RICHARD LAYMON I SOGNI DELLA RESURREZIONE (Resurrection’s Dreams, 1981) Accidenti, Jerry! Saresti uno schianto, se fosse...
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RICHARD LAYMON I SOGNI DELLA RESURREZIONE (Resurrection’s Dreams, 1981) Accidenti, Jerry! Saresti uno schianto, se fosse normale resuscitare, Jerry! A Tale of Two City - Charles Dickens Senior Year CAPITOLO PRIMO Quello doveva essere Steve Kraft. Era la Trans Am blu di Kraft, quella che gli aveva regalato il padre quando aveva fatto sei passaggi in meta contro il Bay l'autunno prima. Per cui, sì, doveva essere Steve. L'aspetto che aveva la sua testa ricordò a Wes di quando prendi una caramella di quelle ripiene, la infili su un bastoncino e cerchi di tostarla finché non acquista un bel colore dorato, e la bastarda prende fuoco. Tu soffi sul fuoco e lo spegni. Poi fai per staccare la caramella dal bastoncino. La crosta indurita scivola via come una scorza e il centro bianco e liquido rimane appiccicato al bastoncino. Forse la faccia di Steve sarebbe scivolata via così se... Wes sgattaiolò fuori dai rottami in fiamme della macchina e si piegò in due. «Sta' attento!» Manny danzò all'indietro per salvarsi le scarpe mentre Wes cominciava a vomitare. «Cosa stai cercando di fare,» chiese Manny, «vuoi insozzarmi?» Wes lo sentì ridere e si domandò se qualcuno - anche Manny - poteva trovarci qualcosa di divertente in uno Steve Kraft conficcato nel muro del ponte e che bruciava come una caramella ripiena. Poi Manny gli diede una pacca sulla schiena. «Avresti dovuto farlo su Kraft, vecchio mio. Forse saresti riuscito a tirarlo fuori.» Wes si raddrizzò. «È veramente disgustoso,» farfugliò. «Ehi, quel tipo era un coglione.» Manny buttò giù un sorso dell'Old Milwaukee che stava bevendo quando si erano fermati a controllare il falò. Passò la bottiglia a Wes. Wes ne bevve un po', per togliere il gusto di vomito dalla bocca. «Forse faremmo meglio ad andarcene di qui,» disse. «Se arrivano i piedipiatti, ca-
piranno che abbiamo bevuto. Specialmente Pollock. Ci farà cacare sangue.» «In culo a Dexter Pollock,» disse Manny. Fermo in mezzo alla strada, si mise a girare la testa da una parte e dall'altra come se stesse cercando il capo della polizia. «Se si fa viva una macchina, noi... » La sua testa si girò di scatto a destra. La bocca si spalancò. Wes si mise a guardare. La ragazza si trovava a metà del ponte, di traverso sul basso parapetto di cemento. Wes pensò che fosse una ragazza, ma non poteva esserne certo, dal momento che la sua testa non era in vista. Ma sembrava nuda, e Steve Kraft non avrebbe mai potuto avere una tipa nuda nella sua macchina. «Sembra nuda fino al culo,» disse Manny. La sua voce suonò smorzata, cospirativa. «Andiamo.» S'incamminarono lentamente verso di lei. Wes si sentì battere il cuore come un tamburo. Aveva la bocca secca perciò bevve un altro sorso di birra. «Scommetto che è Darlene,» disse Manny. «Già.» Manny si strofinò la bocca. «Neppure uno straccio addosso. Non mi meraviglio che Kraft sia andato a sbattere.» La luce del fuoco fluttuò e illuminò la pelle nuda della schiena, del posteriore e delle gambe della ragazza. La gamba sinistra pendeva sulla strada. L'altra era in cima al muretto come se lei avesse intenzione di scavalcarlo e lanciarsi nel torrente. «Cosa sta facendo?» sussurrò Wes. «Ha perso una lente a contatto?» suggerì Manny, ed emise una breve e nervosa risata. «Neppure uno straccio,» ripeté. Non era del tutto vero, realizzò Wes. Adesso che era più vicino alla ragazza, poté vedere che indossava calzini bianchi e scarpe da tennis. Intorno alla caviglia sinistra pendeva un paio di mutandine che apparivano sgargianti nella luce rossastra del fuoco. «Pensi che sarà contenta di vederci?» chiese Manny. Wes non si premurò di rispondere. Sospettava che Darlene avrebbe preferito vedere chiunque eccetto Manny. Lei, come tutte quelle snob delle ragazze "pon pon" e la maggior parte dei mocciosi dell'ultimo anno a Ellsworth High, pensava che Manny fosse la feccia della terra. Manny gridò, «Ehi, Darlene, non saltare! Non è poi così brutta. Stevie è
spacciato, ma siamo qui noi.» Lei non si mosse. «Forse è ferita,» disse Wes. «Non può essere ferita troppo gravemente se è arrivata fin qui. Darle-'ee-ne.» Mentre si avvicinavano di corsa, Wes si voltò a guardare la macchina incendiata. Le fiamme guizzavano attraverso il varco prima occupato dal parabrezza. Guardò in avanti. Manny era già accanto alla ragazza riversa. «Ehi, non pensi che possa essere stata scaraventata fin qui... » «Neanche per sogno.» Schiaffeggiò il didietro della ragazza. Esso tremolò lievemente, ma lei non si ritrasse né strillò. Lui si chinò su di lei. «Ehi, Wes,» disse. «Credo di sapere cos'ha perso giù dal ponte.» A Wes non piacque il suono acuto e strano della voce di Manny. «Cosa?» «La testa.» «Smettila di scherzare.» Wes superò Manny di lato, e guardò. La spalla sinistra della ragazza era adagiata sul muretto. Quella destra sporgeva dall'orlo, e si afflosciava sopra il burrone, col braccio che oscillava verso il basso. Wes sapeva che la sua testa doveva essere là, proprio su quel lato sporgente della spalla, ma di certo non riusciva a vederla. «No,» disse. «È là.» In quel lato del muro, dove non arrivava la luce del fuoco. Era per questo che non riusciva a vedere la testa di Darlene. «La puttana è stata decapitata.» Per provare la sua affermazione, diede uno strattone al corpo. Wes strillò e vacillò all'indietro quando esso gli si avvicinò. Rotolò via dal parapetto, cadde, e colpì il marciapiede davanti a lui. «Vedi?» disse Manny, spostandosi di lato in modo che la sua ombra non la coprisse. Wes vide, sì. Vide un moncone di collo fra le sue spalle. «È proprio Darlene,» disse Manny. «Nessuna ha un assortimento come quello.» «Non credo che dovremmo guardarla,» disse Wes. «Sai? È morta.» «Già, penso proprio che lo sia.» Manny si accovacciò per vedere meglio. Wes provò rabbia verso Manny, e disgusto verso se stesso. Sapeva che era sbagliato guardare, ma continuava a fissarla. «Ne avevi mai visto uno?» chiese Manny.
«Solo Steve.» «Non un cadavere, un culetto nudo.» «Sicuro,» mentì lui. Manny fece scivolare una mano sulla coscia. «Ehi, no.» «Dalle una controllata, amico. Un perdente come te non è mai stato così vicino a una bambola come questa.» «Per l'amor di Dio, toglile quella mano di dosso.» «Vorrei che avessimo più luce.» Manny cominciò a scostarle la gamba di lato. Wes gli diede un calcio alla spalla e lui ruzzolò a terra. «Ehi!» «Non toccarla. Lasciala in pace!» «Vaffanculo!» Manny balzò in piedi e fece uno scatto verso Wes. I pugni erano stretti contro i fianchi. Wes realizzò che stava ancora stringendo la bottiglia di birra. «Indietro! Giuro che ti spacco la testa!» Sollevò la bottiglia come una mazza, e il liquido gelato gli colò sul braccio. «Credi di potermela fare, amico? Prenderò quella bottiglia e te la ficcherò nel culo.» «Non voglio litigare con te,» disse Wes. «Dannatamente sicuro che non vuoi.» Wes gettò via la bottiglia. Essa volò oltre il muretto sul quale Darlene era adagiata. Pochi secondi dopo, colpì il fiumiciattolo con un lieve rumore. «Okay?» chiese. «Okay?» «Okay.» Sorridendo, Manny gli batté una mano sulla spalla. Poi diede una ginocchiata nello stomaco di Wes. Wes cadde. «Adesso siamo pari,» disse, e prendendo Wes per il braccio lo aiutò a sollevarsi. «Non capisco perché ti vuoi comportare come un coglione. Andiamo, diamole una controllatina. Non capita tutti i giorni un'opportunità come questa.» Wes, piegato in due e reggendosi lo stomaco, cercò di immettere aria nei polmoni e scosse la testa. «Non immischiare anche me, allora.» Manny si voltò e si accovacciò sul corpo. Balzò in piedi quando dei fari brillarono in lontananza. Corsero. Corsero via dal cadavere di Darlene e attraversarono il calore
della Trans Am in fiamme. Si lanciarono nell'auto di Manny. Manny accese il motore. Guardò Wes e sogghignò. «Che sfortuna,» disse. «Sarebbe stato uno sballo.» Poi fece compiere alla macchina una stretta inversione a "U", e accelerarono verso la città. CAPITOLO SECONDO Quando la sveglia suonò il lunedì mattina, Vicki posizionò la suoneria in modo da concedersi altri dieci minuti. Si stiracchiò, si rotolò, e spinse la faccia nel caldo incavo del cuscino. Di solito questo era uno dei momenti migliori della giornata, il momento in cui poteva rannicchiarsi nel comodo tepore del suo letto e lasciare che la mente vagasse. Quel giorno, tuttavia, si sentiva inquieta, e anche un po' spaventata. Sapeva che era a causa di quello che era accaduto a Steve e a Darlene. Le aveva procurato una sensazione di gelo dentro. Non si sentiva dispiaciuta per loro. Non esattamente. Dopo tutto, se l'erano voluta se era vero quello che aveva detto Cynthia. Nessuno fa i cento su River Road. E se veramente erano nudi quando avevano affrontato il ponte, era anche peggio. Correvano come matti e pomiciavano. Praticamente un suicidio. Inoltre, nessuno di loro due era granché come persona. Steve era abbastanza prestante ed era un quarterback piuttosto valido a ben vedere, ma era anche talmente presuntuoso da farti venir voglia di vomitare. Darlene non solo era presuntuosa, ma usava le sue forme come un'arma per tormentare metà dei ragazzi della scuola. Vicki sapeva che non avrebbe sentito la mancanza di nessuno dei due. Ma erano morti. Morti. E questo le faceva davvero sentire il gelo dentro. E restare là a rimuginare su queste cose non la faceva stare meglio. Si alzò e bloccò la suoneria della sveglia. Si stiracchiò, tirò su il pigiama che le stava cascando e si avvicinò alla finestra della camera da letto. C'era una bella vista là fuori. Il cielo era limpido e di un azzurro pallido. Più lontano, Mr. Blain stava sul pontile, accovacciato per slegare il suo fuoribordo. La calda brezza mattutina agitò il pigiama di Vicki. Il tessuto leggero le accarezzò la pelle.
Immaginò Darlene in una bara stretta e scura, intrappolata sotto sei piedi di terra. Sembrava peggio, in qualche modo, della cremazione di Steve. Cominciò a domandarsi se avrebbe preferito essere cremata o seppellita. Se potevi sentire il fuoco... Rabbrividendo, si allontanò dalla finestra. Andò all'armadio, indossò un abito e si disse, mentre si affrettava a uscire dalla stanza, che erano tutti e due in Paradiso. Non era del tutto certa del Paradiso, ma era meglio che pensare che fossero semplicemente morti per sempre. Nel corridoio sentì l'odore del caffè. Si chiese come facesse una cosa che aveva un odore così buono ad avere un sapore così aspro. Suo padre era al tavolo della colazione col suo caffè. La mamma, davanti ai fornelli, guardò sopra la spalla quando Vicki entrò. «L'uovo lo vuoi fritto o strapazzato?» domandò. «Fritto, direi.» Sembrava tutto così normale. «'Giorno, Papi.» «Ti Paperò!» Si chinò, gli mise un braccio intorno alle spalle, e gli baciò la guancia. Non si era ancora sbarbato. Aveva sentito da qualche parte che i peli continuano a crescere per un po' dopo morti. Lui diede una pacca sul didietro di Vicki. Un giorno morirà, pensò lei. Anche la mamma. Piantala, si disse. Hanno solo trentotto anni,per l'amor di Dio. Gli diede un abbraccio extra, poi si raddrizzò e guardò sua madre. La mamma stava rompendo un uovo nella padella. Indossava un vestito azzurro che suo padre le aveva regalato due Natali prima. Se mi metto ad abbracciare tutti, pensò Vicki, penseranno che mi manca una rotella. Per cui si sedette al solito posto e bevve un sorso di succo d'arancia. Il padre la osservò. «Hai dormito bene?» chiese. «Certo.» «Brutti sogni?» Lei fece spallucce. «Abbiamo sentito che parlavi nel sonno la scorsa notte,» disse la mamma dai fornelli. «Davvero? Ho detto qualcosa di straordinario?»
«Solo stupidaggini,» le disse suo padre. La mamma disse, «Sembravi piuttosto sconvolta.» «Non so. Non ricordo.» «Se qualcosa ti ha turbato... » «Sto bene, mamma. Davvero... » «Forse non ti sono venute le mestruazioni,» disse papà. Vicki si sentì arrossire. «Molto divertente.» «Allora non è quello il problema, giusto?» «Non proprio.» La mamma portò il suo piatto. L'uovo fritto era collocato su una fetta di pane tostato, come piaceva a Vicki. C'erano due fette di bacon. Mentre lei tagliava a pezzetti la colazione e ne faceva una poltiglia, la mamma versò altro caffè nella tazza di suo padre. Fece lei stessa rifornimento e si sedette. «È stata una bella funzione ieri. Avresti dovuto venire con noi.» «Avresti rotto la tua routine,» disse papà. «La mia routine va bene, grazie.» «Il tuo progetto scientifico avrebbe potuto aspettare,» le disse la mamma. «Hai ancora un'intera settimana prima della Fiera.» «Non mi piace lasciare le cose in sospeso. E poi, i genitori di Darlene sono amici vostri, non miei.» «Ci hanno chiesto di te,» disse la mamma. «Grande,» borbottò lei. Prese un pezzetto di bacon con la forchetta, conficcò i rebbi in un grumo di albume e pane inzuppato di tuorlo, e infilò il tutto in bocca. Non era buono come al solito. Grazie per avermi rovinato la colazione, gente. «Beh,» disse suo padre, «è stata una tua decisione.» «Mia, ma sbagliata.» «Sarebbe stato carino se fossi venuta,» disse sua madre. «Magnifico. La prossima volta che due mocciosi si fanno fuori andando a cento e pomiciando, sicuramente verrò al loro funerale.» La faccia della mamma divenne scarlatta. Il padre sollevò le sopracciglia e parve quasi divertito. «È terribile quello che hai detto.» «Mi dispiace, mamma.» «Se avessi visto quei poveri genitori... » La mamma strinse fra i denti il labbro inferiore. C'erano lacrime nei suoi occhi. «La loro unica figlia... » «Lo so. Mi dispiace.» «Tutto quello che riuscivo a pensare era come mi sarei sentita se fossi
stata tu.» Adesso gli occhi di papà erano rossi. «Non ero io.» «Sarebbe potuto succedere.» Certo, sarebbe potuto succedere. Già. Se avessi avuto il fisico di Darlene e fossi stata la prima delle ragazze "pon pon" e avessi avuto tutti i ragazzi a sbavarmi intorno e un appassionato boyfriend che avesse ritenuto fantastico dimostrarmi come sapeva andare veloce su una strada stretta mentre io gli facevo Dio-sa-cosa. Avrebbe potuto succedere a me. Esatto! Ma io non sono uno schianto e i tipi come Steve Kraft non sanno o non si curano nemmeno della mia esistenza e il solo tipo che se ne cura è troppo timido e intelligente per guidare come un maniaco e se davvero lo facesse io strapperei la dannata chiave d'accensione e gliela farei ingoiare.» Si fermò. Annuì ancora una volta, seccamente, e si ficcò un altro pezzetto di cibo in bocca. «Già,» disse papà. Aveva ancora gli occhi umidi, ma la sua bocca esprimeva un sorriso sbilenco. Quella della mamma era spalancata. Sembrava alquanto sbalordita e disorientata ma perlomeno il piagnucolio si era fermato. Papà si alzò dal tavolo. «Sfortunatamente, il sottoscritto deve andare a guadagnarsi da vivere. E, voi due signore, non lanciatevi nelle filippiche senza di me, okay?» Si portò dietro la sedia di Vicki e le mise le mani sulle spalle. «Anche tu sei uno schianto,» disse. «Già. Certo.» La mamma annuì, dichiarandosi d'accordo. «Non devi sottovalutarti, tesoro. Sei una ragazza molto attraente... e molto intelligente. Tuo padre e io siamo orgogliosissimi di te. Non c'è la minima ragione al mondo per cui dovresti essere gelosa o invidiosa di una come Darlene.» «Non la invidio, questo è certo.» «Bene,» disse sua madre. Non aveva afferrato. Suo padre sì. Le baciò la sommità della testa, borbottò, «Bestia,» e uscì. Il resto della colazione risultò ottimo. Tirar fuori le cose dal petto, pensò lei, evidentemente migliora l'appetito. «C'è Alice,» gridò la mamma pochi momenti dopo che Vicki aveva sentito il campanello della porta. «Esco fra un minuto.» Finì di allacciarsi le Nike bianche, saltò giù dal
letto, e si mise a tracolla la borsa dei libri mentre usciva di corsa dalla stanza. Era contenta di vedere Ace. Era sempre contenta di vederla, specialmente quella mattina. «Lo so,» stava dicendo Alice alla mamma. «È una tragedia terribile.» Salutò Vicki con un cenno della testa. Il suo viso era solenne. «È terribile specialmente per i suoi.» «Spaventoso,» disse la mamma. Anche se aveva la corporatura di Vicki e Vicki non si considerava esattamente una nana, sembrava piccola e fragile accanto ad Ace. Quasi tutti lo sembravano. Alice "Ace" Mason era la ragazza più alta dell'ultimo anno, ma un mucchio di ragazzi erano più alti di lei... e la maggior parte di loro sembravano più piccoli in sua presenza. Dominava, pensò Vicki. Sì. E, in quel momento, recitava. Voltò i suoi occhi rattristati su Vicki e disse, «Suppongo faremmo meglio ad andare. Buona giornata, Mrs. Chandler.» Vicki diede alla madre un bacio frettoloso sulla guancia, poi seguì Alice fuori. Raggiunsero il marciapiede. Erano a metà dell'isolato quando Alice guardò Vicki con occhi vivaci e maliziosi. «Dov'è la tua roba nera, Vicki?» chiese con la sua solita voce stentorea. «Dov'è la tua?» Lei sbuffò. «Mutandine nere, dolcezza.» Allungò il passo e ruotò il sedere nella direzione di Vicki. Indossava shorts bianchi che le stringevano le natiche. Un triangolo scuro e una stretta fascia s'intravedevano attraverso la stoffa. «Sono davvero nere.» «Riesci a vederle?» Si girò su se stessa e si guardò. «È uno sballo.» «Sono sexy.» «Le ho ordinate apposta. Vuoi che te ne procuri qualcuna?» «Bene. E quando mia madre fa il bucato?» «Ne procureremo qualcuna anche a lei. Farà sbavare tuo padre.» «Per favore.» «Se le ordiniamo adesso, le avrai in tempo per il ballo.» «Grazie lo stesso.» «Fa' divertire un po' Henry.» «Per come Henry si avvicina alle mie mutandine, potrei anche indossare
dei boxer a pois.» «Poverino. Sono certa che passerebbe una notte memorabile.» «Com'è andato il tuo weekend?» chiese Vicki, sperando di allontanarsi dall'argomento Henry. «Ho preso un po' di sole. Zia Lucy era su di giri come al solito. Vorrei essere rimasta là, comunque. Mi sono persa tutto il divertimento. Tua madre dice che hai sprecato l'occasione di vedere Darlene sottoterra.» «Non potevo andarci. Non avevo le mutandine nere.» «Rimedieremo. Hai saputo che glielo stava prendendo in bocca quando sono andati a sbattere?» «Stai scherzando. Dove l'hai sentita questa?» «Pensavo fosse una cosa risaputa.» «A me non lo ha detto nessuno.» Ace si fermò sul marciapiede deserto, si guardò intorno come per assicurarsi che nessuno fosse a portata di voce, poi chinò la testa su Vicki. «Hai sentito che era completamente nuda?» «Già. Cynthia mi ha chiamata sabato mattina. Aveva ascoltato di nascosto sua madre al telefono con Thelma Clemens. Ha detto che Steve si è completamente carbonizzato e Darlene è stata scaraventata attraverso il parabrezza... e che era nuda e che la sua testa si era... staccata.» «Questo è tutto?» chiese Ace. Dallo sguardo giulivo che aveva negli occhi, Vicki comprese che qualche dettaglio importante era stato omesso nella versione di Cynthia. «C'è dell'altro?» chiese. «Beh, ho parlato con Roger ieri sera e suo fratello è il migliore amico di Joey Milbourne. Pare che Joey sia quello che ha trovato la testa. Si trovava all'altro lato del ponte sotto alcuni cespugli. Beh, lui è il più grosso idiota matricolato in circolazione, dopo Pollock, e forse si è inventato tutto al solo scopo di avere una buona storia da raccontare, ma ha detto al fratello di Roger che quando ha trovato la testa di Darlene... » Ace smise di parlare e si guardò di nuovo intorno. «Vai avanti.» «Sei sicura di non averlo sentito dire?» «Smettila di tergiversare e dimmelo.» «Aveva il cazzo di Steve in bocca?» «Cosa?» Ace scoprì i denti e li chiuse con uno scatto. «Santa merda,» borbottò Vicki.
«Quando lo ha morso, lo ha morso sul serio.» Vicki scoppiò a ridere e spinse via Ace. «Che modo di andarsene!» sbottò Ace fra le risate. «Mi sento male,» boccheggiò Vicki. «Tu non ne hai preso nessuno.» «Beh, se lo avessi... » «È venuto e se n'è andato.» «Ace, Ace!» Si asciugò gli occhi. «Basta!» «Perlomeno, Darlene ha consumato l'ultimo pasto.» «Wurstel!» squittì Vicki. «Con crauti!» «Più un hot dog, slando a quello che ho sentito. Una salsiccia viennese, anzi.» «Oh, Dio. Smettila, Ace.» «Io?» Più tardi, Vicki si sentì miseramente in colpa. Era già abbastanza brutto non sentire particolare dolore per la dipartita dei suoi compagni di classe. Sembrava imperdonabilmente volgare avere scherzato e riso istericamente della cosa. Durante la quarta ora di lezione, passò un biglietto ad Ace. Il biglietto diceva, «È andato da San Pietro senza il coso.» Ace lesse ed emise uno sbuffo. Mr. Silverstein, che era impegnato a valutare i compiti, sollevò di scatto la testa. «Miss Mason, vuole mettere al corrente anche noi?» «No, non credo.» «È un biglietto quello che vedo stretto nelle sue mani?» «Non ho niente in mano,» gli disse Ace. «Vede?» Si ficcò sfacciatamente il biglietto in bocca, e sollevò le mani mentre cominciava a masticare. L'esibizione strappò l'applauso a metà dei ragazzi della classe. Mr. Silverstein scosse la testa. Rivolse un'occhiata in cagnesco ad Ace, come se stesse decidendo se spingersi oltre, poi decise evidentemente di non rischiare, propose un debole, «Beh, cerchiamo tutti di controllarci; questa è una classe, non un'attrazione del luna park,» e tornò a valutare i compiti. Ace si tolse la palla umida dalla bocca. La lanciò a Melvin Dobbs, che stava seduto nella fila dietro, due banchi più in là. La palla gli s'incollò alla nuca. Vicki cercò di trattenere la risata. L'aria fuoriuscì dal naso. Di regola, provava una certa simpatia per Melvin. Era un tipo bizzarro, abbastanza strano da fare di se stesso un bersaglio per chiunque fosse nello stato d'animo di causare guai. Vicki desiderò che Ace avesse lanciato la
palla insalivata a qualcun altro, ma non riuscì a impedirsi di ridere. Melvin si ritrasse quando la sfera umida gli colpì il collo. Si raddrizzò a sedere, la staccò dalla pelle, poi con cura spiegò il batuffolo e lo studiò. Oh splendido, pensò Vicki. Melvin si voltò. Fissò Ace con i suoi occhi sporgenti e socchiusi. Poi riappallottolò la carta. La annusò, si leccò le labbra, e si ficcò la carta in bocca. La masticò lentamente, sorridendo un po' e roteando gli occhi come se stesse realmente gustandone il sapore. Infine, la inghiottì. Vicki riuscì a non vomitare. Quando suonò la campana, si unì ad Ace. Ace roteò gli occhi, imitando Melvin. «Hai visto che l'ha ingoiato?» «Ho quasi vomitato la colazione.» «Quel tipo è strano.» Nel corridoio, mentre si recavano al bar, si trovarono Melvin davanti. Stava camminando curvo, e pompava vigorosamente con un braccio mentre l'altro puntava dritto verso il basso sotto il peso della sua valigetta. La camicia rosa dietro fuoriusciva dalla cintola, ciondolando sopra il fondo dei suoi sgargianti pantaloncini a quadri. «Hai un altro pezzo di carta?» chiese Ace. «Per fare cosa?» «Forse gradisce un'altra portata.» Proprio in quel momento, Randy Montclair fece un lungo passo di lato, ponendosi davanti ad Ace, e colpendo con uno schiaffo la nuca di Melvin. «Mi hai mandato a puttane l'appetito, porco,» disse, e assestò al ragazzo un'altra percossa. Melvin si fece piccolo piccolo, ma continuò a camminare. Randy era in classe. Ovviamente, aveva visto Melvin che divorava la palla insalivata. Doug, il suo amico del cuore, saltellò accanto a lui, ridendo. «Dagliene un altro!» «Schifoso.» Randy schiaffeggiò di nuovo Melvin. «Smettila!» scattò Vicki. Ancora alle calcagna di Melvin, lui lanciò un'occhiata sopra la spalla. Il suo labbro si curvò. «Fila.» «Lascialo in pace.» Ignorandola, lui diede un manrovescio alla testa di Melvin. Vicki sgusciò fuori dalla borsa dei libri. Tenendola per le cinghie, la sca-
raventò su Randy. La cartella gonfia gli colpì la spalla. Lui vacillò di lato, andando a sbattere contro Doug. Per poco non andarono a finire a terra. Poi fronteggiarono Vicki. Non sembravano contenti. «Lasciatelo in pace,» disse lei. «Capito?» Con un'espressione minacciosa, Randy agitò un pugno davanti al suo naso. «Oh, che paura.» Ma non troppo. Non con Ace vicino a lei. «Se non fossi una ragazza, ti sfonderei la faccia.» Parve che Doug stesse per ripetere il commento dell'amico, ma guardò Ace e tenne la bocca chiusa. «Fuori dai piedi, ragazzi,» disse Ace. Il cipiglio di Randy si dissolse. Alzò lo sguardo su Ace. «Stavo solo dicendo a Vicki di tenere il naso fuori dai miei affari.» Ace sollevò le sopracciglia. «Non ho sentito la parola magica.» Randy borbottò qualcosa di impercettibile e si tolse di mezzo, dando uno spintone a Doug come se tutto fosse accaduto per colpa sua. Vicki e Ace se li lasciarono dietro. «Grazie,» disse Vicki. «Mi devi un Ding-dong.» «Solo Twinkies oggi.» «Un Twinkie andrà benissimo. Tutt'a un tratto sei la guardia del corpo di Melvin o cosa?» «Era il mio biglietto quello che ha mangiato.» «Era il mio sputo.» «Ciò fa di lui il tuo fratello di sangue,» spiegò Vicki. «Puah! Fatti una lobotomia, ragazza!» CAPITOLO TERZO Il sabato mattina, il padre di Vicki la aiutò a caricare il suo progetto scientifico nel portabagagli, e la accompagnò al Centro Ricreativo. La Fiera Scientìfica di Primavera era una delle frequenti manifestazioni che si svolgevano nella città, come la Mostra dell'Antiquariato, la Mostra delle Armi, e la Mostra dell'Artigianato che sembravano esistere soprattutto per dare ai residenti di Ellsworth qualcosa di speciale da fare nei loro fine settimana.
Quasi tutte le altre fiere attiravano commercianti e visitatori anche da altre città, data la presenza di motel e ristoranti di buon livello. Ma non la Fiera Scientifica. Essa era semplicemente una vetrina per i ragazzi della città, che dovevano essere presenti ed esibire le loro creazioni, se volevano una nota di merito nelle materie scientifiche. L'ingresso era libero per i ragazzi e i professori. Costava due dollari a cranio per tutti gli altri, e sembrava che nessuno in tutta la città potesse tollerare l'idea di non andarci. Non solo perché la maggior parte dei ragazzi che partecipavano aveva un mucchio di parenti, ma perché le cose non andavano mai per il verso giusto e ciò forniva alla gente materia su cui spettegolare... che sembrava essere il passatempo principale. «Credo proprio,» disse suo padre, «che questa sia la tua ultima Fiera Scientifica.» «Era ora.» Sarebbe stata la sua dodicesima: una all'anno a cominciare dalla prima elementare. Nei primi anni, si era divertita alla fiera e la aspettava quasi con entusiasmo. Il suo primo progetto era stato un uovo di gallina con una lampadina da 100 watt a scaldarlo. In seguito, aveva realizzato un'elettrocalamita con un chiodo e una batteria a secco. «Ricordi il tuo vulcano?» chiese suo padre. Anch'egli evidentemente stava ricordando i bei tempi andati. «Dio, fu un disastro.» Quando Vicki frequentava la sesta, aveva realizzato un terrificante vulcano col gesso di Parigi e lo aveva collocato su una piattaforma che nascondeva un estintore. Di tanto in tanto, traeva un muggito dall'estintore, che sparava una nube bianca dal cratere del vulcano. Il vulcano in effetti tremava ogni volta che lei provocava l'eruzione. Ma quando si presentarono i giudici, volle concedere loro un'eruzione memorabile, per cui tenne la levetta abbassata. Il corno strombazzò. Tutt'intorno, la gente si ritrasse e si coprì le orecchie... poi svanì dietro la cortina di bianco diffusa dall'estintore. Il vulcano rabbrividì. Sembrava una cosa straordinaria - per quello che Vicki poté vedere attraverso la nebbia - finché la sua mano non scivolò e il corno perse la sua posizione perfetta sotto il cratere e il potente getto fece esplodere la parte anteriore del suo vulcano scagliando gesso sui giudici come shrapnel. «Fosti la star dello spettacolo,» disse papà. «Almeno non uccisi nessuno.» «Mi avrebbe fatto piacere vedere una replica. Avresti potuto resuscitare
il vulcano come tuo ultimo progetto.» «Adesso che sono cresciuta,» gli disse Vicki, «non ricaverei lo stesso divertimento dalla mortificazione di me stessa.» Divertimento. Ricordò come aveva pianto dopo. E l'applauso finale non aveva migliorato le cose. «Esporre gli organi di un topo scuoiato,» disse papà, «non ha neppure la metà del fascino dell'eruzione di un vulcano. Anche se possiede un certo potenziale di disgusto.» «Immaginavo di poter fare qualcosa di utile quest'anno.» «Ancora qualche anno, e ti metterai a tagliuzzare cadaveri.» «Non ricordarmelo.» «Forse potresti studiare legge.» «Preferisco guarire la gente piuttosto che fregarla.» Ridendo, il papà fece svoltare la macchina nel parcheggio del Centro Ricreativo. Sebbene fosse ancora presto, gran parte delle piazzuole di parcheggio davanti alle porte dell'arena erano già occupate. Genitori e ragazzi erano indaffarati a scaricare tavoli e progetti dalle auto, dai furgoni e dai camioncini. Il padre di Vicki pilotò la macchina quanto più possibile vicino alle porte, che erano abbastanza lontane, e parcheggiò. Girarono intorno alla macchina per aprire il portabagagli. Quando il papà lo aprì, si diffuse l'odore pungente della formaldeide. Vicki si chinò. Sollevò la vaschetta per la dissezione. La tese a suo padre, e tirò fuori la bottiglia contenente il topo che avrebbe sezionato durante la Fiera. Con quella ben stretta sotto il braccio, tirò fuori l'espositore di legno nel quale gli organi di un ratto precedentemente "smembrato" erano stati accuratamente disposti ed etichettati. «Ciao, Vicki.» La voce suonava familiare, ma lei non riuscì a riconoscerla. Si voltò. «Melvin.» Il suo testone era inclinato da una parte, e lui ammiccò, sorrise e si strofinò le mani. «Serve aiuto?» chiese. «Ehi,» disse il padre di Vicki. «Così ti hanno concesso un giorno di libertà, eh?» «Già.» «Credi che se la possono cavare senza di te?» Lui roteò la testa. «Immagino che tuo padre dovrà pompare lui la benzina, eh?» «E anche pulire i parabrezza,» disse Melvin, annuendo.
Il papà fece scivolare il tavolo da gioco fuori dal portabagagli e glielo tese. «Non hai preparato ancora il tuo progetto?» chiese Vicki. «Già fatto,» disse lui. Chiusero il portabagagli, e i tre si avviarono lungo l'area di parcheggio in direzione dell'arena. Melvin guidava la marcia, tenendo il tavolo in equilibrio sulla testa. Non aveva detto una parola a Vicki dopo l'incidente con Randy Montclair nel corridoio, lunedì. Sebbene non avesse particolarmente gradito la prospettiva di una conversazione con lui, Vicki si era aspettata perlomeno una parola di ringraziamento. Infine, aveva deciso che probabilmente lui non si era neppure accorto di quello che lei aveva fatto. Anche se adesso, offrirsi di aiutarla a trasportare il suo progetto era evidentemente il suo modo di manifestarle gratitudine. Quando raggiunse la porta, Melvin si fece scivolare il tavolo giù dalla testa, lo resse contro il petto con entrambe le mani, e attraversò l'ingresso muovendosi di lato. Vicki e suo padre lo seguirono. L'area destinata ai ragazzi dell'ultimo anno delle superiori si trovava in fondo. Scorsero Ace, che sembrava impegnata a scaricare una scatola di cartone su un tavolo. Melvin sapeva di doversi dirigere verso la giunonica ragazza. Depose il tavolo da gioco nello spazio libero accanto al progetto di Ace. Quando lei gli disse qualcosa, fece scattare il pollice sopra la spalla. Ace vide Vicki che si avvicinava, e annuì. Melvin stese le gambe del tavolo e lo sistemò dritto. «Molte grazie per l'aiuto,» gli disse Vicki. Un angolo della bocca di lui scivolò verso l'alto. Annuì, arrossì e si voltò. Fece alcuni passi strascicati fino all'altro lato dello spazio che era stato lasciato sgombro per fungere da corridoio fra le due file di progetti. Sfilò un tascabile sciupato dalla tasca posteriore dei pantaloncini cascanti, poi si sedette su uno sgabello di fronte alle ragazze, e cominciò a leggere. Il libro era Frankenstein. «Vuoi che ti aiuti a preparare?» chiese il papà di Vicki. «No, va bene così. Grazie.» «Okay. Ci vediamo più tardi. Divertiti.» Salutò Ace, e si allontanò. Vicki collocò il suo topo in bottiglia sul tavolo. «Vedo che ti sei portata il pranzo,» disse Ace.
«Tu hai pane, formàggio e beveraggi. Faremo un bel pranzetto.» Il pane e il formaggio di Ace, ordinatamente disposti sul suo tavolo, erano cosparsi di muffa. Aveva anche dei vasetti di caffè, vino rosso e succo di mela. Ogni vasetto appariva come se qualcuno vi avesse versato dentro una manciata di lanugine presa dalla sacca di un aspirapolvere. Due cartelloni scritti a mano, uniti assieme col nastro adesivo, elencavano gli usi benefici della muffa. «Riceverai sicuramente il primo premio,» disse Vicki. «'Fanculo.» Vicki proseguì coi suoi preparativi. Aprì l'espositore di legno e lo appoggiò in fondo al tavolo. Poi svuotò la sua vaschetta per la dissezione e infilò i guanti chirurgici. Cominciò ad aprire il vasetto contenente la fomaldeide e il topo. «Risparmiami, ti prego,» disse Ace. «Si comincerà fra non meno di mezzora. Aspetta almeno di avere un pubblico, per l'amor di dio.» Vicki si strinse nelle spalle. «Perché no?» Mise giù il vasetto e si sfilò i guanti. Ace era intenta ad aprire le due sedie che aveva portato da casa. Le sistemò fianco a fianco con gli schienali rivolti verso i tavoli. Le ragazze sedettero. Melvin, di fronte a loro, lanciò un'occhiata poi riprese a leggere. «Cosa pensi che abbia fatto lui?» chiese Ace sottovoce. «Forse ha costruito quel megafono.» Il megafono era appoggiato sul pavimento accanto al suo sgabello. Non sembrava fatto in casa. Dietro di lui c'era un recinto grande come un gabinetto pubblico: un'intelaiatura drappeggiata con lenzuola blu, «Cos'hai là dentro?» gli gridò Ace. Lui sollevò la testa e fece un largo sorriso. «È una sorpresa.» «Hai un altro motore d'automobile quest'anno?» «Può darsi.» «Andiamo, sii sportivo e facci dare una sbirciata.» «Vedrete. Devo aspettare il momento giusto.» «E quando sarebbe?» «Non prima che si facciano vivi i giudici.» «Stai scherzando.» Lui si strinse nelle spalle tonde. «È una specie di "o la va o la spacca",» disse, e tornò a leggere.
«Ebete,» borbottò Ace. Vicki e Ace parlarono d'altro per un poco. Quando Rob, il ragazzo di Ace, apparve, Vicki lasciò il suo posto e bighellonò fino al banco di Henry. Non perché ci tenesse molto a fargli visita. Ma lui era quanto di più prossimo a un ragazzo avesse Vicki, e l'avrebbe portata al ballo di fine anno la settimana prossima per cui sentiva che sarebbe stato strano per lei ignorarlo. Lo trovò seduto davanti al suo computer, ingobbito sulla tastiera, che batteva frenetici comandi per far ballare e ammiccare Humphrey, anche se sembrava non esserci nessuno ad assistere all'esibizione. Humphrey era una marionetta, alta circa tre piedi, in cilindro e frac. Eseguiva il suo numero accanto al computer di Henry, e sembrava fosse stato impalato su un tubo di plastica che andava dalla scatola di controllo fino al suo sedere. «Salve, Humphrey,» disse Vicki. La marionetta la salutò agitando la mano e assestò con le gambe una paio di pedate spastiche. Henry, seduto su una sedia girevole, si voltò e guardò Vicki. Dietro le lenti, i suoi occhi erano spalancati per l'impazienza. Erano sempre così, come se Henry fosse costantemente sul punto di fare un annuncio strabiliante. «Come va?» chiese Vicki. «Oh, benissimo.» «Che eleganza,» disse lei. Henry indossava una cravatta a farfalla e uno smoking nero. Il suo vestito era praticamente identico a quello di Humphrey, anche se Henry non portava il cilindro che era appoggiato sul tavolo accanto alla tastiera, pronto a essere indossato quando gli spettatori avessero cominciato ad aggirarsi da quelle parti. «Sei molto carina oggi,» disse. «Grazie.» Vicki non era particolarmente compiaciuta del complimento. Raramente passava un giorno senza che Henry facesse un commento simile. Ma non lo aveva mai visto osservarla con attenzione. Le parole uscivano semplicemente come una reazione programmata al suo arrivo: come se lui si rendesse conto di dover fingere un qualche interesse per il suo aspetto fisico. È una storia davvero romantica la nostra, pensò lei. Ma pensò che fosse colpa sua quanto di Henry. La loro relazione era iniziata su un livello intellettuale quando erano stati scelti come collaboratori
nel laboratorio di fisiologia l'anno prima, e nessuno di loro aveva fatto uno sforzo per passare al livello fisico. Erano usciti assieme almeno una dozzina di volte, e non si erano mai baciati. Era come se nessuno di loro avesse un corpo. Vicki talvolta si domandava cosa sarebbe accaduto se lo avesse abbracciato e baciato con forza dimenandosi contro di lui, facendogli finalmente capire che era una donna, non solo una compagna di conversazione. Forse Henry sarebbe improvvisamente diventato un animale libidinoso. L'idea non la affascinava molto. Così non aveva fatto nulla per cambiare la natura della loro relazione... che era rimasta tale e quale. Henry le piaceva, e lui era splendido nel ruolo del boyfriend finché non si fosse presentato qualcosa di meglio. Cosa che non sembrava molto probabile nel futuro immediato. Fra tutti i ragazzi ai quali riusciva a pensare, non ce n'era uno solo che davvero le interessasse. Grazie a Paul. Quando l'aveva lasciata, tutto era andato in pezzi. Si accorse che Henry le stava parlando. «Cosa?» domandò. «La mia mente stava vagando.» «Vagava in qualche posto interessante?» In un posto vuoto, pensò lei. «No,» disse. «Cosa stavi dicendo?» «Pensavo che forse potremmo incontrarci durante la pausa per il pranzo. Dovremmo discutere dei nostri progetti per venerdì prossimo.» «Certo. Ottimo.» Lanciò un'occhiata al suo orologio da polso. «Beh, è quasi il momento di cominciare a divertirsi. Farò meglio a tornare dai miei topi.» «Ciao,» disse Henry, e piroettò per fronteggiare il computer. Le sue dita svolazzarono sulla tastiera, e Humphrey salutò con la mano e ammiccò. Vicki tornò al suo tavolo. Ace e Rob stavano in piedi davanti alle sedie, fronteggiandosi e tenendosi le mani. Ace stava annuendo come se lo stesse ascoltando. Anche se era tre pollici più alta di Rob, in qualche modo sembrava sempre meno imponente quando erano insieme, come se la presenza di lui la trasformasse in una persona più femminile e vulnerabile. Vicki non volle intromettersi nell'intimità che aveva avvertito. Si voltò verso il suo tavolo e prese i guanti chirurgici. Desiderò di non aver pensato a Paul. Talvolta trascorrevano giorni senza che pensasse a lui. I suoi genitori l'avevano definita una "cotta", che sembrava un modo per
far apparire meno importanti i suoi sentimenti verso Paul. Vicki lo aveva considerato amore, e ancora lo considerava tale. Quando era con Paul si sentiva speciale e bella, appagata. Anche se erano semplicemente seduti vicini in classe, o si tenevano per mano in un cinema, o trascorrevano una giornata intera a esplorare i boschi o a nuotare o a percorrere il fiume in barca, ogni momento sembrava straordinario. Ma il padre di lui era Sergente Maggiore dei Marines. Paul era apparso a Ellsworth High nell'autunno del secondo anno delle superiori di Vicki. Si erano incontrati e innamorati e avevano avuto appena quell'anno scolastico e l'estate seguente a disposizione. Poi erano giunte nuove disposizioni, e Paul se n'era andato con la sua famiglia in una base della South Carolina. Erano stati esattamente un anno intero assieme. Era finito prestissimo. Era stato come se la parte migliore della sua vita fosse terminata quando Paul era andato via. «Ti passerà,» avevano detto i suoi genitori. Riteneva che le fosse passata. Più probabilmente si era abituata. La sensazione di perdita sembrava essere sempre là, in profondità, un'ombra che rendeva ogni giorno un po' meno luminoso... una sensazione di perdita che saliva in superficie ogni volta che le tornava in mente Paul. Come in quel momento. Infilandosi i guanti, sentì un dolore sordo nel petto. Adesso non farti prendere dallo sconforto, pensò. Diavolo, probabilmente incontrerò un ragazzo eccezionale al college quest'autunno. Certamente. Svitò il coperchio del vasetto. Tirò fuori il topo con le molle e lo collocò sulla vaschetta per la dissezione. «È davvero disgustoso,» disse Ace. «Stomachevole.» «Già, e la tua muffa è appetitosa?» Ace guardò sopra le sue spalle mentre lei fissava le zampe del topo al fondo di cera della vaschetta. «Cosa sta combinando Rob?» chiese Vicki. «Stasera mi porta al drive-in.» «Cos'ha preparato?» «Chi se ne frega?» disse Ace, ed emise un paio di allegri sbuffi. Vicki si alternò fra l'esposizione degli organi vitali del suo topo e lo star seduta sulla sedia a chiacchierare con Ace, il cui progetto era un'esposizione senza esibizione. Passarono parecchio tempo a osservare Melvin che respingeva gli spettatori curiosi intenzionati a vedere cos'era nascosto dentro
il recinto di lenzuola. Lui spiegò che era un "o la va o la spacca" e che avrebbero dovuto tornare in fretta presso di lui quando avrebbe fatto l'annuncio col megafono. «Mi sta davvero facendo incuriosire,» disse Vicki. «Forse ha una ghigliottina là dentro, ci farà un favore a tutti e si taglierà quella brutta testa.» «Pensi che abbia l'intelligenza per costruire una ghigliottina?» «Se ha un'intelligenza, dev'essere pericolosa.» Vicki stava cominciando a desiderare con impazienza il pranzo, quando i quattro giudici raggiunsero il progetto accanto a quello di Melvin. A mezzogiorno, ci sarebbe stata un'ora di pausa. Alcuni dei genitori, lo sapeva dalle passate Fiere Scientifiche, avrebbero allestito dei tavoli proprio davanti alle porte con birra e vino per gli adulti, bibite, hot dog, pizze e tacos: tutta roba buona. Anche se non era particolarmente ansiosa di trascorrere l'ora di pranzo con Henry, era decisamente affamata. La sua bocca si era messa a salivare per tutta la mattinata a causa della formaldeide, che le faceva venire l'acquolina anche se era china a tagliuzzare un topo morto. Ace le diede un colpetto sul ginocchio. «Il momento, signore e signori, è arrivato.» I giudici si fermarono di fronte a Melvin. Lui scese dallo sgabello, raccolse il megafono, e premette un interruttore. Un fischio acuto e lacerante colpì le orecchie di Vicki, poi scemò. «Attenzione,» annunciò Melvin, con una voce che risuonò metallica e forte. «Venite, venite tutti. Venite a vedere la Strabiliante Macchina Miracolosa di Melvin,» Mentre parlava, oscillava da una parte all'altra e roteava la testa. «Non perdetevi lo spettacolo. Nossignore.» «Che deficiente,» sussurrò Ace. Aveva davvero un'espressione piuttosto deficiente sulla faccia, che non era affatto insolita per Melvin. Gli spettatori stavano cominciando ad arrivare. «Venite a vedere,» proseguì Melvin. «La Strabiliante Macchina Miracolosa. Presto, presto. Accorrete. Non avete mai visto niente di simile. Non perdetevelo. Venite, venite tutti.» Mr. Peters, il capo dei giudici, si avvicinò a Melvin e disse qualcosa... probabilmente che doveva smetterla. Melvin annuì, si portò il megafono alla bocca, e disse, «Lo spettacolo sta per cominciare!» Ormai una cospicua folla si era raccolta davanti al recinto di Melvin. Vi-
cki seguì l'esempio di Ace, e salì sulla sedia. Da lassù, aveva un'ottima visuale. Melvin mise a terra il megafono accanto allo sgabello. Raggiunse un angolo del suo recinto, tirò indietro un lenzuolo, abbastanza per sgusciare dentro, e svanì. Non accadde nulla. Tutti aspettavano. Giunse altra gente. Ci furono domande mormorate, teste che si scuotevano. Mr. Peters controllò l'orologio. «Non abbiamo tutto il giorno a disposizione, Melvin,» disse. «Siete tutti pronti?» gridò finalmente Melvin. La sua voce suonava piatta senza 1'amplificatore. «Avanti, tesoro,» strillò Ace. Alcune persone si voltarono a guardarla, alcune risero, altre si accigliarono. «E adesso... la Strabiliante Macchina Miracolosa di Melvin!» Gli spettatori trasalirono e tacquero. Vicki sgranò gli occhi. Per un istante, non comprese ciò che stava vedendo. Poi, non poté crederci. Intorno a Melvin e al suo "progetto" c'erano spire e spire di filo spinato. Un cartellone dietro proclamava: "IO SONO LA RESURREZIONE E LA VITA". Al centro, su una piattaforma alta almeno un piede, c'era una sedia a rotelle. Sulla sedia a rotelle sedeva il cadavere di Darlene Morgan. Indossava il costume da ragazza "pon pon" col quale era stata seppellita: una gonna a pieghe verde, un pullover dorato con una E in rilievo sul davanti, come iniziale di Ellsworth High. Il collo era avvolto in un bendaggio che serviva a tenere la testa. Questa era inclinata all'indietro, la bocca spalancata. Gli occhi erano chiusi. La faccia sembrava grigia. Fra i suoi piedi c'era la batteria di un'automobile, con dei cavi collegati agli elettrodi. Melvin sollevò le altre estremità dei cavi sopra la testa e batté l'uno contro l'altro gli elettrodi. Vicki, stupefatta, si sentì vacillare. Afferrò il braccio di Ace per sostenersi. Qualcuno cominciò a gridare. Poi parve che tutti stessero strillando o urlando. «Mio Dio!»
«Fermatelo!» «Cosa sta facendo?» «Melvin, per l'amor di Dio!» «Fate qualcosa!» Invece di cercare di fermare Melvin, le persone poste davanti al gruppo stavano indietreggiando. Melvin continuò la sua esibizione come se fosse solo. Fissò un cavo a ognuno dei pollici di Darlene, poi balzò di lato, gridando, «ALZATI! ALZATI! ANDIAMO, TROIA, ALZATI!» Darlene non si alzò. Restò seduta là. La scarica della batteria parve non aver avuto effetto alcuno. «TI ORDINO DI ALZARTI!» strillò Melvin. Corse dietro la sedia a rotelle, afferrò le impugnature e la scosse, come cercando di far muovere la ragazza. «ANDIAMO! ALZATI!» Darlene ondeggiò e oscillò. La sua testa dondolò. Ma lei non si alzò. «SU! SU! TE LO ORDINO!» Mr. Peters balzò sull'intrico di filo spinato. Melvin strattonò verso l'alto le impugnature. La sedia s'inclinò in avanti, spingendo via Darlene dal sedile. Mr. Peters strillò mentre il cadavere cadeva verso di lui. Si chinò. Darlene crollò su di lui. La testa si staccò, rotolò lungo la schiena di Mr. Peters, e cadde a faccia in giù sul filo spinato. Melvin rivolse alla folla urlante un largo sorriso idiota. Ritorno a Casa CAPITOLO QUARTO Vivrai qui, si disse Vicki. Non puoi evitarlo per sempre, per cui farai meglio ad andare avanti e a piantarla. Era rimasta benzina a sufficienza per raggiungere Ace, per cui non aveva l'assoluta necessità di fermarsi. Ma ciò avrebbe lasciato l'U-Haul col serbatoio vuoto e lei aveva bisogno di guidare per quaranta miglia fino a Blayton il giorno dopo, una volta che avesse finito di scaricare la sua roba nel nuovo appartamento che Ace le aveva trovato. Forse l'area di servizio della Arco, all'altro lato della città, era ancora aperta. In genere chiudeva presto, ma poteva darsi che l'orario fosse cambiato.
Prosegui e fermati da Melvin, pensò. Sebbene mancasse almeno un miglio dal confine della città di Ellsworth, la decisione fece accelerare i battiti del suo cuore. Il volante sembrava scivoloso nelle sue mani. Rivoli freddi le scorsero lungo i fianchi fino alla cintura degli shorts. Si asciugò una mano sul davanti della camicetta, poi allacciò i due bottoni in cima, che aveva slacciato in precedenza per far entrare un po' d'aria. Forse lui non era nemmeno di servizio, pensò. Poteva aver assunto un ragazzo, o qualcun altro, per mandare avanti il distributore. Dio lo sa, se poteva permetterselo. Non avrebbe dovuto tornare a Ellsworth. Cos'era, un masochista? Era stato un emarginato ancora prima del pasticcio combinato alla Fiera Scientifica, e nessuno gli avrebbe mai permesso di dimenticare la faccenda di Darlene Morgan. Quando Ace l'anno prima le aveva detto per telefono che Melvin era tornato, lei era rimasta così sgomenta che aveva riflettuto parecchio sulla possibilità di cambiare i suoi piani. Ogni volta che pensava al suo ritorno a Ellsworth una volta finito il corso di specializzazione, o la sola idea di vivere nella stessa città di Melvin le faceva venire la nausea. Forse adesso era "sano di mente", forse non avrebbe più fatto niente di folle, ma lei sapeva che ogni volta che lo avesse visto avrebbe ricordato la sua Strabiliante Macchina Miracolosa. Eppure, Ellsworth era la sua casa. Anche se i suoi genitori si erano trasferiti a Blayton durante il primo anno di medicina, ma era di Ellsworth che lei aveva nostalgia: delle strade tranquille e familiari della sua infanzia, dei negozi che era solita visitare, dei boschi e del fiume, dei suoi amici. Era là che era stata spensierata e felice e che si era innamorata. Sapere che Melvin Dobbs era tornato là dopo essere stato dimesso dalla clinica, toglieva un po' dell'alone nostalgico alla città. Avrebbe potuto essere sufficiente a far cambiare i piani di Vicki in relazione al suo ritorno. Ma c'era una cosa. Un prestito di 25.000 dollari da parte del Dr. Gaines, offerto a Vicki, e accettato, a condizione che lei tornasse a Ellsworth e lo aiutasse con i suoi pazienti finché il prestito non fosse stato restituito. Un ottimo affare, anche perché lei aveva sempre sperato di esercitare la sua professione a Ellsworth. E non le era sembrato vero di poter lavorare con Charlie Gains, un uomo anziano e incantevole che le piaceva un mucchio. Il suo impegno nei riguardi del dottore aveva rimosso ogni effettiva pos-
sibilità di evitare Ellsworth, dove comunque lei desiderava vivere, cosicché si era rassegnata a un eventuale incontro con Melvin. L'incontro c'era stato, per caso, un anno prima. Adesso, era imminente. Vicki si sentì male. Calmati, si disse. Non è niente di drammatico. A me non farà niente. Affrontando la curva di River Road, vide la stazione di servizio illuminata davanti a lei. C'era Melvin fermo e sbilenco davanti a una macchina, e apparentemente stava scrivendo il numero di targa sulla ricevuta di una carta di credito. Per come era vestito, avrebbe potuto apparire ridicolo. Indossava una vistosa e cascante camicia hawaiana, Bermuda a quadri e calzini scuri che gli si afflosciavano sulle caviglie. Ma non era ridicolo; non c'era niente di divertente in lui. Vicki dubitava che una qualsiasi cosa di Melvin, per quanto bizzarra, potesse mai sembrarle divertente. Il suo coraggio vacillò. Vai alla Arco domani, pensò. Ma ciò avrebbe solo rinviato l'inevitabile. Meglio affrontare una situazione sgradevole che rinviarla e continuare a rimuginare su di essa. Rallentò, emise un debole sospiro e lasciò la strada. La macchina stava abbandonando la piazzuola di servizio. Lei si avviò verso la pompa del self-service, poi cambiò idea. Sarebbe stato già brutto senza dover scendere dal camioncino. Specialmente per come era vestita. Così raggiunse l'area di servizio e spense il motore. Melvin si avvicinò zoppicando al finestrino, scrutò dentro, e inclinò la testa da un lato. L'occhio inferiore si strinse. Da vicino, la sua faccia sembrava più triste di quanto lei ricordasse. Anche più brutta. I suoi occhi sembravano più grandi e più distanti, le sopracciglia nere più folte, le labbra più spesse. I capelli lunghi erano pettinati all'indietro in cima alla testa, e impomatati. «Io ti conosco,» disse. «Vicki Chandler. Come stai, Melvin?» Lui si chinò di più. Aveva mangiato aglio. «Vicki. Perdinci.» La sua testa andò su e giù e sorrise. «L'ultima volta che ti ho vista, eri in piedi su una sedia ed eri leggermente pallida.» Ridacchiò, soffiandole in faccia l'alito d'aglio. Lei si domandò se era un buon segno che lui potesse parlare di quel giorno, e riderne.
«Beh,» disse, «ero un po' scioccata.» «Penso che non eri la sola.» Ammiccò. «Il punto fu quello, sai.» «Il punto?» «Far saltare Darlene in quella maniera. Dai, non penserai davvero che io fossi convinto che avrebbe funzionato, no? Un morto è morto, capisci cosa voglio dire?» «Sembrava proprio che tu volessi provarci,» disse Vicki, sorpresa che lui ne stesse discutendo con lei, spiegandosi. «Fu un bello spettacolo, no?» «Perché lo facesti?» «Ero stufo di essere preso in giro. Ricordi come i ragazzi mi prendevano in giro. Tu eri simpatica. Eri l'unica che non aveva l'abitudine di insultarmi o picchiarmi. Pensavo questo. Pensavo che ce l'avevano con me per il fatto che ero un po' diverso, perciò quello che dovevo fare era mettergli la fifa addosso, così avrebbero talmente avuto paura di me che mi avrebbero lasciato in pace.» Tirò su col naso, e se lo strofinò. «Certo, ho imparato la lezione. Non dovevo farlo. Sono passato per matto.» Tu sei matto, pensò Vicki. O almeno lo eri. «Mi dispiace per i tuoi genitori,» disse Vicki. «Grazie. Erano vomito di maiale.» «Vorrei un pieno, Melvin. Senza piombo.» «Grazie a loro però non me la passo male, e questo è più o meno tutto il bene che posso dire di loro. Vuoi che controlli dentro il cofano?» «No, è tutto a posto.» Si allontanò dal finestrino, e Vicki tirò un respiro profondo. Qualsiasi cosa gli abbiano fatto in quella clinica, pensò, è sicuro che non lo ha cambiato molto. Nello specchietto laterale, lo vide rimuovere il coperchio del serbatoio e inserire il boccaglio della pompa. Poi lui tornò al finestrino. «Sei qui per una visita, o cosa?» domandò. Rimase sorpresa che lui non lo sapesse. D'altra parte, la gente probabilmente non spendeva molto tempo a chiacchierare con lui. «Lavorerò nello studio del Dr. Gaines.» «Cosa farai?» «Sono un medico ora.» «Un dottore?» «Già.» «Non dire sciocchezze. Non sopporto i dottori. Rovinano la gente, sai?»
«Credo che tu ne abbia visti abbastanza.» «Nessuno è grazioso come te, questo sì.» «Grazie,» mormorò lei. «Sposata?» «Non ancora?» «Ti stai conservando per me?» Rise e si strofinò il naso. «Scherzavo. Mi piace scherzare, a volte. Avevo sempre fra i piedi inservienti e infermiere che si spanciavano dalle risate. I pazienti non ridevano molto, erano troppo drogati. Ed erano troppo impegnati a sbavare.» Rise a quest'altra battuta. Vicki udì lo scatto della pompa. «Contanti o carta di credito?» «Contanti.» Si allontanò. Mentre lui era via, Vicki prese la borsetta dal sedile del passeggero e tirò fuori due biglietti da venti. La mano le tremava visibilmente, e le banconote si agitarono quando le tese a Melvin fuori dal finestrino. Lui andò a prendere il resto. È quasi finita, pensò lei. Non è stata poi così brutta. Neppure così bella, però. Quando lui tornò, Vicki appoggiò il polso al finestrino per impedire alla sua mano di tremare. Lui contò le monete e le banconote sul palmo. «Sono davvero contento che sei tornata,» disse. «Grazie.» Infilò le monete nella tasca della camicetta, e vide Melvin che la osservava mentre lo faceva. «Spero che verrai qui ogni volta che avrai bisogno di un pieno.» Lei annuì. «Tu non devi aver paura di me. Okay?» «Io non ho paura di te, Melvin.» «Invece ce l'hai. Tutti ce l'hanno. Cacchio, andrei in fallimento se non fosse per gli stranieri di passaggio. Per come si comporta la gente qui, penseresti che sono io quello che ha ucciso Darlene. Non le ho fatto nulla. L'ho soltanto disseppellita e ho organizzato una piccola burla. Ma non voglio che tu abbia paura di me. Okay?» «Splendido,» disse lei, sforzandosi di sorridere. «Ciao. Ci vediamo.» Lui si allontanò dalla fiancata del camioncino. Vicki avviò il motore e partì. Fece svoltare il camioncino sulla River Road. Potresti almeno sentirti dispiaciuta per lui, pensò. Come pure, potresti almeno ridere per il suo aspetto singolare e i suoi modi.
Solo che lei non lo trovava né divertente né simpatico Vomito di maiale. Era così che aveva definito i genitori morti. Non puoi sentirti dispiaciuta per un tipo che dice una cosa simile. O per un tipo che ha fatto una bravata come quella con Darlene. Certo, i ragazzi gliene facevano passare tante. Ma questa non era una scusa. Un mucchio di gente viene molestata e non se ne va in giro a scavare una ragazza morta e a mettere su uno spettacolo col suo cadavere. E mi ha chiesto se mi ero conservata per lui. Ace andò alla porta con una sgargiante camicia da notte gialla con Minnie sul davanti, e gettò le braccia intorno a Vicki. Facendo un passo indietro disse, «Dio, è passato un bel pezzo.» «Tre anni il mese prossimo dall'ultima mia visita,» le disse Vicki. «È vergognoso come sei invecchiata.» «Dovresti vedere te.» Lei agguantò la valigia di Vicki e le fece strada nell'appartamento. «Com'e stato il viaggio?» «Interminabile.» «Beviamo qualche sorso.» «Mi pare una buona idea.» Ace scaraventò la valigia sul letto nella camera degli ospiti. Poi andarono in cucina. «Vodka and tonic?» «Grande.» Vicki sedette al tavolo. «Dov'è Jerry? O non dovrei chiederlo?» «L'ho piantato.» «Stai scherzando. Era tutto stupendo quando ci siamo sentite.» «Beh, in una settimana possono succedere un mucchio di cose. Quella grossa l'ha fatta mercoledì notte. Riesci a immaginarlo? Ha gli alimenti e l'assegno per il figlio da sborsare, e vuole sposarmi? Che risate. Avrei dovuto io mantenere lui, maledetto scroccone.» Portò le bevande al tavolo, e si sedette di fronte a Vicki. Sollevarono i bicchieri. «Che la nostra vita possa essere spericolata,» disse Ace, «la nostra morte prematura, e i nostri cadaveri belli a vedersi.» «Splendido,» disse Vicki. Ma bevve. Poi disse, «Così hai mollato Jerry.» «L'ho mandato con quel culo calvo per terra.» «Sembra piuttosto ruvida la cosa.» «Comunque, lui non valeva niente.»
«Sei spaventosamente schizzinosa, per una tipa nella primavera del suo zitellaggio.» Ace le mostrò il medio. «Non puoi continuare a piantarli.» «Dolcezza, nel mare c'è un mucchio di pesci. Non ho problemi a prenderli all'amo. Il problema è che non riesco ad aggiudicarmi uno che si prenda cura di me.» «Mi pareva che Jerry potesse andare.» «E questo mi viene dalla tipa che usciva con Henry Peterson.» Vicki roteò gli occhi. «Non ricordarmelo. Cos'altro mi racconti?» Conversarono e bevvero. Erano le tre del mattino passate quando smisero. Vicki raggiunse barcollando la camera degli ospiti. Si sedette accanto alla valigia sul letto, e cadde all'indietro come un sasso. Le monete si riversarono dalla tasca della camicetta. Si fermarono sul petto, e scivolarono via dalla spalla quando lei sollevò le gambe per togliersi scarpe e calzini. Si sfilò shorts e mutandine, e li scalciò via. Slacciando i bottoni della camicetta, notò che le dita le formicolavano un poco. Avrebbe dovuto alzarsi a sedere per sfilarsi la camicetta. Supponeva di poterlo fare, ma non era impaziente di effettuare il tentativo. Per rinviarlo, tirò fuori dalla tasca i biglietti di banca piegati e li lasciò cadere sul letto dietro la spalla. Poi, gemendo, si tirò su. Si alzò, si sfilò la camicetta e la lasciò cadere a terra. Trascinò la valigia giù dal letto. Mentre essa cadeva, la fece oscillare, barcollando sotto il suo peso. La pilotò a terra sul tappeto e le si inginocchiò davanti. C'era una corda annodata intorno poiché una delle fibbie si era rotta. Affrontò il nodo. Sembrava forte e stretto. Nel disfarlo le unghie le fecero male. Dentro c'era la sua camicia da notte. Assieme allo spazzolino e al dentifricio. Li voleva. Ma non troppo. Strisciò fino al letto, si tirò su e vide le monete e le banconote sparpagliate. Il resto della benzina. Non posso lasciarlo là, pensò. Finirebbe col cadere sul pavimento. Così si chinò sul materasso, puntellandosi con un braccio, e raccolse le monete in una pila. Vi chiuse la mano intorno. Arretrando, vide che non ne aveva dimenticata nessuna. Ma una banconota, presa solo per un angolo, se ne volò via mentre lei si avvicinava alla cassettiera. Le sfiorò la coscia e
scese in picchiata fra le gambe come un tappeto volante. La sua mano sinistra si allungò di scatto. E l'afferrò. Ottimo, pensò Vicki. Che velocità! Che agilità! Gettò la manciata di denaro sulla cassettiera, poi collocò con cura la banconota recuperata in cima alla pila. C'era scritto qualcosa su di essa con una penna rossa. Vicki abbassò la testa e strinse gli occhi per leggere. «VA' ALL'INFERNO, MELVIN, PAZZO FOTTUTO». Nel suo sogno, Vicki era seduta nel buio. Non sapeva dove, solo che si trovava in un luogo sgradevole. Avrebbe voluto andarsene in tutta fretta. Ma era legata alla sedia. Sentiva le corde intorno alle caviglie, intorno ai polsi, incrociate sul dorso come bandoliere. Devo uscire di qui, pensò, prossima al panico. Non ho molto tempo. Può arrivare in qualsiasi momento. Si dimenò per liberarsi. Le corde strusciarono contro la pelle nuda, ma non mollarono la presa. Poi lei comprese che le sue mani legate, appoggiate sul grembo, non erano bloccate. Le sollevò alla bocca. I suoi denti trovarono i nodi. Morse il primo e lo sciolse, ma ce n'era un altro sotto. Lo strappò con i denti, solo per scoprire che c'era ancora un altro nodo in attesa. Cominciò a piagnucolare. Si sta avvicinando. Quando si accese la luce, seppe che era troppo tardi per fuggire. Era seduta in mezzo all'arena del Centro Ricreativo. Il clamore di una porta che sbatteva echeggiò nella sala vuota. Sta arrivando! Lo vide. Melvin. Camminava verso Vicki da un angolo lontano, spingendo una sedia a rotelle. Sulla sedia c'era Darlene. Avrebbe dovuto indossare il maglione con la lettera e la gonna a pieghe del costume da ragazza "pon pon". Invece, aveva addosso la camicia da notte bianca di Vicki. Ecco dov'era andata a finire. Dovrò buttarla, pensò Vicki. Di sicuro non me la metterò dopo che è stata addosso a una morta. Darlene sembrava morta stecchita. Grigia e avvizzita. Anche peggio di com'era stata nella realtà. È un sogno, realizzò improvvisamente. Non sta succedendo davvero.
Ma sembrava vero, e Vicki si domandò se stesse solo pensando di sognare. Riprese a mordere i nodi, ne sciolse un altro mentre Melvin spingeva ancora di più verso di lei la sedia a rotelle, ma c'era ancora un altro nodo sotto. Melvin continuava ad avvicinarsi. Aveva intenzione di speronarla? A otto o dieci passi di distanza, lui si fermò. Il bendaggio bianco intorno al collo di Darlene sembrava dello stesso tessuto della camicia da notte. Attraverso gli strati trasparenti, Vicki poteva vedere un taglio orizzontale e non sanguinante lungo la gola della ragazza. Svegliati adesso. Su. «Sei molto graziosa, stanotte,» disse Melvin, inclinando la testa e annuendo. «Finiscila. Vattene.» «Ti sei conservata per me?» «No.» Lei comprese che stava di nuovo piagnucolando. «Lasciami in pace. Per favore. Vattene.» «Sii mia, cara, e ti darò la vita eterna.» «No.» «Ti piacerebbe, no? Vivere per sempre?» «Non lo so.» «Guarda Darlene. Guarda la faccia della morte.» Oh Gesù, la palpebra sinistra di Darlene si gonfiò, scivolò un poco verso l'alto, e un verme bianco ne uscì contorcendosi. È il momento di svegliarsi, maledizione! «Non ci credi che io posso darti la vita eterna?» «No.» Melvin, con uno sguardo bieco, sollevò in alto le impugnature di gomma nera dei cavi elettrici. «Beccati questa!» Si chinò e scaraventò i cavi sulle spalle di Darlene. I morsetti si aprirono come mascelle. Si chiusero con uno scatto sui capezzoli di Darlene. Vicki udì un ronzio scoppiettante. La ragazza si contorse ed eseguì una danza parossistica. Il sangue sgorgò dai capezzoli intorno ai denti dei morsetti e impregnò la camicia da notte. Altro sangue filtrò nel tessuto che le avvolgeva il collo. Le palpebre si sollevarono. Aveva occhi, non orbite vuote, e il verme era scomparso dalla sua guancia. Emise uno sbuffo di fumo. Sorridendo, aprì i morsetti e si gettò i cavi dietro le spalle, dove Melvin li afferrò.
Darlene si alzò dalla sedia. Fece pochi passi verso Vicki. Poi, raddrizzò di scatto il corpo e si piantò i pugni nei fianchi. «Credi ancora che non ne sono capace?» chiese Melvin. Darlene, irrigidita, batté le mani. Clap - clap - clap - clap. Sferrò un pugno nell'aria. «SIAMO FORTI!» L'altro pugno scattò verso l'alto. «SIAMO PAZZE!» Danzò e piroettò. «DI MELVIN SIAMO LE RAGAZZE!» Nel gridare "RAGAZZE", fece un salto, gettò indietro la testa, sollevò le gambe dietro di lei e lanciò le braccia verso l'alto. Vicki udì uno strappo. La testa di Darlene s'inclinò sempre più all'indietro, mentre le bende si laceravano e la gola si apriva come una bocca. La testa cadde, scomparendo. Riapparve dietro le sue gambe scaldanti. Cadde con un tonfo sul pavimento. Lei ricadde, e il piede destro andò a finire sulla sua faccia. Perso l'equilibrio, barcollò all'indietro. Mentre cadeva nella sedia a rotelle, la sua testa rotolò verso Vicki. «NO!» Melvin rise. La testa, rotolando, continuò ad avvicinarsi. La sua bocca si chiuse intomo al pollice di Vicki e cominciò a succhiare. Con uno strillo, lei si alzò vacillando. La stanza era piena di sole. CAPITOLO QUINTO Melvin alzò la testa mentre i fari sfrecciavano contro le finestre dell'ufficio. Appartenevano a una Duster che si fermò sull'area del self-service. C'era qualcuno sul sedile del passeggero. Melvin scrutò attraverso il finestrino. Sembrava una ragazza, ma non poteva dirlo con sicurezza. Aspettava proprio una ragazza. Gliene serviva una. Il suo cuore cominciò a battere con forza. Richiuse il suo Penthouse e lo fece scivolare nel cassetto dello scrittoio. Il guidatore scese e girò intorno al cofano della macchina raggiungendo la pompa della benzina senza piombo. Era un tipo alto e smilzo, probabil-
mente sui vent'anni. Ciò significava che la ragazza - se era una ragazza poteva essere giovane. Peccato che fosse con lui. Sembrava un tipo duro, con quella T-shirt senza maniche, quei blue jeans cascanti e gli stivali da cowboy. Non puoi fare troppo lo schizzinoso, però, si disse Melvin. Non succedeva spesso che una ragazza entrasse nella stazione di servizio da sola, e specialmente a quell'ora tarda. L'ultima a farlo era stata Vicki, tre sere prima. Aveva pensato di utilizzare lei finché non vedeva chi fosse. Sarebbe andata benissimo, dal momento che era venuta a quell'ora ed era sola. Ma era del luogo, e c'erano probabilmente persone che l'aspettavano, per cui non sarebbe stata una mossa furba, anche se non gli piaceva tanto. Esci fuori e dalle solo un'occhiata, pensò. Fece per alzarsi, ma la portiera del passeggero si aprì. Si risedette sulla sedia. Il passeggero era proprio una ragazza. Ruotò fuori dalla macchina le gambe lunghe e magre, si alzò, e disse qualcosa a quel tipo. Portava i capelli così corti, che non le scendevano minimamente sul collo. Indossava dei jeans accorciati, e un top bianco e aderente che si reggeva da solo poiché il suo elastico le si stringeva alla cintola. E le lasciava la vita scoperta. L'orlo superiore correva dritto sul petto, ed era abbastanza alto da coprirle completamente i seni, che sembravano due palle da tennis ed erano stati divisi nel mezzo e ficcati sotto il tessuto elastico. Abbastanza piccoli, ma giusti. Un bello strattone a quel top... Si strofinò il dorso della mano sulla bocca. La ragazza si strinse nelle spalle per qualcosa che l'amico aveva detto, poi si avviò direttamente verso l'ufficio. Non stava guardando dove andava poiché aveva la testa abbassata e stava cercando dentro la borsa a tracolla. I jeans le scendevano parecchio sui fianchi. Quando entrò nell'ufficio, Melvin vide che aveva una piccola rosa rossa tatuata a metà strada fra l'ombelico e l'osso iliaco. Il suo stelo spariva nel davanti degli shorts. Lei alzò gli occhi prima di guardarlo. Non aveva una gran bella faccia. Troppo lunga e stretta, coi denti storti e un labbro superiore che non era abbastanza lungo da coprirle le gengive. Sebbene guardasse Melvin, parve non vederlo. La sua faccia non cambiò affatto. Si limitò a voltarsi dall'altra parte quando lei cominciò a ispezionare gli spuntini disponibili nel distributore automatico. Tipica troia. Molte di loro lo facevano. Si comportavano come se lui non
ci fosse. Sei tu che non vali niente, tu, puttana faccia di cavallo. Lei allungò una mano e fece cadere delle monete nel distributore, poi premette un paio di pulsanti. Melvin vide una busta di patatine alla cipolla cadere da una pinza, e atterrare con un tonfo nella vaschetta. La ragazza si chinò per prenderla. Il fondo dei jeans era sfilacciato proprio sotto la tasca destra, e la pelle bianca appariva attraverso i fili allentati. Si raddrizzò, si voltò e uscì dall'ufficio. Invece di dirigersi di nuovo verso la macchina, passò davanti alla finestra e girò l'angolo. Cercava il bagno. Mi facilita le cose, pensò Melvin. Il tipo, riempito il serbatoio, venne nell'ufficio. Si fermò di fronte a Melvin e cavò alcune banconote dai jeans. «Ha bisogno d'altro?» chiese Melvin. «Ho dei tergicristalli a prezzo scontato.» «Non vedo pioggia,» borbottò lui, pescando dalla mano alcune banconote e buttandole sul banco. Melvin si alzò. Prima di tutto, controllò la finestra. Poi, lanciò un'occhiata al computer, vide che doveva incassare $12.48, e prese le banconote. Una da cinque e otto da uno. «Sono cinquantadue cents per lei,» disse. «Sai contare.» «Sicuro.» Si ficcò le banconote nella tasca sinistra dei Bermuda, cercò nell'altra tasca, tirò fuori una bomboletta di gas lacrimogeno e spruzzò in faccia all'individuo. Lo prese dritto negli occhi. Lui li strinse con forza, si afferrò la faccia arrossata e barcollò all'indietro, chinandosi e facendo «Uhhh uhhh uhhh.» Era sulle ginocchia quando Melvin scavalcò il banco. Il calcio colse il tipo all'orecchio e lo scaraventò su un fianco. Melvin udì il debole rumore dello scarico della toilette, così sbatté la testa dell'uomo contro il pavimento alcune volte. Parve funzionare. Forse non lo aveva finito, ma almeno era fuori combattimento. Melvin lo afferrò per gli stivali, lo trascinò dietro il banco, e si sedette. La ragazza probabilmente avrebbe potuto vederlo mentre passava davanti alla finestra, ma era impegnata a usare i denti per strappare la busta di patatine. Non lanciò nemmeno un'occhiata alla finestra. Tornò alla macchina, salì sul sedile del passeggero, e chiuse la portiera. Forse pensava che il suo compagno era andato a pisciare.
Il suo amico, notò Melvin, aveva pisciato davvero. Il davanti dei suoi jeans era zuppo. Stava pisciando anche dall'orecchio sinistro, ma sangue. Colava in una piccola pozza sul linoleum sotto la sua testa. La ragazza sedeva nella macchina, e mangiava. Dopo un poco, la sua testa si voltò. Doveva aver cominciato a domandarsi perché il tipo ci metteva tanto. Non stava tornando, per cui lei tornò alle sue patatine. Melvin aprì il cassetto inferiore dello scrittoio. Tirò fuori una scatola di buste di plastica, prese circa un metro di cellophane, e lo staccò. Diede una controllata alla ragazza. Non stava guardando. Si sollevò la camicia, la trattenne sotto il mento, e stese sul ventre il sottile foglio di plastica. Vi aderì. Lo avvolse intorno alla schiena. Lasciò ricadere la camicia, coprendolo. Quindi, mise via la scatola e osservò la ragazza. Finalmente, lei scese dalla macchina. Si fermò accanto alla portiera aperta, scrutò verso l'angolo dell'edificio, e si strofinò le mani sugli shorts. Melvin dedusse che la sua pazienza era durata più o meno quanto le patatine. Si diresse verso l'angolo dell'edificio. Giusto per assicurarsi che guardando la finestra non scorgesse il tipo sul pavimento, Melvin si alzò e si mise a fissarla. Lei lo guardò per un attimo, e fece ciò che lui si era aspettalo: guardò dall'altra parie. Continuò a guardarla, seguendola mentre raggiungeva l'angolo, e lei continuò a guardare altrove finché non ci fu più una finestra fra loro. Stava andando tutto a meraviglia. Melvin immaginò che sarebbe tornata nell'ufficio, non riuscendo a trovare il tipo nel bagno, ma preferiva occuparsi di lei nel retro dove non avrebbe dovulo preoccuparsi di quelli che passavano davanti alla stazione di servizio o si fermavano per fare il pieno. Uscì in fretta dall'ufficio e svoltò l'angolo. Camminando lungo l'edificio, la udì bussare. Poi la sua voce. «Rod? Cosa stai facendo là dentro?» Raggiunse l'angolo posteriore e lo superò. La ragazza stava di fronte alla porta della toilette degli uomini. Bussò di nuovo. «Rod, mi rispondi o devo entrare?» Melvin restò immobile. Lei non lo aveva notato. «Va bene, entro.» Girò il pomo e spinse la porta. La luce era stata lasciata accesa dentro. Lei rimase nel bagliore per un momento, poi superò la soglia.
Mentre la porta si chiudeva, Melvin cominciò a muoversi. Quando fu completamente chiusa, si mise a correre. L'aprì con uno spintone e irruppe. La ragazza girò su se stessa, scostandosi dalla porta di uno dei bagni. Stavolta, non cercò di evitare il suo sguardo. Piuttosto difficile ignorarmi adesso, pensò Melvin. «Fuori di qui,» disse lei. La sua voce era acuta. Non sembrava ancora in collera, solo sorpresa e confusa come se non riuscisse a credere che era entrato nel bagno con lei. «Ci sono io, qui. Fuori.» «Sei nel bagno degli uomini,» disse lui, e sorrise. «Lo so. Stavo cercando qualcuno.» «Rod è nell'ufficio.» «Okay.» Sventolò una mano di lato, indicandogli di scostarsi. Melvin non si mosse. Lei voltò un poco la testa, come se stesse pensando che fissare Melvin dagli angoli degli occhi, invece che direttamente, fosse in qualche modo più intimidatorio. «Farai meglio a farmi passare.» «Lo dirai a Rod?» Lei inclinò all'indietro la testa e continuò a fissarlo. «Ti sto avvisando.» Con una scrollata di spalle, Melvin si fece da parte. Agitò un braccio verso la porta. «Così va meglio,» disse lei. Avanzò verso la porta. Osservandolo con gli occhi socchiusi, dando l'impressione di essere sicura di sé e ansiosa di parlare a Rod di questo verme che le aveva fatto passare un brutto momento nel gabinetto. Mentre passava davanti a Melvin, voltò la faccia verso la porta. Allungò una mano e afferrò il pomo. Spinse e la porta si aprì. Melvin le afferrò i capelli e tirò. Lei strillò. La sua mano, ancora sul pomo, richiuse con uno schianto la porta mentre lei volava all'indietro. Le fece perdere l'appoggio di un piede e diede un altro strattone ai capelli, poi la lasciò andare e la osservò mentre cadeva. La sua schiena colpì le mattonelle del pavimento e lei scivolò. Prima che potesse cominciare ad alzarsi, Melvin le cadde sul petto. Il fiato le uscì con un sibilo. Strabuzzò gli occhi. La sua faccia divenne rossa. Si contorse, ma le sue braccia erano inchiodate sotto le ginocchia di Melvin. Lui si sollevò la camicia, si staccò il cellophane dalla pelle, piegò la plastica per raddoppiarne lo spessore, e gliela appoggiò sulla faccia. Con le mani strette ai lati della testa della ragazza, poteva vedere bene
attraverso la plastica trasparente. La sua faccia era deformata, le palpebre erano tirate di lato cosicché sembrava un'orientale come un rapinatore con una calza sulla testa. Il naso, schiacciato, aveva la punta bianca. Le labbra appiattite della sua grossa bocca erano pallide. Il disco di cellophane sulla bocca crepitava quando lei aspirava e soffiava. Si appannò. Lei s'inarcò e si contorse e dimenò sotto Melvin, ma lui la montò come un cavallo selvaggio. La sua lingua premette contro la plastica facendola gonfiare. Sebbene la pellicola non si spezzasse, si tese e formò una bolla. Quando ritrasse la lingua, la bolla entrò di scatto nella sua bocca. Si gonfiò con un debole schiocco, poi venne di nuovo risucchiata. E lei la morse. La afferrò fra i grossi e sbilenchi denti anteriori e spinse la mandibola avanti e indietro... macinandola, masticandola. La sua lingua scavò un buco nella plastica, si ritrasse nella bocca, e lei risucchiò con forza l'aria nei polmoni. L'aria uscì strillando. Melvin le premette una mano sulla bocca. Il gesto smorzò il suono, ma lui dubitava della sua capacità di soffocarla con la mano. Specialmente considerando come lei si agitava e scuoteva la testa. Lo strillo subito cessò, ma lei continuò a rimuovere il sigillo e a respirare. Merda! Non voleva danneggiarla. Il cellophane normalmente funzionava. La ragazza rollò con violenza, quasi disarcionando Melvin, e improvvisamente i suoi denti trovarono il bordo della mano. Prima che lui potesse liberarla di scatto, morse. Melvin sentì i denti affondargli nel palmo, li vide lacerargli la pelle sul dorso della mano ed entrare. Si sentì gridare, «YEEEOOOW!» mentre il dolore gli guizzava lungo il braccio. Ci vollero quattro colpi alla tempia col pugno sinistro, che le fecero sobbalzare la testa e gli lacerarono la mano, prima che riuscisse ad estrarre la mano dalla bocca. Lei era ancora cosciente, la testa che ruotava da una parte all'altra. Melvin le staccò la plastica dalla faccia. I suoi occhi erano socchiusi. Stava gemendo. Un lato della faccia era rosso per i pugni e cominciava a gonfiarsi. Maledizione. Adesso era rovinata. Non sarebbe comunque stata graziosa, si consolò Melvin, ma odiava l'idea di lasciarla ammaccata. Dopo tutto, la contusione sarebbe stata permanente.
Forse con un po' di trucco. Si stava ancora agitando un poco. Con la mano sinistra, Melvin afferrò i capelli in cima alla testa. La sollevò e la fece rimbalzare sul pavimento. Questo la calmò. Avvolse un po' di plastica intorno alla mano, in parte per fermare il sangue e in parte per avere una buona presa. Poi raccolse l'altra estremità e le appoggiò un tratto di cellophane integro sul naso e sulla bocca. Se sulle prime non hai successo... Questa volta, lei non oppose resistenza. CAPITOLO SESTO Vicki premette il pulsante dei dieci minuti sulla sveglia e si rannicchiò con la faccia nel cuscino. È mercoledì, pensò. Charlie sarebbe andato al campo da golf, cosicché quello sarebbe stato il suo primo giorno intero da sola nella clinica. Si sentiva un po' nervosa per questo, e si ordinò di rilassarsi. Non era pensabile che accadesse nulla che lei non fosse in grado di sbrigare - certamente nulla da paragonare alle emergenze che aveva dovuto affrontare durante l'internato al Good Samaritan. Come Rhonda Jones. Quello era stato quasi il peggio che le potesse capitare. Rhonda era stata portata al Pronto Soccorso da un camionista che l'aveva trovata a vagare lungo l'autostrada, gli occhi sfregiati ed entrambe le mani tagliate da qualche maniaco che l'aveva stuprata. Una delle infermiere, difatti, era svenuta nel vederla. Vicki, mentre applicava dei lacci emostatici e praticava le iniezioni, aveva conservato la lucidità mentale e in quel momento si era detta che avrebbe dovuto ringraziare Melvin Dobbs e la sua Strabiliante Macchina Miracolosa. Perché, dopo aver visto lui che cercava di resuscitare Darlene con la scossa elettrica e la testa di lei che cadeva, anche le orribili mutilazioni di Rhonda Jones non potevano farle perdere i sensi. Non credo che lo ringrazierò, pensò. Ti stai conservando per me ? Rammentò di averlo sognato di nuovo quella notte, e di essersi svegliata ansimando alle 2:30 circa con la camicia da notte inzuppata di sudore. Non era riuscita a ricordare l'incubo, ma supponeva che fosse abbastanza simile a quello che aveva avuto a casa di Ace. E quello lo ricordava benissimo.
Aveva sognato Melvin ogni notte da quando era tornata. Per tre volte, i sogni l'avevano fatta svegliare. Riteneva che il breve incontro con lui alla stazione di rifornimento avesse provocato qualcosa al suo inconscio. Gli incubi, per quanto fossero orrendi, non la turbavano se non nel momento in cui vi era dentro. Dopo tutto, era abituata agli incubi. Dopo la Fiera Scientifica, aveva continuato ad averli per circa due mesi. Poi erano diventati meno frequenti. Infine, si erano ridotti a uno ogni due o tre mesi, tranne quando qualcosa interveniva a scatenare una nuova serie. Anche questi senza dubbio si sarebbero esauriti, come quelli vecchi. E finché non fosse accaduto, avrebbe dovuto semplicemente convivere con essi. Preferiva gli incubi vecchi. Quelli erano stati più o meno delle repliche dell'evento reale, e mancavano delle macabre varianti presenti negli ultimi sogni. E in quelli, lei era stata osservatrice, non protagonista. Adesso, sembrava che l'esibizione perversa di Melvin fosse riservata a lei. Tutta colpa mia, pensò. Non avrei mai dovuto fermarmi da lui per fare benzina. Vicki sospirò. Ecco cosa succede quando si desidera crogiolarsi per alcuni minuti extra nel letto. Allungò una mano, fece scattare l'interruttore della sveglia in tempo per impedirle di squillare, e si alzò. Avanzò con cautela nel buio fino al bagno. Dopo aver usato la toilette, tornò in camera da letto e indossò gli indumenti che aveva sistemato sulla sedia la sera prima. Infilò una catenina sopra la testa: da essa pendevano la chiave dell'appartamento e un fischietto della polizia, che fece ricadere sul davanti della T-shirt. Il corridoio davanti alla sua porta di casa era scarsamente illuminato. Camminò in silenzio, e premette una mano contro il petto per fermare il tintinnio della chiave e del fischietto. Non le piaceva quel corridoio. Non a notte fonda, e non alle 5:00 del mattino. Le faceva venire la pelle d ' oca. Tutti i corridoi le facevano venire la pelle d'oca quando era sola in un edificio silenzioso. Scegliete pure, pensò: scuola, dormitorio, ospedale, palazzo d'uffici, condominio. Qualunque cosa simile a un corridoio deserto quando tutti gli altri sono andati via o dormono... o si suppone che sia così. La sensazione che, se fai rumore, qualcuno possa aprire una porta e saltarti addosso.
Quel particolare corridoio era a forma di "L" per cui Vicki doveva girare intorno a un angolo prima di raggiungere l'atrio e l'ingresso principale. Quell'angolo non le piaceva affatto. Ma vi girò intorno senza esitazione. La porta del proprietario era aperta. Oh, stupendo. Lanciò un'occhiata mentre vi passava davanti, e tirò un rapido respiro. Dexter Pollock stava immobile proprio nel vano della porta, con un accappatoio addosso e le gambe nude, fissandola. Lei storse la bocca in un sorriso di saluto, borbottò «Salve,» e continuò a camminare. «Una parola,» disse Dexter. Magnifico. Non uscì dal vano della porta, così lei dovette tornare indietro. Lui stava là con le mani ficcate nelle tasche dell'accappatoio. Le sue gambe erano molto pallide nella luce fioca. Era un omone, ben oltre la sessantina ormai e ingrassato, ma quando Vicki era una ragazzina lui era il capo del Dipartimento di Polizia di Ellsworth, e lei sospettava che avesse ancora l'animo del tiranno. Avrebbe ucciso Ace per avere scelto un condominio di proprietà di quell'uomo. Si appoggiò all'altra parete del corridoio per stare alla massima distanza possibile da lui, e incrociò le caviglie. Era notoriamente una persona volgare. E lei era perfettamente consapevole delle proprie gambe nude... e delle sue. Suppose che fosse probabilmente nudo sotto la vestaglia. «È molto presto per uscire,» disse lui. «Suppongo di sì.» «È ancora buio là fuori.» «È quasi l'alba.» «Lei è una giovane donna avvenente.» Vicki non disse niente. Le sue parole la imbarazzavano. «I suoi non l'hanno mai messa in guardia dall'andarsene in giro da sola col buio?» «Certo.» «Ne sono sicuro. I suoi erano persone a posto.» «Grazie.» «Crede che approverebbero se sapessero che lei esce a quest'ora e vestita con abiti così succinti?» «Lo faccio quando vado a trovarli. E non sembrano farci caso.» Poi aggiunse, «Sono vestita come si deve,» anche se in quel momento avrebbe
voluto indossare una tuta intera invece della T-shirt e dei leggeri shorts. Gli occhi di Dexter erano macchie pallide, ma Vicki vide la sua testa abbassarsi e risalire come se la stesse esaminando. «Lei è uno stupro,» disse, «che cerca un luogo dove accadere.» «Devo andare,» gli disse, odiando il suono debole della sua voce. Dovresti dirgli di andarsene a fare in culo, pensò. Si spinse via dal muro e si voltò. «Sto ancora parlando con lei, Miss Chandler.» «Dottor Chandler,» disse lei. «Sia come sia, lei deve mostrare un po' di rispetto e starmi a sentire.» Si voltò verso di lui, accigliata. «Lei è stata via, per cui probabilmente non è al corrente della situazione locale, e a parte ciò, qui si sta abbastanza tranquilli. Nessuno vuole mettere in allarme la gente. Il fatto è che c'è stata una mezza dozzina di giovani donne in questa contea svanite senza lasciare la minima traccia. E tutto questo nei trascorsi otto o dieci mesi. E queste sono solo quelle dichiarate scomparse. Potrebbero essercene molte di più delle quali non sappiamo assolutamente nulla. Per cui farebbe meglio a tenerlo in mente e a pensarci due volte prima di andarsene in giro a far baldoria a qualsiasi ora in biancheria intima.» «Grazie,» disse lei. «Starò molto più attenta. Posso andare adesso?» «Faccia come le pare.» Vicki si spinse via dalla parete e si allontanò, costringendosi a non correre. Mentre raggiungeva l'atrio, lanciò un'occhiata alle sue spalle. Dexter si era spinto nel corridoio. La stava fronteggiando. Lei aprì la porta a vetri e uscì. La mattina estiva era calda, ma lei stava tremando. Mille grazie, amico caro, pensò. Le sue notizie sulle sparizioni erano leggermente scioccanti, ma non troppo. Non si era mai fatta delle illusioni pensando che Ellsworth fosse un posto assolutamente sicuro. Nessun posto era sicuro, specialmente per le donne. Quello che trovava sconvolgente era che Dexter le tendesse un agguato del genere. La stava aspettando? Come faceva a sapere che sarebbe uscita? Verme. Preferiva fare i suoi esercizi di riscaldamento sull'ampia terrazza sopraelevata dell'edificio. Ma Dexter avrebbe potuto aggirarsi nell'atrio e osser-
varla attraverso il vetro, così trotterellò giù per le scale e si avviò lungo il marciapiede. Si domandò se sarebbe diventata un'abitudine per lui aspettarla. Non c'era modo di uscire dall'appartamento senza passare davanti alla sua porta. L'unica altra uscita, opportunamente ubicata in fondo al corridoio, dalla parte di Vicki, avrebbe fatto scattare l'allarme se lei avesse crercato di utilizzarla. Giunse all'angolo, e si voltò. Almeno Dexter non l'aveva seguita. Il marciapiede, grigio nel bagliore delle luci stradali, era deserto, tranne che per un gatto seduto vicino all'estremità dell'isolato, che si strofinava la zampa sul muso. Prima di cominciare a riscaldarsi, Vicki girò definitivamente l'angolo e scrutò in tutte le direzioni. Controllo sempre, si disse. Niente a che fare con gli avvertimenti di Dexter. Soddisfatta perché nessuno si stava aggirando da quelle parti, cominciò a piegarsi in due e a toccarsi le dita dei piedi. Non ho intenzione di sopportarlo, pensò. Devo solo trovare un altro posto. È una tale seccatura, però, traslocare. Anche con l'aiuto di Ace, c'erano volute delle ore per scaricare l'U-Haul e trasportare tutta la sua roba nell'appartamento. E tutte e due con addosso i postumi della sbornia. Una tortura. Non era ansiosa di ripetere l'operazione. Si sedette. Il cemento era freddo attraverso gli shorts. Tese le gambe, si chinò in avanti e afferrò le punte delle scarpe da ginnastica. Fai passare un po' di tempo, pensò. Forse Dexter non prenderà l'abitudine di infastidirmi. Ha detto la sua. Ed io sono uscita, fregandomene. Ma Vicki sospettava che la "sua" non era nient'altro che una scusa per fermarla, lanciarle sguardi provocatori, e saggiare il suo potere di intimidazione. Si comporta come se fosse ancora il capo della polizia. Era sempre stato un cretino. Gran parte dei ragazzi della città erano soliti disprezzarlo. Lui non permetteva mai che superassero i limiti, e sembrava divertirsi a tormentarli. Probabilmente, se la prendeva con i ragazzi poiché era un codardo quando si trattava degli adulti. In giro si diceva che aveva lasciato che il suo compagno, Joey Milbourne, fosse quasi pestato a morte da un paio di boscaioli del Bay che erano andati a ubriacarsi nel Riverfront Bar. Era scappato a gambe levate e si era
chiuso nella macchina di pattuglia invece di dare una mano a Joey. Ma era davvero un duro, un Ispettore Callaghan, quando si trattava di un adolescente che prendeva a palle di neve una macchina o scaraventava una palla da baseball nella finestra di qualcuno o parcheggiava vicino al fiume per pomiciare. Aveva fatto passare un brutto quarto d'ora anche ad Ace la sera del ballo dell'ultimo anno, il che aveva reso Vicki particolarmente lieta di non aver programmato con lei un'uscita a quattro. Stando a come l'aveva raccontata Ace, lei era completamente nuda sul sedile posteriore della Firebird di Rob, e si stava dando parecchio da fare, quando Dexter aveva puntato la sua torcia elettrica sul finestrino. Aveva aperto la portiera e ordinato a tutti e due di scendere dalla macchina. Non aveva dato loro neppure il tempo di infilarsi i vestiti. Ace aveva raccolto in fretta la gonna dal pavimento mentre strisciava fuori, e l'aveva tenuta davanti a sé mentre Dexter li ammoniva riguardo alla fornicazione e alla possibilità di farsi ammazzare da un maniaco vagabondo. Nell'attimo in cui stava minacciando di portarli dentro per atti osceni e di telefonare ai genitori, erano apparsi dei fari sulla strada. Ace aveva lasciato cadere la gonna e si era messa le mani sulla testa. «Penso che lei voglia perquisirmi,» aveva detto. Dexter aveva raccolto la gonna e gliel'aveva tesa, strillando, «Fila via di qui, pazza di una cagna!» E lei e Rob se l'erano svignata in macchina ed erano filati via, mentre l'altra macchina si stava ancora avvicinando. Vicki si alzò in piedi, si spolverò il fondo degli shorts, e cominciò a correre. Qualsiasi altra al posto di Ace, pensò, sarebbe rimasta troppo umiliata da un'esperienza del genere per guardare ancora negli occhi Dexter. E invece lei che ha fatto? Mi ha preso in affìtto un suo appartamento. Quando Vicki aveva scoperto, tra la vodka and tonic di quella prima notte a casa di Ace, che Dexter Pollock era il proprietario, aveva detto, «Sei uscita di senno?» «Gli ho detto che era per te,» disse Ace, «e lui ha abbassato l'affitto del dieci per cento.» «Spero che tu stia scherzando.» «Ha detto che pensava fosse comodo avere un medico nel palazzo.» «Non sono un idraulico, accidenti.» «Probabimente vuole che tu ti occupi del suo impianto idraulico.» «Ah ah. Gesù.» «Non è poi così cattivo. Si è calmato un po', dopo che la sua Minnie se
n'è andata.» «Hai proprio scarsa memoria, Ace. Hai dimenticato tutto della sera del Ballo?» «Per niente.» Sogghignò. «E neppure lui. Il povero imbecille si fa rosso come un brufolo ogni volta che mi guarda. La verità è che gliela faccio fare addosso per la paura. Pensa che sono pazza.» «Perché ti sei fatta cascare la gonna davanti a lui?» «In parte.» Ace agitò i cubetti di ghiaccio con un dito, sorridendo nel suo drink. «Ricordi quelle minuscole mutandine nere che comprai per posta?» «Volevi che le ordinassi anch'io.» «Quelle. Beh, il giorno dopo il mio numero con Dexter, gliele spedii per posta con un biglietto. Scrissi, "Caro Dex, tieni queste come souvenir della nostra estasi. Un bacio, tuo tesoruccio."» «No.» «Vuoi scommettere? E ho visto con i miei occhi Minnie che prendeva la busta dalla cassetta delle lettere la mattina dopo.» «Eccellente.» «E fortunato che abbia fatto solo questo,» disse Ace, e la sua espressione divertita s'incrinò solo per un istante lasciando trasparire il rancore. Poi si mise di nuovo a sogghignare. «Il povero idiota da allora non mi ha più seccata.» Dovrei fare anch'io qualcosa del genere, pensò Vicki mentre svoltava un angolo e si dirigeva verso Center Street. Fargli credere che sono pazza, così mi lascerà in pace. O minacciare di aizzargli contro Ace se mi tormenterà ancora. Meglio andarsene e trovare un nuovo appartamento. Concedigli un paio di settimane, pensò, e vedi come va. Scese dal marciapiede a Center Street e guardò a destra. Il centro commerciale di Ellsworth era grigio nella luce preaurorale. Poche automobili erano parcheggiate di fronte ai negozi, ma nessuna circolava. La luce si riversava sul marciapiede dalle finestre del panificio un isolato più in là. Le altre mattine, aveva corso in quella direzione. Sapeva che il panificio era l'unico negozio aperto. Anche se non riusciva a sentire da lì l'odore delle ciambelle, rammentò il delizioso aroma e come le faceva venire l'acquolina in bocca quando vi passava davanti. Era un vera tortura correre in mezzo a quegli odori e non fermarsi. Decise di evitare l'agonia quel mattino, voltò la schiena ai negozi della
città, e si diresse a nord. Superò le finestre scure del Riverfront Bait and Tackle, quindi lasciò il marciapiede e corse attraverso l'erba del lungo parco municipale che costeggiava il fiume. Una nebbia tenue era sospesa sull'acqua. Vide alcune barche al largo, le sagome dei pescatori seduti immobili con le loro pertiche. Chissà dove, una strolaga schiamazzò. Udì lo scoppiettio lontano di un fuoribordo, ma non riuscì a scorgere l'imbarcazione in movimento. Era probabilmente al largo di Skeeter Island. Il terreno digradò verso la spiaggia pubblica e il parco giochi. Lei accorciò il passo, diffidando dell'erba umida di rugiada, e aveva quasi raggiunto il punto più basso quando il suo piede destro scivolò. Boccheggiando, vide i suoi piedi volare verso l'alto. Atterrò sul sedere, si rovesciò, e affondò i calcagni nell'erba per fermare la scivolata. Fantastico, pensò. Avvertiva quella strana tensione nella gola, che aveva sempre sentito le altre volte (non molte e molto indietro nel tempo) che era caduta col sedere per terra: una sensazione che era come stimolo a ridere e a piangere nello stesso tempo. Si attenuò dopo pochi secondi. Vicki si disse di alzarsi, ma continuò a giacere là, ad ansimare. Sentiva la rugiada fredda attraverso gli shorts e le mutandine. La scivolata le aveva fatto sollevare la T-shirt a metà schiena. L'erba contro la pelle nuda le faceva venire il prurito, e fu proprio il prurito che ben presto la convinse ad alzarsi. Allungò entrambe le mani dietro di sé e si grattò. Era moderatamente allergica all'erba. Il prurito con ogni probabilità avrebbe continuato a tormentarla finché non fosse tornata all'appartamento e avesse fatto una doccia. Il dorso della maglietta era inzuppato. Dovette staccarlo dalla pelle prima di poterlo abbassare. Poi il tessuto umido le s'incollò addosso. Si alzò, piegò le braccia dietro la schiena e continuò a grattarsi mentre camminava verso la spiaggia. Uscì dall'erba. Le scarpe affondarono nella sabbia. Sul bordo dell'acqua, stava per continuare a correre ma scorse un bastone che galleggiava a poca distanza. Era lungo una sessantina di centimetri, e sarebbe stato un meraviglioso grattatore per la sua schiena. Dal momento che le scarpe e i calzini erano già impregnati di rugiada, avanzò nel fiume. L'acqua gelida le salì intorno alle caviglie. Si accovacciò, raccolse il bastone, lo allungò dietro la schiena, e sospirò mentre si grattava attraverso la T-shirt bagnata. Il cielo a est era più luminoso adesso. Ben presto, i primi raggi del sole si sarebbero aperti un varco attraverso gli alberi riversandosi sul fiume.
Ricordò quella volta che aveva osservato l'alba con Paul. Fu appena una settimana prima della sua partenza. Più tardi, quella notte, erano usciti entrambi furtivamente dalle loro case. Si erano incontrati e avevano trascorso delle ore a vagare nei boschi a nord della città, tenendosi per mano e parlando sottovoce. Era stato un momento triste e dolce nello stesso tempo. Molto prima che l'alba spuntasse, si erano trovati là sulla spiaggia. Si erano seduti per un po' sulle altalene. Poi in silenzio avevano risalito la china e si erano seduti là, le braccia di lui intorno a lei. Erano scivolati giù assieme e si erano incamminati verso la spiaggia. Vicki si lasciò cadere il bastone dalla mano. Fissò la piattaforma per i tuffi che galleggiava sui bidoni a una certa distanza dalla riva. Avevano lasciato le loro scarpe e i calzini sulla spiaggia, quella mattina, e nuotato fin là. Si erano seduti sulle tavole erose, rabbrividendo negli abiti umidi. Poi si erano sdraiati e abbracciati e il gelo era scomparso. Era stato come se lei e Paul fossero le sole persone al mondo. Si erano baciati talmente a lungo e forte che le loro facce erano arrossate intomo alla bocca quando il sole era finalmente sorto. Ricordandolo, Vicki sentì un dolore sordo. Un sacco di gente, nella maturità, afferma di non avere rimpianti, dice che non farebbe nulla di diverso se avesse la possibilità di tornare indietro. Ma Vicki aveva un grosso rimpianto. Si riempiva di tristezza ogni volta che pensava a quella mattina con Paul sulla piattaforma dei tuffi. Se fosse tornata indietro, avrebbe fatto l'amore con lui là prima dell'alba, su quella piattaforma che ondeggiava dolcemente. Aveva aperto la sua camicetta umida per lui, ed lui le aveva goffamente slacciato il reggiseno, glielo aveva sfilato dal collo e le aveva accarezzato i seni. Era molto di più di quello che avevano mai fatto prima. Era parsa una cosa audace e meravigliosa. Paul non aveva mai visto o toccato i seni di una ragazza, ed era il primo a guardare quelli di Vicki e a toccarli. Le sue mani non si erano mai avventurate sotto la cintola dei suoi jeans, e lei non lo aveva mai toccato là, anche se poteva sentirlo quando si abbracciavano e stringevano l'uno contro l'altra. Lei ci aveva pensato, ma l'idea di togliersi le mutandine e farlo le era parsa enorme e smisurata e terrificante. Così non era accaduto. Quando il sole aveva cominciato a sorgere, si erano sciolti dall'abbraccio ed erano rimasti seduti. Proprio mentre si allacciava il reggiseno e abbottonava la camicetta, aveva avvertito un vuoto singolare. Qualcosa - non era del tutto sicura di che cosa si trattasse - era venuto a mancare o si era perduto. Aveva pianto mentre lui osservava il sole salire sopra il fiume, e
Paul le aveva messo un braccio intomo alle spalle e aveva detto, «È stata la più bella notte della mia vita, Vicki. Ti amo tanto. Ti amerò sempre, qualunque cosa accada.» «Anch'io ti amerò sempre,» aveva detto lei. In piedi nell'acqua bassa del fiume, Vicki tirò su col naso e si asciugò gli occhi. Avrei dovuto farlo, pensò. Sarebbe stato bellissimo. Sono questi gli errori che si fanno, si disse. Voltò le spalle alla zattera. A testa bassa, raggiunse la riva. Non era nell'umore di continuare la corsa. Si grattò la schiena. Decise di tornare nell'appartamento a farsi la doccia, per liberarsi del prurito. Sarà una giornata perfetta, si disse, per cercare di scuotermi di dosso la malinconia. Il giorno del golf di Charlie. E tocca a me occuparmi di tutto. Chi se ne frega? I suoi piedi facevano un rumore gorgogliante nelle scarpe zuppe d'acqua. Si asciugò di nuovo gli occhi. «Va tutto bene?» gridò un uomo. La voce la fece trasalire. Alzò la testa. All'altro lato della spiaggia, dov'era l'attrezzatura del campo giochi, c'era un uomo appollaiato in cima allo scivolo. Paul? Una strana alterazione del destino lo aveva attirato sulla spiaggia all'alba, a distanza di tutti quegli anni? Sembrava impossibile, ma lei avanzò di corsa verso di lui, fissandolo, il cuore che batteva freneticamente. Non può essere Paul, si disse. Se fosse tornato in città, Ace me lo avrebbe detto. Forse Ace non lo sa. Forse è appena arrivato. Sembrava avesse l'età giusta. I capelli erano dello stesso biondo-sabbia di quelli di Paul. Sembrava più grosso, però. Paul era magro, mentre quell'uomo aveva le spalle larghe, torace e braccia muscolosi. Forse Paul ha messo su peso, pensò. Poi fu abbastanza vicina per vedere i lineamenti del suo volto, e le sue speranze crollarono. Paul avrebbe anche potuto diventare grosso e vigoroso, ma il suo volto non avrebbe potuto modificarsi in quella maniera. Gli occhi dell'uomo erano molto più distanti di quelli di Paul. Il naso era più largo, la bocca più ampia, il mento più prominente. Anche le orecchie erano diverse: erano più grandi di quelle di Paul, e più attaccate ai lati della testa.
Stupido pensare che avrebbe potuto essere Paul, si disse. «Va tutto bene?» chiese lui quando Vicki si fermò ai piedi del pendio. «Credo di sì.» Si sentiva ingannata. E oltraggiata; aveva creduto di essere sola, ma quell'uomo la stava spiando. «Cosa fa lassù?» chiese. «Sembrava un bel posto per osservare il sorgere del'sole.» «È lassù da parecchio?» «Da un po'.» Lei si domandò se l'aveva vista cadere. «Devo andare,» mormorò. «Ci vediamo,» disse lui. Vicki si voltò e corse in direzione della strada. CAPITOLO SETTIMO La piccola luce rossa dietro l'HotTopper si spense, comunicandogli che la barretta di burro si era fusa. La mano destra di Melvin era bendata e ancora dolorante per il morso, così usò la sinistra per staccare la spina del congegno, puntarlo verso il popcorn e spruzzare. Il burro schizzò come se uscisse dal diffusore della doccia, dorando il popcorn. Melvin cosparse di sale, agitò la scodella, poi spruzzò altro burro e altro sale. Portò la scodella di popcorn nel soggiorno, la appoggiò sul tavolo di fronte al sofà, e tornò in cucina. Riempì un bicchiere di ghiaccio, lo portò nel soggiorno, poi andò di nuovo in cucina e tolse dal frigorifero una bottiglia di plastica di Pepsi da due litri. Portò anche quella nel soggiorno. Si sedette sul sofà. Riempì il bicchiere. Alla televisione, David Letterman stava presentando il Trucco dell'Imbecille. Melvin premette il pulsante Play sul telecomando. Letterman svanì. Melvin afferrò una manciata di popcorn e cominciò a ruminare. La sua videocamera, montata vicino al soffitto del laboratorio del seminterrato e diretta verso il basso con un angolo di quarantacinque gradi, gli concedeva una buona visuale del tavolo di lavoro e dell'area intorno a esso. Il cadavere nudo di Elizabeth era disteso sul tavolo, e legato con cinghie di cuoio. Le cinghie assicuravano i polsi e le caviglie al piano del tavolo. Un'altra cinghia le passava sulla gola. Un'altra le passava sul petto, immediatamente sotto i piccoli seni. Melvin si vide avanzare di fronte alla telecamera e sorriderci dentro. «Grazioso demonietto,» borbottò, e mangiò altro popcorn. Il Melvin sul video indossava un vistoso accappatoio di satin rosso com-
perato per posta da un'azienda di articoli sportivi che realizzava quegli accappatoi per i pugili. Si strofinò sulla bocca il dorso della mano bendata, poi disse, «Stanotte, proveremo un metodo tratto dal Libro dei Morti di Hizgoth, pagina 214. Il mio soggetto sarà Elizabeth Crogan di Black River Falls.» Fece un passo indietro e indicò con un largo giro del braccio il cadavere sul tavolo dietro di lui. Voltandosi, si avvicinò a un carrello ingombro di cianfrusaglie vicino al tavolo. Sul dorso dell'accappatoio c'era scritto, «Lo Strepitoso Melvin» in elaborate lettere d'oro. La mano di Melvin tremò mentre sollevava il bicchiere dal tavolo. Bevve un sorso di Pepsi, la mise giù, e si osservò chino su un libro aperto sul carrello. Controllava la ricetta. Prese un vasetto di maionese e lo sollevò verso la videocamera. «Il sangue di tre pipistrelli uccisi sotto la luna piena,» spiegò. Svitò il coperchio e si avvicinò a Elizabeth. Tenendo il vasetto nella mano destra e facendo una smorfia per il dolore, versò un po' di sangue nella mano sinistra a coppa, e lo sparse sopra la faccia della ragazza. Quando la faccia divenne rosso scura per il liquido sciropposo, agitò il vasetto sopra il resto del corpo, versando rivoli di sangue sul collo e le braccia e il petto, i seni e il ventre, l'inguine, e dalla cima delle gambe fino alle caviglie legate. Mise via il vasetto. Con la mano sinistra sparse il sangue, strofinandolo sulla pelle. Melvin lasciò ricadere una manciata di popcorn nella scodella. Fissò il televisore. Il suo cuore stava battendo con forza, la bocca era secca. Passò molto tempo a cospargere il sangue su Elizabeth. Poi si allontanò e scomparve dal video. Melvin udì scorrere l'acqua mentre lui si lavava la mano nel bacile. Ogni parte visibile del corpo della ragazza era tinto. Le sue dita avevano lasciato strisce e spirali. Forse avrei dovuto girarla e tingerla anche dietro, pensò. Bevve un sorso di Pepsi. Il bicchiere era viscido nella sua mano unta di burro e tremante. Melvin tornò, fissò il corpo, poi raggiunse il carrello e consultò di nuovo il libro. Sollevò un altro vasetto verso la telecamera. Corpuscoli non meglio identificati erano sospesi nel liquido bianco e torbido. «Latte di capra,» disse. «Occhi di gatto, coda di tritone, giusquiamo e mandragora, zampe di ragno, ceneri di un peccatore morto. Portare a ebollizione a mezzanotte.»
Aprì il vasetto, lo appoggiò vicino alla testa di Elizabeth, poi le fece scivolare un imbuto di alluminio in bocca. Restando dietro la testa in modo che il suo corpo non impedisse la visuale della telecamera, versò la sostanza nell'imbuto. Essa emise un rumore debole e gorgogliante. Dopo un po', cominciò a colare dagli angoli della bocca. Pezzetti di qualcosa rotolarono col liquido giù per le guance. Il vasetto era vuoto solo per metà. Lui si accigliò, lanciò un'occhiata nell'imbuto, poi si spostò di lato. Con la mano sinistra sana, spinse con forza sul ventre della ragazza. La brodaglia le sgorgò dalla bocca. Smise di spingere, e l'imbuto riprese a versare dentro di lei. Premette di nuovo, smise, premette, smise. Ben presto l'imbuto fu vuoto. Prese il vasetto e versò ancora. Il liquido scese per un poco, poi cominciò di nuovo a risalire. Guardò lo stomaco di Elizabeth, che stava cominciando ad apparire gonfio. Scrollando le spalle, Melvin ripose il vasetto. Era quasi vuoto. Tolse l'imbuto dalla bocca. Una sostanza vischiosa colò dal becco quando lo gettò via. La bocca aperta della ragazza era piena. Un grumo scuro galleggiava in mezzo alla polla di latte. Melvin prese un'altra manciata di popcorn e si riempì la bocca. Si vide fare l'occhiolino alla telecamera mentre tornava al carrello. Esaminò di nuovo il libro, poi si rivolse alla telecamera. «Tre candele, nere come la mezzanotte.» Uno per volta, accese i lucignoli, fece colare pozze di cera sul corpo, e sistemò le candele accese dritte nella cera. Quando finì, una candela stava nell'intrico di peli del pube e altre due sui seni. Melvin si chinò sul libro, prese dei fogli scritti a mano sotto la pagina più in alto del libro, e lesse a voce alta. «Signore delle Tenebre, Io, tuo servo, t'imploro umilmente. Ho preparato le spoglie mortali di Elizabeth Crogan nella maniera prescritta. È stata consacrata col sangue del pipistrello; ha bevuto il Nettare di Hizgoth; le candele del Triumvirato Nero stanno ardendo ai tre angoli del luminex. Le sue spoglie sono pronte. Io t'imploro, mandami l'anima di Elizabeth Crogan, affinché lei possa unirsi a me per servire il tuo regno.» Melvin, nel sentire la sua voce, tornò a riempirsi il bicchiere di Pepsi, bevve un sorso, e mangiò altro popcorn. Sul video, continuò a leggere. Finalmente, giunse alla fine. «Questo ti chiedo nel nome del Triumvirato Nero.»
Girò intorno al carrello. Restando accanto al corpo, staccò la candela più in basso dalla sua base di cera indurita, e la infilò, con la fiamma rivolta verso il basso, nella bocca della ragazza. Il Nettare di Hizgoth colò giù per le guance. Gettò via la candela spenta, e immerse ognuna delle rimanenti candele nel Nettare. Portandosi dietro la testa di Elizabeth, sollevò in alto entrambe le braccia. Il sangue aveva inzuppato la benda sulla mano destra, ed era colato giù per il polso e l'avambraccio. Lui chiuse gli occhi. Borbottò, «Forza, baby.» Abbassò lo sguardo su di lei. Niente. Melvin smise di masticare il popcorn. Si protese in avanti, fissando il cadavere, quasi aspettandosi che i suoi occhi si aprissero e la sua testa si voltasse. Era stato là: sapeva che non si sarebbe mossa. Ma poteva quasi vedere che stava accadendo. «Forza, forza,» disse al televisore. L'altro Melvin abbassò le braccia, pescò un Kleenex dalla tasca dell'accappatoio, e deterse i rìvoli di sangue dal braccio e dal polso destro. Alzando la testa, fissò la telecamera. Si chinò sul cadavere, sollevò una palpebra col pollice, e guardò l'occhio. La palpebra restò aperta quando la lasciò. Si portò a un lato del tavolo. Le scosse la spalla. La sua testa, con un solo occhio aperto, oscillò da una parte all'altra, rovesciando il bianco Nettare. Lui si chinò e le appoggiò un orecchio sul petto. La faccia di Melvin si sollevò. Guardò torva la telecamera. Il lato sinistro era sporco di sangue di pipistrello. «Non ha funzionato,» disse alla videocamera con voce calma. Poi strillò, «MERDA!» e abbatté un pugno sui seni della ragazza. Il Nettare eruppe dalla sua bocca. La colpì ancora e ancora, usando entrambe le mani, gridando per il dolore quando colpiva con la mano ferita. Melvin aggrottò le sopracciglia mentre guardava. Non si divertiva molto a vedersi nel culmine del disappunto, della rabbia e della sofferenza. E soprattutto non gli piaceva come aveva perso il controllo. Raccolse il telecomando e premette il pulsante FF. Nello scorrere accelerato delle immagini, sembrava davvero un pazzo che la picchiava, la scuoteva, e saltellava intorno al tavolo agitando le braccia mentre gridava in silenzio, la schiaffeggiava ancora, usciva in fret-
ta dallo schermo e riappariva con uno specchio tenendoglielo davanti al naso, accigliandosi nello specchio, gettandolo via disgustato. Quando saltò sul tavolo, Melvin premette lo Stop. Il laboratorio svanì. Sul video, un'attraente ginnasta in body faceva la spaccata su una trave d'equilibrio mentre parlava della «straordinaria sensazione di sicurezza» che provava usando Lite-Days Salvasleep. Melvin spense il televisore. Finì la Pepsi nel bicchiere. Si voltò sul sofà e guardò Elizabeth Crogan seduta accanto a lui, la schiena appoggiata ai cuscini, le mani incrociate sul grembo, le gambe tese, i piedi appoggiati al tavolo e incrociati alle caviglie. Non aveva un aspetto partìcolarmente brutto. Lui l'aveva pulita da capo a piedi dopo l'esperimento della notte prima, aveva anche bendato la pelle nei punti in cui aveva ceduto, applicato del trucco e spazzolato i capelli. «Ancora morta?» le chiese. Lei non si mosse. Si limitò a fissare lo schermo televisivo vuoto. «Ultimo appello per il ritorno,» disse lui. Niente. «Parla adesso, o tacerai per sempre. Ti seppellirò. Vuoi che ti seppellisca?» Niente. «Okay. Hai avuto la tua occasione.» Prese un'ultima manciata di popcom. La masticò, si gettò il cadavere sulla spalle e si diresse verso il garage. CAPITOLO OTTAVO Dexter la stava aspettando, quella mattina, quando Vicki passò davanti alla sua porta. Non fu una grossa sorpresa. Perciò aveva indossato una tuta intera. «Buon giorno,» disse e continuò a camminare. «Un momento, lei.» Vicki si voltò, ma non si avvicinò alla sua porta. Dexter uscì nel corridoio. «Venga qui. Non mordo.» Forse non mordi, pensò lei, ma sei sempre un verme. Tuttavia, fece un paio di passi verso di lui. Dexter indossava un accappatoio di un azzurro sbiadito. Le sue mani erano ficcate nelle tasche. «Lei continua a uscire col buio, malgrado quello
che le ho detto.» «Ho bisogno di fare i miei esercizi.» «Voi ragazzine pensate sempre che non accadrà a voi.» «Non lo penso affatto,» gli disse Vicki. «Ma non posso passare la mia vita a nascondermi. Inoltre, chi può dire che sarei al sicuro dentro? Un aeroplano potrebbe schiantarsi sull'edificio.» «Questa è un'osservazione così stupida... » «È bello da parte sua preoccuparsi della mia incolumità,» disse lei. Dubitava che fosse preoccupato per quello. Più probabilmente, era solo un comodo argomento. Tutto ciò che realmente lo interessava era fermarla e darle una sbirciata. «Lo apprezzo,» disse. «Ma vorrei che non m'importunasse più con questa faccenda. Sono andata a correre in posti ben più pericolosi di Ellsworth, e vado ancora in giro a parlarne. Niente di quello che lei può dirmi cambierà le cose. Perciò, che ne dice di lasciar perdere? Okay? Non sono dell'umore giusto per accettare predicozzi a quest'ora del mattino.» Dexter sollevò le folte sopracciglia. Un angolo della bocca si curvò verso l'alto, ma non sembrava divertito. «Lei è un tipo davvero petulante.» «Non mi fa piacere essere scocciata da lei ogni volta che cerco di uscire.» «Scocciata? Le sto solo dando dei consigli amichevoli. Lei non vuole essere scocciata, vuole soltanto aspettare che un folle maniaco la getti a terra nel buio, mentre è là fuori a portare in giro il suo culetto, e le ficchi dentro il suo mestolo.» Il rossore invase la faccia di Vicki. Sentì il cuore che le batteva con violenza. «È questo che lei vorrebbe fare, vero?» La faccia di Dexter si rabbuiò. «Non può parlarmi in questo modo.» «Le parlo come mi pare.» Lui sogghignò, mostrando i denti superiori. «Stai imparando a usare bene la bocca col tuo amichetto, troia?» Lei s'irrigidì e lo fissò con odio. «Me ne vado. Puoi affittare il tuo dannato appartamento a qualcun altro.» «Ehi, aspetta, non puoi... » «Vedrai.» Si voltò di botto e si diresse verso l'atrio. «Puttana!» Vicki spinse la porta e uscì in fretta sul marciapiede. Dopo gli esercizi di stretching in fondo all'isolato, si mise a correre. La corsa placò il suo sdegno. Decise che lo scoppio d'ira con Dexter era stato
una buona cosa. Altrimenti, avrebbe dovuto continuare a restare nell'appartamento, cercando di sopportarlo. Spostarsi sarebbe stata una seccatura, ma neppure minimamente paragonabile al tollerare altri incontri con quel figlio di puttana. Avrebbe fatto qualche telefonata dallo studio, più tardi. Con un po' di fortuna, avrebbe potuto trovare quel giorno stesso una nuova casa. Sfratto in pochi giorni. La fine di Dexter Pollock. Quando raggiunse Central Street, si diresse a nord e corse attraverso il parco. Ma mentre si avviava giù per il pendio che conduceva alla spiaggia, guardò verso il campo giochi. Qualcuno era seduto su una delle altalene. Il tipo del giorno prima? Era solo un'ombra indistinta nel buio, ma sembrava la stessa sagoma dell'uomo che l'aveva osservata dallo scivolo. Cosa sta facendo, sta aspettando me? Prima Pollock, adesso costui. Spiacente di deluderla, signore. Per paura di scivolare di nuovo sull'erba umida, Vicki aspettò finché non raggiunse il fondo del pendio. Poi, girò a sinistra e corse verso il marciapiede. Dovresti essere lusingata, pensò, per il fatto che è tornato stamattina. Sì? E chi lo dice che è tornato per questo? Ieri si trovava nel parco senza sapere che sarei venuta. Forse gli piace semplicemente stare seduto là a guardare il sole che sorge. Ma avrebbe detto qualcosa se gli fossi passata vicino correndo. E cosa c'è di male? Non sembra una cattiva persona. Potrebbe anche essere simpatico. Non lo saprai mai se non gli dai l'opportunità. Non oggi, gente. Non dopo Dexter. Anche se si sentì un po' in colpa, non si voltò per avvicinarsi allo sconosciuto. Raggiunse il marciapiede che rasentava la Central, e continuò a correre verso nord. Si domandò se lui l'aveva notata sul pendio, se l'aveva vista voltarsi e aveva compreso che la deviazione non aveva altra ragione che quella di evitare l'incontro con lui. Sperò di no. Avrebbe potuto pensare che aveva paura di lui, o che era semplicemente presuntuosa. Non è così, pensò come se si stesse scusando con lui, spiegandosi. Niente che abbia a che fare con te. Tu sembri un tipo simpatico. Sono solo di cattivo umore, questo è tutto. E se domani sarà ancora qui... ?
Attraverseremo il ponte quando ci saremo arrivati. Il cielo si stava facendo pallido quando Vicki superò il raccordo dove Central Street terminava a nord della città e diventava River Road. Il marciapiede terminava con la Central. Di solito, lei faceva marcia indietro là e si dirigeva verso casa. Non quel giorno. Non aveva fretta di tornare e correre il rischio di ritrovarsi di fronte a Dexter. Rimase vicino al bordo della strada e ascoltò il traffico, pronta a spostarsi velocemente sulla banchina sterrata se avesse udito una macchina sopraggiungere alle spalle. C'erano solo poche case da quelle parti, per lo più cottage vicino alla riva con pontili privati sul retro. Quando la strada curvò allontanandosi dal fiume, le case scomparvero. Vicki si sentì come se fosse sola sul sentiero di un bosco. Un sentiero lastricato, ma ombreggiato dagli alberi e silenzioso tranne che per i rumori degli uccelli e degli insetti e delle foglie che frusciavano nella brezza. I profumi dolci e caldi sembravano ancora più meravigliosi di quelli provenienti dal panificio in Central Street. Vicki si sentiva benissimo. Ma accaldata. Grazie a Dexter. Avrebbe dovuto indossare gli short leggeri e la T-shirt, non quella tuta intera. Non aveva neppure pensato di indossare giacca e pantaloni sopra il normale equipaggiamento. Una volta allontanatasi da Dexter, avrebbe potuto gettare la tuta dietro qualche cespuglio nei pressi della terrazza sopraelevata. Desiderò di averci pensato. Ma era uscita indossando solo reggiseno e mutandine sotto il pesante indumento. La strada era deserta, così abbassò la chiusura lampo fin quasi alla vita. L'aria si riversò dentro, raffreddando il sudore sul petto e sul ventre. Molto meglio. Prese in considerazione l'idea di abbandonare la strada. La foresta aveva parecchi sentieri, e lei un tempo li conosceva tutti come cari amici. Avrebbe potuto trovare un luogo dove liberarsi della tuta. Giusto, e correre in biancheria intima. L'idea era allettante, ma la scartò. E se avesse incontrato qualcuno sui sentieri? L'eventualità era remota, ma non volle rischiare. Anche vestita, poteva non essere una brillante idea avventurarsi sola nel bosco. Percorse una curva della strada. Lo stomaco le si contrasse. Davanti c'era il ponte sopra il Laurel Creek. Con la sua visuale sobbalzante, scorse il basso muretto di pietra contro il quale si era schiantato Steve Kraft. La sua mente si riempì delle immagini di Darlene sulla sedia a rotelle, di Melvin
che le fissava i cavi ai pollici, di Darlene che cadeva sul dorso del direttore e la sua testa che cascava sul filo spinato. Poi si impose la sua versione dell 'incubo: Ti sei conservata per me? e Io ti darò la vita eterna; il verme nell'occhio di Darlene; i denti dei morsetti dei cavi che mordevano i capezzoli della ragazza e lei che sprigionava fumo e si alzava dalla sedia ed eseguiva il suo numero da ragazza "pon pon" che terminava in un balzo con la testa che si staccava; la testa che rotolava e rotolava verso Vicki. Dio, non avrei dovuto venire da queste parti. Voltò la schiena al ponte e si allontanò di corsa. Quando Elsie Johnson uscì dallo studio, Vicki aveva un'ora di libertà prima dell'appuntamento successivo. Aprì l''Ellsworth Outlook nella sezione degli annunci economici e cominciò a cercare un appartamento. Trovò tre annunci che sembravano promettenti, e fece due telefonate prima che Thelma bussasse e infilasse dentro la testa. «È appena entrato Melvin Dobbs,» disse. «Non ha un appuntamento, ma vorrebbe vederti. Pare che abbia una mano ferita.» Melvin. «Charlie è tornato dalla visita a domicilio?» «Temo di no. Vuoi che gli dica che sei impegnata?» «No, non sarebbe giusto. Lo visiterò.» Thelma chiuse la porta. Vicki si alzò. Le gambe le tremavano un poco. Forse a causa della corsa più lunga di quel mattino, forse perché aveva paura di fronteggiare Melvin. Non poté impedire alla pelle d'oca di manifestarsi. Strofinandosi le braccia, si avvicinò alla porta dello studio. Tolse dall'appendiabiti il camice bianco, lo indossò sopra il vestito scollato, e lo abbottonò davanti. Avrei dovuto restare a letto oggi, pensò. Entrando nel corridoio, vide che la porta dell'Ambulatorio B era chiusa. Era là che Thelma aveva condotto Melvin. Esitò davanti alla porta. Più lo vedo, si disse, meno mi spaventerà. Non era sicura di crederci. Dopo tutto, era stato il vederlo alla stazione di servizio che aveva dato la stura al nuovo ciclo di incubi. Aprì la porta ed entrò nella stanza. Melvin era seduto, le spalle ingobbite e le gambe penzoloni, sul bordo del lettino. Sembrava che si fosse vestito per l'occasione. Invece della camicia sgargiante e dei pantaloncini, indossava un abito blu. La mano destra, appoggiata sulla coscia, era bendata con garza e nastro adesivo.
«Buon giorno, Melvin.» La sua voce suonò ferma. «Hai un problema con la mano?» Lui socchiuse un occhio e mosse in su e in giù la testa. Sollevò la mano verso di lei. «Mi hanno morso.» «Oh? Hai avuto un battibecco con un cane?» «Un succia-sborra di ragazzino. Sono andato a restituire la carta di credito al suo vecchio, e quella piccola merda mi ha dato un morso. Credo che si sia infettato.» Annuendo, Vicki prese le forbici dal vassoio degli strumenti. Gli tenne la mano e cominciò a tagliuzzare le bende. «Quando è accaduto?» «Circa tre giorni fa, credo. Pensavo che stesse guarendo, e invece ha cominciato a farmi male.» «Beh, vediamo cos'è successo.» Terminò di tagliare il bendaggio. Gli strati più bassi di garza erano stati incollati alla ferita dal pus e dal sangue. Impregnò d'alcol una pallina di ovatta e la usò per allentare la stretta dei fluidi viscosi. Finalmente, fu in grado di staccare quel che era rimasto della garza. Avvicinò la lampada, tenne la mano sotto la sua luce potente, ed esaminò entrambi i lati. «Ti ha dato proprio un brutto morso,» disse. I denti avevano lasciato delle ferite leggere e a forma di mezzaluna sul dorso della mano di Melvin. C'erano ferite simili, ma più profonde, sul palmo. Il ragazzino doveva aver azzannato Melvin di scatto, stretto il bordo della mano, e morso con molta forza. L'aria circostante le ferite appariva leggermente rossa e gonfia. «Non sarebbe una cattiva idea fare delle radiografie. Solo per eliminare la possibilità di una frattura. Non le facciamo qui, ma potrei mandarti da un radiologo al Blayton Memorial.» «Niente raggi-x. Stai scherzando?» «Oh, sono innocui, Melvin.» «Sicuro. Se sono così innocui come possono causare un aborto spontaneo se il feto viene beccato?» La sua domanda sorprese Vicki. Come poteva sapere una cosa del genere? Concedigli un po' di credito. Non è così stupido come sembra. «È una cosa abbastanza rara,» disse. «E tu non sei un feto.» «Non importa, nessuno mi beccherà con le radiazioni.» «Ti sembra che la mano funzioni bene? Nessuna perdita di mobilità delle dita?»
«Si muovono okay. Mi fanno solo male. Tutta la mano mi fa male.» «Beh, hai ragione di credere che si sia infettata.» «Bisognerà amputarla?» chiese Melvin. «Oh, non oggi. Non credo ci sia molto da preoccuparsi. Mi limiterò a pulire e a medicare la ferita per te, e a prescriverti degli antibiotici. La saliva umana è un normale pozzo nero di batteri. Sarebbe stato meglio se ti avesse morso un cane.» Lui le rivolse un sogghigno. «Se fosse stato un cane,» disse, «ti avrei portato la sua testa così avresti potuto fargli il test della rabbia.» Le parole scavarono un buco freddo dentro Vicki. «Il vecchio del ragazzino gli ha quasi staccato la testa.» Lei cominciò a pulire le ferite. «Hai preso i loro nomi?» «Sulla carta di credito.» «La sua famiglia avrebbe davvero dovuto pagare per le cure mediche.» «Sono assicurato. Non posso perdere tempo con loro.» Era una cosa che rincuorava. La maggior parte della gente era pronta a ricorrere in giudizio per il danno più risibile. In questo caso, una citazione sembrava più che giustificata. Lei poteva comprendere, però, come mai qualcuno col passato di Melvin preferisse evitare di impelagarsi in qualche pasticcio. «Dovresti cercare di non usare questa mano,» disse lei. «Hai qualcuno che ti possa aiutare alla stazione di servizio?» «Ho Manny Stubbins che mi dà una mano.» «Bene. Non vorrai certo metterti a pompare carburante o a cambiare pneumatici o roba del genere. Il dolore ti ha dato molto fastidio? Hai avuto difficoltà a dormire?» «Un po'.» «Hai preso qualcosa?» «Solo aspirina.» «Ed è servita?» «Credo di sì.» «Beh, potrei prescriverti qualcosa per il dolore se è proprio intenso. Darvon o Valium. Ma preferirei di no. Sarà meglio che continui con l'aspirina o col Tylenol, se serve.» «Sì, non voglio droga. Mi fa diventare uno zombi. Ne ho avuta già abbastanza al manicomio.» Vicki cominciò ad applicare un bendaggio nuovo. Poteva avvertire lo sguardo di Melvin su di sé. È quasi fatta, si disse.
Ancora qualche minuto, e se ne andrà. «Per come di solito odio i dottori,» disse, «è piacevole venire da uno carino come te.» «Grazie.» Ti stai conservando per me? «Ne hai un pezzo?» «Un pezzo di cosa?» «Della clinica, qui. Sei in società, o qualcosa di simile?» «No. Ci lavoro soltanto.» «Dovresti avere uno studio tuo.» Lei riuscì a sorridere. «Già, potrei farlo. Ma costa un mucchio di denaro avviare uno studio. Inoltre, non vorrei fare concorrenza al Dr. Gaines.» «Come mai?» «È un'ottima persona, e ha fatto molto per me. Se non fosse per lui, probabilmente non avrei potuto completare gli studi di medicina.» «Cos'ha fatto, ti ha dato del denaro o cosa?» La faccenda sta diventando terribilmente personale, pensò Vicki. Anche se l'argomento la metteva a disagio, comprese che era stata lei a parlare del fatto che Charlie l'aveva aiutata. E cosa importava se Melvin veniva a saperlo? «Mi ha concesso un prestito molto vantaggioso,» disse. «I miei genitori mi sono stati di grande aiuto, e io ho avuto una borsa di studio e ho lavorato part-time, ma senza... » «Per cui se sei qui lo devi a lui?» «Beh, sono qui perché volevo essere qui. Non è solo per il prestito: sono sicura che resterò, anche dopo averlo restituito.» «Quanto gli devi?» «Questo riguarda me e il Dr. Gaines.» «Stavo solo chiedendo,» borbottò lui. «Non volevo farti arrabbiare.» «Non sono arrabbiata.» «Perché potrei aiutarti, sai. Sono piuttosto ricco.» «Beh, grazie. Sto bene così.» Terminò di bendarlo, si voltò e scribacchiò la prescrizione. La mano le tremava mentre scriveva. Grande, pensò. Vuole darmi del denaro. E poi? «Ecco qui,» disse, consegnandogli la ricetta. «Prendi le compresse tre volte al giorno. E cambia ogni sera le bende. Se la tua mano non migliora, torna qui e ci daremo un'altra occhiata. «Abbiamo finito?»
«Certo.» Annuendo, lui saltò diù dal lettino. Vicki uscì nel corridoio davanti a lui. «Grazie per avermi medicato,» disse Melvin. «Sono a tua disposizione.» Inclinando la testa di lato, lui strinse un'occhio e la scrutò. «Sei molto gentile con me,» disse. «Lo sarò anch'io con te.» Lei si costrinse a sorridere. «Ti auguro una buona giornata, Melvin.» Lui percorse il corridoio oscillando, si fermò davanti alla porta della sala d'attesa, si voltò a guardare sopra la spalla e le strizzò un'occhio. Poi uscì. CAPITOLO NONO Qualche minuto prima delle cinque del pomeriggio, Melvin scivolò in un separé del Webby's Diner e ordinò una tazza di caffè. Mentre la sorseggiava, continuò a guardare attraverso la finestra. Da là, aveva un'ottima veduta della Gaines Family Medical Clinic all'altro lato della strada. Poteva vedere non solo l'ingresso principale, ma anche la piccola area di parcheggio lungo il lato dell'edificio. Dopo un poco, uscì il Dr. Gaines. Raggiunse una Mercedes bianca nel parcheggio, e partì. Restavano una station wagon Plymouth grigia, un maggiolino VW giallo, e una Dodge Dart bianca. Il maggiolino, lo sapeva, apparteneva a Thelma, l'addetta all'accettazione. Vicki era arrivata in città con un U-Haul. Forse aveva acquistato una macchina, ma né la station wagon né la Dart sembravano nuove. Vicki non aveva molto denaro, rammentò lui. Infatti aveva dovuto accettare un prestito da Gaines. Per cui, probabilmente, non poteva permettersi una macchina nuova. Forse non aveva neppure una macchina. O forse ne aveva comprato una usata, o ne aveva presa una in prestito. Mentre Melvin stava pensando a questo, una donna incinta uscì dall'edificio. Se ne andò con la Dart. Restava la station wagon. Non sembrava il tipo di macchina che Vicki avrebbe guidato. Chi è povero non può scegliere, pensò. Mentre la cameriera gli riempiva di nuovo la tazza di caffè, un uomo arrivò dalla direzione sbagliata, trasportando bidoni di vernice, e aprì la portiera posteriore della station wagon. Doveva essere andato da Handiboy, la porta accanto a quella della clinica. Quando la vernice venne caricata, partì. Restava solo la WW di Thelma.
Melvin si accigliò. Forse Vicki gli era sfuggita. O forse è ancora là dentro, ma non ha una macchina. Oppure ha una macchina, ma va a piedi. Forse abita pochi isolati più in là. Alle cinque e venti, la porta principale della clinica si spalancò e Vicki uscì. Melvin tenne gli occhi bene aperti. Si strofinò il dorso della mano sulla bocca. Era molto bella. Gli piaceva di più col camice bianco di medico che aveva indossato quella mattina; era un abito rigido e formale che in qualche modo faceva sembrare Vicki più fragile e vulnerabile, come se avesse bisogno di indossarlo per proteggersi. Ma era bella anche senza di esso. Senza il suo guscio. Indossava un abito sottoveste bianco del tutto privo di maniche. Le gambe sembravano nudissime sotto la gonna oscillante. Mentre lei si allontanava, Melvin gettò sul tavolo un quarto di dollaro di mancia. Si diresse verso la porta, costringendosi ad avanzare lentamente in modo da non suscitare sospetti nella cameriera o in Webby dietro il banco. Sapeva che lo stavano osservando. Tutti lo osservavano sempre, tranne gli stranieri che non sapevano quello che aveva fatto. Fuori, la calura pomeridiana gli si chiuse intorno. Lanciò uno sguardo furtivo all'altro lato della strada. Vicki si trovava a metà isolato, e camminava con passo spedito. La macchina di Melvin era parcheggiata vicino al marciapiede. Sarebbe stupido, pensò, cercare di seguirla con la macchina. A meno che non si fosse messo al volante, l'avesse raggiunta e le avesse chiesto se voleva un passaggio. Lo avrebbe accettato da lui? Può darsi. Ma avrebbe potuto chiedersi come mai lui si trovasse là proprio in quel momento. Decise di seguirla a piedi. Rimase sul suo lato della strada, e non accelerò l'andatura. All'isolato successivo, Vicki entrò nell'Ace Sportswear. «Serve qualcosa di speciale tipo bikini? Le concederemo il nostro sconto eccezionale per i segaossa.» «Non oggi.» «Beh, allora vada a fare in culo. Fuori di qui.» Una ragazza stava là vicino. Si girò su se stessa e guardò Ace con la bocca spalancata. «Jennifer,» le disse Ace, «fammi il favore di cacciare fuori questa tipa.» La mandibola di Jennifer ricadde. La sua faccia divenne di un rosso vermiglio. Non dimostrava più di diciassette o diciotto anni.
«Oh, non fartela addosso, dolcezza. Questa è la mia vecchia amica Vicki Chandler.» La ragazza roteò gli occhi verso l'alto. «Credevo che stessi dando i numeri. Cioè, Gesù Cristo gobbo. Voglio dire, merda, non ti avevo mai sentita trattare un cliente in quel modo.» Vicki sogghignò ad Ace. «Stai dando lezioni di lingua, a quanto pare.» «Cosa intendi dire? Ehi, ti piace il look di Jen? Speciale, eh?» La ragazza indossava un abito a strisce bianche e nere che sembrava un camicia da arbitro. Non era nemmeno molto più lungo di una camicia. La cintura era una catena d'argento allentata con un fischietto d'argento che pendeva contro la sua coscia sinistra. Portava calzini bianchi e scarpe da corsa bianche. «Insolito,» commentò Vicki. «Ai ragazzi piace moltissimo. Un po' sportivo, un po' ragazzina... » «Un po' camicia da notte,» aggiunse Vicki. «Il capo più alla moda del negozio,» disse Ace. «Quando arriverà la partita nuova, te ne regalerò uno. Fa impazzire i ragazzi.» «Sei pronta?» «Aspettavo te.» Poi rivolta a Jennifer, «La giornata mi sembra morta, puoi chiudere prima. Ciao.» «Piacere di averti conosciuta, Jennifer.» «Piacere mio,» disse la ragazza. Uscirono dal negozio e svoltarono l'angolo per raggiungere la macchina di Ace. L'aria calda si riversò su Vicki quando lei aprì la portiera del passeggero. Abbassò il finestrino prima di salire. Il sole aveva investito in pieno il sedile. Trasalì, come se fosse rimasta scottata, si sollevò e si puntellò con i gomiti sulla spalliera per staccare il sedere dalla tappezzeria ardente. «Tutto okey?» chiese Ace. «Abbastanza,» disse Vicki. Ace si sedette su un telo da spiaggia ripiegato sul sedile di guida. «Mi dispiace, dolcezza. Ho un altro telo nel portabagagli.» «Niente pomata contro le scottature?» «Vuoi che mi fermi alla clinica?» «Sopravviverò. Credo.» Vicki ridiscese lentamente. Non fu troppo doloroso, questa volta. Sospirò. «Dove siamo dirette?» chiese Ace, avviando il motore. «Il primo posto si trova in George Street. Vicino alla chiesa.»
Ace svoltò sulla Central. «Oh, guarda.» Spinse il pollice sulla sinistra. Vicki si chinò in avanti, scrutò al di là di lei, e vide Melvin. Stava di spalle e osservava la vetrina della Farmacia Johnson, grattandosi la guancia con la mano sinistra. Fu strano vederlo. A Vicki parve che il tempo fosse impazzito. Aveva lasciato il suo studio circa sette ore prima, no? «Stamattina è venuto da me,» mormorò. «Lo so. Me lo hai detto al telefono. Vecchiaia che incombe?» «Curioso.» «Cosa sarebbe curioso? Dopo essere venuto da te, probabilmente ha avuto l'ispirazione di comprare dei preservativi.» «Oh, splendido. Grazie.» Vicki guardò sopra la spalla e cercò di scorgere Melvin attraverso il lunotto posteriore. L'angolo di visuale non era quello giusto. Non riuscì a vederlo. «Non è insolito, sai, che i pazienti s'innamorino dei loro medici.» «Non è insolito per i medici eseguire lobotomie frontali sulle amiche paracule.» Ace abbassò lo sguardo sui seni. «Credi che ne abbia bisogno?» «Di cosa?» «Quell'operazione. Ai miei lobi frontali. Mi sembrano a posto.» Vicki la ignorò. Frugò nella borsetta e tirò fuori un foglio piegato sul quale aveva scritto l'indirizzo dei due edifici di appartamenti che avevano stabilito di visitare. «Sono davvero dispiaciuta per Pollock,» disse Ace. «Quel sacco di merda. Dovrò dirgli due paroline.» «Per favore, no. Voglio solo andarmene da quella casa e farla finita con lui.» «Porco schifoso.» «Spero solo di sistemarmi al più presto in uno di questi posti.» «Non credo che ce la farai per stasera. Facciamo così: dopo aver controllato questi posti, ci fermeremo a casa tua. Potrai impacchettare tutto quello di cui hai bisogno, e verrai a stare con me finché non ti sistemerai.» «Affare fatto.» «Splendido. Faremo baldoria.» Melvin pensò che forse lo avevano visto quando gli erano passate vicino, ma decise che la cosa non aveva molta importanza. Dopo tutto, egli si trovava davanti alla farmacia, e Vicki gli aveva dato una ricetta. Lui l'ave-
va già consegnata quella mattina, ma Vicki non poteva saperlo. Quando il rombo della Mustang di Ace si affievolì, si voltò e la scorse che si dirigeva a nord sulla Central. La tenne d'occhio mentre correva verso la sua macchina. Svoltò a sinistra su George Street. Lui raggiunse la sua macchina, fece un'inversione a "U", e sterzò a sinistra sulla George. La Mustang rossa non era in vista. «Merda!» Colpì con un pugno il volante. Con la mano destra. E gridò di dolore. Quando il dolore gli passò, mormorò, «Okay, non importa.» Voleva assolutamente scoprire dove lei viveva, ma avrebbe potuto riprovarci l'indomani. E il giorno dopo ancora, se l'indomani non ci fosse riuscito. Non sarebbe stato difficile. Sapeva che lo avrebbe scoperto, presto o tardi. Quando giunse a un incrocio, guardò a entrambi i lati. Nessun segno della macchina di Ace. Continuò a dirigersi verso ovest su George Street, pensando di proseguire in quella direzione per alcuni minuti ancora. All'isolato successivo, scoprì la Mustang rossa parcheggiata davanti al marciapiede di un edificio in mattoni a due piani. Nessuna traccia delle ragazze. Fissò l'edificio. Doveva essere quello. Proseguì. Quella notte, prima delle dieci, Melvin parcheggiò dietro l'angolo dell'edificio. Il suo cuore batteva rapido mentre lui camminava in direzione dell'ingresso. Il martellio gli fece pulsare la mano destra. Aveva bisogno di un'altra ragazza. Non avrebbe usato Vicki, però. In seguito. Solo dopo esserci riuscito. Ma sarebbe stato terribile coinvolgere lei e doverla seppellire come le altre. Lei doveva aspettare. Nel frattempo, doveva fare in modo di poterla vedere. Si fermò davanti alla porta. Scrutando attraverso il vetro, vide un piccolo ingresso fiocamente illuminato con un pannello di cassette delle lettere sulla parete. A sinistra c'era una stretta scala che portava al secondo piano. A destra delle scale, un corridoio si snodava per tutta la lunghezza dell'edificio. Non vide nessuno. Tentò di aprire la porta. Si aprì, e la cosa non lo sorprese. A Ellsworth, nessuno si curava troppo della sicurezza. Raggiunse le cassette delle lettere. Ce n'era una dozzina, ognuna etichet-
tata col numero di appartamento e il nome dell'inquilino. La prima cassetta aveva un'altra etichetta con su scritto Amministratore. Melvin fece scorrere il dito lungo la fila, toccando tutte le etichette con i nomi. Nessun Chandler. Ma il nome sul rettangolo di carta incollato col nastro alla cassetta n. 4 era stato cancellato con una penna blu. Doveva essere quella di Vicki, decise Melvin. Doveva essere là da pochi giorni, probabilmente non si era ancora preoccupata di mettere il suo nome. Il pavimento di legno del corridoio cigolò sotto le sue scarpe. Lui trasalì al rumore. Ma non dovette andare lontano. L'appartamento numero 4 era la seconda porta a destra. Non appena la scorse, si voltò e corse fuori. Attraversò il prato. All'angolo dell'edificio, trovò uno stretto sentiero erboso. La luce si riversava dalle finestre dell'appartamento 2, inclinandosi verso il basso e proiettando un bagliore sulla siepe che delimitava la proprietà. Melvin si chinò sotto le finestre, e avanzò nel buio fino alle finestre del numero 4. Scrutò attraverso il vetro. Le tendine sembravano aperte, ma la stanza era così buia che non riuscì a vedere nulla. O Vicki era già andata a letto, oppure era fuori da qualche parte. Se era andata a letto, non l'avrebbe vista a meno che non si fosse svegliata per andare al gabinetto, o roba del genere. Non era molto probabile. Si domandò se doveva restare da quelle parti, nel caso lei fosse uscita. Non voleva sprecare tutta la notte, però. Sarebbe valsa la pena aspettare, se fosse stato sicuro che lei sarebbe tornata di lì a poco. Spiarla sarebbe stato magnifico, e anche se lei avesse chiuso le tendine forse sarebbe rimasto uno spiraglio attraverso il quale vederla spogliarsi. Ma forse si era già addormentata. E forse quello non era il suo appartamento. Dopo tutto, il suo nome non era ancora sulla cassetta delle lettere. Sprecherai tutta la notte, pensò, e ci vorrà ancora molto tempo prima che tu possa/are qualcosa con lei. Ci proverò domani, decise. Verrò prima. Strisciò via, chino sotto le finestre illuminate dell'appartamento adiacente, poi pensò che poteva anche dare una sbirciata. Lentamente, si sollevò dalla posizione accovacciata. Le tendine erano aperte. Gli parve di riconoscere la donna sulla sedia reclinabile. Non riuscì a identificarla subito, ma poi realizzò che lavorava come cassiera al Riverside Market. Melba, così si
chiamava. Una porcona. Stava seduta là, distesa sulla sedia con i piedi appoggiati. Aveva i bigodini in testa. Era in reggiseno e mutandine beige. Teneva sollevato un libro in edizione economica davanti alla faccia, per cui non poteva vedere Melvin. Aveva fra le gambe una busta aperta di patatine alla messicana, e un barattolo di Diet Pepsi era appoggialo sul tavolino della lampada a portata di mano. Sembrava un ammasso gonfio e bitorzoluto di pasta di pane cruda. Melvin rifletté sulla possibilità di ucciderla. Era repellente. Nel negozio, si comportava come bagascia. Sarebbe bello prendere a calci quel ventre gonfio fino a farle vomitare sangue. Non essere stupido, si disse. Non vorrai mica perdere tempo con una che non userai. Non sarebbe stato capace di trasportare il corpo fino alla macchina, neppure se lo avesse voluto. Inoltre, avrebbe dovuto toccarla per ucciderla. E poteva già sentire le dita che gli affondavano in quella pelle bianca e grassa. Melvin si abbassò sotto la finestra, e si diresse verso la strada, rammaricandosi di avere guardato Melba. Avrebbe voluto che ci fosse stata Vicki su quella sedia. Vicki, di certo, non avrebbe mai indossato quell'orribile biancheria beige. Forse rossa. Forse nera. La immaginò seduta là con addosso il solo camice bianco da dottore. Sbottonato, aperto. Salì in macchina, e affrontò il viaggio di quaranta miglia che lo avrebbe portato al Blayton Memorial Hospital. CAPITOLO DECIMO Poco dopo mezzanotte, cominciarono ad arrivare nel parcheggio dell'ospedale. L'area era intensamente illuminata. Melvin, sprofondato nel sedile di guida, li osservava attraverso il parabrezza. C'erano uomini e donne. Alcuni indossavano abiti normali, ma altri erano vestiti di bianco. Suppose che fossero dottori, infermiere, tecnici di laboratorio, inservienti, custodi, tutti pronti a rientrare a casa alla fine del loro turno. Melvin scelse una ragazza alta e magra vestita di bianco. Probabilmente
un'infermiera. A quella distanza, non poteva distinguere bene la faccia. Ma aveva corti capelli biondi come Vicki, e una bella figura. Sembrava la migliore. Camminava assieme a una donna tarchiata che probabilmente era un'altra infermiera, e a un uomo in tuta. I tre si fermarono accanto a un furgone. Parlottarono per un po'. Melvin udì il suono tranquillo delle loro voci, ma non riuscì a capire cosa stessero dicendo. L'uomo di lì a poco salì sul furgone. Le due infermiere rimasero assieme mentre superavano diverse macchine nell'area di parcheggio riservata al personale. Poi, quella magra salì su una VW Rabbit e quella tarchiata proseguì. Melvin uscì in retromarcia dal suo spazio, e si unì alla breve fila degli altri veicoli che attendevano di uscire dal parcheggio, poi uscì nella strada e accostò al marciapiede. Scrutando sopra la spalla, vide la Rabbit VW svoltare sulla strada. Girò a destra, proprio come aveva fatto lui. Un buon presagio, pensò. La Rabbit lo superò. Lui le si accodò rapidamente, poi rallentò e si fece distanziare. Non era il caso di stare attaccato al cofano della ragazza, anche se lei probabilmente pensava che fosse un altro impiegato dell'ospedale diretto a casa. Poteva anche non essere una cosa facile. Quelle che si fermavano alla sua stazione di servizio erano sempre facili. Un paio le aveva fatte fuori mentre erano ancora sedute al posto di guida, pronte a pagargli il carburante. Alcune le aveva seguite nel bagno e sistemate là dentro. Altre, si erano fermate nella piazzuola di servizio e lui aveva praticato un taglio nella cinghia della ventola mentre controllava l'olio. Dopo che erano ripartite, aveva chiuso la stazione e si era diretto su per River Road col suo carro attrezzi. Le aveva trovate bloccate ai margini della strada un paio di miglia fuori della città, e loro avevano pensato che era un miracolo che fosse apparso lui. Facile. Ma questo era parecchio diverso. Non sapeva con certezza come risolvere il problema. Aveva avuto parecchio tempo per riflettere sul da farsi mentre aspettava nel parcheggio dell'ospedale. Sapeva come voleva prenderla. Voleva semplicemente seguirla fino a casa, aspettare finché non fosse entrata, poi sgusciare dentro e coglierla di sorpresa. In questo modo, avrebbe avuto tutta la privacy e il tempo necessario. Per quanto ne sapeva, la ragazza avrebbe potuto essere sposata o vivere coi genitori o avere un compagno. In realtà,
doveva ammettere che era molto probabile che non vivesse da sola. Avrebbe potuto entrare e prenderla, comunque, ma non era sicuro di voler rischiare tanto. L'altra possibilità era quella di agguantarla prima che arrivasse a casa. Escogitare un modo per fermarla sulla via, o cercare di prenderla dopo che avesse parcheggiato, mentre stava per raggiungere la porta. Quei metodi avrebbero funzionato a patto che non vi fosse nessuno nelle vicinanze. Affronta la cosa a lume di naso, si disse Melvin. La Rabbit svoltò a sinistra. Melvin la seguì. Controllò lo specchietto retrovisivo. Nessuna delle macchine dietro di lui fece la curva. La strada davanti era sgombra, con soltanto alcune case in vista, più avanti. Conosceva quella strada. Conduceva a Cedar Junction. Se solo non avesse imboccato uno di questi viali... Lo imboccò. Apparvero dei fari in lontananza, per cui rallentò. Le luci si avvicinarono. Lui strinse gli occhi contro il loro bagliore. Un camioncino passò sfrecciando, e il bagliore scomparve. Melvin osservò le luci posteriori nello specchietto. Quando si furono ridotte a minuscole macchioline rosse, attraversò la mezzeria e pigiò sull'acceleratore. Raggiunse la Rabbit, la superò, poi rallentò. Nulla davanti, eccetto la strada e i campi illuminati dalla luna. Studiò la Rabbit nello specchietto retrovisivo. Sembrava a tre macchine di distanza dietro di lui. Melvin sogghignò per la sua abilità. Sapeva che avrebbe potuto tagliare la strada alla macchina mentre la stava superando, ma una manovra bizzarra come quella avrebbe messo in guardia la donna. In questo modo, non si sarebbe insospettita affatto finché non fosse stato troppo tardi. Si preparò, mano sinistra stretta al volante, braccio rigido, premendosi contro la spalliera del sedile e il poggiatesta. E pestò il piede sul pedale del freno. I pneumatici afferrarono il lastricato, slittarono e stridettero. La Rabbit gli venne addosso. Udì il suo strillo. La sua macchina sobbalzò per l'impatto. Non più di uno scossone, in realtà, ma sufficiente. Non sentì i vetri che s'infragevano, per cui ritenne che entrambe le macchine fossero rimaste danneggiate. Sterzò sulla dura banchina sterrata della strada, e si fermò. La Rabbit lo superò lentamente, con entrambi i fari ancora funzionanti. Per un brutto
momento, temette che l'infermiera potesse proseguire. Ma lei fece svoltare la macchina sulla banchina e si fermò a pochi metri da lui. La portiera si aprì. Mentre lei scendeva, Melvin si accasciò sul volante. Udì il rapido scalpiccio delle sue scarpe sulla strada. Il rumore si fermò accanto a lui. Si raddrizzò lentamente, scuotendo la testa. «Sta bene?» chiese la donna. La sua voce tremava. «Credo di sì,» borbottò lui. Si strofinò la nuca. Lei stava vicino alla portiera, e si era chinata per guardarlo. Lui desiderò di poterla vedere meglio, ma la luce era troppo fioca. Quello che riusciva a vedere sembrava a posto. Pensò che aveva superato da poco la ventina. L'abito bianco aveva una targhetta con un nome sul seno sinistro, ma non riuscì a leggerlo. «Cos'è accaduto?» chiese lei. «Perché ha frenato?» «Qualcosa... mi ha attraversato la strada. Forse un gatto. Non so. È accaduto così in fretta. Credo che se avessi proseguito lo avrei investito.» «Mi dispiace. Non avrei dovuto stare così vicina. Ha colpito la testa?» «Non so.» Si strofinò la fronte. «Sto bene, credo.» Spense il motore, e sfilò la chiave con la mano destra bendata. Lentamente, aprì la portiera e scese sulla strada. Fingendo di ignorare la donna, si avvicinò al cofano della macchina. «Non credo ci siano danni,» disse lei, seguendolo. Le luci posteriori e quelle dei freni brillavano, rosse. «Non sembra,» mormorò Melvin. «Ho visto un lampo nel cofano. Farò meglio a dare un'occhiata.» «Le darò il mio nome e il numero,» disse la donna. «Se ci sono problemi, sarò ben lieta di pagare.» Lui aprì il cofano con la chiave. Lo sportello si sollevò. «Non c'è bisogno di coinvolgere l'assicurazione, no?» chiese lei. «Preferirei che la cosa si risolvesse fra noi, se per lei va bene.» «Sicuro,» disse lui. «Benissimo.» Parve molto sollevata. Melvin prese la torcia elettrica dal cofano. La accese, e la puntò sulle mani della donna mentre lei frugava nella borsetta. Trovò una penna e un taccuino. Lui vide che le mani le tremavano mentre lei cercava di tener fermo il taccuino e di scriverci sopra. «Può darsi che avverta una certa rigidità nel collo,» disse mentre scriveva. Non suonò molto diverso dal discorsetto di Vicki a proposito del suo morso. «Non sarebbe insolito in una situazione del genere. Ma se si pre-
senterà in ospedale e chiederà di me... » «Ottimo,» disse Melvin. «Farò in modo che possa avere tutte le cure del caso. Abbiamo un ottimo reparto di fisioterapia.» «Okay.» Strappò una pagina del blocchetto. Essa ondeggiò mentre gliela porgeva. Lui la tenne sotto il raggio della torcia. Il suo nome, Paricia Gordon, era scritto in maniera incerta. Sotto il nome c'era un numero di telefono. Melvin ficcò il foglio nella tasca della camicia. Mentre lei faceva scivolare il taccuino nella borsetta, lui le diresse la luce in faccia. La donna socchiuse gli occhi e voltò la testa. Niente male. Un bel nasino. Lentiggini. Capelli color sabbia che cadevano sulla fronte. La targhetta col nome diceva: Patricia Gordon, RN4. L'abito aveva una chiusura lampo sul davanti. Era abbassata quel tanto da mostrare un piccolo triangolo di pelle nuda sotto la gola. «Potrebbe... ?» lei fece per dire, ma il fiato le esplose dal petto quando Melvin le conficcò la torcia nel ventre. Il dolore gli saettò lungo il braccio destro. Gridò e lasciò cadere la torcia proprio mentre Patricia si piegava in due. Le assestò una ginocchiata tale da sollevarla da terra. Prima che potesse cadere le avvolse le braccia intorno alla vita. La sollevò e la scaraventò nel cofano. Lei cadde sulla schiena, con le gambe per aria. Lo sportello del cofano, abbassandosi con forza, le spinse giù le gambe. E si chiuse con uno scatto. Melvin raccolse la torcia con la mano sinistra. Spinse avanti e indietro il pulsante col pollice un paio di volte, ma la luce rimase spenta. Le luci rosse posteriori gli concedevano abbastanza chiarore da permettergli di controllare lo spazio dietro la sua macchina. Mentre si guardava intomo, udì dei tonfi e delle grida smorzate dal cofano. La borsetta, decise, doveva essere nel cofano con Patricia. La portava a tracolla. Non vide nulla sul lastricato o sulla banchina. Raggiunse la macchina della ragazza. Il motore era ancora acceso. Aprì la portiera del guidatore, si chinò dentro, sfilò la chiave di accensione e spense i fari con una nocca. Quando chiuse la portiera, la macchina rimase al buio. Pulì la maniglia col davanti della camicia. Tornato alla sua macchina, tolse la chiave dalla serratura del cofano. Pa-
tricia urlò, «Fammi uscire di qui! Non puoi fare questo!» «Vuoi scommettere?» borbottò lui. Salì sulla macchina, fece un'inversione a "U", e si allontanò. Sapeva che poteva aver lasciato le impronte dei suoi pneumatici sul tratto sterrato della banchina. Pensò di tornare indietro e di cancellarle. Qualcuno sarebbe potuto arrivare, però. Era stato fortunato a sbrigarsela con Patricia senza che sopraggiungesse alcuna macchina. Il giorno dopo, avrebbe mandato via Manny e montato altri pneumatici sulla sua macchina. E si sarebbe liberato di quelli. Facile. A casa, Melvin parcheggiò nell'autorimessa. Usò il telecomando sul cruscotto per abbassare la porta che produceva un rumore. Lui scese dalla macchina. Era la prima ragazza che portava a casa viva. Eccitante, una ragazza viva nel cofano. Ma anche un po' allarmante. Si fermò dietro la macchina e fissò il cofano. Cosa farò con lei, adesso? Durante la lunga corsa in macchina, aveva avuto parecchio tempo per riflettere sul problema. Ma non gli erano venute grandi idee. Si trattava di decidere fra l'ammazzarla subito o lasciarla in vita per un po'. Poteva essere divertente non ucciderla subito. Avrebbe potuto legarla e divertirsi un po' con lei. D'altra parte, era ansioso di sperimentare un nuovo metodo su di lei. Che, dopo tutto, era la ragione per cui l'aveva presa. Non sono un dannato stupratore, si disse. Inoltre, come avrebbe potuto legarla senza farsi male alla mano ferita? Era pensabile che lei avrebbe lottato. Avrebbe dovuto gasarla o riempirla di botte. Poi, se non fosse stata priva di sensi, avrebbe dovuto coprirle la faccia con qualcosa. Certo non voleva che lo guardasse mentre se la scopava. Tutto quel disprezzo negli occhi. Le ragazze avevano quasi sempre il disprezzo negli occhi quando lo guardavano. Anche lei, sicuramente. Ma se avesse resistito fino a dopo averla uccisa e riportata in vita, lei gli sarebbe stata così grata da fare qualsiasi cosa per fargli piacere. Diavolo, lo avrebbe amato. Entrò in casa. Uscì con la sua Colt .44 e con un sacco di plastica verde a doppio strato per i rifiuti. Spinse il sacco ripiegato nella tasca davanti dei suoi pantaloni. Tenendo il revolver con la mano sinistra, aprì il cofano con la chiave. Lo sportello si sollevò. Patricia giaceva raggomitolata su un fianco, le mani che le coprivano il volto. Stava singhiozzando piano.
«Scendi,» disse Melvin. «Non ti farò del male.» «Non farmi del male,» disse lei attraverso le mani. «Ti ho detto di no. Andiamo.» Lei si sollevò su mani e ginocchia dentro il cofano, senza guardarlo neppure per una volta. La sua schiena si scuoteva mentre lei piangeva. Un filo di muco le pendeva dal naso, oscillando. Lentamente, tenendo bassa la testa, scese dal cofano. Rivolse la schiena a Melvin, s'ingobbì e si aggrappò alla macchina. «Cosa vuoi farmi?» «Non tentare di opporti, e andrà tutto bene.» Spinse il revolver nella cintura, tirò fuori il sacco dalla tasca, e lo aprì scuotendolo. «Cos'è?» «Niente. Solo un sacco. Te lo infilerai così non vedrai dove stiamo andando. Mettiti dritta, le braccia contro i fianchi.» Lei eseguì gli ordini. Melvin aprì il sacco, glielo infilò sulla testa, e lo tirò giù lungo il corpo. Esso la coprì fin quasi alle ginocchia. Lui si tolse la cintura e ne fece un cappio infilando un'estremità attraverso la fibbia. Fece cadere il cappio sopra la sua testa. Il sacco di plastica crepitò quando lui lo strinse intomo al collo. Lasciò abbastanza gioco nella cintura da in modo che lei potesse ancora respirare. «Puoi respirare?» chiese. La sua testa coperta annuì. Melvin udì un singhiozzo. «È troppo stretta?» «No.» «Okay, girati verso di me.» Lei si girò. Melvin tirò di lato la cintura facendo scorrere la fibbia davanti a lei. Camminò all'indietro, guidandola attraverso il garage fino all'ingresso laterale della casa. La condusse nella casa, attraverso la cucina fino a un'altra porta chiusa. Aprendo la porta, disse, «Scale. Stai attenta.» «Dove mi stai portando?» chiese lei, con voce acuta e piagnucolosa. «Il seminterrato.» Melvin sogghignò. «È là che resterai finché non arriveranno col riscatto.» «Riscatto?» «Sicuro. Cosa credevi, che ti avrei uccisa o roba del genere?» «È il denaro che vuoi?» «Certo.» Melvin accese la luce del seminterrato. Volgendo la schiena alle scale,
scese con cautela un gradino. La sua mano sinistra teneva la cintura. La destra afferrava la ringhiera. Patricia esitò sul gradino più alto. «Scendi e reggiti alla ringhiera,» disse lui. «Non voglio che tu cada e ti faccia male.» Lei si tirò su, un poco per volta, il sacco di plastica intorno alla vita, allungò una mano e afferrò la ringhiera di legno. Melvin stava due gradini sotto Patricia, e la osservava mentre scendeva. Si muoveva con lentezza e cautela. Le sue scarpe e le calze erano bianche. Lui odiava quelle calze bianche. Saranno le prime ad andarsene, decise. «Chi dovrebbe pagare per me?» chiese lei. Non sembrava più particolarmente spaventata. «Dimmelo tu.» «Ho dei risparmi.» «Quanto?» Melvin raggiunse il pavimento del seminterrato. Patricia scese gli ultimi due gradini. Quando la ringhiera terminò, le tirò giù il sacco più che poté, preferendo apparentemente di essere coperta e non visibile. «Ho quasi ottocento dollari,» disse. «Bastano? Puoi averli tutti.» «Ottocento?» Melvin avanzò dietro di lei. «Sicuro. Mi sembra ottimo.» Avvolse la cintura intorno alla sua mano sinistra. «Bene. Allora... » Diede uno strattone alla cintura. Patricia barcollò verso di lui mentre il cappio si chiudeva, stringendole il sacco intorno al collo. Lui si tolse di mezzo con uno scatto. Il sedere della ragazza colpì il pavimento di cemento. Lui salì i primi tre gradini, tenendo stretta la cintura, trascinandola finché lei non giacque sui gradini. Lei scalciò e si contorse. Riuscì a sollevare il sacco, liberandosi le braccia, e afferrò la cintura che la soffocava. Melvin aggrottò le sopracciglia. Voleva soffocarla, non strangolarla. Non voleva segni sulla sua gola. Così allentò un poco la cintura. Lei la strattonò. Melvin lasciò la presa. La cintura gli si srotolò dalla mano e guizzò al di là dei piedi di lei. Patricia tirò un rumoroso respiro e si alzò a sedere. Le sue mani tirarono la sommità del sacco, cercando di strapparlo dalla testa come se fosse un ostinato pullover. Melvin si lasciò cadere dietro di lei. Seduto sul gradino appena più in alto, tirò giù le braccia di Patricia e le avvolse intorno le gambe, inchiodandole le braccia ai fianchi. Poi, si chinò sopra la sua testa e le strinse il sacco contro la faccia.
Quando lei morì, le tolse prima le calze bianche. CAPITOLO UNDICESIMO Vicki si svegliò di soprassalto, ansimando. Si rotolò su un fianco, zittì il clamore della sveglia, e si girò sulla schiena. Fissò il soffitto buio. Era senza fiato, il cuore le martellava, la testa le pulsava dolorosamente. Non riusciva a ricordare l'incubo, ma doveva essere stato terribile. Sicuramente Melvin ne era il protagonista. Sollevò un braccio da sotto il lenzuolo, e si strofinò la fronte. Era umida e cocente. Quando si strofinò il cuoio capelluto, scoprì che i capelli erano zuppi. Mi sono presa qualche malattia? si domandò. Si sentiva come dopo una sbornia. Anche se erano rimaste fino a tardi in cucina lei e Ace, non avevano bevuto altro che Coca. Probabilmente era solo un brutto incubo. Anche se il respiro e il battito cardiaco di Vicki sembravano di nuovo regolari, si sentiva ancora il mal di testa. E si sentiva oppressa. Dimenticati di correre stamattina, pensò. Prendi solo un'aspirina, cerca di riaddormentarti, e spera di liberarti del mal di testa. Spinse di lato il lenzuolo. Gemendo per lo sforzo, si alzò a sedere. La sensazione della brezza calda sulla pelle le fece capire che qualcosa non andava. Abbassò lo sguardo. Il suo seno sinistro era scoperto. Il corsetto della camicia da notte pendeva sotto di esso. Pensando che la spallina doveva esserle scivolata dalla spalla, fece scorrere una mano su per il braccio. La spallina non c'era. Dev'essersi staccata. Spinse le gambe giù dal letto e accese la lampada. Socchiudendo gli occhi contro il bagliore, sollevò la coppa di tessuto di pizzo sul seno. Sul bordo c'era uno strappo irregolare. Vicki aggrottò le sopracciglia. Si alzò e si sfilò la camica da notte umida. Prese il nastro pendulo. Alla sua estremità c'era il pezzetto di tessuto strappato dal davanti. «Buon Dio,» farfugliò. Non poteva averlo provocato il normale girarsi e rigirarsi nel sonno, indipendentemente da quanto potesse essere stato febbrile il suo sonno. Si avvicinò all'anta dell'armadio e si guardò nello specchio a figura intera. Lo strappo aveva lasciato una tenue traccia rossa in cima alla sua spalla sinistra.
Qualcuno aveva afferrato la camicia e gliel'aveva strappata dal seno. Qualcuno, pensò. Credo di sapere chi. A meno che la sua stanza non fosse stata invasa durante la notte da un molestatore errante, o Ace non fosse segretamente una lesbica, Vicki si era strappata la camicia da notte da sola. Le altre due possibilità apparivano remote. Ace non aveva mai manifestato alcuna inclinazione per un contatto sessuale con Vicki. Anche se fosse stata interessata, non era il tipo da aggirarsi furtivamente per farsi una palpatina. E riguardo alla possibilità che un estraneo si fosse introdotto nella stanza, chi mai poteva essere entrato per poi limitarsi a scoprirle un seno? Vicki fu certa che nessuno potesse aver dato uno strappo come quello alla sua camicia da notte senza svegliarla. La spallina che le segava la spalla in quel modo le avrebbe fatto sicuramente male. Se l'era fatto da sola, probabilmente negli spasimi dell'incubo. E questo la spaventò. Si era convinta che gli incubi stessero diminuendo. Invece, sembravano peggiorare. Cosa sarebbe accaduto, adesso? Avrebbe camminato nel sonno? Gettò la camicia da notte sulla sedia, aprì l'armadio e indossò la vestaglia di satin. Poi s'incamminò lungo il corridoio, passò davanti alla porta di Ace, ed entrò nel bagno. Dopo aver usato la toilette, prese un flacone di aspirina dalla sua borsa e ingerì tre compresse con un bicchiere d'acqua. Tornata nella camera da letto, si tolse la vestaglia, regolò nuovamente la sveglia per le otto e spense la lampada. Si allungò sul letto. Il lenzuolo umido e fresco era piacevole contro la sua pelle nuda. La brezza proveniente dalla finestra aperta scivolò su di lei. Si strofinò la nuca irrigidita, incrociò le mani sotto i capelli umidi e fissò il soffitto, domandandosi se sarebbe riuscita ad addormentarsi; domandandosi se ne avesse avuto il coraggio. Sognò di essere sulla piattaforma dei tuffi con Paul. Il sole non era ancora sorto, e una fitta nebbia era sospesa sul fiume. Non riusciva a vedere nulla oltre il bordo della piattaforma. «Ti amo tanto,» disse. «Ti amerò sempre,» le disse lui. Avvertì una terribile fitta di vuoto e nostalgia. «Voglio che questa mattina sia speciale, qualcosa che avremo e ricorderemo per sempre, anche se non ci rivedremo mai più.» Lui la prese fra le braccia e la baciò. Vicki cominciò a piangere. «Cosa c'è?» chiese lui. «Te ne andrai via.»
«Tornerò. Un giorno, tornerò da te.» «Lo prometti?» «Te lo giuro.» Si tracciò una croce sul cuore. Poi Vicki cominciò a sbottonarsi la camicia. «Cosa stai facendo?» «Voglio fare l'amore.» «Qui?» «Nessuno può vederci.» Ben presto, furono entrambi nudi. Vicki si adagiò sulla schiena. Paul, si distese accanto a lei, si appoggiò su un gomito, e fece scivolare dolcemente la mano sulla sua pelle. «Sei bellissima,» disse. Lei curvò le dita intorno al suo pene. Gemendo, lui salì su di lei. S'inginocchiò fra le sue gambe aperte. Le baciò i seni. «Sei molto gentile con me,» disse. Ma non era la voce di Paul. «Lo sarò anch'io con te.» Le leccò il capezzolo e Vicki lo afferrò per i capelli e gli tirò su la testa. Melvin sogghignò. Lei cominciò a strillare. Melvin la schiafeggiò sulla bocca con una mano bendata. «Sarò veramente gentile con te.» «No, per favore!» In qualche modo, poteva parlare nonostante la mano di lui. «Va tutto bene. Vedi?» Lui sollevò un preservativo davanti alla sua faccia. «No!» gridò lei. «Per favore!» «Sbrighiamoci. Non abbiamo tutto il giorno a disposizione.» C'era qualcun altro sulla piattaforma con loro. Vicki voltò la testa. Dexter Pollock stava inginocchiato accanto a loro. Si tolse l'accappatoio. Era nudo tranne che per la fondina, e per un distintivo della polizia appuntato al petto. Rivoli di sangue gli scorrevano sul torace dai fori praticati dal distintivo. «Ehi!» gridò qualcuno in lontananza. «Cosa sta succedendo laggiù?» La nebbia si sollevò. Al di là dell'acqua, lontano sulla spiaggia, c'era un uomo seduto in cima allo scivolo del parco giochi. Dexter sfoderò il revolver e fece fuoco. L'uomo si capovolse e cadde a terra dietro la scaletta dello scivolo. Melvin, inginocchiato sopra di lei, adesso aveva dei cavi in mano. Fece toccare i morsetti e le scintille esplosero dagli aguzzi denti di rame. Vicki, strillando, si strinse i seni e si raddrizzò vacillando sul letto. La stanza era illuminata dalla luce del sole. L'orologio segnava le 7:50. Fra
dieci minuti, la sveglia avrebbe suonato. Lo desiderò ardentemente. Se la sveglia avesse squillato, il risveglio improvviso l'avrebbe scossa scacciandole il sogno dalla memoria. I dettagli erano vividi. Il suo mal di testa sembrava sparito, ma i muscoli del collo erano ancora duri come il ferro. Ace aprì la porta e scrutò dentro. «Tutto okay?» Vicki annuì. Tirò su il lenzuolo per coprirsi. «Hai strillato.» «Ho avuto un incubo.» «Sembri una morta ambulante.» «Grazie. Mi sento effettivamente così.» Ace entrò. Reggeva una tazza di caffè. Aveva i bigodini in testa. Indossava la sua camicia da notte Minnie. Il davanti sussultava e oscillava mentre lei camminava.«Ecco,» disse, «prendi questo.» Tese la tazza a Vicki. «Ne hai bisogno più di me.» Vicki sorseggiò il caffè caldo. Sospirò. Ace si sedette sul bordo del letto. «Dev'essere stato un incubo coi fiocchi.» «Era cominciato benissimo. Poi ci si sono messi Melvin e Pollock.» «Anch'io avrei strillato.» «Gesù.». «Sei tutta sudata.» «Lo so. È la seconda volta, questa notte.» «Stesso sogno?» Vicki si strinse nelle spalle. «Non ricordo il primo. Sto avendo queste maledette cose da quando sono tornata in città.» «Ogni notte?» «Credo di sì.» «La tua psiche dev'essere a pezzi.» «Si tratta di nuovo di Melvin. È presente in tutti sogni, e mi insegue. Almeno in quelli che ricordo.» «Si vede che lo desideri nel subconscio.» «Oh, certo. Vaffanculo.» «Spera che non siano premonitori.» Vicki le rivolse un sogghigno. Ace le diede una pacca sulla gamba attraverso il lenzuolo. «So quello che ti ci vuole per rimetterti in sesto, dolcezza. Un boyfriend, ecco di cosa
hai bisogno. Innamorati, e vedrai che ti toglierai dalla testa lo Strepitoso Melvin.» «Giusto.» «Escludendo ciò, resta solo uno strizzacervelli.» «Può darsi pure che ci debba arrivare.» Solo per un momento, la preoccupazione apparve negli occhi di Ace. Poi lei sorrise. «Starai benissimo,» disse. «Preparo qualcosa per colazione.» Si alzò. «Mentre tu prepari, credo che farò una doccia.» «Meglio due,» le disse Ace, e uscì dalla stanza. Dopo una lunga doccia fredda, Vicki indossò una T-Shirt e degli shorts puliti. Trovò Ace in cucina, che preparava una pila di frittelle da accompagnare alla salsiccia che stava sfrigolando nella padella. Si chinò sulle salsicce e le annusò. «Forse resterò con te. Al diavolo il nuovo appartamento.» «Se pensi che mi dispiacerebbe, sei pazza.» «Abbiamo già stabilito che sono pazza.» «La stanza degli ospiti non mi serve.» Sogghignò sopra la spalla a Vicki. «Quando ho degli ospiti, non è là che dormono.» Vicki si versò altro caffè, e riempì la tazza di Ace sul tavolo. «Non so,» disse. «Potrebbe essere bello per qualche giorno, ma... » Ace sollevò un braccio e si annusò l'ascella. «Una rosa,» annunciò. «E allora qual è il problema? Il mio alito puzza?» «Ti starei sempre fra i piedi.» «Mi farebbe piacere. Non voglio offenderti, ma potresti dare un piccolo contributo per il vitto e l'alloggio. Ti farei comunque pagare molto meno di Agnes Monksby. Avresti a disposizione una vera casa invece di un piccolo appartamento, niente padrona di casa o viscidi inquilini con cui avere a che fare, per non parlare del bel cortile per i bagni di sole... » «Per non parlare della cuoca,» aggiunse Vicki. «Già, ma questo non fa necessariamente parte dell'accordo, paracula. Faremmo a turno per questo genere di cazzate.» «Non so, Ace. Ho già detto ad Agnes che avrei preso la casa.» «Non ho visto denaro che passava di mano.» «Beh... » «Chiamala e dille che hai cambiato idea.» «Vorrei che tu me lo avessi detto ieri, prima che parlassimo con lei.» «Ieri non sapevo neppure che tu ci stessi pensando.»
«Cosa ti fa pensare che io ci pensi oggi?» Ace la guardò e sollevò un sopracciglio. «Per prima cosa, stai avendo tutti quegli incubi. Non hai voglia di svegliarti in un appartamento vuoto. Hai bisogno di avere una persona amica intorno. Eccomi qua. Perlomeno finché non troverai un tizio che ti scoperà fino a farti diventare scema e ti farà dimenticare Melvin. E ti aiuterò anche a trovare il tizio. Le relazioni non mi mancano. Nel frattempo, di' alla Monksby che hai cambiato idea. Andremo da Pollock dopo il lavoro e prenderemo il resto della tua roba.» L'idea di restare là allettava Vicki. Sarebbe stato quasi lo stesso che avere una casa sua. Ace era un'amica così cara che era come di famiglia, e adesso dava l'impressione che se la sarebbe presa se Vicki avesse respinto la sua generosità. Inoltre, c'erano gli incubi. Sembrava che stessero peggiorando, e Ace era praticamente perfetta per garantirle un corforto sotto lo stesso tetto. Se non funziona, pensò, potrò sempre trovare una nuova sistemazione. «Sei sicura che non ti dispiace di avermi fra i piedi per un po'?» «Te lo chiederei se mi dispiacesse?» «Intendo dire che non voglio che tu lo faccia per pietà o... » «Non rompere le palle.» Dopo colazione, era pronta per andare al lavoro. Ace si offrì di darle un passaggio. «Aprirai fra un'ora,» disse Vicki. «Mi ci vorranno solo cinque minuti per accompagnarti alla clinica.» «Grazie. Penso che andrò a piedi, però. Stamattina ho saltato gli esercizi.» «Già. Farai meglio a camminare. Se diventi grassa e sciatta, non riusciremo a scovarti un innamorato, e dovrò starti appiccicata per sempre.» «Giusto.» «Fermati al negozio dopo che hai finito, andremo a prendere la tua roba.» «Ottimo. Ci vediamo.» Vicki uscì dalla casa. Anche se la mattinata era calda, gli alberi ombreggiavano il marciapiede e c'era un alito di vento. Si sentiva bene. Il mal di testa era passato. Il collo era ancora un po' irrigidito, ma era un disagio marginale. Era un vero sollievo sapere che avrebbe vissuto con Ace. E il giorno dopo era sabato. La clinica restava aperta di sabato, ma Charlie l'aveva lasciata libera per i fine settimana. Avrebbe potuto trascorrere la giornata ri-
lassandosi, e sistemando le sue cose. Non vedeva l'ora di farlo. Il suo buon umore durò finché non vide la clinica e scorse Melvin Dobbs seduto sulla veranda. I suoi capelli erano tirati indietro e unti. Gli occhi erano nascosti dietro gli occhiali a specchio. Indossava una camicia hawaiana rosso vivo a fiori blu, Bermuda a quadri, e calzini neri. Le sue Oxford luccicavano nel sole. Mentre Vicki si avvicinava, sollevò la mano bendata in segno di saluto, e si alzò. «Buon giorno, Melvin.» Anche se dentro si sentiva tremare, la sua voce suonò calma. «Come va la mano?» «Più o meno come prima.» Vicki si accorse che non aveva cambiato le bende. Se lo avesse detto, però, lui avrebbe potuto chiedere a lei di farlo. «Sei molto carina,» disse Melvin. «Grazie.» Avvertì un po' di nausea. Gli occhiali a specchio le impedivano di vedere la direzione del suo sguardo. La scollatura dell'abito non era così bassa da mostrare neppure la sommità dei seni, ma improvvisamente si rammaricò di non aver indossato qualcosa che la coprisse meglio. Un'armatura sarebbe andata benissimo. «Volevi vedermi per qualcosa?» domandò. Lui annuì. Si strofinò il dorso della mano sinistra sulle labbra carnose. «Ce l'hai una macchina?» «No, non ancora.» «Lo immaginavo. Sei venuta con un U-Haul, e ieri te ne sei andata con Ace. Ero davanti alla farmacia quando siete passate con la macchina. Dovresti avere una macchina.» «Beh, sto mettendo da parte qualcosa per comprarla.» «Vieni.» Passò davanti a Vicki, agitò una mano per farle segno di seguirlo, e raggiunse con la sua andatura dinoccolata l'angolo dell'edificio. Mentre lei gli si stava avvicinando, la sua mano sinistra era scivolata nella tasca dei pantaloncini e ne era uscita con un mazzo di chiavi. Oh, no. Parcheggiata nell'area della clinica accanto al maggiolino di Thelma c'era una Plymouth Duster rosso fiammante. «Melvin.» «Ti piace?» «È bellissima, ma... » «È tua.» Sollevò le chiavi verso di lei.
Vicki non allungò la mano. Scosse la testa e si strofinò le mani sudate sull'abito. «Cosa vuoi dire?» «Puoi prenderla.» «Non posso accettare una macchina da te.» La testa di Melvin andò su e giù. «Sicuro che puoi. Non so che farmene.» «Non posso proprio.» «L'ho verniciata apposta per te.» «È molto carino da parte tua, ma... » «Sei mia amica. Sei stata molto gentile con me. Devi avere una macchina.» «Melvin.» Sospirò. «È molto gentile da parte tua, e lo apprezzo, ma un regalo così... non posso. Veramente.» «Okay. Okay.» Stava sogghignando. Vicki desiderò che smettesse di sogghignare. «Consideralo un prestito, allora. Potrai tenerla finché non avrai messo da parte abbastanza per comprare una macchina nuova. Che ne dici?» «Ma io davvero non ho bisogno di una macchina, Melvin. Abito abbastanza vicino da poter venire a piedi.» «Sicuro che ne hai bisogno. Hai questa.» Fece un barcollante passo in avanti, spingendo le chiavi verso di lei. Vicki si strinse le mani dietro la schiena, e scosse la testa. «No. Per favore, Melvin, io non... » La sua mano bendata scattò. La punta di un dito uncinò la scollatura del suo abito. Lui lasciò cadere le chiavi nel davanti. Vicki le sentì cadere fra i seni e scivolare sullo stomaco. La cintura che aveva in vita interruppe la caduta. Scioccata, fissò Melvin. Lui fece un passo di lato e le girò intorno, sogghignando. Mentre si allontanava di corsa, si voltò a guardare sopra la spalla. «Quando non ti servirà più, fammelo sapere.» «Melvin!» «Qualunque problema, vieni alla stazione.» «Non puoi lasciarla qui!» Melvin svanì dietro l'angolo dell'edificio di Handiboy. Vicki tirò la parte anteriore della cintura, staccandosela dal corpo. Le chiavi caddero, scivolando contro le mutandine, colpendo il suolo fra i suoi piedi con un tintinnio.
Si accovacciò e le raccolse. Due chiavi, una per l'accensione e una per il portabagagli, su un piccolo cappio d'acciaio connesso a un disco di plastica rossa con la scritta, "Dobbs Service Station, 126 South River Road, Ellsworth, Winsconsin." Prese in considerazione l'idea di rincorrere Melvin e di gettargli le chiavi. Guardò la macchina. Una piccola e bella macchina, rosso autopompa. Come ha potuto farmi questo! CAPITOLO DODICESIMO Melvin si sporcò le bende di formaggio fuso quando allungò la mano nella ciotola accanto a lui sul divano. Si ficcò le patatine alla messicana in bocca, leccò il formaggio dal cerotto, e cominciò a masticare. Quindi premette il pulsante Play del telecomando. Lo spot dei McDonalds svanì dal teleschermo e lui vide se stesso nel laboratorio del seminterrato, con addosso l'accappatoio di satin rosso, che fissava la telecamera. «Stanotte,» disse, «proveremo un metodo tratto da pagina 621 di Anatemi, Incantesimi e Magie di Amed Magdal, tradotto dal copto da Guy de Villier. Il mio soggetto sarà Patricia Gordon di Cedar Junction.» Si allontanò dalla telecamera e roteò un braccio verso il tavolo di lavoro. Disteso sul tavolo, polsi e caviglie legati, c'era il cadavere nudo dell'infermiera. Melvin bevve un sorso di Pepsi mentre guardava se stesso che si avvicinava al carrello ed esaminava il libro aperto. Il Melvin alla televisione alzò la testa, accigliandosi. «Non è che mi piaccia molto così,» disse. «Non voglio lasciare segni su di loro. Ma devo farlo. Se funziona, funziona.» Prese un coltello Exacto dal carrello, si avvicinò al corpo, e forò la pelle proprio sotto la protuberanza pubica. Lentamente, cominciò a incidere una linea curva. Sulla scia della lama, trapelò il sangue. Non molto. Era morta da più di un'ora prima che lui iniziasse la procedura. Quando ritrasse la lama, la striscia di sangue formava un cerchio di quasi trenta centimetri di diametro sull'addome di Patricia. Fece un passo indietro, lo esaminò, si strofinò la bocca, ammiccò nella telecamera. Tornando a chinarsi sul cadavere, incise una piramide capovolta nel cerchio, abbastanza larga da toccare la circonferenza con ognuno dei vertici. La figura sarebbe diventata il "Volto di Ram-Chotep". Fino a quel momento, somigliava abbastanza al diagramma del libro. Lui annuì, e incise degli
occhi nella pelle di Patricia sotto i vertici superiori del triangolo. Poi incise la bocca - un tratto profondo lungo dieci centimetri sopra l'ombelico. Melvin si vide tornare al carrello, prendere un pezzetto di radice dell'"Albero della Vita", ficcarselo in bocca e cominciare a masticare. Rammentandone il gusto amaro, bevve un sorso di Pepsi. Ricordò di aver pensato, mentre masticava la radice riducendola in poltiglia, che sarebbe stato meglio se avesse funzionato. La Bottega degli Incantesimi di San Francisco gliel'aveva fatta pagare 150 dollari l'oncia, prezzo che includeva lo sconto del 20% per i "clienti affezionati". Era l'articolo più costoso del catalogo del negozio. Ne aveva ordinate dieci once, per averne a sufficienza nel caso avesse funzionato. Mentre masticava la radice, prese un ago fornito di filo. Tornò da Patricia. Le ficcò l'ago nella coscia, giusto per averlo a portata di mano. Cos'era un'altra ferita? aveva pensato in quel momento. Chinandosi sopra il cadavere, allargò i bordi della "Bocca di RamChotep", premette la sua bocca contro il taglio, e usò la lingua per spingere dentro la radice masticata. Quando allontanò la bocca, la vischiosa sostanza verde cominciò a colare. Tornò a ficcarla dentro con le dita, e la tenne ferma mentre usava l'ago e il filo per suturare la ferita. Appena abbe terminato, fece un passo indietro. Il taglio, adesso attraversato dalla cucitura a zigzag, somigliava davvero a una bocca. Mentre tornava al carrello, Melvin si sollevò in grembo la ciotola con le patatine. Continuò a mangiare, osservando la sua immagine sul teleschermo ma prestando scarsa attenzione alle parole che stava leggendo sul libro. Aveva nutrito poche speranze per quel metodo. Sembrava troppo semplice, dal momento che non richiedeva quasi alcuna preparazione: solo il taglio e la radice masticata. Niente sangue di pipistrello o occhio di tritone. Niente ceneri di peccatore morto, il che era un'ottima cosa dal momento che l'urna di suo padre era stata svuotata dagli altri tentativi e la Bottega degli Incantesimi non vendeva qual particolare ingrediente. Ma l'incantesimo era nella lingua originale. Questo sembrava un fattore positivo. In molti degli altri libri che aveva usato le salmodie erano state tradotte, e ciò appariva come un bel sistema per rovinare l'intera procedura. Melvin aveva una patatina coperta di formaggio quasi in bocca, quando la lettura terminò. La lasciò cadere nella ciotola, e osservò se stesso ritor-
nare al tavolo. Si fermò all'altro lato del cadavere in modo da non ostacolare la visuale della telecamera. «Okay, baby,» mormorò, «fai vedere chi sei!» Lentamente, le linee di sangue che formavano il Volto di Ram-Chotep cominciarono ad allargarsi. Rivoli cominciarono a ruscellare giù per i declivi del corpo della ragazza. Fluirono attraverso il Volto, scivolarono giù per i fianchi. Melvin roteò verso la telecamera, fece un balzo e proiettò i pugni in aria. «BENISSIMO!» strillò. «BENISSIMO!!!» Si mise a saltellare, schiamazzando e agitando le braccia, si congelò con un piede sollevato quando il rumore di una forte inspirazione venne da Patricia. Sembrava una donna annegata che risale in superficie per respirare. Lui si chinò sopra il tavolo. Gli occhi di lei erano aperti. Oscillarono da una parte all'altra, scorsero Melvin e lo fissarono mentre lei ansimava. Lui le diede una pacca sulla spalla. «Ti ho salvata,» disse. «Ti ho riportata indietro. Io. Eri morta e ti ho riportata indietro.» Lei si accigliò. Parve non capire. «Eri morta,» le disse Melvin. «Ricordi di essere morta.» La sua testa si scosse lievemente. Non stava più ansimando in cerca d'aria. Giaceva là, immobile eccetto che per il lento sollevarsi e ricadere del petto, e lo fissava. Se provava dolore, non lo dimostrava. Sembrava semplicemente confusa. «Non preoccuparti, uh? Stai benissimo, adesso. Ho adoperato la mia magia su di te, e ti ho fatta rivivere.» Lei sollevò la testa e si guardò. L'allarme cominciò a rimpiazzare la perplessità sulla sua faccia. «Il sangue non è nulla,» la rassicurò. «Fa solo parte della magia. Le cinghie servono solo a non farti fare del male da sola. Vuoi che le tolga?» Annuì. «Puoi parlare?» Le sue labbra ebbero uno scatto. Non uscì alcun suono. «Va bene. Adesso, non muoverti.» Slacciò la cintura che le legava il polso sinistro al tavolo. Lei sollevò il polso. Con le punte delle dita, lui le sentì il battito. Mentre osservava, Melvin rammentò lo strano ritmo della sua pulsazione. Forte, ma lentissima. Dodici battiti al minuto, aveva scoperto più tardi quando l'aveva cronometrata. Il lento battito cardiaco, immaginò, proba-
bilmente giustificava la temperatura bassa. Raggiunse l'altra estremità del tavolo. Mentre le slegava i piedi, Patricia sollevò lentamente una mano. Toccò la Bocca di Ram-Chotep. Si portò la mano al viso. Le punte delle dita scintillavano di sangue e della poltiglia verde che era la radice masticata. Le leccò mentre Melvin liberava la mano destra. Lui guardò nella telecamera e roteò gli occhi verso l'alto. Melvin, osservando, ridacchiò per quella sua espressione. La condizione di cadavere l'aveva resa un po' bizzarra. Leccarsi quella roba dalle dita era stato il primo segno, ma solo il primo dei tanti. Patricia si alzò lentamente a sedere. «Resta distesa,» le disse. Lei obbedì. Melvin prese una spugna umida dal carrello. Lei giaceva immobile, osservandolo mentre le puliva delicatamente il corpo dal sangue. La Bocca continuava a colare. Vi incollò sopra un tampone di garza col nastro adesivo, poi tornò alle ferite più superficiali. Quando ebbe concluso, il disegno restava definito dalle linene luccicanti di sangue. Ma le linee non si ispessivano né colavano. La benda dava l'impressione che il Volto di Ram-Chotep fosse imbavagliato. Melvin mise la spugna sul tavolo vicino all'anca di Patricia. La mano di lei la cercò. La trovò, la sollevò sopra la faccia, e la strizzò nella bocca. Il liquido rosa all'inizio sprizzò dalla spugna, poi divenne un ruscelletto. Ficcandosi metà della spugna in bocca, lei cominciò a succhiare e a masticare. «Ti va a genio?» chiese Melvin. Lei grugnì. Si ficcò in bocca il resto della spugna. «Ehi, basta. Non puoi mangiarla.» Lei non esitò un solo istante: tirò fuori la spugna e gliela consegnò. «Mettiti a sedere, adesso,» le disse. Lei si mise a sedere, incrociò le gambe, appoggiò le mani sulle ginocchia, e guardò Melvin come se aspettasse un altro comando. Alcune goccioline di sangue si staccarono dalle linee e scivolarono sulla pelle. «Cerca di dire qualcosa,» disse Melvin. «Come ti chiami?» Lei si accigliò, scosse la testa, fece spallucce. «E tu?» chiese. Melvin si vide raddrizzare la schiena. «Puoi parlare?» «Credo di sì.» Non solo poteva parlare, ma la sua voce suonava normale.
«Come ti chiami?» gli chiese di nuovo. «Melvin.» Lei sorrise. «È un bel nome.» Melvin guardò la telecamera e scosse la testa. «Cosa c'è che non va?» chiese lei. «Niente. Huh-uh. Va tutto a meraviglia. Gesù.» Gli era parso di sognare. Non era possibile che stesse accadendo veramente. Era più di quello che avesse mai sperato. Non aveva mai davvero creduto di riuscire a riportare in vita una di quelle ragazze. Era un'ambizione... diavolo, un'ossessione. Ma anche se aveva continuato a ripetersi che alla fine sarebbe incappato in una formula che avrebbe funzionato, aveva sempre dubitato di riuscirci. E se in qualche modo una di loro fosse tornata indietro, aveva immaginato che molto probabilmente si sarebbe mantenuta nello standard zombi: occhi d'insetto, sballata e praticamente idiota. Patricia poteva non essere del tutto normale, ma lo era quasi. Molto quasi. «Cose da pazzi,» mormorò. «Io ce l'ho un nome,» chiese lei. «Non lo conosci?» Scosse la testa. «Qual è l'ultima cosa che ricordi?» «Hai detto, "Non lo conosci?"» «No, voglio dire... cos'hai fatto stamattina?» Aggrottò la fronte. Si morse il labbro inferiore. Fece spallucce. Il movimento le fece sollevare e abbassare il seno. «Niente, credo.» «Ricordi l'ospedale?» «È là che sono morta?» «Ci lavoravi. Eri un'infermiera.» Sorrise. «Davvero?» «Chi è il Presidente degli Stati Uniti?» «Non lo so. Come faccio a saperlo?» «Sai qualcosa?» Il sorriso si allargò. «Tu sei Melvin.» Gli occhi si abbassarono. Sollevò la mano bendata. «Cos'è successo?» «Qualcuno mi ha morso.» «Io posso?» Melvin pensò di aver udito qualcosa. Premette il pulsante Mute sul tele-
comando. La conversazione sul televisore si spense. «Melll-vin,» giunse la voce di Patricia. «Sì?» gridò lui. «Melvin?» Spense il VCR, si tolse dal grembo la ciotola, e salì in fretta nella camera da letto. Accese la luce. Patricia, seduta sul letto, parve inquieta per un momento, poi sorrise e si passò le dita nei capelli biondi arruffati. Aveva indossato una delle camicie da notte della madre di Melvin, che adesso stava per terra. Il lenzuolo spiegazzato le copriva le gambe. «Qualcosa che non va?» chiese Melvin. «Mi sono svegliata e tu non eri qui.» «Sono andato giù a guardare un poco la televisione.» La mano nei capelli ridiscese. Si richiuse sul seno sinistro. Guardando Melvin negli occhi, lei strinse il seno. Poi descrisse dei circoletti intorno al capezzolo con la punta di un dito. Il centro si gonfiò e sporse. Lei serrò la protuberanza fra pollice e indice e tirò, allungandola. «Vuoi giocare?» gli chiese. «Ancora?» replicò Melvin, sogghignando. «Mi piace.» Torse il capezzolo e si dimenò. «Anche a te piace, no?» «Non mi piace essere morso.» «Non lo farò.» «L'hai detto anche l'ultima volta.» «Lo prometto.» «Okay.» Melvin si girò verso la porta. «Dove stai andando?» Lui si voltò a guardarla. Aveva lasciato andare il capezzolo, e la cosa fu un sollievo per Melvin. Lo sapeva che lei sembrava non avvertire il dolore, ma lo rendeva nervoso vederla tirarlo e torcerlo in quella maniera. «Torno subito.» «Posso venire anch'io?» Sembrava di nuovo inquieta. Chiaramente, non voleva perderlo di vista. Mai. Quella mattina, aveva pianto davvero quando Melvin le aveva spiegato che era necessario che restasse sola. Alla fine, l'aveva rinchiusa nel seminterrato. Quando era tornato dopo aver portato la macchina a Vicki, era isterica. La cosa rischiava di diventare una vera seccatura. «Aspetta qui,» le disse. Accigliandosi, lei annuì coraggiosamente. Melvin attraversò di corsa il corridoio fino al bagno. Prese un rotolo
nuovo di cerotto dall'armadietto dei medicinali, poi tornò in camera da letto. Mentre lui era via, Patricia aveva spinto il lenzuolo fino ai piedi del letto e si era distesa. Le mani erano incrociate dietro la testa. «Sono stato abbastanza rapido?» chiese lui. «Direi di sì.» Melvin drappeggiò l'accappatoio sulla sedia. Patricia, fissandolo, si leccò le labbra mentre lui si avvicinava al letto. Si arrampicò su di lei e si sedette sui fianchi. La sua pelle era fredda sotto il sedere di Melvin. Lui avvertì il solletico dei peli pubici. Il tampone di garza sopra l'ombelico si era allentato a un'estremità. Lui cercò di sollevarlo per dare una sbirciata alla ferita, ma era ancora incollato alla pelle. Ricordò come Vicki avesse usato dell'alcol per staccargli il bendaggio dalla mano. Avrebbe potuto provare. Più tardi. Toccò la piramide che aveva inciso in Patricia la notte prima, e sentì al tatto la sporgenza rigida e sottile di una crosta. «Credo che tu stia guarendo,» disse. «Ed è una buona cosa?» «Sicuro.» Lei si sollevò dolcemente un paio di volte, spingendosi contro di lui. «Vogliamo giocare?» «Fra un minuto.» Staccò una striscia di dieci centimetri di cerotto dal rocchetto e la strappò. «Chiudi la bocca,» disse. «Non morderò.» «Lo so.» Lei chiuse la bocca e sorrise. Fece scivolare una mano da sotto la testa, poi lungo il corpo fino a toccarlo. Le sue dita gli si arrotolarono intorno e cominciarono lievemente a scorrere su e giù sul suo uccello mentre lui applicava due strisce di cerotto. Quando ebbe finito, le labbra di lei erano sigillate con una grossa "X" bianca. «Non basterebbe comunque a trattenerti,» disse. «Ma se ti staccherai il cerotto, me ne andrò. Capito?» Patricia annuì. «Perché fai davvero male quando mordi.» CAPITOLO TREDICESIMO Sembrava piuttosto stupido fare un bagno di sole dal momento che la lozione le avrebbe impedito di abbronzarsi, ma Vicki trovava piacevole di-
stendersi sulla sdraio, il sole caldo sulla schiena, e la brezza del tardo pomeriggio che di tanto in tanto scivolava, su di lei. Pensò che avrebbe potuto comunque abbronzarsi un po', malgrado la lozione schermante. Lo sperò. Voleva avere un bell'aspetto nel suo bikini nuovo, nel caso avesse dovuto indossarlo sulla spiaggia. Avrei potuto evitare la lozione, pensò. Una breve esposizione a quest'ora del giorno non mi ucciderebbe. Ma sapeva che senza la lozione si sarebbe sentita troppo in colpa nel godersi il bagno di sole. Allungando le mani dietro la schiena, Vicki legò i lacci del top. Poi si girò, incrociò le mani sotto la testa, e chiuse gli occhi. Era stato un bel sabato. Forse aveva avuto degli incubi durante la notte, ma si era svegliata senza alcun ricordo di essi. Non si era strappata la camicia da notte nel sonno... perché non l'aveva messa. Ottima mossa, quella. La corsa non avrebbe potuto essere più piacevole. Nessun Dexter Pollock a infastidirla quando usciva. Una nebbia sospesa sopra la città, che smorzava le luci stradali fino a farle sembrare luminose palle di cotone. La nebbia sembrava anche smorzare i suoni, facendo apparire la mattina innaturalmente silenziosa e tranquilla. L'aria pesante, anche se non esattamente fredda, sembrava meno calda del solito. Aveva indossato gli shorts e la Tshirt. Nessuna necessità di portare la tuta senza Dexter fra i piedi. Aveva corso con zelo. L'aria si era riversata su di lei. Invece di fare il solito giro, aveva corso verso sud per non vedere la macchina di Melvin parcheggiata davanti alla clinica, per non dover affrontare o evitare lo sconosciuto che era stato nel parco le altre due mattine. Sulla via del ritorno, si era fermata nel panificio e aveva comprato delle ciambelle col denaro che aveva infilato in un calzino a quello scopo. Quando Ace si era svegliata, avevano mangiato smodatamente. Poi era andata al negozio con Ace. Ace aveva aperto, e Vicki aveva curiosato a lungo, e finalmente aveva comprato degli shorts, una camicetta a maglia e uno striminzito bikini bianco a rete: il tutto allo sconto per "segaossa" del 20%. Dopodiché, era ritornata a casa e aveva trascorso alcune ore a oziare, a sfogliare riviste mediche e a leggere un giallo nei momenti di pausa. Ace era tornata a casa presto, lasciando il negozio a Jennifer, e avevano infilato i bikini per prendere "un po' di raggi". Tutto sommato, un bel modo di trascorrere il sabato. Vicki non riusciva
a ricordare l'ultima volta che aveva trascorso una giornata così tranquilla e rilassante. Mentre era distesa là a pensarci, sentì la doccia in funzione. Anche se non era ansiosa di muoversi, sapeva che avrebbe fatto la doccia non appena Ace fosse uscita. Sarebbe stata piacevole. Il programma, poi, era di intrattenersi con un bel po' di margarita, di accendere il grill e preparare degli hamburger per cena. Quindi, sarebbero andate in città, avrebbero preso due o tre cassette in una videoteca, e trascorso la serata davanti alla televisione. A Vicki sembrava ottimo. Sembrava perfetto. Il telefono squillò. Ace era sotto la doccia. Sospirando, Vicki balzò dalla sdraio. Corse a piedi nudi nel patio, aprì la porta scorrevole, e attraversò la cucina fino al telefono da parete. Agguantò la cornetta. «Pronto?» «Chi è che parla?» Una voce maschile. Familiare. «Vicki. Alice non può venire al telefono, in questo momento. Vuole lasciare un messaggio?» «Ciao, Vicki.» Troppo familiare. «Melvin?» «Pensavo che tu fossi lì. Come stai?» Stavo benissimo. «Okay. Desidero che tu vada alla clinica e riprenda la tua macchina.» «Non mi serve. Continua a tenerla.» «Non la voglio, Melvin. Onestamente. Apprezzo il tuo gesto. È stato davvero premuroso, ma ti prego.» «Non ti piace? Ne vuoi un tipo diverso?» «Non c'è niente che non va nella macchina. Semplicemente, non posso accettarla... neppure in prestito. Okay? Per cui, se vuoi riprenderla, io... » «Non posso. Hai tu le chiavi.» Me le hai fatte scivolare tu nel vestito. «Non ne hai altre?» chiese. «No.» «Okay. Ti riporterò la macchina alla stazione di servizio.» «Sono a casa. Vuoi portarla qui?» «Non posso farlo adesso, però. Sono piuttosto indaffarata in questo momento. La porterò alla stazione domani, forse, o lunedì. Okay?» «Okay.» Sembrava deluso. «Vicki?» «Sì?»
«Mi dispiace. Volevo solo essere d'aiuto. Pensavo che ti potesse servire una macchina, sai? Non volevo causarti dei fastidi. Ho combinato un pasticcio, eh?» «No, non hai combinato un pasticcio.» «Sei incavolata con me?» «No. Volevi solo essere gentile. Questo l'ho capito. È che non posso accettare regali del genere come se nulla fosse.» «Da me.» «Da chiunque. Non buttarti giù, Melvin.» «Perché no? Tutti gli altri lo fanno.» «Devo proprio andare, adesso. Ti auguro una buona serata.» «Anche a te.» «Ciao.» Riappese, si accasciò contro il muro, e mormorò, «Perché io, Signore?» Sentendo che il getto d'acqua s'interrompeva, Vicki andò nella sua camera. Prese l'accappatoio, si sedette sul bordo del letto, e si domandò cosa fare con Melvin. La faccenda della macchina non sarebbe stata la fine di tutto. Cosa sarebbe accaduto dopo? Le avrebbe mandato dei fiori, chiedendole un appuntamento? Non voleva avere nulla a che fare con lui, maledizione. Ma non voleva urtare la sua suscettibilità. Dio sa che aveva trascorso tutta la vita a subire. Attraverso il vano della porta, vide Ace che usciva dal bagno. Aveva un asciugamanao drappeggiato intorno alla testa. Un altro, rimboccato fra i seni, le arrivava fino all'inguine. «Mi hai lasciato un po' d'acqua calda?» gridò Vicki, sollevandosi dal letto e uscendo nel corridoio. «Ho fatto la doccia così in fretta da bagnarmi a malapena il fondoschiena.» «Perché tutta questa fretta?» «Mi è venuta una sete terribile.» «Hai sentito il telefono?» «Uno della miriade di miei ammiratori?» «Melvin.» «Che stronzo.» Sogghignando, si appoggiò di lato al telaio della porta. «Ti ha seguita fin nella tana.» «Penserai che è divertenete.» «Penso che sia amore.»
«Sorrideresti con un solo lato della faccia se fosse in fregola per te.» «Non sorriderei affatto, dolcezza: vomiterei.» Vicki si appoggiò alla parete, con l'accappatoio drappeggiato sull'avambraccio, e fissò Ace. Ace le restituì lo sguardo. Il suo sogghigno svanì. «Cosa farai?» «Non lo so.» «Sei spaventata?» «Un po', credo.» «Non avresti mai dovuto essere gentile con lui. Questo è stato il tuo primo errore. Trattando con gentilezza una nullità come quella te la sei andata a cercare. Puoi permetterti di essere gentile con qualunque persona normale: uno normale non gonfierà mai la posa in maniera sproporzionata, non s'innamorerà di te e non perderà la testa. Uno come Melvin, o devi ignorarlo o trattarlo male. È l'unico modo per non correre rischi.» «Già, ma ormai il danno è fatto.» «Dimmi tutto.» «Cosa devo fare?» chiese Vicki. «Digli di andare a farsi fottere.» «Non posso farlo.» «Vuoi che lo faccia io al posto tuo?» «No.» «Non vuoi che si arrabbi con te?» «Non è esattamente così.» «Lo so. Sei dispiaciuta per lui. Perciò ci sei dentro.» «Ma come posso uscirne?» «Senza dover lasciare la città? Beh, conosco un metodo che per me ha funzionato. C'era questo tizio, Blake Bennington. Non lo hai conosciuto, si è fatto vivo da queste parti quando eri a studiare medicina. Un coglione autentico. Venne un giorno nel negozio, comprò un costume da bagno, e pensai che non me ne sarei più liberato. Cominciava a blaterare e non là finiva più. Non mi lasciava in pace. Più gli dicevo di andare a farsi fottere, e più voleva fottere me. Non riuscivo a togliermelo dai piedi. «È questo il problema con tipi del genere. Credono di essere innamorati di te, ma non lo sono. Quello che amano è la loro idea di te. E questa diventa sempre più grande se li tieni a distanza. Perciò quello che devi fare è stargli il più vicino possibile e farti disprezzare. Mandare in frantumi l'immagine. «Ed è quello che feci: alla fine permisi a Blake di portarmi fuori. An-
dammo al Fireside Chalet. Ti dico che pensava di essere morto e di stare in paradiso. Stavamo seduti tutti e due perfettamente agghindati, a bere e a mangiare code d'aragoste, e per come mi guardava, avresti pensato che ero Venere in persona o qualcosa del genere. Così, quando fummo a metà della cena, mollai una sontuosa scoreggia.» «Oh, no,» disse Vicki. «Durante il dessert, cominciai a ficcarmi distrattamente le dita nel naso. Tirai fuori una bella palla di muco e la spalmai sull'orlo del mio piatto. Lui continuava a fissarla. Non riusciva a staccare gli occhi da quella cosa. «Era a terra, ma non ancora fuori combattimento. Insistette e volle portarmi nel suo appartamento dopo cena. Cercò di spogliarmi, e io gli dissi che forse non era il caso perché, dopo tutto, la mia eruzione cutanea poteva essere contagiosa.» «Pazzesco,» disse Vicki. «E gli dissi che anche se non fosse stata contagiosa, ero piuttosto imbarazzata e non volevo far vedere a nessuno le mie ulcere purulente. E inoltre che avevo le mestruazioni e lui mica voleva trovarsi il sangue dappertutto?» «Ho l'impressione che tu abbia un po' esagerato.» «Era piuttosto abbattuto. Non facemmo altro che bere. Alla fine, vomitai sul tavolino da caffè.» Vicki scosse la testa. Ace fece un largo sorriso. «Tutto ciò, evidentemente, ebbe un sottile e profondo effetto sulle fantasie che lui aveva costruito su di me.» «Sottile.» «Non mi chiese mai più di uscire. In realtà, fece di tutto per evitarmi.» «E tu pensi che potrei fare qualcosa del genere a Melvin?» «Era solo un'idea. È un metodo sperimentato ed efficace. Ed è un modo per liberarsi di lui senza ferire il suo orgoglio. Non gli dici tu di andarsene: è lui che decide di volersene andare. Una soluzione perfetta per il tuo piccolo dilemma.» Vicki si spinse via dalla parete. «Sai una cosa, Ace?» «Ne so un mucchio.» «Sei più pazza che stronza.» Ace rise. «Può darsi che sia pazza, ma mi sono liberata di quel tipo. Pensaci.» Si diresse verso la sua stanza. Mentre faceva la doccia, Vicki ci pensò. Sapeva che non avrebbe potuto eseguire dei numeri come quelli che Ace aveva descritto. Anche se aveva
il fegato, la sua dignità non glielo avrebbe permesso. Ma Ace aveva ragione riguardo all'idealizzazione. Melvin non mi conosce. Se crede di essere innamorato, o roba del genere, è a causa delle sue fantasie. Più cerco di evitarlo, più è probabile che mi desideri. Trascorrere un po' di tempo con lui? Puah! Quando terminò di farsi la doccia, infilò calzoncini e T-shirt e si unì ad Ace in cucina. Ace aveva già preparato una buona quantità di margarita nel frullatore. L'orlo dei bicchieri, che aspettavano il suo arrivo, era stato cosparso di sale. Ace diede un'altra frullata, poi riempì i bicchieri di cocktail schiumoso. Andarono sul patio e si sedettero al tavolo. Vicki sorseggiò la bevanda. «Delizioso.» «E ottimo per te.» «Ho pensato a quello che mi hai detto.» «Vomitare in faccia a Melvin?» «Non proprio. Dio, non voglio fare esattamente questo, ma ha un senso.» «Cosa? Parla chiaro, Einstein.» «Incontrarmi con lui. Non per disgustarlo, o qualcosa del genere. Ma penso a un paio di sistemi che potrebbero essere efficaci. Per prima cosa, il fatto di trascorrere un po' di tempo con me in carne e ossa provocherebbe una crepa nella sua costruzione immaginaria.» «Solo che tu in carne e ossa sei adorabile.» «Giusto. Lo so che sono meravigliosa, ma scommetto che non sono all'altezza della sua immagine, qualunque essa sia.» «Specialmente se ne sganci una.» «In secondo luogo, anche se lui non rimanesse disgustato da una dose della mia adorabile persona, ciò dovrebbe comunque togliere un po' di legna dal fuoco. Solo dopo che avrò l'accesso.» «Vuoi dargli l'accesso?» «La gente desidera maggiormente le cose che non può avere.» «Giusto. Va' a letto con lui.» «Più cerco di evitarlo, più proverà il desiderio di vedermi. È come le radici. Se una pianta non riceve abbastanza acqua, le sue radici cresceranno sempre di più.» «Cristo. Sei andata a scuola, e sei tornata molto più profonda. Radici,
per dio.» «Sai cosa voglio dire.» «Giusto. Tu non vuoi che la radice di Melvin diventi sempre più lunga. E allora qual è il piano?» «Incontrarlo in un luogo pubblico. Bere un paio di drink con lui. Socializzare per un paio d'ore. Con te come supporto morale.» «Oh, benissimo. Mi dispiacerebbe un mondo non esserci.» «Che ne dici del Riverfront Bar? Stasera?» «Mi pare abbastanza pubblico.» Finirono di bere, e andarono in cucina. Mentre Ace tornava a riempire i bicchieri, Vicki controllò l'elenco telefonico. Melvin c'era. Ace rimase là, a osservare mentre componeva il numero. Attraverso l'auricolare, Vicki ascoltò gli squilli. Si sentiva un po' in ansia. Il suo cuore batteva con forzarlo stomaco si era annodato. Dopo il sesto squillo, cominciò a sperare che non fosse in casa. Forse non è stata una splendida idea, pensò. Ci proverò un'altra sera. Il mese prossimo. Dopo il decimo squillo, Melvin rispose. «Chi parla?» «Vicki.» «Vicki?» Sembrava sbalordito. «Ciao!» «Stavo pensando alla macchina.» «Già. Vuoi tenerla?» «No, ma pensavo che volessi venirla a prendere. Ace e io andremo al Riverfront Bar stasera, intorno alle dieci. Perché non vieni anche tu? Berremo un paio di drink e ti darò le chiavi. Poi potrai fermarti più tardi alla clinica e portarti a casa la macchina.» «Bere un drink con voi?» «Certo. Così potremo farci una chiacchierata.» «Grande.» «Okay?» «Sicuro. Sicuro. Alle dieci?» «Esatto. Ci vediamo, Melvin.» «Sicuro. Ci vediamo.» Vicki riappese. Lasciò andare un profondo e tremulo sospiro. «Devo essere pazza,» mormorò. Ace le tese un bicchiere. «Pazza, ma furba. Può funzionare. O forse no. In ogni caso, avrai la gioia di sapere che hai portato la felicità, quantunque
fugace, nell'esistenza altrimenti scialba di quel giovane, adorante, demente e testa-di-cazzo.» CAPITOLO QUATTORDICESIMO Melvin fischiettava mentre si stava preparando un hamburger. Fischiettava Tutto Va a Gonfie Vele. Non riusciva a credere alla sua buona sorte. Appena due sere prima, aveva resuscitato la morta. Adesso, questo. Vicki lo aveva davvero invitato a bere qualcosa. Darle la macchina era stata una brillante idea, dopo tutto. Anche se era evidentemente troppo schiva per accettare un regalo come quello, aveva apprezzato l'offerta. Questo era il suo modo di ringraziarlo. Melvin non sapeva come sarebbe riuscito ad aspettare fino alle dieci. Girò l'hamburger. Il grasso sfrigolò e schizzò sulla padella. Non è che tutto vada a gonfie vele, si disse Melvin. Non era propriamente contento di andare al Riverfront Bar. A quell'ora del sabato sera, metà degli stronzi di Ellsworth stavano a bere là dentro. Non era esattamente felice che Ace fosse presente ai festeggiamenti. Non era una stronza. Era okay, supponeva. Ma tre sono una folla. Se soltanto avesse potuto restare solo con Vicki, in un luogo appartato. Ma era appena l'inizio. Ed era un grande inizio. Melvin stese una fetta di formaggio piccante in cima al suo burger, e mise il coperchio sulla padella. Mentre aspettava che il formaggio si fondesse, spalmò della maionese sulla focaccia. Prese un coltello e stava per tagliare una grossa fetta di cipolla rossa quando pensò, Sono una pazzo, o cosa? Alito alla cipolla al primo appuntamento con Vicki? Assolutamente no. Non che debba baciarmi, si disse. Ma potrebbe volerlo. Chi lo sa? Tolse il coperchio dalla padella. Il formaggio si era fuso e colava giù dai lati dell'hamburger. Fece scivolare una spatola sotto la carne, e la sollevò sulla focaccia. Vi premette sopra la parte superiore della focaccia. Poi spense il fornello, prese il piatto, e si sedette a tavola. Patricia, seduta là, gli sorrise e si ficcò un pezzo di manzo tritato in bocca. Non ne era rimasto molto della mezza libbra che le aveva messo davanti prima di cominciare a cuocersi il burger.
Mangia come un animale, pensò. Solo carne cruda, e naturalmente c'era una brocca di sangue di pipistrello nel suo laboratorio. Lo aveva trangugiato la prima notte. Lui dubitava che fosse ghiotta di quelle cose prima di essere uccisa. Era come il mordere: un qualcosa connesso al fatto di essere morta. Mentre Melvin mangiava il suo hamburger e la osservava, una goccia di succo rosa le colò dal mento, unendosi alle altre macchie sul davanti della sua T-shirt. Le chiazze si trovavano esattamente in mezzo ai seni. Melvin poteva vedere i capezzoli scuri attraverso il tessuto sottile. Non avrebbe mai immaginato che si sarebbe stancato di guardare una donna nuda, specialmente una attraente come Patricia. Ma era tutto quello che c'era da vedere, e il vederlo continuamente - per non parlare del "gioco" che faceva con lei fino all'esaurimento fisico - alla fine aveva cominciato ad annoiarlo. Così quella mattina le aveva dato la maglietta e le aveva detto di indossarla. Aveva obbedito. Melvin non si era aspettato che la maglietta lo eccitasse. Aveva il semplice scopo di risparmiargli la visione continua della ragazza nuda. Ma il modo in cui poteva intravedere attraverso di essa, il modo in cui assumeva la forma dei seni e si muoveva con essi, e il fatto che non era lunga a sufficienza... Aveva scoperto una gioia interamente nuova nel guardarla. Avevano trascorso gran parte della giornata a pulire la casa. Melvin dirigeva. La pulizia della casa fu meravigliosa. Richiedeva un bel po' di movimento: camminare, allungarsi, chinarsi, inginocchiarsi. La T-shirt sussultava e ondeggiava, e saliva e ricadeva di pochi centimetri come il sipario di un palcoscenico manovrato da un addetto dispettoso. Gli era piaciuto un sacco. Aveva osservato, ma non toccato. Alla fine, incapace di resistere oltre, l'aveva presa. Sul pavimento del corridoio del piano di sopra. Con l'aspirapolvere ancora in funzione, che ronzava accanto alle loro teste. Le aveva fatto tenere addosso la T-shirt. Era stato così frenetico che non aveva avuto il tempo di chiuderle la bocca col cerotto, e lei gli aveva dato un brutto morso alla spalla. Ne era valsa la pena, però. La fine del mondo. Osservò Patricia che si ficcava in bocca quel che restava della carne cruda. Il sugo le scorse sul mento, e colò sulla maglietta. Era estremamente obbediente, tranne che per i morsi. Sembrava semplicemente di non riuscire a controllarli. Non si può continuare così, pensò lui. Due giorni, e aveva già ricevuto quattro morsi alle spalle, un altro alla parte superiore del braccio sinistro. In un'occasione, era andata vicinissimo
a squarciargli la gola. Glielo aveva sempre fatto quando lui era sul punto di venire e troppo distratto per fermarla. Il dolore repentino dei morsi non gli aveva mai impedito di arrivare al culmine. Aveva avuto degli orgasmi incredibili. Le poche volte che lei non lo aveva morso erano stati di gran lunga inferiori. Malgrado ciò, sapeva che non avrebbe potuto continuare a permettere a Patricia di affondare i denti dentro di lui ogni volta che scopavano. Il dolore delle ferite durava a lungo dopo che l'estasi era terminata. E le ferite lo preoccupavano. In quei film di Romero, un singolo morso dei morti viventi era sufficiente a trasformarti in uno di loro. Cercò di convincersi che erano un sacco di merdate, ma non riusciva assolutamente a togliersi l'idea dalla testa. Inoltre, anche se erano merdate, sapeva per certo che i morsi non gli facevano bene. Come aveva detto Vicki, la saliva umana è un normale pozzo nero di batteri. Gli antibiotici che stava prendendo per il morso alla mano avrebbero fatto bene anche agli altri, forse gli avrebbero evitato un'infezione, eppure... Cercare di scoparsela dopo che aveva mangiato? Avrebbe potuto provare in quel momento, e scoprire se mordeva. Ma non aveva voglia. Avrebbe visto Vicki fra poche ore. Se avesse usato il metodo con Vicki, anche lei si sarebbe trasformata come Patricia? Non desiderava particolarmente che questo accadesse. Troppo presto a dirsi, però. La cosà più intelligente da fare era sperimentarlo su qualche altra, e vedere come andava prima di tentare con Vicki. Potrebbero mordersi fra di loro, pensò, e sorrise. Patricia sorrise anche lei. Sollevò la T-shirt, scoprendo i seni, e usò la maglietta per pulirsi le labbra e il mento. «Vuoi giocare?» chiese. «Andiamo a guardare la televisione.» Lei annuì. Guardare la televisione sembrava piacerle quasi quanto giocare. Andarono nel soggiorno e si sedettero sul divano. Lui diede il telecomando a Patricia, che perse un po' di tempo a cambiare canale, poi decise per una replica di Gilligan's Island. Melvin guardò lo show. Non cercò neppure di prestare attenzione. Immaginava come sarebbe stata quella sera con Vicki. Ogni volta che la sua mente tornava al presente, lanciava un'occhiata ai numeri rossi dell'orologio digitale sul VCR. Come poteva il tempo passare così lentamente? Gli show si susseguirono. Divenne inquieto. Guardò l'orologio.
Finalmente, furono le otto e trenta. Strinse la gamba di Patricia. «Resta qui,» disse. «Vado a farmi una doccia.» «Vengo con te.» «Resta qui.» Lei gli rivolse un'espressione imbronciata, poi girò gli occhi sulla televisione. Melvin salì sopra. Nella stanza da bagno, appese l'accappatoio alla porta. Si mise davanti allo specchio e si guardò mentre si toglieva le bènde. La mano andava meglio. Il gonfiore e l'infiammazione erano diminuiti. I nuovi morsi sul braccio e sulle spalle non sembravano infetti. Ma bruciarono come olio infiammato quando lo spruzzo caldo della doccia li investì. Digrignando i denti per il dolore, fece lo shampoo e si insaponò. Si stava risciacquando quando scorse una forma indistinta che si muoveva al di là della tendina di plastica. Psycho. Sentì la pelle d'oca sulla schiena. La tendina si aprì e naturalmente era Patricia, non la madre di Norman con un coltello da macellaio. «Maledizione!» sbottò lui. Lei abbassò la testa come vergognandosi. «Mi mancavi, Melvin.» «Vai giù.» «Non ti piaccio più?» «Mi piace che tu mi obbedisca.» Lei singhiozzò. Sollevò la faccia. I suoi occhi luccicavano di lacrime. Melvin sospirò. Questa storia della possessività era seccante quasi quanto i morsi. In un certo senso, era simpatica, ma... «Vado,» disse lei. Si voltò. Melvin vide come la T-shirt si curvava sulle natiche. Provò una sensazione. «Okay,» disse. «Torna qui. Entra, ma tieni la maglietta addosso.» Lei gli si mise di fronte, sogghignando, ed entrò nella vasca. Melvin richiuse la tendina. Fece un passo indietro e la osservò. Patricia parve capire cosa voleva. Si mise sotto il getto, girandosi lentamente. La T-shirt, inumidendosi, le si incollava alla pelle e diventava quasi trasparente. Lui la strofinò attraverso il tessuto. Patricia allungò un braccio verso l'alto, si sorresse al braccio della doccia e gli sorrise attraverso lo spruzzo. Melvin sollevò la maglietta sopra i seni. L'acqua le rendeva la pelle lucida e scivolosa. Le punte delle dita di lui tracciarono la faccia di Ram-Chotep, le cuciture che s'incrociavano sulla Bocca. Lei si contorse quando le fece
scivolare una mano fra le gambe. Le baciò i capezzoli, la leccò, la succhiò. Prima di prenderla, le ficcò il guanto di spugna in bocca. Poco prima delle dieci, Vicki e Ace entrarono nel Riverfront Bar. Era fiocamente illuminato, nebbioso per il fumo delle sigarette, rumoroso. La gente parlava a voce alta per farsi udire al di sopra del juke box che strombazzava Waylon Jennings. Bicchieri e bottiglie tintinnavano. Palle da biliardo si scontravano schioccando sui due tavoli all'altro lato. Trilli e canzoncine provenivano da una fila di giochi elettronici. Vicki scorse molte facce familiari mentre attraversavano il locale: strane facce adulte che somigliavano a bambini che non vedeva da quasi una decade, altre che sembravano le stesse che ricordava dopo tutti quegli anni, diverse che aveva visto durante le sue visite più recenti alla città, e alcune che aveva imparato a riconoscere durante la settimana precedente. Non scorse Melvin. Né vide l'uomo del parco giochi vicino al fiume. Alcune persone la notarono, la salutarono con un cenno del capo o semplicemente parvero perplesse come se non riuscissero del tutto a identificarla. Ace disse "ciao" ad alcuni amici, ma non interruppe il chiacchiericcio. Trovarono un separé deserto lungo una parete. Vicki si spostò rapidamente in fondo alla panca e fece cenno ad Ace di sedersi accanto a lei. In quel modo, Melvin avrebbe dovuto sedersi all'altro lato del tavolo. «Cerchiamo di liberarci in fretta di lui,» disse Ace. «Poi forse potremo scovare un paio di ragazzi, e avviare qualcosa.» Vicki fece spallucce. Non era dell'umore di scovare alcunché. Non le piacevano il fumo e il rumore. Se ne sarebbe andata non appena fosse terminato l'incontro con Melvin. Venne una cameriera. Nessuna che Vicki riconoscesse. Indossava degli shorts di jeans blu e una T-shirt con la scritta "Sono un Tipo Tosto - E Compro da Ace". La maglietta era identica a quella indossata da Ace. «Cosa prendete, ragazze?» chiese. «Una caraffa di Blatz e tre boccali.» «Arriva subito.» Corse via. «È Lucy. Viene dal Bay. Sposata con Randy Montclair.» Il nome parve a Vicki vagamente familiare. Poi rammentò. Era uno che se la faceva con Doug. Tutti e due erano dei rompiballe da primato. Un giorno, dopo la scuola, avevano scaraventato Henry in un bidone dei rifiuti. E Randy era quello che aveva dato a Melvin quelle percosse, una settimana esatta prima della Fiera Scientifica. Vicki, indignata, lo aveva spinto
o colpito o qualcosa del genere per farlo smettere. Si domandò, in quel momento, se era stata quella piccola manifestazione di generosità a spingere Melvin a nutrire simpatia nei suoi confronti. Forse doveva ringraziare Randy per i problemi che attualmente aveva con quello. Lucy portò la caraffa e i boccali al tavolo. Vicki la pagò. Mentre Ace stava riempiendo i boccali, apparve Melvin. «Salve,» disse. Si spostò sulla sua panca finché non si trovò esattamente di fronte a Vicki. Portava con sé un profumo dolce e nauseante come se fosse stato immerso nel dopobarba. «Sembri un damerino,» disse Ace, e gli versò da bere. Indossava una sgargiante camicia havvaiana e una giacca sportiva rosa. I suoi capelli neri erano lisciati all'indietro. Forse l'odore, pensò Vicki, viene dalla brillantina. Ace fece scivolare il boccale verso di lui. Lui le strizzò un occhio. Poi sogghignò a Vicki. «Sei proprio carina,» disse. Il suo sguardo si avventurò verso il basso. Vicki aveva messo una camicetta a quadri scura, a maniche lunghe e troppo pesante per quel clima, scelta unicamente per impedire a Melvin di cogliere anche un solo indizio di quello che c'era sotto. Ma per come lui la guardava, avrebbe potuto essere trasparente. Ebbe l'impulso di toccare i bottoni solo per assicurarsi che fossero tutti allacciati. Lo sguardo di lui la fece sentire imbarazzata. Melvin si strofinò le labbra col dorso della mano bendata. Le bende erano nuove e bianche, come se lui ne avesse messe di nuove per l'occasione, a tenore con l'abito. «Beh,» disse Vicki, «posso anche darti le chiavi.» «Se sei convinta.» Lei le prese dalla borsetta e le spinse sul tavolo. Lui le infilò in una tasca della giacca. Vicki sollevò il boccale. «Beh, alla tua.» Bevvero. «Cosa stai facendo attualmente?» gli chiese Ace. «Resusciti qualcuno?» Vicki si fece piccola piccola. Melvin sogghignò e mosse su e giù la testa. «Oh, ho smesso. Mi hanno insegnato di meglio nella gabbia dei matti.» «Facesti davvero scintille alla Fiera Scientifica,» disse Ace. «Era quello che avevo in mente.» S'ingobbì sul tavolo, guardò con malizia Ace, poi Vicki. «Come ho detto a Vicki, lo feci soltanto per fottere tutti quegli stronzi.»
«Credo proprio che ci riuscisti.» Vicki desiderò che cambiassero argomento. D'altra parte, era davvero lieta che Ace le stesse risparmiando l'incombenza di guidare la conversazione. «Ma come facesti? Entrasti di nascosto nell'ossario e la disseppellisti?» «Sicuro. Fu un bello scavo, anche.» «Lo facesti di notte, credo.» «Il mercoledì prima della Fiera.» Sembrava che si divertisse a parlarne. Continuava a sogghignare e ad annuire. «Il cancello del cimitero era chiuso con una catena. Dovetti usare un seghetto. Poi m'infilai dentro e cominciai a scavare.» «Non eri spaventato?» «Non volevo certo essere preso, sai. Ma non avevo paura degli spettri o dei cadaveri, se è questo che intendi.» «Come facesti a tirarla fuori dalla bara?» Vicki roteò gli occhi. «Avevo con me una sbarra per fare leva. Fu facile. La cosa difficile fu tirarla su.» «Peso morto,» disse Ace. «Gesù,» mormorò Vicki. Melvin ridacchiò. «Non era solo pelle e ossa, sapete. Aveva della ciccia addosso.» «Merda, sì,» disse Ace. «Solo le sue tette dovevano pesare una decina di chili l'una.» «Non saprei. Tutto quello che so è che fu dura trascinarmela dietro.» «Se aspettavi un anno o due, sarebbe stata più semplice da trasportare.» Melvin rise con la birra in bocca e fu costretto a spruzzarla nel boccale. «Quindi, te la trascinasti fino a casa?» «No, no. Mi sarebbe venuta l'ernia. Tutto quello che feci fu di metterla nel portabagagli della mia macchina, e poi di tornare indietro a riempire il buco. Non volevo che qualcuno se ne accorgesse, sapete.» «Già, avrebbe rovinato tutto.» «Volete sentirne una buona? Per poco non mi dimenticavo la testa. Già. Vedete, la lasciai appoggiata alla pietra tombale mentre ero impegnato a riempire il buco. Poi presi la vanga, la sbarra e tutto il restò con le mani. Tornai alla macchina e avevo percorso metà del tragitto fino a casa prima di ricordarmi della testa.» «Che stupido.»
Lui ridacchiò. «Già, ma era ancora là quando tornai. Non se n'era andata a fare due passi.» «O due rotolate,» aggiunse Ace, «in questo caso.» «È davvero ributtante,» mormorò Vicki. Melvin le rivolse un largo sorriso. «Così la portasti a casa con te?» chiese Ace. «La misi nel seminterrato. I miei non ci andavano mai. Poi il venerdì notte entrai di nascosto nel Centro. Sistemai la mia roba prima del sorgere del sole, ed era già tutto pronto quando la gente cominciò ad arrivare per allestire la Fiera.» «Mettesti davvero molto impegno nel tuo progetto,» disse Ace. «Ti assicuro che io e Vicki non ci prendemmo la metà delle seccature che ti prendesti tu. E scommetto che non ti diedero neppure il primo premio.» «Mi diedero una camicia di forza, ecco cosa mi diedero.» «E ben meritata, anche.» Melvin rise. Scosse la testa, si pulì la bocca e bevve un altro sorso di birra. «Lucy non ci ha portato le noccioline,» disse Ace. Al che, si alzò e se ne andò. Oh, splendido, pensò Vicki. Mi lascia sola con lui. Non rientrava nei patti. Diavolo, non c'è stato alcun patto. Ma lei lo sa cosa provo per Melvin. Forse è per questo che se n'è andata. Ha immaginato che l'incontro mi avrebbe fatto meglio se lei non fosse stata presente come una coperta di "Linus". No, vuole solo le noccioline. Vicki riuscì a sorridere. «Come va la mano?» chiese. «Oh, molto meglio. Ho un dottore veramente bravo.» «Vedo che hai cambiato le bende.» «Ho fatto una doccia, stasera.» Ecco una bella immagine. «Non pensi mai a quel film, Psycho, quando fai la doccia?» «Cerco di non pensarci,» disse Vicki. «C'era una tipa nella gabbia dei matti: non riuscivano a farle fare una doccia. Era perché aveva visto Psycho quando aveva una decina d'anni. Dopo circa una settimana si ridusse a una vero cesso. Così, la portarono alle docce, un paio di inservienti, e dovevi sentire come strillava.» Con la sinistra, Melvin prese la caraffa. Riempì di birra il suo boccale, poi ne versò
ancora nel boccale di Vicki. «Mia madre non ha mai fatto la doccia in vita sua. Faceva il bagno. Ti piace fare il bagno?» «Certo,» disse lei. «Faccio tutte e due le cose.» Splendido. Sta pensando al bagno. «Mia madre si rasava le gambe nella vasca.» Come fa a saperlo? Lui inclinò la testa da un lato e sogghignò «Tu ti radi nella vasca?» «Questo non ti riguarda, Melvin.» Il suo largo sorriso scivolò via. «Mi dispiace. Non volevo farti arrabbiare.» «Perché non parliamo d'altro?» Dove diavolo è Ace? «Cos'hai fatto oggi?» chiese. «Oh, ho pulito la casa.» «È una casa enorme. Dev'essere una vera seccatura tenerla in ordine.» «Oh, non è così brutto.» «Non hai mica continuato a lavorare alla stazione di servizio?» «Ordine del medico. Credo che ci tornerò la settimana prossima, forse. O forse no. Devo dire che mi piace starmene a casa.» Con un angolo dell'occhio, Vicki notò qualcuno che si avvicinava al tavolo. Voltò la testa, aspettandosi di vedere Ace con una scodella di noccioline. Era Dexter Pollock con un boccale di birra. «Disturbo se mi siedo?» Prima che potesse rispondere, Dexter scivolò accanto a lei. «Questo è il posto di Ace,» disse Vicki. «A quella fichetta non fregherà niente. Sicuramente sta civettando con qualcuno.» Lanciò un'occhiata a Melvin all'altro lato del tavolo, poi guardò Vicki. «Devi essere proprio in fregola se te ne vai in giro con uno come questo.» «Perché non si toglie dai piedi?» disse Vicki. «Non ho avuto la possibilità di salutarti. Evidentemente non c'ero quando hai portato via la tua roba. Ti avrei dato una mano.» «Non ne avevo bisogno. Abbiamo incaricato degli addetti ai traslochi di occuparsi della faccenda.» «Abbiamo? Tu e Melvin?» Lanciò un'occhiata di traverso al di là del tavolo. «È venuta a stare con te, fidanzatino?» La faccia di Melvin divenne scarlatta.
«Sei un tipo fortunato,» gli disse Dexter. «È un bel pezzo di fica.» Vicki sentì la rabbia crescerle dentro. Melvin guardò torvo Daxter. «Non dire merdate del genere.» «Ehi, è proprio un duro.» Sorrise a Vicki. «Hai un vero cavaliere con la sua armatura scintillante, ecco cos'hai. Schizzato come un cavallo, ma pieno di cavalleria. Ci avevi mai fatto caso, ragazza, che hai un vero talento nell'attirare i matti? Avevi quel tuo amico del cuore, Fichetta, e adesso hai questo innamoratino, Melvin. Tutti e due matti come Cappellai. Come pensi che succeda? Hai un odore, o roba simile, che attira gli svitati?» Lei non si fidò di parlare. Si limitò a fissarlo. «Farai meglio ad andartene di qui,» disse Melvin. Dexter lo ignorò. «Dev'essere il tuo aroma.» S'inclinò di lato. La sua spalla premette contro di lei. Abbassò la testa, annusando. «Lo sapevo. Sembra venire dal basso.» S'ingobbì, ancora annusando. Un lato della sua faccia le sfiorò il seno. Vicki gli afferrò i capelli, gli tirò indietro la testa e gli versò il suo boccale pieno di birra in grembo. Lui boccheggiò e si ritrasse, irrigidendosi. La fissò, strabuzzando gli occhi, con la bocca aperta. «Accidenti a te, piccola fichetta,» mormorò. Poi afferrò il suo boccale e lo roteò verso di lei. Per un momento, Vicki pensò che volesse romperglielo in faccia. Ma esso si fermò a breve distanza. La birra traboccò, colpendole gli occhi, innaffiandole la faccia e le orecchie. Mentre si asciugava gli occhi, Dexter sbottò, «Sta' seduto, fottuto maniaco. È stata lei a cominciare.» «La pagherai,» disse Melvin. «Oh, come tremo. Sto tremando negli stivali.» «Cosa stai facendo, fottutissimo mucchio di merda!» La voce di Ace. Vicki smise di strofinarsi gli occhi e guardò. Dexter era in piedi, faccia a faccia con Ace. Quasi faccia a faccia. Lei era otto, dieci centimetri più alta. «Non ho fatto nulla,» disse lui. La sua voce suonava solo un tantino piagnucolosa, come se fosse uno scolaretto sorpreso dal maestro a fare un'azione indegna. «Ho la sensazione che tu ti sia pisciato addosso.» «Togliti di mezzo.» Cercò di superarla, ma lei gli bloccò la strada. «Non è affar tuo, Alice.» «Ho visto cos'hai fatto. Chiedi scusa a Vicki. Anzi, a tutti e due.» «Vuoi costringermi?»
«Sto per contare fino a tre, faccia di stronzo. Uno. Due.» Lui si girò su se stesso. «Okay, scusatemi.» «Offrici un'altra caraffa.» «Non ho bevuto la vostra birra, maledizione!» «Questo non c'entra. Dammi solo cinque dollari per un'altra caraffa, e dimenticheremo che tutto questo sia mai accaduto.» «Stai passando il segno, grandissima... » «Grandissima cosa?» chiese Ace. «Niente,» borbottò lui. Ace fece schioccare le dita. Dexter tirò fuori il portafoglio, sfilò un biglietto da cinque dollari, e glielo tese. «Grazie,» disse lei. «E adesso, fuori dai piedi.» Dexter si voltò e scomparve nella sala rumorosa e affollata. Ace appoggiò la scodella di noccioline sul tavolo. Si chinò e usò un tovagliolo per pulire alcune gocce di birra dal cuscino di vinile rosso, poi si sedette. Sorridendo da Melvin a Vicki, ruppe un guscio. Si gettò un paio di noccioline in bocca, masticò alcune volte, e disse, «Non posso lasciarvi soli per un minuto.» «Quel lurido porco succhia-piedi,» disse Melvin. «Che linguaggio,» disse Ace. «Lo hai sistemato per bene. Si è comportato come se tu lo spaventassi.» «È perché sa di che cosa sono capace.» «Dovrei ucciderlo. Per quello che ha detto a Vicki.» «Beh, se uccidi Pollock, non cercare di resuscitarlo con la scossa elettrica. Lascialo imputridire.» «Già.» «Voglio andarmene,» disse Vicki. «Via, dobbiamo ordinare un'altra caraffa.» «Resta, se vuoi. Io vado a casa.» «Devi proprio?» chiese Melvin, con un'espressione delusa. «Sì. Mi sono divertita abbastanza per questa sera.» Ace riempì di noccioline le tasche degli shorts. Vicki, Ace e Melvin uscirono assieme dal Riverfront Bar. Fuori, sul marciapiede, Melvin disse, «Sono proprio dispiaciuto che sia arrivato lui a romperci le scatole. Ma è stata davvero una simpatica serata, comunque. Forse possiamo rifarla. Pago io, però.» «Ci vediamo,» disse Vicki. «Buona notte.»
CAPITOLO QUINDICESIMO Dexter ficcò i calzoni bagnati e i boxer nella cesta dei panni sporchi. Quella maledetta puttana, non aveva nessuna ragione per buttarmi la birra addosso. È pazza come quei suoi amici svitati. Se fossi stato ancora capo della polizia, l'avrei messa dentro. Vediamo quanto ti piace passare la notte in gabbia. Dexter avrebbe ancora potuto essere il capo del Dipartimento di Polizia di Ellsworth. Era questo che lo irritava. Era stato uno stupido errore. Nessuno lo aveva costretto ad andarsene. Aveva raggiunto il trentesimo anno di servizio ed era andato in pensione a cinquantadue anni, pensando che non era il caso di continuare a lavorare quando non vi era costretto. Il congedo gli era sembrato un'ottima cosa. Niente responsabilità. Niente più Minnie fra i piedi a tormentarlo. Un bel po' di soldi di rendita: per la pensione e per la proprietà. Aveva tutto il tempo del mondo per fare quello che voleva: pescare, giocare a golf, bere, andare a donne. Quando aveva compreso il suo errore, era ormai troppo tardi. Era abituato alla gente che diventava nervosa quando lui si presentava. Attenti, arriva Pollock. Non rompetegli il cazzo. Toglietevi di mezzo, sennò vi rompe il culo. Lo temevano. Lo rispettavano. Nessuna troia da due soldi osava versargli la birra sui coglioni. Dottor Chandler. Allungandosi nell'armadio, sganciò una stampella e tirò fuori una delle sue uniformi. Stava ancora nel cellophane di una lavanderia di Blayton. Dexter portava sempre le sue uniformi a Blayton o a Cedar Junction per farle pulire. Se le avesse portate in città, la gente si sarebbe meravigliata. Tolse il cellophane e lo gettò nel cestino dei rifiuti. Poi si vestì: calzoni blu scuro, camicia blu chiaro con lo scudo di capo della polizia e la piastra col nome sul petto, stemma del dipartimento sulla spalla, calzini neri e scarpe lucidate con lo sputo. Si assicurò il cinturone intorno alla vita, con la sua calibro .38 Special nella fondina. Infine, si mise in testa il berretto da poliziotto. Chiuse con forza l'anta dell'armadio, e si guardò nello specchio a figura intera. Maledizione, stava proprio bene. E si sentiva bene, anche. Se si fosse trovato al Riverfront con la divisa, col cazzo la Chandler gli avrebbe buttato la merda addosso. E pure quell'altra fica. Cinque dollari
per un'altra caraffa di birra. E io glieli ho dati. Non io, quell'altro Pollock. Se li avesse chiesti a me i cinque dollari, sarebbe stata una puttana pentita. Dexter sfoderò il manganello. Sollevò la testa smussata verso lo specchio. «Cinque dollari, uh?» domandò. «Ti piacerebbe questo nel culo, Fichetta?» Oh, sì? «Sì!» Col manganello in entrambe le mani, si allungò e si immaginò mentre lo conficcava nella pancia di Ace, la vide piegarsi in due, cadere in ginocchio. «Ti senti ancora forte?» domandò. Si vide portarsi dietro di lei. Con l'estremità della mazza, le sollevò la gonna. Il sedere era nudo. Certo che lo era. È per questo che aveva spedito per posta a Minnie quelle cazzo di mutandine. «Guarda questo come ti piace,» disse, e le spinse il manganello nell'ano. Nello specchio, si vide accovacciarsi e spingere con la mazza. Poteva quasi vederla entrare e uscire, e quasi udire Ace che strillava. Si raddrizzò. «Penso che questo ti farà bene,» disse allo spazio vuoto davanti ai suoi piedi. Fece roteare il bastone alcune volte con la cinghia di cuoio, e poi lo fece scivolare nella cintura. Allargò i piedi e si piantò i pugni nei fianchi. Lanciò un'occhiata al riflesso nello specchio sulla protuberanza dei calzoni, e sorrise compiaciuto. «Lo vedi, Dottore? Diventa così quando qualcuno ci versa la birra sopra.» Aprì la patta e lo tirò fuori. «Che ne diresti di pulirmelo con una leccatina? Huh? Ti piacerà, no?» Fece scivolare le dita intorno all'asta inturgidita. Squillò il campanello. Dexter vide la sua faccia diventare rossa, mentre le sue mani cercavano frettolosamente di ricacciare il pene dentro i calzoni. Non voleva entrare. Col cuore martellante, rinunciò e spalancò l'anta dell'armadio. Staccò l'accappatoio dalla stampella e lo indossò. Gettò il berretto da poliziotto sullo scaffale. Richiuse l'anta. Nello specchio, vide che l'accappatoio nascondeva a malapena il fatto che stava indossando l'uniforme. Beh, non esiste nessuna legge per cui debba aprire per forza la porta. Lanciò un'occhiata all'orologio. Quasi le undici. Chi suona il campanello a quest'ora? Forse uno degli inquilini.
Squillò di nuovo. Col cuore in tumulto, uscì in fretta dalla stanza. Il cuoio della cintura cigolava mentre lui camminava. Frugò dentro l'accappatoio, rimise il pene raggrinzito nei pantaloni e chiuse la patta. Giunto alla porta, sbirciò dallo spioncino. Solo per un attimo, pensò che la giovane donna nel corridoio fosse Vicki Chandler. Poi, realizzò che era un'estranea. Capelli biondi come Vicki, ma non così graziosa. Indossava un abito bianco. Cos'era, un'infermiera? Innanzi tutto, io non la conosco, e lei non mi conosce. La ragazza suonò ancora il campanello. Dexter si sfilò l'accappatoio e lo gettò sullo schienale di una sedia vicina. Aprì la porta. «Cosa posso fare per lei?» chiese. «Oh, lei è un ufficiale di polizia?» Parve che la cosa la allietasse. «Comandante Pollock, signora. Qualche guaio?» «Beh, non esattamente, no.» Sorrise, scosse la testa, e si toccò i capelli sopra l'orecchio. La targhetta sopra il seno sinistro recava il nome Patricia Gordon, R. N. Il vestito bianco aveva una cerniera sul davanti. Era aperta abbastanza da rivelare una lunga "V" di pelle nuda che terminava fra i seni. «La mia macchina si è guastata,» spiegò. «Speravo di trovare qualcuno con un telefono, in modo da poter chiamare la mia amica per farmi venire a prendere. Potrebbe farmi telefonare?» «Sicuro. Entri, Patricia.» «Grazie. È molto gentile.» Lui arretrò dalla porta. Lei entrò, e la chiuse. «Se vuole posso dare un'occhiata alla macchina,» si offrì lui. «Cos'è che non va, secondo lei?» «Oh, mi ha semplicemente mollata.» «Sarei lieto di darci un'occhiata.» «No, va tutto bene. Mi preoccuperò domani della faccenda. Vorrei solo usare il telefono.» Dexter indicò il telefono appoggiato sul tavolo. Ringraziandolo, Patricia si sedette sul divano. La gonna bianca le si sollevò sulle cosce. Non portava calze. Le gambe sembravano nudissime. Si mise il telefono in grembo, prese la cornetta e compose il numero. Dexter sfilò il manganello dal cinturone, lo mise a terra accanto alla poltroncina, e si sedette. Cercò di non guardarle le gambe. Sospirando, lei scosse lievemente la testa. «Segreteria telefonica,» disse. Attese alcuni istanti, poi parlò nel telefono. «Sono io, Patricia. Quella dan-
nata macchina si è guastata di nuovo. Chiamami non appena torni.» Esaminò la piastrina al centro del disco combinatore, e lesse ad alta voce il numero di Dexter. Poi riappese. Ripose il telefono sul tavolo. «Le dispiace se aspetto?» chiese. «Sono certa che Sue tornerà entro un paio di minuti. Probabilmente è uscita solo per comprare le sigarette. Lo fa sempre. Fuma come un demonio.» «È la benvenuta,» la rassicurò Dexter. «Posso portarle qualcosa da bere?» «No, grazie. Ma lei faccia pure le sue cose. È appena rientrato dal servizio?» Dexter sentì il calore affluire al viso. Si disse che non c'era motivo di essere imbarazzato: Patricia non aveva modo di sapere nulla. «Ero rientrato da cinque minuti quando lei è arrivata,» spiegò. «Bella uniforme,» disse lei. «Grazie. Anche lei sta bene nella sua. Così, è un'infermiera. Non l'ho mai vista da queste parti.» «Sono da poco in città.» Abbassò lo sguardo. Dexter cercò di rammentare se aveva chiuso i calzoni. «Ha mai colpito qualcuno con quella?» Dexter realizzò che lei stava guardando il revolver. «Sicuro. Alcune volte.» Patricia contrasse le labbra ed emise un leggero soffio, quasi un fischio. «Con quella pistola?» chiese. Annuendo, lui diede una pacca sulla fondina. «Me la faccia vedere,» disse lei, battendo sul cuscino accanto a lei. Sacra Toledo, pensò Dexter. Ecco una tipa tosta. Si alzò, slacciò il cinturino di cuoio della fondina, e sfilò il revolver. Sorrise a Patricia. «La sicurezza innanzi tutto,» le disse. Aprì il tamburo, si lasciò cadere sul palmo le cartucce, e fece tornare al suo posto il tamburo con uno scatto. Avvicinandosi a lei, ficcò le munizioni nel taschino anteriore dei pantaloni. Si sedette sul divano e tese il revolver a Patricia. «Ooh, com'è pesante.» Le punte delle dita accarezzarono la canna da sei pollici. Vi avvolse intorno le dita, e le fece scivolare su e giù per tutta la lunghezza. Dexter sentì che gli veniva duro mentre la osservava. Gemendo, lei strofinò la guancia contro la canna. Gli occhi erano socchiusi. Appoggiò languidamente la schiena al cuscino, e continuò a strofinarsi il revolver sulla faccia. Dexter scosse la testa. Era davvero strana quella ragazza. Si presenta qui per fare una telefonata e comincia a pomiciare con la pistola.
Una specie di sogno erotico. Lei si fece scivolare la canna in bocca, in profondità, e cominciò a lavorare di labbra come se volesse succhiarne il latte. «Geee-sù,» mormorò Dexter. Lei si sfilò la canna dalla bocca. Ne uscì umida. Patricia voltò la faccia verso di lui e fece un sorriso indolente. «Va... tutto bene?» chiese lui. «Benissimo.» Un sussurro. «Certo che le piace proprio quel revolver.» «Già.» «Forse dovrebbe averne uno suo.» Lei sorrise. Fece scivolare la canna nella scollatura dell'abito. Dexter vide il rigonfiamento muoversi sotto il tessuto mentre lei faceva scorrere la canna sul seno. «È così lunga e dura,» sussurrò. Lo sono anch'io, pensò lui. Dio, se lo sono. L'altra mano di lei abbassò la lampo di qualche pollice. Con la canna della pistola, scostò di lato la stoffa, scoprendosi il seno. Il capezzolo era dritto. Vi fece scorrere sopra la canna. L'acciaio lo appiattì, poi lasciò che si drizzasse di nuovo. «Non ci posso credere,» borbottò Dexter. Lentamente, lei tese il revolver verso di lui. Gli avvicinò la canna alle labbra. «Apri,» disse. Questa è pazza. Dexter aprì la bocca e sentì la canna scivolargli fra le labbra. Il pollice della ragazza tirò indietro il cane. Gesù, pensò lui. Meno male che l'ho scaricata. L'ho scaricata, no? Sicuro. Eppure, avere quella cosa in bocca gli fece contrarre la pelle sulla nuca. Patricia non disse nulla. Tenendogli la pistola in bocca con una mano, usò l'altra per sbottonare la camicia dell'uniforme. La tirò, e lui sentì le falde che gli uscivano dai calzoni. Gli aprì il cinturone. Sfibbiò la cintura dei calzoni, slacciò il bottone in vita, e abbassò la lampo. Lui si sentì scattare in fuori. Poi sentì la dita. Ragazzi miei, che fica! Poi la pistola non era più nella sua bocca. Patricia la buttò via. Atterrò sul tavolino da caffè, scivolò su un paio di riviste e cadde a terra.
Lei si gettò su di lui. Sacra Toledo Fottuta! Dexter gettò indietro la testa, allargò le braccia e si puntellò allo schienale del divano. Entra per fare una telefonata. Si mette la mia pistola in bocca. Si mette me in bocca. Dio, cosa ho fatto per meritare questo? Gemette e si dimenò mentre la bocca di Patricia si muoveva su e giù, mentre lei succhiava. Glielo avevano già fatto in precedenza. Mai così. «Oh baby,» gemette. «Oh baby!» Poi, strillò. CAPITOLO SEDICESIMO "In primo piano nel notiziario locale il brutale assassinio del Capo della Polizia di Ellsworth in pensione, Dexter Pollock, avvenuto la scorsa notte nel suo appartamento in Fourth Street." Vicki s'irrigidì. Il caffè straripò dalla tazza e si sparse a terra fra i suoi piedi. Lei fissò la radio. "Un inquilino residente nello stabile, Perry Watts, ha scoperto l'orribile scena al ritorno da un party poco dopo la mezzanotte, e ha notato che la porta della vittima era socchiusa. Mr. Watts ha immediatamente avvertito le autorità. Gli agenti, giunti sul posto, hanno scoperto il cadavere del comandante in pensione, vittima apparente di ferite multiple. La natura dell'arma dell'omicida non è stata ancora svelata. "Patricia Gordon, infermiera diplomata, impiegata presso il Blayton Community Hospital, è attualmente ricercata in relazione all'omicidio. Miss Gordon, lei stessa precedentemente ritenuta vittima di un delitto, è stata vista l'ultima volta mentre lasciava l'ospedale al termine del suo turno giovedì sera. La sua automobile abbandonata è stata ritrovata venerdì in Market Road, tre miglia a est di Cedar Junction. Una vasta ricerca non ha consentito di rinvenire alcun indizio su dove si trovi attualmente. "Secondo il Comandante Ralph Raines, che ha assunto l'incarico di Capo della Polizia di Ellsworth dopo il congedo di Pollock, «Abbiamo la prova sostanziale che l'infermiera scomparsa, Patricia Gordon, si trovava nell'appartamento della vittima nel momento dell'omicidio. Chiunque sappia do-
ve si trovi Miss Gordon in questo momento deve contattare immediatamente le autorità. Potrebbe essere armata, e dev'essere considerata estremamente pericolosa.»" "Il notiziario della WBBR vi terrà informati su tutti gli ulteriori sviluppi di questa scioccante e tragica storia. A Ellsworth, oggi, prosegue la Fiera dell'Antiquariato... » Vicki pulì il caffè dal pavimento, e uscì dalla cucina. Percorse il corridoio fino alla camera di Ace, che era adagiata scompostamente sul letto, la faccia appoggiata al cuscino, il lenzuolo intorno ai piedi, la camicia da notte sollevata a metà schiena. La pelle delle gambe e del dorso era rosa dopo la lunga esposizione al sole del giorno prima. Le mutandine striminzite del suo bikini le avevano lasciato un netto triangolo bianco sul didietro. Vicki sollevò il lenzuolo e la coprì. Sedette sull'orlo del letto. I capelli biondi pendevano dal volto di Ace. Alcuni fili si erano impigliati nell'angolo della bocca. Vicki li scostò. Ace non si svegliò. L'orologio sul comodino segnava le 8:05. Potrei lasciarla dormire ancora, pensò Vicki. No. Può passare il resto della giornata a dormire, se vuole, ma devo dirglielo adesso. Scosse leggermente la spalla di Ace, udì il suo gemito, vide un occhio aprirsi lievemente. «Cooo... ?» «Dexter è stato ucciso.» Lei sollevò la testa. «L'ho appena sentito alla radio. È stato ucciso stanotte.» «Santa merda.» Ace rotolò sulla schiena. Una grinza sul cuscino le aveva impresso un solco rosso simile a una cicatrice lungo il lato destro della faccia. «Ucciso? Il nostro Dexter?» «Già.» «È stato Melvin?» «Pare sospettino che sia stata un'infermiera. Quella che scomparve alcuni giorni fa.» «L'hanno presa?» «La stanno cercando.» «Che strano.» Lottò con le lenzuola, si alzò a sedere e appoggiò la schiena alla testata. «Dammene un po'.» Vicki le tese la tazza. Ace bevve alcuni sorsi, e sospirò. «Pensavano che quell'infermiera fosse stata trombata da qualche svitato di passaggio.» «Lo so. Dexter mi aveva messa in guardia... »
«I suoi predicozzi mattutini... » «Già, a proposito delle sparizioni. Poi l'ultima ragazza scomparsa si fa viva nel suo appartamento e lo uccide. O almeno, pensano che l'abbia ucciso.» «Melvin, sicuro come l'inferno, lo ha minacciato, ieri sera.» «È solo una coincidenza?» chiese Vicki. «Mi domando cosa li fa pensare che sia stata l'infermiera.» «Hanno trovato qualcosa nell'appartamento. Sembravano abbastanza certi che fosse lei quella che l'ha ucciso.» «Sarebbe bello se fosse Melvin, Te lo toglierebbero dai piedi.» «Non sembra troppo probabile.» «Forse c'era anche lui con l'infermiera.» «Oh, sicuro.» «Sembra quasi che tu non voglia che sia stato Melvin.» «È solo che non dobbiamo saltare alle conclusioni,» disse Vicki. «A: è matto. B: ha minacciato di uccidere Dexter. C: Dexter è stato assassinato. Non mi sembra che sia un saltare alle conclusioni. Non a me, no.» «E come avrebbe costretto l'infermiera a farlo?» Ace si strinse nelle spalle, e bevve altro caffè. «Tu sai che Dexter mi ha avvertito di quelle ragazze scomparse, no?» chiese Vicki. «E se era lui il responsabile?» «Il nostro Ted Bundy locale?» «Forse è lui che ha rapito l'infermiera. Forse l'ha tenuta legata nel suo appartamento, o roba simile. La scorsa notte, si è liberata e lo ha ucciso. Capisci, per salvarsi.» «C'è un grosso ostacolo a questa teoria, Watson. Sarebbe andata dritta filata dagli sbirri.» «Beh... » Vicki comprese che, se ci avesse riflettuto sopra, probabilmente avrebbe trovato diverse ragioni per cui l'infermiera non sarebbe corsa dagli sbirri dopo aver ucciso Dexter. Era stato anche lui uno sbirro, dopo tutto, e... Ma forse questa era un'esagerazione. Ace aveva ragione. Se l'infermiera fosse stata sua prigioniera, sarebbe andata a chiedere aiuto non appena fosse scappata. «Onestamente, credi che Melvin non abbia niente a che fare con questa storia?» chiese Ace. «Dio, non mi va di vederlo coinvolto se è innocente.» «Se è innocente, mi mangio i miei shorts.»
«Credi che dovremmo dire alla polizia quello che sappiamo, eh?» «Ma sì, facciamoci un po' di pubblicità.» «Accidenti,» mormorò Vicki. «Non ho mai fatto nulla del genere. Cosa dobbiamo fare, andare alla stazione di polizia?» «Diavolo, no. Fai venire loro qui.» Vicki arricciò il naso. «Okay. Credo che... beh, dovrò telefonare e... ?» «Vuoi che telefoni io?» chiese Ace. Lei si sentì enormemente sollevata. «Beh, potrei farlo io, ma... Già, vuoi farlo tu?» «Perché no.» «Sei una vera amica. Grazie.» «Non ringraziarmi, comprami un Ding-dong.» Restituì la tazza a Vicki. «Chiamerò subito, prima di rientrare nel pieno possesso delle facoltà mentali.» Gettò di lato il lenzuolo. Vicki si alzò e si voltò verso la porta. «Penso che chiamerò Joey Milbourne a casa. La gloria sarà sua.» In cucina, controllò la rubrica e compose il numero. Vicki tomo a riempire di caffè il bricco. «Pronto, Iris? Sono Ace. Joey è lì?... C'era? Grandioso. È che volevo parlargli di... » Ace roteò gli occhi. «No, non ho chiamato per sapere i dettagli macabri. So qualcosa che volevo dirgli. Vicki e io eravamo con Pollock ieri sera... Ottimo, se non vuoi svegliarlo, chiamerò la stazione e sarà qualcun altro a risolvere il caso. Sono sicura che Joey ti ringrazierà per questo.» Coprendo la cornetta, Ace sussurrò. «Scema.» Poi, annuì. «Sì, certo.» Di nuovo, coprì la cornetta. «Sta andando a vedere se è sveglio. È stato impegnato con Dexter per tutta la notte. È andata a vedere se il telefono lo ha svegliato.» Ace tolse la mano. «'Giorno, superuomo. Spiacente di averti svegliato, ma pensavo che saresti potuto venire qui a interrogare me e Vicki Chandler. Eravamo con Dexter al Riverfront, ieri sera, verso le dieci e sappiamo qualcosa... Sì, a proposito dell'omicidio... Una mezzoretta va bene. Ci vediamo, allora, simpaticone.» Riagganciò. «Questo è uno al quale ti piacerebbe dare una ripassata.» «Me lo ricordo.» «È un fusto. Niente male.» «Chi è Iris?» «Sua madre.» «Vive con sua madre? Deve avere almeno trentacinque anni.» «Prossimo ai quaranta.» «Se a questa età vive con la madre, deve avere qualche problema.»
«Beh, chi non ce l'ha?» Vicki la ignorò. Riempì la tazza per Ace, poi si diresse in camera da letto. Aveva fatto la doccia dopo la corsa mattutina, e indossava l'accappatoio. Si cambiò, infilando dei jeans bianchi e una camicetta blu poi andò nel soggiorno per attendere l'arrivo di Joey. Un fusto. Pollock è stato assassinato, noi ci apprestiamo a denunciare Melvin e Ace gioca a fare la ruffiana. Il tipo vive con la madre, niente meno. L'ultima cosa di cui ho bisogno. Ace entrò nella stanza. Stava a piedi nudi, e indossava dei jeans accorciati a chiazze di vernice e una felpa grigia cascante e senza maniche. «Vedo che ti sei abbigliata per impressionare il fusto,» disse Vicki. «Non voglio rubartelo, dolcezza.» «Oh, grazie.» «Non è niente male.» «Come mai non gli stai dietro tu?» «Ho avuto la mia opportunità.» «Cos'è che non andava?» «Nulla.» «Figuriamoci.» «Non è il mio tipo.» «Oh, ma pensi che sia il mio?» «Come diciamo noi dell'abbigliamento sportivo: non ti fai male se gli prendi le misure.» «Come diciamo noi dell'ambiente sanitario: chinati e divarica.» Ace sbuffò. Pochi minuti dopo, Vicki udì il debole tonfo della portiera di una macchina che si chiudeva. Poi giunse un rapido rumore di passi sul marciapiede, quindi il campanello. Ace aprì la porta. L'uomo che entrò era alto quanto Ace. I suoi capelli castano chiaro erano tagliati corti, e aveva dei baffi accuratamente spuntati. Vicki capì perché Ace lo considerava un fusto: il suo volto era abbronzato e attraente; la sua camicia bianca a maglia aderiva ai muscoli rigonfi e al ventre piatto. Appariva ben compatto nei jeans scoloriti. Vicki lo ricordava come un tipo alto e smilzo con la faccia di un fanciullo. Si era fatto crescere i baffi e dedicato al body building dall'ultima volta che lo aveva visto. «Joey, ricordi Vicki Chandler?» «Certamente. Vicki? Ho sentito che lavoravi alla clinica con Charlie
Gaines.» «Ho cominciato la scorsa settimana,» disse lei. «Come stai?» «Avrei avuto bisogno di un paio d'ore di sonno in più.» «Ti farà piacere di essere stato svegliato.» «In effetti, ho bisogno di otto ore per funzionare al meglio, per cui sono sotto di due ore.» «Meglio togliersi il peso prima che tu crolli.» Lui inarcò un sopracciglio ad Ace. Poi, sedette all'altra estremità del divano e incrociò una gamba sopra il ginocchio: gesto che sembrava essere doloroso in quei jeans aderenti. Appoggiò un blocchetto di appunti sulla gamba sollevata. «Ora,» disse, «ho saputo che voi due eravate con Pollock ieri sera.» «Al Riverfront,» disse Ace. «Eravamo là con Melvin Dobbs.» «E per quale cavolo di ragione?» «Pare che abbia un debole per Vicki.» Joey guardò Vicki. Il sopracciglio salì di nuovo. «Non lo sto incoraggiando,» spiegò lei. «Me lo auguro. È un tipo strano. Così, voi quattro stavate bevendo al Riverfront.» «Noi tre,» disse Vicki. «Io, Ace e Melvin. Poi Ace si è allontanata dal tavolo per prendere delle noccioline... » «Salate,» aggiunse Ace. «Dovresti stare attenta al sale,» disse Joey. «Nuoce al sistema cardiovascolare.» «Mentre lei era via, si è presentato Pollock e ha cominciato ad infastidirci.» «Infastidirvi come?» «Sono stata inquilina nel suo palazzo, ma lui continuava a tormentarmi così me ne sono andata. Non ci era rimasto molto bene.» «Tormentarti come?» «Comportandosi da schifoso quale era,» disse Ace. «Mi fermava nell'atrio, faceva osservazioni volgari, quel genere di cose. All'apparenza, cercava di mettermi in guardia circa le mie corse di primo mattino. Pensava che io desiderassi essere aggredita.» «Che probabilmente era quello che lui voleva fare,» suggerì Ace. Joey la guardò accigliato. «Quell'uomo è morto.» «Questo non lo trasforma improvvisamente in un santo.» «Può darsi che avesse buone intenzioni. Ci sono stati diversi casi, recen-
temente, di donne giovani e attraenti scomparse senza lasciare traccia.» «Come l'infermiera che risulta essere stata a casa di Pollock la scorsa notte?» chiese Ace. «Credo che stiamo divagando,» disse Joey. Guardò Vicki. «Così stavi bevendo con Dobbs, si è presentato Pollock e ha cominciato a infastidirvi? Che ora era?» «Circa le dieci e un quarto, le dieci e mezza.» «E il suo comportamento era offensivo?» «Direi di sì.» «Era solo?» «Sembrava.» «Avete notato qualcuna nel locale che indossava un abito bianco da infermiera?» «No. Non l'ho vista.» «Neppure io,» disse Ace. «E come si collega questo col delitto che è seguito?» «Melvin ha minacciato di ucciderlo,» disse Ace. Entrambe le sopracciglia di Joey scattarono verso l'alto. «Lo sapevo che ti avrebbe interessato.» «Con esattezza, cosa ha detto Dobbs?» «'Dovrei ucciderlo.'» Vicki annuì. «Sono state le sue parole esatte.» Joey scrisse sul blocchetto. «E quell'"ucciderlo", si riferiva a Dexter Pollock?» «No, a Bugs Bunny. Ma certo che si riferiva a Pollock. Perché credi che te ne stiamo parlando?» «Così, tutte e due lo avete udito minacciare la vita di Pollock fra le dieci e un quarto e le dieci e trenta di ieri sera?» «Esatto,» disse Vicki. «Ma avevamo litigato tutti con Pollock. Io gli ho rovesciato la birra addosso.» «Perché?» «Stava diventando insopportabile. Il fatto è che si era comportato da imbecille e l'affermazione di Melvin sembrava abbastanza normale, date le circostanze. Avrei potuto dire anch'io la stessa cosa.» «Ma tu non sei una matta che può farlo sul serio,» puntualizzò Ace. «Cosa accadde dopo l'alterco?» «Ace e io ce ne andammo a casa.» «E Dobbs?»
«Uscì dal bar assieme a noi. Subito dopo che ci fummo liberati di Pollock.» «Così, voi tre usciste assieme dal Riverfront.» «Erano circa le dieci e trenta.» «E andaste direttamente a casa. Qui.» «Qui.» «E Dobbs?» «Venne con noi e facemmo un'orgia.» Joey socchiuse gli occhi verso Ace. «Stiamo parlando di un'indagine per omicidio.» «Chiedo scusa.» «Melvin non venne con noi,» disse Vicki. «Non sappiamo dove andò dopo.» «Pollock era ancora nel locale quando siete usciti?» Vicki guardò Ace. Ace fece spallucce. «Può darsi che fosse ancora là.» «Non l'ho visto uscire,» disse Ace. «Tutte e due siete venute direttamente qui dopo aver lasciato il Riverfront? Siete più uscite di nuovo la notte scorsa?» «Cosa? Siamo sospettate noi, adesso?» chiese Ace. «Sto solo chiedendo.» «Abbiamo guardato la TV,» disse Vicki, «fino all'una circa. Poi, siamo andate a letto.» «Nient'altro da aggiungere?» «Questo è tutto,» gli disse Ace. «Adesso, farai un controllo e andrai ad interrogare Melvin?» Lui fece scivolare la penna sotto la pinza del blocchetto. «Non sono sicuro che ci sia un motivo per infastidire Dobbs, in merito a questa cosa.» «Cosa? Non importa che abbia minacciato Pollock?» «Abbiamo già un sospettato.» «L'infermiera,» disse Vicki. «Cosa vi fa pensare che sia lei quella che lo ha ucciso?» «Prova concreta sulla scena del delitto.» «E sarebbe?» «Non sono autorizzato a rivelare i dettagli dell'indagine.» «Sputa.» «Dirò solo che abbiamo trovato un abito nell'appartamento di Pollock. La targhetta col nome lo identifica come appartenente alla persona sospettata.»
«Allora se n'è andata nuda come un verme?» Joey scosse la testa. «Il suo abito non potrebbe essere stato seminato per fuorviarvi?» chiese Vicki. «Da Melvin, per esempio,» disse Ace. «Abbiamo degli indizi che l'esecutore materiale era una donna. E dovremmo essere in grado di confermare, oggi, che è stata proprio Patricia Gordon a infliggere le ferite. Non appena controlleremo le cartelle odontoiatriche... » S'interruppe bruscamente e parve contrariato. «Lo ha morso?» «Non ho detto questo.» «Certo che non lo hai detto.» «Maledizione.» «Non diremo niente,» gli disse Vicki. «Lo apprezzerei molto.» «Se questa infermiera è scomparsa giovedì,» chiese lei, «com'è andata a finire nell'appartamento di Pollock?» «Non ne abbiamo idea.» «L'aveva... sequestrata?» «È una possibilità che abbiamo preso in considerazione. Ma non abbiamo trovato niente che indicasse che era stata là per un certo periodo di tempo.» «La teoria iniziale era che fosse stata rapita?» «Era quello che pensavamo. La sparizione seguiva lo stesso schema delle altre, almeno finché lei non si è fatta viva la scorsa notte e lo ha ucciso.» «Non pensi che sia abbastanza strano?» chiese Ace. «Tutto è strano in questa faccenda.» «Ma siete sicuri,» disse Vicki, «che non sia Pollock quello che l'ha rapita, e forse tenuta legata o roba simile, e che lei lo abbia ucciso per fuggire?» «Non abbiamo trovato corde nell'appartamento. Le sue manette erano nell'astuccio del cinturone. Non abbiamo trovato niente che desse l'impressione di essere stato usato come bavaglio. Non c'erano droghe nel suo appartamento che avrebbe potuto usare per farle perdere i sensi. Per cui non sembra che tenesse con sé la donna contro la sua volontà. Dalle impronte che abbiamo trovato, sembra che nessuno sia stato nell'appartamento tranne Pollock.» «Ma allora dov'è stata dopo giovedì notte?» chiese Ace.
«Quando la troveremo, glielo chiederemo.» «Forse la troverete a casa di Melvin,» disse Vicki. Joey la guardò e sollevò un sopracciglio. «Voi pensate che quel Dobbs l'abbia rapita giovedì notte, tenuta prigioniera, e mandata da Pollock la scorsa notte per mettere in atto la sua minaccia?» «Così abbiamo pensato,» disse Vicki. «Piuttosto inverosimile. Cosa pensate che abbia fatto Dobbs? Che l'abbia ipnotizzata?» Vicki ignorò il suo sarcasmo. «Può essere,» disse. «So che comunemente si ritiene che una persona non possa essere costretta sotto ipnosi a fare qualcosa che altrimenti considererebbe ripugnante, ma ci sono dei sistemi per aggirare il problema. Se al soggetto viene fornito un fondamento logico accettabile per comportarsi... » «Potrebbe averle detto che Pollock è un panino al prosciutto,» elaborò Ace. «Posso anche andare,» disse Joey. «Questo non ci porta da nessuna parte.» Cominciò ad alzarsi. «No, aspetta. Tieniti fuori per un minuto, vuoi, Ace? È una cosa seria.» «Sta cominciando a sembrare una cazzata anche a me.» «Melvin potrebbe effettivamente aver rapito 1'infermiera e averla ipnotizzata affinché uccidesse Pollock per lui. Se era in grado di convincerla che Pollock era una minaccia, che forse lui intendeva violentarla o ucciderla, allora questo avrebbe potuto fornirle un motivo sufficiente a giustificare l'uso della violenza contro di lui. È stato fatto. Ho letto il resoconto di un caso su una rivista di psicologia che descriveva esattamente...» «Non ti seguo,» disse Joey. «La Gordon non si è comportata come una ragazza che ha difeso se stessa. È andata ben oltre qualunque cosa potesse essere giustificata dal tipo di suggestione ipnotica di cui stai parlando. La ferocia... Non ne avete idea. E io non posso darvi chiarimenti.» «Okay. Mettiamo da parte l'ipnotismo. E se Melvin era con lei nell'appartamento? Forse aveva un'arma, o qualcosa, e l'ha costretta ad aggredire Pollock.» Joey scosse la testa. «Ho già spiegato che non c'erano indizi che fosse presente qualcun altro. Inoltre, se lui era là, perché non ha semplicemente sparato a Pollock, invece di costringere la donna a commettere l'omicidio?»
«Non lo so. Potrebbe aver avuto una sua macabra ragione.» «Per come la penso io, la cosa si può riassumere in questo modo,» disse Joey: «Dobbs ha fatto un'affermazione casuale, ieri sera, al colmo della rabbia - un'affermazione che tu stessa hai considerato abbastanza normale in quelle circostanze - e Pollock, per puro caso, è stato ucciso un paio di ore dopo. In base a quello che mi hai detto, potrei facilmente sospettare di te come di Dobbs. Dopo tutto, eri abbastanza sconvolta da versare la birra addosso a Pollock.» «Potresti almeno andare da Melvin a fargli delle domande.» «Qualcun altro, a parte tu e Ace, ha sentito la sua minaccia a Pollock?» «Ne dubito.» «Potrei andarci. Potrei anche, con tutta probabilità, ottenere un mandato di perquisizione, sulla base di ciò che mi avete detto. Non che io pensi che troverei qualcosa. Ma potrei farlo. E Dobbs saprebbe con esattezza chi è stato a mandarmi da lui. Volete questo?» «Non particolarmente,» ammise Vicki. Aveva realizzato che Melvin avrebbe probabilmente scoperto che lei e Ace avevano parlato di lui, ma aveva messo da parte questa consapevolezza, dal momento che non desiderava affrontarla. Udire il suo sospetto confermato da Joey le fece provare una brutta sensazione allo stomaco. «Me ne sarei andato da qui dopo un minuto, se avessi pensato che sapevate qualcosa di concreto,» spiegò lui. «Ma francamente non vedo come Dobbs potrebbe essere coinvolto nel delitto. È stata l'infermiera a uccidere Pollock. Semplicemente. La sola cosa che farei affrontando Dobbs sarebbe quella di metterlo contro te e Ace. Davvero non riesco a immaginare che vogliate che uno come lui sia incavolato con voi.» «Potremmo convivere con una cosa del genere,» disse Vicki. «Guardando la cosa dal lato positivo,» le disse Ace, «questo potrebbe mettere un freno al sentimento che prova per te.» Le sopracciglia di Joey si sollevarono di nuovo. «Spero di non essere richiamato qui a causa dei vostri problemi con Dobbs. Chiamare la polizia per farlo arrestare... » Vicki si sentì arrossire. «Scordatelo. Ti abbiamo detto quello che ti abbiamo detto. Se non vuoi darci credito, è affar tuo.» «Meglio che torni a casa a schiacciare un pisolino,» gli disse Ace. «Spiacenti di averti importunato.» Adesso, la faccia di Joey era rossa. «Forse ho parlato a sproposito... » «Direi di sì,» disse Vicki. «Non ti abbiamo fatto venire qui per causare
guai a Melvin. Lui ha minacciato di uccidere Pollock e noi ci siamo sentite in dovere di riferirlo. Questo è tutto. E se tu non pensi che sia rilevante, benissimo. Non farci nulla. Non ce ne importa niente. In realtà, è un sollievo.» «È solo che non penso... » «Lo sappiamo,» disse Ace. Sospirando, Joey si alzò in piedi. «Se succede qualcos'altro,» disse, «non esitate a contattarmi. Intendo dire che ho bisogno di più di una casuale minaccia per mettere le mani addosso a qualcuno. Questa è l'America, dopo tutto. La libertà di parola è garantita dalla Costituzione.» «Grazie,» disse Ace. Rivolse a Vicki un'espressione preoccupata. «Penso che dovremmo dimenticarcene. Che sciocche siamo state.» Si alzò, raggiunse la porta e l'aprì. «Grazie per essere venuto, agente. E grazie per averci rammentato che viviamo in un paese dove la libertà personale è così rispettata.» Scuotendo la testa, Joey uscì. Ace chiuse la porta. «Libertà di parola un cazzo.» «Che piedipiatti,» borbottò Vicki. «Utile quanto un pisello moscio.» «Se fossi io uno sbirro, correrei da Melvin con un mandato di perquisizione.» «Sembri convinta.» «Oh, certo,» disse Vicki. «In realtà, non vedo come Melvin potrebbe essere coinvolto. Non ha senso. Ma io ci andrei comunque. Lo metterei sotto il torchio. Frugherei la sua casa. Mi assicurerei che l'infermiera non si trovi là. Che razza di piedipiatti è Milbourne?» «La razza che se la fa addosso. Sa dannatamente bene che dovrebbe andare là. È solo troppo cacasotto per andarci. Il problema è: noi lo siamo?» «Stai scherzando. Non riuscirai a trascinarmi da Melvin. Inoltre, se gli sbirri non vogliono prendersi il fastidio... È compito loro, dopo tutto. Noi abbiamo fatto la nostra parte.» «Vuoi solo dimenticartene, allora?» «Non ho intenzione di fare la Nancy Drew.» «Potrebbe essere divertente.» «Già. Come un pugno in un occhio.» «Potresti fare una telefonata a Melvin, proporgli di andare a fare un picnic o qualcosa di simile. Sono sicura che ne sarebbe deliziato. Mentre tu lo tieni impegnato, io entro di nascosto in casa sua e do un'occhiata in giro.»
«Idea grandissima. Vedo solo due problemi. Primo, non voglio portare Melvin a fare un picnic. Secondo, e se l'infermiera è là dentro e ti fa fuori?» «Sappiamo entrambe che non c'è, naturalmente.» «Giusto. E allora qual è il problema?» «Ottima domanda. Non pensarci più. Vai a Blayton, fatti una passeggiata per il centro commerciale, e porta i tuoi a pranzo.» «Benissimo!» CAPITOLO DICIASSETTESIMO Il maggiolino di Thelma era nell'area di parcheggio della clinica il lunedì mattina. E anche la Mercedes bianca di Charlie. La Duster rossa era partita. Grazie a Dio. Con l'auto che non c'era più - il regalo restituito - Vicki si sentiva come se Melvin fosse scomparso dalla sua vita. Era troppo sperare di essersi liberata completamente di lui. Ma la macchina era stata un legame che adesso si era spezzato. E il giorno prima, lui non aveva telefonato né si era fatto vivo. Vicki aveva trascorso il pomeriggio e la sera a Blayton, così poteva anche darsi che lui avesse tentato quando lei non c'era. Trascorrere una giornata intera, comunque, senza qualsiasi contatto con Melvin, l'aveva fatta sentire rinvigorita. Era molto lieta che Joey Milbourne avesse rifiutato di vederlo a proposito della minaccia. Lei e Ace avevano fatto quello che era giusto, dicendoglielo, se non altro perché si sarebbero sentite in colpa se avessero tenuto la faccenda per loro, ma più lei pensava alla situazione, più era certa che Joey fosse stato saggio a non procedere. Ovviamente, Melvin non era coinvolto nella morte di Pollock. Affrontarlo in relazione ad essa avrebbe complicato le cose, e senza un buon motivo. Complicato parecchio, pensò. Melvin avrebbe pensato che lo abbiamo pugnalato alle spalle. E avrebbe avuto ragione. Dobbiamo solo sperare che non scopra mai che lo abbiamo riferito. Non ti preoccupare, non lo scoprirà, si disse. Ora, se trascorrerò la giornata senza Melvin, saranno due giornate di fila. Con un'ultima occhiata allo spazio vuoto nell'area di parcheggio, Vicki
si voltò ed entrò nella clinica. La sala d'attesa era deserta. Thelma, dietro il finestrino della ricezione, sollevò la testa e sorrise. «'Giorno,» disse Vicki. «Trascorso un bel weekend?» «Oh, è stato troppo corto, direi. A parte ciò... siamo andati alla Fiera dell'Antiquariato ieri. Jim ha pagato una cifra per un malconcio portavivande Roy Rogers, e la cosa non è che mi sia andata a genio. Ma ha detto che ne aveva uno identico quando era ragazzino per cui chi se ne frega. Gli uomini si comportano come bambini, più spesso di quanto si pensi. Sentito di Dexter Pollock?» «Terribile,» disse Vicki. Si era sentita abbastanza bene. Ora non più. «Dio solo sa perché quella ragazza lo ha fatto fuori,» disse Thelma, «ma scommetto che aveva le sue ragioni. Non mi sorprenderebbe affatto se scoprissero che Pollock era intento a fare qualcosa di sgradevole con lei. Ho sempre immaginato che se fosse vissuto abbastanza a lungo e non avesse cambiato modo di fare, qualche ragazza gliel'avrebbe fatta pagare. Quando ero giovane, anch'io ho avuto un paio di occasioni per metterlo al posto suo. Naturalmente, non l'ho mai ucciso. Ma avrei potuto, se avessi avuto una pistola a portata di mano. Ho il sospetto che, se mai acciufferanno quell'infermiera, ci sarà un sacco di gente nei dintorni che vorrà appuntarle una medaglia. Ma dovranno mettersi tutti in fila dietro la sottoscritta.» «Beh,» disse Vicki, «nemmeno io avevo una particolare simpatia per Pollock. Ma non so se meritava di essere ucciso, però.» «Ho il sospetto che lo meritasse. Ma credo che sia una cosa scioccante, comunque, questo bagno di sangue che sta accadendo qui nella nostra città. Dovresti andare da Charlie. Ha detto che voleva vedere te per prima.» Vicki avvertì un fremito di preoccupazione. «Sai di che si tratta?» Thelma scosse la testa. «Non ne ho idea. Ma c'è Jack Randolph con lui.» «Chi è Jack Randolph?» «Un avvocato.» Oh, Dio. Cosa sta succedendo? Il cuore le batteva forte mentre superava la porta della sala d'aspetto. Camminò lentamente lungo il corridoio fino all'ufficio di Charlie. Un avvocato. Terapia sbagliata? Sembrava improbabile. Non aveva visitato nessuno che avesse un problema particolarmente grave nella settimana precedente. Erano sempre possibili delle complicazioni, naturalmente. Ma se qualcuno avesse avuto un problema!!! Bussò alla porta. Charlie le sorrise da dietro la scrivania. Malgrado il
sorriso, parve per un attimo confuso, come se non la riconoscesse. «Volevi vedermi?» La confusione sembrò svanire. «Vicki? Certo, sì. Conosci Jack Randolph?» «No, io... » Mentre entrava nella stanza, l'uomo si alzò dalla sedia accanto alla scrivania di Charlie e le sorrise. «Dr. Chandler,» disse. Lei sapeva che lo stava fissando. Sapeva che stava arrossendo, che aveva la bocca spalancata. L'uomo del parco giochi. Quello che l'aveva osservata dal suo posatoio in cima allo scivolo. Che il giorno dopo era stato là, su un'altalena, come se l'aspettasse. Che si era fatto vivo, anche in uno dei suoi incubi, solo per essere colpito da Dexter Pollock in cima allo scivolo. O era Melvin? Non ricordava. «Salve,» riuscì a dire. «Lieto di rivederla,» disse lui. «Oh,» disse Charlie, «vi siete già incontrati?» «Brevemente,» gli disse Jack. «Benissimo, ottimo. Jack è un avvocato, Vicki.» «C'è qualche problema?» «No, no,» disse Charlie. «Siediti.» Lei si sedette sulla sedia davanti alla scrivania. Nessun problema, le aveva detto. Era un sollievo, ma si sentiva ancora confusa e tesa. E stranamente eccitata dalla presenza dell'uomo del parco giochi. Lo osservò seduto sull'altra sedia. Cosa ci fa qui? si domandò. Dev'essere qualcosa che mi riguarda. Come ha fatto a sapere dove lavoro? «Vicki,» cominciò Charlie, «ho pensato un poco alla tua posizione qui. Ho scoperto che sei una risorsa estremamente preziosa, e mi piacerebbe pensare che resterai qui in città e ti occuperai della clinica dopo che me ne sarò andato.» Dopo che me ne sarò andato. Sembrava quello di sempre: i capelli bianchi ben pettinati, la faccia rubiconda, i vivaci occhi azzurri. Ma Vicki rammentò come le era sembrato un po' confuso quando lei aveva aperto la porta. «Stai bene, Charlie?» domandò. «C'è qualcosa che non va?» «No, no.» Agitò una mano come per scacciare il pensiero, poi si grattò lo stomaco. «Presumo di avere ancora alcuni anni buoni a disposizione.
Ma sto invecchiando, Vicki. Ho trascorso la mia esistenza a occuparmi della gente di questa città, e mi piacerebbe sapere che sarai tu a mandare avanti la clinica dopo che me ne sarò andato.» Ecco, l'ha detto di nuovo. «Non ho affatto progettato di andarmene,» gli disse Vicki. «Beh, mi fa piacere sentirlo. Il fatto è che voglio rafforzare la tua intenzione di restare.» Si grattò di nuovo. «Ti sto chiedendo di entrare in società con me qui nella clinica.» «Cristo.» «È un sì?» chiese Charlie. «Beh... sì. Naturalmente, sono un po' scioccata... » «Saremo soci al cinquanta per cento.» «Dio. Io... » «Jack preparerà oggi stesso i documenti.» Guardò Jack. «E voglio che tu specifichi che Vicki prenderà pieno possesso alla mia morte.» Vicki si accigliò. «Ti sono molto grata, Charlie, ma... Sei sicuro di sentirti bene?» «Sano come un pesce.» «È troppo. Non merito che tu mi faccia dono della tua attività.» «Voglio che questa passi nelle tue capaci e caritatevoli mani. Non l'affiderei mai ad un estraneo. Ho speso tutta la mia vita a occuparmi della gente di questa città, e non vorrei vederla andare in pezzi dopo che me ne sarò andato.» E tre. Charlie guardò Jack. «Scriverai tutto e lo preparerai per la firma oggi pomeriggio?» Jack annuì. Grattandosi lo stomaco, Charlie sorrise a Vicki. «C'è anche la questione del prestito. Consideriamolo un dono.» «Charlie, non puoi... » «Sicuro che posso. Niente discussioni, adesso.» Lei vide una minuscola macchia di sangue apparire sul davanti della sua camicia bianca sopra il punto dove si stava grattando. «Eri una ragazza molto promettente, ed io ho sempre sperato che diventassi un'ottimo medico e tornassi qui a prendere il mio posto. Prestarti quel denaro è stato solo un mezzo per agganciarti. Adesso che sei qui, ce ne dimenticheremo.» «Sono venticinquemila dollari, Charlie.» «Non mi servono comunque.» Guardò di nuovo Jack. «Forse puoi mette-
re anche questo sulla carta. Rendi ufficiale che cancello il "pagherò".» «Ottimo,» disse Jack. «Charlie. Io... » «Adesso, non voglio più sentire obiezioni da parte tua, altrimenti cambio idea.» Si grattò di nuovo lo stomaco. Ora, il davanti della camicia era segnato da un filo di sangue lungo quasi un pollice. «Stai sanguinando, Charlie.» «Io?» Abbassò lo sguardo. «Sì.» Sembrava divertito. «Ho grattato via la crosta, suppongo. Quei fastidiosi cespugli di rose. Li stavo potando ieri. Quelle spine sono infide.» «Vuoi che ci dia un'occhiata?» chiese Vicki. «Signore, no. Non è niente.» Infilò un dito nella camicia, strofinò, lo tirò fuori e diede un'occhiata alla macchia di sangue sulla punta. Poi la leccò. «Suppongo che farei meglio ad andare a casa a mettermi una camicia pulita.» A Jack, disse, «Puoi preparare i documenti per la firma, diciamo, per le cinque?» «Nessun problema,» disse Jack. «Ottimo. Sarò qui ad aspettare. Puoi andare a svolgere le tue mansioni, Vicki. Sono contento di averti come socia.» «Beh, grazie. Molte grazie davvero, Charlie.» «Piacere mio.» Mentre si alzava dalla sedia, Jack le sorrise. «Ci vediamo più tardi, Dr. Chandler.» Alle cinque e un quarto del pomeriggio, Vicki stava alla sua scrivania a controllare le cartelle del Blayton Memorial relative all'intervento di chirurgia ai muscoli rotatori del polso su un paziente che avrebbe visitato il giorno dopo per un esame supplementare. Concentrarsi le risultava piuttosto arduo. Per tutto il giorno, la sua mente era tornata all'incredibile incontro nell'ufficio di Charlie. Si sentiva ancora inebetita. Un anno o due più in là, sarebbe stato diverso; aveva sperato che alla fine le venisse rivolta l'offerta di entrare in società. Ma non così presto. Non dopo che era là da appena una settimana. Sembrava assurdo, irreale. Meraviglioso, ma disturbante. Cosa poteva avere spinto Charlie a prendere una decisione tanto importante in maniera così improvvisa? E a cancellare il debito? Vicki era convinta che ci fosse qualcosa che proprio non andava in lui.
Tutto quel parlare di "dopo che me ne sarò andato". Quasi come se avesse scoperto di avere una malattia terminale. Aveva affermato di essere perfettamente sano, ma lei non riusciva a crederlo. Sembrava allegro, però. Qualcuno bussò alla porta dello studio. «Sì?» La porta si spalancò ed entrò Jack Randolph. «Ho i documenti della società che deve controfirmare.» Si avvicinò alla scrivania e le tese i fogli fermati da una graffetta. «Dopo che li avrà esaminati, siglerà in fondo a ogni foglio e firmerà l'ultimo.» Vicki fissò il primo foglio e scosse la testa. «Cosa sa di tutta questa storia?» «Beh, gli accordi indicano che lei percepirà uno stipendio mensile di 4.000 dollari. Al termine di ogni anno fiscale, riceverà una quota del cinquanta per cento degli utili. Si farà carico inoltre di quella parte dei debiti che deriva dalla società.» «Debiti?» «Non c'è nulla di cui preoccuparsi. Ho avuto l'opportunità di dare un'occhiata ai libri contabili, e la clinica gode di ottima condizione finanziaria.» «Crede che dovrei firmare?» «Se fossi al suo posto, lo farei certamente.» «Perché sta facendo questo? È una cosa così improvvisa. Non capisco.» «Sospetta che possa esserci uno scopo recondito?» «Non le ha detto nulla... del suo stato di salute?» «Nulla che lei non abbia sentito.» «Sembra così bizzarro. Come se pensasse che deve morire, o qualcosa di simile.» «Non credo che dovrebbe essere troppo preoccupata per questo. Certamente non sulla base delle decisioni di questa mattina.» «Perché dovrebbe farlo, allora ?» «Ho visto un comportamento simile non poche volte in persone che si sono presentate per far redigere le loro ultime volontà. Avvertono improvvisamente un'urgenza, sentono che devono assolutamente farlo subito. Talvolta è perché di recente se la sono cavata per il rotto della cuffia e realizzano d'un tratto che non vivranno per sempre. Forse un amico è appena morto inaspettatamente. Oppure stanno per farsi operare e hanno il presentimento che non se la caveranno. Talvolta, è il semplice festeggiamento di un compleanno. D'un tratto, non possono permettere che passi un'altra giornata senza fare testamento. Ma non c'è nulla di cui preoccuparsi. È so-
lo la natura umana. Credo che il Dr. Gaines si sia svegliato di botto stamattina e abbia realizzato che avrebbe fatto meglio a offrirle la società prima che la cassaforte gli caschi sulla testa.» «Spero che sia così.» Si sentiva un po' più sollevata dopo la spiegazione di Jack. «Le sembra che stia bene?» «Forse è un tantino confuso su alcune cose. Niente di particolarmente strano. Ma non lo conosco bene. Lei è probabilmente un giudice migliore di... » «Non lo conosce bene?» chiese Vicki. Jack scosse la testa. «Mi ha telefonato stamane. Ha detto che aveva scelto il mio nome sulle pagine gialle. E ciò rende davvero interessante il fatto che io sia qui, dal momento che avrebbe facilmente potuto scegliere un altro avvocato. Abbastanza da far interrogare una persona su una cosa come il Fato. Avevo il desiderio di rivederla, Dr. Chandler.» Tutto ciò che lei riuscì a dire fu, «Oh?» «Non abbiamo avuto il tempo per conoscerei bene l'ultima volta.» «Già, e mi dispiace. Mi ha colta in un brutto momento.» «Sono sicuro che dev'essere stato uno schock, quando ha compreso di non essere sola.» «Non mi aspettavo di trovare qualcuno seduto in cima a uno scivolo a quell'ora. Questo è sicuro. Lo fa spesso?» «Una volta ogni tanto. Sono uno che si alza presto la mattina.» Vicki si trovò a sorridere. «Così le piace saltare giù dal letto e correre a gambe levate fino al più vicino parco giochi?» «Oh, me la prendo comoda. Mi limito a gironzolare, ad annusare il mattino e ad ascoltare il silenzio. E una bella ora della giornata. Credo che lei lo sappia. È una delle ragioni per cui mi piacerebbe conoscerla meglio.» «Beh... » «Se ha un amico che la sta aspettando a casa, o... » «No. O almeno, spero di no.» Lui le rivolse un'espressione strana. «Non è niente.» «Che ne direbbe di venire a cena con me stasera? La sua nuova posizione finanziaria richiede un festeggiamento, e il Fireside Chalet sembra proprio il posto adatto a quel genere di cose. Che ne dice?» «È la migliore offerta della giornata.» Del mese, pensò. Dell'anno. «Sicuro,» disse. «Mi piacerebbe.» «Magnifico. Andrò a casa a gambe levate e farò le prenotazioni. Alle ot-
to va bene?» «Benissimo.» Scribacchiò l'indirizzo e il numero di telefono di Ace su un ricettario, strappò il foglio e glielo tese. «Riesce a leggere?» «La sua grafia è abbastanza buona, per essere quella di un medico.» «Sono ancora una principiante.» Lanciò un'occhiata ai documenti dell'accordo. «Nessuna fretta,» le disse Jack. «Si prenda tutto il tempo e li legga con attenzione prima di firmare. Si ricordi solo di consegnarli al Dr. Gaines prima di andarsene, e di tenerne una copia per sé.» «Va bene.» «Ci vediamo alle otto meno un quarto?» Vicki annuì. Jack indietreggiò, sorridendo, con un'espressione come se non riuscisse a credere del tutto alla sua fortuna. «Beh, ci vediamo,» disse. «Ci vediamo.» Lui uscì. CAPITOLO DICIOTTESIMO Melvin e Patricia stavano nel soggiorno a guardare la televisione quando squillò il campanello. L'orologio sul VCR segnava le 9:01. «Ci siamo,» disse Melvin. «Aspetta qui.» Patricia rimase sul divano, ma lo osservò da sopra la spalla mentre andava alla porta. Lui scrutò attraverso lo spioncino. «Va tutto bene,» le disse. Poi aprì la porta. E arretrò vacillando mentre Charlie Gaines si gettava in avanti e gli avvolgeva le braccia intorno. «Ehi, ehi, dacci un taglio,» disse, dando delle pacche sul dorso dell'uomo. Charlie lo strinse con forza. «Andiamo, lasciami, adesso.» Charlie lo lasciò. Melvin chiuse a chiave la porta. Quando si voltò, il dottore si stava asciugando le lacrime dagli occhi. «Cosa c'è che non va?» «Niente. Sto bene. Non mi lascerai più, no?» «Dipende.» «Ho fatto tutto come mi hai detto.» Lui prese Charlie per un braccio e lo condusse al divano. Charlie si se-
dette al centro. Mentre Melvin si sedeva accanto a lui, Patricia aggirò frettolosamente i due uomini e s'intrufolò fra l'estremità del divano e Melvin. Gli mise un braccio intorno alle spalle. Melvin le fece scivolare una mano su per la coscia nuda e sotto la falda della camicia blu dell'uniforme di poliziotto che lei aveva preso dall'appartamento di Pollock. «Charlie e io abbiamo delle cose di cui parlare. Perciò stai zitta.» Anche se i suoi occhi apparivano inquieti, lei annuì. Melvin cominciò a ritirare la mano mentre si voltava verso Charlie. Patricia la afferrò e la bloccò. «Lascia,» disse lui con voce ferma. Facendo il broncio, lei lasciò la mano. Melvin fronteggiò Charlie, e scoprì che l'uomo stava guardando in cagnesco Patrìcia. «Ti sei assicurato che nessuno ti abbia seguito fin qui?» «Sono stato attentissimo.» «Bene. Ci sono stati dei problemi?» «Nessun problema.» «Vicki non ha protestato quando le hai offerto di entrare in società?» «Ha pensato che fossi ammalato.» «Merda, non sei ammalato, sei morto.» Charlie rise. «Se questa è morte, non so di cosa mi sono preoccupato in tutti questi anni.» «Ha firmato le carte, comunque?» «Certo che lo ha fatto.» «Dove le hai lasciate?» «Esattamente dove mi hai detto tu.» «Nel cassetto più in alto del tuo scrittoio?» «Esatto.» «E hai provveduto al prestito?» «Sì. Ha cercato di dissuadermi, ma le ho detto proprio quello che mi hai detto tu e si è convinta.» «A quanto ammontava il debito?» «Venticinquemila dollari.» Da me non ha voluto accettare nemmeno una macchina, pensò Melvin, ma non ha battuto un ciglio su venticinque bigliettoni e la società offertale dal vecchio. «Come hai fatto a scoprire l'ammontare?» chiese. «Thelma mi ha dato i libri.» «Non ha sospettato nulla?» «Thelma? No, non credo.»
«E tu non hai parlato di me, no?» «A Thelma?» «A chiunque.» «No. Nemmeno una parola.» «Dimmi dell'avvocato. Ti ha procurato fastidi?» «È stato perfetto. Si è occupato di tutto.» Melvin si rilassò. Sospirando, mise una mano sulla gamba di Charlie, una mano su quella di Patricia. «Beh,» disse, «sembra tutto a posto.» A Charlie disse, «Vicki ti è sembrata felice della cosa?» «Sembrava più confusa e preoccupata che felice.» «Beh, dev'essere stata una sorpresa abbastanza grossa. Credo che sarà davvero felice non appena se ne renderà conto.» «Non so perché ti sei preso tutti questi fastidi,» borbottò Patricia. «Non è affar tuo.» «Tu hai me. Non vedo perché... » «Basta con queste cazzate, altrimenti ti chiudo in gabbia.» «Stai progettando di rianimare Vicki?» chiese Charlie. «Non è affar tuo.» «Secondo la mia personale opinione, sarebbe un progetto grandioso. Dopo tutto, è una ragazza molto carina.» Melvin ficcò un gomito nel fianco di Charlie. «Non permetterti di pensare a lei in quel modo.» Lui abbassò la testa. «Chiedo scusa. Non intendevo suggerire niente di sgradevole. Comunque, non mi sembra particolarmente leale che tu debba avere Patricia e che io sia ancora senza una donna.» «Tu sei vecchio.» «Forse c'è della neve sul tetto, ma ti assicuro che c'è un bel fuocherello nel... » «Non avrai Vicki, per cui dimenticatene, vecchio coglione.» «Forse un'altra, allora. Te ne sarei molto riconoscente.» «Questa non è una cazzo di agenzia per cuori solitari!» «Chiedo scusa. Era solo un consiglio.» «Tieni i tuoi consigli per te.» «Sì, certo. Chiedo scusa.» «Resta qui e guarda la TV,» gli disse Melvin. Strinse una gamba di Patricia. «Vieni con me.» Lei rivolse a Charlie un'espressione di trionfo, poi si alzò e seguì Melvin al piano di sopra. Lui la condusse nella camera da letto. Patricia aveva già
la camicia sbottonata. Gli aprì bruscamente l'accappatoio, si premette contro di lui, e gli ficcò la lingua in bocca mentre le mani gli solcavano la schiena e le natiche. Dopo un po', lui la spinse via. «Va' a letto.» Lei lasciò cadere a terra la camicia. Il distintivo colpì il tappeto con un lieve tonfo. Salì sul letto, strisciò fino al centro, e si distese. Fissandolo, si leccò le labbra. Si accarezzò i seni, tirò i capezzoli. «Smettila.» Lei incrociò le mani dietro la testa. «Adesso, dormi.» «Non vuoi giocare?» «Più tardi, forse.» «Oh, andiamo.» «Ho da fare.» «Con Charlie?» «Già.» Lei si accigliò e spinse fuori le labbra. «Tornerò fra un po'.» «Scommetto che vai a giocare con Charlie.» «Assurdo.» «È così.» «Vado ad ucciderlo.» Questo la rianimò. «Sei sincero?» «Certo.» Lei annuì, sorridendo, poi si accigliò di nuovo. Questa volta, sembrava confusa piuttosto che imbronciata. «È già morto. Come puoi ucciderlo se è già morto?» «Troverò un modo,» disse Melvin. Sebbene il problema fosse rimasto in attesa in un cantuccio della sua mente fin da quando aveva elaborato per la prima volta il piano di servirsi di Charlie Gaines, era stato troppo indaffarato per occuparsi dei dettagli di come avrebbe potuto riuccidere quell'uomo. La prima incombenza era stata quella di rapire Charlie. E la cosa si era rivelata semplice grazie al revolver che Patricia aveva sottratto a Pollock. Si era semplicemente recato a piedi fino alla casa di Charlie la notte prima, aveva bussato alla porta e gli aveva puntato in faccia la rivoltella. L'uomo non aveva opposto resistenza, dal momento che non voleva essere colpito. Aveva guidato la sua macchina, con Melvin seduto dietro che gli premeva la canna della pistola contro la testa.
Poi era venuta l'uccisione di Charlie. Lo aveva condotto giù nei seminterrato e aveva tenuto il revolver col cane alzato contro la faccia mentre Patricia lo legava al tavolo. Quindi aveva soffocato il vecchio col cellophane. Semplice. Nessun problema finché Patricia non si era arrampicata sul tavolo, con l'intento di mordergli il collo. Una botta sull'orecchio aveva posto fine alla cosa. Poi era arrivato il momento di riportarlo indietro. E questo aveva distolto la mente di Patricia dall'intenzione di morderlo. Probabilmente era affascinata dal procedimento poiché capiva di essere stata, lei stessa, sottoposta allo stesso trattamento. Si era anche offerta di dare una mano, così Melvin le aveva permesso di masticare la Radice della Vita e di spingere quella poltiglia con la lingua nell'incisione sullo stomaco. Perché no? Era una donna, dopo tutto, per cui aveva probabilmente più esperienza di Melvin quando si trattava di aghi e fili. Aveva anche fatto un bel lavoro. E di questo era felice e orgogliosa. Solo dopo che Charlie era tornato in vita aveva cominciato a diventare intrattabile. Poi era venuto l'addestramento. Dopo che si era svegliato con l'amnesia, come Patricia, ci era voluta tutta la notte per prepararlo al compito del giorno successivo. Era un allievo pronto, mentre Patricia era stata una vera peste. A cominciare dalle sprezzanti osservazioni su Charlie. «Non penso che sia così speciale... È spaventosamente vecchio e brutto... Non è molto sveglio, no?» Melvin l'aveva ignorata, così lei aveva tentato di mostrarsi seducente. Si era spogliata e aveva assunto una certa varietà di posizioni. Si era accarezzata, masturbata. Quando Melvin aveva mostrato di non reagire, aveva scovato un paio di forbici. Era stata l'ultima goccia. Anche se Melvin non voleva essere infastidito, non voleva neanche che Patricia si mutilasse. Così le aveva tolto le forbici, l'aveva condotta nella camera da letto di sopra e aveva sprecato un'ora preziosa per ammansirla. Quindi l'aveva chiusa a chiave nella stanza ed era tornato da Charlie. Alle otto del mattino, Charlie gli era parso pronto. Melvin aveva controllato l'elenco telefonico, scelto un avvocato, e ascoltato Charlie che faceva la telefonata. Una segreterìa telefonica aveva accettato il messaggio di un appuntamento con Charlie alla clinica, alle nove. Finalmente, Charlie se n'era andato con la macchina. Melvin, esausto, e non tollerando l'idea di un altro confronto con Patricia, era salito barcollando nella stanza dei suoi genitori ed era crollato sul letto matrimoniale. Aveva dormito fino a metà pomerìggio, quando era stato svegliato dalle urla e dai colpi alla sua porta.
Aveva trovato Patricia col fiato mozzo e singhiozzante, la faccia rigata di lacrime. In un accesso di rabbia, si era graffiata con le unghie. Le cosce, il ventre e i seni erano coperti di piaghe e graffi, alcuni sanguinanti. Un filo di sangue colava da un angolo della Bocca di Ram-Chotep come se l'antica divinità stesse sbavando. L'avambraccio destro era lacerato da morsi e sanguinava. Aveva lasciato sola Patricia diverse volte in precedenza. Talvolta, era tornato e l'aveva trovata addormentata. Altre volte, piangeva. Ma non aveva mai fatto una cosa del genere. «Sei pazza!» aveva detto Melvin, scattando. Voleva colpirla con un pugno, ma lei era in condizioni così pietose che non era riuscito a farlo. Invece, aveva tirato a sé la ragazza che singhiozzava e l'aveva tenuta stretta. «Va tutto bene,» aveva mormorato. «Tu non mi ami più.» «Sì che ti amo.» «Hai lui, adesso.» «Non m'importa nulla di lui.» «Non... sei tornato, stanotte.» «Sono qui. Non dovresti farti del male in questo modo.» «Non ho potuto... evitarlo. Mi hai chiusa dentro.» «Non posso stare con te per tutto il tempo. Ci sono un sacco di cose che devo fare.» Lei aveva continuato a piangere e a stringersi a lui. Melvin le aveva accarezzato i capelli. Poi, l'aveva sollevata e portata nel bagno. Erano stati assieme sotto la doccia. Mentre Melvin le insaponava delicatamente le ferite, lei aveva smesso di piangere. Gli aveva staccato le bende bagnate dalle spalle e dal petto, gli aveva baciato i segni dei morsi, vi aveva passato sopra il sapone, poi aveva fatto scorrere la barretta viscida giù per il suo corpo. Fissandolo negli occhi con uno sguardo che sembrava solenne ma anche lievemente pudico, lo aveva insaponato e vezzeggiato. «Ti amo tanto,» aveva detto. «Anch'io ti amo,» le aveva detto lui. Osservando lo spruzzo che rimbalzava sui capelli e le spalle di lei, vedendo lo sguardo nei suoi occhi e avvertendo il contatto scivoloso delle sue mani quasi ci aveva creduto. Quando infine erano scesi giù, era pomeriggio inoltrato e lo stomaco di Melvin borbottava. Sapeva che avrebbe fatto meglio a cominciare a pensare a come riuccidere Charlie, ma il vecchio non era atteso prima delle nove. Così aveva messo nel forno una pizza congelata per sé. Quando era sta-
ta pronta, aveva preso una bistecca dal frigorifero e l'aveva tesa a Patricia che l'aveva scartata sopra un piatto e poi l'aveva strizzata come un guanto di spugna. Quando nel piatto si era formata una polla di succo rosso luccicante, lei l'aveva versata in un bicchiere da vino. Aveva sorseggiato mentre mangiava. Usava di frequente un tovagliolo per asciugarsi il mento. Stava cominciando a diventare molto ordinata nei pasti, come se facesse uno sforzo per migliorare le sue abitudini. Quando aveva finito, la sua camicia blu della polizia era ancora linda. Dopo mangiato, la mente di Melvin era stata attraversata dall'idea di scendere giù nel seminterrato e di cercare nel libro di Magdal un sistema per riuccidere Charlie. Ma semplicemente non se l'era sentita. L'incombenza di studiare il libro gli era parsa un fardello troppo pesante. Così aveva portato Patricia nel soggiorno, aveva acceso il televisore e non si era alzato dal divano finché non era suonato il campanello. Ora, era Charlie che stava guardando la TV. In piedi accanto al letto, Melvin si domandò come avrebbe fatto a riuccidere quell'uomo. Fallo e basta, si disse. Probabilmente sarà facile come la prima volta. «Perché non gli spariamo?» suggerì Patricia. «Deve sembrare un incidente. Penso che lo porterò fuori con la sua macchina.» «Posso venire con te, no?» Rieccoci. «Mi piacerebbe,» disse. «Il fatto è che devi rimanere qui. La polizia ti sta cercando per l'omicidio di Pollock.» Lei parve rannuvolarsi. «Non farla lunga, adesso, tesoro.» «Mi lasci sola un'altra volta.» «Non ci vorrà molto.» «Oh, sicuro.» Melvin sedette sul bordo del letto. Fece scivolare una mano su per la sua gamba, sentendo le sporgenze dure delle croste della sfuriata della notte prima. «Se non vuoi che io vada,» disse, «non andrò.» «Davvero?» «Veramente.» Gli sorrise radiosamente. «Charlie dovrà stare qui con noi, però. Va bene?» Il sorriso svanì, «Non voglio che resti qui.» «Nemmeno io. Ma per liberarmi di lui devo portarlo da qualche parte, e
non posso farlo senza lasciarti sola per un po'.» Lei parve soppesare il problema per alcuni momenti. «Quanto tempo starai via?» «Mezzora, forse.» «Non è molto.» «Tornerò prima che tu te ne accorga.» «Devi farlo adesso?» «Credo di no.» Lanciò un'occhiata all'orologio accanto al letto. Nove e trenta. Era davvero troppo presto. Avrebbe voluto occuparsi della cosa subito, farla finita, ma ci sarebbe stato molto meno rischio se avesse aspettato. L'ora ideale sarebbe stata le due o le tre del mattino. Non sapeva se avrebbe potuto aspettare così a lungo. Ma più rinviava, meglio sarebbe stato. «Andrò via fra un poco,» disse. «Non andare finché non mi sarò addormentata, okay?» «Okay.» Patricia si girò, allungò una mano verso il comodino, e prese il rotolo di nastro adesivo. Ne strappò diverse strisce e le premette sulle labbra. CAPITOLO DICIANNOVESIMO Jack la prese per un braccio e la condusse verso la macchina. «Grazie molte,» gli disse lei. «La cena è stata meravigliosa.» «Non c'è di che. Non trascorrevo una serata come questa da... oh, giorni.» «Stupido.» Lo colpì lievemente con un gomito. «Se avessi detto "anni", avresti potuto pensare che ero cotto.» «Cotto?» «Sei cotta, tu?» «Tu non lo sei?» «In effetti, lo sono. Ma non voglio ammetterlo.» Aprì la portiera del passeggero per Vicki. Lei salì e si protese sul sedile per far scattare la serratura della portiera del guidatore. Mentre cominciava ad agganciare la cintura di sicurezza, prese in considerazione l'idea di non metterla e di sedersi al centro, vicino a Jack. Ma se lo avesse fatto, sarebbe apparsa troppo ansiosa. Lascia che sia lui a fare la prima mossa, pensò. Jack aveva detto chiaramente durante la cena che trovava sgradevoli le
donne aggressive. «Voglio che tutti abbiano gli stessi diritti,» aveva detto. «Sono favorevole al fatto che le donne possano far carriera se è quello che vogliono. Ma tante di loro di questi tempi hanno quell'odioso atteggiamento competitivo che mi fa andare fuori di me. È come se vedessero tutti gli altri come avversari e avessero bisogno di tenere il coltello dalla parte del manico.» «Preferisci che le tue donne siano docili e sottomesse?» aveva chiesto Vicki, che era in sintonia con la sua lamentela ma si era sentita obbligata a spendere una parola per la categoria di appartenenza. «Preferisco quelle come te.» «E sarebbe?» «A parte tutti i tuoi ovvi attributi, possiedi la rara e meravigliosa qualità di essere capace di ridere di te stessa.» «Allora, ti piacciono i clowns.» «Mi piace la gente che non si prende troppo sul serio. La mia impressione è che tu vedi la vita come un'avventura, non come una guerra.» «Uh-oh, ecco una sottile distinzione.» «Un'avventura può essere abbastanza simile a una guerra nei suoi eventi e rischi quotidiani... » «Come correre, tuffarsi e farsi fare un culo così... » «Giusto. Ma la differenza sta nell'atteggiamento. Il guerriero vede tutto come una battaglia da combattersi e vincere. L'avventuriero vede tutto come un'esperienza: eccitante o paurosa o divertente o triste. L'avventuriero si muove verso una meta, il guerriero verso una conquista.» «Così preferisci le Amelie Earhart del mondo invece delle Giovanne d'Arco.» «Giusto.» «Entrambe andarono in fumo.» Jack riuscì a inghiottire il sorso di vino giusto in tempo per evitare di spruzzarlo sul tavolo quando la risata scoppiò. Vicki scoprì in seguito che era stato sposato con una donna, che faceva anche lei l'avvocato, la quale aveva deciso che avere figli sarebbe stato un ostacolo per la sua carriera, ed era poi rimasta incinta per colpa di un anticoncezionale difettoso. Aveva interrotto la gravidanza nonostante le proteste di Jack che aveva chiesto il divorzio. E questo spiegava un mucchio di cose. «Non mi hai detto molto di te,» disse Jack mentre uscivano dal parcheggio del ristorante.
«Cosa ti piacerebbe sapere?» «Sei mai stata in prigione?» «Contano dieci anni di lavori forzati?» «Per cosa ti hanno messo dentro?» «Strage di uomini.» La guardò nella penombra. «Sei mai stata sposata?» «Non ancora.» «Quante proposte hai respinto?» «Cosa ti fa pensare che ce ne siano state?» «Vuoi che ti faccia dei complimenti.» «Tre proposte,» disse Vicki. «Ma tu eri decisa a terminare gli studi e a iniziare la tua carriera... » Lei fece scattare la testa verso di lui. «Beh?» «Perfettamente comprensibile.» «Non saltare alle conclusioni.» «So com'è. Matrimonio e figli sono stati relegati nel buon vecchio "cassetto". Certamente nel futuro, ti sei detta. Prima che il buon vecchio "orologio biologico" faccia scoccare l'ultima ora. Trent'anni: è un'ottima età per cominciare a pensare alla famiglia. A trent'anni la tua carriera è ben avviata e tu puoi trovare il tempo per dedicarti a queste faccende secondarie.» Il tono era stato un po' malizioso, soprattutto deluso. L'aveva spinta a confidarsi, e quello che aveva scoperto non gli era piaciuto. «Grazie,» mormorò Vicki. Si sentiva fredda e dura dentro. Cosa credevi, si domandò, di aver trovato Mr. Perfetto? Costui dev'essere un diavolo di avvocato. Non sa un maledetto niente e decide che sono una specie di supertroia in carriera solo perché non ho sposato il primo tizio che me lo ha proposto. Beh, scopatelo. Quando l'inferno si sarà congelato. Gli occhi le bruciarono e le luci posteriori della macchina davanti divennero delle macchie confuse. Il respiro improvvisamente le divenne sincopato. Voltò la faccia verso il finestrino. Strinse i denti e decise che non avrebbe pianto. La macchina rallentò. Deviò verso il marciapiede, e si fermò. Vicki si asciugò gli occhi. Le case dell'isolato non erano familiari. «Perché ti sei fermato qui?» chiese. «Stai piangendo.» «No, non è vero.»
Lui le mise una mano sulla spalla. «Non toccarmi.» Lui tolse la mano. «Vicki.» «Va' all'inferno.» «Perché ti stai comportando così? Per l'amor di Dio, ho detto solo... » «Già, voglio proprio sentirlo di nuovo.» «Sono felice che tu abbia respinto quei tizi.» «Felice, col cavolo.» «Se non lo avessi fatto, adesso saresti sposata, e... » «Vuoi portarmi a casa, per piacere?» «No, finché... » Lei aprì la portiera. «Okay, okay.» Vicki la richiuse, e Jack fece ripartire la macchina. «Non volevo offenderti,» mormorò. Lei si voltò a fissarlo. «Pensavi che ci avrei riso sopra? Ah ah? La ragazza che non si prende mai sul serio? Avrei dovuto semplicemente annotare l'episodio nelle Avventure di Doc Chandler? Solo che io non sono un'avventuriera, eh? E non rientro più in quella lusinghiera categoria. Ora sono una guerriera. L'Amazzone taglia-palle. Beh, a te e al cavallo che stai montando, amico.» Jack scosse la testa come se non riuscisse a credere che era uscita dai gangheri in quel modo. Vicki gli assestò un pugno alla spalla. «Oh! Ehi!» «Alle Amazzoni piace.» Jack si tenne la spalla e continuò a guardarla mentre guidava. Non disse nulla. E neppure Vicki. Finalmente, fermò la macchina davanti alla casa di Ace. Vicki aprì la portiera. «Aspetta.» «Cosa?» domandò lei. «Mi dispiace.» «Anche a me. Ma ciò non fa sparire quello che è successo. Non puoi ficcare un coltello in qualcuno e dirgli che ti dispiace e fargli così sparire in un baleno la ferita. Non funziona in questo modo.» «Mi fa male, Vicki.»
«Bene. L'intenzione era questa. È quello che deve fare un pugno.» «Non il pugno. Volevo credere che tu fossi diversa. Non volevo che tu fossi una di loro. Ma... » «Tu non sai come sono.» Scese dalla macchina, sbatté la portiera e corse a casa. Mentre tirava fuori le chiavi, udì la macchina che si allontanava velocemente. Si voltò. La macchina di Jack era svanita intomo a un angolo. Si appoggiò alla porta e si abbassò avvertendo il freddo legno smaltato che le scivolava sulla schiena, si sedette sullo zerbino di setole, sollevò le ginocchia e le abbracciò. «Bastardo,» borbottò. Le piaceva sul serio. Come ha potuto fare questo: considerarmi alla stregua della ex-moglie e di tutte le troie del mondo perché ho respinto tre proposte di matrimonio? Non avrei dovuto dirglielo. Vaffanculo. Non ho intenzione di mentire. Se non riesce a mandare giù la cosa, è affar suo. Avrei dovuto spiegare. Me ne ha dato l'opportunità? Verme. Non ha nemmeno aspettato una spiegazione: non ne aveva bisogno, perché sapeva. La carriera innanzi tutto, gente, che disastro. Ma chi ha bisogno di lui, comunque? Non mi ha neppure concesso il beneficio del dubbio. Non mi ha neppure chiesto perché li ho respinti. Le setole dello zerbino le provocavano il solletico ai glutei. Con un sospiro, si alzò. Si strofinò il didietro, poi aprì la porta con la chiave ed entrò. Ace, sul divano, la guardò e spense il televisore col telecomando. «Cos'è andato storto?» Il piano era quello di chiedere a Jack di entrare a bere qualcosa - se non fossero andati a casa sua - poi Vicki gli avrebbe presentato Ace, che si sarebbe dileguata. Il piano aveva reso nervosa ed eccitata Vicki durante tutta la cena. Aveva immaginato come sarebbero andate le cose. Il primo contatto incerto, il primo bacio, il momento inevitabile in cui Jack le avrebbe premuto una mano sul seno. Mentre mangiavano, mentre conversavano e ridevano, la scena nel soggiorno si svolgeva in un cantuccio della sua mente. Lo aveva visto farle scivolare le spalline dell'abito giù per le braccia. Si era preoccupata che Ace rientrasse nella stanza. Ace non lo avrebbe fatto, ma lei sa-
rebbe stata riluttante a continuare nel soggiorno. Avrebbe avuto il coraggio di suggerire la sua camera da letto? Forse gli avrebbe chiesto di fermarsi prima di arrivare a quello. Era sicura di volere realmente andare a letto con quell'uomo? Sì, aveva deciso quasi nell'istante in cui era arrivata al tavolo la mousse di cioccolato. Sì, ma sarebbe stato meglio ritardare la cosa. Sarebbe stato molto più eccitante arrivarci lentamente: vederlo e rivederlo, avvicinarsi sempre di più ogni volta che facevano una corsa romantica in auto, fermandosi qua e là per godersi il panorama, e diventare sempre più bramosi di raggiungere la destinazione finale ma assaporando ogni momento lungo il percorso. Era così che doveva andare. Non a letto dopo la prima cena nel giro di un paio d'ore, saltando d'un balzo le piccole, ma meravigliose gioie del percorso. Jack, però, avrebbe potuto guardare la cosa con occhio diverso. La maggior parte degli uomini lo faceva. Si sentivano truffati se non andavi dritta a letto con loro. Vicki si domandò quanto avrebbe insistito. Si era domandata se avrebbe avuto la forza di volontà per tenersi a distanza. Mentre lui collocava la sua Mastercard sul piccolo vassoio di plastica assieme al conto, si era domandata se aveva portato con sé un preservativo. In caso contrario, ci sarebbe stato un problema. Lei non ne aveva (non era necessario, dal momento che non si vedeva con nessuno), e anche se Ace ne aveva senza dubbio una scorta da qualche parte, Vicki non aveva certamente intenzione di chiedergliene uno. Aveva un diaframma. Avrebbe potuto inserirlo. Ma non voleva. Non era la gravidanza che la preoccupava. Sarebbe stato leggermente imbarazzante, ma lui certamente non avrebbe potuto accusarla di essere una moralista o una piantagrane se lei avesse dato lo stop per mancanza di guanto. Non con l'AIDS che circolava in tutto il paese come una peste. Forse lui ne aveva uno, per approfittare di un evento fortunato. Beh, non era stato fortunato. E nemmeno io, pensò Vicki. «Abbiamo litigato,» disse ad Ace. «Stai scherzando.» «Tu non lo conosci.» «Beh, merda, come hai affrontato la situazione?» «È stato facile.» «Si è rivelato un coglione?»
«Non esattamenmte.» Vicki si sedette sul divano. Si tolse, scalciando, le scarpe, allungò le gambe e appoggiò i piedi sull'angolo del tavolino da caffè. «Lasciami provare,» disse Ace. «È sposato.» «Divorziato.» «Ah-ha. E quindi acido, risentito, sospettoso, stanco di farsi coinvolgere perché non vuole essere ferito di nuovo. Chi può dire che tu non sia la sua ex, astutamente camuffata?» Vicki sorrise. «Come fai a essere così perspicace?» «Scuola di batoste, dolcezza.» «Sotto questo costume da clown batte il cuore di un'Amazzone in carriera assassina di neonati.» «Assassina di neonati?» «La sua ex volle l'aborto perché decise che un marmocchio avrebbe mandato in malora la sua carriera di avvocato.» «E Jack voleva il marmocchio?» «Già. Così adesso presume che io sia il tipo da poter fare una bravata del genere.» «È naturale.» «Bastardo.» «Come poteva essere diversamente?» «Che m'importa?» «Evidentemente pensavi che fosse un uomo perfetto, altrimenti non saresti rimasta così sconvolta da questo piccolo inconveniente.» «Era un tipo a posto, credo.» «Eri pazza di lui.» «Forse. Ma... » «Casi della vita, dolcezza. Caso numero uno: ti avvicini alla trentina. Caso due: non credo che tu possa aspirare ad un teenager insipido e foruncoloso. Caso tre: non esistono tipi di una certa età là fuori che non si portino appresso il loro carico d'immondizia.» «Quelli buoni sono tutti accaparrati?» borbottò Vicki. «O lo sono stati. E sappiamo dannatamente bene che non vuoi avere nulla a che fare con gli altri. Trova un tipo oltre i venticinque che non sia stato sposato, o almeno abbia avuto una relazione durevole con qualcuna, e sarà totalmente rincoglionito. Una delle due. Prendi il tuo amico Melvin, per esempio.» «Grazie, preferirei di no.»
«È disponibile, e non è divorziato.» «E io che pensavo di essere depressa, prima.» «Sto cercando di tirarti su.» «E stai anche facendo un buon lavoro.» «Quello che sto cercando di dirti è che non troverai mai uno che non abbia il suo carico d'immondizia. Se è disponibile - e non è rincoglionito al punto da non aver mai avuto una relazione - ci dev'essere una donna nel suo passato che: o lo ha inguaiato, oppure lo ha mollato. In entrambi i casi, tu erediti la merda che lei gli ha rovesciato addosso. È normale.» «Sei così piena di senno, che dovresti uscire con lui. Sono sicura che ti classificherebbe come un'avventuriera. Stai attenta, però, se ti chiede quante proposte di matrimonio hai respinto.» «È questo il punto, eh?» «Per me sì.» «Cosa gli hai detto?» «Tre.» «Dov'è il problema? Significa che sei esigente.» «Non per lui. Per come la vede lui, li ho scartati perché il matrimonio sarebbe stato in conflitto con gli obiettivi della mia carriera.» «Aveva ragione?» «Ottima domanda. Eccellente domanda. Non si è preoccupato di pormela. È questa la dannata ragione... » La sua voce scivolò su un tono acuto. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Rieccomi, pensò. Ace si spostò sul divano e mise un braccio intomo alle spalle di Vicki. Vicki si voltò verso di lei, la strinse, pianse contro il suo collo. Sentì che Ace le accarezzava i capelli. Avrebbe voluto essere là fra le braccia di Jack. Era quello il piano. Doveva essere Jack, non Ace. Avrebbero dovuto essere là, in quel momento, e lei avrebbe dovuto mettersi in cerca di preservativi, e... il pianto divenne irrefrenabile. «Va tutto bene,» mormorò Ace. «Va tutto bene.» «Io... lo volevo,» sbottò. «Lo so.» «Cos'è... che non va... in me?» «Niente. Niente, dolcezza. Sei soltanto sola. È passato troppo tempo e avevi riposto troppe speranze su quest'uomo.» «Bastardo.»
«Guarda il lato positivo.» «Quale... lato positivo?» «Hai me.» «Lo so. Lo so.» «Voleva essere uno scherzo, dolcezza.» «Anche così... » Ace la strinse con forza, le baciò delicatamente la faccia. «Noi ci abbiamo,» sussurrò. «E non scherzo.» «Lo so. Dio, Ace... » «Tieni solo lontane le mani dalle mie tette.» Vicki rise e si soffocò su un singhiozzo. «Poverina, due tentativi a vuoto nella stessa sera.» «Stronza.» Ace la lasciò andare. I suoi occhi erano rossi e umidi. Le punte delle sue dita tolsero le lacrime dalle guance di Vicki. «Va meglio?» Vicki tirò su col naso. «Sì. Grazie.» «Cosa farai adesso?» «Vado a comprare un vibratore?» «A parte questo.» «Non lo so.» «Sai che penso? Probabilmente, nemmeno Jack è contentissimo per come sono andate le cose stasera.» «Ne sono sicura.» «Probabilmente, in questo momento è solo in casa, e sta piangendo con i suoi occhietti.» «Ci scommetto.» «Essendo un uomo, naturalmente, è più probabile che si stia ubriacando e rompendo lattine di birra in faccia.» Vicki rise e si asciugò il naso. «Perché non lo chiami?» «Stai scherzando?» Ace scosse la testa. «Non lo so.» «Cos'hai da perdere?» «Qual è il punto?» «È un uomo. Tu sei pazza di lui, o lo eri, finché non c'è stato questo equivoco. Probabilmente si sta rompendo una gamba nel tentativo di prendersi a calci in culo, per quello che è successo.»
«Oppure è semplicemente felice di avermi "messa a nudo" e di aver ottenuto quello che voleva.» «Allora chiamalo, e metti a nudo lui.» «No. Huh-uh. Il problema è suo. Lascia che sia lui a telefonare, se vuole. Io vado a letto.» Vicki si alzò. «Sei sicura di non volere aspettare la sua telefonata?» «Non ce ne sarà nessuna.» «Giusto. Probabilmente si farà vivo, invece. È meglio che io indossi la camicia da notte, nel caso.» «Che amica.» Più tardi, a letto, Vicki fissava il soffitto scuro. Udì le voci basse e la musica di sottofondo della televisione. Non udì nessuno squillo del telefono, nessuno del campanello. Ma rimase sveglia a lungo, in ascolto. CAPITOLO VENTESIMO «Okay,» disse Melvin, «ferma la macchina.» Charlie pigiò il freno. La macchina si fermò con uno strattone, gettando Melvin in avanti. Lui batté la mano sul cruscotto per puntellarsi. Poi aprì la portiera del passeggero. «Dove vai?» chiese Charlie, con parole confuse dai martini che aveva trangugiato nell'ultima ora. «Da nessuna parte,» disse Melvin. «Resta seduto.» La benzina dentro la borsa da medico si agitò quando lui la sollevò dal pavimento e la collocò sul sedile. Scese dalla macchina, chiuse la portiera, e girò intorno fino al sedile del guidatore. «Togliti la cintura,» disse. Charlie fece scattare la cintura di sicurezza e allungò la mano verso la maniglia. «No, non scendere.» «Huh?» «Quando dico "via", voglio che tu prema l'acceleratore fino in fondo. Segui la curva il più velocemente che puoi, e vai contro il ponte sul ruscello.» «Che significa, vai contro?» Sembrava confuso. «Vacci a sbattere. Più forte che puoi. Il muro al lato del ponte.» «Il parapetto?» «Il parapetto, esatto. Voglio che tu lo colpisca a tutta velocità.»
L'uomo rivolse uno sguardo accigliato a Melvin attraverso il finestrino aperto e si grattò un lato della testa. «Vuoi che vada a sbattere?» «Esatto.» «Potrei rimanere ucciso.» «Nooo. Non fare l'idiota. Sei già morto.» «Beh, sì e no.» «Fallo!» «Perché?» «Perché te lo dico io. Io ti ho riportato in vita, e potrei farti morire di nuovo se volessi. Per cui fa' quello che ti dico.» Charlie tirò su col naso e si strofinò con una mano il labbro superiore. «Non voglio che ti arrrabbi.» Melvin gli diede una pacca sulla spalla. «Non sono arrabbiato. Voglio solo che tu vada a sbattere contro il ponte. Ti prometto che non ti farai male. Ho un'ottima ragione per volere che la macchina si sfasci, e te la spiegherò sulla via di casa.» «Come faremo a tornare a casa, se sfascio la macchina?» «Andremo a piedi fino alla mia stazione di servizio, e prenderemo il carro attrezzi.» «Oh. Okay.» Charlie fece spallucce, poi si mise la cintura di sicurezza. «Non ne hai bisogno,» gli disse Melvin. «Vuoi che salti giù?» Melvin sospirò. Anche se non sentiva automobili in arrivo, lanciò un'occhiata su e giù per River Road. «Se salti giù, la macchina rallenta. Io voglio che vada a sbattere a tutta velocità.» «Come fai a sapere che non mi farò male?» «Abbi fiducia in me, Charlie. Sei mio amico. Inoltre, ho grossi progetti per te.» «Sììì?» «Avrò bisogno del tuo aiuto per procurami altre ragazze. E ti farò scegliere. Potrai averne una per te.» «Sììì?» «Esatto,» Melvin gli strinse la spalla. Charlie annuì. Melvin fece un passo indietro. «Pronti... via!» Il motore ruggì. La Mercedes scattò in avanti. Andava a benzina, non era un diesel, per cui aveva una grossa ripresa. Sfrecciò intorno alla curva, e scomparve dietro gli alberi. «Via via via!» strillò Melvin. Batté le mani,
trasalì per il dolore del morso, e aspettò che la notte venisse fatta crollare dal fracasso della collisione. Lo schianto, quando giunse, non turbò la notte. Melvin corse lungo la curva. La macchina non era una palla di fuoco, come lui aveva sperato. Stava semplicemente là. Borbottò, «Merda.» Charlie, tenendosi la fronte, guardava fuori dal finestrino. «Come sono andato?» chiese. «Splendido,» disse Melvin. «Davvero splendido.» Si portò davanti alla macchina. Il muretto di cemento aveva piegato il lato destro del paraurti, sfasciato un po' la griglia del radiatore, ammaccato la parte anteriore del cofano, e rotto il faro. A giudicare dal danno, Charlie doveva aver colpito il parapetto andando a dieci miglia all'ora. Maledetto coglione. Charlie spalancò la portiera. «Resta là!» La richiuse. Melvin gli si avvicinò. Charlie guardò dal finestrino. Si stava premendo un fazzoletto sulla fronte. «Andiamo a casa adesso?» «Fra un minuto.» Charlie abbassò il fazzoletto. La sua fronte aveva un bel taglio. Guardò la stoffa insanguinata, poi se la premette sulla bocca e cominciò a succhiarla. «Dammi la tua borsa,» disse Melvin. Charlie cercò, trovò la borsa da medico sul pavimento, e la sollevò fino al finestrino. «Cosa c'è dentro?» chiese, scuotendola. Melvin non rispose. La aprì, versò la benzina sul grembo di Charlie, poi si chinò e gettò il resto sotto la parte anteriore della macchina. «Cosa stai facendo?» chiese Charlie. Sembrava preoccupato. Melvin lo ignorò. Accese un fiammifero e lo avvicinò alla pavimentazione umida vicino al pneumatico. Una tenue fiammella bluastra salì e si diffuse sul liquido versato. Melvin si raddrizzò. Lasciò cadere il fiammifero acceso sulla borsa. Con un morbido whup, essa si riempì di fuoco. La gettò sul grembo di Charlie. «Ehi!» sbottò Charlie, alzandosi. Un braccio fiammeggiante gettò di lato la borsa. La portiera cominciò ad aprirsi. Melvin la chiuse con un calcio. «Stai fermo,» ordinò.
«Quale sarebbe la grande idea?» chiese Charlie, guardando torvo attraverso le fiamme. La sua camicia aveva preso fuoco. E anche le sopracciglia e i capelli. «Fammi uscire, prima che mi faccia male.» «Stai fermo.» Charlie sbatté una spalla in fiamme contro la portiera, che si spalancò. Spinse fuori una gamba. Non stava bruciando ancora. Melvin richiuse di botto la portiera. Ci fu un tonfo smorzato quando colpì la gamba dell'uomo. Melvin cercò di tenere chiusa la portiera, ma Charlie si sporse dal finestrino. Melvin si allontanò con uno scatto dalle braccia fiammeggianti. La portiera si spalancò di nuovo. Charlie, in fiamme dalle ginocchia in su, scese dalla macchina e si guardò. Cominciò a schiaffeggiarsi il davanti dei calzoni e della camicia ormai ridotti a brandelli dal fuoco. Poi smise. Si piantò i pugni nei fianchi e voltò la testa verso Melvin. Si strofinò una mano sulla faccia alcune volte come se cercasse di scostare le fiamme per vedere meglio. «Stai scercando di uccidermi un'altra volta,» disse. Melvin lanciò un'occhiata alla macchina. Le fiamme salivano dalle fessure intorno al cofano. Fra non molto, il serbatoio sarebbe esploso. «Torna nella macchina,» disse. «Accidenti, non credo che lo farò, maledetto traditore figlio di puttana.» Al che, Charlie sollevò le braccia in fiamme come per allungarle verso Melvin, e cominciò a zoppicare verso di lui. Melvin evitò il vecchio e corse al centro del ponte. Charlie lo seguì barcollando. La parte frontale della macchina adesso era immersa nelle fiamme. Se solo Charlie fosse stato ancora dentro! Perché le cose erano andate così male? si domandò Melvin. Non aveva nemmeno immaginato che potessero andare così. Melvin indietreggiò verso il parapetto. L'uomo in fiamme, con le braccia tese in avanti come uno zombi dei film, si avvicinava sempre di più, barcollante. Stava spargendo sulla strada brandelli di tessuto ardenti. I capelli erano completamente bruciati, e la sua testa era ormai nera e fiammeggiante. I pantaloni e la camicia ardevano ancora. Le fiamme ondeggiavano ancora davanti alla sua faccia. Un occhio era una pozza ribollente. Scoppiò, e il fluido gli colò per la guancia. Era sul marciapiede, a pochi passi da Melvin, quando partì l'altro occhio. Melvin schizzò via dal parapetto. Corse sulla strada, poi si avventò su Charlie lateralmente. La sua mano bendata si abbatté sulla spalla dell'uomo in fiamme.
Charlie vacillò di lato. Il bordo del muretto gli colpì un fianco. Una gamba scattò verso l'alto, ma Melvin vide che lui non sarebbe precipitato oltre il parapetto senza un suo intervento. Così afferrò la caviglia di Charlie e la sollevò. Il vecchio, col peso tutto sulla larga sommità del parapetto, si dibatté e scalciò mentre Melvin gli sollevava sempre di più la gamba. La macchina esplose. Melvin fu investito da una cocente raffica di vento. Con entrambe le mani, sollevò e lanciò in cielo la caviglia di Charlie. Questi cadde dal muro. Melvin si sporse. Osservò l'uomo in fiamme che roteava e faceva capriole e finalmente cadeva a pancia in giù nel Laurel Creek. Col rumore del tonfo, Charlie scomparve. Melvin si curvò sul muretto. È finita, si disse. Dovrebbe essere tutto sistemato: penseranno che Charlie sia uscito dopo l'urto, ma che era in fiamme e così è saltato nel fiume per spegnere il fuoco. Sembrerà un incidente. «Maledetto traditore figlio di puttana!» Una sensazione di gelo guizzò lungo la schiena di Melvin. Mise le mani a coppa intorno agli occhi e scrutò giù nel fiumiciattolo. Non vide che tenebre. Ma udì un debole sciacquio. Corse fino all'altro lato del ponte, scese dal marciapiede, e cominciò a discendere il ripido pendio. L'erbaccia sotto i suoi piedi era umida di pioggia. Scivolò. Afferrò dei cespugli e dei virgulti per tenersi in piedi. A metà strada, i piedi mancarono l'appoggio. Cadde pesantemente e scivolò su rocce e ramoscelli, sobbalzando, stringendo i denti, con gli occhi pieni di lacrime mentre la schiena si graffiava e ammaccava. Un sasso finalmente interruppe lo scivolone. Si fermò là con i piedi contro la roccia e trasse dei profondi e difficoltosi respiri. La schiena gli bruciava e prudeva anche se la camicia umida gli dava sollievo. Non voleva muoversi. Ma sapeva che doveva alzarsi. Doveva scovare Charlie e finirlo. In fretta. La gente dei dintorni avrebbe potuto udire l'esplosione della macchina. Oppure sarebbe potuto arrivare un automobilista. C'era un sasso sotto la sua mano sinistra quando si spinse su. Era mezzo seppellito nel suolo. Lo strappò via. Aveva la grandezza di una palla da softball, ma era parecchio più pesante. Si raddrizzò, salì sul masso che lo aveva fermato e si accovacciò. Il fiume, poche iarde più sotto, sembrava nero tranne che per poche chiazze di
luna. Non riusciva a vedere Charlie. Potrebbe essere ovunque. Un sensazione gelida di paura si diffuse dentro Melvin al pensiero del vecchio bruciato che gli saltava addosso di soppiatto. Si disse di non preoccuparsi per quello. Il vecchio è cieco. Non può prendermi. La cosa di cui preoccuparsi era evitare che andasse via. Rovinato com'era, poteva ancora parlare. Parlare di me. Melvin scese davanti al masso. Si fece strada con cautela fino in fondo al pendio ed entrò nel fiumiciattolo. L'acqua era fredda. Lo avviluppò fino alle ginocchia. Le rocce del letto del fiume erano viscide sotto le scarpe. Guardò sotto il ponte. Il buio là sotto e la luce dall'altro lato avrebbero proiettato la sagoma di Charlie, perlomeno se era in piedi. Ma se non lo fosse stato... Melvin si acquattò. L'acqua fredda gli afferrò l'inguine, e gli rubò il calore fra le natiche. Si arrampicò fino al petto e gli fece dolere i capezzoli. Ma lui si era abbassato al punto che la luce tenue al di là del ponte poteva proiettare la sagoma di qualsiasi cosa si sollevasse anche solo di pochi pollici sopra la superficie. Una massa scura vicino al centro gli fece balzare il cuore nel petto. Strinse gli occhi per scrutare meglio. La testa di Charlie? Forse solo una roccia o l'estremità di un grosso ramo. Qualunque cosa fosse, non si muoveva. Melvin pensò di avvicinarsi. C'era un buio spaventoso laggiù. Sentì degli aculei gelidi sulla nuca. Non è Charlie, si disse. Però poteva esserlo. «Charlie?» chiamò. La sua voce uscì rauca, non molto forte. Nessuna risposta. Melvin si alzò e cominciò a voltare le spalle al ponte, ma improvvisamente non ebbe il coraggio di voltare la schiena a tutto quel buio... e a quello che c'era là. Alzandosi, non riusciva più a vedere la cosa. La immaginò che scivolava verso di lui. Arretrò più in fretta che poté. Alzò lo sguardo sulla macchina in fiamme. Gli parve bello, confortante, vedere tutta quella luce. Desiderò di stare lassù, in quel momento stesso. Nel bagliore, con la sensazione di calore. Quando abbassò lo sguardo, capì che era stato un errore guardare il fuo-
co. La sua capacità di vedere al buio si era rovinata. Prima, poteva vedere. Non molto, ma abbastanza. Adesso, tranne che il fuoco lassù, non riusciva a vedere nulla. Sono cieco, pensò. Cieco come Charlie. Potrebbe saltarmi addosso facilmente. Melvin roteò su se stesso e avanzò barcollando nell'acqua. Sapeva che avrebbe dovuto cercare Charlie e finirlo in qualche modo, ma adesso sentiva solo la paura e doveva andarsene. Gli sembrava fosse meglio seguire il fiume finché non si fosse trovato a una buona distanza dalla strada, poi attraversare il bosco e tornare a casa. Si ritrasse al primo squillo dell'allarme antincendio. Riempì la notte, alto e penetrante. Uno squillo di sirena che cresceva, si attenuava e moriva, poi saliva di nuovo. Mentre svegliava i volontari dal loro sonno, una macchina della polizia doveva già essere diretta a tutta velocità verso il ponte. Piagnucolando, Melvin cominciò a correre seguendo la corrente. Alzò e abbassò vigorosamente le ginocchia, ma l'acqua lo trascinava, lo tirava indietro. Poi il suo piede sinistro pestò qualcosa che si mosse sotto il suo peso. Il piede scivolò. Lui inciampò, lasciò cadere il sasso, boccheggiò e cadde. L'acqua schizzò intorno a lui. Si chiuse sopra di lui. Delle braccia gli si avvolsero intorno alla schiena. OH GESÙ' NO! Desiderò ardentemente gridare, ma trattenne il fiato mentre veniva strattonato dalla COSA sotto di lui verso il fondo del fiume... la cosa che doveva essere Charlie Gaines. Fu quasi stritolato. Questa avvolse le gambe intorno alle cosce di Melvin. Qualcosa gli scivolò sulle labbra.La lingua di Charlie? Poi sentì gli spigoli dei denti contro il labbro inferiore e il mento. Ritrasse la testa e udì lo schiocco dei denti che si chiudevano di scatto. Ha cercato di mordermi! Proprio come Patricia. In quell'istante, tutto cambiò per Melvin. Il suo orrore stupefatto si frantumò come un guscio che gli pareva racchiuso e soffocato la mente. Sentì che il guscio scoppiava e si disperdeva in mille pezzi, sentì la sua mente respirare e flettersi e sorridere. Bruscamente, fu di nuovo Melvin, non una piagnucolante donnicciola, e la cosa che lo abbracciava e stringeva e cercava di morderlo non era nient'altro che Charlie Gaines. Non uno zombi ripugnante, solo un vecchio co-
glione che era stato cotto a puntino e non sapeva quando morire. Una bistecca alla griglia. Coi denti. E adesso i denti stavano raschiando il lato del collo di Melvin. Anche se Charlie si era incollato a lui come un amante voglioso, lo tratteneva solo sotto le braccia. E ciò gli lasciava libere le mani. Afferrò un lato della faccia di Charlie. Era scivolosa e fragile. Il suo pollice trovò l'orbita vuota. Agganciò il pollice al buco. Era come un budino dentro, ma l'osso era un solido anello e quando lui diede uno strappo col pollice, la testa di Charlie si voltò. Costrinse la testa a piegarsi di lato e verso il basso. Afferrò il lato vicino della faccia con la mano bendata. Premendo la testa verso il basso, si sollevò. L'abbraccio di Charlie era abbastanza potente da bloccarlo. Le braccia si aprirono appena. Le spalle e la testa di Melvin riemersero in superficie. Boccheggiò. La sirena urlava ancora. Si domandò se qualcuno fosse arrivato sul luogo dell'incendio. Mentre il rumore si fermava, udì sbattere la portiera di una macchina. Guardò sopra la sua spalla. Il ponte era nascosto da una curva del fiume. In alto a destra, le foglie degli alberi luccicavano per il bagliore del fuoco. Quasi gridò quando Charlie gli artigliò la schiena, strappando la camicia e lacerando la pelle. Limitandosi a sibilare, lasciò andare la faccia di Charlie, cercò di tenerla giù col pollice dell'altra mano, e tastò il fondo del corso d'acqua in cerca di un sasso. Ne afferrò uno. Charlie liberò le gambe di Melvin e gli diede uno spintone nel petto. Questi arretrò, e il pollice fuoriuscì dall'orbita con uno schiocco. Adesso era in ginocchio. Charlie si raddrizzò di fronte a lui. Più nero del fiume. L'acqua spruzzò la faccia di Melvin. «Ti ucciderò,» disse Charlie. La sua voce emetteva un gorgoglio. «Traditore figlio di puttana.» Melvin colpì col sasso un lato della testa di Charlie. Il colpo lo fece spostare di lato. Melvin colpì ancora. Questa volta, sentì il cranio sfondarsi e cedere. Charlie cominciò a cadere all'indietro. Con la mano sinistra, Melvin afferrò la nuca del vecchio. Tenendola sopra l'acqua, batté di nuovo il sasso sul punto cedevole. Ne uscì uno schiocco umido come se stesse colpendo del fango con una mano. Colpì ancora e ancora. Charlie si afflosciò sotto di lui, restando immobile. Allora è così che si ri-uccidono i fottuti, pensò Melvin. Devi sfondargli il cervello. Udì delle voci lontane dietro di lui. C'erano delle sirene, ma sembravano
molto più lontane delle voci. Abbassò la roccia nell'acqua, e la lasciò cadere. Strisciò intorno a Charlie. Trovò entrambe le braccia dell'uomo, afferrò i polsi, e cominciò a camminare all'indietro, sguazzando e trainandolo verso la corrente. Lo fece per molto tempo. Presto o tardi, lo sapeva, avrebbero trovato il corpo. Avrebbero pensato che Charlie era saltato nel fiume per spegnersi, si era spaccato la testa sul letto sassoso, ed era stato trascinato dalla corrente. Lo avrebbero pensato per un po', almeno. Una buona autopsia gli avrebbe fatto cambiare idea, sicuro. Si era documentato su queste cose. Se fosse stata una sola botta in testa, avrebbero potuto immaginare che si fosse verificata quando Charlie si era gettato dal ponte. Ma Melvin lo aveva colpito cinque o sei volte. Avrebbero capito che non si era trattato di un incidente. Avrebbero immaginato che Charlie era stato ucciso. Poi avrebbero trovato campioni della pelle di Melvin sotto le unghie. Avrebbero capito che era stato graffiato. Avrebbero anche potuto ricavare il suo gruppo sanguigno. Sicuramente la cosa si sarebbe complicata. Melvin continuò a trascinare Charlie lungo la corrente. La sola soluzione buona, decise infine, era quella di eliminare il cadavere. Se non fossero riusciti a trovarlo, non avrebbero potuto eseguire l'autopsia. Avrebbero solo potuto aggrapparsi alla teoria che Charlie era saltato dal ponte perché aveva preso fuoco, era stato trascinato via dal fiume e si era perso. Ma come posso liberarmene? si domandò. La questione era spinosa. Anche se fosse stato abbastanza forte da trascinare Charlie per tutta la notte, e lui dubitava di avere la forza di farlo, dove avrebbe potuto portarlo? Continuò a trascinare Charlie, certo di poter arrivare a una soluzione del problema. Cominciò a sentire dolore per lo sforzo di chinarsi e camminare all'indietro col cadavere. Alla fine, lo trascinò a riva. Lo trattenne con un polso, per evitare che fosse portato via dalla corrente, e sedette su un tronco, con i piedi che oscillavano nell'acqua. Dopo aver ripreso fiato, si mise in ascolto. Udì il mormorio della corrente, la brezza che agitava le foglie, gli uccelli che pigolavano, le zanzare che ronzavano. Nessun suono umano. Comprese che
doveva trovarsi ad almeno mezzo miglio dal ponte. Non c'erano molte probabilità che qualcuno si avventurasse fin laggiù. Non ancora. «Cosa devo farmene di te?» borbottò «Bastardo figlio di puttana.» Melvin strillò. Si abbassò di scatto, si strinse al petto la testa di Charlie, staccò schegge di cranio, le gettò via, scavò, afferrò pezzi di cervello e li tirò fuori. Strizzò la massa fradicia, la sentì colare fra le dita, udì i pezzettì che cadevano nel fiume. Scavò ancora, tirò fuori un'altra manciata molle, la gettò via, e ne tolse un'altra ancora e la gettò. «Sei morto?» ansimò. «Eh? Porco fottuto!» Charlie sembrava morto davvero, ma lo era sembrato anche prima. . Melvin tirò verso il basso la mandibola dell'uomo. Afferrò la lingua, e cercò di strapparla dalla radice, ma la sua mano scivolò via. Allora fece girare Charlie, gli sbatté la nuca sul tronco d'albero, la tenne là e tirò quanto più poté la lingua. Si chinò sulla faccia. Non sembrava più una faccia. Sembrava carbone, tranne che per i denti bianchi e la forma lievemente pallida della lingua che spuntava fra di essi. Melvin succhiò la lingua nella sua bocca. La tirò parecchio dentro. La morse, strinse, e tirò di botto indietro la testa. Gemendo, sollevò un braccio di Charlie e lo tirò in mezzo al fiume. Lo lasciò andare. Il corpo cominciò ad allontanarsi galleggiando. Melvin aprì la bocca. Tirò fuori il pezzo di lingua e lo gettò fra i cespugli. Lascia pure che scoprano il dannato cadavere. «Quel cazzo di cadavere non parlerà,» disse. Poi raggiunse la riva, entrò nel bosco, e si diresse verso casa. CAPITOLO VENTUNESIMO «Sei una ragazza molto cattiva,» disse Melvin. «Dovevi conservarti per me.» Stava accanto al letto, e la guardava torvo. Si chinò. Vicki non riusciva a vedere cosa stesse facendo la sua mano, ma un motore ronzò e la parte posteriore del letto cominciò a sollevarsi. Un letto d'ospedale? Mentre veniva sollevata, vide che non si trovava in ospedale. Il letto era in mezzo all'auditorium del Centro Ricreativo. E mentre esso si sollevava, il lenzuolo sopra
Vicki cominciò a scivolare. Cercò di afferrare il lenzuolo. Non ci riuscì. I suoi polsi erano legati alla barriera di protezione del letto. Il lenzuolo scivolò giù, cadendole via dai seni e dall'enorme rigonfiamento del suo ventre. «Vedi?» disse Melvin. «Non ti sei conservata per me. Mi hai molto deluso, Vicki. Io ti amo. Tu sai quanto ti amo. Come hai potuto permettere a un altro uomo di averti? Come hai potuto permettergli di ingravidarti?» Impossibile, pensò Vicki. Una falsa gravidanza, ecco cos'è. «No,» disse. «È un errore.» «Oh, davvero?» Batté sul ventre con le nocche. Suonò come un cocomero marcio. «Chi c'è qua dentro, eh? Io so chi non c'è. Non c'è Melvin junior. Potrebbe essere Jack junior?» «No. Non c'è nessuno.» «Lo vedremo.» «Non posso essere incinta. Non ho mai dormito con nessuno.» «Sono sicuro che non hai dormito. Hai chiavato» però. Questa è la prova.» «Ma non l'ho fatto! Sono sincera!» «Bugiarda, bugiarda, ti sta crescendo il naso.» Era una bugia, suppose lei. Ma l'ultima volta era stata molto tempo prima. Bart. Era stato l'ultimo. Quasi tre anni prima. Vigilia di Capodanno. Erano tutti e due sbronzi; lei aveva dimenticato il diaframma e lui non usava il preservativo ('Come indossare un guanto') e poi le sue cose tardarono e lei si sentì male per la preoccupazione, ma poi vennero. Erano venute. Il sangue fluì e lei pianse per il sollievo. Aveva avuto le mestruazioni e, inoltre, si trattava di tre anni fa. Non poteva essere Bart junior. Assolutamente. E non lo aveva mai fatto con Jack. A meno che non lo avesse dimenticato. «Non lo abbiamo fatto,» disse. «Jack e io... abbiamo litigato.» Forse abbiamo fatto pace, però. Poteva vedersi sul divano con lui. Oppure era Ace? No, era Jack. Le fece scivolare le spalline dell'abito giù per le braccia, abbassò il corsetto, baciò i seni. «Non qui,» disse lei. «Andiamo in camera da letto.» Vicki realizzò, con un certo sollievo, che non era più prigioniera di Melvin nell'auditorium. Jack la stava portando in braccio lungo il corridoio della casa di Ace. La portò in camera da letto. La mise sul letto. Le tolse tutti i vestiti, poi si tolse i suoi. Lei si dimenò contro il corpo nudo e morbido di lui, baciandolo, gemen-
do mentre lui l'accarezzava dappertutto. Poi si girò sulla schiena, con Jack inginocchiato fra le gambe. E pensò, non può. Non senza un preservativo. Ma se parlo, penserà che non voglio un figlio suo. Io voglio tuo figlio, non voglio l'AIDS. Non ci crederà. Non posso dirglielo. Sarà tutto finito se glielo dirò. Poi vide che Jack aveva una bustina fra le mani. La stava strappando. Oh, grazie a Dio. Oh, Jack, mi ero sbagliata sul tuo conto. Sollevò le mani verso di lui. Prese il profilattico. Fece scivolare, l'anello di gomma sulla punta del suo pene e lentamente lo srotolò, sentendo la sua calda durezza attraverso la guaina umida. Tremando, sussurrò, «Ti amo. Ti amo tanto.» «Avresti dovuto conservarti per me!» Melvin le ficcò dentro il braccio fino al gomito, lo tirò fuori con uno strattone, e le gettò in faccia il braccio strappato del bambino. «DIGLI CHE NON VUOI IL SUO PICCOLO PORCELLO!» «NO!» gridò lei. Si raddrizzò vacillando e si trovò nella camera da letto, piangente, tremante, nuda, il lenzuolo ammucchiato in fondo al letto, entrambe le mani strette fra le gambe. Il cuore le batteva con forza. Anche se stava ansimando, sembrava non le riuscisse di aspirare abbastanza aria. Incrociò le gambe all'indiana, inarcò la schiena, inclinò verso l'alto la faccia, puntò i gomiti verso il soffitto, e intrecciò le dita dietro la testa. I suoi capelli erano umidi. E anche il resto del corpo. Sentiva i rivoli di sudore colarle giù per il volto, sulla schiena, sui fianchi, sul petto. Gli occhi le pizzicavano come se vi fosse stata versata dell'acqua salata. Cercando di non pensare all'incubo, lasciò che la sua mente seguisse una goccia di sudore che scivolò davanti all'orecchio, lungo la mandibola e il collo, sopra la clavicola, sul seno. Si fermò in cima al capezzolo. Rimase lì, una minuscola massa tremolante diventata un po' più fredda, finché un'altra sferetta di sudore non scese e si unì ad essa. Caddero assieme, generando un freddo zampillo sulla coscia, e rotolando giù per il fianco e sotto di esso per andarsi a nascondere nel lenzuolo. Di lì a poco, il respiro e il battito di Vicki erano quasi tornati normali. Allungò le mani dietro la schiena, trovò il cuscino, e lo usò per detergersi il viso. Poi, se lo lasciò cadere attraverso il cerchio delle braccia. Se lo
premette contro la pelle umida e gelida dei seni e del ventre. Era morbido e caldo. Intimo. Si distese sul letto. Abbracciando dolcemente il cuscino, sospirò. Avrebbe quasi potuto riaddormentarsi. E sognare? Girò la testa. L'orologio sul comodino segnava le 2:08. Ancora tre ore prima del momento di alzarsi. Avrebbe fatto meglio a dormire, altrimenti l'indomani si sarebbe sentita a pezzi. Forse con Melvin aveva chiuso quella notte. Una simile dose di quel verme sarebbe stata sufficiente a soddisfare qualunque maledetto angolo della sua mente fosse così ossessionato da lui. L'angolo che le aveva imposto quell'horror show notturno. Adesso, lasciami in pace, pensò. La parte del sogno relativa a Jack era stata una fantasia molto bella. Vediamone un altro po'... e lasciamo fuori Melvin. Jack. Non aveva telefonato. Non era venuto. Al diavolo. Il Jack del sogno era perfettamente uguale a quello reale. Non mi ha fatto alcun male. In effetti, aveva un preservativo. E io gliel'ho messo. Signore. Non l'ho mai fatto. Ovviamente, mi piacerebbe. Accarezzando il cuscino, ne rammentò il tocco. E trasalì all'improvviso lamento della sirena, che divenne uno strillo poi scemò. In tutta Ellsworth i pompieri volontari si erano svegliati di soprassalto. Assieme a tutti gli altri. Incluso Jack. Vicki scostò di lato il cuscino, scese dal letto e andò alla finestra. Chinandosi, appoggiò le mani al davanzale. La brezza calda le scivolò sulla pelle. La strada al di là del cortile era deserta tranne che per le poche macchine parcheggiate. Lo strepito dell'allarme antincendio continuò, raggiungendo un tono più acuto, calando e spegnandosi, lasciando un vuoto di silenzio, per poi risalire. Jack doveva essersi svegliato, pensò Vicki. Nessuno avrebbe potuto dormire con quel trambusto. Si domandò se stava pensando a lei, si domandò se si rammaricava per come erano andate le cose. Forse si sentiva solo sollevato per averla spinta
a rivelarsi così rapidamente. Si sbaglia sul mio conto, pensò. Udì il motore di una macchina. Dei fari brillarono nella strada. Poi una macchina passò di corsa, con una luce blu che lampeggiava sul cruscotto. Uno dei volontari raggiungeva a tutta velocità la stazione. Vicki avvertì un lieve senso di colpa. Eccomi qui, alle prese con i miei stupidi problemi, e qualcuno là fuori si trova davvero nei guai. Può darsi che una casa stia bruciando. Una macchina potrebbe essere andata a sbattere. Qualcuno potrebbe essere ferito o morto. Ci potrebbe essere bisogno di un medico. Gli addetti all'ambulanza erano abilitati a prestare pronto soccorso. Anche se fosse andata là, probabilmente essi già stavano trasportando le eventuali vittime al Blayton Memorial. E comunque, non avrebbe saputo dove andare. Avrebbe potuto chiedere indicazioni alla stazione dei vigili del fuoco, come i volontari. Potresti trovarti là in tempo per dare una mano. L'alternativa, lo sapeva, era di tornare a letto e cercare di dormire e forse di avere un altro incubo. Il suo cuore accelerò come se la decisione fosse già stata presa. «Sono il Dr. Chandler,» disse attraverso il finestrino aperto della Mustang di Ace. «Vorrei dare una mano, se posso.» L'uomo al passo carraio della stazione dei vigili del fuoco annuì. «Si tratta di una macchina che ha preso fuoco in River Road sul ponte del Laurel Creek. Siamo lieti del suo intervento: veda lei quello che può fare.» Lo ringraziò, innestò la retromarcia, e poi partì alla volta di River Road. Una macchina incendiata sul ponte. Dove era andato a sbattere Steve Kraft, tanti anni prima. Dove lui era bruciato, dove Darlene era stata decapitata. Vicki immaginò Darlene sulla sedia a rotelle, sul palco centrale della Fiera Scientifica, col suo impeccabile costume da reginetta "pon pon", il collo bendato per tenerle su la testa... e Melvin che le agganciava i morsetti dei cavi ai pollici. Scosse la testa come per scacciare l'immagine, e pregò che non ci fossero dei ragazzi nella macchina. Probabilmente ci sarebbero stati dei ragazzi. Solo dei ragazzi potevano
essere in piedi a quell'ora, probabilmente a bere birra e a scorrazzare su per River Road. Adoravano vedere a quale velocità erano in grado di affrontare quelle curve. Adoravano dare la dimostrazione di essere Grandi Uomini. Grandi Uomini che rischiano la morte. Facile rischiare quando non ci credi. E gran parte degli adolescenti non credono alla morte. Vicki lo sapeva per certo. Semplicemente, non credevano alla morte. Non alla loro. Neppure quando si suicidavano. In qualche modo immaginavano che avrebbero continuato a vivere, morti o no. La benedizione e maledizione della giovinezza. Dovrebbero stare più maledettamente attenti. Svoltò su River Road. Sperò che, se si trattava di qualche ragazzo che si era messo alla prova, con lui non ci fosse stata la sua ragazza. O che non si trattasse di una macchina carica di ragazzi. Anche se la strada davanti era ancora sgombra, Vicki vide dei bagliori rossi e blu che lampeggiavano nell'aria, si muovevano rapidi sulla pavimentazione, e occhieggiavano dagli alberi all'altro lato. Mise un piede sul freno e rallentò. Girò intorno alla curva. Una linea di segnali luminosi attraversava la strada. Al di là di essi, entrambe le corsie erano bloccate da macchine. In mezzo alle macchine c'era l'autopompa. Non vide alcun fuoco, solo pochi fili di fumo, rossi e poi blu nelle luci ruotanti dell'autopompa, dell'ambulanza e delle radiomobili della polizia. Macchine e uomini le impedivano di vedere il punto dell'incidente. Joey Milbourne avanzava a grandi passi verso la fila di segnali luminosi. Sollevò una mano, e fece segno a Vicki di fermarsi. Lei frenò. Joey si avvicinò al finestrino e si chinò. «Il ponte è... Vicki?» «Ho pensato di venire a vedere se potevo essere d'aiuto.» «Accosta,» le disse. Lei s'infilò fra due segnali, si fermò e scese con la borsa. «Non penso che avrai bisogno di quella,» disse Joey, indicando la borsa con un cenno della testa. «Non ancora, comunque. Tutto quello che abbiamo trovato finora è la macchina.» «Il guidatore?» «Nessuno.» Lei lasciò la borsa sul sedile. Camminando assieme a Joey nell'assembramento di macchine, vide degli uomini che perlustravano i fossi ai margini della strada con le torce elettriche nei pressi del ponte, e uno che si aggirava fra gli alberi. Un altro uomo, a testa in giù, stava sul ponte e sem-
brava stesse esaminando il marciapiede e il parapetto. Altri due controllavano l'area sotto il ponte. «La portiera del guidatore era aperta quando siamo arrivati,» disse Joey. «Sembra che sia sceso dalla macchina. Forse in stato di schock. Non sembra che l'impatto sia stato particolarmente forte, ma non si sa mai. Potrebbe essersi rotto la testa sul volante. Sembra anche che abbia preso fuoco. Abbiamo trovato della stoffa bruciacchiata sul... » «Mio Dio,» mormorò Vicki quando vide il guscio completamente bruciato della macchina. Era tutto nero tranne che per le chiazze bianche lasciate dagli estintori chimici. I pneumatici erano sgonfi e fumanti. I finestrini erano esplosi. Il cofano era sollevato. Lo sportello del baule, divelto dai cardini, giaceva sul tettuccio della macchina. A dispetto della rovina, le dimensioni della macchina e gli spigoli squadrati erano inconfondibili per Vicki. Una Mercedes. Dopo che me ne sarò andato. Tesa e in preda alla nausea, corse verso la coda della macchina, pensando: non è Charlie, non può essere, non è l'unico al mondo con una Mercedes... forse l'unico a Ellsworth. Si accovacciò vicino al paraurti. Il calore si diffondeva dal relitto. Il puzzo di gomma bruciata le fece pizzicare le narici. Trattenendo il respiro, esaminò con gli occhi socchiusi la targa. Il raggio della torcia elettrica di Joey la individuò. Sebbene fossero in rilievo, non riuscì a distinguere i numeri coperti di nerofumo. Allungò una mano per togliere la fuliggine, si scottò le dita, le ritrasse, poi fece scivolare la mano dentro la T-shirt e, chinandosi in avanti, usò il tessuto come un guanto per pulire la targa. C'era scritto DOC CG. «È la macchina di Charlie,» disse Vicki. «Il Dr. Gaines.» «Cristo,» disse Joey. «C'è qualcosa qui!» gridò una voce da lontano. Stordita, Vicki si alzò e seguì Joey. Si diressero verso l'uomo al centro del ponte. Era quello che aveva gridato? Charlie si è suicidato, pensò. Mio Dio, si è suicidato. È per questo che ha lasciato tutto a me. Aveva progettato tutto. Avevo ragione, era malato. Aveva scoperto che aveva il cancro? Fantastico. Devo dirlo? Lasciamo che arrivino alle loro conclusioni. Vagamente, realizzò che l'uomo sul ponte era un altro poliziotto. «Cosa c'è, capo?» chiese Joey.
Il Comandante Raines? Il successore di Pollock? «Guarda qui,» disse il capo, e diresse il fascio della sua torcia sulla sommità del parapetto. Il cemento era sporco di nero. «Dev'essere sceso in fiamme, e poi ha fatto un tuffo dal ponte.» «Il Dr. Gaines,» disse Joey. «Charlie Gaines?» «È la sua macchina.» «Merda.», Entrambi, gli uomini si affacciarono dal parapetto e diressero la luce delle torce nel burrone. Vicki, avvicinandosi a Joey, scrutò in basso e osservò i pallidi raggi scivolare sulla superficie del corso d'acqua, sui sassi e i cespugli lungo le rive. «Ha pensato che sarebbe caduto in acqua,» disse il capo. «Deve aver perso la testa.» «Penso che, se tu prendessi fuoco, faresti qualunque cosa.» All'inferno, pensò Vicki, probabilmente ti ucciderebbe la caduta. Cos'era? La battuta di un film. Butch Cassidy, ecco cos'era. Non era stata una caduta come quella di quei due. Forse quindici o venti metri. Ma era stata laggiù diverse volte quando era bambina, e il fiume normalmente era alto una sessantina di centimetri. «Non lo vedo,» disse il capo. «Neanche io,» disse Joey. «Crede che possa essersi allontanato?» «È possibile. Più probabilmente, lo ha portato via la corrente. Dovremmo trovarlo da qualche parte a valle.» Il capo si allontanò dal parapetto. Alcuni dei cercatori erano già tornati. Chiamò gli altri. Quando tutti si furono riuniti sul ponte, spiegò che il guidatore era Charlie Gaines e doveva essere saltato giù sperando di spegnere le fiamme nel fiume. «Potrebbe essere ancora vivo e aver raggiunto al riva. Per cui cercate fra gli alberi. Ritengo, però, che lo troveremo a valle.» «Crede che possa essere ancora vivo?» domandò un addetto all'ambulanza con una camicia bianca. «Non lo sapremo finché non lo avremo trovato, no? Muoviamoci.» Il gruppo si divise in due, e gli uomini si avviarono verso le entremità del ponte. Vicki rimase col Comandante e con Joey che tornarono verso i resti della macchina. «Io scendo giù a dirigere la ricerca,» disse il capo. «Milbourne, resta qua e controlla la situazione. Non permetteremo che arrivino dei ficcanaso a gironzolare da queste parti.» Guardò Vicki. «Cosa ci fa qui, si-
gnorina?» «È il Dr. Chandler,» disse Joey. «Sono in società col Dr. Gaines,» spiegò lei. «Mi piacerebbe partecipare alla ricerca.» Gli occhi di lui si strinsero. «Le piace andarsene a passeggio.» Cosa intende dire? Si domandò lei. «Ho sentito l'allarme e ho pensato che avrei potuto essere d'aiuto.» «È lei che ha identificato la macchina di Charlie,» sottolineò Joey. «Suppongo che non era con lui stasera.» «No,» disse Vicki. «L'ho visto intorno alle cinque e mezza, un po' prima di lasciare la clinica.» «Non stava a bere con lui al Riverfront?» «No, io... » «Non ha sentito Melvin Dobbs che minacciava la vita di Charlie, no?» Vicki sentì il calore affluirle al viso. «Oh,» disse, «pazzesco. Sono una specie di matta perché ho riferito una minaccia alla vita di Pollock.» «E adesso si trova qui. Cos'è, una specie di hobby quello di immischiarsi nelle faccende della polizia?» «Io sono un dottore,» disse lei, emettendo la voce in modo che apparisse ferma, e non potesse rivelare quanto si sentiva improvvisamente timida e amareggiata. «Sono uscita per offrire la mia assistenza nel caso qualcuno avesse avuto bisogno di cure mediche.» «Beh, impacchetti i suoi cerotti e se ne ritorni a casa, dottore.» «Mi piacerebbe dare una mano nella ricerca.» «Ne sono sicuro. Il fatto è che non ci serve una che se ne sta qui fra i piedi. Per cui se ne torni a casa a passo di trotto.» «È un mio amico.» Questa volta, non poté impedire alla sua voce di tremare. «Milbourne, portala via di qui.» «Sì, signore.» E a queste parole, il capo passò davanti a Vicki e s'incamminò a grandi passi verso l'estremità del ponte. «Faresti meglio ad andartene, adesso,» disse Joey. «Pensa che io sia una specie di perdigiorno!» «È solo sconvolto, questo è tutto. È sotto pressione per la faccenda Pollock, e sentirsi cascare addosso anche una cosa del genere... » «Non posso aspettare qui finché non trovano Charlie?» «Temo di no.»
«Beh, Gesù... » «Vai a casa, adesso. Non c'è nulla che tu possa fare qui. Ti informerò non appena lo troveremo.» Lei si fermò all'estremità del parapetto dove la parte anteriore della macchina di Charlie era incollata al cemento. Scrutando al di là di esso, vide il Comandante Raines sul pendio coperto d'alberi. Era quasi sull'argine del fiume. Altri uomini stavano percorrendo la riva, altri avanzavano nell'acqua. I raggi delle torce si spostavano rapidi da una parte all'altra e dardeggiando. Si voltò verso Joey. «Perché non mi presti la tua torcia, e...» «Vuoi che mi metta nei pasticci col capo?» «Maledizione, non essere così pappamolla.» Joey le afferrò un braccio. «È il momento di sparire, dolcezza.» La condusse verso la macchina. Sollevandola col braccio in modo che i suoi piedi potessero toccare a malapena il suolo. «Lasciami andare!» Non lo fece. Quando raggiunsero la Mustang di Ace, lui diede uno strattone alla porta, la aprì, fece girare Vicki intorno ad essa e lasciò andare il braccio. Lei si sentì bruciare nei punti dove le dita erano affondate nella carne. Vicki salì in macchina. Mentre posava la sua borsa sul sedile del passeggero, Joey chiuse con violenza la portiera. «Via,» disse. Lei avviò la macchina, fece un'inversione a "U", e si allontanò velocemente. Il cuore le batteva con forza. Ansimava in cerca d'aria. Stava tremando per la collera e l'umiliazione. L'avevano cacciata come un cane randagio. Ma cosa avevano quegli uomini? Joey si era comportato bene finché il capo non gli aveva ordinato di mandarla via. Perché non si era messo dalla sua parte? Quello era facile: era un pollo. Ciò che non aveva senso era il comportamento del capo. L'aveva considerata una seccatura, solo sulla base di quello che gli aveva riferito Joey a proposito del loro racconto e della minaccia di Melvin a Pollock. Cosa avrebbero dovuto fare, tenerselo per loro? Anche se la cosa non avesse portato da nessuna parte (e Vicki poteva scommettere che non si erano presi neppure la briga di interrogare Melvin), il capo avrebbe dovuto apprezzare il fatto di ricevere ogni sorta di in-
formazioni sull'omicidio. Invece, sembrava aver considerato la cosa un'intrusione. Due femmine avevano cercato di spiegare a lui come si conduce un'investigazione. Così, non appena mi sono fatta viva, se l'è presa con me. Avrei potuto dare una mano a cercare Charlie. Sono un'altra persona, maledizione. Ho gli occhi. Non sono cieca, anche se sono una donna. È questo il punto, realizzò Vicki. Sono una donna. È per questo che non posso dare una mano a cercare Charlie. È per questo che hanno ignorato l'informazione sulla minaccia di Melvin. Sono soltanto una femmina impicciona che si diverte a ficcare il naso nei loro affari. Una specie di matta. Cosa sono tutti gli uomini di questa città, misogini? Non Charlie, pensò. Oh Charlie, cosa ti è successo? CAPITOLO VENTIDUESIMO Parcheggiò la macchina nel viale d'accesso di Ace, poi entrò in casa. Nessuna luce era accesa. Le aveva lasciate spente, e si era recata nella sua camera da letto al buio. Sapeva che non era proprio il caso di tentare di dormire. Si sarebbe semplicemente girata e rigirata, completamente sveglia, in ansia per la sorte di Charlie e spinta a rivivere tutte le cose terribili che erano accadute durante le ultime ore: il litigio con Jack; l'incubo; l'orribile scena sul ponte e la consapevolezza che Charlie, in fiamme, era saltato nel fiume; e soprattutto, l'umiliante incontro col capo della polizia. Abbastanza da tenerla sveglia per giorni. Si tolse la T-shirt sporca di fuliggine, ne prese una pulita dal cassetto, e la indossò. Poi, si fece passare sopra la testa là catenina con la chiave di casa e il fischietto. Una corsa sarebbe stata d'aiuto. Lo era sempre. Nel ripercorrere la casa, si domandò se avrebbe dovuto restare ad aspettare la telefonata di Joey. Le aveva promesso che l'avrebbe informata, quando fosse stato trovato Charlie. Ma avrebbe anche potuto arrivare fra un'ora. O mai. Non aveva senso stare senza far nulla. Inoltre, la notizie sarebbero state quasi sicuramente cattive.
Vicki uscì fuori. Sul marciapiede davanti alla casa, eseguì gli esercizi di riscaldamento. Poi, si mise a correre. Corse a ritmo sostenuto, spingendo molto le gambe, alzando e abbassando le braccia con vigore, avvertendo l'aria calda sulla pelle nuda del viso, delle braccia e delle gambe. Non aveva in mente alcuna destinazione, ma quando si trovò in Center Street a correre davanti ai negozi deserti diretta a nord, ritornò a poche mattine prima quando aveva seguito la Central fino all'incrocio con River Road e aveva svoltato sul ponte del Laurel Creek. Pensò: e se costeggio la riva? Arriverò fino all'affluente del Laurel Creek. Risalirò il ruscello e cercherò Charlie senza che nessuno possa impedirmelo. Faceva male pensare a Charlie. Avrebbe voluto toglierselo dalla mente, togliersi tutto dalla mente, correre e, per un po' almeno, essere libera. Ma si domandò se poteva raggiungere l'affluente. C'erano delle proprietà private lungo la riva oltre il limite nord della città. Ci potevano essere delle recinzioni a bloccarle il passo. Potrei aggirarle a nuoto, pensò. Davanti c'era il parco. Lasciò il marciapiede e corse sull'erba. Era soffice ed elastica sotto le scarpe. Scendi fino alla spiaggia e segui la riva. Potrebbe funzionare. Qual è il punto, però? Charlie non avrebbe camminato verso il fiume. Se era sopravvissuto al salto dal ponte, si sarebbe di nuovo arrampicato fino alla strada. Se era a valle, vi era stato trascinato dalla corrente. Non lo troverei vivo. Quelli che lo cercavano forse lo avevano già trovato. Gli devo un tentativo. Vicki accorciò il passo mentre affrontava il pendio che conduceva alla spiaggia pubblica. Guardando oltre la sabbia, vide la forma indistinta di una recinzione che si allungava fino al margine dell'acqua. Posso aggirarla nel fiume, si disse. Posso nuotare fino all'affluente, se è necessario. Probabilmente non ci vuole più di un miglio. In fondo al pendio, riprese il ritmo. Raggiunse la spiaggia. Si mise a correre sulla sabbia inondata dal chiarore lunare. «Vicki?» Riconobbe la voce. La sua testa si voltò di scatto a sinistra. Jack stava scendendo frettolosamente dalla rampa argentea dello scivolo. Di slancio, corse verso di lei.
Vicki si fermò e lo fronteggiò. Lui era a piedi nudi e indossava solo dei pantaloncini. Si fermò a pochi passi da lei. «È presto per la tua corsa mattutina,» le disse. «Cosa ci fai qui?» Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so. Non riuscivo a dormire. Stavo sul letto, e pensavo a te. Quando ho sentito l'allarme antincendio, ho deciso di alzarmi. Ho gironzolato per un po', e sono finito qui. Probabilmente speravo che tu ti saresti fatta viva, prima o poi. «E per quale ragione?» chiese lei. Il cuore le batteva forte. Si sentiva come se non riuscisse a inspirare aria a sufficienza. «Oh, Vicki.» Fece per sollevare le braccia verso di lei, poi le lasciò ricadere sui fianchi. Scosse la testa. «Mi dispiace. Ho fatto male ad attaccarti. Tu non sei Gloria. Sei così diversa da lei che... Credo di avere ancora molta rabbia dentro, e solo per un minuto l'ho rovesciata su di te. Non avrei dovuto farlo.» «Io non sono Gloria.» «Lo so.» «Non sono un'Amazzone in carriera.» «Un po' Amazzone, forse sì.» Mentre diceva questo, un angolo della sua bocca si sollevò e lui si strofinò il braccio destro proprio sotto la spalla. «Mi hai mollato una botta niente male.» Si voltò e indicò. La sua pelle, pallida nel chiaro di luna, aveva una lieve chiazza scura come un'ombra nel punto dove lei l'aveva colpito. «Io ho fatto questo?» disse. «Va tutto bene.» «Non avrei dovuto colpirti.» «È stato un'assalto in piena regola, sai. Ma non preoccuparti, non ti addebiterò i danni.» «Ai poliziotti piacerebbe molto se lo facessi.» Gli fece scivolare una mano lungo il braccio e gli strinse la sua. «Il comandante sembra avercela a morte con me. Mi ha appena detto che sono una perdigiorno. Tutto quel che volevo era dare una mano a cercare Charlie.» «Charlie Gaines?» «È scomparso. È per questo che c'è stato l'allarme. Ha avuto un incidente su River Road. Pensano che abbia preso fuoco e sia saltato giù dal ponte nel ruscello, ma non sono riusciti a trovarlo. Volevo dare una mano e mi hanno mandata via a calci.» Jack le strinse la mano. «Perché non te l'hanno permesso?»
«Non lo so. Ma ho pensato che potevo costeggiare furtivamente il ruscello e cercare a monte. L'affluente non è molto lontano da qui.» Fece un cenno con la testa verso la recinzione che delimitava la spiaggia. «Vuoi che ti faccia compagnia?» chiese Jack. «Mi farebbe piacere.» «Guida tu. Io cercherò di tenere il passo.» Lasciò la mano di Vicki. Lei ruotò su se stessa e cominciò a correre sulla spiaggia. Sentì che lui la seguiva. Poi, la raggiunse e corse al suo fianco. Vicki deviò verso l'estremità della recinzione. Un cartello vicino all'ultimo palo diceva: "Passaggio Vietato". L'acqua le schizzò sulle gambe mentre lei girava intorno al palo. All'altro lato, balzò sull'argine e corse sullo slargo dietro al cottage. Le finestre del cottage erano buie. Davanti, un molo si allungava sul fiume. Un fuoribordo galleggiava parallelo ad esso. Jack la raggiunse, poi la superò. Lei fissò il dorso ampio e pallido di lui, il fondo scuro dei pantaloncini, le gambe forti che spingevano con vigore. Si sentì lieta di essere con lui. Vicki riusciva a stento a credere che, all'improvviso, fossero di nuovo insieme. Era accaduto così in fretta. Un attimo prima, era sola e Jack poco più di un ricordo amaro; l'attimo dopo, lui era là e lei si sentiva più vicina a lui di prima del litigio in macchina. Stava aspettando me, pensò. Sperava che mi facessi viva. Lo seguì oltre il molo, oltre una piccola spiaggia, e attraverso un varco in una siepe all'altro lato dello slargo. Spuntarono dietro una casa a due piani con un prato coperto di alberi. Il pneumatico di una macchina era sospeso a uno dei rami. Quella casa aveva una spiaggia più larga di quella del cottage che si erano lasciati dietro. Una canoa era adagiata, con lo scafo all'insù, sulla sabbia. A una certa distanza c'era un pontile con all'altro lato una rimessa per le barche. Jack svoltò verso la spiaggia. Si fermò vicino alla canoa, si accovacciò e la capovolse, scoprendo una coppia di pagaie che erano state lasciate sotto. «Cosa stai facendo?» sussurrò Vicki. «Prendiamola in prestito. Arriveremo in men che non si dica, se la prendiamo.» «Stai scherzando? Non è nostra.» «Questa è un'emergenza. Capiranno. Inoltre, non sapranno mai che l'abbiamo presa. Forse.»
Vicki lanciò un'occhiata verso la casa. Ne riusciva a vedere solo dei frammenti attraverso gli alberi. Jack le tese una pagaia. Prese l'altra per sé, e sollevò la prua. Vicki afferrò la poppa. La canoa di alluminio sembrava quasi priva di peso mentre lei seguiva in fretta Jack, trasportandola giù per la spiaggia. Si aspettava quasi che qualcuno uscisse come una furia dalla casa per fermarli. Ma nessuno lo fece. Avanzarono diguazzando nel fiume e abbassarono la canoa. Jack la tenne ferma mentre Vicki saliva. Quando lei s'inginocchiò e affondò la pagaia nell'acqua, Jack salì a bordo. Lei guardò sopra la spalla. Ce ne stiamo andando con la canoa! Avvertì un brivido strano. Non aveva mai rubato nulla prima. Non la stiamo rubando, rammentò a se stessa. La prendiamo solo in prestito. E questa è un'emergenza. Sebbene non fosse stata per anni su una canoa, in passato era solita trascorrervi lunghe ore a esplorare la riva del fiume e le isole. Sembrava così familiare: le strette assicelle di legno sotte le ginocchia, la pagaia nelle mani, il peso dell'acqua contro la pala mentre lei la spingeva indietro, il rumore delle gocce che schizzavano via mentre sollevava la pagaia, il debole sciabordio del fiume sotto lo scafo mentre la canoa scivolava sull'acqua. Jack si comportava come se anch'egli avesse trascorso gran parte della sua giovinezza su una barca come quella. Stava in ginocchio col busto dritto, e muoveva la pagaia nell'acqua con colpi morbidi e gentili, lasciando a Vicki il compito di virare, dando l'impressione di sapere che il compito spettava a lei e realizzando subito che se la cavava egregiamente. Lei seguì il ritmo dei colpi di Jack. Ben presto, la canoa acquistò velocità sulla superficie calma del fiume. Quando furono ben lontani dall'estremità del molo, si diressero verso nord. L'aria era calda. Il fiume era calmo, e nero tranne che per il chiaro di luna argenteo sparso sulle sue increspature. Vicki non vide luci di altre barche. Non udì motori. Sembrava non ci fosse nessun altro sul fiume. Poche chiazze di luce scintillavano lungo la riva lontana. La quiete e la bellezza le procurarono una vuota sensazione di rimpianto. Se fosse stata là solo per stare con Jack e non per quel terribile compito... Avrebbero potuto pagaiare fino al cèntro del fiume e poi lasciare che la canoa fosse spinta dalla corrente. Lei si sarebbe avvicinata a lui. Lui l'a-
vrebbe circondata con le braccia. Si sarebbero baciati. Si sarebbero distesi sul fondo della canoa... Un'altra sera, si disse. Forse la prossima settimana o il prossimo mese. Tutto questo sarà solo un brutto ricordo, e torneremo qui per nessun altra ragione che per stare l'uno con l'altra. Immaginò Charlie che galleggiava morto sul fiumiciattolo, e avvertì un senso di colpa. Siamo qui per te, Charlie. Io e Jack non contiamo. Non stanotte. Voltò la testa a sinistra. Stavano scivolando oltre il pontile dell'ultima casa prima dei boschi. Lontano, vide una punta di terra. Un vecchio ricordo le rammentò che essa si allungava nel fiume proprio da questo lato dell'affluente del Laurel Creek. Tenendo la pagaia dritta e immersa accanto alla canoa, girò la pala in modo da opporla alla corrente. L'acqua gorgogliò e ribollì. La canoa virò. Quando puntò verso il promontorio, lei riprese a pagaiare. Ben presto, superarono la sporgenza di terra. «È davanti a noi,» disse Vicki. Jack, annuendo, appoggiò la pagaia sulle frisate. Vicki rallentò i colpi. Scrutò nel buio dei cespugli e degli alberi lungo l'argine, ma non vide la stretta apertura finché Jack non la indicò. Dirìgendo la canoa verso di essa, udì il tenue mormorio dell'acqua. Diede un ultimo, forte colpo di pagaia. Mentre la canoa scivolava verso l'affluente, lei scrutò i boschi. Non vide luci. Udì deboli voci lontane. O i cercatori non erano ancora arrivati fino a quel punto, oppure avevano già raggiunto il fiume ed erano tornati indietro. Jack scese nel fiume. Esso lo coprì fino alla vita. Afferrando la prua con una mano, raggiunse la riva e trascinò la canoa per un tratto di terrapieno vicino al margine del fiume. Si accovacciò e la tenne ferma per Vicki. Restando abbassata, lei raggiunse in fretta la prua. Jack le diede una mano mentre lei scendeva. Era umida. Assieme, tirarono la canoa più in alto sul lieve pendio. «E adesso?» sussurrò lui. «Penso che dovremmo risalire il fiume.» La grossa mano di lui si chiuse intorno al polso di Vicki. Aggirarono un folto gruppo di cespugli ed entrarono nel Laurel Creek. Il suo letto sassoso era viscido sotto le loro scarpe. Mentre si avvicinavano al centro, il livello
dell'acqua salì sopra le ginocchia. «È un guaio che non abbiamo una torcia elettrica,» disse Jack. «In realtà, non avevo in niente di fare questo.» Fianco a fianco, avanzarono lentamente, diguazzando. Il fiumiciattolo e le sue rive erano buie tranne che per poche chiazze di chiaro di luna. Vicki udì le voci dei cercatori, ma non sembravano più vicine di prima. Non riuscì a distinguere le parole. Anche se controllava spesso il corso buio del fiume davanti a lei, si concentrò sulle rive. Se Charlie è nell'acqua, pensò, non lo vedremo. Lo toccheremo. Quel tratto di fiume era così stretto che non potevano mancare il corpo. Avrebbe urtato le loro gambe. E pregò che Charlie non fosse nell'acqua. Erano troppo a valle del ponte. Se è ancora vivo, pensò, o si trova sulla riva o i cercatori lo hanno già trovato. Il suo cuore ebbe un sobbalzo quando scorse una forma pallida che galleggiava verso di lei. Jack le strinse con forza la mano, poi la lasciò andare. Si avvicinò alla cosa. «È solo un ramo,» sussurrò. «Grazie a Dio.» Lui si chinò e lo spinse. Il ramo scivolò di lato, graffiando le rocce lungo la riva. Continuarono a risalire il fiume. Mentre gli occhi di Vicki vagavano sulle forme indistinte dei cespugli e delle pietre lungo il fiume, lei tese le orecchie per cogliere le voci dei cercatori. Trascorsero minuti, ma tutto ciò che udì furono gli uccelli e gli insetti, una rana, lo sciacquio delle loro gambe che si muovevano nell'acqua. Poi, giunse una voce da lontano, davanti a loro. Un'altra rispose. Poi, di nuovo il silenzio. Le voci sembravano più lontane di prima. In principio, questo fece piacere a Vicki. Di certo non voleva incappare negli uomini del comandante. Ma cominciò a chiedersi cosa significava. Potrebbe significare, decise, una o due cose: o Charlie era già stato trovato, o i cercatori avevano finito di cercare a valle. Sperò che fossero tornati indietro perché Charlie era stato trovato. Trovato vivo. Ma, a dispetto delle sue speranze, era convinta che gli uomini erano tornati sulla riva senza trovarlo. Poco prima che lei e Jack arrivassero. Se era nel fiume, non era il caso di continuare la ricerca. Il corpo sarebbe stato introvabile. Finché non fosse stato spinto a riva da qualche parte, forse di-
verse miglia a valle. O finché non si fosse decomposto e i gas avessero gonfiato il cadavere spingendolo in superficie. Così gli uomini avevano rinunciato ed erano tornati al ponte. Potremmo rinunciare anche noi, pensò. No. Troppo presto. Jack emise un semplice «Hmmm?» Avanzò verso destra. Vicki restò accanto a lui, scrutando la riva, domandandosi cosa avesse notato. Lui si fermò e abbassò lo sguardo. Vicki vide la forma vaga di un mozzicone di sigaretta in cima a una roccia scura. «Ho le mani umide,» sussurrò. «Ti dispiace?» Vicki si strinse nelle spalle, dubbiosa su quello che lui intendeva. Jack premette la mano destra contro il davanti della sua T-shirt. Lei sentì che le strofinava il ventre, e comprese che stava usando la sua maglietta come asciugamano poiché lui non indossava una maglietta, e i pantaloncini erano umidi. Jack rovesciò la mano, strofinò il dorso contro di lei, poi strinse la maglietta nel pugno. Quando la sua mano si ritrasse, lei sentì l'umido che aveva lasciato sul tessuto. E sentì ancora il tocco come un'immagine residua, calda ed eccitante. Jack si chinò. Raccolse i resti della sigaretta. La rotolò fra pollice e indice. «Recente,» sussurrò. «Il filtro è ancora umido.» «Allora i cercatori sono venuti fin qui,» disse Vicki. Questo confermava i suoi sospetti. «Potrebbero aver cercato male, credo.» «Loro hanno le torce.» «Vuoi tornare indietro?» chiese Jack, e gettò la sigaretta fra i cespugli. «Non lo so.» «Per me va bene se vuoi continuare a cercare.» «Stiamo esplorando luoghi che loro hanno già frugato.» «Decidi tu,» disse lui. «Credo che non ci sia molto da decidere.» «Forse lo hanno trovato.» «Forse.» Jack fece un passo verso Vicki. Diede una piccola stretta al suo avambraccio, poi lasciò lì la mano. «Vorrei che ci fosse qualcosa che potessimmo fare per Charlie.» «Abbiamo fatto quello che potevamo.» «Lui significa molto per te, vero?» Vicki annuì. «Mi ha aiutato parecchio. Ero sua paziente, sai. Lui era il
mio medico quando ero bambina. Quando scoprì che ero interessata alla medicina, in un certo senso mi accolse sotto la sua ala. Dopo la scuola andavo alla clinica, qualche volta, e lui mi mostrava le cose e parlavamo.» «Suppongo che sia come un padre per te.» «Non ho mai avuto bisogno di una figura paterna... ne ho uno reale che è perfetto, sai? Charlie e io non siamo mai stati particolarmente in confidenza. Eravamo amici, ma a un livello abbastanza professionale. Lui mi ha sempre incoraggiata.» «Si è interessato parecchio a te,» disse Jack, accarezzadole lievemente il braccio. «Più di quanto abbia mai sospettato. Vorrei... » La sua gola si irrigidì. «Vorrei avergli prestato maggiore attenzione. Avrei dovuto incontrarlo fuori dalla clinica, pranzare con lui, o... » «Ha famiglia?» «È divorziato. Non ha mai avuto figli. Era completamente solo, e io l'ho ignorato.» «Gli sei stata vicino nel suo lavoro,» disse Jack. «E sembra esattamente quello che lui desiderava. Penso che tu abbia realizzato tutte le speranze che nutriva per te. Non devi sentirti in colpa per non avere fatto di più.» Questo modo di guardare la cosa è abbastanza corretto, pensò lei. «Non si è mai comportato come se... Voglio dire, io andavo per la mia strada lui per la sua. Non so cosa facesse quando usciva dalla clinica. Aveva parecchio denaro, una bella casa. Era abbastanza attraente per un uomo della sua età. Per cui ero convinta che se la passasse bene. Non mi sono mai preoccupata per lui. A malapena gli dedicavo qualche pensiero. Avrei dovuto farlo.» Jack le accarezzò il viso. «Vuoi continuare a cercare?» «Non credo.» «Torneremo in città e scopriremo cosa sta succedendo. Per quanto ne sappiamo, Charlie potrebbe anche essersela cavata. Potrebbe essere in una camera di ospedale, in questo momento, a impartire ordini alle infermiere.» «Sarebbe bello,» disse Vicki. «Se solo fosse vero.» Voltarono le spalle alla riva. Vicki gli tenne la mano. Fianco a fianco, avanzarono in mezzo al fiume. Anche se non aveva più speranze di trovare Charlie, lei tuttavia continuò a scrutare nel buio. Avrei dovuto occuparmi maggiormente di lui, pensò. Avrei dovuto assicurarmi che fosse felice. Non era una figura paterna per me, ma io ero
come una figlia per lui? Forse. Probabilmente. Ha fatto ciò che un padre fa per una figlia: mi ha incoraggiata, ha pensato a me, mi ha dato consigli e indicazioni... ha pagato i miei studi. Dio, Charlie, mi dispiace. Hai realizzato tutte le speranze che nutriva per te. L'ho proprio fatto ? Se sei ancora vivo, Charlie, lo farò fino in fondo. Voglio farlo. Di lì a poco, vide il fiume illuminato dalla luna attraverso un varco fra gli alberi. «Ci siamo quasi,» disse Jack. «Sarò felice quando ci libereremo della canoa.» «Possiamo andare a casa mia, e ti accompagnerò in macchina al ponte.» «Okay.» C'è una cosa buona in tutto questo, pensò lei. Essere con Jack. Se solo il resto non fosse accaduto... Staremo molto assieme da ora in poi, si disse, e gli strinse la mano. Lui la guardò. Lei desiderò di potergli vedere il viso. Continuarono ad avanzare nell'acqua. Mentre si avvicinavano alla foce dell'affluente, la visuale del fiume si allargò. E Vicki vide la canoa. Sul fiume. A sette, otto metri di distanza. Che si allontanava sulla corrente. CAPITOLO VENTITREESIMO «Oh no,» mormorò Vicki. «Come diavolo... ?» Si staccò da Jack e avanzò barcollando. Lui le afferrò il braccio. «No. Aspetta qui. La raggiungo io.» Si allontanò arretrando, sollevò una mano per farle segno di restare dov'era, quindi si curvò bruscamente e si lanciò in un basso tuffo. L'acqua esplose intomo a lui. Vicki lo seguì arrancando, osservandolo mentre attraversava a nuoto l'ultimo tratto dello stretto canale ed entrava nel fiume. Aspettare qui? Non credo proprio. Lanciò uno sguardo al pendio dove avevano lasciato la canoa. Non vide nessuno. Ma qualcuno era stato là. La canoa non era semplicemente scivo-
lata nel fiume. Qualcuno l'aveva spinta. E poteva essere ancora nelle vicinanze. Le venne la pelle d'oca mentre scrutava le tenebre del pendio. Guardò Jack. Era a metà strada dalla canoa. Vicki si lanciò, colpì di piatto l'acqua, la fendette, risalì in superficie e cominciò a nuotare. Sollevando la testa, tirò un respiro. Scorse Jack. «Rallenta,» gli gridò. Lui smise di nuotare. Vicki vide solo la sua testa mentre lui aspettava che lo raggiungesse. «Sarei tornato a prenderti,» le disse. «Lo so,» gli disse lei, spingendo l'acqua. «È solo che non volevo restare là da sola. Qualcuno ha fatto questo, e tu lo sai.» «La possibilità mi è venuta in mente.» Lei vide che la canoa si stava allontanando sulla corrente. «Faremmo meglio a muoverci,» disse. Nuotarono. Jack raggiunse per primo la canoa. S'immerse sotto di essa. Vicki comprese che intendeva reggere l'altro lato dell'imbarcazione mentre lei vi saliva, «Okay,» disse lui. «Sali.» Allungando un braccio lei afferrò la frisata. Si tirò su, si sollevò abbastanza da vedere le dita di Jack curve sulla frisata di alluminio, e scorse qualcosa di grosso e scuro disteso sul fondo della canoa. Un uomo? «Jaaaaack?» La sua voce uscì tesa e acuta. «Cosa... ?» La testa di lui venne su. «Cristo Santo,» mormorò. «È Charlie?» «Non lo so. Non riesco... » La cosa in fondo alla barca si drizzò a sedere e sbatté un avambraccio sulla faccia di Jack. Jack volò all'indietro. La canoa oscillò verso Vicki mentre lei udiva un forte tonfo. Cercò di spingersi via. Una mano le afferrò i capelli. La tirò su. Quel momento parve durare a lungo: lei sospesa là, la canoa che s'inclinava di lato sul punto di capovolgersi, il cuoio capelluto che le bruciava, la sua cintola che batteva contro la frisata, l'acqua che le scorreva intorno alle gambe mentre la canoa scivolava, il suo sguardo su quella faccia nera illuminata dalla luna che non poteva appartenere a Charlie. Bruciacchiata. Crepata. Buchi dove dovevano essere gli occhi. Niente capelli. Un lato della testa sfondato. Ma è Charlie, pensò lei. Dev'essere
lui. Vivo! Non sentiva euforia. Solo dolore, shock e terrore. Come può essere vivo con quella ferita alla testa? Perché ha colpito Jack? Perché sta facendo questo? Jack potrebbe annegare! Sferrò un pugno verso l'alto per colpire il braccio teso, ma lui si scostò e lei si sentì sollevare e cadere in avanti. Lo spostamento di peso fece abbandonare alla canoa la sua pericolosa inclinazione. Oscillò da un lato all'altro, con la frisata che le premeva contro le cosce, sollevandole e abbassandole. Lei sentì l'aria contro le gambe scalciami, poi acqua, poi di nuovo aria. Il suo viso si appoggiò su qualcosa che sembrava freddo e umido e incrostato. Capì che era la gamba bruciata di Charlie. Con un suono gorgogliante che avrebbe potuto essere una risata, Charlie le sollevò l'anca. Le sue gambe scivolarono lungo la frisata. Lei si contorse e si dimenò, cercando di staccarsi da lui. Lui la tirò a sé, la fece girare mentre si dibatteva. Quando le gambe di Vicki caddero nella canoa, lui la gettò sulla schiena. Vicki cadde scompostamente su di lui. S'impennò e si contorse. Lui la tenne stretta. «Charlie!» gridò. «Charlie, sono io! Sono Vicki! Lasciami! Cosa stai facendo?» Lui le tirò su la T-shirt finché essa non fu bloccata dalle ascelle. Vicki afferrò le frisate con entrambe le mani e cercò di tirarsi su. Charlie le strappò il reggiseno. Il gancio fra le due coppe cedette. Lei senfi le sue mani friabili avvicinarsi alla pelle nuda dei seni. «No!» gridò. «Charlie.» Lui rispose con un gorgoglio. Lei afferrò una delle mani che la stavano accarezzando e la spinse via. Solo per un attimo. Poi, ci fu un suono umido di qualcosa che si frantumava, e una manciata di carne bruciata si staccò nelle sue mani. Con uno strillo, lei la gettò via. La mano di Charlie le afferrò di nuovo i seni. Ora, sembrava calda e scivolosa e lei comprese che erano il sangue, i tendini e i muscoli che la stavano accarezzando. L'altra mano di lui le si posò sul ventre e scese giù. Si spinse sotto la cintura degli shorts. «NO!» La afferrò. Denti si serrarono sulla sua spalla. Strillò.
La canoa vacillò, s'inclinò a babordo, e Vicki si gettò da quel lato. La canoa si capovolse, scaraventandola nel fiume con Charlie sulla schiena. Le mani di lui rimasero dov'erano. I suoi denti continuarono nella loro stretta dolorosa sulla spalla. Il suo peso la premette verso il basso come se lui non avesse affatto possibilità di galleggiare. Vicki, con solo un istante per reagire prima che l'acqua si chiudesse sopra di lei, riuscì solo a inspirare un po' d'aria. I polmoni le fecero male nel dilatarsi. Scalciò e agitò le braccia, lottando per fermare la discesa. Ma Charlie continuò ad affondarla. I suoi denti s'immersero nella spalla. La sua mano scivolò sul seno e vi strisciò sopra come un enorme ragno coriaceo. L'altra, dentro gli shorts, si spostò sull'anca. Le punte delle dita le scalfirono la pelle. Lei avvertì un rapido strappo. La sottile banda elastica delle mutandine cedette. Vicki afferò il polso di Charlie con entrambe le mani. Lo tirò con forza, costringendo la mano a sollevarsi. La mano non mollò le mutandine, che le affondarono dentro, ma lei continuò a tirare. La stoffa si lacerò. La mano di Charlie venne fuori dagli shorts e le salì sul ventre. Lei gli piegò il polso, e riuscì a scostargli il braccio. Qualcosa di più pesante di Charlie la buttò giù. Alghe viscide le sfiorarono la pelle. All'improvviso sentì che la testa di Charlie si spostava di scatto. I suoi denti le lacerarono la spalla e mollarono la presa. La sua mano venne staccata dal seno. Spingendo via l'altro braccio, lei sgusciò sotto di lui, rotolando, cadde fra le fronde che l'avvolgevano, cominciò a sollevarsi e scalciò per risalire in superficie. Una mano afferrò la parte posteriore della sua coscia destra. NO! Ma, invece di trascinarla giù, la tirò su e la lasciò. La sua testa riemerse in superficie. Si riempì d'aria i polmoni in fiamme, vide che stava fronteggiando la riva, roteò su se stessa, scorse la canoa rovesciata e nuotò verso di essa più rapidamente che poteva. Alcuni momenti dopo, sentendo un tonfo nell'acqua alle sue spalle, scivolò su un fianco e si voltò a guardare. «Vai!» gridò Jack. E cominciò a nuotare dietro di lei.
Lei voleva aspettare, ma immaginò Charlie che riemergeva dalle profondità, allungando le mani verso i suoi piedi. Così accelerò verso la canoa. Rallentò solo per afferrare una pagaia galleggiante. Premendosela contro il corpo, nuotò alla marinara col braccio libero finché non raggiunse la canoa. Mantenne la prua e si voltò. Jack stava arrivando velocissimo. Vicki fece girare lo sguardo sopra la superficie increspata del fiume intorno a lui. Nessun segno di Charlie. Di nuovo, immaginò il suo corpo nero e carbonizzato che le si avvicinava dal basso. Respinse l'impulso di arrampicarsi sullo scafo capovolto della canoa. Jack avvolse le braccia intomo all'altra estremità della canoa. «Ora... capovolgiamola,» ansimò. «Conto fino a tre.» Vicki lasciò galleggiare la pagaia vicino a lei. Fece scivolare le mani sotto la punta sommersa della prua. «Pronta?» «Sì!» «Uno, due, tre!» Vicki spinse verso l'alto la canoa, facendola girare e affondò. Sottacqua, udì uno schiocco metallico. Tornò improvvisamente a galla. La sua spalla urtò la canoa e lei trasalì quando il dolore del morso esplose. Si lasciò trascinare dalla corrente a una certa distanza e guardò. La canoa pescava un po' troppo, ma era tornata dritta. Lei nuotò fino alla pagaia, poi tornata faticosamente alla canoa la gettò dentro. Sollevò uno spruzzo. «Sali,» disse Jack. Tenne fermo l'altro lato. Proprio come prima. Vicki scrutò sopra la frisata. Il fondo della canoa era inondato d'acqua, ma Charlie non c'era. Lei si gettò dentro, atterrando sulla schiena e sollevando spruzzi. Quando si mise sulle ginocchia, vide che Jack si era allontanato. La seconda pagaia galleggiava diversi metri davanti a lui. «Lascia perdere!» strillò Vicki. «Torna qui!» Lui continuò a nuotare verso di essa. Almeno sta andando in quella direzione, pensò lei. Verso il centro del fiume. Lontano dal luogo dove avevano lasciato Charlie. Vicki raccolse la pagaia. Voltò la testa da una parte e dall'altra, esaminando prima l'area intomo alla canoa, poi scrutando il fiume fra lei e la riva. Quasi desiderò di scorgere Charlie.
Meglio vederlo, anche se si stava avvicinando a nuoto, che non sapere dov'era. Vicki raggiunse faticosamente la poppa sulle ginocchia. Si sporse in avanti, facendo scivolare la pala in acqua, e tirandola indietro. Quasi aspettandosi che Charlie la afferrasse. Ma lui non lo fece. La canoa avanzò pigramente, girandosi. Vide Jack che aveva già l'altra pagaia e stava arrivando. Lei diede un altro colpo. La prua si girò ancora di più, puntando verso di lui. «Presto!» gridò Vicki. La distanza si accorciò. Ancora nessun segno di Charlie. Jack gettò la pagaia nella canoa e si lanciò dietro di essa. Si affrettò a mettersi in ginocchio. Affondò la pagaia nel fiume e la spinse indietro. Vicki fece girare la canoa verso sud. Ben presto, stavano avanzando rapidamente sul fiume. L'acqua dentro la canoa sciabordava, schizzando le cosce di Vicki, ritirandosi, ritornando da lei come una piccola risacca, rotolando da una parte all'altra. Lei pagaiò più vigorosamente che poté. Ansimava per mancanza d'aria. Ogni muscolo, dal collo fino ai polpacci, sembrava rìgido e pesante. Le strette assicelle del fondo dello scafo le tormentavano le ginocchia. Il morso alla spalla le bruciava. Ma lei affondava la pagaia in profondità e la tirava indietro e la allungava in avanti e la immergeva di nuovo. Ancora. Ancora. Non parlò. Non guardò se Charlie era vicino. Fissò il dorso curvo di Jack e scacciò il sudore dagli occhi, ammiccando, continuò a pagaiare. Finalmente, girarono intorno all'estremità del molo. Vicki virò verso la spiaggia. La canoa avanzò rapida lungo il molo. Nel momento in cui colpì la riva, Jack balzò a terra. La trascinò per qualche metro sulla sabbia. Vicki saltò sopra il fianco. Sollevò la sua estremità. Trascinarono la canoa fino al luogo dove l'avevano trovata. Quando la capovolsero, l'acqua intrappolata si rovesciò. Gettarono le pagaie sotto la canoa. Vicki in testa, corsero attraverso lo slargo posteriore. L'acqua nelle sue scarpe provocava dei suoni cigolanti, e lei rimase sorpresa nel constatare che le aveva ancora. Tutto quel nuotare, e aveva ancora ai piedi le scarpe da ginnastica. Avrebbe potuto muoversi ben più velocemente senza. Ma era lieta di averle, adesso. Finalmente, raggiunsero il fiume e aggirarono la recinzione che delimi-
tava la spiaggia pubblica. Arrivarono alla riva diguazzando. Al sicuro sulla spiaggia, si tirò su gli shorts umidi, poi si chinò e si strinse le ginocchia e cercò di tirare il fiato. Jack si lasciò cadere sulla schiena. «Alzati,» ansimò lei. «Finirai con l'irrigidire i muscoli. Dobbiamo continuare a muoverci.» Seguendo il suo stesso consiglio, Vicki si raddrizzò. Camminò in cerchio, la schiena inarcata, la testa gettata all'indietro, le mani sui fianchi. Jack arretrò barcollando, e si mise a osservarla. Vicki fu improvvisamente consapevole del suo reggiseno strappato, che le pendeva dalle spalle. Una delle due coppe sembrava un tampone sul seno sinistro. L'altra stava accartocciata sotto l'ascella. Per come la T-shirt bagnata le si era incollata alla pelle, probabilmente sembrava quasi nuda. Capì che non le importava. Le importava solo di trovarsi lontano da Charlie. Era salva. Jack era salvo. «Cos'hai sulla spalla?» chiese Jack. Lei abbassò lo sguardo sulla spalla. La T-shirt là era scura. «Mi ha morso,» disse. «Gesù.» «Tu stai bene?» «La testa mi fa male,» disse lui. Gli si avvicinò. Gli appoggiò le mani sui fianchi. «Ho avuto paura che tu annegassi.» «Non ho mai perso i sensi,» disse. «Ma la barca... era piuttosto lontana quando sono riemerso per respirare. Ho passato un brutto momento quando ho cercato di raggiungerla.» Si avvicinò ancora di più a Vicki. Le sue braccia la circondarono e lui la attirò a sé. Lei avvertì il sollevarsi e abbassarsi del torace di lui, il battito del suo cuore. «Grazie a Dio stai bene,» sussurrò. «Ti ha fatto male?» «Non molto. Solo il morso.» Strinse forte Jack. «È stato orribile. Mi ha strappato i vestiti. Lui... mi ha messo le mani addosso.» «Era Charlie?» «Sì.» «Non capisco. Perché Charlie avrebbe...?» «Sembrava impazzito. Non lo so. Lo hai visto?» «Non proprio. Solo di sfuggita.» «Era... tutto carbonizzato. Scottature di terzo grado.» Un tremito passò
attraverso di lei. «Jack, la sua pelle era... incenerita. E non aveva gli occhi. E la sua testa... un lato era completamente sfondato. Voglio dire, avrebbe dovuto essere morto. Nessuno potrebbe sopravvivere a quel genere di ferita alla testa.» «Evidentemente, Charlie sì.» «Cosa facciamo?» «A proposito di che cosa?» domandò Jack. «A proposito di lui.» Jack rimase silenzioso per un po'. Le sue mani le strofinavano lentamente la schiena. «Non sono nell'umore di raccontare tutto alla squadra di ricerca, questo è sicuro. Avrebbe potuto ucciderci tutti e due. Ti ha ferita. Che vada all'inferno. Probabilmente, ormai è annegato comunque. Oppure è morto per le ferite. In entrambi i casi, ci siamo liberati di lui. Lasciamo che il bastardo torni a riva. Oppure scompaia per sempre. Non m'importa. So che lo consideravi tuo amico, ma... » «Quello era Charlie, ma non era il mio amico. Gli ho detto chi ero. Lui ha continuato, comunque, e... voleva violentarmi, Jack. È questo che voleva fare. Quella cosa carbonizzata... voleva violentarmi.» Rabbrividendo, lei premette il viso contro il collo di Jack. Lui la tenne stretta a lungo. Lentamente, il tremito passò. La forza di Vicki parve abbandonarla. Solo il corpo vigoroso di Jack le impedì di crollare sulla sabbia. «Pensi di poter camminare fino a casa mia?» le chiese. «Preferirei andare a casa. Da Ace. Tu verrai con me, vuoi?» «Puoi scommetterci.» «Bene,» disse Vicki. Tenne le braccia intorno a lui. «Fra un po'?» CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO «Ti va di bere qualcosa?» chiese Vicki mentre accendeva la lampada del soggiorno. «Rimandiamo a dopo che ti sarai rimessa in sesto,» disse Jack. «Farò in fretta.» «Hai un vecchio asciugamano su cui possa sedermi?» chiese lui, tirando su una gamba dei pantaloncini bagnati. Annuendo, lei raggiunse il corridoio. Pensò a com'era strano che Jack quella sera fosse finito in quella casa, dopo tutto. Provò un pic'colo fremito di eccitazione, ma esso venne attenuato dalla stanchezza del suo corpo e
dal peso plumbeo lasciatole nella mente dall'incontro con Charlie. Quando raggiunse 1'armadietto della biancheria, tirò giù il suo telo da spiaggia. Lo portò nel soggiorno, dove Jack aspettava. Glielo diede. «Se vuoi toglierti i pantaloncini... » disse. «Puoi mettere questo, se vuoi. Non abbiamo un accappatoio abbastanza grande per te. Più tardi posso mettere la tua roba nell'asciugabiancheria.» «Sto benissimo,» le disse. «Va' pure e non preoccuparti per questo.» «Torno fra un attimo,» disse lei. Nella sua camera, Vicki tirò fuori l'accappatoio dall'armadio. Prese una camicia da notte in un cassetto. Poi, tornò nel corridoio con passo strascicato, raggiunse il bagno e si chiuse dentro. Col posteriore appoggiato alla porta, si chinò. Si sfilò scarpe e calzini. Nelle scarpe c'era la sabbia. Sospirando, raggiunse vacillando il cestino dei rifiuti e vi fece cadere la sabbia. Rammentò l'incidente automobilistico durante il suo secondo anno di college. Guidava Tim. Uno dei tizi che non ho sposato, pensò. Stavano tornando al campus in una notte tempestosa quando una macchina passò col rosso e li urtò con violenza. Entrambi se la cavarono solo con qualche ammaccatura. Ma dopo si era sentita così, mentre aspettava sotto la pioggia l'arrivo della polizia. I muscoli erano come liquido caldo. La mente appannata e sfocata. Esausta, frastornata, appena in grado di stare in piedi. Con le mani appoggiate al lavandino, si chinò in avanti e si osservò nello specchio dell'armadietto dei medicinali. I capelli bagnati pendevano come corde intomo al viso. I suoi occhi apparivano vacui. La sua pelle sembrava pallida a dispetto dell'abbronzatura. Aveva una macchia scura sul lato destro della faccia, e si domandò vagamente da dove fosse uscita. Fecendo un passo indietro, diede un'occhiata all'aspetto della T-shirt. Umida e sporca. Incollata addosso. Aveva approfittato di un momento, mentre lasciavano il parco, per infilare una mano dentro e aggiustarsi il reggiseno. Altrimenti, Jack avrebbe potuto dare una sbirciata. Cosa che sarebbe anche stata giusta, suppose. In verità, ciò non le interessava molto. Era troppo scarmigliata per preoccuparsene. Si limitò a lanciare un'occhiata alla spalla lacerata, sporca e chiazzata di sangue della maglietta. Poi se la sfilò sopra la testa, trasalendo per il tessuto che si staccava dalle ferite e sentendo ricadere le coppe del reggiseno quando la maglietta non fu più là a trattenerle. Fece scivolare le spalline
dalle braccia, e guardò. «Uh!» S'irrigidì, ritraendosi. Le sue mani risalirono di scatto, fermandosi a pochi pollici dai seni anneriti. Comprese, adesso, perché aveva la faccia e la camicia sporche. Abbassò lo sguardo su di sé, gemendo. Il petto, entrambi i seni, lo stomaco e i fianchi erano cosparsi di fuliggine nera. Impronte di mani. Macchie. Strisce e vortici lasciati dalle dita bruciate di Charlie. Una larga chiazza nera sul basso ventre. Sapeva che non si fermava all'elastico degli shorts. Si abbassò gli shorts e se li sfilò. Il nero si fermava appena sopra i peli pubici e si allungava di lato sull'anca. E sull'anca c'erano alcuni graffi: solchi rossi in un campo di carbone. Fece scorrere la punta di un dito sulla sommità sporca del seno sinistro. C'era qualcosa di oleoso. È per questo che non se n'è andato nel fiume. È quello che ti resta sulle dita, pensò, se prendi in mano una bistecca alla griglia. Una di quelle ben cotte. Una di quelle bruciate fino a diventare croccanti. Ebbe un improvviso conato di vomito. E ancora e ancora, mentre gli occhi si riempivano di lacrime per gli spasmi che la facevano curvare su se stessa. Non vomito, però. Pensò che la sua esperienza di medico, specialmente nel periodo in cui aveva prestato servizio nel pronto soccorso, l'aveva abbastanza protetta contro cose del genere. Aveva avuto tante di quelle visioni rivoltanti, giorno dopo giorno, che alla fine avevano smesso di disgustarla. Ma questo la disgustò. Questo stava capitando a lei. Quando smise di avere conati, Vicki si raddrizzò, tirò dei respiri profondi, e si asciugò gli occhi. Si sentiva un po' meglio, adesso. Pulisci tutto e dimenticatene. Un normale sapone, pensò, potrebbe non servire allo scopo. Accovacciandosi, aprì l'armadietto sotto il lavandino e tirò fuori un barattolo di polvere per smacchiare. La sua etichetta diceva "ad azione sgrassante". Con quella in mano, si allontanò dal lavandino e si voltò a guardare. Lo specchio mostrava che la sua schiena, da sotto le scapole alla vita, era sudicia quasi come il suo davanti. Per essere caduta su Charlie nella canoa,
pensò. Torcendosi, vide che anche dietro alle gambe aveva delle macchie. Forse, pensò, Jack dovrà aspettare parecchio. Quando finì di asciugarsi, controllò l'asciugamano. Sembrava pulito. Lo specchio era appannato. Con un angolo dell'asciugamano, ripulì un tratto. Esaminò la spalla. I denti di Charlie avevano lasciato un paio di mezzelune scolorite. Ben distanti. La sua bocca, pensò, doveva essere molto aperta. Gli incisivi le avevano forato la pelle. I quattro superiori e i quattro inferiori. I margini delle ferite erano frastagliati. Ti ha dato un bel morso. Strano, pensò. Ho appena curato Melvin per un morso, e adesso ne ho uno io. Dev'essere un'epidemia. Si sorrise tetramente nello specchio. Abbiamo qualcosa in comune. Possiamo scambiarci le impressioni sui nostri morsi. Sicuro. Non pensò più a Melvin mentre bagnava le ferite con acqua ossigenata e vi fissava della garza col cerotto. Poi rivolse la sua attenzione ai graffi sull'anca. Erano di scarso rilievo. Li tamponò col disinfettante e non si preoccupò di applicare un bendaggio. Può bastare, pensò. Infilò l'accappatoio, portò la camicia da notte in camera da letto, poi chiuse la porta e si tolse l'accappatoio. Girandosi lentamente, si esaminò nello specchio. I suoi capelli bagnati erano un groviglio. Ma il suo corpo non recava traccia della cenere oleosa. Il pallore sembrava sparito, sostituito da una tinta rosea. La doccia calda non aveva portato solo colore alla sua pelle. Si sentiva come se la doccia l'avesse anche svegliata, avesse cacciato via l'intontimento dalla sua testa e avesse trasformato la sua stanchezza in una indolenza piuttosto gradevole. Infilò la camicia da notte sopra la testa. Essa le scivolò lungo il corpo come la carezza di un fresco soffio di vento. Il tessuto azzurro pallido scintillò alla luce della lampada. In fretta, si spazzolò i capelli. Prese in considerazione l'idea di asciugarli col fon, ma Jack aveva già aspettato troppo. Indossò l'accappatoio, e uscì rapidamente dalla stanza. Trovò Jack seduto sul divano. Le sorrise quando la vide. «Sei favolosa,» disse.
«Mi sento davvero meglio.» Sapeva che stava arrossendo. In parte, per il complimento. In parte, per il fatto che lui stava indossando il telo da spiaggia come una gonna e lei sospettava che non avesse nulla sotto. Un'idea mia, si rammentò. Ma la sua mente era abbastanza limpida, adesso, e si scoprì riluttante a unirsi a lui sul divano. «Mi dispiace di averci messo tanto,» disse, fermandosi davanti al tavolino da caffè. «Ho approfittato dell'occasione per ripulirmi un po'. Con il lavello della cucina.» Aveva ancora la chiazza scura di un'ammaccatura sulla fronte. Doveva essere coperta di fuliggine prima che lui si lavasse. Probabilmente, anche lui doveva aver avuto quella roba sulle mani, dal momento che aveva spinto Charlie via da lei sul fondo del fiume. «Che ne dici di bere?» chiese lei. «Cosa c'è?» Lei fece spallucce. «Perché non andiamo in cucina? Daremo un'occhiata in giro e vedremo cosa c'è di buono.» Lui si alzò, reggendo l'asciugamano. Quando fu in piedi, strinse la piega dell'asciugamano sull'anca. «Questo è un... abbigliamento piuttosto compromettente,» disse, con un'espressione imbarazzata sul volto. Vicki sorrise e si scoprì sollevata dall'imbarazzo di lui. «Perché compromettente?» «Per la mia modestia?» «Non saprei. Copre più di quanto facessero i pantaloncini.» «Non ho questa sensazione,» disse, e la seguì in cucina. I suoi pantaloncini blu erano stesi sul ripiano del lavello. «Vado a metterli nell'asciugabiancheria,» suggerì Vicki. «Aah, non preoccuparti.» «Vuoi mettere dei pantaloncini bagnati quando sarai pronto per andare a casa? Nessun fastidio, davvero.» Sfilò la cintura di cuoio bagnata dai passanti e raccolse i pantaloncini. Qualcosa tintinnò. «Faresti meglio a svuotare le tasche,» disse. Mentre tendeva i pantaloncini a Jack, i suoi slip caddero dal foro della gamba. Lui si abbassò di scatto e tentò una presa a volo mentre reggeva l'asciugamano in vita. Mancati. Allora li raccolse dal pavimento e li appallottolò. Ma non abbastanza rapidamente da impedire a Vicki di vedere che erano tipo bikini e di un rosso fiammante. Solo un po' più fiammanti della sua faccia.
Divertita, Vicki quasi disse, «Che sciccheria!» Ma ciò probabilmente lo avrebbe innervosito ancora di più. «Sono solo delle mutande,» disse. «Già,» borbottò lui, e prese i pantaloncini. Ne tirò fuori un portachiavi, controllò le altre tasche, è si guardò intorno come per cercare l'asciugabiancheria. «È là fuori,» spiegò Vicki. «Vengo con te.» Arrotolò i pantaloncini, infilandovi abilmente dentro gli slip in modo che Vicki non potesse gettare un'altra occhiata, e tenne l'involto contro il ventre. È spaventosamente imbarazzato su queste cose, pensò lei mentre apriva la porta posteriore e usciva. Il patio di cemento era freddo sotto i suoi piedi nudi. Sarei imbarazzata anch io se fossero cadute le mie a terra davanti a lui. Un forte senso di nausea pulsò improvvisamente in Vicki quando fu colpita dal ricordo di Charlie che le strappava le mutandine. Va tutto bene, si disse. È finita. Sentì l'erba, umida e soffice sotto i piedi, e i ciuffi che si infilavano fra le dita mentre attraversava il prato. Ce la siamo cavata. Siamo da Ace, adesso. Sono salva. Jack è salvo. Charlie è lontano. Lo immaginò sott'acqua, una forma storpia più nera delle tenebre del fiume, che ancora la cercava là sotto, che ancora stringeva quel brandello lacerato. Non pensare a lui, si disse. È finita. Finita, sicuro. E pensavi di aver avuto degli incubi, prima? Gli incubi li posso affrontare. È la merda della vita reale che riesce difficile accettare. Aprì la porta della lavanderia, sentì il calore intrappolato che si riversava su di lei, e accese la luce. Jack la seguì dentro. «Intima,» disse. «Calda come una battona,» disse Vicki, prendendo in prestito il gergo di Ace - e con esso un po' della sua audacia. Camminò accanto al separé della toilette di servizio, oltre le lavatrici e le vasche, e premette un bottone per aprire lo sportello dell'asciugabiancheria. Ancora prima di guardare dentro, ricordò che aveva dimenticato di tirare fuori la sua biancheria. Ridendo piano, si accovacciò per togliere le sue cose. «Ho visto le tue, adesso vedi le mie.»
«Bene. Mi sentirò molto meglio.» Nella cesta del bucato accanto a lei, Vicki gettò guanti di spugna, asciugamani, calzini, un abito sottoveste, shorts, camicette, il suo bikini, una gonna, mutandine, e reggiseni di ogni colore. Quando il cestello fu vuoto, Jack le tese i pantaloncini arrotolati. Lei li fece srotolare, scuotendoli, dentro l'asciugabiancheria, vide caderne fuori gli slip, poi chiuse lo sportello, si raddrizzò e avviò la macchina. Jack raccolse la cesta. «Oh, puoi lasciarla là.» «Nessun problema. Solo, vai tu avanti nel caso mi cada l'asciugamano.» In cucina, lei prese la cesta e la mise a terra vicino al tavolo della colazione. Poi aprì la credenza dove erano conservati i liquori. «Cosa prendi? La roba forte sta qui. C'è birra e vino nel frigorifero... bevande leggere. Io prendo uno scotch.» «Uno scotch va benissimo,» disse Jack. Mentre riempiva i bicchieri, gli domandò, «Ghiaccio?» «Forse un cubetto. Non voglio annacquarlo troppo.» Lei fece cadere un cubetto di ghiaccio in ogni drink, e porse un bicchiere a Jack. Andarono nel soggiorno. Vicki realizzò che non era più preoccupata per il fatto che lui stava indossando solo un asciugamano. Si sedette accanto a lui al centro del divano e si girò di lato, facendo scivolare un ginocchio sul cuscino. L'accappatoio ricadde dalla coscia. Lei abbassò lo sguardo. Il satin blu della camicia da notte era molto vistoso alla luce della lampada. Era abbastanza corta da mostrare un bel tratto di gamba. Pensò, dai fiducia al ragazzo, e non preoccuparti di aggiustare l'accappatoio. «Cin cin,» disse Jack. Vicki si sporse verso di lui e fece tintinnare il bicchiere contro il suo. Ritraendosi, bevve un sorso. Lo scotch scese giù, diffondendo calore, facendole lacrimare gli occhi. «Oh, che bontà.» «Fa proprio al caso nostro,» disse Jack. «Brucia proprio al caso nostro.» «Ugh, non parlare di bruciare.» Disse lei con tono quasi scherzoso, e desiderò di non averlo fatto. «Ti senti meglio, adesso?» «È da un po' che mi sento meglio.» Bevve un altro sorso. «E tu? Hai un brutto bernoccolo sulla fronte. Vuoi del ghiaccio, o qualcosa?» «No, va benissimo.» «Hai mal di testa?» «Questa è una domanda tendenziosa.» Sorrise. «E tu?»
«La mia testa è quasi la sola cosa a non farmi male. Probabilmente domani non ce la farò ad alzarmi.» «Odio dirtelo, ma è già domani.» «Voglio ubriacarmi.» Dovrò fare le visite di Charlie e le mie, realizzò. Forse Thelma può cancellarne qualcuno. Guardò l'orologio digitale sul VCR. Le quattro e diciassette. «Gesù.» «Farò meglio a finire di bere e ad andarmene, altrimenti non dormirai affatto.» «Vuoi andartene a casa in telo da spiaggia?» «I miei pantaloncini fra poco dovrebbero essere asciutti.» «Non c'è fretta,» disse Vicki. «Voglio dire, non voglio tenere sveglio te. Devi andare in tribunale o roba simile?» Lui scosse la testa. «Solo una deposizione alle due. Posso dormire fino a tardi.» «Beato te.» «Tu devi essere esausta, però.» «Non sono esattamente ansiosa di restare sola, adesso.» «Nemmeno io,» ammise Jack. Posò il bicchiere e tese la mano verso Vicki. Le sue dita stavano tremando. «Guarda. Non ho mai tremato così.» Vicki gli prese la mano e la strinse delicatamente. La abbassò e appoggiò il dorso della propria mano sulla coscia. Bevve un altro sorso mentre lui allungava l'altra mano e prendeva il bicchiere. Le si avvicinò. Lei avvertì la morbidezza dell'asciugamano contro il ginocchio. «Mi dispiace di averti trascinato in tutto questo,» disse lei. Mi avevano detto di starne fuori. Avrei dovuto ascoltarli.» «Non c'era niente di male nell'andarlo a cercare.» «Per un pelo non ho fatto in modo che ci uccidesse.» «Nessuno poteva prevedere che sarebbe diventato aggressivo.» «Sono accadute tante di quelle cose bizzarre ultimamente. Pollock, e adesso questo. E io continuo ad esserci coinvolta.» «Ti riferisci a quello che è stato ucciso dall'infermiera? Come mai vi sei coinvolta?» «Ace e io eravamo al Riverfront sabato sera. Pollock venne al nostro tavolo ad infastidirci. Quel tipo con cui eravamo, Melvin, minacciò di ucciderlo. Quella stessa sera, più tardi, Pollock fu ucciso. Abbiamo pensato che Melvin potesse avere qualcosa a che fare con l'accaduto, così il giorno dopo ne abbiamo parlato con un poliziotto. Credo che abbia pensato che dovessimo occuparci dei fatti nostri, e che abbia parlato di noi al Comandan-
te Raines, ed è per questo che ho ricevuto quella orribile accoglienza sul ponte, stanotte.» Bevve un sorso del suo scotch, e sospirò. «Credo che non apprezzino le interferenze dei civili.» «A Raines piace fare le cose a modo suo,» disse Jack. «Anch'io ho avuto dei battibecchi con lui. Per conto dei miei clienti,» aggiunse. «Per mia esperienza, è testardo, di vedute ristrette e stupido.» «Ma per il resto è un'ottima persona,» disse Vicki. «Da quello che ho sentito, Dexter Pollock non era molto meglio.» «In aggiunta a quanto detto prima, era un tiranno e un depravato.» «Per il resto, ottima persona?» «La cosa più o meno migliore che si possa dire di Pollock è che è morto.» Vicki. fece una smorfia. «Non avrei dovuto dirlo. Voglio dire, mi dispiace che sia morto.» «Ma non molto.» «Quasi.» Cambiò posizione, facendo cadere giù la gamba piegata, voltandosi, appoggiando il piede sul tavolino da caffè e sistemandosi sul cuscino dietro di lei. Jack si avvicinò. Sollevò il braccio. Lei si chinò per permettergli di abbassarlo sulle sue spalle. Lui non le toccò la spalla destra ferita. Invece, la sua mano scivolò dietro di essa e si avvolse intorno alla parte superiore del braccio. «Al Riverfront,» proseguì lei. «Pollock cominciò ad annusarmi. Disse che dovevo avere un odore che attirava i matti. Gli rovesciai la mia birra sul grembo.» Jack scosse la testa. «Sei un osso duro.» «Avresti dovuto sentire come mi ha chiamata lui.» Jack le accarezzò il braccio. «È questo l'incidente che portò alla minaccia?» «Oh, lui per rappresaglia mi gettò la birra addosso. Proprio in faccia.» «È un bene che sia già morto, quel bastardo.» «Mi piaci sempre di più,» disse Vicki. Gli diede una pacca sulla gamba. Lasciando la mano appoggiata sull'asciugamano, bevve un altro sorso. Le sue guance, realizzò, stavano cominciando a sembrarle un po' torpide. «Ma chi è questo Melvin? È una conoscenza casuale, o è qualcuno di cui devo preoccuparmi?» «Non preoccuparti di lui. È affar mio.» «Cosa significa?» «Apparentemente è cotto di me, ed è matto da legare.» Sfiorò con le dita il tessuto dell'asciugamano. «È questo che intendeva Pollock quando ha
detto che attiro i tipi bizzarri. Melvin è bizzarro davvero. Mi ha regalato un'automobile.» «Non mi sembra una cosa così bizzarra.» «Non sarebbe bizzarra se fossimo fidanzati o qualcosa di simile. Non siamo mai neppure usciti assieme.» «Lieto di sentirlo.» «Semplicemente, gli piace fare delle cose per me. Forse anche cose come uccidere Pollock per ripagarlo di quello che aveva fatto al bar. Non mi sorprenderebbe. Non ha le rotelle che non gli funzionano, lui non ha le rotelle.» «Non può essere così matto se è cotto di te.» «Ah no?» chiese Vicki, guardando Jack. Lui si sporse, girandosi, appoggiando il bicchiere sul tavolo mentre il suo braccio tirava Vicki dal cuscino. Quando lei gli fu di fronte, i loro sguardi si avvinsero. Vicki sentì che lui le toglieva il bicchiere. Jack si scostò da lei, appoggiandolo a terra. Poi entrambe le mani di lui erano sulla schiena di Vicki, attirandola. Lei gli strinse i fianchi, strofinò le labbra contro le sue, sentì la morbida pressione della sua bocca. Chiuse gli occhi e si baciarono. La sua mente parve roteare lentamente - lo scotch e la profonda stanchezza - e si sentì sprofondare nel luogo buio e pacifico dove c'era solo il conforto della consapevolezza che Jack era con lei, la stava baciando, e tutto andava bene. Era sulla piattaforma dei tuffi con Jack, in piedi nel buio, abbracciata a lui, con la piattaforma che oscillava dolcemente sotto i suoi piedi mentre si baciavano. Lui le sollevò la camicia da notte. Lei fece un passo indietro e sollevò le braccia. Mentre lui le sfilava l'indumento da sopra la testa, lei chiuse gli occhi. Stava là, tremante, la calda brezza che le scivolava sulla pelle, e aspettava il suo tocco. Le baciò i seni. La bocca sul capezzolo era coriacea e oleosa. NO! Afferrò la testa carbonizzata e la spinse via da lei e barcollò all'indietro mentre Charlie, nero e privo di occhi e con un telo da spiaggia intorno alla vita le si avvicinava vacillando, allungando le mani. Lei barcollò sul bordo della piattaforma. Mulinò le braccia. Poi cadde all'indietro. Si ritrasse mentre cadeva, e si svegliò di soprassalto. Era sul letto. La luce del giorno riempiva la stanza. Boccheggiando in cerca d'aria, si alzò a sedere. Il suo cuore stava galoppando. Il sudore le ruscellava sulla faccia. Sotto l'accappatoio, la camicia da notte si era incolla-
ta alla pelle. Aprì l'accappatoio e scivolò giù dal letto. Il movimento risvegliò un bel po' di dolore nella spalla, e fitte minori nei muscoli irrigiditi in tutto il corpo. In piedi, si tolse l'accappatoio. Si sfilò la camicia da notte umida dalla testa. Con mano tremante, sollevò un angolo del lenzuolo e lo usò per asciugarsi il viso. L'orologio sul comodino segnava le 7:58. Perlomeno non ho dormito troppo, pensò. Fra un'ora avrebbe dovuto essere in clinica. Charlie. Una sensazione di gelo le percorse il corpo mentre il ricordo dell'aggressione della notte precedente s'imponeva nella sua mente. Si strofinò la pelle d'oca sulle braccia, e trasalì quando la sveglia squillò. Si avvicinò barcollando al comodino e interruppe la sveglia. Non ricordava di aver impostato la suoneria. Forse lo aveva fatto Jack. L'ultima cosa che riusciva a ricordare era che lo stava baciando. Si era addormentata mentre si baciavano? Cosa aveva fatto lui, allora, l'aveva portata in camera da letto e aveva messo la sveglia affinché non si svegliasse tardi per andare al lavoro? Udì lo squillo distante del telefono. Squillò solo due volte. Si avvicinò al cassettone. Mentre s'infilava sopra la testa un maglione da football, udì dei passi nel corridoio. Un bussare alla porta, poi la porta si aprì. Ace si affacciò, sogghignando. «Te lo avevo detto che avrebbe chiamato,» disse. «Scommetto che è restato sveglio tutta la notte, a prendersi a calci.» «Hai quasi ragione,» disse Vicki. Passò accanto ad Ace, e andò frettolosamente a rispondere al telefono. CAPITOLO VENTICINQUESIMO «Il Dr. Chandler è con un paziente in questo momento,» disse Thelma. Sebbene apparisse calma, i suoi occhi erano rossi come se avesse pianto da poco. «Ha molto da fare, stamattina, Melvin. Posso fissare un appuntamento per te?» Abbassò lo sguardo su qualcosa che stava sullo scrittoio. «C'è un buco mercoledì prossimo alle... » «Voglio solo parlarle per un minuto,» disse Melvin. «Di questa,» sollevò la mano bendata. «Come ti ho spiegato, ha molto da fare. Il Dr. Gaines... lo abbiamo perso la scorsa notte.»
«Perso?» «C'è stato un terribile incidente su River Road. È ancora introvabile e... non ci restano molte speranze.» «Mi dispiace. Cavoli.» «Per cui spero che tu possa considerare il fatto che questo è un momento molto difficile. Sono stata al telefono per tutta la mattina, a risistemare gli appuntamenti per alleggerire il carico del Dr. Chandler. Se sarai paziente e ci concederai qualche giorno per mettere tutto a posto... » Melvin si voltò, esaminando la sala d'attesa deserta. «Non vedo nessuno,» disse. «Te l'ho appena spiegato,» disse Thelma, con una punta di nervosismo nella voce. «Sto annullando gli appuntamenti di oggi. Quanti più è possibile. Se non ti dispiace, vieni la prossima settimana... » «Mi siedo e aspetto. Forse può trovare un minuto per me.» Thelma strinse le labbra e lo guardò in cagnesco. Ma non disse nulla. Melvin si voltò. Raggiunse una poltroncina, si sedette, e si sistemò comodo. Il cuscino premeva contro i solchi che Charlie aveva scavato nella sua schiena. Facevano un po' male, ma non molto. Paragonati a tutti i morsi che aveva ricevuto nella scorsa settimana, i graffi sembravano nulla di più di una lieve seccatura. Ma prudevano attraverso le bende che Patricia aveva applicato. L'aveva trovata addormentata quando era tornato dopo aver sistemato Charlie. L'aveva svegliata. Lei aveva strillato, allarmata, e gli aveva gettato le braccia intorno. «Cos'è accaduto?» aveva sbottato. «Cosa ti ha fatto?» «Molto meno di quello che ho fatto io a lui,» disse Melvin. Le raccontò tutto mentre andavano nel bagno e lei gli toglieva i vestiti umidi e sudici. Il dorso della camicia era strappato. Stando alle sue spalle, Patricia fece scorrere leggermente le punte delle dita lungo i graffi, facendolo contorcere. Nello specchio, lui vide che la sua faccia - specialmente intorno alla bocca - e il collo erano cosparsi di quella specie di sporcizia nera che aveva annerito la camicia e i pantaloni. Riempì la vasca di acqua calda. Vi entrò, e Patricia entrò assieme a lui. Inginocchiandosi alle sue spalle, lei gli insaponò la schiena e la strofinò delicatamente con un guanto di spugna. Poi, strofinò con più forza. «Ehi! Smettila!» «Non vuole venir via bene,» disse lei. Melvin le disse di prendere il Goop sotto il lavandino. Era una lozione che usava spesso al ritorno dal lavoro alla stazione di servizio per pulirsi le mani dal grasso delle automobili.
Lei uscì dalla vasca e tornò col vasetto. Gli spalmò la lozione viscosa sulla schiena. Quando la risciacquò, disse, «È magica! Lascia che te la spalmi davanti.» Melvin si spostò in fondo alla vasca per farle spazio. Lei vi entrò e s'inginocchiò accanto alle sue gambe. Tenendo il vasetto in una mano, staccò le bende bagnate dalle spalle e dal petto e le gettò sul pavimento del bagno. «Sei pieno di ferite,» disse, con uno sguardo addolorato negli occhi mentre fissava le lesioni. «Grazie principalmente a te,» disse Melvin. Lei si mordicchiò il labbro inferiore. «Mi dispiace. Io cerco di essere buona. Ti amo, Melvin. Non voglio farti male.» «Lo so,» disse lui. Qualcosa parve irrigidirsi nel petto e nella gola. Guardò le linee dei graffi che restavano sui seni di Patricia e sul ventre dopo le bizze della notte prima quando aveva sentito la sua mancanza. La maggior parte di esse erano sbiadite, riducendosi a linee rosate. Altre erano scure per le sottili crosticine. Vide che la Faccia di Ram-Chotep sembrava essere guarita bene tranne che per un angolo della Bocca, che lei aveva aperto durante l'accesso di collera. Il morso sull'avambraccio era coperto da una benda umida. «Nemmeno tu dovresti farti del male,» disse Melvin. «Lo so. Mi dispiace.» Raccolse con le dita un po' di Goop bianco e lo spalmò sul viso di Melvin. Mentre la fissava negli occhi, lui si interrogò sulla tenerezza che aveva provato per lei ultimamente. È morta, pensò. Non è altro che un dannato zombi. Ma è il mio zombi. Mi ama. Nessuno lo aveva mai amato. Forse i suoi genitori, ma non ne era certo, dato il modo in cui lo trattavano. Certamente nessuna ragazza lo aveva mai guardato senza un moto di disprezzo. Tranne Vicki, e adesso Patricia. Vicki era la sola persona viva che fosse mai stata gentile con lui. Ma era abbastanza chiaro che non lo amava. Mi amerà, si disse, e chiuse gli occhi. Devo solo avere pazienza e continuare a comportarmi bene con lei. I suoi piani stavano già cominciando a dare frutti. Sebbene Vicki lo avesse spinto a riprendersi la macchina, il dono doveva esserle piaciuto: gli aveva chiesto di andare a bere qualcosa con lei al Riverfront. Ancora un po', e avrebbero cenato assieme, forse sarebbero andati al cinema. Si sa-
rebbero dati il bacio della buona notte. Poi, lei avrebbe cominciato a chiedergli di entrare in casa e si sarebbero abbracciati e avrebbero fatto l'amore. Sentì che Patricia gli bagnava il viso con l'acqua calda, poi gli spalmava la lozione viscida sulle spalle e il petto. Immaginò che le sue mani fossero quelle di Vicki. Fra qualche giorno, lo sarebbero state. Aprì gli occhi solo un po', allungò le mani verso i seni, e li accarezzò. Sarebbero stati i seni di Vicki, freddi e morbidi e lisci, coi capezzoli rigidi che premevano contro i palmi. Sentì un impeto crescente di desiderio. Se solo lei fosse stata Vicki. Qui e ora. L'aveva convinta, finalmente, e lei viveva con lui, divideva la vasca con lui, faceva scivolare le mani sul suo petto, e giù, avvolgendo le dita intomo al suo pene eretto. «Ti sono mancata, eh?» La voce di Patricia. Aprì gli occhi. Le aveva lasciato delle impronte scure sui seni. «Sicuro.» «Mi ami?» chiese lei. «Sicuro.» «Sono felice che tu ti sia liberato di Charlie. Lo odiavo.» «Lo so.» «Non lo farai più, eh?» «Non lo so.» «Non abbiamo bisogno di nessuno.» «Voglio solo te.» «Ti amo tanto Melvin.» Non sopporterà mai di avere Vicki fra i piedi, pensò lui. Era pazzamente gelosa di Charlie, e Charlie non era una donna. Diventerà una belva quando verrà Vicki. Dovrò liberarmi di lei prima. Devo tagliarle la testa? Forse funzionerà. Sentì un vuoto doloroso dentro, che rubò il piacere al suo inguine. Posso farle questo? Si domandò. Dovrò farlo. È già morta, comunque, quindi cosa importa? Importa, realizzò. Lei mi ama ed è buona con me e mi piace più di quanto mi sia mai piaciuta qualunque altra eccetto Vicki. Ma dovrò liberarmi di lei. Melvin udì un rumore di passi. Poi una voce. La voce di Vicki. Anche se parlava troppo piano perché lui comprendesse le parole, poteva vederla attraverso gli sportelli scorrevoli del finestrino della ricezione. Stava accanto
a un banco là dietro, e parlava con Thelma. Accanto a Vicki c'era una donna obesa con i capelli simili a un elmetto grigio. Vicki era meravigliosa. I suoi capeli biondi erano dorati, la pelle di un colore bronzeo, gli occhi limpidi e azzurri. Il suo camice di medico era aperto, e mostrava il davanti di una camicetta di seta azzurra aperta in gola. Il battito di Melvin accelerò. Lei gli lanciò un'occhiata, poi fronteggiò di nuovo Thelma, disse alcune parole, e si allontanò. La donna grassa restò vicino al banco per un po'. Poi, aprì la porta, attraversò la sala d'attesa senza rivolgere una sola occhiata a Melvin, e uscì. Thelma si alzò dallo scrittoio. Girò intorno all'estremità del banco. Si voltò verso la porta. Benissimo! La aprì. «Il Dr. Chandler ti visiterà adesso.» Tenne aperta la porta per Melvin, poi lo guidò lungo il corridoio fino alla stessa stanza dove Vicki gli aveva medicato la mano una settimana prima. «Sarà qui fra un minuto,» disse Thelma, e lo lasciò solo. Melvin sedette sul tettuccio coperto di carta. Trasse un respiro profondo e tremante e lo lasciò uscire lentamente. Il suo cuore stava battendo rapido. Sentì rivoli di sudore che gli colavano sui fianchi. Poi, udì dei passi. Non un battere di tacchi come quelli che portava Thelma: il sussurro e il cigolio di suole di gomma. Vicki entrò nella stanza. Il suo camice bianco era completamente abbottonato, e aveva anche chiuso in gola la camicetta. Si è rimessa in ordine per me, pensò Melvin. Cambierà. Uno di questi giorni, sarà bramosa come Patricia. Non sarò capace di farle tenere i vestiti addosso. La immaginò nuda. Ma aveva la Faccia di Ram-Chotep incisa sul tronco. No, non sarà così. Non dovrò fare questo a Vicki. Sarà viva, eppure mi vorrà. «Buon giorno, Melvin,» disse lei. Anche se non sorrise, non sembrava che avesse pianto «Hai ancora dei fastidi alla mano?» «Fa ancora male.» «Ci diamo un'occhiata?» «Penso di sì,» disse. La notte prima, Patricia aveva applicato una benda nuova dopo il bagno. La mano aveva un buon aspetto. Ma la mano era la sua scusa per essere là, e lui voleva che Vicki gli si avvicinasse e la sco-
prisse. Le tese la mano. Lei si avvicinò, fermandosi quando le sue cosce furono abbastanza vicine da sfiorargli le ginocchia. Con una mano, gli tenne ferma la sua. Con l'altra, cominciò a staccare il cerotto. Odorava di fresco e di pulito, un po' come i limoni. «Ho sentito quello che è accaduto al Dr. Gaines,» disse. Lei s'irrigidì leggermente, e la stretta della sua mano si rafforzò. «Thelma dice che non hanno trovato il corpo.» «No. Non l'hanno trovato.» «Mi dispiace davvero per te. Credo che lui fosse un buon amico.» Vicki annuì. Sembrava distante, chiusa. «Così, stai mandando avanti tu la clinica, adesso?» «Per il momento,» rispose lei. «Ti costerà un bel po' di fatica. Forse faresti meglio ad assumere qualcuno per farti dare una mano.» «Immagino che dovrò farlo.» Staccò il resto del cerotto e tolse la garza. Gli rovesciò la mano, esaminando le ferite su entrambi i lati. «Mi sembra che vada molto meglio,» disse. «Già. Fa male, però.» «C'era da aspettarselo,» disse lei, senza guardarlo. «Metterò una benda nuova e potrai andare.» «Ti comporti come se volessi liberarti di me.» «Sono molto indaffarata.» Raggiunse l'armadietto. Aprì il basso cassetto di metallo. Ne tirò fuori un rotolo di garza e un dispenser di cerotti. In cima all'armadietto trovò delle forbici. Tornò da lui e cominciò a bendargli la mano. Lavorò in fretta... e non molto delicatamente. «Qualcosa che non va?» chiese Melvin. «Va tutto a meraviglia.» «Sei arrabbiata con me, o cosa?» «Arrabbiata? Non esattamente.» «Cosa ho fatto?» Premette sull'ultima striscia di cerotto, e fece un passo indietro. Abbassò lo sguardo sulle forbici che aveva in mano, poi le gettò via. Caddero con un tintinnio in cima all'armadietto. Lei fissò Melvin con gli occhi socchiusi. «Cos'hai fatto, Melvin?» Lui si sentì avvampare. «Di cosa stai parlando?» «Lo hai ucciso, non è così?»
Melvin si costrinse a ridere. «Ehi, si dice che sono pazzo, ma non vado in giro a uccidere la gente. Mi occupo di resurrezioni io, non di omicidi. Mi occupavo. Quando cercai di resuscitare Darlene con l'elettricità. Resurrezione, non omicidio.» Scosse la testa. «È pazzesco. Dove sei andata a prendere una simile idea?» Vicki non gli rispose. Lo guardò fisso negli occhi. «È andato a sbattere con quella cazzo di macchina! Non c'entro niente, io!» «Non Charlie. Dexter Pollock.» «Cosa?» «Mi hai sentita.» Melvin espulse un'altra risata. «Accidenti, hai una bella immaginazione.» «Davvero?» «Un'infermiera ha spacciato Pollock. Lo sanno tutti. Gli sbirri sanno anche chi è. Patricia qualcosa. Un'infermiera. Cristo. Io uccidere Pollock? È pazzesco!» «Davvero?» «Andiamo! Mi stai prendendo in giro, giusto?» Un angolo della bocca di Vicki si contrasse. «Dicono che io sono pazzo.» «A me puoi dirlo, Melvin.» «Sei pazza?» «Forse. Forse sono pazza a pensare che volessi dire questo, sabato sera, quando hai detto che ti sarebbe piaciuto ucciderlo. Forse sono pazza a pensare che lo odiavi per quello che aveva detto... che aveva fatto a me. Forse sono pazza a pensare che tu a me ci tenessi abbastanza da fargliela pagare.» «Gesù,» mormorò Melvin. «Forse sono pazza a volerti ringraziare.» «Ringraziarmi?» Le parole uscirono da lui in un sussurro rauco. Non è possibile che stia succedendo questo, si disse Melvin. È un trucco, oppure sto sognando, o... «Suppongo che sono pazza,» disse Vicki. «Volevo ucciderlo,» le disse Melvin. «Volevo farlo a pezzi. Io tengo molto a te. Io... Ma non l'ho ucciso. Avrei dovuto, forse, ma non l'ho fatto.» «Allora, vattene,» gli disse con voce tesa e dura. «E sta' lontano da me.»
«Ma... » «O non ti fidi abbastanza di me da ammetterlo, oppure eri troppo coniglio per uccidere quel bastardo per me. Vattene!» Stordito, Melvin saltò giù dal lettuccio. Vicki si scostò. Quando lui fu nel corridoio, la porta sbatté alle sue spalle. «Credo di essere pazza,» disse Vicki. Abbassò lo sguardo sul suo pranzo, e scosse la testa. «Certificabile,» convenne Ace. «Santo Dio barbuto, cosa stai pensando?» «Non lo so. Mi era parsa una buona idea al momento.» Sollevò la parte superiore della focaccia di sesamo dal suo hamburger. La polpetta bruciacchiata le fece tornare in mente Charlie. Arricciando il naso, la coprì e spinse via il piatto. «Faresti meglio a mangiare,» le disse Ace. «Una impegnata come te deve essere sempre in forze.» «Mi è passato l'appetito.» «Come cavolo ti è venuto in mente di spiattellarglielo sulla faccia in quel modo?» Vicki si strinse nelle spalle. «Mi sentivo così stanca... Ho pensato: perché non metterlo di fronte alla situazione?» «Se ha ucciso Pollock,» disse Ace, «non è stata una mossa intelligente. Anche se ti ritiene una persona adorabile, se pensa che sai troppo, potrebbe decidere di... » «Eliminarmi a causa di una simile pregiudiziale?» «Leggi troppi dannati libri, dolcezza. Se ciò significa farti fuori, sì. Potrebbe tentare qualcosa del genere per salvare se stesso.» Diede un morso nel panino al chili. «Potrebbe davvero,» aggiunse, e le parole uscirono smorzate. «Lo so. Mi è venuto in mente.» «Allora perché... ?» «Quando ci ho pensato, lo avevo già accusato. Dal momento che era troppo tardi, poi, ho cambiato tattica e ho agito come se avessi considerato un favore il fatto che lui avesse ucciso Pollock. Così non avrebbe pensato a me come a una minaccia. E inoltre, pensavo di poter costringerlo ad ammettere. Non so se mi ha creduto o no.» Ace inghiottì il boccone di cibo. Si pulì il chili dalle labbra con un tovagliolo. «Neppure questa è stata una mossa tanto brillante, dolcezza.»
«Probabilmente no.» «Nessuna probabilità positiva. In pratica gli hai detto che ti ha delusa non uccidendo l'uomo che ti ha insultata.» «Ma lo ha fatto, Ace. Io so che lo ha fatto. Quando ho detto che volevo ringraziarlo per questo, aveva quella bizzarra espressione sulla faccia.» «Ha sempre una bizzarra espressione sulla faccia.» «Ha detto, "Ringraziarmi?" E ho avuto la sensazione che rimpiangesse di aver negato e fosse prossimo a confessare. Voleva la mia approvazione. La desiderava ardentemente. Ma non era del tutto convinto che realmente intendessi quello che avevo detto, così si è tirato indietro.» «La mia amica Nancy Drew. Cosa c'è adesso nell'agenda?» «Non era pianificato, Ace. È semplicemente accaduto.» «Stagli alle costole, forse crollerà e lo ammetterà. Forse basta solo un'altra spintarella. Portalo a cena stasera, coccolalo un po', dimostragli che fai sul serio...» Il suggerimento fece fremere qualcosa dentro Vicki. E se ci provassi? si domandò. Non posso! Cristo, un appuntamento con Melvin? Ma se riuscissi a farlo confessare? E poi? Lo direi a Raines? Quell'idiota non mi ascolterebbe comunque. Ascolterebbe Jack, però. Altrimenti potremmo andare dal Procuratore Distrettuale. Ace, masticando e fissandola, improvvisamente parve allarmata. «Ehi, stavo scherzando!» «Non preoccuparti, non ne avrei il fegato.» «Non pensarci neppure. Cristo! Perché ho aperto la mia boccaccia?» «Ma supponi soltanto che io lo spinga ad ammetterlo. Dovrebbero investigare. Potrebbero trovare delle prove... » «Che ti frega? Pollock era un rompiballe!» «Questo non scusa il suo assassino. Non meritava tanto.» «Basta, vuoi? Me la stai facendo fare addosso! Se ha ucciso Pollock, lascia che siano gli onnipotenti piedipiatti a inchiodarlo. È compito loro, come hanno sottolineato in termini inequivocabili. Non è affar nostro.» «È affar mio, Ace. Lo ha fatto per me... per quello che accadde al bar.» «Cazzate. Lo ha fatto perché è picchiato. Se lo ha fatto. Forse lo ha fatto, forse no. Ma non puoi ritenerti responsabile. Dimenticatene. Mio Dio, perché ne stiamo discutendo? È matto. Dimentica Melvin. Dimentica che esiste. Devi concentrarti sull'obiettivo numero uno.» «Da questo punto di vista,» disse Vicki, «la cosa ha ancora più senso.
Lui non mi lascerà mai in pace. Mai. Continuerà a... tormentarmi. Ma se lo condanneranno, starà via per anni. Potrebbe non tornare mai più.» Ace, con un'espressione sul viso come se fosse in pena, mormorò, «Stai pensando seriamente di farlo, non è così?» «Non lo so.» «Hai un appuntamento con Jack, ricordi? C'ero qui io. Alle sette, a casa sua. Ricordi?» «Ci vorranno solo un paio d'ore per... » «Beh, non lo farai senza di me. Non tenterà niente se ci sarò anch'io.» «Non confesserà neppure.» Di ritorno alla clinica, Vicki trovò due pazienti nella sala d'attesa. «Comincerò le visite fra pochi minuti,» disse a Thelma. Prese in prestito l'elenco telefonico, e raggiunse in fretta il suo ufficio. Il telefono di Melvin squillò tre volte prima che lui rispondesse. «Chi è?» Lei strinse gli occhi. «Chi diavolo è?» Lei si premette una mano sul petto che le martellava e disse, «Vicki.» «Vicki? Ciao!» «Melvin, ho chiamato per scusarmi. Io... » Risucchiò un respiro tremante nei polmoni. «Mi dispiace per come mi sono comportata stamattina. Ero stanca e sconvolta, ma non avrei dovuto... » «Nessun problema. Davvero.» «Beh, mi sentirei meglio se tu mi permettessi di chiarire. Ti va di venire a cena con me stasera? Pago io. Stavo pensando al Fireside Chalet.» «Sì? Io e te soli?» «Io e te soli.» «Grande. Uh... a che ora vuoi che ti venga a prendere?» Lei aveva già pensato a questo, e aveva una storia pronta. «Devo correre al Blayton Memorial questo pomeriggio, così...» «Vuoi un passaggio?» «No, non è necessario. Ho la macchina di Ace. Per me sarebbe meglio se ci vedessimo direttamente al ristorante.» «Già, certo.» «Così, potrò fermarmi là quando tornerò dall'ospedale.» «Già, mi pare giusto.» «Perché non ci incontriamo al ristorante alle sei, allora? Va bene per te
alle sei?» «Sicuro. Grande. Sarò elegantissimo per te.» «Anch'io. Ci vediamo, allora, Melvin.» «Sì. Ci vediamo, allora.» Riappese. Il suo cuore stava galoppando. Inclinando la sedia all'indietro, incrociò le mani dietro la testa e trasse dei lenti e profondi respiri. L'ho fatto, pensò. L'ho fatto davvero. Devo andarci, adesso. Ci dovrei proprio andare. In un manicomio. Ma se funziona, mi libererò di lui. Forse per sempre. Quando le tornò la calma, cercò il nome di Jack nell'elenco. Trovò due numeri: quello del suo appartamento e quello dello studio. Compose il numero dello studio. Dopo il secondo squillo, una donna rispose al telefono. «Buon pomeriggio, Studio Legale Jack Randolph.» «C'è Mr. Randolph?» «Chi devo dire?» «Vicki Chandler.» Alcuni secondi dopo, Jack disse, «Ciao. Come va?» Il suono della sua voce la fece sentire improvvisamente molto meglio. «Non male come pensavo. Thelma ha cancellato la maggior parte degli appuntamenti, per cui posso sbrigare tutto con facilità. Il fatto è che farò un po' tardi stasera. Dovrei essere in grado di farcela per le nove, se tutto va bene.» «Credo che riuscirò a sopravvivere,» disse lui. «Mangeremo tardi, com'è di moda.» «Dovrò mangiare prima di venire. Ho un appuntamento per una cena.» «Oh. Okay.» «Non è niente. Solo... devo andarci. Ti spiegherò quando ci vedremo.» «Non mi devi spiegare niente, Vicki.» «Non preoccuparti, lo voglio io. Dovrebbe essere interessante. Se sopravviverò.» «Adesso sono preoccupato.» «È solo che non sarà molto divertente, questo è tutto. Non sono esattamente ansiosa di andarci. Ma saremo in un luogo pubblico, e andrò con la macchina, così non accadrà nulla.» «Cosa stai combinando?» «Tu dirò tutto quando ci vedremo.» «Vicki.»
«Davvero non posso dirtelo ora. È una lunga storia, e ho un paio di pazienti in attesa. Ci vediamo alle nove, okay? Prima possibile.» «Beh... Ottimo. Ci vediamo.» «Ciao, Jack.» CAPITOLO VENTISEIESIMO Il cuore di Melvin accelerò quando scorse la Mustang rossa nell'area di parcheggio lungo il Fireside Chalet. Vicki era arrivata. Per tutto il pomeriggio, si era interrogato sull'invito. Era vero? Forse era solo uno brutto scherzo. A scuola, lui era stato il bersaglio preferito. Darlene Morgan stessa gli aveva chiesto di farle da cavaliere al ballo studentesco. Ma era accaduto dopo che il film Carrie era stato proiettato per due settimane al Palace Theatre, per cui Melvin non ci era cascato. Per telefono, proprio di fronte a sua madre, aveva detto a Darlene di mangiarsi la merda. E si era sempre domandato, in seguito, se la troia sarebbe davvero venuta all'appuntamento. Ma Vicki era là. Lei voleva davvero andare a cena con lui. Sembrava incredibile. Lo sapevo che sarebbe accaduto, si disse mentre svoltava nel parcheggio. Ma non così presto. Forse mai, in realtà. Comprese che era come i suoi esperimenti. Sapeva che sarebbero riusciti, ma dentro di sé si era aspettato il fallimento. Il che aveva reso il successo più dolce. Sa che ho fatto fuori Pollock per lei. Perciò sta facendo questo. È il suo modo di ringraziarmi. A meno che non vuole farmi vuotare il sacco. In entrambi i casi, farò meglio a non dirle la verità. Si infilò nello spazio fra due macchine lontano dalla Mustang di Ace, e scese. Stava sudando, anche nella sua macchina con aria condizionata. Ora, il caldo parve cuocerlo. La faccia colava sudore. Rivoli gli scivolavano sulla nuca e impregnavano il colletto stretto. Sotto la giacca sportiva, la camicia si era attaccata alla schiena e ai fianchi. La biancheria intima gli si era incollata al sedere. Voleva avere un bell'aspetto per lei, non apparire come un porco sudato.
Quando aprì la porta del ristorante, l'aria fresca lo investì. Entrò nell'atrio fiocamente illuminato. Davanti a lui, una ragazza con un abito all'antica stava dietro qualcosa che sembrava il leggio di un oratore. Era impegnata a parlare al telefono. Guardandosi intorno, Melvin notò un cartello con scritto "Toilette" sopra la porta di una rientranza. Si affrettò da quella parte, e attraversò la porta con l'indicazione "Uomini". Invece degli asciugamani, c'erano dei diffusori di aria calda. Odiava quegli aggeggi. Entrando in una cabina, utilizzò la carta igienica per asciugarsi. Poi, raggiunse un lavandino e si esaminò nello specchio. Pensò che stava benissimo tranne per la cravatta che si era storta. Fino a quel momento, non era stato in grado di vedere come stava in giacca e cravatta. Per evitare di turbare Patricia - sarebbe andata su tutte le furie se avesse saputo che doveva andare a cena con Vicki - le aveva detto che quella notte avrebbe dovuto lavorare alla stazione di servizio. Aveva già portato i suoi vestiti buoni nella macchina, mentre lei stava guardando la televisione. Quando le aveva dato il bacio della buona notte ed era uscito di casa, indossava la sua tuta sporca di grasso. Solo nel garage, si era spogliato e vestito per la cena. Melvin raddrizzò la cravatta. Si passò il pettine nei capelli impomatati, si strizzò l'occhio, e uscì dalla toilette. Raggiunse la ragazza dietro al leggio illuminato. Era una brunetta magra, di pochi anni più giovane di Melvin, e graziosa malgrado l'espressione che aveva sul viso. Lo guardò come si potrebbe guardare un pelo pubico che galleggia sulla minestra. «Sono atteso a cena dal Dr. Vicki Chandler,» disse. «È già qui?» «Da questa parte.» La seguì. La ragazza camminava rapida come se cercasse di tenersi lontana da lui. Troia. Si domandò se sarebbe stata contenta di avere il cellophane avvolto intorno alla faccia. Poi, vide Vicki. Era seduta su una panca dallo schienale alto, vicino alla parete. Gli sorrise, arrossendo. Lui si sedette all'altro lato del tavolo, di fronte a lei. A Melvin, lei era sempre parsa bellissima. Quella sera, comunque, era più sbalorditiva che mai. I suoi capelli dorati sembravano fluttuare intomo al suo volto. I suoi occhi erano azzurri come il cielo in un mattino estivo senza nubi. Portava una catenina intorno al collo. La camicetta azzurro pal-
lido, luccicante come seta, era molto aperta in gola, e fino a un bottone appena al disotto dei seni. Fra le pieghe, poté vedere il declivio ombreggiato del seno sinistro. «Sei molto carino stasera, Melvin,» disse. «Anche tu. Sei grande. Cavoli.» «Grazie.» Sollevò un bicchiere mezzo vuoto e bevve. Quando lo depose, alcuni granelli di sale punteggiavano il labbro inferiore. Curvò il labbro sopra i denti e leccò il sale. «Vuoi prendere qualcosa al bar?» chiese. «Io sto bevendo un margarita.» «Sì, sarebbe grande.» «Sono arrivata poco fa,» disse lei. «Immaginavi che avresti fatto meglio a bere qualcosa prima che mi facessi vivo io?» «Non essere sciocco.» Un cameriere raggiunse il tavolo. Melvin fu lieto che non fosse la troia, ma non guardò la faccia dell'uomo. Invece, osservò Vicki sorridergli e dire, «Prendiamo due margarita.» Quando il cameriere fu andato via, lui disse, «Scommetto che si è meravigliato di trovarti qui con uno come me.» «Non dovresti buttarti sempre giù, Melvin.» «La bella e la bestia.» «Non sarei qui se pensassi che sei una bestia.» «Perché sei qui?» La sua testa s'inclinò leggermente da una parte. «Perché voglio esserci. Penso... di non essere stata molto gentile con te.» «Sei stata okay. Sei stata ottima.» Una spalla si strinse per una frazione di secondo. La sua camicetta, notò Melvin, non aderiva strettamente ad essa. Come se lei portasse una imbottitura di qualche genere fra il tessuto lucente e la pelle. Qualche indumento femminile, suppose. Ma l'altra spalla sembrava non averla. «Per essere onesti,» disse lei, «ero davvero un po' spaventata da te all'inizio. La notte che sono venuta in città, per esempio. Voglio dire, l'ultima volta che ti ho visto fu alla Fiera Scientifica e mi spaventai moltissimo.» «Tutti si spaventarono,» disse lui. «Ma non ho più paura di te. Ora che ti conosco meglio, ho capito che sei sensibile e premuroso.» Sorridendo, scosse la testa. «Nessuno mi aveva mai regalato una macchina.» «Hai voluto che me la riprendessi.»
«Ma il pensiero era davvero generoso. E posso capire come... Sembra che ce l'abbiano sempre tutti con te. Così è comprensibile che tu possa credere che l'unico modo per ricevere affetto sia quello di donare delle cose agli altri.» Lei capisce, pensò Melvin. Sentì irrigidirsi la gola. «Tu non devi farmi dei regali, però. Mi piaci per quello che sei, non per quello che mi dai.» «Questo è... davvero bello.» Il cameriere arrivò con i drink. Li collocò sul tavolo, con un piccolo tovagliolo sotto ogni bicchiere. «Desiderano gustare i drink per qualche minuto,» domandò, «prima che porti i menù?» «Penso che desideriamo vederli adesso,» disse Vicki. Sorrise a Melvin. «Sto morendo di fame, e tu?» Lui annuì. Forse sta morendo di fame, pensò. O forse vuole solo affrettare le cose per arrivare alla fine e andarsene. Se è così, perché è qui? Il cameriere tese un menù a Vicki, poi ne porse uno a Melvin. «Desiderano qualche minuto per decidere?» domandò. «Un paio di minuti.» Se ne andò. Vicki non aprì il suo menù. Lo mise via. Forse, allora, non vuole fare così in fretta, si disse Melvin mentre deponeva il suo menù. Lei sollevò il margarita verso di lui. La sua mano non era ferma. La superficie del liquido tremava. «Ai cavalieri in armatura lucente e alle damigelle in pericolo.» Pollock non aveva detto qualcosa a proposito di cavalieri quando eravamo al Riverfront? È questo, allora. Vuole bere alla mia salute perché ho inchiodato il bastardo. Fece tintinnare il bicchiere contro quello di Vicki, e bevve un sorso attraverso i granelli di sale sull'orlo. «Ti piace?» chiese lei. «Il drink?» «Sa un po' di limonata.» «È forte, però. C'è Tequila e Triple Sec.» Lui annuì come se lo sapesse. «Bene,» disse lei, «vediamo cosa abbiamo.» Esaminarono i menù. I prezzi sbalordirono Melvin. Non aveva mai
mangiato in un ristorante così caro, e non aveva mai immaginato che il cibo potesse costare tanto. Il prezzo del lombo di manzo era quasi il decuplo di quello che pagava alla drogheria. Lei può permetterselo, pensò. Possiede l'intera clinica, adesso. Grazie a me. Eppure, i prezzi lo facevano sentire a disagio. Forse pagherò io, pensò. Andrebbe meglio così. Ha detto che offriva lei, però. Sarebbe sgarbato se cercassi di pagare io. «Le bistecche sono molto buone qui,» disse Vicki. «Prendi quella?» «Penso che prenderò i gamberi.» I gamberi, vide, erano meno cari. «Prendi la bistecca,» disse, tenendo il menù davanti alla faccia affinché lei non potesse vederlo arrossire. «Pago io.» «Melvin, no. Pago io. Insisto.» «Ehi, non so cosa farci col denaro che ho.» Le punte delle dita di lei improvvisamente si avvolsero intorno al bordo superiore del menù di Melvin e lo abbassarono. Lo guardò negli occhi. Il suo imbarazzo sparì mentre sentiva una calda sensazione diffondersi dentro di lui. «Pago io,» sussurrò lei. «Me se vuoi una bistecca... » «Non la voglio nemmeno vedere.» Ritirò lentamente il braccio. Nella luce fioca, era scuro e liscio. «Voglio i gamberi. Tu puoi prendere quello che vuoi. Prendi bistecca e aragosta, se vuoi. Non preoccuparti del prezzo.» «Okay. Volevo solo... » Lei si avvicinò un dito alle labbra. «Mi hai già dato tanto.» «Hai voluto che riprendessi la macchina.» «Non intendevo questo,» disse lei, «e tu lo sai.» Il cameriere si avvicinò al tavolo. «I signori sono pronti per ordinare?» «Credo di sì,» disse Vicki. Lanciò un'occhiata a Melvin. «Hai deciso?» Lui annuì. Non aveva deciso. Fece scorrere in fretta lo sguardo lungo il menù mentre Vicki parlava col cameriere: non sapeva cos'erano la metà delle portate, non sapeva se era il caso di ordinare la bistecca. «E lei, signore?» «Prendo la stessa cosa,» disse, e provò una meravigliosa sensazione di sollievo quando il cameriere prese il suo menù. «E ci porti una bottiglia di Buena Vista Sauvignon Blanc,» aggiunse Vicki.
«Molto bene.» Il cameriere se ne andò. «Prendiamo il vino?» chiese Melvin. «Non ti piace?» «Sicuro.» Sogghignando, si strofinò una mano sulla bocca e sentì dei granelli di sale sulle labbra. «Se non stiamo attenti, ci ubriacheremo.» «Stiamo festeggiando,» disse lei. Sta cercando di farmi ubriacare? si domandò lui. O sta cercando di ubriacarsi? Era già prossima a terminare il secondo margarita, e il suo viso aveva una sfumatura rosata che prima non c'era. È solo nervosa, pensò lui. Io stesso sono abbastanza a disagio. Ma se continua ad alzare il gomito... Non sarà assolutamente in condizione di guidare fino a casa. La porterò con la mia macchina. Il cuore di Melvin stava improvvisamente battendo con tale forza che si domandò se lei potesse sentirlo. «Cosa stiamo festeggiando?» chiese. Lei terminò il margarita, sospirò, mise giù il bicchiere, e si leccò il sale dalle labbra. «Cosa stiamo festeggiando?» chiese, come se stesse interrogando se stessa. Si appoggiò allo schienale. Allungò le braccia sul cuscino della panca. Il movimento fece leggermente tirare la camicetta contro la parte inferiore dei seni. «Noi,» disse. La sua voce era sommessa, solenne. «Stiamo festeggiando noi.» «Questo è... davvero bello.» «Un amico come te è rarissimo. So che sei troppo modesto per ammettere che sei stato tu a sistemare Pollock. Ma va bene così. Il fatto è che lo apprezzo. Era tremendo con me, e tu gliel'hai fatta pagare. Non è semplicemente una questione di gratitudine. Io ti sono grata. Ma è più di questo. È che sei stato così premuroso. Hai rischiato seriamente la vita per me. Avrebbe potuto ucciderti, o i poliziotti avrebbero potuto prenderti...» Strinse le labbra. Sembrava come se potesse cominciare a piangere. «Non ho mai conosciuto nessuno così galante.» Melvin deglutì, lottando col groppo che aveva in gola. «Io... farei qualunque cosa per te.» Chinandosi in avanti, Vicki allungò una mano sul tavolo. Melvin la coprì con la sua, e sentì la sua stretta gentile. La vide distogliere lo sguardo. Lei ritirò la mano alcuni momenti prima che il cameriere arrivasse con le insalate e un cestello di pane.
Maledizione! Perché il bastardo doveva presentarsi adesso e rovinare tutto? Quando fu andato via, Vicki fissò Melvin negli occhi per un momento. Poi, cominciò a mangiare. Melvin piluccò la sua insalata. Il condimento bianco e grumoso aveva un sapore aspro. Non gli piaceva, ma per come si sentiva, dubitava che avrebbe potuto mangiare qualsiasi cosa in quel momento. Il battito cardiaco accelerato gli faceva sentire la testa leggera. Si sentiva vuoto dentro, e dolorante. Spingendo via l'insalata, bevve un sorso. «Non ti piace l'insalata?» chiese Vicki. «La roba che c'è sopra.» «È formaggio piccante. Il mio preferito.» Lui sorseggiò il suo margarita e la osservò mentre mangiava. Dopo alcuni bocconi d'insalata, lei prese un panino dal cestello e ne mangiò metà prima di tornare all'insalata. Gli lanciò appena un'occhiata mentre si dedicava al cibo. E mangiò molto lentamente. Melvin desiderò che facesse in fretta e finisse per poi parlare con lui. Aveva quasi finito quando tornò il cameriere. Questa volta aveva la bottiglia di vino. Mostrò a Vicki l'etichetta, e lei annuì. Poi stappò. Versò un dito di vino nel bicchiere. Lei lo assaggiò, disse, «Ottimo,» e lui riempì entrambi i bicchieri. Mise la bottiglia sul tavolo. Poi, se ne andò. Vicki mangiò un grosso pezzo di formaggio piccante. Posò la forchetta sul piatto dell'insalata, si pulì la bocca con un tovagliolo, e sollevò lo sguardo su Melvin. «Mi dispiace che l'insalata non ti sia piaciuta.» «Va tutto bene.» «Dovresti assaggiare un panino.» Lui si strinse nelle spalle. «Stai bene?» «Sì. Sicuro.» «Non ti ho sconvolto, vero? Quando ti ho parlato dei... miei sentimenti per te.» «No. Sì. Credo di sì. Non so.» «Non sei in collera, vero?» «Cavoli, no.» Lei bevve quel che restava del margarita. «Spero che non ti preoccupi del fatto che io possa rivelarlo. Voglio dire, è un nostro segreto. Non fiaterei con nessuno, nemmeno con Ace.» Sorridendo, scosse la testa. «Nessu-
no mi crederebbe, comunque. Sono tutti sicuri che l'abbia fatto l'infermiera. Patricia qualcosa?» «Forse lo ha fatto lei. È quello che dicono gli sbirri.» «Non devi scherzare con me, Melvin.» Forse sei tu che stai scherzando, pensò lui. Ma non riuscì a spingersi a dirlo. Non voleva crederci. Era tutto troppo bello per essere vero, ma perché non può essere vero? Resuscitare Patricia è stato troppo bello per essere vero. È accaduto, però. Anche questo può darsi che stia accadendo. Vicki poteva davvero trovarlo attraente - anche amarlo - per quello che lui aveva fatto a Pollock. «M'incuriosisce una cosa,» disse lei. «Non sei obbligato a dirmelo, ma... è stato affascinante l'altra sera quando hai raccontato come disseppellisti Darlene e come preparasti il tuo progetto scientifico. Ma come diavolo hai fatto a far sembrare che fosse stata Patricia a... sistemare quell'essere spregevole?» «Non possiamo parlare d'altro?» «Certo. Scusa.» Bevve un sorso di vino e si guardò intorno come se cercasse il cameriere. «Qualcuno potrebbe sentirci.» «Non avrei dovuto chiedertelo. Lascia stare. Voglio, dire, m'interessa, questo è tutto. Ma comprendo che tu abbia timore di dire qualcosa di... troppo specifico. Va bene. Non preoccuparti. Ah, ecco che arriva la cena.» Questa volta, Melvin si sentì grato per l'interruzione del cameriere. Gli aveva evitato di entrare nei particolari. Non sapeva cosa fare. Vicki stava insistendo per sapere tutto. Forse aveva bisogno di essere convinta che lui aveva davvero fatto il lavoretto a Pollock. Forse stava cominciando a dubitarne. E se avesse deciso, dopo tutto, che lui non era coinvolto? Il cameriere andò via, e Vicki cominciò a mangiare. Melvin abbassò lo sguardo sul piatto. Il vapore si sollevava dagli asparagi e dal riso bianco. I gamberi erano coperti da una salsa marroncina che aveva un forte sentore di aglio. Ne infilò uno con la forchetta e lo assaggiò. «Buono,» chiese Vicki. «Sì.» Suppose che fosse molto buono, ma non aveva appetito. Continuò comunque a mangiare. Mangiò, e bevve vino, e osservò Vicki. Sebbene ogni tanto gli lanciasse uno sguardo, lei non parlò. Devo dirglielo, pensò. Altrimenti la perderò. Poi rammentò a se stesso che lei aveva mangiato l'insalata con la medesima concentrazione. È solo il suo modo di mangiare. Non significa nulla.
E se glielo dico? si domandò. Ciò significava che avrebbe dovuto parlare di Patricia. Vicki gli avrebbe creduto? Ci crederebbe senz'altro, se le mostrassi Patricia. Non posso farlo. Riusciva a immaginare la scena. Patricia si sarebbe fatta prendere da un rabbioso accesso di gelosia e Vicki stessa avrebbe potuto spaventarsi a morte quando avesse realizzato quello che lui aveva fatto. Uccidere, resuscitare, vivere con uno zombi. Anche se avesse potuto accettare tutto questo, sarebbe stata spinta a immaginare cos'avevano fatto lui e Patricia. E ciò sarebbe stato abbastanza brutto, anche se Patricia fosse stata una persona normale. Ma farlo con uno zombi? Non potrò mai permettere che lo venga a sapere, decise. Non lo saprà, finché io tengo la bocca chiusa. Mi libererò di Patricia prima che Vicki possa mettere piede in casa mia. Non lo saprà mai. Quando terminò di mangiare, lei prese la bottiglia di vino e la esaminò. Melvin vide che non ne era rimasto molto. Avevano entrambi continuato a riempirsi i bicchieri durante il pasto. Vicki versò altro vino nel bicchiere di Melvin, poi svuotò la bottiglia nel suo. «Desideri un caffè o un dessert?» gli chiese. «Non so.» Avrebbero avuto altro tempo da trascorrere al ristorante se si fossero trattenuti per il caffè e il dessert. Lui voleva passare altro tempo con lei. Ma sarebbe stato ancora meglio se fossero stati soli. Forse possiamo andare da qualche parte. Lei ha la sua macchina. Quella di Ace. Ma ha bevuto parecchio. «Vuoi un altro margarita o qualcosa di simile?» le chiese. Sorridendo, lei scosse la testa. «Oh, non credo che sarebbe una buona idea. Conosco i miei limiti. Non sarei in condizione di guidare.» «Ti porterò io. Puoi lasciare la macchina qui.» Comparve il cameriere. «Desiderano un caffè?» «No, credo che abbiamo finito.» «Molto bene. Hanno gradito la cena?» «Era tutto delizioso,» disse Vicki. Se ne andò. Vicki sollevò la borsetta che aveva accanto a lei, sulla panca, e se la pose in grembo. Melvin sentì una pressione crescergli dentro. Non appena lei avesse pagato il conto, se ne sarebbero andati.
Cosa sarebbe accaduto, allora? «Devo portarti io,» disse. «Hai bevuto troppo.» «Non essere sciocco, Melvin.» «Possiamo prendere la macchina di Ace. Poi torno qui e prendo la mia.» «Cosa vorresti fare, tornare fin qui a piedi?» «Sicuro. Non è lontano.» «Apprezzo l'offerta,» disse. «Davvero. Ma sarebbe troppo fastidio per te.» Il cameriere tornò. Aveva il conto sul un vassoietto di plastica. Mise il vassoio sul tavolo. Vicki prese subito il conto. Lo esaminò per alcuni istanti, poi prese il denaro dalla borsetta. Collocò tre biglietti da venti sul vassoio, li coprì col conto, e sorrise a Melvin. «Pronti?» «Non aspetti il resto?» Scuotendo la testa, lei scivolò fino all'estremità della panca. Melvin vide che la sua camicetta scendeva oltre la cintola, drappeggiando la parte superiore di una gonna a pieghe, bianca. La gonna la copriva fin quasi alle ginocchia. Lei attese che Melvin si alzasse, poi gli prese la mano. Il suo calore parve fluirgli lungo il braccio. Si sentì come se il cuore gli si stesse gonfiando. È grande, pensò. È grande... non può finire. Andremo da qualche parte, adesso. Sarà un'idea sua. Aspetta e vedrai. Andremo nel parcheggio e lei dirà, perché non mi segui con la tua macchina? Possiamo andare a casa mia. Ace non è in casa. Possiamo sederci a bere qualcosa e a chiacchierare un altro po'. Mi piacerebbe molto, e a te? Succederà. È così che dirà. Ha appena pagato la cena, per l'amor di Dio. E vuole ancora sapere come ho fatto fuori Pollock. Aprì la porta per Vicki, e uscirono nella notte. «Vuoi accompagnarmi alla macchina?» gli chiese, ancora tenendogli la mano. «Sicuro.» Si avviarono sull'area di parcheggio. «Ti è piaciuta la cena?» gli chiese. «Ero con te.» Lei diede alla sua mano una lieve stretta. «Lo rifaremo presto, okay?» «Già.» Melvin si sentì sprofondare. Vicki si stava preparando ad augurargli la buona notte. Non gli avrebbe proposto di andare da qualche parte. L'accenno al fatto che avrebbero cenato di nuovo assieme non servì a dis-
sipare la sua depressione. Lui voleva essere con lei adesso, quella sera. «La prossima volta, pagherò io.» «La prossima volta,» disse Vicki, «forse ti fiderai abbastanza di me da essere sincero.» Le sue parole, anche se pronunciate piano, lo colpirono come un pugno. «Io mi fido di te.» Il tono parve a lui stesso piagnucoloso. Vicki si fermò accanto alla Mustang di Ace, lasciò la mano, e prese le chiavi dalla borsetta. Lo fronteggiò. «Vorrei che fosse vero, Melvin. Non so che genere di rapporto possiamo avere, se ritieni necessario nascondermi delle cose. Francamente, sono un po' delusa. Se tu fossi aperto con me... » «Sarò aperto. È solo... eravamo nel ristorante.» «Non siamo nel ristorante, ora. Non c'è nessuno qui intorno.» «Perché non andiamo da qualche parte? Non possiamo andare da qualche parte e parlare? A casa tua, per esempio.» «C'è Ace.» «Beh, e se andiamo a fare un giro? Possiamo parcheggiare da qualche parte e... » «Devo tornare a casa. Non posso stare lontana dal telefono. Una delle mie pazienti è... » «Huh?» «Potrei dover assistere ad un parto, stanotte. In realtà, siamo fortunati ad aver concluso la cena. E non posso fare altro che andare a casa, Melvin. Ti chiamerò fra qualche giorno.» «Qualche giorno?» «Ho bisogno di un po' di tempo per pensare. Non sono più del tutto sicura di certe cose.» «Solo perché non ti ho parlato di Patricia?» «Non m'importa di quello. Sono interessata, ma... è il fatto che tu mi vuoi escludere. Hai paura di rivelarti a me. È questo che mi fa male.» La bocca di Melvin era secca, il cuore gli martellava nel petto. «E se ti dico che ho mandato Patricia a finirlo?» «Lo hai fatto?» «Forse.» «Vedi? Ancora non vuoi aprirti. Cosa credi, che andrò a dirlo alla polizia? Credi che abbia un registratore qui, o cosa?» Aprì improvvisamente la borsetta e la sollevò verso la sua faccia. «Guarda. Vedi un registratore qui?»
Le luci del parcheggio erano abbastanza intense da permettergli di vedere un portafogli, un portacipria, un rossetto e un pacchetto di fazzolettini di carta nella borsetta. Niente che somigliasse ad un registratore. «Soddisfatto?» chiese Vicki. Chiuse la borsetta con uno scatto, si girò, armeggiò con le chiavi, ne infilò una nella serratura e aprì la portiera. Gettò la borsetta sul sedile della macchina. Poi, si voltò e fronteggiò Melvin. Scosse la testa. «Io... Io non so cos'è che non va in me. Scusa. Mi perdoni?» «Beh, già. Sicuro. Va tutto bene.» Protendendosi verso di lui, gli posò lievemente le labbra sulla bocca. «Ti chiamerò,» sussurrò. Lui rimase senza parole, sorpreso ed emozionato, e la osservò mentre saliva in macchina. La portiera si chiuse con un tonfo. Il motore si avviò scoppiettando. I fari si accesero. Il finestrino del guidatore scivolò verso il basso. Avanzando con passo incerto, lui allungò una mano attraverso il finestrino e afferrò la spalla di Vicki. «È stata Patricia,» disse di botto. «Lo ha fatto lei. Ipnosi, ecco come. Okay? Okay?» Lei premette la mano di Melvin sulla sua spalla. «Ci vediamo domani sera,» disse. «Ti chiamerò. Ace non ci sarà. Cosi avremo la casa tutta per noi.» Lasciò la sua mano. Fece andare la macchina in retromarcia, lentamente, e lui sentì la sua spalla scivolare via. CAPITOLO VENTISETTESIMO Si premette contro Jack. Lui la abbracciò. I muscoli del suo torace e delle braccia erano grossi e duri. Avvolta da lui, Vicki si sentì piccola, protetta, al sicuro. Lo baciò. Aprì la bocca e assaporò le labbra e la lingua di Jack. Fu come stare nei primi raggi del sole dopo una notte di tenebre orrende e freddo paralizzante. Troppo presto, lui si allontanò da lei e chiuse la porta. «Valeva la pena aspettare,» disse. Allungò una mano e le accarezzò leggermente la guancia. «Hai uno splendido aspetto. E sei un po' scossa.» «Non è stato molto divertente.» «Posso prenderti qualcosa da bere?» «Caffè?»
Lui annuì. Le prese la mano, e la guidò attraverso l'ingresso. Entrarono in un soggiorno che sembrava enorme e lussuoso paragonato a quello di Ace. Lo spesso tappeto era soffice sotto le scarpe. «È molto bello qui,» disse lei. «Hai avuto difficoltà a trovare il posto?» «Non molto,» disse lei. In realtà, era stata così distratta e stordita dall'incontro con Melvin che aveva superato la strada e non si era neppure accorta dell'errore finché non si era trovata a un isolato dalla casa di Ace. Urtò l'avambraccio contro una sedia del soggiorno. «Ouch!» esclanò Jack. «Stai bene?» Facendo una smorfia, lei gli lasciò la mano e si strofinò il braccio. «Come hai detto tu, sono scossa. E un po'... brilla. Ho bevuto qualcosa prima di andare là. Non credo che avrei potuto affrontarlo sobria. Inoltre, volevo metterlo a suo agio in modo che entrambi continuassimo a bere.» «E chi era questo misterioso lui?» «Melvin Dobbs.» «Stai scherzando.» La condusse in cucina, oltre un tavolo da colazione, e tirò indietro uno degli sgabelli davanti al banco dove si servono le pietanze. Mentre la reggeva, lei salì sullo sgabello. Si sporse sul banco e si puntellò sui gomiti. «Melvin il Matto?» chiese lui. «È con lui che hai cenato? Il tipo che è cotto di te? Il tipo che ha perso una rotella?» «Lui.» Jack la guardò con un cipiglio dall'altro lato del banco. «Perché?» «Volevo che ammettesse di aver ucciso Pollock.» «E lo ha ammesso?» «Sì.» Gli occhi di Jack si spalancarono. «Quell'infermiera scomparsa? Patricia? Ha detto di averla ipnotizzata per farlo fare a lei.» «Buon Dio.» «Già.» «Gli credi?» Vicki annuì. «Bene.» Jack si strofinò la mandibola. Si voltò e raggiunse la macchina per il caffè all'altro lato della cucina. «Non mi meraviglio che tu non mi abbia detto quello che stavi per fare.» «Non volevo che ti preoccupassi. O che cercassi di dissuadermi.» «Avrei fatto entrambe le cose,» disse lui. Versò del caffè macinato nel
filtro e si voltò a guardarla. «Lo sapevo che avevi del fegato, donna, ma... » «Ma non pensavi che ero pazza?» «Non mi spingerei al punto di dire che sei pazza. Ehi, potresti darmi un altro cazzotto. Ma perché l'hai fatto?» «Dev'essere rinchiuso.» Jack fece scivolare il filtro al suo posto, versò acqua nella macchina, fece scattare un interruttore che accese una luce rossa e tornò da lei. Stava all'altro lato del banco. «Perché ritieni che Dobbs ti abbia fatto questa confessione?» «Vuole che io... lo approvi. Gli ho lasciato credere che mi aveva fatto un grande favore uccidendo Pollock. Voglio dire, Pollock mi aveva insultata davanti a lui. Gli ho detto che pensavo che era stato grande a... schierarsi in difesa del mio onore. Inchiodando quel tipo.» «Così ti ha detto quello che tu volevi sentire. Che sia effettivamente o no l'autore del fatto.» Lei fissò Jack. «Ehi, da che parte stai?» «Da quale parte credi?» «Stai facendo apparire tutto come una perdita di tempo. Dio, sono stata maledettamente vicina a sedurlo.» «Nella quale circostanza, ogni uomo ragionevole - per non menzionare un emarginato con dubbia stabilità emotiva che ha fantasticato sulla possibilità di averti come amante - avrebbe ammesso pressocché qualsiasi cosa.» «Andiamo, non dire così. È stato orribile. Lui... lui mi ama, Jack. E io l'ho incoraggiato. Mi sono sentita come la più matricolata bugiarda del mondo. Mi sono sentita una merda, e tu mi stai dicendo che quello che ha confessato non significa nulla?» «No, non ti sto dicendo questo. La sua confessione sarebbe ammissibile in una corte.» «Allora è una prova?» «Sì, ma molto debole. Qualsiasi avvocato decente non avrebbe difficoltà a convincere una giuria che è stata resa sotto una forma di coercizione. Ti sei messa davanti a lui come un'esca. Confessa, e sarò tutta tua.» Vicki si sentì arrossire. «Non ho detto questo.» «Da quello che mi hai detto, l'implicazione dev'essere stata abbastanza chiara per lui.» «Allora è una prova, o non lo è?»
«È abbastanza da mettere in moto un'investigazione. È probabile causa di un mandato di perquisizione.» «Anche per Raines?» «Sarebbe uno sciocco a non agire.» Jack sorrise. «Naturalmente, è uno sciocco. Ma Bob Dennison no.» «Chi è?» «Il Procuratore Distrettuale. E, inoltre, mio compagno di pesca.» Vicki sentì che un largo sorriso le stirava la faccia. «Beh, fa senz'altro comodo avere buone amicizie.» «Certo. In un modo o nell'altro, sono sicuro che possiamo far sì che Dobbs venga avvicinato dalle autorità domattina.» «E poi?» «Speriamo che trovino qualcosa di tangibile.» Lei annuì. «Patricia.» «O il suo corpo. In realtà, con quello che apparentemente sanno su quella donna, qualsiasi prova fisica della sua presenza in casa sarebbe sufficiente a mettere dentro Dobbs. E non sai cosa potrebbero trovare. Il revolver di servizio di Pollock. Il suo distintivo. Anche un po' del suo sangue potrebbe essere trovato nella casa. Se Dobbs è coinvolto, c'è un'ottima possibilità che trovino qualcosa per inchiodarlo.» «E se non trovano nulla?» «Allora sei nei guai. Dobbs saprà che sei stata tu a segnalarlo, e potrebbe non amarti più.» «È un augurio ambiguo.» «Ti sei spinta fino a questo punto. Non credo che consentirai a un piccolo inconveniente come questo di fermarti.» «Non credo.» «Faremo in modo che lui non abbia la possibilità di... manifestarti il suo dispiacere.» «Grazie.» Jack la guardò da sopra la spalla. «Il caffè è pronto. Panna o zucchero?» *** Melvin desiderò di poter leggere le labbra di quello stronzo. Aveva una buona visuale del dorso di Vicki. Era stata seduta sullo sgabello fin quando lui aveva trovato la finestra della cucina. Per un po', non aveva visto nessun altro. Poi l'uomo si era mostrato all'altro lato del banco
e aveva cominciato a parlare con lei. L'angolo era buono, così Melvin poteva vederlo oltre la spalla di Vicki. Un tipo grosso. Sembrava un maledetto giocatore di football. Indossava una camicia bianca a rete che evidenziava tutti i suoi muscoli. Melvin non sapeva chi era. Sicuramente non era la donna incinta, però. Tenendosi a distanza di sicurezza, Melvin aveva seguito Vicki quando lei aveva lasciato il parcheggio del ristorante. Aveva desiderato che lei guidasse più in fretta. Non vedeva l'ora che raggiungesse la casa di Ace. Anche se non avrebbe potuto stare con lei, almeno avrebbe potuto osservarla... trovare una finestra e spiarla. Sarebbe stato qualcosa. Era sicuro che si sarebbe cambiata non appena fosse arrivata là. Avrebbe potuto vederla che si sfilava quella camicetta luccicante, che si toglieva quella lunga gonna bianca, forse addirittura il resto. Se non si fosse tolta gli abiti, sarebbe comunque stato magnifico osservarla. Sapeva che avrebbe potuto guardarla per ore, e ogni momento sarebbe stato eccitante. Ma Vicki non aveva raggiunto la casa di Ace, come aveva detto che avrebbe fatto. Mi ha mentito. Mi ha mentito su tutto? La sua mente aveva cominciato a turbinare per la confusione e l'incertezza. Poi, la macchina di Vicki si era fermata vicino ad un marciapiede. Melvin aveva rallentato. L'aveva superata appena in tempo per vedere che raggiungeva la porta principale di un grosso edificio a due piani. Ho capito! si era detto. Si era sentito uno sciocco per aver dubitato di lei. Non era nulla. Invece di andare direttamente da Ace, Vicki aveva deciso di far visita alla donna incinta. Solo per darle un'occhiata, per vedere come procedeva. Sarebbe rimasta là pochi minuti, poi si sarebbe diretta a casa. Va tutto bene. Melvin aveva parcheggiato in prossimità della fine dell'isolato. Aveva pensato che avrebbe potuto aspettare in macchina, ma era diventato rapidamente inquieto. E se mi sto sbagliando? si era domandato. E se è là dentro con un uomo? No, non Vicki. Lei non lo farebbe. No.
Ma Melvin non era riuscito a scacciarsi l'idea dalla testa. Voleva crederle, fidarsi di lei. Ma doveva sapere. Era tornato a piedi fino alla casa. La maggior parte delle finestre aveva le tendine chiuse, ma non quella della cucina. Le tendine là erano completamente aperte. All'inizio, aveva visto solo Vicki. Poi l'individuo aveva raggiunto il banco. Melvin aveva cercato di convincersi che l'individuo era il marito della paziente di Vicki. Forse gli stava chiedendo delle condizioni di sua moglie. Vi era qualche contrazione? Cazzate. Chi è? Di cosa stanno parlando? Era come guardare un film al drive-in senza udire i suoni. Poteva vedere Vicki e l'individuo perfettamente. Ma la finestra era chiusa e un condizionatore d'aria ronzava con forza nelle vicinanze, così non riusciva a sentire un maledetto niente. Se solo avesse potuto leggere le labbra dello stronzo. Vicki si era voltata di lato ed era scivolata giù dallo sgabello. Aveva aggirato l'estremità del banco. L'individuo stava dicendo qualcosa. E la stava guardando. Melvin non riusciva a leggere le labbra. Ma riusciva a leggere gli occhi. «Da quanto tempo abiti qui?» chiese Vicki. «Cosa?» gridò Jack. «Devi parlare ad alta voce.» «Come sei prudente.» Jack le sorrise dal divano. Sembrava morbido e comodo, il divano, ma Vicki si era seduta su una poltroncina a breve distanza dall'angolo dov'era seduto lui. «Cosa ho fatto di male, questa volta?» domandò Jack. «Hai comprato un divano bianco e mi hai dato del caffè nero. Non credo che i due vadano bene assieme.» Sollevò la tazza alle labbra. Il vapore si librò, caldo contro la sua faccia. Lei bevve un sorso di caffè, e sospirò. «Approfitta dell'opportunità,» disse Jack. «Sto benissimo qui.» «Ma fuori portata.» «Possiamo ammirarci a vicenda da lontano.» «E se volessi confessare qualcosa?» chiese lui. «Questo ti farebbe venire qui?» Le parole le fecero contrarre lo stomaco. «Smettila di ricordarmelo, okay? Non mi piace quello che ho fatto. È stato un trucco ignobile.»
«Certamente non ignobile come commettere un omicidio. Se le tue manovre finiranno per incastrare Dobbs, avrai reso alla società un considerevole servizio. Avrai tolto un assassino dalla circolazione. «Questo conta parecchio.» «Suppongo di sì.» «Non c'è nulla da supporre. È certamente possibile che Pollock non sia stato la sua prima vittima. E potrebbe non essere l'ultima, se non viene fermato.» «È possibile, credo.» «Quell'infermiera, per esempio. Ti ha detto che l'ha ipnotizzata?» Vicki annuì, e bevve un altro sorso di caffè. «Piuttosto insolito. Ma stiamo accettando l'assunto che lui dica la verità, giusto? Così, se lui l'ha fatta cadere in una sorta di trance invece di chiederle semplicemente di far fuori quell'individuo, ciò vuol dire che lei non ha agito di sua volontà. È stata costretta a uccidere Pollock. Ma cosa le è accaduto dopo? Dobbs la farà proseguire tranquillamente per la sua strada?» «Potrebbe spingerla a dimenticare tutto quello che è accaduto mentre era sotto ipnosi,» disse Vicki. Si accigliò nel caffè. Un pensiero, un'idea nuova, una consapevolezza carica di presagi si stava agitando da qualche parte nel profondo della sua mente. Si concentrò, cercando di spingerla in superficie. Ma Jack parlò di nuovo, distraendola. «L'infermiera potrebbe dimenticarlo, ma la polizia sa che è coinvolta e la sta cercando. Se la agguantano, possono indurla a ricordare.» «Se la ipnotizzano di nuovo,» disse Vicki, «possono riuscire a cavarle la verità.» Cos'era quel pensiero? Dove conduceva? «E se Dobbs sa abbastanza sull'argomento da persuadere qualcuno a commettere un omicidio - immagino che la cosa richieda un vero esperto allora sa con certezza che lei rappresenta una minaccia per lui. Finché è viva.» «Già.» Vicki frugò nella sua mente. Fu come nuotare sotto acque melmose, in cerca di un messaggio nascosto fra le alghe del fondale. E risalire per respirare quando Jack parlò. «È mia convinzione,» disse, «che Dobbs abbia già ucciso l'infermiera. Ha eliminato l'unica persona - eccetto te - che possa accusarlo.» Vicki sollevò una mano. «Cosa?» Lei scosse la testa e fissò il caffè. Si immerse di nuovo, immaginando di
aver ripreso fiato ed essersi rituffata nelle tenebre. Scese molto in profondità. La sua mente era un fiume e il pensiero perduto era laggiù da qualche parte. Suvvia, dove sei? Improvvisamente, Charlie Gaines fu sulla sua schiena, attaccato a lei, e la palpava, la tirava verso il basso. Gli orrori della notte precedente si riversarono su di lei. Poteva sentirlo, sentire il dolore nei polmoni... «Qualcosa non va?» chiese Jack. Le sue parole la riportarono in superficie. Lei si appoggiò contro il suo fianco. «Non intendevo spaventarti, Vicki. Ma resta il fatto che ti sei messa in un considerevole rischio con... » «Non è quello,» disse lei. «Ho... ho avuto un flash della scorsa notte. Charlie. Nel fiume.» La mano di lui le coprì delicatamente la spalla ferita. «Mi dispiace. Sai, con tutta questa storia di Dobbs, mi ero quasi dimenticato di Charlie. Dev'essere stato terribile per te.» Alzando lo sguardo su Jack, lei riuscì a sorridere. «Ehi, non è stato tutto così brutto. Dopo, è stato piuttosto bello.» «Finché non ti sei bloccata.» «Spero che tu ti sia reso conto di come ti sei comportato.» «Non è stato facile, ma... » Il pensiero perduto riemerse d'un tratto sulla superficie della sua mente, completo e chiaro. Come se avesse aspettato che lei smettesse di cercare, e poi fosse schizzato fuori per sorprenderla. «Mio Dio,» mormorò lei, stordita da quello che improvvisamente sapeva. Sapeva. «Te lo assicuro. Sono stato un perfetto gentiluomo.» «Ipnosi. È così che... » Strinse con forza la gamba di Jack. «Melvin ha ucciso Charlie. » «Cosa?» «Oh, Gesù. Melvin... voleva farmi un altro favore, quel verme. Prima, mi ha dato la macchina. Poi, ha "difeso il mio onore" spingendo Patricia a uccidere Pollock. E poi... poi ha messo le mani su Charlie. Sapeva che dovevo del denaro a Charlie. Sapeva che non ero in società nella clinica. Così ha messo le mani su Charlie e mi ha aiutata.» «Ciò spiegherebbe molte cose,» disse Jack, fissandola, afferrando la situazione. «Se Charlie era sotto l'influenza di Melvin quando mi ha chiamato lunedì mattina... » «Lo sapevo che c'era qualcosa che non andava.»
«Ricordo. Eri preoccupata per la sua salute, pensavi che forse stava per morire.» «Melvin lo ha costretto a farlo. Lo ha ipnotizzato, proprio come Patricia, e gli ha detto di fare una società con me, di nominarmi sua erede dell'intera clinica... Oh, maledizione. Quello sporco... non è stato un incidente l'altra notte. Charlie è andato a sbattere... Deve aver progettato tutto Melvin. È stato lui a darmi la clinica.» «Ha un senso,» disse Jack. «È tutto una supposizione, ma rientra nettamente nello schema degli eventi. Se lui ha davvero ipnotizzato Patricia e l'ha spinta a uccidere Pollock, cosa che ha ammesso, allora il resto viene di conseguenza.» Lei fissò Jack negli occhi. Le credeva. Lui sapeva. Non aveva bisogno di convincerlo. Qualcosa parve lacerarsi dentro di lei. Si voltò e si ingobbì contro il petto di Jack. Lui le mise le braccia intorno. «Ho ucciso Charlie,» sussurrò lei. «No.» «Sì. L'ho ucciso.» Jack la strinse dolcemente. Lei poteva sentire il battito rapido del suo cuore. La mia maledetta bocca, pensò. L'ho ucciso quando ho detto a Melvin che non ero in società. Quando gli ho detto del prestito. «E Pollock,» mormorò. «E Patricia, se è morta. Li ho uccisi tutti.» «Shhh.» Jack le accarezzò i capelli, la schiena. «Non hai fatto niente di tutto questo.» Mi sono fermata al distributore di Melvin. Ho comprato la benzina da lui. Ho pensato che l'Arco fosse chiusa. Non potevo aspettare fino al mattino per riempire il serbatoio. È così che è cominciata. No, è cominciata prima, alla scuola superiore. Non l'ho preso in giro. Non l'ho tormentato. Ero gentile con lui. Sono stata io. Melvin, con la faccia premuta contro il vetro della finestra, osservava attraverso un varco nelle tendine. Un piccolo varco. Non più di un pollice, ma sufficiente. Vide Vicki che si girava sul divano, vide che si rannicchiava contro il petto dell'uomo grosso, vide che lui le metteva le braccia intorno.
Quella lurida troia bugiarda! CAPITOLO VENTOTTESIMO «Può darsi che ti stia sbagliando, sai.» «Non mi sbaglio.» Si strofinò la faccia contro il morbido tessuto a rete della camicia di Jack, sentendo il suo torace forte sotto di esso, sentendo il suo calore. «Era il suo modo di... corteggiarmi. Sarebbero tutti vivi.» «Non puoi fartene una colpa.» «Non sarebbe successo nulla.» Le mani di Jack si muovevano lentamente su e giù per la sua schiena. Con voce gentile e dolce, disse, «Ho fatto il pubblico ministero a Detroit per breve tempo. Prima di venire qui. Sono venuto qui perché non riuscivo a continuare. Le brutalità, le cattiverie che vedevo ogni giorno. Il mio ultimo caso, quello che mi ha messo alle corde... due tipi entrarono in un negozio di liquori con dei fucili da caccia. Il proprietario, un certo John Baxter, non fece alcuna opposizione, Consegnò tutto il denaro che aveva nel registratore di cassa. Era un mucchio di denaro. E i ladri lo presero. Poi procedettero a distruggere tutto quello che c'era nel negozio. Uccisero Baxter davanti alla moglie. Lei stava mettendo in un sacchetto una confezione da sei Pepsi per due ragazzine che si erano fermate sulla via di casa, al ritorno dalla scuola in fondo alla strada. Uccisero la moglie e le due ragazzine. Uccisero una madre, i cui tre figli stavano aspettando nella macchina che lei tornasse dopo aver comprato un pacchetto di sigarette. Uccisero uno che stava davanti all'espositore dei giornali. E un giovane magazziniere che era sopraggiunto quando aveva sentito gli spari.» «Orribile,» mormorò Vicki. «Abbastanza,» disse Jack. Le sue mani smisero di accarezzarla, e si fermarono in mezzo alla schiena. Con voce bassa, lui disse, «Ecco allora un'accusa di omicidio nei confronti del denaro contenuto nel registratore di cassa.» Vicki alzò il viso e lo guardò negli occhi. «Cos'è, una specie di scherzo?» «Una lezione,» disse lui. «Una lezione sul senso di colpa. Quella coppia di criminali entrò nel negozio perché voleva il denaro nel registratore di cassa. Nonostante ciò, tu riterresti chiaramente assurdo accusare il denaro dello sterminio di quelle sette persone. È giusto?» «Certo.»
«E allora come puoi accusare te stessa per quello che Dobbs può aver fatto perché ti voleva?» «E perché no?» chiese lei. Quando disse questo, vide che lui aveva le lacrime agli occhi. Jack voltò la testa in fretta. Vicki sollevò una mano verso la sua guancia. Lei gli fece voltare la testa, la sollevò e gli premette le labbra sulla bocca. Vicki sprofondò in un luogo caldo e tranquillo dove c'era solo la sensazione della presenza di lui. La morbidezza umida delle sue labbra e della lingua. La dolce pressione delle sue mani. I muscoli saldi del suo torace. La pelle morbida che lei accarezzò attraverso la spalla e il fianco della camicia. Ma aveva dovuto torcersi, per tenerlo in quel modo. «Mi sto spezzando,» disse finalmente contro le sue labbra. «Non posso permettere che accada,» disse lui. «Sei troppo preziosa per spezzarti.» Lei premette le labbra sulle sue, poi scese dal divano. Abbassò lo sguardo su di lui. Stava accasciato contro il cuscino, con le grosse braccia abbassate contro i fianchi, le ginocchia divaricate. Le sua camicia bianca stava di traverso, i capelli erano arruffati. La sua bocca, socchiusa, aveva un colore rossastro intorno alle labbra per la pressione e lo strofinio dei baci. La fissò con occhi che sembravano, in qualche modo, calmi e nello stesso tempo ansiosi. Vicki li vide abbassarsi lentamente sul suo corpo, e risalire di nuovo, e indugiare sul suo volto. Il cuore le batteva con forza. La sua bocca improvvisamente era secca. Jack sollevò un sopracciglio. Guardò il divano. «Possiamo stenderci, o... ?» «Al piano di sopra?» chiese Vicki. «Le camere da letto.» «Vuoi mostrarmele?» Lui strinse le labbra e soffiò piano, senza emettere suono. «Solo un'idea.» «E ottima, se è per questo.» Vicki si fece da parte, e Jack si alzò in piedi. Attraversarono il soggiorno, camminando fianco a fianco, quasi toccandosi. In fondo alle scale, Vicki allungò una mano sulla schiena di lui e gliela appoggiò sull'anca. Lui le si avvicinò. Lo sentì accarezzarle la scapola, sentì scivolare il tessuto liscio contro la pelle. Assieme, salirono le scale. Mentre camminavano lungo il corridoio del primo piano, lei lo guardò.
Jack la guardò e sorrise. Lei gli diede un colpo d'anca. Lui fece un largo sorriso. Entrarono in una stanza, e lui fece scattare un interruttore. Una lampada si accese accanto al letto matrimoniale. Il letto era intatto, e il resto della stanza lindo. Vicki si fermò sotto il vano della porta. Bruscamente, dubbiosa. Era un uomo che viveva solo. La sua stanza da letto non doveva essere necessariamente in disordine totale, ma... L'aveva ripulita. Aveva raccolto i panni sporchi, aveva tolto le cianfrusaglie, messo lenzuola fresche. Sapendo che sarei stata qui. Sapendo. Nel sedile posteriore della sua macchina, Melvin si denudò. Dimenandosi, indossò la tuta unta e tirò su la cerniera. Poi, infilò i piedi nelle vecchie scarpe di cuoio che indossava alla stazione di servizio. Fuori, aprì il cofano. Tirò fuori l'attrezzo per i pneumatici. Aveva una lunga chiave da una parte, e una sbarra per far leva dall'altra. Sembrava efficace e pesante in mano. Abbassò lo sportello del cofano. Tenendolo abbassato, voltò la schiena ad esso, saltò su, e lo spinse verso il basso col sedere. La serratura emise un debole scatto. Fece roteare la sbarra, colpendosi il palmo della mano sinistra mentre camminava verso la casa. Sistemerò la troia, pensò. La lurida puttana bugiarda. Non riusciva a smettere di vederla. Il modo in cui si girava sul divano e si premeva contro il petto del bastardo. Il modo in cui lo baciava. E le mani di quello che si muovevano sulla sua schiena come se la possedesse. Le immagini gli fecero venire la nausea. Si sentì come se delle mani gelide gli stessero torcendo le budella. Si pentirà. Oh, come si pentirà. Melvin corse lungo il retro della casa. Le finestre posteriori erano buie. Il patio, indistinto nel chiaro di luna, era una piattaforma di cemento con un paio di sedie a sdraio e un barbecue. La porta a zanzariera non era chiusa col chiavistello. Cigolò quando lui la aprì. Tenendola ferma con la schiena, saggiò il pomo della porta interna di legno. Chiusa. Premette con forza il cuneo della sbarra nella scanalatura fra la porta e lo
stipite, proprio nel punto dove immaginava che ci fosse la lingua della serratura. Spinse col suo peso contro la sbarra. Il legno emise dei suoni scricchiolanti. Si gonfiò, crepando. Lui spinse la sbarra più in profondità, facendola oscillare avanti e indietro, forzando, sentendo cedere la lingua della serratura. La porta si aprì verso l'interno. Entrò nella casa, chiudendo lentamente la porta a zanzariera. La cucina era buia tranne che per il chiarore di una luce che si riversava dall'ingresso. Si mise in ascolto. Udì solo il martellare del suo battito cardiaco. Quando fece un passo, la suola della sua scarpa emise un rumore strascicante. Lui si acquattò e sciolse i lacci. Si sfilò le scarpe. Il pavimento di linoleum era freddo e scivoloso sotto i suoi piedi sudati. Tirò un respiro profondo. Si sentiva teso e freddo e inquieto. Se solo fosse riuscito a calmarsi. Calmati e rallegrati per ciò che stai per fare. Desiderò di provare una qualche eccitazione. Quel genere di fremito che aveva provato quando aveva fatto fuori gli altri. Ma non ci riusciva. Gli faceva troppo male. Lei gli aveva fatto troppo male. Adesso la pagherai. Non lo fotti Melvin Dobbs. Silenziosamente, si avviò verso la luce. «Qualcosa che non va?» chiese Jack, avvicinandosi alle sue spalle. Lei avvertì la leggera pressione di lui contro la schiena. Jack le mise le mani sui fianchi. Il suo respiro caldo le agitò i capelli, le fece formicolare il cuoio capelluto. «Le cose... procedono tremendamente in fretta.» «Non è necessario.» «Lo so che sono stata io a proporre... » «Nella foga del momento.» «Già. Mi sono lasciata un po' trasportare.» Le mani di lui scivolarono davanti a lei. Tracciarono dei piccoli cerchi, facendo strofinare la camicetta contro il ventre. Vicki si sentì come se dell'olio caldo le venisse versato sulla pelle. Gli accarezzò i dorsi delle mani, i polsi e gli avambracci. «Vogliamo scendere giù?» chiese lui. «Non so,» sussurrò lei.
Le tornò in mente il suo rammarico per non aver fatto l'amore con Paul quella mattina di tanto tempo prima sulla piattaforma. Era stata la loro ultima opportunità, e lei l'aveva sprecata. C'erano stati altri uomini, pochi, ma lei non aveva amato nessuno di loro. Amo Jack? Si domandò. È questo il punto, no? Sapeva che le piaceva, che lo desiderava. Ma lo amava? Certamente non c'erano le emozioni che aveva nutrito per Paul... l'intimità, il mistero, il dolore del desiderio quando si separavano. Ma forse queste sono cose che si provano una volta sola. Forse si dovevano manifestare solo con Paul. Aveva rifiutato di accettare meno di quello che aveva avuto da lui. Si era sempre voltata a guardare al periodo trascorso assieme, quando le era capitato di pensare a come dovessero andare le cose. Niente di quello che era accaduto poi si era anche solamente avvicinato a quel periodo. Jack sì, si disse. Non posso trascorrere il resto della mia vita lacerata dai ricordi di come fu con Paul. Fu un periodo breve e meraviglioso, ma è passato. Per sempre. E Jack è qui. E domani chissà. Questa potrebbe essere la nostra unica e sola opportunità, e se non l'afferro forse, fra diversi anni, mi guarderò indietro e penserò... «Stai tremando,» disse Jack. «Lo so.» «Scendiamo nel soggiorno.» Lei guidò le mani di lui lungo il davanti della camicetta e sotto di essa, su fino al ventre. Mentre esse scivolavano sulla sua pelle, slacciò i bottoni. Si abbassò davanti a lui, e allungò le mani dietro di sé stringendo i lati delle sue gambe. Le mani di lui si mossero con lentezza, tastandola leggermente come se fosse un cieco che potesse riconoscerla solo al tatto. Come se le sue mani fossero occhi e lui volesse esaminare la trama della sua pelle e memorizzare ogni curva o depressione. La loro lenta esplorazione fece aprire la camicetta. Poi, le mani si curvarono sul reggiseno. I capezzoli, già duri, le dolevano contro le coppe di pizzo. Vicki desiderò che non ci fosse il tessuto a schermarla dal contatto con la sua pelle. Voleva sollevare le mani e aprire il gancio sul davanti del reggiseno. Non lo fece. Gli strofinò le gambe, e lasciò che Jack andasse avanti da sé. Andiamo, pensò. Il reggiseno.
Un angolo della sua mente era divertito dalla sua impazienza. Non era lei che aveva pensato che avrebbero dovuto aspettare, vedersi altre volte, diventare via via più intimi, avviarsi lentamente verso una notte lontana quando avrebbero finalmente portato a termine il loro lungo viaggio? Quindi, lo sentì sganciare il fermaglio. Abbassando la testa, vide le sue mani insinuarsi sotto le coppe di pizzo nero. Gemette al contatto. La bocca di lui le premette sulla nuca. Jack fece scivolare le mani sui seni, con un tocco così leggero da somigliare a un vento caldo. Le punte delle sue dita disegnarono circoli sui capezzoli. Troppo leggermente. Tormentandola. Facendola contorcere. Lei allungò le mani dietro di lui e gli strizzò le natiche. Come se questo fosse un segnale, lui le strizzò i seni e li impastò. Col fiato mozzo, Vicki sollevò le mani, premette con forza quelle di Jack contro di lei, poi le spinse via e si voltò e lo abbracciò e trovò la sua bocca. Melvin si fermò nel corridoio vicino alla porta e si appoggiò al muro. Suoni gementi e ansimanti venivano dall'interno della stanza. Il cigolio e il lamento delle molle del letto. Sapeva cosa stavano facendo. Non lo avrebbero fatto a lungo. Si pulì le labbra col dorso di una mano. Mi stanno rendendo le cose semplici, pensò. Sarò su di loro prima che si accorgano che sono qui. «No. Aspetta.» Lei sembrava senza fiato. «Non ancora.» «Cosa c'è che non va?» La voce di un uomo. «È il momento del preservativo.» Melvin poteva quasi vederla sorridere mentre lo diceva. Sorridendo e ansimando, i suoi seni si sollevavano e abbassavano mentre lei boccheggiava in cerca d'aria, il corpo nudo e lucido di sudore. «Un preservativo? Stai scherzando?» «È solo che non voglio correre rischi.» «Non prendi la pillola o cose del genere?» «Non mi preoccupa il controllo delle nascite.» «Credi che io abbia qualche malattia?» «Preferisci discutere, oppure... » Lui gemette. Un gemito di piacere. Melvin si domandò cosa gli stesse facendo. Riusciva a immaginarlo. Con voce bassa, l'uomo disse, «Aspetta. Vado a prenderne uno.» Il letto
cigolò. Ci fu un leggero rumore di passi sul tappeto. Melvin sollevò l'attrezzo, anche se non pensava che l'uomo sarebbe uscito dalla stanza. «Odio questi cosi.» «Lo so. È come indossare un guanto.» Sembrava divertita. «Vieni qui e dallo a me.» «Non funziona così.» Lei rise. Ci fu ancora un rumore di passi. Il letto cigolò di nuovo. Melvin udì lo strappo dell'involucro del profilattico. Abbassò l'attrezzo e lo se appoggiò di traverso sulla gamba. «Credi che sia della misura giusta?» chiese l'uomo. «Spaccone.» Poi l'uomo fece «Uhhhh. Sìììì.» Melvin poteva immaginare lei mentre srotolava quella cosa lungo il pene. Poteva quasi avvertire la rigidità del freddo tubo umido, sentire le dita di lei attraverso il lattice sottile. Era andato con le puttane alcune volte a Blayton. Lo avevano costretto a mettersene uno. Ma glielo avevano fatto mettere a lui. «Ecco,» disse lei. «A posto.» Melvin fece scorrere la lingua intomo alla sua bocca secca. Trasse un profondo respiro. Il suo cuore batteva come un tamburo. Gli era venuto duro, e vide che il davanti della sua tuta sporgeva come una tenda. Il letto gemette. «Oh, sìììì.» Lui. «Non... mi sembra esattamente un guanto.» Lei. «E cosa... ti sembra?» «Un palo del telefono.» «Sìììì.» È il momento di divertirsi, pensò Melvin. Immaginò il sangue che scorreva, schizzandogli la tuta. Non posso tenerla addosso. Si strofinò la bocca. Accovacciandosi, appoggiò l'attrezzo sulla passatoia del corridoio. Si alzò e lentamente abbassò la lampo della tuta. Scrollando le spalle, si sfilò l'indumento, che gli ricadde intorno ai piedi, e ne uscì. Poi, raccolse la sbarra d'acciaio. Ansimando, si appoggiò alla parete. Era fredda contro la schiena e le natiche.
«Oh... oh.» Lei dava l'impressione che la stessero picchiando a morte. Ancora un minuto, pensò Melvin. «Oh!... Sì... Oh sì.» Melvin avanzò nel vano della porta. Una lampada accanto al letto gettava una luce intensa sui loro corpi che si dimenavano. L'uomo era steso su di lei, per metà inginocchiato, con la schiena bianca che si fletteva quando penetrava dentro di lei. Le mani di lei gli artigliavano le natiche. Le sue gambe erano spalancate, le ginocchia sollevate in alto, i talloni che affondavano nel materasso e la spingevano su per favorire le spinte dell'uomo. Melvin si avviò in silenzio verso l'estremità del letto. Non poteva vedere le loro facce, quindi loro non potevano vedere lui. Lei continuava a spingersi contro l'uomo, ansimando e mormorando. «Oh... Oh Dio... Sì... Dentro, dentro.» Melvin si immaginò mentre ficcava il ferro dritto nel culo di quell'individuo. Avrebbe potuto dargli un calcio, ma non avrebbe avuto lo stesso effetto. Balzò sul letto e fece cadere le ginocchia sulle natiche dell'uomo, sulle mani di lei. Mentre veniva schiacciato, l'uomo grugnì. Lei strillò. «Va bene così dentro?» disse Melvin col fiato mozzo. Sentì che le ginocchia gli scivolavano. Si gettò in avanti e afferrò la nuca umida dell'uomo, bloccando la scivolata, e abbatté la sbarra. L'impatto fece scoppiare il dolore nella sua mano ferita e lo fece scorrere lungo il braccio fino alla spalla. Ma sicuramente ebbe effetto sull'individuo. Gli fece inclinare la testa di lato. Mandò uno schizzo di sangue sul muro. «No!» Lei aveva la faccia sporca di sangue. I suoi occhi sembravano sul punto di schizzarle dalle orbite. «Sì,» disse Melvin, e abbatté ancora una volta l'estremità della sbarra sulla tempia sfondata dell'uomo. Questa volta, il sangue schizzò sulla faccia e sulle spalle di Melvin. Il corpo afflosciato oscillò improvvisamente sotto di lui. Le sue ginocchia scivolarono sulla parte posteriore delle gambe. Cadde, e prima che potesse rimettersi in piedi qualcosa restò intrappolato sotto di lui - una delle mani di lei - si contorse e gli artigliò la coscia e si spinse fra le sue gambe. Lui si gettò all'indietro proprio mentre la mano
trovava i suoi genitali, e si chiudeva di scatto. Le dita lo urtarono. Non afferrarono, però. Mancarono l'opportunità di strizzare e schiacciare, mancarono l'opportunità di metterlo fuori combattimento. Ma l'urto delle dita era stato abbastanza forte da spedire un'onda di dolore nauseante attraverso il suo corpo. Si aggobbì e afferrò la parte posteriore delle gambe dell'uomo morto per tenersi in equilibrio. Aveva bisogno di un secondo. Solo un secondo per recuperare. Ma la troia non glielo concesse. Avanzò barcollando e torcendosi, gettò il cadavere di lato, fece cadere Melvin dal letto. La schiena di Melvin batté contro il pavimento. L'uomo cadde sopra di lui. E lei fu sopra l'uomo. Melvin poteva sentirla lassù, che spingeva il corpo, che gli premeva col suo peso il bastardo contro la faccia come se stesse cercando di soffocarlo così. Lei non rimase a lungo lassù. Solo il tempo necessario a districarsi. Poi rotolò o cadde dal mucchio. Colpì il pavimento accanto a Melvin. La udì, ma non poté vederla. Almeno finché non si spinse su, liberandosi del corpo. Lei stava avanzando velocemente verso la porta sulle mani e le ginocchia, piagnucolando, voltandosi a guardare sopra la spalla. Melvin strisciò sopra il corpo, si alzò in piedi, e la inseguì. Lei si sollevò. Avanzò barcollando nel corridoio. Melvin attraversò la porta. Lei era a pochi passi da lui. Lui tirò indietro il braccio, pronto a lanciarle la sbarra verso la testa. E se l'avesse mancata? Allora si sarebbe trovato senza la sola arma che aveva e lei avrebbe potuto raccoglierla... usarla su di lui. Continuò a tenere la sbarra fra le mani e a correre. Ma lei era più rapida. Se ne sta andando! La perse di vista quando si precipitò in cucina. Uscirà dalla porta e comincerà a urlare! La spalla di Melvin urtò lo stipite della porta. Lui rimbalzò, grugnendo, ed entrò vacillando nella cucina. E la scorse. Non stava andando verso la porta. La sua figura pallida era vicina al banco, e allungava le mani, con la schiena rivolta verso Melvin. Lui batté una mano sulla parete, la fece scivolare verso il basso, e trovò l'interruttore. Lo fece scattare. Mentre la luce riempiva la cucina, lei si girò su se stessa. Un coltello da macellaio in mano.
Rimase là, a guardarlo, ad ammiccare per scacciare il sudore dagli occhi, a ingoiare aria. Ciocche di capelli umidi le pendevano davanti agli occhi. La sua faccia colava sudore, che si mescolava al sangue dell'uomo e scorreva giù dalla guancia. Il suo petto ansimava, i seni tremavano. La sua pelle umida luccicava come se fosse cosparsa d'olio. Sembrava bellissima. Una specie di dea guerriera. Melvin la fissò. La voleva. Aveva avuto solo l'intenzione di ucciderla, ma adesso desiderava follemente avere quel corpo selvaggio sotto di lui, fremente e scivoloso. Sotto il desiderio, avvertì la gelida stretta della paura. «Va bene,» ansimò lei. «Fine... della partita... stronzo.» Fece un passo verso di lui. Melvin provò l'impulso di battere in ritirata. Si chinò un poco e sollevò la sbarra. «Fatti sotto.» Lei, improvvisamente, si lanciò su di lui, i piedi che schiaffeggiavano il pavimento, il coltello alzato. Il cuore di Melvin parve congelarsi. Sta per uccidermi! Vibrò un colpo contro la sua faccia. La sbarra di ferro le colpì la mandibola, deformandola. Vide i suoi occhi roteare verso l'alto mentre la testa veniva bruscamente spinta di lato. Nel medesimo istante, sentì una striscia di calore sul petto. Niente dolore. Solo una lunga linea cocente. Ma il colpo con la sbarra aveva fatto effetto. La vide roteare via, la testa inclinata all'indietro, le braccia mulinanti, il coltello che le schizzava via di lato. Si abbatté sul pavimento, scivolò di traverso sul ventre, poi giacque immobile. Melvin abbassò lo sguardo su se stesso. Mi ha preso! Si sentì svenire mentre fissava la ferita. Era lunga cinque o sei pollici e gli attraversava la pancia, giusto al disotto dell'ombelico. Una cortina di sangue fluiva da essa, coprendogli inguine e fianchi. Il suo pene si stava ritraendo, e diventava sempre più piccolo come se volesse nascondersi. Toccò con un dito il bordo irregolare del taglio. Lo tirò indietro come se fosse un labbro. Non era molto profondo. Ma adesso stava cominciando a fargli male. A fargli davvero male. «Stronza!» strillò. «Guarda cosa hai fatto!» Lei si mosse un poco. Lui lanciò la sbarra. Lei si ritrasse ed emise un «Uh!» col fiato mozzo
quando la sbarra incise la pelle della sua scapola. Ma non restò attaccata, però. Rimbalzò via e scivolò sul linoleum. Melvin, con l'avambraccio sul ventre ferito, corse per raccogliere la sbarra. Si era fermata vicino al coltello. Lui lo raccolse. Quando si raddrizzò, vide che le sue gambe erano rosse fino ai piedi. Raggiunse il lavandino, stando attento a non scivolare e a cadere sul suo stesso sangue. Là, trovò uno strofinaccio umido. Col coltello stretto fra i denti, ripiegò lo strofinaccio e se lo premette sul taglio. «Mi hai fatto una brutta ferita, troia.» Lei si limitò a stare distesa là. Sanguinava dove la sbarra le aveva lacerato la pelle. Melvin ricordò che si era mossa e aveva emesso un suono. Non era priva di sensi. Stordita, forse, ma non incosciente. Ancora in grado di provare dolore. Le si mise a cavalcioni sulla schiena. Con la punta del coltello, pungolò la ferita. Lei emise un rapido e alto belato e i suoi muscoli guizzarono sotto di lui. Melvin staccò lo strofinaccio dalla propria ferita. Lo appallottolò strettamente, col sangue che gli sprizzava fra le dita. Poi le appoggiò il coltello fra le scapole, afferrò i capelli, le sollevò la testa dal pavimento, e le ficcò lo strofinaccio in bocca. Se era stordita, si riprese immediatamente quando Melvin le fece passare la lama sulla fronte. Ebbe uno scatto spastico come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Strillò nello strofinaccio. Batté le mani e le ginocchia contro il pavimento, cominciò a sollevarsi. Melvin continuò a incidere con una mano. Con l'altra le tirava i capelli. Con un rumore umido e lacerante lo scalpo cedette. Lui mantenne la stretta, e cavalcò la donna impazzita e urlante come un cavallo per un attimo prima che lei lo disarcionasse. Colpì il pavimento, rotolando. E si mise in ginocchio. E sollevò la massa di capelli. Essa oscillò, mentre la carne proveniente dalla sommità della testa faceva trapelare un circolo di sangue. «Scotennata,» disse, sogghignando e ansimando. Lei si pulì il sangue dagli occhi. Si guardò intorno. Strisciò verso la sbarra di acciaio. «No!» Melvin si sollevò di scatto. I suoi piedi scivolarono sotto di lui. Il suo
sedere batté sul pavimento. Scivolando e sdrucciolando sul sangue, strisciò verso di lei. Lei raggiunse la sbarra con una mano. Lui le conficcò il coltello nella schiena. Lei cadde. E provocò un rumore umido e schioccante quando colpì il pavimento. Melvin estrasse il coltello, lo sollevò, e pugnalò di nuovo Ace. CAPITOLO VENTINOVESIMO Vicki lo strinse più forte che poteva, schiacciandolo contro di lei, poi lasciò che le sue braccia ricadessero sul letto. Strofinò i piedi lungo la parte posteriore delle gambe di lui, e giacque con le braccia e le gambe divaricate sotto il suo peso. Lui era ancora dentro di lei. E lei era colma di lui, serena ed esausta. Jack si spinse abbastanza in alto da avere la faccia sopra di lei. Il suo torace non era più incollato a lei, l'aria entrò, fredda contro la pelle calda e umida di lei. La fissò negli occhi, scrutandoli. Sembrava molto solenne. Dopo una lunga pausa, disse, «Penso di amarti, Vicki Chandler.» Lei si sentì come se il suo cuore si stesse gonfiando. Sollevò le mani e gli strinse i fianchi. «Anch'io penso di amarti.» Lui si abbassò lentamente e delicatamente le baciò la bocca. Quando si spinse di nuovo su, sorrise, «Non è roba tua.» «Oh, sicuro.» «Posso riprenderlo o lasciartelo.» «Giusto.» Lei flette i muscoli, contraendoli intorno alla sua durezza dentro di lei, e vide spalancarsi gli occhi di Jack. «Pensandoci bene... » sussurrò. Lei sollevò le mani e gli passò le dita fra i capelli umidi. Attirò a sé la testa. Lo baciò. Sentì che lui cominciava a muoversi un po', a dimenarsi un po', premendo, incerto, da una parte e dall'altra come se esplorasse le morbide pareti che lo trattenevano. «Un ultimo bicchierino?» chiese lei. L'esplorazione s'interruppe. Jack sollevò la testa. «Non vorrai mica andartene?» «Infatti.» «Perché?» Lei non voleva andarsene. E ancor più, non voleva gettare un'ombra sul tempo che avevano trascorso assieme ponendovi termine con una discus-
sione. «Profonde e oscure ragioni,» disse, e cercò di apparire misteriosa. «Resta. Per favore.» «Non ho portato lo spazzolino.» «Ne ho uno in più.» «Oh sì?» Lei rise. «Di chi è? Qualcuno che conosco?» «È nuovo.» Aveva una tale tristezza negli occhi. «È...» «Non è per lo spazzolino, tesoro.» «Per cosa è, allora?» «Te e me.» «Ma io pensavo... » «Mi piacerebbe molto restare. E dormire con te. E svegliarmi domattina a letto con te accanto a me. E far colazione assieme. Sarebbe meraviglioso. Ma non voglio. È qualcosa... che preferirei mettere da parte.» Jack annuì. «Credo di capire. Qualcosa di speciale. Da mettere da parte per un'altra volta. Per esempio, per la luna di miele.» Lei sentì il calore affluirle sul viso. La sua gola si irrigidì. «Già, per quella... per esempio.» Lo fissò negli occhi. «Posso sentire il tuo cuore,» disse lui. «Mi piacerebbe di sì.» «Non preoccuparti, non lascerò che questa grossa questione ricada solo sulle tue spalle. Non sei il solo qua intorno che può mettere da parte le cose.» Non provava né delusione né sollievo, solo un senso di meraviglia ed eccitazione nel sapere che lui la voleva. Aveva detto che l'amava, ma alcune persone pronunciano queste parole con troppa facilità. Ora, lui si era spinto oltre. Le aveva fatto sapere che sentiva la necessità che lei stesse al centro della sua vita, fosse parte di lui. «Oh, Jack,» sussurrò. Gli avvolse le braccia intorno alla schiena e lo baciò. All'inizio delicatamente, sentendosi affettuosa e a suo agio e contenta, ma ben presto con impeto quando lui cominciò a muoversi sopra di lei, cominciò a scivolare dentro le sue profondità avvolgenti. La lingua di lui entrò nella sua bocca e lei ne succhiò la durezza mentre lui spingeva, premendola sul letto. Dopo essersi bendato nel bagno, Melvin tornò in cucina. Sfilò il coltello dalla schiena di Ace. Poi la capovolse. «Non sei più così tosta adesso, eh?» chiese.
Sembrava un rottame. Un rottame calvo. Aveva ancora parecchi capelli ai lati, ma la sommità era una calotta scorticata e scuoiata. La faceva sembrare un po' stravagante, come Lon Chaney nel Fantasma dell'Opera. E tutto quel rosso sulla faccia e le spalle gli rammentava Sissy Spacek in Carrie dopo che le avevano fatto cadere il secchio di sangue sulla testa al ballo studentesco. La mandibola incurvata e pendula la faceva somigliare a... Melvin non riuscì a pensare al personaggio di un film. Quella parte di lei sembrava semplicemente Ace dopo un battibecco con un attrezzo per pneumatici. Il resto di lei somigliava a quella bambola sexy nell'Ululato II. Quella che continuava a ululare e a mostrare le sue tettone. Per un momento, fissandola, Melvin si rammaricò di averla conciata così male. Se non le avesse cambiato in quel modo i connotati, avrebbe potuto portarla a casa e riportarla in vita. Ma non era quello il piano, comunque. Il piano era solo quello di farla fuori. La migliore amica di Vicki. Troia bugiarda. Lasciò cadere il coltello sul ventre di Ace. Poi raccolse lo scalpo dal pavimento e lo lanciò. Cadde con un tonfo morbido su uno dei seni. Lui rise per come appariva là sopra. Poi lo fece scivolare fin dove stava il coltello. Le afferrò i polsi e cominciò a trascinarla. Pesava. I suoi muscoli doloranti gli facevano male, e rammentò che si era piegato allo stesso modo appena la notte prima, per trascinare un corpo sul fiume. Ho ucciso Pollock per lei. Ho ucciso Gaines per lei. Possiede la fottuta clinica per merito mio, anche se non lo sa. Mi ha detto che sono speciale. Si è liberata di me ed è andata dritta da quello stronzo e ha cominciato a scopare con lui. Ne sarà molto dispiaciuta, però. Senza fiato, colando sudore sulla faccia di Ace, voleva solo mollarla e lasciarla nel corridoio. Ma la sua idea era splendida. Valeva un po' di fatica. Così continuò a trascinarla, lasciando delle tenui strisce bordeaux sul tappeto del corridoio. Qualcuno dovrà darsi un bel po' da fare, pensò, per pulire tutto.
Trascinò Ace oltre la sua tuta che giaceva in un mucchio accanto al vano della porta. E continuò a trascinarla. Finalmente, la portò nella camera da letto in fondo al corridoio. Doveva essere la camera di Vicki. Lasciandola sul pavimento, si sedette su un angolo del letto per riprendere fiato. La sua benda si era staccata durante il lungo tragitto. Pendeva da un'estremità. Il sangue era sparso sul ventre e l'inguine e le gambe. Rimise il bendaggio al suo posto, ma il cerotto non si attaccò. Così si limitò a tenere la benda là finché non riprese a respirare. Allora la lasciò oscillare. Trascinò Ace a letto, fece scivolare le braccia sotto il corpo, digrignò i denti, e sollevò. Fu come sollevare un dannato cavallo. Ma la mise sul letto. Strattonò e spinse finché non la collocò nel mezzo. Poi ficcò un cuscino sotto la testa per tenerla su. Sistemò le braccia in modo che fossero distese e ben lontane dai fianchi. Allargò le gambe. Ammirò la scena per alcuni momenti, si domandò cosa fare con lo scalpo, poi lo drappeggiò sulle dita del piede destro. Splendido. Poteva vedere l'espressione sulla faccia di Vicki quando gliel'avrebbe mostrata. Melvin trovò il coltello sul pavimento accanto al letto, dov'era caduto quando aveva sollevato Ace. Lo portò con sé, e percorse il corridoio fino alla stanza di Ace. Il tipo morto era a faccia in giù, col lato sfondato della testa contro il tappeto. Il tappeto sembrava aver assorbito galloni di sangue. Melvin scommise che, se vi fosse passato sopra, il sangue gli si sarebbe insinuato fra le dita dei piedi. Degli abiti erano sparsi sul pavimento ai piedi del letto. Boxer, scarpe e calzini, una camicia azzurra e i calzoni. Un'uniforme? Raccolse la camicia. Aveva un distintivo colorato sulla manica con su scritto, "Ellsworth Police Department". Un distintivo era appuntato sul petto. Un cartellino di plastica sull'altro taschino del davanti lo identificava come "Milbourne". «Santa merda,» borbottò Melvin. «Un altro piedipiatti.» I piedipiatti portano pistole. Un indumento di jersey giallo canarino formava un mucchio, e copriva in parte le mutande di quel tipo. Melvin lo prese. Una camicia da notte con Minnie sul davanti. Non appena la camicia fu tolta, scorse la cintura e il
revolver di Milbourne. Sogghignando, la agitò verso il cadavere. «Grazie, amico. Avevo lasciato la mia a casa.» La pistola sarebbe tornata utile quando Vicki si fosse fatta viva. Senza di essa, avrebbe potuto essere costretto a rovinarla. Ora, non avrebbe avuto bisogno di comportarsi con rozzezza. Gliela metto in faccia, e farà quello che dirò io. Vieni qui, cuoricino mio. Ho qualcosa per te. La mia Ace è nei guai, pensò, e ridacchiò. Portò il revolver e il coltello nel bagno. Li appoggiò sul bordo del lavandino. Poi gettò la benda nel cestino dei rifiuti. La benda sulla mano destra si era allentata, per cui la staccò e la gettò via. La maggior parte delle altre sue bende, notò, pendevano e stavano per cadere. Un paio si erano staccate, e dovevano essere andate a finire sul pavimento da qualche parte. Beh, nessun morso era più così recente. La sola ferita che realmente importava era il taglio sulla pancia. Si domandò se aveva il tempo di farsi una doccia. Sarebbe stato carino essere tutto pulito per Vicki. Brutta cosa, però, se lei fosse entrata in casa mentre lui era sotto la doccia. Non l'avrebbe neppure udita. Fa' in fretta, allora, decise. Entrò nella vasca, fece scorrere la tendina di plastica, chiudendola, e aprì il rubinetto. Quando l'acqua fu abbastanza calda sulla sua mano, girò il pomo della doccia. Lo spruzzo gli colpì la schiena. Lui si raddrizzò in modo da farsi investire il petto. Con la testa abbassata, vide il sangue che gli scorreva lungo la pelle. Colorò l'acqua di rosa davanti ai suoi piedi. La ferita di coltello cominciò a sanguinare. Non molto, però. Gli rammentò la Bocca di Ram-Chotep. Niente cuciture, però. Né denti. Si domandò se aveva bisogno di suture. Patricia avrebbe potuto farle. Aveva fatto un bel lavoro nel cucire la Bocca su Charlie. Una volta portata Vicki a casa con sé, non avrebbe potuto fidarsi di dare un ago a Patricia. Me lo ficcherebbe in un occhio. Devo solo liberarmi di lei, si disse Melvin. Premette un guanto di spugna contro la ferita, e voltò la schiena allo spruzzo. Avrei dovuto liberarmi prima di Patricìa, pensò. Ma non aveva pensato
che tutto sarebbe accaduto così in fretta. La cosa presentava dei problemi. Si sentiva sfinito. Ne aveva passate troppe, quella notte. E c'era ancora così tanto da fare. Se solo avesse potuto far sparire Patricia. Se solo avesse potuto portare Vicki a casa senza preoccuparsi di dover affrontare quell'altra. Forse avrebbe potuto tenere Vicki nel portabagagli della macchina. Entrando in casa senza di lei, sarebbe stato tutto più semplice. Se Patricia fosse stata dura da riuccidere come Charlie... Non volle pensarci. C'era così tanto da fare. Gli faceva sentire la mente fradicia. Con un sospiro colmo di stanchezza, si girò e chiuse l'acqua. Tenne il guanto di spugna sulla ferita, aprì la tendina, e uscì dalla vasca. Gocciolando, raggiunse la porta del bagno e la aprì. L'aria fresca entrò dal corridoio. Si mise in ascolto. La casa era silenziosa. Soddisfatto, poiché Vicki non era ancora arrivata, si allontanò dalla porta e si asciugò. Si avvolse l'asciugamano intorno alla ferita per fermare il sangue, mentre prendeva cerotto e garza dall'armadietto dei medicinali. Adoperò l'intero rotolo di garza, facendo girare il tessuto candido diverse volte intorno alla ferita. S'inzuppò di sangue. Il nastro non aderiva bene perché la pelle era scivolosa. Lui continuò ad asciugarsi e ad aggiungere altro cerotto. Finalmente, la benda parve ben salda. Prese il revolver e uscì nel corridoio. Sebbene gli piacesse l'idea di essere nudo quando Vicki si fosse fatta viva, comprese che avrebbe dovuto uscire fuori, condurla nella sua macchina, e portarla fino a casa. Se lo avesse fatto e qualcuno lo avesse notato nudo come un verme... Si avviò verso la tuta. Forse posso aspettare che arrivi lei, pensò. Avrebbe potuto essere ridicolo, però, cercare di tenere la pistola puntata su di lei e vestirsi contemporaneamente. Mise giù il revolver, e s'infilò nella tuta. Sembrava calda, castigante. Il tessuto aderì alla pelle umida. Lasciò il davanti aperto, raccolse la pistola, e si avviò nel corridoio verso la camera di Vicki. Entrò. Il suo cuore fece un balzo. Fissò il letto, la coperta macchiata e il cuscino.
Ace era scomparsa. Vicki, rannicchiata su un fianco, con la testa appoggiata sul braccio disteso di Jack, giaceva immobile e lo fissava. Solo alcuni momenti prima, gli aveva accarezzato il petto e lui aveva mormorato poche parole con voce troppo bassa perché lei potesse capirle. I suoi occhi erano chiusi. La sua bocca era un po' aperta. Stava respirando lentamente. Si domandò se era addormentato. Sperò di sì. Se dormiva, non le avrebbe procurato problemi per il fatto che lei se ne stava andando. Non voleva andarsene. Si sentiva indolente e proprio agio e al sicuro. Si sentiva come se fosse a casa sua. Era là che doveva stare, e la casa di Ace sembrava lontana da lì e vuota. Se non fosse andata via, sapeva che se ne sarebbe rammaricata. Voleva che ci fosse qualcosa di non fatto, qualcosa conservato per un'altra volta. Non conservato per lui solo, ma anche per se stessa. Un dono speciale tenuto nascosto, pregustato. Si erano donati i loro corpi e i loro cuori. Tutto quello che restava da donarsi era la libertà dal dolore della separazione. Era quello che entrambi volevano. Era quello che lei intendeva mettere da parte. Per la luna di miele? Questo l'avrebbe spinta ad aspettarla con ansia, e non importa se adesso voleva restare a tutti i costi. Lentamente, sollevò la mano dal petto di Jack e rotolò via da lui. Il letto emise soltanto un lieve rumore quando si alzò. Girandosi, abbassò lo sguardo su Jack. Tranne che per il lento sollevarsi e abbassarsi del torace, non si muoveva. Vicki avvertì il lieve alito della brezza contro la pelle. Era piacevole, adesso, ma non sarebbe rimasto così caldo col trascorrere della notte. Il lenzuolo superiore giaceva spiegazzato sul pavimento. Si accovacciò e lo raccolse, e lo distese sulla forma dormiente di Jack. Non si svegliò. Vicki scosse la testa. Delusa dentro di sé. Sapendo che non si era solo preoccupata per Jack. Un angolo della sua mente aveva sperato che il tocco del lenzuolo disturbasse il suo sonno e che lui cercasse di impedirle di andarsene. Si scoprì a desiderare di dargli il bacio della buona notte.
Giusto. Perché non lo svegli e la fai finita? Oppure torni a letto e ti addormenti? Vattene oppure no. Smettila di giocare. Risoluta... rassegnata... Vicki raccolse i suoi vestiti. Li portò nel corridoio. Prese in considerazione l'idea di spegnere la luce in camera da letto e di chiudere la porta. Ma l'oscurarsi della stanza avrebbe potuto svegliarlo. La porta avrebbe potuto cigolare. Così lasciò la stanza com'era, avanzò in silenzio lungo il corridoio e giù per le scale. In fondo alle scale, indossò gli abiti. Portò le scarpe nel soggiorno. Là, scorse la sua borsetta sulla poltroncina. Devo lasciargli un biglietto, pensò. Giusto, e forse si sveglierà mentre lo stai scrivendo... È solo un altro stratagemma per rinviare la partenza, si disse. Si sveglierà quando sarà solo. Non mi troverà, e ci resterà male perché sono andata via di nascosto. Devo lasciargli un biglietto. Vicki si sedette sulla poltroncina, aprì la borsetta e tirò fuori un blocchetto e una penna. La mente di Melvin turbinava mentre lui cercava. Ace era morta, maledizione! I morti non si alzano e scappano via! Dov'è? La finestra della camera da letto era aperta, ma la zanzariera stava ancora al suo posto. Si mise in ginocchio e scrutò sotto il letto. Si precipitò fino all'armadietto e spalancò l'anta. Raggiunse di corsa il corridoio. Si sentiva nauseato e stordito. Non era possibile che stesse accadendo. Era come un sogno disgustoso. Correndo lungo il corridoio, si domandò se poteva essere un sogno. Forse si era addormentato nella doccia e si sarebbe svegliato nel giro di un minuto soffocato dall'acqua... ed Ace sarebbe stata nel letto dove doveva stare. Ancora morta. Non sto sognando, si disse. Ace non è morta. Vicki, o qualcun altro, era apparsa mentre lui stava nella doccia e l'aveva portata via. Corse nel soggiorno. Il tappeto sembrava pulito. Se fosse venuta da questa parte, avrebbe dovuto esserci del sangue. A meno che qualcuno non la
stesse trasportando. Poi, forse... La porta principale aveva una catena di sicurezza. Lei doveva aver messo la catena in modo che Vicki non potesse sopraggiungere e sorprenderla col piedipiatti. Non era uscita da quella parte. Melvin irruppe nella cucina. Urtò una sedia con l'anca, mandandola a sbattere contro il bordo del tavolo. Trasalì, più per il rumore improvviso che per il leggero dolore. Facendo un passo di lato, voltò la testa. Il pavimento era macchiato e schizzato di sangue dove aveva ammazzato Ace. C'erano anche impronte di piedi. Ma non c'era Ace. La porta a zanzariera era chiusa. La porta interna di legno col bordo scheggiato era aperta. L'aveva lasciata lui stesso aperta, per cui... Improvvisamente si sentì come se avesse avuto una ginocchiata nello stomaco. Si piegò, boccheggiando, e fissò lo sguardo. Sulle macchie rosse del linoleum che conducevano alla porta. Il suo sguardo le seguì a ritroso fino alla zona più sporca. Gemette. Poteva vedere Ace. Vederla mentre entrava barcollando dal corridoio, scivolava sul sangue, si spostava da questo lato, lo seguiva fino alla porta. Per avere conferma di quello che già sapeva, si avvicinò alla porta a zanzariera e toccò la maniglia. Appiccicosa. Le punte delle dita vennero via sporche. «NO! NO NO NO... !» Si batté una mano sulla bocca per bloccare le grida. Devi calmarti, pensò. È viva. È uscita. È andata via. Manderà tutto a puttane. No. Aprì la porta e balzò sul patio. Scrutò il buio del cortile posteriore. Ti troverò. Ti troverò, puttana! C'era una specie di stanza verso la fine del prato. Una lavanderìa o qualcosa del genere. Melvin corse, spalancò la porta e accese la luce. Niente sangue sul pavimento. Ma esaminò una piccola rientranza vicino alla porta. C'era solo una toilette. Superò correndo una lavatrice, una bacinella, un'asciugabiancheria. Aprì un paio di ante di una credenza in fondo alla stanza. Poi si precipitò fuori.
E se lei avesse raggiunto la casa di un vicino? I piedipiatti potevano già essere in arrivo. Scommetto che non può parlare. Per come le ho sistemato la mandibola, certamente no. Avrebbero comunque chiamato gli sbirri. Corse. Corse fino all'angolo della casa. L'erba era umida ed elastica sotto i suoi piedi nudi. Aveva lasciato le scarpe in cucina. Non c'era tempo di preoccuparsene. Si mise a correre lungo la casa. Tutto quello che importava era raggiungere la sua macchina. Raggiungere la sua macchina prima che si fossero fatti vivi i piedipiatti. E andarsene. Guidare fino all'altra casa. E far scoppiare il cervello allo stronzo. E mettere le mani su Vicki. Portarla a casa. E Patricia? Questa è bella. L'intero fottuto mondo gli stava cadendo sulla testa. Patricia era solo un piccolo pezzetto. La minore delle sue preoccupazioni. Preoccupati solo di tirarti fuori di qui e trovare Vicki. Quando raggiunse il cortile anteriore, smise di correre. Si ficcò il revolver nella tuta e lo bloccò contro il fianco. Scrutò il prato, sperando di trovare Ace stesa sull'erba. Ma non c'era. Sul marciapiede, guardò da una parte e dall'altra. Nessun segno di lei neppure là. Desiderò di aver parcheggiato più vicino. La sua macchina era all'estremità dell'isolato. Voleva tornare indietro, ma si costrinse a proseguire. Osservò la casa vicina mentre la oltrepassava. Non vide nessuno che lo stesse scrutando. Forse Ace ha raggiunto la casa dall'altro lato, si disse. Potrebbe essere andata ovunque. Continuò a guardare indietro, quasi aspettandosi di trovare qualcuno in procinto di aggredirlo, strillando... forse qualcuno con una pistola. Finalmente, raggiunse la macchina. Salì. Con mano tremante, inserì la chiave dell'accensione. Il suo cuore ebbe uno sgradevole sobbalzo quando dei fari apparvero davanti, sulla strada. Piedipiatti? Si distese sul sedile e rimase là, ansimante e in ascolto. Il rumore dell'automobile si avvicinò sempre di più. Lo superò e si affievolì. Restando abbassato, girò la chiave. Il motore si accese.
Si spinse su, diede uno sguardo alle luci posteriori rosse nello specchietto laterale, quindi ingranò la marcia e svoltò l'angolo. Una macchina era parcheggiata nel viale d'accesso di Ace. Non aveva detto che avrebbe avuto compagnia quella notte. Forse avrà immaginato che sarei rimasta da Jack, pensò Vicki, così non si è preoccupata di avvertirmi. Deviò la Mustang verso il marciapiede di fronte alla casa. E adesso? si domandò. Non voglio essere d'intralcio. Si domandò chi fosse l'uomo. Forse non è un uomo. Certo che lo è. Ace aveva rotto con Jerry un paio di settimane prima, e non aveva fatto cenno di essersi vista con qualcun altro. Non aveva avuto appuntamenti da quando Vicki era andata da lei. Forse aveva fatto pace con Jerry. Potrebbe essere chiunque, però. Vicki sospirò. Era stata così riluttante a lasciare Jack. Ci era voluta tutta la sua forza di volontà per resistere all'impulso di restare con lui. E ora. Se avesse saputo che Ace aveva compagnia, probabilmente non lo avrebbe lasciato. Forse dovrei fare dietro front, pensò, e tornare da lui. No. Ho preso la mia decisione. Era una giusta decisione. E ora sono qui. Vicki scese dalla macchina. Attraversò la strada e s'incamminò lungo il viale fino alla porta principale. Fece squillare il campanello. Attese. Lo fece squillare di nuovo. L'avvertimento è più che sufficiente, decise. Aprì la porta con la chiave... per tre pollici, prima che la catena di sicurezza la bloccasse. Splendido, pensò. Spero che non siano addormentati. Premette ancora il pulsante, alcune volte, e udì lo squillo del campanèllo nella casa. «Andiamo, gente,» borbottò. Chinandosi, avvicinò la faccia al varco e gridò, «Ace? Ace, sono io. Mi fai entrare?» Nessuno rispose. Okay. Devono essere nella stanza di Ace con la porta chiusa. O addormentati o in un pessimo momento per fermarsi, troppo indaffarati per es-
sere interrotti. Vicki richiuse la porta. Fece cadere le chiavi nella borsetta, e girò intorno alla casa. La luce spuntava attraverso la porta a zanzariera. La porta di legno era aperta. Se la zanzariera non è chiusa... Tentò la maniglia. La porta si aprì e lei entrò in cucina. E si paralizzò. Sangue. Impronte di piedi nel sangue. E là... nel centro della cucina... Dio, cos'è accaduto qui ? Fissando il sangue, fece un passo avanti e spinse qualcosa col piede. Abbassò lo sguardo. Una scarpa di pelle da uomo. Una di un paio che era proprio davanti alla porta. Accovacciandosi, la raccolse e la girò. La suola era sporca di nero, come se qualcuno avesse camminato su chiazze di grasso. Melvin? Melvin è stato qui? Forse è ancora qui. Era la sua macchina sul viale? Dio, Ace, no! «ACE!» Un rumore improvviso, come di una sedia che viene trascinata sul pavimento, fece trasalire Vicki e le fece girare di scatto la testa verso destra. Lasciò cadere la scarpa. Raggomitolata sotto il tavolo della cucina, che fissava Vicki attraverso le gambe delle sedie, c'era una donna nuda. «Ace?» sussurrò Vicki. Non sembrava Ace. Non con quel sangue, la faccia deformata. Non con quel cranio scorticato. Ma il corpo... «Cosa ti ha fatto!» Proprio mentre udiva se stessa pronunciare di colpo la domanda, Vicki si lanciò verso il tavolo. Si fece passare sopra la testa le cinghie della borsetta in modo da farsela pendere davanti al petto, poi scostò la sedia più vicina. Sollevò il tavolo, capovolgendolo. Il vaso di fiori volò via e colpì la parete. Il bordo del tavolo si abbatté sul pavimento. Si lasciò cadere sulle ginocchia davanti ad Ace. Ingobbendosi, vide che il sangue sgorgava da due tagli sulla schiena. Colava, in lenti rivoli. Ferite di coltello? Quanto profonde? Quanto danno aveva fatto il coltello, penetrando? Non c'era modo di dirlo. Vicki la fece girare.
Ace la fissò, battendo le palpebre. «Va tutto bene,» sussurrò Vicki. Anche se la parte anteriore del corpo era macchiata di sangue, non c'erano altre ferite che Vicki potesse vedere. Ace sollevò un braccio. Stretta in mano c'era una ciocca di capelli. La sollevò come offrendola a Vicki. «Tieni duro, dolcezza. Ti porterò all'ospedale.» Sollevò l'altra mano di Ace. Il polso era debole. Guardò il telefono a muro all'altro lato della cucina. E se Melvin era ancora nella casa? No. Mi sarebbe già saltato addosso. Ma chiamare un'ambulanza... l'ambulanza dei volontari. L'allarme suonerebbe in tutta la città come la notte prima. Gli addetti all'ambulanza lascerebbero le loro case, e raggiungerebbero la stazione dei vigili del fuoco... Ci impiegherebbero dieci minuti per arrivare qui. O di più. Potremmo essere già a metà strada dal Blayton Memorial. «Andiamo,» disse Vicki. Si mise a cavalcioni di Ace, le afferrò le braccia appiccicaticce e tirò. Ace si sollevò in posizione seduta. «Devi darmi una mano,» mormorò Vicki. «Puoi farlo?» Girando in fretta dietro Ace, si acquattò e la abbracciò sotto i seni e sollevò. Ace puntò i piedi sul pavimento. Vicki fece un passo indietro, barcollando, quando il peso gravò su di lei. Poi, Ace fu in piedi... in equilibrio, almeno per il momento. Vicki le si mise davanti. «Afferrati.» Sentì Ace ricadere contro di lei. Ma era preparata. Restò dritta. Mentre le braccia di Ace le circondavano le spalle, Vicki si chinò leggermente e allungò le mani all'indietro. Afferrò le natiche di Ace, tirò verso l'alto e si raddrizzò di scatto. Con Ace sulle spalle, uncinò le mani sotto le grosse cosce e si avviò vacillando verso la zanzariera. Usò il ginocchio di Ace per spingere la maniglia, sbloccando il gancio. Spalancò la porta e uscì con passo pesante. E corse. Non pensava che avrebbe potuto correre, ma corse. Ace sembrava il piccolo di un gigante a cavalluccio. Il suo peso spingeva verso il basso a ogni passo che Vicki faceva. Ma Vicki resistette. Continuò a correre. Lungo la casa, attraverso il cortile anteriore, con i polmoni brucianti, le gambe di piombo. Se solo ci fosse stata la macchina di Ace nel viale.
Di chi era? Che importa? Le importava solo di raggiungere la Mustang. Molto più in là. All'altro lato della strada. Battendo le palpebre, scacciò il sudore dagli occhi. Respirava con affanno. Ace cominciava a scivolare. Tirò su le cosce con uno strappo e la spinse più in alto e continuò a correre. Sul marciapiede e attraverso la strada. Giunta alla Mustang, si girò su se stessa. Ace urtò il fianco della macchina. Vicki lasciò le gambe. Ace lasciò la presa. Bloccandola con una mano contro il petto, Vicki aprì la portiera. Spinse in avanti lo schienale del guidatore. Ace, girandosi, urtò contro di lei. Vicki la afferrò, la guidò, la spinse nella macchina. Ace cadde sul sedile posteriore. A faccia in giù, si contorse sul cuscino. Vicki raggiunse in fretta il portabagagli. Si fece scivolare sopra la testa le cinghie della borsetta, tirò fuori le chiavi, e aprì il portabagagli. Al debole chiarore delle luci stradali, scorse la coperta di Ace. Fin da quando Ace aveva cominciato a guidare automobili, aveva sempre tenuto una coperta nel portabagagli. Se mai uno debba farsi una dormitina in un bosco. Vicki tirò fuori la coperta, chiuse, sbattendolo, il portabagagli, e corse fino alla portiera aperta. Ace era su un fianco, rannicchiata. Vicki si protese nella macchina e le stese la coperta addosso. «Non vorrai mica che i medici del Pronto Soccorso sbavino sul tuo corpo nudo,» disse. La coperta era per il tepore, non per il pudore. Trattamento standard per lo shock. Vicki le diede una pacca sull'anca attraverso il tessuto morbido, poi uscì frettolosamente, tirò indietro lo schienale e si mise al volante. Avviò il motore, chiuse la portiera, ingranò la marcia e partì a razzo. «Peccato che tu non sia in condizione di apprezzare la cosa, dolcezza,» gridò. «Questo sarà il più rapido viaggio fino a Blayton che la storia ricordi.» CAPITOLO TRENTESIMO Come cortesia professionale, suppose, Vicki fu condotta nell'ufficio deserto del primario di chirurgia invece che nella sala d'attesa. Le fu detto di mettersi a suo agio. Poi, venne lasciata sola.
Con dei fazzolettini da carta presi da un contenitore sulla scrivania si pulì più sangue che poté dalle mani e dagli abiti. Voleva sedersi, ma sapeva che il dorso della camicetta doveva essere insanguinato e non voleva rovinare la tappezzeria di pelle. La sua gonna era pulita davanti. La girò, poi si sedette sulla sedia morbida e si sporse in avanti, con i gomiti sulle gambe. Trasalì al rumore della porta che si apriva. Mi dispiace, Dr. Chandler, ma non siamo riusciti a... L'infermiere che entrò aveva una tazza di caffè su un vassoio con una bustina di zucchero e un piccolo astuccio di panna. «Desidera qualcos'altro? La cucina è chiusa, ma abbiamo un distributore automatico nella sala d'aspetto.» Vicki scosse la testa. «Grazie, non...» L'infermiera appoggiò il vassoio sulla scrivania davanti a lei. «Abbiamo avvisato la polizia, Dr. Chandler. Dovrebbero essere qui fra poco. Vorranno parlare con lei.» Vicki annuì. «Sono sicura che la sua amica starà bene.» «Grazie,» mormorò. L'infermiera poteva anche non essere certa di quello che diceva, ma Vicki apprezzò le parole gentili. Quando rimase sola, prese la tazza. La portò alla bocca. Il caffè traboccò, schizzandole, caldo, sulla coscia. Ricordò di aver scherzato con Jack sul fatto di rovesciare il caffè. Caffè nero, divano bianco. Sembrava successo anni prima. Si domandò, vagamente, se lui si era già svegliato e aveva scoperto che lei se n'era andata. Impiegò entrambe le mani per tenere la tazza ferma. Bevve, e mise giù la tazza. Jack. Grazie a Dio non sono rimasta. Ace sarebbe sicuramente morta. Potrebbe ancora morire. Vicki desiderò di stare con Ace nella sala operatoria. Aveva chiesto di unirsi all'equipe chirurgica, ma il dottore le aveva lanciato una rapida occhiata e aveva scosso la testa. «Mi dispiace,» aveva detto. «Non è il caso. Sei anche tu sotto shock.» Poi aveva dato disposizione all'infermiera di condurre Vicki nel suo ufficio e di "badare a lei". Vicki suppose che il dottore avesse ragione di tenerla fuori dalla sala operatoria. Nelle sue condizioni, certamente non avrebbe potuto essere d'aiuto ad Ace e la sua presenza avrebbe potuto essere una distrazione per gli altri.
Ma odiava restare semplicemente seduta là, e non sapere. Ace poteva essere già morta. Era stata praticamente incosciente per tutto il tragitto fino all'ospedale. Starà bene, si disse Vicki. Starà benissimo. Stapperemo una bottiglia di Champagne al suo ritorno a casa, e ci prenderemo una sbornia solenne, e rideremo per le cose più stupide... Vicki abbassò la faccia nelle mani e pianse. Entrò l'infermiera, seguita da due uomini in calzoni e camicie sportive. Vicki si alzò e li fronteggiò. Entrambi avevano folti baffi. Il più anziano, grigio alle tempie, indossava un'imbracatura di pelle che sosteneva un'enorme pistola rovesciata sotto l'ascella. L'altro, con neri capelli ricciuti, aveva un piccolo revolver nella fondina agganciata alla cintura. Vicki tentò di leggere la faccia dell'infermiera. Appariva solenne. «Ha saputo qualcosa di Ace?» «È ancora in sala operatoria. Questi signori sono gli investigatori Gorman e Randisi della polizia.» Vicki si asciugò gli occhi. Guardò i due uomini. Randisi, quello coi ricci, disse, «Vorremmo farle alcune domande circa... » «Era Melvin Dobbs. È stato lui.» «Dobbs?» chiede Gorman. «Quel Melvin Dobbs? Lo psicopatico? Il tipo che internarono dopo che fece quella bravata coi cavi elettrici sulla ragazza morta? Quando è stato, quindici anni fa?» «Proprio lui,» disse Vicki. Randisi lanciò un'occhiata all'infermiera. Con un cenno di assenso della testa, lei si voltò e uscì dalla stanza. «Lei era là quando c'è stata l'aggressione?» chiese lui. «No. Melvin se n'era andato quando sono arrivata. Penso che se ne fosse andato. Non ho guardato intorno. Ho soltanto portato Ace - Alice - via da là più in fretta che potevo.» «Cosa le fa pensare che sia stato questo Dobbs?» chiese Gorman. «Non potrebbe essere stato nessun altro. È andato nella casa... a causa mia. Non so perché, forse solo per vedermi e parlarmi, e forse Ace ha cercato di mandarlo via. Vedete, pensava che fossi là. Lui era con me prima, e gli avevo detto che stavo per andare a casa. Forse voleva uccidermi o... rapirmi o qualcosa del genere. Non so.» «Aveva litigato con lei?» chiese Randisi.
«Lo avevo portato fuori a cena. Io l'ho... stuzzicato. L'ho spinto ad ammettere che aveva ucciso Dexter Pollock.» I due poliziotti si guardarono. «Lo so,» disse Vicki. «Tutti pensano che sia stata l'infermiera. Patricia Gordon. Ma Melvin l'ha indotta a farlo.» «Come c'è riuscito?» Vicki era sul punto di parlargli dell'ipnosi. E di come sospettava che lui avesse anche usato l'ipnosi per persuadere Charlie Gaines a proporle di entrare in società, e poi avesse organizzato l'incidente di Charlie. Ma si fermò. Sarebbe stato troppo simile a un trucco illusionistico. Quegli uomini non l'avrebbero bevuta. La sua credibilità avrebbe rischiato di andare in pezzi. «Non so come ha fatto,» rispose. «Non me lo ha detto. Ma ha confessato di averla indotta a uccidere Pollock. È stato poco prima che lo lasciassi. Dev'essersi innervosito, ha avuto paura che lo denunciassi, così è venuto a casa, pensando che io fossi là.» «E invece dov'era?» chiese Randisi. «Con un amico. Jack Randolph. A casa sua.» «Così,» disse Randisi, «lei è andata a cena con Dobbs, gli ha fatto confessare di aver ucciso Pollock, poi gli ha augurato la buona notte e se n'è andata dritta a casa di questo Randolph. Perché Randolph? Perché non è andata a riferire tutto alla polizia?» «Questa è buona,» borbottò lei. «In che senso?» «Avevo già parlato alla polizia di Ellsworth del mio sospetto che fosse stato Dobbs a uccidere Pollock. Si sono comportati come se fossi una specie di svitata.» Guardò Randisi negli occhi. «E non lo sono.» «Lei non mi sembra tanto svitata,» disse Gorman. «A chi lo aveva detto a Ellsworth?» chiese Randisi. «A Joey Milbourne. E lui ha riferito a Raines. Immagino che si siano fatti un bel po' di risate.» Gorman mormorò qualcosa. Suonò come "teste di cazzo", ma Vicki non poté esserne certa. «Così lei ha pensato,» disse Randisi, «che non fosse il caso di riferire la sua informazione a Raines. Tanto lui non avrebbe agito.» «Esatto. L'uomo da cui sono andata, Jack, è un avvocato. Abbiamo discusso della situazione. Aveva deciso di aspettare stamane, e di andare lui stesso da Raines. Se Raines non lo avesse ascoltato, aveva stabilito di incontrare un suo amico dell'ufficio del Procuratore Distrettuale. In un modo
o nell'altro, immaginavamo di poter spingere qualcuno a interessarsi della cosa.» «Adesso s'interesseranno,» disse Gorman. «Dove abita questo Dobbs?» «A Ellsworth. La sua casa è in... Elm Street, penso.» Gorman fece un'espressione acida. «È alla periferia della città,» disse a Randisi. «Dov'è avvenuta l'aggressione?» «La casa di Ace è sulla Terza.» «Maledizione.» Gorman scosse la testa. «Cosa c'è che non va?» gli chiese Vicki. «Apparteniamo al Dipartimento di Polizia di Blayton. Non abbiamo giurisdizione a Ellsworth.» «Per cui sono cavoli di Raines,» disse Randisi. «Lo contatteremo subito. Se ci procura... fastidi, noi...» «C'è dell'altro,» disse Vicki. «Se sarà necessario convincerlo. Dobbs ha lasciato le sue scarpe sul pavimento della cucina. So che sono le sue. Gliene ho viste addosso di simili alla sua stazione di servizio. E hanno delle macchie di grasso sulle suole.» «Faremo in modo che Raines lo arresti,» disse Randisi. «Se fa stronzate, lo faremo noi.» Vicki guardò i due uomini. «Sono davvero... Grazie. Siete fantastici. Stavo cominciando a pensare che tutti i piedipiatti fossero teste di cazzo.» Gorman arrossì. Solo un po'. Melvin era giù nel suo laboratorio quando Patricia chiamò dalla cima delle scale. «Stanno arrivando. Sono appena scesi dalla macchina.» «Quanti?» chiese lui. «Due.» Melvin salì le scale, guardando Patricia. Indossava una delle sue camicie hawaiane azzurre, e nient'altro. Le falde, ricadendo sulle cosce, si allargavano leggermente, lasciandogli vedere un'accenno di riccioli biondi. Sopra l'unico bottone allacciato sulla pancia, la camicia si apriva abbastanza da mostrare i lati dei seni. Stava benissimo. Melvin l'aveva abbigliata per l'occasione. Mentre lui raggiungeva la sommità delle scale, il campanello squillò. «Sei pronta?» chiese. Patricia annuì. C'era paura nei suoi occhi.
Lui la baciò delicatamente sulla bocca. «Ehi, non preoccupati.» «Non voglio perderti, Melvin.» «Non succederà. Fai solo quello che ti ho detto.» Il campanello suonò ancora. Patricia si voltò. Melvin la seguì, osservando la sgargiante camicia luccicare sulle protuberanze mobili delle natiche. «Son sicuro che questi piedipiatti sono una coppia di checche,» disse. Patricia si voltò a guardarlo e sorrise. Il campanello suonò di nuovo. Melvin si fermò contro la parete vicino alla porta anteriore. La porta lo avrebbe nascosto quando si fosse spalancata. Patricia staccò la catena di sicurezza e lo guardò. Melvin annuì. Lei aprì la porta solo di pochi pollici. Scrutò attraverso il varco. «Sì?» chiese. «Sono spiacente di disturbarla a quest'ora, ma... Questa è la casa di Melvin Dobbs?» «Sì?» «Sono il Comandante Raines del Dipartimento di Polizia di Ellsworth. Questo è il sergente Woodman.» Il capo in persona, pensò Melvin. E sembrava piuttosto nervoso. Probabilmente non vedeva un bel pezzo di figliola come quella da parecchio tempo. Probabilmente stava tentando una sbirciata nella camicia. Il capo aveva realizzato di essere in presenza della Patricia Gordon, infermiera diplomata, che aveva fatto fuori Pollock? «È la casa di Mr. Dobbs?» chiese Raines. «Sì, è di sopra. Volete entrare?» Patricia tirò il pomo e indietreggiò. La porta si avvicinò a Melvin. Non gli permetteva di vedere gli uomini, ma lui vedeva Patricia oltre il bordo. Lei continuò a camminare all'indietro verso le scale. La camicia tremolava sopra i seni. L'apertura sotto l'unico bottone sembrava più larga di prima. I suoi capelli luccicavano nella luce della lampada. Le sue cosce erano di un bianco abbagliante. Melvin sogghignò. Udì i due uomini che avanzavano. Una spalla e il braccio sinistro entrarono nella sua visuale. «Lo chiamo subito,» disse Patricia, fermandosi ai piedi delle scale. «Grazie.» Lei si girò su se stessa. La falda della camicia si sollevò, concedendo
una fugace visione delle natiche. Melvin udì un debole soffio, quasi un fischio. «Melvin!» gridò lei su per le scale. «Ci sono dei signori che desiderano vederti.» Attese un momento. «Melvin?» gridò ancora. Voltandosi verso gli uomini, scosse la testa e roteò gli occhi verso l'alto. «Dev'essersi addormentato. Vado sopra a svegliarlo?» «Vengo con lei,» disse Raines. «Woodman, tu aspetta... » Patricia si voltò in fretta e corse su per le scale, facendo i gradini a due a due, con la falda della camicia che sventolava. I due sbirri scattarono dietro di lei. «Melvin!» gridò lei verso la cima. «Sbirri! Corri!» Melvin si staccò dalla porta. «Ferma!» sbottò Raines, sfoderando il revolver, e puntandolo contro di lei. Patricia si fermò. Si voltò. Aveva slacciato il bottone mentre saliva. Il davanti della camicia si era spalancato. Alzò le braccia. I due poliziotti, con le pistole puntate, rimasero ai piedi della scala, a fissarla. Melvin mirò alle loro schiene. Fece fuoco con entrambi i revolver, contemporaneamente. Continuò a sparare, tirando i grilletti più rapidamente che poteva. Attraverso le detonazioni, udì uno degli uomini strillare «OW! OUCH!» mentre i proiettili lo scaraventavano a terra. L'altro taceva. Quando entrambe le pistole furono scariche, uno sbirro giaceva a faccia in giù sulle scale e sembrava che stesse cercando di abbracciarle. L'altro, che era riuscito a voltarsi dopo il primo colpo che lo aveva colto alla spalla, stava seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata alle scale, le gambe distese. Fissava il soffitto e si muoveva a scatti mentre il sangue schiumava dalla sua bocca. Sogghignando a Patricia, Melvin fece roteare le pistole e le ficcò nelle tasche. «È stato l'O. K. Corral per questi hombres,» disse con voce strascicata. Patricia corse giù per le scale. Saltò sopra i corpi e gettò le braccia intorno a Melvin. Stava tremando. Si strinse con forza contro di lui. Vicki sedeva, china in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e aspettava. I due poliziotti, Gorman e Randisi, erano andati a telefonare al Comandante Raines ormai da parecchio. Più tardi, Gorman era tornato solo per raccontarle com'era andata.
«Raines ha detto che investigherà lui,» le aveva detto. «Investigare? Tutto qui?» «Non è un suo grande ammiratore.» «L'avevo notato.» «Ma non può ignorare l'aggressione a Miss Mason, Ace. Anche un piedipiatti dalla mente ristretta e testarda come Raines deve fare qualcosa se uno dei suoi concittadini viene conciato in quel modo. Ma lui non vuole credere che quel Dobbs sia il responsabile. Non sulla base dei suoi sospetti. Ha detto che questo Dobbs le "brucia il culo".» La faccia di Gorman arrossì quando lo disse. «Spiacente, ma queste sono state le sue parole. Ha detto che lei sta cercando di far mettere dentro Dobbs così lui la smetterà di... romperle l'anima.» «Immagino che siamo state noi a dare a Joey Milbourne questa idea, lunedì mattina,» aveva detto Vicki. «Joey Milbourne, uno dei suoi uomini. Dobbs aveva minacciato la vita di Pollock proprio davanti a noi, e noi lo abbiamo detto a Milbourne. Ma lui voleva sapere perché eravamo uscite con Dobbs, e Ace ha dovuto dirgli che quel verme aveva una cotta per me. Così Milbourne ha convinto Raines che eravamo delle rompiscatole. E quindi non hanno fatto nulla con quel bastardo.» Gorman aveva scosso la testa. «Non c'è alcuna giustificazione per quegli idioti,» aveva detto. «Qualsiasi poliziotto che valga un soldo avrebbe dovuto andare da Dobbs per interrogarlo su quel punto.» «Così adesso Raines vuole investigare? Sulla parola di una svitata che nutre... un rancore?» «Gli ho fatto capire che sarebbe stato molto meglio.» Vicki aveva quasi sorriso. «Scommetto di sì.» «Sono lieto che lei ci abbia parlato delle scarpe, però. È questo che ha funzionato, e che lo ha spinto finalmente a decidere che c'era una ragione valida per andare in quella casa a fare una "chiacchierata" con Dobbs.» «Stanotte?» Gorman aveva annuito. «Ha detto che lo avrebbe fatto subito.» Adesso, seduta sola nell'ufficio, Vicki guardò l'orologio da polso. Quasi le tre del mattino. Gorman se n'era andato appena dopo le due. Il che significava che Raines aveva probabilmente già fatto la sua "chiacchierata" con Melvin. In questo momento, Melvin potrebbe essere in galera. O forse è riuscito, con le parole, a convincere Raines della sua innocenza.
Il che non durerebbe a lungo, si disse. Non appena Ace riprenderà conoscenza e farà il nome di Melvin... non nominerà nessuno con la mandibola in quello stato. Basterà darle una penna e un foglio. Se riprenderà conoscenza. Certo, si disse Vicki. Se la caverà. Non può morire. Colpa mia. È tutta colpa mia. Gesù, Ace, per favore. Vicki si alzò vacillando mentre la porta dell'ufficio si spalancava. Entrò l'infermiera. «Come sta?» «Non mi è stato detto niente sulle sue condizioni.» Vicki annuì. «Beh, nessuna nuova buona nuova.» «Non ho detto che non avevo notizie. Qualcosa è accaduto. Ho pensato che lei avrebbe dovuto saperlo. Abbiamo appena ricevuto l'incarico di chiamare il Dr. Goldstein. È il chirurgo plastico del nostro staff.» Vicki fissò l'infermiera. Un chirurgo plastico! Per lo scalpo di Ace? Non se ne sarebbero interessati, se... «Oh, grazie a Dio,» mormorò. «Sta per arrivare.» Vicki si accasciò nella sedia. «Non so quanto tempo rimarranno ancora dentro, ma si può presumere che la sua amica sia in condizioni stabili. Che ne direbbe di andare a casa a rimettersi in sesto e a riposare un po'? Se l'è vista brutta stanotte. Dev'essere esausta. E ci vorranno delle ore prima che possa farle visita. Perché non chiama verso le nove o le dieci? Le faremo sapere se potrà vederla. Veramente. Aspettare qui per tutto il tempo... Si sentirà molto meglio se andrà a casa e dormirà qualche ora.» Vicki annuì. «Già,» mormorò. Ace... vivrà. La terribile rigidità dentro di lei parve allentarsi, come se il ghiaccio fondesse, e il calore fluisse attraverso il suo corpo, calmandola, e facendola sentire debole. Ace. Ce l'hai fatta, Ace. Ce l'hai fatta.
Vicki guidava. Guidava nella notte calda verso Ellsworth, anche se non era del tutto sicura di dove sarebbe andata, una volta là. Sapeva dove voleva andare. A casa di Jack. Ma non le piaceva l'idea di arrivarci in quel modo, tutta coperta di sangue secco. Forse avrebbe dovuto prima andare a casa di Ace, lavarsi, indossare abiti puliti. Non posso, comprese. Non posso camminare in quella cucina. Inoltre, sarebbe stato stupido entrare da sola nella casa di Ace. Per quel che ne sapeva, Melvin non era stato catturato. Probabilmente si trovava in prigione in quel momento, ma se non era così? Se era tornato in quella casa, e stava là ad aspettarla... con un coltello? Prese in considerazione l'idea di fare dietro front con la macchina e di guidare fino alla casa dei suoi genitori. Le tenevano sempre la stanza pronta per le visite notturne, e alcuni dei suoi vestiti erano là. Avrebbe potuto fare una doccia, schiacciare un pisolino, poi tornare all'ospedale, che si trovava a pochi minuti dalla loro casa. Ma avrebbe dovuto parlare parecchio... dare un mucchio di spiegazioni. E non se la sentiva. E perché poi spaventarli con tutto quello che era accaduto? Sarebbero stati male quando lo avrebbero saputo. Preferiva risparmiare loro l'agonia il più a lungo possibile. Quando tutto fosse finito... veramente finito, ed Ace avesse recuperato definitivamente, e Melvin fosse stato dietro le sbarre definitivamente... sarebbe venuto il momento di parlarne con loro. Fa' loro visita domani... oggi, rammentò a se stessa. Era mercoledì già da alcune ore. Vai a trovarli questo pomeriggio o questa sera. È ancora presto. Risparmiali fino a quel momento. Parcheggiò davanti alla casa di Jack. Scostandosi dal sedile per scendere, sentì che la camicetta si staccava dalla tappezzeria. Stai per avere uno shock, caro Jack. Quando si raddrizzò, le gambe le tremavano. Si appoggiò alla portiera aperta per mantenere l'equilibrio. Il non aver dormito, la tensione, il trasportare Ace sulla schiena e il sollievo che aveva provato durante la mezzora passata avevano riscosso il loro pedaggio. L'infermiera aveva ragione. Era "esausta". Non solo dolorante alle braccia, alla schiena e alle natiche e alle gambe, ma completamente sfinita. Tirò un profondo respiro. Anche i polmoni sembravano pesanti e stan-
chi. È quasi finita, si disse. Chiuse la portiera, girò davanti alla macchina, con passo strascicato, gemette quando inciampò sul marciapiede, e si diresse verso il portico illuminato di Jack. Sarebbe stato bellissimo stringerlo, accasciarsi contro il suo corpo caldo e forte. Prima una doccia. Si domandò se sarebbe stata in grado di stare in piedi abbastanza a lungo per una doccia. Forse Jack entrerà nella vasca con me, mi sosterrà. Il pensiero mandò un fremito attraverso Vicki che scacciò un po' della stanchezza. Saggiò la porta. Era chiusa a chiave. Naturalmente. Si era assicurata che fosse chiusa quando se n'era andata. Premette il campanello e attese, sperando che il suono fosse abbastanza forte da svegliarlo. Prima che potesse premere di nuovo, la porta si spalancò. CAPITOLO TRENTUNESIMO Fissandola, Jack si scostò dalla porta e lasciò entrare Vicki. Lei si chiuse la porta alle spalle. «Cosa ti è accaduto?» le chiese lui. Era accigliato. Sembrava pallido, e Vicki si domandò se stava in piedi da parecchio tempo, e in ansia. «Vengo dall'ospedale,» disse. «Vi ho portato Ace. Melvin l'ha aggredita stanotte.» «Mio Dio,» mormorò lui. Allungò una mano e attirò Vicki contro di sé. «Sono in disordine,» lo avvisò. «Che importa?» Le accarezzò la schiena. Lei gli mise le braccia intorno. L'accappatoio a spugna era morbido sotto le mani di lei. «Ace è rimasta gravemente ferita?» le chiese. «Lui... l'ha rovinata. Ma se la caverà. Sono sicura che se la caverà. I poliziotti sono andati a prendere Melvin. Sono così in disordine. Sono stanca.» «Va tutto bene.» Le strofinò dolcemente la schiena. «Ti sto sporcando di sangue.»
«Non importa.» «Posso usare la tua doccia? Io... io vorrei lavarmi. E dormire. Va bene se dormo qui?» «Certo.» Staccandosi dal suo abbraccio, lei scosse la testa quando vide le tracce di colore rossiccio che la sua camicetta e la gonna avevano lasciato sul davanti dell'accappatoio azzurro chiaro. «Mi dispiace,» mormorò. «Lo laverò.» «Possiamo buttarlo nella lavatrice assieme ai tuoi calzoncini.» «Non li ho addosso,» disse lui. «Non pensavo che li avessi.» Il suo cuore accelerò e lei avvertì un ardore che lentamente le si diffondeva dentro. Sorrise a Jack mentre ne rammentava l'imbarazzo quando i suoi slip striminziti erano atterrati sul pavimento della cucina di Ace. Sembrava fosse accaduto da settimane. Era solo la notte prima. Quella sera, il punto del pavimento su cui erano caduti era macchiato dal sangue di Ace. Il sorriso di Vicki svanì. «Andiamo,» disse Jack. La prese per mano e la condusse verso le scale. Lei vide il suo biglietto attaccato col nastro adesivo al montante della scalinata. Sfiorandolo con la punta di un dito, disse, «Non lo hai letto?» La faccia di lui era priva di espressione. «Dormivo finché non hai suonato il campanello. Sono corso direttamente giù.» «Non lo vuoi leggere adesso?» «Può aspettare. Tu sei qui. È tutto quello che importa.» Vicki ebbe un piccolo moto di disappunto. Non gli interessava quello che aveva scritto per lui? Anche se il biglietto era breve, esprimeva il suo amore per lui, il rammarico per essere andata via in silenzio mentre lui dormiva, le sue speranze che presto non ci sarebbe stata per lei la necessità di andarsene. Si voltò a guardarlo mentre saliva le scale. Il biglietto sembrava abbandonato. Ha ragione, si disse. Quale sarebbe il grosso problema? Io sono qui. Stiamo insieme. È questo che conta. In cima alle scale, le lasciò la mano. «Va' pure a farti la doccia. Io telefono alla polizia e mi assicuro che abbiano arrestato Melvin.» «Va bene.» Non voleva essere lasciata sola. Ma sarebbe stata un'ottima cosa sapere, per certo, che Melvin era sotto chiave. «Quando hai finito, perché non vieni... a lavarmi la schiena?» Jack fece un largo sorriso in un modo che fece irrigidire qualcosa dentro
di lei. Non c'era niente di tenero e di amorevole in quel sorriso. Sembrava lupesco, lascivo. Suppose che intendesse essere divertente, ma sembrava spaventosamente inopportuno. «Molto divertente,» borbottò. Camminando lungo il corridoio, si voltò a guardarlo. Non si era mosso. La stava osservando, le mani ficcate nelle tasche dell'accappatoio. Per un momento, le fece venire in mente il modo in cui Pollock era solito guardarla quelle mattine quando la aspettava nel corridoio dell'appartamento per farle la paternale, per darle una sbirciata. Entrò nella camera da letto principale. Fissando il letto, fu colmata da un flusso di ricordi: la sensazione di lui dentro di lei, la sua dolcezza, le loro tenere parole. Il suo accenno al matrimonio, la dolorosa sensazione d'amore che aveva provato quando aveva coperto il suo corpo addormentato con un lenzuolo prima di andarsene. Niente di tutto ciò si addiceva all'espressione dura e lasciva che le era parso di cogliere nel corridoio. Cos'era cambiato? Forse niente. È stanco, si disse. Io sono stanca. Non era niente. Stava cercando di essere divertente e io semplicemente non sono dell'umore adatto. Troppe cose sono accadute. Entrò nel bagno adiacente, accese la luce, e chiuse la porta. La sua mano si avvolse intorno al pomo. Il suo pollice abbassò il pulsante della serratura. È ridicolo, pensò. Cosa mi sta succedendo? Cosa gli sta succedendo? Lo hai invitato a entrare, e adesso stai chiudendo la porta con la serratura? Mi ha rivolto quello sguardo. E allora? Dimenticatene. Scuotendo la testa, girò il pomo. Il pulsante della serratura scattò verso l'esterno con un debole rumore. Si mise davanti allo specchio, e curvò il labbro quando si vide. Molto simile alla notte precedente. Ma invece delle macchie nere e unte causate dal corpo di Charlie, c'erano le chiazze del sangue di Ace. Anche il suo mento, sebbene lo avesse pulito con un fazzolettino di carta in ospedale, aveva una chiazza rossastra. In fretta, voltò la schiena allo specchio. Si sfilò la camicetta, allungò la
mano all'indietro e la depose sul bordo del lavandino. Poi, si tolse il reggiseno. Il sangue era trapelato macchiandole la pelle. Il petto, i seni, il ventre erano cosparsi di macchie e chiazze sbiadite come se fosse stata bruciata dal sole attraverso un indumento lacero e pieno di buchi. Si voltò verso il rumore della porta che si apriva. Jack stava là, nel suo accappatoio. Il sorriso maligno era scomparso, ma i suoi occhi indugiavano su di lei. Vicki provò l'impulso di coprirsi i seni... ma sarebbe stato assurdo. «Hai fatto la telefonata?» chiese. Lui annuì. «Hanno arrestato Melvin. Lo hanno portato in prigione.» «Splendido,» disse lei. Ma non provò sollievo, solo inquietudine per il cambiamento di Jack. «C'è qualcosa che non va?» chiese. «No. Va tutto benissimo. E tu sei... stupenda.» «Vorrei che non mi fissassi in quel modo.» Lui le si avvicinò. Vicki fece un passo indietro, poi si fermò È Jack, per l'amor di Dio. Jack. Lui la prese per le spalle, l'attirò a sé e la baciò. La sua bocca era ansiosa e frenetica. Più pressante di prima, ma familiare. Si aprì. Le succhiò le labbra, scivolò in basso e le leccò il mento. Dov'erano le macchie di sangue. «No,» mormorò lei. Poi gemette quando una mano si avvicinò al seno. L'altra mano le staccò la benda sulla spalla. Si ritrasse mentre il cerotto le tirava la pelle. «Jack.» Lui non disse nulla. Le strizzò il seno. Le strizzò la spalla che era stata morsa. Il piacere che saliva e il dolore la fecero dimenare. «Mi stai facendo... male.» La sua bocca si staccò dal mento. Le succhiò il lato del collo. La bocca di Vicki si spalancò e lei si contorse, ansimando. Affondò le dita nelle natiche di Jack attraverso il tessuto spesso dell'accappatoio, e lo strinse con forza contro di sé. Lui non le strinse più la spalla. La mano scivolò lungo il suo fianco, sollevò la gonna, agganciò le mutandine e le abbassò intorno alle cosce. La sua bocca umida scivolò sopra la pelle. Le baciò la spalla. Leccò le ferite lasciate dai denti di Charlie la notte prima. «Non fare così,» mormorò lei. «Ehi, andiamo.» Lui morse. Il fuoco guizzò attraverso il corpo di Vicki. Lei s'irrigidò di scatto e gri-
dò. I denti affondarono più in profondità. Lei rabbrividì negli spasimi di dolore mentre sentiva che si serravano su di lei. Quando tentò di staccarsi, dimenandosi, lui le afferrò le natiche con entrambe le mani, la sollevò, la girò, la sbatté contro la parete del bagno. L'impatto le fece scattare la testa all'indietro. La testa colpì la parete. L'immagine che vedeva divenne un'esplosione di luci brillanti, poi sbiadì. Si disse di muoversi, di lottare. Ma il suo corpo non voleva rispondere agli ordini della sua mente annebbiata. Era consapevole di Jack che le succhiava il sangue dalla spalla. Udì degli schiocchi umidi, dei gorgoglii. Non sentiva dolore. Solo la sensazione di essere tirata. Poi sentì che veniva impalata. Lui succhiava e spingeva, facendo urtare il suo corpo floscio contro la parete del bagno. Continuò e continuò. Vicki cercò di sollevare le braccia, desiderando fermarlo. Ma esse ricaddero inutili ai suoi fianchi, colpendo la parete ogni volta che lui spingeva. Più tardi, realizzò che la parete non era più contro la sua schiena. C'era, invece, una fredda mattonella del pavimento del bagno. Stava fissando il soffitto. Le ci volle un momento per accorgersi che Jack non era sopra di lei. Cercò di sollevare la testa, e non poté. Udì dei rumori martellanti e diguazzanti. Rumori familiari. Acqua che si riversava, e riempiva la vasca accanti a lei. Il rumore finì. Jack torreggiò sopra di lei, con le gambe divaricate, fissandola. Il suo accappatoio si aprì. Sul ventre, appena sopra l'ombelico, c'era una stretta benda bianca. Sembrava una bocca, la bocca di uno strano disegno inciso sul suo addome, tracciato con linee che erano fili di sangue secco, che colavano in alcuni punti dove delle goccioline rotolavano giù sulla pelle... una piramide rovesciata dentro un cerchio... occhi ellittici agli angoli... la benda a mo' di bocca. Una faccia. Una faccia malefica. Qualcosa di... magia nera? Che aveva cambiato Jack, lo aveva reso malvagio. E la sua mente spinse fuori un ricordo dalla sua nebbia densa: Charlie seduto dietro la sua scrivania alla clinica, macchie di sangue che apparivano sulla camicia. Alzò lo sguardo sulla faccia di Jack. La sua bocca e il mento luccicavano
di sangue. Il suo sangue. Cercò gli occhi di lui. La guardavano spalancati, frenetici, in qualche modo allegri e spaventati nello stesso tempo. Non vide alcun indizio del Jack che aveva conosciuto, che aveva amato. «Melvin,» mormorò. «Che... che ti ha... fatto?» L'ilarità selvaggia sparì dai suoi occhi. La sua faccia si contorse per la paura e la rabbia. «Tu, lurida e schifosa puttana!» strillò. «Tu me l'hai fatto fare.» Si chinò di scatto, piegandosi in vita, e la sua mano aperta le colpì la guancia con uno schiocco, e le fece voltare la testa. «Non avrei dovuto toccarti, maledizione! Sei stata tu a costringermi! Non gli piacerà. Non gli piacerà nemmeno un po'! È tutta colpa tua!» Accovacciandosi vicino a lei, Jack le avvolse le braccia intorno alla schiena e alle gambe. La sollevò, avanzò vacillando e la lasciò cadere. Nella vasca. L'acqua fredda la avvinghiò, la coprì, ma smorzò la sua caduta. Debolmente, lei colpì il fondo della vasca. Si curvò verso l'alto e tirò un respiro prima che la mano di Jack le stringesse la faccia e la spingesse giù. La mano si staccò. Lei si spinse su, ansimando, e vide Jack entrare nella vasca. Lui si abbassò per afferrarle i piedi. Lei tirò indietro le gambe di scatto, e le ginocchia spuntarono fuori dall'acqua, ma lui si accovacciò e le afferrò le caviglie e le tirò verso di sé. Il dorso di lei scivolò. La sua faccia andò sotto. Costringendo gli occhi a stare aperti, Vicki lo osservò attraverso alcuni pollici d'acqua che vorticavano rosei per il sangue che le sgorgava dalla spalla. Lui si alzò, tenendole su le gambe, strillando parole che risuonavano deboli e molli. Il suo cuore sembrava una mazza randellante. I polmoni bruciavano. Cosa gli ha fatto Melvin? Mi farà annegare. Si dimenò e scalciò, ma lui non mollò la presa. Lei spinse le mani contro i lati e il fondo della vasca, cercando di tirarsi su. E si avvicinò alla superficie, ma Jack sollevò le gambe più in alto. La sua testa premette contro il fondo. Attraverso il rosa confuso, vide le sue gambe quasi tese verso l'alto, vide i suoi peli pubici e il ventre fuori dall'acqua, sentì le natiche contro le gambe di Jack, sentì le increspature sulla parte inferiore dei seni. L'aveva quasi costretta a reggersi sulla testa. Morirò, pensò. Gesù, è così. Poi lui la fece abbassare. Lei avvertì la schiena scivolare, il corpo rilassarsi ed entrare nell'acqua fredda, la testa risalire mentre scivolava su per
l'inclinazione della parte posteriore della vasca. La sua faccia eruppe dalla superfìcie e lei ingoiò aria. Jack, accovacciandosi, le teneva ancora le caviglie. La fissò, torvo. «Non gli dirai un cazzo!» Vicki voltò la testa di scatto da una parte all'altra. «Non ti ho morsa, non ti ho scopata! Giusto?» «Giusto,» disse lei, con voce strozzata. «Sei tornata ed eri tutta insanguinata per cui ho lasciato che facessi la doccia. Volevo che fossi pulita per lui.» «Sì! Sì!» «Non farai la spia.» «No!» «Prometti?» «Sì!» Con mano paralizzata, fece schizzare acqua mentre si tracciava una "X" sul petto sommerso. «Giuro solennemente. Lo prometto. Per favore.» Jack lasciò le caviglie. Si raddrizzò e uscì dalla vasca. Vicki si alzò a sedere. «Esci di là e asciugati. Puoi indossare questo,» disse, e si tolse l'accappatoio. Lo gettò sul pavimento. Si voltò e allungò una mano verso un asciugamano. Tenne la schiena rivolta a Vicki e si strofinò con l'asciugamano mentre scavalcava il bordo della vasca. Cadde a terra, ansimando. «Non startene ferma là.» Il soffitto parve roteare lentamente, inclinarsi. «Muoviti!» «La mia spalla,» farfugliò lei. Un asciugamano asciutto fluttuò fino a lei, ricadendo sul seno destro. Ancora supina, lei lo ripiegò e lo premette delicatamente contro la carne lacerata della sua spalla. Gemendo, si alzò a sedere. Jack aprì la porta del bagno, «Torno subito,» disse. «Non ci provare.» Entrò nella camera da letto principale. Gettandosi in avanti, Vicki raggiunse velocemente la porta sulle mani e le ginocchia. Era quasi là quando spuntò Jack. Lui si lanciò verso la porta. La chiuse con un pugno. La porta sbatté. Lei si alzò in ginocchio. Allungò una mano verso il pomo. Verso il pulsante della serratura. La porta si avventò su di lei, le spinse via la mano, si abbatté sulla sua fronte.
Si svegliò nel buio, la testa che pulsava e girava. Non sapeva dov'era, ma i suoi capelli umidi fecero balzare alla mente il ricordo di Jack visto attraverso l'acqua della vasca. Ricordò quello che lui aveva fatto prima di gettarla nella vasca. Cercò di pensare a quello che era successo dopo, a quando era uscita dalla vasca, ma i ricordi s'interruppero con lei ancora sott'acqua e convinta di annegare. Sapeva che non si trovava più nella vasca. Era su un cuscino. Indossava qualcosa di asciutto e caldo sopra, e di umido e freddo sotto, che aderiva alle natiche e alle gambe. L'accappatoio di Jack? Ricordò che lui lo stava indossando quando si era acquattato nella vasca e le aveva afferrato le caviglie. Era sul letto della camera da letto di Jack? Cercò di tirarsi su. Lo stordimento le fece girare lo stomaco. Si afferrò al bordo del cuscino e si trascinò di lato e vomitò sul pavimento. Quando ebbe finito, rotolò via dal bordo. Giacendo raggomitolata sul fianco, vide lo schienale di un sedile davanti a lei. C'era una luce fioca sopra di esso. E una testa. Una testa che si voltò. Una faccia che era un pallido ovale, con delle macchie scure al posto degli occhi e della bocca. Jack. La faccia si voltò dall'altra parte, e Jack continuò a guidare. Lei sapeva dove la stava portando. Da Melvin. Cercò di farsi più piccola che poteva, curvando la schiena contro il sedile, tirando a sé le ginocchia, abbracciandosi i seni attraverso la pesante morbidezza del tessuto a spugna dell'accappatoio. Mi sta portando da Melvin, pensò. Esegue gli ordini. «Jack?» La sua voce risuonò bassa e lontana. «Cosa ti ha fatto, Jack?» «Ricorda quello che ti ho detto,» la avvertì lui. «Lo ricordo. Non dirò niente. Cosa ti ha fatto? Come ti ha costretto a... noi ci amavamo.» «Davvero?» «Oh, Dio,» gemette lei. «Tu sei di Melvin,» disse lui. «È tutto quello che so. Non avrei dovuto toccarti, solo fingere di essere il tuo innamorato e riportarti da lui. Questo è tutto. Ma tu mi hai provocato, dannata puttana, e io ho perso il controllo.» «È quella... cosa... sul tuo stomaco. Quella faccia o qualunque cosa sia.»
«Non saprei.» «Sai chi sono?» «Vicki.» Le parve che il suo cuore facesse un balzo, pompandole il sangue nella testa, facendola pulsare. Socchiudendo gli occhi per il dolore, si alzò a sedere. Scivolò sul sedile, allontanandosi dal vomito, e appoggiò i piedi sul pavimento. Jack regolò lo specchietto retrovisivo in modo da poterla tenere d'occhio. «Non pensare nemmeno di provarci. L'ultima volta, ti ho quasi spaccato la testa.» Lei si sistemò sul sedile e gli fissò la nuca. «Qual è il mio cognome?» chiese. «Non saprei.» «Cosa sai?» «Mi ha accompagnato in macchina fino alla casa e mi ha detto di aspettare Vicki e di portargliela. E di non fare lo stupido con lei. Ricordatelo.» «Jack. Tu non l'hai fatto. Non hai fatto lo stupido con lei. Io non sono Vicki.» «Stronzate.» Svoltò in Elm Street. Con un'occhiata fuori dal finestrino, lei vide che erano a un solo isolato dalla casa di Melvin. «Lo scoprirai quando saremo là,» disse. «Melvin andrà su tutte le furie.» Sentì che la macchina rallentava. «Io conosco Vicki,» disse lei. «Avrebbe dovuto venire a casa tua? Perché? Non capisco.» «Melvin sapeva che saresti tornata.» «Non io. Vicki. Era là, stanotte? Dopo che me ne sono andata? Io non... Lei... veniva da te? A mia insaputa?» Jack fermò la macchina. Si girò e la fissò. «Cosa stai cercando di darmi a bere?» «Quella sudicia troia! Melvin la vuole? Può prendersela! Ti porterò da lei. So dove si trova. Gira la macchina.» Jack scosse la testa. «Ha detto: la ragazza che viene sarà Vicki. Sei tu quella che è venuta alla casa.» «Ma io non sono Vicki. Sono Jennifer Morley.» «Aspetta. No. È pazzesco.» «Posso provarlo. La mia borsetta.» Fece una pausa. Aveva l'impressione che la sua testa si stesse spaccando in due. «Puoi vedere la mia carta d'identità. Dov'è la mia borsetta?»
«Nella casa.» «Beh, non vuoi controllare? Perché non ti assicuri prima che... Dio, che stupido! Melvin ti spremerà quando arriverai là con me. Gesù!» «Tu sei Vicki.» Non sembrava sicuro. «Stai solo cercando di fregarmi.» «Quel biglietto che ho lasciato sulla ringhiera. Se lo avessi letto, avresti saputo chi ero. L'ho firmato, "Ti amo, Jennifer". Riportami alla casa e te lo dimostrerò. Hai preso la persona sbagliata!» «Melvin lo saprà.» Guardò avanti. La macchina cominciò a muoversi. «Posso essere tua,» sbottò Vicki. «Se mi porti da Melvin, sarò sua. Non ti ha mandato a prendere me. Ti ha mandato a prendere Vicki. Puoi portare lei da Melvin, e tenere me. Io ti amo, Jack. Voglio stare con te, non con Melvin. Per favore.» «Non so,» borbottò lui. «Jack. Tu mi vuoi, no?» Chinandosi in avanti, lei allungò le mani sopra lo schienale e le appoggiò delicatamente sulle spalle di Jack. Esse s'ingobbirono per un momento come se lui si aspettasse un attacco. Lo accarezzò attraverso la camicia a rete. Lui fermò la macchina. Davanti alla casa di Melvin. «Prosegui,» sussurrò Vicki, strofinandogli le labbra contro l'orecchio. «No,» disse lui. «Entra.» La mani si strinsero sulle sue spalle. Lei si vide afferrargli la faccia, cercare gli occhi, affondarvi le dita. Il dolore lo avrebbe reso impotente, dandole l'opportunità di scappare. Accecato, non avrebbe avuto la possibilità di raggiungerla. Sarebbe fuggita. Ma era Jack, il suo Jack. Anche se era stato brutale con lei, non era colpa sua. Era stato Melvin a guidarlo. In qualche modo. E forse non era una cosa permanente. Ma se lo accecava... Mentre lui estraeva la chiave dell'accensione, Vicki lo spinse con forza in avanti. Lui andò a sbattere contro il volante. Il clacson della macchina suonò. Lei si gettò contro la portiera, sollevò la maniglia e scese incespicando. Aveva le gambe deboli e tremanti, e non riusciva a controllarle. Ma le tenne sotto di sé, vacillando verso la parte posteriore della macchina, voltandosi a guardare quando udì il cigolio della portiera del guidatore. Jack scese barcollando. Lei corse. Scattò in avanti, col mento abbassato, le braccia che pompavano, le gambe che volavano, i piedi nudi che pestavano l'asfalto. Sebbene il dolore guizzasse dentro la sua testa a ogni battito cardiaco, le sue gambe comin-
ciavano a rispondere. Le sue gambe, il suo corpo, che correvano... proprio come ogni mattina, ma questa volta con una fretta che non aveva mai avvertito prima. Udì Jack dietro di lei. Le scarpe che schiaffeggiavano il suolo. Il respiro sbuffante. Non mi prenderà mai! Si spostò al centro della strada. Sentiva la brezza nei capelli umidi, sulla faccia, sul petto e sul ventre e sulle gambe. L'accappatoio, slacciato, svolazzava dietro di lei come un mantello. Posso correre così per tutta la notte, pensò. Posso correre fino alla stazione di polizia. (Sarebbe certamente d'aiuto quella). Un incrocio. Un bagliore accecante dalla sinistra. Girò la testa di scatto da quella parte. Una macchina sfrecciava verso di lei, si avventò rombando, poi strombazzando. Strombazzando anche se lei pensava di essere al sicuro, a diversi passi dal suo percorso. Si voltò in tempo per vederla investire Jack. Anche al di sopra dello strepito dei freni, udì il tonfo dell'impatto. Il paraurti cozzò contro il lato della gamba. Scagliò in alto tutte e due le gambe. Il corpo di Jack volò sopra il cofano. La sua testa sfondò il parabrezza. La macchina si fermò appena dopo l'incrocio. La portiera del guidatore si spalancò. Mentre un uomo scendeva, Vicki chiuse l'accappatoio e allacciò la cintura. Si domandò se correre o restare. Non c'era più ragione di correre, realizzò. La casa di Melvin, molto indietro sulla strada e unica nell'isolato, era a più di cento metri dall'incrocio. Poteva tenerla d'occhio. Poteva andarsene con la macchina dell'uomo al primo segno di avvicinamento di Melvin. E Jack non era più una minaccia. «Mi ha attraversato la strada correndo!» le gridò l'uomo. Sembrava spaventato. «Lo ha visto, no? La stava inseguendo, o cosa? Cosa sta succedendo?» Lei gli si avvicinò. «Mi stava inseguendo,» disse. «Wow! Oh, wow.» Rimase vicino alla sua macchina, voltandosi, guardando Vicki, poi il corpo scomposto e immobile sul cofano, poi di nuovo Vicki. Nel chiarore delle luci stradali, aveva un aspetto vagamente familiare. Un uomo basso, capelli neri e a spazzola, occhi piccoli e troppo vicini al
naso largo. «Ehi,» disse. «Io ti conosco. Vicki?» Lei annuì. «Wes,» disse lui. «Ti ricordi di me?» «Sicuro.» La scuola. Di solito se la faceva con Manny Stubbins. «Come stai?» «Gesù. Non male fino a un minuto fa. Gesù Cristo su una stampella di gomma.» Si avvicinò al corpo. Vicki rimase accanto a lui. «Chi era?» «Jack Randolph,» disse lei, e avvertì un'improvvisa e dolorosa rigidità nel petto. «Dici che costui ti stava inseguendo?» «Lui... mi ha aggredita. Sono scappata. Stava cercando di prendermi un'altra volta.» «Ehi, allora sono una specie di eroe, uh?» Si curvò sopra la fiancata della macchina e guardò. «Ha sfondato il parabrezza. Forse farò meglio a tirarlo fuori, sai?» Afferrò la cintura di Jack e tirò. Il corpo non si mosse. «Merda. Bloccato.» Allungando una mano dentro il buco del parabrezza, afferrò Jack per i capelli e sollevò. Poi, tirò il corpo indietro e lasciò che la testa ricadesse sul cofano. Diede un'occhiata da vicino, e gemette. «Dio, l'ultima volta che ho visto uno conciato così fu quando Kraft e Darlene... » Si voltò, tenendosi la bocca, in preda a conati di vomito. Vicki vide la testa di Jack. La scatola cranica si era incavata. Un occhio era schizzato fuori e pendeva dal nervo ottico sul lato del naso. «Oh, Jack,» sussurrò. Non era più un mostro, era di nuovo Jack, l'uomo che aveva tenuto fra le braccia solo poche ore prima, che era stato dentro di lei e parte di lei. Chinandosi, gli mise le braccia intorno alla schiena e premette la guancia contro di lui. E sentì un lento sollevarsi e abbassarsi mentre respirava. Vicki si girò su se stessa. «Wes! È vivo.» Wes era curvo su se stesso, e vomitava. «Presto! Vieni qui a darmi una mano.» Senza aspettarlo, Vicki si voltò di nuovo verso Jack. Tirò le sue braccia flosce giù contro i fianchi e avvicinò le gambe divaricate. Lo afferrò per la spalla e per un fianco, spinse e cercò di farlo girare. Poi Wes fu accanto a lei. «Vivo? Non può essere.» «Aiutami a capovolgerlo.» Assieme, girarono Jack sulla schiena. «Oh, wow,» mormorò Wes. «Guarda.» Vicki guardò.
Una scheggia triangolare di vetro era incastrata nella gola di Jack. La sua punta era penetrata nell'esofago, ma la giugulare e la carotide non erano state troncate. Wes scrutò, con là faccia a pochi pollici dal vetro. Una mano afferrò il polso di Vicki. Lei abbassò la testa. Non la mano di Wes. Quella di Jack. Lo strinse come una manetta. La pelle d'oca cominciò a diffondersi sulla sua schiena. Guardò Jack. Il suo unico occhio si aprì leggermente, si spostò su Wes. «Che io sia dannato,» disse Wes. «Penso... » «Attento!» Vicki strillò quando l'altra mano di Jack scattò verso l'alto. Wes fece per allontanarsi. Vicki si gettò contro la fiancata della macchina, si piegò e allungò una mano verso la mano di Jack che stava strappando la scheggia di vetro dalla gola. Ma lui era stato troppo rapido. Per entrambi. Vicki si allungò e mancò la presa e Wes fece per alzarsi mentre Jack vibrava il colpo. Il sangue sgorgò dal collo di Wes. Schizzò sulla faccia di Jack. Wes si raddrizzò vacillando, si afferrò la gola e camminò rigidamente all'indietro, col sangue che gli colava fra le dita. «No!» strillò Vicki. Si allontanò dalla macchina, cercando di strappare il suo polso dalla stretta di Jack, e vide Wes cadere. Le gambe di lui cedettero e il suo sedere colpì l'asfalto e lui restò seduto là, imbrattandosi il davanti dei jeans. Lei si gettò di lato, spostando tutto il peso sulla mano che le stringeva il polso. I suoi muscoli si tesero. Si sentì come se il braccio potesse staccarsi dal suo alveo. Ma Jack non mollò la presa. Mentre scivolava giù dal cofano, lei allungò l'altra mano e tirò il pollice di lui. Fece forza per staccarselo dal polso. Jack cadde a terra, atterrando sulle ginocchia, e si alzò, vacillando. Lei si si ritrasse mentre le si avvicinava. Con un rumore di cartilagine che si lacera e uno schiocco, il pollice si spezzò. Vicki liberò la mano con uno strattone. Prima che potesse correre via, l'altra mano di Jack afferrò un risvolto dell'accappatoio. La tirò contro di sé. Lei si trovò di fronte il suo occhio spalancato e frenetico, l'orbita vuota, l'occhio pendulo e oscillante. Il colpo arrivò fulmineo. Il suo ginocchio la colpì violentemente e la sollevò da terra.
CAPITOLO TRENTADUESIMO Patricia, china sopra il corpo del Comandante Raines, spinse la poltiglia verde dentro il taglio con le dita di una mano mentre suturava con l'altra la ferita. Stava dando dei piccoli strappi all'ago, tirando il filo, quando il campanello squillò. Trasalì. L'ago ebbe un movimento brusco. La cucitura si staccò con un silenzioso lacerarsi della pelle. Guardò Melvin, con gli occhi spalancati. «Me ne occupo io,» disse Melvin. «Altri piedipiatti?» chiese Patricia. «Forse sì, forse no.» «Non devo andare di sopra, se sarà necessario? Posso fare di nuovo la mia parte.» «Resta qui e finisci con Raines.» Melvin si allontanò dal tavolo del laboratorio. Si accovacciò sul mucchietto di abiti che aveva tolto agli sbirri. Tre erano pistole di ordinanza: Smit & Wesson calibro .38, blue steel con canne da quattro pollici. Una era la sua Colt .44. Aveva scaricato la sua .44 e la .38 di Milbourne su Raines e Woodman. Il campanello tornò a squillare. «Melvin!» «Me ne occupo io.» Afferrò le due .38 e salì di corsa le scale. Quando raggiunse la cima, aveva il respiro affannóso. Sarà meglio che non siano altri fottuti sbirri, pensò. Mentre percorreva in fretta il corridoio, si puntò entrambe le pistole negli occhi. La punta smussata dei proiettili nei buchi dei cilindri era visibile solo in una. «Merda,» mormorò. Lasciò cadere il revolver scarico sul pavimento. Giunto alla porta, accese la luce del portico e scrutò attraverso lo spioncino. Provò un senso di shock e di gioia. Fece scattare la serratura, aprì la porta, e fece un passo indietro mentre Jack entrava nell'ingresso. Li guardò con la bocca spalancata. Vicki e Jack. Vicki era accasciata nelle braccia di Jack, le braccia e le gambe oscillanti, la testa floscia, gli occhi che fissavano il vuoto. I suoi capelli erano umidi e viscidi, ma per il resto... oh, bellissima. Indossava un accappatoio
azzurro cipria che si era aperto. Melvin fissò il pallido seno, il capezzolo scuro, le curve eleganti del torace e del ventre e dell'anca, la levigatezza della linea del sedere, la lunga gamba affusolata. La sua bellezza sembrava più che perfetta paragonata alla rovina che era Jack. La sommità della testa di Jack era appiattita. La sua faccia era cosparsa di sangue che colava. E quell'occhio. Pendeva contro la guancia come un uovo sgusciato e sanguinante. «Hai avuto qualche problema?» chiese Melvin. Jack si strinse nelle spalle e grugnì. Melvin vide lo squarcio irregolare nella gola, e capì perché non parlava. «Qualcuno ti ha seguito?» Jack si voltò, dondolando Vicki, e la fece oscillare avanti e indietro come se volesse indicare fuori dalla porta con le sue ginocchia. Melvin gli passò davanti. Dalla veranda, vide la sua macchina parcheggiata vicino al marciapiede, e un'altra macchina in fondo all'isolato, ammaccata, appena dopo l'incrocio. I fari erano accesi. Voleva chiedere cosa stava succedendo là, ma Jack non era in condizione di spiegare nulla. «Portala nel seminterrato,» ordinò. Poi chiuse la porta e corse verso la macchina. L'erba davanti alla casa era umida e scivolosa sotto i suoi piedi. Si accorse che il sudore già gli incollava l'accappatoio di seta alla schiena. Non voleva essere tutto accaldato e sudato per Vicki. Che rottura di palle, pensò. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era correre in quella maniera. Ora, quando finalmente aveva Vicki, era costretto ad andarsene a caccia. Avrebbe dovuto stare a casa con lei. C'era sempre qualcosa che gli rompeva il cazzo. Si sentiva imbrogliato. Come se la festa fosse iniziata senza di lui. Voleva essere là. E invece, si sentiva escluso. E stava affaticandosi e sudando. La sua frustrazione divenne preoccupazione quando comprese che non sarebbe stato là quando Patricia avrebbe visto Vicki. Non avrebbe dovuto dire a Jack di portarla giù. Merda! Aveva progettato di liberarsi di Patricia prima che arrivasse Vicki. Avrei dovuto occuparmi di lei non appena gli sbirri erano morti, si disse. Ma non ci aveva pensato neppure. Era troppo indaffarato. Non appena gli sbirri erano stati uccisi, aveva lasciato sola Patricia e a-
veva accompagnato Jack a casa. Quando era tornato, l'aveva trovata intenta a trascinare uno dei cadaveri giù per le scale del seminterrato. Eppure non aveva pensato di eliminarla, anche se Jack era già in attesa e avrebbe potuto farsi vivo al più presto con Vicki. Dopo averla aiutata a portare i cadaveri nel seminterrato, Melvin le aveva permesso di svolgere la maggior parte del lavoro necessario alla loro resurrezione. E non aveva mai pensato che il tempo si stava esaurendo. Stupido! Adesso, lei era là sotto con Vicki. Merda! Avrebbe fatto meglio a non provarci! Sbuffando, Melvin superò correndo la coda della macchina. E vide un corpo disteso sulla strada. Cosa diavolo era accaduto? Jack doveva essersela passata brutta, certamente. Ma se l'era sbrogliata. Bravo, Jack. Melvin si avvicinò al corpo. Sovrastandolo, riconobbe la faccia insanguinata. Wes. Manny ci resterà da culo, pensò. I due erano amiconi, e Wes bighellonava sempre dalle partì della stazione di servizio quando Manny era al lavoro. Wes era un imbecille. La gola dell'imbecille era stata squarciata. Melvin fu all'improvviso molto soddisfatto di sé. Era stata una fiutata, usare Jack per andare a prendere Vicki. Ottima cosa non aver fatto saltare la testa dello stronzo e averlo lasciato morto a casa sua, come aveva progettato mentre si recava là in macchina dalla casa di Ace. Lo aveva quasi fatto quando Jack aveva aperto la porta. E ci era andato ancora più vicino quando aveva scoperto che Vicki se n'era andata. Però, gli era venuto in mente all'improvviso che Jack potesse essergli utile. Così aveva costretto l'uomo, puntandogli addosso la pistola, a condurlo a casa in macchina. Lo aveva fatto scendere nel seminterrato, poi lo aveva colpito con la canna. Era stato uno scherzo avvolgergli la testa nel cellophane mentre era svenuto. Morto, e senza che vi fosse alcun segno. Con l'aiuto di Patricia, lo avevano sollevato sul tavolo e si erano messi all'opera. Erano laggiù, ancora impegnati con lui, quando gli sbirri si erano fatti vivi. Una volta che i due bastardi erano stati eliminati, Melvin aveva riportato Jack a casa sua. Perché aspettasse Vicki.
«Hai fatto un bel lavoro, vecchio mio,» mormorò. «Hai portato Vicki da me e ti sei spappolato il cervello.» Chinandosi, Melvin appoggiò il revolver sull'asfalto. Afferrò Wes per le caviglie e lo trascinò alla macchina. I calzini, almeno, non erano insanguinati. Con le chiavi prese dall'accensione, aprì il portabagagli. Guardò torvo il cadavere, chiedendosi come metterlo là dentro senza rovinarsi il bell'accappatoio di seta. Si guardò intorno. Le strade erano deserte. Le poche case vicine avevano le finestre buie. Nessuno sta osservando, si disse. Sarebbero qui fuori adesso, a ficcanasare, se avessero visto la macchina o il corpo. Si tolse l'accappatoio. Lo arrotolò con cura e lo mise sul tettuccio della macchina. Strano, essere nudo per strada. Avvertì la brezza sulla sua pelle calda e sudata. Gli stava venendo duro. Pensò a come gli era apparsa Vicki, con l'accappatoio aperto. Vicki. Patricia! Merda. Più rapidamente che poté, capovolse Wes, lo afferrò sotto le ascelle, lo sollevò, e lo scaraventò a testa in giù nel portabagagli. Scostò le gambe. Poi abbassò lo sportello, si voltò, e vi balzò col didietro sopra finché non udì lo scatto della serratura. Aprì la portiera del guidatore. La luce in alto si accese. Il vetro del parabrezza imbrattava il sedile, ma una buona parte era finita nel mezzo. E così gran parte del sangue. Della testa di Jack? Era stata la sua testa a sfondare il parabrezza? Per questo si era ammaccata? Melvin pulì il sedile, salì in macchina, e la guidò fino al marciapiede. Spense il motore e i fari, e aprì la portiera. La luce del soffitto si accese di nuovo. Lui abbassò lo sguardo su di sé. Una piccola macchia di sangue sul petto. Ma entrambe le mani erano rosse, e aveva adoperato una mano per spazzare il vetro dal sedile, per cui, probabilmente, aveva anche del sangue sul sedere. Non voleva sangue sul suo bellissimo accappatoio. Forse Wes aveva un asciugamano per pulire il parabrezza. Di nuovo, Melvin pensò a Patricia nel seminterrato con Vicki. Non tenterà nulla, si disse. Non oserebbe. Ma balzò dalla macchina, chiuse la portiera, prese l'accappatoio dal tettuccio, e corse a prendere il revolver.
«Maledizione a lui,» udì Vicki. Era una voce di donna. Sembrava venire da una grande distanza. «Non gli basto? Aveva prom... Mettila giù.» Vagamente, si rese conto che le sue gambe venivano abbassate. Avvertì un freddo pavimento di cemento sotto i piedi. Le sue ginocchia cedettero, ma non cadde. Qualcuno dietro di lei (Jack?) le teneva un braccio stretto intorno al petto, che la inchiodava al suo corpo. Vide il braccio sotto i seni, vide le sue gambe piegate e il pavimento grigio. Il pavimento era chiazzato e cosparso di sangue fresco. Tentò di sollevare la testa, ma sembrava troppo difficile. Dei piedi e delle gambe nudi entrarono nella sua visuale. Poi una camicia. Una sgargiante camicia hawaiana azzurra, aperta. La persona che la indossava era una donna. Si fermò di fronte a Vicki, a meno di un braccio di distanza. Vicki sollevò la testa abbastanza per vedere il taglio sul ventre della donna, proprio sotto l'ombelico. Era suturato. A giudicare dal livello di guarigione, la ferita era vecchia di pochi giorni. È la stessa cosa che ha Jack sotto le bende, pensò Vicki. Anche se la camicia copriva i lati del disegno, poteva vedere parti del cerchio e della piramide e delle ellissi simili a occhi, come li aveva Jack, ma sbiaditi. Linee scolorite e rosee sulla pelle bianca della donna. Quasi scomparse. Una mano, resa scivolosa da un fluido verde, si allungò e afferrò il mento di Vicki e le sollevò la testa. La donna aveva occhi azzurri, corti capelli biondi che le ricadevano in frange sulla fronte, una spruzzata di lentiggini sul naso e sulle guance. L'infermiera? Si domandò Vicki. Quella che ha ucciso Pollock? «Patricia?» chiese. La sua voce uscì debole, poco più di un sussurro. «Già. E tu devi essere Vicki.» Lasciò andare il mento di Vicki. «Non sei niente di eccezionale. Perché ti vuole? Eh? Ha me, perché vuole te?» Alzò lo sguardo. «Dov'è Melvin?» Jack grugnì. «MELVIN!» strillò lei. Nessuna risposta. Gridò di nuovo il suo nome. Un ghigno si allargò sulla sua faccia. «È andato via? Bene. Jack, va' di sopra e trattienilo. Non farlo scendere qui.» , Lui emise un altro grugnito, che suonò, questo, come una domanda. «Esegui ! Io ti ho riportato indietro, io posso farti morire di nuovo.» Il braccio di Jack si allontanò. Vicki atterrò sulle ginocchia e ricadde in avanti. La sua faccia urtò Patricia, con gli occhi contro le ferite ricucite.
Udì il ritmo rapido dei passi di Jack sulle scale. I suoi capelli vennero tirati, la sua testa rovesciata all'indietro. Patricia la fissò. «Quando avremo finito, Melvin non ti vorrà più. Vomiterà il pranzo solo guardandoti.» Una mano guizzò verso di lei, le dita uncinate per graffiare la guancia. Lei girò la testa e sentì un rapido scorrere delle unghie mentre la mano la sfiorava, mancandola per un pelo. La mano tornò su di lei. Le colpì il naso. Poi lei cominciò a cadere. La schiena colpì il pavimento. Il sangue le sgorgò dalle narici. Lo lambì mentre spingeva contro il pavimento, cercando di alzarsi. Poi si alzò a sedere, puntellandosi con le braccia dritte. Patricia le rivolse un sogghigno. Gambe divaricate. Mani sui fianchi. «Conosci Raines e Woodman?» chiese. Per la prima volta, Vicki notò gli uomini. Erano due. E stavano all'altro lato di Patricia e un po' più dietro di lei. Morti. Morti come Jack. Io ti ho riportato indietro, io posso farti morire di nuovo. Morti come Patricia. Morti, ma non esanimi. La mente di Vicki parve congelarsi. I due sbirri (uno era il capo della polizia, certamente) la fissavano con brama frenetica negli occhi. Le loro facce erano bianche come un impasto di farina. I loro corpi, dal collo in giù, erano coperti di sangue. Il poliziotto più alto aveva delle ferite d'entrata, grosse come un una moneta da dieci centesimi, nel petto e nel ventre, e una ferita più grande sulla spalla. Stava guardando Vicki con espressione lasciva, strofinandosi le mani. Raines doveva essere stato colpito alla schiena. Il suo torso era butterato da grosse ferite d'uscita, con grumi e fili rossi che pendevano qui e là. Assieme alle altre ferite, ognuno dei due uomini aveva un taglio orizzontale sopra l'ombelico. E un fluido verde colava dai labbri suturati. Vide la bocca di Patricia muoversi, udì una voce che risuonò come se venisse da un tunnel. «Avanti, ragazzi. È vostra.» Patricia sedette sulle gambe di Vicki. Gli sbirri si avventarono. Ricaddero sulle ginocchia, Raines a sinistra, Woodman a destra. Lei mulinò le braccia verso le loro mani che si allungavano, cercando di scacciarle via mentre si dimenava e si contorceva sotto Patricia. Poi, i polsi le vennero inchiodati al pavimento. Sentì le mani... che scivolavano, strofinavano, strizzavano, affondavano,
la avvolgevano e la pizzicavano. Vide Patricia, al di là delle mani che si agitavano, chinarsi e mordere il dorso di una mano che si era stretta sul suo seno. Le dita si aprirono con un tremito. La mano mollò la presa. Patricia si abbassò, con la bocca spalancata. Vicki sentì la lingua della donna sul suo seno, avvertì gli spigoli dei suoi denti. Poi la faccia di Raines le bloccò la visuale. La bocca di lui coprì la sua. La lingua entrò. Lei strillò nella bocca di lui e udì una detonazione. Quando Melvin vide Jack che bloccava la porta chiusa del seminterrato, gemette. Non era sicuro di quello che lo aspettava. Patricia in preda a un attacco isterico, forse. Non avrebbe messo una guardia. «Cosa sta succedendo là sotto?» sbottò. Jack rimase immobile. «Fuori dai piedi!» Jack non si mosse. «Maledizione! Io sono il tuo padrone! Spostati!» Jack scosse la testa, e l'occhio oscillò. Melvin alzò il braccio, puntò il revolver sull'occhio buono di Jack, e tirò il grilletto. La pistola sparò. L'occhio scomparve. La testa di Jack andò a sbattere contro la porta. Rimbalzò sul legno, e Jack sollevò le braccia. Melvin evitò con uno scarto le mani tese. Lo stronzo è cieco. Proprio come Charlie, ricordò. E Charlie non mi ha ammazzato per un dannato pelo. «Fermo!» strillò. Jack afferrò il collo di Melvin e cominciò a stringere. Melvin spinse la canna nello squarcio al centro della gola di Jack. Metà canna sparì nella ferita. Fece fuoco. Lo scoppio scaraventò Jack contro la porta. Dal modo in cui la sua testa si afflosciò e oscillò, Melvin dedusse che il proiettile aveva spezzato la colonna vertebrale. Proprio come aveva sperato. Vide Jack crollare in ginocchio e cadere in avanti. Scostò il corpo. Spalancò la porta. Vide Patricia e Woodman e Raines in ginocchio sul pavimento del se-
minterrato. Tutti e tre erano ingobbiti su un corpo, con le mani su di esso. Tutti e tre stavano guardando Melvin. «STATE LONTANI DA LEI!» gridò. Mentre scendeva di corsa le scale, i due poliziotti guardarono Patricia. Lei annuì. I due cominciarono ad alzarsi. Patricia rimase dov'era, seduta sulle cosce di Vicki. Melvin si fermò ai piedi della scala. Vicki giaceva immobile tranne che per il sollevarsi e abbassarsi del petto mentre ingoiava aria. Le sue braccia erano ancora dentro le maniche dell'accappatoio, ma l'accappatoio era aperto. La sua pelle era viscida di sangue. Mentre i poliziotti arretravano, Melvin si accovacciò ed esaminò con attenzione il suo corpo. Aveva sulla spalla segni di morsi molto brutti a vedersi. A parte ciò, la sua pelle sembrava intatta. «Non toccarla,» disse a Patricia. «Non è leale.» La sua voce tremò. Le lacrime le riempirono gli occhi. «Io ti amo. Lei non ti ama.» «Mi amerà. Come te. Non toccarla. Ora.» Patricia tirò su col naso. Si asciugò le lacrime con i dorsi delle mani. Abbassò lo sguardo su Vicki e tirò indietro le labbra, sbarrando i denti. Per un momento, Melvin pensò che potesse strisciare in avanti e tentare di mordere la faccia di Vicki, rovinarle l'aspetto. Ma le aveva dato un ordine, e lei sembrava sapere che era suo dovere obbedire. Il suo mento si scosse. Lei si strofinò di nuovo gli occhi, poi si alzò e arretrò. Vicki si accasciò nelle sue braccia, quando lui la sollevò e la portò al tavolo. La distese su di esso e lei giacque là, boccheggiando, lo sguardo fisso al soffitto. Facendo un passo indietro, Melvin lanciò uno sguardo a Patricia. Stava accanto al mucchio degli abiti dei poliziotti, a testa china, singhiozzando piano. Gli sbirri si erano ritirati in un angolo del seminterrato. Stavano fianco a fianco, e fissavano Vicki. «Dimeticatevene,» avvertì Melvin. «Lei è mia.» Andò alla bacinella, aprì un rubinetto, e inumidì un asciugamano. Poi, tornò da Vicki e cominciò ad asciugarle il sangue dal viso e dal corpo. Lei strinse gli occhi con forza, come se cercasse di scacciare quello che stava accadendo. Sembrava bellissima e inerme. La rabbia che Melvin aveva provato contro di lei, prima, era sparita. Adesso provava solo tenerezza e un senso di vuoto.
Non avrebbe dovuto finire così. Era stato buono con lei. Le aveva donato la macchina, aveva ucciso Pollock che la infastidiva, aveva indotto Charlie a lasciarle la clinica. Lei avrebbe dovuto amarlo ed essere la sua ragazza. Ma era troppo tardi. Tutto era andato in pezzi. Presto, sarebbero venuti altri poliziotti. Sarebbero venuti per lui. Il solo modo di avere Vicki era quello di andarsene con lei con la macchina. Avrebbero condotto un'esistenza da fuggitivi. Ma sarebbero stati assieme. Melvin gettò via l'asciugamano. Era pulita come poteva esserlo, per ora. Tranne che per la brutta ferita alla spalla, sembrava stesse bene. Splendido. Le avrebbe bendato la spalla, più tardi, e forse ci sarebbe stato il tempo per una doccia prima di fuggire. Il pensiero di fare la doccia con Vicki produsse un calda eccitazione nel suo inguine. La accarezzò. La sua pelle era umida e fredda per l'asciugamano umido. Aveva la pelle d'oca. Melvin sentì che i muscoli fremevano sotto la superficie. Guardò Patricia da sopra la spalla. Lo stava fissando, e piangeva. «Portami il cellophane,» le disse. Lei annuì. Lui si chinò e baciò la bocca di Vicki. Le sue labbra stavano tremando. «Andrà tutto bene,» le sussurrò. «Non ti farò molto male.» Udì uno scatto metallico dietro di lui. Si girò. Vide Patricia che gli puntava contro un revolver. Udì la detonazione e sentì il proiettile che gli colpiva il petto. Vicki, rigida e tremante, in attesa del momento giusto per colpire Melvin, balzò a sedere al frastuono dello sparo. Melvin colpì il tavolo. Il dorso del suo accappatoio aveva un ricamo. LO STREPITOSO MELVIN. Sopra la T di STREPITOSO c'era un foro irregolare. Lui ricadde, scomparendo alla vista. Vicki si gettò dal tavolo. Fece un passo di lato, con gli occhi su Patricia. La donna stava fissando il corpo di Melvin. Ma i poliziotti stavano guardando Vicki. Lei si lanciò verso la scala.
I due la rincorsero, silenziosi, tranne che per i piedi che schiaffeggiavano il cemento. Lei fece un balzo, scalciando verso l'alto, e il suo piede raggiunse il terzo scalino. Uno strattone alle spalle la fece fermare. L'accappatoio. Uno dei poliziotti aveva afferrato l'estremità svolazzante dell'accappatoio, e l'aveva tirata. Tentò di sfilarsi di dosso l'indumento. Ma stava già ricadendo giù per le scale. Erano tutti sopra di lei. Le laceravano la carne con i denti. Urlò e udì il suo urlo. Si ritrasse e aprì gli occhi. Si trovava nel seminterrato. Seduta sul pavimento di cemento, la schiena contro i gradini le braccia sollevate, i polsi legati assieme con una corda e alla ringhiera. Sebbene la testa le pulsasse e tutto il corpo fosse dolorante, l'accappatoio era aperto e poté vedere che non era stata divorata. E non aveva alcun disegno inciso sull'addome... niente piramide dentro a un cerchio, niente occhi, niente fessura ricucita come bocca. La sua pelle era rossa in alcuni punti, scorticata e graffiata, ma senza tagli e morsi tranne la spalla che le bruciava sotto l'accappatoio. Scrutò il seminterrato. Era sola. Anche il corpo di Melvin sembrava scomparso. Si mise in ascolto. C'era il rumore del suo battito cardiaco, e nient'altro. Gemendo mentre un dolore cocente si diffondeva nel suo corpo, si spinse sul gradino. Con i denti, raggiunse la corda per il bucato che legava i suoi polsi alla ringhiera. Cominciò a morderla. Ascoltò. Niente ancora. L'avevano davvero lasciata sola? Sembrava troppo bello per essere vero. Quando la corda finalmente si spezzò, usò i denti sui nodi ai polsi. Si allentarono. Liberò le mani, afferrò la ringhiera, e si alzò faticosamente in piedi. Si voltò. La porta in cima era aperta. Lentamente, salì le scale. Il suo cuore fece un balzo quando scorse il corpo oltre la porta. Jack. Ma era esanime. Girò intorno al corpo, osservandolo, stando attenta a non avvicinarsi. La
testa era voltata dall'altra parte, per cui non poteva vedere la faccia. La parte posteriore della testa era esplosa. E anche la nuca. Ma non si fidava di considerarlo morto. Stando vicino a lui, anche se fuori portata, fissò la sua schiena. Finalmente, s'inginocchiò e premette la mano contro la camicia a rete. Non c'era calore. Sollevò una delle mani, e sentì il rigor mortis. Sulle prime, si sentì sollevata. Poi pianse. Sapeva che avrebbe dovuto uscire in fretta da quella casa. Gli altri avrebbero potuto essere nelle vicinanze, in un'altra stanza, o al piano di sopra, o forse erano usciti e sarebbero tornati presto. Ma rimase là sulle ginocchia, la faccia seppellita nelle mani, a piangere per Jack e per se stessa, desiderando di tornare indietro nel tempo e fare qualcosa di diverso, fare in modo che tutto ciò non accadesse. Finalmente, si costrinse ad alzarsi. Raggiunse zoppicando la porta principale e la aprì. Il sole accecante le pugnalò gli occhi. CAPITOLO TRENTATREESIMO L'urlo che svegliò Vicki dall'incubo di essere inseguita dai cadaveri non era suo. Col cuore martellante, scese dal letto e corse nella casa buia fino alla stanza di Ace. Accese la luce. Ace era seduta sul letto, e ansimava, con la camicia da notte Minni gialla che le aderiva al corpo per il sudore. Vicki si sedette sul bordo del materasso e le strinse la mano. «Melvin?» «Chi altro? Merda. Starai pensando che dovrei esserne fuori, ormai.» , «Ci vorrà un po' di tempo,» disse Vicki. «Forse anni.» «Siamo qui, coi nostri corpi tornati come nuovi... quasi, e...» «Meglio che nuovi, nel tuo caso.» «Già, giusto.» Sorridendo, Ace si diede una pacca sul ventre. Non era mai stata sovrappeso in maniera rilevante, prima dell'aggressione. Adesso, era magra. Riducendo i pasti, era riuscita a non recuperare gran parte dei sette chili che aveva perso quando la sua mandibola rotta era stata legata col filo metallico. Il solo segno che restava del suo incontro con Melvin era la sottile linea sbiadita di una cicatrice appena sotto l'attaccatura dei capelli. I capelli ave-
vano ripreso a crescere bianchi dov'era stato riattaccato il cuoio capelluto, ma lei si era servita di questo come scusa per far visita all'Albert's New You Beauty Emporium di Blayton dal quale era riemersa con i capelli corti, irti e purpurei. «Cos'hai intenzione di fare?» le aveva chiesto Vicki. «Unirti a un complesso rock?» Ace aveva risposto, «Sono proprio io, non credi?» «Meglio e in pochi giorni,» disse Ace. «Ma quei maledetti incubi. E per metà del tempo mi sento come se fossi nascosta in un ripostiglio.» «Anch'io.» «E stessi piangendo senza alcuna ragione. Una bella rottura, sai? Coma mai le nostre menti non sono guarite come i nostri corpi?» «Non sono toste allo stesso modo, credo.» «Siamo due vecchiette toste.» «L'hai detto.» «Nella primavera del nostro zitellaggio.» «Già, sicuro. Questa è la prima notte che hai trascorso da sola in una settimana.» «Ovviamente, è stato un grave errore. Non ho mai avuto incubi merdosi quando avevo qualcuno qui con me. Un errore. Non ho intenzione di ripeterlo nel prossimo futuro.» «Per quanto tempo Gorman farà il turno di notte?» «Gesù, non voglio saperlo. Forse dovrò cambiare scaletta, e restare in piedi finché lui non viene.» Ace guardò l'orologio accanto al letto. Gemette. «Fuori di qui e lasciami fare un bel sonnellino.» «Sicuro che stai bene? Posso restare qui.» «Va' via. Sto benissimo.» Fece un gesto con la mano verso Vicki. Vicki gliela strinse, poi si alzò. «Credo che uscirò a prendere un po' d'aria fresca.» Vide preoccupazione negli occhi di Ace. «Devi proprio?» «Chiuderò la porta.» «Non sono preoccupata per me, dolcezza.» «Beh, non preoccuparti per me. Sono lesta di piede e dura come un chiodo.» «Non è il caso di scherzare.» «Lo so. Ma ho bisogno di andare a correre. Non posso continuare a rinviare la cosa. Ne ho bisogno.» «Merda. Stai attenta, huh?» «Certo. Dormi bene.» Vicki spense la luce mentre usciva dalla stanza.
Percorse il corridoio. Nella sua camera buia, si sfilò la camicia da notte dalla testa. Mentre si vestiva per correre, pensò alla preoccupazione di Ace. Il corpo di Jack era stato trovato dove lei lo aveva lasciato nella casa, ma il corpo di Melvin era scomparso. Anche Patricia, Raines e Woodman erano scomparsi. Con due macchine. Forse Melvin era sopravvissuto al colpo di pistola. Forse Patricia lo aveva portato via e lo aveva curato, facendolo guarire. Ma Vicki non ci credeva. Il proiettile lo aveva ucciso. E mentre Vicki era stata lasciata legata ai piedi delle scale del seminterrato, priva di sensi, Patricia aveva inciso Melvin. Gli aveva inciso uno di quei disegni bizzarri e lo aveva fatto resuscitare. Quindi, se n'erano andati assieme con la macchina. Due macchine scomparse, per cui Raines e Woodman probabilmente se n'erano andati con la loro. Quattro di loro in circolazione. Zombi. Da qualche parte. A fare Dio sa cosa. A pensarci, Vicki avvertì un senso di gelo su per la schiena. Ma per settimane aveva rinunciato alle sue corse mattutine, e sentiva il bisogno di quell'esercizio calmante, del tocco della brezza del mattino sul suo corpo in movimento. Si mise intorno al collo la catenina con la chiave e il fischietto, e raggiunse la porta. Prima di aprirla, si disse che non c'era assolutamente pericolo. Se n'erano andati. I poliziotti li stavano ancora cercando. Alcuni di loro erano parecchio nervosi: quelli che avevano ascoltato Vicki e avevano scosso la testa come se pensassero che lei avesse perso una o due rotelle, ma che in seguito avevano guardato la collezione di videocassette di Melvin. Avevano finto di pensare che i nastri fossero falsi. Ma lei aveva visto il cambiamento nei loro occhi. Quei poliziotti ci credevano. Era certa che lo avrebbero tenuto per sé. Raines e Woodman venivano considerati dalla stampa persone scomparse, vittime possibili di Melvin Dobbs e Patricia Gordon. Dobbs e Gordon erano ricercati per il rapimento di Vicki Chandler e per omicidio plurimo. Si riteneva fossero armati ed estremamente pericolosi. Ma non zombi. Vicki aveva detto a se stessa, innumerevoli volte, che ormai sarebbero
stati catturati se non fossero già molto lontani. Se lo disse, di nuovo, mentre stava sulla porta col desiderio di uscire e correre, ma spaventata. Non c'è necessità di preoccuparsi. Uscì dalla casa. Sul maciapiede, guardò da una parte e dall'altra dell'isolato. Esaminò le ombre proiettate dalle luci stradali. Soddisfatta perché nessuno si muoveva furtivo nelle vicinanze, si distese, si piegò, e toccò le dita dei piedi. Poi sedette sul cemento freddo, allargò le gambe e ruotò su se stessa, si allungò verso la punta dei piedi, forzando, e infine acquistò l'agilità necessaria per afferrare le suole delle scarpe. Si alzò e cominciò a correre. Per due volte, fece il giro dell'isolato, non volendo spingersi troppo lontano dalla casa. Ma provava il desiderio di farlo. Ignorando la piccola stretta alla stomaco dovuta alla paura, si diresse verso il centro cittadino. Tranne che per pochi autocarri addetti alle consegne, la strada principale era deserta. Oltrepassò il Riverfront, il negozio di abbigliamento sportivo di Ace e la bottega di ciambelle illuminata con i suoi aromi deliziosi, sentì che le gambe cominciavano ad affaticarsi mentre superava Handiboy, e rallentò davanti alla clinica. Quando raggiunse il parco a nord della città, stava ansimando e le gambe sembravano di piombo. Rallentò fino a un'andatura rilassata. E si fermò in cima alla collina. Guardando in basso, vide la pallida striscia di sabbia. Le forme indistinte delle attrezzature del parco giochi. Lo scivolo e l'altalena. Vuote. Niente Jack. Gli occhi le si riempirono di lacrime. La gola si strinse. Scese lungo il pendio reso scivoloso dall'erba umida, ricordando com'era caduta col sedere per terra la mattina che lo aveva incontrato per la prima volta. Allora era un estraneo che la osservava dalla sommità dello scivolo. Solo per un po', lui aveva riempito quel cantuccio vuoto nel suo cuore. Adesso, se n'era andato. Vicki camminò sulla sabbia. Salì i pioli metallici della scaletta e sedette in cima allo scivolo. La piattaforma era umida. L'umidità trapelò dal fondo degli shorts, ma lei non vi fece caso. Era seduta dove si sedeva Jack, e si sentiva vicina a lui. Da là, poteva vedere il pendio buio. Si domandò se lui si era divertito per la goffa caduta. Dopo, lei era andata sulla spiaggia. Doveva averla osservata. Lei aveva avvertito un certo prurito perché si era distesa sull'erba.
Era entrata nel fiume e aveva raccolto un bastone e lo aveva usato per grattarsi la schiena. Aveva pensato a Paul, soffrendo al ricordo del mattino in cui si era trovata con lui sulla piattaforma dei tuffi. La piattaforma, adesso, non era in vista, nascosta da una fitta nebbia. C'era nebbia la mattina che stava con Paul. Una pesante cappa che li copriva mentre erano abbracciati. Nessuno li avrebbe visti se avessero fatto l'amore. Ma non l'avevano fatto, e lei ricordò di essere rimasta in acqua, colma di desiderio e rammarico, con la voglia di tornare indietro nel tempo. Nel frattempo, Jack l'aveva osservata. Da quel punto. Aveva continuato a sognare ad occhi aperti del solo uomo che avesse mai amato, e l'uomo che avrebbe amato era seduto là sullo scivolo, a osservarla e a porsi domande su di lei. Chiuse gli occhi e immaginò di sentire il corpo vigoroso di Jack contro di lei, la sua bocca... Che le succhiava la spalla, la mordeva mentre spingeva, sbattendola contro la parete del bagno. Il suo stomaco si strinse e lei pianse. Aprendo gli occhi di scatto, si gettò in avanti e scivolò lungo la rampa umida dello scivolo. Schizzò dalla sua estremità, e barcollò sulla sabbia. Corse, col ricordo che la inseguiva. Si fermò solo il tempo sufficiente a sfilarsi scarpe e calzini, poi si lanciò nel fiume e si tuffò. Il freddo dell'acqua le schiarì la mente. Pensò: è una pazzia. Cosa sto facendo? Ho tutte le ragioni per essere pazza. S'inarcò in superficie e nuotò, nuotò verso la piattaforma dei tuffi. Non poteva vederla attraverso la nebbia, ma sapeva con certezza dov'era. Era come casa sua, quella piattaforma. Era là che era stata felice e ingenua e innamorata prima che arrivassero i tempi brutti, prima della solitudine, prima dell'orrore. Mentre si teneva a galla per un momento, Vicki udì. I gorgoglii lievi e familiari della superficie del fiume che lambiva i bidoni che la facevano galleggiare. Nuotò verso il rumore, e il vecchio legno corroso apparve attraverso il velo di nebbia. Si arrampicò sulla scaletta. Salì sulla piattaforma. Essa s'inclinò e rollò dolcemente sotto di lei. Voltandosi, Vicki guardò verso la riva.
Non c'era alcuna riva, solo nebbia, pallida nel chiaro di luna. Era circondata dalla nebbia, sola sulla piattaforma, al sicuro. Ma tremante. L'aria, che era parsa immobile e calda prima che lei si gettasse nel fiume, adesso sembrava un alito gelido che soffiava attraverso i suoi abiti zuppi, contro la sua pelle gocciolante. Sedette al centro della piattaforma. Tirò su le gambe, stringendosele al corpo. Sedette là, rabbrividendo. Il sole sorgerà fra un'ora o due, pensò. Farà evaporare la nebbia. Mi asciugherà e mi riscalderà. Avrebbe potuto nuotare fino a riva, adesso, e tornare a casa e fare un lungo bagno caldo. Ma si stava bene là. Non voleva andarsene. Voleva aspettare il sole. Dopo un po', il freddo parve diminuire e il suo tremito si fermò. Si distese sulla piattaforma, la faccia sulle mani incrociate. Le tavole diventavano sempre più calde sotto di lei. I suoi occhi si chiusero, ma li aprì in fretta. Col sonno, sarebbero venuti i sogni. La piattaforma si muoveva dolcemente sotto di lei. L'acqua lambiva i bidoni. Di tanto in tanto, uccelli gracchiavano e stridevano. Lontano, un motore si accese scoppiettando e Vicki immaginò un uomo che usciva in barca a pescare. Gli occhi le si chiusero. Era sola su una canoa. Sembrava che Jack fosse con lei, ma non sapeva dov'era. Era andato a fare una nuotata? La notte era limpida, e il chiaro di luna proiettava un sentiero argenteo sull'acqua. Fece girare lentamente la barca, scrutando il fiume per individuarlo. E vide, molto lontana, la forma indistinta di un nuotatore. Gridò, ma non venne alcuna risposta. Il nuotatore si avvicinò. E se non era Jack? La paura creò un nucleo gelido e duro nel suo stomaco. Un rumore di tonfi nell'acqua giunse dall'altro lato. Voltò di scatto la testa in quella direzione, e scorse un altro nuotatore. Altri tonfi da dietro. Si girò. Un'altra forma pallida si stava muovendo verso di lei nell'acqua. Una quarta apparve oltre la prua della canoa.
Un'altra a dritta. Oh Gesù! Devo andarmene da qui! Affondò la pagaia in acqua. Essa sbandò e le venne strappata di mano. Volò in alto e colpì l'acqua più lontano. Mani si strinsero alla frisata. La canoa s'inclinò. Una testa schizzò in superficie. Lei fissò la faccia larga, i capelli impomatati, gli occhi sporgenti e le labbra spesse e sogghignanti. «Ti sei conservata per noi?» chiese Melvin. «No!» boccheggiò lei. «Va' via!» La canoa s'inclinò dall'altra parte mentre mani nere afferravano le frisate. La testa che emerse bruscamente dalla superficie era carbonizzata e priva di occhi. «Anche lui ti vuole,» disse Melvin. «Charlie ti ha sempre voluto.» Entrambi cominciarono ad arrampicarsi sulla canoa. Patricia, nuda eccetto la cuffia da infermiera, apparve improvvisamente appollaiata sulla prua. Vicki indietreggiò. Mani le afferrarono le ginocchia, la bloccarono. Le mani di Raines e Woodman, entrambi in acqua, che la guardavano lascivi dai lati della canoa. E qualcuno stava ancora nuotando verso di lei. Una vaga, pallida forma nel nero dell'acqua. Jack? Dev'essere Jack. Mi salverà. «Jack!» gridò. «Aiuto! Presto! Mi hanno presa!» E la voce di Jack venne dal nuotatore. «Lasciate qualcosa per me, gente.» Melvin rise. Tutti si gettarono su di lei. La buttarono giù. Si accalcarono su di lei, artigliando, mordendo, lacerando. Lei si contorse sotto di loro. Si dimenò. Sentì il suo ventre aprirsi. Qualcuno le morse la coscia. Il seno sinistro venne strappato e lei lo vide sporgere dalla bocca di Patricia. Poi la faccia di Jack si profilò sopra di lei. Si abbassò, con l'occhio penduto. Sentì l'occhio viscido scivolarle contro la guancia, sentì la bocca di lui coprire la sua, la lingua insinuarsi. Si dimenò e s'impennò, cercando di disarcionarlo. La canoa si capovolse. L'acqua fredda afferrò Vicki, le riempì la bocca e la gola. Completamente sveglia, risalì in superficie. Afferrò la scaletta della piat-
taforma, tossendo e ansimando, scuotendosi dal terrore dell'incubo. Quando poté di nuovo respirare, si arrampicò sulla scaletta. Salì barcollando sulla piattaforma e rimase là sulle mani e le ginocchia. Qualcosa pendeva da lei. Abbassò di più la testa. La sua T-shirt era strappata sul davanti. Gli orli umidi oscillavano. Il suo seno sinistro era nudo, la spallina del reggiseno pendeva dalla coppa spiegazzata sotto di esso. Vicki si spinse su. Appoggiandosi sui fianchi, si esaminò alla luce fioca che trapelava dalla nebbia. E strinse le labbra all'intrico di graffi sulla pelle pallida del seno e del petto e del ventre. Non riusciva a credere di esserseli fatti da sola. Ma ricordò di essersi strappata la camicia da notte una volta, subito dopo il suo arrivo a Ellsworth. Per cui doveva essere così. Non solo aveva strappato abiti e pelle, ma aveva anche ingaggiato una tale battaglia contro i demoni del suo incubo che era caduta nel fiume. Il corpo guarisce, perché la mente no? Poteva la mente peggiorare invece di migliorare? Aveva già avuto in precedenza degli incubi orrendi, ma niente che la spingesse a fare una cosa simile. Con le dita tremanti, esplorò i graffi. Solo quelli sul ventre erano profondi. Sulla pelle erano stati scavati dei solchi. Tirò il tessuto spiegazzato del reggiseno e lo sollevò sul seno. Infilò la spallina dentro. E udì dei tonfi lontani nell'acqua. La sua schiena s'irrigidì. Si mise in ascolto. I tonfi, che sembravano venire da dietro, erano quelli di qualcuno che nuotava. Si sentì come se il suo fiato fosse stato spinto fuori con un pugno. Non può essere. Sono sveglia. Lo sono? Vicki balzò in piedi e si voltò. La piattaforma s'immerse. Lei afferrò i sostegni della scaletta e si tenne in piedi e scrutò nella nebbia. I tonfi si avvicinavano. Vide un metro o due di acqua nera al di là della piattaforma prima che il biancore della nebbia le bloccasse la visuale. Sembrava un nuotatore solo. Chi è? Melvin? Charlie? Jack? Uno degli altri? Forse stavano venendo tutti da lei, e gli altri si stavano avvicinando sotto la superficie. Non hanno bisogno d'aria, pensò. Sono morti.
Come fanno a sapere che sono qui? Le mie scarpe, pensò. Ho lasciato le scarpe e i calzini sulla spiaggia. Oh, Gesù! «LASCIATEMI IN PACE!» gridò. I tonfi si fermarono. «VICKI?» La voce di un uomo. Sembrava familiare. «Mi dispiace,» gridò nella nebbia. «Non intendevo spaventarti.» «Chi sei?» «Paul. Paul Harrison. Noi... » «PAUL?» Lui uscì nuotando dalla nebbia e allungò entrambe le mani e afferrò la scaletta e guardò Vicki. Lei lo fissò. «Ho il permesso di salire a bordo?» chiese lui. Vicki annuì e indietreggiò. Il suo cuore martellava. Si sforzò di respirare. Lui si arrampicò sulla scaletta e si mise davanti a lei, magro e bruno nella luce incerta, nudo eccetto i boxer bianchi incollati addosso. Un corpo che lei aveva visto innumerevoli volte in pantaloncini e costume da bagno, un corpo che aveva tenuto stretto e accarezzato. Tanto tempo prima. Tanto maledetto tempo prima. Vicki scosse la testa. «È... impossibile.» «Ho saputo che avevi dei problemi,» disse lui. La sua voce era quasi la stessa che lei ricordava. Un po' più profonda, più sicura. «Ero a Guam fino a ieri. Sono stato a San Diego e ho incontrato per caso un vecchio amico. Me ne ha parlato lui. Non sapeva che eri tu, ma ricordava che ero solito parlare di una ragazza di Ellsworth, e... » La sua voce divenne rauca. «Oh Dio, stai bene?» Vicki non rispose. Corse verso di lui e lo cinse con le braccia. Lui la strinse. Le accarezzò i capelli, la schiena. La sua pelle era umida e fredda, ma divenne calda nei punti dove la premeva. C'erano muscoli dove lui era abituato ad avvertire le ossa. Ma il suo corpo aderiva come sempre a quello di lei, come nessun altro corpo aveva mai fatto, come se fosse stato fatto per unirsi al corpo di Vicki e completarla. «Sei davvero tornato?» mormorò lei contro il suo collo. Paul annuì.
«Non posso crederci.» «Ci devi credere,» sussurrò lui. «Come hai fatto a trovarmi?» «Non è stato facile. Immaginavo che Ace lo sapesse. L'ho chiamata circa un'ora e mezza fa. Mi ha detto che eri andata a correre. Ho ricordato te e il fiume, così ho provato a venire sulla spiaggia.» «Hai visto le mie scarpe e i calzini.» «Speravo che fossero tuoi.» «Avresti potuto gridare, sai.» «Volevo farti una sorpresa.» «Mi hai messo una paura del diavolo. Pensavo che stessero venendo a prendermi.» «Non ti devi più preoccupare di loro. Io sono qui. Nessuno ti farà più del male.» Le sue mani si strinsero sulla schiena di Vicki, la premettero con forza contro di lui. «Dio, mi sei mancata.» «Anche a me sei mancato,» mormorò lei. «Dio, tantissimo. Ho pensato che non ti avrei più rivisto.» «Ho sempre desiderato di tornare a trovarti. È solo che non avevo il fegato. Sono un membro dei Marines parecchio vigliacco. Immaginavo che tu avessi qualcun altro, che fossi probabilmente sposata, che avessi dei bambini. Non volevo saperlo. Immaginavo di essere stato dimenticato.» «Non ti avevo dimenticato.» «Ace mi ha detto che sei... single.» «Mi sono conservata per te, dolcezza.» Lui rise piano, e Vicki inclinò la testa all'indietro e osservò il suo volto abbassarsi lentamente e aspettò di sentire la sua bocca. Un Anno Dopo CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO «Nessuno si muova, o sarete carne morta!» Meg Daniels sobbalzò, allarmata da quel grido brusco, e lasciò cadere a terra la pagnotta di pane. Fissò i due uomini che stavano sulla porta del 7Eleven. Un uomo alto con un revolver in una mano, una cartella di plastica nell'altra. Uno basso e tozzo, con un fucile a canne mozze. Anche se la notte di Bakersfìeld era mite, entrambi portavano dei lunghi soprabiti. E maschere da sci.
Fianco a fianco, avanzarono verso la cassa. Meg voleva indietreggiare, ma non osò. L'uomo alto lasciò cadere la cartella sul banco. «Riempila,» disse all'impiegato. L'uomo tozzo si voltò verso Meg. La esaminò attraverso i fori della maschera. Lei tremò mentre guardava gli occhi iniettati di sangue scorrere lungo il suo corpo. Con la canna del fucile, l'uomo diede dei colpettì al suo seno sinistro attraverso il tessuto sottile della canotta. «Bella,» mormorò. «Davvero bella.» «Non... farmi male. Per favore.» «Oh, non ti farei male... » Lo sparo di un fucile rombò nelle orecchie di Meg. Voltando la testa di scatto, vide il dorso del soprabito dell'uomo alto gonfiarsi per un attimo. Il sangue sprizzò da un foro sotto le sue spalle. Ma lui non cadde. Al contrario, spinse il revolver verso l'impiegato e fece fuoco. Il proiettile si conficcò nel petto dell'impiegato. L'impiegato barcollò all'indietro, lasciando cadere la sua arma. Era ancora in piedi quando l'uomo tozzo sollevò il fucile e fece fuoco. La faccia dell'impiegato dalla bocca in su si frantumò in un'esplosione di rosso. Poi lui cadde dietro il banco, sparendo alla vista. L'uomo alto si sporse in avanti, allungò una mano nel cassetto aperto del registratore di cassa, e cominciò a tirare fuori il denaro. Prese le banconote, le gettò nella cartella, e si allungò per prenderne altre. Meg, stordita, fissava il dorso del suo soprabito. Il buco era grande quanto un mezzo dollaro. Il sangue stava sgorgando. Ma lui continuava a riempire la borsa di monete. «Tu vieni con noi, dolcezza.» Le parole sembravano venire da una grande distanza. Meg pensò, sta parlando con me? Dev'essere così. Non c'è nessun altro nel negozio. «Ehi, tu.» Lei voltò la testa. L'uomo tozzo la stava guardando negli occhi. «Qualche problema?» Lei scosse la testa. Quello alto chiuse la cartella e la sollevò dal banco. Si voltò verso Meg. Aveva un foro che colava in mezzo al petto. Perché non è morto? si domandò lei. «Questa la portiamo con noi,» disse l'uomo tozzo. «Per me va benissimo. È una cannonata.»
Afferrando il davanti della sua canotta, l'uomo tozzo tirò Meg in avanti. E fuori dal negozio. Verso un furgone nero in attesa. «Ti va un altro drink?» chiese Graham, vedendo che le era rimasto solo ghiaccio nel bicchiere e un bastoncino rosso. Lei scosse la testa. I suoi capelli ondeggiarono, emettendo un luccichio dorato nelle luci fioche del locale. «Non qui,» disse. «Ma se vuoi venire su in camera mia... » «Stai qui nell'hotel?» Invece di rispondere, lei aprì la pochette e tirò fuori una chiave. «Beh, subito,» disse Graham. «Questa è la tua sera fortunata.» «Direi.» Riusciva a malapena a credere alla sua fortuna. Aveva fallito tante di quelle volte da quando Jolynn lo aveva lasciato e lui si era trasferito a Tucson. Anche quando era andato a segno, era stato con donne che erano disperate come lui: erano anziane, o insignificanti, o grasse, e tutte avevano personalità insulse o che davano sui nervi. In una scala da uno a dieci, si collocavano più o meno fra il tre e il cinque. Questa qui, Patricia, era almeno un otto. Incantevoli capelli dorati. Caldi occhi azzurri. Una spruzzata di lentiggini sul naso. E uno spirito vivace e allusivo che tendeva al sarcasmo ma senza mai essere gretto. E un corpo snello e flessuoso che il suo abito faceva poco per celare. Era più un negligé che un abito. Corto e di un bianco brillante, con spalline strette e uno spacco che mostrava la gamba sinistra fino all'anca. Per come aderiva al suo corpo, Graham sapeva che lei non portava nulla sotto. Aveva solo due difetti di scarso rilievo, altrimenti sarebbe stata un dieci di sicuro. Una faccia leggermente troppo lunga. Non abbastanza lunga da essere cavallina, ma abbastanza da non poter essere considerata magnifica. Ed era incinta. Non enormemente incinta, ma abbastanza da far sporgere il ventre sul davanti dell'abito. Graham era fortemente consapevole di ciò che gli stava spingendo fuori dal davanti del calzoni mentre scendeva dallo sgabello del bar. Si abbottonò la giacca sportiva, sperando di coprirsi. Patricia gli prese la mano.
«Brrrr,» disse Graham, sorridendo. Lei sorrise. «Mani fredde, cuore caldo.» Mentre attraversavano il locale, lui pensò alla sensazione che gli avrebbe dato quella mano gelida sulla sua pelle calda. Attraversarono l'atrio dell'albergo ed entrarono in uno degli ascensori. Era vuoto. Patricia premette il pulsante per il primo piano. Lo guardò e si leccò le labbra. «Ti divorerò,» disse. Lui disse, «Gesù.» Le porte dell'ascensore si aprirono. Lei lo condusse lungo il corridoio, e aprì la porta del 218. Graham entrò per primo. Non c'erano luci accese. Quando lei chiuse la porta, la stanza era buia eccetto il pallido chiarore proveniente dalle porte a vetri all'altro lato. Gli andò fra le braccia. Graham sentì le salde protuberanze dei seni e del ventre che premevano contro di lui. Le baciò un lato del lungo e freddo collo. Le accarezzò la schiena nuda. Fece scorrere una mano giù per lo spacco dell'abito, le accarezzò la pelle della coscia e dell'anca, infilò le mani sotto il tessuto e trovò la morbidezza sericea delle natiche. Lei si scostò, e per un momento lui si domandò se qualcosa non andava. Ma solo per un momento. Poi lei cominciò a svestirlo, togliendogli la giacca, aprendogli la camicia e gettadola di lato, sfilandogli la cintura, sbottonandogli la cintola, facendo scivolare giù la lampo, accovacciandosi mentre gli abbassava i calzoni e gli slip fino alle caviglie. Lui trasalì al tocco delle sue labbra, della sua lingua. «Delizioso,» sussurrò lei. Poi si alzò. «Va' nel bagno,» disse. «Sicuro. Per far cosa?» «Mi piace farlo sotto la doccia.» Fece un cenno con la testa verso il buio di una porta aperta. «Sarò da te fra un minuto. Preparo dei drink e li porto con me.» Incredibile, pensò lui. Si tolse le scarpe e i calzini, si liberò dei pantaloni, scalciando, e andò nel bagno. Accese la luce. Il bagliore gli fece socchiudere gli occhi per un momento. Poi, si guardò nello specchio. Un tipo visibilmente nervosetto. Non essere nervoso, amico. Gesù!
Scuotendo la testa, si rivolse un largo sorriso. Aveva la bocca secca, così andò al lavandino e aprì il rubinetto. Usò la mano a coppa per versarsi acqua fresca in bocca. Si raddrizzò e chiuse il rubinetto. Si pulì la mano umida sul ventre. Si guardò di nuovo nello specchio, e di nuovo scosse la testa. Non è possibile che stia succedendo. Ma è vero. Tremando, si avvicinò alla vasca. Fece scorrere l'acqua finché non la sentì ben calda, poi girò una manopola e osservò lo spruzzo che usciva dalla doccia. Fu freddo per un momento, poi divenne caldo. Entrò nella vasca. Chiuse la porta gelida, e attese dotto lo spruzzo che lo investiva. Oh ragazzi oh ragazzi. Prima ci laveremo a vicenda. Poteva sentirla, sentire la mano insaponata scivolare su di lui, sentire i seni viscidi sotto il suo tocco. Graham gemette quando vide la forma indistinta attraverso la porta della doccia. Non vedeva molto, solo il colore roseo della pelle. La porta scivolò, aprendosi. Vide un martello nella sua mano sollevata. Vide la faccia dietro la sua spalla, occhi sporgenti che lo fissavano, labbra spesse che sogghignavano. Il martello si abbatté sulla sua fronte. Cadde. La nuca andò a sbattere contro il fondo della vasca. Un'ombra di consapevolezza gli si avvinghiò strettamente. «Chiudi il rubinetto,» udì attraverso il ronzio nelle orecchie. La voce di Patricia. Lo spruzzo si fermò. I due sembravano circondati da una luce azzurrina ed elettrica mentre entravano nella vasca. Erano nudi. «Chiudi il tubo di scarico, tesoro,» disse Patricia. «Non dobbiamo perdere il suo sangue.» Strisciò sopra di lui. Entrambi strisciarono sopra di lui. Sentì i loro denti. «Okay,» disse Vicki. «Ci siamo.» Appoggiò la pagaia sulle frisate. Paul fece la stessa cosa. La canoa scivolò in silenzio sulla superficie del fiume spruzzata di luna.
Paul la guardò da sopra la spalla. «Dove siamo?» chiese. «Il posto speciale.» «Siamo in mezzo al fiume.» «Sì.» Lei strisciò verso di lui, e la canoa oscillò dolcemente mentre si muoveva. Paul si voltò. Sulle ginocchia, lei spiegò la coperta. Vi si distese sopra, coi piedi verso Paul. Sollevando la testa, lo vide avvicinarsi. «Qual è l'idea?» chiese lui. «Gesù, non lo so.» Vicki si girò su un fianco. Paul si allungò accanto a lei. «Spero che qualche motoscafo non ci passi sopra,» sussurrò lui. Si avvicinarono ancora di più, finché i loro corpi non si toccarono. «Ho sempre desiderato farlo,» disse Vicki. «L'Huckleberry Finn che è in te.» «Finn non era mai stato così bene.» Agganciò un braccio sulla schiena di Paul, gli fece scivolare l'altro sotto la testa, gli si strinse contro ancora di più. Poteva sentire il battito del suo cuore e il tocco caldo del suo respiro sul viso. Il fiume sollevò dolcemente la canoa, la fece girare, la abbassò, la cullò. Qualcosa batté contro lo scafo. Vicki si ritrasse. «Solo un pezzo di legno alla deriva, o roba simile,» disse Paul. Rigida contro di lui, lei tese le orecchie. «Ehi, cos'è che non va?» «Cos'era?» sussurrò lei. «Adesso controllo.» Si mosse, ma Vicki lo strinse contro il suo corpo. «Non posso controllare nulla se continui a stringermi in questo modo.» «Sta' giù.» «Vicki.» «Per favore.» «Okay. Dio, stai tremando.» «Stringimi soltanto. Tienimi stretta.» «Farò di meglio.» Lui rotolò su se stesso, salì sopra di lei la coprì col suo corpo. «No! Abbassati!» «Oh,» borbottò lui. «Ahi, Vicki.» Lei lottò per tenerlo giù, ma lui si spinse su e si sporse sul fiume. Lei udì
uno scroscio d'acqua. Poi Paul sollevò un ramo d'albero. Lo tenne sopra di lei per un momento. Gocciolò acqua gelida, spruzzandole il viso e scorrendole per le guance. Poi Paul gettò via il ramo. Esso cadde in acqua con un tonfo. Mettendosi a cavalcioni di Vicki, lui si tolse la camicia. Le asciugò delicatamente il viso. «Solo un pezzo di legno trascinato dalla corrente,» disse con voce bassa. «Non era Charlie Gaines che veniva a prenderti.» «Mi dispiace.» «Non è il caso.» «Aspettavo con tale ansia... Pensavo che sarebbe stato fantastico.» Lui arrotolò la camicia e la infilò sotto la testa di Vicki. «Resta distesa. Ci penso io a tornare a riva. Può darsi che il letto non sia così romantico, ma sarà parecchio più comodo.» Allungando una mano, lei gli accarezzò il torace. «Non voglio andare.» «Forse l'anno prossimo.» «L'anno prossimo continuerò a domandarmi se lui è qui. E così l'anno dopo. Non lo troveranno mai.» Fece scivolare le mani intorno ai fianchi di Paul e lo attirò su di sé. «Se Charlie m'insegue, lasciamo che arrivi.» «Forse faremmo meglio a tornare a casa.» «Non credo.» Vicki premette le mani aperte contro le orecchie di Paul e gridò nella notte. «EHI, CHARLIE! CHARLIE GAINES! SONO IO, VICKI! ORA O MAI PIÙ, VECCHIO MIO! VIENI A PRENDERMI, O RIPOSA IN PACE PER SEMPRE!» Per parecchio tempo, dopo, lei giacque immobile sul fondo della canoa... ascoltando. FINE