricevette di rimando uno sguardo che lo atterrì. Simister ricordava vagamente di avere già visto quell'uomo molte altre volte prima di quel giorno. Aveva il naso sottile, gli occhi ravvicinati e il mento sfuggente che contraddistinguono quella che, con uno sforzo di immaginazione, viene definita una faccia da topo. In un film avrebbe senz'altro recitato la parte della spia o della canaglia. E quel suo cappotto così ampio era davvero ridicolo. Ma nello sguardo che egli lanciò a Simister, questi ebbe l'impressione di
scorgere qualcosa di così astioso e furtivo al tempo stesso, simile alla promessa di una futura vendetta, che lo sconvolse, paralizzandolo quasi: poco ci mancò che perdesse il treno. A malapena riuscì a insinuarsi nella porta a chiusura automatica della carrozza per fumatori, dopo avere lanciato un'occhiata rapidissima al cartello per assicurarsi che fosse un espresso. Il suo cuore batteva a una velocità tale che in altre circostanze lo avrebbe preoccupato, ma in quel momento era pervaso dal piacere crudele di avere ostacolato l'uomo dal cappotto grande: lui non aveva corso abbastanza in fretta e Simister non aveva fatto il benché minimo sforzo per tenergli aperta la porta. Mentre il treno, con progressiva accelerazione, scivolava fuori dalla stazione, Simister si avviò verso lo scompartimento, facendosi largo fra le persone che stipavano il vestibolo, e si appese a un sostegno. Da quello vicino dondolava già un suo conoscente, un uomo robusto e irritante di nome Holstrom che, come lui, faceva il pendolare. Holstrom, il cui naso sempre rosso dava adito a non pochi sospetti, stava leggendo il giornale che teneva piegato in mano. Mise un titolo sotto gli occhi di Simister. Quest'ultimo sapeva già che cosa aspettarsi. «Armi atomiche in Germania Occidentale» lesse con voce incolore. Holstrom cercava sempre di coinvolgerlo in discussioni trite e ritrite sul totalitarismo, la Germania nazista, i pregiudizi razziali e così via. «E con ciò?» disse Holstrom scrollò le spalle. «Si tratta di una cosa abbastanza normale, suppongo, ma mi ha fatto pensare ai gerarchi nazisti e mi chiedo se li abbiamo presi tutti.» «Ma sì, è ovvio» gli rispose Simister bruscamente. «Non ne sono poi tanto sicuro» continuò Holstrom. «Penso che alcuni di loro siano riusciti a svignarsela e si nascondano da qualche parte.» Ma Simister non abboccò. Quel genere di discorsi lo seccava. Chi parlava più dei nazisti? Per colpa di quella conversazione il viaggio quella mattina fu particolarmente irritante; la carrozza fumatori era sovraffollata; e quando finalmente, arrivati in città, tutti si accalcarono verso l'uscita il pigia-pigia sgarbato dei passeggeri lo infastidì ulteriormente. La folla si stava avvicinando a un cancello di ferro che divideva arbitrariamente il fiume di pendolari frettolosi in due tronconi destinati a riunirsi di nuovo pochi passi più oltre. Accanto al cancello c'era una nuova guardia, o forse Simister non l'aveva mai notata prima. Un ragazzo giovane dall'espressione impertinente, con i capelli biondi tagliati corti e due gelidi occhi azzurri.
Improvvisamente Simister si accorse che mentre di solito passava dal lato destro del cancello, quella mattina la folla lo stava spingendo lentamente verso l'estremità di sinistra. Venendo a coronamento di tutto quanto accaduto in precedenza, questo fatto, di per sé trascurabile, lo fece andare su tutte le furie e lui cambiò direzione, facendosi deliberatamente largo fra la gente senza curarsi delle lamentele e dello sguardo severo della guardia. La sua intenzione originale era quella di proseguire a piedi fino all'ufficio, ma la rabbia che si era impadronita di lui gli aveva fatto dimenticare il suo proposito e, prima di rendersene conto, si ritrovò sull'autobus. Ma se ne pentì subito. L'autobus era ancora più affollato della carrozza per fumatori nella quale aveva viaggiato, e i passeggeri in piedi erano imbronciati e goffi, avvolti com'erano nei loro pesanti cappotti. Era tentato di scendere e rimetterci il biglietto, ma era intrappolato nel fondo della vettura e per di più non voleva dare l'impressione di essere un uomo che non sapesse che cosa volesse. Poco dopo un altro motivo di irritazione si aggiunse a quelli che già lo angustiavano: una nuvola di gas di scarico proveniente dal motore posteriore stava lentamente filtrando all'interno del veicolo. Simister cominciò subito a sentirsi male. Si guardò attorno indignato, ma apparentemente gli altri non si erano accorti di quell'odore, oppure lo accettavano con rassegnazione. Dopo un paio di isolati, la puzza del gas di scarico era diventata così insopportabile che Simister decise di scendere alla fermata successiva. Ma non appena cercò di superare la signora grassa che gli stava accanto, questa gli lanciò uno sguardo così stranamente apatico che Simister, la cui mente era forse in parte offuscata dalla nausea, si sentì quasi ipnotizzato, e gli ci vollero alcuni secondi per ricordarsi quello che aveva in mente di fare e metterlo in pratica. Ridicolo, ma la faccia di quella donna gli restò impressa tutto il giorno. Alla sera si fermò in un negozio di ferramenta. Dopo cena sua moglie si accorse che stava lavorando alla porta di ingresso. «Ah, stai mettendo un catenaccio» disse. «Me lo hai chiesto tu, no?» «Sì, ma non credevo che l'avresti fatto.» «Ho pensato che forse era meglio». Diede un ultimo giro di vite e fece qualche passo indietro per esaminare l'opera finita. «Qualsiasi cosa, purché tu abbia la sensazione di essere al sicuro.» Poi si ricordò dei libri che si era ripromesso di gettare via quella mattina.
Sul tavolino dell'ingresso non c'era più niente. «Che ne hai fatto?» chiese rivolto alla moglie. «Di che cosa?» «Di quegli stupidi libri.» «Ah, i libri. Li ho impacchettati e li ho ridati al postino.» «E perché? Non c'era scritto il mittente, e magari io avrei voluto darci un'occhiata.» «Ma tu hai detto che non erano indirizzati a noi e che odiavi quella roba sulla guerra.» «Si lo so, ma...» rispose Simister tacque, ben sapendo che non sarebbe riuscito a farle capire perché per lui era così importante sapere di essersi disfatto di quel pacco di persona, gettandolo nel bidone della spazzatura. Del resto lui stesso non riusciva a comprendere esattamente ciò che provava. Cominciò a guardarsi attorno all'ingresso. «Ti ho detto che quel pacco l'ho restituito al postino», disse sua moglie in tono brusco.» «Va bene, ho capito!» rispose Simister e andò a letto. Quella notte non fu svegliato da nessun colpo alla porta, bensì da un fragoroso rumore di legno fracassato, seguito da un suono stridente e metallico, simile allo scatto di una serratura. In un attimo Simister balzò fuori dal letto, con i nervi ancora addormentati che fremevano di rabbia. Quei teppisti! Le bravate chiassose erano una cosa, ma la distruzione deliberata dell'altrui proprietà era certamente un'altra. Era già a metà delle scale quando si rese conto che il rumore che aveva sentito aveva un carattere decisamente minaccioso. Difficilmente dei giovani delinquenti che andavano in giro a sfasciare le porte si sarebbero spaventati alla vista di un padrone di casa disarmato. Ma proprio in quell'istante si accorse che la porta d'ingresso era perfettamente intatta. Alquanto sconcertato e preoccupato, egli ispezionò attentamente, scervellandosi nel tentativo di capire che cosa avesse potuto provocare un simile rumore. Lo scaldabagno? Il carbone che, con il suo peso, aveva rotto una parte del bidone in cui era contenuto? Ma entrambi erano intatti. Che non fosse forse il pergolato della veranda che stava cedendo? Quest'ultima ipotesi lo condusse davanti alla finestra dove indugiò a scrutare nell'oscurità per parecchi minuti. Quando si girò c'era qualcuno alle sue spalle. Sobbalzò. «Non avevo intenzione di spaventarti.» gli disse sua moglie. «Che cosa
sta succedendo, George?» «Non lo so. Mi sembrava di avere sentito un rumore, come se qualcosa venisse fracassato.» Lui si aspettava che sua moglie venisse colta da uno dei suoi soliti attacchi di panico per i ladri, ma invece lei continuò a fissarlo. «Non vorrai startene li impalata tutta la notte» disse Simister sostenuto. «Vieni a letto.» «George, c'è qualcosa che ti preoccupa? Qualcosa di cui non mi hai parlato?» «Naturalmente no. Vieni, andiamo.» Il mattino dopo Holstrom era già al binario quando Simister arrivò. I due scambiarono qualche parola sul tempo, chiedendosi se quei nuvoloni scuri si sarebbero trasformati in pioggia prima del loro arrivo in città. Simister si avvide che l'uomo dal cappotto grande stava gironzolando nei paraggi, ma non vi prestò eccessiva attenzione. Poiché era il giorno di chiusura delle banche, c'erano alcuni posti vuoti nella carrozza per fumatori: lui e Holstrom ne approfittarono. Come sempre Holstrom aveva il giornale. Simister aspettava che iniziasse la sua solita polemica ideologica, ma questa volta si sentiva un po' a disagio; di solito non aveva dubbi sui propri convincimenti, ma quella mattina si sentiva stranamente vulnerabile. Ecco, c'eravamo. Holstrom scosse la testa. «Quello cecoslovacco è un brutto affare. Forse siamo stati un po' troppo duri con i nazisti.» Con suo grande stupore Simister si sorprese a rispondergli con un'ipocrisia piena d'inquietudine mista a una veemenza che non gli era propria. «Non essere ridicolo! Quelle canaglie si meritavano molto di più di quello che hanno avuto.» Nel momento in cui Holstrom si girò verso di lui dicendo: «Oh, ma allora hai cambiato parere sui nazisti», a Simister sembrò di sentire contemporaneamente qualcuno alle sue spalle sussurrare con voce chiara e spietata: «Ti ho sentito.» Si guardò intorno rapidamente. Proteso un po' in avanti, ma con il viso rivolto decisamente in un'altra direzione, come se la sua attenzione fosse appena stata attratta da qualche cosa che aveva visto passare fuori dal finestrino, c'era l'uomo dal cappotto grande. «Che ti succede?» Holstrom a Simister. «Perché?» «Sei diventato improvvisamente pallido. Come se stessi male.»
«Sto benissimo.» «Sei scuro? Sai, alla nostra età dobbiamo cominciare a stare attenti. Tempo fa non mi hai detto qualcosa a proposito del tuo cuore?» Simister riuscì a buttare la questione in ridere, ma quando, all'uscita del treno, si separarono, sentì che Holstrom continuava a seguirlo attentamente con lo sguardo. Mentre attraversava la stazione, il suo viso assunse a poco a poco un'espressione assorta. Anzi, era così concentrato nei propri pensieri che quando si avvicinò al cancello di ferro cominciò a superarlo dalla parte sinistra. Per fortuna non c'era molta folla e riuscì a passare sul lato destro senza problemi. La giovane guardia bionda lo fissò per alcuni istanti... forse si ricordava della mattina precedente. Simister si era ripromesso di non prendere più l'autobus per nessuna ragione, ma quando giunse all'uscita della stazione pioveva a dirotto. Dopo un attimo di esitazione, salì a bordo. Gli sembrava, se possibile, ancora più stipato del giorno precedente, e che più numerosi fossero gli sventurati, e che l'aria umida rendesse l'odore del gas di scarico particolarmente rivoltante. Quell'espressione assorta non lo abbandonò per tutto il giorno. La sua segretaria lo notò, ma non fece commenti. Li fece invece sua moglie, quando lo sorprese a curiosare nell'ingresso dopo cena. «Stai ancora cercando quel pacco, George?» Il tono della sua voce era incolore. «No di certo» rispose lui immediatamente, chiudendo il cassetto del tavolo che aveva aperto. Lei tacque alcuni istanti. «Sei sicuro di non averli ordinati tu quei libri?» «Come ti è venuta in mente un'idea del genere?» esclamò irritato. «Sai bene che non l'ho fatto». «Ne sono contenta» disse lei. «Ci ho dato un'occhiata. C'erano delle fotografie... delle fotografie raccapriccianti». «E tu pensi che io sia il tipo che compra dei libri per il gusto di vedere delle foto raccapriccianti?» «Naturalmente no, tesoro, ma pensavo che tu le avessi viste e che fosse questa la causa della tua depressione». «Perché, trovi forse che io sia depresso in questi giorni?» «Sì. Hai avuto problemi con il cuore? Spero di no.» «No». «E allora, che cosa ti succede?»
«Non lo so.» Poi facendo un notevole sforzo su se stesso, disse: «Ho pensato alla guerra e a cose del genere». «Alla guerra! Sfido che sei depresso. Non dovresti pensare a cose del genere, soprattutto quando non ci sono. Che cosa ti ha indotto a simili pensieri?» «Oh, Holstrom me ne parla ogni mattina». «Be', e tu non dargli retta». «Hai ragione, non lo farò più». «Bene, e adesso su con il morale». «D'accordo». «E non lasciarti convincere da nessuno a guardare fotografie macabre. Ce n'era una che rappresentava un gruppo di prigionieri morti asfissiati in un furgone e...» «Joan, per cortesia! Ti sembra che parlarmene sia forse meglio che farmele vedere?» «Oh, no! No di certo, tesoro. Che stupida sono stata! Ma per l'amor del cielo, tirati su». «Sì, sì, lo farò». Il mattino dopo sua moglie l'osservò con la stessa perplessità e lo stesso disagio della sera prima, mentre usciva di casa. Era stupido, ma aveva l'impressione che il suo vestito grigio in realtà fosse nero; e poi quella notte si era lamentato nel sonno. Rabbrividendo di fronte alle fantasie che avevano preso corpo nella sua immaginazione, rientrò in casa. Quella mattina George Simister provocò un certo scompiglio nella carrozza per fumatori, come qualcuno ebbe a ricordare in seguito, anche se Holstrom non assistette all'antefatto. Sembra che Simister stesse correndo per prendere l'espresso e che avesse rischiato di perderlo perché si era scontrato con un piccolo signore avvolto in un ampio cappotto. Qualcuno ricordava quel preludio insignificante perché, fatto questo davvero buffo, nonostante fosse caduto sulle ginocchia e lo scontro fosse avvenuto principalmente per colpa di Simister, il piccolo signore aveva continuato a chiedergli ansiosamente scusa, anche dopo che l'altro aveva proseguito la sua corsa per prendere il treno. Simister era riuscito a malapena, dopo avere lanciato un'occhiata rapidissima al cartello, a insinuarsi nella porta che si stava chiudendo. Fu allora che cominciò a comportarsi in modo strano. Si girò all'improvviso e cercò inutilmente di scendere dalla carrozza, arrivando addirittura al punto d'inserire le mani nella fessura che separava il telaio dal bordo di gomma
della porta scorrevole e di tirare con violenza. A quanto sembra, non appena si rese conto che il treno era in movimento, si allontanò dalla porta, pallido in volto e con lo sguardo risoluto, e si fece bruscamente largo verso l'interno della vettura. Quindi si diresse immediatamente verso la piccola cassetta infissa nella parete in cui, attraverso una piccola finestrella, era possibile leggere in senso inverso la destinazione del convoglio: ma l'unica scritta visibile era ESPRESSO. Lui la fissò come se non riuscisse a credere ai propri occhi e poi cominciò a girare la manovella, facendo apparire uno dopo l'altro tutti i nomi delle altre destinazioni segnati in bianco sul rotolo di stoffa nera. Li esaminò uno per uno attentamente, ignaro degli sguardi perplessi o indignati di quelli che lo circondavano. Aveva già letto tutte le scritte una volta e stava ricominciando daccapo, quando il controllore si accorse di quanto stava accadendo e si precipitò verso di lui. Senza ascoltare le sue rimostranze, Simister gli chiese ad alta voce se quello fosse davvero l'espresso. Dopo avere ricevuto una secca risposta affermativa, Simister proseguì affermando che nel momento in cui era salito a bordo di corsa, aveva intravisto un'altra indicazione sul cartello... e pronunciò un nome strano. Sembrava assolutamente sicuro di quello che diceva e sembrava anche che la cosa lo agitasse molto, raccontò più tardi il controllore. Questi gli chiese di scandire bene le lettere e Simister accondiscese balbettando: «B...E...L...S...E...N...» Il controllore scosse la testa, poi splancò gli occhi e disse: «Ma sta cercando di prendermi in giro? Quello era uno dei campi di sterminio nazisti!» Senza aggiungere una sola parola, Simister sgattaiolò dalla parte opposta della carrozza. Fu lì che Holstrom lo vide, con lo sguardo di «chi ha appena ricevuto un colpo terribile». Holstrom era preoccupato, e sopraffatto al tempo stesso da un particolare senso di colpa, ma, per quanto tentasse d'intavolare una conversazione, scegliendo, a differenza del solito, argomenti neutrali, non riuscì a cavargli neanche una parola di bocca. A un certo punto, ricordò poi, Simister lo guardò e gli disse: «Pensi che ci siano cose alle quali un uomo non può sfuggire, nonostante conduca un'esistenza tranquilla e progetti la sua vita attentamente?» Ma dalla sua espressione si capiva di come e quanto fosse perfettamente cosciente dell'ovvietà della domanda... e Holstrom davvero non seppe che cosa dirgli. Trascorsero alcuni minuti, poi, improvvisamentre, Simister osservò: «Vorrei degli autobus come quelli inglesi che non prevedono posti in piedi.» Dopo di che ripiombò nel silenzio di prima. Mentre si stavano avvicinando alla città Simister sembrò rin-
cuorarsi un po', ma Holstrom era ancora molto preoccupato per lui, al punto che deviò dal suo solito percorso per seguirlo attraverso la stazione. «Temevo che gli succedesse qualcosa, non so che cosa» raccontò successivamente. «Avrei voluto restargli accanto, ma sembrava che la mia presenza lo infastidisse». Il senso di colpa che tormentava Holstrom, che faceva aumentare la sua preoccupazione e che senza dubbio spiegava la sua sensazione che Simister non lo sopportasse, era dovuto al fatto che dieci giorni prima, irritato oltre ogni limite dai pregiudizi di cui l'amico si compiaceva e dalla sua mentalità angusta, gli aveva spedito anonimamente tre libri che documentavano, con un realismo assoluto, alcuni degli aspetti meno piacevoli della dittatura nazista. E adesso non riusciva a fare a meno di pensare che forse quei libri avevano contribuito a turbare Simister in misura superiore alle sue intenzioni e, pur vergognandosene, era contento di avere scritto l'indirizzo mentre si trovava in condizioni tali per cui quello che era uscito dalla sua penna non sembrava altro che lo scarabocchio di un ubriaco. In seguito non parlò mai a nessuno di questa cosa, se non di tanto in tanto per osservare, dimostrando una strana sensibilità, «come piccoli fatti possano far scattare una certa molla nella psiche di un uomo!» Così, continuando il racconto di Holstrom, lui seguì Simister a una certa distanza mentre questi si trascinava stancamente attraverso la stazione affollata. Quando Simister si avvicinò al cancello di ferro accadde un fatto strano. Stava per superarlo sul lato destro, quando qualcuno proprio dietro di lui barcollò e inciampò. Anche Simister stava per cadere e si piegò in direzione del cancello. Una guardia che era lì vicino si protese e, nel tentativo di sorreggerlo, lo spinse dall'altra parte della barriera metallica, sul lato sinistro. A quel punto, sostiene Holstrom, Simister si voltò per un istante e lui intravvide di sfuggita il suo viso. Doveva esserci qualcosa di particolarmente spaventoso nel suo sguardo, qualcosa che forse lo stesso Holstrom non era in grado di descrivere, perché improvvisamente si dimenticò completamente dell'idea di seguirlo da lontano e cercò in ogni modo di raggiungerlo. Ma restò intrappolato in una fiumana di altri pendolari sopraggiunti con un altro espresso. Quando uscì dalla stazione gli ci vollero alcuni minuti prima d'individuare Simister in mezzo ad un gruppo di persone che si accalcavano per salire su un autobus, già pieno, dall'altra parte della strada.
La cosa stupì Holstrom sia perché sapeva che Simister non doveva prendere l'autobus, sia perché si ricordava delle sue recenti lamentele. Il traffico caotico impedì a Holstrom di attraversare la strada. Holstrom sostiene che urlò ma che apparentemente Simister non lo sentì. Ebbe l'impressione che Simister stesse facendo qualche timido tentativo per liberarsi dalla folla che lo stava spingendo sull'autobus, ma, come disse Holstrom, «Erano già tutti ammassati come animali». La migliore prova della preoccupazione che Holstrom nutriva per Simister sta nel fatto che non appena il traffico diminuì un po', egli si lanciò in mezzo alla strada zigzagando fra una macchina e l'altra. Troppo tardi: l'autobus era già partito. Non appena arrivò in ufficio telefonò a Simister. Parlò con la sua segretaria e ciò che lei gli disse dissipò i suoi timori, cosa piuttosto ironica, visto quello che accadde poco dopo. Quello che accadde poco dopo è meglio raccontarlo attraverso le parole della ragazza. Ecco il suo racconto: «Non l'avevo mai visto così allegro quel vecchio brontolone, oh mi scusi. Insomma quando è entrato era tutto sorridente, come se avesse appena appreso una cattiva notizia che riguardasse qualcun altro, e poi ha cominciato a parlare e a scherzare con tutti, tant'è che è stato davvero buffo quando quel tizio ha telefonato tutto in pensiero per lui. Ma, forse, adesso che ci ripenso, sembrava piuttosto scosso dentro, come chi se l'è cavata per un pelo ed è molto contento di essere ancora vivo... Be' è andato avanti così tutta la mattina. Poi, proprio mentre stava rovesciando indietro la testa per ridere di una delle sue barzellette, si è portato improvvisamente le mani al petto, ha cacciato un urlo terribile, si è piegato in due ed è caduto per terra. Non riuscivo a credere che fosse morto, perché continuava ad avere le labbra rosso vivo e chiazze colorate sulle guance, come se fosse truccato. Naturalmente è stato il cuore, anche se lei non può immaginare che paura ci ha fatto prendere quello stupido dottore che lo ha visitato per primo». Naturalmente, come aveva detto la sua segretaria, si era trattato certamente del cuore, in un modo o nell'altro. Ed è innegabile che il medico in questione fosse un vecchio incompetente, abituato forse soltanto a prescrivere penicillina, morfina e a formulare diagnosi più veloci di quelle di Charcot. L'avevano chiamato unicamente perché aveva l'ambulatorio in quello stesso palazzo. Quando era giunto il medico personale di Simister e aveva dichiarato che si era trattato di un infarto, cosa cui ciascuno di loro aveva pensato fin dall'inizio, tutti si erano sentiti molto sollevati e pronti a
criticare aspramente il primo dottore per avere detto qualcosa che li aveva terrorizzati facendoli correre alle finestre per spalancarle. Perché quando il primo medico era arrivato, aveva visitato Simister e aveva dichiarato con voce stridula: «Infarto? Assurdo! Guardate il colore del suo viso: quest'uomo è morto per avvelenamento da monossido di carbonio». Titolo originale: Belsen Express Traduzione Elisabetta Svaluto Robert Bloch Sinceramente tuo, Jack lo Squartatore Robert Bloch era un corrispondente di Lovecraft e diventò scrittore di horror soprannaturale per Weird Tales; scrittore di fantascienza, scrittore di mistery e, infine, sceneggiatore di film. «Bloch sintetizza la dimensione dell'horror della cultura pop dei nostri giorni» dice uno dei maggiori critici. Il suo romanzo Psycho appare nella lista dei dieci migliori di Stephen King e il film realizzato da Alfred Hitchock è un classico. Ha pubblicato più di una dozzina di antologie principalmente dall'horror. Le sue prime novelle come The Shambler From the Stars sono lovecraftiane, ma le sue opere principali hanno come caratteristica una psicologia anormale e un'ironia assurda. È un maestro nel gioco di parole. Sinceramente tuo, Jack lo Squartatore è indiscutibilmente la sua migliore novella, un ironico miscuglio di psicologia e di soprannaturale, la storia di un mostro, una storia che rafforza la nostra credenza nel demone soprannaturale e lo collega abilmente al demone del mondo reale. Mentre in seguito Bloch farà spesso dell'horror psicologico (certi suoi migliori effetti ricorrono nei romanzi mystery come The Scarf), questo racconto suggerisce lo stesso universo morale di The Whimper of Whipped Dogs di Harlan Ellison. Bloch fu il primo vincitore del Grand Master Award for Life Achievement alla prima World Fantasy Convention del 1975. 1 Guardai il gentiluomo inglese che avevo davanti. Lui guardò me. «Sir Guy Hollis?» domandai. «Esatto. Ho il piacere di rivolgermi a John Carmody, lo psichiatra?»
Annuii. I miei occhi si posarono sulla figura del distinto visitatore. Alto, snello, capelli biondi... con i tradizionali folti baffi. E il vestito di tweed. Sospettai che avesse un monocolo nascosto in una delle tasche della giacca e mi chiesi se non avesse lasciato l'ombrello nell'ufficio esterno. Ma più ancora mi chiesi che cosa diavolo avesse spinto sir Guy Hollis dell'Ambasciata Britannica a cercare un totale sconosciuto qui a Chicago. Sir Guy non diede alcuna spiegazione mentre si sedeva. Si schiarì la gola, si guardò nervosamente attorno, batté la pipa contro il fianco della scrivania. Poi aprì bocca: «Signor Carmody» disse «hai mai sentito parlare di... Jack lo Squartatore?» «L'assassino?» domandai. «Esatto. Il più grande di tutti i mostri. Peggio di Springheel Jack o di Crippen. Jack lo Squartatore. Red Jack.» «Ne ho sentito parlare» risposi. «Conosce la sua storia?» «Non c'è posto al mondo dove non ci sia una vecchia comare edotta su tutti i più famosi criminali della storia.» Lui trasse un respiro profondo. «Qui non si tratta di racconti di vecchie comari» disse. «È una questione di vita o di morte.» Era evidentemente molto forse troppo preso da una sua ossesione. Bè.... ero impaziente di ascoltarlo. Noi psichiatri siamo pagati per ascoltare. «Continui» gli dissi. «Sentiamo la storia.» Sir Guy si accese una sigaretta e cominciò a parlare. «Londra, 1888» iniziò. «Tarda estate e inizio dell'autunno. Il periodo era quello. Da qualche parte uscì la figura indistinta di Jack lo Squartatore... un'ombra che bazzicava con un coltello per l'East End di Londra, frequentando squallide bettole di Whitechapel, Spitalfields. Da dove uscì nessuno lo capì. Ma portava la morte. La morte con un coltello. «Sei volte quel coltello si abbatté per tagliare gole e corpi di donne di Londra. Prostitute da vicolo. Il sette agosto fu la data del primo assassinio. La trovarono con trentanove pugnalate. Un omicidio orrendo. Il trentun agosto, un'altra vittima. La stampa cominciò a interessarsi. Gli abitanti dei bassifondi si interessarono ancora di più. «Chi era quello sconosciuto assassino che di notte vagava tra loro e colpiva liberamente nei vicoli deserti? E, cosa più importante, quando avrebbe colpito di nuovo? «Fu l'otto settembre. Scotland Yard diede dei mandati speciali. Comin-
ciarono a correre voci insistenti. L'atroce natura dei delitti era oggetto di congetture scioccanti. «L'assassino usava un coltello... con abilità. Tagliava gole e asportava... certe parti... dei corpi dopo la morte. Sceglieva le vittime e le scene dei delitti con una deliberazione diabolica. Nessuno lo vedeva o lo sentiva. Ma i guardiani notturni che facevano le loro ronde all'alba s'imbattevano in corpi tagliuzzati e orribili che erano opera dello Squartatore. «Chi era? Che cos'era? Un chirurgo pazzo? Un macellaio? Uno scienziato folle? Un degenerato psicopatico fuggito da un manicomio? Un nobile dalla mente sconvolta? Un membro della polizia di Londra? «Poi sui giornali apparve la poesia. Versi anonimi, destinati a porre fine alle congetture... ma che servirono soltanto ad aumentare l'interesse pubblico e portarlo al parossismo. Una strofetta ironica: Non sono un macellaio, non sono un ebreo Né sono uno skipper straniero, Ma sono l'amico, l'amico del tuo cuore, Sinceramente tuo... Jack lo Squartatore «Il trenta settembre, vennero tagliate altre due gole. Poi, per un po', a Londra cadde il silenzio. Silenzio e una paura senza nome. Quando avrebbe colpito di nuovo Red Jack? Attesero per tutto ottobre. Ogni particella di nebbia nascondeva la sua fantomatica presenza. La nascondeva bene... perché non si scoprì nulla dell'identità dello Squartatore o del suo scopo. Le prostitute di Londra tremavano sotto il vento freddo dell'inizio di novembre. «Nove novembre. La trovarono nella sua stanza. Giaceva immobile, perfettamente composta. E, al suo fianco, con uguale compostezza, c'erano i suoi seni e il cuore. Lo Squartatore aveva superato se stesso nell'esecuzione. «Poi, panico. Ma panico inutile. Perché sebbene la stampa, la polizia e la popolazione aspettassero con una paura mortale, Jack lo Squartatore non colpì di nuovo. «Passarono mesi. Un anno. L'interesse immediato scemò, ma non il ricordo. Dissero che Jack era fuggito in America. Che si era suicidato. Dissero.... e scrissero. Hanno continuato a scrivere da allora. Ma ancora oggi nessuno sa chi era Jack lo Squartatore. O perché uccideva. O perché smise di uccidere.»
Sir Guy rimase silenzioso. Ovviamente si aspettava qualche commento da parte mia. «Ha raccontato bene questa storia» osservai. «Anche se con una briciola eccessiva di emozione.» «Suppongo che voglia sapere perché m'interessa» scattò. «Si. È esattamente ciò che vorrei sapere.» «Perché» spiegò sir Guy Hollis «ora sono sulle tracce di Jack lo Squartatore. Credo che sia qui... a Chicago» «Lo ripeta, prego.» «Jack lo Squartatore è vivo, a Chicago, e io sono qui per trovarlo.» Non sorrideva. Non era uno scherzo. «Vediamo» dissi. «Quando ebbero luogo quei delitti?» «Tra l'agosto e il novembre del 1888.» «1888? Ma se Jack lo Squartatore era vivo nel 1888, ora è sicuramente morto! Senta... se fosse anche solo nato in quell'anno, oggi avrebbe cinquantasette anni!» «Lui!» Sir Guy Hollis sorrise. «O forse dovrei dire lei? Perché Jack lo Squartatore potrebbe essere stata una donna. O chissà che cos'altro.» «Sir Guy» dissi «è venuto dalla persona giusta quando ha scelto me. Lei ha veramente bisogno dell'aiuto di uno psichiatra.» «Può darsi. Mi dica, signor Carmody, crede che sia pazzo?» Lo guardai e scrollai le spalle. Ma dovevo dargli una risposta sincera. «Francamente... no» dissi. «Allora potrebbe ascoltare i motivi che mi inducono a credere che Jack lo Squartatore sia vivo, oggi.» «Potrei.» «Ho studiato questi casi per trent'anni. Ancora ci sto lavorando. Ho parlato con i poliziotti. Ho parlato con amici e conoscenti delle povere prostitute che furono uccise. Ho visitato con uomini e donne gli ambienti dei delitti. Ho riempito un'intera biblioteca col materiale che riguarda Jack lo Squartatore. Ho studiato tutte le teorie selvagge o le nozioni folli... Ho imparato qualcosa. Non molto, ma qualcosa. Non l'annoierò con le mie conclusioni. Ma c'è stata un'altra parte dell'inchiesta che ha dato risposte più fruttuose. Ho studiato i delitti insoluti. Gli assassini. Potrei mostrarle i ritagli di giornali delle più grandi città di mezzo mondo. San Francisco, Shangai, Calcutta, Omsk, Parigi, Berlino, Pretoria, Cairo, Milano, Adelaide... La pista è lì. I delitti insoluti. Gole di donne tagliate. Con sfregi particolari e rimozioni di certe parti. Sì, ho seguito una pista di sangue. Dalla zona
occidentale di New York attraverso il continente. Poi al Pacifico. Da lì in Africa. Durante la guerra mondiale del 1915-18 è stata la volta dell'Europa. Poi il Sudamenca. E dal 1930, di nuovo gli Stati Uniti. Ottantasette delitti del genere... e secondo il criminologo, tutti portano il marchio dello Squartatore... Bene, di recente ci sono stati i cosiddetti massacri di Cliveland. Ricorda? Una serie scioccante. E, infine, due recenti morti a Chicago. Negli ultimi sei mesi. Una a South Dearborn. L'altra ad Halsted. Lo stesso tipo di delitto, la stessa tecnica. Le dico, ci sono indicazioni inconfondibili in tutti questi casi... indicazioni dell'opera di Jack lo Squartatore.» «Una teoria molto accurata» dissi. «Non le chiederò le prove o le deduzioni che ha tratto. Lei è il criminologo e io le crederò sulla parola. Rimane da spiegale soltanto una cosa. Un punto di secondaria importanza, forse, ma cui vale la pena di accennare.» «E qual è?» domandò sir Guy. «Come potrebbe un uomo di... diciamo ottantacinque anni commettere questi delitti? Perché se Jack lo Squartatore era sui trent'anni nel 1888 ed è ancora vivo, oggi dovrebbe avere ottantacinque anni.» «Supponiamo che non sia invecchiato» mormorò sir Guy. «Che cosa?» «Supponiamo che Jack lo Squartatore non sia diventato vecchio. Supponiamo che sia ancora oggi un uomo giovane.» «È una teoria audace, lo ammetto,» dissi. «D'altronde» disse sir Guy «tutte le teorie sullo Squartatore sono... audaci per non dire folli. L'idea che fosse un dottore. O un maniaco. O una donna. Le ragioni che hanno condotto a tali convinzioni sono abbastanza inconsistenti. Non c'è nulla su cui basarsi. Allora, perché mai la mia teoria dovrebbe essere la peggiore?» «Perché la gente invecchia» riflettei. «I dottori, i maniaci e le donne.» «E che cosa mi dice degli... stregoni?» «Gli stregoni?» «I negromanti. Quelli che hanno poteri magici. Coloro che praticano la Magia Nera.» «Qual è il punto?» «Ho studiato» disse sir Guy. «Ho studiato tutto. Dopo un po' ho cominciato a studiare le date dei delitti. Il disegno che quelle date formavano. Il ritmo. Il ritmo solare, lunare, stellare. L'aspetto siderale. Il significato astrologico... Supponiamo, quindi, che Jack lo Squartatore non uccidesse per il semplice gusto di uccidere. Supponiamo che volesse o dovesse com-
piere dei sacrifici.» «Che genere di sacrifici?» Sir Guy scrollò le spalle. «Si dice che c'è chi offre il sangue agli dei oscuri in cambio di doni. Si dice che, se l'offerta di sangue viene fatta al momento giusto.... quando la luna e le stelle sono nella posizione giusta... e con le cerimonie giuste... i doni vengono concessi... Il dono della giovinezza. Dell'eterna giovinezza.» «Ma è una sciocchezza!» «No. È... Jack lo Squartatore.» Mi alzai. «Una teoria molto interessante» dissi. «Ma perché è venuto qui a raccontarla a me? Io non sono un'autorità in fatto di stregoneria. Non sono un funzionario di polizia né un criminologo. Sono uno psichiatra. Qual è il nesso?» Sir Guy sorrise. «Allora, è interessato?» chiese. «Be', si. Ma dev'esserci un nesso.» «C'è. Ma prima volevo che mi assicurasse che la cosa la interessava. Ora posso rivelarle il mio piano.» «E qual è questo piano?» Sir Guy mi lanciò una lunga occhiata. «John Carmody» disse «io e lei cattureremo Jack lo Squartatore.» 2 Ed ecco come accadde. Ho riportato la base di quel primo colloquio con tutti i suoi complicati e forse noiosi particolari perché penso che sia importante. Aiuta a fare luce sul carattere e l'atteggiamento di sir Guy. E in vista di ciò che accadde in seguito... Ma arrivo alla questione. Il pensiero di sir Guy era semplice. Non era neppure un pensiero. Solo un sospetto. «Lei conosce la gente, qui» mi disse. «Mi sono informato. Ecco perché sono venuto a lei come all'uomo ideale per il mio scopo. Tra le sue conoscenze ci sono molti scrittori, pittori, poeti. La cosiddetta intellighenzia. I membri più eccentrici del partito del nord.» «Per certi motivi... non importa quali... i miei indizi mi portano a dedurre che Jack lo Squartatore fa parte di quell'ambiente. Sceglie di atteggiarsi a eccentrico. Ho la sensazione che se lei mi porterà e mi presenterà nel suo
ambiente potrei incappare nella persona giusta.» «Passi per me» dissi «ma come ha intenzione di trovarlo? Come ha detto, potrebbe essere chiunque e in qualunque posto. E non ha la minima idea del suo aspetto. Potrebbe essere giovane o vecchio. Jack lo Squartatore... un Jack tra i tanti? Uomo ricco, uomo povero, mendicante, ladro, dottore, avvocato... come farà a saperlo?» «Vedremo.» Sir Guy si lasciò sfuggire un sospiro pesante. «Ma devo trovarlo. Subito.» «Perché tanta fretta?» Sir Guy sospirò di nuovo. «Perché tra due giorni ucciderà ancora.» «Ne è sicuro?» «Sicuro come le stelle. Ho tracciato questa carta, vede. Tutti i delitti corrispondono allo schema di un certo ritmo astrologico. Se, come sospetto, farà un sacrificio di sangue per rinnovare la giovinezza, dovrà compiere un delitto entro due giorni. Noti lo schema dei suoi primi delitti di Londra. Il sette agosto. Poi il trentuno agosto. L'otto settembre. Il trenta settembre. Il nove novembre. Intervalli di ventiquattro giorni, nove giorni, ventidue giorni... quella volta ne ha uccisi due... e poi quaranta giorni. Certo, tra questi ci sono stati altri delitti. Dovevano essercene. Ma non furono scoperti e attribuiti a lui. A ogni modo, ho tracciato uno schema per l'assassino basato su tutti i miei dati. E dico che entro i prossimi due giorni ucciderà. Ecco perché devo in qualche modo trovarlo prima di allora.» «E io le chiedo ancora che cosa intende fare.» «Mi porti fuori» disse sir Guy. «Mi presenti ai suoi amici. Mi porti ai ricevimenti.» «Ma da dove comincio? Per quel che ne so, i miei amici artisti, nonostante le loro eccentricità, sono tutte persone normali.» «Lo è anche lo Squartatore. Perfettamente normale. Tranne che in certe notti.» Di nuovo quello sguardo lontano negli occhi di sir Guy. «Allora diventa un mostro patologico senza età che si nasconde per uccidere.» «Va bene» dissi. «Va bene, la porterò.» Facemmo i nostri piani. E quella sera lo portai nello studio di Lester Baston. Mentre salivamo con l'ascensore verso la mansarda, ne approfittai per avvertire sir Guy. «Baston è un vero pazzo come pure i suoi ospiti» dissi «Si prepari a tutto.» «D'accordo.» Sir Guy era perfettamente serio. Si infilò una mano nella
tasca dei pantaloni e ne estrasse una pistola. «Che cosa!» esclamai. «Se lo vedo, sarò pronto» spiegò Sir Guy e non sorrideva. «Ma non può andare a un ricevimento con una pistola carica in tasca!» «Non si preoccupi, non mi comporterò follemente.» Mi posi delle domande. Secondo il mio modo di pensare, sir Guy Hollis non era una persona normale. Uscimmo dall'ascensore e ci dirigemmo verso la porta dell'appartamento di Baston. «A proposito» mormorai «come vuole che la presenti? Devo dire chi è e che cosa cerca?» «Non importa. Forse sarebbe meglio essere franchi.» «Ma non crede che lo Squartatore... se per miracolo lui o lei fosse presente... prenderà il volo e si nasconderà?» «Credo che lo shock dell'annuncio che sono alla caccia dello Squartatore provocherebbe una specie di gesto traditore da parte sua» rispose sir Guy. «È una bella teoria. Ma l'avverto... sta per mettersi in un sacco di guai. Questo è un branco di selvaggi.» Sir Guy sorrise. «Sono pronto» annunciò. «Ho un piccolo piano in mente. Non si allarmi, qualunque cosa io faccia.» «Annuii e bussai alla porta.» Baston venne ad aprire e ci accolse nell'ingresso. Aveva gli occhi rossi come le ciliege al maraschino del suo Manhattan. Ondeggiò avanti e indietro, osservandoci con aria greve. Guardò di traverso il mio cappello floscio e i baffi di sir Guy. «Aha» commentò «Il Baffo e il Carpentiere». Presentai sir Guy. «Benvenuto» disse Baston, invitandoci a entrare con eccessiva cortesia. Ci seguì nel salotto pieno di luci. Fissai la gente che si muoveva inquieta nella nebbia di fumo di sigarette. Era il clue della serata per quella gente. Ognuno stringeva in mano un bicchiere. Ogni viso era leggermente arrossato. In un angolo, il piano stava per esplodere, ma gli imperiosi accordi della Marcia da L'Amore delle Tre Melarance non riuscivano a distogliere i profani dal gioco ai dadi che aveva luogo nell'altro angolo. Prokofieff non aveva alcuna possibilità contro il polo africano e una delle collezioni d'avorio tintinnava più dell'altra.
Sir Guy tirò fuori il suo monocolo e vide LaVerne Gonnister, la poetessa, colpire Hymie Kralik a un occhio. Vide Hymie sdraiarsi sul pavimento e piangere finché Dick Pool non gli camminò accidentalmente sulla pancia mentre si dirigeva in sala da pranzo per prendere un drink. Udì Nadia Vilinoff, l'artista commerciale, che diceva a Johnny Odcutt che il suo tatuaggio era di pessimo gusto e vide Barclay Melton strisciare sotto il tavolo assieme alla moglie di Johnny Odcutt. Le sue osservazioni zoologiche sarebbero potute continuare all'infinito se Lester Baston non si fosse portato al centro della stanza e avesse chiesto il silenzio lasciando cadere un vaso sul pavimento. «Abbiamo tra noi ospiti di riguardo» annunciò ad alta voce, agitando il bicchiere vuoto nella nostra direzione. «Niente po' po' di meno che il Baffo e il Carpentiere. Il Baffo è sir Guy Hollis, un qualche cosa dell'Ambasciata Britannica. Il Carpentiere, come tutti sapete, è il nostro John Carmody, l'illustre dispensiere di linimenti della libido.» Si voltò, prese sir Guy per il braccio e lo trascinò al centro del tappeto. Pensai per un momento che Hollis potesse obiettare ma una veloce strizzatina d'occhio mi rassicurò. Era pronto a questo. «È nostra abitudine, sir Guy» disse Baston, «sottomettere i nostri nuovi amici a un piccolo tiro incrociato. È una semplice formalità di queste riunioni molto formali, capisce. È pronto per rispondere alle domande?» Sir Guy annuì e sorrise. «Molto bene» mormorò Baston. «Amici... vi consegno questo fagotto che proviene dalla Gran Bretagna. A voi il resto.» Avevo intenzione di ascoltare, ma proprio in quel momento Lydia Dare mi vide e mi trascinò nel corridoio per uno di quei caro-ho-aspettato-tuttoil-giorno-la-tua-chiamata. Quando me ne liberai e tornai, l'improvvisato quiz era in pieno svolgimento. Dall'atteggiamento della platea, compresi che sir Guy se la stava cavando bene. Poi Baston pose una domanda che sconvolse i piani. «E, se mi è permesso chiederlo, che cosa l'ha portata tra noi, questa sera? Qual è la sua missione, Baffo?» «Cerco Jack lo Squartatore.» Nessuno rise. Forse colpì tutti come aveva colpito me. Guardai i miei vicini e cominciai a farmi delle domande. La Verne Gonninster, Hymie Kralik: innocui. Dick Pool, Nadia Vilinoff,
Johnny Odcutt e sua moglie, Barclay Melton, Lydia Dare: tutti innocui. Ma che sorriso forzato sul viso di Dick Pool! E che espressione timida su quello di Barclay Melton! Oh, era assurdo, lo ammetto. Ma per la prima volta vidi quelle persone sotto una nuova luce. Mi domandai com'erano le loro vite... quali fossero in realtà le vite segrete che si nascondevano dietro a quei party. Quanti di loro recitavano una parte, nascondendo qualcosa? Chi li dentro venerava Ecate e dedicava a quella orribile divinità gli oscuri sacrifici di sangue? Forse persino Lester Baston si presentava sotto mentite spoglie. Per un momento, il silenzio cadde su di noi. Lessi una serie di domande negli occhi di coloro che erano nella stanza. Sir Guy era là, immobile, e avrei potuto giurare che fosse pienamente consapevole della situazione che aveva creato e che si divertisse. Mi chiesi malignamente che cosa ci fosse di storto in lui. Perché aveva quella strana fissazione su Jack lo Squartatore. Forse anche lui nascondeva qualche segreto... Baston, come al solito, fu il primo a rompere il silenzio. E con aria burlesca disse: «Baffo non scherza, amici.» Batté sulla schiena di sir Guy e gli circondò le spalle con un braccio. «Il nostro cugino inglese è davvero alla ricerca del favoloso Jack lo Squartatore. Presumo che tutti voi ricordiate Jack lo Squartatore. Una specie di clown dei vecchi tempi, se non sbaglio. Ha avuto davvero dei momenti grandiosi quando usciva a far baldoria. Baffo è convinto che lo Squartatore sia ancora vivo e che probabilmente vaghi per Chicago con un coltello da boy scout. Anzi...» Boston fece una pausa a effetto e continuò quasi mormorando: «... anzi, ha ragione di credere che Jack lo Squartatore potrebbe essere addirittura qui tra noi, questa sera...» Ci fu una prevista reazione di risolini. Baston lanciò un'occhiata di rimprovero a Lydia Dare. «Voi ragazze, non c'è niente da ridere. Jack lo Squartatore potrebbe essere anche una donna, sapete? Una sorta di Jill la Squartatrice.» «Vuol dire che sospetta davvero di uno di noi?» chiese ridendo a sir Guy La-Verne Gonnister. «Ma Jack lo Squartatore è scomparso secoli fa, no? Nel 1888.» «Aha!» intervenne Baston. «Come fai a sapere tante cose, giovane signora? La faccenda si fa sospetta! La guardi, sir Guy... non può essere così giovane come sembra. Queste poetesse hanno degli oscuri passati.»
Svanita la tensione, l'intera questione cominciava a degenerare in uno scherzo volgare. L'uomo che aveva suonato la Marcia guardava il piano con uno scintillio da scherzo negli occhi che augurava ogni male al malcapitato Prokofieff. Lydia Dare lanciava occhiate in direzione della cucina, in attesa di farci un salto per prendere un altro drink. «Volete saperne una?» gridò a un certo punto Baston. «Baffo ha una pistola.» Il braccio con cui aveva circondato le spalle di Sir Guy era scivolato verso il basso e aveva sfiorato i contorni dell'arma che si trovava nella tasca. Lui gliela estrasse prima che Hollis avesse la possibilità di protestare. Fissai sir Guy, chiedendomi se non avesse esagerato ma lui mi strizzò di nuovo l'occhio e ricordai che mi aveva detto di non allarmarmi. Perciò attesi mentre Baston, ubriaco, andava alla ricerca dell'ispirazione. «Giochiamo onestamente con il nostro amico Baffo» gridò. «Ha fatto tutto questo viaggio dall'Inghilterra per venire al nostro party per questa missione. Se nessuno di voi vuole confessare, suggerisco di dargli la possibilità di scoprire... la maniera dura.» «Quale?» domandò Johnny Odcutt. «Spegnerò le luci per un minuto. Sir Guy può restare qui con la sua pistola. Se qualcuno in questa stanza è Jack lo Squartatore può cercare di prendergliela e cogliere l'occasione per... be', eliminare il suo inseguitore. Vi sembra abbastanza onesto?» La proposta era ancora più sciocca e pericolosa di quanto non sembrasse di primo acchito, cionondimeno ottenne un plebiscitario consenso. Le proteste di sir Guy passarono inosservate nel mormorio che seguì. E prima che potessi esprimere la mia modesta opinione, Lester Baston aveva raggiunto l'interruttore. «Nessuno si muova» annunciò, con finta solennità. «Per un minuto, rimarremo al buio... forse alla mercé di un killer. Alla fine del minuto, accenderò di nuovo le luci e cercherò i corpi. Segliete i vostri partners, signore e signori.» Le luci si spensero. Qualcuno ridacchiò. Udii dei passi nell'oscurità. Dei borbottìi. Una mano mi sfiorò il viso. L'orologio al polso ticchettava violentemente. Ma ancora più forte, udibile al di sopra di tutto, c'era un altro battito martellante. Quello del mio cuore.
Assurdo. Stare in piedi, al buio, con un gruppo di pazzi ubriachi. E tuttavia nell'oscurità vellutata di quella stanza aleggiava il vero terrore. Jack lo Squartatore si muoveva al buio, proprio così. E Jack lo Squartatore aveva un coltello. Jack lo Squartatore aveva il cervello di un pazzo e lo scopo di un pazzo. Ma Jack lo Squartatore era morto, morto e sepolto da tanti anni... secondo la legge umana. Sir Guy Hollis gridò. Si udì un tonfo sinistro. Baston accese le luci. Tutti gridarono. Sir Guy Hollis giaceva sul pavimento, al centro della stanza, la pistola ancora stretta in mano. Guardai i visi, meravigliandomi per la varietà di espressioni che gli esseri umani potevano assumere davanti all'orrore. C'erano tutti, disposti in circolo. Nessuno era scomparso. E tuttavia sir Guy Hollis giaceva lì. LaVerne Gonnister gemeva e si copriva la faccia. «Va bene» disse sir Guy; rotolò su se stesso e si alzò. Sorrideva. «Un semplice esperimento, eh?» proseguì sorridendo. «Se Jack lo Squartatore fosse stato tra queste persone e avesse pensato che ero stato ucciso, in qualche modo si sarebbe tradito quando, accese le luci, mi avesse visto disteso sul pavimento... Bene, sono convinto della vostra innocenza sia individuale che collettiva. Si è trattato di un gentile imbroglio, amici miei.» Hollis fissò Baston che aveva il viso stralunato e gli altri presenti. «Andiamo, John?» mi chiese. «Si sta facendo tardi.» Si voltò e io lo seguii. Nessuno disse una parola. Dopo di che la festa — mi fu detto — fu piuttosto noiosa. 3 Come d'accordo, incontrai sir Guy la sera successiva all'angolo tra la Ventinovesima e South Halsted. Dopo quello che era accaduto al sera prima, ero pronto a quasi tutto. Ma sir Guy sembrava tranquillo mentre mi aspettava davanti a un portone sudicio. «Bu!» dissi, balzando fuori all'improvviso. Sorrise. Soltanto il gesto tra-
ditore della mano sinistra indicò che aveva istintivamente cercato la pistola quando gli ero apparso davanti cogliendolo di sorpresa. «Pronto per la nostra caccia all'oca selvatica?» domandai. «Sì.» Annuì. «Sono lieto che abbia acconsentito di venire senza farmi domande» disse. «Significa che si fida del mio giudizio.» Mi prese sottobraccio e mi condusse lentamente lungo la strada. «È una serata nebbiosa, John» osservò sir Guy Hollis. «Come a Londra.» Feci cenno di sì con la testa. «E fredda per novembre» disse sir Guy. Annuii di nuovo e fui percorso da un brivido. «Strano» disse sir Guy. «La nebbia di Londra e novembre. Il luogo e il periodo dei delitti dello Squartatore.» Sorrisi nell'oscurità. «Mi permetta di ricordarle, sir Guy, che qui non siamo a Londra, ma a Chicago. E che non siamo nel novembre del 1888. Sono passati più di cinquant'anni da allora.» Sir Guy ricambiò il sorriso ma senza allegria. «Quanto a questo, non ne sono sicuro» mormorò. «Si guardi attorno. Quei vicoli intricati e quelle stradine tortuose. Assomigliano a quelle dell'East End. Mitre Square. E hanno sicuramente almeno cinquant'anni.» «Ci troviamo nei bassifondi di South Clark Street» dissi brevemente. «E ancora non mi è chiaro il perché siamo qui.» «È impressione» ammise sir Guy. «Soltanto un'impressione da parte mia, John. Voglio vagare per queste strade. Hanno la stessa conformazione geografica di quelle tra le quali lo Squartatore vagava e uccideva. È qui che lo troveremo, John. Non in mezzo alle luci ma qui, nell'oscurità. È nell'oscurità che lui aspetta.» «Non è per questo che ha portato una pistola?» domandai. Non ero capace di liberare la voce da una traccia di nervosismo sarcastico. Quei discorsi, l'incessante ossessione di Jack lo Squartatore mi davano sui nervi più di quanto non volessi ammettere. «Forse ne avremo bisogno» disse sir Guy, con aria grave. «Dopotutto, questa è la sera designata.» Sospirai. Vagammo per le strade nebbiose e deserte. Di tanto in tanto, una luce fioca illuminava la porta di un bar. Per il resto, c'era soltanto oscurità e ombra. I vicoli bui sembravano intrecciarsi mentre procedevano sul marciapiede in pendenza di una stradina. Camminavamo nella nebbia, soli e silenziosi, come due larve che si
muovono faticosamente dentro un sudario. «Lo vede: non c'è anima viva da queste parti?» dissi. «Lui verrà» ribatté sir Guy. «Deve venire. È per questo che lo cerco qui. Un genius loci. Un luogo da demonio che attrae il demonio. Sempre, quando uccide, lo fa nei bassifondi. Vede Carmody, questa dev'essere una delle sue debolezze. È affascinato dallo squallore. Del resto, le donne che gli servono per i sacrifici sono più facilmente reperibili nelle taverne e nei bordelli di una grande città.» «Beh, andiamo in una locanda o in un bordello» suggerii. «Ho freddo. Ho bisogno di bere qualcosa. Questa maledetta nebbia penetra nelle ossa. Voi inglesi riuscite a sopportarla, ma io amo il caldo e l'asciutto.» Uscimmo dalla nostra stradina laterale e ci fermammo all'inizio di un vicolo. Nonostante fossimo immersi in una nuvola di nebbia bianca, scorsi una lucina azzurra, una semplice lampadina che penzolava dall'insegna di una taverna. «Corriamo il rischio» dissi. «Comincio a rabbrividire.» «Faccia strada.» Lo guidai lungo il vicolo e ci fermammo davanti alla porta della taverna. «Che cosa aspettiamo?» domandò sir Guy. «Prima diamo un'occhiata all'interno» spiegai. «Questa è una zona malfamata, sir Guy. Non si può mai sapere in chi ci si imbatte. E preferirei che non c'imbattessimo nella compagnia sbagliata. In alcuni di questi locali vedono di malocchio i clienti bianchi.» «Buona idea, John.» Sbriciai dalla porta. «Sembra deserto» mormorai. «Proviamo a entrare.» Il bar era buio. Una debole luce illuminava il bancone, ma non bastava a penetrare l'oscurità dei separé che si trovavano sul fondo. Un gigante nero dormicchiava dietro il bancone e non si raddrizzò quando ci avvicinammo, ma i suoi occhi si aprirono all'improvviso e io capii che aveva notato la nostra presenza e ci stava giudicando. «'sera» dissi. Gli ci volle un po' prima di rispondere, continuando a soppesarci con lo sguardo. Poi sorrise: «'sera, signori. Che cosa volete?» «Gin» risposi. «Due gin. È una serata fredda.» «Vero, signori.» Ci servì, pagai, presi i bicchieri e li portai verso uno dei separé. Li svuotammo subito.
Tornai al bar e presi la bottiglia. Sir Guy e io ci versammo un altro drink. Il grosso uomo tornò a sonnecchiare, un occhio semiaperto nell'eventualità di qualche improvviso cliente. L'orologio appeso sopra il bar ticchettava. Fuori il vento che saliva squarciava la cortina di nebbia in tanti brandelli. Io e sir Guy sedevamo nel caldo separé a bere il nostro gin. Lui cominciò a parlare e le ombre si addensarono attorno a noi in ascolto. Raccontò molte cose, tutto ciò che aveva detto in ufficio quando l'avevo conosciuto, come se non l'avessi già sentito prima. I poveri diavoli affetti da ossessioni si comportano così. Lo ascoltai molto pazientemente. Gli versai ancora da bere. E poi ancora. Ma il liquore non faceva che renderlo più loquace. E come parlava! Di uccisioni rituali e del prolungamento della vita in modo innaturale... di nuovo quel racconto fantastico. E, ovviamente, era ancora convinto che lo Squartatore si sarebbe fatto vivo, quella sera. Ammetto d'esser stato colpevole d'averlo pungolato. «Molto bene» dissi, incapace di non mostrarmi impaziente. «Diciamo che la sua teoria è corretta... anche se dobbiamo passare sopra a ogni legge naturale e accettare molta superstizione per credervi... Diciamo comunque che lei ha ragione. Jack lo Squartatore è un uomo che ha scoperto come prolungare la vita facendo sacrifici umani. Ha viaggiato per il mondo e ora è a Chicago e ha in mente di uccidere. In altre parole, supponiamo che tutto ciò che lei dice sia pura verità. E allora?» «Che cosa vuol dire con quel "e allora?"» domandò sir Guy. «Voglio dire "e allora?". Se è tutto vero, non è però detto che per il solo fatto che ce ne stiamo seduti in una taverna buia di South Side, Jack lo Squartatore entrerà qui e le permetterà di ucciderlo o di portarlo alla polizia. E adesso che ci penso, non so neppure che cosa lei abbia in mente di fare se mai lo troverà.» Sir Guy finì il suo gin. «Catturerei quel porco sanguinario» disse. «Lo catturerei e lo consegnerei al governo, insieme a tutte le carte e alle prove che ho raccolto contro di lui in tanti anni. Ho speso una fortuna in questa inchiesta, una fortuna, gliel'assicuro! La sua cattura significherà la soluzione di centinaia di delitti insoluti, ne sono convinto.» In vino veritas. O tutto quel parlare era la conseguenza del troppo gin ingurgitato? Non aveva importanza. Sir Guy Hollis ne bevve ancora. Ri-
masi seduto a chiedermi che cosa fare di lui. L'uomo stava rapidamente raggiungendo uno stato di ubriachezza isterica. «Ora basta» dissi, posando la mano su quella di sir Guy che tentava di afferrare di nuovo la bottiglia semivuota. «Chiamiamo un taxi e usciamo di qui. Si sta facendo tardi e a quanto pare il suo inafferabile amico non ha intenzione di farsi vedere. Domani, se fossi in lei, consegnerei tutte le carte e i documenti all'FBI. Se è proprio convinto che la sua teoria è vera, loro sono le persone più competenti per fare un'inchiesta come si deve e trovare il suo uomo.» «No.» Sir Guy era ubriaco e ostinato. «Niente taxi.» «Comunque, andiamocene da qui» dissi, guardando l'orologio. «È mezzanotte passata.» Sospirò, scrollò le spalle e si alzò a fatica. Mentre si dirigeva verso la porta, estrasse di tasca la pistola. «Ehi, me la dia!» mormorai. «Non si può andare per strada con quella cosa in mano.» Presi la pistola e me l'infilai nella tasca del cappotto. Poi lo afferrai per il braccio destro e lo portai fuori. Il negro non sollevò nemmeno la testa quando ce ne andammo. Ci fermammo nel vicolo, rabbrividendo. La nebbia era aumentata. Dal punto in cui eravamo, non riuscivo a vedere neppure la fine del vicolo. Faceva freddo. Era umido e buio. Nebbia o non nebbia, un venticello mormorava segreti alle ombre alle nostre spalle. Sir Guy, nonostante lo stato in cui si trovava, scrutava con apprensione la stradina come se si aspettasse di vedere avvicinarsi una figura. Il disgusto ebbe la meglio su di me. «Follia infantile» sbottai. «Altro che Jack lo Squartatore! Questo io lo definirei piuttosto un hobby ossessivo.» «Hobby?» si voltò per guardarmi. Attraverso la nebbia vidi il suo viso distorto. «Lo chiama hobby questo?» «Be', e che cos'altro potrebbe essere? Per quale altra ragione le interessa tanto trovare questo mitico assassino?» Continuavo a tenerlo per il braccio e lui continuava a fissarmi. «A Londra» mormorò. «Nel 1888... una di quelle prostitute senza nome che lo Squartatore massacrò... era mia madre.» «Che cosa?» «Più tardi, mio padre mi riconobbe e mi rese legittimo. Giurammo di dare la vita per trovare lo Squartatore. Mio padre cominciò per primo le ri-
cerche. Morì a Holywood nel 1926... sulle tracce dello Squartatore. Dissero che era stato pugnalato da uno sconosciuto assalitore durante una rissa. Ma io sapevo chi era quell'assalitore. Perciò ho continuato il suo lavoro, capisce, John? Sono andato avanti. E proseguirò finché non lo troverò e non lo ucciderò con le mie mani.» Gli credetti, allora. Non si sarebbe arreso. Non era più soltanto un chiacchierone ubriaco. Era fanatico, deciso e spietato come lo stesso Squartatore. L'indomani, sarebbe stato sobrio. Avrebbe continuato con le sue ricerche. Forse avrebbe consegnato quelle carte all'FBI. Presto o tardi, con una tenacia come la sua... e con le sue motivazioni... avrebbe ottenuto il successo. Avrei dovuto capire fin dall'inizio che aveva un motivo. «Andiamo» dissi, conducendolo lungo il vicolo. «Aspetti un minuto» fece sir Guy. «Mi restituisca la pistola.» Barcollò leggermente. «Mi sentirei meglio con l'arma addosso.» Mi spinse verso le ombre oscure di una piccola rientranza. Tentai di liberarmi, ma lui era insistente. «Mi dia l'arma, ora, John» balbettò. «Va bene» dissi. Frugai in tasca ed estrassi la mano. «Ma quella non è una pistola» protestò. «Quello è un coltello.» «Lo so,» dissi sorridendo. Piombai velocemente su di lui. «John!» gridò. «Lasci perdere il John» mormorai, sollevando il coltello. «Mi chiami soltanto... Jack.» Titolo originale: Yours Truly, Jack the Ripper Traduzione: Grazia Alineri Charles L. Grant Se viene Damon Charles L. Grant è il più importante antologista degli Stati Uniti di horror fiction, dopo August Derleth, soprattutto per le sue ristampe e la sua serie originale Shadows, annualmente proposta per il World Fantasy Award come migliore collezione dell'anno (e spesso vincitrice o ispirazione del vincitore per le novelle). Grant è un novelliere prolifico e uno scrittore di storie brevi della cerchia di Ramsey Campbell e Stephen King e una figura popolare tra i fans della horror fiction per i suoi romanzi e le
storie di Oxrun Station, una immaginaria città del Connecticut (in parte basati sui lovecraftiani Dunwich e Arkham, sulle storie mitiche di Cthulhu). Se viene Damon è una delle novelle più belle ambientate a Oxrun. Grant è bravissimo nei racconti, come questo, ed è l'esempio saliente dello scrittore di horror tradizionale della sua generazione, influenzata inizialmente da Bradbury (in un primo tempo... poi da Bloch, Leiber e Matheson... tutti scrittori di novelle). Soltanto in seguito, verso la metà degli anni settanta, durante il grande boom commerciale dell'horror, si dedicò al romanzo. La nebbia, l'alito notturno del fiume, che attira senza mormorii nel folto ombrello di un olmo, che si accalca senza cigolii attorno alla base di un camino, passava accanto alle luci del portico e, nel farlo, le oscurava, si posava sulle luci della strada e le velava. Arrivava a mezzanotte e rimaneva fino all'alba e non c'era vento che riuscisse a liberare la luce dal nascondiglio. Frank rabbrividì e si strinse attorno al collo il bavero dell'impermeabile, tenendolo chiuso con una mano mentre con l'altra si asciugava le gocce di umidità che gli si attaccavano alle guance e ai corti capelli scuri. Lanciò un fischio, sommessamente, ma aguzzando l'orecchio non udì niente, neppure l'eco. Batté i piedi contro il freddo di novembre e si mosse verso l'angolo più vicino, sbirciò e non vide niente. Sapeva che il gatto era uscito, l'aveva capito nel momento in cui aveva visto il piattino ancora colmo di latte sul portico che dava sul retro. Damon era seduto accanto, le mani intrecciate, le ginocchia strette, i gomiti puntati ai lati. Aveva freddo ma si era rifiutato di ammetterlo e Frank si era limitato a scompigliare i morbidi capelli scuri del figlio, a stringergli la spalla una volta, dopo di che era entrato a salutare sua moglie. E ora... ora camminava tra gli alberi di Oxrun Station, cercando un animale che aveva visto soltanto una volta... un siamese bastardo con il muso bianco come il latte, fischiettando come un pazzo per paura del buio e sperando di trovare l'intonazione che avrebbe richiamato l'animale in fuga. E, camminando, si ricordò con disagio della notte di un anno prima quando aveva bevuto troppi drink alla festa di qualcuno e aveva mormorato troppe paroline dolci all'orecchio di qualcuno e si era ritrovato all'angolo di una strada con una donna che conosceva vagamente. Si erano baciati a lungo e, quando si erano staccati, lui si era voltato e aveva visto Damon che lo fissava. Il ragazzo era corso via e Frank era rimasto fuori quasi tutta
la notte, non sapendo che cosa fosse venuta a sapere Susan e, cosa più importante, temendo ciò che poteva avere pensato Damon. Era stato orribile affrontare di nuovo il ragazzo, ma Damon si era comportato come se nulla fosse accaduto; e con il trascorrere dei mesi il senso di colpa era passato assieme alla domanda: "Che cosa ci faceva fuori a quell'ora, mio figlio?" Fischiettò. Si accovacciò accanto a un cespuglio buio e fece schioccare le dita. Poi si raddrizzò e trasse un respiro profondo. Non c'era nessun gatto, non c'erano macchine e, alla fine, sentendosi i piedi indolenziti, rinunciò e si diresse verso casa. Velocemente. Guardando la nebbia che si infittiva sulla strada alle sue spalle. "Non è giusto" pensò, affondando le mani in tasca e stringendosi nelle spalle come se si aspettasse di essere colpito. Damon, ad appena otto anni, aveva già perso due cani, un canarino colpito da una malattia di cui non sapeva neppure pronunciare il nome e due fratelli nati morti... stava per diventare un problema. Stava per diventare un problema Damon che si ribellava ogni giorno che doveva andare a scuola, che gemeva e piangeva quando si avvicinavano le vacanze e si progettava di fare un viaggio. Frank si era consultato col dottor Simpson quando Damon aveva compiuto sette anni. Dipendenza, si era sentito dire; attaccamento alle tre uniche cose che a Damon erano rimaste nella vita... la sua breve vita... che lui considerava durature: la casa, la madre... e Frank. E Frank aveva baciato una donna all'angolo di una strada e Damon l'aveva visto. Rabbrividì e scosse velocemente la testa, ricordando come il ragazzo si era avvicinato all'ufficio almeno una volta al giorno nelle tre settimane successive, senza dire nulla, fermandosi semplicemente sul marciapiede e sbirciando dentro dalla finestra. Solo per un momento. Quel tanto che bastava per assicurarsi che suo padre fosse ancora lì. Tornato a casa, Frank si tolse il cappotto e lo appese all'attaccapanni di fronte alla porta. Chiamò, ricevette una risposta soffocata e salì i gradini della scala a due a due, correndo lungo il corridoio per raggiungere la stanza di Damon che si trovava al di là della cucina. «Mi dispiace, figliolo» disse, scrollando le spalle, e si sedette sul bordo del letto. «Credo che il gatto se ne sia tornato a casa sua.» Damon, piccolo sotto la trapunta a fiori, lo sguardo innocente nascosto dietro le lunghe ciglia, scosse la testa con decisione. «No» ribatté. «Questa è la sua casa. È questa, papà, lo è davvero.»
Frank si grattò la nuca. «Be', credo che lui non la pensasse così.» «Forse si è perso, eh? È terribilmente buio là fuori. Forse ha paura di uscire dal suo nascondiglio.» «Un gatto non ha mai...» Frank si fermò non appena vide l'espressione del piccolo viso del bambino. Poi annuì e fece un pietoso sorriso. «Be', forse hai ragione, figliolo. Forse la nebbia l'ha confuso.» Damon gli cercò la mano e lui gliela strinse pensando che il bambino era troppo magro, al punto che la testa sembrava sproporzionata. «Domani mattina» promise. «Domani mattina. Se non torna entro stanotte, mi prenderò un giorno di libertà e andremo a cercarlo insieme.» Damon annuì con aria solenne, ritrasse la mano e si tirò la coperta fin sotto il mento. «Quando torna a casa la mamma?» «Tra poco. È venerdì, lo sai. Il venerdì fa sempre tardi... e il sabato.» E anche la domenica e il martedì pensò Frank. Damon annuì di nuovo. E mentre il padre raggiungeva la porta e spegneva la luce, chiese: «Papà, canta bene la mamma?» «Come un usignolo, figliolo» rispose Frank, con un sorriso. «Ti voglio bene, papà» mormorò il bambino, al buio. Frank deglutì a fatica e fece segno di sì con la testa prima di accorgersi che il figlio non poteva vederlo. «Be', figliolo, ti voglio bene anch'io. Ora sarà meglio che riposi un po'.» «Pensavo che ti fossi perso nella nebbia.» Sul punto di chiudere la porta, Frank si fermò. Forse avrebbe fatto bene a riposare un po' anche lui, pensò. Quelle parole risuonavano come una minaccia. «Non io» disse infine. «Tu verresti sempre a cercarmi, vero?» «Vero, papà.» Frank sorrise, chiuse la porta e vagò per la piccola casa per quasi un'ora prima di ritrovarsi in cucina, agitando le mani lungo i fianchi alla ricerca di qualcosa da fare. Il caffè. No. Ne aveva bevuto anche troppo. Ma la camminata l'aveva infreddolito fino alle ossa. Un latte caldo, forse. Aprì il frigorifero, vi guardò dentro, poi estrasse una bottiglia e versò metà del suo contenuto in un padellino. Lo mise sul gas, intingendo di tanto in tanto un dito nel latte per controllare il calore. Stupido gatto pensò; dovrebbe esserci una legge che impedisca che una cosa del genere capiti a un bambino che non ha mai fatto del male a nessuno. Si riempì un bicchiere e sorrise perché non ne versò neppure una goccia, ma si rifiutò di voltarsi a guardare l'orologio; fissò invece le fiamme men-
tre finiva di bere il secondo bicchiere, chiedendosi che cosa avrebbe provato se avesse messo un dito sul fuoco. Aveva letto da qualche parte... pensava di avere letto da qualche parte che il punto azzurro vicino al centro era quello caldo e che il resto non bruciava tanto. Fece per allungare la mano ma cambiò idea, non volendo rischiare una bruciatura per qualcosa che aveva solo pensato di avere letto; del resto, decise mentre si dirigeva verso il soggiorno, visto come andavano le cose di quei tempi, probabilmente avrebbe scoperto che era tutto il contrario. Si sedette sulla poltrona accanto alla televisione, prese una rivista dal portagiornali e aveva appena trovato il sommario quando udì sbattere la portiera di un'auto nel vialetto. Attese, sollevò la testa e sorrise quando la porta d'ingresso si aprì e Susan entrò di corsa. Gli lanciò un bacio da lontano, disse: «Arrivo tra un momento» e sparì su per le scale. Susan era molto più piccola di lui, aveva i capelli neri che le arrivavano alla vita e che le svolazzavano attorno. Aveva preso per anni lezioni di canto e quando si erano trasferiti a Station... Damon aveva cinque anni allora... aveva trovato un lavoro come cantante al Chancellor Inn. Canzoni popolari, canzoni d'amore, motivi lenti, canzoni sconce; era piaciuta tanto che le avevano chiesto di fermarsi fin dalla prima sera, ma iniziava troppo tardi, ragione per cui Damon non l'aveva mai sentita. E negli ultimi sei mesi, le due sere alla settimana erano diventate quattro e Frank si era abituato a occuparsi della cena. Quando lei tornò, si era tolta il trucco e indossava una luccicante vestaglia verde. Si sedette sul divano di fronte al marito e si massaggiò le ginocchia, le cosce e le braccia. «Se quel verme d'un batterista prova di nuovo a pizzicarmi, giuro che lo castro». «Non è certo un'espressione che si addice a una signora» commentò lui, sorridendo. «Se non fai attenzione, sarò costretto a punirti. Trenta frustate.» Come ai vecchi tempi... proprio come ai vecchi tempi, pensò... Ma, ai vecchi tempi, Susan si sarebbe messa a ridere e avrebbe preso parte allo scherzo, andando avanti per un'ora buona. Ultimamente, invece, quella sera compresa, lei si limitava ad aggrottare la fronte come se avesse a che fare con un bambino sciocco. Frank ignorò quell'espressione e l'ascoltò parlare in modo particolareggiato della serata, dei clienti, dei complimenti, dell'aumento che aveva chiesto per potersi comperare una macchina tutta sua. «Non ti serve una macchina» osservò lui.
«Ma non sei stanco di tornare a casa a piedi, tutte le sere?» Frank chiuse la rivista e la lasciò cadere sul pavimento. «Gli avvocati, cara, fanno una vita sedentaria. Ne approfitto per fare un po' di esercizio». «Se tu non lavorassi fino a così tardi per quelle tue maledettissime cause» disse lei, senza guardarlo «e venissi a letto a un'ora decente, ti farei fare io tutto l'esercizio di cui hai bisogno.» Frank guardò l'orologio. Erano quasi le due. «Il gatto è fuggito.» «Oh no» fece lei. «Ora capisco perché hai un'aria così stanca. Sei andato a cercarlo?» Frank annuì e lei si rannicchiò meglio sul divano. «E Damon?» chiese. «Era già a letto quando sono tornato.» Susan non disse altro, abbassò la testa e si guardò le unghie. Frank la osservò attentamente, passando dai capelli che le coprivano il viso al leggero strabismo che gli diceva che le lenti a contatto erano ancora sulla toilette. E capì che lei stava pensando: «Hai portato Damon con te?» E anche lui, Frank, si stava chiedendo se Damon l'avesse seguito. Come la sera di nebbia, quando l'aveva trovato con la donna; come le volte in cui andava in ufficio; come le dozzine di occasioni in cui il bambino appariva in cortile, nel parco mentre Frank consumava il pranzo sotto un albero, nei pressi della casa di un amico, la sera tardi, dicendo che aveva avuto un incubo e che la baby sitter non l'aveva coccolato. Damon: come un'ombra. Come una coscienza. «Hai intenzione di prendere un altro gatto?» Lui sbatté le palpebre. «Quel gatto stupido. Gliene comprerai uno nuovo?» Frank scosse la testa. «Abbiamo avuto troppa sfortuna con gli animali. Non credo che il bambino ne vorrebbe un altro.» Lei si alzò di scatto dal divano e gli si piazzò davanti, le mani sui fianchi, le labbra strette, gli occhi socchiusi. «A te non importa niente di lui, vero?» «Che cosa?» «Ti segue come un cagnolino perché ha paura di perderti e tu non gli compri neppure un animaletto o qualcosa del genere. Sei cambiato, Frank, lo sei davvero. Mi do da fare nel tentativo di aiutare...» «Il mio stipendio è più che sufficiente» la interruppe lui. «... questa famiglia e tu cerchi anche di convincermi a piantane il lavoro.»
Frank si alzò a sua volta, sfiorando col petto quello della moglie. «Senti» disse, a denti stretti «non m'importa niente se fai cantare il tuo cuore milioni di volte la settimana, signora, ma quando questo comincerà a interferire con i tuoi doveri qui...» «I miei doveri?» «... Allora sì, farò tutto il possibile per assicurarmi che tu rimanda a casa quando dovresti esserci.» «Stai alzando la voce. Sveglierai Damon.» L'argomento era familiare, e vecchio, come pure la rabbia che gli irrigidiva i muscoli. Ma questa volta lei non si fermò. Continuò e continuò e lui non si rese neppure conto quando sollevò la mano e la schiaffeggiò. Susan indietreggiò di un passo, si voltò e corse fuori, poi si bloccò. Damon era fermo ai piedi della scala. Si stava succhiando il pollice. Fissava suo padre. «Va a letto, figliolo» disse con calma Frank. «Va tutto bene.» Durante la settimana che seguì, in casa regnò una tensione tale che la si sarebbe potuta tagliare col coltello. Damon stava alzato finché poteva, seduto accanto al padre a guardare insieme la televisione o a leggere i suoi libri preferiti. Susan gli restava vicina ma senza toccarlo, canticchiando tra sé e giocando col figlio quando lui... solo per un momento ... si staccava dal padre, ogni volta, tuttavia, il suo sorriso era più tirato, la sua risata più forzata, e Frank notò che Damon si limitava a tollerarla, niente di più. La cosa lo sorprese. Era stato lui a colpire la moglie, non il contrario, e la lealtà del bambino sarebbe dovuta andare alla madre. Ma non era così. Ed era evidente che Susan se la prendeva ogni giorno di più per quella situazione. Ogni ora. Ogni volta che Damon si avvicinava in silenzio al padre, gli metteva un braccio attorno alla vita, o lo prendeva per mano o gli infilava la sua nella tasca dei pantaloni. Cominciò a farsi vedere di nuovo nei pressi dell'ufficio finché un pomeriggio Susan non fermò l'auto accanto al marciapiede, scese e, afferrato il ragazzo per un braccio, non lo trascinò via per farlo salire sul sedile posteriore. Frank si alzò dalla scrivania, uscì dalla porta e prese a battere sul finestrino finché Susan non lo abbassò. «Che cosa diavolo stai facendo?» mormorò lui, lanciando un'occhiata al figlio. «Tu mi hai colpita o te ne sei forse dimenticato?» ribatté lei. «E mio figlio non mi vuole più bene.»
«Questo è un discorso da avvocati, Susan» commentò lui, raddrizzandosi. «Non qui. Non di fronte al bambino.» Frank indietreggiò velocemente quando l'auto schizzò via, tornò alla sua scrivania e si sedette, stringendosi il mento con una mano, lo sguardo fisso alla finestra mentre il pomeriggio avanzava e cominciava a cadere una pioggerellina. La sua segretaria mormorò qualcosa a proposito di una causa in tribunale fissata per il mattino successivo. Frank annuì e lei lo guardò, poi prese borsetta e impermeabile e se andò in fretta e furia. Frank continuò ad annuire, senza accorgersene, cercando di capire che cosa avesse fatto, che cosa avessero fatto entrambi per arrivare a un punto del genere. L'ambizione, certo. Un conflitto generazionale nel corso del quale le donne erano donne di casa e avevano anche una propria carriera... e gli uomini cercavano di adattarsi quando non potevano avere tutte e due le cose. Ma io ho provato si disse... o pensava di averlo fatto, finché i piatti non avevano cominciato ad accumularsi, la polvere a restare sui mobili e Damon non aveva chiesto: «Canta bene, la mamma?» Sono sempre i bambini a soffrire pensò con rabbia. Ed era ancora di quel parere ai primi di dicembre quando i documenti della separazione erano pronti e lui, in piedi sul portico, guardava la sua macchina, sua moglie e suo figlio allontanarsi da Oxrun Station sud, diretti verso la città. Il viso di Damon era incorniciato nel finestrino posteriore, il naso appiattito contro il vetro, i capelli schiacciati sulla fronte. Il bambino agitò la mano e Frank rispose. Ti voglio bene, papà. Frank si passò una mano sotto il naso e tornò in casa, si diede alla ricerca di qualche bottiglia di liquore ma, non trovandone, andò a letto dove rimase a fissare i mostri che la luce della luna disegnava sulle tendine. «Papà» aveva detto il bambino «devo proprio andare con la mamma?» «Temo di sì. Il giudice.. be', lui sa che cos'è meglio fare, che tu ci creda o no, lui sa che cosa è meglio fare adesso. Non preoccuparti, figliolo. Ti rivedrò a Natale. Non sarà per sempre.» «Non mi piace, papà. Fuggirò.» «No! Farai ciò che tua madre ti dirà di fare, capito? Comportati bene e va a scuola tutti i giorni. Io... ti telefonerò ogni volta che potrò.» «La città non mi piace, papà. Voglio rimanere qui.» Frank non aveva detto niente. «È per via della signora, vero?»
Frank aveva guardato il bambino ma Susan, china su una valigia che si era aperta e che non voleva richiudersi, si era voltata. «Che cosa dici?» aveva detto aspramente Frank. «Ho detto» aveva spiegato Damon, facendo finta di niente, «che tu non dovevi farlo.» Quando Susan si era raddrizzata, aveva un sorriso grottesco sul viso. E quando se n'erano andati, Damon aveva detto: «Ti voglio bene, papà». Frank si svegliò presto, si preparò la colazione e si fermò presso la porta che dava sul retro a guardare il cortile. C'era di nuovo la nebbia: niente d'insolito in inverno per il Connecticut. Ma mentre sorseggiava il caffè pensando a com'era diventata grande la casa, grande e vuota, vide qualcosa muoversi dietro il ciliegio. C'era la nebbia ma lui ne era sicuro... Aprì la porta e gridò: «Damon!» La nebbia si fece più fitta e lui scosse la testa. «Calma, ragazzo» si disse. «Non crollare.» Giorni. Notti. Telefonava regolarmente a Susan, due volte la settimana, come stabilito. Ma quando Natale arrivò e se ne andò, lei diventò meno loquace e il bambino più imbronciato. «Prende dei bei voti, Frank, io gli bado.» «Ha un aspetto orribile.» «È leggermente dimagrito, tutto qui. Prende facilmente il raffreddore. Gli ci vorrà un po' per abituarsi alla città, Frank.» «Non gli piace la città.» «È la sua casa. Gli piacerà.» A metà gennaio, Susan non rispose al telefono e, disperato, lui alla fine telefonò a scuola e gli fu detto che Damon era ricoverato in ospedale da quasi una settimana. L'infermiera pensava che si trattasse di una polmonite. Quando Frank arrivò, quella sera, la sala d'attesa era piena di sciarpe e cappotti, mormorii, gemiti e colpi di tosse soffocati. Susan era in piedi accanto alla finestra e guardava le luci della strada più fredde delle stelle. Non si voltò quando lo sentì, non rispose quando lui le domandò perché non l'avesse informato. Frank la prese per una spalla e la costrinse a voltarsi: gli occhi della donna erano vacui, il viso rosso per il freddo. «D'accordo» disse lei. «D'accordo, Frank. Non volevo che tu lo turbassi».
«Di che diavolo stai parlando?» «Ti avrebbe visto e avrebbe desiderato tornare a Oxrun.» Susan strinse gli occhi. «Questa è casa sua, Frank! Deve imparare a viverci.» «Chiamerò l'avvocato.» Lei sorrise. «Fallo. Fallo pure, Frank.» Lui non ebbe bisogno di farlo. Poco dopo, vide Damon ma non poté fermarsi più di un minuto. Il bambino si trovava in un ambiente scarsamente illuminato ed era quasi invisibile, troppo magro per sembrare reale sotto la tenda di plastica con quei tubi e il monitor... «Troppo fragile» disse il medico «troppo fragile per troppo tempo» e Frank ricordò il giorno, sul portico, con il piattino di latte, quando aveva pensato la stessa cosa. Quando tornò, dopo il funerale, la rabbia era scomparsa. Aveva accusato Susan di omicidio, sapendo al tempo stesso di dire una sciocchezza, ma l'accusa l'aveva fatto sentire meglio. Si era scusato e, per il momento, era stato perdonato. Era sceso dal treno, aveva pianto, aveva fatto un respiro profondo e deciso di continuare a vivere. Il giorno dopo, tornò in ufficio, ammucchiò diverse cartelline sulla scrivania e vi si nascose dietro per la maggior parte della mattinata. Sollevò la testa soltanto una volta, quando la sua segretaria cercò di spiegargli il caso di un nuovo cliente, e, alle sue spalle, lui vide la forma indistinta del figlio che sbirciava dalla finestra. «Damon» mormorò e corse fuori, sul marciapiede. La nebbia incombeva bianca sulla strada e Frank non vedeva niente, neppure una macchina, neppure la luce gialla intermittente al vicino incrocio. Subito dopo pranzo, telefonò a Susan e rimase a fissare la cornetta quando non ottenne nessuna risposta. Allora riattaccò, pensieroso. «È pallido» osservò la sua segretaria. Poi, indicando la scrivania con una matita, aggiunse: «Ha già sbrigato il lavoro di tutta la giornata. Perché non va a casa e non si distende? Posso chiudere io, non mi dispiace farlo.» Lui sorrise, si voltò quando lei gli porse il cappotto, le sfiorò una guancia... e si sentì gelare. Damon era alla finestra. «No» si disse Frank... e Damon era scomparso. Rimase a casa due giorni, tornò al lavoro e si dedicò con animo battagliero a un testamento approvato da un giudice a dir poco senile, tanto per definirlo in modo caritatevole. Tentò di nuovo di telefonare a Susan e di nuovo nessuno rispose.
E Damon non lo lasciava mai in pace. Con la nebbia, la pioggia, le nubi e il vento... lui era là, accanto alla finestra, vicino al ciliegio, nell'angolo più buio del portico. Frank sapeva che si trattava del suo senso di colpa per non avere lottato abbastanza per avere il figlio con sé; pensava che, se l'avesse fatto, Damon forse sarebbe stato ancora vivo; vedeva il suo viso ovunque e si accusava, dicendosi che se il bambino l'aveva amato, perché lui non l'aveva ricambiato in uguale misura? Alla fine di febbraio, decise che era ora di fare una visita amichevole a un amico professionista, un medico che aveva lo studio nello stesso palazzo. Non era solo per le facce che vedeva... si era in qualche modo abituato a loro e pensava che col tempo sarebbero scomparse... ma quel mattino accanto al ciliegio, sul terreno ricoperto di neve, aveva trovato le impronte di un bambino. Quando portò il dottore in cortile per mostrargliele, le impronte erano scomparse. «Hai ragione, Frank, ti senti in colpa. Ma non per il ragazzo in se stesso. La legge e la maggior parte dei giudici sono chiari in proposito... non potevi aspettarti di tenere con te un bambino di quell'età. Ti tormenti ancora per quella donna che hai baciato e per il fatto che Damon ti ha visto, e perché sei convinto che avresti potuto salvargli la vita, nonostante non fossero in grado di farlo i medici; e, infine, perché non sei stato capace di dargli degli animali, come quel gatto. Ma niente di tutto questo è colpa tua, davvero. È una cosa spiacevole che tu devi affrontare. Ora.» Pur non sentendosi affatto meglio, Frank apprezzò la calma che lo invase quando, finita la chiacchierata, salutò l'amico medico. Lavorò duramente per il resto della giornata, per il resto della settimana, ma capì che non era il senso di colpa, né la sua immaginazione e che non si trattava di qualcosa che il medico avrebbe potuto spiegare quando, il sabato mattina, aprendo la porta trovò disteso sopra il giornale il siamese dal muso bianco. Morto. Col collo spezzato. Si voltò e corse nel bagno che si trovava a pianterreno dove si inginocchiò accanto alla tazza e vomitò la colazione. Le lacrime erano acide, i singhiozzi colpi per i polmoni e per lo stomaco e quando si fu infine ripreso, capì che cosa stava accadendo. Il dottore, la segretaria e persino sua moglie... si sbagliavano tutti. Non era il senso di colpa. Era soltanto... Damon.
Un bambino con grandi occhi scuri che amava suo padre. Che lo amava a tal punto da non lasciarlo mai. Che lo amava tanto da volersi accertare, assolutamente accertare, che lui non fosse mai solo. Sei stato un cattivo bambino, papà. Frank si alzò, andò in cucina e si appoggiò alla porta che dava sul retro. C'era una figura accanto al ciliegio, scura e senza forma, ma lui sapeva che era inutile precipitarsi fuori. La figura sarebbe svanita. Non ti è mai piaciuto quel gatto, papà. O i cani. O la mamma. Il telefono squillò. Lui impiegò qualche istante per raggiungerlo, lo fissò a lungo, poi sollevò la cornetta. Riusciva a vedere benissimo nel corridoio e in cucina. Non aveva acceso la luce sopra il telefono e, di conseguenza, vedeva attraverso i vetri della porta posteriore che dava sul cortile. L'aria fuori era carica di neve. Grigia. Quasi priva di vita. «Frank? Frank? Sono Susan. Ho pensato... a te e a me... e a ciò che è accaduto. Lui aveva gli occhi fissi alla porta. «Ormai è fatta, Sue. È fatta.» «Frank, non so che cosa sia successo. In tutta onestà, ho provato, ho davvero provato. Prendeva voti bellissimi a scuola, aveva molti amici... gli ho persino comperato un cagnolino, un barboncino, due settimane prima che... Non so che cosa sia successo, Frank! Mi sono svegliata, questa mattina, e di colpo mi sono sentita maledettamente sola. Frank, ho avuto paura. Posso... posso tornare a casa?» Il grigio si fece più cupo. C'era un'ombra sul portico, molto più lunga dell'ombra nel cortile. «No» rispose lui. «Non faceva che pensare a te» disse Susan, la voce quasi isterica. «Ha cercato di fuggire, una volta, per tornare da te.» L'ombra riempì il vetro, le finestre da tutte e due le parti e all'improvviso si udirono delle scariche nella cornetta e la voce di Susan svanì. Frank lasciò cadere il ricevitore e si voltò. Di fronte. Ombre. Udì la caldaia ronzare, ma la casa stava diventando fredda. La luce della lampada in soggiorno tremò, si spense, brillò forte per un istante, poi la lampadina scoppiò. Si era... sbagliato. Dio, si era sbagliato! Damon... Damon non lo amava.
Non lo amava da quella notte sull'angolo, nella nebbia; non lo amava da quella notte in cui lui non aveva cercato seriamente di trovare un gatto con un muso bianco come il latte. Damon sapeva. E Damon non lo amava. Si lasciò cadere sulle mani e sulle ginocchia e cercò nell'oscurità la cornetta, la trovò e quasi la lanciò via quando la fredda plastica minacciò di bruciargli le dita. «Susan!» gridò. «Susan, maledizione, mi senti?» Un cattivo bambino, papà. Udì una scarica, ma pensò che fosse sua moglie che piangeva al vento. «Susan... Susan, questa è una follia, non ho tempo per spiegarti, ma devi aiutarmi. Devi fare qualcosa per me.» Papà. «Susan, ti prego... tornerà, so che tornerà. Non chiedermi come ma lo so! Ascolta, devi fare qualcosa per me. Susan, maledizione, mi senti?» Papà, sono... «Per amore del cielo, Susan, se viene Damon, digli che mi dispiace!» ...a casa. Titolo originale: If Damon Comes Traduzione: Grazia Alineri Manly Wade Wellman Vandy, Vandy Manly Wade Wellman fu, negli anni trenta e negli anni quaranta, scrittore prolifico per riviste poco impegnate, la sua opera apparve sotto molti generi. Oggi è ricordato, soprattutto dalla rivista Weird Tales, per la parte horror dei suoi scritti e per una serie di racconti horror a carattere regionale pubblicati negli anni cinquanta su The Magazine of Fantasy and Science Fiction (assieme a quelli di Shirley Jackson, Matheson, Sturgeon e della maggior parte degli altri maestri di quel decennio). Conosciute come storie e novelle di Silver John, questi racconti soprannaturali di un itinerante (John) con la chitarra dalle corde d'argento (Silver) sono ricche di folclore e di ambienti degli Stati Uniti del sud John incontra tutta tutta una serie di demoni soprannaturali ma forse il più tipico, e una delle creature meglio riuscite di Wellman, è lo stregone storico di Vandy, Vandy. I rac-
conti migliori di Wellman sono raccolti in Worse Things Waiting (1973) e in Who Fears the Devil? (1963). Quella valle non aveva nome. La gente di fuori, che lo sapeva, diceva Laggiù, e quella dentro Qui. Il carro della posta lasciava qualche lettera nella cavità di un albero nei pressi di un ciinale dove il sentiero prima saliva e poi scendeva. Tre, quattro volte l'anno, degli uomini con la barba, con vestiti e scarpe fatte in casa, portavano ai commercianti le loro mercanzie... perlopiù, piatti e pentole d'argilla... da vendere ai turisti. Ricevevano in cambio caffè, sale, polvere da sparo e chiodi. Roba del genere. Mi toccò camminare per una giornata intera lungo il sentiero che portava al crinale; lo giuro, anche con le mie gambe lunghe e con la mia chitarra dalle corde d'argento come unico bagaglio. C'erano dei vecchi alberi, fitti e grossi, che non erano mai stati tagliati, né per farne legna, né per disboscare la terra. Trovai un corso d'acqua, mi dissetai e lo seguii. Al tramonto, sentii della musica e puntai nella direzione dalla quale arrivava. Il fuoco ardeva davanti alla porta aperta di un casotto e alcune persone sedevano su un tronco curvo e su delle rocce antistanti. Uno aveva un banjo, un altro suonava il violino e il resto di loro battevano le mani mentre un ragazzino di dieci o undici anni ballava la giga. Poi mi scorsero e si fermarono. Mi guardarono, ma non mi conoscevano. «Era proprio bello, signore e signori» dissi, avanzando, ma nessuno fece osservazioni. Un vecchio con la barba lunga, una bretella e senza scarpe teneva il violino sul ginocchio. Dedussi che quello era il nonno. Quello col banjo, più giovane e con la barba più corta, poteva essere suo figlio. C'erano una vecchia madre magra, la moglie del figlio, grassa, una ragazza con i capelli biondi e quel nipotino che ballava. «Che cosa possiamo fare per voi, giovane signore?» domandò il vecchio. Non che sembrasse in grado di fare qualcosa... la gente di montagna lo dice anche all'uomo di governo che viene a cercare un po' di pace dalle loro parti. «Beh» risposi «cerco un posto dove dormire.» «C'è tanto terreno su cui sdraiarsi giù nella valle» disse l'uomo con il banjo. Provai di nuovo. «Vi ho sentiti suonare la prima parte di Fuoco sulle montagne.» «Ci sono due parti?» fece il ragazzino prima che qualcuno potesse zittir-
lo. «Certo, figliolo» dissi. «Ti suonerò la seconda.» Il vecchio aprì la bocca come per dire «aspetta finché non te lo chiedo io» ma io strimpellai con la mia chitarra la seconda parte come meglio potei. Poi suonai anche la prima e l'uomo con la barba corta disse: «Certo è che la sapete usare. Suonate di nuovo.» Suonai di nuovo. Quando arrivai alla seconda parte, il violino e il banjo si unirono a me. Eseguimmo un'altra volta Fuoco sulle montagne e le donne batterono le mani e il bambino ballò. Alla fine, il vecchio mi fece un cenno con la testa. «Sedetevi su quella roccia» disse. «Come possiamo chiamarvi?» «Il mio nome è John» dissi. «Io sono Tewk Millen. Mamma, ho capito che John è uno stanco che viene da fuori. Forse berrebbe volentieri un po' di acqua fresca.» «Stiamo per metterci a tavola» mi disse la vecchia donna. «Abbiamo soltanto della carne affumicata e dei fagioli, ma siete il benvenuto.» «Sono onorato, signora Millen» dissi. «Ma non vorrei recarvi disturbo.» «Nessun disturbo» disse il signor Tewk Millen. «Permettetemi di farvi conoscere mio figlio Heber e sua moglie Jill e questo è il loro bambino, Calder.» «Lieti di fare la vostra conoscenza, John» dissero gli interessati. «E mia figlia Vandy» concluse il signor Tewk. Guardai i suoi capelli biondi come seta colore del grano e i suoi occhi viola. «Signorina Vandy» dissi con un cenno cortese della testa. Sorrise, timida. «So che è un nome raro, signor John. Non l'ho mai udito da nessuna parte, solo tra la mia gente.» «Io sì» spiegai. «Ed è questo che mi hai portato qui.» Il signor Tewk Millen parve stupito sopra quei suoi baffi. «Pensavo che foste un giovane straniero.» «Ho udito questo nome lontano da qui, in una canzone, signore. Qualcuno ha detto che qui conoscono la canzone. Sono un cantante, cerco canzoni e vado ovunque mi sia possibile trovare una bella canzone.» Mi guardai attorno. «Voi conoscete la canzone di Vandy?» «Sì, signore» rispose il piccolo Calder, ma gli altri rimasero per un momento zitti. Il signor Tewk sbriciolò una foglia di tabacco nella pipa. «Calder» disse «va' dentro e portami un pezzo di legno da accendere. John, siete sicuro di non avere mai conosciuto mia figlia Vandy?» «Sicurissimo» replicai. «Ma immagino che qualsiasi giovane potrebbe
fare una lunga strada per venire a conoscerla.» Lei si fissò le mani strette in grembo. «Abbiamo imparato la canzone da papà» mormorò, «e lui l'ha imparata da suo padre.» «E mio padre l'ha imparata dal suo» concluse per lei il signor Tewk. «So che è una canzone di molti anni fa.» «Mi farebbe piacere sentirla» dissi. «E dopo che l'avrà imparata a sua volta, che cosa ne farà?» domandò il signor Tewk. «Me ne tornerò dalle mie parti e la canterò» risposi. Gli fece piacere sentirmelo dire. «Heber» disse al figlio, «tu comincia, io ti seguirò col violino e Calder e Vandy canteranno per John.» Suonarono una volta il motivo, senza parole. Le note uscivano malinconiche in quello che la gente istruita chiamava tono minore. Ma altra gente, ancora più istruita, dice che tali motivi escono strani e malinconici perché nei tempi antichi si usava una scala musicale diversa dal do-re-mi-fa di oggi. Il piccolo Calder cantò con voce acuta e giovane, ma forte: Vandy, Vandy, sono venuto a corteggiarti, Che tu sia ricca oppure povera, E se vorrai gentilmente intrattenermi, Ti amerò per sempre. Vandy, Vandy, ho oro e argento, Vandy, Vandy, ho casa e terra, Vandy, Vandy, ho un mondo di piacere, Potrei essere un bell'uomo... Così cantò la parte del corteggiatore e Vandy rispose, dolce come un usignolo: Amo un uomo che è nell'esercito, Nell'esercito da sette lunghi anni, E se ci rimarrà per altri sette, Non corteggerò nessun altro. Che m'importa del tuo oro e argento, Che m'importa di...
Si fermò e lo stesso fecero il violino e il banjo e fu come l'improvvisa morte di ogni suono. Le foglie non frusciarono più sugli alberi e il fuoco non crepitò nel camino, dentro. Guardarono tutti con le bocche dischiuse verso il punto in cui qualcuno era fermo con le mani intrecciate sul pomello d'oro di un bastone nero e aveva un angolo della bocca piegato in un sorriso. Forse era arrivato lungo il corso d'acqua, forse era sceso da un albero come un opossum. Era agile e snello, con una lunga giacca abbottonata fin sotto il mento appuntito e dei pantaloni marroni infilati negli stivali come quelli che portavano i nostri nonni. Le mani sul bastone sembravano magre e forti. Il viso, sorriso a parte, si sarebbe potuto definire bello. I capelli scuri erano ricci come il pelo di un bufalo e gli occhi erano di un grigio lucente come un coltello nuovo. Ci guardò tutti a uno a uno a uno e scoppiò in una lenta e morbida risata. «Pensavo di fermarmi» disse in tono sommesso, «sempre che non abbia scelto il momento sbagliato.» «Oh, no, signore!» disse il signor Tewk, alzandosi velocemente, a piedi scalzi, il violino in mano. «No, signor Loden, siamo orgogliosi di avervi qui» aggiunse con voce rauca, come un gallo preso per una zampa. «Sedetevi, signore, mettetevi comodo.» Il signor Loden si sedette sulla pietra dalla quale si era alzato il signor Tewk, il quale andò a mettersi sul tronco ricurvo, accanto a sua moglie, nervoso come un ragazzino sorpreso a rubare le mele. «Vostro servo, signora Millen» disse il signor Loden. «Heber, avete un bell'aspetto e così pure vostra moglie. Calder, ti ho portato dei canditi.» La sua mano scarna offrì un bastoncino rosso e giallo. Voi pensereste che un bambino di campagna l'avrebbe mangiato, ma Calder lo prese lentamente, spaventato come se si trattasse di un serpente velenoso. E l'avrebbe rifiutato se avesse soltanto avuto il coraggio di farlo, ma non osò. «Per voi, signor Tewk» continuò il signor Loden. «Vi ho portato un po' del mio tabacco, un'eccellente miscela.» Estrasse un sacchetto di morbido cuoio marrone. «Svuotate la pipa e rimpitela con questo.» «Vi ringrazio per la vostra cortesia» disse il signor Tewk, sospirando, e cominciò a fare ciò che gli era stato ordinato. «Signorina Vandy.» La voce del signor Loden aveva pronunciato il nome con amore. «Non sarei venuto fin qui senza sperare che avreste accettato una sciocchezza da parte mia.» Pendeva da una catena, una cosa d'oro grossa come l'unghia rosa del suo
pollice. Incastonato, c'era un gioiello bianco che divenne rosso al chiarore del fuoco. «Fatemi l'onore, signorina Vandy, di portarlo sul cuore, dove io possa invidiarlo.» Lei prese la catena e si sedette tenendola tra le piccole mani. Gli occhi a lama del signor Loden si posarono su di me. «E ora veniamo allo straniero che avete accolto all'interno dei vostri confini» disse. «Veniamo a me» dissi, posando la chitarra sulle ginocchia. «Mi chiamo John, signore.» «Da dove venite, John?» Aveva assunto all'improvviso un tono fiero, da avvocato in tribunale. «Da un luogo inesistente», risposi. «Il che significa da un luogo qualsiasi» volle spiegare. «Che cosa fate?» «Giro. Cerco, trovo e canto canzoni. Mi faccio gli affari miei e mi piacciono le buone maniere.» «Touché!» esclamò lui in una lingua straniera. Sorrise di nuovo con l'angolo della bocca. «Vi chiedo scusa, John, se le maniere di campagna possono sembrare rudi a uno che viaggia per il mondo. Non volevo essere offensivo.» «Non lo siete stato» ribattei e non aggiunsi che le maniere di campagna sono spesso più gentili di quelle di città. «Signor Loden» s'intromise di nuovo il signor Tewk. «Mi prendo la libertà di offrirvi parte delle povere razioni che la mia vecchia donna ha fatto per noi...» «Sono sufficienti per il miglior essere vivente» lo interruppe il signor Loden. «Aiuterò la signora Millen a prepararle. Dopo di voi, signora.» Lei entrò e lui la seguì. E fece ciò che aveva detto. «Signorina Vandy» chiamò da sopra la spalla. «Forse potreste dare una mano.» Anche lei entrò. Tintinnarono piatti. Oltre la soglia, vidi il signor Loden che lasciava cadere un pizzico di polvere nella casseruola. Gli uomini sedevano fuori e non dicevano niente. Erano come inchiodati e con delle pietre in bocca. Mi chiesi che cosa potesse avere reso così timorosa di un ospite una orgogliosa e onorevole famiglia di montagna come quella e capii che non si trattava di una cosa naturale. Doveva essere qualcosa che andava al di là della natura e del mondo. Fu il piccolo Calder che a un certo punto disse: «Forse, finiremo la can-
zone più tardi» la sua voce, prima squillante, ora era debole. «Ho imparato un'altra canzone da queste parti» annunciai. «Parla di una moglie bella e fiorente.» Quelle bocche chiuse si aprirono di scatto, poi si richiusero. Toccando le corde d'argento, cominciai: C'era una moglie bella e fiorente, E aveva tre bambini, Li mandò a scuola al nord Per imparare la grammatica. Ma gli uomini del re arrivarono in quella scuola, E quando ebbero finito con la spada e la corda Dei tre bambini che lei aveva mandato, Gliene ritornò soltanto uno... «La zuppa è pronta» disse la signora Millen da dentro. Entrammo nella stanza dove c'era un tavolo apparecchiato con una tovaglia pulita tessuta in casa e dei piatti di terracotta. Il signor Loden, accanto alle pentole sul fuoco, indicò alla signora Millen e a Vandy di scodellare il cibo. Non era carne affumicata e fagioli ciò che vidi nel mio piatto. Qualunque cosa fosse, non era quello. Tutti guardarono le loro razioni di cibo, ma neppure Calder cominciò a mangiare finché il signor Loden non si fu seduto. «Diamine» disse il signor Loden «si direbbe che abbiate paura di essere avvelenati.» Allora il signor Tewk infilò la forchetta in un pezzo di cibo e se la portò alla bocca. Calder lo imitò e così fecero gli altri. Mangiai anch'io un boccone; era davvero buono. «Permettetemi di rendere onore alla vostra cucina, signore» dissi al signor Loden. «Ha qualcosa di magico.» I suoi occhi si posarono su di me, dopodiché scoppiò in una risata breve e secca. «Stavate cantando la canzone della moglie fiorente, John» disse. «Aveva tre bambini che mandò al nord a studiare grammatica. Sapete che cos'è la grammatica?» «La grammatica» intervenne Calder. «L'esatto modo di parlare.»
«Buono» lo zittì suo padre. «Certo» replicai. «Ho sentito dire, signor Loden, che la grammatica è roba da stregoni, con scienza e potere. Quella scuola al nord poteva trovarsi soltanto in un luogo. «Quale luogo, John?» sibilò lui a denti stretti. «Una città yankee del Massachussets chiamata Salem. Circa trecento anni fa...» «Non così tanto tempo fa» mi corresse il signor Loden. «Nel 1692, John.» Tutti avevano gli occhi fissi sui loro piatti fumanti. «Un predicatore di nome Cotton Mather scoprì che insegnavano la stregoneria ai bambini» continuai. «Ho sentito dire che uccisero venti persone, per la maggior parte quelle sbagliate, ma due o tre erano sicuramente degli stregoni.» «George Burroughs» citò il signor Loden, come se parlasse a se stesso. «Martha Carrier. E Birdget Bishop. Quelli erano i veri stregoni. Ma altri fuggirono lontano, al sicuro; tra loro, uno dei tre bambini. Qualcuno dovette a quel bambino le giovani vite perse dei suoi due fratelli, John.» «Mi viene in mente un'altra cosa» dissi. «I giovani si spaventano quando sentono la storia. Quel bambino visse cent'anni e suo figlio lo stesso e il figlio del figlip pure. Forse è per questo che pensavo che la scuola di stregoneria di Salem risalisse a trecento anni fa.» «Non così tanto, John» ripeté il signor Loden. «Anche ammesso che quel bambino avesse l'età di Calder, sarebbero trascorsi soltanto duecentottant'anni o giù di lì...» E parve sfidare chiunque della famiglia del signor Twek Millen a parlare o anche solo a respirare, e nessuno accettò la sfida. «Ai trecento mancherebbero soltanto vent'anni» conclusi. «Si possono fare molte cose in vent'anni, signor Loden.» «È la pura verità» disse lui, le lame degli occhi fisse sul viso di Vandy. Poi si alzò e fece un inchino. «Vi ringrazio per la vostra ospitalità. Tornerò, se potrò.» «Sì, signore» si affrettò a dire il signor Tewk... ma il signor Loden guardava Vandy e aspettava. «Sì, signore» disse lei, come se stesse soffocando. Lui prese il bastone col pomo d'oro e mi guardò. Io allora feci una cosa scortese, ma purtroppo fu l'unica che mi venne in mente. «Non mi sembra giusto, signora Millen, non pagare per ciò che mi avete dato» disse, alzandomi. Estrassi dalla tasca un quarto di dollaro d'argento e lo lasciai cadere sul tavolo, proprio di fronte al signor Loden.
«Mettetelo via!» squittì lui, come un pipistrello, e veloce come un pipistrello uscì dalla casa. Gli altri lo seguirono. Fuori era caduta la sera e l'oscurità circondava il casotto. Il signor Tewk si schiarì la gola: «Voglio sperare, John, che volendolo, sappiate essere più educato» osservò. «Non accettiamo denaro da chiunque divida la nostra tavola. Riprendetevi quel quarto di dollaro.» «Sì, signore. Vi chiedo scusa.» Misi via la moneta e mi sentii meglio. Avevo fatto quel gesto un'altra volta, spaventando a morte un certo signor Onselm, una specie di stregone. Dunque, anche il signor Loden era uno stregone e poteva essere spaventato allo stesso modo. Mi rendo conto d'essere stato un pazzo a pensare senza alcun buonsenso che sarebbe stato tanto facile. Uscii, lasciando la signora Millen e Vandy a lavare i piatti. Il fuoco m'indicò il tronco su cui sedere. Toccai le corde della mia chitarra e cominciai a intonare in sordina Vandy, Vandy. Dopo un po', Calder si sedette al mio fianco e cantò le parole. Mi piaceva soprattutto l'ultima strofa: Svegliati! Svegliati! Sta albeggiando. Svegliati! Svegliati! È quasi giorno. Apri le porte e le finestre diverse, Guarda il mio vero amore che si allontana marciando... «Signor John» disse Calder «non ho mai ben capito che cosa sono le finestre diverse.» «Si riferisce ai vecchi tempi» risposi. «Allora c'erano altri tipi di finestre. Un'altra cosa che prova che questa è una vecchia canzone. Un uomo che è rimasto sette anni nell'esercito dev'essere andato alla prima guerra con gli inglesi. Durò più a lungo qui, nel sud, che negli altri posti... dal 1775 al 1782. Quanti anni hai, Calder?» «Quasi dieci.» «Grande per la tua età. Un bambino con i tuoi anni nel 1692 sarebbe stato centenario se fosse vissuto fino al 1782, quando la guerra inglese era quasi finita e qualcuno si era fatto ben sette anni nell'esercito.» «L'esercito di Washington» precisò Calder. «Di Re Washington.» «Re chi?» domandai. «Il signor Loden lo chiama Re Washington... l'uomo che ha mandato all'inferno i soldati inglesi e governa in una città con il suo nome.»
Ecco cosa pensavano in quella valle. Non dissi che Washington non era un re ma un presidente e che era morto e sepolto quando il suo lavoro fu concluso e il suo paese al sicuro. Continuai a pensare a qualcuno che aveva cent'anni nel 1782 e che cercava di corteggiare una ragazza il cui vero amore aveva marciato per sette anni nell'esercito, «Calder» dissi «la canzone Vandy, Vandy parla della tua gente?» Lui guardò nel casotto. Nessuno ascoltava. Toccai una corda d'argento e lui rispose: «L'ho sentito dire, signor John». Misi una mano sulle corde per farle tacere e lui continuò: «Penso che anche voi abbiate sentito qualcosa in proposito. Quel bambino stregone che visse cent'anni... era venuto a corteggiare una ragazza di nome Vandy, ma lei era una brava ragazza.» «Capita che gente cattiva cerchi di corteggiare gente brava» dissi. «Lei non lo volle, nonostante la terra e il denaro. E quando lui la costrinse, l'uomo soldato tornò a casa e nella mano aveva il congedo firmato da Re Washington. Era libero dall'esercito. Era Hosea Tewk, mio nonno. E la madre di mio nonno era Vandy Tewk e mia sorella è Vandy Millen.» «E l'uomo stregone che aveva cent'anni?» Calder si guardò di nuovo attorno. Poi disse: «So che si prese qualche altra ragazza che gli diede un figlio e pensiamo che il figlio si sia sposato a cent'anni e che suo figlio sia il signor Loden, nipote del primo stregone.» «La madre di tua nonna, Vandy Tewk... quanti anni avrebbe, Calder?» «È morta e sepolta, ma era nata il primo anno in cui suo padre andò a combattere contro gli yankee.» Milleottocentosessantuno. Nel 1882, fine del secondo centenario, lei era in età da corteggiamento. «E sposò un Millen» dissi. «Sì, signore. Nonostante che anche allora ci fosse un signor Loden che la corteggiava. Ma lei sposò il signor Washington Millen. Quello è stato il mio bisnonno. Non aveva paura di niente. Era come Re Washington.» Toccai una corda d'argento. «Dunque, nessuno stregone ebbe la prima Vandy» riassunsi. «E neppure la seconda Vandy.» «Ma c'è uno stregone che vuole questa Vandy» disse Calder e proseguì sospirando: «Signor John, vorrei tanto che voi gliela portaste via.» Mi alzai. «Di' ai tuoi che sono andato a fare una passeggiata nella notte.» «Non dal signor Loden.» Il suo viso era pallido. «Non vi lascerebbe tornare.» La notte era più che nera, era solida. Niente rumori. Niente vita. Non dirò che non avrei potuto camminare, solo non lo feci. Mi sedetti di nuovo. Il
signor Tewk pronunciò il mio nome, poi Vandy. Sedemmo davanti al casotto a parlare del tempo e dei raccolti. Io mi trovavo tra Vandy e Calder. Cantammo... Sogno Vero, mi richiesero Il Soldato Ribelle. Vandy cantava con la voce più dolce che avessi mai udito, ma mentre suonavo sentivo qualcuno che ascoltava nell'oscurità. Se fosse accaduto su Yandro Mountain e npn nella valle, avrei temuto che Chi-stadietro mi strisciasse alle spalle o che Piatto mi finisse sotto i piedi. Ma gli occhi viola di Vandy mi guardavano felici e le sue labbra rosa sorridevano. Alla fine, Vandy e la signora Millen augurarono la buonanotte e si ritirarono in una stanza che dava sul retro del casotto. Heber, sua moglie e Calder salirono in soffitta. Il signor Tewk si offrì di prepararmi un pagliericcio accanto al fuoco. «Dormirò sulla porta» gli dissi. Lui guardò me, poi la porta. «Fate come volete» rispose. Mi tolsi le scarpe, recitai una preghiera e mi distesi sulla coperta che lui mi aveva dato. Ma quando ormai gli altri dovevano dormire da diverso tempo, mi misi in ascolto. Qualche ora dopo, arrivò il suono. Il fuoco era soltanto brace, una tenue luce rossa all'interno del casotto quando udii la risata bassa. Il signor Loden si chinò su di me, sulla soglia. «Non vi permetterò di entrare» gli dissi. «Oh, siete sveglio. Gli altri dormono, per mio volere, e voi non potete muovervi, non più di loro.» Era vero. Non riuscivo a mettermi seduto. Forse ero stato asciugato nell'argilla, come una rana o una lucertola che devono aspettare la pioggia. «Legato» disse sopra di me. «Legato, legato. A meno che non sappiate contare le stelle o le gocce dell'oceano, siete legato.» Era una formula magica. «Da L'amico perso tanto tempo fa?» domandai. «Albertus Magnus. Il libro che dicono abbia scritto.» «Ho visto il libro.» «Resterete dove siete fino all'alba. Poi...» Tentai di alzarmi. Inutile. «Lo vedete questo?» Me lo mise davanti al mio viso. Era un mio ritratto che mi raffigurava com'ero. Lui aveva il dono del disegno. «All'alba, lo colpirò con questo.» Posò il ritratto sul terreno. Poi sollevò il bastone con il pomo d'oro. Svitò l'impugnatura e dall'interno sfilò una lama di ferro, sottile e spregevole come una serpe. Recava un'iscrizione incisa, ma non riuscii a leggerla nel-
l'oscurità. «Toccherò con la mia punta il vostro ritratto» disse. «Allora non v'importerà più niente di Vandy e di me. Avrei già dovuto farlo a Hosea Tewk.» «A Hosea Tewk o a Washington Millen.» dissi. La punta della lama si mosse davanti ai miei occhi. «Non pronunciate quel nome, John.» «Washington Millen» ripetei. «Chiamato così in omaggio a George Washington. Odiaste Washington quando lo conosceste?» Lui tirò un lungo respiro e fu come se pioggia fredda mi cadesse addosso. «Siete giunto a conclusioni alle quali non sono giunte queste persone, John.» «Ho concluso che non siete nipote di stregone, bensì figlio di strega» dissi. «Fuggiste dalla scuola di Salem nel 1692. Vivete da circa trecento anni e quando saranno trascorsi be'... sapete benissimo dove andrete a bruciare per sempre.» La lama si posò sulla mia gola, come una vespa su una pesca matura. Poi lui la ritrasse. «No» disse tra sé. «I Millen capirebbero che sono stato io a uccidervi. Lasciamo che pensino che siete morto nel sonno.» «Conosceste Washington» ripetei. «Forse....» «Forse gli offrii il mio aiuto e lui fu così folle da rifiutarlo. Forse...» «Forse Washington vi scacciò» lo interruppi «e vinse la sua guerra senza la vostra stegoneria. E forse questo fu un male per voi perché colui che vi aveva concesso trecento anni si aspettava di essere ripagato... cuori buoni che si trasformavano in cuori cattivi. Poi tentaste di prendervi Vandy, la prima Vandy.» «Un po' per me» canticchiò lui «ma soprattutto per...» «Soprattutto per colui che vi concesse i trecento anni» finii io per lui. Stringevo e gonfiavo i muscoli nel tentativo di liberarmi da ciò che mi bloccava. A quella stregua, avrei potuto tentare di penetrare la roccia. «Vandy» mormorò il signor Loden. «La terza Vandy, la più dolce, la migliore. È come una giornata di primavera e una notte d'estate. Quando la vedo con un secchio a primavera o un cesto in giardino, i miei occhi nuotano, John. È come se vedessi camminare uno spirito.» «Uno spirito buono» dissi. «Vi rimane poco tempo. Volete rubarla alle belle maniere per darla in pasto alle cattive.» «La sua voce è simile a quella di un'allodola» continuò lui con aria affascinata, abbassando la lama. «È come il vento su un cespuglio di rose e di
viole. È come la luce delle stelle che diventa' musica.» «E voi volete portarla all'inferno.» dissi. «Forse non andremo all'inferno e neppure in paradiso. Forse vivremo e vivremo. Perché non dite qualcosa in proposito, John?» «Ci sto pensando» risposi ed era vero. Cercavo di ricordare ciò che dovevo ricordare. Il signor Loden aveva citato la terza parte del libro di Albertus Magnus, la terza parte piena di nomi vuoti che lui sicuramente non aveva mai letto. Io avevo letto quel libro, come gli avevo detto. Se le parole mi fossero tornate in mente... Qualcosa me ne mandò una parte. «La croce della mia mano destra» recitai troppo sommessamente perché lui potesse sentirmi «che io possa attraversare la terra aperta...» «Forse più di trecento anni» disse il signor Loden. «Senza nessuno come Hosea Tewk o Washington Millen o voi, John, che ci fermi. Trecento anni con Vandy e lei saprà le cose che so io, farà le cose che faccio io.» Ero riuscito ad accavallare l'indice destro sul medio e a formare una croce nella mano destra. Recitai altre parole che mi tornavano in mente: «... perciò che io sia libero e benedetto, come il calice e il pane benedetto...» Ora la mano sinistra poteva strisciare lungo il fianco fino alla mia cintura. Ma non riusciva ancora a sollevarsi perché non ricordavo il resto dell'incantesimo. «La notte è nera prima dell'alba» stava dicendo il signor Loden. «Accenderò il mio fuoco. Quando avrò fatto ciò che devo potrò camminare sul vostro corpo morto e Vandy sarà mia.» «Non avete paura di Washington?» domandai. Le dita della mano sinistra erano intanto entrate nella mia tasca. «Può tornare dal luogo in cui è andato? Dubito. Washington ha dimenticato me e il nostro antico dissidio.» «Dov'è, si ricorda di voi» dissi. Il signor Loden si mise in ginocchio. Con la punta della lama tracciò un cerchio attorno a sé, sul terreno. Il cerchio racchiudeva lui e il foglio con il mio ritratto. Poi estrasse un sacchettino dalla giacca e versò della polvere lungo il cerchio tracciato. Si alzò e un fuoco dorato gli divampò attorno. «Cominciamo» annunciò. Agitò nell'aria la lama. Posò la punta dello stivale sul mio ritratto. Guardò il fuoco dorato. «Ho già espresso la mia volontà prima di questo» recitò. «La esprimo
ora. Non c'è stato giorno in cui non abbia visto la mia volontà esaudirsi.» I suoi occhi erano più chiari del fuoco che ardeva. «Nessun figlio segua John. Nessuna figlia lo pianga.» Le dita nella mia tasca toccarono qualcosa di rotondo e sottile. Il quarto di dollaro che l'aveva spaventato, che il signor Tewk Millen mi aveva fatto riprendere. Il signor Loden pronunciò nomi che non mi piaceva udire. «Haade» disse. «Mikaded. Rakeben. Rika. Tasarith. Modeka.» La mia mano si racchiuse attorno alla moneta. «Verità» invocò il signor Loden. «Tumch. Qui, con questa immagine, io uccido...» Sollevai la mano sinistra di tre pollici e feci volare la moneta. Provai un terribile dolore al cuore perché la moneta non colpì il signor Loden... cadde nel fuoco... Poi, da un punto salì del fumo bianco, simile al vapore che esce da una caldaia, e il fuoco si spense. Il signor Loden smise di invocare e vacillò all'indietro. Vidi il bagliore dei suoi occhi stralunati e della sua bocca aperta. Da dove era scaturito il fumo si stava formando un'immagine. Più alta di un uomo. Più alta del signor Loden o di me. Le spalle ampie, le gambe lunghe, con una giacca scura con le code, gli stivali alti e i capelli legati dietro la testa. Si voltò e vidi il viso coraggioso, il grosso naso... «Re Washington!» gridò il signor Loden e tentò di trafiggerlo con la lama. Ma la lunga mano simile a una pinza gli afferrò il polso e udii le ossa sbriciolarsi come arbusti secchi e il signor Loden che nitriva come un cavallo gravemente ferito. Quella era la stretta dell'uomo che era stato il più forte d'America, che poteva fare un balzo di ventiquattro piedi o lanciare un dollaro al di là del fiume Rappahannock o battere il più grande o grosso dei suoi soldati. Si levo l'altra mano, piatta e rigida, pronta a colpire. Fece il rumore di una porta che sbatteva al vento e il signor Loden non ebbe bisogno di essere colpito una seconda volta. Rovesciò la testa e quando la stretta s'allentò sul suo polso rotto cadde ai piedi ricoperti dagli stivali. Mi misi a sedere e mi alzai. Il grosso naso si voltò verso di me, soltanto per un secondo. La testa annuì. Amichevolmente. Poi sparì nel vapore, nel nulla. Avevo detto la verità. Dal suo luogo, George Washington si era ricordato del signor Loden. E la moneta d'argento, con la sua immagine impressa,
aveva colpito il fuoco proprio nel momento in cui il signor Loden richiamava un'immagine che lui stesso stava rendendo reale. E poi era accaduto ciò che era accaduto. Una striatura pallida squarciò il cielo nero per l'alba ormai prossima. Il fuoco era spento e della moneta era rimasta soltanto una goccia d'argento fuso. E il signor Loden non c'era, c'era soltanto un mucchietto ammuffito simile a un tronco marcio o a della terra o a ciò che poteva forse essere rimasto di un uomo che la morte aveva preso con sé dopo duecento anni. Raccolsi la lama di ferro, la spezzai sul mio ginocchio e la lanciai lontano, tra gli alberi. Poi presi il foglio col mio ritratto. Non era rovinato neppure un po' e mi assomigliava molto. Lo misi all'interno della porta, sulla coperta su cui mi ero sdraiato. Forse i Millen l'avrebbero tenuto in ricordo di me, dopo che avessero scoperto che me n'ero andato e che il signor Loden non sarebbe venuto mai più a corteggiare Vandy. Infine, m'incamminai, con la mia chitarra. Mantenendo una buona andatura, sarei uscito dalla valle con la luna alta. Mentre andavo, udii un rumore di pentole. Qualcuno si era svegliato nel casotto. E fu difficile, difficile per me non voltarmi quando Vandy cantò per se stessa, senza pensare nemmeno a che cosa stesse cantando: Svegliati, svegliati! Albeggia. Svegliati, svegliati! È quasi giorno. Apri le porte e le finestre diverse, Guarda il mio vero amore che si allontana marciando... Titolo originale: Vandy, Vandy Traduzione: Grazia Alineri Parte II LO SGUARDO DELLA MEDUSA... Robert Aickman Le spade Una particolare caratteristica di Aickman è l'uso della metafora psicologica. Egli non ricorre alla mostruosità bensì al fantastico per ottenere gli effetti desiderati; come in questo The Swords (Le spade), una storia d'iniziazione sessuale maschile in cui ciò che è palese diviene assurdo e
surreale grazie proprio al linguaggio. L'effetto creato è particolarmente potente, complesso e devastante, e di un umorismo oscuro portando la consapevolezza del lettore ben oltre il personaggio. L'opera di Aickman può essere definita simbolista. Un buon racconto di fantasmi traduce in parole e simboli quegli enormi settori della nostra mente che noi non siamo in grado di distinguere direttamente ma che ci governano completamente ebbe a dire Aickman. Egli definì le proprie opere storie strane, un termine generico che si riferisce a qualcosa di simile all'unheimlich, freudiano. Tutto l'insieme dei racconti scritti da Aickman esprime una visione coerente, scrisse il critico Gary Crawford. L'uomo è prigioniero di un vortice di terrore sottile e simbolico, vittima di forze nel proprio interno sulle quali non esercita alcun controllo. Si può aggiungere a questo che anche la realtà esterna è decisamente strana e letteralmente, se non simbolicamente, incontrollabile. Secondo Russel Kirk, Aickman è il più grande tra tutti gli scrittori nel campo del mistero; mentre Fritz Leiber lo definì un meteorologo dell'inconscio. Corazòn malherido Por cinco espadas La mia prima volta? La mia prima volta è stata una dura prova; dura più di qualsiasi altra che dovetti affrontare poi nello stesso campo. Ho notato che spesso è proprio ai principianti che succedono le cose strane, e talvolta mi viene da pensare che esse accadano esclusivamente a loro. Se conosci una cosa, se la conosci davvero, ebbene in essa non c'è più nulla di strano. Incluso questo genere di cose. Dopo le prime sei, o diciamo sette o otto donne, le altre sono quasi tutte uguali. Ero proprio un principiante, immaturo come una cipolla in primavera. Perdipiù, ero ancora attaccato alle gonne della mamma terrorizzato della vita e di un'ignoranza crassa: senza volere mancare di rispetto alla mia vecchia madre, una tra le migliori in circolazione e con la quale mi trovo meglio che con gran parte delle altre donne. Mia madre aveva un fratello, lo zio Elias. Devo specificare che sembra che siamo tutti discendenti di una delle grandi famiglie della ceramica, ma non so quanto questo sia vero. La nonna aveva dei pezzetti di coccio per dimostrarlo, ma è sempre difficile essere sicuri di queste cose. Quando mio padre morì in un incidente, mia madre chiese allo zio Elias di prendermi a
lavorare con sé. Vendeva articoli di drogheria all'ingrosso, ma su piccola scala, e solo le linee a buon mercato. Egli disse che dovevo cominciare facendo il commesso viaggiatore. Mia madre era molto scossa perché mio padre era morto in un incidente di macchina e perché pensava che di sicuro sarei stato moralmente in pericolo; ma non poté far nulla, e partii. Per quanto riguardava il pericolo morale aveva visto bene, ma io ero troppo semplice e impaurito per farmi coinvolgere. Fino a quando potei, mi tenni alla larga anche dagli altri ragazzi che incontravo e che erano in strada come me. Ero abbastanza sicuro che avrebbero esercitato su di me un influsso negativo, e comunque finiva sempre che ero il più giovane del gruppo. Come venditore non valevo una cicca, e poi ero terribilmente solo, non solo per modo di dire, ma proprio triste e solo. Odiavo quella vita, ma lo zio Elias aveva promesso che mi avrebbe sistemato bene e non mi veniva in mente nient'altro che potessi o sapessi fare. Continuai a fare il commesso viaggiatore per più di due anni, e poi sentii del mio lavoro attuale, o meglio, lessi un annuncio sul quotidiano locale; così potei finalmente dire allo zio Elias che cosa doveva farsene dei suoi articoli da quattro soldi. In genere ci fermavamo nei piccoli alberghi, e alcuni non erano poi neanche tanto male, sia la stanza che il cibo, ma in alcune città lo zio Elias conosceva dei posti dove costringeva me e il suo venditore abituale, un tipo triste di nome Bantock, a fermarci. Fino a tutt'oggi non so perché. All'epoca ero sicuro che lo zio avesse qualche tornaconto personale, cosa abbastanza ovvia da supporre, ma in seguito mi sono chiesto se magari le donnine che mandavano avanti queste pensioni non potessero essere state amanti dello zio in un passato più o meno lontano. Almeno una volta chiesi spiegazioni in proposito a Bantock, che però si limitò a dirmi che non sapeva. C'era molto poco che Bantock ammettesse di sapere, a parte i prezzi di mercato del sapone in scaglie e del whisky. Era stato venditore per lo zio per 42 anni, quando un giorno a Rochdale una trombosi lo lasciò secco. Per certo la signora Bantock era stata una delle amanti di mio zio a periodi alterni per diversi anni: questo se non lo sapeva il povero Bantock lo sapevano tutti. Comunque, le tenutarie delle pensioni si comportavano in modo da avallare i miei sospetti. Forse non avete mai visto né siete mai stati in posti di quel genere. Rumori per tutta la notte impediscono di dormire decentemente, spesso sgualdrine mezze svestite bussavano alla porta gridando di essere state imbrogliate o prese per il collo. Alcuni dei viaggiatori si portavano in stanza perfino dei ragazzi, una cosa che non sono mai riuscito a
capire. In merito, si legge e si sente, spesso l'ho visto io stesso, come ho già detto, cionondimeno non lo capisco. E io ero lì, in mezzo a tutto questo, puro ed immacolato. Le donne che gestivano le pensioni non di rado mi prendevano in giro. Non sapevo come se la cavasse il vecchio Bantock. Non mi trovai mai in uno di questi posti assieme a lui. Ma la cosa buffa è che mia madre pensava che in queste pensioni io fossi particolarmente al sicuro perché erano tutte raccomandate da suo fratello, un uomo, a suo dire, che certo aveva a cuore la morale mia e di Bantock, nonché la recìproca virtù. Naturalmente questo era vero solo in alcuni giorni. Ed era sempre vero quando mi trovavo da solo. Notai che Bantock mi aveva insegnato diverse cose inerenti il lavoro e introdotto presso alcuni clienti soltanto quando ci trovavamo in città nelle quali fosse possibile alloggiare in alberghi normali. Evidentemente anche l'ottimo Bantock si vedeva costretto a frequentare quei posti particolari quando se ne presentava la necessità, proprio come dovevo fare io quando non c'era altro alloggio economicamente praticabile. Una delle città in cui c'era una delle pensioni raccomandate dallo zio era Wolverhampton. Io vi andai per la prima volta quando lavoravo da quattro o cinque mesi. Non era affatto il primo di quei posti in cui andassi, ma proprio per questo mi sentii mancare il cuore quando vidi la pensione e scoprii che era gestita dalla solita donnaccia con gli occhi cisposi, con i bigodini in testa e un grembiule sporco addosso. Non c'era proprio niente da fare. Non c'era neanche un salottino dove sedersi per guardare la tivù. Certo, potevo uscire e ubriacarmi o portarmi in stanza una donna dopo il cinema. Ma nessuna di queste idee mi attirava molto, e finii per girovagare senza meta per la città. Doveva essere tarda primavera o l'inizio dell'estate, perché nell'aria c'era un tepore piacevole e non faceva eccessivamente caldo, e poi non era ancora buio dopo cena (mi portò a mangiare in una tavola calda perché dove alloggiavo non era prevista la cena). Stavo passeggiando per le strade di Wolverhampton, e tutte le ragazze ridacchiavano alle mie spalle, o almeno così a me sembrava, quando mi ritrovai in una specie di piccolo parco dei divertimenti. Non conoscendo affatto la città ero finito in una zona diroccata vicino al vecchio canale. Le strade principali erano abbastanza larghe, ma erano state costruite per il traffico durante il giorno e portavano alle varie fabbriche e agli scali ferroviari, e a quell'ora erano estremamente tranquille e deserte, a parte qualche
autocarro ogni tanto e i bambini che giocavano a qualche angolo di strada. Le strette strade che si dipartivano dalle vie principali erano costeggiate da casette, molte di esse erano abbandonate, con i vetri rotti, o le finestre chiuse da assi e i tetti sfondati. Volevo tornare sui miei passi, ma il rumore che proveniva dai baracconi m'incuriosì; non erano canzonette moderne riprodotte da altoparlanti, né il ritmo martellante dei vecchi organetti a vapore, somigliava più a un forte scampanellio che in un certo senso si accordava bene con la serata tiepida e il crepuscolo rosato. Inizialmente non capii da dove venisse quel suono, ma non avevo proprio nient'altro da fare, così mi misi a cercare nelle strade deserte fino a quando trovai una risposta alla mia curiosità. Era proprio una minuscola fiera; solo una mezza dozzina di bancarelle, un paio di ragazzini che lanciavano anelli o sparavano con fucili giocattolo e due o tre banchetti coperti; nel centro c'era una piccola giostra. Da lì veniva quello scampanellio. La giostra era anche bella a vedersi, con la regina delle nevi, il centro sembrava spolverato di zucchero a velo; tutt'attorno c'eran slitte di diversi colori col posto giusto per due persone, e ognuna, ricordo, aveva una luce colorata che pendeva in alto dalla punta. In mezzo c'era una bellissima ragazza bionda vestita più o meno da Pierrette. Bellissima ripeto... o forse bella ... o.. Comunque in quel momento a me parve molto carina. Aveva il compito di incassare i soldi dalla gente che saliva sulle slitte: non c'era sulla giostra nessuno. Neanche una persona. Inevitabilmente quella ragazza sola in mezzo a una giostra deserta mi colpì. Mi sentii solo come un guardiano notturno solo e... e siccome i guardiani notturni non vanno sulle giostre, non di notte, le voltai le spalle. Mai avrei avuto il coraggio di chiedere alla ragazza di venire su una slitta con me, e comunque credo che non ne avrebbe avuto il permesso. A meno che la giostra non fosse sua. Il parco giochi era stato montato in una zona libera unicamente perché le case che un tempo vi si trovavano erano state demolite oppure erano semplicemente crollate. Alte mura spoglie di fabbriche torreggiavano su due lati, e il terreno era così sconnesso e irregolare che si aveva l'impressione di camminare sugli scogli in riva al mare. Nulla sembrava permanente di quella fiera. Era una di quelle cose che oggi ci sono e domani no. Non mi sarei sorpreso se avessi saputo che erano sprovvisti di un regolare permesso per stare lì. Dubitavo fortemente che avessero preso accordi sull'occupazione del terreno. Subito pensai che la vita doveva essere dura per i gestori di banchetti e per gli ambulanti in genere. Si capiva perché le fiere
fossero talmente diminuite di numero rispetto ai tempi di mia nonna, che raccontava sempre degli splendidi baracconi e dei circhi che era abituata a vedere da bambina. Gli unici clienti lì erano quasi tutti ragazzi, anche se i ragazzi al giorno d'oggi sono i soli che hanno soldi da spendere in posti simili. Questi ragazzi si fermavano soprattutto presso un minuscolo banchetto dove una donna dall'aspetto trasandato vendeva gelato e mele caramellate. Pensavo che sarebbe stato molto più semplice ed economicamente più produttivo per i gestori del circo concentrarsi su banchetti come quello e badare al lato gastronomico senza pretendere di offrire alla gente divertimenti che è ormai condizionata a trovare in casa propria davanti alla tv. Ma probabilmente quella sera ero malinconico. I baracconi erano belli e di vecchio stile, ma non si poteva proprio dire che mettessero allegria. La ragazza della giostra mi poteva ancora vedere, anzi, ero certo che mi stesse guardando con aria di rimprovero e forse addirittura con disprezzo. Data la geografia del luogo, lei si trovava proprio nel centro di tutto ed era impossibile per me sottrarmi alla sua vista. Me ne sarei semplicemente andato di nascosto anche perché la gente dei banchetti stava cominciando a chiamarmi a gran voce dato che ero praticamente l'unica persona adulta nei paraggi, quando scorsi un tendone che si trovava all'estremità più remota, dove le alte mura della fabbrica formavano un angolo. Era un tendone quadrato di tela molto sudicia a righe bianche e rosse, e sopra il lembo stropicciato che copriva l'entrata era appeso un cartello orizzontale di forma irregolare dipinto di scuro e sopra, a caratteri maiuscoli di color oro pallido, c'era scritto LE SPADE. Non si vedeva altro. Ormai era quasi buio e fuori dalla tenda non c'era alcuna luce, né si vedeva trasparire luce dall'interno. Si sarebbe potuto pensare che fosse una specie di mostra itinerante coperta. Non so perché allungai la mano e toccai il lembo che fungeva da porta. Sono sicuro che non avrei mai avuto il coraggio di spostarlo e spiare nell'interno. Ma quel tocco fu sufficiente. Il lembo venne spostato immediatamente e comparve un giovane che mi fece un cenno di lato con il capo come per invitarmi a entrare. Mi resi subito conto che era in corso uno spettacolo di qualche genere. Non volevo assistervi, ma pensai che avrei fatto proprio la figura dell'imbecille se fossi scappato correndo tra i baracconi della fiera. «Due sacchi» disse il giovane lasciando cadere il lercio lembo di tela e tenendo l'altra mano parimenti lercia. Aveva addosso un maglione verde tanto rattoppato per quant'era bucato, pantaloni grigi lerci, e scarpe di tela
anche più sudice. La sensazione di sporcizia era tale, appena messo piede sotto quel tendone, che tutto sommato sarei effettivamente fuggito se solo avessi ritenuto possibile la cosa. Non avevo notato un lordume simile negli altri baracconi. Ad ogni modo, era escluso che io potessi fuggire. C'era così poca gente all'interno. Sparpagliate sul terreno nudo e sconnesso cosparso di mattoni e cocci di vetro 20 o 30 sedie di legno che parevano tutte spaiate, per lo più rotte o difettose per un motivo o per l'altro, tutte scrostate e stinte. Distribuito su queste sedie rigide c'era un pubblico di sette persone. So che erano sette, perché fu facile contarle e perché presto la cosa sarebbe stata importante. Io ero l'ottavo. Ognuno era da solo, e erano tutti uomini: questa volta proprio uomini non ragazzi. Credo che io fossi il più giovane di tutti, e di gran lunga. Lo spettacolo era di un genere che non avevo mai visto prima né ho mai visto in seguito. E neanche ne ho letto o sentito parlare. C'era una specie di basso palco di legno scuro e stinto in fondo al tendone, probabilmente addirittura contro i muri della fabbrica. Su di esso c'era un uomo atticciato che parlava in modo piuttosto rude. Aveva i capelli molto ricci e biondi, del colore di una limonata da quattro soldi, ma già verso il grigio, e una grande faccia rossa con un naso largo e schiacciato e labbra rosse molto scure. Aveva occhi e orecchie molto piccoli. Le orecchie non sembravano proprio parallele... se capite che cosa intendo. Non era un granché da vedere, ma mi parve molto forte e probabilmente avrebbe potuto battersi con una mano sola con ognuno di quelli che si trovavano sotto il tendone e uscire di gran lunga vincitore. Non avrei saputo dire quanti anni dimostrasse, né in quel momento né in seguito (sì, lo rividi, altre due volte). Immagino che fosse sui cinquanta, e anche se dava l'idea di non essere in ottime condizioni, certo aveva più muscoli di quanti la gente ne ha normalmente. Era vestito come il ragazzo alla porta, eccetto il maglione, che non era verde ma blu scuro, come se fosse un uomo di mare o fingesse di esserlo. Anch'egli portava pantaloni grigi lerci e scarpe sporche come il giovane. Si sarebbe potuto pensare che quello fosse un baraccone per incontri di pugilato. Ma non lo era. A sinistra dell'uomo (e proprio davanti a dove mi ero seduto, al margine, nell'ultima fila) c'era una ragazza, rivolta verso di noi, stravaccata su una sdraio di tela stinta e rovinata come tutto il resto. Era vestita come una ballerina francese, con un indumento attillato nero e lucido, scollato, calze a rete nere, e un paio di quelle scarpe nere di vernice,
con tacchi vertiginosi che fanno impazzire tanti uomini. Però, nonostante tutto, non era particolarmente attraente. Ogni parte del suo costume aveva evidentemente visto tempi migliori, come tutto il resto, e la ragazza stessa sembrava più malaticcia che provocante. In altre circostanze, pensai tanto per cominciare, avrebbe potuto anche essere abbastanza carina, ma aveva scelto, o le era stata imposta per il trucco del viso, una cipria verde, i capelli, che portava stretti in una crocchia, come le ballerine di danza classica, non erano tanto brutti, quanto semplicemente privi di colore. Oltre a questo, era sdraiata, e non seduta sulla sedia, come se si sentisse male o stesse per svenire. Era certo che non stesse facendo assolutamente nulla per sedurre quegli uomini. Non che io desiderassi essere sedotto. Così almeno pensavo all'inizio. Davanti a lei, nell'angolo del podio, c'era una catasta di spade. Erano impilate ordinatamente come salatini al formaggio, su uno sgabello quadrato e nero, del tipo di quelli ornati e laccati che vengono prodotti a Sedgeley e Wednesfield e poi spacciati per giapponesi, solo che questo era privo di ornamenti e piuttosto scrostato. Dovevano esserci 30 o 40 spade, poiché la catasta aveva quattro angoli e su ognuno di essi si vedevano le else impilate diagonalmente una sull'altra. Mi venne in mente dopo che forse c'era una spada per ogni sedia, caso mai nel tendone si fosse registrato il tutto completo. Se non avessi letto il cartello all'esterno magari non mi sarei accorto che si trattava di spade, almeno non subito. Non luccicavano affatto, e non erano neanche decorative. Le lame erano tutte di un grigio spento, e le else erano di un materiale nero, forse addirittura plastica. Sembravano fatte in serie, di produzione industriale, e non riscivo a immaginare dove potessero averle trovate. Non erano fioretti da scherma, ma molto più solide, e a quei tempi le vere spade erano richieste soprattutto per scopi cerimoniali, e comunque sempre meno. Forse quelle spade erano state prodotte per il teatro, ma dubito anche di questo. In ogni caso erano spade nerastre e non sembravano affatto armi. Non so da quanto tempo fosse iniziato lo spettacolo quando entrai, né se l'uomo con il maglione da marinaio avesse dato qualche spiegazione. Una delle prime cose che gli sentii dire fu: «Allora, signori, chi vuole essere il primo?» Non ci furono movimenti né reazioni di alcun genere... e a benvedere, in genere, accade sempre così. «Coraggio, su» disse il marinaio in tono non tanto gentile. Pensai che
probabilmente era così abituato alla riluttanza dei suoi spettatori da non essere più disposto a trattarli educatamente. Non mi parve un uomo di molte parole, anche se sembrava che parlare fosse proprio il suo mestiere. Aveva un forte accento che poteva essere quello della Black Country, ma non ero in grado di dirlo con esattezza a quel punto della mia vita, visto anche che io stesso sono londinese. Non successe nulla. «Per che cosa credete di avere pagato?» gridò il marinaio: più aggressivo che sarcastico, pensai. «Ditecelo voi» disse uno degli uomini seduti sulle sedie. Casualmente era il più vicino a me, ma era più avanti. Non era una cosa molto furba da dire, e il marinaio ne approfittò: «Voi!» gridò puntando contro l'uomo che aveva tentato di metterlo in difficoltà un grosso dito indice rosso. «Venite qui, coraggio. Dobbiamo pure iniziare da qualcuno». L'uomo non si mosse. Il solo fatto di trovarmi vicino a lui mi mise in apprensione. Potevo essere scelto io, e non sapevo neanche che cosa si aspettassero da me, e se sarei stato adatto. Ma si offrì un volontario che salvò la situazione. All'altra estremità del tendone si era alzato un uomo. Disse: «Lo faccio io». L'unica fonte di luce era una lampada Tilley che continuava a sibilare (non mi sembrava una cosa molto sicura) appesa alla traversa del tendone, ciononostante alla luce di questa vidi che il volontario non era poi diverso da tutti gli altri spettatori. «Finalmente» disse il marinaio ancora alquanto brusco. «Venite, allora». Il volontario avanzò incespicando sul terreno sconnesso, passò dalla mia parte del podio, e si fermò proprio davanti alla ragazza. Che rimase immobile. Che aveva la testa rovesciata talmente indietro e era così lontana da dove mi trovavo io, che non riuscivo assolutamente a vederle gli occhi. Non avrei neanche potuto dire con esattezza se li avesse aperti o chiusi. «Prendete una spada» disse duramente il marinaio. Il volontario obbedì con fare piuttosto circospetto. Probabilmente era la prima volta che prendeva in mano un oggetto di quel genere e, ovviamente, sarebbe stata la prima volta anche per me se mi fossi trovato al posto suo. Il volontario rimase lì, con la spada in mano: sembrava proprio un allocco. La sua pelle aveva una colorazione grigia, alla luce della lampada Tilley, era molto magro, e non gli restavano in testa che pochi capelli. L'uomo di mare lo lasciò lì per qualche tempo, ... e a me parve una cru-
deltà gratuita dovuta forse al rancore che il marinaio doveva avere dentro di sé per il modo con il quale doveva guadagnarsi da vivere. E anche l'atmosfera nel tendone sudicio mi sembrò carica di tensione e disagio ma, evidentemente, era una sensazione soltanto mia visto che gli altri spettatori se ne stavano semplicemente stravaccati sulle loro sedie rigide con facce annoiate. Dopo un tempo relativamente lungo il marinaio, che era rimasto rivolto verso il pubblico e aveva parlato con il volontario senza guardarlo, fece un mezzo giro sui tacchi e, sempre senza guardare il volontario, disse con voce irata: «Che cosa state aspettando? Ce ne sono degli altri dopo di voi, anche se sono pochi». Sentito questo un altro spettatore iniziò a fischiare il motivo Why are we waiting?, Perché stiamo aspettando? Mi sembrava che ce l'avesse con l'uomo di mare o presentatore che fosse, più che con il volontario. «Forza» giidò il marinaio quasi con il tono di un istruttore militare. «Infilzatela!» E infine accadde, questa cosa straordinaria. Il volontario parve esitare per un attimo, quindi affondò la spada nella ragazza che stava sulla sdraio. Poiché lui stava tra lei e me non riuscii a vedere dove penetrò la spada, ma vidi che l'uomo sembrava averla infilata per bene, dato che la lama scomparve per tutta la sua lunghezza o quasi. Ciò su cui non nutrivo alcun dubbio era il rumore che la spada aveva fatto. La cosa curiosa è che siamo così adusi all'idea che la gente venga trafitta da spade che, sebbene ovviamente non avessi mai assistito a una scena simile, non nutrivo alcun dubbio su quello che l'uomo aveva fatto. Il rumore della spada che attraversava la carne era l'unica cosa che mi sarei aspettato. Invece fu molto diverso, superò addirittura il sibilo della lampada. E fu anche lungo. E orribile. Sentii che anche gli altri spettatori erano rimasti come sospesi in quell'istante ma, tuttora, riuscivo a vedere ben poco di quanto veramente era accaduto. «Tiratela fuori» disse l'uomo di mare con aria piuttosto indifferente, come se stesse parlando con un idiota. Ancora era voltato verso il volontario solo per metà e con gli occhi diritti davanti a sé. Non guardava nulla, manteneva semplicemente il controllo della situazione svolgendo il suo solito lavoro. Il volontario estrasse la spada. Nuovamente sentii quell'inconfondibile rumore.
Il volontario era ancora di fronte alla ragazza, ma la punta della spada poggiava sul podio. Non vedevo sangue. Pensai di avere interpretato la cosa in modo completamente erroneo, di essere stato ingannato come un bambino. Certamente si trattava di un qualche tipo di complotto o di un qualche trucco da baraccone. «Baciatela se volete» disse l'uomo di mare. «È incluso nel prezzo che avete pagato». E l'uomo la baciò, anche se lo vedevo solo di spalle. Con la spada che gli penzolava dalla mano si sporse avanti e si chinò. Ritengo che si sia trattato di un bacio lento e dolce e intimo, piuttosto che di un bacio schioccante e pubblico, perché questa volta non udii nulla. Il marinaio lasciò all'uomo tutto il tempo che voleva e, per qualche strano motivo, non ci furono fischi dal pubblico; infine il volontario si drizzò lentamente. «Per favore riponete la spada», disse l'uomo di mare cortese, ma sarcastico. Il volontario la ripose sulla catasta, sforzandosi di sistemarla com'era stata in origine. Ora riuscivo a vedere la ragazza. Stava eretta. Teneva le mani premute contro il fianco destro, probabilmente dov'era penetrata la spada. Ma non c'era alcuna traccia di sangue, nonostante fosse difficile esserne sicuri con quell'illuminazione precaria. La stranezza era che lei ora sembrava non solo contenta con gli occhi spalancati e un sorrisetto sulle labbra ma, nonostante la cipria verde, che fosse addirittura bella, cosa che inizialmente non mi era proprio parsa. Il volontario passò tra la ragazza e me per tornare al suo posto: anche se il tendone era quasi vuoto, quegli tornò religiosamente al suo posto. L'osservai con attenzione. Era davvero simile a tutti gli altri come prima e anche di più. «Il prossimo» disse il marinaio di nuovo col tono brusco d'un sergente istruttore. Questa volta non ci furono esitazioni. Tre uomini si alzarono subito in piedi e il marinaio dovette scegliere. «Voi» disse puntando il suo grosso dito verso il centro del tendone. L'uomo scelto era piuttosto attempato, calvo, tozzo, dall'aspetto rispettabile, e indossava un abito scuro. Poteva essere un capotreno in pensione o un ispettore della compagnia dell'elettricità. Zoppicava leggermente, probabilmente per un incidente sul lavoro.
Gli eventi si volsero in modo abbastanza simile, ma il secondo volontario fu più pronto e meno bisognoso d'incoraggiamenti, compreso per il bacio... che fu lento e silenzioso com'era stato quello dell'altro uomo, meno intimo mi parve però, più paterno forse. Quando l'uomo si allontanò vidi che la ragazza si teneva le mani premute nel centro dello stomaco. Quella vista mi fece sentire in colpa. Quindi fu la volta del terzo. E quando quegli tornò a sedersi, le mani della ragazza erano sulla gola. Il quarto uomo, un tipo più rozzo con un berretto di stoffa (che non si tolse mai mentre era sul palco) e una giacca sportiva lurida e consunta come il tendone, parve trafiggere la coscia destra della ragazza, attraversando le calze a rete. Come scese dal palco lei si teneva la coscia, ma sembrava così contenta che si sarebbe potuto pensare che le avessero fatto un enorme favore. Tuttora non vedevo sangue. Non sapevo davvero se volessi assistere ad altri trafiggimenti, né prendere certezza d'altri dettagli. Inesperto com'ero, mi sarebbe stato difficile decidere. Ma non dovetti scegliere, perché in ogni caso non avevo il coraggio di spostarmi su una sedia dalla quale si vedesse meglio. Pensai che uno spostamento di quel tipo avrebbe comportato abbastanza sicuramente il fatto che il marinaio mi avrebbe scelto come prossimo. E una cosa di cui ero certo era che, qualunque cosa stessero facendo, io non l'avrei fatta. Non so se fosse un complotto o che altro di cui ero totalmente all'oscuro. Per certo non mi sarei lasciato coinvolgere. Ma, ovviamente, se fossi rimasto prima o poi sarebbe arrivato il mio turno. Il quinto a essere chiamato non fui io. Fu un negro alto, allampanato, perfettamente nero. Non mi ero accorto, di quanto fosse nero in precedenza. Parve immergere la spada con tutta la forza che ci si può aspettare da un negro, nonostante fosse così magro, quindi la scagliò per terra sul palco, cosa che nessun altro aveva fatto prima di lui, e sollevò addirittura la ragazza tenendola in piedi mentre la baciava. Quando indietreggiò toccò la spada con il piede. Si fermò per un attimo scrutando la ragazza, quindi ripose la spada sulla catasta con cura. La ragazza era ancora in piedi, e mi venne da pensare che magari il negro avrebbe tentato di baciarla di nuovo. Ma non lo fece. Tornò tranquillamente al suo posto. Sembrava che dietro le quinte di tanta scena ci fossero regole che tutti i presenti conoscevano, tranne me. Si comportavano
come se già avessero partecipato a quello spettacolo, ammesso che fosse uno spettacolo. Sprofondando ancora un volta nella sua sdraio consunta la ragazza mi fissò. Non riuscii neanche a vedere di che colore fossero i suoi occhi, sta di fatto però che mi scombussolarono tutto. Ero così semplice e inesperto che non mi era mai capitato niente del genere in tutta la mia vita. L'incredibile cipria verde non aveva importanza. Niente di tutto quello che era appena accaduto aveva importanza. Desideravo quella ragazza più di quanto avessi mai desiderato qualsiasi cosa al mondo. E non intendo dire che desideravo solo il suo corpo, le sue avvenenze... queste sono cose che vengono più tardi nella vita. Volevo amarla ed essere riamato e volevo quella pienezza dei sentimenti che tutti ci auspichiamo prima che giunga il momento in cui si scopre che, per quanto desiderati e anelati, non li avremo mai. Volevo infine un possesso vero, compiuto. Ciononostante, devo ammettere che paventavo... dirò di più, che non volevo che venisse il mio turno per possederla. Quella anzi era proprio una delle ultime cose che avrei voluto. E siccome c'era ormai una possibilità su tre che io fossi il prossimo a essere chiamato inspirai profondamente e riuscii a battermela. Non posso fingere che fosse difficile. Ero seduto in fondo al tendone, come ho già detto, e nessuno tentò di bloccarmi. Il ragazzo all'entrata si limitò a guardarmi a bocca aperta come un pesce. Senza dubbio era abbastanza abituato a occasionali clienti che se ne andavano prima. Immaginai che l'omaccione sul palco stesse proprio per rivolgersi a me nell'attimo in cui mi alzai, ma sapevo che probabilmente si trattava di una mia fantasia. Non credo che abbia parlato, e nessuno degli altri reagì. Per lo più gli uomini a quel tipo di spettacolo preferiscono comportarsi come se fossero invisibili. M'impigliai nella tenda untuosa che fungeva da porta e il ragazzo con il maglione verde non fece nulla per aiutarmi, ma fu tutto. Attraversai come un lampo il parco dei divertimenti, tuttora quasi deserto; la giostra tintinnava ancora, tutto per niente, ma tutto molto bello. Tornai in fretta alla mia orribile stanza e mi chiusi dentro a chiave. A tratti, nella notte, si sentiva la solita confusione nell'edificio. Lo so perché non mi riuscì di dormire. E, in verità, non avrei potuto dormire, quella notte, neanche se avessi avuto lenzuola ricamate di lino e fossi stato all'Hilton. La ragazza del tendone mi era entrata sotto la pelle, con la sua faccia verde e tutto il resto: la ragazza sì... ma anche lo spettacolo, naturalmente. Penso di potere onestamente dire che quello che avevo visto
quella sera cambiò radicalmente la mia visione della vita, e non aveva niente a che vedere con i litigi che scoppiavano nelle altre stanze o lo scricchiolio e i pestaggi per le scale, o quel continuo tirare lo sciacquone, che doveva essere il più rumoroso di tutti i Midlands, soprattutto perché bisognava tirarlo sei o sette volte o anche di più prima che funzionasse. Quella notte capii che in realtà per gran parte del nostro tempo non sappiamo che cosa desideriamo e lo perdiamo di vista. Il fatto anche più importante è che quello che veramente desideriamo non ha proprio niente a che vedere con la vita, o solo poche volte. La gente in genere impara lentamente e tutto sommato non impara mai del tutto. In quella voglia forzata a me sembrò d'imparare tutto in una volta. O forse non proprio tutto, visto che ancora dovevano accadere molte cose. La mattina seguente dovevo fare diverse visite ai clienti, ma ben prima che giungesse l'ora della prima visita io ero tornato a quel piccolo e malandato parco divertimenti. Avevo addirittura saltato la colazione... poco male, la colazione negli alloggi raccomandati dallo zio Elias era sempre misera, anche se quotidianamente e incredibilmente frequentata da un sorprendente numero di persone. Veniva da chiedersi dove si nascondesse, durante la notte, tutta quella gente. Non so che cosa mi aspettassi di trovare al parco giochi. E non ero neanche sicuro di trovarlo ancora lì. Invece c'era, ancora. Alla luce del giorno sembrava anche più piccolo e triste della sera prima, e pareva assolutamente impossibile riuscire a vivere dei guadagni derivanti da esso. Il tempo era veramente splendido, e poiché tante delle case nei dintorni, per non parlare delle fabbriche, erano vuote, si vedevano solo pochissime persone. Il parco stesso era totalmente deserto, la qual cosa mi sorprese. Mi ero aspettato qualche scena zingaresca senza accorgermi che tra quei baracconi non ci sarebbe stato posto per dormire neanche per gli zingari. La gente che ci lavorava doveva essere tornata a casa a dormire, come tutti gli altri. Attorno al pezzo di terreno c'era uno steccato sormontato da filo spinato predisposto dal proprietario per tenere lontani barboni e drogati, ma ora lo steccato non serviva più a molto, come ci si può aspettare e, dopo essermi guardato attorno, non ebbi difficoltà a trovare un passaggio che i ragazzi della città avevano aperto per divertimento o perché non avevano trovato niente di meglio da fare. Raggiunsi il tendone sudicio all'estremità del parco e tentai di sollevare il lembo della tenda.
Mi accorsi che era stato legato in diversi punti, apparentemente dall'interno. Non riuscivo a capire come la persona che l'aveva legato... dall'interno ripeto, fosse uscita dalla tenda a opera finita; ma questo è proprio quel tipo di trucchi che uno si aspetta dalla gente che lavora nei baracconi. Era impossibile guardare all'interno del tendone senza mettere mano al temperino, cosa che in ogni caso esitavo a fare, e mentre me ne stavo lì pensando, col temperino in mano, udii una voce che proveniva da dietro le mie spalle. «Che cosa stai facendo?» disse la voce. Era un vecchietto molto piccolo. Non l'avevo proprio sentito arrivare, nonostante il terreno fosse così sconnesso e ineguale. Era poco più di un nano, bruno come una castagna o quasi, e non aveva un capello in testa. «Mi chiedevo che cosa ci fosse lì dentro» dissi io timidamente. «Un enorme pitone lungo tre chilometri che non paga neanche l'affitto» disse l'ometto. «Com'è possibile?» chiesi io. «Non continua lo spettacolo?» «Antiquato» disse l'ometto. «Antiquato e scaduto. Non piace alle donne. Le donne non amano i grandi serpenti. Ma le donne hanno i soldi, di questi tempi, e il potere e anche la gloria». Cambiò di tono: «Questa è una proprietà privata». «Chiedo scusa» dissi. «Non ho saputo trattenermi in una mattinata bella come questa». «Sono il guardiano» disse l'ometto. «Anch'io tenevo dei serpenti. Di quelli piccoli, a decine e decine. Me li facevo strisciare addosso, ed erano uno più velenoso dell'altro. Occhi scintillanti, lingue schioccanti, scaglie luccicanti: e poi dentro, dritti a casa, e fuori e dentro e poi di nuovo fuori. Eppure alla fine non era un affare: c'è un tempo e una durata per tutte le cose. Però mi piace restare qui. Così faccio il guardiano. Finché dura. Finché tutto va avanti. Vattene ora. Via di qui!» Esitai. «Quel lungo serpente di cui parlavate» dissi «questo pitone...» Ma egli mi interruppe con fare piuttosto irascibile. «Non c'è nient'altro da dire. Non a tipi come te per i quali qualsiasi strada è buona. Fuori dalla proprietà, subito! Se no chiamo il commissario di polizia. Lavoriamo insieme e andiamo d'accordo. Voglio che le cose restino come sono. Forse non sai che la violazione di proprietà è un reato. Resta qui e te ne pentirai per tutta la vita.» L'ometto stava assumendo un atteggiamento bellicoso verso di me nono-
stante il suo cranio bruno (non lucido, per inciso, ma opaco e maculato come se avesse avuto dei problemi cutanei) fosse appena sopra il livello della mia vita. Ovviamente era svitato. Visto che avevo tutti i motivi per andarmene, me ne andai. Non chiesi neanche all'ometto gli orari degli spettacoli di quella sera, né se ve ne fossero. Del resto non avevo la più pallida idea se sarei tornato, anche se ci fossero stati degli spettacoli, ed era probabile che ve ne fossero, e che forse sarei tornato, e che... Feci le mie visite ai clienti. Non avevo dormito e, dalla cena della sera prima, non avevo mangiato, la testa mi girava come una trottola, ma non dirò che feci il mio lavoro peggio del solito. Forse allora ritenni di sì, ma ora ho i miei dubbi. I problemi personali, come ebbi modo di notare in seguito, influenzano molto poco il modo in cui affrontiamo il mondo esterno, e per quanto riguarda cibo e sonno, essi non hanno alcuna importanza fino a quando non trascorrono settimane o addirittura mesi. Compii il mio lavoro, quindi, più o meno nel solito modo (anche se nel mio caso il solito modo, in quel lavoro, non era un granché neanche quando m'impegnavo al massimo), e, per tutto il tempo, rimuginai su quello che mi era accaduto. Poi, finalmente, decisi di dare ascolto al mio stomaco. Erano le undici circa, tardi per la colazione, presto per il pranzo. M'incamminai verso la trattoria dove avevo cenato la sera precedente; ma poiché mi trovavo in una parte diversa della città che, ovviamente, non conoscevo affatto, e mi sentivo piuttosto debole e strano, entrai nel primo locale che mi capitò d'incontrare. E lì, in mezzo ai tavoli di fòrmica, che ci crediate o no, c'era quella ragazza della cipria verde e, accanto a lei, il marinaio o presentatore che fosse, che aveva ora più che mai l'aspetto di un pugile decaduto. Non avevo mai sperato seriamente di rivederla. Non era, pensai, una di quelle cose che capitano normalmente. Tutt'al più sarei tornato a quello strano spettacolo, ma non credo che l'avrei fatto veramente, considerando quello che avrebbe implicato. La ragazza si era tolta la cipria verde e portava una giacca e una gonna nere e una camicetta bianca: un abbigliamento piuttosto severo che la faceva sembrare troppo vecchia. L'uomo era vestito esattamente come la sera precedente. Al posto delle scarpe di tela sporche calzava un paio di stivaloni pesanti e infangati come se avesse camminato per i campi. Probabilmente a causa dell'ora il locale era quasi vuoto; c'era una dozzi-
na di tavoli liberi e i due si trovavano nel mezzo. Mancò poco ch'io non svenissi. Ma non ne ebbi il tempo. L'uomo con il maglione mi riconobbe subito. Si alzò e mi fece un cenno con il suo grosso braccio. «Venite qui con noi» disse. Anche la ragazza si era alzata. Non potevo rifiutare senza sembrare scortese. L'uomo estrasse addirittura una sedia da sotto il tavolo (erano tutte dipinte in colori diversi, vivaci, e i sedili erano stati rivestiti di finta pelle nuova), e anche la ragazza attese che io prendessi posto prima di sedersi nuovamente. «Mi spiace che abbiate perso la fine dello spettacolo di ieri sera» disse l'uomo. «Dovevo tornare al mio alloggio dov'ero atteso dal mio collega di lavoro» inventai su due piedi. «Sono nuovo in questa città» aggiunsi. «Può essere una città difficile, quando si è nuovi» disse l'uomo. «Che cosa prendete?» Parlava come se quello fosse un locale con licenza di alcolici, ma era abbastanza evidente che non lo era. Esitai. «Tè o caffè?» propose. «Tè, grazie» dissi. «Un altro tè, Berth» gridò l'uomo. Vidi che i due stavano bevendo caffè, ma l'aspetto che aveva non mi attirava particolarmente. «Vorrei anche qualcosa da mangiare» dissi quando la cameriera portò il tè. «Molte grazie» dissi all'uomo. «Panini: prosciutto di York, manzo salato o carne precotta. Pasticci di carne. Pane e salsiccia» disse la cameriera. Aveva un brutto orzaiolo sotto l'occhio sinistro. «Prendo un pasticcio» dissi io, e lei dopo qualche tempo me ne portò uno con un po' di insalata sul piatto e la bottiglia della salsa. Veramente avevo bisogno di qualcosa di caldo, ma ormai avevo ordinato. «Tornate questa sera» disse l'uomo. «Non sono sicuro di potere». Facevo fatica anche a bere il tè in modo decente, perché le mani mi tremavano terribilmente e non potevo immaginare come affrontare quel pasticcio freddo. «Venite gratis, se volete, visto che avete perso il turno ieri sera.» La ragazza, che fino a quel punto aveva lasciato parlare l'altro, mi sorrise in modo molto dolce e personale, come se tra noi ci fosse qualcosa di piut-
tosto intimo. La camicetta bianca era un po' aperta, cosicché vedevo più di quanto in realtà avrei dovuto... e certo oggi le cose sono ben diverse da come erano un tempo. Anche senza la cipria verde era una ragazza molto pallida e sembrava che il suo corpo dovesse essere ancora più bianco del viso, quasi bianco come la camicetta. Inoltre ora potevo vedere il colore dei suoi occhi. Erano verdi. Per qualche motivo l'avevo immaginato. «In ogni caso» continuò l'uomo «non farà molta differenza visto come stanno andando gli affari.» La ragazza lo guardò come sorpresa dal fatto che egli si fosse lasciato sfuggire qualcosa di privato, poi mi guardò di nuovo e disse: «Venite». Lo disse in un modo così gentile e tenero che parve le importasse veramente. E poi sembrava che avesse un accento straniero, ciò la rendeva ancora più affascinante, ammesso che fosse possibile. Bevve un piccolo sorso di caffè. «Come ho detto» mentii ancora una volta «ho un impegno.» «Non possiamo certo imporvi di disdire un appuntamento» disse la ragazza col suo accento straniero, ma sembrava che intendesse esattamente l'opposto. Riuscii a sembrare più sincero. «Magari posso liberarmi» dissi, «ma, a dire il vero, perdonate l'ardire, non mi piacevano molto alcuni degli spettatori di ieri sera.» «Non vi biasimo» disse l'uomo molto seccamente e con mio notevole sollievo, come potete immaginare. «Che cosa ne direste di uno spettacolo privato? Uno spettacolo solo per voi?» Parlava piuttosto sottovoce, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, o come se io fossi Charles Clore. Ero talmente sorpreso che esclamai: «Che cosa? Solo io nella tenda?» «Intendevo a casa vostra» disse l'uomo sempre con grande natuialezza e bevve rumorosamente un sorso dalla sua tazza di terracotta rossa. Mentre l'uomo parlava la ragazza mi lanciò un rapido sguardo sconvolgente. Era come se mi sciogliesse tutto dentro. E, cosa assurda, giusto in quel momento arrivò il mio stupido pasticcio di carne con quel mucchietto d'insalata verde e la salsa. Ero stato proprio stupido a ordinare qualcosa da mangiare, anche se in teoria ne avevo bisogno. «Con o senza le spade» continuò l'uomo accendendosi una sigaretta dall'aspetto scadente. «Madonna è stata istruita per fare qualsiasi cosa possiate desiderare. Qualsiasi cosa vi venga in mente.» La ragazza guardava fisso nella tazza.
Osai rivolgermi direttamente a lei. «Vi chiamate davvero Madonna? Che bel nome!» «No» disse lei parlando piuttosto piano. «No, è un nome d'arte». Girò un momento il capo e i nostri occhi s'incontrarono di nuovo. «Non c'è niente di male. Non siamo cattolici» disse l'uomo «anche se Madonna un tempo lo era». «Mi piace» dissi io. Stavo chiedendomi che cosa fare del pasticcio di carne. Non potevo assolutamente mangiarlo. «Naturalmente uno spettacolo privato costerebbe un poco più di due sacchi» disse l'uomo. «Però sareste soli, ed è in queste circostanze che Madonna dà il meglio del suo repertorio.» Notai che stava parlando proprio come quando era nel tendone: senza guardare né me né nessun altro, ma con gli occhi fissi lontano nel vuoto, come se fossero parole dette più volte, delle quali era stufo, e che però non potesse fare a meno di ripetere. Stavo per dirgli che non avevo soldi, cosa più o meno vera, ma non lo feci. «Quando potrebbe essere?» chiesi. «Stasera, se volete» disse l'uomo. «Subito dopo il normale spettacolo, e non sarà molto tardi, poiché non prevediamo repliche alle dieci o alle undici di sera in giorni come questi. Madonna potrebbe essere da voi alle dieci meno un quarto, tranquillamente. E non dovrebbe neanche affrettarsi, visto che non sono previste matinée a tarda notte. Avrebbe così il tempo di farvi vedere molte novità, se lo desiderate. Pezzi del suo repertorio, come li chiamiamo noi. Ma, a proposito, avete un posto adatto dove andare? Madonna non ha grandi esigenze. Solo una stanza che si possa chiudere a chiave per tenere fuori i clienti che non pagano e un servizio per lavarsi le mani.» «Sì» dissi. «La pensione dove sono alloggiato potrebbe essere adatta, anche se mi piacerebbe che fosse più luminosa e un po' più tranquilla.» Madonna mi lanciò un altro dei suoi sguardi incredibilmente dolci. «Per me va bene» disse piano. Scrissi l'indirizzo sull'angolo di un giornale che trovai sulla mia sedia e glielo diedi. «Facciamo dieci sterline?» disse l'uomo voltandosi per guardarmi con i suoi occhietti. «In genere ne chiedo venti o anche cinquanta, ma qui siamo a Wolverhampton, non sulla Costa Brava, e voi siete un tipo raffinato.» «Che cosa ve lo fa pensare?» chiesi, soprattutto per guadagnare tempo e per riflettere su come procurarmi i soldi.
«Me ne sono accorto da dove vi siete seduto ieri sera. A ogni spettacolo c'è qualcuno che sceglie quel posto. È un posto speciale per raffinati. Ormai ho imparato a non chiamarli sul podio, perché non è quello che vogliono. Sono troppo discreti per essere chiamati, e io per questo li rispetto. Non di rado se ne vanno prima della fine dello spettacolo, come avete fatto voi. Ma sono sempre contento che vengano. Elevano lo standard. E poi sono proprio quelli ai quali spesso interessa uno spettacolo privato, come voi, e che sono disposti a pagarlo. Devo badare anche al lato finanziario della cosa.» «Non ho dieci sterline in contanti» dissi «ma immagino che potrei riuscire a trovarle, anche se dovrò fare qualche piccolo imbroglio». «È quello che spesso dobbiamo fare in questo mondo» sospirò l'uomo. «Soprattutto se ci piacciono le cose belle» «Avete ancora una buona parte della giornata» disse Madonna sorridendo in modo incoraggiante. «Prendete un'altra tazza di tè?» chiese l'uomo. «No, molte grazie». «Davvero?» «Davvero.» «Allora, noi dobbiamo andare.» disse lui. «Abbiamo uno spettacolo pomeridiano, anche se saranno solo un paio di ragazzetti. Dirò a Madonna di risparmiarsi il più possibile per lo spettacolo privato di questa sera.» Mentre uscivano la ragazza si girò per guardarmi sopra la spalla con fare tenero e segreto. Ma quando si muoveva i suoi vestiti sembravano troppo grandi per lei, la gonna era troppo lunga, la giacca e la camicetta troppo larghe e tristi: pareva davvero che quelli non fossero i suoi vestiti. C'era, in tutto questo e, ripensandoci, anche nello spettacolo, come una miseria più umana che delle cose e che mi addolorava. Si, quella di Madonna non doveva essere una vita facile. Tutti e due, fin troppo beneducati, non avevano alluso al mio pasticcio di carne. Lo ficcai nella borsa, ovviamente senza l'insalata, pagai e mi recai faticosamente al mio prossimo appuntamento, per il quale mi toccò attraversare, una volta ancora, tutta la città. Non dovetti fare nulla di disonesto per trovare i soldi. Non c'era da aspettarsi che mi riuscisse d'applicarmi più di tanto, sul lavoro di quel pomeriggio; feci comunque del mio meglio pensando che mi ero messo nei guai. Fu un bene che continuassi il mio giro di visite ai clienti perché proprio in uno dei negozi trovai la soluzione al mio proble-
ma senza dovere muovere un dito. Il padrone del negozio era un simpatico vecchietto con i capelli bianchi, il signor Edis, che sembrò prendermi in simpatia nel momento stesso in cui misi piede nel suo negozio. Disse a un certo punto che ero ben diverso dal vecchio Bantock, con i suoi attacchi di asma (non credo di avere menzionato l'asma di Bantock fino a questo punto, ma sapevo bene che cosa significasse), che sembravo un bravo ragazzo con gli occhi luminosi. Queste furono le sue parole, e non è possibile che io mi sbagli adesso viste le conseguenze che esse ebbero. Mi chiese se avessi qualcosa da fare quella sera. Alquanto soddisfatto di me stesso, e considerato che non era una risposta che avrei potuto dare spesso in passato, senza mentire, gli dissi di sì, che avevo un appuntamento con una ragazza. «Vuol dire con una ragazza di Wolverhampton?» chiese il signor Edis. «Sì, l'ho conosciuta quando sono arrivato». Non l'avrei ammesso davanti a molti altri, ma c'era qualcosa nel signor Edis che m'incoraggiava e mi fece desiderare di dargli una conferma della buona impressione che si era fatto di me. «Com'è?» chiese il signor Edis con gli occhi socchiusi, cosicché potei vederne il rosso tutt'intorno. «Splendida» Questa è una tipica parola che, per solito, gli innamorati dicono; comunque, io non sarei assolutamente stato in grado di esprimere altrimenti il mio vero sentire. «E hai gli spiccioli sufficienti per fare le cose come si deve?» chiese il signor Edis. Dovetti pensare in fretta, essendo stato colto così di sorpresa, ma il signor Edis continuò prima che io avessi il tempo di replicare. «Per poterla coccolare quanto vuoi?» chiese. Vedevo che si eccitava sempre di più. «Ecco, signor Edis» dissi «veramente non ne ho abbastanza. Sono ancora un principiante in questo lavoro, come sapete.» Pensavo che magari mi avrebbe allungato una sterlina, probabilmente un prestito, data la famosa parsimonia della gente nei Midlands. Ma egli estrasse addirittura una banconota da cinque. La sventolò davanti al mio naso come se fosse un'aringa affumicata. «Te le do a una condizione» disse. «Cercherò di accontentarvi, signor Edis.» «Torna qui domattina, quando mia moglie sarà uscita... fa il vigile urbano e le piace moltissimo ... e raccontami tutto quello che è successo.»
L'idea non mi piaceva affatto, ma pensai che avrei potuto inventare qualche frottola, oppure addirittura non tornare da lui, del resto non avevo molte alternative. «Ma certo, signor Edis, certamente» Mi consegnò subito la banconota. «Bravo ragazzo» disse lui. «Fatti dare da lei quello per cui paghi e pensa a me mentre lo fai, anche se non credo che ti sarà possibile» Quanto alle altre cinque sterile, probabilmente sarei uscito a metterle insieme di mio tirando la cinghia per una o due settimane, e manomettendo un po' il libro di cassa se fosse stato necessario... come facciamo tutti. Comunque, data anche la mia età, odiavo parlare di soldi. Odiavo parlarne molto più di quanto odiassi darmi da fare per procurarmeli. Non vedevo Madonna in quel modo, connessa cioè al fattore economico, no, assolutamente, in caso contrario mi sarei odiato. Né, ricordando come lei mi aveva parlato, Madonna vedeva me in quel modo... connesso cioè al fattore economico. Purtroppo non riuscivo però a immaginare un altro modo in cui lei mi potesse vedere, ma risolsi questo problema decidendo di non pensarci del tutto. La pensione raccomandata dallo zio Elias a Wolverhampton non era uno di quei posti dove gli ospiti suonano il campanello e aspettano di essere accompagnati da un domestico in livrea. Bisognava conoscere un po' l'ambiente per entrare non essendo un ospite, soprattutto se, una volta entrati, si voleva trovare una persona in particolare. Verso le nove e mezzo ritenni opportuno iniziare ad aggirarmi per le strade dei dintorni. Non proprio davanti alla porta, la qual cosa avrebbe potuto essere fraintesa e crearmi difficoltà di qualche tipo, ma camminando su e giù con gli occhi bene aperti e l'orecchio teso per individuare lo scalpiccio garbato di piedini sul selciato. Era quasi buio, ovviamente, ma non del tutto. Non c'era molta gente in giro, ma questo era soprattutto dovuto al fatto che stava scendendo quella tipica pioggerella dei Midlands: una pioggia leggera e lenta che si vede a malapena, ma penetra particolarmente attraverso i vestiti, o almeno questa è l'impressione che essa dà. Sono abbastanza sicuro che mi sarei preparato prima se non fosse stato per la pioggia. Inutile a dirsi, stavo sulle spine. Ero riuscito a mandare giù il pasticcio di carne tra una visita e l'altra durante il pomeriggio. L'avevo mangiato a fatica seduto su una panchina proprio mentre iniziava a piovere. E verso le sei e mezzo del pomeriggio avevo bevuto una tazza di tè e mangiato una porzione di fagioli nella trattoria in cui ero stato la sera prima. Non avevo voglia di niente di tutto questo. Pen-
savo solo che fosse meglio mangiare qualcosa in vista di quello che mi aspettava. Anche se, ovviamente, non avevo la più pallida idea di che cosa mi aspettasse. Quando sei alla prima esperienza non lo sai, anche se te ne hanno già parlato e se hai sentito molto in proposito. Mi sarei trovato a mal partito ad aspettare una donna qualsiasi, figuriamoci poi la mia bella Madonna. Ma eccola arrivare, puntualissima, addirittura un po' in anticipo. Aveva gli stessi abiti che le avevo visto addosso la mattina. Troppo grandi per il suo corpo e troppo seri per la sua età; e non aveva un ombrello, né un impermeabile o un cappello. «Ti sarai bagnata» dissi. Madonna non parlò, ma dall'espressione nei suoi occhi mi sembrò di capire che fosse contenta di vedermi. Se anche si era messa quella sua cipria verde, ora la pioggia l'aveva lavata via. Avevo pensato che avrebbe avuto in mano qualcosa, e invece nulla, neanche una borsetta. «Entra» dissi. Gli ospiti della pensione ricevevano in prestito una chiave (lasciando un deposito) e, grazie al cielo, attraversammo l'entrata e salimmo le scale senza incontrare nessuno e senza sentire nulla di strano, nonostante la mia stanza si trovasse all'ultimo piano dell'edificio. Si sedette sulla sponda del letto e guardò verso la porta. Dopo quanto era stato detto sapevo che cosa fare e girai la chiave. Fu un gesto naturale. Era uno di quei posti dove ci si chiude a chiave comunque. Mi sfilai l'impermeabile e lo posai in un angolo. Non avevo acceso la luce. Non ero orgoglioso della mia stanza. «Devi essere tutta inzuppata» dissi. I baracconi non erano molto lontani, ma quella era una di quelle piogge particolarmente bagnate, come forse ho già detto. Si alzò e si tolse la sua enorme giacca nera. Rimase lì in piedi tenendola in mano fino a quando io la presi e l'appesi alla porta. Non posso dire che gocciolasse, ma era imbevuta d'acqua e scorsi una chiazza bagnata sulla trapunta dove lei era stata seduta. Non aveva ancora detto una parola. Dovevo ammettere che, fino a quel momento, non c'era stato bisogno alcuno che lei parlasse. La sua camicetta bianca era completamente fradicia. Anche nella stanza quasi priva di luce potevo vederlo. Il tessuto, sulle spalle, era bagnato e attaccato alla sua pelle, più su una spalla che sull'altra. Senza la giacca, la
camicetta sembrava più originale che mai. Non solo era larga e priva di forma, ma le maniche erano talmente lunghe da coprirle anche le mani... quando non indossava la giacca. Immaginai la donna per cui quella camicetta era stata confezionata: grossolana, grande e robusta; per niente il mio tipo. «È meglio che tu ti tolga anche quella» dissi, e ancora oggi non so come mi riuscì di pronunciare quelle parole. Penso che l'istinto ti protegga e ti sovvenga, la prima volta, se gliene dai la possibilità. E Madonna mi dette la possibilità, o almeno questo fu quello che sentii. Per uno o due minuti la mia vita parve più dolce di quanto mai avessi pensato potesse essere. Senza dire una parola si tolse la camicetta e l'appese sullo schienale dell'unica sedia che si trovava nella stanza. Nella trattoria avevo notato che sotto indossava qualcosa di nero, ma fino a questo momento non mi ero reso conto che si trattasse dello stesso indumento attillato e luccicante che le avevo visto addosso durante lo spettacolo e che le dava un aspetto così francese. Si tolse la gonna bagnata. Tutto quello che potei fare fu di posare anch'essa sul sedile della sedia. Ed eccola lì, con i tacchi vertiginosi e tutto il resto. Sembrava pronta per lo spettacolo, ma quest'idea mi parve piuttosto deludente. Rimase in piedi, come se stesse aspettando che io le dicessi che cosa dovesse fare. Vedevo che il costume nero era imbevuto d'acqua, almeno a chiazze, ma questa volta non osai suggerire che se lo sfilasse. Finalmente Madonna aprì la bocca. «Da dove vuoi che cominci?» La sua voce era così splendida e la domanda così provocante che qualcosa s'impadronì di me, e, prima che riuscissi a trattenermi, l'abbracciai. Non avevo mai fatto nulla di simile in vita mia, quali che fossero i miei sentimenti. Non si mosse, così pensai subito di avere sbagliato. Dopo tutto non potevo escludere di avere sbagliato, data la mia totale inesperienza. Eppure, pensai che ci fosse qualcos'altro di sbagliato. Che cosa, non lo sapevo allora né lo so adesso. Come ho detto, non è che fossi avvezzo a sentirmi tra le braccia una donna mezza nuda, e io stesso ero più o meno vestito da capo a piedi; egualmente pensai che la sensazione fosse deludente. Fu una sorta di shock. Un colpo abbastanza duro, in realtà. Come spesso accade quando i fatti si sostituiscono all'immaginazione. Improvvisamente la cosa era divenuta più che altro un incubo.
Mi ritrassi. «Mi dispiace» dissi. Madonna sorrise nello stesso modo dolce. «Non fa niente» disse. Era gentile da parte sua, ma non provavo più gli stessi sentimenti nei suoi confronti. Sapete bene come, anche nelle migliori condizioni, una piccolezza può essere così determinante nei sentimenti che si provano verso una donna, e comunque io non ero affatto sicuro che si trattasse di una piccolezza. Mi chiedevo se non le stessi dando l'impressione di non saper vivere. Mi avevano definito strano altre volte, e forse questo era il motivo. Poi mi resi conto che la causa potesse essere nello spettacolo che lei metteva in scena: le spade. Magari era una persona bizzarra, o forse l'uomo in blu le faceva qualcosa di strano, la ipnotizzava in qualche modo. «Dimmi che cosa ti piacerebbe» disse lei fissando il lurido tappetino che era sul pavimento. Pensai che ero matto e che semplicemente stavo dimostrandomi più ignorante di quanto fossi in realtà. «Togliti quella cosa» dissi. «È bagnata. Mettiti sotto le coperte. Lì starai più calda.» Iniziai a svestirmi. Madonna fece quello che le avevo chiesto. Si sfilò di dosso quel costume nero, si sfilò delicatamente i piedi dalle scarpe provocanti, si sfilò le calze. Davanti a me, per un attimo, ci fu la mia prima donna, vera... anche se la vedevo appena. Non ero ancora in grado di pensare all'amore con quell'unica pallida luce elettrica che faceva sembrare ancora più sudicia quella stanza sudicia. Obbediente, Madonna s'infilò nel mio letto e io la raggiunsi appena potei. Obbediente, lei fece tutto quello che le chiesi, proprio come l'uomo con il maglione blu aveva promesso. Il suo corpo mi pareva ancora strano e deludente, forse il termine giusto è floscio, ben diverso comunque da come avevo sempre immaginato che dovesse essere il corpo di una donna, se mai mi fossi trovato sufficientemente vicino a esso. Dirò una cosa a suo favore: dall'inizio alla fine non disse mai una parola di troppo. Non accade sempre così, ovviamente. Ma ormai tutto era andato storto. Per esempio non avevamo neanche iniziato baciandoci. Ero pieno zeppo di idee romantiche sul conto di Madonna, ma sentivo che lei non contribuiva un granché in questo senso, nonostante tutti i suoi sorrisi dolci e splendidi e la sua voce lieve e le cose cari-
ne che diceva. Si rendeva quasi troppo reperibile, e non metteva in risalto il meglio di me. Era come se avessi semplicemente ottenuto nuove informazioni, per quanto fossero importanti, ma senza impegnare i miei sentimenti. Naturalmente ci si sente spesso così per un motivo o per l'altro, ma sembrava orribile in questo caso specifico, soprattutto perché i miei sentimenti erano stati così diversi solo poco tempo prima. «Su» le dissi. «Svegliati!» Non era giusto, ma ero terribilmente deluso, e la mia delusione era aumentata dal fatto che non ne conoscevo il motivo. Sentivo solo che poteva essere in pericolo tutta la mia vita. Gemette leggermente. Mi alzai dal suo corpo e buttai le coperte dietro di me. Era lì, distesa davanti a me, tutta grigia, almeno così pareva nella penombra. Anche i suoi capelli erano privi di colore, quasi invisibili. Feci quello che immagino fosse un gesto veramente spregevole. Le strinsi il polso sinistro con le mani e tentai di tirarla verso di me per sentire il suo corpo stretto contro il mio e coprirle la fronte e il collo di baci se solo me lo avesse fatto desiderare. Immagino che in ogni caso le avrei fatto male tirandola così, e che non avrei dovuto farlo. Eppure nessuno avrebbe potuto dire che fosse tanto terribile. Direi anzi che è una cosa abbastanza normale. Ma quello che in effetti accadde, fu realmente terribile. Così semplice e terribile che la gente stenterà a credermi. Detti a Madonna questo forte, rabbioso e deluso strattone. Ella venne verso di me e quindi cadde nuovamente indietro con una specie di gemito. Le tenevo ancora stretti la mano e il polso tra le mie mani, e ci volle del tempo prima che io mi rendessi conto di che cosa fosse accaduto. Era accaduto che le avevo letteralmente strappato la mano e il polso sinistro. Subito sgusciò fuori dal letto e iniziò rivestirsi. Capii che anche con quella luce quasi inesistente in qualche modo riusciva a muoversi abbastanza rapidamente. Ebbi la terribile sensazione che lei si stesse agitando nella mia stanza con una mano sola, e mi chiesi terrorizzato come potesse riuscirci. Per tutto il tempo continuò a piangere tra sé, o meglio a gemere. Il rumore che faceva era molto lieve, tanto che, se non avessi saputo che cosa stava succedendo, avrei pensato che fosse frutto della mia immaginazione. Posai i piedi sul pavimento con l'idea di accendere la luce. L'unico interruttore era ovviamente di fianco alla porta. Pensavo che con un po' di luce
si sarebbe potuto spiegare tutto. Ma mi resi conto che mai sarei riuscito a trovare l'interruttore. Tanto per cominciare non sopportavo l'idea di toccare Madonna, neanche per sbaglio. Secondariamente scoprii che le mie gambe non si muovevano. Ero troppo terrorizzato per muovermi. Terrorizzato, schifato, e invaso da quel miscuglio di sensazioni indefinibili che derivano dall'insoddisfazione sessuale. Rimasi semplicemente lì seduto, sul bordo del letto, mentre Madonna si metteva addosso le sue cose piangendo di continuo in un orribile modo straziante che non scorderò mai. Non che la cosa durasse a lungo. Come ho già detto, Madonna era sorprendentemente veloce. Non mi venne in mente nulla da fare o da dire. Soprattutto perché c'era così poco tempo. Dopo essersi vestita fece un unico gesto orribile verso di me per afferrare qualcosa, come se, davvero, lei riuscisse a vedere al buio. Quindi se n'andò lasciando la porta spalancata sul pianerottolo buio (ovviamente gli interruttori della pensione erano a tempo) e io sentii i suoi passetti lungo le scale, e lei che sortiva dall'ingresso principale così semplicemente e silenziosamente che si sarebbe potuto pensare che abitasse lì. Ora mi sentivo male fisicamente. Ma avevo riacquistato l'uso delle gambe. Mi alzai dal letto, chiusi la porta, girai la chiave e accesi la luce. Non vidi nulla di particolare. In giro non c'era niente eccetto i miei vestiti, il mio impermeabile lercio nell'angolo e il giaciglio disfatto. Pareva che un mostro enorme avesse sconquassato il letto, ma da nessuna parte nella stanza vi erano tracce di sangue. Era proprio come nello spettacolo Le spade. Mentre ci pensavo e mi tornava in mente quello che avevo fatto improvvisamente, mi venne da vomitare. Quelle non erano stanze con acqua corrente calda e fredda; quando ebbi terminato avevo riempito per metà il lavabo antiquato con i fiori sbiaditi sul fondo e grandi pezzi di unghie tagliate sul bordo. Mi distesi sopra le lenzuola stropicciate, troppo stanco per vuotare il lavabo, per spegnere la luce, per mettermi qualcosa addosso: ero tuttora nudo e la notte si stava facendo vieppiù fredda. Sentii che i soliti rumori animavano le scale e le altre stanze. Quindi, senza che me lo aspettassi, qualcuno bussò alla mia porta con fare deciso. In quel genere di case di solito non ha nessun senso chiedere chi è. Mi levai nuovamente in piedi, questa volta ghiacciato, e, non avendo con me una vestaglia, mi infilai l'impermeabile bagnato visto che dovevo pure mettermi addosso qualcosa e aprire la porta, altrimenti avrebbero bussato
ancora e poi ci sarebbero state lamentele che potevano essere spiacevoli. Era l'uomo con il maglione blu; il marinaio o presentatore o che cosa diavolo era. Per qualche motivo avevo intuito che potesse essere lui. Non credo di avergli fatto una gran bella impressione, lì sulla porta con addosso solo l'impermeabile bagnato anche perché si sentiva gente gridare e picchiarsi nelle altre stanze. E poi non avevo proprio idea di come lui volesse impostare la questione. Non c'era bisogno che io mi preoccupassi. Almeno non di quello. «Tutto bene, lo spettacolo?» chiese con lo sguardo fisso nel vuoto come se si trovasse sul suo palco, senza guardare niente e nessuno in particolare, ma egualmente con voce abbastanza amichevole, purché tutti reagissero nel modo previsto. «Penso di sì» risposi. Probabilmente non dovetti sembrare molto cordiale, ma egli non parve badarvi troppo. «Allora posso avere il compenso? Mi spiace disturbare il vostro primo sonno, ma domani partiamo di buonora.» Non sapevo in che modo mi avrebbero fatto pagare, quindi avevo ammucchiato con cura le dieci sterline — il biglietto da cinque del signor Edis e i cinque biglietti da una miei — e le avevo riposte nell'angolo d'un cassetto prima di uscire nella pioggia per andare incontro a Madonna. Glieli detti. «Grazie» disse egli contandole e mettendosele nella tasca dei pantaloni. Notai che anche i pantaloni sembravano da marinaio, ora che li vedevo da vicino, poiché egli stava proprio di fronte a me. «Tutto a posto, allora?» chiese sorridendo. «Penso di sì» dissi nuovamente. Stavo attento a non sbilanciarmi troppo in nessuna direzione. Vidi che ora mi guardava con piccoli occhi molto infossati. In quel preciso istante si sentì un grido selvaggio che proveniva da uno dei piani inferiori. Era praticamente il più lacerante grido umano che mai avessi sentito, anche in pensioni di quel livello. L'uomo non fece una piega. «Bene, allora» disse. Per qualche motivo ebbe un attimo di esitazione, poi mi tese la mano. Gliela strinsi. Era molto forte, ma non c'era null'altro di particolare nella sua stretta. «Ci incontreremo di nuovo» disse. «Non preoccupatevi.»
Quindi si voltò e premette l'interruttore nero a tempo della luce delle scale. Non mi fermai per vederlo scendere. Stavo male ed ero congelato. Fino a oggi, nonostante le sue parole, le nostre strade non si sono più incrociate. Titolo originale: The Sword Traduzione: Laura Pignatti Thomas M. Disch Gli scarafaggi Poeta, critico letterario e romanziere, Thomas M. Disch vanta, fra le sue opere, una produzione trentennale assai ricca di racconti brevi, tutti di ottimo livello artistico e spesso di genere horror. Come per Shirley Jackson, Peter Straub, Joyce Carol Oates e Theodore Sturgeon, il campo d'azione di Disch è la letteratura nell'accezione più ampia della parola, e la sua opera ha favorito quel felice connubio di diversi generi narrativi che, a partire dal 1930, si è rivelato tanto fecondo per la letteratura dell'orrore. La telepatia, che di norma rappresenta il tema d'elezione della fantascienza, fornisce ne Gli scarafaggi lo spunto per il dramma particolarmente ironico di una psicologia anormale, e fa di questo racconto, insieme a Carrie di Stephen King, un esempio di fantasia dell'orrore inserita in un contesto fantascientifico. Al tempo stesso, ritroviamo nell'humor sottile e paradossale della narrazione tutto il fascino delle opere di Disch, ai limiti della parodia. Miss Marcia Kenwell provava un assoluto ribrezzo per gli scarafaggi. Era un ribrezzo completamente diverso da quello che provava, a esempio, per il color pulce. Marcia Kenwell odiava quei cosi neri; tutte le volte che ne vedeva uno non poteva fare a meno di urlare. La sua repulsione era tale che non sopportava neppure di schiacciarli sotto la suola delle scarpe: no, troppo disgustoso. Preferiva di gran lunga correre, prendere l'insetticida e mondare di veleno il piccolo animale fino a quando non cessava di muoversi o sfuggiva alla morte rintanandosi in una di quelle fessure in cui sembravano vivere tutti. Era orribile, davvero orribile pensare che si annidavano nei muri, sotto il linoleum, aspettando soltanto che si spegnessero le luci per poi... No, meglio non pensarci. Ogni settimana Marcia leggeva attentamente il Times, nella speranza di
trovare un altro appartamento, ma o l'affitto era proibitivo (quella era Manhattan e il salario settimanale di Marcia era di 62 dollari e 50 centesimi, lordi), oppure il palazzo era chiaramente infestato. Il suo giudizio a questo riguardo era infallibile: del resto le bastava contare i cadaveri di scarafaggi semi nascosti nella polvere sotto l'acquaio, o appiccicati alla parete, sudicia d'unto, dietro la cucina, o, ancora, quelli disseminati sui ripiani più inaccessibili della credenza, come chicchi di riso sui gradini di una chiesa dopo un matrimonio. Usciva da quelle case sopraffatta dalla repulsione, incapace persino di pensare fino a quando faceva ritorno nel suo appartamento, dove l'aria era impregnata del sano odore degli insetticidi e delle pastiglie velenose che spargeva dappertutto, sopra fette di patate, o nascondeva nelle centinaia di fessure di cui solo lei e gli scarafaggi conoscevano l'esistenza. «Almeno» pensava «io il mio appartamento lo tengo pulito.» E infatti, il linoleum sotto l'acquaio, quello sotto la cucina, la parete posteriore della cucina stessa e la carta bianca che ricopriva gli scaffali della sua dispensa erano immacolati. Marcia si chiedeva come gli altri potessero trascurare di fare altrettanto. «Devono essere portoricani» concludeva ogni volta, rabbrividendo ancora di disgusto al pensiero di questi scarafaggi morti, del sudiciume e delle malattie. Un'avversione così spiccata per gli insetti, per un particolare tipo di insetti, potrebbe sembrare esagerata, ma in questo Marcia Kenwell non rappresentava certo un'eccezione. Ci sono molte donne, soprattutto donne nubili come lei, che provano sentimenti simili, anche se, per puro spirito di carità, ci auguriamo che sfuggano al peculiare destino di Marcia. La fobia di Marcia, come accade in molti casi di questo genere, era di origine ereditaria. Intendiamo dire che l'aveva ereditata dalla madre, la quale nutriva una paura morbosa per tutto ciò che strisciava, correva o viveva rintanato in minuscoli buchi. Topi, rane, serpenti, vermi, cimici: la sola vista di uno qualsiasi di questi animali poteva procurarle una crisi isterica, e sarebbe stato un vero miracolo se la piccola Marcia non avesse ereditato da lei questa avversione. Tuttavia era strano che la sua paura avesse assunto un carattere così specifico, e ancora più strano che fossero soprattutto gli scarafaggi a colpire la sua fantasia, perché Marcia non ne aveva mai visto uno in tutta la sua vita, né sapeva che cosa fossero. (I Kenwell erano una famiglia del Minnesota e nelle famiglie del Minnesota non ci sono scarafaggi). Del resto il problema non le si presentò fino a quando non compì diciannove anni e partì (armata di un semplice diploma di scuola superiore
e di coraggio, perché, dovete sapere, Marcia non era una ragazza particolarmente carina) alla conquista di New York. Il giorno della partenza la sua zia preferita, e l'unica ancora che le restasse al mondo, l'accompagnò alla stazione delle corriere (essendo lei orfana di entrambi i genitori) e prima dei commiati finali le diede quest'ultimo consiglio: — Mia cara Marcia, stai attenta agli scarafaggi. New York è piena di quelle bestiacce. — In quel momento (come sempre, del resto) Marcia non prestò attenzione alle parole della zia, che fin dall'inizio si era opposta a quel viaggio, adducendo centinaia di ragioni per le quali Marcia non sarebbe dovuta partire, almeno fino a quando non fosse stata più grande. Sua zia aveva dimostrato di avere ragione in tutti i sensi; dopo cinque anni di vita a New York e dopo avere consultato, e pagato, quindici diverse agenzie di collocamento, non era riuscita a trovare che lavori noiosi e con stipendi alquanto mediocri; adesso non aveva più amici di quanti non ne avesse quando abitava nella West Road e, fatta eccezione per la vista (un grande magazzino, il Chock Full O'Nuts, ed un pezzetto di cielo), il suo attuale appartamento, al limite meridionale di Thompson Street, non rappresentava certo un grande passo avanti rispetto a quello precedente. New York era una città piena di promesse che, a quanto sembrava, riguardavano soltanto gli altri. Marcia aveva scoperto che era una città viziosa, indifferente, sporca e pericolosa. Ogni giorno, sul giornale, leggeva di donne aggredite nelle stazioni della metropolitana, violentate per la strada o accoltellate nel loro letto, mentre centinaia di altre persone se ne stavano a guardare incuriosite e senza prestare alcun aiuto. E, come se ciò non bastasse, c'erano pure gli scarafaggi! Gli scarafaggi erano dappertutto, ma Marcia non si accorse della loro presenza se non dopo un mese dal suo arrivo a New York. Vennero da lei, oppure fu lei ad andare da loro, nel negozio di Mr. Silversmith, in Nassau Street, una cartoleria in cui lavorava da tre giorni. Era stato il primo impiego che era riuscita a trovare. Da sola o con l'aiuto di un magazziniere foruncoloso (in tutta onestà non si può negare che anche Marcia avesse problemi di acne), trascorreva lunghe ore in un seminterrato ammuffito fra file e file di scaffali metallici dal bordo tagliente, per fare l'inventario delle risme, delle pile e delle scatole di carta, delle agende in similpelle, delle graffette, delle puntine da disegno e della carta carbone. Il seminterrato era sporco e così buio che Marcia aveva bisogno di una pila per poter controllare gli scaffali più bassi. Nell'angolo più oscuro del locale, c'era un ac-
quaio grigio nel quale, da un rubinetto mai riparato, gocciolava perennemente l'acqua; Marcia si stava riposando lì vicino, sorseggiava una tazza di caffè tiepido (corretto, secondo le abitudini newyorkesi, con latte e molto zuccherato) e pensava a come avrebbe potuto comprarsi molte cose che semplicemente non poteva permettersi, quando notò alcune macchie scure che si muovevano sulla parete dell'acquaio. Dapprima pensò che fossero soltanto alcuni bruscoli che le offuscavano la vista, oppure quelle strane ombre nere che si vedono quando si sforzano troppo gli occhi nelle giornate di sole. Ma le macchie restavano troppo a lungo per essere soltanto immaginarie e Marcia si avvicinò, sentendosi in qualche modo obbligata a controllare di persona. «Come faccio a sapere che sono insetti?» pensò. Come possiamo spiegare il fatto che ciò che ci ripugna di più sovente al tempo stesso, ci attira enormemente? Perché il cobra è così bello quando è sul punto di mordere? Il fascino dell'orrore è qualcosa che... Qualcosa di cui preferiremmo non parlare. Quest'argomento rasenta l'orrido, e non c'è alcun bisogno di affrontarlo in questa sede, se non per sottolineare lo stupore attonito con cui Marcia osservò quei primi scarafaggi della sua vita. La sua sedia era così vicina all'acquaio che poteva distinguere chiaramente le screziature dei loro corpi ovali e non segmentati, il moto frettoloso delle loro zampe e le vibrazioni anche più rapide delle loro antenne. Si muovevano a casaccio, senza uno scopo o una direzione precisa. Sembrava fossero turbati da qualcosa di inesistente. «Che la mia presenza,» pensò Marcia «produca su di loro qualche effetto morboso?» Solo allora si rese conto, si rese conto fino in fondo, che quelli erano gli scarafaggi contro i quali l'aveva messa in guardia sua zia. All'improvviso fu sopraffatta da una violenta ripugnanza, le si accapponò la pelle, urlò e cadde all'indietro sulla sedia, evitando per poco di ribaltare uno scaffale carico di giacenze. Contemporaneamente gli scarafaggi scomparvero oltre il bordo dell'acquaio e si rifugiarono nel tubo di scarico. Mr. Silversmith, che si era precipitato di sotto richiamato dall'urlo, trovò Marcia supina e priva di sensi. Le spruzzò un po' d'acqua sul viso e lei si riebbe e rabbrividì, colta da un profondo senso di nausea. Si rifiutò di spiegare perché avesse gridato e, con un tono che non ammetteva repliche, comunicò a Mr. Silversmith il proprio auto-licenziamento. Lui, immaginando che il magazziniere foruncoloso (che era suo figlio) avesse fatto qualche proposta alla ragazza, le pagò i tre giorni che aveva lavorato e la lasciò andare senza rimpianti. Da quel momento in poi gli scarafaggi erano destinati a diventare parte integrante nella vita di Marcia Kenwell.
Nell'appartamento di Thompson Street Marcia riuscì a raggiungere una sorta di tregua con gli insetti. Si rassegnò a una tranquilla routine di polveri e pastiglie, di pulizie minuziose, di prevenzione (non beveva mai una tazza di caffè senza lavare e asciugare tazza e caffettiera subito dopo) e di sterminio spietato. Gli unici scarafaggi che sconfinavano nelle due stanze, che era riuscita a rendere molto accoglienti, erano quelli provenienti dall'appartamento sottostante, ma non ci restavano a lungo, potete esserne certi. Marcia avrebbe potuto protestare presso la sua padrona di casa, ma il fatto era che l'appartamento dal quale provenivano gli scarafaggi era proprio quello della padrona. Era stata a casa sua una volta, per un bicchiere di vino alla vigilia di Natale, e doveva ammettere di non averla trovata eccezionalmente sporca. Anzi, in verità era più pulita della media, ma la media non era sufficiente per New Yoik. «Se tutti» pensava Marcia «si dessero la pena che mi dò io, nel giro di poco tempo non ci sarebbero più scarafaggi in questa città.» Poi (era marzo, e Marcia ormai viveva a New York da sei anni e mezzo) nell'appartamento accanto vennero ad abitare gli Shchapalov. Erano in tre, due uomini e una donna, probabilmente vecchi: quanti anni avessero esattamente era difficile dirlo, nella loro vecchiezza c'era qualcosa d'altro, di diverso, di più del segno degli anni vissuti. Forse non avevano più di quarant'anni. La donna, per esempio, benché conservasse ancora i suoi capelli castani, aveva il viso grinzoso come una prugna secca e le mancavano parecchi denti. Aveva l'abitudine di fermare Marcia nel corridoio o per la strada afferrandola per la manica del cappotto, e di mettersi a chiacchierare con lei: ma si trattava invariabilmente di qualche semplice lamentela sul tempo, sempre troppo caldo o troppo freddo o troppo umido o troppo secco. Marcia non riusciva mai a capire nulla di quello che la donna diceva, perché più che parlare biascicava. Poi, con la sua borsa piena di vuoti, si avviava barcollando verso la drogheria. Perché, vedete, gli Shchapalov bevevano. Marcia, che aveva un'idea un po' esagerata del costo degli alcoolici (la bevanda più economica a cui riusciva a pensare era la vodka), si chiedeva dove trovassero i soldi per comprare tutte quelle bottiglie. Vivono con i sussidi statali, aveva concluso alla fine. O forse l'uomo con un occhio solo era un veterano in pensione. Le loro liti non la disturbavano più di tanto (era raramente a casa di po-
meriggio), ma quello che proprio non riusciva a sopportare era la loro abitudine di cantare. Cominciavano alla sera presto, cantando insieme alla radio. Sembrava non ascoltassero altro che brani di Guy Lombardo. Poi, verso le otto, intonavano canti di cappella. Suoni strani, privi di sentimento, che aumentavano e diminuivano di volume come le sirene della Protezione Civile; e poi si sentivano muggiti, abbaiamenti e urla. Marcia aveva udito qualcosa del genere tempo prima, ascoltando un disco di canti matrimoniali cecoslovacchi. Quando iniziavano quei suoni orribili, Marcia andava fuori di sé, balzava in piedi e non poteva fare a meno di uscire di casa fino a quando non avevano finito. Lamentarsi non sarebbe servito a niente: gli Shchapalov avevano diritto di cantare a quell'ora. Per di più, a quanto pareva, uno dei due uomini era stato sposato con la padrona di casa. Questo era il motivo per cui avevano ottenuto quell'appartamento che, fino al loro arrivo, era stato adibito a magazzino. Marcia non riusciva a capire come quei tre potessero vivere in un posto così piccolo, una stanza e mezza con una finestra stretta che dava su un pozzo di aerazione. (La ragazza aveva scoperto che poteva godere di una visione completa dell'appartamento degli Shchapalov attraverso un buco che gli idraulici avevano praticato nel muro quando avevano installato un acquaio per loro). Ma se i loro canti la esasperavano, che cosa avrebbe dovuto dire degli scarafaggi? La donna del trio, che era la sorella di uno dei due uomini e sposata all'altro, o forse i due uomini erano fratelli e lei era la moglie di uno dei due (a volte, a giudicare dalle parole che le giungevano attraverso il muro, a Marcia sembrava che non fosse sposata con nessuno dei due, oppure con entrambi), era una pessima donna di casa, e il loro appartamento era stato ben presto invaso dagli scarafaggi. Poiché l'acquaio di Marcia e quello dei suoi vicini avevano in comune sia i tubi dell'acqua che l'impianto di scarico, nell'immacolata cucina della ragazza si riversava ogni notte un'orda ininterrotta di scarafaggi. Poteva spruzzare gli insetticidi, disseminare la casa di patate avvelenate, sfregare, spolverare, tappare con i Kleenex le fessure del muro intorno alle tubature: era tutto inutile. Gli scarafaggi degli Shchapalov continuavano imperterriti a deporre migliaia di uova nella pattumiera marcescente sotto il loro lavandino. E, dopo pochi giorni, si trasferivano a frotte, attraverso le condutture e le crepe del muro, nelle credenze di Marcia. Di notte, dal suo letto, con le luci accese in ogni stanza, li guardava avanzare sul pavimento e su per i muri, portando con sé il sudiciume e le malattie dei suoi vicini.
Una sera, in cui gli scarafaggi erano particolarmente numerosi, Marcia cercò di trovare la forza di alzarsi e di attaccarli con l'insetticida. Aveva lasciato le finestre spalancate, convinta com'era che gli scarafaggi odiassero il freddo, ma poi si era resa conto che a lei quell'aria gelida piaceva ancora meno. Quando deglutiva le faceva male la gola e sentiva che stava per prendersi un raffreddore. E tutto per colpa loro! «Oh, andatevene!» implorò. «Andatevene! Andatevene! Andate via dal mio appartamento.» Si rivolse agli scarafaggi con lo stesso disperato fervore con cui a volte (anche se non spesso negli ultimi anni) si era rivolta, pregando, all'Onnipotente. Una volta aveva pregato tutta la notte affinché l'acne le scomparisse, ma il mattino dopo era peggio di prima. Quando si trovano in situazioni insopportabili le persone pregano per qualsiasi cosa. In verità, non ci sono atei fra i soldati in guerra: tutti pregano che le bombe cadano da qualche altra parte. L'unica cosa strana nel caso di Marcia, fu che le sue preghiere vennero esaudite: gli scarafaggi lasciarono il suo appartamento con tutta la velocità di cui disponevano le loro piccole zampe, e tutti in fila indiana per di più. Che l'avessero sentita? Che avessero capito le sue parole? Marcia scorse ancora uno scarafaggio che scendeva dalla credenza. «Fermati!» gli ordinò. E lui si fermò. Obbedendo ai comandi di Marcia, lo scarafaggio marciò avanti e indietro, a destra e a sinistra. Temendo che la sua fobia si fosse trasformata in follia pura, Marcia lasciò il suo letto caldo, accese la luce e si avvicinò con cautela al piccolo animale che, dal canto suo, era rimasto immobile come lei gli aveva intimato. «Muovi le antenne» gli ordinò. E lo scarafaggio agitò le piccole antenne. Allora lei si chiese se tutti gli scarafaggi avrebbero obbedito ai suoi comandi e nei giorni successivi scoprì che così era. Eseguivano ogni suo ordine. Mangiavano perfino il veleno dalle sue mani, be', non proprio dalle sue mani, ma il concetto era lo stesso. Le erano totalmente devoti, come schiavi. «Questa è la fine del mio problema con gli scarafaggi», pensò Marcia. Ma, naturalmente, quello era solo l'inizio. Marcia non si pose troppe domande sul perché della loro obbedienza. Non si era mai occupata di problemi astratti. Dopo avere dedicato agli scarafaggi tanto tempo e tanta attenzione, le sembrava del tutto naturale riuscire a esercitare un certo potere su di loro. Tuttavia, fu sufficientemente
accorta da non farne parola con nessuno, neppure con Miss Bismuth dell'agenzia di assicurazioni. Miss Bismuth leggeva riviste di astrologia e sosteneva di essere in grado di comunicare telepaticamente con sua madre che aveva sessant'otto anni e viveva nell'Ohio. Ma che cosa avrebbe potuto dirle Marcia? Che lei comunicava con gli scarafaggi? Impossibile. Né Marcia si serviva del suo potere per altri scopi che tenere gli insetti lontani da casa sua. Ogni volta che ne vedeva uno, gli ordinava semplicemente di andare nell'appartamento degli Shchapalov e di restare là. Ma era sorprendente come il numero delle bestiole che penetravano nella sua cucina fosse ogni giorno maggiore. Marcia ne dedusse che si trattava delle nuove generazioni; gli scarafaggi, si sa, si riproducono in fretta. Del resto per lei era facile rispedirli indietro dagli Shchapalov. «Andate nei loro letti» ordinò una sera ripensandoci. «Nei loro letti.» Era un'idea disgustosa, e proprio per questo le diede uno strano brivido di piacere. Il mattino seguente, quando uscì, vide che la sua vicina, che puzzava più del solito (ma che cosa diavolo bevevano? si chiedeva Marcia) la stava aspettando sulla soglia del suo appartamento. Voleva parlare con Marcia prima che si recasse al lavoro. Il suo vestito da casa era fradicio e sporco come se la donna avesse fatto un tentativo di pulire il pavimento, e mentre se ne stava seduta a parlare con lei lo strizzava per farne uscire l'acqua. «Non ne ha idea!» esclamò. «Non ha idea di quanto è terribile! È terribile!» «Che cosa?» le chiese Marcia, pur sapendo bene a che cosa la donna si riferisse. «I bacherozzi! Oh ci sono bacherozzi dappertutto. Lei non ne ha, mia cara? Io non so più che cosa fare. Cerco di tenere la casa pulita, Dio mi è testimone...» disse alzando gli occhi acquosi al cielo a riprova della veridicità delle sue parole. «Ma non so proprio che cosa fare.» Si sporse verso di lei con sguardo fiducioso: «Lei non ci crederà, mia cara, ma la notte scorsa...» Uno scarafaggio cominciò a scendere lungo le ciocche di capelli che le cadevano disordinatamente davanti agli occhi «... sono entrati nei nostri letti! Capisce? Dovevano essere almeno un centinaio. Allora io ho detto a Osip, gli ho detto... Che cosa c'è mia cara, qualcosa che non va?» Marcia, incapace di parlare per il disgusto, indicò lo scarafaggio che stava per raggiungere il dorso nasale della donna. «Ah!» gridò quest'ultima schiacciando l'animale fra le dita e pulendosi poi le mani sporche sul vestito altrettanto sudicio. «Maledetti bacherozzi! Li odio, com'è vero Iddio.
Ma che cosa deve fare un povero diavolo? Be', quello che volevo chiederle, mia cara, era se anche in casa sua ci sono i bacherozzi. Visto che abita proprio qui accanto, pensavo...» Le sorrise in modo confidenziale, come per dire che si trattava di un discorso da donna a donna. Marcia quasi si aspettava di vedere uno scarafaggio uscire dalla sua bocca attraverso i denti mancanti. «No», rispose. «Io uso l'insetticida.» Si allontanò dal vano della porta verso la più rassicurante tromba delle scale. «L'insetticida» soggiunse ancora a voce più alta. «L'insetticida», gridò dalla base delle scale. Le ginocchia le tremavano a tal punto che dovette reggersi al corrimano di metallo per non cadere. Quel giorno in ufficio, Marcia non riuscì a concentrarsi sul lavoro per più di cinque minuti di seguito. (Il suo compito, al reparto Dividendi Attuariali, consisteva nel sommare lunghe colonne di numeri di due cifre su una calcolatrice, e controllare addizioni simili fatte dalle sue colleghe). Continuava a pensare agli scarafaggi nei capelli arruffati dalla Shchapalov, al suo letto pullulante di quelle piccole bestie nere e ad altri orrori meno concreti ai margini della sua coscienza. I numeri le ballavano davanti agli occhi, e per due volte dovette recarsi in bagno, ma in entrambi i casi si trattava di un falso allarme. Tuttavia, quando arrivò l'ora di pranzo, Marcia non aveva alcuna voglia di mangiare. Così, anziché andare in mensa, preferì uscire e fare una passeggiata nella fresca aria di aprile lungo la 23a Strada. Ma, nonostante la primavera, tutto intorno a lei sembrava trasudare sporcizia, marciume e corruzione. Dalle pietre del Flariton Building trapelavano macchie nere di umidità; i canali di scolo erano pieni di residui putrescenti e molli; fuori dai ristoranti a basso prezzo l'aria puzzava di condimenti fritti, come una stanza chiusa impregnata di fumo di sigaretta. E il pomeriggio fu anche peggio. Le sue dita non riuscivano a battere i tasti giusti della calcolatrice a meno che lei non li guardasse. Una frase insensata continuava a ronzarle in testa: «Bisogna fare qualcosa. Bisogna fare qualcosa». Si era dimenticata di essere stata lei a mandare gli scarafaggi nei letti degli Shchapalov. Quella sera, anziché tornarsene subito a casa, entrò in un cinema sulla quarantaduesima dove, al prezzo di un solo biglietto, avrebbe potuto vedere due film. Non poteva permettersi gli spettacoli di prima visione. L'unica cosa che le rimase impressa alla fine delle proiezioni era il figlio di Rita Hayworth mezzo annegato nelle sabbie mobili. Poi fece qualcosa che non aveva mai fatto prima. Entrò in un bar e bevve
un bicchierino. E poi un altro. Nessuno la importunò; nessuno guardò neppure nella sua direzione. Per tornare a casa prese un taxi (la metropolitana non era sicura a quell'ora). Quando arrivò davanti al portone erano circa le undici. Non le erano rimasti più soldi per la mancia. Il tassista le rispose che capiva. Dalla porta degli Shchapalov filtrava la luce e loro stavano cantando. Erano le undici in punto. «Bisogna fare qualcosa» bisbigliò fra sé e sé Marcia in tono serio. «Bisogna fare qualcosa.» Senza accendere la luce e senza neppure togliersi la nuova giacca primaverile che aveva comprato da Ohrbach's, la ragazza s'inginocchiò e si diresse gattoni sotto l'acquaio. Strappò via i Kleenex con i quali aveva turato le fessure del muro intorno al tubo di scarico. Eccoli là, tutti e tre insieme, che bevevano, con la donna stravaccata in grembo all'uomo con un occhio solo, mentre l'altro, che indossava una canottiera sudicia, batteva il piede per terra per accompagnare le note alte e dissonanti della loro canzone. Orribile! Stavano bevendo, naturalmente, questo avrebbe dovuto immaginarlo, e adesso la donna stava premendo quella sua bocca di scarafaggio contro quella dell'uomo con un occhio solo... e lo baciava, lo baciava. Orribile, orribile. Marcia si mise le mani nei capelli color topo e pensò: «Il sudiciume, le malattie! Ecco, quello che è capitato loro la notte scorsa non è servito a nulla!» Un po' dopo (Marcia aveva perso la nozione del tempo), la luce centrale si spense nell'appartamento degli Shchapalov. La ragazza attese fino a quando non udì più alcun rumore. Poi disse: «Adesso, voi tutti, voi tutti che vivete in questo palazzo, voi tutti che mi sentite, radunatevi intorno al letto degli Shchapalov ma attendete un pochetto. Pazienza. Voi tutti...» I suoi ordini si frantumarono in parole spezzettate, che lei snocciolava come i grani di un rosario, piccoli grani ovoidali di legno scuro «... radunatevi intorno al letto... ma aspettate un pochetto... voi tutti... pazienza... radunatevi intorno al letto...» Le sue mani accarezzavano ritmicamente i tubi dell'acqua fredda e a lei sembrava di sentire gli scarafaggi arrivare, correre attraverso i muri, uscire dalle credenze, dalle pattumiere... una schiera, un esercito, di cui lei era la regina assoluta. «Ora!» disse. «Assaliteli! Ricopriteli! Divorateli!» Adesso non aveva più dubbi, li sentiva. Li sentiva in maniera palpabile. Il loro rumore era quello dell'erba nel vento, del crepitìo della ghiaia appena scaricata da un camion. Poi si udì l'urlo della donna e le bestemmie degli uomini, bestemmie così terribili che Marcia quasi non riuscì ad ascol-
tarle. Una luce si accese e Marcia poté vederli: gli scarafaggi erano dappertutto. Ogni parete, ogni superficie, le porte, i mobili malandati, ogni cosa era eterogeneamente ricoperta di Blattelae Germanicae. Ma non era un semplice strato. La donna degli Shchapalov in piedi sul letto, urlava senza sosta. La sua camicia da notte di rayon rosa era punteggiata di macchie scure. Con le dita nodose cercava di strapparsi gli scarafaggi dai capelli e dalla faccia. L'uomo in canottiera che fino a poco tempo prima aveva battuto il piede per terra al ritmo della musica, adesso lo batteva con molta più insistenza, mentre con una mano teneva il cordone della lampada. Dopo un po' gli scarafaggi schiacciati resero il pavimento viscido e lui scivolò. La luce si spense. Il grido della donna si fece più soffocato come se... Ma Marcia preferì non pensarci. «Va bene così» sussurrò. «Basta. Fermatevi!» Ritornò carponi verso il letto, che di giorno, con alcuni cuscini a fiorellini, cercava di camuffare in divano. Marcia faceva fatica a respirare e aveva la gola stranamente serrata. Inoltre sudava in modo eccessivo. Dall'appartamento degli Shchapalov giunsero suoni confusi, poi il rumore di una porta sbattuta, di passi frettolosi e infine un tonfo sordo, come di un corpo caduto giù per le scale. E poi la voce della padrona di casa: «Che cosa diavolo...» Altre voci si sovrapposero alla sua. Frasi sconnesse e passi in corsa su per le scale. E ancora una volta la padrona di casa: «Ma qui non c'è nessun bacherozzo! I bacherozzi sono nella vostra testa, altro che! Avete il delirium tremens, ecco che cosa avete. E davvero non ci sarebbe da meravigliarsi se ci fossero gli scarafaggi. La vostra casa è uno schifo. Una volta questo era un palazzo decoroso!» Gli Shchapalov non protestarono per lo sfratto. Anzi, non aspettarono nemmeno il mattino seguente per andarsene. Lasciarono l'appartamento quella notte stessa portandosi via solo una valigia, una borsa della lavanderia e un tostapane elettrico. Marcia li guardò scendere le scale. «È finita» pensò. «È tutto finito!» Sospirò, provando un piacere quasi sensuale e accese l'abat-jour sul comodino e poi le altre lampade. La stanza brillava nel suo candore immacolato. A quel punto decise di celebrare la vittoria e si avviò alla credenza dove teneva una bottiglia di crema di menta. La credenza era piena di scarafaggi. Del resto lei non aveva ordinato loro dove andare o dove non andare dopo avere lasciato l'appartamento degli Shchapalov. Era colpa sua.
La grande massa silenziosa degli scarafaggi guardava Marcia con calma, e alla ragazza preoccupata sembrò di leggere i loro pensieri, anzi il loro pensiero, perché erano tutti accomunati da un solo, unico pensiero. Riusciva a leggerlo chiaramente, proprio come leggeva con chiarezza l'insegna luminosa del Chock Full O'Nuts fuori dalla finestra. Era una musica delicata, prodotta da migliaia di piccoli flauti. Era un'armonica antica che aveva ripreso a suonare dopo secoli di silenzio: «Noi ti amiamo, noi ti amiamo, noi ti amiamo, noi ti amiamo.» E allora accadde qualcosa di strano nell'intimo di Marcia, qualcosa che non era mai avvenuto prima. Lei rispose. «Anch'io vi amo» disse. «Vi amo. Venite da me, voi tutti. Venite da me, io vi amo. Venite da me, io vi amo. Venite da me.» Titolo originale: The Roaches Traduzione: Elisabetta Svaluto Theodore Sturgeon La parentesi felice Nonostante rientrino in generi letterari diversi, nell'ambito della fantascienza le opere di narrativa di Theodore Sturgeon furono pubblicate durante tutta la brillante carriera dell'Autore. Egli fu uno dei grandi maestri americani nella composizione dei racconti, e in genere viene considerato il più grande ed esperto scrittore di fantascienza e di letteratura fantastica del periodo compreso tra gli anni '40 e gli anni '70. I suoi racconti vennero pubblicati sulle riviste di John W. Campbell Astounding e Unknown, ed egli ottenne il massimo impatto sul pubblico con la narrativa fantastica e soprattutto con i racconti dell'orrore comparsi su Unknown. Fu un maestro per il giovane Ray Bradbury che scrisse un'introduzione entusiasta per la prima raccolta di Sturgeon, Without Sorcery (1949). Ma fu negli anni '50, in particolare con opere quali Some of Your Blood e And Now the News che Sturgeon raggiunse l'apice del suo potere narrativo. Bright Segment (La parentesi felice) venne pubblicato nel 1955 ed è un classico della narrativa dell'orrore, un esempio di come Sturgeon sia in grado di servirsi magistralmente dell'introspezione psicologica. I suoi contributi ai generi del fantastico e dell'orrore vennero riconosciuti con l'assegnazione del premio Life Achievement da parte della World Fantasy Convention.
Lui non aveva mai tenuto in braccio una ragazza prima di allora. Non era atterrito, il suo terrore si era già esaurito prima, mentre la portava in casa e si chiudeva la porta alle spalle con un calcio, e mentre sentiva il rumore regolare del sangue che colava dalla gonna inzuppata, e prima ancora, quando aveva creduto che lei giacesse morta sul marciapiede, e di nuovo quando lei aveva emesso quel suono, come un sospiro o un mormorio sommesso. L'aveva portata in casa, e quando aveva visto tutto quel sangue si era girato a destra, e poi a sinsitra, e l'aveva posata a terra completamente stordito mentre le tempie gli martellavano per una fatica cui non era avvezzo. Riusciva a tenere in mente un unico concetto: non sporcare di sangue il copriletto. Accese la luce in mezzo alla stanza e ristette per un istante sbattendo le palpebre, col fiato grosso; improvvisamente balzò verso la finestra per abbassare la saracinesca e chiudere fuori le luci della strada che lo fissavano e tutti gli altri occhi indiscreti. Egli vide le proprie mani che si protendevano verso la cinghia della saracinesca e si bloccò: erano rosse, ed avrebbero tinto di rosso qualsiasi cosa avesse toccato. Produsse un suono, una porzione staccata del suo cervello riconobbe in esso la copia identica di quel gemito agonizzante della ragazza lì fuori, sulla strada buia e bagnata; raggiunse a fatica l'interruttore della luce trovandovi una macchia rossa e consapevole del fatto che mentre lo toccava ne stava producendo un'altra. Inciampando raggiunse il lavandino nell'angolo e si lavò le mani, le lavò di nuovo, guardandosi continuamente dietro le spalle per vedere il corpo della ragazza e il largo e piatto dito di sangue che gli veniva incontro strisciando sul linoleum. Aveva ripreso fiato ora, si avvicinò alla finestra più attento. Abbassò la saracinesca e tirò le tende e guardò ai lati e alla base della finestra per verificare che non vi fossero fessure. Nella più totale oscurità, raggiunse la parete opposta a tentoni camminando lungo il bordo del linoleum, quindi riaccese la luce. Il dito di sangue ora era un tentacolo che si avvicinava al pavimento di legno su cui non vi erano macchie. Prese in fretta una spugna dal ripiano smaltato di fianco ai fornelli e la lasciò cadere sulla punta del tentacolo che avanzava, quindi fu soddisfatto, non si muoveva più: era solo un qualcosa che era stato rovesciato e si poteva asciugare. Tolse il copriletto e lo appese sulla testiera di ottone; da un cassetto della cristalliera e dal tavolo a gambe mobili estrasse le sue due tovaglie di tela cerata. Con esse coprì il letto, sovrapponendone un bel pezzo nel centro, poi si fermò per un attimo, molto preoccupato, tirandosi il labbro inferiore con il pollice e l'indice. «Sistema tutto per benino» si disse con fare deciso.
«Anche se muore prima che tu riordini tutto, non fa niente, basta che sistemi le cose, e bene.» Espulse l'aria dalle narici e prese alcuni libri dal ripiano della cristalliera: un atlante geografico di sei anni prima, mezza dozzina di romanzi in edizione economica, un pesante catalogo di accessori per gioielleria. Allontanò il letto dal muro e pose i libri, uno per uno, sotto a due piedi del letto in modo che il lato della testa risultasse leggermente più alto e il letto fosse inclinato. Prese una coperta e la arrotolò, quindi la infilò sotto la tela cerata in modo da formare una sorta di barriera lungo il lato più alto. Da sotto l'acquaio prese un pentolone d'alluminio da 7 litri e lo sistemò sul pavimento in corrispondenza dell'angolo più basso del letto, proprio sotto il lembo pendente della tela cerata. Quindi si rivolse soddisfatto alla ragazza. «E ora sanguina pure» disse. Si chinò su di lei gemendo per lo sforzo di sollevarla tenendola sotto le ascelle. La testa della ragazza si rovesciò all'indietro come se il collo fosse privo di ossa; lui la lasciò quasi cadere. La trascinò verso il letto lasciandosi dietro una larga scia rossa prodotta dalla gonna che strisciava nella pozza scarlatta in cui era giaciuta. La sollevò del tutto da terra, puntò bene i piedi e si curvò sul letto tenendola sulle braccia. Fu uno sforzo più grande di quanto avesse previsto. Si rese conto solo allora di come fosse inzuppato, stanco e vecchio. La posò con fare impacciato lasciandosela quasi sfuggire di mano per non spostare la tela cerata sistemata con tanta cura, e quasi cadde sul letto assieme a lei. Si allontanò a fatica, ansimando, sentendosi le braccia come di gomma. Il sangue iniziò a raccogliersi presso l'orlo inzuppato della gonna e, mentre egli l'osservava, prese pigramente a colare verso l'angolo basso. «Tanto, tanto sangue in una persona» pensò tra sé e sé e poi: «fermarlo, come fare a fermarlo se non si vuole fermare?» Lanciò uno sguardo verso la porta chiusa a chiave, la finestra con le saracinesche abbassate, l'orologio. Tese le orecchie. Ora pioveva più forte, la pioggia battente sibilava in quelle che erano le ore più buie. Non sentiva altri rumori; la casa era addormentata, la strada morta. Era solo con quel suo fardello. Si tirò il labbro, ma allontanò subito la mano avvertendo gusto di sangue. Tossì e corse verso il lavandino, sputò e si sciacquò la bocca, quindi le mani. «Bene, ora vai a telefonare...» Telefonare? A chi? L'ospedale avrebbe chiamato poi i piedipiatti? Tanto
valeva telefonare direttamente ai piedipiatti. «Stupido. Che cosa potrei dire loro... che è mia sorella ed è stata investita da una macchina, mi crederanno? Dire la verità: a un isolato da casa vedo che qualcuno la spinge fuori da una macchina, se ne va, a fari spenti, pioveva, la porto al coperto, solo dopo essere entrato in casa mi accorgo che sta sanguinando così, e loro mi credono? Stupido. Cosa ti prende, perché non ti fai gli affari tuoi?» Pensò di riportare la ragazza fuori sotto la pioggia. «Sì, e poi ti vede qualcuno: stupido.» Vide che l'ampia pozza variegata di sangue sul linoleum si faceva più opaca nei punti in cui era più sottile, si seccava e veniva assorbita. Raccolse la spugna, che ora era rossa per due terzi e per il resto del suo colore originale azzurro pallido, a parte un'estremità che sembrava pane colorato con una matita rossa ben appuntita. La voltò in modo che non colasse mentre la trasportava e andò a sciacquarla nel lavandino strizzandola molte volte sotto l'acqua corrente. «Stupido, chiama qualcuno e fatti aiutare.» Chiamare chi? Pensò ai grandi magazzini in cui per diciotto anni aveva messo la cera sui pavimenti e pulito la moquette con l'aspirapolvere durante la notte. Il vicinato: conosceva il droghiere e il macellaio. Tutto chiuso, addormentato, ognuno a casa propria; nomi e numeri che non conosceva, e poi, di chi poteva fidarsi? «Mioddio, cinquantatré anni e non ti sei fatto un solo amico!» Prese la spugna pulita e s'inginocchiò sul linoleum proprio quando la lingua di sangue che colava lungo il letto raggiunse l'angolo e si trasformò in una cascatella; splash, entrò nella pentola, e poi tic, tic, tictictic, più in fretta, poi plink, plink, plink, plink, tre al secondo, senza sosta. Capì allora, in ritardo, ma con assoluta certezza, che quel sangue non si sarebbe fermato da sé. Gemette piano, quindi si alzò e andò a dormire. «Non morire» le disse a voce alta, e il suono della propria voce lo spaventò. Posò una mano sul petto della ragazza, ma la ritirò subito quando vide che la camicetta era strappata e che anche da lì sgorgava sangue. Deglutì una boccata di saliva e iniziò ad armeggiare con i vestiti della ragazza. Scarpe basse da ballerina, consunte, bagnate, sottili come carta e piccoli affanni di seta che non aveva mai visto prima, come dei collant che coprivano solo i piedi. E ancora sangue, ma no, era smalto screpolato, quello sulle unghie dei suoi piedi bianchi. La gonna aveva un bottone lateralmente e una cerniera lampo, cosa che lo sorprese per un attimo, ma li aprì e poi le sfilò la gonna con un'interminabile serie di strattoni dal bordo,
da una parte e dall'altra, mentre il corpo della ragazza si muoveva piano secondo i suoi movimenti. Piccole mutandine di seta completamente imbevute di sangue e tagliate in profondità sul lato sinistro tanto che egli le poté aprire facilmente con le mani; sull'altro lato invece erano incredibilmente robuste ed egli dovette andare a prendere le forbici per tagliarle. La camicetta era abbottonata sul davanti e non fu difficile sfilarla; sotto c'era un reggiseno tagliato a metà proprio in mezzo. Egli lo sollevò ma dovette tagliare una delle spalline con le forbici per liberarlo. Corse al lavandino con la spugna, la sciacquò e strizzò, riempì una casseruola d'acqua calda e tornò di corsa. Spugnò tutto il corpo della ragazza; pareva sodo ma troppo magro, con l'ombra delle costole tutte in fila su ogni lato e le ossa del bacino che sporgevano appuntite. Sotto il seno sinistro c'era un lungo taglio che partiva davanti, dalle costole, e quindi risaliva quasi fino a raggiungere il capezzolo. Sembrava profondo, ma il sangue ne sgorgava lentamente. Dall'altro taglio invece, quello all'inguine, uscivano fiotti regolari di sangue lucente, uno dopo l'altro, impazienti ma deboli. Aveva già visto qualcosa di simile la volta che Garber aveva perso il braccio nel vano dei cavi dell'ascensore, ma allora il sangue era schizzato a trenta centimetri di distanza. Forse anche questo aveva fatto altrettanto, ma ora stava rallentando, ora si fermerà... «sì, e tu, stupido, hai qui un cadavere e vuoi raccontare le tue storie alla polizia.» Sciacquò la spugna nell'acqua e tamponò la ferita. Prima che potesse nuovamente riempirsi egli allontanò i lembi del taglio e guardò dentro. Vedeva chiaramente l'arteria femorale, che pareva un fascio di spaghetti, recisa quasi completamente; poi, di nuovo, non vide altro che sangue. Si accucciò sui calcagni tirandosi distrattamente il labbro con quella mano imbrattata di sangue e tentando di pensare. Pizzica, chiudi, premi. Pinze, Pinzette! Raggiunse di corsa la cassetta degli attrezzi e l'aprì con le unghie. Diversi anni prima aveva imparato a costruire sottili catenine di filo argentato a sezione quadrata e aveva trascorso il suo tempo a fare un anellino dopo l'altro, saldandoli uno per uno con un cannello ad alcool e un ferro a punta. Prese le pinzette, ma poi le lasciò andare e preferì invece un piccolo morsetto a molla che gli era servito per tenere ogni maglia mentre vi lavorava. Corse al lavabo, lavò la pinza e tornò vicino al letto. Pulì nuovamente con la spugna il laghetto di sangue e rapidamente inserì il morsetto nella ferita riuscendo a stringere con le sottili punte l'arteria nei pressi del taglio. Subito ci fu un altro fiotto di sangue. Egli lo assorbì con la spugna, e per un'improvvisa ispirazione tolse il morsetto e lo spostò dall'altra
parte del taglio. Il sangue continuava a scorrere dall'interno della ferita, ma ora non più a fiotti regolari. Si appoggiò sui talloni ed espirò dolorosamente il fiato che doveva avere tenuto sqspeso per due minuti. Gli dolevano gli occhi per la fatica e aveva ancora una gran confusione in testa, ma oltre a questo c'era una sensazione, una sensazione nuova, quasi come un dolore o una pena localizzabile in ogni dove e in nessun luogo dentro di lui; lo faceva ridere ma al contempo gli bruciavano gli occhi; da essi usciva sale bollente che faticava a passare. Dopo qualche tempo si riprese sbattendo le palpebre per scacciare la stanchezza e balzò in piedi per una necessità improvvisa. Devi sistemare tutto. Raggiunse l'armadietto dei medicinali che si trovava sopra il lavandino. Cerotto, pacco di compresse di garza. «Forse non sono abbastanza grandi, pazienza, le unisco, sistemo bene. Tubetto nuovo di questo sulfa... vattelapesca-hmm, sistema qualsiasi cosa, quando mi è entrata la polvere dell'aspirapolvere nel taglio che avevo sulla mano, infezione. Sistemato anche i foruncoli.» Riempì una pentola e la sua casseruola d'acqua pulita e le mise sul fuoco. Cucire, sì. Trovò aghi, filo bianco, li buttò nell'acqua. Tornò vicino al Ietto e rimase meditabondo per diverso tempo guardando il sangue che scorreva sotto il petto della ragazza. Con la spugna assorbì il sangue della vena femorale e stette a osservarla pensoso fino a quando esso ricopri nuovamente l'arteria che aveva pinzato. Non ne era certo, ma aveva qualche vago ricordo di pinze emostatiche che dovevano essere aperte ogni tanto altrimenti erano guai; lo stesso valeva per le arterie, magari? Meglio ricucire l'arteria, era solo tagliata, non recisa del tutto. Se fosse riuscito a scoprire come fare in modo che restasse un tubo, e non come una calza rammendata. Così nella pentola andarono a finire le pinzette, un paio di piccole pinze appuntite e, dopo ulteriori meditazioni, una dozzina di aghi d'argento per spille presi dai suoi arnesi da gioielliere. Nell'attesa che bollisse l'acqua tornò a ispezionare le ferite. Si tirò il labbro aggrottando la fronte, quindi prese un altro ago sottile e lo tenne con la pinzetta sulla fiamma del fornello fino a quando fu incandescente. Con un'altra delle sue pinzette lo curvò formando un piccolo semicerchio e lo lasciò cadere nell'acqua. Tagliò a strisce sottili la spugna e buttò in acqua anche quelle. Guardò l'orologio appeso al muro e poi per dieci minuti strofinò con il detersivo il ripiano bianco smaltato della cucina. Lo inclinò verso l'acquaio, lo sciacquò sotto l'acqua corrente, quindi vi versò lentamente il contenuto della pentola. Lo portò verso il fornello tenendolo con una mano
mentre pescava nella casseruola in cui bolliva l'acqua; fino a quando riuscì a fare emergere l'impugnatura delle pinze. Le afferrò soddisfatto con uno strofinaccio pulito e delicatamente trasferì tutto, una cosa alla volta, dalla casseruola al ripiano. Quando ebbe ritrovato anche l'ultimo degli aghi e tutte le spille d'argento che giocavano a nascondino sul fondo della casseruola, gli colava il sudore negli occhi e si sentiva cascare il braccio con cui reggeva il ripiano smaltato, ma egli afferrò con i suoi denti tozzi e gialli e lo tenne su. Trasportando il ripiano spinse a calci una sedia di legno attraverso la stanza un po' alla volta fino a quando giunse nei pressi del letto e appoggiò il suo fardello sul sedile. «Questo non è un ospedale» pensò, «ma io sistemo tutto». Ospedale! Sì, nel film... Aprì un cassetto, ne estrasse un fazzoletto bianco pulito e tentò di legarselo sulla bocca e il naso come nei film, ma la sua faccia bitorzoluta e la sua testa quadrata non ci stavano sotto un solo fazzoletto. Ce ne vollero tre prima che ci riuscisse; un grande lembo bianco gli pendeva giù per la schiena: sembrava un aereo. Si guardò le mani sconsolato, quindi sollevò le spalle, e allora niente guanti di gomma, al diavolo. «Lavo bene». Aveva già le mani rosa e grinzose a causa del suo lavoro, egualmente tornò all'acquaio e grattò un pezzo di sapone finché le sue unghie indurite ne furono piene, quindi le pulì con una lima fino a quando gli fecero male, e le lavò e pulì ancora una volta. Infine s'inginocchiò accanto al letto levando delicatamente come per un saluto musulmano quelle mani grinzose. Fu quasi sul punto di pizzicarsi il labbro, ma seppe resistere. Premendo il tubetto spalmò sul ripiano del tavolo due masserelle di unguento sulfamidico e con le pinzette vi intinse due pezzi di spugna fino a quando furono completamente impregnati di quella roba cremosa. Asciugò la ferita femorale e pose le due spugne medicate ai lati della stessa lasciando esposta l'arteria in basso. Con pinze e pinzette riuscì a fatica ad infilare l'ago ricurvo sopprimendo l'istinto di bagnare con la saliva l'estremità del filo. Riuscì a cucire l'arteria con quattro piccoli punti sotto il taglio, attraverso di esso e quindi sopra ad esso. Annodò ogni punto con enorme attenzione in modo che il filo non recidesse i tessuti ma riunisse egualmente i due lembi della ferita. Quindi si sedette sui talloni per riposare: aveva le spalle in fiamme per la tensione e gli occhi appannati. Poi, con un profondo re-
spiro tolse il morsetto. Il sangue inondò la ferita e la spugna, ma fluiva lentamente, senza schizzare. Rabbrividì. Che fare? Usare una toppa per camere d'aria? Assorbì ancora una volta il sangue e riempì rapidamente l'incisione di unguento coprendola con una compressa di garza più che altro per non vederla. Si asciugò le sopracciglia, quindi fissò lo sguardo sulla parete opposta come faceva quando si dedicava alle catenine d'argento. Quando gli si schiarì la vista rivolse la sua attenzione verso il lungo taglio sotto il seno della ragazza. Non sapeva come cucirlo, tant'era lungo, ma sapeva fare da mangiare e sapeva come si ricuce un pollo ripieno. Mordendosi la lingua infilò la prima delle due spille d'argento nella carne, perpendicolarmente all'incisione, riunendo i due lembi. Iniziò a inserire la seconda spilla a due centimetri di distanza, lo stesso fece per la terza. La quarta incontrò una certa resistenza dopo essere penetrata nella carne; egli si spaventò come se qualcuno avesse sbattuto una porta e si morse forte la lingua. Ritirò la spilla e ispezionò la parte con le pinzette. Si, c'era qualcosa di duro. Spinse le punte della pinzetta più in profondità avvertendo che penetravano nei tessuti non tagliati con un lieve scricchiolio che solo un polpastrello timoroso poteva avvertire. Represse un brivido e sollevò lo sguardo sul viso della ragazza. Decise di non farlo mai più. Pareva proprio il viso di una morta. Stupido! Ma il rimprovero si perdette nella sua concentrazione proprio come era nato. Le pinze avevano afferrato qualcosa di rigido, scivoloso ed ostinato. Egli tentò di spostare delicatamente quell'oggetto sorpreso e al contempo infastidito da quella carne sconosciuta che si apriva mentre egli si muoveva. Gradualmente, molto gradualmente, iniziò a comparire un angolo tagliente di qualcosa. Egli procedette fino a quando la parte sporgente fu sufficientemente grande da permettergli di afferrarla con le dita; quindi depose le pinzette ed estrasse delicatamente quell'oggetto. Il sangue iniziò a sgorgare in abbondanza prima che egli ne estraesse metà, ma non desistette fino a quando non l'ebbe estratto completamente. La luce colpì una striscia d'acciaio tagliente dai bordi irregolari; egli dovette rigirarsela tra le dita due volte prima di rendersi conto che si trattava di un pezzo di lama di rasoio. Lo depose sul tavolo smaltato pensando alla reazione della polizia se egli avesse consegnato la ragazza raccontando la storia di quell'incidente di macchina. Asciugò il sangue e divaricò la ferita quanto più poté. Il capezzolo fremette sotto le sue dita, il suo alone rosa era tutto raggrinzito. Grugnì pensando che un insetto si fosse infilato sotto la sua mano, ma poi si rese con-
to che, qualunque fosse il motivo di quel movimento, certamente era una garanzia che la ragazza viveva ancora, almeno per il momento. Doveva riprendere da capo: asciugare la ferita, aprirla e riempirla di unguento quanto più possibile. Quindi procedette con l'inserimento delle spille d'argento fino a quando ebbe costruito una specie di scaletta di dodici «gradini» tra le due estremità del taglio. Mise il filo doppio, lo fece passare attorno alla prima spilla, e inserì sotto le due estremità del filo. Tenendole ambedue con una mano avvicinò delicatamente i lembi della ferita, quindi tirò senza tagliare il filo; incrociò le estremità e le fece passare sotto la seconda spilla e di nuovo avvicinò i lembi della ferita. Continuò così fino alla fine incrociando i fili tra una spilla e l'altra. Giunto in fondo li annodò e tagliò. Tutto il suo lavoro era macchiato di sangue e unguento, ma quando lo pulì gli parve ben fatto. Si alzò e il sangue riprese lentamente a irrorargli le gambe indolenzite. Era bagnato fredicio, e si sentiva colare le gocce di sudore tra i peli delle gambe come una migrazione di cimici. Abbassò lo sguardo per osservarsi: rughe, acqua e sangue. Lanciò un'occhiata allo specchio storto e vide uno spiritello maligno con le sopracciglia sporgenti come mensole e gli occhi infossati ed adombrati, i capelli brizzolati che neanche una volta lavati, avrebbero mai perso quel colore fuligginoso, e una grande macchia di sangue dove la bocca si nascondeva dietro la benda. Se la tolse di scatto e guardò di nuovo. Sempre meglio coprirsi la faccia, in ogni caso. Trascinò stancamente il tavolo smaltato verso il lavabo, si lavò le mani e gli avambracci, si tolse i fazzoletti dal collo e si lavò la faccia. Quindi prese quello che gli restava della spugna, un tegame pieno d'acqua calda con detersivo e tornò vicino al letto. Ci vollero delle ore. Con la spugna lavò le tovaglie su cui giaceva la ragazza, la spostò delicatamente in modo da non tendere le ferite; lavò e asciugò le superfici su cui era giaciuta. Lavò la ragazza dalla testa ai piedi con acqua pulita, quindi dovette nuovamente asciugare il letto. Quando le sollevò la testa trovò che i suoi cappelli erano aggrovigliati ed appiccicosi per la pioggia ed il sangue così le sollevò le spalle con un grosso cuscino infilato sotto la plastica e inclinò all'indietro la sua testa per lavarle ed asciugarle i capelli. Trovò che aveva un orribile bernoccolo ed una ferita sanguinante sulla nuca. Con il pettine allontanò i capelli da esso dividendoli a metà, lo bagnò con acqua fredda e il sangue si fermò, ma restava un bernoccolo grande come una prugna. Separò una mezza dozzina di compresse di garza e le sistemò attorno al bernoccolo in modo che il peso del
capo non gravasse tutto su di esso. Non aveva il coraggio di girarla. I suoi capelli intrisi di sangue erano prima un groviglio scuro, ma lavati pettinati e perfettamente lisci avevano ora un intenso colore biondo rame. Ce n'erano due larghe bande splendenti sul letto, ai lati del viso, che era di un pallore raggiante, freddo come la luna. La coprì con il copriletto e si fermò per diverso tempo chino su di lei, invaso da una strana sensazione, quasi un dolore, che pur non essendo localizzabile in un luogo preciso eppure percepibile ovunque, non gli piaceva, ma egli non riusciva a distogliersene... forse quella sensazione non l'avrebbe provata mai più. Sospirò, e quel sospiro gli veniva dalla parte più interna e dall'età, quindi si mise con ostinazione a spazzolare il pavimento. Quando ebbe finito, e gli aghi e il filo erano stati riposti, il pezzetto di cerotto che non aveva usato, le buste delle compresse di garza e il tegame pieno di sangue che stava ai piedi del letto erano stati eliminati e tutti gli strumenti, una volta puliti, erano stati messi a posto nella loro cassetta, la notte era ormai trascorsa e la tenue luce del mattino filtrava attraverso le tendine tirate. Spense la luce e trattenne il respiro ascoltando con la massima attenzione: voleva capire dal punto in cui si trovava se ella fosse ancora viva. Chinarsi su di lei per scoprire che se ne era andata? No, voleva saperlo da lì. Ma passò un camion, e una donna chiamò un bambino e qualcuno rise; egli andò a inginocchiarsi accanto al letto e chiuse gli occhi e pose lentamente una mano sulla gola di lei. Era fresca — «per favore Dio, fai che non sia fredda!» — ed immobile come un guanto abbandonato per terra. Poi i peli sul dorso della sua mano tremarono per un respiro di lei, e poi ancora, un movimento appena percettibile. Si sentì bruciare gli occhi e improvvisamente fu invaso dall'ardente desiderio di fare: preparare una minestra, comperare medicine, e magari, per lei, un nastro o un orologio; pulire la casa, correre al negozio... e facendo tutte queste cose contemporaneamente, gridare, urlare che lei era viva, con voce tuonante ma muta, in modo da essere certo di sentire e ricordare. Ma proprio quando fu all'apice di questa esplosione di sensazioni ebbe una buffa défaillance e si addormentò di colpo. Sognò che qualcuno gli stava cucendo assieme le gambe con un grande ago ricurvo per vele, estraendo al contempo il filo dal suo stomaco; avvertiva dentro di sé la spoletta che si srotolava. Gemette e aprì gli occhi. Immediatamente si rese conto di dov'era e di quello che era accaduto, e si adirò per avere emesso quel suono. Sollevò la mano e agitò le dita per assicu-
rarsi di non avere perso la sensibilità, quindi le toccò delicatamente la gola. Era calda, no, bollente, troppo calda. Le sue gambe addormentate non lo ressero più ed egli andò a finire per terra sorreggendosi con le nocche. Bestemmiò tra i denti, si allungò in avanti e attirò verso di sé la sedia di legno appoggiandovisi per alzarsi in piedi. Non aveva il coraggio di mollarla, quindi, muovendosi pesantemente con essa, raggiunse piano l'angolo della stanza, qui si contorse e rimase ansimante, appoggiato al bordo del lavabo, mentre avvertiva un acido bollente che gli scendeva lungo le gambe e le corrodeva. Appena poté si bagnò la faccia e il collo con acqua fresca e, asciugandosi con un asciugamano, a fatica si diresse verso il letto. Con un ampio gesto allontanò il copriletto e quasi gli venne da gridare stupido! quando avvertì che esso era appiccicoso: si era attaccato alla ferita sul ventre della ragazza e ora egli era certo di averla riaperta, strappata di avere staccato una parte dell'arteria rattoppata in modo così maldestro. E non riusciva a vedere; probabilmente fuori stava diventando buio; per quanto tempo era rimasto lì accucciato? Raggiunse di corsa l'interruttore della luce, tornò a fatica. Sì, per sanguinare sanguinava di nuovo... Ma poco, solo molto poco. La garza si era rovesciata, forse a metà, e nonostante sulla ferita esposta vi fosse sangue fresco, esso non scorreva. Era uscito mentre egli dormiva, ma non a sufficienza da giungere fino al materasso. Alzò molto delicatamente il lembo di garza che si era sollevato e scoprì che era attaccato. Ma le spugne, quelle piccole spugne con cui aveva applicato l'unguento sulfa eccetera si trovavano ancora nella ferita. Originariamente egli aveva pensato di estrarle dopo qualche ora, e non certo di lasciare che si formasse tutto quel grumo di sangue. Corse a prendere dell'acqua calda con la sua grande spugna. Era insaponata sì. Si accucciò accanto al letto nonostante le sue gambe si ribellassero rumorosamente e inizio a spugnare delicatamente la garza sfiorandola appena Qualcosa lo indusse ad alzare lo sguardo. Ella aveva gli occhi aperti e stava guardando in giù verso di lui. Aveva la faccia e gli occhi assolutamente inespressivi. Egli la guardo chiudere e riaprire lentamente gli occhi vuoti e privi di interessamento. «Tutto a posto, tutto a posto» disse lui bruscamente. «Sistemo tutto io» Lei continuava a guardare. Egli annuì con impeto: era un gesto che voleva rincuorare incoraggiare, speranza e promessa assoluta per lei, ma in fondo non fu che un rapido movimento della sua brutta e grande testa. Seccato come sempre della propria incapacità di esprimersi, egli si rimise all'opera. Staccò la garza e iniziò a bagnare il
bordo di una delle spugne. Quando ritenne che stesse per staccarsi tirò delicatamente. Con un tono acuto da soprano lei disse piano: «Ho-o-o?» Era come una domanda e insieme un sospiro. Lentamente lei volse il capo verso sinistra. «Ho-o-o-o?» Girò nuovamente il capo e perdette i sensi. «Io» esclamò lui ad alta voce, eccitato, e poi: «io...» e non disse altro. Tanto lei non l'avrebbe sentito. Rimase fermo fino a quando smisero di tremargli le mani quindi torno al lavoro. La ferita sembrava meravigliosamente pulita, ma la pelle tutt'attorno era secca e calda. All'interno del taglio vedeva l'arteria immersa in una massa gelatinosa umida, probabilmente così andava bene, non ne era certo, ma l'aspetto era buono, lui non l'avrebbe toccata. Riempì la ferita con l'unguento, unì delicatamente i lembi quindi vi attaccò un cerotto. Si staccò subito. Lo eliminò e asciugò la cute attorno alla ferita, vi applico una garza e poi un altro cerotto: questa volta tenne L'altra ferita era abbastanza chiusa; vicino alle spille più che negli intervalli tra esse. Anche attorno a questa ferita la pelle era bollente, secca, arrossata. Dal graffio sulla nuca non era uscito sangue, ma il bernoccolo era più grande che mai. Viso e collo erano molto caldi, anche se il resto del corpo sembrava fresco. Egli andò a prendere una pezzuola imbevuta d'acqua fredda e gliela mise sugli occhi coprendole con una leggera pressione anche le guance. Lei sospirò. Quando tolse la pezza lei lo stava guardando nuovamente. «Stai bene?» chiese, e poi la assicurò inutilmente: «Stai bene». Lei aggrottò leggermente le sopracciglia, poi i suoi occhi si chiusero di nuovo. Per qualche ragione egli sapeva che si era addormentata. Le sfiorò le guance con il dorso della mano «Molto calde» mormorò. Spense la luce e si cambiò nella penombra. Dal fondo di un cassetto prese un quaderno di scuola, da esso estrasse un pezzo di carta su cui era scritto in grande a matita un numero di telefono. «Torno subito» disse egli all'oscurità. Lei non rispose. Uscì chiudendo a chiave la porta dietro di sé. A fatica riuscì a formare il numero sul telefono pubblico del grande supermercato controllando ogni cifra sul pezzo di carta e tenendo per ogni cifra il dito nel disco combinatore per almeno tre o quattro secondi come per assicurarsi che il numero fosse stato registrato. Gli rispose direttamente il
grande capo, il signor Laddie, cosa estremamente imbarazzante, visto che non gli aveva parlato da circa 12 anni. Le sue parole sconnesse: «Ammalato! Sto... hem... male!» dette ad alta voce, si scontrarono con il terzo impaziente: «Pronto?» di Laddie. Egli sentì l'auricolare che esclamava: «Ma... santo cielo!» e poi la risata del signor Wismer e: «Passami il ricevitore, dev'essere quel mio scimmione» e poi udì proprio nell'orecchio: «Pronto?» «Stasera ammalato!» gridò. «Che cos'è successo?» Lui deglutì. «Non posso!» gridò. «È l'età» disse il signor Wismer. Egli sentì che anche Laddie rideva. Il signor Wismer disse: «Quante sere libere hai avuto negli ultimi quindici anni?» Ci pensò su. «Nessuna!» urlò. E comunque gli anni erano diciotto. «In realtà è vero» disse Wismer rivolto a Laddie senza tentare neanche di coprire il ricevitore: «Quindici anni e non ha mai chiesto di avere una sera libera». «Ma in fondo, chi ha bisogno di lui? Dagli libere tutte le sere che vuole». «Non a questi prezzi» disse Wismer, e parlando nel ricevitore: «Ma certo, sciocchino, hai la sera libera, basta con questi scherzi». Lui sentì che il ricevitore all'altro capo veniva riappeso su un sottofondo di risate ed attese lì, nella cabina, fino a quando fu certo che non sarebbe stato più detto nulla. Quindi riappese il ricevitore e uscì nel grande supermercato dove tutti lo stavano osservando. Tanto lo facevano sempre. Questo non lo disturbava. Una sola cosa lo infastidiva: la voce di Laddie che continuava a ripetergli nelle orecchie: «Ma in fondo, chi ha bisogno di lui?» Sapeva che avrebbe dovuto soffermarsi per pensare a quelle parole e a tutte le conseguenze che avrebbero potuto avere. Ma non ora, per carità, non ora. Riuscì a togliersi dalla testa questi pensieri tenendosi occupato: acquistò cerotto e garza, unguento e una branda da campeggio e tre borse per il ghiaccio e, dopo avervi pensato per un attimo, delle aspirine, perché una volta qualcuno gli aveva detto... e poi al supermercato comperò cibo a sufficienza da sfamare una famiglia di nove persone per nove giorni. E nonostante tutti quei pacchi gli restarono liberi un braccio robusto e una spalla larga per una barra di ghiaccio da dodici chili. Riuscì ad aprire la porta e mise il ghiaccio in frigorifero, quindi tornò sulle scale e raccolse i pacchi per portarli in casa, poi andò da lei. Scottava,
e il suo respiro somigliava al rumore che produce un uccello quando vola nel vento: un leggero battito, un leggero battito, e una lunga attesa, regolari. Spezzò un angolo della barra di ghiaccio, lo avvolse in uno strofinaccio e lo scagliò con rabbia nel lavandino. Riempì una delle borse per il ghiaccio e la pose sul capo di lei. Lei sospirò, ma non aprì gli occhi. Riempì le altre borse e gliene mise una sul petto ed una sull'inguine. Rimase a torcersi inutilmente le mani sopra di lei fino a quando gli sovvenne: deve mangiare, dopo aver perso tutto quel sangue. Così si mise a cucinare con grande foga guardandola ogni due minuti. Preparò minestrone e cavolo al forno e purè di patate e cotolette di vitello. Tagliò una torta, scaldò dei dolcini alla cannella e preparò il caffè e il gelato da metterci dentro. Ma lei non mangiò nulla, e non bevve una sola goccia. Stava lì distesa e ogni tanto lasciava cadere il capo da un lato, così egli doveva correre a raccogliere la borsa del ghiaccio e sistemarla nuovamente. Ancora una volta lei sospirò, e una volta lui credette che aprisse gli occhi, ma non poté esserne certo. Anche il secondo giorno non mangiò e non bevve e la febbre raggiunse un livello incredibile. Durante la notte, acciambellato per terra accanto a lei, lui si svegliò una volta sentendo l'eco di un pianto nella stanza, ma forse aveva sognato. Una volta tagliò la parte più tenera che riuscì a trovare di una cotoletta e la pose tra le labbra della ragazza. Tre ore più tardi le aprì la bocca per inserirci un altro boccone, ma vide che il primo era ancora lì. Lo stesso accadde con l'aspirina, minute briciole bianche sulla lingua asciutta. Ben presto giunse il momento in cui egli, dopo essere stato così indaffarato, non seppe più che cosa fare. Era terribilmente preoccupato, pur non sapendo esattamente perché, e mentre nella sua mente sorgevano nuovi pensieri tornava automaticamente a pensare a quelli vecchi, e allora proprio non gli restava altro da fare se non lasciare che essi seguissero il proprio corso, nonostante tutto il dolore e l'umiliazione che portavano con sé. Tentò di pensare a qualcosa di nuovo, a che cosa sarebbe accaduto se avesse chiamato un dottore e il dottore avesse voluto portarla in ospedale. Avrebbe detto: «Ha bisogno di essere curata, vecchio, non ha bisogno di te». Aveva già tutto pronto nella sua mente, tutto come sarebbe accaduto. Prova ad avere undici anni, a essere grande, forte e timido, e a stare sulla soglia della cucina tenendo la tua scatola di legno per la corda e tentando di dare alla bocca la forma giusta perché le parole riluttanti ne possano u-
scire correttamente; e lì c'è la mamma, curva su una bottiglia di gin come un gatto su un uccello mezzo mangiato, e ti guarda stringendo gli occhi; guarda la sua bocca priva di labbra che si contorce e dice: «Non stare lì a farfugliare e bofonchiare! Parla, ragazzo! Che cosa stai tentando di dirmi, che te ne vai?» Così è più facile, e lei dirà: «E vattene allora, tanto, chi ha bisogno di te?» E tu te ne vai. E poi prova a essere un sedicenne tozzo e forte e a guardare il sergente con le pieghe e le rughe che ti chiede: «Che cosa vuoi tu qui?» e tu tenti, tenti, ma non riesci a dirlo, così indichi con il capo il poster col dito puntato: LO ZIO SAM HA BISOGNO DI TE, e il sergente lo guarda e ti guarda, e all'improvviso il suo dito puntato si trova a un centimetro dal tuo naso; incrociando gli occhi lo guardi mentre lui abbaia: «Beh, lo zio Sam non ha certo bisogno di te» e tu aspetti, continuando a guardare quel dito, senza muoverti fino a quando non capisci; capisci bene come stanno le cose, è solo che ci metti un po' a sentirle. E tu resti lì, con gli occhi incrociati, e tutti gli altri ridono. Oppure molto tempo fa, quando avevi otto anni, quella Phyllis con i suoi boccoli castani come salcicciotti che volano quando muove il capo, rosea e linda, e così carina. Tu hai dei cioccolatini avvolti in carta dorata, racchiusi in una reticella di filo dorato: percorri il corridoio fino al suo banco, vi posi i cioccolatini e torni indietro di corsa; lei scende lungo il corridoio e li scaraventa con tale forza che la rete si spezza nell'impatto con il tuo banco mentre lei dice, ad alta voce: «Non mi servono questi e non ho bisogno di te, e sai cosa? Hai dei moccoli sulla faccia» e tu ti tocchi la faccia e scopri che aveva ragione. Ecco tutto. Solo che ogni volta che qualcuno dice: «Chi ha bisogno di lui?» o cose simili, ti tornano in mente tutte queste occasioni, una per una. Prima o poi, nonostante continui a rimandare, tu devi sistemare tutto. «Se chiamo il dottore non avrai più bisogno di me.» «Se muori non avrai più bisogno di me.» «Oh, ti prego...» Si sentì un suono stridulo provenire dal fondo della gola della ragazza, e le sue labbra si mossero. Lei tenne gli occhi di lui con i propri e le sue labbra si mossero in silenzio, e più tardi, troppo tardi rispetto a quel movimento, quel sibilo si ripeté. Non sapeva perché fosse riuscito ad indovinare, ma indovinò e portò dell'acqua e gliela fece gocciolare lentamente in
bocca. Lei la leccò avidamente sollevando il capo. Lui la sorresse con una mano per aiutarla, facendo attenzione al bernoccolo. Dopo qualche istante lei si lasciò cadere nuovamente sorridendo debolmente al bicchiere. Poi lo guardò in faccia, e nonostante il sorriso fosse sparito, egli si sentì molto meglio. Corse verso il frigorifero e i fornelli e prese bicchieri e cannucce per aranciata, latte e cacao, latte, brodo in scatola, e acqua fredda. Allineò i bicchieri sulla sedia accanto al letto e guardò prima quelli poi la ragazza, prima e poi, prima e poi... attentamente come una foca da circo che stia per suonare l'inno americano con una trombetta. Questa volta lei sorrise lievemente per poco tempo, ma proprio a lui, ed egli tentò con il brodo. Ella si sorbì quasi metà con la cannuccia senza mai fermarsi, poi si addormentò. Più tardi, quando controllò se le ferite sanguinavano ancora, trovò il telo di plastica bagnato, ma non di sangue. Stupido! egli si adirò con se stesso e corse a prendere una padella. Ora lei dormiva molto e mangiava spesso, solo cibi leggeri, però. Inizò a guardarlo mentre lui si muoveva per la stanza; a volte, pensando che ella stesse dormendo, si girava e i loro occhi s'incrociavano. Per lo più, durante i due giorni seguenti, lei osservava le sue mani. Lui lavò e stirò i suoi vestiti e li rammendò con piccoli punti diritti. Coi gomiti puntati sul bordo del tavolo smaltato lavorava con il suo filo d'argento. Le fece una spilla a forma di ventaglio con sopra un fiore, un ciondolo con una catenina e un braccialetto uguale. Lei osservava le sue mani mentre lui cucinava. Preparò gli spaghetti, o meglio le tagliatelle, tirando a lungo la pasta fino a quando fu un enorme foglio sottile, poi l'arrotolò e la affettò rapidamente e con cura con un coltello da cucina in modo da ottenere delle strisce che somigliavano a stringhe da scarpe bianco-giallognole. Le sue mani avevano sempre fatto di tutto, perché lui non aveva mai pensato di limitarle. Erano solo quelle mani ad avere cura di lui, e poiché esse facevano tutto, sapevano fare di tutto. Ma quando lui la cambiava o la lavava o l'aiutava a cambiare la padella, lei non gli guardava mai le mani. Stava distesa immobile e lo guardava in faccia. Inizialmente lei era molto debole e non riusciva a muovere che la testa. Lui era contento, perché i punti stavano cicatrizzandosi bene. Quando estrasse le spille sicuramente le fece male, ma lei non emise un solo suono; le sue sopracciglia lisce fecero dodici scatti: uno per ogni spilla che veniva estratta.
«Fa male» bofonchiò lui. Lei annuì, appena. Era la prima comunicazione tra loro, a parte quegli occhi muti e pensosi che lo inseguivano quando egli si muoveva. Lei sorrise anche, annuendo, lui si girò di spalle e si strofinò gli occhi con le nocche sentendosi meravigliosamente bene. Tornò a lavorare la stessa sera dopo essersi dato da fare per tutto il giorno attorno a lei per evitare che si addormentasse fino a quando fu pronto a uscire, e anche allora non la lasciò prima di essere certo che si fosse addormentata. La chiudeva a chiave in casa e correva al lavoro con una sensazione di calore interno, pronto a lavorare per tre. Poi tornava a casa nell'oscurità delle prime ore del mattino, in fretta quanto le sue gambe storte gli concedevano, portandole ogni giorno un regalo: una piccola radio, un foulard, qualcosa di buono da mangiare. Chiudeva bene la porta e correva da lei, le toccava la fronte e controllava la temperatura, aggiustava delicatamente il letto in modo che non si svegliasse. Poi andava dove lei non poteva vederlo, vicino al lavandino, si svestiva, indossava i mutandoni con cui soleva dormire, quindi tornava e si accoccolava sulla branda da campeggio. Dormiva come un sasso forse per un'ora e mezzo, ma al minimo fruscio delle lenzuola di lei, al minimo sospiro, si precipitava al suo fianco e, chino su di lei chiedeva: «Tutto bene?» e pieno d'ansia tentava d'indovinare di che cosa ella potesse avere bisogno o che cosa potesse fare per lei. E quando sorgeva la luce del giorno egli le preparava un bicchiere di latte caldo e ci frullava dentro un uovo, e poi le faceva il bagno e la cambiava e le pettinava i capelli, e quando non gli restava altro da fare per lei, puliva la stanza, lavava i pavimenti, faceva il bucato e lavava i piatti, e cucinava senza sosta. Di pomeriggio faceva la spesa spostandosi quasi di corsa da un luogo all'altro e tornava a casa quanto più in fretta poteva per mostrarle i suoi acquisti e raccontarle che cosa le avrebbe preparato per cena. Durante tutti quei giorni, e quelle settimane, egli sentiva brillare dentro di sé una luce interna, e abbracciava quella luce mentre era lontano da lei, alimentandola con la sua presenza quando erano assieme. Un pomeriggio, verso la fine della seconda settimana, quando egli tornò vide che piangeva, con lo sguardo fisso sulla piccola radio e il viso solcato dalle lacrime. Egli emise un suono roco e carezzevole, le asciugò le guance con un asciugamano pulito, e rimase a osservarla con un'espressione corrucciata sul suo volto animalesco. Lei gli accarezzò debolmente la mano e fece una serie di gesti vaghi che lo sorpresero enormemente. Lui stava seduto sulla sedia accanto al suo letto e avvicinò la faccia a quella di lei qua-
si pensasse di riuscire a capirla scrutandola da vicino. C'era qualcosa di diverso in lei, fino a quel momento lo aveva osservato attentamente, con lo stesso sguardo affascinato e interrogativo di un gattino che guarda una vasca piena di pesci tropicali, mentre ora nel suo sguardo, nel modo in cui si muoveva e in quello che faceva, c'era un qualcosa di più. «Hai male?» chiese lui con voce roca. Lei scosse il capo. Mosse la bocca indicandola con un gesto e riprese a piangere. «Oh, hai fame. Preparo qualcosa, sistemo tutto.» Si alzò, ma lei lo trattenne per il polso scuotendo la testa e piangendo e sorridendo al contempo. Lui tornò a sedersi dilaniato dai dubbi. Di nuovo lei mosse la bocca indicandola e scuotendo la testa. «Non parli» disse lui. Lei stava respirando così affannosamente da spaventarlo, ma quando disse quelle parole lei trattenne il fiato per un attimo e si levò quasi a sedere; egli la prese per le spalle e la fece coricare, ma lei scuoteva il capo. «Non puoi parlare» disse egli. Sì, sì! annuì lei. Lui la guardò per diverso tempo. La musica alla radio cessò e qualcuno iniziò a vendere automobili usate con una voce gracchiante da baritono. Lei lo guardò e i suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime. Lui si chinò su di lei e spense la radio. Dopo uno sforzo immane riuscì a dare alla propria bocca la forma giusta e con voce sprezzante disse: «Ah! Così vuoi parlare? Non parlare. Sistemo tutto io, non parlare, io... di che cosa vuoi parlare?» Lei lo guardò, sopraffatta dal suo brusco modo di fare, e si chiuse in se stessa. Lui le asciugò di nuovo le guance dolcemente sussurando: «Sistemo tutto io.» Un mattino rincasò al buio, e, dopo essersi accertato nel suo solito modo che lei stesse bene, andò a dormire. Profumo di pancetta fritta e caffè caldo, naturalmente si trattava di un sogno, che cos'altro poteva essere? E i lievi rumori come di qualcuno che si muovesse nella stanza dovevano certamente essere frutto della sua mente affaticata. Egli aprì gli occhi durante quel sogno e li richiuse ridendo di sé per la propria folle immaginazione. Poi rifletté ancora e riaprì lentamente gli occhi. Vicino alla sua branda c'era la sedia, e su di essa un piatto di uova all'occhio e pancetta croccante, una tazza di buon caffè nero, fette di pane tostato su cui si scioglieva un velo di burro dorato per lasciare emergere il colore dorato del pane stesso. Lui fissò tutto ciò assolutamente incredulo,
quindi alzò lo sguardo. Era seduta ai piedi del letto, dove restava un passaggio di venticinque centimetri tra quello e la branda. Lei indossava la sua camicetta stirata e rammendata e la gonna. Le sue spalle erano spioventi per la stanchezza e sembrava avere qualche difficoltà a tenere la testa eretta; le mani penzolavano inerti tra le ginocchia. Ma su quel viso c'era un'ombra di felicità e di attesa mentre lei l'osservava risvegliarsi con la colazione pronta. Ma lui contorse la bocca e ne emersero denti gialli e tozzi che digrignò emettendo un urlo furibondo. Era un suono strozzato e gracchiante, lei si ritrasse come se ne fosse rimasta bruciata, accoccolandosi in mezzo al letto con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Lui le si avvicinò con le braccia sollevate e i grandi pugni chiusi. Lei nascose il viso nel letto, si coprì il collo con le mani e rimase lì, tremante. Per un lungo istante lui rimase sopra di lei, quindi abbassò lentamente le braccia. Dette uno strattone alla sua gonna. «Togli!» gracchiò. Quindi tirò di nuovo, più forte. Lei lo guardò impaurita, poi si girò piano. Tentò debolmente di sbottonarsi la gonna. Lui l'aiutò, le tolse la gonna e la buttò sulla branda indicando gravemente la camicetta. Lei la sbottonò e lui gliela sfilò dalle spalle. Tirò il lenzuolo facendolo scivolare sotto di lei, afferrò delicatamente le sue caviglie con le grosse mani e le distese le gambe sul letto, quindi la coprì con grande cura. Lui aveva il respiro pesante, e lei lo guardava terrorizzata. Nel silenzio più agghiacciante lui si diresse verso la branda e la sedia vicino a essa. Lentamente prese la tazza del caffè e la scaraventò per terra, allo stesso ritmo, simile a quello scandito dall'ascia di un taglialegna, scagliò per terra il piattino, quello del pane tostato e quello con le uova. I cocci e il tuorlo d'uovo schizzarono e macchiarono tutto il pavimento e le pareti. Quando ebbe finito si voltò verso di lei. «Sistemo tutto io!» disse con voce roca. Sottolineò ogni sillaba con un movimento del suo grosso indice mentre ripeteva ancora una volta: «Sistemo tutto io!». Lei si girò sprofondando il viso nel cuscino e prese a singhiozzare talmente forte che lui poteva sentire i sussulti del letto sul pavimento attraverso le piante dei piedi. Volse il suo sguardo furioso lontano da lei, andò a prendere un secchio, uno spazzolone, una scopa e una pattumiera, e si mise al lavoro con metodo per rimediare a quel disastro. Due ore più tardi si avvicinò a lei che giaceva ancora prona, rigida e immobile. Lui aveva avuto molto tempo per pensare a quello che avrebbe detto: «Guarda, vedi, stai male, capisci?» Lo disse quanto più delicatamente poté. Le mise una
mano sulla spalla, ma lei si divincolò. Ferito e sbigottito si ritirò e andò a sedersi sul divano guardandola penosamente. Lei non volle pranzare. Lei non volle cenare. Poco prima che andasse a lavorare lei si voltò. Lui era ancora seduto sulla branda con addosso i suoi mutandoni e un'espressione di estrema sofferenza sul volto e in ogni tratto del suo orribile corpo. Lei lo guardò e gli occhi le si riempirono di lacrime. Lui incontrò il suo sguardo, ma non si mosse. Improvvisamente lei sospirò e tese una mano. Lui la raggiunse faticosamente, vi posò la fronte, s'inginocchiò, si curvò, e si mise a piangere. Lei accarezzò i suoi capelli irsuti fino a quando la tempesta cessò: accadde all'improvviso. Lui si levò di scatto e iniziò a darsi da fare attorno ai fornelli in mezzo a un acciottolio di stoviglie. Pochi minuti dopo le portò pane, sugo di carne e un carciofo precotto con molto olio d'oliva e basilico. Lei sorrise lievemente, prese il piatto e mangiò piano mentre lui la osservava e a ogni boccone irradiava quella che altro non poteva essere che gratitudine. Quindi si vestì e andò a lavorare. Le comprò una vestaglia rossa quando lei cominciò a stare seduta, però non le permise di alzarsi. Le portò una sfera di cristallo in cui un fiore si conservava, immerso nell'acqua, per un settimana, e due tartarughine in una vasca di plastica ed un coniglietto azzurro e un carillon che suonava una ninnananna, e un rossetto d'un rosso fortissimo. Lei continuò a essere obbediente e molto attenta. Quando egli terminava di armamentare e si sdraiava sulla branda in attesa d'indovinare qualsiasi desiderio ella potesse avere, i loro occhi si incontravano e sempre più spesso lui abbassava i propri. Lei stringeva il coniglietto azzurro e lo guardava fisso e sorrideva all'improvviso schiudendo le labbra come se dovesse comunicare qualcosa di estremamente importante e gioioso. Talvolta pareva indicibilmente infelice, talvolta invece così inquieta che lui doveva accarezzarle i capelli fino a quando si assopiva o pareva assopirsi. Si ricordò di non avere controllato le ferite della ragazza da quasi due giorni e pensò che forse le dessero fastidio e fossero la causa della sua irrequietezza, così la fece distendere e spostò le coperte. Le toccò piano la ferita e lei improvvisamente respinse la sua mano e afferrò con la propria la pelle attorno alla ferita, la strinse e la percosse. Spaventato lui la guardò in faccia e vide che sorrideva annuendo. «Male?» chiese. Lei scosse il capo. Ricoprendola lui esclamò con orgoglio: «Sistemo io. Sistemo tutto» Lei annuì, e strinse brevemente la sua mano tra il mento e la spalla.
Fu quella notte che lui sulla branda, durante il primo sormo pesante dopo essere rincasato dal lavoro, avvertì il caldo e sodo corpo di lei stretto contro il proprio per tutta la sua lunghezza. Rimase immobile per un attimo, assonnato, incapace di capire, mentre rapide dita armeggiavano con i bottoni dei suoi mutandoni. Sollevò le mani e l'afferrò per i polsi. Lei si fermò immediatamente, ma aveva il respiro affannoso, e il suo cuore batteva contro il corpo di lui come un piccolo pugno arrabbiato. Lui riuscì a produrre una complessa sillaba interrogativa: «Cos...?» e lei si strinse contro e rimase così, tremante. La tenne per i polsi per più di un minuto tentando di pensare al da farsi, infine si sedette, le passò un braccio attorno alle spalle e uno sotto le ginocchia e si alzò in piedi. Lei si strinse a lui respirandogli nell'orecchio. La portò fino al suo letto e si chinò piano per posarvela. Dovette scioglierle le mani dietro al proprio collo prima di potersi raddrizzare. «Dormi, hai capito?» disse. Raccolse il lenzuolo e la coprì rimboccandolo attorno a lei. Ella rimase assolutamente immobile, lui le carezzò i capelli e tornò alla propria branda. Si distese, e dopo molto tempo cadde in un sonno turbato. Qualcosa lo svegliò; tese l'orecchio ma non udì nulla. All'improvviso si ricordò distintamente della notte in cui lei era stata tra la vita e la morte e lui si era destato all'eco di un singhiozzo che non si era ripetuto. Preso da un improvviso terrore si levò e corse da lei, si chinò e le toccò la testa. Era distesa con la faccia all'ingiù. «Piangi?» chiese piano; lei scosse rapidamente il capo. Brontolando se ne tornò sulla branda. Era la nona settimana e pioveva. Lui stava tornando a casa propria attraverso strade lucide e nere; quando svoltò, giunto all'isolato giusto, il fiume liscio e morto lo separava dal lampione di fronte alla casa; fu per lui un momento di sogno, di disorientamento fantastico. Per un attimo gli parve che nulla fosse realmente accaduto. Che di lì a poco l'automobile lo avrebbe superato veloce e sarebbe subito entrata nella curva mentre un corpo inerte cadeva da un lato ed egli doveva correre a prenderlo e portarlo in casa, e sanguinava, sanguinava, poteva morire... si scosse come un grande cane e abbassò la testa contro la pioggia dandosi dello stupido tra sé e sé. Ora non poteva più andare storto nulla. Aveva trovato un modo di vivere, e avrebbe vissuto in questo modo, e non avrebbe permesso che vi fossero apportati cambiamenti. Ma c'era già stato un cambiamento, egli lo seppe prima di entrare in casa; la finestra sul lato della strada brillava di una luce arancione, ciò non sarebbe stato possibile se essa fosse stata illuminata esclusivamente dal
lampione. Forse stava leggendo uno di quei romanzi tascabili che lui aveva trovato nell'appartamento quando vi si era trasferito? Forse doveva usare la padella oppure stava semplicemente guardando l'ora... ma tutti quei pensieri non gli furono di alcun conforto: quando giunse davanti al portone si era ormai impadronita di lui una paura inspiegabile. Da sotto la porta di casa sua filtrava luce, gli caddero di mano le chiavi mentre tentava di aprire, infine ci riuscì. Si spaventò come se fosse stato colpito al capo. Il letto era rifatto, ben tirato e ordinato, e lei non c'era. Lui si girò come una trottola: con uno sguardo frenetico la scorse e la sorpassò prima di poter credere ai propri occhi. Alta e regale con la sua vestaglia rossa lei era dall'altra parte della stanza, vicino al lavabo. La fissò sorpreso. Lei gli andò incontro e mentre lui si riempiva i polmoni per una delle sue urla lei si portò un dito alle labbra e, delicatamente, gli coprì la bocca con l'altra mano. Né l'uno né l'altro di questi gesti, e neanche tutti e due, in circostanze normali sarebbero stati sufficienti a calmarlo, ma c'era qualcos'altro in lei, qualcosa che non attendeva quello che egli avrebbe fatto né sarebbe sparito se egli l'avesse fatto. Era momentaneamente sorpreso e rimase in silenzio. Egli continuò a fissarla mentre, senza fermarsi, lo superava e andava a chiudere delicatamente la porta. Gli prese la mano, ma conteneva le chiavi che lei prese dalle sue dita e buttò sul tavolo, quindi gli afferrò nuovamente la mano con fare deciso. Era sicura, decisa: era una persona che aveva riflettuto, analizzato e vagliato, e ora sapeva che cosa fare. Ma in un certo senso pareva anche trionfante, aveva l'atteggiamento del vincitore ed era raggiante come chi assiste a un miracolo. Lui era in grado di affrontarla quando era indifesa, sempre e in ogni modo, ma così... doveva pensarci, e lei non gli lasciò il tempo di farlo. Lo portò verso il letto, gli posò le mani sulle spalle, lo girò e lo fece sedere. Gli si sedette vicino, col volto illuminato, e, quando egli nuovamente si riempì i polmoni, lei disse: «Shh!» severamente, e sorridendo gli coprì la bocca con la mano. Lo prese nuovamente per le spalle e lo guardò dritto negli occhi dicendo chiaramente: «Posso parlare ora, posso parlare!» Lui la guardava incapace di reagire. «Già da tre giorni, era un segreto, una sorpresa.» Aveva una voce gracchiante, addirittura roca, ma molto chiara e più bassa di quanto ci si sarebbe potuto aspettare vedendo la sua corporatura fragile. «Mi sono esercitata, ora sto bene. Tu sistemi tutto!» disse, e rise. Sentendo quel riso e scorgendo l'orgoglio e la gioia sul suo volto egli
non poté dirle nulla, esclamò trasognato: «Ahh..» Lei rise di nuovo. «Posso andarmene, me ne vado!» cantò. Si alzò di scatto e fece una piroetta, poi si chinò su di lui ridendo. Lui guardò lei e i suoi capelli svolazzanti e strinse gli occhi come se stesse guardando il sole. «Vai?» chiese. Nella confusione quella parola era uscita come un grido esplosivo. Lei tornò subito seria e si sedette nuovamente vicino a lui. «Oh, caro, non fare quella faccia come se ti avessero pugnalato! Lo sai che non posso farmi mantenere da te, vivere a tue spese per sempre!» «No, no, tu resti» esclamò lui col viso addolorato. «Guarda» disse lei parlando lentamente e in modo semplice come ci si rivolge a un bambino. «Sto bene ora, posso parlare. Non sarebbe giusto che io restassi chiusa qui, con la padella e tutto il resto. Aspetta, ascoltami» disse in fretta prima che lui riuscisse a formulare un parola. «Non pensare che io non ti sia riconoscente, sei stato... sei stato... non so neanche come dirlo. Nessuno in vita mia ha mai fatto per me qualcosa di simile, sono scappata di casa a tredici anni, ho fatto un sacco di brutte cose, e sono stata trattata... voglio dire, nessun altro... guarda, intendo che prima ero una ladra e non m'importava di niente e di nessuno. Pensavo: e perché no?» Lei lo scosse delicatamente perché capisse, poi, vedendo quello sguardo vuoto e quella faccia addolorata, si bagnò le labbra e riprese. «Quello che sto tentando di spiegarti è che sei stato così buono... tutto questo...» e con la mano indicò il coniglio azzurro, la vasca delle tartarughe e tutto quello che si trovava nella stanza. «Non posso accettare altro, nient'altro, neanche una colazione. Se potessi ripagarti in qualche modo, in qualsiasi modo, io lo farei, sai che lo farei.» C'era un'ombra di amarezza nella sua voce roca. «Ma niente ti può ripagare. Tu non hai bisogno di nessuno. Io non posso darti niente di cui tu abbia bisogno o fare nulla che sia necessario fare, tu hai fatto tutto da te. Se almeno ci fosse qualcosa che tu desideri da me...» lei curvò le mani fino a posarsi sulle punte delle dita sullo sterno inclinando il capo con un atteggiamento stranamente sottomesso che lo addolorò. «Ma no, tu sistemi tutto» ripeté lei e non lo prendeva in giro. «No, no non andartene» disse piano lui con voce roca. Lei lo carezzò sulla guancia e i suoi occhi dicevano che gli voleva bene. «E invece sì, che me ne andrò» disse sorridendo. Poi quel sorriso scomparve. «Devo spiegarti una cosa: quei ceffi che mi hanno ferita... me la sono cercata io. Avevo fatto un passo falso. Stavo facendo una cosa proprio
brutta, sai, ero una spacciatrice, sai che cosa significa? Eroina... io la vendevo». Lui la guardava con occhi spenti. Non capiva neanche una parola su dieci, vedeva soltanto vuoto, inutilità e solitudine e la triste realtà di quella sua stanza senza di lei, senza il coniglio azzurro e senza nient'altro eccetto quello che aveva contenuto tutti quegli anni: il linoleum privo di disegno a forza di essere lavato, sei romanzi che non sapeva leggere, i fornelli che attendevano qualcuno per cui cucinare... sporcizia e inutilità e chi ha bisogno di te? Lei fraintese la sua espressione. «Tesoro, tesoro, non guardarmi così, non lo farò mai più. Lo facevo solo perché non m'importava, mi piaceva quando la gente si faceva male da sé, sì, veramente. Non sapevo che una persona potesse essere gentile, come te, ho sempre creduto che quella fosse una bugia, che accadesse solo nei film. Bello, ma non vero, non per me... Ma devo dirti una cosa: avevo fatto piazza pulita in un deposito segreto, mioddio, valeva venti, ventidue mila dollari. Ho avuto quella roba per la bellezza di quaranta minuti in tutto, poi mi hanno beccata.» I suoi occhi si dilatarono, ella vedeva cose che non erano in quella stanza. «Mi si è buttato addosso con un rasoio con una forza tale da spezzarlo sulla portiera della macchina. Mi ha colpita quaggiù e quassù, credo che volesse farmi fuori, ma la lama era rotta.» Espulse aria dal naso e il suo sguardo tornò nella stanza. «Credo di essermi fatta quel bernoccolo quando mi hanno buttata fuori dalla macchina. Forse è quello che m'impediva di parlare. Ho già sentito qualcosa di simile. Oh, caro, non guardarmi così, mi strappi il cuore!» Lui la guardava addolorato, scuotendo incredulo la sua grande testa da una parte all'altra. Improvvisamente lei s'inginocchiò ai suoi piedi e gli prese le mani. «Ascoltami, devi capire. Volevo sgusciare via mentre tu eri al lavoro, ma sono rimasta solo per cercare di farti capire. Dopo tutto quello che hai fatto... Vedi, sto bene, non posso starmene rinchiusa in una stanza per sempre. Se potessi mi cercherei un lavoro da qualche parte qui vicino, e ci potremmo vedere spesso, ti giuro che lo farei, ma in questa città la mia vita non vale un soldo bucato. Devo andarmene da qui, e questo significa che devo lasciare la città. Starò bene, caro, ti scriverò, non ti dimenticherò mai, come potrei?» Lei era molto più avanti di lui. Lui non aveva ancora fatto in tempo a capire che lei lo voleva lasciare, e già gli comunicava che se ne sarebbe andata anche dalla città. «Non andare» disse lui con voce soffocata. «Hai bisogno di me.»
«Tu non hai bisogno di me» disse lei delicatamente «e io non ho più bisogno di te. È molto semplice, perché tu hai sistemato così bene le cose.» Lui si alzò piano e sentì le mani della ragazza scivolare dalle proprie, dalle sue ginocchia, fin sul pavimento, mentre si allontanava da lei. «Oddio!» gridò lei inginocchiata sul pavimento «non prendertela così, mi fai morire! Non riesci a essere felice per me?» Lui attraversò la stanza inciampando e riuscì a non cadere sorreggendosi sul ripiano più in basso della cristalliera. Guardò indietro, e poi avanti; e vide i suoi anni come un echeggiante corridoio buio così lungo e faticoso da percorrere, e li paragonò a quella breve parentesi felice e luminosa che ora si stava concludendo... Sentì dietro di sé i passi veloci di lei, e si girò: in mano aveva il ferro da stiro. Ma lei non lo vide mai. Andò da lui col volto raggiante, per implorarlo, ed egli tese le braccia e lei andò a rifugiarvisi: seguendo una traiettoria circolare il ferro da stiro la colpì alla nuca. Lui la sorresse, la posò delicatamente sul linoleum e rimase a guardarla a lungo, piangendo in silenzio. Quindi ripose il ferro da stiro. Riempì d'acqua una pentola e una casseruola, vi mise aghi, una pinza, filo e piccoli pezzi di spugna, un coltello e una pinzetta. Dal tavolo pieghevole e da un cassetto prese le sue due tovaglie di tela cerata e iniziò a disporle sul letto. «Sistemo tutto io» borbottò mentre si dava da fare. «Sistemo tutto io.» Titolo originale: Bright Segment Traduzione: Laura Pignatti Clive Barker Terrore Clive Barker è l'unico scrittore di horror degli anni ottanta giunto alla popolarità per le novelle raccolte nei sei sorprendenti volumi The Books of Blood. Il suo lavoro è stato definito, da Ramsey Campbell e Stephen King tra gli altri, l'ondata del futuro nell'horror. Niente potrebbe illustrare i profondi cambiamenti nella narrativa horror avvenuti negli ultimi dieci anni meglio di Barker che è l'unico scrittore che emerga attraverso i racconti, mentre gli altri sono soprattutto dei romanzieri. La moda e la pressione economica l'hanno spinto di recente verso il romanzo con The Damnation Game (1985), ma il suo successo nelle novelle ha creato una mani-
festa eccitazione tra altri scrittori di racconti e ha indicato nuove direzioni per una nuova generazione di horror. Raramente del tutto limate, le storie di The Books of Blood hanno un crudo quanto innegabile potere, soprattutto per un pubblico abituato all'horror dai racconti scritti nel decennio precedente. E, cosa significativa, le influenze di Barker non includono una maggioranza di classici dell'horror del passato tranne, forse, King ed Ellison... ma piuttosto l'horror grafico delle famose E. C. comics degli anni cinquanta, dei film d'orrore e di quegli stessi romanzi degli anni settanta sopra citati. Nel processo di formazione compare una nuova tradizione ibrida. Terrore è una delle migliori storie dei sei volumi, che si muove dapprima nella direzione di un esame della natura della realtà per rivolgersi poi verso le mostruosità psicologiche e la violenza acuita del grand guignol. Per Barker, l'impatto poderoso è tutto. Non esiste piacere che uguagli il terrore. Se fosse possibile sedersi, invisibili, tra due persone su un treno, in una sala d'attesa o in un ufficio, la conversazione origliata finirebbe col toccare quell'argomento. Certo il discorso potrebbe sembrare incentrato su qualcosa di completamente diverso: le condizioni della nazione, una futile chiacchierata sulla morte sulle strade, i prezzi in rialzo delle cure dentarie; ma togliete le metafore, le allusioni, ed ecco, il clou del discorso diventa il terrore. Mentre la natura di Dio e la possibilità della vita eterna non sono soggetto di discussione, chiacchieriamo volentieri sulle minuzie della miseria. La sindrome non conosce limiti; a una sauna come a una tavola rotonda, il rituale è sempre lo stesso. Con l'inevitabilità della lingua che batte dove il dente duole, torniamo sempre alle nostre paure, sedendoci a parlarne con l'ardore di un uomo affamato davanti a un piatto pieno e fumante. Mentre Stephen Grace era ancora all'università e aveva paura di parlare, gli fu insegnato a parlare del perché avesse paura. A dire il vero, non gli fu insegnato semplicemente a parlarne ma ad analizzare e a sezionare ogni terminazione nervosa, alla ricerca dei terrori più piccoli. In questa indagine, ebbe un maestro: Quaid. Era l'epoca dei guru; era il loro periodo. Nelle università inglesi giovani uomini e donne cercavano a destra e a sinistra persone da seguire come agnellini; Steve Grace era uno dei tanti. Fu per sfortuna che trovò in Quaid il suo Messia. S'incontrarono nella sala di ricreazione degli studenti.
«Mi chiamo Quaid» si presentò al bar l'uomo accanto a Steve. «Ah.» «Tu sei...?» «Stephen... Steve Grace.» «Sì. Frequenti il corso di Etica, vero?» «Esatto.» «Non ti vedo in nessun altro seminario o alle lezioni di filosofia.» «È la mia materia complementare dell'anno. Seguo il corso di Letteratura Inglese. Non sopportavo l'idea di passare tutto un anno a studiare Norvegese Antico.» «E così hai optato per Etica.» «Sì.» Quaid ordinò un doppio brandy. Non aveva l'aria del benestante e un doppio brandy avrebbe prosciugato le finanze della settimana successiva di Steve. Quaid scolò il liquore é ne ordinò un altro bicchiere. «Che cosa prendi?» Steve stava sorseggiando una mezza birra, deciso a farla durare un'ora. «Niente.» «Sì, invece.» «Sto bene così.» «Un altro brandy e una birra per il mio amico.» Steve non resistette alla generosità di Quaid. Una birra e mezzo a stomaco vuoto l'avrebbero infinitamente aiutato a sopportare la noia dei seguenti seminari su Charles Dickens come Analista Sociale. Gli veniva da sbadigliare soltanto a pensarci. «Qualcuno» disse Quaid «dovrebbe scrivere una tesi sul bere come attività sociale.» Quaid studiò per un momento il suo brandy, quindi lo tracannò. «O come oblio» aggiunse. Steve lo guardò. Doveva avere forse cinque anni di più dei suoi venti. L'accozzaglia d'indumenti che indossava era sorprendente. Scarpe da ginnastica conciatissime, pantaloni di velluto, una camicia più grigia che bianca che doveva avere visto tempi migliori e, sopra, una giacca di pelle nera molto costosa che gli pendeva dalla figura alta e magra. Il viso era lungo e comune; gli occhi di un azzurro lattiginoso e così sbiaditi che il colore sembrava confondersi col bianco, lasciando intravedere dietro le lenti spesse le iridi grandi come capocchie di spillo. Labbra piene ma smunte, secche e tutt'altro che sensuali. Capelli biondo sporco.
Quaid, decise Steve, poteva essere scambiato per uno spacciatore di droga tedesco. Non portava distintivi. Erano la passione del momento degli studenti e Quaid sembrava nudo senza qualcosa che indicasse quali fossero i suoi hobbies. Era un gay, un femminista, un militante nella campagna a favore delle balene oppure un reazionario vegetariano? Di che cosa si occupava, per amore del cielo? «Avresti dovuto seguire il corso di Antico Norvegese?» disse. «Perché?» «Non si prendono neppure la briga di classificare i compiti in quel corso» spiegò Quaid. Steve non ne aveva sentito parlare. Quaid continuò. «Tirano semplicemente in aria i fogli. A faccia in su, un A. A faccia in giù, un B.» Oh, era uno scherzo. Quaid era un burlone. Steve tentò di ridere, ma il viso di Quaid ìimase impassibile. «Dovresti fare Antico Norvegese» insistette. «A chi serve Bishop Berkeley o Platone o...» «O?» «Tutta merda.» «Sì.» «Ti ho osservato alle lezioni di filosofia...» Steve cominciò a farsi delle domande su Quaid. «... non prendi mai appunti, vero?» «No» ammise Steve. «Ho pensato che fossi molto sicuro di te stesso oppure che non te ne fregasse niente.» «Né l'una né l'altra cosa. Sono semplicemente insicuro.» Quaid grugnì e tirò fuori un pacchetto di sigarette a buon mercato. Di nuovo non era la cosa giusta. Uno poteva fumare le Gauloises o le Camel. O non fumare affatto. «Non è la vera filosofia quella che ci insegnano qui» disse Quaid, con inconfondibile disprezzo. «Ah?» «Spilluzzichiamo un po' di Platone o un po' di Bentham... nessuna analisi reale. Queste sono le pecche del corso. Assomiglia alla bestia: ha persino un po' l'odore della bestia per i non iniziati.» «Quale bestia?» «La filosofia. La Vera Filosofia. È una bestia, Stephen, non credi?»
«Io non avevo...» «È selvaggia. Morde.» Quaid fece un sorriso volpino. «Sì, morde» ripeté. Oh, gli piaceva e lo ripeté un'altra volta: «Morde.» Stephen annuì. La metafora andava al di là delle sue capacità. «Credo che dovremmo sentirci bistrattati dalla nostra materia.» Quaid si stava scaldando sulla mutilazione da parte dell'istruzione. «Dovremmo averne paura a barcamenarci tra le idee di cui dobbiamo parlare.» «Perché?» «Perché se fossimo dei validi filosofi non dovremmo scambiarci frasi accademiche. Non dovremmo parlare di semantica usando trucchi linguistici per coprire le vere preoccupazioni.» «Che cosa dovremmo fare?» Steve cominciava a sentirsi la spalla di Quaid. Solo che Quaid non era in vena di scherzi. Il suo viso era serio, le iridi a capocchia di spillo erano ridotte a due puntini. «Dovremmo avvicinarci alla bestia, Steve, non credi? Cerca di adularla, di coccolarla, di sfruttarla...» «Che cosa... ehm... cos'è la bestia?» Quaid era chiaramente esasperato dal pragmatismo di quelle domande. «È il soggetto di qualsiasi valida filosofia, Stephen. Sono le cose di cui abbiamo paura perché non le capiamo. È il buio dietro la porta.» Steve pensò alla porta. Pensò al buio. E cominciò a capire a che cosa conduceva quel tortuoso discorso di Quaid. La filosofia era una scusa per parlare della paura. «Dovremmo discutere di ciò che è vicino alla nostra psiche?» disse Quaid. «Se non lo facciamo... rischiamo...» La loquacia parve improvvisamente abbandonarlo. «Rischiamo che cosa?» chiese Stephen. Quid fissava il bicchiere vuoto come se volesse rivederlo pieno. «Ne vuoi un altro?» domandò Steve, pregando che la risposta fosse no. «Che cosa rischiamo?» Quaid ripeté la domanda. «Be', credo che se non usciamo e non troviamo la bestia...» Steve riuscì a intravvedere la conclusione in arrivo. «... prima o poi, la bestia verrà e ci troverà» concluse Quaid. Non esiste piacere che eguagli il terrore. Purché sia di qualcun altro.
Nelle due settimane che seguirono, Steve fece qualche domanda casuale sullo strano signor Quaid. Nessuno conosceva il suo nome di battesimo. Nessuno sapeva con certezza la sua età, ma una delle segretarie pensava che avesse più di trent'anni, il che fu una sorpresa. I suoi genitori, Cheryl gliel'aveva sentito dire, erano morti. Uccisi, pensava. E quello sembrava essere tutto ciò che si sapeva su Quaid. «Ti devo un drink?» disse Steve, toccando una spalla di Quaid. Il quale reagì come se fosse stato morso. «Un brandy?» propose Steve. «Grazie.» Steve fece le ordinazioni. «Ti ho colto di sorpresa?» «Pensavo.» «Nessun filosofo dovrebbe esserne privo.» «Privo di cosa?» «Del cervello» disse Steve. Si misero a parlare. Steve non sapeva perché avesse avvicinato di nuovo Quaid. L'uomo aveva dieci anni di più e apparteneva a una diversa categoria intellettuale. A voler essere onesti, probabilmente intimidiva Steve. Il suo incessante parlare di bestie lo confondeva. Steve tuttavia lo gradiva: altre metafore; altri discorsi privi di umorismo per spiegargli come fossero inutili gli insegnanti e deboli gli studenti. Nel mondo di Quaid non c'erano certezze. Lui non aveva un guru secolare e certo non aveva una religione. Sembrava incapace di vedere qualsiasi sistema, che fosse politico o filosofico, senza cinismo. Sebbene ridesse raramente, Steve sapeva che c'era un umorismo amaro nella visione del mondo di Quaid. Le persone come agnellini e pecore, tutte alla ricerca dei pastori. Certo quei pastori erano fittizi, secondo l'opinione di Quaid. Tutto ciò che esisteva, nel buio che circondava l'ovile, erano le paure che attaccavano l'innocente pecora: in attesa, pazienti come pietre, del proprio destino esiziale. Tutto doveva essere messo in dubbio tranne il fatto che il terrore esisteva. L'arroganza intellettuale di Quaid era esilarante. Steve giunse ben presto ad amare la facilità iconoclastica con cui lui demoliva credenza dopo cre-
denza. A volte era doloroso quando Quaid impiantava una discussione contro uno dei dogmi di Steve. Ma dopo qualche settimana, persino la demolizione pareva eccitante. Quaid disboscava il sottobosco, abbatteva gli alberi, strappava le erbacce. Steve si sentiva libero. Nazione, famiglia, religione, legge. Tutta cenere. Tutto inutile. Tutta robaccia e le catene e la soffocazione. C'era soltanto il terrore. «Io ho paura, tu hai paura, noi abbiamo paura» amava dire Quaid. «Lui, lei ha paura. Non c'è cosa cosciente sulla faccia della terra che non conosca il terrore più intimamente del proprio battito cardiaco.» Una delle vittime favorite di Quaid era un'altra studentessa di filosofia e di letteratura inglese, Cheryl Fromm. Lei era attratta dalle sue più oltraggiose osservazioni come il pesce dell'esca e mentre i due si sbranavano a vicenda, Steve rimaneva seduto a godersi lo spettacolo. Cheryl era, secondo l'opinione di Quaid, una ottimista patologica. «E tu sei pieno di merda» disse lei quando la discussione si fece un po' troppo calda. «Dunque, a chi interesse se tu hai paura della tua stessa ombra? Non a me. Io sto bene.» E lo si vedeva. Cheryl Fromm era una creatura di sogno... ma troppo brillante perché qualcuno cercasse di fare una mossa nei suoi confronti. «Tutti noi assaporiamo il terrore una volta ogni tanto» ribatté Quaid e i suoi occhi lattiginosi la studiavano attentamente, ne spiavano la reazione cercando, Steve lo sapeva, un'incrinatura nella sua convinzione. «Io no.» «Nessuna paura? Nessun incubo?» «Niente. Ho una bella famiglia; non ho scheletri nell'armadio. Non mangio neppure carne, perciò non mi sento a disagio quando passo accanto a un mattatoio. Non ho merda da mettere in mostra. Questo significa forse che non sono reale? Non credo.» «Significa» disse Quaid, gli occhi ridotti a due fessure come quelli di un serpente «significa che la tua sicurezza ha qualcosa di grosso da coprire.» «Ci risiamo con gli incubi.» «Grossi incubi.» «Sii preciso, chiarisci i tuoi termini.» «Non posso dirti ciò di cui hai paura.» «Dimmi allora ciò di cui hai paura tu.» Quaid esitò. «Be'» disse infine «non è analizzabile.» «Non è analizzabile, il mio culo!»
Il che fece involontariamente sorridere Steve. Perché il fondo schiena di Cheryl non era davvero analizzabile. Non rimaneva altro da fare che inginocchiarsi e adorarlo. Quaid tornò in cattedra. «Ciò di cui ho paura riguarda soltanto me. Non ha senso in un contesto più ampio. I segnali del mio terrore, le immagini di cui si serve il cervello, se vuoi, per illustrare la mia paura, quei segnali non sono niente in confronto al vero orrore che è alle radici della mia personalità.» «Io ho delle immagini» intervenne Steve. «Immagini dell'infanzia che mi fanno pensare a..» Si fermò già pentito di quella confessione. «A che cosa?» domandò Cheryl. «Intendi dire a cose che hanno a che fare con brutte esperienze? Una caduta dalla bicicletta o roba del genere?» «Forse» rispose Steve. «A volte mi scopro a pensare a quelle immagini. Non deliberatamente, solo quando non sono concentrato. È come se la mia mente andasse automaticamente a quelle immagini.» Quaid diede in un grugnito di soddisfazione. «Esattamente» disse. «Freud scrive in proposito» annunciò Cheryl. «Chi? Che cosa?» chiese beffando Quaid. «Freud» ripeté Cheryl, questa volta esibendosi come se parlasse con un bambino. «Sigmund Freud: forse ne hai sentito parlare.» Quaid fece una smorfia di evidente disprezzo. «Le fissazioni materne non risolvono il problema. I veri terrori in me, in tutti noi, vengono prima della personalità. Il terrore è là prima che noi si abbia qualsiasi nozione su noi stessi come individui. Il feto, raggomitolato su se stesso nell'utero, ha paura.» «Tu te lo ricordi, vero?» domandò Cheryl. «Può darsi» rispose Quaid, terribilmente serio. «L'utero?» Quaid fece un sorrisetto. Steve pensò a quel sorriso e disse: «Io credo di non ricordarmelo.» Era un sorriso misterioso, spiacevole quello di Quaid un sorriso che Steve avrebbe voluto dimenticare. «Sei un bugiardo» disse Cheryl, alzandosi e guardando Quaid. «Può darsi» ribatté lui, improvvisamente perfetto gentiluomo. Dopo di che le discussioni cessarono. Basta parlare di incubi, basta discutere di cose che vanno gonfiandosi di notte. Steve vide irregolarmente Quaid nel mese successivo e quando ve-
deva Quaid era sempre in compagnia di Cheryl Fromm. Era gentile con lei, persino deferenziale. Non portava più la giacca di pelle nera perché lei odiava l'odore di animale morto. Quell'improvviso cambiamento nei loro rapporti confuse Steven che alla fine se lo spiegò con la sua primitiva conoscenza in fatto di materia sessuale. Non era un verginello, ma le donne erano ancora un mistero per lui: contraddittorie e sorprendenti. Era anche geloso, sebbene non volesse del tutto ammetterlo con se stesso: ce l'aveva con quella creatura di sogno che portava via tanto tempo a Quaid. E c'era un altro sentimento in lui: la curiosa sensazione che Quaid corteggiasse Cheryl per motivi strettamente personali. Il sesso non era il motivo di Quaid, Steve ne era sicuro. Né lo era il rispetto per l'intelligenza di Cheryl. No, Quaid la stava mettendo alle strette, Steve lo sentiva d'istinto. Cheryl Fromm stava per essere condotta al colpo finale. Poi, dopo un mese, Quaid osservò durante una conversazione: «Lei è vegetariana.» «Cheryl?» «Certo, Cheryl.» «Lo so, l'ha detto una volta.» «Sì, ma il suo non è un capriccio. È fanatica in proposito. Non sopporta neppure di guardare la vetrina di una macelleria. Non tocca né toccherà mai la carne, l'odore della carne...» «Oh!» Steve era sorpreso. A che cosa mirava Quaid? «Terrore, Steve.» «Della carne?» «I segnali sono diversi da persona a persona. Lei ha paura della carne. Dice che sta tanto bene, che è così equilibrata. Merda! Lo scoprirò...» «Scoprirai che cosa?» «La sua paura, Steve.» «Non avrai intenzione...?» Steve non sapeva come esprimere la sua ansia senza sembrare accusatorio. «Farle del male?» concluse per lui Quaid. «No, non ho alcuna intenzione di farle del male. Qualsiasi danno subirà se lo sarà inflitto da sola.» Quaid lo fissava con uno sguardo quasi ipnotico. «È arrivato il momento che impariamo a fidarci l'uno dell'altro» continuò Quaid e gli si fece più vicino. «Detto tra noi...» «Senti, non credo di voler ascoltare.» «Dobbiamo toccare la bestia, Stephen.»
«Maledizione alla bestia! Non voglio ascoltare!» Steve si alzò sia per sfuggire all'oppressione dello sguardo di Quaid sia per mettere fine alla conversazione. «Siamo amici, Stephen.» «Sì...» «Allora rispettalo.» «Che cosa?» «Il silenzio. Non una parola.» Steve annuì. Non era una promessa difficile da mantenere. Non c'era nessuno a cui lui potesse esprimere le sue ansie senza che ne venisse deriso. Quaid parve soddisfatto. Se ne andò di corsa, lasciando Steve con la sensazione di essere entrato a far parte di una società segreta di cui non conosceva il fine. Quaid gli aveva imposto un patto e la cosa era irritante. La settimana successiva, Steve disertò tutte le lezioni e la maggior parte dei seminari. Non copiò gli appunti, non lesse libri, non scrisse i compiti. Nelle due occasioni in cui si recò all'università andò in giro strisciando come un topo cauto, pregando di non imbattersi in Quaid. Non aveva bisogno di avere paura. L'unica volta in cui vide le spalle curve di Quaid lui stava parlando con Cheryl Fromm. Lei rideva e la sua risata musicale riecheggiava per i muri dell'Istituto di Storia. La gelosia aveva completamente abbandonato Steve. Non desiderava avvicinarlo, né tantomeno, essere intimo con lui. «Questo periodo trascorso da solo, lontano dalla confusione delle lezioni e dai corridoi sovraffollati, diede a Steve il tempo di vagare con la mente. I suoi pensieri tornarono, come la lingua al dente che duole, alle paure. E, di conseguenza, all'infanzia. A sei anni, Steve era stato investito da una macchina. Le ferite non erano state particolarmente gravi, ma il colpo l'avevano reso sordo. Era stata un'esperienza profondamente sconvolgente per lui: non capire perché fosse stato d'improvviso tagliato fuori dal mondo. Era un inspiegabile tormento e il bambino aveva pensato che sarebbe durato per sempre. Un attimo prima, la vita era stata reale, piena di grida e di risate. Quello successivo, si era scoperto escluso da tutto e il mondo esterno era diventato un acquario pieno di pesci che aprivano la bocca e avevano sorrisi grotteschi. E, peggio ancora, c'erano volte in cui soffriva di quello che i medici chiamavano tinnitus, un ronzio o un fischio alle orecchie. La testa si riempiva dei rumori più strani, grida e fischi, che agivano come effetti sonori
alle sollecitazioni del mondo esterno. In quei momenti, lo stomaco gli si rivoltava e un cerchio di ferro gli stringeva la testa, distruggendo i pensieri, dissociando la mente dalla mano, l'intenzione dalla pratica. E lui veniva assalito da un'ondata di panico, assolutamente incapace di dare un senso alle cose mentre la testa risuonava e ronzava. Ma era di notte che arrivavano i terrori peggiori. A volte si svegliava in quello che (prima dell'incidente) era stato il rassicurante grembo della sua camera da letto per scoprire che il fischio era cominciato nel sonno. Spalancava gli occhi, il corpo madido di sudore, la mente piena del baccano attutito nel quale lui era rinchiuso senza la speranza di un momento di tregua. Nulla poteva zittire la sua testa e niente, sembrava, poteva riportargli il mondo, il mondo che parlava, rideva e piangeva. Era solo. Quello era l'inizio, la parte centrale e la fine del terrore. Lui era assolutamente solo con la sua intima cacofonia. Chiuso in quella casa, in quella stanza, in quel corpo, in quella testa, una prigione fatta di pelle sorda e cieca. Era quasi insopportabile. Di notte il bambino a volte piangeva senza sapere che emetteva dei suoni e i pesci che erano i suoi genitori accendevano la luce e cercavano di aiutarlo, chinandosi sul letto con le loro facce, le loro bocche che, silenziose, esibivano orribile smorfie. Le loro carezze alla fine lo calmavano; col tempo, sua madre aveva imparato il trucco per scacciare il panico che lo attanagliava. Una settimana prima di compiere i sette anni, l'udito era tornato, non perfettamente, ma abbastanza per apparire un miracolo. Il mondo era tornato e la vita era ricominciata. Il bambino aveva impiegato diversi mesi per fidarsi di nuovo del suo udito. Si svegliava ancora di notte e aspettava i rumori nella testa. Ma sebbene le orecchie ronzassero ai rumori più lievi, impedendo a Steve di andare ai concerti rock con gli altri studenti, lui ora badava poco alla sua leggera sordità. Se ne ricordava, questo sì, naturalmente. E molto bene. Riusciva ad assaporare di nuovo il gusto del panico; la sensazione del cerchio di ferro attorno alla testa. E c'era un residuo di paura là, del buio, del trovarsi solo. Ma, in fin dei conti, non avevano tutti paura di trovarsi soli? Di essere completamente soli? Steve ora aveva un'altra paura, molto più difficile da ignorare. Quaid.
Parlando con lui una volta che era ubriaco, Steve gli aveva raccontato della sua infanzia, della sordità, dei suoi terrori notturni. Quaid conosceva la sua debolezza, la chiave del terrore di Steve e aveva quindi un'arma, un bastone col quale batterlo, ammesso che si fosse arrivati a quel punto. Forse era per questo che Steve aveva deciso di non parlare con Cheryl (metterla in guardia, era questo che voleva fare?) ed era sicuramente per questo che evitava Quaid. L'uomo aveva un aspetto maligno. Né più né meno. Aveva l'aria dell'uomo pieno di malignità. Forse Steve, in quei quattro mesi dell'infanzia in cui aveva osservato le persone col sonoro inesistente, era diventato più sensibile agli sguardi, ai sogghigni e ai sorrisi che si formavano sui visi della gente. Sapeva che la vita di Quaid era un labirinto; quell'uomo aveva appesa sulla faccia una mappa fatta di complessità che si esprimevano in migliaia di sottili espressioni. La fase successiva dell'iniziazione di Steve al mondo segreto di Quaid arrivò soltanto tre mesi e mezzo dopo. L'università era chiusa per le vacanze estive e gli studenti erano partiti per le proprie mete. Steve andò come al solito a lavorare nella tipografia del padre; le ore erano lunghe e fisicamente pesanti ma per lui erano un sollievo innegabile. Lo studio aveva esaurito la sua mente, riempiendola di parole e di idee. Il lavoro in tipografia la snebbiò rapidamente, liberandola di quella confusione. Fu un buon periodo durante il quale lui non pensò a Quaid. Tornò al campus alla fine di settembre. Gli studenti presenti erano ancora pochi. La maggior parte dei corsi cominciava soltanto una settimana dopo e si respirava un'aria malinconica senza l'abituale confusione di ragazzi che si lamentavano, flirtavano e discutevano. Steve era in biblioteca e cercava di accaparrarsi certi libri importanti prima che gli altri vi mettessero sopra le mani. I libri erano oro puro all'inizio del semestre, con le liste delle letture da controllare e la libreria dell'università che predicava sempre di ordinare i titoli necessari. Quei libri vitali sarebbero arrivati due giorni dopo il seminario nel quale l'autore doveva essere discusso. Per quell'ultimo anno, Steve era deciso a prevenire l'assalto alle poche copie che la biblioteca possedeva. Udì la voce familiare. «Così presto al lavoro.» Steve sollevò la testa per incontrare gli occhi a capocchia di spillo di
Quaid. «Sono impressionato, Steve.» «Da che cosa?» «Dal tuo entusiasmo per il lavoro.» «Oh.» Quaid sorrise. «Che cosa cerchi?» «Qualcosa su Bentham» «Ho Principi della Morale e Legislazione. Ti va bene? Era una trappola. No, era assurdo. Gli stava offrendo un libro; come poteva quel semplice gesto costituire una trappola? «Ora che ci penso» aggiunse Quaid e il sorriso si fece più largo «credo che sia la copia della biblioteca quella che ho. Te la darò.» «Grazie.» «Fatto buone vacanze?» «Sì, grazie. E tu?» «Molto gratificanti.» Il sorriso si era ridotto a una linea sottile sotto ai... «Ti sei fatto crescere i baffi» disse Steve. Davvero un esempio mal riuscito di baffi: sottili, irregolari e d'un biondo sporco, si agitavano sotto il naso di Quaid come se cercassero il modo per staccarsi dal suo viso. Lui parve leggermente imbarazzato. «L'hai fatto per Cheryl?» Ora era davvero imbarazzato. «Be'...» «Ho l'impressione che tu abbia fatto delle belle vacanze» disse Steve. All'imbarazzo si aggiunse qualcos'altro. «Ho delle fotografie meravigliose» annunciò Quaid. «Di che cosa?» «Delle vacanze.» Steve non riusciva a credere alle sue orecchie. Possibile che Cheryl Fromm avesse addomesticato Quaid? Fotografie delle vacanze? «Alcune le troverai incredibili.» C'era qualcosa dell'arabo che vende cartoline sconce nel modo di fare di Quaid. Che cosa diavolo erano quelle fotografie? Dettagli di Cheryl colta mentre leggeva Kant? «Non ti vedo nei panni del fotografo.» «È diventata una delle mie passioni.» Quaid sorrise pronunciando la parola passione. C'era un'eccitazione ma-
lamente repressa nella sua voce. Era, evidentemente, molto compiaciuto. «Devi venire a vederle» disse. «Io...» «Questa sera. E, nello stesso tempo, prenderai il libro di Bentham» «Grazie.» «Ho una casa tutta per me di questi tempi. Appena dietro l'angolo dell'Ospedale della Maternità, in Pilgrim Street. Al sessantaquattro. Va bene un po' dopo le nove?» «D'accordo. Grazie. Pilgrim Street.» Quaid annuì. «Non sapevo che ci fossero case abitate in Pilgrim Street» disse Steve. «Al sessantaquattro.» Pilgrim Street era uno squallore. La maggior parte delle case erano già demolite e le altre erano in procinto di esserlo. Si vedevano le pareti interne, le tappezzerie rosa e verde pallido, i camini degli ultimi piani sospesi su mucchi di mattoni affumicati. Le scale partivano dal niente e arrivavano al niente... e ritorno. Il numero sessantaquattro era ancora in piedi. Gli edifici ai lati erano stati demoliti, lasciando un deserto di polvere che qualche temeraria erbaccia aveva cercato di popolare. Un cane con tre zampe pattugliava il suo territorio dalla parte del sessantaquattro, lasciando a intervalli irregolari qualche pipì come marchio di proprietà. L'appartamento di Quaid, anche se tutt'altro che sontuoso, era più accogliente dei dintorni. Bevvero del pessimo vino rosso che Steve aveva portato e fumarono un po' d'erba. Quaid era molto più allegro di quanto Steve l'avesse mai visto prima e felice di parlare di cose normali invece che di terrori; di tanto in tanto rideva; raccontava persino delle storielle sporche. La casa all'interno era scarsamente arredata, quasi spartana. Niente quadri ai muri; ornamenti di nessun genere. I libri di Quaid, e quelli ce n'erano a centinaia, erano ammucchiati sul pavimento senza un ordine particolare. La cucina e il bagno erano primitivi. L'atmosfera che si respirava era quasi monastica. Dopo un paio d'ore piacevoli, la curiosità ebbe la meglio su Steve. «Allora, dove sono le foto delle vacanze?» domandò. «Ah, sì, il mio esperimento.» «Esperimento?» «Pensandoci bene, Steve, non sono così sicuro di dovertele mostrare.»
«Perché no?» «Ho per le mani qualcosa di serio, Steve.» «E io non sono pronto per le cose serie, è questo che intendi dire?» Steve capì che Quaid si stava servendo della sua tecnica di aggancio... ed era ovvio che lo facesse. «Non ho detto che tu non fossi pronto...» «Di che cosa diavolo si tratta?» «Fotografie.» «Di?» «Tu ricordi Cheryl?» Fotografie di Cheryl. Ah! «Come potrei dimenticarmene?» disse Steve. «Non tornerà quest'anno.» «Ah.» «Ha avuto una rivelazione.» Lo sguardo di Quaid era simile a quello di un basilisco. «Che cosa significa?» chiese Steve. «Ricordi? Era sempre così positiva, razionale, lucida!» Quaid parlava di Cheryl come se fosse morta. «Calma, fredda ed equilibrata.» «Sì... suppongo di sì.» «Povera cagna. Non era altro che una bella cagna fottuta.» Steve sorrise scioccamente, come un ragazzino, compiaciuto dal turpiloquio di un grande. Quaid, come sempre, era scioccante... quasi quanto scoprire un professore col pene fuori dai pantaloni. «Ha trascorso parte delle vacanze qui» disse Quaid. «Qui?» «In questa casa.» «Allora ti piace?» «È una vacca ignorante. È pretenziosa, debole e stupida. Solo che non cedeva, non cedeva, la fottuta.» «Vuoi dire che non fotteva?» chiese Steve sorpreso e compiaciuto per la propria audacia verbale. «Oh, no, si toglierebbe le mutandine se appena la guardassi. Era alle sue paure che non cedeva...» La solita vecchia canzone. «Ma io l'ho persuasa... a tempo opportuno» proseguì Quaid. Quaid tirò fuori una scatola da dietro una pila di libri di filosofia. Den-
tro, c'era un fascio di fotografie in bianco e nero, ognuna grande il doppio di una cartolina postale. Porse a Steve la prima della serie. «L'ho rinchiusa, vedi, Steve.» Quaid era freddo come uno speaker. «Per vedere se riuscivo a provocarla, a farle ammettere almeno in parte il suo terrore.» «Che cosa vuoi dire con quel "l'ho rinchiusa"?» «Di sopra.» Steve si sentì a disagio. Le orecchie gli ronzavano anche se molto in sordina. Il vino cattivo gli faceva sempre quell'effetto. «Sì, l'ho rinchiusa di sopra» ripeté Quaid «per fare un esperimento. Ecco perché ho preso questa casa. Nessun vicino che udisse. "Nessun vicino che udisse che cosa?" pensò Steve. Guardò l'immagine che aveva in mano. «Ho nascosto una macchina fotografica» spiegò Quaid. «Lei non ha mai saputo che la stavo riprendendo.» La Fotografia Numero Uno ritraeva una stanza piccola, priva di caratteristiche. E ben poco arredata. «Questa è la stanza. In cima alla casa. Calda. Persino un po' soffocante. Nessun rumore» disse Quaid. Nessun rumore. Quaid gli passò la Foto Numero Due. Stessa stanza. Ora la maggior parte dei mobili erano stati rimossi. Un sacco a pelo giaceva contro una parete. Un tavolo. Una sedia. Una lampadina. «Ecco come gliel'avevo arredata.» «Sembra una cella» disse Steve. Quaid grugnì. Foto Numero Tre. Stessa stanza. Sul tavolo una brocca d'acqua. In un angolo, un secchio sommariamente coperto da un asciugamano. «A che cosa serve il secchio?» chiese Steve. «Doveva pure pisciare, no?» «Certo.» «Aveva a disposizione tutte le comodità» disse Quaid. «Non volevo ridurla come un animale in gabbia. Anche ubriaco, Steve colse la deduzione di Quaid. Lui non voleva ridurla come un animale. Tuttavia... Foto Numero Quattro. Sul tavolo, dentro a un piatto privo di decorazioni c'era un pezzo di carne dal quale spuntava un osso.
«Manzo» precisò Quaid. «Ma lei è vegetariana». «Appunto. La carne, del buon manzo, è leggermente salata e ben cotta.» Foto Numero Cinque. Lo stesso ambiente. Cheryl è nella stanza. La porta è chiusa. Lei sta prendendo a calci la porta, il piede, il pugno e il viso che esprimono tutta la sua furia. «L'ho chiusa, nella stanza alle cinque del mattino. Lei dormiva: le ho fatto varcare la soglia tenendola tra le braccia. Molto romantico. Lei non si è accorta di niente» sogghignò Quaid. «L'hai chiusa dentro a chiave?» «Naturale. Un esperimento.» «Lei non ne sapeva niente?» «Avevamo parlato del terrore, tu mi conosci. Lei sapeva che cosa volevo scoprire. Sapeva che volevo delle cavie. Ben presto ha capito. E una volta che si è resa conto di quello che cercavo, si è calmata.» Foto Numero Sei. Cheryl è seduta in un angolo della stanza, pensierosa. «Credo che fosse convinta di potere avere la meglio su di me» disse Quaid. Foto Numero Sette. Cheryl guarda la carne sul tavolo. «Bella foto, vero? Guarda l'espressione di disgusto sul suo viso. Odiava persino l'odore della carne cotta. Naturalmente... ma allora non aveva fame, non ancora.» Numero Otto: dorme. Numero Nove: piscia. Steve si sentì a disagio guardando la ragazza acquattata sul secchio, le mutandine attorno alle caviglie. Il viso rigato di lacrime. Numero Dieci: beve dell'acqua dalla brocca. Numero Undici: dorme di nuovo, in fondo alla stanza, raggomitolata su se stessa, nella posizione fetale. «Da quanto tempo si trova nella stanza?» chiese Steve. «Da quattordici ore. Ha perso molto in fretta la cognizione del tempo. Nessun cambiamento, neppure lieve, vedi?» «Per quanto tempo è rimasta li?» «Finché lo scopo non è stato raggiunto.» Numero Dodici: è sveglia, guarda di traverso la carne sul tavolo. «Questa è stata scattata il mattino successivo. Io dormivo: la macchina scattava le foto ogni quarto d'ora. Guardale gli occhi...» Steve osservò più da vicino la fotografia. C'era una certa disperazione
nello sguardo di Cheryl: un che di stravolto, di selvaggio. Guardava il manzo come se cercasse di ipnotizzarlo. «Sembra che stia male» disse. «È stanca, ecco tutto. Dormiva molto, ma questo sembrava stancarla più che altro. Ora non sa se è giorno o notte. E, naturalmente, ha fame. È trascorso un giorno e mezzo. Ha molta fame.» Numero Tredici: dorme di nuovo, raggomitolata su di sé come una palla, come se volesse implodersi, divorando se stessa. Numero Quattordici: beve dell'altra acqua. «Le ho cambiato la brocca mentre dormiva.» disse Quaid. «Dormiva profondamente: avrei potuto ballarle intorno e non si sarebbe svegliata. Era persa per il mondo.» Quaid sorrise. "Pazzo" pensò Steve "quest'uomo è pazzo". «Dio!» esclamò Quaid schifato eppure ghignante. «Qui puzza. Sai come puzzano a volte le donne; non di sudore, ma di qualcos'altro. Una puzza pesante: di carne. Di sangue. Cheryl si avvicinava alla fine del ciclo. Questo non era stato previsto.» Numero Quattordici: tocca la carne. «Qui comincia a cedere... un'incrinatura» disse Quaid, una punta di trionfo nella voce. «E qui» proseguì mostrando la Numero Quindici «qui comincia il terrore.» Steve studiò attentamente la foto. La grana impediva di notare i particolari, ma Cheryl era in preda al dolore, su questo non c'erano dubbi. Aveva la fronte aggrottata, divisa com'era tra il desiderio e la repulsione, mentre toccava il cibo. Numero Sedici: è di nuovo alla porta, vi si lancia contro con tutto il corpo. La bocca è una macchia nera d'angoscia mentre grida. «Finiva sempre con l'insultarmi ogni volta che doveva affrontare il... manzo» disse Quaid. «Quanto tempo è trascorso a questo punto? «Tre giorni. Stai guardando una donna affamata.» Non era difficile vederlo. La foto successiva la raffigurava ancora al centro della stanza, gli occhi distolti dalla tentazione del cibo, il corpo teso nel dilemma. «La stai facendo morire di fame.» disse Steve. «Si può stare tranquillamente senza mangiare per dieci giorni. Le persone grasse sono comuni nei paesi civilizzati, Steve. Il sessanta per cento della popolazione inglese è clinicamente obesa. Lei, comunque, era ben sostenuta.»
Numero Diciotto: è seduta, Cheryl la sostenuta, in un angolo della stanza, e piange. «Più o meno questo è il periodo nel quale comincia ad avere le allucinazioni. Solo qualche scherzo della mente. Credeva di sentire qualcosa nei capelli o sul dorso della mano. L'ho vista a volte con lo sguardo a mezz'aria, a fissare il nulla.» Numero Diciannove: si lava. È nuda fino alla vita, i seni sono pesanti, il viso privo di espressione. La carne è più scura che nelle foto precedenti. «Si lavava regolarmente.» disse Quaid. «Non passavano mai dodici ore senza che si lavasse dalla testa ai piedi.» «La carne, il manzo sembra....» mormorò Steve incerto... «Stagionata?» «Più scuro.» «Faceva piuttosto caldo in quella stanzetta e c'erano delle mosche. Hanno trovato la carne e vi hanno depositato le uova. Sì, sta frollando ben bene...» «Anche questo faceva parte del tuo piano?» «Certo. Se la carne le rivoltava lo stomaco quando era fresca, pensa al suo disgusto davanti alla carne marcia! Ecco il punto cruciale del dilemma, no? Più lei aspetta a mangiarla e più la disgusta ciò che ha a disposizione per mangiare. È costretta tra il suo terrore della carne da una parte e il terrore di morire dall'altra. A quale terrore cederà? Questa la trappola...» E, improvvisamente, in quel momento, Steve stesso si sentì intrappolato: da una parte quello scherzo era durato anche troppo e l'esperimento di Quaid era diventato un esercizio di sadismo. Dall'altra, voleva sapere com'era finita quella storia. C'era una sorta d'innegabile fascino nella sofferenza di Cheryl. Le successive sette fotografie... la Numero Venti, Ventuno, Ventidue, Ventritré, Ventiquattro, Venticinque e Ventisei... raffiguravano la stessa routine. Dormire, lavarsi, pisciale, carne da guardare. Dormire, lavarsi, pisciare... Poi la Numero Ventisette. «Vedi?» disse trionfante Quaid. Cheryl prende la carne. Sì, la prende, il viso inorridito. Il pezzo di manzo sembra a buon punto, ora, ricoperto di uova di mosche. Disgustoso. «La morde». Nella foto successiva Cheryl affonda il suo viso nella carne.
Steve ebbe l'impressione di sentire in bocca il gusto del pezzo di manzo marcio. Ne immaginò persino la puzza e si ritrovò col sapore di putrido sulla lingua. Come aveva potuto lei? Numero Ventinove: vomita nel secchio nell'angolo della stanza. Numero Trenta: si siede e guarda il tavolo. È vuoto. La brocca dell'acqua è stata lanciata contro il muro. Il piatto è stato rotto. La carne giace sul pavimento putrido. Numero Trentuno: dorme, tenendosi la testa fra le braccia. Numero Trentadue: si raddrizza. Guarda di nuovo la carne, la sfida. La fame che ha le provoca un'espressione di dolore sul viso. E così pure di disgusto. Numero Trentatré: dorme. «Quanti giorni sono trascorsi ora?» domandò Steve. «Cinque. No, sei.» Sei giorni. Numero Trentaquattro: l'immagine è mossa, apparentemente lei si sta lanciando contro il muro. Forse vi batte la testa, Steve non ne era sicuro. Ma non se la sentì di fare domande. Una parte di lui non voleva sapere. Numero Trentacinque: sta di nuovo dormendo, questa volta sotto il tavolo. Il sacco a pelo è in brandelli, lembi di stoffa e pezzi d'imbottitura sono sparsi per la stanza. Numero Trentasei: parla alla porta, attraverso la porta, sapendo che non riceverà alcuna risposta. Numero Trentasette: mangia la carne rancida. «Cheryl si siede con calma sotto il tavolo, come l'uomo primitivo nella sua caverna, e affonda gli incisivi nella carne. Il suo viso è di nuovo privo di espressione; tutta l'energia è impegnata nello scopo del momento. Mangiare. Mangiare finché la fame scompare, finché l'agonia nel suo ventre e il senso di malessere nella testa scompaiono. Steve fissò la foto. «Mi ha sorpreso» disse Quaid «il fatto che abbia ceduto tutto d'un colpo. Un attimo prima sembrava dovere resistere per sempre. Il monologo alla porta era lo stesso miscuglio di minacce e di scuse che aveva recitato giorno dopo giorno. Poi è crollata. Proprio così. Si è acquattata sotto il tavolo e ha mangiato il manzo fino all'osso, come se fosse un pezzo di prima scelta.» Numero Trentotto: dorme. La porta è aperta. La luce filtra nella stanza. Numero Trentanove: la stanza è vuota.
«Dov'è andata?» chiese Steve. «È venuta di sotto. È entrata in cucina, ha bevuto diversi bicchieri d'acqua e si è seduta su una sedia per tre o quattro ore senza dire una parola.» «Le hai parlato?» «Sì, alla fine. Quando ha cominciato a uscire da quello stato di fuga. L'esperimento era finito. Non volevo farle del male.» «Che cosa ha detto?» «Nulla.» «Nulla?» «Nulla. Credo che per un bel po' non si sia resa conto della mia presenza nella stanza. Poi le ho cucinato delle patate e lei le ha mangiate.» «Non ha cercato di chiamare la polizia?» «No.» «Nessuna violenza?» «No. Sapeva che cosa avevo fatto e perché l'avevo fatto. Non era prestabilito, ma avevamo parlato di certi esperimenti in conversazioni astratte. Non si è fatta alcun male, come vedi. Forse ha perso un po' di peso, ma è tutto.» «Ora dov'è?» chiese Steve. «Se n'è andata il giorno dopo. Non so dove sia andata.» «E che cosa ha provato tutto questo?» «Forse niente. Ma ha segnato l'interessante inizio delle mie indagini.» «Inizio? Questo è stato soltanto un inizio?» C'era nella voce di Steve un aperto disgusto nei confronti di Quaid. «Stephen...» «Avresti potuto ucciderla» «No.» «Poteva impazzire. Rimanere per sempre squilibrata.» «Possibile, ma inverosimile. Era una donna con una volontà di ferro.» «Ma tu l'hai fatta crollare.» «Sì. Eppure, questo era un viaggio che lei si sentiva disposta ad affrontare. Mentalmente, intendo. Io ero qui e ho organizzato il viaggio. Niente di più.» «L'hai costretta. Altrimenti, lei non l'avrebbe fatto.» «Vero. È stata una lezione per lei.» «E così ora tu sei un insegnante?» Steve avrebbe voluto essere capace d'allontanare il sarcasmo dalla propria voce. Inutilmente, Il sarcasmo gli venne fuori con la rabbia e anche
con un po' di paura. «Sì, sono un insegnante» rispose Quaid, guardando Steve di traverso, senza metterlo a fuoco. «Insegno alla gente il terrore.» Steve fissò il pavimento. «Sei soddisfatto di ciò che hai insegnato?» «E di quello che ho imparato, Steve. Perché ho anche imparato. È una prospettiva molto eccitante: un mondo di paure da scoprire. Soprattutto con soggetti intelligenti. Anche di fronte alla razionalizzazione...» Steve si alzò. «Non voglio sentire altro...» «Ah? O.K.» «Ho delle lezioni domani mattina, presto.» «No.» «Che cosa?» Il cuore di Steve mancò un battito. «No. Non andartene ancora.» «Perché?» Il cuore batteva forte. Steve aveva paura di Quaid, non se n'era mai reso conto fino a che punto. «Ho dei libri da darti.» Steve arrossì. Leggermente. Che cosa aveva pensato in quel momento? Che Quaid avesse intenzione di atterrarlo con un placcaggio da rugby per iniziare a fare esperimenti con le sue paure? No. Pensieri stupidi. «Ho un libro su Kierkegaard che ti piacerà. È di sopra. Torno tra due minuti.» Quaid uscì dalla stanza, sorridendo. Steve si acquattò sulle gambe e cominciò a sfogliare di nuovo le fotografie. Ad affascinarlo di più era il momento in cui Cheryl prendeva per la prima volta in mano la carne marcia. Il suo viso aveva un'espressione del tutto estranea alla donna che lui aveva conosciuto. Vi erano scritti dubbio e confusione e profondo... «... en ...» Terrore. Era la parola di Quaid. Una parola sporca. Una parola oscena che da quella sera di associava alla tortura di una ragazza innocente. Steve pensò per un attimo all'espressione del suo viso mentre fissava la fotografia. Non c'era un po' della sua stessa confusione? E forse anche un po' del suo stesso terrore che aspettava di essere liberato? Udì un rumore alle sue spalle, troppo soffocato perché potesse essere Quaid.
A meno che non strisciasse. "Oh, Dio, a meno che non stesse...". Un tampone imbevuto di cloroformio tappò la bocca e le narici di Steve. Lui involontariamente inalò e i vapori gli salirono per il naso, facendogli lacrimare gli occhi. Al centro della sua testa, riusciva a sentire la voce velata di Quaid che pronunciava il suo nome. «Stephen.» Di nuovo. «...ephen». «...phen». «....hen». «..en». La macchia era il mondo. Il mondo era scuro, lontano. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Steve cadde pesantemente tra le fotografie. Quando si svegliò non si accorse di esserlo. C'era un'oscurità ovunque, da tutte le parti. Giacque sveglio per un'ora con gli occhi spalancati prima di rendersi conto di averli aperti. Mosse prima le braccia e le gambe, poi la testa. Non era legato come si sarebbe aspettato, se non alla caviglia. C'era una catena o qualcosa di simile attorno alla caviglia sinistra. Gli graffiava la pelle quando lui cercava di muovere un po' troppo il piede. Il pavimento era molto scomodo e quando Steve esplorò più da vicino col palmo della mano si rese conto che giaceva su un'enorme griglia o qualcosa che assomigliava a una griglia. Era di metallo e la superficie irregolare si estendeva in ogni direzione, ovunque il braccio arrivasse. E quando infilò il braccio attraverso i buchi di quella grata non toccò niente. Solo aria. Le prime fotografie agli infrarossi che Quaid scattò raffiguravano Steve che esplorava la sua prigione. Come Quaid si era aspettato, il soggetto razionalizzava la situazione. Niente isterismi. Niente bestemmie. Niente lacrime. Quella era la sfida del suo soggetto particolare. Il soggetto sapeva perfettamente che cosa gli stesse capitando e avrebbe risposto con la logica alle sue paure. Sarebbe stato sicuramente più difficile fare crollare quella mente che quella di Cheryl.
Ma i risultati sarebbero stati più gratificanti quando Stephen fosse crollato. Chissà se allora la sua anima si sarebbe aperta in modo che Quaid potesse vederla e toccarla? C'erano tante cose là dentro, all'interno di un uomo, che lui voleva studiare. Poco per volta, gli occhi di Steve si abituarono all'oscurità. Era imprigionato in quella che sembrava una specie di camino o di griglia con la cappa fumaria. Era, valutò, largo circa sei metri e completamente rotondo. Che fosse per caso lo sfiatatoio di un tunnel o di una fabbrica sotterranea? Steve ricostruì mentalmente la mappa della zona attorno a Pilgrim Street, cercando d'individuare il luogo più probabile in cui Quaid poteva averlo portato. Non riuscì a focalizzare nessun posto. Nessun posto. Era perso in un luogo che non poteva stabilire o riconoscere. Il camino rotondo non aveva ovviamente angoli da mettere a fuoco e le pareti non offrivano alcuna spaccatura o buco nel quale appuntare la propria consapevolezza. Peggio ancora, giaceva a braccia e gambe aperte su una grata. I suoi occhi non potevano ricavare alcuna impressione dall'oscurità che c'era sotto e sopra di lui: sembrava che quel camino fosse senza fondo. E c'era soltanto la sottile struttura della griglia e la fragile catena che assicurava la caviglia a essa, tra lui e il vuoto. Si immaginò sotto un vuoto cielo nero e sopra un'oscurità infinita. L'aria era calda e stantia. E gli asciugava le lacrime che gli avevano improvvisamente riempito gli occhi, lasciandoli appiccicosi. Quando lui cominciò a gridare aiuto, cosa che fece dopo che le lacrime furono scomparse, le tenebre ingoiarono rapidamente le sue parole. Dopo avere gridato forte, giacque all'indietro sulla grata. Non poteva fare a meno d'immaginare che oltre quel fragile letto, l'oscurità fosse eterna. Era assurdo, naturalmente. «Niente dura per sempre» disse a voce alta. Niente dura per sempre. E tuttavia, lui non l'avrebbe mai saputo. Se fosse precipitato nell'assoluta oscurità che c'era sotto di lui, sarebbe caduto, caduto e caduto ancora e non avrebbe visto avvicinarsi il fondo. Si sforzò di pensare a immagini più allegre, più positive, ma la mente spingeva il corpo a lasciarsi cadere in quell'orribile buco nero: dopotutto, il fondo doveva essere a trenta centimetri anche se gli occhi non lo vedevano e il cervello non lo immaginava... Finché non fosse arrivato, precipitando, alla fine di quell'orrido... Avrebbe visto la luce quando la testa si fosse aperta per l'impatto? A-
vrebbe capito, nel momento in cui il corpo diventava briciole, perché era vissuto e morto? Poi pensò: "Quaid non oserebbe." «Non oserebbe!» gridò. «Non oserebbe!» L'oscurità era ghiotta di parole. Lui gridava ed era come se la sua voce non avesse suono... Poi, un altro pensiero: un pensiero davvero cattivo. E se Quaid l'avesse portato su quell'inferno circolare perché non lo trovassero mai? Che intendesse spingere il proprio esperimento al limite estremo? Al limite. La morte era il limite. E quello non sarebbe stato l'esperimento finale per Quaid? Guardare un uomo morire: analizzare l'approssimarsi, l'affermarsi, il crescere, il trionfare del terrore della morte. Sartre aveva scritto che nessun uomo poteva mai conoscere la sua morte. Ma conoscere la morte degli altri, intimamente... osservare, studiare le acrobazie che la mente escogitava per evitare l'amara verità... non era quello il clou l'essenza vera della morte? In un certo qual modo, questo poteva preparare un uomo alla propria morte. Vivere il terrore di un altro, come fosse il suo vicario, era il modo più sicuro e più intelligente per affrontare la bestia. Sì, pensò, forse Quaid l'avrebbe ucciso; per studiare il suo terrore. Steve provò un'amara soddisfazione a quel pensiero: capì che Quaid, l'imparziale sperimentatore, il futuro educatore, analizzava il terrore altrui perché incapace di affrontare il proprio profondissimo terrore. Ecco il perché dei suoi esperimenti: doveva cercare e trovare una soluzione, una via di scampo per se stesso. Steve dedicò ore a queste riflessioni. Nell'oscurità, la sua mente era vivace ma incontrollabile. Gli era difficile seguire a lungo lo stesso pensiero. I pensieri erano come pesci, piccoli e guizzanti, che gli sfuggivano tra le dita non appena li aveva afferrati. Ma sotto a ogni pensiero c'era la consapevolezza che doveva battere Quaid. Di questo era sicuro. Doveva mostrarsi calmo, rivelarsi un soggetto inutile per l'analisi dello sperimentatore. Le fotografie di quelle ore mostravano Stephen disteso sulla griglia, con gli occhi chiusi, la fronte leggermente aggrottata. Di tanto in tanto, paradossalmente, un sorriso appariva sulle sue labbra. A volte, era impossibile capire se dormisse o fosse sveglio, se pensasse oppure sognasse. Quaid attendeva. Alla fine, gli occhi di Steve cominciarono a muoversi sotto le palpebre, segno inconfondibile che lui stava sognando. Era arrivato il momento,
mentre il soggetto dormiva, di girare la ruota della tortura... Steve si svegliò ammanettato. Riuscì a vedere un recipiente pieno d'acqua accanto a sé; e un altro che conteneva dei porridge tiepido e non salato. Mangiò e bevve, pieno di gratitudine. Mentre mangiava, registrò due cose. Primo, il rumore che faceva mangiando sembrava fortissimo nella sua testa; secondo, sentiva qualcosa che lo stringeva alle tempie. Le fotografie mostrano sorpresa. Poi rabbia. E infine paura. Steve era sordo. Sordo... come un tempo, come nella memoria di quel tempo! Riusciva a sentire soltanto i rumori nella sua testa. I denti che battevano. La saliva che veniva deglutita. I rumori esplodevano nelle orecchie come spari. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Steve prese a calci la griglia, senza udire il fracasso dei talloni sulle sbarre metalliche. Gridò finché la gola non cominciò a fargli male. Non udì nessuna delle sue grida. Il panico si fece strada in lui. Le fotografie mostravano la nascita del panico. Il viso era rosso. Gli occhi spalancati, i denti e le gengive scoperti in una smorfia. Sembrava una scimmia terrorizzata. Fu sopraffatto da tutte le familiari sensazioni dell'infanzia. Le ricordava come facce di vecchi nemici; i brividi alle membra, il sudore, la nausea. In preda alla disperazione, sollevò il recipiente dell'acqua e se lo rovesciò sul viso. Lo shock dell'acqua fredda lo distolse momentaneamente dal panico che aumentava. Giacque sulla grata, il corpo rigido, e si disse di respirare profondamente. «Rilassati, rilassati, rilassati!» disse ad alta voce. Nella sua testa riusciva a sentire la lingua che schioccava. Sentiva anche il muco che passando lentamente nelle narici chiuse per il panico gli bloccava e sbloccava le orecchie. Ora poteva avvertire il basso sibilo che era in attesa sotto tutti gli altri rumori. Il suono della sua mente... Era come il rumore bianco tra le stazioni di una radio, era lo stesso guaito che si udiva sotto l'effetto dell'anestetico, lo stesso suono che aveva nelle orecchie sul punto di addormentarsi. Continuava a contorcersi ed era solo per metà cosciente della lotta che sosteneva contro le manette, indifferente al fatto che gli scorticassero la pelle sui polsi. Le fotografie registravano con precisione tutte quelle reazioni. La sua
guerra con l'isteria, i suoi patetici tentativi d'impedire alle paure di riaffiorare. Le sue lacrime. I suoi polsi insanguinati. Alla fine, lo sfinimento ebbe la meglio sul panico; come accadeva spesso da bambino. Quante volte, incapace di lottare più a lungo, si era addormentato con il sapore salato delle lacrime sul naso e sulla bocca? Lo sforzo aveva acuito i rumori nella testa. Ora, invece di mormorare, il suo cervello fischiava e gli gridava di dormire. L'oblio era bello. Quaid era deluso. Era chiaro dalla velocità della sua reazione che Stephen Grace sarebbe crollato molto presto. A dire il vero, era già sul punto di crollare, a sole poche ore dall'inizio dell'esperimento. E Quaid aveva contato molto su Stephen. Dopo mesi di preparativi, sembrava che quel soggetto stesse per impazzire senza lasciarsi sfuggire alcun indizio. Una parola, una misera parola, Quaid non aveva bisogno d'altro. Un piccolo segnale per la natura dell'esperimento. O, meglio ancora, qualcosa che suggerisse una soluzione, un totem guaritore, persino una preghiera. Certo veniva da invocare un redentore quando la personalità era sul punto d'essere spazzata via dalla pazzia! Doveva pur esserci qualcosa. Quaid aspettava come un avvoltoio sul luogo di un'atrocità «contando i minuti che mancavano prima che l'anima spirasse» sperando in un boccone. Steve si svegliò a faccia in giù sulla griglia. L'aria era molto più stantia, ora, e le sbarre metalliche gli penetravano nelle guance. Aveva caldo ed era scomodo. Rimase immobile perché gli occhi si abituassero di nuovo all'ambiente. Le linee della griglia correvano via in perfetta prospettiva fino al muro del camino. La semplice rete di sbarre incrociate gli parve attraente. Sì, attraente. Seguì le linee avanti e indietro finché non si stancò del gioco. Annoiato, si rotolò sulla schiena e sentì la griglia vibrare sotto il corpo. Era meno stabile, adesso? Sembrava ondeggiare leggermente a ogni suo movimento. Accaldato e sudato, Steve si sbottonò la camicia. Aveva della saliva sul mento, ma non si curò di togliersela. E se avesse sbavato? Ma chi l'avrebbe visto? Si sfilò per metà la camicia e, servendosi di un piede, si tolse l'altra scarpa. Scarpa: griglia: caduta. La mente collegò lentamente le cose. Steve si
mise a sedere. Oh, povera scarpa. La scarpa cadeva. Scivolava tra le sbarre e si perdeva. Ma no, era in bilico tra le due estremità di uno dei buchi nella rete; la poteva ancora recuperare, se avesse voluto... se ci avesse provato. Si allungò verso la povera scarpa e il suo movimento fece spostare la griglia. La scarpa cominciò a scivolare. «Ti prego» supplicò. «Non cadere.» Non voleva perdere la bella scarpa, così bella. Non doveva cadere. Non doveva cadere. Mentre cercava di raggiungerla, la scarpa si capovolse e, il tacco rivolto verso il basso, cadde nell'oscurità. Steve si lasciò sfuggire un grido per quella perdita, ma non lo udì. Oh, se solo avesse potuto sentire la scarpa cadere; contare i secondi della caduta. Udire il tonfo sul fondo del camino! Allora, perlomeno, avrebbe saputo quanto sarebbe dovuto cadere per raggiungere la morte. Non ce la faceva più a sopportare. Rotolò sullo stomaco e infilò entrambe le braccia attraverso la grata, gridando: «Verrò anch'io! Verrò anch'io!» Sotto di lui, la grata si spostò. Si era rotto qualcosa. Era scattato un perno, una catena, una corda che teneva ferma la griglia. Lui non era più in posizione orizzontale; stava già scivolando sopra le sbarre verso il buio. Si rese conto con un senso di shock che non era più incatenato. Sarebbe caduto. L'uomo voleva farlo cadere. L'uomo cattivo... come si chiamava? Quake? Quail? Quarrel... Afferrò automaticamente la griglia con entrambe le mani quando quella si mosse ancora di più. Forse non voleva cadere dietro alla scarpa. Forse valeva la pena di aggrapparsi alla vita, a un altro piccolo momento di vita... Il buio oltre il bordo della griglia era così profondo; e chi poteva sapere che cosa vi si nascondeva? I rumori del panico nella sua testa si moltiplicarono. Il martellare del cuore, il passaggio del muco, la lingua asciutta che raspava contro il palato. I palmi scivolosi stavano per mollare la presa. La gravità lo voleva. Reclamava diritti sul suo corpo; voleva che lui cadesse. Per un momento, guardando oltre la spalla la bocca nera che si apriva sotto di lui, pensò di avere visto dei mostri che si muovevano. Cose ridicole e folli, che lo attiravano crudelmente, tenebre su tenebre. Immagini orribili che riaffioravano dall'infanzia e che estraevano gli artigli per afferrargli le gambe.
«Mamma» disse lui mentre le mani mancavano la presa e il terrore lo assaliva. «Mamma.» Ecco la parola. Quaid la udì in tutta la sua banalità. «Mamma!» Quando toccò il fondo del camino, a Steve non interessava più sapere per quanto tempo fosse caduto. Nel momento in cui le mani avevano mollato la griglia e lui aveva capito che sarebbe stato inghiottito dall'oscurità, la mente scattò. L'io animale che era in lui sopravvisse, gli fece rilassare il corpo, lo salvò da ferite gravi che l'impatto avrebbe potuto provocare. Il resto della vita, tranne le risposte più semplici, s'infranse e i pezzi schizzarono nei recessi della memoria. Quando finalmente arrivò la luce, Steve guardò la persona alla porta con la maschera di Mickey Mouse e gli sorrise. Era il sorriso di un bambino, un sorriso di ringraziamento per il suo comico salvatore. Lasciò che l'uomo lo prendesse per le caviglie e lo trascinasse fuori dalla grande stanza rotonda in cui giaceva. Aveva i pantaloni umidi e sapeva di essersi sporcato nel sonno. Tuttavia, Funny Mouse l'avrebbe baciato meglio. La testa ciondolava sulle spalle mentre veniva trascinato fuori della camera di tortura. Sul pavimento, accanto alla testa, c'era una scarpa. E a due metri, due metri e mezzo sopra di lui la grata dalla quale era caduto. Non significava niente. Permise a Mouse di farlo sedere in una stanza luminosa, di restituirgli le orecchie anche se lui non le voleva veramente. Era buffo osservare il mondo senza suoni, lo faceva ridere. Bevve un po' d'acqua e mangiò del dolce. Era stanco. Desiderava dormire. Voleva la sua mamma. Ma Mouse non sembrava capire, perciò si mise a gridare, prese a calci il tavolo e rovesciò sul pavimento piatti e tazzine. Poi corse nella stanza accanto e lanciò in aria tutti i fogli che riuscì a trovare. Era bello guardarli volare. Alcuni caddero a faccia in su, altri a faccia in giù. Alcuni erano scritti, su altri invece c'erano delle immagini. Immagini orribili. Immagini che lo facevano sentire molto strano. Erano tutte fotografie di persone morte. Alcune erano foto di bambini piccoli, altre di bambini cresciuti. Erano distesi o seduti e c'erano grandi tagli sulle loro facce e sui corpi, tagli che mostravano l'interno, un miscuglio di parti lucenti e di parti scivolose. E tutto attorno alle persone morte: vernice nera. Non a macchie, ma sparsa e con impronte di dita e impronte
di mani. Su tre o quattro fotografie c'era ancora la cosa che aveva prodotto i tagli. Steve sapeva come si chiamava. Scure. C'era una scure che affondava nel viso di una donna quasi fino all'impugnatura. C'era una scure nella gamba di un uomo e un'altra giaceva sul pavimento di una cucina accanto a un bambino morto. Quell'uomo raccoglieva fotografie di gente morta e di asce e Steve lo trovò strano. Fu il suo ultimo pensiero prima che l'odore anche troppo familiare del cloroformio gli riempisse la testa e lui perdesse di nuovo la conoscenza. La sordida soglia puzzava di urina vecchia e di vomito fresco. Era il suo vomito; ce l'aveva anche sulla camicia. Steve tentò di alzarsi, ma le gambe vacillavano. Faceva molto freddo. La gola gli doleva. Poi udì dei passi. Ebbe l'impressione che Mouse tornasse indietro. Forse l'aveva portato a casa. «Alzati, figliolo.» Non era Mouse. Era un poliziotto. «Che cosa fai laggiù? Ho detto di alzarti.» Appoggiandosi ai mattoni sgretolati, Steve si alzò. Il poliziotto gli diresse contro il fascio luminoso di una torcia. «Cristo!» disse, il disgusto dipinto sul viso. «Sei in uno stato orribile. Dove vivi?» Steve scosse la testa e si guardò la camicia sporca di vomito, vergognandosi come uno scolaretto. «Come ti chiami?» Steve non riusciva proprio a ricordare. «Il nome, ragazzo.» Steve piangeva. Se solo il poliziotto non avesse gridato. «Via, cerca di calmarti.» Le parole non avevano molto senso. Steve sentiva le lacrime salirgli agli occhi. «A casa» disse. Ora singhiozzava e tirava su col naso, sentendosi terribilmente abbandonato. Voleva morire: voleva sdraiarsi e morire. Il poliziotto lo scosse. «Sei drogato?» domandò, illuminandogli con la torcia il viso rigato di
lacrime. «Faresti meglio a muoverti.» «Mamma» disse Steve. «Voglio la mia mamma.» Quelle parole cambiarono completamente l'incontro. Di colpo, il poliziotto trovò lo spettacolo più che disgustoso; più che pietoso. Quel piccolo bastardo, con gli occhi iniettati di sangue e il vomito sulla camicia, gli dava davvero sui nervi. Troppo denaro, troppa polvere nelle vene, troppo poca disciplina. «Mamma» e fu l'ultima goccia che fece traboccare il vaso. Il poliziotto colpì Steve allo stomaco, un colpo preciso e d'effetto. Steve si piegò in due, gemendo. «Taci, figliolo» disse il poliziotto con voce dura. Gli diede un altro colpo, poi lo prese per i capelli e gli fece sollevare quel viso da drogato in modo da poterlo guardare bene. «Vuoi diventare un derelitto, eh?» «No. No.» Steve non sapeva cosa fosse un derelitto; voleva soltanto piacere al poliziotto. «La prego» disse, ricominciando a piangere. «Mi porti a casa.» Il poliziotto parve confuso. Il ragazzo non aveva cominciato a ribellarsi e a reclamare i suoi diritti, come facevano molti di loro. Ecco come di solito finivano: a terra, con il naso rotto, che invocavano un assistente sociale. Questo invece si limitava a piangere. Il poliziotto si sentì a disagio. Che fosse un malato di mente o qualcosa del genere? Che l'avesse spaventato, picchiandolo? Al diavolo. Ora si sentiva responsabile. Prese Steve per il braccio e lo portò in strada, verso la sua auto. «Entra.» «Mi porti...» biascicò Steve. «Ti porterò a casa, figliolo. Ti porterò a casa.» Al dormitorio, frugarono nei vestiti di Steve per cercare di identificarlo ma non trovarono niente. Poi controllarono se avesse addosso pulci o pidocchi tra i capelli. Dopo di che, il poliziotto lo lasciò e Steve si sentì sollevato. Non gli piaceva quell'uomo. La gente del dormitorio parlava di lui come se non fosse stato nella stanza. Parlavano di come fosse giovane, discutevano della sua età mentale, dei suoi vestiti, del suo aspetto. Poi gli diedero un pezzo di sapone e gli mostrarono le docce. Lui rimase sotto il getto d'acqua fredda per dieci minuti e si asciugò con un asciugamano macchiato. Non si sbarbò, nonostan-
te gli avessero prestato un rasoio. Aveva dimenticato come si faceva. Gli diedero dei vecchi vestiti che gli piacquero. Non erano cattive persone, anche se parlavano di lui come se non fosse presente. Uno gli sorrise persino: un uomo grande e grosso, con la barba grigia che gli sorrideva... come avrebbe sorriso a un cane. Erano strani i vestiti che gli avevano dato. Troppo grandi o troppo piccoli. Di tutti i colori: calze gialle, camicia bianco sporco, pantaloni a righe che andavano bene a un ciccione, un maglione consumato, degli stivali pesanti. Si divertì a vestirsi, a infilarsi due maglie e due paia di calze mentre quelli non guardavano. Si sentì rassicurato con tutto quel cotone e quella lana addosso. Lo lasciarono mettendogli in mano un tagliando per il letto, in attesa che aprissero i dormitori. Steve non era impaziente, come certi uomini che erano con lui nei corridoi. Gridavano parole incoerenti, molti di loro, accuse piene di oscenità e si sputavano addosso l'un l'altro. Lo spaventavano. Lui voleva soltanto dormire. Sdraiarsi e dormire. Alle undici, uno dei guardiani aprì il cancello del dormitorio e tutti gli uomini entrarono alla ricerca di un letto di ferro per la notte. Il dormitorio, che era grande e male illuminato, puzzava di disinfettante e di persone vecchie. Evitando gli occhi e le braccia degli altri derelitti, Steve si ritrovò in un letto fatto male, con una coperta leggera. Si distese per dormire. Attorno a lui, gli uomini tossivano e mormoravano e piangevano. Uno recitava preghiere, fissando il soffitto, la testa appoggiata al cuscino grigio. Steve pensò che era una buona idea. Perciò recitò la preghiera di quando era bambino! Buon Gesù, dolce e gentile Proteggi questo piccolo bambino Abbi pietà della mia... Qual era la parola? Abbi pietà della mia... SEMPLICITÀ Concedimi di venire a Te. La preghiera lo fece sentire meglio e il sonno, un balsamo, fu calmo e profondo.
Quaid sedeva al buio. Il terrore era di nuovo su di lui, più che mai. Il suo corpo era rigido di paura; al punto che non riusciva neppure a scendere dal letto e accendere la luce. E se questa volta, proprio questa volta, il terrore fosse vero? Se l'uomo con l'ascia fosse alla porta in carne e ossa? Che gli sorrideva come un pazzo, che danzava come il demonio in cima alle scale, come Quaid l'aveva visto, in sogno, danzare e sorridere, sorridere e danzare. Tutto era immobile. Nessuno scricchiolio sulle scale, nessuna risatina nell'ombra. No, non era lui. Quaid sarebbe vissuto fino al mattino successivo. Il suo corpo si era leggermente rilassato, ora. Mise le gambe giù dal letto e accese la luce. La stanza era davvero vuota. La casa silenziosa. Dalla porta, poteva vedere le scale fino in cima. Non c'era nessun uomo con l'ascia, naturalmente. Steve si svegliò alle grida. Era ancora buio. Non sapeva quanto avesse dormito, ma le membra non gli facevano più tanto male. Puntando i gomiti sul cuscino, si sollevò e guardò il dormitorio per vedere che cosa accadeva attorno a lui. Quattro file di letti più in là, due uomini stavano picchiandosi. Il motivo della lite non era affatto chiaro. Si afferrarono come ragazze (il che fece ridere Steve che li guardava), gridando e tirandosi i capelli a vicenda. Alla luce della luna, il sangue sui loro visi e sulle mani era nero: uno dei due, il più vecchio, cadde all'indietro, sul letto, gridando: «Non andrò in Finchley Road! Non mi costringerai. Non picchiarmi! Non sono il tuo uomo! Non lo sono!» L'altro non l'ascoltava; era troppo stupido o troppo pazzo per capire che il vecchio lo pregava di lasciarlo in pace. Incitato dagli spettatori che lo circondavano, l'assalitore del vecchio si era tolto una scarpa con la quale picchiava la vittima. Steve sentiva il rumore dei colpi: del tacco sulla testa. Ogni colpo era accompagnato da applausi e dalle grida sempre più deboli del vecchio. Gli applausi cessarono improvvisamente quando qualcuno entrò nel dormitorio. Steve non riuscì a vedere chi fosse; gli uomini che si erano adunati erano tra lui e la porta. Vide il vincitore lanciare in aria la scarpa, con un grido finale «Fottuto!» La scarpa. Steve non poteva distogliere gli occhi dalla scarpa. Saliva in aria, si gi-
rava e, com'era salita, ricadeva sul pavimento come un uccello colpito. Steve la vide chiaramente, più chiaramente di qualsiasi cosa avesse visto da molti giorni a quella parte. Atterrò non lontano da lui. Atterrò con un tonfo. Atterrò di lato. Com'era atterrata la sua scarpa. La sua scarpa. Quella che si era tolto. Sulla grata. Nella stanza. Nella casa. In Pilgrim Street. Quaid si svegliò dallo stesso sogno. Sempre le scale. Sempre lui che guardava la tromba delle scale mentre quella ridicola figura, in parte scherzosa, in parte orribile, danzava verso di lui, una risatina a ogni gradino che faceva. Non gli era mai capitato di fare due volte quel sogno nella stessa notte. Allungò una mano e cercò la bottiglia che teneva accanto. Tracannò dei lunghi sorsi, al buio. Steve passò accanto al gruppo di uomini arrabbiati, senza badare alle loro grida o ai gemiti o alle bestemmie del vecchio. I guardiani erano occupati a riportare l'ordine nel dormitorio. Per certo, questa era l'ultima volta che accoglievano Vecchio Crowley: incitava sempre alla violenza. Quella aveva tutta l'aria di essere una specie di rivolta: ci sarebbe voluto ore per calmarli di nuovo. Nessuno gli fece domande quando Steve s'incamminò lungo il corridoio, superò il cancello e raggiunse l'ingresso del dormitorio. Le porte girevoli erano chiuse ma l'aria della notte, più frizzante prima dell'alba, rinfrescava mentre entrava nei polmoni. L'accettazione era vuota e attraverso la porta Steve vide l'estintore appeso al muro. Era rosso e lucido. Accanto, c'era un lungo tubo flessibile nero avvolto su un cilindro rosso che aveva l'aspetto di un serpente addormentato. Più in là, tra due sostegni sul muro, c'era un'ascia. Un'ascia molto bella. Stephen entrò nell'ufficio. Sentì a una certa distanza un rumore di passi che correvano, delle grida, un fischio. Ma nessuno venne a interromperlo mentre faceva amicizia con l'ascia. Prima gli sorrise. La curva della lama dell'ascia gli ricambiò il sorriso. Poi lui la toccò. L'ascia sembrava contenta di essere toccata. Era impolverata e non era
stata usata da lungo tempo. Troppo tempo. Voleva essere presa e accarezzata e voleva ricevere dei sorrisi. Steve la staccò dai sostegni con molta gentilezza e la nascose sotto la giacca per tenerla al caldo. Poi uscì dall'ufficio e dalle porte girevoli per andare a cercare l'altra scarpa. Quaid si svegliò di nuovo. Steve impiegò poco a orientarsi. S'incamminò pieno di energia verso Pilgrim Street. Si sentiva come un clown con tutti quei vestiti multicolori addosso, con quei pantaloni tanto larghi e quegli stivali così ridicoli. Era comico, no? Rideva della propria comicità. Il vento cominciò a entrargli dentro, spingendolo al delirio mentre gli spazzava i capelli e gli gelava gli occhi riducendoli a due cubetti di ghiaccio. Si mise a correre, a saltare, a danzare per le strade, bianco sotto le luci, scuro tra una luce e l'altra. Ora mi vedi, ora non mi vedi. Ora mi vedi, ora non... Quaid non si era svegliato per il sogno, questa volta. Questa volta aveva udito un rumore. Un rumore vero. La luna era alta abbastanza da illuminare la finestra, la porta e le scale. Non c'era bisogno di accendere la luce. Lui riusciva a vedere tutto ciò che gli serviva vedere. Le scale, in cima, erano vuote, come sempre. Poi la scala, in fondo, scricchiolò, provocando un rumore leggero come se vi fosse atterrato un alito. Un altro scricchiolio che dalle scale saliva verso di lui, il ridicolo sogno. Doveva essere un sogno. Dopotutto, non conosceva nessun clown, nessun assassino con l'ascia. Dunque, come poteva quell'assurda immagine, la stessa immagine che lo svegliava notte dopo notte, essere qualcosa di diverso da un sogno! Tuttavia, forse c'erano dei sogni così assurdi che potevano essere soltanto veri. Nessun clown, si disse, mentre si alzava per guardare la porta e le scale e la luna. Conosceva soltanto menti fragili, così deboli che non erano state in grado di dargli un indizio sulla natura, l'origine o la cura per il terrore che ora lo attanagliava. Tutte le sue indagini, le sue analisi... tutte crollate, ridotte in polvere davanti al primo accenno di terrore nel cuore della sua vita.
Non conosceva clown, non ne aveva mai conosciuti né mai ne avrebbe conosciuti. Poi, apparve. Il viso giovane era quello di un pazzo. Bianco come la luce della luna, graffiato, gonfio e con la barba lunga, il sorriso aperto come quello di un bambino. Si era morso il labbro per l'eccitazione. Il sangue gli aveva insudiciato la mascella e le gengive erano quasi nere di sangue. Eppure era un clown. Un clown inconfondibile persino per i vestiti, così ridicoli, così patetici. Soltanto l'ascia non si adattava al sorriso. Catturò la luce della luna quando il pazzo l'agitò leggermente, i piccoli occhi neri che brillavano d'anticipazione al pensiero del divertimento che l'aspettava. Quasi in cima alle scale, Steve si fermò e continuò a sorridere mentre assaporava il terrore di Quaid. Quaid sentì le gambe cedergli e si ritrovò in ginocchio. Il clown salì ancora, saltellando, gli occhi luccicanti fissi su Quaid, invasi da una specie di malizia benevola. L'ascia oscillava avanti e indietro nelle sue mani bianche, una versione in miniatura del colpo mortale. Quaid lo riconobbe. Stephen... Steve... il suo allievo: la sua cavia trasformata nell'immagine del suo terrore. Lui. Tra tanti uomini. Proprio lui. Il ragazzo sordo. I salti erano più grandi ora e il clown emetteva un rumore gutturale, come il richiamo di un uccello fantastico. L'ascia descriveva in aria curve sempre più ampie, ognuna più letale della precedente. «Stephen» disse Quaid. Il nome non significava nulla per Steve. Lui vedeva soltanto la bocca che si apriva. La bocca che si chiudeva. Forse ne usciva un suono, forse no. Ma era irrilevante per lui. Il clown emise un grido e l'ascia roteò sopra la sua testa. In quello stesso momento l'allegra danza si trasformò in una corsa e l'uomo con l'ascia fece i due ultimi gradini ed entrò nella camera da letto, in piena luce. Quaid si voltò per metà per evitare il colpo mortale, ma non abbastanza velocemente o non con sufficiente eleganza. La lama fendette l'aria e si abbatté sul braccio, portandogli via gran parte del tricipite, fracassandogli l'omero e aprendogli la carne in un taglio che mancò per poco l'arteria. Le grida di Quaid potevano essere udite a dieci case di distanza... ma, purtroppo per lui, quelle case erano state demolite. Non c'era nessuno che
potesse udire. Nessuno che potesse venire a fermare il clown. L'ascia, impaziente di compiere il proprio lavoro, stava ora tagliuzzando la coscia di Quaid come se dovesse fare a pezzi un tronco. Ferite aperte e profonde dieci, dodici centimetri mettevano allo scoperto il muscolo lucente del filosofo, l'osso e il midollo. A ogni colpo il clown dava uno strattone all'ascia per estrarla e il corpo di Quaid sussultava come un burattino. Quaid gridava. Quaid pregava. Quaid adulava. Il clown non udiva una parola. Sentiva soltanto il rumore nella sua testa: i fischi, le grida, i ronzii. Stephen si era rifugiato dove nessuna discussione razionale, nessuna minaccia l'avrebbe mai raggiunto di nuovo. Dove i tonfi del suo cuore erano legge e i lamenti del sangue musica. Come danzava quel ragazzo sordo! Danzava come un pazzo allegro scrutando il suo torturatore che apriva la bocca come un pesce. Danzava e godeva del silenzio assoluto di quell'intelligenza depravata! Come zampillava lieto quel sangue Come usciva a fiotti, a fontanella! Il piccolo clown rideva del suo splendido grido. «Questo sì che è un vero gran de spettacolo notturno» pensò. L'ascia era sua amica per sempre, affilata e saggia. Tagliava, affettava e amputava... ma se fossero stati abbastanza furbi lui... il clown e lei... l'ascia avrebbero tenuto quell'uomo vivo, vivo ancora per un po'... per giocare. Un poco. Ancora. Steve era felice come un fringuello di primavera. Lui e lei avevano quasi tutta la notte davanti a loro e tutta la musica che lui poteva desiderare suonava nella sua testa. Incontrando lo sguardo vacuo del clown nell'aria che si era impregnata di sangue, Quaid seppe che non può esserci di peggio del terrore. Neppure la morte. E seppe, finalmente, che cos'è il terrore, qual è la sua essenza. E così scopri che c'è il male senza speranza di guarigione, e che c'è la vita che rifiuta di finire, molto dopo che la mente ha supplicato invano il corpo perché cedesse. E, peggio ancora c'è il sogno, l'incubo che diventa realtà. Titolo originale: Dread Traduzione: Grazia Alineri Edgar Allan Poe La rovina della Casa Usher
Edgar Allan Poe, il più grande e autorevole scrittore di racconti dell'orrore, rappresenta la principale figura di transizione fra il gotico e il moderno. A lui si deve l'impiego degli elementi narrativi gotici in chiave simbolica e il loro consapevole uso quali strumenti d'investigazione della psicologia umana. Tratto distintivo delle sue opere è la scelta di ambientazioni e personaggi inconsueti per creare effetti drammatici, come pure caratteristica della sua narrativa è la predilezione del genere horror. Accanto ai suoi scritti in prosa e in versi, anche le sue opere di critica letteraria hanno rappresentato un importante punto di riferimento per gli scrittori di racconti brevi delle generazioni successive, e hanno influenzato tutto lo sviluppo e l'evoluzione del racconto... nonché i generi della narrativa gialla e della fantascienza, che dalle storie di Poe hanno tratto in gran parte origine. Circa una dozzina dei suoi racconti sono diventati dei classici della letteratura del XIX secolo e, di questi, quasi la metà sono dell'orrore: La rovina della Casa Usher, proposta ai lettori in questa antologia, ne costituisce un esempio eloquente. Ma l'importanza di questo racconto, provocatorio, simbolico e caratterizzato da un complesso intrico psicologico, è da ascriversi anche al fatto che esso rappresenta una pietra miliare nell'ambito delle storie sulle case stregate (prima di Poe al centro della narrazione c'era in genere il castello stregato della letteratura gotica). «Nell'opera di Poe una cosa non è mai semplicemente una cosa: è linguaggio», ha dichiarato lo studioso Benjamin Franklin Fisher IV. Con i suoi racconti Poe inventa il linguaggio dell'orrore e dà significato all'idea del fantastico come linguaggio. Son coeur est un luth suspendu; Sitôt qu'on le touche il résonne. DE BÉRANGER Per tutto il giorno, un giorno monotono, cupo e silenzioso d'autunno, di quelli in cui le nubi gravano basse e opprimenti nel cielo, avevo attraversato da solo, a cavallo, un tratto di campagna straordinariamente lugubre, fino a che, mi ritrovai, mentre calavano le ombre della sera, in vista della malinconica Casa Usher. Non saprei dire perché, ma non appena intravidi l'edificio, un senso di insoffribile tristezza pervase il mio spirito. Dico insoffribile, perché questa sensazione non era confortata da nessuno di quei sentimenti, in parte piacevoli perché poetici, con i quali la mente di solito accoglie anche le più cupe immagini naturali della desolazione e del terro-
re. Osservai la scena davanti a me — la mera casa, i tratti semplici del paesaggio, i muri spogli, gli occhi vacui delle finestre, i gruppi di falaschi putrescenti e alcuni tronchi bianchi di alberi decomposti — in preda a una assoluta prostrazione dello spirito, che non potrei paragonare ad alcuna sensazione terrena più appropriata del risveglio del mangiatore d'oppio dal suo sogno, del suo amaro ritorno alla vita quotidiana, dell'orribile caduta del velo. Era come un gelo, un cedimento, un malessere del cuore... una desolazione invincibile del pensiero che nessuno sforzo dell'immaginazione avrebbe potuto tramutare in alcunché di sublime. Che cos'era, mi fermai a pensare, che cos'era che mi turbava tanto nella contemplazione della Casa Usher? Era un mistero affatto insolubile né riuscivo ad afferrare le vaghe fantasie che si affollavano in me menti e riflettevo. Fui pertanto costretto a ripiegare sull'insoddisfacente conclusione che, mentre, senza dubbio, esistono combinazioni di oggetti naturali molto semplici che hanno il potere di commuoverci in questo modo, l'analisi di tale potere sottintende considerazioni che sfuggono alla nostra capacità di penetrazione. Era possibile, riflettei, che una semplice differenza nella disposizione dei particolari della scena, dei dettagli del quadro, sarebbe stata sufficiente a modificare o forse ad annullare la sua capacità di evocare quella triste sensazione. Sulla scorta di questa idea, guidai il mio cavallo verso la riva scoscesa di un laghetto tetro e livido che giaceva immoto nella lucentezza delle sue acque, presso il palazzo, e contemplai, ma con un brivido ancor più raggelante di prima, le immagini rimodellate e capovolte dei falaschi grigi, dei fusti spettrali degli alberi e degli occhi vacui delle finestre. Nondimeno, era proprio in questo palazzo tenebroso che ora mi proponevo di soggiornare per alcune settimane. Il suo proprietario, Roderick Usher, era stato uno dei miei vivaci compagni d'infanzia; ma erano trascorsi molti anni dal nostro ultimo incontro. Di recente, tuttavia, una lettera mi aveva raggiunto in una lontana parte del paese, una sua lettera, il cui tono ansiosamente insistente non ammetteva altra risposta che la mia personale venuta. Il manoscritto tradiva una forte inquietudine. Lo scrivente parlava di una grave malattia fisica, di un disturbo mentale che l'opprimeva, e di un pressante desiderio di vedere me, suo migliore e invero unico amico intimo, per tentare di trovare nell'allegria della mia compagnia, qualche sollievo dal suo male. Era il modo in cui tutto questo, e molto di più, veniva detto, era l'apparente accoramento che accompagnava la sua richiesta, che non mi avevano consentito esitazione alcuna; e così avevo obbedito immediatamente a quella che ancora reputavo una chiamata molto singolare.
Benché da ragazzi la nostra amicizia fosse stata piuttosto profonda, in realtà io sapevo assai poco del mio amico, che aveva sempre mantenuto un eccessivo e inveterato riserbo. Sapevo, tuttavia, che la sua famiglia, di antichissime origini, era nota da tempo immemorabile per una peculiare sensibilità di temperamento che si era palesata, per molti secoli, in opere d'arte sublimi, e si era manifestata di recente in ripetuti atti di carità munifica, ma discreta, come pure in un'appassionata devozione per gli aspetti complessi, più ancora forse che per le bellezze ortodosse e facilmente riconoscibili, della scienza musicale. Ero anche a conoscenza del fatto, davvero straordinario, che il ceppo della razza Usher, onorato da sempre com'era, non aveva mai generato un ramo duraturo; che, in altre parole, l'intera famiglia discendeva per linea diretta, e che così era sempre stato, fatta salva qualche rara eccezione di breve durata e di scarso rilievo. Era forse per questa mancanza — pensai io considerando la perfetta armonia esistente fra il carattere del palazzo e quello attribuito alla stirpe, e meditando sull'influenza che l'uno, nel lungo trascorrere dei secoli, aveva forse esercitato sull'altro — ...sì, per questa mancanza di un ramo collaterale e per la costante trasmissione, di padre in figlio, del patrimonio e del nome, che alla fine entrambi erano venuti a significare una cosa sola, al punto che il nome originale della proprietà era mutato nell'appellativo, bizzarro ed equivoco, di Casa Usher, una definizione che sembrava comprendere, nella mente dei contadini che la usavano, sia la famiglia che il palazzo che le apparteneva. Ho detto che l'unico effetto del mio esperimento alquanto infantile di guardare giù nel lago, era stato quello di acuire la mia prima, strana impressione. Non v'è dubbio che la coscienza della mia crescente superstizione — perché dovrei, infatti, chiamarla in altro modo? — servisse soltanto a renderla maggiore. Tale è, lo so ormai da tanto tempo, la legge paradossale di tutti i sentimenti che hanno alla loro base il terrore. E forse fu soltanto per questa ragione che, quando sollevai di nuovo lo sguardo verso la casa, dopo averne contemplato l'immagine riflessa nell'acqua, prese corpo nella mia mente una strana fantasia, una fantasia invero così ridicola, che la menzionerò per spiegare la forza vivida delle sensazioni che mi opprimevano. La mia mente era suggestionata a tal punto, da credere realmente che attorno al palazzo e all'intera proprietà gravasse un'atmosfera peculiare, propria solo di quel luogo e dei suoi paraggi, un'atmosfera che non aveva affinità con l'aria del cielo, ma che invece proveniva dagli alberi decomposti, dai muri grigi e dal lago silenzioso, un vapore funesto e misterioso, caliginoso, stagnante, appena percettibile e livido.
Scuotendomi da quello che doveva essere soltanto un sogno, osservai più attentamente l'aspetto reale del fabbricato. La sua caratteristica principale sembrava essere quella di un'eccessiva antichità. Nei secoli lo scolorimento dei muri era stato notevole; funghi piccolissimi ricoprivano tutta la facciata esterna, pendendo dalle grondaie in una ragnatela finemente intrecciata. Eppure, per il resto la casa non aveva subito alcun particolare deterioramento. L'assetto murario era intatto, e vi era un'enorme incongruenza fra la coesione ancora perfetta dell'insieme e lo sgretolamento delle singole pietre. In questo vedevo una grande rassomiglianza con la speciosa integrità dei vecchi oggetti di legno che marciscono per anni in qualche cantina dimenticata e inaccessibile all'aria esterna. Tuttavia, a parte questo indizio di profondo declino, l'edificio non dava segno d'instabilità. Forse l'occhio di un osservatore più attento avrebbe potuto scorgere una fenditura appena percettibile che, partendo dal tetto della facciata anteriore, attraversava a zig-zag tutto il muro, per perdersi poi nelle acque cupe del lago. Notando tutte queste cose, percorsi la breve strada rialzata che conduceva alla casa. Un servitore prese in consegna il mio cavallo, e io entrai in un vestibolo sovrastato da un arco gotico. Quindi, un cameriere dal passo furtivo mi condusse, senza profferir verso, attraverso numerosi corridoi bui e intricati, fino allo studio del suo padrone. Gran parte di ciò in cui m'imbattei lungo il percorso contribuì ad accentuare quelle vaghe sensazioni di cui ho già parlato. Benché gli oggetti intorno a me — gli intarsi dei soffitti, gli arazzi scuri dei muri, il nero ebano dei pavimenti e i fantasmagorici trofei d'armi che tintinnavano al mio passaggio — fossero cose alle quali ero avezzo fin dall'infanzia, benché non esitassi a riconoscere come tutto ciò mi fosse familiare, mi stupivo nell'accorgermi di quanto insolite fossero invece le fantasie che quelle immagini consuete evocavano nella mia mente. Una scala. Salendo, incrociai il medico di famiglia. L'espressione del suo volto, pensai, denotava vile astuzia e perplessità. Mi si avvicinò con trepidazione e passò oltre. Poi il cameriere aprì una porta e mi accompagnò al cospetto del suo padrone. La stanza in cui mi ritrovai era alta e molto ampia. Le finestre, lunghe e strette, terminavano a punta ed erano così lontane dal pavimento nero di quercia da risultare assolutamente inaccessibili dall'interno. Deboli raggi di luce color cremisi si facevano strada attraverso i vetri decorati, descrivendo in modo abbastanza nitido i contorni dei principali oggetti; tuttavia, gli occhi si affannavano invano a raggiungere gli angoli più remoti della stanza o i recessi del soffitto ad arco, adorno di greche. Le pareti erano ricoper-
te da tendaggi scuri. I mobili, presenti in quantità eccessiva, erano scomodi, antiquati e malridotti. C'erano molti libri e strumenti musicali sparsi intorno, ma la loro presenza non riusciva a infondere alcuna vitalità alla scena. Mi resi conto di respirare un'atmosfera di dolore. Un'aria di cupa, profonda e invincibile tristezza regnava nella stanza e pervadeva ogni cosa. Quando entrai, Usher si alzò da un sofà sul quale era rimasto sdraiato fino ad allora, e mi salutò con un calore che tradiva, pensai dapprima, un'eccessiva cordialità, lo sforzo innaturale dell'uomo di mondo ennuyé; tediato più che annoiato... siccome la noia è accidente fisico il tedio è atteggiamento filosofico. Tuttavia, uno sguardo al suo volto mi convinse della sua perfetta sincerità. Ci sedemmo, e per alcuni istanti, in cui lui tacque, lo osservai con un sentimento frammisto di pietà e di sgomento. In verità, mai nessun uomo era mutato in maniera così terribile e in un lasso di tempo tanto breve come Roderick Usher! Fu con difficoltà che alla fine riuscii ad accettare che l'essere esangue che avevo di fronte e l'amico della mia fanciullezza fossero la stessa persona. Eppure le fattezze del suo volto erano sempre state singolari. La carnagione cadaverica, gli occhi grandi, acquosi, e luminosi al di là di ogni paragone, le labbra sottili e molto pallide che disegnavano, nondimeno, una curva d'incomparabile bellezza; il naso di delicata fattura ebraica, ma con narici insolitamente ampie per quella foggia; il mento finemente modellato, che esprimeva, nella sua mancanza di prominenza, una mancanza di forza morale e i capelli più morbidi e sottili di una tela di ragno. Questi tratti, completati da un eccessivo sviluppo della porzione superiore del cranio, davano vita, nel loro insieme, a un volto difficile da dimenticare. Ma ora, il carattere dominante di ciascuno di questi lineamenti si era così accentuato, e l'espressione che erano soliti comunicare era così mutata, che io dubitavo dell'identità del mio interlocutore. Ora, il pallore spettrale della sua cute, la luncentezza portentosa dei suoi occhi m'impressionavano e mi incutevano timore più di ogni altra cosa. Egli aveva inoltre lasciato che i suoi capelli serici crescessero senza cura alcuna e, poiché, data la loro consistenza sottilissima, più che ricadere gli ondeggiavano davanti al volto, non riuscivo, anche sforzandomi, ad associare l'arabesco che essi descrivevano ad alcuna idea di semplice umanità. Nei modi del mio amico fui colpito, d'un tratto, da una certa incoerenza... una contraddizione; e ben presto scoprii che essa era dovuta a una serie di deboli e vane lotte che egli sosteneva per vincere un'abituale apprensione, un'eccessiva agitazione nervosa. Invero ero preparato a qualcosa di questo genere, non meno dal contenuto della sua lettera, che dal ricordo di
certe sue peculiarità di fanciullo, e dalle conclusioni che si potevano trarre dalla sua particolare conformazione fisica e dal suo temperamento. I suoi gesti erano di volta in volta vivaci e pigri. La sua voce variava rapidamente da un'indecisione tremula (in cui mancava qualsiasi accenno di vitalità) a quella specie di energica concisione, a quel tono brusco, serio e pacato, a quel modo di parlare lento, equilibrato, gutturale e perfettamente modulato che osserviamo nell'ubriacone incallito o nel mangiatore di oppio irrecuperabile, nei loro momenti di più intenso eccitamento. E fu con questa voce che egli mi parlò dello scopo della mia visita, del suo pressante desiderio di vedermi e del conforto che pensava di poter trarre dalla mia compagnia. M'illustrò, quindi, quella che reputava essere la natura della sua malattia. Si trattava, disse, di un male costituzionale e familiare, un male per il quale disperava di trovare un rimedio; un semplice disturbo nervoso, aggiunse subito dopo, che senza dubbio si sarebbe risolto entro breve. Esso si manifestava attraverso una miriade di sensazioni innaturali, che Usher prese a descrivermi nei particolari. Alcune di esse suscitarono il mio interesse e il mio stupore, anche se, forse, i termini e il tono generale dell'esposizione del mio amico avevano un certo peso. Egli soffriva di una morbosa acutezza dei sensi: riusciva a tollerare soltanto i cibi più insipidi, gli abiti di un certo tessuto erano i soli che potesse indossare, e il profumo di qualsiasi fiore l'opprimeva anche la luce più tenue gli straziava gli occhi, e non vi erano che alcuni suoni particolari, prodotti da strumenti ad arco, che non evocassero in lui sentimenti di orrore. Scoprii che era schiavo di un'insolita forma di terrore. «Io morirò» disse. «Io sono destinato a morire di questa dolorosa pazzia. Di questo, di questo e non di altro perirò. Io temo gli eventi futuri non per se stessi, ma per le loro conseguenze. Io rabbrividisco al pensiero che possa accadere qualcosa, anche la più banale, per gli effetti che potrebbe produrre sulla mia anima tormentata. Invero non ho alcun orrore del pencolo, a eccezione della sua ineluttabile conseguenza: il terrore. In questo stato miserevole che mi infiacchisce, sento che tosto o tardi arriverà il momento in cui dovrò abbandonare la vita e la ragione, in qualche lotta con lo spettro sinistro della paura!» A poco a poco, e attraverso accenni frammentari ed evasivi, venni poi a conoscenza di un altro aspetto singolare del suo stato mentale. Era soggiogato da talune sensazioni di natura superstiziosa che riguardavano la dimora in cui abitava e dalla quale da molti anni non si arrischiava a uscire; esse avevano a che vedere con un influsso di cui mi descrisse la presunta forza
in termini troppo nebulosi per poterne riferire, un influsso, mi disse, che alcune peculiarità dell'essenza stessa del palazzo avevano esercitato, a prezzo di una lunga sofferenza, sul suo spirito, una sensazione che la fisicità dei muri grigi, delle torrette e del lago tenebroso nel quale si riflettevano, aveva trasmesso, nel tempo, al morale della sua esistenza. Egli ammetteva, però, anche se con titubanza, che gran parte della singolare tristezza che lo affliggeva poteva essere ricondotta a una causa più naturale e di gran lunga più evidente: la malattia grave e prolungata, anzi in verità la morte ormai prossima, della sua amata sorella, che per molti anni era stata la sua unica compagna nonché la sua sola e ultima parente sulla terra. «Con la sua dipartita» mi disse con un'amarezza che non potrò mai dimenticare, «io (lui, fragile e disperato) divento l'ultimo erede dell'antica stirpe degli Usher.» Mentre Roderick parlava, lady Madeline (perché questo era il suo nome), attraversò un tratto remoto della stanza e, senza notare la mia presenza, scomparve. Io la guardai con immenso stupore, non scevro di terrore, senza tuttavia riuscire a spiegarmi la ragione di tali sentimenti. Mentre la osservavo allontanarsi fui sopraffatto da una sensazione di stordimento e quando, dopo alcuni istanti, la porta si chiuse alle sue spalle, d'istinto il mio sguardo cercò con impazienza il volto del fratello; ma questi aveva sepolto il viso fra le mani, e io potei solo notare che un pallore singolare si era diffuso sulle sue dita emaciate, attraverso le quali filtravano lacrime appassionate. La malattia di lady Madeline eludeva da tempo la scienza dei suoi medici. La loro diagnosi singolare parlava di un'invincibile apatia, di un graduale deperimento della persona e di attacchi frequenti, seppur passeggeri, di natura parzialmente catalettica. Fino ad allora, lady Madeline aveva opposto ferma resistenza all'avanzare del male e non si era ancora rassegnata al letto; ma al termine di quella sera, la sera del mio arrivo, fu costretta a soccombere (come ebbe a raccontarmi più tardi suo fratello in preda a un'agitazione inenarrabile) al potere debilitante del suo distruttore; e così io appresi che la visione fugace che avevo avuto della sua persona sarebbe stata forse l'ultima, che non avrei mai più rivisto lady Madeline, per lo meno finché fosse rimasta in vita. Per parecchi giorni né io né Roderick menzionammo il suo nome, e in questo periodo io feci ogni possibile tentativo per alleviare la malinconia del mio amico. Dipingevamo e leggevamo insieme, oppure io restavo ad ascoltare, come in un sogno, le appassionate improvvisazioni della sua eloquente chitarra. E così, a mano a mano che la nostra crescente intimità
mi permetteva di penetrare senza riserve nei recessi del suo spirito, percepivo con amarezza la vanità di ogni tentativo di rallegrare un animo dal quale una profonda tenebra, quasi fosse un suo carattere intrinseco e positivo, si riversava su tutti gli oggetti dell'universo materiale e morale, in un'incessante irradiazione di tristezza. Porterò sempre con me il ricordo delle molte ore gravi trascorse così, in compagnia del signore della Casa Usher. Eppure, ogni mio tentativo di descrivere gli studi o le occupazioni in cui lui mi coinvolgeva o alle quali mi iniziava sarebbe inutile. Un'idealità vivace e profondamente turbata rischiarava ogni cosa di uno splendore sulfureo. I suoi lunghi e improvvisati canti funebri riecheggeranno per sempre nelle mie orecchie. Fra le altre cose, ricordo, in particolare, il suo singolare stravolgimento e ampliamento della melodia appassionata dell'ultimo walzer di Von Weber. Dei quadri, sui quali meditava a lungo la sua complessa fantasia e che, a ogni pennellata diventavano sempre più vaghi — una vaghezza davanti alla quale rabbrividivo tanto più quanto più mi era ostile capirne la ragione — ...di quei quadri, vividi come lo sono ora le loro immagini nella mia mente, tenterai invano di riferire più che delle poche cose che la semplice parola scritta sarebbe in grado di esprimere. L'estrema semplicità e la nudità dei suoi disegni catturavano l'attenzione dell'osservatore e lo intimidivano. Se mai un essere mortale ha dipinto un'idea, quel mortale fu Roderick Usher. A me per lo meno, nella condizione in cui allora mi trovavo, le pure astrazioni che quell'ipocondriaco riusciva a fermare sulla sua tela ispiravano un sentimento di terrore intenso e insopportabile, di cui non ho mai percepito neppure l'ombra nella contemplazione delle fantasticherie sì appassionate, ma troppo concrete di Fuseli. Forse una delle fantasmagoriche raffigurazioni del mio amico meno rigorosamente permeata da quello spirito di astrazione, può venir tradotta, seppur vagamente, in parole. Un piccolo dipinto ritraeva l'interno di una cantina o di un passaggio sotterraneo, rettangolare e immensamente lungo, con i muri bassi, levigati, e bianchi, che non presentavano alcuna soluzione di continuità od ornamento. Altri particolari del disegno contribuivano efficacemente a suggerire l'idea che questo luogo si trovasse a un'enorme profondità rispetto alla superficie terrestre. In tutta la sua vastità non si scorgeva alcuna apertura, né si intravvedevano torce o altre fonti d'illuminazione artificiale; eppure vi si dispiegava un fiotto di luce intensa, che pervadeva ogni cosa di uno splendore spettrale e innaturale. Ho già accennato alla condizione morbosa del nervo uditivo che rendeva
insopportabile al malato ogni forma di musica, a eccezione di certi suoni generati dagli strumenti a corda. Forse erano i limiti angusti che s'imponevano nelle sue esibizioni alla chitarra che determinavano in larga misura il carattere fantastico delle sue esecuzioni; ma questo non spiegava l'appassionata facilità dei suoi impromptus. Essi erano senz'altro, sia nelle note sia nelle parole delle sue ardenti fantasie (perché egli non di rado accompagnava la sua musica con improvvisazioni verbali in rima), il frutto di quella profonda padronanza di sé e concentrazione mentale che, come ho accennato in precedenza, è possibile discernere solo in particolari momenti di sommo eccitamento artificiale. Le parole di una di queste rapsodie mi sono rimaste facilmente impresse nella memoria. Forse, mi colpirono più del consueto la prima volta che le udii, perché nel loro significato recondito o misterioso mi sembrò di avvertire, e questo per la prima volta, la piena consapevolezza da parte di Usher che la sua nobile ragione stava vacillando. Questi versi, intitolati Il palazzo stregato, recitavano, se non testualmente, pressappoco così: I Nella più verde delle nostre valli Abitata da angeli buoni Levava un tempo il capo un Palazzo bello e maestoso, un palazzo radioso. Nel legno di Re Pensiero Là sorgeva! Mai serafino spiegò le ali Su una dimora tanto bella II Bandiere gialle, gloriose, d'oro sventolavano sul suo tetto (Questo, tutto questo, era nel lontano tempo che fu); E ogni fiato di vento gentile che si trastullava In quel dolce giorno Lungo i bastioni impennacchiati e pallidi Portava con sé un profumo sublime. III
E chi percorreva quella valle felice Vedeva, attraverso due finestre illuminate, Spiriti danzare in armonia Al suono melodico di un liuto, Intorno a un trono dove sedeva (Porfirogenito!), In un fasto che ben s'addiceva alla sua gloria Il signore del regno IV E tutta scintillante di perle e di rubini Era la bella porta del palazzo Dalla quale procedeva eternamente Uno stuolo d'Echi sfavillanti Il cui dolce dovere Era di cantare Con voce d'incomparabile bellezza L'ingegno e la saggezza del re. V Ma esseri malvagi in vesti di dolore Assalirono il grande castello del monarca (Ah! Gemiamo perché nessun sole sorgerà Mai più per lui, infelice!) E intorno alla sua casa, la gloria Che splendeva rigogliosa Non è più che un ricordo incerto Del lontano tempo che fu. VI E chi percorre ora quella valle Vede attraverso due finestre rossastre Ampie forme che si muovono bizzarre Al suono di una discordante melodia; Mentre, come un vorticoso fiume spettrale, Dalla pallida porta del palazzo Una folla orrenda corre fuori eternamente E ride, ma non sorride più.
Rammento con chiarezza che le suggestioni suscitate in noi da questa ballata ci portarono a una serie di riflessioni in cui si palesò un'opinione di Usher, che riferisco non tanto per la sua novità (perché altri uomini hanno formulato lo stesso pensiero), quanto per l'ostinazione con cui la sosteneva. Nella sua forma generale, tale opinione riguardava la facoltà senziente di tutte le specie vegetali. Ma, nell'immaginazione disordinata del mio amico, questa idea aveva assunto un carattere più audace, e aveva sconfinato, per certi aspetti, nel regno della materia inorganica. Mi mancano le parole per esprimere la piena portata o il trasporto entusiasta della sua convinzione. Questa credenza, tuttavia, era profondamente legata (come ho accennato in precedenza) alle pietre grigie della casa dei suoi avi. Qui, egli immaginava, le condizioni di quella sensibilità erano state soddisfatte nel metodo di collocazione delle pietre, nell'ordine della loro disposizione, in quello dei numerosi funghi che le ricoprivano e degli alberi putrefatti che si ergevano tutt'intorno e, soprattutto, nel perdurare indisturbato di tale composizione e nel suo duplicarsi nelle acque immote del lago. La prova, la prova di tale capacità di sentire, la forniva, egli affermava (e a questo punto io lo fissai stupito mentre parlava), il graduale, eppure indubbio, condensarsi di un'atmosfera del tutto peculiare intorno all'acqua e ai muri. Il cui effetto, aggiunse, era rintracciabile in quell'influenza silenziosa, ma persistente e terribile, che per secoli aveva forgiato il destino della sua famiglia, e che faceva di lui quello che adesso vedevo, ciò che era. Simili idee non hanno bisogno di commento e io non ne aggiungerò alcuno. I nostri libri, i libri che per anni avevano alimentato, e non poco, la vita mentale del malato, erano tutti, com'è facile supporre, in stretta armonia con la natura di questi fantasmi dell'immaginazione. Studiavamo insieme opere quali Vervet et Chartreuse di Gresset; il Belfagor di Macchiavelli, Le meraviglie del cielo e dell'inferno di Swedenborg, il Viaggio sotterraneo di Nicholas Klimm di Holberg, le Chiromanzie di Robert Flud, Jean D'Indaginé e De la Chambre, il Viaggio dentro l'Azzurro di Tiek e la Città del Sole di Campanella. Uno dei nostri testi preferiti era una piccola edizione in ottavo del Directorium Inquisitorium del domenicano Eymeric de Gironne; e vi erano alcuni brani di Pomponio Mela sugli antichi Satiri africani e gli Egipani, sui quali Usher indugiava a sognare per ore. Ma soprattutto egli traeva sommo piacere dall'attenta lettura di un libro assai raro e curioso, un inquarto gotico, che altro non era che il manuale di una chiesa dimenticata, intitolato le Vigiliae Mortuorum Secundum Chorum Ecclesiae
Maguntìnae. Non potei fare a meno di pensare ai rituali primitivi contenuti in quell'opera e nell'influenza che probabilmente avevano esercitato sull'ipocondriaco, quando, una sera, dopo avermi bruscamente informato che lady Madeline non era più, Usher mi comunicò la propria intenzione di conservare le sue spoglie per quindici giorni (prima della definitiva inumazione) in una delle numerose cripte scavate nei muri maestri del palazzo. La ragione che egli addusse per motivare questa singolare decisione era di tale natura che non mi sentii autorizzato a porla in discussione. Roderick era giunto a tale risoluzione (così mi disse) dopo avere riflettuto sul carattere insolito della malattia che aveva colpito la defunta, su alcune domande pressanti e importune dei medici, e sull'ubicazione remota ed esposta del cimitero di famiglia. Non negherò che quando rievocai nella mia mente l'espressione sinistra della persona che avevo incontrato sulle scale il giorno del mio arrivo al palazzo, non provai alcun desiderio di oppormi a quello che, nel migliore dei casi, giudicavo una precauzione e del tutto naturale. Su richiesta di Usher, lo aiutai personalmente a predisporre la sepoltura temporanea. Dopo che il corpo fu adagiato nella bara, lo portammo, noi due soli, nella sua dimora provvisoria. La cripta in cui lo deponemmo (e che era restata chiusa per così tanto tempo che la fiamma delle nostre torce si spense parzialmente nell'atmosfera opprimente che vi regnava, così da negarci quasi ogni possibilità d'indagine) era piccola, umida e priva di qualsiasi apertura che consentisse il passaggio della luce: del resto, essa si trovava a una grande profondità, in corrispondenza dell'ala del palazzo in cui era situata la mia camera da letto. Apparentemente, in epoca feudale, era stata adibita a orrendo luogo di prigionia e, in tempi più recenti, a deposito di polvere pirica o di qualche altra sostanza altamente infiammabile, come testimoniava il fatto che una parte del pavimento e tutta la superficie interna del lungo corridoio a botte attraverso il quale eravamo giunti fin lì, erano accuratamente rivestiti di rame. Anche la massiccia porta di ferro era stata protetta in modo analogo. E ruotando sui cardini, il suo enorme peso aveva prodotto uno stridio straordinariamente intenso. Dopo aver deposto il nostro triste fardello su alcuni sostegni già predisposti in questo luogo d'orrore, sollevammo parzialmente il coperchio non ancora sigillato della bara e osservammo il volto della defunta. L'impressionante somiglianza fra fratello e sorella colpì immediatamente la mia attenzione e Usher, intuendo forse i miei pensieri, mormorò alcune parole, dalle quali appresi che lui e la scomparsa erano gemelli, e che fra loro era-
no sempre esistite affinità di natura affatto misteriosa. I nostri sguardi, tuttavia, non indugiarono a lungo su lady Madeline, perché non potevamo contemplarla senza provare sgomento. Il male che l'aveva portata alla tomba nel fiore della giovinezza, aveva lasciato, come avviene sempre nelle malattie di natura catalettica, la derisione di un pallido rossore sul suo petto e sul suo volto, e quel perenne sorriso sulle labbra, ancor più orribile nella morte. Rimettemmo a posto il coperchio e sigillammo la bara e, dopo aver chiuso alle nostre spalle la pesante porta di ferro, ci trascinammo con fatica verso le stanze, vagamente meno lugubri, della parte superiore della casa. Fu allora che, dopo alcuni giorni di amaro dolore, si verificò un evidente mutamento nelle condizioni mentali del mio amico. Il suo comportamento non era più quello di prima. Egli trascurava o dimenticava le sue abituali occupazioni e vagava di stanza in stanza con passo affrettato, disuguale e senza meta. Il pallore del suo volto aveva assunto, se possibile, una tonalità ancora più spettrale, mentre la luce dei suoi occhi si era completamente offuscata. La sua voce aveva perso quel tono, un tempo di tanto in tanto aspro, e le sue parole erano sempre accompagnate da un tremito, come di terrore estremo. C'erano volte, invero, in cui pensavo che un terribile segreto travagliasse la sua mente, perennemente turbata, e che egli fosse alla disperata ricerca del coraggio necessario per rivelarlo. Altre volte, invece, ero costretto ad attribuire il suo comportamento ai meri ghiribizzi inspiegabili della follia, perché lo sorprendevo a fissare nel vuoto per ore, in atteggiamento di assoluta attenzione, come se fosse intento ad ascoltare qualche suono immaginario. Non c'è da meravigliarsi, dunque, che questo suo stato mi spaventasse... che finisse per contagiarmi. E io sentivo insinuarsi a poco a poco dentro di me le folli fantasie che accompagnavano le sue superstizioni irreali, ma spaventose. Fu in particolare la sera del settimo od ottavo giorno successivo alla sepoltura di lady Madeline nella prigione, che, dopo essermi coricato a tarda ora, feci esperienza di tutta la potenza di tali sensazioni. Il sonno disdegnava il mio guanciale, mentre la notte, a poco a poco, volgeva al giorno. Mi sforzai di vincere con la ragione il nervosismo che si era impossessato di me. Cercai di persuadermi che quello che provavo era dovuto in gran parte, se non interamente, alle sensazioni sconcertanti evocate in me dalla lugubre mobilia della stanza, dai tendaggi scuri e consunti che, agitati in un moto contorto e discontinuo dal vento, foriero di un'incipiente tempesta, ondeggiavano sui muri e frusciavano inquieti contro i drappeggi del letto.
Ma i miei sforzi furono vani. A poco a poco il mio corpo fu pervaso da un tremore infrenabile e, alla fine, una paura angosciosa e del tutto immotivata s'impossessò del mio spirito. Ansimando e lottando per liberarmi da quella morsa mi sollevai sui cuscini e, scrutando attentamente lo spazio oscuro che mi circondava mi misi in ascolto. Non so bene perché, ma un impulso istintivo m'indusse a prestare orecchio a certi suoni, sommessi e indefiniti, che mi giungevano, a tratti, quando il temporale si placava: donde venissero non sapevo. Sopraffatto da un profondo sentimento d'orrore, inesplicabile e insopportabile, mi vestii in fretta (perché sentivo che quella notte non avrei più dormito) e cercai d'affrancarmi dal miserevole stato in cui mi trovavo, camminando su e giù, in fretta, per la stanza. Avevo fatto solo pochi giri, quando il rumore di un passo leggero su una scala contigua attrasse la mia attenzione. Riconobbi immediatamente il passo di Usher. Un attimo dopo egli bussò gentilmente alla mia porta ed entrò reggendo una lampada. Il suo volto era, come sempre, di un pallore mortale, ma questa volta vi era una specie di delirante ilarità nei suoi occhi e tutto il suo contegno tradiva un mal celato isterismo. Il suo aspetto mi atterrì, ma qualsiasi cosa era preferibile alla solitudine che avevo sopportato fino ad allora, e quindi salutai con sollievo la sua venuta. «E tu non l'hai visto?» mi chiese d'un tratto, dopo aver guardato fissamente intorno a sé per alcuni istanti senza proferir verbo. «Tu dunque non l'hai visto? Ma aspetta e lo vedrai!» E dopo aver pronunciato queste parole e aver accuratamente schermato la lampada, si precipitò verso una delle finestre e la spalancò, lasciandola aperta alla mercé della tempesta. La furia inpetuosa del vento che entrò ci fece quasi rovinare a terra. Era una notte burrascosa, ma nondimeno superbamente bella, una notte selvaggia e singolare per la sua bellezza e il terrore che incuteva. Apparentemente un turbine aveva radunato tutte le sue forze nei pressi della Casa Usher, perché il vento subiva frequenti e violenti cambiamenti di direzione e la straordinaria densità delle nubi (che erano così basse da nascondere le torrette della casa) non ci impediva di percepire la velocità, quasi fossero vive, con cui correvano da un'estremità all'altra del cielo per scontrarsi fra di loro. Ho detto che neppure la loro straordinaria densità ci impedì di discernere il loro moto, benché non riuscissimo a intravvedere nemmeno uno spicchio di luna, né le stelle, né balenassero lampi nel cielo. Ma la superficie inferiore di quelle enormi masse di vapore sconvolto, e così pure tutti gli oggetti terrestri che ci circondavano, risplendevano al chiarore innaturale di un'esalazione gassosa debolmente luminescente, ma distintamente
visibile intorno alla casa, che ne era avvolta come da un sudario. «Non devi, non devi guardare queste cose!» dissi rabbrividendo a Roderick, mentre lo conducevo con gentile fermezza lontano dalla finestra e lo facevo sedere. «Queste apparizioni che ti turbano non sono che semplici fenomeni elettrici, o forse sono esalazioni solforose dei ripugnanti miasmi del lago. Su, chiudiamo questa finestra l'aria è fredda ed è nociva per la tua salute. Ecco, questo è uno dei tuoi romanzi preferiti. Io adesso leggerò e tu ascolterai, e così trascorreremo insieme questa notte terribile. Il vecchio volume a cui mi riferivo era il Mad Trist di Sir Launcelot Canning ma io l'avevo definito uno dei libri preferiti di Roderick più come triste celia che sul serio; perché, in verità, vi era ben poco nella sua prolissità grossolana e priva d'immaginazione che avrebbe potuto suscitare l'interesse dell'elevata idealità del mio amico. Ma quello era il solo libro che mi fosse capitato sottomano, e io accarezzavo la vaga speranza che l'eccitamento che ora turbava l'ipocondriaco, potesse trovare sollievo (dato che la casistica delle malattie mentali è piena di simili anomalie) proprio nella suprema follia di ciò che gli stavo leggendo. E se avessi dovuto giudicare dall'interesse estremo con cui ascoltò, o sembrò ascoltare, le parole del racconto, avrei potuto congratularmi con me stesso per il successo del mio piano. Ero giunto a quella ben nota parte della storia in cui Ethelred, l'eroe del Trist, dopo aver cercato invano di entrare pacificamente nella dimora dell'eremita, si appresta a penetrarvi con la forza. Qui, come ricorderete, il racconto prosegue: «E Ethelred, che per natura era d'animo valoroso, e che ora, in virtù del potente vino che aveva bevuto, era anche diventato assai forte, non indugiò oltre a conferire con l'eremita che, in verità, era di temperamento ostinato e maligno, ma sentendo la pioggia bagnargli le spalle e temendo il sorgere di una tempesta, sollevò senz'altro la mazza e, colpendo più volte le assi della porta, si aprì rapidamente un varco con la mano ricoperta da un guanto di ferro; con la quale, poi, tirando con decisione, ruppe, strappò e fece a pezzi ogni cosa, sicché il rumore sordo del legno secco riecheggiò diffondendo l'allarme per tutta la foresta». Giunto alla fine di questa frase trasalii e tacqui alcuni istanti, perché mi sembrò (anche se conclusi subito che, in preda all'eccitazione com'ero, la
mia fantasia mi aveva tratto in inganno), mi sembrò che da qualche parte assai remota del palazzo provenisse, benché indistinta, quella che, per l'esatta similitudine del suono, avrebbe potuto essere l'eco (ma certamente un'eco smorzata e sorda) di quel frastuono che Sir Launcelot aveva descritto in modo così dettagliato. Ma non v'era dubbio che si trattasse di una pura coincidenza; perché, fra il crepitio dei telai delle finestre e gli altri rumori confusi della tempesta che infuriava sempre di più, un suono simile, di per sé, non avrebbe potuto certamente turbarmi o suscitare il mio interesse. Ripresi dunque a leggere il racconto: «Ma il buon campione Ethelred, che adesso aveva varcato la soglia, s'infuriò e si meravigliò di non trovare traccia alcuna del malvagio eremita; ma in sua vece s'imbatté in un drago enorme e ricoperto di scaglie che, con una lingua di fuoco, si ergeva a difesa di un palazzo d'oro, adorno di pavimenti d'argento; quindi, appeso al muro, vide uno scudo di ottone lucido che recava incisa questa iscrizione: Chi entra in questo luogo è un conquistatore Chi uccide il drago vincerà questo scudo. Ed Ethelred sollevò la mazza e colpi la testa del drago; questi cadde ai suoi piedi e rese la sua anima pestilenziale lanciando un grido così spaventoso, stridulo e penetrante, che Ethelred fu costretto a schermarsi le orecchie con le mani, per non udirne il suono, il più raccapricciante che orecchio umano avesse mai sentito». E qui di nuovo tacqui bruscamente, sopraffatto, questa volta, da un terribile sgomento; perché non v'era alcun dubbio che io proprio in quell'istante, avessi udito (proveniente da quale direzione mi era impossibile dirlo) un grido o un suono stridulo affatto singolare, grave e apparentemente lontano, ma aspro e prolungato... l'esatto equivalente dell'urlo soprannaturale del drago, così come le parole dello scrittore l'avevano evocato nella mia immaginazione. Oppresso com'ero, per quella seconda e ancor più straordinaria coincidenza, da una miriade di sensazioni contrastanti, in cui predominavano stupore e terrore supremo, riuscii a mantenere quella presenza di spirito che mi consentì di non turbare, con osservazioni di sorta, l'animo assai
sensibile del mio amico. Non ero affatto sicuro che egli avesse avvertito quei suoni, benché, e questa è cosa certa, in quegli ultimi minuti, egli avesse preso a comportarsi in modo strano. Era seduto di fronte a me, ma a poco a poco aveva girato la sua potrona in modo da venirsi a trovare con il viso rivolto alla porta. In questa posizione io non potevo che indovinare parzialmente i suoi lineamenti, ma nondimeno vidi che le sue labbra tremavano, come se stesse mormorando parole incomprensibili. La testa gli era crollata sul petto, eppure ero certo che non dormisse, perché i suoi occhi, di cui, per un istante, intravvidi la luce, erano spalancati e fissi. E della sua veglia dava prova anche il moto del suo corpo: Roderick Usher infatti oscillava da una parte all'altra in un dondolio dolce, ma costante e uniforme. Dopo aver rapidamente preso nota di tutto ciò, ripresi la lettura del racconto di Sir Launcelot, che così proseguiva: «E ora, dopo essere sfuggito alla furia terribile del drago, il campione, rammentandosi dello scudo di ottone e comprendendo che l'incantesimo era rotto, rimosse la carcassa che gli ostruiva il passaggio e, avanzando coraggiosamente sul lastricato d'argento che conduceva al castello, si avvicinò al muro da cui pendeva lo scudo. Il quale, in verità, non attese che egli si appropinquasse oltre, ma cadde ai suoi piedi sull'impiantito d'argento, producendo un fragore terribile che riecheggiò alto nell'aria». Non appena le mie labbra ebbero pronunciato queste parole, udii distintamente una risonanza sorda, metallica e fragorosa, benché apparentemente smorzata, proprio come se, in quello stesso istante, uno scudo di ottone fosse pesantemente caduto su un pavimento d'argento. Completamente turbato, balzai in piedi, mentre il dondolio regolare di Usher continuava imperturbato. Mi precipitai verso la poltrona in cui sedeva. Il suo sguardo era fisso sulla porta e le sue membra apparivano rigide come la pietra. Ma quando appoggiai la mano sulla sua spalla, egli fu scosso da un brivido possente; un debole sorriso increspò le sue labbra e io mi accorsi che stava mormorando frasi incomprensibili, come se non si rendesse conto della mia presenza. E, poiché parlava in fretta e a voce bassa, dovetti avvicinare l'orecchio alla sua bocca per comprendere l'orribile contenuto delle sue parole. «Ora lo senti? Sì, io lo sento e l'ho già sentito. Da tanto, tanto tempo, da molti minuti, da molte ore, da molti giorni io lo sento, ma non osavo, oh!
Pietà di me, povero sciagurato che non sono altro! Non osavo, non osavo parlale! Noi l'abbiamo deposta viva nella tomba! Non ti dicevo che i miei sensi erano acuti? Io adesso ti dico che ho udito i suoi primi deboli movimenti nella bara. Li ho uditi molti, molti giorni or sono, ma non osavo, non osavo parlare! E adesso... questa notte... Ethelred... Ha! Ha!... La porta dell'eremita che s'infrange, l'urlo di morte del drago e il fragore dello scudo... Di', piuttosto, la bara che si squarcia, lo stridìo della porta di ferro della sua prigione, e il suo muoversi convulso nel corridoio rivestito di rame! Oh! Dove posso fuggire? Ella non sarà forse qui fra breve? Non sta correndo qui per rimproverarmi della mia fretta? Quelli che sento non sono forse i suoi passi sulle scale? Non odo forse il battito profondo e orribile del suo cuore? Folle!» E, detto questo, si alzò in piedi di scatto e gridò queste parole, come se nello sforzo egli stesse per rendere la propria anima: «Folle! Io ti dico che ora ella è fuori dalla porta!» Come se l'energia sovrumana del suo farneticare fosse investita di poteri magici, gli enormi pannelli antichi verso i quali Roderick levava l'indice, spalancarono, all'istante, le loro poderose fauci color dell'ebano. Fu opera di una violenta raffica di vento; ma dietro la porta si ergeva l'alta figura di lady Madeline Usher, avvolta nel sudario. Le sue vesti bianche erano insanguinate e ogni parte del suo corpo emaciato portava i segni evidenti di una dura lotta. Per un attimo indugiò, tremando e annaspando, sulla soglia, poi, con un urlo profondo e lamentoso, crollò pesantemente sul corpo del fratello e, nella sua ultima agonia lo trascinò a terra con sé, ucciso dal terrore che aveva presagito. Da quella stanza e da quel palazzo io fuggii atterrito. La tempesta infuriva ancora quando attraversai la vecchia strada rialzata. Improvvisamente un luce violenta balenò sul sentiero ed io mi voltai per vedere da dove provenisse un bagliore così strano, perché la casa e le sue ombre erano le sole cose che avessi lasciato alle mie spalle. La luce era quella della luna piena e color del sangue che, prossima al tramonto, risplendeva ora da quella fessura, un tempo appena percettibile della quale ho detto in precedenza che percorreva a zig-zag tutta la facciata. Mentre la guardavo, la fessura si allargò rapidamente... si levò un turbine di vento... la luna intera si coprì improvvisamente alla mia vista... la mia mente vacillò quando vidi i muri crollare... udii grida tumultuose e prolungate come la voce di mille cascate e il lago profondo e umido che era ai miei piedi si chiuse, cupo e silenzioso, sopra le rovine della Casa Usher.
Titolo originale: The Fall of the House of Usher Traduzione: Elisabetta Svaluto Stephen King La scimmia Stephen King scrive spesso nello stile dell'horror psicologico, soprattutto quando tratta storie di mostri. Vengono alla mente The Raft o The Crate ma, in particolare, The Monkey (La scimmia). Rifacendosi al tema classico dell'ossessione generazionale, King utilizza il motivo del giocattolo perverso: simbolo morale di una certa complessità tipico di Ray Bradbury. Tracce delle oscure ironie di Robert Bloch e di Richard Matheson, nonché descrizioni grafiche di alcuni fumetti fanno de La scimmia uno dei racconti in cui King meglio riesce a combinare e a intrecciare le fila dell'horror contemporaneo. Eppure, nonostante il suo interesse centrale risieda nell'horror psicologico, in questo scritto l'autore mantiene ben salde le proprie costanti morali, le stesse che elevano, caratterizzandola, la parte più importante dell'opera di King. Uno degli specifici più salienti dell'autore, nel racconto horror, è la misura con la quale egli riesce a sintetizzale e a trasformare, tramite le sue feconde letture nel campo dell'orrore, l'intero sviluppo storico del genere. E così, proprio come Dickens ha rivitalizzato il genere dei fantasmi natalizi, nello stesso modo King ha effettuato una completa rigenerazione delle tradizioni horror nella letteratura contemporanea. Quando suo figlio Dennis la tirò fuori da un fatiscente scatolone di cartone Ralston-Purina, che era stato spinto bene in fondo, sotto a una trave della soffitta, Hal Shelburn provò un tale sentimento di orrore e di sgomento, che a stento si trattenne dall'urlare. Si portò un pugno alla bocca, come per ricacciare il grido... quindi, si limitò a tossire nel pugno. Terry e Dennis non notarono nulla, ma Petey si guardò intorno, con un pizzico di curiosità. «Ehi, che forza!» disse Dennis ossequiosamente. E il tono della sua voce fu quantomeno strano, ben diverso da quello solito con cui si rivolgeva al padre. Dennis aveva dodici anni. «Che cos'è?» chiese Petey dando un'occhiata al padre prima che il suo sguardo fosse nuovamente attratto dall'oggetto trovato dal fratello. «Che
cos'è papà?» «È una scimmia, scemo» disse Dennis. «Non hai mai visto prima una scimmia?» «Non chiamare scemo tuo fratello» disse automaticamente Terry, e iniziò a esaminare una scatola piena di tende. Le tende erano appiccicose, piene di muffa, e le lasciò subito ricadere. «Che schifo!». «Posso tenerla, papà?» chiese Petey. Aveva nove anni. «Come sarebbe a dire?» gridò Dennis. «L'ho trovata io!» «Ragazzi, per favore» disse Terry. «Mi sta venendo mal di testa.» Hal li ascoltava appena... tutti e tre. Dalle mani di suo figlio maggiore la scimmia gli balenava davanti, con il vecchio ghigno a lui ben noto. Lo stesso ghigno che aveva infestato i suoi incubi, quand'era bambino, ossessionandolo finché non aveva... Fuori si alzò una fredda folata di vento, e per un attimo labbra senza vita soffiarono una lunga nota attraverso la vecchia grondaia arrugginita. Petey si avvicinò al padre, mentre il suo sguardo si spostava, a disagio, sul tetto malandato della soffitta, da cui sporgevano capocchie di chiodi. «Che cos'è stato, papà?» chiese, mentre il fischio si spegneva, trasformandosi in un ronzio gutturale. «È soltanto il vento» disse Hal, continuando a guardare la scimmia con i suoi piatti che, alla debole luce dell'unica, misera lampadina, risultavano simili a mezzelune d'ottone più che a dei cerchi completi. I piatti erano immobili, a circa trenta centimetri di distanza l'uno dall'altro. Hal Shelburn aggiunse automaticamente: «Il vento può fischiare, ma non può diffondere una melodia.» Poi, d'improvviso, ricordò che quello era un modo di dire di suo zio Will... e gli venne la pelle d'oca. Udì nuovamente quella lunga nota, mentre il vento maligno, di ritorno da Crystal Lake piombava sul tetto e con un suono lungo e monotono infilava la grondaia facendola vibrare. Hal fu colpito da alcune correnti d'aria fredda d'ottobre, che gli soffiarono sul volto... "Dio!" pensò "E questo luogo è così simile allo sgabuzzino della casa di Hartford, che è come se tutti noi fossimo stati trasportati indietro nel tempo di trent'anni." Non ci voglio pensare. Ma non era facile ignorare quel pensiero. Non voglio pensare a quello sgabuzzino dove trovai quella maledetta scimmia in quella stessa maledetta scatola. Terry si era allontanata per esaminare una cassa di legno piena di cianfrusaglie, camminando con la testa piegata perché l'angolo del tetto era
molto pronunciato. «Dennis se la può tenere, se vuole» disse Petey. «Possiamo andarcene, papà?» «Hai paura dei fantasmi, fifone?» chiese Dennis. «Dennis, piantala» disse Terry con aria assente. Raccolse una tazza sottilissima, con un disegno cinese. «Questa è graziosa. Questa...» Hal vide che Dennis aveva trovato la chiave per il caricamento a molla sul dorso della scimmia. Il terrore piombò su di lui con le sue ali oscure. «Non farlo!» urlò. Aveva pronunciato le parole più aspramente di quanto avesse voluto, e aveva strappato la scimmia dalle mani di Dennis prima ancora di rendersi veramente conto di averlo fatto. Dennis si guardò intorno stupefatto. Anche Terry si volse per dargli un'occhiata, e Petey sollevò lo sguardo. Per un attimo restarono tutti in silenzio, e il vento fischiò di nuovo, questa volta con un tono molto insinuante come una sorta di sgradevole invito. «Voglio dire che probabilmente è rotta» disse Hal. Una volta era rotta... tranne quando voleva funzionare. «Beh, non era il caso che tu l'agguantassi in quel modo!» disse Dennis. «Zitto, Dennis» disse secco suo padre. Dennis lo guardò sbattendo le palpebre e per un attimo sembrò quasi a disagio. Era da molto tempo che Hal non gli parlava così aspramente. Non era più successo da quando il padre aveva perso il posto di lavoro alla National Aerodyne, in California, due anni prima, e si erano trasferiti in Texas. Dennis decise di non dare peso alla cosa... per ora. Rivolse nuovamente la sua attenzione allo scatolone di cartone Ralston-Purina e ricominciò a rovistarci dentro, ma il resto del contenuto non valeva niente. Giocattoli rotti che vomitavano molle e imbottiture. Ora il vento era più forte, gridava, invece di fischiare. La soffitta iniziò a scricchiolare lievemente, producendo un rumore simile a dei passi. «Ti prego, papà» chiese Petey, parlando a bassa voce, tanto che suo padre lo udì appena. «Sì» disse Hal. «Andiamo, Terry.» «Non ho ancora finito con questo...» «Ho detto andiamo.» Ora toccò a Terry di rimanere stupefatta. Avevano preso due stanze contigue in un motel. Quella sera, alle dieci i ragazzi stavano dormendo nella loro stanza, e Terry stava dormendo nella
camera matrimoniale. Aveva inghiottito due Valium durante il viaggio di ritorno in macchina da Casco, il luogo in cui avevano la casa; due Valium per evitare che il nervosismo le facesse venire il mal di testa. Ultimamente prendeva molti Valium. Aveva iniziato più o meno nel periodo in cui la National Aerodyne aveva interrotto il rapporto di lavoro con Hal. Negli ultimi due anni aveva lavorato per la Texas Instruments... prendeva 4000 $ in meno all'anno, ma era pur sempre un lavoro. Hal aveva detto a Terry che potevano comunque considerarsi fortunati. Lei era d'accordo. Hal aveva detto che c'erano moltissimi programmatori di software che vivevano con il sussidio di disoccupazione. Lei era d'accordo. Hal aveva detto che gli alloggi per i dipendenti forniti dalla compagnia, ad Arnette, equivalevano esattamente a quelli di Fresno. Lei era d'accordo... ma lui, Hal, pensò che il suo assenso fosse una bugia. E aveva iniziato a perdere Dennis. Sentiva che il ragazzo si allontanava, stava raggiungendo una prematura velocità di fuga: ciao, Dennis, arrivederci straniero, è stato bello fare questo viaggio in treno con te. Terry diceva che secondo lei il ragazzo fumava spinelli. Qualche volta ne sentiva l'odore. «Devi parlargli, Hal». E questa volta era lui a essere d'accordo, ma finora non l'aveva fatto. I ragazzi stavano dormendo, Terry stava dormendo. Hal andò in bagno, chiuse a chiave la porta, sedette sul coperchio chiuso del water e si mise a osservare la scimmia. Odiava la sensazione che gli dava il toccarla, con quella pelliccia marrone, pelosa, spelacchiata in più punti. Odiava il suo ghigno... «quella scimmia ghigna proprio come un negro» aveva detto zio Will una volta, ma non ghignava come un negro, non aveva nulla di umano. Il suo ghigno era tutto denti. Se le davi la carica, con la chiave, muoveva le labbra e sembrava che i denti le si facessero più grandi, che diventassero denti da vampiro; le labbra si torcevano e i piatti sbattevano rumorosamente. «Stupida scimmia, stupida scimmia a molla, stupida, stupida» La lasciò cadere. Gli tremavano le mani e la lasciò cadere. La chiave batté con un colpo secco sulla piastrella del bagno incontrando il pavimento. Il rumore parve molto forte nel silenzio. La scimmia ghignò verso di lui con i suoi torbidi occhi ambrati, occhi da bambola, pieni di un'allegria idiota, con i piatti d'ottone sospesi a mezz'aria, come se stessero per dare inizio a una marcia per qualche banda infernale. E sul fondo erano impresse le parole MADE IN HONG KONG. «Non puoi essere qui» sussurrò Hal. «Ti ho gettata nel pozzo quando
avevo nove anni.» La scimmia gli ghignò in faccia. Hal Shelburn rabbrividì. Fuori, nella notte, una folata nera di vento fece tremare il motel. Il giorno dopo Hal, Terry, Dennis e Petey s'incontrarono a casa di zio Will e zia Ida con il fratello di Hal, Bill e sua moglie Collett. «Non ti è mai passato per la mente che il fatto che sia morto qualcuno di casa sia un pessimo modo per rinnovare i rapporti familiari?» chiese Bill ad Hal accennando un sorriso. Bill si chiamava Bill in onore di zio Will. Will e Bill: campioni del rodeo, come diceva sempre zio Will, scompigliando i capelli a Bill. Era uno dei modi di dire dello zio, proprio... come il vento può fischiare, ma non può diffondere una melodia. Zio Will era morto sei anni prima, e zia Ida aveva continuato a vivere lì da sola, finché non le era venuto un colpo apoplettico proprio la settimana prima. «Una cosa decisamente improvvisa» aveva detto Bill nel corso di un'interurbana fatta per avvertire Hal. Come se lui potesse saperlo, come se lo potesse sapere qualcuno. Era morta sola. «Sì» disse Hal rispondendo a Bill. «Il pensiero mi è passato per la mente.» Osservarono insieme il luogo, il luogo dove avevano finito di crescere. Il padre, un membro della marina mercantile, sembrava essere semplicemente scomparso dalla faccia stessa della terra quando erano piccoli; Bill sosteneva di ricordarselo vagamente, ma Hal non aveva assolutamente alcun ricordo di lui. La madre era morta quando Bill aveva dieci anni e Hal otto. Erano venuti a stare da zio Will e da zia Ida ed erano cresciuti lì, e da lì erano andati all'università. Bill era rimasto e ora aveva uno studio legale ben avviato a Portland. Hal vide che Petey vagava verso gli intricati cespugli di more che si trovavano sul lato orientale dell'abitazione, e che creavano un groviglio disordinato. «Stai lontano da lì, Petey» gridò. Petey si volse per guardarlo, con aria interrogativa. Hal si sentì pervadere da un semplice sentimento d'amore per il ragazzino... e all'improvviso ripensò alla scimmia. «Perché, papà?» «Da qualche parte, laggiù, c'è il vecchio pozzo» disse Bill. «Ma che io sia dannato se ricordo esattamente dove si trova. Tuo papà ha ragione, Petey... quei grovigli di more sono un ottimo posto da cui tenersi alla larga. I
rovi ti concerebbero per le feste. Non è vero, Hal?» «Sì» disse automaticamente Hal. Petey si allontanò senza voltarsi a guardare, e poi si avviò giù per il terrapieno, verso la spiaggetta di ciottoli, dove Dennis stava facendo rimbalzare dei sassi sull'acqua. Hal sentì qualcosa allentarsi nel suo petto. Bill forse poteva avere dimenticato dove si trovasse il vecchio pozzo, ma più tardi, quel pomeriggio, Hal vi si diresse infallibilmente facendosi strada a spallate attraverso i rovi che gli strappavano la vecchia giacca di flanella e gli minacciavano gli occhi. Lo raggiunse e rimase lì in piedi, respirando pesantemente, osservando le tavole marce, deformate, che lo coprivano. Dopo un attimo d'incertezza s'inginocchiò (le sue ginocchia schioccarono contemporaneamente, come se avessero sparato due colpi di pistola) e spostò di lato due delle tavole. Dal fondo di quella gola umida, bordata di roccia, un volto guardò in alto, verso di lui: un volto nero con grandi occhi, la bocca deformata in una smorfia, un volto da cui sfuggì un gemito. Non fu troppo forte, tranne che nel cuore di Hal: lì era stato fortissimo. Quello era il suo volto, riflesso nell'acqua scura. Non quello della scimmia. Per un attimo aveva pensato che fosse quello della scimmia. Hal fu colto da un tremito. Un tremito diffuso. L'ho gettata nel pozzo. L'ho gettata nel pozzo. Ti prego, Dìo, fa che io non impazzisca. L'ho gettata nel pozzo. Il pozzo si era seccato quell'estate in cui era morto Johnny McCabe, un anno dopo che Bill e Hal erano venuti ad abitare in quel luogo con zio Will e zia Ida. Zio Will aveva ottenuto un prestito dalla banca per far scavare un pozzo artesiano, e il groviglio di cespugli di more era cresciuto intorno al pozzo scavato. Il pozzo asciutto. Ma invece l'acqua era ritornata. Come la scimmia. Questa volta non era possibile allontanare il ricordo. Non subito. Hal seduto lì, inane, lasciò che l'incubo gli tornasse alla mente: cercò di affrontarlo, di cavalcarlo come un surfista cavalca un'ondata mostruosa che lo frantumerebbe se cadesse dalla tavola; s'impose l'equilibrio per superare il momento, per fare in modo che l'onda del ricordo potesse allontanarsi di nuovo. In quella tarda estate, si era trascinato fin lì con la scimmia, e c'erano le
more con il loro profumo dolciastro, intenso e nauseante. Nessuno s'inoltrava fino a quel punto per raccoglierle; solo zia Ida qualche volta si arrischiava fino ai margini del roveto e raccoglieva qualche pugno di more nel suo grembiule. Dentro, nel folto, le more erano maturate anche troppo, alcune stavano marcendo, e trasudavano un fluido bianco, denso, simile a pus, e i grilli cantavano in modo ossessionante nell'erba alta, nel sottobosco, con il loro grido incessante: criiiiiiii... criiiiiii I rovi lo graffiavano e goccioline di sangue stillavano sulle sue braccia nude. Non tentava neppure di evitare le spine. Era cieco di terrore... cieco a tal punto che per pochi centimetri aveva rischiato d'inciampare sulle assi che coprivano il pozzo e, forse, di fare un volo di una decina di metri fino a schiantarsi e sprofondare nel fondo melmoso. Aveva vorticato le braccia per rimettersi in equilibrio, e altri rovi gli avevano graffiato gli avambracci. Si trattava del giorno in cui era morto Johnny McCabe... il suo miglior amico. Johnny si era arrampicato sui pioli che portavano alla sua casa sull'albero, nel giardino posteriore di casa sua. Quell'estate loro due avevano trascorso molte ore lassù, giocando ai pirati; scrutando il lago alla ricerca di galeoni immaginari, preparando i cannoni, pronti a lanciare l'arrembaggio. Johnny era salito sulla casa costruita sull'albero come aveva fatto mille altre volte, prima, e il piolo che si trovava sotto alla botola collocata sul fondo del rifugio gli si era spezzato tra le dita, e Johnny era precipitato per una decina di metri, cadendo sul terreno, e si era rotto l'osso del collo, ed era colpa della scimmia, della scimmia, della dannatissima, odiosa scimmia. Quando aveva squillato il telefono, quando zia Ida aveva spalancato la bocca, sconvolta, e poi aveva formato con le labbra un'O d'orrore, mentre la sua amica Milly, che abitava alla fine della strada le diceva quel che era accaduto, quando zia Ida aveva detto: «Usciamo sul portico, Hal, devo darti una cattiva notizia...» lui aveva pensato, colto da un senso di nausea e di orrore: La scimmia! Che cos'ha fatto questa volta la scimmia? Quel giorno non aveva visto il proprio volto riflesso nel fondo del pozzo, intrappolato; aveva sentito soltanto i ciottoli, le pietre che cadevano nel buio, e l'odore del fango umido. Aveva osservato la scimmia che si trovava lì, distesa sull'erba folta che cresceva tra i rovi intricati delle more, con i piatti sospesi, i grandi denti ghignanti tra le labbra aperte, la pelliccia, che qua e là era venuta via, lasciando chiazze pelate, malconce, gli occhi vitrei. «Ti odio» le aveva sibilato contro. Aveva preso in mano quel suo corpo ributtante, sentendo che la pelliccia pelosa gli s'increspava sotto alle dita.
La scimmia gli ghignava in faccia, mentre lui la teneva davanti a sé. «Forza!» l'aveva sfidata, iniziando a piangere per la prima volta, quel giorno. L'aveva scrollata violentemente. I piatti sospesi avevano avuto un tremito... appena un piccolo tremito. Quella scimmia rovinava tutto quanto di buono e di giusto c'era al mondo. Tutto. «Forza, sbattili! Sbattili!» aveva urlato. La scimmia si era limitata a ghignare. «Avanti, sbattili!» La sua voce aveva ormai un tono isterico. «Vigliacca, vigliacca, forza, sbattili! Ti sfido a farlo!». I suoi occhi marrone giallastro. I suoi grandi denti gioiosi. Allora l'aveva scaraventata nel pozzo, pazzo di dolore e di terrore, L'aveva vista capovolgersi una volta, mentre scendeva giù, come un acrobata che faceva il suo numero, e per un'ultima volta il sole era balenato su quei piatti. La scimmia aveva colpito il fondo con un tonfo, e probabilmente l'urto aveva messo in moto il suo meccanismo, perché all'improvviso i piatti avevano iniziato veramente a sbattere. Il loro clamore costante, deliberato e metallico gli era giunto all'orecchio, echeggiante e condannato a morire nella gola di pietra del pozzo: jang-jang-jang-jang... Hal si era chiuso la bocca con le mani, e per un attimo gli era riuscito di vederla laggiù... un attimo, forse solo nella sua immaginazione... mentre lei giaceva nel fango, con gli occhi che fissavano il ragazzo che sbirciava dalla bocca del pozzo (come se volesse imprimersi Hal nella sua memoria scimmiesca), con le labbra che si allargavano e si contraevano intorno a quei denti ghignanti, con i piatti che sbattevano: maledetta, stupida scimmia a molla. Jang-jang-jang-jang, chi è morto? Jang-jang-jang-jang, è Johnny McCabe, che precipita con gli occhi sbarrati, effettuando il proprio salto mortale acrobatico mentre cade nella luminosa aria estiva delle vacanze, tenendo ancora tra le mani il piolo spezzato, per poi colpire il terreno con un suono secco, duro, un colpo netto? È Johnny, Hal? O sei tu? Gemendo, Hal aveva sistemato le assi sopra il pozzo, senza fare caso alle schegge che gli s'infilavano nelle mani. Eppure, ancora riusciva a sentirla, lei la scimmia, perfino attraverso le assi. Ora il suono gli giungeva attutito, e in qualche modo questo fatto lo rendeva ancora più drammatico: lei era laggiù, nel buio pesto delle pareti di pietra, laggiù che sbatteva i suoi piatti e contraeva il suo corpo ripugnante, e quel rumore gli giungeva come fosse prodotto da un uomo sepolto vivo che cercava disperatamente di grattare il terreno per riguadagnare la vita.
Jang-jang-jang-jang, chi è morto questa volta? Hal lottò e si fece strada con furore tra le more rampicanti. Le spine gli tracciarono rapidamente nuove strisce di sangue zampillante sul volto, e le lappe s'impigliarono nei risvolti dei suoi jeans; una volta cadde lungo disteso, con ancora quel frastuono nelle orecchie, come se ne fosse inseguito. Più tardi zio Will l'aveva trovato seduto su di un vecchio pneumatico, in garage. Hal stava singhiozzando, e lo zio aveva creduto che stesse piangendo per l'amico morto. E così era... ma piangeva anche per il suo terrore. Aveva gettato la scimmia nel pozzo di pomeriggio. Quella sera, mentre il crepuscolo si diffondeva lentamente attraverso un manto scintillante di foschia, un'auto che correva troppo veloce, data la visibilità ridotta, aveva travolto il gatto dell'isola di Man di zia Ida, per strada, e non si era neppure fermata. C'erano viscere sparse ovunque. Bill aveva vomitato, ma Hal aveva soltanto distolto lo sguardo, volgendo il volto pallido, immobile, verso i singhiozzi di zia Ida (l'accaduto, unito alla notizia del ragazzo McCabe, le aveva provocato una crisi di pianto, quasi un attacco isterico, ed erano trascorse due ore prima che zio Will riuscisse a calmarla completamente) che sembravano provenire da chilometri di distanza. Nel suo cuore c'era una gioia fredda ed esultante. Non era venuto il suo turno. Era stata la volta del gatto di Man di zia Ida, non era toccato a lui, né a suo fratello Bill o allo zio Will (proprio due campioni del rodeo). E ora la scimmia non c'era più, si trovava in fondo al pozzo, e un gatto dell'isola di Man, piuttosto mal ridotto, che aveva le zecche nelle orecchie, non era poi un prezzo troppo alto da pagare. Se la scimmia voleva sbattere ora i suoi piatti infernali, che facesse pure. Poteva sbatterli e fare un gran frastuono per gli insetti striscianti e per gli scarafaggi, gli animali del buio che avevano la tana nella gola di pietra del pozzo. Sarebbe marcita laggiù, nell'oscurità, e i suoi disgustosi ingranaggi, ruote e molle, sarebbero arrugginiti nelle tenebre. Sarebbe morta laggiù. Nel fango e nell'oscurità. I ragni le avrebbero tessuto un sudario. Ma... era ricomparsa. Lentamente, Hal ricoprì il pozzo, come aveva fatto quel giorno, e nelle orecchie udì l'eco immaginaria dei piatti della scimmia: Jang-jang-jangjang, chi è morto, Hal? È Terry? Dennis? È Petey, Hal? È il tuo preferito, non è vero? È lui? Jang-jang-jang-jang... «Mettila giù!» Petey trasalì e lasciò cadere la scimmia, e per un attimo da incubo, Hal
pensò che l'avrebbe fatto, che lo scossone avrebbe azionato il meccanismo, e che i piatti avrebbero iniziato a sbattere e a suonare fragorosamente. «Papà, mi hai spaventato.» «Mi dispiace, È solo che... non voglio che tu giochi con quella.» Gli altri erano andati a vedere un film, e lui aveva pensato che li avrebbe preceduti al motel. Ma era rimasto nel luogo dove aveva abitato più a lungo di quanto avesse immaginato; i vecchi, odiosi ricordi sembravano muoversi nel loro eterno lìmite temporale. Terry era seduta vicino a Dennis, stava sfogliando The Beverly Hillbillies. Fissava il vecchio giornale dalle pagine di grana glossa, con una concentrazione ferma, stupefatta, che rivelava come avesse ingoiato da poco un Valium. Dennis stava leggendo una rivista rock con il complesso Styx in copertina. Petey stava seduto sul tappeto con le gambe incrociate, giocherellando con la scimmia. «Comunque non funziona» disse Petey. E questo spiega come mai Dennis gliel'abbia lasciata, pensò Hal, e poi provò vergogna e rabbia nei propri confronti. Sembrava non riuscire a controllare l'ostilità che provava sempre più spesso nei confronti di Dennis, ma poi si sentiva avvilito e miserabile... disorientato. «No» disse, rivolto al piccolo, «È vecchia. La getterò via. Dammela.» Allungò la mano e Petey, con aria turbata, gliela porse. Dennis disse a sua madre: «Papà sta diventando un fottuto schizofrenico.» Hal aveva attraversato la stanza prima ancora di rendersi conto di essersi mosso, con la scimmia in una mano, che ghignava come se approvasse. Afferrò Dennis per la camicia trascinandolo fuori dalla poltrona. Si udì il rumore di uno strappo, mentre da qualche parte cedeva una cucitura. Dennis aveva un aspetto sconvolto, quasi comico. La sua copia di Tiger Beat cadde a terra. «Ehi!» «Vieni con me» disse Hal, con severità, trascinando suo figlio verso la porta, nella stanza vicina. «Hal!» Terry si mise quasi a urlare. Petey si limitò a guardare attonito. Hal portò con sé Dennis. Chiuse la porta sbattendola e poi scaraventò Dennis contro la porta. Dennis stava iniziando ad assumere un'aria spaventata. «Hai dei problemi con il linguaggio, tu» disse Hal. «Mollami! Mi hai strappato la camicia, tu...» Hal sbatté nuovamente il ragazzo contro la porta, «Sì» disse. «Hai pro-
prio dei problemi con il linguaggio. L'hai imparato a scuola? Oppure nella zona fumatori?» Dennis arrossì, per un attimo il suo volto s'imbruttì, aveva un'aria colpevole. «Non mi troverei in quella scuola di merda se tu non ti fossi fatto sbattere fuori dalla National Aerodyne!» scattò Dennis. Hal scaraventò nuovamente Dennis contro la porta. «Non mi hanno sbattuto fuori, mi hanno dovuto licenziare temporaneamente. Lo sai, così come sai che non ho alcun bisogno di sentire le tue stronzate a questo proposito. Hai dei problemi? Benvenuto nel mondo, Dennis. Ma non sognarti di scaricarli su di me. Mangi. Non vai in giro con il culo di fuori. Sei abbastanza grande per capire e io... io non ho... nessun bisogno... delle tue stronzate.» Sottolineò ogni frase portando il ragazzo verso di sé finché i loro nasi quasi si toccarono, e poi sbattendolo nuovamente contro la porta. Non lo faceva con troppa violenza, non al punto di fargli male, ma Dennis era spaventato... suo padre non gli aveva messo le mani addosso da quando si erano trasferiti in Texas... Dennis cominciò a piangere con forti singhiozzi rauchi, liberatori, come un bambino. «Forza, pestami!» gridò a Hal, con il volto contratto e chiazzato. «Dammele se vuoi, tanto lo so quanto fottutamente mi odi!» «Non ti odio, per niente. Ti voglio molto bene, Dennis. Ma sono tuo padre e tu mi devi dimostrare più rispetto, altrimenti te le darò finché non l'avrai capito.» Dennis cercò di sfuggirgli. Hal attirò il ragazzo verso di sé e lo abbracciò. Dennis lottò per un attimo; poi premette il volto contro il petto di Hal e pianse, come fosse stremato. Era il genere di pianto che Hal non aveva più sentito da nessuno dei suoi figli da anni. Chiuse gli occhi, rendendosi conto del fatto che anche lui si sentiva stremato. Terry iniziò a battere dall'altro lato della porta. «Smettila, Hal! Non so che cosa tu gli stia facendo, ma smettila!» «Non lo sto uccidendo» disse Hal. «Vattene, Terry.» «Non...» «Va tutto bene, mamma» disse Dennis, stretto al petto del padre. Terry riuscì a sentire per un attimo il loro silenzio perplesso. Si allontanò. Hal guardò nuovamente suo figlio. «Mi dispiace di averti parlato villanamente, papà» disse Dennis, con riluttanza. «Quando torneremo a casa, la prossima settimana, aspetterò due o tre giorni e poi frugherò in tutti i tuoi cassetti, Dennis. Se c'è dentro qualcosa
che non vuoi che io veda, è meglio che te ne liberi.» Di nuovo quel lampo di colpevolezza. Dennis abbassò lo sguardo e si pulì il moccio con il dorso della mano. «Posso andare, adesso?» Aveva di nuovo un tono imbronciato. «Certo» disse Hal, e lo lasciò libero. Devo portarlo a fare campeggio in primavera, noi due soli. Dovremmo andare un po' a pesca, come zio Will faceva con Bill e me. Devo avvicinarmi a lui. Devo provare. Si sedette sul letto nella stanza vuota e osservò la scimmia. Non riuscirai più a riavvicinarti a lui, Hal, sembrava dire il suo ghigno. Mai più. Mai più. Il semplice fatto di guardare la scimmia lo faceva sentire stanco. La mise da parte e si coprì gli occhi con una mano. Quella sera Hal era in bagno, in piedi, stava lavandosi i denti e pensò: Era nella stessa scatola. Come poteva essere nella stessa scatola? Lo spazzolino da denti gli sfuggì verso l'alto, facendogli male alle gengive. Trasalì. Aveva quattro anni e Bill sei, la prima volta che aveva visto la scimmia. Loro padre, che era scomparso, aveva acquistato un'abitazione a Hartford, ed era stata loro, senza carichi ipotecari, prima che lui morisse o scomparisse, o qualunque cosa fosse successa. La mamma lavorava come segretaria alla Holmes Aircraft, la fabbrica di elicotteri di Westville, e una serie di babysitter veniva a occuparsi dei ragazzi, ma in realtà la babysitter doveva stare attenta soltanto ad Hal, nel corso della giornata... Bill era in prima elementare, era grande, andava a scuola. Nessuna della babysitter rimaneva a lungo. Restavano incinte e sposavano i loro fidanzati, oppure trovavano lavoro alla Holmes, o ancora la signora Shelburn scopriva che avevano bevuto dalla bottiglia dello sherry che usava per cucinare, oppure da quella di brandy che teneva nella credenza per le occasioni speciali. La maggior parte di loro erano ragazze stupide che sembravano volere soltanto mangiare e dormire. Nessuna di loro voleva leggere a Hal come avrebbe fatto sua madre. In quel lungo inverno, la babysitter era una grassa, florida ragazza nera chiamata Beulah. Coccolava Hal quando era presente la madre, e talvolta lo pizzicava quando lei non c'era. Tuttavia Beulah piaceva abbastanza a Hal, perché di tanto in tanto gli leggeva un racconto spaventoso da una delle riviste di confessioni o di delitti realmente accaduti. «Giunse la morte per la rossa voluttuosa» era solita intonare con aria sinistra Beulah, nel
sonnolento silenzio mattutino del soggiorno, e s'ingurgitava un altro barattolo di burro di arachidi Reese's, mentre Hal esaminava solennemente le volgari fotografie dei giornali scandalistici e beveva il latte dalla sua solita tazza. E il fatto che fosse affezionato a Beulah rese anche più drammatico quel che accadde. Trovò la scimmia in una fredda, nuvolosa giornata di marzo, la grandine mista a pioggia batteva sporadicamente sulle finestre e Beulah si era addormentata sul divano, con una copia di My Story aperta a tenda sul suo petto superbo. Così Hal andò nello sgabuzzino posteriore, a curiosare tra le cose di suo padre. Lo sgabuzzino era un luogo destinato a deposito, che seguiva tutta la lunghezza del secondo piano sul lato sinistro: si trattava di uno spazio in più il cui uso non era mai stato ben definito. Si entrava nello sgabuzzino utilizzando una porticina — simile alla porta attraverso la quale Alice penetrò nella tana del coniglio — posta nella stanza dei ragazzi, sul lato destinato a Bill. A entrambi piaceva sgattaiolarci dentro, anche se in inverno ci faceva freddissimo e in estate era talmente caldo che si grondava sudore da tutti i pori. Lungo, stretto e in qualche modo accogliente, lo sgabuzzino era pieno di affascinante ciarpame. Indipendentemente da quante cose si esaminassero, sembrava che non si riuscisse mai a osservare tutto. Lui e Bill avevano trascorso interi pomeriggi del sabato lassù, scambiandosi appena poche parole, prendendo gli oggetti dalle scatole, esaminandoli, girandoli e rivoltandoli più volte in modo che le loro mani potessero assorbire ogni singola realtà, rimettendoli dentro. Ora Hal si chiedeva se lui e Bill non avessero cercato in quel modo... come potevano, di mettersi in contatto con il loro padre, che era svanito. Sapevano poco di lui. Era stato un membro della marina mercantile, con un diploma di navigatore, e là dietro c'erano pile di carte nautiche, alcune contrassegnate con cerchi precisi (e con il forellino della punta che fa da cardine al compasso al centro di ognuno). C'erano venti volumi di una certa Barron's Guide to Navigation. Una serie di binocoli sghembi che davano una strana sensazione di bruciore agli occhi se ci si guardava dentro troppo a lungo. C'erano souvenir per turisti provenienti da una decina di porti di scalo — bambole di gomma vestite da hula hula, una bombetta nera, di cartone, con una fascia strappata che diceva You Pick a Girl and I'll Piccadilly: Trovami una pupa, al resto ci penso io, un globo di vetro con all'interno una piccola Torre Eiffel —; e c'erano anche buste con franco-
bolli stranieri riposti accuratamente nelle scatole, e monete straniere; c'erano campioni di roccia dall'isola di Maui, dell'arcipelago hawaiano, un negro di vetro — pesante e piuttosto sinistro — e buffi dischi in lingue straniere. Quel giorno, con la grandine mista a pioggia che batteva in modo ipnotico giù sul tetto proprio sopra alla sua testa, Hal si fece strada fino all'estremità dello sgabuzzino, spostò uno scatolone e dietro a questo ne vide un altro: si trattava di uno scatolone Ralston-Purina. Un paio di vitrei occhi nocciola guardavano fuori, dalla sommità della scatola. Lo fecero trasalire e per un attimo si ritrasse, con il cuore che gli batteva, come se avesse scoperto un micidiale pigmeo. Poi vide che non si muoveva, notò l'inespressività di quegli occhi di vetro, e si rese conto del fatto che si trattava di un giocattolo di qualche genere. Si avvicinò nuovamente e lo sollevò con cura dalla scatola. Una scimmia: ghignava, con quel suo eterno sorriso tutto denti, nella luce gialla, con i piatti sospesi. Contentissimo, Hal l'aveva rivoltata da tutte le parti, sentendo il fruscio della sua folta pelliccia. Quel suo ghigno buffo gli piaceva. Eppure, non c'era forse stato anche qualcos'altro? Una sensazione di disgusto quasi istintiva, che aveva provato e che se n'era andata quasi prima che ne fosse consapevole? Forse era così, ma con i vecchissimi ricordi, come questo, si doveva stare attenti e non presumere troppo. I vecchi ricordi possono risultare ingannevoli. Eppure... non aveva forse notato quella stessa espressione sul volto di Petey, nella soffitta della casa in cui erano cresciuti? Aveva visto la chiave, posta nella parte inferiore della schiena, e l'aveva girata. Aveva girato con troppa facilità; non si erano uditi gli scatti della molla. Allora era rotta. Rotta, ma sempre bella. La portò fuori per giocarci. «Che cos'hai lì, Hal?» chiese Beulah, risvegliandosi dal sonnellino. «Nulla» disse Hal. «L'ho trovata.» La mise sullo scaffale posto al suo lato della camera da letto. Si trovava sopra agli album da colorare, di Lassie e ghignava con lo sguardo fisso nel vuoto, con i piatti sospesi. Era rotta, ma tuttavia ghignava. Quella notte Hal si svegliò da un brutto sogno, con la vescica colma, e si alzò per andare nel bagno. Bill respirava sotto a un mucchio di coperte, dall'altra parte della stanza. Hal ritornò, e si era quasi addormentato... quando all'improvviso la scimmia iniziò a sbattere insieme i piatti, nell'oscurità.
Jang-jang-jang-jang... Si svegliò completamente, come se gli avessero sbattuto in faccia un asciugamano freddo, bagnato. Il suo cuore vacillò, ebbe un sobbalzo di sorpresa, e gli sfuggì dalla gola un piccolo grido, simile allo squittio di un topo. Fissò la scimmia, con gli occhi spalancati, le labbra tremanti. Jang-jang-jang-jang... Il corpo della scimmia sobbalzava e s'inarcava sullo scaffale. Le sue labbra si aprivano e si chiudevano, si aprivano e si chiudevano, orrendamente gioiose, rivelando grandi denti carnivori. «Basta» sussurrò Hal. Suo fratello si voltò ed emise un unico rumore, piuttosto forte: russava. Tutto il resto era silenzioso... tranne la scimmia. I piatti sbattevano e rumoreggiavano, e avrebbero sicuramente svegliato suo fratello, sua madre, il mondo intero. Avrebbero risvegliato i morti. Jang-jang-jang-jang... Hal si mosse verso la scimmia, con l'intenzione di fermarla in qualche modo, magari mettendo la mano tra i piatti finché non si fosse scaricata (ma non era rotta?). Ma si fermò da sola. I piatti si unirono per un'ultima volta... Jang!... e infine si aprirono lentamente fino a raggiungere la loro posizione originale. L'ottone luccicava nell'ombra. I denti sporchi della scimmia, giallastri, sorridevano sinistramente, con quel loro ghigho inverosimile. L'abitazione era nuovamente silenziosa. Sua madre si voltò nel letto: anche lei russava. Hal si sdraiò e tirò su le coperte. Il cuore gli batteva ancora velocemente. Pensò: Domani la rimetterò nello sgabuzzino. Non la voglio. Ma la mattina seguente si dimenticò completamente di riportare lì la scimmia, perché sua madre non andò a lavorare. Beulah era morta. La mamma non volle dire loro esattamente che cos'era successo. «È stato un incidente, soltanto un terribile incidente» non voleva dire altro. Ma quel pomeriggio Bill acquistò un giornale, mentre tornava a casa da scuola, e introdusse di nascosto in camera loro la pagina quattro, mettendosela sotto alla camicia. DUE PERSONE UCCISE NEL CORSO DI UNA SPARATORIA IN UN APPARTAMENTO, diceva il titolo e lesse in modo esitante l'articolo a Hal, tenendo il segno con il dito, mentre la mamma preparava la cena in cucina. Beulah McCaffery, di 19 anni, e Sally Tremont, di 20, erano state uccise a colpi d'arma da fuoco dal, fidanzato di Miss McCaffery, Leonard White, di 25 anni, in seguito a un litigio riguardante chi avrebbe dovuto uscire per ritirare un'ordinazione di cibo cinese. Miss Tremont è spirata all'Hartford Receiving; Beulah McCaffery è stata dichiarata
morta sul posto. Era come se Beulah fosse semplicemente scomparsa in una delle sue riviste poliziesche, pensò Hal Shelburn, e sentì un brivido freddo corrergli su per la spina dorsale e poi racchiudergli il cuore. Quindi si rese conto del fatto che la sparatoria aveva avuto luogo più o meno alla stessa ora in cui la scimmia... «Hal?» Era la voce di Terry, assonnata. «Vieni a letto?» Sputò il dentifricio nel lavandino e si sciacquò la bocca. «Sì» disse. Prima aveva messo la scimmia in valigia, e l'aveva chiusa a chiave. Nel giro di due o tre giorni sarebbero ritornati in Texas in aereo. Ma prima di partire, si sarebbe liberato una volta per sempre di quella cosa maledetta. In un modo o nell'altro. «Sei stato decisamente duro nei confronti di Dennis, questo pomeriggio» disse Terry; nel buio. «È da un bel po' che Dennis ha bisogno di un discorsetto duro, ma chiaro. Io non so se davvero ha iniziato a lasciarsi andare, so soltanto che non voglio che precipiti.» «Dal punto di vista psicologico, non è molto producente picchiare il ragazzo... «Ma io non l'ho picchiato Terry... per l'amor di Dio! «...per affermare l'autorità paterna... «Oh, non cominciare con queste stronzate dei tuoi gruppi d'incontro» disse Hal, arrabbiato. «È evidente che non vuoi discutere la cosa» disse lei con tono freddo e distaccato. «Gli ho anche detto di fare sparire la droga da casa.» «Sul serio?» Ora aveva in tono apprensivo. «Come l'ha presa? Che cosa ha detto?» «Mio Dio, Terry! Che cosa poteva dire? Sei fuori di testa?» «Che cosa ti succede, Hal? Non sei così, di solito... che cosa c'è che non va?» «Niente» disse lui, pensando alla scimmia chiusa nella sua Samsonite. L'avrebbe sentita se avesse iniziato a sbattere i suoi piatti? Sì, l'avrebbe sentita di sicuro. Il rumore sarebbe stato attenuato, ma udibile. Avrebbe sbattuto i piatti condannando qualcuno, come era successo a Beulah, a Johnny McCabe, alla cagna di zio Will, Daisy. Jang-jang-jang, sei tu, Hal? «Sono solo un po' teso» disse lui alla moglie.
«Spero davvero che sia solo per questo. Perché non mi piaci così.» «No?» E le parole gli sfuggirono prima che potesse fermarle... e non desiderava neppure fermarle. «E allora ingoia qualche pastiglia di Valium e tutto tornerà a sembrarti a posto, va bene?» Sentì Terry respirare profondamente ed espirare tremante. Poi, lei cominciò a piangere. Avrebbe potuto consolarla (forse), ma sembrava che dentro di sé non riuscisse a trovare parole di consolazione. Era troppo terrorizzato. Sarebbe stato meglio quando la scimmia fosse sparita nuovamente, una volta per tutte. Ti prego, Dio, fa che sparisca una volta per tutte. Rimase lì steso, sveglio, finché fuori il mattino non iniziò a ingrigire l'aria. Ma credeva di sapere che cosa fare. La seconda volta era stato Bill a trovare la scimmia. Era circa un anno e mezzo dopo che Beulah McCaffery era morta. Era estate. Hal aveva appena terminato di andare all'asilo. Entrò in casa dopo avere giocato con Stevie Arlingen. Sua madre gli aveva gridato. «Lavati le mani, Hal, sei sporco come un porcello». Era sotto il portico, stava bevendo un tè ghiacciato e leggendo un libro. Era in vacanza; aveva due settimane. Hal si era data una passata simbolica sotto l'acqua fredda e aveva stampato le impronte delle mani sporche sull'asciugamano. «Dov'è Bill?» aveva chiesto. «Di sopra. Digli di mettere in ordine la sua parte di stanza. C'è una confusione spaventosa». Hal, che si divertiva a essere messaggero di notizie così sgradevoli, si era affrettato ad andare di sopra. Bill era seduto per terra. La porticina simile al passaggio che condusse Alice nella tana del coniglio, e che portava nello sgabuzzino posteriore era socchiusa. Aveva in mano la scimmia. «Non funziona» aveva detto immediatamente Hal. «È rotta». Era in uno stato di apprensione, anche se ricordava a malapena di essere uscito dal bagno, quella notte, e di avere sentito la scimmia che iniziava improvvisamente a sbattere i suoi piatti. Circa una settimana dopo, aveva avuto un incubo riguardante la scimmia e Beulah — non riusciva a ricordare esattamente di che cosa si trattasse — e si era svegliato urlando, pensando per un attimo che quella cosa morbida che sentiva premergli il petto fosse la scimmia e credendo che se avesse aperto gli occhi l'avrebbe vista ghignargli in faccia. Ma naturalmente quella morbida pressione derivava
semplicemente dal cuscino, che stringeva stretto, pieno di terrore. Sua madre era accorsa per calmarlo con un bicchiere d'acqua e due gessose aspirine per bambini: quei Valium usati, anche allora, quando i bambini avevano qualche problema. Lei pensava che a provocare l'incubo fosse stata la morte di Beulah. Ed era così, ma non nel modo in cui pensava lei. Ormai ricordava a malapena tutte queste cose, ma la scimmia lo spaventava ancora, e soprattutto i suoi piatti. E i denti. «Lo so» aveva detto Bill gettando da parte la scimmia. «È stupida». Ad Hal non piaceva vederla lì. «Vuoi che andiamo da Teddy e ci prendiamo dei Popsicles?» aveva proposto Bill. «Ho già speso la mia paglietta» aveva risposto Hal. «E poi, la mamma dice che devi mettere in ordine la tua parte della stanza». «Posso farlo più tardi» aveva detto Bill. «E ti presterò un nichel, se vuoi». Bill non si asteneva certo dal fingersi un indiano e dal legare Hal a un palo per bruciarlo, qualche volta; e, di tanto in tanto, gli faceva lo sgambetto, oppure lo prendeva a pugni senza un motivo particolare... ma nella maggior parte dei casi era simpatico. «Certo» aveva detto Hal con gratitudine. «Soltanto, prima rimetto nello sgabuzzino quella scimmia rotta, d'accordo?» «Ma no» aveva risposto Bill, alzandosi. «Andiamo via-via-via». Hal era andato con lui. Bill era di umore volubile, e se si fosse fermato per mettere via la scimmia avrebbe rischiato di perdersi il Popsicle. Andarono a comprarli da Teddy, poi si recarono al campo, dove dei ragazzi stavano facendo le squadre per giocare a baseball. Hal era troppo piccolo per giocare, ma se ne stette seduto all'estremità del campo, dietro la linea del foul, a succhiare il suo Popsicle e a rincorrere le palle che i ragazzi grandi chiamavano tiri cinesi alla casa base. Non tornarono a casa finché non fu quasi buio, e la mamma le diede ad Hal per avere sporcato l'asciugamano e a Bill per non avere messo in ordine la sua parte di stanza; e dopo cena guardarono la TV, e quando ormai erano successe tutte queste cose, Hal si era completamente dimenticato della scimmia. In qualche modo era finita sullo scaffale di Bill, dove se ne stava vicino alla foto con autografo di Bill Boyd. Ed era rimasta lì per quasi due anni. Quando ormai Hal aveva sette anni, le baby sitter erano divenute un lusso, e ogni mattina, prima di uscire, la signora Shelburn diceva ai due ragazzi. «Bill, bada a tuo fratello». Tuttavia quel giorno Bill si era dovuto trattenere dopo la scuola per un incontro degli scouts, e Hal era andato a casa da solo, fermandosi a ogni
angolo finché non aveva visto nessuna macchina provenire da entrambe le direzioni. Aveva attraversato di corsa, con le spalle curve, come un fante che attraversa la terra di nessuno; era entrato in casa utilizzando la chiave nascosta sotto allo zerbino e si era diretto immediatamente al frigorifero per bere un bicchiere di latte. La bottiglia gli era scivoltata tra le dita andando a frantumarsi sul pavimento, mentre le schegge di vetro volavano ovunque... e proprio in quel momento, al piano superiore, la scimmia aveva iniziato a suonare i suoi piatti. Jang-jang-jang-jang... Hal era rimasto lì, immobile, a fissare i vetri rotti e la pozza di latte, pieno di un terrore che non riusciva a definire né a capire. Un terrore che era lì, con lui e che trasudava dai suoi pori. Si era girato ed era corso su in camera loro. La scimmia, dallo scaffale di Bill, sembrava fissarlo. Aveva fatto cadere la fotografia di Bill Boyd a faccia in giù, sul letto di Bill. E sobbalzava e ghignava, e sbatteva insieme i suoi piatti. Hal le si era avvicinato lentamente, senza volere... non poteva starle lontano. I suoi piatti scattavano, dividendosi, poi sbattevano insieme per poi dividersi nuovamente con uno scatto. Mentre si avvicinava, sentiva il meccanismo che funzionava nelle viscere della scimmia. Bruscamente, emettendo un grido di disgusto e di terrore, Hal l'aveva colpita con la mano, facendola cadere dallo scaffale come se si fosse trattato di un grosso scarafaggio ributtante. La scimmia aveva colpito il cuscino di Bill ed era poi rimbalzata per terra, mentre i piatti continuavano a sbattere, jang-jang-jang, mentre le labbra continuarono ad aprirsi ed a chiudersi, mentre lei, la scimmia, se ne stava lì distesa sulla schiena, in una chiazza proiettata dal tardo sole d'aprile. Poi, all'improvviso, Hal si era ricordato di Beulah. Anche quella notte la scimmia aveva sbattuto i suoi piatti. Hal le aveva dato un calcio con una delle sue scarpe Buster Brown, calciato con tutta la sua forza, e questa volta il grido che gli era sfuggito era di rabbia. La scimmia meccanica aveva attraversato il pavimento, era rimbalzata contro la parete e si era immobilizzata. Hal era rimastro a fissarla, con i pugni chiusi, con il cuore che gli batteva. Lei, la maledetta, gli ghignava in faccia sfrontatamente mentre il sole si rifletteva in un puntino luminoso dentro un suo occhio di vetro. Prendimi a calci fin che vuoi, pareva dirgli. Non sono altro che rotelle e parti meccaniche, e un paio di ingranaggi, prendimi a calci fin che ti pare, non sono viva, sono solo una buffa scim-
mia meccanica, e chi è morto? C'è stata un'esplosione alla fabbrica di elicotteri! Che cos'è quella cosa che si sta alzando nel cielo, simile a una palla da bowling sanguinante, che ha degli occhi al posto dei fori per le dita? È la testa di tua madre, Hal? Giù all'angolo di Brook Street! L'auto correva troppo forte! L'autista era ubriaco! C'è un ragazzo in meno, tra gli scouts! Hai sentito lo scricchiolio del cranio spappolato di Bill, mentre le ruote gli passavano sulla testa, e il cervello gli schizzava fuori dalle orecchie? Sì? No? Forse? Non chiedermelo, non lo so, non posso sapere, l'unica cosa che so fare è sbattere insieme questi piatti jang-jang-jang, e chi è morto, Hal? Tua madre? Tuo fratello? O forse tu, Hal? Sei tu? Hal si era diretto nuovamente verso la scimmia, con l'intenzione di pestarla sotto i piedi, di frantumare quel suo corpo disgustoso, di saltarci sopra finché le rotelle e gli ingranaggi non fossero schizzati via e i suoi orribili occhi di vetro non fossero rotolati sul pavimento. Ma proprio mentre stava per raggiungerla, i suoi piatti avevano ripreso a suonare... ancora una volta, molto piano... jang... come se una molla, dentro da qualche parte, si fosse allungata con un piccolo scatto finale... e una scheggia di ghiaccio si era fatta strada in un sussurro attraverso le pareti del suo cuore, trafiggendolo, placando la sua furia e lasciandolo nuovamente sconvolto dal terrore. Sembrava quasi che la scimmia sapesse... come sembrava gioioso quel suo ghigno! Hal l'aveva sollevata, toccandola appena, prendendola per un braccio con il pollice e l'indice della mano destra, la bocca deformata in una smorfia di ribrezzo, come se avesse afferrato un cadavere. La sua pelliccia sintetica, malridotta, sembrava calda e febbricitante a contatto con la sua pelle. Hal aveva aperto a tentoni la porticina che conduceva nello sgabuzzino posteriore e acceso la lampadina. La scimmia ancora gli ghignava in faccia, mentre lui strisciava per tutta la lunghezza della stanza di deposito, tra scatoloni posti uno sopra l'altro, oltrepassando la serie dei libri di nautica e gli album di fotografie con le loro esalazioni di vecchie sostanze chimiche, e i souvenir e gli abiti vecchi. E Hal aveva pensato: Se adesso inizia a sbattere insieme i suoi piatti, e a muoversi tra le mie mani, urlerò, e se urlo non si limiterà a ghignare, imzierà a ridere, a ridere di me, e allora io impazzirò, e mi troveranno qui dentro, con la bava alla bocca, a ridere, pazzo, diventerò pazzo, oh, ti prego Dio mio, ti prego Gesù mio, non fare che io diventi pazzo... Aveva raggiunto l'estremità dello sgabuzzino e afferrato due scatoloni, spostandoli, rovesciando il contenuto di uno di essi. Aveva infilato nuo-
vamente la scimmia nello scatolone di Ralston-Purina, giù nell'angolo estremo. E lei era stesa là dentro, comodamente, come se fosse finalmente tornata a casa, con i piatti sospesi e il suo ghigno scimmiesco. Hal era tornato indietro, sudando, caldo e freddo, tutto fuoco e ghiaccio, in attesa che i piatti iniziassero a sbattere, e quando avrebbero iniziato, la scimmia sarebbe schizzata fuori dallo scatolone correndo come uno scarafaggio verso di lui, con il meccanismo ronzante, i piatti che sbattevano pazzamente, e... ... e non era accaduto nulla del genere. Aveva spento la luce, chiusa la porticina della tana del coniglio di Alice, e ci si era appoggiato contro, ansando. Finalmente aveva cominciato a sentirsi un po' meglio. Era sceso al piano di sotto con le gambe che gli sembravano di gomma, aveva preso un sacchetto vuoto e iniziato a raccogliere con estrema attenzione i frammenti seghettati e le schegge di vetro della bottiglia di latte rotta, chiedendosi se si sarebbe tagliato e se sarebbe morto dissanguato, e se era quello che volevano significare i piatti della scimmia mentre sbattevano. Ma neanche questo era avvenuto. Aveva preso uno straccio e asciugato il latte, e poi si era seduto per aspettare il ritorno di sua madre e di suo fratello. Per prima era arrivata sua madre, che gli aveva chiesto: «Dov'è Bill?». Con voce bassa, monotona, ormai certo che Bill fosse morto, Hal aveva incominciato a raccontarle del raduno degli scouts sapendo che, anche se si fosse trattato di un raduno lunghissimo, Bill avrebbe dovuto essere a casa da mezz'ora almeno. Sua madre l'aveva osservato con curiosità, chiedendosi e chiedendogli che cosa non andasse: poi, si era aperta la porta ed era entrato Bill... solo che non si trattava affatto di Bill, no davvero. Era lo spettro di Bill, pallido e silenzioso. «Che cos'è successo?» aveva esclamato mamma Shelburn. «Bill, che cos'è successo?» Bill era scoppiato a piangere e aveva raccontato la sua storia tra le lacrime. Lui e il suo amico Charlie Silverman stavano tornando a casa insieme dopo il raduno quando era scoppiata un'auto. La macchina aveva abbordato troppo velocemente la curva all'angolo di Brook Street. Charlie era rimasto come bloccato, Bill aveva afferrato la mano di Charlie per dargli uno strattone, ma la mano dell'amico era scivolata e la macchina... Bill aveva preso a singhiozzare disperatamente, in modo forte e isterico, e sua madre l'aveva abbracciato e stretto a sé, cullandolo e Hal, guardando fuori dal portico, aveva visto che c'erano due poliziotti e l'automobile della
polizia che aveva accompagnato a casa Bill era là, vicina al marciapiede. Aveva cominciato a piangere anche lui... ma le sue erano lacrime di sollievo. Adesso toccava a Bill avere gli incubi — sogni in cui Charlie Silverman moriva più e più volte, stroncato nei suoi stivali da cow boy Red Ryder e proiettato sul cofano della vecchia Hudson Hornet al cui volante c'era un guidatore ubriaco. La testa di Charlie Silverman e il parabrezza della Hudson si erano incontrati producendo un rumore esplosivo, e si erano frantumati entrambi. Il guidatore ubriaco, che possedeva un negozio di dolci a Milford, era rimasto vittima di un attacco cardiaco (forse causato dalla vista di brandelli del cervello di Charlie Silverman che si erano seccati sui suoi pantaloni) poco dopo essere stato arrestato, e il suo avvocato al processo aveva ottenuto un grande successo con un'arringa strappalacrime tutta impostata sul «quest'uomo è stato punito abbastanza». All'ubriaco erano stati comminati sessanta giorni (con la condizionale) nonché l'inibizione alla guida nello stato del Connecticut per cinque anni... ovvero più o meno il periodo della durata degli incubi di Bill Shelburn. La scimmia era nuovamente nascosta in fondo allo sgabuzzino. Bill non si era mai accorto della sua scomparsa o, comunque, non aveva mai detto né fatto capire di essersene accorto. Hal per un po' si era sentito sicuro. Era riuscito perfino a dimenticarsi della scimmia, oppure a credere che si era trattato soltanto di un brutto sogno. Ma quando era tornato a casa da scuola quel pomeriggio in cui era morta sua madre, la maledetta scimmia era di nuovo sul suo scaffale, con i piatti sospesi, gli ghignava in faccia. Lui si era avvicinato lentamente, era come fuori di sé... anzi era fuori di sé. Era una cosa meccanica, automatica, che avanzava rigida con le braccia dure, due leve, protese verso la scimmia. Hal vedeva, impassibile, se stesso afferrare la scimmia sopra lo scaffale. Sentiva la pelliccia spelacchiata frusciare sotto la sua mano, ma la sensazione era come attutita, lontana, estranea. I suoi sensi, tutti, erano come obnubilati, anestetizzati, narcotizzati. Avvertiva appena il proprio respiro rapido, rapido e secco, come uno sbattere remoto di vento tra le canne. Aveva voltato la scimmia e afferrato la chiave. Più tardi, anni più tardi avrebbe capito che il suo stato d'incoscienza, di assenza, era per molti versi simile a quello di un uomo che si punta una sei colpi con una pallottola in canna contro una palpebra chiusa e palpitante di nervosismo... e che preme il grilletto.
Non farlo — lasciala stare gettala via non toccarla... Aveva girato la chiave e nel silenzio aveva udito una piccola serie perfetta di scatti. La scimmia si stava caricando. Una volta caricata, la scimmia aveva iniziato a sbattere i piatti, e lui aveva sentito quel suo corpo odioso che si dimenava, si piegava e scattava, si piegava e scattava, come se fosse stato vivo: era vivo, e si dimenava nella sua mano come un disgustoso pigmeo, e la vibrazione che sentiva sotto quella sua pelliccia marrone spelacchiata, non era quella degli ingranaggi in azione, no, era il suo cuore nero e maledetto. Con un lamento Hal aveva lasciato cadere la scimmia e si era ritratto, con le unghie che affondavano nella carne sotto ai suoi occhi, le palme delle mani premute sulla bocca. Era inciampato su qualcosa e aveva rischiato quasi di perdere l'equilibrio — e allora si sarebbe trovato steso per terra con lei, con la scimmia... e i suoi occhi azzurri stralunati sarebbero usciti dalle orbite e avrebbero guardato direttamente in quelli nocciola, vitrei, della bestia. Era schizzato verso la porta, l'aveva varcata all'indietro, appoggiandovisi, l'aveva chiusa sbattendola e ci si era appoggiato contro. Improvvisamente era corso in direzione del bagno e aveva vomitato. Era stato il signor Stukey, della fabbrica di elicotteri, a comunicare loro la notizia della morte della madre; ed era rimasto con loro durante quelle due prime interminatali notti, finché non era arrivata zia Ida dal Maine. La loro mamma era morta di embolia cerebrale a metà pomeriggio. Era in piedi vicino al raffreddatore d'acqua, con un bicchiere d'acqua in una mano, ed era crollata come se le avessero sparato, con in mano ancora il bicchiere di carta. Con l'altra si era aggrappata al raffreddatore tirandosi addosso il grosso contenitore d'acqua Poland. Si era frantumato... Il medico della fabbrica, giunto di corsa, in seguito si era detto convinto che la signora Shelburn fosse morta prima che l'acqua le avesse inzuppato il vestito e la biancheria penetrando nei tessuti fino a bagnarle la pelle. Ai ragazzi non era mai stato detto nulla di tutto questo, ma Hal l'aveva saputo comunque. L'aveva sognato e più volte nelle lunghe notti che erano seguite alla morte di sua madre. «Fai ancora fatica ad addormentati, fratellino?» gli aveva chiesto Bill, e Hal aveva immaginato che Bill fosse convinto che tutta l'agitazione e i suoi brutti sogni fossero dovuti al fatto che la mamma era morta così all'improvviso... e questo era vero, ma soltanto in parte. C'era anche il rimorso, la sicura, assoluta certezza di avere ucciso sua madre caricando la scimmia, in quell'assolato pomeriggio, dopo la scuola.
Quando alla fine Hal si addormentò, cadde in un sonno profondo. Si svegliò a mezzogiorno circa. Petey se ne stava seduto con le gambe incrociate su una sedia, dall'altra parte della stanza, e mangiava metodicamente un'arancia, uno spicchio alla volta, mentre guardava una partita alla TV. Hal fece oscillare le gambe fuori dal letto. Si sentiva come se qualcuno l'avesse addormentato con un pugno... e l'avesse svegliato con un altro pugno. La testa gli pulsava. «Dov'è la mamma, Petey?» Petey si guardò intorno. «Lei e Dennis sono andati a fare spese. Io ho detto che sarei rimasto qui con te. Parli sempre nel sonno, papà?» Hal osservò suo figlio con circospezione. «No, non credo. Che cos'ho detto?» «Hai solo borbottato. Non sono riuscito a capire niente. Mi sono un po' spaventato.» «Beh, eccomi qui, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali» disse Hal, e riuscì perfino a sorridere. Petey gli sorrise di rimando, e Hal provò ancora una volta un amore puro e semplice per il bambino, un'emozione che era luminosa, e forte, e senza complicazioni. Si chiese perché fosse sempre riuscito ad avere una sensazione così positiva nei riguardi di Petey, a sentire che capiva Petey e che lo poteva aiutare; e perché Dennis invece gli fosse sembrato sempre come una finestra troppo oscura per poterci guardare attraverso. Come se ci fosse del mistero nel suo modo di fare e nelle sue abitudini, come se Dennis fosse il tipo di ragazzo che lui non riusciva a capire perché lui, Hal, non era mai stato un ragazzo del genere. Troppo facile dirsi che il trasferimento dalla California aveva cambiato Dennis, o che... I suoi pensieri si raggelarono. La scimmia era lì, seduta sul davanzale, con i piatti sospesi. Hal sentì il cuore che gli si fermava di colpo nel petto e che, improvvisamente, iniziava a galoppare velocemente. La vista gli vacillò, e la testa, che già gli pulsava, iniziò a dolergli ferocemente. Era fuggita dalla valigia e ora si trovava sul davanzale della finestra e gli ghignava in faccia. Pensavi di esserti liberato di me, vero? Ma non è la prima volta che lo credi, non è così? «Si», pensò con un senso di nausea. «Sì, è così». «Petey, sei stato tu a tirare fuori la scimmia dalla mia valigia?» chiese, sapendo già la risposta. Aveva chiuso a chiave la valigia e aveva messo la chiave nella tasca del soprabito. Petey diede un'occhiata alla scimmia, e gli passò sul volto una certa espressione, che ad Hal sembrò come di disagio. «No» disse. «L'ha messa lì
la mamma.» «La mamma?» «Sì. Te l'ha portata via e si è messa a ridere.» «Me l'ha portata via? Ma che cosa stai dicendo?» «Ce l'avevi a letto con te. Io mi stavo lavando i denti, ma Dennis ti ha visto. Si è messo a ridere anche lui. Ha detto che sembravi un bambino con l'orsacchiotto.» Hal fissò la scimmia. Aveva la bocca troppo secca per riuscire a deglutire. Era stata a letto con lui? A letto? Quella ributtante pelliccia contro la guancia, magari a contatto con la bocca, quegli occhi di vetro che fissavano il suo volto dormiente, quei denti ghignanti vicino al collo? Mio Dio! Si volse di scatto e si diresse verso lo stanzino. La Samsonite era lì, chiusa a chiave. E la chiave era ancora nella tasca del suo soprabito. Dietro di lui la TV venne spenta di scatto. Uscì lentamente dallo stanzino. Petey lo stava osservando gravemente. «Papà, non mi piace quella scimmia» disse, a voce talmente bassa che lui quasi non lo sentì. «Neanche a me» disse Hal. Petey lo fissò attentamente, per vedere se stesse scherzando, e capì che il padre non scherzava affatto. Gli corse incontro e lo abbracciò forte. Hal lo sentì tremare. Petey gli parlò all'orecchio molto rapidamente, come se temesse di non avere il coraggio sufficiente per ripeterlo... o che la scimmia potesse sentirlo. «È come se ti guardasse. Come se ti osservasse, non ha importanza in quale parte della stanza ti trovi. E se vai nell'altra stanza, è come se ti osservasse attraverso la parete. Continuavo ad avere questa sensazione... come se volesse farmi fare qualcosa.» Petey rabbrividì. Hal lo strinse forte. «Come se volesse che tu la caricassi» disse Hal. Petey annuì violentemente. «Non è rotta sul serio, vero papà?» «Qualche volta sì» disse Hal, guardando la scimmia da dietro alla spalla di suo figlio. «Ma qualche volta funziona ancora.» «Continuavo a desiderare di andare lì a caricarla. C'era un tale silenzio, e ho pensato: non posso, sveglierà papà eppure continuavo a desiderare di farlo, e sono andato lì e... l'ho toccata e odio la sensazione che mi dà... ma al tempo stesso mi è piaciuta... ed era come se lei mi stesse dicendo: "Caricami, Petey, giochiamo, tuo padre non si sveglierà, non si sveglierà mai più, caricami, caricami..."»
All'improvviso il bambino scoppiò in lacrime dicendo: «È malvagia, lo so. C'è qualcosa di cattivo in lei. Non possiamo buttarla via? papà. Ti prego!» La scimmia sorrideva con il suo eterno ghigno. Hal sentì le lacrime di Petey sospese tra lui e la scimmia. Il tardo sole mattutino luccicava sui piatti d'ottone della bestia... la luce riflessa veniva proiettata verso l'alto e creava delle strisce di luce sul semplice soffitto di stucco bianco del motel. «A che ora pensava di tornare a casa la mamma, Petey?» «Intorno all'una.» Petey si strofinò energicamente gli occhi rossi con la manica della camicia. Sembrava come imbarazzato per avere pianto. Ma non voleva guardare la scimmia. «Ho acceso la TV» sussurrò. «E ho alzato il volume». «Hai fatto bene, Petey». «Mi è venuta un'idea pazzesca» disse Petey, «Mi è venuta l'idea che se avessi caricato quella scimmia, tu... tu saresti morto proprio lì, a letto. Nel sonno. Non ti pare un'idea pazzesca, papà?» La sua voce si era abbassata nuovamente, e tremava, smarrito. Come sarebbe successo? Si chiese Hal. Attacco cardiaco? Un'embolia come mia madre? Che cosa? Ma del resto non ha poi una grande importanza, vero? E subito dietro a questo, un altro pensiero, più freddo: Dice di liberarsene. Di gettarla via. Ma sarà possibile liberarsene? Mai? La scimmia gli ghignava in faccia, beffarda, con i piatti a trenta centimetri di distanza. «Era improvvisamente tornata in vita la notte in cui era morta zia Ida?» si chiese Hal d'un tratto. Era forse stato quello l'ultimo suono che la zia aveva sentito, lo jang-jang-jang soffocato della scimmia che sbatteva insieme i suoi piatti su nella soffitta buia, mentre il vento soffiava nella grondaia?» «Forse non è così pazzesco» disse Hal lentamente, a suo figlio. «Vai a prendere la sua borsa, Petey». Petey lo guardò con aria incerta. «Che cosa faremo? Forse è possibile liberarsene. Forse per sempre; forse soltanto per un po'... un bel po' di tempo o un tempo breve. Forse ritornerà semplicemente, e poi tornerà ancora, e ancora, e non c'è niente da fare... ma forse io... noi... possiamo dirle addio per un bel po' di tempo. Ha impiegato vent'anni per ritornare, questa volta. Ci sono voluti vent'anni perché lei uscisse dal pozzo... «Andiamo a fare un giro in macchina» disse Hal. Si sentiva molto cal-
mo, ma in certa misura provava anche una sensazione di pesantezza e di oppressione. Perfino i suoi globi oculari sembravano essere divenuti troppo pesanti. «Ma prima voglio che tu porti la tua borsa lì, all'estremità del parcheggio, e che trovi tre o quattro pietre belle grosse. Mettile dentro alla borsa e portamele qui. Hai capito?» Gli occhi di Petey ebbero un lampo d'intesa.» Va bene, papà. Hal diede un'occhiata al suo orologio. Erano quasi le 12 e un quarto. «Sbrigati. Voglio partire prima che torni la mamma.» «Dove andiamo?» «Alla casa di zio Will e di zia Ida» disse Hal. «Nel posto in cui ho trascorso la mia giovinezza.» Hal andò in bagno, guardò dietro al water e prese lo spazzolino per la tazza che era appoggiato lì dietro. Lo riportò alla finestra e rimase lì, tenendolo in mano come se si fosse trattato di una bacchetta magica a prezzo ridotto. Guardò fuori, Petey, nel suo giubbino di melton, stava attraversando il parcheggio con la borsa, su cui era scritto a chiare lettere DELTA, in bianco su di uno sfondo azzurro. Una mosca sbatteva disorientata contro uno degli angoli superiori della finestra, era lenta e stupida, perché ormai la stagione calda volgeva al termine. Hal conosceva bene quella sensazione. Osservò Petey raccogliere tre pietre piuttosto grosse e poi attraversare di nuovo il parcheggio. Un'auto girò l'angolo del motel, una macchina che stava andando troppo forte, veramente troppo forte. Senza pensare, muovendosi con il riflesso tipico di un buon interbase che si sposta a destra, la mano di Hal di abbassò in un lampo, come per sferrare un colpo di karate... e si fermò in mezzo ai piatti della scimmia. I piatti si chiusero senza produrre rumore sulla sua mano, intervenuta a bloccarli, e Hal sentì qualcosa nell'aria: qualcosa di simile a un furore represso... a una rabbia maligna compressa, costretta... I freni dell'auto stridettero. Petey balzò indietro. Il guidatore ebbe un gesto di stizza nei suoi confronti, come se quel che era quasi successo fosse colpa di Petey. Petey attraversò di corsa il parcheggio con il bavero svolazzante ed entrò nel motel dal retro. Rivoli di sudore scendevano lungo il petto di Hal; se lo sentiva sulla fronte come una pioggerellina untuosa. I piatti premevano freddi contro la sua mano, intorpidendola. Forza, pensò pieno di rabbia. Forza, posso aspettare tutto il giorno.
Finché non gela l'inferno, se ce ne sarà bisogno. I piatti si aprirono e rimasero fermi. Hal udì un debole click! proveniente dall'interno della scimmia. Ritrasse la mano e la osservò. Sia sul dorso sia sul palmo della sua mano c'erano dei semicerchi grigiastri impressi nella pelle, come se avesse subito un congelamento. La mosca sbatteva e ronzava, nel tentativo di trovare il freddo sole d'ottobre che sembrava così vicino. Petey entrò di slancio, respirando rapidamente, con le guance rosee. «Ne ho prese tre belle grosse, papà, io...» Tacque all'improvviso. «Stai bene, papà?» «Sì, sto bene» disse Hal. «Porta qui la borsa.» Hal agganciò con il piede il tavolo che si trovava vicino al divano, lo trascinò alla finestra in modo che venisse a trovarsi sotto al davanzale, e vi pose sopra la borsa da aereo. Ne allargò l'apertura, come se si fosse trattato delle labbra di una bocca. Vedeva le pietre raccolte da Petey che baluginavano debolmente all'interno. Utilizzò lo spazzolino della tazza del water come un gancio. Con quello afferrò la scimmia e la scaricò dentro la borsa. Ci fu un debole jiing!, prodotto da uno dei piatti che colpì una delle pietre. «Papà? Papà?» Petey sembrava spaventato. Hal si volse per guardarlo. C'era qualcosa di diverso. Era cambiato qualcosa. Di che cosa si trattava? Poi seguì la direzione dello sguardo di Petey, e capì. Il ronzio della mosca era cessato. Giaceva morta sul davanzale. «È stata la scimmia?» sussurrò Petey. «Vieni» disse Hal, chiudendo la cerniera della borsa. «Ti racconterò tutto mentre andiamo alla vecchia casa.» «Come facciamo? La mamma e Dennis hanno preso la macchina.» «Ci penso io» disse Hal, e scompigliò i capelli di Petey. Mostrò all'impiegato che si trovava alla scrivania la sua patente di guida e una banconota da venti dollari. Dopo avere ritirato l'orologio digitale della Texas Instruments di Hal come ulteriore garanzia, l'impiegato gli porse le chiavi della sua macchina — una sgangherata AMC Gremlin. Mentre si dirigevano a est sulla Route 302, verso Casco, Hal iniziò a parlare, dapprima in modo esitante, poi un po' più velocemente. Iniziò raccontando a Petey che suo padre — che era anche suo nonno — probabilmente aveva portato a casa con sé la scimmia dall'Europa, come regalo da dare ai suoi figli. Non si trattava di un giocattolo particolarmente straordinario; non aveva nulla di strano o di prezioso. Probabilmente c'erano centinaia di
scimmie a molla, nel mondo, alcune fatte a Hong Kong, alcune a Taiwan, alcune in Corea. Ma da qualche parte, strada facendo — forse anche nel buio sgabuzzino posteriore dell'abitazione nel Connecticut, dove i due bambini avevano iniziato a crescere — era successo qualcosa alla scimmia. Qualcosa di malvagio, di perverso. «Può darsi» aveva detto Hal a Petey, mentre cercava di forzare la Gremlin dell'impiegato oltre i sessantacinque chilometri all'ora (e intanto, pensava alla borsa con la cerniera chiusa che si trovava sul sedile posteriore, e a Petey che continuava a voltarsi per guardarla) «che una parte del male» forse anche la maggior parte del male «non sia neppure consapevole e sensibile di essere tale. Può darsi che l'essenza del male sia molto simile a una scimmia piena di congegni che si caricano: il meccanismo si mette in moto, i piatti iniziano a sbattere, i denti ghignano, gli stupidi occhi di vetro ridono... o sembrano ridere... qualcuno... qualcosa muore. Chissà?» Raccontò a Petey di come avesse trovato la scimmia, ma si rese conto che stava saltando notevoli pezzi della storia, perché non voleva terrorizzare più di quanto già non lo fosse, il suo ragazzo. Per questo la storia risultò sconnessa, non molto chiara, ma Petey non fece domande. «Forse sta già colmando i vuoti per proprio conto» pensò Hal «prevedendo, come io stesso prevedevo e presentivo, le sciagure a venire, gli incidenti e le disgrazie e le morti sulle quali io ora non mi voglio soffermare per non turbarlo eccessivamente». Zio Will e zia Ida erano stati entrambi presenti al funerale della madre di Hal e di Bill. Poi, zio Will era tornato nel Maine — era il momento del raccolto — e zia Ida era rimasta due settimane con i bambini per sistemare gli affari di sua sorella. Ma più che altro, aveva trascorso quel periodo facendosi conoscere dai ragazzi, ancora così storditi per la morte improvvisa della madre, che vivevano quasi in uno stato di sonnambulismo. Quando non potevano dormire, lei era lì con del latte caldo; quando Hal si svegliava alle tre del mattino con gli incubi (incubi in cui sua madre si avvicinava al raffreddatore d'acqua senza vedere la scimmia che fluttuava e si muoveva a scatti nella sua fresca profondità color zaffiro, ghignando e sbattendo i suoi piatti, lasciandosi alle spalle una scia di bollicine a ogni battuta degli orridi affanni); lei era lì quando Bill ebbe prima un attacco di febbre e poi una congestione di terribili vesciche in bocca, e poi l'orticaria, tre giorni dopo il funerale. Lei era li. Si fece conoscere dai bambini, e prima di recarsi con zia Ida da Hartfort a Portland, a bordo del New England Flyer, sia Bill che Hal erano andati separatamente da lei e avevano pianto sul suo
grembo mentre la zia li stringeva e li cullava, e così si era consolidato il legame esistente tra di loro. Il giorno prima di lasciare per sempre il Connecticut per andare «giù nel Maine» (come si diceva a quei tempi), lo straccivendolo era arrivato con il suo grande, vecchio autocarro rumoroso, e aveva raccolto la grossa pila di roba inutile che Bill e Hal avevano portato fuori sul marciapiede, dal ripostiglio posteriore. Quando tutta la robaccia era stata posta sull'orlo della strada per essere raccolta, la zia Ida aveva chiesto loro di setacciare ancora una volta lo sgabuzzino sul retro, e di portare fuori qualsiasi ricordo o souvenir che desiderassero tenere in particolare modo. «Non abbiamo proprio spazio per tutta quella roba, bambini» aveva detto loro, e Hal supponeva che Bill l'avesse presa alla lettera e avesse rovistato in tutti quegli affascinanti scatoloni che suo padre si era lasciato alle spalle, per un'ultima volta. Hal non si era unito al fratello maggiore. Ad Hal era passata la voglia di rovistare nello sgabuzzino. Un'idea terribile gli era venuta in mente durante quelle due prime settimane di lutto; forse suo padre non era semplicemente scomparso, o scappato via perché aveva avuto una gran voglia di svignarsela e aveva scoperto che il matrimonio non faceva per lui. No. Forse la scimmia l'aveva preso con sé. Quando udì che l'autocarro dello straccivendolo stava avanzando lungo la strada, facendo un gran fracasso, sbuffando e scoppiettando, Hal si era fatto coraggio, aveva afferrato la maledetta scimmia a molla dal suo scaffale... dove era rimasta dal giorno in cui era morta sua madre (non aveva osato toccarla fino a quel momento, neppure per ributtarla nello sgabuzzino), ed era corso di sopra con lei. Né Bill, né zia Ida l'avevano visto. Posato in cima a un barile colmo di souvenir rotti e libri ammuffiti, c'era lo scatolone di cartone Ralston-Purina, pieno di altra robaccia del genere. Hal aveva sbattuto nuovamente la scimmia nella scatola da cui era uscita in origine, sfidandola in modo isterico a iniziare a sbattere i suoi piatti (forza, forza, ti sfido, ti sfido, TI SFIDO), ma la scimmia si era limitata ad aspettare lì, posata all'indietro con indifferenza, come se stesse aspettando l'autobus, ghignando in quel suo modo orribile, saccente. Hal era rimasto lì vicino, un ragazzino in vecchi pantaloni di velluto a coste a Buster Brown consumate, mentre lo straccivendolo, un signore italiano che portava un crocifisso e fischiava tra i denti, iniziava a caricare scatole e barili nel suo vecchio autocarro con le fiancate alte, di legno. Hal l'aveva visto sollevare contemporaneamente il barile e lo scatolone Ralston-Purina che ci stava sopra, in equilibrio; aveva visto la scimmia scom-
parire nelle fauci dell'autocarro; aveva visto lo straccivendolo risalire nella cabina, soffiarsi vigorosamente il naso nel palmo della mano, pulirsela con un ampio fazzoletto rosso, mettere in moto il motocarro con un rombo potente e una puzzolente esplosione di fumo azzurro. E aveva visto il camion che si allontanava. E un gran peso gli si era sollevato dal cuore — aveva sentito veramente che se ne andava. Era saltato due volte su e giù, più in alto che poteva, con le braccia aperte, le palme delle mani rivolte verso l'esterno, e se uno qualunque dei vicini l'avesse visto, avrebbe pensato scuotendo la testa con disappunto: perché quel ragazzo sta saltando di gioia (perché di gioia si trattava... e un salto di gioia non può essere né mascherato né mistificato) quando non è trascorso neppure un mese dalla morte di sua madre? Saltava di gioia perché la scimmia se n'era andata, andata per sempre. Andata per sempre... Ma neanche tre mesi più tardi zia Ida l'aveva mandato su in soffitta a prendere gli scatoloni degli addobbi natalizi, e mentre lui strisciava in giro carponi, cercandoli, impolverandosi le ginocchia dei pantaloni, improvvisamente si era trovato di nuovo faccia a faccia con lei, con la scimmia, e la sua meraviglia e il suo terrore erano stati così enormi, che lui si era dovuto mordere con forza una mano per evitare di gridare... o di svenire sul posto. E lei era lì, che ghignava con il suo sorriso tutto denti, con i piatti sospesi a trenta centimetri di distanza e pronti a sbattere, appoggiata con indifferenza contro l'angolo di uno scatolone di cartone Ralston Purina, come se stesse aspettando l'autobus, come se dicesse: Credevi di esserti liberato di me, vero? Ma non è così facile liberarsi di me, Hal. Tu mi piaci, Hal. Siamo fatti l'una per l'altro, proprio un bambino e la sua scimmietta preferita, una coppia di buoni vecchi amici. E da qualche parte, a sud di qui, c'è uno stupido vecchio straccivendolo italiano che giace in una tinozza con le zampe di leone, con i globi oculari che gli escono dalle orbite e la dentiera che gli è schizzata mezza fuori dalla bocca, dalla sua bocca urlante, uno straccivendolo che puzza come una batteria Exide bruciata. Mi voleva tenere per suo nipote, Hal. Stava facendosi un bel bagno nella sua tinozza. Bello. Caldo. E mi aveva messa su una mensola vicina con il sapone e il rasoio e il suo Burma-Shave, e la radio Philco che stava trasmettendo Boorklyn Dodgers, e io ho iniziato a suonare, a ritmo, e uno dei miei piatti ha colpito quella vecchia radio che è caduta nella tinozza, e sai com'è con la corrente elettrica... non si è mai abbastanza prudenti. Poi, sono tornata da te, Hal; mi sono fatta avanti di notte, lungo strade di campagna, e alle tre del mattino la luce lunare si rifletteva sui
miei denti, e seminavo la morte al mio passaggio, Hal, sono venuta da te, sono il tuo regalo di Natale, Hal, caricami, chi è morto? È Bill? È zio Will? Sei tu, Hal? Sei tu? Hal si era ritratto, facendo smorfie orribili, roteando gli occhi, ed era quasi caduto scendendo le scale. Aveva detto a zia Ida che non era riuscito a trovare gli addobbi natalizi — era la prima bugia che le diceva, e lei aveva letto la bugia sul suo volto ma non gli aveva chiesto perché l'avesse detta, grazie a Dio — e più tardi quando Bill era entrato, lei gli aveva chiesto di andare a vedere, e lui aveva portato giù gli addobbi di Natale. Più tardi, mentre erano soli, Bill gli aveva detto che era uno sciocco, uno sciocco che non riusciva a trovarsi il culo neanche con le sue mani e con una torcia elettrica. Hal aveva taciuto; pallido e silenzioso, aveva toccato appena la cena. E quella notte aveva sognato nuovamente la scimmia e uno dei suoi piatti che colpiva la radio Philco, mentre trasmetteva confusamente la voce di Dean Martin che cantava Whenna da moon hitta you eye like a big pizza pie ats-a moray, e la radio che precipitava nella tinozza mentre la scimmia ghignava e sbatteva i malefici ottoni con uno JIANG e uno JANG. E mentre la scarica, friggendo, uccideva, non c'era lo straccivendolo italiano nella tinozza. C'era lui. Hal Shelburn. Hal e Petey scesero ruzzolando giù per il terrapieno dietro la vecchia casa, fino alla rimessa per la barca che si protendeva sull'acqua reggendosi su vecchie palafitte. Hal teneva la borsa nella mano destra. Aveva la gola secca, le orecchie erano sintonizzate a un livello di suono molto intenso, per nulla naturale. La borsa sembrava pesantissima. «Che cosa c'è laggiù, papà?» chiese Petey. Hal non rispose. Posò la borsa da aereo. «Non toccarla» disse, e Petey si ritrasse. Hal si palpò le tasche cercando l'anello delle chiavi che Bill gli aveva dato, e ne trovò una che recava la scritta BARCA accuratamente etichettata su di un pezzo di nastro adesivo. La giornata era chiara e fresca, ventosa; il cielo era di un azzurro brillante. Le foglie degli alberi raggruppati fin sull'orlo del lago presentavano tutte le sfumature autunnali, dal rosso sangue al giallo oro. Crepitavano e parlavano nel vento. Foglie turbinavano intorno alle scarpe da tennis di Petey, che se ne stava lì con aria ansiosa, e Hal sentì il profumo di novembre nel vento, e quello dell'inverno che premeva a poca distanza. La chiave girò nel lucchetto. Tirò a sé le porte oscillanti, aprendole. Aveva dei ricordi molto intensi; non dovette neppure guardare per spostare
con un calcio il blocco di legno che teneva aperta la porta. Lì dentro l'odore era soltanto quello dell'estate: tela e legno lucente, un calore persistente, stantio. La barca di zio Will era ancora lì, con i remi accuratamente disarmati, come se l'avesse caricata il pomeriggio precedente con la sua attrezzatura da pesca e due cartoni da sei di Black Label ghiacciata. Bill e Hal erano usciti a pesca con zio Will molte volte, ma mai insieme; zio Will sosteneva che la barca fosse troppo piccola per tre. Però la vernice rossa, che zio Will rinfrescava ogni primavera, ora era sbiadita e si stava scrostando, e i ragni avevano tessuto la loro tela sulla prua della barca. Hal afferrò lo scafo e lo trascinò giù dalla rampa, fino alla spiaggetta di ciottoli. Le gite di pesca erano ancora uno dei ricordi migliori della sua fanciullezza con zio Will e zia Ida. Aveva la sensazione che fosse così anche per Bill. Normalmente zio Will era il più taciturno degli uomini, ma quando aveva sistemata la barca come piaceva a lui, più o meno a cinquanta o sessanta metri al largo, con le lenze preparate e i galleggianti sospesi nell'acqua, era solito aprire una birra per sé e una per Hal (che raramente beveva più della metà della lattina... sempre con la raccomandazione di rito da parte dello zio, che la zia Ida non lo venisse a sapere perché «mi sparerebbe come sparerebbe a un delinquente se scoprisse che vi ho dato da bere della birra, lo sapete»), e diventava malleabile ed espansivo. Raccontava storie, rispondeva alle domande, rimetteva l'esca sull'amo di Hal quand'era necessario; e la barca si spostava dove il vento e la leggera corrente volevano che andasse. «Com'è che non vai direttamente nel mezzo, zio Will?» aveva chiesto Hal una volta. «Guarda lì, oltre il fianco, Hal» aveva risposto zio Will. Hal aveva guardato e aveva visto l'acqua azzurra e la sua lenza che scendeva nell'oscurità. «Stai osservando la parte più profonda di Crystal Lake» aveva detto zio Will, schiacciando in una mano la lattina di birra vuota e prendendone una piena con l'altra. «Saranno trenta metri, ci scommetterei. La vecchia Studebaker di Amos Culligan è laggiù da qualche parte. Quel maledetto scemo l'ha portata fuori sul lago un giorno all'inizio di dicembre, prima che ghiacciasse per bene. È stato fortunato a uscirne fuori vivo, te lo dico io. Non tireranno mai fuori quella Studebaker, nessuno più la rivedrà finché non suoneranno le trombe del Giorno del Giudizio. Proprio in questo punto il lago è un profondissimo figlio di puttana, proprio così. I pesci più grossi
sono proprio qui, Hal. Non c'è bisogno di andare oltre. Vediamo come va il tuo verme. Avvolgi la lenza e tira su quel figlio di una bottatrice!» Hal l'aveva fatto, e zio Will aveva infilato sul suo amo un nuovo verme, preso dalla vecchia lattina di Crisco che fungeva da barattolo per le esche. Hal aveva fissato l'acqua, affascinato, cercando di scorgere la vecchia Studebaker di Amos Culligan, tutta arrugginita e piena di alghe. Alghe che fluttuavano fuori dal finestrino laterale aperto, quello del guidatore, lo stesso attraverso il quale Amos si era salvato proprio per un pelo; alghe che ornavano il timone come una collana di marciume; alghe che pendevano dallo specchio retrovisore e che ondeggiavano avanti e indietro seguendo le correnti; alghe come strani rosari. Ma riusciva a vedere soltanto l'azzurro che sfumava nel nero, e c'era la sagoma del lombrico dello zio Will, con l'amo celato all'interno dei suoi anelli, lì appeso nel bel mezzo delle cose, con la sua personale e verminosa versione della realtà, personale e verminosa ancorché addolcita dai raggi del sole. Hal aveva avuto una breve, vertiginosa visione, in cui gli era sembrato d'essere sospeso su di un immenso abisso, e allora aveva chiuso gli occhi per un attimo finché non gli era passato quel senso di stordimento. Quel giorno, gli pareva di ricordare, aveva bevuto tutta la lattina di birra. ...la parte più profonda del lago di Crystal Lake... una trentina di metri, ci scommetterei. Si fermò un attimo, ansante, e sollevò lo sguardo su Petey, che lo stava ancora guardando ansiosamente. «Vuoi che ti aiuti, papà?» «Tra un attimo.» Aveva ripreso fiato, e ora trascinava la barca a remi lungo la stretta striscia di sabbia, fino in acqua, lasciando un solco dietro di sé. La vernice si era scrostata, ma la barca era stata tenuta al riparo e sembrava solida. Quando lui e zio Will andavano fuori, zio Will era solito tirare la barca giù dalla rampa e quando la prua era in acqua, vi saliva dentro, afferrava un remo e diceva: «Dammi una spinta, Hal... è qui che ti guadagni il pane». Petey non sorrise. «Vengo anch'io, papà?» «Questa volta no. Un'altra volta ti porterò fuori a pesca, ma... questa volta no.» Petey esitò. Il vento gli scompigliava i capelli castani e alcune foglie gialle, secche e grinzose, ondeggiarono dietro alle sue spalle e si posarono sul bordo dell'acqua, galleggiando anch'esse, come barche.
«Avresti dovuto rivestirli» disse piano Petey. «Che cosa?» chiese Hal... ma pensò di avere capito a che cosa alludesse il figlio. «Mettere del cotone intorno ai piatti. Fermandolo con del nastro adesivo. In modo che non potessero...» Improvvisamente Hal ricordò come Daisy, la cagna, fosse venuta verso di lui — non camminando, ma barcollando — e come, all'improvviso, fosse sprizzato sangue da entrambi gli occhi di Daisy, e come quel flusso le avesse inzuppato il collare, per poi gocciolare sul pavimento del granaio e come era crollata sulle zampe anteriori... e nell'immobile, piovosa aria primaverile di quel giorno, aveva udito il suono, non attenuato, ma stranamente chiaro, proveniente dalla soffitta della casa, a quindici metri di distanza: Jang-jang-jang-jang! Aveva preso a gridare in modo isterico, lasciando cadere il fascio di legna che aveva raccolto per il fuoco. Era corso in cucina per chiamare zio Will, che stava mangiando uova strapazzate e pane tostato, e che non si era ancora tirato le bretelle sulle spalle. «Era una vecchia cagna, Hal» aveva detto zio Will, con il volto disfatto e infelice — anche lui sembrava vecchio. «Aveva dodici anni, e a quell'età un cane è vecchio. Non devi disperarti, adesso... la vecchia Daisy non avrebbe voluto». Vecchia, aveva ripetuto il veterinario, ma era rimasto ugualmente turbato, perché i cani non muoiono di emorragia cerebrale esplosiva, neppure a dodici anni... «come se qualcuno le avesse infilato un petardo in testa». Hal di nascosto aveva sentito il veterinario dire questa frase a zio Will, allo zio Will che stava scavando una fossa dietro il granaio, non lontano dal luogo in cui aveva sepolto la madre di Daisy, nel 1950. «Non ho mai visto niente del genere, Will» — aveva detto ancora il veterinario. E più tardi, quasi pazzo dal terrore, ma incapace di farne a meno, Hal si era arrampicato fino in soffitta. Ciao, Hal, come va? aveva ghignato la scimmia dal suo angolo in ombra. I piatti erano sospesi, più o meno a trenta centimetri di distanza. Il cuscino del divano che Hal aveva sistemato tra di loro, ora si trovava dalla parte opposta della soffitta. Qualcosa — una qualche forza — l'aveva scaraventato con tale violenza da strapparne la fodera, e l'imbottitura era fuoriuscita. Non preoccuparti per Daisy, gli aveva sussurrato nel cervello la scimmia, con gli occhi vitrei, color nocciola, fissi in quelli spalancati, azzurri, di Hal Shelburn. Non preoccuparti per Daisy, era vecchia, vecchia,
Hal, l'ha detto anche il veterinario, e a proposito, hai visto il sangue che le usciva dagli occhi, Hal? Caricami, Hal. Caricami, giochiamo, e chi è morto, Hal? Sei tu? E quando era tornato in sé, si era accorto di avere strisciato verso la scimmia come se fosse stato ipnotizzato. E che la sua mano era tesa, per afferrare la chiave. Allora si era ritratto in fretta e furia, ed era quasi caduto dalle scale della soffitta per fretta... e probabilmente sarebbe successo, se la tromba delle scale non fosse stata tanto stretta. Dalla gola gli era sfuggito un piccolo suono, simile a un gemito. Ora — seduto nella barca — guardò Petey. «Imbottire i piatti non serve a nulla» disse. «Una volta ci ho provato.» Petey lanciò uno sguardo nervoso alla borsa. «Che cos'è successo, papà?» «Niente di cui sia opportuno parlare adesso, e niente comunque che sia opportuno raccontarti. Vieni a darmi una spinta» disse Hal. Petey si piegò, e la poppa della barca strisciò sulla sabbia. Hal spinse con il remo e all'improvviso quella sensazione di essere legato alla terra scomparve; la barca si mosse lievemente, ancora una volta padrone di se stessa, dopo anni trascorsi nella buia darsena, e oscillò lieve sulle onde leggere. Hal disarmò i remi uno alla volta e chiuse gli scalmi con uno scatto. «Stai attento, papà» disse Petey, pallido in volto. «Non ci metterò molto» promise Hal, ma guardò la borsa e si chiese se veramente sarebbe stato così. Iniziò a remare, piegandosi nel movimento. Il vecchio, familiare dolore alla parte inferiore della schiena e tra le scapole ebbe inizio. La riva si allontanava. Petey, magicamente, aveva di nuovo otto anni, poi sei, poi divenne un bambino di quattro anni fermo sull'orlo dell'acqua. Si schermava gli occhi con una manina piccina piccina. Hal lanciò un'occhiata indifferente alla riva, ma non consentì a se stesso d'indugiare per studiarla. Erano trascorsi quasi undici anni, e se avesse esaminato attentamente la linea costiera, avrebbe visto i cambiamenti piuttosto che le similitudini, e si sarebbe sentito perduto. Il sole gli batteva sul collo e iniziò a sudare. Guardò la borsa e per un attimo perse il ritmo dei colpi di remo. La borsa da aereo sembrava... sembrava gonfiarsi. Iniziò a remare più velocemente. Il vento soffiava a raffiche, asciugandogli il sudore e rinfrescandogli la pelle. La barca si alzò e la prua colpì l'acqua con un rumore secco da en-
trambi i lati, quando ricadde. Era una sua impressione o il vento si era fatto più fresco negli ultimi minuti? E Petey, stava forse gridando qualcosa? Sì. Hal non riuscì a capire che cosa suo figlio stesse dicendo, a causa del vento. Non importava. Liberarsi della scimmia per altri vent'anni, o magari per sempre ...ti prego, Dio, per sempre!, questo era importante. La barca si sollevò e ricadde. Diede un'occhiata a sinistra e vide delle onde con la cresta spumeggiante. Guardò nuovamente verso la riva e vide Hunter's Point e un relitto ...probabilmente si trattava della vecchia barca di Burdon che era affondata quando lui e Bill erano bambini. Era quasi arrivato, allora. Quello era il posto in cui la Studebaker di Amos Culligan era affondata in un dicembre di tanti anni prima. Quello era il punto più profondo del lago... o quasi. Petey stava gridando qualcosa, gridava e indicava. Hal non riusciva ancora a sentire. La barca a remi oscillava e sobbalzava, sollevando piccoli spruzzi da entrambi i lati della sua prua scrostata. In uno degli spruzzi brillò un piccolo arcobaleno, che subito si frantumò. La luce del sole e l'ombra gareggiavano rapidamente attraverso il lago, proiettando le loro strisce e le onde ora erano più mosse: le creste spumeggianti erano cresciute. Il sudore si era asciugato e Hal aveva la pelle d'oca. Gli spruzzi gli avevano inzuppato la schiena della giacca. Remava a testa bassa, cupo, osservando alternativamente con gli occhi la linea costiera e la borsa. La barca si sollevò di nuovo, questa volta talmente in alto che per un attimo il remo sinistro fendette l'aria invece dell'acqua. Petey stava indicando il cielo con il dito, ormai le sue grida erano soltanto una debole, squillante scia di suono. Hal si guardò dietro le spalle. Sul lago impazzavano le onde. Aveva assunto una sfumatura blu, su cui sembravano spiccare delle cuciture bianche. Un'ombra attraversò rapidamente l'acqua in direzione della barca, e c'era qualcosa di familiare nella sua forma, di così terribilmente familiare, che Hal sollevò lo sguardo e senti che stava per urlare... sentì che il grido lottava per uscire dalla sua gola serrata. Il sole era dietro alla nuvola, la stava trasformando in una forma curva, in movimento, con due mezze lune bordate d'oro, tenute a una certa distanza l'una dall'altra. Un'estremità della nuvola era squarciata in due fori, e la luce del sole vi filtrava attraverso, in due raggi. Mentre la nuvola passava sopra alla barca, i piatti della scimmia, a malapena attutiti dalla borsa, iniziarono a sbattere. Jang-jang-jang-jang, sei
tu. Hal, sei proprio tu e sei sulla parte più fonda del lago e ti tocca andare sempre più giù, in fondo, più giù, in fondo, più giù... Tutti gli elementi di riferimento della linea costiera erano scattati al loro posto. Lo scheletro marcito della Studebaker di Amos Culligan giaceva lì sotto, da qualche parte... «è qui che ci sono i pesci più grossi». Era quello il luogo. Hal disarmò i remi negli scalmi con un rapido scatto. Si sporse in avanti incurante del fatto che la barca stesse oscillando in modo folle, e afferrò la borsa. I piatti suonavano la loro selvaggia musica pagana; i lati della borsa vibravano come se fossero stati sottoposti a una tenebrosa respirazione. «Proprio qui, figlia di puttana!» gridò Hal. «PROPRIO QUI!» Gettò fuori bordo la borsa. Affondò velocemente. Per un attimo la vide scendere, con i lati che si muovevano, e durante quell'interminabile momento riuscì ancora a sentire i piatti che battevano. E per un istante l'acqua scura sembrò schiarirsi e lui poté vedere giù, in quel terribile abisso d'acqua dove c'erano «i pesci più grossi». E vide la Studebaker di Amos Culligan, e la madre di Hal era dietro al suo viscido timone, uno scheletro dal largo sorriso come quello di una spigola di lago che fissava freddamente dalla cavità nasale del teschio. Zio Will e zia Ida si allungavano accanto a lei, e i capelli grigi di zia Ida ondeggiavano verso l'alto mentre la borsa cadeva, capovolgendosi più e più volte, con qualche bollicina argentea che risaliva in superficie: jangjang-jang-jang. Hal sbatté nuovamente i remi in acqua, graffiandosi a sangue le nocche ...e, oh Dio la parte posteriore della Studebaker di Amos Culligan era piena di bambini morti! Charlie Silverman... Johnny McCabe...; e iniziò a invertire la rotta della barca. Tra i suoi piedi udì uno schianto, simile a un colpo di pistola. All'improvviso tra due tavole iniziò a zampillare acqua chiara. La barca era vecchia; indubbiamente il legno si era un po' ritirato; si trattava soltanto di una piccola falla. Ma non c'era quando aveva iniziato a remare. Ci avrebbe giurato. Ora l'immagine della riva e quella del lago si erano invertite. Ora Petey era alle sue spalle. In cielo quell'orribile nuvola scimmiesca stava sfaldandosi. Hal iniziò a remare. Venti secondi furono sufficienti per convincerlo che stava remando per salvarsi la vita. Era un nuotatore mediocre, e perfino uno bravo sarebbe stato messo a dura prova tra quelle onde improvvi-
samente ostili e feroci. D'un tratto altre due assi si aprirono producendo quel rumore simile a uno sparo. Altra acqua s'infiltrò nella barca, bagnandogli le scarpe. C'erano piccoli rumori metallici, dei colpi secchi, e si rese conto che si trattava di chiodi che stavano cedendo. Uno dei bloccaremo si spezzò improvvisamente e volò in acqua... Quando sarebbe venuto il turno dello scalmo? Ora il vento proveniva da dietro, come se stesse cercando di rallentarlo oppure di spingerlo nel mezzo del lago. Era terrorizzato, ma nel bel mezzo del terrore provava una specie di folle allegria. La scimmia se n'era andata per sempre, questa volta. In qualche modo lo sapeva. Indipendentemente da quello che gli sarebbe successo, la scimmia non sarebbe ritornata a gettare un'ombra sulla vita di Dennis o di Petey. La scimmia era sparita, forse si era posata sul tetto o sulla tuga della Studebaker di Amos Culligan, nel fondo di Crystal Lake. Era sparita una volta per tutte. Remava, piegandosi in avanti e oscillando indietro. Sentì nuovamente il rumore di qualcosa che si spezzava, che si sventrava, e ora la vecchia lattina arrugginita per le esche galleggiava in quasi dieci centimetri d'acqua. Hal era ormai fradicio per gli spruzzi. Ci fu un rumore più forte: il sedile di prua si ruppe in due e iniziò a galleggiare vicino al barattolo delle esche. Una tavola saltò via dal lato sinistro della barca, e poi un'altra, questa in corrispondenza della linea di galleggiamento, si strappò sul lato destro. Hal remava. Il fiato gli grattava la bocca, che era secca e che gli ardeva, e la gola gli sì gonfiava con il gusto ramato della spossatezza. Aveva i capelli sudati e svolazzanti. Improvvisamente si creò una fenditura che attraversò direttamente il fondo della barca a remi. Zigzagò tra i suoi piedi e proseguì su per la prua. L'acqua entrò a fiotti. Hal era immerso nell'acqua fin sopra alle caviglie, poi fino al rigonfiamento del polpaccio. Remava, ma ormai la barca arrancava lèntamente verso la riva come se si fosse impantanata nel fango. Non osò guardare dietro di sé per vedere quanto fosse vicina... o lontana la salvezza. Un'altra tavola cedette. La fenditura che attraversava il centro della barca produsse dei rami, come se fosse un albero. L'acqua affluì copiosamente all'interno. Hal prese a remare parossisticamente, respirando forte, affannosamente. Voga, tira, voga, tira... entrambi gli scalmi saltarono via. Perse un remo. Tenne duro per non lasciarsi scappare l'altro. Si alzò in piedi e cercò di remare con quello. La barca ondeggiò, quasi si capovolse e lo rovesciò al-
l'indietro sul sedile, con un tonfo. Qualche attimo dopo altre tavole si strapparono, il sedile crollò e lui si trovò disteso nell'acqua che riempiva il fondo della barca, sbalordito per quanto era fredda. Cercò di mettersi in ginocchio, pensando disperatamente: Petey non deve assistere a una cosa simile, non deve vedere suo padre annegare proprio davanti ai suoi occhi, devi nuotare, magari annaspando come un cane se necessario, ma fallo, fai qualcosa... Un'altra fenditura si aprì con gran fragore — fu quasi uno schianto — e si trovò in acqua, nuotando verso riva come non aveva mai nuotato in vita sua... e la riva era sorprendentemente vicina. Un attimo più tardi era in piedi nell'acqua, che gli arrivava alla vita, a neppure cinque metri di distanza dalla spiaggia. Petey corse verso di lui sguazzando, con le braccia protese, gridando, piangendo e ridendo. Hal si diresse verso il figlio arrancando nell'acqua. Petey, con le onde che gli arrivavano al petto, inciampò. Si abbracciarono. Hal, nonostante respirasse affannosamente e fosse sfiatato, sollevò ugualmente il ragazzo tra le braccia e lo portò sulla spiaggia dove si distesero entrambi, ansando. «Papà? È scomparsa definitivamente, quella scimmia?» «Sì. Credo proprio che sia sparita per sempre.» «La barca è andata in pezzi. È proprio... andata in pezzi intorno a te.» Disintegrata, pensò Hal, e guardò le tavole che galleggiavano sciolte sull'acqua una decina di metri più in là. Non avevano nulla in comune con la solida barca a remi costruita a mano che aveva tirato fuori dalla rimessa. «Ora va tutto bene» disse Hal, appoggiandosi all'indietro sui gomiti. Chiuse gli occhi e lasciò che il sole gli scaldasse il volto. «Hai visto la nuvola?» sussurrò Petey. «Sì. Ma ora non la vedo più... e tu?» Guardarono il cielo. C'erano degli sbuffi bianchi sparsi qua e là, ma non c'era nessun nuvolone scuro con sembianze scimmiesche. Era sparita, ecco tutto. Hal fece alzare in piedi Petey. «Ci saranno degli asciugamani, in casa. Andiamo.» Ma esitò un attimo, per guardare suo figlio. «Sei stato imprudente a correre nell'acqua in quel modo.» Petey lo guardò solennemente. «E tu sei stato coraggioso, papà.» «Sul serio?» Il pensiero del coraggio non gli aveva neppure attraversato la mente. Aveva pensato soltanto alla propria paura. La paura era stata
troppa e troppo grande per consentirgli di vedere qualcos'altro: ammesso che davvero ci fosse stato qualcos'altro. «Andiamo, Petey.» «Che cosa diremo a mamma?» Hal sorrise. «Non lo so, ragazzo mio. Penseremo a qualche cosa.» Indugiò ancora un attimo, per guardare le tavole che galleggiavano sull'acqua. Il lago era nuovamente calmo, pieno di piccole onde luccicanti. Improvvisamente Hal pensò a dei villeggianti estivi che non conosceva neppure... un padre e un figlio, magari che pescavano sperando di prendere un grosso pesce. Ho preso qualcosa, papà! grida il ragazzo. Bene, tiralo su e vediamo, dice il padre, ed ecco uscire dalla profondità dell'acqua, con alghe che penzolano dai suoi piatti, sorridente, con il suo terribile ghigno di benvenuto... la scimmia. Rabbrividì: certo, forse sarebbe potuto accadere, ma forse no. «Vieni» disse nuovamente a Petey, e si diressero su per il sentiero attraverso i boschi fiammeggianti nell'autunno, verso la casa della sua infanzia. Dal Bridgton News 24 ottobre, 1980 IL MISTERO DEI PESCI MORTI di Betsy Moriarty CENTINAIA di pesci morti sono stati ritrovati a Crystal Lake, nel vicino distretto di Casco, verso la fine della settimana scorsa. L'improvvisa e inspiegabile moria si è verificata in prossimità di Hunter's Point; ma le correnti del lago in quella zona sono tali che è piuttosto difficile determinare la causa di un simile fenomeno. I pesci morti comprendevano tutti i tipi che si trovano comunemente in queste acque: lepomidi, lucci, pesci luna, carpe, trote brune e trote arcobaleno, perfino un salmone. Le autorità preposte alla pesca e alla caccia in questi luoghi si dicono sconcertate, e mettono in guardia i pescatori e gli abitanti della zona affinché non mangino nessun tipo di pesce proveniente da Crystal Lake fino a quando gli esami non avranno stabilito... Titolo originale: The Monkey Traduzione: Nicoletta Spagnoli
Michael Bishop Dentro le mura di Tiro Michael Bishop è uno dei più importanti scrittori contemporanei di fantascienza. Di tanto in tanto, si avventura nell'horror con un successo tale che la Arkham House ha pubblicato una collezione delle sue dark fantasy One Winter in Eden (1983) Dentro le mura di Tiro è tra i pezzi più forti e di maggiore effetto, con echi di William Faulkner e Flannery O'Connor che puntellano una ironica Christmas ghost story senza il fantasma... forse. La tradizione gotica del sud sottolinea questo inquietante ambiente di città contemporaneo nel quale Marilyn Odau mantiene l'illusione del controllo psicologico. L'abilità di Bishop di esaminare il personaggio e il suo squisito controllo dell'immagine e del particolare fa di questo piccolo lavoro di horror un significativo contributo al filone. Mentre immetteva la sua Nova sulla capeggiata di accesso alla tangenziale, Marilyn Odau rifletté che per lei il periodo più duro dell'anno era proprio quello di Natale. Dalla fine di novembre agli inizi di gennaio i suoi nervi erano costantemente tesi come corde di violino. Per di più, il traffico sulla superstrada non aiutava: furgoni che cambiavano carreggiata, camioncini, lucide macchine sportive, semirimorchi e tutti gli altri confusi e indistinguibili. Anche se si vedeva le mani sul volante tremanti dentro i guanti di pelle beige, non sembrava che fosse lei ad avere il controllo della Nova; la quale pareva invece un automa che ricevesse forza e direzione da un'invisibile fessura nel cemento sotto di lei. La sua illusione di essere al controllo era esattamente... un'illusione. Lanciando un'occhiata veloce al di sopra della spalla, Marilyn Odau fu costretta a ridere tra sé mentre sterzava per evitare un giovane barbuto su una motocicletta. «Se sono io a controllare l'auto, perché è così maledettamente difficile sterzare?» pensò. I nervi, i nervi tesi del periodo natalizio. Marilyn Odau aveva cinquantacinque anni; viveva in quella città... la sua città... da quando aveva lasciato Greenville all'inizio della Seconda Guerra Mondiale per iniziare la sua vita e lavorare come commessa da Satterwhite's. Dieci minuti prima, per raggiungere la tangenziale, aveva attraversato il cuore della città ed era passata sotto la facciata posteriore del grande edificio grigio Satterwhite (che ora era un deposito temporaneo di una ditta di elettronica situata in un complesso industriale in periferia). Come il cuore
della città stessa, Satterwhite's era morto... le sue grandi scale mobili color argento, i tubi per la posta pneumatica, i toni dei campanelli dell'ascensore e gli ammezzati profumati come lo sono soltanto le cose del passato come... be', come Tojo, Tarawa Atoll e un giovane marine di nome Jordan Burck. Ecco perché, soprattutto in quel periodo dell'anno, Marilyn non si soffermava mai di fronte al vecchio grande magazzino davanti al quale passava per recarsi a Summerstone. Era da due anni direttrice della Creighton's Corner Boutique a Summerstone Mail, il più grande centro commerciale indipendente di un'area metropolitana che comprendeva cinque contee. Gli affali si erano spostati costantemente, da più di un decennio, dal centro alla periferia e persino ai centri commerciali semirurali. E quando si era aperta per lei una posizione nella nuova mecca a tre piani dal nome incredibile di Summerstone, anche Marylin si era trasferita, lasciando il marchio originale Creighton's di Capitol Square per un negozio al secondo piano in un monolito di un acro quadrato sedici miglia a nordovest della città... una costruzione che somigliava più a un hangar per navicelle spaziali che a un centro commerciale. Presto, pensò, avrebbe anche dovuto cambiare casa. In fin dei conti, c'erano case in città più vicine a Summerstone, con nomi altrettanto pseudoeleganti come Brookmist, dove viveva ora: Chateau Royale, Springhaven, Tivoli, Smoke Giade, Eden Manor, Sussex Wood... «Ecco» si disse, guardando di traverso il Matterhorn Heights annidato sotto la superstrada, a sinistra, con gli chalet, a forma di scatole di cartone, distorti da un teepee di lucenti lastre di vetro per finestre sistemate su un camion che la stava incrociando.. Vivere a Mattherhorn Heights significava accorciare di un quarto d'ora la strada per andare al lavoro, ma significava anche un calo di gusto più vistoso rispetto al Brookmist. C'erano diversi gradi di artificialità, lei lo sapeva, e ogni persona si trovava il proprio... Sopra di lei, un segnale stradale verde e bianco indicava l'uscita di Willowglen e Summerstone. Sorpresa come sempre dalla sua improvvisa apparizione, diresse la Nova verso lo svincolo e udì alle sue spalle l'inevitabile strombazzamento di claxon. «Infilatelo» disse al conducente che le stava alle calcagna... un'espressione che aveva imparato da Jane Sidney, una delle commesse della boutique. «Infilatelo, amico.» L'occhio fisso al semaforo alla fine dello svincolo e anche troppo consapevole delle macchie di sudore sotto le ascelle della giacca, Marilyn riuscì a ridere all'incongrua sensazione che le dava quella parola. Dallo spec-
chietto retrovisore vide i lineamenti arrabbiati di un giovane con i capelli lunghi alla moda che la guardava obliquamente al di sopra del cofano di una Le Mans... e le fu possibile immaginarsi nell'atto di aggredirlo, fuori dalle auto, con l'imperativo: Infilatelo, amico! Assolutamente impossibile. Non le restava che farsi una risatina a quel pensiero e continuare a trepestare nervosamente sui pedali della frizione e del freno. Il traffico del mattino... il traffico di Natale... era sopportabile solo se ci si ricordava che l'impazienza era un peccato di autopunizione. Alle otto e cinquanta raggiunse Summerstone e trovò parcheggio vicino a una fila di bidoni per i rifiuti. Una guardia di sicurezza stava facendo passare gli impiegati del mall da un'entrata secondaria dalla parte di Montgomery-Ward's: e quando Marilyn gli mostrò il suo pass, lui disse: «Buona giornata, signorina Odau» quasi fosse una parola d'ordine. Poi, con una moltitudine di persone con le quali non parlava mai, lei s'incamminò lungo la galleria coperta fatta di travi di legno rifinite e di negozi open moquettati. Come sempre, sarebbe potuto essere mezzogiorno o mezzanotte... non c'era modo di dirlo. La stagione era identificabile solo per la merce invernale esposta e per le decorazioni natalizie appese al soffitto o che si intrecciavano come ellissi di carta stagnola sul condotto centrale del mall. Gli odori di ammoniaca, pasticceria e profumi si mescolavano in un che di pungente, anche a quell'ora del mattino, ma Marylin quasi non se ne accorse. Dirigere Creighton's Corner era diventato la sua vita, ciò per cui viveva; e dal momento che Summerstone conteneva Creighton's Corner, lei ci entrava tutti i giorni con considerazioni filosofiche minori di quelle di un minatore con la sua miniera di carbone. Considerazioni che, Marilyn lo sapeva dai trentacinque anni che aveva vissuto da sola, erano peggio che inutili... ti imprigionavano in dubbi ed equivoci dovuti in gran parte alla tua fantasia. Era contenta di trovarsi a soli pochi passi da Creighton's, felice di sentire la paura sciogliersi alla prospettiva di una efficiente giornata di lavoro... «Buongiorno, signorina Odau» disse Jane Sidney quando lei entrò da Creighton's. «Buongiorno. Hai un bell'aspetto, oggi.» La ragazza indossava una camicetta di maglia verde e gialla, una specie di gonna alla gaucho in finta pelle e degli stivali scamosciati. I capelli non erano più lunghi di quelli di un cadetto. Pronunciava sempre sottovoce signorina sia per le sue idee di femminista sia perché aveva paura che la pa-
rola tradisse la condizione di donna non sposata delle sua superiore di mezza età... come se quella fosse una vergogna per una persona che appartenesse alla generazione di Marilyn. Solo Cissy Campbell, delle tre ragazze che lavoravano alla boutique, riusciva a rivolgersi a lei chiamandola signorina Odau senza arrossire. O forse era Marilyn che l'immaginava. Non cercava di scandagliare i sentimenti personali delle sue impiegate e loro, in cambio, non cercavano di vederla nel ruolo di madre-confessore. Però le volevano bene. E andavano tutte d'accordo. «Lavoro al posto di Cissy fino alle tre, signorina Odau. Ci siamo scambiate i turni. Va bene?» Jane la seguì nel suo ufficio. «Certamente. E Terri?» Le pareti erano ricoperte di specchi colorati; e così pure il soffitto. Rastrelliere con camicette di lana, tute dal taglio erotico e sciarpe sgargianti si susseguivano con la monotonia di una pubblicità del dentifricio o dalla coca cola. Cestini di pizzo contenenti fiori di plastica e saponi esotici pendevano dal soffitto. Luci nere e poster pop-art si intervallavano alle pareti e, guardandone uno, Marilyn ebbe una visione di Satterwhite nei giorni austeri del 1942-43, quando la guerra aveva cominciato a riempire di denaro le tasche della gente per la prima volta dagli anni venti ma non era patriottico spenderlo. Ricordava l'Ufficio Amministrazione e le tessere di razionamento. A causa della scarsità del cuoio, non si potevano avere più di due paia di scarpe l'anno... Jane la stava fissando. «Scusa, Jane, non ti ho sentita.» «Ho detto che Terri sarà qui a mezzogiorno, ma domani vuole lavorare tutto il giorno, se non c'è nulla in contrario. Il martedì non ci sono lezioni al City College e lei vuole fare più ore possibili prima degli esami finali.» Terri era ancora relativamente nuova alla boutique. «Certo, va bene. Non ci sarai anche tu?» «Sì, signora. Nel pomeriggio.» «D'accordo, bene... Ho certi ordini da guardare e un paio di lettere da scrivere.» Marilyn si scusò e si ritirò dietro a una veneziana in un ufficio semplice e pratico quanto l'arredamento di Creighton era frivolo e orgiastico. Si sedette accanto a un piccolo raccoglitore metallico lasciandosi sfuggire un gemito... un gemito di soddisfazione... quello che sempre provava mettendosi al lavoro. Che cosa c'era che non andava in lei? Lo sapeva, lo sapeva, buon Dio, non era perfettamente cosciente... Si tolse i guanti. Mentre passava in rassegna ordini scritti su carta lucida e polizze di carico, fu
sorpresa dal color sangue di bue scuro delle sue unghie. Perché? Aveva messo quello smalto da una settimana, da prima del Giorno del Ringraziamento... La risposta, naturalmente, era Maggie Hood. Durante la guerra, Marilyn e Maggie avevano vissuto insieme in una casa di legno non lontana da Satterwhite's una casa con due pioppi nel piccolo cortile anteriore dove però non cresceva un filo d'erba. Maggie, che lavorava per la compagnia dei telefoni (un'ironia dal momento che loro non avevano il telefono in casa) si metteva sempre lo smalto color sangue di bue. Diversi mesi prima della resa dell'Asse, Maggie si era sposata con un funzionario della compagnia telefonica e si era trasferita a Mobile. La piccola casa in Greebriar Street era stata demolita a metà degli anni cinquanta per lasciare il posto a un palazzo per uffici. Maggie Hood e lo smalto color sangue di bue... Ricordi marginali, che giravano attorno alla faccenda, Marilyn lo sapeva. Li scacciò dalla mente e tornò al lavoro. Nella boutique suonavano del rock di buon gusto, qualcosa da Songs in the Key of Life di Stevie Wonder... era stata Jane a mettere la musica. Al di sopra del motivo, Marilyn riusciva a sentire la moltitudine dei clienti del mattino che passava negli atri e sui ponti interni di Summerstone. A volte sembrava che metà della popolazione dello stato si trovasse lì dentro. In due occasioni, durante il periodo natilizio dell'anno prima, le strutture avevano vibrato a tal punto che le guardie di sicurezza avevano ricevuto l'ordine di tenere fuori i nuovi clienti fino a quando non ne fossero usciti abbastanza per evitare il pericolo di crollo. Così si diceva, per lo meno, e Marilyn ci credeva. I vari proprietari di Summerstone, d'altra parte, affermavano che le porte erano state chiuse semplicemente per evitare l'affollamento. Ma quando mai uomini d'affari sani di mente allontanano i clienti solo per evitare l'affollamento? Marilyn aiutò Jane con i clienti fino a mezzogiorno. Poi arrivò Terri Bready e lei tornò in ufficio. Invece di mangiare, controllò i conti in sospeso e cercò di farli quadrare. Si concentrò completamente sul suo lavoro di direttrice del negozio per il bene dei proprietari che si erano quasi ritirati. Charlie e Agnes Creighton. Non le importava che loro avessero dieci anni meno di lei e che fossero dei proprietari terrieri con un condominio sulla costa del golfo di cui non si occupavano. Lei faceva un buon lavoro, fermandosi anche la sera e negli intervalli di pranzo e i Creighton erano abbastanza furbi da apprezzarlo. Avevano piena fiducia in lei e la pagavano bene.
Alla una, Terri Bready si affacciò nell'ufficio di Marilyn e si schiarì la gola, con l'aria di volersi scusare. «Ehi, Terri. Che cosa c'è?» «C'è un venditore che vorrebbe vederla.» Abbassando il biglietto da visita che teneva tra il pollice e l'indice, la ragazza diede in una strana risata baritonale. Magra e con i capelli ramati, era una studentessa del primo anno d'arte drammatica. Su di lei, i vestiti più alla moda sembravano scarti dell'Esercito della Salvezza. Ma era dolce... così dolce che Marilyn si era sentita imbarazzata quando l'aveva udita parlare con Cissy Campbell del ragazzo col quale viveva. «È uno di quelli da cui compriamo regolarmente, Terri?» «Non lo so. Non so da chi comperiamo» «Quello è il suo biglietto da visita?» «Sì.» «Perché non mi lasci dare un'occhiata, allora?» «Oh, sì. Mi scusi, signorina Odau. Ecco.» Mentre glielo porgeva, la ragazza si lasciò sfuggire il biglietto che finì sul petto di Marilyn per poi caderle in grembo. «Mi scusi di nuovo. Sono proprio una sciocca.» Terri fece un'altra delle sue risate baritonali e Marilyn, sorridendo, recuperò il biglietto. NICHOLAS ANSON / CONSULENTE DI PRODOTTI & RAPPRESENTANTE DI VENDITA / ULTIME NOVITÀ / Los ANGELES, CALIFORNIA. E sul biglietto c'erano anche due numeri telefonici e un codice postale. Terri Bready si inumidì le labbra. «È uno schianto, signorina Odau, non scherzo... È bello come uno svedese nudo.» «Davvero? Quanti anni ha?» «Oh, per me è troppo vecchio. Deve avere almeno trentacinque anni.» «Decrepito, cara.» «Ma io sono fuori del mercato, lei lo sa.» «Fuori della vendita all'asta?» «Sì, signora. Sì.» «Che cosa vende questo signor... Anson, Nicholas Anson. Non ci serviamo spesso di venditori indipendenti. I Creighton non lo fanno, ecco... e io non ho mai sentito parlare di questa ditta.» «Jane dice che secondo lei quel tizio negli ultimi due giorni ha passato tutti i negozi del mail. Non so che cosa vende. Ha una borsa con i campio-
ni ma... ha davvero gli occhi più incredibili cha abbia mai visto.» «Se è qui da due giorni, mi sorprende che non abbia già venduto tutti i suoi prodotti.» «Vuole che lo faccia entrare? È troppo educato per insistere. Ha chiamato me e Jane signorina Bready e signorina Sidney.» «No, non farlo entrare. Non ancora.» Marilyn aveva una premonizione, quasi una paura. Lascia che prima gli dia un'occhiata. Terri Bready scoppiò a ridere e dovette coprirsi la bocca. Ehi, signorina Odau, non parlerei di lui come di Robert Redfort per poi mandarle una rana pelata. Voglio dire, perché farei una cosa simile? «Via, Terri. Gli parlerò tra un paio di minuti.» «Sì, d'accordo.» La ragazza se ne andò e Marilyn sbirciò dalla veneziana. Jane stava servendo una donna molto robusta con una specie di tuta antincendio e sulla porta aperta della boutique c'era l'uomo, Nicholas Anson: osservava folla e controfolla che s'incrociavano come eserciti torvi. Anson aveva i capelli lunghi, alla moda, e a Marilyn ricordò l'uomo che l'aveva guardata male sullo svincolo. Poi, però, il sole si era riflesso sul parabrezza e sul cofano rendendo quindi impossibile, se non addirittura inutile, qualsiasi identificazione dell'uomo sulla Le Mans in quel composto rappresentante. Una persona su un'automobile non sempre era la stessa che si poteva incontrare su un terreno comune... Ora Terri si stava avvicinando a quell'Anson e lui si voltava verso la ragazza. Marilyn Odau sentì le sue dita stringersi alla veneziana. Aveva già visto la giacca blu marina di quell'uomo e, sotto, la camicia di seta che aveva il colore di un cielo pieno di nuvole. Aveva già notato la lunghezza e la sfumatura di quei capelli biondi, quel profilo deciso... Ma quando lui si voltò, l'unica cosa che ebbe ben chiara fu la rassomiglianza tra Anson e il marine morto di nome Jordan Burck, anche se lui era più vecchio di quanto lo era stato Jordan da vivo. Aveva come minimo dieci o dodici anni in più. Jordan Burck era morto a ventiquattro anni portando a terra un anfibio a Betio, una piccola isola vicino a Tarawa Atoll nelle Isole Gilbert. Nicholas Anson, comunque, aveva le zampe di gallina agli angoli degli occhi e qualche filo d'argento sulle basette. Quelle cose non avevano molta importanza la rassomiglianza era incredibile e Marilyn si scoprì a fissare Anson come una adolescente innamorata. Si ritrasse dietro la veneziana. «Questo è già accaduto» si disse. In un mondo di quattro miliardi di persone, in un arco di tempo di oltre trentacinque anni, non è sorprendente incontrare due o più uomini che si assomigliano. Per amor del cielo, Odau,
non crollare alla vista di un altro uomo che ti ricorda Jordan... uno straniero venuto da Los Angeles che tra un paio d'anni sarà abbastanza vecchio da poter essere il padre del tuo eterno ventiquattrenne caro Jordan... È il periodo protestò con se stessa, rispondendosi. Ed è più che mai crudele che questo accada ora. Anche se, in verità, accade sempre. Il fatto è che tu sei più sensibile in questo periodo dell'anno. Odau, non hai superato quella che ha tutta l'aria di essere una classica sindrome d'infantilismo e, a quanto pare, non la supererai mai. Tra un paio d'anni quel tipo sarà abbastanza vecchio per essere il padre di Jordan... del Jordan di allora... mentre ora, ora potrebbe essere il mio bambino. Il nostro bambino. Quel bambino che io e Jordan, avremmo voluto.... Marilyn sentì le lacrime sgorgare dal passato. Sensibile com'era, ebbe un'inaspettata visione della camera da letto nella sua casa di città al Brookmist, la camera accanto alla sua, la camera che lei aveva trasformato in una specie di santuario. In un angolo, una culla di vimini bianca... Basta, Odau pensò. «Basta!» disse ad alta voce, stringendosi una mano attorno alla gola. La veneziana si mosse e lei si trovò di nuovo davanti Terri Brady. «Mi scusi, signorina Odau. Parlava con me?» «No, Terri. Parlavo da sola.» «È davvero un tipo in gamba. Dice che per un po' ha suonato la batteria in un complesso rock a Haight-Ashbury. Che è stato un hippy. Che l'ha fatto fino a quando Nixon non si è dimesso, dopo di che ha ritrovato la fede... Perché non gli parla, signorina Odau? Anche se non gli ordina niente, è una persona interessante con cui scambiare due chiacchiere. Veramente. Dice che ha sentito parlare bene di lei dagli altri direttori del mall. Pensa che lei sia nella posizione giusta per trattare uno dei suoi prodotti.» «Ci credo davvero che lo dice. E tu gli hai sicuramente dato corda da quando è arrivato.» «Sì. Gli ho parlato di me. Ho pensato che, venendo da Los Angeles, forse conosceva qualcuno a Hollywood. Gli ho detto che studio arte drammatica. Sa... Lasci che lo faccia entrare, d'accordo?» «D'accordo. Fallo entrare.» Marilyn sedette alla scrivania. Nicholas Anson fece la sua comparsa con la valigetta contenente il campionario. Si salutarono educatamente e lei rimase di nuovo colpita dalla sua rassomiglianza con Jordan. Il fatto di guardarlo da vicino non cancellava l'illusione di un Jordan Burck più vec-
chio, anzi, la intensificava. Era il contrario di quanto le accadeva di solito, per cui, quando lui posò la valigetta sulla scrivania, lei dovette resistere alla tentazione di allungare una mano per toccargli la sua. Non c'era da meravigliarsi che Terri fosse rimasta colpita. Quella di Anson era una presenza matura, piacevole e leggermente sensuale. Haight-Ashbury? No, non era possibile. Marilyn non riusciva a immaginare quell'uomo fra i Bambini di Gesù e i Figli dei Fiori, che mendicava qualche spicciolo, gli orli dei jeans sfilacciati sopra un paio di sandali a pezzi. Assolutamente impossibile. Grazie al cielo, aveva trovato la sua vocazione. Sembrava fatto apposta per muoversi con grazia tra le boutique e i magazzini, dando consigli ed elargendo sorrisi. Era possibile che un tempo avesse offerto il suo viso magro alla luce di un riflettore e gridato al ritmo del suo aspro tamburo? Probabile. Molte grandi cose erano cambiate dagli anni sessanta... «Lei è molto lontano da casa» disse Marilyn, tanto per dire qualcosa. «Non ho mai sentito parlare della Ultime Novità.» «Si tratta di un consorzio di uomini d'affari e produttori indipendenti» spiegò Anson. «Cerchiamo di allargare il nostro mercato, di estenderlo a tutta la nazione. Non sono abituato a fare... come dice il biglietto da visita?... il rappresentante di vendita. Il mio vero lavoro... la mia vera passione... è fare il consulente di prodotti. Se la tua è una compagnia di novità, deve avere delle novità, dei prodotti nuovi, cha attraggono e che sono insoliti. Prima di fare questo viaggio a est, la mia principale occupazione consisteva nel dare suggerimenti sui prodotti. Il che sembra essere il mio forte ed è ciò che più mi piace fare.» «Be', credo proprio che lei sia anche un abile rappresentante.» «La ringrazio, signora Odau. Tuttavia, esito ancora ad aprire questa valigetta e a mostrarle ciò che contiene. C'è un elemento di egotismo nel terminare e affidare al mondo i prodotti della propria immaginazione.» «C'è un pizzico di egotismo nell'iniziativa di quasi ogni essere umano. Io non credo che debba preoccuparsene.» «Suppongo di no.» «Perché non mi mostra quello che ha?» Nicholas Anson apri le chiusure della valigetta. «Le ho portato soltanto un prodotto. A mio giudizio, non dovrebbero interessarle T-shirt, fermacarte con soggetti tratti da cartoni animati... prodotti di quel genere, insomma. Ho forse indovinato, signorina Odau?» «Noi vendiamo novità in fatto di T-shirt e camicette di maglia, signor
Anson, ma le altre cose sembrano cianfrusaglie da negozi di articoli da regalo e noi di solito non ordiniamo quel genere di merce. Vestiti, cosmetici, articoli da toilette, oggetti d'artigianato o da arredamento purché si adattino all'immagine esclusiva dei Creighton.» «D'accordo.» Anson estrasse una scatola di cartone dalla valigetta e la posò sulla scrivania, davanti a Marilyn. La scatola, blu e bianca con due finestrelle triangolari, recava la scritta Liquid Sheers tracciata con una grafia molto elegante. Attraverso una delle finestrelle, Marilyn riuscì a vedere una bottiglia di liquido color mogano, un vassoietto di carta stagnola e una spazzolina; attraverso l'altra finestrella era visibile un set di matite colorate. «Liquid Sheers?» «Sì, signora. Ho avuto questa idea soltanto un mese fa, ho fatto un'indagine di mercato e il consorzio Ultime Novità ha messo in pratica il progetto a una velocità tale che il prodotto si vende già bene in un certo numero di boutique della costa occidentale. La velocità è una delle chiavi del successo della nostra compagnia. Riducendo al minimo il tempo che passa tra il concepimento, la visualizzazione e la costruzione vera e propria del prodotto, siamo stati in grado di battere la maggior parte dei nostri concorrenti della California... Se le piace il Liquid Sheers, abbiamo la possibilità di fornirle una buona scorta.» «Ma che cos'è... questo Liquid Sheers?» «Un sostitutivo... un sostitutivo decorativo... dei collant e delle calze, signorina Odau. Una donna mischia una certa quantità della soluzione Liquid Sheers con dell'acqua e se la sfrega sulle gambe. Le matite possono essere usate per disegnare le cuciture o colorare alcuni dei disegni che abbiamo incluso nel necessaire: farfalle, fiori, cose del genere. La posizione dipende da individuo a individuo... Abbiamo confezioni per donne brune e confezioni per donne bionde e l'applicazione richiede molto meno tempo di quanto ci si possa aspettare. È anche divertente, ce l'hanno detto certi collaudatori dei nostri prodotti. Diverse boutique hanno registrato un aumento delle vendite di calzoncini, minigonne e mini gonne-pantaloni da quando hanno cominciato a vendere il Liquid Sheers. Questo, devo aggiungerlo, proprio adesso, all'inizio dell'inverno.» Terminato il discorso, Anson si fermò, un sorriso d'attesa sulle labbra. «Sono calze in bottiglia» disse Marilyn. «Sì, signora. In effetti, una definizione del genere è quant'altre mai appropriata.»
«Abbiamo venduto qualcosa di molto simile a Satterwhite's durante la guerra» spiegò Marilyn, attenta a non guardare Anson. «Però senza i disegni e le matite colorate. Le donne si dipingevano le calze e tracciavano le righe con le matite per gli occhi.» Anson si mise a ridere. «A dire la verità, signorina Odau, è proprio da lì che ho tratto la mia idea originale. Io sono sempre alla ricerca di vecchi cataloghi di vendite per corrispondenza e di pubblicità di vecchi magazzini. Certo, il Liquid Sheers deriva un po' dalla moda di dipingersi il corpo degli anni sessanta... e noi nella nostra pubblicità pensiamo di metter in evidenza il periodo della Guerra Mondiale.» «Perché mai?» «La nostalgia fa vendere, signorina Odau. Le ragazze che non distinguono la Seconda Guerra Mondiale dalla Guerra del Peloponneso... ragazze che non hanno mai messo calze con la cucitura, ammesso che abbiano mai indossato delle calze... useranno il Liquid Sheers e tracceranno le cuciture con la matita perché hanno visto Lauren Bacall e Ann Sheridan in un revival di film di Bogart e si sentiranno vagamente delle eroine. È sorprendente, signorina Odau. Negli ultimi anni, abbiamo avuto un boom delle vendite e degli spettacoli puntando sulla nostalgia per gli anni venti, trenta, cinquanta e sessanta. Gli anni quaranta... fatta eccezione per Bogart... sono stati molto evitati e proprio per questo il Liquid Sheers vuole evidenziare quel periodo, ricordando anche un po' le creazioni art-déco del periodo dei Beatles.» Marilyn incontrò lo sguardo di Anson e si rifiutò di distogliere il proprio. «Forse gli anni quaranta sono stati evitati perché è difficile ricordare con gioia la Seconda Guerra Mondiale» disse. «Io non ne sono del tutto convinto» ribatté Anson, serio e imperterrito. «Gli anni venti ci hanno dato Harding e Coolidge, i trenta la Grande Depressione, i cinquanta la Guerra Fredda e i sessanta il Vietnam. È difficile indovinare ciò che la gente ricorda con gioia... ma posso assicurarle che il Liquid Sheers andrà bene in California.» Marilyn scostò la sedia e si alzò. «Ho già venduto le calze in bottiglia, signor Anson. Me le sono dipinte sulle gambe. Non riuscirebbe a pagarmi per usare di nuovo un prodotto del genere... anche con le matite colorate e le farfalle gratis.» «Oh, no, signorina Odau» disse «non mi aspettavo che lei lo facesse. Questo è un prodotto ideato per le ragazzine e le giovani donne. Ci rendiamo perfettamente conto che si tratta di un prodotto-capriccio. Ci aspet-
tiamo un boom delle vendite per un anno, poi una rapida discesa. Ma la cosa non avrà importanza... le spese per Liquid Sheers sono basse e quando le vendite avranno toccato il fondo le metteremo da parte e ci lanceremo su qualcos'altro. Si sa che questi prodotti sono transitori.» «Signor Anson, lei sa perché le calze in bottiglia sono esistite durante la Seconda Guerra Mondiale?» «Si, signora. C'era scarsità di nylon.» «Il nylon era utile in guerra... per fare i paracadute e non so che cos'altro.» Marilyn scosse la testa, cercando di ricordare. «So soltanto che non se ne vedevano come prima. Erano un prodotto importante sul mercato nero, esattamente come gli alcolici, la benzina e le scarpe.» Anson fece un sorriso pieno di comprensione, ma era chiaro che aveva capito di aver perso. «Suppongo che non le interessi il Liquid Sheers, vero?» «Non vedo come potrei usarlo su di me, signor Anson.» Lui allungò una mano verso la scrivania, prese la confezione che le aveva dato e la ripose nella valigetta del campionario. Poi abbassò il coperchio e le chiusure che scattarono provocarono un rumore simile a colpi di pistola sparati in lontananza. «Forse mi permetterà di venirla a trovare un'altra volta» disse. «Non ha altro con sé?» «A dire la verità, ero così sicuro che le sarebbe interessato questo prodotto che non ho portato con me nient'altro. Ho piazzato il Liquid Sheers in un'altra boutique... ma al primo piano e ho venduto qualche oggetto da regalo e qualche novità. Non è stata una completa perdita di tempo questo viaggio.» Lui si fermò accanto alla veneziana. «È un piacere trattare affari con lei, signorina Odau.» «L'accompagno.» Passarono insieme accanto alla rastrelliera dei vestiti e agli scaffali pieni di articoli per la toilette, camminando su una moquette color mora. Jane e Terri erano occupate con i clienti. Perché sono tanto sollecita? si chiese Marilyn. Anson non sembrava affatto depresso per il suo rifiuto e, in fin dei conti, il Liquid Sheers era un'offesa per lei... non voleva avere niente a che fare con quella roba. Tuttavia, un qualsiasi rifiuto era un'indicazione di fallimento e Marilyn sapeva come doveva sentirsi quell'uomo. Era un peccato che il suo visitatore dovesse mescolarsi tra i corpi che ondeggiavano lungo il mall senza motivo con una punta, anche se piccola, di sconfitta. Per lei non sarebbe stato per-
so, nato per l'oblio sull'ondata...» «Mi dispiace, Jordan» disse. «La prego di venirci a trovare di nuovo con qualcos'altro.» L'uomo accanto a lei s'irrigidì e reclinò la testa di lato. «Mi ha chiamato Jordan, signorina Odau.» Marilyn si coprì la parte inferiore del viso con una mano. Poi allargò le dita e parlò tra di esse. «Mi scusi.» Lasciò ricadere la mano. «A dire il vero, mi sorprende che non sia accaduto prima. Lei somiglia moltissimo a qualcuno che conoscevo un tempo. La somiglianza è incredibile.» «Ha detto Jordan, vero?» «Sì, suppongo di sì... quello era il suo nome.» «Ah.» Anson parve sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma si limitò a dire: «Arrivederci, signorina Odau. Le auguro un buon periodo natalizio.» Dopo di che scomparve nella folla. Le decorazioni di carta stagnola sul condotto centrale del mall erano simili a colonne di uno strano corallo scarlatto e Marilyn le osservò attentamente finché Terri Bready non pronunciò il suo nome e la fece tornare al presente. Non lasciò la boutique prima delle dieci, quella sera. Martedì, dieci minuti prima di mezzogiorno. Lui indossava la stessa giacca blu marina e una camicia beige e indaco col collo sbottonato. Non aveva con sé la valigetta col campionario e parlando ora con Cissy Campbell, ora con Terri, e visto dall'ufficio di Marilyn, attraverso la veneziana, sembrava meno sicuro di sé. Marilyn era altrettanto incerta... la presenza di Anson aveva un che di sinistro, costituiva una sfida. Si portò una mano ai capelli, poi si alzò e gli andò incontro, in negozio. «Non ha portato con sé qualcos'altro da mostrarmi, vero?» «No.» Lui sollevò le mani vuote. «Non sono venuto per lavoro.. a meno che...» Si interruppe un attimo prima di aggiungere: «... non abbia cambiato idea riguardo al Liquid Sheers.» Il che la sorprese. Con voce rigida, Marilyn disse: «Temo proprio di no.» Anson agitò una mano. «La prego di dimenticare. Non avrei dovuto parlarne... perché non sono venuto per lavoro.» Speravo che venisse a pranzo con me.» «Perché?» «Perché mi sembra simpatica... ecco la parola che si adatta a lei. E sa-
rebbe piacevole sedersi a parlare con qualcuno di qualcosa che non siano le Ultime Novità. È una settimana che sono in viaggio.» Con la coda dell'occhio, Marilyn scorse Terri Bready che allungava il collo per vedere la sua reazione a quella proposta. Cissy Campbell, la commessa negra, aveva smesso di sistemare delle camicette appena arrivate con le maniche a sbuffo e assisteva alla scena, il viso attento come quello di una pantera sicura di sé. «Di solito non pranzo, signor Anson.» «Oggi faccia un'eccezione. Non una parola di lavoro, glielo prometto.» «Vada» suggerì Terri, dalla cassa. «Io e Cissy possiamo cavarcela da sole, signorina Odau.» Poi fece una risatina. «Eccellente consiglio» commentò Anson. «Se fossi in lei, lo accetterei.» «D'accordo» si arrese Marilyn. «Purché non lasciamo Summerstone e non restiamo via a lungo. Vado a prendere la borsetta.» Finirono inevitabilmente da McDonald, a pianterreno... pareti tappezzate di giallo e arancione, file di sei, sette persone davanti ai banconi di metallo. Marilyn trovò un tavolo per due e si sedette su una delle sedie di plastica attaccate. Anson impiegò quasi un quarto d'ora prima di tornare con due hamburger al formaggio e un paio di bicchieri colmi che quasi rovesciò mentre si faceva strada tra i tavolini. «Meno male che i recipienti sono di plastica» disse lui, sorridendo. «È sempre così?» «A Natale peggio. Non ci sono McDonald's a Los Angeles?» «Non c'è altro. Ma mancano ancora tre settimane a Natale. Questa gente non ha alcuna pietà?» «Nessuna.» «Lo stesso vale per Los Angeles.» Mangiarono. Anson la pregò di chiamarlo per nome e lei si vide costretta a sua volta a fare altrettanto. Ora erano Marilyn e Nicholas, madre e figlio a pranzo da McDonald. Solo che l'attenzione di Nicholas nei confronti di Marilyn non era filiale... ma calda e diretta e con l'urgenza tenuta deliberatamente a freno di un corteggiatore. I suoi modi le ricordarono di nuovo Jordan Burk e a un certo punto lei si rese conto di non avere ascoltato nulla di quanto lui aveva detto negli ultimi minuti. «Ascoltalo» si ammonì. «Torna al presente.» Dopo di che, ci riuscì. Nicholas le raccontò di essere nato nell'est, di essere stato allevato solo dalla madre che, verso la fine degli anni quaranta, si era risposata; e che dopo che la nuova famiglia si era trasferita a Encino, era stato educato sul-
la costa occidentale. Le parlò della carriera fallita come batterista rock, della sua iniziale resistenza alla guerra nel Sudest Asiatico e delle sue difficoltà con il servizio militare degli Stati Uniti. «Sono stato uno sbandato fino a trentadue anni, Marilyn. Poi ho scoperto il mio talento e non mi sono più voltato indietro. Se potessi tornare agli anni sessanta, be', sarei felice di riviverli. Mi troverei un posto in un'unità di riserva dell'esercito, farei il soldato del fine settimana e mi dedicherei interamente alla consulenza di prodotti. Se l'avessi fatto nel '65, ora probabilmente sarei in pensione.» «Ha tanto tempo davanti a sé. È ancora giovane.» disse lui. «Ho appena compiuto i trentasei.» «Ne dimostra meno.» «Ma non molti. Grazie, comunque... fa piacere sentirlo dire.» «Ha combattuto in Vietnam?» domandò Marilyn. «Ci sono andato nel '69. Non credo di poter dire che ho combattuto. Ero uno dei più vecchi della mia unità, con una storia di attivismo contro la guerra e la macchina di avere bruciato la cartolina precetto. Le dirò tuttavia una cosa... quando sono tornato a casa e mi sono guardato intorno, ho pianto alla notizia della caduta di Saigon. Ecco la verità... ho pianto. Saigon era una grande città... a conoscerla bene.» Tornando mentalmente indietro nel tempo, Marilyn si rese conto che Nicholas aveva l'età giusta per essere figlio suo e di Jordan. Proprio l'età esatta. Ai primi di dicembre del 1942, lei e Jordan si erano detti addio nella casetta di Greenbriar Street... Non provava alcuna vergogna, a quel ricordo né alcun rimpianto. La vergogna era arrivata ventisei anni dopo... lo stesso anno in cui, cosa piuttosto strana, Nicholas Anson si era mostrato riluttante ad andare a fare il suo dovere in Vietnam. La culla di vimini bianca nel santuario era il ricordo perenne di quella vergogna, della sua mostruosità segreta e tuttavia lei non poteva sbarazzarsi della prova che la marchiava come una diversa per il semplice motivo che lei l'amava. L'amava perché un tempo aveva amato Jordan Burck... Posò l'hamburger. Non poteva... non poteva proprio... finire di mangiare. «Tutto bene?» «Devo tornare alla boutique.» «Mi permetta di portarla fuori a cena questa sera. Non direi che adesso ci siamo rilassati né che abbiamo fatto le cose con calma. Mi piacerebbe portarla in un bel posticino, offrirle del brandy e un'eccellente bistecca.» «Perché?»
«Usa questa parola come se fosse un pugnale. Perché no?» «Perché non esco. Il lavoro mi tiene occupata. E c'è una differenza di età tra noi che mi mette in imbarazzo. Non so se sia spinto da motivi commerciali, innocentemente sociali o... Forza, rida...» Marilyn stava appallottolando la carta che aveva avvolto il suo hamburger, stringendola sempre più forte, ed era sicura di avere il viso in fiamme. «Non rido» ribatté Nicholas. «Non so neppure io quali sono i motivi. So soltanto che non sono biasimevoli o innaturali.» «Sarà meglio che vada.» Marilyn si alzò dalla sedia di plastica e si appese la borsa alla spalla. «Quando posso rivederla?» Gli occhi di Nicholas erano pieni di rimostranza e di fascino. «La compagnia vuole che mi fermi qui per un'altra settimana... problemi con le consegne. Non conosco nessuno in questa città. Vivo con la valigia in mano. E non sono mai stato sposato in vita mia, se è questo che la preoccupa.» «Forse dovrei preoccuparmi perché non l'ha fatto.» Nicholas sorrise e il suo era il sorriso di un incantatore che si arrende. «Quando?» «Mercoledì e domenica sono le uniche sere nelle quali non lavoro. E domani è mercoledì.» «A che ora?» «Non lo so» rispose distrattamente lei. «Mi telefoni. Oppure venga in negozio. Oppure no. Faccia come vuole.» Marilyn percorse il corridoio e, facendosi strada tra la folla, raggiunse l'ascensore-capsula che si trovava all'esterno di McDonald. Era confusa e sperava debolmente... sperava con tutte le forze... che Nicholas Anson scomparisse dalla sua vita. Il mattino dopo, prima che i clienti entrassero nel mall, Marilyn Odau salì al primo piano di Summerstone e passò davanti alla boutique il cui proprietario aveva deciso di vendere il Liquid Sheers di Nicholas. Le confezioni erano esposte in due colorate piramidi subito all'interno del negozio. Il pomeriggio, una ragazza con i capelli scuri e le gambe lunghe entrò al Creighton's Corner per curiosare e quando aprì il cappotto orlato di pelliccia Marilyn le notò una rosellina magenta sul ginocchio destro. L'abbronzatura invernale quella ragazza se l'era dipinta e sulla parte posteriore delle gambe si era tracciata le cuciture color magenta. A Marilyn non piacque il
risultato, ma capì che ad altri sarebbe potuto apparire attraente. Alle sei, Nicholas Anson fece la sua comparsa in tenuta sportiva e con una costosa giacca di renna. Jane Sidney e Cissy Campbell se ne andarono e Marilyn salutò l'inserviente che abbassava la grata del negozio. Nonostante il mercoledì chiudessero presto, c'era ancora gente in giro mentre i commessi combinavano affari all'ultimo minuto o cercavano di liberarsi degli ultimi clienti. Era l'ultimo mercoledì prima di Natale. Marilyn cominciò a camminare e Nicholas le andò dietro come la scorta assegnata a un ballo militare. «Pensava che non venissi?» Chiese lui sorridendo. «Non sapevo. E adesso che cosa facciamo?» «Andiamo a cena.» «Vorrei prima fare un salto a casa per rinfrescarmi.» «L'accompagno.» «Ho un'auto.» «La chiuda e la lasci lì. Questo posto è protetto come Fort Knox. Ho preso a noleggio un'auto all'aeroporto.» Marilyn non voleva vedere l'auto noleggiata di Nicholas Anson. «Lasci stare la sua. Può accompagnarmi a casa con la mia.» Lui cominciò a protestare. «O così o ci salutiamo subito» disse lei «Ci tengo alla mia auto.» Lui l'accompagnò al Brookmist con la Nova di Marilyn. La tangenziale era giallo-grigio alla luce spettrale delle lampade e il traffico era incredibilmente veloce. Il crepuscolo aveva già ceduto il passo alla sera... una cupa sera invernale. Gli ingranaggi della Nova grattavano anche quando Nicholas non toccava lo sterzo. «Mi sorprende che non abbia un'auto più nuova. Può sicuramente permettersene una.» «Credo che potrei, ma mi piace questa. Va a gas e durante l'embargo della benzina mi sono sentita intelligente... Qual è il problema?» «Niente. È solo che me l'ero immaginata su una macchina più grande e più sportiva. Ma non avrei dovuto dirlo.» Si batté sulla tempia con la mano destra. «Mi scusi, Marilyn.» «Non si scusi. Jane Sidney mi ha chiesto la stessa cosa, un giorno. Le ho detto che i miei genitori erano poverissimi durante la Depressione e che non appena sono stata in grado di mettere da parte un po' di denaro per loro l'ho fatto. È un'abitudine che non ho perso neppure oggi che loro sono morti e che non ho alcuna preoccupazione finanziaria.»
Passarono in silenzio sotto i lampioni della sopraelevata e l'ombra grigia di Satterwhite. «Oggi pomeriggio è entrata in negozio una ragazza che portava il Liquid Sheers» disse Marilyn. «A quanto pare, il suo prodotto si vende bene.» «Hoo» ribatté Nicholas, ridendo. «Ricordi che non sono stato io a parlarne, d'accordo?» Lasciarono la superstrada e percorsero diverse vie residenziali costeggiate da olmi. Il complesso di case di Brookmist apparve davanti ai fari della Nova come un'immagine fotografica uscita dalla vaschetta dell'acido, con tutti i particolari trasparenti e confusi all'inizio. Marilyn diresse Nicholas al parcheggio della comunità, vicino a un muretto di mattoni dietro a una delle file di case, dove lasciarono la macchina. Camminarono, le spalle chine contro il freddo, verso un'alta recinzione di legno che racchiudeva un patio di cemento non più largo di una cabina telefonica. Marilyn aprì il cancello e infilò la chiave nella serratura della porta della cucina. Sul davanzale scrostato accanto alla porta c'erano due o tre vasi con piante irriconoscibili. «Suppongo che pensi anche che potrei permettermi un posto migliore in cui vivere.» disse ironica. «No, ma deve fare un lungo tragitto per andare al lavoro.» «Questa casa l'ho pagata cara, Nicholas. È mia.» Marilyn lo lasciò seduto sotto una lampada con diverse vecchie copie di McCall e di Cosmopolitan appoggiate sul tavolino davanti a lui e salì a cambiarsi. Quando tornò, indossava un completo pantaloni nero con le maniche lunghe, un golf color pesca e, al collo, spiccava una pietra lucida racchiusa in un ciondolo. Il riscaldamento era stato acceso e sotto faceva caldo. Nicholas si alzò. «Stando così le cose, io guiderò la sua auto e lei farà il passeggero. Spero che mi permetterà di fare rifornimento di gas.» «Perché invece non guido io mentre lei se ne sta buono buono a godersi la passeggiata?» La voce di Marilyn era di nuovo tesa per il senso di disagio e per un pizzico di sdegno che provava. Per un consulente di prodotti, Nicholas non sembrava così pieno d'immaginazione come avrebbe dovuto essere. Il Liquid Sheers era la copia di un'idea nata dallo stato di necessità che si era verificato durante la Seconda Guerra Mondiale e le novità alle quali lui aveva accennato nel suo discorso di lunedì erano per lo più variazioni degli articoli standard in vendita nei negozi per regali e nelle librerie. Non era neppure capace d'immaginarla nelle vesti di conducente mentre lui si rilassava e faceva il passeggero. Ed era lui quello che era arrivato alla
maturità durante gli anni sessanta, il favoloso decennio delle lotte per l'uguaglianza e della raggiunta consapevolezza sociale... «Il fatto è, Marilyn, che volevo fare qualcosa per lei. Ma lei mi ha tolto dalle mani le briglia della serata.» D'accordo, era vero. Marilyn si raddolcì. «Nicholas, non sto cercando di dirigere questo... appuntamento, ammesso che si possa definirlo così. Mi ha sorpreso che sia venuto a prendermi in negozio. Non ero pronta. E non sono pronta a uscire, questa sera... ho freddo e sono stanca. Ho un paio di bistecche e una bottiglia di vino fresco in frigorifero e tutto l'occorrente per un'insalata. Lasci che prepari la cena.» «Un paio di bistecche?» «C'è un negozio all'uscita della tangenziale che rimane aperto giorno e notte. Mi sono fermata lì ieri sera, dopo il lavoro.» «Ma non credeva che sarei venuto, no?» «No. Proprio no. E nonostante abbia comperato le, bistecche, non sono sicura che volessi che venisse. So che può sembrare poco gentile, ma è la verità.» Nicholas la ignorò. «Ma dovrà cucinare. Volevo risparmiarle la fatica. Volevo fare io qualcosa per lei.» «Mi risparmi un altro viaggio sulla mia macchina e l'agonia dell'attesa in uno di quei locali snob di città.» Nicholas cedette e lei si sentì meglio disposta nei suoi confronti. Mangiarono sul tavolino in soggiorno, seduti sul pavimento, senza scarpe e con la radio accesa. Parlarono di sport, di politica e di cinema, cose che interessavano poco a entrambi; poi, visto che tutti e due ci avevano dedicato la vita, Marilyn ruppe il silenzio che Nicholas aveva promesso di mantenere e parlarono di lavoro. Non accennarono al Liquid Sheers o ai margini di profitto o alle tasse che dovevano pagare, ma di ciò che provavano nel fare ciò che facevano e del senso di soddisfazione che ricavavano dal lavoro. Quella era una cosa che avevano in comune e la sera trascorse... come forse avrebbe detto Jane Sidney... da sessantenni. Mentre finivano la bottiglia di vino, Nicholas cambiò posizione e prendendosi un ginocchio con la mano destra, s'inclinò leggermente all'indietro. «Marilyn?» «Mm?» «Non mi avrebbe mai permesso di accompagnarla a casa se non le avessi ricordato quel tale che conosceva un tempo vero? Quel tale di nome Jor-
dan? Mi dica la verità. Non ricorra a una scusa.» Marilyn si sentì di nuovo a disagio. «Non so.» «Sì che lo sa. La sua risposta non ferirà i miei sentimenti. Mi piacerebbe pensare che ora che mi conosce un po' meglio il fatto che somigli a quella persona non ha più importanza... che le piaccio per quello che sono.» Nicholas rimase in attesa. «E va bene. Ha ragione.» «Ho ragione» ripeté lui, dubbioso. «Non le avrei permesso di accompagnarmi a casa se non somigliasse a Jordan. Ma ora che la conosco un po' meglio non fa alcuna differenza.» «Non molta» si disse Marilyn. «Ho perlomeno smesso di metterti addosso un'uniforme da marine e di scostarti i capelli dalle orecchie...» Provava una calma tenerezza per entrambi gli uomini, per Jordan che era morto e per Nicholas Anson che, sotto molti aspetti, sembrava più giovane di quanto fosse mai stato Jordan... «Ecco perché Jordan aveva quasi tre anni più di te, Odau, e Nicholas ne ha quasi venti di meno. Pensaci un po'» si disse. L'uomo che somigliava a Jordan Burck finì il vino e si alzò dal pavimento. «Ho preso una stanza all'Holiday Inn, vicino all'aeroporto» annunciò. «Mi permetta di chiamare un taxi così non dovrà uscire di nuovo.» «I taxi non rispondono più alle chiamate notturne. I conducenti hanno paura a venire.» «Mi dispiace doverle chiedere di accompagnarmi, Marilyn. Nicholas aveva uno sguardo d'attesa negli occhi e lei non voleva deluderlo.» «Perché non dorme qui, per questa notte?» propose. Salirono insieme e lei fece attenzione a chiudere la porta della camera in cui si trovava la culla di vimini prima di seguirlo nella sua. Si svestirono alla luce verdastra che penetrava dalle tendine e che proveniva da un lampione del viale alberato. Il cuore le batteva forte. Poi il corpo di Nicholas coprì quel battito e, più tardi, lei giacque a fissare i pannelli acustici del soffitto mentre lui le dormiva accanto, una mano sul suo fianco. Si addormentò anche lei, ma si svegliò quando la mente si accorse che la mano di Nicholas non c'era più. Si mise a sedere e scoprì che lui era scomparso. Il vento tra gli olmi spogli suggeriva il rumore del mare mosso. «Nick!» chiamò. Lui non rispose. Marilyn scese dal letto, si mise la vestaglia e lo trovò in piedi, con ad-
dosso un paio di boxer, accanto alla culla di vimini. Nicholas aveva acceso la lampada su una scrivania e la luce illuminava tutto ciò che si trovava in quell'angolo della stanza. Non c'era dubbio che lui avesse scoperto la prova della sua mostruosità, anche se non sapeva che cosa significasse. Invece di mettersi a gridare o di gettarglisi tra le braccia come un'amante ubriaca, Marilyn si lasciò andare sul pavimento, sulle pieghe della vestaglia, vergognosamente consapevole della sua reticenza e anche troppo soddisfatta dalla scoperta di Nicholas per rimanerne scioccata. Se non avesse voluto che ciò accadesse, non gli avrebbe mai permesso di venire. Oppure avrebbe ucciso Nicholas durante il sonno che era seguito all'appagamento dei sensi. O qualsiasi altra cosa. Ma quello che stava avvenendo era evidentemente ciò che lei, inconsciamente, aveva desiderato. «Confessione e fine di tutto» si disse. «Cercavo il bagno» spiegò Nicholas. «Non sapevo dove fosse; ma quando ho visto il letto del bambino... be', non capivo perché avessi una culla e ...» s'interruppe. «Non hai bisogno di darmi delle spiegazioni, Nicholas.» Marilyn lo passò in rassegna dalla testa ai piedi e si chiese quali sensazioni lei suscitasse in lui: età, promiscuità, dissolutezza? «Sei invecchiata e questo non potevi impedirlo» pensò. Ma le altre... quelle erano menzogne. Voleva una confessione e la fine di tutto e lui era troppo occupato a fissare la culla per non dargliele, troppo occupato a vedere com'era terribilmente vecchia alle due del mattino. Consumata dagli anni. Consumata da ciò di cui la vita stessa si nutre. Consumata come una che appartiene a un mondo di beni di consumo. Nicholas sollevò qualcosa dalla culla e lo tenne nel palmo di una mano. «Che cos'è questo?» domandò. «Marilyn...?» «Litopedio» balbettò lei. «Il termine medico è litopedio. E litopedio è la parola che uso quando voglio pormi a una certa distanza. Con te qui, ecco che cosa penso di volere fare... pormi a una certa distanza. Non so. Non capisci?» Lui la fissò senza espressione. «Significa bambino di pietra, Nicholas. L'ho partorito la prima settimana di dicembre del 1968. Un feto calcificato.» «Partorito?» «Ho sbagliato. Non so perché te lo dico. Mi è stato tolto chirurgicamente, staccato dalla cavità addominale. Litopedio.»
Marilyn cominciò a piangere. «Portamelo.» L'uomo non si mosse. Tenne il bambino di pietra sul palmo della mano. «Maledizione, Nicholas, ti ho chiesto di darmelo. È mio! Portamelo qui!» Marilyn si coprì un occhio col pugno e quando lo staccò trovò il dorso della mano sporco di trucco nero. Anson le portò il litopedio e lei lo cullò contro il corpino leggero della vestaglia. Un maschio calcificato, con una manina accanto al viso e gli occhi chiusi per sempre: un fossile prima ancora di avere iniziato a vivere. «Questo è il figlio di Jordan» spiegò Marilyn ad Anson che era sempre in piedi di fronte a lei. «Di Jordan e mio.» «Ma come può essere? Lui è morto nella campagna del Pacifico.» Marilyn non si curò dell'incredulità contenuta nella voce di Anson o del fatto che lui fosse al corrente delle circostanze in cui Jordan era morto. «Trascorremmo la luna di miele nella casa di Greenbriar mentre Maggie era partita in occasione del Natale» disse, cullando il figlio. «Poi Jordan dovette tornare alla sua divisione. Alla fine di marzo del 1943 mi sentii male mentre facevo la commessa da Satterwhite. Fui colta da crampi terribili e crollai. Maggie mi portò a casa, a Greenville, e mi curarono per un'infezione intestinale. Quella fu la diagnosi del medico locale. Rimasi in coma per un po' e dovettero nutrirmi a forza. Poi mi ripresi e il direttore di reparto da Satterwhite mi ridiede il mio posto di lavoro. Tornai in città.» «E venticinque anni dopo hai avuto il tuo bambino?» Persino la cattiveria con cui Anson fece quella domanda non la colpì. «Sì. Fu una gravidanza extrauterina. Il feto non cresceva nel mio utero, sai, ma nella tuba di Falloppio destra... dove lo spazio per crescere è poco. Io non lo sapevo, non sospettavo niente. Non avevo sintomi.» «Finché non ti sentisti male da Satterwhite?» «Il dottor Rule dice che il feto ha perforato la tuba di Falloppio ed è passato nella cavità addominale. Io non lo sapevo. Avevo vent'anni. La diagnosi fu di infezione e mi misero a letto. Passai un brutto momento. Rischiai di morire. Un anno dopo, poco prima della Festa del Ringraziamento, Jordan fu ucciso a Tarwa e io avrei voluto morire dopo di lui.» «Non ha vissuto per vedere suo figlio» disse Anson, con amarezza. «No. Ero terrorizzata dai medici. Ho ancora paura di loro. Ma nel 1965 andai a lavorare dai Creighton in Capitol Square e un paio d'anni dopo, quando cominciai ad avvertire forti dolori al fianco, mi fecero andare dal dottor Rule. Mi dissero che avrei dovuto lasciare il lavoro se non ci fossi
andata.» Marilyn prese un lembo della vestaglia nel quale avvolse il bambino calcificato che aveva tra le braccia. «Il dottor Rule scoprì che cosa c'era che non andava. Mi fece avere il bambino. Un litopedio, disse... Sai che ci sono stati soltanto poche centinaia di casi in tutta la storia della medicina? Il che mi rende una diversa, tutto il mio amore rivolto a un padre e a un figlio che non mi sentiranno mai.» Marilyn sollevò le spalle e aprì la bocca per dare libero sfogo al suo dolore. «Una diversa» ripeté, singhiozzando. «Non più diversa del padre di quella cosa.» Lei colse il tono di Anson e sollevò gli occhi per guardare il suo viso attraverso una cortina di lacrime. «Suo padre era Jordan Burck» spiegò lui. «Mio padre era Jordan Burck. Lui osò persino sposare mia madre, signorina Odau. Ma quando scoprì che era incinta, la lasciò per arruolarsi in una divisione che andava a combattere. E prima venne qui e trovò un altro grazioso bocconcino da fagocitare prima di partire. Te.» «No» fece Marilyn, smettendo di colpo di singhiozzare. «Si. Mia madre trovò Burck in questa città e gli chiese di tornare da lei. Lui confessò di amare alla follia un'altra donna e rifiutò. Io non avevo alcuna importanza ai suoi occhi... anzi, era un motivo di più per lui per rimanere con te. Una volta, durante l'inutile visita che mia madre fece qui, Burck la portò da Satterwhite, facendola entrare da un ingresso secondario, e ti mostrò a lei da uno dei sotterranei. L'altra donna era più bella disse mia madre che rinunciò e tornò a casa. Concesse a Burck il divorzio senza esigere gli alimenti mentre lui era nel Pacifico. Non chiedermi perché. Non lo so. Più tardi, mia madre sposò un uomo, Samuel Anson, e ci trasferimmo con lui in California... Quella cosa tra le tue braccia, signorina Odau, è il mio fratellastro.» Era impossibile piangere, ora. Marilyn udì la sua voce diventare acuta e accusatoria. «È per questo che mi hai chiesto di pranzare con te, ieri, vero? Ed è per questo che mi hai chiesto di cenare insieme questa sera. Un'occasione per la vendetta. L'occasione di profanare un ricordo che avresti potuto lasciare intatto.» Colpì Anson a una gamba, senza fargli male. «Io non sapevo niente di tua madre o di te! Non ho mai sospettato niente e non sono responsabile! Non faccio parte di quella categoria di diversi! Perché sei venuto a distruggere me e una delle poche cose della mia vita che ero stata veramente capace di amare? Perché ti sei accanito contro di me con questa verità che non ha alcun significato per me e mai potrà averne? Che razza
di sciacallo vendicatore sei?» Anson parve sorpreso. S'inginocchiò di fronte a lei e cercò di prenderla per le spalle. Lei si liberò delle sue mani. «Marilyn, mi dispiace. Ti ho chiesto di pranzare perché mi hai chiamato Jordan, così come tu mi hai permesso di accompagnarti a casa perché somigliavo a lui.» «Marilyn? Dov'è finita la signorina Odau?» chiese lei ironica. «Non ha importanza.» Lui cercò di prenderla e lei si liberò. «La colpa è più mia che tua» disse Nicholas. «Se ho rovinato la memoria dell'uomo che è stato mio padre è per l'amarezza che nutro contro di lui da sempre. Non volevo ferirti. L'altra donna di cui mia madre era solita parlare anche dopo il matrimonio con Anson è sempre stata un'astrazione per me. Non sono certo stato spinto dalla vendetta. Dalla curiosità, forse. Ma non dalla vendetta. Ti prego di credermi.» «Non hai immaginazione, Nicholas.» Lui la guardò, scrutandola attentamente. «Che cosa significa?» «Significa che se avessi soltanto... Ma perché spiegartelo? Voglio che tu ti vesta, che prenda la mia macchina e torni nel tuo albergo. Puoi lasciarla davanti al Summerstone, domani, quando andrai a riprendere la tua auto a noleggio. Consegna le chiavi a una delle ragazze, non voglio più vederti.» «Fuori al freddo, eh?» «Vattene, ti prego, Nicholas. Potrei mettermi a gridare se non lo fai.» Lui si alzò e andò nell'altra stanza. Pochi minuti dopo, scese le scale ricoperte di moquette senza dire una parola. Marilyn udì il rumore del motore della sua Nova e gli ingranaggi che grattavano leggermente. Dopo di che, non sentì altro che il vento tra gli olmi scheletrici. Senza alzarsi dal pavimento della camera da letto, cantò una ninna nanna al bambino calcificato tra le sue braccia. «Chiazzati e grigi» recitò. «Pezzati e bai, tutti i bei cavallini...» Erano quasi le sette della sera dopo quando Anson riportò le chiavi a Cissy Campbell che si trovava alla cassa; Marilyn non lo sentì e non lo vide e fu felice di essere nel suo ufficio quando infine lui se ne andò. L'episodio era chiuso. Sperava di non rivederlo mai più anche se era davvero il figlio di Jordan... e lei era convinta che Anson capisse le sue motivazioni. Quattro ore dopo, entrò nel parcheggio al Broomist e si diresse verso il suo piccolo patio. Il cancello era aperto. Lei lo chiuse e mise il chiavistello. Poi, una volta dentro, fu sul punto di mettersi a gridare perché sentì nel-
l'aria il profumo di una colonia maschile, quella di Anson. Per un momento pensò di uscire di nuovo sul patio e di chiedere aiuto. Se Anson era di sopra che l'aspettava, era una pazza a salire da sola. Era una pazza a salire. Chi poteva saper cosa passava per la mente di un enigma come lui? «Non è di sopra che ti aspetta», si disse Marilyn. «È stato qui e se n'è andato». Ma perché? «Il tuo bambino, Marilyn ... va' a vedere il tuo bambino. Chissà che cosa può averne fatto Anson per dispetto? Potrebbe averlo distrutto...» «Oh, Dio!» gridò Marilyn. Corse di sopra senza più badare al profumo che si faceva più intenso e spalancò la porta della seconda camera da letto. La culla di vimini non era nell'angolo ma al centro della stanza. La raggiunse e vi si aggrappò. Il bambino suo e di Jordan giaceva illeso sulla coperta di seta che lei gli aveva cucito. Marilyn si fermò a guardarlo, cercando di riprendere fiato. Poi riportò il lettino nel suo angolo. Soltanto il mattino dopo il profumo di colonia scemò abbastanza da farle dimenticare che Anson... o qualcun altro... fosse entrato in casa sua. Dal momento che non c'erano le prove di un furto, Marilyn si rese conto che il profumo poteva esserle entrato in casa dall'abitazione del vicino attraverso il sistema di ventilazione. E cancellò volutamente dalla mente il fatto che la culla fosse stata spostata. Trascorsero due settimane. Il lavoro alla Creighton's Corner Boutique era movimentato e se Marilyn pensava qualche volta a Nicholas Anson era per consolarsi all'idea che ora lui era tornato a Los Angeles. Lontanissimo da lei. Ma l'ultima settimana prima di Natale, Jane Sidney, disse a Marilyn che credeva di avere visto Anson in uno dei più grandi magazzini di Summerstone con la valigetta del campionario. «Sembrava abbronzato e felice» disse Jane. «Bene. Ma se dovesse farsi vedere qui, io non ci sono. E se sto servendo un cliente e lui arriva, tu o Terri dovete sostituirmi. Capito?» «Sì, signora.» Quel pomeriggio, tuttavia, il telefono squillò e quando Marilyn andò a rispondere, la voce che le arrivò attraverso la cornetta era quella di Anson. «Non riattaccare, signorina Odau. Sapevo che non avresti voluto vedermi, perciò mi sono ridotto a telefonare.» «Che cosa vuoi?»
«Fa un giro verso Davner's e continua finché non mi trovi.» «Perché dovrei? Hai telefonato per questo?» Anson riappese. «Puoi aspettare per sempre» si disse lei. Il telefono squillò di nuovo, ma Marilyn si dedicò agli ordini e alle polizze da carico, anche se le era difficile concentrarsi. Alla fine, si alzò e disse a Jane che andava a fare una passeggiata per il mall per sgranchirsi le gambe. La folla era fitta. Vide dei vecchi che venivano spinti sulle loro sedie a rotelle e, come se fossero cagnolini o scimmie, dei bambini tenuti per gli spallacci di cuoio. C'erano ragazze che si erano dipinte le gambe con il Liquid Sheers e degli uomini con cappelli alla russa che non facevano nulla per nascondere la loro ammirazione a quella vista. Le panchine al centro del mail erano tutte occupate e la gente seduta aveva l'aria affaticata e irritata. A un centinaio di metri da Marilyn, di fronte alla gioielleria Davner, c'era un Babbo Natale con una renna viva. Lei continuò a camminare. Una strana vetrina attirò l'attenzione di Marilyn che ebbe una reazione ritardata e si fermò tra il traffico che andava in entrambe le direzioni. «Ehi» disse un uomo e la superò. Nella vetrina alla sua destra erano allineate otto o dieci effigi bianche come il gesso. Erano senza occhi. Le illuminava una luce simile a quella girevole che c'è sulle macchine della polizia. Un cartello diceva: Bambini di Pietra per Natale, dalla Ultime Novità. Marilyn si portò una mano alla bocca ed emise un gemito soffocato cui nessuno prestò attenzione. Si voltò di scatto ed ebbe l'impressione che Summerstone stesso ondeggiasse attorno a lei. In una delle vetrine del negozio di articoli da regalo c'erano una dozzina o più di statuine. Figure piccolissime, con piedi piccolissimi e visi piccolissimi privi di occhi. Marilyn guardò lungo il mall e vide altre vetrine che esponevano le copie del bambino suo e di Jordan. E, nelle vetrine in cui non erano esposte, vi apparivano riflesse. Piccolissime dita, piccolissimi piedi, piccolissimi visi privi di occhi. «Anson!» gridò Marilyn, cercando di trovare qualcosa a cui aggrapparsi. «Anson, che Dio ti maledica! Che Dio di maledica!» Corse verso la vetrina del negozio di articoli da regalo e la sfondò con i pugni. Poi, non sapendo che cos'altro fare, ritrasse le mani... con le unghie laccate color sangue di bue... e le sollevò sopra la testa, sanguinanti. Una donna si mise a gridare e la folla indietreggiò atterrita.
Di fronte a Davner's, a tre o quattro negozi di distanza, Nicholas Anson accarezzava la testa della renna viva. Quando vide Marilyn, le lanciò un amichevole sorriso infantile. Titolo originale: Within the Walls of Tyre Traduzione: Grazia Alineri H.P. Lovecraft I ratti nei muri Come ha sottolineato Barton L. St. Armand nel suo straordinario studio critico su Lovecraft (The Roofs of Horror), benché l'Autore rifiuti apertamente la contemporanea teoria psicoanalitica, I ratti nei muri è un capolavoro d'impostazione psicologica, che ripercorre con precisione lo schema di un famoso sogno di C. G. Jung. Il brano che riportiamo in questa antologia, infatti, si configura come un'avvincente storia di devoluzione psicologica, ma è anche, al tempo stesso, un esempio insolito di racconto dell'orrore sulle case stregate. In queste pagine il lettore non troverà che poche tracce del genere cosmico tipico dell'autore, ma avrà occasione di leggere un racconto che presenta, in quanto a struttura, maggiori attinenze con The Ash-Tree (Il frassino) di M.R. James, di quanto la critica abbia finora sottolineato. All'interno dell'opera di Lovecraft, I ratti nei muri fa da interessante contraltare a The Shunned House, l'altro suo racconto breve, e molto diverso, sulle case antiche. Il 16 luglio 1923, dopo che anche l'ultimo operaio ebbe terminato il proprio lavoro, mi trasferii nella Prioria di Exham. L'opera di restauro era stata un'impresa prodigiosa; ben poco era rimasto di quel grandioso edificio abbandonato, solo un rudere simile ad un vecchio guscio. Ma, trattandosi della dimora dei miei antenati, non mi ero lasciato dissuadere dall'ammontare delle spese. Quel luogo era disabitato ai tempi di Giacomo I, quando una tragedia terribile, e in gran parte misteriosa, si era abbattuta sul signore che vi dimorava, su cinque dei suoi figli e su numerosi servitori, risparmiando, sotto l'ombra del sospetto e del terrore, il terzo figlio, il mio avo in linea diretta e l'unico superstite di quella stirpe aborrita. Con questo solo erede accusato di omicidio, l'intera proprietà era ritornata per reversione alla corona, né l'uomo incriminato aveva cercato in alcun modo di discolparsi o di riprendersi ciò che era stato suo. Sconvolto da qualche cosa di
orribile che lo spaventava più della sua stessa coscienza o del giudizio della legge, e dopo aver espresso soltanto un disperato desiderio di cancellare quell'antico edificio dalla sua vista e dalla sua memoria, Walter de la Poer, undicesimo Barone di Exham, fuggì in Virginia, dove diede vita a una famiglia che, a distanza di un secolo, tutti conoscevano con il nome di Delapore. Successivamente, la Prioria di Exham, era stata assegnata alla famiglia Norrys che possedeva altre proprietà in quella regione — e studiata dagli esperti per la sua architettura particolarmente composita; un'architettura comprendente alcune torri gotiche, che si elevavano su una struttura sassone o romanica, le cui fondamenta, a loro volta, appartenevano a uno stile, o a una mescolanza di stili anteriori, romano, o forse druidico o cimbrico, se le leggende sono attendibili. Queste fondamenta erano davvero singolari, perché lungo un lato del palazzo esse si fondevano con il solido calcare del precipizio, dal cui orlo la prioria sovrastava una valle desolata che si stendeva tre miglia a ovest del paese di Anchester. Gli architetti e gli studiosi d'arte nutrivano un profondo interesse per questo strano rudere dei secoli passati, ma la gente del posto l'odiava. L'aveva odiato centinaia di anni prima, quando vi abitavano i miei antenati, e l'odiava anche oggi, ricoperto com'era di muschio e di muffe, testimoni del lungo periodo di abbandono. Ero arrivato ad Anchester soltanto da un giorno quando scoprii che discendevo da una stirpe maledetta. E ora, nel tempo della scrittura di queste note, la Prioria di Exham è stata accuratamente minata e fatta saltare acciocché nulla di essa restasse, neppure la benché minima traccia e vestigia. I fatti principali concernenti i miei avi li avevo appresi in Virginia; sapevo ben poco: accenni, frammenti appena persino sulle vicende più recenti come l'arrivo in America della mia progenie e il fatto che sul capo del mio primo antenato americano pendessero, al tempo, strani sospetti. Dei dettagli, tuttavia, ero stato tenuto completamente all'oscuro, a causa della reticenza sempre adottata dai Delapore. A differenza dei nostri vicini, anch'essi coloni, raramente ci vantavamo di annoverare, fra i nostri antenati, cavalieri che avevano preso parte alle crociate o altri eroi medievali e rinascimentali né ci era stato tramandato alcun genere di usanze o tradizioni, fatto salvo, forse, per quanto era contenuto nella busta sigillata che, prima della guerra civile, ogni proprietario terriero aveva consegnato al proprio figlio primogenito, da aprire in caso di morte. Le glorie che ci erano care erano quelle conquistate dopo l'immigrazione; le glorie di una stirpe della Virginia, fiera e onorata, benché forse un po' riservata e poco socievole.
Durante la guerra perdemmo tutti i nostri beni e, dopo l'incendio che distrusse Carfax, la casa in cui abitavamo sulle rive del James, la nostra vita cambiò completamente. Mio nonno, già avanti negli anni, morì in quell'incendio doloso, e con lui scomparve anche la busta che ci legava tutti al passato. Ancora oggi ricordo quell'incendio così come lo vidi allora, all'età di sette anni, con i soldati nordisti che urlavano, le donne che gridavano e i negri che piangevano e pregavano. Mio padre era nell'esercito, impegnato nella difesa di Richmond e dopo molte formalità mia madre e io riuscimmo a passare le linee e a raggiungerlo. Quando la guerra finì, ci trasferimmo tutti al Nord, da dove proveniva mia madre, e fu là che io diventai uomo, poi raggiunsi la mezza età e infine conquistai la ricchezza come un impassibile jankee. Né mio padre né io conoscevamo il contenuto della nostra busta di famiglia e, una volta immerso nel grigiore della vita commerciale del Massachussets, persi ogni interesse per i misteri che evidentemente si celavano nel mio albero genealogico. Se ne avessei sospettato la natura, quanto avrei lasciato volentieri che la Prioria di Exham marcisse insieme ai suoi muschi, ai suoi pipistrelli e alle sue ragnatele! Mio padre morì nel 1904, senza lasciare alcuno scritto né per me né per il mio unico figlio Alfred, un ragazzino di dieci anni orfano di madre. Fu questo ragazzo che rovesciò l'ordine delle informazioni in famiglia; perché, benché io non gli avessi suggerito che qualche ipotesi scherzosa sul nostro passato, fu lui che, nel 1917, quando l'ultima guerra lo portò in Inghilterra come ufficiale dell'aeronautica, mi scrisse parlandomi di alcune antiche leggende molto interessanti che riguardavano la nostra stirpe. Apparentemente i Delapore avevano una storia pittoresca e forse sinistra, perché un amico di mio figlio, il capitano Edward Norrys delle unità aeree britanniche, abitava vicino a quella che era stata un tempo la residenza della nostra famiglia, ad Anchester, e gli aveva parlato di alcune superstizioni popolari così spaventose e incredibili che pochi scrittori avrebbero potuto partorire idee tanto fantastiche. Norrys stesso, naturalmente, non vi prestava alcuna fede, ma mio figlio le trovava divertenti e ne traeva spunto per le lettere che mi scriveva. Furono queste leggende che mi convinsero a interessarmi della mia eredità oltreoceano e a comprare e far restaurare la casa di famiglia; Norrys l'aveva mostrata ad Alfred nel suo pittoresco stato di abbandono, e si era offerto di intervenire presso suo zio, che all'epoca ne era il proprietario, affinché me la vendesse a un prezzo sorprendentemente conveniente. Comprai la Prioria di Exham nel 1918, ma fui quasi subito distolto dai
miei progetti di ristrutturazione dal ritorno di mio figlio invalido dalla guerra. Nei due anni seguenti in cui visse, non feci altro che prendermi cura di lui, affidando addirittura i miei affari ai miei soci. Poi, nel 1921, quando mi ritrovai anziano industriale in pensione, senza il mio unico figlio e senza più scopi, decisi di dedicare gli anni che mi restavano da vivere al restauro della mia nuova proprietà. Andai ad Anchester in dicembre dove fui ospitato dal capitano Norrys, un giovane uomo affabile e robusto che aveva pensato molto a mio figlio, e che mi garantì il suo aiuto nel raccogliere piante e aneddoti per facilitare l'opera di restauro della mia futura dimora. La prima volta che vidi la Prioria di Exham non provai emozione alcuna; non era che un'accozzaglia di ruderi medievali pericolanti, ricoperti di licheni e pieni di nidi di corvi, appollaiata perigliosamente ai limiti di un precipizio, priva di pavimenti e di altre strutture interne a eccezione dei muri di pietra delle due torri. Non appena riuscii a ricostruire la fisionomia che l'edificio doveva avere avuto tre secoli prima quando vi vivevano i miei avi, cominciai ad assumere gli operai per i lavori di ristrutturazione. In ogni caso fui costretto a cercare la manodopera fuori del paese, perché gli abitanti di Anchester nutrivano una paura e un'avversione quasi inimmaginabili per quel luogo. E questi sentimenti erano così profondamente radicati in loro che a volte venivano trasmessi anche agli operai provenienti da fuori, provocando numerose defezioni; inoltre sembrava che non riguardassero soltanto la Prioria, ma anche l'antica famiglia che vi aveva abitato. Mio figlio mi aveva raccontato di come la gente, sapendo che era un De la Poer, lo avesse in qualche modo evitato, quando era andato a visitare il posto, e io stesso fui messo al bando per la stessa ragione, fino a quando riuscii a convincere gli abitanti del luogo che sapevo ben poco di quanto era accaduto in passato. Ma anche dopo, essi continuarono a dimostrarsi scortesi e avversi nei miei confronti, cosicché fui costretto ad apprendere la maggior parte delle tradizioni paesane attraverso la mediazione di Norrys. Quello che forse la gente non mi perdonava, era il fatto che io ero venuto a restaurare un simbolo che loro aborrivano: perché razionalmente o no, vedevano nella Prioria di Exham nient'altro che un covo di diavoli e di lupi mannari. Mettendo insieme le storie che Norrys raccoglieva per me, e integrandole con i resoconti di parecchi esperti che avevano studiato quelle rovine, ne dedussi che la Prioria di Exham sorgeva sulle vestigia di un tempio preistorico, un edificio druidico o pre-druidico che doveva risalire alla stessa
epoca di Stonehenge. Che in quel luogo fossero stati celebrati riti indicibili, pochi ne dubitavano; e circolavano anche alcune terribili storie sul passaggio di questi riti nel culto di Cibele, che era stato introdotto dai Romani. Ne davano inconfutabile conferma alcune iscrizioni ancora visibili sulle pareti dello scantinato come: DIV... OPS... MAGNA. MAT..., inneggianti alla Grande Madre, il cui culto sinistro era stato un tempo vanamente proibito ai cittadini di Roma. Anchester fu sede dell'accampamento della terza legione di Augusto, come testimoniano molti resti, e si diceva che il tempio di Cibele fosse stupendo e sempre gremito di fedeli che celebravano cerimonie innominabili agli ordini di un sacerdote frigio. Secondo questi stessi racconti il declino della vecchia religione non aveva segnato la fine dei riti orgiastici che avvenivano nel tempio, ma i sacerdoti di Cibele avevano abbracciato il nuovo culto senza modificare sostanzialmente le proprie tradizioni. Allo stesso modo si diceva che quei riti erano sopravvissuti anche al declino dell'Impero Romano, e che alcuni dei conquistatori sassoni avevano fatto ampliare ciò che restava del tempio, conferendogli la fisionomia che era destinato a conservare nel tempo e facendo di esso il centro di un culto temuto da metà dell'eptarchia. In una cronaca dell'anno 1000 viene citata l'esistenza, in questo luogo, di una prioria costruita di solida pietra che ospitava un ordine monastico sconosciuto e potente; da quella stessa fonte avevo inoltre appreso che essa era circondata da ampi giardini, che non avevano bisogno di mura per tenere lontano il popolo terrorizzato. Non fu mai distrutta dai Vichinghi, benché dopo la conquista normanna essa dovesse avere subito certamente un enorme declino; e questo spiega anche perché nel 1261 Enrico III poté farne dono, senza alcuna difficoltà, al mio antenato, Gilbert de la Poer, primo Barone di Exham. Anteriormente a questa data non esiste alcuna testimonianza della cattiva reputazione della mia famiglia; ma fu proprio allora che dovette accadere qualcosa di strano. In una cronaca del 1307 si legge infatti di un de la Poer maledetto da Dio, mentre le leggende popolari parlano di un terrore perverso e folle promanato dal castello, che risaliva alla fondazione del vecchio tempio e della prioria. Le storie che i contadini si erano tramandate di padre in figlio parlavano di cose terribili, tanto più spaventose perché avvolte nel mistero di una nebulosa ambiguità e di una voluta, spaventata reticenza. Dipingevano i miei avi come una razza di demoni ereditari, al cui confronto Gilles de Retz e il Marchese De Sade apparivano dei veri e propri novellini e accennavano sottovoce al loro coinvolgimento nella scomparsa di non pochi paesani nel corso di parecchie generazioni.
I tipi peggiori, apparentemente, erano i baroni e i loro diretti discendenti o, per lo meno, era di questi che si mormorava di più. Se qualcuno degli eredi manifestava tendenze più sane, si diceva, moriva prematuramente e in circostanze misteriose, per lasciare il posto a un altro rampollo più simile ai suoi consanguinei. Sembra che la famiglia praticasse un culto interno, presieduto dal capo della casa e al quale erano ammessi pochi membri. Ma a quanto sembra, la condizione essenziale per prendere parte a tali riti non era quella di appartenere alla stirpe dei de la Poer, bensì quella di possedere un particolare temperamento, visto che vi parteciparono parecchie persone che si erano sposate con membri della famiglia. Lady Margaret Tevor, della Cornovaglia, moglie di Godfrey, il secondogenito del quinto barone di Exham, passò alla storia nelle campagne circostanti come assassina di bambini, e divenne anche l'eroina demoniaca di una vecchia ballata particolarmente macabra, tutt'ora in voga nelle regioni di confine con il Galles. Narrata sempre in una ballata, anche se di genere diverso, è la terribile storia di lady Mary de la Poer che, poco dopo essere andata in sposa al Conte di Shrewsfield, fu uccisa da questi e da sua madre, e i due assassini furono assolti e benedetti dal prete al quale avevano confessato ciò che non osavano ripetere al mondo. Questi miti e queste ballate, così tipiche della più rozza superstizione, mi ripugnavano enormemente. M'irritava in particolar modo il fatto che fossero sopravvissute nel tempo e che riguardassero una così lunga schiera dei miei avi; mentre l'accusa di possedere inclinazioni perverse risvegliava nella mia memoria il ricordo spiacevole del solo scandalo di cui, per quanto ne sapevo, si era macchiato uno dei miei antenati più recenti, un mio cugino, il giovane Randoph Delapore di Carfax che, di ritorno dalla guerra contro il Messico, se n'era andato in mezzo ai negri ed era diventato un sacerdote vudù. Mi turbavano molto meno i racconti, più vaghi, di urla e gemiti che si udivano provenire dalla vallata, arida e battuta dal vento, che si stendeva ai piedi della rupe di calcare; dei fetori che giungevano dal cimitero dopo le piogge primaverili; di quella cosa bianca che una notte, in un campo deserto, si dibatteva stridendo sotto gli zoccoli del cavallo di sir John Clave e la storia del servitore impazzito per quello che aveva visto nella prioria in pieno giorno. Tutte queste cose non erano che luoghi comuni, fantasie popolari sui fantasmi, e io a quell'epoca ero decisamente scettico al riguardo. La scomparsa dei contadini era più difficile da spiegare, anche se non significava un gran che visti i costumi dell'epoca. Nel medioevo l'eccessiva
curiosità veniva punita con la morte e più di una testa mozzata era stata esposta pubblicamente sui bastioni, ora scomparsi, della Prioria di Exham. Alcuni dei racconti erano estremamente pittoreschi e mi rammaricavo di non aver approfondito, da giovane, lo studio della mitologia comparata. Era diffusa, ad esempio, la credenza che, ogni notte, una legione di diavoli con ali di pipistrello tenesse un sabba nella prioria... una legione la cui sopravvivenza si spiegava con l'abbondanza eccessiva delle grosse verdure che si raccoglievano negli ampi giardini che circondavano il palazzo. E, più vivida di tutte, era la drammatica epopea dei ratti, l'esercito agile e veloce di osceni roditori che era sgorgato all'improvviso dal castello tre mesi dopo la tragedia che l'aveva condannato all'abbandono: un esercito scarno, sudicio e vorace che aveva spazzato via tutto ciò che aveva incontrato sul percorso e che aveva divorato polli, cani, gatti, maiali, pecore e perfino due sventurati cristiani, prima che la sua furia si placasse. Su quell'indimenticabile esercito di roditori è nato un intero ciclo di leggende diverse, perché esso aveva invaso tutte le case del paese, portando ovunque orrori e sventure. Queste erano le tradizioni popolari con le quali ero costretto a confortarmi mentre, con quell'ostinazione che è tipica dei vecchi, esortavo gli operai a completare l'opera di restauro della mia antica dimora. Ma questi racconti non formavano certo il principale ambiente psicologico nel quale mi muovevo. Dall'altra parte ero costantemente elogiato e incoraggiato dal capitano Norrys e dagli studiosi d'arte che mi attorniavano e mi aiutavano. Quando i lavori furono ultimati, a due anni di distanza dal loro inizio, guardai con orgoglio le grandi stanze, i muri rivestiti di legno, i soffitti a volta, le finestre con i montanti e le scale ampie, e mi sentii pienamente ricompensato delle enormi spese che avevo sostenuto. Ogni attributo del medioevo era stato abilmente riprodotto e le nuove parti si fondevano perfettamente con le mura e le fondamenta originarie. La dimora dei miei avi era finita e, come ultima cosa, desideravo ardentemente riscattare la fama locale della stirpe di cui io ero l'ultimo discendente. Avrei vissuto lì per sempre e avrei dimostrato che essere un de la Poer (avevo adottato di nuovo la forma originaria del mio cognome) non significava necessariamente essere un demonio. Del resto anche la mia vita al castello era forse resa più confortevole dal fatto che, benché la Prioria di Exham fosse di epoca medievale, all'interno era tutto completamente nuovo e indenne dalla presenza di vecchi roditori e di vecchi fantasmi. Come ho già detto, mi trasferii nella prioria il 16 luglio 1923. La mia
famiglia era composta da sette servitori e nove gatti, una specie, quest'ultima, che amo in particolar modo. Il mio gatto più vecchio, Nigger-Man, aveva sette anni e mi aveva seguito in Inghilterra dopo che avevo lasciato la casa di Bolton, nel Massachussetts; gli altri li avevo raccolti mentre vivevo dal capitano Norrys, durante i lavori di ristrutturazione della prioria. Per cinque giorni la nostra vita procedette in maniera del tutto tranquilla e io trascorsi la maggior parte del mio tempo a catalogare antichi dati sulla mia famiglia. Ero già venuto in possesso di alcune notizie molto circostanziate sulla tragedia che aveva segnato la fine del mio casato e aveva determinato la fuga di Walter de la Poer; notizie che, immagino, rappresentassero anche il probabile contenuto dei documenti andati perduti nell'incendio di Carfax. Sembrava che quel mio antenato fosse stato accusato a ragione di aver ucciso nel sonno tutti gli altri membri della sua famiglia, a eccezione di quattro servitori che lo assistettero nell'impresa. E a quanto si diceva, egli aveva commesso quel crimine circa due settimane dopo avere fatto una scoperta sconvolgente: una scoperta che aveva mutato completamente la sua condotta, ma che, se non per allusioni e sottintesi, non rivelò mai a nessuno, tranne, forse, ai servitori che lo aiutarono e che in seguito fuggirono e non furono mai più catturati. Questa carneficina volontaria, che comprendeva l'uccisione di un padre, di tre fratelli e di due sorelle, fu ampiamente perdonata dagli abitanti del villaggio e trattata con tale trascuratezza dalla legge, che il suo perpetratore scappò in Virginia onorato, incolume e senza bisogno di nascondersi; perché tutti pensavano e mormoravano che egli avesse liberato quella terra da una maledizione che vi gravava da tempi assai remoti. Quale scoperta potesse avere provocato un gesto così terribile, non riuscivo neppure a immaginarlo. Walter de la Poer doveva conoscere già da anni le storie sinistre che circolavano sulla sua famiglia, cosicché i racconti che mi sono stati narrati non avrebbero dovuto rappresentare nulla di nuovo per lui. Aveva forse assistito a qualche macabro rito antico, oppure aveva scoperto qualche simbolo spaventoso e rivelatore, all'interno della prioria o nelle sue vicinanze? In Inghilterra di lui si diceva che era un ragazzo timido e gentile. In Virginia non era apparso tanto duro o spietato, quanto piuttosto angosciato e apprensivo. Un altro gentiluomo-avventuriero, Francis Harley di Bellview aveva parlato di lui nel suo diario come di un uomo d'impareggiabile rettitudine, onore e sensibilità. Il 22 di luglio si verificò il primo episodio che, benché in quell'occasione non vi avessi prestato particolare attenzione, assume oggi un significato
preternaturale in relazione a quanto accadde in seguito. Era così banale da essere quasi trascurabile, e forse, date le circostanze, nessuno l'avrebbe notato; perché va ricordato che siccome vivevo in un palazzo praticamente nuovo di zecca, fatta eccezione per i muri, ed ero circondato da un schiera di saggi servitori, qualsiasi forma di apprensione sarebbe stata assurda, nonostante il luogo e le storie che circolavano sul suo conto. Quello che ricordo a posteriori è soltanto questo, e cioè che il mio vecchio gatto nero, di cui conosco così bene gli umori, era senza dubbio vigile e agitato in misura del tutto insolita per il suo carattere. Vagava di stanza in stanza, inquieto e turbato, annusando in continuazione i muri che appartenevano alla vecchia struttura gotica. Mi rendo conto di come quest'episodio possa risultare banale, come l'immancabile cane nelle storie di fantasmi che ringhia sempre prima che agli occhi del suo padrone si palesi la figura avvolta dal lenzuolo; eppure, se devo essere fedele ai fatti, non posso tralasciarlo. Il giorno seguente uno dei servitori si lamentò dell'irrequietezza che sembrava essersi impadronita di tutti i gatti della casa. Venne da me nel mio studio, una stanza molto alta, situata al secondo piano e rivolta a occidente, con gli archi a costoloni, il rivestimento in quercia nera e una trifora gotica che sovrasta il precipizio di calcare e la valle desolata; mentre lui parlava io vedevo la sagoma nera di Nigger-Man strisciare contro il muro occidentale e graffiare i nuovi pannelli che ricoprivano l'antica pietra. Io gli risposi che da quei vecchi muri di pietra doveva provenire qualche strano odore o qualche emanazione, che, per quanto i nostri sensi non ne percepissero la presenza, erano evidentemente in grado di colpire i delicati organi dei gatti anche attraverso il nuovo rivestimento di quercia. Di questo ero fermamente convinto, al punto che quando il mio servitore ipotizzò la presenza di topi o ratti, io gli risposi che in quel luogo non vi erano ratti da trecento anni e che non si sarebbe trovata traccia neanche di topolini di campagna in quei muri alti, dove nessuno li aveva mai visti vagare. Quel pomeriggio feci visita al capitano Norrys, il quale mi assicurò che era del tutto impensabile che i topi delle vicine campagne potessero avere infestato la priora in maniera così rapida e senza precedenti. Quella notte, rinunciando, come sempre, all'assistenza del mio valletto personale, mi ritirai nella camera della torre occidentale che avevo scelto come stanza da letto, e alla quale si accedeva dallo studio attraverso una scala di pietra e una breve galleria: la prima metà antica, la seconda completamente restaurata. Era una stanza a pianta circolare, con il soffitto mol-
to alto e in cui l'unica grande parete, a differenza di quelle del resto della casa, non era rivestita di pannelli di legno, ma ricoperta di arazzi che io stesso avevo scelto a Londra. Vedendo che Nigger-Man era con me, chiusi la pesante porta gotica e mi ritirai alla luce delle lampadine elettriche che sostituivano le candele, imitandone ingegnosamente la forma. Quindi, dopo averne spento la lampada, sprofondai nel letto a baldacchino intarsiato, mentre il mio venerabile gatto si accoccolava al suo solito posto, sopra i miei piedi. Non tirai le tende, ma fissai la stretta finestra rivolta a nord che avevo di fronte. C'era un vago chiarore lunare nel cielo e il delicato intreccio che decorava i vetri vi si stagliava in tutta la sua eleganza. A un certo punto devo essermi tranquillamente addormentato, perché ricordo la chiara sensazione di avere interrotto sogni strani, quando, d'improvviso, il gatto, con uno scatto violento, abbandonò la sua placida posizione. Lo vidi nel tenue chiaroscuro dell'alba, il muso proteso in avanti, le zampe anteriori sulle mie caviglie e quelle posteriori allungate all'indietro. Stava fissando intensamente un punto sul muro, leggermente a ovest della finestra, un punto che ai miei occhi non tradiva nulla di speciale, ma verso il quale era adesso rivolta tutta la mia attenzione. E mentre l'osservavo, capivo che Nigger-Man non era agitato senza ragione. Se veramente l'arazzo si muovesse non potrei affermarlo con assoluta certezza. Ma penso di sì, anche se molto lievemente. Ma ciò su cui posso giurare, è che dietro ad esso udivo il rumore, basso ma distinto, di una corsa confusa, come di topi o ratti. Dopo un istante il gatto balzò con tutto il suo peso sull'arazzo che schermava quel tratto di parete trascinandolo a terra, e mettendo così a nudo un antico e umido muro di pietra, rappezzato qua e là dai muratori e assolutamente privo di qualsiasi traccia di voraci roditori. Ma Nigger-Man continuò a correre su e giù lungo quella porzione di muro, lacerando l'arazzo caduto e cercando di tanto in tanto, di inserire una zampa fra la parete e il pavimento di quercia. Non trovò nulla e, dopo un po', ritornò stancamente al suo posto, sopra i miei piedi. Io non mi ero mosso, ma non riuscii più a prendere sonno. Al mattino interrogai tutti i servitori, ma nessuno di loro rammentava di avere notato nulla di strano, a eccezione della cuoca che mi raccontò del singolare comportamento di un gatto che la sera precedente si era addormentato sul suo davanzale. A un'ora imprecisata della notte il gatto in questione aveva preso a miagolare, svegliando la cuoca, che aveva fatto in tempo a vedere l'animale scagliarsi deliberatamente giù per le scale attraverso la porta aperta della camera. Trascorsi le ore del mezzogiorno son-
necchiando e, nel pomeriggio feci di nuovo visita al capitano Norrys che dimostrò un estremo interesse per quanto gli raccontai. Quegli strani episodi, così irrilevanti ma al tempo stesso così curiosi, facevano leva sul suo senso del pittoresco e suscitavano in lui molte reminiscenze delle tradizioni locali sui fantasmi. Eravamo sinceramente perplessi all'idea che vi fossero dei ratti, e Norrys mi prestò alcune trappole e del verde di Parigi che, al mio ritorno, ordinai ai servitori di piazzare in alcuni punti strategici. Mi ritirai presto, quella sera, perché avevo molto sonno, ma fui tormentato da sogni spaventosi. Avevo l'impressione di trovarmi a un'enorme altezza e di vedere in basso una grotta buia, piena di sporcizia fino all'altezza del ginocchio, dove un porcaio, dal sembiante demoniaco e dalla barba bianca, spingeva con il bastone un gregge di bestie fungose e flaccide, il cui aspetto mi ripugnava in modo indicibile. Poi, mentre il porcaio si fermava e il capo gli crollava sul petto per il sonno, un'immensa orda di ratti si riversava in quell'abisso puzzolente e iniziava a divorare indifferentemente le bestie e l'uomo. Da questa visione terrificante fui risvegliato d'un tratto dai movimenti di Nigger-Man, che, come sempre, dormiva sopra i miei piedi. Questa volta non ebbi bisogno di chiedermi il motivo dei suoi ringhi e dei suoi sibili, e della paura che lo induceva a affondare gli artigli nelle mie caviglie, ignaro degli effetti che produceva: perché ogni parete della stanza era viva e vibrante di un rumore nauseante... la viscida corsa furtiva di ratti giganteschi e voraci. Quella notte non c'erano chiarori lunari a illuminare gli arazzi — la parte caduta era stata sostituita — ma il terrore non m'impedì di accendere immediatamente la luce. E quando le lampadine guizzarono radiose nell'oscurità della camera, vidi gli arazzi tremare orribilmente, mentre i disegni piuttosto particolari che li adornavano eseguivano una singolare danza di morte. Questo movimento scomparve quasi all'istante e, con esso, il rumore. Dopo essere saltato giù dal letto, colpii leggermente gli arazzi con il lungo manico di uno scaldaletto appoggiato per terra, e poi ne sollevai un lembo per vedere che cosa vi si si celasse dietro. Ma non vidi nulla, se non il muro di pietra rappezzato, e del resto ormai neppure il gatto mostrava di percepire più inquietanti presenze aliene. Quando esaminai la trappola circolare che era stata piazzata nella stanza, mi accorsi che la molla era scattata, benché non vi fosse traccia alcuna di ciò che era stato catturato e che evidentemente era riuscito a fuggire. Di tornare a dormire quella notte non se ne parlava neppure; così, dopo
avere acceso una candela, aprii la porta e passai nella galleria che dava accesso alla scala che, a sua volta, conduceva al mio studio. Nigger-Man mi seguiva alle calcagna. Ma prima che io potessi raggiungere i gradini di pietra, il gatto mi superò con un balzo e scomparve giù per l'antica scalinata. Nello scendere io stesso le scale udii improvvisamente un rumore provenire dalla stanza sottostante; un rumore della cui natura era impossibile dubitare. I muri ricoperti di pannelli di legno vibravano per la corsa disordinata e convulsa dei ratti, mentre Nigger-Man si precipitava da una parte e dall'altra con la rabbia di un cacciatore eluso dalla sua preda. Arrivato in fondo accesi la luce, che, questa volta, non fece cessare il rumore. I ratti continuarono la loro corsa tumultuosa, producendo un rumore così forte e distinto, che alla fine riuscii a individuare la direzione nella quale si muovevano. Queste creature, il cui numero sembrava apparentemente infinito, erano impegnate in una grandiosa migrazione da altezze inimmaginabili verso qualche abisso verosimilmente o inverosimilmente situato sotto di noi. Poco dopo udii anche il rumore di passi nel corridoio e nel giro di pochi istanti due servitori aprirono la porta massiccia. Stavano setacciando la casa, alla ricerca della causa sconosciuta che aveva provocato il panico fra i gatti, inducendoli a soffiare minacciosi e a correre precipitosamente giù per le diverse scale per poi acquattarsi miagolando davanti alla porta chiusa dello scantinato. Io chiesi loro se avessero sentito i topi, ma risposero di no. E mentre stavo per richiamare la loro attenzione sul frastuono proveniente dai pannelli di legno, mi resi conto che il rumore era cessato. Con i due uomini scesi fino alla porta dalla quale si accedeva allo scantinato, ma quando arrivammo i gatti si erano già dileguati. Più tardi decisi d'ispezionare la cripta sottostante, ma per il momento mi limitai a fare il giro delle trappole. Erano tutte scattate, ma prive di piede. Convinto che nessuno avesse sentito i ratti, a eccezione del sottoscritto e dei felini, sedetti nel mio studio fino al mattino, meditando e cercando di ricordare ogni frammento di leggenda che avevo scoperto riguardo all'edificio in cui abitavo. Infine, mi addormentai appoggiato allo schienale dell'unica comoda poltrona a cui non avevo voluto rinunciare nel mio progetto di arredamento medievale. Più tardi telefonai al capitano Norrys, che venne da me e mi aiutò a esplorare lo scantinato. Non trovammo assolutamente nulla di spaventoso, anche se non potemmo evitare di rabbrividire, sapendo che quel sotterraneo a volta era stato costruito dai romani. Ogni arco basso e ogni colonna massiccia erano opere di arte romana, non il romanico degradato
dei Sassoni pasticcioni, ma il severo e armonioso classicismo dell'età dei Cesari; e infatti i muri abbondavano di iscrizioni note agli studiosi d'arte che avevano ripetutamente ispezionato il posto, cose del tipo: P.GETAE.PROP... TEMP... DONA...; e: L. PRAEC... VS... PONTIFI... ATYS... Il riferimento ad Atys mi fece rabbrividire, perché avevo studiato Catullo e avevo letto degli orrendi riti celebrati in onore di quel dio orientale, il cui culto era mescolato con quello di Cibele. Alla luce delle nostre lanterne, Norrys e io cercammo d'interpretare gli strani disegni, quasi cancellati, che adornavano certi blocchi di pietra di forma pressoché rettangolare, generalmente ritenuti altari: ma non riuscimmo a capirci nulla. Ci ricordavamo che secondo alcuni studiosi uno di quei motivi, una specie di sole con i raggi, implicava un'origine non romana, e indicava, pertanto, che i sacerdoti romani avevano semplicemente adottato quegli altari, che erano di origine più antica e forse provenivano da un tempio autoctono che sorgeva nel medesimo luogo. Su uno di quei blocchi c'erano alcune macchie marroni che mi fecero pensare. Quello più grande, situato al centro della stanza, presentava alcune tracce che indicavano un nesso con il fuoco: si trattava, probabilmente, di offerte sacrificali bruciate. Questo era ciò che si vedeva all'interno della cripta, davanti alla cui porta i gatti si erano fermati a miagolare e dove io e Norrys eravamo decisi a trascorrere la notte. I servitori portarono giù dei divani e io dissi loro di non curarsi del comportamento notturno dei gatti. Nigger-Man fu ammesso nella stanza, sia perché avrebbe potuto esserci di aiuto, sia perché ci facesse compagnia. Decidemmo di tenere saldamente chiusa la grande porta di quercia — una versione moderna di quella originale, dotata di aperture per la ventilazione — e, dopo esserci accertati che così fosse, ci ritirammo con le lanterne ancora accese in attesa di ciò che sarebbe potuto accadere. Lo scantinato si trovava nella parte più bassa della prioria, in prossimità delle fondamenta, e senza dubbio costeggiava per molti metri la rupe di calcare a strapiombo che sovrastava la sterile vallata. Che questa fosse la meta verso la quale quei ratti misteriosi si erano precipitati la notte precedente, non avevo alcun dubbio, anche se non sapevo spiegarmene la ragione. Mentre ce ne stavamo lì in attesa, mi accorsi che la mia veglia era di tanto in tanto intervallata da sogni appena accennati, dai quali mi riscuotevano i movimenti irrequieti del gatto disteso ai miei piedi. Quei sogni non erano affatto normali né rassicuranti, ma spaventosamente simili a quello che avevo fatto la notte precedente. Vidi di nuovo la grotta buia e il por-
caio che con le sue bestie innominabili e fungose sguazzava nel sudiciume; e mentre li guardavo, quegli esseri mi sembravano sempre più vicini e più distinti, così distinti che potevo quasi discernerne i lineamenti. Poi osservai i tratti flaccidi di uno di loro e mi svegliai di soprassalto urlando così forte che Nigger-Man spiccò un balzo, mentre il capitano Norrys, che non si era addormentato scoppiò in una fragorosa risata. Forse Norrys avrebbe riso di più, o forse di meno, se avesse saputo che cosa mi aveva indotto a urlare. Ma io stesso non me ne ricordai fino a qualche ora più tardi. Spesso gli orrori più grandi hanno il potere di paralizzare pietosamente la memoria. Norrys mi svegliò quando i fenomeni ebbero inizio. Stavo facendo quello stesso sogno terribile, quando lui mi scosse gentilmente, esortandomi ad ascoltare i gatti. E in verità c'era di che ascoltare, perché oltre la porta chiusa, ai piedi della scalinata di pietra, si udiva un vero inferno di urla e raspamenti felini; mentre Nigger-Man, incurante dei suoi simili là fuori, correva eccitato lungo le nude pareti di pietra, all'interno delle quali udivo la stessa corsa affannata e confusa che mi aveva turbato la notte precedente. Fui sopraffatto da un profondo terrore perché questi erano fenomeni per i quali era impossibile trovare una spiegazione razionale. Era chiaro che quei ratti, o forse si trattava di creature partorite da una follia che condividevo soltanto con gatti, stavano scavando dei cunicoli e scivolavano all'interno di quei muri romani che io pensavo fossero fatti di solidi blocchi calcarei... a meno che l'azione esercitata dall'acqua per oltre diciassette secoli non avesse eroso la pietra, creando gallerie tortuose che i roditori avevano lentamente svuotato e ampliate... Ma anche se così fosse stato, quell'orrore spettrale non sarebbe stato minore: se quelli erano animalacci vivi, perché mai Norrys non sentiva il loro disgustoso scompiglio? Perché mi esortava a guardare Nigger-Man e ad ascoltare i gatti fuori della porta, e perché avanzava ipotesi vaghe e insensate sulla causa della loro eccitazione? Ma quando finalmente riuscii a spiegargli, nel modo più razionale possibile, ciò che io credevo di udire, alle mie orecchie giunse l'ultima fievole eco di quella corsa agile e forsennata che procedeva ancora più giù, oltre lo scantinato in cui ci trovavamo (e che era quello situato nella parte più bassa dell'edificio), finché ebbi la sensazione che l'intera rupe sottostante traboccasse di ratti impazziti. Norrys non si dimostrò incredulo come mi aspettavo, ma al contrario mi parve profondamente turbato. M'indicò con un cenno la porta per farmi notare che i gatti si erano acquietati, come se avessero dato i topi per persi, mentre Nigger-Man era stato colto da un
nuovo accesso di inquietudine e stava raspando disperatamente intorno alla base del grande altare di pietra collocato al centro della stanza, che era più vicino al giaciglio di Norrys che al mio. A questo punto la mia paura dell'ignoto divenne estrema. Era accaduto qualche cosa di sbalorditivo e io mi accorsi che il capitano Norrys, un uomo più giovane, più forte e presumibilmente per sua stessa natura più materialista di me, era tanto scosso quanto lo ero io, forse a causa della sua profonda conoscenza delle leggende locali. Per il momento non potemmo fare nient'altro che osservare il vecchio gatto nero raspare con sempre minor fervore intorno alla base dell'altare, alzando di tanto in tanto gli occhi verso di me, e miagolando con quel tono persuasivo di cui era solito servirsi quando desiderava chiedermi un favore. A quel punto Norrys avvicinò la lanterna all'altare ed esaminò l'area in cui Nigger-Man stava raspando; poi s'inginocchiò silenziosamente e iniziò a raschiare via i licheni che da secoli univano il massiccio blocco preromano al pavimento decorato con un mosaico a scacchiera. Non trovò nulla e stava per rinunciare all'impresa quando io notai una cosa, di per sé insignificante, ma che mi fece rabbrividire, benché non implicasse nulla di più di quanto non avessi già immaginato. Gliene parlai, ed entrambi ne osservammo la manifestazione quasi impercettibile con la fissità di chi è affascinato da una nuova scoperta. Si trattava semplicemente di questo, che la fiamma della lanterna, appoggiata vicino all'altare, tremolava leggermente ma in modo affatto innegabile, a causa di una lieve corrente d'aria che prima non l'aveva investita e che proveniva senz'ombra di dubbio, dalla fessura fra il pavimento e l'altare dove Norrys aveva rimosso i licheni. Trascorremmo il resto della notte nel mio studio, illuminato a giorno, discutendo nervosamente sul da farsi. La scoperta che un sotterraneo più profondo di quella che era ritenuta la più profonda struttura muraria romana, fosse alla base di quell'edificio maledetto, un sotterraneo di cui per tre secoli gli studiosi d'arte non avevano neppure sospettato l'esistenza, sarebbe stata sufficiente già da sola a suscitare la nostra inquietudine, senza il concorso di antefatti sinistri. Il fascino, legato a questo nuovo stato di cose, era di duplice natura; e noi ci fermammo a riflettere, incerti se rinunciare alla nostra ricerca e abbandonare per sempre la prioria, per una sorta di prudenza legata alla superstizione, oppure soddisfare il nostro senso di avventura e affrontare con coraggio qualsiasi orrore ci potesse attendere in quelle profondità sconosciute. Quando giunse l'alba avevamo raggiunto un compromesso: decidemmo di andare a Londra per riunire un gruppo di ar-
cheologi e uomini di scienza avvezzi e disposti ad affrontare il mistero. È giusto, tuttavia, ricordare che prima di lasciare lo scantinato avevamo provato invano a rimuovere l'altare centrale, nel quale ora vedevamo la porta d'ingresso verso un nuovo abisso di paura indicibile. Quali segreti si celassero dietro quella porta, lo avrebbero scoperto uomini più saggi di noi. Durante la nostra lunga permanenza a Londra, il capitano Norrys e io illustrammo i fatti, le nostre congetture e i vari aneddoti leggendari che riguardavano la prioria a cinque eminenti autorità, tutti uomini che, senz'ombra di dubbio, avrebbero mantenuto il più rispettoso riserbo circa ogni scoperta concernente la mia famiglia alla quale fossimo pervenuti nel corso delle nostre future esplorazioni. Inoltre scoprimmo che la maggior parte di loro era ben poco incline a farsi beffe di noi, ma che, anzi, si dimostrava profondamente interessata e sinceramente disposta a crederci. Non è necessario nominarli tutti, ma posso dirvi che tra di loro c'era sir William Brinton, i cui scavi nella Troade avevano entusiasmato il mondo intero, negli anni precedenti. Quando prendemmo tutti insieme il treno per Anchester, io mi sentii sospeso ai limiti di un baratro di rivelazioni terribili, una sensazione simboleggiata dall'aria di lutto condivisa da molti americani di fronte alla morte inaspettata del loro presidente, dall'altra parte del mondo. La sera del 7 agosto arrivammo alla Prioria di Exham, dove i servitori mi assicurarono che durante la mia assenza non si era verificato nulla di strano. I gatti, compreso il vecchio Nigger-Man, erano rimasti perfettamente tranquilli, e nessuna delle trappole era scattata. Dovevamo iniziare l'esplorazione il giorno seguente, e così, nell'attesa, assegnai a ciascuno dei miei ospiti una stanza ben arredata. Io stesso mi ritirai nella mia camera situata nella torre, con Nigger-Man ai miei piedi. Mi addormentai subito, ma ancora una volta fui assalito da sogni terribili. Dapprima vidi un banchetto romano simile a quello di Trimalcione, con una cosa orribile su un piatto da portata coperto. Poi fu la volta di quella odiosa e ricorrente visione del porcaio e del suo sudicio gregge nella grotta buia. Ma quando mi svegliai era pieno giorno e dalle stanze sottostanti provenivano rumori normali. I topi, reali o spettrali che fossero, quella notte non mi avevano tormentato e Nigger-Man stava ancora dormendo placidamente ai miei piedi. Una volta sceso ai piani inferiori mi accorsi che la stessa tranquillità aveva regnato anche nel resto della casa, una circostanza che uno dei consulenti che avevo convocato, un tizio di nome Thornton, esperto di fenomeni paranormali aveva, piuttosto assurdamente, attribuito al fatto che quello che certe forze
avevano desiderato farmi vedere già mi era stato mostrato. Tutto era ormai pronto, e alle undici antimeridiane il nostro gruppo, formato da sette uomini e munito di potenti torce elettrice e di arnesi di scavo, discese nello scantinato e chiuse la porta alle proprie spalle. NiggerMan era con noi, perché gli studiosi non videro motivo di disprezzare la sua eccitabilità ed anzi, desideravano ardentemente che fosse presente, in caso ci fossimo trovati faccia a faccia con gli oscuri roditori. Non demmo che una rapida occhiata alle iscrizioni romane e agli ignoti disegni che adornavano gli altari, perché tre degli studiosi li avevano già visti, e tutti ne conoscevano le caratteristiche. Prestammo invece la massima attenzione all'imponente altare centrale e, dopo un'ora, sir William Brinton riuscì a farlo inclinare su di un lato, tenendolo in equilibrio con una strana specie di contrappeso. Davanti ai nostri occhi apparve in quell'istante una scena tanto spaventosa che l'orrore ci avrebbe sopraffatto, se non fossimo stati preparati. Attraverso un'apertura, all'incirca quadrata, del pavimento, scorgemmo, sparsa disordinatamente sui gradini di una scala di pietra, così straordinariamente consunti da formare nella parte centrale poco più di un piano inclinato, un'orrenda schiera di ossa umane o semi-umane. Quelle che ancora mantenevano l'ordine originale dello scheletro, tradivano atteggiamenti di terrore panico e, su tutte erano visibili i segni dei morsi dei roditori. I teschi appartenevano a individui affetti da totale idiozia o cretinismo, oppure a proscimmie. Quegli scalini, che offrivano una simile visione infernale, erano sovrastati da un passaggio a volta apparentemente scavato nella solida roccia, attraverso il quale giungeva una corrente d'aria. Non si trattava di una folata d'aria improvvisa e sgradevole, come quelle che di solito provengono da un sotterraneo chiuso, ma di una brezza fresca che sembrava arrivare dall'esterno. Non indugiammo a lungo, ma rabbrividendo cominciammo ad aprirci un varco lungo la scala. Fu allora che sir William, esaminando le pareti, fece una strana osservazione, e cioè che a giudicare dalla direzione dei colpi di scalpello, quella galleria doveva essere stata scavata dal basso. Giunto a questo punto devo procedere più lentamente nella mia narrazione e scegliere accuratamente le parole. Dopo avere disceso i primi scalini, avanzando a fatica fra le ossa rosicchiate, ci accorgemmo che più avanti si intravvedeva una luce: e non si trattava di una fosforescenza misteriosa, ma di un raggio di sole, che non poteva penetrare se non attraverso ignote fessure scavate nella rupe che sovrastava la valle desolata. Che nessuno avesse mai notato quelle fessure
dall'esterno non era certo strano, visto che non solo la valle è da tempo completamente disabitata, ma che la rupe stessa è così alta e ripida che soltanto un aeronauta avrebbe potuto studiare quella parete in dettaglio. Ancora pochi scalini e ciò che comparve ai nostri occhi ci lasciò letteralmente senza fiato; al punto che Thornton, il nostro esperto in fenomeni paranormali, svenne nelle braccia dell'uomo sbalordito che lo seguiva. Norrys si limitò a lanciare un grido inarticolato, mentre il suo volto paffuto divenne d'un tratto bianco e flaccido. Io, a mia volta, penso di avere semplicemente emesso un suono strozzato o un sibilo, prima di coprirmi gli occhi con le mani. L'uomo che era dietro di me, l'unico del gruppo più anziano del sottoscritto, gracchiò: «Mio Dio!» con la voce più tremante che mai mi sia capitato di udire. Di sette uomini colti che eravamo, sir William Brinton fu il solo a mantenere il controllo di sé, cosa questa che gli rende tanto più onore in quanto era lui alla testa del gruppo e pertanto doveva avere visto per primo la scena. Di fronte a noi si apriva una grotta buia che si estendeva al di là del limite a cui poteva giungere il nostro occhio: un mondo sotterraneo d'infinito mistero e di orribili suggestioni. Vi erano costruzioni ed altri ruderi architettonici; mi guardai rapidamente intorno con terrore e scorsi un tumulo di forma strana, un rozzo circolo di monoliti, una rovina romana sovrastata da una cupola bassa, una pira sassone e un edificio in legno del primo periodo inglese; ma tutto ciò appariva insignificante di fronte allo spettacolo mostruoso offerto dalla generale superficie del terreno: per metri e metri intorno ai gradini si stendeva un folle intreccio di ossa umane, o per lo meno umane quanto lo erano quelle sulle scale; si perdevano in lontananza come un mare spumoso: alcune erano frammentate, altre ancora articolate a formare scheletri completi. E questi ultimi conservavano tutti pose che tradivano una demoniaca follia, come se tentassero di difendersi strenuamente da una minaccia o di afferrare altre forme con intenzioni cannibali. Quando il dottor Trask, l'antropologo, si chinò per cercare di classificare i teschi, si trovò di fronte a una mescolanza di resti che lo sconcertò. Appartenevano per lo più a esemplari anteriori all'uomo di Piltdown nella scala evolutiva, ma in ogni caso si trattava certamente di teschi umani. Molti risalivano a epoche successive, mentre solo alcuni erano attribuibili a uomini più evoluti ed intelligenti. Tutte le ossa apparivano rosicchiate, per lo più dai topi, ma in parte dagli stessi componenti di quel branco semiumano. Mescolate a queste si intravvedevano anche numerose minuscole ossa di ratti, i ratti che avevano ingrossato le fila di quell'esercito letale che
aveva suggellato la fine dell'antica epopea. Mi chiesi come ognuno di noi sarebbe potuto sopravvivere e conservare la propria sanità mentale dopo quel giorno di orrende scoperte. Neppure Hoffman o Huysmans avrebbero potuto immaginare una scena più pazzesca e incredibile, più delirante e repellente, o più grottesca, nelle sue forme gotiche, di quella grotta buia nella quale noi sette arrancavamo sbalorditi, imbattendoci in continue scoperte e cercando per il momento di non pensare agli eventi che dovevano avere avuto luogo in quel posto, trecento, mille, duemila o forse tremila anni prima. Era l'anticamera dell'inferno e il povero Thornton svenne nuovamente quando Trask gli disse che alcuni di quegli scheletri dovevano essere appartenuti a quadrupedi. A quell'orrore si aggiunse nuovo orrore quando incominciammo a capire il significato delle vestigia architettoniche. Quelle cose a quattro zampe, e i loro occasionali compagni bipedi, erano stati tenuti rinchiusi in recinti di pietra, dai quali dovevano essere fuggiti, abbattendoli, in preda agli ultimi deliri della fame o della paura dei topi. Certamente, in quel posto, erano state imprigionate enormi masse, nutrite a forza con scadenti verdure delle quali ancora si scorgevano i resti, quasi si trattasse di un velenoso insilamento, sul fondo di enormi vasi di pietra più antichi di Roma. Ora comprendevo perché i miei avi possedevano giardini tanto estesi! Volesse il cielo che io potessi dimenticarli! Per quale scopo venissero tenuti prigionieri quegli esseri non avevo bisogno di chiederlo. Sir William, illuminando con la sua torcia il rudere romano, traduceva ad alta voce i testi dei riti più sconvolgenti che io mai avessi udito; e ci parlò delle norme alimentari su cui si basava quel culto antidiluviano, norme che i sacerdoti di Cibele scoprirono e mescolarono con le loro. Norrys, pur abituato com'era alle trincee, non riuscì a camminare eretto quando uscì dall'edificio in legno del primo periodo costituito da un macello e una cucina. Anche per il buon capitano il rinvenimento in quel luogo di arnesi familiari e di scritte inglesi risalenti per lo più al 1610, era stato troppo. Io non riuscii a entrare in quell'edificio, quell'edificio che era stato teatro di pratiche demoniache, fino a quando il pugnale del mio antenato, Walter de la Poer, vi aveva posto fine. Quella in cui mi arrischiai a entrale fu la bassa costruzione sassone, priva dell'originaria porta di quercia, in cui trovai una orribile fila di dieci celle di pietra chiuse da inferriate arrugginite. Tre erano abitate, tutte da scheletri di grado superiore, uno dei quali portava all'indice un anello con sigillo recante il mio blasone. Sir William scoprì un sotterraneo con celle anco-
ra più antiche sotto la cappella romana, ma quelle celle erano vuote. Al di sotto di queste vi era una cripta bassa, nella quale rinvenimmo alcune casse contenenti ossa disposte secondo un preciso cerimoniale: su alcune di esse spiccavano terribili iscrizioni parallele intagliate in caratteri latini, greci e frigi. Nel frattempo, il dottor Trask aveva scoperchiato uno dei tumuli preistorici e aveva portato alla luce alcuni teschi che mostravano caratteristiche leggermente più umane di quelle di un gorilla e presentavano intagli ideografici indescrivibili. In mezzo a tutto questo orrore il mio gatto camminava impettito e imperturbabile. Una volta lo vidi appollaiato su una mostruosa montagna di ossa e mi chiesi quali segreti si celassero dietro i suoi occhi gialli. Dopo avere afferrato a grandi linee le spaventose rivelazioni di quel luogo oscuro, il luogo che mi era stato così orrendamente anticipato dal mio sogno ricorrente, rivolgemmo la nostra attenzione a quella caverna buia come la notte e apparentemente illimitata, dove neppure il minimo raggio di luce filtrante dalla rupe riusciva a penetrare. Non sapremo mai quali oscuri mondi stigi si spalancassero oltre la breve distanza che percorremmo, perché fu unanimemente deciso che simili segreti non erano propizi per l'umanità. Del resto ciò che si profilò in breve ai nostri occhi fu più che sufficiente ad assorbire tutta la nostra attenzione, perché non avevamo fatto che pochi passi quando le torce illuminarono quella maledetta infinità di pozzi in cui i ratti avevano banchettato e nei quali l'improvvisa carenza di cibo aveva spinto quell'esercito vorace di roditori ad assalire dapprima le masse di prigionieri morenti, e poi a riversarsi fuori dalla prioria in quella storica orgia di devastazione che i contadini non dimenticheranno mai. Mio Dio! Quei pozzi neri e putridi, pieni di ossa fatte a pezzi e spolpate, e di teschi squarciati! Quegli abissi stipati di ossa di pitecantropi, di celtici, di romani e di inglesi nel corso d'innumerevoli secoli di empietà! Alcuni di essi erano pieni e nessuno poteva dire quanto fossero stati profondi in origine. Di altri non si intravvedeva neppure il fondo alla luce delle torce, ed erano popolati di fantasie innominabili. Che ne era, mi chiesi, di quegli sventurati ratti che cadevano in quelle trappole mentre cercavano il cibo nell'oscurità di quest'orrendo Tartaro? A un certo punto il mio piede scivolò vicino all'orlo di uno di quegli orrendi baratri e io fui colto da una paura mista a estasi. Devo essermi soffermato a lungo a meditare, perché non vidi più nessuno del gruppo a eccezione del paffuto capitano Norrys. Poi udii un suono provenire da quell'abisso, infinito e nero come l'inchiostro, che mi parve familiare, e vidi il
mio gatto superarmi con un balzo e precipitarsi, simile a un dio alato egiziano, in quell'illimitato precipizio dell'ignoto. Ma io non ero molto lontano, perché dopo un altro secondo non ebbi più dubbi: il rumore che ora sentivo era la misteriosa corsa confusa di quei topi demoniaci, sempre alla ricerca di nuovi orrori e decisi a trascinarmi in quelle caverne ghignanti del centro della terra dove Nyarlathotep, il dio folle e senza volto, urla ciecamente nell'oscurità, accompagnato da due amorfi e idioti suonatori di flauto. La mia torcia si spense ma io continuai a correre. Udivo voci, grida ed echi, ma sopra tutti emergeva, delicato, il rumore di quell'empia corsa, insidiosa e confusa. Emergeva, emergeva delicatamente, come un cadavere rigido e gonfio emerge da un fiume oleoso, che scorre sotto infiniti ponti di onice verso un mare nero e putrido. Urtai qualche cosa, qualche cosa di soffice e di paffuto. Dovevano essere i ratti, quel viscido, gelatinoso esercito vorace che banchettava con i vivi e con i morti... Perché i ratti non avrebbero dovuto mangiare un de la Poer, visto che un de la Poer mangiava cose proibite?... La guerra si era mangiata mio figlio, maledetta... e gli yankees avevano distrutto Carfax con il fuoco uccidendo il nonno Delapore che aveva portato con sé il segreto... No, no, vi dico che io non sono il porcaio demoniaco della grotta buia! E che non era il volto grasso di Edward Norrys quello che spiccava su quella cosa flaccida e fungosa! Chi dice che io sono un de la Poer? Lui è sopravvissuto, ma mio figlio è morto!... Dovrà mai un Norrys possedere le terre di un de la Poer?... È una stregoneria, vi dico... quel serpente maculato... Maledetto Thornton, t'insegnerò io a svenire di fronte a quello che fa la mia famiglia! ... Magna Mater! Magna Mater!... Atys... Dia ad aghaidh's ad aodann... agus bas dunach ort! Dhonas 's dholas ort, agus leat-sa!... Ungl... Ungl... rrlh... chchch... Questo è quanto sostengono io stessi dicendo quando mi ritrovarono tre ore più tardi nell'oscurità. Mi rinvennero accovacciato, al buio, sopra il corpo grasso e per metà divorato del capitano Norrys, mentre il mio stesso gatto mi azzannava e mi straziava la gola. Adesso hanno fatto saltare in aria la Prioria di Exham, mi hanno portato via Nigger-Man e mi hanno rinchiuso in questa stanza con le sbarre, ad Hanwell, mentre tutti parlano, ma sotto voce per la paura, della mia tara ereditaria e delle mie gesta. Thornton è nella stanza accanto, ma m'impediscono di parlargli. Stanno anche cercando di occultare la maggior parte dei fatti concernenti la prioria. Quando io parlo del povero Norrys, mi accusano di avere commesso una
cosa spaventosa, ma loro devono sapere che io non l'ho fatta. Devono saperlo che sono stati i ratti; quei ratti viscidi la cui corsa agile e confusa non mi lascerà mai dormire; quei ratti demoniaci che corrono dietro le pareti imbottite di questa stanza e mi invitano a seguirli verso orrori più grandi di quelli che già ho conosciuto; i ratti che loro non potranno mai sentire: i ratti, i ratti nei muri. Titolo originale: The Rais in the Walls Traduzione: Elisabetta Svaluto J. Sheridan Le Fanu Il pittore Schalken Nel periodo in cui prendevano piede le forme letterarie del racconto e del racconto dell'orrore, Poe e Le Fanu ponevano la metafora psicologica al centro di gran parte delle loro più importanti opere di narrativa, passava così in secondo piano il didatticismo morale, di Dickens per esempio, mentre lo sviluppo successivo di tutta la narrativa breve, in ambito anglofono, veniva caratterizzato da una particolare enfasi sull'indagine psicologica Schalken the Painter (Il pittore Schalken) (1839) è un racconto storico ricco di temi relativamente moderni una donna innocente si sposa con un mostro sovrannaturale e nessuno può evitarlo. Da questo racconto discende in linea diretta il capolavoro di Charlotte Perkins Gilman La tappezzeria gialla, l'orrore deriva in parte dell'impotenza dell'uomo buono e dall'irrilevanza della virtù davanti al male quotidiano eppure straordinario. Non si tratta comunque d'interpretazioni allegoriche. Il mondo fantastico di Le Fanu ne Il pittore Schalken ha più punti di contatto con l'opera di Kafka e quella di Joseph Conrad che con quella dei suoi contemporanei. Poiché egli non è un uomo come lo sono io, dobbiamo riunirci; né esiste alcuno che possa levare le mani su di noi. Lascialo, quindi, portare la sua verga lungi da me, e non permettere che la sua paura mi spaventi. Esiste, al momento attuale, un'opera notevole di Schalken in buono stato di conservazione. In essa la curiosa forma delle luci costituisce, come in tutte le opere dell'autore, il principale merito apparente del dipinto. Dico
apparente perché il suo reale valore sta nell'oggetto rappresentato, più che nell'esecuzione, per quanto essa sia eccellente. Il dipinto raffigura l'interno di quella che potrebbe essere una camera di qualche antico edificio religioso; il primo piano è occupato da una figura femminile vestita da una sorta di tunica bianca, parte della quale è disposta in modo tale da costituire un velo. Il vestito però non è quello di un ordine religioso. Nella mano la donna regge una lampada che illumina esclusivamente la sua figura e il suo volto; e i suoi tratti sono caratterizzati da un sorriso talmente malizioso che potrebbe essere quello di una bella donna la quale si stia esercitando per qualche burla; sullo sfondo e completamente in ombra, eccetto la zona in cui la luce rosso cupa di un fuoco che si sta spegnendo riesce a definirne la forma, si scorge la figura di un uomo vestito secondo l'antica moda fiamminga; è in uno stato di allarme, con la mano sull'elsa della spada che egli sembra in procinto di sfoderare. Vi sono alcuni dipinti che colpiscono, non so perché, in modo da convincere chi li osservi del fatto che essi raffigurino non già delle mere forme ideali e combinazioni formatesi nella mente dell'artista, bensì scene e situazioni realmente esistite. In quello strano dipinto vi è qualcosa che lo caratterizza in quanto rappresentazione di una realtà. Infatti di questo si tratta, giacché esso immortala fedelmente un avvenimento notevole e misterioso, e il volto della figura femminile, che è in primo piano nel dipinto, è un fedele ritratto di Rose Velderkaust, nipote di Gerard Douw, e primo, e credo unico, amore di Godfrey Schalken. Mio bisnonno conosceva bene il pittore, dallo stesso Schalken egli apprese la terribile storia del dipinto, e da lui infine ebbe anche in eredità il dipinto stesso. La storia e il dipinto sono divenuti cimeli della mia famiglia e, avendo descritto il secondo, vorrei, se permettete, tentare di narrare ora anche la tradizione che accompagna la tela. Pochi artisti sono circondati da un'aura romanzesca più inclemente di quella che si accompagna alla figura del goffo Schalken, un rozzo ma abilissimo pittore i cui dipinti a olio deliziano i critici dei giorni nostri quasi nella stessa misura in cui il suo stile venne respinto con ribrezzo dai suoi contemporanei raffinati; eppure quest'uomo, così rozzo e ostinato e trasandato, quando raggiunse l'apice della fama, nei suoi giorni oscuri, ma senza dubbio più felici, aveva ricoperto la carica dell'eroe in una folle avventura di mistero e di passione. Quando Schalken studiava presso il grande Gerard Douw, egli era ancora molto giovane, ma, malgrado il suo temperamento flemmatico, subito
s'innamorò perdutamente della splendida nipote del suo facoltoso maestro. Rose Velderkaust era più giovane di lui, non avendo ancora compiuto il diciassettesimo anno e, se il racconto tramandato corrisponde a verità, possedeva quel fascino tenero tipico delle ragazze fiamminghe pallide e dai capelli chiari. Il giovane pittore l'amava con lealtà e fervore. E la sua sincera adorazione era da lei ricambiata. Egli dichiarò il proprio amore e riuscì ad avere in cambio una timida confessione. Era il pittore più felice e orgoglioso di tutta la cristianità. Ma c'era qualcosa, a incrinare la sua felicità; non era né ricco né famoso. Egli non aveva il coraggio di chiedere al vecchio Gerard la mano della dolce fanciulla che si trovava sotto la sua tutela. Prima si sarebbe fatto una reputazione e un nome. Per questo gli si paravano davanti molte incertezze e molti giorni freddi, e avrebbe dovuto battersi contro il proprio destino avverso. Però aveva ottenuto il cuore di Rosa Velderkaust ed era quindi già a metà dell'opera. È inutile dire che egli s'impegnò doppiamente e la sua durevole fama e il successo comprovano che i suoi sforzi non furono vani. Queste fatiche e, soprattutto, le speranze su cui esse si reggevano, erano destinate a venire improvvisamente interrotte in modo così strano e misterioso da rendere impossibile qualsiasi spiegazione razionale e gli eventi stessi si circondarono di un alone di orrore sovrannaturale. Una sera Schalken si era fermato più a lungo di tutti i propri condiscepoli e continuava a lavorare nella stanza deserta. Poiché la luce del giorno scemava in fretta egli ripose i colori e si dedicò al completamento di uno schizzo che gli era costato uno sforzo particolare. Era una composizione di argomento religioso e rappresentava le tentazioni di un panciuto Sant'Antonio. Il giovane artista, per quanto inesperto, era sufficientemente sagace da essere insoddisfatto della propria opera e molte erano le pazienti cancellature e correzioni cui furono sottoposti il santo e il diavolo, ma tutto fu vano. Nella spaziosa stanza antiquata regnava il silenzio e, a parte egli stesso, non vi era nessuno degli usuali occupanti. Così era trascorsa un'ora, quasi due, senza che il risultato fosse migliorato. La luce del giorno era ormai scomparsa e il crepuscolo stava lasciando il posto all'oscurità della notte. La pazienza del giovane pittore si era ormai esaurita: egli si trovava davanti a quell'opera incompleta adirato e mortificato, teneva una mano immersa nei lunghi capelli mentre con l'altra reggeva il carboncino che così male aveva eseguito il proprio compito e che egli ora strofinava sulle ampie brache fiamminghe con la forza della rabbia, incurante delle strisce nere che vi produceva. «Maledetto questo soggetto!» esclamò ad alta voce
il giovane. «Maledetti il quadro, i diavoli, il santo...» In quel preciso istante un breve e improvviso respiro prodotto proprio alle sue spalle lo fece voltare di scatto. Solo ora si rese conto che un estraneo aveva assistito alle sue fatiche. A circa un metro e mezzo di distanza e quasi esattamente dietro di lui si stagliava la figura di un uomo anziano con un mantello e un cappello conico a tesa larga; nella mano, protetta da un grosso guanto, egli reggeva un lungo bastone da passeggio di ebano sormontato da quella che, per il suo lieve scintillio nella semioscurità pareva un'impugnatura d'oro massiccio; sul petto, tra le pieghe del mantello, comparivano le maglie di una grossa catena del medesimo metallo. La stanza era talmente buia da non permettergli di distinguere null'altro di quella figura le cui fattezze erano oscurate ulteriormente dal cappello. Non sarebbe stato facile indovinare l'età dell'intruso, ma l'abbondante capigliatura nera che fuoriusciva dal tetro cappello e il portamento solido ed eretto indicavano che egli doveva essere più o meno sulla sessantina. Nell'abbigliamento di quella persona vi era un non so che di grave e importante, inoltre c'era qualcosa d'incredibilmente strano, direi anzi orribile, nell'assoluta immobilità quasi pietrigna di quella figura, che riuscì a congelare sulle labbra dell'artista irritato un'improvvisa espressione di stizza. Non appena si fu ripreso a sufficienza dalla sorpresa Schalken invitò gentilmente l'estraneo a sedersi e si informò se egli avesse qualche messaggio per il suo maestro. «Di' a Gerard Douw» disse lo sconosciuto senza mutare il proprio atteggiamento in alcun modo, «che il signor Vanderhausen, di Rotterdam, desidera parlargli domani sera a quest'ora, possibilmente in questa stanza, di cose estremamente importanti. Nient'altro.» Finita che ebbe tale comunicazione, l'estraneo si girò di scatto e, con passo spedito ma silenzioso, abbandonò la stanza prima che Schalken avesse il tempo di pronunciare una sola parola. Il giovane era curioso di vedere in quale direzione si sarebbe allontanato il cittadino di Rotterdam una volta lasciato lo studio; a tal proposito si affacciò subito alla finestra da cui si scorgeva l'ingresso della casa. L'uscio della stanza del pittore era separato dal portone esterno da un corridoio relativamente lungo, e Schalken raggiunse il suo punto di osservazione prima che il vecchio potesse avere raggiunto la strada. Però egli osservò invano. Non c'erano altre vie d'uscita. Quel vecchio era scomparso nel nulla o si era nascosto in un recesso del corridoio per qualche sinistro motivo? Quest'ultima ipotesi riempi la mente di Schalken di un'inquietudine così inspiegabilmente intensa da fargli te-
mere di soffermarsi da solo nella stanza e trattenerlo altresì dall'attraversare il corridoio. Egualmente, compiendo uno sforzo che parve davvero sproporzionato per quell'occasione, egli decise di lasciare la stanza e, una volta chiusa la porta e buttata la chiave nella tasca, senza guardare né a sinistra né a destra attraversò il corridoio che aveva così di recente contenuto, o forse tuttora conteneva, il suo misterioso ospite, quasi senza azzardarsi a respirare fino a quando si trovò sulla strada. «Il signor Vanderhausen!» diceva Gerard Douw tra sé e sé mentre si avvicinava l'ora prestabilita. «Il signor Vanderhausen, di Rotterdam! Non ne ho mai sentito parlare prima di ieri. Che cosa vorrà da me? Forse un ritratto da dipingere, o un parente povero da assumere come apprendista, o una collezione da valutare, o ma no, non c'è nessuno a Rotterdam che potrebbe avermi lasciato un'eredità. A ogni modo, di qualunque cosa si tratti, ben presto sapremo tutto.» La giornata stava volgendo al termine e di nuovo tutti i cavalietti eccetto quello di Schalken erano deserti. Gerard Douw misurava la stanza con passi inquieti fermandosi di quando in quando a controllare il lavoro di uno dei suoi discepoli assenti, ma per lo più guardando dalla finestra da cui si vedeva la gente che passava nell'oscura strada secondaria su cui si apriva il suo studio. «Non avevi detto, Godfrey» esclamò Douw, dopo avere scrutato attentamente e a lungo dal suo punto di osservazione e volgendosi in direzione di Schalken «che erano circa le sette all'orologio del municipio?» «Erano appena scoccate le sette quando l'ho visto, signore» rispose il discepolo. «L'ora è vicina, allora» disse il maestro consultando un cipollone grande e rotondo. «Il signor Vanderhausen di Rotterdam, non è così?» «Quello era il nome.» «Ed era un uomo di una certa età, riccamente vestito?» continuò Douw meditabondo. «Per quanto ho potuto vedere» disse l'allievo «non poteva essere giovane, ma neppure molto vecchio, e i suoi abiti erano preziosi e seri come si addice a un cittadino noto e facoltoso. In quel momento l'orologio del municipio iniziò a battere, un rintocco dopo l'altro, le ore sette; gli occhi del maestro e del discepolo si diressero verso la porta, e appena cessò di vibrare nell'aria l'ultimo tocco della campana Douw esclamò: «Bene, bene, sua eccellenza non può tardare ora, se
intende essere di parola; in caso contrario potrai attendere tu, Godfrey se desideri conoscere il signore. E se magari fosse uno scherzo di Vankarp o di qualche altro buontempone? Avresti dovuto rischiare il tutto per tutto e prendere ben bene a bastonate, Vankarp, il vecchio borgomastro, perché di lui si tratta. Ci scommetterei una dozzina di bottiglie di vino del Reno che sua eccellenza avrebbe subito tolto il travestimento e chiesto perdono...» «Eccolo, signore» disse Schalken in tono basso e monitorio, e Gerard Douw, non appena si fu voltato verso la porta, scorse la stessa figura che il giorno prima così inaspettatamente si era offerta alla vista del suo allievo. Per qualche motivo il pittore fu immediatamente convinto che non si trattasse di un travestimento, e di trovarsi effettivamente al cospetto di un uomo onorato. Quindi, senza esitare, si levò il cappello salutando educatamente l'estraneo, e l'invitò ad accomodarsi. L'ospite fece un lieve gesto con la mano come per ringraziare per la cortesia, ma rimase in piedi. «Ho l'onore di trovarmi al cospetto del signor Vanderhausen di Rotterdam?» chiese Gerard Douw. «In persona» rispose laconico l'ospite. «Wilken Vanderhausen.» «Mi è stato riferito che sua eccellenza desidera parlarmi» proseguì Douw. «Mi avete convocato e io sono qui per servirvi.» «È un uomo fidato, quello?» chiese Vanderhausen indicando Schalken che si trovava nelle vicinanze dietro il mio maestro. «Certamente» rispose Gerard. «Allora fategli portare questo scrigno al gioielliere o all'orafo più vicino affinché ne possa valutare il contenuto e chiedetegli di tornare qui con un certificato sul quale sia specificato il valore.» Così dicendo egli pose un piccolo scrigno di circa venti centimetri di lato nelle mani di Gerard Douw che fu sorpreso parimenti per il peso e per la peculiare fretta con cui gli fu consegnato. Secondo i desideri dello sconosciuto egli lo affidò a Schalken e, ripetendo l'ordine ricevuto, lo congedò. Schalken pose il suo prezioso carico al sicuro tra le pieghe del mantello e, attraversate rapidamente due o tre strade strette, si fermò presso una casa d'angolo il cui piano terra a quel tempo era occupato dalla bottega di un orafo ebreo. Entrò, e invitato il piccolo ebreo a seguirlo nell'oscurità dei recessi del retrobottega, gli mostrò lo scrigno di Vanderhausen. Quegli lo esaminò attentamente alla luce di una lampada la quale rivelò che era completamente ricoperto di piombo molto graffiato e sporco sulla superficie e quasi bianco per l'età. Sotto il piombo, comparve una cassetta di legno duro, che essi pure aprirono a forza e, tolti due o tre panni di stoffa
compatta scoprirono che conteneva una quantità di lingotti d'oro massiccio e, come dichiarò l'ebreo, della migliore qualità. Ogni lingotto venne esaminato attentamente dal piccolo ebreo che pareva provare un piacere epicureo nel toccare e nell'analizzare quei pezzi di splendido metallo, e ognuno di essi fu riposto nella cassetta accompagnato dall'esclamazione: «Mein Gott, che perfezione! Che purezza! Splendido, splendido!» Dopo qualche tempo l'operazione fu completata e l'ebreo certificò di proprio pugno che il valore dei lingotti sottopostogli corrispondeva a diverse migliaia di talleri d'argento. Con il documento richiesto in tasca e la preziosa cassetta contenente l'oro ben stretta sotto il braccio e celata dal mantello Schalken tornò sui propri passi e, entrando nello studio, trovò il suo maestro e lo sconosciuto impegnati in una conversazione serrata. Schalken aveva appena lasciato la stanza per portare a termine l'incarico ricevuto quando Vanderhausen si era rivolto a Gerard Douw come segue: «Stasera non posso trattenermi qui con voi più di qualche minuto, quindi vi illustrerò solo brevemente il motivo della mia visita. Circa quattro mesi or sono voi visitaste la città di Rotterdam; in quell'occasione vidi, nella chiesa di San Lorenzo, vostra nipote Rose Velderkaust. Vorrei sposarla. Se vi dimostrerò di essere più ricco di qualsiasi marito che potreste immaginare per lei, ritengo che in virtù della vostra autorità farete in modo che il mio desiderio venga esaudito. Se accettate la mia proposta dovete dirlo qui e subito, poiché non ho tempo per attendere riflessioni e ripensamenti.» Gerard Douw era rimasto enormemente sorpreso dalla comunicazione del signor Vanderhausen, ma non aveva osato esprimere la propria sorpresa, poiché, oltre ai motivi dettati dalla prudenza e dall'educazione, il pittore aveva avvertito una sorta di brivido come si dice che accada quando inconsapevolmente ci si viene a trovare in prossimità di qualcuno nei confronti del quale si nutra una spontanea antipatia: una sensazione indefinibile ma opprimente che in quella circostanza gli impediva ostinatamente di dire qualsiasi cosa che avrebbe potuto offendere l'eccentrico sconosciuto. «Non ho dubbi» aveva risposto Gerard dopo qualche esitazione «che l'unione da voi proposta sarebbe tanto vantaggiosa quanto onorabile per mia nipote, ma dovete rendervi conto che ella possiede una volontà propria e che potrebbe trovarsi in disaccordo con quanto noi decidiamo a suo vantaggio.» «Non tentate d'ingannarmi, signor pittore» aveva replicato Vanderhausen. «Voi siete il suo tutore: ella è sotto la vostra tutela, e sarà mia se voi volete che lo sia.»
Il cittadino di Rotterdam si era avvicinato leggermente mentre parlava, e Gerard Douw, pur senza conoscerne la ragione, aveva pregato tra sé e sé che Schalken tornasse quanto prima. «Voglio» aveva ripreso il misterioso gentiluomo «mettere subito nelle vostre mani una prova della mia ricchezza e una garanzia della generosità che dimostrerò nei confronti di vostra nipote. Tra un minuto o due il ragazzo tornerà con una somma di denaro pari a cinque volte quella che ella ha il diritto di esigere da qualsiasi suo futuro marito. Questa rimarrà nelle vostre mani, assieme alla sua dote, e voi potrete disporne a vostro piacimento per perseguire gli interessi di vostra nipote; sarà tutto esclusivamente suo fino a quando lei sarà in vita: non vi pare generoso, questo?» Douw aveva assertito, e tra sé e sé aveva pensato che la sorte era stata estremamente favorevole con sua nipote. Era evidente che lo sconosciuto doveva essere ricco e generoso, e una simile offerta non andava disprezzata nonostante provenisse da una persona dall'aspetto non particolarmente attraente. Rose non aveva grandi pretese, in quanto disponeva solo di una dote modesta, dovuta però interamente alla generosità dello zio, né aveva il diritto di pensare alla nobiltà, giacché ella stessa per nascita era tutt'altro che nobile, e, quanto ad altre obiezioni... Gerard aveva ormai deciso — e fu aiutato in questo dalle usanze della propria epoca — di non prenderle in considerazione per il momento. «Signore» aveva detto rivolgendosi allo sconosciuto. «La vostra offerta è generosa, l'unica perplessità che m'impedisce di acconsentire subito deriva dal fatto che non ho l'onore di sapere alcunché della vostra famiglia e della vostra posizione. Su questi punti potrete senz'altro soddisfare la mia curiosità senza difficoltà.» «Quanto alla mia onorabilità» aveva risposto lo sconosciuto seccamente «la dovete prendere per scontata. Non mi infastidite con domande; non potrete scoprire nulla di più sul mio conto di quanto io stesso decida di farvi sapere. Se siete un uomo onorato, a garanzia della mia onorabilità vi basti la mia parola; se siete un miserabile, il mio oro.» «Permaloso, l'anziano signore» aveva pensato Douw. «Vuole assolutamente avere ragione; ma, tutto sommato, non ho motivi validi per declinare la sua offerta. A ogni modo non gli darò la mia parola se non è necessario.» «Non darete la vostra parola se non è necessario» aveva detto allora Vanderhausen, pronunciando stranamente proprio le stesse parole che avevano attraversato la mente del suo interlocutore. «Ma lo farete se è neces-
sario, immagino e io vi dimostrerò che lo considero indispensabile. Se l'oro che intendo lasciare nelle vostre mani vi soddisfa, e se non desiderate che io ritiri immediatamente la mia offerta, dovete, prima che io lasci questa stanza, firmare questo accordo.» Detto ciò l'uomo di Rotterdam aveva consegnato al maestro un foglio il cui contenuto consisteva nell'impegno da parte di Gerard Douw a concedere in isposa Rose Velderkaust a Wilken Vanderhausen di Rotterdam eccetera nel tempo di una settimana a partire dal giorno presente. Mentre il pittore era impegnato nella lettura di questo documento alla luce palpitante di un lume a olio appeso alla parete di fronte, Schalken, come abbiamo detto, entrò nello studio e, riconsegnato lo scrigno e la valutazione dell'ebreo allo sconosciuto, stava per ritirarsi, ma Vanderhausen gli disse di attendere. Consegnato lo scrigno e il certificato a Gerard Douw, l'inquietante personaggio attese in silenzio fino a quando questi non ebbe esaminato le due cose e si fu assicurato del valore di quel pegno. Infine chiese: «Siete soddisfatto?» Il pittore disse che desiderava un giorno di tempo per pensarci. «Neanche un'ora» disse il postulante irremovibile. «Va bene, allora» replicò Douw compiendo un doloroso sforzo. «Sono d'accordo, l'affare è fatto». «Bene, firmate subito» disse Vanderhausen. «Sono piuttosto stanco e vorrei concludere.» Così dicendo estrasse un piccolo astuccio con l'occorrente per scrivere e Gerard firmò l'importante documento. «Questo giovane sarà il testimone dell'accordo» disse il vecchio, e Godfrey Schalken, senza saperlo, fu testimone del patto che per sempre lo avrebbe privato della sua adorata Rose Velderkaust. Completata questa operazione, lo strano ospite piegò il foglio e lo ripose al sicuro in una tasca interna. «Verrò a trovarvi domani sera alle nove in punto a casa vostra, Gerard Douw, e vedrò l'oggetto del nostro contratto» dicendo questo Wilken Vanderhausen usci dalla stanza con movimenti rigidi, ma rapidi. Schalken, curioso di dissipare i propri dubbi, si era sistemato vicino alla finestra per controllare l'uscita sulla strada, ma quell'esperimento servì soltanto a confermare i suoi sospetti, poiché il vecchio non uscì dalla porta. Ciò era molto strano, curioso, addirittura spaventoso. Schalken e il maestro rincasarono insieme e durante il cammino non scambiarono che poche parole, poiché ognuno di essi aveva la mente occupata dai propri pensieri,
dalle proprie paure e speranze. Schalken non sapeva quale pericolo minacciasse i progetti che più gli erano cari. E, peraltro, Gerard Douw nulla sapeva dell'affetto che c'era tra l'allievo e sua nipote, ma anche se l'avesse saputo, c'è da chiedersi se lo avrebbe considerato un reale ostacolo ai desideri del signor Vanderhausen. A quei tempi i matrimoni erano questioni di affari e calcoli, e agli occhi del tutore sarebbe sembrato assurdo considerare un affetto reciproco come elemento essenziale per un contratto di quel genere... assurdo tanto quanto il pensare di scrivere obbligazioni e ricevute sotto forma di lettere d'amore. Egualmente il pittore non comunicò a sua nipote quale passo importante avesse intrapreso per suo conto, una precauzione dovuta non già alla possibilità di un'opposizione da parte sua, ma piuttosto alla ridicola consapevolezza che, se ella gli avesse chiesto di farle una descrizione dello sposo promesso, lui sarebbe stato costretto ad ammettere di non averlo neanche visto in faccia, né sarebbe stato in grado d'identificarlo se ciò gli fosse stato richiesto. Il giorno seguente, dopo il pranzo, Gerard Douw chiamò sua nipote e, avendola osservata da capo a piedi soddisfatto, le prese la mano e guardando quel viso bello e innocente con un sorriso gentile disse: «Rose, ragazza mia, questo tuo faccino sarà la tua fortuna.» Rose arrossì e sorrise. «Un viso e un carattere come i tuoi non si trovano spesso nella stessa persona, ma quando ciò accade il risultato è così affascinante che pochi cuori possono resistervi; credi a me, presto sarai sposa. Ma questo ora non ha importanza e io non ho tempo, prepara il salotto per le otto di questa sera e dai gli ordini necessari perché la cena sia pronta alle nove. Aspetto un amico, e ascolta, vestiti bene perché non voglio che pensi che siamo poveri o trasandati. Con queste parole la lasciò e si diresse verso la stanza in cui lavoravano i suoi allievi. Quando calò la sera Gerard chiamò Schalken che stava per andarsene nella propria oscura abitazione priva di comodità e lo invitò ad andare a casa sua per cenare con Rose e Vanderhausen. Ovviamente l'invito fu accettato e Gerard Douw e il suo allievo ben presto si trovarono nell'elegante, e già a quel tempo antico salotto che era stato preparato per ricevere lo sconosciuto. Un allegro fuoco di legna scoppiettava nel camino di lato rispetto ad esso, un tavolo di vecchio stile che brillava alla luce del fuoco come fosse d'oro brunito attendeva la cena della quale erano in corso i preparativi le sedie con lo schienale alto, che non erano eleganti, ma in compenso molte comode, erano allineate con estrema meticolosità. Il gruppetto
formato da Rose, suo zio e il pittore, attendeva l'ospite con notevole impazienza. Finalmente scoccarono le nove, si sentì suonare alla porta, che fu subito aperta, e si udì un passo lento e decìso lungo le scale. I pesanti passi attraversarono il corridoio, la porta della stanza in cui le persone che abbiamo descritto erano radunate si aprì lentamente, ed entrò una figura che spaventò, quasi atterrì i flemmatici olandesi, e fece quasi gridare per il terrore Rose. La forma, le vesti del signor Vanderhausen e l'aria, il portamento, l'altezza erano uguali, ma le fattezze non erano mai state vedute prima da nessuna di quelle persone. Lo sconosciuto si fermò sulla soglia della porta palesando completamente la propria forma e il volto. Indossava un mantello di stoffa di colore scuro, corto e ricco, che non gli arrivava neanche alle ginocchia; le gambe erano avvolte da calze di seta viola scure, e le scarpe erano adornate da rose del medesimo colore. Sotto il mantello che sul davanti era aperto si scorgeva un abito di stoffa molto scura, forse zibellina, e le mani dello sconosciuto erano avvolte da un paio di grossi guanti di pelle che giungevano ben oltre il polso, come guanti d'armatura. In una mano egli portava il bastone da passeggio e il cappello, che si era tolto, mentre l'altra mano penzolava pesantemente lungo il fianco. I suoi folti capelli brizzolati riuniti in lunghe trecce ricadevano tra le pieghe di una gala inamidata che gli copriva completamente il collo. Fino qui tutto bene, ma la faccia! La pelle del viso aveva una colorazione blu plumbea, la stessa che talvolta viene prodotta da medicine metalliche somministrate in dosi eccessive. Una porzione troppo grande degli occhi era di colore bianco sporco ed essi avevano un non so che di indefinibilmente squilibrato. La tonalità delle labbra, riprendeva come di consueto quella della pelle, di conseguenza, era quasi nera. Tutti i tratti del volto erano sensuali, maligni, addirittura satanici. Apparve strano che l'onorevole ospite desiderasse far vedere meno possibile della propria pelle e non si sfilasse mai i guanti durante la sua Visita. Dopo che fu rimasto per qualche istante sulla soglia della porta, Gerard Douw riuscì finalmente a trovare il fiato e l'animo per dargli il benvenuto; lo sconosciuto fece un lieve cenno con il capo ed entrò nella stanza. C'era qualcosa di indescrivibilmente strano, addirittura orribile, in ogni suo gesto, qualcosa di indefinibile che era innaturale e inumano; era come se le sue membra fossero guidate e comandate da uno spirito non avvezzo ai movimenti di una macchina corporea. Lo sconosciuto non disse quasi nulla durante quella visita che non si protrasse oltre una mezz'ora; da parte sua il padrone di casa riuscì a malapena a trovare il coraggio di dire
un paio di frasi di circostanza; il terrore dovuto alla presenza di Vanderhausen era tale che sarebbe bastato molto poco a fare fuggire dalla stanza tutti i convitati in preda al panico. Essi però non avevano ancora perduto il controllo dei nervi al punto da non riuscire a notare due strane particolarità del loro ospite. Durante la sua visita le sue palpebre non si chiusero una sola volta, né si mossero in alcun modo; inoltre tutta la sua persona era caratterizzata da un'immobilità quasi mortale e ciò era dovuto all'assenza di quel movimento del torace dovuto normalmente alla respirazione. Queste due peculiarità, nonostante possano apparire insignificanti se narrate, produssero un effetto molto forte e sgradevole quando furono viste e notate. Finalmente Vanderhausen liberò il pittore di Leida della sua presenza infausta, e fu con notevole sollievo che quel gruppetto di persone udì l'uscio della porta chiudersi sulla strada alle sue spalle. «Caro zio», disse Rose «che uomo terrificante! Non vorrei vederlo un'altra volta per tutto l'oro del mondo!» «Zitta, sciocchina» disse Douw che si sentiva tutt'altro che a proprio agio. «Un uomo può essere brutto come il diavolo, ma quando le sue azioni e il suo cuore sono buoni, vale più di tutti quei damerini profumati che camminano lungo il viale messi assieme. Rose, è vero che non ha il tuo bel visino, ma so che è ricco e generoso, e se fosse anche dieci volte più brutto, queste due virtù sarebbero sufficienti a controbilanciare la sua deformità e se anche non bastassero a mutare la forma e il colore delle sue fattezze, eviterebbero almeno che queste vengano ritenute troppo anomale.» «Sapete, zio» disse Rose «quando l'ho visto sulla porta non ho potuto fare a meno di pensare a quella vecchia statua di legno dipinto che mi spaventava tanto nella chiesa di San Lorenzo a Rotterdam». Gerard rise, ma dovette ammettere tra sé e sé che il paragone reggeva. Aveva deciso, comunque e per quanto gli fosse possibile, di evitare che sua nipote si dilungasse sulla bruttezza del suo futuro sposo, nonostante non fosse affatto compiaciuto, ma anzi sorpreso, di notare che in lei era completamente assente quella misteriosa paura dello sconosciuto che, non poteva negarlo, si era impadronita di lui e anche del suo allievo Godfrey Schalken. Il giorno seguente di buon mattino giunsero, da diversi quartieri della città, preziosi doni per Rose: sete, velluti, gioielli eccetera, e anche un pacco per Gerard Douw che, una volta aperto, risultò contenere un formale contratto di matrimonio tra Wilken Vanderhausen del porto di Rotterdam e Rose Velderkaust di Leida, nipote di Gerard Douw, maestro nell'arte della
pittura, della medesima città; conteneva inoltre l'impegno da parte di Vanderhausen a fare alla moglie concessioni ancora di gran lunga più generose di quelle sulle quali si era in precedenza accordato con il suo tutore; il denaro sarebbe stato a sua completa disposizione, affidato allo stesso Gerard Douw secondo modalità assolutamente ineccepibili. Non ho da descrivere scene sentimentali, crudeltà di tutori, magnanimità di minori, agonie o trasporti di amanti. Il resoconto che devo fare è caratterizzato solo da meschinità, leggerezza e crudeltà. Meno di una settimana dopo il primo incontro che abbiamo appena descritto il contratto di matrimonio fu concluso e Schalken vide il premio che egli avrebbe rischiato la vita per assicurarsi, portato via in pompa solenne dal suo repellente rivale. Per due o tre giorni rimase assente dalla scuola; quindi tornò a lavorare forse con meno allegria, ma certamente in modo più deciso di prima; lo sprone dell'amore aveva lasciato il posto a quello dell'ambizione. Trascorsero alcuni mesi e, contrariamente a quando si era atteso, e ovviamente anche alle promesse degli interessati, Gerard Douw non aveva ancora avuto notizie della nipote né del suo devoto sposo. Gli interessi del denaro, che avrebbero dovuto essere ritirati una volta al quadrimestre, rimasero nelle sue mani senza che nessuno li richiedesse. Iniziò a essere estremamente inquieto. Egli conosceva esattamente l'indirizzo di Rotterdam del signor Wilken Vanderhausen. Dopo qualche esitazione decise di recarvisi, un'impresa da nulla, che avrebbe compiuto facilmente, per accertarsi che la nipote di cui era tutore fosse al sicuro e stesse bene, in quanto nutriva per lei un sincero e onesto affetto. Ma la sua ricerca fu vana, nessuno a Rotterdam aveva mai sentito parlare del signor Vanderhausen. Gerard Douw s'informò in tutte le case del porto, inutilmente. Nessuno poté dirgli alcunché riguardo all'oggetto della sua ricerca, ed egli fu costretto a fare ritorno a Leida senza sapere nulla, e anzi più preoccupato di quanto fosse prima della partenza. Tornato nella propria città egli corse subito dalla persona da cui Vanderhausen aveva noleggiato l'ingombrante, ma, considerati i tempi, lussuosissima vettura che aveva accompagnato la coppia di sposi a Rotterdam. Dal guidatore egli apprese che il viaggio era avvenuto in lente tappe e che verso sera, giunti nei pressi di Rotterdam, a circa un miglio dalla città, un gruppetto di uomini vestiti in modo semplice, e secondo la moda del tempo con barbe appuntite e baffi, che stava in mezzo alla strada, aveva impedito alla carrozza di procedere. Il guidatore aveva frenato i cavalli temendo, per l'oscurità che regnava a quell'ora del giorno e per la solitudine del
luogo, che essi avessero cattive intenzioni. I suoi timori furono però in parte dissipati quando egli vide che quegli uomini trasportavano una grande portantina di tipo antico che immediatamente deposero a terra. Quindi lo sposo, che aveva aperto la porta dall'interno, era sceso e, avendo aiutato a scendere anche la sposa che piangeva amaramente e si torceva le mani, l'aveva accompagnata verso la portantina in cui ambedue avevano preso posto. La portantina fu quindi sollevata dagli uomini che la circondavano e portata rapidamente verso la città e, ben presto, l'oscurità celò ogni cosa alla vista del carrettiere olandese. Dentro la carrozza egli trovò una sacca che conteneva denaro pari a più del triplo di quello che sarebbe bastato per pagare il noleggio della carrozza e il servizio prestato. Non aveva visto né poteva raccontare altro del signor Vanderhausen e della sua bella signora. Questo mistero fu fonte di profonda apprensione e perfino di dolore per Gerard Douw. Evidentemente Vanderhausen si era comportato in modo disonesto, anche se egli non riusciva a immaginare per quale motivo. Fu assalito dal dubbio che un uomo di quelle fattezze non potesse essere altro che un furfante, e ogni giorno che passava senza che gli giungessero notizie della nipote, invece di indurlo a scordare le sue paure, al contrario tendeva ad accrescerle. La perdita dell'allegra compagnia della nipote tendeva inoltre a deprimerlo. Al fine di dissipare i cupi pensieri che spesso si impadronivano di lui una volta terminate le sue occupazioni quotidiane egli chiedeva spesso a Schalken di accompagnarlo a casa e di dividere con lui una cena altrimenti troppo solitaria. Una sera il pittore e il suo allievo stavano seduti davanti al camino dopo avere cenato tranquillamente ed essersi abbandonati al silenzio e alla piacevole malinconia che si accompagnano al processo digestivo, quando le loro meditazioni vennero interrotte da un forte rumore alla porta che pareva prodotto da una persona che vi battesse con forza. Un domestico era corso subito a vedere quale fosse la causa di tale disturbo, ed essi lo udirono interrogare due o tre volte la persona che stava fuori, senza però riuscire a distinguere altra risposta che la ripetizione di un continuo susseguirsi di suoni. Quindi egli aprì la porta, e subito essi udirono un passo rapido e leggero lungo le scale. Schalken si appressò all'uscio. Essa si aprì prima che egli vi giungesse e Rose entrò di corsa nella stanza. Aveva un aspetto selvaggio e furioso, smarrito per il terrore e la spossatezza, e il vestito che indossava li sorprese quanto la sua improvvisa comparsa. Era una sorta di vestaglia di lana bianca chiusa attorno al collo e lunga fino al pavimento. Era molto rovinata e sporca per il viaggio. La povera creatura era appena
entrata nella stanza quando cadde al suolo priva di sensi. A fatica essi riuscirono a farla rinvenire e, ripresa conoscenza, essa esclamò con voce terrorizzata piuttosto che impaziente: «Vino! vino! Presto, o sono perduta!» Stupefatti e quasi spaventati dallo strano tono agitato in cui era stata fatta quella richiesta, essi accontentarono subito i suoi desideri. Rose bevve il vino con una fretta e un'impazienza che li stupì. Aveva appena terminato quando esclamò con la medesima insistenza: «Cibo, per amor di Dio, subito, se no muoio!» In tavola vi era un bel pezzo di arrosto e Schalken pensò immediatamente di affettarlo, ma non vi riuscì, poiché non appena Rose lo scorse lo afferrò e, come se fosse più che affamata, con le mani e con i denti prese a strappare la carne e a divorarla. Quando il parossismo della fame sembrò superato, improvvisamente ella parve sopraffatta dalla vergogna, o forse altri e più preoccupanti pensieri l'assalirono e spaventarono, poiché iniziò a piangere amaramente torcendosi le mani. «Vi prego, chiamate un ministro di Dio» disse Rose. «Non sono al sicuro finché non viene; mandatelo a chiamare in fretta!» Gerard Douw inviò un messaggero all'istante e riuscì a prevalere sulla nipote che voleva impedirgli di metterle a disposizione la propria stanza. Inoltre egli la persuase a ritirarvisi immediatamente per riposare; ottenne il suo consenso solo a condizione che essi non l'avrebbero lasciata per un solo istante. «Oh, se solo quel sant'uomo fosse già qui» sospirò Rose. «Lui solo mi può salvare: i morti non possono mai essere anche vivi al tempo stesso, Dio l'ha proibito.» Con queste misteriose parole Rose si arrese alla guida dei suoi cari ed essi l'accompagnarono nella stanza che Gerard Douw le aveva messo a disposizione. «Non mi lasciate, non lasciatemi per un solo istante» disse lei «altrimenti sarò perduta per sempre». Alla stanza di Gerard Douw si accedeva attraverso una spaziosa anticamera in cui stavano per entrare. Maestro e allievo portavano una candela a testa, cosicché tutti gli oggetti circostanti erano illuminati a sufficienza. Mentre già stavano entrando nella grande stanza che, come ho detto, comunicava con quella di Douw, Rose si bloccò di scatto e, in un sussurro che li fece trasalire entrambi, disse: «Oddio! Egli è qui! È qui! Guardate, guardate! Eccolo!» Rose indicò la porta della stanza interna e Schalken credette di scorgere
un'ombrosa e non ben definita forma che scivolava nella stanza. Trasse la spada e, sollevata la candela in modo da illuminare più distintamente la stanza, entrò nella camera in cui aveva visto sparire l'ombra. Ma non c'era nulla, nulla oltre ai mobili che appartenevano a quella stanza, eppure egli era certo di avere visto qualcosa infiltrarsi. Un terrore nauseante s'impadronì di lui e grosse gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte; né contribuirono a tranquillizzarlo la crescente agonia e le suppliche di Rose che li implorava di non lasciarla neanche per un istante. «L'ho visto» disse lei. «È qui, ne sono sicura, lo conosco, è accanto a me, è con me, è nella stanza. Per amor del cielo, voi potete salvarmi, non vi muovete dal mio fianco!» Infine essi riuscirono a convincerla a distendersi sul letto, da dove ella continuò a implorarli di restare con lei. Spesso Rose pronunciava frasi sconclusionate ripetendo all'infinito: «I morti non possono essere anche vivi al tempo stesso, Dio l'ha proibito.» E ancora: «Riposo per gli insonni... sonno per i sonnambuli.» Rose continuò a pronunciate queste e altre frasi sconnesse fino all'arrivo del pastore. Naturalmente Gerard Douw iniziò a temere che il terrore o i maltrattamenti subiti avessero scosso i nervi della povera ragazza e, per il fatto che era comparsa così all'improvviso, a un'ora così inopportuna e, soprattutto, per la furia e il terrore che si erano impossessati di lei, credette che ella potesse essere fuggita da qualche luogo di confino per squilibrati e temesse di essere inseguita. Decise quindi di chiedere consiglio a un medico non appena sua nipote si fosse in qualche misura tranquillizzata grazie all'intervento del pastore la cui presenza ella aveva così ardentemente desiderato. Fino al raggiungimento di quell'obiettivo egli decise di non rivolgerle alcuna domanda che potesse in qualche modo richiamando alla memoria ricordi dolorosi oppure orribili, aumentare il suo stato di agitazione. Ben presto giunse il pastore, un uomo di condotta ascetica e di veneranda età. Egli entrò nella stanza comunicante con quella in cui giaceva Rose e subito lei gli chiese di pregare per lei come per una persona caduta nelle mani di Satana e che ormai poteva sperare di essere liberata soltanto dal Cielo. In modo che possiate comprendere più facilmente tutte le circostanze dell'evento che sto per descrivere, è necessario spiegare l'ubicazione di tutte le persone in esso coinvolte. Il vecchio pastore e Schalken erano nell'anticamera di cui ho già parlato, Rose era distesa nella stanza interna, la cui porta era aperta, e accanto al letto, per suo esplicito desiderio, stava il suo
tutore; nella stanza c'era una candela accesa, mentre nell'anticamera ce n'erano tre. Il vecchio si schiarì la voce come se stesse per cominciare, ma prima di riuscirci, un improvviso giro d'aria spense la candela che illuminava la stanza in cui era distesa la povera ragazza e Rose, allarmata, esclamò: «Godfrey, ti prego porta subito un'altra candela, il buio è pericoloso.» Gerard Douw, dimenticate per un istante le sue continue preghiere, istintivamente passò dalla camera da letto all'altra per prendere quanto ella desiderava. «Mio Dio! Non andatevene, caro zio» gridò l'infelice scendendo dal letto e rincorrendolo per afferrarlo e trattenerlo. Ma la sua implorazione giunse troppo tardi, poiché non appena egli ebbe varcato la soglia, la porta che separava le due stanze si chiuse violentemente alle sue spalle come se a farla sbattere fosse stato un forte colpo di vento. Schalken e lo zio si affrettarono verso quella, ma i loro disperati sforzi congiunti non riuscirono che a scuoterla. Dall'interno della stanza provenivano reiterate grida acute e assordanti, piene di terrore e disperazione. Schalken e Douw s'impegnarono al massimo per abbattere quella porta, ma tutto fu invano. Non si udivano provenire dalla stanza rumori di lotta, ma le urla parevano aumentare di intensità ed essi sentirono che il paletto della finestra munita di grata veniva estratto e che la finestra stessa strisciava contro il davanzale come se venisse aperta con forza. Un ultimo grido lungo, perforante e agonizzante al punto da non parere neanche umano, uscì dalla stanza; a quello, improvvisamente, seguì un silenzio di tomba. Si udì un passo leggero sul pavimento, come di qualcuno che andasse dal letto alla finestra; quasi nel medesimo istante la porta cedette e i due uomini per virtù del proprio stesso peso, precipitarono nella stanza. Era vuota. La finestra era aperta e Schalken balzò su una sedia e guardò la strada e il canale sottostanti. Non vide nessuno, ma scorse, o credette di scorgere sull'acqua del largo canale degli anelli concentrici come se essa fosse stata turbata un attimo prima dal peso di un corpo pesante. Dopo quel giorno non fu rinvenuta traccia alcuna di Rose, né si ebbe mai alcuna certezza o anche un solo sospetto sul conto del suo misterioso marito, nessun indizio per scoprire chi davvero fosse e dove vivesse. Avvenne però un fatto che, anche se non verrà accettato come prova dai nostri lettori raziocinanti, lasciò un'impronta profonda e duratura nella mente di Schalken. Molti anni dopo gli eventi che abbiamo narrato dettagliatamente, Schal-
ken, che risiedeva molto lontano, ricevette la notizia che suo padre era morto e che i funerali avrebbero avuto luogo un certo giorno nella chiesa di Rotterdam. Il corteo funebre avrebbe dovuto percorrere un tragitto molto lungo, e non molti vi parteciparono, come risulterà credibile. Con difficoltà Schalken riuscì a giungere a Rotterdam verso la fine del giorno in cui doveva svolgersi il funerale. Il corteo non era ancora arrivato. Cadde la sera, e ancora non compariva. Schalken s'incamminò verso la chiesa; la trovò aperta. Era giunta notizia che sarebbe arrivato il corteo funebre, quindi la cripta in cui il corpo sarebbe stato tumulato era stata aperta. Il sagrestano, vedendo che un signore elegantemente vestito che doveva partecipare alle esequie passeggiava su e giù per la navata della chiesa, lo invitò gentilmente a dividere con lui il calore di un fuoco scoppiettante che, com'era consueto in tali occasioni durante l'inverno, egli aveva acceso nel camino della stanza in cui soleva attendere l'arrivo dei suoi macabri ospiti e che comunicava, per mezzo di una rampa di scale, con la cripta sottostante. In questa stanza Schalken e il suo compagno si sedettero; il sagrestano, dopo avere tentato più volte inutilmente d'intavolare una conversazione con il suo ospite, fu costretto a rivolgersi alla pipa e alla scatola del tabacco per compensare la propria solitudine. Nonostante il dolore e la preoccupazione, l'affaticamento dovuto a un veloce viaggio di quasi quaranta ore ebbe gradualmente il sopravvento sulla mente e sul corpo di Godfrey Schalken, ed egli cadde in un sonno profondo da cui qualcuno lo destò scuotendolo delicatamente per una spalla. Il primo pensiero fu che l'avesse chiamato il vecchio sagrestano, ma egli non si trovava più nella stanza. Si levò e, appena fu in grado di vedere con chiarezza quello che lo circondava, percepì una figura femminile che indossava una specie di leggera tunica bianca, parte della quale era disposta in modo tale da costituire un velo; in mano portava un lume. Lei si stava allontanando da lui in direzione della rampa di scale che portava alle cripte. Schalken si sentì vagamente allarmato alla vista di quella figura, e al contempo avvertì l'irresistibile impulso di lasciarsi guidare da lei. La seguì verso le cripte, ma quando ella raggiunse le scale egli si fermò; anche la figura si fermò, e, voltandosi piano, palesò, alla luce della lampada che portava, il volto e i lineamenti del suo primo amore: Rose Velderkaust. Non c'era nulla di orribile né di triste nel suo aspetto. Al contrario egli scorse quello stesso sorriso malizioso che l'artista aveva tanto amato nei suoi giorni felici così lontani. Un senso di sgomento e di curiosità, troppo intensi per potervisi opporre, lo spinse a seguire lo spettro... sempre che
quello fosse uno spettro. Rose scese le scale; egli la segui, e svoltando a sinistra attraverso uno stretto passaggio ella lo introdusse, con sua grande sorpresa, in quella che pareva una stanza olandese di vecchio stampo come quelle immortalate nei dipinti di Gerard Douw. Una quantità di preziosi mobili antichi erano disposti nella stanza; in un angolo c'era un letto con baldacchino e pesanti tende di stoffa nera; la figura si voltava spesso verso di lui con quello stesso sorriso malizioso; quando giunse al letto spostò le tende e alla luce della lampada il pittore terrorizzato scorse, seduta nel letto, la livida e satanica forma di Wilken Vanderhausen. Schalken lo scorse appena e cadde al suolo privo di sensi. Qui fu trovato il mattino seguente dalle persone addette a richiudere i passaggi per raggiungere le cripte. Egli giaceva in una cella di grandezza notevole che non era stata aperta per molto tempo ed era caduto accanto a una grande bara che poggiava su piccole colonne, una misura contro eventuali attacchi di insetti. Fino al giorno della sua morte Schalken fu sicuro della visione che aveva avuto. Egli lasciò ai posteri una prova curiosa dell'impressione che era rimasta nella sua fantasia con un quadro realizzato poco dopo l'avvenimento qui narrato. Si tratta di un dipinto prezioso non solo perché raffigura quelle particolarità per cui i quadri di Schalken sono ricercati, ma, soprattutto, perché contiene il ritratto del suo primo amore, Rose Velderkaust, il cui fato è destinato a rimanere per sempre avvolto nel mistero. Titolo originale: Schalken the Painter Traduzione: Laura Pignatti Charlotte Perkins Gilman La tappezzeria gialla La femminista e riformatrice Charlotte Perkins Gilman scrisse solo quest'unico racconto dell'orrore. Si tratta però di un capolavoro, che pochi sono stati in grado di eguagliare durante questo secolo, forse solamente Shirley Jackson e Joanna Russ. The Yellow Wallpaper (La tappezzeria gialla) è la storia di una casa infestata dagli spiriti oppure una storia di pazzia; comunque sia, è un vero e proprio monumento al racconto dell'orrore femminista, nel quale sono sottolineate in modo sagace ed efficace tutte le limitazioni che portano la protagonista al punto cruciale della storia. Questa è la reazione classica al senso di colpa e all'orrore che l'uomo
prova di fronte a una donna maltrattata; si tratta, infine, di un esempio universale del fatto che un racconto dell'orrore non deve necessariamente essere di stampo conservatore. Accade molto di rado che gente comune come John e me prenda in affitto antiche case di campagna per le vacanze estive: una villa in stile coloniale, un podere tramandato di generazione in generazione... magari una casa infestata dagli spiriti oh sì!, e raggiungerei il culmine della felicità romantica... ma questo sarebbe chiedere troppo! Ciononostante, e lo dico con orgoglio, la casa che abbiamo affittato ha qualcosa di strano. Altrimenti, perché ce l'avrebbero data a così basso prezzo? E perché sarebbe rimasta sfitta così a lungo? John ride di me, naturalmente, ma questo uno se lo aspetta nel matrimonio. John è pratico fino all'esagerazione. Non ha pazienza con la fede, ha orrore della superstizione e si fa beffe apertamente di qualsiasi discorso su cose che non si possono sentire, vedere, o scrivere nero su bianco. John è medico, e forse (ovviamente non lo direi ad anima viva, ma questa carta non può parlare, ed è di grande sollievo per la mia mente), forse, dicevo, questo è uno dei motivi per cui non riesco a guarire più in fretta. Lui non crede che io stia male! Che cosa posso farci? Se un medico di alto livello, che è anche tuo marito, assicura amici e parenti che non hai proprio nient'altro che una temporanea depressione nervosa (una leggera tendenza all'isterismo), che cosa ci puoi fare? Anche mio fratello è medico, ed è pure di alto livello, e dice la stessa cosa. Così prendo fosfati o fosfiti, non ricordo, e stimolanti, e viaggio, sto all'aria aperta, e faccio moto, e mi hanno severamente proibito di lavorare fino a quando non mi sarò rimessa. Personalmente non approvo le loro idee. Personalmente credo che un lavoro che mi piacesse, assieme a un po' di divertimento e cambiamenti, mi farebbero bene. Ma che cosa ci posso fare? Ho scritto per qualche tempo in barba a loro, ma effettivamente mi affatico molto, a doverlo fare così di nascosto per non incontrare la loro opposizione.
A volte penso che nella condizione in cui mi trovo se incontrassi meno opposizione e più compagnia e stimoli... ma John dice che la peggior cosa che posso fare è pensare alla mia situazione, e confesso che quando lo faccio poi mi sento in effetti sempre peggio. Così non ci penserò e parlerò invece della casa. Che posto meraviglioso! È molto solitaria, piuttosto lontana dalla strada, a circa tre miglia dal paese. Mi fa pensare a quei luoghi inglesi di cui si legge perché ci sono siepi e muri e cancelli che si chiudono a chiave e tante piccole casette sparpagliate per i giardinieri e per tutti gli altri. C'è un giardino delizioso! Non ho mai visto un giardino simile: grande e ombreggiato, pieno di sentieri con siepi di bosso e lunghi pergolati coperti di rampicanti; sotto ci sono diverse panchine. C'erano anche delle serre, ma ora sono tutte crollate. C'è stato qualche problema legale, credo, forse questioni di eredi e coeredi a ogni modo la casa è rimasta vuota per anni. Probabilmente è per questo che mi viene da pensare agli spiriti, non è che m'importi molto, ma in questa casa c'è qualcosa di strano, lo sento. L'ho perfino detto a John una sera che splendeva la luna, ma mi ha assicurato che quello che sentivo era uno spiffero e ha chiuso la finestra. A volte me la prendo troppo con John. Sono sicura di non essere mai stata così irascibile. Dev'essere colpa di questa malattia nervosa. Ma John dice che se penso questo poi non mi controllo più; così mi sforzo di controllarmi... almeno davanti a lui: è questo che mi stanca molto. La nostra stanza non mi piace per niente. Ne volevo una al piano di sotto, che si apre sul cortile e ha tutta la finestra coperta di rose, e così belle tende di vecchio stile in chintz! Ma John non ne ha voluto sapere. Ha detto che c'era una sola finestra e non c'era lo spazio per due letti, e non c'era neanche una stanza vicina per lui, se avessi voluto stare sola in quella. È molto attento e affettuoso, quasi non mi lascia muovere prima di averci pensato lui. Ho un orario per tutte le ore del giorno; pensa lui a tutto, mi toglie qualsiasi preoccupazione: mi sento quindi molto ingrata per non sapergli dimostrare la dovuta riconoscenza. Ha detto che siamo qui solo per me, che devo riposarmi bene e respirare tutta l'aria buona che posso. «Il moto che fai dipende dalla forza che ti senti, cara» ha detto «e quello che mangi dall'appetito che hai però puoi assorbire aria tutto il tempo.» Così abbiamo scelto la stanza dei bambini all'ul-
timo piano. È una grande stanza spaziosa che occupa quasi tutto il piano, con finestre su tutti i lati, e aria e sole in abbondanza. Prima doveva essere la stanza dei bambini, poi stanza dei giochi e palestra, direi, perché ci sono le inferriate alle finestre per i bambini piccoli e ci sono gli anelli ed altri attrezzi alle pareti. Dall'intonaco e dalla carta si direbbe che di qui è passata un'intera banda di ragazzini. La carta è strappata in vaste zone tutt'intorno alla testata del mio letto, più o meno fino a dove riesco a stendere la mano, e in un grande pezzo dall'altra parte della stanza in basso. Non ho mai visto una carta più brutta in vita mia: il motivo del disegno è grande, irregolare, sgargiante e contro tutte le regole dell'estetica; ed è per di più sufficientemente noioso da confondere l'occhio se tenti di seguirlo, sufficientemente pronunciato da infastidirti di continuo e da spingerti a studiarlo: segui le curve incerte e zoppicanti per un breve tratto, e improvvisamente esse si suicidano... si tuffano di lato formando angoli esagerati, si autodistruggono in contraddizioni inaudite. Il colore è ripugnante, quasi nauseabondo: un giallo sporco e subdolo, stinto in modo strano dalla luce del sole che gira lentamente. In alcune zone è di un arancione spento ma livido, in altre di un color zolfo malaticcio. Non mi meraviglia che i bambini lo odiassero! Lo odierei anch'io se dovessi vivere a lungo in questa stanza. Ma ecco che arriva John, devo mettere via... non sopporta che io scriva anche solo una parola. Siamo qui da due settimane e dopo il primo giorno non ho più avuto voglia di scrivere. Ora sono seduta davanti alla finestra, quassù, in questa atroce stanza dei bambini e non c'è nulla che possa impedirmi di scrivere quanto voglio, eccetto un'eventuale mancanza di forze. John è fuori tutto il giorno, e a volte si ferma anche di sera, se c'è qualche caso grave. Sono contenta che il mio non sia un caso grave! Ma questi disturbi nervosi sono terribilmente deprimenti. John non sa quanto io realmente soffra. Sa che non esiste un motivo perché io soffra, e questo gli basta. Naturalmente non sono solo i nervi. Mi pesa non poter fare il mio dovere
in alcun modo! Volevo essere d'aiuto a John, farlo riposare e confortarlo, ma eccomi qua, gli sono già di peso! Nessuno crederebbe quant'è faticoso fare quel poco che mi riesce... vestirsi e conversare e mettere a posto le cose. Per fortuna che Mary è così buona con il bambino. Un così caro bambino! Eppure non posso stare con lui, mi rende terribilmente nervosa. Immagino che John non sia mai stato nervoso in vita sua. Mi prende talmente in giro per questa tappezzeria! All'inizio pensavo di farla cambiare, ma poi ha detto che mi stavo lasciando andare e che non c'è niente di peggio che accontentare una persona nervosa in capricci come questi. Ha detto che una volta cambiata la carta sarebbe stata la volta della lettiera troppo pesante, e poi delle finestre con le inferriate e poi di quel cancelletto in cima alle scale eccetera. «Sai, questa vacanza ti sta facendo bene» ha detto «e davvero, cara, non mi pare il caso di restaurare la casa per i tre mesi che l'abbiamo affittata.» «Allora dormiamo al piano di sotto» ho detto io. «Ci sono delle stanze così belle.» Lui mi ha abbracciato chiamandomi «la mia cara piccola ochetta» e ha detto che saremmo andati a dormire in cantina, se lo volevo, e che l'avrebbe fatta dipingere di bianco. Ma ha ragione per quanto riguarda i letti e le finestre eccetera. È una stanza che non potrebbe essere più ariosa e comoda, e, ovviamente, non sarò così sciocca da volerlo fare stare scomodo solo per un capriccio. In realtà mi sto affezionando molto a questa grande stanza, a tutto... eccetto quella orribile carta. Da una finestra vedo il giardino, quei misteriosi pergolati pieni d'ombra, i rigogliosi fiori antichi, i cespugli e gli alberi nodosi. Da un'altra godo di una bella vista della baia e di un piccolo molo privato che fa parte della proprietà. C'è un bellissimo viale alberato che dalla casa arriva fino a lì. Immagino sempre di vedere gente che cammina lungo tutti questi sentieri e sotto i pergolati, ma John mi ha raccomandato di non cedere assolutamente all'immaginazione. Dice che con la forza d'immaginazione, l'abitudine a inventare storie e i nervi deboli che mi ritrovo mi ecciterei troppo, e mi raccomanda di metterci tutta la mia buona volontà e il
mio buon senso per controllarmi. Io faccio del mio meglio. A volte penso che se solo stessi abbastanza bene da potere scrivere un pochino non sentirei questa pressione di idee e mi riposerei meglio. Ma mi stanco parecchio, quando ci provo. È così scoraggiante non avere consigli né compagnia quando lavoro. Quando sarò davvero guarita John ha detto che chiederà al cugino Henry e a Julia di fermarsi con noi a lungo; ma dice che lasciarmi in compagnia ora di quelle persone interessanti sarebbe come mettermi dei fuochi artificiali sotto il cuscino. Vorrei guarire più in fretta. Ma non devo pensarci. Mi sembra quasi che questa carta sappia di avere un pessimo influsso su di me! C'è un punto che si ripete dove il motivo resta a penzoloni come un collo spezzato e due occhi tondi ti osservano alla rovescia. E così impertinente da farmi proprio rabbia, anche per quel senso di eternità. Si arrampicano su e giù e in orizzontale, e quegli assurdi occhi sbarrati sono dappertutto. C'è un punto in cui due strisce non combaciano e gli occhi sono tutti scombinati, uno è un po' più alto dell'altro. Non avevo mai visto esseri inanimati così espressivi, eppure tutti sappiamo quanto possano essere espressivi! Quando ero bambina e stavo a letto sveglia, trovavo più divertimento e paura osservando e fantasticando sulle pareti spoglie e sui semplici mobili di quanto gli altri bambini non trovino in un intero negozio di giocattoli. Ricordo il simpatico ammiccamento che avevano i pomelli del nostro grande e vecchio cassettone, e c'era una seggiola che sempre mi suggeriva l'immagine di un amico robusto. Pensavo che se anche una qualsiasi delle altre cose mi avesse fatto paura avrei potuto sempre rifugiarmi su quella seggiola. I mobili di questa stanza sono più che altro disarmonici, perché abbiamo dovuto prenderli dai piani inferiori. Immagino che quando hanno cominciato a usare questa come stanza da gioco hanno dovuto portare via tutto quello che faceva parte della stanza dei bambini, non c'è proprio da meravigliarsi! Non ho mai visto disastri simili a quelli che i bambini hanno combinato qui. La carta da parati, come ho già detto, in certi punti è strappata eppure è attaccata molto bene... probabilmente avevano perseveranza, oltre che odio. Anche il pavimento è graffiato e rigato e scalfito, in certi punti ci sono
addirittura dei buchi nella malta, e questo grande letto pesante, l'unica cosa che abbiamo trovato qui quando siamo arrivati, sembra avere fatto la guerra. Ma non me ne importa niente... solo la carta. Ecco che viene la sorella di John. È così una cara ragazza, e mi accudisce così bene! Non devo farmi trovare a scrivere. È una donna di casa perfetta ed entusiasta e non aspira a nessuna professione migliore. Credo veramente che pensi che è stato lo scrivere a farmi ammalare! Ma posso scrivere quando è fuori, e la vedo arrivare da lontano da queste finestre. Ce n'è una da cui si vede la strada, una bellissima strada serpeggiante e ombreggiata, e una verso la campagna. Ed è anche una bella campagna, piena di grandi olmi e prati vellutati. Questa carta da parati ha una specie di sottomotivo di tonalità diversa, particolarmente fastidiosa, perché si vede solo con luce di particolare intensità e mai chiaramente. Ma nei punti in cui non è sbiadita e dove l'intensità del sole è proprio quella giusta, vedo una specie di strana figura provocante e priva di forma che pare muoversi furtivamente dietro quello stupido e vistoso motivo superficiale. Ma ecco mia cognata che sale le scale! Bene, sono passati anche i festeggiamenti del quattro di luglio! Tutti se ne sono andati e io sono stanca morta. John pensava che mi avrebbe fatto bene un po' di compagnia, così abbiamo invitato solo mamma e Nellie e i bambini per una settimana. Ovviamente non ho fatto nulla. Jennie bada a tutto ora. Ma mi sono stancata lo stesso. John dice che se non mi rimetto più in fretta in autunno dovrà mandarmi da Weir Mitchell. Ma non voglio proprio andarci. Una mia amica ci è stata una volta, e dice che è proprio come John e come mio fratello... in peggio: più duro, più pragmatico. E poi è un tale traffico andare così lontano. Non ho voglia di dedicarmi a nulla, e sto diventando terribilmente irritabile e lamentosa. Piango per un nonnulla, e passo buona parte del tempo a piangere.
Ovviamente non piango quando qui c'è John o qualcun altro, piango quando sono sola. E non di rado sono sola. Anzi. John deve fermarsi in città molto spesso per qualche caso grave, e Jennie è gentile e mi lascia sola quando lo desidero. Così passeggio un po' in giardino o lungo quel bel viale alberato, sto seduta sulla veranda sotto le rose e, con una certa frequenza, vengo a distendermi qui. Sto veramente affezionandomi alla stanza nonostante la carta da parati. Forse proprio grazie alla carta da parati. Ci penso continuamente! Sto qui distesa su questo grande letto immobile (credo che sia inchiodato al pavimento) e seguo quel motivo per ore. È veramente un'ottima ginnastica. Comincio, diciamo, alla base, laggiù in quell'angolo dove non è stata toccata, e decido per la millesima volta che seguirò quell'insensato motivo fino a giungere a una conclusione di qualche tipo. Conosco più o meno i principi del disegno, e so che questo non è stato costruito seguendo un ordine radiale, alternato, ripetitivo o simmetrico, né secondo qualsiasi altra regola di cui abbia mai sentito. Naturalmente è ripetuto, a strisce, ma non segue alcun altro ordine. Se si guarda in una certa direzione ogni striscia è indipendente, curve e svolazzi sproporzionati (una sorta di «romanico degradato» afflitto da delirium tremens) che ondeggiano su isolate colonne di fatuità. D'altro canto si collegano diagonalmente e i contorni disordinati si rincorrono formando grandi onde inclinate, un orrore ottico, come una massa di alghe avvinghiate che si inseguano. Tutto si sviluppa anche in senso orizzontale, o almeno così pare, e mi esaurisco tentando di capire l'ordine del movimento in quella direzione. Hanno messo una striscia orizzontale a scopo ornamentale, e questo contribuisce splendidamente ad aumentare la confusione. C'è un lato della stanza dove la tappezzeria è quasi intatta; qui, quando spariscono i fasci di luce diagonali e il sole basso la illumina direttamente, mi sembra quasi di scorgere un motivo radiale: gli interminabili grotteschi sembrano nascere attorno a un centro unico e schizzare via da quello tuffandosi di testa, tutti, in modo egualmente disordinato. Mi stanco a seguirli. Credo che farò un riposino. Non so perché sto scrivendo questo. Non lo voglio.
Non credo di esserne capace. E so che John penserebbe che à assurdo. Ma devo dire quello che sento e penso in qualche modo: è un tale sollievo! Però lo sforzo ora sta superando il sollievo. Per metà del tempo sono terribilmente pigra e spesso mi distendo sul letto. John dice che non devo perdere le forze, e mi fa prendere l'olio di fegato di merluzzo e un sacco di ricostituenti e altre cose, per non parlare della birra, del vino e della carne al sangue. Caro John! Mi ama teneramente e non sopporta che io stia male. Ho tentato di ragionare con lui con tutta sincerità, l'altro giorno, e gli ho spiegato quanto desidererei che mi lasciasse andare a trovare il cugino Henry e Julia. Ma mi ha detto che non sono in grado di andarci, né di restarci una volta arrivata fin lì; io stessa non gli ho dato una buona prova, visto che piangevo prima ancora di avere finito. Comincio a fare una fatica enorme a pensare in modo logico. Dev'essere questa depressione nervosa. E il buon John mi ha raccolta tra le sue braccia e mi ha semplicemente portata su e distesa sul letto, e si è seduto accanto a me e mi ha letto fino a quando ero stanchissima. Ha detto che sono il suo tesoro e la sua consolazione e tutto quello che lui ha, e che devo curarmi per amor suo e stare bene. Dice che nessuno a parte me stessa può aiutarmi ad uscire da questo, e che devo usare la mia volontà e il mio autocontrollo per evitare di lasciarmi prendere da stupide fantasie. C'è una consolazione: il bimbo sta bene ed è contento, e non deve stare in questa stanza con questa orribile carta da parati. Se non l'avessimo scelta per noi, avrebbe dovuto starci lui! Che fortunata scappatoia! Certamente io non metterei per nessun motivo al mondo un mio figlio, una piccola creatura impressionabile, in una stanza del genere. Non ci ho mai pensato prima, ma tutto sommato è una fortuna che John mi abbia convinta a stare qui, io infatti sopporto questa tappezzeria molto meglio di un neonato, Ovviamente non gliene parlo più, sono saggia, mi controllo continuamente. Su quella carta ci sono cose che nessuno oltre a me conosce né conoscerà mai.
Dietro quel motivo esterno le ombre soffuse diventano ogni giorno più chiare. È sempre la medesima forma, ma ripetuta molte volte. È come una donna curva che si muove furtivamente dietro quel motivo. Non mi piace assolutamente. Mi chiedo... comincio a pensare che desidererei che John mi portasse via di qui! È così difficile discutere il mio caso con John, perché è talmente saggio, e perché mi ama tanto. Ma ieri sera ho provato. Era una notte di luna. La luna qui entra da tutte le parti proprio come il sole. A volte non sopporto di vederla, striscia così piano e riesce sempre a entrare da una finestra o dall'altra. John stava dormendo, e non lo volevo svegliare, così sono stata zitta e guardavo il chiarore della luna su quella tappezzeria ondeggiante fino a quando sono stata assalita da brividi di terrore. Quella pallida figura sembrava scuotere il motivo proprio come se volesse uscire da lì dietro. Così mi sono alzata piano e sono andata a toccare la carta per vedere se si muoveva effettivamente, e quando sono tornata a letto John era sveglio. «Che cosa c'è, piccolina?» ha detto. «Non andare in giro così che prendi freddo.» Ho pensato che fosse un buon momento per parlare, così gli ho detto che non stavo migliorando affatto qui, e che volevo che mi portasse via. «Perché tesoro?» ha detto lui «Il contratto scade tra tre settimane e non vedo perché dovremmo andarcene prima. Per di più, i lavori in casa nostra non sono finiti e non posso proprio andarmene ora. Naturalmente se tu fossi in pericolo potrei e lo farei, ma stai veramente meglio, cara, che tu te ne renda conto o meno. Io sono medico, cara, e lo so. Stai ingrassando e il tuo colorito e l'appetito migliorano, sono davvero molto più tranquillo per te.» «Non peso un grammo di più» ho detto io. «Anzi, di meno, e magari avrò anche più appetito di sera quando ci sei tu, ma di mattina non ne ho affatto quando non ci sei!» «Il mio tesoro» ha detto lui abbracciandomi forte «Dormiamoci sopra, ne parleremo di mattina!» «E tu non te ne andrai, vero?» ho chiesto io rabbuiata. «Come potrei, cara? Mancano solo tre settimane e poi faremo un bel viaggetto di un paio di giorni mentre Jennie prepara la casa. Veramente,
cara, credimi, stai meglio!» «Meglio fisicamente forse...» ho detto io bloccandomi poi perché lui si è messo a sedere e mi ha guardata con una faccia così severa e di rimprovero che non avrei potuto dire un'altra parola. «Tesoro mio» ha detto lui. «Ti scongiuro per me e per nostro figlio, ma anche per te stessa: non permettere che questo pensiero attraversi la tua mente neanche per un istante! Non c'è nulla di più pericoloso e affascinante per un temperamento come il tuo. È un'idea falsa e folle. Mi credi, come medico, se ti dico questo?» Quindi, ovviamente, non ho più toccato l'argomento, e lui si è addormentato poco dopo. Credeva che io mi fossi addormentata prima, ma ero sveglia e sono rimasta lì per ore e ore tentando di capire se il motivo superficiale e quello dietro si muovessero effettivamente insieme o separati. Un motivo come questo, alla luce del giorno, manca di continuità, non vengono rispettate le leggi: è irritante per una mente normale. Già il colore è odioso, inaffidabile, esasperante: il motivo poi è proprio un tormento. Pensi di averlo scoperto, ma quando l'hai seguito per un bel pezzo fa una capriola all'indietro e sei da capo. Ti schiaffeggia, ti butta per terra e ti schiaccia sotto i piedi. È come un brutto sogno. Il motivo esterno è un elaborato arabesco che ti fa pensare a un fungo. Se riesci a immaginare un fungo articolato, una fila interminabile di funghi che si riproducono e spuntano in infiniti attorcigliamenti, hai creato un'immagine analoga. Questo accade qualche volta! C'è una particolarità di questa carta, qualcosa che nessuno a parte me pare notare, e cioè il fatto che cambia come cambia la luce. Quando i raggi del sole entrano come frecce dalla finestra rivolta a oriente (aspetto sempre quel primo lungo raggio diritto) cambia talmente in fretta che non riesco neanche a rendermene conto. Ecco perché lo guardo sempre. Alla luce della luna (quando c'è, la luna illumina la stanza per tutta la notte) non riconosco neanche che si tratta della medesima carta. Di notte con qualsiasi luce, nel crepuscolo, a lume di candela, con una lampada e, peggio che mai quando splende la luna, diventa a strisce! Intendo il motivo esterno, e la donna dietro è estremamente evidente. Per molto tempo non mi ero resa conto di che cosa fosse quello che si vedeva dietro, quel pallido sottomotivo, ma ora sono quasi certa che si trat-
ta di una donna. Alla luce del giorno è sottomessa, tranquilla. Immagino che sia il motivo stesso a tenerla ferma. È così strano. Mi tiene tranquilla per ore. Mi distendo sempre più spesso ora. John dice che mi fa bene, e di dormire più che posso. Certo è lui che mi ha fatta abituare mettendomi a letto per un'ora dopo ogni pasto. È una pessima abitudine, ne sono convinta, perché io non dormo. E questo mi porta al tradimento, perché non gli dico che sono sveglia, no! Il fatto è che comincio ad avere un po' paura di John. È molto strano a volte, e anche Jennie ha uno sguardo enigmatico. Talvolta mi viene da pensare, ma è solo un'ipotesi scientifica, che magari è la carta! Ho guardato John quando lui non sapeva che lo stavo guardando, e sono entrata all'improvviso nella stanza con le scuse più innocue, e diverse volte l'ho trovato che guardava la carta! E anche Jennie. Ho scoperto Jennie con una mano su di essa, una volta. Non sapeva che fossi nella stanza, e quando le ho chiesto con voce pacata, molto pacata, nel modo più tranquillo possibile, che cosa stesse facendo con la carta, si è voltata come se fosse stata scoperta a rubare, ha fatto la faccia arrabbiata e mi ha chiesto perché l'avessi spaventata così! Poi ha detto che la carta macchiava tutto quello che toccava, che aveva trovato chiazze gialle su tutti i miei vestiti e su quelli di John, e che avrebbe voluto che stessimo più attenti! Sembrava proprio innocente, ma sono sicura che stava studiando quel motivo e invece voglio essere io a scoprirlo! La vita è molto più divertente ora di quanto non fosse prima. Perché ho qualcosa in più da aspettarmi, da sperare, da guardare. Mangio veramente di più, e sono più tranquilla di prima. John è così contento di vedere che miglioro! Ha riso un poco l'altro giorno, e ha detto che sembrava che io stessi rifiorendo nonostante la tappezzeria. Anch'io ho riso. Non avevo nessun'intenzione di dirgli che era proprio grazie alla tappezzeria: mi avrebbe presa in giro. Magari avrebbe voluto portarmi via. Ora io non me ne voglio andare fino a quando non l'avrò scoperto. Manca ancora una settimana, credo che mi basterà.
Mi sento davvero molto meglio! Di notte non dormo molto, è così interessante osservare i nuovi sviluppi; in cambio dormo parecchio durante il giorno. Di giorno è noioso e imbarazzante. Il fungo ha sempre qualche pezzo nuovo e nuove tonalità di giallo. Non riesco a tenerle tutte sotto controllo, anche se mi sono impegnata a fondo. È di un giallo veramente strano, quella tappezzeria! Mi ricorda tutte le cose gialle che ho visto in vita mia, non cose belle però, come i ranuncoli, ma cose vecchie, sporche e brutte. Ma c'è un'altra particolarità di quella carta: l'odore! L'ho notato subito la prima volta che siamo entrati nella stanza, con tutta quell'aria e quel sole non era male. Ora c'è stata una settimana di nebbia e pioggia, e per chiuse o aperte che siano le finestre quell'odore resta. Si infiltra in tutta la casa. Lo trovo che si aggira in tinello, rintanato nel salotto, nascosto in corridoio oppure a volte mi tende un'imboscata sulle scale. Si infiltra in tutta la casa. Mi penetra nei capelli. Anche quando vado a cavallo, se giro la testa di scatto e lo sorprendo, lo trovo lì, quell'odore! Ed è un odore così strano! Ho passato ore e ore a cercare di analizzarlo per scoprire di che odore si trattasse. Non è cattivo, all'inizio, è anche abbastanza delicato, ma è uno degli odori più sottili e penetranti che io abbia mai sentito. Con questo tempo umido è orribile, mi sveglio di notte e me lo sento addosso. Inizialmente mi dava fastidio. Avevo pensato addirittura di dare fuoco alla casa per eliminarlo. Ma ora mi sono abituata. L'unica cosa che mi viene in mente è che quell'odore è dello stesso colore della carta! È un odore giallo. C'è un segno molto buffo su questa parete, in basso, vicino al battiscopa. Una riga che corre tutt'intorno alla stanza. Passa dietro a tutti i mobili, eccetto il letto, lunga, diritta, regolare, sembra un'impronta di labbra passate e ripassate. Mi chiedo come sia stata fatta e chi l'abbia fatta. Tutt'intorno, sempre intorno, mi fa girare la testa! Finalmente ho fatto una vera scoperta. Guardando così a lungo di notte quando cambia tanto, finalmente l'ho
scoperto. Il motivo superficiale si muove effettivamente ed è ovvio dato che c'è una donna, quella donna, dietro che lo scuote! A volte mi sembra che dietro ci siano moltissime donne, a volte una sola che striscia velocemente e quel suo strisciare scuote il motivo tutt'intorno. Poi nei punti molto luminosi si ferma, afferra solo le righe e le scuote forte. E tutto il tempo tenta di sgusciare fuori. Ma nessuno riuscirebbe a sfuggire da dietro quel motivo, ti strangola; penso che abbia così tante teste per questo. Le teste riescono a uscire, e poi il motivo le strangola e le capovolge, e i loro occhi diventano bianchi! Se quelle teste venissero coperte o staccate non sarebbe tanto grave. Ho motivo di credere che la donna di giorno esca! E dirò perché, in segreto, l'ho vista! La vedo da tutte le mie finestre! È la stessa donna, lo so perché si aggira sempre con fare furtivo, e in genere le donne di giorno non si aggirano con fare furtivo. La vedo su quel lungo viale sotto gli alberi, che striscia, e quando passa qualche vettura si nasconde sotto i rovi. Non la biasimo affatto. Dev'essere molto umiliante farsi trovare mentre ci si aggira furtivamente di giorno! Io chiudo sempre la porta a chiave quando mi aggiro per la camera furtivamente di giorno. Di notte non posso farlo, perché sono sicura che a John verrebbero subito dei sospetti. John è talmente strano in questo periodo, che non lo voglio irritare. Se solo si mettesse in un'altra stanza! E poi non voglio che nessun altro faccia uscire quella donna di notte a parte me. Spesso mi chiedo se potrei vederla da tutte le finestre insieme: ma anche se mi giro velocissima, riesco a guardarle solo una volta. E anche se la vedo sempre, forse è lei che riesce a muoversi furtivamente più in fretta di quanto io mi giri! A volte l'ho vista lontano, nella campagna, che si muoveva veloce come l'ombra di una nuvola trasportata da un forte vento. Se solo quel motivo superficiale potesse essere separato dal sottostante! Voglio provarci, un poco alla volta.
Ho scoperto un'altra stranezza, ma questa volta non la racconto a nessuno! Non bisogna fidarsi troppo della gente. Restano solo due giorni per staccare questa carta e credo che John stia iniziando a capire. Non mi piace il suo sguardo. Ho sentito che chiedeva a Jennie un sacco di cose serie sul mio conto. Lei gli ha fatto un ottimo resoconto. Ha detto che dormo molto durante il giorno. John sa che di notte non dormo bene, anche se cerco di non disturbarlo. Ha fatto un sacco di domande anche a me, fingendosi molto gentile e premuroso. Come se non sapessi a che cosa pensa! Eppure non mi meraviglio del suo comportamento... dopo avere dormito con questa tappezzeria per tre mesi. Interessa solo a me, ma sono sicura che John e Jennie ne subiscano inconsciamente l'influsso. Evviva! È l'ultimo giorno, ma mi basta. John è rimasto in città ieri notte e non tornerà fino a questa sera, Jennie voleva dormire con me — quella furbacchiona! — ma le ho detto che sicuramente avrei riposato meglio da sola per una notte. È stata una buona idea, perché in realtà non sono stata affatto sola! Appena sorta la luna, quando quella poveretta ha iniziato a scuotete il motivo che c'è sulla carta da parati, mi sono alzata e sono corsa ad aiutarla. Io tiravo e lei scuoteva, io scuotevo e lei tirava, e prima che fosse mattino avevamo staccato metri e metri di quella carta. Circa fino all'altezza della mia testa, tutt'attorno a mezza stanza. E poi, quando è sorto il sole e quell'orribile motivo si è messo a prendermi in giro, ho deciso che avrei finito oggi! Ce ne andiamo domani, e stanno portando al piano di sotto tutti i miei mobili per lasciare tutto come l'abbiamo trovato. Jennie ha guardato il muro sorpresa, ma le ho detto allegramente che l'avevo fatto per puro odio nei confronti di quell'orribile cosa. Lei ha riso e ha detto che l'avrebbe fatto anche lei, che però non mi devo stancare. Questa volta si è tradita! Ma io sono qui, e nessuno toccherà questa carta oltre a me, nessuno! Ha tentato di farmi uscire dalla stanza, era troppo evidente! Ma le ho detto che era così vuota e silenziosa e pulita, che forse mi sarei messa di
nuovo a letto e avrei tentato di dormire il più possibile; e che non mi svegliasse neanche per cena; e che l'avrei chiamata quando mi fossi svegliata. Così se n'è andata, e la servitù se n'è andata, e i mobili se ne sono andati, e non resta nient'altro che il grande letto inchiodato al pavimento con il materasso di tela che c'era già quando siamo arrivati. Dormiremo al piano di sotto questa notte, e domani prenderemo il traghetto per tornare a casa. Mi piace proprio la stanza, ora che è di nuovo vuota. Certo che quei bambini devono avere fatto il diavolo a quattro qui dentro! Il letto è piuttosto rosicchiato! Devo mettermi al lavoro. Ho chiuso a chiave la porta e buttato la chiave sul sentiero davanti alla casa. Non voglio uscire, e non voglio che nessuno entri prima che ritorni John. Voglio sorprenderlo. Quassù ho una corda che neanche Jennie ha trovato. Se quella donna esce la posso legare! Ma dimenticavo che non arrivo molto in alto senza salire su qualcosa! Questo letto non si muove! Ho tentato di sollevarlo e di spingerlo fino allo stremo delle mie forze, e mi sono arrabbiata tanto che ne ho morso via un pezzetto da un angolo, ma mi sono fatta male ai denti. Poi ho strappato via tutta la carta che potevo raggiungere stando in piedi. È terribilmente attaccata e il motivo ne gode! Tutte quelle teste strangolate e quegli occhi tondi e quei funghi ancheggianti sembrano contorcersi dalle risate! Ormai sono abbastanza arrabbiata da poter compiere qualche gesto disperato. Saltare dalla finestra sarebbe una cosa notevole, ma le inferriate sono troppo robuste e non vale la pena tentare. E poi non lo farei. Assolutamente no. So benissimo che un passo del genere è sconveniente e che può essere frainteso. Non mi piace neanche guardare dalle finestre; ci sono tante di quelle donne che camminano furtivamente, e lo fanno così in fretta. Mi chiedo se siano tutte uscite da quella carta da parati come me? Ma ora sono ben assicurata con la mia corda nascosta, non riuscirete a fare uscire me sulla strada! Immagino che dovrò tornare dietro il motivo quando cala la notte: sarà
duro il farlo. È così piacevole essere in questa grande stanza e aggirarmi furtivamente quanto voglio! Non voglio uscire, non lo farò neanche se Jennie me lo chiede. Perché fuori poi devo aggirarmi camminando sulla terra, e tutto è verde anziché giallo. Ma qui posso camminare tranquillamente sul pavimento, e la mia spalla sta giusta in quella scanalatura lungo le pareti, così non mi perdo. Ma c'è John davanti alla porta! Non serve, giovanotto, non riesci ad aprirla! Come grida e bussa! Adesso chiede un'ascia. Sarebbe un peccato buttare giù quella splendida porta! «John, caro!» ho detto io con voce tranquilla. «La chiave è davanti alla porta di casa, in mezzo a un cespuglio di piantaggine!» Questo lo ha azzittito per qualche momento. Poi ha detto, in tono molto tranquillo: «Aprimi la porta, tesoro!» «Non posso» ho detto io. «La chiave è giù, vicino alla porta, sotto il cespuglio di piantaggine!» E poi l'ho detto di nuovo, diverse volte, tranquillamente e piano, e l'ho detto finché ha dovuto andare a vedere, e ovviamente l'ha trovata, ed è entrato. Si è fermato sulla porta. «Che cos'è successo?» ha gridato. «Per l'amor del cielo, che cosa stai facendo?» Io ho continuato egualmente a camminare furtivamente lungo il muro, ma l'ho guardato girando la testa sopra la spalla. «Finalmente sono uscita» ho detto. «In barba a Jane e a te. E ho strappato buona parte della carta in modo che non mi possiate rimettere lì dietro!» Non capisco perché, ma è svenuto, ed è caduto proprio sul mio percorso lungo il muro, così poi ho dovuto camminargli sopra a ogni giro! Titolo originale: The Yellow Wallpaper Traduzione: Laura Pignatti Robert Hichens Come il professor Guildea trovò l'amore Questo capolavoro di Hichens è uno dei più grandi racconti dell'orrore
di tutti i tempi. Efficace sia come analisi morale sia come introspezione psicologica, è in quest'ultimo campo che esso raggiunge i vertici più alti e si erge al di sopra dei propri contemporanei affiancandosi a The Beckoning Fair One di Oliver Onions, Carmilia di Le Fanu e The Turn of the Screw di Henry James e venendo a costituire una delle pietre miliari di questo genere letterario. La moralità cristiana dell'epoca vittoriana viene qui riproposta sotto forma di racconto e presenta provocanti contrasti da un lato con The New Mother (La nuova madre) di Lucy Clifford e dall'altro con il già citato The Beckoning Fair One di Oliver Onions. E se Onions tende a modificare la struttura classica del racconto andando oltre lo specifico horror del genere, Hichens, giocando dialetticamente con gli assunti di Padre Murchinson e quelli di una giornalista indipendente evidenzia l'allontanamento della narrativa fantastica e dell'orrore dalla morale e il crescente interesse verso l'analisi psicologica proprio del periodo. I La gente ottusa spesso si chiedeva come fosse possibile che Padre Murchinson e il professor Frederic Guildea potessero essere amici intimi. L'uno era tutto fede, l'altro tutto scetticismo. La fede del Padre si basava sull'amore. Egli contemplava il mondo con una tenerezza quasi infantile coperto da quella sua lunga tonaca nera, e sembrava che i suoi occhi azzurri, miti, eppure assolutamente impavidi, osservassero sempre quanto di buono c'è nel mondo e si rallegrassero per quello che vedevano. Il professore, d'altro canto, aveva una faccia affilata e portava un'aggressiva barbetta a punta. I suoi occhi erano veloci, penetranti e irriverenti. Le linee attorno alla sua piccola bocca dalle labbra sottili erano quasi crudeli. Aveva la voce aspra e asciutta, a volte, quando si infervorava, quasi da soprano. Egli sparava letteralmente le parole pronunciandole in modo aspro e pungente. Il suo atteggiamento normale era di sfiducia e di investigazione. Era impensabile che egli, nella sua vita così piena di impegni, trovasse tempo per l'amore, sia nei confronti dell'umanità in generale sia nei confronti di un solo individuo. Il professor Guildea trascorreva i suoi giorni dedicandosi a ricerche scientifiche da cui il mondo traeva immensi benefici. I due uomini erano scapoli. Padre Murchinson non si poteva sposare in quanto membro di un ordine anglicano. Il professor Guildea aveva un'opinione negativa di quasi tutte le cose, in particolare delle donne. In passato
aveva una cattedra a Birmingham. Una volta affermatosi come scopritore si era trasferito a Londra. Fu qui, durante una conferenza nell'East End, che egli incontrò per la prima volta Padre Murchinson. Scambiarono qualche parola. Forse la brillante intelligenza del prete piacque allo scienziato che, di regola, tendeva a considerare il clero con un certo disprezzo. Forse lo attrasse la trasparente sincerità di quest'uomo devoto così ricco di buon senso. Uscendo dalla sala il professore chiese improvvisamente al sacerdote di andarlo a trovare a casa sua in Hyde Park Place. E il Padre, che aveva ben poche occasioni di andare nel West End, eccetto che per predicare, accettò l'invito. «Quando verrete?» chiese Guildea. Stava ripiegando alcuni fogli azzurri sui quali i suoi appunti erano scritti con una grafia chiara e minuta. Il fruscio asciutto della carta accompagnava la sua voce aspra e secca. «Domenica prossima tengo la predica della sera a St. Saviour, che non è molto distante» disse il Padre. «Io non vado in chiesa.» «No» disse il Padre senza che nella sua voce si denotasse un tono di sorpresa o condanna. «Verrete a cena, dopo?» «Grazie, verrò.» «A che ora?» Il Padre sorrise. «Appena terminato il sermone: la funzione inizia alle sei e mezzo.» «Verso le otto, quindi. Non fatelo troppo lungo, quel sermone. Il numero in Hyde Park Place è il 100. Vi auguro una buona notte.» Il professore unì le sue carte con un elastico e si allontanò a grandi passi senza stringere la mano al prelato. La domenica prestabilita Padre Murchinson predicò davanti una comunità molto numerosa a St. Saviour. L'argomento del sermone era la compassione e la relativa inutilità, per il mondo, dell'uomo che non sia in grado d'imparare ad amare il prossimo suo come se stesso. Il sermone fu piuttosto lungo, e quando il predicatore, con il suo ampio mantello nero e il rigido cappello rotondo nero, s'incamminò verso la casa del professore, le lancette dell'orologio illuminato di Marble Arch segnavano le otto e venti. Il Padre si affrettò facendosi strada tra la folla di soldati, donne e ragazzi di strada ridacchianti, tutti vestiti con l'abito della domenica. Era una tiepida serata di aprile e, quando egli giunse al numero 100 di Hyde Park Place,
davanti alla porta trovò il professore senza cappello che, con lo sguardo fisso sulla ringhiera del parco, si godeva la dolce aria umida davanti al portone illuminato. «Che lungo sermone!» esclamò il professore. «Entrate.» «Sì, lungo» disse il Padre entrando. «Sono uno di quegli individui pericolosi che improvvisano la predica.» «È più bello parlare senza appunti, quando lo si sa fare. Appendete qui il cappello e il cappotto, cioè mantello. Mangiamo subito. Questa è la sala da pranzo.» Aprì una porta sulla destra ed essi entrarono in una stanza lunga e stretta, con la tappezzeria gialla e il soffitto nero da cui pendeva una lampada elettrica con un paralume dorato. Nella stanza c'era un tavolino ovale apparecchiato per due. Il professore suonò il campanello. Quindi disse: «Pare che la conversazione sia migliore attorno a un tavolo ovale che a uno quadrato.» «Davvero?» «Beh, ho provato a invitare le stesse persone due volte, una volta attorno a un tavolo quadrato e una volta attorno a uno ovale. La prima cena è stata un vero fallimento, la seconda ha avuto successo. Sedetevi, prego.» «Come spiegate la differenza?» chiese il Padre sedendosi e sistemando bene la tonaca sotto di sé. «Beh... a ogni modo so come la spiegherete voi.» «Ah sì, e come dunque?» «Attorno a un tavolo ovale si sta meglio, poiché non vi sono angoli e la catena della solidarietà umana... la corrente elettrica, è più intensa e costante. Ma lasciate che vi serva un po' di minestra.» «Grazie.» Il Padre afferrò il piatto e così facendo fissò i luminosi occhi azzurri sul suo ospite. Sorrise. «Ma allora» disse con la sua piacevole voce da tenore «qualche volta ci andate anche voi, in chiesa!» «Stasera per la prima volta dopo secoli, ma, badate, mi sono annoiato a morte.» Il Padre stava ancora sorridendo, i suoi occhi azzurri si socchiusero appena. «Però!» esclamò «mi dispiace!» «Ma non per il sermone» soggiunse Guildea. «Non faccio complimenti io, enuncio i fatti. Non è stato il sermone ad annoiarmi. Se così fosse stato ve l'avrei detto, oppure non avrei detto nulla.»
«Quale delle due cose avreste fatto?» Il professore sorrise quasi con cordialità. «Non lo so» disse. «Che vino bevete?» «Niente vino, grazie. Sono astemio. Nella mia professione e nell'ambiente che frequento è necessario esserlo. Sì, berrò dell'acqua di selz. Io penso che avreste fatto la prima... che me l'avreste detto.» «Molto probabile e molto sconveniente. Ma voi non ve la sareste presa.» «Non credo.» Ormai erano intimi amici. Il Padre si sentiva a proprio agio sotto quel soffitto nero. Beveva acqua di selz e pareva gustarla più di quanto il professore non apprezzasse il suo rosso di Borgogna. «Vedo che la teoria della catena di solidarietà umana vi fa sorridere» disse il Padre. «Come spiegate quindi l'insuccesso della vostra cena attorno al tavolo quadrato, spigoloso, e viceversa il successo di quella al tavolo ovale, senza angoli?» «Probabilmente la prima volta la gente aveva mal di fegato, mentre la seconda era in perfetta salute. Eppure, come vedete, continuo a usare il tavolo ovale.» «Il che significa...» «Molto poco. Ma, a proposito, questa sera nel vostro sermone non avete fatto menzione del ben noto ruolo che il fegato ha nell'amore, trovo che sia una grave mancanza.» «L'assenza di qualsiasi desiderio di vera solidarietà umana dalla vostra vita è una mancanza ben più grave.» «Come potete essere certo che io non provi tale desiderio?» «Lo immagino. Il vostro sguardo e il vostro comportamento me lo suggeriscono. Avete disapprovato il mio sermone per tutta la sua durata, non è così?» «Solo in parte.» Il maggiordomo cambiò i piatti. Era un uomo di mezza età, biondo, magro, dal volto arcigno e pallido, occhi chiari e sporgenti, e un modo di servire raffinato. Quando ebbe lasciato la stanza il professore continuò. «Ho trovato interessanti alcune vostre affermazioni, ma mi sono parse esagerate.» «Per esempio?» «Permettetemi di essere egoista per un attimo. Io passo gran parte del mio tempo a lavorare, lavoro moltissimo. I risultati di tale lavoro, mi concederete, sono utili per l'umanità.»
«Utilissimi» annuì il Padre mentre gli tornavano in mente alcune delle scoperte di Guildea. «E l'utilità che deriva dal mio lavoro» proseguì il professore «esclusivamente fine a se stesso, è pari a quella che ne deriverebbe se io lo svolgessi per amore verso il prossimo, desiderando ardentemente di rendergli più agevole l'esistenza. Nella mia condizione attuale, nella condizione non compassionevole, sono utile al prossimo esattamente quanto lo sarei se fossi pieno di sentimentalismo come quelli che vogliono fare uscire di prigione gli assassini o premiare la tirannide (come Tolstoi) risparmiando la punizione ai tiranni.» «Si possono fare molti danni con l'amore e grandi cose senza di esso, questo è vero» disse Padre Murchinson. «E non basta neanche le bon motif, lo so. Lo stesso insisto che sareste ancora infinitamente più utile al mondo se alle vostre forze aggiungeste la compassione e l'affetto per i vostri simili. Ritengo addirittura che otterreste risultati ancora più brillanti.» Il professore si versò un altro bicchiere di rosso di Borgogna. «Avete notato il mio maggiordomo?» chiese. «Sì.» «È un servitore impeccabile. Fa in modo che io mi senta perfettamente a mio agio. Eppure non prova alcun affetto verso di me. Lo tratto bene, lo pago bene, ma non penso mai a lui né mi preoccupo di lui in quanto essere umano. Non so nulla della sua vita eccetto quello che ho appreso dalla lettera di presentazione scritta dal suo precedente padrone. Si potrebbe affermare che tra noi non esista un vero rapporto umano. Orbene, direste dunque ch'egli svolgerebbe meglio il proprio lavoro se io avessi fatto in modo che provasse affetto per me... così come un uomo, di qualsiasi classe, potrebbe amare un altro uomo, di qualsiasi altra classe?» «Direi proprio di sì.» «Insisto: egli non potrebbe svolgere meglio di così il suo lavoro.» «E se dovesse accadere qualcosa di grave?» «Che cosa?» «Qualsiasi momento critico o mutamento delle vostre condizioni. Diciamo se doveste avere bisogno di lui non solo come uomo e maggiordomo, ma come uomo e fratello? Probabilmente in questo caso egli non vi appoggerebbe. Non otterreste mai dal vostro maggiordomo quel servizio che può derivare solo da un sincero affetto.» «Avete finito?» «Sì.»
«Saliamo, allora... Sì, sono delle belle stampe, quelle: le ho comperate a Birmingham quando vi abitavo. Questo è il mio studio.» Giunsero in una stanza composta da due ambienti, tappezzata completamente di libri e illuminata da una forte e fredda luce elettrica. Su un lato le finestre si affacciavano sul parco, sull'altro sul giardino della casa accanto. Dalla porta attraverso la quale erano entrati non si scorgeva l'ambiente interno, e più piccolo — nascosto in parte dal muro aggettante dell'ambiente esterno — che conteneva un enorme scrittoio carico di lettere, libelli e manoscritti. Tra le due finestre c'era una gabbia in cui un grande pappagallo grigio si serviva del becco e degli artigli per le sue lente e meditabonde peregrinazioni. «Avete un animale da compagnia!» esclamò sorpreso il Padre. «Possiedo un pappagallo» fu la secca risposta del professore. «L'ho comperato per uno studio sulla capacità degli uccelli di imitare, e poi non me ne sono mai disfatto. Un sigaro?» «Grazie.» Si sedettero. Padre Murchinson guardava il pappagallo che aveva interrotto il suo deambulare e, appeso alle sbarre della gabbia, li stava guardando con attenti occhi rotondi che sembravano davvero intelligenti ma per nulla compassionevoli. Il religioso distolse lo sguardo dall'animale e osservò Guildea che stava fumando con il capo reclinato all'indietro e il mento aguzzo con la barbetta nera appuntita rivolto all'insù. Muoveva rapidamente su e giù il labbro inferiore. Questo movimento faceva vibrare la barba che assumeva un aspetto stranamente minaccioso. Improvvisamente il Padre si mise a ridere tra sé e sé. «Che cosa c'è?» esclamò Guildea lasciando cadere il mento sul petto e guardando severamente l'ospite. «Stavo pensando che dovrebbe accadere proprio qualcosa di molto grave perché voi foste indotto a cercare l'affetto del vostro maggiordomo.» Anche Guildea sorrise. «Avete ragione, ma eccolo che arriva.» L'uomo entrò portando il caffè. Lo servì compunto e si ritirò come un'ombra che si muova su una parete. «Che tipo meravigliosamente inumano» notò Guildea. «Preferisco il ragazzo dell'East End che mi fa le commissioni in Bird Street» disse il Padre. «Conosco tutte le sue preoccupazioni. Egli conosce le mie. Siamo amici. È più rumoroso del vostro uomo, ha addirittura il respiro affannoso quando si affretta, ma farebbe di più per me che non il
mettere il carbone sul fuoco o lucidarmi gli stivali con la punta quadrata.» «Le persone sono diverse. Per me un occhio attento e affettuoso sarebbe insopportabile.» «E quell'uccello?» Il Padre indicò il pappagallo che si era appollaiato sul suo trespolo e, con una zampa solennemente sollevata, quasi come per impartire una benedizione, stava osservando attentamente il professore. «Ecco l'attento spirito di imitazione e una mente desiderosa di riprodurre le particolarità degli altri.», disse il professore. «In realtà il vostro sermone di questa sera mi è sembrato molto brillante. Ma non desidero assolutamente affetto. Una simpatia ragionevole, naturalmente, la desiderano tutti» si tirò forte la barba come per mettersi in guardia dal sentimentalismo «ma qualsiasi cosa in più sarebbe irritante, e mi indurrebbe, ne sono certo, alla crudeltà. Inoltre, ostacolerebbe il lavoro.» «Non credo.» «Il mio lavoro sì. Continuerò a lavorare per il mondo senza amarlo, ed esso continuerà ad accettare i miei contributi senza amare me. È tutto come dovrebbe essere.» Bevve il suo caffè. Poi soggiunse con fare piuttosto aggressivo. «Non ho né tempo né propensione per il sentimentalismo.» Quando Guildea accompagnò il Padre alla porta, lo seguì fino alla soglia e si fermò lì per un momento. Il Padre osservò la strada umida e il parco. «Vedo che avete un cancello proprio di fronte a casa vostra» disse pigramente. «Sì, faccio spesso quattro passi nel parco per schiarirmi le idee. Buona notte. Tornate a trovarmi.» «Con piacere. Buona notte.» Il sacerdote s'incamminò lasciando Guildea in piedi sulla soglia di casa. Padre Murchinson andò molte altre volte al numero 100 di Hyde Park Place. Provava affetto per gran parte degli uomini e delle donne che conosceva, tenerezza per tutti, che li conoscesse o meno, ma per Guildea giunse a provare un sentimento particolare. Stranamente si trattava di pietà. Compiangeva quell'uomo dal cervello fino e dal cuore duro, grande lavoratore, famoso e coronato dal successo, che non sembrava mai depresso, che non desiderava mai un aiuto, che non si lagnava mai per i casi avversi della vita né esitava lungo il proprio cammino. Il Padre sentiva pena per Guildea proprio perché egli desiderava così poco. Gliel'aveva anche detto, dato che i loro rapporti erano stati, sin dall'inizio, particolarmente sinceri.
Una sera mentre stavano discorrendo Padre Murchinson menzionò casualmente una delle stranezze della vita: il fatto che chi non desidera le cose spesso le ottiene, e viceversa coloro i quali le desiderano ardentemente restano delusi. «Allora l'affetto e l'amore dovrebbero piovermi addosso» disse Guildea con un sorriso piuttosto torvo «visto che li detesto.» «Chissà, forse un giorno...» «Spero di no, francamente.» Per un attimo Padre Murchinson non disse nulla. Stava tirando le estremità del largo nastro che portava annodato sulla tonaca. Quando parlò parve che rispondesse a qualcuno. «Sì» disse lentamente «sì, sento proprio pietà.» «Per chi?» chiese il professore. Poi improvvisamente capì. Non lo disse, ma Padre Murchinson sentì e vide che davvero non era necessario rispondere alla domanda dell'amico. Così Guildea, caso strano, si trovò a essere amico di un uomo che era il suo opposto in tutti i sensi e che per giunta provava pietà per lui. Il fatto che non gli importasse nulla della cosa, e che non vi pensasse quasi mai, è forse l'esempio più evidente della peculiare indifferenza che caratterizzava la sua persona. II Una sera d'autunno, un anno e mezzo dopo che Padre Murchinson e il professor Guildea si erano conosciuti, il sacerdote si recò a Hyde Park Place e si informò presso il biondo e insensibile maggiordomo, che si chiamava Pitting, se il suo padrone fosse in casa. «Sì, signore» fu la risposta di Pitting «volete seguirmi da questa parte, prego?» Pitting salì senza fare rumore le scale alquanto ripide seguito dal Padre; aprì delicatamente la porta della biblioteca, e con la sua voce tenue e fredda annunciò: «Padre Murchinson.» Guildea era seduto su una poltrona davanti a un piccolo fuoco. Le sue mani affusolate dalle lunghe dita erano aperte sulle ginocchia, il mento appoggiava sul petto. Sembrava immerso in profonde meditazioni. Pitting alzò appena un po' il tono di voce. «Padre Murchinson desidera parlarvi, signore» ripeté. Il professore trasalì all'improvviso e si girò di scatto mentre il Padre en-
trava. «Oh» disse. «Siete voi? Che piacere vedervi. Venite vicino al fuoco.» Il Padre lo guardò di sfuggita e gli parve di notare nell'amico un insolito affaticamento. «Non avete un bell'aspetto stasera» disse il prete. «No?» «Credo che stiate lavorando troppo. Quella conferenza che dovete tenere a Parigi vi preoccupa?» «Assolutamente no. È tutto pronto. Potrei tenervela ora parola per parola. Ma accomodatevi.» Padre Murchinson si sedette e Guildea tornò a profondarsi nella sua poltrona fissando attentamente il fuoco senza dire altro. Sembrava pensare intensamente. L'amico non lo interruppe, ma si accese la pipa in silenzio e prese a fumare pensoso. Guildea teneva gli occhi fissi sul fuoco. Il sacerdote si guardò attorno: pareti ricoperte di libri dalle rilegature sobrie, lo scrittoio sovraccarico, le finestre con le pesanti tende di vecchio broccato blu scuro, e la gabbia stava tra esse. Era coperta con un panno verde. Il Padre si chiese perché. Non aveva mai visto Napoleon, questo era il nome del pappagallo, coperto per la notte. Mentre egli osservava il panno verde Guildea alzò il capo all'improvviso e, sollevate le mani dalle ginocchia, le unì dicendo bruscamente: «Pensate che io sia un uomo attraente?» Padre Murchinson sobbalzò. Una simile domanda da quell'uomo lo sorprendeva molto. «Scusate!» esclamò. «Perché me lo chiedete? Intendete attraente per l'altro sesso?» «È proprio quello che non so» disse il professore adombrato e tornando a guardare il fuoco. «Proprio quello che non so.» Il Padre era sempre più sorpreso. «Neppure io lo so» disse poggiando la pipa. «Diciamo... pensate che io sia attraente, che vi sia in me qualcosa che potrebbe attirare in modo irresistibile una... una creatura umana o animale?» chiese ancora Guildea. «Che voi lo desideriate o meno?» «Esattamente... oppure, diciamo, proprio perché io non lo desidero.» Padre Murchinson increspò le labbra alquanto carnose da cherubino e attorno ai suoi occhi azzurri comparvero numerose piccole rughe. «Potrebbe essere, naturalmente» disse dopo una pausa. «La natura umana è debole, debole e affascinante, Guildea. E voi tendete a schernirla.
Immagino che certe signore, padrone di salotti o donne intellettuali, potrebbero sentirsi attratte da voi. La vostra reputazione, il vostro nome famoso...» «Sì, sì» lo interruppe Guildea piuttosto seccato «tutto questo lo so.» Intrecciò le sue lunghe dita rivolgendo quindi le palme delle mani verso l'esterno fino a quando le sottili dita scricchiolarono. Aveva la fronte corrugata. «Immagino» disse e si fermò per tossire seccamente, quasi con voce stridula «...immagino che sarebbe molto spiacevole essere amati, essere rincorsi, così si dice se non sbaglio, da qualcosa cui ci si oppone.» Egli compì un mezzo giro sulla poltrona, accavallò le gambe, e guardò il suo ospite con aria stranamente interrogativa, quasi penetrante. «Qualcosa?» disse il Padre. «Beh, sì, qualcuno, insomma. Non riesco proprio a immaginare nulla di più spiacevole.» «Per voi no» rispose il Padre. «Ma perdonatemi, Guildea, per me, conoscendovi, è altrettanto inimmaginabile una qualsiasi intrusione nella vostra vita. Voi vi neghereste come sempre vi siete negato a qualsiasi sentimento altrui nei vostri confronti: affetto, amore, adulazione...» «Si» disse «è vero. È proprio questo il punto; è il lato curioso della cosa, che io...» S'interruppe di proposito, si alzò e si stiracchiò. «Fumerò anch'io la pipa.» Andò vicino al caminetto, prese la sua pipa dalla mensola, la riempì e l'accese. Mentre teneva il fiammifero vicino al tabacco, curvo in avanti con espressione interrogativa, gli cadde lo sguardo sul panno verde che copriva la gabbia di Napoleon. Gettò il fiammifero nel camino e prese a tirare boccate di fumo dalla pipa avvicinandosi alla gabbia. Quando la raggiunse tese la mano, afferrò il panno e fece per toglierlo. Poi improvvisamente ricoprì la gabbia con esso. «No» disse come parlando tra sé e sé «no.» Tornò in fretta al caminetto e si lasciò cadere ancora una volta sulla poltrona. «A questo punto vi starete chiedendo che cosa sia accaduto» disse. «Anch'io sono sorpreso. Non so assolutamente che cosa pensare, ma vi elencherò semplicemente i fatti e voi dovrete dirmi che cosa ne pensate. Due sere fa, dopo un giorno di intenso lavoro, non più intenso del solito però, sono uscito dalla porta di casa per prendere una boccata d'aria. Voi sapete
che lo faccio spesso.» «Sì, lo so; eravate sulla porta la prima volta che sono venuto qui.» «Esattamente. Non mi ero messo il cappello né il cappotto. Ero uscito sulla soglia così come mi trovavo. Avevo la mente ancora piena di pensieri riguardanti il lavoro, lo ricordo. Era una sera relativamente buia... non molto buia però. Saranno state le undici o le undici e un quarto. Avevo lo sguardo fisso sul parco, quando improvvisamente mi accorsi che i miei occhi si dirigevano verso qualcuno che stava seduto, con la schiena rivolta verso di me, su una delle panchine. Scorgevo quella persona, se era una persona, attraverso la ringhiera del parco.» «Se era una persona?» chiese il Padre. «Che cosa intendete?» «Aspettate un attimo. Lo dico perché era troppo buio per vedere bene. Vedevo semplicemente un'ombra scura sulla panchina che sporgeva sopra la spalliera. Non saprei dire se fosse uomo, donna o bambino. Ma qualcosa c'era, e io mi trovai a guardare in quella direzione.» «Capisco.» «Gradualmente mi resi conto che anche i miei pensieri erano attratti da quella cosa o persona. Mi chiesi da prima che cosa ci facesse lì, poi a che cosa stesse pensando, infine quale aspetto potesse avere.» «Qualche povera creatura senza tetto, immagino» disse Padre Murchinson. «È quello che pensai anch'io. Eppure la cosa m'incuriosiva incredibilmente, al punto che mi misi il cappello e attraversai la strada per entrare nel parco. Come sapete c'è un'entrata quasi di fronte a casa mia. Ebbene, Murchinson, passai dall'altra parte della strada. Attraversai il cancello. Raggiunsi la panchina, e vidi che... che non c'era nulla.» «E guardavate anche mentre vi avvicinavate?» «Non tutto il tempo. Avevo distolto lo sguardo proprio mentre attraversavo il cancello perché avevo sentito un rumore un po' più in là e mi ero girato un attimo da quella parte. Quando vidi che la panchina era vuota mi sentii stranamente deluso, quasi adirato. Mi bloccai e mi guardai attorno per vedere se ci fosse qualcosa che si muoveva. Niente. Era una sera fredda e umida e fuori c'era poca gente. Sentendomi, come dicevo, assurdamente e stranamente deluso, tornai sui miei passi fino a casa. Giuntovi, scoprii che avevo lasciato la porta aperta, o meglio socchiusa, durante la mia assenza.» «Una cosa abbastanza imprudente, a Londra.» «Sì, non avevo idea, ovviamente, di averlo fatto, fino a quando tornai.
Non sarò stato via più di tre minuti, comunque.» «Sì.» «Non era probabile che fosse entrato qualcuno.» «Immagino di no.» «Oppure credete di sì.» «Perché me lo chiedete, Guildea?» «Così.» «E poi, se fosse entrato qualcuno, tornando lo avreste certamente visto.» Guildea tossì nuovamente. Il sacerdote, sorpreso, non poté fare a meno di notare che era nervoso e che il suo nervosismo si ripercuoteva sul suo aspetto fisico. «Devo avere preso freddo quella sera» disse lo scienziato come se avesse letto nel pensiero dell'amico e volesse affrettarsi a contraddirlo. Poi continuò: «Entrai nel corridoio, o meglio nell'anticamera.» Si fermò di nuovo. Il suo disagio era ormai chiaramente visibile. «E c'era qualcuno?» chiese il sacerdote. Guildea si schiarì la gola: «È proprio questo il punto» disse «ci sto arrivando. Come sapete io non ho fantasia.» «Questo è più che vero.» «Eppure, appena entrato nell'anticamera, ebbi la certezza che qualcuno fosse entrato in casa durante la mia assenza. Ne ero convinto, e non basta, ero anche convinto che l'intruso fosse quella stessa persona che avevo visto nella penombra, seduta sulla panchina del parco. Che cosa ne dite di questo?» «Comincio a pensare che tutto sommato anche voi abbiate fantasia.» «Hmm! Mi è parso che la persona, l'occupante della panchina, e io, avessimo simultaneamente deciso di avere un colloquio e ci fossimo dati da fare contemporaneamente per mettere in atto tale proposito. Mi ero talmente convinto di ciò, che salii rapidamente in questa stanza pensando di trovare l'ospite ad aspettarmi. Ma non c'era nessuno. Allora scesi nuovamente ed entrai nella sala da pranzo. Nessuno. Ero veramente stupefatto. Non è strano?» «Molto» disse il Padre alquanto serio. I modi freddi e torvi del professore e il suo aspetto inquieto e impacciato toglievano a quella conversazione qualsiasi ombra di comicità che in altre circostanze avrebbe potuto essere presente. «Tornai al piano di sopra» continuò Guildea «mi sedetti e pensai all'accaduto. Decisi di scordarlo e presi in mano un libro. Forse sarei riuscito a
leggere, ma improvvisamente mi parve di notare...» Si fermò di scatto. Padre Murchinson notò che aveva lo sguardo fisso sul panno verde che copriva la gabbia del pappagallo. «Ma non era nulla» proseguì Guildea. «Il fatto è che non riuscivo a leggere. Decisi di ispezionare la casa. Sapete quanto sia piccola e quanto sia facile attraversarla tutta. Io andai dappertutto. Entrai in ogni stanza senza eccezioni. Per la servitù, che stava cenando, inventai una qualche scusa. Senza dubbio si saranno sorpresi nel vedermi arrivare.» «E Pitting?» «Beh, si è alzato educatamente quando sono entrato ed è rimasto in piedi mentre ero li, senza dire una parola. Io ho bofonchiato un: "non disturbatevi"... o qualcosa di simile, e me ne sono andato. Bene, Padre Murchinson, è evidente che non trovai nessun estraneo in casa, eppure è altrettanto evidente che ero tornato in questa stanza fermamente convinto che qualcuno fosse entrato in casa mia mentre ero nel parco.» «E se fosse uscito prima che voi rientraste?» «Impossibile. L'avrei visto. E se, invece, fosse rimasto, e si trovasse ancora in casa? Ora, dico.» «Ma caro Guildea» disse il sacerdote molto perplesso. «Certamente...» «So che cosa intendete dire... ed è esattamente quello che anch'io direi se fossi al vostro posto. No, aspettate. Io sono tuttora convinto, intimamamente convinto, che l'ospite non abbia lasciato la casa e che si trovi ancora qui, ora, in questo momento.» Si vedeva che era sincero e molto serio. Padre Murchinson lo guardò dritto in faccia e incontrò i suoi veloci occhi penetranti. «No» disse Guildea come per rispondere a una domanda che gli fosse stata posta. «Sono assolutamente savio, ve l'assicuro. Tutta questa faccenda sembra altrettanto incredibile a me quanto lo deve sembrare a voi. Ma, come ben sapete, io non metto mai in discussione fatti concreti, per quanto strani essi possano essere. Tento semplicemente di analizzarli a fondo. Ho già consultato un medico il quale ha constatato che il mio stato di salute è perfetto.» Si fermò come se volesse che il sacerdote dicesse qualcosa. «Continuate, Guildea» disse «non avete finito.» «No. Quella sera ero certo che qualcuno fosse entrato in casa e vi fosse rimasto, e la mia convinzione aumentava. Andai a dormire come al solito e, contrariamente a quanto mi sarei aspettato, dormii bene come sempre. Eppure appena mi destai ieri mattina, seppi che in casa c'era una persona in
più.» «Mi permettete d'interrompervi per un istante? Come lo sapevate?» «Era una sensazione. Posso solo dirvi che ero assolutamente certo di una nuova presenza nella mia casa, vicina a me.» «Molto strano» disse Padre Murchinson. «E siete assolutamente certo di non avere lavorato troppo? Il vostro cervello è stanco? Vi sentite le idee chiare?» «Certo. Mai stato meglio in vita mia. Quando scesi per la prima colazione ieri mattina scrutai attentamente il viso di Pitting. Era freddo, calmo e inespressivo come sempre. Mi era chiaro che non fosse minimamente turbato. Dopo colazione mi misi a lavorare, e per tutto il tempo continuai ad avvertire la presenza di questo intruso in casa mia. Egualmente lavorai per diverse ore attendendo qualche sviluppo che potesse fare luce su questo mistero. Pranzai. Verso le due e mezzo dovetti uscire per tenere una conferenza. Per questo, presi cappotto e cappello, aprii la porta di casa e uscii. Subito quella presenza smise di farsi sentire, e questo nonostante fossi per strada, circondato dalla gente. Di conseguenza pensai che quella cosa in casa mia stesse certamente pensando a me, o forse addirittura spiandomi.» «Aspettate un attimo» lo interruppe il Padre. «Qual era la vostra sensazione? Di paura?» «Oh no. Ero estremamente sorpreso, come lo sono ora, e molto curioso, ma non allarmato, assolutamente. Tenni la mia conferenza con la solita calma e tornai a casa di sera. Entrando in casa ebbi nuovamente la certezza che l'intruso fosse presente. Ieri sera cenai da solo e trascorsi le ore del dopo cena leggendo lavori scientifici che mi interessavano molto. Mentre leggevo, però, mai, neppure per un attimo, mi abbandonò la consapevolezza che una mente, molto sollecita nei miei confronti, fosse a portata di voce. Vi dirò di più, quella sensazione aumentava continuamente e, quando mi alzai per andare a letto, ero giunto ad una conclusione molto strana.» «Quale?» «Che chiunque, o qualunque cosa, fosse entrato nella mia casa durante la mia breve assenza, provasse più che un semplice interesse nei miei confronti.» «Più che interesse?» «Era affezionato, o stava affezionandosi a me.» «Oh!» esclamò il Padre «ora capisco perché poco fa mi chiedevate se ci fosse in voi qualcosa che potrebbe attirare in modo irresistibile una persona o un animale.»
«Esattamente. Da quando sono giunto a questa conclusione, Murchinson, vi confesso che alla mia grande curiosità si è affiancato un altro sentimento.» «La paura?» «Non la paura. L'odio, il fastidio.» Dicendo questo, Guildea guardò nuovamente in direzione della gabbia del pappagallo. «Che cosa dovrebbe farmi paura in una faccenda di questo tipo?» aggiunse. «Non sono un bambino che teme i fantasmi.» Dicendo queste parole alzò improvvisamente la voce; poi si diresse rapidamente verso la gabbia da cui tolse il panno con un movimento brusco. Sì vide Napoleon che, apparentemente; stava riposando sul suo trespolo con la testa leggermente inclinata da un lato. Quando la luce lo raggiunse, egli si mosse, arruffò le piume del collo, sbatté gli occhi e iniziò a spostarsi piano da una parte all'altra buttando il capo in avanti e poi ritirandolo indietro con aria compiaciuta ma piuttosto priva di espressione. Guildea stette accanto alla gabbia guardandolo da vicino in modo talmente attento da parere quasi innaturale. «Quanto sono assurdi, questi uccelli!» disse dopo qualche tempo tornando davanti al fuoco.» «Non avete null'altro da raccontarmi?» chiese Padre Murchinson. «No. Sono tuttora consapevole della presenza di qualcosa in casa mia. Sono consapevole del fatto che sta prestando estrema attenzione a me, e sono ancora irritato, veramente seccato, lo confesso, per questa attenzione non richiesta, non desiderata, non voluta.» «Dite di essere consapevole della presenza di qualcosa in questo momento?» «In questo momento, sì.» «Intendete in questa stanza, assieme a noi, ora?» «Direi di sì, in ogni caso... abbastanza vicino a noi.» Nuovamente egli lanciò un rapido sguardo, quasi sospettoso, in direzione della gabbia del pappagallo. L'uccello, sul suo trespolo, teneva il capo piegato da un lato e pareva ascoltasse attentamente qualcosa. «Quel volatile conoscerà alla perfezione tutte le intonazioni della mia voce prima di domattina» disse il sacerdote scrutando attentamente Guildea con i suoi miti occhi azzurri. «E mi ha sempre imitato molto bene.» Il professore sobbalzò leggermente. «Sì» disse. «Sì, senza dubbio. Ma che cosa pensate di questa storia?»
«Nulla, non ho proprio idea, è assolutamente inspiegabile. E posso parlarvi apertamente, ne sono sicuro.» «Ma certo, è per questo che ve l'ho raccontata.» «Ritengo che siate troppo stanco, sovraffaticato, pur senza rendervene conto.» «E che il medico si sia sbagliato nell'affermare che sto bene?» «Sì.» Guildea vuotò la pipa battendola contro lo spigolo del camino. «Può darsi» disse. «Non sarò così ottuso da negare questa possibilità, però io mai mi sono sentito meglio in vita mia. Che cosa mi consigliate, dunque?» «Una settimana di riposo totale lontano da Londra, all'aria buona.» «La solita ricetta. Ma lo farò. Domani partirò per Westgate e lascerò Napoleon a fare la guardia alla casa in mia assenza.» Per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, il piacere che Padre Murchinson provò udendo la prima parte della frase dell'amico fu attenuato, quasi annullato, anzi dall'ultima parte. Quella sera il sacerdote s'incamminò verso il centro immerso in profondi pensieri, ricordando il primo incontro che aveva avuto con Guildea, in quella casa, un anno e mezzo prima. La mattina seguente Guildea lasciò Londra. III Padre Murchinson era un uomo molto indaffarato e aveva poco tempo per meditare sui problemi altrui. Egualmente durante la settimana che Guildea trascorse al mare egli pensò allo scienziato molto spesso con grande perplessità e con un certo sgomento. Lo sgomento fu ben presto superato, perché quel sacerdote dagli occhi miti sapeva riconoscere a prima vista le proprie debolezze, ed era ancora più rapido nell'allontanarle da sé considerandole le peggiori compagne dell'anima. Ma la perplessità restava, anzi, aumentava. Guildea aveva lasciato Londra un martedì. E di martedì fece ritorno avendo previamente inviato un messaggio a Padre Murchinson per comunicare che sarebbe partito da Westgate a una certa ora. Quando il treno giunse alla Victoria Station, alle cinque della sera, Guildea fu sorpreso alla vista dell'amico, ritto sulla banchina grigia dietro una schiera di facchini. «Murchinson!» esclamò. «Voi qui! Avete forse abbandonato il vostro
ordine, o siete qui in libera uscita?» Si strinsero la mano. «No» disse il sacerdote. «Per caso oggi mi trovavo in questa zona per visitare una persona ammalata, così ho pensato di venirvi a prendere.» «Per vedere se mi sono ristabilito, non è così?» disse il professore con una risatina asciutta ma guardando il prete in modo gentile. «Lo siete?» replicò Murchinson con cortesia scrutando lo scienziato. «Credo proprio di sì. In verità, avete un ottimo aspetto.» L'aria e il sole del mare avevano infatti abbronzato le guance di Guildea per solito piuttosto pallide. I suoi occhi veloci brillavano di luce di vita ed egli avanzava con il suo ampio abito grigio e il soprabito svolazzante con passo visibilmente energico, portando senza fatica nella mano sinistra una valigia a soffietto strapiena. Padre Murchinson si sentì totalmente rassicurato. «Non siete mai stato così bene» disse. «Non sono mai stato meglio. Avete un'oretta di tempo?» «Anche due.» «Bene, mando avanti la valigia con la carrozza. Noi andiamo a casa attraversando il parco e ci prendiamo una tazza di tè. Che ve ne pare?» «Con piacere.» Uscirono dal recinto della stazione passando accanto alle fioraie e ai giornali in direzione di Grosvenor Place. «Ve la siete passata bene?» chiese il sacerdote. «Abbastanza. Ero solo. Come sapete, ho lasciato il mio... ehm, compagno nell'anticamera del numero 100.» «E non lo ritroverete lì, ne sono certo.» «Mah!» esclamò Guildea. «Mi credete proprio uno smidollato, Murchinson.» Parlando, lo scienziato camminava più in fretta, come per rendere palese quella sua sensazione di vigore fisico. «Uno smidollato? No di certo» disse il sacerdote. «Ma chiunque usi il cervello in continuazione come fate voi deve avere bisogno di un periodo di vacanza ogni tanto.» «E io ne avevo proprio bisogno, non è così?» «Ne avevate bisogno, sì.» «Bene, me lo sono preso, e ora si vedrà.» La sera stava calando rapidamente. Attraversarono la strada a Hyde Park Corner ed entrarono nel parco frammischiandosi a gente diversa che rinca-
sava dal lavoro. Notarono molti uomini, con i pantaloni di velluto a coste su cui il fango si era seccato, che portavano bidoni di latta sulle spalle e panieri piatti con gli attrezzi. Alcuni dei più giovani parlavano a voce alta o fischiavano forte mentre camminavano. «Fino alla sera» mormorò Padre Murchinson tra sé e sé. «Che cosa?» chiese Guildea. «Stavo solo ripetendo dentro di me le ultime parole di un testo che sembra essere scritto sulla vita, soprattutto sulla vita di piacere: "L'uomo si incammina verso il lavoro e la fatica"». «Ah, questi operai non sono neanche tanto male. Ne erano venuti molti alla conferenza... quella in cui ci siamo conosciuti, ricorda? Uno di essi aveva tentato di mettermi in difficoltà. Aveva la barba rossa. Sì, quelli con la barba rossa sono sempre i più importuni. Ho avuto la meglio, in quell'occasione. Bene, Murchinson, e ora vediamo.» «Che cosa?» «Se il mio compagno se ne è andato.» «Ditemi, avete un qualche sentore di...» «Con quanto scrupolo scegliete le parole! No, sono semplicemente curioso.» «E non siete preoccupato?» «Per niente. Curioso è il termine esatto.» «Allora l'aria di mare non è servita a convincervi che il tutto era dovuto a sovraffaticamento?» «No» disse Guildea molto seccamente. Quindi aggiunse: «Credevate davvero che me ne sarei convinto?» «Certamente credevo che avreste potuto...» «Che cosa? Convincermi di avere una fantasia malata, morbosa e corrotta? Suvvia, Murchinson, perché non ammettete di avermi spedito a Westgate per liberarvi di quella che voi consideravate una forma d'isterismo acuto?» Il sacerdote non si scompose minimamente per questo attacco. «Orbene, professor Guildea» ribatté «che cosa credevate che dovessi pensare? Non ho visto sintomi d'isterismo in voi. Mai. E, in effetti, ritengo che voi siate l'ultimo uomo al mondo incline a contrarre una malattia di quel tipo. Ma che cos'è più logico: credere al vostro isterismo o alla storia che mi avete raccontato?» «Qui devo darvi ragione. No, non mi posso lamentare. A ogni buon conto, ora non c'è in me traccia di isterismo... se mai ce n'è stata.»
«E non c'è nulla nella vostra casa nessuno sconosciuto, spero.» Padre Murchinson pronunciò le ultime parole molto gravemente, abbandonando il tono quasi scherzoso che ambedue avevano assunto. «Voi prendete la cosa molto sul serio, vedo» disse Guildea, ridivenuto serio anch'egli.» «Cos'altro potrei fare? Potrei forse ridere mentre voi me ne parlate in tono così grave?» «No. Se troviamo l'ospite misterioso ancora in casa potrei chiedervi di esorcizzarla. Ma prima devo fare una cosa.» «E cioè?» «Dimostrare a voi, come a me stesso, che è ancora lì.» «Questo potrebbe risultare difficile» disse Padre Murchinson molto sorpreso per il tono pratico che Guildea aveva assunto. «Non lo so. Se è rimasto in casa credo di potere escogitare un sistema. E non sarei affatto sorpreso se fosse ancora lì... nonostante l'aria salubre di Westgate.» Pronunciando le ultime parole il professore riprese il suo tono secco, ma scherzoso. Il sacerdote ancora non sapeva risolversi sul vero umore dello scienziato: non gli era chiaro se Guildea facesse sul serio o se invece stesse giocando un suo gioco misterioso. La conversazione si spense gradualmente, man mano che si avvicinavano a Hyde Park Place, e i due uomini continuarono a camminare in silenzio nella crescente oscurità. «Eccoci qua!» esclamò infine Guildea. Spinse la chiave nella toppa, aprì la porta e fece passare Padre Murchinson nell'anticamera, quindi entrò egli stesso, e sbatté la porta. «Eccoci qua!» ripeté più forte. La luce elettrica era stata lasciata accesa in attesa del loro arrivo. Guildea ristette in silenzio e si guardò attorno. «Prenderemo immediatamente il tè» disse. «Ah, Pitting!» Il pallido maggiordomo, che aveva sentito sbattere la porta, scendeva lentamente le scale che portavano alla cucina. Salutò il suo padrone con rispetto, prese il suo soprabito e il mantello di Padre Murchinson e li appese all'attaccapanni. «Tutto a posto, Pitting? Tutto normale?» chiese Guildea. «Sì, signore.» «Portaci il tè in biblioteca.» «Sì, signore.» Pitting si ritirò. Guildea attese fino a quando fu scomparso, quindi aprì la
porta della sala da pranzo, infilò il capo nella stanza e ve lo tenne per un attimo, restando perfettamente immobile. Subito si ritrasse nell'anticamera, chiuse la porta e disse: «Saliamo.» Padre Murchinson lo guardò interrogativamente, ma non fece domande. Salirono le scale e giunsero in biblioteca. Guildea si guardò intorno attentamente. Nel caminetto ardeva il fuoco. Le tende blu erano tirate. Il fascio luminoso della potente luce elettrica cadeva sulle lunghe file di libri, sullo scrittoio, che era stato riordinato profittando della vacanza del professore, e sulla gabbia scoperta del pappagallo. Guildea si avvicinò alla gabbia. Napoleon era appollaiato sul trespolo, faceva la gobba e aveva le piume arruffate. Le sue lunghe dita, che sembravano ricoperte di pelle di coccodrillo, erano strette attorno all'asticciola. Sbatteva le palpebre sui suoi occhi rotondi e velati, che parevano occhi vecchi. Guildea osservò accuratamente l'uccello, quindi schioccò la lingua contro i denti. Napoleon si scosse, sollevò una zampa, tese le dita, scivolò lungo l'asticciola fino alle sbarre più vicine al professore e vi appoggiò il capo. Guildea lo grattò con l'indice due o tre volte, sempre guardandolo attentamente; quindi tornò davanti al caminetto proprio mentre Pitting entrava con il vassoio del tè. Padre Murchinson era già seduto su una poltrona da una parte del caminetto. Guildea scelse un'altra poltrona e iniziò a versare il tè mentre Pitting usciva chiudendo delicatamente la porta. Il Padre assaggiò il suo tè, trovò che era troppo caldo, e appoggiò la tazza su un tavolino che aveva accanto a sé. «Siete affezionato a quel pappagallo, vero?» chiese al suo amico. «Non particolarmente. È interessante osservarlo, ogni tanto. La mente e l'indole dei pappagalli sono strane.» «Da quanto tempo l'avete?» «Da quattro anni circa. Stavo per liberarmene proprio prima di conoscervi. Sono molto contento di averlo tenuto, ora.» «Ah sì? E perché?» «Probabilmente ve lo dirò tra un giorno o due.» Padre Murchinson riprese la sua tazza. Non richiese a Guildea ulteriori spiegazioni; attese invece che entrambi avessero terminato il proprio tè per chiedere: «Ebbene, l'aria di mare ha sortito l'effetto desiderato?» «No» rispose Guildea.» Il Padre si tolse qualche briciola dalla tonaca e raddrizzò la schiena. «Il vostro ospite è ancora qui?» chiese, e i suoi occhi azzurri divennero quasi duri e penetranti mentre scrutava l'amico.
«Sì» rispose lo scienziato tranquillo. «Ma come lo sapete? Quando l'avete notato? Forse quando avete guardato nella sala da pranzo poco fa?» «No, non prima di giungere in questa stanza. Mi ha accolto qui.» «Accolto? E in che modo?» «Semplicemente trovandosi qui, facendomi percepire la sua presenza come potrei percepire quella di un uomo arrivando in una stanza al buio.» Parlava tranquillamente, nel suo solito modo freddo. «Molto bene» disse il sacerdote. «Non tenterò di contrariarvi né di spiegare le vostre sensazioni. Ovviamente sono sorpreso.» «Anch'io. Nulla mi ha mai sorpreso tanto in vita mia. Padre Murchinson, non posso aspettarmi che voi crediate più di questo: che io realmente immagino, se così desiderate, che qui c'è un qualche intruso, anche se non so assolutamente di chi o di che cosa si tratta. Non posso sperare che voi crediate che ci sia effettivamente qualcosa. Se voi foste nei miei panni, e io nei vostri, penserei certamente che voi avete una qualche fissazione. Non potrei fare altrimenti. Ma... aspettate. Non mi condannate, non pensate che io sia affetto da isterismo o colto da pazzia, datemi ancora due o tre giorni di tempo. A meno che io non stia effettivamente male, affetto da un'improvvisa malattia mentale... cosa che peraltro non ritengo possibile, sono convinto che tra breve sarò in grado di fornirvi una prova del fatto che nella mia casa c'è un estraneo.» «E non mi volete dire di quale genere di prova si tratta?» «Non ancora. Devono esservi ulteriori sviluppi prima. Ma forse già domani potrò spiegarmi meglio. Intanto vi dico questo: se neanche tra qualche tempo sarò stato in grado di fornirvi qualche tipo di prova del fatto che non sto sognando, voi potrete farmi visitare da qualsiasi medico di vostra scelta e io tenterò in modo deciso di adottare la vostra opinione attuale convincendomi che soffro di fissazioni assurde. Non è questa forse la vostra opinione?» Padre Murchinson rimase in silenzio per un momento. Quindi disse alquanto titubante. «Potrebbe esserlo.» «Davvero non lo è? Non ancora? Nemmeno ora dopo il riposo, la vacanza, il mare?» chiese sorpreso Guildea. «Ecco, vedete, il vostro modo di fare è estremamente convincente. Eppure, ovviamente, mi restano dei dubbi. Potrebbe essere diverso? Tutta questa storia deve essere frutto della vostra fantasia.» Padre Murchinson parlava come se tentasse di rifuggire da una posizione
che si vedeva costretto ad assumere. «Dev'essere fantasia» ripeté. «Vi convincerò, e non solo con il mio modo di fare. Oppure, rinuncerò del tutto a convincervi» disse lo scienziato. Quando si lasciarono quella sera il professor Guildea disse: «Credo che vi scriverò tra uno o due giorni. Penso che la prova che vi fornirò si sia accumulata durante la mia assenza. Ma presto lo saprò con certezza.» Padre Murchinson era estremamente perplesso mentre, diretto verso casa, rifletteva seduto sul piano alto dell'autobus. IV Due giorni dopo ricevette un messaggio col quale Guildea gli chiedeva di raggiungerlo la sera stessa. Ma questo gli fu impossibile in quanto doveva recarsi ad una riunione nell'East End. Rispose dicendo che sarebbe andato lunedì. Poco dopo ricevette un telegramma: Sì venite a cena lunedì ore sette e trenta Guildea. Alle sette e mezzo egli si trovava davanti al numero 100.» Pitting lo fece entrare. «Il professore sta bene, Pitting?» chiese Padre Murchinson togliendosi il mantello. «Credo di sì, signore. Non si è lamentato di nulla» fu la laconica risposta del maggiordomo. «Volete salire, signore?» Guildea li aspettava sulla porta della biblioteca. Era molto pallido e cupo; strinse distrattamente la mano dell'amico. «Portaci la cena» disse a Pitting. Quando il maggiordomo si fu ritirato Guildea chiuse la porta con una certa cura. Padre Murchinson non l'aveva mai visto così agitato. «Vi trovo preoccupato, Guildea» disse il sacerdote. «Molto preoccupato.» «Sì. Comincio davvero a sentire il peso di questa storia.» «Quindi, siete tuttora convinto che qui vi sia qualcosa.» «Sì, sì, non ci sono dubbi in merito. La sera che attraversai la strada per andare nel parco qualcosa entrò in casa mia, purtroppo ancora non so di che cosa diavolo si tratti. Ma prima di metterci a tavola voglio parlarvi della prova che vi avevo promesso. Ricordate?» «Certamente.» «E non riuscite a immaginare di cosa si possa trattare?» Padre Murchinson scosse il capo: «No» disse.
«Guardatevi intorno» propose Guildea. «Che cosa vedete?» Il Padre osservò la stanza lentamente e con attenzione. «Nulla di insolito. Non vorrete dirmi che c'è qualche segno visibile di...» «No, no, non c'è nulla di quelle figure spettrali vestite di bianco. Per carità, no! Non sono caduto così in basso!» Parlava in tono decisamente irritato. «Guardate ancora.» Padre Murchinson si volse nella direzione in cui guardava Guildea, e vide il pappagallo grigio che compiva evoluzioni nella sua gabbia, lentamente, con perseveranza. «Che cosa?» disse in fretta. «La prova sarebbe forse lì?» Il professore annuì: «Credo di sì» disse. «Ma ora mettiamoci a tavola; nonostante tutto, ho fame.» Scesero nella sala da pranzo. Mentre cenavano e Pitting li serviva il professore parlò degli uccelli, delle loro abitudini, delle particolarità, delle paure e della capacità d'imitare. Era evidente che aveva studiato questo argomento con la minuziosità che lo contraddistingueva in tutte le sue azioni. «I pappagalli» disse quindi «sono grandi osservatori. È un peccato che le loro possibilità di riprodurre quello che vedono siano tanto limitate. Se così non fosse, sono certo che saprebbero imitare i gesti proprio come talvolta sono in grado di riprodurre perfettamente la voce.» «Ma non hanno mani.» «Appunto. Però compiono molti gesti con il capo. Conoscevo un'anziana signora che abitava nei pressi di Goring, sul Tamigi. Era paralitica. La sua testa era sempre inclinata di lato e tremava oscillando da destra a sinistra. Il figlio marinaio le portò un pappagallo da uno dei suoi viaggi. Bene, quell'uccello sapeva imitare alla perfezione i movimenti del capo della signora paralitica. I pappagalli sono sempre all'erta.» Guildea disse l'ultima frase lento e convinto osservando attentamente Padre Murchinson oltre il proprio bicchiere di vino e, al sacerdote, parve improvvisamente di riuscire a capire qualcosa. Schiuse le labbra per esprimere un rapido commento. Guildea diresse i suoi occhi luminosi verso Pitting, che in quel momento stava prelevando con grande cura un soufflé di formaggio dal montacarichi che collegava la sala da pranzo al piano inferiore. Il sacerdote richiuse le labbra. Ma nel momento in cui il maggiordomo, deposte sulla tavola le mele, sistemate meticolosamente le caraffe ed eliminate le briciole, scomparve, egli disse in fretta: «Incomincio a capire. Credete che Napoleon sappia dell'estraneo?»
«Ne sono certo. Sta osservando il mio ospite fin dalla prima sera.» Il sacerdote ebbe un'altra intuizione. «Ed è per questo che una sera l'avete coperto con un panno verde?» «Certo, un atto di codardia. Il suo comportamento cominciava a urtarmi i nervi.» Guildea increspò le sue labbra sottili e abbassò le sopracciglia assumendo un'espressione d'improvviso dolore. «Ma ora intendo seguire le sue ricerche» aggiunse riprendendo il suo solito aspetto. «La settimana che ho sprecato a Westgate lui di certo non l'ha persa qui a Londra, ve l'assicuro. Prendete una mela.» «No, grazie. No, grazie.» Padre Murchinson ripeté quelle parole senza rendersene conto. Guildea allontanò da sé il bicchiere. «Saliamo, allora.» «No, grazie» ripeté ancora una volta il sacerdote. «Come?» «Ma che cosa sto dicendo?» disse Padre Murchinson alzandosi. «Ero soprappensiero. Evidentemente stavo pensando a questo fatto straordinario. «Incominciate forse a dubitare della teoria dell'isterismo?» Uscirono in corridoio. «Beh» disse il prete «voi state prendendo tutto questo in modo così concreto.» «E perché non dovrei? Una cosa molto strana e anomala è entrata a far parte della mia vita. Che cos'altro potrei e dovrei fare, se non analizzarla a fondo tranquillamente?» «Certo, avete ragione.» Il Padre iniziò a sentirsi alquanto disorientato, come se fosse costretto a prestare attenzione a una cosa che avrebbe dovuto considerare, così riteneva, totalmente assurda. Quando giunsero nella biblioteca egli, in preda a una grande curiosità, rivolse immediatamente lo sguardo verso la gabbia del pappagallo. Un lieve sorriso increspò le labbra del professore. Lo scienziato aveva afferrato lo stato d'animo dell'amico. E Padre Murchinson vide quel sorriso. «Oh, non crediate che io sia già convinto» disse come in risposta. «Lo so. Forse lo sarete prima della fine della serata. Ecco il caffè. Dopo averlo bevuto faremo il nostro esperimento. Servi il caffè, Pitting, e non disturbarci più.»
«Sì, signore.» «Io non lo prendo nero questa sera» disse il sacerdote. «Versateci parecchio latte, per favore. Non vorrei che i nervi mi giocassero qualche brutto tiro.» «E se non lo prendessimo affatto, il caffè?» propose Guildea. «Così non potrete dire, in nessun caso, che eravamo sovraeccitati. Vi conosco, Murchinson: sacerdote devoto e devoto scettico.» Il Padre rise e allontanò da sé la tazza. «Benissimo, allora niente caffè.» «Una sigaretta e poi ci mettiamo sotto.» «Che cosa facciamo?» chiese il Padre. Stava seduto in posizione eretta, come se fosse pronto ad agire. E veramente nell'atteggiamento dei due uomini non vi era alcunché che potesse suggerire il riposo. «Ci nasconderemo e osserveremo Napoleon» disse lo scienziato. «Ma, a proposito...» si alzò, andò in un angolo della stanza; prese un panno verde e con quello coprì la gabbia dicendo: «Lo toglierò quando saremo nascosti.» «Prima però dovete dirmi, se nei giorni scorsi questa ipotetica presenza si è manifestata in qualche modo» disse il sacerdote. «Più che altro ho avvertito la crescente, intensa sensazione di una presenza che mi osserva di continuo, e di continuo partecipa a tutte le mie azioni» rispose il professore. «Avete avuto anche la sensazione di essere inseguito?» chiese il Padre. «Non sempre. Era in questa stanza quando siete arrivato voi. È qui ora, lo sento. Ma quando siamo scesi per cenare mi è parso che ci allontanassimo dalla... ehm cosa. Ne deduco che sia rimasta qui. Ma non parliamone proprio ora.» Parlarono quindi d'altro fino a quando terminarono di fumare le sigarette. Poi, mentre buttavano via i mozziconi fumanti, Guildea disse: «E ora, Murchinson, per fare questo esperimento ci dobbiamo nascondere dietro le tende da un lato e dall'altro della gabbia, in modo da non attirare l'attenzione del pappagallo e non distrarlo da ciò... dalla cosa, diciamo così. Toglierò il panno verde quando saremo nascosti. Restate in perfetto silenzio, osservate i movimenti del pappagallo, e dopo mi direte che cosa ne pensate e come ve lo spiegate. Camminate in punta di piedi.» Padre Murchinson obbedì ed essi raggiunsero in silenzio le tende che coprivano le due finestre. Il sacerdote si nascose dietro quella a sinistra della gabbia, il professore dietro quella a destra. Guildea, appena si furono
nascosti, tese il braccio e tolse il panno dalla gabbia facendolo cadere per terra. Il pappagallo, che evidentemente si era addormentato nella calda oscurità, come la luce lo colpì, si spostò lungo il suo trespolo, arruffò le piume del collo e sollevò prima una zampa e poi l'altra. Girò il capo sul collo flessibile e apparentemente elastico, e tuffando il becco nelle piume della schiena, compì alcune ricerche che, almeno così parve, dettero risultati soddisfacenti poiché ben presto sollevò nuovamente il capo, si guardò attorno, e rivolse la sua attenzione verso una noce che era stata fissata tra le sbarre perché la mangiasse. Con il becco ricurvo esaminò e picchiettò la noce prima delicatamente e poi con forza. Infine l'afferrò con i robusti artigli grigi e, tenendola stretta, la ruppe estraendone il gheriglio con il becco, sparpagliandone una parte sul fondo della gabbia e lasciando cadere il guscio rotto nella vaschetta di porcellana che era fissata alle sbarre. Conclusa tale operazione, il pappagallo si fermò meditabondo, tese una zampa all'indietro e quindi effettuò un elaborato esercizio di stiramento delle ali che lo fece apparire sbilenco e deforme. Con il capo girato si dedicò nuovamente alla sottile e approfondita ricerca tra le piume di un'ala. Questa volta l'operazione pareva interminabile, e Padre Murchinson ebbe il tempo di rendersi conto dell'assurdità di tutta quella faccenda e di chiedersi perché si fosse prestato a quell'esperimento. Egualmente non riuscì a riderne. Al contrario, fu preso da un terrore improvviso. Quando aveva parlato con l'amico, egli lo aveva osservato, e i modi del professore, che solitamente erano così calmi, addirittura prosaici, gli erano parsi quelli di una persona assolutamente equilibrata, rendendo così credibile la storia che stava narrando. Ma ora che si trovava nascosto le cose cambiavano. E Padre Murchinson, in piedi dietro la sua tenda, con gli occhi puntati sull'ignaro Napoleon, iniziò a bisbigliare tra sé e sé la parola «pazzia» con una crescente sensazione di pietà e di paura. Il pappagallo contrasse improvvisamente un'ala, arruffò di nuovo le piume attorno al collo, quindi tese l'altra zampa all'indietro e procedette alla pulizia dell'altra ala. Nella stanza silenziosa era chiaramente udibile il suono asciutto delle penne che venivano spiegate. Padre Murchinson notò che la tenda blu dietro cui era nascosto Guildea tremava debolmente come se un alito di vento fosse entrato attraverso la finestra che la tenda copriva. Si udirono i rintocchi dell'orologio della stanza accanto e un pezzo di carbone cadde attraverso la graticola del camino facendo un rumore simile a foglie secche mosse dal vento su un marciapiede. E nuovamente Padre
Murchinson fu colto da un'ondata di pietà e di paura. Gli parve d'essersi comportato in modo alquanto insensato incoraggiando quella che certamente doveva essere una strana forma di demenza del suo amico. Avrebbe dovuto rifiutarsi di partecipare a un esperimento che in sé era ridicolo, se non addirittura infantile, e che avrebbe potuto rivelarsi pericoloso poiché incoraggiava il malato dandogli speranze. La zampa tesa, l'ala aperta e il collo girato di Napoleon, l'attenta e inconscia devozione con la quale si dedicava alla propria persona e la sua evidente sensazione di totale isolamento e solitudine erano chiare indicazioni per il sacerdote da un lato di essersi comportato in modo ridicolo e poco dignitoso, e dall'altro che l'amico era da compatire per la sua stravaganza. Egli afferrò la tenda... stava per spalancarla e uscire allo scoperto quando un improvviso movimento del pappagallo lo bloccò. L'uccello, come se si sentisse fortemente attratto da qualcosa, smise di becchettare e, con il capo ancora riverso all'indietro e girato di lato, parve tendersi nell'ascolto di qualcosa. L'occhio rotondo era sfavillante e stanco come quello d'un piccione stranito dal caos metropolitano. Contraendo l'ala sollevò il capo e rimase per un attimo appollaiato in posizione eretta sulla sua asticciola alzando e abbassando a turno le zampe meccanicamente come se uno stato di eccitazione nascente producesse nell'animale un bisogno di muoversi incontrollabile. Quindi gettò il capo in avanti in direzione dell'altra stanza e rimase assolutamente immobile. Il suo atteggiamento sembrava indicare in modo così evidente come e quanto la sua attenzione fosse concentrata su qualcosa che gli si trovava davanti, che Padre Murchinson lanciò istintivamente uno sguardo attorno alla stanza, attendendosi quasi di vedere Pitting avanzare con passi felpati dopo essere entrato attraverso la porta nascosta. Ma la stanza era vuota di persone e di rumori. Niente. Ciononostante, il pappagallo si stava evidentemente agitando ed era sempre più attento. Abbassava il capo vieppiù tendendo il collo quasi fino a perdere l'equilibrio e cadere dall'asticciola, apriva le ali a metà, le sollevava leggermente dalla schiena come per prendere il volo, e le sbatteva velocemente. Seguitò con questi movimenti per un tempo che al Padre parve lunghissimo. Ed ecco che ora alzava le ali il più possibile, e le abbassava lentamente e in modo calcolato fino sulla schiena, e si attaccava al bordo della vaschetta con il becco e si sollevava per poi posarsi sul fondo della gabbia; dondolando raggiungeva le sbarre, appoggiava il capo dentro di esse, e restava immobile nella medesima posizione che assumeva sempre quando il professore gli grattava la testa. La pantomima era così perfetta
che a Padre Murchinson parve quasi di vedere un dito bianco tra le soffici piume del capo del pappagallo, e si sentì assolutamente convinto che qualcosa che egli non percepiva, ma che Napoleon vedeva e apprezzava, fosse proprio davanti alla gabbia. Il pappagallo ritirò il capo all'improvviso come se il dito che lo carezzava fosse stato sollevato da esso, e se prima aveva dato l'impressione di provare un notevole piacere fisico, ora pareva oltremodo attento e curioso. Tenendosi alle sbarre si issò fino a raggiungere l'asticciola, lungo la quale scivolò portandosi nella parte sinistra della gabbia e prese a fissare qualcosa, apparentemente con grande interesse. Chinò il capo in modo strano, si fermò per un attimo, quindi lo chinò nuovamente. Padre Murchinson, riflettendo su questi elaborati movimenti del capo, si creò l'immagine di una personalità ben precisa. I gesti del pappagallo facevano pensare a un grande affetto, una provata familiarità combinata a quella debole ma peculiare volontà che spesso, nei pennuti casalinghi è oltremodo resistente. Questo tipo di volontà è debole eppur tenace, caratteristica riscontrabile spesso anche in persone che non siano nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Padre Murchinson si commosse al pensiero di quelle povere creature — animali più che esseri umani — che spesso, stranamente e senza motivo apparente, si affezionano in modo tenace a chi meno le ama. Come molti sacerdoti egli aveva avuto alcune esperienze di questo tipo, poiché il deficiente affettuoso stranamente subisce il fascino dei predicatori. Quegli inchini del pappagallo gli richiamarono alla memoria una terribile donna pallida che per qualche tempo lo aveva perseguitato in tutte le chiese in cui egli predicava, continuamente intenta a cercare di catturare il suo sguardo e che chinava sempre la testa con un sorriso ossequioso e furbamente calcolato quando vi riusciva. Il pappagallo continuò a inchinarsi, facendo una breve pausa tra una genuflessione e l'altra, come se attendesse un segnale che innescasse il suo spirito di imitazione. «Sì, sì, sta imitando un idiota» si disse Padre Murchinson senza accorgersene mentre ancora osservava il pappagallo. E si guardò in giro nuovamente, ma senza vedere nulla; eccetto i mobili, il fuoco scoppiettante, e le file di libri ordinati. Ora il pappagallo cessò d'inchinarsi ed assunse l'atteggiamento concentrato e teso di chi ascolta con grande attenzione. Aprì il becco mostrando la linguetta nera, lo richiuse e quindi lo aprì di nuovo. Il Padre pensò che stesse per parlare, ma l'animale rimase in silenzio nonostante fosse ovvio che stesse tentando di esprimere qualcosa. S'inchinò ancora due o tre volte,
si fermò, quindi aprì di nuovo il becco e fece qualche commento. Padre Murchinson non afferrò le parole, ma erano state dette con voce sdolcinata e sgradevole, una voce carezzevole e al contempo piagnucolosa: «come di donna» pensò. E avvicinò l'orecchio alla tenda ascoltando in un'attesa quasi febbrile. Ripresero gli inchini, ma questa volta Napoleon vi aggiunse un movimento circospetto, affettuoso e affettato, come il movimento di un essere stupido e bramoso che si rannicchi contro qualcuno o gli dia una delicata e furtiva spintarella. Di nuovo a Padre Murchinson tornò in mente quella terribile donna pallida che si era aggirata furtivamente per le chiese. Diverse volte l'aveva trovata ad attenderlo dopo le funzioni serali. Una volta aveva inclinato la testa sorridendo, con la lingua penzoloni, e lo aveva spinto di lato nel buio. Egli ricordava il ribrezzo provato nei confronti di quella poveretta, né riusciva a cancellarlo pensando che si trattava di una persona che aveva perso completamente il controllo delle proprie facoltà mentali. Il pappagallo si fermò in ascolto, aprì il becco, e nuovamente disse qualcosa con la stessa voce amorevole e mite, piena di sfumature svenevoli eppure dura, addirittura pericolosa come intonazione. «Una voce odiosa» pensò il Padre, ma questa volta sentì una voce più chiara della precedente e non riuscì a capire se fosse maschile o femminile, o forse di bambino. Pareva una voce umana stranamente asessuata. Per chiarire tale dubbio egli si ritrasse nell'oscurità dietro le tende, cessò di guardare Napoleon, e si limitò ad ascoltare attentamente sforzandosi di dimenticare che quello che sentiva era un uccello e cercando d'immaginarsi l'ascolto d'una vera conversazione umana. Dopo un silenzio di due o tre minuti la voce parlò di nuovo abbastanza a lungo, apparentemente ripetendo diverse volte una serie di affettuose esclamazioni in un tono amorevole indicibilmente sdolcinato e ripugnante. La voce disgustosa, l'intonazione cadente e la strana grossolanità, assieme a una dolcezza declinante e a un falsa raffinatezza fecero rabbrividire il Padre. Egli non riusciva a capire le parole, né ad attribuire un sesso o un'età a quella voce. Possedeva un'unica certezza, mentre si trovava lì da solo al buio: che un suono di quel genere poteva provenire solo da qualcosa di particolarmente odioso, poteva essere l'espressione di una personalità insopportabile e abominevole almeno per lui, se non per chiunque altro. Si udì una sorta di rantolo roco, quindi vi fu un lungo silenzio che venne interrotto dal professore il quale improvvisamente tirò la tenda che celava il Padre e disse: «Uscite ora, e guardate.» Padre Murchinson uscì alla luce, ne fu abbagliato, guardò verso la gabbia, e vide Napoleon immobile su una zampa con la testa sotto l'ala. Sem-
brava addormentato. Il professore era pallido. Le sue labbra mobili erano tese ed esprimevano il massimo disgusto. «Puah!» disse. Raggiunse le finestre dell'altra stanza, tirò le tende e sollevò il vetro per fare entrare l'aria. Fuori gli alberi spogli erano visibili nella grigia oscurità. Guildea si sporse per un minuto riempiendosi i polmoni di aria notturna. Quindi si voltò verso il Padre ed esclamò all'improvviso: «Non è orribile?» «Sì, orribile davvero.» «Mai visto o sentito nulla di simile?» «Mai.» «Neanch'io. Mi fa venire la nausea, Murchinson, mi fa stare male fisicamente.» Lo scienziato chiuse la finestra e si mise a camminare nervosamente per la stanza. «Che cosa ne pensate?» chiese girando il capo sopra la spalla. «Di che cosa?» «È voce di uomo, donna o bambino?» «Non saprei, non riesco a capirlo.» «Neanch'io.» «L'avete udita spesso?» «Sì, da quando sono tornato da Westgate. Non riesco mai a distinguere le parole, ma quella voce!» Sputò nel fuoco. «Perdonatemi» disse Guildea lasciandosi cadere su una sedia. «Mi dà proprio il voltastomaco.» «Anche a me» disse il Padre con sincerità. «E la cosa peggiore» continuò Guildea in tono alto e nervoso «è che non c'è un cervello dietro a tutto questo. Assolutamente, capite? È pura idiozia.» Il Padre sgranò gli occhi per avere sentito così esattamente espressa da un altro la propria convinzione. «Perché siete trasalito così?» chiese Guildea con improvviso sospetto che dimostrava lo stato alterato dei suoi nervi. «Beh, avevo avuto proprio la vostra stessa impressione.» «Quale?» «Di sentire la voce di uno squilibrato.» «Eh! È questo che non riesco a spiegare, capite, un uomo come me. Posso battermi contro un cervello, ma questo...» Guildea si alzò nuovamente di scatto, attizzò il fuoco con veemenza,
quindi, voltandogli le spalle, si fermò sul tappeto che stava davanti al camino con le mani sprofondate nelle tasche alte dei pantaloni. «Quella è la voce della cosa che è entrata in casa mia» disse. «Piacevole, non trovate?» Ora nei suoi occhi e nella sua voce c'era un autentico terrore. «Devo farla uscire» esclamò. «Devo farla uscire. Ma come?» Si tirò la barbetta nera con la mano tremante. «Come?» riprese. «E che cos'è? E dov'è?» «Sentite che è qui, ora?» «Senza dubbio. Ma non vi saprei dire in quale parte della stanza.» Dette una rapida occhiata intorno a sé. «Dite, vi sentite forse perseguitato?» chiese Padre Murchinson. Anch'egli era molto scosso e teso, pur non avvertendo la presenza nella stanza. «Non ho mai creduto a sciocchezze di questo tipo, come sapete» rispose Guildea. «Mi limito semplicemente a constatare un fatto che non sono in grado di capire e che sta diventando molto doloroso per me. C'è qualcosa qui. Ma mentre gran parte delle persecuzioni vengono ritenute malevole, ciò che io sento è di essere ammirato, amato, desiderato. E questo per me è orribile, proprio insopportabile, Murchinson.» Improvvisamente Padre Murchinson si ricordò della prima serata che aveva trascorso con Guildea, e dell'espressione quasi disgustata di questi al pensiero che qualcuno potesse provare affetto per lui. Alla luce di quella lontana conversazione gli eventi vicini erano ancora più peculiari, quasi come se al professore fosse stata inflitta una punizione per un crimine commesso nei confronti dell'umanità intera. Ma alzando lo sguardo sul viso contratto dell'amico il Padre decise che non sarebbe caduto nella sua stessa trappola ripugnante. «Qui non può esserci nulla» disse. «È impossibile.» «E il pappagallo che cosa imita, allora?» «La voce di qualcuno che è stato qui.» «Durante la scorsa settimana, quindi, perché mai si è comportato in quel modo prima d'ora, e vi ricordo inoltre che avevo notato che stava osservando e sforzandosi d'imitare qualcosa già prima che io partissi. Per l'esattezza, dopo quella sera che sono uscito nel parco.» «Qualcuno con una voce simile dev'essere stato qui mentre voi non c'eravate» ripeté Padre Murchinson insistendo pazientemente. «Questo lo appuriamo subito» disse lo scienziato. Guildea suonò il campanello. Pitting comparve quasi subito.
«Pitting» disse il professore con voce alta e tagliente, «durante la mia assenza è entrato qualcuno in questa stanza?» «No di certo, signore, a parte le cameriere... e me, signore.» «Proprio nessuno? Siete sicuro?» «Assolutamente, signore.» La fredda voce del maggiordomo sembrava sorpresa, quasi risentita. Il professore fece un gesto con il braccio verso la gabbia. «E il pappagallo è rimasto qui tutto il tempo?» «Sì, signore.» «Volete dire quindi che non è stato portato da qualche altra parte, neanche per un attimo?» Il pallido volto di Pitting cominciò quasi a divenire espressivo; le sue labbra erano increspate. «Assolutamente no, signore.» «Grazie. È tutto.» Il maggiordomo si ritirò muovendosi con una sorta di ostentata dignità. Quando ebbe quasi raggiunto la porta ed era sul punto di uscire Guildea gridò: «Aspettate un momento, Pitting.» Il maggiordomo si fermò, Guildea si morse le labbra, si tirò la barba inquieto due o tre volte, quindi disse: «Avrete notato... che... ultimamente il pappagallo parla con una voce molto strana, molto antipatica?» «Sì, signore... come una voce tenue, signore.» «Ah! E da quando?» «Da quando siete partito, signore. Non smette un momento.» «Esattamente. Ebbene, che cosa ne pensate?» «Come dite, signore?» «Che cosa ne pensate del fatto che parli con quella voce?» «Che è un suo gioco, signore.» «Capisco. È tutto, Pitting.» Il maggiordomo scomparve e si chiuse dietro la porta silenziosamente. Guildea guardò l'amico. «Avete sentito?» esclamò. «È indubbiamente molto strano» disse Padre Murchinson. «Proprio molto strano. E siete sicuro che nessuna delle vostre cameriere parli in quel modo?» «Ma caro Murchinson! Voi terreste al vostro servizio una persona con quella voce anche solo per due giorni?» «No.»
«La domestica è con me da cinque anni, la cuoca da sette. E Pitting l'avete udito anche voi come parla. Loro tre sono tutta la servitù che ho. Un pappagallo non usa mai una voce che non ha sentito. Dove avrà sentito quella voce?» «E noi non sentiamo niente?» «No. Né vediamo qualcosa. Ma Napoleon lo sente. Non avete notato come teneva la testa per farsela grattare?» «Sì, è vero.» «Ma sicuramente!» Padre Murchinson non disse nulla. Avvertiva una crescente sensazione di disagio e, per la verità, era un po' preoccupato. «Siete convinto?» chiese Guildea con tono sostenuto. «No. L'intera questione è molto strana, ma finché non sento o percepisco... come voi... la presenza di qualcosa, non ci posso credere.» «Volete dire che non ci crederete?» «Forse. Beh, si è fatto tardi.» Guildea non tentò di trattenerlo, ma quando lo ebbe accompagnato fino alla porta disse: «Fatemi un favore, tornate domani sera.» Il sacerdote aveva un impegno. Esitò, guardò in faccia il professore, quindi rispose: «Verrò. Alle nove sarò da voi. Buona notte.» Quando fu in strada si sentì sollevato. Si voltò, vide Guildea che rientrava in casa, e rabbrividì. V Quella sera Padre Murchinson andò a piedi fino a casa sua, in Bird Street. Aveva bisogno di fare un po' di moto dopo la strana e sgradevole serata che aveva trascorso, una serata alla quale già pensava come si pensa ad un incubo. Nelle sue orecchie, mentre camminava, sentiva riecheggiare quella voce gentile e insopportabile. Anche il solo ricordo gli procurava un disagio fisico. Tentò di allontanarlo e di riesaminare la cosa con tranquillità. Il professore gli aveva fornito una prova del fatto che vi fosse una strana presenza nella sua casa. Poteva, un qualsiasi uomo ragionevole, accettare una prova simile? Padre Murchinson si convinse che nessuna persona ragionevole l'avrebbe accettata. Senza dubbio la pantomima del pappagallo era stata eccezionale. L'uccello era riuscito a creare la straordinaria illusione di una presenza invisibile nella stanza. Ma Padre Murchinson insisteva nel negare a se stesso l'esistenza, fisica o metafisica che fosse, della pre-
senza. I devoti che credono implicitamente ai miracoli tramandati nella Bibbia, e che regolano la propria vita secondo i messaggi che ritengono di ricevere direttamente dal Grande Sovrano di un Mondo Arcano, raramente sono inclini ad accettare intrusioni sovrannaturali di qualsiasi genere in faccende di vita quotidiana. Le allontanano da sé con decisione e solerzia. Le considerano automaticamente fantasticherie infantili spesso perniciose se non addirittura maligne. Padre Murchinson tendeva alla visione corrente delle cose propria dell'uomo di chiesa devoto. Era fermamente deciso in questa sua tensione. Non poteva, così si autoconvinse in quella circostanza, accettare l'idea che il suo amico venisse punito da un'entità sovrannaturale per la sua mancanza di umiltà e di affetto, e che la punizione consistesse nel dovere sopportare l'amore di una cosa orribile che non si poteva vedere, sentire né toccare. Cionondimeno, quanto stava accadendo a Guildea, aveva tutte le caratteristiche di un autentico castigo. Sembrava che egli dovesse subire innaturalmente ciò che innaturalmente aveva paventato e fuggito nel pensiero. Quella sera, davanti all'umile altare allestito nella stanza spoglia e simile a una cella in cui dormiva, il sacerdote pregò per l'amico. La sera seguente, quando raggiunse il numero 100 di Hyde Park Place, la porta gli fu aperta dalla domestica, e Padre Murchinson salì le scale chiedendosi che fine potesse avere fatto Pitting. Guildea lo attendeva sulla porta della biblioteca, il suo aspetto alterato lo addolorò. Aveva la faccia colore della cenere e come vizzita dall'improvviso comparire e moltiplicarsi delle rughe. Gli occhi stessi sembravano agitati e terribilmente perduti. I capelli e gli abiti erano disordinati; le labbra si contraevano spasmodicamente come se egli fosse in preda ad un'acuta crisi di nervi. «Che cosa ne è di Pitting?» chiese Padre Murchinson afferrando la mano calda e febbricitante di Guildea. «Non è più a mio servizio.» «Davvero?» chiese il sacerdote assolutamente sbigottito. «Sì, se n'è andato questo pomeriggio.» «E si può sapere perché?» «Ve lo dirò. È tutto collegato a questa... odiosissima storia. Vi ricordate che una volta abbiamo parlato del rapporto che dovrebbe esistere tra i padroni e i loro servitori?» «Ah!» esclamò Padre Murchinson come se avesse avuto un'improvvisa ispirazione. «C'è stata quindi una crisi?» «Esattamente» disse il professore con un sorriso amaro. «C'è stata una
crisi. Ho chiesto a Pitting di essere uomo e fratello. Ha rifiutato l'invito. L'ho rimproverato. Mi ha dato il preavviso di licenziamento. Gli ho pagato quello che gli dovevo e gli ho detto che se ne poteva andare subito. E se n'è andato... Perché mai mi guardate così?» «Scusate» disse Padre Murchinson abbassando in fretta gli occhi e guardando da un'altra parte. «E» disse «anche Napoleon se n'è andato?» «L'ho venduto oggi in uno dei negozi di Shaftesbury Avenue.» «Perché mai?» «Mi disgustava con le sue abominevoli imitazioni, i suoi rapporti con... beh, sapete bene quello che ha fatto ieri sera. E poi non ho più bisogno che lui mi dimostri che non sto sognando. Oramai sono fermamente convinto che tutto ciò che credevo fosse accaduto è effettivamente successo, e non m'importa più che tanto di convincerne gli altri. Mi scuserete se parlo così, Murchinson, ma ora sono certo che il mio desiderio di farvi credere a quella presenza si basava esclusivamente su un vago dubbio al riguardo che ancora c'era in me. Ogni dubbio ora è dileguato.» «Spiegatemi perché» «Lo farò.» I due uomini erano in piedi vicino al fuoco. Restarono in piedi. Il professor Guildea disse: «L'ho percepito ieri sera.» «Che cosa?» chiese il sacerdote. «Voglio dire che ieri sera, mentre salivo in camera mia per andare a dormire, ho percepito una presenza che mi accompagnava e si stringeva a me.» «Che orrore!» esclamò il Padre involontariamente. Guildea sorrise tristemente. «Non negherò che è orribile. Non posso; infatti ho dovuto chiedere aiuto a Pitting.» «Ma ditemi, che cos'era... o almeno, che cosa sembrava?» «Sembrava una creatura umana. Intendo dire che quel contatto pareva più umano che altro. Ma non sono riuscito a vedere né a sentire nulla. Solamente, per tre volte, ho avvertito una delicata ma decisa spinta, come per blandirmi e per attirare la mia attenzione. La prima volta ero sul pianerottolo, davanti a questa stanza, e avevo il piede sul primo gradino. Vi confesso, Murchinson, che sono salito di corsa come se qualcuno mi stesse inseguendo. Questa è la vergognosa verità. Proprio quando stavo per entrare nella mia stanza da letto, però, ho avvertito che quella cosa entrava con me e, come vi dicevo, che si stringeva con odiosa, ripugnante tenerezza contro il mio fianco. Poi...»
Si fermò, si girò verso il camino appoggiando il capo su un braccio. Padre Murchinson era molto commosso da quello strano atteggiamento così impotente e disperato. Con fare affettuoso posò la mano sulla spalla di Guildea. «E poi?» Guildea levò il capo. Pareva addolorato e turbato. «Poi, Murchinson, mi vergogno a dirlo, ho ceduto, improvvisamente e inesplicabilmente, in un modo che avrei creduto del tutto impossibile. Con le mani ho tentato di respingere quella cosa. Mi veniva sempre più vicina. Quella pressione e quel contatto mi sono divenuti insopportabili. Ho chiamato a gran voce Pitting. Credo... credo anche di avere gridato... aiuto.» «E naturalmente Pitting è accorso.» «Sì, come al solito tranquillo e impassibile. La sua calma, il contrasto con la mia agitazione, il disgusto e l'orrore, devono... credo che mi abbiano irritato. Non ero più me stesso, no, no!» Lo scienziato si fermò all'improvviso. Poi: «Ma questo non occorreva neanche che ve lo dicessi» aggiunse con pietosa ironia. «E che cos'avete detto a Pitting?» «Gli ho detto che una maggiore sollecitudine sarebbe stata quantomai opportuna. Mi ha chiesto perdono. La sua voce fredda mi ha fatto veramente uscire dai gangheri, e io sono esploso in una folle, spregevole diatriba: gli ho detto che era un automa, l'ho rimproverato aspramente; e dopo, poiché sentivo quell'orribile cosa che di nuovo si stringeva contro di me, l'ho implorato di assistermi, di restare con me, di non lasciarmi solo, cioè in compagnia del mio torturatore. Non so se fosse impaurito o adirato per i rimproveri e le escandescenze precedenti... non lo so proprio. A ogni modo mi ha risposto che lui era stato assunto come maggiordomo e non per restare alzato a fare compagnia alla gente per tutta la notte. Ho il sospetto che pensasse che io avessi bevuto troppo. Certamente fu così. Credo di avergli dato del codardo... proprio io! Questa mattina ha detto che voleva andarsene. Gli ho pagato il salario di un mese, gli ho dato un buon attestato di servizio come maggiordomo, e l'ho liquidato subito.» «Ma la notte? Come l'avete trascorsa?» «In piedi, fino al mattino.» «Dove? Nella vostra camera da letto?» «Sì, con la porta aperta, per fare uscire quella cosa.» «E sentivate che era lì?» «Non mi ha lasciato per un attimo, però non mi ha più toccato. Alle prime luci dell'alba ho fatto un bagno, mi sono disteso per un po', ma non ho
chiuso occhio. Dopo la colazione e l'incidente con Pitting sono risalito qui, in camera. Avevo i nervi a pezzi. Bene, mi sono seduto e ho tentato di scrivere, di pensare. Ma il silenzio è stato rotto nel modo più abominevole.» «Come?» «Da quella terrificante voce che mormorava, la voce di un essere idiota, innamorato, svenevole ma deciso. Puah!» Tremava come una foglia. Quindi si riprese, assunse, con uno sforzo autocosciente, il suo modo di fare più deciso e aggressivo, e aggiunse: «Non lo sopportavo. Ero stremato, così feci chiamare una carrozza, afferrai la gabbia e la portai in un negozio di animali in Shaftesbury Avenue. Lì vendetti il pappagallo per un'inezia. Credo, Murchinson, che a quel punto io fossi uscito di senno... o quasi. Infatti, quando uscii da quel maledetto negozio, mi fermai per un attimo lì sul marciapiede tra gabbie di conigli, porcellini d'India e cagnolini, e scoppiai a ridere. Mi sentivo come se un carico mi fosse stato tolto dalle spalle, come se vendendo quella bestia con quella voce avessi venduto anche la maledetta cosa che mi tormenta. Ma quando tornai a casa la trovai ancora qui. Ed è qui ora. E credo che resterà qui per sempre.» Strisciò i piedi sul tappeto davanti al camino. «Che cosa mai posso fare?» chiese angosciato. «Mi vergogno di me stesso, Murchinson, ma... ma credo che esistano al mondo cose che certi uomini proprio non possono sopportare. Ebbene, io non sopporto questa cosa. Tutto qui.» Tacque. Padre Murchinson ristette, in silenzio. Per la particolare angoscia del momento non sapeva cosa dire. Si rendeva conto dell'inutilità di tentare di consolare Guildea; rimase quindi a fissare il pavimento, quasi imbronciato. E mentre stava lì seduto, tentava di captare la suggestione della stanza, di sentire tutto quello che vi era contenuto. Tentò perfino, quasi inconsciamente, di costringere la propria immaginazione a fargli qualche scherzo. Ma non riuscì assolutamente a percepire presenza di una terza persona. Infine disse: «Guildea, non posso fingere di non credere ai vostri tormenti. Voi dovete andarvene di qui, immediatamente. Quando avete quella conferenza a Parigi?» «La prossima settimana, tra nove giorni.» «Andate a Parigi domani, allora. Voi mi avete detto un tempo di non avere mai avuto la sensazione che quella... quella cosa vi seguisse oltre la vostra porta di casa. È così?»
«Così è... fino a oggi che io sappia.» «Partite domattina. Restate assente fino a dopo la vostra conferenza. Vedremo poi se questa storia giungerà a termine. Speranza, mio caro amico, speranza.» Il sacerdote si alzò. Strinse tra le sue la mano del professore. «Andate a trovare tutti i vostri amici a Parigi. Distraetevi. Vi chiederei anche di cercare... un altro aiuto. Padre Murchinson disse queste ultime parole con pacata, onesta gravità e semplicità. Guildea ne fu commosso e ricambiò la stretta di mano quasi con calore. «Andrò» disse. «Prenderò il treno delle dieci e mezzo. Questa notte dormirò in albergo, al Grosvenor, che è vicino alla stazione. Sarò più comodo per partire domani mattina.» Quella sera Padre Murchinson andando a casa continuò a pensare a quella frase: «Sarò più comodo per partire.» La debolezza che aveva spinto Guildea a pronunciarla lo spaventava. VI Padre Murchinson non ricevette nessuna lettera dal professore nei giorni seguenti. Questo silenzio lo rassicurava, poiché sembrava testimoniare che tutto fosse a posto. Il giorno della conferenza sorse e tramontò. Il mattino seguente il Padre aprì ansioso il Times e lo sfogliò per vedere se vi fosse qualche articolo sulla grande folla di scienziati davanti ai quali Guildea aveva parlato. Scorse le colonne con occhi ansiosi, ma improvvisamente le sue mani si irrigidirono tenendo il giornale. Aveva scorto il seguente trafiletto: Con estremo rammarico annunciamo che il professor Frederic Guildea è stato colto da un grave malore ieri sera mentre parlava davanti a un gruppo di scienziati a Parigi. Egli era molto pallido e nervoso quando di alzò in piedi. Egualmente parlò in francese perfetto per circa un quarto d'ora. Poi parve inquietarsi. Vacillò e si guardò intorno come un uomo timoroso o fortemente angosciato. Si bloccò addirittura una o due volte e parve incapace di proseguire, di ricordare che cosa dovesse dire. Pure, con sforzi notevoli, continuò la sua conferenza. Improvvisamente però si fermò di nuovo, si spostò costeggiando furtivamente il podio, come se fosse inseguito da qualcosa di cui aveva paura, tese le braccia,
emise un grido forte e roco e svenne. L'impressione nella sala fu indescrivibile. Molti tra i presenti si alzarono. Le donne urlavano. Per un attimo, regnò il panico. Si teme che la mente dell'insigne scienziato abbia improvvisamente ceduto a causa di sovraffaticamento. Abbiamo appreso che il professore farà ritorno in Inghilterra appena possibile e ci auguriamo che il riposo e la tranquillità sortiscano presto gli effetti desiderati e che egli si ristabilisca completamente per potere portare avanti quelle ricerche da cui il mondo ha già tratto benefici così notevoli. Padre Murchinson lasciò cadere il giornale, si precipitò in Bird Street, inviò un telegramma a Parigi chiedendo notizie, e ricevette il giorno stesso la seguente risposta: «Ritorno domani. Prego venite sera. Guildea». La sera successiva Padre Murchinson andò in Hyde Park Place, venne subito fatto accomodare, e trovò Guildea seduto davanti al camino in biblioteca, pallido come un cencio, con una grossa coperta sulle ginocchia. Aveva l'aspetto emaciato di un uomo che abbia sofferto a lungo di una grave malattia, nei suoi occhi spalancati c'era un'espressione d'immutabile orrore. Il sacerdote l'osservò e si trattenne a stento dal gridare. Voleva consolarlo quando il professore lo fermò con un gesto tremante. «So che sapete» disse Guildea «lo so. Questa storia di Parigi...» la sua voce tremò ed egli si bloccò. «Non avreste mai dovuto andare» disse il Padre. «Ho sbagliato. Non avrei dovuto consigliarvi in tal senso, non eravate in grado di affrontare una fatica simile.» «Sì che ero in grado» rispose con l'irritabilità tipica dei malati. «Ma quella orribile cosa mi ha accompagnato.» , Si guardò attorno rapidamente, spostò la sedia e sollevò la coperta fin sopra le ginocchia. Il Padre si chiese perché fosse così imbacuccato. Il fuoco ardeva e la sera non era molto fredda. «Sono stato accompagnato a Parigi» continuò Guildea premendo i denti superiori sul labbro inferiore. Si fermò di nuovo, tentando evidentemente di controllarsi. Ma lo sforzo fu vano. Non aveva più alcuna resistenza. Si contorse nella sedia e improvvisamente emise un lamento disperato. «Murchinson» disse, con pena infinita «questo essere, questa cosa, qualunque cosa sia, non mi lascia più neanche per un istante. Non resta qui se
non ci sono io, perché mi ama in modo persistente e irrazionale. Mi ha accompagnato a Parigi, mi ha inseguito nella sala delle conferenze, stringendosi contro di me, mi ha accarezzato mentre parlavo, è tornato con me. Ed è qui ora. La voce di Guildea ruppe in un singhiozzo lacerante. Il tono gli si fece acuto, stridulo. «È qui ora, mentre parlo con voi. Si stringe a me e mi coccola toccandomi le mani. Possibile che non riusciate a percepire la sua presenza?» «Così è purtroppo» rispose onestamente il Padre. «Tento di difendermi da questo odioso contatto» continuò Guildea estremamente agitato, stringendo la grossa coperta con ambo le mani, «Ma non serve a niente. Che cos'è? Che cosa può essere? Perché è venuto da me quella sera?» «Forse è una punizione» disse il Padre con estrema dolcezza. «Per che cosa?» «Voi odiavate l'affetto, accantonavate i sentimenti umani con disprezzo. Non amavate, non desideravate amare nessuno. Né desideravate che qualcosa vi amasse. Forse questa è una punizione.» Guildea sgranò gli occhi. «Lo credete veramente?» esclamò. «Non lo so» disse Padre Murchinson. «Ma può essere. Tentate di sopportarlo, o addirittura di apprezzarlo. Forse la persecuzione cesserà.» «So che non mi vuole nuocere» esclamò Guildea. «So che mi cerca perché mi ama. È stato attratto da un qualche fascino che evidentemente esercito senza rendermene conto. Questo lo so. Ma per un uomo come me è proprio questo l'aspetto più sgradevole! Se mi odiasse potrei sopportarlo. Se mi attaccasse, se tentasse di nuocermi terribilmente, tornerei a essere quello di prima. Mi sentirei rinforzato nel doverlo combattere. Ma questa delicatezza, questa premura abominevole, questa assurda adorazione da parte di un essere idiota, ostinato, svenevole, questo orribile contatto fisico, non lo sopporto proprio. Che cosa vuole da me? Che cosa mi chiede? Si stringe al mio corpo. Si appoggia contro di me. Sento che mi tocca, e quel contatto è come una piuma, tremante sul mio cuore come se volesse conoscere il numero delle pulsazioni, per scoprire i segreti più profondi dei miei impulsi e desideri. Non mi resta alcuna intimità. Lo scienziato si alzò di scatto. «Non mi posso sottrarre» gridò. «Non riesco a essere solo, senza che qualcuno mi tocchi, mi adori, mi guardi, neanche per mezzo secondo. Murchinson, questa cosa mi sta facendo morire!» Sprofondò nuovamente nella poltrona guardando attentamente in tutte le
direzioni con la foga di un cieco la cui speranza di riottenere la vista sia stata delusa. Padre Murchinson capiva bene che egli tentava di squarciare il velo dell'invisibile per conoscere la cosa che lo amava. «Guildea» disse il Padre sempre più sincero «tentate di sopportare, e anzi, fate di più, date a questo essere ciò che desidera.» «Ma desidera il mio amore!» «E voi imparate a darglielo, e forse se ne andrà quando avrà ottenuto quello che cercava.» «Bah! Voi parlate da prete. Sopporta se ti perseguitano. Fai del bene a chi ti sfrutta ignobilmente. Parlate da prete!» «Io vi ho parlato da amico, con la mano sul cuore. All'improvviso ho pensato che tutto questo, per vero o immaginario che fosse, potesse essere una strana forma di lezione. Io ho avuto delle lezioni, e sono state lezioni dolorose. Ne avrò molte altre. Se voi riusciste ad accogliere...» «Non posso! Non posso!» gridò forte Guildea. «Odio! Posso dare il mio odio, odio eterno, nient'altro che odio, odio!» Alzò la voce con lo sguardo fisso nel vuoto, e ripeté ancora: «Odio!» Mentre parlava il pallore cereo delle sue guance aumentava, fino a quando egli parve un cadavere con gli occhi vivi. Padre Murchinson temeva che sarebbe crollato, ma improvvisamente Guildea si drizzò sulla sedia e disse con voce alta e appassionata, piena di celata eccitazione: «Murchinson, Murchinson!» «Sì. Che cosa c'è?» Negli occhi di Guildea brillava un'estasi sorprendente. «Mi vuole lasciare» esclamò. «Vuole andarsene! Non perdete un istante! Lasciatelo uscire! La finestra... La finestra!» Sbalordito Padre Murchinson raggiunse la finestra, tirò le tende e l'aprì. I rami secchi degli alberi nel giardino scricchiolarono nel leggero venticello. Guildea si appoggiò alle estremità dei braccioli della poltrona. Per un attimo vi fu silenzio. Poi Guildea parlando velocemente a bassa voce disse: «No, no. Aprite questa porta, aprite la porta sul corridoio. Sento, sento che vuole andarsene per la via da cui è venuto. Presto, presto!» Il sacerdote obbedì, per compiacerlo, e corse a spalancare la porta. Quindi guardò nuovamente Guildea. Era in piedi, curvo in avanti. Nei suoi occhi brillava un forte senso di attesa, e, appena il Padre si voltò, egli fece un gesto inconsulto con le braccia verso il corridoio. Padre Murchinson si precipitò fuori e giù per le scale. Mentre scendeva nella penombra gli parve di udire un suono lieve e acuto proveniente dalla
stanza alle sue spalle, ma non si fermò. Spalancò la porta di casa tenendosi addossato al muro. Dopo avere atteso per un momento, per compiacere Guildea, stava per richiudere la porta ed aveva già la mano sulla maniglia, quando avvertì un desiderio irresistibile di guardare verso il parco. La notte era illuminata dalla luna nuova e, guardando attraverso la ringhiera, gli cadde l'occhio su una panchina. Sulla panchina era seduto o stranamente accoccolato qualcosa. Subito al Padre tornò in mente la descrizione di Guildea di quella sera, quella sera durante l'Avvento, e s'impadronì di lui una sensazione di curiosità mista a terrore. Quindi il professore aveva effettivamente avuto un ospite? E questo aveva terminato il proprio lavoro, soddisfatto i propri desideri, e assunto nuovamente l'aspetto iniziale? Il Padre esitò un attimo sulla porta di casa. Quindi usci con fare deciso e attraversò la strada con gli occhi fissi su quell'oggetto nero o comunque scuro che stava appoggiato alla panchina in modo così strano. Non avrebbe ancora saputo descrivere che aspetto aveva, ma immaginava che fosse diverso da qualsiasi cosa dui i suoi occhi erano avvezzi. Raggiunse il marciapiede opposto e stava per entrare nel cancello quando si sentì afferrare il braccio bruscamente. Trasalì, si voltò, e vide un poliziotto che lo guardava sospettosamente. «Che cosa state facendo?» chiese il poliziotto. Padre Murchinson si ricordò improvvisamente di non avere cappello in testa e che il suo aspetto, mentre si muoveva furtivamente con la sua tonaca scura e gli occhi fissi sulla panchina del parco, era probabilmente abbastanza insolito da destare sospetto. «È tutto in ordine, signor poliziotto» rispose in fretta infilando del danaro nella mano dell'agente. Quindi raggiunse in fretta la panchina amareggiato per l'interruzione. Quando vi giunse non trovò nulla. L'esperienza di Guildea si era ripetuta quasi esattamente e, pieno di assurda delusione, il sacerdote tornò in casa, entrò, chiuse l'uscio e si affrettò su per le scale che portavano alla biblioteca. Sul tappeto davanti al camino egli trovò Guildea con il capo appoggiato contro la poltrona da cui si era alzato poco prima. Il suo viso convulso aveva un'espressione spaventosa. Guardandolo bene, Padre Murchinson si accorse che era morto. Il medico, che fu chiamato, disse che il decesso era stato causato da una
crisi cardiaca. Quando Padre Murchinson lo apprese mormorò: «Il cuore! Allora era proprio quello!» Si rivolse al dottore e chiese: «Si sarebbe potuto evitare?» Il dottore si infilò i guanti e disse: «Forse, se fosse stata presa in tempo. Un cuore debole necessita di molte cure. Il professore era troppo impegnato nelle sue ricerche. Avrebbe dovuto vivere in modo molto diverso.» Padre Murchinson annuì: «Sì, sì» disse, tristemente. Titolo originale: How Love Come to Professor Guildea Traduzione: Laura Pignatti Richard Matheson Nato di uomo e di donna Richard Matheson, uno dei più grandi fantasist contemporanei, apparve sulla scena nel 1950 con la pubblicazione di Nato di uomo e di donna che in seguito diventò il titolo della sua prima collezione. Fu una delle voci più prolifiche e significative dell'orrore di quel decennio — producendo due dei romanzi horror più importanti del periodo contemporaneo, I Am Legend e The Shrinking Man, entrambi appartenenti al genere della fantascienza — prima di andare a Hollywood e seguire con successo la carriera di sceneggiatore cinematografico. Nato di uomo e di donna é la storia per eccellenza del mostro moderno: concisa, agghiacciante, psicologicamente inquietante. Il bambino è oggetto di abuso e diventerà vendicativo. E il mondo in cui vive un bambino del genere non è il nostro, bensì il mondo di un orrore fantastico. Questo giorno quando ha fatto chiaro la mamma mi ha chiamato vomito. «Vomito» ha detto. Le ho visto negli occhi la rabbia. Mi chiedo che cosa sia un vomito. Questo giorno è caduta acqua da sopra. È caduta tutt'attorno. Io l'ho vista. Ho guardato il terreno sul retro dalla finestrella. Il terreno risucchiava l'acqua come labbra assetate. Ne ha bevuta troppa, gli è venuta la nausea e ha assunto un colorito nerastro. Non mi è piaciuto. La mamma è bella, lo so. Nel posto dove dormo con le pareti fredde ho una cosa di carta che ho trovato dietro alla caldaia del riscaldamento. Su di essa c'è scritto SCHERMO-STELLE. Vedo tra i disegni visi che assomi-
gliano alla mamma e al papà. Papà dice che sono belli. L'ha detto una volta. E ha detto che lo è anche la mamma. La mamma così bella e io abbastanza decente. Guardati, ha detto e non aveva una bella faccia. Gli ho toccato un braccio e ho detto che è un padre come si deve. Si è spostato e si è messo dove io non potevo raggiungerlo. Oggi la mamma mi ha lasciato un po' senza la catena perciò ho potuto guardare dalla finestrella. Ecco perché ho visto l'acqua cadere dall'alto. Questo giorno in cima alle scale c'è stato chiarore. Quando l'ho guardato gli occhi mi hanno fatto male. Dopo che lo guardo, la cantina è rossa. Penso che fosse ora di chiesa. Loro scendono. La grossa macchina li inghiotte, si muove e se ne va. Nella parte posteriore c'è la piccola mamma. È molto più piccola di me. Io sono grande. È un segreto, ma ho strappato la catena dal muro. Dalla finestrella posso guardare tutto ciò che mi piace. Questo giorno, quando è diventato buio, ho mangiato il mio cibo e qualche cimice. Sento risate venire da sopra. Mi piace sapere perché ci sono delle risate. Ho sfilato la catena dal muro e me la sono avvolta attorno. Ho camminato fino alle scale. Scricchiolano sotto i miei passi quando ci cammino sopra. Le gambe scivolano. I miei piedi si appiccicano al legno. Sono salito e ho aperto una porta. Era un posto bianco. Bianco come i gioielli bianchi che vengono da sopra, qualche volta. Sono entrato e mi sono fermato. Sento ridere ancora di più. Mi dirigo verso il suono e guardo tra la gente. Ce n'è più di quanto pensassi. Pensavo che avrei riso con loro. La mamma è uscita e ha spinto la porta che mi colpisce e mi fa male. Sono caduto all'indietro sul pavimento liscio e la catena ha fatto rumore. Ho gridato. Lei ha emesso un sibilo e si è messa una mano sulla bocca. Gli occhi le sono diventati grandi. Mi ha guardato. Ho sentito papà chiamare. «Che cos'è caduto?» ha chiesto. Lei ha detto un'asse di ferro. Che venisse ad aiutarla a sollevarla, ha detto. Lui è venuto e ha detto che era proprio di una cosa così pesante che c'era bisogno. Mi ha visto ed è diventato rosso. La rabbia è venuta nei suoi occhi. Mi ha colpito. Qualche goccia mi è caduta dal braccio sul pavimento. Non era bello. Diventava orribilmente verde sul pavimento. Papà mi ha detto di tornare in cantina. La luce mi fa un po' male agli occhi ora. Non è come in cantina. Papà mi ha legato braccia e gambe. Mi ha messo a letto. Ho sentito ridere di sopra mentre me ne stavo tranquillo a guardare un ragno nero che
dondolava sopra di me. Ho pensato a ciò che ha detto papà. Oh, Dio, ha detto. E ne ha soltanto otto. Questo giorno papà ha fissato di nuovo la catena prima che facesse chiaro. Devo tentare di strapparla un'altra volta. Ha detto che ero stato cattivo a salire. Ha detto di non rifarlo o mi batterà forte. Quello fa male. Sento male. Ho dormito durante il giorno e ho appoggiato la testa al muro freddo. Ho pensato al luogo bianco di sopra. Ho sfilato la catena dal muro. La mamma era di sopra. Ho sentito delle piccole risate acute. Ho guardato dalla finestra. Ho visto solo piccole persone che sembrano anche loro piccole madri e piccoli padri. Sono belli. Facevano un simpatico rumore e saltavano sul terreno. Le loro gambe si muovevano duramente. Assomigliavano a papà e mamma. La mamma dice che tutte le persone per bene si assomigliano. Uno dei piccoli padri mi ha visto. Ha indicato la finestra. Io mi sono lasciato andare e sono scivolato giù dal muro, nel buio. Mi sono rannicchiato perché non mi vedessero. Ho sentito i loro discorsi vicino alla finestra e piedi che correvano. Di sopra, una porta ha sbattuto. Ho sentito la piccola mamma che gridava di sopra. Ho sentito dei passi pesanti e sono corso al mio giaciglio. Ho infilato la catena nel muro e mi sono sdraiato sulla pancia. Ho sentito la mamma che scendeva. «Sei stato alla finestra» ha detto. Ho sentito la rabbia. «Sta' alla larga dalla finestra. Hai strappato di nuovo la catena.» Ha preso il bastone e mi ha colpito con quello. Non ho pianto. Non posso farlo. Ma le gocce inondavano tutto il letto. Lei le ha viste e ha guardato altrove, facendo un rumore. «Oh, mio Dio, mio Dio», ha detto, «perché hai fatto questo a me?» Ho sentito il bastone rimbalzare con un tonfo sul pavimento di pietra. Lei è corsa di sopra. Ho dormito tutto il giorno. Questo giorno c'è stata di nuovo l'acqua. Quando la mamma grande era di sopra ho sentito quella piccola scendere le scale. Mi sono nascosto nel recipiente del carbone perché la mamma si sarebbe arrabbiata se la piccola madre mi avesse visto. Aveva una piccola cosa viva con sé. Le camminava sul braccio e aveva orecchie appuntite. Lei le diceva delle cose. Andava tutto bene tranne che la cosa viva mi fiutava. Era salita sul car-
bone e mi guardava. Aveva i peli ritti. E faceva un rumore con la gola. Le ho fatto un verso, ma quella mi è balzata addosso. Non volevo farle male. Ho avuto paura perché mordeva più forte di quanto facesse il topo. Sentivo male e la piccola madre gridava. Ho afferrato stretto la cosa viva. Faceva rumori che non avevo mai udito. L'ho schiacciata. Era tutta molle e rossa sul carbone nero. Mi sono nascosto lì quando la mamma ha chiamato. Avevo paura del bastone. Se ne andò. Sono strisciato sul carbone con la cosa. L'ho nascosta sotto il cuscino e mi ci sono appoggiato sopra. Ho infilato di nuovo la catena nel muro. Questa è un'altra delle volte. Papà mi ha incatenato stretto. Sento male perché mi ha battuto. Questa volta gli ho strappato il bastone dalle mani e ho fatto rumore. Se n'è andato, pallido in viso. È corso via dal mio posto e ha chiuso la porta a chiave. Non sono tanto contento. Fa freddo tutto il giorno qui dentro. La catena esce lentamente dal muro. E io ho una brutta rabbia con la mamma e il papà. Gliela farò vedere. Farò ciò che ho fatto una volta. Mi metterò a gridare e a ridere forte. Mi arrampicherò su per i muri. Alla fine penderò per le gambe con la testa all'ingiù e gocciolerò verde tutt'attorno finché non saranno dispiaciuti di non essere stati gentili con me. Se proveranno a battermi di nuovo farò, loro male. Lo farò. Titolo originale: Born of Man and Woman Traduzione: Grazia Alineri Joanna Russ Cara Emily Joanna Russ è conosciuta come vincitrice di un premio per la letteratura di fantascienza e per il suo notevole criticismo femminista. Nella pratica letteraria è stata una tenace investigatrice di horror psicologici e ha prodotto un piccolo numero di novelle straordinarie di altissima qualità. Cara Emily è una delle più belle storie di vampiri, dopo Carmilla di Le Fanu, mostruosa, e sovversiva nell'uso consapevole della metafora psicologica. È una storia d'amore che scopre la trascendenza attraverso l'horror. La narrativa breve della Russ è riunita in The Zanzibar Cat (Arkham House, 1938). Nella parte finale dell'ultimo decennio, la vampire story ha
segnato un ritorno nei romanzi di Ann Rice, Chelsea Quinn Yabro e Suzy Mckee Charnas, Les Daniels e Stephen King. Cara Emily è un esempio pressoché unico del precedente decennio e si pone accanto ai migliori di sempre. San Francisco, 188... sono impaziente di vedere finalmente la mia cara Emily ora che è cresciuta, è una donna, anche se sono sicura che stenterò a riconoscerla. Non ne sarà fiera (e come potrebbe!) ma ricorderà i suoi amici, lo so, e avrà pazienza con la cara Will che non può fare a meno di ricordare la ragazza che era e la dolce influenza che ha avuto nella sua vecchia casa. Parlo di te a tuo padre ogni giorno, cara, e lui desidera vederti quanto me. Pensa! Una signora erudita nel nostro circolo! Ma io so che non sei cambiata... Emily tornò a casa da scuola in aprile con l'amica del cuore Charlotte. A scuola erano sempre insieme, ma non parlarono molto in treno. Mentre Emily legge le poesie del signor Emerson, Charlotte osserva il paesaggio con un binocolo da teatro ed esprime il desiderio di vedere «i selvaggi». «È una sciocchezza» commenta prontamente Emily. «Se ci portassero via» osserva Charlotte «non credo che te ne accorgeresti in tempo per disapprovare.» «È una sciocchezza» ripete Emily, toccandosi il colletto con una mano. Solleva gli occhi dal libro del signor Emerson per fissare Charlotte. È proprio una giovane signorina. È il suo stile da sempre. «L'aspetto del New England» scatta risentita Charlotte e chiude il binocolo. «Mi piacerebbe essere portata via» aggiunge; «ma in fin dei conti non ho un fidanzamento cui mirare... una delicata storia.» «Non ti divertiresti» dice Emily e lascia cadere in grembo il libro del signor Emerson. Guarda senza vederlo il binocolo di Charlotte. «Perché si chiude?» domanda. «Prego?» dice Charlotte, assente. «Niente. Sei molto più graziosa di me» afferma Emily. «Guarda» la incoraggia cortesemente Charlotte, mettendo il giocattolo in mano all'amica. «I selvaggi?»
Charlotte annuisce, Emily preme la molla che fa aprire l'aggeggio e un attimo dopo lo lascia cadere in grembo, sopra il libro del signor Emerson. Ha un taglio a un dito e un livido bluastro che va scurendosi su un altro. «Mi sono ferita» dice, senza espressione, e mentre Charlotte si affretta a prendere il binocolo, guarda con curiosa passività il sangue che esce dalla piccola ferita e che gocciola sul libro di poesie del signor Emerson rilegato in stoffa. Con grande sorpresa dell'amica, e propria, comincia a piangere in silenzio e senza alcuna ragione. Lui si sveglia lentamente, confuso, intorpidito, con il vago ricordo di essersi addormentato sul velluto. Si sente intensamente miserabile, legato al tetto con funi d'acciaio e i ricordi aggiungono nausea alla sua miseria, solidificandosi viscosamente attorno alle mani nude e alla nuca mentre lui raggiunge lo stato di veglia. Lo stomaco gli si contorce con le sue sozzure. Con la cautela del malato cronico, solleva le palpebre, facendo attenzione a non muoversi, persino a non mettere a fuoco le cose, finché... pensa tra sé... il letto non cessa di sostenerlo con la forza dell'Inferno e quell'intensa e miserabile nausea non scompare, non si placa... Oscurità. Nessun respiro. Uno spiraglio di luce, un muro di pietra. Pensa: "Sono morto e sepolto, morto e sepolto, morto e..." Con infinita attenzione tenta di respirare, certo che questa volta sarà facile; sarà paziente, discreto, sensato, non lo farà tutto in una volta... Vomita. Deglutisce spasmodicamente, grida, e vomita di nuovo, sollevandosi convulsamente sulle ginocchia e lanciandosi al di là del basso muro vicino al letto, soffrendo come se respirasse sabbia. Comincia a sudare. Il battito cardiaco ritorna, poi ritornano le pulsazioni, la vista, l'udito, può deglutire... Alta sulla parete, una finestra luccica, fuori c'è una stella, il cielo della sera è di un blu pallido. Tremante di nausea, si alza, vacilla un po' al buio, poi allunga un braccio e si appoggia al muro di pietra. Vede la finestra, vede la porta davanti a sé. Nei suoi occhi lacrimosi la stella s'accende di colpo e assume la forma allungata di un coltello; gli gira la testa, il cuore gli duole come quello di un uomo; si copre il viso con le mani, desiderando che gli ritorni la vita, la forza, lo schiacciante flusso di forza che raggiungerà il culmine all'alba, lasciandolo rabbioso contro il mondo e pronto a uccidere chiunque, totalmente fiero e sprezzante, costretto al sonno come ultima risorsa di un assassino braccato. Ma è difficile reggersi in piedi, difficile respirare: «Vorrei essere morto e sepolto, morto e sepolto, morto e sepolto... Ma ecco!» mormora a se stesso come in un incanto.
«Ecco, va, si allontana». Sorride scaltramente alle socievoli e misericordiose pareti di pietra. Con un passo che senza volerlo è silenzioso, si dirige verso la porta, apre il cancello di ferro ed esce. La vita sta tornando. Gli alberi sono neri contro il cielo che ancora trattiene una vaga luminosità; in lontananza, a occidente, giacciono le raggianti memorie di un sole scomparso. Un sole scomparso per sempre. «Vivo!» grida, trionfante. È, come sempre, la prima parola della sua giornata. La cara Emily, la dolce Emily, conobbe Martin Guevara tre giorni dopo il suo ritorno a casa. Le avevano mostrato le piante del giardino e quelle di casa e lei le aveva apprezzate; le avevano fatto vedere le fotografie e lei le aveva apprezzate; aveva sfiorato i coprischienali, aveva promesso di lavorare con i ferri, aveva emesso esclamazioni di stupore davanti alle lampade a gas e trascorso due serate in casa a non fare niente. Poi, nel corridoio che conduce alla dispensa, il dolce Will le aveva preso la mano e lei aveva abbassato lo sguardo perché era ciò che ci si aspettava da lei e perché era nel suo stile. Charlotte, che dormiva nella stessa stanza dell'amica, l'abbracciò quando fu l'ora di andare a letto, si commosse quando Emily le parlò della stretta di mano ed Emily disse allora alla cara, cara amica (senza pensarci): «Il dolce William.» Charlotte si mise a ridere. «Non è uno scherzo!» disse Emily. «È così divertente.» «Amo teneramente Will.» Emily si chiese se Dio l'avrebbe fulminata per quell'ipocrisia. Charlotte la stava guardando con un'aria strana, sorridendo. «Non devi essere frivola» disse Emily, irritata. E fu allora che il dolce Will entrò e annunciò il garden-party del giorno dopo, presente tutta la congregazione del padre di Emily. Erano fortunati, disse, ad avere conoscenze del genere. Charlotte uscì discretamente dalla stanza e Will, vedendo che erano soli, tentò di nuovo di prendere la mano di Emily. «Lasciatemi sola!» disse lei, arrabbiata. Lui la fissò. «Ho detto di lasciarmi sola!» E gli lanciò un'occhiata tale che Will obbedì. Emily vede Guevara in fondo al salotto, vicino all'orribile divano rosso ciliegia, che parla animatamente. A riposo, lui è smilzo, anonimo e senza svolazzi, ma nessuno lo vedrà mai a riposo, Emily lo capisce. La sua stra-
tegia è di non riposare mai, di stupire. «Ti schiaffeggerebbe» pensa «solo per confonderti e quando non può è sempre fuori portata, litigioso, e ti fa sembrare ridicolo». Emily non conosce nessuno e si annoia; si dirige verso la porta del giardino. Sulla porta, la mano di Guevara le stringe il polso; è riuscito a precederla. «La signora della casa» dice. «Di ritorno dalla scuola.» «E avete imparato...?» «Lasciatemi andare, vi prego.» «Mai.» Lui le lascia la mano ma si piazza sulla soglia. «Voglio uscire» dice Emily. «Mai». «Chiamerò mio padre.» «Fatelo.» Lei tenta ma non riesce a parlare. "Non mi preoccuperei" pensa ed esce in giardino con lui. Sotto gli alberi, la semplicità di Guevara svanisce come fumo. «Volete una limonata?» dice lui. «Non ho intenzione di parlarvi» ribatte lei. «Parlerò con Will. Sì! Lo metterò...» «Nei guai» dice il signor Guevara, tornando silenziosamente con un bicchiere di limonata. «No, grazie.» «Lei vuole andarsene» dice Martin Guevara. «Lo so.» «Se avessi il vostro modo di camminare da gatto» osserva lei «potrei sfuggire a qualsiasi cosa.» «Io posso sfuggire a qualsiasi cosa» afferma il gentiluomo, porgendo a Emily il bicchiere. «A un fidanzamento, a una difficoltà. Posso persino farvi fuggire da qualsiasi cosa.» «Vi disprezzo» mormora all'improvviso Emily. «Camminate come un gatto. Siete orribile». «Non qui fuori» osserva lui. «Chi deve temere le luci?» grida Emily. Lui si sposta dalle lanterne di carta appese tra gli alberi, bello, a suo agio e padrone di sé, e guarda la mano di Emily che stringe il bicchiere, tremante. «Non riesco a muovermi» dice lei, miseramente. «Provate.» Emily fa un passo verso di lui. «Vedete che potete.» «Ma io volevo andarmene!» Improvvisamente isterica, Emily gli lancia
sul viso la limonata, bicchiere compreso, ma lui non è più lì. «Che cosa ci fate a una cena di chiesa, ipocrita» grida lei, in lacrime, al nulla. Il dolce William deve condurla a letto. «Ci avete ripensato» osserva Martin, la testa incorniciata in una finestra serale, un rumore di passi all'esterno, il ticchettio di tacchi da donna sulle strade. «Non vi conosco» dice tristemente lei. «Proprio non vi conosco.» Lui le prende lo scialle di cashmere indiano. «Quello verrà» dice, sorridendo. Si siede di nuovo, le prende la mano e gliela stringe all'altezza del polso. «Mi lasciate andare, per favore?» supplica lei, come una bambina. «Non lo so.» «Parlate come i furbi gentiluomini di Andover; erano tutti degli sciocchi.» «Forse li avete impauriti.» Lui si sporge in avanti e per un momento le mette le mani dietro il collo. «Andiamo, cara» «Di che cosa parlate!» grida Emily. «San Francisco è una bella città. Ho avuto degli antenati qui trecento anni fa.» «Non penserete che per il fatto di essere venuta qui...» «Lei no» mormora lui, prendendola per una spalla. «Lei non sa niente.» «Dio vi maledica!» Lui sbatte le palpebre e si siede di nuovo. Emily piange. La confusione della stanza... una camera d'albergo eccessivamente ammobiliata e piena di drappeggi... le dà sui nervi. Fa per prendere lo scialle che è ancora nelle sue mani, ma lui lo tiene fuori dalla sua portata e reclina ora da una parte ora dall'altra il viso bello e innaturalmente giovane mentre lei cerca di raggiungerlo. Gli cade in grembo e vi rimane, ansimante di terrore. «Siete freddo» mormora, in preda all'orrore. «Siete freddo come un cadavere.» Lo scialle le scende leggermente sulla testa e sulle spalle. Le mani gelide l'aiutano a rialzarsi. Lui è deliziato; scopre i denti in un sorriso. «Credo» azzarda «che verrò a fare visita alla vostra famiglia». «Ma non potete...» balbetta lei. «Non volete... dormire con me. Lo so.» «Posso essere un corteggiatore come chiunque altro» dice lui. Quella sera, Emily racconta tutto a Charlotte che, timorosa del libertino, rimane sveglia a leggere un romanzo francese mentre la luce abbandona le finestre per lasciare il posto alla nera oscurità. Verso l'alba, Charlotte si as-
sopisce ed Emily sveglia l'amica, inginocchiandosi accanto al letto con gli occhi azzurri e innocenti che riflettono la notte morente. «Ho fatto un sogno terribile» si lamenta. «Hmmmm?» «Ho sognato» dice stancamente Emily. «Ho avuto un incubo. Ho sognato che camminavo sulla spiaggia e decidevo di fare una nuotata e poi una... una cosa... non so... mi ha preso per il collo.» «Tutto qui?» domanda Charlotte, irritata. «Mi sento male» confessa Emily con infantile soddisfazione. Spinge Charlotte più in là e s'infila nel letto con lei. «Non dovrò rivedere quell'uomo se sono malata.» «Be', perché no?» borbotta Charlotte. «Perché dovrò rimanere in casa.» «Verrà a trovarti.» «William non glielo permetterà». «Malata?» dice allora Charlotte, improvvisamente sveglia. Si scosta dall'amica perché ha letto più cattivi romanzi di Emily e meno poesie morali. «Sì, mi sento malissimo» risponde semplicemente Emily, appoggiando la testa alle ginocchia. E si scansa, stanca e irritata, quando l'amica le tocca il colletto della camicia da notte. Ma Charlotte guarda e balza giù dal letto. «Oh» dice. «Oh, Dio... oh...» ripete, tenendo le mani. «Che cosa ti succede?» «Lui è...» mormora Charlotte, inorridita. «È...» Nella debole luce, le sue mani sono nere di sangue. «Sei venuta» dice lui, seduto sul divano da albergo, mentre legge il giornale, i piedi su un bracciolo, una mano penzoloni sul tappeto. «Sì» risponde lei, tremante. «Non avrei mai pensato che questo posto sarebbe servito a uno scopo così buono. Ma non so mai quando riesco ad avere denaro...» Con un gesto della mano, lei gli fa volare via il giornale; lui rimane seduto sul divano, divertito. «Nessuno sa che sono venuta» dice in fretta lei. «Ma ho intenzione di distruggerti. So come.» Fruga febbrilmente nella borsetta. «Io non lo farei» osserva lui, calmo. «Ah!» Lei tira fuori la sua piccola croce d'argento e gliela mette davanti come Giovanna d'Arco. Lui è ancora divertito, ancora moderatamente sorpreso.
«Nelle tue mani?» dice, con delicatezza. Le dita di Emily stanno allentando la presa, il suo viso è pietoso. «Mia cara, il significato è nel sentimento, nella fede, non nel simbolo. Tu te ne servi come ti serviresti di un ago ipodermico. Nelle mani di tuo padre, forse...» «Mi è caduta» dice lei, con un filo di voce. Lui la raccoglie e gliela riconsegna. «Puoi toccarla...» osserva lei, il viso inondato di lacrime. «Sì.» «Oh, mio Dio!» grida lei, disperata. «Mia cara.» Lui le mette un braccio attorno alle spalle e la stringe a sé. È un uomo troppo forte perché lei possa liberarsene. «Quante volte te lo devo dire? Ma imparerai. Assomiglio forse agli sciocchi ragazzi di Andover?» Emily ha lo sguardo fisso e la gola chiusa; lui la costringe a piegare la testa tra le ginocchia. «Da come ti comporti, uno direbbe che non ho avuto fortuna.» «Io... io..» «E senza la completa mancanza di cervello che caratterizza la tua amica. Sarà lavoro breve di qualcun altro, lei, e penso di sapere di chi.» Emily diventa di nuovo bianca. «Te la rimanderò dopo. Buon Dio! Che cosa pensi che accadrà?» sorride lui. «Morirà» dice chiaramente Emily. Lui la prende per le spalle. «Ah» dice lui con immensa soddisfazione. «E dopo? Chi vive per sempre, dopo? Lo sai?» «Sì, gente come voi non muore» mormora Emily. «Ma voi non siete gente...» «No», dice lui, con intensità. «No, non lo siamo.» Fa alzare Emily in piedi. «Siamo passione!» Sorridendo con aria di trionfo le mette le mani ai lati della testa, appiattendole i riccioli, affondando le dita nei capelli, e stringe Emily in una morsa che lei non potrebbe mai combattere. «Siamo passione» mormora divertito. «La vita è passione. Il desiderio fa vivere.» «Lasciami andare» dice Emily. Lui sorride estatico davanti al malessere della ragazza. «Il desiderio» dice, sognante «vive. Vive quando non vive altro, e noi siamo desiderio puro, desiderio che cammina per la terra. Può un uomo morto camminare? Ah! Se tu volessi, se tu volessi, se tu volessi...»
La prende tra le braccia, le stringe la testa al petto e quasi la soffoca, scompigliandole l'elaborata pettinatura, schiacciandole i merletti attorno alla gola. Emily non respira nulla di lui; completa assenza di odore, o di calore, o di presenza; ha la bocca premuta contro il tessuto del suo vestito alla moda, costoso, da un buon dollaro al metro, preso da... Che cosa? Ma le sue mani sono così forti che possono prendere tutto. «Vedi» dice gentilmente lui «godo nel possedere qualcuno dotato di intelligenza, perfino di morale. Aggiunge un certo... E poi...» La lascia e le solleva il viso «... amiamo le anime che vengono a noi, quelle visite nelle camere da letto di ignari cittadini sono un po' come tante visite a un pubblico bordello.» «Ti detesto» riesce a dire Emily. Lui ride. È deliziato. «Sì, sì, cara» dice. «Ma non pensare che siamo parassiti incalliti. Seguaci del Marchese de Sade, forse... San Francisco ha ore serali per i suoi negozi!... ma siamo anime sensibili, davvero, e soggette a desiderare compagnia consapevole.» Emily chiude gli occhi. «Ti ho detto» continua lui, con un tocco di durezza «che sono un autentico seduttore. Mi lusingo di pensare che non sono un animale.» «Sei un mostro» dice Emily, con convinzione. Tenendo una mano sulla sua spalla, lui fa un passo indietro. «Va». Emily non si muove, incapace di credere alla propria fortuna, poi fa una specie di corsa verso la porta, ma soltanto per ritrovarsi nelle sue braccia. «Vedi?» Lui è compiaciuto. Ha dimostrato uno dei punti a favore. «Non posso» dice lei, con gli occhi spalancati, la fronte aggrottata... «Lo farai.» Lui si china e lei sviene. Sprofonda in un buio dove amore e altre cose si creano un proprio nascondiglio, Emily fluttua senza meta, sola, fredda, come una donna morta e senza quel tanto di passione nell'anima che la farebbe tornare viva. Apre gli occhi e si ritrova a fissare il suo viso nel buio come se fosse dotato di luce propria. «Morirò» dice dolcemente. «No» per un po'» bofonchia lui, rilassato e contento. «Mi hai uccisa» «Ti ho amata». «Amore!» dice lei con faticosissima ironia. «Di presa, allora, se insisti.»
«Insisto! Insisto!» grida amaramente lei. «Hai deciso tu di svenire.» «Oh, l'inferno ti inghiotta!» strilla Emily. «Buona, ragazza!» E quando lei scoppia in lacrime isteriche: «Su, su, andiamo, cara...» le dice, sfiorandole il collo martoriato. Glielo bacia, teneramente, con un sospiro perfino esagerato. Emily vuole scostarsi, ma lui la tiene stretta e quando dischiude le labbra i suoi denti animati da disumano e mortale desiderio, la sua vittima scopre, con sorpresa, che non c'è dolore. Si irrigidisce e poi, inaspettatamente, rabbrividisce dalla testa ai piedi. «Basta!» mormora, inorridita. «Basta! Basta!» Ma un vampiro che ha trovato l'anima gemella, anche se temporaneamente sarà un vampiro smodato. Non c'è modo di fermarlo. I libri di Charlotte non l'hanno preparata a questo. «Te ne starai in casa, mia cara, perché sei malata.» «Non sono malata» dice Emily, tirandosi le lenzuola fin sotto il mento. «Certo che lo sei.» Il Reverendo le sorride da sotto il ritratto della madre morta di Emily appeso nella stanza. «Hai una brutta influenza.» «Ma io devo uscire!» dice Emily, mettendosi a sedere. «Ho un appuntamento.» «Non adesso» dice il Reverendo. «Ma non posso avere l'influenza d'estate!» «Sei proprio come tua madre» dice il Reverendo, divertito. Dopo che se ne è andato, entra Charlotte. «Devo starmene in questo maledetto letto» si lamenta Emily, torcendo gli alluci sotto le lenzuola. Charlotte, che ha un vassoio con tè e mazzolino di fiori, deposita il tutto sul comodino. «Coraggio Emily!» «Devo starmene in questo maledetto letto per tutto il maledetto giorno» insiste Emily. «Perché usi parole simili, cara?» «Perché tutto il mondo è maledetto!» Dopo che ebbe sbrigato le incombenze del suo lavoro, alle sei di un mercoledì, William venne alla casa con un dottore e lo presentò al Reverendo e all'amica del cuore di Emily. Mancava ancora un'ora all'accensione dei lampioni stradali, ma il sole era già calato e il gruppetto era radunato nel giardino, sotto i resti delle ultime lampade di carta giapponesi. Nessu-
no si preoccupava che potessero prendere fuoco. Lucy portò il tè... erano uno dei pochi circoli civilizzati di Frisco... e davanti al tè, nel giardino ormai in ombra e con un accompagnamento di mollette per lo zucchero e di cucchiaiate di crema, un insieme a modo suo molto musicale, parlarono. «Pensate» dice il Reverendo, molto preoccupato «che sia consunzione?» «Forse si tratta di una malattia dei polmoni» dice il dottore. «È sempre stata una ragazza robusta» interviene William, deponendo la teiera con il manico atermico. Charlotte sta girando il suo tè con il cucchiaino. «È molto strano» dice serenamente il dottore, e ripete: «È molto strano» mentre le ombre avanzano nel giardino. «Ma le giovani signore, sapete... specialmente a vent'anni... le giovani signore spesso si mettono delle strane idee nella testa; lo fanno, lo fanno spesso; si abbattono; si preoccupano.» I suoi occhi sono miti, le sue spalle s'incurvano, sente il piacevole gorgoglio di altro tè. Un tranquillo consulto, buona gente, buona e solida gente, una piccola malattia, niente di serio... «No» dice Charlotte. Nessuno l'ascolta. «Ho conosciuto una giovane signora, una volta...» azzarda il dottore, mite. «No» dice Charlotte, a voce più alta. Tutti si voltano verso di lei, e Lucy, cogliendo l'occasione, insinua un piatto di tartine davanti a Charlotte. «Potrei dirvi io di che cosa si tratta» mormora Charlotte, guardando tutti da sotto le sopracciglia. «Ma vi mettereste a ridere.» «Cara...» dice il Reverendo. «Signorina...» gli fa eco il dottore. «Come amico...» s'accoda William. Charlotte comincia a singhiozzare. «Oh» dice. «Io... io... vi dirò tutto.» Emily incontra il signor Guevara alla Mansion House, alle sette. Ha ripreso un aspetto fisico sufficientemente sano, per autonegazione, e ha trascorso un considerevole numero di serate in casa... per autocontrollo. È ferma davanti alla cancellata dell'albergo, con la schiena rigida come un bastone, guanti bianchi. Martin si materializza dalle ombre della sera e le prende un braccio. «Mi piacerà vivere in eterno» dice Emily, pensierosa. «Dio mi fa provenire dai Puritani!» dice il signor Guevara. «Che cosa?» «Sei una signora. Mi divoreresti.»
«Faccio quello che mi piace» osserva Emily, sulle sue, con un luccichio di denti. «Ah...» «Già.» Superano la cancellata. «A te non importa nulla di me.» «Sfortunatamente» dice lui, inchinandosi. «Non tanto sfortunatamente, dal momento che a me importa di te» dice Emily, sorridendo con grande energia. «Accidenti a tutti loro.» «Voi ragazze capovolgerete il mondo.» Camminano nella sera in un quieto e rispettabile fruscio di vestiti. A mezza strada dal ristorante, lei si ferma e dice, senza fiato: «Andiamo.. da qualche altra parte!» «Mia cara, ti rovinerai la salute!» «La sai lunga. Tre settimane fa, ero malata come un cane e non te ne preoccupavi. Non dormo da giorni e sto bene.» «Hai un bell'aspetto». «Ah! Forse intendi dire che comincio a sembrare morta, come te.» Emily gli stringe il braccio per attirarlo più vicino. «Morta?» dice lui, passandole un braccio attorno. «Fatta. Cotta. Sempre alla stessa temperatura e senza mai un momento di riposo.» «D'accordo con te.» «Ti adoro» dice lei. Quando Emily torna a casa, c'è una riunione. Il Reverendo è fermo sulla soglia e anche il triste William, ma non Charlotte. Lei è in salotto, distesa sul sofà, in preda a una crisi isterica. «Cara Emily» esordisce il Reverendo. «Non sappiamo come dirtelo...» «Che cosa, papa?» esclama Emily, mostrandogli due occhioni. «La tua piccola amica ci ha detto....» «È accaduto qualcosa a Charlotte?» grida Emily. «Oh, ditemi, ditemi, che cosa è accaduto a Charlotte?» E prima che gli altri possano fermarla, si precipita in salotto e s'inginocchia accanto all'amica, domandandosi se sia il caso di pizzicarla sotto lo scialle. Rapido come un fulmine, William viene a inginocchiarsi al suo fianco. Papà all'altro. «Cara Emily!» prorompe con fervoie William. «Stai bene!» grida Emily, singhiozzando sulla spalla di Charlotte e domandandosi se non sia il caso di morderla. Ma le braccia del Reverendo la sollevano. «Mia cara» dice «sei tornata a casa da sola. Non sei stata alla Società.»
«Due delle ragazze» dice Emily con uno smagliante sorriso, «hanno portato a casa tutto il mio cucito d'ospedale perché dobbiamo finirlo in fretta e io non ho..» «Ci hai mentito» dice il Reverendo. "Adesso" pensa Emily "Dolce William si coprirà la faccia". Charlotte singhiozza. «Non può farci niente» dice con voce rotta. «È l'incantesimo.» «Ehi, penso che siate fuori di mente tutti» dice Emily, corrugando la fronte. Dolce William l'allontana da papà e da Charlotte. «Non eravate forse con un gentiluomo, questa sera?» dice con fermezza Dolce William. Emily arretra. «Vergogna!» sibila Dolce Will. «Non se ne ricorda» spiega Charlotte. «Fa parte dell'incantesimo che lui le ha lanciato.» «Penso che dobbiate chiamare un dottore, ma per lei» osserva Emily. «Eravate con un gentiluomo di nome Guevara» dice Will, mostrando meno tenerezza di quanto Emily si aspetti. «Non è vero? Be'... non è vero?» «Peggio per voi se c'ero!» scatta Emily, sorpresa lei stessa di sé. Gli altri tre sussultano. «Non voglio essere interrogata» prosegue Emily «né spiata. E penso che fareste bene a privare Charlotte di qualcuno dei suoi libri. Sta diventando una sciocca.» «Siete troppo colorita» dice Will, prendendole le mani. «Siete malata e non dormite. State sveglia tutta la notte. Non mangiate. E guardatevi!». «Non vi capisco. Volete che sia brutta?» dice Emily, cercando di suscitare compassione. Will s'addolcise. Emily se ne accorge. «Mia cara Emily» dice lui. «Mia cara ragazza... siamo tutti preoccupati per voi.» «Per me?» dice Emily, gongolando. «Faremmo meglio a metterti a letto» interviene con dolcezza il Reverendo. «Sei molto gentile» mormora Emily, sbattendo le palpebre come per ricacciare indietro le lacrime. «Brava ragazza» dice Will, approvando. «Sappiamo che non capite, ma ci prendiamo cura di voi, Emily. «Davvero?» «Sì, cara. Vi siete avvicinata a un grande pericolo, ma fortunatamente noi l'abbiamo scoperto e sappiamo che cosa fare. Vi faremo stare bene, vi terremo al sicuro, vi...»
«Non lo farete con quello» dice all'improvviso Emily, voltandosi e vedendo William prendere dalla tasca della giacca da camera, dove lui tiene di solito l'orologio, una foglia larga e spinosa di aconito. Dovrebbe mettere a disagio qualsiasi vampiro di buon senso sapersi così schiavo di una pura superstizione. Cionondimeno, i vampiri sono schiavi. «Oh, no!» dice Emily. «È sciocco! Sciocco!» «In un momento di crisi come questo, il senso comune deve cedere» osserva gravemente il Reverendo. «Bastardo!» strilla Emily, diventando rossa, cercando di strappare l'amuleto dalla mano del fidanzato e di saltarci sopra con i piedi. Ma il Reverendo le ferma un braccio, Charlotte l'altro e, fra tutti e due, le allargano le dita perché William possa riprendersi la sua proprietà e rimettersela in tasca. «È a uno stadio avanzato» dice il Reverendo, impaurito. Emily ha uno sguardo torvo. Charlotte le accarezza i capelli. «Ssss..» dice Will, molto serio. «Dobbiamo metterla a letto» e, fra tutti e tre, un po' trasportano, un po' trascinano Emily su per le scale e la mettono, vestita com'è, nel grande letto doppio con la testiera di velluto che Emily solitamente divide con Charlotte. Papà e fidanzato si ritirano nella stanza al di là del lungo ingresso, a confabulare, e Charlotte siede di fianco al letto della sua ribelle amica e cerca di tenerle la mano. «Non lo permetterò. Sei una maledetta sciocca!» dice Emily. «Oh, Emmy.» «Sciocchezze.» «È vero!» «Sì?» Con straordinaria agilità, Emily si gira nel letto e si solleva sulle ginocchia. «Ne sai qualcosa, tu?» «So che è orribile. Io...» «Sciocca!» Come per gioco, Emily mette le mani sulle spalle di Charlotte. Ha gli occhi che sembrano due fessure, le narici dilatate per respirare. Dischiude leggermente le labbra e guarda maliziosamente l'amica. «Non sai niente» dice, insinuante. «Chiamo tuo padre» si affretta a dire Charlotte. Emily mette un braccio attorno al collo dell'amica «Non ancora! Cara Charlotte» sussurra. «Ti salveremo» dice Charlotte, dubbiosa. «Dolce Charlie... Tu sei mia amica, non è vero?» Charlotte ricomincia a singhiozzare. «Dammi quelle maledette cose, quelle foglie.»
«Non potrei, Emily.» «Ma lui è venuto per me e io devo proteggermi, no?» «Chiamo tuo padre» dice con fermezza Charlotte. «No, ho paura». Emily aggrotta tristemente la fronte. «Be'...» «A volte, io... io.» cincischia Emily. «Non posso muovermi o correre via e tutto sembra così... così strano e orribile..» «Oh, tieni!» Coprendosi il viso con una mano, Charlotte le porge le sue preziose foglie con l'altra. «Cara, cara! Oh, dolce! Grazie! Non temere. Non è qui per te.» «Spero di no» dice l'amica del cuore. «Oh, no, me l'ha detto lui. È me che vuole.» «Spaventoso» dice Charlotte con sincerità. «Sì» dice Emily. «Guarda.» Si tira giù il collo del vestito per farle vedere i brutti segni, bianchi e innaturalmente cicatrizzati, simili alle punture di un drogato. «No!» esclama Charlotte, con voce strozzata. Emily sorride tristemente. «Be, dovremmo spegnere la luce», dice. «Spegnere!» «Sì, potrai vederlo meglio. Se le luci sono accese, lui può entrare qui dentro senza essere visto. Le luci non sono un problema per lui.» «Non so, cara...» «Io lo so.» Facendosi scudo con la gonna, Emily lascia cadere le foglie di lapazio nel lavandino. «Ho paura. Ti prego.» «Be'...» tergiversa Charlotte. «Oh, devi!» Emily balza in piedi e abbassa il gas al minimo. Il viso di Charlotte si dissolve nell'oscurità. «Ecco. Le luci sono spente» dice quietamente Emily. «Chiedo a Will...» comincia Charlotte. «No, cara.» «Sta arrivando, cara.» «Vuoi dire Will?» «No, non Will.» «Emily, sei una...» «Sono una codarda» dice Emily, ridacchiando. «Ssss!» E mentre la sua amica siede come paralizzata, una delle finestre si spalanca alla brezza notturna, una finestra che gira su un cardine perché il Reverendo è un amante della cultura e dell'architettura antiche. Charlotte emette un suono strozza-
to; e poi... con lo schiocco di un colpo di pistola.. la lampada s'infrange e la fiammella si spegne del tutto. Il gas sibila nell'aria, quieto, insinuante, come dispiegando la stessa mortale voluta più volte. Charlotte ansima, rantola. Nel buio, una mano si chiude come una morsa attorno al polso di Emily. Trascorre un momento. «Charlotte?» bisbiglia Emily. «Morta» dice Guevara. Emily ha trascorso la maggior parte del giorno tra le rovine, con il soprabito di Guevara arrotolato sotto la testa, là dove lui l'ha lanciato un momento prima del sorgere del sole, un momento prima di raggiungere barcollando il suo posto e sprofondare nel sonno. È rimasta a osservare l'alba sorgere dietro le sbarre arrugginite del cancello e poi si è addormentata anche lei con il viso di Guevara davanti agli occhi chiusi, un viso bruciante di una rigida, imbrigliata, inesauribile vitalità. Ora si sveglia dolorante e contusa, con il sole del tardo pomeriggio in faccia. Seduta contro il muro di pietra, starnutisce due volte e cerca senza risultato di scuotersi la polvere dalla gonna di seta. "Oh, che disastro" pensa vagamente. Si alza. "C'è qualcosa che devo fare". Il cancello di ferro si spalanca non appena lo tocca. "Alberi e pietre tombali rovesciate da tutte le parti. Che cosa ha detto? Niente avrebbe creato problemi tranne una Società Storica" Riordinatasi alla bell'e meglio, con il soprabito di Guevara sul braccio e l'indirizzo del sarto in tasca, s'incammina tra le pietre divelte, sparse da tutte le parti come dopo un terremoto. Ha goccioline di sangue — quello di Charlotte, alla quale lei non pensa — tra i capelli e sull'orlo del vestito, ma è bene pettinata, nonostante l'assenza di uno specchio, e il vestito è di un colore grigio scuro; lì attorno non c'è che polvere. Fa un involto stretto del soprabito e se ne serve per togliersi la polvere dalle scarpe. Rallenta il passo all'entrata del cimitero, cercando di apparire in buone condizioni e rispettabile. È invece tutta dolorante per avere dormito sul terreno. Una volta in città e avendo avuto la conferma della vetrina di un negozio di potere passare inosservata tra la gente, Emily sale e scende colline e cerca il sarto, la prova sul braccio. Si ferma ad altre vetrine, per guardare o guardarsi; pensa vagamente al suo migliorato colorito; sposta il pacco da sé per osservarsi la linea. In una vetrina c'è un'esposizione di oggetti religiosi: croci e rosari, libri con fregi dorati, una cromolitografia di Madonna con Bambino. È in questa vetrina che Emily si ammira.
«Emily, cara!» Una certa signora L. appare nella vetrina, accanto a lei. C'è anche Constantia, la figlia dodicenne della signora L. «Ma che cosa vi è accaduto, cara?» dice la signora L., notando che Emily non ha cappellino, né guanti, né veletta. «Nulla. E a voi che cos'è accaduto?» dice Emily, civettuola. Constantia sgrana gli occhi per lo stupore davanti a tanta audacia. «Be', avete l'aria di essere sta...» «A un picnic» dice prontamente Emily. «Uno dei gentiluomini si è versato della birra sul soprabito.» Ed è già nel negozio, appoggiata al banco, rossa in viso, contando con le dita le perline di corallo e d'ambra incastonate in un crocifisso. La signora L. bussa dubbiosa sulla vetrina. Emily saluta con la mano e sorride. "Vostro padre" formano le labbra della signora L. nel vetro. Emily annuisce e saluta gaiamente. Madre e figlia se ne vanno, finalmente. «Un distinto gentiluomo» dice convinto il sarto. «Un uomo davvero molto distinto.» Parla un po' bleso. «Oh, molto distinto» conferma Emily, sedendosi su uno sgabello e scalciandone i piuoli con i piedi. «Mostruosamente distinto.» «Ma molto disattento» dice il sarto, con irritazione, avvicinando il soprabito di Martin alla finestra per poterlo vedere meglio. Il negozio è un buco di negozio, buio. «Non dovrebbe mandare una signora da queste parti della città.» «Una volta ero una signora» dice Emily. «Mmmm..» «Sono macchie di frutta... brutte, non pensate?» «Non potrò riconsegnarvelo per questa sera» dice il sarto, sollevando la testa. «Be', dovete» dice Emily, calma. «L'avete sempre fatto e lui ha molta fiducia in voi, lo sapete. Si arrabbierebbe se lo scoprisse.» «Scoprisse che cosa?» «Che non potete prepararglielo per questa sera.» Il sarto riflette. «Aspetterò qui mentre ci lavorate» dice Emily, in tono adulatorio.
«L'ho vista in King Street, Reverendo, sporca come una zingara, con i capelli sciolti e gli occhi da selvaggia. Ho cercato di parlarle, ma lei è fuggita via in un negozio...» Il sole scende in una vasta fascia dorata, dietro l'oceano, dietro le colline e le spiagge, allunga le ombre nella strada vicino al porto dove un sarto che parla bleso liscia, modifica, lavora contro il sole ... ed è anche molto a disagio... osservato da un paio d'occhi fissi che luccicano un po' nella penombra del negozio pieno zeppo di roba. "Penso di essere cambiata" medita Emily. Lui finisce, finalmente, con sollievo, e si siede con un ouf! porgendole il soprabito, il nuovo e bel soprabito che presto sarà indossato dall'eccentrico gentiluomo quando uscirà a prendere l'aria della sera. «L'eccentrico gentiluomo» dice incautamente Emily «uscirà tra un'ora, alla Mansion House, quando l'ultima luce del giorno sarà scomparsa dal cielo.» «Allora, mia cara signorina» dice il sarto, untuosamente, «penso alla piccola faccenda del costo per il lavoro effettuato...» «Voi non pensate» dice Emily, in tono sommesso, «o non avreste commesso la sciocchezza di diventare il sarto di questo eccentrico gentiluomo.» E se ne va. Adesso nessuno vede le macchie sulla gonna di Emily o nei suoi capelli; nelle strade stanno accendendo i lampioni, non ci sono più carrozze, e c'è sempre più gente che cammina a piedi. San Francisco sfrutta al massimo le sue brevi notti estive. Forse quindici minuti prima, nella parte elegante della città, qualcuno può avere notato che Emily è senza cappellino, senza scialle, e può averla guardata con disdegno. Qui non la nota nessuno. Emily percorre una strada dopo l'altra, toccandosi la gola con le dita, sonnolenta, guardando il cielo, pensando: "Amo, amo, amo..." Non ha mangiato in tutto il giorno, ma si sente bene. Si sente infervorata dentro, infervorata come se la sua vita interiore stesse fiorendo e agitandosi, popolata come le strade. Ricorda... "Ti amo. Ti odio. Il tuo incantesimo, la tua degradante necessità, la tua pazza e sporca vita, la tua promessa di amore eterno e tempo eterno..." Quali parole da dire con Charlotte addormentata nella stessa stanza, no, nello stesso letto, con le mani giunte sotto la faccia! Innocente dolcezza, la cui condizione adesso potrebbe essere assai diversa. Sale su per le colline, dove la vita diventa più ampia, e le luci sono disseminate come candele su una torta, in quartieri dove è troppo pericoloso,
troppo basso, troppo furtivo intrattenersi con una signora; in stradine secondarie dove marinai in partenza le si mettono al fianco, la prendono per un braccio. Lei sguscia via con insolita energia, cerca rifugio nell'ombra, ride loro in faccia. «Ho quello che voglio» grida allegra. «Non uno come me!» «Meglio!» Questa è la Costa dei Barbari, al suo esordio come attrazione turistica. Ci sono strilloni fuori dai ristoranti che reclamizzano belle ragazze, sale da ballo, cartelloni luminosi grandi due volte un uomo, folle dopo folle di gente, una o due guide con biglietti nei cappelli, e c'è Emily... che si tiene nell'ombra. Quasi soffoca dal gran ridere. "Che campo di grano maturo!" pensa "tutto da raccogliere!" Uno degli strilloni la prende per la vita e la solleva sulla sua piattaforma. «Vedete questa piccola signora? Vedete questa...» «Mettimi giù, maledetto!» strilla lei, indignata. «Questa piccola e arrabbiata signora...» Lui le torce il viso con la mano abbronzata. Vuole che guardi la folla. «Questa...» Ma Emily si ribella, colpisce, gli strazia la mano con i denti, quasi compiaciuta con se stessa, ma sorpresa, anche, perché l'uomo adesso si tiene la mano ferita e tutta la scena sembra svolgersi per conto suo. Ne approfitta e fugge tra la folla e continua a correre per la Costa, per il vecchio Tenderloin, ubriaca di fiducia in se stessa, sgusciando come un'ombra in strade ora eleganti e raggiungendo la cancellata della Mansion House senza scorgere spie di famiglia, convinta che nessuno l'abbia vista. Ma nessuno è lì. L'orologio batte le dieci e non c'è nessuno; le undici, e ancora nessuno. «Perché non ho abbandonato questa vita quando ne ho avuto la possibilità?» pensa. Una sola cosa consola Emily, che per una qualche alchimia o vicinanza alla condizione alla quale lei anela, nessuno la importuna o le fa domande. Perfino il poliziotto le passa davanti come se nell'angolino in ombra in cui lei si è rifugiata non ci fosse nessuno. Mezzanotte e ancora niente, mezzanotte e mezza ed Emily sonnecchia; forse tre ore dopo, o quattro, si sveglia per un rumore di passi. Apre gli occhi: nessuno. S'addormenta di nuovo e nel sogno ascolta i passi per la seconda volta, allora si sveglia e si ritrova a fissare il volto di una signora che porta la veletta. «Che cosa!» è il bisbiglio stupito di Emily. La signora fa un gesto vago, è come se tentasse di parlare. «Che cosa c'è?» chiede ancora Emily.
«Non...» La signora parla infine e con sentimento, ma anche con una certa difficoltà. «Non andare a casa.» «A casa?» le fa eco Emily, stupefatta, e la sconosciuta annuisce. «In pericolo.» «Chi?» Emily è inorridita. «Lui è in pericolo.» Dietro la veletta, il viso sembra quasi emettere un debole chiarore. «Siete una di loro» dice Emily. «Non è vero?» E quando la donna annuisce, aggiunge, disperata: «Allora dovete salvarlo!» La signora sorride pietosamente. È quel poco che si vede quando la leggera brezza gioca con la veletta. «Ma voi dovete!» esclama Emily. «Voi sapete come. Io no. Dovete andare!» «Non oso» dice la signora, in tono sommesso, poi fa per andarsene ma Emily, adesso quasi isterica, la trattiene per una mano. «Chi siete? Chi siete?» La signora fa un gesto vago e scuote la testa. «Chi siete?» ripete Emily con più energia. «Ditemelo, mi sentite?» Tristemente, la signora solleva la veletta e fissa l'amica con un tragico, dignitoso e pietoso sguardo. Nell'oscurità, il suo viso splende di un innaturale e bellissimo colore. Charlotte. L'alba si annuncia con un lucore vitreo e spettrale. Lentamente, le ombre emergono dall'oscurità e l'azzurro si riversa sul mondo... l'ordine naturale si ripete. La distruzione, che è semplice, logica, e facile, scopre una specie d'irridente parodia nella creazione del mattino. Non c'è niente che chiami la luce, ma la luce ritorna. Emily arriva al cimitero proprio quando, a est, il sole trabocca, proprio quando gli uccelli... "idioti!" pensa... cominciano il loro incerto cinguettio. Si siede al cancello per un momento, per recuperare un po' di forza. La camminata notturna e la preoccupazione l'hanno provata severamente. Davanti a lei, le pietre giacciono sulle tombe, dure e reali, in attesa che il sorgere del sole le finisca e ne faccia dei capolavori. Emily si alza e s'inerpica per la collina, sempre più lentamente a mano a mano che il terreno sale verso la cima dove da trecento anni pacifici Guevara fertilizzano l'erba e fanno del loro meglio per screditare l'unico, selvaggio rampollo che ancora sopravvive, l'unico irrispettoso membro della famiglia. Compiangendosi
un po', Emily avanza lentamente, sollevando la gonna per non essere impedita dalle erbacce, e odiando con tutta l'anima la luce crescente e la felice celebrazione degli uccelli. Aggira l'ultimo tumulo e solleva gli occhi alla casa eterna dei Guevara, aspettandosi di non vedere nessuno. L'angolo della costruzione, il basso cancelletto di ferro... Davanti al cancelletto c'è Martin Guevara in mezzo al Reverendo e al dolce Dolce Will, tenuto per le braccia, pallido e bellissimo tra due croci d'bro che incominciano in quel momento a riflettere la luce del giorno. «Ci hanno presi» dice Guevara, vedendola, e il suo è un sorriso fisso, bianco. «Lasciatelo andare» dice Emily, in tono ragionevole. «Siete salva, mia Emily!» grida Dolce Will. «Lasciatelo andare!» Emily accorre, si ferma, li guarda, confusa fino al fondo della sua anima. «Lasciatelo andare» ripete. «Lasciatelo andare, lasciatelo andare!» Tra i due pezzi di gioielleria, la vita, la speranza e l'unico piacere di Emily le sorridono, il viso esangue, gli occhi disperatamente fissi a est. «Non capite» dice Emily, inventando. «Lui non è pericoloso adesso. Se lo lasciate andare, se ne correrà dentro e voi potrete tornare a qualsiasi ora del giorno per finirlo. Sto male. Voi...» Le parole le muoiono in gola. Attorno a loro, da rami che proteggono il cimitero da centinaia d'anni, gli uccelli cominciano il loro rumore mattutino. Sorge un grande alleluia. Dopotutto, loro non debbono preoccuparsene. Rigida, con le gambe come bastoni, Emily vede la luce del sole sfiorare l'orlo della pietra del mausoleo, discenderne, arrivare all'altezza di un uomo in piedi... «Ti adoro» le dice Martin. Con il lento annaspare dell'uomo che annega, si piega come colpito da un coltello; si piega, cade... Ed Emily grida. Che grido! È come se la sua anima le venisse estirpata per la gola. E corre. Corre giù per la collinetta verso zone non ancora toccate dal sole, gridando dentro: "Aiuto! aiuto! aiuto!" Sa dove può ottenerlo. A un centinaio di metri giù dalla collina, in una valletta protetta dagli alberi, schermata dai raggi del sole. E là corre, tra gli alberi, oltre la siepe che divide il vecchio dal nuovo cimitero... Charlotte è sua amica. Le vuole bene. Charlotte è nella sua nuova casa. Le darà ospitalità. Titolo originale: My Dear Emily Traduzione: Grazia Alineri
Dennis Etchison Adesso puoi andare Dennis Etchison è un antologista e scrittore i cui racconti brevi hanno avuto un rispettabile seguito negli ultimi quindici anni. Il racconto che dà il titolo alla sua prima collezione, The Dark Country, vinse nel 1982 il World Fantasy Award per il miglior racconto fantastico. È un indefesso sostenitore di horror fiction, specialmente nella sua serie antologica, The Cutting Edge (1987), dove promuove una nuova e diversa fiction. Adesso puoi andare caratterizza la sua short fiction psicologica e surreale intensa, ambigua, suggestiva. Ciò che accade, accade fra le quinte, l'horror è interno, nella mente del personaggio centrale al momento dell'intuizione, il che costituisce la storia. Il maltrattamento di donne da parte di uomini è un tema comune nell'horror contemporaneo, ma in ben pochi scritti è più esplicitamente rappresentato come in Adesso puoi andare. 1 Il ricevitore gli vibrava nella mano. Si guardò attorno, nella camera da letto, con la sensazione di essere stato svegliato da un lungo sonno senza sogni. Un clic, poi musica registrata. Era stato messo in attesa. C'era qualcosa che cercava di ricordare. Sembrava tutto pronto, ma... «Grazie per l'attesa, buon pomeriggio, qui la Pacific Southwest Airlines, desidera?» Disse alla voce della sua prenotazione. Era sicuro di averne una. Poteva...? «Sì, confermata.» Ringraziò e riattaccò. Attendere. Qual era il numero del volo? Doveva averlo scritto da qualche parte... Sì. Un foglietto, forse nel portafogli. Si chinò sulla giacca posata sul letto e tastò la morbida forma di pelle. Nella tasca interna. Frugò tra le carte di credito, stram documenti, tessere. No. Ma non importava. Lo avrebbe saputo quando fosse stato là. E, tuttavia, c'era qualcosa. Aprì il cassetto del comodino, sotto il telefono, e cominciò a frugare an-
che lì, poco sicuro anche lui di che cosa stesse cercando. Trovò una lunga busta bianca, sul fondo. La prese e la tenne nella mano mentre s'infilava la giacca, poi se la mise nella tasca laterale mentre con l'altra mano si tastava in cerca delle chiavi. Nelle tasche esterne non c'erano. A testa bassa, lasciò la stanza. Le sue valigie erano allineate vicino al muro dell'ingresso. Passò al setaccio il soggiorno, la cucina, controllò nei tavoli. Tornò in camera da letto, gli occhi bassi. Là. Vicino alla porta. L'anello delle chiavi era incastrato tra la porta e l'orlo del tappeto come se qualcuno ve lo avesse fatto volare e lo avesse scalciato là sotto. Lo raccolse, tornò alla porta d'ingresso, prese le valigie e uscì verso la sua auto. Era ancora pomeriggio presto, perciò l'autostrada sarebbe stata libera per gran parte del percorso. Spense l'aria condizionata... chi l'aveva lasciata in funzione?... e abbassò il vetro del finestrino, allungandosi. Il sedile era di nuovo nella posizione sbagliata, accidenti, perciò dovette cercare la leva e spingersi con i piedi per farlo arretrare di un'altra tacca. Si immise sul raccordo per l'autostrada di San Diego, fece la svolta e cercò di rilassarsi per il resto del percorso. Provò con la radio, ma fu più o meno la stessa cosa: piagnistei sull'amore o sulla mancanza d'amore e il piacere o il dolore che l'amore dà o potrebbe dare; forse, può darsi, probabilmente, sicuramente, sempre, mai, presto, non abbastanza presto, nel modo sbagliato... Sbagliato, sbagliato. Spense. La prossima era l'uscita dell'aeroporto. Piegò il braccio per controllare l'ora. L'orologio si era fermato. A ogni modo, sarebbe stato difficile leggere i numeri visto che il vetro era impiastricciato di pittura secca. Premette sull'acceleratore fino a quando non superò di cinque miglia il limite di velocità, poi di dieci. Era contento di avere fatto così in fretta. Qualche minuto di margine significava un drink, forse due... Curioso. L'auto davanti a lui, ai piedi della rampa. Le luci della retromarcia erano accese, ma non quelle dei freni. Non rallentò perché la cosa significava che il segnale all'incrocio era...
Fari. Erano fari. E puntavano direttamente su di lui. «Adesso puoi andare» gridò una voce. Di chi? Da dove? Si buttò a corpo morto sul clacson, ma ci fu l'impatto, violento, distruttivo, e tutto fu sospinto in lui con forza. Il clacson continuò a suonare, belante come una sirena, che lui avesse voluto o no che suonasse, o che avesse perfino pensato che suonasse, o che avesse pensato a qualcosa, a qualsiasi altra cosa. 2 Avrebbe fatto tardi passando per LAX, perciò svoltò subito nel parcheggio ovest, fece a piedi il tratto fino all'edificio della PSA e infilò i bagagli nel metal detector senza nemmeno fermarsi al banco delle informazioni. Un paio di rapide domande dopo, una hostess in una colorata uniforme Halloween lo indirizzava verso il tunnel d'imbarco, e un'altra lo accompagnava all'aereo, sezione fumatori. Consegnò le valigie e si ritrovò in poltrona, accanto a una donna incinta e due scatenati bambini dall'aria allucinata. I bambini continuarono a dimenarsi, ma lentamente, come sott'acqua, mentre lui trafficava con la cintura e cercava di recuperare la grossa fibbia finitagli sotto le natiche. Un paio di vodke e due sigarette più tardi, era a mezza strada da Dakland e deviava verso l'interno, lontano dall'accecante bagliore argenteo del mare. Succhiò il ghiaccio contro i denti e intrappolò il gomito di una hostess di passaggio. Un'altra? Be', le bottiglie erano state messe via, ma... sì. Naturalmente. Naturalmente. Il più piccolo dei bambini era indaffarato sul pavimento davanti alla poltrona a strappare le pagine di un libro di fotografie lavabili di animali che portavano guanti e avevano nomi di una sillaba. Il bambino aveva già fatto a pezzi il libro da colorare della linea aerea, la carta con le istruzioni sull'uso della maschera dell'ossigeno e il sacchetto per i casi di mal d'aereo. Adesso, però, stava lasciando il suo lavoro e, alzatosi in piedi, trotterellava verso la poltrona della madre. Ma sua madre era assorta nel conteggio e riconteggio di bicchierini da punch vuoti «... uno, due, tre, vedi? uno, due, tre...» e avanti così, per il bambino più grandicello il quale faceva tutto il possibile per sgusciare via
da sotto la cintura. Si appiattiva simile a un danzatore del ventre fino a quando le scarpe non toccavano il pavimento e le ginocchia non si curvavano, poi, invariabilmente, sua madre lo riprendeva, lo rimetteva al suo posto e ricominciava il conteggio. «Uno, due, tre, vedi? Perché non provi, Joshua?» Ignorato, il bambino più piccolo si torse come una bambola di gomma e, succhiandosi l'inchiostro di due dita, guardò l'uomo di fronte a lui. Il quale distolse lo sguardo. Grazie al cielo, cominciava a sentire gli effetti della vodka doppia: un familiare benessere, debole, ma inequivocabile. Intrecciò le mani, fredde, e cercò di rilassarsi intanto che c'era ancora tempo. Con la coda dell'occhio, colse fuori dal finestrino uno squarcio di campi coltivati, sezionati come tanti strati chirurgici, oltre la punta luminosa dell'ala. Il bambino seguì il suo sguardo. «Rom-pe» annunciò. Lui osservò distrattamente l'ala e la vide oscillare lentamente come se tagliasse le correnti d'aria. Ricordò di avere visto l'ala muoversi su e giù come in quel momento in occasione del suo primo volo e di come si fosse preoccupato che si spezzasse fino a quando qualcuno non gli aveva parlato di espansione e contrazione da sforzo. «Che cosa si rompe?» chiese la madre del bambino. «Niente si rompe, Jeremiah. Guarda, guarda la mamma...» Ricomparve la hostess con vassoietto di plastica e vodka. Lui si mise la mano in tasca per prendere il portafogli. «Voglio ancora punch!» disse il più grande dei bambini. «Ancora punch?» chiese la hostess. Il portafogli non c'era. Lui ricordò e cercò nella tasca interna della giacca. Sentì una lunga busta e il portafogli. Li tirò fuori entrambi, prese due banconote e le mise sul vassoio. «Rom-pe!» disse il più piccolo dei bambini. In quel momento, un'ombra passò sul vassoio e sulle dita umide della hostess. Lui sollevò lo sguardo. Fuori, dense folate di nebbia avevano cominciato a investire le ali, oscurando temporaneamente il sole. Guardando di sotto, vide la nera forma dell'aereo passare sui rettangoli di terra ben curati. All'improvviso, nettamente, l'aereo cadde come un ascensore tra due piani. Poi, altrettanto improvvisamente, si fermò. «Sembra che andiamo incontro a qualche turbolenza» disse lui. «Sicuro
che ci sia il pilota, là davanti?» Riportò la sua attenzione al finestrino. Adesso nuvole più scure coprivano la visuale e rendevano opaco il vetro cosicché vi vide soltanto il riflesso della propria faccia. Sentì una voce dire qualcosa che non capì. «Che cosa?» chiese. «Ho detto che è strano» disse la hostess. «Sembra una tomba aperta.» Fuori, un lampo di luce accecante perforò il banco di nuvole. La hostess smise di versare la vodka. Lui guardò prima lei, poi il vassoio e notò che le tremavano le mani. Poi, un suono attutito provenne dal fondo dell'aereo. Seguirono una serie di sussulti che fecero tintinnare la bottiglia contro il bordo del bicchiere. Lui credette anche di udire un crepitio lontano, come di formiche che strisciassero su un foglio d'alluminio. E subito, scioccante, un odore di fumo pervase la corsia. «Oh, mio Dio» mormorò la hostess, con voce rauca. «Siamo stati...» «Lo so» fece lui, stranamente calmo. «Lo so... con lacrime di sangue ti dico che lo so.» Vassoio, ghiaccio e drink volarono via. E nell'istante, successivo stavano precipitando. Bambini, cuscini, maschere d'ossigeno, bottiglie, la busta che lui ancora stringeva stupidamente nella mano, tutto, l'aereo e il mondo intero, stavano cadendo e non si sarebbero fermati, non avrebbero potuto fermarsi né essere fermati. 3 Faceva scuro e lui guidava nel delta, e il fiume, ancora con il ricordo del morente occhio rosso del sole, sembrava riflettere un graduale imbrunire del mondo. Abbassò il vetro del finestrino dell'auto presa a noleggio e piegò all'indietro i deflettori per sentire l'aria. L'odore delle alghe e del ricco sottobosco fangoso delle rive aleggiava attorno a lui, immergendolo nella speciale partorienza scura della Sacramento Valley. Era stato via troppo a lungo. E di lì a poco sarebbe tornato, si sarebbe allontanato per qualche tempo dagli intrighi della città, intrighi ai quali aveva pensato sempre più spesso negli ultimi tempi come a un'arte di fare le cose naturali in modo innaturale... qualcosa che temeva di avere imparato fin troppo bene. Ma adesso,
molto presto, sarebbe tornato alla sua barca, alla sua casa. Per un po', almeno. Non sapeva per quanto. Avrebbe ormeggiato vicino al Meadows. Allo stesso albero, nell'acqua profonda e immobile, dove c'era quel tiglio, ad ascoltare il muggito del bestiame da dietro quel cespuglio di more selvatiche, sulla riva... E questa volta, chissà, avrebbe potuto non tornare affatto. Non per molto, molto tempo, almeno. Superò le case vecchie di secoli rimaste dai giorni d'oro, percorse le strade polverose segnate soltanto da rudimentali cassette della posta, incontrò le ventilate e ombrose file d'alberi, i cadenti camminamenti di legno delle antiche città abbandonate, la grande stalla con lo sbiadito messaggio bianco sulle porte, un messaggio che lui non aveva mai capito: HIARA PERU RESH Rallentò e imboccò infine l'ultimo miglio sterrato in un crescente rigurgito di anticipazione. Pietre e baccelli di eucalipti schizzavano da sotto l'auto, il volante sobbalzava nelle sue mani, ammortizzatori e balestre gemevano. Vide poi un pennacchio di fumo levarsi da dietro il primo boschetto e colse il caldo profumo di gatto marino fritto sui carboni ardenti. E seppe, infine, che si stava avvicinando all'insenatura con l'imbarcadero, l'osteria, il negozio-officina... Frenò sulla ghiaia e prosegui a piedi per il sentiero che portava alla riva. Udì lo sciacquio della marea e il basso e pesante urtare degli scafi contro i piloni. Vide infine il lungo pontile, l'assito lucente, le leggere e scure prue delle barche da diporto che dondolavano agli ormeggi, i canotti legati alle usurate castagnole, le funi gonfie dove affondavano nell'acqua, le boe che oscillavano lentamente, le luci di un'imbarcazione che sbuffava sulla curva, allontanandosi verso Wimpy's Landing. Le assi si mossero sotto i piedi mentre contava i gradini, a testa bassa. Sorrise, ricordando che gli ci sarebbe voluto qualche ora per recuperare il suo passo le sue gambe da mare. Raggiunse il punto, a pochi metri dalla fine dell'area di attracco, dove sapeva che la Shelley Ann aspettava. Cercò di ricordare quanto tempo fosse passato. Dalla primavera. Sì, giusto, il weekend del Memorial Day. A volte, gli amici gli dicevano che era
un peccato pagare tutto l'anno dal momento che la usava soltanto poche volte. Perfino Shelley aveva cominciato a fargli quei discorsi nelle ultime settimane. «Riduci le spese con quell'albatro!» Gli aveva detto proprio così. Ma in momenti come quello, quando tornava alla barca, lui dimenticava tutto. Era come tornare a casa. Era sempre così. Sollevò gli occhi. Il posto era vuoto. Cercò con lo sguardo per tutto l'approdo, ma la barca non si vedeva. A meno che... Ma certo! Era stata spostata. Era così. Ma perché? Da quando la possedeva, non le era mai stato assegnato un altro posto. Doveva essere accaduto qualcosa. Ma non l'avevano avvertito, non c'erano state telefonate, lettere... Se ci fosse stato qualcosa di serio come un incidente, il vecchio John non glielo avrebbe tenuto nascosto. No? Mosse qualche passo, con le mani infilate nelle tasche posteriori, esplorando il fiume in entrambe le direzioni. Riusciva a vedere soltanto il negozio che fungeva da osteria, ufficio e officina attraverso gli alberi. Una debole luce bruciava dietro i vetri. Sì. Il vecchio John avrebbe saputo dirgli qualcosa. Il vecchio John avrebbe saputo dirgli come stavano esattamente le cose. E questo era il problema. Conoscendolo come lo conosceva lui, ci avrebbe messo un'ora, anche due. Una birra, tre birre, forse perfino la cena. Il vecchio solitario non lo avrebbe lasciato andare con una semplice spiegazione, questo era sicuro. E adesso scopriva che riusciva a pensare soltanto alla Shelley Ann. Aveva aspettato e aveva fatto progetti ed era venuto da lontano, e al momento non importava nient'altro. Voleva sentire di nuovo la barca oscillare sotto di lui, dondolare. Adesso. Poi, tutto, sarebbe stato okay. Scese a riva e diede un'occhiata sotto la sezione coperta dell'approdo, anche se sapeva che la sua barca sarebbe stata troppo larga per il telone messo a tettoia. Si accovacciò, sentendosi improvvisamente solo. Il fiume odorava come stelle morte. Guardò l'acqua vorticare debolmente attorno ai galleggianti e rovesciarsi sulla sabbia. Qualche bollicina saliva in superficie e una macchia d'olio riluceva come uno specchio sotto il cielo che si scuriva, producendo un cupo e tremulo arcobaleno. Non si vedevano ancora le stelle. In realtà, via via che lo guardava, il cielo sopra gli alberi diventava sempre più d'acciaio.
Guardò di nuovo l'acqua. Prese un sassolino e lo lanciò. Cadde con un tonfo e affondò rapidamente. Si scoprì teso a seguirlo con gli occhi mentre scompariva e s'adagiava sul fondo. Si mise la mano in tasca per prendere una sigaretta. Aveva le mani sempre più fredde. Tastò il pacchetto e lo tirò fuori, insieme a qualcos'altro. S'infilò una sigaretta tra le labbra e fissò la busta. Non aveva nome, né indirizzo. Non riusciva a ricordare... L'aprì e prese il foglio che conteneva, accuratamente ripiegato. Lo dispiegò. Le foglie degli alberi vicini frusciarono e una leggera brezza colpì la superficie dell'acqua increspandola, punteggiandola d'argento. Sempre accovacciato, fece scattare l'accendino, accese la sigaretta e restrinse gli occhi cercando di distinguere le parole. Erano scritte a mano, una lettera o... no. Qualcos'altro. Lesse il titolo. La carta cominciò a produrre una specie di ticchettio. Lui tese la mano. Cominciava a piovere, una pioggia leggera che danzava sul fiume e lo faceva splendere. Mentre si sforzava di leggere, altre gocce colpirono il foglio di carta. L'inchiostro cominciò a dissolversi e a confondersi davanti ai suoi occhi. L'accendino divenne troppo caldo da tenere in mano. Lo spense e si alzò. Sentiva la pioggia parlare negli alberi, sul telone, sull'assito un po' marcio dell'imbarcadero. Aveva le gambe intorpidite. Si mosse, barcollando un po'. Entrò con le scarpe nell'acqua, guidato dalla traccia luminosa che la sua sigaretta lasciava nell'aria. Poi la pioggia trovò la sigaretta e la spense. Lui la lasciò cadere e si spinse oltre, adesso con l'acqua fino alle caviglie. "È davvero là" pensò. Poi, tagliando l'acqua e lasciandosi una scia alle spalle, entrò nella corrente, la pioggia che ancora batteva attorno a lui con un suono come di note musicali, il foglio di carta ormai macerato ancora stretto nella mano. 4 Guardò come inebetito la stanza da letto attorno a lui. Stringeva il ricevitore e la plastica sembrava diventata calda nella sua mano. Lo fissò per un momento, poi se lo portò di nuovo all'orecchio.
Sentì la musica registrata. Clic. «Grazie per l'attesa, buon pomeriggio, qui la Pacific Southwest Airlines, desidera?» C'era qualcosa che voleva dirle. Si era sforzato di ricordare, ma... Il suo sguardo continuò a perlustrare la metà inferiore della stanza. Scorse l'anello delle chiavi, quelle dell'auto, incastrato tra la porta e l'orlo del tappeto, come se qualcuno ve lo avesse lanciato e lo avesse scalciato con forza. Cominciò a tornare nella sua mente. Era stata Shelley. Le aveva lanciate lei, con forza, qualche momento prima. Ecco che cos'era accaduto. Sollevò infine la testa e si massaggiò il collo. E la vide, dall'altra parte del letto. Giaceva con gli occhi chiusi, le dita che stringevano la sovraccoperta. Non voleva disturbarla. Regolò il tono della voce, mettendo una mano a coppa attorno al microfono. E disse a quella voce che lo faceva impazzire, al telefono... disse che gli ricordava un reclutatore di nome Nichiren Shoshu che una volta lo aveva fermato per strada... disse di cancellare una prenotazione... disse che sua moglie non era ancora pronta e non ce l'avrebbe fatta in tempo. «Sì. Solo una. Grazie.» Riattaccò. Prese il telefono e lo rimise sul comodino. Sul letto, dove prima c'era stato il telefono, c'era una busta. La prese. Era vuota. C'era un foglio di carta sul pavimento, dove Shelley lo aveva buttato dopo averlo appallottolato. Era stato così, no? Lo dispiegò e lo lisciò su un ginocchio. Era scritto con una calligrafia molto accurata, più leggibile della sua. Cominciò a leggere. Alla fine della prima strofa, si fermò. Sì, era qualcosa che Shelley aveva trovato... no, l'aveva sempre avuto, al sicuro (o nascosto?) nel cassetto del comodino. L'aveva tirato fuori quella mattina presto, o forse era stato la sera prima, o glielo aveva fatto vedere, o uno di loro si era arrabbiato e l'aveva appallottolato, scaraventandolo sul pavimento. Ecco come era cominciato. Lesse di nuovo, questa volta fino alla fine.
1 capelli scuri sorriso che s'arriccia occhi adombrati la linea delle tue labbra... capelli arruffati sopra di me 2 calda pelle teneri seni la tua bocca e la dolce gola... umidore di capelli sotto di me 3 ci sarà di più che i miei occhi diranno ai suoi del tocco d'amore viso perduto nel mio viso sai cosa vive tra le nostre mani che respirano? 4 capelli contorti orecchio di conchiglia dolci suoni si sono fermati nel mio petto... occhi scuri dormono mentre parlo al tuo cuore Si voltò verso sua moglie. Era vero. Era bella. Chiunque avesse scritto quelle parole l'amava. La studiò come se la stesse vedendo per la prima volta. Guardò di nuovo il foglio di carta. In fondo alla pagina, dopo l'ultima strofa, c'era un nome.
Il suo. E in un angolo, una data: quasi quindici anni prima. Quietamente, quasi impercettibilmente, cominciò a piangere. Quante cose erano cambiate in quegli anni... molto più che non la sua calligrafia. Non l'amava adesso, non nel senso tradizionale; pensava, invece, che ci fosse soltanto un senso d'amore tra lei e la sua mente. Seduto sul letto, si sforzò di seguire con gli occhi le linee del suo corpo, la sua faccia: la curva delle spalle, lo slancio del lungo collo, la linea sorprendentemente forte della mascella e il mento, al contrario, fragile, le labbra minute, la piega triste agli angoli della bocca, la pelle liscia, regolare, il naso stretto, le linee quasi parallele che formavano i lati del piccolo viso, gli occhi chiusi, le palpebre sottili, quasi a mandorla, e le ciglia delicate, l'ombra preoccupata sulla fronte e i ciuffetti sottili, da bambina, all'attaccatura dei capelli, la morbida peluria che le cresceva sulle tempie, i riccioli pieni che formavano come una nuvola attorno alla testa, i capelli riuniti dietro il collo, le estremità dure e rigide ora dove il sangue, dapprima un filo, poi macchia sempre più larga sul cuscino quando lui l'aveva deposta gentilmente, si era disseccato. Non aveva voluto. Non aveva voluto niente del genere. Non ricordava neppure che cosa avesse voluto, e quella era la verità. Aveva cercato di dirglielo, praticamente nello stesso istante in cui era accaduto, ma era stato troppo tardi. Ed era troppo tardi adesso. Sarebbe stato troppo tardi per sempre. Abbassò la testa. Quando aprì gli occhi, stava guardando il foglio. In cima, perfettamente centrato, c'era il titolo. Diceva: ADESSO PUOI ANDARE Titolo originale: You Can Go Now Traduzione: Grazia Alineri D.H. Lawrence Il vincitore sul cavallo a dondolo D.H. Lawrence, grande critico, poeta e scrittore di romanzi e racconti, contribuì all'evoluzione del racconto dell'orrore con quest'unica importante opera che è un piccolo capolavoro della letteratura moderna. In un'epoca in cui i Modernisti avevano per lo più già accettato la morte del so-
vrannaturale nella corrente generale della letteratura, lo studio della psiche umana anomala restava egualmente al centro di molta narrativa. Così uno dei temi principali della letteratura dell'orrore divenne preponderante in racconti quali Il vincitore sul cavallo a dondolo, una storia di mostruosità sul tema del «bambino posseduto» ma priva di elementi sovrannaturali. Il bambino assume quindi nell'accezione più condivisa e attendibile, segni allegorici di tipo freudiano sfuggendo così a valutazioni di carattere morale. C'era una volta una donna splendida che aveva tutte le doti, eccetto la fortuna. Si era sposata per amore, e l'amore si era ridotto in polvere. Aveva dei figli deliziosi, però le sembrava che le fossero stati imposti, e non riusciva ad amarli. Essi la guardavano in modo freddo e critico. Ben presto lei stessa sentì di dovere nascondere una propria mancanza. Ma non scoprì mai che cosa dovesse nascondere. Egualmente, in presenza dei figli, le sembrava che il centro del suo cuore s'indurisse. Questo la preoccupava, rendendola, a modo suo, tanto più gentile e premurosa verso i figli, come se li amasse moltissimo. Solo lei sapeva che al centro del suo cuore c'era una piccola parte dura che non poteva provare amore, per nessuno. Di lei tutti dicevano: «È una mamma così buona. Adora i suoi bambini.» Solo lei, la madre, e loro, i figli, sapevano che non era vero. Se lo leggevano negli occhi. Aveva un maschietto e due femminucce. Vivevano in una casa confortevole con un giardino, avevano servitori discreti, e si sentivano superiori a tutti i vicini. Nonostante vivessero con un certo stile, in casa erano sempre inquieti. Non c'era mai abbastanza denaro. La madre aveva delle piccole entrate e il padre aveva delle piccole entrate, insieme però non raggiungevano, neanche lontanamente, la somma di cui avevano bisogno per potere mantenere la propria posizione sociale. Il padre lavorava in un ufficio in città. Nonostante avesse buone prospettive, queste non si materializzavano mai. C'era sempre quell'opprimente senso di carenza di denaro ma, malgrado tutto, non sapevano né volevano rinunciare a un certo tenore di vita. Finalmente la madre disse: «Cercherò di guadagnare qualcosa di più io.» Ma non sapeva da dove incominciare. Si scervellò e provò di qua e di là, senza però riuscire a trovare nulla che potesse essere proficuo. L'insuccesso produsse profondi solchi sul suo viso. I bambini crescevano e avrebbero dovuto andare a scuola. Ci volevano più soldi, ci volevano più soldi. Pare-
va proprio che il padre, che era sempre molto elegante e aveva gusti molto costosi, non sarebbe mai riuscito a guadagnare di più. E la madre, che aveva grande fiducia in se stessa, non aveva certo più successo e i suoi gusti erano altrettanto costosi. Fu così che quella casa cominciò a essere ossessionata da una frase che non veniva mai pronunciata: Ci vogliono più soldi! Ci vogliono più soldi! E i bambini la sentivano sebbene nessuno la pronunciasse. La sentivano per Natale, quando costosi e splendidi giocattoli affollavano la loro stanza. Dietro le bambole, udivano una voce sussurrare: «Ci vogliono più soldi! Ci vogliono più soldi!». E i bambini interrompevano i loro giochi e restavano in ascolto per un attimo. Si guardavano negli occhi per capire se avessero sentito tutti. E ognuno vedeva negli occhi degli altri due che anch'essi avevano udito: «Ci vogliono più soldi! Ci vogliono più soldi!» Era un sussurro che proveniva dalle molle del cavallo a dondolo che dondolava ancora, e anche il cavallo, piegando il capo di legno e mordendo il freno, lo udiva. La grande bambola tutta vestita di rosa, seduta nella carrozzina nuova, che aveva sulle labbra uno stupido sorriso, lo sentiva benissimo e pareva sorridere ancora più sicura di sé proprio per questo motivo. Anche il cagnolino sciocco che si metteva al posto dell'orsacchiotto, sembrava anche più sciocco solo perché aveva udito il sussurro segreto in tutta la casa: «Ci vogliono più soldi.» Però nessuno lo pronunciava mai. Quel sussurro era dappertutto, per questo non veniva mai pronunciato. Proprio come nessuno dice mai: «Respiriamo!» nonostante l'aria venga inspirata ed espirata continuamente. «Mamma!» disse un giorno il figlio Paul. «Perché non abbiamo una macchina? Perché usiamo sempre quella dello zio oppure un taxi?» «Perché noi siamo il ramo povero della famiglia» ribatté la madre. «E perché siamo il ramo povero, mamma?» «Vedi... penso» disse lei lentamente e con amarezza «che sia perché tuo padre non ha fortuna.» «Fortuna significa soldi, mamma?» chiese quindi piuttosto timidamente. «No, Paul! Non proprio. La fortuna è quella cosa che ti permette di avere i soldi.» «Ah» disse Paul distratto. «Pensavo che lo zio Oscar parlasse di soldi ogni volta che dice in mente fortuna.» «Ingente fortuna vuol dire soldi» corresse la madre «ingente non in mente.» «Ah!» disse il ragazzo. «Ma allora che cos'è la fortuna, mamma?»
«È quella cosa che ti permette di avere soldi. Se sei fortunato hai soldi. Per questo è meglio nascere fortunati che ricchi. Se sei ricco puoi perdere i soldi. Se sei fortunato invece ne avrai sempre di più.» «Davvero? E papà non è fortunato?» «Direi che è molto sfortunato» disse amaramente la madre. Il ragazzo la guardò con occhi insicuri. «Perché?» chiese. «Non lo so. Nessuno sa perché alcune persone siano fortunate e altre sfortunate.» «Nessuno? Proprio nessuno? Non lo sa nessuno?» «Forse Dio! Ma non lo rivela mai.» «Però dovrebbe farlo. Neanche tu sei fortunata, mamma?» «Non posso esserlo, visto che ho sposato un uomo sfortunato.» «Ma tu, da sola, sei fortunata?» «Un tempo pensavo di esserlo, prima di sposarmi. Ora invece mi ritengo proprio molto sfortunata.» «Perché?» «Vedi... ma non importa! Forse non è vero» disse. Il figlio la guardò per capire se fosse sincera. E dalle pieghe della bocca della madre intuì che stava solo cercando di nascondergli qualcosa. «Beh» disse in modo deciso «comunque, io sono fortunato.» «E perché?» chiese la madre mettendosi a ridere. Lui la fissò. Non sapeva neanche perché l'avesse detto. «Me l'ha detto Dio» affermò con fare spavaldo. «Lo spero tanto, caro!» disse lei, ridendo di nuovo, ma con una certa amarezza. «Davvero, mamma!» «Perfetto!» disse la madre usando una delle espressioni tipiche del marito. Il ragazzo capì che la madre non gli credeva; o piuttosto che non prestava attenzione alla sua affermazione. Ciò gli fece provare una certa rabbia e lo spinse a tentare di ottenere l'attenzione della madre. Se ne andò da solo, distratto: un bambino alla ricerca della chiave della «fortuna». Assorto, senza curarsi degli altri, si aggirava quasi furtivamente, cercando intimamente la fortuna. Voleva avere fortuna, la voleva a tutti i costi. Mentre le sorelline giocavano con le bambole nella stanza dei bambini, lui si lanciava in una folle galoppata nello spazio col suo grande cavallo a dondolo; durante questi accessi frenetici le bambine lo scrutavano
sbigottite. Il cavallo correva selvaggiamente, a gran velocità, i capelli scuri e ondulati del ragazzo sobbalzavano, e nei suoi occhi c'era uno strano scintillio. Le sorelle non osavano parlargli. Quando giungeva alla fine del suo breve e pazzo viaggio egli smontava e si soffermava a fissare il muso abbassato del cavallo a dondolo. La sua bocca rossa era leggermente aperta, il grande occhio era ben aperto, lucente come il vetro. «Ora!» comandava in silenzio al corsiero sbuffante. «Ora portami dov'è la fortuna! Portami, ora!» E frustava il cavallo sul collo con un piccolo frustino che aveva chiesto allo zio Oscar. Egli sapeva che il cavallo avrebbe potuto fargli trovare la fortuna, bastava costringerlo. Allora rimontava in sella e riprendeva la sua furiosa cavalcata sperando di giungere infine a destinazione. Sapeva di potervi giungere. «Romperai quel cavallo, Paul!» diceva la bambinaia. «Cavalca sempre così! Vorrei proprio che la smettesse una buona volta!» diceva la sorella maggiore Joan. Paul si limitava a guardarle torvamente, in silenzio. La bambinaia si diede per vinta. Non aveva più alcun potere su di lui, che comunque stava diventando troppo grande per obbedirle. Un giorno sua madre e lo zio Oscar entrarono durante una di quelle furiose galoppate. Non rivolse loro la parola. «Buongiorno, giovane fantino! Monti un cavallo vincente?» disse lo zio. «Non sei ormai un po' troppo grande per un cavallo a dondolo? Non sei mica più un bambinetto» disse la madre. Ma Paul si limitò a tenere fissi i suoi grandi occhi azzurri abbastanza ravvicinati. Non parlava mai con nessuno durante le sue cavalcate. Sua madre lo guardava con un'espressione di ansia dipinta sul volto. Finalmente Paul mise il cavallo al passo. Si fermò. Scese di sella. «Bene sono arrivato!» annunciò fiero con quegli occhi azzurri ancora splendenti e le gambe lunghe e robuste tuttora divaricate. «Dove sei arrivato?» chiese sua madre. «Dove volevo arrivare» rispose lui infiammato. «Così mi piace, ragazzo!» disse lo zio Oscar. «Non fermarti mai prima di essere arrivato. Come si chiama il cavallo?» «Non ha un nome» disse il ragazzo. «E come fa senza nome?» chiese lo zio. «Beh, ha diversi nomi. La settimana scorsa si chiamava Sansovino.»
«Sansovino? Ha vinto la corsa di Ascot. Come mai conosci questo nome?» «Parla sempre di corse di cavalli con Bassett» disse Joan. Lo zio era felice di sapere che il suo nipotino conoscesse tutte le notizie sulle corse dei cavalli. Bassett, il giovane giardiniere che era stato ferito al piede sinistro in guerra e aveva ottenuto il posto grazie ad Oscar Cresswell, di cui era stato attendente, era proprio un esperto di corse di cavalli. Conosceva tutti gli avvenimenti, e Paul, avidamente, si informava da lui. Oscar Cresswell si fece raccontare tutto dallo stesso Bassett. «Il signorino Paul viene a chiedermi, così non posso fare altro che parlargliene, signore» disse Bassett con faccia estremamente seria, quasi stesse parlando di argomenti religiosi. «E non punta mai qualcosa su un cavallo che gli piace?» «Beh, non vorrei tradirlo, è una persona che sa perdere, un'ottima persona, signore. Vi dispiacerebbe chiederlo a lui stesso? Sembra che egli ne tragga piacere, e forse penserebbe che lo sto tradendo, signore... se non vi dispiace.» Bassett era serissimo. Lo zio tornò da suo nipote e lo prese con sé per una passeggiata in macchina. «Di' un po', Paul, non scommetti mai sui cavalli?» gli chiese. Il ragazzo scrutò attentamente quell'uomo dall'aspetto gradevole. «Perché, credi che non dovrei?» disse evitandosi così di rispondere. «Perché no, anzi! Pensavo che magari avresti avuto qualche consiglio da darmi per la corsa di Lincoln.» La macchina sfrecciava per la campagna in direzione della casa dello zio nel Hampshire. «Giuralo sul tuo onore!» disse il nipote. «Lo giuro, ragazzo!» ribatté lo zio. «Beh, allora Daffodil.» «Daffodil? Non credo proprio caro. Che cosa ne diresti di Mriza?» «Conosco solo i vincitori» disse Paul. «Sarà Daffodil!» «Ah sì, Daffodil!» Vi fu una pausa. Daffodil era un cavallo abbastanza misterioso. «Zio?» «Dimmi, caro.» «Non lo dirai a nessuno, vero? L'ho promesso a Bassett.» «Al diavolo Bassett, che cosa c'entra lui?»
«Siamo soci! Lo siamo sempre stati! È stato lui a prestarmi i primi cinque scellini, ma li ho persi. Gli ho promesso, giurato, che era una cosa tra me e lui. Tu poi mi hai dato quella banconota da dieci scellini con cui ho iniziato a vincere, così ho pensato che tu fossi fortunato. Non lo dirai a nessuno, vero zio?» Il ragazzo guardava lo zio con quei grandi occhi azzurri accesi piuttosto ravvicinati. Lo zio si riscosse e rise, ma si sentiva a disagio. «Hai ragione, ragazzo, tieni segrete le tue puntate. Quindi sarà Daffodil! Quanto punti su di lui?» «Tutto eccetto venti sterline» replicò il ragazzo. «Quelle le tengo di riserva.» Lo zio credette che si trattasse di uno scherzo. «Tieni venti sterline di riserva? Piccolo contastorie! Quanto scometti, dunque?» «Trecento» disse serio il ragazzo. «Ma resti tra te e me, zio Oscar! Giuralo!» «Resta tra te e me, piccolo scommettitore» disse ridendo «ma dove sono le tue trecento?» «Le tiene Bassett, siamo soci.» «Ma certo, siete soci! E Bassett, quanto punta su Daffodil?» «Non tanto quanto me, credo. Forse centocinquanta.» «Che cosa, centesimi?» rise lo zio. «Sterline» disse il ragazzo guardando lo zio con fare sorpreso. «Bassett tiene di riserva più soldi di me.» Lo zio Oscar rimase in silenzio, sorpreso e divertito. Non fece altre domande, ma decise di portare suo nipote al premio di Lincoln. «Bene, ragazzo» disse «punto venti su Mirza e punto cinque per te sul cavallo che vorrai. Quale scegli?» «Daffodil, zio!» «No, cinque su Daffodil non le punto!» «Io lo farei, se fossero soldi miei» disse. «E va bene! Cinque per me e cinque per te su Daffodil.» Il ragazzo non era mai stato alle corse dei cavalli e aveva gli occhi scintillanti. Guardando teneva le labbra strette. Un francese davanti a loro aveva puntato i suoi soldi su Lancelot. Preso dalla foga alzava ed abbassava le braccia gridando: «Lancelot! Lancelot!» col suo accento francese. Daffodil arrivò primo, Lancelot fu secondo e Mirza terzo. Il ragazzo, rosso in volto e con gli occhi accesi, era stranamente sereno. Lo zio gli
portò cinque banconote da cinque sterline: quattro a uno. «Che cosa devo fare di queste?» gridò sventolando le banconote davanti agli occhi del ragazzo. «Credo che ne parlerò con Bassett» disse Paul. «Dovrei avere millecinquecento sterline ora, più venti di riserva, più queste venti.» Lo zio lo studiò per qualche istante. «Di' un po', ragazzo, non dicevi mica sul serio quando parlavi di Bassett e di quelle millecinquecento sterline, vero?» «Certo che è vero! Ma deve restare tra te e me, zio! Giuralo!» «Lo giuro, lo giuro, stai tranquillo, ma devo parlare con Bassett.» «Zio, se vuoi diventare nostro socio, mio e di Bassett, io non mi oppongo. Però dovresti giurare di non dirlo a nessuno. Io e Bassett siamo fortunati, e anche tu devi essere forttunato, perché con i dieci scellini che mi hai dato tu ho iniziato a vincere...» Un pomeriggio zio Oscar portò Paul e Bassett a Richmond Park; qui parlarono. «Vedete, signore» disse Bassett. «Il signorino Paul mi faceva parlare delle corse di cavalli, e io gli facevo lunghi racconti... sapete com'è, signore, e voleva sempre sapere se avevo vinto o perso. Circa un anno fa puntai cinque scellini su Blush of Dawn per lui, e perdemmo. Poi la fortuna mutò, con quei dieci scellini che ebbe da voi: scommettemmo su Singhalese. E da allora le cose vanno abbastanza bene, tutto sommato. Che cosa ne dice, signorino Paul?» «Vanno bene quando siamo sicuri» disse Paul. «È quando non siamo sicuri al cento per cento, che perdiamo.» «Ma in quei casi stiamo ben attenti!» disse Bassett. «E quando siete sicuri?» chiese lo zio Oscar sorridendo. «È il signorino Paul, signore» disse piano Bassett. «È come se lo venisse a sapere dal cielo. Come nel caso di Daffodil, per la gara di Lincoln. Era sicuro al cento per cento.» «Bassett, hai scommesso qualcosa su Daffodil?» domandò Oscar Cresswell. «Sì, signore.» «E mio nipote?» Bassett rimase ostinatamente in silenzio guardando Paul. «Ho vinto milleduecento sterline, non è vero, Bassett? Ho raccontato allo zio che avrei scommesso trecento sterline su Daffodil.» «È vero» annuì Bassett.
«Ma dove sono questi soldi?» chiese lo zio. «Li tengo al sicuro, signore. Il signorino Paul li può avere in qualsiasi momento.» «Millecinquecento sterline?» «E venti! E quaranta, anzi, contando le venti vinte oggi.» «È incredibile» disse lo zio. «Se il signorino Paul vi concede di entrare in società con noi, signore... beh, perdonate l'ardire, se fossi in voi accetterei» disse Bassett. Oscar Cresswell ci pensò. «Voglio vedere i soldi» disse. Tornarono a casa e, nella casetta del giardino, Bassett esibì le millecinquecento sterline in banconote. Le venti sterline di riserva le custodiva Joe Glee nelle casse della Commissione delle Corse. «Vedi, è tutto a posto, zio, quando sono sicuro! Allora scommettiamo forte, tutto quello che abbiamo. Non è vero, Bassett?» «Certo, signorino Paul». «Ma quando sei sicuro?» chiese lo zio ridendo. «Beh, a volte sono assolutamente sicuro, come per Daffodil» rispose il ragazzo; «a volte ho solo un vago presentimento a volte ancora proprio non ho idea, vero Bassett? In quei casi stiamo attenti, perché in genere perdiamo.» «Ah sì? E quando sei sicuro, come nel caso di Daffodil, come fai a essere sicuro?» «Beh, non so» disse il ragazzo sentendosi a disagio. «Sono sicuro e basta, capisci, zio?» «È come se glielo dicesse il cielo, signore» disse Bassett. «Sembra anche a me» bofonchiò lo zio. Però si mise in società con loro. Quando la corsa di Leger fu alle porte, Paul fu sicuro che avrebbe vinto Lively Spark, un cavallo relativamente insignificante. Il ragazzo volle assolutamente scommettere mille sterline sul cavallo, Bassett puntò cinquecento e Oscar Cresswell duecento. Lively Spark arrivò primo e le scommesse erano state dieci e uno contro di lui. Paul aveva vinto diecimila sterline. «Hai visto» disse Paul allo zio «ero sicuro al cento per cento». Anche Oscar Cresswell si era portato a casa duemila sterline. «Senti, ragazzo» disse «queste cose non mi lasciano tranquillo». «Ma no, zio, non preoccuparti! Può anche darsi che ci voglia un bel po' di tempo prima che mi senta sicuro per un'altra puntata.»
«Che cosa te ne farai di tutti quei soldi?» domandò lo zio. «Naturalmente» disse Paul «l'ho fatto per la mamma. Lei mi ha detto di non avere fortuna perché papà è così sfortunato, per questo ho pensato che se fossi stato fortunato io, avrebbe smesso di sussurrare». «Chi sussurra?» «La nostra casa! Odio questa casa e il suo sussurro!» «E che cosa sussurra?» «Ecco... vedi...» disse Paul innervosendosi, «non lo so esattamente! Ma ha sempre bisogno di soldi, capisci, zio?» «Lo so, caro. Lo so.» «E sai anche che la gente invia conti da pagare alla mamma, vero?» «Sì, purtroppo» rispose lo zio. «E la casa sussurra come se la gente ti ridesse dietro le spalle. È orribile, orribile! Ho pensato che se io avessi avuto fortuna...» «Puoi smettere» disse lo zio. Il ragazzo lo fissò con i suoi grandi occhi azzurri in cui brillava uno strano fuoco freddo e non disse nulla. «Bene, dunque!» disse lo zio. «Che cosa si fa?» «Non vorrei che la mamma sapesse della mia fortuna» disse Paul. «E perché no?» «Non mi lascerebbe continuare.» «Non credo che lo farebbe.» «Oh!» esclamò il ragazzo contorcendosi in modo strano «non voglio che lo sappia, zio.» «Va bene! Faremo in modo che non lo venga a sapere.» Vi riuscirono abbastanza facilmente. Su suggerimento dello zio cinquemila sterline furono depositate presso l'avvocato di fiducia della famiglia, che in seguito avrebbe comunicato alla madre di Paul che un parente aveva depositato cinquemila sterline nelle sue mani e che la somma le sarebbe stata devoluta a mille sterline alla volta il giorno del suo compleanno per cinque anni di seguito. «Così riceverà mille sterline per il suo compleanno per cinque anni consecutivi» disse lo zio Oscar, «e mi auguro che questo non renda più difficili le cose per lei in seguito.» Il compleanno della madre di Paul cadeva nel mese di novembre. La casa stava sussurrando più che mai e, nonostante la sua fortuna, Paul non lo poteva sopportare. Era molto curioso di vedere quale effetto avrebbe sortito la lettera con cui l'avvocato avrebbe comunicato la notizia alla madre il
giorno del suo compleanno. Quando non c'erano ospiti Paul mangiava assieme ai genitori poiché era ormai troppo grande per stare con i bambini. La madre andava in città quasi ogni giorno. Aveva scoperto di avere una predisposizione per disegnare pellicce e stoffe, così lavorava di nascosto nello studio di un'amica che era l'artista preferita dei maggiori produttori di stoffe. L'amica dipingeva figure di signore in pelliccia e signore vestite di seta e paillettes per gli annunci pubblicitari che comparivano sui giornali. Questa giovane artista guadagnava diverse migliaia di sterline l'anno, mentre la madre di Paul ne guadagnava solo poche centinaia: per questo continuava a essere scontenta. Desiderava ardentemente essere la prima in qualche cosa e non ci riusciva neanche con gli schizzi delle stoffe. Era scesa per la prima colazione il giorno del suo compleanno. Paul la guardò in faccia mentre lei leggeva la posta. Riconobbe la lettera dell'avvocato. Quando sua madre la lesse, la faccia le si indurì e divenne più inespressiva. Poi la sua bocca assunse una piega fredda e decisa. Nascose la lettera sotto le altre e non disse nulla. «Non hai ricevuto niente di bello per posta per il tuo compleanno, mamma?» chiese Paul. «Una cosa abbastanza bella» rispose lei con voce fredda e assente. Andò in città senza dire altro. Ma durante il pomeriggio comparve lo zio Oscar. Disse a Paul che sua madre aveva parlato a lungo con l'avvocato chiedendo di potere avere tutte le cinquemila sterline subito per saldare i suoi debiti. «Che cosa ne pensi, zio?» chiese il ragazzo. «Lascio che sia tu a decidere.» «E allora fagliele avere! Ne possiamo guadagnare ancora» disse Paul. «Meglio un uovo oggi che una gallina domani, ragazzo!» rispose lo zio Oscar. «Ma sono sicuro che saprò per il Grand National, o il Lincolnshire, oppure per il Derby. Sono sicuro che saprò per una delle prossime corse» disse Paul. Così lo zio Oscar firmò l'accordo e la madre di Paul ebbe le cinquemila sterline. Poi accadde qualcosa di veramente curioso. Le voci nella casa impazzirono improvvisamente, parevano un coro di rane durante una sera primaverile. Furono acquistati alcuni mobili nuovi e Paul ebbe un maestro. Sarebbe veramente andato a Eton, la scuola di suo padre, l'autunno seguente. Ci furono fiori d'inverno e un aumento del lusso cui era stata avvezza la
madre di Paul. Cionondimeno, le voci nella casa, dietro i rami di mimosa e i fiori di mandorlo, e da sotto i mucchi di cuscini luccicanti, continuavano a vibrare e strillare in una sorta di estasi: «Ci vogliono più soldi! Oooh...! Ci vogliono più soldi! Oh, ora oraaa! Oraaaa... Ci vogliono più soldi!... più che mai! Più che mai!» Paul era terrorizzato. Lui s'impegnava a fondo nello studio del greco e del latino con i suoi insegnanti, ma le ore più intense le trascorreva con Bassett. Era passata la gara del Grand National ed egli non aveva saputo ed aveva perso cento sterline. L'estate era alle porte. Stava soffrendo per il Lincoln; neanche per questa corsa riuscì a sapere e perse cinquanta sterline. Divenne strano e gli si infiammarono gli occhi come se dentro di lui stesse per avvenire un'esplosione. «Lascia perdere, ragazzo! Non ti preoccupare!» consigliava lo zio Oscar. Ma era come se il nipote non lo sentisse. «Devo saperlo per il Derby! Devo saperlo per il Derby!» rispondeva il ragazzo con i grandi occhi azzurri accesi come in preda a una sorta di pazzia. Sua madre notò quello stato di nervosismo. «Dovresti andare al mare. Non ti piacerebbe andare al mare, invece di stare in città? Credo che sarebbe meglio» disse, abbassando su di lui il suo sguardo preoccupato. Si sentiva insolitamente preoccupata per Paul. Ma il ragazzo levò i suoi strani occhi azzurri. «Non posso assolutamente andarci prima del Derby, mamma!» disse. «Non posso proprio!» «Perché no?» chiese lei con la tipica voce di quando veniva contrariata. «Perché no, puoi andare al Derby anche dal mare con tuo zio Oscar, se è questo che desideri. Non è necessario che tu stia qui. A parte il fatto che penso che tu stia pensando troppo alle corse dei cavalli. È un brutto segno. Nella mia famiglia ci sono sempre stati scommettitori, e fino a quando non sarai grande non potrai mai sapere quanto può essere nocivo. Perché è nocivo. Dovrò mandare via Bassett e chiedere allo zio Oscar di non parlarti più di cavalli, a meno che tu prometta di essere ragionevole: vai al mare e non pensarci più. Hai i nervi a pezzi!» «Farò quello che desideri, mamma, ma non mandarmi via prima del Derby» disse Paul. «Da dov'è che ti manderei via? Da questa casa?» «Sì» disse lui fermo. «Ma guarda un po' che strano, come mai improvvisamente t'importa tan-
to di questa casa? Non sapevo proprio che ti piacesse!» Lui la scrutava senza parlare. Aveva un segreto nel segreto, qualcosa che non aveva mai raccontato neanche a Bassett o allo zio Oscar. Ma sua madre, dopo essere rimasta indecisa e un po' accigliata per qualche istante, disse: «E va bene allora, non andrai al mare prima del Derby, se così ti piace. Ma promettimi di non farti saltare i nervi, promettimi che non penserai più tanto alle corse dei cavalli e agli avvenimenti, come li chiami tu!» «No, no» promise Paul con aria indifferente. «Non ci penserò molto, mamma, non preoccuparti. Se fossi in te, mamma, non mi preoccuperei.» «Se io fossi in te e tu fossi in me» ribatté sua madre «...mi chiedo proprio che cosa faremmo!» «Ma lo sai, che non è il caso che ti preoccupi, vero mamma?» disse Paul. «Sarei veramente molto contenta di saperlo» rispose lei stancamente. «Ma sì, certo che lo sai. Intendo dire che dovresti sapere che non è il caso di preoccuparti!» insisté lui. «Dovrei? Allora cercherò di convincermene» concluse sua madre. Il segreto dei segreti di Paul era il suo cavallo a dondolo di legno, quello che non aveva nome. Da quando non sottostava più alla bambinaia e alla governante aveva fatto portare il cavallo a dondolo nella propria stanza all'ultimo piano della casa. «Ma ormai sei troppo grande per un cavallo a dondolo!» aveva protestato sua madre. «Fino a quando non avrò un cavallo vero voglio tenermi almeno qualche tipo di animale» era stata la sua risposta bizzarra. «Perché, ti tiene forse compagnia?» aveva chiesto lei ridendo. «Oh, sì! È molto buono, e mi tiene davvero compagnia» aveva risposto Paul. Così il cavallo, abbastanza scrostato, stava immobile nella posizione dell'impennata nella stanza del ragazzo. Il Derby si stava avvicinando e Paul era sempre più teso. Non sentiva quasi e spesso non rispondeva quando gli dicevano qualcosa, era piuttosto debole e i suoi occhi erano molto strani. Sua madre veniva colta all'improvviso da strane inquietudini per lui. A volte, per un mezz'ora... non di più, lei si sentiva così preoccupata per il figlio, da esserne addirittura angosciata. Voleva correre subito da lui e assicurarsi che stesse bene. Due giorni prima del Derby la madre stava partecipando a una grande
festa in città quando ebbe uno dei suoi accessi di inquietudine per Paul, il primogenito. Era talmente angosciata che quasi non riusciva a parlare. Lottò contro quella sensazione con tutte le forze, poiché credeva nel buon senso. Ma fu più forte di lei. Dovette lasciare la sala da ballo e scendere per telefonare in campagna. La governante dei bambini si spaventò e fu molto sorpresa per quella telefonata notturna. «I bambini stanno bene, signorina Wilmot?» «Sì, certo, stanno bene». «E il signorino Paul? Sta bene?» «Quando è andato a dormire stasera stava benissimo. Devo salire da lui per vedere come sta?» «No...» disse la madre di Paul titubante. «No, non si preoccupi, volevo solo sapere questo. Non rimanga alzata. Saremo di ritorno tra non molto.» Non voleva che il figlio venisse disturbato. «Molto bene» disse la governante. Era circa l'una di notte quando il padre e la madre di Paul tornarono a casa. Tutto era tranquillo. La madre di Paul andò in camera sua e si sfilò il mantello di pelliccia bianca. Aveva detto alla cameriera di non aspettarla. Sentì suo marito al piano di sotto che preparava un whisky e soda. Poi, per quella strana sensazione che aveva dentro, sgattaiolò al piano di sopra dove si trovava la stanza del figlio. Senza fare rumore percorse il corridoio. Non sentiva un lieve rumore? Che cos'era? Si fermò davanti alla porta col fiato sospeso ad ascoltare. C'era in effetti uno strano rumore pesante, non forte. Il suo cuore si arrestò. Era un rumore silenzioso, ma precipitoso e potente. Qualcosa di grosso che produceva un movimento violento e attenuato. Che cos'era? In nome di Dio che cos'era? Doveva saperlo. Credeva di conoscere quel rumore. Credeva di sapere che cosa fosse. Eppure non riusciva a fare mente locale. Non riusciva a immaginare che cosa potesse essere. E il rumore continuava, frenetico. Delicatatamente, in preda all'ansia e al terrore, girò la maniglia della porta. La stanza era buia. Ma udì e vide qualcosa che ondeggiava avanti e indietro nello spazio davanti alla finestra. Guardò attentamente piena di terrore e di stupore. Poi improvvisamente accese la luce e vide suo figlio, con il pigiama verde, che cavalcava come un pazzo il cavallo a dondolo. Il chiarore della luce lo illuminò d'un tratto mentre spronava il cavallo di legno, e illuminò
lei, in piedi, bionda, con il suo vestito verde chiaro luccicante, sulla soglia della porta. «Paul!» gridò «che cosa stai facendo?» «È Malabar!» gridò Paul con voce forte e strana. «È Malabar!» Lui la fissò per un attimo in modo insolito e assente mentre smetteva di spronare il cavallo di legno. Quindi rovinò a terra e lei, con tutti i suoi tormentati sentimenti di madre, corse per raccoglierlo. Ma era privo di sensi, e rimase privo di sensi e febbricitante. Parlava e si voltava, e sua madre rimase impietrita seduta accanto a lui. «Malabar! È Malabar! Bassett, Bassett, so che è Malabar!» Il ragazzo continuava a gridare tentando di alzarsi e spronare il cavallo che gli aveva fatto venire l'ispirazione. «Che cosa intende per Malabar?» chiese la madre a suo fratello Oscar. «È uno dei cavalli che parteciperanno al Derby» fu la risposta. E, suo malgrado, Oscar Cresswell ne parlò con Bassett e puntò egli stesso mille sterline su Malabar: quattordici a uno. Il terzo giorno della malattia fu critico, si aspettavano un cambiamento. Il ragazzo, con i suoi capelli biondi piuttosto lunghi, si rigirava senza posa sul cuscino. Non dormiva né tornava in sé, e i suoi occhi parevano pietre azzurre. La madre gli stava vicino, le sembrava che il proprio cuore si fosse arrestato, trasformandosi effettivamente in una pietra. Di sera Oscar Cresswell non venne, ma Bassett mandò a chiedere se poteva salire un attimo. La madre di Paul si adirò molto per l'intrusione, ma dopo averci pensato un po' acconsentì. Il ragazzo era sempre allo stesso punto, magari Bassettt lo avrebbe fatto tornare in sé. Il giardiniere, un tipo tarchiato coi baffetti castani e piccoli occhi bruni pungenti, si avvicinò in punta di piedi, fece come per togliersi il cappello che non portava davanti alla madre di Paul, e raggiunse il letto scrutando con quei piccoli occhi il ragazzo morente che si rigirava nel letto. «Signorino Paul!» bisbigliò Bassett. «Signorino Paul! Malabar è arrivato primo, una vittoria perfetta. Ho fatto come mi avevate ordinato. Avete vinto più di ottantamila sterline, signorino Paul!» «Malabar! Malabar! Avevo detto Malabar, mamma? L'avevo detto, vero? Pensi che io sia fortunato, mamma? Più di ottantamila sterline! Per me questa è fortuna, e per te, mamma? Oltre ottantamila sterline! Lo sapevo, sapevo che l'avrei saputo! Malabar ha proprio vinto. Io cavalco il mio cavallo a dondolo, fino a quando sono sicuro, e poi ti dico il vincitore, Bassett e tu puoi puntare quanto vuoi. Hai puntato tutto, Bassett?»
«Io ho puntato mille, signorino Paul». «Non te l'ho mai detto, mamma, ma se io riesco a cavalcare il mio cavallo e ad arrivare lì, allora sono sicuro al cento per cento... sì, mamma, al cento per cento! Te l'ho mai detto, mamma? Io sono fortunato!» «No, non me l'hai mai detto» disse la madre. Paul morì durante la notte. E quando giacque lì morto, la madre sentì il proprio fratello che le diceva: «Mio dio, Hester, hai oltre ottantamila sterline in più e un figlio in meno. Ma povero diavolo, povero diavolo, è meglio che se ne sia andato da questo mondo dove era costretto a cavalcare il suo cavallo a dondolo per indovinare un vincitore». Titolo originale: The Rocking-horse Winner Traduzione: Laura Pignatti Tanith Lee Tre giorni Tanith Lee, una delle scrittrici di romanzi e racconti fantastici più profiliche e note nel suo campo, non di rado abbandona il filone preferito per dedicarsi al genere orrorifico. L'originalità, la suggestione e il fascino accattivante dei suoi racconti dell'orrore, ispirati quasi sempre, più o meno apertamente, a tematiche psicologiche e sessuali, li rendono unici nel loro genere. Tre giorni, pur essendo fra i meno noti, è forse uno dei racconti migliori della Lee: è una melodrammatica storia d'amore, ambientata in un'epoca a noi lontana, che si rifà esplìcitamente alla narrativa di Poe. È una storia di reincarnazioni, di occultismo, diventato ragione di vita e poi atrocemente stroncato. Tanith Lee va direttamente all'essenza della storia: «Passai sul ponte in preda alla più strana sensazione che avessi mai provato. Tuttora non saprei definirla con precisione. Mi sembrò quasi, per un istante, di avere scorto l'aspetto più sgangherato delle cose e l'infinita, mutevole e terribile verità che vi è celata. Ma svanì subito, e ne fui contento.» Lo stile volutamente retrò dell'autrice risulta incredibilmente simile a quello di Joyce Carol Oates in Nightside. La casa era alta, imponente, con i muri tutti scrostati: sembrava cadente, prima del tempo. L'unica cosa che mi parve affascinante era l'attico buio, caratteristico di quel particolare tipo di edifici, che occhieggiava dal tetto
spiovente. Sembrava dicesse: «C'è qualcosa di bello qui, dopotutto. O, almeno, potrebbe esserci qualcosa di bello, se fosse lecito.» Più in basso, le chiome dei giovani ippocastani, che costeggiavano il viale d'accesso al Bois Palais, parevano fondersi quasi e sfumare in un'unica macchia di color verde. Dietro al muro che recingeva il giardino, spuntavano le gradinate e, verso il fiume, in lontananza, le punte dei tetti d'ardesia dai riflessi bluastri di Montmoulin e la cupola del Sacré Coeur, che li sovrastava tutti. Tutto era, ovviamente, magnifico. Tuttavia, quando mi reco in quel luogo, non posso fare a meno di provare un senso di apprensione, indubbiamente dovuto alla casa e a quello che vi successe in passato. Nessuno penserebbe mai — a torto, però — che qualcosa di strano possa essere accaduto in luogo dall'aspetto così normale. Il mio amico (uso il termine piuttoso liberamente) Charles Laurent apparteneva alla famiglia che vi abitava. A quell'epoca stava facendo rapidamente carriera come avvocato grazie anche alla pubblicazione di alcuni libri, versioni romanzate ma assai argute e intelligenti, di antichi processi e casi giuridici. Proprio a causa di questa sua velleità letteraria ci siamo incontrati. Fui immediatamente attratto da Charles: affascinante, colto, un uomo veramente piacevole e divertente. Credo che nessuno ritenga sconveniente essere amici di un abile avvocato. A quel tempo stavo tentando di fidanzarmi ed il padre della ragazza era piuttosto contrario e si adoperava non poco per ostacolare i miei progetti. Dopo una lite furiosa, e una scenata isterica degna di un melodrama, io e la mia innamorata decidemmo di separarci almeno per un po', in modo che si placassero le acque, confidando nei contatti epistolari e nella connivenza materna — alla madre, un vero angelo, ero sempre piaciuto — per salvaguardare il nostro amore e per non ammattire. È avvilente per un uomo giovane essere innamorato di una donna e non poterla avere: deve, infatti, rinunciare necessariamente a tutta una serie di piaceri impossibili da sostituire con altri. In poche parole, non era per me uno dei migliori periodi. Conoscere e frequentare Charles Laurent mi fu di qualche aiuto. Superficiale era il termine più adatto per definire il nostro rapporto: la superficialità era la sua principale ed essenziale caratteristica. Sapevamo quanto basta l'uno dell'altro. Per il resto c'erano le cene, gli appuntamenti per bere un bicchiere, la musica, l'arte, che potevano condurci per ore ed ore in un lungo, piacevole viaggio nella notte, fino alle prime luci dell'alba. Fu quindi con grande sorpresa che accolsi l'invito a cena a casa sua. «È un'esperienza da provare» mi disse. «Credimi, te lo assicuro, sarà una
serata tremenda. Ti chiedo egoisticamente di alleviarmi dalla noia e dall'orrore. Non che, comunque, qualcuno possa farlo...» Ovviamente domandai spiegazioni. Mi disse rapidamente, con una punta di disprezzo, che suo padre avrebbe celebrato l'anniversario della morte della moglie. «Ma io sono un estraneo per la famiglia» obiettai. «Non sarei certo il benvenuto a una simile ricorrenza.» «Siamo tutti estranei. Ci odia tutti: me, mio fratello, mia sorella... odiava persino mia madre.» disse in tono volutamente freddo, distaccato. Nonostante tutto, mi sentivo solleticato dall'idea di accettare l'invito. «Ora io ho te» aggiunse Charles. «Lo scrittore è stato risvegliato e annusa l'aria.» «Non è affatto vero. Tu non mi hai mai parlato di un fratello e di una sorella.» «Semery non ci sarà. Si tiene a debita distanza dalla casa in occasioni simili. Honorine e io ci viviamo e non abbiamo altra scelta.» «Honorine è tua sorella?» «Si, è mia sorella, un povero essere insignificante, voluto da un dio iniquo.» Devo confessare che non mi piacque il modo con cui la descrisse. Se quanto diceva era vero, avrebbe dovuto proteggerla e non crocifiggerla con parole spietate di fronte a un quasi sconosciuto qual ero io. Vide la mia espressione accigliata e aggiunse: «Non avere paura. Non te la faremo sposare. Mi ricordo troppo bene della bonne Annette.» Francamente, pensavo che l'intera conversazione sarebbe stata dimenticata, ma non fu così. Il mattino seguente ricevetti un biglietto d'invito, con i caratteri stampati in rilievo. Due sere dopo mi trovavo sotto gli ippocastani di fronte alla casa, alta e non certo attraente, e, pochi attimi dopo, non so se per fortuna o sventura, nel suo interno. Mi sentivo a dir poco a disagio, ma nel contempo anche estremamente curioso. Charles aveva colpito nel segno con quella sua affermazione a proposito dello scrittore risvegliato presente in me. A che cosa avrei assistito durante la commemorazione? Mi vennero subito in mente alcune scene dei racconti di Poe: un corpo imbalsamato, corone nere, un soffitto a volta, un aristocratico decrepito vestito di nero, dalle mani lunghe e affusolate... Persino la figlia aveva acquisito un certo rilievo. Credo di avere giocherellato con il suo ritratto, che la raffigurava mentre suonava l'arpa. La realtà era chiaramente ben diversa. La famiglia, o almeno quanto ri-
maneva di essa, sembrava del tutto normale. Monsieur Laurent era un corpulento maître d'affaires dal colorito rubizzo. Mi squadrò e mi fece entrare. Mi ricordava anche troppo bene quell'altro padre col quale avevo a che fare, quello di Annette, che si trovava esattamente a quattro miglia di distanza, a ovest... e per un istante mi sentii depresso. C'erano anche uno zio malvestito e balbuziente, due anziane signore miopi e sorde — non riuscii ad appurare se fossero parenti o meno — e un servitore grasso e zoppo. Cominciai a pensare di essere capitato in un centro d'assistenza per sordi, muti, storpi e zoppi. Charles, ovviamente, non ne faceva parte. In una famiglia d'individui amorfi e insignificanti era nato, improvvisamente, Charles, risplendente del suo fulgore. Anche il fratello più giovane, Semery, che dopo tutto aveva deciso di partecipare al rito, era fuori dal comune: fisico prestante e aria scaltra, di chi conosce la vita. I due fratelli si salutarono calorosamente, come banditi rivali che, disarmati, si incontrano fra le colline. Semery era considerato la pecora nera della famiglia: ogni famiglia, del resto, ha la sua. Solo alcuni colpi di fortuna e un certo spirito d'iniziativa avevano fatto sì che tale titolo non venisse conferito a Charles al quale, a mio avviso, sarebbe stato molto più congeniale. La sorella scese più tardi. Non aveva con sé l'arpa ma, ahimè, tutto quello che Charles aveva detto di lei era vero. I figli maschi probabilmente somigliavano alla madre scomparsa. La povera Honorine non faceva onore nemmeno a suo padre: la pesantezza del suo corpo contrastante con l'abnorme sottigliezza delle ossa faceva supporre che, al momento dell'assemblaggio, fosse stato commesso un errore. Mangiò molto poco e si capì immediatamente che la figura tozza e le linee eccessivamente tonde non erano dovuti né a golosità, né a sfrenato appetito. Non era del tutto brutta, questa era l'unica cosa che si potesse dire di lei. Se lo fosse stata, avrebbe però avuto un vantaggio ben più grande. Così com'era, non colpiva infatti l'attenzione degli altri. I suoi occhi piccoli, dei quali, Dio mi perdoni, non ricordo più il colore, guardavano costantemente verso il basso; alla vista dei suoi capelli sottili, raccolti in un finto chignon che non si adattava esattamente al loro colore naturale, provai un senso di disperazione. Spesso noi scrittori postuliamo l'esistenza di un mondo futuro libero per entrambi i sessi senza tuttavia considerare i vantaggi che un individuo prestante e affascinante possiede. Mai sarebbe stato più necessario possedere un simile vantaggio. Povera, infelice creatura. Era ovvio che suo padre la detestasse ma, come mi aveva detto Charles, provava ben poco affetto anche per tutti gli altri membri della famiglia.
L'atroce sfortuna della figlia era che, mentre i due maschi erano riusciti a eludere la prigionia, Honorine era rimasta intrappolata. Non aveva altra alternativa che aspettare, come molti, la morte del tiranno. E sarebbe stata una lunga attesa, visto che quest'ultimo era robusto e in buona salute. Come intendeva impiegare tutto questo tempo? Come trascorreva le sue giornate? Le mie osservazioni su monsieur Laurent appaiono certamente poco cortesi. Col senno di poi, posso sicuramente affermare che fin da quel momento lo presi in antipatia e che egli fece lo stesso. Sì, ne sono sicuro. Mi ricordava mio suocero, riluttante e testardo ma, rispetto a lui, aveva qualcos'altro di diverso. Per non perpetrare verso me stesso un'ingiustizia più grossa di quella che devo commettere, cercherò di riportare qui parte della conversazione e di descrivere quanto accadde durante quella prima, estremamente squallida cena. Come aperitivo fu offerto dello sherry, o qualcosa di simile. La conversazione era pressoché inesistente. Monsieur Laurent sorvegliava la scena in piedi, vicino al caminetto: dopo avere risposto malamente un paio di volte alle due anziane signore e al servitore zoppo, restò muto ad osservarci, come fossimo uno squadrone di reclute assegnatogli prima dell'inizio delle grandi ostilità. Il suo sguardo era carico di fastidio, disprezzo ed esasperazione. Trovai la cosa estremamente irritante. Non conoscendomi, non aveva certo elementi per formarsi un'opinione negativa su di me. Anche per quanto riguarda Charles, qualsiasi padre sarebbe stato orgoglioso di un figlio del genere. Stavamo parlando sottovoce e Charles mi disse, quasi leggendomi nel pensiero: «È palese quello che pensa di me, non è vero?» Risposi: «Non credo che l'espressione del suo volto indichi veramente l'opinione che ha di te.» Charles sorrise: «No, ti sbagli. Quando vinsi la prima causa, mi guardò esattamente allo stesso modo e quando, scioccamente, gliene parlai, il vecchio maledetto mi disse: "Non è certo la stupidità altrui a renderti intelligente". Il mio primo libro è stato un successo; mi ricordo che c'incontrammo sulle scale e che mio padre ne aveva una copia in mano. Rimasi allibito per il solo fatto che gli avesse dato un'occhiata e glielo dissi. In tutta risposta, mi consegnò il testo, come se glielo avessi domandato, e disse: "Immagino che tu riesca a vendere questa porcheria solo perché la maggior parte della gente è assolutamente idiota".» In quel momento fu servita la cena e il nostro ospite si diresse con passo marziale verso la sala da pranzo, senza minimamente preoccuparsi di farci strada o di scortare le signore. Charles accompagnò le due anziane invitate,
Semery si avviò in direzione della sala con aria indolente e io mi voltai cercando mademoiselle Honorine per offrirle il braccio, ma la ragazza era troppo occupata a raccogliere i bicchieri sporchi dello sherry. Guardandola, sentii fin troppo vivo lo spaventoso imbarazzo della sua sciatteria e m'incamminai solitario. Inutile dire che continuavo a non capire per quale strana ragione Charles mi avesse invitato alla commemorazione della defunta. Potei solo concludere che il puro disgusto che monsieur Laurent provava per l'intera umanità gli impediva persino di distinguere se ci fosse una persona in più, o in meno alla cerimonia. Sia che venissimo o che ce ne andassimo, eravamo in ogni modo una fonte di dispiacere. Forse, i nuovi esemplari dell'odiosa razza potevano anche interessarlo, temporaneamente, poiché erano un'ulteriore e convincente prova che nulla era mutato e che le sue opinioni in merito erano sempre valide. «Seduti» sbottò monsieur Laurent, guardandosi attorno. Obbedienti come cagnolini, ci sedemmo. Fu portato in tavola l'antipasto e si passò quindi all'assaggio del vino. Monsieur Laurent mi guardò e disse trattandomi da povero scroccone: «Il vino non è particolarmente buono, ma spero si accontenterà.» Ebbi subito l'istinto di ribattere, ma mi trattenni e sorrisi educatamente. Non potei però fare a meno di dare un piccolo calcio a Charles, sotto il tavolo. Buono o cattivo che fosse il vino, dopo un paio di bicchieri il volto del demoniaco padre iniziò a illuminarsi. Fui letteralmente colpito dal bagliore dei suoi occhi e compresi che il disprezzo cosmico che nutriva si stava tramutando in malizia. In quel momento pensavo unicamente a due cose: alla situazione che si faceva sempre più interessante e misteriosa e al modo con cui avrei potuto reagire se mi avesse brutalmente insultato. Percepivo, infatti, esattamente come fanno gli animali, l'arrivo della tempesta. Mi ritenni comunque al sicuro dal momento che, a differenza di quanto avvenuto con i suoi familiari, non aveva avuto modo di conoscere i miei punti deboli e che, quindi, non avrebbe provato poi molto piacere a punzecchiarmi. I membri della famiglia erano da sempre le vittime preferite. Honorine — nessuno sforzo fu fatto per disporre elegantemente i posti a tavola — sedeva tre posti lontano da me: fra noi c'erano infatti Semery e una sedia vuota. Alle sue spalle, sopra la credenza in mogano, c'era una fotografia incorniciata con sopra un nastro nero che pareva essere il ritratto della moglie e madre defunta. Volevo studiarla attentamente ma la posizione me lo impediva. Proprio in quel momento però monsieur Laurent ri-
chiamò la nostra attenzione su di esso. «Da viva» disse «quella donna era una vera sciagura. Brindo, come potete vedere, alla sua scomparsa. Ah, che sentimento perverso anzi no, mi correggo, puro. D'altronde, si è presa la sua vendetta: mi ha lasciato un'enorme palla al piede, tutti voi!» Una ventata di cupa tristezza pervase l'intera tavolata. Una delle anziane signore si tamponò il viso con un fazzoletto e si capì chiaramente che si trattava di un tic nervoso. Non era questa l'unica occasione in cui si era affrontata apertamente la questione. Guardai furtivamente Charles: aveva un atteggiamento assente, freddo e composto. Non c'era quindi da meravigliarsi se riusciva a non perdere la testa in un'aula di tribunale, abituato com'era sin da piccolo a simili sproloqui. Semery, seduto accanto a me, ribatté, deliberatamente o impulsivamente, in tono brusco alle sue parole: «Caro papà, perché non lasci perdere, una volta per tutte?» «Ah, mio caro Semery» rispose Cher Papa con un sorriso «ti sei preso la briga di lasciare la tua lercia catapecchia per venirmi a dire questo? E come va la pittura? Vendi bene le tue opere, non è vero figliolo? Eri venuto a chiedermi... vediamo un po'... ah, i soldi. E io ti risposi che ci avrei pensato. Ma, dopo tutto, a che scopo darteli?» Semery nel frattempo era sbiancato in volto. Non riuscivo a credere a ciò che sentivo né tanto meno al fatto che fosse stato Semery stesso a offrirgli spontaneamente il pretesto per la sua pubblica condanna. Era come se avesse dovuto farlo. «Sperperi tutto e hai così poco talento!» ghignò il padre. «No, penso proprio che dovrai farne a meno. Puoi benissimo tirare la cinghia o, se vuoi, puoi tornare a vivere qui. La porta è sempre aperta per te.» «Preferisco crepare nella mia lercia catapecchia» gridò Semery. «No, menti. Altrimenti, perché saresti qui?» «Non certo per chiederti qualcosa, come ben immagini.» «Per elemosinare da tuo fratello Charles, allora. Davvero la scena più commovente dell'intero pomeriggio. Che peccato averti scomodato. Ma Charles non scialacqua il danaro, anche se è scriteriato per tutto il resto. Non otterrai nulla da lui. E ti assicuro, nemmeno da me.» Semery si alzò. Il padre cambiò sorprendentemente espressione: il suo volto si fece duro come la pietra, mentre gli occhi emanavano un potente fluido magnetico. «Seduto!» disse con tono aspro. L'intera stanza sembrò tremare al suo comando. Semery sedette nuovamente rovesciando il suo bicchiere di vino con le mani tremanti dalla paura. In poche altre occasioni
ho potuto osservare come un comune mortale riesca, del tutto fortuitamente, a dominare un suo simile. Mi sentii male, come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Ma in fondo che cosa era accaduto? Descriverlo qui, a parole, è pressoché impossibile. «Sì, Semery» continuò monsieur Laurent «dovresti tornare all'ovile e farti un nome come pittore ritraendo la tua splendida sorella.» Dopo avere raso al suolo una postazione con il tiro infallibile del suo cannone, il signore della guerra aveva distolto la propria mira dai feriti e si apprestava ora a colpire gli indifesi. Non potei fare a meno di guardare la ragazza, preso com'ero dal fascino dell'orrido, per studiarne la reazione. Anche lei, ovviamente era più che abituata a un simile trattamento. Si fece piccola piccola, guardando verso il basso, mentre il suo orrendo chignon tremava tutto. Del resto, quella posizione le era naturale: sembrava quasi a suo agio. Il suo corpo si deformò così velocemente, così facilmente, assumendo i connotati della miseria umana. «Complimenti al tuo coiffeur, Honorine» disse monsieur Laurent. «I tuoi nemici sono riusciti ancora una volta a fare di te un mostro. Signore, fai che arrivi presto il giorno» aggiunse infine, sorseggiando avidamente il vino «in cui questa fissazione dei capelli folti finisca una buona volta. Una figlia completamente calva sarebbe una novità. Tutto questo strofinare, pettinare, darsi da fare. Il destino ha voluto che tu fossi una vera mostruosità, bambina mia. Dovresti accettare il ruolo assegnatoti. Guardati, mia cara, palla informe e sgraziata...» In quel momento presi il mio bicchiere con tutta l'intenzione di tirarglielo in faccia per fermarlo. Ma, grazie a Dio, Charles interruppe lo sproloquio con un poderoso (e forse finto) starnuto. Il padre si voltò lentamente, spostando opportunamente il tiro. «E tu» disse a Charles che si stava appena riprendendo dallo starnuto «il nostro usuraio, il ricco gigolò delle edicole. Che cosa hai da dire?» Charles scrollò le spalle. «Quello che ho sempre detto. E quello che tu hai sempre detto. Ho un introito mio personale e non mi fai paura. Puoi mettermi alla porta anche domani.» «Non metto alla porta nessuno della mia tribù. Sono loro che si condannano a un simile destino da soli. E i tuoi libri, che cosa sono? Non fai altro che plagiare, rubacchiare di qua e di là, raffazzonare e pasticciare.» «E livres piovono nelle mie mani» ribatté Charles. Dio, pensai, le parole taglienti di monsieur Laurent non riuscivano a colpire il bersaglio: era come se uno scudo le respingesse. Il perfido padre se ne rendeva benissimo conto. L'attacco diretto all'orgoglio non funziona-
va più o, almeno non palesemente. Ricco di talento, amato, egoista e fortunato, Charles non era un buon bersaglio. Maligno come sempre, monsieur Laurent distolse strategicamente la mira dal figlio. «È un vero peccato» continuò «che tua sorella abbia iniziato a leggere i tuoi libri riempendosi, più di quanto normalmente non faccia, la testa pelata di ulteriori stupidaggini pre-elaborate. Si caccia il cappellino su quel cranio pelato e va a sprecare tempo alla libreria, a discutere dei tuoi successi. E così è caduta preda delle matte.» A queste parole, inaspettatamente, Honorine reagì mormorando rapide parole: «No, padre, non devi dire che sono...» «Non devo? Non devo? Cara la mia grassa e calva figliola, tieni la bocca chiusa: so quello che dico. Le tue carissime amiche sono pazze e credo proprio sia il caso di avvisare la polizia...» «Padre!» il grido era carico di angoscia. «Che cosa? Credi siano amiche tue, eh? Tu avresti amiche? Come potresti, palla di grasso? Credi siano attratte dalla tua bellezza e dal tuo fascino? Eh? È il mio denaro che le attira: le tue insane conoscenti della libreria sono il perfetto esempio di quella nota razza conosciuta come i ciarlatani.» «Non ci andrò più» rispose Honorine. La sua affermazione mi stupì. La pronunciò con voce alterata, profonda e decisa. Dandogli ragione era riuscita, almeno temporaneamente, a fermarlo e a strappargli l'arma dalle mani. A quell'epoca, le amiche pazze, le ciarlatane della libreria erano solo uno dei molteplici aspetti dell'intera, soprendente faccenda. Io, sinceramente, non vi feci particolarmente caso. Non credo ci siano altri fatti degni di nota riguardo alla cena. I vari piatti si susseguivano l'uno dopo l'altro e quelli che avevano il coraggio di mangiare (pochi, in verità) lo fecero. Ci furono altre frecciate dell'instancabile monsieur Laurent, ma nessuna era indirizzata a me, malgrado fossi pronto e ansioso di riceverle, e forse anche un po' ubriaco. Nel mio stato confusionale, mentre stavo seduto a tavola, cercavo di scrivere mentalmente una lettera ad Annette in cui le raccontavo tutto, parola per parola, di questa inenarrabile storia. (Grazie a quella lettera, scritta d'impulso alle due del mattino, dopo una notte insonne, con il ricordo della serata e della mia indignazione ancora fresco, ho potuto riferirvi i particolari poc'anzi citati.) Tra l'altro, ho augurato almeno venti volte a monsieur Laurent che gli venisse un colpo. Quel corpo pesante e grosso, quel volto rubizzo mi sembravano segni premonitori inequivocabili di un colpo apoplettico mentre, in realtà, erano semplicemente spie della
sua ottima salute. Appena potei, senza andare a aggiungermi alle vittime già cadute sul campo, uscendo platealmente dalla sala a metà cena e sbattendo la porta, me ne andai. Salutai frettolosamente Charles e mi avviai solitario lungo il fiume, camminando fin dopo mezzanotte mentre tentavo invano di fare sbollire la rabbia. Come dissi ad Annette, il mio piacevole compagno aveva perso tutto il mio favore. Pensai che non dovevo più vederlo: non era poi così semplice perdonarlo per avermi coinvolto in un conflitto familiare a me del tutto estraneo. In un momento di particolare accanimento, arrivai persino a sospettare che si fosse preso gioco di me. Comunque malgrado non avessi risposto a due suoi biglietti e mi fossi negato a una sua successiva visita, riuscì ugualmente a catturarmi nel parco del Palais. Ci fu una lite o, per lo meno, io iniziai a litigare, ma non servì: non era quello il modo di affrontare Charles quando non aveva la minima intenzione di rispondere alla sfida. «Posso solo farti le mie scuse» disse con voce rotta. «Che altro posso dire?» «In nome di Dio, perché mi hai coinvolto in questa maledetta faccenda?» «Beh, sinceramente, perché — anche se stenterai a crederlo — è più cortese con noi se c'è un estraneo.» A quell'affermazione tacqui osservando, imbronciato, il verde boschetto in lontananza. In passato, io e Annette avevamo meditato d'incontrarci qualche volta laggiù. Il parco mi riempiva di una profonda, dolcissima tristezza che predominava su tutte le altre emozioni. Guardai Charles, che sembrava francamente dispiaciuto, e riconobbi una certa logicità in quanto mi aveva detto anche se l'idea di monsieur Laurent scortese — sempreché questo fosse uno dei molteplici possibili aspetti del suo carattere — dava allegramente i brividi. E così, se ciò vi piace, si conclude il primo atto. Il secondo inizia con un paio di eventi che si svolgono fuori scena. Avevo avuto un colpo di fortuna: il padre di Annette, reputandolo necessario per questioni di lavoro, era andato in Inghilterra. Ciò rese l'estate particolarmente piacevole e significò per me vedere pochissimo Charles Laurent. Poi, una mattina, mentre passeggiavo nel mercato coperto vicino alla cattedrale, sbattei letteralmente contro Semery. Dopo i soliti convenevoli, m'invitò nel suo appartamento, che si trovava sopra una drogheria, sulla ri-
va sinistra del fiume. Era nel quartiere di Montmoulin, la collina medioevale del famoso mulino a vento, ormai scomparso. Si sente spesso definire la zona come pittorescamente squallida. Vi abitano i poveri, certamente, ma anche gli angeli caduti di origine borghese, appollaiati nelle soffitte e negli atelier che sovrastano i viottoli acciottolati e tortuosi. L'aria è permeata dall'odore di minestra di cavoli, dall'aroma di buon caffè, che talora anche i poveri riescono a procurarsi, e dallo squisito profumo dei gerani. Con il loro colore rosso vivo, i fiori spiccano sui balconi e sui muri, sopra le strette scale di accesso, e si stagliano netti contro i fazzoletti di cielo, solcati da stormi di piccioni, che occhieggiano fra i panni stesi ad asciugare. Salimmo al piano superiore; raggiungemmo l'accogliente atelier. All'interno la tavola era apparecchiata: su di essa c'erano pane, formaggio, frutta, vino... e un gatto dal pelo fulvo che giocava con una mela. Da una tenda sbucò una ragazza molto carina che corse incontro a Semery per baciarlo. Con le braccia ancora allacciate al collo di Semery, si voltò per osservarmi, esattamente come fanno tutte le donne innamorate quando appare un altro uomo. Malgrado indossasse una camicia piuttosto ampia, mi accorsi subito che aspettava un bambino. Sull'identità del padre non c'era alcun dubbio, anche se la ragazza non portava alcun anello al dito. Mi ricordai, provando una fugace sensazione di imbarazzo, della presunta richiesta di denaro da parte di Semery a monsieur Laurent: proprio questa poteva esserne la ragione. C'erano come ovvio, quadri dappertutto, sui muri, sui cavalietti, accatastati qua e là o persino ammonticchiati sul pavimento, a guisa di sedile per il gatto. «Coraggio» mi disse Semery, vedendo che mi guardavo attorno, «non cercherò di venderti proprio nulla.» L'affermazione era stranamente affine a quella di Charles, quando mi rassicurò dicendomi che non mi avrebbe offerto di sposare Honorine. Era una sfumatura del tutto irrilevante; eppure, grazie a quella percepii come entrambi i fratelli avessero un innato atteggiamento difensivo nei confronti del mondo esterno, probabilmente ingenerato dal comportamento del loro abominevole padre. «Ma guarda pure se vuoi.» «Certo che vuole» disse la ragazza con tono malizioso. «Come hai apparecchiato bene la tavola, Miou!» disse Semery. «Volete un goccio di vino?» Passammo un paio d'ore veramente piacevoli. Semery si stava rivelando un compagno altrettanto gradevole di Charles, Miou era affascinante come
il suo gatto. Il pranzo si rivelò appetitoso. Per quanto riguarda il lato artistico — non sono un critico d'arte, ma un po' me ne intendo — devo dire che Semery, pur non essendo un genio, aveva talento. Le sue opere avevano una straordinaria energia, erano ricche di fascino, talora vagamente stucchevoli, ma mai troppo facili. Mi piacquero in particolare due o tre originali vedute notturne della città, una delle quali risultava incredibilmente luminosa grazie a uno stormo di uccelli che uscivano da alcuni cesti e che volavano sopra un ponte del tutto illuminato. «Sì» disse, avvicinandosi a me. «L'ho intitolato Honorine.» Restai senza parole. «Non voglio metterti a disagio» aggiunse «ma anche tu hai subito il battesimo del fuoco. Eri presente l'ultima volta che ci sono stato.» «Smettila, Semery» lo interruppe Miou che stava cullando il gatto, seduta in poltrona, esercitandosi per l'arrivo del bebè «parlare di lui ti fa male e ti provoca l'emicrania.» «Hai ragione» rispose Semery. Riempì i nostri bicchieri di vino. «Ma posso almeno parlare di Honorine? Sì? Ó No? Devo farlo. Quel povero essere intristito. Se avessi soldi la prenderei a vivere qui con me, anche se Dio solo sa quanto mi annoia. Il nostro caro padre, capisci, ha devastato e straziato la sua vita. Non riesce più a parlare, risponde solo alle domande che le si rivolgono. Se le dici: "Potresti per piacere fare questo?" hai come risposta "Oh, sì, se tu lo desideri." Si lascia cadere di mano ogni cosa, quando cammina inciampa, anche se non c'è nulla in cui inciampare. Comunque» disse con fierezza giovanile «qualcosa m'è riuscito di fare per lei. Sono stato io a portarla alla libreria di Rue Danton e a presentarla alle tre streghe.» Miou iniziò a cantare una canzone popolare con tono sommesso, estraniandosi da noi. «È la libreria che ha fatto infuriare tuo padre? E le tre streghe?» «Beh, le tre vecchie signore, una in particolare, grigia di capelli ed esile di corporatura, leggono i tarocchi nel retro. Qualche volta, quando c'è la luna piena, fanno sedute spiritiche.» «E Honorine...» «Honorine ha preso parte a una o due sedute. Non ha mai parlato di quello che è successo, ma si vedeva benissimo che le piacevano. Quando la incontravi, dopo una seduta, aveva le guance colorite e i suoi occhi brillavano di una luce particolare. Sfortunatamente, lo storpio che serve mon père scoprì tutto e puntualmente glielo riferì. Ciò pose fine all'unico, mise-
ro divertimento di Honorine. A meno che non riesca ad evitare le spie e il nostro maledetto genitore.» «Sur la chatte, le chat, / Et sur la reine le roi...» cantava maliziosamente Miou al gatto. «D'altro canto» aggiunse Semery, ora con notevole nonchalance «sono stato oggi al negozio e una delle tre misteriose sorelle... Dio, dovrò fare loro un ritratto, ma non c'è comunque fetta: avranno ognuna duecento anni e ci sopravviveranno sicuramente... dunque dicevo — Miou aveva smesso di cantare ed era tutt'orecchi — ... dicevo che una di loro mi ha dato un biglietto per Honorine. Qualcosa che gli spiriti hanno rivelato e che Honorine voleva a quanto sembra sapere.» E dalla giacca Semery estrasse un foglietto di carta, non sigillato, semplicemente piegato a metà e lo tenne a mezz'aria con sguardo interrogativo. «Mi domandò che cosa possa essere...» «Non avresti dovuto portarlo qui» disse Miou facendosi il segno della croce con in grembo un ammasso di pelo fulvo e di zampe. «Spiriti, magia...» «E dove, allora? Mio padre è via domani pomeriggio e io potrò approfittarne per consegnare il foglio a mia sorella. Oggi è impossibile farlo: se metto anche un solo piede in quella casa mio padre mi azzanna.» «Beh, riponi quel foglio da qualche parte!» replicò Miou. «Non credi che debba leggerlo? Messaggi segreti alla mia sorellina...» si voltò verso di me. «Veramente, l'ho già fatto. Che ne pensi?» Aprì il foglio e me lo diede. Ero curioso, lo ammetto. Non sembrava esserci nulla di male nel messaggio; per di più, io ho sempre avuto scarsa considerazione del soprannaturale. Sul biglietto proveniente dalla misteriosa libreria si leggeva: Come le abbiamo già detto, è un personaggio non di primo piano, ricordato nei libri di storia. Su di lei è stato scritto almeno un romanzo. Il nome è corretto, Lucie Belmains. È certamente morta impiccandosi. La data della sua morte è l'otto aprile 1760, di mattina. «Affascinante, vero?» disse Semery. «Che cosa significa? Chi è Lucie Belmains?» Miou e il gatto sbirciavano il biglietto, dietro di noi. «Lucie Belmains»
disse Miou «apparteneva alla piccola aristocrazia; era molto bella e molto malvagia. Beveva, andava a cavallo, bestemmiava meglio, o bisognerebbe dire peggio, di un uomo. Fu l'amante di numerosi principi e duchi. Una volta si travestì da bandito e tese una trappola al re in persona. Probabilmente fu anche amante sua, finché non si stancò di tutte le ricchezze che le donava. In seguito s'innamorò di un uomo più giovane di lei di cinque anni. Anch'egli l'amava, alla follia, e quando per lei fu ucciso in duello, Lucie diede una grandissima festa, come facevano le imperatrici romane. Il mattino dopo s'impiccò come Antigone, con una corda color cremisi.» Semery e io restammo senza parole finché Miou non finì il racconto, trionfante e senza più fiato. «A quanto sembrava» disse allora Semery «è veramente stato scritto un romanzo su Lucie e tu devi averlo letto.» «Sì, quand'ero piccola» rispose Miou, che aveva allora solo diciassette anni. «Ricordo che mia sorella e io ci leggevamo a vicenda brani del libro, a voce alta, quando tutti credevano che dormissimo. E come ridevamo. E ci vestivamo usando le tende di pizzo e i cappelli di nostra madre. Brindavamo con bicchieri pieni d'acqua, fingendo fosse champagne, dicendo: "Io sono Lucie e tu la mia schiava!" Litigavamo selvaggiamente perché nessuna delle due voleva essere la schiava. E poi un giorno Adele appese per il collo la sua bambola con un nastro rosso e facemmo il funerale. Maman ci scoprì e ci picchiò entrambe. «E fece benissimo» disse Semery. «Non sono generi di cose adatte alla futura moglie del più noto pittore di Francia, alla madre del suo erede.» A queste parole Miou sorrise e appoggiò il capo sulla spalla di Semery. «E sia pure» continuò quest'ultimo accarezzandole i capelli «ma che cosa ha a che fare tutto questo con Honorine?» «Sta forse compiendo uno studio su questo personaggio o sull'epoca storica?» ipotizzai io. «No, non prova più alcun tipo di interesse.» Più tardi, verso sera, passeggiammo lungo la riva del fiume. I raggi del sole, piatti all'orizzonte, si riflettevano sull'acqua. Io trovai il modo di acquistare il quadro degli uccelli in fuga per Annette. Ero certo che le sarebbe piaciuto... e in effetti così fu. Lo abbiamo ancora e, dal momento che Semery non è più uno sconosciuto, vale certamente più di quanto non l'abbia pagato. A quel tempo, tuttavia, ebbi da discutere con Semery, che mi accusò di patrocinare la sua causa o di volere pagare il conto del pranzo. Grazie a Dio il tutto si risolse. Poi, scendemmo in strada, Miou avvolta nel
suo scialle leggero, con il cappellino di paglia ornato da ciliegie sul capo. Quando raggiungemmo Pont Nouveau e io mi stavo accingendo ad attraversarlo, Semery mi disse: «Quella faccenda del biglietto, la belle Lucie Belmains. C'è qualcosa che mi preoccupa. Forse non dovrei recapitare il biglietto a Honorine. Sarebbe tanto disdicevole se non lo facessi?» «Sì.» «Non sarebbe, invece, prudente?» «Sì, forse. Ma dal momento che non sai nulla...» dissi. «Ma forse qualcosa so. Le pratiche delle streghe hanno spesso a che fare con la reincarnazione, il passaggio di un'anima attraverso molteplici vite e differenti corpi.» Ci fermammo di colpo, folgorati dallo stesso pensiero. «Intendi dire che tua sorella crede di avere vissuto in una vita passata nella quale...» «Nella quale era bella e famosa per la sua scelleratezza. Nella quale nobili e re sbavavano ai suoi piedi e le spade dei duellanti s'incrociavano per ottenere i suoi favori.» Guardammo il fiume, fonte di vita e culla della città. La sua superficie, tetra come il piombo nelle cupe giornate invernali, luccicava sotto i raggi del sole e sembrava quasi ricoperta da un'infinità di minuscole paillettes. «Ebbene» disse infine Semery «perché no? Se ciò la rende felice per un po', se la distrae piacevolmente. Povera sorella mia! Che cosa ha, in fondo! Che cosa può sperare di avere? Se, almeno una volta al giorno, può dire a se stessa: "Un tempo ero bella, un tempo ero libera, sfrenata, stravagante, adorata e amata" che male gliene può venire?» Lo guardai. Aveva gli occhi umidi ed era diventato pallido, come se avesse un attacco di mal di testa. D'impulso afferrai la sua mano. «Perché no?» dissi. «Sì, Semery, perché no?» Miou lasciò che la baciassi sulla rosea guancia, in segno di gratitudine. Passai sul ponte in preda alla più strana sensazione che avessi mai provato. Tuttora non saprei definirla con precisione. Mi sembrò quasi, per un istante, di avere colto l'aspetto più sgangherato delle cose e l'infinita, mutevole e terribile verità che vi è celata. Mentre l'estate volgeva alla fine, si percepiva già l'arrivo dell'inverno e dello scontento. Il nulla si sostituì gradatamente agli uccellini e alle foglie dorate sugli alberi del Bois. Il padre di Annette era tornato, di pessimo umore, e si era asserragliato in casa, come fosse assediato, per difendersi
dai nemici, e da uno in particolare: io. Erano ormai trascorsi quasi tre mesi dal mio incontro casuale con Semery. Da quell'epoca ci eravamo visti un paio di volte; ero stato anche al suo matrimonio che ricordo tuttora con viva malinconia. Per quanto riguarda Charles Laurent, una mattina, seduto al tavolino di un caffè, mentre curiosamente leggevo la recensione del suo ultimo libro, come sempre un successo, alzai casualmente lo sguardo e vidi due donne che si stavano accomodando due tavolini più in là. Provai immediatamente un senso di confusione, come quando s'incontra un vecchio conoscente di cui si è dimenticato il nome. Eppure in questo caso non si trattava di un nome scordato, dal momento che non conoscevo nessuna delle due donne. Credo piuttosto che esse mi ricordassero altre due donne, di mia conoscenza. Iniziai, infatti, a scrutarle furtivamente, sbirciando al di sopra del mio giornale. La donna a me più vicina, quella che mi volgeva le spalle, sembrava essere una cameriera o una dama di compagnia, non certo nel fiore degli armi. Pareva a disagio e aveva un'aria di umile, ma al contempo tenace, protesta. No, ero certo di non conoscerla. L'altra, seduta di fronte, non era particolarmente attraente: statura media, corporatura magra, abbigliamento semplice. Aveva capelli sottili, color castano, era un taglio corto decisamente audace. Non portava cappello. Ai lobi aveva un paio di minuscoli orecchini d'argento che emanavano affascinanti riflessi. Non c'era altro da dire. La pelle del suo volto aveva un colore giallastro e i suoi lineamenti erano alquanto ordinari. Arrivò il cameriere e rimasi nuovamente colpito, questa volta per l'audacia e l'ardimento, direi spropositati, con cui fece un gesto del tutto banale: ordinare una cioccolata. C'era qualcosa di coraggioso in questa insignificante azione, simile all'atteggiamento di un convalescente che fa la sua prima passeggiata dopo la malattia o di un cieco che ascolta la musica. Poi, improvvisamente, capii chi era. Fu proprio questo elegante coraggio, malgrado non l'avessi mai notato in precedenza, che la tradì. Era Honorine, incredibilmente. Decisi di non farmi riconoscere. Non lo desideravo affatto, Dio mi è testimone. Il ricordo del suo scarso savoir faire, pubblicamente deriso, era un forte deterrente. Per lei non ero che la personificazione di uno sgradevole avvenimento del passato. Che si godesse la sua cioccolata in pace, mentre rimanevo seduto al mio tavolino vigilando nascosto dal giornale. E così continuai a sorvegliare la scena prendendo mentalmente appunti di quanto accadeva, in preda a deformazione professionale. Certamente
non era uguale alla donna che avevo conosciuto. Non c'era da meravigliarsi se non l'avevo identificata subito: era, infatti, notevolmente dimagrita, anche se ora la vedevo sbocconcellare la torta e bersi la sua cioccolata con la golosità di un bambino. Aveva comunque una certa grazia, nei gesti, nell'atteggiamento e una strana aria divertita, maliziosa e tipicamente femminile, che iniziò a catturare la mia attenzione, malgrado la mia iniziale resistenza. Alla fine capitolai, mi alzai e mi diressi verso di lei. «Mademoiselle Laurent, si ricorda di me?» Sollevò lo sguardo. I suoi occhi non erano né grandi né vivaci, ma diversi rispetto al passato: brillavano, erano vivi. A questo punto accadde la cosa più buffa. Sul suo volto comparve il rossore della timidezza, il rossore degli adolescenti che mette a disagio, con il ronzio nelle orecchie e la sensazione che il cervello possa esplodere da un momento all'altro. Ed è panico totale. Che cosa si può dire quando un simile segno compare sul volto di una persona? Honorine, tuttavia, non abbassò lo sguardo. Sospirò e disse calma, come se sangue e corpo fossero due entità separate: «Certamente mi ricordo di lei, Monsieur. Lei è l'amico di mio fratello. Si vuole accomodare? Abbiamo divorato tutta la torta ma c'è ancora della cioccolata.» Sorrise. E mentre sorrideva, il rossore scomparve, sconfitto. Il suo sorriso era sincero, cordiale, non spaventato né forzato. I suoi occhi brillavano ed erano quasi belli, come il suo sorriso. Si parla spesso di aura. Ebbene, Honorine ne aveva appena avuta una. In quel momento compresi che mi trovavo accanto a una donna che non si sentiva umiliata per il fatto di non essere bella, che non avrebbe usato il dolore e la tristezza come armi, che in fondo era certa di avere tutto quello che è necessario, pur accogliendo calorosamente quelli che desiderassero immergersi nella luce. In poche parole, aveva lo sguardo di una donna sicura di sé, una donna che ha amato profondamente e attende, senza impazienza o aggressività, l'arrivo di una gioia futura. Ipnotizzato, presi una sedia e mi accomodai. Avevo appena fatto colazione, ma bevvi ugualmente la cioccolata che mi fu offerta, completamente stordito. La raggrinzita dama di compagnia, che iniziava a dare segni di inquietudine, fu mandata a fare alcune commissioni. Mademoiselle Laurent e io ci dirigemmo a braccetto verso i vialetti ghiaiosi di Bois Palais. Mi ero offerto di accompagnarla a casa e aveva risposto: «Sì, volentieri. Charles è a casa ed è di pessimo umore. Una critica negativa, credo, che ha stroncato il suo ottimo libro. Sarà contento di vederla. E mio padre... non c'è.» Di nuovo comparve quell'aria maliziosa. In quel momento Honorine,
quel folletto di donna con la sua mano sottile che mi prendeva delicatamente il braccio, non odiava monsieur Laurent... Era abituata a farsi accompagnare, era abituata agli amici. Ricordo che mi chiese di Annette, con molta grazia e tatto. Improvvisamente le mie difese cedettero e iniziai a parlare, sommergendola con un fiume di parole, tanto che io stesso rimasi allibito. Ci sedemmo vicino a una fontana con le ninfee mentre io continuavo a parlare lamentandomi della vita e della sorte. Ogni tanto Honorine mi sfiorava delicatamente il braccio. «Oh, si» diceva «Ah, no?» con tono calmo e gentile, esprimendomi tutta la sua solidarietà, lei con tutte le sue pene, così dolce nei miei confronti. Alla fine, mi ricordo, disse: «Lei ha una solida fama in campo letterario e direi ottime prospettive per il futuro. Per di più, vi amate molto tutti e due. Non potreste» e i suoi occhi luccicarono come gli orecchini che portava, come il fiume d'estate «fuggire insieme?» Quest'ultimo consiglio s'ispirava palesemente a Lucie Belmains e al suo stile di vita. Perché era lei che mi stava seduta accanto, su quella panchina: Lucie Belmains, morta l'8 aprile 1760, particolarmente dolce e delicata, Lucie che conosceva l'amore e la gioia che esso procura, Lucie che sfiorava la mia mano confortandomi con la sua notevole esperienza, pronta ad ascoltare e a rassicurarmi. Pronta persino a dare consigli a una testa matta come me su come vincere l'eterna partita, a dare quei consigli che lei stessa avrebbe seguito, con minor esitazione di me. «Perché no?» aveva detto Semery. Perché non lasciare che la sua grassa e disgraziata sorella, quell'essere intristito, quella creatura generate da un Dio iniquo, si cullasse nell'idea di una felicità goduta nel passato, se ciò la rendeva serena? «Perché no?» avevo ribattuto con enfasi. Perché no, dunque, se questa persona squisita era il frutto... No, non che credessi alla sua reincarnazione, ma al suo cambiamento sì. Come avrei potuto non crederci? La prova vivente era seduta accanto a me, con il suo sguardo limpido e sorridente. Esattamente come un tiranno viene trasformato in santo dalla fede religiosa, Honorine, grazie alla sua fede, era diventata una creatura radiosa e affascinante. Era bella, sì, proprio bella. Sembrava che il fascino, di cui erano dotati i suoi fratelli e di cui Honorine un tempo era completamente priva, si fosse gradualmente impossessato di lei. Quegli occhi, quel sorriso. E il modo di camminare e di muoversi. Sono passati anni da quel giorno, talmente tanti che il ricordo si annebbia. Amavo Annette allora, l'amo tuttora e nessuna donna al mondo può eguagliarla ai miei occhi. Eppure ricordan-
do Honorine, incontrata quel mattino di ormai tanto tempo fa, non posso fare a meno di dire la verità sui miei sentimenti di allora e su quelli di adesso, forse ora con più ponderazione e meno ingenuità che nel passato. Non ho mai incontrato, fatta eccezione per mia moglie, una donna capace di affascinarmi in quel modo. Honorine era stupenda. La sua bellezza si espandeva tutto intorno a noi, nell'aria. Anche se non credevo alla reincarnazione dell'anima, credevo all'anima in sé poiché era questa a promanare grazia, bellezza e fascino. Honorine era quello che pochi di noi sanno essere: in pace con se stessi, felici, sicuri. Arrivammo a casa, quella casa sinistra, che sembrava adesso meno tetra di un tempo grazie allo splendore di Honorine. Lei non ne era più spaventata. Salì i gradini d'accesso e mi fece un cenno, come per dire che mi sarei trovato a mio agio. Io, infatti, non provai alcuna sensazione funesta. Charles era in salotto: quando mi vide, balzò in piedi emergendo da un cumulo di giornali. Dopo averci riuniti, Honorine se ne andò. Mentre usciva dalla stanza, la seguii con lo sguardo, posandolo infine sulla porta chiusa. Charles smise di parlare del suo libro e mi chiese: «Beh, che cosa pensi di lei?» Honorine aveva turbato anche me. Risposi con tono brusco: «Non è la stessa donna.» Charles annuì energicamente e aggiunse: «Non può essere, vero? Non è un tesoro?» Era orgoglioso della sorella. «Se va avanti così, potremo darla in moglie a un ricco sovrano nel giro di pochi mesi. Hai visto Semery e conosci la faccenda, suppongo.» «Sì.» Mi lanciò un'occhiata e mi disse con tono semiserio: «È certamente una forma di pazzia. Se uccidesse qualcuno, potrei farla assolvere adducendo questa motivazione: la mia cliente crede di essere una donna morta nel passato.» «Sicuramente crede di essere stata, non di essere, Lucie Belmains.» «Osservazione arguta, degna di un avvocato. È indubbiamente un miracolo: è diventata, sì, lievemente matta, ma in modo così affascinante e squisito! Perché no, in fondo?» E così anche Charles pronunciò il suo perché no? con estrema nonchalance, aggiungendosi ai due precedenti colpevoli: Semery e il sottoscritto. «Ma lei sa che tu...» domandai. «Sa che Semery e io, ma non tu, cher ami, siamo al corrente della storia ma non ce ne parla, né del resto lo facciamo noi. Pur considerando la stra-
vaganza della cosa, per non dire dell'incredibile risultato, bisogna ammettere che Honorine è estremamente serena al riguardo. Non credo abbia mai Ietto nulla su Lucie, nemmeno la storia della sua vita, a parte le poche righe riportate dall'enciclopedia. D'altronde, credo che tenga un diario in cui annota tutti i suoi sentimenti. Me lo ha confessato solo perché ho intravisto un foglio su cui scriveva in merito alla sua vanité e poi non ha più detto nulla. Sa benissimo che, in effetti, tutti noi siamo tremendamente scettici in proposito. Per quanto riguarda nostro padre, niente dovrà mai giungere alle sue orecchie. Puoi ben immaginare, il suo cambiamento lo ha fatto andare fuori di senno. Honorine mangia di più e dimagrisce, porta i capelli corti, si compra orecchini. Ma dovresti vederla insieme a lui. Fermati a pranzo da noi, così constaterai di persona.» La sola idea di rivedere monsieur Laurent mi fece trasalire. «Mi spiace, ma ho già un impegno.» «Naturalmente, da tutt'altra parte fuorché qui, vero? Non sai quello che ti perdi. Tra l'altro, hai letto che cosa quel dannato giornalista ha osato scrivere sul Journal a proposito del mio libro...?» Mezz'ora dopo, proprio mentre mi avviavo verso l'atrio, il servitore mi passò accanto, zoppicando verso la porta principale e l'aprì di scatto. Sulla soglia apparve improvvisamente monsieur Laurent, con la sua orribile faccia puntuta e rossiccia. Mi vide subito, prima ancora di notare Charles e ogni altra cosa. Mi sentii come un ragazzino sorpreso a rubare frutta in una proprietà privata. Mi ero fermamente proposto di evitare quell'essere abbietto e, d'altronde, non fui certo preavvisato della possibilità di un simile incontro. Il malefico zoppo sembrava aver percepito telepaticamente l'arrivo del suo padrone. «Buon giorno» mi disse monsieur Laurent entrando nella sua reggia. «In attesa di un invito a pranzo?» A stento mi trattenni dal dire quello che pensavo, ma ci riuscii. «No, Monsieur. Sono a pranzo da amici.» «Credevo che mio figlio, il plagiario, fosse suo amico. O magari si è fatto più acuto d'ingegno e ha capito veramente com'è? Ho notato» continuò, rivolgendosi a Charles «che almeno un critico è stato abbastanza furbo da capire che partorisci solo mistificazione e sciocchezze. Dovrò fargli le mie congratulazioni.» Charles, estremamente suscettibile per la recensione negativa (a cui suo padre aveva certamente dato la caccia su tutti i giornali e le riviste) fu per una volta punto sul vivo. Senza guardarlo, potei vedere la sua rabbia riflet-
tersi negli occhi del padre illuminati, anche se solo temporaneamente. «E dov'è la tua graziosa sorella? Ho delle notizie per lei» disse monsieur Laurent. «Sono qui» rispose una voce proveniente dalle scale. Monsieur Laurent diede sfogo al suo divertimento in quella che comunemente viene detta una risata sguaiata. «Sì, eccoti qui. Che folte chiome abbiamo! Ma dove sono i capelli? Sono forse diventato cieco? Esci ancora conciata così, facendoti ridere dietro da tutti?» Impietrito, con gli occhi puntati unicamente alla porta principale chiusa, restai in attesa. E sentii la sua voce lieve e sommessa rispondere: «Sì, papa, è così.» «Brutta stupida. Guardati. Immagino ritenga generoso da parte tua offrire agli altri, ad autentici sconosciuti, lo spunto per una fragorosa risata. Ma ti permetto forse di prelevare denaro per comprarti orecchini e imbellettarti come una scimmia addestrata del circo?» «No, papà, gli orecchini sono stati pagati con soldi che la mamma mi aveva lasciato. Ma se ti danno fastidio, li posso togliere.» «Se mi danno fastidio? Tu mi dai fastidio. Tu, piccolo essere senza cervello, che starnazzi per casa, scribacchi, vaghi su e giù con la testa fra le nuvole. Che cosa c'è che non va in te?» «Nulla, sto molto bene, grazie, papà.» «Quella pazza furiosa della sua genitrice, quale maledizione mi ha lasciato! Un idiota, piagnucoloso e scialacquatore, una specie di sciacallo con velleità letterarie come figli, e una perfetta demente come figlia.» Honorine finì di scendere le scale. Sentii il fruscio della sua gonna. Sembrava portare con sé una ventata di freschezza, di libertà. «Vieni ad assaggiare il nuovo sherry, papà. Ho seguito il tuo consiglio riguardo i vini e ho cercato di perfezionare la mia conoscenza in merito. Vorrei assaggiassi l'ultima bottiglia che ho comprato e mi dicessi il tuo parere.» «Se lo hai scelto tu, sarà di sicuro una porcheria» rispose il caro padre. «Non è detto» replicò Honorine... come se stesse parlando a un uomo razionale, sano di mente e non a un essere maligno. «Nello scegliere lo sherry, ho cercato di mettere in pratica quanto mi hai detto l'altro giorno. Ma se lo giudichi disgustoso e se mi sono nuovamente sbagliata, desidero che tu mi spieghi e mi corregga. Come posso trarre beneficio dalla tua profondissima conoscenza in questo campo se ti dimostri troppo accomodante?»
Che cosa avrebbe potuto replicare l'abominevole individuo? Honorine lo aveva in pugno e lo dominava come raramente ho visto fare. Che cosa era accaduto? Posso solo dedurre che Honorine aveva iniziato a interessarsi ai vini e alla cantina, come avrebbe fatto la Belmains, e che Monsieur, al solito l'aveva insultata tentando di sminuirne l'operato. Honorine, dal canto suo, aveva assunto l'atteggiamento di una persona pronta ad accettare i consigli altrui per il proprio bene e si comportava come poc'anzi aveva fatto. «Ho eseguito alla lettera quello che mi hai detto» proseguì, «ma se mi sono sbagliata, poiché non oso nemmeno minimamente mettere in dubbio che tu sia più esperto di me, devi dirmelo. E, ti prego, sii rude e scortese come sempre se devi farmi qualche osservazione. Lo considererò un segno del tuo interessamento e della tua autorità.» Dio mio! Per poco non scoppiai in una fragorosa risata! Ora anche la più turpe offesa che il padre le potesse fare era stata da lei stessa autorizzata. Si sedeva con aria mite accanto a lui, annuendo mentre monsieur Laurent sbraitava, e lo ringraziava per la lezione che le impartiva. Malgrado tutto, ero in fondo tentato di rimanere a pranzo. Feci infine un compromesso e dissi a Charles che sarei rimasto ancora un po', il tempo sufficiente per assaggiare lo sherry. E quando il perfido padre mi lanciò una delle sue occhiate e mi fece notare che quello non era certo il circolo più adatto per uno scrittorucolo come me e che avrei fatto meglio a rivolgermi altrove, adottai la tecnica di Honorine e, sorridendo ampiamente, dissi ad alta voce: «E dove mai potrei trovare un circolo così piacevole e divertente?» Inutile dire che giudicò lo sherry (di qualità ottima) disgustoso. Ma non si dilungò in proposito, aggiunse solo che sapeva di acqua marcia. Honorine gli promise di ricordarsene. A questo punto, monsieur Laurent si ricordò delle notizie che doveva darle. «Le tue streghe dei tarocchi se ne sono andate» disse. «Lo sapevi? Ciò pone fine alle tue uscite di soppiatto per andare alla libreria e alle sedute spiritiche pagate con i miei soldi. E forse anche alla pazzia che ti ha preso negli ultimi tempi, eh?» «Da quando hai espresso il tuo disappunto, non sono più andata alla libreria» replicò Honorine. «No. Ma da lì arrivavano continuamente messaggi, da quelle tre imbroglione. Piccoli pezzi di carta portati dalla tua orrida dama di compagnia o dal caro Semery, quando io sono fuori casa. Credi che non me ne sia accorto? Non mi sfugge quasi nulla, sai. Ho letto alcuni di quei messaggi se-
greti, billets doux. Vediamo un po'. Che cosa dicevano?» Ammutolimmo tutti. Honorine impallidì e posò il bicchiere che teneva in mano. Dal tremante luccichio dei suoi raffinati orecchini potei intuire quanto tumultuosamente le battesse il cuore. Monsieur Laurent si accinse, con palese teatralità, a rievocare il contenuto dei biglietti. Da essere demoniaco qual era, aveva un particolare istinto per captare il senso di disagio e di paura nella vittima designata. Eppure, se realmente aveva intercettato i messaggi inviati ad Honorine, mi sembrava assurdo che, dal suo punto di vista, desse loro una qualche importanza. Era astuto, ma la sua astuzia non era di tipo intellettuale. Strappava le ali a un insetto per vederlo agonizzare e impedirgli di volare, non per studiare il complesso meccanismo del dolore e dell'incapacità di volare. La scoperta delle sedute spiritiche, per quanto sembrasse ridicolo, era anche indicativa dell'invalsa abitudine che monsieur Laurent aveva di aprire la corrispondenza privata dei figli e di tormentarli sadicamente citando loro i passi più personali. Alla fine, con il capo reclinato in una sorta di estasi fredda e distaccata, proclamò: «Lucie Belmains. Nata a Troy-la-Dianne nell'aprile del 1729, morta per impiccaggione l'8 aprile 1760. Dico bene? Eh? E ho ragione nel ritenere che tu, creatura informe, essere detestabile e detestata, sia la reincarnata Lucie, quella Lucie così bella per la cui compagnia i re pagavano grandi somme di denaro e per il cui amore gli spasimanti si ammazzavano in duello?» Ci fu un lungo imbarazzante silenzio. Si udiva unicamente il fruscio delle foglie secche che cadevano sul terreno, nel parco. Non guardai Honorine. Non so quale fosse il suo aspetto, ma potevo facilmente immaginarlo. Chi non lo avrebbe intuito? Era il suo segreto, sacro e inviolabile. E ora era nelle grinfie di monsieur che lo straziava e lo deturpava di fronte a tutti noi. Il perfido padre già sapeva, forse intuiva, e nell'attesa maligna se n'era rimasto forse apparentemente silenzioso, come un cane a cui fosse stata messa la museruola. Ma come avrebbe potuto rimanere silenzioso? Tutti erano in suo pugno e, certo, l'accompagnatrice di Honorine era stata costretta a parlare. E il diario, forse il cane rabbioso era riuscito a carpire anche quello. Sì, probabilmente ci era riuscito, proponendosi di minare alle fondamenta il bellissimo sogno della figlia, l'assurda realtà che si era costruita e che le rendeva sopportabile la vita. Non era, tuttavia, destino che per lei la vita fosse sopportabile. Monsieur Laurent non l'avrebbe tollerato.
Honorine non doveva liberarsi dal giogo. E se lo avesse fatto, gliene avrebbe comunque messo un altro. Passarono solo alcuni secondi, giusto quelli in cui mi persi in simili elucubrazioni. Soffrivo per lei e ancora una volta provai il desiderio di ucciderlo. Poi Honorine parlò, e le mie paure svanirono: la sua voce era, infatti, ferma e decisa. La resistenza passiva era per lei diventata virtù. Non fece alcuna opposizione, cosa che avrebbe ulteriormente stimolato il carnefice. Disse semplicemente: «Sì, papà. Non è assurdo? Che io immagini di essere stata nel passato, anche solo per un istante, una donna simile. Ma sembra tu abbia appurato che io così credo. E in effetti è così, anche se in verità, ritengo il tutto assurdo e incredibile come del resto fai tu.» L'estasi fredda e distaccata di monsieur Laurent si tramutò in collera. Per un attimo pensai volesse picchiarla, ma le punizioni corporali non lo divertivano. «E che cosa ti fa credere a queste sciocchezze? Le ciance di chi? Dell'ouija? Quelle tre imbroglione e intriganti, intascano il tuo denaro, il mio denaro, e ti dicono tutto quello che desideri ascoltare.» «No, padre. Non mi hanno mai chiesto un soldo.» «Tu lo dici. Tu. Ma certamente farai una donazione? Eh? E hai fugato i dubbi sulla loro reputazione chiacchierando in giro con chi conosci e raccontando degli straordinari risultati di questi trucchi magici. Lucie Belmains. Lucie Belmains. Ma è poi mai esistita? Dimmi un po', idiota: crederesti qualsiasi cosa per non far vedere quanto sei stupida.» Non potei più trattenermi. Me ne dispiace, ma anche a lungo andare non avrebbe fatto alcuna differenza. Seguiva la pista, il maledetto segugio. Avrebbe sempre scoperto tutto, tutto quello che si faceva, diceva o non si diceva. «Monsieur, Lucie Belmains è indubbiamente esistita. Sono sorpreso, signore, che con la sua particolare predisposizione a essere informato di tutti e a non farsi sfuggire nulla non l'abbia mai sentita nominare.» «Ah» disse, dirigendo il suo sguardo verso di me. «Così ci ripaga per il bicchiere di sherry! Questi non sono affari suoi. Può benissimo andarsene» aggiunse sorridendo. «In effetti, non riesco a immaginare nessun posto da cui me ne andrei più volentieri.» «Parole coraggiose per una sanguisuga» ribatté. «O ha forse rubato qualcosa mentre le voltavo le spalle?»
«Per amor del cielo!» urlò Charles. Ma io, avventatamente, risposi: «Rubare in casa sua, Monsieur? In fatto di gusto, sono molto più esigente.» «Davvero?» replicò. «In casa di Annette Dupleys allora. Una bella dote che comprende anche la proprietà al sud: certamente un boccone molto più appetitoso di quello che i poveri Laurent possono offrirle.» Pareva proprio che mi avesse fatto l'onore d'indagare anche sul mio conto. E quello che aveva scoperto era chiaramente la cosa ad hoc per ferirmi a morte. Non ricordo quello che dissi fino al momento in cui me ne andai, su tutte le furie, bagnato di un sudore gelido. Nella foga del momento avrei potuto fare di tutto. Una sola cosa posso escludere con certezza: sfortunatamente non afferrai l'attizzatoio per ucciderlo. Charles si precipitò dietro di me e, afferrandomi per la spalla quando avevo quasi raggiunto il Bois, mi disse: «In nome di Dio, che cosa posso dire? Oh Dio, perdonami!» La collera era ormai passata e, dopo la tempesta, mi ero chiuso in un freddo riserbo. «Non c'è nulla da perdonare. Sono rimasto quando sapevo benissimo di non doverlo fare. Per quanto riguarda il denaro di Annette, chi non ne è al corrente? È proprio questa la fonte di tutte le questioni fra suo padre e me. Io sono, ovviamente, un cacciatore di dote» dissi con tono freddo e severo a Charles. Discutemmo per un po' su questi temi, spaventati entrambi, senza in fondo convinzione. Lo accusai di avere lasciato Honorine ad affrontare l'orrore da sola. «No, no» replicò. «È stata lei a chiedermi di raggiungerti. Era alquanto calma, lui non è riuscito a distruggerla. Honorine gli parla con tono sempre delicato, dicendogli sempre di sì, approvando ogni cosa. Così è.» Pensavo alla sua espressione di terrore. «Ora conosce le speranze di Honorine per nome, proseguirà nel suo intento finché non le ucciderà tutte» dissi. «E come? Honorine crede esattamente a tutto quello che le tre streghe le hanno detto. Mio padre non riuscirà a demolire questo suo convincimento» obiettò Charles. «Troverà il modo» risposi. Camminando solitario lungo i viottoli coperti di foglie, percorsi tempo prima con Honorine, immerso nell'oscurità che preannunciava l'arrivo di un violento temporale, mi convinsi dell'esattezza del mio presentimento. La settimana precedente al matrimonio di Miou e Semery, cenai insieme
ai due fratelli in un buon ristorante sul Boulevard du Pays. All'inizio Charles aveva l'aria vagamente preoccupata, ma non diede alcuna spiegazione né, d'altronde, ce lo fece pesare. Il vino scorreva abbondante e nel giro di poco tempo ogni problema venne dimenticato. Credo che fosse quasi mezzanotte quando portarono un biglietto per Charles. Questo lo lesse e impallidì improvvisamente. «Che cosa c'è?» chiese Semery. Un senso di paura e sgomento li aveva pervasi entrambi, silenziosamente: non si trattava di un atteggiamento mistico, ma di un'antica consuetudine, un terrore infantile che ritornava ogniqualvolta percepivano il sinistro incombere paterno sulle loro vite. Posai il bicchiere, in silenzio. Charles si coprì gli occhi con la mano. «Dobbiamo andare a casa» disse. «Bene» rispose Semery, tornato completamente sobrio e serio. «Ma perché?». Charles scostò la mano dal volto e mi guardò. «Non sono affari tuoi. Non è necessario che ti lasci coinvolgere.» «Se così preferisci» risposi. Nella sua voce c'era un'eco del tono paterno, del tono col quale nel recente passato ero stato messo alla porta. «No, no, non volevo offenderti. O mio Dio, mio Dio!» Incespicò rovesciando una sedia. Non sembrò nemmeno essersi accorto dell'ostacolo mentre lo oltrepassava. Nel giro di pochi minuti eravamo fuori dal locale, nella notte autunnale, ancora privi di una risposta. Sentivamo una cappa pesante su di noi, una sensazione di atroce disastro, un odore di morte. Non c'era bisogno di parole. Ognuno sapeva già tutto. Credo ce l'abbia detto sulla via di casa, ma non ne sono certo. Avrebbe potuto anche avercelo comunicato sulla soglia o non avercelo comunicato affatto. Non era in fondo necessario. Mi sembra, ora, che non ci abbia mai detto nulla. Ricordo, invece, che più tardi, quando eravamo da basso, in quella stanza fredda e scarsamente illuminata, Charles prese in mano il libro aperto posato sul tavolo e mi fece cenno di avvicinarmi. Ricordo di avere letto quelle pagine, inizialmente senza capirvi nulla. Solo più tardi afferrai il senso e provai un'angoscia e una pena insostenibile per Honorine. Forse l'unica cosa opportuna da fare ora è cercare di mettere assieme tutti i vari pezzi del mosaico. Che scopo c'è, infatti, nell'esitare? Come già avevo intuito, monsieur Laurent era determinato a distruggere il suo sogno, e raggiunse lo scopo avvalendosi di quanto Honorine non aveva fatto. Ho-
norine aveva tratto tutte le sue informazioni su Lucie unicamente da quanto le dicevano le tre vecchie della libreria. Quello che aveva letto su di lei non era presumibilmente molto preciso per quanto riguardava le date. Honorine si era automaticamente fidata delle tre medium, credendo a tutto quanto le riferivano fin nei minimi dettagli. Ma ogni nuovo particolare che le veniva fornito era strettamente connesso al precedente. Non era un castello di pietra, né di carta, ma di cristallo, un castello magnifico, luccicante e indifeso che era crollato al primo colpo. Che gratificazione immensa per quell'essere demoniaco avere trovato così facilmente un'arma straordinariamente efficace. Le era stato detto — e io ne sono testimone — che Lucie morì impiccandosi l'8 aprile 1760. Se però le medium si fossero sbagliate a questo proposito, tutto quanto seguì non sarebbe stato altro che falsità e menzogna. E in effetti risultò falso. Lucie Belmains, com'è storicamente provato, come è provato nel libro che Charles mi porse, s'impiccò la mattina del 5 aprile e fu sepolta la sera del 7 dal momento che, quell'anno, l'estate era arrivata prima del tempo. Dell'8 aprile non vi era chiaramente, e ovviamente, menzione. Uno scarto di tre giorni. Tutto qui. Tre giorni. Monsieur Laurent si era indubbiamente preso la briga d'informarla e di dimostrarglielo. Posso immaginare la scena fra loro due, fra padre e figlia, là in quella stanza fredda e umida, mentre noi eravamo a cena al Boulevard du Pays. L'ho vista migliaia di volte con l'occhio della mente, l'ho sentita migliaia di volte nei sogni angosciosi, caratteristici di quando si è infelici o molto stanchi, che precedono il risveglio. Così Honorine si trovò improvvisamente privata del suo sogno e della sua follia. Così Honorine rinunciò all'unica esistenza che si era costruita e, insieme a essa, alla sua anima reincarnata. Monsieur l'aveva spogliata della bellezza e dell'amore, dell'amore che era stato e di quello che avrebbe potuto essere in futuro per lei o forse anche per una nuova, bellissima Lucie. E, peggio ancora, aveva soffocato quella dignità e quel delicato fascino che stavano rinascendo in lei, che erano già rinati. Che Dio lo maledica. Per lui non chiedo perdono, ma un inferno di fuoco e di sofferenza in cui possa bruciare e urlare per l'eternità. Dopo averle fornito tutte le indicazioni del caso, monsieur Laurent era uscito per andare al club. Honorine aveva raggiunto l'attico, la cui finestra aveva un tempo colpito la mia attenzione, e si era avvelenata con la polvere topicida.
Morì tra atroci convulsioni un'ora dopo il nostro arrivo. Non lasciò nemmeno uno di quei biglietti di addio che scrivono di solito i suicidi. Non credo volesse instillare in alcuno un senso di colpa. In suo padre, il principale colpevole, sarebbe stato senz'altro impossibile. Sebbene non l'abbia più incontrato, suppongo che anche dopo la sua morte abbia avuto sempre lo stesso atteggiamento nei confronti di Honorine. Era una pazza che gli aveva sempre procurato fastidi, il più considerevole dei quali era stato lo scegliere di morire suicida in casa sua. Suppongo che abbia continuato a ripetere che se Honorine avesse desiderato una fine veramente gloriosa, avrebbe dovuto annegarsi nel fiume, dispensandolo così da tutta la confusione e da tutte le spese derivate dal suicidio in casa. I giornali riportarono la notizia con grande clamore, cosa che non recò certo giovamento a Charles. In realtà, sono convinto sia stata la tremenda morte della sorella ad abbatterlo e a cambiare la sua vita, a detta di tutti, in peggio. Dopo neanche un anno dalla scomparsa della sorella, Charles lasciò la professione. La sua vivace e squisita intelligenza, che da tempo sembrava assopita, rifiorì solo quando decise di stabilirsi in una piccola comunità laica, annessa a un monastero nel Languedoc. Ogni tanto ci scriviamo. Non credo di riuscire a capire il suo attuale modo di vita; non lo approvo né lo disapprovo; mi sembra, in ogni caso, che riesca a fare del bene a se stesso e agli altri. A parte qualche lettera a me e a Semery, null'altro più ha scritto che io sappia. Lo stesso Semery, che a modo suo aveva già prima spezzato le catene di una vita di schiavitù e di falsità, non subì un trauma inguaribile. Purtuttavia, il suo dolore e il suo rimorso furono spaventosi. Il matrimonio non fu rinviato, ma Semery, durante la cerimonia, esitava, era palesemente confuso e aveva gli occhi pieni di lacrime. Tempo dopo, cercò di distruggere i suoi dipinti ma, per fortuna, alcuni amici lo fermarono in tempo. Miou fece tutto quanto le era possibile, usando tutta la sua dolcezza, finché le sue premure e la nascita imminente del bambino non lo fecero rinsavire. Nessuno di noi restò comunque indifferente. Honorine, come ho già detto, non intendeva procurarci questo immane senso di colpa. La colpa che sentivamo era un fatto inevitabile. Eppure, in quell'ultima ora di vita è rimasta così isolata, non credo pensasse a nessun altro, né per cercare conforto né per maledire. Deve avere salito quei gradini con il cuore e la mente colmi di tenebra, senza più nemmeno l'anima che, come avviene nei miti, il diavolo le aveva appena strappato. Le sue
visioni o, piuttosto, il nero vuoto interiore... fanno rabbrividire al solo pensiero. Malgrado non abbia lasciato nessun messaggio d'addio, resta sempre il diario che ora Semery conserva e che ebbi l'opportunità di leggere. Non scrisse mai una parola di disperazione, ma solo di gioia, dall'inizio alla fine. Il diario finiva con una frase interrotta a metà, probabilmente perché in quel momento suo padre l'aveva fatta chiamare. Ma è proprio la gioia a essere insopportabile. È l'ultima frase incompiuta che riempie di terrore, come se fosse l'ordine di un'esecuzione. La cosa più straziante è il motto che scrisse all'interno della copertina: Vivo perché già vissi. Nessuno di noi rimase indifferente. Alle sei del mattino seguente la sua morte, senza avere potuto dormire per l'intera notte e senza essermi rasato, uscii frettolosamente di casa dirigendomi a ovest. Non ero del tutto in me, devo ammettere. I primi chiarori dell'alba iniziavano a rischiarare impercettibilmente il selciato delle strade. Ricordo di essermi imbattutto in un gregge che veniva sospinto in Faubourg St. Marie. Giunsi alla casa dei Dupleys e battei vigorosamente alla porta svegliando l'intera famiglia e il vicinato. Tutto quanto seguì fu pura follia: dell'accaduto ho solo ricordi frammentari che tuttora trovo estremamente imbarazzanti e, qualche volta, ridicoli. Basti dire che mi feci strada fra una torma di servitori a forza di urla e minacce, raggiungendo dapprima il padre di Annette (che mi ritenne pazzo furioso), poi la madre (che, pur pensando esattamente la stessa cosa, si dimostrò più gentile e compassionevole nei miei confronti) e infine Annette stessa che, qualsiasi cosa pensasse, non mi amava certo meno intensamente di prima. Là, in un angolo della stanza, con la madre fuori della porta a guisa di protettore, il padre urlante nell'atrio, determinato a chiamare la polizia, non dissi nulla di quanto era successo. Scoppiai in pianto fra le braccia di Annette e, afferrandole le mani, le chiesi di vestirsi e di venire subito via con me. Alla supplica aggiunsi una brevissima postilla riguardante il fatto che doveva avere fiducia in me, che dovevamo sposarci al più presto, con il sistema più rapido che la legge consentisse, che avrei fatto di tutto per mantenerla adeguatamente e, infine, che, per quanto fosse già maggiorenne, così facendo avrebbe perso tutto il suo denaro e l'eredità. Ciò significava che probabilmente non avremmo mai potuto vivere con la garanzia di una solida sicurezza finanziaria. Le dissi che doveva portare con sé vestiti caldi per l'inverno e comunque ogni cosa avesse ritenuto necessaria, compreso il suo gattino. Aggiunsi anche che non potevo giurare di non ag-
gredire suo padre se avesse ancora interferito nei miei progetti. Annette ascoltò con aria molto seria e infine mi disse di andare. Mi avrebbe raggiunto più tardi, al Bois Palais, con la complicità della madre, insieme a una piccola valigia e al gatto. Inizialmente non volevo accettare, non perché pensassi che volesse liberarsi di me — disgraziato com'ero, avevo tutte le ragioni per crederlo —, ma perché ero talmente scosso e agitato che non sopportavo l'idea di lasciarla. Ciononostante, alla fine mi persuase e me ne andai, con il signor Dupleys in vestaglia che, sui gradini di casa in compagnia di un domestico, brandiva nella mia direzione una pistola appositamente caricata. E circa un'ora dopo, madre, figlia e gattino apparvero nel luogo convenuto, al Bois. Scoppiammo tutti in un pianto dirotto, che si accompagnava perfettamente allo scroscio dell'acqua della fontana, il gattino miagolò stupito e Dio solo sa che cosa pensarono di noi in quel momento i passanti. La storia si concluse con un lieto fine: ci fu infatti una riconciliazione e Annette non fu privata dell'eredità. Ciò avvenne però solo un anno dopo il nostro matrimonio, quando la mia situazione finanziaria stava notevolmente migliorando. Credo, in ogni caso, che se anche non fosse stato così, saremmo ugualmente stati felici insieme, come lo eravamo all'inizio e come lo siamo tuttora. Adesso monsieur Dupleys mi accoglie a casa sua e talora, con tono calmo e solenne, forse con l'intenzione di mettermi un po' a disagio, rievoca quella mattina burrascosa, considerando l'episodio quasi fosse stato una partita da noi tutti giocata. Ma non è stato affatto così. O, se mai, è stata la partita di Honorine-Lucie. Devo a Honorine il coraggio di avere messo in gioco le nostre vite. L'ho detto a mia moglie, tempo dopo. E non solo a causa della sua atroce morte, ma anche per avere condiviso con lei quei momenti effimeri tipici della vita di una donna. Ho cercato di realizzare almeno una piccola parte del sogno. «Non potreste fuggire insieme?» mi aveva suggerito Honorine. Era il piano di Lucie, della coraggiosa, bellissima e sconsiderata Lucie. Lucie, talmente nobile da immaginare che il denaro di Annette non m'importasse assolutamente nulla, l'unica, insieme ad Annette, a pensare una simile cosa. Per questo decisi di rendere omaggio a Lucie. Andai dalla mia innamorata e le chiesi di fuggire con me, ed ella acconsentì. Per questo, serberò eterna riconoscenza a Honorine. Si conclude così l'ultimo atto. Resta dunque solo l'epilogo, o qualcosa di simile. Ho già detto che non sono attratto da superstizioni, culti esoterici, riti occulti: una parte di me mi induce a non occuparmene. Dopo tutto, non
consentendo, come credo, di ottenere spiegazioni logiche e sicure, simili pratiche non possono fare altro che rendere ancora più oscuro un avvenimento, come quello da me vissuto, di quanto già non lo sia di per sé. D'altro canto, l'incallito scrittore che c'è in me non può fare a meno di non restare incuriosito da questa chicca, poiché di chicca si tratta. Trascorsero alcuni anni. I pronipoti del gattino di Annette stavano giocando sul pavimento con i nostri due figli. Mi stavo occupando, in quel momento, di un argomento totalmente diverso dalla storia di Lucie Belmains: casi di negligenza, connivenza e inettitudine da parte di medici che hanno formulato diagnosi inesatte. Eppure, esaminando del materiale m'imbattei in una strana citazione al riguardo. Nel testo si parlava di un caso di isteria, ironicamente, ma anche atrocemente diagnosticata come la rage, e di un altro, analogo al primo, nella cui diagnosi fu chiamata in causa la licantropia. Seguiva un altro paragrafo e poi ancora un nome, Lucie, che mi stupì e mi stimolò a continuare la lettura. «Lucie Belmains» riportava il testo, dopo alcuni cenni biografici «suicidatasi la mattina del 5 aprile, fu dichiarata morta e in breve tempo sepolta a causa della calura di quei giorni. Coloro che hanno letto, anche se succintamente, il romanzo La prise en geste saranno a conoscenza di tale fatto.» Ho ritenuto opportuno omettere la citazione che seguiva, tratta da un'opera molto ampollosa, di sicuro quella che divertiva, Miou e la sorella, facendole ridere sotto le coperte e spingendole infine a impiccare la loro povera bambola con il nastro rosso. In sostanza essa riferiva che il 6 aprile un ammiratore di Lucie, entrato nella stanza dove si trovava il suo corpo per darle l'ultimo saluto e inginocchiatosi ai piedi del suo letto, vide con terrore che la mano sinistra della morta si muoveva e sembrava quasi fargli cenno. L'uomo si affrettò a scoprirle il volto ma vide solo il pallore e gli occhi sporgenti di un cadavere. Spaventato, corse fuori dalla stanza e svenne. «Ciò che non tutti sanno» continuava il testo «è che il fatto accadde realmente e non fu una fantasia dell'autore romantico. Vi sono altri due eventi, raramente citati, che lo scrittore de La prise en geste non riporta: la cameriera della Belmains, la sera del 7 aprile, quella in cui la donna fu sepolta, trovò il velo che copriva il volto del cadavere spostato, posto fra le labbra. Inoltre, fu da molti osservato che gli arti del cadavere si piegavano facilmente, fatto che fu attribuito al clima eccezionalmente caldo. La storia fece immenso scalpore: persino molto tempo dopo la scomparsa della Belmains se ne parlava ancora, mistificandolo, al punto che per parecchi
anni anche il Duca di M., amico e protettore di Lucie, pensò a una morte accidentale per soffocamento.» La conclusione tratta dal testo che leggevo era alquanto scontata. Lucie, impiccandosi, non morì subito, ma cadde in una specie di catalessi. La morte sopraggiunse solo più tardi a causa delle gravi lesioni alla trachea e dell'impossibilità di sopravvivere chiusa in una tomba. Qui il libro si ferma. Io, tuttavia, oserei aggiungere una mia ulteriore riflessione: in simili condizioni Lucie non poteva certamente vivere a lungo, più o meno per un paio di giorni ancora: fino alla mattina dell'8 aprile, diciamo. Titolo originale: Three Days Traduzione: Adria Tissoni Ramsey Campbell Mackintosh Willy Ramsey Campbell è forse il più importante scrittore vivente nel campo della letteratura dell'orrore. Jack Sullivan (nel suo superbo studio antologico Lost Souls) definisce Campbell «lo stilista più sofisticato nel campo della narrativa fantastica moderna» continua elogiando le sue immagini vivide e contemporanee «incentrate sulla sregolatezza della vita del ceto medio-basso» attribuendogli il merito di «avere modernizzato il racconto fantastico pur mantenendo, tuttavia, un elevato standard letterario.» Campbell opera volutamente nel filone orrorifico e ha sperimentato tutti i vari stili del romanzo horror contemporaneo, da quello di Lovecraft a quello di Aickman. Egli è costantemente affascinato dall'orrore che caratterizza la cultura pop, in particolar modo i film e i fumetti a essa ispirati. Campbell non è solo un critico perspicace, ma anche uno degli autori che hanno maggiormente contribuito, insieme a Peter Straub, Stephen King e altri ancora, a sviluppare il romanzo dell'orrore. Il suo romanzo, The Face That Must Die è uno dei moderni capolavori del genere. Campbell opera tuttora al fine di ampliare i suoi orizzonti letterari. Mackintosh Willy è una delle sue opere a sfondo psicologico meglio riuscite, una conturbante storia d'innocenza sessuale che presenta notevole affinità con The Swords di Robert Aickman e che gli valse, nel 1980, il World Fantasy Award per il migliore romanzo breve. Tanto per cominciare, egli non si chiamava Mackintosh Willy. Non ho
saputo chi gli diede quel nome. Che fosse uno di quei soprannomi scaturiti dal subconscio di un gruppo, nomi riconosciuti da ogni membro del gruppo stesso e che però, almeno apparentemente, nessuno aveva inventato? Bisogna pur dare un nome alle proprie paure non foss'altro che per potersi illudere di controllarle. Eppure, talvolta mi chiedo in che misura noi stessi avessimo contribuito a creare la sua mostruosità. Interrogarmi mi aiuta a non pensare alla responsabilità che ebbi nel determinare il corso degli eventi. Quando avevo dieci anni, pensavo che il suo nome fosse scritto dentro al bersò, nel parco. Lo vedevo solo da lontano: non ero uno di quelli che si divertivano a sfidare il bersò. A dieci anni non avevo paura di dimostrare che ero timido: quello venne dopo, con l'adolescenza. Eppure, se foste passati vicino a Newsham Park, vi sareste forse chiesti che cosa c'era di temibile: perché alcuni bambini stavano avanzando, con fare ardito ma guardingo, verso la piccola costruzione in mattoni rossi presso lo stagno illuminato dalla luce crepuscolare? Certamente non vi poteva essere alcun pericolo in quel basso bersò, capace di contenere al massimo una ventina di biciclette. A quell'ora i pescatori e i modellini di barche erano già scomparsi, lasciando lo stagno solitario e tranquillo; i lampioni lungo la strada del parco avevano già iniziato a emanare raggi di luce che, sinuosi come code, si riflettevano sull'acqua. Gli unici suoni che si udivano erano il bisbiglio dei bambini, il mormorio degli alberi attorno allo stagno e, probabilmente, un furioso, incomprensibile borbottio originato da non si sa che cosa. Era solo un gioco, rassicuratevi. E ovviamente lo era: un gioco per vincere la paura. Se aveste atteso abbastanza a lungo, avreste forse potuto sentire un indefinibile movimento provenire dal bersò, accompagnato da una specie di ringhio. Avreste potuto intravederlo mentre, tutto sbilenco, usciva frettolosamente dalla costruzione, come un ragno ferito sbuca fuori dalla sua tana. Nella crescente oscurità, fino a che punto avreste potuto credere ai vostri occhi? Avreste forse potuto credere alla spaventosa agilità di quell'essere claudicante e obeso? Alla vista di una testa che sembrava appartenere a un altro corpo, di gran lunga più piccolo, e che era quasi interamente coperta da una passamontagna grigio, fatta eccezione per i piccoli occhi che scintillavano dalle apposite aperture? Era proprio questo a farcelo odiare. Eravamo troppo giovani per essere tolleranti e, a parte ciò, egli non tollerava noi. A quanto ricordavamo, egli era sempre stato là, a guardia del suo territorio e della sua bottiglia di vi-
naccio rosso. Se qualcuno si azzardava ad avvicinarsi troppo, cominciava a borbottare. Talora si distinguevano anche delle parole compiute: «Maledetto ladro bastardo impiccione ficcanaso... fannullone canaglia bastardo... pensi d'esser furbo, eh?... ti darò io qualcosa di furbo...». Non lo vedevamo mai finché non cominciava a imbrunire: era proprio questo che faceva di lui un mostro, il nostro mostro. Forse durante il giorno s'incontrava con i suoi vecchi amici, in altri luoghi: sulle gradinate delle chiese in rovina nel centro di Liverpool, sui prati a St. John's Gardens o sulle panchine di fronte alla Biblioteca Pubblica di Edge Hill il cui orologio fermo li aiutava indubbiamente ad ammazzare il tempo. Ma se anche facevamo simili congetture, le accantonavamo giudicandole irrilevanti. Egli era una creatura delle tenebre. Ciò avrebbe dovuto logicamente significare che la prima volta che lo avessi visto alla luce del sole sarebbe stata la fine. Invece, quando accadde, fu solo l'inizio. Era una giornata torrida di piena estate. Avevo allora dieci anni. Faceva troppo caldo per escogitare giochi e trascorrere così, oziando piacevolmente, le mie vacanze scolastiche. Tutto quello che potevo fare era sbrigare commissioni per i miei genitori, brontolando un po'. Essi erano proprietari di una piccola rivendita di giornali sulla West Derby Road. Quel giorno stavano aspettando alcune copie del Tuebrook Bugle che erano state loro promesse. Anche quando non era d'accordo con loro, mio padre appoggiava sempre i giornali indipendenti, il Bugle, per esempio, o il Liverpool Free Press che, perlomeno, non erano stati fagocitati o schiacciati dal regime monopolistico. Il ritardo del Bugle lo preoccupava il giornale si era forse arreso? Mi mandò a scoprire come stessero le cose. Corsi attraversando la West Derby Road proprio quando i semafori in cima alla collina davano via libera a un flusso impetuoso di automobili. Soltanto le ragazzine utilizzavano il sottopassaggio pedonale; per di più quel giorno era di nuovo inondato. Superai la stazione di polizia, un edificio in cemento, ed entrai nel parco, prendendo la strada più lunga. Faceva troppo caldo per andare direttamente o frettolosamente in qualsiasi posto. Il parco era affollato di gente che giocava a football, di carrozzine, di persone che prendevano il sole, sparpagliate qua e là sui prati. Alcuni pazienti stavano seduti fuori dall'ospedale, sull'Orphan Drive, che costeggiava il parco. Lungo la riva del lago, i pescatori sedevano accanto alle loro radioline e transistor e sferzavano l'aria con gli ami. Al di là del lago, mo-
dellini di barche sfrecciavano rombando sulle acque poco profonde dello stagno circolare. Mi fermai a osservare i disegni che tracciavano sull'acqua e, improvvisamente, scorsi un oggetto nel bersò. Dapprima pensai che fosse un vecchio sacco grigio che qualcuno aveva abbandonato sulla panchina. Forse conteneva immondizie, stecchi, per la precisione, che gli conferivano in alcuni punti un aspetto irregolare e spigoloso. Poi vidi che il sacco era una specie di indumento sudicio, un mackintosh o un impermeabile. Quella che credevo fosse una vecchia borsa della spesa, posta vicino al sacco, si rivelò essere un lembo di pelle irsuta e un occhio vitreo e luccicante. Alla luce del giorno, incuteva ancora più terrore: era così enorme e immobile, sembrava più assopito che stordito. La presenza dei marinai dilettanti con i loro telecomandi mi rassicurò. Camminai lungo gli appezzamenti di terreno fino a Pringle Street dove una delle villette a schiera ospitava la redazione del Bugle. «Le nostre copie sono quasi pronte» disse Chrissie Maher, la redattrice, e insistette per offrirmi una tazza di tè. Sembrò un po' turbata quando, finito il tè, me ne scappai via sotto lo scroscio improvviso di pioggia. Forse, per educazione e per opportunità, avrei dovuto attendere che finisse il temporale prima di andarmene, ma in quella giornata riarsa volevo approfittare al massimo del violento acquazzone, bagnandomi il viso e le braccia nude, boccheggiando quasi istericamente sotto la pioggia. Oltrepassati gli appezzamenti di terreno, dove i cavoli crepitavano come mitragliatrici giocattolo, il rovescio divenne troppo violento persino per me. Il parco offriva scarso riparo; anche gli alberi, poco dopo, iniziarono a scatenare i loro piccoli acquazzoni, inzaccherando i malcapitati. Il rifugio più vicino si trovava accanto allo stagno, ora deserto, con la superficie tutta increspata. Corsi giù per il pendio scivoloso ricoperto di macadam, sguazzando nelle pozzanghere, sbattendo le palpebre nella pioggia e sperando che ci fosse posto nel bersò. C'era posto in abbondanza, sia perché la pioggia penetrava facilmente nella costruzione in mattoni, fino in profondità, sia perché quest'ultima non era del tutto vuota. Il mostro giaceva là come l'avevo visto, con il volto verso l'alto, coperto dal passamontagna. Gocce di pioggia colpivano i suoi occhi spalancati e immoti, scorrendo lungo il lembo di pelle nuda. Non avevo mai visto la morte prima d'allora. Me ne stavo tremante e affascinato sotto la pioggia. Non dovevo più avere paura di lui. Si era talmente infagottato in quel soprabito grigio che alla fine la stoffa aveva ce-
duto in più punti; attraverso gli strappi intravedevo ciò che poteva essere un tessuto scuro o un pezzo di pelle irsuta e rossastra. Sopra di lui, sulla parete del bersò, erano incise parole che scoprii infine non essere il suo nome, bensì quello di tre ragazzi: MACK TOSH WILLY. Erano in parte cancellate, ecco perché la mente tendeva a completare il nome con le lettere mancanti. Dovevo continuare a guardarlo. Diventava sempre più difficile ignorarlo: la sua presenza si faceva più intensa. La sua informità, gli strappi nel soprabito mi facevano pensare a un vecchio sacco di biancheria sporca, marcescente e ammuffita. Dalla manica sbucava appena la sua mano, vicino a essa, sul pavimento, in mezzo ai tappi di Coca-cola, erano disseminati i cocci della bottiglia il cui contenuto lo aveva probabilmente ucciso. La pioggia scrosciava sul tetto color verde cupo del bersò. Sui suoi occhi immobili e luccicanti cadevano le gocce di pioggia, scivolando via lentamente. All'improvviso ebbi paura e corsi precipitosamente a casa. «C'è un morto nel parco.» boccheggiai. «L'uomo che scaccia tutti.» «Ma guardati!» gridò mia madre. «Vuoi prenderti una polmonite? Togliti subito quella roba bagnata!» Alla fine riuscii a ripetere la notizia. In quel momento la pioggia era ormai cessata. «Ebbene non raccontarlo a noi» disse mio padre. «Dillo alla polizia. È proprio qui di fronte.» Pensava forse che avessi esagerato facendo di un ubriaco un cadavere? Sembrò sorpreso quando corsi alla stazione di polizia. Non potevo lasciarmi sfuggire l'occasione di una simile avventura: correva voce, leggenda? diceria? fola?, che i fratelli maggiori di alcuni miei compagni di scuola fossero stati portati alla stazione e non ne fossero usciti per anni. Vicino a una finestrella, che avrebbe potuto essere quella di una biglietteria, c'era un campanello che bisognava suonare. Così feci. Poco dopo, lo sportello della finestra si apri, scorrendo lateralmente, e apparve un agente di polizia che mi guardò accigliato. Qual è il mio nome? Che cosa stavo facendo nel parco? Con chi ero stato? Quando una seconda testa apparve accanto a lui, l'agente disse con riluttanza: «Afferma che qualcuno è svenuto nel parco.» Una Mini bianca e blu venne a prendermi alla stazione di polizia, come un tassi; sul tetto un segnale rosso recava la scritta POLIZIA. La gente mi lanciava delle occhiate come se fossi diretto in prigione. Forse lo ero: metti che Mackintosh Willy si fosse svegliato e se ne fosse andato? A quanti anni si viene condannati per avere mentito? Diamanti falsi scintillavano nel-
l'erba e sugli alberi. Sarebbe stato meglio se fossi riuscito a persuadere mio padre ad avvertire la polizia. Quando la macchina si fermò, vidi la macchia grigia nel capanno. Il guidatore, con andatura sussiegosa e impettita, andò a guardare da vicino. «Mio Dio» lo sentii dire in tono disgustato. Conosceva Mackintosh Willy? Forse ma non era quello il punto. «Guarda qui» disse al suo collega. «Mai visto un cadavere con monetine da un penny sugli occhi? Guarda un po' allora. Vieni a vedere quello che qualcuno ha creduto fosse uno scherzo divertente.» Appariva scioccato, nauseato. Stava di fronte a me, bloccandomi la visuale quando mi chiese: «L'hai fatto tu, questo?» La rabbia dipinta sul suo volto impallidito e il fatto di non comprendere assolutamente nulla mi impedirono di aprire bocca. Intervenne allora il suo collega: «Non può essere stato lui. Non sarebbe venuto a dircelo, dopo, non ti pare?» Mentre cercavo di sbirciare dietro a loro, mi disse: «Vattene a casa adesso, su va.» La sua gentilezza sembrava minacciosa. Improvvisamente spaventato, corsi a casa attraversando il parco. Per un po' di tempo evitai il bersò. Non avevo alcun motivo per avvicinarmici, tranne quando ritornavo a casa da scuola. Qualche volta avevo visto compagni tormentare Mackintosh Willy; talvolta, da lontano, mi ero unito a loro. Ora il bersò stava là, spalancato e vuoto, e lasciava intravvedere indistintamente la panchina. Le acque cupe dello stagno si muovevano, agitando le alghe verdi che, come barbe, erano attaccate al bordo in pietra. Evitavo il parco soprattutto perché non avevo nessuno con cui andarci. Il guaio era abitare su una strada principale. Non appartenevo a nessun gruppo delle vie laterali, dove si giocava a football tra le macchine posteggiate o si scorrazzava per i vicoli secondari. Non m'invitavano mai alle feste che venivano organizzate in strada: mi sentivo escluso, specialmente quando dovevo passare davanti ai gruppi di adolescenti che sedevano sulle ringhiere sopra il sottopassaggio pedonale, dondolando pigramente le gambe e aspettando di piombarti addosso. Io rimanevo a casa, quando potevo, nell'appartamento sopra la rivendita di giornali e leggevo tutto quello che c'era in negozio. Ma alla fine mi stancai: leggevo abbastanza già a scuola. Proprio per questo Mark fu il benvenuto: poteva salvarmi dal mio isolamento. Non diventammo immediatamente amici. Egli era l'ultimo fattorino addetto alla consegna dei giornali che i miei genitori avevano assunto. Per
vari giorni ci studiammo con circospezione. Era più alto di me, il che m'intimidiva, ma sembrava incerto di come gestire la sua figura allampanata. Infine, mi chiese: «Che cosa stai leggendo?» Le sue parole sembravano insinuare che leggere fosse uno spreco di tempo. «Un libro» replicai. Quando poi gli mostrai che si trattava di Mickey Spillane, mi domandò: «Posso leggerlo dopo di te?» «Non è mio. È del negozio.» «Va bene, allora lo compro.» Lo fece subito pagando mio padre. Mark era certamente più ricco di me. Quando il mio risentimento per il suo gesto si fu quietato un po', mi resi conto che mi concedeva di finire quello che ormai era il suo libro. Impiegai più tempo del necessario per ultimare la lettura, nel tentativo di spingerlo a protestare, ma non lo fece mai. Forse valeva la pena conoscerlo. La mia sensazione si rivelò esatta. Mark si dimostrò generoso, non soltanto in fatto di denaro, benché in effetti suo padre ne guadagnasse moltissimo con la sua attività di ristrutturazione edilizia, ma anche in fatto di amici, facendomi conoscere la sua compagnia. Ben presto ebbi il mio posto nella tribù in cima al sottopassaggio pedonale, sebbene in segreto fossi contento che con le bande rivali non scambiassimo altro che gli insulti di rito e nulla più. Forse la stazione di polizia che si profilava sullo sfondo era un valido deterrente in tal senso. Mark aveva inoltre una mente fervida: nonostante il capo nominale della banda fosse un ragazzotto corpulento chiamato Ben, chi ideava la maggior parte delle imprese era Mark. Aveva iniziato a lavorare come fattorino per salvarsi dalla noia o, come in seguito mi domandai, per distrarsi dai suoi pensieri? Fu Mark a portare un giorno i suoi pattini affinché potessimo sfidare la pendenza del sottopassaggio pedonale; a consentirci di girovagare con la sua bicicletta per le strade laterali; a trovare l'accesso di case abbandonate; a portare la sua radio a transitor per farci ascoltare i primi dischi dei Beatles, mentre il traffico scorreva indifferente lungo la West Derby Road. Ma tutto ciò era forse un modo per farci dimenticare il parco? Era ovviamente inevitabile che Ben fosse risentito per la sua supremazia. Probabilmente, corto d'ingegno com'era, egli concluse che a Mark non piaceva il parco e trovò casualmente il modo ideale per sfidarlo. Era una calda sera d'estate. Avevo ormai tredici anni. Dalla scia di automobili si diffondevano nell'aria polvere e fumi di scarico. Treni passavano e ripassavano rumorosamente sul ponte della ferrovia. Eravamo seduti
in maniera scomposta sul marciapiede, tirando calci a tappi di Coca-cola. Tutt'a un tratto Ben disse: «Io so che cosa possiamo fare.» Ci accodammo a lui, schivando un aggressivo gruppo di tassi, diretti verso la stazione di polizia. Poteva avere progettato qualche tiro proprio lì e, quando passò oltre con fare spavaldo, sono sicuro che tutti si sentirono sollevati — tutti tranne Mark, poiché Ben ci guidava verso Orphan Drive. Il calore saliva ondeggiando dal macadam. Accanto a noi, nel parco, il crepuscolo calava, insinuandosi fra gli alberi che muovevano furtivamente i loro rami. Sull'isola in mezzo al lago si udiva lo starnazzare delle anitre; alcuni rifiuti rigonfi d'acqua andavano pigramente alla deriva o tentavano di salire sulla riva. Percepivo chiaramente il nervosismo di Mark che aveva alzato il volume della sua radio; tra un crepitio e l'altro si fece confusamente strada un Elvis Presley deformato che poco dopo scomparve nel nulla, mentre un'altra stazione radio veniva a sovrapporsi alla prima. Perché Mark era così teso? Io potevo soltanto vedere il cielo che s'oscurava, gli alberi dall'altra parte del lago che venivano pian piano avvolti nella foschia, il debole scintillio dei tappi di bottiglia, simili a occhi su di una massa fluttuante di rifiuti, il luccichio dei cocci di bottiglia sparsi nei prati. Oltrepassammo il chiosco dei gelati che era chiuso. Ben stava dirigendosi verso lo stagno circolare, il cui bordo era circondato da un nastro fluorescente color arancio annodato a alcuni pali di ferro, una specie di recinto di fortuna. Sentivo l'esitazione di Mark, come se egli fosse un cane spaventato trascinato a forza col guinzaglio. L'orgoglio era il suo guinzaglio: non poteva dimostrare di avere paura, tanto più che nessuno di noi conosceva il piano di Ben. Un nuovo viottolo in cemento era stato creato intorno allo stagno. «Ci incideremo i nostri nomi» disse Ben. Le acque cupe dello stagno cupo fluttuavano, come se cercassero di spegnere i riflessi tremolanti. Nuvoloni neri invadevano il cielo e si specchiavano minacciosi nell'acqua; alle nostre spalle stava in agguato il temporale. Il bersò in mattoni era molto buio e sembrava una caverna. Io mi avviai risolutamente al recinto color arancione, non volendo essere l'ultimo, e tastai il cemento con la punta del piede. «Non possiamo» dissi, sentendomi sollevato «s'è già indurito.» Qualcuno era stato là prima di noi, prima che il cemento si fosse solidificato. Alcune impronte partivano dalla buia costruzione dirigendosi verso di noi: man mano che si avvicinavano, tendevano sempre più a scomparire
perché qualcuno ci aveva camminato sopra e il cemento già stava indurendosi. L'uomo che le aveva lasciate sembrava zoppicasse. Quando le indicai, Mark ebbe un sussulto. La stazione radio non era più in sintonia. «Che cosa ti succede?» volle sapere Ben. «Niente» rispose Mark. «Si sta facendo buio» dissi, non a mo' di risposta bensì per persuadere tutti a tornare indietro, verso la strada principale. Ma la mia osservazione ispirò Ben, il cui sguardo era carico di disprezzo. «So io che cos'è» ghignò indicando Mark con un gesto. «Questo è il posto dove di solito gli veniva paura.» «Chi aveva paura? Non è vero che avevo paura.» «Ma certo che non ne avevi. Come no?» lo schernì Ben e aggiunse: «Il vecchio Willy soleva dargli la caccia tutt'intorno allo stagno. Lo odiava proprio il vecchio Willy. E Mark scappava sempre quando lo vedeva. Io invece mai. Non avevo paura io.» «Pensaci bene prima di dare del fifone agli altri» disse Mark. «Se avessi visto quello che ho fatto a quel vecchio bastardo...» Furono probabilmente gli scricchiolii tutt'intorno a farlo tacere. Nel parco si percepiva una moltitudine di sinistri rumori; il cielo stendeva il suo manto di tenebre, dallo stagno forme torbide si avventavano su di noi, un'ombra irrequieta si rannicchiò in un angolo della costruzione. Ma Ben non rimase impressionato da quella vanteria finita così in sordina. «Su, ammettilo» sogghignò. «In questo momento hai addosso una fifa boia.» «Ah, no? Stai un po' a vedere, tu!» «E vacci allora. Facci vedere.» Tutti eravamo perfettamente coscienti della paura di Mark: il suo corpo era rigido come quello di una marionetta. Io ero pronto a intervenire — a dire, mentendo, che pensavo stesse arrivando la polizia — quando egli alzò le spalle, disperato, e si fece avanti. Scavalcando con cautela il nastro come se fosse elettrificato, avanzò sul cemento. Si diresse verso il bersò. Aveva alzato al massimo il volume della radio; non riuscivo a sentire nient'altro, potevo solo seguire gli spostamenti di forme indistinte nel cielo che si rifletteva nell'acqua, osservare Mark mentre camminava nelle impronte già tracciate che inghiottivano i suoi piedi. Era quasi arrivato al bersò quando lo vidi gettare uno sguardo sulla radio. La canzone risuonava di nuovo deformata; un'altra frequenza, quasi un borbottio confuso, era venuta a interferire. Doveva essere il contagioso nervosismo di Mark a farmi interpretare il borbottio radiofonico come una
serie di parole coerenti: «Su, ragazzo mio, vieni. Fatti dare un'occhiata.» Ma perché quelle parole non avrebbero dovuto essere reali, frammenti di una commedia radiofonica per esempio? Mark stava ancora camminando, con lo sguardo fisso sulla radio. Sembrava quasi ipnotizzato; diversamente sarebbe di certo indietreggiato di fronte all'ombra informe che avanzava ondeggiando dall'angolo vicino alla panchina, anche se doveva essere l'ombra di una nuvola. Quando mise piede nel bersò, gridai nervosamente: «Vieni, Mark. Andiamo a pattinare.» Mi sentivo come se lo avessi salvato. Quando egli tornò frettolosamente indietro, si rifiutò di guardare me o chiunque altro. Per qualche giorno, quasi non mi parlò. Forse pensò di evitare il negozio dei miei genitori. In ogni caso se ne stette lontano dalla banda... il che si rivelò essere una buona mossa, poiché Ben, senza le trovate di Mark, riusciva a pensare soltanto a taccheggiare nei negozi. Non essendo molto abili Ben e alcuni dei suoi seguaci furono ben presto colti sul fatto. Da quel momento mio padre iniziò a nutrire dubbi su Mark, anche se egli era sempre stato scrupolosamente onesto nelle consegne; dopo averci riflettuto un po', decise infine di tenerlo. Passato qualche tempo, Mark cominciò a parlare di nuovo con me, ma non del parco. Era frustrante: volevo raccontargli che aspetto avesse il bersò, ora. Continuavo a passarci vicino tornando a casa, anche se da una scuola diversa. Qualcuno aveva scarabocchiato sulle sue pareti, il che non era certo strano: scritte di vario tipo costellavano il sottopassaggio pedonale e persino gli angoli delle strade. Ma le parole del bersò erano a dir poco bizzarre, simili agli sgorbi che si leggono sulle pareti della cella di uno psicopatico o ai suoni senza senso di un'invocazione. FALLO FUORI IL BASTARDO. TAPPAGLI GLI OCCHI. STRAPPAGLIELI VIA. TIENIGLI GIÙ LA TESTA. Ingarbugliati tra di esse; come ossa rosicchiate, baluginavano i tratti semi-cancellati di MACK TOSH WILLY. Non mi sentivo, tuttavia, eccessivamente frustrato da questo tabù che caratterizzava le nostre conversazioni: avevo infatti incontrato la mia prima amichetta. Si chiamava Kim; abitava in un appartamento nel mio isolato e, a causa del mestiere dei suoi genitori, sembrava avere sempre addosso odore di pesce e patatine fritte. Mi considerava ovviamente con ammirazione — tra l'altro avevo di nuovo cominciato a leggere per mio piacere, cosa che pochi dei suoi amici si prendevano la briga di fare. Mi confidava i suoi segreti, il che era un'esperienza nuova per me, strana e piuttosto eccitante,
come lo era il fatto di essere visto in West Derby Road con una ragazza al braccio, una qualsiasi ragazza. Ero ben lieto d'ignorare le beffe di Ben e della sua banda. A lei il parco piaceva: spesso ci passeggiavamo, gettando caritatevolmente briciole alle anitre. Più di tutto le piaceva osservare i modellini di yacht, quando i rombanti motoscafi in miniatura li lasciavano scivolare solitari e silenziosi sulle acque dello stagno. Anch'io mi divertivo a guardare, tenendole la mano calda e un po' attaccaticcia. La brezza portava via con sé il suo olezzo culinario. Tuttavia, non potevo fare a meno di notare che ora il bersò esibiva facce urlanti con chiazze rosse per occhi. Non ho mai visto altrove disegni di pari violenza sulle pareti. Il mio rapporto con Kim fu di breve durata. Come avviene nella maggior parte delle esperienze adolescenziali, la separazione non fu romantica e commovente, se mai le separazioni lo sono, bensì brusca e isterica. Successe una sera mentre stavamo andando al luna park che veniva a Newsham Park ogni estate. Al di là del lago si udivano gli strilli di panico e nello stesso tempo di gioia delle ragazze proiettate in aria dalla giostra e le impetuose e indistinte note di una vecchissima canzone pop, simili a voci emesse da un'enorme radio. Sulla ruota gigante, luci colorate volavano verso l'alto, disegnando nell'aria strani volti. Il crepuscolo scintillava come un albero di Natale, le luci riflesse nuotavano nello stagno. Vedendo tutto ciò, Kim disse: «Sediamoci a guardare, prima.» L'unica panchina si trovava nel bersò. Da grovigli di lettere scendevano tracce di colore essiccato, come sangue; facce, mutilate urlavano senza voce. Credevo di riuscire a sopportare il fatto di trovarmi là, nel bersò. Stare seduto con Kim mi dava la possibilità di toccarle i seni, così com'erano, attraverso le coppe del reggiseno cedevoli e sproporzionate. Stasera aveva odore di giornali, come se vi fosse stata incartata perché io la portassi fuori: doveva avere servito al banco di vendita. Ciononostante, la baciai ignorando che un angolo del bersò era buio come la tana di un ragno. Ma Kim lo aveva notato; la sentii ritrarsi dalla tenebra. Aveva forse osservato qualcosa che io non avevo visto? O era la sua contagiosa cautela a far sembrare più concreta l'oscurità circostante, come se stesse per trascinarsi verso di noi, lungo la panchina? Ero inquieto; tuttavia, il fracasso e le luci del luna park mi rassicuravano. Decisi di sfruttare al massimo il bisogno di protezione di Kim, ma lei respinse la mia mano. «Lascia» disse in modo irritato e fece per alzarsi.
In quel momento sentii una voce indistinta. «Popeye» biascicò la voce come rivolgendosi a se stessa con tono gaio. «Popeye.» «Che cosa significa?» pensai. «Occhio di vetro o Braccio di ferro? E da dove arriva? Dalla fiera, forse?» Avrebbe potuto essere la voce di un venditore deformata dal chiasso, perché disse: «Ho qualcosa per te.» La mano di Kim che si divincolava nella mia era estremamente eccitante. «Lasciami» gemeva. Dato che non mi sentivo per nulla impaurito, ero più compiaciuto che costernato dalla sua paura. Non vedevo l'ora di dare via libera alla fantasia: era molto più affascinante che leggere una storia di fantasmi. Sbirciai nell'angolo buio per vedere quali orrori fossi in grado di immaginare. Kim riuscì a svincolarsi e scappò via, correndo lungo il bordo dello stagno. Deluso e arrabbiato, le corsi dietro. «Vattene» mi gridò. «Sei odioso. Non voglio vederti mai più.» Per un po' la inseguii lungo i sentieri bui; quando però mi accorsi che la stavo implorando, m'infuriai con me stesso. Per lei non ne valeva certo la pena. La lasciai andare e tornai al luna park, gironzolandovi per un po'. Dopo esserci rimasto abbastanza a lungo per evitare che i miei genitori si chiedessero perché fossi tornato così presto, m'incamminai verso casa. Volevo starmene seduto nel bersò per un po' di tempo e vedere se succedeva qualcosa, ma c'era già qualcuno. Non potevo distinguere molti particolari dell'occupante e non desideravo avvicinarmi ulteriormente. Portava probabilmente gli occhiali, perché i suoi occhi apparivano perfettamente rotondi e luccicavano come metallo... di certo non come occhi umani. Scordai rapidamente quella fugace visione, tutto preso dai miei pensieri. Avevo, infatti, scoperto che Kim non aveva esagerato: si rifiutava proprio di parlarmi. Me ne andai a comperare pesce e patatine altrove e decisi che, comunque, non mi era mai veramente piaciuta. Il mio unico e costante disappunto, constatai tristemente, stava nel fatto che non avevo nessuno con cui andare al luna park. Alla fine, quando il periodo delle giostre e delle vacanze scolastiche stava ormai volgendo al termine, chiesi a Mark: «Perché non andiamo al luna park stasera?» Egli esitò ma non sembrò particolarmente riluttante. «D'accordo» disse con l'indifferenza che cominciavamo a ostentare per ogni cosa. Al tramonto, l'orizzonte emanava bagliori simili a quelli di una fornace, che si propagavano all'intero parco. Alcune coppiette vagabondavano pigramente lungo i viottoli; cani ansanti sguazzavano nel lago. Tra gli alberi brillavano le luci delle giostre, volgari stelle multicolori. Mentre passava-
mo vicino allo stagno, notai che l'aria tremolava al di sopra delle impronte nel cemento e sembrava oscurata, forse da polvere. Impulsivamente domandai: «Che cosa hai fatto al vecchio Willy?» «Stai zitto.» Non avevo mai sentito Mark così violento e chiuso in sé. «Vorrei non averlo mai fatto.» Avrei potuto ribattere alle sue parole scortesi, invece mi lasciai catturare dall'atmosfera del luna park, dalla radura di luce intercalata nella vegetazione che cominciava a percepire l'arrivo dell'autunno. Coppie e gruppi di persone vi girovagavano, richiamati senza troppa convinzione dagli ambulanti. Bambini piccoli nascondevano i loro visi nello zucchero filato. Una sirena simile a una trombetta di carnevale mise in moto gli autoscontri. Io e Mark salimmo su un vagocino che ci portò al di sopra della musica rimbombante, degli sprazzi di luce abbagliante, della folla che si accalcava fra le giostre. In realtà, io avevo un po' di nausea ma la corsa sembrava aiutare Mark a riacquistare la sicurezza in se stesso. Poco dopo, mentre stavamo giocando con un flipper centenario, egli si disse: «Guarda, c'è Lorna, e quella tizia che non so più come si chiama.» Mi ci volle un po' per capire chi indicasse: una ragazza alta, dal seno prosperoso, che probabilmente dimostrava parecchi anni di più di quanti ne avesse e un'altra di circa la mia statura ed età, dal viso piccolo e intelligente valorizzato dal trucco. In men che non si dica, ero già dietro a lui, impaziente. La ragazza alta era Lorna, la sua amica si chiamava Carol. Passeggiammo per un po' scavalcando cautamente i cavi della corrente. Carol e io cominciavamo a piacerci a vicenda; il suo profumo era dolce anche se un po' troppo penetrante. Quando il luna park stava ormai per chiudere, Mark vinse alcuni ninnoli al tiro a segno e li offrì alle ragazze, cosa che le convinse ad accettare il nostro invito per sabato sera. Ormai Mark non guardava più in direzione del bersò, non per diffidenza, ma perché esso aveva smesso di preoccuparlo, almeno temporaneamente. Io gli gettai un'occhiata e distinsi a malapena qualcuno che misurava a passi grandi e irregolari il bordo dello stagno, come se stesse impazientemente attendendo una persona in ritardo. Se Mark lo avesse notato, le cose sarebbero forse andate diversamente? Col senno di poi, credo di no, o per lo meno cerco di convincermi che sia così. Ma per quanto tenti di razionalizzare il problema, so che parte della colpa fu mia. Dovevamo incontrare Lorna e Carol sul nostro lato del parco per portar-
le al cinema Carlton, poco distante. Arrivammo tardi: ce l'eravamo presa comoda per farci belli e, comunque, non volevamo sembrare troppo smaniosi d'incontrarle. Accanto alla stazione di polizia, presso l'entrata del parco, un isolotto triangolare di marciapiede, grande abbastanza da ospitare un boschetto di alberi, divideva la strada. Le ragazze avrebbero dovuto aspettare nel punto più vicino al triangolo. Ma l'isolotto era deserto, fatta eccezione per l'oscurità intrappolata sotto i rami degli alberi. Aspettammo. Le vetrine dei negozi sulla West Derby Road splendevano di luci verdi fluorescenti. Alle nostre spalle, gli alberi bisbigliavano e scricchiolavano. Continuavamo a osservare in direzione del parco, ma l'unica figura che riuscivo a distinguere lungo i viottoli bui camminava sola. Alla fine, tanto per fare qualcosa, passeggiammo senza scopo intorno all'isolotto. Fui io a vedere per primo il messaggio, grandi lettere scarabocchiate nell'angolo più vicino al parco. Era la grafia di Lorna o di Carol? Rimasi alquanto sconvolto, poiché sembrava scritto da una persona quasi analfabeta. Ma, probabilmente, aveva dovuto utilizzare una pietra a mo' di matita, il che non le aveva certo facilitato il compito; per di più, aveva dovuto incidere alcune lettere nel muschio che rivestiva parte del marciapiede. MARK CI VEDIAMO AL BERSÒ, diceva il messaggio. Lo sentii contrarsi lievemente. «Quale bersò?» chiese borbottando. «Suppongo che intendano quello vicino al chiosco» dissi per rassicurarlo. Ci affrettammo lungo l'Orphan Drive. Al di sopra dei lampioni, il fogliame degli alberi emanava intensi bagliori. Prima di giungere allo stagno, attraversammo il ponte dal quale, durante il giorno, cadeva la manna per le anitre, ed entrammo nel parco. Il luna park era ormai in letargo; i viottoli e il labirinto creato dai tronchi d'albero erano silenziosi e molto bui. Alcuni confusi movimenti mi fecero supporre che stessimo oltrepassando le ragazze, ma la figura che stava percorrendo un viottolo vicino sembrava di gran lunga troppo massiccia per somigliare a una ragazza. Il bersò si trovava ai margini del prato più vasto, vicino al campo di football. Al di là del prato, si profilava un gruppo di edifici molto alti, circondati da aloni di luce intensa. Ognuno dei quattro lati del bersò formava una sorta di alcova che ospitava una panchina. Mentre scrutavamo in ognuna di esse, ci giunsero a mo' di sfida parole di scherno e imprecazioni. «Io so dove sono» disse Mark. «Nel bersò accanto al campo di bocce. È vicino a dove abitano.»
Benché il luogo del nostro appuntamento galante fosse assai più vicino al bersò presso lo stagno, seguii ugualmente Mark lungo la strada del parco. Mentre svoltavamo in direzione del campo di bocce, gettai un'occhiata verso lo stagno, ma i lampioni mi abbagliavano. Ancora, seguii l'amico lungo uno stretto viottolo costeggiato da siepi sino al campo di bocce e per poco non inciampai nei suoi piedi quando egli all'improvviso si fermò. Il bersò era vuoto, solitario, con la sua vista sulle costruzioni fatiscenti in stile georgiano, situate lungo il lato più lontano del campo di bocce. Rimasi sorpreso e infastidito quando, ancora una volta, non prese la direzione dello stagno. Ci avviammo invece verso il palco della banda in disuso, accerchiato e seminascosto dai cespugli. L'unico suono che emanava ora era il tintinnio dei mattoni rotti. Ero sicuro che le ragazze non l'avrebbero definito bersò e, come previsto, era deserto. Cespugli obesi e cupi ci circondavano. «Su vieni» dissi «altrimenti le perderemo. Devono essere allo stagno.» «No, non sono lì» disse (stupidamente, pensai). Mi resi forse conto di quanto fosse diventato nervoso tutt'a un tratto? Forse, ma la cosa non fece che infastidirmi. Dopotutto, come potevo altrimenti incontrare di nuovo Carol? Non conoscevo il suo indirizzo. «Oh, d'accordo» lo schernii, «se proprio vuoi perderle.» Lo vidi irrigidirsi. Probabilmente, il mio disprezzo lo feriva più che quello di Ben in passato. Prima di capire che cosa avesse in mente, Mark si era già avviato a grandi passi verso lo stagno, così rapidamente che avrei dovuto correre per non rimanere indietro — cosa che, vista l'improvvisa ostilità creatasi tra di noi, mi rifiutai di fare. — M'incamminai dietro di lui, alquanto sdegnoso. Fu così che scorsi un movimento in una delle aree di tenebra, tra i lampioni che costeggiavano la strada nel parco. Guardai in quella direzione e, qualche centinaio di metri più in là, vidi le ragazze. Dopo un attimo di esitazione, risposero ai miei cenni, piuttosto timidamente, mi sembrò. «Eccole là», gridai a Mark. Doveva ormai essere arrivato allo stagno, ma mi riusciva difficile scorgerlo oltre il bagliore dei lampioni. Stavo invitando a gesti le ragazze ad affrettarsi quando sentii la radio di Mark cominciare a emettere parole confuse. Dapprincipio mi fece pensare al pappagallo appollaiato sulla spalla di un marinaio. «Signorsì» stava gracchiando. La voce deformata suonava incrinata, difforme, come fosse troppo rauca e vecchia per riuscire a parlare. «Tu sai che cosa voglio dire, ragazzo mio?» stridette trionfalmente. «Aye, aye» diceva. «Signorsì.» Cominciavo a inquietarmi: la mia mente aveva
già iniziato ad interpretare le parole aye, aye come eye, eye: occhio, occhio. Improvvisamente, mi sovvenni con orrore che Mark non aveva con sé la radio: non quella. Certo, poteva esserci qualcuno con una radio nel bersò, ma io ero ugualmente terrorizzato e non sapevo bene perché. Corsi verso lo stagno gridando: «Dai, Mark, vieni, sono qui!» I lampioni mi accecavano; nella corsa tutto oscillava, perciò non potei essere certo di ciò che vidi. So che vidi Mark nel bersò. Ne aveva appena varcato la soglia ed era faccia a faccia con le tenebre. Prima di poter vedere se ci fosse qualcun altro, Mark uscì barcollando, correndo alla cieca, con le mani sulla faccia, e piombò nello stagno. Si trascinava dietro qualcosa? Certo è che quando raggiunsi l'area illuminata sembrava che egli si fosse impigliato in qualcosa e stesse debolmente dibattendosi. Stava andando alla deriva verso il centro dello stagno trasportato da un mucchio semisommerso di rifiuti, oppure ne veniva trascinato. In corrispondenza di una delle due estremità del mucchio, quella più vicina al viso di Mark, c'era una pallida chiazza irsuta in cui luccicavano due oggetti rotondi: forse tappi di bottiglia? Osservavo tutto ciò stando lì, impotente, mentre urlavo alle ragazze: «Per l'amor del cielo, sbrigatevi! Sta annegando!» Mark stava annegando e io non sapevo nuotare. «Non fare lo scemo» sentii dire Lorna. Ciò mi fece infuriare a tal punto che distolsi lo sguardo dallo stagno. «Che cosa vuoi dire?» gridai. «Che cosa vuoi dire, brutta stupida?» «Oh, comportati pure in questo modo» rispose con tono sprezzante, rifiutandosi di aggiungere altro. Ma Carol ebbe pietà del mio stato isterico e mi spiegò: «Lo stagno è profondo solo poco più di un metro. Non annegherà mai lì dentro.» Non ero sicuro che sapesse di che cosa stesse parlando ma ciò non m'impedì certo di tentare di salvarlo. Quando mi voltai in direzione dello stagno, mi mancò il fiato: era sparito, sommerso. L'unica cosa che potei fare fu entrare nello stagno guadando l'acqua fangosa, che inghiottì le mie gambe e si chiuse, greve, intorno alla mia vita come una morsa di ghiaccio, ostacolandomi nei movimenti. Il fondo dello stagno era scivoloso e viscido a causa dei numerosi rifiuti. Procedevo a stento, terrorizzato dall'idea di perdere l'equilibrio. Mi diressi istintivamente verso il centro dello stagno. E fu lì che lo trovai, andando lentamente a cozzare con il piede contro le sue costole. Quando cercai di sollevarlo mi accorsi che era imprigionato. Dovetti ta-
stare alla cieca nell'acqua gelida e sentii la sua totale immobilità. Qualcosa come un sacco di stoffa rigonfio, molto grande, giaceva sopra la sua faccia. Mi faceva ribrezzo l'idea di toccarlo di nuovo perché, al tatto, il suo contenuto pareva molle e grasso. Afferrai invece le caviglie di Mark e, tirando, riuscii finalmente a liberarlo. Poi avanzai faticosamente verso il bordo dello stagno, sollevandolo per le spalle, alzandogli la testa sopra il pelo dell'acqua. Pesava tremendamente. Alla fine, anche le ragazze entrarono in acqua per aiutarmi. Ma eravamo arrivati troppo tardi. Quando lo lasciammo cadere sul cemento, notammo che aveva l'orrore dipinto sul volto. Un po' d'acqua gli ristagnava in bocca. I suoi occhi però erano del tutto normali. Carol ebbe una crisi isterica; fu Lorna a correre all'ospedale, forse per fuggire la visione di Mark. Io dimenticai il senso di colpa di Carol quando le chiesi perché non ci avessero aspettate al bersò. Volevo che si sentissero entrambe colpevoli. Ma ella negò di avere mai scritto il messaggio ed ebbe una crisi ancora più forte quando le domandai perché allora non ci avessero attesi là dove c'eravamo dati appuntamento. La domanda sembrò terrorizzarla. Non la vidi mai più. I pochi giornali che si presero la briga di riportare il fatto, sentenziarono che la morte di Mark era stata «accidentale». La polizia mi prese in antipatia poiché, avendo insistito che nello stagno poteva esserci qualcun altro, fece drenare il fondo senza scoprire nulla. Perlomeno, pensai, qualunque cosa ci fosse stata se n'era andata. Forse meritavo qualche elogio almeno per quello. Ma probabilmente desideravo troppo essere rassicurato. L'ultima volta che mi avventurai vicino al bersò fu anni fa, una sera d'inverno ritornando da scuola. Avevo intravvisto un luccichio all'interno della costruzione, nel profondo. Quando mi avvicinai, sorvegliando nervoso sia il bersò sia lo stagno, vidi due dischi che scintillavano e mi guardavano torvi nell'oscurità, accanto alla panchina. Erano tappi di Coca-Cola, di certo non occhi, e doveva essere stato sicuramente un colpo di vento a far traboccare l'acqua dallo stagno e a spingere velocemente i tappi verso di me. Quello che mi terrorizzò di più, mentre fuggivo nel buio, era il fatto che non sarei riuscito a vedere dove stessi correndo se, come disperatamente desideravo fare, mi fossi coperto gli occhi con le mani, per proteggerli. Titolo originale: Mackintosh Willy Traduzione: Adria Tissoni
Henry James L'angolo allegro The Turn of the Screw (Il giro di vite) di Henry James è forse il migliore romanzo breve nel campo della narrativa dell'orrore che sia stato scritto finora. Certamente, è uno dei più controversi. La produzione letteraria di James potrebbe essere paragonata a un altissimo grattacielo che getta la sua ombra su tutte le altre opere del ventesimo secolo, così minuziosamente raffinata e sfaccettata, imperscrutabile e suscettibile di molteplici interpretazioni, nessuna delle quali però arriva a percepirne interamente l'essenza. James è costantemente affascinato dalla vita interiore anche nei racconti fantastici, i suoi personaggi sono personalità estremamente complesse che si trovano a dovere affrontare il mistero della realtà e della sua natura. In tali racconti, è facile percepire il legame che unisce James agli Autori del fantastico, a Walter de La Mare e ad Edith Warton ma anche a Robert Aickman e a numerosi altri. L'angolo allegro è un capolavoro letterario, un'opera squisitamente orrorifica e ansiogena che a una propria collocazione primaria e specifica nella narrativa dell'orrore. I «Tutti mi chiedono che cosa penso di ogni cosa» disse Spencer Brydon «e io per rispondere faccio del mio meglio, usando un tono evasivo, eludendo il problema, scoraggiandoli con le mie stupidaggini. In verità» aggiunse «a nessuno potrebbe interessare la mia opinione poiché, anche se riuscissi a rispondere con prontezza a domande così sciocche su problemi così vasti, i miei pensieri sarebbero sempre strettamente correlati a me e alla mia esistenza.» Stava parlando con Miss Staverton. Da almeno un paio di mesi cercava ogni pretesto per potere conversare con lei. L'attrazione che provava nei suoi confronti e che rappresentava per lui una preziosa fonte di conforto e sostegno, aveva immediatamente occupato un posto di primo piano fra tutti gli eventi inattesi che lo sorpresero al suo ritorno in America, avvenuto stranamente più tardi del previsto. Tutto in certo qual modo lo sorprendeva, ma questo, del resto, era ben comprensibile: per così tanto tempo e con così tanta coerenza egli aveva, infatti, trascurato ogni cosa, facendo il possibile per lasciare ampio spazio alle sorprese. Aveva dato loro più di trent'anni, trentatré per la precisione, e ora gli sembrava che avessero allestito il loro spettacolo in misura proporzionale al periodo
concesso. Aveva ventitré anni quando era partito da New York, ora cinquantasei, a meno di non calcolare l'età in base alle esperienze vissute, come talora aveva fatto dopo il rientro in patria. In tal caso la sua vita sarebbe risultata assai più lunga di quella di un comune mortale. Sarebbe stato necessario un secolo, soleva ripetere a se stesso e a Alice Staverton; sarebbero stati necessari un'assenza più lunga e un maggiore distacco di quelli di cui si era reso colpevole per potere radunare tutte le differenze, le novità, le stranezze e soprattutto le esagerazioni, nel bene e nel male, che ora percepiva subito, ovunque guardasse. Ciò che predominava era in ogni caso l'imprevedibilità: era sempre stato convinto, in tutto quel tempo, di avere valutato, nel modo più aperto e intelligente, ogni possibilità di felice cambiamento. Ora capiva che, in realtà, non aveva valutato assolutamente nulla: non aveva raggiunto ciò che era certo di trovare, e ora lo rimpiangeva, mentre trovava ciò che prima non si sarebbe mai immaginato. Valori e proporzioni erano sovvertiti: le brutture che si era atteso, le brutture della sua giovinezza, ormai lontana, che troppo presto lo avevano iniziato al senso dell'orrore, questi arcani fenomeni lo avevano affascinato, mentre tutto ciò che era à la page, moderno, mostruoso, famoso, ciò che aveva come tanti specificatamente e ingenuamente ricercato lo aveva lasciato sgomento. Erano altrettante trappole per il suo sconforto, per le sue reazioni, la cui molla egli schiacciava costantemente con il piede irrequieto. Lo spettacolo era senza alcun dubbio interessante, ma sarebbe risultato troppo sconcertante se una sottile verità non avesse salvato la situazione. Alla sua intensa luce, appariva evidente che egli non era affatto venuto per vedere le mostruosità, ma, come l'atto stesso dimostrava, guidato da un impulso che nulla aveva a che vedere con esse. Era venuto, per usare un tono solenne, a dare un'occhiata alla sua proprietà dalla quale si era allontanato per un terzo di secolo, lasciandosela a quattromila miglia di distanza. O, volendo adoperare parole meno scontate, aveva ceduto al desiderio di rivedere la sua casa, l'Angolo Allegro, come era solito definirla con affetto. Era la casa in cui aveva visto per la prima volta la luce, in cui vari membri della sua famiglia erano vissuti ed erano morti, in cui aveva trascorso le vacanze di un'infanzia passata in gran parte sui libri e raccolto i pochi fiori che, in un'adolescenza di desolazione, la società gli aveva porto. Dopo così tanti anni di lontananza, la scomparsa dei suoi due fratelli e la conclusione di vecchie procedure burocratiche, la proprietà era venuta infine in suo possesso. Era proprietario anche di un'altra casa, non così bella come l'Angolo Allegro che era stato negli anni son-
tuosamente e amorevolmente ingrandito. I due edifici rappresentavano il suo capitale e, negli ultimi anni, il loro affitto, che (grazie al perfetto stato degli stabili) non era mai stato orribilmente basso, costituiva per lui una discreta rendita. Proprio in virtù di tali introiti newyorkesi aveva potuto permettersi di vivere in Europa, e ora che la sua seconda casa, caduta a pezzi nell'arco di dodici mesi, veniva restaurata, si prospettava la rosea possibilità di un ulteriore aumento dei proventi. Avevano entrambe un valore eppure, al suo ritorno, scoprì che tendeva sempre più a distinguerle. La casa situata a due isolati di distanza, due isolati fitti di palazzi, dall'Angolo Allegro, a ovest, era ancora in fase di ricostruzione e sarebbe diventata un edificio di più appartamenti. Poco tempo prima, aveva dato il suo assenso a certe modifiche architettoniche e, con grande sorpresa, aveva scoperto, ora che l'opera stava procedendo, di essere capace di prendervi parte con intelligenza, quasi con autorevolezza, pur non avendo alcuna esperienza nel settore. Aveva vissuto la sua vita ignorando tali problemi e dedicandosi a interessi di natura affatto diversa, e non riusciva pertanto a comprendere l'origine di quel suo nuovo fervore, di quell'attitudine per gli affari e l'edilizia, che animavano un'area della sua mente a lui ancora sconosciuta. Tali virtù, di per sé assai diffuse, in lui erano rimaste sopite, si può proprio dire, dormendo il sonno del giusto. In quel magnifico autunno (per lo meno l'autunno era piacevole in quell'orribile città) egli vagava su e giù, imperterrito e segretamente agitato, per seguire i suoi lavori, senza minimamente preoccuparsi che tale attività fosse, come molti ritenevano, volgare e disonorevole. Era pronto a salire scale, a camminare sulle assi, a esaminare i materiali dimostrando d'intendersene, a porre domande, a obiettare alle spiegazioni altrui e a immergersi nei conti. Tutto ciò lo divertiva e lo affascinava, e divertiva pure Alice Staverton che, tuttavia, ne era molto meno affascinata: a differenza di lui, lei non avrebbe infatti tratto alcun profitto dalla ristrutturazione. Egli sapeva che pressoché nulla avrebbe potuto migliorare la situazione di lei, ora che, nell'autunno della vita, si ritrovava a essere la gentile e parsimoniosa proprietaria di una piccola casa a Irving Place, che lei aveva saputo abilmente conservare durante la sua ininterrotta permanenza a New York. Se lui, Spencer Brydon, vi si recava con maggiore frequenza che in altri posti, districandosi nel dedalo di numeri delle vie e delle abitazioni che gli pareva rendessero la città simile alla pagina di un enorme, bizzarro libro mastro, pieno di cifre, righe e linee che si incrociavano; se, per consolarsi, aveva
preso quell'abitudine, era soprattutto per la gioia di avere trovato e identificato, in una giungla di brutture, nella imperante mediocrità della ricchezza, del potere e del successo, una piccola oasi di tranquillità in cui ombre e oggetti, con la loro delicatezza, somigliavano agli acuti di un soprano straordinariamente bravo; un'oasi in cui la frugalità aleggiava come il profumo di un giardino. La sua vecchia amica viveva con una domestica e passava il tempo spolverando i suoi cimeli, pulendo le lampade e lucidando l'argenteria. Se poteva, si estraniava dall'orrenda folla moderna pur facendo, in caso di necessità, qualche sortita per combattere, spinta dalla sua fede... come timidamente ma orgogliosamente finì per dichiarare: dalla sua fede nei tempi migliori. Se era necessario, prendeva il tram a cavalli, quel terribile mezzo di trasporto che la gente tentava disperatamente di afferrare, come i naufraghi in mare cercano le scialuppe di salvataggio. Affrontava l'impatto con la folla e i travagli che ne conseguivano, imperscrutabile, segretamente agitata, conservando sempre il suo aspetto grazioso e giovanile che ingannava e spingeva a chiedersi se fosse una donna alquanto giovane e precocemente invecchiata per le sofferenze oppure un'anziana ma ancora piacente signora che pareva più giovane per la sua serena imperturbabilità. Con i suoi preziosi accenni a ricordi e storie del passato che anch'egli poteva condividere, gli appariva delicata come un fiore conservato fra le pagine di un libro (una vera e propria rarità) e, in mancanza di altre dolcezze, riusciva a ricompensarlo adeguatamente per la fatica di vivere. Avevano lo stesso patrimonio di conoscenze, il loro patrimonio (il discriminante aggettivo era sempre sulle labbra di lei) fatto di conoscenze del passato sulle quali si erano sedimentati l'esperienza dell'uomo libero di vagabondare, il piacere, l'infedeltà, i periodi della vita che a lei parevano strani ed oscuri, l'Europa, in poche parole, ma pur sempre tangibili, concreti e amati alla luce della fede che ella possedeva. Un giorno era andata con lui a controllare lo svolgimento dei lavori nel palazzo; egli l'aveva aiutata a passare da una tavola all'altra informandola del progetto di ristrutturazione. Mentre si trovavano presso l'edificio, egli ebbe casualmente una discussione con il responsabile dei lavori, il rappresentante dell'impresa edile a cui si era rivolto. Recitò la parte tenendo così abilmente testa all'avversario, che non aveva rispettato un particolare di una clausola pattuita, e portando argomentazioni così valide che lei, malgrado al momento fosse delicatamente arrossita al suo trionfo, gli notificò in seguito (con tono vagamente ironico) che per troppi anni aveva represso un talento naturale. Se non fosse andato all'estero, sarebbe stato egli stesso
l'inventore del grattacielo, avrebbe scoperto la sua genialità in tempo per creare nuovi stili architettonici che avrebbero rappresentato per lui una vera e propria miniera d'oro. Il ricordo di queste parole, del loro suono chiaro e limpido che aveva evocato in lui strane e profonde vibrazioni, in passato ma anche più recentemente represse e soffocate, si era fatto, settimana dopo settimana, sempre più vivo. Tutto aveva avuto inizio due settimane dopo il rientro in patria, in modo strano, all'improvviso: quella particolare, bizzarra sensazione lo assaliva (questa era per lo meno l'immagine che egli si era creato del fenomeno, un fenomeno assai eccitante ed allettante) come uno sconosciuto all'angolo di un corridoio buio in una casa vuota. La curiosa immagine aveva iniziato a ossessionarlo e lui, con le sue elucubrazioni, la rendeva via via sempre più intensa: era come se aprisse un porta, dietro alla quale era certo non esserci nulla, una porta che dava su una stanza vuota, con le persiane chiuse, e percepisse invece nel mezzo della stanza, reprimendo un sussulto, una presenza, una figura eretta che l'osservava nell'oscurità. Dopo la visita alla casa in fase di ristrutturazione, si recò con la sua compagna a vedere l'altra, da sempre la più amata, che ad est formava uno degli angoli, l'Angolo Allegro per la precisione, fra la via ormai deturpata e infamata nella sua estremità occidentale e l'Avenue che, al suo confronto, aveva un aspetto così tipicamente conservatore. L'Avenue, come diceva Miss Staverton, aveva ancora la pretesa di un certo decoro, ma quasi tutti i vecchi abitanti se n'erano ormai andati, i vecchi nomi erano ormai sconosciuti, qua e là emergeva un vecchio ricordo, incerto come un anziano che, camminando con passo insicuro a tarda sera, si vorrebbe tenere d'occhio e seguire per aiutarlo a rientrare incolume a casa. Entrarono insieme, i nostri amici; egli aprì il portone della casa vuota con la sua chiave, spiegandole che per ragioni sue preferiva non vi abitasse nessuno. Si era accordato con una donna che abitava nel quartiere, una persona di fiducia, perché venisse ogni giorno ad arieggiare, a spolverare e a pulire i pavimenti. Spencer Brydon aveva le sue ragioni, se ne rendeva sempre più conto con il passare del tempo, ragioni che gli sembravano sempre più valide ogni volta che visitava la casa, ma non le svelò alla sua compagna né le disse quanto spesso, quanto assurdamente spesso, ci venisse. Al momento la lasciò solamente osservare, mentre procedevano attraverso le enormi stanze vuote, che vi regnava il vuoto assoluto e che non vi era niente, a parte la scopa della signora Muldoon, messa in un angolo, che potesse at-
trarre un ladro. La signora Muldoon si trovava nella casa in quel momento e si prese loquacemente cura dei visitatori, precedendoli di locale in locale, aprendo le persiane e sollevando le finestre all'inglese per mostrare loro, come lei stessa disse, quanto poco c'era da vedere. C'era effettivamente ben poco da ammirare in quell'enorme guscio vuoto; purtuttavia, la disposizione e la distribuzione degli spazi, lo stile di un'epoca che consentiva maggiori estensioni, avevano un preciso valore per il proprietario che percepiva il loro messaggio onesto e supplichevole restandone commosso, come se udisse l'umile richiesta di un vecchio domestico per un benservito o per la pensione. La signora Muldoon gli aveva, viceversa, notificato che, pur essendo lieta di svolgere quel lavoro per lui durante il giorno, sperava non le avrebbe mai chiesto, per qualsiasi ragione, di farlo verso sera. In tal caso, lo avrebbe gentilmente pregato di cercare un'altra domestica. Il fatto che non ci fosse nulla da ammirare non impedì alla rispettabile signora Muldoon d'informare Miss Staverton che in realtà poteva anche esserci qualcosa da vedere ma che, francamente parlando, non sarebbe piaciuta a nessuna signora dabbene. Avrebbe forse potuto «strisciare fin su all'ultimo piano durante le ore del male?». La casa non aveva né gas né luce elettrica e la signora Muldoon descrisse realisticamente la scena di una sua ipotetica avanzata da un'enorme stanza grigia all'altra (ed erano infinite!) alla luce tremolante di una candela. Miss Staverton rispose al suo sguardo onesto con un sorriso, assicurandole che lei stessa avrebbe accuratamente evitato una simile avventura. Per tutto quel tempo Spencer Brydon era rimasto silenzioso: la questione delle ore del male nella sua vecchia casa era già diventata insostenibile per lui. Da un po' di tempo strisciava fin su all'ultimo piano, sapendo benissimo che tre settimane prima, lui aveva riposto una confezione di candele nel fondo di un cassetto della vecchia ed elegante credenza che occupava da secoli la nicchia in sala da pranzo: per dargli la caccia. A cosa? A chi? Eppure, in quell'istante, reagì ridendo delle chiacchiere delle sue compagne, e poi cambiò immediatamente argomento poiché rimase colpito dalla sua stessa risata. Persino in quel momento provocava quella strana eco, quella risonanza (non riusciva esattamente a descriverla) prodotta, a livello cosciente, dai suoni che udiva quando si trovava solo nell'edificio e che venivano rimandati al suo orecchio e alla sua fantasia. C'era, tuttavia, anche un'altra ragione: per un attimo temette che Alice Staverton gli chiedesse, con tono profetico, se egli vagabondasse solitario per casa. C'erano profezie per le quali egli non era preparato; tuttavia, quando Miss Muldoon li lasciò recandosi altrove, il pericolo di una
simile eventualità svanì. In un luogo talmente sacro, c'erano per fortuna molti altri argomenti di cui parlare liberamente e francamente. E l'occasione in tal senso fu fornita dall'esclamazione della sua amica che, dopo essersi guardata attorno con occhi pieni di desiderio, disse: «Spero che non sarete obbligato a far demolire tutto questo!» Egli le rispose prontamente, già in preda alla collera: era esattamente ciò che volevano, ciò per cui lo assillavano ogni giorno, incapaci di capire che un uomo può provare sentimenti onesti. La casa, così com'era, rappresentava per lui, più di quanto non potesse esprimere a parole, una fonte di gioia e di interesse. C'erano ben altri valori oltre al volgare interesse per il danaro e gli affitti, e in sostanza, in sostanza... Miss Staverton concluse per lui la frase: «In sostanza, il vostro grattacielo vi frutterà talmente tanto che, vivendo agiatamente grazie ai suoi guadagni disonesti, potrete permettervi di fare per un po' il sentimentale in questa casa!» Le sue parole ed il sorriso che le accompagnava erano velate di una dolce ironia, come del resto tutto il suo discorso, un'ironia priva di rancore che nasceva da un'immaginazione fervida. Non erano per nulla simili alle battute sarcastiche di poco conto che molte persone importanti dicono per sembrare argute e che, in realtà, denotano una totale mancanza di fantasia. In quel momento, si sentì piacevolmente rassicurato per il fatto che, dopo averle risposto con un attimo di esitazione: «Ebbene, sì, se così volete metterla!» era certo che la sua immaginazione gli avrebbe reso ancora giustizia. Le spiegò che, anche se non avesse ricavato nemmeno un dollaro dalla casa che stava ristrutturando, avrebbe comunque continuato ad avere gran cura di quella più vecchia e, mentre vagabondavano per le stanze soffermandosi qua e là, disquisì approfonditamente sullo stupore che provocava e sull'interessante mistero che egli stesso rappresentava per la gente. Le parlò del valore affettivo che ogni parte della casa aveva per lui, della gioia che provava osservando le pareti, la forma delle stanze, udendo lo scricchiolio del pavimento, impugnando le vecchie maniglie placcate d'argento delle numerose porte in mogano che gli facevano percepire il tocco delle mani che un tempo le avevano afferrate. Settant'anni di vita erano racchiusi in tutti questi oggetti, gli annali di tre generazioni, fra cui anche quella di suo nonno, la generazione che si era estinta in quell'edificio, le ceneri impalpabili della sua gioventù ormai scomparsa, disperse nell'aria come infinitesime particelle di polvere. Alice Staverton ascoltò tutto; era una donna che rispondeva interiormente, non a parole. Non ebbe quindi bisogno di un fiume di parole per esprimere il proprio assenso, la propria ap-
provazione o il proprio incoraggiamento. Solo alla fine si spinse un po' più in là di quanto egli non avesse fatto: «E, dopotutto, come fate a saperlo? Può darsi che in futuro voi desideriate vivere qui, in questa casa.» Le sue parole lo sorpresero: non era certo quello che intendeva, per lo meno non nel senso che lei aveva dato alla frase. «Intendete dire che potrei decidere di rimanere qui per amore di questa casa?» «Beh, con una casa simile...» Alice aveva troppo tatto per spingersi oltre, calcando vistosamente la mano sulla questione, e la reazione di Spencer Brydon, in quel momento, era un chiaro esempio di come misurasse sempre le parole. Come poteva una persona intelligente e sensibile insistere sul fatto che si desiderasse vivere a New York? «Oh» rispose Spencer. «Avrei potuto viverci.. ne avevo avuto l'opportunità quando ero giovane, e trascorrerci tutti questi anni, e ogni cosa sarebbe stata indifferente, oserei dire buffa. Ma questa è un'altra faccenda. E poi la bellezza delle mie decisioni, intendo dire della mia caparbietà nel rifiutare ogni compromesso, sta proprio nella totale mancanza di una logica. Non vedete che se ne avessi avuta una, sarebbe stata di tutt'altra natura, una pura e semplice questione di dollari? Qui non c'è altra logica se non quella del dollaro, per cui è meglio rinunciarvi, non averne nemmeno una.» Erano ritornati nell'atrio e stavano per lasciare la casa quando si fermarono scorgendo, attraverso la porta aperta, l'enorme salone di forma quadrata pregno di un'antica serenità, con le sue finestre graziosamente disposte a regolari distanze le une dalle altre. Alice distolse lo sguardo da quella visione e incontrò quello di Spencer. «Siete sicuro che un fantasma non servirebbe...» Egli ebbe la netta sensazione d'impallidire. In quell'occasione, tuttavia, non si spinsero oltre anche perché egli (per lo meno così ritenne) le rispose con atteggiamento sorridente ma fermo. «Oh, i fantasmi... certamente abbondano in questo posto! Mi sentirei umiliato se non ce ne fossero. La povera signora Muldoon ha ragione, ed è per questo motivo che vi ho chiesto di venire per dare un'occhiata di giorno.» Miss Staverton distolse nuovamente lo sguardo per guardarsi attorno, i pensieri inespressi, eppure evidenti, le affollavano la mente. Forse, in quell'istante, in quella elegante sala, percepiva qualcosa di oscuro prendere gradatamente forma, essenziale come la maschera funebre di un volto aggraziato. Era come se, in quel volto di gesso, potesse scorgere un movimento, un'espressione di vita. Purtuttavia, qualsiasi cosa avesse percepito o
pensato, fece solamente un'osservazione banale: «Se fosse ammobiliata e abitata...» Sembrava volere dire che, se la casa fosse ammobiliata, egli sarebbe stato probabilmente più invogliato a tornare a viverci. Invece, quasi volesse lasciarsi le proprie parole dietro le spalle, attraversò l'atrio con passo deciso dirigendosi verso la porta d'ingresso; un attimo dopo egli l'aveva già aperta e si trovava accanto a lei, sui gradini. La chiuse e, mentre riponeva le chiavi in tasca, si osservò attorno, prima di reimmergersi con lei nella cruda realtà dell'Avenue, che gli ricordava l'impatto con l'intensa luce del deserto subito da un visitatore all'uscita da una tomba egizia. Ma, prima che giungessero alla strada, osò spiegarle. «Per me, è abitata, è ammobiliata.» Fu facile allora per Alice rispondere, sospirando un vago e discreto: «Ah, sì.» I suoi genitori, la sorella, per non parlare degli altri parenti, erano vissuti e morti fra quelle mura e ciò per lui era innegabilmente vita. Pochi giorni dopo, mentre si trovava in compagnia di lei, le esternò il fastidio che provava a causa dell'atteggiamento eccessivamente curioso e lusinghiero delle persone che incontrava, interessate a conoscere le sue impressioni su New York. Egli non si era formato alcuna opinione al riguardo che potesse essere espressa pubblicamente e, per quanto riguarda i suoi pensieri (positivi o negativi che fossero), erano tutti concentrati su di un'unica questione. Era un puro e sterile egoismo, o se preferiva, una forma di ossessione. Gli sembrava che tutto si riducesse all'interrogativo di come avrebbe potuto essere, di come avrebbe potuto vivere la sua vita a New York se non avesse rinunciato a farlo fin dall'inizio. Confessando per la prima volta questo suo assurdo e pervicace pensiero «che era indubbiamente la riprova di un'innata abitudine a ragionare in maniera troppo egoistica» Spencer dichiarava implicitamente di non possedere altre fonti d'interesse né di provare alcuna attrazione per la città natale. «Che cosa sarebbe stato di me? Che cosa sarebbe stato di me? Continuo idiotamente a chiedermelo, come se potessi saperlo! Ho visto quello che è stato di tanti altri, di quelli che ho incontrato, e mi tormenta l'idea, fino all'esasperazione che anche di me sarebbe stato così. Solo, non riesco a immaginare che cosa mi sarebbe accaduto, e l'ansia che ciò mi genera, il fastidio che provo sentendo che la mia curiosità non verrà mai soddisfatta, mi fa ricordare la sensazione che provai una volta o due, nel passato, quando decisi di bruciare alcune lettere senza leggerle. Mi sono pentito del mio gesto, ho odiato la mia decisione poiché non ho mai più potuto conoscerne il contenuto. Certamente voi potrete giudicare tutto questo una sciocchezza...»
«Non direi proprio che lo sia» lo interruppe Miss Staverton con tono serio. Era seduta vicino al caminetto acceso mentre lui, camminando irrequieto su e giù di fronte a lei, di quando in quando veniva catturato dall'onda dei suoi pensieri, ora attratto dall'idea di esaminare con il monocolo i vecchi ninnoli che Alice teneva sul caminetto. Quando le parole di lei lo interruppero, le lanciò un'occhiata severa. «Se è così, non l'avrei certo detto» disse Spencer purtuttavia ridendo; «è una frase fatta, in ogni modo, un'espressione per cercare di descrivere meglio il mio stato d'animo. Se non avessi seguito il mio insano destino, facendomi quasi maledire da mio padre, se non avessi continuato a seguirlo laggiù da quel giorno fino a oggi, senza il minimo dubbio o la minima sofferenza, se non lo avessi assaporato, amato, soprattutto amato, spinto dall'enorme presunzione della validità della mia scelta, la mia vita e il mio essere sarebbero risultati diversi. Avrei dovuto rimanere qui, se fosse stato possibile, e a ventritrè anni ero troppo giovane per giudicare, pour deux sons ammesso che fosse realmente possibile. Se avessi atteso, avrei probabilmente scoperto che lo era e sarei diventato simile a uno di quegli individui così duramente segnati dal proprio modo di vita. Non è che io li ammiri poi molto: se siano affascinanti o affascinati da qualcos'altro che non sia il volgare denaro, è un problema che non mi tange. Mi chiedo, invece, quale fantastica, eppure possibile, evoluzione avrebbe subito la mia natura se avessi scelto diversamente. E come se a quell'epoca avessi avuto uno strano alter ego, celato nel profondo di me stesso come un fiore racchiuso nel suo bocciolo, e, seguendo il mio destino, lo avessi trasportato in un clima che lo avrebbe fatto appassire per sempre.» «E ora vi domandate di quel fiore» disse Miss Staverton. «E anch'io, se volete saperlo, me lo domando da parecchie settimane. Credo in quel fiore» continuò. «Sento che sarebbe stato meraviglioso, enorme e mostruoso» «Mostruoso soprattutto!» sottolineò il suo ospite. «E, immagino, orrido e ripugnante.» «Voi non credete ciò che avete appena detto» replicò lei. «Se così fosse, non vi tormentereste tanto per quel fiore. Lo sapreste con certezza e non indaghereste oltre. Ciò che invece voi percepite e che anch'io percepisco, è che sareste diventato un uomo potente.» «Vi sarei piaciuto potente?» chiese lui. Esitò solo un istante prima di rispondere. «Perché non avreste dovuto piacermi?»
«Capisco. Vi sarei piaciuto perché sarei diventato un miliardario!» «Perché non avreste dovuto piacermi?» chiese ancora Alice per tutta risposta. Egli stava di fronte a lei, calmo: la sua domanda lo aveva immobilizzato. La assimilò, tacendo e tentando di elaborare una risposta. «Per lo meno so quello che sono» disse infine con semplicità. «L'altra faccia della medaglia è sufficientemente chiara. Non ho mai condotto un'esistenza esemplare; penso che in numerosi ambienti mi reputino tutt'al più una persona onesta. Ho sempre seguito strane vie e adorato strani dei. Suppongo anche che voi abbiate spesso pensato, in questi trent'anni, che io vivessi una vita frivola e scandalosa. Vedete bene quello che sono diventato oggi.» Alice non rispose subito, ma gli sorrise. «E voi vedete quello che io sono diventata.» «Oh, voi siete una persona che niente e nessuno può cambiare. Siete nata per essere ciò che siete ovunque e comunque: voi siete la perfezione che nulla potrebbe devastare. Non vedete che, se non fosse stato per il mio esilio, non avrei aspettato fino ad ora...» ma non riuscì a finire la frase a causa di un acuto dolore. «Quello che conta» replicò Miss Staverton «è che, a quanto mi sembra, nulla è stato guastato. Se non altro, non sono stati guastati il vostro ritorno, le vostre parole...» Esitò, non riuscendo più a continuare. Egli cercava di capire il significato della sua controllata emozione. «Intendete dire che... sarebbe spaventoso!... Io sono quanto di meglio sarei potuto diventare nella mia vita?» «Oh, no, tutt'altro!» Alice si alzò e gli si avvicinò. «Ma non m'importa» aggiunse sorridendo. «Ritenete che sia una persona sufficientemente per bene?» Miss Staverton meditò un istante prima di rispondere. «Mi credereste se vi dicessi di sì? Voglio dire, sarebbe una risposta sufficiente alla vostra domanda?» Poi, come se gli avesse letto sul volto il rifiuto di una simile rivelazione, come se avesse percepito che egli aveva qualche assurda idea che non poteva ancora svelare, gli disse: «Veramente, nemmeno a voi importa saperlo, ma per ragioni totalmente diverse: l'unica cosa che v'interessa è il pensiero di voi stesso.» Spencer Brydon riconobbe che era la verità la stessa che aveva sempre dichiarato. Purtuttavia, volle aggiungere una specificazione importante: «Egli non è me stesso. È un'altra persona, completamente diversa. Ma voglio vederlo. Posso vederlo, e lo farò.»
I loro sguardi s'incrociarono per un attimo ed egli comprese che, guardandolo, aveva percepito la sua strana sensazione. Nessuno dei due parlò. La comprensione che Alice aveva dimostrato, senza alcun motto di turbamento o di protesta, senza derisione, lo colpì più profondamente di ogni altra cosa, e fu per la sua insania repressa una ventata di aria pura. Quanto ella disse in seguito lo colse, in ogni caso, di sorpresa. «Ebbene, io l'ho visto.» «Voi?» «L'ho visto in un sogno.» «Oh, in un sogno!» ripeté lui con tono deluso. «Due volte» continuò lei «lo stesso sogno» A questa affermazione si sentì vagamente lusingato. «Mi sognate dunque così frequentemente?» «Non sogno voi, ma lui!» gli rispose lei sorridendogli. Gli occhi di Brydon la scrutarono nuovamente. «Allora conoscete tutto di lui». Dato che non ottenne alcuna risposta, aggiunse: «Com'è quel disgraziato?» Alice esitò; si sentiva soffocare da tutte quelle parole e, per salvarsi, cercò la fuga. «Ve lo dirò un'altra volta!» II Dopo quanto accadde, egli iniziò a considerare la propria ossessione come una virtù e a provare un fascino raffinato, un'assurda eccitazione segreta nell'abbandonarvisi, nel cedere a quello che riteneva sempre più essere un suo privilegio. Era diventata la sua ragione di vita, ormai; egli sentiva di iniziare a esistere solo quando Miss Muldoon scompariva dalla scena e, vagando per l'immensa casa dalle cantine alla soffitta, rassicurandosi di essere solo, sapeva di essere al sicuro e si lasciava andare. Talora veniva anche due volte nell'arco di ventiquattr'ore; i momenti più belli erano al calare del crepuscolo, prima dell'arrivo della breve sera autunnale, quando si scopriva a sperare più intensamente. Gli sembrava, inoltre, di potere girovagare per casa e attendere con maggiore intimità, soffermarsi qua e là ad ascoltare, percepire la sua vigile attenzione, mai prima d'allora così vigile, tastando il polso all'immensa e misteriosa casa. Preferiva recarvisi quando i lampioni non erano ancora accesi e desiderava prolungare ogni giorno di più il profondo incanto del crepuscolo. Qualche volta veniva anche più tardi, di rado molto tempo prima di mezzanotte, per una veglia an-
cora più lunga: si guardava attorno alla luce tremolante della candela, camminando lentamente e cercando ansiosamente d'illuminare il più possibile le ampie stanze e i corridoi e di evocare la presenza che desiderava incontrare. Era un'operazione che poteva compiere senza provocare chiacchiere. Nessuno ne era minimamente al corrente, nemmeno Alice Staverton, che era la discrezione in persona, poteva immaginarla. Entrava e usciva dalla casa con la tranquillità e la sicurezza del proprietario. Il caso lo aveva fino a quel momento favorito poiché, anche se un grasso poliziotto dell'Avenue lo aveva visto qualche volta entrare verso le undici e mezza, non lo aveva mai visto, a quanto gli constava, uscire alle due. Vi si recava a piedi, nelle pungenti sere novembrine, arrivando sempre alquanto tardi: gli veniva quasi spontaneo farlo dopo avere cenato fuori, come se stesse andando al circolo o ritornando in albergo. Se lasciava il club e se non aveva cenato fuori, fingeva di dirigersi verso l'albergo, se invece lasciava l'hotel, dopo averci trascorso parte della serata, fingeva di andare al circolo. Tutto filava liscio, tutto favoriva i suoi piani. Persino la tensione che questa esperienza gli provocava lo aiutava, contribuendo ad alterare, semplificare e placare tutti i messaggi che la coscienza gli inviava. Faceva vita sociale, parlava con la gente, aveva ripreso liberamente e piacevolmente i contatti con le vecchie conoscenze, cercava di essere il più possibile all'altezza di quelle nuove. Malgrado l'esistenza condotta, i differenti tipi di amicizie di cui aveva parlato a Miss Staverton e che ai più sarebbero sembrati di certo poco edificanti, sembrava alquanto beneaccetto. Pur rimanendo un personaggio misterioso e di secondo piano, godeva di un certo successo presso coloro che non avevano la minima idea di chi in realtà fosse. Il loro benvenuto, le bottiglie stappate in suo onore erano atti formali e superficiali, come le sue reazioni, simili a ombres chinoises stravaganti ed esagerate rispetto al loro significato. Ogni giorno superava la banalità della vita quotidiana e della gente insensibile e ottusa proiettandosi con la fantasia nella sua seconda vita, quella vera, pronta ad accoglierlo. Quella vita che, appena udiva lo scatto della serratura della porta d'ingesso, iniziava nell'Angolo Allegro, allettante come le lente battute d'apertura di un'opera che seguono la bacchetta del direttore d'orchestra. Era pronto a captare il suono della punta metallica del suo bastone sul pavimento di marmo dell'atrio, a quadrati bianchi e neri, che tanto aveva colpito la sua fantasia quand'era bambino e che, come ora comprendeva, lo avevano aiutato a formarsi un proprio concetto di stile. Quel suono era simile all'eco attutita di un campanello suonato in un angolo remoto della
casa, nel passato, in quel mondo mistico in cui avrebbe potuto vivere se, nel bene o nel male, non lo avesse abbandonato. Quando provava questa sensazione, faceva sempre la stessa cosa: riponeva silenziosamente il bastone in un angolo, percependo la casa come un'enorme coppa di vetro, una preziosa forma concava di cristallo che risuonava delicatamente quando un dito umido ne sfiorava il bordo. In essa era racchiuso quel mondo mistico: l'indescrivibile mormorio, che il suo orecchio teso a stento riusciva a percepire, era il fievole lamento delle antiche possibilità perdute e disprezzate. Con la sua tacita presenza ne evocava il fantasma, facendolo rivivere almeno per pochi istanti. Era un fantasma schivo ma irrequieto, mai funesto; per lo meno non era come egli se l'era immaginato in precedenza, prima che assumesse la Forma che desiderava conferirgli, la Forma che talora egli inseguiva, in punta di piedi, con le scarpe da sera di stanza in stanza, da un piano all'altro della casa. Questa era l'essenza della sua visione, pura follia se ci rifletteva quando si trovava fuori casa ed era occupato in altre attività, e che però diventava estremamente verosimile quando varcava la soglia dell'edificio ed iniziava l'appostamento. Vedeva chiaramente l'obiettivo e sapeva quello che voleva: il suo piano era preciso come la cifra indicata su un assegno pronto per essere riscosso. Il suo alter ego «camminava», così egli se l'era immaginato, e il suo strano passatempo nasceva proprio dal desiderio di sorprenderlo e incontrarlo. Spencer Brydon procedeva lentamente, con cautela, irrequieto, finendo per assomigliare al suo doppio. La signora Muldoon aveva assolutamente ragione quando parlava di presenze che strusciavano per la casa; probabilmente, anche la figura che egli inseguiva vagava inquieta, usando altrettanta prudenza e altrettanti accorgimenti. La convinzione che l'altro avrebbe ragionevolmente tentato di sfuggirgli si faceva sempre più intensa, notte dopo notte, e lo aveva ormai gettato in preda a un'ansia inconsueta. Molte persone che lo avevano conosciuto e giudicato superficialmente erano certe che avesse sprecato la sua vita abbandonandosi alle sensazioni e, tuttavia, egli non aveva mai provato un piacere così sottile come l'ansia che lo pervadeva, né praticato alcuno sport che richiedesse tanta pazienza e autocontrollo come la caccia a una creatura più astuta e probabilmente, una volta catturata, più spaventosa di una belva. Termini, paragoni, tecniche relative alla caccia gli ritornavano continuamente in mente; c'erano persino momenti in cui riviveva le esperienze sportive vissute occasionalmente in gioventù, i ricordi di brughiere, montagne, deserti, resi più intensi dalla straordinaria analogia di situazioni. Talora, dopo ave-
re sistemato la candela su un caminetto o in un vano, si rintanava in qualche nicchia o in un angolo buio, dietro una porta o una rientranza, come in passato si era nascosto dietro una roccia o un albero, trattenendo il respiro e assaporando l'emozione di quegli istanti, l'intensa suspense che solo la caccia grossa può dare. Non aveva paura: così aveva concluso dopo essersi posto il problema di come, secondo lui, facevano coloro che prendevano parte alla caccia alla tigre del Bengala o si trovavano ad affrontare l'orso delle Montagne Rocciose. Aveva infatti, la strana e profonda sensazione (e almeno in quest'occasione poteva essere sincero!) di scatenare egli stesso un terrore e un'ansia molto più intensi di quelli che provava. I segni d'allarme che percepiva, creati dalla sua presenza e dal suo vigilare, gli erano ormai diventati familiari e potevano essere suddivisi in categorie; essi, in ogni caso, gli facevano chiaramente percepire di avere probabilmente instaurato un rapporto straordinario e di avere la possibilità di vivere un'esperienza unica. La gente tutto sommato era sempre stata terrorizzata dalle apparizioni, ma chi prima di lui era stato così abile da invertire i ruoli, trasformandosi in un'entità assolutamente terrificante per il mondo degli spettri? Se ci avesse riflettuto più a lungo, lo avrebbe trovato sublime; tuttavia, non prese mai in particolare considerazione questo aspetto del suo privilegio. Con l'abitudine e la pratica riuscì a acquisire la straordinaria capacità di penetrare le tenebre più profonde, in lontananza e negli angoli, di percepire gli innocenti inganni creati dalla luce tremolante e le forme sinistre che le ombre acquisivano nelle zone più buie a causa di correnti d'aria o degli effetti prospettici. Se riponeva la candela, era ugualmente in grado di avanzare nell'oscurità, di stanza in stanza e, con la sicurezza che in caso di bisogno la candela era là dietro di lui, riusciva a farsi strada con la luce immaginaria del pensiero. Questa nuova capacità che aveva acquisito lo faceva sentire simile a un gatto mostruoso dall'andatura circospetta; si chiedeva spesso se in quei momenti i suoi occhi fossero grandi e di colore giallo fosforescente e quanto terrificante dovesse risultare per il suo sfortunato alter ego l'essere inseguito da un mostro simile. Egli amava in ogni caso tenere aperte le persiane: apriva, infatti, tutte quelle che la signora Muldoon aveva chiuso, richiudendole prima di andarsene con estrema cura in modo che ella non se ne accorgesse. Amava soprattutto, quando si trovava ai piani superiori, percepire la luce argentea delle stelle d'autunno che filtrava attraverso i vetri delle finestre, un po' meno il bagliore biancastro dei lampioni elettrici in strada che solo le tende
avrebbero potuto schermare. Questi ultimi erano il simbolo concreto della società, del mondo in cui era sempre vissuto ed egli si sentiva maggiormente tranquillo perché, malgrado il suo distacco, era proprio quel mondo, quella società, a conferirgli un contegno freddo e asettico. La luce, più intensa nelle stanze che davano sul davanti e sul lato della casa che era stato allungato, diventava decisamente scarsa nella parte centrale e in quella posteriore. Pur essendo lieto, durante numerosi dei suoi vagabondaggi, di avere, grazie a essa, un vasto campo visivo, si convinceva sempre più che il retro fosse l'habitat ideale per la sua creatura. Lì la disposizione degli spazi era più complessa, soprattutto nell'area degli innumerevoli alloggi per i domestici ricca di rientranze e angoli, ripostigli e corridoi e in cui si snodava una grande scala di servizio. Spesso egli si sporgeva dalla sua ringhiera per guardare in basso, per nulla scoraggiato dall'aria seria e austera che assumeva, persino quando si rendeva perfettamente conto che qualcuno avrebbe potuto vederlo e giudicarlo uno stupido che gioca a nascondino. Quando era fuori, infatti, faceva egli stesso quell'ironico rapprochement ma, fra le pareti della casa, malgrado le finestre facessero penetrare la luce all'interno, la sua logica determinazione era al sicuro dalle ciniche luci di New York. L'esasperata consapevolezza della sua vittima era diventata per lui un vero e proprio motivo di sfida con se stesso visto che, fin dall'inizio, si era ritenuto in grado di sviluppare le proprie facoltà percettive. Era interiormente convinto che questo fosse possibile, il che implicava semplicemente chiamare con un altro nome il suo passatempo. Affinandole e perfezionandole con la pratica quotidiana, riusciva ormai a captare tutte le impressioni e le testimonianze che confermavano il suo postulato generale, cosa che non avrebbe mai saputo fare ai primi tentativi. Questo era, in particolare, il caso di un fenomeno che gli accadeva alquanto spesso quando si trovava ai piani superiori. Aveva scoperto, senza possibilità di dubbio, che da quando aveva ripreso la sua campagna dopo una pausa diplomatica di tre notti, veniva seguito, pedinato a distanza e che tale atto aveva il preciso scopo di renderlo meno sicuro di sé, meno arrogante, più preda che inseguitore. Il fatto lo preoccupava e finì per logorarlo psicologicamente poiché, fra tutte le impressioni concepibili, questa era la meno indicata per portare a compimento il suo piano. Era sorvegliato a vista e, dalla sua posizione, non riusciva a vedere assolutamente nulla; l'unica sua salvezza era voltarsi bruscamente e cercare di riguadagnare velocemente terreno. Ripercorreva i propri passi nel tentativo di percepire una folata d'aria provocata dalla pre-
cipitosa ritirata dell'Altro. Quando, lontano dalla casa, rifletteva su tutte le sue manovre si sentiva assai simile a un Pantalone malmenato e burlato da un onnipresente Arlecchino in una carnevalesca commedia dell'Arte. Tuttavia, fra le mura dell'edificio, cadeva nuovamente preda di quella strana atmosfera percependo così, sempre più distintamente, l'analogia con la maschera e la gravità della situazione. Per tre notti non si era recato alla casa determinato a creare la falsa impressione di una tregua: le conseguenze della sua terza assenza confermarono quelle della seconda. Al suo ritorno, quella notte (vale a dire, la notte seguente la sua terza assenza) si fermò nell'atrio a osservare la scalinata con una più intima sicurezza rispetto al passato. "È lassù in cima, mi sta aspettando. Questa volta non si dileguerà come sempre. È lassù immobile, per la prima volta. E questa è certamente la prova che qualcosa gli è accaduto" questo pensò Brydon, una mano poggiata sulla ringhiera e un piede sul primo gradino, sentendo l'aria attorno a lui straordinariamente raggelata dalla propria logica. Egli stesso si raggelò, quasi fosse cosciente di quello che sarebbe accaduto. "Messo alle strette?" pensò. "Sì, e lo sa; sa che sono venuto, come si dice, per rimanere e non gli piace, non può sopportarne l'idea. Intendo dire che la sua collera, il sentire i suoi interessi minacciati sono intensi come il suo terrore. Gli ho dato la caccia finché non mi si è rivoltato contro: ecco, è accaduto lassù, è come l'animale braccato che cerca di difendersi con le zampe o con le corna." Era pervaso da una profonda e insondabile certezza ma, solo pochi istanti dopo, si ritrovò madido di un sudore che difficilmente avrebbe riconosciuto come sintomo di paura ed altrettanto difficilmente interpretato come stimolo all'azione. In ogni caso gli procurava una straordinaria emozione, un'emozione in parte dovuta a un subitaneo sgomento ma anche al più strano, felice e forse, pochi istanti dopo, più coraggioso sdoppiamento di coscienza. "Mi ha sempre schivato" pensò "è sfuggito, si è nascosto ma ora, spinto dalla rabbia, dovrà combattere!" La sua intensa sensazione lo colmò di terrore e di gratificazione. Ciò che era particolarmente sublime era la gratificazione, così immensa, poiché il suo alter ego, quell'ineffabile presenza che avrebbe presto catturato e sconfitto, non era in fondo un essere indegno di lui. Era pronto, là, da qualche parte nelle vicinanze, ma ancora nascosto, come la preda cacciata, pronto a ergersi come il verme calpestato del proverbio. In quel momento Brydon provò una sensazione probabilmente più complessa di quelle che fino ad allora aveva reputato essere dimostrazioni di sanità mentale. Gli sembrava vergognoso il fatto che un es-
sere così strettamente legato a lui riuscisse abilmente a rintanarsi, senza mai uscire allo scoperto. La fine di un simile pericolo apportò un notevole miglioramento alla situazione. Eppure, ancora una volta a causa della sua fervida immaginazione, egli si ritrovò a valutare l'entità del pericolo che stava correndo e l'intensità della paura, rallegrandosi di poterla incutere, anche se sotto altre spoglie, e nel contempo rabbrividendo all'idea di esserne pervaso. L'ansia di conoscere la sua paura era a poco a poco cresciuta in lui e i momenti più strani della sua avventura, i più memorabili o i più interessanti della sua successiva crisi, furono quelli caratterizzati da un combat profondo e consapevole, dalla necessità di aggrapparsi a qualcosa, tipica di un uomo che continua inesorabilmente a scivolare lungo un ripido pendio, spinto soprattutto da un intenso impulso a muoversi, agire, a scagliarsi contro qualcosa, in qualche modo, in poche parole dimostrare a se stesso che non aveva paura. Questo aggrapparsi era lo stato in cui all'epoca si trovava, se non altro temporaneamente: se nell'immenso vuoto ci fosse stato qualcosa a cui appigliarsi, l'avrebbe afferrato come avrebbe potuto fare, nel suo alloggio, con lo schienale di una sedia in caso di violento collasso. Era rimasto in ogni caso sorpreso (di ciò era perfettamente conscio) di provare una sensazione inaudita, del tutto nuova da quando era entrato in possesso della casa: aveva chiuso strettamente gli occhi per un lungo minuto, come in preda al terrore e allo sgomento. Quando li aveva riaperti la stanza in cui si trovava e quelle contigue gli erano sembrate straordinariamente più luminose, così luminose che pensò quasi fosse sopraggiunta l'alba. Tuttavia, rimase immobile nel punto in cui si trovava; la sua resistenza lo aveva aiutato, era come se fosse riuscito a dominare una situazione di pericolo. Dopo un attimo comprese di che cosa si trattava: era stato tentato di fuggire via e grazie alla forza di volontà non lo aveva fatto. Senza di essa, si sarebbe diretto verso le scale e le avrebbe discese, sempre a occhi chiusi, fino in fondo, procedendo nel modo più veloce possibile. Invece, avendo resistito, era ancora là, in cima alle scale, di fronte al dedalo di stanze del piano superiore, pronto a raccogliere la sfida delle altre, di tutto il resto della casa e ad andarsene solo quando sarebbe stato il momento opportuno. Se ne sarebbe andato solo allora, solo quando era il suo momento: non usciva forse dalla casa sempre alla stessa ora? Estrasse dal taschino l'orologio: c'era luce sufficiente per potere vedere l'ora. Quasi l'una e un quarto; non se n'era mai andato così presto, di solito rientrava nel suo alloggio verso le due, dopo una passeggiata di un quarto d'ora. Avreb-
be aspettato fino all'una e tre quarti, senza muoversi, tenendo l'orologio bene in vista e meditando, mentre l'osservava, che quell'attesa indubbiamente faticosa sarebbe servita ai fini di ciò che voleva provare. Voleva provare il suo coraggio che, tuttavia, avrebbe potuto meglio dimostrare abbandonando la sua postazione. Non essendo fuggito, la principale sensazione che provava in quegli attimi di attesa era di dignità, di una dignità mai così elevata prima d'allora, che doveva conservare con la massima cura. Questa sua sensazione era diventata per lui un'immagine concreta, degna di un'epoca più cavalleresca e, dopo una simile osservazione, si fece ancora più vivida. Quale epoca cavalleresca, infatti, avrebbe potuto essere all'altezza del suo stato d'animo o, obiettivamente parlando, dell'eccezionalità della sua situazione? L'unica differenza era che, in un'epoca eroica, egli avrebbe potuto brandire la sua dignità con una mano, tenendola in alto, sopra il capo, come un rotolo di pergamena, e discendere le scale con una spada sguainata nell'altra. In quell'istante, l'unica spada su cui poteva veramente contare era la candela appoggiata sul caminetto della stanza adiacente. Se ne impossessò subito, dopo aver fatto il numero di passi necessari per raggiungerla. La porta che metteva in comunicazione le due stanze era aperta, come quella fra la seconda e la terza. Tutte e tre le stanze, a quanto si ricordava, davano su un unico corridoio, ma ce n'era anche una quarta, dopo di esse, che comunicava solo con le precedenti e non con il corridoio. Essersi mosso, avere udito nuovamente i suoi passi era stato per lui un enorme conforto, purtuttavia indugiò ancora qualche minuto in prossimità del caminetto su cui aveva posato la candela. Quando fece il primo passo, incerto sulla direzione da prendere, si ritrovò a meditare su un evento che, dopo essere stato vagamente percepito, gli aveva procurato quel trauma tipico dei ricordi, quel violento shock che si prova quando si cessa di dimenticare serenamente. Aveva scorto l'ultima porta di comunicazione, che ora sorvegliava dalla soglia della stanza precedente, posta non esattamente di fronte a essa, bensì lievemente a sinistra. Essa lo avrebbe condotto nella quarta stanza, quella senza altre uscite o entrate, se, come egli riteneva, non fosse stata chiusa dopo la sua ultima ispezione, avvenuta un quarto d'ora prima. Osservò con occhi sgranati dallo stupore. Restò nuovamente immobile trattenendo il respiro e cercando di capire. Era stata sicuramente chiusa in seguito... e questo significava che prima della sua ultima ronda era aperta! Prese coscienza che qualcosa era accaduto in quell'intervallo di tempo; non avrebbe mai potuto sfuggirgli (durante il primo giro d'ispezione di
quella sera) l'esistenza di una simile barriera. Era, tuttavia, in preda a un'agitazione talmente potente che ogni ricordo ne veniva obnubilato. Cercò di convincersi che poteva essere entrato nella stanza e, al momento di uscirne, averla richiusa con un gesto automatico, senza accorgersene. Il problema era però che non compiva mai simili atti, contrari al suo sistema finalizzato a mantenere la visuale più ampia possibile. Fin da principio, ne era consapevole, la sua mente aveva elaborato visioni: l'ultima strana apparizione della preda ormai disorientata (solo ironicamente la si poteva ora definire così!) era il tipo di successo che la sua immaginazione desiderava maggiormente ottenere, conferendogli particolare eleganza e bellezza. Aveva mille volte sentito sorgere la percezione che poco dopo però era svanita, si era mille volte detto con affanno: «Là!» in preda a una breve e desiderata allucinazione. La casa, in effetti, si prestava benissimo: il gusto e il particolare tipo di architettura, che trovavano massima espressione nella fuga di porte e che contrastavano nettamente con quelli moderni, contribuivano a ossessionarlo facendogli immaginare un incontro con l'Altro vissuto come attraverso la lente di un telescopio, messo a fuoco in una dimensione prospettica. Simili considerazioni gli occupavano allora la mente, aiutandolo a meglio comprendere lo straordinario fenomeno. Non avrebbe mai potuto chiudere per sbaglio la porta e, se così fosse stato, non era dunque chiaro che qualcun altro lo aveva fatto? Un altro? Poco tempo prima aveva percepito il suo respiro... ma quando gli era stato così vicino come in quel gesto semplice, logico, estremamente personale? Era talmente logico che lo si sarebbe potuto considerare personale; questo si domandava Brydon mentre ansimava lievemente e aveva la sensazione che i suoi occhi schizzassero fuori dalle orbite. In quell'istante, per lo meno, le due opposte proiezioni del suo io erano là, presenti, come lo era il pericolo. E il pericolo implicava audacia. La porta chiusa di fronte a lui sembrava gridargli: «Su, dimostra il tuo coraggio»; lo guardava intensamente, sfidandolo, ponendogli il dilemma se aprirla o no. Oh, essere consapevole di tutto ciò significava pensare e pensare, Brydon lo sapeva bene mentre rimaneva lì, immobile, e il tempo passava, significava non agire! Non agire in quell'istante (qui stava il tormento e la sofferenza) significava non agire mai più, dovere in realtà percepire l'Altro in un modo completamente nuovo, terribile. Per quanto tempo rimase immobile meditando su tali interrogativi? Non aveva modo di stabilirlo; persino la sua carica emotiva era cambiata, come per effetto della sua stessa intensità. Rinchiuso là dentro, braccato e
purtuttavia pronto alla sfida, prova tangibile del fatto che il prodigio si era verificato ed era visibile come un'enorme insegna: tutti questi fattori avevano fatto sì che la situazione di per sé mutasse e Brydon si stava ora chiedendo in che modo. Giunse infine a una diversa conclusione: si trattava di un monito affinché non oltrepassasse i limiti della discrezione! Lo capì mentre indugiava sulla soglia, senza avanzare o indietreggiare. Era un fatto stranissimo e sorprendente, ma al contempo unico e squisito, che ora — pur potendo fare dieci passi, afferrare il chiavistello con la mano, in caso estremo sfondare la porta con la spalla o le ginocchia, appagando così il suo spasmodico desiderio, soddisfacendo la sua immensa curiosità e placando l'inquietudine — non avesse più alcuna motivazione per farlo. Era una questione di discrezione: ci arrivò in un baleno, e non per salvare i nervi o la pelle ma, molto più degnamente, la situazione. Ci arrivò in un baleno concettualmente e fisicamente: dopo parecchio tempo, infatti, si diresse velocemente verso la porta, si fermò ma non la toccò. Rimase là ad aspettare per un po', forse per provare che non l'avrebbe fatto (gli sembrava, tuttavia, che se ora avesse voluto avrebbe potuto toccarla). Fece così un'altra tappa, arrestandosi vicino alla sottile parete che lo separava dalla rivelazione, tenendo gli occhi bassi e le mani indietro in una immobilità e in un silenzio pressoché totali. Ascoltava come se ci fosse stato qualcosa da ascoltare; il suo atteggiamento, finché lo mantenne, comunicava le sue parole. "Se non esci allo scoperto" pensò "bene, ti risparmio, ti lascio libero. Sento che mi chiedi pietà: mi vuoi convincere, in nome di principi categorici e nobilissimi a me ignoti, che entrambi avremmo sofferto. Rispetto comunque tali principi e, sentendomi commosso e privilegiato rispetto agli altri uomini, mi ritiro, rinuncio al mio obiettivo, per non riprovare mai più, sul mio onore. Riposa in pace per sempre, e lascia che anche io riposi!" Quello era il vero senso che Brydon intendeva conferire all'ultima prova, così solenne, misurata, finalizzata a uno scopo ben preciso. L'aveva portata a termine e ora si ritirava. Solo quando sì allontanò dalla porta percepì esattamente tutta la sua agitazione. Ripercorse ì suoi passi, recuperò la candela, ormai completamente consumata, seguendo esattamente il percorso dell'andata, attutendo il più possibile l'eco dei suoi passi. In breve tempo si ritrovò dall'altra parte della casa e fece quello che non aveva mai fatto a quell'ora: spalancò una finestra che dava sulla facciata e lasciò entrare l'aria della notte, cosa che un tempo gli sarebbe parsa sufficiente per spezzare l'incantesimo. Ora l'incantesimo era spezzato (ma ciò non importava), in-
franto dalla sua concessione, dalla sua resa, che gli avrebbero impedito di ritornare. La strada deserta (l'altra sua vita caratterizzata da un immenso vuoto illuminato qua e là) era a portata di mano; poteva chiamarla. Restò là come volesse immergersi nuovamente in essa, appollaiato in alto, alla ricerca di qualche banalità, di una presenza umana, uno spazzino, un ladro, persino di un orrendo uccello notturno. Avrebbe benedetto qualsiasi segno di vita, accolto con piacere il suo vecchio amico poliziotto dall'andatura lenta che fino ad allora aveva cercato in tutti i modi di evitare. Se avesse avvistato la pattuglia della polizia non poteva escludere che avrebbe tentato di richiamarla adducendo qualche pretesto, da lassù, dal quarto piano. Non aveva però chiaro quale pretesto avrebbe potuto trovare, un pretesto che non fosse troppo sciocco o compromettente, in grado di salvare la sua dignità e la sua reputazione. Era così occupato a pensare alla discrezione (effetto, questo, del solenne giuramento fatto al suo intimo avversario) che essa aveva acquisito una smisurata importanza stravolgendo completamente il suo senso della proporzione. Se ci fosse stata una scala poggiata sulla facciata della casa, anche una sola di quelle vertiginose scale che usano gli imbianchini o gli operai per andare sui tetti e che talora vengono lasciate sul posto dei lavori anche la notte, avrebbe tentato di discenderla in qualche modo, avrebbe scavalcato il davanzale della finestra e, stendendo gambe e braccia, afferrato il mezzo che gli avrebbe consentito di andarsene. Se ci fosse stato uno di quegli strani aggeggi che di solito trovava nelle stanze d'albergo, un cavo o uno scivolo di salvataggio che si utilizzano in caso di incendio, ne avrebbe profittato, usandolo come prova della sua delicatezza. Si cullava in questo sentimento di per sé vano, scoprendo infine, dopo aver meditato per un tempo indefinito, che, probabilmente a causa della mancata risposta del mondo esterno, si stava trasformando in vaga angoscia. L'attesa di un segno, di un mormorio da parte del grande e tetro silenzio gli sembrò eterna. La vita della stessa città gli pareva preda di un incantesimo: il vuoto e il silenzio regnavano in maniera così innaturale dappertutto, da un'estremità all'altra della via costeggiata dagli orrendi edifici. Quelle case dalla facciata austera che iniziavano ad assumere una tonalità livida alle prime timide luci dell'alba, mai prima d'allora si erano dimostrate così insensibili alle richieste del suo spirito. Gusci vuoti, pieni di silenzio, che all'alba, nel cuore delle città, indossavano una maschera sinistra. Di questo rifiuto collettivo Brydon prendeva a poco a poco coscienza, soprattutto ora che il giorno iniziava quasi incredibilmente a sorgere, fornendogli la prova concreta di quale notte avesse appena trascorso.
Guardò nuovamente l'orologio, accorgendosi che la sua dimensione temporale era stata completamente stravolta: le ore erano diventate per lui minuti e non, come era avvenuto in altre situazioni ansiogene, i minuti ore. Il pallido e tetro chiarore dell'alba illuminava la città ancora immobile, conferendo alle strade uno strano aspetto. Il grido strozzato che aveva lanciato dalla finestra aperta era l'unico segno di vita: ora non gli restava che abbandonarsi a una ancora più cupa disperazione. Malgrado il profondo sconforto, riuscì tuttavia a provare un impulso che, almeno nella sua ottica attuale, era sintomo di una straordinaria determinazione, l'impulso di ripercorrere i propri passi fino al punto in cui si era sentito raggelare, dopo avere fugato ogni dubbio sull'esistenza dell'Altro. La cosa gli richiedeva uno sforzo talmente grande che stava quasi per sentirsi male, ma aveva le sue ragioni e questo bastava. Avrebbe dovuto attraversare tutto il resto della casa e che cosa sarebbe successo se la porta che egli aveva visto precedentemente chiusa fosse stata aperta? Accettava l'idea che la porta chiusa fosse stata un segno di pietà nei suoi confronti, una possibilità offertagli affinché scendesse, se ne andasse, abbandonasse quel luogo e non lo profanasse mai più. La teoria aveva una sua logica, ma la sua validità dipendeva dalla capacità che ora egli avrebbe avuto di sopportare le conseguenze della sua azione, o meglio della sua non-azione. L'immagine della presenza, qualunque creatura fosse, che attendeva la sua ritirata non era mai stata così reale per i suoi nervi come quando egli si era bloccato nel punto in cui stava per esserne certo. Nonostante la sua determinazione, o più esattamente il suo terrore, si era fermato, evitando di vedere. Il rischio era troppo grande e l'immensa paura aveva assunto in quell'istante una forma precisa e spaventosa. Era assolutamente certo, come mai lo era stato prima, che se avesse trovato la porta aperta, sarebbe stata la fine, una fine troppo degradante. Avrebbe significato che colui che lo aveva fatto vergognare (la vergogna era, in effetti, la causa della sua profonda degradazione) era ancora vivo e vegeto e padrone della casa. Gli balenò subito in mente la diretta conseguenza di tutto questo. Si sarebbe diretto verso la finestra che aveva lasciata aperta e, in mancanza di una scala o di una corda, si sarebbe necessariamente, follemente, fatalmente gettato giù verso la strada. Poteva sfuggire a questa spaventosa eventualità, ma solamente ritirandosi in tempo, fuggendo dalla certezza. Doveva ancora confrontarsi con tutta la casa, e su questo non c'era alcun dubbio, ma ora sapeva che soltanto l'incertezza poteva spingerlo a agire. Sbucò fuori di soppiatto dal suo nascondiglio (l'atto
gli parve di per sé la salvezza) dirigendosi precipitosamente verso la scalinata e lasciandosi alle spalle le stanze vuote e i corridoi che facevano echeggiare il rumore dei suoi passi. Arrivò alla sommità della scalinata che conduceva al pianterreno, immersa nella tenebra, con i suoi tre pianerottoli che suddividevano le rampe. Avrebbe voluto dileguarsi in silenzio, ma i suoi passi risuonavano pesanti sul pavimento e, stranamente, quando se ne accorse, si sentì aiutato. Non avrebbe potuto pronunciare parole, il suono della sua voce lo avrebbe spaventato; il luogo comune o l'espediente a cui spesso si ricorre in situazioni inquietanti di fischiettare nel buio (in senso letterale o figurato), gli sarebbe apparso in ogni caso volgare. Ciononostante, era contento di sentire i propri passi che lo conducevano via e, raggiunto il primo pianerottolo, senza fretta ma con decisione, emise trionfante il primo sospiro di sollievo. La casa sembrava immensa, gli spazi enormemente ingranditi: le stanze aperte, su cui evitava di soffermare lo sguardo, lasciavano intravvedere la loro vuota oscurità, simili a bocche di caverne. Solamente grazie all'alto lucernario che coronava la tromba delle scale egli riusciva a individuare la direzione in cui muoversi; la luce che da esso filtrava, tuttavia, aveva un colore così strano che gli sembrava di trovarsi in un mondo subacqueo. Tentò di pensare a qualcosa di nobile, al fatto che la sua proprietà era veramente maestosa e splendida, ma quest'aura di nobiltà si trasformò nel piacere che gli dava l'idea del suo sacrificio: ora potevano venire, i costruttori, i distruttori. Potevano farlo quando volevano. Dopo le prime due rampe, era giunto a un altro pianerottolo e a metà della terza, che era la penultima, riconobbe il chiarore proveniente dalle finestre del pianterreno con le tende tirate a metà, la luce dei lampioni riflessa dal lucido pavimento dell'atrio. Era giunto sul fondo del mare, illuminato di luce propria che, quando vi tuffò lo sguardo dalla ringhiera, si rivelò essere a riquadri bianchi e neri come il pavimento della sua infanzia. In quel momento, come avrebbe detto in circostanze meno straordinarie, si sentiva indubbiamente già meglio. Si era fermato per riprendere fiato e la vista del vecchio pavimento a quadri bianchi e neri lo fece sentire ancora più a suo agio. Ma ciò che percepiva con maggiore sicurezza era che, sentendosi ormai pienamente in salvo, il caso era chiuso e qualsiasi cosa avesse visto se avesse osato dare un'ultima occhiata non avrebbe modificato questa realtà: sì, il caso era chiuso... La porta chiusa, fortunatamente ormai così lontana, era ancora chiusa ed egli non doveva fare altro che raggiungere quella principale. Discese ancora alcuni gradini, oltrepassò il pianerottolo che dava sull'ul-
tima rampa e si fermò nuovamente per un attimo, probabilmente in preda all'emozione di avere quasi raggiunto la libertà. Chiuse gli occhi riaprendoli solo più tardi, quando stava scendendo gli ultimi scalini. Percepì di nuovo quel senso di salvezza, quasi eccessiva, mentre la luce delle lampade dell'ingresso creava strani giochi all'interno dell'edificio, nell'atrio, filtrando attraverso il motivo ornamentale a forma di ventaglio posto sopra il portone. Un attimo dopo si accorse però che ciò avveniva perché i due battenti della porta interna che metteva in comunicazione l'ingresso con l'atrio erano spalancati. Ancora una volta fu assalito dall'ansia, che gli fece quasi schizzare gli occhi fuori dalle orbite, come non molto tempo prima gli era accaduto vedendo l'altra porta. Se aveva lasciato quella porta aperta, non aveva forse chiuso questa e non si trovava forse di fronte a un'attività, occulta e inspiegabile? Il dilemma gli procurò un dolore intenso, simile a una coltellata nel fianco, e la risposta tardava a venire, come se si fosse smarrita in quella tenue oscurità... sempre più circoscritta dal pallido chiarore dell'alba che penetrava attraverso il fregio semicircolare sopra il portone esterno, sempre più ridotta a un freddo nembo argenteo che ai suoi occhi pareva espandersi e contrarsi: respirare! Era come se ci fosse qualcosa in quella specie di nembo, qualcosa che, protetto dalla tenebra, corrispondeva come dimensioni alla superficie opaca davanti alla quale si trovava, ai pannelli dipinti del portone — l'ultima barriera da superare — del quale egli possedeva la chiave. La tenebra si burlava di lui persino quando egli la osservava, gli sembrava nascondesse la certezza e nel contempo lo sfidasse a scoprirla. Dopo pochi attimi di esitazione, si lasciò andare ormai convinto che c'era finalmente qualcosa da incontrare, toccare, conoscere, qualcosa di soprannaturale e di spaventoso, da affrontare comunque, che avrebbe determinato la sua eterna salvezza o la sua sconfitta. La fitta penombra era lo sfondo potenzialmente più adatto per una figura che vi si stagliasse contro, come una statua collocata in posizione eretta in una nicchia o una sentinella con un berretto dalla visiera nera sul capo posta a guardia di un tesoro. Tempo dopo, Brydon riuscì a capire, ricordare, spiegare quello che percepì scendendo gli ultimi gradini. Vide diminuire la vaghezza al centro di quella zona contornata da un bordo grigio brillante, scoprendo che prendeva gradatamente forma, la forma che l'intensità della sua passione e della sua curiosità per così tanto tempo aveva desiderato assumesse. Diventava più cupa, profilandosi sempre più chiaramente, era qualcosa, qualcuno, il prodigio di una presenza umana.
Austero e cosciente, spettrale eppure umano, un individuo della sua statura e del suo aspetto lo stava attendendo pronto a confrontarsi con lui e con il suo terrore. Avvicinandosi maggiormente, Brydon tuttavia si accorse che ciò che rendeva indistinto il suo volto erano le mani, le quali lo coprivano interamente, non in segno di sfida, ma di straziante implorazione. Così poté vederlo da vicino, studiare ogni suo particolare che risaltava con straordinaria evidenza, illuminato da una luce più intensa, studiare la sua immobilità silenziosa, la sua vivida verità, il suo capo brizzolato e chino, nascosto dalle mani bianche, la strana modernità del suo abito da sera, degli occhialini appesi alla catenella, della seta cangiante e del lino bianco di cui erano fatti i suoi vestiti, dei bottoni in madreperla, della catenella d'oro dell'orologio e delle scarpe lucide. Nessun maestro della pittura moderna avrebbe saputo ritrarlo con maggiore intensità al di fuori del suo ambiente, evidenziandone con altrettanta abilità ogni minimo tratto e ogni particolare. Prima che Brydon se ne accorgesse, la repulsione che provava aumentò a dismisura. Infine riuscì a comprendere il significato della misteriosa manovra del suo avversario. Per lo meno, quello era il significato più immediato che poteva intuire mentre rimaneva là a bocca aperta. Non riusciva infatti a fare altro se non rimanere a bocca aperta di fronte al suo alter ego, angosciato, dimostrando che egli, simbolo di una vita di realizzazioni, di gioia e di successo, non temeva alcun confronto e che l'Altro ne usciva sconfitto. Non era forse una prova della sua disfatta l'atto di coprirsi completamente il volto con le splendide e forti mani? E lo celava talmente bene che, nonostante una delle due mani fosse priva di due dita, forse colpite da un proiettile, di cui restavano solo i monconi, non si riusciva comunque a intravvedere nulla. Il suo volto era salvo e protetto. «Davvero salvo?» si chiese Brydon sussurrando queste stesse parole con meraviglia. La determinazione del suo atteggiamento e l'insistenza del suo sguardo provocarono una reazione improvvisa che poco dopo si rivelò essere un secondo prodigio, ancora più considerevole. L'Altro sollevò il capo nel nobile intento di svelarsi e iniziò a schiudere le dita delle mani; poi, come se avesse deciso all'improvviso, le lasciò ricadere scoprendosi completamente il volto. A quella vista, Brydon sentì l'orrore soffocarlo, impedendogli di urlare. Quell'essere, così messo a nudo, era troppo orrendo per essere parte di lui; il suo sguardo era carico della sua violenta ribellione. Il volto, quel volto, era forse quello di Spencer Brydon? Lo scrutava attentamente, ritraendosi e rinnegandolo, terrorizzato, e perdendo così la sua aura di nobiltà. Era un volto sconosciuto, incredibile, spaventoso, inimma-
ginabile. Brydon si lamentava dentro di sé, sentendosi ingannato dopo avere dato una così lunga caccia a una simile preda: l'essere che gli stava di fronte era sì una persona, una persona orrenda, ma sentiva comunque di avere sprecato grottescamente intere notti e percepiva che il successo ottenuto era solo una beffa. Quella persona non gli somigliava per nulla, era semplicemente mostruosa. Il volto che ora gli si stava avvicinando era quello di uno sconosciuto. Gli si stava avvicinando come una di quelle immagini fantastiche proiettate sul muro e ingigantite da una lanterna magica. Lo sconosciuto, ripugnante, invadente, volgare creatura del male, avanzava come se volesse aggredirlo ed egli sapeva che stava perdendo terreno. Quando l'Altro gli era quasi addosso, Brydon, in preda alla violenta emozione, cadde all'indietro sopraffatto dalla ventata calda e dall'ardore di una vita più grande della sua, dalla furia di una personalità di fronte alla quale egli cedeva le armi. La vista gli si annebbiò, le gambe cedettero, ebbe un capogiro. Si sentì svenire e cadde a terra privo di sensi. III Ciò che lo riportò alla realtà dopo un lasso di tempo indefinito fu la voce della signora Muldoon, che proveniva da un punto molto vicino, talmente vicino che gli parve di vederla, inginocchiata accanto a lui, mentre egli steso sul pavimento la guardava. Percepì di non essere completamente disteso, ma delicatamente sorretto da qualcuno e di avere sotto la testa un cuscino straordinariamente soffice e profumato. Cercava di pensare, di spiegarsi la situazione con quella parte della mente che riusciva ancora a ragionare quando si accorse che un altro volto era chino su di lui. Era il volto di Alice Staverton che, sedendosi sul primo gradino della scalinata, aveva fatto del suo grembo un ampio e morbido cuscino per lui. Il resto del corpo di Brydon giaceva disteso sul pavimento. Erano freddi, i quadrati di marmo bianchi e neri della sua infanzia ma egli sembrava non accorgersene nel solenne momento del ritorno alla coscienza, il momento più squisito che avesse mai vissuto e che lo riempiva di gratitudine lasciandolo immensamente passivo, ma con un tesoro di cui si poteva facilmente impossessare, l'intelligenza. Tutto era svanito nell'aria, dissolvendosi nei riflessi dorati della luce autunnale. Era ritornato, sì, ritornato da un mondo in cui nessun uomo mai si era recato, ma sentiva stranamente che il fatto più importante era proprio il posto al quale ritornava, come se il suo fantastico viaggio fosse stato compiuto in funzione di ciò. La sua coscienza stava a poco a
poco, ma con una certa sicurezza, riprendendo vigore, consentendogli di completare il quadro della sua situazione: era stato miracolosamente riportato, sollevato e delicatamente trasportato da dove era stato raccolto, al limite estremo di un buio e interminabile tunnel. Lo avevano lasciato riposare e ciò che lo aveva fatto ritornare in sé era stata proprio l'interruzione del lungo e dolce viaggio. Era ritornato in sé, in sé... sì, ed era proprio questa la bellezza della sua condizione, simile a quella di chi, ricevuta la notizia di una grossa eredità, si addormenta, perdendosi in tutt'altre faccende e in certo qual senso profanando tanta fortuna, ma si risveglia con la serenità e la certezza di sapere che d'ora in poi dovrà solo guardarla crescere. Questo era il senso della sua perseveranza: doveva solo lasciare che la serenità della certezza risplendesse su di lui. Lo avevano probabilmente sollevato e trasportato a più riprese poiché come si accorse più tardi, quando le luci del pomeriggio si erano fatte più intense, non si trovava più ai piedi delle scale (che dalla sua attuale posizione gli apparivano come l'altra buia estremità del tunnel) ma adagiato su un sedile sotto una delle finestre del salone, sul quale, come su un divano, era stato steso un soffice mantello ornato di pelliccia grigia che gli era familiare e che continuava amorevolmente a tastare con la mano a riprova della sua certezza. Il volto della signora Muldoon era scomparso, ma l'altro, il secondo che aveva riconosciuto, l'osservava da vicino mentre egli ancora veniva sorretto e aiutato. Si sforzava di capire e quello che a poco a poco comprendeva gli era sufficiente: si sentiva in pace, come se avesse avuto cibo e bevande. Erano state le due donne a ritrovarlo: alla solita ora era arrivata la signora Muldoon e aveva incontrato, nei paraggi della casa, Miss Staverton che, visibilmente agitata, se ne stava andando dopo avere suonato più volte il campanello senza ottenere risposta in un'ora in cui si supponeva che la signora Muldoon fosse in casa. Fortunatamente quest'ultima era giunta in tempo, prima che Miss Staverton se ne andasse, ed erano entrate insieme nell'edificio. Egli si trovava disteso sulla soglia dell'atrio: sembrava fosse caduto, malgrado non presentasse né lividi né tagli, e in uno stato di profondo stordimento. A mano a mano che acquisiva maggiore chiarezza, capì che per lunghi indicibili attimi Alice Staverton aveva creduto che fosse morto. «Ero veramente morto» disse mentre ella lo sorreggeva. «Sì, ero sicuramente morto e tu mi hai riportato in vita. Solo» le chiese sollevando lo sguardo verso di lei «in nome del Cielo, come hai fatto?» In un attimo ella si chinò e lo baciò; qualcosa nel suo atto, nel modo con
cui le sue mani gli afferrarono saldamente il capo, facendogli percepire la fresca virtù e l'affetto delle sue labbra, qualcosa in questa beatitudine rispose alla sua domanda. «Ed ora ti tengo» disse Miss Staverton. «Oh, tienimi, tienimi!» la supplicò lui mentre il volto di lei era ancora chino sul suo. In segno di risposta, Miss Staverton si chinò ulteriormente, standogli vicinissima, afferrandolo saldamente. Era il sigillo della loro unione ed egli ne assaporò la dolcezza in un lungo attimo di beatitudine e di silenzio. Poi, ritornò in sé e chiese: «Ma come hai fatto a sapere...?» «Ero in ansia. Dovevi venire da me, ti ricordi, ma non mi hai dato più notizie.» «Sì, ricordo, dovevo venire da te oggi all'una.» Si aggrappò alla loro vecchia vita e alle loro vecchie relazioni, così vicine eppure così lontane. «Ero ancora là, sepolto nella tenebra. Dov'ero? Dov'ero? Devo esserci rimasto a lungo.» Si meravigliava pensando a quanto lungo e profondo fosse stato il suo svenimento. «Da ieri notte?» chiese Miss Staverton con un'ombra di timore nella voce, reputandosi indiscreta. «Da questa mattina, credo: dalla fredda e cupa alba di oggi. Dove sono stato?» chiese ancora con voce gemebonda: «Dove sono stato?» Sentì che lei lo teneva stretto ed emise con maggiore sicurezza il suo flebile lamento: «Che lunga, orrenda giornata!» Miss Staverton attese un istante con tutta la sua dolcezza. «Nella fredda e cupa alba?» chiese con voce tremula. Egli procedeva lentamente alla ricostruzione della straordinaria esperienza che aveva vissuto. «Dal momento che non mi sono fatto vedere, sei venuta subito qui?» Lei, guardandosi attorno, cercò le parole adatte per spiegargli: «Sono andata prima all'albergo dove mi hanno detto che eri fuori, che avevi cenato in un locale senza poi rientrare. Sapevano, tuttavia, che eri stato al circolo.» «E così ti è venuta l'idea di...» «Di che cosa?» chiese pronta lei. «Beh, di quello che è successo.» «Ho creduto tu fossi venuto qui. Ho sempre saputo delle tue visite alla casa.» «Saputo?» «Supposto, immaginato. Non ti ho detto nulla dopo la nostra conversazione di un mese fa, ma ne sono sempre stata sicura. Ero certa che tu avre-
sti...» «...persistito?» «Che lo avresti visto.» «Ah, ma non l'ho visto!» esclamò Brydon con tono lamentoso. «C'era qualcuno, una bestia spaventosa che io ho ferocemente braccato. Ma non ero io!» Miss Staverton si chinò nuovamente su di lui, guardandolo intensamente negli occhi. «No, non eri tu.» Se il suo volto non fosse stato così vicino, egli avrebbe potuto leggervi una particolare espressione che sfumava gradatamente in un sorriso. «No, grazie a Dio» ripeté lei «non sei tu! Non potevi certamente essere tu.» «Ah, ma ero io!» insisté Brydon con gentilezza guardando fissamente davanti a sé, nel vuoto, come aveva fatto per tante settimane. «Dovevo conoscere me stesso.» «Non potevi farlo!» replicò Miss Staverton nel tentativo di consolarlo e poi ritornò al precedente argomento, come per spiegargli meglio ciò che aveva fatto. «Non è stato solo per quello, per il fatto che non eri rientrato in albergo. Aspettai fino all'ora in cui avevo visto arrivare la signora Muldoon, quando giorni fa ero venuta qui con te; ed ella arrivò, come ti ho detto, mentre mi trovavo sui gradini disperata per avere suonato più volte il campanello senza ottenere alcuna risposta. Se nel giro di pochi attimi non fosse provvidenzialmente comparsa, avrei fatto di tutto per rintracciarla. Ma non era» aggiunse intenzionalmente Alice Staverton «non era solo questo.» Egli, ancora disteso, rivolse il suo sguardo verso di lei: «Che cosa, allora?» Miss Staverton, si preparò a fare fronte allo stupore che aveva suscitato in lui. «Nell'alba fredda e cupa?» chiese retorica. «Ebbene, nell'alba fredda e cupa di questa mattina anch'io ti ho visto.» «Mi hai visto?» «Lo ho visto» rispose Alice Staverton. «Dev'essere accaduto nello stesso istante.» Egli restò disteso, silenzioso, cercando di capire e di dimostrarsi ragionevole. Infine, chiese: «Nello stesso istante?» «Sì, in sogno, ancora una volta, la stessa figura di cui ti ho già parlato. Era tornato da me e allora capii che era un segno, che tu lo avevi incontrato.» A queste parole Brydon si sollevò per vederla meglio e lei quando comprese la sua intenzione, lo aiutò a sedersi con la schiena poggiata sul sedile posto sotto la finestra, porgendogli la sua mano sinistra. «Non era venuto
da me» disse lui. «Tu eri venuto da te stesso» gli rispose lei sorridendogli. «Non stamane. Ora, mia cara. Ora sì sono venuto da me stesso... e grazie a te. Ma quel bruto, con quella faccia orribile, è un mostro, uno sconosciuto. Non è parte di me, anche se avrebbe potuto esserlo» dichiarò Brydon con veemenza. Miss Staverton mantenne la propria lucidità, emanando sicurezza. «Ma il punto non è forse che tu saresti stato diverso?» disse. Brydon si accigliò. «Talmente tanto diverso?» Lo sguardo di lei gli apparve ancora una volta più bello di ogni altra cosa al mondo. «Non volevi forse sapere fino a che punto saresti stato diverso? Così, questa mattina, mi sei apparso.» «Ed ero come lui?» «Un mostro, uno sconosciuto!» «Ma allora, come hai fatto a riconoscermi?» «Perché, come ti ho detto settimane fa, la mia mente, la mia immaginazione si sono a lungo chieste come avresti o non avresti potuto essere. Vedi quanto ti ho pensato. E mentre ero presa in questi pensieri tu sei venuto da me, rispondendo ai miei interrogativi. Così ho saputo e, dal momento che, come quel giorno tu mi dicesti, la questione ti avvinceva molto, pensai che anche tu avresti desiderato vederti. E quando questa mattina lo vidi di nuovo, capii che anche tu lo avevi incontrato e anche, fin dal primo istante, che avevi bisogno di me. Egli stesso sembrava dirmelo. E dunque perché» disse sorridendo in modo strano «non dovrebbe piacermi?» A quelle parole Spencer Brydon si alzò in piedi. «Ti piace quel mostro?» «Avrebbe potuto piacermi. E per me» aggiunse «non era un mostro. L'avevo accettato.» «Accettato?» fece eco Brydon con tono incredulo. «Sì, fin da principio: m'interessava il suo essere diverso da te. E dato che, conoscendolo, non l'ho ripudiato... cosa che tu, mio caro, posto faccia a faccia con il suo essere altro, alieno hai invece fatto.... mi è probabilmente sembrato meno orribile. Forse era contento del fatto che io provassi pietà per lui.» Miss Staverton stava in piedi accanto a lui, tenendogli sempre la mano e sorreggendolo con il braccio. Malgrado iniziasse vagamente a capire, Brydon chiese risentito: «Tu hai avuto pietà di lui?» «È un essere infelice, distrutto» ella rispose. «E non sono stato forse anch'io infelice? Non sono forse anch'io, basta
guardarmi in faccia, distrutto?» «Non ho detto che mi piacesse più di te» replicò Miss Staverton dopo un attimo di riflessione. «Ma è un essere intristito, logorato. Gli sono successe tante cose. Per guardare non si gingilla, mascherandosi, come fai tu con il tuo elegante monocolo.» «No» rispose Brydon, colpito. «Non avrei potuto recarmi in centro città col monocolo. Mi avrebbero deriso.» «Il suo grande e convesso pince-nez, l'ho visto, ho riconosciuto il modello, lo usa per la sua povera vista rovinata. E la sua povera mano destra...» «Ah» Brydon sussultò, forse perché si era identificato in lui, forse per il pensiero delle dita mancanti. Poi aggiunse lucidamente: «Ha un milione di anni, ma non ha te.» «E non è, no, non è te!» mormorò Miss Staverton mentre Brydon la stringeva forte al petto. Titolo originale: The Jolly Corner Traduzione: Adria Tissoni Parte III UNA RACCAPRICCIANTE OSCURITÀ SENZA FORMA Fritz Leiber Fantasma di fumo Il racconto più conosciuto di Fritz Leiber, scritto negli anni '40, è Smoke Ghost (Fantasma di fumo), un racconto dell'orrore che si svolge in ambiente urbano. L'influsso di quest'opera negli Stati Uniti su scrittori e lettori amanti del genere fu enorme. Si tratta di una storia di fantasmi rivoluzionaria in cui il sovrannaturale viene riproposto in versione moderna. Leiber utilizza il motivo tradizionale del fantasma in modo nuovo e aggressivo, rendendolo oggetto di adorazione. Esso è una proiezione della società civile e razionale che altera la natura della realtà. I concetti tradizionali di moralità e psicologia vengono riuniti da Leiber e trasformati in un'altra realtà ambigua ed inquietante. Fantasma di fumo, che probabilmente è discendente diretto di storie di altre dimensioni quali The Willows di Blackwood, o The Damned Thing (La cosa maledetta) di Bierce, o an-
cora The Hounds of Tindalos di Belknap Long, influenzò la letteratura del proprio genere da Bradbury fino a Ramsey Campbell e rappresenta la fase di transizione dai vecchi ai nuovi stili di narrativa horror influenzati dalla rivista Unknown. Leiber ottenne il Grand Master Award per la sua opera nel corso della manifestazione World Fantasy Convention del 1976. La signorina Millick si chiedeva che cosa diavolo fosse successo al signor Wran. Continuava a fare stranissimi discorsi durante la dettatura. Proprio quella mattina si era girato di scatto e aveva chiesto: «Avete mai visto un fantasma, signorina Millick?». E lei aveva riso nervosamente e replicato: «Quando ero bambina e dormivo in solaio, vedevo sempre una cosa bianca e gemente uscire dall'armadio. Ovviamente era solo la mia fantasia. Avevo paura di molte cose allora.» Ed egli aveva detto: «Non intendevo quel tipo di fantasmi, ma i fantasmi del mondo di oggi, con la fuliggine delle fabbriche sulla faccia e il frastuono delle macchine nell'anima. Quei fantasmi delle miniere di carbone che di notte si aggirano furtivi per gli edifici di uffici deserti come questo. Un vero fantasma insomma, non uno di quelli di cui si legge nei libri». E lei non aveva saputo che cosa replicare. Non era mai stato così prima di allora. Ovviamente poteva darsi che quella mattina il signor Wran stesse scherzando, anche se non pareva. La signorina Millick si chiese se magari egli non stesse cercando di ottenere in un certo senso il suo affetto. Certo, il signor Wran era sposato e aveva un bimbo piccolo, ma questo non le impediva di sognare ad occhi aperti. Non erano sogni particolarmente eccitanti, i suoi, eppure le permettevano di tenere la mente occupata. Ma ecco che, nel pomeriggio, il signor Wran tornò alla carica con una di quelle sue domande inaudite: «Non vi siete mai chiesta che aspetto potrebbe avere un fantasma dei nostri tempi, signorina Millick? Provate a immaginarlo: una faccia frammentata e fumosa su cui siano dipinti la famelica ansietà dei disoccupati, la nevrotica inquietudine di chi non ha uno scopo, la tensione spasmodica del frenetico lavoratore metropolitano, l'ansioso rancore dello scioperante, l'opportunismo indifferente del crumiro, l'aggressivo piagnucolio del mendicante, il terrore attonito del cittadino borghese dopo un bombardamento e mille altre emozioni contorte, che si sovrappongono l'una all'altra e si mescolano come un mucchio di maschere traslucide.» La signorina Millick si sentì attraversare da un leggero brivido e disse: «Sarebbe terribile. Che immagine orripilante!»
Alzò furtivamente lo sguardo per vedere al di là della scrivania. Le sovvenne di avere sentito dire che l'infanzia del signor Wran era stata caratterizzata da un evento estremamente anomalo, ma non ricordava i particolari. Se solo avesse potuto fare qualcosa per lui... ridere della sua idea o chiedere quale fosse il reale problema. Trasferì le matite di riserva nella mano sinistra e ripassò meccanicamente alcuni segni stenografici sul taccuino che aveva davanti a sé. «Eppure l'aspetto di un fantasma o di una proiezione animata sarebbe proprio questo, signorina Millick» continuò Wran con un sorriso tirato. «Sarebbe un frutto del mondo reale. Rappresenterebbe quanto vi è di più intricato, squallido e perverso. Tutto ciò che è incompleto. E sarebbe lercio. Non credo che sarebbe bianco e sottile né che avrebbe una predilezione per i cimiteri. E poi non gemerebbe, ma borbotterebbe frasi incomprensibili e vi tirerebbe per la manica. Come una burbera scimmia morbosa. Che cosa potrebbe desiderare da una persona un essere simile, signorina Millick? Sacrifici? Adorazione? O vorrebbe semplicemente spaventarla? Che cosa potreste fare per impedirgli di tormentarvi?» La signorina Millick ridacchiò nervosamente. Sul volto comune e liscio da trentenne del signor Wran c'era un'espressione che lei non avrebbe saputo descrivere e che veniva proiettata sulla finestra polverosa. Egli si girò e volse lo sguardo all'esterno, sull'atmosfera grigia dei depositi della stazione e delle fabbriche che s'insinuava strisciando nella città. Quando riprese a parlare la sua voce sembrava venire da lontano. «Ovviamente, trattandosi di una cosa incorporea, non vi potrebbe nuocere fisicamente, all'inizio. Dovreste essere particolarmente sensibile per vederla, o addirittura percepirla. Però comincerebbe a determinare le vostre azioni. A spingervi a fare questo o a trattenervi dal fare quello. Pur essendo una mera immagine, essa affonderebbe gradualmente le radici nel mondo delle cose reali. Potrebbe addirittura penetrare nelle menti opportunamente vuote. Così poi potrebbe nuocere a chiunque.» La signorina Millick rabbrividì di nuovo e prese a rileggere gli appunti presi in stenografia... come c'era scritto sui manuali che si doveva fare quando c'era una pausa. Si accorse che stava calando la sera e sperò che il signor Wran le dicesse di accendere la luce grande. Avvertiva un prurito, come se la fuliggine si stesse depositando sulla sua pelle. «Che mondo schifoso, signorina Millick» disse Wran rivolto verso la finestra. «Pronto per un altro scoppio di morbosa superstizione. È ora che i fantasmi, o come li volete chiamare, s'impadroniscano del potere e diano
inizio a un regno di terrore. Non sarebbero certo peggio degli uomini.» «Ma...» la signorina Millick avvertì che il proprio diaframma si contraeva e rise scioccamente. «Ovviamente i fantasmi non esistono». Il signor Wran si girò. «Certo che non esistono, signorina Millick» disse egli con voce forte ed imperiosa, quasi come se fosse stata lei a portare avanti quella conversazione. «È dimostrato dalla scienza, dal buon senso e dalla psichiatria.» Lei chinò il capo e forse sarebbe anche arrossita se non fosse stata così disorientata. Sentì i muscoli delle gambe che si contraevano e scattò in piedi come un automa pur non avendo affatto deciso di alzarsi. Senza una precisa intenzione si mise a strofinare con la mano lo spigolo della scrivania. «Guardate cosa c'era sulla vostra scrivania, signor Wran» disse mostrandogli la mano tutta sporca. Nella sua voce c'era un tono di rimprovero scherzoso ed impacciato. «Non c'è da meravigliarsi se la copia che vi porto diventa sempre così nera. Qualcuno dovrebbe fare un discorsetto a quelle donne delle pulizie; nella vostra stanza battono la fiacca.» Sperava che egli le avrebbe dato una delle solite risposte scherzose, invece si ritrasse e il suo volto s'irrigidì. «Bene, dove eravamo arrivati?» disse bruscamente e riprese a dettare. Quando lei se ne fu andata lui si alzò di scatto, provò a toccare con un dito la zona sporca della sua scrivania e trasalì preoccupato nel vedere quelle macchie tanto scure da sembrare quasi d'inchiostro. Aprì con foga un cassetto, ne estrasse uno straccio, con esso pulì rapidamente la superficie della scrivania, lo appallottolò e lo buttò nuovamente nel cassetto che conteneva altri tre o quattro stracci impregnati di polvere. Raggiunse la finestra e scrutò ansiosamente nella luce crepuscolare il profilo dei tetti soffermandosi su ogni camino e ogni serbatoio dell'acqua. «È una nevrosi. Non può essere altrimenti... fissazioni... allucinazioni» borbottò tra sé e sé con una voce stanca e turbata che avrebbe fatto trasalire la signorina Millick. «È quella dannata menomazione mentale che torna a farsi sentire sotto una nuova forma, non esiste altra spiegazione. Ma è così maledettamente reale. Addirittura la fuliggine. Fortuna che ho deciso di andare dallo psichiatra. Non credo che riuscirei a costringermi a usare la ferrovia sopraelevata stasera.» La voce si spense, Wran si stropicciò gli occhi e la sua memoria si attivò automaticamente. Tutto era iniziato sulla ferrovia sopraelevata. C'era una particolare diste-
sa di tetti che egli aveva preso l'abitudine di guardare nel momento in cui la vettura affollata che lo portava verso casa percorreva traballando una curva. Un piccolo mondo tetro e malinconico di carta catramata, ghiaia bituminosa e mattoni affumicati. Camini di latta arrugginiti con strani cappelli conici che facevano pensare a vecchi posti di ascolto abbandonati. Sul muro più vicino c'era un vecchio cartellone pubblicitario slavato di una qualche antica specialità farmaceutica. A prima vista quella scena appariva identica a diecimila altri monotoni tetti di città, ma egli la vedeva sempre verso sera, o in una fumosa penombra, o arrossata dai raggi orizzontali di un sudicio tramonto, o avvolta da spettrali cascate bianche di pioggia sospinte dal vento, o chiazzata di neve nerastra; e pareva incredibilmente sinistra e suggestiva, forse meravigliosamente orribile, ma in nessun caso pittoresca; desolata ma espressiva. Incosciamente per Catesby Wran venne a simboleggiare alcuni particolari aspetti sgradevoli del secolo frustrato e pauroso in cui viveva, il secolo stridente dell'odio e dell'industria pesante e delle guerre totali. La rapida occhiata a quella scena nella penombra divenne un elemento fondamentale della sua giornata. Stranamente egli non la scorgeva mai di mattina, perché era abituato a sedersi dall'altro lato della vettura, immerso nella lettura del giornale. Una sera verso l'inizio dell'inverno egli vide qualcosa che aveva l'aspetto di un informe sacco nero sul terzo tetto a partire dalle rotaie. Non ci pensò. L'immagine rimase semplicemente registrata nella sua memoria, come aggiunta alla scena che conosceva bene, un'impressione conservata per essere utilizzata successivamente. Comunque la sera seguente decise che aveva visto male un particolare. Quella cosa era un tetto più vicina di quanto avesse creduto. Il colore e la consistenza e le macchie sudice attorno al sacco facevano pensare che esso fosse pieno di polvere di carbone: cosa, questa, che sarebbe stata praticamente impossibile se fosse stato pesante. Forse era pieno di foglie. Catesby fu sorpreso quando si rese conto che non vedeva l'ora che venisse il momento della sua prossima occhiata quotidiana, ma che era lievemente preoccupato. Nella posizione di quella cosa c'era qualcosa di morboso che non abbandonava la sua mente: un'estroflessione del sacco che faceva pensare a una testa informe che sbircia nel ventilatore. E la sua apprensione era giustificata, perché quella sera la cosa si trovava già sul primo tetto, anche se all'estremità più lontana di esso, e sembrava essere caduta da poco dal basso parapetto di mattoni. La sera seguente il sacco era sparito. Catesby si rammaricò per il momentaneo senso di sollievo che attraversò la sua mente, giacché tutta quel-
la storia sembrava troppo poco importante per giustificare un qualsiasi sentimento. Che cosa importava se la sua fantasia gli aveva giocato un tiro mancino ed egli aveva semplicemente immaginato che quella cosa strisciante si fosse avvicinata sempre più muovendosi a tratti sui tetti? La normale fantasia di chiunque si comportava nello stesso modo. Di proposito trascurò di prendere in considerazione il fatto che esistevano validi motivi per ritenere che la sua fantasia non fosse normale. Però mentre si avviava verso casa, una volta sceso dalla ferrovia sopraelevata, gli sorse il dubbio se quel sacco fosse effettivamente scomparso. Gli sembrava di ricordare un vago passaggio sporco che attraversava la ghiaia e portava all'estremità del tetto più prossima, che era protetta da un parapetto. Per un istante nella sua mente si formò un'immagine spiacevole: una creatura gibbosa nera come l'inchiostro, in agguato, nascosta dietro il parapetto. La volta seguente che egli avvertì il solito rollio stridente del trenino, si accorse che stava sforzandosi di proposito di non guardare fuori. Questo gli fece rabbia. Voltò rapidamente il capo. Quando si girò di nuovo la sua faccia compatta era decisamente pallida. C'era stato solo il tempo per una fugace occhiata all'indietro verso il tetto che fuggiva. Era possibile che avesse effettivamente visto la parte superiore di una testa di qualche genere che sbirciasse al di sopra del parapetto? "Assurdo" pensò. E anche se avesse visto qualcosa c'erano un migliaio di spiegazioni possibili che non avevano nulla a che vedere con il sovrannaturale o con vere e proprie allucinazioni. Domani avrebbe guardato bene per spiegarsi meglio la cosa. Se necessario, avrebbe personalmente effettuato un sopralluogo su quel tetto, anche se non sapeva esattamente come trovarlo; comunque, avrebbe fatto di tutto pur di non lasciarsi prendere da quella stupida paura. Quella sera non gustò il tragitto a piedi dalla fermata fino a casa, e visioni di quella cosa turbarono i suoi sogni e continuarono a passargli per la testa durante tutto il giorno seguente in ufficio. Fu allora che, per distendere i nervi, iniziò in tono scherzoso a parlare del sovrannaturale alla signorina Millick, che ne parve totalmente disorientata. E fu anche in quello stesso giorno che egli scoprì in sé la crescente antipatia nei confronti di sporcizia e fuliggine. Tutto quello che toccava gli sembrava polveroso, tanto che egli si ridusse a strofinare e pulire la sua scrivania come una di quelle vecchiette che hanno un terrore maniacale dei germi. Si rendeva conto che nel suo ufficio non era cambiato nulla di sostanziale, e che egli ora era semplicemente divenuto sensibile a uno sporco che c'era sempre stato: cionondi-
meno il suo nervosismo cresceva. Ben prima che la vettura giungesse alla curva egli stava già sforzandosi di abituare la vista alla fosca penombra, deciso a registrare anche i minimi particolari. In seguito pensò che doveva avere avuto qualche tipo di moto di sorpresa, poiché l'uomo accanto a lui lo aveva guardato in modo strano e la donna di fronte gli aveva lanciato un'occhiataccia. Consapevole del proprio pallore e dell'incontrollabile tremore che lo scuoteva, egli ricambiò con un'occhiata feroce, tentando di riconquistare quel senso di sicurezza che aveva completamente perduto. Avevano le solite facce inespressive che si vedono sempre sulla ferrovia sopraelevata andando a casa. E se avesse mostrato a qualcuno di essi quello che aveva visto: quella faccia flaccida e perversa di tela di sacco e polvere di carbone, quella zampa disossata che chiaramente lo salutava, come per ricordargli un futuro appuntamento... chiuse distrattamente gli occhi. Nel pensiero corse alla sera seguente. Immaginò quella medesima striscia luminosa fenestrata con il suo carico di umanità... poi una forma opaca e mostruosa che si precipitava dal tetto con un balzo parabolico... una faccia incredibile che si schiacciava contro il finestrino e lo imbrattava tutto di polvere di carbone bagnata... enormi e maldestre zampone che annaspavano contro il vetro... Riuscì a rispondere evasivamente alle domande preoccupate della moglie. La mattina seguente si decise e fissò un appuntamento per la sera stessa da uno psichiatra di cui gli aveva parlato un amico. Gli costò uno sforzo notevole, in quanto Catesby provava una ben giustificata antipatia nei confronti di qualsiasi cosa che avesse a che fare con anomalie psicologiche. Andare da uno psichiatra significava rispolverare un episodio del proprio passato che egli non aveva confidato per intero neanche alla moglie. Una volta presa tale decisione, comunque, si sentì decisamente sollevato. Si convinse che lo psichiatra avrebbe fatto luce su tutto. Gli sembrava già quasi di sentirlo: «Solo un brutto esaurimento. Ad ogni modo andate da questo oculista, vi scrivo il nome qui, e prendete due di queste pillole ogni quattro ore con un po' d'acqua» eccetera. Era quasi rassicurante, e sembrava rendere meno dolorosa la rivelazione che egli avrebbe avuto. Ma quando calò la fumosa oscurità serale egli si sentì di nuovo nervoso; aveva continuato a confondere la signorina Millick con le sue battute scherzose fino a quando si era finalmente reso conto che in realtà stava spaventando solo se stesso. "Devo controllare di più e meglio la mia fantasia" pensò, continuando a
osservare nervosamente le forme massicce e tenebrose degli edifici di uffici del centro. Per tutto il pomeriggio era stato impegnato a inventare una specie di cosmologia neomedievale della superstizione. Così non poteva continuare. Si accorse di essere rimasto davanti alla finestra molto più a lungo di quanto avesse creduto, visto che il vetro della porta era buio e dall'anticamera dell'ufficio non giungeva alcun rumore. La signorina Millick e gli altri impiegati dovevano essersene andati. Fu allora che scoprì che non c'era nessun motivo valido per temere di percorrere la curva quella sera. Invece fu una scoperta orribile, perché sul tetto in ombra della casa di fronte, quattro piani sotto a lui, vide quella cosa raggomitolata rotolare sulla ghiaia e, dopo avere lanciato verso l'alto uno sguardo significativo, tuffarsi nell'oscurità dietro la cisterna dell'acqua. Raccolse in fretta le sue cose e si avviò verso la ferrovia sopraelevata riuscendo con grandi sforzi ad evitare di mettersi a correre in preda al panico; iniziò a sperare di essere affetto da allucinazioni e lievi psicosi. Comunque fosse, ripose le proprie speranze nello psichiatra. «Quindi vi sentite nervoso e... eccitabile, come dite voi» disse il dottor Trevethick sorridendo con austera cordialità. «E avete qualche sintomo fisico più preciso? Dolori? Emicrania? Indigestione?» Catesby scosse il capo e si inumidì le labbra. «Sono particolarmente nervoso quando mi trovo a bordo della ferrovia sopraelevata» borbottò rapidamente. «Capisco. Quello lo approfondiremo in seguito. Ora vorrei che mi chiariste una cosa a cui accennavate prima: dicevate che nella vostra infanzia c'è stato qualcosa da cui potrebbe derivare una vostra predisposizione a disturbi di origine nervosa. Come ben sapete i primi anni sono fondamentali nello sviluppo comportamentale dell'individuo.» Catesby osservava i riflessi gialli di alcune sfere smerigliate sulla superficie scura della scrivania. Con la mano sinistra strofinava distrattamente il grosso tessuto peloso di cui era rivestita la poltrona. Dopo qualche tempo levò il capo e guardò fisso nei piccoli occhi castani del dottore. «Dai tre ai nove anni» iniziò scegliendo le parole con cura, «ero quello che si definisce un prodigio sensoriale.» L'espressione del dottore rimase immutata. «Sì?» chiese pacatamente. «Voglio dire che a quanto pareva ero in grado di vedere attraverso i muri, leggere lettere attraverso la busta e libri attraverso la copertina, tirare di scherma e giocare a ping pong bendato, trovare cose sepolte sottoterra, leggere nel pensiero» eccetera. Le parole gli uscivano in fretta dalla bocca.
«Ne eravate effettivamente capace?» chiese il dottore con voce priva di inflessioni. «Non lo so, credo di sì» rispose Catesby mentre gli tornavano in mente vecchie emozioni. «È tutto confuso ora. Pensavo di riuscirci, però mi spingevano sempre. Mia madre si... beh, diciamo... si occupava di fenomeni psichici. E io venivo... messo in mostra. Mi sembra di ricordare che vedevo cose che gli altri non vedevano. Come se gran parte degli oggetti opachi fossero trasparenti. Ma ero molto giovane allora. Non avevo un criterio scientifico secondo il quale giudicare le cose». Ora stava rivivendo quel periodo. Le stanze oscurate... le serie riunioni di adulti curiosi con sguardi intontiti... e lui da solo su una piccola pedana, perso in una poltrona di legno dallo schienale rigido... i fazzoletti neri di seta sugli occhi... le domande persuasive e insistenti di sua madre... bisbigli... rantoli. E lui odiava tutta quella faccenda, pur desiderando l'adulazione degli adulti. Poi gli scienziati dell'università, gli esperimenti, il grande test. Quei ricordi sembravano così vivi da stordirlo e per un attimo gli fecero dimenticare il motivo per cui ne stava parlando con un estraneo. «Mi sembra di capire che vostra madre tentasse di scoprire in voi poteri medianici per comunicare con... con... l'aldilà?» Catesby annuì enfaticamente. «Sì, tentò, ma invano» disse. «Non riuscivo assolutamente a mettermi in contatto con i morti. Tutto quello che ero in grado di fare era vedere oggetti reali, esistenti, tridimensionali, nascosti alla vista delle persone normali. Oggetti che chiunque avrebbe potuto vedere se non fosse stato per la distanza, gli impedimenti fisici o l'oscurità. Mia madre ne fu sempre molto delusa». Gli parve di udire la sua voce dolce e paziente che ripeteva: «Prova ancora, caro, solo una volta. Katie era tua zia. E ti voleva tanto bene. Prova a sentire che cosa ti dice». Ed egli rispondeva: «Vedo una signora con un vestito blu dietro la casa di Dick». E lei: «Sì, lo so, caro, ma quella non è Katie. Katie è morta. Prova ancora, ancora una volta, ti prego». La voce del dottore lo richiamò alla realtà in quello studio vagamente luccicante. «Avete parlato di test scientifici, signor Wran. Per quanto ne sapete qualcuno ha mai tentato di farli su di voi?» Catesby annuì enfaticamente. «Sì» rispose «quando avevo otto anni due giovani psicologi dell'università s'interessarono del mio caso. Penso che inizialmente lo facessero per gioco, e licordo che ero fermamente deciso di dimostrare loro che valevo
qualcosa. Anche ora mi sembra di ricordare quel tono di educata superiorità e divertito sarcasmo che scompariva dalle loro voci. Immagino che inizialmente avessero ritenuto che fossi un abile truffatore, ma in qualche modo riuscirono a convincere mia madre a permettere loro di fare qualche esperimento tenendomi sotto controllo. C'erano molti test che sembravano estremamente professionali dopo le piccole esibizioni dilettantistiche di mia madre. Scoprirono che ero chiaroveggente, o almeno così pensavano. Mi spinsero fino all'estremo. Volevano che io esibissi i miei poteri sensoriali paranormali davanti ai componenti della facoltà di psicologia dell'università. Per la prima volta mi chiesi davvero se ce l'avrei fatta. Forse mi avevano affaticato troppo, non lo so. Comunque, quando giunse l'ora del grande test non fui in grado di fare nulla. Tutto divenne opaco. Mi disperai e iniziai a inventare le cose. Mentii. Infine fallii completamente, e credo che i due psicologi ebbero un sacco di guai come conseguenza del mio fallimento. Gli sembrava di sentire quell'uomo brusco e barbuto che diceva: «Vi siete fatto abbindolare da un bambino, Flaxman, un bambino qualsiasi. Sono molto seccato. Vi siete messi sullo stesso piano di quei ciarlatani da quattro soldi. Signori, vi chiedo di allontanare dalle vostre menti questo spiacevole incidente. Non dev'essere mai citato». Trasalì al ricordo del senso di colpa che aveva provato. Ma, nel contempo, iniziava a sentirsi contento e quasi alleggerito. Schiudendo quei ricordi a lungo repressi il suo modo di vedere le cose era mutato completamente. Gli episodi della ferrovia sopraelevata ora incominciavano ad assumere proporzioni che sembravano adeguate: si trattava semplicemente di bizzarre reazioni di nervi stanchi e di una mente eccessivamente suggestionabile. Il medico, pensò fiduciosamente, avrebbe sbrogliato le oscure reminiscenze nel suo inconscio, qualsiasi esse fossero. E l'intera faccenda si sarebbe conclusa rapidamente, proprio come la sua esperienza infantile, che ora assumeva dimensioni vagamente ridicole. «Da quel giorno» continuò Wran «quei poteri che credevano che io avessi sono scomparsi. Mia madre era furibonda e tentò di denunciare l'università. Io ebbi qualcosa di simile a un esaurimento nervoso. Poi ci fu il divorzio, e io fui affidato a mio padre. Egli tentò di farmi dimenticare. Ci concedemmo lunghe vacanze all'aria aperta e io facevo sport e frequentavo persone normali e concrete. In seguito andai al college e mi iscrissi alla facoltà di economia. Ora mi occupo di pubblicità. Ma...» disse, dopo una breve pausa «ora che ho questi sintomi nervosi mi sono chiesto se non vi
potesse essere qualche connessione. Non credo di essere stato realmente chiaroveggente. Probabilmente mia madre mi aveva insegnato diversi trucchi che applicavo in modo inconscio e che erano sufficienti a trarre in inganno anche giovani docenti di psicologia. Ma non credete che quei fatti possano avere avuto un notevole influsso sulla mia situazione attuale?» Per diversi minuti il dottore lo osservò con un cipiglio serio e professionale. Poi disse lentamente: «Signor Wran, siete forse consapevole di qualche connessione più... diciamo... specifica, tra le vostre esperienze di allora e quelle di ora? Per caso vi sembra di... di... avere di nuovo visioni?» Catesby deglutì. Certo il desiderio di liberarsi dei suoi timori era stato più forte in lui, ma non era facile cominciare e la domanda perspicace del dottore lo disorientò. Si sforzò di concentrarsi. La cosa che gli sembrava di avere visto sul tetto apparve minacciosa e stranamente nitida all'occhio della sua mente. Eppure non lo spaventava. Soltanto, era incapace di parlarne. Poi vide che il dottore non guardava lui, ma dietro di lui. Era impallidito e i suoi occhi non sembravano più tanto piccoli. Quindi vide che balzava in piedi: gli passò accanto, spalancò la finestra e scrutò l'oscurità. Quando Catesby si alzò lo psichiatra richiuse in fretta la finestra e disse con voce leggermente alterata: «Spero di non avervi spaventato. Ho visto la faccia di un... ladruncolo negro sulla scala di emergenza. Deve avere preso paura, perché è subito sparito. Non preoccupatevi, noi medici veniamo spesso infastiditi da questi voyeurs... queste persone indiscrete.» «Un uomo di colore?» chiese Catesby inumidendosi le labbra. Il dottore rise nervosamente. «Credo, anche se la prima impressione che ho avuto è stata, stranamente, quella di un bianco con la faccia nera. Vedete, non sembrava esserci del marrone in quel colore. Era proprio nero.» Catesby avanzò verso la finestra. Il vetro era macchiato. «È tutto a posto, signor Wran.» La voce del medico aveva assunto un aspro tono impaziente, come se egli stesse tentando di riacquistare la propria autorità professionale. «Continuiamo la nostra chiacchierata. Stavo chiedendovi se avete avuto nuovamente», e fece una strana faccia «delle visioni.» Il turbine di pensieri nella mente di Catesby rallentò, ed egli riuscì a mettere fuoco le idee. «No, non vedo niente che gli altri non vedano. E credo che adesso sia ora di andare, vi ho già fatto perdere troppo tempo.» Ignorò il tentativo di negazione del medico e continuò: «Vi telefonerò per la visita medica. In un certo senso mi avete già alleggerito di un pesante fardello». Con un sorriso freddo si congedò: «Arrivederci, dottor Treve-
thick». Lo stato mentale di Catesby Wran era molto peculiare. Con lo sguardo egli cercava le ombre spigolose, dall'alto guardava i viali che gli sembravano abissi a strapiombo, e gli squallidi passaggi seminterrati, e continuava a sbirciare furtivamente i contorni irregolari dei tetti, quasi senza rendersi conto di dove stesse andando. Allontanò dalla propria mente i pensieri che si andavano formando e proseguì. Si rese conto di sentirsi un po' più sicuro quando svoltò in una strada illuminata dove c'erano persone e alti edifici con insegne lampeggianti. Dopo qualche tempo si trovò nell'oscura entrata dell'edificio in cui era il suo ufficio. Allora capì perché non poteva andare a casa, o meglio perché non osasse andare a casa, dopo quanto era accaduto nello studio del dottor Trevethick. «Buona sera, signor Wran» disse l'uomo dell'ascensore, un tipo corpacciuto in tuta da lavoro, mentre apriva l'inferriata scorrevole del vecchio ascensore. «Non sapevo che ora fate anche il turno di notte.» Catesby entrò meccanicamente. «Un'improvvisa valanga di ordini» mormorò distratto. «Cose che devono partire subito.» La cabina si fermò scricchiolando all'ultimo piano. «Vi fermerete fino a tardi, signor Wran?» Egli fece un vago cenno con il capo, guardò l'ascensore che spariva nel buio, trovò le chiavi, attraversò rapidamente l'anticamera dell'ufficio ed entrò nella sua stanza. Tese il braccio verso l'interruttore della luce, ma in quel momento pensò che le sue due finestre illuminate in quell'edificio buio avrebbero attratto qualcosa che poteva strisciare e arrampicarsi. Spostò la sedia in modo che lo schienale fosse contro il muro e si sedette nella semioscurità. Non si era tolto il cappotto. Rimase lì immobile per parecchio tempo ad ascoltare il proprio respiro e i suoni lontani provenienti dalle strade sottostanti: le sottili vibrazioni metalliche dei tram di città, quelle più lontane della ferrovia sopraelevata, deboli grida solitarie e clacson, rimbombi indistinti. Parole che aveva rivolto alla signorina Millick con fare scherzoso e nervoso ora riecheggiavano nei suoi ricordi con l'amaro sapore della verità. Scoprì che era incapace di formulare un ragionamento critico o logico, mentre i pensieri si affacciavano alla sua mente di propria iniziativa e si mettevano a gravitare lentamente disponendosi su orbite via via diverse secondo un moto ineluttabile come quello dei pianeti. Gradualmente l'idea che egli aveva del mondo si andava trasformando.
Non più un mondo di atomi materiali e spazio vuoto, ma un mondo in cui l'incorporeo esisteva e si muoveva secondo proprie leggi oscure o sospinto da impulsi imprevedibili. Nella sua nuova visione apparivano illuminate con terrificante chiarezza alcune verità universali che lo avevano sempre sconcertato e messo in difficoltà e alle quali aveva tentato di nascondersi: l'ineluttabilità dell'odio e della guerra, le disgrazie che diabolicamente rovinano le migliori intenzioni dell'uomo, i muri di ostinata incomprensione che dividono un uomo dall'altro, l'inesauribile vitalità della crudeltà e dell'ignoranza e dell'avidità. Sembravano adeguate ora, elementi necessari dell'immagine d'insieme. E la superstizione non era altro che una sorta di saggezza. Poi i suoi pensieri si rivolsero nuovamente verso la domanda che aveva posto alla signorina Millick: «Che cosa potrebbe desiderare da una persona un essere simile, signorina Millick? Sacrificio? Adorazione? O vorrebbe semplicemente spaventarla? Che cosa potreste fare per impedirgli di tormentarvi?» Era ormai una questione puramente pratica. Con uno squillo esplosivo il telefono si mise a suonare. «Cate, ti ho cercato dappertutto» disse sua moglie. «Non avrei mai pensato che tu potessi essere ancora in ufficio. Che cosa stai facendo? Ero preoccupata.» Farfugliò qualcosa a proposito del lavoro. «Vieni a casa... subito» disse lei ansiosa a voce bassa. «Ho un po' di paura. Ronnie ha appena avuto un incubo. L'ho svegliato. Continuava a indicare la finestra dicendo: "Uomo nero, uomo nero". Ovviamente era qualcosa che aveva sognato. Ma ho paura. Puoi tornare a casa? Come, caro? Non mi senti?» «Sì, certo, vengo subito» disse lui. Quindi lasciò l'ufficio, suonò il campanello notturno e guardò giù nel vano dell'ascensore. Vide la cabina che lo guardava sottecchi dalle ombre profonde tre piani più in basso, con la faccia insaccata schiacciata contro la grata di ferro. Iniziò l'ascesa a un'andatura spaventosamente rapida e sferragliante, scomparendo temporaneamente alla vista mentre attraversava con slancio il secondo corridoio sottostante. Fuggì. Tornò di corsa verso l'ufficio. Graffiò disperatamente la porta. Si accorse di non averla chiusa a chiave. La spinse. La sbatté dietro di sé. Si ritirò nell'altra metà della stanza. Si acquattò tra gli schedari e il muro. Batteva i denti per la paura. Sentì il gemito dell'ascensore che saliva. Un profilo oscurò il vetro smerigliato della porta nascondendo in parte il grottesco
rovescio del nome della ditta. Dopo un attimo la porta si schiuse. La grande lampada sferica che pendeva dal soffitto fu accesa e nel vano della porta, con la mano ancora sull'interruttore, vide la signorina Millick. «Oh, signor Wran» balbettò confusa. «Non sapevo che fosse qui. Sono tornata per battere a macchina alcune cose dopo essere stata al cinema. Non... ma la luce spenta, che cosa...» Catesby la fissava. Voleva gridare per il sollievo, afferrarla, parlare in fretta. Si rese conto di avere un sorriso isterico sulle labbra. «Ma, signor Wran, che cosa vi è successo?» chiese lei imbarazzata, terminando con una risatina stupida. «Vi sentite poco bene? Posso fare qualcosa per voi?» Catesby scosse il capo tremando e riuscì a dire: «No, stavo proprio uscendo. Anch'io ho fatto un po' di straordinario». «Ma si vede che non avete una bella cera» insisté lei andando verso di lui. Assurdamente egli pensò che doveva avere camminato nel fango, poiché le sue scarpe con i tacchi alti producevano nitide impronte nere. «Sì, mi pare proprio che stiate male» disse lei. «Siete così spaventosamente pallido.» Gli sembrava di sentire un'infermiera appassionata e incompetente. Il volto della signorina Millick si illuminò come per un'improvvisa ispirazione. «Ho qualcosa nella borsetta che vi rimetterà a posto» disse. «È contro le indigestioni.» Si mise a frugare nella borsetta oblunga. Egli notò che stava distrattamente tenendola chiusa con una mano mentre tentava di aprirla con l'altra. Quindi, davanti ai suoi occhi, ella piegò gli spessi fermagli metallici che tenevano chiusa la borsa come se fossero di carta stagnola, o come se le sue dita si fossero trasformate in un paio di pinze per acciaio. Subito si affacciarono alla sua mente le parole che aveva detto alla signorina Millick quel pomeriggio: «Non vi potrebbe nuocere fisicamente, all'inizio... affonderebbe gradualmente le radici nel mondo delle cose reali... potrebbe addirittura penetrare in menti opportunamente vuote. Così poi potrebbe nuocere a chiunque». Catesby Wran ebbe una spiacevole sensazione di freddo e iniziò a muoversi verso la porta. Ma la signorina Millick lo precedette. «Non occorre che aspetti, Fred» gridò. «Il signor Wran ha deciso di fermarsi ancora un po'.» La porta dell'ascensore si chiuse con un rumore meccanico. L'inferriata della cabina scricchiolò. Quindi lei si voltò sulla soglia della porta. «Vedete, signor Wran, non avrei proprio potuto lasciarvi andare a casa
ora. Sono certa che davvero stiate poco bene. Potreste svenire per strada. Dovete assolutamente fermarvi qui fino a quando non vi sentirete meglio». Lo scricchiolio si allontanò e scomparve. Egli era in piedi in mezzo alla stanza, immobile. I suoi occhi seguirono le orme nere come il carbone che la signorina Millick aveva lasciato sul pavimento fino al punto in cui lei si trovava, nel vano della porta. Quindi emise un suono che era quasi un urlo poiché gli era sembrato che quel nero si arrampicasse su per le gambe di lei, sotto le sue calze sottili. «Signor Wran» disse lei «non so perché, ma vi comportate come se foste incapace di connettere. Dovete assolutamente distendervi per un po'. Venite, vi aiuto a togliere il cappotto». Quel suono nauseante, assurdo e roco si ripeté, ma con maggiore intensità. Mentre lei gli si avvicinava egli si girò e attraversò il magazzino di corsa mettendosi ad armeggiare disperatamente con una chiave attorno alla serratura della seconda porta verso il corridoio. «Signor Wran!» la sentì gridare. «Vi sentite male? Dovete permettermi di aiutarvi!» La porta si aprì ed egli si buttò nel corridoio e su per le scale che si trovavano proprio di fronte ad esso. Solo quando giunse in cima si rese conto che la pesante porta di acciaio che si trovava davanti portava al tetto. Aprì con forza la maniglia. «Signor Wran, non scappate! Aspettate, vi raggiungo!» Quindi si trovò all'aperto, sul ghiaietto del tetto. Il cielo notturno era annuvolato e fosco, con vaghi riflessi rosati delle insegne al neon. Dalle fabbriche lontane si levavano fiammate spettrali. Egli raggiunse di corsa l'orlo del tetto. Le luci delle strade riflettevano verso l'alto un bagliore che faceva girare la testa. Due uomini erano minuscole macchie rotonde: cappelli e spalle. Egli si voltò. La cosa si trovava sulla soglia della porta. La voce non era più premurosa, ma stupidamente scherzosa, e ogni frase terminava con una risatina: «Signor Wran» disse «perché siete salito quassù? Siamo soli. Pensate, potrei spingervi di sotto...» La cosa si avvicinava lentamente a lui. Wran indietreggiò fino a quando toccò con i tacchi il basso parapetto. Senza sapere perché, o che cosa avrebbe fatto, cadde in ginocchio. Egli non osava guardare quella faccia che si avvicinava: cuore della feccia del mondo, punto di raccolta di veleni da ogni dove. Quindi la lucidità del terrore s'impossessò della sua mente, e Catesby Wran iniziò a parlare. «Ti obbedirò. Tu sei il mio dio» disse. «Hai
il potere supremo sull'uomo, sui suoi animali e sulle sue macchine. Comandi questa città e tutte le altre. In questo io credo.» E di nuovo quella risatina, più vicina. «Che cosa vi succede signor Wran? Non avete mai parlato così prima di oggi. Intendete veramente quello che dite?» «Tuo è il mondo, puoi farne ciò che vuoi, salvarlo o annientarlo» rispose lui con fare servile, formulando parole che automaticamente costituivano frasi di stampo vagamente liturgico. «In questo io credo. Ti loderò e mi sacrificherò per te. Nel fumo e nella fuliggine io ti adorerò in tutti i secoli dei secoli. E così sia.» La cosa non rispose. Wran levò lo sguardo. C'era solo la signorina Millick, pallida come un cencio, che ondeggiava come se fosse ubriaca. Aveva gli occhi chiusi. Lui l'afferrò mentre stava per cadergli addosso. Le sue ginocchia cedettero per quel peso in più ed essi rovinarono per terra insieme sul bordo del tetto. Dopo qualche tempo ella si contorse leggermente. Dalla sua gola uscirono lievi rumori e i suoi occhi si aprirono piano. «Venite, scendiamo» borbottò Wran parlando a scatti e tentando di sollevarla. «Vi sentite poco bene.» «Mi gira terribilmente la testa» bisbigliò lei. «Devo essere svenuta, non ho mangiato abbastanza. E poi ultimamente sono così nervosa, per la guerra e tutto il resto, credo. Ma, siamo sul tetto! Mi avete portata voi qui, per prendere una boccata d'aria? O sono salita io senza renderme conto? Sono terribilmente sbadata. Mia madre dice che un tempo ero sonnambula.» Mentre egli la aiutava a scendere le scale ella si voltò e lo guardò. «Signor Wran» disse piano «avete una grande macchia nera sulla fronte. Permettetemi di pulirla.» Gli strofinò la fronte debolmente con il fazzoletto. Prese nuovamente a vacillare ed egli la sostenne. «No, sto bene» disse lei. «Sento solo freddo. Che cos'è accaduto, signor Wran? Ho avuto un malore?» Lui le disse che probabilmente si era trattato di qualcosa di simile. Più tardi, mentre andava verso casa, su una vettura vuota della ferrovia sopraelevata, si chiese per quanto tempo sarebbe stato al sicuro dalla cosa. Era un problema strettamente pratico. Non aveva modo di saperlo, ma il suo istinto gli suggeriva che egli aveva soddisfatto la cosa per qualche tempo. Avrebbe chiesto di più, quando fosse tornata? C'era tempo a sufficienza per trovare una risposta a quel dubbio quando fosse giunta l'ora. Catesby Wran si rendeva conto che pote-
va essere difficile riuscire a non farsi rinchiudere in un manicomio. Con Helen e Ronnie, ma anche con se stesso, avrebbe dovuto essere molto cauto e stare attento a quello che diceva. Iniziò a immaginare quanti altri uomini e quante altre donne avessero veduto la cosa o cose simili a essa. La ferrovia rallentò e girò attorno alla curva come di consueto. Egli guardò i tetti. Sembravano proprio normali, come se la cosa che li aveva resi impressionanti se ne fosse andata per qualche tempo. Titolo originale: Smoke Ghost Traduzione: Laura Pignatti Gene Wolfe Sette notti americane Gene Wolfe è il miglior scrittore di fantascienza contemporaneo ed è considerato dai critici uno dei più grandi autori americani. Le sue opere spaziano dal genere fantastico, con tutte le sue molteplici sfaccettature, a temi ispirati alla vita del mondo moderno. Sette notti americane è un capolavoro della narrativa fantascientifica, una complessa e raccapricciante visione del futuro, un'opera strana, sfuggente, ambigua che si ispira chiaramente ai classici della satira ambientati nel futuro — quali Mellonta Tauta di Poe e The Last American di J. Leslie Mitchell — e che è caratterizzata da un umorismo sottile e ironico. Il racconto, solo in apparenza semplice, ricorda in realtà i crittogrammi di Poe. La tematica dell'allucinazione prodotta dalla droga, assai frequente nella letteratura fantascientifica, hon à stata mai trattata in modo più elegante e incisivo come in Sette notti americane. Stimatissima ed onorata signora, Come le ho già scritto, mi pare molto probabile che Suo figlio Nadan (che Allah sia con lui!) abbia lasciato quella che un tempo era la capitale e abbia risalito la regione nella zona della Baia del Delaware. La mia supposizione è avvalorata dalla scoperta, in tale zona, del taccuino d'appunti che qui allego. Come può constatare non è di fabbricazione americana e, benché vi siano annotate solamente le esperienze di una settimana, numerosi particolari ivi riportati ci danno modo di continuare a sperare. Ho fotocopiato il
diario per poterlo utilizzare durante le indagini. Confido nella possibilità che Lei, Madame, data la Sua più intima conoscenza del giovane che ricerchiamo, possa scoprire, leggendolo, informazioni sottointese a me sfuggite. In tal caso, La pregherei di informarmi al più presto. Con qualche esitazione, date le notizie incoraggianti contenute nella presente, debbo comunicarLe che non ho ricevuto la Sua rimessa il cui termine di pagamento è recentemente scaduto. Presumo che il ritardo sia dovuto alle condizioni del servizio postale che qui è veramente disastroso. Debbo altresì avvertirLa che se non avrò a mia disposizione fondi sufficienti a coprire le spese prima dell'inizio dell'inverno mi vedrò costretto, mio malgrado, a interrompere le ricerche. Con ossequi, HASSAN KERBELAI Eccomi arrivato, finalmente. Dopo dodici interminabili giorni passati a bordo della Princess Fatimah — dodici giorni di freddo e di noia; dodici giorni di cibo pessimo e di vibrazioni dei motori — la gioia di trovarsi nuovamente è pari a quella che probabilmente prova un condannato quando un ordine dello Scià lo strappa alla morte un attimo prima che la lama scenda sulla sua nuca. America! America! Non più giorni tediosi! Si dice che chiunque giunga qui ti ami o ti odi, America... per Allah, quanto ti amo in questo momento! Ho deciso di tenere un diario, ma non so come iniziare. Prima di partire lessi alcuni racconti di viaggio e quando ti vidi, O Libro, apparivi così squadrato e voluminoso, lì appoggiato sulla bancarella nel bazar, che pensai: "Perché non posso vivere anch'io avventure interessanti e raccontarle in un libro come quello di Osman Aga? Poche persone, dopotutto, giungono in questa terra infelice situata ai margini del globo e coloro che vi arrivano approdano più a nord." Proprio questi pensieri mi hanno suggerito il modo con cui iniziare. Per me l'America fu inizialmente acqua colorata. Quando salii sul ponte, ieri mattina, l'oceano non era più verde, ma giallo. Prima di allora non ero mai giunto a conoscenza di una cosa simile, non ne avevo sentito parlare nei libri, né durante le mie conversazioni con Zio Mirza che c'era stato trent'anni fa. Temo d'essermi comportato come il più grande stupido del mondo: correvo su e giù per la nave farfugliando, guardavo ripetutamente dal pa-
rapetto per accertarmi che quell'intenso color senape non fosse scomparso come, nei sogni, svaniscono le cose che tentiamo di indicare a qualcun altro. L'assistente di bordo mi disse che sapeva. Golam Gassem, il mercante di grano, (che durante l'intera traversata avevo tentato di evitare e che infine era riuscito a bloccarmi) disse: «Sì, sì» e mi girò le spalle come per farmi comprendere che anch'egli mi aveva evitato e che ci sarebbe voluto un miracolo più grande dell'acqua gialla per mutare i suoi sentimenti nei miei confronti. Proprio in quel momento uscì sul ponte uno dei pochi cittadini americani autoctoni che viaggiava in prima classe, mister — come si usa dire qui — Tallman, il marito dell'incantevole Madame Tallman, la quale, per la verità, meriterebbe un tallman, un uomo alto, grande come me: non so se suo marito avesse scelto questo nome nell'intento di deridere se stesso oppure nella speranza che sarebbe servito a fare dimenticare agli altri il ricordo della sua infermità; forse non era che il cognome di suo padre; forse si trattava di una delle innumerevoli ironie riservateci dalla sorte e c'era qualcosa di anormale nella sua schiena. Come se non avessi dato abbastanza spettacolo di me stesso, afferrai Mr. Tallman per la manica e gli dissi di guardare il mare spiegandogli che aveva cambiato colore. Fu invece il suo viso a cambiare colore: egli sbiancò e mi voltò le spalle con l'aria di volermi picchiare, ma non osò farlo. Probabilmente, la situazione aveva il suo lato comico — più tardi udii alcuni passeggeri che ridacchiavano — ma credo di non avere mai percepito tanto odio sul viso di un essere umano prima di allora. Proprio in quel momento apparve il capitano e io — abbacchiato ma non ancora del tutto demoralizzato, credendo che non avesse sentito la mia conversazione con Mr. Tallman — dichiarai per l'ultima volta in quel giorno che l'acqua era gialla. «Lo so» disse il capitano. «È il suo paese» indicò con un movimento del capo Mr. Tallman «che si sta dissanguando.» È di nuovo sera. La notte scorsa smisi di scrivere senza nemmeno riuscire a finire di annotare le mie prime impressioni riguardo la costa. Ebbene sia. A casa è mezzanotte o quasi e la vita dei caffè è al culmine. Come vorrei essere là con te, Yasmin, non intrappolato tra questi sconosciuti, vestiti di rosso e porpora, che si accalcano nelle loro strade come un esercito di invasori e si infilano nelle loro case come topi nelle tane. Ma tu, Yasmin, oppure tu, Madre, o chiunque leggerà queste parole, vorrà certamente sapere come ho passato la giornata. Vi prego, qualche volta, pensate a me, a come sono o-
ra, chino su un vecchio tavolo tutto graffiato in una decrepita stanza a due letti, mentre ascolto il rumore di passi affrettati che giunge dalla strada. Questa mattina ho dormito sino a tardi: molto probabilmente il viaggio mi ha stancato più di quanto non credessi. Quando mi sono svegliato, l'intera città pulsava di vita intorno a me, sotto la mia finestra sbarrata i venditori di pesce e frutta decantavano ad alta voce le qualità della loro merce e le grandi ruote di ferro dei carri in legno che gli americani chiamano autocarri procedevano rumorosamente sul cemento spaccato trasportando le merci provenienti dalle navi ancorate al molo d'attracco sulla foce del Potomac. Se ne vedono di cose strane qui, Yasmin. Quando sono sceso per fare colazione (in questi alberghi americani si deve uscire all'aperto per raggiungere le hall e la sala da pranzo, cosa che trovo piuttosto scomoda specie con il cattivo tempo) ho visto uno di questi autocarri trainato da due buoi, un cavallo e un mulo. Ti avrebbe certamente divertito vederli. I conducenti fanno schioccare continuamente le loro fruste. La prima impressione che si ha dell'America è che non sia poi così povera come comunemente si dice. Solo tempo dopo ci si accorge di che cosa e quanto sia stato ereditato dal secolo precedente. Le strade sono lastricate, 'ma vecchie ed in cattivo stato. Dovunque vi sono palazzi molto belli ma fatiscenti (l'Inn of Holidays, l'albergo, ne è un esempio), e, in apparenza sembrano molto più moderni di quelli nel nostro paese, dove l'architettura tradizionale è imposta dalla legge. L'albergo si trova sulla Main Street e, terminata la colazione (era buona e molto meno cara che da noi, anche se mi è stato detto che è praticamente impossibile trovare primizie), chiesi al direttore se fosse possibile visitare la città. È un uomo basso e spaventosamente brutto, una sorta di gobbo. Del resto, molti di loro lo sono. «Non ci sono più visite guidate» disse, «non più.» Gli dissi che volevo semplicemente girovagare per conto mio e forse disegnare per un po'. «Può farlo. A nord si trovano alcuni palazzi, a sud il teatro, a ovest il parco. Ha intenzione di visitare il parco, Mr. Jaffarzadeh?» «Non lo so ancora.» «Se desidera farlo, dovrebbe ingaggiare almeno due guardie; potrei consigliarle un'agenzia.» «Ho una pistola con me.» «Avrà bisogno di molto di più, signore.» Ovviamente, decisi subito che sarei andato al parco e, per di più, da solo. Non volevo privarmi dell'opportunità di vivere almeno una di quelle po-
che, piccole avventure che questa terra poteva offrirmi, prima di scoprire che cos'altro tenesse in serbo per me, per arricchire la mia esistenza. Presa la decisione, mi avviai verso nord. Non ho ancora avuto modo di vedere la città di notte ma, se è per questo, nemmeno altre città americane. Che aspetto hanno le città qui, dato che la gente ne affolla le vie come avviene da noi? Non riesco proprio a immaginarmelo. Anche in pieno giorno vi si respira un'aria di carnevalata: sembra di essere in un folle circo il cui spettacolo è iniziato cent'anni fa, o anche più, e non è ancora terminato. All'inizio mi pareva che soltanto una persona su quattro o cinque recasse ancora traccia dell'aberrazione genetica che distrusse l'America di un tempo. Tuttavia, con il passare dei giorni, mi abituai a ciò che vedevo per le strade e fui meno portato a non considerarli come americani, nemmeno l'anziana signora, così infelice, che voleva vendermi dei fiori e il ragazzino che si precipitò urlando tra le ruote di un autocarro. Iniziai invece a considerarli come esseri umani — in altre parole, come avrei considerato una persona qualsiasi incontrata per caso lungo una delle nostre strade — e vidi che praticamente tutti ne portavano il segno. Le loro deformità, che prese singolarmente possono apparire ripugnanti, mascherate dagli abiti cenciosi ma vivaci, qui assai comuni, conferiscono un aspetto fastoso anche all'essere più misero. Nelle vie della città, l'eco della musica di un gruppo di suonatori ambulanti non si è ancora spento che già se ne ode un altro. Girovagando, dopo avere fatto solo pochi passi, incontrai un uomo così alto che, pur essendo seduto su di un gradino, risultava più alto di me che stavo in piedi; quindi un nano barbuto con un braccio atrofizzato; infine, una donna il cui viso era stato diviso, da qualche essere maligno, in due parti distinte, con un occhio spalancato dallo sguardo disperato e idiota e l'altro socchiuso e beffardo. Yasmin non dovrà leggere tutto questo. Da più di un'ora sto qui seduto, fissando la fiamma della candela, ascoltando il rumore di qualcosa che di tanto in tanto cozza contro le imposte d'acciaio che chiudono la finestra della mia stanza. In verità, sono paralizzato da una paura di cui non conosco la causa, che da ieri mi pervade e che si fa via via sempre più intensa. Tutti sanno che un tempo gli americani furono i migliori sulla terra per quanto riguarda la produzione di sostanze allucinogene. Le conoscenze acquisite permisero loro di creare i preparati chimici che in seguito li distrussero, di ottenere un pane che non ammuffiva mai, vari tipi di veleni contro i parassiti e un'enorme quantità di sostanze innaturali per ogni scopo e di
produrre infine alcaloidi sintetici che inducevano stati di delirio permanente. Qualcosa di tali conoscenze è certamente stato tramandato, per lo meno quelle relative alla produzione di determinate sostanze, conservate per ottanta, cent'anni in stanze segrete, la cui pericolosità aumenta man mano che il mondo le dimentica. Penso che una droga di questo tipo mi sia stata somministrata sulla nave. L'ho detto, finalmente! Ora mi sento molto meglio; scriverlo mi è costato un tale sforzo che ho dovuto alzarmi e camminare più volte su e giù per la stanza prima di poterlo fare. Ora che l'ho scritto, stento decisamente a crederci. Purtuttavia, la notte scorsa sognai quel pane, di cui lessi per la prima volta nella piccola aula della casa di campagna di Zio Mirza. Non si trattava di un sogno complesso, letterario, simile a quello che ebbi in passato e del quale mi vantai in seguito, ricamandoci sopra mentre sorseggiavo il caffè a colazione. Sognai semplicemente una pagnotta, soffice e bianca, appoggiata su un piatto al centro di un tavolino: pane che ancora conservava la fragranza di quello appena sfornato (indubbiamente uno dei più deliziosi del mondo) benché la superficie fosse ricoperta di muffa grigia. Perché gli americani desideravano una cosa simile? Eppure tutti gli storici sono concordi nell'affermare che questa era una delle loro più topiche aspirazioni, analoga a quella di riuscire a fare apparire vivi i cadaveri. Niente mi stordisce e mi fa sognare come questo paese con le sue strade fetide, ma piene di colore, la sua popolazione deforme e il suo linguaggio aspro e alieno. Voglia Allah che io possa parlare Farsi a te, O Libro. Ci credereste che ho tirato fuori ogni capo di vestiario che posseggo soltanto per leggerne le etichette? Mi chiedo: io stesso ci crederò quando leggerò queste righe una volta tornato a casa? Gli edifici pubblici a nord — un tempo il centro della vita politica, da quello che ho potuto capire — creano un notevole contrasto con le strade dell'aerea ancora abitata. In esse i vecchi palazzi sono in rovina oppure sono stati rabberciati con mezzi di fortuna del tutto inadeguati, eppure brulicano di vita, di persone che per sopravvivere svolgono quelle poche attività commerciali che il porto può ancora offrire e di altre persone che, a loro volta, dipendono dalle prime e così via. Gli edifici monumentali, costruiti con i materiali più solidi, appaiono invece quasi integri benché, qua e là,
alcune colonne siano crollate, alcuni portici incurvati e in molti punti degli alberelli (perlopiù malinconici Carpinus Caroliniana, suppongo) siano cresciuti nelle crepe dei muri. Tuttavia, se, come è stato scritto, è vero che la barba del Tempo non è divenuta grigia col passare degli anni, ma a causa della polvere delle città in rovina, proprio qui Egli la strascica per terra. Questi edifici non sono altro che imponenti gusci vuoti: furono costruiti, sembrerebbe, per essere raffreddati e ventilati da macchinari. Molti di essi non hanno finestre; i loro interni, ridotti ad antri bui, esalano miasmi. In simili palazzi non osai certo avventurarmi. Altri avevano un tempo finestre non apribili, presentavano semplicemente pareti di vetro; alcune di esse erano rimaste intatte per cui potei farne degli schizzi. Tuttavia, la maggior parte sono andate distrutte. La barba del Tempo ne ha spazzato via anche i frammenti più minuti. Sebbene questi vecchi edifici (salvo poche eccezioni) siano deserti, nelle loro vicinanze incontrai parecchi mendicanti. Sembravano essere americani ai quali le deformità avevano precluso ogni possibilità di svolgere un qualunque lavoro redditizio. Nessuno può non provare pietà per essi malgrado il loro aspetto sia spesso sgradevole tanto quanto il comportamento importuno. Si offrirono di farmi visitare quella che fu la residenza del loro Padshah e, per fare in modo di potere dare loro qualche moneta, li seguii facendomi promettere di lasciarmi quando l'avessi vista. La struttura che m'indicarono era situata alla fine di un lungo viale fiancheggiato da palazzi imponenti; suppongo, quindi, che non avessero sbagliato nel ritenere che in passato fosse stato importante. Ma non rimanevano altro che le fondamenta, un mucchio di macerie e un'ala in rovina. In origine, non doveva certamente essere una costruzione destinata a durare nel tempo. Era probabilmente una residenza estiva o qualcosa del genere. I mendicanti ne hanno scordato persino il nome, la chiamano semplicemente la casa bianca. Quando mi ebbero accompagnato sino a quei resti, finsi di volerli disegnare ed essi mi lasciarono solo come promesso. Ma dopo circa dieci minuti uno di loro, particolarmente intraprendente, ritornò. Non aveva la mandibola perciò, in un primo momento, ebbi parecchie difficoltà a capirlo: ma, dopo avere gridato ambedue per un bel po' — io dicendogli di andarsene e minacciando di ucciderlo all'istante ed egli protestando — compresi che la sua menomazione lo costringeva a pronunciare il suono d al posto di b, n invece di m e t al posto di p; dopodiché ci capimmo meglio.
Non tenterò di riprodurre foneticamente il modo in cui si esprimeva: mi disse in sostanza che, essendo stato io così generoso, desiderava mostrarmi un grande segreto, qualcosa che gli stranieri come me non pensavano neanche esistesse. «Acqua pulita» proposi. «No, no. Un grande, grandissimo segreto, Capo. Tu pensi che tutto questo sia morto.» Indicò con un gesto della mano deforme le strutture desolate che ci circondavano. «Sì, certamente.» «Qualcosa vive ancora. Vuoi vedere? Ti guiderò io. Non ti preoccupare degli altri, hanno paura di me. Li terrò a bada.» «L'avverto che se ha intenzione di tendermi una trappola sarà il primo a subirne le conseguenze.» Mi guardò con espressione seria; in quel volto devastato, gli occhi che mi fissavano parevano quelli di un uomo ed ebbi un moto di sincera compassione. «Vedi laggiù? Quel grande edificio a sud, sulla Pennsylvania. Capo, il padre di mio padre di mio padre dirigeva un bitarpinempo — traduco: un dipartimento — là. Mai potrei tradirti.» Quello che avevo letto sulle decisioni politiche ai tempi del padre di suo padre di suo padre era molto poco rassicurante, ma lo seguii ugualmente. Camminammo in diagonale per parecchi isolati attraversando due edifici in rovina. In entrambi vidi ossa umane e, ricordando il suo modo di fare presuntuoso, gli chiesi se appartenessero a coloro che vi avevano lavorato. «No, no» rispose e batté nuovamente il petto (un gesto abituale, presumo) e raccolto da terra un teschio lo portò all'altezza del capo in modo da mostrarmi che presentava deformità craniche molto simili alle sue. «Dormiamo qui per avere solide mura tra noi e le cose che vengono di notte. Spesso durante l'inverno qui moriamo. Nessuno ci seppellisce.» «Dovreste seppellirvi l'un l'altro» dissi. Gettò il teschio che si frantumò sul pavimento alla veneziana risvegliando centinaia d'echi lugubri. «Non abbiamo pale» disse «e pochi sono forti. Ma vieni con me.» A prima vista l'edificio al quale mi aveva condotto appariva in condizioni peggiori di molte altre rovine. Una delle guglie era crollata e i mattoni erano sparpagliati sulla strada. Ma, guardando con più attenzione, mi accorsi che qualcosa di quello che aveva detto doveva essere vero. Le finestre rotte erano state chiuse con sbarre di ferro, con accuratezza pari a quella usata per fermare le imposte della mia stanza, e la porta, benché
vecchia e rovinata dalle intemperie, era ben chiusa e pareva solida. «Questo è il museo» disse la mia guida. «Praticamente tutto ciò che resta della Città Silente che ancora vive come una volta. Vuoi vedere dentro?» Gli dissi che dubitavo potessimo entrare. «Macchine meravigliose.» Mi tirò per la manica. «Vedere dentro, capo. Vieni.» Seguimmo le mura dell'edificio svoltando diverse volte e infine entrammo in una sorta di nicchia sul retro. Sul terreno pieno di erbacce c'era una grata, egli la indicò con orgoglio. Gli chiesi di starsene a breve distanza prima di inginocchiarmi per guardare attraverso la grata come mi aveva indicato. Sotto la grata c'era una finestra con il vetro ancora integro. Era molto sporco, ma potei ugualmente vedere il seminterrato dell'edificio e là, proprio come aveva detto il mendicante, c'erano diversi e complicati congegni. Li fissai per un po' tentando di indovinarne la funzione; dopo qualche tempo apparve un vecchio americano che prese a scrutare qua e là le diverse parti, pulendo con uno straccio le sbarre e gli ingranaggi lucenti. Mentre osservavo la mia guida si era avvicinata. Indicò il vecchio e disse: «Vengono ancora da nord e da sud per studiare qui. Un giorno saremo di nuovo grandi.» In quel momento pensai al mio incantevole paese, il cui declino — senza essere tuttavia caratterizzato da alterazioni genetiche — si era protratto per duemilatrecento anni. Gli diedi un po' di denaro e gli dissi che, sì, ero certo che un giorno l'America sarebbe stata nuovamente un grande paese. Poi lo lasciai e ritornai qui, nella mia stanza. Ho aperto le imposte in modo da potere osservare la città con il suo obelisco e godermi la luce del sole morente. I suoi campi e le sue valli di fuoco non mi sembrano più aliene e più minacciose di questa terra così strana e intristita. Ma so che tutti siamo una cosa sola: il mendicante che mi ha fatto da guida, il vecchio che si aggirava tra quei macchinari, i resti di una civiltà morta, i macchinari stessi, il sole e io. Cent'anni fa, quando questa città era prosperosa, i filosofi speculavano sul perché ogni neutrone, protone ed elettrone possedessero la stessa massa di tutte le altre particelle atomiche della propria specie. Ora sappiamo che esiste soltanto una particella di ciascuna varietà che si muove avanti e indietro nel tempo: un elettrone che si sposta in avanti come facciamo noi quando viaggiamo, e un positrone che si muove all'indietro; e che queste poche particelle si moltiplicano miliardi di miliardi di volte per costituire un singolo oggetto, per costituire
tutti gli oggetti cosicché noi siamo tutti abbozzi, potremo dire formati e colorati dagli stessi pastelli. Uscii per andare a cena. Non lontano da qui c'è un ristorante migliore di quello dell'albergo. Rientrando, il direttore mi disse che questa sera ci sarebbe stato uno spettacolo nel teatro vicino assicurandomi che, dato il breve percorso (in verità è estremamente orgoglioso di quel teatro e indubbiamente riesce a tenere aperto l'albergo solo grazie alla vicinanza di quest'ultimo) non avrei corso alcun pericolo uscendo senza scorta. Per la verità, mi vergogno un poco di non avere noleggiato oggi pomeriggio una barca per visitare il parco, dall'altra parte del canale; così ora assisterò allo spettacolo e sfiderò le strade notturne. Eccomi di nuovo qui, ritornato in questa stanza troppo grande, troppo vuota e senza tappeti, che già inizia a sembrarmi una seconda casa, senza avere vissuto alcuna avventura, degna di essere raccontata, nelle strade pericolose dopo il calare della notte. La verità è che il teatro si trova soltanto una cinquantina di metri più a sud. Ho tenuto continuamente la mano sul calcio della mia pistola e camminato insieme a moltissime altre persone (perlopiù americani) anch'esse dirette al teatro, sentendomi vagamente sciocco. L'edificio è vecchio, quanto quelli della Città Silente direi, ma conservato in migliori condizioni. Tra il pubblico c'era un'aria di allegria (benché si trattasse di un'allegria a me in gran parte aliena) molto più intensa che nel nostro paese e molto meno magica di quella che denota rispetto per la sacralità dell'Arte. Da ciò capii che in questo paese il teatro è realmente sacro: lo dimostrano persino gli abiti variopinti della plebe. Un rispetto esagerato e solenne è sempre indicativo di una mancanza di fede. Avevo appena terminato di cenare ragion per cui ignorai le bancarelle del ridotto dove gli americani (che, se appena possono permetterselo, pare mangino in continuazione) sceglievano vari generi di carne fredda e di dolci, e presi posto in sala. Mi ero appena seduto quando un anziano gentiluomo, un americano, che fumava la pipa emanando sbuffi di fumo, mi chiese gentilmente di lasciarlo passare per raggiungere la sua poltrona. Mi alzai con piacere, naturalmente, e lo salutai chiamandolo Nonno come dettano le nostre (se non le loro) regole di cortesia. Mentre si accomodava e io ero ancora in piedi, osservai per un attimo il suo viso dalla stessa angolazione dalla quale lo avevo visto nel pomeriggio, attraverso la grata, rico-
noscendo il vecchio che armeggiava fra i macchinari. Era una situazione imbarazzante: desideravo moltissimo iniziare una conversazione con lui, ma non potevo di certo esordire confessandogli di averlo spiato. Mi scervellai tentando di risolvere il problema sino al momento in cui le luci si spensero e iniziò lo spettacolo. Si trattava di un'opera di Vidal: Visit to a Small Planet, un classico del vecchio teatro americano, di cui avevo letto frequentemente su giornali e riviste, ma che mai avevo visto recitare sul palcoscenico. L'avrei apprezzata molto di più se fossero stati mantenuti i costumi e gli scenari del periodo in cui è ambientata; sfortunatamente, il regista aveva deciso di modernizzare il tutto, proprio come noi talvolta rappresentiamo Rustam, in Rustam Beg, come se questi fosse stato un eroe della guerra appena terminata. Il Generale Powers era un soldato americano che si comportava come un vile bandito, Spelding un editore di volantini diffamatori, e così via. I soli personaggi che mi piacquero molto furono, Kreton, l'extraterrestre zoppo e Ellen Spelding, l'ingenua, personificata e interpretata da una bionda americana. Durante tutto il primo atto la mia mente continuava a pensare (soprattutto quando recitava Spelding) al vecchio seduto accanto a me. Quando calò il sipario, avevo già deciso che il modo migliore per iniziare una conversazione fosse quello di offrirmi di andare a prendere un kebab, o qualunque cosa desiderasse, nel ridotto: il suo aspetto misero mi fece supporre che sarebbe stato dispostissimo ad accettare e le sue gambe malferme avrebbero costituito per me un ottimo pretesto. Feci la mia mossa non appena le fiaccole furono riaccese, e, come speravo, funzionò. Quando tornai portando un vassoio di carta con sandwich e bevande amare, egli disse spontaneamente che mi aveva notato sgranchire la mano destra durante lo spettacolo. «Sì» dissi «ho scritto molto prima di venire qui.» Questo lo mise in moto ed egli iniziò a dissertare, spesso molto più particolareggiatamente di quanto potessi capire, in merito alle macchine che scrivono. Riuscii infine ad arginare quel flusso di parole ponendogli alcune domande che gli fecero probabilmente capire che ne sapevo meno di quanto supponesse. «Ha mai» mi chiese «intagliato una lettera dell'alfabeto in una patata, premuto quest'ultima su di un tampone inchiostrato utilizzandola per stampare su carta?» «Da bambino, sì. Noi lo facciamo con le rape, ma presumo che il principio sia lo stesso.» «Esattamente, e il principio è quello dell'astrazione estesa. Mi dica, se-
condo lei che cos'è la comunicazione al livello più elementare?» «Parlare, presumo.» La sua risata stridula si udì al di sopra del chiasso degli spettatori. «Niente affatto! È odorare» disse afferrandomi il braccio. «Odorare è l'essenza della comunicazione. Prendiamo il solo termine essenza. Quando lei odora un altro essere umano, trasferisce sostanze chimiche dal corpo di quest'ultimo al suo, le analizza e, in base a questa analisi, ne deduce in modo accurato il suo stato emotivo. Lo fa costantemente, in modo automatico e in gran parte inconscio, dopo di che afferma semplicemente: ecco un nonno che ha paura, oppure: ecco un individuo arrabbiato. Capisce?» Assentii, malgrado tutto interessato. «Quando parla» proseguì infervorato «lei dice all'altro che odore lei avrebbe se avesse l'odore che dovrebbe avere e se egli potesse sentire correttamente l'odore che lei ha dal punto in cui si trova. È quasi certo che il linguaggio non si sviluppò finché il periodo delle glaciazioni, alla fine del Pliocene, non portò il genere umano a inventare il fuoco e finché l'inalazione continua del fumo della legna che ardeva rese gli organi dell'odorato molto meno sensibili.» «Vedo.» «No, lei sente... a meno che non stia per caso leggendo le mie labbra, cosa che in questo chiasso sarebbe molto utile.» Staccò con i denti un enorme pezzo del sandwich facendo cadere delle briciole di carne rosea che sicuramente non provaniva da nessun animale naturale. «Quando scrive» disse «lei dice all'altro come parlerebbe se egli potesse sentirla e quando stampa con la sua rapa gli dice come scriverebbe. Come noterà, siamo già al terzo livello di astrazione.» Assentii nuovamente. «Un tempo si pensava» continuò «che soltanto un numero K limitato di livelli d'astrazione fosse possibile prima che la materia originaria scomparisse completamente e alcune interessanti ricerche matematiche, compiute circa settant'anni fa, si proposero di ottenere un'espressione generalizzata per K relativamente ai vari sistemi. Ora sappiamo che il numero può essere infinito, se la serie rappresenta una curva aperta, e che sono anche possibili curve chiuse.» «Non capisco» dissi. «Lei è un giovane molto attraente e di bell'aspetto, con le spalle larghe e i baffi neri; supponiamo che una ragazza l'ami. Se ora foste tutti e due accoccolati su uno di quei grossi rami d'albero che toccano quasi il suolo, lei
potrebbe sentire il desiderio della sua innamorata. Oggi forse ella le parlerebbe di questo desiderio, ma è anche possibile che le scriva per esprimerle il suo desiderio, non è forse vero?» Ricordando le lettere di Yasmin, annuii. «Ma supponga» disse il vecchio «che queste lettere siano profumate, un profumo dolce e muschiato. Capisce? Una curva chiusa... il profumo non è quello del suo corpo bensì una simulazione dello stesso. Potrebbe non essere quello che prova, ma quello che ella le dice di provare nei suoi confronti. In realtà, lei è innamorato di una balena, un cervo maschio e un'aiuola di rose.» Stava per aggiungere qualcosa, ma in quel momento si alzò il sipario sul secondo atto. Giudicai questo secondo atto più piacevole, ma molto più penoso del primo. La scena iniziale in cui Kreton (ben presto raggiunto da Ellen) legge nel pensiero del loro gatto era straordinariamente efficace. L'orchestra, nascosta, suonava una musica atta a rappresentare i pensieri del gatto. Avrei voluto conoscere il nome del compositore, ma dal programma non fu possibile identificarlo. La parete della camera da letto divenne uno schermo su cui si proiettavano silhouette di gatti che andavano a caccia di uccellini e che poi, quando Ellen grattava la pancia al gatto in carne e ossa, facevano l'amore. Come ho già detto, Kreton e Ellen erano i personaggi meglio interpretati dell'intero spettacolo. Il contrasto fra il corpo sottile e aggraziato e la vivace ingenuità di Ellen da un lato e il palese desiderio che Kreton provava per lei dall'altro, era chiaramente sintomatico dei conflitti sessuali che vivrebbe un essere dotato di poteri telepatici assai sviluppati... se un essere simile potesse esistere davvero. D'altro canto, l'evocazione dei presidenti da parte di Kreton, nella scena che chiude il primo atto, non poteva essere più discutibile. Il presidente straniero evocato per errore era rappresentato da un turco in maniera volutamente caricaturale. Confesso di avere anch'io qualche pregiudizio nei confronti di questo popolo assetato di sangue, ma una simile scelta registica è imperdonabile. Il Presidente del Consiglio Mondiale era invece rappresentato da un americano. Al termine della scena, non ero affatto di buonumore: suppongo non avessi ancora superato la stanchezza della traversata. Tutto ciò, oltre al fatto di avere trascorso l'intera giornata ad aggirarmi tra le rovine della Città Silente, mi aveva ridotto in uno stato tale che anche la più piccola fonte d'irritazione sarebbe stata per me un'offesa mortale. Il vecchio custode del museo seduto al mio fianco si rese conto della mia collera e, non compren-
dendone la vera ragione, prese a scusarsi per le condizioni di degrado del teatro americano, spiegandomi che, raggiunta una certa fama, tutti gli artisti di talento emigravano e ritornavano solo se non riuscivano a sfondare sulla costa orientale dell'Atlantico. «No, no» dissi. «Kreton e la ragazza sono molto bravi e il resto del cast si è rivelato comunque all'altezza.» Sembrava non avermi nemmeno sentito. «Ingaggiano chiunque trovino, scegliendo in base all'aspetto, Dopo avere avuto una parte in sole tre produzioni, si reputano già attori. Allo Smithsonian... lavoro lì, forse l'ho già detto, abbiamo ancora delle cassette con le registrazioni di vere opere teatrali. Laurence Olivier, Orson Welles, Katherine Cornell. Spelding è un barbiere o perlomeno lo era. Soleva piazzare la sua sedia sotto la statua del vecchio Kennedy e lì radeva i passanti. Ellen è una donna di facili costumi e Powers un carrettiere. Lo storpio, Kreton, soleva adescare i marinai per spettacoli di varietà sulla Portland Street.» Questo denigrare la propria cultura nazionale mi mise in imbarazzo ma, nel contempo, mi rasserenò. Ho potuto constatare come sovente le due cose vadano di pari passo e forse segretamente mi sento umiliato dal fatto che persone di non grande importanza possano modificare il mio stato d'animo dicendo poche parole o facendo qualche piccolo favore. Mi accomiatai da lui dirigendomi verso la bancarella dei dolciumi, nel ridotto. Gli americani hanno l'ottima tradizione dolciaria di produrre uova in marzapane, simili a quelle screziate di uccelli selvatici: ne acquistai una confezione, non soltanto perché desideravo assaggiarle, ma anche perché ero certo che il vecchio le avrebbe gradite potendo, a mio avviso, permettersi raramente lussi di questo genere. La mia ipotesi si rivelò esatta: le mangiò decisamente con gusto. Io, invece, quando ne assaggiai uno, trovai che aveva un odore talmente sgradevole, mi sembrava di mangiare violette artificiali, che non ne presi altre. «Stavamo parlando dello scrivere» disse il vecchio. «La curva chiusa e la curva aperta. Non ho avuto il tempo di sottolineare il fatto che entrambe possono essere ottenute anche meccanicamente; la monografia di cui mi sto occupando tratta proprio di questo problema e posso quindi portarle qualche esempio. Prima curva chiusa. Ai tempi in cui il nostro Presidente era considerato uno dei dieci uomini più potenti della terra, lui, come ogni presidente prima di lui, riceveva ogni giorno centinaia di domande, petizioni, per la firma. Firmarle avrebbe richiesto molte ore del suo tempo; rifiutarle avrebbe significato farsi un esercito di nemici.»
«E allora, che cosa fece il vostro ultimo Presidente... o che come fecero tutti i Presidenti prima di lui?» «Si avvolsero, lui e i predecessori, delle conoscenze della scienza. Gli scienziati progettarono una macchina in grado di scrivere questo...» Dal suo cappotto pulito ma consunto, estrasse un foglio di carta piegato. Lo aprii e vidi che vi era riportato un testo, probabilmente un discorso pubblico, scritto con una grafia pressoché illegibile, simile a quella di un bambino. Mentre tentavo di ricordare l'elenco dei presidenti americani che avevo visto in un compendio di storia mondiale molto tempo fa, gli chiesi di chi fosse quella grafia. «Della macchina. Quale scrittura imitasse è ciò che sto tentando di scoprire.» Nella luce fioca del teatro era quasi impossibile riuscire a leggerne il contenuto, ma vidi la parola Sardegna. «Senza dubbio» dissi «correlando il testo con gli eventi storici dovrebbe essere possibile datarlo esattamente.» Il vecchio scosse la testa. «Il contenuto del testo fu composto da un'altra macchina per ottenere un certo tipo di effetto psicologico su scala nazionale. È molto probabile che non sia in alcun modo correlato con gli avvenimenti del momento in cui fu scritto. Ma guardi questo.» Estrasse un altro foglio e lo spiegò per me. Per quello che potevo vedere era completamente bianco. Lo stavo ancora fissando quando il sipario si alzò. Mentre Kreton muoveva il suo aereo giocattolo da una parte all'altra del palcoscenico, il vecchio prese un ultimo uovo e si concentrò sulla scena. Nella confezione restavano ancora metà delle uova e io, pensando che più tardi ne potesse desiderare ancora e temendo, data la loro precaria posizione sulle mie ginocchia, che si rovesciassero e si sparpagliassero per terra, chiusi la confezione e la infilai nella tasca interna della mia giacca. Gli effetti speciali dell'atterraggio dell'astronave erano stati realizzati magistralmente; nel terzo atto c'era, tuttavia, qualcosa che mi piacque tanto quanto la scena del gatto nel secondo. La scena finale è imperniata su un artificio talmente sfruttato da risultare interessante solo se presentato sotto una luce nuova. Nella rappresentazione avevano fatto in modo che John — l'amante di Ellen — trovasse il fazzoletto di Kreton e che, parendo quest'ultimo profumato, ci affondasse il naso. Per un istante lo schermo utilizzato all'inizio del secondo atto, venne nuovamente illuminato illustrando graficamente (oserei dire pornograficamente) il desiderio di Ellen e facendo capire agli spettatori che John aveva, in quel momento, condiviso i poteri telepatici di Kreton, ormai completamente dimenticato dagli spettatori.
L'artificio era molto ben riuscito e mi diede la sensazione di non avere sprecato la mia serata. Quando gli attori si presentarono sul palcoscenico per ringraziare il pubblico anch'io mi unii all'applauso generale; poi, mentre stavo per avviarmi verso l'uscita, notai che il vecchio appariva molto sofferente. Gli chiesi se si sentisse male ed egli confessò mestamente di avere mangiato troppo e mi ringraziò nuovamente per la mia gentilezza... cosa questa che, in quel momento, dovette costargli un bel po' di determinazione. Lo aiutai a uscire dal teatro e quando vidi che non aveva altro mezzo di trasporto che i suoi piedi, gli dissi che lo avrei accompagnato a casa. Mi ringraziò nuovamente e mi rivelò che viveva in una stanza al museo. In questo modo il tragitto dal teatro all'albergo, di solo mezzo isolato, si trasformò in un tragitto di tre o quattro chilometri, al chiaro di luna, per la maggior parte attraverso viali ingombri di macerie, nelle zone più desolate della città. Durante il giorno avevo a malapena dato un'occhiata ai resti della vecchia autostrada. Quella notte, mentre camminavamo sotto i suoi cavalcavia in rovina, mi parve indicibilmente decrepita e sinistra. Mi venne in mente che, in qualche zona dell'Atlantico, potesse esserci una spaccatura temporale come quella che gli astronomi sostengono esista nello spazio. Com'è possibile che questa costa occidentale, in cui abbondano i resti di una civiltà scomparsa soltanto un secolo fa, sia più antiquata di noi, che viviamo all'epoca di Dario? È forse possibile che ogni nave che solchi il mare attraversi uno spazio di diecimila anni? Ho trascorso l'ultima ora meditando se annotare o meno quanto segue. Non riesco a dormire. Ma che scopo ha tenere un diario di viaggio se non vi si registrano tutti gli avvenimenti accaduti? Lo rileggerò durante il viaggio di ritorno e ne presenterò una copia, debitamente rivista ed epurata, a Yasmin e mia madre affinché la leggano. Pare che gli studiosi del museo non abbiano altri redditi che quelli derivanti dalla vendita dei tesori del passato che sono riusciti a racimolare. Acquistai una fialetta di una sostanza, ritenuta essere la più grande invenzione dei vecchi chimici che si occupavano di preparati allucinogeni, da una donna che mi aiutò a mettere a letto il vecchio. La fiala è... era lunga circa la metà del mio dito mignolo. Molto probabilmente si trattava semplicemente di una sostanza alcolica, malgrado l'avessi pagata parecchio. Mi pentii di averla comperata ancora prima di andarmene e lo ero anche
di più quando arrivai qui; ma in quel momento mi era parso che quella fosse l'unica occasione offertami e non pensai a nient'altro se non a coglierla al volo, gettandomi in quest'avventura. Ingoiata la droga, avrei potuto parlare con autorevolezza di queste cose per tutto il resto della mia vita. Ecco che cosa feci. Inzuppai un uovo di marzapane con il liquido, che dopo poco venne assorbito. La droga, se di droga si trattava, venne quindi imbibita dal dolce. Misi quindi tutte le uova in un cassetto vuoto, mescolandole, e mi proposi di mangiarne una al giorno, a partire dalla sera successiva. Oggi scrivo prima di scendere a colazione, anche perché penso che l'albego non serva i pasti così presto. Ho intenzione di visitare il parco sito dall'altra parte del canale. Se è così pericoloso come si dice, molto probabilmente questa sera non sarò di ritorno qui per annotare le mie impressioni nel diario. Se ritornerò, deciderò in quel momento sul da farsi. La notte scorsa, dopo avere spento la candela, non riuscii ad addormentarmi benché fossi stanco morto. Forse si trattava soltanto dell'eccitazione dovuta alla lunga camminata di ritorno dal museo; ma non riuscivo comunque a distogliere la mia mente dall'immagine di Ellen. I miei pensieri vagavano associandola alle uova e mi credevo Kreton, seduto sul letto con il gatto in grembo. Nei miei sogni a occhi aperti (non stavo dormendo), Ellen mi portava su di un vassoio la colazione composta da sei uova candite. Quando la mia mente si stancò di simili fantasticherie, decisi di lasciare che il direttore mi procurasse una ragazza per potermi togliere di dosso la tensione accumulata durante il viaggio. Dopo un'ora, durante la quale lessi seduto sul letto, egli arrivò con tre donne; dopo avermele lasciate vedere per un istante attraverso la porta semiaperta, il direttore si introdusse nella stanza con aria furtiva e chiuse la porta dietro di sé, lasciandole ad aspettare nel corridoio. Gli dissi che ne avevo chiesto soltanto una. «Lo so, Mr. Jaffarzadeh, lo so, ma ho pensato che le sarebbe piaciuto potere scegliere.» Nessuna di loro, da quel poco che avevo potuto vedere, assomigliava a Ellen ma lo ringraziai per la sua sollecitudine e gli proposi di farle entrare. «Prima di farlo desideravo proporle, signore» disse il direttore «di lasciare a me l'onere di stabilire il prezzo con loro. In verità, posso averle per molto meno di lei, signore, dato che sanno di non potermi imbrogliare poiché lavorano per me.» Così dicendo, mi propose una cifra che di fatto era irrisoria.
«Va bene» dissi «le conduca qui.» S'inchinò e sorrise, mentre il suo viso incavato e meschino assumeva un'espressione il più possibile gradevole, ricordandomi moltissimo un'immagine di un giullare chiamato alla presenza di Solimano che avevo visto tempo prima. «Ma prima di ogni altra cosa» disse ancora «vorrei informarla che se le desidera tutte e tre, insieme, può averle per il prezzo di due. Se volesse averne soltanto due su tre può avere per una volta e mezza il prezzo di una soltanto. Sono tutte molto carine per cui ho pensato che l'offerta potesse interessarla.» «Benissimo, terrò presente. Le faccia entrare.» «Accenderò un'altra candela» disse, affaccendandosi qua e là per la stanza. «Non c'è sovrapprezzo, signore, per altre candele, considerata la cifra che paga. Posso addebitare anche le ragazze sul suo conto. Saranno poste sotto la voce servizio in camera... lei capisce, vero?» Accesa anche la seconda candela e appoggiatala come più gli piaceva sul comodino tra i due letti, aprì la porta e fece cenno alle ragazze di entrare dicendo: «Ora vado. Prenda ciò che le piace e mandi via le altre.» Sono certo che si trattasse di uno stratagemma: in realtà il direttore confidava nel fatto che mi sarebbe stato difficile far sì che anche una sola se ne andasse e in questo modo avrei pagato per tutte e tre. Yasmin non dovrà mai leggere questo, è certo, e non soltanto perché l'intero incidente la turberebbe moltissimo, ma soprattutto a causa di ciò che accadde in seguito. Ero seduto sul letto più vicino alla porta sperando di decidere rapidamente quale delle tre somigliasse di più alla ragazza che impersonava il ruolo di Ellen. La prima era troppo piccola e aveva un viso pallido e smunto. La seconda era alta e bionda, ma grassoccia. La terza, che parve inciampare mentre entrava, assomigliava moltissimo a Yasmin. Per un istante pensai che si trattasse di lei. La scienza ci ha talmente abituati a concepire e accettare teorie per spiegare i fenomeni che osserviamo, per quanto incredibili siano, che ormai le nostre menti iniziano a fabbricarle ancora prima che ce ne rendiamo conto. Ecco una teoria buona per questa circostanza: Yasmin sentiva moltissimo la mia mancanza. Aveva prenotato un posto sulla nave pochi giorni dopo la mia partenza o forse aveva preso l'aereo sfidando il ben noto servizio aeroportuale americano. Giungendo qui aveva chiesto informazioni al consolato e stava avvicinandosi alla porta della mia stanza, mentre il direttore accendeva la candela e, non sapendo che cosa stava accadendo, era entrata con le prostitute che egli a-
veva ingaggiato. Ma, naturalmente, era una teoria fasulla e sciocca. Scattai in piedi, alzai la candela e vidi che la terza ragazza, benché avesse gli stessi occhi grandi e scuri e il piccolo mento rotondo di Yasmin, non era lei. Malgrado i lineamenti delicati e i capelli neri come la notte era senza ombra di dubbio americana; mentre si avvicinava, sicuramente incoraggiata dal fatto di avere attirato la mia attenzione, vidi che, come Kreton nello spettacolo, aveva un piede equino. Come vedi, sono tornato vivo dal parco. Questa sera prima di andare a dormire mangerò una delle uova, ma prima vorrei annotare le mie esperienze. Il parco si trova sul lato opposto del Washington Channel, tra la città e il fiume. Via terra, può essere raggiunto soltanto dall'estremità settentrionale. Il percorso di andata e ritorno è piuttosto lungo per cui scelsi di non andarci a piedi. Affittai una piccola barca con una vela rossa e lacera affinché mi portasse fino all'estremità settentrionale. Il percorso di andata e ritorno è piuttosto lungo per cui scelsi di non andarci a piedi. Affittai una piccola barca con una vela rossa e lacera affinché mi portasse fino all'estremità meridionale del fiume, chiamata Hains Point. Mi è stato detto che qui, un tempo, c'era una fontana di cui ormai non c'è più traccia. Era una giornata primaverile, soleggiata e luminosa; navigavamo tra le tonificanti e lunghe onde che niente avevano a che vedere con il terribile rollio che così tanto mi aveva oppresso a bordo della Princess Fatimah. Mi sedetti a prua per osservare le verdi chiome degli alberi nel parco che scorrevano davanti ai miei occhi su un lato del canale e le rovine dell'antico forte sull'altro, mentre un vecchio manovrava la barra del timone e la nipote, una ragazzina di circa undici anni, esile e abbronzata, le vele. Doppiata la punta, il vecchio mi disse che per poco denaro in più mi avrebbe portato sino ad Arlington per visitare i resti di quello che si presume sia stato un tempo il più grande edificio del paese. Rifiutai, deciso a serbare quest'esperienza per un'altra volta, e così approdammo in un punto in cui parte dell'antica cimasa di cemento era rimasta ancora intatta. Le tracce di vecchie strade s'inerpicavano partendo da ambedue le sponde. Decisi, tuttavia, di evitarle preferendo risalire il pendio al centro e mantenendomi, fin dove possibile, sulla parte più alta del terreno. Un tempo l'intera area era senza dubbio destinata allo svago; oggi, purtroppo, rimane ben poco dei padiglioni e delle statue di cui probabilmente in passato il parco era ricco. Le collinette erose dalle intemperie, un tempo giardini alla
giapponese, sono ormai ricoperte di terra e piene di pozze d'acqua stagnante. In molti punti notai i cunicoli scavati dal famoso ratto gigante d'America che, tuttavia, non ho mai visto in carne ed ossa. A giudicare dai buchi, ciò che mi avevan detto riguardo alle dimensioni di tali animali risultò essere proprio vero: in molte tane, infatti, avrei potuto entrare senza alcuna difficoltà. I cani selvatici, dai quali sia il direttore dell'albergo sia il vecchio barcaiolo mi avevano detto di guardarmi, iniziarono a seguirmi dopo circa un chilometro da quando mi ero avviato verso nord. Hanno il pelo corto e caratteristiche chiazze nere e marroni picchiettate di bianco; a occhio e croce dovrebbero pesare mediamente venticinque chili. Con le loro orecchie ritte e i musi vivaci ed intelligenti, non parevano particolarmente pericolosi; ma ben presto mi accorsi che, in qualunque direzione mi voltassi, quelli a cui in quel momento davo le spalle avanzavano lentamente. Mi sedetti su di un masso con la schiena rivolta a uno stagno e ne feci parecchi rapidi schizzi; poi decisi di provare la mia pistola. Parevano non sapere che cosa fosse, così potei far convergere con calma il raggio laser rosso al petto di un bell'esemplare prima di premere il pulsante per l'impulso a alta energia. A lungo udii il loro triste ululato alle mie spalle: forse piangevano il capo colpito a morte. Per due volte m'imbattei in macchinari arrugginiti che probabilmente erano serviti per trasportare invalidi lungo i viali del parco durante belle giornate come quella odierna. Lo Zio Mirza mi ha sempre considerato un buon colorista, ma io dispero di riuscire a rendere armonicamente le ossessionanti sfumature verde-nero con cui la luce del sole morente dipingeva il parco. Non incontrai nessuno sino a che non avevo quasi raggiunto i piloni del ponte ferroviario in disuso; fu qui che quattro o cinque americani, finti mendicanti, mi circondarono. I cani, che a quanto ho potuto capire, vivono per lo più cibandosi dei rifiuti portati a riva dalle acque del fiume, erano più onesti d'intenzione e più puliti d'aspetto. Se queste persone fossero state come le misere creature che avevo incontrato nella Città Silente, avrei gettato loro alcune monete; ma si trattava d'individui in buona salute, uomini e donne che sarebbero stati in grado di lavorare, ma che avevano scelto di rubare. Dissi loro che ero stato costretto a uccidere un loro compatriota (non specificando che si trattava di un cane) dal quale ero stato assalito e chiesi dove potessi denunciare il fatto alla polizia. Sentito questo rinunciarono ai loro propositi permettendomi così di passeggiare in pace intorno all'estremità nord del canale lanciandomi tuttavia numerosi sguardi d'ira.
Ritornai a casa senza ulteriori incidenti, stanco ma soddisfatto della mia giornata. Ho mangiato una delle uova! Confesso di avere avuto difficoltà a dare il primo morso. Fare appello a tutta la mia forza di volontà fu come premere contro una parete di vetro: improvvisamente la resistenza cedette, presi l'uovo e l'ingoiai in pochi morsi. Era dolcissimo, ma non potei percepire nessun altro sapore. Ora vedremo. Tutto ciò m'incute molta più paura del parco. Non accadde niente, così almeno mi sembrò, per cui uscii per andare a cena. Era il crepuscolo e lo spirito carnevalesco delle strade era più accentuato che mai; luci colorate delle insegne sopra i negozi e musica proveniente dai tetti dove i locali più benestanti possedevano giardini privati. Di solito mangio all'albergo, ma un giorno mi fu consigliato un buon ristorante tipico situato non troppo lontano, in direzione sud, sulla Maine Street. Ci andai. Era esattamente come mi era stato descritto: i clienti sedevano su panchine imbottite in varie alcove. I ripiani dei tavoli erano costituiti da un materiale a grana fine, simile a pietra artificiale, oleoso al tatto. Parevano molto vecchi. Presi il Menù Numero Uno: zuppa di pesce di color giallomarrone servita con pane americano, tipicamente molle, e un sandwich soffice e oleoso, farcito di carne macinata e di verdure crude abbondantemente cosparse di salsa di pomodoro. A dire la verità il pranzo non mi piacque molto; ma assaggiare cibo americano-cento-per-cento pare sia una sorta di dovere, che andrebbe espletato più frequentemente di quanto io non abbia fatto sinora. Sono tentato di terminare il resoconto della mia giornata a questo punto: ho infatti posato la penna dopo aver scritto sinora, con l'intenzione di andare a dormire. Ma che senso ha un resoconto disonesto? Non lo lascerò vedere a nessuno: lo terrò soltanto affinché io possa rileggerlo, una volta tornato a casa. Rientrando all'albergo, dopo cena, passai davanti al teatro. Il pensiero di rivedere Ellen era divenuto insistente; acquistai un biglietto ed entrai. Soltanto quando fui seduto mi resi conto che il programma era cambiato. Il nuovo spettacolo era Mary Rose. Lo vidi rappresentato da una compagnia inglese molti anni fa, in maniera molto fedele e mi colpì l'idea, in quel momento, che — come la stessa Mary — avesse ormai fatto il suo tempo. La messa in scena americana era tanto poco attendibile quanto l'altra era fedele. Per questo motivo, aveva — o meglio, avrei dovuto dire aveva ac-
quisito — un grande interesse. Gli americani sono superstiziosi per quanto concerne l'interno del proprio paese, ma non per i litorali, così l'isola di Mary Rose era stata idealmente trasferita in mezzo a uno degli enormi laghi centrali. Cameron, l'abitante delle Highlands, era divenuto di conseguenza un canadese ed era interpretato dall'aiutante di campo del generale Powers del precedente spettacolo. Gli Spelding erano divenuti i Moreland e i Moreland erano divenuti americani. Kreton era Harry, il soldato ferito, lanciatore di coltelli e la mia Ellen era Mary Rose. La parte le si addiceva a tal punto che supposi che lo spettacolo fosse stato scelto appositamente per lei. La sua altezza accentuava l'innaturale immaturità del personaggio; la sua esile figura, la fragilità e il pallore della sua carnagione, se già non lo avesse fatto di per sé lo spettacolo, avrebbero certamente creato l'impressione che Ellen - Mary Rose fosse una vittima inconsapevole. Ma ancora più importante di tutto ciò era una folle e ingenua vena soprannaturale che lei rendeva magnificamente. E fu proprio questa sua dote (cosa che solo allora capii) che ci aveva fatto credere, nella serata precedente, che l'astronave di Kreton sarebbe potuta atterrare nel roseto degli Spelding e che egli sarebbe stato attratto da Ellen, sebbene non l'avesse mai vista prima. Questa sua ingenuità in quel momento rendeva plausibili e persino verosimili le apparizioni e sparizioni di Mary Rose, e rendeva altrettanto verosimile il fatto che spiriti invisibili concupissero Mary Rose e che il tenente Blake (precedentemente John Randolf) l'amasse. Anzi, era più che probabile. Nell'istante in cui mi resi conto di ciò, tutto il mistero di Mary Rose — che mi era parso allo stesso tempo inspiegabile e banale quando assistetti a una buona rappresentazione dell'opera a Teheran — mi venne svelato. Noi, gli spettatori, eravamo gli spiriti bramosi ed invidiosi. Se i Moreland non riuscivano a capire che una parete del loro confortevole salotto altro non era che un mare di facce oscure, se Cameron non aveva mai notato che noi costituivamo il fondale della sua isola, era solo colpa loro. Di conseguenza, Mary Rose avrebbe dovuto essere attratta da noi quando svaniva. Alla fine del secondo atto iniziai a cercarla e all'inizio del terzo la vidi, in piedi, silenziosa e inosservata, dietro all'ultima fila di posti a sedere. Ero piuttosto lontano, nella quarta fila a partire dal palcoscenico; sgattaiolai via dal mio posto il più discretamente possibile e camminai furtivamente lungo il corridoio verso di lei. Ero arrivato troppo tardi. Prima ancora di giungere a metà strada, vidi
che doveva rientrare in scena. Guardai il resto dello spettacolo dal fondo della sala, ma Ellen - Mary Rose non fece più ritorno. Stessa sera. Non riuscii assolutamente a prendere sonno. Eppure, quando mi trovavo sulla nave dormivo nove ore per notte, e non appena la mia testa toccava il cuscino ero già nel mondo dei sogni. La verità è che, mentre giacevo disteso nel letto, mi venne in mente il commento del vecchio custode del museo sul fatto che tutte le attrici sono prostitute. Se la cosa è vera e se non si tratta soltanto di un'espressione d'odio nei confronti dei più giovani con corpi ancora attraenti, sono stato uno sciocco a struggermi al pensiero di Mary Rose ed Ellen quando potevo avere la ragazza stessa. Il suo nome è Ardis Dahl... l'ho appena cercato nel programma. Intendo andare nell'ufficio del direttore dell'albergo per consultare l'elenco telefonico. Appunti prima di colazione. Trovai l'ufficio del direttore chiuso la notte scorsa. Erano le due passate. Diedi una spallata alla porta aprendola facilmente. (Non c'era nessun incavo metallico per il chiavistello come abbiamo nel nostro paese; c'era soltanto un buco mortasato nel telaio.) Nell'elenco trovai parecchi Dahl in città, ma poiché era di otto anni prima non m'ispirò molta fiducia. Riflettendoci, giunsi poi alla conclusione che in un paese così arretrato le persone non traslocavano così spesso come da noi e che, se non gli fosse stato di qualche utilità, il direttore non lo avrebbe certamente conservato; scelsi dunque l'indirizzo che pareva il più vicino al teatro e m'incamminai. Le strade erano completamente deserte. Ricordo di avere pensato che stavo facendo ciò che precedentemente non avevo mai avuto il coraggio di fare perché spaventato da quanto avevo letto: uscire, da solo, a notte fonda. Era ridicolo supporre che i rapinatori fossero in azione a quell'ora in cui non c'era nessuno in giro da derubare. Che cosa avrebbero potuto fare? Sarebbero forse rimasti in attesa per ore e ore agli angoli delle strade ormai deserte? La luna piena era alta nel cielo, verso sud, e inondava le strade con la sua bianca luce. Se non fosse stato per il forte odore di sporcizia, caratteristico delle aree residenziali americane, avrei avuto la sensazione di camminare attraverso un'illustrazione di un vecchio libro di fiabe, oppure di recitare in una recita per bambini... talmente stregato dallo scenario da scordarmi finanche degli spettatori. Mi sono reso conto soltanto ora, scrivendo, seduto al tavolo, che in realtà è questo quello che accade alla ragaz-
za americana che sinora ho conosciuto con il nome di Ellen ma che devo imparare a chiamare Ardis. Non potrebbe mai recitare come fa se nella sua mente il palcoscenico non fosse diventato la sua realtà. Le ombre proiettate tutt'intorno ai miei piedi avevano un secolo e indicavano chiaramente il corso degli eventi accaduti in passato, prima che New Tabriz venisse a ingioiellare la faccia della luna con il suo zaffiro. Totalmente preso dal pensiero di lei — la mia Ellen, la mia Mary Rose, la mia Ardis! — e dalla magia della pallida luce che comanda tutte le maree, fui trasportato in una dimensione che non so descrivere. In seguito, fui preso dal dubbio che qualsiasi cosa avessi provato non fosse che l'effetto della droga. All'improvviso, quando me ne resi conto, come qualcuno che sta cadendo da una torre e si aggrappa anche al minimo soffio d'aria, tentai di ritornare alla realtà. Morsi l'interno delle guance sino a che il sangue non mi riempì la bocca e picchiai con il pugno l'insensibile parete dell'edificio più vicino. Il dolore mi fece rinsavire quasi immediatamente. Per un quarto d'ora o più stetti fermo sullo zoccolo del marciapiede sputando sangue nel canale di scolo, tentando di pulire e bendarmi le nocche con strisce di stoffa ricavate dal mio fazzoletto. Migliaia di volte pensai che spettacolo sarei stato se, incontrata Ellen, mi avesse visto in quello stato; ma mi confortò il pensiero che se lei realmente era una prostituta tutto ciò non avrebbe avuto alcuna importanza: le avrei dato alcuni riyal in più e tutto si sarebbe risolto. Tale pensiero, tuttavia, non mi rassicurò poi molto. Anche quando una donna vende il suo corpo, ogni uomo s'illude presumendo presuntuosamente che lei non lo farebbe così prontamente se lui non fosse quello che è. Mentre sputavo sangue in strada, mi congratulavo con me stesso per questo viso, virile e squadrato, che molti hanno ammirato e mi domandavo in che modo avrei dovuto scusarmi se, baciandola, avessi imbrattato la sua bocca di sangue. Forse fu un debole suono che mi riportò alla realtà; forse fu soltanto la sensazione di essere osservato. Estrassi la pistola e mi girai di qua e di là, senza però vedere nulla. La sensazione, tuttavia, persistette. Ripresi a camminare; e se qualche senso d'irrealtà ancora rimaneva non si trattava più dell'ineffabile gioia che avevo provato prima. Dopo pochi passi mi fermai ad ascoltare. Un secco crepitio e uno zampettio alle mie spalle. Quando mi arrestai, anch'esso cessò. Mi stavo avvicinando all'indirizzo che avevo ricavato dalla guida telefonica. Confesso che la mia mente era pervasa da fantasticherie nelle quali venivo salvato dalla stessa Ellen che, dopotutto, avrebbe dovuto essere più spaventata di me, ma chi mai avrebbe
messo in pericolo la sua graziosa persona per salvare la mia? Eppure sapevo che queste non erano altro che fantasticherie mentre la cosa che mi seguiva non lo era, benché, più d'una volta mi avesse sfiorato il pensiero che potesse trattarsi di un druj, materializzatosi soltanto a me. Un altro isolato e raggiunsi l'indirizzo. Era una casa identica a quelle vicine, costruita con le macerie di edifici ancora più vecchi; era a tre piani, con una porta molto pesante e praticamente senza finestre. Al piano terra c'era una libreria (a giudicare da una vecchia insegna), gli appartamenti si trovavano ai piani superiori. Attraversai la strada per vederla meglio e stetti, ancora una volta assorto nei miei sogni, a fissare l'unico filo di luce gialla che s'intravvedeva tra le imposte di una finestra a timpano. Mentre osservavo quella luce, la sensazione di essere a mia volta osservato crebbe dentro di me. Il tempo fuggì, scivolando attraverso la strozzatura della grande clessidra dell'universo come il suolo eroso di questo continente scivola trascinato via dall'acqua dei fiumi sino al mare. Infine il desiderio e la paura — desiderio per Ellen e paura di ciò, qualunque cosa fosse, che mi fissava malevolo con occhi invisibili — mi sospinsero verso la porta della casa. Martellai il legno con il calcio della pistola, benché sapessi quanto improbabile fosse che qualunque americano aprisse la porta a un'ora simile della notte. Dopo avere bussato più volte, udii alcuni passi lenti che si avvicinavano. La porta si aprì cigolando finché fu fermata da una catena. Vidi un uomo dai capelli grigi, completamente vestito, che imbracciava un'antiquata arma a canna lunga. Dietro di lui una donna alzò un moccolo di candela fumosa perché potesse vedere; benché fosse chiaramente più vecchia di Ellen e per giunta segnata dalle deformità così diffuse qui, il suo viso conservava una certa nobilità e una certa bellezza: mi ricordava la statua, ormai scomparsa, che si diceva esistesse su di un'isola più a nord e della quale avevo visto un'immagine. Dissi all'uomo che ero un viaggiatore — dopotutto era vero! — e che ero appena sceso da una barca proveniente da Arlington e che non avevo un posto dove dormire, e così avevo camminato per la città sino a quando avevo notato la luce della sua finestra. Dissi che avrei pagato un riyal d'argento se mi avessero dato un letto per quella notte e la colazione al mattino e mostrai loro la moneta. Il mio piano consisteva nel divenire loro ospite in modo da poter scoprire se Ellen abitasse davvero là; se così era, sarebbe stato facile prolungare il mio soggiorno. La donna tentò di sussurrare qualcosa all'orecchio di suo marito, ma a parte uno sguardo d'irritazione nervosa egli la ignorò. «Non oso lasciar entrare uno sconosciuto in casa mia» disse l'uomo. Dal tono della sua voce pareva fossi un leone e
la sua arma la frusta del domatore. «Non con nessun altro in casa all'infuori di me e di mia moglie.» «Capisco» gli dissi. «Comprendo molto bene la vostra posizione.» «Potrebbe provare alla casa all'angolo» mi consigliò «ma non dica che l'ho mandata io.» Udii la pesante sbarra ricadere dopo l'ultima parola. Mi girai e fu allora che, per grazia di Allah, il quale è veramente il Misericordioso, mi capitò di guardare un'ultima volta in direzione del filo di luce che filtrava dalle imposte di quell'alta finestra. Un guizzo scarlatto ancora più su richiamò la mia attenzione, forse soltanto perché la luce della luna che tramontava in quel momento inondò il tetto da una diversa angolazione. Credo che la creatura che avevo intravisto stesse aspettando di assalirmi alle spalle ma, quando i nostri occhi s'incontrarono, si avventò contro di me. Ebbi a malapena il tempo di estrarre la pistola prima che mi colpisse e mi scaraventasse sul selciato sconnesso della strada. Presumo di essere svenuto per un breve periodo. Se il colpo non avesse ucciso la cosa mentre cadeva, non sarei qui seduto a scrivere questa mattina. Dopo mezzo minuto o poco più ripresi i sensi e riuscii ad allontanare il suo cadavere, alzarmi e massaggiarmi le aree contuse. Nessuno mi venne in aiuto ma, per lo meno, nessuno si precipitò fuori dalle case circostanti per derubarmi o uccidermi. Ero solo con la creatura che giaceva ai miei piedi, morta, solo come lo ero stato mentre osservavo la finestra della casa da cui era balzata fuori. Dopo avere recuperato la mia pistola ed essermi assicurato che funzionasse ancora, trascinai la cosa in un punto illuminato dalla luna. Quando l'avevo intravvista sul tetto mi era parsa un cane selvatico, simile a quello che avevo ucciso nel parco; là, ai miei piedi, mi sembrò invece un essere umano. Alla luce della luna vidi che non era nessuna delle due cpse o forse entrambe. Aveva il muso schiacciato e l'ampiezza della fronte, che gli antropologi ritengono sia il tratto distintivo dell'essere umano e del linguaggio, era quella di un macaco. Tuttavia, le braccia, le spalle, il bacino e persino i pochi stracci sudici che aveva addosso, erano tutti indicativi di qualcosa di umano. Era una femmina con piccoli seni schiacciati ancora visibili ai lati del solco prodotto dalla ferita. Avevo letto di questi mutanti nel testo di Osman Aga, Mystery Beyond the Sun Setting una decina d'anni fa circa; ma tutt'altra cosa era trovarsi, tremanti, all'angolo di una strada deserta di quella che fu la capitale ed esaminarne uno in carne ed ossa. Secondo Osman Aga (al quale, suppongo, nessuno avesse creduto tranne alcune vecchie) queste creature erano, di fatto, esseri umani o, quantomeno, discendevano dall'uomo. Il secolo scor-
so, quando la carestia colpì il loro paese e venne osservata la nota ed irreversibile alterazione a carico delle strutture cromosomiche della razza umana, alcuni di essi divennero antropofogi. Senza dubbio i cadaveri di coloro che la carestia uccise rappresentarono per loro la prima fonte di cibo e senza dubbio coloro che ne mangiarono si compiacquero con se stessi poiché, così facendo, erano scampati agli effetti degli enzimi che venivano ancora utilizzati per portare alla maturità animali destinati alla macellazione nel giro di pochi mesi. Quello che non riuscirono a capire fu che nel corpo degli esseri umani che mangiavano si era accumulata una quantità di sostanze innaturali molto maggiore di quella contenuta nella carne di animali destinati ad una vita così breve. Fu da costoro, secondo Mystery Beyond the Sun Setting, che nacquero le creature simili alla cosa che avevo ucciso. Ma ad Osman Aga non hanno mai creduto. A quanto mi risulta, è semplicemente ritenuto uno scrittore popolare, noto per celebrare i luoghi di villeggiatura sul Mar Caspio e pagarsi così il soggiorno in tali posti, o per intraprendere assurde spedizioni finalizzate alla stesura di nuovi libri e al lancio pubblicitario di quelli vecchi (attraversare il deserto a dorso di cammello e le Alpi in groppa a un elefante). Nessun altro però, a mia conoscenza, ha mai parlato di simili cose, tipiche di questo continente. Le città in rovina pullulanti di ratti e pipistrelli portatori di rabbia e le tremende tempeste di sabbia nelle zone interne sono bastate a soddisfare la curiosità di altri scrittori di viaggi. Ora mi sono pentito di non aver escogitato un modo per tranciare la testa del mutante; sono certo che sarebbe risultata di grande interesse per la scienza. Appena terminato di scrivere il paragrafo succitato, mi resi conto che forse c'era ancora una possibilità di compiere ciò che non avevo avuto il coraggio di fare la notte scorsa. Andai in cucina e con una piccola somma di denaro riuscii a procurarmi un grande coltello affilato che nascosi sotto la giacca. Era ancora presto quando uscii e mi misi a correre lungo la strada in discesa sperando di tutto cuore che il corpo della cosa giacesse ancora dove lo avevo lasciato: ma la speranza durò poco e tutti i miei sforzi risultarono vani. Non c'era più: non rimaneva nessuna traccia della sua presenza, né del sangue, né del solco prodotto dal raggio della mia pistola sulla parete della casa. Guardai nelle viuzze e nei bidoni della spazzatura. Niente. Non potei fare altro che tornare all'albergo per fare colazione; e ora sono nuo-
vamente nella mia stanza (è metà mattina) cercando di pianificare la mia giornata... Bene. Ieri non sono riuscito a incontrare Ellen, ma oggi ci riuscirò. Acquisterò un altro biglietto per lo spettacolo e questa sera non prenderò posto bensì attenderò dietro all'ultima fila nel punto in cui la vidi apparire giorni fa. Se verrà a vedersi la fine del secondo atto come ha fatto ieri sera, io sarò là: potrò complimentarmi con lei per la sua interpretazione e offrirle un dono. Se non verrà, farò in modo di andare dietro le quinte: da quello che ho potuto vedere e provare, con un quarto di riyal è possibile ottenere qualsiasi cosa da questi americani ma, se proprio fosse necessario, sarei anche pronto a rompere qualche dente. Che creature assurde siamo! Ho appena riletto ciò che avevo scritto questa mattina e, in verità, avrei potuto benissimo scrivere delle speculazioni filosofiche sul Congresso degli Uccelli oppure sui demoni di Domdaniel o di qualunque altro argomento di cui nessuno, me compreso, conosce o può sapere qualcosa. O Libro, hai udito ciò che pensavo sarebbe accaduto, ora lascia che ti racconti quello che realmente è accaduto. Uscii come avevo deciso in cerca di un regalo per Ellen. Su consiglio del direttore dell'albergo seguii la Maine Street in direzione nord sino a che non raggiunsi l'ampio viale vicino all'obelisco. Attorno al monumento, ancora imponente, si tiene un mercato permanente nel quale i mercanti utilizzano i blocchi di pietra caduti dalla sommità della struttura come tavoli. Ciò che resta dell'obelisco si erge ancora, direi, per un centinaio di metri; ma si dice che un tempo avesse un'altezza tre o quattro volte maggiore. Gran parte del materiale è stata portata via con carri per costruire abitazioni private. Non pare esserci alcuna logica per quanto riguarda i prezzi in questo paese, salvo che generalmente il cibo costa poco mentre i macchinari d'importazione — macchine fotografiche e simili — sono cari. I tessuti costano molto, si spiega così perché molte persone indossino abiti stracciati che rammendano e tingono nel tentativo di farli sembrare nuovi. Alcuni tipi di gioielli hanno prezzi ragionevoli, altri si vendono a molto di più di quanto costerebbero a Teheran. Anelli d'oro o d'argento spesso con un piccolo diamante incastonato, si possono avere in grande quantità a prezzi talmente bassi che fui tentato di acquistarne alcuni da portare a casa come investimento. Tuttavia vidi braccialetti che nel mio paese non sarebbero costati più di mezzo ryal, per i quali il venditore chiedeva dieci volte di più. C'erano molti oggetti d'antiquariato interessanti, tutti, a quanto si
dice, trovati scavando tra le rovine di città dell'interno a prezzo di vite umane. Parlando con cinque o sei rivenditori di tali oggetti, mi convinsi che il paese era scarsamente popolato. Dopo avere trascorso parecchio tempo piacevolmente, a fare compere, chiacchierando molto ma spendendo poco, scelsi per Ellen un braccialetto formato da antiche monete, molte delle quali d'argento. Conclusi che a tutte le donne piacciono i gioielli, che un oggetto tanto appariscente potesse risultare utile a un'attrice nell'interpretazione di una parte e che le monete dovevano avere un grande valore intrinseco. Non sapevo, se mai un giorno l'avesse ricevuto, se le sarebbe piaciuto oppure no; per il momento, si trova ancora nella tasca della mia giacca. Quando l'ombra dell'obelisco divenne lunga, tornai qui, all'albergo e gustai un'ottima cena a base di agnello e riso dopodiché mi ritirai nella mia stanza a prepararmi per la serata. Le cinque uova che ancora restavano mi stavano fissando dal ripiano del cassettone. Mi rammentai della mia decisione e ne presi una. Improvvisamente mi convinsi che il demone che credevo d'avere ucciso la notte scorsa non era che un fantasma generato dall'azione della droga. Che avessi sparato contro il nulla? Mi parve, in verità mi pare tuttora, un pensiero tremendo. Ed ancora più tremendo mi pare il pensiero che la droga possa avere reso visibile (come alcuni sostengono, questo sarebbe lo scopo di tali antiche preparazioni) un essere vero e proprio, ma spirituale. Se simili cose dimorano realmente in quelle che crediamo essere stanze vuote, sui tetti e nelle strade deserte, la notte, si spiegherebbero molte malattie e molte morti improvvise, forse anche gli inattesi peggioramenti che talora osserviamo negli altri e che gli altri talora osservano in noi, e anche la nascita di uomini perversi. Questa mattina decisi di dare un nome alla cosa chiamandola druj. Potrebbe essere vero. Tuttavia se la droga era contenuta nell'uovo che avevo mangiato ieri sera, quello che tenevo ora in mano era innocuo. Mi concentrai su questo pensiero e mi costrinsi a mangiarlo tutto, poi mi distesi sul letto ad aspettare. Dormii un poco e sognai. Ellen si chinava su di me e mi accarezzava con la sua morbida mano dalle dita affusolate. Fu una visione brevissima, ma sufficiente a farmi sperare che i sogni fossero profezie. Se la droga era nell'uovo che avevo appena mangiato, quel sogno non era che il risultato della sua azione. Mi alzai, mi lavai e mi cambiai d'abito cospargendo generosamente la mia camicia con la nostra acqua di rose Pamir: ho notato che gli americani l'apprezzano molto. Controllai che il biglietto e la mia pistola fossero a posto e uscii per andare a teatro.
Lo spettacolo in programma era ancora Mary Rose. Decisi di entrare a spettacolo iniziato (Harry e Mrs. Otery stavano conversando da parecchi minuti) e, una volta in sala, attesi dietro l'ultima fila come se fossi troppo educato per disturbare gli spettatori prendendo posto. Mrs. Otery uscì di scena; Harry estrasse il suo coltello dal legno di una cassa da imballaggio e lo lanciò nuovamente. Quando le nebbie del passato ebbero attraversato il palcoscenico, Harry era svanito e Moreland e il curato stavano conversando al ritmo del ticchettio dei ferri da calza della signora Moreland. Mary Rose sarebbe entrata in scena presto. La speranza che lei sarebbe uscita per osservare la scena iniziale svanì subito; per poterla vedere, avrei dovuto attendere sino a quando sarebbe scomparsa, alla fine del secondo atto. Stavo cercando un posto libero quando mi resi conto che qualcuno si era avvicinato. Nella luce fioca potevo vedere molto poco tranne che era piuttosto snello e qualche centimetro più basso di me. Non trovando posto a sedere indietreggiai di qualche passo. Il nuovo venuto mi toccò il braccio e mi chiese sussurrando se potevo accendergli la sigaretta. Avevo già notato che nei teatri di qui era costume fumare e avevo preso l'abitudine di portare sempre con me dei fiammiferi per accendere le candele della mia stanza. La fiamma mi permise di vedere gli occhi allungati e gli zigomi alti di Harry, o se preferivo, di Kreton. Rimasi in qualche modo sorpreso e sussurrai qualche banalità esaltando l'eccezionalità della sua interpretazione. «Le è piaciuta? Si tratta della parte meno importante: in sostanza, apro il sipario per segnalare l'inizio dello spettacolo e poi lo chiudo per dire a tutti che è il momento di andare a casa.» Molte persone tra il pubblico ci guardavano arrabbiati così ci ritirammo in un punto in cima all'ala che si poteva già considerare il ridotto. Qui gli dissi che lo avevo ammirato anche in Visit to a Small Planet. «Quello sì che è un vero spettacolo teatrale» disse. «Il personaggio... come, ne sono certo, avrà notato, è allo stesso tempo buono e cattivo. È benevolo, è malizioso, è maligno.» «Penso che lei abbia interpretato magnificamente la parte.» «Grazie. Questo fiasco qui... lei sa quanti ruoli ci sono?» «Ma... Il suo, Mrs. Otery, Mr. Amy...» «No, no.» Mi toccò il braccio per fermarmi. «Voglio dire ruoli, parti che richiedono una vera interpretazione. Ne esiste una soltanto, la ragazza. Saltella qua e là come una diciottenne il cui cervello si è atrofizzato a dieci anni; almeno la metà di ciò che fa non viene recepito dal pubblico perché questi non si rende conto che c'è qualcosa che non va in lei sino a che l'At-
to I non è quasi terminato.» «È magnifica» dissi. «Intendo dire, la signorina Dahl.» Kreton assenti e aspirò una boccata di fumo. «È un'ingenua molto competente, ma sarebbe meglio se non fosse così alta.» «Lei crede che ci sia qualche possibilità che possa venire qui, come ha fatto lei?» «Ah» disse Kreton e mi guardò dall'alto in basso. Per un istante avrei potuto giurare che i poteri telepatici attribuitegli in Visit to a Small Planet non fossero una finzione, ciononostante ripetei la domanda: «È probabile oppure no?» «Non c'è ragione di arrabbiarsi! No, è molto improbabile. Le basta questa informazione in cambio del suo fiammifero?» «Svanisce alla fine del secondo atto e non ricompare sulla scena sino quasi alla chiusura del terzo» dissi. Kreton sorrise. «Ha letto l'opera?» «Ero qui ieri sera. Rimase assente per circa quaranta minuti includendo l'intervallo.» «Giusto. Ma non verrà. È vero che di tanto in tanto viene tra il pubblico, come ho fatto io questa sera, ma so che questa sera ha compagnia dietro le quinte.» «Posso chiederle chi?» «Può e forse potrei risponderle. Lei è di fede mussulmana, presumo, beve?» «Non sono un mussulmano rigoroso; comunque, non bevo. Le offrirò volentieri qualcosa, se lo desidera, e le farò compagnia con un caffè.» Lasciammo la sala uscendo da una porta laterale e ci facemmo largo a gomitate tra la folla in strada. Scendemmo una rampa di scalini stretti e sudici, ai di sotto del livello stradale, ed entrammo in una taverna ricavata da uno scantinato del tutto simile a un club privato. Osservai il bar e, dietro il bancone, un'immagine (resa quasi indistinta dallo sporco e dal fumo) come di attori che avessero partecipato a uno spettacolo a me ignoto; e c'erano tre tavoli e alcune alcove. Kreton e io ci sedemmo a un tavolino, in una di queste alcove, e ordinammo da bere a un barista dal cranio deforme. Presumo di averlo fissato con un po' troppa insistenza perché, dopo, Kreton mi disse: «Mi storsi la caviglia uscendo da un disco volante e ora sono un soldato in convalescenza. Potremmo inventare una storia anche per lui, per il soldato, non crede? Non potremmo forse dire che il Grande Vasaio a volte si arrabbia?»
«Il Grande Vasaio?» chiesi. «Il Silenzio/ Un Vaso di più disse una sgraziata Forma;/ Mi deridono perché pendo tutto di traverso;/ Perché, dunque? Tremò forse la Mano del Grande Vasaio?» Scossi la testa. «Non l'ho mai sentito, ma lei ha ragione: sembra che il suo cranio sia stato modellato in argilla e colpito in un punto, di lato, mentre questa era ancora umida.» «Questa è la repubblica della mostruosità come avrà indubbiamente notato. Il nostro simbolo nazionale dovrebbe essere un'aquila estinta; in realtà è un incubo.» «Trovo che sia un paese molto bello» dissi. «Benché, confesso, molti dei suoi compatrioti siano ripugnanti. Ci sono però le rovine e avete cieli come mai ne vediamo nel nostro paese.» «I nostri camini sono ormai da lungo tempo pieni solo di vento.» «Forse è la cosa migliore. Il cielo azzurro è molto meglio della maggior parte delle cose che si producono nelle fabbriche.» «E non tutti gli abitanti di questo paese hanno un aspetto sgradevole» mormorò Kreton. «Oh, no. La signorina Dahl...» dissi. «Stavo pensando a me stesso.» Capii che tentava di adescarmi, ma dissi: «No, lei non è ripugnante; anzi, la definirei attraente in modo esotico. Purtroppo le mie preferenze vanno verso la signorina Dahl.» «La chiami pure Ardis, non si offenderà.» Il barista portò a Kreton un bicchiere con del liquore verde e a me una tazza di caffè americano, leggero e amaro. «Aveva promesso di dirmi chi Ardis Dahl sta intrattenendo.» «Dietro le quinte» Kreton sorrise. «Stavo proprio pensando a questo e ho utilizzato questa frase migliaia di volte, come presumo molti abbiano fatto. Questa volta è da intendersi in senso letterale e la sua genesi risulta improvvisamente chiara, come quella di Edipo. No, non credo di avere promesso che glielo avrei detto, benché, suppongo, potrei aver detto che forse l'avrei fatto. Non ci sono altre cose che preferirebbe conoscere? Il segreto nascosto nelle viscere del monte Rushmore, per esempio, oppure il modo per incontrarla lei stesso?» «Le darò venti riyal» dissi «se si impegna a farmela conoscere e mi promette che ci saranno ulteriori sviluppi da questo incontro. Un patto di cui nessuno saprà mai niente.»
Kreton rise. «Mi creda, probabilmente mi vanterei del mio compenso piuttosto che tenerlo segreto, sebbene, in questo caso dovrei dividerlo con la signora in questione per garantirle la promessa.» «Lo farà, dunque?» Scosse la testa, sempre ridendo. «La mia maschera corrotta è soltanto una finzione che ben si adatta al mio viso. Questa sera venga dietro le quinte dopo lo spettacolo, farò in modo che possa incontrare Ardis. Lei è molto ricco, suppongo, e anche se non lo fosse, diremo che lo è. Che cosa ci fa qui, in America?» «Studio la vostra arte e la vostra architettura.» «Che senza dubbio godono di grande prestigio nel suo paese» ironizzò Kreton. «Sono un allievo di Akhon Mirza Ahmak» dissi «persona di grande prestigio, certamente. Venne anche qui, trent'anni orsono, per esaminare le miniature nella vostra National Gallery of Arts.» «Allievo di Akhon Mirza Ahmak, allievo di Akhon Mirza Ahmak» disse Kreton parlando con se stesso. «Molto bene, devo ricordarmelo. Ma ora» e diede un'occhiata al vecchio orologio appeso alla parete dietro il bar «è tempo di tornare. Devo rifarmi il trucco prima di entrare in scena nell'ultimo atto. Preferisce aspettare in teatro oppure venire all'uscita degli artisti a spettacolo terminato? Le posso dare un biglietto che le permetterà d'entrare.» «Attenderò all'interno» dissi, pensando che questo offrisse minori possibilità di confusione; anche perché desideravo rivedere Ellen nella parte del fantasma. «Mi segua dunque; ho una chiave di quella porta laterale.» Mi alzai pronto a seguirlo; egli mi mise un braccio intorno alle spalle ma considerai fosse ineducato allontanarlo. Sentii la sua mano attraverso gli abiti, fredda come la mano di un morto e mi ricordò, spiacevolmente, le mani deformi del mendicante della Città Silente. Stavamo salendo gli stretti scalini quando avvertii un tocco leggero all'interno della mia giacca. Il mio primo pensiero fu che egli aveva visto la sagoma della pistola e voleva impossessarsene per poi uccidermi. Gli afferrai il polso e gridai qualcosa, non ricordo cosa. Lottando aggrappati, barcollando salimmo i gradini sino a che non raggiungemmo la strada. Nello spazio di pochi secondi ci trovammo al centro di una folla urlante alcuni parteggiavano per me altri per lui; alcuni, molti, ci incitavano alla lotta e altri si chiedevano la ragione di tanta confusione. Il mio taccuino di
schizzi tascabile che egli aveva creduto contenesse danaro, cadde a terra tra di noi. In quel momento arrivò la polizia americana, non dal cielo come sarebbe accaduto nel nostro paese ma in sella a irsuti e sgraziati cavalli, agitando gli scudisci. La folla si disperse al primo schiocco di frusta e in pochi secondi avevano percosso Kreton sino a farlo cadere per terra, tramortito. Anche allora non potei fare a meno di pensare a quanto terribile fosse la vita di questa gente in un paese in cui la polizia era pronta a dare ragione a qualsiasi straniero dall'aria benestante piuttosto che a un compatriota Mi chiesero che cosa fosse accaduto, il poliziotto che mi interrogava smontò persino da cavallo per dimostrarmi il suo rispetto, gli spiegai che Kreton aveva tentato di derubarmi ma che non desideravo che venisse punito. La verità era, che vedendolo così disteso, senza conoscenza, con una ferita che gli solcava il viso non provavo più alcun risentimento nei suoi confronti. Mosso da pietà, gli avrei volentieri dato i pochi riyal che avevo con me. Mi dissero che se aveva tentato di derubarmi doveva essere incriminato e che se non l'avessi fatto io stesso ci avrebbero pensato loro Dissi loro allora che Kreton era un amico e che dopo avere riflettuto ero giunto alla conclusione che in realta egli volesse farmi uno scherzo. Nel sostenere questa tesi ero piuttosto in difficoltà dal momento che non conoscevo il suo vero nome l'avevo, sì, letto sul programma, cionondimeno l'avevo dimenticato ed ero quindi costretto a dire, riferendomi a lui, «il poveretto». Infine l'agente disse: «Non possiamo certamente lasciarlo in strada dobbiamo portarlo dentro. Che figuraccia ci faremo se non ci fosse alcuna denuncia?» Compresi allora che temevano ciò che avrebbero detto i superiori se si fosse ri saputo che avevano picchiato Kreton sino a tramortirlo senza una valida accusa Quando mi resi conto che se non avessi sporto denuncia le loro accuse sarebbe ro state ben più gravi, cose tipo aggressione o tentato omicidio, acconsentii a fare come desideravano e firmai una dichiarazione in cui denunciavo il furto del mio album di schizzi. Finalmente se ne andarono, portando con loro lo sfortunato Kreton riverso sul pomo di una sella e io tentai di entrare nel teatro. La porta laterale dalla quale eravamo usciti era sprangata dall'interno; avrei volentieri acquistato un altro biglietto ma il botteghino era chiuso. Dato che non potevo fare altro tornai qui dicendomi che il mio incontro con Ellen, se mai fosse avvenuto, avrebbe dovuto attendere ancora un giorno. Giustamente, sta scritto che noi percorriamo sentieri caratterizzati da svolte continue. Men-
tre scrivevo queste ultime pagine sono riuscito a contenere il mio entusiasmo benché, descrivendo la mia attesa per Ardis-Ellen nel retro del teatro e raccontando in che modo Kreton avesse promesso di presentarci fui costretto ambedue le volte per alcuni minuti, ad appoggiare la penna e alzarmi per camminare nella stanza cantando e fischiando e, per essere sincero fino in fondo, saltando sui letti! Ora non posso più tacerlo. L'ho vista! Le ho toccato la mano; la vedrò nuovamente domani e vi sono tutte le premesse perché divenga la mia amante! Mi ero spogliato e sdraiato sul letto (pensando di aggiornare questo diario il mattino seguente) e mi ero persino assopito quando bussarono alla porta. Indossai la vestaglia ed aprii. Per la prima volta nella mia vita... anche se soltanto per un istante, pensai di sognare... e quindi di dormire, mentre in realtà ero ben sveglio. Le parole non possono descrivere quanto fosse bella in persona, molto più di quanto apparisse sulla scena. Questo è vero... e del tutto irrilevante. Ho conosciuto donne anche più belle, secondo i rigidi canoni dell'arte, e ritengo che Yasmin sia più attraente. Ma non era la sua bellezza che mi attraeva, i capelli d'oro, la pelle luminosa del volto che portava ancora le tracce bluastre del trucco utilizzato nel ruolo di fantasma, gli occhi splendenti come il luminoso, pulito cielo d'America. Era qualcosa di più profondo, qualcosa che rimarrebbe anche se tutto questo le venisse in qualche modo tolto. Aveva indubbiamente abitudini che in altri mi avrebbero disgustato ed era vanitosa, cosa che, si dice, sia molto comune nella professione, eppure avrei fatto qualunque cosa pur di possederla. Basta con tutto ciò. Che cosa sono queste parole se non vuota presunzione, ora che mi trovo in procinto di conquistarla? Stava sulla soglia della mia stanza. Ho tentato di trovare il modo di esprimere ciò che provavo in quel momento. Fu come se un lungo fiore, un giglio forse, avesse lasciato il giardino e bussato alla mia porta, qualcosa che mai prima di allora era accaduta nella storia del mondo e che non si sarebbe ripetuta mai più. «È lei Nadan Jaffarzadeh?» chiese. Annuii e, vergognandomi, mi feci da parte per farla entrare. Entrò, ma invece di sedersi sulla sedia da me indicata, si girò guardandomi in faccia; i suoi occhi blu parevano grandi quanto le uova colorate sul cassettone ed erano pieni di una tenera speranza. «Lei è quindi l'uomo che Bobby O'Keene ha tentato di derubare questa sera?» chiese. Assentii. «Io la conosco... voglio dire, riconosco il suo viso. Tutto questo è insen-
sato. Lei venne a vedere l'ultima replica di Visita accompagnato da suo padre e poi la prima di Mary Rose sedendosi in terza o quarta fila. Pensavo fosse americano e quando la polizia mi disse il suo nome, immaginai un uomo grasso e untuoso, gesticolante. Perché mai Bobby ha tentato di derubare lei?» «Forse aveva bisogno di danaro.» Gettò la testa all'indietro e rise. L'avevo già sentita ridere in Mary Rose quando Simon chiedeva la sua mano al padre, ma quel suono conteneva una nota infantile (bene si addiceva al ruolo) che gli sottraeva parte della sua bellezza. Questa invece era la risata felice di una uri che scivolava lungo un arcobaleno. «Certamente, ha sempre bisogno di danaro, ma è certo che abbia tentato di derubarla? Non potrebbe avere...» Vide la mia espressione e lasciò la frase in sospeso. Per la verità ero deluso di non poterla accontentare e infine dissi: «Se lei desidera che io ammetta il mio sbaglio, Ardis, ebbene sono pronto a farlo. Egli mi ha semplicemente urtato, sugli scalini e ha tentato di afferrare l'album di schizzi che era caduto.» Sorrise e il suo viso si illuminò come il sole. «Direbbe questo per me? Conosce il mio nome?» «Dal programma. Sono venuto a teatro per vederla e quello non era mio padre che, mi addolora dirlo, è morto tempo fa, bensì un anziano signore, un americano, che avevo incontrato proprio quel giorno.» «Lei gli ha portato dei sandwich durante il primo intervallo... la stavo osservando attraverso lo spioncino nel sipario. Lei dev'essere una persona molto premurosa.» «Osserva così attentamente ogni spettatore?» Arrossì e per un istante sfuggì il mio sguardo. «Ma lei perdonerà Bobby» disse. «Dirà alla polizia che desidera che lo lascino andare? Lei deve amare molto il teatro, mister Jef... Jaff..» «Ha già dimenticato il mio nome. È Jaffarzadeh, un nome molto comune nel mio paese.» «Non l'ho dimenticato... soltanto non so come pronunciarlo. Vede, quando venni qui lo avevo appreso senza sapere chi lei fosse e così non avevo problemi a pronunciarlo. Ora lei è una persona in carne ed ossa e non mi riesce di dirlo come un'attrice dovrebbe.» Parve notare, per la prima volta, la sedia dietro di lei e si sedette. Mi sedetti di fronte a lei. «Purtroppo, so molto poco sul teatro.» «Stiamo tentando di mantenerlo in vita qui, Mr. Jaffar, e...»
«Jaffarzadeh. Chiamami Nadan, in questo modo non avrai tante sillabe sulle quali incespicare.» Prese la mia mano tra le sue e sapevo bene che il suo gesto era tanto studiato quanto un salam e che lei percepiva che stava tenendomi all'amo come un pesce; ma ero fuori di me dalla gioia. Essere preso all'amo da lei! Avere lei ansiosa di coltivare il mio affetto! Ma sarà il pesce che la catturerà, aspetta e vedrai. «D'accordo» disse «Nadan. E benché tu non possa saperne poco di teatro, la pensi come me, come noi, altrimenti non verresti. È stata una lotta talmente lunga; tutta la storia del teatro è una lotta, il rantolo di un bellissimo bambino nato in punto di morte. I moralisti, la censura, l'oppressione, la tecnologia e ora la povertà, tutti hanno tentato di distruggerlo. Soltanto noi, gli attori e gli spettatori, l'abbiamo mantenuta in vita. Siamo andati bene, qui a Washington, Nadan.» «Davvero molto bene» dissi. «Entrambe le produzioni che ho visto sono state eccellenti.» «Ma soltanto per le ultime due stagioni. Quando entrai a farne parte la compagnia era quasi finita. L'abbiamo resuscitata, Bobby, Paul e io. Abbiamo potuto farlo perché ci stava a cuore e perché riuscimmo a trovare alcune persone con un naturale talento che possono essere dirette. Bobby è il migliore tra noi, può cavarsela in ogni parte che richieda un tocco di malvagità...» Parve rimanere senza fiato. Dissi: «Non credo proprio che ci saranno difficoltà per farlo liberare.» «Grazie a Dio. Stiamo rimettendo in piedi il teatro di nuovo. Attiriamo nuove persone e abbiamo creato un seguito, un pubblico che viene a vedere ogni produzione. C'è persino un po' di denaro in vista finalmente. Ma Mary Rose dovrebbe rimanere in cartellone ancora due settimane, poi faremo il Faust, con Bobby nella parte di Mefistofele. Non abbiamo proprio nessuno che possa prendere il suo posto, nessuno che possa stargli alla pari.» «Sono certo che la polizia lo rilascerà se glielo chiederò io.» «Devono. Dobbiamo averlo per domani sera. Bill, qualcuno che non conosci, ha tentato di continuare per lui nel terzo atto, stasera. È stato semplicemente orrendo. In Iran siete molto educati; è ciò che ho sentito dire.» «Ci fa piacere crederlo.» «Noi non lo siamo. Non lo siamo mai stati e per...» La sua voce si spense, ma un gesto del braccio sottile evocò tutto: le pa-
reti dall'intonaco scrostato divennero come aria, la città fatiscente, il continente in rovina entrarono nella stanza dove ci trovavamo. «Capisco» dissi. «Loro... noi, siamo stati traditi. Nel nostro intimo non sappiamo, non con certezza da chi. E quando ci sentiamo ingannati siamo pronti a uccidere: purtroppo molto spesso ci sentiamo ingannati, quasi sempre.» Si accasciò sulla sedia e io mi accorsi, avrei dovuto farlo molto prima, di quanto esausta fosse. Aveva partecipato a uno spettacolo che era terminato in un fiasco, quindi era stata costretta a supplicare la polizia per avere il mio nome e indirizzo e, infine era venuta fin qui, dalla stazione di polizia, molto probabilmente a piedi. Le chiesi quando avrei potuto ottenere il rilascio di O'Keene. «Possiamo andarci domani mattina.» «Vuoi venire anche tu?» Annuì, si lisciò la gonna e si alzò. «Devo sapere. Verrò a prenderti alle nove circa, se ti va bene.» «Se aspetti fuori che io mi vesta» dissi «ti accompagnerò a casa.» «Non è necessario.» «Farò in un minuto.» Negli occhi azzurri lessi nuovamente qualcosa di supplichevole. "Vuoi venire a casa mia" diceva il suo sguardo "ecco ciò che stai pensando, lo so. Qui hai due letti, più grandi, più puliti di quello che c'è nel mio appartamento; se ti chiedessi di unirli, mi accompagneresti lo stesso a casa dopo?" Fu come se realmente stessi sognando: un sogno in cui tutto ciò che desideravo, il cosmo purificato, si consegnasse a me. Le dissi: «Non hai nessun bisogno di andartene, puoi dormire qui. In questo modo domattina potremo fare colazione insieme prima di andare alla polizia per chiedere il rilascio del tuo amico.» Rise ancora, sollevando la testa con garbo sublime. «Ho bisogno di centinaia di cose che si trovano a casa. Pensi che potrei fare colazione con te senza i miei cosmetici e in questi abiti sporchi?» «In questo caso ti accompagnerò a casa, ti accompagnerei anche se vivessi a Kazvin o persino sul monte Kaf.» Sorrise. «Vestiti dunque. Aspetterò fuori e ti mostrerò il mio appartamento e forse non vorrai più tornare qui dopo.» Uscì. Le sue scarpe dalla suola di legno picchiettavano sul pavimento e io mi misi addosso un paio di pantaloni, una camicia e una giacca e m'infilai gli stivali. Quando aprii la porta, era sparita. Corsi all'estremità del corridoio e, guardando dalla finestra sbarrata, la vidi sparire in una strada late-
rale. Un ultimo svolazzo della gonna in una raffica del vento notturno e scomparve nell'oscurità vellutata. A lungo rimasi immobile a osservare gli edifici disastrati. Non ero in collera, non credo di potermi adirare con lei. Ne fui in qualche modo felice (anche se in questo caso è difficile essere sinceri) non perché temessi l'atto d'amore... non ho dubbi sulla mia capacità di soddisfare il normale desiderio di una donna, ma perché barattando con troppa facilità la cooperazione per il rilascio di Bobby con la sua persona, il mio bisogno di romanticismo, di un certo tipo di avventura nella quale il pericolo e l'amore fossero uniti come due serpenti accoppiati sarebbe rimasto inappagato. Ardis, la mia Ellen, mi offrirà tutto questo, indubbiamente, come mai né Yasmin né la misera donnaccia che ne era la sosia potrebbero fare. Percepisco che, soltanto ora, il mondo si sta aprendo ai miei occhi, che io sto nascendo, che quel corridoio altro non era che il canale del parto e che Ardis, lasciandomi, mi stesse trascinando verso di lei. Prima di rientrare nella mia stanza scorsi un pezzo di carta sul pavimento davanti alla porta. Ne trascrivo qui il testo esatto anche se non posso trasmettere il profumo di lillà. Sei un uomo molto attraente e, per dire tutta la verità, ti prometto che potrai disporre liberamente di me quando Bobby sarà libero e non mi venderò così facilmente ecc. O meglio, mi venderò per Bobby, ma ho altre gatte da pelare stasera. Ti vedrò domattina e se potrai fare uscire Bobby o almeno tentare sul serio avrai amore dalla evanescente MARY ROSE Giorno. Svegliato presto e mangiato qui all'albergo come al solito finendo circa alle otto. Scrivere questo diario mi darà qualcosa da fare mentre aspetto Ardis. Fatto colazione all'americana oggi; la prima volta che mi sono arrischiato. Fiocchi di pasta dolce ben tostati cosparsi da abbondante panna, strudel e il solito caffè americano. La maggior parte dei locali mangiano maiale aromatizzato, preparato in diversi modi, che non riesco veramente ad assaggiare; molte delle persone intorno a me, tuttavia, mangiavano uova e pane scaldato nel forno, che assaggerò domani. Stanotte ho fatto un sogno molto sgradevole; ho tentato di liberarmene sin dal momento in cui mi sono svegliato. Era buio e mi trovavo sotto un cielo aperto con Ardis, camminavamo su di un terreno molto più acciden-
tato di qualunque cosa avessi visto nel parco, sulla sponda più lontana del canale. Una delle orride creature a cui avevo sparato due notti fa ci inseguiva — piuttosto, stava in agguato intorno a noi, poiché apparve, dapprima alla sinistra di noi, quindi sulla destra, stagliandosi contro il cielo notturno. Ogni volta che lo vedevamo, Ardis mi afferrava il braccio e m'incitava a sparare, ma la piccola spia luminosa rossa sulla mia arma brillava per segnalare che non c'era più un briciolo di energia. Tutto molto sciocco, naturalmente, ma ho intenzione di acquistare un nuovo alimentatore non appena ne avrò l'opportunità. È tardo pomeriggio dopo le sei, ma non abbiamo ancora cenato. Ho appena fatto il bagno e siedo qui, nudo, con l'uovo di oggi appoggiato, più rosso della mia pelle, accanto a questo libro sul tavolo. Ardis e io abbiamo trascorso momenti difficili e sono tornato per rendermi presentabile. Alle sette ci incontreremo per andare a cena; il sipario si alza alle otto, non avremo molto tempo, ma poi andrò dietro le quinte e da lì guarderò lo spettacolo così potrò parlare con lei mentre non recita. Ho appena mangiato un boccone dell'uovo: nessun sapore insolito, nient'altro che una sgradevole dolcezza. Più ci rifletto più mi convinco che la droga fosse nel primo che ho mangiato. Avevo letto Mysteries e, senza dubbio, la droga aveva liberato il mostro che si celava nella mia mente. È vero, c'erano delle macchie di sangue sui miei abiti (l'asfodelo dei Peri!), ma potevano altrettanto facilmente provenire dalla mia guancia, che ancora mi fa male. Ho avuto la mia avventura ma tutto ciò che ne è rimasto è un dolcetto. Sono tentato di buttare via il resto. Un altro boccone. Ancora venti minuti prima di dovermi vestire e andare a prendere Ardis che mi ha mostrato dove vive, a pochi passi dal teatro. Al lavoro, quindi. Ardis era un po' in ritardo questa mattina, ma venne come aveva promesso. Le chiesi dove dovevamo andare per liberare Kreton e quando me lo disse, un edificio ancora in buono stato all'estremità orientale della Città Silente, affittai uno dei traballanti calessi americani affinché ci conducesse lì. Come la maggior parte anche questo calesse era trainato da un cavallo denutrito. Arrivammo comunque in breve tempo. La polizia americana è organizzata in modo molto singolare. La polizia segreta nazionale, ufficialmente la Federate Enquiry Division, gode di una posizione di supremazia nei confronti di tutte le altre, ha il potere di modificare le loro decisioni, promuovere, retrocedere punire e, ultimo privilegio, arruolare personale dalle altre organizzazioni. Mantiene, inoltre, un proprio reparto in uniforme. In questo modo, quando un americano viene
arrestato dalla polizia in divisa, i suoi amici molto raramente sanno se è stato preso dalla polizia locale, dal reparto della polizia nazionale della F.E.D. in uniforme o dai membri della polizia segreta della F.E.E., che fingono di essere agenti di una delle due polizie summenzionate. Poiché, in precedenza, non sapevo nulla di queste distinzioni, non avevo modo d'indovinare quale delle tre avesse in carico O'Keene; ma la polizia locale con la quale Ardis aveva parlato la notte scorsa le aveva fatto capire che era stato preso da loro. Mi spiegò tutto questo mentre viaggiavamo rumorosamente e aggiunse che stavamo andando alla sede della F.E.D. per ottenere il suo rilascio. Devo esserle sembrato tanto confuso quanto in realtà lo ero perché aggiunse: «Una parte dell'edificio è la sede del Dipartimento di Polizia di Washington che ne usufruisce pagando un canone di affitto alla F.E.D.» La mia impressione personale, quando arrivammo, fu che non facessero niente di quello che si presume e che l'intero apparato non fosse più reale di una delle scene delle opere teatrali in cui recitava Ardis. Tutti gli uomini e le donne con le quali parlammo parevano in realtà agenti della polizia segreta e ostentavano, elevata alla decima potenza, un'autorità che in verità non avevano, con grande profusione di solenni e ingannevoli rituali. Mentre Ardis e io passavamo di ufficio in ufficio, spiegando il nostro semplice compito, giunsi alla conclusione che anche lei provasse la mia stessa sensazione, ma che si fosse trattenuta dall'esprimerla nel tassì per paura che io potessi tradirla o che il conducente potesse essere una spia. Ma perché mai si vergognava della sua stessa nazione, perché era così ansiosa di dimostrare a me, a uno straniero, che il suo governo era più ipocrita di quanto fosse in realtà? Se questo era vero, e in quella garenna o se più v'aggrada conigliaia di pietre senza finestre ero certo che lo fosse, la spiegazione stessa che offrì Ellen nel tassì in base alla quale lei distingueva chiaramente tra polizia locale, polizia in uniforme della F.E.D., polizia segreta, non era che una favola per bambini, che nasconde una realtà meno rosea e immediata e che, in definitiva, è assai più complicata di quanto non appaia. I poliziotti che ci interrogarono furono molto cortesi con me, molto meno con Ardis. Erano, almeno così mi parve, letteralmente ossessionati dall'idea che ci fosse qualcosa di losco nel banale incidente che fummo costretti a descrivere più volte... talmente tante volte che anch'io finii per diventare sospettoso. Non ho né il tempo né la pazienza di descrivere tutti questi colloqui, tenterò quindi di esemplificarne uno.
Entrammo in un piccolo ufficio senza finestre stretto tra altri due che parevano vuoti. Una donna americana di mezza età sedeva a una scrivania di metallo. Sembrava una persona normale e abbastanza attraente finché non aprì bocca: allora le sue gengive deturpate mostrarono che un tempo aveva avuto molti più denti del dovuto, quaranta o cinquanta presumo per ogni arcata, e che il dentista che le aveva estratto quelli in soprannumero, non era certo un luminare nella sua scienza. La donna ci chiese: «Com'è fuori? Il tempo, voglio dire. Vedete, sto seduta qui tutto il giorno e non posso saperlo.» Ardis rispose: «Molto bello.» «Le piace, Haijji? Il suo soggiorno in questo paese è stato finora piacevole?» chiese la poliziotta rivolgendosi a me. «Non ricordo che abbia piovuto una volta da quando sono qui.» Parve prendere l'affermazione come una velata accusa. «Lei è arrivato troppo tardi per le piogge, purtroppo. Questa è un'area molto fertile. Alcune delle nostre monete più antiche mostrano spighe di grano. Le ha mai viste?» Spinse verso di me lungo il tavolo una piccola moneta di rame e io finsi di esaminarla. Ce ne sono una o due simili nel braccialetto che ho comperato per Ardis e che non le ho ancora donato. «Debbo scusarmi, a nome del Distretto, per ciò che le è successo» continuò la donna. «Stiamo tentando con ogni mezzo di controllare il crimine. È mai stato vittima di qualche imbroglio prima d'ora?» Scossi la testa, quasi soffocato in quell'ufficio privo d'aria, rispondendo di no. «E ora è qui.» Armeggiò con i fogli che teneva in mano e finse di leggerne uno. «È qui per ottenere il rilascio del ladro che l'ha derubata. Un atto di magnanimità molto lodevole. Posso chiederle perché ha portato con sé questa giovane donna? Non vedo menzione di lei in questi rapporti.» Spiegai che Ardis era una compagna di lavoro di O'Keene e che aveva interceduto per lui. «Quindi è lei, miss Dahl, la persona veramente interessata al rilascio di questo prigioniero. È forse un parente, un congiunto?» E così via. Alla conclusione di ogni colloquio ci veniva detto che la faccenda esulava del tutto dalla competenza della persona con la quale avevamo appena trascorso mezz'ora o anche un'ora a parlare, oppure che era necessario ottenere l'autorizzazione di qualcun altro o effettuare un'ulteriore deposizione. Alle due circa venimmo mandati dall'altra parte del fiume... in quella
zona che, come le guide turistiche insistono a sottolineare, si trova sotto una giurisdizione completamente diversa, per visitare un istituto di pena dove fummo costretti a individuare Kreton tra circa cinquecento miseri prigionieri, tutti maleodoranti e con i pidocchi. Non trovandolo, tornammo all'Edificio della F.E.D. — passammo davanti alla statua, semirovesciata, ma ancora meditabonda, detta The Seated Man; alle rovine e ai mendicanti della Città Silente —, per un'altra serie di interrogatori. Alle cinque, quando ci venne detto di andarcene, eravamo entrambi esausti, benché Ardis apparisse sorprendentemente fiduciosa. Quando l'ho lasciata alla porta del suo palazzo, pochi minuti fa, le ho chiesto come faranno stasera senza Kreton. «Senza Harry, vuoi dire.» Ha sorriso. «Il meglio che possiamo, presumo, se dobbiamo. Quantomeno, Paul avrà qualcuno pronto a sostituirlo stasera.» Vedremo come andrà. Ho preso in mano e posato nuovamente sul tavolo la penna almeno dieci volte. Se fossi saggio, dovrei molto probabilmente distruggere il diario invece di continuare; ma ho scoperto un nascondiglio dove penso sarà al sicuro. Stasera, di ritorno dall'appartamento di Ardis, restavano soltanto due uova. Sono sicuro, assolutamente certo, che ce n'erano tre quando uscii per incontrare Ardis. Allo stesso modo sono certo che, terminato di scrivere in questo libro, l'avevo riposto, come faccio sempre, nella parte sinistra del cassetto. L'ho trovato nella parte destra. È possibile che questa sia soltanto opera della cameriera che pulisce la stanza. Con tutta probabilità avrà supposto che nessuno si sarebbe accorto della sparizione di un uovo candito e potrebbe avere spostato questo libro pulendo il cassetto o potrebbe avere sbirciato tra le pagine per curiosità e averlo poi riposto nel cassetto sbagliato. Ma voglio supporre il peggio: un agente mandato a investigare nella mia stanza, forse attrezzato per fotografare queste pagine o forse no, ... comunque, è alquanto improbabile che un agente sappia leggere il Farsi. Ora ho esaminato minuziosamente tutto il libro ed eliminato tutti i passaggi relativi alla ragione per la quale sono venuto in questo paese di mostri. Prima di lasciare questa stanza, domani, posizionerò degli oggetti, capelli e cose simili, dei quali registrerò l'esatta localizzazione e che mi riveleranno se la stanza è stata nuovamente perquisita. Bene, ora posso anche trascrivere gli avvenimenti della serata, veramen-
te straordinari. M'incontrai con Ardis come previsto. Insieme raggiungemmo un piccolo ristorante non lontano dal suo appartamento. Ci, eravamo appena seduti quando entrarono due uomini di corporatura massiccia e alquanto goffi nei movimenti. Non ebbi mai modo di vedere bene in faccia nessuno dei due ma mi parve che uno fosse l'americano che avevo incontrato a bordo della Princess Fatimah e l'altro il mercante di grano, Golam Gassem, che sulla nave avevo assiduamente evitato. Penso sia impossibile, per la mia divina Ardis, apparire meno che bella ma ci arrivò tanto vicino quanto le leggi della natura le consentirono, non di più: il sangue lasciò il suo viso, la bocca si aprì leggermente e per un istante mi parve un incantevole cadavere. Stavo per chiederle quale fosse il problema, ma prima che potessi dire una sola parola, lei toccò le mie labbra zittendomi, poi ripresa alquanto la padronanza di sé, disse: «Non ci hanno visto. Ora io esco. Seguimi come se avessimo terminato di cenare.» Si alzò e, fingendo di pulirsi le labbra con il tovagliolo (in modo da avere la metà inferiore del viso coperta) uscì in strada. La seguii e la trovai che rideva pochi metri più in là dell'entrata del ristorante. Il suo cambiamento non avrebbe potuto essere più stupefacente se fosse stata liberata da un incantesimo. «È così divertente» disse. «Benché non lo fosse in quel momento. Vieni, faremo meglio ad andare; mi potrai offrire la cena dopo lo spettacolo.» Le chiesi che cosa significassero per lei quei due uomini. «Amici» disse, ancora ridendo. «Se sono amici, perché eri così ansiosa di non farti vedere? Temevi che ci facessero fare tardi?» Sapevo che una spiegazione talmente banale non poteva essere vera, ma volevo lasciarle il modo di eludere la mia domanda nel caso avesse deciso di non confidarsi. Scosse la testa. «No, no. Non volevo che nessuno dei due pensasse che non avevo fiducia in lui. Ti racconterò qualcosa di più dopo, sempre che tu voglia partecipare alla nostra piccola sciarada.» «Con tutto il cuore.» Sorrise a queste parole con quel sorriso luminoso per il quale sarei entrato, con piacere, nella fossa dei leoni. Dopo pochi passi ci trovammo davanti alla porta sul retro del teatro e non ci fu il tempo di dire nient'altro. Aprì la porta e udii Kreton discutere con una donna che seppi, in seguito, essere la costumista. «È libero» dissi ed egli si girò per guardarmi. «Sì. Grazie a te, presumo, e di ciò ti sono molto riconoscente.» Ardis lo fissava come se fosse un bambino salvato dall'annegamento. «Povero Bobby. È stato molto brutto?»
«Spaventoso, ecco tutto. Temevo che non ne sarei mai uscito. Sai che Terry se n'è andato?» Ardis scosse la testa e chiese: «Che cosa vuoi dire?» Ero certo che in questo caso (non sto esagerando o alterando i fatti benché, lo ammetto, l'abbia fatto altre volte) che lei lo sapesse ancor prima che egli parlasse. «Semplicemente che non è qui. Paul si aggira per il teatro come un pazzo. Ho sentito che ti sono mancato ieri sera.» «Buon Dio, sì» disse Ardis e balzò via troppo rapidamente perché potessi seguirla. Kreton mi afferrò il braccio. Mi aspettavo che si scusasse per avere tentato di derubarmi ma disse: «Vedo che l'hai conosciuta.» «Mi ha convinto a lasciare cadere le accuse contro di te.» «Qualunque cosa tu mi avessi promesso per presentartela... venti, trenta riyal, non l'avrei accettata. Mai. È chiaro? Vieni a trovarmi quando vorrai qualcosa di più onesto. Comunque, sei riuscito a conoscerla. Ti piace?» «Questo devo dirlo a lei» dissi «non a te.» Ardis tornò mentre stavo parlando, portandosi appresso un negro baffuto dalla calvizie incipiente. «Paul, questo è Nadan. Il suo inglese è molto buono ... non così britannico come parla la maggior parte di loro. Andrà bene, non credi?» «Dovrà andare bene; piuttosto, sei sicura che lo farà?» «Gli piacerà moltissimo» disse Ardis con certezza e scomparve nuovamente. Pareva che Terry fosse l'attore che aveva interpretato la parte di Simon, marito e amante di Mary Rose; e io, che non posso vantare neppure una comparsata, in una recita scolastica, stavo per essere spinto a interpretare questo ruolo. Mancava circa mezz'ora all'apertura del sipario, non avevo quindi che cinquanta minuti per imparare le mie battute prima della mia entrata in scena alla fine del primo atto. Paul, il regista, mi avvertì, che se avessero utilizzato il mio nome il pubblico avrebbe accolto malvolentieri lo spettacolo e, dato che il personaggio (nella versione dello spettacolo che presentavano) doveva essere un americano, avrebbe trovato a ridire anche dove non vi era alcun motivo. Un momento dopo, mentre stavo ancora provando freneticamente, lo sentii annunciare: «La parte di Simon Blake verrà interpretata da Ned Jefferson.» L'atto di mettere piede sul palcoscenico per la prima volta era certamente la parte peggiore dell'intera faccenda. Per fortuna avevo il vantaggio d'impersonare un ragazzo nervoso venuto per chiedere la mano della sua
innamorata, così la mia risata tremante e la mia balbuzie divennero un recitare. La mia seconda scena, con Mary Rose e Cameron sull'isola incantata, avrebbe dovuto, essere molto più difficile della prima. Avevo soltanto l'intervallo per studiare le mie battute: dovevo impersonificare non solo un ansioso ma anche, e soprattutto, un pessimista. Tutte le battute erano però brevi e Paul era riuscito a farle scrivere in stampatello su grandi fogli di carta, che egli e il direttore di scena tenevano sollevati tra le quinte. Più volte fui costretto a improvvisare ma, pur avendo dimenticato le parole dell'autore, non persi mai il filo conduttore dell'opera e fui sempre in grado di escogitare qualcosa alla quale Ardis e Cameron potessero adattare le loro risposte. A paragone del primo e secondo atto, la mia breve apparizione nel terzo fu una vacanza; ma poche volte sono stato così esausto come lo ero quando le luci del palcoscenico si abbassarono per il confronto finale tra Ardis e Kreton, mentre Cameron, io e le persone di mezza età che interpretavano i Moreland potevamo lentamente abbandonare la scena. Dovemmo restare in costume finché non giunse il momento di uscire sul palco per ringraziare il pubblico; ed era quasi mezzanotte quando Ardis e io ci sedemmo nello stesso bar, piccolo e sporco, fuori dal quale Kreton aveva tentato di derubarmi. Mentre mangiavamo il cibo fumante, mi chiese se mi era piaciuto recitare e dovetti annuire. «Ero convinta che ti sarebbe piaciuto» Ardis disse. «Quella tua aria di rispettabilità nasconde in realtà uno spirito a caccia di emozioni.» Ammisi che era vero e tentai di spiegare perché credo che ciò che definisco il romanticismo della vita sia la sola cosa degna di essere ricercata. Non mi capiva e così spiegai che quello era il frutto di un'educazione fondata sui principi dello Shah Namah, del quale, scoprii, non aveva mai sentito parlare. Ci avviammo verso il suo appartamento, ero determinato a prenderla con la forza, se necessario... non perché volessi brutalizzarla, ma perché ritenevo che avrebbe inevitabilmente pensato che l'amassi meno di quanto in realtà non l'amavo se solo le avessi permesso di respingermi una seconda volta. Mi fece vedere il suo alloggio (due stanzette molto disordinate) poi, dopo avere sollevato e posizionato la pesante spranga che è il sigillo di ogni dimora americana, mi abbracciò. Il suo alito conservava la fragranza dell'arak che avevo acquistato per lei prima. Ora sono certo che per il resto della mia vita questo profumo mi rammenterà questa serata.
Quando ci separammo, iniziai a disfare i lacci che chiudevano la sua camicetta e immediatamente lei spense la candela. La supplicai dicendo che in questo modo mi privava di metà della gioia che avrei potuto ottenere dal suo amore; ma non volle permettermi di riaccenderla e le nostre carezze, gli abbracci dei nostri amplessi furono scambiati nell'oscurità più totale. Fu l'estasi. Se l'avessi vista ne sarei rimasto accecato: tuttavia niente avrebbero potuto aumentare il mio piacere. Quando ci separammo per l'ultima volta, entrambi stremati, e lei si alzò per lavarsi, cercai i fiammiferi. Dapprima nel cassetto dell'instabile tavolino accanto al letto, poi tra il disordine dei miei abiti, che avevo lasciato cadere per terra e che avevamo sparso sul pavimento. Finalmente ne trovai alcuni ma non riuscii a trovare la candela; Ardis, credo, l'aveva nascosta. Accesi un fiammifero; ma lei aveva indossato una vestaglia. Dissi: «Non potrò mai vederti?» «Mi vedrai domani. Mi porterai in barca e faremo un picnic sulla riva sotti i ciliegi. Domani sera il teatro sarà chiuso per le festività pasquali e potrai accompagnarmi a una festa. Ma ora vai a casa e io andrò a dormire.» Quando fui vestito e sulla soglia, le chiesi se mi amasse: lei mi chiuse la bocca con un bacio. Ho già scritto del resto: ritornare per trovare due uova invece di tre e questo libro spostato. Non mi ripeterò un'altra volta. Ma — tra questo paragrafo e l'altro — ho riletto gli appunti di questa sera e mi pare che una frase debba assumere maggior rilievo di quanto le abbia dato: laddove affermo che nel mio ruolo come Simon non ho mai perduto di vista il filo conduttore dell'opera. Non so quale possa essere il leggendario segreto sepolto dai vecchi americani sotto la montagna scolpita, ma credo che si tratti di una chiave per potere capire il mistero del mondo degli umani... o di qualcosa di simile. Ogni grande, ne sono certo, più o meno coscientemente, in un modo o nell'altro, ha percepito questo segreto salvo che, nello spettacolo che è la nostra vita, possiamo tentare di cimentarci con questo filo conduttore e, avendone la forza, modificarlo a piacimento spostarlo a destra o a sinistra... se ne abbiamo la forza. Questo sto facendo ora. Se il prendere l'uovo non era significativo, lo renderò tale: l'ho già fatto quando ho imbevuto il candito con la droga. Se il piano in cui Ardis è coinvolta... con Golam Gassem e mister Tallman (ammesso che si tratti di loro) non riguarda truffe o tesori segreti farò in modo che sia comunque eccitante, significativo prima della fine. Se il no-
stro amore non è un grande amore, destinato a vivere per sempre nei cuori dei giovani e sulle bocche dei poeti, lo renderò tale prima della fine. Ancora una volta sono qui; e in tutta verità comincio a chiedermi se non abbia scritto questo diario soltanto per leggerlo. Nessuno uomo è stato mai più felice di quanto io lo sia ora: talmente felice che sono stato fortemente tentato di non assaggiare nessuna delle due uova che restano. E se la droga, al posto dell'allucinazione, della conoscenza del proprio io e dell'euforia, portasse alla follia permanente e senza speranza? Ciononostante, l'ho mangiato lo stesso, ingoiando l'intero uovo in pochi bocconi. Preferisco rischiare che pensare a me stesso come a un codardo. Con equanimità, ne attendo gli effetti. Il fatto è che sono troppo felice malgrado tutta la determinazione faustiana di cui ho scritto ieri sera. Che strana coincidenza: il Faust sarà la prossima produzione della compagnia. Kreton sarà Mefistofele — Ardis me lo ha detto e del resto, era scontato. Ardis stessa sarà Margherita. Ma chi interpreterà la parte del Dottor Faust? Ciononostante ora, quando ormai tutta la mia determinazione mi ha abbandonato, so che porterò a termine le fasi essenziali del piano con più certezza che mai... con la facilità, infatti, di un esperto violinista che suona un facile motivo mentre la sua mente vaga altrove. Guardavo le rovine del Jeff (come lo chiamano qui) e ciò mi ha fatto nuovamente pensare alla sorte dei vecchi americani. Quante volte essi, abituati a scegliersi i capi in base alle apparenze, alla forza, alla saggezza e alla determinazione, debbono invece averli eletti per la semplice ragione che erano tanto stanchi quanto lo ero io la scorsa notte. Avevo intenzione di comperare un cesto di leccornie e andare a prendere Ardis alle tredici circa, ma lei venne alle undici con un cestino già pronto. Ci avviammo verso nord lungo l'argine del canale e camminammo sino a raggiungere le rovine della vecchia tomba della quale ho già parlato e il lago artificiale, quasi circolare che gli americani chiamano Basin. Era circondato da alberi in fiore: vecchi e nodosi ma molto belli, rivestiti di boccioli bianchi. Per pochi soldi noleggiammo una barca color blu brillante con una vela due o tre volte più grande del mio fazzoletto. Con questo naviglio sfidammo le calme acque del lago. Quando fummo ben lontani dalle persone sulla riva, Ardis, mi chiese, piuttosto inaspettatamente, se intendessi trascorrere tutto il mio soggiorno in America qui a Washington.
Le dissi che in origine la mia intenzione era stata di rimanere sul posto non più di una settimana, quindi andare verso nord lungo il litorale sino a Filadelfia e le altre antiche città prima di ritornare a casa; ma che, ora che l'avevo incontrata sarei rimasto qui per sempre se lei l'avesse desiderato. «Non hai mai desiderato vedere l'interno? Questa striscia di spiaggia dove viviamo è mantenuta mezza viva dall'oceano e dai commerci che vi si svolgono; ma è a circa centocinquanta chilometri, nell'interno, che si trovano i resti della nostra civiltà... e attendono di essere razziati.» «Perché allora nessuno ne approfitta?» io chiesi. «Lo fanno. Non passa anno senza che qualcuno si appropri di qualche cosa di grande valore... ma è così grande...» potei vedere che guardava al di là del lago e degli alberi profumati. «Così grande che intere città ne sono state inghiottite. C'era un arco d'oro all'entrata di St. Luis e nessuno sa che fine abbia fatto. Denver, la Mile-High City era circondata da miniere d'argento; nessuno riesce più a trovarle.» «Molte delle vecchie mappe dovrebbero ancora esserci.» Ardis assentì lentamente e io capii che desiderava dire di più di quanto non avesse detto. Per qualche istante non si udi nessun altro suono all'infuori dell'acqua che lambiva la barca. «Ricordi di averne visto alcune al museo di Teheran; non soltanto le nostre mappe, ma pure alcune delle vostre di un secolo fa» dissi. «Il corso dei fiumi è cambiato» disse. «E dove sia l'antico letto nessuno può dirlo con certezza.» «Molti edifici dovrebbero essere ancora in piedi, come lo sono qui, nella Città Silente.» «Questa città fu costruita con la pietra più solidamente di qualunque altra nell'intero paese. Ciononostante borghi, paesi, città, devono essere ancora lì, nel deserto» disse. «Quindi dovrebbe essere possibile raggiungerli in aereo, atterrare da qualche parte e saccheggiarli.» «Ci sono molti pericoli, e talmente tante macerie da esaminare che chiunque può cercare per una vita intera e sfiorare soltanto la superficie.» Vidi che parlare di tutto ciò la rendeva soltanto infelice e tentai di cambiare argomento. «Mi hai detto che potrò accompagnarti a una festa, stasera? Che genere di festa?» «Nadan, devo avere fiducia in qualcuno. Non conosci mio padre, vive nelle vicinanze dell'albergo dove alloggi e ha un negozio dove vende mappe e libri antichi.» "Ho quindi bussato alla porta giusta dopotutto" pensai.
«Quando era più giovane, volle andare nell'interno. Compì due o tre viaggi ma non superò mai le colline ai piedi dei monti Appalachi. Poi sposò mia madre e decise che non poteva più permettersi di correre dei rischi...» «Capisco.» «Tutto quello di cui si servì per cercare i tesori del passato divennero merce da vendere. Anche oggi le persone che vivono nell'interno gli portano vecchie carte. Egli le compra e le rivende. Alcune di queste persone non sono poi migliori di quelle che scavano nei cimiteri alla ricerca delle fedi nuziali di donne morte. Mi vennero in mente gli anelli che avevo comperato all'ombra dell'obelisco in rovina e rabbrividii benché non credo che Ardis lo avesse notato. «Ho detto» proseguì lei «che alcuni di loro non erano migliori dei ladri che rubano nelle tombe. La verità è che alcuni sono peggiori. Nell'interno ci sono persone che non sono più persone. I nostri corpi, sono avvelenati... questo lo sai, non è vero? Tutti gli americani lo sono. Ci siamo adattati, come dice mio padre, ma non siamo più esseri umani.» «Non sei obbligata a dirmi tutto questo.» «Sì, devo. Andresti nell'interno se venissi con te? Il governo tenterà di fermarci, se lo viene a sapere, e di confiscare qualunque cosa troviamo.» Le assicurai con ogni giuramento che potevo ricordare che con lei accanto a me avrei attraversato il continente a piedi se fosse stato necessario. «Ti ho parlato di mio padre. Dissi che vende le mappe e i documenti che gli portano. In fondo non ha mai lasciato perdere.» «Ha fatto qualche scoperta?» chiesi. «Ne ha fatto moltisime, centinaia. Bobby e io le abbiamo utilizzate. Ricordi quegli uomini nel ristorante? Bobby andò da ognuno di loro con una mappa e alcune delle vecchie lettere. Li convinse a finanziare una spedizione per l'interno e fece credere a ognuno che l'avremmo aiutato a ingannare l'altro... questo li trattiene dall'unire le loro forze per ingannarci, capisci?» «E vuoi che venga con te?» ero fuori di me dalla gioia. «Non intendevo affatto andarci. Bobby, con i soldi dei finanziatori se ne sarebbe andato a Baghdad o Marrakesh portandomi con sé. Ma, Nadan» si sporse in avanti, ricordo, e prese la mia mano tra le sue «in realtà c'è un segreto. Ce ne sono molti ma uno in particolare ha più probabilità d'essere vero e di fruttare ricchezze enormi. So che dividerai equamente con me. Divideremo tutto e verrò a Teheran con te.» So di non essere mai stato felice in tutta la mia vita quanto lo fui allora,
in quella stupida barchetta. Ci sedemmo uno accanto all'altro a poppa, quasi affondandola, all'ombra combinata della minuscola vela e dell'ampio cappello di paglia che Ardis protava e ci baciammo e ci accarezzammo a vicenda in un modo che mi sarebbe valso una decina di volte la gogna in Iran. Infine quando non potei più sopportare l'idea di un atto d'amore non consumato, mangiammo i sandwich che Ardis aveva portato e bevemmo bibite dal vago sapore di frutta; quindi tornammo a riva. Quando l'ho riaccompagnata a casa, pochi minuti orsono, ho insistito perché mi facesse salire con lei. Desideravo ardentemente, al punto di stare male, entrare e riversarmi in lei come un folle dio che prima dell'avvento del Profeta avesse versato il suo sangue dorato nel mare. Non me lo permise... presumo perché temeva che l'appartamento non potesse essere oscurato abbastanza da convenire al suo pudore. Sono ben deciso a vederla, nuda, in tutta la splendida bellezza. Ho fatto il bagno e mi sono sbarbato per essere pronto per la festa; e poiché ho ancora del tempo a mia disposizione inserirò qui una descrizione della processione che vidi mentre tornavamo dal lago. Come vedi non ho ancora abbandonato del tutto l'idea di scrivere un libro di viaggi. Un uomo vecchissimo, un sacerdote credo, portava una croce su di un lungo palo, usandolo come bastone, quasi come una stampella. Uno molto più giovane, grasso e sudato, camminava all'indietro davanti a lui facendo oscillare un incensiere fumante. Due ragazzi con l'abito talare che portavano grosse candele li precedevano ed erano seguiti da altri bambini, sempre in abito talare, che cantavano e si davano gomitate e pizzicotti quando pensavano di non essere osservati dall'uomo grasso. Come tanti, avevo già visto questo tipo di cerimonia, ma molto meglio organizzata, a Roma. Tuttavia, restai maggiormente colpito dalla processione che incontrai qui. Quando nacque il vecchissimo sacerdote, la grandezza dell'America era una cosa talmente recente che pochi devono avere capito che era finita per sempre e l'intera processione — dalle baluginanti candele nella luce del sole, al leader morto, in cima al palo, ai seguaci disattenti e litigiosi che lo seguivano — mi parve incarnare la filosofia e il dilemma di questo popolo. Questo pensavo fino a che non vidi che i presenti osservavano senza comprendere come se anch'essi fossero soltanto viaggiatori in un paese straniero. Compresi allora che la rituale supplica per la vita rinnovata era più aliena a loro che a me.
È molto tardi, il mio orologio indica le quindici. Ho preso ancora una volta la decisione di non scrivere più in questo libro, di bruciarlo o strapparlo o darlo a qualche mendicante ma ci sto scrivendo ancora una volta perché non riesco a dormire. La stanza è permeata dall'odore del mio vomito benché abbia spalancato le imposte e lasciato entrare la notte. Come ho potuto amare un essere simile! (Ma ancora pochi minuti fa, mentre tentavo di prender sonno, visioni di Ellen mi perseguitavano impedendomi di dormire.) Si trattava di una festa mascherata, Ardis aveva ottenuto dal guardaroba del teatro un costume per me, una fantastica armatura dorata. Lei indossava le vesti di una principessa egizia e un domino. A mezzanotte ci togliemmo le maschere e ci baciammo e in cuor mio giurai che questa sarebbe stata la notte in cui avrei sollevato il velo d'ogni suo meraviglioso pudore. Quando ce ne andammo portai con me la bottiglia che avevamo comprato, contenente ancora dell'arak e, prima di spegnere la candela, la persuasi a versarci un ultimo bicchiere da condividere quando la frenesia del primo desiderio si fosse spenta. Lei fece come le avevo chiesto e mise il bicchiere sul tavolino accanto al letto. Molto tempo dopo, mentre giacevamo ansimando l'uno accanto all'altra, cercai a tentoni la pistola e ne diressi il fascio sul bicchiere panciuto. Istantaneamente l'alcol prese fuoco e il bicchiere si riempì di una fiamma bluastra. Ardis gridò e si alzò di scatto. Ora, mi chiedo come posso averla amata... o amato... o che cosa? D'altra parte come, ho potuto in una sola settimana innamorarmi quasi di questo paese di cadaveri? L'aquila made in U.S.A. è morta e Ardis è l'esatto simbolo della sua fine. Una speranza, una sola, piccola, rimane. È possibile che ciò che ho visto stasera non sia che un'illusione provocata dall'uovo. Ora so che la cosa da me uccisa davanti alla casa del padre di Ardis era reale e tra questo paragrafo e l'altro ho mangiato l'ultimo uovo. Se ora iniziasse l'allucinazione, saprei che ciò che ho visto alla luce dell'arak fiammeggiante era in realtà una cosa con la quale ho giaciuto... una cosa schifosa, vomitevole e che mi ha fatto vomitare. Oh, d'ora in poi dovrò fare in modo di non corrompere più il ventre puro della nostra razza. Dopotutto, potrei tentare di rivendicare le miniature della nostra eredità e permettere alle guardie di uccidermi, ma se poi ci riuscissi? Non sono degno di toccarle. Forse la fine migliore per me sarebbe di viaggiare, solo, in questo continente pullulato di vermi; solo così, forse, mi sarà dato di morire nel modo
adeguato. Più tardi, Kreton camminava nell'atrio fuori dalla mia porta e il passo delle sue scarpe nere e deformi faceva rintronare l'edificio come un terremoto. Sentii la voce polizia come se fosse un tuono. Mia piccola e lucente Ardis ora sei morta, uscita dalla fiamma della candela mentre un viso peloso sta entrando dalla finestra. L'anziana signora chiuse il diario. La più giovane, che lo aveva letto stando alle spalle, andò dall'altra parte del tavolino e si sedette su di un cuscino, i piedi posti in modo che le piante non si vedessero, come vuole la tradizione. «È vivo, quindi» disse. La donna più anziana rimase in silenzio, la testa grigia china sul libro che teneva con ambedue le mani. «Si trova sicuramente in prigione oppure è malato, altrimenti si sarebbe fatto vivo con noi.» La giovane smise di parlare per un momento, lisciò con la mano destra il tessuto del chador mentre con la sinistra giocherellava con il simulatore di gemme che portava appeso a una catenina. «Forse ci ha già provato» disse «ma le sue lettere sono andate smarrite.» «Credi davvero che questa sia la sua scrittura?» chiese la donna più anziana, aprendo il diario a caso. Quando la giovane non rispose, aggiunse: «Forse. Forse...» Titolo originale: Seven American Nights Traduzione: Adria Tissoni Charles Dickens Il segnalatore Charles Dickens è, per popolarità, lo scrittore più importante della ghost story del diciannovesimo secolo. Dickens diede alla ghost story una tradizionale collocazione nelle edizioni di Natale delle autorevoli riviste che curò; e lui stesso scrisse A Christmas Carol, il classico più duraturo del genere Christmas ghost. Come scrittore più popolare di lingua inglese, ma anche come uno degli editori più potenti, rafforzò la tradizione un po' sregolata di raccontare ghost stories di ogni genere nel periodo di Natale in una sorta di rituale culturale. La sua carriera attiva si estende dal 1830 al 1870: in questo arco di tempo diede alle stampe alcune tra le più belle
storie dell'orrore del secolo e ne fece una moda. La sua prosa narrativa breve fu quasi sempre sentimentale e, dal punto di vista dell'allegoria morale, lo sono certamente tutte le sue storie di Natale. Il segnalatore è qualcosa di completamente diverso, una penetrante novella psicologica e un'inchiesta inquietante e ambigua sulla natura della realtà, una storia d'orrore senza nome. È forse la migliore horror story di Dickens. «Ehi, laggiu!» Quando udì una voce che lo chiamava, si trovava accanto alla porta del suo gabbiotto, con una bandiera in mano, arrotolata attorno al corto bastone. Considerata la natura del terreno, si sarebbe potuto pensare che non avesse dubbi sulla direzione da cui proveniva la voce; ma invece di sollevare lo sguardo verso il punto in cui mi trovavo, in cima alla trincea scoscesa quasi sopra la sua testa, si voltò e guardò la Linea. C'era qualcosa di particolare nel modo in cui lo fece, anche se non avrei saputo dire cosa. Ma so che fu abbastanza particolare da attirare la mia attenzione, sebbene la sua figura fosse in prospettiva e in ombra, nel fossato profondo, e io fossi sopra di lui, così immerso nello splendore di un rabbioso tramonto che dovetti schermarmi gli occhi con una mano per vederlo. «Ehi! Laggiù!» Distogliendosi dalla Linea, si voltò nuovamente su sé stesso, e, sollevando gli occhi, vide la mia figura sopra di lui. «Non c'è un sentiero per il quale possa scendere a parlare con voi?» chiesi. Mi fissò senza replicare e io lo guardai senza pressarlo subito con una ripetizione della mia futile domanda. Proprio in quel momento si verificò una vaga vibrazione nel terreno e nell'aria che si trasformò rapidamente in una violenta pulsazione e in un irrompere irruento e imminente che mi indusse a farmi indietro, come se avesse la forza di trascinarmi giù. Quando il vapore che saliva fino a me da quel veloce treno si disperse nel paesaggio, guardai di nuovo giù e vidi l'uomo abbassare la bandiera che aveva tenuto alzata al passaggio del treno. Ripetei la domanda. Dopo una pausa durante la quale parve guardarmi con attenzione, indicò con la bandiera un punto a due o trecento metri di distanza. «Bene!» gli gridai e mi avviai in quella direzione. A forza di guardarmi intorno, trovai un sentiero a zig zag e lo imboccai. Il varco era estremamente ripido e scosceso. Era tagliato in una pietra viscida che si faceva più viscida e scivolosa a mano a mano che scendevo.
Per questi motivi, trovai il percorso abbastanza lungo per concedermi il tempo di pensare alla singolare aria di riluttanza e di costrizione con cui l'uomo mi aveva indicato il sentiero. Quando fui abbastanza in basso lungo quella tortuosa distesa, lo scorsi di nuovo. Era in piedi tra i binari sui quali era da poco passato il treno e sembrava che aspettasse di vedermi apparire. Si teneva il mento con la mano sinistra e appoggiava il gomito sulla mano destra di traverso sul petto. Il suo atteggiamento era talmente circospetto che mi fermai un momento, meravigliato. Ripresi la mia discesa e, emergendo al livello della ferrovia e avvicinandomi a lui, vidi che era un uomo scuro e olivastro, con la barba nera e le sopracciglia folte. Il suo gabbiotto si trovava nel posto più solitario e tetro che avessi mai visto. Su entrambi i lati si ergeva un muro di pietra irregolare che trasudava umido e che permetteva di vedere soltanto una striscia di cielo; la prospettiva lunga non era altro che il prolungamento tortuoso di quella grossa cella sotterranea; quella più corta, nell'altra direzione, terminava in una nebbiosa luce rossa, all'ingresso di un tunnel nero la cui massiccia architettura aveva un che di barbaro, di deprimente e di minaccioso. Quel luogo era stato toccato così raramente dalla luce del sole che puzzava in modo orribile e il vento freddo l'aveva battuto così di frequente che mi venne da rabbrividire. Era come se avessi lasciato il mondo naturale. Prima che si muovesse, gli arrivai tanto vicino da poterlo toccare. Senza distogliere lo sguardo da me, indietreggiò di un passo e sollevò una mano. Era un luogo solitario per viverci, gli dissi, e aveva attirato la mia attenzione quando avevo guardato dall'alto. Un visitatore era una rarità, immaginavo; non una rarità indesiderata, speravo. In me lui poteva vedere un uomo rinchiuso entro i ristretti confini della propria vita e che, essendo finalmente libero, aveva sentito il risveglio di un nuovo interesse in quelle grandi opere. Gli parlai in questo modo, ma non sono ben sicuro dei termini che usai perché, al di là del fatto che non sono molto bravo nel cominciare una conversazione, c'era qualcosa in quell'uomo che m'intimidiva. Diresse un'occhiata molto curiosa alla luce rossa che si trovava all'imboccatura del tunnel e si guardò attorno, come se mancasse qualcosa, poi guardò me. «Quella luce è uno dei suoi compiti, no?» dissi. Mi rispose sommessamente: «Non lo sapete?» Mentre esaminavo quegli occhi fissi e quel viso saturnino, mi attraversò la mente il pensiero mostruoso che quello fosse uno spirito, non un uomo.
Ho pensato in seguito che la sua mente potesse avere avuto una qualche malattia. Indietreggiai d'un passo a mia volta ma, nel farlo, scorsi nei suoi occhi una certa paura latente di me. Questo fece svanire il pensiero mostruoso che avevo avuto. «Mi guardate» dissi, sforzandomi di sorridere «come se aveste paura di me.» «Mi chiedevo» ribatté «se non vi avessi già visto prima.» «Dove?» M'indicò la luce rossa che aveva guardato. «Laggiù?» chiesi. Osservandomi attentamente, rispose (ma senza suono): «Sì.» «Mio buon amico, che cosa ci farei laggiù? Comunque sia, non sono mai stato laggiù, potreste giurarci» dissi. «Credo di sì» disse. «Sì, credo proprio di sì.» I suoi modi divennero più affabili, come i miei. Rispose alle mie domande con prontezza e scegliendo accuratamente le parole. Aveva molto da fare? Sì, aveva delle responsabilità; ma gli si chiedeva soprattutto precisione e attenzione e il lavoro... fatica manuale... era praticamente nullo. Cambiare quel segnale, accendere quelle luci e girare di tanto in tanto quella maniglia di ferro era tutto quello che gli si chiedeva di fare. Riguardo alle ore lunghe e solitarie alle quali io sembravo annettere così tanta importanza, poteva soltanto dire che la routine della sua vita si era conformata a quel procedere e lui vi si era via via abituato. Là sotto aveva insegnato a sé stesso una lingua... ammesso che si fosse potuta imparare a vista e con il semplice formarsi di un'idea rudimentale della pronuncia. Aveva anche studiato frazioni e decimali e fatto un po' di algebra; ma, come da ragazzo, non se la cavava molto con i numeri. Era proprio così necessario che, quando era di turno, rimanesse sempre in quel canale di aria umida, senza mai potere salire alla luce del sole da quegli alti muri di pietra? Dipendeva dai momenti e dalle circostanze. In determinate condizioni c'era più da fare sulla Linea che in altre incombenze. Sia di giorno sia di notte. Con il tempo buono, faceva delle puntatine sopra quelle ombre basse, ma dovendo essere sempre disponibile per quando lo chiamavano con il campanello elettrico e dovendo stare tutto il tempo ad aspettare che lo chiamassero, non doveva ricavare molto sollievo da quelle puntatine, immaginai. Mi portò nel suo gabbiotto dove c'era un fuoco, un tavolo con un registro
sul quale doveva scrivere certe entrate, uno strumento telegrafico con il quadrante e l'ago e il piccolo campanello di cui aveva parlato. Confidando che mi avrebbe scusato, osservai che aveva ricevuto una buona istruzione (sperai di averlo detto senza offesa), un'istruzione forse superiore alla carica che ricopriva, e lui disse che esempi di simile incongruità tra tanta saggezza non erano rari tra gli uomini; che aveva sentito dire che era così nelle fabbriche, tra le forze di polizia, perfino nell'esercito; e che sapeva che era più o meno così in qualsiasi organizzazione ferroviaria. Da giovane (ammesso che avessi potuto credere che, vivendo in quella baracca, fosse mai stato giovane), era stato studente di filosofia naturale e aveva assistito ad alcune conferenze, ma era cresciuto da selvaggio, non aveva colto le opportunità che gli si erano presentate, era caduto in basso e non si era più ripreso. Non aveva scuse. Si era fatto il proprio letto ed era stato costretto a dormirci. Ormai era troppo tardi per cambiarlo. Quanto ho riassunto qui lui lo disse con calma, guardando con aria grave ora me ora il fuoco. Buttava là ogni tanto la parola signore soprattutto quando parlava della sua giovinezza, come per chiedermi di capire che non pretendeva di essere qualcosa di diverso da quello che io vedevo in lui. Fu diverse volte interrotto dal piccolo campanello, dovette leggere messaggi e dare risposte. Una volta fu costretto a uscire per sventolare la bandiera al passaggio di un treno e a fare una comunicazione verbale al conducente. Nello svolgere le sue mansioni, lo vidi particolarmente preciso e vigile: interrompeva il discorso e non diceva nient'altro finché non avesse fatto ciò che doveva. Per farla breve, avrei definito quell'uomo come uno dei più fidati per ricoprire quell'incarico non fosse stato che, mentre parlava, sì era interrotto due volte e, pallido in viso, aveva voltato la testa verso il campanello — anche se questo non aveva suonato — e che era andato ad aprire la porta del gabbiotto (che teneva chiusa per impedire all'umidità di entrare) e aveva guardato verso la luce rossa all'imboccatura del tunnel. In entrambe le occasioni, era tornato accanto al fuoco con una certa aria inspiegabile che avevo già notato in precedenza, ma che non ero in grado di definire. Quando mi alzai per andarmene, dissi: «Mi fate quasi pensare di avere conosciuto, finalmente un uomo soddisfatto.» Così dissi... ma temo di dovere ammettere d'averlo detto per incoraggiarlo. «Credo di esserci abituato» rispose con la voce bassa con la quale aveva parlato all'inizio. «Ma sono turbato, signore, sono turbato.» «Perché? Che cosa vi turba?»
Si sarebbe rimangiato le parole se avesse potuto. Ma le aveva dette e io le avevo colte al volo. «È molto difficile da dire, signore. È molto, molto difficile. Se mai mi farete un'altra visita, proverò a parlarvene.» «Ma io intendo farvi un'altra visita. Vediamo... quando?» «Esco domani mattina presto e sarò di nuovo qui domani sera alle dieci, signore.» «Verrò alle undici.» Mi ringraziò e venne alla porta con me. «Vi terrò accesa la luce bianca, signore» disse con il suo tono particolare di voce bassa «perché ritroviate il sentiero. Quando l'avrete trovato, non chiamate! E quando sarete in cima, non chiamate!» I suoi modi sembravano rendere quel luogo ancora più freddo ma mi limitai a dire: «Molto bene.» «E quando tornate, domani sera, non chiamate! Posso farvi un'ultima domanda? Che cosa vi ha indotto a gridare "Ehi! Laggiù!" questa sera?» «Lo sa il cielo» risposi. «Devo avere gridato qualcosa del genere...» «Non qualcosa del genere, signore. Erano proprio quelle le parole. Io le conosco bene.» «Ammettiamo che fossero proprio quelle le parole. Le ho detto senza dubbio perché vi ho visto di sotto.» «Per nessun'altra ragione?» «Quale altra ragione potevo avere?» «Non avete avuto la sensazione che siano state suggerite in un qualche modo soprannaturale?» «No.» Mi augurò la buonasera e mi fece luce. M'incamminai di fianco ai binari (con la sgradevolissima sensazione di avere un treno alle spalle) finché non trovai il sentiero. Fu più facile risalire di quanto non fosse stato scendere, e ritornai alla mia locanda senza problemi. Puntuale al mio appuntamento, la sera dopo misi piede sul primo tratto di sentiero che l'orologio in lontananza batteva le undici. Lui mi aspettava, in fondo, con la luce accesa. «Non ho chiamato» dissi, quando fummo vicini. «Posso parlare, ora?» chiesi. «Ma certamente, signore.» «Allora, buonasera, e qua la mano.» «Buonasera, signore, e qua la mia.» Dopodiché, c'incamminammo fianco a fianco fino al gabbiotto, entram-
mo, chiudemmo la porta e ci sedemmo davanti al fuoco. «Mi sono deciso, signore» cominciò, sporgendosi in avanti non appena ci fummo seduti e parlando con un tono che era poco più di un mormorio. «Non dovrete chiedermi una seconda volta che cosa mi turba. Ieri sera, vi ho scambiato per qualcun altro. Questo mi turba.» «L'esservi sbagliato?» «No. Quel qualcun altro.» «Chi è?» «Non lo so.» «Mi assomiglia?» «Non lo so. Non l'ho mai visto in faccia. Se la copre col braccio sinistro e agita il destro... lo agita con violenza. Così.» Seguii con lo sguardo il suo gesto ed era il gesto di un braccio che gesticolava con grande passione e veemenza. «Per amor del cielo, sgombra!» sembrava che mi dicesse quella cosa. «Una notte di luna» riprese il segnalatore «ero seduto qui quando udii una voce gridare "Ehi! Laggiù!". Mi alzai e guardai fuori da quella porta e vidi questo Qualcun Altro fermo accanto alla luce rossa all'imboccatura del tunnel che gesticolava così come le ho appena mostrato. La voce sembrava rauca dal gran gridare e gridava "Attento! Attento!" E poi di nuovo: "Ehi! Laggiù! Attento!" Presi la lampada, l'accesi e corsi verso la figura, gridando: "Che cosa c'è che non va? Che cosa è accaduto? Dove?" Stava davanti all'oscurità del tunnel. Gli andai talmente vicino che mi chiesi perché tenesse il braccio davanti agli occhi. Lo raggiunsi e allungai la mano per tirargli via il braccio ma lui era scomparso.» «Nel tunnel?» domandai. «No. Entrai e corsi per un cinquecento metri. Poi mi fermai, sollevai la lampada sopra la testa ma vidi solo i numeri delle distanze e l'umidità che colava dalla volta lungo le pareti. Uscii, correndo più velocemente di quanto avessi mai fatto (avevo un terrore mortale di quel posto) e cercai attorno alla luce rossa con la mia luce rossa; salii su per la scaletta di ferro della galleria, ridiscesi e tornai qui. Telegrafai due volte: "C'è un allarme. Qualcosa non va?" Entrambe le volte la risposta fu: "Tutto bene". Ignorando la sensazione di dita gelide che mi sfioravano la schiena, dissi che quella figura doveva essere frutto di uno scherzo della vista, che visioni simili derivano da malattie di nervi che sovrintendono alle funzioni degli occhi; erano anzi note per avere afflitto dei pazienti alcuni dei quali, consapevoli della natura dei propri malanni, li avevano persino provati con
esperimenti fatti su sé stessi. «Quanto al grido immaginario» dissi «basta ascoltare per un momento il vento in questa valletta innaturale mentre parliamo sottovoce e i fili del telegrafo trasformati in una specie di arpa selvaggia.» Era tutto verissimo, commentò dopo che fummo rimasti per un po' seduti ad ascoltare e doveva saperla lunga sul vento e sui fili... lui che spesso passava lunghe notti d'inverno lì, solo. Ma mi pregò di osservare che non aveva ancora finito. Mi scusai e lui aggiunse lentamente queste parole, toccandomi il braccio: «Sei ore dopo l'Apparizione, accadde il memorabile incidente su questa Linea e dieci ore dopo i morti e i feriti furono portati fuori dal tunnel e deposti nel punto in cui s'era mostrata la figura.» Fui scosso da uno sgradevole brivido, ma feci del mio meglio per non darlo a vedere. Non si poteva negare, osservai, che si trattasse di una notevole coincidenza, calcolata forse inconsciamente quanto esattamente per imprimersela nella mente, ma era indiscutibile che coincidenze altrettanto notevoli accadevano in continuazione e che bisognava tenerne conto quando si affrontava quell'argomento. Anche se in tutta sincerità devo ammettere, aggiunsi (attendendomi una sua pronta obiezione), che gli uomini di buon senso non lasciavano molto spazio alle coincidenze nei calcoli ordinari della vita. Lui di nuovo mi fece cortesemente osservare che non aveva finito. E io di nuovo mi scusai per averlo ancora interrotto. «Questo» disse, mettendomi di nuovo una mano sul braccio e guardando oltre la mia spalla con occhi vacui «è accaduto un anno fa. Sei o sette mesi dopo, mi ero ormai ripreso dalla sorpresa e dallo shock quando una mattina, all'alba, ero in piedi sulla porta e guardavo la luce rossa, vidi di nuovo lo spettro.» S'interruppe e fissò lo sguardo su di me. «Vi chiamò?» «No. Rimase silenzioso.» «Agitò il braccio?» «No. Era appoggiato al palo della luce e si nascondeva il viso dietro alle mani. Così.» Ancora una volta, osservai il suo gesto ed era un gesto di dolore. Avevo visto un'espressione come quella soltanto sulle statue di pietra delle tombe. «Lo raggiungeste?» chiesi. «Rientrai e mi sedetti, in parte per raccogliere i pensieri, in parte perché ero stato sul punto di svenire. Quanto tornai sulla porta, era ormai giorno e
lo spettro era scomparso.» «Ma non accadde altro? Nulla?» Mi toccò due o tre volte il braccio con l'indice, annuendo con aria spettrale. «Quello stesso giorno» disse «mentre un treno usciva dal tunnel, osservai una certa confusione di mani e di teste e qualcosa che si agitava al finestrino di una carrozza, dalla mia parte. Me ne accorsi in tempo per segnalare STOP! al macchinista. Lui frenò ma il treno proseguì per altri centocinquanta metri e più. Gli corsi dietro e, mentre lo facevo, udii delle grida orribili. Una giovane e bella signora era morta all'improvviso in uno degli scompartimenti. Fu portata qui e distesa su questo pavimento tra noi.» Senza volerlo, spostai la sedia all'indietro e guardai le assi che lui indicava. «Vero, signore. Vero» disse. «E io ve lo racconto esattamente come è accaduto.» Non riuscii a pensare a qualcosa da dire, avevo la bocca asciutta. Il vento e i fili si erano inseriti nel racconto con un lungo gemito lamentoso. L'uomo riprese a parlare. «Ora, signore, state a sentire e giudicate quanto la mia mente possa essere turbata. Lo spettro è tornato una settimana fa e, da allora, ogni tanto appare laggiù.» «Alla luce?» «Al segnale di pericolo.» «Che cosa vi sembra che faccia?» Lui ripeté con le braccia lo stesso gesto di prima, se possibile con maggiore passione e veemenza: «Per amor del cielo, sgombra!» sembra dire... Poi continuò: «Non ho più pace né riposo. Mi chiama con voce agonizzante "Ehi! Laggiù! Attento! Attento!" E mi fa dei segnali con le braccia e fa suonare il campanello...» Colsi l'accenno. «Ha fatto suonare il campanello ieri sera quando ero qui e voi siete andato alla porta?» «Due volte.» «Adesso capisco» dissi «come la vostra immaginazione vi inganni. Avevo gli occhi fissi sul campanello e le orecchie pronte a sentirlo suonare e, poiché io sono un normale essere umano vivente, non ha suonato. Non ha suonato se non quando doveva farlo, per ragioni tecniche, quando cioè la stazione che è in comunicazione con voi non l'ha fatto suonare.» Lui scosse la testa. «Non ho mai commesso errori prima d'ora, signore. Non ho mai confuso lo scampanellio dello spettro con quello dell'uomo.
Lo scampanellio del fantasma è una vibrazione strana che non fa muovere il campanello e io non ho mai detto che si muovesse. Non mi meraviglia che voi non l'abbiate udito. Ma io l'ho udito.» «E vi parve che lo spettro fosse là quando avete guardato fuori?» «Era là.» «Entrambe le volte?» «Entrambe le volte» rispose con decisione l'uomo. «Volete venire alla porta con me adesso e guardare fuori?» Si morse il labbro come se fosse in qualche modo riluttante, ma si alzò. Aprii la porta e avanzai fino al gradino mentre lui si fermava sulla soglia. C'era la luce che segnalava PERICOLO. C'era l'entrata tetra del tunnel. C'erano gli alti muri di pietra umida della scarpata e, sopra, c'erano le stelle. «Lo vedete?» gli chiesi, osservando attentamente il suo viso. Aveva gli occhi sporgenti e fissi, ma non più di quanto lo fossero i miei quando li avevo rivolti verso lo stesso punto. «No» rispose. «Non c'è.» «Sono d'accordo» dissi. Tornammo indietro, chiudemmo la porta e ci sedemmo. Stavo pensando a come migliorare il mio vantaggio, ammesso che si potesse definire così, quando lui riprese la conversazione come se non ci fosse alcuna seria divergenza di vedute tra noi e io fossi tuttora in una posizione di debolezza perché incapace o impossibilitato a capire. «A questo punto avrete capito, signore» disse «che ciò che mi turba a morte è la domanda: che cosa significa lo spettro?» Non ero sicuro, gli spiegai, di capire perfettamente. «Contro che cosa mi mette in guardia?» disse, rimuginando, gli occhi fissi sul fuoco e solo di tanto in tanto volgendosi verso di me. «Qual è il pericolo?» chiese più a se stesso che a me. «Dov'è il pericolo? C'è un pericolo che incombe sulla Linea. Ci sarà qualche terribile calamità. Non dubito che qualcosa di grave accadrà una terza volta dopo le due precedenti. Ma certo questo è un tormento crudele per me. Che cosa posso fare?» Tirò fuori il fazzoletto e si asciugò le gocce dal sudore che gli imperlavano la fronte. «Se telegrafassi PERICOLO» disse «su una delle due direzioni o su entrambe, non potrei dare alcuna giustificazione» continuò, asciugandosi i palmi delle mani. «Mi metterei nei guai e non ne ricaverei niente di buono. Penserebbero che sono pazzo. Ecco cosa succederebbe. Messaggio: "Peri-
colo! Fate attenzione!" Risposta: "Quale pericolo? Dove?" Messaggio: "Non lo so. Ma, per amor del cielo, fate attenzione!" Mi caccerebbero via. Che cos'altro potrebbero fare?» Il dolore della sua mente era molto pietoso da vedere. Era la tortura mentale di un uomo coscienzioso, oppresso al di là della sopportazione da una incomprensibile responsabilità che coinvolgeva la sua vita e le vite altrui. «La prima volta che si è messo sotto la luce PERICOLO» continuò, scostandosi i capelli neri dalla fronte e premendosi le mani sulle tempie in un gesto di febbrile tensione «perché non dirmi dove sarebbe accaduto l'incidente... se doveva accadere? Perché non dirmi come evitarlo, ammesso che si fosse potuto evitare? La seconda volta che è venuto e si è coperto il viso, perché invece non mi ha detto: "Questa signora... nome e cognome, morirà... Che se ne stia a casa"? Se è venuto in quelle due occasioni solo per dimostrarmi che i suoi avvertimenti erano veri e per prepararmi al terzo, perché non avvertirmi chiaramente adesso? Me, poi! Dio mi aiuti! Un povero e semplice segnalatore di una stazione solitaria! Perché non andare da qualcuno degno di credito e in grado di agire?» Vedendolo in quello stato, capii che per il bene di quel pover'uomo e per la sicurezza pubblica, dovevo calmare la sua mente. Perciò, mettendo da parte ogni divergenza, sulla realtà e sull'irrealtà, che poteva esserci fra di noi, gli spiegai che chiunque avesse un dovere da compiere doveva compierlo bene e che doveva essergli di conforto almeno il fatto che comprendesse quale fosse il suo dovere anche se non comprendeva quelle confuse Apparizioni. In questo sforzo riuscii meglio che nel tentativo di cancellare la sua convinzione. Si calmò e con l'avanzare della notte, le occupazioni di routine cominciarono a richiedere sempre più la sua attenzione. Alle due del mattino lo lasciai. Mi ero offerto di trascorrere la notte lì, ma non ne aveva voluto sapere. Non vedo il motivo di nascondere che, mentre risalivo il sentiero, mi voltai più di una volta a guardare la luce rossa, che quella luce rossa non mi piaceva e che se fossi stato costretto a dormire in quel posto, non avrei dormito affatto. Né mi piacevano le due sequenze dell'incidente e della ragazza morta. Non vedo il motivo di nascondere neppure questo. Ma ciò che più mi torturava la mente era il pensiero di come avrei dovuto agire, visto che ero diventato il ricettacolo di quella confessione. Avevo avuto la dimostrazione che l'uomo era intelligente, vigile, coscienzioso e preciso; ma fino a quando sarebbe rimasto tale in quelle condizioni menta-
li? Sebbene in una posizione di subordine, era ancora detentore di un incarico di estrema fiducia; e a me (per esempio) sarebbe piaciuto affidare la mia vita alle probabilità che lui continuasse a svolgere la sua mansione con precisione? Quella seguente si annunciò come una bella sera e io uscii presto per godermela. Il sole non era ancora completamente tramontato quando presi il sentiero che tagliava per i campi a ridosso della discesa alla ferrovia. Avrei prolungato la passeggiata per un'ora, mi dissi, andando avanti e indietro, e poi sarei sceso al casotto del mio segnalatore. Prima di mettere in pratica quel mio progetto, mi soffermai brevemente sul ciglio della scarpata e guardai meccanicamente in basso. Ero nello stesso punto dal quale avevo guardato giù la prima volta. Non posso descrivere l'eccitazione che mi prese quando, vicino all'imboccatura del tunnel, vidi apparire un uomo con il braccio sinistro davanti agli occhi, che agitava selvaggiamente il destro. L'orrore senza nome che mi prese passò in un momento perché mi accorsi che l'apparizione era quella di un uomo vero e che c'era un altro gruppetto di uomini, poco più in là, verso i quali lui sembrava rivolgere il gesto che faceva. La luce PERICOLO non era ancora accesa. A ridosso del palo di sostegno era stata costruita, con assi di legno e un telone, una piccola capanna bassa, del tutto nuova per me, che non era più grande di un letto. Con l'insopprimibile sensazione che qualcosa non andasse... con la paura, e l'autorimprovero, di avere commesso una fatale leggerezza nell'avere lasciato a sé stesso il segnalatore e di non avere mandato qualcuno a controllare o correggere ciò che faceva... mi precipitai il più velocemente possibile per la discesa. «Che cosa succede?» domandai agli uomini. «Il segnalatore è morto questa mattina, signore.» «L'uomo che stava in quel capanno?» «Sì, signore.» «L'uomo che conosco?» «Lo riconoscerete, signore, se lo conoscevate» disse l'uomo che parlava per gli altri, scoprendosi la testa con aria solenne e sollevando l'estremità del telone «perché il viso è quasi intatto.» «Oh... Com'è accaduto... com'è accaduto?» chiesi, rivolgendomi ora all'uno ora all'altro, mentre il telone veniva riabbassato. «È stato travolto da una locomotiva, signore. Nessun uomo in Inghilterra
conosceva meglio di lui il suo lavoro. Ma, chissà perché, non si trovava a distanza di sicurezza dal binario esterno. Cominciava a fare chiaro. Aveva spento la luce e aveva la lampada in mano. Quando la locomotiva è uscita dal tunnel, le volgeva la schiena ed è stato abbattuto. Quell'uomo, il macchinista, ci stava facendo vedere... Tom, spiega al signore com'è accaduto.» L'uomo, con una tuta scura, si riportò all'entrata del tunnel. «Uscendo dalla curva del tunnel, signore» disse «l'ho visto alla fine, come attraverso una lente d'ingrandimento. Non c'era il tempo per fermare né per controllare la velocità e sapevo che lui era sempre molto prudente. Ma quando mi è parso che non sentisse il fischio, l'ho chiamato, più forte che ho potuto...» «Che cosa gli avete detto?» «Ho urlato: "Ehi! Laggiù! Attento! Attento! Per amor del cielo, sgombra!"» Feci per andarmene. «Ah, è stato un momento terribile, signore» proseguì il macchinista. «Non ho smesso di chiamarlo. Mi sono messo il braccio davanti agli occhi per non vedere e ho agitato l'altro fino alla fine, ma tutto è stato inutile.» Senza prolungare la narrazione e insistere su una delle sue curiose circostanze piuttosto che su un'altra, posso, concludendo, sottolineare la coincidenza che l'avvertimento del macchinista comprendeva, non solo le parole che lo sfortunato segnalatore mi aveva ripetuto e che lo tormentavano, ma anche le parole che io stesso, non lui, avevo attribuito, e solo nella mia mente, al gesto che lui aveva imitato. Titolo originale: The Signal-Man Traduzione: Grazia Alineri Stephen King Crouch End È un tributo alla portata del talento di King il fatto che lui, come Dickens, se si presenta l'occasione sia in grado di spaziare al di fuori del genere che più gli è congeniale. In effetti è paragonabile a Dickens nel campo dell'orrore contemporaneo; questo risulta evidente dalla sua popolarità senza precedenti e dalla sua levatura morale, dal suo impegno irrevocabi-
le nei riguardi della cultura popolare e dei rapporti con questa, dal suo talento per la narrazione e l'intrattenimento, dalla sua energia apparentemente inesauribile, dal rifiuto espresso nei suoi confronti dalla maggior parte dei custodi dell'arte per eccellenza. Se The Mist di Stephen King, finora è l'esempio più importante nella sua opera di racconto che si occupa di realtà mutevoli; Crouch End, la storia lovecraftiana di King che ripropone il mito di Cthulhu, occupa più che altro una posizione di passaggio. Questo racconto rappresenta il maggior avvicinamento da parte di King, se si escludono il peculiare, surreale Big Wheels, e forse Mrs. Todd's Shortcut, a un interesse per le alterazioni della realtà di fondo o generale. E qui raggiunge tutto ciò unicamente adottando il punto di vista preso a prestito e presente in The Call of Cthulhu, in base al quale gli dèi ancestrali esistono realmente. King caratterizza il proprio modo di affrontare il tema, affermando che questi dèi sono reali in un altro o alternativo universo, in comunicazione con il nostro in luoghi come Crouch End, a Londra. Per Lovecraft esiste soltanto una realtà, cosmica e malvagiamente spietata. Nel momento in cui scrive questo racconto, King ha appena varcato i quarant'anni e ha già un successo fenomenale in tutto il mondo; le sue opere, più di quelle di qualsiasi altro scrittore nella storia del genere, hanno provocato un'evoluzione del racconto dell'orrore. Ed egli è così straordinariamente generoso nel sostenere l'opera di altri scrittori, che il suo nome avalla ogni anno libri di nuovi autori: e anche questo è un fenomeno abbastanza unico nell'odierna storia della narrativa horror. Quando la donna se ne fu finalmente andata, erano quasi le due e mezzo del mattino. Fuori dalla stazione di polizia di Crouch End, Tottenham Lane si presentava come un fiumiciattolo stagnante. Londra era addormentata... ma naturalmente Londra non dorme mai profondamente, e fa sogni inquieti. L'agente Vetter chiuse il notes, che aveva riempito quasi completamente mentre si dipanava la strana storia esaltata dell'americana. Guardò la macchina da scrivere e la pila di moduli da compilare presenti sullo scaffale, lì accanto. «Questa risulterà strana, alla luce del giorno» disse l'agente Vetter. L'agente Farnham stava bevendo una Coca Cola. Non parlò per un lungo istante. «È un'americana» disse alla fine, come se questo potesse spiegare la deposizione che avevano raccolto. «Finirà all'archivio di fondo» convenne Vetter, e si guardò intorno cer-
cando una sigaretta. «Ma mi chiedo...» Farnham rise. «Non vorrai dirmi che credi anche solo a una parola di questa storia?» «L'ho forse detto? Non mi pare di averlo detto. No. Ma tu sei nuovo, qui.» L'agente Farnham si raddrizzò lievemente sulla sedia. Aveva ventisette anni, e non era certo colpa sua se era stato spedito lì da Muswell Hill, nel nord, o se Vetter, che aveva quasi il doppio dei suoi anni, aveva trascorso tutta la sua carriera priva di avvenimenti degni di nota nella tranquilla e deprimente Crouch End, una zona stagnante di Londra. «Forse è così, signore» disse Farnham «ma, con tutto il rispetto, continuo a credere di sapere riconoscere una storia inventata di sana pianta, quando la sento... o cercano di darmela a bere.» «Dammi una cicca, Farnham» disse Vetter, con aria piuttosto divertita. «Da bravo.» L'accese con un fiammifero di legno che aveva estratto da una scatola color rosso acceso, delle ferrovie, lo agitò per spegnerlo e gettò il residuo nel portacenere di Farnham. Scrutò attentamente Farnham attraverso una nuvola di fumo vagante. Il suo volto era profondamente segnato e il naso, pieno di venuzze, era simile a una carta geografica: all'agente Vetter piaceva farsi sei lattine di Harp ogni sera, su questo non c'erano dubbi. «Pensi che Crouch End sia un posto molto tranquillo, vero?» chiese. Farnham scrollò le spalle. Pensava che Crouch End fosse periferico e, a dire il vero, noiosissimo. «Tranquillo, sì.» «E hai ragione. Lo è. Alle undici sono già tutti a letto, alle undici di sera di ogni di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese di ogni eccetera... ma ho visto molte cose strane a Crouch End. Se starai qui la metà del tempo che ci ho trascorso io, ne vedrai delle belle anche tu. Accadono più cose strane proprio qui, in questi sei o sette isolati tranquilli, che in qualunque altra parte di Londra, ci scommetterei la testa. E non è dir poco. Mi spaventa. Per questo non lesino sulla birra e in questo modo mi faccio animo. Ogni tanto, Farnham, dai un'occhiata al sergente Gordon, e domandati perché i suoi capelli siano completamente bianchi già a quarant'anni. Oppure ti direi di dare un'occhiata a Petty, ma non ti riuscirebbe molto facile, vero? Petty si è suicidato nell'estate del 1976. La nostra estate calda. È stata...» Vetter parve prendere in considerazione le proprie parole. «È stata veramente brutta quell'estate. Veramente brutta. Molti di noi temevano che... potessero aprirsi un varco.» «Chi avrebbe dovuto aprirsi un varco, e attraverso che cosa?» chiese
Farnham. Sentì che un sorriso di disprezzo gli increspava gli angoli della bocca, sapeva che non era affatto opportuno, ma non riuscì a evitarlo. A parer suo, Vetter stava vaneggiando, proprio come quella donna americana. Era sempre stato un po' strano. Probabilmente dipendeva dall'alcol. Poi vide che Vetter stava sorridendogli direttamente di rimando. «Pensi che io sia matto» disse. «Niente affatto» protestò Farnham, soffrendo intimamente. «Sei un bravo ragazzo» disse Vetter. «Non finirai dietro a una scrivania in questa stazione, nemmeno quando avrai la mia età. No di certo... se sceglierai di restare nella forza pubblica. Prevedi di rimanere, Farnham?» «Sì» disse Farnham, con fermezza. Era vero. Aveva intenzione di restarci, anche se Sheila voleva che lasciasse la polizia e si trovasse un lavoro che le avrebbe permesso di fare affidamento su di lui. Magari alla catena di montaggio della Ford. Il pensiero gli fece rivoltare lo stomaco. «Immaginavo che fossero queste le tue intenzioni» disse Vetter, spegnendo la sigaretta. «Ti entra nel sangue, vero? E potresti fare strada. E certamente non ti fermerai a Crouch End. Eppure non sai tutto. Crouch End è... strana. Una volta o l'altra dovresti dare un'occhiata all'archivio di fondo, Farnham. Oh, gran parte dei casi sono sempre i soliti... ragazzi che scappano di casa per fare gli hippy... adesso si chiamano punk... uomini che sono usciti per comprare le sigarette e semplicemente non sono più tornati... e quando dai un'occhiata alle loro mogli capisci perché... incendi dolosi irrisolti... scippi... tutte le solite cose. Ma in mezzo a queste, ci sono parecchie storie che ti fanno gelare il sangue. E alcune che ti danno la nausea.» «Sul serio?» chiese sorridendo Farnham. Vetter non parve offeso dall'impertinenza della domanda. Si limitò ad annuire. «Storie molto simili a quella che ci ha raccontato quella povera ragazza americana. Non vedrà più suo marito, quella ragazza, te lo dico io.» Guardò Farnham e scrollò le spalle. «Che tu mi creda o meno. Tanto è lo stesso, non è vero? L'archivio è li. Lo chiamiamo l'archivio aperto perché è più carino che dire l'archivio di fondo o dei casi irrisolti. Esaminalo, Farnham. Esaminalo bene.» Farnham non disse nulla, ma dentro di sé aveva ormai deciso di esaminarlo sul serio. L'idea che ci potesse essere un'intera serie di storie come quella che aveva raccontato la donna americana era... era inquietante. «Talvolta penso alle dimensioni» disse Vetter, fregando un'altra delle sigarette Silk Cut di Farnham. «Gli scrittori di fantascienza continuano sem-
pre a parlare delle Dimensioni, non è vero? Hai mai letto libri di fantascienza, Farnham?» «No» rispose Farnham. Aveva deciso che si trattava di un'elaborata presa in giro di qualche genere. «Hai mai letto Lovecraft?» «Mai sentito nominare.» «Beh, questo tipo, questo Lovecraft, non faceva altro che scrivere delle Dimensioni» disse Vetter, estraendo la sua scatola di fiammiferi delle ferrovie. «Dimensioni vicine alle nostre. Che pullulano di questi mostri immortali che renderebbero pazzo un uomo con un semplice sguardo. Robaccia spaventosa, no? A parte il fatto che ogni qual volta capita che arrivi una di queste persone, penso che potrebbe essere proprio tutto vero. Allora dico a me stesso... quando a tarda notte tutto è tranquillo, come ora... che tutto il nostro mondo, tutto ciò che riteniamo bello e normale e sano, è come una grossa borsa di pelle piena d'aria. Soltanto che in alcuni punti la pelle è consunta quasi fino al limite. Si tratta di luoghi in cui... in cui le barriere sono più sottili. Mi segui?» «Si» disse Farnham, ma non seguiva affatto l'agente Vetter. «E poi penso» proseguì Vetter «che Crouch End è uno di quei punti deboli. Highgate è a posto, per lo più; a Muswell Hill e a Highgate la pelle della borsa è spessa quanto basta, tra noi e le Dimensioni; ma se prendi Archway e Finsbury Park è diverso... anche loro confinano con Crouch End. Ho degli amici in entrambi questi luoghi, e sanno del mio... del mio interesse per alcune cose che non sembrano affatto razionali. Alcune cose raccontate, diciamo, da persone che non hanno nulla da guadagnare, inventando una storia folle. Ti sei chiesto, Farnham, perché la donna ci avrebbe raccontato quello che ci ha raccontato se non fosse vero?» Accese un fiammifero e guardò Farnham, da dietro la fiamma. «Pensaci: una giovane donna graziosa, ventisei anni, due bambini in albergo, il cui marito è un giovane avvocato che sta facendo carriera a Milwaukee o da qualche altra parte. Una donna così perché mai dovrebbe venire qui, da noi, a farneticare di mostri? Che senso ha?» «Non so» disse Farnham rigidamente. «Ma ci potrebbe essere uno sc...» «È quello che mi sono detto anch'io» Vetter non gli badò neppure. «Sì, la questione è quella dei punti deboli... Come Archway e Finsbury Park... ma il luogo in cui la pelle della borsa è veramente sottile è qui a Crouch End. E mi dico: non potrebbe accadere, un giorno, che tutto ciò venga semplicemente... cancellato? E non sarebbe comunque incredibile se anche
soltanto la metà di quanto ci ha raccontato l'americana fosse vera?» Farnham tacque. Si era ormai convinto che probabilmente l'agente Vetter credeva anche nella chiromanzia, nella frenologia e nei rosacrociani. «Guarda nell'archivio di fondo» proseguì Vetter, alzandosi in piedi. Si udì uno scricchiolio quando si mise le mani alla base della schiena e si stiracchiò. «Vado fuori a prendere un po' d'aria fresca.» Uscì per fare due passi. Farnham lo seguì con lo sguardo con un misto di divertimento e di rancore. Vetter era proprio matto. Ed era anche un maledetto scroccone di sigarette. Le sigarette costavano care in questo splendido mondo di socialismo e stato assistenziale. Prese il notes di Vetter e iniziò a sfogliare nuovamente la storia della ragazza. E sissignore, avrebbe esaminato anche l'archivio di fondo. L'avrebbe fatto per divertirsi un po'. La ragazza — la giovane donna americana — aveva fatto irruzione nella stazione di polizia alle dieci e un quarto della sera prima, con i capelli bagnati che le aderivano intorno al volto e con gli occhi fuori dalle orbite. Si trascinava dietro la borsa, tenendola per la tracolla. «Lonnie» disse. «Oh mio Dio, dovete trovare Lonnie.» «Beh, faremo del nostro meglio, le pare?» disse Vetter. «Ma deve dirci chi è Lonnie.» «È morto» disse la giovane donna. «So che è morto.» Iniziò a piangere. Poi iniziò a ridere... a schiamazzare, a dire il vero. Lasciò cadere la borsa davanti a sé. Era isterica. La stazione era quasi completamente deserta a quell'ora, era la notte di un giorno feriale. Il sergente Raymond stava ascoltando una donna pachistana che gli raccontava, con calma quasi soprannaturale, come le fosse stata scippata la borsa in Hillfield Avenue. Stava per alzarsi quando l'agente Farnham entrò dall'anticamera, dove aveva staccato vecchi manifesti (C'È POSTO NEL VOSTRO CUORE PER UN BAMBINO INDESIDERATO?) e affiggendone di nuovi (SEI REGOLE PER CIRCOLARE IN BICICLETTA DI NOTTE SENZA PERICOLO). Vetter annuì a Farnham e fece segno al sergente Raymond di tornare indietro. Raymond, a cui non dispiaceva spezzare le dita ai borsaioli, non era l'uomo più adatto per una donna isterica. «Lonnie!» urlò la giovane donna. «Oh, mio Dio, Lonnie, l'hanno preso...» La pachistana volse la faccia simile a una tranquilla luna marrone verso
la giovane americana. La studiò per un attimo, e poi si girò nuovamente verso il sergente Raymond, con calma imperturbabile. Farnham si avvicinò. «Miss...» iniziò l'agente Farnham. «Che cosa sta succedendo là fuori?» sussurrò lei. Respirava affannosamente. Farnham notò che c'era un lieve graffio sulla sua guancia sinistra. Era una cosina graziosa con i capelli castani. Indossava abiti abbastanza costosi. Aveva perso il tacco di una delle scarpe. «Che cosa sta succedendo là fuori?» ripeté la giovane donna e poi... per la prima volta: «Mostri...» La donna pachistana si volse nuovamente a guardare... e sorrise. Aveva i denti marci. Il sorriso scomparve, come per il trucco di un prestigiatore, e rivolse la sua attenzione al modulo per gli effetti perduti/smarriti che Raymond le aveva porto. «Prepara una tazza di caffè per la signora e portala giù, nella stanza numero tre» disse Vetter a Farnham. Quindi, rivolto alla giovane donna: «Che ne dice di una tazza di caffè, signora?» «Lonnie» sussurrò lei. «So che è morto.» «Adesso lei viene con il vecchio Ted Vetter e vediamo di che cosa si tratta» disse, e l'aiutò ad alzarsi in piedi. Stava ancora parlando a voce bassa, lamentosa, quando lui la condusse via, sorreggendola con un braccio. Lei oscillava con passo malfermo a causa della scarpa rotta. Farnham preparò il caffè e lo portò nella stanza numero tre, una semplice cameretta bianca ammobiliata con un tavolo sfregiato, quattro sedie e un raffreddatore d'acqua nell'angolo. Le mise il caffè davanti. «Ecco, signora» disse. «Questo le farà bene. Ho delle zollette di zucchero, se...» «Non posso berlo» disse lei. «Non potrei...» Quindi, afferrò la tazza di porcellana - il souvenir di Blackpool, di qualcuno dimenticato ormai da tempo - tra le mani, come se volesse riscaldarsi. Le mani le tremavano moltissimo, e Farnham voleva dirle di posarla prima di rovesciare il caffè e di scottarsi. «Non potrei» disse nuovamente... ma bevve infine, continuando a tenere la tazza con entrambe le mani, proprio come un bambino avrebbe tenuto la sua tazza di brodo. E quando li guardò, fu con uno sguardo da bambina: semplice, stremato, supplichevole... e alle strette. Era come se ciò che era successo l'avesse in qualche modo resa violentemente giovane; come se qualche mano invisibile fosse piombata dal cielo e l'avesse schiaffeggiata rudemente, facendole perdere vent'anni, facendo di lei una bambina con gli
abiti di un'adulta americana... persa, sola e disperata in questa stanzetta per gli interrogatori, a Crouch End. Sì, era stato così. «Lonnie» disse. «I mostri» disse. «Mi aiuterete? Per favore, volete aiutarmi? Vi prego, volete aiutarmi? Forse non è morto. Forse... Sono una cittadina americana!» gridò improvvisamente, e poi, come se avesse detto qualcosa di profondamente vergognoso, iniziò a singhiozzare. Vetter le diede dei colpetti affettuosi sulla spalla. «Coraggio, signora. Credo che potremo aiutarla a trovare il suo Lonnie. È suo marito, vero?» Ancora singhiozzando, annuì. «Danny e Norma sono in albergo... con la baby sitter... staranno dormendo... aspettandosi che lui vada a dare loro un bacio, quando ritorna...» «Ora, se riuscisse a rilassarsi e a dirci che cosa è successo...» «E dove è successo» aggiunse Farnham. Vetter sollevò rapidamente lo sguardo su di lui, con aria di disapprovazione. «Ma è proprio questo!» gridò lei. «Non so dove sia capitato! Non sono neppure sicura di quel che è successo, a parte il fatto che è stato o... o... orr...» Vetter aveva estratto il suo notes. «Come si chiama, signora?» «Mi chiamo Doris Freeman. Mio marito è Leonard Freeman. Alloggiamo all'Hotel Inter-Continental. Siamo cittadini americani.» Questo resoconto sembrò calmarla un po'. Sorseggiò il suo caffè e posò la tazza. Farnham vide che le palme della sua mano erano molto arrossate. Vetter stava scrivendo tutto quanto nel suo notes. Poi guardò per un attimo l'agente Farnham, fu semplicemente un'occhiatina discreta. «Siete in vacanza?» chiese. «Sì... due settimane qui e una in Spagna. Avremmo dovuto trascorrere una settimana in Spagna... ma questo non aiuterà a trovare Lonnie! Perché mi fate queste stupide domande?» «Stiamo solo cercando di ricostruire gli antecedenti, signora Freeman» disse Farnham. Senza accordarsi i due agenti avevano entrambi optato per un tono di voce basso, confidenziale e rassicurante. «Adesso prosegua e ci dica che cosa è successo. Lo racconti con parole sue.» «Perché è così difficile trovare un taxi a Londra?» chiese lei di punto in bianco. Farnham non seppe proprio che cosa rispondere, ma Vetter intervenne come se la domanda fosse assolutamente logica, pertinente e conseguente. «Difficile dirlo, signora» disse. «Forse per i turisti. E può essere particolarmente difficile intorno alle cinque del pomeriggio. È allora che gli auti-
sti iniziano a darsi il cambio, sa. Termina il turno di giorno e inizia quello di notte. Perché? Ha avuto problemi a trovare qualcuno che la portasse dal centro fino qui a Crouch End?» «Sì» disse lei e lo guardò con riconoscenza. «Abbiamo lasciato l'hotel alle tre e siamo andati alla libreria Foyle's. È in Cambridge Circus?» «Lì vicino» confermò Vetter. «È un bel negozio di libri, vero signora? Molto grande.» «Non abbiamo avuto problemi per trovare un tassì dall'InterContinental... fuori ce n'era una fila. Ma quando siamo usciti da Foyle's, è stato proprio come ha detto lei. Passavano, ma le luci sopra le macchine erano sempre spente. Poi, finalmente, uno si è fermato. Lonnie ha detto: "Crouch End" e l'autista si è limitato a mettersi a ridere e a scuotere la testa. "Questo non è il taxi giusto per voi" ha detto.» «Capisco» disse Farnham. «Ha perfino rifiutato una sterlina di mancia» disse Doris Freeman, e nel suo tono si era insinuata una perplessità estremamente americana. «Abbiamo aspettato quasi mezz'ora prima di trovare un autista disposto a portarci dove volevamo andare. Ormai erano le cinque e mezza, o forse le sei meno un quarto. Avevamo un appuntamento e il ritardo cominciava a essere... sconveniente... E proprio allora Lonnie scoprì di avere perso l'indirizzo...» Afferrò nuovamente la tazza. «Chi dovevate andare a trovare?» chiese Vetter. «Un collega di mio marito. Un avvocato di nome John Squales. Mio marito non l'aveva mai conosciuto, ma le loro due ditte erano...» fece un gesto vago. «Affiliate?» «Sì, proprio così. E negli ultimi quattro anni Lonnie e mister Squales hanno avuto un notevole scambio di corrispondenza, da una parte e dall'altra. E quando mister Squales ha saputo che saremmo venuti in vacanza a Londra, ci ha invitati a cena da lui. Lonnie gli aveva sempre scritto in ufficio, naturalmente, ma aveva l'indirizzo di casa di mister Squales scritto su un pezzetto di carta. Dopo essere saliti sul taxi, ha scoperto di averlo perso. E riusciva a ricordare soltanto la zona, Crouch End.» Li guardò. «Crouch End» disse. «È un brutto nome.» Vetter sorrise. «In effetti, strisciare, umiliarsi e forse morire... Crouch End non è davvero un granché come nome. Bene, che cosa avete fatto allora?»
Iniziò a parlare. Quando ebbe finito, aveva terminato la prima tazza di caffè, e anche un'altra, e l'agente Vetter aveva riempito diverse pagine del suo notes con la sua scrittura robusta, disordinata... Lonnie Freeman era un uomo ben piantato. Si piegò in avanti nello spazioso sedile posteriore del taxi londinese per potere parlare con l'autista. In quel momento Doris ebbe la sensazione di rivedere il Lonnie del loro primo incontro a una partita di basket durante il loro ultimo anno all'università: Lonnie seduto in panchina, con le ginocchia che in qualche modo gli arrivavano all'altezza degli orecchi; Lonnie con le mani dai polsi larghi, che gli penzolavano tra le gambe; Lonnie che allora indossava calzoncini da basket e aveva un asciugamano intorno al collo... Lonnie, lo stesso Lonnie che ora indossava un completo da uomo d'affari e la cravatta. Non aveva mai giocato molte partite, ricordò con tenerezza, semplicemente perché non era abbastanza bravo. E perdeva gli indirizzi. Il tassista ascoltò con indulgenza la storia dell'indirizzo perduto, dopo che tutte le tasche di Lonnie erano state debitamente perquisite. Era un uomo di una certa età, vestito impeccabilmente con un abito estivo grigio, l'antitesi del trasandato tassista newyorkese. Soltanto il copricapo di lana a scacchi calato sulla sua testa stonava, ma si trattava di una stonatura divertente; gli conferiva un tocco di fascino spigliato. Fuori, il traffico scorreva continuamente oltre Cambridge Circus; il vicino teatro annunciava che Jesus Christ Superstar stava per iniziare il suo ottavo anno di repliche continue. «Bene, le dico una cosa» disse il tassista. «Io vi porto a Crouch End, ma non posso lasciarvi lì così, perché Crouch End è un posto molto grande, capite?» E Lonnie, che non era mai stato a Crouch End - come del resto non era mai uscito dagli Stati Uniti - in tutta la sua vita, annuì saggiamente. «Sì, proprio così» disse il tassista, tra sé e sé. «Perciò vi porto lì e ci fermiamo a un telefono, così voi controllate l'indirizzo del vostro amico e noi ripartiamo, per andare diritti alla sua porta.» «È fantastico» disse Doris, veramente convinta di quel che diceva. Ormai erano a Londra da sei giorni e non ricordava di essere mai stata in un luogo in cui la gente fosse più gentile, educata, o... o più civile. «Grazie» disse Lonnie, e si rimise a sedere comodamente. Mise il braccio intorno a Doris e sorrise. «Visto? Non c'è nessun problema.» «Non certo per merito tuo» disse lei, fingendo di brontolare, e gli diede
un lieve pugno nella parte bassa del torace. C'era parecchio spazio, perfino un uomo alto come Lonnie riusciva a stiracchiarsi; i taxi neri di Londra erano anche più spaziosi dei Chackers di New York. «Bene» disse il tassista. «Allora andiamo. Partenza per Crouch End.» Era la fine di agosto e un vento caldo, costante, spargeva i rifiuti per la strada e sferzava le giacche e le gonne degli uomini e delle donne che tornavano a casa dal lavoro. Il sole era sceso dietro le sommità degli edifici e cominciava ad assumere la tonalità rossastra della sera. Il tassista canticchiava a bocca chiusa. Doris si rilassò con il braccio di Lonnie intorno a sé. "Il tramonto" pensò: l'aveva visto più spesso negli ultimi sei giorni, di quanto non le fosse accaduto nel corso di tutto l'anno ed era molto felice di questa sua piccola scoperta e del piacere che le procurava. Neppure lei era mai stata fuori dall'America, prima, e doveva continuare a ricordarsi di essere in Inghilterra, a Londra e, pensava, migliaia di persone avrebbero dovuto provare una gioia simile. Ben presto aveva perduto qualsiasi senso della direzione. L'andare in taxi, a Londra, non di rado le dava questa sensazione. La città era un grande labirinto che si estendeva disordinatamente, fatto di strade e di conglomerati di abitazioni, collinette e luoghi cintati (e perfino locande) e non riusciva a capire come la gente riuscisse a orientarcisi. Quando aveva accennato questo fatto a Lonnie, il giorno prima, lui aveva risposto che anche i londinesi si muovevano con estrema cautela... non aveva forse notato come tutti tenessero lo Stradario di Londra opportunamente nascosto sotto il cruscotto? Questo era il viaggio in taxi più lungo che avessero mai fatto. Si lasciarono alle spalle la zona alla moda della città (nonostante quella persistente sensazione di continuare a girare in tondo). Attraversarono una zona di monolitici condominii residenziali che, visti così, di sfuggita, dal taxi parevano assolutamente deserti, per l'incredibile assenza di segni di vita che mostravano (no, si corresse, parlando con Vetter e Farnham, nella stanzetta bianca; in realtà aveva visto un ragazzino seduto sul bordo del marciapiede, che accendeva dei fiammiferi); poi una zona di negozietti piuttosto malandati e di bancarelle della frutta, e poi - non c'era davvero da meravigliarsi se girare in auto per Londra sembrava produrre una continua sensazione di disorientamento - ebbero l'impressione di essere nuovamente tornati di colpo nella zona alla moda. "C'era perfino un fast food McDonald" aveva detto a Vetter e a Farnham, e il suo stupore non sarebbe stato certo inferiore se avesse visto la Sfinge o i Giardini Pensili. "Davvero?" aveva
replicato Vetter, con aria adeguatamente stupita e rispettosa. Nel racconto, Doris era finalmente entrata in quella fase in cui tutto le tornava alla memoria, e lui non aveva voluto che qualcosa potesse spezzare quello stato di grazia, almeno fino a quando lei non avesse raccontato loro il più possibile. La zona alla moda di cui il McDonald era la caratteristica saliente, fu lasciata alle spalle. Ora il sole era una palla piena, arancione seduta al di sopra dell'orizzonte, e inondava le strade di una strana luce chiara che conferiva ai volti dei pedoni una sorta di lucore sinistro, incendiario e incendiato. «Fu allora che le cose iniziarono a... a cambiare» aveva detto Doris. Le si era un po' abbassata la voce. Le tremavano nuovamente le mani. Vetter si era proteso in avanti, pieno d'interesse. «Cambiare? Come? In che senso le cose cambiarono signora Freeman?» Erano passati davanti alla vetrina di un giornalaio, ricordava, e sul cartello posto al di fuori c'era scritto: SESSANTA PERSONE SCOMPARSE IN UN'ORRIBILE SVENTURA SOTTERRANEA. «Lonnie, guarda lì!» «Che cosa?» Lui si girò, allungando il collo, ma il giornalaio era già dietro di loro. «Diceva: "Sessanta persone scomparse in un'orribile sventura sotterranea". Non è così che chiamano la metropolitana?» «Sì, la sotterranea o the tubes» disse Lonnie. «C'è stato uno scontro?» «Non lo so.» Lei si protese in avanti. «Autista, lei sa di che cosa si trattava? C'è stato uno scontro nella metropolitana?» «Uno scontro, signora? No che io sappia.» «Ha una radio?» «No, nel mio taxi non c'è, signora.» «Lonnie.» «Sì?» Ma vedeva che a Lonnie la faccenda non interessava più. Stava frugandosi nuovamente nelle tasche (e poiché indossava il suo completo a tre pezzi, ce n'erano molte da esaminare), cercando per l'ennesima volta il pezzo di carta su cui era scritto l'indirizzo di John Squales. Il messaggio scritto con il gesso sulla lavagna continuava a tornarle alla mente. Avrebbe dovuto esserci scritto: SESSANTA PERSONE RIMASTE UCCISE IN UNO SCONTRO NELLA METROPOLITANA. Avrebbe dovuto esserci scritto: SESSANTA PERSONE UCCISE NELLA COLLI-
SIONE TRA DUE TRENI DELLA SOTTERRANEA. Ma... SESSANTA PERSONE SCOMPARSE IN UN'ORRIBILE SVENTURA SOTTERRANEA! Le dava un senso di disagio. "Non diceva uccise" pensò "diceva scomparse... come quando si parla di marinai dispersi in mare." ...ORRIBILE SVENTURA SOTTERRANEA. Non le piaceva. La faceva pensare a cimiteri, fogne, a flaccide, pallide, fetide creature che all'improvviso uscivano brulicando dalla sotterranea stessa, e avvolgevano le braccia (forse tentacoli) intorno agli sventurati pendolari che aspettavano ai binari, trascinandoli via verso l'oscurità... Si guardò a destra. Fermi all'angolo, accanto alle loro motociclette parcheggiate, c'erano tre ragazzi vestiti di pelle. Sollevarono lo sguardo sul taxi e per un attimo - il sole che stava tramontando li colpiva quasi in pieno volto - a Doris parve che le teste dei motociclisti non fossero affatto umane. In quell'unico istante fu disgustosamente sicura che in cima a quelle giacche di pelle nera ci fossero delle teste di topi, untuose, lisce e pendenti, topi con piccoli occhi neri luccicanti, che fissavano il taxi. Poi la luce variò appena di un attimo, e naturalmente vide che si era sbagliata; lì c'erano soltanto tre ragazzi sui vent'anni, che fumavano sigarette fermi davanti alla versione londinese di un negozio di dolciumi americano. «Eccoci qui» disse Lonnie, smettendo di cercare e indicando fuori dal finestrino. Stavano oltrepassando un'insegna sulla quale era scritto CROUCH HILL ROAD. Vecchie case di mattoni simili ad anziane matrone sonnolente li circondavano da ogni lato, e sembravano osservare il taxi dalle loro finestre cieche. Alcuni bambini passarono avanti e indietro, con le loro biciclette o i tricicli. Due stavano imparando a usare uno skateboard, ma senza molto successo. Alcuni papà che erano appena tornati a casa dal lavoro sedevano insieme, fumando, chiacchierando e osservando i bambini. Tutto sembrava rassicurante e normale. Il taxi si fermò davanti a un ristorante dall'aspetto deprimente, con una piccola insegna macchiata, all'angolo della finestra, sulla quale c'era scritto PIENAMENTE AUTORIZZATO e una molto più grande, al centro, che informava come all'interno fosse possibile acquistare curry da portare via. Sul davanzale dormiva un gigantesco gatto grigio. Vicino al ristorante c'era una cabina telefonica. «Ecco qui» disse il tassista. «Adesso lei cerca l'indirizzo del suo amico e io vi ci porto.» «Benissimo» disse Lonnie, e scese. Doris rimase un attimo nel taxi e poi uscì a sua volta. Aveva voglia di
sgranchirsi le gambe. Il vento caldo continuava a soffiare. Le sferzò la gonna, facendola aderire intorno alle ginocchia, e poi le appiccicò sulla pelle un vecchio involucro di gelato. Lo staccò con una smorfia di disgusto. Quando sollevò lo sguardo, si trovò a fissare direttamente il grosso gatto grigio, attraverso la lastra di vetro della finestra. Anche lui la stava fissando, con un occhio solo. Il resto del muso gli era stato portato via con un graffio in occasione di qualche antichissima ma gigantesca battaglia, e tutto ciò che restava era una massa distorta, rosea, di tessuto cicatrizzato, una cataratta lattiginosa e qualche ciuffo di pelo. Miagolò verso di lei, senza produrre suoni dato che il vetro li separava. Lei provò un'ondata di disgusto e si diresse verso la cabina telefonica, vi sbirciò all'interno, attraverso i vetri sporchi. Lonnie fece un cerchio con il pollice e l'indice, in sua direzione, e le strizzò l'occhio. Poi infilò dieci centesimi nella fessura, e parlò con qualcuno. Rise... senza produrre rumore, attraverso il vetro. Come il gatto. Lei cercò nuovamente il felino, ma ora la finestra era vuota. Nell'oscurità, al di là del vetro, riusciva a vedere delle sedie rivoltate sui tavoli e un vecchio che manovrava una scopa. Quando si volse per guardare nella cabina, vide che Lonnie stava annotando qualcosa. Mise via la penna, prese in mano il pezzo di carta - lei riusciva a vedere che c'era scritto sopra un indirizzo - disse un paio di altre cose, poi riappese e uscì. Agitò l'indirizzo verso di lei, con aria moderatamente trionfante. «Okay, questo è l'ind...» Guardò dietro di lei e aggrottò le sopracciglia. «Dov'è andato il taxi?» Lei si voltò. Il taxi era scomparso. Lì dov'era prima ora c'era soltanto il bordo del marciapiede e qualche cartaccia che svolazzava pigramente nelle vicinanze. Dall'altra parte della strada due bambini si tenevano stretti e ridacchiavano. Doris notò che uno di loro aveva una mano deformata che ricordava un artiglio - aveva pensato che il servizio sanitario nazionale dovesse occuparsi di cose del genere. I bambini guardavano dall'altra parte della strada, avevano visto che lei li osservava e si erano gettati nelle braccia l'una dell'altro, ridacchiando nuovamente. «Beh... non lo so» disse Doris. Si sentiva disorientata e un po' stupida: il caldo, il vento che sembrava soffiare costantemente, senza folate o momenti di calma, come il fiato caldo proveniente da una fornace, la peculiarità della luce, che sembrava quasi dipinta... «Che ora era, in quel momento?» aveva chiesto improvvisamente Farnham.
«Non saprei» aveva risposto Doris Freeman, abbandonando il racconto e sussultando. «Le sei, immagino. No, forse più tardi. Forse le sei e venti.» «Capisco, continui» aveva sorriso Farnham, sapendo benissimo che in agosto il tramonto non poteva essere ancora iniziato - anche ad andare larghi - prima delle sette o anche più tardi... «Non lo sai?» ripeté Lonnie seccato. «Come non lo sai? Che cos'ha fatto il tassista? Si è forse limitato a prendere su e ad andarsene?» «Forse è stato quando hai sollevato la mano» disse Doris, sollevando a sua volta la mano e rifacendo il cerchio con il pollice e l'indice, che Lonnie aveva fatto nella cabina telefonica. «Magari il tassista ha capito che noi eravamo a posto, okay, e che quindi lui poteva andarsene.» «Avrei dovuto gesticolare per un bel po' di tempo, per convincerlo ad andarsene con due sterline e cinque sul tassametro» brontolò Lonnie, e avanzò in direzione del marciapiede. Dall'altro lato di Crouch Hill Road, i due bambini stavano ancora ridacchiando. «Ehi!» gridò Lonnie. «Bambini!» «È americano, signore?» gridò uno di loro, di rimando. Era il ragazzino con la mano simile ad un artiglio. «Sì» disse Lonnie, sorridendo. «Avete visto un taxi da queste parti? L'autista si è forse allontanato lungo la strada?» I due bambini sembrarono prendere in considerazione la domanda. Insieme al ragazzino c'era una bambina di circa cinque anni, con un groviglio di capelli castani, spettinati. Fece alcuni passi avanti, in direzione del marciapiede di fronte, usò le mani come un megafono e, continuando a sorridere, urlò loro: «Vaffanculo, Joe!» Lonnie rimase a bocca aperta. «Signore! Signore! Signore!» gridò il ragazzino, e fece un gesto osceno con la mano deforme. Entrambi se la diedero a gambe, scapparono dietro l'angolo e scomparvero, lasciandosi alle spalle solo l'eco delle loro risate. Lonnie guardò Doris, senza parole. «Immagino... che non abbiano simpatia per gli americani» disse lui debolmente. Lei si guardò intorno nervosamente. La strada sembrava completamente deserta. Lui le fece scivolare un braccio intorno alla vita. «Bene, bambina, a quanto pare dovremo farcela a piedi.» «Non sono sicura che sia opportuno, Lonnie» disse Doris. «Quei due potrebbero essere andati a chiamare i loro fratelli più grandi.» Si mise a ride-
re per dare a vedere che stava scherzando, ma il suo tono era stridulo. A pensarci bene, la serata aveva assunto una caratteristica decisamente surreale che non le piaceva molto. Avrebbe voluto che fossero rimasti in albergo. «Non abbiamo molta scelta» disse lui. «Non mi pare che in questa strada circolino molti taxi.» «Lonnie, perché l'avrà fatto? Perché... come dicono?, perché squagliarsela così.» «Non ne ho la minima idea. Ma John Squales mi ha dato delle buone indicazioni da fornire al tassista. Vive in una strada chiamata Brass End: è un vicolo cieco che non si trova nello stradario.» Mentre parlava, la stava facendo allontanare dalla cabina telefonica, dal ristorante che vendeva curry da portar via, dal marciapiede ormai deserto. Stavano camminando nuovamente lungo Crouch Hill Road. «Giriamo a destra in Hillfield Avenue, a sinistra quando siamo a metà, e poi, la prima a destra... o era a sinistra? Comunque, dobbiamo girare per Petrie Street. La seconda a sinistra è Brass End.» «Riesci a ricordarti tutto questo?» «Fidati di me» disse deciso lui, e lei non poté fare a meno di ridere. Lonnie riusciva sempre a fare sembrare le cose migliori di quanto non fossero. Sulla parete della stanzetta bianca della stazione di polizia c'era una pianta dell'area di Crouch End. Farnham le si avvicinò e la studiò con le mani infilate nelle tasche. Ora la stazione di polizia sembrava estremamente tranquilla. Vetter era ancora fuori - Farnham si augurava che il collega stesse liberandosi il cervello da tutte quelle idee retrograde che sapevano tanto di stregoneria - e Raymond aveva finito con la donna a cui era stata scippata la borsa. Farnham mise il dito sul punto in cui era più probabile che il tassista avesse abbandonato la coppia americana (se proprio doveva dare credito, parziale s'intende, alla storia di quella donna, quella era la parte più verosimile). Sì, la strada che avevano percorso in direzione dell'abitazione dell'avvocato sembrava decisamente semplice. Da Crouch Hill Road a Hillfield Avenue, a sinistra per Vickers Lane, a sinistra per Petrie Street e da Petrie Street a Brass End, un vicoletto con non più di sei o sette case. Un tragitto di un chilometro e mezzo e, a ben vedere, tranquillamente percorribile anche da soli.
«Raymond!» chiamò. «Sei ancora qui?» Raymond entrò. Si era cambiato, era in borghese e si stava chiudendo la cerniera di una leggera giacca a vento di popelin. «Sì, ma sto per uscire, mio imberbe tesoruccio.» «Piantala» disse Farnham, sorridendo comunque. Raymond lo spaventava un po'. Era una di quelle persone a cui era sufficiente dare un'occhiata per non capire se erano dalla parte della legge e dell'ordine... o dall'altra. C'era una linea contorta, una cicatrice bianca che scendeva dall'angolo sinistro della bocca di Raymond e gli arrivava quasi giù fino al pomo d'Adamo. Lui sosteneva che una volta un ladruncolo gli aveva quasi tagliato la gola con un pezzo di bottiglia. Diceva che era per quel motivo che spezzava loro le dita. Farnham pensava che fossero tutte stronzate. Era convinto che Raymond spezzasse loro le dita perché gli piaceva farlo. «Hai una cicca?» chiese Raymond. Farnham sospirò e gli diede una sigaretta: il suo pacchetto si stava svuotando rapidamente. Mentre gliel'accendeva chiese: «C'è un posto dove vendono curry, in Crouch Hill Road?» «No che io sappia, tesoro» disse Raymond. «Proprio come pensavo.» «Il mio bambolotto ha qualche problema?» «No» disse Farnham, un po' troppo aspramente, ricordando i capelli appiccicati a ciocche e gli occhi fissi di Doris Freeman. Quasi alla fine di Crouch Hill Road, Doris e Lonnie girarono in Hillfield Avenue, che era fiancheggiata da abitazioni imponenti e dall'aspetto grazioso... "tutta apparenza" pensò lei. "Probabilmente all'interno sono suddivise in appartamenti e monolocali, con precisione chirurgica." «Finora tutto coincide» disse Lonnie. «Sì, è...» rispose Doris, e fu in quel momento che sentirono quel lieve gemito. Si fermarono entrambi. Il gemito proveniva quasi direttamente dalla loro destra, dove un'alta siepe circondava un giardinetto. Lonnie si mosse in direzione di quel suono, e lei lo prese per il braccio. «Lonnie, no...» «Che cosa significa, no?» disse lui. «Qualcuno sta male.» Lei gli andò dietro nervosamente. La siepe era alta, ma non molto folta. Lui riuscì a scostarla e a rendere visibile un piccolo quadrato di prato delimitato da fiori. Il prato era molto verde. Al centro c'era una chiazza nera, fumante... o almeno fu quella la sua prima impressione. Quando sbirciò
nuovamente di fianco alla spalla di Lonnie - la sua spalla era troppo alta perché lei potesse sbirciare da sopra - vide che si trattava di un buco, che aveva forma vagamente umana. Era da lì che si levava il filo di fumo. "SESSANTA PERSONE SCOMPARSE IN UN'ORRIBILE SVENTURA SOTTERRANEA" pensò Doris all'improvviso. Il gemito proveniva dal buco e Lonnie iniziò a farsi strada a fatica nella siepe in quella direzione. «Lonnie» disse lei. «No, non farlo.» «Qualcuno sta male» disse lui e oltrepassò il pezzo che lo divideva dal prato, producendo un rumore simile a uno strappo. Lei lo vide dirigersi verso il buco, e quindi la siepe scattò nuovamente indietro, lasciandole semplicemente una vaga impressione della sua sagoma, la sagoma di Lonnie che proseguiva in quella direzione. Lei cercò di forzare la siepe per seguirlo e in questo tentativo fu graffiata dai rametti corti, rigidi e incredibilmente resistenti. Indossava una camicetta senza maniche. «Lonnie» gridò all'improvviso, molto spaventata. «Lonnie, torna indietro!» «Solo un attimo, tes...» Il condominio la guardava impassibile dalla cima della siepe. I gemiti continuavano, ma ora risultavano più bassi - gutturali e in qualche modo gioiosi. Lonnie non riusciva a sentirli? «Ehi, c'è qualcuno laggiù?» sentì che Lonnie chiedeva. «C'è... oh! Ehi! Gesù!» E improvvisamente Lonnie gridò. Non lo aveva mai sentito urlare prima, e fu un suono terribile. Le si piegarono le ginocchia. Cercò, come impazzita, il passaggio attraverso la siepe, e non riuscì a trovarlo. Da nessuna parte. Delle immagini le vorticarono dinnanzi agli occhi: i motociclisti che erano sembrati grossi topi dalle teste lucide per un attimo, il gatto con il volto roseo, rosicchiato, il ragazzino con la mano simile a un artiglio. Lonnie! Cercò di gridare, ma non le uscirono le parole. Ora si udivano rumori di lotta. Il gemito non si sentiva più. Ma c'erano dei suoni - suoni prodotti da qualcosa di umido, gocciolante, da una specie di fanghiglia - dall'altro lato della siepe. Poi, improvvisamente, Lonnie ritornò volando attraverso la siepe, come se gli avessero dato una spinta tremenda. La manica sinistra del suo vestito era strappata, e tutto l'abito era schizzato da rivoli di roba nera che sembrava stesse fumando, come fumava il pozzo nel prato. «Doris, corri!»
«Lonnie, che cosa...» «Corri!» Il suo volto era totalmente privo di colore. Doris si guardò intorno a casaccio, cercando un poliziotto o qualunque altra cosa. Ma, in quel momento, Hillfield Avenue era quanto di più deserto si potesse immaginare in una grande città deserta: non c'era vita, non di cose, non di persone, neppure nell'aria. Doris diede nuovamente un'occhiata alla siepe e vide che qualcos'altro si stava muovendo là dietro, qualcosa più che nera: l'antitesi di ogni luce. Ed era melmosa. Un attimo più tardi, i rametti corti e rigidi della siepe iniziarono a frusciare. Lei guardava fisso, ipnotizzata e spaventosamente affascinata. Avrebbe potuto rimanere lì per sempre (così disse a Vetter e a Farnham) e se Lonnie non l'avesse afferrata rudemente per il braccio e non le avesse urlato - sì, Lonnie, che non alzava mai la voce con i bambini, aveva urlato - lei avrebbe potuto essere ancora lì ferma. Lì ferma o... Ma erano scappati. «Dove?» le aveva chiesto Farnham. Non lo sapeva. Lonnie era completamente distrutto. Si trovava in uno stato d'isterismo, generato dal panico e dalla repulsione. Non parlava. Le sue dita le stringevano i polsi come se fossero delle manette. Corsero lontano dall'abitazione che incombeva al di là della siepe, corsero lontano dal buco fumante nel prato. Quelle cose lei le aveva viste, ne era certa... tutto il resto erano vaghe impressioni. Inizialmente era stato difficile correre, poi più facile perché erano in discesa. Svoltarono, e poi svoltarono di nuovo. Delle abitazioni li fissavano, abitazioni grigie con alti portici e imposte verdi, chiuse. Ricordava che Lonnie si era tolto la giacca tutta schizzata da quella poltiglia nera e l'aveva gettata via. Finalmente, erano giunti in una strada più ampia. «Fermiamoci» ansimò lei. «Lonnie... fermiamoci... non riesco...» Si premeva il fianco con la mano libera. Sembrava che avesse una punta arroventata ficcata dentro il fianco. E lui si fermò. Erano usciti dalla zona residenziale e stavano in piedi all'angolo tra Crouch Lane e Norris Road. Un cartello, sul lato estremo di Norris Road, dichiarava che erano soltanto a un chilometro e mezzo di distanza da Slaughter Towen. «Slaughter Town... città del massacro?» aveva suggerito Vetter. «No» aveva risposto Doris Freeman, «Slaughter Towen, con la e.»
Raymond schiacciò la sigaretta che aveva preso in prestito da Farnham, spegnendola. «Ho finito» annunciò, e poi osservò Farnham più attentamente. «Il mio bambolotto dovrebbe avere maggiore cura di se stesso. Ha dei grossi cerchi neri sotto agli occhi. Ti sono per caso cresciuti dei peli sulle palme delle mani, bambolotto?» Scoppiò a ridere fragorosamente. «Hai mai sentito parlare di Crouch Lane?» chiese Farnham. «Crouch Hill Road, vorrai dire.» «No, voglio dire Crouch Lane.» «Mai sentito nominare.» «E che mi dici di Norris Road?» «C'è una Norris Road che taglia la parte alta di Basingstoke...» «No, qui.» «Nessuna Norris Road in questa zona che io sappia, bambolotto.» C'era qualcosa che non riusciva a capire... la donna ovviamente era pazza. Farnham continuò: — Sai qualcosa di Slaughter Towen? «Hai detto Towen? Non Town?» «Sì, proprio così.» «Mai sentito, bambolotto, ma se ci fosse, credo che me ne terrei alla larga.» «Perché?» «Perché nell'antico linguaggio druidico, un touen o towen, era un luogo destinato al sacrificio rituale. Era lì che ti strappavano il fegato e i polmoni. Sogni d'oro, tesoro.» E tirandosi su fino al mento la cerniera della giacca a vento, Raymond scivolò fuori. Farnham lo guardò uscire provando un senso di disagio. "L'ultima parte se l'è inventata" si disse. Quello che un piedipiatti duro e primitivo come Sid Raymond poteva sapere sui druidi, si sarebbe potuto incidere sulla capocchia di uno spillo, e ci sarebbe rimasto del posto per scriverci il Pater noster. Proprio così. E anche ammettendo che davvero Raymond fosse al corrente di cose del genere, ciò non toglieva che la donna fosse... «Probabilmente sto diventando matto» disse Lonnie, e si mise a ridere in modo sconnesso. Doris aveva guardato l'orologio prima, e aveva visto che in qualche modo erano arrivate le otto meno un quarto. La luce era cambiata; da un arancio chiaro era divenuta di un rosso denso e tenebroso che balenava dalle vetrine dei negozi di Norris Road e che sembrava ricoprire il campanile di una chiesa dalla parte opposta della strada di sangue appena coagulato. Ora
anche il sole sedeva sull'orizzonte, ed era simile a una sfera schiacciata ai poli. «Che cos'è successo laggiù?» chiese Doris. «Che cos'era, Lonnie?» «Ho anche perso la mia giacca. Maledetto biglietto.» «Non l'hai persa, te la sei tolta. Era coperta di...» «Non essere sciocca!» scattò lui. Ma l'espressione dei suoi occhi non era sgarbata; il suo sguardo era perso, sconvolto, smarrito. «L'ho persa, ecco tutto.» «Lonnie, che cos'è successo quando sei passato attraverso la siepe?» «Nulla» disse lui vivacemente. «Non parliamone. Dove siamo?» «Lonnie...» «Non riesco a ricordare» disse dolcemente lui, guardandola. «Ho un vuoto. Eravamo lì... abbiamo sentito un suono... poi mi sono messo a correre. È tutto quello che riesco a ricordare.» E poi aggiunse, con una voce spaventosamente fanciullesca: «Ho buttato via la giacca? Strano, mi piaceva... Aveva i pantaloni uguali.» All'improvviso si mise a ridere come un idiota. Lonnie non si era mai comportato così. C'era qualcosa di nuovo in lui... qualcosa di cui avere paura. Qualunque cosa avesse visto dietro a quella siepe, sembrava averlo parzialmente sconvolto. Non era certa del fatto che non sarebbe successo lo stesso anche a lei... se avesse visto. Non importava. Dovevano uscire da quella zona. Tornare all'albergo con i bambini. «Prendiamo un taxi. Voglio andare a casa» disse lei. «Ma John Squales...» «Chi se ne importa di John!» disse Doris e ora era lei a urlare. «Così non va, non c'è nulla che funzioni, adesso prendiamo un taxi e torniamo a casa!» «Va bene. Okay.» Lonnie si passò una mano tremante sulla fronte. «Ma non ci sono taxi, non ne vedo.» A dire il vero non c'era assolutamente traffico in Norris Road, che era una strada ampia, di acciottolato. Al centro della carreggiata c'erano le rotaie del tram. Dall'altro lato, di fronte a un negozio di fiori, era parcheggiato un vecchio e arrugginito motocarro a tre ruote. Più avanti, dal loro lato, una motocicletta Yamaha stava inclinata sul suo cavalletto. Non c'era altro. Riuscivano a sentire il rumore delle auto, ma era lontano, diffuso. «Forse la strada è chiusa per lavori in corso» mormorò lei... e poi, poi Lonnie aveva fatto una cosa strana... strana, almeno, per lui che era sempre così a suo agio e sicuro di sé: si era voltato per guardarsi dietro alle spalle,
come se temesse di essere stato seguito. «Andremo a piedi» disse lei. «Dove?» «Da qualunque parte. Lontano da Crouch End. Forse, se ce ne andiamo da qui, riusciamo a trovare un taxi.» Chissà perché, ma, improvvisamente, si era sentita sicura... sicura che avrebbero lasciato quella zona, sicura di trovare un mezzo. Sicura. «Va bene.» Ora Lonnie sembrava perfettamente disposto ad affidarle il comando dell'intera faccenda. Iniziarono a camminare verso il sole che stava tramontando, lungo Norris Road. Il lontano ronzio del traffico rimaneva costante, non sembrava diminuire, ma non sembrava neppure aumentare. Il fatto che tutto fosse così deserto iniziava a darle sui nervi. Aveva la sensazione che fossero osservati, cercò di allontanare l'idea e scoprì di non riuscirci. Il rumore dei loro passi: SESSANTA PERSONE SCOMPARSE IN UN'ORRIBILE SVENTURA SOTTERRANEA... tornava verso di loro come un'eco. La faccenda della siepe le tormentava la mente sempre di più e infine dovette chiedere nuovamente: «Lonnie, che cos'era?» Lui rispose semplicemente: «Non mi ricordo, Doris. E non voglio farlo.» Passarono davanti a un supermercato che era chiuso: una pila di noci di cocco, simili a teste rinsecchite viste da dietro, era ammucchiata in vetrina. Oltrepassarono una lavanderia automatica dove alcune lavatrici bianche che erano state staccate dalle pareti slavate, costituite da pannelli di carta e gesso rosa, suggerivano l'idea di denti squadrati estratti da gengive cadenti... l'immagine le fece venire la nausea. Passarono davanti a una vetrina striata di sapone che davanti recava una vecchia insegna AFFITTASI NEGOZIO. Dietro alle strisce saponate si mosse qualcosa, e Doris vide il volto roseo del gatto, a ciuffi, con la cicatrice della battaglia, che sbirciava fuori verso di lei. Ascoltò i meccanismi e i ticchettii del proprio corpo e scoprì che il terrore stava crescendo lentamente dentro di lei. Le sembrava che il suo intestino avesse iniziato a contorcersi lievemente al suo interno. La bocca aveva un sapore aspro, sgradevole, era come se per sbaglio avesse inghiottito una dose eccessiva di un colluttorio fortissimo. Nel tramonto rosseggiante, l'acciottolato di Norris Street sembrava bagnato di sangue fresco. Stavano avvicinandosi a un sottopassaggio. Ed era buio là sotto. "Non posso" la informò la sua mente con estrema praticità. "Non posso andare laggiù, là sotto ci potrebbe essere qualunque cosa. Non chiedermi di farlo
perché non posso proprio. " Un'altra parte della sua mente le chiese se poteva sopportare l'idea di tornare sui suoi passi... oltrepassando il negozio vuoto con dentro il gatto (come era finito lì, dal ristorante vicino alla cabina telefonica? meglio non pensarci), quella specie di carneficina orale della lavanderia automatica, il supermercato di teste staccate e raggrinzite. Non pensava di poterlo fare. Ora si erano avvicinati al sottopassaggio. Un treno di sei vagoni vi si scagliò sopra all'improvviso, in modo sorprendente, come una sposa pazza che corresse incontro al suo sposo con indecorosa avidità, tirandosi dietro uno strascico di scintille. Istintivamente entrambi fecero un balzo indietro, ma fu Lonnie a lanciare un forte grido. Lei lo guardò e vide che era invecchiato e che si era trasformato in qualcuno che lei non credeva di conoscere fino a un'ora prima... era passata un'ora? Non lo sapeva. Ma sapeva che i suoi capelli sembravano in qualche modo più grigi, e mentre diceva a se stessa con fermezza - con quanta fermezza poteva - che si trattava semplicemente di uno scherzo giocato dalla luce, questo la spinse a decidere. Lonnie non era nelle condizioni di tornare indietro. Perciò, il sottopassaggio. «Doris...» disse lui, tirandola un po' indietro. «Vieni» disse lei, e lo prese per mano. Lo afferrò bruscamente, in modo che lui non potesse sentire che tremava. Lei avanzò e lui la seguì docilmente. Erano quasi fuori. Si trattava di un sottopassaggio brevissimo, pensò lei provando un ridicolo senso di sollievo... quando una mano le afferrò la parte superiore del braccio. Non urlò. I suoi polmoni sembravano essersi accasciati come piccoli sacchetti di carta accartocciati. La sua mente voleva lasciare il corpo dietro di sé e limitarsi... limitarsi a fuggire. La mano di Lonnie si staccò dalla sua. Sembrava inconsapevole. Lonnie avanzò e uscì dall'altra parte... lei lo vide, soltanto per un attimo, profilarsi, alto e dinoccolato, contro i colori sanguinanti, violenti del tramonto, e poi scomparire. Non lo aveva più visto da allora. La mano che stringeva la parte superiore del suo braccio era pelosa, come quella di una scimmia. La voltò senza pietà verso una forma pesante, ricurva, appoggiata contro il fuligginoso muro di cemento. Stava appoggiata lì, nella doppia ombra di due pilastri e la forma era tutto ciò che riusciva a individuare... la forma e due occhi verdi luminosi. «Hai una sigaretta, dolcezza?» le chiese una voce rauca, con un accento
londinese, e lei sentì un odore di carne cruda e di patatine fritte nel grasso, e di qualcosa di dolce e disgustoso, simile al residuo che si trova nel fondo dei bidoni della spazzatura. Quegli occhi verdi erano occhi di gatto. E all'improvviso fu certa, orribilmente certa, che se la grossa sagoma accovacciata fosse uscita dall'ombra, avrebbe visto il suo occhio con la cataratta lattiginosa, le pieghe rosa di tessuto cicatrizzato, i ciuffi di pelo rossiccio. Lei si liberò con uno strattone, indietreggiò e sentì che qualcosa fendeva l'aria dietro di lei... una mano? Degli artigli? Un suono simile a uno sputo, un sibilo... Un altro treno giunse di gran carriera al di sopra. Ci fu un grande fragore, che le sferragliò nel cervello. Depositò una spolverata di fuliggine, simile a neve bianca. Lei fuggì, accecata dal panico, per la seconda volta quella sera, senza sapere dove... o per quanto tempo. Quello che la riportò in sé fu il rendersi conto che Lonnie era scomparso. Era quasi crollata contro un muro di mattoni sporchi, respirando affannosamente, immettendo grandi quantità d'aria. Era ancora in Norris Road (o almeno credeva di esservi, disse ai due poliziotti; l'ampia via era ancora acciottolata, e le rotaie del tram continuavano a correre direttamente lungo il centro della strada), ma i negozi deserti, in rovina, avevano lasciato il posto a magazzini deserti, in rovina. DAWGLISH & SONS si leggeva sull'insegna annerita di fuliggine di uno. Un secondo recava il nome ALHAZRED inciso su vernice verde, vecchia e scrostata. Sotto al nome c'erano una serie di ghirigori arabi. «Lonnie!» gridò. La sua voce nel vuoto... il suono non si diffondeva, nonostante il silenzio (no, non era un completo silenzio, aveva detto loro; c'era ancora il rumore del traffico, e forse era più vicino... ma non molto). Quel Lonnie appena emesso sembrava esserle caduto dalla bocca e giaceva come morto ai suoi piedi: una parola senza vita. Il sangue del tramonto era stato sostituito dalle fredde ceneri grigie del crepuscolo. Per la prima volta le balenò il pensiero che la notte potesse sorprenderla lì a Crouch End e quel pensiero le suscitò un nuovo senso di terrore. Disse a Vetter e a Farnham che non c'era stata assolutamente nessuna riflessione da parte sua durante quell'inconoscibile lasso di tempo compreso tra il momento in cui era stata lasciata presso la cabina telefonica e l'orribile episodio finale. Aveva reagito come un animale spaventato. Lei e Lonnie avevano subito uno stimolo; erano fuggiti. E ora era sola. Voleva Lonnie, suo marito. Era consapevole di questo. Ma non le era capitato di chie-
dersi più di tanto - e forse non se l'era chiesto affatto - perché questa zona, che sicuramente si trovava a circa otto chilometri da Cambridge Circus, fosse completamente deserta. Le era passato per la mente di chiedersi come fosse possibile che il gatto sfigurato visto al ristorante nei pressi della cabina telefonica, fosse lo stesso visto nel negozio in affitto. Non si era chiesta, non più di tanto, che cosa fosse quell'inspiegabile pozzo presente nel prato di quell'abitazione, fatta eccezione per quanto riguardava Lonnie. Quelle domande vennero dopo, quand'era troppo tardi, e l'avrebbero, disse, perseguitata per il resto della sua esistenza. Doris Freeman iniziò a camminare, chiamando Lonnie. La sua voce non riecheggiava, ma i suoi passi sì. Le tenebre iniziarono a scendere su Norris Road. Sopra di lei ormai il cielo era viola. Avrebbe potuto trattarsi di un qualche effetto deformante del tramonto, o forse era dovuto al fatto che era stremata, ma ora i magazzini sembravano pendere sulla strada. Le finestre, incrostate con la sporcizia di decenni - di secoli forse - sembravano fissarla. E i nomi delle insegne, disse, divennero progressivamente più strani, folli, e certamente impronunciabili. Le vocali si trovavano nei posti sbagliati e le consonanti erano state legate insieme in un modo che rendeva impossibile a qualsiasi lingua umana, girarci attorno. CTHULU KRYON, diceva una, seguita da altri ghirigori arabi. YOGSOGGOTH, recava scritto un'altra. R'YELEH un'altra ancora. Ce n'era una che ricordava in particolare modo: NRTESN NYARLA-HOTEP. «Come può ricordare qualcosa di così incomprensibile?» le aveva chiesto Farnham. E Doris Freeman aveva scosso la testa, lentamente e con estrema stanchezza. «Non lo so. Veramente non lo so.» Norris Road sembrava allungarsi all'infinito, acciottolata, divisa dalle rotaie del tram. E anche se continuava a camminare - non avrebbe creduto di potere correre, anche se più tardi, disse, lo fece - non chiamava più Lonnie. Ora si trovava nella morsa del più grande terrore che avesse mai conosciuto, una paura che, ne era convinta, nessun essere umano avrebbe potuto sopportare senza diventare pazzo o cadere morto stecchito. Eppure le era impossibile esprimere chiaramente la sua paura, tranne che in un modo che, per quanto concreto, non era comunque sufficiente per rendere l'idea. Disse che era come se non si trovasse più sulla Terra. Come se fosse stata su un diverso pianeta, un luogo talmente alieno che la mente umana non poteva neppure iniziare a comprenderlo. Gli angoli sembravano diversi, disse. I colori sembravano diversi. I... ma era impossibile.
Poteva soltanto camminare sotto a un cielo che sembrava distorto e strano, tra i tetri edifici ingrossati, e sperare che terminasse. E così fu. Si rese conto della presenza di due figure che si trovavano sul marciapiede davanti a lei. Erano i due bambini - il ragazzino con la mano deforme, ad artiglio, e la bambina. Aveva i capelli raccolti in trecce. «È l'americana» disse il ragazzino. «Si è persa» disse la bambina. «Ha perso suo marito.» «Ha perso la strada.» «Ha trovato la strada più buia.» «Ha trovato la strada che porta nell'imbuto.» «Ha perso la speranza.» «Ha trovato Colui che Fischia dalle Stelle...» «...Colui che Mangia le Dimensioni...» «...il Suonatore Cieco che non viene chiamato da un migliaio d'anni...» Le loro parole giungevano sempre più veloci, più veloci: un'affannosa liturgia, un'apparizione indistinta e scintillante. La sua testa vorticava con loro. Gli edifici pendevano. Si vedevano le stelle, ma non erano le sue stelle, quelle sulle quali aveva espresso desideri da giovane, queste erano stelle impazzite che facevano parti di costellazioni folli, e si portò le mani alle orecchie, e le sue mani non bloccarono i suoni, e infine gridò loro: «Dov'è mio marito? Dov'è Lonnie? Che cosa gli avete fatto?» Ci fu silenzio. E poi la bambina disse: «È sceso sotto.» Il ragazzo: «Andato da Colui Che Aspetta.» La bambina sorrise - un sorriso maligno, pieno di malvagia innocenza. «Non poteva proprio non andare, non le pare? Era segnato. E andrà anche lei. Ci andrà ora.» «Lonnie! Che cosa avete fatto con...» Il ragazzo sollevò la mano e intonò una cantilena, a voce alta e flautata, in una lingua che lei non capiva... ma il suono delle parole fece quasi impazzire di terrore Doris Freeman. «Allora la strada iniziò a muoversi» aveva detto a Vetter e a Farnham. «L'acciottolato iniziò a... a fluttuare come un tappeto. Saliva e scendeva, saliva e scendeva. Le rotaie del tram si staccarono e volarono in aria... me lo ricordo, mi ricordo che la luce delle stelle brillava su di loro, e poi anche i ciottoli iniziarono a staccarsi, inizialmente uno alla volta, e poi a mucchi. Volavano semplicemente via, nell'oscurità. Si sentiva un rumore simile a
uno strappo quando si staccavano. Un rumore lacerante... paragonabile a quello che produrrebbe un terremoto. E... qualcosa iniziò a uscire...» «Che cosa?» aveva chiesto Vetter. Si era piegato in avanti e guardava Doris Freeman con sguardo penetrante. «Che cos'ha visto? Che cos'era?» «Tentacoli» aveva risposto lei, lentamente ed esitando. «Penso... penso che fossero tentacoli. Erano come enormi viluppi di liane attorcigliate, era come se ogni viluppo fosse costituito da un migliaio di tentacoli più piccoli, che si contorcevano... e c'erano delle cose rosa, simili a delle ventose... e queste cose rosa improvvisamente sembravano facce... come la faccia di Lonnie, e altre facce, tante, tutte terribilmente sofferenti... che gridavano per un terribile dolore... ma sotto di loro, nell'oscurità sottostante alla strada... nell'oscurità sotto... c'era qualcos'altro. Qualcosa di simile a grandi... grandi occhi...» A quel punto era crollata, incapace di continuare per un po'. E risultò poi che non c'era altro da dire. Che non aveva altro da dire. Che lei, Doris, non aveva più ricordi coerenti di quanto era successo dopo. Un solo ricordo le era rimasto: quello di essersi rannicchiata sulla soglia di un negozio di giornali. Avrebbe potuto essere ancora lì, aveva detto loro, ma aveva visto passare su e giù delle macchine, e il bagliore rassicurante dei lampioni ad arco di sodio. Due persone erano passate davati a lei e Doris si era acquattata ancor più nell'ombra, temendo che si trattasse dei due bambini malvagi. Ma vide che questi non erano bambini; erano un ragazzo e una ragazza, due adolescenti che camminavano mano nella mano. Il ragazzo stava dicendo qualcosa sul nuovo film di Francis Coppola. Era uscita sul marciapiede con circospezione, pronta a balzare nuovamente nella via di scampo rappresentata dalla soglia del negozio di giornali, ma non ce n'era bisogno. Circa cinquanta metri alla sua sinistra c'era un incrocio abbastanza affollato, con auto e camion fermi al semaforo. Dall'altra parte della strada c'era una gioielleria, con un grande orologio illuminato in vetrina. Una saracinesca d'acciaio, a griglia, era stata abbassata davanti alla vetrina, ma lei riuscì comunque a leggere l'ora. Erano le dieci meno cinque. Allora aveva camminato fino all'incrocio e nonostante le luci dei lampioni e il rombo confortante del traffico, aveva continuato a lanciare sguardi terrorizzati dietro di sé. Era tutta dolorante. Zoppicava, perché le si era rotto un tacco. Non si sa come, era riuscita a conservare la borsa. Avvertiva delle fitte dolorose ai muscoli dell'addome e delle gambe... la gamba destra le doleva in modo particolare, era come se qualcosa all'interno si
fosse strappato. All'incrocio vide che in qualche modo era giunta nei pressi di Hillfield Avenue e Tottenham Road. Una donna di circa sessant'ani, con i capelli che stava ingrigendosi e che fuoriuscivano dallo straccio adibito a raccoglierli, stava parlando con un uomo che aveva circa la sua stessa età, sotto a un lampione. Entrambi fissarono Doris, mentre lei si avvicinava loro, come se si fosse trattato di una qualche terribile apparizione. «Polizia» aveva detto Doris, con voce roca. «Dov'è la stazione di polizia? Sono... sono una cittadina americana e... ho perduto mio marito... Ho bisogno della polizia.» «Ma che cosa le è successo, tesoro?» aveva chiesto la donna, con una certa gentilezza. «Sembra che abbia passato un brutto quarto d'ora, davvero.» «Un incidente d'auto?» aveva chiesto il suo compagno. «No» era riuscita a rispondere. «Per favore... c'è una stazione di polizia da qualche parte, qui vicino?» «Dritto in Tottenham Road» aveva detto l'uomo estraendo un pacchetto di Players dalla tasca. «Vuole una sigaretta? Ha l'aria di averne bisogno, signora.» «Grazie» aveva risposto lei accettando la sigaretta anche se aveva smesso di fumare da quattro anni. L'anziano signore, per riuscire ad accendergliela, aveva dovuto seguire con il fiammifero l'estremità della sigaretta che tremava nervosamente. Poi, dopo avere lanciato un'occhiata alla donna con i capelli raccolti nello straccio, aveva detto: «L'accompagno per un pezzetto, Evvie. Per assicurarmi che ci arrivi sana e salva.» «Vengo anch'io» aveva risposto Evvie, mettendo un braccio intorno alle spalle di Doris. «Allora, di che cosa si tratta, tesoro? Qualcuno ha cercato di assalirla?.» «No» aveva detto Doris. «È... Io... Io... la strada... c'era un gatto con un occhio soltanto... la strada... la strada si è aperta... L'ho visto... Colui Che Aspetta, lo hanno chiamato... Lonnie... Devo trovare Lonnie...» Si era resa conto del fatto che stava dicendo parole incoerenti, ma non sembrava in grado di essere più chiara. E comunque, aveva detto a Vetter e a Farnham, aveva capito di non essere stata tanto incoerente, perché l'uomo e la donna si erano improvvisamente staccati da lei. L'uomo aveva detto qualcosa, in quel momento: qualcosa che Doris ricordava come un: «È successo di nuovo» ed Evvie aveva aggiunto: «La stazione di polizia è laggiù. Ci sono dei globi appesi fuori. La vedrà». Do-
po di che, rapidissimi, entrambi si erano allontanati... e ora erano loro che sì giravano terrorizzati per guardarsi dietro le spalle. Doris aveva fatto due passi verso di loro. «Non si avvicini!» aveva gridato la vecchia in modo stridulo... e con le dita biforcate Evvie aveva fatto gli scongiuri contro Doris, e contemporaneamente si era rannicchiata contro l'uomo, che l'aveva attirata a sé. «Andiamocene, presto» aveva urlato Evvie «lei è segnata... è stata a Crouch End Towen!» Dopo di che, i due erano scomparsi nella notte. Ora l'agente Farnham stava appoggiato allo stipite della porta che metteva in comunicazione la sala di ritrovo e la principale sala archivio - gli schedari di fondo di cui aveva parlato Vetter non venivano certo tenuti lì. Farnham si era preparato una bella tazza di tè, e stava fumando l'ultima sigaretta del pacchetto... anche la donna, Doris, gliene aveva scroccate varie. L'americana era ritornata al suo albergo in compagnia dell'infermiera chiamata da Vetter. L'infermiera sarebbe rimasta con lei tutta la notte, e la mattina seguente avrebbe deciso se ricoverare o no Doris in un ospedale. I bambini avrebbero presentato delle difficoltà, immaginava Farnham, e il fatto che la donna avesse la nazionalità americana (come continuava a proclamare), rendeva la faccenda ancora più complicata. E che cos'avrebbe detto ai piccoli quando si sarebbero svegliati? Che il grosso mostro cattivo di Crouch End Town... o Towen?... si era mangiato papà? Farnham fece una smorfia e appoggiò la tazza. Non era un problema suo, neanche un po'. Nel bene e nel male la signora Doris Freeman poteva ricorrere all'ambasciata americana. Potevano esserci delle complicazioni. Meglio starne fuori: lui era solo un agente che voleva dimenticare l'intera faccenda. E, in merito al rapporto, toccava a Vetter. Era di Vetter la gatta da pelare. Vetter poteva permettersi di firmare una simile congerie di follie: era un agente anziano, navigato. Vetter avrebbe saputo come districare quella matassa... Il vecchio Vetter! Non c'erano speranze di carriera per lui. No. Sarebbe rimasto un agente del turno di notte fino a quando gli avrebbero dato l'orologio d'oro, la pensione e un appartamento nelle case popolari. Farnham, d'altra parte, aveva l'ambizione di diventare presto sergente, e questo significava che doveva stare attento a ogni piccola cosa... e firmare verbali a dir poco stravaganti sarebbe stato quanto meno controproducente. Meglio lasciare l'onere e l'onore a Vetter. Farnham attraversò la sala di ritrovo e uscì. Si fermò tra i due globi illuminati e guardò dall'altra parte di Tottenham Road. Vetter non si vedeva.
Erano le tre di mattina passate, e il silenzio incombeva denso e uniforme, come un sudario. Com'era quel verso di Wordsworth? Tutto quel grande cuore che giace immobile... qualcosa del genere. Scese i gradini e rimase sul marciapiede. Ora provava un brivido di disagio. Era sciocco, certo che lo era. Era furioso con se stesso, furioso per il fatto che la folle storia della donna potesse avere anche questo minimo effetto su di lui. Si chiese se sarebbe mai diventato un poliziotto duro come Sid Raymond... e scoprì di avere un certo timore nei confronti di Sid. Farnham camminò lentamente fino all'angolo, pensando che avrebbe incontrato Vetter di ritorno dalla sua passeggiata notturna. Ma non si sarebbe avventurato oltre: d'altronde, lasciare la stazione di polizia incustodita... anche se soltanto per qualche attimo, sarebbe stata una negligenza intollerabile. Raggiunse l'angolo e si guardò intorno. Era buffo, ma tutti i lampioni ad arco di sodio sembravano spariti da questa parte. Tutta la strada sembrava diversa senza di loro. Avrebbe dovuto fare rapporto, si chiese? E dov'era Vetter? Decise di proseguire, qualche metro, solo per vedere di che cosa si trattava. Qualche metro soltanto. Non di più. Vetter rientrò cinque minuti dopo che Farnham se n'era andato. Farnham si era avviato nella direzione opposta, e se Vetter fosse arrivato un minuto prima, avrebbe visto il giovane agente fermarsi all'angolo per un attimo e poi scomparire dalla vista. «Farnham?» chiamò. Non ci fu risposta, a parte il ronzio dell'orologio sulla parete. «Farnham?» chiamò nuovamente, e si asciugò le labbra con il palmo della mano. Lonnie Freeman non fu mai trovato. In seguito sua moglie - che aveva iniziato a ingrigirsi intorno alle tempie - tornò in aereo in America con i suoi bambini. Partirono con il Concorde. Un mese più tardi tentò di suicidarsi. Trascorse un anno in una casa di riposo, ne uscì molto migliorata. L'agente Robert Farnham non fu mai più visto, né si seppe più nulla di lui. Lasciò una moglie e due gemelline di due anni. Sua moglie scrisse una serie di lettere furiose al suo deputato, insistendo nel dire che era successo
qualcosa di poco chiaro, che qualcosa era stata messa a tacere, che il suo Bob era stato istigato ad accettare qualche incarico pericoloso e segreto, come quel tipo, Hackett, di cui aveva parlato la BBC. Che suo marito, Robert, avrebbe accettato qualsiasi incarico per diventare sergente e che quindi qualcuno poteva avere approfittato del suo zelo e che lui, il suo deputato, indagasse nel merito. In seguito, il deputato cessò di rispondere alle sue lettere... più o meno nello stesso periodo in cui Doris Freeman stava uscendo dalla casa di riposo, con i capelli ormai quasi completamente bianchi. Sheila Farnham tornò nel Sussex, dove vivevano i suoi genitori. In seguito sposò un uomo con un lavoro più stabile: Frank Hobbs lavorava alla catena di montaggio della Ford. Prima, naturalmente, aveva dovuto richiedere e ottenere il divorzio dal suo Bob... per abbandono del tetto coniugale, ma questo non rappresentò un problema. Vetter andò precocemente in pensione circa quattro mesi dopo che Doris Freeman si era trascinata passo passo fino alla stazione di Tottenham Court, a Crouch End. Si trasferì veramente in una casa popolare, un appartamento di due stanze sopra a un negozio, nella città di Frimley. Sei mesi più tardi fu trovato morto per infarto, con una lattina di Harp Lager in mano. La calda notte di fine estate in cui Doris Freeman raccontò la sua storia, era quella del 19 agosto del 1974. Da allora sono trascorsi più di tre anni e mezzo. E il Lonnie di Doris, e il Bob di Sheila sono insieme. Vetter avrebbe saputo dove. Secondo una classificazione assolutamente democratica dell'ordine alfabetico, si trovano insieme nell'archivio di fondo, ovvero il luogo in cui vengono schedati i casi irrisolti e le storie troppo assurde per presentare alcuna credibilità. FARNHAM, ROBERT è scritto sull'etichetta di una cartellina sottile. FREEMAN, LEONARD è scritto sull'etichetta della cartellina che si trova direttamente dietro. Entrambe le cartelline contengono un'unica pagina: un rapporto battuto a macchina piuttosto male dall'agente investigativo. In entrambi i casi la firma è quella di Vetter. E a Crouch End, che è veramente una tranquilla zona periferica di Londra, continuano ad accadere strane cose. Di tanto in tanto. Titolo originale: Crouch End Traduzione: Nicoletta Spagnol
Joyce Carol Oates Lato notte Joyce Carol Oates è uno dei maggiori talenti della letteratura contemporanea americana: poetessa, scrittrice di romanzi, di saggi e di brevi storie d'ottima fattura. I suoi contributi alla letteratura horror includono molte novelle di stampo gotico che richiamano William Faulkner e Flannery O'Connor, ma Oates a volte scrive con uno stile più vicino alla tradizione di Shirley Jackson. Così è per la scrittura di Lato Notte che è forse la più bella tra le sue horror story, nonché quella nella quale, più che in altre, è possibile cogliere il significativo contributo dell'autrice nel genere horror. In questa stona, Oates tratta direttamente con t'occulto, in un modo non caratteristico (per lei) ma molto vicino, potremmo dire, a quello di Robert Aickman o di Edith Wharton. Con questo racconto l'autrice si inserisce nel filone tradizionale horror della letteratura americana di questo secolo; mentre, con altri suoi lavori, si colloca nettamente al di fuori dei confini della categoria. Volendo formare, nel genere horror, una precisa corrente soprannaturale, Henry James, Edith Wharton, Shirley Jackson, Joyce Carol Oates e Peter Straub sono gli autori che meglio e più di altri hanno saputo darle sostanza. 6 FEBBRAIO 1887. QUINCY, MASSACHUSETTS. MONTAGUE HOUSE Esperienza inquietante in casa della signora A..., ieri sera. Poca teatralità... ambiente comodo anche se piuttosto scialbo... un'atmosfera soltanto moderatamente sinistra (in contrasto soprattutto con la Notte di Walpurgis presentata da quello sfrontato ciarlatano di Portsmouth: quel Dwarf Eustace che aveva la presunzione di presentarmi a Swedenborg in persona, sotto le vesti erronee di un membro della Chiesa di Nuova Gerusalemme... io!). Ciononostante, sono venuto via turbato e la conversazione che ho avuto dopo col dottor Moore, a cena, per quanto spassionata e persino a volte un po' leggera, non mi ha snebbiato la mente. Perry Moore è naturalmente un materialista sincero, un aristotelico-spenceriano con una passione per il buon cibo e il bere e un apprezzamento per le stravaganze più assurde della vita; quando mi trovo in sua compagnia, tendo a sostenere il modo di vedere generale, come del resto faccio all'università... poiché nel mio carattere c'è una grande tendenza ad aggregarmi alla quale non so resistere. (Alla
quale non voglio resistere). Quando sono solo con i miei pensieri, comunque, sono assalito dai dubbi sulla mia posizione personale e niente mi sembra più precario delle mie convinzioni intellettuali. I membri più induriti della nostra Società, come Perry Moore, sono propensi a porre schiettamente il problema: la signora A... di Quincy è una truffatrice consapevole o inconsapevole? È relativamente facile trattare con i truffatori consapevoli; una volta scoperti, preferiscono non figurare in ulteriori considerazioni. I truffatori inconsapevoli non sono, in un certo qual senso, dei truffatori. Sarebbe certamente difficile provare l'intenzione criminale. La signora A..., per esempio, non accetta denaro o regali per quello che siamo stati capaci di scoprire, e sia io che Perry Moore abbiamo notato il suo cortese ma deciso rifiuto all'offerta del giudice di mandare lei e suo marito (probabilmente sofferente?) in vacanza in Inghilterra in primavera. Lei è una donna sui cinquantacinque anni piuttosto robusta, dolce e schiva che porta i capelli divisi in mezzo dalla riga, come diverse mie zie zitelle, e l'unico ornamento che ha addosso è uno di quei cammei che andavano di moda un tempo; il vestito nero che indossa ha l'aria d'essere stato cucito in casa anche se è grazioso e stirato di fresco. Secondo le testimonianze della Società, fa la medium ormai da sei anni. Tuttavia vive in una zona anonima di Quincy, vicino ad abitazioni dall'aspetto modesto. La casa di A... è in buone condizioni, tenendo soprattutto conto dei danni che i nostri inverni normalmente provocano, e l'unica stanza che abbiamo visto, il salotto, è piuttosto ordinario, con sedie ricoperte e i soliti cuscini e un orribile divano imbottito di crine e, naturalmente, il tavolo di legno di quercia; l'atmosfera sarebbe stata tanto convenzionale quanto deludente se la signora A... non avesse fatto un tentativo di vivacizzarla o forse di darle un che di occulto, appendendo certi acquarelli alle pareti. Lei afferma che gli acquarelli erano stati dipinti da uno degli spiriti con cui è in contatto, una ragazza irochese che morì di vaiolo nel 1770. Sono pateticamente chiassosi../ cerchi e triangoli e bulbi oculari stilizzati e persino un Uomo Cosmico trasparente con i capelli neri come quelli degli indiani. Alla riunione di ieri sera eravamo soltanto in tre oltre alla signora A... : il giudice T... della Corte Suprema dello Stato di New York (ora in pensione); il dottor Moore; e io, Jarvis Williams. Io e il dottor Moore siamo venuti da Cambridge sotto l'egida della Società per la Ricerca Psichica per fare uno studio preliminare del genere di spiritismo che pratica la signora A... Non abbiamo portato con noi uno stenografo, questa volta, nonostante la signora A... si dicesse propensa alla trascrizione della seduta. Debbo di-
re che mi ha colpito la sua calda collaborazione e persino il suo interesse per le nostre procedure formali, anche se Perry Moore, più tardi, a cena, ha dichiarato di averla vista molto riluttante. Era, comunque, confusa all'inizio e per un po' io e il giudice abbiamo avuto l'impressione che forse avevamo fatto quel viaggio per niente. (Lei continuava ad agitare le mani grassocce come una padrona di casa imbarazzata, scusandosi per il fatto che gli spiriti erano evidentemente "d'umore perverso e non comunicativo questa sera".) Alla fine, tuttavia, è entrata in trance. Noi quattro siamo stati seduti attorno al pesante tavolo rotondo dalle sette meno dieci alle nove. Prima, per quasi quarantacinque minuti la signora A... ha tentato inutilmente di mettersi in contatto con il suo Capo Comunicatore, poi, improvvisamente, è entrata in trance (anzi, drammaticamente: ha rovesciato gli occhi all'indietro in un modo che mi ha non poco allarmato), e una personalità di nome Webley ha fatto la sua apparizione. La voce di Webley è parsa provenire da diverse direzioni durante il corso della seduta. Tutte le volte era almeno a tre metri dalla signora A... ; nonostante la semioscurità del salotto credo di avere potuto vedere abbastanza chiaramente la bocca e la gola della donna e non ho notato alcun segno evidente di ventriloquismo. (Il dottor Moore che ha più esperienza di me nella ricerca psichica e ha più dimestichezza col fenomeno, dice di avere assistito a esibizioni di ventriloquismo che, al confronto, avrebbero fatto apparire meschina la povera signora A...) La voce di Webley era cruda, monotona, particolarmente inquietante. A volte stridula, a volte così debole da essere quasi inudibile. Aveva un che di infantile. Di esasperante. Webley pronunciava con cura le finali, con affettazione, al contrario della signora A... (Il che poteva essere, naturalmente, un trucco deliberato.) Questo Webley è uno degli spiriti della signora A... che si manifesta più di frequente anche se non è il più attendibile. Il suo Capo Comunicatore è un patriarca scozzese che è vissuto ai tempi di Mago Merlino e che, evidentemente, è molto saggio; sfortunatamente non ha deciso di apparire ieri sera. Webley, invece, si è presentato. Si suppone che sia morto settantacinque anni fa a novant'anni in una casa poco distante da quella della signora A... Faceva sia l'aiutante del macellaio che l'apprendista sarto. Morì in un incendio... o per una malattia che andava lentamente paralizzandolo... o sotto gli zoccoli di un cavallo, in uno strano incidente; durante la seduta, ha alluso con autocommiserazione alla sua morte, ma sembrava avere dimenticato gli esatti particolari. Alla fine della serata si è rivolto di-
rettamente a me come al dottor Williams dell'Università di Harvard, dicendo che visto che avevo amici influenti a Boston potevo aiutarlo nella sua carriera... ha rivelato di avere scritto centinaia di canzoni, di poemi e di parabole, ma che nessuno era stato pubblicato; sarei stato così gentile di trovare un editore che pubblicasse i suoi lavori? La vita l'aveva trattato molto ingiustamente. Il suo talento... il suo genio... era andato perso per l'umanità. Io che avevo la possibilità di aiutarlo, diceva, non mi sentivo in dovere di farlo...? Poi ha cantato una delle sue canzoni che mi è sembrata un'antica ballata; molte parole erano talmente stridule da risultare incomprensibili, ma lui cantava ugualmente, ripetendo i versi in un ordine casuale: Questa notte, questa notte, Ogni notte e tutte le notti, Fuoco e luce di candela, E Cristo riceve la tua anima. Quando tu di qui sei passato, Questa notte e tutte le notti, A Whinnymuir sei venuto infine: E Cristo riceve la tua anima. Da Brig O'Dread quando passerai, Ogni notte e tutte le notti, Le ginestre ti porteranno nuda sventura: E Cristo riceve la tua anima. Il vecchio giudice T... era venuto da New York City, come ha affermato, per "parlare direttamente con la moglie morta visto che non è mai stato capace di farlo quando lei era viva"; ma Webley ha trattato il vecchio gentiluomo in modo tirannico e altezzoso come se il motivo non fosse affatto serio. Continuava a dire: «Chi è là questa sera? Chi è là questa sera? Presentatevi di nuovo... non mi piacciono gli stranieri! Dico che non mi piacciono gli stranieri!» Sebbene la signora A... ci avesse precedentemente informati che non avremmo assistito a nessun fenomeno fisico, c'erano, di tanto in tanto, dei luccichii luminosi nella stanza buia, difficilmente qualcosa di più delle piccolissime pulsazioni di luce provocate dalle lucciole; e sia io che Perry Moore abbiamo sentito il tavolo vibrare sotto le nostre di-
ta. Più o meno nel momento in cui Webley ha ceduto il posto allo spirito della moglie del giudice T..., la temperatura nella stanza è parsa calare di colpo e ricordo di essere stato colto da una sensazione di panico... ma è durata soltanto un istante e mi sono subito ripreso. (Il dottor Moore ha affermato di non avere notato alcun calo di temperatura e il giudice T... era talmente scosso dopo la seduta che sarebbe stato inutile porgli delle domande.) La seduta vera e propria è stata simile alle altre cui ho partecipato... Uno spirito... o una voce... ha affermato di essere la defunta signora T...; lo spirito si è rivolto al sopravvissuto con particolare intensità e urgenza tanto che era quasi imbarazzante essere presenti. Il giudice T... si è ben presto messo a piangere. Il suo viso molto rugoso luccicava di lacrime come quello di un bambino. «Suvvia, Darrie! Darrie! Non piangere! Oh, non piangere!» diceva lo spirito. «Nessuno è morto, Darrie. Non esiste la morte. Nessuna morte!... Mi senti, Darrie? Perché sei così spaventato? Così turbato? Non è il caso, Darrie, non è il caso! Io, il nonno e Luci siamo qui insieme... felici e insieme. Guarda, Darrie! Sii coraggioso, caro! Il mio povero caro spaventato! Non ci siamo mai conosciuti l'un l'altro, vero? Povero caro! Amore mio!... Ti ho visto in una grande casa trasparente, una grande casa che bruciava; povero Darrie, mi hanno detto che eri ammalato, che avevi la febbre; tutte le stanze della casa erano in fiamme e le scale erano ridotte in cenere ma c'erano delle figure che salivano e scendevano, Darrie, molte figure e tu eri tra loro, caro, che esitavi per la paura... eri così goffo! Guarda, caro, e schermati gli occhi e mi vedrai. Il nonno mi ha aiutata... lo sapevi? Ho invocato il suo nome alla fine. Caro, mio caro, è accaduto tutto così in fretta... non ci siamo mai conosciuti l'un l'altro, vero? Non essere duro con Annie! Non essere crudele! Darrie? Perché piangi?» E poco per volta la voce dello spirito è diventata più debole; o forse qualcosa è andato storto e i canali della comunicazione non erano più chiari. C'erano ripetizioni, frasi tronche, domande prive di significato... «Caro? Caro?» che le risposte del giudice non sembravano placare. Lo spirito parlava della sua tomba e di un viaggio in Italia fatto molti anni prima e di un bambino morto o non nato e di nuovo di Annie... evidentemente la figlia del giudice T...; ma il miscuglio di parole non aveva sempre senso ed è stato un grande sollievo quando la signora A... si è improvvisamente destata dal suo stato di trance. Il giudice T... si è alzato dal tavolo, molto agitato. Voleva richiamare lo spirito; si era scordato di fare certe domande cruciali; era stato sopraffatto
dall'emozione e gli era stato difficile parlare, interrompere il monologo dello spirito. Ma la signora A... (che appariva terribilmente stanca) gli ha detto che lo spirito non sarebbe ritornato per quella sera e che non si dovevano fare altri tentativi per richiamarlo. «L'altro mondo obbedisce alle sue leggi» spiegò la signora A... con la sua vocina acuta. Abbiamo lasciato la casa della signora A... poco dopo le nove. Anch'io ero esausto; non mi ero reso conto di quanto mi fossi lasciato coinvolgere da quella seduta. Anche il giudice T... alloggia al Montague House, ma era troppo turbato dopo la seduta per unirsi a noi a cena. Ci ha assicurati, comunque, che lo spirito era autentico... la voce era quella della moglie, ne era sicuro, ci avrebbe scommesso la vita. Lei non l'aveva mai chiamato Darrie, da viva, non era strano che lo chiamasse Darrie ora? Ed era così preoccupata per lui, così piena di amore... e si preoccupava anche per la loro figlia. Lui era molto commosso. Aveva tante cose cui pensare. (Sì, aveva avuto la febbre qualche settimana prima, un serio attacco di bronchite con la febbre; anzi, non si era ripreso del tutto.) La cosa straordinaria dell'intera esperienza era la saggezza rivelata: «Non esiste la morte.» Non esiste la morte. Io e il dottor Moore abbiamo abbondantemente cenato mangiando arrosto d'agnello, patate novelle con piselli e cavolo al burro. Ci hanno servito due tipi di pane... quello tedesco, di segale, e dei bastoncini allo yogurth; il burro dell'albergo era superbo; il vino eccellente; il dolce... delle crêpe alla crema con mandorle tostate... aveva un aspetto meravigliosd anche se io ero ormai sazio. Il dottor Moore era veramente affamato. Parlava mentre mangiava, sottolineando spesso le sue osservazioni con delle risate. Secondo lui, naturalmente, la medium era una truffatrice e neppure molto abile. In quindici anni di ricerche non professionali, aveva incontrato medium molto più intelligenti. Persino il famoso Eustace con i suoi tavoli che levitavano e gli scampanii e le grida dei folletti era più abile della signora A...; si sapeva naturalmente che Eustace era un imbroglione ma era difficile scoprirne i trucchi. La signora A..., invece, era trasparente. Il dottor Moore ha parlato per un po' nel suo modo tanto amabile quanto enigmatico. Ha ordinato del brandy per tutti e due, anche se era quasi mezzanotte quando abbiamo finito di cenare e io ero ansioso di andare a letto. (Speravo di alzarmi presto e di preparare una lezione sull'approccio di Kant al problema della Libera Volontà che dovrei tenere tra qualche gior-
no.) Ma il dottor Moore parlava con piacere e sembrava avere tratto vigore dalla nostra esperienza presso la signora A... A quarantatré anni, Perry Moore ne ha soltanto quattro più di me ma nell'aspetto, perlomeno, sembra molto più vecchio. È un secondo cugino di mia madre, un fisico di grande successo con l'appartamento da scapolo e lo studio in Louisburg Square; il fatto che non sia riuscito a sposarsi o che si sia rifiutato di farlo è uno dei perenni misteri di Boston. Tutti concordano nel dire che è colto, spiritoso, affascinante e straordinariamente intelligente. Con una bellezza che colpisce, non convenzionale - la barba scura e lucida e gli occhi vivaci - è un bravo violinista, un marinaio pieno di entusiasmo e un amante della letteratura... i suoi scrittori preferiti sono Fielding, Shakespeare, Orazio e Dante. Naturalmente è un investigatore perfetto in materia di spiritismo perché riesce a rimanere distaccato dal fenomeno, osserva e tuttavia è un infaticabile curioso; ha un grande amore, una vera e propria mania, per i fatti. Come un vero scienziato, lui cerca i fatti che, messi assieme, possono portare alle ipotesi: non parte mai con una sola ipotesi in mente, come se questa fosse una specie di cestino in cui certi fatti possono essere buttati alla rinfusa mentre altri vengono opportunisticamente ignorati. In tutte le cose Moore è un empirico che non accetta niente sulla fiducia. «Allora, se quella donna è una truffatrice» dico, esitante «credi che sia una truffatrice capace di autosuggestionarsi? E le informazioni dei suoi spiriti... da dove le vengono? Telepatia forse?» «Telepatia, certo. Non possono esserci altre spiegazioni» dice il dottor Moore, enfaticamente. «Per qualche motivo ancora sconosciuto alla scienza... per qualche misterioso motivo lei sopprime la sua personalità conscia... e perciò libera altre personalità secondarie che hanno il potere di fare presa sui pensieri e le memorie dei presenti, degli interessati. Ciò avviene in un modo che la scienza non ha ancora compreso, al momento. Ma, alla fine, lo si scoprirà. Le nostre indagini sui poteri inconsci della mente umana sono appena all'inizio; siamo alle soglie di una nuova era.» «Perciò lei pesca semplicemente dalle menti dei suoi clienti ciò che loro vogliono udire» dico, lentamente. «E di tanto in tanto riesce persino a prenderli un po' in giro... a insultarli: in poche parole si inventa quell'odioso e subornante Wembley per soggiogare una persona come il giudice T... e questo senza paura di essere scoperta. Telepatia... sì, la telepatia spiegherebbe molte cose... praticamente tutto quanto a cui abbiamo assistito questa sera.»
«Tutto, direi» mi corregge il dottor Moore. Sulla carrozza, durante il viaggio di ritorno a Cambridge, metto da parte Kant e gli appunti della mia lezione e leggo sir Thomas Browne: La luce che rende visibili tutte le cose, ne rende invisibili certe altre. Il più grande mistero della Religione è espresso dall'adombramento. 19 MARZO 1887. CAMBRIDGE, LE 11 DI SERA Ho camminato per dieci miglia, questa sera; ho bisogno di liberare la mente. Atmosfera malsana. Claustrofobica. La seduta di ieri sera a Quincy... un'esperienza molto spiacevole. (Non ho raccontato a mia moglie che cos'è accaduto. Perché la incuriosisce tanto il Mondo degli Spiriti?... Perry Moore?) Il mio corpo ha un bisogno disperato di altra violenta' attività fisica. In estate, grazie al cielo, potrò nuotare nell'oceano: il più energico e stimolante degli esercizi. Butto giù degli appunti riguardo all'esperienza di Quincy: I. TRUFFATRICE La signora A..., forse con dei complici, medita gli imbrogli; fruga precedentemente nelle vite dei suoi clienti, forse corrompe i servi. O è un'abile ventriloqua oppure lavora con qualcuno che lo è. (Marito? Figlio? Il marito è un ebanista in pensione e si dice che sia ammalato; forse tisico. Il figlio, sposato, vive a Waterbury.) La sua affermazione di voler evitare la pubblicità e il suo rifiuto di essere pagata possono semplicemente essere dei trucchi; forse ha intenzione di arricchirsi in futuro. Possibilità di ricatto?... (uò essere verosimile in casi come quello di Perry Moore.) II. NON-TRUBFATRICE Ipotesi Naturalistica
1. Telepatia. Lei legge nelle menti dei clienti. 2. Personalità multipla del medium. Aspetti soffocati della propria psiche vengono liberati quando la sua personalità conscia è soppressa. Questi esseri secondari sono in misterioso rapporto con le personalità secondarie dei clienti. Ipotesi spiritistica 1. I controlli sono veri comunicatori, intermediari tra il nostro mondo e il mondo del morto. Questi spiriti cedono il posto ad altri spiriti che allora parlano attraverso il medium; oppure: 2. questi spiriti influenzano il medium che legge i loro messaggi servendosi del proprio vocabolario. Le loro personalità sono poi filtrate e limitate dalla sua. 3. Gli spiriti non sono quelli dei morti; sono spiriti perversi e ostinati. (Forse demoni? Ma non esistono i demoni.) III. ALTRE IPOTESI Follia: il medium è pazzo, i clienti sono pazzi, persino gli studiosi distaccati e razionali sono pazzi. Ieri sera a casa della signora A..., la seconda seduta alla quale io e Perry Moore abbiamo assistito insieme, con la signorina Bradley, una stenografa della Società, e due veri clienti... una vedova di Brooklyn, la signora P..., e sua figlia Clara, una bella ragazza sui vent'anni. La signora A... esattamente come ci è apparsa in febbraio; forse un po' più robusta. Indossava il vestito nero e il cammeo. Ha servito del tè Lapsang, piccoli sandwich e dei biscotti quando siamo arrivati poco dopo le sei del pomeriggio. È sembrata amichevole con Perry, la signorina Bradley e con me; si agitava attorno a noi come una qualsiasi padrona di casa; ha chiacchierato un po' del freddo; la signora P... e sua figlia sono arrivate alle diciotto e trenta e la seduta ha avuto inizio poco dopo. Confusione fin dall'inizio. Un mormorio di voci di spiriti. La signora A... in trance, la testa rovesciata all'indietro, la bocca aperta, gli occhi rovesciati verso l'alto. Strano. Snervante. Ho lanciato un'occhiata al dottor Moore, ma lui era impassibile come sempre. La vedova e sua figlia, comunque, sembravano spaventate quanto me.
Perché siamo qui, seduti attorno a questo tavolo? Che cosa crediamo di scoprire? Quali sono i rischi che corriamo...? Webley appariva e scompariva in continuazione. La sua voce acuta, addolorata, era messa in sordina da quella di una creatura di sesso indefinito che mormorava in gaelico. Questa creatura, a sua volta, era sostituita da un rauco tedesco, un uomo che si è presentato come Felix; parlava in un tedesco stranamente sgrammaticato. Per alcuni minuti lui e due o tre altri spiriti hanno litigato. (Ognuno diceva di essere il Capo Comunicatore della sera della signora A...) Delle lucine si accendevano nella semioscurità del salotto e il tavolo vibrava sotto le mie dita e io sentivo, o credevo di sentire, qualcosa che mi sfiorava, mi toccava la nuca. Sono stato scosso da brividi violenti, ma mi sono di colpo ripreso. Una voce che si è presentata affermava in inglese che lo Spirito della nostra Epoca era Marte: ci sarebbe stata ben presto una guerra catastrofica e la maggior parte della popolazione mondiale sarebbe stata distrutta. Tutti gli atei sarebbero stati distrutti. La signora A... scuoteva la testa come se cercasse di svegliarsi. Webley appariva gridando: «Ehi? Ehi? Non riesco a vedere nessuno! Chi è là? Chi mi ha chiamato?» ma veniva di nuovo soppiantato da un altro spirito che gridava una lunga sequela di parole in una lingua straniera. (Nota: scoprii qualche giorno dopo che quella lingua era il walachiano, un dialetto della Romania. Naturalmente la signora A..., i cui antenati erano inglesi, non poteva assolutamente conoscere il walachiano e io sono propenso a dubitare che la donna abbia mai neppure sentito parlare del popolo walachiano.) La seduta è continuata in quel modo caotico per alcuni minuti. La signora P... dev'essere rimasta delusa perché era stato suo desiderio mettersi in contatto con il marito morto. (Aveva bisogno di farsi consigliare se vendere o meno certi pezzi di proprietà.) Gli spiriti mormoravano liberamente in inglese, tedesco, gaelico, francese e persino in latino e, a un certo punto, il dottor Moore si è rivolto a uno spirito in greco antico, ma lo spirito si è immediatamente ritirato come se non si sentisse all'altezza dell'intelligenza del dottor Moore. L'atmosfera era allarmante ma, nello stesso tempo, piuttosto maniacale; quasi scherzosa. Mi sono scoperto a reprimere una risata. Qualcosa mi ha sfiorato di nuovo la nuca, sono stato colto da brividi violenti e mi sono ritrovato a sudare, ma l'esperienza non era del tutto spiacevole; sarebbe stato molto difficile per me definirla. E poi... Poi, di colpo, tutto è cambiato. C'era la calma assoluta. La voce di uno
spirito parlava gentilmente da un angolo della stanza, rivolgendosi a Perry Moore col nome di battesimo, lentamente, andando per tentativi. «Perry? Perry?...» Il dottor Moore si è voltato sulla sedia. Era sorpreso; potevo capirlo dalla sua espressione che la voce apparteneva a qualcuno che conosceva. «Perry...? Sono Brandon. È da tanto che ti aspetto, Perry, come hai potuto essere così egoista? Ti ho perdonato. Da molto tempo. Non potevi fare a meno della tua crudeltà e io della mia innocenza. Perry? I miei occhiali si sono rotti... non posso vedere. Ho avuto tanta paura, Perry, ti prego, sii buono con me! Non ce la faccio più. Non sapevo come sarebbe stato. Ci sono folle di persone, qui, c'è un universo di estranei... non riesco a vedere nessuno chiaramente... sono persa da vent'anni, Perry. Ti ho atteso per vent'anni! Non oserai allontanarti di nuovo, Perry! No! Non dopo tanto tempo!» Il dottor Moore è balzato in piedi, rovesciando la sedia. «No... È... Non credo...» «Perry? Perry? Non abbandonarmi di nuovo! No!» «Che cos'è?» ha gridato il dottor Moore. La signora A... si è destata dalla trance con un gemito. Le donne di Brooklyn erano molto turbate e devo ammettere che ero terrorizzato e avevo la camicia madida di sudore. La seduta era finita. Erano soltanto le sette e mezzo. «Brandon?» ha gridato il dottor Moore. «Aspetta. Dove sei...? Brandon? Puoi sentirmi? Dove sei? Perché l'hai fatto, Brandon? Aspetta! Non andare! Qualcuno lo può richiamare... Qualcuno può aiutarmi...» La signora A... si è alzata e ha tentato di prendere le mani del dottor Moore tra le sue, ma lui era troppo agitato. «Ho udito soltanto le ultime parole» ha spiegato lei. «Sono sempre così... così confuse, così afflitte... quelle povere cose... Oh, che peccato! Non è stato un omicidio, vero? Non un omicidio! Suicidio...? Credo che un suicidio sia persino peggio per loro! Quelle povere cose afflitte si svegliano nell'altro mondo e sono terribilmente perse... Non hanno guide, vede... nessuno che li aiuti... Sono completamente sole per l'eternità...» «Non può richiamarlo?» ha chiesto fuori di sé il dottor Moore. Guardava un angolo del salotto, leggermente curvo, il viso contorto, come se guardasse il sole. «Qualcuno non può aiutarmi?... Brandon? Sei qui? Sei qui? Per amor del cielo, qualcuno mi aiuti!» «Dottor Moore, la prego, gli spiriti se ne sono andati... la seduta è finita
per questa sera...» «Vecchia pazza, lasciami in pace! Non vedi che io... che io non posso, non devo perderlo? Richiamalo! Insisto! Insisto!» «Dottor Moore, la prego... Non deve gridare...» «Ho detto di richiamarlo! Subito! Richiamalo subito!» Poi lui è scoppiato in lacrime. Si è appoggiato al tavolo, il visto nascosto tra le mani, e ha pianto come un bambino; ha pianto come se il cuore gli si fosse spezzato. E così oggi ho rivissuto la seduta. Prendendo appunti, tentando di stabilire che cosa è accaduto. Una veloce passeggiata al vento per dieci miglia. La testa che brulica di idee. Truffa? Inganno? Telepatia? Follia? Che spettacolo! Il dottor Perry Moore che chiama uno spirito, che supplica di farlo ritornare... e poi piange di fronte a quattro testimoni attoniti. Fra tante persone proprio il dottor Perry Moore. Il mio dilemma: devo riportare l'incidente di ieri sera al dottor Rowe, il presidente della Società, o non devo dire niente e chiedere alla signorina Bradley di fare altrettanto? Sarebbe tragico se la reputazione professionale di Perry venisse danneggiata dalla disavventura di una sola sera; e tra non molto tutta Boston ne parlerebbe. Nello stato in cui si trova adesso, comunque, è probabile che egli stesso ne parli di persona con tutti. A Montague House il poveretto era incapace di dormire. Mi avrebbe tenuto in piedi tutta la notte se avessi avuto la capacità di sopportare la sua eccitazione. Gli spiriti esistono! Gli spiriti sono sempre esistiti! Tutta la sua vita sprecata! E, naturalmente, cosa più importante... non esiste la morte! Ha camminato avanti e indietro per la mia stanza d'albergo, tirandosi nervosamente la barba. In certi momenti, aveva gli occhi pieni di lacrime. Sembrava volere una risposta di un qualche genere da me ogni volta che cominciavo a parlare, mi interrompeva; non mi ascoltava veramente. «Ora finalmente lo so. Non posso disfare tutto il mio sapere» ha detto Moore con voce aspra. «Sorprendente, no?... Dopo tanti anni... tanti anni sprecati... L'ignoranza è stato il mio destino, l'oscurità... e uno spaventoso compiacimento. Mio Dio, quando penso alla mia delusa mediocrità compiaciuta di sé! Mi vergogno così tanto, mi vergogno così tanto. Tutte quelle persone come la signora A... sono state in contatto con un mondo pieno di potere... e la gente come me ha faticato nell'ignoranza, accumulando
imprese materiali, spendendo energia in cose stupide e transitorie... Ma ora tutto è cambiato. Ora so. Io so. Non esiste la morte, come ci hanno sempre detto gli Spiritualisti.» «Ma, Perry, non credi... Non è possibile che...» «Io so» ha detto con calma lui. «Mi è chiaro come se fossi entrato di persona in quell'altro mondo. Povero Brandon! Non è più vecchio ora di quanto non lo fosse allora. Povero ragazzo, povera anima tragica! E pensare che vive ancora dopo tanti anni... Straordinario... Mi fa girare la testa» ha aggiunto, lentamente. Per un momento si è fermato, in silenzio. Si è tirato la barba, poi con aria assente si è toccato le labbra con le dita e si è asciugato gli occhi. Aveva l'aria di essersi dimenticato di me. Quando ha ripreso a parlare, la sua voce era vuota, spaventosa. Sembrava drogato. «Io... pensavo a lui come... come a un morto, sai? Un morto. Vent'anni. Morto. E ora, questa sera, sono stato costretto a rendermi conto che... che non è morto... Prese il laudano. Io lo scoprii. La sua stanza al terzo piano del Weld Hall. Lo trovai, non avevo idea, la minima idea, finché non lessi il biglietto... e naturalmente lo distrussi... dovevo farlo: per il suo bene. Per il suo bene più che per il mio. Fu perché capii che non ci poteva essere alcuna... alcuna speranza... Lui tuttavia mi ha chiamato crudele! L'hai sentito, Jarvis, no? Crudele! Forse lo sono stato. Lo sono stato? Non so che cosa pensare. Devo parlargli di nuovo. Io... non so che cosa... cosa pensare. Io...» «Hai un aspetto orribilmente stanco, Perry. Forse dovresti andare a letto» ho detto. «...ho riconosciuto subito la sua voce. Subito, senza dubbi. Nessun dubbio. Che rivelazione! E la mia vita così sprecata... Curare i corpi delle persone. Assurdo. Ora so che nulla ha importanza fatta eccezione per l'altro mondo... nulla ha importanza se non i nostri morti, i nostri amati morti... che non sono morti. Che rivelazione colossale...! Diamine, cambierà l'intero corso della storia. Altererà le menti degli uomini nel mondo. Tu eri là, Jarvis, perciò capisci. Sei stato un testimone...» «Ma...» «Sarai testimone della verità di ciò che dirò?» Mi fissava, sorridendo. Aveva gli occhi lucidi, iniettati di sangue. Ho cercato di spiegargli con cortesia e con tutta la comprensione che potevo mostrare che la sua esperienza dalla signora A... non era sostanzialmente diversa da quelle che molte persone avevano avuto alle altre sedute... «E sempre in passato i ricercatori hanno dedotto...»
«Tu eri là» ha detto lui, con rabbia. «Hai sentito la voce di Brandon chiara come l'ho sentita io. Non negarlo!» «...hanno dedotto che... che il fenomeno può essere in parte spiegato dai poteri telepatici del medium...» «Quella era la voce di Brandon. Ho sentito la sua presenza, ti dico! La sua presenza. La signora A... non c'entra. Non c'entra niente. Sento che... che potrei richiamarlo io stesso... Sento la sua presenza anche ora. Vicino a me. Lui non è morto, nessuno è morto, c'è un universo di... di persone che non sono morte... Genitori, nonni, sorelle, fratelli, tutti... tutti... Come puoi negare, Jarvis, la prova dei tuoi sensi? Eri là con me questa sera e sai quanto me...» «Perry, io non so. Ho udito una voce, sì, ma abbiamo udito voci anche in altre sedute, no? Ci sono sempre delle voci. Ci sono sempre gli spiriti. La Società sostiene che gli spiriti potrebbero essere reali, naturalmente, ma ci sono altre ipotesi che sono forse più verosimili...» «Altre ipotesi, già!» ha detto Perry, irritato. «Sei come un uomo con gli occhi chiusi che si rifiuta di aprirli per pura vigliaccheria. Come i cardinali che rifiutavano di guardare nel telescopio di Galileo! E hai la pretesa di essere un uomo colto, di scienza... Be', dobbiamo distruggere tutti gli appunti che abbiamo preso finora; sono una calunnia per il mondo degli spiriti. Grazie al cielo non abbiamo ancora steso un rapporto sulla signora A...! Sarebbe così imbarazzante essere costretti a ritrattarlo...» «Perry, ti prego. Non arrabbiarti. Voglio soltanto ricordarti che siamo stati presenti ad altre sedute e che abbiamo visto altre persone che rispondevano emotivamente a certi fenomeni. Il giudice T..., per esempio. Era convinto di avere parlato con sua moglie. Ma devi pure ricordare che tu e io non eravamo affatto convinti... Pensavamo che la signora A... fosse in grado, attraverso poteri extrasensoriali che non comprendiamo, di leggere nelle menti dei clienti e poi di produrre certe voci nella stanza in modo che sembri che provengano da altre persone... Hai persino detto, Perry, che non era una ventriloqua molto abile. Hai detto...» «Che cosa importa quello che posso avere detto nella mia ignoranza?» ha gridato lui. «Non basta che sia stato umiliato? Che tutta la mia vita sia stata sprecata? Devi insultarmi anche tu... sederti lì e insultarmi? Credo di potere affermare di essere qualcuno cui si deve rispetto.» E così l'ho rassicurato che lo rispettavo. E lui ha continuato a camminare per la stanza, ad asciugarsi gli occhi, sempre molto agitato. Ha parlato di nuovo del suo amico, Brandon Gould, e della propria ignoranza, e dell'im-
portante missione che dovevamo intraprendere per informare uomini e donne del vero stato delle cose. Ho tentato di parlargli, di farlo ragionare ma è stato inutile. Lui non mi ascoltava neppure. «...dobbiamo informare il mondo... cruciale verità... Non esiste la morte, vedi. Non è mai esistita. Cambia la civiltà, cambia il corso della storia. Jarvis? Capisci? Non esiste la morte.» 25 MARZO 1887. CAMBRIDGE Voci inquietanti su Perry Moore. Oggi in Università ho sentito dire che uno dei pazienti del dottor Moore, un cognato di Dean Barker, si era sentito estremamente offeso dal suo comportamento durante una visita, la settimana scorsa. Diceva che il dottor Moore aveva bevuto, cosa che trovo incredibile. Se il poveretto è apparso eccitabile e non quello di sempre, non è perché aveva bevuto, questo è poco ma sicuro. Un'altra voce me l'ha riportata mia moglie che l'ha sentita da sua sorella Maude: Perry Moore è andato in chiesa, la Chiesa Episcopale di St. Aidan in Mount Street, per la prima volta da un decennio a questa parte; si è seduto da solo, ha cominciato a mormorare e a ridere durante il sermone e, alla fine, si è alzato ed è uscito, creando una certa perplessità. Che delusioni! Che delusioni!... si dice che abbia mormorato. Temo per la sanità mentale di quel poveretto. 31 MARZO 1887. CAMBRIDGE. LE QUATTRO DEL MATTINO Notte insonne. Ho sognato di nuotare... di nuotare nell'oceano... di divertirmi come al solito... quando l'acqua si è fatta di colpo densa... si è trasformata in fango. Spaventoso! Indescrivibilmente orribile. Nuotavo nudo nell'oceano, con la luna, credo, estaticamente felice, completamente solo, quando l'acqua si è trasformata in fango... Fango disgustoso; leggermente caldo; che risucchiava il mio corpo. Gambe, cosce, dorso, braccia. Orribile. Mi sono svegliato in preda al terrore. Madido di sudore: col pigiama umido. Uno degli incubi più paurosi che ho avuto da quando sono adulto. Ieri prima di cena mi è arrivato un messaggio di Perry Moore. Mi piacerebbe accompagnarlo dalla signora A... presto, magari ai primi di aprile, non in veste di ricercatore...? Ora non è sicuro della moralità della ricerca sulla signora A... o su qualsiasi altro medium.
4 APRILE 1887. CAMBRIDGE Ho trascorso il pomeriggio dalle due alle cinque in casa di William James in Irving Street, parlando col professor James dell'impiegabile fenomeno del conscio. Lui è vispo come sempre, piuttosto irriverente, sicuro di sé in un modo che trovo invidiabile; un po' come Perry Moore prima della sua conversazione. (Occhi straordinari... così penetranti, vivaci, scherzosi; barba grigia; capelli grigi cortissimi; una fronte larga e sporgente; modi intelligenti, pieni di grazia e, al tempo stesso, quasi rudi come se anticipasse o addirittura sperasse qualche opposizione nei suoi ascoltatori.) Troviamo entrambi decisive le idee esposte in Alterazioni della personalità di Binet... per quanto sconvolgenti possano sembrare a un razionalista. James parla di una peculiarità nella costituzione della natura umana: vale a dire il fatto che occupiamo non solo il nostro io conscio, ma un ampio campo di esperienza psicologica (per lo più chiaramente rappresentata dal fenomeno della memoria, che nessuno può adeguatamente spiegare) sulla quale non abbiamo alcun controllo. A dire il vero, non siamo generalmente consapevoli di questo campo del conscio. Occupiamo una sfera illuminata, allora; e attorno a noi c'è una vasta penombra di ricordi, riflessioni, sentimenti e pensieri isolati, scoordinati che appartengono a noi in teoria, ma che non sembrano far parte della nostra identità conscia. (Ero troppo timido per chiedere al professor James in quale modo l'immenso sommerso inconscio, ancorché obbiettivo potesse interagire soggettivamente col piccolo emerso conscio.) È possibile che ci sia un elemento di una qualche specie indeterminata: oceanico, atemporale eppur vivente contro il quale l'individuo costruisce barriere temporanee come parte di un processo di crescita dell'unica sopravvivenza particolareggiata; come l'oceano stesso che sembra separare le isole che isole non sono bensì aspetti di un'unica terra saldamente congiunta sotto la superficie dell'acqua. Le nostre vite, allora, assomigliano a queste isole... James è, naturalmente, amico di Perry Moore. Ma ha rifiutato di parlare del sempre più eccentrico comportamento del pover'uomo quando vi ho alluso: forse il professor James conosce anche più a fondo di me la situazione... e gode di una schiera di ottime conoscenze a Cambridge e a Boston. Ho portato diverse volte la nostra conversazione sulla possibilità della naturalità dell'esperienza di trasformazione in termini di evoluzione dell'io dell'individuo, comunque sia visto dalla sua famiglia, dai suoi colleghi e dalla società in generale e il professor James è sembrato d'accordo; o per-
lomeno non si è dichiarato in disaccordo. Mantiene un deciso scetticismo, naturalmente, riguardo alle affermazioni spiritistiche e tutti gli entusiastici movimenti religiosi evangelici sebbene lui, nello stesso tempo, sia chiaramente contrario alla posizione razionalista e creda che la ricerca psichica del tipo che alcuni di noi sta tentando alla fine scoprirà molti e cospicui... aspetti rivelatori della psiche umana altrimenti chiusi alla nostra analisi. «La cosa paurosa» dice James «è che in certi momenti siamo vulnerabili alle incursioni dell'altra faccia della personalità... Non possiamo determinare la natura dell'intera personalità semplicemente perché molta di essa, forse la maggior parte, ci è nascosta... Quando siamo invasi, allora, siamo sopraffatti e ci arrendiamo immediatamente. Le intuizioni emotive, le impressioni, le supposizioni, persino le idee possono essere meno aggressive di queste incursioni; ma ci sono allucinazioni visive e uditive e forme di comportamento automatico non controllate dalla mente conscia... Ah, pensa forse che stia semplicemente descrivendo la pazzia?» L'ho fissato, sorpreso. «No. Niente affatto. Niente affatto» mi sono affrettato a rispondere. Leggo i diari di mio nonno, iniziati in Anglia Orientale molti anni prima della mia nascita. Un altro mondo allora. Un'altra lingua, ora persa per noi. L'uomo è peccatore per natura. La Giustizia di Dio ha la precedenza sulla Sua misericordia. Il dogma del Peccato originale: una brutalità sull'innocenza di quel credo. E tuttavia consolante... Ho paura di dormire ora che faccio dei sogni così sconvolgenti. Voci di spiriti impudenti (Emanuele Kant in persona viene a rimproverarmi per avere dato troppa importanza alle sue categorie...!), grida e mormorii che non so decifrare, i visi dei miei amatissimi morti che mi ronzano attorno, simili a maschere carnascialesche, insostanziali e possibilmente fraudolenti. Sono impaziente con mia moglie che mi fa troppe domande su queste cose personali; mi irrito di tanto in tanto, soprattutto la sera, con i bambini che fanno gli sciocchi. (Il più grande ha ora dodici anni e dovrebbe saper fare di meglio.) Ho il terrore di ricevere un'altra lettera... o meglio, un sermone... da Perry Moore sulla sua nuova posizione e tuttavia spero perversamente che arrivi presto. Devo sapere. Devo sapere che cosa?... Devo sapere.
10 APRILE 1887. BOSTON. CHIESA EPISCOPALE DI ST. AIDAN Servizio funebre, questa mattina, per Perry Moore; morto a quarantatre anni. 17 APRILE 1887. SEVEN HILL, NEW HAMPSHIRE Un weekend in ritiro. Niente parlare. Nessun bisogno di pensare. Sono in visita a un vecchio amico, autore di numerosi libri. Specialista in Cartesio. Anziano. Parzialmente sordo. Straordinariamente gentile con me. (Non mi ha fatto domande sul Dipartimento o sul mio lavoro.) Ora s'interessa molto al comportamento degli animali, li osserva, soprattutto; è affascinato dal fenomeno dell'ibernazione. Mi lascia solo per ore. Vede qualcosa sul mio viso che io stesso non riesco a vedere. Le antiche consolazioni di un Dio crudele ma giusto: ridicolo oggi. Nel diciannovesimo secolo viviamo liberi da Dio. Viviamo nell'illusione della libertà da Dio. Sonnellino nella camera degli ospiti di questa vecchia fattoria e poi risveglio improvviso. «C'è qualcuno qui? C'è qualcuno qui?» La mia voce strana, infantile. «Prego, c'è qualcuno qui?» Silenzio. Domanda: La penombra che c'è attorno al conscio è mai stata identificata con Dio? Domanda: L'inevitabilità è mai stata identificata con Dio? Dio... il corpo del destino che occupiamo; né più né meno. Dio ha spinto Perry nel corpo del destino: in Se Stesso. (O Esso.) Come forse direbbe il professor James, il dottor Moore era vulnerabile a un assalto dall'altra faccia. In ogni caso, lui è morto. L'hanno sepolto sabato scorso. 25 APRILE 1887. CAMBRIDGE Scaffali di libri. La santità dei libri. Kant, Platone, Schopenhauer, Descartes, Hume, Hegel, Spinoza. Gli altri. Tutti. Nietzsche, Spencer, Leibnitz (sul quale ho fatto una tortuosa tesi di laurea). Plotino. Swedenborg.
Le Transazioni della Società Americana per la Ricerca Psichica. Voltaire, Locke. Rousseau. E Berkeley: il buon vescovo alla deriva in un sogno. Un'incisione di Halbrech sopra la mia scrivania: Il Tamigi 1801. Acqua troppo nera. Nero inchiostro. Densa di fango...? Acqua sporca, in ogni caso. Un saggio di Perry, quaranta pagine: La Sfida del Futuro. Me l'ha dato qualche settimana fa il dottor Rowe che aveva paura di respingerlo in favore delle Transazioni, ma che non poteva, naturalmente, accettarlo. Riesco a leggerne soltanto qualche pagina ogni tanto, poi lo metto da parte, troppo turbato per continuare. E spaventato anche. L'uomo era impazzito. È morto pazzo. La personalità distrutta: brandelli d'intelletto. Il suo soggetto appassionato e sconnesso, con nessuna pretesa di obiettività. Là dove alcune settimane prima aveva affermato che era immorale fare ricerche nel mondo degli spiriti, ora diceva che è imperativo farlo. Siamo alle soglie di una nuova era... nuova conoscenza dell'universo... paragonabile al movimentato periodo di transizione tra le teorie dell'universo di Tolomeo e di Copernico... Sono necessari altri esperimenti. Denaro. Donazioni. Sussidi da parte di istituzioni private. Tutta la ricerca psicologica dev'essere incanalata nello studio sistematico del Mondo degli Spiriti e delle strade attraverso le quali possiamo comunicare con quel mondo. I medium come la signora A... devono essere portati nei centri di cultura come Harvard e trattati col rispetto che il loro genio si merita. Il loro valore per la civiltà è, in fin dei conti, inestimabile. Devono essere recuperati dalle vite difficili e di routine in cui il loro genio si esaurisce alla ricerca di cose volgari... devono essere recuperati da una clientela che si preoccupa soprattutto di essere messa in contatto con parenti morti per motivi futili ed egoistici. Altrimenti, falliremo, barcolleremo sotto il fardello, saremo sconfitti ignobilmente e sarà il ventesimo secolo a scoprire l'esistenza dell'Universo degli Spiriti che circonda l'Universo materiale e a determinare l'esatto modo in cui un mondo è legato all'altro. Perry Moore è morto di un colpo l'otto aprile; è morto all'istante sui gradini del Bedford Club poco dopo le due del pomeriggio. I passanti hanno visto un gentiluomo molto eccitato, rosso in viso, col colletto sbottonato che si faceva strada tra un gruppetto di persone in cima ai gradini... e poi è improvvisamente caduto, come se gli avessero sparato. Da morto, sembrava un'altra persona: i lineamenti duri, il naso partico-
larmente appuntito. Difficilmente il bel Perry Moore che tutti avevano conosciuto. Era venuto a una riunione della Società anche se il dottor Rowe e gli altri (me compreso) gli avevano suggerito di stare alla larga. Lui, naturalmente, era venuto per discutere. Per presentare la sua nuova posizione. Per insultare gli altri membri. (Si mostrò sprezzante davanti a una relazione piuttosto povera su una medium, la signorina E... di Salem, una giovane donna che lavora con anelli, indumenti, ciocche di capelli eccetera; e arrabbiato davanti alla prova presentata da un giovane geologo che sembrava mettere in dubbio, una volta per tutte, le affermazioni di Eustace di Portsmouth. Interruppe una terza lettura di documenti, dando al lettore del bigotto e del pazzo ignorante.) L'incidente, fortunatamente, non è finito su alcun giornale. La stampa, fraintendendo (deliberatamente e maliziosamente) il comportamento della Società nei confronti dello Spiritismo, si diverte a ridicolizzare i nostri sforzi. Ci sono stati necrologi pieni di rispetto. Un bell'elogio preparato dal Reverendo Tyler di St. Aidan. Altri tributi. Una tragica perdita... Compianto da tutti quelli che l'hanno conosciuto... (Sono vacillato, incapace di parlare. Non riesco a parlare di lui, neppure adesso. Sono addolorato? O semplicemente scioccato? Terrorizzato?) Parenti e amici e conoscenti hanno ignorato il suo comportamento degli ultimi mesi e si sono soffermati sul Perry Moore di un tempo, sano di mente, fisico illustre e uomo di lettere. Io mi sono accodato, ho semplicemente aderito; non potevo affermare di avere conosciuto veramente l'uomo. E così lui è morto, e così lui è morto... Poco dopo il funerale, sono andato nel New Hampshire per qualche giorno. Ma riesco a stento a ricordare quel periodo, ora. Dormo poco, non vedo l'ora che arrivi l'estate, desidero un drastico cambiamento di clima, di ambiente. Non è stato saggio da parte mia assumermi la responsabilità della ricerca psichica, anche se ne sono affascinato; i corsi e le lezioni all'Università assorbono la maggior parte delle mie energie. È morto così velocemente e così giovane; così relativamente giovane. Non è stato un caso di pressione alta, è stato detto. Alla fine, comunque, litigava con tutti. La sua personalità era completamente cambiata. Era brusco, impetuoso, persino profano; persino trascurato nel vestiario. (Alzandosi per sfidare il terzo documento, aveva messo in mostra una camicia macchiata.) Alcuni hanno affermato che beveva da an-
ni. Era possibile...? (A Quincy, quella sera, aveva gradito il vino e il brandy, ma non avrei detto che fosse dedito al bere.) Voci, racconti fantastici, pure menzogne, calunnie... È dolorosa la vulnerabilità che la morte porta. Bigotti, ci ha chiamati. Pazzi ignoranti. Non credenti... atei... traditori del Mondo degli Spiriti... eretici. Eretici! Credo che guardasse proprio me quando è entrato nella sala delle riunioni: i suoi occhi che luccicavano, il viso pericolosamente rosso, lo sguardo irriconoscibile. Dopo la sua morte, è stato detto, i libri continuano ad arrivare a casa sua dall'Inghilterra e dall'Europa. Ha speso una piccola fortuna in oscuri volumi... commentari sulla Cabala, su Plotino, testi di alchimia medievale, libri di astrologia, di magia, della metafisica della morte. Cosmologie occulte. Saggezza egiziana, indiana e cinese. Blake, Swedenborg, Cozad. Il Libro Tibetano della Morte. I Misteri Lunari di Datsky. Il suo patrimonio è nel caos perché non ha lasciato un testamento ma diversi, il più recente dei quali risale soltanto al giorno prima della morte, poche righe scarabocchiate su un pezzo di carta, senza testimoni. La famiglia contesterà, naturalmente. Dal momento che in questo testamento ha lasciato il denaro e le proprietà a un'oscura donna che vive a Quincy, Massachusetts, e dal momento che Perry Moore non era più sano di mente a quell'epoca, sarebbero dei pazzi se non contestassero il testamento. Sono passati dei giorni dalla sua morte improvvisa. I giorni continuano a passare. A volte mi sento prendere da una specie di panico freddo; altre sono incline a pensare che tutta la situazione è stata esagerata. A seconda dell'umore, giuro a me stesso che non mi dedicherò mai più alla ricerca psichica perché è semplicemente troppo pericolosa. Oppure mi riprometto che non la continuerò mai più perché è una perdita di tempo e di lavoro e che la mia carriera viene prima di tutto. Eretici, ci ha chiamati. E guardava proprio me. Tuttavia, era pazzo. E non si può essere biasimati per dei capricci di pazzia. 19 GIUGNO 1887. BOSTON Pranzo con il dottor Rowe, la signorina Madeleine van der Post, il giovane Lucas Matthewson. Ho consegnato i miei appunti sui medium che io e il dottor Moore eravamo andati a visitare. (Ho distrutto le annotazioni di
natura privata.) La signorina van der Post e Matthewson prenderanno il mio posto. Sono entrambi giovani, spiritosi, svegli, con qualcosa d'ironico nei lineamenti; assomigliano un po' al dottor Moore prima maniera. Matthewson è un ex studente che ora insegna fisica alla Boston University. Mi hanno domandato di Perry Moore, ma io ho evitato di rispondere con franchezza. Hanno chiesto se eravamo amici, ho risposto di no. Hanno chiesto se avevo sentito la strana storia che stava facendo il giro dei salotti di Boston... la storia di uno spirito che afferma di essere Perry Moore e che si è inserito in un certo numero di sedute della zona... Ho detto onestamente che non ne avevo sentito parlare e che non mi interessava. Spinoza: Analizzerò le azioni e gli appetiti degli uomini come se fossero una questione di linee, di piani e di solidi. È in questa direzione, credo, che dobbiamo muoverci. Lontano dal fantastico, dall'impreciso, dal non chiaro; verso le linee, i piani e i solidi. La sanità mentale. 8 LUGLIO 1887. MOUNT DESERT ISLAND, MAINE Questa mattina, molto presto, prima dell'alba, ho sognato Perry Moore: uno spirito che mormorava e gesticolava, con la barba, gli occhi spiritati, ovviamente pazzo. «Jarvis? Jarvis? Non mi negare!» gridava. «Sono così... così perso...» L'ho affrontato, immobile: né sveglio né addormentato. Le sue parole non erano veramente parole quanto pensieri senza voce. Li ho sentiti nella mia voce; un terribile prurito in fondo alla gola che desiderava ardentemente esprimere il dolore dell'uomo. Perry? Non osare negarmi! Non ora! Si è avvicinato e io non potevo fuggire. Il sogno scivolava, perdeva la sua chiarezza. Qualcuno mi gridava. Era molto arrabiato e confuso... come se fosse ubriaco... o ammalato... o ferito. «Perry? Non riesco a sentirti...» «La nostra cena a Montague House, ricordi? L'agnello. E le crêpe con le mandorle per dessert. Ricordi! Ricordi! Non puoi negarmi! Eravamo entrambi dei non credenti, allora, entrambi profondamente ignoranti... non puoi negarmi! (Ero muto per paura o per astuzia.)
«Quell'idiota di Rowe, come sarà umiliato! Tutti loro! Tutti voi! Tutti i razionalisti, la... la cospirazione di... di pazzi... bigotti... Tra qualche anno... Tra pochi anni... Jarvis, dove sei? Perché non riesco a vederti? Dove sei andato?... I miei occhi non possono mettere a fuoco; mi aiuterà qualcuno? Sembra che abbia perso la strada. Chi c'è qui? Con chi parlo? Ti ricordi di me, vero? (Mi è passato accanto, sbattendo le palpebre. La sua bocca era un buco scavato nella pelle bianca e devastata.) «Dove sei? Dove sono tutti? Pensavo che ci sarebbe stata una folla qui ma... ma non c'è nessuno... sto dimenticando tante cose! il mio nome... qual era il mio nome? Non riesco a vedere. Non riesco a ricordare. Qualcosa di molto importante... qualcosa di molto importante che devo fare... Non riesco a ricordare... Perché non c'è nessun Dio? Nessuno qui? Nessuno che comanda? Prendiamo questa strada e quella, non approdiamo a niente, non c'è nessun riferimento... Nessuna possibilità di decidere... È tutto confuso... sconnesso... Qualcuno è in ascolto? Leggeresti qualcosa per me, ti prego? Leggeresti per me?... qualsiasi cosa! Quel monologo di Amleto... Essere o non essere... un sonetto qualsiasi... Quel periodo dell'anno in cui puoi vedermi... è così?... è così che inizia? Nudi cori in rovina dove un tempo cantavano dei dolci uccelli. Come continua? Me lo dirai? Mi sono perso... non c'è niente da vedere qui, da toccare... qualcuno è in ascolto? Pensavo che ci fosse qualcuno qui, un amico: non c'è nessuno qui? (Sono rimasto immobile e, per cautela, muto: lui mi ha superato.) «Quando nella cronaca del tempo sprecato... il grande mondo che sogna le cose che verranno... qualcuno è in ascolto?... qualcuno può aiutarmi?... sto dimenticando tante cose... il mio nome, la mia vita... il lavoro della mia vita... per penetrare i misteri... i veli... per rendere giustizia all'universo di... di che cosa... che cosa avevo desiderato?... sono nel mio luogo di riposo, ora. Sono tornato a casa? Perché è così vuota? Perché non c'è nessuno? I miei occhi... la mia testa... la mente distrutta e scoppiata... schegge... frammenti... che annientano tutto ciò che è fatto per un... un verde pensiero... un'ombra verde... Shakespeare? Platone? Pascal? Qualcuno mi leggerà di nuovo Pascal? Sembra che abbia perso la strada... Sono scoppiato... Jarvis? Mio caro giovane amico Jarvis? Ma ho dimenticato l'ultimo nome... Ho dimenticato tante cose... (Volevo allungare la mano per toccarlo... ma non potevo muovermi, non potevo svegliarmi. La gola mi doleva. Silenzioso! Silenzioso! Non potevo pronunciare una parola.)
«I miei fogli, il mio diario... vent'anni... una chiave nascosta da qualche parte... dove?... ah, sì: l'ultimo cassetto della mia scrivania... senti?... la mia scrivania... a casa... Louisburg Square... la chiave è nascosta là... avvolta in un fazzoletto di lino... la cassaforte è... la cassaforte chiusa è... nascosta... a casa di mio fratello Edward... l'attico... il baule... iniziali R.W.M... il baule di papà, capisci... la cassaforte è nascosta dentro... i miei diari segreti... il lavoro di una vita... saggezza spirituale e della fisica... non deve andare persa... ascolti?... qualcuno è in ascolto?... Dimentico tante cose, la mia mente è in frantumi... ma se tu potessi trovare il diario e leggermelo... se potessi salvarlo... per me... ti sarei davvero molto grato... ti perdonerei tutto... tutti voi... C'è qualcuno? Jarvis? Brandon? Nessuno?... Il mio diario, la mia anima... la salverai? La... (Se ne è andato barcollando e io ero di nuovo solo.) «Perry...?» Ma era troppo tardi. Mi sono svegliato madido di sudore. Incubo. Devi dimenticare. Meglio alzarsi presto, prima degli altri. Mount Desert Island è bella in luglio. La nostra casetta su una collina sopra la spiaggia. Niente spiriti qui; il vento da nordest, aria sempre fresca, onde perpetue. Meglio alzarsi presto e correre sulla spiaggia e tuffarsi nell'acqua gelida. Togliere le ragnatele dalla mia mente. Che cielo meraviglioso e l'oceano e il sorgere del sole! Niente spiriti qui a Mount Desert Island. Nuoto: esercizio delle braccia e delle gambe. Testa voltata da questa parte, da quella parte. Occhi socchiusi. La sorpresa delle onde fredde. Uno desidera quasi uscire dalla pelle umana in occasioni del genere...! Bellezza vistosa del Maine. Oceano. Esercizio muscolare del corpo. Come sono vivo, come sono vivo, come sono vulnerabile; quale trionfo nel mio respiro! Tutto scivola dalla mia mente tranne il presente. Vivo. Vivo, sono immortale. Non devo infiacchirmi, non devo andare a fondo. Annegare? No. Impossibile. La vita è l'unica realtà. Non è l'estinzione che aspetta, ma un odioso stato di sogno, un perpetuo brancolare, un vagare... molto peggio dell'estinzione... incomprensibile; perciò è la vita ciò a cui dobbiamo aggrapparci, bracciata dopo bracciata, nuotando, conquistando un elemento che ci sostiene. «Jarvis?» grida qualcuno. «Ti prego, ascoltami...»
Com'è bella la vita, la turbolenta gioia della vita contenuta nella pelle! Non sento altro che le onde trionfanti che si infrangono su di me. Ho nuotato per quasi un'ora. Ero riluttante a tornare a riva per la colazione, anche se le nostre colazioni sono sempre delle piacevoli riunioni chiassose; mia moglie e la moglie di mio fratello e i nostri sette bambini insieme per il mese di luglio. Tre maschietti, quattro femminucce: rumore, confusione, salute, nessuna ombra, nessuno spirito. Niente cui pensare. Di nuovo e di nuovo emergerò dalle onde, il viso e i capelli e il corpo grondanti, esausto ma felice, trionfante. Ancora e ancora i bambini mi chiameranno eccitati dal loro giorno del mondo che occupano. Non andrò a cercare la cassaforte del dottor Moore e il suo diario segreto; non penserò neppure di farlo. Il vento porta via le parole. L'onda è ipnotica. Non mi ricorderò del sogno di questa mattina quanto mi siederò per fare colazione con la famiglia. Non afferrerò il polso di mia moglie per dirle: «Non dobbiamo morire! Non dobbiamo morire!» ...perché ciò la spaventerebbe soltanto e la offenderebbe. «Jarvis?» chiama lei in questo momento. E io dico: «Sì... Sì, arrivo subito.» Titolo originale: Night-Side Traduzione: Grazia Alineri Ivan Turgenev Clara Militch Fra gli scrittori non anglofoni, Ivan Turgenev viene considerato un maestro della narrativa soprannaturale del diciannovesimo secolo. L'autore è uno dei più autorevoli e famosi nel panorama letterario russo: in quasi tutte le sue opere, e in particolare modo in quelle scritte durante gli anni della maturità, egli è sempre stato affascinato da questo genere, come risulta evidente anche nel romanzo breve Clara Militch una storia d'orrore e d'amore non corrisposto. Scrittore di fama internazionale, a pieno merito compreso tra gli immortali della letteratura di sempre, tutte le opere di Turgenev sono state ampiamente lette e tradotte già dalla fine del secolo scorso. I
Nella primavera del 1878 viveva a Mosca, in una piccola casa di legno a Shabolovka, un giovane di venticinque anni, di nome Jakov Aratov. Assieme a lui viveva una zia, sorella di suo padre, un'anziana zitella di più di cinquant'anni, Platonida Ivanovna. Ella provvedeva alle faccende domestiche e amministrava il suo denaro, compito per il quale egli si era rivelato totalmente inetto. Oltre a lei, non aveva altri parenti. Alcuni anni prima suo padre, un gentiluomo di campagna di condizioni non troppo agiate, si era trasferito a Mosca con lui e Platonida Ivanovna, che soleva chiamare Platosha. Anche il nipote usava lo stesso diminutivo. Lasciata la casa di campagna dov'erano sempre vissuti, l'anziano Aratov si stabilì nella vecchia capitale con l'intenzione di mandare il figlio all'università per la quale egli stesso lo aveva preparato. A tal fine aveva comperato, con una modica cifra di denaro, una piccola casa situata in una delle strade periferiche e vi si era stabilito con tutti i suoi libri e tutti i suoi aggeggi scientifici. E, in verità, aveva parecchi libri e aggeggi scientifici essendo un uomo di una certa cultura... una persona estremamente eccentrica come dicevano di lui i vicini: alcuni lo consideravano come una specie di mago, altri lo definivano un insettologo. Si occupava di chimica, mineralogia, entomologia, botanica e medicina; curava gratuitamente i suoi pazienti con erbe e con polverine metalliche di sua invenzione, secondo il metodo di Paracelso. E fu con tali polverine che mandò al Creatore la sua giovane, graziosa e troppo delicata consorte, che amava appassionatamente e dalla quale aveva avuto un unico figlio Yakov. Avendo diagnosticato nel giovane Yakov anemia e predisposizione alla tubercolosi — ereditate entrambe dalla madre — volendone irrobustire la fragile costituzione, il vecchio Aratov, sempre con le stesse polverine e sempre a fin di bene, riuscì a minarne la salute. L'appellativo di mago gli era stato conferito anche perché egli si considerava discendente — non in linea diretta, ovviamente — del grande Brifus in onore del quale aveva chiamato il figlio Yakov, l'equivalente di Giacomo. Era quello che si definisce un uomo di buon animo, ma d'indole malinconica, sempre indaffarato, timido, affascinato da tutto ciò che era misterioso e occulto... La sua esclamazione abituale era un ah! proferito quasi con un sussurro; fu proprio con tale esclamazione sulle labbra che egli morì, dopo due anni dal trasferimento a Mosca. Yakov era fisicamente diverso dal padre, non molto prestante, goffo e maldestro, e assomigliava quindi, assai più alla madre: di lei aveva gli stessi lineamenti delicati e aggraziati, di lei gli stessi capelli biondo-cenere, di lei lo stesso naso piccolo e di forma aquilina, di lei ancora le stesse lab-
bra sporgenti e quasi infantili e i grandi occhi languidi grigio-verdi con morbide ciglia. Ma di carattere era simile al padre; il suo volto, pur diverso da quello paterno, aveva la stessa sua espressione. Le mani di forma triangolare e il petto incavato di Yakov erano simili a quelli del vecchio Aratov, che, in verità, non dovrebbe essere definito vecchio poiché mai raggiunse i cinquant'anni. Prima che il padre morisse, Yakov aveva già iniziato a frequentare l'università, la facoltà di matematica e fisica per la precisione. Tuttavia, non finì mai gli studi, non per pigrizia ma perché, secondo i suoi principi, all'università non s'imparava più di quanto non si potesse apprendere a casa. Per quanto concernente la laurea, ebbene non gli interessava, ottenerla dal momento che non intendeva diventare impiegato statale. Era estremamente riservato con i suoi compagni di studio, non faceva quasi mai amicizia con loro e, soprattutto, si teneva alla larga dalle donne, vivendo in gran solitudine, costantemente immerso nei libri. Oh sì, diffidava delle grazie femminili, malgrado avesse un cuore tenerissimo e fosse affascinato dalla bellezza... Era persino entrato in possesso di un elegante libro inglese (vergogna, vergogna!) e divorava con gli occhi le raffinate incisioni raffiguranti affascinanti e peccaminose bellezze... Ma il suo innato pudore lo teneva sempre a freno. Lavorava di solito in quello che era stato lo studio paterno e dormiva nello stesso letto in cui il padre aveva esalato l'ultimo respiro. Il suo grande sostegno e conforto, la sua grande amica e fedele compagna era la zia Platosha: con lei scambiava a malapena una decina di parole durante il giorno, ma senza di lei non avrebbe mai potuto muovere un passo. Platosha aveva un viso di forma allungata, denti lunghi, occhi chiari e una carnagione pallida. La sua espressione, tra l'avvilimento e l'ansioso sgomento, non mutava mai. Indossava sempre un abito grigio con uno scialle grigio e vagava per la casa come uno spettro, senza fare rumore, sospirando, mormorando frasi di preghiera fra le quali la sua preferita era: «Signore, aiutaci tu!». Si prendeva attentamente cura della casa, badando alle spese e comperando di persona tutto il necessario. Adorava il nipote: era sempre preoccupata per la sua salute e spaventata di ogni cosa, non per timore che nuocesse a lei ma a lui. Quando percepiva che qualcosa non andava bene, gli si avvicinava silenziosamente posando una tazza di tisana sulla sua scrivania o gli massaggiava la schiena con le sue mani delicate. Yakov non era infastidito da tutte queste premure e, sebbene non bevesse mai nemmeno un sorso della tisana, si limitava ad annuire con il capo in segno di approvazione. Non poteva, comunque, vantarsi di avere un'ottima
salute. Era molto suscettibile, nervoso, bizzarro, soffriva di palpitazioni e talvolta di asma; come suo padre, riteneva che in natura e nell'anima umana vi fossero misteri che talvolta possono essere percepiti, ma mai compresi. Credeva nell'esistenza di determinati poteri e influssi, talora benevoli ma per lo più malevoli... ma aveva fede anche nella scienza, nella sua dignità e nel suo valore. Negli ultimi tempi si era appassionato di fotografia. L'odore emanato dalle sostanze chimiche che utilizzava per questo passatempo era fonte di grande apprensione per la vecchia zia: non per sé, ovviamente, ma per Yasha, a causa del suo petto. Ma egli, nonostante il carattere mite, era alquanto ostinato e continuò imperterrito a dedicarsi al suo passatempo preferito. Platosha si dichiarò infine vinta, limitandosi a sospirare più intensamente di prima, recitando: «Signore, aiutaci tu!» ogni qualvolta vedeva le dita del nipote imbrattate di iodio. Yakov, come già detto, si teneva alla larga dai suoi compagni di studio. Purtuttavia, aveva stretto amicizia con uno di loro, con il quale si vedeva spesso anche quando quest'ultimo, finiti gli studi universitari, era stato assunto dallo stato per un impiego di scarsa responsabilità: egli aveva un incarico nella Chiesa del Redentore, così soleva dire Yasha, pur non sapendo assolutamente nulla di architettura. Strano a dirsi, Kupfer, quest'unico amico di Yakov Aratov, era un tedesco talmente russificato che aveva ormai smarrito la lingua madre e che disdegnava persino i tedeschi. Kupfer non aveva, in apparenza, niente in comune con Yakov. Era un uomo dai capelli neri e dalle guance rosse, di carattere molto gioviale, loquace e amante di quel gentil sesso che Yakov tanto aborriva per quanto temeva. È vero che Kupfer pranzava e cenava spesso in casa Aratov e, che, non essendo ricco, chiedeva persino in prestito piccole somme di denaro, ma non fu per questa ragione che il disinvolto tedesco iniziò a frequentare assiduamente la modesta casa a Shabolovka. La purezza d'animo e l'idealismo di Yakov lo affascinavano; probabilmente perché contrastavano con quanto vedeva e incontrava ogni giorno o forse perché, dopotutto, nelle vene gli scorreva sangue inequivocabilmente tedesco. A Yakov piaceva la franchezza di Kupfer e tutto quanto lui gli raccontava degli spettacoli teatrali, dei concerti e delle feste da ballo, a cui non mancava mai: di quel mondo sconosciuto insomma, in cui Yakov non si decideva a entrare, ma che segretamente lo interessava, eccitando la sua fantasia di giovane eremita senza però riuscire mai indurlo a sperimentarlo personalmente; Platosha accolse benevolmente Kupfer; è vero che talora lo giudicava troppo sbrigativo e poco ossequioso, ma percepiva istintivamente che
era sinceramente affezionato al suo caro Yasha, per cui non solo lo tollerava, ma si dimostrava gentile nei suoi confronti. II All'epoca in cui si svolge la nostra storia, a Mosca viveva una vedova, una principessa georgiana, una donna misteriosa e ambigua. Era ormai prossima ai quarant'anni e, da giovane, doveva essere stata una di quelle bellezze dal fascino orientale tanto ammaliante quanto effimero. Ora s'incipriava, si tingeva i capelli di biondo e adoperava il rossetto. Correvano numerose voci sul suo conto, non del tutto benevole e non del tutto attendibili; nessuno aveva mai conosciuto suo marito ed ella non era mai rimasta a lungo in una città. Non aveva né figli né beni di sua proprietà, eppure la porta della sua casa era sempre aperta. Non si sapeva se contraesse debiti o se avesse altri mezzi di sostentamento: come si suol dire, faceva salotto, ricevendo ospiti di vari ceti sociali, in genere giovani uomini. Tutto nella sua casa, i suoi abiti, il mobilio, i cibi serviti in tavola, persino il suo portamento e i suoi domestici avevano un che di dozzinale, innaturale, provvisorio... ma la stessa principessa, come del resto i suoi ospiti, sembravano non desiderare di meglio. Ella era nota per essere appassionata di musica e di letteratura, protettrice di artisti e di uomini di talento: in effetti, s'interessava di tali questioni fino al punto da entusiasmarsene e in maniera non totalmente artefatta. Vi era in lei una strana e incomprensibile sensibilità artistica; per di più, era molto disponibile, geniale, priva di ogni presunzione e vanità e, malgrado molti non lo sospettassero, fondamentalmente buona d'animo, comprensiva e dolce... Qualità rare, ed ancora più rare ed ammirevoli in una donna simile! «È una donna frivola». Si diceva anche di lei che, quando scompariva da una città, lasciasse dietro di sé una miriade di creditori altrettanto numerosa quanto quella delle persone che aveva aiutato. Era un cuore tenero, facilmente commovibile ed influenzabile. Kupfer, com'era facile immaginare, trovò il modo di farsi ricevere in casa sua e divenne in breve tempo un suo intimo conoscente... le lingue maligne dissero sin troppo intimo. Egli stesso, d'altro canto, parlava di lei in termini affettuosi, ma sempre con rispetto: la definiva un cuore d'oro... «dite pure quello che volete!» affermava convinto com'era del suo vero amore per l'arte e del fatto che ella se ne intendesse realmente! Un giorno, dopo avere cenato da Aratov, mentre raccontava della principessa e delle sue se-
rate, tentò di convincerlo a rompere il suo secolare eremitaggio e a farsi presentare alla sua amica. All'inizio Yakov non voleva nemmeno sentirne parlare. «Ma che cosa pensi che sia?» sbotto Kupfer. «Che tipo di presentazione t'immagini? È molto semplice: ti porto da lei, così come sei ora, qui seduto davanti a me, con il tuo solito vestito addosso, per una serata. Non è necessario nessun tipo di etichetta, mio caro! Sei un uomo di cultura, appassionato di musica e di letteratura» ... nello studio di Aratov c'era effettivamente un pianoforte con cui si cimentava ogni tanto traendo qualche accordo in minore «e da lei potrai trovare assolutamente tutto ciò che t'interessa... e incontrare persone gradevoli, non volgari idioti! Dopotutto, alla tua età e con il tuo aspetto,» Aratov abbassò lo sguardo agitando la mano in segno di disapprovazione «sì, sì, proprio con il tuo aspetto, non puoi rifuggire dalla società, dal mondo, come stai facendo! Non ho intenzione di portarti in casa di generali, del resto non ne conosco, non ostinarti, ragazzo mio! La moralità è una dote eccellente, la più ammirevole... ma abbandonarsi all'ascetismo? Non vorrai certo farti monaco!» Aratov era, tuttavia, ancora refrattario all'idea. Ma Kupfer trovò un inatteso alleato nella persona di Platonida Ivanovna. Malgrado non capisse fino in fondo il significato del termine ascetismo, riteneva anch'essa che un po' di svago non avrebbe nuociuto al suo Yasha e che l'incontrare nuove persone e farsi conoscere sarebbe stato certamente un bene per lui. «Soprattutto» aggiunse Platosha «insisto perché mi fido ciecamente del nostro Fiodor Fiodorovitch. Sono certa che non ti porterà in alcun luogo sconveniente!...» «Lo riporterò a casa casto e puro» gridò Kupfer. A tale affermazione Platonida Ivanovna, nonostante la fiducia riposta in lui, gli lanciò uno sguardo preoccupato. Aratov arrossì sino agli orecchi, ma cessò di porre obiezioni. Finì che Kupfer lo condusse, la sera successiva, a casa della principessa. Aratov, tuttavia, non vi rimase a lungo. Per cominciare vi trovò una ventina di ospiti, uomini e donne, dall'aria cordiale, ma comunque emeriti sconosciuti, e ciò gli procurò un senso di oppressione, malgrado non avesse dovuto parlare a lungo. Poi, non gli piacque la padrona di casa, nonostante lo avesse ricevuto con estrema cordialità e semplicità. Tutto in lei gli pareva sgradevole: il suo volto truccato, i riccioli dei suoi capelli, la sua voce roca e melliflua, le sua risatine stridule, il modo con cui ruotava gli occhi guardando verso l'alto, il vestito eccessivamente scollato e quelle dita grassocce piene di anelli... Acquattatosi in un angolo, osservava di tanto in tan-
to i volti degli ospiti, senza nemmeno distinguerli, per poi concentrare ostinatamente lo sguardo sui propri piedi. Quando poi un musicista da strapazzo, con il volto emaciato, i capelli lunghi e un monocolo al di sotto d'un sopracciglio opportunamente aggrottato si sedette al pianoforte proiettando rapidamente le mani in avanti sulla tastiera e posando il piede sul pedale iniziò a suonare una fantasia di Liszt arrangiata su un motivo di Wagner, Aratov non riuscì a resistere oltre. Sgusciò via, in preda a una vaga sensazione di sconforto, che si stava gradatamente tramutando in qualcosa d'incomprensibilmente grave e inquietante. III Kupfer venne l'indomani a pranzo, ma non si soffermò a parlare della serata precedente né rimproverò Aratov per la sua frettolosa fuga; si limitò a esprìmere il suo dispiacere per il fatto che non fosse rimasto a cena, durante la quale avevano servito champagne! (un vino di Novgorod, tra l'altro). Kupfer comprese che aveva commesso un errore nel trascinare il suo amico in un simile ambiente perché Yasha non era adatto a frequentare quel tipo di persone e a condurre quel genere di vita. Dal canto suo, Aratov non fece menzione della principessa né della serata. Platonida Ivanovna non sapeva se rallegrarsi per il fallimento di questo primo esperimento o rattristarsi; decise, infine, che la salute di Yasha avrebbe potuto essere minata da simili uscite, e si sentì in tal modo rassicurata. Kupfer se ne andò subito dopo pranzo e non si fece più vedere per un'intera settimana. E non perché si fosse risentito a causa del suo fallimento... era d'animo troppo buono per provare un simile sentimento, ma perché aveva trovato certamente qualcosa che lo assorbiva totalmente e che gli occupava la mente. Anche successivamente si fece raramente vivo con Aratov: in quelle occasioni aveva un'aria assente, parlava poco e se ne andava quasi subito... Aratov continuò a vivere come sempre aveva fatto, ma una specie di uncino, se così possiamo dire, gli si era conficcato nell'anima. Era costantemente ossessionato da un ricordo, non sapeva nemmeno lui identificarlo con precisione, collegato alla serata che aveva trascorso al ricevimento dalla principessa. Nonostante ciò, non aveva la minima intenzione di ritornare in quel mondo: il poco che ne aveva intravisto era stato sufficiente per farlo fuggire inorridito. Così trascorsero sei settimane. Un giorno Kupfer gli si presentò dinanzi, questa volta con un'aria vagamente imbarazzata. «So,» iniziò a dire sorridendo forzatamente «che quel-
la serata non ti è stata molto gradita, ma spero che accetterai la mia proposta... che non rifiuterai il mio invito!» «Di che cosa si tratta?» «Ebbene» proseguì Kupfer, animandosi sempre di più «c'è un'associazione di artisti dilettanti che ogni tanto organizza concerti, talora persino recite teatrali, per beneficenza.» «E la principessa ha qualche ruolo in questa faccenda?» interruppe Aratov. «La principessa ha un ruolo in qualunque attività benefica, ma non è questo il punto. Abbiamo organizzato una matinée musicale e letteraria... durante la quale potrai ascoltare una ragazza... una ragazza eccezionale! Non abbiamo ancora capito se sia una Rachel o una Viardot... poiché canta meravigliosamente, recita e suona... Ha veramente un notevole talento, mio caro! Non sto esagerando! Perché non acquisti un biglietto? Cinque rubli per una poltrona in prima fila.» «E da dove salterebbe fuori questa meraviglia?» Kupfer sogghignò. «Questo proprio non te lo so dire... Di recente era ospite della principessa. La principessa, lo sai bene, protegge e aiuta la persone di talento come lei... Ma forse tu l'avrai vista quella sera.» Aratov sussultò lievemente dentro di sé... senza tuttavia dire nulla. «Ha già suonato in qualche località della provincia» continuò Kupfer. «È una creatura nata per il teatro. Vedrai con i tuoi occhi!» «Come si chiama?» chiese Aratov. «Clara...» «Clara?» interruppe Aratov per la seconda volta. «Impossibile!» «Perché impossibile? Clara... Clara Militch. Questo non è però il suo vero nome... ma è così che si fa chiamare. Canterà una romanza di Glinka... e una di Chaihovskij e poi reciterà un passo dell'Evgenij Onegin. Bene, acquisti un biglietto?» «Quando si esibirà?» «Domani... domani all'una e mezzo, in un salotto privato a Ostozhonka... Passerò a prenderti. Vuoi un biglietto da cinque rubli, allora,?... Eccolo qui... oh, no, questo è da tre rubli. Eccolo e qui c'è anche il programma... Io sono uno degli organizzatori.» Aratov si chiuse in sé, immerso nei propri pensieri. Platonida Ivanovna entrò proprio in quell'istante e, guardandolo in volto, si preoccupò immediatamente. «Yasha» esclamò «che cosa c'è? Perché sei così sconvolto? Fiodor Fiodorovitch che cosa gli avete detto?»
Aratov non lasciò che l'amico rispondesse alla domanda della zia, gli strappò quasi di mano il biglietto dicendo a Platonida Ivanovna di dargli subito cinque rubli. Platosha lo guardò stupita... ma diede ugualmente il denaro a Kupfer, senza profferire verbo. Il suo caro Yasha glielo aveva ordinato con tono così imperioso... «Ti garantisco che è la meraviglia delle meraviglie!» esclamò Kupfer allegramente e scomparve. Aratov si ritirò nel suo studio mentre Platonida Ivanovna rimase impalata dov'era, sussurrando ripetutamente: «Signore, aiutaci tu! Signore, aiutaci tu!» IV La grande sala della casa privata a Ostozhonka era già per metà affollata di ospiti quando Aratov e Kupfer arrivarono. In quella sala erano già state organizzate recite ma, per questa occasione, non c'erano né scenari né sipario. Gli organizzatori della matinée avevano semplicemente allestito un palco in un angolo dalla sala, sul quale avevano sistemato un pianoforte, una coppia di leggii, qualche sedia, un tavolo con una bottiglia d'acqua e un bicchiere; avevano altresì addobbato con un drappo rosso la porta che dava accesso alla stanza degli artisti. In prima fila sedeva la principessa, vestita con un abito di color verde brillante. Aratov si accomodò a una certa distanza da lei, dopo averla salutata con la dovuta gentilezza. Il pubblico era, come si suol dire, eterogeneo, costituito principalmente da giovani provenienti da vari istituti. Kupfer, in qualità di membro organizzatore, con un nastro bianco sui polsini dalla giacca, era tutto affaccendato e correva su e giù. La principessa era ovviamente eccitata, si guardava attorno elargendo sorrisi di qua e di là e chiacchierando con gli invitati seduti accanto a lei... invitati esclusivamente di sesso maschile. Il primo a comparire sul palco fu un suonatore di flauto dall'aria tubercolotica che molto diligentemente sputacchiò... che sto dicendo?... suonò un pezzo anch'esso dall'aria tubercolotica. Due spettatori gli gridarono: «Bravo». Poi, un gentiluomo corpulento con gli occhiali, di aspetto eccessivamente massiccio e burbero, lesse con voce da basso un passo di Shtchedin. Venne applaudito il brano, non lui. Comparve in seguito un pianista, che Aratov aveva già visto al ricevimento dalla principessa, il quale strimpellò la stessa fantasia di Liszt, suscitando da parte del pubblico la richiesta di un bis. S'inchinò
più volte, poggiando una mano sullo schienale della sedia, e ad ogni inchino gettava indietro i lunghi capelli, proprio come Liszt! E dopo un intervallo alquanto lungo, il drappo rosso posto sopra la porta si aprì ad apparve Clara Militch. La sala rimbombò di applausi. Con passo esitante, avanzò sul palco, si fermò restando immobile per un po' di tempo, con le sue belle e grandi mani incrociate, prive di guanti, senza inchinarsi, piegare il capo o sorridere. Era una ragazza di diciannove anni, alta, di spalle alquanto larghe, ma comunque dotata di un bel corpo. Aveva una carnagione scura — avrebbe potuto esser un'ebrea o una zingara — piccoli occhi neri e sopracciglia folte che quasi si univano fra loro, un naso diritto con la punta lievemente all'insù, labbra delicate dai contorni netti e aggraziati, un'enorme massa di capelli neri, apparentemente pesanti, la fronte bassa immobile, come fosse fatta di marmo, orecchie minuscole... un volto in complesso dall'espressione pensosa, quasi accigliata. Ogni tratto del suo viso rivelava un'indole passionale, caparbia, poco paziente e nemmeno molto intelligente, ma comunque ricca di talento. Per un po' di tempo non sollevò lo sguardo; poi, improvvisamente, ritornò in sé con un lieve sussulto e scrutò le file di spettatori con sguardo fisso ma disattento, come se guardasse dentro se stessa... «Che sguardo tragico» commentò uno spettatore seduto dietro Aratov, un damerino dai capelli grigi e dal volto simile a quello di una prostituta di Revel, noto a Mosca per essere uno scrittore pettegolo e ficcanaso. Era un vero idiota ma, pur avendo detto un'idiozia... aveva colto nel segno. Fin da quando Clara Militch era apparsa sulla scena, Aratov non aveva più distolto lo sguardo da lei: solamente allora si ricordò di averla già vista a casa della principessa e, per di più, che in quell'occasione ella gli aveva lanciato più volte, con i suoi piccoli e attenti occhi neri, sguardi particolarmente insistenti. E anche ora — o era solo la sua immaginazione? — avendolo notato in prima fila, pareva compiaciuta: era arrossita in volto e continuava a fissarlo intensamente. Poi, senza voltarsi, si avvicinò al piano al quale sedeva il suo accompagnatore, uno straniero dai capelli lunghi. Clara doveva esibirsi nella ballata di Glinka Ho conosciuto soltanto te... Iniziò subito a cantare, senza muovere le mani dalla precedente posizione e senza leggere la musica; aveva una voce melodiosa e sonora, da contralto, e pronunciava le parole chiaramente, con enfasi. Cantava in modo estremamente pulito, senza modulare eccessivamente la voce, ma con espressione intensa. «Quella ragazza canta con molta partecipazione» commentò
ancora il damerino seduto dietro Aratov, facendo nuovamente una giusta osservazione. Numerosi «Brava... bis!» echeggiarono nella sale; Clara, tuttavia, diede una rapida occhiata ad Aratov che non gridava né applaudiva — il canto di per sé non gli interessava molto — fece un lieve inchino e uscì di scena senza nemmeno accettare il braccio offertole dal pianista. La richiamarono... ma non ricomparve immediatamente; poco dopo, con lo stesso passo esitante, si avvicinò al piano e, sussurrando qualche parola al pianista, che scelse e dispose di fronte a sé un nuovo spartito, iniziò la romanza di Chaikovskij Sa cantare soltanto chi ha conosciuto il desiderio ardente di un arrivederci... La cantò in maniera differente dalla prima, con voce bassa, come se fosse stanca... e solo al penultimo verso Comprenderà quanto ho sofferto proruppe in un appassionato grido. Sussurrò quasi l'ultimo verso Quanto soffrirò, prolungando con tono particolarmente straziante l'ultima parola. Questa romanza fece meno colpo sul pubblico della prima, purtuttavia gli applausi furono calorosi e... Kupfer si distinse per il suo straordinario entusiasmo. Avvicinando le mani e tenendole curve, le batteva producendo un suono che riecheggiava forte nella sala. La principessa gli diede un grande mazzo di fiori alquanto irregolarmente disposti in modo che l'offrisse alla cantante. Quest'ultima, tuttavia, non sembrò nemmeno notare Kupfer che le si inchinava davanti, porgendole i fiori, si voltò e uscì di scena, di nuovo senza attendere il pianista, che più rapidamente di prima era balzato in piedi, pronto ad accompagnarla, e che, quando si accorse di avere ancora una volta fallito il suo compito, agitò i lunghi capelli come certamente mai Liszt aveva fatto... non con altrettanta foga! Durante l'intera esibizione, Aratov aveva osservato il viso di Clara; gli era sembrato che il suo sguardo, velato dalle lunghe ciglia, fosse rivolto verso di lui. Fu particolarmente colpito dall'immobilità del suo volto, dalla fronte, dalle sopracciglia e soltanto quando ella emise quell'appassionato grido finale poté intravvedere, fra le labbra appena dischiuse, il tenero biancore dei suoi denti. Kupfer gli si avvicinò. «Ebbene, mio caro, che cosa ne pensi?» gli chiese, esultante di soddisfazione. «Ha una bella voce» rispose Aratov «ma ancora non sa cantare, la voce non è impostata.» (Lo sa Dio perché avesse fatto un simile commento e quale concezione avesse dell'impostazione della voce!) Kupfer rimase sorpreso. «La voce non è impostata» ripeté lentamente... «Beh, se è per questo... può studiare. Ma che sentimento! Aspetta e la sentirai nella lettera di Tatiana.»
Sgaiattolò via da Aratov, mentre quest'ultimo pensava tra sé e sé: "Sentimento! Con quel volto immobile!" Si era fatto l'idea che Clara si comportasse come sotto ipnosi, come una sonnambula. E nello stesso tempo che lei l'osservasse... sì! indubbiamente Clara Militch osservava lui, Yasha. Nel frattempo la matinée proseguiva. L'uomo corpulento con gli occhiali apparve nuovamente: malgrado l'aspetto esteriore estremamente serio, si atteggiava ad attore comico. Recitò una scena di Gogol, questa volta senza ottenere il minimo consenso da parte del pubblico. Riapparve anche il suonatore di flauto; un'altra strimpellata dal pianista e una di un ragazzino dodicenne tutto impomatato, con i capelli arricciati e il volto rigato di lacrime, che suonò maldestramente qualche motivo con il suo violino. Il fatto più strano era che, durante gli intervalli fra un'esibizione e l'altra, si udiva talora il suono di un corno provenire dalla stanza degli artisti, corno che non fu mai utilizzato durante l'intera rappresentazione. In seguito si seppe che il musicista dilettante, invitato a suonare tale strumento, era stato preso dalla paura al momento di affrontare il pubblico e aveva rinunciato ad esibirsi. Finalmente riapparve Clara Militch. Teneva in mano un volume di Puskin, l'Evgenij Onegin, ma non lo guardò neppure durante l'intera recitazione... Era palesemente agitata, il libro tremava lievemente fra le sue mani. Aratov osservò anche l'espressione stanca che si era diffusa sul suo volto dai lineamenti severi. Pronunciò il primo verso: «Vi scriverò... che altro più?» in maniera eccessivamente semplice, quasi ingenuamente, e con un gesto infantile, spontaneo, quasi di sconforto, tese le mani dinanzi a sé. Poi iniziò a recitare un po' più velocemente e fin dai versi Un'altro! No! A nessuno al mondo darei il mio cuore! si riprese, dominando la scena; quando giunse alle parole: tutta la mia vita è stata un pegno del fedele incontro con te la sua voce, fino ad allora rauca, divenne audacemente ed entusiasticamente squillante, mentre i suoi occhi fissavano altrettanto audacemente Aratov. Proseguì con lo stesso impeto e solo verso la fine la voce calò di nuovo: in essa, come del resto sul suo volto, si percepiva ancora quel senso di stanchezza. Gli ultimi quattro versi furono da lei letteralmente straziati, come si suol dire: il volume di Puskin le cadde di mano e Clara Militch si ritirò frettolosamente. Il pubblico iniziò ad applaudire chiedendo un bis... Uno studente ucraino di teologia urlava a tutta voce: «Mi-litch! Mi-litch!» tanto che il suo vicino gli consigliò gentilmente e cordialmente: «Si risparmi un po' di voce per quando sarà stato protodiacono.» Aratov, invece, si alzò dalla poltrona e si avviò verso l'uscita; Kupfer lo raggiunse... «Ma dove stai andando?» gli
gridò. «Vuoi che ti presenti a Clara?» «No, grazie» rispose Aratov sbrigativamente e ritornò a casa quasi correndo. V Era in preda a una misteriosa agitazione, a strane sensazioni a lui incomprensibili. In verità, l'interpretazione di Clara non gli era piaciuta molto... anche se, tuttavia, non sapeva spiegarsene il perché. La sua recitazione lo aveva turbato; gli era parsa poco elegante e armoniosa... Era come se avesse infranto qualcosa dentro di lui, come se l'avesse violentemente assalito. E quegli sguardi fissi, insistenti, quasi inopportuni, che ragione avevano? Che cosa significavano? Il pudore di Aratov gli impediva d'immaginare persino per un solo istante che lui avesse potuto fare colpo su quella strana ragazza, che le avesse potuto ispirare un sentimento simile all'amore o alla passione!... Egli, tra l'altro, si era formato un'idea completamente diversa della donna ideale e cui avrebbe donato la sua vita, di colei che lo avrebbe amato e che sarebbe diventata prima la sua fidanzata e poi sua moglie... Di rado si perdeva in simili fantasticherie: era vergine spiritualmente e fisicamente, ma l'immagine di purezza che si era creato nella sua mente s'ispirava a una donna affatto differente da Clara... alla madre defunta che ricordava a malapena ma della quale conservava gelosamente il ritratto, come fosse una reliquia. Si trattava di un acquerello, dipinto dalla mano alquanto inesperta di una loro vicina, ma in ogni caso assai somigliante alla giovane donna. Il suo dolce profilo, gli occhi chiari e miti, i capelli che parevano di seta, il suo sorriso, con quell'espressione di purezza... così avrebbe dovuto essere la sua donna ideale, che però, per il momento, non desiderava ancora incontrare... E invece quella creatura scura di carnagione, con quell'enorme e un po' volgare massa di capelli neri, le sopracciglia nere e una vaga peluria sul labbro superiore, era certamente una zingara perfida e frivola (Aratov non riusciva a concepire termini più spregiativi)... e che cosa mai avrebbe potuto rappresentare per lui? Eppure, Aratov non riusciva a togliersi di mente quella giovane dalla pelle scura, della quale non aveva apprezzato né il canto né la recitazione né l'aspetto fisico. Era perplesso e profondamente infastidito con sé stesso. Non molto tempo prima aveva letto Le acque di St. Roman di sir Walter Scott (nella biblioteca di casa sua c'era l'opera omnia di Scott, che suo pa-
dre stimava essere uno dei migliori scrittori e quasi uno scienziato). L'eroina del romanzo si chiamava Clara Mowbray. Un poeta vissuto circa nel 1840 di nome Krasov scrisse una poesia su di lei, che terminava con le seguenti parole: Infelice Clara! o folle Clara! Infelice Clara Mowbray! Aratov conosceva anche questa poesia... e ora queste parole avevano iniziato ad ossessionarlo... «Infelice Clara! o folle Clara!»... (Era proprio per tale motivo che era rimasto sorpreso quando Kupfer gli aveva rivelato il nome dell'artista: Clara Militch). Platosha stessa lo notò: non si trattava di un cambiamento di umore — in effetti niente in lui era cambiato — ma di qualcosa di strano, che traspariva dai suoi sguardi e dalle sue parole. Gli chiese con estrema cautela della matinée, sussurrò, sospirò, lo scrutò davanti, di lato, da dietro e poi, improvvisamente, lasciando cadere con uno schiocco le mani sulle coscie, esclamò: «Ma certo, Yasha, ora ho capito di che si tratta!» «E cioè?» chiese Aratov. «Alla matinée hai sicuramente incontrato una di quelle creaturine dalla lunga coda» così Platonida Ivanovna definiva le signore vestite alla moda «con un dolce visino da bambola... tutta agghindata... tutta imbellettata...» Platonida mimò le supposte movenze «... che faceva gli occhioni languidi» e disegnò con le dita immaginari occhi grandi. «Tu non ci sei abituato e così hai creduto che... ma non è nulla, Yasha... assolutamente nulla! Bevi una tazza di latte caldo e passerà tutto!... Signore, aiutaci tu!» Platosha finì di parlare e uscì dalla stanza. Non aveva mai fatto un discorso così lungo e concitato in vita sua... e Aratov pensò: «La zia ha proprio ragione, direi... Non ci sono abituato e questo è quanto...». Era effettivamente la prima volta che aveva attirato l'attenzione di una creatura di sesso femminile... quanto meno non se n'era mai accorto in precedenza. «Non bisogna comunque lasciarsi andare» Prese a studiare sui suoi libri e, quella notte, prima di coricarsi, bevve una tazza di tè di tiglio. Dormì profondamente, senza sognare. Il mattino seguente si occupò di fotografia come se niente fosse accaduto... Ma verso sera il suo animo fu nuovamente turbato. VI
Ed ecco ciò che accadde. Un messaggero gli consegnò un biglietto, scritto con una grafia femminile alquanto larga e irregolare, in cui si leggeva: Se avete indovinato chi vi scrive e se avete piacere, venite domani dopo pranzo al Tverskij Boulevard, verso le cinque, e aspettate. Non vi porterà via molto tempo. È molto importante. Vi prego, venite. Il biglietto non era firmato. Aratov capì subito chi l'avesse scritto e fu proprio questo a turbarlo. «Che situazione assurda!» disse, quasi ad alta voce. «È veramente troppo! Per nessuna ragione al mondo ci andrò.» Mandò, comunque a chiamare il messaggero per avere ulteriori informazioni, ma non seppe nulla di più del fatto che il biglietto gli era stato consegnato da una cameriera, per strada. Congedandolo, lesse ancora una volta il biglietto e lo gettò per terra... ma, dopo un po', lo raccolse per rileggerlo un'ennesima volta. Di nuovo esclamò: «Che situazione assurda» senza più gettarlo per terra, ma riponendolo bensì in un cassetto. Aratov riprese le sue usuali attività, prima l'una, poi l'altra, senza riuscire a trarne gioia o soddisfazione. Si accorse improvvisamente che desiderava moltissimo incontrarsi con Kupfer! Voleva forse interrogarlo in proposito o persino confidarsi?... Ma Kupfer non si fece vedere. Aratov prese il libro di Puskin e lesse la lettera di Tatiana, convincendosi una volta di più che la zingara non aveva minimamente afferrato il vero significato e l'intensità di quelle parole. E quell'asino di Kupfer che aveva esclamato: «Rachel! Viardot!». Si sedette al piano, ne sollevò il coperchio con un gesto quasi inconscio, e cercò di riprodurre la melodia della romanza di Chaikovskij. Poco dopo, tuttavia, lo richiuse sbattendolo, infastidito, e si recò dalla zia, in quella sua stanza sempre molto calda e profumata di menta, salvia e di altre erbe medicinali, talmente piena di tappetini, comodini, sgabelli, cuscini e sedili imbottiti di ogni tipo che una persona non abituata trovava serie difficoltà a muoversi e a respirare. Platonida Ivanovna era seduta vicino alla finestra, lavorando a maglia (stava preparando per il suo caro Yasha una sciarpa di lana, la trentottesima da quando era nato!), e rimase stupita nel vederlo. Aratov, infatti, si recava raramente da lei: quando desiderava qualcosa, la chiamava con tono gentile dal suo studio dicendo: «Zia Platosha!» La zia lo fece in ogni caso accomodare, vigile e attenta, in attesa delle sue parole, guardandolo con un occhio attraverso una lente dei suoi occhiali rotondi e
con l'altro al di sopra degli stessi. Non gli chiese della sua salute né gli offrì una tazza di tè, capendo che non era venuto da lei per quei motivi. Aratov era vagamente imbarazzato... dopo qualche attimo iniziò a parlare... a parlare di sua madre, di come era vissuta con suo padre, di come quest'ultimo l'avesse conosciuta. Sapeva molto bene tutte queste cose... ma desiderava ugualmente parlarne. Sfortunatamente per lui, Platosha non era il tipo di donna in grado di mantenere viva una conversazione: gli dava risposte brevi, sospettando che in realtà il nipote fosse venuto per parlarle d'altro. «Eh!» ripeteva la zia frettolosamente, mentre continuava a sferruzzare quasi infastidita «si sa: tua madre era un tesoro... un vero tesoro... E tuo padre l'amava come ogni buon marito; è stato onesto e fedele finché è morta. Dopo non ha più amato nessun'altra donna» concluse, con un tono più alto di voce, togliendosi gli occhiali. «Ed ella era riservata di natura?» chiese Aratov dopo una breve pausa di silenzio. «Riservata! Certamente lo era, come si conviene a ogni donna. Oggi, invece, se ne vedono di sfrontate.» «E le sfrontate non esistevano forse ai vostri tempi?» «Si, ce n'erano... naturalmente ce n'erano! Ma chi erano, in fondo? Sgualdrine, donne di facili costumi, senza un briciolo di pudore... persone sciatte che vagabondavano di qua e di là, senza scopo. Che cosa importa a loro? Nulla, poiché ben poche cose interessano a quel tipo di donne. Se capita loro a tiro qualche povero stupido, lo accalappiano. Ma la gente per bene le disprezza. Hai forse mai visto persone simili frequentare casa nostra?» Aratov non rispose e ritornò nel suo studio. Platonida Ivanovna lo guardò allontanarsi scuotendo il capo. Inforcò nuovamente gli occhiali, riprendendo a sferruzzare... ma più di una volta ripose i ferri sulle ginocchia, in atteggiamento pensieroso. Aratov continuò a ripetersi fino a tarda notte: «No! No!» ma, con suo grande fastidio ed esasperazione, non poteva liberarsi dal pensiero di quel biglietto, della zingara, dell'appuntamento al quale certo non sarebbe andato. Quella notte lei lo tormentò incessantemente: era ossessionato dai suoi occhi che gli apparivano talora semichiusi, talora sgranati, dal suo sguardo fisso su di lui, dal suo viso immobile con quell'espressione... Il mattino seguente, per qualche strano motivo, si aspettava di vedere Kupfer: era quasi determinato a scrivergli un biglietto... ma non lo fece e trascorse la maggior parte del tempo passeggiando su e giù per la sua stan-
za. Nemmeno per un istante gli venne in mente l'idea di recarsi a quell'assurdo rendez-vous... e alle tre e mezzo, dopo avere trangugiato il pranzo ed essersi gettato sulle spalle il mantello e in testa il cappello, usci frettolosamente in strada, senza che la zia lo vedesse, diretto al Tverskij Boulevard. VII Aratov vi incontrò solo poche persone che stavano passeggiando. Era umido e faceva alquanto freddo. Cercava di non pensare a quello che stava facendo, di concentrare la propria attenzione su qualsiasi oggetto si presentasse alla sua vista, come se volesse convincersi che era uscito di casa semplicemente per fare una passeggiata, come tutti gli altri... La lettera che aveva ricevuto il giorno prima era nel taschino del panciotto e ne percepiva perfettamente la presenza. Percorse interamente il boulevard su e giù per due volte, osservando attentamente ogni figura femminile che gli passava accanto... e il suo cuore batteva... Si sentiva stanco e sedette su una panchina. All'improvviso, un pensiero gli attraversò la mente: «E se quella lettera non fosse stata scritta da lei, ma da un'altra donna, e indirizzata a qualcun'altro?» In verità, tale quesito avrebbe dovuto essere del tutto indifferente per lui... che comunque non voleva incontrare l'autrice del biglietto... eppure dovette ammettere con sé stesso che non era così. «Sarebbe troppo assurdo!» si disse «più di quanto tutto questo non lo sia già!» Una strana inquietudine iniziò a impossessarsi di lui: cominciò a tremare, non esteriormente, ma interiormente. Estrasse ripetutamente l'orologio dal panciotto, guardò l'ora, lo ripose, e ogni volta dimenticava quanti minuti ancora mancassero alle cinque. Aveva la sensazione che i passanti lo guardassero in modo strano, con un'aria di sarcastico stupore e di curiosità. Un brutto bastardino gli si avvicinò, gli annusò le gambe e iniziò a scondinzolare. Aratov lo scacciò con aria minacciosa, infastidito. Lo irritava particolarmente un ragazzo, un operaio, con un grembiule tutto macchiato, che si era seduto su una panchina dall'altro lato del boulevard e che a volte fischiettava, a volte si grattava, agitando gli enormi stivali tutti rovinati e scrutandolo insistentemente. «E il padrone intanto lo aspetta» pensò «mentre lui se ne sta lì a perdere tempo e a oziare...» Ma proprio in quell'istante percepì che qualcuno gli si era avvicinato e gli stava ora molto vicino... sentì un certo tepore provenire da dietro le spalle... Si voltò... era lei!
La riconobbe subito, malgrado portasse un fitto velo blu scuro sul volto. Egli si alzò di colpo dalla panchina, ma poi restò immobile senza pronunciare parola. Anch'ella taceva. Aratov si sentiva notevolmente imbarazzato, ma la ragazza non lo era certamente meno. Anche attraverso il fitto velo, egli si accorse che era notevolmente impallidita. Ciononostante, fu la prima a parlare. «Grazie» sussurrò lei con voce tremula. «Grazie per essere venuto. Non mi aspettavo...» Si voltò lievemente avviandosi lungo il boulevard. Aratov la seguì. «Avrete probabilmente pensato male di me» proseguì Clara senza voltarsi «e indubbiamente il mio comportamento è molto strano... Ma ho tanto sentito parlare di voi... ma no!... non è questo il motivo... Se solo sapeste... Ci sono così tante cose che vorrei dirvi, mio Dio!... ma come, come posso fare?» Aratov le camminava a fianco, stando qualche passo più indietro, e non poteva vederla in volto. Poteva solo scorgere il cappellino e parte del velo... e la sua mantellina nera ormai lisa. Fu nuovamente preso da un potente senso di fastidio, nei confronti di lei e di sé stesso: percepì all'istante tutta l'assurdità, tutta la stranezza della conversazione, delle spiegazioni che si dovevano dare due completi sconosciuti in un viale della città. «Sono venuto all'appuntamento che mi avete chiesto» disse Yakov a sua volta «sono venuto, cara signorina» ... le spalle di lei ebbero un lieve sussulto; ella prese un vialetto secondario ed egli la seguì... «semplicemente per chiarire la situazione, per scoprire quale malinteso vi abbia portato a desiderare d'incontrare me, un perfetto sconosciuto... che... ha unicamente indovinato, per usare la vostra espressione, chi avesse scritto quel biglietto... unicamente in base al fatto che, durante quella matinée letteraria, voi lo avevate degnato di una così insistente attenzione.» Terminò il breve discorso, con voce squillante; ma un po' incerta, simile a quella dei giovani studenti interrogati in sede d'esame su argomenti a loro ben noti... Era in collera, fortemente irritato... e fu proprio la collera a sciogliere la lingua, per solito assai più impacciata e discreta. Lei continuava a camminare lungo il vialetto con passi alquanto lenti... Aratov, come prima, la seguiva a qualche passo di distanza e, come prima, di lei poteva vedere solamente la vecchia mantellina e il cappello, anch'esso non proprio nuovo. Si sentiva leso nel suo orgoglio poiché presumeva che lei pensasse: «ho dovuto fare un solo cenno ed egli è corso subito da me!»
Aratov taceva... attendeva una sua risposta. Ma lei non sopperì verbo. «Sono qui, pronto ad ascoltarvi» continuò allora lui. «Sarò lieto di aiutarvi, se potrò farlo in qualche modo... malgrado sia, debbo confessarlo, sorpreso... dato il genere di vita riservata che conduco...» A queste parole, Clara si voltò di scatto ed egli vide un volto terrorizzato, profondamente addolorato con gli occhi pieni di grandi lacrime e le labbra socchiuse in un'espressione di dolore. Il suo viso era così bello, così intenso, che egli involontariamente cessò di parlare, provando una sensazione nello stesso tempo di paura, di pietà e di turbamento. «Ah, ma perché... perché fate così?» disse lei con tono forte e irresistibilmente sincero; e come era commovente la sua voce! «Vi sentite forse offeso per il mio gesto?... È possibile che non abbiate capito nulla?... Ah, sì! Voi non avete capito nulla, non avete capito quello che vi ho detto. Dio solo sa che cosa avrete pensato di me, eppure non sapete nemmeno quanto mi sia costato scrivervi!... Vi preoccupate solo di voi stesso, della vostra dignità, della vostra tranquillità!... Ma è probabile che io...» Clara si premette a tal punto le mani sulle labbra che si udì lo scricchiolio delle ossa. «Vi comportate come se io vi avessi fatto chissà quali richieste, come se fossero necessarie chissà quali spiegazioni... "Mia cara signorina... Malgrado sia, debbo confessarlo, sorpreso... sarò lieto di aiutarvi"... Ah, sono stata proprio stupida! Mi sono sbagliata sul vostro conto! Quando vi ho visto per la prima volta...! Qui... voi siete qui... Solamente una parola... nemmeno una parola?» Clara Militch tacque... arrossendo improvvisamente in volto e assumendo altrettanto improvvisamente un'espressione adirata e insolente. «Mera! Com'è assurdo tutto questo!» esclamò con una risatina stridula. «Com'è assurdo il nostro incontro! Che stupida sono stata!... e voi pure... Puah!» Fece un gesto di disprezzo con la mano, come se volesse allontanarlo, e, passandogli accanto, scappò via veloce lungo il boulevard scomparendo in lontananza. Il suo gesto, la risatina insultante e quell'ultima esclamazione lo avevano fatto ritornare al primitivo stato d'animo, soffocando la sensazione provata quando lei si era voltata in lacrime: era di nuovo fortemente irritato ed ebbe quasi l'impulso di gridare alla ragazza che fuggiva via: «Potreste diventare una brava attrice, ma perché avete deciso di recitare questa farsa con me?» Ritornò a casa, camminando a lunghe falcate, e, malgrado fosse ancora
adirato e indignato, fra tali sentimenti negativi si stava facendo inconsciamente strada il ricordo di quel bel volto che aveva potuto scorgere per un solo istante... Si chiese persino: «Perché non le ho risposto quando da me voleva solo una parola? Non ne ho avuto nemmeno il tempo, del resto. Non mi ha lasciato aprire bocca... e poi, quale parola avrei dovuto dirle?» Scosse subito il capo, sussurrando con tono di rimprovero: «Attrice!» E di nuovo, se da un lato l'orgoglio di un giovane inesperto e nervoso era stato ferito, dall'altro egli si sentiva lusingato per avere suscitato una simile passione... «Anche se ora» continuò a pensare «è tutto finito, non c'è alcun dubbio... Deve esserle sembrata ben assurda tutta questa faccenda.» Non riusciva a sopportare questa idea e di nuovo il suo animo si riempì di collera... nei confronti di lei... e di sé stesso. Ritornato a casa, si chiuse nel suo studio... non voleva incontrare Platosha. La buona vecchia si accostò due volte alla sua porta chiusa a chiave, poggiando un orecchio al buco della serratura, ma non fece altro che sospirare e sussurrare la sua invocazione. «È successo» pensò «e ha solamente venticinque anni! È presto, è presto! Signore, aiutaci tu.» VIII Il giorno seguente Aratov era di pessimo umore. «Che cosa c'è Yasha?» gli chiese Platonida Ivanovna. «Non sembri nemmeno più tu, oggi!» Con il suo lessico estremamente personale, l'anziana donna aveva descritto alquanto efficacemente lo stato d'animo di Aratov. Egli, infatti, non riusciva a lavorare e non capiva nemmeno che cosa volesse fare. A tratti attendeva spasmodicamente Kupfer — sospettava che Clara proprio da lui avesse ottenuto il suo indirizzo... e da chi altri lei «avrebbe potuto sentire così tanto parlare di lui?» In altri momenti si chiedeva: «Ma è possibile che la nostra conoscenza debba finire in questo modo?» Poi ancora immaginava che Clara gli avrebbe mandato altri messaggi e si domandava se, invece, non dovesse egli scriverle una lettera spiegandole ogni cosa: non amava, in nessun caso e con nessuno, lasciare una cattiva impressione di sé stesso... Ma che cosa c'era da spiegare? C'erano momenti in cui sentiva crescere in lui un senso di repulsione verso quella ragazza... così insistente, così impertinente; e c'erano momenti nei quali, prendeva forse il ricordo di quel
volto incredibilmente commovente e di quella sua splendida voce e delle sue canzoni, della sua recitazione... e si chiedeva allora se davvero era stato equo nel dare un giudizio talmente negativo. In effetti, non era più lui! Stanco di tutto questo, decise infine di mantenere i propri nervi saldi, come si suol dire, dimenticando l'intero episodio dal momento che, andando avanti così, non sarebbe più riuscito studiare né a vivere sereno. Ma non si rivelò così facile tener fede a tanto proposito... Trascorse più di una settimana prima che gli riuscisse di riprender tutte le sue abitudini. Fortunatamente Kupfer non si fece vedere: l'amico si trovava, in effetti, fuori Mosca. Non molto tempo prima dell'increscioso episodio, Aratov aveva iniziato a dipingere, sempre ai fini del suo passatempo fotografico: ora vi si dedicò con doppio zelo. Così, impercettibilmente, con solo alcune recidive, per usare un termine medico - vale a dire, per esempio, l'impulso che un giorno ebbe di recarsi dalla principessa - passarono due... tre mesi e Aratov tornò a essere l'Aratov di sempre. Ma nel profondo, sotto l'apparente tranquillità della sua vita, vi era qualcosa di oscuro e di opprimente che lo seguiva ovunque andasse. Esattamente come un grosso pesce che, preso dall'amo ma non ancora estratto dall'acqua, nuota nelle acque profonde, sotto la barca dove siede il pescatore tenendo una robusta canna fra le mani. E un giorno, sfogliando un numero non molto recente del Giornale di Mosca, Aratov scorse il seguente articoletto redatto da un giornalista di Kazan: Con immenso dispiacere dobbiamo comunicare, nell'ambito della cronaca teatrale, la tragica scomparsa della nostra sublime Clara Militch che, durante la breve tournée era diventata l'attrice preferita del nostro esigente pubblico. Il nostro dispiacere è tanto più vivo poiché la signorina Militch si è deliberatamente privata della propria vita, così ricca di promesse per il futuro, con il veleno. Il suo gesto è, inoltre, reso ancora più spaventoso dal fatto che l'attrice ha ingerito il veleno mortale proprio in teatro. Trasportata a casa, è spirata nel cordoglio generale. In città corrono voci che sia stata portata a compiere il folle gesta a causa di un amore infelice. Aratov posò lentamente il giornale sul tavolo, rimanendo in apparenza
calmo... ma avvertì subito al petto e al capo, come un violento colpo, ... che lentamente si estese all'intero corpo. Si alzò, rimase immobile, si risedette e rilesse l'articoletto. Poi si alzò nuovamente dalla sedia, si distese sul letto e, incrociando le braccia dietro la testa, restò a osservare. Sembrava svanire... dissolversi... ed egli vide, di fronte a sé, il Tverskij Boulevard sotto il cielo grigio, la sua mantellina nera... poi lei sul palco... e vide sé stesso vicino a lei. Ciò che gli aveva procurato quel violento colpo all'inizio cominciò ora a salire... a salire sempre più su... Cercò di liberarsene, raschiandosi la gola, di chiamare qualcuno, ma non riusciva a emettere suono, e, con suo gran stupore, abbondanti lacrime iniziarono a scorrere sul suo volto... Qual era la causa di quelle lacrime? Pietà? Rimorso? O semplicemente i suoi nervi non sapevano o non potevano sopportare il violento trauma? Clara Militch non rappresentava nulla per lui, non era forse vero? «Ma è possibile che non sia vero» pensò sentendosi subito sollevato. «Può darsi, è possibile certo, che non sia io la causa del suo insano gesto... Devo scoprirlo! Ma da chi? Dalla principessa? No, da Kupfer... da Kupfer? Pare che non sia a Mosca... non importa, vedrò di rintracciarlo!» Immerso in simili pensieri, Aratov si vestì in fretta, chiamò una carrozza e si recò da Kupfer. IX Non immaginava di trovarlo, e invece lo trovò. Kupfer era effettivamente stato fuori Mosca per un certo periodo, ma era rientrato già da una settimana ed era proprio sul punto di andare a trovare Aratov. Lo accolse con la consueta cordialità e voleva in qualche modo fornirgli una spiegazione... ma Aratov lo fermò subito, ponendogli impazientemente la domanda: «Hai saputo? È vero?» «Che cosa?» replicò Kupfer costernato. «Di Clara Militch...» Il volto di Kupfer assunse un'espressione di dolore. «Sì, sì, mio caro, è vero. Si è avvelenata! È tremendo!» Aratov rimase in silenzio per un po'. «Ma hai letto il giornale» domandò ancora «o forse eri personalmente a Kazan?» «Ero a Kazan, sì. La principessa e io l'avevamo accompagnata là per uno spettacolo. Aveva riscosso enorme successo. Ma non rimase fino al giorno della disgrazia... era a Jaroslav in quel momento.»
«A Jaroslav?» «Sì, vi ho accompagnato la principessa... Abita lì, ora.» «Ma hai notizie attendibili?» «Attendibili? Di prima mano direi! Avevo conosciuto la sua famiglia, a Kazan. Ma mio caro, questo fatto sembra averti sconvolto! Se ben ricordo, non t'importava molto di Clara un tempo! E avevi torto! Era una ragazza meravigliosa... ma che carattere! Ho sofferto molto per lei!» Aratov non disse nulla, si accasciò su una sedia e, dopo un breve attimo di silenzio, chiese a Kupfer di raccontargli... ma non riuscì a terminare la frase. «Che cosa?» chiese Kupfer. «Oh... tutto» rispose Aratov con voce rotta. «Tutto della sua famiglia... tutto il resto. Tutto quello che sai!» «Perché, ti interessa tanto sapere ogni cosa di lei?» Non ottenne risposta, e Kupfer, il cui volto certo non recava i segni di una così profonda sofferenza per la scomparsa di Clara, iniziò il suo racconto. Da quanto disse, Aratov venne a sapere che il vero nome di Clara Militch era Katerina Milovidovna, che suo padre, ormai deceduto, era un insegnante di disegno in una scuola di Kazan e dipingeva ritratti di scarso pregio e immagini sacre alquanto convenzionali. Era inoltre noto per essere un ubriacone e un despota in famiglia; alla sua morte aveva lasciato una vedova, proveniente da una famiglia di bottegai, una donna alquanta stupida che sembrava tratta da una commedia di Ostrovskij. C'era anche una sorella, più adulta di Clara e per nulla rassomigliante a lei, una ragazza molto intelligente, entusiasta ma malaticcia, una persona eccezionale e incredibilmente colta! Venne inoltre a sapere che madre e figli conducevano una vita agiata in una piccola casa dall'aspetto decoroso acquistata con i ricavati della vendita degli orribili ritratti e delle icone, che Clara, o Katja se preferite, fin da piccola aveva stupito tutti per il proprio talento, ma era indisciplinata, capricciosa e sempre in lite con suo padre e che, avendo un'innata passione per il teatro, a sedici anni era fuggita da casa con un'attrice... «Con un attore?» insinuò Aratov. «No, non con un attore. Con un'attrice alla quale si era affezionata... È vero che questa attrice aveva un protettore, un ricco gentiluomo ormai non più giovane, che non l'aveva sposata poiché aveva già moglie... e per di più credo che anche lei, l'attrice fosse già sposata.» Kupfer lo mise al corrente del fatto che, prima di venire a Mosca, Clara aveva cantato e recitato in alcuni teatri della provincia e che, persa la sua amica attrice (e anche il ricco
gentiluomo il quale, a quanto pareva, era morto o si era riappacificato con la moglie... ma Kupfer non ricordava bene come fossero andate realmente le cose) aveva conosciuto la principessa... «Quel cuore d'oro che tu, mio caro Yakov» aggiunse con enfasi «non hai saputo apprezzare adeguatamente.» In seguito, le avevano proposto uno spettacolo da Kazan e Clara aveva accettato, anche se prima aveva più volte dichiarato che non avrebbe mai lasciato Mosca! È stato sorprendente come l'abbiano accolta gli abitanti di Kanza! Dopo ogni rappresentazione, c'era un'infinità di mazzi di fiori e di doni! Mazzi di fiori e doni! Un commerciante di grano, uno dei grandi signori della zona, le regalò un calamaio d'oro! Kupfer raccontava tutto ciò con aria concitata, senza tuttavia cadere nel sentimentale e intercalando, nel suo racconto, numerosi: «Perché vuoi saperlo?» o «Perché me lo chiedi?» ogniqualvolta Aratov, che lo ascoltava divorando ogni parola, insisteva per ottenere maggiori particolari. Quando Kupfer ebbe finito di parlare, ricompensandosi per lo sforzo compiuto con un sigaro, Aratov domandò: «Ma perché allora si è avvelenata? Sul giornale c'era scritto che...» Kupfer fece un gesto con la mano. «Beh, ... questo non te lo posso dire... non lo so. Ma sul giornale hanno scritto una fandonia. Klara si è sempre comportata in modo esemplare... non aveva nessuna storia d'amore... E come avrebbe potuto averne con quel suo incredibile orgoglio! Era fiera di sé, come Satana, e inavvicinabile! Una creatura caparbia e ostinata, dura come la roccia! Non ci crederai... io l'ho conosciuta bene, ma non ho mai visto una lacrima nei suoi occhi!» «Io invece sì» pensò Artov. «Ma c'è una cosa...» continuò Kupfer. E di recente avevo notato un notevole cambiamento in lei: era diventata apatica, silenziosa, per ore intere non parlava. Una volta le chiesi persino: «Qualcuno vi ha forse offeso, mia carissima Katerina Milovidovna?» Conoscendo il suo carattere, so che non avrebbe mai potuto sopportare un'offesa! Ma, anche in quell'occasione, Clara rimase silenziosa. Non c'era proprio niente da fare! Nemmeno il successo che riscuoteva la risollevava dal suo stato. Veniva letteralmente sommersa dai mazzi di fiori gettati dal pubblico e non sorrideva neppure! Diede solo un'occhiata al calamaio e poi lo ripose da qualche parte. Si lamentava sempre che nessuno avesse mai scritto la parte adatta per lei, come lei la intendeva... E il canto... aveva del tutto abbandonato. E per questo, devo dire, per colpa mia, cara amico: le dissi che, a tuo parere, la sua voce non era impostata. Ma resta comunque il mistero del perché si sia av-
velenata... e il modo in cui lo fece!» «In quale lavoro aveva riscosso maggiore successo?» Aratov voleva sapere quale fosse stato l'ultimo personaggio interpretato da Clara ma, per chissà quale ragione, pose a Kupfer una domanda alquanto confusa e a mezzo tra il personaggio amato sulla scena e un eventuale amore nella vita. «Posso dirti che la sua interpretazione del Grunija di Ostrovskij resterà a dir poco memorabile. Fu un vero trionfo. Per il resto, e per quanto io ricordi, e per il poco che ho capito delle tue domande, posso confermarti che Clara non aveva alcuna storia d'amore nella vita se questo è ciò che vuoi sapere. E non v'è dubbio alcuno nel merito, dal momento che viveva nella casa di sua madre... conosci bene quel genere di case, tipiche delle famiglie dei bottegai: un'immagine sacra in ogni angolo con una piccola lampada di fronte, un odore stantio, insopportabilmente acre. Nel salotto nient'altro che sedie, poste lungo le pareti, alle finestre piante di gerani e, quando arrivava qualche visitatore, la padrona inizia a sospirare e a lamentarsi, come se subisse l'attacco del nemico. In che modo simili circostanze potrebbero favorire i corteggiamenti e le storie d'amore? A volte, nemmeno io venivo fatto entrare. La loro domestica, una donna muscolosa con un petto enorme, vestita con un sarafan rosso, bloccava l'ingresso ringhiandoti: "Dove ha intenzione di andare?" No, sinceramente non so dire perché si sia avvelenata. Forse era stanca di vivere» concluse Kupfer con tono filosofico. Aratov sedeva tenendo il capo chino. «Puoi darmi il loro indirizzo a Kazan?» chiese infine. «Si, certamente, ma a che scopo? Vuoi scrivere una lettera?» «Forse.» «Come preferisci. Ma la vecchia non ti risponderà perché non sa né leggere né scrivere. La sorella, forse... Oh, la sorella è una donna molto intelligente! Ma ti ripeto ancora una volta che tu mi stupisci, mio caro! Una così palese indifferenza prima... e ora un così profondo interesse! Tutto ciò, mio caro, è dovuto all'eccessiva solitudine!» Aratov non replicò e se ne andò dopo avere trascritto l'indirizzo di Kazan. Prima, quando si stava dirigendo verso la casa di Kupfer, il suo volto rivelava eccitazione, stupore e attesa... Ora, mentre camminava verso casa, il suo passo era regolare, lo sguardo rivolto verso il basso, il cappello calato sulla fronte. Quasi tutti coloro che gli passavano accanto l'osservavano in-
curiositi... ma egli non se ne accorgeva... No, non era come sul Tverskij Boulevard... «Infelice Clara! O folle Clara!» sentiva riecheggiare nel suo animo. X Il giorno seguente trascorse abbastanza tranquillamente per Aratov: riuscì persino a dedicarsi alle sue solite attività. C'era, tuttavia, una cosa: quando lavorava e anche quando era libero, continuava a pensare a Clara, a quello che Kupfer gli aveva detto la sera prima. Era comunque vero che meditava su tutto ciò serenamente. Supponeva che quella strana ragazza lo interessasse dal punto di vista psicologico, come fosse un mistero per svelare il quale valesse la pena arrovellarsi. «Fuggita con un attrice che era una mantenuta» pensò. «Poi ha cercato la protezione di quella principessa, con la quale sembra essere vissuta... e nessuna storia d'amore? È incredibile!... Kupfer parlava di orgoglio! Ma sappiamo che, in primo luogo — Aratov avrebbe dovuto dire piuttosto "abbiamo letto in vari libri" — ... sappiamo che l'orgoglio può convivere fianco a fianco con la frivolezza e, in secondo luogo, come avrebbe osato, se davvero fosse stata così orgogliosa, chiedere un appuntamento a un uomo che avrebbe potuto trattarla con disprezzo, che l'ha trattata con disprezzo e, per di più, in un luogo pubblico... in un boulevard!» In quel momento Aratov rievocò la scena del boulevard chiedendosi se davvero allora aveva manifestato disprezzo nei confronti di Klara. «No» decise infine «era un altro sentimento... una sensazione di dubbio... di sfiducia!... Infelice Clara!» di nuovo queste parole riecheggiarono nella sua mente. «Sì, infelice» si disse Aratov. «È il termine più adatto. E se davvero era infelice, io sono stato ingiusto con lei. Mi ha detto francamente che non avevo capito nulla. Che peccato! Una creatura tanto straordinaria mi è passata così vicino... e io l'ho lasciata andare, anzi l'ho respinta... Beh, non importa! Ho tutta la vita davanti a me. Ci saranno sicuramente altri incontri, forse ben più interessanti!... Ma perché aveva scelto proprio me fra tutti?» Gettò un'occhiata in uno specchio accanto al quale stava passando in quel momento. «Che cosa ho di speciale? Non sono un bell'uomo? Il mio volto non ha nulla di particolarmente affascinante, è un volto comune... ma nemmeno lei era una bellezza... No. Non era una bellezza... ma un viso così espressivo! Immobile eppure espressivo! Non avevo mai visto prima un volto simile... e il talento, ne ha, ne aveva, indubbiamente. Doveva ancora allenarsi, studiare, era ancora troppo
rozzo... ma comunque era vero talento. E anche in questo caso mi sono comportato ingiustamente con lei.» Aratov ripensò alla matinée letteraria... e si stupì della precisione con la quale ancora ricordava le parole che lei aveva recitato o cantato e ogni intonazione della sua voce. «Non sarebbe così, se non avesse avuto talento. E ora tutto ciò è nella tomba, che ella si è affrettata a raggiungere... Ma io non c'entro! Non ne ho colpa! Sarebbe assolutamente ridicolo pensare che io sia colpevole di quanto è accaduto.» Aratov pensò nuovamente al fatto che, anche se Clara avesse avuto in mente qualcosa, il suo comportamento durante il loro incontro doveva averla assai delusa. «Questa è la ragione per cui si è messa a ridere così sarcasticamente poco prima di fuggire via. E inoltre, che prove ci sono che abbia ingerito il veleno a causa di un amore non corrisposto? Sono i giornalisti che attribuiscono ogni morte di questo tipo ad amori non corrisposti! Le persone con un carattere ricco e vitale, o creativo come quello di Clara trovano spesso la vita meschina, ripugnante... opprimente. Sì, opprimente. Kupfer ha ragione: era semplicemente stanca di vivere... Malgrado l'enorme successo che otteneva, malgrado i suoi trionfi?» meditò ancora Aratov. Provava una benefica sensazione di tranquillità dedicandosi a una simile introspezione psicologica. Non avendo mai conosciuto le donne, non riusciva nemmeno lontanamente a percepire l'importanza che aveva per lui questo accurato studio di un'animo femminile. «Se ne deduce» continuò seguendo il filo dei propri pensieri «che l'arte non era abbastanza per lei, che non riusciva a colmare il vuoto interiore che aveva. I veri artisti esistono esclusivamente in funzione dall'arte, della musica, del teatro... Tutto il resto perde d'importanza nei confronti di ciò che essi chiamano vocazione... Clara era solo una dilettante.» Rifletté su quell'ultima considerazione. «No», si disse «la parola dilettante non si accorda con il suo volto, con l'espressione del suo volto, con i suoi occhi...» E l'immagine di Clara gli si presentò nuovamente davanti, con i suoi occhi, colmi di lacrime, che lo guardavano fisso, con le sue mani premute sulle labbra... «Ah, no, no» sussurrò Aratov. «A che scopo?» Così trascorse l'intera giornata. A pranzo Aratov chiacchierò a lungo con Platosha: le chiese dei tempi andati dei quali la zia aveva ottima memoria, ma che non sapeva raccontare in maniera appropriata non possedendo un lessico adeguato e non avendo mai prestato particolare attenzione alle cose nella vita, eccezione fatta per ciò che riguardava il suo caro Yasha. La zia
poteva soltanto rallegrarsi nel constatare che suo nipote era così gentile e di buon umore. Verso sera Aratov si placò a tal punto che giocò numerose partite a carte con la zia. Così trascorse il giorno... ma la notte! XI Iniziò tranquillamente: Yakov si addormentò quasi subito e, quando la zia entrò nella sua stanza in punta di piedi per fare tre volte il segno della croce - lo faceva ogni notte - lui già dormiva sereno come un bambino. Ma prima che giungesse l'alba fece un sogno. Sognò di essere in una steppa desolata, disseminata di enormi pietre, sotto un cielo basso. Fra i massi serpeggiava un piccolo sentiero che egli iniziò a seguire. Improvvisamente, di fronte a lui, si levò qualcosa di molto simile a una piccola nube: egli la osservò attentamente e vide che si stava gradualmente trasformando in una donna vestita di bianco, con una fascia bianca attorno alla vita. Correva allontanandosi da lui. Lui non riuscì a scorgere né il suo viso né i suoi capelli... erano coperti da un lungo velo. Provò un intenso desiderio di raggiungerla e di guardarla in volto, ma più affrettava il passo più lei correva veloce, sfuggendogli. Sul sentiero c'era un masso di forma piatta e alquanto largo, simile a una pietra tombale, che bloccava il cammino. La donna si arrestò: Aratov la raggiunse correndo, ma non riuscì neppure allora a vedere i suoi occhi... erano chiusi. Il suo viso era bianco, bianco come la neve, le sue mani sembravano prive di vita. Sembrava una statua. Lentamente, senza piegare gli arti, lei cadde all'indietro, sprofondando in quella pietra tombale... e poi Aratov le si distese accanto, come un'immagine scolpita su un sepolcro, con le mani incrociate sul petto, come quelle di un morto. In quel momento la donna si alzò improvvisamente in piedi e se ne andò. Lui non riusciva a muoversi né a sciogliere le mani: poteva solo rimanere là, nella tomba, e guardarla, disperato. Poi la donna altrettanto improvvisamente si voltò ed egli vide i suoi occhi vivaci brillare accesi su un volto vivo, ma sconosciuto. Gli rideva, facendogli un cenno con la mano... ma lui ancora non riusciva a muoversi. La donna rise ancora, allontanandosi rapidamente e scuotendo allegramente il capo, sul quale portava una corona di roselline color cremisi.
Aratov tentò di gridare, di scrollarsi di dosso quello spaventoso incubo... All'improvviso si ritrovò circondato dalla tenebra... e la donna ritornò a lui: non era più la statua sconosciuta... era Clara. Stava in piedi di fronte a lui, con le braccia incrociate, guardandolo intensamente e severamente. Le sue labbra erano strette, ma Aratov credette di udire alcune parole: «Se vuoi sapere chi sono, vieni qui!» «Dove?» chiese egli. «Qui!» fu la lamentosa risposta. «Qui!» Aratov a quel punto si svegliò. Si sedette sul letto, accese la candela poggiata sul comodino, ma non si alzò. Rimase in quella posizione a lungo, infreddolendosi tutto e guardandosi lentamente attorno. Gli parve che gli fosse successo qualcosa da quando era andato a dormire, che qualcosa si fosse impossessato di lui... che qualcosa lo avesse catturato. «Ma è possibile?» sussurrò inconsciamente. «Esiste realmente un simile potere?» Non poté più rimanere a letto. Si vestì rapidamente e passeggiò su e giù per la stanza fino al mattino. E, strano a dirsi, non pensò nemmeno un istante a Clara, non pensò mai a lei... nonostante avesse deciso di partire il giorno seguente per Kazan! I suoi pensieri erano tutti concentrati sul viaggio — come organizzarlo, che cosa portare con sé, come indagare per scoprire la verità — e sul fatto che così avrebbe finalmente trovato pace. «Se non ci vado» disse tra sé e sé «diventerò matto!» Si era insinuata in lui una paura sottile, il timore che i suoi fragili nervi cedessero. Era convinto che, vedendo ogni cosa con i propri occhi, le sue ossessioni sarebbero svanite, come l'incubo. «Ci vorrà una settimana per il viaggio» pensò. «Ma, dopo tutto, che cos'è una settimana? Meglio affrontarla, altrimenti non me ne libererò più.» La luce del sole nascente entrò nella sua stanza ma non riuscì a fugare le tenebre che lo avevano avvolto durante la notte né lo distolse dal suo proponimento. A Platosha venne quasi un colpo quando egli le rivelò le sue intenzioni. Si accasciò per terra... le sue gambe cedettero. «A Kazan? E perché?» chiese sussurrando, con i suoi stanchi occhi sgranati per lo stupore. Non sarebbe rimasta più sconvolta se le avessero detto che il suo Yasha voleva sposare la loro vicina panettiera o che era in procinto di partire per l'America. «Ti tratterrai a lungo a Kazan?» «Una settimana» rispose Aratov, quasi voltando le spalle alla zia, ancora seduta sul pavimento.
Platonida Ivanovna tentò ancora di protestare, ma Aratov gridò con un tono inaspettato, per lui del tutto inconsueto: «Non sono più un bambino.» Diventò pallido in volto, le labbra tremanti e lo sguardo colmo d'ira. «Ho ventisei anni» disse «so perfettamente quello che faccio è sono libero di fare quello che voglio! Non lascerò che nessuno... Datemi il denaro per il viaggio zia Platosha. Fate la mia valigia mettendoci abiti e biancheria... e non tormentatemi! Sarò di ritorno fra una settimana, mia buona zia» concluse con tono più dolce. Quest'ultima si alzò, sospirando e gemendo, e, senza protestare ulteriormente, strisciò in camera sua. Yasha l'aveva spaventata. «Non ha più la testa sulle spalle» disse alla cuoca che la aiutava a preparare i bagagli di Yakov. «Non più ormai... solo un alveare pieno di api che ronzano furiosamente! Va a Kazan, mia cara, a Kazan-an.» La cuoca, che la sera prima aveva visto il loro vicino conversare a lungo con un poliziotto, avrebbe voluto informare la sua padrona di questo fatto, ma non osò e pensò semplicemente: «A Kazan! Speriamo che non vada anche più lontano!» Platonida Ivanovna era così sconvolta che non pronunciò nemmeno la sua invocazione di rito. «In una disgrazia simile nemmeno nostro Signore può aiutarci!» si disse. Quello stesso giorno Aratov partì per Kazan. XII Appena giunto a Kazan e dopo avere trovato una stanza presso un albergo, si precipitò subito a cercare la casa della vedova Milovidova. Per tutto il viaggio aveva provato una sensazione di torpore che, tuttavia, non gli aveva impedito di portare a termine tutte le mosse necessarie: lasciare il treno per prendere il piroscafo a Niznij Novgorod, consumare i propri pasti alle varie stazioni ecc. Era più che mai convinto che là si sarebbe risolto tutto; pertanto, cercava di rifuggire da ogni sorta di ricordo o riflessione concentrandosi unicamente su un elemento: il discorso che avrebbe fatto alla famiglia di Clara Militch, spiegando il vero motivo della sua visita, e che continuava mentalmente a ripetersi. E ora, finalmente, aveva raggiunto la sua mèta. Si fece annunciare. Fu fatto entrare... con grande perplessità e sospetto... eppure, fu fatto entrare. La casa della vedova Milovidova era come Kupfer l'aveva descritta e la vedova stessa somigliava alla moglie del mercante creata da Ostrovskij (malgrado in realtà non fosse la moglie di un mercante, bensì di un impie-
gato statale). Suo marito aveva infatti ricoperto la carica di assessore collegiale. Non senza qualche difficoltà, Aratov, dopo essersi preliminarmente scusato per la propria audacia e per la stranezza della sua visita, recitò il discorso che si era preparato, spiegando che desiderava raccogliere tutte le informazioni possibili sull'attrice di talento così precocemente scomparsa, non per futile curiosità, ma perché era affascinato dal suo talento, essendo un suo profondo ammiratore (usò proprio quell'espressione: profondo ammiratore). A suo avviso sarebbe stato un delitto non fare sapere al pubblico ciò che aveva perduto e il perché le sue attese fossero state tradite. Madame Milovidova non interruppe Aratov: non capiva molto bene che cosa dicesse quello sconosciuto visitatore e lo scrutava da capo a piedi, con occhi spalancati, giudicando comunque che aveva un'aria rispettabile, che era ben vestito... che non si trattava certamente di un ladro... né di un mendicante. «State forse parlando di Katja?» chiese quando Aratov si tacque. «Sì, di vostra figlia.» «E siete venuto da Mosca per questo?» «Si, da Mosca.» «Unicamente per questo scopo?» «Sì.» Madame Milovidova si riscosse. «Siete forse uno scrittore? Un giornalista?» «No, non sono scrittore né ho mai lavorato per un giornale.» La donna chinò il capo, perplessa. «Allora... debbo supporre che ci sia un vostro personale interesse in tutto questo» disse improvvisamente. Aratov rimase per qualche attimo in silenzio, non riuscendo a trovare una risposta. «Per stima, per rispetto nei confronti del suo talento» disse infine. Il termine rispetto piacque a Madame Milovidova. «Eh!» disse sospirando... «Sono sua madre e ho sofferto terribilmente per lei... Una così tremenda disgrazia, improvvisamente!... Ma devo dire che è sempre stata una testa matta... però la fine che ha fatto! Che immensa vergogna!... Potete immaginare che cosa ho provato io, sua madre! E dobbiamo ringraziare il Cielo che l'abbiamo seppellita cristianamente!» La donna si fece il segno della croce. «Fin da piccola non ascoltava nessuno... è fuggita dalla casa dei propri genitori per diventare, purtroppo un'attrice! Tutti sanno che non le ho mai chiuso la porta in faccia, l'ho sempre amata! Ero sua madre... non
aveva bisogno di andare a vivere in casa di estranei... o di mendicare!...» A questo punto iniziò a piangere... «Ma se voi, signore» riprese a dire, asciugandosi gli occhi con gli angoli del fazzoletto «pensate veramente ciò che avete detto e non intendente disonorarci bensi portarci rispetto, allora è più opportuno che parliate con l'altra mia figlia. Vi racconterà molto meglio di quanto non possa fare io... Annosha!» chiamò Madame Milovidova «Annosha, vieni qui! C'è un gentiluomo di Mosca e vorrebbe che tu gli parlassi di Katja!» Si udì un movimento provenire dall'altra stanza, ma nessuno comparve. «Annosha!» chiamò ancora la vedova, «Anna Semionova! Vieni qui! Ti sto chiamando!» La porta si aprì dolcemente e sulla soglia apparve una ragazza non più giovanissima, d'aspetto malaticcio, non molto graziosa ma con occhi dolci e tristi. Aratov si alzò per andarle incontro, si presentò facendo riferimento al suo amico Kupfer. «Ah, Fiodor Fiodorovic» disse piano la ragazza sedendosi su una sedia. «Parla con il signore» disse Madame Milovidovna alzandosi pesantemente in piedi. «È venuto appositamente da Mosca per raccogliere informazioni su Katja. Vogliate scusarmi, signore» aggiunse rivolgendosi ad Aratov. «Ho alcune faccende da sbrigare. Potrete avere notizie precise da Annosha: vi racconterà del teatro... e di tutto il resto. È una ragazza molto intelligente e molto colta: parla francese e sa leggere bene come sua sorella. Si potrebbe proprio dire che le abbia trasmesso la sua cultura... Annosha è più vecchia e si è sempre prodigata per Katja.» Madame Milovidovna uscì dalla stanza. Lasciato solo con Anna Semionova, Aratov ripeté il discorso già recitato in precedenza, rendendosi subito conto che si trovava di fronte a una persona veramente istruita e non alla tipica figlia di un mercante. Per questo motivo si dilungò in maggiori particolari, usò differenti espressioni e, verso la fine, si agitò, arrossendo e sentendo il proprio cuore battere forte. Anna lo ascoltò in silenzio, le mani giunte sul grembo; quel suo triste sorriso non sparì mai dal volto... un sorriso di amarezza e di dolore, ancora vivo e pungente. «Conoscevate mia sorella?» chiese. «No, non la conoscevo in realtà. La incontrai e la sentii recitare e cantare una volta...» rispose Aratov, aggiungendo poi: «Ma era sufficiente vederla e ascoltarla una sola volta per ...» «Vorreste scrivere la sua biografia?»
Aratov non si aspettava una simile domanda ma, in ogni caso, rispose prontamente: «Perché no? In effetti, volevo fare conoscere al pubblico...» «A che scopo? Il pubblico le causò notevoli sofferenze; per di più Katja stava appena iniziando a vivere. Ma se voi» Anna lo guardò sorridendogli, continuando a sorridergli in modo triste ma cordiale... come se stesse dicendo: "Sì, sento di potermi fidare di te" «... se voi siete così interessato a lei, permettetemi di chiedervi di ritornare questo pomeriggio..; dopo pranzo. Ora non riesco... così, all'improvviso... devo raccogliere tutte le mie forze... cercherò... ah, le volevo fin troppo bene!» Anna se ne andò, quasi sul punto di scoppiare in lacrime. Aratov si alzò di scatto dalla propria sedia. La ringraziò per la sua gentilezza, aggiugendo che poteva stare certa... oh, assolutamente certa che sarebbe ritornato. Poi lasciò la casa, portando con sé l'impressione di una voce dolce e di uno sguardo gentile e triste, in preda ai tormenti dell'attesa. XIII Quello stesso giorno Aratov ritornò dai Milovidov e trascorse tre ore conversando con Anna Semionova. Madame Milovidova era solita coricarsi subito dopo pranzo, alle due, e riposare fino alle sette di sera. Il dialogo di Aratov con la sorella di Clara non fu esattamente una conversazione: parlò quasi sempre Anna, dapprima con esitazione, con imbarazzo, poi con indicibile cordialità. Era più che evidente l'amore che aveva provato per la sorella e quanto ancora l'adorasse. La fiducia che Aratov le aveva ispirato si era intensificata: Anna infatti, non aveva più un atteggiamento rigido ed austero; per ben due volte si lasciò sfuggire di fronte a lui lacrime silenziose. Le pareva che egli fosse degno di ascoltare il suo racconto estremamente schietto e confidenziale... nella sua vita solitaria non le era mai accaduta una cosa simile!... Per quanto riguarda lui... beveva ogni parola che Anna pronunciava. Ecco ciò che Aratov venne a sapere... molti fatti, naturalmente, restavano in parte oscuri ed egli stesso cercava, in questi casi, di spiegarseli e di spiegarli con le proprie elucubrazioni. Da piccola, Clara era stata indubbiamente una bambina difficile; anche da ragazza il suo carattere non si era addolcito: era caparbia, irascibile, suscettibile e non andò mai d'accordo con suo padre che disprezzava perché era un ubriacone e un inetto. Il padre sentiva il disprezzo della figlia e non la perdonò mai per questo. Clara dimostrò precocemente di avere una certa
predisposizione per la musica: suo padre non la incoraggiò mai a coltivare questa passione non riconoscendo altro tipo di arte fuorché la pittura, alla quale egli stesso si dedicava con scarso successo e, ciononostante, con esiti economici sufficienti per mantenere la famiglia. Clara amava invece la madre... ma in modo un po' distaccato, come se fosse stata la sua bambinaia; adorava la sorella, malgrado ogni tanto si azzuffasse con lei e la morsicasse... Ma è anche vero che, dopo, s'inginocchiava baciando i punti in cui l'aveva morsicata. Era tutta fuoco, tutta passione, tutta una contraddizione; vendicativa e gentile, generosa e astiosa, credeva nel destino ma non in Dio (Anna mormorò tali parole con un senso d'orrore). Amava tutto ciò che era bello, ma non si prendeva molta cura della propria persona, vestendosi come capitava; non sopportava di essere corteggiata... eppure, dei libri leggeva solamente i passi che parlavano d'amore. Non le importava di piacere, non amava le carezze, anche se non le dimenticava come non dimenticava le ingiurie. Era terrorizzata dalla morte eppure si era tolta la vita! «A volte» proseguì Anna, «mi diceva: "Un amore come io lo intendo non lo troverò mai... e non ne voglio altri!" E io ribattevo: "Katja, ma se tu, per caso, lo incontrassi?" "Se lo incontrassi" diceva "lo catturerei". "E se non si lasciasse catturare?". "Beh, allora... la farei finita. Significherebbe che non sono all'altezza".» Il padre di Clara, quando era ubriaco, era solito chiedere alla moglie: «Da chi hai avuto quel nero diavoletto? Da me, no di certo!» Egli, ansioso di liberarsi della figlia quanto prima possibile, l'aveva promessa in sposa a un giovane e ricco mercante, un grande stupido, di quelli che generalmente si definiscono raffinati. Due settimane prima del suo matrimonio, Clara aveva solo sedici anni a quell'epoca, si avvicinò al fidanzato, con le braccia incrociate e tamburellando le dita sui gomiti... questa era la sua posizione preferita. Improvvisamente gli diede uno schiaffo sulla guancia rosea con la sua mano grande e forte! Quegli balzò in piedi, a bocca aperta per lo stupore... bisogna dire che era innamorato pazzo di lei... e le chiese: «Perché lo ha fatto?» Per tutta risposta, Clara rise, sprezzante, e se ne andò. «Io ero là con loro, nella stanza» spiegò Anna «e vidi tutto. La rincorsi e le domandai: "Katja, sul serio, perché lo hai fatto?" lei mi rispose: "Se fosse stato un vero uomo, mi avrebbe punita, ma non ha più coraggio di un coniglio! E mi chiede il perché del mio gesto! Se mi amasse veramente e non mi portasse rancore, dovrebbe piuttosto sopportare senza chiedermi il perché. Non mi avrà mai, mai!" E difatti Katja non lo sposò. Poco tempo
dopo conobbe quell'attrice e scappò di casa con lei. Nostra madre scoppiò in lacrime, ma nostro padre disse: "Quando una bestia è matta è meglio che se ne vada dal gregge!" Lui non si preoccupò più di Katja né cercò di rintracciarla. Mio padre non riuscì mai a capirla. Il giorno prima della sua fuga» continuò Anna «Katja mi soffocò quasi di abbracci ripetendomi continuamente: "Non posso fare altrimenti... non posso... Ho il cuore a pezzi, ma non posso fare altrimenti! La vostra gabbia è troppo stretta... mi tarpa le ali! E inoltre, non è possibile sfuggire al proprio destino..."... Da quel momento l'ho rivista poche volte» proseguì Anna. «Quando nostro padre morì, Katja ritornò per un paio di giorni, rifiutò la sua parte di eredità e scomparve di nuovo. Con noi non era felice... lo capivo bene. E poi, la rividi qui, a Kazan come attrice.» Aratov iniziò a porle domande riguardanti il teatro, i ruoli in cui recitava, i suoi trionfi... Anna rispose fornendogli numerosi particolari sempre con lo stesso triste e, nel contempo, intenso fervore. Gli mostrò persino una fotografia di Clara che indossava un costume di scena: i suoi occhi guardavano lontano, quasi volesse evitare il pubblico; i suoi folti capelli erano raccolti da un nastro che ricadeva, attorcigliandosi, su un braccio nudo. Aratov osservò a lungo la fotografia, la trovò rassomigliante, chiese se Clara avesse preso parte a letture pubbliche e apprese che non lo aveva mai fatto, che aveva invece bisogno dell'emozione del teatro, del palcoscenico. Ma Aratov aveva un'altra domanda che desiderava porre impazientemente. «Anna Semionova!» esclamò finalmente con voce non molto alta, ma decisa. «Ditemi, vi prego, perché... che cosa l'ha spinta a compiere quello spaventoso gesto?» Anna abbassò lo sguardo. «Non lo so» rispose dopo qualche attimo di silenzio. «In fede mia non lo so!» continuò con enfasi immaginando, dal gesto di stupore che Aratov aveva fatto, che egli non le credesse... «Quando ritornò qui» disse «era melanconica, depressa. Le doveva essere successo qualcosa a Mosca... che cosa proprio non lo so. Ma, d'altronde, quel tragico giorno sembrava... quasi più allegra, per lo meno più serena del solito. Persino io non sospettai nulla» aggiunse Anna sorridendo amaramente, quasi rimproverandosi della sua poca perspicacia... «Vedete...» proseguì «sembrava che fin dalla nascita Katja fosse destinata a essere infelice. Ne era convinta fin da giovanissima. Chinava spesso il capo, poggiandolo su una mano e immergendosi nei suoi pensieri, e poi diceva: "Non vivrò a
lungo!" Non di rado aveva presentimenti. Pensate! A volte, in sogno o da sveglia, vedeva ciò che le sarebbe accaduto! "Se non potrò vivere come desidero, allora non vivrò affatto" ripeteva spesso. "La nostra vita è nelle nostre mani". E lo ha dimostrato bene!» Anna si coprì il volto con le mani cessando di parlare. «Anna Semionova» disse Aratov dopo un istante di silenzio «avrete certamente letto ciò che i giornali hanno scritto sulla causa della sua morte...» «Intendete forse riferirvi all'infelice storia d'amore?» disse lei, scoprendosi nuovamente il volto. «È una calunnia! Una montatura!... La mia Katja, così pura e inavvicinabile... Katja!... un amore infelice, non corrisposto? Non l'avrei forse saputo se ciò fosse stato vero?... Tutti se ne innamoravano... mentre Katja... E di chi si sarebbe potuta innamorare qui? Chi era degno di lei? Chi era all'altezza della sua onestà, sincerità, purezza... sì, soprattutto della sua purezza di cui lei, malgrado tutti i suoi difetti, aveva fatto un ideale di vita?... Katja respinta... proprio lei...» Anna parlava con voce rotta... le sue dita stavano tremando. Improvvisamente diventò rossa in volto... rossa d'indignazione e, per un istante, solo per quell'istante, assomigliò a sua sorella. Aratov si sentì in dovere di scusarsi. «Ascoltate» lo interruppe nuovamente Anna «desidero che voi non prestiate assolutamente fede a questa calunnia anzi, se possibile, che la combattiate! Voi volete scrivere un articolo su di lei: bene, è l'occasione giusta per difendere la sua memoria! Ecco perché vi parlo così apertamente. Katja ha lasciato un diario...» Aratov iniziò a tremare. «Un diario?» sussurrò. «Sì, un diario... cioè... poche pagine. Katia non amava scrivere... per mesi interi non scriveva nulla, persino le sue lettere erano così brevi. Ma era sempre, sempre sincera, non diceva mai bugie... Mentire... lei!... con tutto l'orgoglio che aveva! Vi... vi mostrerò il suo diario! Potrete constatare di persona se vi sia qualche accenno ad amori infelici!» Anna estrasse rapidamente da un cassetto del tavolo un sottile quaderno contenente circa dieci fogli, non di più, e lo porse al Aratov. Yakov lo afferrò con avidità e riconobbe la grafia larga e irregolare, la grafia di quel biglietto anonimo. Lo aprì a caso e il suo sguardo cadde sulle seguenti parole: Mosca... martedì... giugno. Cantato e recitato a una matinée letteraria. Oggi per me è una giornata determinante. Deciderà in-
dubbiamente il mio destino. Questa frase era sottolineata due volte. Ho rivisto... Poi vi erano alcune righe cancellate accuratamente; poi ancora: No! No! No!... Devo ritornare a vivere come prima, se solo... Aratov ebbe come un mancamento. Lentamente, chinò il capo sul suo petto. «Leggete» esclamò Anna. «Perché non continuate? Leggete dall'inizio alla fine... ci vorranno solo cinque minuti per finirlo, è il diario di due anni. Quando Katja viveva qui a Kazan, non ha mai scritto, una parola... e neppure quando è tornata...» Aratov si alzò lentamente dalla sedia e si gettò in ginocchio di fronte ad Anna. Ella rimase pietrificata per lo stupore e lo sgomento. «Datemi... datemi il diario» chiese Aratov con voce flebile protendendo le braccia verso Anna. «Datemelo... e anche la fotografia... ne avrete sicuramente altre, e per quanto riguarda il diario, ve lo restituirò... Ma voglio, devo averlo!...» Nella sua supplica, nei tratti del suo viso sconvolto c'era qualcosa di talmente disperato che poteva sembrare sia un sentimento di collera, sia di angoscia... E Aratov, effettivamente, era in preda a una cupa angoscia. Mai avrebbe potuto prevedere di potere provare un simile dolore e implorava freneticamente di essere perdonato e liberato... «Datemelo» ripeté. «Ma... voi... voi eravate innamorato di mia sorella?» chiese Anna. Aratov era ancora inginocchiato davanti a lei. «L'ho vista solo due volte... credetemi!... e se non fosse stato per determinate ragioni che nemmeno io so spiegare e comprendere fino in fondo, ... se non fossi stato dominato da una specie di forza... non sarei qui a supplicarvi... non sarei mai venuto qui. Voglio... devo... voi stessa avete detto che devo difendere la sua memoria!» «Ma eravate innamorato di mia sorella?» chiese di nuovo Anna. Aratov non rispose subito, si voltò lievemente, come colpito da un forte
dolore. «Ebbene sì, Lo ero! Lo ero! E lo sono anche ora!» gridò con lo stesso tono disperato. Dalla stanza vicina si udì il rumore di alcuni passi. «Alzatevi... alzatevi» gli disse in fretta Anna. «Sta arrivando la mamma.» Aratov si alzò in piedi. «Prendete pure il diario e la fotografia. Povera, povera Katja! Ma dovrete restituirmi il diario» aggiunse concitata. «E se scriverete qualcosa su di lei, dovrete mandarmelo. Va bene?» L'ingresso di Madame Milovidova impedì ad Aratov di rispondere. Fece, comunque, in tempo a sussurrare: «Siete un angelo! Grazie! Vi manderò tutto quello che scriverò...» Madame Milovidova, non ancora del tutto sveglia, non sospettò nulla. E così Aratov lasciò Kazan con la fotografia di Clara nella tasca interna del suo cappotto. Restituì, invece, il diario ad Anna dopo avere strappato, all'insaputa di lei, la pagina con la frase sottolineata. Sulla via del ritorno a Mosca, cadde nuovamente in uno stato di stordimento. Pur sentendosi intimamente contento per avere ottenuto lo scopo che si era prefisso, aveva deciso di rimandare ogni riflessione riguardante Clara a quando sarebbe giunto a casa. Pensava, invece, ad Anna. "È una creatura squisita ed affascinante. Come è gentile e comprensiva, che cuore affettuoso e generoso! Come è possibile che in provincia, in un simile ambiente ci siano ragazze come lei! Non è né in salute né bella e neppure più molto giovane. Ma che splendida compagna sarebbe per un uomo assennato e colto! È esattamente di questo tipo di donna che dovrei innamorarmi!" Questi erano i pensieri di Aratov ma, giunto a Mosca, tutto assunse un altro aspetto. XIV Platonida Ivanovna si rallegrò immensamente per il fatto che il nipote era ritornato. Durante la sua assenza, aveva pensato alle più terribili eventualità. «Se n'è andato quanto meno in Siberia!» sussurrava tra sé e sé, seduta nella sua stanzetta, immobile. "Quanto meno per un anno!" Anche la cuoca aveva contribuito a terrorizzarla raccontandole notizie più che certe sulla scomparsa di questo o di quel giovane del quartiere. La totale innocenza di Yasha e la sua mancanza d'istinti di ribellione non rassicurarono
minimamente zia Platosha. "Si occupa di fotografia... e ciò basta perché lo arrestino!" pensava. Ma il suo adorato Yasha era ritornato, sano e salvo. Lei osservò, tuttavia, che sembrava più magro e aveva il volto più incavato; era ovvio, pensò, senza nessuno che si prendesse cura di lui! In ogni caso, non osò chiedergli del viaggio. A pranzo gli domandò: «Kazan è una bella città?» «Sì» rispose Aratov. «Immagino che vivano solo tartari?» «No, non solo tartari.» «E hai forse comprato una tipica veste di Kazan?» «No, non l'ho fatto.» E con queste parole si concluse la conversazione. Ma non appena Aratov si ritrovò solo in camera sua, ebbe subito la sensazione di essere avvolto da qualcosa, come se fosse stato ancora una volta catturato, si, catturato, da un'altra vita, da un altro essere. Malgrado avesse chiaramente detto ad Anna, in un momento di delirio, che era innamorato di Clara, ora si accolse di quanto assurda e folle fosse stata la sua affermazione. No, non ne era innamorato; come poteva, del resto, amare una donna morta che nemmeno in vita gli era piaciuta e che aveva quasi dimenticata? No, ma era in suo potere... egli non apparteneva più a se stesso. Era stato catturato, così saldamente catturato che non tentava nemmeno di liberarsi, ridendo della sua stessa assurdità o cercando di convincersi, di sperare che tutto sarebbe stato dimenticato con il tempo, che era solo questione di nervi scossi. Né si sforzava di trovare prove al riguardo. "Se lo incontrassi, lo catturerei" rammentò le parole di Clara che Anna gli aveva riferito. Ebbene, era stato catturato. Ma non era forse morta? Il suo corpo sì, ma la sua anima?... L'anima non è forse immortale?... Ha forse bisogno di un corpo per esercitare i propri poteri? Il magnetismo non ci ha forse dimostrato che un'anima umana può influenzare un'altra... Perché tale influsso non potrebbe sopravvivere alla morte, se l'anima è immortale? Ma a che scopo? A che cosa potrebbe portare ciò? Possiamo noi però comprendere lo scopo di quanto ci avviene attorno? Aratov era a tal punto immerso in siffatti pensieri che, all'ora del tè, chiese a Platosha se credesse all'immortalità dell'anima. Al momento la donna non capì la sua domanda, poi si fece il segno della croce e rispose: «Altro che! Chi può dubitare che l'anima sia immortale!» «E, se così è» chiese Aratov «può esercitare qualche influenza dopo la morte del corpo?» La vecchia zia rispose che probabilmente era così... che l'anima poteva
pregare per i vivi, almeno una volta superati tutti i travagli, in attesa del Giudizio. Ma per i primi quaranta giorni l'anima vagava nel luogo in cui era avvenuta la morte. Questo era scritto. «Per i primi quaranta giorni?» «Si, poi deve sopportare tutti i travagli.» Aratov rimase sorpreso vedendo che la zia era molto dotta in materia; in seguito, si ritirò nella sua stanza. E di nuovo provò la stessa sensazione, percepì lo stesso potere incombente su di lui. Tale potere si manifestava tramite l'immagine di Clara, sempre presente ai suoi occhi, vivida, con tutti i particolari che egli non aveva osservato quand'era in vita: le dita, le unghie, la peluria sulle guance, vicino alle tempie, il piccolo neo sotto l'occhio sinistro, il lieve movimento delle sue labbra, delle narici, delle sopracciglia... il suo modo di ammirare e di tenere la testa, lievemente inclinata a destra, ... vedeva tutto quanto. Non si rallegrava alla vista di ciò, ma non poteva fare a meno di pensarci e di osservare. Nella prima notte che trascorse a casa, dopo il suo rientro, non la sognò... era molto stanco e dormì profondamente. Ma appena si risvegliò, Clara ritornò di nuovo: sembrava quasi essersi stabilita nella sua stanza, come se ne fosse la proprietaria, come se, togliendosi la vita, avesse acquisito un simile diritto, senza chiedere o avere bisogno del suo permesso. Egli prese la sua fotografia, iniziò a farne una copia, ingrandendola. In seguito gli venne in mente di adattarla allo stereoscopio: l'impresa non fu facile, ma finalmente ci riuscì. Quasi sussultò osservando attraverso il vetro l'immagine di lei che pareva viva, anche se grigia, come ricoperta da un velo di polvere... e poi gli occhi, gli occhi che guardavano sempre da un lato, come per evitare qualcosa o qualcuno. Li osservò a lungo, quasi aspettandosi di vederli diretti verso di sé... Socchiuse appositamente i suoi... e invece quelli di lei restarono immobili. L'intera figura ricordava una bambola. Si allontanò e sprofondò in una poltrona, prendendo la pagina strappata dal diario contenente la frase sottolineata. "Gli innamorati" pensò "almeno così dicono, baciano la parole scritte dal loro amore, ma io non mi sento di farlo e trovo la grafia alquanto brutta. Purtuttavia, queste righe racchiudono la mia condanna." Poi rammentò la promessa fatta ad Anna per quanto riguardava l'articolo; si sedette alla scrivania e iniziò a scrivere, ma ogni parola gli suonava falsa, retorica... soprattutto falsa... come se non credesse a ciò che scriveva e nemmeno ai suoi sentimenti... Clara stessa sembrava una sconosciuta, una donna incomprensibile! Sembrava ritrarsi da lui. "No!" pensò egli gettando via la penna... "o non sono adatto a fare lo scrittore o devo at-
tendere un po'!" Gli venne in mente allora la sua visita in casa Milovidov e tutto ciò che Anna gli aveva raccontato, la dolce e gentile Anna... Una parola da lei pronunciata, pura, lo colpì improvvisamente. Era come se qualcosa lo avesse bruciato e purtuttavia gli avesse illuminato la mente; «Sì» disse a voce alta «Clara era pura e io sono puro. Ecco ciò che le ha conferito un simile potere.» Il pensiero dell'immortalità dell'anima e della vita dopo la morte gli pervase di nuovo la mente. Non diceva forse la Bibbia: Morte, dov'è il tuo aculeo? E Schiller: Anche i morti vivranno! (Auch die Todten sollen leben!) E anche Mickiewicz scrisse: Io ti amerò sino alla fine dei secoli... ed oltre! Uno scrittore inglese proclamò: L'amore è più forte della morte! La citazione della Bibbia produsse un particolare effetto su Aratov... Voleva rintracciare il punto in cui erano riportate quelle parole. .. ma si accorse di non averne una copia. Andò allora da Platosha, per chiedergliela. Quest'ultima si stupì, ma ne trovò una, un vecchissimo volume rilegato in pelle, dalla copertina tutta rovinata, con borchie in rame, coperta di macchie di cera, e la porse ad Aratov. Egli se la portò in camera sua, ma per un bel po' di tempo non riuscì a rintracciare il verso... Nel frattempo però il suo sguardo si soffermò su questa frase: Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici... (San Giovanni, XV, 13). Egli pensò: "Non è esatto. Avrebbe dovuto dire: Nessuno ha un potere più grande... E se non avesse rinunciato alla sua vita per me, ma semplicemente perché vivere le era diventato penoso? Se fosse venuta a quell'appuntamento non per una questione d'amore, bensì per un altro motivo?" Ma in quell'istante rivide Clara al momento del loro distacco, sul boulevard... Rivide il dolore dipinto sul suo volto, le lacrime e riudì la parole: "Voi non avete capito nulla". No! non poteva più dubitare perché e per chi ella avesse rinunciato alla propria vita... Così passò l'intera giornata, fino a notte. XV Aratov andò a letto presto, senza avere particolarmente sonno ma sperando di potere riposare. La tensione a cui i suoi nervi erano stati sottoposti lo aveva prostrato più della stanchezza fisica provocata dal viaggio. Pur tuttavia, per quanto stanco si sentisse, non riuscì ad addormentarsi. Tentò di leggere... ma le righe delle pagine si confondevano le une con le altre.
Spense la candela e la tenebra si diffuse nella sua stanza, mentre egli restava là, disteso, senza riuscire a dormire... A un certo punto gli sembrò di udire qualcuno che gli mormorasse all'orecchio... "Il battito del cuore, la pulsazione del sangue" pensò immediatamente... Ma il mormorio divenne un discorso compiuto: qualcuno gli stava parlando in fretta, in modo lamentoso e non molto chiaro. Non riusciva ad afferrare nemmeno una parola... ma quella che udiva era la voce di Clara. Aratov aprì gli occhi, si sollevò sul letto, poggiandosi su un gomito... La voce divenne più flebile pur mantenendo un tono lamentoso, frettoloso, poco chiaro, esattamente come prima... Era indubbiamente la voce di Clara. Dita sconosciute producevano delicate modulazioni scorrendo sulla tastiera di un pianoforte... e poi la voce iniziò nuovamente a sussurrare. Ora udiva suoni più prolungati... simili a lamenti... sempre gli stessi ripetuti all'infinito. Poi ancora iniziò a distinguere le parole: «Rose... rose... rose...» «Rose» ripeté sussurrando Aratov. «Ah, sì! Le rose che ho visto sul capo della donna che ho sognato...» «Rose» sentì ancora. «Sei tu?» chiese Aratov, sempre sussurrando. La voce cessò all'istante. Aratov aspettò... aspettò appoggiando il capo sul cuscino. "Allucinazioni sonore" pensò. "Ma se... se fosse veramente qui, vicinissima?... Se per caso la vedessi, rimarrei spaventato? O sarei invece contento? Ma di che cosa dovrei spaventarmi o rimanere contento? E perché, poi? Forse perché sarebbe la dimostrazione che esiste un altro mondo e che l'anima è immortale. Ma anche se vedessi qualcosa, potrebbe sempre essere un'allucinazione visiva." Accese la candela e con una rapida occhiata, non senza un vago terrore, esplorò l'intera stanza... senza trovarvi nulla di inconsueto. Si alzò dirigendosi verso lo stereoscopio... ancora la stessa bambola grigia con gli occhi che guardavano da un lato. Il terrore si tramutò in fastidio. Si sentì ingannato, come se le sue aspettative fossero andate deluse... aspettative che ora giudicava assurde. «È assolutamente stupido tutto ciò!» mormorò ritornando a letto e spegnendo la candela. La tenebra più nera ritornò a regnare nella stanza. Aratov decise che questa volta si sarebbe addormentato... Ma una nuova sensazione lo pervase. Percepiva una presenza eretta, in mezzo alla stanza, non lontana da lui, che respirava appena. Si voltò di scatto aprendo gli occhi... ma che cosa avrebbe potuto vedere nella tenebra impenetrabile? Pre-
se a cercare un fiammifero sul comodino... e, all'improvviso, gli sembrò che una specie di soffice e silenziosa folata passasse attraverso la stanza, sopra di lui, attraverso il suo corpo... e la parola Io risuonò chiara nelle sue orecchie... «Io... io... io...!» Passò qualche attimo prima che egli riuscisse ad accendere la candela. Ma ancora una volta nella stanza non c'era nessuno; non udiva più nulla, se non il battito irregolare del proprio cuore. Bevve un bicchiere d'acqua e restò immobile, il capo poggiato sulla sua mano. Aspettava. Pensò: "Aspetterò: o tutto ciò è privo di senso... o è veramente qui. Non giocherà al gatto col topo con me in questo modo!" Aspettò..; aspettò a lungo... così a lungo che la mano su cui poggiava il capo divenne insensibile... ma nessuna delle precedenti sensazioni ritornò. Gli si chiusero due volte gli occhi... ed egli prontamente li riaprì... per lo meno così credette. Lentamente diresse lo sguardo verso la porta, concentrandolo in quel punto. La candela si era quasi del tutto consumata. La tenebra calò nuovamente nella stanza... ma in corrispondenza della porta egli vide una lunga striscia bianca. E questa macchia iniziò a muoversi, a farsi più piccola e infine scomparve... e al suo posto, sulla soglia, apparve una figura femminile. Aratov la scrutò intensamente... Clara! E questa volta lo guardava direttamente in viso, avvicinandoglisi... Sul capo portava una corona di rose rosse... Aratov era in preda a una folle agitazione. Si sedette sul letto... Di fronte a lui c'era la zia, con una cuffia adorna di un largo nastro rosso sul capo e una camicia da notte bianca addosso. «Platosha!» esclamò faticosamente Aratov. «Siete voi?» «Sì, sono io» rispose Platonida Ivanovna. «Io, caro Yasha, io.» «Perché siete venuta?» «Mi hai svegliata. All'inizio ti lamentavi come se... e poi improvvisamente hai gridato: "Salvatemi! Aiutatemi!".» «Ho gridato?» «Sì, e con voce così roca che ho pensato: Dio mio! Forse si sente male? E così sono venuta a vedere. Come stai?» «Perfettamente.» «Beh, devi avere fatto un brutto sogno, allora. Vuoi che bruci un po' d'incenso?» Aratov osservò ancora una volta la zia e scoppiò a ridere fragorosamente. La figura della vecchia con la cuffia sul capo e la camicia da notte, con il suo viso lungo dall'espressione spaventata, era decisamente ridicola. Il
mistero che lo aveva avvolto e oppresso pochi attimi prima svanì di colpo. «No, mia cara Platosha, non c'è n'è bisogno» rispose. «Perdonatemi se vi ho involontariamente spaventata. Ritornate pure a dormire e anch'io lo farò.» Platonida Ivanovna rimase immobile; poi, indicando la candela, borbottò; «Perché non la spegni... basta poco per fare succedere una disgrazia!» detto questo, uscì dalla stanza e, sebbene una certa distanza, non poté trattenersi dal fare il segno della croce sul suo Yasha. Aratov si addormentò subito, dormendo fino al mattino seguente. Si alzò persino di buonumore... pur provando una sensazione di dispiacere per qualcosa... Si sentiva libero e leggero. "In che romantiche fantasticherie ti eri perso!" si disse. Non diede nemmeno un'occhiata allo stereoscopio o alla pagina strappata del diario. Subito dopo colazione, uscì di casa per andare da Kupfer. Che cosa lo attirasse là... esattamente non lo sapeva. XVI Aratov trovò l'esuberante amico in casa. Conversò un po' con lui, rimproverandolo di averli quasi dimenticati, lui e la zia; ascoltò le nuove lodi di quel cuore d'oro, la principessa, che aveva appena mandata all'amico, da Jaroslav, un berretto da fumatore ricamato a scaglie di pesce... All'improvviso Aratov seduto di fronte a Kupfer e guardandolo negli occhi, gli disse che era andato a Kazan. «Sei stato a Kazan! E perché?» «Oh, volevo raccogliere alcune informazioni su quella... Clara Militch.» «Quella che si è avvelenata?» «Sì.» Kupfer scosse il capo. «Che bel tipo sei! Tutto così, di soppiatto! Ti sei sobbarcato un viaggio di un migliaio di chilometri tra l'andata e il ritorno... e a che scopo? Eh? Se ci fosse stata di mezzo una donna, potrei capire! Allora comprenderei tutto! Tutto! Qualsiasi follia!» Kupfer si passò le mani fra i capelli. «Ma semplicemente per raccogliere materiale... come dite voi intellettuali... Scusami tanto! Ci sono istituti appositi per svolgere un simile compito! Sei riuscito a farti ricevere dalla vecchia madre di Clara e dalla sorella? Che ragazza incantevole Anna, non è vero?» «Incantevole» rispose Aratov «Mi ha fornito numerose informazioni interessanti.»
«Ti ha detto esattamente come Clara si sia avvelenata?» «Intendi dire... in che modo?» «Si, in che modo.» «No... ne soffriva ancora molto, troppo... e io non ho osato chiederle troppi particolari. C'è qualcosa di strano al riguardo?» «Veramente c'è. Prova a riflettere: doveva recitare quel giorno e in effetti lo fece. Quando si recò la teatro, portò con sé una boccetta di veleno e la bevve prima che iniziasse la prima scena. Recitò con il veleno in corpo fino alla fine di quell'atto! Che incredibile forza di volontà, non di sembra? Che temperamento! e, a quanto si dice, ha recitato con un tale sentimento, con una tale passione quel giorno! Il pubblico non sospettava nulla, applaudiva, la richiamava... Non appena calò il sipario, cadde a terra, ancora sul palcoscenico. Convulsioni... convulsioni e nell'arco di un'ora era morta! Ma non te l'avevo raccontato? Anche i giornali ne hanno parlato.» Le mani di Aratov diventarono gelide all'improvviso ed egli sentì un tremito pervaderlo internamente. «No, non me lo avevi raccontato» disse dopo un po'. «Non sai di quale opera si trattasse?» Kupfer rifletté qualche minuto. «Mi avevano detto che era... si trattava di una giovane tradita... Un dramma, suppongo. Clara era tagliata per i ruoli drammatici... Il suo stesso aspetto... Ma dove stai andando?» chiese bruscamente Kupfer vedendo che Aratov afferrava il cappello. «Non mi sento molto bene» replicò Aratov. «Arrivederci... Tornerò un'altra volta.» Kupfer lo fermò e lo scrutò intensamente in volto. «Che giovane nervoso sei, mio caro! Abbiti cura di te!... Sei bianco come un lenzuolo!» «Non mi sento bene» ripeté Aratov e, liberandosi dalla stretta di Kupfer, si avviò verso casa. Solo in quel momento capì che si era recato da Kupfer per parlare di Clara... o infelice, o folle Clara! Giunto a casa, riuscì comunque a riacquistare un certo autocontrollo. Le circostanze che avevano accompagnato la morte di Clara lo avevano dapprima sconvolto... ma poi, quel fatto di recitare con il veleno in corpo, come Kupfer aveva detto, gli sembrò un gesto eccessivamente teatrale, quasi una bravata, e cercò pertanto di non pensarci per non provare un senso di repulsione nei confronti di lei. A pranzo, mentre era seduto a tavola
di fronte a Platosha, gli venne in mente l'apparizione di sua zia, a notte fonda, la corta camicia da notte, la cuffia con il nastro — perché poi c'era un nastro su una cuffia da notte? — quella ridicola presenza che, come il campanello che segnala il graduale cambiamento di scenario a sipario aperto, aveva fugato tutte le sue visioni! Obbligò quasi Platosha a ripetere il racconto che gli aveva già fatto di come lo avesse sentito gridare, e si fosse allarmata, e si fosse alzata dal letto e non fosse riuscita a trovare né la porta della propria stanza né quella della stanza di lui ecc. La sera giocò a carte con lei e, più tardi, si recò in camera sua alquanto depresso, ma pur sempre calmo. Aratov non pensava alla notte che si stava avvicinando e non ne era nemmeno spaventato: era sicuro che avrebbe dormito sonni tranquilli. Il pensiero di Clara gli ritornava di tanto intanto in mente, ma si rammentava anche del modo plateale col quale si era tolta la vita, per cui alla fine riuscì a liberarsene. Quel gesto di cattivo gusto frenava tutti i ricordi. Dando una curiosa occhiata allo stereoscopio, gli sembrò quasi che lei guardasse di lato come se provasse vergogna. Sulla parete di fronte allo stereoscopio c'era un ritratto di sua madre. Aratov lo staccò dal chiodo, lo esaminò a lungo, lo baciò e infine lo ripose in un cassetto. Perché lo aveva fatto? Forse perché non era giusto che quel caro ritratto fosse così vicino a quello di Clara... o forse per altri motivi che non si preoccupò di appurare. Il ritratto di sua madre gli fece però ricordare anche suo padre... suo padre che aveva visto morire proprio in quella stanza, in quello stesso letto. "Che cosa pensate di tutto ciò, padre?" gli chiese mentalmente. "Voi comprenderete quanto accade, anche voi credevate al mondo degli spiriti di Schiller. Datemi un consiglio!" «Mio padre mi avrebbe consigliato di lasciar perdere tutte queste sciocchezze» disse Aratov ad alta voce, prendendo un libro. Non riuscì comunque a leggere a lungo e, sentendo un senso di pesantezza, andò a dormire prima del solito, convinto che si sarebbe addormentato subito. E così fu... ma la speranza di trascorrere una notte tranquilla risultò vana. XVII Non era neanche mezzanotte quando egli fece un sogno straordinario e terrificante. Sognò di essere in una sontuosa casa padronale di cui era proprietario.
Aveva da poco comprato l'edificio e tutte le proprietà annesse. E continuamente pensava: "È bella, è molto bella ora, ma il male è in arrivo!" Accanto a lui camminava su e giù un ometto, il suo maggiordomo. Quegli non cessava mai di ridere, d'inchinarsi e voleva mostrare ad Aratov come tutto era stato perfettamente disposto e organizzato nella casa e nella proprietà. «Da questa parte, prego, da questa parte» continuava a ripetere sogghignando a ogni parola. «Guardate, vi prego, come qui da voi tutto è prospero! Guardate i cavalli... che splendidi esemplari!» E Aratov vide una fila di enormi cavalli, tutti nelle loro stalle, posti di schiena: le loro criniere e le loro code erano stupende... ma appena Aratov si avvicinò, essi si voltarono mostrando sinistramente i denti. "È molto bello" pensò Aratov "ma il male è in arrivo!" «Da questa parte, vi prego, da questa parte» ripeteva sempre il servitore «venite in giardino, guardate che belle mele!» Le mele erano indubbiamente belle, rosse e rotonde, ma appena Aratov si avvicinò avvizzirono e caddero dalla pianta... "Il male è in arrivo" pensò. «Ed ecco il laghetto» biascicò il servitore «vedete come è azzurro e calmo! E c'è una piccola barca d'oro... vi salirete per farci un giro? Naviga da sola.» "No, non lo farò" pensò Aratov "il male è in arrivo!" e, nonostante ciò, vi salì. Sul fondo vi giaceva una piccola creatura, tutta raggomitolata, simile a una scimmia, con fra le zampe una boccetta piena di liquido scuro. «Non vi preoccupate, signore!» gridò il maggiordomo dalla riva... «Non vi darà fastidio! È la morte! Buona fortuna!» E la barca si avviò veloce sull'acqua... ma, improvvisamente, fu investita da un refolo di vento, non impetuoso come quello della notte precedente, bensì dolce e silenzioso. No! Era invece una folata scura, spaventosa e ululante! Era il caos. In mezzo alla tenebra turbinante Aratov vide Clara in costume di scena: stava portando alle labbra un bicchiere mentre echeggiavano grida di: «Brava! Brava!» Una voce sgradevole urlò nell'orecchio ad Aratov: «Ah, credevi che tutto si sarebbe risolto in una farsa? No, è una tragedia, una tragedia!» Tutto tremante, Aratov si svegliò. La stanza non era completamente avvolta dall'oscurità... una pallida luce proveniente da chissà quale punto illuminava ogni oggetto nella sua immobilità. Aratov non si chiese da dove venisse quella luce... percepì solo una cosa: Clara era lì in quella stanza... sentiva la sua presenza... era di nuovo e per sempre in suo potere! Un grido uscì dalle sue labbra: «Clara, sei qui?» «Sì!» risuonò chiara la risposta nell'immobilità della stanza illuminata. Aratov ripeté la domanda quasi impercettibilmente... «Sì!» udì di nuovo per tutta risposta.
«Se così è, voglio vederti!» esclamò lui balzando giù dal letto. Per qualche attimo rimase immobile nello stesso posto, con i piedi nudi sul freddo pavimento. I suoi occhi vagavano di qua e di là. «Dove sei? Dove sei?» mormoravano le sue labbra. Non vedeva nulla e non sentiva nulla... Si guardò attorno e notò che la pallida luce che illuminava la stanza proveniva da un lume da notte schermato da un foglio di carta, posto probabilmente in un angolo da Platosha, mentre egli dormiva. Sentì, inoltre, un odore d'incenso... anch'esso era della dolcissima zia. Si vestì in fretta: era assolutamente escluso che potesse restare a letto e dormire. Si mise nel centro della stanza e incrociò le braccia. Sentiva la presenza di Clara più forte che mai. E iniziò a parlare, non a voce alta, ma con tono lento e solenne, come se stesse pronunciando una formula magica. «Clara» iniziò «se veramente sei qui, se ora mi vedi e mi senti, fa che io ti possa vedere! Se riesci a capire quanto io mi sia amaramente pentito per non averti capita, per averti respinta, fa che io ti possa vedere! Se quella che ho sentito era veramente la tua voce, se il sentimento che mi travolge è amore, se sei convinta che io ti ami, io che non ho mai conosciuto né amato alcuna donna, se tu sai che dopo la tua morte io ti ho amata appassionatamente e disperatamente, se non vuoi che diventi matto, fa che io ti possa vedere, Clara!» Aratov non aveva quasi finito di pronunciare l'ultima parola quando percepì una presenza dietro di sé che stava avvicinandosi rapidamente — come quel giorno sul boulevard — e che ora gli posava una mano sulla spalla. Si voltò ma non vide nessuno. La sensazione della sua presenza era diventata così netta, così certa che ancora una volta si guardò attorno frettolosamente... Che cos'era? Su una poltrona, a pochi passi da lui, sedeva una donna vestita interamente di nero, con il capo voltato, come nell'immagine vista attraverso lo stereoscopio... Era lei! Era Clara! Ma che espressione triste e severa! Aratov cadde in ginocchio. Sì, aveva dunque ragione. Non provava né paura né gioia e neppure stupore... Persino il suo cuore batteva più lentamente. Provò un'unica sensazione, un unico sentimento: «Ah! Finalmente! Finalmente!» sospirò. «Clara» disse con voce flebile ma uniforme. «Perché non mi guardi? So che sei tu... ma potrei anche credere che la mia mente ha prodotto un'im-
magine simile a quella... — e indicò lo stereoscopio — dimostrami che sei tu... Voltati verso di me, guardami, Clara!» Ella alzò lentamente la mano... e poi la lasciò ricadere. «Clara! Clara! Voltati verso di me!» E Clara girò lentamente il capo, schiudendo le palpebre. I suoi occhi neri fissarono Aratov. Egli indietreggiò lievemente pronunciando un solo, prolungato e tremolante: «Ah!» Clara lo fissava intensamente... ma i suoi occhi, i suoi lineamenti conservavano la stessa espressione di dolore, di severità e di sconforto. Proprio con quell'espressione era entrata in scena il giorno della matinée letteraria, prima che scorgesse Aratov. E, proprio come allora, lei arrossi improvvisamente, il suo volto s'illuminò, i suoi occhi si fecero più dolci e un sorriso di gioia e di trionfo dischiuse le sue labbra... «Sono qui!» gridò Aratov. «Hai vinto... Prendimi! Sono tuo, e tu sei mia!» Si gettò verso di lei desiderando baciare quelle labbra sorridenti e trionfanti e lo fece. Sentì il loro ardore e persino il freddo umido dei suoi denti. Un'esclamazione di trionfo riecheggiò nella stanza semi-buia. Platonida Ivanovna, accorsa precipitosamente, lo trovò svenuto. Era in ginocchio, con il capo poggiato sulla poltrona, le braccia tese e inerti. Il suo volto pallido emanava immensa beatitudine. Platonida Ivanovna si gettò a terra accanto a lui e, abbracciandolo, disse con voce esitante: «Yasha! Yasha mio caro! Yasha tesoro mio!» Cercò di sollevarlo con le sue braccia ossute... ma egli non si muoveva. Allora Platonida Ivanovna gridò con una voce che non sembrava più la sua. La domestica accorse e insieme lo sollevarono, spruzzandogli il volto con l'acqua... anche con quella posta vicino all'icona... Egli rinvenne ma, in tutta risposta alle domande della zia, sorrise solamente, con un'espressione talmente beata sul volto che la zia si preoccupò più che mai e prese a fare il segno della croce, su se stessa e su di lui... Aratov scostò la mano dalla zia e, sempre con la stessa espressione beata dipinta sul volto, disse: «Che cosa c'è, Platosha?» «Che cos'hai tu, Yasha?» «Io? Io sono felice... felice, Platosha... ecco che cos'ho. E ora desidero stendermi e dormire...» Cercò di alzarsi, ma le sue gambe erano così deboli, il suo corpo era così debole che, senza l'aiuto della zia e della domestica, non avrebbe mai potuto svestirsi e stendersi sul letto. Pur tuttavia, si
addormentò subito, sempre con la stessa espressione trionfante sul volto... su un volto però estremamente pallido. XVIII Quando Platonida Ivanovna entrò nella sua stanza il mattino seguente, era ancora nella stessa posizione... ma la debolezza non se n'era andata e Yakov preferì rimanere a letto. Platonida Ivanovna era preoccupata per il pallore del suo viso. "Signore, abbi pietà di noi! Che cos'avrà?" pensava. "Il suo viso è esangue, rifiuta il brodo, sta lì disteso e sorride, dichiarando continuamente che sta perfettamente bene!" Aratov rifiutò persino la colazione. «Che cos'hai, Yasha?» gli chiese la zia. «Hai forse intenzione di restare a letto tutto il giorno?» «Perché? Che cosa avete in contrario?» rispose gentilmente il nipote. Yakov Aratov aveva l'aria di un uomo che ha scoperto un grande, stupendo segreto ed è geloso di conservarlo solo per sé. Aspettava la notte, non con impazienza ma con curiosità. "Che cosa succederà ancora?" si chiedeva "che cosa succederà?" Non provava più né stupore né incredulità; non dubitava di essere in contatto con Clara, del fatto che si amavano... non ne dubitava assolutamente. Solo... a che cosa poteva portare un simile amore? Ricordava quel bacio... e un brivido di gioia percorse il suo corpo. "Un bacio simile" pensava "nemmeno Romeo e Giulietta se lo sono mai scambiati! Ma la prossima volta sarò più forte... mi comporterò con più decisione nei suoi confronti.... Clara ritornerà con una corona di roselline fra i suoi capelli neri... E poi che cosa accadrà? Non potremo mai vivere insieme. Allora, non mi resta che morire per stare con lei? È possibile che Clara sia venuta proprio per questo? È così che lei intende catturarmi?... E allora? Se devo morire, che muoia. La morte non mi spaventa più, ora. Può forse distruggermi? Al contrario, solo così e là io posso essere felice... come non lo sono mai stato in vita, come Clara non lo è mai stata... Siamo entrambi puri! Oh, quel bacio!" Platonida Ivanovna entrava continuamente nella camera di Aratov, senza tormentarlo con domande; si limitava a osservarlo, sussurrando e sospirando, per poi uscire di nuovo. Egli rifiutò anche il pranzo. Era un pessimo segno! La vecchia zia chiese aiuto a un suo conoscente, al medico del quartiere in cui riponeva una certa fiducia dal momento che non beveva e aveva una moglie tedesca. Aratov ebbe una reazione di stupore quando
quest'ultimo entrò nella stanza, ma Platonida Ivanovna lo implorò con talmente tanta insistenza di farsi visitare da Paramon Paramonitch (così si chiamava il medico) - per il suo bene - che Aratov acconsentì. Paramon Paramonitch gli sentì il polso, gli guardò la lingua, gli pose qualche domanda dichiarando infine che doveva auscultarlo. Aratov era così di buon umore che acconsentì anche a questo. Il medico scoprì delicatamente il suo petto, lo picchiettò, ascoltò, titubò ed esitò; infine gli prescrisse alcune gocce e una mistura raccomandandogli di stare tranquillo e di evitare ogni emozione. "Eh, già, mio caro" pensò Aratov "ma è troppo tardi ormai!" «Che cosa c'è che non va nel mio Yasha» chiese Platonida Ivanovna porgendo sulla soglia a Paramon Paramonitch una banconota da tre rubli. Il medico che, come tutti i medici moderni — soprattutto quelli che indossano il camice bianco — amava esprimersi con espressioni dotte e difficili, disse che suo nipote presentava tutti i sintomi di una cardialgia nevrotica e di uno stato febbrile. «Parlate in modo più semplice, mio caro dottore» lo interruppe Platonida Ivanovna. «Non terrorizzatemi con i vostri termini scientifici: non siete nel vostro studio.» «Il suo cuore non funziona bene» le spiegò allora il dottore «e ha un po' di febbre... raccomando ancora tranquillità e riposo.» «Ma c'è pericolo?» chiese con tono grave Platonida Ivanovna. ("Guai se parlate ancora con quei termini latini!" sottointendeva con la sua voce.) «Non si può dire, per ora.» Il medico se ne andò... e Platonida Ivanovna s'incupì... Mandò a prendere in farmacia le medicine che, nonostante le sue suppliche, Aratov non volle prendere. Rifiutò persino di bere la tisana. «Perché siete tanto preoccupata, zia?» le disse. «Vi assicuro, in questo momento sono l'uomo più sano e più felice del mondo!» Platonida Ivanovna si limitò a scuotere il capo. Verso sera la febbre salì eppure egli insistette perché la zia non rimanesse nella stanza e andasse invece a coricarsi. Platonida Ivanovna obbedì, ma non si svestì né si distese sul letto. Si sedette in poltrona e, per tutto il tempo, rimase in ascolto sussurrando le sue preghiere. Stava quasi addormentandosi quando fu bruscamente svegliata da un grido lancinante, terribile. Balzò in piedi e corse nella stanza di Aratov e, come la notte precedente, lo trovò disteso sul pavimento. Ma a differenza della notte precedente non rinvenne, malgrado tutti i loro sforzi. La febbre salì altissima durante la notte, complicata da un insulto cardiaco. Pochi giorni dopo morì.
Una strana circostanza aveva accompagnato il suo secondo svenimento. Quando lo avevano sollevato e disteso sul letto, nella sua mano destra stretta a pugno trovarono una piccola ciocca di capelli neri di donna. Da dove era venuta tale ciocca? Anna Semionova l'aveva conservata: era di Clara. Ma che cosa poi aveva potuto deciderla a dare ad Aratov un ricordo della sorella per lei così caro? L'aveva forse riposta senza accorgersene nel diario che gli aveva prestato? Nel delirio che precedette la sua morte, Aratov si definì "Romeo"..."Dopo il veleno". Parlò di un matrimonio perfetto che era avvenuto. Disse di avere conosciuto l'estasi. Gli attimi più angosciosi per Platosha furono quando Aratov, riprendendo per breve tempo i sensi e vedendola accanto al suo letto, le chiese: «Zia, perché mai state piangendo?... Perché devo morire? Ma non sapete che l'amore è più forte della morte?... La morte! La morte! Morte... dov'è il tuo aculeo?... Non dovreste piangere zia, bensì rallegrarvi come io mi rallegro...» E ancora una volta, l'ultima, sul viso del giovane Yasha morente risplendette quel sorriso estatico: un sorriso che arrecò immenso dolore alla povera, vecchia, sola zia Platosha. Titolo originale: Clara Militch Traduzione: Adria Tissoni Robert W. Chambers L'aggiustareputazioni La prima opera di Rober W. Chambers, The King in Yellow (Il re in giallo, 1895), è una delle pietre miliari della narrativa dell'orrore statunitense. È un'opera nella quale Chambers amalgama elementi di Poe e di Ambrose Bierce con la decadenza di Wilde e Beardsley dandoci così, nell'insieme, una raccolta eccezionale. The Yellow Sign viene solitamente considerato un capolavoro nell'ambito dei racconti dell'orrore nonché il racconto più importante di The King in Yellow; ma The Repairer of Reputations (L'aggiustareputazioni, sotto alcuni aspetti è ancora più brillante. Si tratta di una storia dell'orrore che è anche una sofisticata opera di fantascienza ambientata nel futuro, venticinque anni dopo la grande guerra contro la Germania, in una New York che pullula di rivolte e saloni per suicidi e in cui molte convenzioni non vengono più rispettate. Chambers
divenne ricco e famoso come scrittore di narrativa e romanzi storici e solo raramente si dedicò all'orrore, comunque non raggiunse mai più l'intensità dei racconti di cui si compone The King in Yellow. Oggi è risaputo che esistono validi racconti horror in tutti i generi di narrativa e che la fantascienza, con il suo interesse peculiare per realtà e mondi altri, è in genere particolarmente adatto all'orrore. Molti dei racconti che contribuiscono all'evoluzione della fantascienza rientrano così, di fatto, nell'ambito dell'orrore. Tra questi, in particolar modo e proprio perché uno degli antesignani, rientra L'aggiustareputazioni. I "Ne raillon pas les fous; leur folie dure plus longtemps que la notre... Voilà toute la différence." Verso la fine del 1920 il governo degli Stati Uniti aveva praticamente portato a termine il programma iniziato durante gli ultimi due mesi del mandato del presidente Winthrop. Il paese sembrava tranquillo. Tutti sanno come vennero risolte le questioni del protezionismo e della manodopera. La guerra contro la Germania, successiva all'occupazione delle isole Samoa, non aveva lasciato segni visibili sulla repubblica, e la temporanea occupazione di Norfolk da parte dell'esercito invasore era stata cancellata dalla felicità per le numerose vittorie navali e dalla situazione ridicola in cui erano venute a trovarsi di conseguenza le truppe del generale Von Gartenlaube nello stato del New Jersey. Gli investimenti di Cuba e delle Hawai erano stati convenienti in tutti i sensi e il territorio di Samoa valeva certamente quanto era stato pagato come stazione per il rifornimento di carbone. La difesa del paese era perfetta. Tutte le città costiere erano state fortificate; l'esercito, sotto l'occhio attento del General Staff, e organizzato sullo schema prussiano, era stato ingrandito di 300.000 unità con una riserva territoriale di un milione; e sei magnifiche flottiglie di incrociatori e navi da guerra pattugliavano le sei stazioni nei mari navigabili garantendo una riserva di carburante ampiamente sufficiente a tenere sotto controllo le acque tenitoriali. I signori dell'ovest avevano infine dovuto ammettere che una facoltà per la formazione dei diplomatici era indispensabile come la facoltà di giurisprudenza è necessaria per formare gli avvocati. Conseguentemente all'estero non eravamo più rappresentati da patrioti incompetenti. La nazione prosperava. Chicago, che per un momento era rimasta pa-
ralizzata dopo il secondo grande incendio, si era risollevata dalle rovine bianche e imperiali, più splendida della città che era stata edificata per gioco nel 1893. Da ogni parte l'architettura valida si sostituiva a quella scadente, perfino a New York la brama di un po' di decenza aveva spazzato via gran parte degli orrori esistenti. Le strade erano state allargate, asfaltate e illuminate adeguatamente, erano stati piantati alberi, predisposte piazze, distrutte strutture sopraelevate e costruite strade sotterranee in sostituzione. I nuovi edifici del governo e le caserme erano piacevoli opere di architettura, e l'articolato sistema di moli di pietra che circondava completamente l'isola era stato trasformato in parchi pubblici: una manna per i cittadini. Le sovvenzioni per la costruzione di un teatro e di un teatro dell'Opera di Stato ebbero i loro frutti. La National Academy of Design rassomigliava molto alle analoghe istituzioni europee. Nessuno invidiava il ministro dei Beni Culturali, né per la carica che ricopriva, né per il portafoglio. Il ministro dei Beni Ambientali aveva molto meno da fare grazie al nuovo corpo di Guardie Nazionali a cavallo. Avevamo tratto vantaggi anche dagli ultimi trattati con la Francia e l'Inghilterra; l'espulsione degli ebrei nati all'estero come misura di autoprotezionismo nazionale, il controllo dell'immigrazione, le nuove leggi sulla naturalizzazione e la graduale centralizzazione dei poteri contribuivano alla tranquillità e alla prosperità del paese. Quando il governo risolse il problema degli indiani e un ex ministro della Guerra decise di sostituire con squadroni di cavalieri indiani in costume tradizionale le pietose organizzazioni che formavano le appendici di reggimenti scheletriti, il paese tirò un profondo sospiro di sollievo. E quando, dopo il colossale Congresso delle Religioni, vennero definitivamente sepolti il bigottismo e l'intolleranza e la carità iniziò a riunire sette che erano state contrastanti, molti ritennero che fosse giunta la vagheggiata età felice, almeno nel Nuovo Mondo... che, dopo tutto, è proprio un mondo a sé. Ma lo spirito di autoconservazione è sempre la legge più importante, e gli Stati Uniti furono costretti a stare a guardare dispiaciuti e senza potere intervenire la Germania, l'Italia, la Spagna e il Belgio che affrontavano l'anarchia mentre la Russia, che guardava dall'alto del Caucaso, metteva in ginocchio a uno a uno questi paesi. Nella città di New York l'estate del 1899 iniziò con lo smantellamento delle ferrovie sopraelevate. L'estate del 1900 resterà nella memoria dei cittadini di New York per molti armi: in quell'anno venne tolta la statua di Dodge. L'inverno seguente ebbe inizio quella protesta contro le leggi che
proibivano il suicidio, che si concluse nel mese di aprile del 1920 quando venne aperta la prima Camera Letale di Stato in Washington Square. Quel giorno m'incamminai a piedi dalla casa del dottor Archer su Madison Avenue, dove mi ero recato per pura formalità. In seguito a una caduta da cavallo, avvenuta quattro anni prima, avevo avuto di quando in quando dei dolori alla nuca e al collo; ultimamente, e per mesi, erano scomparsi e quel giorno, dopo una visita di controllo, il dottore mi mandò a casa affermando che in me non c'era più nulla da curare. Una parcella così salata però non era giustificata, visto che si era limitato a darmi la notizia, quella, che per me da tempo, non costituiva una novità. Eppure non mi rifiutai di pagarlo. Quello che m'infastidì era stato l'errore che aveva commesso all'inizio. Quando mi avevano sollevato dal selciato su cui giacevo primo di sensi e qualcuno aveva pietosamente ucciso il mio cavallo con un colpo alla tempia, ero stato portato dal dottor Archer ed egli, dichiarando che il mio cervello era leso, mi aveva internato nella sua clinica privata per sottopormi a cure strane.... buone, forse, per alienati mentali. Finalmente, aveva deciso che ero guarito e io, che sapevo che il mio cervello era stato sempre a posto come il suo, se non addirittura di più, pagai la mia lezione, come la chiamava lui scherzosamente, e me ne andai. Sorridendo gli dissi che mi sarei vendicato con lui per quel suo errore, ed egli rise di cuore e mi disse di andarlo a trovare ogni tanto. Mantenni la promessa, sperando che si presentasse un'occasione per dargli quello che si meritava, ma l'occasione non arrivava, ed io gli dissi che avrei atteso. Fortunatamente la caduta da cavallo non aveva avuto conseguenze letali, ma, al contrario, aveva mutato il mio carattere in meglio. Mi ero trasformato dal giovane fannullone di città che ero stato in un uomo attivo, forte, moderato, e soprattutto, più di qualsiasi altra cosa, ambizioso. Avevo un'unica preoccupazione: ridevo del mio nervosismo che però mi angosciava. Durante la convalescenza avevo comperato e letto per la prima volta The King in Yellow (Il re in giallo). Ricordo che alla fine del primo atto decisi che era meglio smettere di leggere. Mi alzai e lanciai il libro nel caminetto; il volume colpì la grata e cadde in mezzo al fuoco. Se non avessi letto per caso le prime parole del secondo atto mai avrei ripreso a leggerlo. Lesto mi chinai per raccoglierlo e i miei occhi rimasero inchiodati sulla pagina aperta, e con un grido di terrore — o forse si trattava di un grido di gioia così travolgente da farmi soffrire in tutto il corpo — strappai quel libro alle fiamme e mi rifugiai tremante nella camera da letto dove lo lessi diverse volte e piansi e risi e tremai di un orrore che talvolta mi assale ancora.
Questa è la mia preoccupazione: non posso scordare Carcosa, dove il cielo è pieno di stelle nere; dove le ombre dei pensieri degli uomini, di pomeriggio, si allungano quando i soli gemelli sprofondano nel Lago di Hali; e poi resterà per sempre impresso nella mia mente il ricordo della Maschera Pallida. Prego Iddio che maledica lo scrittore come lo scrittore ha maledetto il mondo con questa meravigliosa, splendida creatura, terribile per la sua semplicità, irresistibile per la sua verità: un mondo che ora trema davanti al Re in Giallo. Quando il governo francese ordinò il sequestro delle copie della traduzione appena giunte a Parigi, ovviamente a Londra vollero subito leggere quell'opera. È noto che il libro si diffuse come una malattia infettiva, di città in città, di continente in continente, messo al bando in un luogo, confiscato in un altro, denunciato dalla stampa e dal clero, censurato anche dai letterati più all'avanguardia. Non venivano violati principi particolari in quelle malefiche pagine, né veniva promulgata una dottrina, oppure oltraggiata una convinzione. Esso non poteva venire giudicato in base a nessun metro comune, eppure, nonostante venisse riconosciuto che The King in Yellow era un'opera d'arte, tutti pensavano che la natura umana non fosse in grado di sopportare parole che, come quelle, contenessero l'essenza del più puro veleno, né potesse da esse trarre beneficio. Proprio la banalità e l'innocenza del primo atto contribuivano a rafforzare il nefando effetto dei colpi a seguire. Era, ricordo, il 13 aprile 1920, quando venne istituita la prima Camera Letale di Stato sul lato sud di Washington Square, tra Wooster Street e South Fifth Avenue. Tutto l'isolato, che inizialmente era costituito da un sacco di case vecchie e cadenti, adibite a caffè e ristoranti per stranieri, era stato acquistato dal governo nell'inverno del 1898. I caffè e ristoranti francesi e italiani erano stati demoliti; l'intero isolato era stato circondato da una ringhiera di ferro dorato e trasformato in un delizioso giardino con prato, fiori e fontane. In mezzo al giardino spiccava un piccolo edificio bianco di stile rigidamente classico, circondato da aiuole e cespugli. Sei colonne ioniche sostenevano il tetto e l'unica porta era di bronzo. Davanti alla porta c'era uno splendido gruppo statuario di marmo, Le Parche, opera di un giovane scultore americano, Boris Yvain, morto a Parigi alla tenera età di ventitré anni. La cerimonia inaugurale era in atto quando attraversai University Place e giunsi alla piazza. Mi facevo strada tra la silenziosa folla di spettatori, ma venni bloccato in Fourth Street da un cordone di poliziotti. Un reggimento di Lancieri degli Stati Uniti era disposto in modo da formare un quadrato
al centro del quale si trovava la Camera Letale. Su una tribuna rialzata di fronte a Washington Park c'era il governatore di New York, e dietro di lui: il sindaco di New York e Brooklyn; l'Ispettore Generale della Polizìa; il comandante delle Forze di Stato; il Colonnello Livingston consulente militare del Presidente degli Stati Uniti; il Generale Blount di stanza a Governor's Island; il Maggior Generale Hamilton a capo della guarnigione di New York e Brooklyn: l'Ammiraglio Buffby della flotta sul North River; Lanceford, il primario del reparto di chirurgia; lo staff del National Free Hospital; i senatori di New York, Wyse e Franklin; il Commissario per i Lavori Pubblici. La tribuna era circondata da uno squadrone di Ussari della Guardia Nazionale. Il governatore stava terminando la sua risposta al breve discorso del primario chirurgo. Disse: «Le leggi che proibivano il suicidio e punivano qualsiasi tentativo di autodistruzione sono state abrogate. Il governo ha ritenuto opportuno riconoscere all'uomo il diritto di porre fine a un'esistenza che gli sia divenuta intollerabile a causa di sofferenze fisiche o disperazione. Si ritiene che la comunità trarrà beneficio dall'eliminazione di persone di questo genere. In seguito all'approvazione della legge il numero di suicidi negli Stati Uniti non è aumentato. Ora che il governo ha deciso di istituire una Camera Letale in ogni città, paese e villaggio, resta ancora da stabilire se quella classe di creature umane depresse in cui cadono quotidianamente nuove vittime di autodistruzione saprà beneficiare dal sollievo che le viene in questo modo offerto.» Fece una breve pausa e si voltò verso la Camera Letale. Nelle strade regnava un silenzio di tomba. «Qui» proseguì «una morte indolore attende chi non è più in grado di sopportare i dispiaceri della vita. Se egli desidera la morte, che la cerchi qui.» A questo punto, si rivolse verso il consulente militare del Presidente dicendo: «Dichiaro ufficialmente aperta la Camera Letale» e ancora, verso il folto pubblico, con voce chiara e sonora: «Cittadini di New York e degli Stati Uniti d'America, attraverso di me il governo dichiara aperta questa Camera Letale.» Il silenzio solenne venne interrotto da un aspro comando, lo squadrone di Ussari sfilò dietro alla carrozza del governatore, i Lancieri fecero una conversione e si misero in formazione lungo Fifth Avenue per aspettare il comandante di guarnigione, e i poliziotti a cavallo li seguirono. Io abbandonai la folla per guardare a bocca aperta la marmorea e bianca Camera Letale, e, attraversata South Fifth Avenue, costeggiai il lato ovest di quella strada fino a giungere in Bleecker Street. Quindi svoltai a destra e mi fer-
mai davanti a un negozietto trasandato sulla cui porta era affissa un'insegna: ARMATOLO HAWBERK. Sbirciai attraverso la porta e vidi Hawberk indaffarato nell'angusto retrobottega. Nel medesimo istante anch'egli levò lo sguardo e, scorgendomi, gridò con la sua voce profonda e affettuosa: «Entrate, signor Castaigne!» Constance, sua figlia, si alzò e mi venne incontro appena varcai la soglia, ma dal deluso rossore che si dipinse sulle sue guance capii che lei aveva creduto si trattasse di un altro Castaigne, di mio cugino Louis. Sorrisi per il suo imbarazzo e le feci i complimenti per il gonfalone che ricamava prendendo spunto da un'immagine a colori che aveva davanti a sé. Il vecchio Hawberk stava ribattendo i gambali rovinati di un'antica armatura, e il tin! tin! tin! del suo martelletto era una musica piacevole in quella bizzarra bottega. Egli lasciò cadere il martello e per un attimo usò una minuscola chiave. Il lieve rumore delle maglie metalliche mi procurava un senso di piacere. Mi piaceva il suono dell'acciaio contro l'acciaio, il caldo cozzo del mazzuolo sui cosciali e il tintinnio dell'armatura a maglia. Solo per questo andavo a trovare Hawberk. Non mi era mai interessato come persona, e neanche Constance, a parte il fatto che era innamorata di Louis. Questo mi faceva pensare, e a volte addirittura mi teneva sveglio di notte. Ma in cuor mio sapevo che tutto si sarebbe risolto e che avrei organizzato il loro futuro come pure quello del mio caro dottore, John Archer. Però non mi sarei mai dato la pena di andarli a trovare proprio in quel momento, se non fosse stato per ascoltare la musica prodotta dal martello che, come dicevo, trovavo estremamente affascinante. Stavo lì seduto per ore e ore ad ascoltare, e quando un raggio di luce colpiva per caso l'acciaio lavorato il godimento mi era quasi insopportabile. Tenevo gli occhi sbarrati, con le pupille dilatate per un senso di piacere che mi tendeva tutti i nervi quasi fino a spezzarli, finché qualche movimento del vecchio armaiolo interrompeva il raggio di sole; allora, sempre in preda alla mia estasi segreta, mi appoggiavo allo schienale e ascoltavo lo strofinio della spazzola d'acciaio con la quale egli soleva scrostare la ruggine. Constance, che lavorava con il tombolo appoggiato in grembo, di quando in quando si fermava per osservare più attentamente il disegno che riproduceva un gonfalone esposto al Metropolitan Museum. «Per chi è?» chiesi all'armaiolo indicando il gambale che stava ripulendo. Hawberk spiegò che si occupava, oltre che delle preziose armature del Metropolitan Museum di cui era il responsabile, anche di diverse collezio-
ni di dilettanti facoltosi. Quello era il gambale mancante di una famosa armatura trovato da un suo cliente in un piccolo negozietto nel Quai d'Orsay, a Parigi. Con quello, ripulito e risistemato, l'armatura era completa. L'armaiolo posò il martello e mi lesse la storia dell'armatura... una storia che era stata ricostruita, a partire dal 1450, attraverso tutti i proprietari fino a quando venne acquisita da Thomas Stainbridge. Quando la favolosa collezione era stata venduta, l'armatura era stata acquistata da quel suo cliente: allora era iniziata la ricerca del gambale rinvenuto poi quasi per caso a Parigi. «E voi avete continuato a cercare con tanta costanza senza la benché minima garanzia che il gambale esistesse ancora?» chiesi. «Certo» rispose con fare distaccato. Era stato allora che per la prima volta avevo provato interesse per la persona di Hawberk. «Per voi aveva un qualche valore?» azzardai. «No» rispose ridendo. «Ritrovarlo è stata la mia ricompensa.» «Avete l'ambizione di diventare ricco?» chiesi sorridendo. «La mia unica ambizione è di essere il migliore armaiolo del mondo» rispose serio. Constance mi chiese se avessi partecipato alla cerimonia d'apertura della Camera Letale. Lei quella mattina aveva visto i cavalieri passare per Broadway e aveva espresso il desiderio di assistere all'inaugurazione, ma suo padre voleva che portasse a termine il gonfalone, per questo ci aveva rinunciato. «C'era vostro cugino, signor Castaigne?» chiese lei mentre le sue ciglia sottili vibravano in modo appena percettibile. «No» risposi io distrattamente. «Il reggimento di Louis sta effettuando manovre nella Contea di Westchester.» Mi alzai e raccolsi il cappello e il bastone. «Andate di nuovo di sopra da quel pazzo?» disse il vecchio Hawberk ridendo. Se solo Hawberk sapesse quanto odio la parola pazzo non la userebbe mai in mia presenza. Risveglia in me sensazioni che non desidero spiegare. In ogni caso gli risposi tranquillo: «Penso proprio che farò un salto a trovare il signor Wilde.» «Poveretto» disse Constance scuotendo il capo. «Dev'essere difficile vivere da solo per anni e anni, povero, invalido e quasi pazzo. Siete molto buono, signor Castaigne, ad andare a trovarlo così spesso.» «Secondo me è falso» disse Hawberk riprendendo a martellare. Stetti a
ascoltare il tintinnio dorato sulle piastre del gambale; quando ebbe finito dissi: «No, non è falso, e non è affatto pazzo. La sua mente è uno scrigno magico da cui si possono estrarre tesori per i quali voi e io daremo volentieri anni della nostra vita.» Hawberk rise. Io ripresi un po' spazientito: «Conosce la storia meglio di chiunque altro. Niente, neanche il particolare più insignificante, sfugge al suo occhio vigile e la sua memoria è così assoluta e precisa, che se si sapesse a New York dell'esistenza d'un simile uomo, la gente lo coprirebbe di onori.» «Stupidaggini» mormorò Hawberk cercando un ribattino che gli era caduto per terra. «È una stupidaggine» chiesi, riuscendo a celare i miei sentimenti «è una stupidaggine anche quando dice che le cubitiere e i cosciali dell'armatura smaltata comunemente nota con il nome di Blasone del Principe si trovano in mezzo a un ammasso di attrezzerie per teatro arrugginite, stufe rotte e cianfrusaglie di straccivendoli in un solaio di Pell Street?» A Hawberk sfuggì di mano il martello, egli lo raccolse e chiese con grande tranquillità come facessi a sapere che al Blasone del Principe mancavano le cubitiere e il cosciale sinistro. «Non lo sapevo prima che me lo dicesse il signor Wilde qualche giorno fa. Pare che si trovino nel solaio del numero 998 di Pell Street.» «Che stupidaggine!» esclamò l'armaiolo, ma io notai che gli tremava la mano sotto il grembiule di cuoio. «Ed è una stupidaggine» chiesi io gentilmente «...naturalmente è una stupidaggine ...che il signor Wilde parli continuamente del Marchese di Avonshire e di Donna Constance riferendosi a voi...» Non completai la frase perché Constance era balzata in piedi assolutamente terrorizzata. Hawberk mi guardava lisciandosi lentamente il grembiule di cuoio. «Questo è impossibile» affermò. «Il signor Wilde saprà molte cose, ma...» «Anche riguardo alle armi e al Blasone del Principe» dissi io intromettendomi con un sorriso sulle labbra. «Sì» continuò egli, lentamente. «Forse si intende anche di armi, ma si sbaglia sul conto del Marchese di Avonshire che, come ben sapete, uccise l'uomo che aveva diffamato sua moglie diversi anni fa e poi si recò in Australia dove non visse molto a lungo.» «Il signor Wilde si sbaglia» mormorò Constance. Aveva le labbra esangui, ma la sua voce era dolce e tranquilla.
«D'accordo, se proprio ci tenete, possiamo anche affermare che il signor Wilde si sbaglia. Come preferite...» dissi io, sorridendo. II Mi arrampicai su per le tre sgangherate rampe di scale — sulle quali così spesso ero salito — e bussai alla porticina che si trovava in fondo al corridoio. Il signor Wilde mi aprì e io entrai. Dopo avere chiuso la porta a doppia mandata e sistemato un pesante cassone davanti a essa, egli venne a sedersi accanto a me fissandomi con i suoi piccoli occhi chiari. Sul naso e sulle guance aveva una mezza dozzina di nuovi graffi, e i fili argentati che sorreggevano i suoi orecchi finti si erano spostati. Pensai che non lo avevo mai trovato così terribilmente affascinante. Il signor Wilde non aveva orecchi. Quelle finte, che ora stavano storte, costituivano il suo unico punto debole. Erano fatti di cera, colorati di rosa pallido, mentre il resto della sua faccia era piuttosto giallognolo. Avrebbe fatto meglio a concedersi il lusso di una protesi per la mano sinistra, completamente priva di dita, ma la cosa non sembrava disturbarlo più di tanto ed egli si accontentava degli orecchi di cera. Era molto basso, appena più alto di un ragazzino di dieci anni, ma aveva le braccia molto ben sviluppate, e le sue coscie erano grosse come quelle di un atleta. Eppure il particolare più notevole del signor Wilde era la testa. Stupiva il fatto che un uomo tanto intelligente e dotto potesse avere una testa così piatta eppure appuntita, come molte di quelle persone infelici che vengono rinchiuse nei manicomi. Alcuni dicevano che fosse matto, ma io lo sapevo savio almeno quanto me. Non nego che fosse eccentrico: la sua mania di tenere quella gatta e di stuzzicarla fino a quando gli balzava sulla faccia come un demonio era certamente bizzarra. Non ho mai capito perché tenesse quella bestia né quale piacere provasse nel rinchiudersi nella stanza con quell'animale scontroso e maligno. Ricordo che una volta alzai lo sguardo dal manoscritto che stavo esaminando alla luce di alcune candele di sego e vidi il signor Wilde acquattato sulla poltrona, immobile, con gli occhi infuocati per l'eccitazione mentre la gatta, abbandonato il suo giaciglio davanti alla stufa, strisciava furtivamente verso di lui. Prima che potessi muovermi lei si appiattì sul pavimento, si mise a fremere, e gli saltò agli occhi. Urlando e spumeggiando si erano rotolati per terra graffiando ed artigliando, fino a quando la gatta aveva lanciato un grido ed era corsa a rifugiarsi sotto la credenza e il
signor Wilde, aveva continuato a contrarre e curvare ritmicamente le membra con la schiena a terra, come un ragno che stesse per morire. È innegabile, era proprio eccentrico. Il signor Wilde arrampicò sulla sua poltrona e, dopo avere osservato la mia faccia, prese un libro mastro tutto sgualcito e pieno di orecchie e lo aprì. «Henry B. Matthews» lesse. «Contabile per la Whysot Whysot & Company, commercianti di ornamenti per chiese. Venuto giorno 3 aprile. Reputazione guastata all'ippodromo. Noto truffatore. Aggiustare reputazione entro 1 agosto. Acconto: 5 dollari.» Voltò la pagina e percorse le colonne fitte fitte con la mano priva di dita. «P. Greene Dusenberry, pastore protestante, Fairbeach, New Jersey. Reputazione guastata nella Bowery. Aggiustare prima possibile. Acconto: 100 dollari.» Tossicchiò e aggiunse: «Venuto giorno 6 aprile.» «Dunque non avete bisogno di denaro, signor Wilde» dissi. «Sentite qui» disse tossendo di nuovo. «Signora C. Hamilton Chester, di Chester Park, New York City, venuta giorno 7 aprile. Reputazione guastata a Dieppe, Francia. Aggiustare entro 1 ottobre. Acconto 500 dollari. Nota: Hamilton Chester, Capitano della nave della Marina Statunitense U.S.S. Avalanche, ritorno in patria, lasciando la flottiglia dei Mari del Sud, previsto per il giorno 1 ottobre.» «Bene» dissi io «il mestiere di Aggiustareputazioni è proficuo.» I suoi occhi stinti cercarono i miei. «Volevo solo dimostrare che avevo ragione. Voi affermavate che era impossibile fare carriera come Aggiustareputazioni; che anche se in alcuni casi avrei avuto successo i costi sarebbero stati più alti dei guadagni. Attualmente ho al mio servizio cinquecento uomini, che sono pagati poco, ma svolgono il proprio lavoro con un entusiasmo che forse deriva dalla paura. Questi uomini sono in tutti gli strati sociali; alcuni di essi sono addirittura colonne portanti dei più esclusivi templi della società, altri sono l'orgoglio del mondo finanziario, altri ancora esercitano un indiscusso potere sulle persone d'ingegno. Scelgo a piacere i miei collaboratori tra quelli che rispondono ai miei annunci. È abbastanza facile, tanto sono tutti vigliacchi. Potrei triplicarli nel tempo di venti giorni, se volessi. Quindi vedete che io ho al mio servizio quelli che hanno in mano la reputazione dei propri concittadini.» «Potrebbero rivoltarsi contro di voi» azzardai io. Mister Wilde si grattò gli orecchi che non aveva con il pollice e sistemò quelli di cera. «Non credo» borbottò pensoso. «Solo molto raramente sono
costretto a usare la frusta, e comunque quando la uso basta una volta sola. E poi, sono contenti dei compensi.» «Che cosa intendete per usare la frusta?» Per un attimo fece una smorfia orribile, i suoi occhi si erano ridotti a scintille verdi. «Li faccio venire a parlare con me» disse piano. Un colpo alla porta lo interruppe e il suo volto assunse l'aspetto affabile di sempre. «Chi è?» chiese. «Il signor Steylette» fu la risposta. «Venite domani» rispose il signor Wilde. «Non è possibile» iniziò a dire l'altro, ma fu azzittito da una specie di latrato di Wilde. «Venite domani» ripeté. Sentimmo i passi che si allontanavano dalla porta e svoltavano l'angolo delle scale. «Chi era?» chiesi. «Arnold Steylette, proprietario e redattore capo del più grande quotidiano di New York.» Mister Wilde tamburellava sul libro mastro con la mano priva di dita. Aggiunse: «Lo pago molto poco, ma crede di farci un affare.» «Arnold Steylette!» ripetei incredulo. «Sì» disse il signor Wilde tossicchiando soddisfatto. La gatta, che era entrata nella stanza mentre stava parlando, esitò, lo guardò e soffiò. Egli scese dalla poltrona e si acquattò per terra, prese tra le braccia la gatta e si mise ad accarezzarla. Questa cessò di soffiare e prese immediatamente a fare le fusa, pareva che la sua soddisfazione aumentasse man mano egli la accarezzava. «Dove sono gli appunti?» chiesi. Il signor Wilde m'indicò il tavolo, e per la centesima volta presi in mano quel manoscritto intitolato: La dinastia imperiale americana. Una per una studiai quelle pagine consunte solo perché io le avevo sfogliate tante volte e, nonostante le conoscessi quasi a memoria, cominciavo sempre dall'inizio: Quando a Carcosa le Iadi, Castore e Aldebaran..., fino a Castaigne, Louis de Calvados, nato il 19 dicembre 1877. Lessi con enorme attenzione, fermandomi a ripetere alcuni brani a voce alta, soffermandomi in particolare su: Hildred de Calvados, unico figlio di Hildred Castaigne e Edythe Landes Castaigne, primo nella successione eccetera
eccetera. Quando ebbi finito il signor Wilde annuì e tossì. «A proposito del vostro legittimo diritto» disse «come se la cavano Constance e Louis?» «Lei lo ama» risposi io semplicemente. La gatta che era sulle ginocchia si voltò di scatto e gli graffiò un occhio; egli la scaraventò lontano e si arrampicò sulla seggiola di fronte a me. «E il dottor Archer! Ma quella è una faccenda che potrete sistemare quando vorrete» aggiunse. «Sì» dissi io. «Il dottor Archer può attendere, ma sarebbe ora che io vedessi mio cugino Louis.» «È ora» confermò il signor Wilde. Prelevò quindi dal tavolo un altro libro mastro e si mise a scorrere velocemente le pagine. «Ora siamo in contatto con diecimila uomini» bofonchiò. «Durante le prime ventotto ore potremo contare su centomila, e in quarantott'ore lo stato insorgerà en masse. Allo Stato seguirà il Paese, e quella parte che non lo farà, intendo la California e il Nordovest, si pentirà di essere stata popolata. A loro non invierò l'Insegna Gialla.» Il sangue mi salì alla testa, ma risposi soltanto: «Scopa nuova scopa bene.» «Le ambizioni di Cesare e di Napoleone impallidiscono davanti a quella che non si dà pace prima d'impadronirsi delle menti di tutti gli uomini per tenere sotto il proprio dominio anche i pensieri che non sono ancora stati formulati» disse Wilde. «Vi riferite al Re in Giallo» borbottai tremando. «Quello è un re che ha avuto come sudditi diversi Imperatori.» «Io sono contento di servirlo» risposi. Il signor Wilde si grattò gli orecchi con la mano priva di dita. «Forse Constance non lo ama» disse. Io stavo iniziando a rispondere quando il suono improvviso di una musica militare proveniente dalla strada coprì la mia voce. Il ventesimo reggimento dei Dragoni, che era stato la guarnigione di Mount St. Vincent dopo le manovre nella Contea di Westchester stava raggiungendo le nuove caserme di East Washington Square. Era il reggimento di mio cugino. Si trattava di un bel gruppo di soldati con giacche azzurre aderenti, vivaci colbacchi, e calzoni bianchi per cavalcare con doppie strisce gialle: sembrava che avessero le divise dipinte addosso. Alternatamente gli squadroni erano armati di lance dalle cui punte metalliche sventolavano pennoni gialli e
bianchi. Passò la banda, che suonava la marcia del reggimento, seguivano il colonnello e il suo staff, i loro destrieri che si ammassavano e scalpitavano e li facevano muovere all'unisono mentre i gagliardetti garrivano al vento. I soldati di cavalleria, che cavalcavano secondo lo splendido stile inglese, erano abbronzati dopo l'incruenta campagna tra le fattorie nella Contea di Westchester e io mi deliziavo al suono delle loro sciabole che battevano contro le staffe e al tintinnio degli speroni contro le carabine. Vidi Louis che cavalcava col suo squadrone. Era l'ufficiale più bello che avessi mai visto. Anche il signor Wilde che stava in piedi su una sedia vicino alla finestra lo vide, ma non disse nulla. Louis si girò e guardò attentamente il negozio di Hawberk quando vi passò davanti; scorsi un rossore sulle sue guance abbronzate. Probabilmente Constance era alla finestra. Quando gli ultimi soldati furono passati con quel rumore di armature e gli ultimi pennoni svanirono nella South Fifth Avenue il signor Wilde scese dalla sedia e spostò il cassone dalla porta. «Sì» disse «è ora che parliate con vostro cugino Louis.» Aprì la porta e io, preso il cappello ed il bastone, uscii nel corridoio. Era buio per le scale. Mi muovevo a tentoni e calpestai qualcosa di morbido che emise un grido e sputò: tentai di infliggere un colpo mortale a quella gatta, ma il mio bastone da passeggio si sbriciolò in mille pezzi contro la ringhiera e la bestia tornò di corsa nella stanza di mister Wilde. Passando davanti alla porta di Hawberk vidi che stava ancora armeggiando con l'armatura, ma non mi fermai e, uscito per strada in Bleecker Street, la percorsi tutta fino a Wooster Street, costeggiai i giardini della Camera Letale, e attraversai Washington Park per recarmi direttamente a casa, nel Benedick. Qui pranzai tranquillamente, lessi l'Herald e il Meteor, e infine mi misi a comporre la combinazione della cassaforte di acciaio che si trovava nella mia stanza. I tre minuti e tre quarti che tocca attendere prima che si apra la serratura a tempo sono per me momenti impagabili. Dall'attimo in cui compongo la combinazione al momento in cui afferro le maniglie e apro con slancio la porta di acciaio massiccio vivo in un'estasi di attesa. Quei momenti devono essere come quando ci si trova in Paradiso. So che cosa troverò allo scadere del tempo. So che la robusta cassaforte serve a me, unicamente a me, per questo lo squisito piacere dell'attesa praticamente non aumenta neanche quando la cassaforte si apre e io prelevo dal suo cuscino di velluto un diadema di oro puro tutto scintillante di brillanti. Compio questa operazione ogni giorno, eppure il piacere di aspettare e infine di potere toccare ancora una volta il diadema sembra addirittura
aumentare col passare dei giorni. È un diadema degno di un Re tra i re, di un Imperatore tra gli imperatori. Forse il Re in Giallo lo avrebbe disprezzato, ma il suo servitore reale lo avrebbe portato. Lo tenni tra le braccia fino a quando l'allarme della cassaforte si mise a suonare, quindi, delicatamente e con orgoglio, lo riposi e chiusi le porte di acciaio. Tornai lentamente nel mio studio da cui si vede Washington Square e mi appoggiai al davanzale. Il sole pomeridiano entrava dalle mie finestre e una lieve brezza faceva ondeggiare i rami degli olmi e degli aceri del parco che ora erano coperti di gemme e di tenere foglioline. Uno stormo di piccioni svolazzava attorno al campanile della Memorial Church; talvolta si posava sul tetto viola coperto di tegole, talvolta calava sulla fontana del loto di fronte all'arco di marmo. I giardinieri erano indaffarati nelle aiuole attorno alla fontana e la terra appena lavorata aveva un profumo dolce e aromatico. Un tagliaerba, tirato da un grasso cavallo bianco, passava sul tappeto verde, e i carretti per annaffiare facevano cadere una pioggia d'acqua vaporizzata sulle stradine asfaltate. Attorno alla statua di Peter Stuyvesant, che nel 1897 era stata sostituita a una bruttura che apparentemente raffigurava Garibaldi, i bambini giocavano sotto il sole primaverile e le giovani nutrici spingevano complicate carrozzine con evidente disinteresse nei confronti dei piccoli occupanti dai volti pallidi, cosa questa che forse si poteva spiegare con la presenza di una mezza dozzina di eleganti Dragoni che oziavano pigramente sulle panchine. Attraverso gli alberi il Memorial Arch pareva argentato per la luce del sole, e oltre all'estremità orientale della piazza, le caserme di pietra grigia dei Dragoni e le stalle bianche dell'artiglieria erano in piena attività. Osservai la Camera Letale all'angolo della piazza di fronte. Un paio di curiosi si trattenevano ancora vicino alla ringhiera di ferro dorato, ma all'interno del recinto i sentieri erano deserti. Guardavo le fontane luccicanti; i passerotti avevano già scoperto di potervi fare il bagno e le vasche erano piene di quegli uccelletti polverosi. Due o tre pavoni bianchi becchettavano nel prato e un piccione grigiastro stava talmente immobile sul braccio di una delle Parche che pareva parte della scultura. Mentre mi giravo distrattamente il mio sguardo fu attratto da un lieve movimento in quel gruppetto di curiosi vicino all'ingresso. Un giovane era entrato e stava avanzando con passo nervoso sul sentiero di ghiaia che conduce alla porta di bronzo della Camera Letale. Egli si fermò per un attimo davanti alle Parche e, quando girò il capo verso quei tre volti misteriosi il piccione si alzò in volo dal suo sostegno scolpito, volteggiò nell'aria
per un momento e quindi scomparve verso est. Il giovane si coprì la faccia con le mani. Poi, con frenesia indescrivibile, si precipitò su per le scale di marmo: la porta di bronzo si chiuse alle sue spalle. Mezz'ora più tardi gli oziosi se ne andarono e il piccione tornò al suo posto tra le braccia delle Parche. Mi misi il cappello e uscii nel parco per fare quattro passi prima di cena. Quando attraversai il viale centrale venni raggiunto da un gruppo di ufficiali. Uno di essi gridò: «Ciao, Hildred» e tornò indietro per stringermi la mano. Era mio cugino Louis che rimase lì a tamburellare sui suoi speroni con il frustino. «Sono appena tornato da Westchester» disse. «Facevamo una vita bucolica: latte e ricotta e mungitrici con i loro cappellini, sai di quelle che ti rispondono "ooh..." e "non credo" quando dici loro che sono carine. Non vedo l'ora di farmi una bella mangiata da Delmonico. Qualche novità?» «No» risposi io con fare gioviale. «Ho visto il tuo reggimento che rientrava stamane.» «Davvero? Io però non ti ho visto dov'eri?» «Affacciato alla finestra del signor Wilde.» «Al diavolo!» esclamò spazientito «quello è matto da legare! Non capisco come tu possa...» Vide che mi ero risentito e mi chiese subito scusa. «Davvero, vecchio mio» disse «non voglio sparlare di un uomo che gode della tua stima, ma proprio non riesco a capire che cosa tu possa avere in comune con Wilde. Non è di buona famiglia, per usare un eufemismo; è orribilmente deforme; ha una testa come un pazzo criminale. Tu stesso sai che è stato in manicomio...» «Anch'io ci sono stato» dissi in tono tranquillo interrompendolo. Louis mi guardò sorpreso e confuso per un istante, ma si riprese subito e dandomi un'affettuosa pacca sulla spalla disse: «Tu sei stato curato del tutto» ma lo interruppi di nuovo. «Immagino che tu intenda dire che è stato semplicemente riconosciuto che non sono pazzo né mai lo sono stato.» «Ma sì, certo, è proprio quello che volevo dire» e rise. Non mi piaceva il suo riso perché sapevo che era forzato, ma annuii allegramente e gli chiesi dove stesse andando. Louis guardò i suoi colleghi ufficiali che ormai avevano quasi raggiunto Broadway. «Stavamo andando da Brunswick per un cocktail» disse Louis «ma mi farebbe comodo un pretesto per lasciare i miei compagni e andare a trovare Hawberk. Vieni, tu
sarai il mio pretesto.» Trovammo il vecchio Hawberk vestito elegantemente con un leggero abito primaverile, che prendeva il fresco in piedi sulla porta del suo negozio. «Pensavo di portare Constance a fare quattro passi prima di cena» disse Hawberk in risposta alla valanga di domande che Louis gli fece. «Volevamo passeggiare sulla terrazza del parco lungo il North River.» In quel momento apparve Constance e impallidì e poi arrossi, subito dopo, quando Louis si chinò a baciare le sue piccole dita avvolte nei guanti. Io tentai di dileguarmi inventando un appuntamento nella zona nord della città, ma Louis e Constance non ne vollero sapere e mi resi conto che dovevo restare per distrarre il vecchio Hawberk. In fondo era bene che io tenessi d'occhio Louis, pensai, e quando chiamarono una carrozza da Spring Street li seguii e mi sedetti accanto all'armaiolo. Gli splendidi parchi e le terrazze di granito con la vista sui moli lungo il North River, che vennero iniziati nel 1910 e portati a termine nell'autunno del 1917, erano diventati i passeggi più frequentati di tutta la metropoli. Essi andavano dalla batteria alla centonovantesima strada e offrivano una bella vista sul nobile fiume, sulla costa del New Jersey e sugli Highlands dall'altro lato. Caffè e ristoranti sorgevano qua e là tra gli alberi, e due volte la settimana le bande militari della guarnigione suonavano nei chioschi lungo i parapetti. Ci sedemmo al sole, sulla panchina ai piedi della statua equestre del Generale Sheridan. Constance inclinò l'ombrellino per proteggersi gli occhi e iniziò con Louis una serrata conversazione a bassa voce che nessun altro avrebbe potuto udire. Il vecchio Hawberk, appoggiato al suo bastone da passeggio con l'impugnatura d'avorio, accese un eccellente sigaro offrendone uno uguale anche a me, ma io rifiutai educatamente e sorrisi senza motivo. Il sole era basso sul bosco della Staten Island e la baia splendeva nei riflessi dorati. Brigantini, golette, panfili, traghetti impacciati carichi di gente, imbarcazioni per il trasporto dei treni carichi di vetture marroni, vagoni merci blu e bianchi, bellissimi piroscafi, carrette declassé, navi cabotiere, draghe, chiatte, e dappertutto, in tutta la baia, piccoli rimorchiatori insolenti che sbuffavano e fischiavano in modo indiscreto; tutte queste imbarcazioni affollavano le acque a perdita d'occhio. Un tranquillo contrasto con le frettolose imbarcazioni a vela e a vapore era offerto da una silenziosa flotta di navi da guerra bianche immobili alla fonda in mezzo alla baia.
L'allegra risata di Constance mi svegliò dai miei sogni. «Ma voi, che cosa state osservando?» chiese. «Oh, nulla... la flotta» dissi sorridendo. Quindi Louis ci disse i nomi delle varie navi indicandole una appresso all'altra secondo la posizione che avevano rispetto al Forte Rosso sulla Governor's Island. «Quella piccola cosa a forma di sigaro è un cacciatorpediniere» spiegò, «ve ne sono altri quattro vicini. Si chiamano Tarpon, Falcon, Sea Fox e Octopus. Le cannoniere un po' più in là si chiamano Princeton, Champlain, Still Water e Erie. Vicino ci sono gli incrociatori Farragut e Los Angeles, e ancora più in là le navi da guerra California e Dakota e la Washington che è l'ammiraglia. Quei due pezzi di metallo tozzi ancorati al largo di Castle William sono gli intercettatori a due torrette Terrible e Magnificent; dietro c'è l'ariete Osceola.» Constance lo fissava con i suoi begli occhi pieni di approvazione. «Quante cose sai, per essere un soldato!» disse, e tutti ci unimmo alla risata che seguì. Louis si alzò facendoci un cenno con il capo e offrendo il braccio a Constance. S'incamminarono lungo l'argine del fiume. Hawberk li guardò per un attimo e quindi si voltò verso di me. «Il signor Wilde aveva ragione» disse. «Ho trovato le cubitiere e il cosciale che mancavano al Blasone del Principe in una scalcinata soffitta in Pell Street.» «Al 998?» chiesi sorridendo. «Sì.» «Il signor Wilde è un uomo estremamente intelligente» dissi. «Voglio dargli un riconoscimento per questa importantissima scoperta» continuò Hawberk. «Desidero che si sappia che egli ha il diritto di essere ricordato per questo.» «Non ve ne sarebbe grato» risposi io seccamente. «Vi prego anzi di non parlarne ad anima viva.» «Ma sapete quale valore ha questa scoperta?» disse Hawberk. «No, cinquanta dollari forse.» «È stata valutata sui cinquecento dollari, ma il proprietario del Blasone del Principe pagherà anche duemila dollari alla persona che gli permetterà di completare quell'armatura. Anche questo riconoscimento spetta a Wilde.» «Non lo vuole! Lo rifiuterà!» dissi io con rabbia. «Che cosa ne sapete
voi del signor Wilde? Non ha bisogno di denaro. È già oppure sarà ricco più di qualsiasi uomo sulla terra, a parte me. Che cosa ci importerà del denaro quando... che cosa ce ne faremo, lui e io, quando, quando...» «Quando che cosa?» chiesa Hawberk stupefatto. «Lo vedrete» risposi io assumendo nuovamente il mio atteggiamento circospetto. Egli mi guardò da vicino più o meno come soleva fare il dottor Archer; da ciò capii che stava pensando che io fossi uno squilibrato. Forse fu un bene per lui non avere usato proprio in quel momento la parola pazzo. «No» risposi io alla sua domanda inespressa «non soffro di disturbi mentali; la mia mente è sana come quella del signor Wilde. Per il momento non desidero spiegarvi che cos'ho per le mani. Sappiate comunque che si tratta di un investimento che mi frutterà più che semplice oro, argento e pietre preziose. Garantirà felicità e prosperità per tutto un continente... anzi, per un emisfero!» «Oh!» esclamò Hawberk. «E in seguito» proseguii a voce più bassa «rappresenterà la felicità per il mondo intero.» «E quindi anche la felicità e prosperità vostra e del signor Wilde?» «Certamente» dissi e sorrisi. Però avrei avuto voglia di saltargli alla gola per il tono che aveva assunto. Hawberk mi guardò in silenzio per qualche tempo, poi disse molto dolcemente. «Perché non la smettete di leggere e studiare tutti quei libri, signor Castaigne, e vi fate invece qualche bella gita in montagna? Un tempo vi piaceva pescare. Ci sono ancora splendide trote nei Rangleys.» «Non mi piace più la pesca» risposi senza un'ombra di inquietitudine nella voce. «Un tempo vi piacevano tante cose» continuò lui. «...l'atletica, la vela, la caccia, l'equitazione...» «Non ho più avuto voglia di cavalcare dopo essere caduto da cavallo» dissi piano. «Ah sì, certo, siete caduto da cavallo» ripeté Hawberk distogliendo lo sguardo. Ritenni che quella conversazione fosse già durata abbastanza, così cambiai argomento e ripresi a parlare del signor Wilde. Ma egli continuava a squadrarmi in modo estremamente offensivo. «Il signor Wilde» disse Hawberk, rimarcando il signor. «Sapete che cos'ha fatto questo pomeriggio? È sceso al pianterreno e ha inchiodato un
cartello sopra la porta di fronte alla mia con la seguente dicitura: Mister Wilde... tutto maiuscolo e a capo... Aggiustareputazioni... sempre maiuscolo e a capo... Terzo piano... maiuscolo e punto. Avete idea di che cosa possa essere un Aggiustareputazioni?» «Certo» risposi trattenendo la rabbia che avevo dentro. «Oh!» esclamò Hawberk sinceramente stupito. Louis e Constance si fermarono presso di noi e chiesero se volessimo unirci a loro. Hawberk guardò l'orologio. In quel momento dalla casamatta di Castle William uscì uno sbuffo di fumo e si udì il colpo di cannone della sera che rotolava sull'acqua e riecheggiava dagli Highlands. La bandiera scese correndo sull'asta; sui ponti bianchi delle navi da guerra suonavano le trombe; e dalla riva del New Jersey brillò la prima luce elettrica. Mentre tornavo verso il centro con Hawberk vidi che Constance stava dicendo a Louis qualcosa che non sentivo. Louis rispose: «Tesoro mio!» e di nuovo, camminando davanti a Hawberk quando attraversammo la piazza, lo sentii mormorare: «Amore mio» e «La mia cara Costanza.» Seppi così che si avvicinava il momento in cui avrei dovuto parlare seriamente con mio cugino Louis. III Un mattino all'inizio di maggio mi trovavo nella mia stanza davanti alla cassaforte di acciaio e stavo provando la corona d'oro tempestata di pietre preziose. I brillanti luccicavano mentre mi voltavo verso lo specchio e l'oro massiccio sembrava un'aureola attorno al mio capo. Ricordai l'urlo agonizzante di Camilla e le orribili parole che riecheggiavano per le tetre strade di Carcosa. Erano gli ultimi versi del primo atto, e io non osavo pensare a quello che seguiva, non osavo nemmeno sotto quel sole primaverile, lì, nella mia stanza, circondato da oggetti noti, rinfrancato dal frastuono proveniente dalla strada e dalle voci della servitù nel corridoio. Perché quelle parole velenose erano penetrate lentamente nel mio cuore come il sudore mortale cade sul sudario a goccia a goccia e ne viene assorbito. Tremando mi tolsi il diadema e mi asciugai la fronte, ma pensavo a Castore e alla mia giusta ambizione, e ricordavo il signor Wilde come lo avevo lasciato l'ultima volta, con il volto graffiato e sanguinante per colpa di quella gatta bianca diabolica, e poi... quello che aveva detto! L'allarme della cassaforte si mise a suonare; quel rumore penetrante mi fece capire che il tempo era scaduto; ma decisi di non farci caso, e mi posai nuovamente sul capo il
cerchietto luccicante guardandomi nello specchio con fare di sfida. Per qualche tempo rimasi assorto a osservare l'espressione mutevole nei miei occhi. Lo specchio rifletteva una faccia simile alla mia, ma più bianca e talmente magra che la riconoscevo appena. E per tutto il tempo ripetei a denti stretti: «È giunto il giorno! È giunto il giorno!» mentre l'allarme della cassaforte continuava a suonare e i brillanti luccicavano sulla mia fronte. Udii una porta che si apriva, ma non vi badai. Fu allora che nello specchio vidi due facce; solo quando un'altra faccia emerse sopra la mia spalla e altri due occhi incontrarono i miei mi voltai di scatto e afferrai un lungo coltello che si trovava sulla toeletta, e mio cugino balzò indietro pallidissimo gridando: «Hildred! Per amor del cielo!» Poi, mentre abbassavo la mano, disse: «Sono io, Louis, non mi riconosci?» Rimasi in silenzio. Non avrei potuto parlare per tutto l'oro del mondo. Louis mi si avvicinò con l'intenzione di togliermi di mano il coltello. «Che cos'è tutto questo?» chiese con voce gentile. «Stai male?» «No» risposi io, ma dubito che mi sentisse. «Coraggio, vecchio mio» esclamò. «Togliti quella corona di ottone e vieni nello studio. Vai forse a una festa in maschera? Che cos'è tutto questo scintillio di ori finti?» Ero contento che credesse che la corona fosse di ottone e pezzi di vetro, eppure questo non bastava a farmi provare maggiore simpatia per lui. Gli permisi di prendere il coltello; sapevo che era meglio assecondarlo. Egli lanciò in aria lo splendido diadema e, riafferrandolo, si volse verso di me sorridendo. «È tanto se vale cinquanta centesimi!» disse. «A che cosa serve?» Io non risposi, ma presi il cerchietto dalle sue mani e, ripostolo nella cassaforte, chiusi la massiccia porta di acciaio. Immediatamente l'allarme si spense e quel baccano infernale cessò. Louis mi osservava incuriosito, ma non sembrava essersi reso conto dell'improvviso arresto dell'allarme. A ogni modo definì biscottiera la cassaforte. Temendo che potesse tentare di scoprire la combinazione lo invitai nello studio. Louis si buttò sul divano e si mise a scacciare le mosche col suo eterno frustino da cavallo. Portava l'uniforme di servizio con la giacca con i galloni e un berretto elegante; notai che aveva gli stivali schizzati di fango rossiccio. «Dove sei stato?» chiesi. «A cavalcare sui fiumi di fango del New Jersey» fu la risposta. «Non ho ancora avuto il tempo di cambiarmi. Avevo fretta di vederti. Non avresti un bicchiere di qualcosa? Sono stanco morto; ho trascorso ventiquattr'ore
in sella.» Gli versai del brandy che tenevo tra i medicinali. Louis lo bevve con una smorfia. «Che schifo» esclamò. «Ti darò l'indirizzo di dove vendono del brandy degno di questo nome.» «Per me va bene questo» dissi noncurante. «Mi serve solo per fare le frizioni.» Mi guardò e scacciò un'altra mosca. «Senti, vecchio mio» iniziò. «Voglio darti un consiglio. Sono quattro anni che sei chiuso qui dentro come un gufo, non vai mai da nessuna parte, non fai moto, non fai altro che startene curvo su quei maledetti libri che tieni lì sulla mensola del camino.» Guardò i libri in fila sulle mensole. «Napoleone, Napoleone, Napoleone!» lesse. «Santo cielo, non hai altro che Napoleoni?» «Mi piacerebbe che fossero rilegati in oro» dissi io. «Ma aspetta, qui c'è anche un altro libro, Il Re in Giallo.» Lo guardai dritto negli occhi. «L'hai letto?» chiesi. «No, per fortuna! Non voglio certo diventare matto.» Vidi che si era pentito di quello che aveva detto nell'attimo stesso in cui aveva finito di dirlo. C'è una parola sola che odio più di pazzo, ed è matto. Ma mi trattenni e gli chiesi perché credeva che Il Re in Giallo fosse pericoloso. «Oh, non lo so» disse frettolosamente Louis. «Ricordo solo che aveva fatto scalpore e era stato denunciato dai pulpiti e dalla stampa. Credo che l'autore si sia sparato un colpo dopo avere partorito questa creatura mostruosa, non è così?» «Si dice che sia ancora vivo» risposi io. «Questo può darsi» bofonchiò. «Non sempre le pallottole riescono a fermare un nemico come quello.» «Il libro contiene grandi verità» dissi io. «Sì» rispose Louis. «Sono proprio quelle verità che fanno impazzire gli uomini e rovinano loro la vita. Non m'interessa che si tratti, come dicono, di una sublime espressione artistica. Scriverla è stato un crimine, e per quanto mi riguarda non leggerò mai quelle pagine.» «Sei venuto a dirmi questo?» chiesi. «No» disse «sono venuto per dirti che mi sposo.» Credo che per un attimo il mio cuore cessò di battere, ma tenni lo sguardo fisso sulla sua faccia. «Sì» continuò Louis ridendo felice. «Sposo la ragazza più dolce di que-
sto mondo.» «Constance Hawberk» dissi meccanicamente. «Come lo sai?» chiese sbigottito. «Non lo sapevo neanch'io fino a quella sera in aprile quando siamo andati a passeggiare sull'argine prima di cena.» «Quando vi sposate?» «Avevamo pensato a settembre, ma un'ora fa è giunto l'ordine di trasferimento del reggimento al presidio di San Francisco. Partiamo domani a mezzogiorno e domani ci sposiamo» disse. «Pensa, Hildred, domani sarò l'uomo più felice di questo splendido mondo perché Constance verrà con me.» Gli strinsi la mano per congratularmi; Louis l'afferrò e la strinse, da vecchio bonaccione che era ...che voleva dare a intendere di essere. «Mi daranno lo squadrone come regalo di nozze» continuò. «Il capitano Louis Castaigne e Signora... Eh, Hildred, cosa ne dici?» Poi mi disse dove si sarebbe svolta la cerimonia e chi vi avrebbe partecipato, e mi fece promettere che sarei andato e gli avrei fatto da testimone. Strinsi i denti e ascoltai il suo chiacchericcio infantile senza dare a vedere quello che provavo, ma... Ero quasi al limite della sopportazione... per questo quando si alzò di scatto e sbatacchiando gli speroni disse che doveva andare, io non feci nulla per trattenerlo. «Voglio chiederti solo un favore» dissi tranquillamente. «Sentiamo, ti do la mia parola» disse ridendo. «Vorrei parlare con te per un quarto d'ora stasera.» «Ma certo, se vuoi» disse un po' sorpreso. «Dove?» «In qualsiasi posto lì nel parco.» «A che ora, Hildred?» «Mezzanotte.» «Ma cosa diav...» disse, ma si trattenne e assentì ridendo. Lo guardai mentre scendeva le scale e correva via con la spada che gli batteva sulla gamba a ogni passo. Entrò in Bleecker Street: sapevo che sarebbe andato a trovare Constance. Gli detti dieci minuti per sparire, poi m'incamminai facendo il suo stesso percorso e portandomi appresso la corona e la tunica di seta su cui era ricamata l'Insegna Gialla. Quando svoltai in Bleecker Street ed entrai nella porta sopra la quale era appesa l'insegna con l'iscrizione: SIG. WILDE AGGIUSTAREPUTAZIONI
3° PIANO Vidi il vecchio Hawberk che si muoveva nella sua bottega e credetti di distinguere la voce di Constance nel salotto. Ma li evitai e corsi su per le scale traballanti fino alla casa del signor Wilde. Bussai ed entrai senza complimenti. Il signor Wilde era per terra e gemeva, aveva la faccia insanguinata e gli abiti a brandelli. Il tappeto era tutto macchiato di sangue, e anch'esso era stato strappato durante quello scontro che pareva essere avvenuto di recente. «È quella dannata gatta» disse smettendo di gemere e volgendo verso di me gli occhietti stinti; «mi è saltata addosso mentre dormivo. Credo che un giorno finirà per farmi fuori.» Era troppo; andai in cucina e presi un'accetta dalla dispensa, quindi mi misi a cercare quella bestia infernale per farla finita una volta per tutte. La mia ricerca fu vana. Dopo qualche tempo rinunciai e tornai dal signor Wilde che trovai accovacciato sulla sua poltrona vicino al tavolo. Si era lavato la faccia e cambiato. Aveva riempito di collodio i profondi graffi prodotti sul suo volto dagli artigli della gatta, e uno straccio copriva la ferita che aveva sul collo. Gli dissi che avrei ucciso la gatta appena mi fosse capitata a tiro; egli si limitò a scuotere il capo e rivolse la propria attenzione al libro mastro che aveva davanti a sé. Uno dopo l'altro lesse i nomi delle persone che erano state da lui per problemi di reputazione... e le somme di denaro che aveva raccolto erano fenomenali. «Ogni tanto dò un giro di vite» spiegò. «Un giorno o l'altro una di queste persone vi ucciderà» dissi. «Credete?» chiese strofinandosi gli orecchi monchi. Con lui era inutile discutere, quindi presi il manoscritto intitolato La dinastia imperiale americana; sarebbe stata l'ultima volta che lo facevo nello studio del signor Wilde. Lessi tremando e fremendo di piacere. Quando ebbi terminato, il signor Wilde prese il manoscritto e, girandosi verso il corridoio che collega il suo studio alla camera da letto chiamò a voce alta: «Vance!» Solo allora mi resi conto che c'era un uomo nascosto all'ombra. Ancora adesso non so spiegarmi il perché non lo avessi visto mentre cercavo la gatta. «Entra, Vance» esclamò il signor Wilde. L'uomo si alzò e venne verso di noi trascinando i piedi, non dimenticherò mai la faccia che scorsi quando il sole la illuminò. «Vance, questo è il signor Castaigne» disse Wilde. Prima che avesse fi-
nito di parlare l'uomo si prostrò davanti al tavolo piangendo e sospirando: «Oh, Dio! Oddio! Aiutami! Perdonami... Oh, signor Castaigne, tenete lontano quell'uomo. Non può essere vero! No! Voi siete diverso, salvatemi! Sono finito... ero in manicomio, e ora, quando tutto stava tornando a posto... quando avevo dimenticato il Re... il Re in Giallo... e... ma impazzirò di nuovo, impazzirò...» La sua voce si ridusse a un suono soffocato perché il signor Wilde gli si era avvicinato in silenzio e gli stringeva la gola con la mano destra. Quando Vance crollò a terra il signor Wilde si arrampicò di nuovo sulla sua poltrona e, strofinandosi gli orecchi monchi con quello che gli restava della mano sinistra si rivolse a me e mi chiese il libro mastro. Lo presi dal ripiano e glielo porsi. Mister Wilde lo aprì. Dopo avere cercato per un momento tra le pagine piene di quella nitidissima grafia egli tossicchiò compiaciuto indicando il nome Vance. «Vance» lesse ad alta voce «Osgood Oswald Vance.» Nel sentire il proprio nome l'uomo che si trovava per terra levò il capo e volse il viso sconvolto verso il signor Wilde. Aveva gli occhi iniettati di sangue e le labbra tumefatte. «Venuto il giorno 28 aprile» continuò Wilde. «Professione: cassiere alla Banca Nazionale di Seaforth; incarcerato a Sing Sing per falso, da qui trasferito al Manicomio Criminale. Graziato dal Governatore di New York e dimesso dal Manicomio il 19 gennaio 1918. Reputazione rovinata nella baia di Sheepshead. Si dice che spenda più di quanto possiede. Reputazione da aggiustare subito. Acconto: dollari 1500... Nota... Si è appropriato dell'equivalente di 30.000 dollari a partire dal 20 marzo 1919. Ottima famiglia e attuale posizione assicurata grazie a uno zio influente. Padre: presidente della Banca di Seaforth.» Guardai l'uomo sul pavimento. «Alzati, Vance» disse il signor Wilde con voce gentile. Vance si levò come se fosse ipnotizzato. «Ora lui farà quello che noi gli diremo» mi disse mister Wilde... e aperto il manoscritto lesse tutta la storia della Dinastia Imperiale Americana. Quindi con voce rassicurante ripassò i punti più importanti con Vance che sembrava pietrificato. I suoi occhi erano così vuoti e persi che pensai che fosse mezzo incretinito e lo dissi al signor Wilde il quale asserì che la cosa non aveva grande importanza. Con infinita pazienza spiegammo a Vance quale sarebbe stata la sua parte; dopo qualche tempo sembrò capire. Il signor Wilde illustrò il manoscritto servendosi di diversi volumi sull'Araldica per accreditare i risultati delle proprie ricerche. Mister Wilde parlò della fondazione della dinastia a Carcosa, dei laghi che
collegano Castore, Aldebaran e il mistero delle Iadi. Parlò di Cassilda e Camilla e sondò le torbide profondità di Demhe e il Lago di Hali. «I cenci sbrindellati del Re in Giallo devono nascondere Yhtill per l'eternità» borbottò, ma non credo che Vance lo udisse. Quindi, per gradi, condusse Vance lungo le diramazioni della famiglia Imperiale, a Uoht e Thale, da Naotalba al Fantasma della Verità e Aldones, e poi, accantonando il manoscritto e gli appunti, iniziò la splendida storia dell'Ultimo Re. L'osservavo affascinato ed eccitato. Egli levò il capo di scatto, le sue lunghe braccia si distesero in un meraviglioso gesto di orgoglio e potere, e i suoi occhi brillarono in profondità come due smeraldi. Vance ascoltava sbigottito. Quanto a me, quando il signor Wilde ebbe finalmente terminato e puntò il dito su di me esclamando: «Il Cugino del Re!» ero davvero in estasi. Trattenendomi con sforzi sovrumani illustrai a Vance perché io soltanto fossi degno della corona e mio cugino dovesse essere esiliato o morire. Gli feci capire che mio cugino non doveva sposarsi neanche dopo avere rinunciato a tutto, e che in nessun caso avrebbe dovuto sposare la figlia del Marchese di Avonshire e quindi coinvolgere l'Inghilterra. Gli mostrai una lista di mille nomi redatta dal signor Wilde; ogni persona di cui era presente il nome aveva ricevuto l'Insegna Gialla che nessun essere vivente osava ignorare. La Città, lo Stato, tutto il Paese erano pronti ad alzarsi e tremare davanti alla Maschera Pallida. Era giunta l'ora, la gente doveva conoscere il Figlio di Castore e il mondo intero doveva prostrarsi davanti alle Stelle Nere che splendono nel cielo di Carcosa. Vance si reggeva sul tavolo con la faccia coperta dalle mani. Il signor Wilde fece uno schizzo sul margine dello Herald di ieri con un mozzicone di matita. Era una piantina dell'appartamento di Hawberk. Quindi mise l'ordine per iscritto e vi affisse il sigillo e io, tremando come un paralitico, firmai il primo mandato di esecuzione con il mio nome: Hildred Rex. Il signor Wilde si mise carponi sul pavimento e, aperto l'armadio, prese una lunga scatola a base quadrata dal primo ripiano. La posò sul tavolo e l'aprì. Conteneva un coltello nuovo di zecca avvolto in carta velina; lo afferrai e lo porsi a Vance assieme all'ordine e alla pianta dell'appartamento di Hawberk. Allora il signor Wilde disse a Vance che poteva andarsene... e Vance andò, tremando come un reietto dei bassifondi. Restai seduto per qualche tempo a guardare la luce del giorno che tramontava straforando dietro il campanile quadrato della Judson Memorial
Church. Infine, presi il manoscritto, gli appunti e il cappello e m'incamminai verso la porta. Mister Wilde scrutava in silenzio. Sull'uscio mi voltai. I piccoli occhi del signor Wilde ancora mi stavano fissando. Dietro di lui, alla luce che spariva si andavano sostituendo le ombre della sera. Quindi chiusi la porta alle mie spalle e uscii nelle strade sempre più buie. Non avevo mangiato nulla dopo la prima colazione, però non avevo appetito. Una creatura miserabile e morta di fame stava di fronte alla Camera Letale e guardava; mi vide e mi venne incontro per raccontarmi una storia penosa. Gli detti del denaro; non so perché lo feci, egli comunque si allontanò senza ringraziarmi. Un'ora dopo mi si avvicinò un altro poveraccio con la sua storia lacrimevole. Avevo con me un pezzetto di carta sul quale disegnai l'Insegna Gialla e glielo diedi. Egli lo guardò stupidamente per un momento, quindi, lanciandomi un'occhiata perplessa, lo piegò con una cura che mi parve esagerata e se lo mise sul cuore. La luce dei lampioni elettrici filtrava tra gli alberi e una luna nuova brillava nel cielo proprio sopra la Camera Letale. Era faticoso aspettare nella piazza. Camminai da Marble Arch alle scuderie dell'artiglieria e poi tornai sui mie passi fino a raggiungere la Fontana del Loto. I fiori e l'erba esalavano un profumo che m'infastidiva. Il getto della fontana scintillava sotto i raggi della luna, e il suono musicale delle gocce che cadevano mi ricordava il tintinnio delle maglie di ferro nel negozio di Hawberk. Ma non era altrettanto affascinante: il pallido scintillio della luce lunare sull'acqua non può dare un piacere così sottile come quello che provo quando i raggi di sole sono riflessi da un corsaletto di acciaio lucidato sul ginocchio di Hawberk. Guardai i pipistrelli che svolazzavano sopra le piante acquatiche nel bacino della Fontana, ma il loro volo rapido e spigoloso mi fece innervosire, e mi misi di nuovo a camminare su e giù senza meta tra gli alberi. Le scuderie degli artiglieri erano buie, mentre nelle caserme della cavalleria le finestre degli ufficiali erano ben illuminate; all'uscita c'erano Sempre diversi uomini in servizio che trasportavano paglia e armature e ceste piene di piatti di alluminio. La sentinella a cavallo presso il cancello venne cambiata due volte mentre camminavo su e giù lungo il marciapiede. Guardai l'orologio. Era quasi ora. Il cancello fortificato fu chiuso. Ogni due o tre minuti un ufficiale passava attraverso il cancelletto laterale lasciando nell'aria notturna un frastuono di armature e un tintinnio di speroni. Nella piazza regnava un silenzio di tomba. L'ultimo senzatetto era stato allontanato dal poliziotto del
parco con il cappotto grigio. Le strade per le automobili lungo Wooster Street erano deserte e l'unico rumore che rompeva l'oscurità era lo scalpiccio del cavallo della sentinella e il tintinnio della sua spada contro il pomello della sella. Nelle caserme le camere degli ufficiali erano ancora illuminate e gli attendenti continuavano incessantemente a passare davanti alle finestre a bovindo. Dal nuovo campanile di S. Francesco Xavier si senti scoccare la mezzanotte, e all'ultimo rintocco della triste campana una persona passò attraverso il cancelletto accanto all'entrata principale chiusa e rispose al saluto della sentinella, quindi, attraversata la strada, entrò nella piazza e si incamminò verso l'edificio Benedick. «Louis» esclamai. L'uomo si girò sui suoi tacchi muniti di speroni e venne dritto verso di me. «Sei tu, Hildred?» chiese. «Si, sei puntuale.» Gli strinsi la mano che mi porgeva e ci incamminammo lentamente verso la Camera Letale. Continuò a chiacchierare del matrimonio e a decantarmi le grazie di Constance e i loro progetti futuri facendomi osservare i gradi di capitano che aveva sul braccio e il triplo arabesco dorato che aveva sulla manica e sul berretto della divisa. Credo che ascoltassi la musica degli speroni e della spada tanto quanto quel chiacchericcio infantile. Infine, ci trovammo sotto gli olmi di Fourth Street, sul lato della piazza opposto rispetto alla Camera Letale. Allora si mise a ridere e mi chiese che cosa volessi da lui. Lo feci accomodare su una panchina sotto un lampione e gli sedetti accanto. Louis mi guardava incuriosito con quello stesso sguardo indagatore che odio e temo tanto nei medici. Mi sentivo insultato da quello sguardo, ma egli non lo sapeva e io badai bene di non farglielo capire. «Bene, vecchio mio» chiese «che cosa posso fare per te?» Estrassi dalla tasca il manoscritto e gli appunti della Dinastia Imperiale Americana e, guardandolo negli occhi, dissi: «Te lo dirò. Prima però mi devi dare la tua parola di soldato di leggere questo manoscritto dalla prima all'ultima pagina senza pormi una sola domanda. Promettimi di leggere allo stesso modo gli appunti e di ascoltare quello che avrò da dirti in seguito.» «Prometto» disse cordialmente. «Dammi quei fogli, Hildred.» Iniziò a leggere sollevando le sopracciglia con un'aria bizzarra che mi fece tremare di rabbia repressa. Man mano che leggeva le sopracciglia si
contraevano e sulle sue labbra sembrò comparire la parola assurdo. Quindi assunse un'espressione leggermente annoiata, ma, evidentemente per mantenere la promessa continuò a leggere tentando d'interessarsi alla cosa, ma questo sforzo ben presto non fu più necessario. Trasalì quando lesse il proprio nome nelle pagine fitte fitte, e quando giunse al mio posò il manoscritto e mi guardò intensamente per un attimo. Ma mantenne la promessa e riprese a leggere, e io lasciai che quella mezza domanda non pronunciata cadesse nell'oblio. Quando giunse alla fine, alla firma del signor Wilde, ripiegò i fogli con cura e me li porse. Io gli detti gli appunti e Louis si appoggiò allo schienale, sistemò il berretto sulla fronte con un gesto infantile che ricordavo così bene dai tempi della scuola. Guardavo la sua faccia mentre leggeva, e quando terminò presi gli appunti e il manoscritto e me li misi in tasca. Quindi, dispiegai un cartiglio sul quale era stata impressa l'Insegna Gialla. Louis la vide ma non parve riconoscerla, io richiamai su di essa la sua attenzione piuttosto bruscamente. «Ebbene» disse «lo vedo, che cos'è?» «È l'Insegna Gialla» dissi furente. «Ah sì?» disse Louis con quella voce compiaciuta che il dottor Archer usava con me e che probabilmente avrebbe usato di nuovo se già non avessi provveduto a sistemarlo... Trattenni la mia rabbia e risposi quanto più fermamente potei: «Senti, mi hai dato o no la tua parola?» «Ti ascolto, vecchio mio» rispose con voce lusinghiera. Iniziai a parlare con molta calma. «Il dottor Archer» dissi «...e tu sai di chi sto parlando... in qualche modo era riuscito a entrare in possesso del segreto della Successione Imperiale. Tentò quindi di privarmi del mio diritto asserendo che a causa di una caduta da cavallo... quattro anni fa, ricordi?... avevo perso il lume della ragione. Voleva imprigionarmi nella sua casa nella speranza di riuscire a farmi impazzire o di avvelenarmi. Questo non l'ho dimenticato. Sono stato a trovarlo ieri sera, e per il dottor Archer si è trattato dell'ultimo, diciamo così, colloquio. L'ultimo, in tutti i sensi.» Louis impallidì alquanto, ma non si mosse. Io ripresi trionfante: «Ebbene, come avrai capito dalla lettura, a questo punto s'impongono tre colloqui con altre tre persone nell'interesse mio e del signor Wilde. Uno con te, mio caro cugino Louis; uno con il signor Hawberk e uno con sua figlia Constance.» Louis balzò in piedi, e anch'io mi alzai e lanciando per terra il cartiglio
con l'Insegna Gialla. ' «Oh! Non mi serve l'Insegna per dirti quello che ho da dire» gridai ridendo vittorioso. «Tu devi rinunciare alla corona in mio favore. Mi senti? In mio favore.» Louis mi guardò sbigottito, ma riprendendosi disse con voce affabile: «Certo, certo che rinuncio a... a che cosa devo rinunciare?» «Alla corona» dissi inferocito. «Certo» disse Louis. «Rinuncio. Vieni, vecchio mio, ti riaccompagno a casa.» «Non tentare su di me i tuoi trucchi da dottore» gridai tremando per la rabbia. «Non trattarmi come se fossi matto.» «Che assurdità!» disse lui. «Vieni Hildred, s'è fatto tardi.» «No!» gridai. «Devi ascoltarmi! Tu non puoi sposarti. Te lo proibisco. Mi senti? Te lo proibisco! Rinuncia alla corona e, in compenso, io ti concedo l'esilio, ma se rifiuti morrai.» Tentò di tranquillizzarmi, ma ero infuriato e gli sbarrai il cammino estraendo il coltello. Affinché capisse che non stavo scherzando gli dissi che ben presto avrebbero trovato il dottor Archer in cantina con la gola tagliata; e gli risi in faccia... oh, sì, pensando a Vance e al suo coltello, e all'ordine che avevo firmato... «Il dottor Archer Re» gridai «ma Re sarò io. Io! Chi sei tu per impedirmi di regnare su tutte le zone abitate dalla Terra? Sono nato Cugino di un re, ma sarò il solo Re!» Louis ristette davanti a me, bianco come un lenzuolo fresco di bucato. Improvvisamente un uomo uscì correndo da Fourth Street e attraversato il cancello della Camera Letale, percorse di gran carriera il vialetto che portava alle porte di bronzo e si tuffò nella Camera gridando come un pazzo. Io risi fino alle lacrime perché avevo riconosciuto Vance e sapevo che Hawberk e sua figlia avevano cessato di essere ostacoli per me. «Vai!» gridai a Louis «ormai non mi fai più paura. Tu non sposerai mai Constance, mai più. E se per caso sposerai qualcun'altra mentre sarai in esilio, io verrò da te per un colloquio come quello che ho avuto ieri sera con il mio medico. Il signor Wilde si occuperà di te a partire da domani.» Lo lasciai e corsi verso South fifth Avenue. Con un grido di terrore Louis lasciò cadere la cintura e la spada e m'inseguì veloce come il vento. Lo udii che mi si avvicinava all'angolo di Bleecker Street ed entrai come un fulmine nella porta dell'armaiolo. Louis gridò: «Altolà o sparo!» ma quando vide che salivo di corsa le scale smise d'inseguirmi. Lo udii bussa-
re forte alla porta e gridare... gridare, come se fosse possibile resuscitare i morti. La porta del signor Wilde era aperta. Entrai gridando: «È fatta! È fatta! Si levino gli Stati per conoscere alfine il loro Re!» Ma non riuscii a trovare il signor Wilde, così aprii l'armadio e presi lo splendido diadema dal suo contenitore. Quindi, indossai la tunica di seta bianca su cui era ricamata l'Insegna Gialla e mi misi in capo la corona. Finalmente ero Re! Re per diritto secondo Castore; Re perché conoscevo il mistero delle Iadi e la mia mente aveva sondato le profondità del Lago di Hali. Ero Re! Le prime luce dell'alba avrebbero portato una tempesta che avrebbe scosso i due emisferi. Poi, mentre stavo lì in piedi con tutti i nervi tesi al massimo, ebbro per la gioia e la lucentezza dei miei pensieri, un uomo gemette nel corridoio. Afferrai la candela di sego e corsi alla porta. La gatta mi passò accanto come un demonio e la candela si spense, ma il mio coltello fu più rapido di lei e la sentii strillare... seppi allora che la lama l'aveva raggiunta. Ascoltai per un attimo mentre rotolava e si dibatteva nell'oscurità, quindi, quando cessò il rumore, accesi una lampada e la sollevai sopra il capo. Il signor Wilde giaceva riverso sul pavimento con la gola squarciata. Inizialmente pensai che fosse morto, ma guardandolo meglio vidi che nei suoi occhi brillava una luce verde e la sua mano mutilata tremava; quindi uno spasmo gli spalancò la bocca da un orecchio all'altro. Per un attimo il mio terrore e la mia disperazione lasciarono il posto alla speranza, ma quando mi chinai su di lui i suoi occhi si voltarono all'indietro ed egli spirò. Mentre ero lì pietrificato per la rabbia e il dolore, e vedevo prostrati per terra assieme al defunto maestro la mia corona, l'impero, ogni speranza e ambizione e la mia stessa vita, loro mi presero alle spalle e mi legarono così stretto da farmi quasi scoppiare le vene, e mi mancò la voce in un parossismo di grida disperate. Ma continuavo a dimenarmi, sanguinante e furibondo in mezzo a loro, e feci assaggiare i miei denti taglienti a più di un poliziotto. Poi, quando non potei più muovermi si avvicinarono. Vidi il vecchio Hawberk e dietro di lui la faccia spettrale di mio cugino Louis, e un po' più in là, nell'angolo, una donna, Constance, che piangeva piano. «Ah! Ora capisco!» strillai. «Vi siete impadroniti del trono e dell'impero. Maledetto! Sii maledetto tu che vieni incoronato con la corona del Re in Giallo!» [N.d.R. — Il signor Castaigne è deceduto ieri al Manicomio Criminale!]
Titolo originale: The Repairer of Reputations Traduzione: Laura Pignatti Fitz-James O'Brien Che cos'era? Prima della sua morte prematura avvenuta durante la Guerra Civile, Fitz-James O'Brien era considerato l'erede legittimo di Poe in America. Lasciò soltanto pochi eccellenti racconti inclusi in un'unica antologia postuma (The Life, Poems and Stories of...). Tre dei suoi nove racconti costituiscono un contributo importante allo sviluppo dell fantascienza (The Diamond Lens; The Wondersmith e What Was It), ma What Was lt?, titolo originale di questo scritto, è un racconto dell'orrore basato sulle scienze fisiche, e fra l'altro si ispira ad altri scrittori che trattarono il genere fantastico, dallo Shakespeare de La Tempesta e da E.T.A. Hoffman, alla Crowe, a Charles Brockden Brown a Bulwer-Lytton. O'Brien riesce a domare i suoi orrori invisibili grazie alla scienza e rifiuta il soprannaturale; in tal modo fa del suo racconto un pezzo razionalista, ma questa contrapposizione tra la scienza e il soprannaturale si ritrova costantemente da Poe in avanti, passando per Lovecraft. Che cos'era? è quindi un testo che precorre i tempi, con molte caratteristiche che ritroveremo nei racconti fantastici di O'Brien scritti successivamente, verso il 1890. Confesso di provare una certa riluttanza nell'accingermi a narrare la strana esperienza che mi capitò qualche tempo fa. Gli eventi che intendo raccontare sono davvero straordinari, e per questo sono preparato ad affrontare l'incredulità e il disprezzo dei miei lettori, e anzi li accetto in anticipo. Ritengo di avere il coraggio letterario di affrontare lo scetticismo, e dopo approfondite riflessioni ho deciso di riportare nel modo più semplice e diretto possibile i fatti che ho avuto modo di osservare nello scorso mese di luglio e che non hanno precedenti negli annali degli enigmi delle scienze fisiche. Abito a New York, al n°... della Ventiseiesima Strada, in una casa per certi aspetti curiosa, che da due anni a questa parte ha fama di essere stregata. È un edificio vasto e imponente, circondato da quello che un tempo doveva essere un giardino ma oggi è soltanto un terreno incolto utilizzato per stendere i panni al sole. La vasca vuota di una fontana asciutta e alcuni
alberi da frutta inselvatichiti indicano che anni fa questo doveva essere un piacevole posticino ombroso, rallegrato da fiori e frutta e dal dolce mormorio delle acque. La casa è molto grande; possiede un atrio enorme con una scala a chiocciola al centro, e anche le diverse stanze sono tutte assai spaziose. Fu costruita tra i quindici e i vent'anni fa dal signor A., il noto commerciante di New York che cinque anni fa mise in agitazione il mondo commerciale con una stupenda frode bancaria. Il signor A., come tutti sanno, fuggì in Europa dove morì di crepacuore non molto tempo dopo. Non appena giunse in questo paese la notizia del suo decesso, attestata da fonti attendibili, nella Ventiseiesima Strada si diffuse la voce che il n°... era stregato. L'edificio fu confiscato con provvedimento legale alla vedova dell'ex proprietario e fu affidato a un custode e alla moglie inviati sul posto dall'agente immobiliare cui la casa era stata assegnata allo scopo di affittarla o di venderla. I due dichiararono di avere udito rumori soprannaturali; le porte si aprivano da sole; mani sconosciute accatastavano durante la notte i pochi mobili rimasti nelle varie stanze, si sentivano passi salire e scendere le scale, accompagnati dal fruscio di sete invisibili e di mani che scorrevano non viste lungo le balaustre massicce. In breve, il custode e la moglie dissero che non sarebbero rimasti là dentro un minuto di più; l'agente immobiliare si mise a ridere, li licenziò e li sostituì con altre persone. Ma i rumori e le manifestazioni soprannaturali si ripeterono; il vicinato venne a conoscenza di quanto accadeva e la casa rimase disabitata per tre anni. Parecchi presero accordi per occuparla, prenderla, ma chissà come, ogni volta che l'affare stava per essere concluso, il compratore o l'affittuario sentivano gli strani rumori e recedevano dai propri propositi d'acquisto. In questo stato di cose, la mia padrona di casa, che all'epoca possedeva una pensione in Bleecker Street e desiderava trasferirsi nei quartieri residenziali, ebbe l'audace l'idea di affittare l'edificio al n°... della Ventiseiesima Strada. Poiché si dava il caso che noi pensionanti fossimo piuttosto coraggiosi e razionali, la donna ci espose il suo piano raccontando candidamente tutto ciò che aveva sentito sulle strane leggende riguardanti l'edificio in cui aveva intenzione di trasferirsi assieme a noi. A eccezione di due pavidi, un capitano di mare e un oriundo della California che preavvisarono immediatamente la loro partenza, tutti gli ospiti della signora Moffat si dichiararono pronti ad accompagnarla nella sua eroica missione alla dimora degli spiriti. Il trasloco fu effettuato nel mese di maggio, e tutti noi restammo affasci-
nati dalla nuova residenza. La zona della Ventiseiesima Strada in cui è situata la nostra casa, tra la Settima e l'Ottava Avenue, è una delle più belle di New York. I giardini sul retro delle case, che rasentano quasi l'Hudson, d'estate formano uno splendido viale verdeggiante. Vi si respira un'aria pura e tonificante, che arriva direttamente dalle alture di Weekhawken, e persino il giardino incolto che circondava la casa, pur invaso dai panni stesi ad asciugare nei giorni di bucato, ci donava ugualmente un pezzetto di tappeto verde da contemplare e un po' di frescura nelle sere d'estate. Lì ci ritiravamo a fumare il sigaro immersi nella penombra e stavamo a guardare le lucciole che tremolavano allegre fra l'erba alta. Naturalmente, appena stabiliti al no..., cominciammo ad attendere con ansia la comparsa dei fantasmi e l'oggetto delle nostre conversazioni a cena era sempre il soprannaturale. Uno dei pensionanti, che aveva comprato Il lato oscuro della Natura della Crowe per proprio diletto personale, era considerato alla stregua di un nemico pubblico da tutti gli altri perché non ne aveva acquistato almeno venti copie. Il tipo visse momenti disperati mentre leggeva quel volume. Era stato infatti escogitato un sistema di spionaggio di cui era la vittima: se posava incautamente il libro per un istante, c'era subito qualcuno che se ne appropriava per leggerlo ad alta voce, in posti segreti, ai pochi eletti che ne erano ritenuti degni. Io stesso mi ritrovai considerato come un'eminenza, essendo trapelata la notizia che ero piuttosto esperto nella storia del soprannaturale e che una volta avevo scritto un racconto che si basava su un fantasma. Se un'asse dell'impiantito o un pannello cigolavano mentre eravamo riuniti nel grande salotto, calava immediatamente il silenzio e tutti eravamo pronti a udire uno sbattere di catene e a vedere apparire una forma spettrale. Dopo un mese di agitazione psichica, con nostra profonda delusione fummo costretti a riconoscere che non si era avuta neppure la minima parvenza di manifestazioni soprannaturali. Un giorno il maggiordomo negro giurò che una presenza invisibile gli aveva spento la candela mentre si cambiava per la notte; ma siccome avevo spesso trovato quel gentiluomo di colore nello stato in cui al posto di una candela ne vedeva due, mi sembrò probabile che avendo un po' esagerato con le libagioni, gli fosse accaduto il contrario, e non avesse visto nessuna candela dove invece avrebbe dovuto vederne una. Ma poco dopo accadde un incidente così terribile e inspiegabile che la mia mente quasi vacilla al ricordo. Era il dieci di luglio. Finita la cena, mi rifugiai in giardino con il mio
amico, il dottor Hammond, a fumare la pipa come ogni sera. A prescindere da alcune affinità psicologiche esistenti fra noi, io e il dottore eravamo legati da un vizio comune: fumavamo oppio. Conoscevamo il reciproco segreto e lo rispettavamo, e insieme godevamo di quella meravigliosa espansione del pensiero, di quello stupendo intensificarsi delle facoltà percettive, di quel senso di esistenza senza limiti in cui ci sembrava di avere punti di contatto con l'intero universo, in poche parole di quell'estasi spirituale inimmaginabile che non scambierei con un trono e che spero voi, lettore, non sperimenterete mai e poi mai. Quelle ore di oppiata felicità che io e il dottore trascorrevamo assieme in segreto erano disciplinate scientificamente. Non ci limitavamo a fumare ciecamente la droga del paradiso, lasciando i nostri sogni al caso; indirizzavamo invece la nostra conversazione verso i pensieri più tranquilli e vividi. Parlavamo dell'Oriente e tentavamo di ricordare il panorama magico del suo splendido paesaggio. Discutevamo dei poeti più sensuali, quelli che descrivono una vita fiorente di salute, traboccante di passione, benedetta dal dono della gioventù e della forza. Se il discorso cadeva su La tempesta di Shakespeare, indugiavamo su Ariele ed evitavamo Calibano. Come i Guebri (una setta ispirata alla dottrina di Zoroastro, n.d.t.), rivolgevamo il volto a Oriente e contemplavamo soltanto il lato luminoso del mondo. Quest'abile manipolazione dei nostri pensieri influenzava anche le nostre visioni di sogno, contraddistinte dallo splendore di favolose terre arabe. Camminavamo su e giù per quella stretta fascia erbosa con un incedere da re; il canto della rana arborea aggrappata alla corteccia del susino inselvatichito suonava al nostro orecchio come la melodia di musici divini. Le case, i muri e le strade si dissolvevano come nubi mentre ai nostri occhi si presentavano visioni di gloria inimmaginabile. Fra noi veniva a crearsi un legame estatico, e potevamo godere maggiormente del nostro rapimento perché anche nei momenti di massima estasi ciascuno era conscio della presenza dell'altro. I nostri piaceri, pur individuali, erano tuttavia doppi e vibravano in un accordo musicale. La sera in questione, il dieci luglio appunto, il dottore e io avvertimmo un'insolita atmosfera metafisica. Accendemmo le grosse pipe di schiuma piene di tabacco turco al centro del quale bruciava una noce nera di oppio che, come la noce della favola, racchiudeva nei suoi ristretti confini meraviglie al di là della portata di qualsiasi re. Passeggiavamo avanti e indietro, mentre una strana perversità dominava i nostri pensieri che non volevano
saperne di scorrere nei canali in cui tentavamo di istradarli. Per qualche inspiegabile motivo, finivano invariabilmente in qualche alveo oscuro e solitario pervaso da una perpetua tristezza. Invano tentavamo, come di consueto, di volare nelle terre d'Oriente, parlando degli allegri bazar, degli splendori del tempo di Haroun, degli harem e dei palazzi dorati. Dalle profondità dei nostri discorsi continuavano ad affiorare neri afreet (geni della mitologia araba, n.d.t.) che, come quello liberato dal pescatore dal vaso di rame, si espandevano fino a ottenebrare tutte le nostre visioni. Senza rendercene conto ci lasciavamo trasportare dalla forza occulta che prendeva il sopravvento su di noi e indulgevamo in tetre speculazioni. Avevamo parlato per un po' dell'inclinazione al misticismo, tipica della mente umana, e alla passione quasi universale per le cose spaventose, quando Hammond mi chiese improvvisamente: «Secondo te, qual'è l'esperienza più agghiacciante?» La domanda mi lasciò perplesso. Sapevo che esistevano molte esperienze terribili: inciampare in un cadavere nel buio; vedere, come effettivamente mi capitò, una donna caduta in un fiume profondo, dalla corrente molto forte, che si dibatteva con le braccia sollevate e un'espressione stravolta, gettando urla strazianti mentre noi spettatori restavamo impalati a fissare la scena da una finestra posta una ventina di metri più su, incapaci di fare una mossa per salvarla ma anche di distogliere lo sguardo dalla sua tremenda agonia, finita soltanto con la sua scomparsa fra i flutti. Anche un relitto che galleggia indolente sull'oceano senza traccia di vita può essere qualcosa di spaventoso, poiché suggerisce un terrore inaudito le cui proporzioni restano ignote. Ma ora, per la prima volta, mi sorgeva il dubbio che dovesse esistere il terrore per antonomasia, il Re dei Terrori cui tutti gli altri devono assoggettarsi. Che cosa poteva essere? Da quali circostanze avrebbe derivato la propria esistenza? «Ti confesso, Hammond» risposi al mio amico, «di non avere mai preso in considerazione l'argomento. Che debba esistere un'esperienza più terribile rispetto a qualsiasi altra, ne sono certo. Ma non posso tentare di darne nemmeno la descrizione più approssimativa.» «Mi trovo pressapoco nella tua stessa situazione» disse lui. «So di essere capace di provare un terrore mai concepito dalla mente umana, una sensazione agghiacciante nata dalla combinazione innaturale di elementi spaventosi fino a ora ritenuti incompatibili. Le voci del romanzo Wieland di Brockden Brown sono paurose; e lo è anche la figura dell'Abitatore della Soglia descritto nello Zanoni di Bulwer; ma» aggiunse scuotendo la testa
con aria tetra «ci dev'essere qualcosa di ancora più terribile.» «Guarda, Hammond» ripresi io «è meglio lasciar perdere questo tipo di discorsi, per l'amor di Dio. Ci faranno stare male, puoi esserne certo.» «Non so che cos'ho questa sera» ribatté Hammond «ma nel mio cervello si affollano ogni sorta di pensieri strani e terribili. Sento che potrei scrivere un racconto come quelli di Hoffmann, se solo possedessi una qualche abilità letteraria.» «Be, se la nostra conversazione deve per forza vertere su argomenti simili, io me ne vado a Ietto. Non si dovrebbero mai mettere assieme l'oppio e gli incubi. Troppo angosciante! Buona notte, Hammond.» «Buona notte, Harry. Sogni d'oro.» «A te, uccello del malaugurio; attento agli afreet, ai ghoul (demoni cannibali della tradizione araba, n.d.t.) e agli stregoni.» Ci lasciammo e ciascuno si recò in camera sua. Mi svestii rapidamente e m'infilai nel letto, portando con me un libro, come di consueto, per leggere qualche pagina prima di addormentarmi. Non appena posata la testa sul cuscino, aprii il volume, ma lo scagliai immediatamente dall'altra parte della stanza. Era la Storia dei mostri di Goudon, una curiosa opera francese che avevo fatto venire recentemente da Parigi ma che nel mio attuale stato d'animo non poteva essere di certo una compagnia simpatica. Decisi di mettermi subito a dormire, così abbassai il gas finché nella lampada non brillò soltanto un puntolino azzurro e tentai di rilassarmi. La stanza era totalmente immersa nell'oscurità. La minuscola fiammella brillava ancora ma illuminava soltanto una zona del raggio di una decina di centimetri. Mi misi un braccio sugli occhi per non vedere il buio, e tentai di non pensare a niente. Invano. Quelle maledette storie cui aveva accennato Hammond in giardino continuavano a ossessionarmi. Tentati di combatterle erigendo baluardi di vuoto mentale per tenerle fuori dal mio cervello, ma ritornavano puntualmente. Mentre giacevo immobile come un cadavere sperando che una perfetta inattività fisica potesse affrettare il riposo, psichico, mi accadde un incidente agghiacciante. Un qualcosa uscito a quanto pareva dal soffitto mi piombò dritto sul petto, e un istante dopo avvertii due mani ossute stringermi alla gola nel tentativo di strozzarmi. Non sono un codardo e mi vanto di possedere una certa forza fisica; quell'attacco improvviso, invece di paralizzarmi, portò tutti i miei nervi al massimo livello di tensione; il corpo agì d'istinto, prima che il cervello avesse il tempo di capire in quale situazione spaventevole mi trovassi. Circondai la creatura con entrambe le braccia e me la strinsi al petto con la
forza della disperazione. In pochi secondi le mani ossute che mi avevano afferrato alla gola mollarono la presa, permettendomi di respirare. Iniziò allora in quella profonda oscurità una lotta titanica contro la cosa ignota che mi aveva attaccato di sorpresa. Non riusciyo a mantenere la presa perché le mie mani continuavano a scivolare sul corpo nudo del mio assalitore, che fra l'altro mi mordeva con i denti aguzzi alla spalla, al collo e al torace, e dovevo costantemente proteggermi la gola da quelle sue mani agili e nervose che nonostante tutti i miei sforzi non riuscivo a fermare. Una simile combinazione di elementi m'imponeva l'uso di tutta la forza, l'abilità e il coraggio in mio possesso. Finalmente, dopo una lotta silenziosa, micidiale e durissima, riuscii ad avere la meglio sul mio avversario, ma a costo di fatiche inenarrabili. Una volta inchiodato il nemico a terra premendogli il ginocchio su quello che dedussi essere il petto, seppi di avere vinto. Mi rilassai un attimo respirando profondamente; sentivo la creatura ansimare sotto di me e avvertivo il battito violento del suo cuore. Era esausta quanto me, e ciò mi era di consolazione. In quel momento ricordai che prima di andare a letto di solito mettevo sotto il cuscino un grande fazzoletto di seta gialla; lo cercai subito; era al suo posto. In pochi secondi legai in qualche modo le braccia della creatura. Ora mi sentivo abbastanza sicuro. Non mi restava altro da fare che alzare il gas per vedere chi fosse il mio assalitore notturno e poi svegliare gli altri. Confesserò di non avere voluto dare prima l'allarme spinto da un certo orgoglio; desideravo catturare da solo il mio avversario, senza l'aiuto di nessuno. Senza lasciare la presa nemmeno per un istante, scivolai fuori dal letto trascinandomi dietro il prigioniero. Dovevo fare soltanto pochi passi per raggiungere il becco del gas, ma mi mossi con grande cautela, stringendo a me la creatura in una morsa d'acciaio. Finalmente arrivai a portata della fiammella azzurra che m'indicava la lampada. Con la velocità del fulmine lasciai la presa con una mano e alzai la fiamma al massimo. Poi mi girai per vedere in faccia il mio aggressore. Non posso nemmeno tentare di dare una definizione delle sensazioni che provai un istante dopo avere alzato il gas. Penso di avere lanciato un urlo di terrore, perché nel giro di un minuto la stanza si riempì di pensionanti. Rabbrividisco ancora ripensando a quel momento terribile: infatti non vidi nulla! Sì, il mio braccio circondava una forma corporea che respirava affannosamente e l'altra mano stringeva a tutta forza una gola calda e appa-
rentemente fatta di carne come la mia, ma pur avvertendone la presenza palpitante contro il mio corpo, nella vivida luce della fiamma che ardeva intensamente, non vedevo assolutamente nulla! Neppure una sagoma, o una nebbia! Neanche adesso riesco a concepire la situazione in cui mi trovavo e la fantasia tenta invano d'immaginare quel tremendo paradosso. Respirava: sentivo il suo fiato caldo sulla guancia; si dimenava come un ossesso; aveva le mani, che infatti mi stringevano; aveva la pelle morbida come la mia. Era lì, premuto contro di me, solido come una pietra... e totalmente invisibile! Mi meraviglio di non essere svenuto o impazzito in quel preciso istante; forse fui sostenuto da qualche meraviglioso istinto. Infatti, invece di lasciar andare quel terribile enigma, mi sembrò che le mie forze si moltiplicassero in quel momento d'orrore, e rinsaldai la presa tanto che sentii la creatura sussultare per il dolore. In quell'attimo entrò Hammond seguito da tutti gli altri. Non appena vide la mia faccia, che doveva essere spaventosa, si precipitò al mio fianco gridando: «Santo cielo, Harry! Che cos'è successo?» «Hammond! Hammond!» gridai. «Vieni qui. È terribile! Qualcosa mi ha assalito! L'ho presa, ma non la vedo! Non la vedo!» Il mio amico, senza dubbio colpito dall'orrore indicibile dipinto sul mio volto, fece qualche passo in avanti con espressione ansiosa ma perplessa, mentre gli altri visitatori trattenevano a stento il riso. Quell'ilarità repressa mi fece infuriare: prendersi gioco di un essere umano nella mia situazione! Era una crudeltà della peggior specie. Ora posso capire che la vista di un uomo apparentemente impegnato in una lotta furiosa con il nulla, che chiedeva aiuto per sconfiggere un'allucinazione doveva sembrare estremamente ridicola. Allora la mia ira nei confronti di quella folla beffarda era tale che se avessi potuto, li avrei ammazzati tutti sui due piedi. «Hammond! Hammond!» gridai di nuovo, disperatamente. «Vieni qui, per l'amor di Dio! Non riesco quasi più a tenerlo, mi sta sfuggendo! Aiutami, aiutami ti prego!» «Harry» sussurrò Hammond venendomi vicino «hai fumato troppo oppio». «Ti giuro che non è un'allucianzione» ribattei a voce altrettanto bassa. «Non vedi come mi fa sussultare con i suoi movimenti violenti? Se non mi credi, convincitene da solo. Su, prova, toccalo!» Hammond si avvicinò e posò la mano nel punto che gli indicavo, gettan-
do subito dopo un urlo di terrore. L'aveva sentito anche lui! In pochi istanti trovò nella stanza un lungo pezzo di corda e lo avvolse attorno all'essere invisibile che stringevo tra le braccia, legandolo saldamente. «Harry» disse con voce roca e concitata, perché era profondamente sconvolto, pur avendo mantenuto la propria presenza di spirito, «Harry, va tutto bene. Se sei stanco puoi mollare, vecchio mio. Non può più muoversi.» Ero distrutto, e fui ben contento di lasciare la presa. Hammond si era avvolto attorno alla mano i capi della corda che legava l'invisibile, e davanti a sé vedeva, quasi sospesi nell'aria, diversi giri di corda stretti attorno a uno spazio vuoto. Non ho mai visto nessuno in preda a un simile rispettoso timore, ma il suo volto esprimeva anche il coraggio e la determinazione che gli conoscevo. Serrava le labbra pallide, e al primo sguardo si capiva che, pur nel terrore, non intendeva darsi per vinto. La confusione nata tra gli ospiti della casa che avevano assistito alla straordinaria scena tra me e Hammond, alla pantomima per legare la cosa che si dibatteva, e al mio sfinimento una volta finito il mio compito di carceriere; la confusione, ripeto, e il terrore che si impadronirono dei presenti a un simile spettacolo furono indescrivibili. I più deboli fuggirono nella stanza, mentre i pochi rimasti si affollarono accanto alla porta e non si lasciarono convincere ad avvicinarsi ad Hammond e al nostro prigioniero. L'incredulità continuava a trasparire pur nel terrore; dubitavano ancora, ma non avevano il coraggio di accertarsi personalmente. Invano pregai alcuni di loro di avvicinarsi e toccare con mano l'esistenza di un essere vivente, ma invisibile. Non riuscivano a crederci, ma non osavano nemmeno controllare. Come poteva essere che un corpo solido, vitale e palpitante fosse invisibile, chiesero. Ecco quale fu la mia risposta: feci un segnale ad Hammond e insieme, vinta la tremenda ripugnanza a toccare l'essere invisibile, lo sollevammo da terra legato com'era e lo portammo sul mio letto. Pesava circa come un ragazzino di quattordici anni. «Ora, amici», dissi, continuando a tenere la creatura sospesa sul letto con l'aiuto di Hammond «vi darò la prova che siamo in presenza di un corpo solido, pesante, che tuttavia non potete vedere. Abbiate la gentilezza di guardare attentamente la superficie del letto.» Mi meravigliavo del coraggio e della calma che dimostravo in un momento tanto sconvolgente, ma mi ero ripreso dalla prima sensazione di panico e provavo una specie di orgoglio scientifico per quella scoperta, che
dominava tutti gli altri sentimenti. Gli occhi dei presenti si fissarono immediatamente sul mio letto; a un segnale convenuto io e Hammond lasciammo cadere la creatura. Si udì il rumore di un corpo pesante che cadeva su una massa morbida, le assi del letto cigolarono; sul cuscino e sul materasso si formarono due depressioni ben distinte. La folla che aveva assistito alla scena lanciò un'esclamazione di orrore e fuggì dalla stanza, lasciando me e il mio amico soli con il mistero. Restammo in silenzio per un po', ad ascoltare il respiro basso e irregolare della creatura e il fruscio delle lenzuola causato dai bruschi movimenti fatti per liberarsi. Poi Hammond parlò. «Harry, è terribile.» «Ma non è mica tanto strano.» «Come, non è tanto strano? Che cosa vuoi dire? Una cosa simile non è mai accaduta da che mondo è mondo! Non so che cosa pensare, Hammond. Dio mi sia testimone che non sono pazzo e che questa non è una fantasia insana.» «Ragioniamo, Harry. Qui c'è un corpo solido che tocchiamo, ma non riusciamo a vedere. Si tratta di un fatto talmente insolito da terrorizzarci, ma non esiste forse già, in natura, un fenomeno simile? Prendiamo un pezzo di vetro limpido: è trasparente, ma tangibile; è soltanto la sua composizione chimica a impedirgli di essere trasparente al punto da diventare invisibile. Ricorda che non è teoricamente impossibile produrre un tipo di vetro che non rifletta neppure un raggio di luce, un vetro la cui composizione atomica sia talmente pura e omogenea da permettere che i raggi del sole lo attraversino come attraversano l'aria, rifratti ma non riflessi. L'aria non possiamo vederla, ma sentirla sì.» «Sarà anche vero, Hammond, ma si tratta di sostanze inanimate. Il vetro non respira, l'aria nemmeno. Questa cosa invece possiede un cuore che palpita, una volontà, polmoni funzionanti che inspirano ed espirano!» «Dimentichi i fenomeni di cui abbiamo sentito spesso parlare ultimamente» ribatté il dottore in tono grave. «Nel corso delle cosiddette sedute spiritiche mani invisibili hanno afferrato quelle delle persone sedute attorno al tavolo, ed erano mani calde, fatte di carne pulsante di vita.» «Pensi forse che si tratti di...» «Non so di che cosa si tratti» fu la solenne risposta. «Ma se gli dei lo vorranno, con il tuo aiuto cercherò di scoprirlo.» Rimanemmo a guardare tutta la notte, fumando come ciminiere al ca-
pezzale dell'essere ultraterreno che continuò a rigirarsi nel letto ansimando, finché evidentemente non si stancò: dal respiro basso e regolare capimmo che si era addormentato. Il giorno dopo tutta la casa era in subbuglio. I pensionanti si riunirono sul pianerottolo fuori dalla mia stanza: io e Hammond eravamo al centro dell'attenzione. Ci trovammo a rispondere a migliaia di domande sulle condizioni del nostro prigioniero, perché nessun altro oltre a noi osava mettere piede nella camera. La creatura era sveglia, come provavano i movimenti convulsi delle lenzuola frutto dei suoi tentativi di liberarsi. Era davvero terribile assistere a quei contorcimenti, a quella violenta lotta per la libertà, a tutte quelle azioni che di per sé restavano invisibili. Io e il mio amico ci eravamo scervellati per tutta quella lunga notte allo scopo di trovare un modo per scoprire la forma e l'aspetto dell'enigma. Da quello che avevamo potuto capire sfiorandola con le mani, la creatura, aveva fattezze umane: una bocca, una testa liscia e rotonda, priva di capelli, un naso leggermente sollevato rispetto alle guance, mani e piedi simili a quelli di un ragazzino. Dapprima pensammo di mettere l'essere su una superficie liscia e di tracciarne il profilo con il gesso, come fanno i calzolai per prendere la forma del piede, ma il progetto fu abbandonato perché un simile profilo non avrebbe dato la minima idea della conformazione generale. Mi venne un'idea gemale. Potevamo farne un calco in gesso di Parigi, che ci avrebbe dato una figura solida e avrebbe soddisfatto tutti i nostri desideri. Ma come ottenerlo? I movimenti della creatura avrebbero ostacolato il procedimento, deformando il calco. Un'altra idea: perché non somministrarle del cloroformio? Possedeva un apparato respiratorio, era evidente dal fatto che respirava; una volta ridotto l'essere in stato d'incoscienza, avremmo potuto farne quel che volevamo. Mandammo a chiamare il dottor X, un valido medico che, superato il primo istante di sorpresa, si accinse a somministrarle il cloroformio. In tre minuti riuscimmo a togliere le corde dal corpo della creatura e a far venire un modellatore per coprire la forma invisibile con lo stucco bagnato. Dopo altri cinque minuti il calco era stato ottenuto, e prima di sera potemmo ammirare un facsimile approssimativo del mistero. L'essere possedeva una forma umana; anomala, sgraziata, orribile, ma inconfondibilmente umana. Era piccolo, un metro e trenta circa, ma le membra rivelavano un insolito sviluppo muscolare. Il volto era orri-
pilante, più di qualsiasi altra cosa mi fosse mai capitato di vedere; nemmeno Gustave Doré, Callot, o Tony Johannot sarebbero stati in grado di concepire qualcosa di simile. In una delle recenti illustrazioni di Un Voyage où il vous plaira è raffigurato un volto che si avvicina un po' a quello della creatura, ma non riesce a eguagliarlo. La fisionomia era quella che mi sarei aspettato di vedere in un ghoul, e in effetti qualcosa in quel volto maligno suggeriva... come dire? una certa propensione verso il cannibalismo; o, quanto meno, la suggeriva a me che l'osservavo. Una volta soddisfatta la nostra curiosità e fatto promettere a tutti di mantenere il segreto, si pose il problema di che cosa fare dell'enigma. Era impossibile tenere in casa un simile orrore, e altrettanto impossibile lasciarlo libero di scorrazzare per il mondo. Confesso che avrei optato volentieri per la distruzione della creatura, ma chi se ne sarebbe assunto la responsabilità? Chi si sarebbe incaricato di sopprimere quell'orribile parvenza di essere umano? Si discusse per giorni sulla questione. Tutti i pensionanti lasciarono la casa e la signora Moffat, in preda alla disperazione, minacciò me e Hammond di ogni sorta di provvedimenti legali se non ci fossimo disfatti dell'orrore. Le rispondemmo che ce ne saremmo andati, se era questo che desiderava, ma non avremmo portato con noi la creatura. Che se ne sbarazzasse lei, se voleva; dopotutto era apparsa in casa sua e quindi la responsabilità spettava a lei. La signora non poteva protestare di fronte a simili argomenti, ma non riusci a convincere nessuno ad avvicinarsi al mistero, né con le buone né con le cattive. L'elemento più singolare della faccenda era che ignoravamo totalmente di che cosa si nutrisse la creatura. Gli offrimmo tutto ciò che potevamo trovare, ma non toccò mai nulla. Era terribile dovere guardare impotenti le lenzuola che si agitavano e udire il respiro pesante dell'essere, sapendo che stava morendo di fame. Trascorsero così dieci, dodici giorni, due settimane, e la creatura era ancora viva. Il battito cardiaco però si faceva di giorno in giorno più flebile per poi cessare quasi del tutto. Stava morendo per mancanza di cibo. Quella tremenda lotta per la vita mi sconvolgeva e non riuscivo a dormire; per quanto quella creatura fosse orripilante, era doloroso pensare alle pene infernali che soffriva. Alla fine morì. Un mattino io e Hammond la trovammo rigida e fredda nel letto. Il cuore aveva cessato di battere e i polmoni di respirare. Ci affrettammo a seppellirla in giardino, organizzando una sorta di strano funerale, in cui lasciammo cadere il corpo invisibile nella sua umida tomba. Il
calco lo diedi al dottor X che lo conserva nel suo museo della Decima Strada. Ho deciso di narrare questo episodio, il più singolare che mi sia mai stato dato di conoscere, poiché so di trovarmi nell'imminenza di un lungo viaggio dal quale probabilmente non tornerò. Titolo originale: What Was It? Traduzione: Elena Colombetta Shirley Jackson Il meraviglioso estraneo The beautiful Stranger (Il meraviglioso estraneo) di Shirley Jackson è un racconto fantastico ed enigmatico. È una storia di terrore e di dubbi irrobustita sia dalla negazione di un'utopia borghese immaginaria e paranoica, sia dalla parodia del racconto romantico gotico. In Danse Macabre, Stephen King mise in luce il notevole influsso che Shirley Jackson ebbe sulla creazione del neogotico americano, che viene definito specchio simbolico, traendo spunto da un importante articolo dello studioso John G. Park sulla crescente ossessione di ciò che è evidente, presente nel nuovo racconto gotico e soprattutto nell'opera di Shirley Jackson. In questa antologia il ruolo dell'autrice trova una sua specificità proprio nella proposta di racconti, come il presente, nei quali è particolarmente evidente e significante l'equilibrio interno tra gli aspetti psicologico e sovrannaturale. In The Haunting of Hill House e ne Il meraviglioso estraneo il lettore è spaventato e confuso, addirittura orripilato, dalla tensione creata dall'atmosfera misteriosa e dal dubbio relativo all'esattezza delle percezioni dei personaggi. Quella che potrebbe essere definita la prima avvisaglia di estraneità si ebbe alla stazione ferroviaria. Margaret c'era andata con i bambini, Smalljohn e la bimba, ad aspettare il marito che tornava da un viaggio d'affari a Boston. Poiché era insolitamente preoccupata di fare tardi, e magari di dare l'impressione di non essere ansiosa di rincontrare il marito che era" rimasto assente per una settimana, Margaret aveva vestito i bambini e li aveva sistemati nell'automobile e si erano recati alla stazione parecchio tempo prima dell'arrivo del treno. Di conseguenza, l'attesa era stata interminabile, e quello che avrebbe dovuto essere un piacevole momento di riunione ben
programmato... la famiglia che riabbracciava il padre marito, si ridusse a una pantomima strana e male organizzata: Smalljohn aveva i capelli scompigliati ed era tutto appiccicoso; la bambina era arrabbiata e frignava stropicciandosi il cappellino e il bel vestitino rosa con i pizzi. Quando finalmente il treno arrivò, tutti loro erano assorti in azioni diverse da quelle previste: Margaret stava aggiustando il nastro sul cappello della bimba e Smalljohn era a cavalcioni del sedile posteriore. Balzarono fuori dalla macchina intimoriti dal rumore del treno e completamente sfasati. John Senior salutò dall'alto del predellino del treno. Contrariamente a sua moglie e ai figli sembrava ben preparato per il momento del rientro, come se si fosse preoccupato di fare in modo che l'incontro fosse se non altro indolore. A tal fine egli aveva provato quella stessa posizione sul predellino per una mezz'ora circa, prima dell'arrivo. E ora, badava che la mano non fosse eccessivamente sollevata affinché la sua gioia di rivederli non sembrasse esageratamente grande. Sua moglie ebbe una strana sensazione come di tempo perduto. Mentre si trovava in piedi sulla banchina con la bambina in braccio e Smalljohn accanto a sé, per un attimo non riuscì a ricordare se suo marito fosse appena tornato o se fossero venuti ad accompagnarlo perché partiva. Prima che partisse avevano litigato, e lei aveva tentato durante tutta quella settimana in cui luì era rimasto assente di dimenticare che in sua presenza si era sentita impaurita e ferita. "Questo tempo servirà a raddrizzare le cose" si era detta. "Mentre John è via posso tentare di riacquistare il dominio di me stessa". Ora però, incerta se quello fosse un arrivo o una partenza, ebbe nuovamente paura e si sforzò di affrontare quella tensione insopportabile. "Così non va" pensò, credendo di essere onesta con se stessa, e mentre egli scendeva dal predellino e le andava incontro, ella sorrise stringendo forte la bambina in modo che quel tenero contatto rendesse più dolce e genuino il suo sorriso. "Così non va" pensò ancora. Sorrise più cordialmente e gli disse: «Ciao» mentre lui si avvicinava. Lo baciò stupita. Lui abbracciò per un minuto lei e la bambina. La bambina si tirò indietro divincolandosi e strillando. Tutti si spostarono, contrariati. La bambina gridò: «No, no, no.» «Che bel modo di salutare papà» disse Margaret dando una scrollatina alla bimba. Era divertita e anche grata alla figlia per l'appoggio. John si rivolse allora a Smalljohn e lo prese in braccio. Smalljohn sgambettava e rideva a più non posso. «Papà, papà» strillava mentre la bambina ancora gridava: «No, no.»
Rassegnati, visto che nessuno poteva parlare in quel frastuono, si avviarono verso l'automobile. Quando la bambina fu sistemata nel suo cestino rosa sul sedile posteriore e Smalljohn si sedette accanto a lei con un altro leccalecca, ci fu un silenzio spaventoso che, quanto prima, avrebbe dovuto essere riempito da parole sensate. John si era seduto al posto di guida mentre Margaret tentava di tranquillizzare la bimba; Margaret sentì un lieve brivido di animosità quando si sedette di fianco a lui e vide le sue mani sul volante. "Non posso sopportare di rinunciare neanche a questo" pensò. "Per una settimana nessuno eccetto me ha guidato la macchina." Poiché lei stessa capiva chiaramente che questa era un'assurdità, «in fondo metà della macchina era proprietà di John». Chiese con grande interessamento: «Com'è andato il viaggio? Il tempo, com'era?» «Benissimo» rispose lui, e lei nuovamente si adirò per il suo tono caldo; se lei era assurda per il problema della macchina, era altrettanto assurdo che egli avesse trovato il viaggio così positivo. «È andato tutto benissimo. Son abbastanza sicuro che firmeranno il contratto. Tutti sono stati così carini. Tornerò lì tra due settimane per sistemare le cose.» "Il pungiglione è sulla coda" pensò lei. "Lui non ha detto tutto così in fretta per caso. Lui non vuole che io mi renda conto del suo lavoro, dei suoi impegni, di come trascorre il suo tempo fuori casa. Secondo lui io devo essere contenta per il contratto e del fatto che son stati carini! Ma la cosa importante per lui, è che la parte relativa alla sua partenza tra due settimane deve passare inosservata. Chissà perché?" «Forse potrei venire con te» disse lei. «Tua madre si occuperà dei bambini.» «Bene» rispose lui... troppo tardi però; aveva avuto un evidente attimo di esitazione prima di parlare. «Anch'io voglio venire» disse Smalljohn. «Posso venire, papà?» Entrarono in casa: Margaret portava la bimba e John con la valigia discuteva divertito con Smalljohn su chi dei due genitori stesse portando il peso maggiore. La casa era pronta ad accoglierli. Margaret aveva fatto in modo che fosse pulita e aveva eliminato tutti quei particolari che rivelavano chiaramente come essa fosse abitata da una donna sola con figli piccoli: i giocattoli che Smalljohn aveva lasciato in giro con insolita liberalità erano stati riposti, i vestitini della bimba (in fondo mentre John era via non c'erano state visite) erano stati tolti dal calorifero della cucina dove erano stati stesi ad asciugare. A parte il fatto che non sembrava essere in attesa di persone particolari, ma semplicemente di qualcuno che fosse abbastanza
educato e pulito da poter stare tra le sue piccole mura linde, "ecco.... a queste condizioni questa potrebbe passare per una casa confortevole" pensò Margaret "addirittura per una casa nella quale una famiglia felice vive tranquillamente." Mise la bimba nel box e si girò; aveva in mano il cappellino e la giacca della piccola. Vide suo marito che, chino e con un'espressione seria sul volto, ascoltava Smalljohn. Margaret si chiese improvvisamente: "Chi dei due è più alto? Quello non è mio marito." Rise, e i due si voltarono verso di lei: Smalljohn con curiosità, e suo marito come se avesse capito qualcosa. Margaret pensò: "Certo, non è mio marito e sa che l'ho notato." Non era sorpresa; forse trenta secondi prima avrebbe creduto che fosse impossibile, ma poiché ora vedeva chiaramente che era possibile, la sua sorpresa sarebbe stata priva di senso. Avrebbe dovuto imporsi di manifestare emozioni giuste, congruenti, armoniche, quelle che dicono la felicità di una moglie per il ritorno del marito; ma inizialmente riuscì soltanto a darsi atteggiamenti marginali molto di circostanza. Il cuore batteva forte, le tremavano le mani e aveva le dita gelate. Si sentì insicura sulle gambe e afferrò lo schienale di una seggiola per non perdere l'equilibrio. Si rese conto che stava ancora ridendo... in quel momento l'emozione giusta la raggiunse e lei seppe finalmente che cosa provava: sollievo. «Sono contenta che tu sia venuto» disse. Gli andò incontro e posò il capo sulla sua spalla. «È difficile salutarsi alla stazione» disse ancora. Smalljohn stette a guardare per un minuto quindi se ne andò a giocare. Margaret pensò: "Questo non è l'uomo a cui piace vedermi piangere; non devo avere timori." Respirò profondamente e fu tranquilla. Non c'era bisogno di dire nulla. Per il resto della giornata fu contenta. Era caduto, svanito, il peso della paura e dell'infelicità, e lei si rallegrò di sapere che non c'era alcun residuo di sospetto o di odio. Quando lo chiamava John, lo faceva in modo riservato, e sapeva che egli partecipava al suo segreto divertimento; quando egli rispondeva educatamente, Margaret pensava di scorgere dietro le sue parole l'ombra di un sorriso. Era come se si fossero messi d'accordo che anche un solo accenno all'argomento sarebbe stato di cattivo gusto, e che probabilmente avrebbe guastato loro il piacere. Durante la cena furono allegri. Un tempo John non le avrebbe mai preparato un cocktail, ma quando lei scese dopo avere messo a letto i bambini, lui le venne incontro ai piedi delle scale sorridendo, e la prese sottobraccio per portarla in salotto dove lo shaker e i bicchieri erano pronti sul
tavolino basso davanti al caminetto. «Che bello!» disse lei contenta di essersi presa un attimo di tempo per spazzolarsi i capelli e ripassarsi il rossetto sulle labbra, contenta che il tavolino che aveva scelto John e il caminetto che aveva visto molti fuochi accesi da John e il divano basso su cui John aveva dormito qualche volta avessero tutti deciso di accogliere lui, l'estraneo, in modo così cortese. Si sedette sul divano e gli sorrise quando lui le porse un bicchiere; tutto era permeato da una strana e illecita eccitazione, lei stava ricevendo un uomo. La scena fu leggermente guastata dal fatto che le aveva offerto un Martini senza oliva e senza cipolla. In verità, questo era il modo in cui lei preferiva bere il Martini, eppure in quel momento non se ne ricordava con esattezza, ma si rassicurò pensando che ovviamente, prima di venire, lui aveva preso informazioni a tale proposito. Lui levò il bicchiere verso di lei con un sorriso. "È qui solo perché ci sono io" pensò lei. «È bello essere qui» disse lui. Aveva fatto un tentativo di imitare John in macchina mentre tornavano a casa. Dopo essersi accorto che lo riteneva un estraneo non aveva più tentato di usare espressioni come venire a casa o tornare, e lei proprio non poteva farlo, non senza mentire. Mise la mano in quella di lui e si appoggiò allo schienale del divano guardando il fuoco. «Sentirsi soli è la peggiore cosa al mondo» disse lei. «Non ti senti sola ora, vero?» «Te ne vai?» «No, se tu non vieni con me.» Risero per questa sua imitazione di John. Durante la cena stettero seduti uno accanto all'altro; lei e John erano sempre stati seduti lontani, uno di fronte all'altro come si deve, chiedendosi a vicenda educatamente di passare ora il sale ora il burro. «Metterò un paio di ripiani lì in fondo» disse lui indicando con il capo l'angolo del salotto. «Sembra così spoglio, ci vogliono oggetti, simboli.» «Per esempio?» le piaceva guardarlo. Pensò che avesse i capelli leggermente più scuri di quelli di John, e le mani più robuste. Con quelle mani quest'uomo avrebbe potuto costruire qualsiasi cosa. «Abbiamo bisogno di oggetti nostri. Cose che piacciano a tutti e due. Piccoli oggetti graziosi e delicati. Avorio.» Con John avrebbe ritenuto necessario sottolineare subito che non potevano permettersi degli oggetti graziosi e delicati, e porre fine al discorso, ma ora che era con un estraneo Margaret disse: «Bisognerebbe cercarli insieme, non dovrebbe trattarsi di oggetti qualsiasi.» «Una volta ho visto una piccola creatura» disse lui. «Un minuscolo omi-
no, una specie di gnomo dipinto tutto di viola e blu e giallo.» Lei introiettò quella conversazione, conteneva una verità ed era come un gioiello incastonato nel diadema di quella prima sera trascorsa insieme. Molto più tardi Margaret si sarebbe detta che era vero: John non le avrebbe mai proposto cose simili. Era felice, era raggiante, senza coscienza. Lui si recò diligentemente in ufficio la mattina seguente salutandola sulla porta con un sorriso tra il mesto e il faceto: evidentemente si prendeva in giro, giocava sulla necessità di compiere le cose che John faceva sempre. Mentre Margaret lo guardava allontanarsi lungo il viottolo pensò che quel distacco non poteva e non doveva essere una cosa duratura: no, lei non poteva sopportare che lui stesse via per tante ore ogni giorno, lui; prima non aveva mai avuto grandi difficoltà a separarsi da John. "Dovremmo semplicemente andarcene" pensò. Fu contenta quando vide che saliva in macchina: avrebbe volentieri condiviso con lui, o anzi, gli avrebbe regalato, tutto quello che era stato di John, purché egli restasse sempre così: un estraneo. Rideva facendo i lavori di casa e vestendo la bambina. Le piacque disfare la valigia, che lui aveva abbandonato e dimenticato in un angolo della camera da letto, come per averla pronta per ripartire se lei non fosse stata come lui aveva immaginato, e se lei non avesse voluto che lui si fermasse. Ripose i suoi vestiti, così incredibilmente simili a quelli di John e, quando fu davanti all'armadio, si chiese se lui avrebbe trattato le cose di John con quella delicatezza e discrezione. Poi pensò che non sarebbe stato così e rise di nuovo. La bambina fu astiosa per tutto il giorno, ma Smalljohn, appena tornò dall'asilo, chiese guardandola in modo ansioso: «Dov'è papà?» «Papà è andato in ufficio» e rise di nuovo per quella rapida immagine che era un vero e proprio insulto nei confronti di John. Durante la giornata Margaret salì al piano di sopra una mezza dozzina di volte per guardare la valigia e accarezzare la pelle di cui era fatta. Guardava sempre, ogni volta che attaversava il salotto, l'angolo dove un giorno vi sarebbero stati i piccoli ripiani, e si disse che avrebbero trovato l'omino tutto viola e blu e giallo, e l'avrebbero messo di guardia su un ripiano affinché li difendesse da eventuali intrusioni. Quando i bambini si svegliarono dopo il riposino pomeridiano Margaret li portò a passeggio; allora, lontana da casa, tornò alle solite abitudini di quando era sola (passeggiare con i bambini, parlare di papà a vuoto, desiderare qualcuno con cui parlare durante la sera che si avvicina, evitare di affrettarsi a tornare a casa: magari
lui avrebbe telefonato). E iniziò nuovamente ad avere paura. E se si fosse sbagliata? Non era possibile che si fosse sbagliata: sarebbe stato insopportabilmente crudele se tornata a casa, avesse trovato John invece di John... di lui: sorrise per il proprio lapsus. Poi sentì la macchina che si fermava e quando aprì la porta e guardò in su pensò: "No, non è mio marito" e di nuovo si sentì felice. Capiva dal suo sorriso che egli aveva indovinato i suoi dubbi, eppure era così evidente che fosse un estraneo; talmente estraneo che, vedendolo, non sentì alcuna necessità di parlare né per sapere né per capire. Durante la serata, invece, Margaret gli pose una serie di domande quasi prive di significato, e le sue risposte erano importanti solo perché lei le immagazzinava affinché le servissero da confronto per quando lui non c'era. Gli chiese come si chiamasse il professore che all'università aveva tentuto loro lezioni su Shakespeare... e, com'era il nome di quella ragazza che gli piaceva tanto prima di conoscere lei, Margaret? Quando lui sorrise e disse che non se ne ricordava affatto, che non avrebbe ricordato il nome neanche se lei glielo avesse detto, Margaret andò in estasi. Evidentemente lui, non si era preoccupato d'informarsi su tutto il passato. Aveva appreso quanto bastava (i nomi dei bimbi, l'ubicazione della casa, i cocktail che lei preferiva) per avvicinarla: il resto, a ben vedere, non era importante, perché o lei avrebbe desiderato che si fermasse, oppure avrebbe chiamato John perché lo mandasse via. «Qual è il tuo cibo preferito?» gli chiese lei. «Ti piace pescare? Hai mai avuto un cane?» «Oggi qualcuno mi ha detto» disse lui a un certo punto «di avere sentito dire che sono appena tornato da Boston. Eppure, l'ha detto come se dicesse di avere sentito che ero morto a Boston. È meglio non dare retta ai sentito dire.» "Anch'egli si sentiva solo" pensò lei tristemente. "Per questo è venuto portando con sé un destino: ora lo vedrò entrare ogni sera da quella porta e penserò non è mio marito, e lo aspetterò ricordandomi che sto attendendo un estraneo." «Comunque» disse Margaret «tu non sei morto a Boston e tutto il resto non conta.» Lo vide uscire di mattina con un caldo senso di orgoglio, e sbrigò i lavori domestici e vestì la bambina. Smalljohn quando tornò dall'asilo non chiese nulla, ma si guardò intorno con i suoi occhi vispi e sospirò. Mentre i bambini riposavano Margaret pensò che di pomeriggio avrebbe potuto por-
tarli al parco, e poi pensò ad un altro di quei pomeriggi eterni da sola con i bambini, un altro pomeriggio di forzata vedovanza. "È più di quanto io sia disposta a sopportare" pensò. "Oggi devo vedere qualcosa di diverso dalle facce dei miei figli. Nessuno dovrebbe essere solo così a lungo." Con movimenti rapidi si vestì e sistemò la casa. Chiamò una ragazza che frequentava le scuole superiori e le chiese di portare i bambini al parco. Senza sentirsi in colpa lasciò perdere tutti quei piccoli ordini relativi alla giacca che doveva indossare la bambina, al fatto che Smalljohn potesse o meno mangiare il popcorn, a quando riportarli a casa. Fuggì pensando: "Devo andare in mezzo alla gente." Con un taxi raggiunse il centro della città. Oh sì, l'unica cosa da fare era scegliere un regalo per lui, e, perché no? cercare trovare e comprare un omino tutto blu e viola e giallo. Entrò in diversi negozi che non conosceva scegliendo piccoli oggetti da mettere sui ripiani nuovi, guardando a lungo e con occhio critico avori, statuette, giocattoli carissimi dipinti di colori vivaci e adatti come doni per un estraneo. Era quasi buio quando si avviò verso casa portando i pacchetti. Dal finestrino del taxi osservava le strade buie e pensò compiaciuta che l'estraneo sarebbe tornato a casa prima di lei, e avrebbe guardato dalla finestra per vederla affrettarsi verso di lui. Avrebbe pensato: questa è un'estranea, sto aspettando un'estranea, vedendola arrivare. «Qui» disse picchiando sul vetro del taxi. «È proprio qui.» Scese dal taxi, pagò la corsa e sorrise mentre la macchina si allontanava. "Devo essere carina" pensò "il tassista ha risposto al mio sorriso." Si voltò e s'incamminò verso casa. Esitò: "Perché ho detto al tassista di fermare qui" pensò. "Non è possibile, non può essere; la nostra casa non è bianca?" La sera era molto buia e Margaret riusciva soltanto a intravvedere le file di case dietro alle quali c'erano altre file di case e poi altre ancora... e da qualche parte c'era una casa che era la sua, con quell'estraneo meraviglioso dentro, mentre lei si era persa lì. Titolo originale: The Beautiful Stranger Traduzione: Laura Pignatti Ambrose Bierce La Cosa Maledetta
Ambrose Bierce è, dopo Poe, il maggior autore americano di horror del diciannovesimo secolo. È uno dei tramiti attraverso i quali Poe ha influenzato Robert W. Chambers. Nonostante questo, gode di una considerazione relativamente scarsa perché una larga parte della sua narrativa dell'orrore è imperniata non sul soprannaturale ma sull'orrore psicologico e possiede sfumature ironiche brutali e grottesche: si tratta di racconti dell'assurdo e del surreale impregnati di umorismo nero. La Cosa Maledetta è uno dei suoi lavori più intensi, un'altra opera ibrida nella vena che da O'Brien e Chambers porta fino a Black Destroyer di A. E. Van Vogt e a Who Goes There? di John W. Campbell. Il racconto definisce il sottogenere della «orripilante minaccia invisibile, soprannaturale», una delle forme basilari della storia dei mostri; significativamente, questo tipo di storie si occupa anche della realtà e della percezione. Dopo che gli spettri e l'intero regno del soprannaturale hanno perso il ruolo centrale nella narrativa dell'orrore, il loro posto è stato preso, almeno in parte dalle nuove realtà immaginate dalla fantascienza (negli anni Trenta, la prima antologìa personale di fantascienza è stata The Horror on the Asteroid, di Edmund Hamilton). At the Mountains of Madness di Lovecraft, seguito di Narrative of Arthur Gordon Pym di Poe, fu pubblicato negli anni Trenta su Astounding, una rivista di fantascienza; e Hugo Gernsback, l'uomo che ha inventato l'idea della fantascienza come genere letterario, nell'editoriale del primo numero di Amazing Stories, nell'aprile 1926, ha indicato agli autori come modelli da seguire H. G. Wells, Jules Verne ed Edgar Allan Poe. Ma sono stati O'Brien e Bierce (e anche Wells) a diventare i modelli: sono stati loro a raccogliere il seme di Poe e a far crescere le prime forme fertili. L'evoluzione qui accennata ha dato vita a significativi rami della narrativa dell'orrore nella seconda metà del ventesimo secolo, creando una zona non troppo celebrata ma importante del genere fantascienza che meriterebbe un libro tutto per sé. 1. NON SEMPRE SI MANGIA CIÒ CHE È IN TAVOLA Alla luce di una candela di sego sistemata a un'estremità di un rudimentale tavolo, un uomo stava leggendo qualcosa che era scritto su un libro di conti, enormemente logoro; e, a quanto sembrava, la grafia non era molto leggibile, perché di tanto in tanto l'uomo avvicinava la pagina alla fiamma della candela, per avere una luce più forte. Allora l'ombra del libro faceva precipitare nell'oscurità metà della stanza, celando diversi volti e figure;
perché, oltre al lettore, erano presenti altri otto uomini. Sette di loro sedevano a ridosso delle pareti in legno, muti, immobili, e non troppo lontani dal tavolo, dato che la stanza era piccola. Tendendo un braccio, chiunque fra loro avrebbe potuto toccare l'ottavo uomo, che era coricato sul tavolo a viso all'insù, parzialmente coperto da un lenzuolo, le braccia distese lungo i fianchi. Era morto. L'uomo col libro non leggeva ad alta voce, e nessuno parlava; tutti sembravano attendere che accadesse qualcosa; soltanto il morto non coltivava attese. Dalle cupe tenebre esterne filtravano, attraverso l'apertura che fungeva da finestra, tutti i suoni perennemente estranei della sera in luoghi selvaggi: la lunga, informe nota di un coyote lontano; lo stridio pacatamente pulsante di instancabili insetti fra gli alberi; strani richiami di uccelli notturni, così diversi dalle voci degli uccelli diurni; il ronzio prodotto dall'arrancare imponente dei coleotteri, e tutto il misterioso coro di minuscoli suoni che sembra sempre di avere udito soltanto a metà quando, come consci di un'indiscrezione, cessano all'improvviso. Ma nulla di tutto questo veniva notato da quel gruppo; i suoi membri non amavano troppo indugiare nell'inutile, interesse per cose prive di importanza pratica; era evidente in ogni linea dei loro volti scabri, evidente persino alla luce fioca dell'unica candela. Erano chiaramente uomini della zona, agricoltori e boscaioli. La persona che stava leggendo era un poco diversa; lo si sarebbe giudicato un uomo di mondo, per quanto nel suo abbigliamento ci fosse qualcosa che attestava una certa affinità con gli organismi dell'ambiente. Difficilmente il suo cappotto sarebbe stato ritenuto all'altezza della situazione a San Francisco; le sue calzature non erano di origine cittadina, e il cappello appoggiato al suo fianco sul pavimento (era l'unico ad avere la testa scoperta) era di foggia tale che considerarlo un semplice capo di ornamento personale avrebbe significato non comprenderne lo scopo. L'espressione del suo volto era piuttosto simpatica, con una minima traccia di severità; ma forse questo tratto era affettato o coltivato, perché ritenuto idoneo a chi occupa una posizione d'autorità. Poiché l'uomo era un coroner. Per virtù della sua carica era in possesso del libro che stava leggendo: il volume era stato trovato tra gli effetti del morto, nella sua casa in legno, dove si svolgeva l'inchiesta. Quando il coroner ebbe terminato di leggere, infilò il libro nella tasca all'altezza del petto. In quel momento si spalancò la porta ed entrò un giovane uomo. Chiaramente, non era nato e cresciuto in montagna; era vestito da cittadino. Comunque, i suoi abiti erano impolverati, come dopo un
viaggio. In effetti, aveva cavalcato sodo per essere presente all'inchiesta. Il coroner annuì; nessun altro salutò il giovane. «La stavamo aspettando» disse il coroner. «È necessario chiudere questa questione entro stanotte.» Il giovane sorrise. «Mi spiace avervi fatto attendere» disse. «Me ne sono andato non per sfuggire alla sua conversazione, ma per spedire al mio giornale un resoconto sui fatti che presumo dovrò raccontare qui.» Il coroner sorrise. «Il resoconto che lei ha inviato al suo giornale» disse «probabilmente differirà da quello che ci riferirà qui sotto giuramento.» «Questa» ribatté l'altro, accalorandosi e arrossendo visibilmente, «è una sua opinione. Ho usato carta copiativa e ho una copia di ciò che ho spedito. Non l'ho scritto come articolo di cronaca, perché i fatti sono incredibili, ma come brano di narrativa. Può entrare a fare parte della mia testimonianza sotto giuramento.» «Però lei dice che è incredibile.» «Questo non deve importarle, signore, se io giurerò anche che è la verità.» Il coroner restò un poco in silenzio, gli occhi puntati sul pavimento. Gli uomini disposti lungo i lati della casa parlavano a sussurri, ma di rado distoglievano lo sguardo dal viso del cadavere. Alla fine, il coroner alzo gli occhi e disse: «Riprendiamo l'inchiesta.» Gli uomini si tolsero i cappelli. Il testimone giurò. «Qual è il suo nome?» chiese il coroner. «William Harker.» «Età.» «Ventisette anni.» «Conosceva il defunto, Hugh Morgan?» «Sì.» «Era con lui quando è morto?» «Vicino a lui.» «Come mai? Come mai era presente, intendo?» «Ero venuto a trovarlo qui per andare a caccia e pesca. Una parte del mio interesse, comunque, era studiare lui e il suo strano, solitario modo di vivere. Mi sembrava un buon modello per un personaggio letterario. A volte scrivo racconti.» «A volte io li leggo.» «Grazie.»
«Racconti in generale, non i suoi.» Qualche giurato rise. In una situazione tetra, l'umorismo brilla di luce sfavillante. I soldati ridono facilmente negli intervalli della battaglia, e una battuta di spirito nella camera mortuaria conquista perché sorprende. «Riferisca le circostanze della morte di quest'uomo» disse il coroner. «Può usare note o appunti a suo piacere.» Il testimone comprese. Estratto un manoscritto dalla tasca sul petto, lo tenne vicino alla candela, e sfogliate le pagine finché non trovò il punto che desiderava, cominciò a leggere. 2. QUELLO CHE PUÒ ACCADERE IN UN CAMPO DI AVENA SELVATICA "... Il sole si era levato da poco quando lasciammo la casa. Eravamo in cerca di quaglie, ognuno dei due con un fucile, ma avevamo un solo cane. Morgan disse che la zona migliore era al di là di un certo spartiacque che mi indicò, e lo superammo seguendo un sentiero nel roveto. Sul lato opposto si estendeva un terreno relativamente piano, densamente coperto di avena selvatica. Quando emergemmo dal roveto, Morgan mi precedeva solo di qualche metro. All'improvviso udimmo, a poca distanza sulla nostra destra e in parte di fronte a noi, il suono di un animale che si agitava fra i cespugli, che come potemmo vedere, erano scossi da un moto violento.» "«Abbiamo stanato un cervo» dissi. «Vorrei che avessimo portato una carabina.» "Morgan, che si era fermato e stava osservando con aria intenta il roveto agitato, non disse nulla, ma aveva già armato il suo fucile e si teneva pronto a puntare. Lo giudicai piuttosto eccitato, il che mi sorprese, dato che godeva della fama di una freddezza eccezionale, anche nei momenti di improvviso e imminente pericolo. "«Oh, andiamo» dissi. «Non vorrai sparare a un cervo con una cartuccia a pallini, vero?» "Lui ancora non mi rispose; ma quando si voltò leggermente verso me e io intravvidi il suo volto, restai colpito dall'intensità della sua espressione. Allora capii che la situazione che dovevamo affrontare era seria, e la mia prima congettura fu che ci fossimo accidentalmente imbattuti in un grizzly. Avanzai a fianco di Morgan, armando nel frattempo il mio fucile. "I cespugli erano adesso immobili e i suoni erano cessati, ma Morgan era attento al luogo come prima.
"«Cos'è? Cosa diavolo è?» chiesi. "«Quella Cosa Maledetta!» rispose lui, senza girare la testa. La sua voce era roca e alterata. Tremava visibilmente. "Stavo per aggiungere qualcosa d'altro, quando osservai l'avena selvatica muoversi nel più inesplicabile dei modi nei pressi del punto del tumulto. Mi è difficile descrivere il fenomeno. L'avena sembrava percorsa da una corrente di vento che non solo la piegava, ma la schiacciava anche, la schiacciava fino a impedirle di alzarsi; e questo movimento stava avanzando lentamente verso di noi. "Nulla che io abbia mai visto ha provocato in me sensazioni strane come quel fenomeno ignoto e inspiegabile, eppure non riesco a rammentare il minimo senso di paura. Ricordo (e lo dico qui perché, piuttosto singolarmente, fu una cosa che si riaffacciò alla mia memoria in quel momento) che una volta, guardando distrattamente da una finestra aperta, per un attimo credetti che un piccolo albero vicino a me facesse parte di un gruppo di alberi più grandi e un poco più lontani. Apparentemente possedeva le stesse dimensioni degli altri, ma la sua massa e i particolari dei suoi contorni erano definiti in modo più distinto e netto, per cui sembrava fuori posto nel gruppo. Era una semplice falsificazione delle léggi della prospettiva aerea, ma mi lasciò stupefatto, quasi terrificato. Siamo tanto abituati al perfetto funzionamento delle familiari leggi di natura che ogni loro apparente interruzione viene interpretata come una minaccia alla nostra sicurezza, un segno che ci preavverte di impensabili calamità. In quella situazione, quindi, il movimento apparentemente privo di causa della vegetazione, e il lento, inarrestabile avvicinarsi della linea di tumulto, erano assai inquietanti. Il mio compagno sembrava davvero spaventato, e io quasi non riuscii a prestare fede ai miei sensi quando all'improvviso lo vidi appoggiare il fucile alla spalla e sparare entrambi i suoi colpi alle tumultuose graminacee! Prima che il fumo degli spari si fosse diradato, udii un urlo forte e selvaggio, come l'urlo di un animale selvatico; e gettato il fucile a terra, Morgan schizzò via e prese a scappare. Nello stesso istante, venni scaraventato violentemente a terra dall'impatto di qualcosa che nel fumo era invisibile: una sostanza molle e pesante che mi piombò addosso con una forza notevole. "Prima che potessi rialzarmi e recuperare il fucile, che a quanto sembrava mi era stato strappato di mano, sentii Morgan gridare nei toni dell'agonia; e alle sue urla si mischiavano suoni rauchi, selvaggi, come quelli emessi da cani che combattano. Orripilato in maniera indescrivibile, mi tirai in piedi e guardai nella direzione presa da Morgan nella sua fuga; e possa
la misericordia del cielo risparmiarmi un altro spettacolo simile! A meno di trenta metri di distanza c'era il mio amico, chino su un ginocchio, la testa piegata all'indietro a un angolo spaventoso, senza più cappello, i lunghi capelli scarmigliati e l'intero corpo scosso da un violento movimento che lo faceva sussultare da destra a sinistra, e avanti e indietro. Il suo braccio destro era alzato, e privo della mano; per lo meno, io non la vedevo. L'altro braccio era invisibile. Di tanto in tanto, stando a quello che la memoria mi racconta di questa scena straordinaria, riuscivo a discernere solo una parte del suo corpo; era come se lui fosse parzialmente oscurato (non saprei esprimermi in altro modo), e poi un cambiamento di posizione lo rendeva di nuovo del tutto visibile. "Tutto questo deve essere accaduto nel giro di pochi secondi, eppure in quell'intervallo Morgan prese tutte le posizioni di un abile lottatore vinto da peso e forze superiori. Io vedevo soltanto lui, e anche lui in modo non sempre chiaro. Per l'intero corso dell'episodio riuscii a sentire le sue urla e imprecazioni, grande caos di suoni e rabbia e ira come non avevo mai udito uscire dalla gola di un uomo civile o di un bruto! "Per un solo istante rimasi indeciso; poi, gettato il fucile, corsi al soccorso del mio amico. Avevo la vaga idea che stesse soffrendo di un attacco, o di un qualche tipo di convulsione. Prima che giungessi al suo fianco, era riverso a terra e immobile. Ogni suono era cessato, ma con un senso di terrore che nemmeno quegli spaventosi eventi mi avevano ispirato vidi di nuovo il misterioso movimento dell'avena selvatica: si prolungava dall'area calpestata attorno all'uomo caduto fino al limitare di un bosco. Fu solo quando il movimento ebbe raggiunto gli alberi che riuscii a distogliere gli occhi per guardare il mio compagno. Era morto." 3. PER QUANTO NUDI, SI PUÒ ESSERE COPERTI DI FERITE Il coroner si alzò dalla sedia e si portò a fianco del morto. Sollevò un lembo e scostò del tutto il lenzuolo, esponendo l'intero corpo, che era completamente nudo e possedeva, al lume della candela, un colore giallo come di argilla. Aveva però grandi macchie di un nero bluastro, chiaramente provocate dalla fuoruscita di sangue dovuta alle contusioni. Petto e fianchi sembravano essere stati percossi da un randello. C'erano terribili lacerazioni; la pelle era ridotta a strisce e brandelli. Il coroner si trasferì a un capo del tavolo e slacciò il fazzoletto di seta che era stato sistemato sotto il mento e annodato in cima alla testa. Tolto il
fazzoletto, apparve quella che era stata la gola. Alcuni giurati che si erano alzati per vedere meglio si pentirono della propria curiosità e distolsero lo sguardo. Il testimone Harker andò alla finestra aperta e si sporse dal davanzale, colto da un malore. Lasciato cadere il fazzoletto sul collo del morto, il coroner si spostò a un angolo della stanza e da una pila di abiti tolse una serie di capi d'abbigliamento, studiandoli a uno a uno per un attimo. Erano tutti laceri, e intrisi di sangue rappreso. I giurati non condussero indagini più approfondite. Sembravano piuttosto disinteressati. In realtà avevano già visto tutto quello; l'unica cosa che fosse nuova per loro era la testimonianza di Harker. «Signori» disse il coroner, «non abbiamo ulteriori prove, ritengo. Il vostro dovere vi è già stato spiegato. Se non c'è nulla che volete chiedere, potete uscire e decidere il verdetto.» Si alzò il portavoce, un uomo alto e barbuto di sessant'anni, vestito in maniera grossolana. «Vorrei fare una domanda, signor Coroner» disse. «Da che manicomio è scappato ultimamente il testimone?» «Signor Harker» disse il coroner, in tono grave e pacato, «da che manicomio è scappato ultimamente?» Harker divenne di nuovo paonazzo, ma non disse niente, e i sette giurati si alzarono e uscirono solennemente dalla casa di legno. «Se lei ha finito di insultarmi, signore» disse Harker, non appena lui e il funzionario rimasero soli col morto, «immagino di potermene andare.» «Sì.» Harker fece per uscire, ma si fermò, con la mano sulla serratura della porta. L'istinto professionale era forte in lui, più forte del senso della dignità personale. Si girò e disse. «Il libro che lei ha ... Riconosco il diario di Morgan. Mi è parso che le interessasse molto; ha continuato a leggerlo anche mentre io testimoniavo. Posso vederlo? Il pubblico vorrebbe ... «Il libro non ha la minima importanza in questa storia» ribatté il funzionario, infilando il diario nella tasca sul petto. «Tutte le annotazioni sono state scritte prima della morte dell'autore.» Mentre Harker usciva dalla casa, la giuria rientrò e si sistemò attorno al tavolo, sul quale il cadavere nuovamente coperto spiccava sotto il lenzuolo in modo nettissimo. Il portavoce sedette vicino alla candela, estrasse dal taschino una matita e un pezzo di carta e scrisse, in modo piuttosto laborioso, il verdetto che segue, firmato da tutti con sforzi di varia entità:
«Noi, la giuria, riteniamo che queste spoglie mortali siano defunte per mano di un leone di montagna, ma alcuni di noi pensano ugualmente che si sia trattato di convulsioni.» 4. UNA SPIEGAZIONE DALLA TOMBA Nel diario del defunto Hugh Morgan si trovano alcune interessanti annotazioni che posseggono, forse, il valore di suggerimenti scientifici. Nel corso dell'inchiesta condotta sul suo cadavere, il libro non è stato presentato come prova; forse il coroner non giudicava opportuno confondere la giuria. La data della prima fra le predette annotazioni non è definibile; la parte superiore del foglio è strappata; la parte dell'annotazione che resta viene qui riportata: «... Correva in un mezzo cerchio, sempre tenendo la testa rivolta al centro, e di tanto in tanto si fermava, abbaiando furiosamente. Alla fine è scappato tra i cespugli con tutta la velocità di cui dispone. Dapprima ho pensato che fosse impazzito, ma tornando a casa ho trovato il suo atteggiamento mutato solo per l'ovvio timore di una punizione. «È possibile che un cane veda col naso? Gli odori colpiscono qualche centro cerebrale con le immagini della cosa che li ha emessi? «2 sett. Ieri sera, guardando le stelle che sorgevano dietro la vetta del crinale a est della casa, le ho viste scomparire l'una dopo l'altra, da sinistra a destra. Ogni stella è rimasta eclissata per un solo istante, e soltanto poche stelle contemporaneamente, ma lungo l'intero arco del crinale, tutte le stelle che si trovavano a un grado o due dalla vetta sono scomparse. È stato come se qualcosa fosse passato tra loro e me; ma io non vedevo la cosa, e le stelle non erano abbastanza numerose da definirne i contorni. Ahi! Non mi piace...» Mancano le annotazioni di diverse settimane; tre pagine sono state strappate dal diario. «27 sett. È stata di nuovo qui attorno. Ogni giorno trovo prove della sua presenza. Sono rimasto ancora di guardia per tutta la notte nello stesso nascondiglio, armato di un fucile caricato con cartucce a pallini. Il mattino, come le altre volte, c'erano impronte fresche. Eppure giurerei di non avere dormito; anzi, quasi non dormo più. È terribile, insopportabile! Se queste incredibili esperienze sono vere, impazzirò; se sono frutto di fantasia, sono già pazzo. «3 ott. Non me ne andrò. Non mi scaccerà. No, questa è la mia casa, la
mia terra. Guai ai codardi... «5 ott. Non lo sopporto più. Ho invitato Harker a passare qualche settimana con me. Ha i piedi per terra. Capirò dal suo modo di comportarsi se mi giudica pazzo. «7 ott. Ho la soluzione del mistero. Mi è giunta la sera scorsa, all'improvviso, come per una rivelazione. Com'è semplice, com'è semplice e terribile! «Ci sono suoni che non possiamo udire. A ciascuna estremità della scala esistono note che non fanno risuonare echi in quell'imperfetto strumento che è l'orecchio umano. Sono troppo alte o troppo gravi. Ho visto uno stormo di merli occupare l'intera cima di un albero, le cime di diversi alberi. Tutti cantavano. All'improvviso, in un attimo, nello stesso preciso istante, tutti si sono alzati in aria e sono partiti in volo. Come mai? Non potevano vedersi tra loro; c'erano di mezzo intere cime di alberi. Non esisteva un punto da cui un capo potesse essere visibile a tutti. Deve essere stato emesso un segnale di avvertimento o di comando, alto e stridulo tanto da superare il frastuono generale, ma per me inaudibile. Ho osservato anche lo stesso volo simultaneo quando tutti tacevano, non solo fra i merli, ma fra altri uccelli, ad esempio quaglie, separati da ampie distese di cespugli, addirittura su opposti lati di una collina. «È noto ai marinai che un branco di balene che nuotino o giochino sulla superficie dell'oceano, lontane chilometri l'una dell'altra, con la convessità della Terra fra loro, a volte si immerge nello stesso istante: tutti i cetacei scompaiono in un attimo. È stato lanciato il segnale, troppo grave per l'orecchio del marinaio al colombiere o per i suoi compagni sul ponte, che comunque avvertono le vibrazioni nella nave, così come le pietre di una cattedrale vengono impercettibilmente smosse dal basso dell'organo. «Ciò che accade coi suoni è vero anche per i colori. A ciascuna estremità dello spettro solare i chimici riescono a individuare la presenza di quelli che sono noti come raggi attinici. Essi rappresentano colori, colori essenziali per la composizione della luce, che noi non discerniamo. L'occhio umano è uno strumento imperfetto; il suo raggio d'azione copre solo poche ottave della reale scala cromatica. Non sono pazzo; esistono colori che noi non possiamo vedere. «E, Dio mi aiuti!, la Cosa Maledetta è di un tale colore.» Titolo originale: The Damned Thing Traduzione: Vittorio Curtoni
Edith Wharton Dopo Edith Wharton, grande scrittrice americana della tradizione del realismo, amica intima di Henry James, è anche raffinata scrittrice di fiction soprannaturale. James e Walter de la Mare sono i suoi modelli. Avesse potuto scegliere, John W. Campbell si sarebbe rivolto a lei per il genere di racconti che voleva trovare per Unknown: ghost stories con una impostazione contemporanea ottimamente raffigurata giorno per giorno. Ma i racconti di Edith Wharton sono essenzialmente destinati a un pubblico di lettori delle classi media e medio alta, e Campbell invece scelse di produrre per un pubblico di massa. L'influenza di Edith Wharton su scrittori successivi non è facilmente rintracciabile, ma le sue storie (raccolte in Ghosts) sono piene di maestria e durevoli. Dopo è indubbiamente riconducibile allo stile del de la Mare. Wharton ci dà un ritratto di personaggio di meticolosa chiarezza e di sostanziale profondità psicologica, ma gli eventi sono tanto sconvolgenti e ambigui da sospingere la storia oltre il confine del reale, nell'extrasensoriale. È, quindi, essenzialmente, una storia sulla percezione e la natura della realtà. I Oh, ce n'è uno, naturalmente, solo che non lo riconoscerete mai». L'affermazione, profferita con allegria sei mesi prima in un gaio giardino di giugno, si ripresentò alla mente di Mary Boyne, con una nuova percezione del suo significato, in un imbrunire del mese di dicembre, mentre aspettava in biblioteca che portassero le lampade. Le parole erano state pronunciate dalla sua amica Alida Stair mentre sedevano a prendere il tè sul prato di casa sua, a Pangbourne; ed erano riferite alla casa di cui la biblioteca in questione costituiva l'espressione centrale, il perno. Mary Boyne e suo marito, alla ricerca di una casa di campagna in una delle regioni meridionali o sudoccidentali, avevano, al loro arrivo in Inghilterra, subito presentato il problema ad Alida Stair che, tempo prima, aveva con successo risolto il suo problema. Ma era stato soltanto quando loro avevano detto no, quasi con capriccio, a molti suggerimenti pratici e giudiziosi che Alida Stair aveva esclamato: «Be', c'è Lyng, nel Dorsetshire. Appartiene a dei cugini di Hugo e potrete averla per una sciocchezza».
Le ragioni che aveva fornito a giustificazione della cessione a quelle condizioni: la sua lontananza da una stazione, la mancanza di luce elettrica, di acqua calda e di altre plebee necessità... erano esattamente quelle che deponevano a suo favore per i due romantici americani perversamente alla ricerca di un tornaconto economico che fosse associato, nella loro tradizione, a un'insolita configurazione architettonica. «Non avrei mai pensato di vivere in una vecchia casa se non in cambio di un assoluto disagio». Ned Boyne, il più stravagante dei due, aveva giocosamente insistito: «Il fatto della convenienza in realtà mi fa pensare che possa essere stata acquistata a un'esposizione, con i pezzi numerati, e rimontata». E avevano continuato a enumerare, con scherzosa precisione, i loro vari dubbi e necessità, rifiutandosi di credere che la casa che l'amica raccomandava fosse davvero Tudor fino a quando non avevano appresso che era senza sistema di riscaldamento, che la chiesa del villaggio era nel parco, e che, a sentire lei, non avrebbero potuto contare su una costante presenza dell'acqua. «È troppo disagevole per essere vera!» Edward Boyne aveva continuato a esultare via via che Alida Stair aveva allungato la lista degli svantaggi, ma poi aveva posto bruscamente fine alla propria rapsodia per chiedere, con una punta di sospetto: «E lo spettro? Non mi dirà che lì non ce ne sono!» Mary, al momento, aveva riso con lui, tuttavia, già mentre rideva, dotata com'era di certe capacità percettive, era stata colpita da una nota monotona nell'ilare risposta di Alida. «Oh, il Dorsetshire è pieno di spettri, sa?» »Si, sì, ma non va bene. Non mi va di fare una decina di chilometri con la macchina per vedere lo spettro di qualcun altro. Ne voglio uno tutto mio, nella mia proprietà. C'è uno spettro a Lyng?» La replica aveva fatto di nuovo ridere Alida ed era stato allora che, tentatrice, lei aveva ribattuto: «Oh, ce n'è uno, naturalmente, ma non lo riconoscerete mai». «Non lo riconosceremo mai?» Boyne era rimasto incredulo. «E quale sarebbe mai la caratteristica di uno spettro se non quella di farsi riconoscere da almeno una persona?» «Non so. Ma questa è la storia». «Che c'è uno spettro ma che nessuno sa che è uno spettro?» «Be'... non fino a dopo, a ogni modo». «Fino a dopo?»
«Non fino a molto... molto dopo.» «Ma se una volta è stato identificato come visitatore ultraterreno, perché la sua presenza non è stata tramandata nella famiglia? Come ha fatto a mantenere l'incognito?» Alida aveva potuto soltanto scuotere la testa. «Non me lo chieda. Ma è così.» «E poi, all'improvviso...» Mary aveva parlato come da cavernose profondità di divinazione «...all'improvviso, molto tempo dopo, uno dice a un altro se stesso: — Quello era lui?» Era rimasta sorpresa dal suono sepolcrale con cui la domanda era caduta sullo scherzo degli altri due e aveva visto la stessa sorpresa accendersi nelle pupille di Alida. «Suppongo di sì. Uno deve solo aspettare». «Oh, macché aspettare!» era intervenuto Ned. «La vita è troppo breve per uno spettro che può soltanto essere goduto in retrospettiva. Non possiamo fare di meglio, Mary?». Ma avevano scoperto che a quell'evento non erano destinati perché, tre mesi dopo la loro conversazione con la signora Stair, si erano sistemati a Lyng ed era cominciata per loro quella vita che avevano desiderato fino al punto di pianificarla in anticipo in tutti i suoi dettagli. Sedere, nel cupo dicembre, davanti a quell'ampio camino, sotto quelle nere travi di quercia, con la sensazione che dietro quelle finestre a più luci i prati s'imbrunissero per una più profonda solitudine: era stato per l'estrema indulgenza di quelle sensazioni che Mary Boyne, bruscamente esiliata a New York dagli affari del marito, aveva sopportato per quasi quattordici anni la desolante bruttezza di una cittadina del Middle West e che Boyne aveva tirato avanti con il suo lavoro, stringendo i denti, fino a quando, con una subitaneità che ancora le faceva sbattere le palpebre, la prodigiosa caduta della Blue Star Mine non li aveva gettati in qualche difficoltà economica, con l'unico possesso della loro vita e del piacere di gustarla. Non avevano mai pensato al loro nuovo stato come a uno stato di ozio, ma avevano pensato, questo sì, di dedicarsi ad attività più armoniose. Lei aveva i suoi progetti di pittura e di giardinaggio (contro un passato che era fatto di muri grigi), lui sognava di scrivere il libro a cui pensava da molto tempo sulle Basi economiche della cultura; e con una tale e impegnativa mole di lavoro davanti, nessuna esistenza poteva risultare rinunciataria: non avrebbero potuto astrarsi dal mondo, né rifugiarsi nel passato. Il Dorsetshire li aveva attratti fin da principio per la sua aria di lontananza, sproporzionata rispetto alla sua posizione geografica. Per i Boyne costi-
tuiva una delle tante meraviglie di quell'isola incredibilmente compressa... un nido di paesi, la chiamavano... che, per produrre i suoi effetti, così pochi, ma di qualità, arrivasse tanto lontano: un paese nel quale poche miglia rappresentassero una distanza, e una così breve distanza una differenza. «È questo» aveva spiegato una volta Ned, con entusiasmo «che dà tanta profondità ai loro affetti, tanto rilievo ai loro contrasti. Sono stati capaci di spalmare di burro ogni tartina e renderla deliziosa.» E di burro a Lyng ne era stato spalmato parecchio: la vecchia casa, a ridosso di una collinetta, aveva tutti i migliori contrassegni di un commercio con un passato protrattosi a lungo. Il fatto stesso che non fosse né grande né eccezionale la rendeva, agli occhi dei Boyne, ancora più completa nel suo fascino speciale: il fascino di essere stata per secoli una discreta quanto profonda riserva di vita. La vita non era stata probabilmente di un ordine vigoroso: per lunghi periodi, senza dubbio, era ricaduta silenziosamente nel passato come la tranquilla pioggerellina d'autunno cadeva, ora dopo ora, nello stagno tra i tassi; ma quelle acque stagnanti di esistenza a volte generavano, nelle loro pigre profondità, strane acutezze di emozione, e Mary Boyne aveva sentito fin dal primo momento il misterioso agitarsi di ricordi più intensi. La sensazione non era mai stata tanto forte come quel particolare pomeriggio quando, mentre aspettava in biblioteca che arrivassero le lampade, Mary si alzò dallo scranno e rimase ferma tra le ombre che il camino generava. Suo marito se n'era andato, dopo pranzo, per una delle sue lunghe camminate sulle colline. Aveva notato di recente che preferiva andare solo; e, nella provata sicurezza dei loro rapporti personali, era arrivata a concludere che il libro lo preoccupava, che aveva bisogno dei pomeriggi per dibattere in solitudine ì problemi lasciati dal lavoro del mattino. Certamente, il libro non procedeva come lei aveva pensato; vedeva negli occhi del marito segni di perplessità che non gli aveva più visto dai tempi del suo lavoro di ingegnere. Lui, allora, le era apparso spesso come sull'orlo di una malattia, ma il demone della preoccupazione non gli aveva mai segnato la fronte. Tuttavia, le poche pagine che le aveva letto... l'introduzione e un sommario del capitolo d'apertura... mostravano una salda presa del soggetto e una crescente fiducia nei mezzi a disposizione. Il particolare la rendeva ancora più perplessa dal momento che, avendo lui chiuso il lavoro e le sue disturbanti necessità, era stata eliminata l'unica altra possibile fonte d'ansia. A meno che non si trattasse della salute. Ma fisicamente era rifiorito da quando erano venuti a vivere nel Dorsetshire, si
era irrobustito, era più riposato in viso. Da una settimana soltanto avvertiva in lui quell'indefinibile cambiamento che la rendeva nervosa quando non c'era, e le faceva tenere la bocca chiusa quando c'era, come se fosse lei quella che aveva un segreto da custodire! Il pensiero che ci fosse un qualche segreto tra di loro la riempì di meraviglia. Si guardò attorno. «Può essere la casa?» si chiese, un po' divertita. La lunga stanza in sé avrebbe potuto essere piena di segreti. Sembravano disporsi l'uno sull'altro, con il cadere della sera, come strati e strati di ombre vellutate che cadevano dal basso soffitto, dalle file di libri, dalla scultura del camino annerita dal fumo. «Ma certo... la casa è frequentata!» rifletté. Lo spettro... l'impercettibile spettro di Alida... dopo essere stato al centro dei loro commenti scherzosi durante il primo mese di permanenza a Lyng, ma anche durante il secondo, era stato gradatamente messo da parte come troppo ininfluente a scopo immaginativo. Mary aveva, come affittuaria di una casa frequentata da spettri, fatto le doverose indagini tra i vicini, ma, a parte qualche vago: «Così dicono, madame» quella gente non le aveva rivelato nulla di nuovo. Sembrava proprio che lo sfuggente spettro non avesse una sufficiente identità perché una leggenda lo cristallizzasse, cosicché dopo qualche tempo i Boyne avevano messo da parte l'argomento convenendo che Lyng fosse già una casa fin troppo economica per dispensare anche qualche aggiunta di soprannaturale. «E suppongo che sia per questo che il povero spettro batta inutilmente a vuoto le belle ali» aveva concluso ridendo Mary. «O, piuttosto» aveva rincarato Ned, sullo stesso tono «direi che tra tanta spettralità, non riesca ad affermare la sua separata esistenza con lo spettro». E con questo, l'invisibile compagno di casa era stato definitivamente escluso dai loro discorsi, già sufficientemente numerosi perché avessero bisogno d'altri argomenti per discutere. Adesso, mentre se ne stava davanti al camino, il soggetto della loro precedente curiosità riviveva in lei con un nuovo senso del suo significato, un senso gradatamente acquisito attraverso il contatto giornaliero con la scena dell'inquietante mistero. Era la casa in sé, naturalmente, che possedeva la facoltà di visualizzare lo spettro, che si metteva in rapporto spirituale, visivamente ma segretamente, con il suo passato; se si riusciva a entrare in una comunione abbastanza intima con la casa, si poteva sorprenderne il segreto e visualizzare lo spettro per conto proprio. Forse, durante le lunghe ore che
trascorreva in quella stanza, una stanza nella quale lei non entrava mai prima del pomeriggio, suo marito aveva già acquisito quella capacità di comunione e si teneva segretamente dentro il peso di ciò che poteva esserglisi rivelato. Mary aveva fin troppo dimestichezza con i codici del mondo degli spettri per non sapere che è tassativamente proibito parlare dello spettro che si riesce a vedere: farlo equivale a infrangere le regole del buon gusto ed è grave come fare il nome di una signora in un club. Ma questa spiegazione non la soddisfaceva del tutto. — Per che cosa, dopotutto, se non per il piacere del brivido — rifletté — ci si preoccuperebbe di non parlare con nessuno dei propri spettri? — Ed ecco che ritornava ancora una volta al dilemma fondamentale: il fatto che una maggiore o minore suscettibilità all'influenza spettrale non avesse particolare significato specifico, dal momento che, a Lyng, se uno vedeva uno spettro, non lo riconosceva. «Non fino a molto dopo» aveva detto Alida Stair. Be', e se Ned ne avesse visto uno fin da quando erano arrivati in quella casa e avesse saputo soltanto nell'ultima settimana che cosa gli era accaduto? Sempre più sotto l'incantesimo dell'ora, Mary riportò i suoi pensieri ai primi giorni del loro arrivo, ma riuscì soltanto a rivedere la confusione nella quale erano vissuti tra pacchi da aprire, cose da sistemare, libri da mettere negli scaffali e quel loro chiamarsi dai più remoti angoli della casa via\ via che questa rivelava i suoi tesori. Fu in conseguenza di questa particolare connessione che ricordò un dolce pomeriggio del mese di ottobre, quando, passando dagli entusiasmi della prima frettolosa esplorazione a una più dettagliata ispezione della vecchia casa, aveva premuto (come l'eroina di un romanzo) un pannello e questo si era aperto su una scala a chiocciola che conduceva a una piattaforma del tetto... un tetto che, visto da sotto, sembrava spiovere troppo bruscamente da tutti i lati per qualsiasi piede non esperto. La vista da quell'angolo nascosto era incantevole e lei si era subito precipitata di sotto per stornare Ned dai suoi documenti e metterlo a parte della scoperta. Ricordava ancora come, fermo al suo fianco, lui le aveva passato un braccio attorno e tutti e due avevano lasciato vagare lo sguardo sul frastagliato orizzonte di colline per riportarlo all'arabesco delle siepi di tasso intorno allo stagno, all'ombra del cedro sul prato. «E adesso dall'altra parte» aveva detto lui, facendola voltare e accogliendola nell'altro braccio; e, stretta a lui, Mary aveva assorbito, come in un lungo e soddisfacente sorso, il quadro del cortile dai muri grigi, dei leoni acquattati sui cancelli, del viale di tigli che andava a congiungersi con l'altra strada, sulle colline.
Era stato proprio allora, mentre guardavano e si tenevano l'un l'altro, che lei aveva sentito il braccio del marito rilassarsi e udito un chiaro: «Ehilà!» che l'aveva indotta a voltarsi verso di lui. Sì, ora ricordava distintamente che, quando aveva guardato, aveva visto un'ombra di ansietà, di perplessità, piuttosto, attraversargli il viso; e, seguendo poi la direzione del suo sguardo, aveva scorto la figura di un uomo... un uomo con ampi indumenti grigi, le era parso... il quale veniva lentamente per il viale verso il cortile con l'atteggiamento dello straniero dubbioso che cercasse la propria strada. A causa della sua miopia, della figura aveva avuto una visione sfuocata, grigia, con qualcosa di estraneo o, almeno, di non locale; ma suo marito doveva avere visto di più, abbastanza da indurlo a lasciarla con un imperioso: «Aspetta!» e a correre giù per le scale senza fermarsi per darle una mano. Una leggera tendenza alle vertigini l'aveva obbligata, dopo essersi provvisoriamente tenuta al comignolo presso il quale erano stati stretti l'uno all'altra, a seguirlo con la massima cautela. Sul pianerottolo, si era fermata di nuovo, questa volta per una ragione meno definita, e si era sporta dalla balaustra sforzandosi di vedere. Era rimasta lì fino a quando, da sotto, le era giunto il rumore di una porta che si chiudeva; poi, meccanicamente, aveva completato la stretta rampa di scale ed era scesa dabbasso. La porta d'ingresso era aperta sul cortile illuminato dal sole, ingresso e cortile erano deserti. Anche la porta della biblioteca era aperta a lei, dopo avere aspettato invano un suono o delle voci provenire dall'interno, ne aveva varcato la soglia e aveva trovato suo marito solo che trafficava distrattamente con i documenti che aveva sulla scrivania. Lui aveva sollevato la testa come sorpreso dal suo ingresso, ma l'ombra d'ansietà era scomparsa dal suo viso lasciandolo, semmai, un po' più vivace e disteso del solito, cosa di cui lei si era meravigliata. «Chi era? Chi era?» gli aveva domandato. «Chi?» aveva ripetuto lui, ancora sorpreso. «L'uomo che abbiamo visto venire verso casa.» «L'uomo? Pensavo fosse Peters e gli sono corso dietro per dirgli due parole a proposito dei canali di scolo della stalla, ma era già scomparso quando sono arrivato di sotto.» «Scomparso? Ma se camminava lentamente quando lo abbiamo visto.» Boyne si era stretto nelle spalle. «Così pensavo. Ma deve avere aumentato l'andatura nel frattempo. Che cosa ne dici di tentare la scalata a Meldon Steep, prima del calare del sole?»
Così era stato. Niente di più, niente di meno. Al momento, il fatto aveva significato meno di niente ed era stato subito cancellato dalla magia della loro prima visione di Meldon Steep, una cima che avevano sognato di scalare fin da quando ne avevano visto la prima volta il dorso ergersi sopra il tetto di Lyng. Senza dubbio, l'ascensione a Meldon Steep aveva relegato provvisoriamente quell'episodio in un angolo oscuro della memoria, un angolo dal quale ora emergeva. Oltretutto, il fatto in sé non aveva nulla di portentoso. Al momento, non era parso strano che Ned si fosse precipitato giù dal tetto all'inseguimento di quel fornitore sempre in ritardo con le consegne. Era anche un periodo in cui loro erano sempre in attesa di questo o quel personaggio per via dei lavori da fare alla casa, pronti a fermarli al volo quando si mostravano per sollecitarli o fare loro delle rimostranze. E certamente, data la distanza, la figura avrebbe potuto essere quella di Peters. Adesso, tuttavia, ripassando mentalmente la scena, lei sentiva che la spiegazione di suo marito era invalidata dall'espressione d'ansietà che gli aveva visto sulla faccia. Perché mai un'apparizione familiare come quella di Peters avrebbe dovuto renderlo così ansioso? Perché, soprattutto, se era di primaria necessità conferire con Peters sul problema dei canali di scolo della stalla, il mancato incontro con l'uomo aveva prodotto in lui un simile sollievo? Mary non poteva dire se, a quel tempo, qualcuna di quelle domande si fosse già affacciata alla sua mente; tuttavia, a giudicare da come si presentavano adesso, tutte assieme, aveva la sensazione che dovevano esserci sempre state delle domande e che avessero soltanto aspettato la loro ora. II Affaticata dai suoi pensieri, si avvicinò alla finestra. La biblioteca adesso era buia ma, fuori, il mondo era ancora avvolto da una debole luce e Mary ne fu sorpresa. Mentre teneva gli occhi fissi sul cortile, una figura prese forma contro la prospettiva dei tigli nudi: sembrava una macchia grigia nel grigio circostante e per un momento, mentre la forma veniva verso di lei, con un tuffo al cuore, pensò: «È lo spettro». Ebbe il tempo, in quel lungo momento, di sentire improvvisamente che quell'uomo, di cui due mesi prima aveva avuto una lontana visione dal tetto, era adesso, alla sua ora predestinata, sul punto di rivelarsi e non come
Peters; e il suo spirito s'abbatté sotto l'immanente paura della scoperta. Ma, quasi, con il successivo battito dell'orologio, la figura, avendo acquisito sostanza e caratteri, si mostrò alla sua debole vista come quella di suo marito. Si voltò per andargli incontro e confessargli la sua follia. «È davvero troppo assurdo» rise Mary «ma non riesco mai a ricordarmene!» «Ricordare che cosa?» domandò Boyne, quando furono insieme. «Che quando uno vede lo spettro di Lyng non lo riconosce mai.» Mary, che gli teneva la mano sul braccio, non avvertì alcuna risposta nella sua posizione gestuale o nei lineamenti della faccia preoccupata del marito. «Pensi di averlo visto?» domandò lui, dopo un discreto intervallo di tempo. «Be', in realtà, nella mia fis'sata determinazione a scoprirlo, ho preso te per lui, mio caro.» «Me... adesso?» Lui lasciò ricadere il braccio e si voltò mentre lei rideva debolmente. «Davvero, mia cara, dovresti smetterla, se è il meglio che puoi fare.» «Oh, sì, lo farò. E tu?» domandò lei, girandogli attorno per guardarlo. Entrò la cameriera con delle lettere e una lampada e la luce colpì Boyne in pieno viso mentre si chinava sul vassoio che la donna presentava. «E tu?» insistette perversamente Mary quando la cameriera se ne fu andata a completare il giro d'illuminazione. «Io che cosa?» ripeté lui, con aria assente. La luce metteva acutamente in risalto la maschera di preoccupazione tra le sopracciglia mentre passava le lettere. «Smettila di cercare di vedere lo spettro» disse lei, e il cuore le batteva un po' per il tentativo che stava facendo. «Non ci ho mai provato» disse lui, strappando l'involucro di un giornale. «Be', naturalmente» insistette Mary «la cosa esasperante è che non serve tentare dal momento che uno non sa mai quanto dopo.» Lui stava dispiegando il giornale come se non l'avesse neppure sentita; ma dopo una pausa, durante la quale i fogli frusciarono spasmodicamente tra le sue dita, sollevò la testa e domandò: «Hai un'idea di quanto dopo?» Mary, che si era seduta su una sedia bassa davanti al camino, si voltò a guardare, perplessa, il profilo del marito, stagliato contro la luce della lampada. «No, nessuna. E tu?» ribatté la frase precedente e aggiungendovi una
maggiore intenzione. Boyne appallottolò il giornale e, incongruentemente, si voltò verso la lampada. «Buon Dio, no! Dicevo così, per dire» spiegò, con una punta di impazienza. «C'è una qualche leggenda, una tradizione, al riguardo?» «No, che io sappia» rispose lei e stava per aggiungere: «Perché me lo chiedi?» quando ricomparve la cameriera con il tè e una seconda lampada. Con il disperdersi delle ombre e la ripetizione dei compiti quotidiani, Mary Boyne si sentì meno oppressa dalla sensazione di un qualcosa di silenziosamente imminente che l'aveva attanagliata durante tutto il pomeriggio. Per qualche momento, si concentrò sui particolari del suo lavoro e quando sollevò la testa fu colpita fino all'incredulità dal cambiamento avvenuto sul viso del marito. Lui si era seduto accanto alla lampada più lontana ed era assorbito dalle sue lettere; ma era a causa di qualcosa che aveva trovato in esse oppure della cambiata posizione rispetto al suo punto di vista che sembrava ora avere riacquistato un aspetto normale? Più lo guardava più il cambiamento si affermava. Le linee di tensione erano svanite e se ancora c'era qualche segno d'affaticamento questo era senz'altro da attribuire allo sforzo mentale al quale si sottoponeva in quel momento. Come sentendosi osservato, lui sollevò lo sguardo e, incontrando i suoi occhi, le sorrise. «Oh, come apprezzo questo tè» disse. «È arrivata una lettera per te» aggiunse. Lei prese la lettera e lui la tazza del tè. Rimessasi a sedere, Mary aprì la busta con il languido gesto del lettore i cui interessi sono interamente racchiusi nella cerchia di un'apprezzata presenza. Il suo movimento successivo, l'unico di cui fosse conscia, fu quello di balzare in piedi, mentre la busta scivolava sul pavimento, e di mostrare al marito un ritaglio di giornale. «Ned! Cos'è questo? Che cosa significa?» chiese angosciata. Lui si era alzato nello stesso istante, quasi avesse udito il suo grido prima ancora che lei lo emettesse, e per una percettibile entità di tempo si studiarono a vicenda come avversari che stessero cercando di procacciarsi un qualche vantaggio l'uno sull'altro, divisi dallo spazio della sedia e della scrivania. «Cos'è che cosa? Mi hai fatto sobbalzare!» disse infine Boyne, avvicinandosi a lei con un'improvvisa, esasperante risata. L'ombra dell'apprensione era di nuovo sul suo viso, non un'immobile espressione di presenti-
mento, adesso, ma una mutevole vigilanza di labbra e di occhi che dava a Mary l'impressione che lui si sentisse circondato da forze invisibili. Le tremava la mano quando gli porse il ritaglio. «Questo articolo... del Waukesha Sentinel ...dice che un tale di nome Elwell ti ha fatto causa... che c'era qualcosa di sbagliato nella Blue Star Mine. Capisco solo la metà di quello che dice.» Continuarono a guardarsi mentre parlavano e, con stupore, Mary vide che le sue parole ebbero l'effetto immediato di dissipare ogni tensione dall'aspetto di Ned. «Oh, quello!» Lui lanciò un'occhiata al pezzo di carta stampata e lo ripiegò con i gesti di chi stesse maneggiando qualcosa di inoffensivo e familiare. «Che cosa ti prende questo pomeriggio, Mary? Pensavo che avessi ricevuto delle cattive notizie.» Mary sentì l'indefinibile terrore che l'aveva assalita dissolversi lentamente a quel tono rassicurante. «Allora sapevi di questo... vero?» «Certo che sapevo. E va tutto bene.» «Ma di che cosa si tratta? Non capisco. Di che cosa ti accusa quell'uomo?» «Di quasi tutti i crimini esistenti.» Boyne aveva lanciato il ritaglio sulla scrivania e si era seduto in una poltrona vicina al camino. «Vuoi sentire la storia? Non è particolarmente interessante... solo una diatriba di interessi sulla Blue Star.» «Ma chi è questo Elwell? Non ho mai sentito questo nome.» «Oh, è un tipo che ho messo... al quale ho dato una mano. Te ne parlai, a suo tempo.» «Può darsi. Devo essermene dimenticata.» Mary cercò inutilmente tra i suoi ricordi. «Ma se lo hai aiutato, perché fa questo?» «Perché un qualche avvocatucolo deve averlo influenzato. È tutto piuttosto tecnico e complicato. Pensavo che questo genere di cose ti annoiassero.» Mary avvertì una punta di rimorso. In teoria, deprecava il distacco della moglie americana dagli interessi professionali del marito; ma, in pratica, aveva sempre trovato difficile riversare un minimo d'attenzione sui resoconti delle transazioni nelle quali Ned era coinvolto per via dei suoi vari interessi. Inoltre, durante gli anni d'esilio, aveva sentito che, in una comunità dove le amenità della vita potevano essere ottenute soltanto a prezzo di ardui sforzi come quelli professionali del marito, un simile breve piacere
come quello che lei e lui riuscivano a procacciarsi era usato soltanto come fuga da preoccupazioni immediate, un salto soltanto provvisorio verso la vita che avevano sempre sognato di vivere. Una volta o due, adesso che la nuova vita aveva tracciato il suo magico cerchio attorno a loro, si era chiesta se avesse fatto bene; ma subito tali congetture le erano parse niente più che semplici escursioni retrospettive di una fervida fantasia. Adesso, per la prima volta, la stupiva un po' scoprire quanto poco sapesse delle fondamenta materiali sulle quali aveva poggiato la sua felicità. Guardò suo marito e di nuovo fu rassicurata dalla compostezza del suo viso; tuttavia sentiva la necessità di più definite rassicurazioni. «Ma questa causa non ti preoccupa? Perché non me ne hai mai parlato?» Lui diede una sola risposta a entrambe le domande. «Non te ne ho parlato subito perché in realtà mi preoccupava... o meglio, mi seccava. Ma è storia antica, adesso. Chi ti ha scritto deve avere tenuto un numero vecchio del Sentinel.» Mary avvertì un immediato sollievo. «Vuol dire che è tutto passato? Che lui ha perso la causa?» Ned ebbe soltanto una piccolissima esitazione prima di rispondere. «La causa è stata ritirata, ecco tutto.» Ma lei insistette, come per togliersi la sgradita sensazióne di essere stata troppo facilmente soddisfatta. «Ritirata perché lui ha visto di non avere probabilità?» «Oh, non aveva alcuna probabilità» rispose Boyne. Mary sentiva ancora una piccolissima perplessità in fondo ai suoi pensieri. «Quanto tempo fa è stata ritirata?» Lui ebbe per un momento come un ritorno della sua precedente incertezza. «Ne ho avuto notizia soltanto adesso, ma me l'aspettavo.» «Adesso... in una delle tue lettere?» «Sì, in una delle mie lettere.» Mary non disse altro e si accorse solo dopo un po' che Boyne si era alzato e, dopo aver attraversato la stanza, era venuto a sedersi sul divano, accanto a lei. Lo sentì passarle un braccio attorno, ne sentì la mano cercare la sua, prenderla e, voltandola lentamente, portarsela alla guancia. Gli occhi gli sorridevano. «Va tutto bene... tutto bene?» chiese Mary mentre ogni dubbio già si dissolveva in lei. «Ti dò la mia parola che le cose non sono mai andate meglio di così» ri-
se lui, attirandola a sé. III Una delle cose più strane che Mary avrebbe in seguito ricordato tra le stranezze del giorno successivo fu il completo riacquisto del proprio senso di sicurezza. Era nell'aria quando si svegliò nella sua stanza dal soffitto basso; discese con lei di sotto, a colazione, parve prorompere dalle fiamme del camino e andarle incontro, decuplicarsi dai fianchi scanalati della massiccia teiera georgiana. Era come se, in una qualche tortuosa maniera, tutte le sue paure del giorno prima, con il loro momento di acuta concentrazione sul ritaglio di giornale... come se quell'interrogarsi sul futuro mediante reminiscenze del passato avesse liquidato gli arretrati esistenti tra di loro di un qualche persecutorio obbligo morale. Se indubbiamente lei si era curata poco degli affari del marito, era stato perché, e la sua nuova condizione sembrava dimostrarlo, la sua fiducia in lui aveva istintivamente giustificato tale disinteresse; e il diritto di Ned alla sua fiducia, davanti a una possibile minaccia e a un sospetto, si era adesso riaffermato. Lei non lo aveva mai visto così sereno, così naturalmente e inconsapevolmente se stesso come dopo il fuoco incrociato di domande al quale lo aveva sottoposto: era stato come se Ned, consapevole dei dubbi che la tormentavano, avesse voluto, quanto lei, rischiarare l'aria. Era così chiaro, grazie al cielo! Come la luce che la sorprese quasi come un tocco di estate quando uscì di casa per il suo quotidiano giro dei giardini. Aveva lasciato Boyne alla sua scrivania, indulgendo, quando era passata davanti alla porta aperta della biblioteca, sul sereno aspetto del suo viso chino sulle carte, e adesso aveva il proprio compito mattutino da assolvere, un compito che comportava, in giorni d'inverno incantevoli come quello, quasi una gioiosa passeggiata tra i diversi quartieri di quel dominio come se la primavera fosse già al lavoro. C'erano ancora così tante possibilità davanti a lei di ridare grazia a quella vecchia casa, senza il benché minimo segno d'irriverente alterazione, che l'inverno era fin troppo corto per progettare ciò che la primavera e l'autunno avrebbero eseguito. In più, il riacquistato senso di sicurezza dava un gusto particolare al suo incedere tra quel dolce posto. Andò dapprima nel giardino della cucina dove i peri disposti a spalliera creavano complicati disegni sui muri e i piccioni, sotto il tetto di lamiera della piccionaia, sbattevano le ali e si lisciavano le penne.
C'era qualcosa che non andava all'impianto della serra e stava aspettando uno specialista da Dorchester (sarebbe passato da loro tra un treno e l'altro) perché facesse la sua diagnosi, e quando entrò nell'umido calore che regnava lì dentro, tra aromi di lavanda e di fiori esotici rosa e rossi, capì che il grand'uomo non era ancora arrivato e poiché il giorno era troppo prezioso per essere trascorso in un'atmosfera artificiale, se ne uscì e s'incamminò per il campo delle bocce fino ai giardini dietro la casa. All'estremità di quei giardini si elevava una terrazza erbosa dalla quale si guardava oltre lo stagno e le siepi di tasso alla lunga facciata della casa con i suoi contorti gruppi di camini e gli angoli di tetto azzurri, inzuppati dall'umidità dorata dell'aria. Quella vista, di finestre aperte e di ospitali camini fumanti, le diede un senso di calda presenza umana, di una mente che lentamente maturasse su un assolato muro d'esperienza. Non si era mai sentita così intimamente legata a quel posto, non era mai stata tanto convinta che i suoi segreti fossero tutti benevoli, destinati, come dicevano ai bambini, soltanto a quelli buoni, mai avuto tanta fiducia nei suoi poteri di armonizzare la propria vita e quella di Ned. Udì dei passi alle sue spalle e si voltò aspettandosi di vedere il giardiniere con l'uomo di Dorchester. Vide soltanto una figura, quella di un uomo magro, piuttosto giovane, il quale, per ragioni che lei non poté sul momento individuare, non rispondeva in alcun modo alle sue nozioni su uno specialista di serre. Il nuovo venuto, nel vederla, si tolse il cappello e rimase per un momento con l'aria del gentiluomo... forse un viaggiatore... il quale desideri fare sapere che la sua intrusione non è volontaria. Di tanto in tanto, Lyng attirava viaggiatori eruditi e Mary quasi s'aspettava che lo straniero nascondesse una macchina fotografica o giustificasse la sua presenza mostrandola. Ma lui non fece nulla del genere e, dopo un momento, in un tono che s'intonava con la cortese esitazione dell'atteggiamento dell'altro, lei domandò: «C'è qualcuno che desidera vedere?» «Sono venuto a trovare il signor Boyne» rispose lui. L'intonazione, più che l'accento, era vagamente americana e Mary, constatata la cosa, lo guardò più attentamente. La tesa del morbido feltro lanciava un'ombra sul suo viso, il quale, sebbene oscurato, presentava secondo la miope vista di Mary un'espressione seria, quella di una persona che fosse arrivata per affari e fosse civilmente ma fermamente conscia dei propri diritti. Esperienze passate l'avevano resa sensibile a quei diritti, ciononostante
Mary, era gelosa delle ore mattutine del marito e incerta sull'opportunità di concedere allo straniero quello di interromperle. «Ha un appuntamento?» domandò. Il visitatore esitò come se la domanda lo avesse colto impreparato. «Penso che mi aspetti» rispose. Fu Mary questa volta a esitare. «Sa, questo è il momento in cui lavora: lui non vede mai nessuno la mattina.» Lui la guardò per un momento senza dire niente; poi, come accettando la sua decisione, cominciò ad allontanarsi. Mary lo vide fermarsi davanti alla casa e lanciare uno sguardo alla facciata. Qualcosa nel suo atteggiamento faceva pensare a stanchezza e delusione, l'abbattimento del viaggiatore che era venuto da lontano e non aveva molto tempo a disposizione. Pensò che forse il suo rifiuto poteva avere reso vano l'arrivo dello straniero e, presa dal rimorso, gli corse dietro: «Posso chiederle se viene da lontano?» Lui mantenne la stessa espressione grave. «Si... vengo da lontano.» «Allora, se vuole entrare in casa... Mio marito la riceverà senza dubbio. Lo troverà in biblioteca.» Mary non seppe spiegarsi perché avesse aggiunto l'ultima frase se non per il vago impulso di ammorbidire la sua precedente inospitalità. Il visitatore parve sul punto di ringraziarla, ma poi l'attenzione di Mary fu distolta dall'avvicinarsi del giardiniere con un'altra persona la quale sembrava questa volta possedere tutti i requisiti dell'esperto di Dorchester. «Da questa parte» disse, indicando la casa allo straniero, e nell'istante successivo si dimenticò di lui per accogliere l'uomo della serra. L'incontro diede risultati così insperati che l'esperto non si accorse dell'ora e così perse il suo treno, mentre Mary, tra una cosa e l'altra, lasciò trascorrere la mattina accorgendosene quando ormai era già ora di pranzo. Corse verso la casa, aspettandosi che suo marito le uscisse incontro. Ma non trovò nessuno nel cortile, tranne un aiuto giardiniere che rastrellava la ghiaia, e l'ingresso, quando entrò, era così silenzioso da farle pensare che Boyne fosse ancora al lavoro. Per non disturbarlo, si diresse in salotto e, allo scrittoio, si perse nei calcoli di quanto avrebbe significato per le finanze familiari l'incontro di quella mattina con l'uomo della serra. Il fatto che adesso potesse permettersi simili follie non aveva ancora perso la sua novità; e, in qualche modo, e in contrasto con le vaghe paure dei giorni precedenti, le parve anche un elemento in più della ritrovata sicurezza, nel senso che, come aveva detto
Ned, le cose in generale non erano mai andate meglio di così. Era ancora immersa in quel lussurioso gioco di cifre quando la cameriera di servizio, dalla soglia, la distolse con la solita domanda-espediente di poter servire il pranzo. Era uno dei loro giochi che Trimmle annunciasse il pranzo come se stesse divulgando un segreto di stato e che Mary, intenta sulle sue carte, semplicemente mormorasse il suo assenso con aria distratta. Sentì Trimmle esitare dubbiosa sulla soglia, come rimproverandola per un assenso una volta tanto non previsto. Poi i suo passi risuonarono lungo il corridoio e Mary, messe da parte le sue carte, attraversò il soggiorno e andò alla porta della biblioteca. Era ancora chiusa e questo la fece esitare sia perché non voleva disturbare il marito sia perché non voleva che esagerasse con il lavoro. Mentre era lì, incerta sul da farsi, Trimmle tornò con l'annuncio che il pranzo era pronto e Mary, a quel punto costretta, apri la porta. Boyne non era alla scrivania. Mary si guardò attorno, aspettandosi di vederlo magari davanti agli scaffali dei libri o da qualche altra parte nella stanza, ma le fu subito chiaro che suo marito non c'era. Tornò dalla cameriera. «Il signor Boyne dev'essere di sopra» disse. «Va' a dirgli che il pranzo è pronto, per favore.» Trimmle parve esitare tra l'ovvio dovere dell'obbedienza e l'egualmente ovvia convinzione di avere ricevuto un ordine sciocco. Quel suo dibattimento interiore ebbe termine con un: «Se permette, madam, il signor Boyne non è di sopra.» «Non è nella sua stanza? Ne sei sicura?» «Sicura, madam.» Mary consultò l'orologio. «Dov'è, allora?» «È uscito» annunciò Trimmle, con l'aria superiore di chi avesse rispettosamente aspettato una domanda che una mente più ordinata avrebbe fatto per prima. La sua congettura era stata dunque esatta, pensò Mary. Boyne doveva esserle andato incontro nei giardini e dal momento che lei non lo aveva visto era chiaro che doveva avere preso la strada più corta, dalla porta sud, invece di aggirare il cortile. Andò ad aprire la finestra che dava direttamente sui tassi, ma la cameriera, dopo un altro momento di conflitto interiore, decise di precisare: «Prego, madam, il signor Boyne non è andato da quella parte.» Mary si voltò. «E dove è andato? E quando?»
«È uscito dalla porta principale e ha preso il viale, madam.» Era una questione di principio per Trimmle non rispondere mai a più di una domanda per volta. «Il viale? A quest'ora?» Mary andò lei stessa alla porta e ispezionò con lo sguardo il tunnel dei tigli spogli al di là del cortile. Ma quella vista era desolatamente vuota, come lo era stata d'altra parte, quando era entrata in casa. «Il signor Boyne non ha lasciato un messaggio?» Trimmle parve arrendersi a un ultimo conflitto con le forze del caos. «No, madam. È uscito con il gentiluomo e basta.» «Il gentiluomo? Quale gentiluomo?» Mary si girò come per affrontare quel nuovo elemento. «Il gentiluono che è venuto a trovarlo, madam» disse Trimmle, rassegnata. «E quando sarebbe venuto questo gentiluomo? Spiegati, Trimmle!» Soltanto il fatto che fosse affamata e che volesse consultare il marito a proposito della serra avrebbe potuto indurla a pronunciarsi così con la sua domestica; perfino in quel momento, Mary fu abbastanza distaccata da notare negli occhi di Trimmle l'insorgenza della sfida da parte di un rispettoso subordinato che era stato trattato duramente. «Non saprei dire esattamente l'ora, madam, perché non sono stata io a far entrare il gentiluomo» rispose Trimmle, con l'aria di volere discretamente ignorare l'irregolarità del comportamento della signora. «Non lo hai fatto entrare?» «No, madam. Stavo vestendomi quando il campanello ha suonato, e Agnes...» «Va' a domandare ad Agnes, allora» disse Mary. Trimmle aumentò la sua espressione di paziente magnanimità. «Agnes non lo sa, madam, perché si era sfortunatamente bruciata una mano nel rifinire il lucignolo della nuova lampada arrivata dalla città...» Trimmle, come Mary ben sapeva, si era sempre opposta alla nuova lampada «... e così la signora Dockett ha mandato la cameriera di cucina.» Mary guardò di nuovo l'orologio. «Sono le due passate! Va' a chiedere alla cameriera di cucina se il signor Boyne ha lasciato detto qualcosa.» Andò a sedersi a tavola senza aspettare e Trimmle le portò la risposta della cameriera di cucina: il gentiluomo era arrivato verso le undici e il signor Boyne era uscito con lui senza lasciare alcun messaggio. La cameriera di cucina non sapeva come si chiamasse il gentiluomo perché lui aveva
scritto il nome su un pezzo di carta che le aveva consegnato, ripiegato, con l'ordine di darlo subito al signor Boyne. Mary finì di mangiare, molto perplessa, e quando bevve il caffè, che Trimmle le portò in salotto, la perplessità era diventata leggera inquietudine. Era insolito per Boyne assentarsi senza spiegazioni e a un'ora così strana, e la difficoltà d'identificare il visitatore ai cui ordini sembrava che avesse obbedito rendeva quell'assenza ancora più inspiegabile. L'esperienza di moglie di un ingegnere molto indaffarato, soggetto a chiamate improvvise e costretto a orari irregolari, aveva allenato Mary Boyne a una filosofica accettazione di qualsiasi sorpresa di quel genere; ma da quando si era ritirato dagli affari, Boyne aveva adottato una regolarità di vita benedettina. Come per compensare gli anni persi e agitati — con le loro colazioni in piedi, i pranzi mandati giù tra i sobbalzi delle carrozze ristoranti — coltivava le ultime raffinatezze della puntualità e della monotonia, scoraggiando la moglie dalle fantasie dell'imprevisto e dichiarando che per un gusto delicato c'erano infinite gradazioni e varietà di piacere nel ricorrere dell'abitudine. Tuttavia, dal momento che non può esserci vita completamente al riparo dall'imprevisto, c'era da aspettarselo che tutte le precauzioni di Boyne si dimostrassero prima o poi inefficaci e Mary concluse che suo marito doveva avere messo bruscamente fine a una stancante visita accompagnando personalmente il visitatore alla stazione, o per un tratto, almeno. Quella conclusione la sollevò da ulteriori preoccupazioni per cui uscì a parlare ancora con il giardiniere, poi si recò all'ufficio postale del villaggio, distante poco più di un miglio, e quando riprese la via del ritorno verso casa cominciava a imbrunire. Aveva preso una scorciatoia per le colline e dal momento che Boyne, nel frattempo, era probabilmente ritornato dalla stazione per la strada alta, c'erano poche probabilità che s'incontrassero. Era sicura comunque che fosse arrivato a casa prima di lei; così sicura che, quando entrò, senza nemmeno interrogare Trimmle, andò direttamente in biblioteca. Ma la biblioteca era ancora deserta e, con un'insolita esattezza della sua memoria visiva, Mary osservò che le carte sulla scrivania del marito giacevano esattamente come le aveva viste quando era scesa a chiamarlo per il pranzo. E, all'improvviso, fu afferrata da una vaga paura dell'ignoto. Dopo essere entrata, aveva chiuso la porta dietro di sé e mentre se ne stava sola nella sua stanza silenziosa la sua paura parve prendere forma e suono... una forma che respirasse e si agitasse tra le ombre. Restringendo gli occhi miopi,
quasi arrivando a sentire un'entità, qualcosa di lontano, vide e seppe; e nel ritrarsi da quella intangibile presenza urtò contro il cordone del campanello che diede in un acuto rintocco. Trimmle arrivò di corsa con una lampada e Mary respirò di nuovo davanti a quella familiare apparenza. «Puoi servire il tè se il signor Boyne è in casa» disse, per giustificare il campanello. «Molto bene, madam. Ma il signor Boyne non c'è» disse Trimmle mettendo giù la lampada. «Non c'è? Vuoi dire che è tornato ed è uscito di nuovo?» «No, madam. Non è mai tornato.» Mary sentì la paura agitarsi di nuovo in lei, afferrarla. «Da quando è uscito con... il gentiluomo?» «Da quando è uscito con il gentiluomo» confermò Trimmle. «Ma chi era il gentiluomo?» insistette Mary, con la nota stridula di chi cerchi invano di farsi sentire tra una confusione di rumori. «Questo non saprei dirlo, madam.» Trimmle, che si trovava vicino alla lampada, sembrava all'improvviso meno rotonda e rosea, come eclissata dalla stessa, strisciante ombra d'apprensione. «Ma la cameriera di cucina dovrebbe saperlo... non è stata lei a farlo entrare?» «Non lo sa neppure lei, madam, perché lui ha scritto il nome su un foglietto di carta piegato.» Pur attraverso la sua agitazione, Mary si rese conto che avevano smesso tutt'e due di chiamare lo sconosciuto visitatore con il termine gentiluomo, un termine che aveva tenuto le loro allusioni entro i confini della normalità, mentre ora lo definivano vagamente con un pronome. Quasi nello stesso momento, la mente le suggerì il foglietto piegato. «Eppure, deve avere un nome! Dov'è il foglietto?» Andò alla scrivania e cominciò a frugare tra le carte. La prima cosa che la colpì fu una lettera non finita del marito. C'era ancora la sua penna messa di traverso, come se, essendosi dovuto alzare di colpo, lui ve l'avesse lasciata cadere. Caro Parvis... «chi era Parvis?»... ho ricevuto la sua lettera con la notizia della morte di Elwell, e sebbene supponga che adesso non ci siano altri motivi di fastidio, sarebbe più sicuro... Mise il foglio da parte e continuò la sua ricerca; ma non trovò foglietti tra le lettere o tra le pagine del manoscritto grossolanamente rimesse in-
sieme come per una fretta improvvisa. «Bene» disse Mary «comunque la cameriera di cucina lo ha visto. Mandala qui» ordinò, dandosi della sciocca per non avere pensato prima a una soluzione così semplice. Trimmle svanì, come sollevata di andarsene da quella stanza, e quando ricomparve con l'agitata cameriera di cucina, Mary aveva riacquistato la propria padronanza e aveva le domande pronte. Il gentiluomo era uno straniero, sì.... questo lei lo aveva capito. Ma che cosa aveva detto? E, soprattutto, che aspetto aveva? La risposta alla prima domanda fu facile per la sconcertante ragione che lui aveva detto molto poco... si era limitato a chiedere del signor Boyne, aveva scritto qualcosa su un pezzo di carta e aveva chiesto che fosse consegnato subito al padrone di casa. «Quindi non sai che cosa abbia scritto? Non sei neppure sicura che fosse il suo nome?» La cameriera di cucina non ne era sicura, ma supponeva dovesse essere il nome dal momento che lo aveva scritto in risposta alla sua domanda su chi avesse dovuto annunciare. «E quando gli ha portato il foglietto, che cosa ha detto il signor Boyne?» La cameriera di cucina non pensava che avesse detto niente, ma non poteva esserne sicura perché, nel momento in cui aveva dato il foglietto al signor Boyne e lui lo stava aprendo, si era accorta che il visitatore l'aveva seguita nella biblioteca, cosicché se n'era andata e aveva lasciato soli i due gentiluomini. «Ma allora, se li hai lasciati nella biblioteca, come sai che hanno lasciato la casa?» Questa domanda gettò la cameriera in un momentaneo stato confusionale da quale la salvò Trimmle che, per mezzo d'ingegnose circonlocuzioni, le fece dire come erano andate le cose: Mary seppe così che prima che la cameriera di cucina avesse potuto attraversare l'ingresso per ritornarsene in cucina, aveva sentito alle sue spalle i due gentiluomini ed era stato così che li aveva visti uscire insieme dalla porta principale. «Quindi» incalzò Mary «hai visto due volte lo strano gentiluomo e dovresti perciò essere in grado di dirmi che aspetto avesse.» Ma, tanta domanda, mise in chiaro una sola cosa: i limiti di resistenza della cameriera di cucina erano stati raggiunti. L'incombenza di andare alla porta e di introdurre un visitatore era già stato, di per sé, un fatto così sovversivo dell'ordine fondamentale delle cose che l'aveva sconvolta non po-
co, cosicché la cameriera di cucina, dopo reiterati e faticosi sforzi, poté soltanto balbettare: «Il suo cappello... ehm... era diverso... ehm... si potrebbe dire...» «Diverso? Come diverso?» la interruppe Mary, con la mente riandando nello stesso momento all'immagine ricevuta quella mattina e poi persa sotto lo strato di successive impressioni. «Il suo cappello aveva forse una tesa ampia, vuoi dire? E il suo viso era pallido... giovane?» insistette con intensità. Ma se anche la cameriera di cucina avesse trovato risposte adeguate a quelle domande, esse sarebbero state spazzate via dall'ondata d'intuizioni che adesso stava riversandosi nella sua inquisitrice. Lo straniero... lo straniero nel giardino! Perché non ci aveva pensato prima? Non aveva affatto bisogno che qualcuno le dicesse che aspetto avesse il visitatore di suo marito. Ma chi era e perché Boyne gli aveva obbedito? IV Se ne ricordò all'improvviso, e fu come un sogghigno balzato dal buio, di come lei e Ned avevano spesso definito l'Inghilterra... un luogo terribilmente duro per perdersi. Un luogo terribilmente duro per perdersi! Quella era stata la frase di suo marito. E adesso, con l'intera macchina ufficiale delle investigazioni che cercava da spiaggia a spiaggia e per le lande in mezzo; ora, con il nome di Boyne che balzava all'occhio dai muri di ogni cittadina e villaggio, il suo ritratto (come la cosa la rattristava!) portato su e giù per il paese come quello di un criminale braccato; ora, la piccola e popolosa isola, così ben controllata dalla polizia, sorvegliata e amministrata, si rivelava una Sfinge guardiana di misteri abissali che scrutava nei suoi occhi angosciati di moglie con la perversa gioia di sapere qualcosa che gli altri non avrebbero mai saputo! A due settimane dalla scomparsa di Boyne, di lui non si era saputo più nulla né erano state trovate tracce dei suoi movimenti. Erano state poche, e molto vaghe perfino, le solite voci che in casi come quello nascevano sempre e portavano false speranze nel cuore torturato della gente. Nessuno, tranne la cameriera di cucina, aveva visto Boyne lasciare la casa, e nessun altro aveva visto il gentiluomo che lo accompagnava. Tutte le indagini fatte presso i vicini non avevano fatto emergere ricordi della presenza di un qualche straniero, quel giorno, in prossimità di Lyng. E nessuno aveva incontrato Edward Boyne, né solo, né in compagnia, in nessun villaggio
vicino, o sulla strada che attraversava le colline, o in qualsiasi altra stazione ferroviaria locale. L'assolato pomeriggio inglese lo aveva inghiottito più che se fosse uscito nella notte cimmeria. Mentre le autorità portavano avanti le investigazioni a ritmo sostenuto, Mary aveva passato in rassegna tutti i documenti del marito alla ricerca di una qualche precedente complicazione, intrigo o debito a lei sconosciuti che potessero gettare un po' di luce in quelle tenebre. Ma se mai ci fosse stato qualcosa nella vita passata di Boyne, quel qualcosa sembrava essersi dissolto come il foglietto di carta sul quale il visitatore aveva scritto il proprio nome. Non rimaneva altra pista da seguire, ammesso che fosse una pista, se non quella della lettera che Boyne era stato sul punto di scrivere quando aveva ricevuto il misterioso invito. Ma la lettera, letta e riletta da sua moglie, e fatta vedere anche alla polizia, conteneva ben poco che potesse dare adito a qualche congettura. Ho ricevuto la sua lettera con la notizia della morte di Elwell, e sebbene supponga che adesso non ci siano altri motivi di fastidio, sarebbe più sicuro... Era tutto. I motivi di fastidio erano facilmente spiegati dal ritaglio di giornale che aveva messo al corrente Mary della causa contro suo marito intentata da uno dei soci della Blue Star. L'unica nuova informazione prodotta dalla lettera era il fatto che mostrasse un Boyne ancora apprensivo, mentre la scriveva, sui risultati della causa stessa sebbene avesse detto alla moglie che fosse stata ritirata, e sebbene la lettera stessa provasse che il querelante fosse morto. Erano occorsi molti giorni e molti telegrammi per identificare il Parvis al quale il frammento era indirizzato, ma anche dopo che quelle indagini ebbero rivelato che l'uomo era un avvocato di Waukesha, non erano venuti fuori altri fatti nuovi sulla morte di Elwell. Parvis sembrava non avere alcun nesso diretto con la faccenda. Era a conoscenza dei fatti soltanto perché conosceva Boyne e aveva funto da intermediario; aveva dichiarato anzi che non immaginava neppure perché Boyne avesse avuto intenzione di chiedere la sua assistenza. Quell'assoluta mancanza d'informazioni, unico risultato di quindici giorni d'indagini, non si modificò nelle lente settimane che si susseguirono. Mary sapeva che le indagini continuavano ma aveva la vaga sensazione che stessero rallentando, così come le sembrava che anche il tempo avesse rallentato la sua marcia. Era come se i giorni, dissoltosi l'orrore dell'immagine da sudario che uno di essi aveva manifestato, stessero acquistando sicurezza via via che da quel giorno s'allontanavano, fino a quando non erano rientrati nel loro normale procedere. E questo accadeva anche all'im-
maginazione umana al lavoro su quel buio evento. Non c'era dubbio che gli investigatori ci lavorassero ancora, ma, settimana dopo settimana, ora dopo ora, il loro interesse diminuiva, occupava meno spazio, veniva lentamente, ma inesorabilmente sospinto fuori dall'affollato parcheggio del conscio dai nuovi problemi che traboccavano dal ribollente calderone dell'esistenza umana. Perfino la coscienza di Mary Boyne avvertiva gradatamente lo stesso abbassarsi di velocità. Oscillava ancora tra le incessanti elucubrazioni delle congetture.... e anche queste ormai erano più lente, meno ritmiche nel loro porsi. C'erano momenti di debolezza in cui, come la vittima di un qualche veleno che lascia il cervello libero ma che imprigiona il corpo, Mary vedeva se stessa prendere dimestichezza con l'orrore, accertarne la sua costante presenza come una condizione fissa della vita. Quei momenti divennero ore e giorni, fino a quando lei non cadde in una fase di stolida sottomissione. Osservava la routine della vita quotidiana con l'occhio non curioso di un selvaggio sul quale l'insignificante processo di civilizzazione non facesse alcuna presa. Era arrivata a guardare se stessa come parte della routine, un raggio della ruota che si muoveva con il suo movimento; si sentiva quasi come l'arredamento della stanza nella quale sedeva, un oggetto senz'anima che doveva essere spolverato e tenuto in ordine come le sedie e i tavoli. E quella profonda apatia crebbe in lei, a Lyng, nonostante le suppliche degli amici e la solita raccomandazione modica di un cambiamento. Gli amici supposero che il suo rifiuto di trasferirsi fosse ispirato dalla convinzione che suo marito sarebbe un giorno ritornato nello stesso posto da cui era scomparso, e nacque una bella leggenda su questo immaginario stato di attesa. Ma, in realtà, Mary non credeva niente del genere; la profonda angoscia che la opprimeva non era più influenzabile da alcuna speranza. Mary era sicura che Boyne non sarebbe più tornato, che se n'era andato per sempre come se ci fosse stata la Morte ad aspettarlo quel giorno sulla soglia di casa. Era arrivata perfino a scartare, una dopo l'altra, le varie teorie che, su quella scomparsa, erano state avanzate dalla stampa, dalla polizia e dalla propria agonizzante immaginazione. Accasciata, la sua mente rifuggiva da tutte quelle orride alternative e si rifugiava nella mera constatazione che lui non c'era più. No, non avrebbe mai saputo cosa ne fosse stato, nessuno l'avrebbe mai saputo. Ma la casa lo sapeva; la biblioteca nella quale lei trascorreva le sue lunghe e solitarie sere lo sapeva. Perché era stato lì che aveva avuto luogo l'ultima scena, lì che lo straniero era venuto e aveva detto la parola che a-
veva indotto Boyne ad alzarsi e a seguirlo. Il pavimento che lei calpestava ne aveva sentito la paura; i libri sugli scaffali ne avevano visto la faccia; e c'erano momenti in cui l'intensa presenza delle vecchie pareti scure sembrava sul punto di prorompere in una qualche udibile rivelazione dei propri segreti. Ma la rivelazione non arrivava mai e Mary sapeva che non sarebbe mai arrivata. Lyng non era una di quelle garrule vecchie case che tradivano i propri segreti. La sua stessa leggenda dimostrava che era sempre stata muta e complice, custode incorruttibile dei misteri che racchiudeva. E Mary Boyne, seduta faccia a faccia con il suo silenzio, sentiva l'inutilità di qualsiasi tentativo d'infrangerlo con mezzi umani. V «Non dico che non fosse corretto, e tuttavia non dico che lo fosse. Erano affari.» A quelle parole, Mary sollevò la testa di scatto e guardò con attenzione il suo interlocutore. Quando, mezz'ora prima, le era stato portato il biglietto da visita, si era subito resa conto che il nome Parvis era sempre rimasto in lei fin dal momento in cui lo aveva letto in cima all'incompleta lettera di Boyne. In biblioteca, aveva trovato ad attenderla un ometto calvo con gli occhiali d'oro e aveva avvertito un brivido alla consapevolezza che quella era stata la persona alla quale suo marito aveva diretto l'ultimo pensiero. Parvis, civile, ma senza inutili preamboli... alla maniera di un uomo che ha sempre l'orologio in mano... era andato dritto allo scopo della sua visita. Aveva fatto un salto in Inghilterra per via di certi affari e trovandosi nelle vicinanze di Dorchester non se l'era sentita di ripartire senza porgere i suoi rispetti alla signora Boyne; e senza chiederle, se l'occasione si fosse presentata, se intendesse fare qualcosa per la famiglia di Bob Elwell. Le parole avevano fatto scattare in Mary la molla di una qualche oscura minaccia. Era possibile che il suo visitatore sapesse, dopo tutto, che cosa avesse voluto dire Boyne con la sua frase incompleta? Gli aveva chiesto di spiegare meglio il senso della sua domanda e le era parso che l'uomo fosse sorpreso per la sua persistente ignoranza dell'argomento. Era possibile che sapesse così poco, come diceva? «Non so nulla... è lei che deve dirmi» aveva balbettato Mary e il suo visitatore aveva dipanato tutta la storia. Ed era stata una storia, anche per le sue confuse percezioni, che lanciava una sporca luce sull'intero episodio
della Blue Star Mine. Suo marito aveva guadagnato il suo denaro in quella brillante speculazione a spese di qualcun altro meno pronto a cogliere l'occasione; e vittima della sua stessa ingenuità era stato il giovane Robert Elwell, il quale, per altro, era colui che aveva dato una mano a Boyne nel progetto Blue Star. Al primo grido di Mary, Parvis le aveva lanciato un'occhiata severa da dietro gli occhiali. «Bob Elwell non è stato abbastanza scaltro, ecco tutto; se lo fosse stato, avrebbe potuto fare a Boyne quello che Boyne ha fatto a lui. È il genere di cose che accadono tutti i giorni nel mondo degli affari. E ciò che gli scienziati chiamano la legge del più forte... capisce?» aveva detto il signor Parvis, visibilmente compiaciuto per l'appropriatezza dell'analogia. Mary aveva sentito una specie di malessere fisico fin dalla domanda successiva che aveva posto: «Ma, allora... lei accusa mio marito di avere fatto qualcosa di disonorevole?» Il signor Parvis aveva affrontato la questione spassionatamente. «Oh, no, no! Non mi sognerei mai e poi mai di fare una simile accusa.» Aveva lanciato un'occhiata ai libri come se uno di essi avesse potuto fornirgli la definizione che cercava. «Non dico che non fosse corretto, ma neppure che lo fosse. Erano affari.» Dopotutto, nessuna definizione in quell'ambiente avrebbe potuto essere più esplicativa. Mary lo fissò con un'espressione di terrore. Quell'uomo sembrava l'indifferente emissario di una qualche forza malefica. «Ma gli avvocati del signor Elwell non sono stati del suo avviso, signor Parvis, dal momento che la causa è stata ritirata proprio su loro istanza» disse, sostenuta. «Oh, sì; sapevano di non potersi attaccare a niente, tecnicamente. E proprio quando gli consigliarono di ritirare la causa Bob Elwell fu preso dalla disperazione. Si era fatto prestare tutto il denaro perso nella Blue Star ed era sul lastrico. Ecco perché si sparò quando gli dissero che non c'era niente da fare.» L'orrore stava ora investendo Mary a ondate devastanti. «Si sparò? Si uccise per questo?» «Be', non si uccise, per l'esattezza. Tirò avanti per un paio di mesi prima di morire.» Parvis consegnò l'affermazione con la stessa assenza di emotività di un grammofono che replicasse l'incisione che solcava. «Vuole dire che cercò di uccidersi e fallì? E che tentò di nuovo?» «Oh, non ebbe bisogno di tentare di nuovo» disse Parvis, sogghignando.
Rimasero seduti l'uno di fronte all'altro, in silenzio: lui facendo roteare gli occhiali attorno all'indice; lei, immobile, le braccia allungate sulle ginocchia in un atteggiamento di rigida tensione. «Ma se lei sapeva tutto questo» disse Mary infine, in grado a malapena di elevare la voce al di sopra di un bisbiglio «perché mai quando le scrissi della scomparsa di mio marito, disse che non capiva il senso della sua lettera?» Parvis accolse la domanda senza visibile imbarazzo. «Perché non lo capivo, ecco tutto... strettamente parlando. E poi non era il momento di parlarne se anche l'avessi capito. L'affare Elwell era andato a posto quando la causa era stata ritirata. Nulla di ciò che avrei potuto dirle l'avrebbe aiutata a ritrovare suo marito.» Mary continuò a fissarlo. «E allora, perché me ne parla adesso?» Di nuovo Parvis non ebbe alcuna esitazione. «Be', tanto per cominciare, supponevo che lei sapesse più di quanto mostrasse di sapere... mi riferisco alle circostanze della morte di Elwell. E poi perché la gente adesso comincia a parlarne. L'intera faccenda è venuta di nuovo a galla. E pensavo che dovesse saperlo, se già non lo sapeva.» Mary rimase silenziosa e lui continuò. «Vede, si è saputo soltanto di recente in quale cattivo stato fossero gli affari di Elwell. Sua moglie è una donna orgogliosa e ha lottato fino a quando ha potuto, andando a lavorare e cucendo di sera a casa quando era troppo malata... qualcosa al cuore, credo. Ma aveva la madre a cui badare, e i bambini, e così, non potendo più sopportare quel peso, ha dovuto alla fine chiedere aiuto. Questo ha richiamato l'attenzione sul caso, i giornali se ne sono impadroniti ed è stata aperta una sottoscrizione. Bob Elwell piaceva a tutti, la maggior parte dei nomi più eminenti sono sulla lista e la gente ha cominciato a chiedersi perché...» Parvis si interruppe per cercare qualcosa nella tasca interna. «Ecco» riprese «qui c'è un articolo del Sentinel ...un po' sensazionale naturalmente. Ma penso che lei farebbe bene a darci un'occhiata.» Porse un giornale a Mary la quale lo dispiegò lentamente, ricordandosi, mentre lo faceva, della sera in cui, nella stessa stanza, la lettura di un ritaglio del Sentinel aveva per la prima volta scosso le fondamenta della sua sicurezza. Aprendo il giornale, i suoi occhi, sebbene attratti dal grosso titolo: Vedova della vittima di Boyne costretta a chiedere aiuto corsero giù per il testo alle due fotografie inserite nel corpo. La prima era di suo marito, fatta
l'anno in cui erano venuti in Inghilterra. Era la fotografia di Ned che preferiva, quella che era incorniciata sul suo scrittoio, in camera da letto. Incontrandone lo sguardo, sentì che sarebbe stato impossibile leggere ciò che avrebbe potuto dirle di lui, e perciò, con una fitta di dolore, chiuse gli occhi. «Pensavo che sarebbe stata disposta ad apporre il suo nome tra i sottoscrittori...» sentì Parvis che diceva. Con uno sforzo riaprì gli occhi e li posò sull'altra fotografia. Era quella del giovane magro, con i lineamenti in qualche modo offuscati dall'ombra della tesa larga del cappello. Dove aveva visto quel profilo? Lo fissò, un po' confusa, il cuore che le batteva nelle orecchie. Poi diede in un grido: «Questo è l'uomo... l'uomo che è venuto a trovare mio marito!» Udì Parvis balzare in piedi e fu soltanto vagamente conscia di essersi leggermente rovesciata all'indietro, sul sofà, e dell'avvocato che si era chinato su di lei, allarmato. Si raddrizzò e recuperò il giornale che le era caduto. «È l'uomo! Lo riconoscerei ovunque!» insistette con una voce che risuonò alle sue stesse orecchie come un grido. E la risposta di Parvis parve giungerle da lontano, da spirali di nebbia senza fine: «Signora Boyne, lei non sta molto bene. Devo chiamare qualcuno? Vado a prenderle un bicchiere d'acqua?» «No, no, no!» Mary si lanciò verso di lui, stringendo freneticamente il giornale. «È l'uomo, le dico! Lo conosco! Ha parlato con me in giardino!» Parvis prese il giornale e guardò la fotografia. «Non può essere, signora Boyne. Questo è Robert Elwell.» «Robert Elwell?» Lo sguardo vuoto di Mary parve viaggiare nello spazio. «Allora era Robert Elwell l'uomo che è venuto a cercarlo.» «A cercare Boyne? Il giorno che è andato via?» La voce di Parvis era calata di tono così come quella di Mary si era elevata. L'avvocato si chinò per metterle una mano fraterna sulla sua e per sospingerla gentilmente a sedersi di nuovo. «Ma Elwell era già morto! Non ricorda?» Mary aveva gli occhi fissi sulla fotografia e parve non avere udito... «Non ricorda» proseguì Parvis «la lettera incompleta di Boyne diretta a me... quella che lei ha trovato sulla sua scrivania, quel giorno? Boyne la stava scrivendo dopo avere appreso della morte di Elwell.» Mary notò una strana nota tremula nella voce priva di emozione di Parvis. «Ricorderà sicuramente!» insistette lui. Sì, lei ricordava: e questo era forse l'orrore più profondo. Elwell era morto il giorno prima della scomparsa di suo marito; quella era la fotogra-
fia di Elwell; ed era la fotografia dell'uomo che le aveva parlato in giardino. Sollevò la testa e fece scorrere lentamente lo sguardo per la biblioteca. La biblioteca avrebbe potuto testimoniare che quello era il ritratto dell'uomo che vi era entrato quel giorno per chiamare Boyne dalla sua lettera non finita. Tra le nebbiose emanazioni della sua mente, udì la debole esplosione di parole semidimenticate... parole pronunciate da Alida Stair sul prato di Pangbourne, prima ancora che Boyne e sua moglie avessero visto Lyng, o avessero immaginato di poterci vivere un giorno. «Questo è l'uomo che mi ha parlato» ripeté. Guardò di nuovo Parvis. Stava cercando di nascondere il proprio turbamento sotto quella che probabilmente voleva far apparire come un'espressione di indulgente commiserazione; ma il profilo delle sue labbra era violaceo. «Parvis sta pensando che sono pazza» rifletté; e all'improvviso, come un lampo, le parve che ci fosse un modo per confermare la sua strana affermazione. Cercò di calmarsi, di frenare il tremito delle labbra, di riacquistare un tono di voce ferma; poi, guardando Parvis dritto negli occhi, disse: «Vuole rispondere a una mia domanda, prego? Quando fu che Robert Elwell tentò di uccidersi?» «Quando... quando?» balbettò Parvis. «Sì, la data. La prego di ricordare.» Vide che l'uomo cominciava ad avere un certo timore per lei. «Ho le mie ragioni» insistette Mary. «Sì, sì. Capisco. Solo che non riesco a ricordare. Circa due mesi prima, direi.» «Voglio la data» ripeté lei. «Precisa.» Parvis prese il giornale. «Possiamo vedere qui» disse, sempre cercando di assecondarla. «Ecco... Lo scorso ottobre... il...» Lei gli tolse le parole di bocca. «Il venti, vero?» Lanciandole un'occhiata tagliente, lui verificò. «Sì, il venti» rispose. «Come fa a sapere?» «Lo so adesso.» Mary continuò a guardare un punto imprecisato alle spalle di Parvis. «Domenica venti ottobre... È quando è venuto la prima volta.» La voce di Parvis fu quasi inudibile. «Era venuto qui prima?» «Sì.» «Lo ha visto due volte, allora?» «Sì, due volte» rispose lei e il suo fu quasi un sussurro. «È venuto la
prima volta il venti di ottobre. Ricordo la data perché fu il giorno in cui andammo a Meldon Steep per la prima volta.» Si sarebbe quasi messa a ridere al pensiero, se non fosse stato per quel particolare, avrebbe potuto dimenticarsene. Parvis continuò a guardarla come se stesse cercando d'intercettare il suo sguardo. «Lo vedemmo dal tetto» continuò Mary. «Veniva lungo il viale dei tigli verso la casa. Era vestito come in questa fotografia. Fu mio marito a vederlo per primo. Ne fu impaurito e corse giù, davanti a me. Ma non c'era nessuno. Era svanito.» «Elwell era svanito?» mormorò Parvis. «Sì» rispose con un altro mormorio Mary. «Non seppi spiegarmi che cosa fosse accaduto. Adesso lo so. Elwell cercò di venire allora, ma non era sufficientemente morto... non avrebbe potuto raggiungerci. Dovette aspettare, due mesi per morire; e poi è tornato di nuovo... e Ned è andato con lui.» Mary annuì a Parvis con l'espressione di trionfo del bambino che ha risolto un indovinello difficile. Ma, all'improvviso, sollevò le mani con un gesto disperato e se le portò alle tempie. «Oh, mio Dio!» pianse. «Sono stata io a mandarlo da Ned... Sono stata io a dirgli dove andare! L'ho mandato io in questa stanza!» gridò. Sentì le pareti della stanza precipitarsi verso di lei come rovine che cadessero all'indietro; e udì Parvis, lontanissimo, attraverso le rovine, gridare, lottare per raggiungerla. Ma lei era insensibile al suo contatto, non sapeva neppure che cosa stesse dicendo. Attraverso il tumulto, udì una sola nota chiara, la voce di Alida Stair che parlava sul prato di Pangbourne. «Non lo riconoscerete mai fino a dopo», diceva. «Non fino a molto, molto dopo.» Titolo originale: Afterward Traduzione: Grazia Alineri Thomas M. Disch La costa asiatica La costa asiatica di Thomas M. Disch è una straordinaria opera di narrativa contemporanea sulla natura della realtà, un'opera che tratta di una metamorfosi incredibile, sconvolgente, orripilante Il racconto supera per-
fino il The Jolly Corner (L'angolo allegro) di M.R. James nel descrivere la storia di un sosia senza mai cadere nella banalità e nel convenzionale Non è un racconto soprannaturale né tanto meno fantascientifico, anche se in origine fu pubblicato come tale. Viene qui inserito nel filone orrorifico poiché in effetti il suo leitmotiv oscilla continuamente fra paura di vivere e orrore Disch non viene generalmente considerato uno scrittore dell'orrore nonostante molte delle sue opere, quali Fun with Your New Head (1971), Getting into Death (1976), 102 H-Bombs (1966) e il romanzo The Businessman (1984), vengano oggi sempre più frequentemente collocate in tale filone 1 Dalla strada acciottolata provenivano voci e rombi di motore. Passi, porte sbattute, fischi, ancora passi. Viveva al pianterreno, per cui non aveva modo di evitare le prove tangibili di una vita cittadina fin troppo frenetica. I suoni si accumulavano nella sua stanza, come i vari strati di polvere, come la corrispondenza inevasa sulla tovaglia multicolore. Ogni sera trascinava una sedia nel retro non arredato — la stanza degli ospiti, così gli piaceva chiamarlo — e si sedeva a osservare i tetti coperti di tegole e, oltre le acque nere del Bosforo, le luci di Uskudar. Ma i suoni riuscivano a penetrare persino in quella stanza. Sedeva là, al buio, bevendo del vino e aspettando che lei bussasse alla porta posteriore. A volte tentava di leggere qualcosa: storie, libri di viaggi, la lunga e noiosa biografia di Atatùrk. Una specie di sonnifero. A volte iniziava a scrivere una lettera a sua moglie: Cara Janice, ti sarai certamente chiesta che fine ho fatto in tutti questi mesi... Ma il guaio era che, dopo la prima frase, le poco convinte parole di rito e un rapido resoconto, non riusciva a spiegarle apertamente che cosa gli era successo. Voci... Il guaio era «soprattutto» che non parlava la lingua. Per un certo periodo l'aveva studiata, andando in taxi tre volte la settimana al Robert College a Bebek, ma la grammatica, basata su principi del tutto diversi da quelli delle altre lingue che conosceva, senza precise differenze fra verbi e sostanti-
vi, sostantivi e aggettivi, si oppose accanitamente ai ripetuti assalti della sua mente prettamente aristotelica. Sedeva in fondo alla classe, dietro file e file di giovanissimi studenti americani dall'espressione severa come quella dei carcerati, curiosamente fuori posto in quell'ambiente come le macchine presenti nei paesaggi di Dalì. Sedeva là e ripeteva a pappagallo gli innocenti dialoghi dell'insegnante, interpretando alternativamente i due ruoli: prima il curioso e fiducioso John, che vaga eternamente per le strade di Istanbul e Ankara e che eternamente si perde, poi il servizievole e bene informato Ahmet Bey. Nessuno dei due interlocutori avrebbe mai ammesso la schiacciante verità che emergeva da ogni esitante parola pronunciata da John, e cioè che quest'ultimo, balbuziente, imbrogliato e disprezzato, avrebbe continuato i suoi vagabondaggi lungo le stesse strade per anni. Le lezioni, tuttavia, per tutto il periodo della loro durata, presentavano un grosso vantaggio: creavano un'illusione di attività, una sorta di obelisco su cui focalizzare il proprio sguardo in mezzo al deserto, una meta da raggiungere e da lasciare poi alle proprie spalle. Dopo il primo mese aveva iniziato a piovere a dirotto, il che gli fornì una valida scusa per non uscire di casa. Aveva esaurito tutto quanto c'era di interessante da visitare in un'unica settimana: aveva infatti continuato pervicacemente a girovagare, anche con tempo pessimo, finché non ci furono più moschee, rovine, musei e cisterne da vedere, almeno secondo le indicazioni della sua guida Hachette. Era stato al cimitero di Eyup, aveva dedicato un'intera domenica alle mura, alla ricerca delle iscrizioni dei vari imperatori bizantini, malgrado non conoscesse una parola di greco. E sempre più frequentemente, durante le escursioni, incontrava la donna o il bambino, oppure la donna con il bambino, tanto che alla fine aveva orrore di qualsiasi donna o bambino che incontrasse per la città. E non era un orrore immotivato. Sempre, alle nove o al massimo alle dieci, la donna veniva a bussare alla porta dell'appartamento o, se il portone principale dell'edificio non era stato lasciato aperto dagli inquilini del piano di sopra, alla finestra della stanza posta sul davanti della casa. Bussava con pazienza, dando tre o quattro colpetti per volta e facendo brevi pause fra un colpo e l'altro, senza mai fare molto rumore. A volte, ma solo quando si trovava nell'atrio, diceva anche alcune parole in turco, di solito: «Yavuz! Yavuz!» Lui, John, aveva chiesto all'impiegato postale del consolato il significato di quel termine, non avendolo trovato nel dizionario. Era un nome molto comune in Turchia, un nome d'uomo. Ma il suo nome era John. John Benedict Harris. Ed
era americano. Raramente la donna si fermava per più di mezz'ora ogni notte. Bussava e chiamava lui o il suo ipotetico Yavuz, mentre John restava seduto nel retro bevendo kavak e osservando i battelli fare la spola fra Kabnatas e Usküdar, dalla costa europea a quella asiatica, fendendo le acque cupe del mare. L'aveva vista per la prima volta vicino alla fortezza di Rumeli Hisari. Era accaduto il giorno in cui, poco dopo il suo arrivo, era andato al Robert College per iscriversi al corso. Dopo avere pagato la quota e dato un'occhiata alla biblioteca, si era incamminato lungo la collina, in discesa, prendendo la via sbagliata. E per strada s'imbatté in una meraviglia, che si ergeva imponente e maestosa, di cui non conosceva il nome, avendo lasciato l'Hachette in albergo. Vide le spoglie mura della fortezza, con le loro enormi pietre grigie, le torri e le merlature e, più sotto, il cupo Bosforo. Tentò di scattare una fotografia, ma anche così da lontano era impossibile prendere tutto l'insieme. Lasciò allora la strada avviandosi lungo un sentiero costeggiato da cespugli secchi che aveva tutta l'aria di seguire il perimetro della fortezza. Man mano che si avvicinava, le mura sembravano diventare sempre più alte; contro di esse ogni attacco sarebbe stato inutile. La vide a circa quindici metri di distanza. Gli veniva incontro portando un grosso pacco avvolto in carta di giornale e legato con uno spago. Indossava le tipiche vesti di cotone, variamente colorate e piuttosto lise per l'uso, che portavano le donne più povere e, contrariamente al solito, non tentò di coprirsi il volto con lo scialle quando lo notò. Forse era proprio il pacco che le impediva di compiere il consueto gesto di pudore: dopo la prima occhiata, infatti, abbassò immediatamente lo sguardo. No, sarebbe stato veramente difficile identificare un segno premonitore in questo primo incontro. Quando s'incrociarono, John si scostò per lasciarla passare e lei mormorò qualcosa in turco, che egli interpretò come un grazie. La osservò finché non raggiunse la strada chiedendosi se si sarebbe voltata. Ma la donna non lo fece. Seguì il perimetro delle mura lungo lo scosceso crinale della collina fino a raggiungere la strada costiera, senza trovare una sola porta d'accesso. Lo divertiva l'idea che magari non ce ne fosse nemmeno una. Fra l'acqua e i barbacani c'era solamente una stretta strada. Un complesso veramente impressionante.
La porta d'accesso, che in realtà esisteva, era esattamente a lato della torre centrale. Pagò cinque lire d'ingresso e altre due lire e mezza per il permesso di fotografare. Delle tre torri, solo quella centrale lungo il muro orientale verso il Bosforo, era accessibile per i turisti. John non era particolarmente in forma e iniziò a salire la scala a chiocciola molto lentamente. I gradini in pietra erano stati evidentemente rubati da altri edifici. Abbastanza spesso scopriva frammenti di una trabeazione classica con intagli non originali: croci greche o aquile bizantine rozzamente intagliate. Ogni passo diventava simbolicamente una conquista: era impossibile salire queste scale senza farsi coinvolgere nella storia della caduta di Costantinopoli. La scala a chiocciola portava a una specie di camminamento in legno, ancorato alla parete interna della torre, a un'altezza di circa venti metri. Nella struttura a silos della torre si udiva l'eco d'invisibili piccioni, che tubavano e sbattevano le ali; in un punto imprecisato il vento giocava con una porta metallica, facendola aprire con cigolii e richiudendola con colpi secchi. Qui, se, l'intuito l'avesse ispirato, avrebbe potuto captare segni premonitori. Strisciò lungo la passerella di legno, afferrandosi con entrambe le mani alla ringhiera metallica fissata nella parete, sentendosi pervaso da una stuzzicante sensazione di terrore e sudando piacevolmente. Pensò che gioia avrebbe provato Janice, la moglie, la cui passione per l'altitudine era esattamente pari alla sua. Si chiese quando e se l'avrebbe rivista e come sarebbe stata... se... nel caso. A quell'epoca aveva sicuramente già avviato le pratiche di divorzio; forse non era nemmeno più sua moglie. Il camminamento conduceva a un'altra scala in pietra, più corta della prima, che portava alla porta metallica cigolante. L'aprì e uscì, fuori, investito da uno stormo di piccioni, nel pieno bagliore del mezzogiorno, immerso nell'inebriante fascino dell'altitudine, con in alto il sole e in basso l'acqua e, al di là di questa, le verdi, surreali colline asiatiche, i cento seni della dea Cibele. La visione sembrava quasi in attesa di ricevere un'approvazione, un grido, un gesto, ma egli non aveva voglia di gridare né di fare un qualsiasi gesto. Poteva solo ammirare, a distanza, illudersi di toccare le colline, come fossero fatte di carne, e la sua illusione diveniva sempre più intensa quando posava le mani, ancora tutte sudate dopo il percorso sulla passerella, sulla pietra ruvida del parapetto riscaldata dai raggi del sole. Guardando in giù, lungo il lato della torre, verso la strada deserta la vide di nuovo, mentre stava in piedi vicinissima all'acqua. Lo stava osservando.
Quando la notò, la donna sollevò entrambe le braccia, come per fare un segnale, e gridò qualcosa che, anche se avesse potuto sentire distintamente, non avrebbe di certo capito. Immaginò gli chiedesse una fotografia e così regolò il diaframma in modo da attenuare l'intenso riflesso emanato dall'acqua. La donna stava in piedi esattamente sotto la torre e pareva praticamente impossibile poterle ottenere una buona inquadratura. Aprì l'otturatore. Donna, acqua, strada asfaltata: sarebbe venuta fuori un'istantanea e John non era molto propenso per le istantanee in genere. La donna continuava a chiamarlo, tenendo le braccia alzate in quella posa ieratica. Era assurdo. Le fece un gesto e sorrise, incerto. La faccenda era in fondo alquanto imbarazzante. Non gli andava di dovere condividere quel paesaggio, quelle sensazioni, le aveva volute, cercate e trovate solo per sé: dopo tutto, se si sale su di una torre lo si fa per stare soli. Altin, l'uomo che gli aveva trovato l'appartamento, lavorava come commissario per vari negozi di gioielli e di tappeti nel Gran Bazaar. Attaccava discorso con i turisti inglesi e americani e consigliava loro dove e che cosa comprare e quanto spendere. Passarono una giornata a visitare vari appartamenti e infine decisero per uno vicino a Taksim, la piazza da cui s'irradiavano le arterie che servivano il quartiere europeo, una specie di Broadway. Nel quartiere si trovavano numerose banche che esibivano tutta la loro modernità con le loro insegne al neon e, al centro della piazza, un Atatürk a grandezza naturale guidava un piccolo ma rappresentativo gruppo di suoi connazionali verso un futuro di progresso e di occidentalizzazione. L'appartamento (secondo Altin) era pregno di questo spirito progressista: aveva il riscaldamento centrale, una toilette con w.c, una vasca da bagno e un imponente frigorifero anche se non funzionante. L'affitto ammontava a seicento lire al mese, vale a dire sessantasei dollari al cambio ufficiale e cinquanta a quello di Altin. John che non vedeva l'ora di andarsene dall'albergo decise di affittarlo per sei mesi. Odiò quell'appartamento fin dal primo giorno. A parte un sudicio e scassato divano che fece portar via dal padrone di casa, lasciò tutto com'.era. Non levò nemmeno le sbiadite fotografie delle pin-up, strappate da una rivista pornografica turca, appese alla parete per coprire le recenti crepe dell'intonaco. Era fermamente intenzionato a non apportare alcuna modifica: sarebbe probabilmente dovuto vìvere per un certo periodo in quella città, ma non necessariamente godersi quel soggiorno. Ogni giorno passava al consolato a ritirare la posta. Sperimentò tutta una
serie di ristoranti e visitò i luoghi e i monumenti più noti prendendo appunti per il suo libro. Tutti i giovedì andava a un hamam, un bagno turco, dove, sudando, eliminava le tossine accumulate durante la settimana e si faceva manipolare e frizionare da un massaggiatore. Controllava con attenzione la crescita dei primi baffi. Stava marcendo dentro, come un vaso di conserva dimenticato aperto sul ripiano superiore della credenza. Venne a sapere che c'era un termine preciso per designare i rotolini di grasso che si distaccavano dal corpo dopo un bagno turco e che un altro, fuker, fuker, fuker, riproduceva il rumore dell'acqua in ebollizione. Quest'ultima simboleggiava per i turchi l'inizio dell'eccitazione sessuale, equivaleva approssimativamente al concetto americano di «elettricità». Talora, man mano che tracciava la sua pianta personale dei viottoli poco attraenti e delle sconnesse stradine a gradini del quartiere, credeva d'incontrarla... d'incontrare la stessa donna. Era difficile esserne certi. Era sempre alquanto distante ed egli riusciva a captare solamente una sua rapida occhiata, con la coda dell'occhio. Anche se fosse stata la stessa donna, era in quel momento impossibile stabilire se lo stesse seguendo. Si trattava tuttalpiù di una coincidenza. In ogni caso non poteva esserne sicuro. Il suo volto non aveva nulla di particolare ed egli non aveva nemmeno una sua fotografia dal momento che, estraendo il rullino dalla macchina, aveva esposto alla luce l'intera pellicola. Qualche volta, a seguito di questi mancati incontri, provava un senso di disagio, ma nulla più. Incontrò il bambino a Usküdar. Accadde all'arrivo dei primi freddi, a metà novembre. Era la sua prima escursione sul Bosforo e quando mise piede sulla terra ferma (o, per meglio dire, sull'asfalto) del nuovo continente, il più vasto di tutti, si sentì chiamare, risucchiare dal vortice dell'est, che lo sospingeva e lo allettava. Quando era a New York, aveva progettato di fermarsi al massimo due mesi a Istanbul per imparare la lingua e di andare, poi, in Asia. Quante volte si era fatto incantare dalle litanie sulle sue meraviglie: le moschee di Kayseri e di Sivas, di Beysehir e di Afyon Karahisar; il magnifico e solitario Ararat e, ancor più a est, le rive del Mar Caspio, Meshed, Kabul, l'Himalaya. Tutti insieme lo chiamavano, cantando, e gli stendevano le proprie
braccia, attraendolo, come le sirene, verso il gorgo infinito. Ed egli che cosa fece? Rifiutò. Sebbene percepisse il fascino del richiamo, rifiutò l'invito. Sebbene in fondo desiderasse unirsi a loro, si tirò indietro. Si era legato saldamente all'albero della nave, per salvarsi dall'accattivante proposta. Aveva un appartamento in quella città, al di fuori della loro portata, e lì avrebbe trascorso le sue giornate fino al momento del ritorno. A primavera sarebbe rientrato negli Stati Uniti. Ma fece una concessione alle sirene: avrebbe desistito dal seguire razionalmente l'itinerario Hachette di moschea in moschea e si sarebbe dedicato durante il resto della giornata alla scoperta di tesori nascosti. Quel pomeriggio, mentre il sole splendeva ancora alto nel cielo, avrebbero potuto condurlo ovunque. L'asfalto cedeva il posto all'acciottolato e l'acciottolato, a sua volta, all'immondizia. Lo squallore di questi luoghi era molto meno maestoso di quello di Istanbul, dove anche tuguri più decrepiti erano stati schiacciati da strati sovrapposti di piani costruiti per fare posto a un numero sempre crescente di abitanti. A Usküdar le stesse catapecchie si estendevano lungo i crinali delle colline, simili a mendicanti distesi per terra, privati con violenza delle proprie stampelle. Attraverso gli squarci nel legno non verniciato s'intravvedeva un canniccio ricoperto di fango, che pareva quasi un corpo segnato da orrende cicatrici. Mentre si faceva strada, procedendo da un sudicio viottolo a un altro, scoprì che erano tutti uguali, tutti egualmente smorti e monotoni e iniziò a concepire l'idea di una nuova Asia, fatta non di montagne e di vaste pianure, ma di un'unica sterminata distesa di tuguri lungo i rilievi brulli, un continuum di silenzioso grigiore. Essendo basso di statura e non comportandosi da turista americano, camminava per le stradine senza attirare l'attenzione, probabilmente aiutato anche dai baffi che si faceva crescere. Solamente gli occhi attenti e osservatori (la sua macchina fotografica, dopo avere rovinato un secondo rullino di pellicola, era ora in riparazione) avrebbero potuto tradirlo. Atlin, del resto, (con l'intenzione di fargli un complimento) gli aveva assicurato che, non appena avesse imparato a parlare la lingua, sarebbe stato tranquillamente scambiato per un turco. Man mano che le ore passavano, si era fatto sempre più freddo. Un fitto strato di foschia, sospinto dal vento, aveva coperto il sole. Con il progressivo infittirsi della bruma e mentre il pallido cerchio tramontava ad occidente, illuminando il paesaggio con gli ultimi raggi, i giochi di luce bisbigliavano parole discordanti sulle casupole e sui loro abitanti. Ma non volle
fermarsi ad ascoltare: conosceva già più di quanto gli interessasse sapere a questo proposito. Si diresse a passo veloce verso quella che riteneva essere la direzione della fermata del battello. Il bambino piangeva, in piedi vicino a una fontana, una canna che sporgeva da un blocco di cemento, situata all'incrocio fra due stradine strette. Aveva a occhio e croce cinque anni, forse sei. Portava due grossi secchi di plastica, uno rosso e uno turchese, pieni d'acqua e se ne era rovesciata un po' sui calzoni leggeri e sui piedi nudi. All'inizio pensò che il bambino piangesse per il freddo. Il terreno bagnato doveva essere gelido come il ghiaccio e camminarci sopra a piedi nudi... Poi vide le ciabattine. Erano simili a quelle che s'indossano per fare la doccia, due ovali di plastica blu stampati a quadratini, con un'unico cinturino che passava fra alluce e indice. Spesso si chinava per infilarsi bene le ciabattine forzando il cinturino fra le dita irrigidite e arrossate per il freddo. Non faceva a tempo a fare pochi passi che ne perdeva una, e sbilanciandosi si rovesciava addosso un po' d'acqua. Non sapeva camminare con quelle ciabattine, ma non se le sarebbe mai tolte dai piedi per andare scalzo. Quando John comprese ciò, fu sommerso da un senso di orrore, di orrore per il fatto di sentirsi assolutamente incapace di fare alcunché. Non poteva avvicinarsi al bambino e chiedergli dove viveva, prenderlo in braccio e portarlo a casa — era così piccolo — né tanto meno rimproverare i suoi genitori per averlo mandato a fare quella commissione con scarpe inadatte e senza vestiti sufficientemente caldi per quella stagione. Non poteva prendergli i secchi e farsi condurre a casa sua: in ognuno di questi casi avrebbe dovuto saper parlare turco, cosa questa che gli era impossibile. Che cosa poteva fare? Offrirgli del denaro? Sarebbe stato come dargli un opuscolo propagandistico della U.S. Information Agency! In effetti, non c'era nulla che potesse fare. Il bambino si era accorto di lui. Ora che poteva contare su un pubblico solidale, si lasciò andare a un pianto sfrenato. Poggiò i secchi a terra e, indicando questi e le ciabattine, pronunciò alcune parole in turco, con tono supplichevole, rivolgendosi allo sconosciuto, al salvatore. John fece un passo indietro, poi un altro e il bambino gli gridò qualcosa, un messaggio carico di dolore e cieca indignazione, la cui vera intensità non sarebbe mai stato in grado di comprendere. Si voltò e corse lungo la strada che aveva precedentemente percorso fino all'incrocio. Impiegò an-
cora un'ora per ritrovare la fermata del battello. Aveva iniziato a nevicare. Mentre prendeva posto sul battello, si guardò attorno osservando gli altri passeggeri, quasi aspettandosi di vederla. Il giorno seguente gli venne il raffreddore; durante la notte salì la febbre. Si svegliò più volte, tormentato dai sogni, sempre con la viva immagine dei loro due volti davanti agli occhi, come un souvenir di cui si è scordata la provenienza e il motivo dell'acquisto; la donna a Rumeli Hisar, il bambino a Usktidar. Qualche parte del suo cervello aveva iniziato a tracciare un parallelo fra loro due. 2 Era la tesi del suo libro: l'essenza dell'architettura, le sue velleità estetiche, la rendevano di per sé arbitraria. Una volta poste le architravi sui pilastri, una volta coperto lo spazio vuoto con il tetto, tutto quanto veniva fatto in seguito era meramente gratuito. Persino l'architrave e il pilastro, il tetto e lo spazio sottostante erano gratuiti. Così espresso sembrava un concetto alquanto semplice: la difficoltà risiedeva nell'abituare l'occhio a vedere il mondo come costituito da forme consuete, strutture di mattoni, di intonaco dipinto, di legno intagliato e lavorato, non come «edifici» e «strade», ma come serie infinita di scelte libere e arbitrarie. In una simile visione non c'era posto per ordini, stili, sofisticazione, gusto. Ogni manufatto della città era anomalo, unico, ma vivendo immerso in quella particolare atmosfera cittadina si tendeva a non percepire a pieno il fenomeno. Se invece... Negli ultimi tre, quattro anni si era prefisso lo scopo di rieducare l'occhio e la mente in quest'ottica, di riabituarli allo stato d'innocenza. Le sue aspirazioni erano però del tutto differenti da quelle romantiche poiché, una volta raggiunto questo stato di percezione «primitiva» (e ciò a livello puramente utopico essendo l'innocenza, come la giustizia, un assoluto che si può sfiorare ma mai raggiungere), non si aspettava certo di stabilire un contatto più stretto con la natura. La natura in quanto tale non lo interessava. Ciò che ricercava era, al contrario, la sensazione di estrema ingegnosità che caratterizzava gli oggetti, le strutture, l'immenso e interminabile muro costruito per isolare la natura. L'interesse che il suo primo libro aveva suscitato dimostrava che un certo qual successo, anche se non straordinario, era stato raggiunto. Ma egli ben sapeva (e chi meglio di lui poteva saperlo?) che le sue aspirazioni si erano rivelate di portata alquanto ristretta e che troppe clausole del contratto sociale non erano state nemmeno poste in
discussione. E così, dal momento che doveva liberarsi di quella sensazione di familiarità con l'ambiente, ritenne necessario cercare una nuova fucina per le sue idee, del tutto differente da New York, cercare un luogo dove potesse sentirsi naturalmente un alieno. Tutto questo era per lui estremamente ovvio. Ma non lo era altrettanto per sua moglie. John non tentò d'insistere: voleva dimostrarsi ragionevole. Ne aveva parlato spesso, aveva affrontato la questione ogni qualvolta si trovavano insieme, a cena, alle feste degli amici di lei (quelli di lui non sembravano inclini a dare ricevimenti), a letto, e infine era giunto alla conclusione che Janice si opponeva non tanto al viaggio in sé ma all'intero progetto, alla tesi che intendeva dimostrare. Le sue ragioni erano indubbiamente valide. L'arbitrarietà non era caratteristica esclusiva dell'architettura, bensì permeava — o, meglio, avrebbe potuto permeare se glielo avesse concesso — tutti i fenomeni. Se non c'erano leggi a cui ubbidivano gli arabeschi e le decorazioni degli edifici di una città, non esistevano nemmeno leggi (o esistevano solo leggi arbitrarie, che non avevano quindi alcun valore universale) atte a governare le relazioni che si intrecciavano nella vita cittadina, le relazioni fra uomo e uomo, uomo e donna, John e Janice. E in effetti queste considerazioni non erano nuove per lui; ci aveva già pensato anche se non gliene aveva mai parlato. Spesso, nel bel mezzo di uno dei molteplici rituali della vita quotidiana, per esempio una cena, aveva dovuto fermarsi per cercare di orientarsi. Man mano che la tesi prendeva corpo, man mano che continuava a penetrare i vari strati del preconcetto, aumentava il suo stupore nello scoprire quanto esteso fosse il dominio su cui regnava sovrana la convenzione. Talora credeva persino di scorgere in un impercettibile gesto di sua moglie, in una sua battuta estremamente calzante o in un semplice bacio una traccia dell'insegnamento tratto dal codice palladiano. Con la pratica, si sarebbe forse potuto studiare, tappa per tappa, la storia del suo stile: qui un eco di Neogotico, là un'imitazione di Mies. Quando gli fu negata la sovvenzione Guggenheim, decise d'intraprendere il viaggio per conto proprio, utilizzando i fondi rimasti, ricavati dalla vendita del libro. Pur non vedendone la necessità, aveva acconsentito a concedere il divorzio a Janice. Si separarono amichevolmente. Janice lo accompagnò persino alla nave, il giorno della partenza.
Il nevischio cadde per uno, due giorni formando dei cumuli alti sino al ginocchio negli spazi aperti, nei cortili lastricati e sui terreni non fabbricati. Il vento freddo levigò la poltiglia accumulatasi sulle strade e sui marciapiedi fino a farla diventare uno strato di ghiaccio spesso e opaco. Le colline più scoscese diventarono impraticabili. Neve e ghiaccio le avrebbero imprigionate per alcuni giorni, per poi sciogliersi improvvisamente, dando così origine, anche se per la durata di un solo pomeriggio, a veri e propri torrenti di acque fangose e cariche di rifiuti che scendevano a valle lungo i crinali sassosi. Dopo l'inondazione, il tempo era solito migliorare, per lo meno fino alla successiva tempesta di neve. Atlin gli garantì che quell'inverno era particolarmente rigido, più dei precedenti. Una spirale che si avvolge su se stessa. Un senso di oppressione. E ogni giorno la luce illuminava sempre più obliquamente le colline imbiancate e veniva più rapidamente consumata. Una notte, di ritorno dal cinema, scivolò sui ciottoli ricoperti dal ghiaccio proprio in corrispondenza del portone del suo stabile lacerandosi irreparabilmente i pantaloni all'altezza del ginocchio. I calzoni appartenevano all'unico vestito invernale che avesse e Atlin gli fornì l'indirizzo di un sarto che potesse in breve tempo confezionargliene un altro paio per una cifra di gran lunga inferiore a quella necessaria per comprare un completo già fatto. Atlin si occupò della contrattazione con il sarto e persino della scelta della stoffa, un misto lana blu dai riflessi vagamente iridescenti che ricordavano l'indefinito e squallido colore del piumaggio di alcuni piccioni. Non sapeva nulla di haute couture per cui non riuscì a capire il perché — era forse la forma dei revers, la lunghezza dello spacco della giacca, l'ampiezza della gamba? — il vestito alla fine fosse risultato così diverso da quelli che portava di solito... così stretto. Eppure gli stava bene, come stanno bene tutti i vestiti confezionati a mano. Se ora sembrava più basso di statura e più muscoloso forse significava che così doveva apparire e che i vestiti che aveva portato in precedenza avevano sempre alterato il suo aspetto. Anche il colore contribuì lievemente a questa metamorfosi: la sua pelle, accostata al blu-grigio dell'abito, non sembrava più tanto abbronzata quanto olivastra. Quando lo indossava, era un turco a tutti gli effetti. Non che desiderasse, più di tanto, somigliare a un turco. I turchi, nel complesso, non sono belli. Desiderava unicamente evitare gli americani di
cui Istanbul pullulava anche in una stagione morta come quella. Via via che diminuivano di numero, si aggregavano sempre più fra loro: il più piccolo segno, una copia di Nesweek o dell'Herald Tribune, una parola in inglese, una lettera spedita per posta aerea con l'inequivocabile annullo sul francobollo, poteva scatenare violentemente il loro senso di cameratismo. Era quindi opportuno avere una sorta di travestimento per passare inosservati e conoscere esattamente i loro luoghi di ritrovo per poterli evitare: Divan Yolu e Cumhuriyet Cadessi, la Biblioteca Americana e il Consolato, e circa otto-dieci ristoranti frequentati abitualmente da turisti. Quando arrivò l'inverno vero e proprio, decise fermamente di cessare le sue visite. Due mesi di moschee ottomane e di rovine bizantine avevano affinato il suo senso dell'arbitrarietà a tal punto che non aveva più bisogno di essere stimolato dai monumenti. I locali del suo stesso appartamento, un tavolo sgangherato, i drappi a fiori, le foto sbiadite e squallide delle pinup, le superfici piane delle pareti e del soffitto potevano in effetti presentare altrettante «problematiche» della moschea di Solimano il Magnifico o del Sultano Ahmet con tutti i loro mihrab e minber, le nicchie con le colonnine simili a stalattiti e le pareti piastrellate. Anzi, ne presentavano fin troppe. Giorno e notte le stanze lo tormentavano, l'obbligavano a distogliere l'attenzione da qualsiasi cosa tentasse di fare. Egli le conosceva intimamente, come un carcerato la propria cella: ne conosceva i difetti strutturali, le disarmonie, l'angolazione della luce solare che le illuminava a ogni ora del giorno. Si era preso la briga di spostare i mobili in modo da potere appendere le sue stampe e le sue mappe, di lavare i vetri e di pulire a fondo il pavimento. Aveva persino cercato di fabbricare una specie di libreria (tutti i suoi libri erano rimasti nelle casse di spedizione). Avrebbe potuto eliminare queste due presenze aliene con semplice atto di determinazione, un atto del tutto simile a quello compiuto per mascherare un cattivo odore con profumo floreale o d'incenso. Ma ciò avrebbe significato ammettere la sconfitta, tradire la tesi. Come compromesso, iniziò a trascorrere i suoi pomeriggi a un caffè poco distante da casa sua, sulla stessa via. Sedeva al tavolino più vicino alla finestra anteriore a contemplare il vapore che saliva a spirale dallo stretto bicchiere di tè. Nella parte posteriore del lungo locale, seduti sotto al samovar di ottone annerito, c'erano sempre due vecchi che giocavano a backgammon. Gli altri avventori sedevano per conto proprio e sembravano assorti in pensieri molto simili a quelli di John. Anche quando non c'era nessuno che fumava, l'aria era sempre pregna dell'odore pungente del car-
bone bruciato per accendere i narghilè. La conversazione era in ogni caso scarsa. I narghilè borbottavano, si udiva il rumore dei dadi agitati nel loro contenitore di cuoio, il fruscio delle pagine di un quotidiano, il tintinnio di un bicchiere poggiato sul piattino. Il suo taccuino rosso era sempre a portata di mano, sul tavolo, e, su di esso, la penna a sfera. Dopo averli posati lì appena arrivato, non li toccava più fino al momento di andarsene. Malgrado fosse sempre meno incline ad analizzare sensazioni e stimoli, era perfettamente conscio del fatto che quel caffè rappresentava un bastione, il più sicuro di tutti, contro l'ormai onnipresente influenza dell'arbitrarietà. Quando stava lì seduto, in pace, a osservare tutte le varie fasi del rituale, pregne di semplice dignità, come le regole nel backgammon, gli elementi presenti nello spazio attorno a lui iniziavano gradatamente ad assumere una certa logicità: oggetti delineati e racchiusi, senza difficoltà di sorta, nei loro contorni. Osservando il bicchiere a forma di fiore esattamente nel centro, quel puro e semplice bicchiere di tè, le sue percezioni si espandevano gradualmente per tutta la stanza, come onde concentriche che increspano la superficie di un laghetto, avvolgendo infine ogni cosa in uno stetto abbraccio, un abbraccio intellettuale puro, noumenico. Proprio così. La stanza era proprio ciò che una stanza doveva essere: lo racchiudeva in sé. Non fece caso al primo picchiettio sulla finestra del caffè, anche se si accorse, a causa di un'improvvisa contrazione dei pensieri, che le regole erano state in certo qual modo violate. Al secondo, alzò lo sguardo. Erano insieme, la donna e il bambino. Li aveva visti più volte dalla sua prima escursione a Usküdar, tre settimane prima. Il bambino, una volta sul marciapiede sconnesso di fronte al consolato, un'altra sulla balaustra del ponte di Karakoy. Un giorno, mentre si trovava su un dolmus diretto a Taksim, era passato vicinissimo alla donna e si erano scambiati uno sguardo di chiaro riconoscimento. Ma non li aveva mai incontrati insieme. Però, come poteva essere certo, ora, che si trattasse proprio di loro due? Aveva visto una donna e un bambino, e la donna stava picchiando lievemente sul vetro della finestra con le nocche della mano ossuta per richiamare l'attenzione di qualcuno. La sua forse? Se avesse potuto vedere il suo volto... Guardò gli altri clienti del caffè: i giocatori di backgammon, un uomo
grasso e non rasato che leggeva un quotidiano, un altro dalla pelle scura con occhiali e un paio di grandi baffi, i due vecchi seduti negli angoli opposti del locale a fumare il narghilè. Nessuno prestava attenzione alla donna che bussava alla finestra. Decise di concentrare il suo sguardo sul bicchiere di tè, ormai non più paradigma dell'inevitabilità, ma oggetto alieno, oggetto raccolto fra le macerie di una città sepolta: un coccio. La donna continuò a bussare sul vetro della finestra. A un certo momento il proprietario del caffè uscì dal locale e le disse qualcosa con tono brusco. Se ne andò subito, senza tentare di replicare. John rimase seduto al tavolino ancora per quindici minuti di fronte al suo bicchiere di tè ormai freddo, poi uscì in strada. Non c'era traccia di loro. S'incamminò verso casa, il più flemmaticamente possibile. Una volta messo piede nell'appartamento, chiuse la porta con la catena. Non ritornò più al caffè. Quando, quella sera, la donna venne a bussare alla sua porta non provò alcuno stupore. E ogni sera, alle nove o al massimo alle dieci, lei era là, «Yavuz! Yavuz!» esclamava, chiamandolo. Egli osservava fissamente l'acqua nera del mare e le luci della riva opposta, chiedendosi quando avrebbe ceduto, quando avrebbe aperto la porta. Ma c'era sicuramente un errore, una rassomiglianza del tutto casuale: lui non era Yavuz. John Benedict Harris, cittadino americano. Se ne fosse esistito uno, se mai fosse esistito un Yavuz. Forse l'uomo che aveva appeso le fotografie delle pin-up alle pareti? Due donne, avrebbero potuto essere gemelle, pesantemente truccate, in reggicalze, tutte e due in groppa allo stesso cavallo bianco, con un sorriso lascivo sulle labbra. Capelli cotonati, voluminosi. Labbra carnose. Seni cadenti con grandi capezzoli di color marrone scuro. Un divano. Un pallone da spiaggia. La pelle scura di lei. Bikini. Espressioni sorridenti. Sabbia. L'acqua di un blu eccessivamente carico. Istantanee. Erano queste le sue fantasie? Se così non era, che cosa l'aveva trattenuto dallo staccarle? Possedeva stampe di Piranesi. Un'ingrandimento della Sacra Famiglia di Barcellona. Uno schizzo di Cernikov. Avrebbe potuto de-
corare tutte le pareti. Aveva iniziato a pensare a questo Yavuz... cercava d'immaginarsi quale fosse il suo aspetto. 4 Tre giorni dopo Natale ricevette una cartolina da sua moglie, con il timbro del Nevada. Sapeva che Janice non indulgeva nei biglietti natalizi d'auguri. La cartolina raffigurava un immenso deserto di color bianco — una distesa di sale, pensò — e, sullo sfondo, dei rilievi color porpora, un tramonto palesemente ritoccato, rosa. Non c'erano figure umane nell'immagine né vegetazione. C'era scritto: «Buon Natale! Janice». Lo stesso giorno gli fu recapitata una busta di carta grezza contenente una copia dell'Art News. Sulla copertina era stato pinzato un biglietto dal tono assolutamente asettico del suo amico Raymond, con le seguenti parole: «Pensavo potesse interessarti R.» Nelle ultime pagine della rivista c'era una lunga e ben poco favorevole recensione del suo libro a opera di F.R. Robertson, noto per essere un'autorità in materia di estetica hegeliana. Sosteneva che Homo Arbitrans era un concentrato di verità lapalissiane e — senza che ciò fosse criticabile — una brutta rielaborazione delle teorie hegeliane. Alcuni anni prima si era defilato da un corso tenuto da Robertson, dopo appena due lezioni. Si chiese, di conseguenza, se quest'ultimo se ne fosse ricordato al momento di scrivere la recensione. L'articolo conteneva numerosi errori sostanziali, una citazione sbagliata, e non affrontava minimamente la tematica principale dell'opera che non era certamente di natura dialettica. Decise d'inviare una lettera di risposta e posò la rivista accanto alla macchina da scrivere per ricordarsene. La stessa sera, dopo avervi rovesciato sopra quasi un'intera bottiglia di vino, la stracciò e la gettò nel cestino insieme alla cartolina di sua moglie. L'impellente desiderio di un film lo aveva spinto a uscire e lo fece vagabondare a lungo, di sala in sala, nonostante l'acquerugiola che aveva iniziato a cadere nel pomeriggio si fosse trasformata in vera e propria pioggia. A New York, quando era di umore simile, andava a vedersi due film di fantascienza o due western sulla quarantaduesima. A Istanbul, malgrado i cinema fossero numerosissimi data la mancanza della televisione, solo i prodotti più tipicamente hollywoodiani venivano proiettati in lingua originale; tutti gli altri film di serie B erano doppiati in turco. Era così ossessionato
dalla sua idea che passò accanto all'uomo mascherato da scheletro quasi senza notarlo. Camminava faticosamente su e giù, lungo il marciapiede, un reduce tutto fradicio di Halloween, seguito, come il pifferaio magico, da una torma di bambini eccitati. La pioggia aveva incurvato gli angoli del cartello che portava addosso (e che ora faceva funzione di ombrello) scolorendo le scritte dipinte con l'inchiostro. Si riusciva a leggere solamente: KIL G STA LDA Dopo Atatùrk, il personaggio folkloristico più noto era Kiling, l'uomo scheletro. Ogni edicola traboccava di riviste e fumetti che celebravano le sue imprese. E ora era là, o per lo meno c'era il suo sosia, a fare pubblicità all'ultimo suo film. E laggiù, nella trasversale, c'era il cinema dove proiettavano Kiling Istanbulda, Kiling a Istabul. Sotto i caratteri cubitali del titolo si vedeva Kiling con la maschera da teschio che tentava di baciare una bionda attraente e ben poco entusiasta della cosa. Gli enormi manifesti attaccati dall'altro lato della strada lo raffiguravano, invece, mentre aveva appena ucciso a colpi di pistola due uomini elegantemente vestiti. Era impossibile stabilire, in base a quei manifesti, se Kiling fosse fondamentalmente un buono, come Batman, o invece un cattivo, come Fantomas. Così... Comprò un biglietto. Ora avrebbe potuto accertarlo. Era il nome che lo attraeva, un nome chiaramente inglese. Prese posto nella quarta fila, proprio nel momento in cui iniziava il film, e si trovò poco dopo piacevolmente calato nell'atmosfera familiare della città. In bianco e nero, incorniciati dal buio della sala, gli scorci di Istanbul sembravano molto più realistici. Macchine nuove di marche americane circolavano a velocità folle per le strette stradine. Un vecchio dottore venne strangolato da uno sconosciuto. Poi, per un lungo intervallo, non accadde più nulla di interessante. Nacque una storia d'amore fra la cantante bionda e il giovane architetto, mentre una banda di gangster, o un gruppo di diplomatici, tentava d'impossessarsi della valigetta nera del dottore. Dopo una scena confusa, in cui quattro di questi morirono in un'esplosione, la valigetta cadde nelle mani di Kiling e risultò essere vuota. I poliziotti diedero la caccia a Kiling sui tetti ricoperti di tegole, cosa che provò semplicemente la sua agilità e non la sua colpevolezza: la polizia del resto commette spesso di questi errori quando si tratta di queste faccende.
Kiling entrò, attraverso una finestra, nella camera da letto della cantante, svegliandola improvvisamente, e le parlò con voce cupa e bassa. Dal montaggio sembrava di capire che Kiling fosse in realtà il giovane architetto che la donna amava ma, dal momento che non si tolse mai la maschera, la sua identità rimase per sempre un mistero. Sentì una mano toccarlo sulla spalla. Era certo che si trattasse della donna e decise di non voltarsi. Era riuscita a seguirlo fino al cinematografo? Se se ne fosse andato, avrebbe forse fatto una scenata? Tentò d'ignorare la pressione della mano, continuando a osservare le immagini sullo schermo. Il giovane architetto aveva appena ricevuto un misterioso telegramma. Le sue mani avevano afferrato saldamente le cosce. Le sue mani: quelle di John Benedict Harris. «Salve Signor Harris!» Era una voce maschile. Si voltò. Atlin. «Atlin.» Atlin sorrise, stupito. «Sì. Credeva forse che fosse qualcun altro?» «Qualcun altro?» «Sì.» «No.» «È venuto per vedere questo film?» «Sì.» «Non è in inglese, è in turco.» «Lo so.» Parecchi spettatori seduti nelle file vicino a loro iniziarono a protestare e a zittirli. La cantante bionda era ora presso una delle più grandi cisterne della città: Bindirdirek. Anch'egli c'era stato. Nel film sembrava più larga di quanto non lo fosse in realtà. «Veniamo vicino a lei» sussurrò Atlin. John annui. Atlin sedette alla sua destra e il suo amico alla sua sinistra. L'amico gli venne presentato in un bisbiglio: si chiamava Yavuz e non parlava inglese. Riluttante, gli strinse la mano. Da quel momento in poi gli fu estremamente difficile seguire il film. Continuava a osservare con la coda dell'occhio Yavuz. Era alto circa quanto lui e aveva quasi la stessa età, anche se si poteva dire altrettanto di metà della popolazione maschile di Istanbul. Aveva un volto ordinario e i suoi occhi brillavano, umidi, riflettendo la luce dello schermo.
Kiling si stava arrampicando lungo le travature di un edificio posto sul ripido crinale di una collina. Sullo sfondo il Bosforo si snodava fra le colline avvolte di foschia. C'era qualcosa di sgraziato in quasi tutti i volti turchi e non era mai riuscito a capire esattamente che cosa: un'anomalia ossea, gli zigomi stretti, le linee profonde che solcavano il viso delle orbite fino agli angoli della bocca, la bocca stessa, stretta, piatta, rigida. O, forse, una disarmonia ancora più sottile di tutti questi elementi. Yavuz. Un nome comune, gli aveva detto l'impiegato postale al consolato. Nel finale del film ci fu una lotta fra due personaggi travestiti da scheletri, fra il vero e il falso Kiling. Uno di loro venne gettato giù dalle travi d'acciaio dell'edificio in costruzione e morì. Era certamente il cattivo. Ma chi era morto? Il vero o il falso Kiling? E, pensandoci bene, chi di loro aveva spaventato la cantante nel suo letto, strangolato il dottore e rubato la valigetta? «Le è piaciuto?» chiese Atlin mentre si avviavano verso l'uscita. «Sì.» «Ma è riuscito a capire quello che dicevano?» «Qualcosa. Abbastanza.» Atlin scambiò qualche parola con Yavuz che poco dopo si rivolse al suo nuovo amico americano parlando speditamente in turco. John scosse la testa con tono di scusa. Atlin e Yavuz scoppiarono a ridere. «Dice che avete tutti e due lo stesso vestito» disse Atlin. «Sì, l'ho notato appena si sono accese le luci» rispose John. «Dove va adesso, signor Harris?» «Che ora è?» Erano ormai fuori dal locale. La pioggia si era trasformata in acquerugiola. Atlin guardò l'ora e disse: «Le sette. E mezzo.» «Devo andare a casa.» «Veniamo con lei; porteremo una bottiglia di vino. D'accordo?» Guardò Yavuz, incerto. Yavuz sorrideva. E che cosa sarebbe successo quando, quella sera, la donna, avrebbe iniziato a bussare alla porta chiamando Yavuz? «Non questa sera, Atlin.» «No.» «Non mi sento molto bene.»
«Sì?» «Sto male. Ho la febbre. Mi fa male la testa.» Portò la mano alla fronte per meglio far comprendere il concetto, come se veramente sentisse il dolore e la febbre. «Sarà per un'altra volta, mi spiace.» Atlin si strinse nelle spalle con aria scettica. Salutò con una stretta di mano Atlin e Yavuz che se ne andarono con la sensazione di essere stati umiliati. Per tornare a casa prese una via più lunga, che gli permetteva di evitare i vicoli bui. L'atmosfera del film aleggiava nell'aria, come l'aroma di un liquore, vivacizzando il traffico automobilistico e pedonale e intensificando l'effetto di chiaroscuro creato dall'oscurità serale e dall'illuminazione dei lampioni e delle vetrine. Una volta, uscendo dall'Eight Street Cinema dove aveva visto Jules et Jim, aveva scoperto che tutte le insegne delle vie del Village erano in francese; ora, per la stessa magia, ritenne di poter capire i frammenti di conversazione turca che udiva camminando, tra i passanti: il significato di una frase isolata registrato immediatamente, senza il discernimento, come puro «fatto», la natura delle parole mescolata alla natura delle cose. Tutto qui. Ogni punto della trama linguistica trovava, senza alcun bisogno di spiegazione, la sua giusta collocazione. Ogni sfumatura della voce, ogni particolarità dello sguardo calzavano a pennello in quella situazione, in quella strada, in quella luce, nel suo conscio, come un abito confezionato su misura. Inebriato da un'estasi contemplata del tutto fittizia, proseguì il cammino fino a imboccare la strada di casa sua e passò accanto alla donna — che, come tutti gli altri elementi della scena, s'integrava perfettamente con l'angolo della strada in cui si era appostata — quasi senza notarla. «Tu!» esclamò John fermandosi di colpo. Erano a poco più di un metro di distanza e si scrutavano intensamente l'un l'altra. Come lui, forse anche la donna era poco preparata a affrontare l'incontro. I pesanti capelli neri, tirati indietro, le ricadevano, ondulati, sulle spalle incorniciando il volto magro e lasciando scoperta la fronte bassa. Pelle butterata, raggrinzita tutto intorno alle sottili e pallide labbra. E lacrime, sì, lacrime, che iniziavano a sgorgare dagli angoli degli occhi che lo fissavano. Con una mano teneva un pacchetto avvolto in carta di giornale e legato con lo spago, con l'altra afferrava i numerosi strati della sua complicata veste. Più che un solo abito, ne portava diversi, uno sull'altro, per proteggersi dal
freddo. Ebbe una lieve erezione. Il pene gli rimase intrappolato nell'apertura delle mutande di cotone ed egli arrossì. Una volta, mentre leggeva l'edizione economica di Krafft-Ebing, era accaduta esattamente la stessa cosa. Si trattava, allora, di una storia di necrofilia. Dio, pensò, se solo lo nota! La donna gli sussurrò delle parole abbassando lo sguardo. Le sussurrò a lui, a Yavuz. Gli disse di venire a casa con lei... Perché?... Yavuz, Yavuz, Yavuz, ... aveva bisogno di lui... e suo figlio... «Non ti capisco,» le rispose. «Le tue parole non significano nulla per me. Io sono americano: mi chiamo John Benedict Harris, non Yavuz. Ti stai sbagliando, non vedi?» Le fece un cenno con il capo. «Yavuz.» «No Yavuz! Yok! Yok, yok!» E disse una parola che significava più o meno «amore». La mano avvinghiandosi nelle molteplici gonne le sollevava leggermente lasciando intravvedere le sottili caviglie coperte da calze nere. «No.» Iniziò a gemere. ... Moglie.... la sua casa.... Yalova ... la sua vita. «Maledizione, vai via!» La mano di lei lasciò improvvisamente le gonne e gli afferrò la spalla, con le dita affondate nella stoffa poco pregiata del vestito. Con l'altra mano la donna gli spinse il pacchetto fra le braccia. Tentò di respingerla, ma gli si era avvinghiata addosso con tutte le sue forze, gridando il suo nome: «Yavuz!» John la schiaffeggiò. Lei cadde sui ciottoli bagnati. Lui indietreggiò, tenendo con la mano sinistra il pacchetto unto e sporco. La donna si rialzò. Lacrime scorrevano sul volto lungo le linee che dagli occhi giungevano fino alla bocca. Era proprio un viso turco. Del sangue colò lentamente da una narice. Poi poco a poco, s'incamminò in direzione di Taksim. «E non ritornare più, hai capito? Stai lontana da me!» urlò John con tono aspro. Quando la donna scomparve dalla sua vista, guardò il pacchetto che teneva in mano. Sapeva che non avrebbe mai dovuto aprirlo e che la cosa più saggia da farsi era gettarlo nel primo bidone delle immondizie. Malgrado l'intenzione, le sue dita erano già intente a strappare lo spago.
Una porzione enorme di borek, soffice e ormai tiepido. Ed anche un'arancia. Sentendo l'odore acre del formaggio, gli venne l'acquolina in bocca. No! Non aveva cenato quella sera ed era affamato. Lo mangiò e mangiò pure l'arancia. Nel mese di gennaio aveva fatto solamente due annotazioni nel suo taccuino. La prima, senza data, era un passo copiato dal testo di A.H. Lybyer sui Giannizzeri, i soldati-schiavi dei sultani, The Government of the Ottoman Empire in the Time of Suleiman the Magnificent: Non c'è forse stato sulla faccia della terra un tentativo più audace di quello intrapreso dal sistema di governo ottomano, idealmente simile alla Repubblica platoniana e affine, nella realtà, a quella dei Mamelucchi in Egitto. Esso, tuttavia, si discosta sia dalla prima, poiché supera le limitazioni aristocratiche del mondo ellenico, sia dal secondo dal momento che lo annientò e gli sopravvisse. Negli Stati Uniti d'America molti sono partiti dal nulla, dal duro lavoro nelle terre più selvagge, e sono arrivati alla carica presidenziale, ma lo hanno fatto con le proprie forze, non avvalendosi di un sistema scientificamente organizzato che li aiutasse nella scalata. La Chiesa cattolica può prescegliere e istruire un contadino affinché diventi papa, ma nel corso dei secoli non ha mai fatto un simile tentativo selezionando candidati che professino religioni a essa ostili. Il sistema ottomano si è avvalso di schiavi che, una volta adeguatamente preparati, sono stati nominati ministri. Selezionava giovani pecorai o contadini e li trasformava in uomini di corte e mariti di principesse; selezionava giovani i cui antenati erano cristiani da generazioni e li nominava governatori nel più vasto degli stati musulmani, trasforma in soldati e generali di armate invincibili la cui somma aspirazione era quella di abbattere la Croce e d'innalzare al suo posto lo stendardo con la Mezzaluna. Non si chiedeva mai ai novizi: chi è tuo padre? o: che cosa sai? o ancora: sai parlare la nostra lingua? Si studiavano, al contrario, i loro volti e il loro fisico e si diceva: «Tu diventerai un soldato e, se ti dimostrerai meritevole, un generale.» Oppure: «Sarai uno studioso e un gentiluomo e, se dimostrerai di avere talento, governatore o primo ministro.» Non tenendo in al-
cuna considerazione quell'insieme di norme comportamentali e tradizioni conosciute come «natura umana», e i pregiudizi religiosi o sociali ritenuti indissolubili dalla vita stessa, il sistema governativo ottomano separava definitivamente i figli dai genitori, scoraggiava l'instaurarsi di particolari rapporti affettivi fra i membri di una famiglia, non garantiva loro alcun diritto sicuro sulla proprietà né il fatto che i figli e le figlie potessero in futuro trarre beneficio concreto dai loro sacrifici e dall'eventuale successo raggiunto in un campo. Li innalzava e abbassava di grado indipendentemente dalle origini e dai meriti precedentemente ottenuti, insegnava loro una legge, un'etica e una religione strane e rammentava loro costantemente che c'era una spada sospesa sul loro capo che in qualsiasi momento avrebbe potuto troncare carriere brillanti, glorie e successi. La seconda annotazione, più breve, era datata ventitré gennaio: «Ieri pioggia a catinelle. Sono rimasto in casa a bere. È arrivata alla solita ora. Questa mattina, quando infilai le scarpe marroni per andare a fare la spesa, notai che erano completamente fradice. Due ore per farle asciugare sulla stufa. Ieri ho indossato solamente le pantofole di pelle di pecora: non ho messo assolutamente piede fuori di casa.» 4 Un volto umano è una costruzione, un fabbricato. La bocca è la piccola porta d'ingresso, gli occhi le finestre che si affacciano sulla strada e tutto il resto, la carne, le ossa, rappresenta le pareti su cui è possibile appendere differenti tipi di ornamenti, ninnoli appartenenti al periodo o allo stile di cui ci si è innamorati, refurtiva appesa al collo, linee cesellate o rese meno marcate, una nicchia particolarmente accentuata, un po' di verde qua e là. Ogni aggiunta e ogni sottrazione, per quanto piccole siano, alterano l'intera struttura. Così, i capelli che aveva fatto regolare in modo che coprissero lievemente le tempie ristabilivano l'egemonia delle linee verticali del suo volto, ormai palesemente assottigliato. O, invece, era semplicemente una questione di proporzioni e l'accentuazione di alcuni particolari? Egli era anche dimagrito (tutti, quando iniziano a mangiare in maniera sregolata,
calano di peso), perdendo parecchi chili. Le borse sotto i suoi occhi erano più segnate, più scure, e venivano ora maggiormente esaltate dalle guance incavate e scarne. Il principale fattore della metamorfosi era in ogni caso, i baffi, cresciuti a tal punto da coprire la forma del labbro superiore. Le punte, che inizialmente tendevano a essere spioventi, avevano gradualmente assunto una curvatura simile a quella della scimitarra (o, in turco, pala, da cui deriva il nome di questo tipo dibaffi, pala biyik) a causa della sua mania di attorcigliarsele con le dita. Ed erano proprio questi, i baffi barocchi, che egli vedeva quando si guardava allo specchio, non il suo volto. Poi, c'è l'«espressione», i suoi mutamenti rapidi, la sua costanza, il sottile gioco dell'intelligenza, la peculiarità del «tono» e delle sue infinite sfumature, lo sguardo ironico o candido, la tensione o la rilassatezza delle labbra. Ma è pressoché inutile approfondire l'argomento visto che il suo volto, quando egli stesso o qualsiasi altra persona lo osservava, era privo di ogni espressione. Che cosa poteva in effetti esprimere? Il progressivo attenuarsi dei contorni, intere giornate sprecate, lunghe ore trascorse a letto, sveglio, libri sparpagliati per la stanza come piccoli animali morti da rosicchiare quando lo stimolo della fame si faceva sentire, interminabili tazze di tè, sigarette insapori. Il vino, almeno, riuscì a compiere la sua funzione, eliminare il tormento. Non che, in quei giorni, lo sentisse con particolare intensità, ma forse, senza il vino, non sarebbe stato così. Ammonticchiò i vuoti a perdere delle bottiglie nella vasca da bagno, mettendo in pratica con quell'atto (e forse solo con quello) il vecchio discernimento, il «tatto compulsivo» tanto esaltato nel suo libro. Le tende erano sempre tirate e le luci restavano accese giorno e notte, persino quando dormiva e quando era fuori casa: tre lampadine da sessanta watt avvitate a un lampadario che pendeva dal soffitto. Le voci provenienti dalla strada irrompevano con violenza nell'appartamento. I venditori e le grida metalliche dei bambini, il mattino. La radio dell'appartamento sottostante e liti di ubriachi, la sera. Parole percepite qua e là, come insegne luminose intraviste per pochi istanti nella notte, durante una corsa folle sull'autostrada. Due bottiglie di vino non erano sufficienti se iniziava nel primo pomeriggio; tre potevano farlo stare male. E, malgrado le ore scorressero lente, come insetti feriti che si trascinano
sul pavimento, i giorni si susseguivano vorticosamente. La luce del sole scivolava via rapida dalle acque del Bosforo, talmente rapida che non c'era quasi il tempo di vederla. Un mattino, quando si svegliò, vide un palloncino fissato su un'asticciola nel polveroso vaso da fiori posto sul cassettone. Un rozzo e deforme Topolino era stato disegnato sulla sua superficie color rosso brillante. Lo lasciò là, a ondeggiare su e giù nel vaso, e l'osservò rimpicciolirsi giorno dopo giorno, mentre il muso di Topolino diveniva sempre più nero e raggrinzito. La volta successiva, si trattava delle matrici di due biglietti per il battello Kabatas-Usküdar. Fino a quel momento si era detto che era un modo per resistere fino all'arrivo della primavera. Si era preparato a un assedio, escludendo la possibilità di un attacco. Ora aveva finalmente compreso che avrebbe invece dovuto uscire e combattere apertamente. Era solo la metà di febbraio, eppure il tempo favorì i suoi tardivi intendimenti con una serie di giornate limpide e una temperatura insolitamente elevata che fece spuntare le prime gemme sui rami degli alberi fiduciosi. Si recò nuovamente al Topkapi osservando, con atteggiamento ossequioso e stupito, le porcellane celadon, le tabacchiere d'oro, le federe ricamate con le perle, le miniature dei sultani, l'impronta del Profeta, le piastrelle Iznik. Ai suoi occhi, questo insieme, era di una bellezza infinita. Come un venditore attaccava i cartellini del prezzo a ogni articolo in vendita, così egli identificava, almeno temporaneamente, ognuno dei preziosi gingilli con uno dei suoi termini preferiti e poi indietreggiava di qualche passo per verificare quanto «calzante» o «inappropriata» fosse la definizione. Ma tutto ciò era bello? Lo era veramente? Sorprendentemente, nessun oggetto lo era. I ninnoli di inestimabile valore se ne stavano là, sui loro ripiani, protetti da una spessa lastra di vetro, muti e ieratici come gli squallidi soprammobili del suo appartamento. Tentò con le moschee del Sultano Ahmet, di Beyazit, di Sehazade, di Yeni Camii, di Laleli Camii. L'antica magia, l'assioma vitruviano «utilità, solidità e piacevolezza» mai si era dimostrato tanto astruso. Non riusciva nemmeno a provare quel senso di stordimento, di provinciale meraviglia di fronte ai possenti pilastri e alle immense cupole. Poteva recarsi ovunque in città, eppure rimaneva sempre intrappolato nella sua stanza. E le mura cittadine, dove mesi prima aveva avuto la sensazione di toccare con mano la storia passata? Si recò nello stesso posto di allora, nel luogo in cui Mehmet
il Conquistatore aveva aperto una breccia. Palle di cannone in granito decoravano il prato formando un disegno a scacchiera. Gli richiamarono alla mente il palloncino rosso. Come ultima spiaggia, si recò a Eyup. La prematura primavera aveva raggiunto il suo massimo splendore; la luce solare si rifletteva con innaturali riverberi sulle pietre bianche e sfaccettate, che orlavano lo scosceso crinale della collina. Fra le tombe brucavano alcune pecore, radunate in piccoli gruppi di tre o quattro. Le lapidi di marmo, di forma allungata, cilindrica o rettangolare, e coronate dal turbante, erano poste in tutte le direzioni fuorché in quella verticale (che solo i cipressi riuscivano quindi a stabilire) o giacevano l'una sull'altra, alla rinfusa. Niente mura, niente soffitti, solo un sentiero che s'intravvedeva a malapena fra la spazzatura: era, questa, un'architettura estremamente astratta. Gli sembrò che fosse stata accumulata là nei secoli per vendicare la tesi del suo libro. Ed ebbe il suo effetto. Ebbe un meraviglioso effetto. Occhi e mente ritornarono vivi. Idee e immagini presero nuovamente forma. La luce obliqua e penetrante del tardo pomeriggio accarezzava le lastre di marmo accatastato con tocco freddo, come un parrucchiere che apporta i tocchi finali a un'acconciatura. La bellezza? Era qui. Era qui, immensa! Ritornò il giorno seguente, munito di macchina fotografica che aveva recuperato dopo due mesi dal negozio di riparazioni. Per essere sicuro, si era fatto caricare il rullino dal negoziante. Scattò ogni fotografia con precisione matematica, calcolando esattamente la profondità del campo, accovacciandosi o arrampicandosi sulle tombe per ottenere un'angolazione migliore, verificando la luce ed evitando accuratamente inquadrature troppo pittoresche e di facile effetto. Malgrado usasse queste attenzioni, si accorse che in meno di due ore aveva esaurito il rullino. Si avviò in direzione del piccolo caffè situato in cima alla collina. Qui, rilevava scrupolosamente la sua Hachette, il grande Pierre Loti era solito venire, le sere d'estate, a bere un bicchiere di tè e a contemplare le colline e, attraverso i cipressi, le Fresche Acque d'Europa e il Corno d'Oro. Il caffè, ricco di fotografie e di oggetti, conservava il ricordo della gloria passata. Loti, con un fez rosso sul capo e con un paio di enormi baffi, scrutava i moderni avventori del locale da ogni parete. Durante la prima guerra mondiale, Loti era rimasto a Istanbul, appoggiando il sultano, suo amico, nella lotta contro la Francia, suo paese natale. Ordinò un bicchiere di tè a una cameriera acconciata come una donna dell'harem. A parte lei, non c'era nessun altro nel caffè. Si sedette sulla se-
dia preferita da Pierre Loti. Era meraviglioso. Si sentiva perfettamente a proprio agio. Aprì il taccuino e iniziò a scrivere. Come un malato che, dopo la convalescenza, inizia a fare le prime passeggiate, le sue energie stavano gradatamente rifiorendo, facendolo sentire euforico e intellettualmente un po' stordito. Provò una sensazione strana, come se, alzandosi in piedi, si fosse portato a un'altezza pericolosa. Il senso di vertigine aumentò quando, nel tentativo di scrivere una risposta all'articolo di Robertson, fu obbligato a rileggere alcuni brani del suo libro. Più di una volta fu colpito dall'incomprensibilità di quanto aveva scritto. Interi capitoli avrebbero potuto essere scritti con ideogrammi o in caratteri runici, e per lui sarebbe stato esattamente lo stesso. Ogni tanto però, aiutato da osservazioni talmente marginali e irrilevanti ai fini degli argomenti trattati da essere relegate fra parentesi, riusciva a giungere a qualche imprevedibile e poco auspicabile conclusione. O, per meglio dire, ognuno di questi indizi lo portava a un'unica conclusione: il suo libro, e qualsiasi altro libro che avesse scritto, era inutile, e lo era non perché la sua tesi fosse sbagliata ma proprio perché poteva essere giusta. Da un lato c'era il mondo delle opinioni, dall'altro quello dei fatti. Il suo libro, se non altro in quanto libro, apparteneva al primo. Era d'altronde innegabile la corporeità dello stesso ma, come in molti altri casi, egli tendeva a sminuirne l'importanza. Era un'opera di critica, una sistematizzazione delle opinioni: il sistema, nella misura in cui era di per sé completo, doveva essere in grado di valutare i propri parametri di giudizio e verificare l'equità delle proprie sentenze. Ma era veramente in grado di farlo? Il «sistema» non era forse una struttura arbitraria esattamente come una banalissima piramide? Dopo tutto, che cos'era? Una sequela di parole, dal suono più o meno piacevole, che si ritiene facciano riferimento a determinati oggetti e gruppi di oggetti, a determinate azioni e gruppi di azioni, appartenenti al mondo dei fatti. E per mezzo di quale sottile magia può essere verificata questa correlazione? Ebbene, semplicemente asserendo che è così! Tutto ciò era palesemente poco chiaro. Lo aveva concepito rapidamente, senza ponderazione e senza nemmeno l'incentivo di un po' di vino rosso. Per potere memorizzare i punti principali della questione, tentò di «buttare giù due righe» in merito, scrivendo una lettera all'Art News: Alla Spett. Redazione di Art News,
Vi scrivo a proposito della recensione di F.R. Robertson sul mio libro, anche se la mia breve lettera riguarda solo marginalmente gli oracoli robertsoniani, come del resto marginalmente questi hanno influenzato Homo Arbitrans. Solo questo: come Godel ha dimostrato matematicamente, Wittgenstein filosoficamente e Duchamp, Cage ed Ashberry nei loro rispettivi settori, l'ultima parola di un sistema è un'autodenuncia, una dimostrazione dei suoi trucchi, fatti non con arti magiche (come del resto i maghi hanno sempre saputo) ma grazie alla disponibilità del pubblico a farsi ingannare dal mago, disponibilità che è il catalizzatore del contratto sociale. Ogni sistema, compreso il mio e quello del signor Robertson, è costituito da menzogne, più o meno affascinanti: se decidiamo di chiamare in causa tali bugie, sarebbe allora opportuno iniziare dalla prima. Intendo dire, dalla prima discutibile locuzione scritta sulla copertina: Homo Arbitrans di John Benedict Harris. Ora Le chiedo, signor Robertson, che cosa c'è di più improbabile di essa? Di più azzardato? Di più arbitrario? Inviò la lettera senza firmarla. 5 Gli avevano promesso che le fotografie sarebbero state pronte per lunedì, e così, lunedì mattina, prima che la brina sui vetri delle finestre si sciogliesse, andò al negozio. Attendeva con ansia e malcelata ambizione il momento di vederle, esattamente come avveniva in passato per una recensione o un saggio in corso di stampa. Era come se esse, le fotografie, le parole scritte, avessero il potere di accoglierlo, almeno temporaneamente, nel mondo delle opinioni da cui era stato esiliato, come se gli dicessero: «Sì, eccoci qui, nelle tue mani. Siamo reali, e anche tu devi esserlo.» Il vecchio dietro il banco, un tedesco, lo guardò con aria contrita e borbottò un: «Ah, signor Harris, le sue fotografie non sono ancora pronte. Ripassi verso le dodici.» S'incamminò per il dedalo di stradine che, in quella zona del Corno d'Oro, sembravano eclettici libri di aneddoti. Non c'era posta al consolato, come era prevedibile. Le dieci e mezza. Un pudding in un locale specializzato nella produzione di simili dolci.
Due lire. Una sigaretta. Ancora qualche aneddoto: una cariatide infradiciata, una tomba egiziana, un tempio greco trasformato con un tocco di bacchetta magica in una macelleria. Le undici. Osservò, nella vetrina di una libreria, i soliti libri scoloriti in esposizione, ormai visti e rivisti più volte. Le undici e mezza. Certamente, per quell'ora erano pronte. «Eccole qui, signor Harris. Bene.» John sorrise, con l'espressione di chi pregusta un piacevole evento, e aprì la busta, estraendo un sottile pacco di fotografie, lievemente deformato. «Mi spiace» disse «ma non sono le mie fotografie.» Le restituì. Non voleva toccarle con le sue mani. «Prego?» «Mi ha dato delle fotografie sbagliate. Ha commesso un errore.» Il vecchio inforcò un paio di occhiali sporchi ed esaminò rapidamente le foto. Diede un'occhiata al nome scritto sulla busta e disse: «Lei è il signor Harris.» «Sì, quello è il nome scritto sulla busta. La busta è quella giusta, le foto no.» «Non c'è nessun errore.» «Queste sono le istantanee di qualcun altro. Sono foto di un picnic, come può vedere.» «Io stesso ho estratto il rullino dalla sua macchina. Ricorda signor Harris?» John scoppiò a ridere, a disagio. Odiava le discussioni. Ebbe l'impulso di uscire dal negozio, lasciando perdere definitivamente la questione. «Sì, me ne ricordo. Ma credo che lei abbia scambiato il mio rullino con un altro. Non ho mai scattato queste foto. Ne ho scattate, invece, al cimitero di Eyüp. Questo non la illumina?» Forse, pensò immediatamente dopo, un tedesco non era in grado di capire questo particolare uso del verbo «illuminare». Come, in caso di contestazioni, un cameriere rivede il conto con attenzione quasi esagerata, il vecchio aggrottò le ciglia e prese ad esaminare una a una le fotografie. A un certo momento, schiarendosi la voce con aria trionfante, gliene porse una sul bancone. Chi è questo, signor Harris? Era il bambino. «Chi? Io... io non lo conosco.» Il vecchio scoppiò in una fragorosa risata, sollevando gli occhi al cielo. «Ma è lei, signor Harris! È lei!»
Si chinò sul bancone. Le sue dita si rifiutavano di toccare la fotografia. Il bambino era in braccio a un uomo che teneva il capo inclinato in avanti, come se stesse osservando il capo del ragazzino in cerca di eventuali pidocchi. Tutti gli altri particolari erano sfuocati, dal momento che la distanza era stata posta erroneamente all'infinito. Era forse il suo volto? I baffi assomigliavano ai suoi, le borse sotto gli occhi, i capelli che ricadevano sulle tempie... Ma l'angolazione del capo, il fatto che la foto fosse sfuocata... rimaneva un alone di dubbio. «Ventiquattro lire, prego, signor Harris.» «Sì, certo.» Prese una banconota da cinquanta lire dal portafoglio. Il vecchio pescò il resto da un borsellino di plastica da donna. «Grazie, signor Harris.» «Sì... sono spiacente.» Il vecchio ripose le fotografie nella busta e gliele porse sul bancone. John infilò la busta nella tasca del vestito. «Mi sono sbagliato.» disse. «Arrivederci.» «Bene, arrivederci.» Uscì in strada, al sole, alla loro mercè. In qualsiasi momento uno dei due poteva avvicinarglisi, posargli una mano sulla spalla, tirargli i pantaloni. Non poteva fermarsi lì a esaminare le foto. Ritornò al locale dove poco prima aveva mangiato il pudding e le dispose, ordinate in quattro file, su un tavolo di marmo. Venti fotografie. Una gita di un giorno. Non c'era cosa più banale. Tre erano sovraesposte, da buttare via; non avrebbero dovuto essere stampate. Altre tre raffiguravano, a quanto si capiva, isole o vari pezzi di una costa alquanto irregolare; erano state scattate senza alcuna fantasia, riprendevano vaste distese di cielo slavato e di acqua luccicante. Schiacciata fra di essi, la terra appariva come una serie di macchie scure, disposte qua e là, picchiettate di minuscoli quadratini grigi: le case. C'era anche un'inquadratura di una ripida stradina costeggiata da case in legno e da giardini spogli data la stagione invernale. Le altre tredici fotografie raffiguravano varie persone, o gruppi di persone, che fissavano intensamente l'obiettivo. Una donna robusta, vestita di nero, con i denti neri e gli occhi socchiusi per il sole, stava in piedi vicino a un pino in una foto, scomodamente seduta su una pietra in un'altra. Un vecchio dalla pelle scura, calvo, con un paio di ampi baffi e una barba di alcuni giorni. Poi ancora i due insieme, in una foto sfuocata. Tre bambine
di fronte a una donna di mezza età, che le osservava con sguardo compiaciuto e possessivo. Le stesse tre bambine attorno al vecchio, che non sembrava prestare loro alcuna attenzione. E un gruppo di cinque uomini: l'ombra del fotografo, a gambe divaricate, s'intravvedeva sull'acciottolato. E la donna. Da sola. La pelle olivastra e raggrinzita, illuminata dalla intensa luce del mezzogiorno, sembrava coperta da una maschera bianca. C'era poi il bambino, accoccolato su una coperta, vicino a lei. Piccole onde lambivano la stretta spiaggia di sassi. Un'altra inquadratura con donna, ragazzino, vecchia e bambine. I volti delle due donne, ravvicinati, denotavano una certa somiglianza, probabilmente un legame di parentela. Il personaggio che poteva essere preso per lui stesso appariva solo in tre fotografie: in una teneva il bambino in braccio; in un'altra cingeva le spalle della donna con un braccio mentre il bambino stava in piedi davanti a loro, imbronciato; in un'altra era ancora in un gruppo di tredici persone, tutte già ritratte precedentemente. Solo l'ultima era a fuoco. Era una delle figure meno appariscenti, ma in ogni caso il viso con i baffi che sorrideva meccanicamente in direzione dell'obiettivo era il suo. Non c'era alcun dubbio. Non aveva mai visto le persone delle foto, eccezione fatta per la donna e per il bambino, anche se in fondo erano del tutto simili alle centinaia da lui incontrate per le strade di Istanbul. Non riconosceva nemmeno i prati, il boschetto di pini, i sassi, la spiaggia sassosa, che d'altronde non avevano alcunché di peculiare e di differente da altri posti visti decine e decine di volte. Il mondo dei fatti era dunque così vago e imprecisato? Era proprio quello il mondo dei fatti, non ne aveva mai dubitato. E quale elemento egli aveva in mano per confutare tali prove? Un nome? Un volto? Scrutò attentamente le pareti della pasticceria alla ricerca di uno specchio. Non ce n'era neanche uno. Prese il cucchiaio dal bicchiere di tè in cui era immerso e, mentre ancora gocciolava, osservò la sua immagine riflessa, confusa e deformata, sulla superficie concava. Man mano che avvicinava a sé il cucchiaio, l'immagine diventava ancora più indistinta. Poi lo ruotò di centottanta gradi, ponendolo perpendicolarmente al suolo, in modo che riflettesse l'immagine del suo occhio dilatato e fisso. Era sul ponte di coperta, mentre il battello avanzava fendendo le acque e facendo risuonare la sirena. Come un uomo esce di casa in una giornata di bufera, il battello lasciava le acque calme del Corno d'Oro, costeggiando la
penisola in cui si trovava la città vecchia, per affrontare le onde increspate dal vento del Mar di Marinara. Soffiava un vento freddo del sud che sembrava quasi avere congelato la bandiera scarlatta con la stella e la mezzaluna sull'albero di poppa. La città si stagliava solenne all'orizzonte: in primo piano le basse mura di color grigio del Topkapi; poi la armoniosa cupola di S. Irene, costruita (come avviene quando, per dimostrare le proprie virtù, ci si pone a confronto con un amico che sicuramente non le possiede) per evidenziare l'eccessiva boriosità di Santa Sofia; ed infine il simbolo sgraziato e irreale dell'unione commemorata su ogni capitello dai monogrammi intrecciati del nobile Giustiniano e della sua puttana e consorte Teodora. Poi ancora, a chiusura della sequenza storico-topografica, le orgogliose forme della Moschea Blu. Il battello iniziò a rollare sulle acque agitate del mare aperto. Le nuvole correvano veloci nel cielo, coprendo a rapidi intervalli il sole e ammassandosi poco a poco a nord, sulla città che andava via via rimpicciolendosi all'orizzonte. Erano le quattro e mezza. Alle cinque sarebbe arrivato a Heybeli, l'isola identificata da Atlin e dall'impiegato del consolato come il posto in cui erano state scattate le fotografie. In tasca aveva il biglietto aereo per New York. Aveva già fatto i bagagli e li aveva spediti via mare, fatta eccezione per la borsa che avrebbe portato sull'aereo, ultimando i preparativi in un pomeriggio e nella mattinata del giorno successivo in preda ai fumi dell'alcol, alla paura e alla frenesia. Era salvo, ora. Il sapere con certezza che il giorno successivo sarebbe stato a migliaia di chilometri di distanza aveva fatto rinascere in lui un vago senso di fiducia, come la promessa di un profeta infallibile, un Tiresia in acque tranquille. In realtà, era un salvezza vergognosa, ottenuta dopo una colossale disfatta — tanto colossale che il nemico era quasi riuscito a impossessarsi d'ogni sua cosa, identità compresa — ma, malgrado tutto, era sempre una vita di scampo, sicura come il domani che lo attendeva. E il «domani» era ancora più definito e presente ai suoi occhi e nella sua mente di quanto non lo fosse il periodo d'attesa, il limbo in cui si trovava. Fin da ragazzo era così: riusciva a sopportare la spaventosa noia della vigilia di Natale proiettandosi mentalmente nel giorno seguente che si rivelava, poi, essere sempre meno reale delle sue aspettative. Dal momento che era salvo, si decise ad affrontare il nemico (se avesse accettato la sua sfida) faccia a faccia. Non rischiava nulla, anche se non sapeva quali conseguenze il suo atto avrebbe potuto avere. Anche se era
semplicemente a caccia di brividi, avrebbe comunque dovuto rimanere fino alla fine e osservare tutto. No, la sua ultima escursione era un gesto più che un atto, una bravata più che un'azione di coraggio. La predisposizione d'animo con cui era partito era una garanzia del fatto che nulla di spaventoso sarebbe potuto accadere. Non era forse sempre stata la loro strategia quella di prenderlo alla sprovvista? Alla fine, ovviamente, non riuscì a capacitarsi del perché fosse andato al battello, avesse comprato il biglietto e fosse salito a bordo: percepì solo che tutti gli atti compiuti in seguito aumentavano quel piacevole senso d'inesorabile avanzata verso il nemico, un senso d'insostenibile tensione nel contempo di sognante languore. Non avrebbe più potuto tornare indietro, una volta intrapreso il cammino: sarebbe stato come rifiutarsi di ascoltare il finale di una sinfonia. La bellezza? Oh, sì, quasi insopportabile! Non era mai venuto a contatto con nulla di più bello. Il battello attraccò al molo di Kinali Ada, la prima isola; alcuni passeggeri scesero a terra, altri salirono a bordo. Poi ripartì alla volta di Burgaz, solcando le acque controvento. Dietro, la costa europea svaniva poco a poco, immersa in una sottile nebbiolina. Il battello aveva già lasciato Burgaz e stava costeggiando l'isoletta di Kasik. John si guardava intorno affascinato, mentre le nere colline di Kasik, Burgaz e Kinali venivano gradualmente ad assumere la stessa posizione della fotografia. Sentì quasi il click dello scatto. \ E tutte le altre angolazioni fra i vari piani, marini e terrestri: non c'era forse qualcosa di familiare in ogni nuova prospettiva che andava formandosi? Quando osservava le isole, con gli occhi semi-chiusi, senza focalizzare la propria attenzione su un punto preciso, riusciva quasi a... Ma ogniqualvolta tentava, con tutte le debite cautele, di analizzare scientificamente le sue sensazioni, tutto si frantumava in mille pezzi. Iniziò a nevicare poco prima dell'attracco a Heybeli. Era in piedi sul pontile. Il battello stava dirigendosi verso est, immerso nel biancore, verso Buyük Ada. Guardò in direzione di una ripida stradina costeggiata da case in legno e giardini dagli alberi spogli e scheletriti. I fiocchi di neve cadevano a grappoli sui ciottoli bagnati, fondendosi lentamente. I lampioni, posti a distanze irregolari, occhieggiavano nell'oscurità. Le case, invece, erano completamente avvolte dalle tenebre serali. Heybeli era un centro estivo: poche persone ci vivevano d'inverno. Si avviò lungo la strada che conduceva in
cima alla collina, risalendone metà, per poi piegare a destra. Alcuni particolari delle case in legno, la proporzione di una finestra, un tetto sfondato attiravano di tanto in tanto la sua attenzione, come un battito d'ali fra i rami di un albero a venti, cinquanta, cento metri di distanza. C'erano poche case, distanti l'una dall'altra. Nei giardini la neve copriva le foglie dei cavoli. La strada s'inerpicava su per la collina in direzione di un edificio in pietra. Si riusciva a stento a vedere la bandiera che sventolava in cima, contro il cielo grigio. Prese un sentiero che costeggiava i piedi del colle. Portava alla pineta. Il folto tappeto di aghi sul terreno era più scivoloso del ghiaccio. Poggiò la guancia sulla corteccia di un albero e sentì nuovamente il click della macchina fotografica, insieme al ritmico movimento sistolico e diastolico del cuore. Sentì, prima ancora di vederla, il rumore dell'acqua che lambiva la spiaggia. Si fermò. Focalizzò lo sguardo. Riconobbe la pietra. Vi si diresse. Percepiva così interamente la scena, così intensamente che riusciva a sentire le orme lasciate sul sentiero e la neve che via via le ricopriva. Si fermò nuovamente. Lì aveva tenuto in braccio il bambino. La donna aveva avvicinato la macchia fotografica all'occhio con riverente goffaggine. Egli aveva chinato il capo per evitare il dover guardare direttamente il sole al tramonto. Il cuoio capelluto del bambino era pieno di croste dovute a punture d'insetti. Era pronto ad ammettere che questo assurdo evento era accaduto. Lo ammise. Sollevò il capo, orgoglioso, sorridendo, come per dire: Va bene, e allora? Qualsiasia cosa tu faccia, sono salvo! Perché, in realtà, io non sono affatto qui. Sono già a New York. Posò le mani, con un gesto di sfida, sulla pietra vicina a lui. Le sue dita sfiorarono il resistente cinturino di una ciabattina di plastica. Coperta dalla neve, la ciabattina blu di forma ovale era decisamente sfuggita alla sua attenzione. Si girò per osservare il bosco e poi ritornò a guardare la pietra dove giaceva la ciabattina. Fece per prenderla e gettarla in mare, ma ritrasse subito la mano. Si diresse nuovamente verso il bosco. Un uomo stava in piedi, esattamente al suo limitare, sul sentiero. Era troppo buio per poterne identificarne i lineamenti. Riuscì solo a intravvedere che aveva i baffi. Alla sua sinistra, la spiaggia innevata terminava in un ammasso di arenaria. A destra, il sentiero si snodava nel bosco e, dietro a lui, il mare sospin-
geva avanti e indietro i sassolini della spiaggia. «Sì?» disse John, più che chiedere, rivolto all'uomo. L'uomo chinò il capo, attento, ma non rispose. «Allora, sì? Dillo!» L'uomo ritornò nel bosco. Il ferry stava per attraccare quando egli arrivò al molo, incespicando. Si precipitò a bordo senza nemmeno acquistare il biglietto. Alla luce elettrica si accorse dello strappo nei pantaloni e di un taglio che si era fatto sul palmo della mano destra. Era caduto più volte sugli aghi di pino, sulle rocce scavate dall'acqua e dal vento, sui ciottoli. Prese posto vicino alla stufa a carbone. Quando riprese fiato, scoprì che stava tremando violentemente. Arrivò un ragazzino con un vassoio di bicchieri di tè. Ne prese uno pagandolo otto lire. Chiese al ragazzino che ore fossero. Le dieci di sera. Il battello approdò a un altro molo. Dall'insegna posta sulla biglietteria si leggeva Buyük Ada. Poi, mollò ancora gli ormeggi. Venne il controllore e gli chiese il biglietto. Egli gli porse una banconota da dieci lire, dicendo: «Istanbul». Il controllore scosse il capo, in segno negativo. «Yok.» «No? Quant'è, allora? Kac para?» «Yok Istanbul. Yalova.» Prese la banconota. Gli diede otto lire di resto e un biglietto per Yalova, sulla costa asiatica. Aveva preso un battello che andava nella direzione sbagliata: non stava andando a Istanbul, bensì a Yalova. Cercò di spiegare, prima in buon inglese, parlando lentamente, poi in turco, con le poche parole che sapeva e con la forza della disperazione, che non poteva andare a Yalova, che era assolutamente impossibile. Mostrò il biglietto aereo, indicò l'ora del decollo, le otto, senza però riuscire a ricordarsi il termine turco che significava «domani». Pur nella sua disperazione, riusciva a percepire l'inutilità del suo gesto: tra Buyük Ada e Yalova non c'erano fermate intermedie, né battello per Instabul durante la notte. A Yalova avrebbe dovuto scendere a terra. Una donna e un ragazzo stavano in piedi, alla fine del molo di legno, illuminati perfettamente da un cono di luce, contro cui si stagliavano brillanti i fiocchi di neve. Le luci del ponte intermedio erano spente. L'uomo che era stato a lungo appoggiato alla ringhiera s'incamminò, tutto irrigidito,
lungo il molo. Si dirigeva esattamente verso la donna e il bambino. Brandelli di carta, sospinti dal forte vento, fecero dei mulinelli ai suoi piedi e poi, sollevati da una potente folata, furono proiettati nell'aria, a notevole altezza, sopra l'acqua nera. L'uomo fece un cenno poco cordiale alla donna, che mormorò qualche parola in turco. Si avviarono verso casa, come avevano fatto tante volte in passato, l'uomo davanti, con la moglie e il figlio che lo seguivano a pochi passi di distanza. Titolo originale: The Asian Shore Traduzione: Adria Tissoni Robert Aickman L'ospizio Nei racconti di Robert Aickman è sempre presente, in una certa misura, qualche dubbio relativo all'effettiva natura dei fatti che vengono narrati. Attorno a tale dubbio l'autore crea un'atmosfera di terrore e paura crescenti e non offre mai, neanche per un istante, solide basi che contribuirebbero a spiegare gli eventi in modo logico. Il lettore intravvede cose orribili, ma quando riesce finalmente a metterle a fuoco, esse sono già scomparse. Questa è la storia di un uomo che, essendosi smarrito, oltrepassa i confini del reale e viene a trovarsi nel mondo dell'assurdo e dell'irreale. Risultano disorientati tanto il lettore quanto il personaggio narrante, e alla fine gli interrogativi che emergono sono più numerosi di quelli che trovano una risposta. L'ospizio è un tipico scritto di Aickman, un esempio del nostro terzo genere di racconti dell'orrore, in cui vengono smontate le strutture morali (come in The Summer People di Shirley Jackons) e i fattori psicologici risultano inaffidabili: tutti i dettagli e gli effetti contribuiscono a creare un'impressione di profonda e sconvolgente instabilità che suggerisce un senso di terrore indefinibile, ma non per questo meno presente. Si trovava nell'angolo più remoto della terra. Maybury avrebbe avuto difficoltà a descrivere quel luogo in modo più preciso. Era una di quelle persone che, quando guidano al di fuori del proprio territorio, preferiscono seguire il percorso indicato da una delle organizzazio-
ni automobilistiche e, in questa stessa occasione come in altre precedenti, egli aveva avuto motivi validi per deplorare qualsiasi deviazione. Questa volta la colpa era stata del direttore dello stabilimento. Non solo quegli aveva riso del percorso normale, ma era anche rimasto davanti al cancello del cantiere per assicurarsi che Maybury prendesse effettivamente la scorciatoia che, secondo lui, veniva usata da tutti i colleghi, e che andava proprio nella direzione opposta. Tutto quello che si può dire è che Maybury si trovava presumibilmente al margine dell'immensa conurbazione dei West Midlands. Certamente doveva trattarsi proprio del margine estremo, poiché gli sembrava di avere trascorso ore e ore in macchina dopo avere lasciato lo stabilimento; aveva girato sempre in tondo, percorrendo cerchi grandi o piccoli; aveva chiesto indicazioni senza essere in grado di capire le risposte (quando la gente si degnava di rispondergli) e per tutto il tempo aveva avuto l'impressione di trovarsi totalmente fuori strada. Maybury guardò l'orologio. Aveva effettivamente guidato per ore. Se fosse andato nella direzione giusta avrebbe già percorso oltre metà del tragitto, e più. Anche la luce del cruscotto sembrava più pallida del solito; essa permise a Maybury di vedere che la benzina era agli sgoccioli: non aveva proprio pensato al problema della benzina. Nonostante fosse buio, Maybury si accorse di numerosi alberi enormi e opachi. Non è però che non vi fossero case. Ci dovevano essere case, perché ai due lati della strada si vedevano i cancelli: larghi cancelli per lo più dipinti di bianco; e anche dove non c'erano cancelli si scorgevano entrate oscure. Presumibilmente si trattava di un'esclusiva zona residenziale costruita nel diciannovesimo secolo. Strade sinuose quasi tutte identiche sembravano diramarsi in tutte le direzioni. La linea retta era stata elegantemente evitata. Come spesso accade in luoghi simili, chi passa in fretta, chi azzarda una scorciatoia, viene sistematicamente penalizzato. E la mancanza di una moderna illuminazione stradale contribuisce non poco all'avvento dell'errore. Maybury giunse a una particolare biforcazione. Era impossibile compiere qualsiasi scelta ragionata; in ogni caso egli non credeva che facesse grande differenza. Fermò l'auto sul lato della strada, quindi, mentre rifletteva, spense il motore per risparmiare la poca benzina che gli restava. Infine aprì la portiera e
uscì sulla strada. Guardò in su. La luna e le stelle erano quasi nascoste dai folti alberi. Regnava il silenzio. Le case erano troppo arretrate rispetto alla strada per poter essere viste, perché si sentisse il rumore dei televisori accesi o se ne vedesse brillare il bagliore azzurro. I pedoni, in zone come quelle, al giorno d'oggi, sono rari a tutte le ore, ma in quel momento non c'era neanche traffico di automobili, né rumore di traffico più remoto. Quel silenzio turbò Maybury. Percorse un breve tratto a piedi, come di solito si fa in simili circostanze. Non aveva carte stradali, solo un itinerario che aveva seguito, subito sarebbe più corretto, davvero senza entusiasmo. Eppure, quell'itinerario preferito dagli abitanti del luogo, seguito da tutti i colleghi, e impostogli dal direttore gli era sembrato se non chiaro quantomeno possibile quando gli era stato descritto. Così gli era parso, perché, altrimenti, non si sarebbe persuaso a seguirlo, e neanche si sarebbe fatto convincere. Al presente, combinato com'era, il suo solito esperimento di andare sempre dritto fino a quando avesse trovato un cartello o qualche altra indicazione non sembrava praticabile: la benzina avrebbe potuto finire prima. Parallelo a ogni lato di ogni strada c'era uno stretto marciapiede con una striscia di ghiaia in mezzo. Oltre la striscia, alla sinistra di Maybury, c'era una vegetazione selvaggia, attraversata da un fossato al di là del quale c'era la siepe che delimitava le diverse proprietà. Alla luce dei rari lampioni Maybury vide che alcuni dei padroni di casa facevano tagliare le siepi, altri no. Sarebbe stato assurdo continuare a piedi lungo la strada, nonostante l'aria fosse piacevole, così tiepida e aromatica. C'erano Angela e suo figlio Tony ad aspettarlo: doveva rimettersi in cammino per raggiungerli. Qualcosa gli saltò addosso dalla boscaglia alla sua sinistra. Aveva disturbato un gatto che era tornato alle proprie abitudine ferine. Subito sentì gli artigli, o probabilmente i denti, penetrare nella sua gamba sinistra. Non c'era stato nessun tentativo di accattivarsi la sua simpatia né altri vezzeggiamenti. Maybury scalciò furiosamente. Stranamente seguì un silenzio totale. Doveva avere scaraventato il gatto molto lontano, poiché non se ne vedeva alcuna traccia. Non aveva nemmeno visto di che colore fosse quel gatto, nonostante ci fosse una zona luminosa in quel punto lungo il marciapiede. Immaginava di avere visto gli occhi scintillanti, ma non era certo neanche di questo. Non c'erano stati miagolii né gnaulii. Maybury vacillò. La gamba gli faceva davvero male. Tanto male che non riuscì a decidersi di toccarla, né di guardarla alla luce del lampione. Tornò incespicando alla macchina, e nonostante la sua gamba faticasse
anche solo ad avviare l'auto, partì titubante lungo la strada che aveva appena percorso a piedi. Probabilmente sarebbe stato saggio da parte sua andare in cerca di un'ospedale. Il profondo graffio o il morso di un gatto potevano anche essere fonte di infezioni, e non era piacevole pensare a dove quel particolare gatto avesse camminato o che cosa avesse divorato. Maybury guardò nuovamente l'ora. Erano le otto e quattordici di sera. Erano trascorsi solo nove minuti da quando l'aveva guardato l'ultima volta. La strada ora era più dritta e il numero delle entrate diminuiva, nonostante gli alberi fossero ancora densi. Probabilmente, come capita così spesso, i soldi erano finiti prima che su quella parte della proprietà potessero essere costruite le abitazioni. C'era ancora qualche casa qua e là, con entrate a intervalli grandi e irregolari. Anche i pali dei lampioni si diradavano, ma Maybury vide che a uno di essi era appeso un cartello. Era improbabile che indicasse una direzione, e ancora più improbabile che tale direzione potesse essergli utile ma, egualmente, rallentò e si fermò, tanto urgentemente aveva bisogno di qualsiasi tipo di indizio. Il cartello era a forma di picche, come l'asso delle carte da gioco, e portava la scritta: L'OSPIZIO VITTO BUONO QUALCHE ALLOGGIO e modeste parole relative agli alloggi seguivano la curvatura del bordo inferiore del cartello. Maybury decise quasi istantaneamente: aveva fame, era ferito, si era smarrito. Inoltre era rimasto quasi senza benzina. Si sarebbe informato per una cena e, se avesse potuto telefonare a casa, avrebbe forse dormito lì, pur non avendo con sé il pigiama né il rasoio elettrico. Il cancello, che era di ferro, sarebbe stato più adatto al recinto dei tori di una fattoria, pensò Maybury, comunque era spalancato. Maybury entrò con la macchina. Anche il viale d'accesso ricoperto di cemento era piuttosto brutto, e sembrava già abbastanza vecchio a giudicare dalle buche che denotavano il frequente passaggio di veicoli pesanti. I fari della macchina di Maybury rimbalzavano e traballavano incerti mentre egli procedeva; ma improvvisamente il viale, che fino a quel punto era stato abbastanza dritto, sempre come in una fattoria moderna, curvò, ed ecco, sulla sinistra di Maybury,
l'ospizio. Solo allora si rese conto che il viale che aveva percorso, se effettivamente era un viale, non era l'entrata principale originale. C'era un altro viale vecchio, più classico che serpeggiava tra i cespugli di rododendro. Tutto quanto era bene illuminato da un impianto che si trovava sopra la cornicione della casa: «Una specie di riflettore» pensò Maybury. Pensò che il nuovo viale fosse stato fatto per i veicoli dei vari fornitori quando quell'edificio era stato trasformato in ... ma che cos'era, esattamente? Un albergo privato? Una pensione familiare? Un club? Magari era un posto dove organizzavano banchetti per gli abitanti delle grandi case, ora che nel mondo non c'era più la servitù. Maybury chiuse a chiave la macchina e provò a spingere la porta della casa. Era una solida porta vittoriana e non cedette alla pressione di Maybury. Maybury si scoraggiò per il fatto di dovere suonare, ma suonò. Notò un secondo campanello più in basso con la scritta NOTTE. Certamente non era ancora notte. Doveva innanzitutto entrare e mangiare (allo stabilimento gli avevano dato solo panini preconfezionati e un caffè insulso) per ingraziarsi i gestori prima di chiedere informazioni sulla questione della benzina, l'ubicazione del luogo, un eventuale alloggio per la notte, una telefonata a Angela, un disinfettante per la gamba. Non gli piaceva molto starsene lì da solo, in un luogo sconosciuto, sotto un potente riflettore, senza sapere che cosa sarebbe accaduto. Ma ben presto la porta fu aperta da un ragazzo con i capelli biondi e riccioluti e la faccia serena. «Sembra un giovane atleta» pensò subito Maybury. Portava una giacca bianca e sorrideva cortesemente. «Cena? Sì, certamente, signore. Purtroppo abbiamo appena iniziato, ma sono sicuro che possiamo trovare un posto anche per voi.» Quelle parole richiamarono nella mente di Maybury ricordi delle pensioni in riva al mare dov'era stato in vacanza da ragazzo. A quel tempo la puntualità era importante quanto la sobrietà. «Se mi concedete solo qualche minuto per rinfrescarmi...» disse. «Ma certo, signore, da questa parte, prego.» L'interno non somigliava proprio alle pensioni che Maybury ricordava. Tutte le pareti erano tappezzate e così tutte le poltrone e i divani imbottiti. I colori e le stoffe erano armoniosi, ma sfarzosi. Le numerose lampade a stelo avevano paralumi immensi. I tavoli lucidi erano imitazioni di originali italiani. Comunque la stanza era vuota, a parte loro due. Il giovane tenne aperta la porta sulla quale c'era la scritta UOMINI in gotico; quindi entrò seguendo Maybury, cosa che lui non aveva né deside-
rata né richiesta. .. Peraltro il giovane non si era messo ad armeggiare con saponi ed asciugamani, come per solito è incombenza del boy negli alberghi molto costosi e, un tempo, nei club privati. No, quegli si limitò a starsene lì. Maybury pensò che probabilmente fosse preoccupato di evitare ogni ritardo possibile, poiché la cena era già iniziata... e che se ne stesse lì come per sollecitarlo. Maybuiy si rese conto del calore eccessivo nella sala da pranzo appena vi entrò. Il riscaldamento centrale doveva essere acceso al massimo. La stanza era tappezzata con una carta da parati simile a quella che Maybury aveva visto nell'ingresso, ma pareva addirittura più pesante. Forse uno degli scopi era quello di attutire i rumori. Il soffitto era stato abbassato alla maniera moderna come se la casa dovesse essere abitata da nani, e la finestra, o le finestre, erano state completamente coperte. È vero che si sentiva un rumore di coltelli e forchette, ma non sembravano esistere altri motivi per un costoso isolamento acustico, poiché i commensali erano tutti molto silenziosi, cosa che inizialmente gli parve strana, visto che quasi tutti si trovavano seduti abbastanza stretti attorno a uno stesso tavolo grande posto lungo l'asse centrale della stanza. Maybury pensò che d'altronde anch'egli, se fosse stato messo in mezzo a un gruppo di persone completamente estranee, avrebbe avuto ben poco da dire. Ma non ebbe modo di verificarlo. Su ogni lato della stanza c'erano quattro tavoli più piccoli disposti per il lungo contro le pareti; ogni tavolo era apparecchiato per una persona sola, anche se ci sarebbe stato posto per quattro, a uno di questi tavoli Maybury fu fatto accomodare dal bel giovane con la giacca bianca. Subito arrivò la minestra. La prontezza del servizio (a parte il fatto che Maybury era arrivato in ritardo) poteva essere attribuita al grande numero di camerieri. C'erano almeno quattro uomini, tutti, come il giovane, indossavano giacche bianche, e due donne con vestiti blu scuri. I sei erano molto abili e ben coordinati, tutti ormai non più giovanissimi. Maybury non poté vedere di più perché era stato messo con la schiena rivolta verso la parete in fondo sulla quale si apriva la porta di servizio (e all'altra estremità c'era la porta dalla quale gli ospiti entravano dal salone). A ogni tavolo l'unico coperto era stato apparecchiato nello stesso modo, e i singoli ospiti non vedevano né la porta di servizio che si apriva e si chiudeva, né, davanti a sé il volto di un altro convitato. Veramente Maybury era l'unico a cenare da solo a un tavolo su quel lato
della sala (gli era stato assegnato il secondo tavolo, e non pensava che fosse entrato qualcun altro per occupare il primo); anche dall'altra parte della sala c'era un'unica persona che cenava da sola, una signora, seduta anch'essa al secondo tavolo, e quindi esattamente parallela a lui. La porzione di minestra era molto abbondante, Maybury prese atto che gli era stata servita in un piatto particolarmente pesante grande e profondo. La grandezza del piatto era stata inizialmente mascherata dal fatto che gran parte dell'ampio bordo portava la scritta L'OSPIZIO in grandi lettere nere. Anche la minestra era particolarmente pesante: riconobbe, al palato, la presenza di uova e legumi nonché di altri accorgimenti culinari per renderla più densa. Maybury aveva fame, come si è detto, ma si sentì leggermente imbarazzato quando notò che una delle donne di mezza età stava in piedi alle sue spalle mentre egli ingurgitava un numero piuttosto considerevole di cucchiaiate. Anche i cucchiai sembravano molto grandi, almeno secondo gli standard moderni. La donna ritirò il suo piatto vuoto con un sorriso rassicurante. Arrivò la seconda portata. Mentre gliela posava davanti, la donna gli annunciò confidenzialmente nell'orecchio la terza: «Questa sera c'è tacchino». Il suo tono di voce era quello col quale si promette a un bambino goloso il suo piatto preferito; e l'atteggiamento era un po' quello della bambinaia, della Tata affettuosa e solerte... questo pensò Maybury anche se non aveva mai avuto una bambinaia né una Tata, non specificamente almeno. Nel frattempo vide che la seconda portata era un'elaborata composizione di pasta, chiaramente fatta in casa, forse quella stessa mattina. Una quantità di formaggio grattugiato abbastanza grossolanamente venne distribuita sulla montagnola di pasta senza che Maybury fosse stato consultato in proposito. «Potrei avere qualcosa da bere? Una birra chiara possibilmente» chiese. «Non abbiamo niente del genere, signore.» Era come se Maybury lo sapesse già e lei fosse pronta a scherzare con lui. Avrebbe dovuto esserci un avviso per avvertire che il locale non aveva la licenza per vendere alcolici, pensò lui. «Peccato» disse Maybury. Le riflessioni della donna cominciavano a dargli fastidio; egli si chiese quanto gli sarebbe costato tutto quel buon cibo, così fresco e fatto in casa e di qualità impeccabile. Gli sorse il dubbio che probabilmente non sarebbe stata una buona idea pensare di dormire all'Ospizio.
«Quando avrete finito la seconda portata forse potrete scambiare due parole con il signor Falkner» disse lei, sollecita, e Maybury si ricordò che, tutto sommato, aveva iniziato dopo gli altri. Doveva quindi aspettarsi di essere sollecitato un pochino in modo da mettersi a pari. Egualmente, non era certo se ella avesse o meno sottinteso che... magari... il signor Falkner... in circostanze particolari... avrebbe potuto accedere a una riserva privata di bevande alcoliche. Ovviamente sarebbe stato più facile per lui portarsi alla pari degli altri mangiando non più di due terzi dell'elaborata pasta. Ma alla donna con il vestito blu scuro l'idea parve non piacere. «Non riuscite proprio a mangiare più di così?» chiese schiettamente senza chiamarlo più signore. «No, se dopo questa c'è un'altra portata» replicò Maybury piuttosto imperturbabile. «Questa sera c'è tacchino» disse gaudente la donna. «Non sapete che il tacchino scivola giù come niente fosse?» Lei non si decideva a ritirare il secondo piatto. «È davvero molto buono» disse Maybury risoluto. «Ma ne ho mangiato abbastanza.» Era come se la donna non fosse abituata a un simile comportamento; ma, visto che non era più un bambino, finalmente si risolse di portargli via il piatto. Ci fu addirittura una breve pausa durante la quale Maybury tentò di guardarsi attorno nella stanza senza farsi notare. Sembrava che la cosa più importante fosse che tutti erano vestiti in modo piuttosto formale: tutti gli uomini in abito scuro e tutte le donne in lungo. C'erano persone di tutte le età, ma, stranamente, gli uomini erano più delle donne. La conversazione non sembrava ancora bene avviata. A Maybury venne spontaneo di chiedersi se quella dieta abbondante non fosse responsabile almeno in parte di quel silenzio. Aveva la sensazione che molte di quelle persone fossero insieme da parecchio tempo, che quindi avessero già esaurito tutti gli argomenti, e che, magari, non avessero occasione di trovarne di nuovi. Si era già trovato in una situazione simile in qualche albergo. Ovviamente Maybury non poteva, senza apparire maleducato, continuare a scrutare quel terzo dei commensali che stavano seduti dietro di lui. Comparve la sua razione di tacchino. Si era messo alla pari con gli altri... magari imbrogliando, senza, cioè, mangiare tutto. La porzione era in realtà
un mucchio enorme di carne che fumava leggermente e trasudava un liquido oleoso privo di colore. Assieme gli furono serviti cinque tipi diversi di verdure in piatti separati su un vassoio, e una salsiera, apparentemente solo per lui, con un liquido speciale rosso scuro e turgido. Un'abbondante dose di ripieno completava il pasto. La donna di mezza età pose tutto davanti a lui rapidamente, ma questa volta in silenzio, con evidente riserbo. In realtà Maybury non aveva quasi più appetito. Si guardò intorno in modo meno furtivo per osservare come se la cavassero gli altri. Doveva ammettere che, per quanto gli riusciva di vedere, stavano tutti mangiando a quattro palmenti come se ne andasse della loro vita: giovani e anziani, donne e uomini; era come se tutti fossero stati a caccia durante una lunga giornata senza mangiare. — Mangiano come se ne andasse della loro vita — ripeté tra sé e sé; quindi, colpito dall'assurdità della frase usata per il mangiare, impugnò deciso coltello e forchetta. «È tutto di vostro gradimento, signor Maybury?» Di nuovo era stato colto di sorpresa. Il signor Falkner si trovava alle sue spalle: un uomo lucido con uno splendido smoking, certamente qualcosa di più che un maître d'hôtel. «Ottimo, grazie» disse Maybury. «Ma come conoscete il mio nome?» «Ci piace ricordare i nomi di tutti i nostri ospiti» disse Falkenr sorridendo. «D'accordo, ma come fate a conoscere il mio nome?» «Ci piace pensare che siamo efficienti anche in quel campo, signor Maybury.» «Sono molto colpito» disse Maybury. In realtà era irritato (per lo meno irritato), ma nella ditta per la quale lavorava gli era stato insegnato a non esternare mai la propria irritazione... al di fuori della propria famiglia. «Ma no» disse Falkner cordialmente. «Qualunque sia la nostra vocazione, tanto vale fare tutto quello che si può per essere brillanti.» Risolse la questione lasciando cadere l'argomento. «Posso portarvi qualcosa? Avete forse qualche desiderio particolare?» «No, molte grazie. Ho tutto quello che mi serve.» «Grazie a voi, signor Maybury. In qualunque momento desideriate parlarmi, sono per lo più nel mio ufficio. Ora lascerò che vi godiate il vostro pasto. Permettetemi di dirvi, in confidenza, che seguirà un pudding alla frutta cotto al vapore.» Mister Falkner proseguì tranquillamente il giro della sala parlando mediamente con una persona ogni tre al lungo tavolo centrale; soprattutto con
gli anziani... ai quali spetta, com'è giusto, maggiore riguardo. Falkner calzava elegantissime scarpe di pelle scamosciata che ricordarono a Maybury la ferita sulla propria gamba... per la quale non aveva fatto nulla nonostante ci fosse pericolo d'infezione e l'arto stesso, o forse tutto il sistema, ne potesse subire le conseguenze. Era veramente furibondo per la sceneggiata di Falkner sul suo nome, soprattutto perché non riusciva a spiegarsi come lui ne fosse a conoscenza. Sentì di essere stato posto, quasi di proposito, in una posizione di svantaggio non dignitoso. Le arie di superiorità che Falkner si era dato in quella circostanza insignificante si accordavano con l'atteggiamento da bambinaia della cameriera. Ma l'inspiegabile scoperta del suo nome era poi così insignificante? Maybury intuì che tutto ciò lo rendeva vulnerabile anche sotto altri aspetti... che ancora non gli erano chiaro. E questo suo stato di indefinibile imponderabilità fu la goccia che fece traboccare il suo vaso: non avrebbe mangiato più un solo boccone di quel tacchino. E poi, non aveva più assolutamente appetito. Iniziò sistematicamente ad analizzare tutti gli elementi come gli era stato insegnato; quasi subito trovò una risposta. In macchina c'era una cartella blu e sul davanti c'era scritto il suo nome: MISTER LUCAS MAYBURY. Molto probabilmente aveva lasciato questa cartella, con il nome rivolto verso l'alto, sul sedile di guida come faceva di solito. Egualmente il nome era solo battuto a macchina su un'etichetta autoadesiva, non era quindi agevole leggerlo attraverso il finestrino della macchina. Ma poi si ricordò del riflettore. Cionondimeno, qualcuno si era applicato non poco per leggere quell'etichetta e Maybury si chiese chi potesse essere stato. Di nuovo indovinò la risposta: certo, lo stesso Falkner era andato a curiosare. Ma che cos'avrebbe fatto l'esimio Falkenr se Maybury avesse parcheggiato l'auto al di fuori dell'area illuminata dal riflettore, cosa questa tutt'altro che improbabile? Avrebbe forse usato una torcia? Forse, addirittura, un passepartout? Non poteva essere. Ma che importanza aveva infine tutta quella storia? La gente del mondo degli affari e del commercio ha spesso di queste piccole manie; lui stesso, Maybury l'aveva verificato tante volte. E fanno qualsiasi cosa per alimentarle. Non era escluso che egli stesso ne avesse qualcuna. Importante in qualsiasi circostanza era capire i particolari essenziali e concentrarsi esclusivamente su di essi. Con alcuni ospiti Falkner parlava per parecchio tempo e Maybury notò
che i vicini, che prima di quando in quando conversavano, all'arrivo di Falkner restavano completamente in silenzio, e si concentravano solo sul cibo. Alcune delle persone sedute al tavolo lungo non solo erano anziane, erano decisamente vecchie; malferme, con gli occhi acquosi e quasi calve, cionondimeno sembravano di ottima forchetta. Maybury pensò schifato che il mangiare potesse essere la loro unica occupazione; «Vivono per mangiare» sussurrò. «Ecco» pensò «un'altra di quelle frasi fatte che finalmente si dimostra vera.» Evidentemente, per qualcuno dei commensali, il cibo nutriente per di più, aveva il medesimo effetto che gli alcolici hanno sugli spiriti eccitabili. Gli sembrò, questa, una delle cose più nauseanti del mondo. E dire che ne aveva viste di cotte e di crude. Falkner proseguiva il suo giro così lentamente, e con una tale professionalità, che ancora non era giunto alla signora che stava seduta da sola al tavolo, sito alla medesima altezza di quello di Maybury, dall'altra parte della stanza. Ora Maybury la guardò meglio. Aveva i capelli neri lunghi fino alle spalle, e portava quello che sembrava un abito da sera di seta. «Un vero modello multicolore» pensò Maybury (anche se non ne era proprio certo); ma aveva sul viso un'espressione così triste, stanca e sofferente, che Maybury ne fu vivamente impressionato e sgomento, anche perché lei un tempo doveva essere stata molto bella... ne era sicuro, dato che, nonostante i segni del dolore, lo era tuttora. Certamente una persona dall'aspetto così infelice, addirittura tragico, non poteva divorarsi un'enorme fetta di tacchino con un contorno di cinque verdure diverse! Trascurando l'educazione e la cautela Maybury si alzò quasi in piedi per guardarla. «Finite di mangiare, signore. Avete appena incominciato!» La sua torturatrice si era di nuovo messa alle sue spalle senza che egli se ne fosse avveduto. E per giunta la signora triste stava effettivamente mangiando! «Ho mangiato abbastanza» disse secco Maybury. «Mi spiace, è molto buono, ma ho mangiato a sufficienza.» «Questo l'avevate già detto prima, signore, eppure, guardate, state ancora mangiando.» Egli si ricordava di avere usato proprio le medesime parole. «È proprio così» pensò quando ci si trova in difficoltà si usano le frasi fatte. «Ho mangiato abbastanza» ripeté. «Non c'è bisogno che ognuno di noi lo dica, no?» «Non desidero più cibo di alcun genere. Per favore portate via tutta questa roba e servitemi soltanto un caffè nero. Quando sarà ora, se credete.
Posso aspettare.» Gli seccava di dovere attendere, ma era necessario controllarsi. La donna fece l'ultima cosa che Maybury si sarebbe aspettato: afferrò il piatto colmo (almeno si era servito da ogni piatto da portata) e, con violenza, lo scaraventò per terra. Il piatto non si ruppe, ma il sugo e i cinque contorni e il nutriente ripieno di distribuirono sulla spessa moquette variopinta. Seguì un silenzio totale, più che insolito, in tutta la sala; proseguiva immutato, soltanto il tintinnio sordo delle posate. Del resto, Maybury notò di avere ancora in mano le proprie. Falkner tornò dall'estremità più lontana della tavolata. «Mulligan» chiese. «Quante volte ancora?» La sua voce era tranquillissima. Maybury non si era reso conto che quella donna terribile fosse irlandese. «Signor Maybury» continuò Falkner. «Capisco perfettamente le vostre difficoltà. Ovviamente non siete obbligato a partecipare se non desiderate. Mi dispiace per quanto è avvenuto, e mi appello alla vostra comprensione. Certamente penserete che il servizio che offriamo è pessimo. Forse preferite trasferirvi nel salotto? Desiderate solo un caffè?» «Sì» disse Maybury sforzandosi di concentrarsi sui particolari essenziali. «Grazie, ho già ordinato un caffè nero. Potrei averne un bricco?» Dovette muoversi con cautela per non calpestare il cibo sparso per terra. Tenendo gli occhi fissi sul pavimento notò una cosa molto strana. Sotto il tavolo, al centro di esso, c'era una rotaia sollevata dal pavimento di qualche centimetro. A questa rotaia uno dei commensali era incatenato per la caviglia sinistra. Maybury, che ora era alquanto scosso, aveva pensato che si sarebbe trovato da solo nel salotto ad attendere il caffè. Ma appena si fu seduto su uno dei grandi divani (ci sarebbero state almeno cinque persone su ognuno di essi di cui due robuste) comparve il ragazzo, quello che l'aveva accolto all'ingresso, che rimase in piedi senza fare nulla, come già era accaduto prima. Non c'erano riviste, e neanche depliant della Bella Inghilterra, e Maybury fu irritato dalla presenza del giovane. Ciononostante non osò dire: «Non ho bisogno di nulla». In realtà non gli veniva in mente nulla da dire o fare, e neanche il ragazzo parlava o sembrava avere qualcosa di particolare da fare. Era ovvio che la sua presenza lì era piuttosto mutile, poiché tutti gli altri si trovavano nella sala da pranzo. Probabilmente stavano per servire il pudding di frutta. Maybury sapeva di dovere ancora pagare il conto. Passò un intervallo di tempo piuttosto lungo.
Con sua grande sorpresa, alla fine fu proprio Mulligan a portargli il caffè. Era solo una tazza, non un bricco, e per di più la tazza era talmente piccola che Maybury, per la prima volta in quella serata, pensò che avrebbe gradito una porzione più abbondante. Subito gli venne in mente che il caffè potesse essere proibito in quel luogo, e che fosse un extra per il quale avrebbe dovuto pagare fior di quattrini. Aveva immaginato che Mulligan stesse aiutando a pulire il pavimento. Ma lei, Mulligan, era lì davanti a lui imperturbabile. «Zucchero, signore?» «Uno, grazie» rispose Maybury dopo avere esaminato le dimensioni della tazza. Non mancò di notare che, prima di uscire, ella scambiò uno sguardo con il bel giovane. Magari era suo figlio e quello sguardo poteva significare tutto e niente. Mentre Maybury centellinava il suo caffè e si sforzava d'ignorare la presenza del ragazzo, che certamente si stava annoiando, si aprì la porta e comparve la signora triste. «Chiudi la porta, per favore» disse al ragazzo. E il ragazzo chiuse la porta, quindi tornò al suo posto e si mise a guardarli. «Posso sedermi qui con voi?» chiese la donna. «Con piacere.» Era veramente piuttosto affascinante con quel suo aspetto malinconico; il vestito era come Maybury aveva immaginato, e nel suo comportamento c'era qualcosa che poteva essere definito solo con l'attributo maestoso. Maybury non c'era abituato. Lei sedette, non all'altra estremità del divano, ma in mezzo. Maybury fu colpito dal fatto che il suo vestiario sontuoso sembrava quasi essere stato scelto apposta per intonarsi con l'altrettanto sontuoso arredamento della stanza. Portava complicati orecchini di aspetto orientale con pietre rosa trasparenti, con brillanti rosé (o forse erano proprio brillanti?); e scarpe color argento. Aveva un profumo intenso e particolare. «Mi chiamo Cécile Céliména» disse. «Piacere. Dicono che sono parente del compositore, Chaminade.» «Piacere» disse Maybury. «Mi chiamo Lucas Maybury e il mio unico parente importante è Solway Short, che è mio cugino.» Si strinsero la mano. Quella di lei era molto soffice e bianca, munita di diversi anelli; Maybury pensò che sembravano veri e preziosi (ma non ne era certo). Per stringergli la mano lei ruotò tutta la parte alta del corpo ver-
so di lui. «Chi è quel signore di cui avete parlato?» chiese lei. «Solway Short? Il motociclista. Certamente l'avete visto alla televisione.» «Non guardo la televisione.» «Fate bene. Quasi sempre è una perdita di tempo.» «Se non desiderate perdere tempo, perché mai siete venuto all'Ospizio?» Il ragazzo, che li stava ancora osservando, spostò visibilmente il peso del corpo da una gamba all'altra. «Mi sono fermato qui solo per cenare. Sono di passaggio.» «Oh! Ma allora ve ne andate?» Maybury esitò. Lei era attraente, quindi per il momento non aveva fretta di andarsene: «Sì, penso di sì. Una volta che ho pagato il conto e scoperto dove posso trovare un po' di benzina. Sono rimasto quasi a secco. Mi sono perso, ho smarrito la strada.» «Quasi tutti noi qui siamo persi.» «Non capisco. Come mai siete qui?» «Siamo qui per il cibo e la pace e il calore e tutto il resto.» «Una quantità enorme di cibo, mi è sembrato.» «È necessario. Si potrebbe dire che è quanto serve per ristorarci.» «Non sono sicuro di trovarmici bene» disse Maybury. E aggiunse: «E ho la sensazione che neanche voi vi ci troviate così bene.» «Sì, invece! Che cosa vi fa pensare il contrario?» Sembrava piuttosto preoccupata della cosa, tanto che Maybury pensò di averla presa dal lato sbagliato. Tentò di recuperare il terreno perduto: «È solo che mi sembrate un po' diversa dagli altri... dai pochi che ho visto.» «In che modo diversa?» chiese lei ora veramente preoccupata e guardandolo intensamente. «Tanto per cominciare siete più bella. Siete molto bella» disse Maybury nonostante fosse presente il ragazzo che certamente sentiva ogni parola. «Siete gentile.» Inaspettatamente lei si allungò per raggiungerlo e gli prese la mano. «Come avete detto che vi chiamate?» «Lucas Maybury.» «Vi chiamano Luke?» «No, non mi piace. Non sono tipo da chiamarmi Luke, io.» «Ma vostra moglie non può certo chiamarvi Lucas!» «E invece lo fa» Quella era una tipica domanda trabocchetto che egli a-
vrebbe preferito evitare. «Lucas? Oh no, è un nome così freddo.» Stava ancora tenendogli la mano. «Mi dispiace molto. Volete che vi ordini un caffè?» «No, no. Il caffè non fa bene; è stimolante, tiene svegli, eccita e inquieta.» Stava di nuovo guardandolo con occhi tristi. «Questo è uno strano posto» disse Maybury stringendole la mano. Era molto strano che nessuno degli altri ospiti fosse ancora comparso. «Non potrei vivere senza l'Ospizio» replicò lei. «Venite qui spesso?» chiese lui, adirandosi con se stesso per quella domanda così banale, così assurdamente convenzionale. «Certo. La vita sarebbe impossibile altrimenti. Tutta quella gente nel mondo che non ha abbastanza cibo, vive senza amore, senza possedere neanche i vestiti giusti per ripararsi dal freddo.» «Durante la cena anche il salotto si è riscaldato come la sala da pranzo» pensò Maybury. Il volto tragico di Cécile Céliména, pareva cercasse la sua comprensione. Ciononostante, l'atteggiamento che lei aveva assunto e i quesiti che poneva man mano erano condivisi da Maybury. Lui preferiva quei problemi per i quali esistono soluzioni almeno possibili. Era stato messo in "guardia da quelli più complessi. «Sì» disse. «Ho ben chiaro che cosa intendete dire.» «Ci sono milioni e milioni di persone in tutto il mondo che non hanno di che vestirsi» disse lei ritirando la mano. «Non proprio» obiettò Maybury sorridendo. «Non è proprio così. Non ancora almeno.» Lui conosceva molto bene i rischi e le fatiche della vita e del vivere... s'imponeva di pensarci il meno possibile. «Sopravvivere» pensò «è un dovere, ed è un dovere provvedere anche alle persone che s'hanno a carico». «Comunque» continuò tentando di alleggerire il tono «non può certo essere il vostro caso. Poche volte ho visto un abito più splendido del vostro.» «Sì» disse lei in modo semplice e grave. «Viene da Roma. Vi piacerebbe toccarlo?» Ovviamente gli sarebbe piaciuto, ma altrettanto naturalmente si trattenne a causa della vigile presenza del giovane. «Toccatelo» ordinò Cecile a voce bassa. «Oddio, ma che cosa aspettate? Toccatelo!» S'impadronì nuovamente della sua mano sinistra e la costrinse
sul suo caldo seno setato. Il giovane dietro non sembrò farvi caso: né più né meno che al resto. «Dimenticate. Lasciatevi andare» sussurrò Cecile. A che cosa serve la vita, per amor del cielo?» In lei c'era un'onestà appassionata che a un qualsiasi uomo avrebbe potuto far perdere la testa, ma non era il caso di Maybury: egli non aveva mai perduto completamente il controllo in vita sua, e era abbastanza sicuro, a quel punto, che non sarebbe stato possibile. Cécile si girò allungando le gambe sul divano e posandogli il capo in grembo, più esattamente sulle cosce. Si era mossa con tale destrezza che la gonna non si era minimamente scomposta. Il profumo di lei saliva verso l'alto. Maybury lanciò uno sguardo preoccupato verso il giovane apollineo. «Smettetela di guardare Vincent» farfugliò Cécile. «Vi voglio dire una cosa a proposito di Vincent. Anche se pensate che sembri un dio greco, verità vuole che sia come dire?... sprovvisto di quanto occorre... Insomma, è impotente.» Maybury era imbarazzato, ovviamente. Lo stesso pensò che spesso le cose son ben diverse da come appaiono; e che, d'altro canto, di una particolare situazione come quella che si trovava a vivere presentemente, non si potesse dare altro che un'unica definizione... imbarazzante. Comunque non importava molto ciò a cui pensava, perché Vincent giustappunto e giustamente imbarazzato aveva bruscamente lasciato la stanza attraverso quella che Maybury riteneva dovesse essere la porta di servizio. «Grazie a Dio» non poté fare a meno di sospirare Maybury ingenuamente. «È andato a cercare rinforzi» disse Cécile. «Presto lo rivedremo.» Dov'erano gli altri ospiti? Dove potevano essere a quel punto? Nonostante tutto, l'umore di Maybury stava decisamente migliorando ed egli iniziò ad accarezzare Cécile in modo decisamente più audace. Poi, all'improvviso, parve che tutti fossero nella stanza, e tutti vociavano e tutti bisticciavano. Cécile si mise seduta, non troppo precipitosamente, e con le labbra vicine al suo orecchio disse: «Vieni da me più tardi. Stanza 23.» Maybury non fu in grado, proprio no, di dirle che non avrebbe trascorso la notte all'Ospizio. Era comparso Falkner. «A letto, tutti» esclamò cordialmente ponendo fine di colpo allo strepito. Maybury, nuovamente libero, guardò l'orologio. Erano esattamente le dieci. Questo senza dubbio era importante. Eppure sembrava troppo presto,
dopo un pasto così abbondante. Nessuno si mosse molto, ma nessuno parlò. «A letto, tutti» disse Falkner nuovamente, questa volta in un tono che potrebbe quasi essere definito scherzoso. Cécile Céliména si alzò in piedi. Tutti defluirono lentamente, anche Cécile, senza pronunciare un'altra parola né fare un altro gesto. Maybury rimase da solo con Falkner. «Permettetemi di ritirare la vostra tazza» disse Falkner cortesemente. «Prima di chiedervi il conto» disse Maybury «potete dirmi dove posso trovare della benzina a quest'ora?» «Siete rimasto senza?» chiese Falkner. «Quasi.» «Di notte non c'è un distributore aperto nel raggio di trenta chilometri. Non da queste parti e non al giorno d'oggi. Credo che c'entrino in qualche modo i nostri amici arabi. Posso solo proporvi di aspirare della benzina dal serbatoio dell'auto dell'Ospizio. È un veicolo piuttosto grande e ha un serbatoio capiente.» «Non voglio che vi disturbiate troppo.» E comunque Maybury non sapeva esattamente come fare quell'operazione. Ne aveva sentito parlare, ma non gli era mai capitato di doverla fare. Ricomparve il ragazzo, Vincent. «È ancora rosso per la vergogna» pensò Maybury «anche se non sembra per via di quella sua pelle così lucida.» Vincent iniziò a sprangare la porta; un procedimento piuttosto complesso, simile a quello del tempo dei trisnonni, quando c'era ancora la paura dei predoni. «Non preoccupatevi, signor Maybury» disse Falkner che, evidentemente aveva intuito la sua perplessità sull'operazione benzina. «Vincent può farlo tranquillamente, o un altro membro dello staff.» «Grazie» disse Maybury. «Se davvero non ci sono problemi...» «Vincent» ordinò Falkner «non chiudere col lucchetto e col catenaccio la porta. Il signor Maybury ha intenzione di lasciarci.» «Molto bene» rispose Vincent aspramente. «Se ora possiamo raggiungere la vostra automobile, signor Maybury, voi poi potete portarla sul retro della casa. Vi faccio strada. Dovete scusarmi per questo incomodo, ma l'altro veicolo ci mette più tempo a partire, soprattutto di notte.» Vincent aprì il portone. «Dopo di voi» disse Falkner.
Mentre all'interno era troppo caldo, fuori faceva troppo freddo. Il riflettore era stato spento. La luna si era nascosta, così sembrava a Maybury di ricordare che si dicesse; e tutte le stelle si erano nascoste con lei. Ma l'automobile non era molto distante. Ben presto Maybury la trovò nel buio fitto, mentre Falkner lo seguiva passo per passo. «Forse sarebbe meglio che io andassi a prendere una torcia» propose Falkner. Puntualmente arrivò una torcia. Maybury si ricordò la questione della cartella con sopra il suo nome, e, quando aprì la portiera con la chiave, vide che la cartella era proprio lì, come aveva pensato, proprio con il nome rivolto verso l'alto. Maybury la buttò sul sedile posteriore. La torcia elettrica di Falkner era un pesante oggetto d'uso che illuminava una vasta area di luce bianca e fredda. «Posso sedermi accanto a voi, signor Maybury?» disse Falkner chiudendo alle proprie spalle la portiera dalla parte dell'accompagnatore. Maybury aveva già acceso i fari, torcia o non torcia, e stava spingendo lo starter che però pareva inflessibile. «Non è» pensò, «che non funzioni lo starter... Sono io che non funziono». Quella sensazione era proprio come un incubo. Ovviamente aveva avviato il motore centinaia, forse migliaia di volte, ma ora che era veramente importante non ci riusciva: gli sembrava stranamente di non essere più capace di compiere una così semplice operazione. Spesso aveva incubi proprio di questo tipo. Trovò il tempo per chiedersi se stesse sognando. No, non stava sognando. E d'altronde, come è possibile sapere che si è sognato se prima non ci si sveglia? Peraltro, non è dato lo svegliarsi se prima non ci si addormenta. E se non ci si addormenta, com'è possibile, di grazia, sognare. «Ne consegue» pensò Maybury «che non avendo sognato non ho dormito e quindi, per logica, sono sveglio... È un buon ragionamento...». «Vorrei potervi aiutare in qualche modo» disse Falkner spegnendo la torcia e interrompendo la ferrea logica di Maybury. «Ma non ho dimestichezza con le automobili. Farei più danni che altro.» Parlava nel suo solito tono pacato e cortese. Maybury era nuovamente irritato per l'eccessiva cortesia di Falkner. La sua automobile era una delle più semplici, per questo ci si poteva fidare del costruttore. Sapeva altresì che era soltanto colpa sua se non era in grado di farla partire. Gli sembrava di impazzire. «Non so proprio che cosa dire» bofonchiò «né che cosa fare, se, come dite, non c'è un'officina.» «Forse Cromie può darvi una mano» disse Falkner. «Cromie è con noi
da molto tempo ed è un mago quando si tratta di risolvere problemi meccanici.» Non si può certo dire che Falkner stesse spingendo Maybury a trascorrere la notte lì, né che vi alludesse come ci si sarebbe potuti aspettare. Maybury si chiese se quello strano posto non fosse già tutto occupato. Sembrava la risposta più probabile. E lui, del resto, non aveva alcuna intenzione di fermarsi a dormire. A casa c'era chi lo aspettava. «Chiedo scusa» disse. «È seccante, credetemi, dovere disturbare un'altra persona...» «Non c'è problema» replicò Falkner. «Cromie fa il turno di notte... Fa sempre il turno di notte. È stato assunto per questo. Vado a chiamarlo.» Falkner riaccese la torcia, scese dalla macchina, e scomparve in casa chiudendosi la porta alle spalle in modo che non entrasse l'aria fredda. Alla fine la porta si riaprì, e ricomparve Falkner. Non portava cappotto sopra lo smoking, e sembrava non accorgersi del freddo; Maybury vide in modo indistinto, dietro a Falkner, nel fascio di luce che proveniva dalla porta aperta, una figura atticciata ma informe che seguiva strascicando i piedi. «Cromie sistemerà tutto in poco tempo» esclamò Falkner aprendo la portiera dell'automobile. «Non è vero, Cromie?» disse col tono di voce che per solito si usa con un simpatico cane da riporto. Ma Maybury percepì che c'era ben poco di simpatico in Cromie. Lì per lì ne ebbe paura nonostante l'avesse appena intravisto. «Dunque, qual è esattamente il problema, signor Maybury?» chiese Falkner. «Basta che spieghiate a Cromie di che cosa si tratta.» Falkner non aveva neanche tentato di entrare nell'automobile, mentre Cromie era salito a fatica e se ne stava stravaccato sul sedile anteriore, di fianco a Maybury, il sedile sul quale in genere stava seduta Angela. In realtà Cromie era davvero grande e grosso, ma Maybury decise che preferiva non guardarlo affatto, sebbene il riflesso dei fari della macchina fornisse una certa illuminazione. Maybury non se la sentì di dire che per qualche umiliante motivo non era capace di avviare il motore, quindi dovette affermare che doveva esserci un guasto. E non poté fare a meno di osservare le enormi mani ingiallite e malformate di Cromie che tiravano e spingevano lo starter con tale violenza da indurre Maybury a esclamare: «Meno forte. Lo rompi!» «Attento, Cromie» disse Falkner dall'esterno dell'auto. «Cromie lavora per lo più su grande scala» spiegò quindi a Maybury.
Ma la forza si dimostrò efficace, come spesso accade. In pochi secondi il motore si accese. «Molte grazie» disse Maybury. Cromie non diede alcuna risposta percepibile, né si mosse. «Vieni fuori, Cromie» disse Falkner. «Esci di lì.» Cromie obbedì, si districò e uscì barcollando nel buio. «Ora» disse Maybury rianimato dal rumore del motore «dove andiamo a prendere la benzina?» Vi fu una pausa brevissima. «Signor Maybury mi spiace dirlo ma ho commesso un errore dovuto alla mia ignoranza. Il nostro mezzo, l'auto dell'Ospizio, è un diesel... Davvero non so come chiedervi scusa.» Maybury non era solo seccato, non era solo sgomento: era furibondo. L'ira e la confusione mentale gli impedirono totalmente di parlare. Nessuno, nel mondo moderno, poteva confondere la benzina con il gasolio! Ma che cosa poteva fare? Falkner, in piedi di fronte allo sportello aperto, parlò di nuovo: «Mi dispiace molto, signor Maybury. Consentitemi di rimediare invitandovi a dormire qui gratuitamente... per la cena, ci accorderemo.» Nei pochi minuti appena trascorsi Maybury aveva sospettato che quel momento sarebbe giunto, in un modo o nell'altro. «Grazie» rispose in modo poco cortese. «Immagino che mi convenga accettare.» «Faremo in modo che possiate trovarvi a vostro agio» disse Falkner. Maybury spense i fari, scese nuovamente dall'automobile, sbatté e, per quel che serviva, chiuse a chiave la portiera, e tornò nell'Ospizio seguendo Falkner. Questa volta Falkner chiuse e sprangò la porta. «Non ho bagagli di alcun genere» disse Maybury, ancora molto sulla difensiva. «Questo problema si può risolvere facilmente» disse Falkner lisciandosi lo smoking. «C'è qualcosa che vi dovrei spiegare. Volete scusarmi per un attimo?» Si allontanò e sparì oltre la porta in fondo al salotto. «Gli alberghi sono diventati troppo caldi» pensò Maybury. Gli girava la testa. Falkner tornò. «C'è qualcosa di strano che vi devo spiegare» disse di nuovo. «Non abbiamo stanze singole, anche perché molti dei nostri ospiti non amano essere soli durante la notte. Tutto quello che possiamo fare per venirvi incontro, signor Maybury, è di offrirvi di dividere la stanza con un altro ospite. È una stanza grande e ci sono due letti. È un vero colpo di fortuna che attualmente nella stanza ci sia un solo ospite, il signor Bannard. Il
signor Bannard sarà lieto della vostra compagnia, ne sono certo, e voi sarete al sicuro con lui. È una persona molto piacevole, ve lo posso assicurare. Gli ho appena mandato a chiedere se può scendere un attimo così fate conoscenza. È sempre molto disponibile, e credo che sarà qui tra un momento. Il signor Bannard è con noi da qualche tempo, quindi sono sicuro che vi potrà prestare un pigiama eccetera eccetera.» Dormire con un altro era proprio una delle ultime cose che Maybury avrebbe desiderato; ma aveva imparato che in certe situazioni è inopportuno opporsi senza mettersi in qualche modo dalla parte del torto. E poi, oramai si era impegnato a trascorrere lì la notte con tutti i disagi che ne potevano derivare... qualunque essi fossero... o quasi. «Vorrei telefonare a mia moglie, se posso» disse Maybury. Il pensiero di Angela in attesa lo preoccupava non poco. «Temo proprio che sia impossibile, signor Maybury» replicò Falkner. «Mi dispiace.» «Come impossibile?» chiese tanto sorpreso quanto sgomento Maybury. «Al fine di ridurre la tensione e preservare l'atmosfera che i nostri ospiti preferiscono, non possediamo una linea esterna. Solo una interna tra il mio alloggio e quello del proprietario.» «Ma come può funzionare un albergo nel mondo di oggi senza un telefono?» «Abbiamo soprattutto... quasi esclusivamente, è più giusto dire, ospiti abituali. Clienti pressoché fissi, che tornano, sempre... e che l'ultima cosa che desiderano venendo qui, è quella di trovare un telefono che squilla di continuo... con tutta la tensione che questo fatto potrebbe comportare.» «Devono essere proprio mezzi matti» scattò Maybury prima di riuscire a controllarsi. «Signor Maybury» replicò Falkner gentile, ma fermo. «Devo ricordarvi due cose. La prima è che vi ho invitato a restare come nostro ospite nel più completo senso della parola. La seconda è che, nonostante diate tanta importanza all'efficienza, voi avete iniziato un lungo viaggio di sera con pochissima benzina nel serbatoio. Io credo che dovreste ritenervi fortunato di non dovere trascorrere la notte all'addiaccio sul qualche autostrada.» «Mi dispiace» disse Maybury. «Ma devo assolutamente telefonare a mia moglie. Starà impazzendo per la preoccupazione.» «Non credo proprio, signor Maybury» disse Falkner sorridendo, «preoccupata, è auspicabile, ma non impazzita, no davvero.» Maybury avrebbe voluto picchiarlo, ma in quel momento entrò un estra-
neo. «Ah, il signor Bannard» disse Falkner, e li presentò. I due si strinsero la mano. «Non vi dispiace, signor Bannard, di dividere la stanza con il signor Maybury?» Bannard era un ometto piccolo, magro e ossuto, dell'età di Maybury: anno più, anno meno. Era calvo, e aveva una coroncina di riccioli rossi. Gli occhi erano grigioverdi e leggermente glauchi, del tipo che si accompagna spesso ai capelli rossi. Date le attuali circostanze era abbastanza baldanzoso, ma Maybury si scoprì nel chiedersi come se la sarebbe cavata nell'aldilà... quell'ometto. Che pensiero maligno, stimolato forse dal fatto che Bannard aveva un po' troppo del nanerottolo per poter fare buona figura in pigiama. «Sarei felicissimo di dividere la mia stanza con chiunque» fu la risposta di Bannard «mi sento solo.» «Perfetto» disse Falkner freddamente. «Allora accompagnate di sopra il signor Maybury e prestategli un pigiama. Dovete ricordare che per noi è un estraneo, e che non conosce le nostre abitudini.» «Felicissimo, felicissimo» esclamò Bannard. «Tutto sistemato, dunque» disse Falkner. «Avete bisogno di qualcosa, signor Maybury, prima di salire?» «Solo di un telefono» ripeté Maybury, ancora recalcitrante. Proprio non riusciva a credere a Falkner. Nessuno al giorno d'oggi potrebbe vivere senza telefono, per non parlare di lavorare senza di esso. Iniziò a chiedersi se Falkner gli avesse detto tutta la verità anche riguardo alla benzina e al gasolio. «Qualsiasi cosa desideriate, noi siamo in grado di fornirvela, signor Maybury» insisté Falkner divenendo offensivo nella sua puntigliosa ossequienza. «Non c'è telefono qui» intervenne Bannard la cui voce era molto alta, perfino stridula. «Allora non ho bisogno di nulla» disse Maybury. «Ma non so che cosa penserà o farà mia moglie.» «Questo non può saperlo nessuno di noi» commentò Bannard stupidamente. E ridacchiò. «Buona notte, signor Maybury. Grazie, signor Bannard.» Maybury fu quasi sorpreso, mentre seguiva Bannard, di scoprire che l'Ospizio sembrava davvero un normalissimo albergo... nonostante fosse surriscaldato, nonostante fosse arredato in modo eccessivamente pomposo,
nonostante fosse privo di telefono. Sul primo pianerottolo c'era la riproduzione in grandezza naturale di un quadro di Raeburn raffigurante il capo di un clan scozzese vestito di tartan scarlatto. Maybury conosceva il quadro, perché anni addietro era stato scelto per illustrare il calendario omaggio della ditta; in seguito erano state usate sempre immagini di ragazze più o meno vestite. Bannard alloggiava al secondo piano, dove il quadro sul pianerottolo era più piccolo e raffigurava delle signore e un uomo vestiti da cavallerizzi che sorbivano delle bibite. «Non fate troppo rumore» disse Bannard. «Abbiamo tra di noi alcune persone dal sonno molto leggero.» Nei corridoi l'illuminazione era stata ridotta a metà per la notte e risultava decisamente sinistra. Maybury camminava assurdamente in punta di piedi e si apprestò a entrare nella stanza di Bannard quasi furtivamente. «No» disse Bannard in un sussurro e ridendo. «Non è la 13, non ancora. La 12A.» Infatti Maybury non aveva notato il numero sulla porta che Bannard ora stava richiudendo con cura, e non si sentì obbligato a replicare. «Fate piano nello svestirvi, vecchio mio» disse Bannard sottovoce. «Svegliare persone profondamente addormentate può essere rischioso oltre che inopportuno: non si sa mai. Comunque, è una brutta cosa da non farsi.» Era una grande stanza quadrata, e i due letti si trovavano negli angoli opposti, con notevole sollievo di Maybury. La luce era accesa quando entrarono. Maybury ipotizzò che dovesse essere evitato anche l'uso indiscriminato degli interruttori. «Quello è il vostro letto» bisbigliò Bannard indicandolo scherzosamente. Finora Maybury si era tolto solo le scarpe. Avrebbe fatto volentieri à meno dello sguardo penetrante di Bannard e del suo ghigno affabile. «O preferite piuttosto che facciamo qualcosa prima di metterci a letto?» sussurrò Bannard. «No, grazie» replicò Maybury. «È stata una giornata faticosa». Tentava di mantenere abbastanza bassa la propria voce, ma si rifiutava assolutamente si sussurrare. «Certo» disse Bannard. «Buona notte, allora. La cosa migliore è addormentarsi subito.» Il suo tono ora, per qualche verso, sembrava quello di Falkner. Bannard si arrampicò sul proprio letto e si distese supino guardando Maybury da sopra il lenzuolo.
«Appendete il vostro vestito nell'armadio» disse Bannard. «C'è posto.» «Grazie» disse Maybury. «Dove trovo un pigiama?» «Primo cassetto in alto» disse Bannard. «Servitevi pure, sono tutti uguali.» Infatti il cassetto risultò essere pieno di pigiami praticamente identici. «Siamo a metà stagione» spiegò Bannard. «Non è proprio estate, né autunno avanzato.» «Grazie molte» disse Maybury, nonostante il pigiama gli fosse decisamente troppo piccolo. «Il bagno è lì» disse Bannard. Quando Maybury tornò, aprì la porta dell'armadio. Era un armadio grande, quasi pieno dei vestiti di Bannard... presumibilmente. «C'è spazio» disse l'ometto ancora una volta. «Cercatevi un appendino libero. Fate come se foste a casa vostra.» Mettendo i pantaloni sull'appendino e appendendo questo alla sbarra, Maybury si sovvenne della ferita alla gamba. Si era infilato così in fretta i pigiama che non aveva nemmeno guardato la ferita. «Che cosa c'è?» chiese subito Bannard. «Vi siete fatto male?» «È stato un maledetto gatto, mi ha graffiato» rispose Maybury senza pensare molto. Ma questa volta decise di guardare. Con qualche difficoltà scoprì la ferita. Era un taglio abbastanza brutto, e c'era molto sangue rappreso. Si rese conto di averla trascurata, di non essersene preoccupato. L'unica preoccupazione che aveva avuto era il pensiero per Angela. «Non fatemela vedere» squittì Bannard dimenticandosi che non doveva fare rumore. Cionondimeno stava seduto sul letto e fissava la ferita. «Mi fa male vedere cose come questa. Mi inquieta.» «Non preoccupatevi» disse Maybury. «Sono sicuro che non è grave come sembra.» In realtà non ne era affatto sicuro; e si rendeva anche conto che non era quella la preoccupazione di Bannard. «Non voglio sapere nulla» disse Bannard. Maybury non rispose. Si limitò a rimettersi a posto i pantaloni del pigiama. Era chiaro che non si sarebbe potuto fare nulla neanche per la ferita. Anche la richiesta di un po' di vaselina avrebbe portato a reazioni isteriche. Maybury tentò di convincersi che se fino a quel momento il taglio non gli aveva causato problemi, era probabile che anche in seguito non sarebbe peggiorato. Bannard però era ancora seduto sul letto. Era pallido. «Vengo qui appo-
sta per dimenticare cose come quelle» disse. «Tutti noi lo facciamo.» Aveva la voce tremante. «Devo spegnere la luce» chiese Maybury «visto che sono ancora in piedi?» «Di solito non la spengo» disse Bannard tornando a sdraiarsi. «Può rendere inutilmente complesse le cose. Ma dobbiamo pensare anche a voi.» «La stanza è vostra» disse Maybury dopo una breve esitazione. «Va bene» disse Bannard. «Se proprio lo desiderate, spegnetela pure... per oggi.» Maybury non fece proprio un favore alla sua gamba ferita quando inciampò tornando verso il letto. Lo stesso riuscì ad arrivarci. «Sono qui solo per questa notte» disse rivolto più al buio che a Bannard. «Domani avrete di nuovo la camera tutta per voi.» Bannard non rispose, e a Maybury parve quasi che egli non fosse più lì, che Bannard fosse un qualcosa che non funzionava al buio. Maybury si trattenne dal chiedere di tirare una tenda (le tende erano lunghe e pesanti come nelle altre stanze), o di fare entrare un po' d'aria notturna. Riteneva che fosse meglio lasciare le cose così com'erano. C'era un buio pesto. C'era un silenzio di tomba. C'era un caldo infernale. Maybury si chiese che ora potesse essere. Aveva perso la cognizione del tempo. Purtroppo il suo orologio non aveva il quadrante fosforescente. Non sapeva se sarebbe riuscito a dormire, ma doveva far passare quella notte in qualche modo. Per Angela, probabilmente era ancora più difficile, molto più difficile. Egli non si era mai considerato un marito perfetto, capace di procurare anche il superfluo, desideroso di essere protettivo. Le cose sarebbero diventate proprio impossibili se egli avesse perso una gamba. Ma con la medicina moderna questo si sarebbe potuto evitare. Anche nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto continuare a cavarsela ancora per qualche tempo. Facendo meno rumore possibile scivolò da sotto le coperte e le lenzuola bollenti e si distese sopra. Ristette lì come un pesce boccheggiante, imponendosi di non fare più alcun tipo di movimento. Divenne quasi catalettico per lo sforzo. Non era una prospettiva promettente per addormentarsi. Infine gli parve di riuscire a udire il respiro di Bannard, molto lontano. Quindi Bannard era ancora lì. L'immaginazione e la realtà sono cose ben diverse. Nessuno avrebbe potuto dire se Bannard dormisse o fosse desto; in ogni caso doveva evitare ogni possibile contatto
con lui. Non gli piaceva quel nanerottolo... neanche un po'. Trascorse mezza vita. Ora, non c'era dubbio che Bannard si trovasse ancora nella stanza e che fosse tuttora sveglio. Si sentiva che era in movimento. Il corpo di Maybury si contrasse mentre si chiedeva se Bannard, nella totale oscurità, stesse avanzando verso il suo letto. Istintivamente, si fece piccolo e si sentì piccolo, molto piccolo... meno della metà del solito. Bannard continuò a brancicare per la stanza per un tempo interminabile. Di certo Maybury gli aveva fatto uno sgarbo spegnendo la luce, e indubbiamente l'inquietudine dell'ometto era il prezzo che ora lui doveva pagare. Lo stesso Bannard sembrava permeato dallo spirito della situazione: forse non aveva acceso la luce perché non riusciva a raggiungere l'interruttore; ma probabilmente c'erano motivi più profondi. Si poteva ritenere che Bannard stesse effettivamente sforzandosi di osservare il silenzio in modo che Maybury, ospite per una notte, non fosse disturbato. Maybury lo sentiva a malapena muoversi, ma non sapeva assolutamente se questo fosse un riguardo nei suoi confronti o piuttosto un'oscura minaccia... e davvero non si sarebbe sorpreso di ritrovarsi con due mani piccine strette attorno alla gola. Invece Bannard raggiunse la porta e l'aprì con estrema delicatezza. Questo Maybury non se l'era aspettato. Fu un colpo di scena; anche se, a ben pensarci, il fatto in sé non esulava dalle possibilità logiche... che anzi si moltiplicavano a dismisura in un Ospizio come quello, fino a comprendere anche le eventualità illogiche. E, comunque, Maybury si sentì tutt'altro che rassicurato mentre guardava fisso la colonna di luce soffusa dal corridoio che si allargava e poi si restringeva lentamente fino a sparire con il lieve scatto della maniglia. Certo, non c'era di che preoccuparsi... dopo tutto, ma in Maybury l'ansia aveva probabilmente raggiunto un livello al quale ogni nuovo evento non può che aumentare lo stress. Ben presto, inoltre, si sarebbe aggiunta la tensione del ritorno di Bannard. Maybury si rese conto di trovarsi in una posizione assurda: essere così agitato quando Bannard in realtà si dimostrava così pieno di riguardi nei suoi confronti. Ancora una volta pensò che le preoccupazioni di Angela dovessero essere di gran lunga peggiori. Pensando ad Angela, alla sua pena, e a quanto dolce ella fosse in tutte le cose, Maybury si sentì più sveglio che mai, e ristette, attendendo il ritorno di Bannard, che certamente sarebbe stato imminente. Certamente. D'altronde, era impossibile pensare di dormire prima che Bannard facesse ri-
torno. Ma Bannard non tornava. Maybury iniziò a chiedersi se la propria cognizione del tempo non si fosse per caso alterata; se non si potesse trattare di un sintomo importante dal punto di vista medico. Per tutta la sera e tutta la notte, e cioè da quando aveva deciso di seguire il percorso che gli era stato... ehm consigliato, lui si era sentito come incerto sulla propria posizione nell'universo... o più semplicemente, su quello che la gente definisce lo stato dei propri nervi. Ecco, nel merito, non era escluso che egli avesse buone ragioni per essere in ansia. In quel momento da qualche parte della casa giunse un urlo assordante, e poi un altro e un altro ancora. Era impossibile capire se venisse da vicino e da lontano, se fosse di uomo o di donna. Maybury non sapeva e non credeva che un organismo umano potesse emettere rumori così forti, neanche nella situazione più tragica. Era assordante da ascoltare, in particolare in quella calda e totale oscurità. E non si trattava di una cosa momentanea: le urla continuarono, un parossismo, e Maybury dovette tenersi stretto per non urlare a sua volta. Cadde dal letto e si dibatté tentando di raggiungere le grosse tende. Doveva procurarsi della luce, se possibile un po' d'aria fresca nella stanza. Trovò subito le tende. Tirò la prima, poi la seconda. Nessuna luce. Le persiane, forse? Maybury tese cautamente un braccio. Non incontrò né legno né metallo. L'interruttore della luce. Doveva trovare l'interruttore; Mentre Maybury continuava a inciampare, le urla cessarono in un mostruoso gorgoglio: come se la vittima avesse rigettato abbondantemente e poi fosse svenuta; o forse come se la vittima fosse morta addirittura. Maybury continuò a cercare. Era impossibile dire quanto tempo vi mise, ma alla fine trovò l'interruttore, e immediatamente il mistero fu svelato. Dietro le tende tirate c'era, come dicono i bambini, solo un muro. Apparentemente la stanza era priva di finestre. Le tende avevano scopo puramente decorativo. Nuovamente regnava il silenzio. Di nuovo un silenzio di tomba. Il letto di Bannard era aperto e ordinato come alla luce del giorno. Maybury si tolse il pigiama di Bannard e, quanto più velocemente il suo stato gli permise, tornò a indossare i propri vestiti. Non che egli avesse un piano preciso. Semplicemente gli sembrava meglio essere vestito da capo a
piedi. Guardò distrattamente nel portafoglio per assicurarsi che i suoi soldi ci fossero ancora. Raggiunse la porta. Si dispose ad aprirla delicatamente per cercare qualche indizio e capire quale fosse il modo migliore per andarsene. La porta era bloccata. Non si muoveva assolutamente. Era stata per lo meno chiusa a chiave, forse anche sbarrata. Se era opera di Bannard, ebbene c'era riuscito senza fare alcun rumore: evidentemente aveva una grande esperienza. Maybury tentò di concentrarsi, con calma. Il risultato fu che egli ancora una volta, e anche più in fretta, si svestì, ripose l'abito in modo adeguato, e s'infilò il pigiama di Bannard. Sarebbe stato logico spegnere di nuovo la luce; tornare a letto, sotto le lenzuola, se possibile; aspettare, come prima. Ma Maybury scoprì che l'oscurità dopo avere spento la luce gli era insopportabile, per quanto fosse opportuna e rassicurante. Impossibilitato ad agire, si sedette sulla sponda del letto tentando ancora di ponderare, di escogitare un piano logico. Dopo tutto questo tempo, Bannard sarebbe tornato? Nel corso di quella stessa notte? Si rese conto che la lampadina aveva iniziato a crepitare. Poi senza un altro suono, si spense. «Non si è spenta» pensò Maybury «è perché qualcuno ha chiuso un circuito. Si è spenta, evidentemente, per un guasto tecnico isolato. È saltata la lampada... come dicono i bambini. Rimase disteso, nel dormiveglia, per diverso tempo. Si concentrò sul pensiero che in realtà non era accaduto nulla di veramente pericoloso. Sin dai tempi della scuola (e durante quello stesso periodo), egli si era reso conto sempre di più che molte cose che gli sembravano strane e pericolose alla fine risultavano del tutto normali e innocue. Poi Bannard entrò furtivamente nella stanza buia. Maybury non aveva captato alcun rumore di passi in corridoio e cosa ancora più strana, non aveva udito una chiave che girasse nella toppa, né, tanto meno, un catenaccio che venisse tolto. L'ipotesi di Maybury sul guasto della lampadina fu confermata dal fascio di luce che nuovamente si allargò e poi si restrinse, una luce debole, ma non più di prima. Evidentemente altrove le luci erano ancora accese. Bannard, riguardoso come sempre, non tentò di accendere la luce nella stanza. Chiuse la porta in modo estremamente abile, e Maybury lo sentì a malapena scivolare sotto le coperte. Eppure c'era stato uno sviluppo inspiegabile: al ritorno di Bannard la stanza buia si era riempita di profumo; il profumo di Cécile Celiména, la
splendida donna che era stata così gentile con lui in salotto. Gli odori, si sa, restano particolarmente impressi nella memoria. Quasi subito, questa volta, Bannard non solo si addormentò in modo udibile, ma ben presto si mise anche a russare piuttosto forte. Maybury avrebbe avuto tutte le ragioni per essere almeno irritato da tutto quello che stava accadendo, invece non tardò a addormentarsi anche lui. Finché Bannard dormiva, egli finalmente non si sentiva più un fattore attivo nella situazione... e molti profumi mettono sonnolenza, come aveva giustamente notato Iago. Angela passò in secondo piano nei pensieri di Maybury. Si svegliò nuovamente. La luce era di nuovo accesa, e Maybury pensò di essere stato svegliato di proposito perché Bannard si trovava in piedi accanto a lui. Dove e come aveva trovato una lampadina nuova? Forse ne teneva qualcuna di riserva in un cassetto? Questa gli parve un'ipotesi così plausibile, che in seguito non pensò più alla cosa. Comunque era molto strano anche per un altro motivo. A scuola Maybury a volte aveva avuto difficoltà a distinguere certi ragazzi da certi altri. Aveva frequentato una scuola molto grande, e è vero che i ragazzi a volte si somigliano. Comunque, questa era una cosa che Maybury non aveva mai confidato a nessuno, né allora né in seguito. Talvolta si era rivolto o aveva risposto a qualcuno confondendolo con qualcun altro: ma fortunatamente non era mai stato punito fisicamente per questo, anche se ne aveva sofferto la stima che lui aveva di se stesso. Ed ora gli stava accendendo la medesima cosa: l'uomo, quello lì in piedi, era proprio Bannard? Un fatto evidente era che Bannard aveva un'aureola o frangia di capelli rossi, mentre quest'uomo aveva una frangia piuttosto grigia. L'ometto, prima, aveva un'espressione e un aspetto affatto diversi: Maybury si disse che molto probabilmente non aveva visto bene; il pigiama sembrava lo stesso, ma questo non voleva dire molto. «Mi stavo chiedendo se voleste parlare un poco» disse Bannard. Doveva credere che fosse Bannard. Almeno all'inizio. «Non volevo svegliarvi. Volevo solo controllare.» «Non ha importanza, credo» disse Maybury. «Ho finito il mio primo sonnellino» disse Bannard. «Di notte ci si sente soli.» Qualsiasi fosse la circostanza, quella era decisamente una strana affermazione da farsi, ma indubbiamente si trattava della lingua e della logica di Bannard. «Che cos'erano tutte quelle grida?» chiese Maybury.
«Non ho sentito nulla» disse Bannard. «Probabilmente dormivo. Ma posso immaginare. Presto si impara a non farci caso. Ci sono sonnambuli e nottambuli, di quando in quando.» «Immagino che questo sia il motivo per il quale le porte delle stanze sono così difficili da aprire» disse Maybury. «No davvero» disse Bannard, ma poi aggiunse: «Beh, in parte, forse. Sì, in parte. Penso di sì. Ma basta prenderci la mano. Non siamo proprio chiusi dentro, sapete?» Ridacchiò. «Ma perché me lo chiedete? Per andare in quel posticino non c'era bisogno di uscire, vi ho fatto vedere dov'è, vecchio mio.» Quindi, quell'ometto che aveva davanti doveva essere proprio Bannard, anche se pareva che i suoi occhi avessero una forma diversa, e anche un colore differente, quando venivano colpiti direttamente dalla luce mentre egli rideva. «Probabilmente soffro anch'io di sonnambulismo.» disse Maybury stancamente. «Non è il caso di avere paura,» disse Bannard «come un bambino in una scuola nuova. Tutto quello che succede si basa sul più semplice dei principi naturali: mangiare regolarmente cibi sani, dormire a lungo, niente tasse e menti sovraffaticate. Il cibo è particolarmente importante. Aspettate la colazione e vedrete. Ogni ben di Dio, ve l'assicuro.» «Ma come fate a mangiare tutto?» chiese Maybury. «Già la cena per me era troppo abbondante.» «Lasciamo semplicemente che la natura segua il suo corso. O piuttosto, forse, che la Natura segua il Suo corso. Insomma... le allentiamo le briglie.» «Ma non è naturale mangiare tanto.» «Questo è quanto ne sapete voi» disse Bannard. «Voi, vecchio mio, siete semplicemente logoro.» Ridacchiò come aveva ridacchiato Bannard, ma per qualche motivo era diverso dal ricordo che lui aveva di Bannard. Maybury era quasi sicuro che ci fosse una netta differenza. Nella stanza aleggiava tuttora il profumo di Cécile; o forse era Bannard o il suo sosia stesso ad avere addosso quel profumo: Bannard che ora era così vicino a Maybury. Era imbarazzante che Bannard, se veramente si era alzato dal letto per svegliare Maybury, se ne stesse lì in piedi e non si sedesse... «non sul mio letto però» pensò Maybury. «Non sto dicendo che qui non si soffra.» continuò Bannard. «Ma dove non si soffre? Almeno qui nessuno marcisce in una soffitta o ancora peg-
gio in uno squallido monolocale. Non ci sono stanze singole qui. Ci aiutiamo tutti a vicenda. Che cosa possiamo fare, voi e io, per aiutarci?» Si avvicinò di un passo e si curvò leggermente sul viso di Maybury. Il pigiama era proprio impregnato di profumo. Era essenziale liberarsi di lui, ma altrettanto essenziale era evitare discussioni. Il probabile cliente deve accettare il punto di vista del rappresentante, per quanto possibile, in modo inconscio. «Forse potremmo parlare per altri cinque o dieci minuti,» disse Maybury, «Poi mi piacerebbe riaddormentarmi, col vostro permesso. Sapete? Ultimamente ho dormito molto poco a causa della malattia di mia moglie.» «È carina, vostra moglie?» chiese Bannard. «Veramente carina? Con questo e quello?» Fece un paio di gesti molto convenzionali, ma decisamente non da salotto. «Certo che è carina» disse Maybury. «Perché?» «Vi eccita veramente? Vi fa perdere il controllo di voi stesso?» «Certamente» disse Maybury. Tentò di sorridere per dimostrare che aveva sufficiente senso dell'umorismo per affrontare anche le domande di cattivo gusto. Bannard ora non solo stava seduto sul letto di Maybury, ma gli spingeva le gambe con il proprio corpo, e Maybury non aveva molto spazio per ritirarle visto che la coperta era tesa per il peso di Bannard. «Raccontateci» disse Bannard passando a una sorta di plurale maiestatis. «Raccontateci esattamente che effetto fa essere un uomo sposato. Ha cambiato tutta la vostra vita? Trasformato tutto?» «Non proprio. Comunque sono sposato da diversi anni.» «Quindi ora c'è un'altra. Io vi capisco.» «No, veramente non c'è.» «Sentite ancora l'antica attrazione dell'amore?» «Se volete metterla così, sì, amo mia moglie. E poi è malata. E abbiamo un figlio, e bisogna pensare anche a lui.» «Quanti anni ha vostro figlio?» «Quasi sedici.» «Di che colore sono i suoi occhi e i suoi capelli?» «Veramente... non ne sono sicuro. Non hanno un colore particolare. Non è un neonato, sapete.» «Ha le mani ancora morbide?» «Direi di no.» «Amate vostro figlio, allora?»
«Certo, a modo mio.» «Io lo amerei, se fosse mio, e amerei anche mia moglie.» A Maybury parve che Bannard parlasse con reale trasporto. Inoltre sembrava molto più triste di quando Maybury l'aveva visto la prima volta: vecchio il doppio e triste il doppio. Era tutto così assurdo e Maybury si sentiva veramente stanco, nonostante il peso di Bannard e il suo aspetto diverso. «È scaduto il tempo» disse Maybury. «Mi dispiace. Vi rincresce se dormiamo ancora?» Bannard si alzò immediatamente in piedi, voltò le spalle a Maybury, e si diresse verso il proprio letto senza pronunciare un'altra parola... causandogli quindi ulteriore imbaiazzo. Toccava nuovamente a Maybury il compito di spegnere la luce. Bannard aveva lasciato dietro di sé qualcosa di più che una leggera scia di quel profumo, e questo forse aiutò Maybury ad addormentarsi quasi subito. Era possibile che avesse sognato quell'assurda conversazione con Bannard? Certamente quanto accadde dopo fu un sogno: c'era Angela in camicia da notte che si teneva la testa con le mani e gridava: «Svegliati! Svegliati! Svegliati!» Maybury non poté fare altro che obbedire, e al posto di Angela trovò il ragazzo, Vincent, con il tè. Naturalmente la luce era accesa ancora una volta: ma questo non era un argomento da approfondire. «Buon giorno, signor Maybury.» «Buon giorno, Vincent.» Bannard aveva già il suo tè. Entrambi furono serviti di vassoio con una teiera, una tazza, brocche di latte e acqua calda, e un piatto di pane e burro. C'erano otto grandi fette triangolari di pane tostato a testa. «Niente zucchero» gridò Bannard con voce gioviale. «Lo zucchero toglie l'appetito.» «Che sciocchezza» pensò Maybury, e guardò Bannard di sottecchi ricordando la loro ultima conversazione insensata. Alla luce del mattino, anche se si trattava di quella stessa luce elettrica, Bannard somigliava molto più a quello che Maybury aveva conosciuto la sera precedente... morbida aureola rossa compresa. Sembrava abbastanza riposato. Stava assaporando il suo pane e burro. Maybury pensò che la cosa migliore fosse di seguire il suo esempio. «Facciamo a chi arriva primo in bagno, vecchio mio» esclamò Bannard. «Vi prego, andate prima voi» rispose Maybury semplicemente.
Poiché non c'era verso di disfarsi del pane e del burro in quella stanza, Maybury sperava, con l'aiuto dell'asciugamano, di nasconderli sotto la stretta giacca del pigiama per buttarli nel gabinetto. E si augurava che Bannard si esimesse dall'abbracciarlo scoprendo così il misfatto. Giù nel salotto tutti erano riuniti. Falkner presiedeva con il suo fare cordiale. Un sole pallido eppure vero penetrava dal mondo esterno, ma Maybury notò che il grande portone era tuttora chiuso e sprangato. Era la prima cosa che aveva guardato. Si percepiva un senso di attesa generale: «La colazione» pensò Maybury. Bannard, sempre più simile a un nanerottolo, era sparito nella folla. Non riuscì a scorgere Cécile, ma decise di non cercarla. Comunque c'era gente che gli sembrava nuova, e per lo meno diversa. Forse anche questo, era un ulteriore esempio del fenomeno che Maybury aveva osservato in Bannard. Falkner si diresse subito verso di lui: il recalcitrante, ma tuttora privilegiato estraneo. «Posso promettervi una buona prima colazione, signor Maybury» disse con fare riservato. «Lenticchie. Pesce fresco. Torta di mele fatta in casa con una montagna di panna.» «Non posso fermarmi» disse Maybury. «Grazie, ma proprio non posso. Devo guadagnarmi da vivere, devo partire subito.» Era determinato a percorrere un paio di chilometri a piedi, anzi, ci contava proprio. L'organizzazione automobilistica che gli aveva indicato il percorso, quello dal quale mai si sarebbe dovuto allontanare, avrebbe recuperato la sua automobile. Lo avevano già fatto in altri casi, diverse volte. Una lieve ombra passò sul viso di Falkner, ma egli si limitò a dire a bassa voce: «Se proprio insistete, signor Maybury...» «Mi spiace, ma devo» confermò Maybury. «Allora sarò da voi tra un attimo. Attendetemi davanti all'ingresso.» Nessuno degli altri sembrava badare loro. Ben presto tutti si defilarono parlandosi sottovoce o, in molti casi, senza dirsi nulla. «Signor Maybury» disse Falkner «sapete rispettare un segreto?» «Certo» rispose Maybury. «La notte scorsa è accaduto un incidente. Un morto. Noi non parliamo di queste cose, i nostri ospiti non lo desiderano.» «Mi dispiace» disse Maybury. «Cose come questa mi turbano sempre anche se dovrei esserci avvezzo con tanti clienti anziani» disse Falkner. «Comunque debbo forzare il mio turbamento. Il mio compito immediato è di eliminare il cadavere. Mentre gli ospiti sono occupati... per evitare sia che ne vengano a conoscenza sia il
conseguente dispiacere.» «E come?» chiese Maybury. «Nel solito modo signor Maybury.» Il carro funebre sta sopraggiungendo davanti alla porta, proprio in questo momento mentre parliamo. Per quanto vi riguardi le cose stanno così: se desiderate quello che in altre circostanze definirei un passaggio, posso fare in modo che anche voi saliate su quel veicolo. Va abbastanza lontano.» Falkner intanto stava aprendo la porta. «Riteniamo che questa sia la soluzione migliore; che cosa ne pensate, signor Maybury?» chiese. «Almeno, è la migliore che io vi possa offrire. Purtroppo però non c'è tempo per ringraziare l'ottimo signor Bannard.» Una bara stava già scendendo le scale trasportata a spalle da quattro uomini in nero. Vincent, con la sua giacca bianca, apriva la strada per evitare dubbi relativi al percorso e quindi perdite di tempo. «Sono d'accordo» disse Maybury. «Accetto. Volete dirmi quanto vi devo per la cena?» «Lasciamo perdere, signor Maybury» replicò Falkner «date le circostanze. Dobbiamo affrettarci a concludere questa operazione. Dobbiamo pensare agli altri. Vi dirò semplicemente che siamo stati tutti estremamente felici di avervi avuto tra noi.» Gli tese la mano. «Arrivederci, signor Maybury.» Maybury fu costretto a viaggiare assieme alla bara, poiché proprio non c'era posto per lui sul sedile anteriore sul quale un direttore dell'impresa di pompe funebri, un uomo corpulento, doveva stare seduto accanto al guidatore. A causa della vicinanza della morte, tra gli occupanti della parte posteriore del veicolo regnava un rispettoso silenzio... soprattutto per via della presenza tra loro di un estraneo vivo. Maybury scese, senza dare nell'occhio, quando raggiunsero una fermata di autobus. Uno degli uomini dell'impresa lo aveva assicurato che non avrebbe dovuto attendere a lungo. Titolo originale: The Hospice Traduzione: Laura Pignatti Philip K. Dick Qualcosa per noi temponauti Philip Dick era considerato uno degli scrittori di fantascienza più grandi negli anni '60 e '70. Nei suoi romanzi e racconti più famosi ritroviamo
tutti i temi classici del genere horror; tuttavia di rado vengono riconosciuti a questo scrittore grande talento e notevoli meriti, e ancora più raramente gli viene attribuito il tìtolo, più che legittimo, di erede di R. W. Chambers e Ambrose Bierce. La fantascienza annovera una varietà di racconti e romanzi che indagano sulla natura della realtà, ma nessuno di questi è più intrigante di Qualcosa per noi temponauti, scritto da Dick quando era all'apice della carriera. Le opere di scrittori quali Dick, Wolfe e Disch, che rientrano nel filone della fantascienza degli ultimi decenni, impongono l'ampliamento dei confini entro i quali viene inserita la letteratura dell'orrore e l'abbandono di un metro di valutazione che tiene esclusivamente conto del contenuto in favore di un metro che prediliga lo studio dell'effetto in sé. Stancamente, Addison Doug arrancava su per il lungo sentiero di scalini di sequoia sintetica, passo dopo passo, con la testa appena piegata in avanti, come se provasse un autentico dolore fisico. La ragazza lo osservava, desiderosa di aiutarlo, angosciata nel vedere quanto fosse stanco ed infelice, ma nello stesso tempo si rallegrava che lui fosse venuto, in ogni caso. Una marcia estenuante verso di lei, senza alzare gli occhi, procedendo quasi ad intuito... Come se l'avesse fatto chissà quante volte, pensò lei all'improvviso. Conosce fin troppo bene la strada. Perché? «Addi», lo chiamò, e corse verso di lui. «Alla TV hanno detto che eri morto. Che eravate rimasti tutti uccisi!» Lui si fermò, tirandosi indietro i capelli neri, non più tanto lunghi; prima del lancio, glieli avevano tagliati. Evidentemente, se ne era dimenticato. «Credi a tutto quello che dicono alla TV?», disse, e riprese a camminare, con passo esitante, ma sorridendo. E tendendo le mani verso di lei. Dio, era bello stringersi a lui, e sentirsi stringere, con più forza di quanto si fosse aspettata. «Stavo per trovarmi qualcun altro», disse lei, affannata. «Per sostituirti.» «Se ci provi ti faccio saltare la testa», replicò lui. «E comunque, non è possibile; nessuno potrebbe sostituirmi.» «Ma quella storia dell'implosione?» domandò la ragazza. «Durante il rientro; hanno detto che...» «Dimenticato», la interruppe Addison, con il tono che usava quando voleva dire: non ho voglia di discutere. Quel tono l'aveva sempre fatta arrabbiare, prima, ma non adesso. Stavolta sentiva quanto potesse orrendo quel ricordo. «Resterò qui da te per un paio di giorni», disse, mentre risalivano
insieme il sentiero verso la porta aperta della sua casa inclinata, modello A. «Se sei d'accordo. Benz e Crayne mi raggiungeranno più tardi, forse stasera stessa. Abbiamo molte cose da discutere e da decidere.» «Allora siete sopravvissuti tutti e tre.» Lei fissò il suo volto scavato dall'ansia. «Tutto quello che hanno detto alla TV...» Adesso capiva, o credeva di capire. «Era tutta una copertura. Per... motivi politici, per ingannare i russi. Giusto? Voglio dire, l'Unione Sovietica penserà che il lancio è stato un fallimento perché al rientro...» «No», la interruppe lui. «Molto probabilmente verrà a raggiungerci un crononauta. Per aiutarci a capire che cosa è successo. Il generale Toad ha detto che uno di loro è già in viaggio; hanno già avuto il permesso. Vista la gravità della situazione.» «Gesù», esclamò la ragazza, colpita. «Allora per chi serve la copertura?» «Beviamoci qualcosa», disse Addison. «Poi ti racconterò tutto.» «L'unica cosa che ho, al momento, è brandy della California.» Addison Doug disse: «Per come mi sento, berrei qualsiasi cosa.» Si lasciò cadere sul divano, si appoggiò allo schienale ed emise un sospiro affannoso, disperato, mentre la ragazza si affrettava a riempire due bicchieri. La radio a modulazione di frequenza dell'auto cantilenava: «... si duole per la drammatica piega assunta degli avvenimenti, inaspettatamente precipitati...» «Le solite chiacchiere ufficiali prive di senso», disse Crayne, spegnendo la radio. Lui e Benz avevano qualche problema a trovare la casa, essendoci stati in precedenza una sola volta. A Benz venne in mente che quello era un modo piuttosto informale di riunirsi per una conferenza così importante, dandosi appuntamento in casa della ragazza di Addison, laggiù nella zona franca di Ojai. D'altra parte, non avrebbero avuto intorno scocciatori. E probabilmente non avevano molto tempo a disposizione. Ma era difficile da dire; nessuno sapeva niente di sicuro, al riguardo. Le colline su ciascun lato della strada erano state foreste, una volta, notò Crayne. Adesso le zone abitate, con le loro strade irregolari di plastica mezza fusa, sfiguravano il paesaggio fino all'ultima collinetta. «Scommetterei che questo era un bel posto, tempo fa», disse a Benz, il quale era al volante. «La Foresta Nazionale di Los Padres è da queste parti», replicò Benz. «Mi ci persi quando avevo otto anni. Per ore ed ore fui sicuro che un serpente a sonagli mi avrebbe aggredito. Ogni ramoscello mi sembrava un
serpente». «Il serpente ha aggredito adesso», disse Crayne. «Tutti noi», perciò Benz. «Lo sai», disse Crayne, «è una brutta esperienza, essere morti.» «Parla per te.» «Ma tecnicamente...» «Se ascolti la radio e la TV.» Benz si voltò verso di lui, con la sua grossa faccia da gnomo tutta seria che esprimeva riprovazione. «Non siamo più morti di chiunque altro sulla Terra. La differenza consiste nel fatto che la nostra data di morte è nel passato, mentre per tutti gli altri è in un punto imprecisato del futuro. Anzi, c'è anche chi può conoscerla con una certa precisione, come i malati di cancro; ne sono certi come noi. Forse più. Per esempio, quanto tempo possiamo restare qui prima di tornare indietro? Abbiamo un margine, una disponibilità che una vittima di un cancro all'ultimo stadio non ha.» Crayne disse causticamente: «La prossima cosa che ci verrai a dire per tirarci su è che non proviamo dolore.» «Addi lo prova. Oggi l'ho guardato mentre se ne andava barcollando. L'ha presa in maniera psicosomatica... l'ha trasformata in una protesta fisica. Come se Dio gli pesasse sul collo; sai, come chi è costretto a trasportare un fardello troppo gravoso, solo che lui non si lamenta ad alta voce... solo di tanto in tanto indica i fori che i chiodi gli lasciano sulle mani». Sorrise. «Addi ha molti più motivi di noi, per vivere.» «Ogni uomo ha più motivi di un altro, per vivere. Io non ho una pollastrella con cui dormire, ma mi piacerebbe vedere ancora una volta le macchine che corrono sulla Riverside Freeway, all'ora del tramonto. Non conta ciò per cui vuoi vìvere, ma il fatto che tu voglia vivere per vederlo, per essere là... è questo che è maledettamente triste.» Continuarono ad andare, in silenzio. Nel tranquillo soggiorno, a casa della ragazza, i tre temponauti se ne stavano comodamente seduti, e fumavano, prendendosela comoda; Addison Doug si disse che la ragazza aveva un aspetto insolitamente malizioso e desiderabile, con quel golfino bianco così aderente e la microgonna, e rimpianse intensamente che non fosse un po' meno attraente. A questo punto, non era proprio il caso di andarsi a cacciare in pasticci del genere. Era troppo stanco.
«Lei sa», domandò Benz, indicando la ragazza, «come stanno le cose? Voglio dire, possiamo parlare apertamente? Non ci resterà troppo male?» «Non le ho ancora spiegato nulla», disse Addison. «Farai meglio a sbrigarti, accidenti», disse Crayne. «Di che si tratta?», chiese la ragazza, preoccupata, tirandosi su e posando una mano proprio in mezzo ai seni. Come se volesse aggrapparsi a qualche inesistente simbolo religioso, pensò Addison. «Siamo crepati durante il rientro», disse Benz. Era davvero il più crudele dei tre. O quanto meno il più sbrigativo. «Vede, signorina...» «Hawkins», disse la ragazza con un filo di voce. «Piacere di conoscerla, signorina Hawkins.» Benz la squadrò nel suo modo freddo e indolente. «E di nome?» «Merry Lou.» «Bene, Merry Lou», disse Benz. Poi, rivolto ai suoi due colleghi: «Sembra un po' il nome che le cameriere portano ricamato sul grembiule. Mi chiamo Merry Lou, e le servirò colazione, pranzo e cena, e poi ancora colazione, pranzo e cena per i prossimi giorni, o per tutto il tempo che le rimane prima di arrendersi e di ritornare al suo tempo; sono cinquantatré dollari e otto centesimi, prego, mancia esclusa. E spero di non rivederla mai più, d'accordo?» La sua voce aveva cominciato a tremare, e così la sua sigaretta. «Mi scusi, signorina Hawkins», aggiunse poi. «L'implosione al momento del rientro ci ha scombussolato tutti e tre. Appena arrivati qui in ATE, ce ne siamo resi conto. Lo abbiamo capito prima di chiunque altro, appena entrati in contatto con il Tempo di Emergenza.» «Ma non possiamo farci nulla», disse Crayne. «Nessuno può fare nulla», le disse Addison, posandole un braccio sulle spalle. L'impressione fu quella di un deja vu, ma poi capì. «Ci troviamo in un circolo temporale chiuso, pensò, continuiamo a percorrerlo incessantemente, cercando di risolvere il problema del rientro, ogni volta immaginando che sia la prima volta, l'unica... e non ci riusciamo mai. Che tentativo è questo? Forse il milionesimo; ci siamo seduti qui un milione di volte, passando in rassegna sempre gli stessi fatti e senza giungere mai ad alcuna conclusione.» Questo pensiero gli fece provare un senso di enorme stanchezza, ed una specie di smisurato, filosofico odio nei confronti di tutti gli altri uomini, che non dovevano rompersi la testa su quell'enigma. «Tutti andiamo nello stesso posto, pensò, come dice la Bibbia. Ma... noi tre ci siamo già stati. Ci siamo, adesso, e quindi è assurdo chiederci di trattenerci sulla faccia della Terra, dopo, e preoccuparci e discutere e cercare di capire
che cosa non ha funzionato. Ciò, a rigore, dovrebbe spettare ai nostri eredi. Noi ne abbiamo già avuto abbastanza.» Ma non espresse tutto ciò ad alta voce... per amor loro. «Forse avete urtato contro qualcosa», disse la ragazza. Guardando gli altri, Benz ripeté in tono sardonico: «Forse abbiamo "urtato contro qualcosa".» «I commentatori della TV continuano a ripeterlo», disse Merry Lou. «Parlano del rischio, durante il rientro, di trovarsi spazialmente fuori fase e di entrare in collisione a livello molecolare con oggetti tangenti, ognuno dei quali...». Gesticolò. «Be', lo sapete. "Due oggetti non possono occupare lo stesso spazio nello stesso tempo". E per quel motivo, salta tutto per aria.» Si guardò intorno con aria interrogativa. «Questo è il maggior fattore di rischio», riconobbe Crayne. «Almeno in teoria, come ha calcolato il dottor Fein del Progetto, quando presero in considerazione la faccenda del rischio. Ma noi eravamo attrezzati con un mucchio di dispositivi di sicurezza, che entravano automaticamente in funzione. Il rientro non poteva aver luogo, se tali dispositivi non ci avevano stabilizzato spazialmente, in modo che non avvenissero sovrapposizioni. Naturalmente questi congegni possono essere inceppati tutti, uno dopo l'altro. Durante il lancio ho tenuto d'occhio tutti i rilevatori metrici di "feedback", e tutti quanti mi hanno confermato che ci trovavamo perfettamente in fase, in quel momento. Non ho sentito alcun sistema di allarme che scattasse, e nemmeno ne ho visto nessuno.» Fece un sorriso amaro. «Come minimo, non è successo allora.» All'improvviso Benz disse: «Vi rendete conto che i nostri parenti più stretti sono diventati ricchi? Possono riscuotere tutte le nostre assicurazioni statali e commerciali. I nostri "parenti più stretti"... Dio non lo voglia, ma credo che siamo proprio noi stessi. Possiamo chiedere che ci vengano pagati, pronta cassa, decine di migliaia di dollari. Possiamo entrare negli uffici dei nostri assicuratori e dire, "Sono morto, scuci la grana".» Addison Doug stava pensando. Le pubbliche eseguie. In programma subito dopo l'autopsia. La lunga processione di Cadillac drappeggiate di nero, sulla Pennsylvania Avenue, con tutti gli alti funzionari governativi e quei cervelloni di scienziati... e ci saremo anche noi. Non una volta, ma due volte. Una volta dentro i feretri di quercia lucidati a mano, con maniglie di ottone e le bandiere avvolte sopra, ma anche... forse a bordo di "limousine" aperte, salutando con la mano la folla in lacrime. «Le esequie», disse ad alta voce.
Gli altri lo fissarono, sbalorditi, senza capire. Poi uno dopo l'altro, compresero; lui se ne accorse guardandoli in faccia. «No», disse Benz con voce rauca. «Questo è... impossibile.» Crayne scosse enfaticamente la testa. «Ci ordineranno di essere là, e noi ci saremo. Obbediremo agli ordini.» «Dovremo anche sorridere?», domandò Addison. «Avere un fottuto sorriso sulle labbra.» «No», disse lentamente il generale Toad, con la grossa testa munita di bargigli che tremolava sul collo a manico di scopa, la pelle grigiastra e chiazzata, come se la massa di decorazioni che portava sul bavero rigido avesse avviato in lui un processo di decomposizione. «Non dovrete sorridere, anzi dovrete assumere un contegno addolorato, come si conviene ad una circostanza del genere. In carattere con lo stato d'animo nazionale di dolore di questo momento.» «Sarà un po' difficile», disse Crayne. Il crononauta russo non mostrò alcuna reazione; il suo volto magro e prominente, incorniciato dalla cuffia della traduzione istantanea, si conservò rigido e preoccupato. «La nazione», riprese il generale Toad, «si renderà conto ancora una volta che voi siete presenti fra noi, per un breve intervallo; le telecamere delle maggiori reti televisive vi inquadreranno senza preavviso e, nello stesso tempo, i vari telecronisti commenteranno, secondo le istruzioni ricevute da noi, più o meno in questo tono.» Prese un foglio dattiloscritto, inforcò gli occhiali, si chiarì al gola e lesse. «"Pare che la nostra telecamera stia inquadrando tre personaggi che si trovano nella stessa vettura, ma non riusciamo a distinguerli bene. Voi ci riuscite?".» Il generale Toad abbassò il foglio. «A questo punto si rivolgeranno ai loro colleghi, improvvisando, e infine esclameranno, "Ehi, Roger", o Walter, o Ned, o qualunque sia il nome, a seconda della rete televisiva di appartenenza...» «O Bill», lo interruppe Crayne. «Nel caso che si tratti della rete Bufonidae, laggiù nelle paludi.» Il generale Toad lo ignorò. «Esclameranno più volte: "Ehi, Roger, credo proprio che si tratti dei tre temponauti in carne ed ossa! Forse questo significa che in qualche modo le difficoltà...".» E poi i loro colleghi diranno, con voce più cupa e solenne: "Ciò che stiamo vedendo adesso, a mio avviso, David", o Henry, o Pete, o Ralph, a seconda dei casi, "consiste nella prima occhiata che il genere umano può lanciare a ciò che i tecnici defini-
scono ATE, Attività Temporale di Emergenza. Contrariamente a quello che può sembrare a prima vista, questi non sono — ripeto, non sono — i nostri tre coraggiosi temponauti come tali, cioè come li considereremmo normalmente, ma più probabilmente le nostre telecamere li stanno inquadrando mentre si trovano tutti e tre temporaneamente sospesi nel loro viaggio verso il futuro, che all'inizio avevamo motivo di sperare sarebbe avvenuto in un continuum temporale di circa cent'anni successivo a questo... ma pare che, chissà come, ci sia stato qualche imprevisto, e che essi si trovino qui in questo momento che, come sappiamo benissimo, è il nostro presente".» Addison Doug chiuse gli occhi e pensò, Crayne gli chiederà se può essere ripreso dalla telecamera mentre tiene in mano un palloncino e mangia zucchero filato. Penso che questa storia ci farà uscire tutti di senno. Poi si domandò, quante volte siamo già passati attraverso questo colloquio idiota? Non posso provarlo, pensò stancamente, ma so che è vero. Noi ci siamo già seduti qui, abbiamo partecipato a questa inutile riunione, abbiamo ascoltato e detto tutte queste stronzate, più di una volta. Rabbrividì. Ogni bella parolina... «Che c'è?», gli chiese acutamente Benz. Il crononauta sovietico parlò per la prima volta. «Qual è il massimo intervallo di ATE possibile per voi tre? E quanto ne avete già consumato, percentualmente?» Dopo una pausa, Crayne rispose: «Prima di venire qui, ci hanno informato succintamente. Abbiamo consumato più o meno la metà del nostro massimo intervallo totale di ATE.» «Comunque», ruggì il generale Toad, «abbiamo fissato il Giorno di Lutto Nazionale in modo che cada entro il periodo previsto di ATE che ancora rimane loro. Questo ci ha costretto ad affrettare le autopsie e gli altri accertamenti legali, ma in considerazione del sentimento pubblico, si è ritenuto...» L'autopsia, pensò Addison Doug, e rabbrividì di nuovo; stavolta non fu capace di tenere per sé i suoi pensieri e disse: «Perché non rimandiamo questa stupida riunione, e non ce ne andiamo giù a Patologia a vedere qualche striscia di tessuto, ingrandita ed a colori, e magari, con qualche lampo di genio, non proviamo a tirar fuori un paio di idee che possano aiutare la scienza medica a trovare una spiegazione? Spiegazioni... ecco che cosa ci serve. Spiegazioni di problemi che ancora non esistono; i problemi
potremo sempre svilupparli più tardi.» Fece una pausa. «Chi è d'accordo?» «Io non ho intenzione di guardare la mia milza in uno schermo», disse Benz. «Andrò alla sfilata, ma non assisterò alla mia autopsia.» «Potresti distribuire microscopiche fettine delle tue budella alla gente in lutto che incontrerai lungo la strada», disse Crayne. «Potrebbero fornirci di un cestino a testa, vero, generale? Potremmo lanciare pezzettini di tessuto come se fossero confetti. E continuo a ritenere che dovremmo sorridere.» «Ho ricercato in tutti i miei appunti», disse il generale Toad, sfogliando i mucchi di carte davanti a lui, «ed è opinione comunque che il sorridere non sia in tono con il sentimento nazionale. Perciò non se ne parla nemmeno. Quando alla vostra partecipazione ai procedimenti autoptici che si stanno attualmente svolgendo...» «Ce li stiamo perdendo, finché restiamo qui», disse Crayne, rivolto ad Addison Doug. «Io mi perdo sempre qualcosa.» Ignorandolo, Addison si rivolse al crononauta sovietico. «Ufficiale N. Gauki», disse nel microfono che gli penzolava sul petto, «qual è, secondo lei, la più grande paura che deve affrontare un viaggiatore del tempo? Che ci sarà un'implosione in coincidenza del rientro, come è successo nel nostro lancio? Oppure lei ed il suo compagno siete stati tormentati da altre ossessioni traumatiche, nel corso del vostro breve ma riuscito viaggio nel tempo?» N. Gauki, dopo una pausa, rispose: «R. Plenya ed io ci siamo scambiati delle impressioni più di una volta, in via non ufficiale. Penso di poter parlare anche a nome suo, rispondendo alla sua domanda, quando metto in evidenza la nostra paura di essere inavvertitamente entrati in un circolo temporale chiuso, senza poterne più uscire.» «Di ripercorrerlo in eterno?», domandò Addison Doug. «Sì, signor A. Doug», rispose il crononauta, con un leggero cenno del capo. Addison Doug fu preso da una paura che non aveva mai provato. Si girò sgomento verso Benz e mormorò: «Merda.» I due si scambiarono un'occhiata. «Io non credo proprio che sia successo questo», gli disse Benz a bassa voce, posandogli una mano sulla spalla e stringendo forte; una stretta da amico. «Siamo semplicemente implosi al rientro, tutto qui. Non te la prendere.» «Non potremmo sospendere?», disse Addison Doug con voce rauca e strozzata, alzandosi a metà sulla sedia. Sentiva la stanza e le persone che
c'erano dentro turbinargli intorno, soffocarlo. Claustrofobia, si rese conto. Come quando ero al liceo, e i roboinsegnanti ci facevano fare delle prove a sorpresa, ed io sapevo che non le avrei superate. «Vi prego», disse semplicemente, alzandosi in piedi. Lo stavano guardando tutti, con espressioni diverse. Il volto del russo esprimeva una partecipazione particolarmente sentita, ed era visibilmente scavato dalla preoccupazione. Addison desiderò... «Voglio andare a casa», disse a tutti i presenti, e si sentì stupido. Era ubriaco. Era sera tardi, ad un bar di Hollywood Boulevard; fortunatamente Merry Lou era con lui, e Addison se la stava spassando. Almeno, così gli dicevano tutti. Si aggrappò alla ragazza e disse: «La grande unità della vita, l'unità e il significato supremo, sono l'uomo e la donna. La loro assoluta unità; giusto?». «Lo so», replicò Merry Lou. «L'abbiamo studiato a scuola». Quella sera, dietro sua richiesta, Merry Lou era una piccola ragazza bionda che indossava un paio di pantaloni scampanati color porpora, tacchi alti ed una camicetta annodata sotto i seni. In precedenza aveva avuto un lapislazzolo sull'ombelico, ma nel corso della cena di Ting Ho si era staccato ed era andato a finire chissà dove. Il proprietario del ristorante aveva promesso di continuare a cercarlo, ma da allora Merry Lou era stata di cattivo umore. Aveva detto che era un avvenimento simbolico, ma senza specificare di che cosa. O almeno lui non riusciva a ricordarlo. Forse era proprio così: lei gliel'aveva detto, e lui se ne era dimenticato. Un giovane negro piuttosto elegante seduto ad un tavolo vicino, che indossava una tunica a strisce ed una vistosa cravatta rossa, si era messo a fissare insistentemente Addison. Era evidente che desiderava venire al loro tavolo, ma non aveva il coraggio di farlo; nel frattempo, continuava a tenerlo d'occhio. «Hai mai avuto la sensazione», disse Addison a Merry Lou, «di sapere esattamente quello che sta per accadere? O quello che uno sta per dire? Parola per parola? Fino al più insignificante dettaglio? Come se avessi già vissuto in precedenza quella situazione?». «Capita a tutti», disse Merry Lou, sorseggiando un Bloody Mary. Il negro si alzò e si diresse verso di loro. Giunto davanti ad Addison, si fermò. «Mi dispiace disturbarla, signore». «Adesso dirà: "Non ci siamo già visti da qualche parte? Non l'ho vista alla TV?"». «Era esattamente ciò che avevo intenzione di dire», ammise il negro. Addison disse: «Certamente lei avrà visto la mia fotografia a pagina
quarantasei dell'ultimo numero di Time, nella rubrica dedicata alle nuove scoperte mediche. Sono il medico generico di una piccola città dello Iowa, balzato alla ribalta della notorietà per aver inventato una cura per la vita eterna, facile ed accessibile a tutti. Molte fra le più grosse società farmaceutiche si stanno già disputando il mio vaccino». «Ecco dove ho visto la sua fotografia, forse», disse il negro, senza sembrare troppo convinto. Non aveva l'aria di un ubriaco, e continuava a fissare Addison con insistenza. «Posso sedere con lei e la signora?». «Ma certo», rispose Addison Doug. In quel momento gli vide in mano la tessera di identificazione del Servizio di Sicurezza degli Stati Uniti, che aveva curato fin dall'inizio la protezione del progetto. «Signor Doug», disse l'agente mentre si sedeva accanto a lui, «lei non dovrebbe proprio stare qui a parlare a vanvera in quel modo. Come l'ho riconosciuta io, così potrebbe farlo qualcun altro e mandare tutto per aria. È tutto segreto, fino al Giorno del Lutto. Tecnicamente, stando qui lei ha violato lo Statuto Federale, se ne rende conto? Dovrei arrestarla. Ma è una situazione difficile; non vogliamo fare cose avventate e provocare una scenata. Dove sono i suoi colleghi?». «A casa mia», rispose Merry Lou, che evidentemente non aveva visto la tessera. «Senta», gli disse poi bruscamente, «perché non si toglie di mezzo? Mio marito, qui, ha passato dei momentacci, e questa è la sua unica occasione per rilassarsi un po'». Addison guardò l'uomo. «Io sapevo quello che lei avrebbe detto prima ancora che lei venisse qui». Parola per parola, pensò. Ho ragione io, e Benz ha torto e tutto questo continuerà a succedere, in un'interminabile ripetizione. «Forse», disse l'agente, «posso convincerla a ritornare volontariamente a casa della signorina Hawkins. Abbiamo avuto una comunicazione...» e si toccò il minuscolo microfono che aveva nell'orecchio destro, «...proprio pochi minuti fa, tutti noi, da trasmettervi con la massima urgenza nel caso vi avessimo rintracciato. Tra le rovine, sul luogo del lancio... hanno frugato in mezzo ai rottami, lo sapete?». «Lo so», disse Addison. «Pensano di aver trovato un indizio. Qualcuno di voi ha riportato indietro qualcosa dall'ATE, in violazione di tutto l'addestramento prelancio». «Mi consenta una domanda», gli disse Addison. «Immaginiamo che qualcuno mi veda, che mi riconosca? E allora?». «La gente pensa che, anche se il rientro è fallito, il volo nel tempo, il
primo tentativo americano di viaggio temporale, sia riuscito. Tre temponauti americani sono stati lanciati ad un centinaio di anni nel futuro... più o meno il doppio del lancio sovietico dello scorso anno. Il fatto che voi siate andati avanti solo di una settimana costituirà uno shock minore, se si crederà che voi tre avete deliberatamente scelto di rimanifestarvi in questo continuum perché volevate presenziare, anzi vi sentivate spinti a presenziare...». «Volevamo partecipare alla sfilata», lo interruppe Addison. «Due volte». «Vi sentivate attratti dallo spettacolo triste e drammatico del vostro stesso funerale, e là sarete inquadrati dagli attenti cameramen di tutte le principali reti televisive. Signor Doug, davvero, ci sono state un mucchio di riunioni ad alto livello e spese ingentissime per cercare di risolvere questa terribile situazione; può fidarsi di noi, mi creda. Sarà più facile per il pubblico, e questa è una cosa della massima importanza, se vogliamo che ci sia un altro lancio temporale americano. Che in fondo è ciò che tutti vogliamo». Addison Doug lo guardò a bocca aperta. «Che cosa vogliamo, noi?». A disagio, l'agente della Sicurezza disse: «Effettuare altri viaggi nel tempo. Come avete fatto voi. Sfortunatamente, voi non potrete più farli, a causa della tragica implosione e della morte di tutti e tre. Ma altri temponauti...». «Noi vogliamo cosa? È questo che vogliamo?». La voce di Addison crebbe di tono; la gente ai tavoli vicini si mise ad osservarli. Nervosamente. «Certamente», disse l'agente. «E abbassi la voce». «Io non lo voglio», disse Addison. «Io voglio fermarmi. Fermarmi per sempre. Giacere sotto terra, tra la polvere, insieme a tutti gli altri. Non vedere più altre estati... sempre la stessa estate». «Quando ne hai vista una, le hai viste tutte», si intromise istericamente Merry Lou. «Credo che abbia ragione, Addi; dovremmo andarcene di qui. Hai bevuto troppo, ed è tardi, e poi questa notizia a proposito di...». Addison la interruppe: «Che cosa è stato riportato indietro? Quanta massa extra?». L'agente rispose: «L'analisi preliminare ha rivelato che un macchinario del peso di circa cinquanta chili è stato inserito nel campo temporale del modulo e trascinato insieme a voi nel viaggio. Questa massa in più...». Il negro gesticolò. «Ha fatto saltare sul colpo la rampa di lancio, che non poteva compensare la presenza di una massa assente al momento del lancio».
«Ehilà!», esclamò Merry Lou, sgranando gli occhi. «Forse qualcuno di voi ha comprato un giradischi quadrifonico per un dollaro e novantotto, compresi altoparlanti su cuscinetto d'aria di trenta centimetri ed una collezione completa dei dischi di Neil Diamond». Cercò di ridere, ma non ci riuscì. Lo sguardo le si intristì. «Addi», disse con un filo di voce, «mi dispiace, ma è una specie di... è così strano. Voglio dire, è assurdo. Vi hanno addestrato, no, sulla questione del peso nel ritorno? Non dovevate aggiungere nemmeno un foglio di carta a quello che avevate portato con voi. Ho anche visto il dottor Fein alla TV, che spiegava i motivi. E uno di voi ha appesantito il campo con cinquanta chili di macchinario? Doveva proprio aver voglia di autodistruggervi, per fare una cosa del genere!» Dagli occhi le sgorgarono le lacrime, ed una di esse le scivolò sul naso e rimase sospesa lì. Lui allungò istintivamente una mano per asciugarla, come se avesse a che fare con una bambina invece che con una donna. «Vi porterò in volo fino al luogo delle analisi», disse l'agente della Sicurezza, alzandosi in piedi. Lui ed Addison aiutarono Merry Lou ad alzarsi; la ragazza fu scossa da un tremito mentre, in piedi, finiva il suo Bloody Mary. Addison provò un dolore acuto per lei, ma gli passò quasi subito. Si domandò il perché. Ci si può stancare anche di questo, suppose. Di preoccuparsi di qualcuno. Se la cosa va avanti... troppo avanti. Per trasformarsi, alla fine, in qualcosa che nessuno, forse nemmeno Dio in persona, ha mai dovuto sopportare e che comunque, nonostante il Suo grande cuore, schianterebbe anche lui. Mentre attraversavano il bar affollato per uscire sulla strada, Addison disse all'agente: «Chi di noi...». «Loro lo sanno», rispose l'agente, tenendo aperta la porta per far passare la ragazza. Adesso si trovava alle spalle di Addison, e fece un cenno ad una vettura federale grigia perché atterrasse nella zona di parcheggio rosso. Due agenti della Sicurezza in divisa si precipitarono verso di loro. «Sono stato io?», domandò Addison Doug. «Farà bene a crederlo», rispose l'agente. La processione funebre sfilava con dolorosa solennità lungo Pennsylvania Avenue, tre feretri ornati di bandiere e dozzine di «limousine» nere che passavano in mezzo ad una folla sterminata di persone in cordoglio, vestite pesantemente, che rabbrividivano. Una foschia bassa intristiva il giorno, ed i profili grigi degli edifici sfumavano nell'aria livida ed intrisa di pioggia di quella giornata di marzo, a Washington.
Osservando la prima Cadillac con il binocolo prismatico, il commentatore televisivo delle notizie più importanti e degli eventi pubblici, Henry Cassidy, si rivolgeva con voce uniforme al suo vasto ed invisibile auditorio. «...tristi ricordi di quel lontano treno che passava in mezzo ai campi di grano trasportando la bara di Abramo Lincoln verso il funerale e verso la capitale della nazione. E che triste giorno è questo, e com'è in tono questo tempo grigio, con le sue nuvole opprimenti e il suo fastidioso piovigginare!» Vide sul monitor che la telecamera stava zoomando sulla quarta Cadillac, quella che seguiva le tre vetture con i feretri dei temponauti morti. Il suo tecnico gli toccò il braccio. «Pare che la telecamera stia inquadrando tre persone sconosciute, fino ad ora non identificate, che si trovano a bordo della stessa macchina», disse Henry Cassidy nel microfono che portava appeso al collo, annuendo per indicare che aveva capito. «Fino ad ora non sono riuscito proprio a riconoscerli. Forse tu ti trovi in una posizione che ti consente di vedere meglio di me, Everett?», domandò al suo collega, premendo il pulsante che indicava ad Everett di sostituirlo in trasmissione. «Be', Henry», disse Branton con crescente eccitazione nella voce. «Credo che siamo testimoni oculari della rimaterializzazione dei tre temponauti americani nel corso del loro storico viaggio verso il futuro!» «Questo significa», intervenne Cassidy, «che in qualche modo sono riusciti a risolvere e scavalcare il...» «Ho paura di no, Henry», disse Branton con la sua voce cadenzata e lamentosa. «Il fenomeno a cui stiamo assistendo con i nostri occhi, e con nostra grande sorpresa, è il primo sguardo documentato del mondo occidentale su quella che i tecnici definiscono come Attività Temporale di Emergenza». «Ah, sì l'ATE», disse con enfasi Cassidy, dando una scorsa alla copia del testo ufficiale che le autorità federali gli avevano consegnato prima della trasmissione «Proprio così, Henry. Contrariamente a ciò che potrebbe sembrare a prima vista, questi non sono — ripeto non sono — i nostri tre coraggiosi temponauti come li vedremmo normalmente...» «Adesso ho capito, Everett», lo interruppe tutto eccitato Cassidy, sul cui testo autorizzato c'era scritto CASS. INTERROMPE ECCITATO. «I nostri tre temponauti si trovano momentaneamente sospesi nel loro storico viaggio verso il futuro, che noi speriamo li condurrà ad un continuum approssimativamente cento anni più avanti rispetto ad ora... Sembra che l'enorme
dolore ed il dramma di questa imprevista giornata di lutto li abbia spinti a...» «Scusa se ti interrompo, Henry», disse Everett Branton, «ma io credo, visto che la processione ha momentaneamente interrotto la sua marcia, che potremmo...» «No!», esclamò Cassidy, leggendo un biglietto che gli era stato appena consegnato, e sul quale era stato scritto, con una calligrafia frettolosa, Non intervistare i temponauti. Urgente. Disp. Prec. annull. «Non credo che saremo in grado di...», proseguì, «... fare una rapida intervista ai temponauti Benz, Crayne e Doug, come avevi sperato, Everett. Come tutti noi avevamo sperato, per un po'.» Fece dei cenni disperati perché il tecnico ritirasse la giraffa, che aveva già incominciato a protendersi verso la Cadillac ferma. Cassidy fece dei significativi cenni di diniego agli operatori ed al tecnico audio. Vedendo che la giraffa si dirigeva verso di loro, Addison si alzò in piedi sul sedile posteriore della vettura decappottata. Cassidy gemette. Vuole parlare, si rese conto. Ma non lo hanno avvertito? Perché devo andarci di mezzo proprio io? Adesso altre giraffe e microfoni di varie emittenti televisive e radiofoniche ed anche di semplici privati a piedi si stavano puntando verso i tre temponauti, specialmente verso Addison Doug. Quest'ultimo aveva cominciato a rispondere ad alcune domande che gli erano state rivolte ad alta voce da un giornalista. Avendo ormai fatto ritirare la giraffa, Cassidy non aveva potuto udire la domanda, né la risposta di Doug. Con riluttanza, segnalò ai suoi di rimettere in funzione la giraffa. «...prima», stava dicendo Doug a voce alta. «In che modo "tutto questo è già accaduto prima"?», stava chiedendo il radiocronista, che si era avvicinato alla vettura. «Voglio dire», dichiarò il temponauta degli Stati Uniti Addison Doug, rosso e tirato in volto, «che io sono già stato qui in questo punto, che ho detto e ridetto le stesse cose, e che tutti voi avete assistito a questa processione ed alle nostre morti al rientro infinite volte, in un circolo chiuso di tempo intrappolato che deve essere spezzato.» «State cercando», intervenne un altro giornalista, «una soluzione all'implosione del rientro che si possa applicare retrospettivamente in modo che quando tornate nel passato riusciate a correggere l'errore di funzionamento ed evitare la tragedia che vi è costata — o vi costerà — la vita?» Il temponauta Benz disse: «Stiamo facendo questo, sì.» «Stiamo cercando di accertare la causa della violenta implosione e di e-
liminarla prima del ritorno», aggiunse annuendo il temponauta Benz. «Sappiamo già che per ragioni sconosciute una massa di circa cinquanta chili di svariate parti meccaniche di una Volkswagen, compresi i cilindri, la testata...» È spaventoso, pensò Cassidy. «Straordinario!», disse invece ad alta voce nel microfono. «I temponauti stratunitensi, tragicamente già deceduti, con una forza di volontà che può nascere soltanto dalla disciplina e dall'addestramento rigoroso a cui sono stati sottoposti — e sul momento ci domandavamo il perché, ma adesso possiamo capirlo chiaramente — hanno già analizzato l'incidente meccanico responsabile, evidentemente, delle loro morti, ed hanno iniziato il laborioso processo di identificazione ed eliminazione delle cause di tale incidente, in modo da poter ritornare al punto originale di lancio e rientrare senza problemi.» «Ci si chiede», borbottò Branton nel suo microfono e nelle cuffie di controllo, «quali saranno le conseguenze di questa alterazione del recente passato. Se al rientro essi non implodono e non rimangono uccisi, allora non... be', Henry, per me sono troppo complicati, questi paradossi temporali che il dottor Fein ed il Laboratorio di Espulsione Temporale di Pasadena hanno così frequentemente e così eloquentemente sottoposto alla nostra attenzione.» In tutti gli svariati microfoni che aveva davanti alla bocca, il temponauta Addison stava dicendo, ora in tono più pacato: «Noi non dobbiamo eliminare la causa dell'implosione al rientro. Il solo modo che abbiamo di uscire da questa trappola è quello di morire. La morte è l'unica soluzione di questa faccenda, per tutti e tre». Venne interrotto dal corteo di macchine che riprendeva a muoversi. Chiudendo momentaneamente il microfono, Henry Cassidy disse al suo tecnico: «È impazzito?» «Solo il tempo ce lo dirà», ribatté l'altro con un filo di voce. «Un momento straordinario nella storia del progetto americano per i viaggi nel tempo», riprese Cassidy, riaprendo il microfono. «Solo il tempo ci dirà — e perdonatemi l'involontario gioco di parole — se le misteriose parole del temponauta Doug, sgorgate spontaneamente in questa circostanza per lui così dolorosa e sofferta, come lo è per tutti noi, sia pure in minor grado, sono le parole di un uomo distrutto dal dolore oppure la penetrante intuizione di un macabro dilemma che, in teoria, sapevamo fin dall'inizio suscettibile di presentarsi — e di infliggere il suo colpo mortale — sia per i nostri viaggi nel tempo, sia per quelli sovietici.» Cassidy tacque, per lasciare il posto ad un comunicato commerciale.
«Sai», gli mormorò all'orecchio Branton, non in trasmissione, ma solo per la camera di regia e per lui, «se ha ragione, dovrebbero lasciarli morire, quei poveri diavoli.» «Dovrebbero lasciarli andare», annuì Cassidy. «Mio Dio, da come Doug guardava e parlava, si direbbe che ci stia dentro da un migliaio di anni e forse più! Non vorrei essere nei suoi panni per niente al mondo.» «Scommetto cinquanta bigliettoni», disse Branton, «che ci sono già passati prima. Molte volte.» «Allora anche noi», osservò Cassidy. Adesso aveva cominciato a piovere, e la pioggia faceva scintillare le due ali di folla in cordoglio. Le loro facce, i loro occhi, i loro stessi vestiti... ogni cosa lanciava umidi riflessi di luce spezzettata e deviata, mentre il giorno moriva pian piano, soffocato da strati informi di nuvole grigie e minacciose. «Siamo ancora in onda?», chiese Branton. Chi lo sa? si disse Cassidy, e desiderò che quella giornata fosse già finita. Il crononauta sovietico N. Gauki sollevò entrambe le mani con gesto caloroso e parlò agli americani che si trovavano dall'altra parte del tavolo, in tono di estrema urgenza. «È opinione mia e del mio collega R. Plenya, che per le sue imprese pioneristiche nel campo del viaggio temporale è stato dichiarato Eroe del Popolo Sovietico, e con pieno diritto, che in base alla nostra esperienza ed a considerazioni teoriche sviluppate sia nei vostri circoli accademici che nell'Accademia Sovietica delle Scienze, i timori del temponauta A. Doug possano essere fondati. E la sua deliberata distruzione di se stesso e dei suoi compagni al rientro, riportando con sé dall'ATE una grossa quantità di parti meccaniche, in violazione degli ordini ricevuti, deve essere considerato il gesto di un uomo disperato senza altra via di fuga. Naturalmente la decisione spetta a voi. Noi possiamo solo darvi dei consigli.» Addison Doug giocherellava sul tavolo con l'accendino, senza alzare lo sguardo. Gli ronzavano le orecchie, e si chiese che cosa significasse. Il ronzio aveva qualcosa di elettronico. Forse ci troviamo nuovamente all'interno del modulo, pensò. Ma non ne era convinto; avvertiva la realtà delle persone che lo circondavano, del tavolo, dell'accendino di plastica blu che stringeva fra le dita. Vietato fumare nel modulo durante il rientro, pensò. Si rimise in tasca l'accendino. «Noi non abbiamo elaborato nessuna prova concreta», disse il generale
Toad, «che si sia venuto a formare un circolo temporale chiuso. Vi sono solamente le sensazioni soggettive di stanchezza fisica da parte del signor Doug. La sua convinzione di aver già vissuto tutto questo più di una volta, e nient'altro. Come dice lui, si tratta molto probabilmente di un fenomeno di tipo psicologico.» Grufolò in mezzo alle carte che aveva davanti. «Ho qui un rapporto, non trasmesso ai mezzi d'informazione, di quattro psichiatri di Yale sulla sua struttura psicologica. Benché insolitamente stabile, c'è in lui una tendenza alla ciclotimia, culminante in profondi stati depressivi. Di questo è stato naturalmente tenuto il debito conto da molto prima del lancio, ma è stato calcolato che il carattere allegro degli altri due componenti la squadra avrebbe compensato questo aspetto della sua personalità. Adesso, comunque, quella sua tendenza alla depressione è eccezionalmente alta.» Porse il foglio agli altri, ma nessuno dei presenti lo prese. «Non è vero, dottor Fein», disse poi, «che una persona molto depressa sperimenta il tempo in un modo del tutto particolare, vale a dire, lo vede circolare, ripetitivo, senza capo né coda, eterno girare su se stesso? Questa persona regredisce psichicamente al punto di non riuscire a staccarsi dal passato; rivivendolo costantemente dentro di sé». «Ma vede», disse il dottor Fein, «questa sensazione soggettiva di essere intrappolato è forse tutto ciò che avremmo, se sfortunatamente si venisse a stabilire un circolo temporale chiuso.» Il dottor Fein era il fisico che, con i suoi studi basilari, aveva creato i presupposti teorici del progetto. «Il generale», disse Addison Doug, «sta usando parole che non capisce». «Ho fatto delle ricerche su quelle che non mi erano familiari», ribatté il generale Toad. «I termini di psichiatria... lo so che cosa significano.» Benz si rivolse ad Addison Doug e disse: «Da dove hai preso tutti quei pezzi di Volkswagen, Addi?» «Àncora non li ho presi», rispose Addison Doug. «Avrà raccolto i primi rottami che gli sono capitati a portata di mano», disse Crayne. «Quello che è riuscito a trovare, appena prima che ritornassimo.» «Prima che ritorneremo», lo corresse Addison Doug. «Ecco le mie istruzioni per voi tre», disse il generale Toad. «Non dovete in alcun modo tentare di causare danni, implosione o malfunzionamento durante il rientro, sia portando con voi della massa extra sia con qualsiasi altro metodo che vi passi per la testa. Dovete ritornare secondo quanto stabilito, ripetendo esattamente le precedenti manovre simulate. Questo vale soprattutto per lei, signor Doug.» Il telefono accanto al suo braccio destro
ronzò. Il generale aggrottò la fronte, sollevò il ricevitore. Vi fu una breve pausa, poi si accigliò ulteriormente e sbatté giù con violenza il ricevitore. «È stato esautorato», disse il dottor Fein. «Proprio così», rispose il generale Toad. «E devo dire che a questo punto ne sono personalmente felice, perché la mia era una decisione sgradevole.» «Allora possiamo disporre per l'implosione al rientro», disse Benz dopo un attimo di silenzio. «La decisione spetta a voi tre», rispose il generale Toad. «Dal momento che riguarda le vostre vite. Siete completamente liberi di scegliere. Comunque desideriate. Se siete convinti di trovarvi in un circolo temporale chiuso, e credete che una massiccia implosione al rientro potrebbe abolirlo...» Smise di parlare, mentre il temponauta Doug si alzava in piedi. «Vuol fare un altro discorso, Doug?» gli domandò. «Voglio soltanto ringraziare tutti gli interessati», replicò Addison Doug. «Per aver lasciato che fossimo noi a decidere.» Fissò con espressione dura, ma stanca, tutti gli individui seduti al tavolo. «Lo apprezzo davvero.» «Sai», disse lentamente Benz, «il fatto di saltare per aria al rientro potrebbe non aggiungere nulla alle probabilità di eliminare un circolo temporale chiuso. Anzi, potrebbe addirittura produrlo, Doug.» «Non se ci uccide tutti», disse Crayne. «Sei d'accordo con Addi?», gli chiese Benz. «Morti per morti», replicò Crayne. «Ci ho pensato sopra. In quale altro modo è più probabile uscir fuori da questa situazione? In quale, se non in quello di morire per davvero? Quale altra via d'uscita esiste?» «Potreste non trovarvi affatto in un circolo temporale chiuso», fece notare il dottor Fein. «Ma potremmo anche esserci», ribatté Crayne. Doug, ancora in piedi, disse a Crayne e a Benz. «Possiamo includere anche Merry Lou, nella scelta del da farsi?» «Perché?», domandò Benz. «Non riesco più a pensare con chiarezza», rispose Doug. «Merry Lou potrebbe aiutarmi; mi fido di lei.» «Va bene», disse Crayne, ed anche Benz annuì. Il generale Toad guardò l'orologio, stoicamente, e disse: «Signori, questo pone termine alla nostra discussione.» Il crononauta sovietico Gauki si tolse la cuffia ed il microfono, e si diresse con passo veloce verso i tre temponauti americani, protendendo la
mano; sembrava che stesse dicendo qualcosa in russo, ma nessuno di loro riuscì a capirlo. Si allontanarono Iugubremente, tenendosi stretti. «Secondo me tu sei matto, Addi», disse Benz. «Ma pare che io sia in minoranza.» «Se lui ha ragione», disse Crayne, «se c'è una possibilità su un miliardo, noi siamo condannati a ritornare ogni volta da capo, allora questo giustifica una decisione del genere.» «Non potremmo andare da Merry Lou?», disse Addison Doug. «Andarci adesso, in macchina.» «Ci sta aspettando fuori», disse Crayne. «Allungando il passo per raggiungere i tre temponauti, il generale Toad disse: «Sapete, ciò che ha provocato la decisione di seguire il criterio che è stato seguito, è stato il modo in cui lei, Doug, si è comportato, l'aspetto che aveva durante la cerimonia funebre, e la reazione dell'opinione pubblica. I consulenti dell'NSC sono giunti alla conclusione che la gente, come voi, avrebbe preferito sapere che per voi era veramente finita. Per loro sarebbe motivo di maggiore sollievo sapervi finalmente liberi dalla vostra missione, che salvare il progetto ed ottenere un rientro perfetto. Credo che lei abbia fatto una grossa impressione su di loro, Doug, con tutti quei piagnistei.» Il generale si allontanò, lasciando soli i tre uomini. «Lascialo perdere», disse Crayne ad Addison Doug. «Lascia perdere tutti quelli come lui. Dobbiamo fare quello che è necessario.» «Me lo spiegherà Merry Lou», disse Doug. Lei avrebbe saputo che cosa fare, quel che era giusto fare. «Vado a prenderla», disse Crayne, «e poi noi quattro ce ne andremo in macchina da qualche parte, magari a casa tua, e decideremo che cosa fare. D'accordo?» «Grazie», disse Addison, annuendo, e si guardò intorno speranzoso, domandandosi dove fosse. Forse nella stanza accanto, da qualche parte vicino. «Te ne sono grato», aggiunse. Benz e Crayne si scambiarono un'occhiata. Lui se ne accorse, ma non capì che cosa volesse dire. Sapeva solo che aveva bisogno di qualcuno, soprattutto di Merry Lou, che lo aiutasse a farsi un quadro preciso della situazione. E che gli desse una mano a decidere quale fosse il modo migliore per uscirne. Merry Lou li condusse a nord di Los Angeles, lungo la corsia superveloce dell'autostrada che portava a Ventura, e di lì all'interno, verso Ojai. Tutti
e quattro parlavano molto poco. Merry Lou guidava bene come sempre; appoggiandosi a lei, Addison Doug riuscì a rilassarsi in una sorta di temporanea pace. «Non c'è niente di meglio che farsi portare a spasso da una pollastrella», disse Crayne, dopo molti chilometri di silenzio. «È una sensazion'e aristocratica», mormorò Benz. «Avere una donna che guida. Come un nobile che si fa portare dall'autista.» Merry Lou disse: «Finché non va a sbattere contro qualcosa. Un oggetto grosso e lento». Addison Doug disse: «Quando mi hai visto arrancare verso casa tua... su per quel sentiero in mezzo alle querce, l'altro giorno, che cosa hai pensato? Dimmelo sinceramente.» «Avevi l'aspetto», rispose la ragazza, «di uno che l'avesse fatto tante volte. Eri stanco e sciupato, e... pronto a morire. Proprio alla fine.» Esitò. «Mi dispiace, ma mi hai dato quest'impressione, Addi. Mi sono detta, conosce troppo bene la strada.» «Come se l'avessi percorsa troppe volte.» «Si», disse lei. «Allora tu sei a favore dell'implosione», disse Addison Doug. «Beh...» «Sii sincera con me», le disse. Merry Lou rispose: «Guarda dietro lo schienale. Quella scatola sul pavimento.» Con una torcia presa dallo sportello del cruscotto i tre uomini esaminarono la scatola. Addison Doug, con paura, ne vide il contenuto: pezzi di motore Volkswagen, ammaccati e rugginosi, ma ancora coperti d'olio. «Li ho presi dietro un garage per auto straniere, vicino a casa mia», spiegò Merry Lou. «Sulla strada per Pasadena. I primi rottami che ho visto e che mi sono sembrati sufficientemente pesanti. Avevo sentito dire alla TV, mentre c'era il lancio, che qualsiasi cosa di peso superiore ai cinquanta chili...» «Lo farà», la interruppe Addison Doug. «L'ha già fatto una volta.» «Allora non c'è alcun motivo di andare a casa sua», disse Crayne. «È già tutto deciso. Tanto vale dirigere a sud, verso il modulo. Ed iniziare la procedura per uscire dall'ATE. E riportarci al rientro.» Aveva la voce grossa, ma ferma. «Grazie per il suo voto, signorina Hawkins.» «Siete tutti così stanchi», ribatté lei. «Io no», disse Benz. «Io sono furioso. Furioso da morire.»
«Ce l'hai con me?» domandò Addison Doug. «Non lo so», rispose Benz. «Solo che.. all'inferno». Si chiuse in un silenzio meditabondo, raggomitolandosi su se stesso, stordito e inerte. Ritraendosi il più possibile dagli altri tre occupanti della vettura. Al successivo svincolo autostradale Merry Lou diresse la macchina verso sud. Un senso di libertà sembrava pervaderla, adesso, ed Addison Doug sentì che in qualche modo una parte della sua fatica, del suo peso si stava dileguando. Il ricevitore d'emergenza che ciascuno di tre uomini portava al polso ronzò insistentemente, facendoli trasalire. «Che sarà?» domandò Merry Lou, rallentando. «Dobbiamo metterci in contatto con il generale Toad al più presto possibile», disse Crayne. Poi indicò qualcosa col dito. «Laggiù c'è una stazione di servizio; prenda la prossima uscita, signorina Hawkins. Possiamo telefonare da lì.» Pochi minuti più tardi la ragazza fermò la macchina accanto alla cabina telefonica. «Spero che non siano cattive notizie», disse. «Vado io», disse Doug, uscendo. Cattive notizie, pensò con stanco senso dell'umorismo. Che cosa, per esempio? Si diresse con andatura rigida e pesante verso la cabina, vi entrò, si richiuse la porta alle spalle, infilò un moneta e fece il numero, esente da tariffa telefonica. «Bene, ho delle notizie per voi!» esclamò il generale Toad quando il centralino lo ebbe messo in comunicazione con lui. «Meno male che siamo riusciti a rintracciarvi. Solo un attimo... chiamo il dottor Fein perché sia lui stesso a dirle tutto. Lei potrà credergli più di quanto non creda a me.» Si udirono alcuni scatti, poi la voce acuta, nitida, professionale del dottor Fein, eccitata dall'urgenza. «Quali sono le cattive notizie?», gli domandò Addison Doug. «Non necessariamente cattive», replicò il dottor Fein. «Ho fatto dei calcoli, dopo il nostro incontro, e pare proprio che, nel senso che è statisticamente probabile ma ancora non verificabile con certezza, lei abbia ragione, Addison. Vi trovate in un circolo temporale chiuso.» Addison lasciò andare il fiato, quasi con fatica. Pìccolo autocrate da strapazzo, pensò. Magari lo sapevi da sempre. «Comunque», riprese in tono eccitato il dottor Fein, balbettando un po', «ho anche calcolato, con l'aiuto del Cal Tech, che la maggior probabilità di mantenere il circolo consiste proprio nell'implodere al rientro. Non capisce, Addison? Se lei si porta appresso tutti quei pezzi arrugginiti di Vol-
kswagen ed implode, allora le sue probabilità statistiche di chiudere per sempre il circolo sono maggiori che se vi limiterete semplicemente a rientrare e tutto andrà bene.» Addison Doug non disse nulla. «In effetti, Addi — ed è questo il punto che mi preme sottolineare — un'implosione al rientro, specialmente una consistente, del tipo di quella che si profila in base ai nostri calcoli... ma non capisce, Addi? Mi sente? Per l'amor di Dio, Addi! Quest'implosione virtualmente garantisce la chiusura definitiva ed irreversibile di un circolo temporale come quello che lei ha in mente. Un circolo di cui abbiamo paventato fin dall'inizio la creazione.» Una pausa. «Addi? È ancora li?» «Voglio morire», rispose Addison Doug. «È la sua stanchezza che le fa dire queste cose. Dio solo sa quante volte si è già ripetuta la vostra odissea...» «No», disse lui, e fece per riappendere. «Mi faccia parlare con Benz e Crayne», disse concitatamente il dottor Fein. «La prego, prima che procediate con il rientro. Specialmente Benz; vorrei parlare in particolare con lui. Per favore, Addison. Per il bene loro; il suo esaurimento quasi totale le ha...» Lui riappese e lasciò la cabina a piccoli passi. Mentre risaliva in macchina, udì che gli altri due ricevitori d'emergenza ronzavano ancora. «Il generale Toad ha detto che la chiamata automatica per noi avrebbe continuato a far suonare ancora per un po' i vostri apparecchi», disse, e richiuse lo sportello. «Andiamo». «Non ha voluto parlare con noi?» domandò Benz. Addison Doug disse: «Il generale Toad voleva informarci che hanno qualcosa per noi. Ci hanno proposto per una speciale Citazione del Congresso al valore, o qualche stupidaggine del genere. Una medaglia speciale che non hanno mai conferito a nessuno prima d'ora. Assegnata alla memoria.» «Beh, cavolo... è proprio l'unico modo in cui si può assegnare», disse Crayne. Merry Lou, mentre rimetteva in moto, scoppiò a piangere. «Sarà un sollievo», disse subito Crayne, mentre la macchina imboccava con un sussulto l'autostrada: «quando sarà tutto finito.» Non ci vorrà molto, disse qualcosa nella mente di Addison. Ai loro polsi i ricevitori continuavano a ronzare insistentemente. «Vi rosicchieranno a morte», disse Addison Doug. «Il logorio incessante
delle varie voci dei burocrati.» Gli altri lo guardarono in modo interrogativo, agitati e perplessi contemporaneamente. «Già», disse Crayne. «Questi allarmi automatici sono proprio una scocciatura.» Aveva l'aria stanca. È stanco come me, pensò Addison Doug, e nel pensarlo si sentì meglio. Dimostrava che aveva ragione. Grosse gocce d'acqua colpirono il parabrezza; aveva cominciato a piovere. Anche quello gli piaceva. Gli faceva tornare alla mente la più esaltante delle esperienze della sua breve vita: la processione funebre che si snodava lentamente lungo Pennsylvania Avenue, i feretri avvolti nelle bandiere. Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale, sentendosi finalmente bene. Ed udì, ancora intorno a lui, il dolore di quella gente. E sognò nella sua testa la speciale medaglia del Congresso. Una medaglia alla stanchezza, pensò. Una medaglia per essere stanco. Vide con gli occhi della mente se stesso in tante altre processioni, e nella morte di molti. Ma in realtà era una sola morte ed una sola processione. Macchine che si muovevano lentamente lungo la strada di Dallas, e anche con il dottor King... si vide ritornare e ritornare, nel suo ciclo chiuso di vita, a quel funerale di stato che né lui né nessun altro avrebbe potuto dimenticare. Lui ci sarebbe stato, e ci sarebbero stati gli altri; sempre così, ed ognuno di loro sarebbe tornato a rincontrarsi infinite volte. Al luogo, al momento in cui volevano essere. All'evento che significava di più per tutti loro. Questo era il suo dono per loro, per la gente, per il suo paese. Aveva donato al mondo un meraviglioso fardello. Il terribile e logorante miracolo della vita eterna. Titolo originale: A Little Something for Us Tempunauts Traduzione: Maurizio Nati FINE