STEVEN ERIKSON I GIARDINI DELLA LUNA (Gardens Of The Moon, 1999) Questo libro è dedicato a J.C. Esslemont mondi da conqu...
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STEVEN ERIKSON I GIARDINI DELLA LUNA (Gardens Of The Moon, 1999) Questo libro è dedicato a J.C. Esslemont mondi da conquistare, mondi da condividere Ringraziamenti Nessun libro si scrive mai in solitudine. Desidero ringraziare per il sostegno offerto nel corso degli anni: Clare Thomas, Bowen, Mark Paxton-MacRae, David Keck, Courtney, Ryan, Chris e Rick, Mireille Theriacelt, Dennis Valdron, Keith Addison, Susan, David e Harriet, Clare e David Thomas jr, Chris Rodell, Patrick Carroll, Kate Peach, Peter Knowlson, Rune, Kent e Val e i ragazzi, il mio instancabile agente Patrick Walsh, e Simon Taylor, curatore eccezionale.
ELENCO DEI PERSONAGGI L'Impero Malazan
L'Armata di Un-braccio Tattersail, Maga del Quadro, 2° Esercito, lettrice del Mazzo dei Draghi Hairlock, Mago del Quadro, 2° Esercito, antipatico rivale di Tayschrenn Calot, Mago del Quadro, 2° Esercito, amante di Tattersail Toc il Giovane, ricognitore, 2° Esercito, agente dell'Artiglio, malamente sfregiato durante l'Assedio di Pale Gli Arsori di Ponti Sergente Whiskeyjack, 9° squadrone, ex comandante del 2° Esercito Caporale Kalam, 9° squadrone, ex Artiglio di Sette Città Ben lo Svelto, 9° squadrone, mago di Sette Città Dispiacere, 9° squadrone, micidiale assassina sotto le spoglie di una ragazza Hedge, 9° squadrone, zappatore Fiddler, 9° squadrone, zappatore Trotts, 9° squadrone, guerriero Barghast Mallet, 9° squadrone, guaritore Sergente Antsy, 7° squadrone Picker, 7° squadrone Il Comando Imperiale Ganoes Stabro Paran, ufficiale di nobili natali dell'Impero Malazan Dujek Un-braccio, Gran Pugno, Eserciti Malazan, campagna di Genabackis Tayschrenn, Grande Mago dell'Imperatrice Bellurdan, Grande Mago dell'Imperatrice Nightchill, Grande Maga dell'Imperatrice A'Karonys, Grande Mago dell'Imperatrice Lorn, Aggiunto dell'Imperatrice Topper, Comandante dell'Artiglio Imperatrice Laseen, sovrana dell'Impero Malazan Casato Paran (Unta) Tavore, sorella di Ganoes (figlia di mezzo) Felisin, sorella minore di Ganoes Gamet, guardiano della casa e veterano
Ai Tempi dell'Imperatore Imperatore Kellanved, fondatore dell'Impero, assassinato da Laseen Dancer, primo consigliere dell'Imperatore, assassinato da Laseen Surly, antico nome di Laseen quand'era comandante dell'Artiglio Dassem Ultor, Prima Spada dell'Impero, ucciso fuori da Y'ghatan, Sette Città Toc (il Vecchio), scomparso nelle purghe di Laseen della Vecchia Guardia A Daruihistan Gli avventori della Locanda della Penice Kruppe, uomo di falsa modestia Crokus Mano-Giovane, giovane ladro Rallick Nom, sicario della Corporazione Murillio, cortigiano Coll, ubriacone Meese, cliente regolare Irilta, cliente regolare Scurve, il barman Sulty, cameriera Chert, bravaccio sfortunato La Cabala T'orrud Baruk, Alto Alchimista Derudan, strega di Tennes Mammot, Gran Sacerdote di D'riss e dotto eminente, zio di Crokus Travale, devoto soldato della Cabala Tholis, Grande Mago Parald, Grande Mago Il Consiglio Turban Orr, potente consigliere e amante di Simtal Lim, alleato di Turban Orr Simtal, signora della Proprietà Simtal Estraysian D'Arle, rivale di Turban Orr Challice D'Arle, sua figlia
La Corporazione dei Sicari Vorcan, Signora della Corporazione (nota anche come Signora dei Sicari) Ocelot, capoclan di Rallick Nom Talo Krafar, sicario del clan di Jurrig Denatte Krute di Talient, agente della Corporazione Presenti in Città Anche: L'Anguilla, famigerato capo spia Il Violatore del Cerchio, agente dell'Anguilla Vildrom, guardia della città Capitano Stills, Capitano della Guardia, Proprietà Simtal Ulteriori attori I Tiste Andii Anomander Rake, Signore della Progenie della Luna, Figlio e Cavaliere dell'Oscurità Serrat, vicecomandante di Rake Korlat, cacciatrice della notte e consanguinea di Serrat Orfantal, cacciatrice della notte Horult, cacciatore della notte I T'Ian Imass Logros, comandante dei Clan T'lan Imass che servono l'Impero Malazan Onos T'oolan, guerriero senza clan Pran Chole, divinatore (sciamano) dei Kron T'Ian Imass Kig Aven, un capoclan Altri Crone, Grande Corvo, al servizio di Anomander Rake Silanah, un'Eleint, compagna di Anomander Rake Raest, Tiranno Jaghut K'rul, Dio Antico, il Creatore dei Sentieri Caladan Brood, l'Alto Comandante, avversario degli Eserciti Malazan nella Campagna Settentrionale Kallor, vicecomandante di Brood Principe K'azz d'Avore, comandante della Guardia Cremisi
Jorrick Lancia-Acuta, ufficiale della Guardia Cremisi Cowl, Grande Mago della Guardia Cremisi Caporale Blues, spadaccino della Guardia Cremisi Fingers, Sesta Spada della Guardia Cremisi Il Segugio Baran, segugio dell'Ombra Il Segugio Blind, segugio dell'Ombra Il Segugio Gear, segugio dell'Ombra Il Segugio Rood, segugio dell'Ombra Il Segugio Shan, segugio dell'Ombra Il Segugio Doan, segugio dell'Ombra Il Segugio Ganrod, segugio dell'Ombra Tronod'Ombra/Ammanas, Sovrano del Canale dell'Ombra La Fune/Cotillion, compagno di Tronod'Ombra e Patrono dei Sicari Icarium, costruttore della Ruota delle Ere a Darujhistan Mappo, compagno di Icarium Il Veggente Pannion, Profeta Tiranno, sovrano del Dominio di Pannion Ora che le ceneri si sono raffreddate, apriamo l'antico libro. Queste pagine sporche d'olio raccontano la storia dei Caduti, di un impero sconvolto, con parole prive di calore. Il focolare si è spento, il suo bagliore e le scintille della vita sono solo ricordi davanti agli occhi che si offuscano che disposizione ha la mia mente, che sfumatura hanno i miei pensieri mentre apro il Libro dei Caduti e respiro a fondo l'odore della storia? Ascoltate, allora, le parole che aleggiano su quel respiro. Questi racconti narrano di noi, ancora e ancora. Noi siamo la storia rivissuta, e questo è tutto, e non avrà mai fine. L'Imperatore è morto! E così la sua mano destra - ora fredda, mozzata! Ma guardate queste ombre morenti, che, percosse e sanguinanti, scorrono in coppia lontano dalla vista dei mortali... Scacciata dal dominio dello scettro, la luce fuggiva da candelabri dorati, da un focolare bordato di gioielli per sette anni il calore è stillato...
L'Imperatore è morto. E così il suo degno compagno; la corda è stata tranciata di netto. Ma guardate il boccio del ritorno l'oscurità tremante, il lacero sudario che abbracciano i bambini nella luce morente dell'Impero. Udite la debole eco del canto funebre; prima del calar del sole, questo giorno riversa il rosso sulla terra deformata, e in occhi di ossidiana la vendetta batte sette rintocchi... Chiamata all'Ombra (Li. 1-18) Felisin(n. 1146) PROLOGO 1154esimo anno del sonno di Bum 96esimo anno dell'Impero Malazan Ultimo anno del regno dell'Imperatore Kellanved Le macchie di ruggine sembravano disegnare mari di sangue sulla superficie nera e bucherellata del Segnavento di Mock. Vecchio di un secolo, stava accoccolato sulla punta di un'antica picca attaccata in cima alla parete della Roccaforte. Mostruoso, deforme, era stato forgiato a martellate in un demone alato con i denti scoperti in un ghigno beffardo, e si agitava con uno stridio di protesta a ogni folata. I venti erano contrari il giorno in cui colonne di fumo si levarono sul Quartiere Topo della Città di Malaz. Con il suo silenzio, il Segnavento annunciò la caduta improvvisa della brezza marina che si arrampicava sulle scabre mura della Roccaforte di Mock, poi, cigolando, tornò in vita, quando il caldo respiro del Quartiere Topo, fitto di fumo e di scintille, passò sulla città fino a lambire le alture del promontorio. Ganoes Stabro Paran del Casato di Paran si alzò sulle punte per vedere oltre il merlone. Alle sue spalle si ergeva la Roccaforte, un tempo capitale dell'Impero ma ora, da quando era stato conquistato il continente, di nuovo relegata a semplice dépendance del Pugno. Alla sua sinistra, torreggiavano la picca e il suo oscillante trofeo. Per Ganoes, l'antica fortificazione sovrastante la città era troppo familiare per essere interessante. Questa sua visita era la terza in tre anni; molto
tempo prima aveva esplorato il cortile con i suoi ciottoli sbozzati, il Vecchio Maschio - ora una stalla, il cui piano superiore ospitava piccioni, rondini e pipistrelli - e la cittadella dove in quel momento suo padre negoziava la decima sulle esportazioni dell'isola con gli ufficiali del porto. Una buona porzione della cittadella, però, era inaccessibile anche al figlio di un nobile casato; perché era lì che il Pugno aveva la sua residenza, e nelle sue camere interne che venivano condotti gli affari dell'Impero riguardanti l'isola. Dimenticata la Roccaforte dietro di sé, Ganoes rivolse la sua attenzione sulla città malandata, e sui tumulti che attraversavano il suo quartiere più povero. La Roccaforte di Mock era eretta in cima ad una scogliera. La zona più alta del Pinnacolo si raggiungeva da una scala ricurva scavata nel calcare della parete della scogliera. Il dislivello verso la città sottostante era di circa ottanta braccia o più, e la parte malandata del muro della Roccaforte ne aggiungeva altre sei. Il Quartiere Topo si trovava al margine interno della città, una irregolare espansione di tuguri e quartieri troppo cresciuti e tagliati a metà dal fiume limaccioso che scorreva verso il porto. Come la maggior parte della città di Malaz situata tra la posizione di Ganoes ed i tumulti, era difficile scorgerne i dettagli tra le colonne crescenti di fumo nero. Era mezzogiorno, ma i lampi e il rumore dei tuoni di natura magica facevano sembrare l'aria scura e pesante. Con il rumore sferragliante di un armatura, un soldato era comparso davanti al muro vicino a lui. L'uomo appoggiò le braccia sul bastione, il fodero della lunga spada che strisciava contro le pietre. «Fiero per la vostra nobiltà, eh?» Chiese con gli occhi grigi fissi sulla città sottostante che bruciava senza fiamme. Il ragazzo studiò il soldato. Già distingueva l'equipaggiamento del reggimento dell'Esercito Imperiale e l'uomo che era al suo fianco era un comandante del Terzo - uno dei più vicini all'Imperatore, un'élite. Sul suo mantello di color grigio scuro c'era un fermaglio d'argento: un ponte di pietra illuminato da fiamme vermiglie. Un Arsore di Ponti. I soldati d'alto rango e gli ufficiali dell'Impero di solito attraversavano la Roccaforte di Mock. L'isola di Malaz rimaneva un porto vitale per l'arruolamento, specialmente ora che le guerre di Korel al sud erano iniziate. Ganoes si era assunto “responsabilità” con più delle sue partecipazioni, qui e nella capitale, Unta.
«È vero, allora?» chiese Ganoes sfrontatamente. «Che cosa è che è vero? «La prima spada dell'Impero. Dassem Ultor. Lo abbiamo sentito nella capitale prima di andarcene. È morto. È vero? È morto Dassem?» L'uomo sembrò trasalire, il suo sguardo fermo sul Quartiere Topo. «Questa è guerra», mormorò in un sussurro, come se le parole non avessero alcun significato per le orecchie di chiunque altro. «Siete con il Terzo. Pensavo che il Terzo fosse con lui, nelle Sette Città. A Y'Ghatan...» «Per il respiro di Hood, stanno ancora cercando il suo corpo nelle macerie ancora fumanti di quella città maledetta, e tu sei qui, il figlio di un mercante lontano tremila leghe dalle Sette Città con informazioni che si pensa siano solo in possesso di pochi». Ancora non si era voltato. «Non conosco le tue fonti, ma ascolta il mio consiglio e tieni ciò che conosci per te». Ganoes scrollò le spalle. «Hanno detto che ha tradito un dio». Finalmente l'uomo lo guardò. La sua faccia era sfregiata e qualcosa che avrebbe potuto essere un'ustione deturpava la sua mascella e la guancia sinistra. Nonostante questo sembrava comunque troppo giovane per essere un comandante. «Tieni conto di questo insegnamento ragazzo». «Che lezione?» «Ogni decisione che prenderai potrà cambiare il mondo. La vita migliore è quella che gli dèi non notano. Se vuoi vivere libero, ragazzo, vivi tranquillamente». «Voglio essere un soldato. Un eroe». «Tu ne rimarrai fuori». Il segnavento di Mock stridette mentre una imprevedibile raffica di vento proveniente dal porto eliminava il fumo denso. Ganoes ora poteva sentire l'odore del pesce marcio e la puzza degli uomini del porto. Un altro Arsore di Ponti, con un violino rotto e bruciacchiato legato sulla schiena, andò dal comandante. Era esile e piuttosto giovane - pochi anni più vecchio di Ganoes stesso, che ne aveva dodici. Strane cicatrici ricoprivano la sua faccia e il dorso delle sue mani, e la sua armatura era un misto di uniformi straniere sopra una logora uniforme macchiata. Al suo fianco pendeva una spada corta in un fodero di legno incrinato con uno spadone di legno rotto al fianco. Si appoggiò contro i merli di fianco all'altro uomo con la tranquillità di una intima confidenza. «C'è cattivo odore quando gli stregoni hanno paura» disse il nuovo venuto. «Stanno perdendo il controllo laggiù. Sembra ci sia bisogno di un
intero gruppo di maghi solo per fiutare alcune streghe di cera». Il comandante sospirò. «Pensavo di aspettare per vedere se riuscissero a controllarsi». Il soldato brontolò. «Sono tutti novizi, non esperti. Ciò potrebbe ferire alcuni di loro per sempre. D'altro canto», aggiunse, «molti laggiù stanno seguendo le disposizioni di qualcun altro» «Un sospetto, nient'altro.» «La prova è proprio là», disse l'altro uomo «nel Quartiere Topo». «Forse.» «Siete troppo protettivi» disse l'uomo. «Surly dice che è la vostra debolezza più grande.» «Surly è il problema dell'imperatore, non il mio». Un secondo brontolio fu la risposta. «Forse di tutti noi molto presto». Il comandante divenne silenzioso, si girò lentamente per studiare il suo compagno. L'uomo scosse le spalle. «È solo una sensazione. Sta prendendo un nuovo nome, sai. Laseen.» «Laseen?» «È una parola Napan. Significa...» «So cosa significa.» «Spero che lo sappia anche l'Imperatore.» «Significa "padrona del trono"», tradusse Ganoes. I due abbassarono lo sguardo su di lui. Il vento mutò di nuovo, facendo gemere il demone di ferro sul suo trespolo; dalla Roccaforte venne un sentore di pietra. «Il mio precettore è Napan», spiegò Ganoes. Una voce nuova parlò alle loro spalle, una voce di donna, fredda e imperiosa. «Comandante.» Entrambi i soldati si girarono, ma senza fretta. Il comandante disse al suo compagno: «La nuova compagnia ha bisogno di aiuto laggiù. Manda Dujek con un manipolo, e fa' contenere i fuochi dagli zappatori - non vogliamo che bruci l'intera città». Il soldato annuì e si allontanò a passo di marcia, senza degnare la donna di uno sguardo. Lei stava con due guardie del corpo vicino al portale della torre quadrata della cittadella. La pelle blu scura la contrassegnava come Napan, ma non aveva nient'altro di particolare; indossava una veste grigia macchiata di sale, aveva capelli grigio topo tagliati corti come quelli di un soldato, e
lineamenti sottili e insignificanti. Furono, tuttavia, le guardie del corpo che la fiancheggiavano a mandare un brivido giù per la schiena di Ganoes. Alte, avvolte in tuniche nere, le mani nascoste nelle maniche, i volti ombreggiati dai cappucci. Ganoes non aveva mai visto un membro dell'Artiglio, ma seppe istintivamente che quelli erano accoliti del culto. Il che significava che la donna era... Il comandante osservò: «Hai creato tu questo pasticcio, Surly. E ora io devo rimettere a posto le cose». Ganoes rimase scioccato dall'assenza di paura - dal disprezzo, quasi, che traspariva nella voce del soldato. Surly aveva creato l'Artiglio, facendone un potere con cui solo l'Imperatore stesso poteva rivaleggiare. «Quello non è più il mio nome, comandante.» L'uomo fece una smorfia. «Sì, l'ho sentito. Ti sentirai sicura, ora che l'Imperatore non c'è. Ma lui non è l'unico a ricordarti come nulla più di una servetta giù nel Quartiere Vecchio. Presumo che la gratitudine non sia il tuo forte.» Il volto della donna non tradì alcun cambiamento di espressione a dimostrazione che le parole l'avevano ferita. «L'ordine era semplice», ribatté. «Sembra che i tuoi nuovi ufficiali siano incapaci di svolgere il compito.» «Si sono fatti sfuggire le cose di mano», spiegò il comandante. «Sono inesperti...» «Non mi interessa», sbottò lei. «Né sono particolarmente delusa. La perdita di controllo impartisce comunque una lezione ai nostri oppositori.» «Oppositori? Un gruppo di streghe maldestre che vendono i loro scarsi talenti - a quale scopo sinistro? Trovare dei banchi di strani pesci sui fondali della baia. Per il respiro di Hood, donna, non mi sembra una minaccia per l'Impero.» «Non sono autorizzate. Sfidano le nuove leggi...» «Le tue leggi, Surly. Non funzioneranno, e al suo ritorno l'Imperatore abrogherà la tua proibizione della magia, puoi starne certa.» La donna sorrise freddamente. «Ti farà piacere sapere che la Torre ha segnalato l'arrivo delle navi trasporto per le tue nuove reclute. Non sentiremo la mancanza né di te, né dei tuoi soldati irrequieti e sovversivi, comandante.» Senza un'altra parola, né un solo sguardo al ragazzo in piedi accanto al comandante, la donna si girò e, fiancheggiata dalle guardie mute, rientrò nella cittadella. Ganoes e il comandante riportarono l'attenzione sui tumulti nel Topo. Si
vedevano lingue di fuoco salire attraverso il fumo. «Un giorno, farò il soldato», ripeté Ganoes. L'uomo grugnì. «Solo se fallirai in tutto il resto, figliolo. Prendere la spada è l'ultimo atto dei disperati. Ascolta il mio consiglio: trovati un sogno più degno.» Ganoes aggrottò le sopracciglia. «Tu non sei come gli altri soldati con cui ho parlato. Assomigli di più a mio padre.» «Ma non lo sono», ruggì il suo interlocutore. «Il mondo», commentò Ganoes, «non ha bisogno di un altro mercante di vini». Il comandante strinse gli occhi, assorto. Aprì la bocca per dare la risposta più ovvia, poi la richiuse. Ganoes Paran riabbassò lo sguardo sul quartiere in fiamme, soddisfatto di se stesso. Anche un ragazzo, comandante, può avere l'ultima parola. Il segnavento di Mock oscillò ancora una volta. Fumo caldo ricoprì la parete, avvolgendoli. Un puzzo di tessuto, vernice e pietra bruciati, cui si aggiunse una punta di dolce. «Ha preso fuoco un mattatoio», disse Ganoes. «Maiali.» Il comandante fece una smorfia. Dopo un po', sospirò e si riappoggiò al merlone. «Come dici tu, ragazzo, come dici tu.» LIBRO PRIMO PALE ... Nell'ottavo anno le Città Libere di Genabackis raggiunsero un accordo con armate mercenarie per contrastare l'avanzata dell'Impero; fra queste si distinse la Guardia Cremisi, sotto il comando del Principe K'azz D'Avore (vedi Volume III & V); e i reggimenti Tiste Andii della Progenie della Luna, sotto il comando di Caladan Broods e altri. Le forze dell'Impero Malazan, comandate dal Grande Pugno Dujek Un-braccio, quell'anno erano costituite dalla Seconda, la Quinta e la Sesta Armata, oltre che da legioni di Moranth. In retrospettiva due osservazioni possono essere avanzate. La prima è che l'alleanza del 1156 con i Moranth segnò per l'Impero Malazan una svolta fondamentale nella scienza bellica, che sul breve termine si sarebbe rivelata estremamente efficace. La seconda osservazione degna di nota è che il coinvolgimento dei Tiste Andii della Progenie della Luna rappresentò l'inizio della Guerra Magica, con conseguenze devastan-
ti. Nell'anno 1163 del Sonno di Burn, l'Assedio di Pale terminò con l'ormai leggendaria conflagrazione magica... Campagne Imperiali 1158-1194 Volume IV, Genabackis Imrygyn Tallobant (n. 1151) CAPITOLO PRIMO Le vecchie pietre di questa strada risuonano del ferro di zoccoli e di tamburi dove io l'ho visto camminare dal mare fin tra le colline illuminato dal rosso bagliore del sole, un ragazzo tra altri figli e fratelli insieme tra le fila di guerrieri fantasmi ed è passato dove io sedevo sul cammino eroso dal tempo alla fine del giorno il suo passo mi diceva tutto quello che dovevo sapere di lui il ragazzo camminava, un altro soldato, un altro cuore giovane non ancora indurito. Lamento di una madre Anonimo 1161esimo anno del Sonno di Bum 105esimo anno dell'Impero Malazan Settimo anno del Regno dell'Imperatrice Laseen «Bastone e carota», stava dicendo l'anziana donna, «come vuole l'Imperatrice e gli stessi dei». Si chinò di lato e sputò, prima di portare alle labbra rugose un fazzoletto sudicio. «Ho visto andare in guerra tre mariti e due figli.»
Gli occhi scintillanti, la pescatrice guardava passare la colonna di soldati a cavallo senza prestare quasi ascolto alle parole della vecchia accanto a lei. Il respiro della fanciulla manteneva il passo con gli splendidi destrieri. La ragazza sentiva il volto in fiamme, ma quel rossore non aveva niente a che fare con il caldo. Il giorno volgeva al termine, i raggi del sole sfioravano le sommità degli alberi e la brezza marina era divenuta più fresca. «Quelli erano i tempi dell'Imperatore», continuò la vecchia. «Ascoltami bene, ragazzina. Laseen butta al vento le ossa dei migliori. A cominciare da quelle del suo uomo, non è vero?» La pescatrice annuì distrattamente. Come si conveniva ai più umili, le due donne aspettavano lungo il bordo della strada, l'anziana piegata sotto un sacco pieno di rape, la giovane con un pesante cesto sulla testa. La vecchia spostava continuamente il sacco da una spalla all'altra; con i cavalieri che affollavano la strada e il dirupo che si apriva dietro di loro, non aveva lo spazio per posare a terra il pesante fardello. «Le butta al vento, ti dico. Ossa di mariti, ossa di figli, ossa di mogli e ossa di figlie. Per lei non cambia niente. Per l'Impero non cambia niente.» La vecchia sputò di nuovo. «Tre mariti e due figli, dieci monete a testa all'anno. Dieci per cinque fa cinquanta. Cinquanta monete all'anno fanno ben poca compagnia, ragazza mia. In inverno e anche nel letto.» La pescatrice si tolse la polvere dalla fronte. Gli occhi scintillanti saettavano fra i soldati che le sfilavano innanzi. I giovani a cavallo dei poderosi destrieri tenevano lo sguardo fisso davanti a loro, i volti seri. Le poche donne che cavalcavano fra di loro sedevano impettite e anche più impassibili degli uomini. I raggi del sole al tramonto riflettevano bagliori rossastri sugli elmi dei soldati, accecando gli occhi della fanciulla e offuscandone la visuale. «Sei la figlia del pescatore», disse l'anziana. «Ti ho visto per strada e giù alla spiaggia. E anche con tuo padre al mercato. Gli manca un aiuto, eh? Altre ossa per la collezione dell'Imperatrice, vero?» Sollevò le braccia in gesto desolato. «La mia è la prima casa sul sentiero. Uso le monete per comperare candele. Ogni notte consumo cinque candele, cinque candele per tenere compagnia alla vecchia Rigga. È una casa stanca, piena di cose stanche e io sono una di esse, ragazzina. Che cos'hai in quel cesto?» La pescatrice impiegò qualche istante per accorgersi che le era stata rivolta una domanda. Distolse lo sguardo dai soldati e sorrise alla donna. «Mi spiace», disse, «i cavalli sono così rumorosi». Rigga alzò la voce. «Ti ho chiesto che cos'hai nel cesto.»
«Funi. A sufficienza per tre reti. Dobbiamo prepararne una per domani. Mio padre ha perso l'ultima; qualcosa nel fondo del mare gliel'ha portata via insieme al pescato. Ilgrand Lender rivuole il denaro che ci ha imprestato e domani dobbiamo assolutamente pescare. E tanto.» Tornò a sorridere, spostando nuovamente lo sguardo sulle truppe. «Non sono magnifici?» mormorò. La mano di Rigga scattò in alto, afferrò i lunghi capelli neri della ragazza e li tirò con forza. La fanciulla gridò. Il cesto sulla testa oscillò, per poi scivolarle su una spalla. La giovane cercò di afferrarlo ma era troppo pesante. Il cesto piombò a terra, aprendosi in due. «Ahi!» urlò la ragazza, cercando di inginocchiarsi. Ma Rigga non mollò la presa, obbligandola a voltare la testa. «Ascoltami, ragazzina!» L'alito caldo della donna soffiò sul volto della giovane. «L'Impero sta tritando questa terra da un centinaio d'anni. Per te è normale, tu sei nata che era già così. Ma io no. Quando avevo la tua età, Itko Kan era un paese degno di questo nome. Avevamo un vessillo; un nostro vessillo. Eravamo liberi, ragazzina.» L'alito di Rigga provocò alla giovane un conato di vomito. Strinse gli occhi per resistere. «Apri bene le orecchie, bambina, se non vuoi che il Manto della Menzogna ti accechi per sempre.» Il tono della voce di Rigga divenne cantilenante e un brivido improvviso percorse la giovane. Rigga, Riggalai la Veggente, la strega della cera che imprigionava le anime nelle candele e le bruciava con esse. Anime divorate dal fuoco... le parole di Rigga avevano il sapore amaro della profezia. «Apri bene le orecchie. Sono l'ultima a parlarti. Tu sei l'ultima a sentirmi. È così che io e te siamo legate, al di là di ogni limite.» Le dita di Rigga affondarono nei capelli della fanciulla. «L'Imperatrice ha attraversato il mare e ha affondato il suo pugnale in terra vergine. Il sangue ora scorre a fiotti e se non stai attenta, bambina, ti trascinerà con sé. Ti metteranno in mano una spada, ti daranno un bel cavallo e ti manderanno al di là del mare. Ma un'ombra s'impossesserà della tua anima. Ascolta! Conserva queste parole nel tuo profondo! Rigga ti risparmierà perché siamo legate, io e te. Ma non posso fare altro, hai capito? Guarda al Signore generato nell'Oscurità; sua sarà la mano che ti libererà, anche se lui non lo saprà...» «Che cosa succede?» tuonò una voce. Rigga si girò verso la strada. Un cavaliere aveva rallentato l'andatura. La
Veggente lasciò la presa. La fanciulla indietreggiò. Una pietra sul limitare della strada scivolò sotto il suo piede facendola cadere. Quando sollevò lo sguardo, il soldato si era già allontanato. Un altro aveva preso il suo posto. «Lascia in pace la ragazza, vecchia», ruggì questo e mentre passava si allungò oltre la sella stendendo la mano. Il guanto di ferro schioccò contro la testa di Rigga. La donna piroettò su se stessa, poi crollò a terra. La pescatrice gridò quando Rigga atterrò pesantemente su di lei. Uno zampillo di sangue le schizzò in viso. In lacrime, la ragazza si trascinò sulla ghiaia, allontanando con i piedi il corpo di Rigga. Si mise a bocconi. Qualcosa della profezia di Rigga sembrava essere sprofondato nella mente della fanciulla, pesante come un macigno e nascosto alla luce. Si rese conto di non ricordare una sola parola di ciò che le aveva detto la Veggente. Si allungò e afferrò lo scialle di lana di Rigga. Lentamente, voltò il corpo dell'anziana donna. Il sangue le copriva un lato della testa, scorrendo dietro a un orecchio. Anche la bocca e il mento erano chiazzati di rosso. Gli occhi erano spalancati, fissi. La ragazza si tirò indietro, terrorizzata. Si guardò intorno. La colonna di soldati era passata, lasciando dietro di sé solo polvere e l'eco di zoccoli sul selciato. La sacca di Rigga si era rovesciata sulla strada. In mezzo alle rape giacevano cinque candele di sego. La fanciulla respirò polvere. Grattandosi il naso guardò il proprio cesto. «Non preoccuparti per le candele», mormorò con una strana voce impastata. «Ormai sono andate, no? Sono solo ossa disperse. Non importa.» Strisciò verso le funi cadute dal cesto rotto e quando parlò nuovamente, la sua voce era tornata fresca, giovane, normale. «Abbiamo bisogno delle funi. Lavoreremo tutta notte e intrecceremo una rete. Il papà mi aspetta. È sulla porta.» Si bloccò, un brivido la percorse. La luce del sole era ormai scomparsa. Dalle ombre si sprigionava un freddo inconsueto, che prese a fluire come acqua lungo la strada. «Eccolo, finalmente», sussurrò la ragazza con una voce che non era la sua. Una mano guantata si posò sulla sua spalla. Lei si accovacciò, rannicchiandosi. «Tranquilla», disse una voce d'uomo. «È finita. Per lei non si può fare più niente.» La fanciulla sollevò lo sguardo. Un uomo vestito di nero troneggiava su
di lei, il volto celato sotto l'ombra di un cappuccio. «Ma lui l'ha colpita», piagnucolò la ragazza con una vocina infantile. «E dobbiamo intrecciare le reti e il papà...» «Alzati», ordinò l'uomo lasciando scorrere la mano lungo il braccio della giovane. Si drizzò, sollevandola senza fatica. I piedi calzati nei leggeri sandali ciondolarono in aria prima che lui la posasse a terra. Fu allora che lei vide un altro uomo. Era più basso ma anch'egli vestiva di nero. In piedi sulla strada, volgeva lo sguardo verso i soldati ormai lontani. «Non è una gran perdita», commentò senza voltarsi verso di lei. «Non aveva un gran talento. Il Dono l'aveva abbandonata da tempo. Oh, forse ce l'avrebbe fatta ancora, ma non lo sapremo mai, giusto?» La giovane barcollò verso la sacca di Rigga e raccolse una candela. Si sollevò, gli occhi improvvisamente duri. Sputò a terra. La testa dell'uomo più basso si girò di scatto. Dentro il cappuccio sembrava che le ombre giocassero da sole. La ragazza indietreggiò. «Non era male come vita», mormorò. «Aveva queste candele, capisci. Cinque. Cinque per...» «Negromanzia», la interruppe l'uomo più basso. Quello più alto, ancora accanto a lei, disse in tono sommesso: «Le vedo, bambina. Conosco il loro significato». L'altro sbuffò. «La strega aveva imprigionato cinque deboli anime. Niente di grandioso.» Piegò il capo. «Le sento. La chiamano.» La lacrime riempirono gli occhi della giovane. Una muta angoscia sembrava sgorgare dal nero macigno nella sua mente. Si asciugò le guance. «Da dove venite?» domandò in tono brusco. «Non vi ho visti sulla strada.» L'uomo accanto a lei indicò il sentiero. «Eravamo dall'altra parte», spiegò. «In attesa, proprio come te.» L'altro ridacchiò. «Dall'altra parte. Esatto.» Tornò a girarsi verso la strada e sollevò le braccia. Quando scese l'oscurità, la ragazza trattenne il fiato. Un suono acuto, lacerante riempì l'aria per un breve istante, poi il buio scomparve e la fanciulla spalancò gli occhi. Sette possenti segugi sedevano intorno all'uomo sulla strada. Gli occhi delle bestie emettevano bagliori gialli e tutte erano girate nella stessa direzione dell'uomo. «Impazienti, vero? E allora, andate!» bisbigliò quest'ultimo. In silenzio, i segugi partirono di gran corsa. Il loro padrone si girò e rivolgendosi all'uomo accanto alla giovane, dis-
se: «E così, ora Laseen avrà qualcosa su cui scervellarsi». Ridacchiò, soddisfatto. «Perché devi complicare le cose?» osservò l'altro con voce stanca. L'uomo più basso s'irrigidì. «Hanno quasi raggiunto la colonna.» Girò la testa. Il distante nitrito dei cavalli riempì l'aria. Sospirò. «Hai preso una decisione, Cotillon?» «Visto che hai usato il mio nome, Ammanas, direi che tu hai appena deciso per me. Non possiamo certo lasciarla qui, no?» bofonchiò l'altro, divertito. «Certo che possiamo, amico mio. Ma non viva.» Cotillon posò lo sguardo sulla ragazza. «No», affermò in tono tranquillo, «ce la farà». La giovane si morse il labbro. Le dita ancora strette intorno alla candela di Rigga, fece un altro passo indietro, gli occhi che saettavano da un uomo all'altro. «Peccato», mormorò Ammanas. Cotillon annuì, si schiarì la gola e disse: «Ci vorrà tempo». «E noi abbiamo tempo?» replicò Ammanas in tono divertito. «Perché una vendetta sia veramente tale, la vittima deve essere schiacciata lentamente, ferocemente. Hai forse dimenticato quanto ci ha fatto soffrire? Laseen è già con le spalle al muro. Potrebbe soccombere senza il nostro aiuto. Ma allora da dove trarremmo soddisfazione?» La risposta di Cotillon fu secca e aspra. «Hai sempre sottovalutato l'Imperatrice. Considerata la situazione attuale... No.» Indicò la fanciulla. «Avremo bisogno di questa. Laseen ha provocato l'ira della Progenie della Luna e quello è un vero ginepraio. Il momento è perfetto.» In lontananza, oltre i nitriti dei cavalli, echeggiarono le grida di uomini e donne, suoni che trafissero il cuore della ragazza. I suoi occhi si spostarono dal corpo esanime di Rigga ad Ammanas, che ora stava avvicinandosi. Avrebbe voluto scappare, ma le gambe erano divenute a un tratto deboli, tremanti. Lui la raggiunse. Sembrava stesse osservandola attentamente, sebbene le ombre all'interno del cappuccio restassero impenetrabili. «Sei una pescatrice?» le domandò in tono cortese. Lei annuì. «Hai un nome?» «Basta!» lo bloccò Cotillon. «Non è un topo sotto le tue grinfie, Ammanas. Inoltre, io l'ho scelta e io le sceglierò anche il nome.» Ammanas indietreggiò. «Peccato», commentò.
La giovane giunse le mani, in preghiera. «Pietà», implorò. «Non ho fatto niente! Mio padre è un pover'uomo ma vi darà tutto quello che ha. Ha bisogno di me e delle funi... mi sta aspettando!» A un tratto si sentì bagnata fra le gambe e si affrettò a sedersi. «Non ho fatto niente!» La vergogna la sopraffece e posò le mani in grembo. «Vi prego.» «Non ho altra scelta, bambina», replicò Cotillon. «Dopo tutto, conosci i nostri nomi.» «Non li ho mai sentiti prima!» gridò la ragazza. L'uomo sospirò. «Con quello che sta succedendo laggiù, sulla strada, verresti interrogata. Non sarebbe una bella esperienza. C'è gente che conosce i nostri nomi.» «Vedi, ragazzina», aggiunse Ammanas, trattenendo una risata, «noi non dovremmo essere qui. Ci sono nomi e nomi». Si girò verso Cotillion e in tono gelido disse: «Dobbiamo occuparci anche di suo padre. I miei cani?». «No», rispose Cotillon. «Lasciamolo vivere.» «Come?» «Ho il sospetto», spiegò Cotillon, «che l'avidità avrà la meglio, una volta pulito il selciato». Un tono sarcastico sottolineò le sue successive parole. «Sono certo che te la saprai cavare con un po' di magia, vero?» Ammanas ridacchiò. «Attenzione alle ombre portatrici di doni.» Cotillon si voltò nuovamente verso la ragazza. Sollevò le braccia. Le ombre che fino ad allora avevano nascosto i suoi lineamenti ondeggiarono intorno al suo corpo. Ammanas parlò e le sue parole giunsero alle orecchie della fanciulla da una distanza remota. «Lei è perfetta. L'Imperatrice non risalirà mai a lei, non potrà nemmeno immaginarlo.» Alzò la voce. «Non è poi così male, bambina, essere la pedina di un dio.» «Carota e bastone», disse la ragazza in tono concitato. Nell'udire quello strano commento Cotillon ebbe un attimo di esitazione, poi si strinse nelle spalle. Le ombre avvolsero la fanciulla. Sfiorata dalla loro gelida carezza, la mente della giovane iniziò a scivolare lontano, verso l'oscurità. *** Il capitano si agitò sulla sella e lanciò un'occhiata alla donna che cavalcava accanto a lui. «Abbiamo chiuso la strada da entrambe le direzioni e deviato il traffico locale verso l'interno. Per il momento, niente è trapela-
to.» Si asciugò il sudore dall'arcata sopraccigliare e sussultò. Il pesante copricapo di lana che indossava sotto l'elmo gli aveva sfregato la fronte. «Qualcosa non va, Capitano?» L'uomo scosse la testa, lo sguardo fisso sulla strada. «L'elmo è largo. L'ultima volta che l'ho indossato avevo più capelli.» L'Aggiunto dell'Imperatrice non replicò. Il sole della tarda mattinata rendeva accecante la superficie bianca e polverosa della strada. Il capitano sentiva rivoli di sudore scorrergli lungo il corpo e la parte terminale dell'elmo gli pizzicava i peli sul collo. La schiena già gli doleva. Erano anni che non montava a cavallo e faticava a trovare il ritmo giusto. A ogni rimbalzo sulla sella sentiva le vertebre scricchiolare. Era passato molto tempo da quando bastava un titolo per farlo scattare sull'attenti. Ma quella era l'Aggiunto dell'Imperatrice, il braccio destro di Laseen, un'estensione della stessa volontà Imperiale. L'ultima cosa che il capitano intendeva fare era rivelare il proprio disagio e la propria spossatezza a quella donna giovane e pericolosa. In lontananza, la strada iniziava la lunga e tortuosa salita. Un vento pungente soffiava da est, fischiando fra gli alberi che fiancheggiavano quel lato della strada. A metà pomeriggio, quel vento sarebbe diventato rovente, trasportando con sé il puzzo delle distese fangose. Per allora, il capitano sperava di essere tornato a Kan. Cercò di non pensare alla meta verso la quale cavalcavano. Che se la sbrigasse l'Aggiunto. Nei molti anni passati al servizio dell'Impero, ne aveva viste abbastanza per sapere quando era il momento di rinchiudere tutto nella mente. E quello era uno di quei momenti. «È da molto che sei di stanza da queste parti, Capitano?» «Sì», bofonchiò l'uomo. La donna aspettò un istante, poi chiese: «Da quanto?». «Tredici anni, Aggiunto», rispose il militare dopo una breve esitazione. «Allora hai combattuto per l'Imperatore», commentò la donna. «Sì.» «E sei sopravvissuto alla purga.» Il capitano le lanciò un'occhiata. Se lei se ne accorse non lo diede a vedere. I suoi occhi restarono fissi sulla strada innanzi a loro; stava in sella con disinvoltura, il lungo spadone inguainato sotto il braccio sinistro, pronto per uno scontro a cavallo. Aveva i capelli corti o forse semplicemente raccolti sotto l'elmo e una figura flessuosa, osservò il capitano.
«Hai finito?» gli domandò. «Stavo parlando delle purghe ordinate dall'Imperatrice Laseen dopo la morte prematura del suo predecessore.» Il soldato strinse i denti, abbassò il mento per allentare il cinturino dell'elmo - non aveva avuto il tempo di radersi e la fibbia gli sfregava la pelle. «Non tutti sono stati uccisi, Aggiunto. La gente di Itko Kan è di indole tranquilla. Qui non ci sono state rivolte ed esecuzioni di massa come in altre zone dell'Impero. Ci siamo limitati ad aspettare.» «Capisco», commentò l'Aggiunto sottolineando le parole con un sorrisino, «non sei di nobili origini, Capitano». «Se fossi stato di nobili origini non sarei sopravvissuto nemmeno a Itko Kan. E lo sappiamo entrambi», replicò l'uomo in tono gelido. «Gli ordini erano chiari e nemmeno i faceti Kanese hanno osato disubbidire all'Imperatrice.» «Il tuo ultimo combattimento?» «Nella Pianura Wickan.» Proseguirono in silenzio per alcuni istanti. In lontananza, sulla sinistra, gli alberi lasciarono il posto a bassi rovi di erica e al di là di questi, fece capolino la bianca spuma dell'immensa distesa del mare. «Quanti uomini hai messo di pattuglia nella zona?» chiese a un tratto l'Aggiunto. «Centodieci», rispose il capitano. La donna girò la testa di scatto, posando sul militare uno sguardo gelido. Il capitano studiò quel volto. «La carneficina si estende mezza lega sul mare, Aggiunto, e un quarto di lega sulla terraferma.» La donna non commentò. Stavano per raggiungere la vetta. Una ventina di soldati erano già lassù e altri aspettavano lungo la salita. Tutti si erano voltati a guardarli. «Preparatevi, Aggiunto.» La donna osservò i volti allineati lungo la strada. Sapeva che erano uomini e donne agguerriti, veterani dell'assedio di Li Heng e delle Guerre Wickan combattute nelle pianure settentrionali. Ma qualcosa aveva ghermito i loro occhi lasciandoli nudi ed esposti. La guardavano con una bramosia inquietante, quasi fossero stati affamati di risposte. Mentre passava innanzi a loro, la donna dovette combattere il desiderio di parlare, di offrire loro parole di conforto. Non spettava a lei distribuire doni simili, se mai ce ne fossero stati. In quello era molto simile all'Imperatrice. Dalla vetta giungevano le grida di corvi e gabbiani, un suono che, quando raggiunsero la meta, si trasformò in un acuto strillo. Ignorando i soldati allineati lungo il ciglio della strada, l'Aggiunto spronò il cavallo a prose-
guire. Il capitano la seguiva. Giunti sulla sommità, guardarono sotto di loro. La strada si tuffava per circa un quinto di lega per poi risalire dalla parte opposta verso un promontorio. Il terreno era coperto da migliaia di corvi e gabbiani, che si riversavano nei fossati e fra i bassi cespugli di erica e ginestra. Sotto quel mare bianco e nero, la terra era di un rosso uniforme. Qua e là sbucavano carcasse di cavalli e fra gli uccelli gracchianti s'intravedeva il bagliore del ferro. Il capitano si slacciò l'elmo, lo sfilò lentamente e lo posò sul pomo della sella. «Aggiunto...» «Mi chiamo Lorn», disse la donna in tono sommesso. «Centosettanta, fra uomini e donne. Duecentodieci cavalli. Il Diciannovesimo Reggimento dell'Ottava Cavalleria di Itko.» La voce del capitano s'incrinò. L'uomo guardò Lorn. «Morti.» Il cavallo si agitò nervoso. Il militare tirò le redini con gesto brusco e l'animale si bloccò, le narici spalancate, le orecchie tese, i muscoli tremanti. Lo stallone dell'Aggiunto non si mosse. «Tutti avevano le spade sguainate. Hanno combattuto valorosamente contro il misterioso nemico che li ha assaliti. Ma le perdite sono solo nostre.» «Avete controllato la spiaggia sottostante?» domandò Lorn, gli occhi fissi sull'agghiacciante spettacolo. «Non c'è traccia di sbarco», spiegò il capitano. «Nessun'orma, né verso il mare né verso la terraferma. E questi non sono i soli morti, Aggiunto. Contadini, pescatori, viandanti. Tutti dilaniati -bambini, bestiame, cani.» Si bloccò di colpo e distolse lo sguardo. «Più di quattrocento morti», mormorò. «Non conosciamo il numero esatto.» «Capisco», commentò Lorn in tono indifferente. «Nessun testimone?» «Nessuno.» Dalla strada sottostante un uomo cavalcava verso di loro, piegato in avanti, la testa vicina a quella dell'animale, quasi lo incitasse a correre attraverso la spaventosa carneficina. Gli uccelli si sollevarono al suo passaggio, per poi tornare a posarsi appena si fu allontanato. «Chi è quello?» domandò l'Aggiunto. «Il tenente Ganoes Paran. È uno nuovo. Viene da Unta.» Gli occhi stretti, Lorn osservò il giovane, che nel frattempo aveva raggiunto il limitare della depressione, fermandosi per dare ordini alle squadre al lavoro. L'uomo si raddrizzò sulla sella e guardò verso di loro. «Paran. Della Casa di Paran?» «Sì, nelle sue vene scorre oro e tutto il resto.»
«Chiamalo.» Il capitano sollevò una mano e il tenente spronò i fianchi del destriero. Pochi istanti dopo era già accanto al superiore. Salutò. L'uomo e il cavallo erano coperti di sangue dalla testa ai piedi. Mosche e vespe ronzavano intorno a loro. Sul volto del tenente Paran, Lorn non vide la giovinezza che avrebbe dovuto appartenergli, sebbene fosse un bel volto su cui posare lo sguardo. «Hai controllato l'altro versante, Tenente?» domandò il capitano. Paran annuì. «Sì, signore. Oltre il promontorio c'è un piccolo insediamento di pescatori. Una dozzina di capanne. Tutte occupate da cadaveri, tranne due. La maggior parte delle imbarcazioni sembrerebbero in rada; un solo palo per ormeggio è vuoto.» «Tenente, descrivimi le capanne vuote», intervenne Lorn. Il soldato scacciò una vespa prima di rispondere. «Una è in cima alla spiaggia, alla fine del sentiero che proviene dalla strada. Pensiamo appartenesse a una vecchia che abbiamo trovato morta per strada a circa mezza lega a sud.» «Perché?» «La capanna contiene oggetti che sembrano appartenere a una persona anziana. Inoltre, pare che la donna avesse l'abitudine di bruciare candele. Candele di sego, per l'esattezza. La vecchia sulla strada aveva un sacco pieno di rape e una manciata di candele di sego. Da queste parti il sego è costoso, Aggiunto.» «Quante volte hai attraversato questo campo di battaglia, Tenente?» chiese Lorn. «A sufficienza per essermici abituato, Aggiunto», rispose il militare facendo seguire le parole da una smorfia di disgusto. «E l'altra capanna vuota?» «Pensiamo appartenga a un uomo e a una donna; è vicina al limite della marea, dall'altra parte del palo per ormeggio vuoto.» «Nessun segno di loro?» «No, Aggiunto. Naturalmente stiamo rinvenendo altri cadaveri lungo la strada e nei campi.» «Ma nessuno sulla spiaggia.» «No.» L'Aggiunto aggrottò la fronte, consapevole dello sguardo di entrambi gli uomini su di sé. «Capitano, che genere di armi ha ucciso i tuoi uomini?» Il militare esitò, poi si girò verso il tenente. «Tu ti sei aggirato laggiù,
Paran, dicci che cosa ne pensi.» Un sorriso tirato apparve sul volto del sottoposto. «Sì, signore. Armi naturali.» Per il capitano quelle parole furono come un pugno allo stomaco. Sperò di sbagliarsi. «Che cosa intendi per "armi naturali"?» domandò Lorn. «Denti, per la maggior parte. Molto grandi e affilati.» Il capitano si schiarì la gola e disse: «A Itko Kan non ci sono lupi da ormai cent'anni. E poi, non ci sono carcasse in giro...». «Se erano lupi», replicò Paran, volgendo lo sguardo verso la conca, «erano grandi quanto muli. Nessuna traccia, Aggiunto. Nemmeno un ciuffo di pelo». «Quindi non si è trattato di lupi», concluse Lorn. Paran si strinse nelle spalle. La donna inspirò ed espirò lentamente. «Voglio vedere questo villaggio di pescatori.» Il capitano fece per infilarsi l'elmo, ma l'Aggiunto scosse la testa. «Il tenente Paran è sufficiente, Capitano. Nel frattempo, ti suggerisco di prendere il comando del tuo esercito. I cadaveri devono essere rimossi al più presto possibile e ogni traccia del massacro deve essere cancellata.» «Come volete, Aggiunto», replicò il capitano, augurandosi che il proprio sollievo non fosse troppo evidente. Lorn si rivolse al giovane nobile. «Pronto, Tenente?» L'uomo annuì e spinse il cavallo al passo. Fu quando gli uccelli si sollevarono al loro passaggio che l'Aggiunto invidiò il capitano. Davanti a lei apparve una distesa di armature, carne e ossa rotte. L'aria era calda, pesante e nauseante. Vide i volti di soldati maciullati da quelle che dovevano essere mascelle immense e terribilmente forti. Vide maglie di ferro strappate, scudi accartocciati e arti umani strappati dal resto del corpo. Riuscì a esaminare la scena del massacro solo per pochi istanti prima di distogliere lo sguardo e posarlo sul promontorio innanzi a sé, incapace di sopportare oltre la vista di quella carneficina. Il suo destriero, una cavalla da guerra avvezza al sangue e appartenente a una delle razze più pregiate di Sette Città, aveva perso la propria andatura orgogliosa e impettita e ora guardava attentamente dove posava gli zoccoli. Lorn aveva bisogno di una distrazione e la ricercò nella conversazione. «Tenente, conosci già la tua destinazione?» «No, Aggiunto. Ma mi aspetto che sia la capitale.»
La donna sollevò un sopracciglio. «Però. E come pensi di riuscirci?» Paran fissò l'orizzonte, un sorriso misterioso gli accese il viso. «Verrà organizzato.» «Capisco.» Lorn tacque. «I nobili si sono astenuti dagli alti incarichi militari e hanno tenuto la testa china per molto tempo, vero?» «Fin dai primi giorni dell'Impero. L'Imperatore non ci aveva in simpatia. Mentre l'Imperatrice Laseen sembra preoccuparsi d'altro.» Lorn osservò il giovane. «Vedo che ti piace correre rischi, Tenente», commentò. «E quanta presunzione. Sei così sicuro dell'invincibilità del vostro sangue?» «Da quando dire la verità significa essere presuntuosi?» «Sei ancora molto giovane.» Quell'osservazione sembrò irritare Paran. Un lieve rossore gl'imporporò le guance. «Aggiunto, ho trascorso le ultime sette ore immerso nel sangue fino alle ginocchia. Ho scacciato corvi e gabbiani... sapete che cosa fanno qua questi uccelli? Esattamente? Strappano lembi di carne e si azzuffano; si ingozzano di bulbi oculari e di lingue, di fegati e di cuori. Spinti dalla loro avidità disseminano carne ovunque...» Tacque, si raddrizzò sulla sella cercando di riacquistare il controllo di sé. «Non sono più giovane, Aggiunto. Per quanto riguarda la presunzione, non potrebbe importarmene di meno. Non è possibile girare intorno alla verità, non qui, non ora, né mai più.» Raggiunsero il lontano declivio. Sulla sinistra, uno stretto sentiero conduceva verso il mare. Paran lo indicò, quindi guidò il cavallo in quella direzione. Lorn lo seguì, lo sguardo pensoso fisso sull'ampia schiena del soldato. Solo dopo qualche istante, lo stretto sentiero catturò la sua attenzione. A sinistra, oltre il ciglio del camminamento, si apriva uno strapiombo. La marea era bassa, le onde s'infrangevano su un banco di scogli a poche centinaia di metri dalla riva. Fra gli scogli sottostanti, delle piccole piscine naturali riflettevano il cielo plumbeo. Giunsero a una curva, oltre e sotto la quale si apriva una spiaggia a falce di luna. Sopra di essa, ai piedi del promontorio, si estendeva una larga piattaforma erbosa su cui sorgevano una dozzina di capanne. L'Aggiunto spostò lo sguardo sul mare. Le barche dondolavano ai poli d'ormeggio. Il cielo sopra la spiaggia e il mare era deserto, privo di uccelli. Fermò il cavallo. Un istante dopo, Paran si voltò verso di lei e la imitò. La guardò sfilarsi l'elmo e scuotere la lunga capigliatura corvina. Era ba-
gnata e lucida per il sudore. Il tenente la raggiunse, negli occhi un'espressione interrogativa. «Tenente Paran, le tue parole erano corrette.» Si riempì i polmoni d'aria salmastra, poi lo guardò. «Temo che non sarai di stanza a Unta. Sarai ai miei ordini come ufficiale delegato.» L'uomo strinse lentamente gli occhi. «Che cosa è accaduto a quei soldati, Aggiunto?» Lei non rispose subito; si appoggiò indietro sulla sella e scrutò il mare. «Qualcuno è stato qui», disse infine. «Un mago molto potente. È accaduto qualcosa e siamo stati distratti perché non lo scoprissimo.» Paran restò a bocca aperta. «L'uccisione di quattrocento persone è stata solo un diversivo?» «Se quell'uomo e quella donna erano fuori a pescare, sono rientrati con la marea.» «Ma...» «Non troverete i loro corpi, Tenente.» Paran era confuso. «Ma come?» Lei lo guardò, quindi fece girare il cavallo. «Torniamo indietro.» «Tutto qui?» Il tenente la fissò dirigere il destriero lungo il sentiero, poi la raggiunse. «Aspettate un momento, Aggiunto», disse, quando le fu accanto. Lorn gli lanciò un'occhiata d'avvertimento. Paran scosse la testa «No. Se ora faccio parte del vostro squadrone, devo saperne di più.» Lei s'infilò l'elmo e strinse il cinturino sotto il mento. I lunghi capelli ondeggiavano sul mantello imperiale come funi sbrindellate. «Molto bene. Come sai, Tenente, non sono una maga...» «No», intervenne Paran in tono gelido, «li avete cacciati e uccisi». «Non interrompermi mai più. Come dicevo, sono stata colpita da anatema per quanto riguarda la magia. Questo significa, Tenente, che anche se non posso praticarla, la magia non mi è estranea. Diciamo che ci conosciamo reciprocamente. Conosco la struttura della magia e la struttura delle menti che vi fanno ricorso. Avremmo dovuto giungere alla conclusione che l'eccidio era totale e casuale. Non è nessuno dei due. Dietro si nasconde un disegno ben preciso e noi dobbiamo scoprire quale.» Paran annuì, lentamente. «Il tuo primo incarico, Tenente, è di raggiungere la città commerciale... come si chiama?»
«Gerrom.» «Sì, Gerrom. Sicuramente conosceranno questo villaggio di pescatori, poiché è lì che il pesce viene venduto. Chiedi in giro e scopri quale famiglia di pescatori fosse formata da un uomo e una donna, forse padre e figlia. Voglio nomi e descrizioni. Usa i militari nel caso i locali fossero recalcitranti.» «Non lo saranno», affermò Paran. «È gente che collabora.» Raggiunsero la fine del sentiero e si fermarono sulla strada. Sotto, i carri traballavano fra i cadaveri, i buoi muggivano e pestavano gli zoccoli intrisi di sangue. I soldati gridavano per incitarli, mentre sopra le loro teste volteggiavano migliaia di uccelli. All'estremità opposta il capitano se ne stava immobile, l'elmo in mano. L'Aggiunto si guardò intorno con espressione dura. «Per il loro bene, spero tu abbia ragione, Tenente», disse. *** Mentre il capitano guardava avvicinarsi i due cavalieri, qualcosa gli disse che i giorni di pace a Itko Kan erano finiti. In mano, l'elmo era pesante. Scrutò Paran. Quel bastardo ce l'aveva fatta. Un centinaio di fili lo tirano verso un comando militare di tutto riposo in una città tranquilla. Si accorse che Lorn lo osservava. «Capitano, devo avanzare una richiesta.» Il capitano trattenne una smorfia. Una richiesta. Al diavolo. L'Imperatrice deve controllare le proprie scarpe ogni mattina per assicurarsi che quella lì non se le sia già infilata. «Dite pure, Aggiunto.» La donna smontò da cavallo, imitata da Paran. L'espressione del tenente era impassibile. Era semplice arroganza o l'Aggiunto gli aveva dato qualcosa a cui pensare? «Capitano», iniziò Lorn, «mi è sembrato di capire che a Kan sia in corso un arruolamento. C'è gente che viene da fuori città?». «Per arruolarsi? Certo, sono più i forestieri degli altri. Quelli della città stanno troppo bene dove sono. Inoltre, ricevono le brutte notizie prima. La maggior parte dei contadini non sa che a Genabackis sta andando tutto a rotoli. Comunque, molti di loro pensano che quelli della città siano troppo piagnoni. Posso chiedere perché?» «Potete.» Lorn si voltò a guardare i soldati che liberavano la strada. «Ho bisogno di un elenco delle reclute degli ultimi due giorni. Lasciate perdere
quelli nati in città. Mi interessano solo i forestieri. E solo le donne e/o gli uomini anziani.» «Sarà una lista breve, Aggiunto», commentò il capitano. «È quello che spero.» «Avete scoperto che cosa si nasconde dietro questo massacro?» Gli occhi ancora sui militari al lavoro, Lorn disse: «Non ne ho idea». Sì, pensò il capitano, e io sono la reincarnazione dell'Imperatore. «Peccato», mormorò. «Oh.» L'Aggiunto si voltò verso di lui. «Da questo momento il tenente Paran fa parte del mio squadrone. Sono certa che ti occuperai tu delle necessarie pratiche.» «Come desiderate, Aggiunto. Adoro le scartoffie.» A quella battuta la donna abbozzò un sorriso. «Il tenente Paran partirà subito.» Il capitano guardò il giovane nobile e sorrise, lasciando che quel sorriso parlasse da solo. Lavorare per l'Aggiunto era come essere il verme sull'amo. L'Aggiunto era l'amo e all'altro capo del filo c'era l'Imperatrice. Che si dimenasse pure. Un'espressione stizzosa attraversò il volto del giovane. «Sì, Aggiunto.» Il soldato montò in sella, salutò e si allontanò lungo la strada. Il capitano lo guardò andarsene, quindi disse: «Nient'altro, Aggiunto?». «Sì.» Il tono della voce gli fece voltare la testa di scatto. «Vorrei sentire l'opinione di un militare sulla superiorità delle attuali incursioni nella struttura di comando imperiale.» Il capitano la fissò con sguardo duro. «Non è delle migliori, Aggiunto.» «Dite pure.» Il capitano parlò. *** Era l'ottavo giorno di reclutamento e il sergente Aragan sedeva con occhi cisposi dietro la scrivania mentre l'ennesimo giovane innocente e inesperto veniva spinto avanti dal caporale. Erano stati abbastanza fortunati lì, a Kan. Si pesca meglio nelle acque tranquille, aveva detto il Pugno di Kan. Qui si raccolgono solo storie. E le storie non fanno sanguinare. Le storie non affamano, non provocano dolore ai piedi. Quando sei giovane, sei convinto che non esista arma al mondo che possa ferirti e le storie non
fanno altro che spingerti a desiderare di essere parte di esse. La vecchia aveva ragione. Come sempre. Quella gente era stata sotto il pugno di ferro così a lungo che ormai era completamente assuefatta. Era proprio lì che iniziava l'addestramento, pensava Aragan. Era stata una brutta giornata, con il capitano che se n'era andato con tre compagnie senza dire una parola su ciò che stava accadendo. E come se ciò non fosse bastato, l'Aggiunto di Laseen era arrivata da Unta dieci minuti dopo, usando uno di quei spaventosi Canali Magici. Sebbene non l'avesse mai vista, gli bastava il suo nome soffiato dal vento caldo per sentirsi percorrere dai brividi. L'assassina di maghi, lo scorpione nella tasca imperiale. Aragan guardò torvo il blocco di carta e aspettò fino a quando il caporale si schiarì la gola. Poi sollevò lo sguardo. La recluta in piedi davanti a lui lo sconcertò. Aprì la bocca, sulla lingua una filippica ideata per far scappare via i più giovani. Un secondo dopo la richiuse, senza avere spiaccicato parola. Il Pugno di Kan era stato chiaro: se avevano due braccia, due gambe e una testa, dovevano prenderli. La campagna di Genabackis era un disastro. Avevano bisogno di corpi giovani. Sorrise alla ragazza. Corrispondeva perfettamente alla descrizione del Pugno. Eppure. «Molto bene, ragazzina, ti è chiaro che stai per essere reclutata per entrare a fare parte dell'esercito di Malazan, vero?» La fanciulla annuì, lo sguardo gelido fisso su Aragan. Il militare s'irrigidì. Dannazione, non avrà più di dodici o tredici anni. Se fosse mia figlia... Che cosa faceva apparire i suoi occhi così maledettamente vecchi? L'ultima volta che aveva visto qualcosa di simile si trovava fuori dalla Foresta di Mott, a Genabackis - era in marcia attraverso la campagna colpita da cinque anni di siccità e una guerra altrettanto lunga. L'espressione di quegli occhi era provocata dalla fame, o dalla morte. Si fece cupo. «Come ti chiami, ragazza?» «Sono arruolata, allora?» domandò la fanciulla in tono tranquillo. Aragan annuì. Un improvviso mal di testa prese a martellargli il cervello. «Fra una settimana saprai la tua destinazione, a meno che tu non abbia una preferenza.» «La campagna di Genabackan», affermò prontamente la ragazza. «Sotto il comando del Gran Pugno Dujek Un-braccio.» Aragan la fissò sorpreso. «Prenderò nota», mormorò. «Il tuo nome, sol-
dato?» «Dispiacere. Mi chiamo Dispiacere.» Il sergente Aragan scrisse il nome sul blocco. «Puoi andare, soldato. Il caporale ti darà maggiori istruzioni.» Sollevò lo sguardo quando la ragazza era già alla porta. «E lava via tutto quel fango dagli stivali.» Riprese a scrivere, poi si fermò. Non pioveva da settimane. E il fango nei dintorni era una via di mezzo fra il grigio e il verde, non rosso scuro. Posò la penna e si massaggiò le tempie. Be', per lo meno il mal di testa sta passando. *** Situata all'interno della regione, Gerrom sorgeva lungo il Vecchio Camminamento per Kan, una strada ormai in disuso da quando era stata costruita quella costiera. Su di essa transitavano per lo più contadini e pescatori a piedi, carichi dei loro prodotti. A testimonianza del loro passaggio restavano solo mucchi di abiti stracciati, cesti rotti e verdure calpestate e sparse lungo la via. Un mulo zoppo, muto testimone di un esodo, se ne stava poco distante, le zampe immerse in una risaia. Al passaggio di Paran, degnò il giovane di una rapida occhiata. I detriti dovevano essere lì da non più di un giorno; la frutta e la verdura a foglia verde cominciavano a marcire solo ora, sotto il caldo sole del pomeriggio. Procedendo al passo, Paran raggiunse i primi edifici della piccola città commerciale. Non c'era traccia di vita tra le squallide casupole; nessun cane gli andò incontro e l'unico carretto in vista si appoggiava su una ruota sola. L'aria immobile e l'assenza del cinguettio degli uccelli accrescevano quell'atmosfera di mistero. Paran posò la mano sull'impugnatura della spada. Avvicinatosi alle prime costruzioni, fermò la cavalla. L'esodo era stato veloce, una fuga in preda al panico. Eppure non vide corpi, né segni di violenza, al di là di quella provocata dalla fretta dei fuggiaschi. Trasse un profondo respiro, poi rilasciò l'aria, lentamente. Spronò la cavalla al passo. La strada principale, l'unica della città, conduceva a un'intersezione a T dove sorgeva un edificio in pietra a due piani: la sede della Polizia Imperiale. Le imposte erano chiuse, così come la porta. Giunto davanti alla costruzione, smontò dalla sella, legò l'animale a un palo e si guardò alle spalle. Niente. Tutto era immobile. Sguainò la spada e tornò a girarsi verso la sede della Polizia Imperiale.
Mosse un passo in quella direzione ma si bloccò di colpo: un sommesso mormorio gli fece accapponare la pelle. Posò la punta della spada sotto il chiavistello della porta. Spinse la leva verso l'alto fino a quando fu libera dal fermo; diede un calcio alla porta. Nell'oscurità all'interno dell'edificio qualcosa si mosse, un soffio d'aria portò fino a Paran il puzzo di carne in putrefazione. Il respiro affannoso e la gola secca, il militare attese che gli occhi si abituassero al buio. Si trovava nell'atrio del commissariato imperiale, circondato da gelidi sussurri. La stanza era affollata di piccioni neri che tubavano con spaventosa tranquillità. Forme umane in uniforme giacevano fra gli animali, allungate sul pavimento in mezzo a mucchietti di escrementi. Nell'aria si respirava puzzo di sudore e di morte. Occhi sbarrati su volti gonfi fissavano dall'ombra; le facce erano bluastre, come se quegli uomini fossero stati strangolati. Paran guardò uno dei soldati. «Portare quest'uniforme non è più sicuro», mormorò. Uccelli fatati come sorveglianti. Si scosse, attraversò la stanza. Chiocciando, i piccioni si scansavano al suo passaggio. La porta dell'ufficio del capitano era socchiusa. Una luce stantia filtrava attraverso gli infissi delle finestre chiuse. Rinfoderata la spada, Paran entrò nella stanza. Il capitano sedeva ancora sulla sua sedia, il viso gonfio e tumefatto chiazzato di blu, verde e grigio. Paran liberò la scrivania dalle piume umidicce, rovistò fra le pergamene. I fogli di papiro gli si sbriciolarono fra le dita. Hanno cancellato ogni traccia. Si voltò, ritornò rapidamente sui propri passi, attraversò l'atrio e uscì all'aperto. Chiuse la porta alle sue spalle, come era sicuro avessero fatto gli abitanti del villaggio. Il fiore nero della magia era una macchia che pochi desideravano esaminare attentamente. Sapeva espandersi in uno strano modo. Paran slegò la cavalla, salì in sella e si allontanò dalla città abbandonata. Non si voltò a guardare dietro di sé. *** Gonfio e pesante, il sole scendeva all'orizzonte in una macchia purpurea. Stremato, Paran lottava per cercare di tenere gli occhi aperti. Era stata una giornata lunga. Una giornata orribile. La terra intorno a lui, un tempo sicura e familiare, era improvvisamente divenuta ostile, un luogo attraversa-
to dalle correnti oscure della magia. Non aveva nessuna voglia di passare la notte all'aperto. La cavalla avanzava con passo pesante, la testa bassa, mentre il crepuscolo avvolgeva entrambi. Trascinato dalle pesanti catene dei propri pensieri, Paran cercava di trovare un senso a quanto era accaduto dal mattino. Strappato dall'ombra di un capitano scontroso e laconico, il tenente aveva visto crescere le proprie aspettative. Aiutante dell'Aggiunto era un avanzamento di carriera che soltanto poche settimane prima non avrebbe nemmeno osato immaginare. Malgrado la professione che aveva scelto, il padre e le sorelle sarebbero rimasti impressionati, forse addirittura intimoriti, dal suo successo. Affamato di prestigio, annoiato dall'atteggiamento genericamente statico e compiaciuto della classe nobile e alla ricerca di qualcosa di più stimolante dell'organizzazione di spedizioni di vino o del controllo dell'allevamento di cavalli, Paran aveva messo gli occhi sull'esercito imperiale. Prima di lui, altri nobili rampolli avevano intrapreso la carriera militare, semplificando così il cammino che avrebbe potuto portarlo a occupare posizioni di responsabilità. Ma la sfortuna aveva voluto che venisse destinato a Kan, dove una guarnigione di veterani aveva trascorso gli ultimi sei anni a leccarsi le ferite e non aveva dimostrato alcun rispetto per un tenente inesperto e altresì nobile. Paran sospettava che la svolta fosse avvenuta dopo l'eccidio lungo la strada. Se l'era cavata meglio di molti di quei veterani, aiutato non poco dalla razza superba del suo destriero. Inoltre, per provare a tutti quanti la propria fredda e distaccata professionalità, si era offerto come volontario per condurre un'accurata ispezione. Aveva fatto un ottimo lavoro, anche se l'ispezione di era rivelata... difficile. Mentre strisciava fra i corpi, aveva sentito delle grida provenire da qualche parte all'interno della sua stessa mente. I suoi occhi si erano soffermati su dettagli, stranezze - la peculiare contorsione di un corpo, l'inspiegabile sorriso sul volto di un soldato morto - ma ciò che più lo aveva scosso era quanto accaduto ai cavalli. Narici e bocche incrostate di schiuma - il segno della paura - e corpi devastati da ferite terribili, enormi. Bile e feci avevano ricoperto quelli che un tempo erano orgogliosi stalloni e sopra ogni cosa si stendeva un tappeto luccicante di sangue e brandelli di carne rossa. A stento aveva trattenuto le lacrime. Si agitò a disagio sulla sella, le mani improvvisamente sudate. Per tutto il tempo si era aggrappato alla fiducia in se stesso; eppure ora, mentre la
mente tornava a quell'orrido spettacolo, era come se qualcosa dentro di lui cominciasse a zoppicare, a cedere, minacciando il suo equilibrio. Quel disprezzo che aveva riversato sui veterani della sua legione, scossi da conati di vomito e inginocchiati inermi lungo il margine della strada, si abbatteva ora su di lui. Con uno sforzo, Paran si raddrizzò. Aveva detto all'Aggiunto che la sua giovinezza se n'era andata. Le aveva raccontato anche altre cose, incurante, impavido, dimentico di quella prudenza che il padre gli aveva trasmesso circa le molte facce dell'Impero. Da lontani recessi della mente gli giunsero antiche parole: vivi quietamente. In passato aveva rifiutato quel concetto e così lo rifiutava ora. Eppure, l'Aggiunto l'aveva notato. Per la prima volta si chiese se avesse ragione a esserne orgoglioso. La cavalla sollevò di scatto la testa, gli zoccoli che pestavano confusamente sulla strada segnata dai solchi. Paran posò la mano sulla spada, lasciando vagare lo sguardo intorno a sé. Il sentiero correva attraverso le risaie e le capanne dei contadini si ergevano a un centinaio di passi dalla strada. Eppure, una figura bloccava ora il passaggio. Un alito d'aria fredda turbinò intorno all'uomo, facendo sussultare il cavallo. La figura - dall'altezza si sarebbe detto un uomo - era avvolto in ombre verdi: mantello, cappuccio, giubba sbiadita e pantaloni di lino sopra stivali di pelle verde. Un unico lungo coltello, l'arma scelta dai guerrieri delle Sette Città, era appeso a una sottile cintura. Le mani dell'uomo, grigiastre alla luce del pomeriggio, mandavano bagliori: anelli preziosi gli adornavano infatti le dita, sopra e sotto le nocche. Ne alzò una, sollevando una brocca. «Hai sete, Tenente?» La voce dell'uomo era sommessa, il tono stranamente melodico. «Ti conosco?» domandò Paran, la mano ancora ferma sull'elsa della spada. Lo sconosciuto sorrise, buttando indietro il cappuccio. Aveva il viso oblungo, la pelle di una tenue tonalità di grigio, gli occhi scuri e vicini. Doveva avere sui trent'anni, sebbene i capelli fossero già bianchi. «L'Aggiunto mi ha chiesto un favore», disse. «È impaziente di ascoltare il tuo rapporto. Devo scortarti... e in fretta.» Agitò la brocca. «Ma prima, uno spuntino. Nelle mie tasche ho nascosto vere prelibatezze. Unisciti a me, qui, sul ciglio della strada. Possiamo rilassarci conversando e osservando i contadini lavorare. Mi chiamo Topper.»
«È un nome che ho già sentito», commentò Paran. «Be', non mi sorprende», replicò l'altro. «Ed eccomi qua, in persona. Il sangue di un Tiste Andii scorre nelle mie vene, alla ricerca di una fuga, senza ombra di dubbio, da questo corpo banalmente umano. Era mia la mano che ha posto fine alla discendenza reale di Unta: re, regina, figli e figlie.» «E cugini, secondi cugini, terzi...» «Distruggendo indubbiamente ogni speranza. Quello era il mio dovere di Artiglio. Ma non hai risposto alla mia domanda.» «Quale?» «Hai sete?» Lo sguardo torvo, Paran scese da cavallo. «Mi sembrava di avere capito che l'Aggiunto fosse impaziente e avesse fretta.» «E in fretta noi andremo, Tenente, ma solo dopo esserci riempiti la pancia e avere conversato in modo civile.» «A quanto si dice, la civiltà è l'ultima delle tue qualità, Artiglio.» «È uno dei tratti migliori del mio carattere ma che negli ultimi tempi ha avuto ben poche occasioni per mostrarsi, Tenente. Ma sono certo che mi dedicherai qualche istante del tuo prezioso tempo, visto che sarò la tua scorta, giusto?» «Qualsiasi accordo tu abbia preso con l'Aggiunto è fra te e lei», affermò Paran, avvicinandosi. «Non ti devo nulla, Topper. Se non ostilità.» L'Artiglio si accovacciò ed estrasse dalla tasche svariati involucri più due calici. «Antiche ferite. Mi è sembrato di capire che tu abbia preso un'altra strada, lasciando dietro di te i ranghi noiosi e affollati della nobiltà.» Riempì i calici di vino color ambra. «Ora fai parte del corpo dell'Impero, Tenente. Sei ai suoi ordini. Rispondi al suo volere. Sei una minuscola parte di un muscolo di quel corpo. Niente di più. Niente di meno. Il tempo dei rancori appartiene ormai al passato. Perciò», posò la brocca e porse un calice a Paran, «brindiamo a un nuovo inizio, Ganoes Paran, tenente e aiuto dell'Aggiunto Lorn». Con espressione corrucciata, Paran accettò il bicchiere. Bevvero. Topper sorrise e dal nulla produsse un fazzoletto di seta per asciugarsi le labbra. «Ecco fatto, visto? Non era poi così difficile. Posso chiamarti per nome?» «Paran andrà bene. E tu? Che titolo ha il comandante dell'Artiglio?» Topper tornò a sorridere. «Laseen è ancora al comando dell'Artiglio. Io
l'assisto. E così, sono anch'io una sorta di aiuto. Naturalmente, puoi chiamarmi per nome. Non sono un tipo formale con conoscenze di un certo tipo.» Paran si sedette sulla strada fangosa. «E la nostra è una conoscenza di quel tipo?» «Certamente.» «Come fai a deciderlo?» «Ah, be'.» Topper iniziò a svolgere gli involucri, scoprendo formaggio, pane, frutta e bacche. «Io faccio conoscenza in due modi. Tu hai assistito al secondo.» «E il primo?» «In quei casi non c'è tempo per vere e proprie presentazioni.» Con movimenti lenti e stanchi, Paran si slacciò e si sfilò l'elmo. «Vuoi che ti dica che cosa ho trovato a Gerrom?» chiese, passando una mano fra i capelli scuri. Topper si strinse nelle spalle. «Se ne senti il bisogno.» «Forse farei meglio ad aspettare l'incontro con l'Aggiunto.» L'Artiglio sorrise. «Cominci a imparare, Paran. Non essere mai troppo disinvolto riguardo a ciò che sai. Le parole sono come monete - si paga per farne incetta.» «Fino a quando muori su un letto d'oro», commentò Paran. «Hai fame? Detesto mangiare da solo.» Paran accettò un pezzo di pane. «Allora, l'Aggiunto è veramente impaziente o sei qui per un altro motivo?» L'Artiglio si alzò, sorridendo. «Suvvia, la gentile conversazione è ormai fatta. Che il cammino si apra.» Si voltò verso la strada. Paran si girò e vide aprirsi un sipario sospeso sulla strada e una luce gialla riversarsi su di essa. Un Canale, i passaggi segreti della magia. «Per il respiro di Hood.» Sospirò, combattendo un brivido improvviso. Davanti a sé vide un sentiero grigiastro, percorso su entrambi i lati da un basso muretto e sovrastato da un'impenetrabile coltre di nebbia color ocra. L'aria soffiava nel portale come un respiro a lungo trattenuto, sollevando l'invisibile cenere che copriva il fondo del sentiero. «Dovrai abituartici», commentò Toppler. Paran prese le redini del cavallo e appese l'elmo al pomo della sella. «Vai avanti», disse. L'Artiglio gli lanciò una rapida occhiata di approvazione, quindi s'infilò nel Canale.
Paran lo seguì. Il portale si chiuse dietro di loro e al suo posto apparve il proseguimento del sentiero. Itko Kan era scomparsa e con essa ogni segno di vita. Il mondo in cui erano entrati era desolato. Il muretto che delimitava il percorso era anch'esso costituito da cenere; l'aria era sabbiosa, sapeva di metallo. «Benvenuto nel Canale Imperiale», disse Topper con lieve sarcasmo. «Bello.» «Ricavato con la forza da... quello che c'era prima qui. È mai stato raggiunto tanto? Solo gli dei possono rispondere.» S'incamminarono. «Mi sembra di avere capito che nessun dio rivendica questo Canale», osservò Paran. «Ciò significa che non paghi pedaggio e che eludi i guardiani dei ponti invisibili e tutti quelli che si dice dimorino nei Canali al servizio dei loro padroni immortali.» Topper grugnì. «Ti immagini i Canali così affollati? Be', le convinzioni degli ignoranti sono sempre spassose. Ho la sensazione che sarai un ottimo compagno di viaggio.» Paran ammutolì. Gli orizzonti oltre i cumuli di cenere erano vicini, una confusa mistione di cielo ocra e terra scura. Rivoli di sudore scorrevano sotto la cotta d'arme. La cavalla sbuffava sonoramente. «Nel caso te lo stessi chiedendo», disse Topper a un tratto, «l'Aggiunto ora si trova a Unta. Useremo questo Canale per coprire la distanza - trecento leghe in sole poche ore. C'è chi pensa che l'Impero sia divenuto troppo grande e chi è addirittura convinto che le province più remote siano al di là della portata dell'Imperatrice Laseen. Come hai appena scoperto, Paran, solo gli sciocchi possono coltivare simili convinzioni.» La puledra tornò a sbuffare. «Ti ho forse ridotto al silenzio per la vergogna? Chiedo scusa, Tenente, per essermi preso gioco della tua ignoranza...» «È un pericolo con il quale bisogna imparare a convivere», commentò Paran. *** Nessun cambiamento nell'intensità della luce indicava il passare delle ore. Giunsero più volte in punti in cui gli argini di cenere sembravano essere stati smossi dal passaggio di qualcosa di massiccio e dove grandi orme conducevano nell'oscurità. Fu in uno di quei punti che trovarono una macchia scura e anelli di catene, sparsi come monete nella polvere.
E meno male che questa doveva essere una strada sicura. Qui ci sono degli intrusi e non hanno intenzioni amichevoli, pensò Paran. Il capitano non si stupì quando Topper aumentò il passo. Poco dopo, i due raggiunsero un arco di pietra. Era di recente costruzione e Paran riconobbe il basalto di Untan, le cave imperiali fuori dalla capitale. Le mura della proprietà della sua famiglia erano della stessa luccicante pietra grigio-nera. Al centro dell'arco, in alto sopra le loro teste, era incisa una mano con lunghi artigli che stringeva una sfera di cristallo: il sigillo imperiale Malazan. Oltre l'arco regnava l'oscurità. Paran si schiarì la gola. «Siamo arrivati?» Topper si girò verso di lui. «Rispondi alla civiltà con l'arroganza, Tenente. Farai meglio a dimenticare la tua nobile altezzosità.» Sorridendo, Paran sollevò una mano. «Va' avanti, cavaliere.» Avvolto nel mantello, Topper attraversò l'arco e scomparve. Scuotendo la testa, la cavalla oppose resistenza quando Paran la tirò per avvicinarla all'arco. L'uomo cercò di tranquillizzarla, ma inutilmente. Infine, saltò in sella, prese le redini e affondò gli speroni nei fianchi dell'animale. La puledra s'imbizzarrì e saltò nel vuoto. Vennero avvolti da un'esplosione di luci e colori. Gli zoccoli della cavalla atterrarono con un tonfo sordo facendo schizzare ovunque quella che probabilmente era ghiaia. Paran fece fermare il destriero, gli occhi socchiusi mentre si guardava intorno. Si trovava in un'enorme sala, dal soffitto d'oro battuto, le pareti rivestire di arazzi e con una ventina di guardie in armatura che lo stavano circondando. Spaventata, la cavalla scartò di lato, mandando Topper lungo disteso. Uno zoccolo scattò verso di lui, mancandolo per un pelo. Altra ghiaia scricchiolò - solo che non si trattava di ghiaia, si accorse Paran, ma di pietre di un mosaico. Imprecando, Topper si rialzò rapidamente, gli occhi che lanciavano scintille fissi sul tenente. Come se stessero obbedendo a un tacito ordine, le guardie arretrarono lentamente verso le loro abituali posizioni lungo le pareti. Paran distolse l'attenzione da Topper. Davanti a lui si ergeva un palco sormontato da un trono in osso lavorato. Sul trono sedeva l'Imperatrice. Nella sala scese il silenzio, rotto soltanto dallo scalpiccio degli zoccoli della cavalla sulle pietre semipreziose. Imbarazzato, Paran smontò di sella, lo sguardo fisso sulla donna seduta sul trono. Laseen era cambiata ben poco dall'altra e unica volta in cui le si era av-
vicinato: il viso ancora pulito, i capelli corti e biondi, i lineamenti delicati. Gli occhi castani dell'Imperatrice lo scrutarono da V capo a piedi. Paran sistemò la spada, unì le mani e piegò il busto in un rapido inchino. «Imperatrice.» «A quanto pare», disse Laseen in tono affettato, «non hai tenuto in gran conto il consiglio che il comandante ti ha dato sette anni fa». Il giovane socchiuse gli occhi, sorpreso. «Naturalmente, nemmeno lui ha seguito il consiglio ricevuto», continuò l'Imperatrice. «Mi chiedo quale dio avesse lanciato voi due, insieme, su quel parapetto - mi farebbe proprio piacere scoprire il suo senso dell'umorismo. Pensavi che l'Arco Imperiale portasse alle stalle, Tenente?» «La mia cavalla era riluttante a passare, Imperatrice.» «E a ragione.» Paran sorrise. «A differenza di me, appartiene a una razza conosciuta per la sua intelligenza. Vi prego di accettare le mie umili scuse.» «Topper ti accompagnerà dall'Aggiunto.» La donna sollevò una mano e una guardia si avvicinò per prendere in consegna il cavallo. Paran s'inchinò nuovamente e affrontò l'Artiglio con un sorriso. Topper lo guidò verso una porta laterale. «Stupido!» sbottò appena la porta si fu chiusa dietro di loro. Si avviò a rapidi passi lungo lo stretto corridoio. Paran non si prese la briga di stargli dietro, obbligando l'Artiglio ad aspettarlo ai piedi di una scala. L'espressione sul volto di Topper era di ira furibonda. «Che cos'è quella storia del parapetto? L'avevi già incontrata - quando?» «Poiché lei ha sorvolato sui particolari, non posso che imitarne l'esempio», replicò Paran. Guardò la ripida scala. «E così questa sarebbe la Torre Occidentale. La Torre della Polvere...» «All'ultimo piano. L'Aggiunto ti aspetta nei suoi appartamenti - non ci sono altre porte perciò non corri il rischio di perderti. Continua fino alla fine della scala.» Paran annuì e iniziò a salire. La porta in cima alla scala era socchiusa. Paran bussò ed entrò. L'Aggiunto era seduta su una panca dall'altra parte della stanza, un'ampia finestra alle spalle. Le imposte erano spalancate sul rosso scintillio del tramonto. La donna stava vestendosi. Paran si bloccò, imbarazzato. «Non so arrossire facilmente», disse l'Aggiunto. «Entra e chiudi la porta.» Paran fece come gli era stato ordinato. Si guardò intorno. Arazzi sbiaditi
erano appesi alle pareti. Logori tappeti coprivano le mattonelle in pietra del pavimento. La poca mobilia era vecchia, in stile Napan e per questo ordinaria. L'Aggiunto si alzò per infilarsi l'armatura di pelle. I suoi capelli scintillarono alla luce del tramonto. «Sembri esausto, Tenente. Accomodati, prego.» Il militare si guardò intorno, trovò una sedia e ci si lasciò andare pesantemente. «La pista è stata totalmente oscurata, Aggiunto. Le uniche persone rimaste a Gerrom difficilmente potranno parlare.» La donna allacciò l'ultima cinghia. «A meno che non mandi un negromante.» «Storie di piccioni - penso che avessero previsto tutto.» Lei lo fissò con sguardo interrogativo. «Scusate, Aggiunto. Pare che i messaggeri di morte fossero... piccioni.» «E se guardassimo attraverso gli occhi dei soldati morti, vedremmo ben poco d'altro. Piccioni, hai detto?» Paran annuì. «Curioso.» Tacque. Lui la osservò in silenzio alcuni istanti, poi disse: «Ero un'esca, Aggiunto?». «No.» «E il tempestivo arrivo di Topper?» «Per semplice praticità.» Paran non ribatté. Quando chiuse gli occhi, la testa iniziò a girare. Non si era reso conto di quanto fosse stanco. Impiegò alcuni secondi prima di accorgersi che lei gli stava parlando. Si scosse, raddrizzandosi. L'Aggiunto era davanti a lui. «Dormirai più tardi, non ora, Tenente. Stavo informandoti sul tuo futuro. Sarebbe buona cosa se prestassi attenzione. Hai portato a termine il tuo incarico come ti era stato ordinato. E hai dimostrato di essere decisamente... elastico. Per il momento ho finito con te, Tenente. Sarai reinserito nel Corpo Ufficiale qui, a Unta. Per completare il tuo addestramento verrai assegnato a un reparto. E per quanto riguarda quanto accaduto a Itko Kan, tu non hai notato nulla di strano, mi hai capito?» «Sì.» «Bene.» «Pensando invece a quanto è realmente accaduto, che cosa facciamo, Aggiunto? Abbandoniamo la caccia? Non vogliamo scoprire la verità? O
sono solo io quello che deve abbandonare la partita?» «Tenente, quella è una pista che non dobbiamo seguire troppo da vicino, ma questo non significa abbandonarla e tu sarai impegnato in prima persona. Ho ritenuto, forse erroneamente, che volessi andare a fondo della questione, che volessi essere in prima linea quando verrà il tempo della vendetta. Mi sono sbagliata? Forse hai visto a sufficienza e ora desideri solo tornare alla normalità.» Il giovane chiuse gli occhi. «Aggiunto, ci sarò quando arriverà il momento.» Lorn non replicò e lui sentì su di sé gli occhi della donna. Lei lo stava studiando, valutando. Paran era ormai tranquillo. Aveva espresso chiaramente il proprio desiderio; la decisione era dell'Aggiunto. «Procederemo lentamente. Riceverai una nuova assegnazione fra qualche giorno. Nel frattempo, vai a casa da tuo padre. Riposati.» Paran aprì gli occhi e si alzò. Stava per raggiungere la porta quando lei parlò nuovamente. «Tenente, spero che non ripeterai la scena nella Sala del Trono.» «Dubito che una seconda volta susciterei tale ilarità, Aggiunto.» Mentre raggiungeva le scale udì quello che sembrava un colpo di tosse provenire dalla stanza dietro di lui. Era difficile pensare che potesse essere qualcos'altro. *** A cavallo per le vie di Unta, si sentiva vuoto, inebetito. Quei luoghi familiari, la folla brulicante, le voci e le grida gli sembrarono a un tratto strani, diversi. Improvvisamente si sentì respinto, rifiutato. Eppure il posto era sempre lo stesso: lo spettacolo intorno a lui non era cambiato, tutto era come prima. Era il dono della nobiltà a tenere il mondo a distanza, a permettere di osservare da una posizione incontaminata, inviolata dalle cose comuni. Dono... e maledizione. Ora, tuttavia, Paran avanzava per le vie della città senza le guardie di famiglia. Il potere del sangue se n'era andato e tutto ciò che possedeva era l'uniforme che indossava. Non un artigiano, non un venditore ambulante, non un mercante, ma un soldato. Un'arma dell'Impero, e l'Impero aveva decine di migliaia d'armi. Imboccò la Strada del Marmo, dove iniziavano le proprietà dei mercanti, lievemente rientrate rispetto alla strada e mezze nascoste dalle mura dei
cortili. Gli alberi dei giardini fondevano i loro vivaci colori con quelli delle mura dalle tinte brillanti; la folla diminuì e guardie private apparvero davanti agli archi di accesso. L'aria soffocante aveva perso il puzzo di fogna e di cibo marcio, e una fresca brezza portava con sé il profumo dei fiori. Odori dell'infanzia. Le proprietà emersero appena si addentrò nel Quartiere Nobile. Uno spazio vitale acquistato dalla storia e dalle monete antiche. L'Impero sembrava dissolversi in lontananza, con i suoi sotterfugi e meschinità terrene. Lì, le famiglie vantavano una diretta discendenza da quei cavalieri che sette secoli prima erano giunti in quelle terre da oriente. Cavalieri che avevano conquistato e sottomesso, con il sangue e con il fuoco, i cugini dei Kanese che avevano costruito i loro villaggi lungo quella costa. Da cavalieri armati ad allevatori di cavalli, a mercanti di vino, birra e tessuti. Un'antica nobiltà della spada, ora divenuta una nobiltà assetata d'oro, di accordi commerciali, di subdole manovre e segrete corruzioni in stanze eleganti e corridoi in penombra. Paran aveva immaginato di potere conquistare gloria e onore, chiudendo così il cerchio e tornando alla spada da cui la sua famiglia era emersa, forte e indomita secoli prima. Per quella scelta, il padre lo aveva criticato. Raggiunse un'entrata posteriore, un alto portone affacciato su una viale. Lì non c'erano guardie, solo una campana, che suonò due volte. Solo nella via, attese. Dall'altra parte, l'imprecazione di un uomo accompagnò il rumore di una sbarra metallica che veniva rimossa. Finalmente, la porta scivolò sui cardini arrugginiti. Paran si trovò davanti un volto sconosciuto. L'uomo era anziano, il volto sfigurato da cicatrici e il corpo coperto da una cotta di ferro che doveva avere conosciuto tempi migliori. Così come l'elmo, per quanto fosse lucido e brillante. Lo sconosciuto squadrò Paran dalla testa ai piedi, poi bofonchiò: «L'arazzo ha preso vita». «Prego?» Il guardiano spalancò la porta. «Siete invecchiato, ma i tratti sono sempre gli stessi. Un bravo artista. Ha saputo catturare la postura, l'espressione e tutto il resto. Bentornato a casa, Ganoes.» Paran condusse il cavallo attraverso lo stretto ingresso. «Non ti conosco, soldato», disse il giovane. «Ma mi sembra di capire che tu abbia osservato attentamente il mio ritratto. È forse diventato uno
straccio nella tua baracca?» «Qualcosa del genere.» «Come ti chiami?» «Gamet», rispose l'altro. «Al servizio di vostro padre da ormai tre anni.» «E prima, Gamet?» «Non è una domanda da farsi.» Raggiunsero il cortile dopo avere percorso una stretta stradina fra due edifici. Paran si fermò per osservare la guardia. «Mio padre è solitamente molto attento al passato di chi deve entrare al suo servizio. Indaga sempre a fondo.» Gamet sorrise, scoprendo denti bianchi. «Oh, l'ha fatto, l'ha fatto. Ed eccomi qui. Probabilmente il mio passato non è così vergognoso.» «Sei un veterano.» «Date qua, signore, mi occupo io del cavallo.» Paran gli porse le redini. Si voltò e lasciò vagare lo sguardo nel cortile. Sembrava più piccolo di quanto ricordasse. Il vecchio pozzo, costruito dal popolo senza nome che aveva vissuto in quelle terre ancora prima dei Kanese, sembrava dovesse sbriciolarsi da un momento all'altro. Nessun artigiano avrebbe sostituito quelle antiche pietre per timore della maledizione che gli spiriti, risvegliati dal loro sonno, avrebbero lanciato su di loro. Servi e contadini andavano avanti e indietro nel cortile. Nessuno si era ancora accorto dell'arrivo di Paran. Gamet si schiarì la gola. «Vostro padre e vostra madre non sono qui.» Il giovane annuì. Dovevano essere nati i puledri nella proprietà di campagna a Emalau. «Ma ci sono le vostre sorelle», continuò Gamet. «Dirò ai domestici di aprire e sistemare la vostra stanza.» «È stata lasciata com'era?» Gamet tornò a sorridere. «Be', sono stati tolti i mobili inutili. Sapete, c'è sempre bisogno di spazio.» «Naturalmente.» Paran sospirò e senza aggiungere un'altra parola, si avviò verso l'ingresso della casa. *** Il suono degli stivali echeggiò nella sala dei banchetti, mentre Paran si dirigeva verso il lungo tavolo da pranzo. Spaventati, i gatti schizzarono via. Il giovane si slacciò il mantello, lo buttò sullo schienale di una sedia e
si sedette su una panca appoggiando la schiena contro la parete. Chiuse gli occhi. Trascorsero alcuni minuti, poi una voce di donna disse: «Pensavo fossi a Itko Kan». Paran aprì gli occhi. La sorella Tavore, più giovane di lui di un anno, era in piedi a un'estremità del tavolo, una mano sullo schienale della sedia del padre. Era insignificante come sempre, i capelli rossi tagliati più corti di quanto dettasse la moda. Dall'ultima volta che l'aveva vista era cresciuta e ora era diventata alta quasi quanto lui; non era più la goffa bambina che ricordava. Mentre osservava il fratello, l'espressione del suo viso non tradì alcuna emozione. «Una nuova assegnazione», spiegò Paran. «Qui? Lo avremmo saputo.» Ah, sì, lo avresti saputo, vero? Le solite voci fra le famiglie. «È stata una decisione improvvisa», replicò Paran. «Tuttavia non sono di stanza qui, a Unta. Mi fermo solo per pochi giorni.» «Sei stato promosso?» Il giovane sorrise. «L'investimento sta forse per fruttare? Per quanto tu sia riluttante, non puoi fare a meno di pensare in termini di potenziale influenza, vero?» «Gestire la posizione di questa famiglia non è più tua responsabilità, fratello.» «Ah, adesso è tua? Nostro padre si è forse ritirato?» «Lo sta facendo per gradi. La salute non è più quella di un tempo. Se avessi chiesto, persino a Itko Kan...» Paran sospirò. «Sei ancora arrabbiata con me, Tavore? Sempre impegnata ad assumerti il peso delle mie sconfitte? Se ben ricordi, non me ne sono andato su un tappeto di velluto. E comunque sia, ho sempre saputo che gli affari di famiglia sarebbero caduti in buone mani...» La ragazza strinse gli occhi, ma l'orgoglio le impedì di porre l'ovvia domanda. «Come sta Felisin?» chiese Paran. «È immersa nei suoi studi. Non sa ancora del tuo arrivo. Ne sarà felice ma poi si dispererà per la brevità della tua visita.» «È lei ora la tua rivale, Tavore?» La sorella sbuffò, dandogli le spalle. «Felisin? È troppo dolce per questo mondo, fratello. Per qualsiasi mondo, credo. Non è cambiata. Sarà felice di vederti.»
Paran osservò la sorella lasciare la stanza con passo fiero e impettito. Si accorse di puzzare di sudore - il suo e quello del cavallo - di viaggio e di sporco, e anche di qualcos'altro... Sangue antico e paure antiche. Si guardò intorno. È molto più piccolo di quanto ricordassi. CAPITOLO SECONDO Con la venuta dei Moranth la marea cambiò. E come navi in un porto le Città Libere furono sommerse dai mari imperiali. La guerra entrò nel suo dodicesimo anno, l'Anno della Luna Infranta con la sua improvvisa progenie di pioggia letale e di promessa dalle ali nere. Due città rimasero a contrastare l'attacco dei Malazan. Una intrepida, gli orgogliosi stendardi sotto la potente ala dell'Oscurità. L'altra divisa senza esercito, priva di alleati. La città forte cadde per prima. Chiamata all'Ombra Felisin (n. 1146) 1163esimo anno del sonno di Bum (due anni dopo) 105esimo anno dell'Impero Malazan Nono anno del Regno dell'Imperatrice Laseen Attraverso il pallore del fumo roteavano i corvi, i loro richiami un coro stridulo sopra le grida dei soldati feriti e morenti. Il puzzo della carne bruciata aleggiava immobile nella foschia. Tattersail si ergeva in piedi, sola, sulla terza collina sovrastante la città caduta di Pale. Sparsi intorno alla maga, mucchi dei resti distorti di arma-
ture bruciate - schinieri, corazze, elmi e armi. Un'ora prima, uomini e donne indossavano quelle armature, ma ora non ce n'era più traccia. Il silenzio dentro quei gusci vuoti risuonava come un canto funebre nella mente di Tattersail. Teneva le braccia incrociate, strette contro il petto. Il mantello rosso borgogna con l'emblema d'argento che l'identificava come comandante del Quadro dei Maghi del Secondo Esercito le pendeva sporco e bruciacchiato dalle spalle rotonde. Il viso ovale, carnoso, solitamente caratterizzato da un'espressione serafica, era scavato da grinze oscure, che le rendevano le guance flaccide e smorte. Malgrado tutti gli odori e i rumori che la circondavano, Tattersail si scoprì ad ascoltare un silenzio più profondo. Misteriosamente, veniva dalle armature, il cui vuoto era di per se stesso un'accusa. Ma esso aveva anche un'altra fonte. La stregoneria scatenata lì quel giorno era stata sufficiente a logorare il tessuto che racchiudeva il loro mondo. Qualunque cosa ci fosse al di là, nei Canali del Caos, sembrava abbastanza vicino da potersi toccare allungando una mano. Pensava di aver esaurito le proprie emozioni, consumate dal terrore che aveva appena provato, ma mentre guardava le fitte schiere di una legione di Moranth Neri marciare dentro la città un velo di odio gelido le scivolò sulle palpebre pesanti. Gli alleati. Pretendono la loro ora di sangue. Alla fine di quell'ora, ci sarebbero stati ventimila superstiti in meno fra i cittadini di Pale. Il lungo, selvaggio conflitto fra i popoli confinanti stava per essere riequilibrato. Dalla spada. Per la misericordia di Shedunul, non abbiamo già subito abbastanza? Una dozzina di incendi infuriava senza controllo in tutta la città. L'assedio era terminato, finalmente, dopo tre lunghi anni. Ma Tattersail sapeva che non era finita lì. Qualcosa si nascondeva, e aspettava, nel silenzio. Per cui, anche lei avrebbe aspettato. Le morti di quel giorno meritavano questo da parte sua - dopo tutto, aveva fallito in tutte le altre questioni importanti. Nella pianura sottostante, i cadaveri dei soldati Malazan coprivano il terreno come un tappeto spiegazzato. Qua e là, arti sporgevano all'insù, e i corvi vi si appollaiavano sopra come signori su una proprietà. I soldati sopravvissuti al massacro vagavano storditi fra i corpi, in cerca dei compagni caduti. Gli occhi di Tattersail li seguivano con dolore. «Stanno arrivando», annunciò una voce, a una dozzina di piedi alla sua sinistra. Lentamente, lei si voltò. Il mago Hairlock giaceva scompostamen-
te sull'armatura bruciata; la sommità del cranio rasato rifletteva il cielo fosco. Un'ondata di stregoneria l'aveva distrutto dai fianchi all'ingiù. Viscere rosa, schizzate di fango uscivano sotto la gabbia toracica, solcate da liquidi che andavano asciugandosi. Una tenue aura di magia rivelava i suoi sforzi per restare vivo. «Pensavo che fossi morto», borbottò Tattersail. «Oggi è il mio giorno fortunato». «Non mi pare.» Il grugnito di Hairlock liberò uno spruzzo di sangue scuro e denso da sotto il suo cuore. «Stanno arrivando», ripeté. «Riesci a vederli?» Lei rivolse l'attenzione verso il pendio, stringendo gli occhi chiari. Quattro soldati si avvicinavano. «Chi sono?» Nessuna risposta. Tattersail si girò di nuovo verso il mago, e trovò il suo sguardo puntato su di lei, con l'intensità che i moribondi raggiungono nei loro ultimi istanti. «Hai pensato di beccarti un'ondata nella pancia, eh? Be', presumo che sia un modo per prendere il largo.» La sua risposta la sorprese. «La facciata dura non ti si addice, 'Sail. Da sempre.» Hairlock aggrottò la fronte e batté rapidamente le ciglia: per respingere l'oscurità, immaginò lei. «C'è sempre il rischio di sapere troppo. Sii felice del fatto che ti ho risparmiato.» Sorrise, rivelando denti macchiati di rosso. «Coltiva buoni pensieri. La carne avvizzisce.» Tattersail lo osservò fissamente, meravigliandosi della sua improvvisa... umanità. Forse la morte eliminava i soliti giochi, le finzioni della danza della vita. O forse, semplicemente, non era preparata a vedere mostrarsi l'uomo mortale in Hairlock. Sciolse faticosamente le braccia dalla stretta terribile, dolente in cui si era avvolta, ed emise un sospiro tremante. «Hai ragione. Non è il momento per le facciate, vero? Non mi sei mai piaciuto, Hairlock, ma non mi sognerei mai di mettere in discussione il tuo coraggio.» Lo studiò attentamente; parte di lei era stupefatta che l'orrore della sua ferita non le provocasse nemmeno un sussulto. «Credo che non basterebbero le arti di Tayschrenn a salvarti, Hairlock.» Un lampo di astuzia balenò negli occhi del mago, che proruppe in una risata aspra, tormentosa. «Cara ragazza», ansimò, «la tua ingenuità non manca mai di affascinarmi». «Ma certo», sbottò lei, ferita di essere caduta vittima della sua improvvisa furbizia. «Mi giochi un ultimo scherzo, in memoria dei vecchi tempi...» «Hai capito male...»
«Ne sei tanto sicuro? Stai dicendo che non è ancora finita. Il tuo odio per il nostro Grande Mago è abbastanza violento da lasciarti sfuggire alla fredda morsa di Hood, non è vero? Vendetta dall'oltretomba?» «Oramai dovresti conoscermi. Mi riservo sempre una via d'uscita, dalla porta sul retro.» «Non riesci neanche a strisciare. Come pensi di arrivarci?» Il mago si leccò le labbra crepate. «Fa parte dell'accordo», sussurrò. «La porta viene da me. Si avvicina, mentre noi parliamo.» Tattersail sentì il disagio serpeggiarle nel ventre. Dietro di sé, udì il cigolio di armature e lo sferragliare di armi arrivare come un vento freddo. Girandosi, vide quattro soldati apparire sulla sommità del pendio. Tre uomini e una ragazza, macchiati di fango e striati di cremisi, con i volti quasi bianchi come ossa. La maga sentì i suoi occhi attratti dalla ragazza, che indugiava dietro al gruppo, come un pensiero sgradito in fondo alla mente. Era giovane, bella come un ghiacciolo e, sembrava, altrettanto calda al tatto. C'è qualcosa di storto. Sta' attenta. L'uomo alla testa - un sergente a giudicare dalla fascia sul braccio - si fermò davanti a Tattersail. Incastonati in un volto rugoso, esausto, gli occhi grigio scuro scrutarono spassionatamente i suoi. «Questa?» chiese, rivolgendosi al compagno alto, magro, dalla pelle nera, che l'aveva raggiunto. L'altro scosse la testa. «No, quello che ci interessa è laggiù», rispose. Anche se parlava Malazan, aveva l'accento aspro di Sette Città. Il terzo e ultimo uomo, pure nero, passò alla sinistra del sergente e, malgrado la sua mole, sembrò scivolare in avanti, gli occhi puntati su Hairlock. Il fatto che la ignorasse fece sentire Tattersail un po' snobbata. Pensò a una battuta ben scelta da rifilargli mentre le girava intorno, ma lo sforzo le parve d'un tratto eccessivo. «Be'», disse al sergente, «se siete il reparto addetto alla sepoltura, siete in anticipo. Non è ancora morto. Ma naturalmente», continuò, «non è così, lo so benissimo. Hairlock ha stipulato una specie di accordo - pensa di poter sopravvivere con metà corpo». Le labbra del sergente si tesero sotto la barba ispida, brizzolata. «Che cosa intendi dire, maga?» Il nero accanto al sergente lanciò un'occhiata alla ragazza che stava a una dozzina di passi dietro di loro. Sembrò rabbrividire, ma non tradì alcuna espressione nel volto esile, mentre offriva a Tattersail un'enigmatica alzata di spalle, prima di superarla.
Lei tremò involontariamente; il potere le colpiva i sensi. Inspirò bruscamente. È un mago. Tattersail seguì l'uomo che raggiungeva il compagno a fianco di Hairlock, sforzandosi di vedere al di là del fango e del sangue sparsi sull'uniforme. «Chi siete voialtri?» «Nono squadrone. Secondo Esercito.» «Nono?» sibilò lei fra i denti. «Siete Arsori di Ponti.» Puntò gli occhi stretti sul sergente malconcio. «Nono squadrone. Così, tu devi essere Whiskeyjack.» L'uomo sembrò trasalire. Tattersail si sentì la bocca secca. Si schiarì la gola. «Ho sentito parlare di te, naturalmente. Ho sentito la...» «Non importa», l'interruppe lui, in tono aspro. «Le vecchie storie crescono come erbacce.» La maga si strofinò il viso, sentendo lo sporco raccogliersi sotto le unghie. Arsori di Fonti. Erano stati l'elite del vecchio Imperatore, i suoi beniamini, ma dal momento del sanguinoso colpo di stato di Laseen, nove anni prima, erano stati cacciati a forza negli angoli più oscuri del territorio. Un decennio di questo trattamento li aveva ridotti a una singola divisione, a corto di uomini. Fra di loro, erano emersi dei nomi. I superstiti, per lo più sergenti di squadrone, si erano fatti strada nelle armate Malazan a Genabackis e oltre. I loro nomi rafforzavano la leggenda, già travolgente, della Milizia di Un-Braccio: Detoran, Antsy, Spinale, Whiskeyjack. Nomi carichi di gloria, e amareggiati dal cinismo di cui ogni esercito si nutre. Portavano con sé come uno stendardo la follia di quella campagna interminabile. Il sergente Whiskeyjack stava studiando il massacro sulla collina. Tattersail lo guardò mentre ricomponeva l'accaduto nella sua mente. Un muscolo gli tremò sulla guancia. La guardò con comprensione nuova; la punta di addolcimento dietro gli occhi grigi quasi la fece crollare lì per lì. «Sei l'ultima rimasta di questo quadro?» le chiese. Tattersail distolse lo sguardo; si sentiva fragile. «L'ultima rimasta in piedi. E non per abilità; per fortuna.» Se pure il sergente aveva colto la sua amarezza, non ne diede segno; tacque nel guardare i suoi due soldati di Sette Città chinarsi sopra Hairlock. Tattersail si leccò le labbra; in preda al disagio, cambiò posizione. Lanciò un'occhiata ai due soldati. C'era in corso una conversazione tranquilla; il suono della risata di Hairlock la fece sobbalzare lievemente. «Quello alto», indagò. «È un mago, non è vero?»
Whiskeyjack grugnì, poi rispose: «Si chiama Ben lo Svelto». «Non è il nome con cui è nato.» «No.» Spostò le spalle sotto il peso del mantello, per alleviare momentaneamente il dolore sordo in fondo alla schiena. «Dovrei conoscerlo, sergente. Quel genere di potere si fa notare. Non è un novellino.» «No», confermò Wiskeyjack. «Non lo è.» Tattersail si sentì invadere dalla rabbia. «Voglio una spiegazione. Che cosa succede qui?» Whiskeyjack fece una smorfia. «Non molto, a quanto pare.» Alzò la voce. «Ben lo Svelto!» Il mago li guardò. «Trattative dell'ultimo momento, sergente», spiegò, scoprendo i denti bianchi in un ampio sorriso. «Per il respiro di Hood.» Tattersail sospirò, girandosi dall'altra parte. La ragazza, vide, stava ancora sulla cresta della collina e sembrava studiare le colonne dei Moranth che entravano in città. Come consapevole dell'attenzione di Tattersail, voltò bruscamente la testa. La sua espressione sbigottì la maga, che distolse gli occhi. «È tutto qui quel che rimane del tuo squadrone, sergente? Due predoni del deserto e una recluta assetata di sangue?» «Me ne sono rimasti sette», replicò Whiskeyjack, in tono piatto. «E stamattina?» «Quindici.» C'è qualcosa di storto. «Hai fatto meglio di tanti altri», disse lei, tanto per offrire un commento. Imprecò fra sé, vedendo il sergente impallidire. «Però», aggiunse, «sono certa che quelli che hai perso erano bravi uomini». «Bravi a morire», ribatté lui. La brutalità di quelle parole la scioccò. La mente vacillante, chiuse strettamente gli occhi, ricacciando indietro lacrime di frustrazione e di sconcerto. È successo troppo. Non sono pronta per questo. Non sono pronta per Whiskeyjack, un uomo che si piega sotto la sua leggenda, un uomo che ha scalato più di una montagna di morti a servizio dell'Impero. Gli Arsori di Ponti non avevano fatto grande mostra di sé negli ultimi tre anni. Da quando era iniziato l'assedio, avevano ricevuto il compito di scalzare le antiche, massicce mura di Pale. L'ordine era venuto dritto dalla capitale e, se non era uno scherzo crudele, era il frutto di un'ignoranza spaventosa: l'intera valle era una distesa di ghiaccio, un cumulo di rocce accumulate in un crepaccio così profondo che persino i maghi di Tattersail
avevano difficoltà a trovarne la fine. Corrono sottoterra da tre anni. Quand'è l'ultima volta che hanno visto il sole? All'improvviso, Tattersail s'irrigidì. «Sergente.» Aprì gli occhi su di lui. «Hai passato la mattina nei tuoi tunnel?» Un guizzo di angoscia sul viso dell'uomo l'aiutò a comprendere meglio. «Quali tunnel?» mormorò questi, poi si mosse per oltrepassarla. Tattersail allungò la mano, chiudendola sul braccio di lui, che sembrò attraversato da uno shock. «Whiskeyjack», sussurrò, «credo che tu abbia capito. Capito... di me, di quello che è successo qui su questa collina, a tutti questi soldati». Esitò, e concluse: «Il fallimento è qualcosa che abbiamo in comune. Mi dispiace». Lui si scostò, distogliendo lo sguardo. «Non dispiacerti, maga.» Poi incrociò i suoi occhi. «Non possiamo permetterci rimpianti.» Lei lo guardò avanzare verso i suoi soldati. Una voce di ragazza parlò proprio dietro a Tattersail. «Stamattina eravamo mille e quattrocento, maga.» Tattersail si girò. Da quella breve distanza, vide che la giovane non poteva avere più di quindici anni. Gli occhi, però, racchiudevano la luce smorta dell'onice esposta alle intemperie - occhi antichi, in cui le emozioni erano erose ed estinte. «E ora?» La scrollata di spalle della ragazza sembrò quasi noncurante. «Trenta, forse trentacinque. Quattro dei cinque tunnel sono crollati del tutto. Noi eravamo nel quinto, e ci siamo aperti un varco scavando. Fiddler e Hedge stanno lavorando intorno agli altri, ma presumono che tutti siano ormai sepolti per sempre. Hanno cercato di ottenere aiuto», un sorriso freddo, scaltro le attraversò il viso striato di fango, «ma il tuo superiore, il Grande Mago, li ha fermati». «Tayschrenn ha fatto cosa? E perché?» L'altra aggrottò le sopracciglia, come se fosse delusa. Poi si limitò ad allontanarsi, fermandosi sulla cresta della collina e rivolgendosi di nuovo verso la città. Tattersail le puntò gli occhi addosso. La ragazza le aveva gettato addosso quell'ultima frase, come se fosse in cerca di una reazione particolare. Complicità? Ad ogni modo, aveva mancato il suo scopo. Tayschrenn non si sta facendo degli amici. Bene. La giornata era stata disastrosa, e la colpa ricadeva interamente sulle spalle del Grande Mago. Fissò Pale, poi alzò lo sguardo sul cielo pieno di fumo.
La forma massiccia, incombente, che aveva salutato il suo risveglio ogni mattina degli ultimi tre anni era effettivamente sparita. Faticava ancora a crederci, malgrado la prova dei suoi sensi. «Ci avevi avvisato», mormorò al cielo vuoto, mentre i ricordi del mattino le tornavano alla mente. «Ci avevi avvisato, non è vero?» *** Dormiva con Calot da quattro mesi: un piccolo diversivo per alleviare la noia di un assedio che non andava da nessuna parte. Almeno, così lei si spiegava la loro condotta poco professionale. C'era dell'altro, naturalmente, molto altro. Ma essere onesta con se stessa non era mai stato il forte di Tattersail. L'appello magico, quando arrivò, svegliò lei prima di Calot. Il mago, piccolo ma ben proporzionato, era comodamente accoccolato contro i tanti cuscini morbidi della sua pelle. Destandosi, lo vide aggrappato a lei come un bambino. Poi anche lui sentì il richiamo e aprì gli occhi sul suo sorriso. «Hairlock?» chiese Calot, rabbrividendo nell'uscire da sotto le coperte. Tattersail fece una smorfia. «E chi altri? Quello non dorme mai.» «Che c'è ancora?» Il mago si alzò, e si guardò intorno in cerca della tunica. Lei lo osservava. Era così magro, che la loro combinazione sembrava strana. Attraverso la debole luce dell'alba che filtrava dalle pareti di tela della tenda, gli angoli aguzzi, ossuti del suo corpo sembravano morbidi, quasi infantili. Per avere cent'anni d'età, li portava bene. «Hairlock ha svolto incarichi per conto di Dujek», commentò lei. «Probabilmente, si tratta solo di un aggiornamento.» Calot grugnì, tirandosi su gli stivali. «Così impari ad assumere il comando del quadro, 'Sail. E comunque, era più facile salutare Nedurian, lascia che te lo dica. Ogni volta che ti guardo, mi viene voglia di...» «Pensa agli affari, Calot», lo rimbeccò scherzosamente Tattersail, anche se il tono le uscì abbastanza mordace da guadagnarle un'occhiata pungente. «Sta succedendo qualcosa?» chiese lui piano, mentre le rughe gli arricciavano la fronte alta nel vecchio cipiglio. Pensavo di averle eliminate definitivamente, sospirò Tattersail. «Non saprei dirlo; ma Hairlock ci ha contattati entrambi. A pensarci bene, se si trattasse solo di un rapporto, tu russeresti ancora.» Finirono di vestirsi, muti, nella tensione crescente. Meno di un'ora dopo,
Calot sarebbe stato incenerito sotto un'ondata di fuoco azzurro, e i corvi avrebbero risposto al grido disperato di Tattersail. Ma, per il momento, i due maghi si preparavano a un incontro inaspettato nella tenda di comando del Gran Pugno Dujek Un-braccio. Nel sentiero fangoso oltre la tenda di Calot, i soldati dell'ultima guardia stavano raccolti intorno a bracieri pieni di sterco di cavallo ardente, le mani tese verso il calore. Pochi camminavano sui viottoli: l'ora era ancora troppo mattutina. File su file di tende grigie solcavano le colline sovrastanti la pianura che circondava la città di Pale. Gli stendardi reggimentali si incresparono all'improvviso alla debole brezza - il vento era cambiato dalla notte prima, e ora portava a Tattersail il puzzo delle trincee latrina. L'ultima manciata di stelle impallidiva fino a sparire nel cielo sempre più chiaro. Il mondo sembrava quasi in pace. Stringendosi addosso il mantello per ripararsi dal freddo, Tattersail si fermò fuori dalla tenda e si volse a studiare l'enorme montagna sospesa a un quarto di miglio sopra la città di Pale. Esaminò la facciata malconcia della Progenie della Luna - da che ricordava, si era sempre chiamata così. Scabra come un dente annerito dalla carie, la fortezza di basalto ospitava il nemico più potente che l'Impero Malazan avesse mai affrontato. A causa della sua posizione sopraelevata, la Progenie della Luna non poteva essere violata con un assedio. Nemmeno i T'lan Imass di Laseen, l'esercito di esseri soprannaturali che viaggiavano a cavallo del vento con la stessa facilità della polvere, erano preparati, o disposti, a penetrare le sue difese magiche. I maghi di Pale avevano trovato un alleato formidabile. Tattersail ricordò che l'Impero aveva incrociato le spade con il misterioso signore della fortezza una volta, ai tempi dell'Imperatore. Le cose avevano minacciato di mettersi al peggio, ma poi la Progenie della Luna si era ritirata dal conflitto. Nessuno che fosse ancora in vita sapeva perché - era uno dei mille segreti che l'Imperatore aveva portato con sé nella sua liquida tomba. La ricomparsa della Luna lì a Genabackis era stata una sorpresa. E quella volta, non c'era stata alcuna tregua in extremis. Mezza dozzina di legioni dei portentosi Tiste Andii erano discese dalla fortezza e, agli ordini di un comandante di nome Caladan Brood, si erano unite ai mercenari della Guardia Cremisi. Insieme, le due armate si erano dedicate a respingere il 5° Esercito Malazan, che era avanzato verso est, lungo il bordo settentrionale della Pianura Rhivi. Da quattro anni, il malandato 5° Esercito era impantanato nella Foresta del Cane Nero, ivi costretto a opporre resistenza a
Brood e alla Guardia Cremisi. E la resistenza si stava rapidamente trasformando in una sentenza di morte. Ma, a quanto pareva, Caladan Brood e i Tiste Andii non erano i soli abitanti della Progenie della Luna. Un signore invisibile rimaneva al comando della fortezza; egli l'aveva portata lì, siglando un patto con i formidabili stregoni di Pale. Il quadro di Tattersail aveva poca speranza di contrastare con la magia una simile opposizione. Così, l'assedio si era arrestato, con l'unica eccezione degli Arsori di Ponti, che non allentavano mai i loro sforzi per scalzare le antiche mura della città. Rimani, la maga pregò la Progenie della Luna. Gira eternamente il tuo volto, e impedisci al puzzo di sangue, alle grida dei morenti di insediarsi su questa terra. Calot aspettava al suo fianco. Non disse nulla, consapevole della piega rituale che aveva preso la cosa. Era una delle tante ragioni per cui Tattersail gli voleva bene. Come amico, naturalmente. Niente di serio, niente di spaventoso nell'amore per un amico. «Sento una certa impazienza in Hairlock», mormorò Calot. Lei sospirò. «Anch'io. Ecco perché esito.» «Lo so, ma non possiamo indugiare troppo a lungo, 'Sail.» Fece un sorriso malizioso. «Sarebbe da maleducati.» «Uhm... non possiamo farli saltare alle conclusioni, no?» «Non dovrebbero saltare troppo lontano. Comunque», il sorriso di lui vacillò leggermente, «andiamo». Qualche minuto dopo, arrivarono alla tenda di comando. Il soldato solitario che montava la guardia davanti all'entrata mostrò nervosismo nel salutarli. Tattersail si attardò a scrutarlo negli occhi. «Settimo Reggimento?» Evitando il suo sguardo, la guardia annuì. «Sì, maga. Terzo Squadrone.» «Mi sembravi una faccia familiare. Porta i miei saluti al sergente Rusty.» Si avvicinò. «C'è qualcosa nell'aria, soldato?» Lui batté le palpebre. «In alto nell'aria, maga. Molto in alto.» Tattersail lanciò un'occhiata a Calot, che si era fermato. Calot gonfiò le guance in un'espressione comica. «Mi era sembrato di sentirne l'odore.» Quella conferma la fece trasalire. La guardia, vide, stava sudando sotto l'elmo di ferro. «Grazie per l'avvertimento, soldato.» «A buon rendere, maga.» L'uomo le rivolse un secondo saluto, più brusco, e a suo modo più personale. Anni e anni così. Insistono che sono una di famiglia, una del 2° Esercito - la più antica forza intatta, che risale ai
tempi dell'Imperatore. A buon rendere, maga. Salvaci la pelle, e noi salveremo la tua. Dopo tutto, siamo una sola famiglia. Perché, allora, mi sento sempre così estraniata da loro? Tattersail restituì il saluto. Entrarono nella tenda di comando. Lei avvertì immediatamente la presenza del potere, di quello che Calot chiamava odore. A lui faceva lacrimare gli occhi, a lei dava l'emicrania. Questa particolare emanazione era un potere che lei conosceva bene, ed era antitetico al suo. Cosa che peggiorava ulteriormente il mal di testa. Dentro la tenda, lanterne gettavano una luce smorta, fumosa sulla dozzina di sedie del primo scomparto. Un tavolo da campo posto su un lato ospitava una brocca di stagno colma di vino annacquato e sei tazze appannate su cui luccicavano gocce di vapore. «Per il respiro di Hood, 'Sail, questa storia non mi piace affatto», borbottò Calot al suo fianco. Quando i suoi occhi si abituarono alla penombra, Tattersail vide, attraverso l'apertura affacciata sul secondo scomparto della tenda, una figura familiare che, china sul tavolo delle mappe di Dujek, lo toccava con le lunghe dita. Malgrado fosse immobile, il suo mantello magenta guizzava come l'acqua. «Questa poi», bisbigliò Tattersail. «Che ti dicevo?» ribatté Calot, asciugandosi gli occhi. «Credi», riprese lei, mentre si sedevano, «che sia una posa studiata?». Calot sogghignò. «Sicuramente. Il Grande Mago di Laseen non riuscirebbe a leggere una mappa di guerra nemmeno se ne andasse della sua vita.» «Basta che non ne vada della nostra.» Una voce parlò da una sedia vicino a loro. «Oggi lavoriamo.» Tattersail aggrottò la fronte davanti all'oscurità soprannaturale che avvolgeva la sedia. «Sei impossibile come Tayschrenn, Hairlock. E sii felice che non ho deciso di mettermi su quella sedia.» Apparve una fila di denti gialli, indistinta, poi il resto del mago prese forma man mano che questi abbandonava l'incantesimo. Gocce di sudore segnavano la fronte dell'uomo, piatta e sfregiata, e la cima del cranio rasato - niente di strano: Hairlock avrebbe sudato in un pozzo di ghiaccio. Teneva la testa piegata di lato, e la sua espressione era un misto di disprezzo e di compiaciuto distacco. Puntò gli occhi piccoli e scuri su Tattersail. «Ti ricordi cos'è il lavoro, vero?» Un largo sorriso appiattì ulteriormente il naso storto e schiacciato. «È quello che svolgevi prima di cominciare a spassartela con il nostro caro Calot. Prima di rammollirti.»
Tattersail inspirò per ribattere, ma fu interrotta dalla parlata lenta, disinvolta di Calot. «Ti senti solo, Hairlock? Dovrei forse dirti che le prostitute chiedono a te tariffa doppia?» Agitò una mano, come per scacciare pensieri sgraditi. «La semplice verità è che Dujek ha scelto Tattersail per comandare il quadro dopo la prematura scomparsa di Nedurian a Mott Wood. Se la cosa non ti piace, peggio per te. È il prezzo da pagare per l'ambivalenza.» Hairlock abbassò la mano a spazzolare via un granello di sporco dalle ciabatte di raso, che erano, miracolosamente, sopravvissute indenni alle strade fangose. «La fiducia cieca, cari compagni, è roba da sciocchi...» Fu interrotto dal lembo della tenda che si scostava di lato. Il Gran Pugno Dujek Un-braccio entrò, i capelli sulle orecchie ancora impastati del sapone della rasatura mattutina, un effluvio di acqua di cannella alle spalle. Col passare degli anni, Tattersail era giunta a caricare quell'aroma di molti significati. Sicurezza, stabilità, sanità mentale. Dujek Un-braccio rappresentava tutte quelle cose, e non soltanto per lei, ma per l'esercito che combatteva per lui. Mentre il Gran Pugno si fermava al centro della stanza a osservare i tre maghi, Tattersail si appoggiò leggermente allo schienale e lo studiò da sotto le palpebre pesanti. Tre anni di passività forzata in quell'assedio sembravano aver agito da tonico su quell'uomo anziano. Dimostrava cinquant'anni, più dei settantanove che aveva. Gli occhi grigi erano ancora pungenti e risoluti nel viso esile, abbronzato. Si ergeva diritto, il che lo faceva sembrare più alto dei suoi cinque piedi e mezzo, e indossava indumenti di cuoio semplici e sobri, color magenta imperiale, abbondantemente macchiati di sudore. Il braccio sinistro, ridotto a un moncone appena sotto la spalla, era avvolto in fasce di pelle. Sotto le cinghie di zigrino dei sandali Napan si vedevano i polpacci pelosi, bianchi come il gesso. Calot estrasse un fazzoletto dalla manica e lo gettò a Dujek. Il Gran Pugno lo afferrò. «Di nuovo? Maledetto barbiere», ruggì, asciugandosi il sapone dalla mascella e dalle orecchie. «Giuro che lo fa apposta.» Avvolse il fazzoletto a palla, ributtandolo in grembo a Calot. «Ci siamo tutti. Bene. Prima l'ordinaria amministrazione. Hairlock, hai finito di parlare con i ragazzi là sotto?» Hairlock soffocò uno sbadiglio. «Uno zappatore di nome Fiddler mi ha portato giù, facendomi da guida.» Si fermò per togliere della lanugine dalla manica broccata, poi incrociò gli occhi di Dujek. «Da' loro altri sei o sette anni; per allora, forse raggiungeranno le mura della città.» «È fatica sprecata», intervenne Tattersail, «come ho scritto nella mia re-
lazione». Lanciò un'occhiata a Dujek. «Ammesso che sia mai arrivata alla Corte Imperiale.» «Carnei sta ancora nuotando», annunciò Calot. Dujek fece un grugnito; era il suo modo di ridere. «Allora, voi del quadro: ascoltate attentamente. Due cose.» Un leggero cipiglio increspò i suoi lineamenti sfregiati. «Uno, l'Imperatrice ha mandato un Artiglio. Sono in città, a caccia degli stregoni di Pale.» Un brivido attraversò la schiena di Tattersail. A nessuno piaceva avere intorno gli Artigli. Quei sicari imperiali - l'arma preferita di Laseen - tenevano i loro pugnali avvelenati affilati per tutti, compresi i cittadini Malazan. Evidentemente, Calot stava pensando la stessa cosa, perché si tirò bruscamente diritto. «Se sono qui per qualunque altra ragione...» «Allora, dovranno prima vedersela con me», sentenziò Dujek; la mano rimastagli si abbassò sul pomo dello spadone. Ha un pubblico, nell'altra stanza. Sta dicendo al comandante dell'Artiglio come stanno le cose. Che Shedunul lo benedica. Hairlock prese la parola. «Si nasconderanno. Sono stregoni, non idioti.» Tattersail impiegò un attimo a capire la frase. Oh, sì. Gli stregoni di Pale. Dujek gettò uno sguardo valutativo su Hairlock, poi annuì. «Due, oggi attaccheremo la Progenie della Luna.» Nell'altro scomparto della tenda, il Grande Mago Tayschrenn si girò e si avvicinò lentamente. Dentro il cappuccio, un largo sorriso gli increspava il volto scuro, un'incrinatura momentanea dei lineamenti lisci. Il sorriso scomparve rapidamente, e la pelle senz'età ridiventò uniforme. «Salve, colleghi», salutò, ameno e minaccioso al tempo stesso. Hairlock sbuffò. «Tieni il melodramma al minimo, Tayschrenn, e saremo tutti più contenti.» Ignorando il commento, il Grande Mago continuò: «L'Imperatrice ha perso la pazienza con la Progenie della Luna...». Dujek inclinò la testa e interruppe, con voce sommessa ma aspra: «L'Imperatrice ha abbastanza paura da colpire per prima, e forte. Dilla chiaramente, illusionista. Stai parlando alla tua prima linea; dimostra un po' di rispetto, maledizione». Il Grande Mago scrollò le spalle. «Ma certo, Gran Pugno.» Si voltò verso il quadro. «Il vostro gruppo, io e altri tre Grandi Maghi attaccheremo la Luna entro un'ora. La Campagna Settentrionale ha allontanato la maggior
parte dei suoi residenti. Crediamo che il signore della fortezza sia rimasto solo. Da quasi tre anni, la sua mera presenza basta a tenerci a freno. Stamattina, colleghi, metteremo alla prova il coraggio di quest'uomo.» «E speriamo che, per tutto questo tempo, stesse solo bluffando», aggiunse Dujek, le rughe sulla fronte scavate da un cipiglio. «Domande?» «Quanto tempo mi ci vorrà per ottenere un trasferimento?» chiese Calot. Tattersail si schiarì la gola. «Che cosa sappiamo del signore della Luna?» «Ben poco, temo», ammise Tayschrenn, con gli occhi velati. «Di sicuro, è un Tiste Andii. Un arcimago.» Hairlock si piegò in avanti, e sputò deliberatamente sul pavimento davanti a Tayschrenn. «Un Tiste Andii, Grande Mago? Potresti essere un po' più preciso, no?» Tattersail sentì peggiorare la sua emicrania. Rendendosi conto di stare trattenendo il fiato, espirò lentamente mentre valutava la reazione di Tayschrenn - alle parole dell'uomo e alla tradizionale sfida di Sette Città. «Un arcimago», ripeté Tayschrenn. «Forse l'Arcimago dei Tiste Andii. Caro Hairlock», aggiunse, abbassando lievemente la voce, «i tuoi gesti primitivi e tribali sono bizzarri, per non dire di cattivo gusto». Hairlock scoprì i denti. «I Tiste Andii sono i primogeniti di Madre Oscurità. Hai sentito i tremiti nei Canali della Magia, Tayschrenn. Li ho sentiti anch'io. Chiedi a Dujek che rapporti arrivavano dalla Campagna Settentrionale. Parliamo dell'Antica Magia - la Kurald Galain. Il Signore della Progenie della Luna è l'Arcimago Maestro - e tu conosci il suo nome bene quanto me.» «Niente affatto», sbottò Tayschrenn, perdendo infine la calma. «Perché non ci illumini, Hairlock, e poi potrò indagare sulle tue fonti.» «Ahh!» Hairlock scattò in avanti sulla sedia, il volto tirato da una vibrante animosità. «Una minaccia del Grande Mago. Facciamo progressi. Rispondi a questa domanda, allora. Perché solo altri tre Grandi Maghi? Non siamo ridotti così in pochi. Inoltre, perché non abbiamo attaccato due anni fa?» Il contrasto che stava montando fra Hairlock e Tayschrenn fu interrotto da Dujek, che emise un grugnito, e poi disse: «Siamo disperati, mago. La Campagna Settentrionale è fallita. Il Quinto è quasi sparito, e non otterrà rinforzi fino alla primavera prossima. Il punto è che il signore della Luna potrebbe riavere indietro le sue truppe da un giorno all'altro. Non voglio dovervi mandare contro un esercito di Tiste Andii, e sicuramente non vo-
glio che il Secondo debba dividersi su due fronti perché sono arrivati i rinforzi nemici. Sarebbe una strategia perdente, e chiunque sia questo Caladan Brood, si è dimostrato capace di farci pagare i nostri errori». «Caladan Brood», mormorò Calot. «Giurerei di aver già sentito quel nome. Strano che non me ne sia mai curato granché.» Tattersail strinse gli occhi su Tayschrenn. Calot aveva ragione: il nome dell'uomo che comandava i Tiste Andii insieme alla Guardia Cremisi suonava effettivamente familiare - ma in un modo antico, come un'eco di vecchie leggende, o di qualche poema epico. Il Grande Mago incrociò il suo sguardo, freddo e calcolatore. «Non c'è più bisogno di giustificazioni», concluse, rivolgendosi agli altri. «L'Imperatrice ha dato un ordine, e noi dobbiamo obbedire.» Hairlock sbuffò di nuovo. «A proposito di costrizioni», si appoggiò allo schienale, puntando su Tayschrenn un sorriso sprezzante, «ricordi come abbiamo giocato al gatto col topo, ad Aren? Questo piano porta la tua impronta. Da tempo, bramavi un'opportunità del genere». Il sorriso si fece feroce. «Chi sono, allora, gli altri tre Grandi Maghi? Fammi indovinare...» «Basta!» Tayschrenn si avvicinò a Hairlock, che impietrì, gli occhi luccicanti. La luce delle lanterne si era affievolita. Calot usò il fazzoletto che aveva in grembo per asciugarsi le lacrime dalle guance. Il potere, oh, maledizione, la testa mi si spacca. «Benissimo», mormorò Hairlock, «mettiamo le carte in tavola. Sono sicuro che il Gran Pugno apprezzerà che tu esponga tutti i suoi sospetti nell'ordine giusto. Parla chiaro, amico mio». Tattersail lanciò un'occhiata a Dujek. Il comandante aveva il viso chiuso; gli occhi acuti erano stretti e puntati su Tayschrenn. Rifletteva intensamente. Calot si chinò verso di lei. «Che diavolo succede, 'Sail?» «Non ne ho idea», mormorò la maga, «ma l'atmosfera si sta scaldando per bene». Benché avesse parlato scherzosamente, la sua mente vorticava intorno a un freddo nodo di paura. Hairlock lavorava per l'Impero da più tempo di lei - o di Calot. Era fra i maghi che avevano combattuto contro i Malazan a Sette Città, prima che Aren cadesse e che i Sacri Falah'd fossero dispersi, prima che gli fosse offerta la scelta fra la morte o il servizio ai nuovi padroni. Si era unito al quadro del Secondo a Pan'potsun - come Dujek stesso era là, con la vecchia guardia dell'Imperatore, quando si erano mosse le prime vipere dell'usurpazione, il giorno che la Prima Spada
dell'Impero era stata tradita e brutalmente uccisa. Hairlock sapeva qualcosa. Ma cosa? «Allora», riprese Dujek, nella sua parlata lenta, «abbiamo del lavoro da fare. Cominciamo». Tattersail sospirò. Tipica espressione del vecchio Un-braccio. Gli gettò uno sguardo. Lo conosceva bene, non come amico, - Dujek non si faceva amici - ma come la miglior mente militare rimasta nell'Impero. Se, come Hairlock aveva appena suggerito, qualcuno, da qualche parte, stava tradendo il Gran Pugno, e se Tayschrenn c'entrava qualcosa... siamo un ramo piegato, aveva detto una volta Calot della Milizia di Un-braccio, e stia attento l'Impero quando si romperà. I soldati di Sette Città, gli spettri rinchiusi dei vinti ma invincibili... Tayschrenn rivolse un gesto a lei e agli altri maghi. Tattersail si alzò, imitata da Calot. Hairlock rimase seduto, gli occhi chiusi come se dormisse. «A proposito di quel trasferimento...» disse Calot a Dujek. «Più tardi», grugnì il Gran Pugno. «Riempire documenti è un incubo, quando si ha un braccio solo.» Esaminò il suo quadro; stava per aggiungere qualcosa, quando Calot parlò di nuovo. «Anomandaris.» Hairlock spalancò gli occhi di scatto, vide Tayschrenn con vivo piacere. «Ahhh», disse, nel silenzio che seguì all'enunciazione di Calot. «Ma certo. Altri tre Grandi Maghi? Solo tre?» Tattersail fissò il volto pallido e immobile di Dujek. «La poesia», sussurrò. «Ora ricordo.» Caladan Brood, assoldato dagli uomini, latore dell'inverno, senza afflizione alcuna... Calot recitò i versi seguenti ... in una tomba priva di parole, e nelle sue mani che schiacciarono le incudini... Tattersail continuò Il martello della sua canzone... Egli vive dormendo, perciò avvisate silenziosamente Tutti quanti... di non svegliarlo.
Non svegliarlo. Tutti i presenti fissarono Tattersail, mentre le sue ultime parole si affievolivano. «Ora è sveglio, parrebbe», annunciò lei, con la bocca secca. «"Anomandaris", il poema epico di Fisher Keltath.» «Il poema non parla di Caladan Brood», intervenne Dujek, aggrottando la fronte. «No», convenne lei. «Riguarda soprattutto il suo compagno.» Hairlock si mise lentamente in piedi, avvicinandosi a Tayschrenn. «Anomander Rake, signore dei Tiste Andii, che sono le anime della Notte Senza Stelle. Rake, la Criniera del Caos. Ecco chi è il Signore della Progenie della Luna, e tu gli stai mandando contro quattro Grandi Maghi e un solo quadro.» Il viso liscio di Tayschrenn era coperto da un sottilissimo velo di sudore. «I Tiste Andii», replicò, in tono tranquillo, «non sono come noi. Ti possono sembrare imprevedibili, ma non lo sono. Sono solo diversi. Non hanno una causa propria. Si spostano semplicemente da un dramma umano all'altro. Pensi veramente che Anomander Rake rimarrà a combattere?». «Caladan Brood si è forse ritirato?» sbottò Hairlock. «Lui non è un Tiste Andii. È umano - alcuni dicono che abbia sangue Barghast, tuttavia non ha niente del sangue Antico, o dei suoi modi.» «Conti sul fatto che Rake tradisca gli stregoni di Pale», buttò lì Tattersail, «che tradisca il patto stipulato fra loro». «Il rischio non è così alto come può sembrare», rivelò il Grande Mago. «Bellurdan ha svolto ricerche a Genabaris, maga. Alcuni nuovi rotoli di pergamena della Follia di Gothos sono stati scoperti in una rocca di montagna oltre la Foresta del Cane Nero. Fra gli scritti, figurano descrizioni dei Tiste Andii, e di altri popoli dell'Era Antica. E ricorda, la Progenie della Luna ha già rinunciato una volta a uno scontro diretto con l'Impero.» Le ondate di paura che attraversavano Tattersail le indebolivano le ginocchia. La donna si sedette di nuovo, abbastanza pesantemente da far scricchiolare la sedia da campo. «Se le tue previsioni si rivelano sbagliate, Grande Mago, ci hai condannato a morte», dichiarò. «E non solo noi, ma tutta la Milizia di Un-braccio.» Tayschreen si girò lentamente, dando la schiena a Hairlock e agli altri. «Ordini dell'Imperatrice Laseen», sentenziò, senza voltarsi. «I nostri colleghi verranno via Canale. Al loro arrivo, darò dettagli sulle dislocazioni. È tutto.» Tornò a grandi passi nella stanza delle mappe, dove riprese la posi-
zione originaria. Dujek sembrava essere invecchiato davanti a Tattersail, che distolse rapidamente lo sguardo da lui, troppo angosciata per incrociare l'abbandono nei suoi occhi, e il sospetto che si annidava al di là. Una codarda - ecco quello che sei, donna. Una codarda. Infine, il Gran Pugno si schiarì la gola. «Preparate i vostri Canali, voi del quadro. Come al solito, a buon rendere.» *** Bisogna riconoscere i meriti del Grande Mago, pensò Tattersail. Tayschreen si ergeva in piedi sulla prima collina, quasi dentro l'ombra della Luna. Si erano schierati in tre gruppi, ognuno dei quali occupava una cima sulla pianura fuori dalle mura di Pale. Quello del quadro era il più lontano dalla fortezza, quello di Tayschrenn il più vicino. Sulla collina centrale stavano gli altri tre Grandi Maghi. Tattersail li conosceva tutti. Nightchill, dai capelli corvini, alta, autoritaria e con una vena crudele che mandava in brodo di giuggiole il defunto Imperatore. Al suo fianco, c'era il compagno di una vita, Bellurdan, lo stritolatore di crani, un gigante Thelomen che, all'occorrenza, avrebbe saggiato la sua forza prodigiosa contro il portale della Luna. E A'Karonys, il manipolatore del fuoco, basso e tozzo, il suo bastone ardente più alto di una lancia. Il Secondo e il Sesto Esercito si erano disposti in file sulla pianura; ad armi sguainate, aspettavano l'ordine di marciare sulla città al momento opportuno. Settemila veterani e quattromila reclute. Le legioni di Moranth Neri bordavano la catena di montagne a un quarto di miglio di distanza, verso ovest. Non c'era vento a smuovere l'aria del mezzogiorno. Moscerini pungenti vagavano in nubi visibili in mezzo ai soldati in attesa. Il cielo era coperto, la coltre di nubi sottile ma uniforme. Tattersail stava in piedi sulla cresta della collina; con rivoli di sudore che le colavano sotto i vestiti, guardava i soldati sulla pianura fronteggiare il suo magro quadro. Con gli effettivi al completo, dietro di lei sarebbero stati schierati sei maghi, ma ce n'erano soltanto due. Da un lato, aspettava Hairlock; avvolto nella cappa impermeabile grigio scuro che era la sua tenuta da combattimento, aveva l'aria compiaciuta. Calot diede una gomitata a Tattersail, indicando Hairlock con uno scatto del capo. «Cos'ha da essere così felice?»
«Hairlock», chiamò Tattersail. L'uomo girò la testa. «Avevi ragione sui tre Grandi Maghi?» Lui sorrise, poi si voltò dall'altra parte. «Odio quando fa il misterioso», borbottò Calot. La maga grugnì. «Ha fiutato qualcosa, sicuramente. Che cosa c'è di speciale in Nightchill, Bellurdan e A'Karonys? Perché Tayschrenn li ha scelti e come faceva Hairlock a sapere che avrebbe scelto proprio loro?» «Domande, domande», sospirò Calot. «Tutti e tre sono esperti di queste faccende. Ai tempi dell'Imperatore, ognuno di loro comandava una compagnia di Adepti - quando l'Impero possedeva abbastanza maghi da formare compagnie. A'Karonys fece carriera nella Campagna di Falari, e Bellurdan e Nightchill risalgono a prima ancora - vennero da Fenn, sul continente di Quon, durante le guerre di unificazione.» «Tutti esperti», rifletté Tattersail, «come hai detto. Ma nessuno è stato in attività ultimamente, non è vero? La loro ultima campagna fu a Sette Città...» «Dove A'Karonys prese una suonata nelle Lande di Pan'potsun...» «Fu piantato in asso - l'Imperatore era appena stato assassinato. Regnava il caos. I T'lan Imass rifiutavano di riconoscere la nuova Imperatrice, e si recarono nello Jhag Odhan.» «Corre voce che siano tornati, dimezzati - qualunque cosa abbiano incontrato laggiù, non doveva essere piacevole.» Tattersail annuì. «Nightchill e Bellurdan ricevettero ordine di presentarsi a Nathilog, e da sei, sette anni sono stati lasciati con le mani in mano...» «Finché Tayschrenn non ha mandato il Thelomen a Genabaris, a studiare nientemeno che una pila di antiche pergamene.» «Ho paura», ammise Tattersail. «Molta paura. Hai visto la faccia di Dujek? Sapeva qualcosa - un lampo di comprensione l'ha colpito come un pugnale nella schiena.» «È tempo di mettersi al lavoro», gridò Hairlock. Calot e Tattersail si girarono di colpo. La donna fu percorsa da un brivido. La Progenie della Luna ruotava costantemente su se stessa da tre anni; ma ora si era appena fermata. Vicino alla sommità, sul lato rivolto verso di loro, c'era una piccola cornice, ed era apparso un recesso ombroso. Un portale. Per ora, non si vedeva alcun movimento. «Lui sa», bisbigliò la maga. «E non sta scappando», aggiunse Calot. Giù sulla prima collina, il Grande Mago Tayschrenn sollevò le braccia
perpendicolari ai fianchi. Un'onda di fuoco dorato andò da una mano all'altra, poi s'inarcò verso l'alto, crescendo nel correre verso la Luna. La magica fiamma sbatté contro la roccia nera, scalfendo pezzi che ricaddero a terra. Una pioggia di morte discese sulla città di Pale, e fra le legioni Malazan che attendevano sulla pianura. «Comincia la battaglia», mormorò Calot. Il primo attacco di Tayschrenn fu accolto dal silenzio, salvo per il tenue acciottolio dei detriti sulle tegole dei tetti cittadini e per le grida lontane dei soldati feriti. Tutti tenevano gli occhi puntati verso l'alto. Ma la risposta non fu quella che tutti si aspettavano. Una nube nera avvolse la Progenie della Luna, seguita da deboli stridii. Un attimo dopo, la nube si allargò, frammentandosi, e Tattersail capì cosa si rivelava alla sua vista. Corvi. Migliaia e migliaia di Grandi Corvi. Probabilmente, avevano fatto il nido fra le buche e le balze sulla superficie della fortezza. I loro stridii si fecero più definiti, un miagolio di indignazione. Si allontanarono a semicerchio dalla Progenie della Luna; l'apertura alare di quindici piedi catturò il vento e li portò alti sopra la città e la pianura. Il timore si trasformò in terrore nel cuore di Tattersail. Hairlock emise una risata aspra, girandosi di scatto verso di loro. «Questi sono i messaggeri della Luna, colleghi!» La follia gli brillava negli occhi. «Questi divoratori di carogne!» Sollevò le braccia. «Pensate a un signore che ha tenuto trentamila Grandi Corvi ben pasciuti!» Una figura era apparsa sulla cornice davanti al portale, le braccia alzate; il vento scostava dalla testa i lunghi capelli d'argento. La Criniera del Caos. Anomander Rake. Il signore dei Tiste Andii dalla pelle nera, che ha visto passare centomila inverni, che ha assaggiato il sangue dei draghi, che, seduto sul Trono del Dolore, guida gli ultimi del suo genere e un regno tragico e condannato - un regno senza terra da chiamare propria. Anomander Rake sembrava minuscolo conto lo sfondo della fortezza, quasi incorporeo; ma l'illusione crollò presto. Tattersail ansimò, quando l'aura del suo potere si sprigionò all'esterno - poterla vedere da quella distanza... «Aprite i vostri Canali», ordinò la maga, con voce rotta. «Ora!» Mentre Rake raccoglieva il suo potere, palle gemelle di fuoco blu sfrecciarono all'insù dalla collina centrale. Colpirono la Progenie della Luna vicino alla base, facendola oscillare. Tayschrenn lanciò un'altra onda di
fuoco dorato, che urtò l'obiettivo con una nuvola di spuma ambra e di fumo screziato di rosso. Il signore della fortezza reagì. Un'onda nera, ribollente, rotolò giù verso la prima collina. Il Grande Mago cadde in ginocchio nello sforzo di respingerla, e il cocuzzolo intorno a lui inaridì, mentre il potere micidiale scendeva giù per i pendii, sommergendo file di soldati. Tattersail vide un lampo scuro inghiottire gli sventurati, seguito da un tuono che rimbombò nel terreno. Quando il lampo sparì, i soldati apparvero schierati in cumuli putridi, falciati come steli d'erba. La stregoneria Kurald Galain. L'Antica Magia, il respiro del Caos. Il respiro rapido, superficiale, Tattersail sentì il Canale Thyr scorrerle dentro. Gli diede forma, mormorando formule fra sé, poi scatenò il potere. Calot l'imitò, attingendo al suo Canale Mockra. Hairlock si circondò della sua misteriosa fonte di supporto, e il quadro entrò in battaglia. Da quel momento, Tattersail si concentrò sulla realtà; eppure parte della sua mente rimase distaccata: all'altro capo di un guinzaglio di terrore, osservava gli eventi con una specie di visione annebbiata. Il mondo divenne un incubo vivente, mentre la magia volava all'insù per colpire la Luna, e la magia piombava all'ingiù, devastando tutto ciò che incontrava sul suo cammino. La terra si sollevò in fragorose colonne. Rocce squarciarono gli uomini come pietre calde la neve. Un diluvio di cenere coprì vivi e morti insieme. Il cielo sbiadì in un rosa pallido, e il sole diventò un disco ramato dietro la foschia. Tattersail vide un'onda infrangere le difese di Hairlock, tagliandolo a metà. L'urlo dell'uomo, più di rabbia che di dolore, svanì alle sue orecchie quando il potere feroce l'avvolse, e la sua protezione fu aggredita dalla fredda, stridente volontà della magia che cercava di distruggerla. Barcollò all'indietro, ma fu sostenuta da Calot che aggiunse le sue doti Mockra alle vacillanti forze di lei. Poi l'attacco passò, rivolgendosi alla collina alla loro sinistra. Tattersail era crollata in ginocchio. In piedi accanto a lei, Calot pronunciava formule magiche, lo sguardo distolto dalla Luna, fisso su qualcosa o su qualcuno giù, nella pianura. Aveva gli occhi spalancati dal terrore. Troppo tardi Tattersail capì cosa stava accadendo. Calot la stava difendendo a proprie spese; un ultimo atto d'amore, mentre vedeva la sua stessa morte esplodergli all'intorno. Un bagliore di fuoco l'inghiottì. All'improvviso, la rete di protezione su Tattersail scomparve e un getto di calore crepitante, venuto dal punto in cui era stato Calot, la mandò ruzzoloni su un
fianco. Percepì, più che udire, il suo urlo; faticava a usare il senso della distanza. Uno strato di difesa mentale era stato cancellato. Sputando sporco e cenere, Tattersail si rialzò; non lanciava più attacchi, ma lottava semplicemente per restare viva. Da qualche recesso della sua mente, una voce gridava, carica d'ansia e di panico. Calot guardava la pianura, non la Progenie della Luna - guardava a destra! Hairlock era stato colpito dalla pianura! La maga guardò un demone Kenryll'ah levarsi sotto Nightchill. Con una risata stridula, la creatura magra, allampanata, la fece a pezzi. Aveva cominciato a mangiarla, quando arrivò Bellurdan. Urlò, mentre il demone gli graffiava il petto con gli artigli affilati come coltelli. Ignorando le ferite e il sangue che ne sgorgava, il Thelomen gli strinse le mani intorno al cranio e lo schiacciò. A'Karonys liberò spruzzi di fiamma dal suo bastone, finché la Progenie della Luna quasi scomparve dentro una palla di fuoco. Poi eteree ali di ghiaccio si chiusero sul mago basso e tozzo, immobilizzandolo. Un attimo dopo, era ridotto in polvere. La magia ricadeva in una tempesta infinita intorno a Tayschrenn, ancora inginocchiato sulla cima nera, avvizzita. Ma egli riuscì a respingere ogni onda diretta contro di lui, causando la rovina fra i soldati rannicchiati sulla pianura. Attraverso il massacro che riempiva l'aria, attraverso la cenere e lo stridio dei corvi, attraverso la pioggia di pietre e le grida dei feriti e dei morenti, attraverso le urla agghiaccianti dei demoni che si gettavano sulle truppe - attraverso tutto ciò il Grande Mago faceva risuonare il rombo costante del suo attacco. Rupi enormi, strappate dalla facciata della fortezza, avvolte da fiamme ruggenti e da colonne di fumo nero, si schiantarono sulla città di Pale, trasformandola in un calderone di caos e di morte. Le orecchie intorpidite e il corpo pulsante come se la carne stessa ansimasse in cerca di aria, Tattersail impiegò un po' a capire che la magia era cessata. Anche la voce che le urlava in fondo alla mente era ammutolita. Alzando gli occhi velati, vide la Progenie della Luna, il cui volto devastato era incendiato in una dozzina di punti e immerso in una spirale di fumo, ritrarsi lontano. Superò la città, ruotando malferma, piegata da un lato. La fortezza si dirigeva a sud, verso i lontani Monti Tahlyn. La donna si guardò intorno; ricordava vagamente che una compagnia di soldati si era rifugiata su quella sommità maledetta. Poi qualcosa aveva colpito lei, Tattersail, sottraendole ogni potere di resistenza. Ora, della compagnia rimanevano solo le armature. A buon rendere, maga. Ricacciò
indietro un singhiozzo, poi riportò l'attenzione sulla prima collina. Tayschrenn era a terra, ma vivo. Mezza dozzina di soldati si arrampicarono sul pendio per raccogliersi intorno al Grande Mago; un attimo dopo, lo portarono via. Bellurdan, con quasi tutti i vestiti bruciati e la pelle rossa per le ustioni, rimaneva sulla collina centrale, dove raccoglieva le membra disperse di Nightchill e alzava la voce in un gemito dolente. Quella vista, in tutto il suo orrore e il suo pathos, colpì il cuore di Tattersail come un martello un'incudine. La donna distolse rapidamente lo sguardo. «Maledizione a te, Tayschrenn.» Pale era caduta. Il prezzo era la Milizia di Un-braccio e quattro maghi. Solo ora le legioni di Moranth Neri stavano per entrare in città. Tattersail strinse la mascella, le labbra, da carnose che erano, ridotte a una sottile linea bianca. Un cassetto nella sua memoria si aprì, dandole la certezza crescente che la scena non era ancora esaurita. La maga aspettò. *** I Canali della Magia risiedono nell'Aldilà. Trova la porta e aprila di uno spiraglio. A ciò che uscirà, sarai libera di dare forma. Con queste parole, una giovane donna aveva intrapreso il sentiero della stregoneria. Apriti al Canale che viene da te - che ti trova. Attingi al suo potere - per quanto il tuo corpo e la tua anima sono capaci di contenere - ma ricorda, quando il corpo non regge, la porta si chiude. Tattersail aveva male dappertutto. Le sembrava di essere stata picchiata con delle mazze per due ore di fila. L'ultima cosa che si aspettava era il gusto amaro sulla lingua, segno che qualcosa di brutto e spiacevole era arrivato in cima alla collina. Tali avvertimenti raramente raggiungevano un adepto a meno che la porta non fosse rimasta aperta, lasciando un Canale scoperto, spumeggiante di potere. Aveva sentito storie da altri maghi, e aveva letto pergamene ammuffite che parlavano di momenti del genere, in cui il potere giungeva straziante, letale. Ogni volta, si diceva, un dio metteva piede sul terreno mortale. Se avesse dovuto specificare quale presenza immortale aleggiasse in quel luogo, avrebbe detto Hood, il Dio della Morte. Ma il suo istinto diceva di no. Non credeva che fosse arrivato un dio; ma qualcos'altro era arrivato di sicuro. La cosa frustrante era che non riusciva a decidere quale, fra
quelle che la circondavano, fosse la persona pericolosa. Chissà perché, il suo sguardo era costantemente attratto dalla ragazza. Ma quella sembrava, per lo più, mentalmente assente. Le voci alle sue spalle richiamarono la sua attenzione. Il sergente Whiskeyjack torreggiava sopra Ben lo Svelto e l'altro soldato, entrambi ancora inginocchiati accanto a Hairlock. Ben lo Svelto stringeva un oggetto oblungo, avvolto nella pelle, e teneva lo sguardo alzato verso il sergente, come per cercare la sua approvazione. Fra i due uomini correva tensione. Aggrottando le sopracciglia, Tattersail raggiunse il gruppo. «Che cosa stai facendo?» chiese a Ben lo Svelto, i suoi occhi sull'oggetto posto fra le mani quasi femminili del mago. Lui, lo sguardo sempre puntato sul sergente, sembrò non sentire. Whiskeyjack le lanciò un'occhiata. «Fa' pure, Ben», ruggì, poi marciò a grandi passi fino al bordo della collina, rivolgendosi a ovest, verso i Monti Moranth. I lineamenti fini, ascetici di Ben lo Svelto si tesero. Egli fece un cenno col capo al suo compagno. «Preparati, Kalam.» Il soldato di nome Kalam si accovacciò, le mani infilate nelle maniche. Quella posizione sembrava una strana risposta alla richiesta di Ben lo Svelto, ma il mago aveva l'aria soddisfatta. Tattersail lo vide posare una delle mani esili, quasi filiformi, sul petto di Hairlock, tremante, bagnato di sangue. Chiudendo gli occhi, bisbigliò una formula. «Sembrava Denul», osservò Tattersail, con uno sguardo a Kalam, che rimaneva immobile. «Ma non proprio», aggiunse lentamente. «L'ha un po' distorto.» Ammutolì, vedendo in Kalam qualcosa che le ricordava un serpente in attesa di colpire. Sarebbe bastato poco a provocarlo, pensò. Solo qualche altra parola intempestiva, o un movimento avventato verso Hairlock o Ben lo Svelto. L'uomo era grosso, imponente, ma lei ricordava il modo in cui le era scivolato pericolosamente accanto. Serpente è la parola giusta; quest'uomo è un killer, un soldato versato nell'arte dell'assassinio. Non si tratta più soltanto di un lavoro, per lui, ma di un piacere. Si chiese se non fosse quell'energia, la tacita promessa della minaccia, a inondarla del brivido della tensione sessuale. Tattersail sospirò. Quello era un giorno di depravazione. Ben lo Svelto aveva ripreso a recitare la sua formula, stavolta rivolto all'oggetto, che aveva messo accanto a Hairlock. Lei guardò il potere avviluppare la cosa misteriosa, guardò con apprensione crescente il mago passare le lunghe dita lungo le cuciture del contenitore di pelle. Teneva perfet-
tamente sotto controllo l'energia che sgorgava da sé; le era superiore nel comando nell'arte. Aveva aperto un Canale che lei non riconosceva nemmeno. «Chi siete voialtri?» chiese, facendo un passo indietro. Gli occhi di Hairlock si aprirono di scatto, liberi dal dolore e dallo shock. Il suo sguardo trovò Tattersail, e il sorriso macchiato di sangue salì facilmente sulle labbra spaccate. «Sapienza perduta, 'Sail. Ciò che stai per vedere non viene fatto da un migliaio di anni.» Il suo volto s'incupì e il sorriso scomparve. Una fiamma gli ardeva negli occhi. «Ricorda, donna! Quando Calot e io siamo caduti, che cosa hai visto? Hai avvertito qualcosa? Qualcosa di strano? Avanti, pensa! Guardami! Guarda la mia ferita, guarda come sto sdraiato! Da che parte stavo girato quando è arrivata l'onda?» Lei vide il fuoco nei suoi occhi, un fuoco di rabbia mista a esultanza. «Non ne sono sicura», rispose lentamente. «Qualcosa, sì.» La parte della sua mente distaccata, raziocinante, che l'aveva accompagnata per tutta la battaglia, aveva urlato al momento della morte di Calot, urlato in risposta alle onde di magia - al fatto che erano venute dalla pianura. Puntò gli occhi stretti su Hairlock. «Anomander Rake non si è mai preoccupato di prendere la mira. Colpiva a casaccio. Quelle onde di potere avevano un bersaglio, no? Ci venivano addosso dalla parte sbagliata.» Stava tremando. Ma perché? Perché Tayschrenn avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Hairlock sollevò una mano maciullata ad afferrare il mantello di Ben lo Svelto. «Usa lei, mago. Correrò il rischio.» Tattersail aveva i pensieri in tumulto. Hairlock era stato mandato nei tunnel da Dujek. E anche Whiskeyjack e il suo squadrone erano stati laggiù. Era stato stipulato un patto. «Hairlock, che succede?» domandò, i muscoli di collo e spalle attanagliati dalla paura, «che cosa vuol dire "usarmi"?». «Non sei cieca, donna!» «Silenzio», ordinò Ben lo Svelto. Posò l'oggetto sul petto rovinato del mago, badando a che fosse a metà dello sterno, nel senso della lunghezza. L'estremità superiore gli arrivava appena sotto il mento, quella inferiore andava qualche pollice oltre a ciò che restava del suo torso. Una ragnatela di energia nera si tesseva incessantemente sulla superficie screziata della pelle. Ben lo Svelto passò una mano sull'oggetto, e la ragnatela si espanse verso l'esterno. I fili neri, lucenti tracciarono un disegno caotico che si insinuò
in tutto il corpo di Hairlock, sopra e sotto la carne; il disegno cambiava continuamente, e i cambiamenti erano sempre più rapidi. Hairlock sobbalzò, gli occhi fuori dalle orbite, poi ricadde all'indietro. Un respiro gli sfuggì dai polmoni in un sibilo lento, costante. Quando cessò, con un gorgoglio, non fu seguito da un altro. Ben lo Svelto si accoccolò a terra, lanciando un'occhiata a Whiskeyjack. Il sergente stava ora rivolto verso di loro, con espressione indecifrabile. Tattersail si asciugò il sangue dalla fronte con una manica lurida. «Non ha funzionato, allora. Non sei riuscito a compiere ciò che volevi.» Ben lo Svelto si alzò. Kalam prese l'oggetto e si avvicinò a Tattersail. Il sicario la scrutò in viso con occhi scuri, penetranti. Ben lo Svelto parlò. «Prendilo, maga, e conservalo. Portalo alla tua tenda e lì liberalo del suo involucro. Soprattutto, non farlo vedere a Tayschrenn.» Tattersail aggrottò la fronte. «Come sarebbe? Troppo semplice!» Lasciò cadere lo sguardo sull'oggetto. «Non so neanche cosa accetterei. E qualunque cosa sia, non mi piace.» La ragazza parlò proprio dietro di lei, in tono aspro e accusatorio. «Non so cosa tu abbia fatto, mago. Ho sentito che mi tenevi lontano; è stato scortese da parte tua.» Tattersail si girò verso la ragazza, poi lanciò un altro sguardo a Ben lo Svelto. Cos'è questa storia? L'espressione del nero era glaciale, ma lei gli vide un guizzo negli occhi. Un guizzo di paura, pareva. Anche Whiskeyjack, a quelle parole, fronteggiò la giovane. «Hai qualcosa da dire, recluta?» La sua voce era tesa. La ragazza fece scivolare gli occhi scuri verso il suo sergente. Poi, con una scrollata di spalle, si allontanò. Kalam offrì l'oggetto a Tattersail. «Risposte», mormorò, nell'accento settentrionale di Sette Città, morbido e melodico. «Abbiamo tutti bisogno di risposte, maga. Il Grande Mago ha ucciso i tuoi compagni. E guarda noi: siamo gli unici superstiti degli Arsori di Ponti. Le risposte non si... ottengono facilmente. Sei disposta a pagare il prezzo?» Con un'ultima occhiata al corpo senza vita di Hairlock - così brutalmente straziato - e al suo sguardo altrettanto fisso, inanimato, la donna accettò l'oggetto avvolto nel bozzolo di pelle. Di qualunque cosa si trattasse, era piccolo e leggero; parti si mossero, e manopole e manici duri urtarono contro la sua stretta. Tattersail fissò il viso da orso del sicario. «Voglio vedere Tayschrenn», sentenziò lentamente, «avere ciò che si merita».
«Allora siamo tutti d'accordo», convenne Kalam, sorridendo. «Questo è il punto di partenza.» A quel sorriso, Tattersail provò un balzo nello stomaco. Donna, che ti prende? Sospirò. «Bene.» Mentre si girava per discendere il pendio e tornare al campo principale, incrociò lo sguardo della ragazza. Attraversata da un brivido, si fermò. «Tu, recluta», l'apostrofò. «Come ti chiami?» La ragazza sorrise fra sé, come a una battuta che solo lei conosceva. «Dispiacere.» Tattersail grugnì. Era plausibile. Infilandosi il pacchetto sotto il braccio, percorse il pendio a passo incerto. *** Il sergente Whiskeyjack diede un calcio a un elmo e lo guardò rotolare giù per il pendio. Voltandosi, fulminò Ben lo Svelto con lo sguardo. «Tutto fatto?» Il mago fece sfrecciare gli occhi verso Dispiacere, poi annuì. «Attirerai attenzione indebita verso il nostro squadrone», disse la ragazza a Whiskeyjack. «Il Grande Mago Tayschrenn se ne accorgerà.» Il sergente alzò un sopracciglio. «Attenzione indebita? Che diavolo significa?» Dispiacere non rispose. Whiskeyjack ricacciò indietro un aspro rimbrotto. Come l'aveva chiamata Fiddler? Una belva misteriosa. Gliel'aveva detto in faccia e lei gli aveva fatto abbassare lo sguardo fissandolo con quegli occhi morti, di pietra. Per quanto non gli piacesse ammetterlo, Whiskeyjack condivideva il giudizio brutale dello zappatore. A rendere le cose ancora più allarmanti, quella quindicenne faceva una paura matta a Ben lo Svelto, e il mago non voleva parlarne. Che cosa gli aveva mandato l'Impero? Riportò lo sguardo su Tattersail. Stava attraversando il campo della strage ai suoi piedi. I corvi si levarono stridendo dal suo cammino, e rimasero a volteggiare nell'aria, con gridi inquieti, spaventati. Il sergente sentì la presenza massiccia di Kalam al suo fianco. «Per il respiro di Hood», borbottò. «Quella maga sembra riempire gli uccelli di sacro terrore.» «Non è lei», ribatté Kalam. «È quello che porta.» Wiskeyjack si grattò la barba, stringendo gli occhi. «Questa faccenda puzza. Sei sicuro che sia necessaria?»
Kalam scrollò le spalle. «Whiskeyjack», intervenne Ben lo Svelto, alle loro spalle, «ci hanno tenuto nei tunnel. Credi che il Grande Mago non avrebbe potuto intuire cosa sarebbe successo?». Il sergente si girò verso il suo mago. A mezza dozzina di passi di distanza stava Dispiacere, ben a portata d'orecchio. Whiskeyjack la guardò torvo, ma non aprì bocca. Dopo un attimo di greve silenzio, il sergente rivolse l'attenzione alla città. Le ultime legioni dei Moranth marciavano sotto l'arco della Porta Occidentale. Colonne di fumo nero si levavano dalle mura malconce, sfregiate. Sapeva qualcosa della storia di fiera inimicizia fra i Moranth e gli abitanti della un tempo Città Libera di Pale. Rotte commerciali contese, due poteri mercantili che si saltavano alla gola a vicenda. E, il più delle volte, era Pale a vincere. Dopo molto tempo, sembrava che i guerrieri dall'armatura nera provenienti dalle montagne occidentali, che parlavano a scatti e brusii, e i cui volti restavano nascosti dietro le visiere di corno degli elmi, stessero infine pareggiando i conti. Debolmente, oltre i gridi degli uccelli a caccia di carogne, venivano i gemiti di uomini, donne e bambini passati a fil di spada. «Sembra che l'Imperatrice stia mantenendo la sua parola con i Moranth Neri», mormorò Ben lo Svelto. «Un'ora di sangue. Non pensavo che Dujek...» «Dujek conosce i suoi ordini», intervenne Whiskeyjack. «E ha un Grande Mago che gli conficca gli artigli nella spalla.» «Un'ora», ripeté Kalam. «Poi rimetteremo ordine nel caos.» «Non il nostro squadrone», annunciò Whiskeyjack. «Abbiamo ricevuto nuovi ordini.» I due uomini fissarono il loro sergente. «E hai ancora bisogno di essere convinto?» domandò Ben lo Svelto. «Ci stanno spingendo sottoterra. Intendono...» «Basta!» abbaiò Whiskeyjack. «Non ora. Kalam, trova Fiddler. Ci servono rifornimenti dai Moranth. Riunisci gli altri, Ben, e porta Dispiacere con te. Ci vediamo fuori dalla tenda del Gran Pugno fra un'ora.» «E tu?» chiese Ben lo Svelto. «Che cosa farai?» Il sergente udì un malcelato desiderio nella voce nel sergente. Quell'uomo aveva bisogno di orientamento, o forse di una conferma che stessero agendo bene. Era un po' troppo tardi per questo. Ciò nonostante, Whiskeyjack sentì una fitta di rimorso perché non poteva dare a Ben lo Svelto ciò
che più voleva. Non poteva dirgli che le cose sarebbero andate per il meglio. Si accovacciò, gli occhi su Pale. «Che cosa farò? Rimarrò qui a pensare, Ben. Sono stato a sentire te e Kalam, Mallet e Fiddler, persino Trotts mi ha blaterato all'orecchio. Be', ora voglio ascoltare me stesso. Per cui lasciami in pace, mago, e porta via con te quella maledetta ragazza.» Ben lo Svelto trasalì, sembrò ritrarsi. Qualcosa - o forse tutto - nelle parole di Whiskeyjack l'avevano reso molto infelice. Il sergente era troppo stanco per preoccuparsene. Doveva pensare al loro nuovo incarico. Se fosse stato religioso, Whiskeyjack avrebbe sparso sangue nella Ciotola di Hood, invocando le ombre dei suoi antenati. Per quanto non gli piacesse ammetterlo, condivideva l'impressione dei suoi uomini: qualcuno, nell'Impero, voleva morti gli Arsori di Ponti. Ormai Pale era alle loro spalle, l'incubo ridotto a un gusto di cenere nella sua bocca. Davanti a loro si stendeva la prossima destinazione: la leggendaria città di Darujhistan. Whiskeyjack aveva il presentimento che stesse per cominciare un altro incubo. *** Giù nel campo, appena oltre l'ultima cresta di colline spoglie, carri trainati da cavalli, carichi di soldati feriti, affollavano gli stretti passaggi fra le file di tende. Tutto l'ordine dell'accampamento Malazan si era disintegrato, e l'aria traboccava delle grida dei soldati che urlavano il loro dolore e il loro terrore. Tattersail si fece strada in mezzo ai disorientati superstiti, arrancando fra le pozze di sangue che riempivano i solchi lasciati dai carri. I suoi occhi indugiarono su una rivoltante pila di arti amputati, fuori dalle tende dei tagliapietre. Dall'enorme distesa di catapecchie, tende e stamberghe dei civili al seguito dall'esercito veniva un lamento funereo: un coro rotto di migliaia di voci, agghiacciante memento del fatto che la guerra era sempre fonte di sofferenza. In qualche quartier generale nella capitale imperiale di Unta, a tremila leghe di distanza, un anonimo aiutante di campo avrebbe aperto la pagina delle forze attive e tracciato una linea rossa sul 2° Esercito, scrivendoci accanto a caratteri minuti: Pale, fine inverno, 1163esimo anno del Sonno di Bum. Così sarebbe stata registrata la morte di novemila uomini e donne. E poi dimenticata. Tattersail fece una smorfia. Alcuni di noi non dimenticheranno. Gli Ar-
sori di Ponti coltivavano sospetti inquietanti. Il pensiero di sfidare Tayschrenn in un confronto diretto era un'adeguata risposta alla sua indignazione e - se il Grande Mago aveva effettivamente ucciso Calot - alla sensazione di essere stata tradita. Ma sapeva di avere il difetto di lasciarsi trasportare dalle emozioni. Un duello a colpi di magia con il Grande Mago dell'Impero l'avrebbe condotta dritta davanti alla Porta di Hood. L'ira dettata dal risentimento aveva mandato sottoterra più uomini di quanti un Impero non potesse rivendicare come suoi e, come diceva sempre Calot, puoi scuotere il pugno quanto vuoi, ma i morti sono morti. Da quando si era unita alle fila dell'Impero, di morti ne aveva visti fin troppi, ma almeno non gravavano sulle sue spalle. Quella era la differenza, e per molto tempo le era bastata. Ho passato vent'anni a lavarmi le mani del sangue. Adesso, però, le armature vuote sulla cima della collina le si presentavano ripetutamente davanti agli occhi, e le rodevano il cuore. Quegli uomini e quelle donne erano corsi verso di lei, in cerca di protezione contro gli orrori della pianura sottostante. Era stato un atto disperato, letale, ma lo capiva. A Tayschrenn non importava di loro, ma a lei sì. Era una di loro. In battaglie passate, avevano combattuto come cani rabbiosi per impedire alle legioni nemiche di ucciderla. Stavolta, si trattava di una guerra fra maghi. Il suo territorio. Nel 2° Esercito si scambiavano favori. Era questo ad averlo reso leggendario, e a tenere tutti in vita. Quei soldati nutrivano aspettative, e ne avevano diritto. Erano venuti da lei per essere salvati. E per questo erano morti. E se mi fossi sacrificata? Se avessi rivolto le difese del mio Canale su di loro, invece di proteggere la mia pelle? Era sopravvissuta grazie all'istinto, e il suo istinto non aveva nulla a che vedere con l'altruismo. Gli altruisti non vivevano a lungo, in guerra. Essere vivi, concluse Tattersail mentre si avvicinava alla sua tenda, non era lo stesso che provarne soddisfazione. Entrò nella tenda e si chiuse il lembo alle spalle, poi cominciò a esaminare i suoi beni terreni. Erano scarsi, per i suoi duecentodiciannove anni di vita. Il cassettone di quercia che conteneva il suo libro di magia Thyr era sigillato da un blocco fatato; gli strumenti alchemici - una piccola raccolta - giacevano sparsi sul tavolino accanto alla sua branda, come balocchi abbandonati da un bimbo a metà gioco. In mezzo al disordine c'era il Mazzo dei Draghi. Il suo sguardo indugiò sulle carte divinatorie, prima di continuare l'ispezione. Tutto sembrava diverso, ora, come se il cassettone, gli strumenti alchemici, i suoi vestiti
appartenessero a qualcun altro: qualcuno di più giovane, qualcuno che ancora possedeva una punta di vanità. Solo il Mazzo - il Fatid - la chiamava come un vecchio amico. Tattersail vi andò davanti. Con un gesto assente, posò il pacchetto datole da Kalam, poi prese uno sgabello da sotto il tavolo. Sedendosi, allungò la mano verso il Mazzo. Esitò. Dall'ultima volta, erano passati mesi. Qualcosa l'aveva tenuta lontana. Forse la morte di Calot avrebbe potuto essere prevista, e forse il sospetto aveva attraversato per tutto quel tempo l'oscurità dei suoi pensieri. Il dolore e la paura avevano plasmato l'intera sua vita, ma il periodo trascorso con Calot era stato un altro tipo di esperienza, lieve, piacevolmente fluttuante sulle ali dell'allegria. E lei l'aveva chiamato un puro diversivo. «Si può essere più ciechi?» Sentì l'amarezza nel suo tono, e se la rimproverò. Erano tornati i vecchi demoni, che ridevano della morte delle sue illusioni. Hai già rifiutato il Mazzo una volta, la notte prima che fosse squarciata la gola di Mock, la notte prima che Dancer e l'uomo che un giorno avrebbe governato un Impero si introducessero nella Roccaforte del tuo maestro - del tuo amante. Vorresti negare che esiste una costante, donna? La visione offuscata da ricordi che pensava sepolti per sempre, abbassò lo sguardo sul Mazzo, battendo rapidamente le palpebre. «Voglio che tu mi parli, vecchio amico? Ho bisogno dei tuoi memento, della tua beffarda conferma che la fede è roba da sciocchi?» Colse uno spostamento con la coda dell'occhio. Qualunque cosa ci fosse all'interno della pelle, si era mossa. Sporgenze crebbero qua e là, spingendo contro le cuciture. Tattersail sgranò gli occhi. Poi, con il fiato in gola, prese il pacchetto e se lo mise davanti. Estraendo dalla cintola un piccolo pugnale, cominciò a tagliare le cuciture. L'oggetto si immobilizzò, come in attesa dell'esito dei suoi sforzi. La donna tirò all'indietro un lembo di pelle. «'Sail», chiamò una voce familiare. Le sue pupille si dilatarono, mentre una marionetta di legno, vestita di seta giallo lucente, usciva dall'involucro. Dipinti sul viso rotondo c'erano lineamenti che riconobbe. «Hairlock.» «È bello rivederti», esordì la marionetta, alzandosi barcollante. Tese le mani ben modellate per riacquistare l'equilibrio. «L'anima ha trasmigrato», annunciò, togliendosi il cappello floscio e producendosi in un inchino malfermo.
La trasmigrazione dell'anima. «Ma è un'arte perduta da secoli. Nemmeno Tayschrenn...» Tattersail s'interruppe, increspando le labbra. Aveva la mente in tumulto. «Dopo», ribatté Hairlock. Fece qualche passo, poi piegò la testa in avanti per studiare il suo nuovo corpo. «Insomma», sospirò, «non bisogna fare i sofistici, no?». Alzò gli occhi dipinti, puntandoli sulla maga. «Devi andare alla mia tenda, prima che ci pensi Tayschrenn. Ho bisogno del mio Libro. Tu fai parte di questa storia; non c'è modo di tornare indietro.» «Parte di cosa?» Hairlock non rispose; aveva interrotto la loro misteriosa corrente di sguardi. Si piegò sulle ginocchia. «Mi sembrava di aver fiutato un Mazzo», disse. Tattersail sentì freddi rivoli di sudore scorrerle sotto le braccia. Hairlock l'aveva messa a disagio in circostanze più favorevoli, ma ora... Sentiva l'odore della sua stessa paura. Il fatto che avesse distolto gli occhi da lei bastava a renderla grata. Se le leggende erano vere, quella era l'Antica Magia, la Kurald Galain, ed era grezza, primitiva, feroce, letale. Gli Arsori di Ponti avevano fama di essere malvagi, ma percorrere i Canali adiacenti al Caos era pura follia. O disperazione. Quasi di sua spontanea volontà, il suo Canale Thyr si aprì e una corrente di potere riempì il suo corpo stanco. I suoi occhi si portarono sul Mazzo. Hairlock, evidentemente, l'aveva percepito. «Tattersail», bisbigliò, in tono divertito. «Vieni. Il Fatid ti chiama. Leggi ciò che va letto.» Profondamente disturbata dalla vampata di eccitazione che l'idea le provocava, Tattersail tese con riluttanza la mano verso il Mazzo dei Draghi. La vide tremare nel chiudervisi sopra. Mischiò lentamente le carte di legno laccato, sentendo il loro freddo penetrarle nelle dita e poi nelle braccia. «Già vi infuria dentro una tempesta,» sentenziò, pareggiando il Mazzo e poggiandolo sul tavolino. Hairlock rispose con una risata bramosa, maligna. «La Prima Casa determina la rotta. Sbrigati!» Lei girò la prima carta. Le si fermò il respiro in gola. «Il Cavaliere dell'Oscurità.» Hairlock sospirò. «Il Signore della Notte governa questo gioco. Ma certo.» Tattersail studiò la figura dipinta. Il viso restava indistinto, come sempre; il Cavaliere era nudo, la pelle nera come l'ebano. Dalla cintola in su era umano, muscoloso, e reggeva con entrambe le mani una spada nera da
cui uscivano catene fumose, eteree, che sbiadivano nella vuota oscurità dello sfondo. La parte inferiore del corpo era quella di un drago, con robuste scaglie nere, che impallidivano nel grigio all'altezza del ventre. Come al solito, la maga vide qualcosa di nuovo, qualcosa che non aveva mai notato e che si riferiva al momento. C'era una forma sospesa nel buio sopra la testa del Cavaliere: riusciva a scorgerla solo con la coda dell'occhio, vago indizio che spariva non appena si concentrava sul punto in questione. Certo, non riveli mai la verità tanto facilmente, vero? «Seconda carta», incitò Hairlock, avvicinandosi alle linee di gioco tracciate sul tavolino. Lei obbedì. «Oponn.» Il Giullare della Fortuna, con le sue due facce. «Che Hood maledica i suoi modi intriganti», ruggì Hairlock. La Signora aveva la posizione superiore; il gemello maschio, capovolto, con il suo sguardo assorto, occupava il fondo della carta. Così era rappresentato il filo del caso che tirava indietro, invece di spingere in avanti, il filo del successo. L'espressione della Signora sembrava tranquilla, quasi dolce, un nuovo aspetto che mostrava l'equilibrio attuale. Un secondo dettaglio mai visto prima catturò l'intensa attenzione di Tattersail. Là dove la mano destra del Signore si levava a toccare la sinistra della Signora, un piccolo disco d'argento colmava lo spazio fra loro. La maga si piegò in avanti, socchiudendo gli occhi. Una moneta, con impressa una testa maschile. Batté le palpebre. No, femminile. Poi maschile, poi femminile. D'un tratto, si appoggiò allo schienale. La moneta stava girando su se stessa. «Avanti!» ordinò Hairlock. «Sei troppo lenta!» Tattersail vide che la marionetta non prestava alcuna attenzione alla carta di Oponn; probabilmente, l'aveva guardata solo il tempo necessario a identificarla. Tirò un respiro profondo. Hairlock e gli Arsori di Ponti erano legati in questa storia, lo capiva istintivamente, ma il suo ruolo era ancora incerto. Ora, grazie a quelle due carte, lei sapeva già più di loro. Non era molto, ma forse sarebbe stato abbastanza per mantenerla in vita attraverso ciò che sarebbe venuto. Espirò tutto in una volta, allungò la mano e batté il palmo sul Mazzo. Hairlock sobbalzò, poi si voltò di scatto verso di lei. «Ti fermi sul Giullare?» inveì. «Sulla seconda carta? Assurdo! Continua a giocare, donna!» «No», rispose Tattersail, prendendo le due carte e rimettendole nel Mazzo. «Ho deciso di smettere. E tu non puoi farci niente.» Si alzò. «Brutta arpia! Posso ucciderti in un batter d'occhio! In questo momento!»
«Bene», approvò lei. «Una buona scusa per mancare alla relazione di Tayschrenn. Avanti, Hairlock, te ne prego.» Incrociando le braccia, aspettò. La marionetta ringhiò. «No», ribatté. «Ho bisogno di te. E tu disprezzi Tayschrenn ancora più di me.» Inclinò la testa, ripensando alle sue ultime parole, poi scoppiò in una risata aspra. «Così sono sicuro che non ci saranno tradimenti.» Tattersail rifletté. «Hai ragione», convenne. Girandosi, andò all'uscita della tenda. Strinse la mano sulla tela grezza, poi si fermò. «Hairlock, com'è il tuo udito?» «Abbastanza buono», ruggì la marionetta alle sue spalle. «Non hai sentito niente?» Una moneta che girava su se stessa? «I rumori dell'accampamento, nient'altro. Perché, tu cosa hai sentito?» Tattersail sorrise. Senza rispondere, aprì il lembo della tenda e uscì. Mentre si dirigeva verso la tenda di comando, una strana speranza le cantò dentro. Non aveva mai considerato Oponn un alleato. Affidarsi alla fortuna, per qualunque faccenda, era pura idiozia. La prima Casa che aveva scoperto, l'Oscurità, aveva toccato la sua mano con il freddo del ghiaccio, avvolto nelle onde fragorose della violenza e del potere omicida - e tuttavia conteneva uno strano sentore, come di salvezza. Il Cavaliere poteva essere nemico o alleato o, più probabilmente, nessuna delle due cose. Stava lì, egocentrico, imprevedibile. Ma Oponn cavalcava l'ombra del guerriero, lasciando la Casa dell'Oscurità a vacillare, sospesa sul confine fra la notte e il giorno. Più di qualunque altra cosa, era stata la moneta rotante di Oponn a determinare la sua scelta di terminare il consulto. Hairlock non aveva sentito niente. Splendido. Ancora adesso, mentre si avvicinava alla tenda di comando, il debole tintinnio le risuonava in testa, e sarebbe durato per qualche tempo, pensava. La moneta girava e girava. Oponn faceva turbinare due facce davanti al cosmo, ma era la Signora a condurre il gioco. Continua a girare, moneta. Continua a girare. CAPITOLO TERZO Thelomen Tartheno Toblakai... trova i nomi di un popolo così riluttante a svanire
nell'oblio... la loro leggenda consuma il mia cinico sguardo e acceca i miei occhi con luminosa gloria... "Non andare al di là abbracciando il loro cuore che nessuno può assalire. ... Non attraversare questi imperturbabili menhir, sempre fedeli alla terra." Thelomen Tartheno Toblakai... ancora erette, queste colonne svettanti deturpano il gelido panorama della mia mente... Follia di Gothos (II.IV) Gothos (n.?) La trireme imperiale tagliava i solchi del mare come un'ascia instancabile, le vele spiegate gonfiate dal vento teso. Il capitano Ganoes Paran era in cabina. Si era stancato da tempo di scrutare l'orizzonte in cerca della terra. L'avrebbero avvistata, e presto. Si appoggiò alla parete inclinata di fronte alla cuccetta, lo sguardo sulle lanterne e la mano che lanciava il pugnale contro la gamba centrale del tavolo, ormai straziata di colpi. Una folata d'aria fresca lo investì in viso e il giovane si voltò per vedere Topper emergere dal Sentiero Imperiale. Erano passati due anni dall'ultima volta che aveva visto il comandante dell'Artiglio. «Per il respiro di Hood!» esclamò. «Non puoi trovare un altro colore per i tuoi vestiti? Il tuo amore perverso per il verde deve poter essere curato.» L'alto mezzo sangue Tiste Andii indossava gli stessi abiti, dello stesso colore verde che portava l'ultima volta che Paran l'aveva incontrato. Soltanto i numerosi anelli che sfoggiava sulle dita mostravano macchie di colori diversi. L'Artiglio era di pessimo umore e le prima parole di Paran lo resero ancora più cupo. «Pensi che mi diverta a intraprendere viaggi simili, Capitano? Cercare una nave nell'oceano è una sfida che pochi possono permettersi di accettare.» «Ma che fa di te un messaggero affidabile», mormorò Paran. «Vedo che il tuo carattere non è migliorato, Capitano. Devo ammettere che non capisco come l'Aggiunto possa riporre tanta fiducia in te.»
«Non ti scervellare, Topper. Ora che mi hai trovato, qual è il messaggio?» L'uomo lo guardò torvo. «Lei è con gli Arsori di Ponti. Fuori Pale.» «L'assedio continua? A quanti giorni risale la tua informazione?» «A meno di una settimana, ovverosia al tempo che ho impiegato a rintracciarti. Ad ogni modo», proseguì, «la mela marcia sta per essere estirpata». Paran grugnì. Quindi aggrottò la fronte. «Quale squadrone?» «Li conosci tutti?» «Sì», affermò Paran. Topper si fece ancora più cupo, sollevò una mano e cominciò a esaminare i suoi anelli. «Quello di Whiskeyjack. Lei è una delle reclute.» Paran chiuse gli occhi. Non avrebbe dovuto sorprenderlo. Gli dei stanno giocando con me. La domanda è, quali dei? Oh, Whiskeyjack. Un tempo comandavi un esercito, ai tempi in cui Laseen si chiamava Surly, ai tempi in cui avresti potuto ascoltare i tuoi compagni, quando avresti potuto fare una scelta. Avresti potuto fermare Surly. Diavolo, forse avresti potuto fermare me. Ma adesso comandi uno squadrone, solo uno squadrone, e lei è l'Imperatrice. E io? Io sono uno sciocco che ha inseguito il suo sogno e che ora desidera solo la fine di questo sogno. Aprì gli occhi e guardò Topper. «Whiskeyjack. La Guerra di Sette Città: attraverso la breccia ad Aren, il Deserto Raraku, Pan'potsun, Nathilog...» «Era ai tempi dell'Imperatore, Paran.» «E così», disse questi, «devo prendere il comando dello squadrone di Whiskeyjack. La missione ci condurrà a Darujhistan, la città delle città». «La tua recluta sta mostrando i suoi poteri», spiegò Topper, sghignazzando. «Ha corrotto gli Arsori di Ponti, forse anche Dujek Un-braccio e la Seconda e la Terza Armata a Genabackis.» «Stai scherzando. Comunque, è la recluta a preoccuparmi. Lei e solo lei. L'Aggiunto è d'accordo nel convenire che abbiamo aspettato abbastanza. E tu adesso mi stai dicendo che abbiamo aspettato troppo? Non posso credere che Dujek stia per diventare un traditore. Non Dujek. E nemmeno Whiskeyjack.» «Devi procedere secondo i piani, ma mi è stato ordinato di ricordarti che la segretezza è fondamentale, ora più che mai. Quando avrai raggiunto Pale verrai avvicinato da un agente dell'Artiglio. Non fidarti di nessun altro. La tua recluta ha trovato la sua arma e con essa intende colpire al cuore l'Impero. Il fallimento non è ammesso.» Gli strani occhi di Topper scin-
tillarono. «Se non ti senti all'altezza dell'incarico...» Paran studiò l'uomo innanzi a lui. Se la situazione è drammatica come dici, perché non inviare un pugno di sicari dell'Artiglio? L'uomo sospirò, quasi avesse in qualche modo udito la tacita domanda di Paran. «Un dio la sta usando, Capitano. Non morirà facilmente. Il piano per occuparci di lei ha subito delle... modifiche. Per meglio dire, un ampliamento. È necessario occuparsi di nuove minacce, ma questi sono fili già intessuti. Fai come ti è stato ordinato. Se dobbiamo prendere Darujhistan ogni tipo di rischio deve essere eliminato, e l'Imperatrice vuole Darujhistan. Ritiene inoltre sia giunto il momento che Dujek Un-braccio venga...» sorrise, «... disarmato». «Perché?» «Ha dei sostenitori. Non dimenticare che girava voce che l'Imperatore pensasse al vecchio Un-braccio come suo erede.» Paran sbuffò. «L'Imperatore intendeva governare per sempre, Topper. Questo sospetto di Laseen è semplicemente ridicolo e persiste solo perché giustifica la sua paranoia.» «Capitano», ribatté Topper in tono pacato, «uomini più importanti di te sono morti per molto meno. L'Imperatrice si aspetta obbedienza dai suoi servi ed esige fedeltà». «Un regnante ragionevole nutrirebbe aspettative di fedeltà ed esigerebbe obbedienza.» La bocca di Topper divenne una linea sottile. «Assumi il comando dello squadrone, stai vicino alla recluta ma non fare niente per destare i suoi sospetti. Una volta laggiù, dovrai aspettare. Capito?» Paran distolse lo sguardo, posandolo sull'oblò. Oltre di esso il cielo era azzurro. C'erano troppe omissioni, mezze verità e vere e proprie menzogne in quella... caotica confusione. Come mi comporterò quando verrà il momento? La recluta deve morire. È poco ma sicuro. Ma gli altri? Whiskeyjack, mi ricordo di te, allora tu eri in alto e nei miei sogni non c'era posto per questo incubo. Quando tutto sarà finito, avrò il tuo sangue sulle mie mani? In ultima analisi si rese conto di non sapere più chi fosse il vero traditore, se un traditore c'era. Era l'Impero, l'Imperatrice? O era qualcos'altro, un'eredità, un'ambizione, una visione finale di pace e ricchezza per tutti? O era una bestia che non poteva smettere di divorare? Darujhistan la più grande città del mondo. Sarebbe giunta in fiamme all'Impero? Era saggio aprirne le porte? All'interno dei confini inquieti dell'Impero Malazan, la gente viveva in quella pace che i loro antenati non avevano mai
nemmeno immaginato; e se non fosse stato per l'Artiglio, per le guerre infinite in terre lontane, ci sarebbe stata anche libertà. Tutto ciò rientrava fin dall'inizio nel sogno dell'Imperatrice? Aveva ancora importanza? «Gli ordini sono chiari, Capitano?» Paran guardò l'uomo e sollevò una mano. «A sufficienza.» Topper allargò le braccia. Il Canale Imperiale si aprì dietro di lui. Arretrò di un passo e scomparve. Paran si piegò in avanti, la testa fra le mani. *** Era la Stagione delle Correnti e nella città portuale di Genabaris, le massicce navi trasporto Malazan rollavano tendendo le cime come bestie possenti. I moli, non avvezzi a imbarcazioni di quella stazza, scricchiolavano sinistramente a ogni bizzoso e selvaggio strattone alle bitte. Casse e fagotti, contenenti merci provenienti da Sette Città e destinati alle prime linee, affollavano il molo. Addetti ai rifornimenti si arrampicavano su di essi alla ricerca dei sigilli identificativi, chiacchierando al di sopra delle teste di marinai e soldati. L'agente era appoggiato a una cassa ai piedi del molo, le braccia robuste incrociate e gli occhi piccoli e ravvicinati fissi sull'ufficiale seduto su un mucchio di stracci a una trentina di iarde lungo il molo. Nessuno dei due si era mosso nell'ultima ora. L'agente faceva fatica a convincersi che quello fosse il suo uomo. Sembrava terribilmente giovane e verde quanto l'acqua rancida di quella baia. La sua uniforme portava ancora i segni del gesso del sarto e l'impugnatura di pelle dello spadone non mostrava tracce di sudore. Il puzzo della nobiltà aleggiava intorno a lui come una nuvola profumata. E nell'ultima ora se n'era stato seduto là, le mani in grembo, le spalle curve, a guardare la frenetica attività del porto come una stupida mucca. Sebbene avesse i gradi di capitano, non un solo soldato si era preso la briga di salutarlo - il puzzo non era impercettibile. L'Aggiunto doveva avere preso un colpo in testa nel corso dell'ultimo tentativo di omicidio dell'Imperatrice. Era l'unica spiegazione possibile per quell'uomo ridicolo che avrebbe dovuto svolgere l'incarico che l'agente avrebbe dovuto illustrargli. In persona, sì. In quei giorni, concluse amaramente, al comando c'erano dei veri e propri idioti. Con un sospiro, l'agente si raddrizzò e si diresse con passo lento verso
l'ufficiale. L'uomo non si accorse di avere compagnia fino a quando l'agente non si piazzò innanzi a lui. Solo allora sollevò gli occhi. L'agente si ravvide rapidamente. Qualcosa in quello sguardo gli disse che quell'uomo era pericoloso: uno strano scintillio rendeva quegli occhi più vecchi del resto del viso. «Nome?» La domanda dell'agente fu poco più che un grugnito. «Prenditi tutto il tempo che vuoi per pensarci», disse il capitano alzandosi. Un vero bastardo, e pure alto. L'agente si fece torvo. Odiava i bastardi alti. «Chi state aspettando, Capitano?» L'uomo lasciò vagare lo sguardo sul molto. «L'attesa è finita. Camminiamo. Do per scontato che sappiate dove siamo diretti.» Allungò una mano e raccolse una sacca di tela, poi s'incamminò. L'agente lo raggiunse. «Bene», ringhiò. «Come volete.» Lasciarono il molo e l'agente svoltò nella prima strada a destra. «La scorsa notte è giunto un Quorl Verde. Verrete portato direttamente alla Foresta delle Nubi e da là, un Nero vi accompagnerà a Pale.» Il capitano fissò l'agente con sguardo interrogativo. «Non avete mai sentito parlare dei Quorl?» «No. Immagino siano un mezzo di trasporto. Altrimenti perché verrei fatto sbarcare da una nave a migliaia di leghe da Pale?» «I Moranth li usano e noi usiamo i Moranth.» L'agente aggrottò le sopracciglia. «E li usiamo anche molto di questi tempi. I Verdi si occupano del trasporto di persone e merci, mentre i Neri sono fissi a Pale e i diversi clan non amano mischiarsi. I Moranth sono costituiti da svariati gruppi; come nomi usano i colori che poi indossano per distinguersi. In questo modo nessuno si confonde.» «E devo cavalcare con un Verde su un Quorl?» «Esatto, Capitano.» Imboccarono una stretta stradina. Le guardie Malazan erano ovunque, le mani sulle armi. Il capitano rispose al saluto di uno squadrone. «Problemi con le insurrezioni?» domandò. «Sì, insurrezioni ce ne sono ma problemi, no.» «Vediamo se ho capito bene.» Il tono del capitano era gelido. «Invece di raggiungere in nave il punto più vicino a Pale, devo cavalcare via terra con un pugno di barbari mezzi umani che puzzano come cavallette e si vestono
anche come loro. In questo modo nessuno ci noterà, soprattutto perché ci vorrà un anno per arrivare a Pale e a quel punto tutto sarà già andato a ramengo. Sbaglio?» Un ghigno sul viso, l'agente scosse la testa. Nonostante l'odio per gli uomini alti, o meglio, più alti di lui, sentì calare la guardia. Per lo meno quello lì parlava chiaro, e per essere un nobile non era male. Dopo tutto, forse Lorn non aveva perso il suo fiuto. «Avete detto via terra? Be', sì, in un certo senso andrete via terra.» Si fermò davanti a una porta. «I Quorl, vedete, volano. Hanno le ali. Quattro, per la precisione. E potete vedere attraverso ognuno di essi e se vi gira, potete cacciare il dito in una di quelle ali. Solo non fatelo mentre siete a un quarto di miglio da terra, capito? Il volo in caduta libera sarebbe lungo ma incredibilmente veloce. Sono stato chiaro, Capitano?» Aprì la porta, oltre la quale saliva una scala. Il volto del militare aveva perso colore. «E questo sarebbe un rapporto?» brontolò. «Ne riparleremo più tardi. Nella vita è necessario sapere. Ricordatelo, Capitano.» L'altro si limitò a sorridere. Superarono l'uscio e chiusero la porta dietro di loro. *** Un giovane soldato intercettò Tattersail mentre quest'ultima attraversava il campo di quello che, a Pale, era diventato il quartier generale dell'Impero. L'espressione del volto del giovane era di incredulo stupore e il ragazzo aprì la bocca più volte prima di riuscire a parlare. «Maga?» Lei si fermò. Il pensiero di fare aspettare Tayschrenn l'allettava molto. «Che cosa c'è, soldato?» Il militare lanciò un'occhiata alle spalle, poi disse: «Le guardie, Maga. Hanno un problema. Mi hanno mandato a...». «Chi? Quali guardie? Portami da loro.» «Sì, Maga.» Il ragazzo svoltò l'angolo dell'edificio principale, accanto al quale correvano le mura di cinta, che creavano uno stretto passaggio per tutta la lunghezza della costruzione. All'estremità opposta, una figura era inginocchiata, la testa piegata. Accanto a lui era deposta una grande sacca bitorzoluta, coperta di macchie marroni. Nugoli di mosche ronzavano intorno all'uomo
e al sacco. Il soldato si fermò e si girò verso la maga. «Non si è ancora mosso. Le guardie vengono assalite dalla nausea quando fanno la ronda.» Tattersail fissò l'uomo raggomitolato su se stesso, gli occhi improvvisamente coperti da un velo di lacrime. Ignorando il militare, avanzò nello stretto passaggio. Il puzzo la colpì come un pugno allo stomaco. Maledizione, pensò, è qui dalla battaglia. Cinque giorni. Si avvicinò. Sebbene Bellurdan fosse in ginocchio, la sua testa le arrivava oltre le spalle. Il Grande Mago Thelomen indossava ancora ciò che restava della sua divisa da battaglia, le strisce di pelliccia stracciate e bruciate, i brandelli della pesante giubba macchiati di sangue. Giunto accanto a lui, la donna si accorse che aveva il collo e il viso coperto da ustioni e che buona parte dei capelli era sparita. «Hai un aspetto orribile, Bellurdan», disse. La testa del gigante si girò lentamente. Occhi cerchiati di rosso si posarono sul viso della donna. «Ah», tuonò. «Tattersail.» Il sorriso esausto spaccò la carne bruciata di una guancia. La ferita si aprì, rossa e secca. Quel sorriso la commosse. «Hai bisogno di cure, amico mio.» Lo sguardo volò sul sacco di tela. La superficie era coperta di mosche. «Forza. Se Nightchill ti vedesse ora, ti prenderebbe a calci.» Si sentì attraversare da un tremito, ma continuò. «Ci prenderemo cura di lei, Bellurdan. Tu e io. Ma per farlo, abbiamo bisogno della nostra forza.» Il Thelomen scosse la testa. «Io voglio tutto questo, Tattersail. Le ferite esteriori sono le ferite interiori. E scaverò da solo il tumulo per il mio amore. Ma non è ancora giunto il momento.» Posò una mano massiccia sul sacco. «Tayschrenn mi ha dato il permesso di farlo. Sei d'accordo anche tu?» Sconvolta, Tattersail sentì la rabbia montare dentro di sé. «Tayschrenn ti ha dato il permesso, davvero?» La voce risuonò alle sue stesse orecchie brutale, stridente, sarcastica. Vide Bellurdan trasalire e quasi tirarsi indietro, e una parte di lei avrebbe voluto gridare, buttare le braccia al collo del gigante e piangere, ma l'ira si era impossessata di lei. «Quel bastardo ha ucciso Nightchill, Bellurdan! Il signore della Luna non aveva né il tempo né l'intenzione di convocare i demoni. Pensaci! Tayschrenn aveva il tempo per preparare...» «No!» La voce del Thelomen tuonò nello stretto passaggio. Si sollevò in piedi e Tattersail indietreggiò. Il gigante sembrava pronto a colpire le mura, un fuoco di disperazione ardeva nei suoi occhi. Le sue mani si chiusero
a pugno. Poi, il suo sguardo si posò sulla donna. A un tratto, le spalle s'incurvarono, le mani si aprirono e i suoi occhi si offuscarono. «No», ripeté, questa volta con voce colma di dolore. «Tayschrenn ci protegge. Come ha sempre fatto, Tattersail. Ricordi l'inizio? L'Imperatore era pazzo, ma Tayschrenn restò al suo fianco. Plasmò il sogno dell'Imperatore, sconfiggendo così il suo incubo. Abbiamo semplicemente sottovalutato il Signore della Progenie della Luna, tutto qui.» Tattersail guardò il volto sfigurato di Bellurdan. Il ricordo del corpo straziato di Hairlock le tornò alla mente. Avvertiva un'eco, ma non riusciva a comprenderlo. «Ricordo l'inizio», mormorò in tono sommesso, cercando nella mente. I ricordi erano nitidi, ma non riusciva a cogliere il filo che li univa al presente. Aveva assolutamente bisogno di parlare con Ben lo Svelto, ma non aveva più visto gli Arsori di Ponti dal giorno della battaglia. L'avevano lasciata con Hairlock e quella marionetta la spaventava ogni giorno di più. Soprattutto ora che lui aveva trovato un motivo di rancore a cui aggrapparsi - la scena con il Mazzo dei Draghi bruciava ancora e si vendicava tenendola all'oscuro. «L'Imperatore aveva la capacità di riunire intorno a sé le persone giuste», continuò. «Ma non era uno stupido. Sapeva che il tradimento sarebbe giunto da quel gruppo. Ciò che faceva di noi le persone giuste era il nostro potere. Me lo ricordo, Bellurdan.» Scosse la testa. «L'Imperatore se n'è andato, ma il potere è ancora qui.» Tattersail trattenne il respiro. «È così», mormorò quasi più a se stessa. «Tayschrenn è il filo.» «L'Imperatore era pazzo», replicò Bellurdan. «Altrimenti si sarebbe protetto meglio.» A quelle parole, Tattersail s'incupì. Il Thelomen aveva ragione. Come aveva appena detto, quel vecchio non era uno stupido. Allora che cosa era successo? «Mi spiace. Più tardi dobbiamo parlare. Il Grande Mago mi ha convocata. Bellurdan, ci vediamo dopo?» Il gigante annuì. «Come desideri. Presto me ne andrò per scavare il tumulo per Nightchill. Lontano, nella Pianura Rhivi, penso.» Tattersail lanciò un'occhiata lungo il passaggio. Il militare era ancora là, che si dondolava da un piede all'altro. «Bellurdan, ti spiace se getto un incantesimo per sigillare i suoi resti?» Gli occhi del gigante si velarono mentre posava lo sguardo sul sacco. «Le guardie sono nauseate, hanno ragione.» Rifletté un istante, poi disse: «Va bene, Tattersail. Fa' pure».
*** «Se ne sente il puzzo da qui al trono», commentò Kalam, il volto sfregiato alterato dalla preoccupazione. Era seduto sui talloni e con il pugnale tracciava distrattamente sul terreno il disegno di una ragnatela, poi sollevò gli occhi sul sergente. Whiskeyjack fissava le mura chiazzate di Pale, i muscoli della mascella serrati sotto la barba. «L'ultima volta che sono stato su questa collina», disse, strizzando gli occhi, «era affollata di soldati. E un mago e mezzo». Tacque un istante, poi sospirò. «Continua, Caporale.» Kalam annuì. «Ho tirato dei vecchi fili», disse, socchiudendo gli occhi alla luce del mattino. «Qualcuno ai vertici ha puntato il dito conto di noi. Potrebbe essere la corte stessa, o forse la nobiltà... pare abbia ripreso a muoversi dietro le quinte.» Commentò le parole con una smorfia. «E adesso ci mancava solo un nuovo capitano proveniente da Unta che non vede l'ora di tagliarci la gola. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto quattro capitani e non uno era degno di quel nome.» Ben lo Svelto era a una decina di passi, sulla sommità della collina, le braccia conserte. «Hai sentito il piano», disse. «Forza, Whiskeyjack. Quell'uomo è scivolato dal palazzo dritto in braccio a noi in un fiume di...» «Zitto», lo interruppe Whiskeyjack. «Sto pensando.» Kalam e Ben lo Svelto si scambiarono un'occhiata. Trascorse un lungo minuto. Sulla strada sottostante, i carri delle truppe sferragliavano nei solchi che conducevano in città. Superstiti della Quinta e Sesta Armata, sconfitte, quasi annientate da Caladan Brood e dalla Guardia Cremisi. Whiskeyjack scosse la testa. L'unica forza intatta era quella dei Moranth, che sembravano decisi a far scendere in campo solo i reggimenti Neri, utilizzando i verdi per il trasporto - e dove diavolo erano i Dorati di cui aveva tanto sentito parlare? Che siano tutti dannati quei maledetti bastardi non umani. Nei canali di scolo di Pale scorreva ancora il sangue a causa della loro inettitudine. Una volta rimosse le vittime, il numero delle colline intorno alle mura della città sarebbe aumentato. Tuttavia, niente sarebbe rimasto in ricordo dei milletrecento Arsori di Ponti defunti. I vermi non avrebbero dovuto spostarsi molto per banchettare su quei corpi. Ciò che raggelava il sergente era il fatto che, a parte i pochi sopravvissuti, nessuno aveva fatto un vero sforzo per salvarli. Un ufficiale mai visto aveva riferito le parole di cordoglio di Tayschrenn per coloro che avevano perso la vita nel compimento del dovere, dopo di che aveva
rovesciato un carro carico di fesserie sull'eroismo e il sacrificio. Il suo pubblico di trentanove attoniti soldati lo aveva fissato senza aprire bocca. L'ufficiale era stato trovato morto nella sua stanza dure ore dopo, garrottato da mani esperte. L'umore era pessimo - cinque anni prima nessuno nel reggimento avrebbe nemmeno pensato a qualcosa di così terribile. Ma ora nessuno si era scomposto nell'udire la notizia. Garrotta - sembrerebbe un lavoro da Artiglio. Kalam aveva avanzato l'ipotesi che si fosse trattato di un complotto, un elaborato piano per screditare i superstiti degli Arsori di Ponte. Whiskeyjack si era dimostrato scettico. Cercò di schiarirsi le idee. Se c'era una cospirazione in atto doveva essere sufficientemente semplice da passare inosservata. Ma la stanchezza calò sui suoi occhi come una fitta nebbia. Si riempì i polmoni dell'aria fresca del mattino. «La nuova recluta?» domandò. Kalam si sollevò con un grugnito, negli occhi uno sguardo assente. «Forse», disse infine. «Anche se è un po' troppo giovane per essere un Artiglio.» «Non avevo mai creduto alla malvagità pura e semplice prima di conoscere Dispiacere», confessò Ben lo Svelto. «Ma hai ragione, è terribilmente giovane. Per quanto tempo vengono addestrati prima di venire mandati in missione?» Kalam si strinse nelle spalle. «Almeno quindici anni. Ma vengono reclutati quando sono ancora molto piccoli. Intorno ai cinque o sei anni.» «Grazie a un incantesimo potrebbe sembrare più giovane di quello che è», ipotizzò Ben lo Svelto. «Una magia per pochi eletti, ma che è sicuramente alla portata di Tayschrenn.» «Mi sembra troppo ovvio», mormorò Whiskeyjack. «Chiamala cattiva educazione.» Ben lo Svelto sbuffò. «Non dirmi che ci credi, Whiskeyjack.» Il sergente s'irrigidì. «Stiamo parlando di Dispiacere. E non dirmi quello che penso, Mago.» Si rivolse a Kalam. «Va bene. Tu ritieni che l'Impero voglia fare fuori i suoi stessi uomini. Pensi forse che Laseen stia facendo piazza pulita anche in casa sua? O forse è qualcuno vicino a lei ad agire? Benissimo. Ma perché?» «La vecchia guardia», rispose Kalam prontamente. «Sono ancora tutti fedeli alla memoria dell'Imperatore.» «Non mi convince», ribatté Whiskeyjack. «Stiamo morendo comunque. Non abbiamo bisogno dell'aiuto di Laseen. A parte Dujek, non c'è un uo-
mo in questo esercito che conosca almeno il nome dell'Imperatore e, comunque, non gliene importa un accidente a nessuno. È morto. Lunga vita all'Imperatrice.» «Lei non ha la pazienza di aspettare», commentò Ben lo Svelto. Kalam annuì. «Sta perdendo terreno. Le cose un tempo andavano meglio... è quel ricordo che lei vuole uccidere.» «Hairlock è il nostro asso nella manica», affermò Ben lo Svelto. «Funzionerà, Whiskeyjack. So quello che sto facendo.» «Agiamo come avrebbe voluto l'Imperatore», aggiunse Kalam. «Rovesciamo il gioco. Facciamo noi piazza pulita.» Whiskeyjack sollevò una mano. «Va bene. Adesso, però, datevi una calmata.» Fece una pausa. «È una teoria. Elaborata. Chi ne è al corrente e chi non lo è?» Si accigliò nel vedere l'espressione di Ben lo Svelto. «Va bene, quello è compito di Hairlock. Ma che cosa succederà se dovessimo trovarci faccia a faccia con qualcuno di grande, potente e malvagio?» «Come Tayschrenn?» suggerì il mago. «Esatto. Sono certo che hai una risposta. Vediamo se riesco a trovarla anch'io. Cerchiamo qualcuno ancora più terribile. Stringiamo un patto e organizziamo le cose e se siamo sufficientemente svelti, ne usciamo lindi e puliti. Ci sono vicino, Mago?» Kalam sbuffò, divertito. Ben lo Svelto distolse lo sguardo. «Al tempo delle Sette Città, prima che l'Impero uscisse allo scoperto...» «Al tempo delle Sette Città è al tempo delle Sette Città», lo interruppe Whiskeyjack. «Maledizione, guidavo io la compagnia che ti dava la caccia nel deserto, ricordi? So come lavori, Ben. E so che sei dannatamente bravo. Ma ricordo anche che allora fosti l'unico della tua cricca a uscirne vivo. E oggi?» Il mago sembrò ferito dalle parole di Whiskeyjack. Si morse le labbra, nervoso. Il sergente sospirò. «Va bene. Procediamo. Mettiamo le cose in moto. E vediamo di coinvolgere la maga. Avremo bisogno di lei nel caso Hairlock spezzasse le catene.» «E Dispiacere?» domandò Kalam. Whiskeyjack esitò. Conosceva la questione dietro quella domanda. Ben lo Svelto era il cervello dello squadrone, ma Kalam era il sicario. Entrambi lo facevano sentire a disagio per la loro assoluta devozione alle rispettive capacità. «Per il momento, lasciala perdere», disse infine.
Kalam e Ben lo Svelto sospirarono, scambiandosi un sorrisetto d'intesa alle spalle del loro sergente. «Non fate gli impertinenti», li gelò Whiskeyjack. I sorrisi svanirono. Lo sguardo del sergente tornò a posarsi sui carri che entravano in città. Due cavalieri si avvicinarono. «Forza», disse. «A cavallo. Sta arrivando il comitato di ricevimento.» I cavalieri facevano parte del suo squadrone: Fiddler e Dispiacere. «Pensi sia arrivato il nuovo comandante?» domandò Kalam mentre montava a cavallo. Il roano voltò la testa e aprì la bocca di scatto. In risposta, l'uomo ringhiò. Un istante dopo i due vecchi compagni si acquietarono nella reciproca sfiducia. Whiskeyjack li guardò, divertito. «Probabilmente. Ma ora andiamo.» Poi, il suo umore cambiò. Avevano appena rovesciato il gioco. E il momento non poteva essere peggiore. Conosceva perfettamente l'entità della loro prossima missione e in tal senso ne sapeva di più sia di Ben lo Svelto che di Kalam. Tuttavia, non c'era motivo di complicare ulteriormente le cose. Ci troveranno fin troppo presto. *** Tattersail era a una dozzina di piedi dietro al Grande Mago Tayschrenn. Gli stendardi Malazan garrivano al vento, i pennoni scricchiolanti sulla torretta annerita dal fumo, ma lì, al riparo delle mura, l'aria era calma. Sull'orizzonte occidentale, svettavano i monti Moranth che si estendevano verso nord fino a Genabaris. A sud, la catena si fondeva con i monti Tahlyn in una linea frastagliata che correva per un migliaio di leghe a est. Alla sua destra si trovava la Pianura Rhivi. Appoggiato a un merlone, Tayschrenn guardava i carri che entravano in città. Dal basso giungevano i muggiti dei buoi e le grida dei soldati. Negli ultimi minuti il Grande Mago non si era mosso né aveva detto una parola. Sulla sua sinistra era sistemato un tavolino di legno, la superficie graffiata, bucherellata e ricoperta di rune profondamente intagliate nella quercia. Strane macchie scure chiazzavano qua e là il legno. Nodi di tensione pulsavano nelle spalle di Tattersail. L'incontro con Bellurdan l'aveva scossa e non si sentiva in grado di affrontare ciò che l'aspettava. «Arsori di Ponti», mormorò il Grande Mago.
Allarmata, la maga aggrottò la fronte, quindi salì gli ultimi gradini che la separavano da Tayschrenn. Da una collina sulla destra, una collina che lei ben conosceva, scendevano un gruppo di cavalieri. Sebbene fossero ancora lontani, ne riconobbe quattro: Ben lo Svelto, Kalam, Whiskeyjack e la recluta, Dispiacere. Il quinto cavaliere era un uomo piccolo, asciutto, che aveva la parola zappatore scritta in fronte. «Eh?» mormorò, fingendo una totale mancanza di interesse. «Lo squadrone di Whiskeyjack», disse Tayschrenn. Rivolse la sua attenzione alla maga. «Lo stesso squadrone con il quale hai parlato subito dopo la ritirata della Progenie della Luna.» Il Grande Mago sorrise e batté una mano sulla spalla della donna. «Vieni. Ho bisogno di una Lettura.» Si avvicinò al tavolo. «I fili di Oponn stanno creando confusione, l'influsso continua a intrappolarmi.» Volse le spalle alle mura e si sedette su una feritoia. «Tattersail», esordì in tono grave, «per quanto riguarda l'Impero, io sono un fedele servitore dell'Imperatrice». Tattersail ripensò alla loro discussione dopo la missione. Non avevano risolto nulla. «Allora, forse dovrei lamentarmi con lei.» Tayschrenn sollevò un sopracciglio. «Stai scherzando, vero?» «Sì?» «È meglio per te che io interpreti così le tue parole, donna», ribatté il Grande Mago in tono gelido. Tattersail estrasse il Mazzo e lo tenne contro lo stomaco, le dita che scorrevano sulla prima carta. Gelo, un senso di pesantezza e oscurità. Posò il mazzo al centro del tavolo e si abbassò lentamente, fino a inginocchiarsi. Lo sguardo incrociò quello di Tayschrenn. «Cominciamo?» «Parlami della Moneta che gira.» Tatterseil trattenne il fiato. Non poteva muoversi. «Prima carta», ordinò Tayschrenn. Con un lungo sospiro la maga soffiò l'aria dai polmoni. Maledizione a lui, pensò. Un'eco di risate risuonò nella sua mente e si rese improvvisamente conto che qualcuno, qualcosa, aveva aperto la via. Un Ascendente si era insinuato attraverso di lei, la sua presenza fredda e divertita, quasi volubile. Gli occhi le si chiusero spontaneamente e Tattersail prese la prima carta. La scoprì e la posò sulla destra. Gli occhi ancora chiusi, si accorse di sorridere. «Una carta indipendente: Globo. Giudizio e verità.» Afferrò la seconda carta e la mise a sinistra. «La Vergine, Alta Casa della Morte. Qui è sfregiata e bendata, le mani sporche di sangue.» Debolmente, come da una remota distanza, giunse lo scalpiccio di caval-
li. Si avvicinavano, erano sotto di lei, quasi la terra li avesse inghiottiti. Poi, il rumore aumentò, dietro di lei. Si accorse di annuire. La recluta. «Il sangue sulle mani non è il suo. La benda sugli occhi è bagnata.» Buttò la terza carta davanti a sé. Dietro le palpebre prese forma un'immagine; sentì il sangue gelarsi nelle vene. «Il Sicario, l'Alta Casa dell'Ombra. La Fune, una serie infinita di nodi, in questo gioco c'è il Protettore dei Sicari.» Per un attimo, le parve di udire l'ululato dei Segugi. Posò una mano sulla quarta carta e si sentì attraversare da un brivido di riconoscimento, seguito da qualcosa di molto simile alla falsa umiltà. «Oponn, la testa della Donna in alto, dell'Uomo in basso.» La sollevò e la mise di fronte a Tayschrenn. Ecco la tua carta. Sorrise fra sé e sé. Riflettici, Grande Mago. La Donna ti guarda con disgusto. Tattersail sapeva che l'uomo bruciava dalla voglia di farle domande, ma che non avrebbe parlato. Il potere dietro quell'apertura era troppo. Aveva forse avvertito la presenza dell'Ascendente? Si chiese se ne fosse spaventato. «La Moneta», si sentì dire, «continua a girare, Grande Mago. La sua faccia osserva molti ed ecco la loro carta». Dispose la quinta carta alla destra di Oponn, i margini che si sfioravano. «Un'altra carta indipendente: la Corona. Saggezza e giustizia, come sopra. Intorno a essa, le mura di una bella città, incendiate dalle fiamme del gas, blu e verde.» Rifletté. «Sì, Darujhistan, l'ultima Città Libera.» La via si chiuse, l'Ascendente si ritirò, quasi fosse annoiato. Tattersail aprì gli occhi, un piacevole calore a scaldare il corpo esausto. «Nel dedalo di Oponn», disse, divertita dalla verità nascosta in quell'affermazione. «Non posso andare oltre, Grande Mago.» Tayschrenn sospirò. «Sei andata molto più avanti di me, Maga.» Il volto era teso. «Sono impressionato dalle tue parole, seppure non sia soddisfatto del messaggio.» Aggrottò la fronte, i gomiti piantati nelle ginocchia, le lunghe dita davanti al viso. «La Moneta che gira continua a echeggiare nella mia mente. In tutto questo c'è lo zampino del Giullare. Persino ora ho la netta sensazione di essere stato aggirato. La Vergine della Morte, probabilmente un inganno.» Toccò a Tattersail stupirsi. Il Grande Mago era un Adepto. Aveva sentito anche lui la risata di sotto fondo alla lettura delle carte? Sperava di no. «Potreste avere ragione», commentò. «Il viso della Vergine continua a cambiare. Potrebbe essere chiunque. Non si può dire lo stesso per Oponn e la Fune.» Annuì. «Potrebbe proprio essere un inganno», affermò, contenta
di poter conversare con un suo pari - una constatazione che la fece segretamente sorridere. È sempre meglio quando l'odio e l'offesa restano puri, incontaminati. «Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi», disse Tayschrenn. Tattersail iniziò, intimidita dallo sguardo penetrante del Grande Mago. Cominciò a raccogliere le carte. Avrebbe sbagliato a dare alcune spiegazioni? Nel peggiore dei casi, si sentirà più disorientato di quanto sia già. «L'inganno è la specialità del Protettore dei Sicari. Non ho avvertito nulla del suo presunto maestro, Tronod'Ombra. Sorge il sospetto che la Fune sia qui da sola. Attenzione al Sicario, Grande Maestro. Se possibile, i suoi giochetti sono persino più astuti di quelli di Tronod'Ombra. I Gemelli della Fortuna non hanno alcun controllo nel Regno delle Ombre, e quest'ultimo è un Canale famoso per i suoi confini mobili. Per infrangere le regole.» «Vero», commentò Tayschrenn, alzandosi con un grugnito. «La nascita di quel regno bastardo mi ha sempre preoccupato.» «Ma è ancora giovane», osservò Tattersail. Prese il Mazzo e lo infilò nella tasca interna del mantello. «Ci vorranno ancora secoli prima che raggiunga la sua forma definitiva e forse non ci riuscirà mai. Non dimenticate che non sarebbe la prima volta che case nuove periscono rapidamente.» «Sento odore di potere.» Tayschrenn riprese a osservare i monti Moranth. «La mia gratitudine», disse, quando Tattersail raggiunse i gradini che conducevano giù, in città, «vale qualcosa, spero. Ad ogni modo, Maga, tu ce l'hai». Tattersail esitò un istante, quindi imboccò la scala. Il Grande Mago sarebbe stato meno magnanimo se avesse scoperto che lei lo aveva appena ingannato. Avrebbe potuto indovinare l'identità della Vergine. Ripensò al momento della comparsa di quella carta. I cavalli che aveva sentito passare non erano stati un'illusione. Lo squadrone di Whiskeyjack era appena entrato in città, attraverso la porta sottostante. E fra di loro c'era Dispiacere. Una coincidenza? Forse, ma non ne era convinta. In quel preciso istante la Moneta aveva lievemente vacillato, poi aveva ripreso a ruotare. La Vergine della Morte e il Sicario dell'Alta Casa dell'Ombra. Doveva esservi un qualche legame, un legame che impensieriva Oponn. Ovviamente tutto era in continuo mutamento. «Impressionante», mormorò giunta in fondo alla scala. Vide il giovane soldato che l'aveva avvicinata prima. Era in fila con altre reclute al centro del campo. Non si vedeva alcun ufficiale. Tattersail chiamò il ragazzo.
«Sì, Maga?» chiese il militare mettendosi sull'attenti. «Perché siete tutti schierati?» «Stiamo per ricevere le armi. Il sergente è andato a prendere il carro.» Tattersail annuì. «Ho un incarico per te. Farò in modo che tu abbia le tue armi - ma non di latta come quelle che riceveranno i tuoi compagni. Se un ufficiale contesta la tua assenza, mandalo da me.» «Sì, Maga.» Nell'incontrare lo sguardo accesso, trepidante del giovane, Tattersail venne colta dal senso di colpa. Tempo due mesi e probabilmente quel ragazzo sarebbe morto. Molti erano i crimini che macchiavano lo stendardo dell'Impero, ma quello era il peggiore di tutti. Sospirò. «Riferisci personalmente questo messaggio al Sergente Whiskeyjack, Arsori di Ponti. La signora grassa capace di incantesimi vuole parlare. Te lo ricordi, soldato?» Il giovane impallidì. «Sentiamo.» Il ragazzo ripeté il messaggio in tono piatto. Tattersail sorrise. «Molto bene. Ora corri da lui e non dimenticarti di farti dare una risposta. Mi troverai nel mio alloggio.» *** Il capitano Paran si voltò indietro per un'ultima occhiata ai Moranth Neri. Lo squadrone aveva appena raggiunto la cima dell'altopiano. Lo seguì fino a quando scomparve alla vista, quindi tornò a posare lo sguardo sulla città a oriente. Da lontano, con in mezzo l'ampia e piatta pianura, Pale sembrava tranquilla, sebbene il terreno al di fuori delle mura fosse coperto da macerie di basalto nero e pennacchi di fumo scuro salissero ancora in cielo. Lungo le mura si ergevano delle impalcature sulle quali si arrampicavano figure minuscole. Probabilmente stavano chiudendo ampie brecce apertesi nell'opera muraria. Dalla porta settentrionale, una lenta colonna di carri serpeggiava verso le colline, il cielo sopra di essi affollato di corvi. Lungo il margine di quelle colline correva una fila di cumuli troppo regolari per essere naturali. Aveva sentito delle voci, qua e là. Cinque maghi morti, due di essi Grandi Maghi. Le perdite del Secondo sufficientemente elevate da sollevare ipotesi su un'eventuale fusione con il Quinto e il Sesto al fine di creare un nuovo reggimento. E la Progenie della Luna si era ritirata a sud, attra-
verso i monti Tahlyn, verso il lago Azzurro, lasciando una scia di fumo, spostandosi lentamente e appoggiandosi su un fianco come un cumulonembo esausto e consumato. Ma una voce si era insinuata nelle mente del capitano più profondamente delle altre: gli Arsori di Ponti erano scomparsi. Alcuni dicevano uccisi per mano di un uomo; altri insistevano che un paio di squadroni - ce l'avevano fatta a uscire dai tunnel prima del collasso. Paran era frustrato. Si trovava fra i Moranth da giorni. I misteriosi guerrieri parlavano poco e quando lo facevano, scambiavano battute in quella loro lingua incomprensibile. Tutte le sue informazioni erano ormai datate e quel particolare lo poneva in una situazione per lui insolita. Ma a pensarci bene, rifletté fra sé e sé, dopo Genabaris le situazioni insolite si sono succedute ininterrottamente. E così eccolo lì, nuovamente in attesa. Sistemò la sacca di tela e stava preparandosi ad aspettare a lungo quando vide un cavaliere superare la lontana sommità dell'altopiano. L'uomo portava con sé un altro cavallo e si dirigeva verso il capitano. Quest'ultimo sospirò. Avere a che fare con l'Artiglio era sempre irritante. Erano così dannatamente compiaciuti. Con l'esclusione del tipo a Genabaris, nessuno sembrava gradire la sua presenza. Era passato molto tempo da quando aveva conosciuto un suo simile che potesse definire amico. Per la precisione, più di due anni. Il cavaliere arrivò. Vedendolo da vicino, Paran indietreggiò quasi senza rendersene conto. Metà volto dell'uomo era completamente ustionato. Una benda gli copriva l'occhio destro e la testa era inclinata a una strana angolazione. Dopo aver rivolto al capitano un fugace e terrificante sorriso, lo sconosciuto smontò di sella. «Vi ho trovato», disse con voce roca. «È vero quello che si dice degli Arsori di Ponti?» chiese Paran. «Sono stati annientati?» «Più o meno. Sono rimasti cinque squadroni, o giù di lì. Circa quaranta uomini in tutto.» Socchiuse l'occhio sinistro e sollevò la mano per sistemare l'elmo malconcio. «Non so da dove voi veniate, ma so dove andrete. Siete il nuovo capitano di Whiskeyjack, giusto?» «Conoscete il sergente Whiskeyjack?» Paran si oscurò in volto. Quell'Artiglio era diverso dagli altri. Solitamente, qualsiasi cosa pensassero la tenevano per sé e, tutto sommato, lo preferiva. L'uomo tornò in sella. «Andiamo. Possiamo parlare in cammino.» Paran si avvicinò all'altro cavallo e legò la sacca alla sella; quest'ultima
proveniva sicuramente da Sette Città, poiché lo schienale alto e il pomo munito di cerniere ne denunciavano l'origine - ne aveva viste molte di quel genere su quel continente. Era un dettaglio che aveva già registrato. I nativi di Sette Città avevano una particolare predisposizione per creare guai e l'intera Campagna di Genabackan era stata un caos fin dall'inizio. E questa non è una coincidenza. La maggior parte dei soldati del Secondo, del Quinto e del Sesto era stata reclutata dalla regione di Sette Città. Montò in sella e avanzarono sull'altopiano al piccolo galoppo. «Il sergente Whiskeyjack ha molti seguaci qui intorno», esordì l'Artiglio. «Si comporta come se non lo sapesse. Dovete ricordare qualcosa che molti hanno dimenticato a Malaz: Whiskeyjack comandava una propria compagnia...» Paran voltò la testa di scatto. Gli annali non riportavano quell'informazione. Nella storia dell'Impero, non era mai accaduta una cosa simile. «... ai tempi in cui Dassem Ultor era a capo dell'esercito», continuò l'Artiglio in tono allegro. «È stata la Settima Compagnia di Whiskeyjack a distruggere la cabala del mago di Sette Città nel deserto di Pan'potsun. È stato lui a porre fine alla guerra. Naturalmente, quando Hood prese la figlia di Ultor tutto è andato a catafascio. E dopo non molto, quando Ultor morì, tutti i suoi uomini vennero rapidamente eliminati. Fu allora che i burocrati inghiottirono l'Esercito. Sciacalli maledetti. E da allora non fanno che eliminarsi l'un l'altro e al diavolo le campagne.» L'Artiglio si chinò in avanti e sputò oltre l'orecchio sinistro del cavallo. Paran rabbrividì davanti a quel gesto. Ai vecchi tempi, aveva annunciato l'inizio della guerra tribale fra le Sette Città. Ora era divenuto il simbolo della Seconda Armata Malaz. «State forse insinuando», osservò, «che la storia che mi avete appena raccontato è nota a tutti?». «Non nei dettagli», ammise l'Artiglio. «Ma alcuni anziani veterani del Secondo hanno combattuto con Ultor non solo a Sette Città, ma anche a Falar.» Paran rifletté alcuni istanti. L'uomo accanto a lui, sebbene fosse un Artiglio, era anche della Seconda Armata. E ne aveva passate molte. Poteva essere un'interessante fonte di informazioni. Posò lo sguardo su di lui e lo vide sorridere. «Che cosa c'è di tanto divertente?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Ultimamente, gli Arsori di Ponti sono piuttosto impetuosi. Prendono scarti come reclute e questo lascia pensare che stiano per essere sciolti. L'ho scritto in tutti i rapporti che ho inviato ma nessuno sembra darmi ascolto: forse pensano che sia impazzito, chis-
sà...» Paran scrollò le spalle. «Siete stato chiamato per incontrarmi, vero?» L'Artiglio scoppiò a ridere. «È molto che non ricevete notizie, giusto? Mi hanno chiamato perché sono l'ultimo Attivo nel Secondo Squadrone. Per quanto riguarda il Quinto e il Sesto - dimenticateli. I Tiste Andii di Brood potrebbero individuare un Artiglio a cento passi. Comunque, non ne è rimasto uno. Il mio comandante è stato garrottato due giorni fa. Non male come notizia, eh? E così, vi ho ereditato, Capitano. Una volta in città, ve ne andrete per la vostra strada e probabilmente non ci vedremo mai più. Illustrerete i dettagli della vostra missione in qualità di Capitano del Nono Squadrone e vi rideranno in faccia oppure vi cacceranno un coltello negli occhi - si potrebbe persino scommettere su ciò che faranno. Peccato, eccoci arrivati.» Poco distante comparve la porta di Pale. «Un'ultima cosa», disse l'Artiglio, gli occhi fissi sui merloni delle mura, «un consiglio nel caso Oponn vi sorrida. Qui comanda il Grande Mago Tayschrenn. Dujek non ne è soddisfatto, soprattutto in considerazione di quanto accaduto con la Progenie della Luna. Tra i due non scorre buon sangue, ma il Grande Mago fa affidamento sul fatto di essere in costante e intima comunicazione con l'Imperatrice, privilegio che gli permette di restare al comando. I soldati di Dujek lo seguiranno... ovunque. E questo vale anche per la Quinta e la Sesta Armata. Qui si è raccolta una tempesta in attesa di scatenarsi». Paran fissò l'uomo. Topper gli aveva spiegato la situazione ma il capitano aveva respinto la valutazione dell'uomo. Non è un groviglio nel quale voglio trovarmi ingarbugliato. Lasciatemi portare a termine il mio incarico - non chiedo altro. Mentre passavano all'ombra della porta, l'Artiglio riprese a parlare. «A proposito, Tayschrenn ci ha appena visti arrivare. Ci sono possibilità che vi conosca, Capitano?» «No.» Spero di no, aggiunse fra sé e sé. Si addentrarono per le vie della città e gli occhi di Paran si appannarono. Pale era un manicomio: ovunque gli edifici erano stati sventrati dal fuoco e le strade erano gremite di gente, carri, animali raglianti e soldati. Si chiese se dovesse cominciare a misurare la propria vita in minuti. Assumere il comando di uno squadrone che in tre anni aveva avuto quattro capitani, intraprendere una missione che nessun militare sano di mente avrebbe mai preso in considerazione, affrontare un'insurrezione su vasta scala proba-
bilmente guidata dal miglior comandante dell'Impero contro un Grande Mago che sembrava impegnato a ritagliarsi la propria nicchia, di dimensioni tutt'altro che modeste nel mondo - tutto ciò faceva sentire Paran piuttosto sgomento. Una forte pacca sulla schiena lo fece trasalire. L'Artiglio gli si era avvicinato. «Siete confuso, Capitano? Non preoccupatevi, qui tutti sono nella vostra situazione. Alcuni se ne rendono conto, altri no. È di quelli che non se ne rendono conto che dovete preoccuparvi. Iniziate con quello che avete davanti al naso e per il momento, dimenticate il resto. Fermate un soldato e chiedetegli dove potete trovare gli Arsori di Ponti. Quella è la parte facile.» Paran annuì. L'Artiglio esitò, quindi si protese verso il giovane. «Stavo pensando, Capitano. È solo un'impressione, naturalmente, ma sono convinto siate qui per fare del bene. No, non preoccupatevi di rispondermi. Soltanto se vi trovaste nei guai, avvisate Toc il Giovane, che sarei io. Appartengo al Corpo Messaggeri, classe esploratori, Secondo Squadrone. Tutto chiaro?» Paran tornò ad annuire. «Grazie», disse proprio mentre un fragoroso schianto risuonava dietro di loro, seguito da un coro di voci inviperite. Nessuno dei due si voltò. «Che cosa avete detto, Capitano?» Paran sorrise. «Meglio dividerci. Mantenete la vostra copertura - nel caso dovesse accadermi qualcosa. Mi troverò una guida, come d'uso.» «Buona idea, Capitano.» Toc il Giovane sollevò una mano in segno di saluto, poi guidò il cavallo in una strada laterale. Un istante dopo scomparve alla vista di Paran. Il giovane trasse un respiro profondo e si guardò intorno alla ricerca di un soldato. *** Paran sapeva che gli anni trascorsi alle corti nobili della sua patria lo avevano preparato al tipo d'inganno che l'Aggiunto Lorn pretendeva da lui. Negli ultimi due anni, tuttavia, aveva iniziato a capire più chiaramente ciò che stava diventando. Quel giovane arrogante e onesto che aveva parlato con l'Aggiunto dell'Imperatrice quel giorno sulla costa di Itko ora lo tormentava. Era caduto fra le mani di Lorn come una massa di argilla non ancora modellata. E senza perdere tempo lei era passata a fare ciò che le
riusciva meglio. Ciò che ora più spaventava Paran era il fatto di essersi abituato a essere usato. Era stato un altro così spesso che vedeva un migliaio di volti, udiva un migliaio di voci, tutte in conflitto con la propria. Quando pensava a se stesso, al giovane nobile dalla smodata fede nell'onestà e nell'integrità, l'immagine che gli compariva ora era di qualcosa di freddo, duro, oscuro. Qualcosa che si nascondeva nei profondi meandri della mente e guardava. Nessuna contemplazione, nessun giudizio, solo fredda, oggettiva osservazione. Non pensava che quel giovane avrebbe rivisto la luce del giorno. Si sarebbe raggomitolato sempre più, inghiottito dall'oscurità, per poi scomparire senza lasciare traccia. Ma dopotutto, forse non gliene importava niente. Entrò nella caserma che un tempo aveva ospitato la Guardia Nobile di Paran. Un'anziana veterana oziava su una branda, i piedi che sporgevano dalla branda. Il materasso era stato eliminato e gettato in un angolo; la donna giaceva sulle assi di legno, le mani dietro la testa. Lo sguardo di Paran si soffermò un istante su di lei, poi scivolò lungo la camerata. Ad eccezione della donna, lo stanzone era vuoto. Riportò l'attenzione su di lei. «Caporale, giusto?» La donna non si mosse. «Già, che cosa vuoi?» «Mi sembra di capire», disse il giovane capitano in tono secco, «che da queste parti la catena del comando si sia completamente disintegrata». L'anziana veterana aprì gli occhi e scrutò l'ufficiale. «Forse», replicò. Poi abbassò nuovamente le palpebre. «Cerchi qualcuno o che cosa?» «Sto cercando il Nono Squadrone, Caporale.» «Perché? Sono di nuovo nei guai?» Paran sorrise fra sé e sé. «Sei un esempio di normale Arsori di Ponti, Caporale?» «Quelli normali sono tutti morti.» «Chi è il tuo comandante?» «Antsy, ma non è qui.» «Lo vedo.» Il capitano attese, poi sospirò. «E allora, dov'è questo Antsy?» «Prova alla taverna di Knobb. L'ultima volta che l'ho visto stava perdendo la camicia con Hedge. Antsy gioca a carte, solo che non vale niente.» Cominciò a darsi da fare con uno stuzzicadenti che teneva in bocca. Paran la guardò torvo. «Il tuo comandante gioca d'azzardo con i suoi
uomini?» «Antsy è un sergente», spiegò la donna. «Il capitano è morto. E comunque, Antsy non è del nostro squadrone.» «Oh, e a che squadrone appartiene?» La donna si esibì in un largo sorriso, deglutendo ciò che aveva rimosso dai denti. «Al Nono.» «Come ti chiami, Caporale?» «Picker, e tu?» «Capitano Paran.» Con un balzo Picker si sedette, gli occhi spalancati. «Oh, siete il nuovo capitano, quello che non ha ancora sguainato la spada, eh?» Paran sorrise. «Esatto.» «Avete idea delle attuali quotazioni su di voi? Non c'è di che star allegri.» «Che cosa vuoi dire?» La donna gli rivolse un ampio sorriso. «Da quanto ho sentito», disse, tornando a sdraiarsi e a chiudere gli occhi, «il primo sangue che vedrete sulle vostre mani sarà il vostro, Capitano Paran. Tornate a Quon Tali: là siete al sicuro. Forza, l'Imperatrice ha bisogno che qualcuno le lecchi i piedi». «Sono già sufficientemente puliti», ribatté Paran. Era indeciso su come affrontare la situazione. Da una parte avrebbe voluto sguainare la spada e tagliare in due la donna, dall'altra avrebbe voluto scoppiare a ridere, ma sarebbe stata una risata dal sapore isterico. Dietro di lui la porta d'ingresso sbatté e passi pesanti risuonarono sulle tavole del pavimento. Si voltò. Un sergente dal volto paonazzo ed enormi baffi a manubrio irruppe nella stanza. Senza degnare Paran di un'occhiata, raggiunse la branda di Picker e guardò la donna in cagnesco. «Dannazione, Picker, mi avevi detto che Hedge era messo male a fortuna e invece quel pezzo di sterco con le gambe storte mi ha ripulito!» «Hedge è messo male a fortuna», replicò Picker. «Ma tu sei messo anche peggio. Non mi hai mai chiesto niente in proposito, giusto? Antsy, ti presento il Capitano Paran. Il nuovo ufficiale del Nono.» Il sergente si girò di scatto e fissò l'altro militare. «Per il respiro di Hood», mormorò quindi si voltò nuovamente verso Picker. «Sto cercando Whiskeyjack, Sergente», disse Paran in tono pacato. Qualcosa nella voce del capitano fece girare Antsy. L'uomo aprì la bocca, poi la richiuse quando vide lo sguardo fisso di Paran. «È arrivato un
ragazzino con un messaggio. Whiskeyjack si è allontanato. Alcuni dei suoi sono da Knobb.» «Grazie, Sergente.» Paran lasciò la stanza con passo marziale. Antsy emise un lungo sospiro e guardò Picker. «Due giorni», affermò la donna, «e lo fanno fuori. Il vecchio Rockface ne ha già scommessi venti». L'espressione di Antsy s'indurì. «Qualcosa mi dice che sarebbe un vero peccato.» *** Paran entrò nella taverna di Knobb e si fermò accanto alla porta. Il locale era gremito di soldati, le loro voci un ruggito confuso. Soltanto alcuni avevano sull'uniforme la fiamma, l'emblema degli Arsori di Ponti. Gli altri appartenevano al Secondo Squadrone. A un grande tavolo sotto un ballatoio che portava alle camere del primo piano, mezza dozzina di Arsori di Ponti giocavano a carte. Un uomo corpulento e dai lunghi capelli neri legati in una coda di cavallo con amuleti e feticci sedeva dando la schiena alla stanza e distribuendo le carte con infinita pazienza. Nonostante il forte vociare che riempiva la taverna, Paran sentiva il monotono conteggio dell'uomo. I compagni di gioco sommergevano l'uomo di improperi, ma inutilmente. «Barghast», mormorò Paran, lo sguardo sul mazziere. «Solo uno negli Arsori di Ponte. Allora quello è il Nono.» Trasse un respiro profondo, quindi si lanciò fra la folla. Quando giunse dietro al Barghast, l'elegante mantello era zuppo di birra e vino e il sudore gl'imperniava la fronte. Il Barghast aveva appena finito di distribuire le carte e stava deponendo il mazzo al centro del tavolo, scoprendo l'immenso guado blu tatuato sul braccio destro, le spirali deturpate qua e là da bianche cicatrici. «Questo è il Nono?» domandò Paran a voce alta. L'uomo seduto di fronte al Barghast sollevò lo sguardo, il volto dello stesso colore del copricapo di cuoio, quindi riportò la propria attenzione alle carte. «Voi Capitano Paran?» «Esatto. E tu, soldato?» «Hedge.» Indicò l'uomo massiccio seduto alla sua destra. «Questo è Mallet, il guaritore dello squadrone. E il Barghast si chiama Trotts.» Girò la testa a sinistra. «Gli altri non contano; appartengono alla Seconda Arma-
ta e sono pessimi giocatori. Sedetevi, Capitano. Whiskeyjack e gli altri sono stati chiamati da un'altra parte. Dovrebbero tornare tra poco.» Paran trovò una sedia vuota e la sistemò tra Mallet e Trotts. Hedge grugnì: «Ehi, Trotts, intendi giocare o che cosa?». Il capitano inspirò profondamente, poi si voltò verso Mallet. «Dimmi un po', Guaritore, qual è la vita media di un ufficiale negli Arsori di Ponti?» Dalle labbra di Hedge sfuggì un grugnito. «Prima o dopo la Progenie della Luna?» Le folte sopracciglia di Mallet si sollevarono quando rispose al capitano. «Forse due campagne. Dipende da molti fattori. Avere coraggio non è sufficiente, ma aiuta. E questo significa dimenticare tutto quello che avete imparato e saltare nel grembo del vostro sergente come un bambino. Se lo ascoltate, potreste farcela.» Hedge batté un pugno sul tavolo. «Svegliati, Trotts! A che cosa stiamo giocando?» Il Barghast si accigliò. «Sto pensando», borbottò. Paran si appoggiò allo schienale della sedia e si slacciò il cinturone. Trotts decise il gioco, provocando le proteste di Hedge, Mallet e dei tre soldati della Seconda Armata, poiché era il gioco che sceglieva sempre. «Capitano», disse Mallet, «avete sentito strane voci sugli Arsori di Ponti, vero?». Paran annuì. «Molti ufficiali hanno il terrore degli Arsori di Ponti. Si dice che la mortalità sia così alta perché la metà dei capitani finisce con un pugnale nella schiena.» Tacque e stava per riprendere a parlare quando si accorse dell'improvviso silenzio. Il gioco si era fermato e tutti gli occhi erano su di lui. Cominciò a sudare copiosamente. «E da quanto ho visto finora», continuò, «sono piuttosto incline a credere a quelle voci. Ma voglio dirvi una cosa, a tutti quanti: se dovessi morire con un pugnale nella schiena, sarà meglio che l'abbia meritato. Altrimenti ne sarei seriamente deluso». Allacciò il cinturone e si alzò. «Dite al sergente che mi trova in caserma. Vorrei parlargli prima della presentazione ufficiale.» Hedge annuì. «Non mancheremo, Capitano.» L'uomo esitò. «Capitano? Volete fare una partita?» Paran scosse la testa. «No, grazie.» Un sorriso gli arricciò gli angoli della bocca. «Un ufficiale non dovrebbe scucire i soldi ai suoi uomini.» «Spero che cambiate idea e prima o poi accettiate la sfida», affermò Hedge, gli occhi scintillanti.
«Ci penserò su», replicò Paran mentre lasciava il tavolo. Facendosi largo fra la folla, sentì crescere dentro di sé un sentimento che lo colse completamente di sorpresa: insignificanza. Quanta arroganza gli era stata inculcata, dai giorni di ragazzino fra la nobiltà a quelli dell'accademia. Quell'arroganza ora si faceva piccola per la paura in un angolo della sua mente, scioccata e stordita. Se n'era reso conto già prima di incontrare l'Aggiunto: il suo cammino attraverso l'addestramento del corpo ufficiali dell'Accademia era stato una semplice parata segnata da strizzate d'occhio e pacche sulla schiena. Ma le guerre dell'Impero erano combattute lì, a migliaia di leghe di distanza e lì, comprese Paran, a nessuno gliene fregava niente dell'autorità della corte e di reciproci scambi di piaceri. Quelle scorciatoie aumentavano le sue probabilità di morire, e anche in fretta. Se non fosse stato per l'Aggiunto, sarebbe stato totalmente impreparato al comando. Una smorfia deturpò il bel volto di Paran, mentre il giovane apriva la porta e usciva in strada. Non c'era da meravigliarsi che l'esercito del vecchio Imperatore avesse inghiottito tanto facilmente i regni feudali nel suo cammino verso l'Impero. Fu improvvisamente felice delle macchie che chiazzavano la sua uniforme - non sembrava più fuori luogo. Si avviò lungo il vicolo che conduceva all'ingresso laterale della caserma. La strada era coperta dall'ombra di alti edifici e da tendoni sbiaditi che pendevano da balconi traballanti. Pale era una città morente. Ne conosceva la storia a sufficienza per riconoscere i segni di una gloria ormai svanita. La gente del posto ostentava sfarzo ed eleganza, ma la scenografia sembrava logora e consunta. Si chiese quanto avessero in comune quelli come lui con gli scoraggiati cittadini di quella città. Un rumore dietro di sé, un lieve fruscio, lo fece girare di scatto. Una figura avvolta nell'ombra si avvicinò. Paran gridò, afferrando la spada. Venne travolto da un vento gelido. Indietreggiò nello scorgere il bagliore delle lame in entrambe le mani del misterioso uomo. Balzò di lato, la spada ancora nel fodero. La mano sinistra dell'assalitore scattò in avanti. Paran tirò indietro la testa di scatto, buttando avanti la spalla per parare un colpo che non arrivò. Ma il lungo pugnale gli penetrò nel petto. Un secondo coltello gli affondò nel fianco mentre il sangue gli riempiva la bocca. In preda a convulsioni, Paran barcollò, sbatté contro un muro, quindi scivolò a terra, una mano che tentava inutilmente di aggrapparsi alle pietre umide, le dita che affondavano nel terriccio. L'oscurità avvolse i suoi pensieri permettendogli di avvertire soltanto un
profondo, sincero rimpianto. All'improvviso, un lieve e distante trillo gli giunse alle orecchie, come se qualcosa di piccolo e metallico rimbalzasse su una superficie compatta. Il suono persistette, sembrava quello prodotto da un oggetto che ruotava. «Sciatto», disse un uomo con voce esile. «Sono sorpreso.» L'accento era familiare, del tempo dell'infanzia, quando il padre trattava con i mercanti Dal Honese. La risposta giunse da sopra Paran. «Mi stai tenendo d'occhio?» Un altro accento, questa volta Kanese e la voce sembrava di una ragazza, o di un bambino, comunque sapeva che era la voce del suo assassino. «Pura coincidenza», replicò l'altro, poi ridacchiò. «Qualcuno - o forse è meglio dire qualcosa - è entrato nel nostro Canale. Non invitato. I miei Segugi gli stanno dando la caccia.» «Non credo alle coincidenze.» Di nuova la risatina. «Nemmeno io. Due anni fa abbiamo iniziato un nostro gioco. Un semplice gioco a punti. Ma pare che qui a Pale siamo incappati in un gioco completamente diverso.» «Di chi?» «Presto avrò la risposta.» «Non distrarti, Ammanas. Il nostro obiettivo restano Laseen e il crollo dell'Impero che lei comanda ma senza merito.» «Ho, come sempre, infinita fiducia in te, Cotillion.» «Devo tornare indietro», disse la ragazza, allontanandosi. «Ma certo. E così questo è l'uomo che Lorn ha mandato a cercarti?» «Credo di sì. L'omicidio dovrebbe sconvolgerla.» «Ed è quello che vogliamo, no?» Le voci si affievolirono mentre i due sconosciuti si allontanavano lasciando, come unico suono nella testa di Paran, quel ronzio frusciante, come se una moneta continuasse a girare. CAPITOLO QUARTO Erano dello stesso stampo, le storie scritte in grosso in motivi decorati i racconti che narravano di vecchie ferite ma qualcosa brillava intenso
nei loro occhi - quegli archi corrosi dal fuoco, quella vita fuggevole, essi sono il proprio passato destinati a cadere uno dopo l'altro sul ciglio silenzioso di quel fiume che rifiutano di nominare... Gli Arsori di Ponti (IV.I) Toc il Giovane (n. 1141) Tattersail lanciò un'occhiata a Whiskeyjack. «Hairlock è pazzo», sentenziò. «È sempre stato un po' toccato, ma adesso ha rosicchiato le pareti dei suoi Canali e sta assaggiando il Caos. E per giunta, diventa sempre più potente, più pericoloso.» Si erano riuniti nell'alloggio di Tattersail, che consisteva di una stanza esterna - dove stavano ora - e di una camera da letto dotata del raro lusso di una porta di legno massiccio. Gli ultimi occupanti avevano frettolosamente spogliato quel posto di tutto ciò che fosse portatile e prezioso, lasciando solo i mobili più grossi. Tattersail sedeva al tavolo, insieme a Whiskeyjack, a Ben lo Svelto, a Kalam, e allo zappatore di nome Fiddler. L'aria nella stanza si era fatta calda, soffocante. «Ma certo che è pazzo», replicò Ben lo Svelto, guardando il suo sergente, il cui viso restò impassibile. «Ma era da prevedersi», aggiunse il mago, subito dopo. «Per la coda di Fener, donna, ha il corpo di una marionetta! Ovvio che sia un po' spostato.» «Quanto spostato?» chiese Whiskeyjack al suo mago. «Deve guardarci le spalle, o sbaglio?» «Ben l'ha sotto controllo», osservò Kalam. «Hairlock percorre il labirinto camminando all'indietro - scoprirà chi nell'Impero ci vuole morti.» «Il pericolo», rivelò Ben lo Svelto, rivolgendosi a Tattersail in tono vibrato, «è che venga individuato. Non può attraversare i Canali nel modo convenzionale - tutti i sentieri regolari sono disseminati di trappole». Tattersail rifletté su quel punto, poi annuì. «Tayschrenn lo troverebbe, o almeno fiuterebbe che qualcuno sta cacciando il naso. Ma Hairlock sta usando il potere del Caos, i sentieri che giacciono fra i Canali, e questo è
rischioso, non solo per lui, ma per tutti noi.» «Perché tutti noi?» indagò Whiskeyjack. «Indebolisce i canali», rispose Ben lo Svelto, «ne logora il tessuto, cosa che a sua volta permette a Hairlock di penetrarvi a piacimento... e di uscirne di nuovo. Ma non abbiamo scelta. Dobbiamo dare a Hairlock libertà d'azione. Per ora». La maga sospirò, massaggiandosi la fronte. «È Tayschrenn il vostro obiettivo. Ve l'ho già detto...» «Non basta», intervenne Ben lo Svelto. «Quanti agenti sta usando? Quali sono i particolari del piano - e quale diavolo è il piano? Succede tutto per ordine di Laseen, oppure il Grande Mago ha messo gli occhi sul trono? Dobbiamo saperlo, maledizione!» «Va bene, va bene», concesse Tattersail. «Hairlock vi chiarisce tutto quanto - e poi? Volete provare a uccidere Tayschrenn e i suoi complici? E contate sul mio aiuto per questo?» Guardò da un viso all'altro. Nessuno rivelava alcunché. Si alzò, in preda alla rabbia. «Io so», continuò freddamente, «che Tayschrenn probabilmente ha ucciso A'Karonys, Nightchill e il mio quadro. Probabilmente prevedeva che i vostri tunnel vi sarebbero crollati intorno, e potrebbe benissimo aver deciso che il Vicecomandante di Dujek era una minaccia che andava estirpata. Ma se pensate che io intenda aiutarvi senza sapere che cosa avete in mente, vi sbagliate. La scena è più ampia di quanto non siate disposti a dirmi. Se c'è in ballo solo la vostra sopravvivenza, perché non disertate e basta? Dubito che Dujek vi darebbe la caccia. A meno che, naturalmente, i sospetti di Tayschrenn su Unbraccio e il suo Vice non siano fondati: avete in programma di ammutinarvi, di proclamare Imperatore Dujek e di puntare su Genabaris». S'interruppe, spostando gli occhi dall'uno all'altro. «Tayschrenn vi ha semplicemente prevenuto, sconvolgendo i vostri piani? Mi state trascinando in una congiura? In tal caso, devo conoscerne gli obiettivi finali. Ne ho il diritto, non trovate?» Whiskeyjack grugnì, poi allungò la mano verso la brocca di vino che stava sul tavolo. Riempì la tazza a tutti. Ben lo Svelto esalò un lungo respiro, poi si strofinò la nuca. «Tattersail», replicò tranquillamente, «non abbiamo intenzione di sfidare Tayschrenn direttamente. Sarebbe un suicidio. No, gli toglieremo il sostegno, con cura e precisione, poi organizzeremo la sua... caduta in disgrazia. Sempre che l'Imperatrice non sia coinvolta. Ma dobbiamo saperne di più, abbiamo bisogno di quelle risposte prima di poter fare le nostre scelte. Non
devi partecipare più di quanto non stia già facendo; anzi, è più sicuro se non lo fai. Hairlock vuole che tu guardi le spalle a lui, se non c'è alternativa. Ma probabilmente, non sarà necessario». Alzò gli occhi, rivolgendole un sorriso tirato. «Lascia Tayschrenn a me e a Kalam.» Tutto molto ragionevole, ma non mi hai risposto. Tattersail guardò l'altro uomo dalla pelle nera, stringendo gli occhi. «Una volta eri un Artiglio, non è vero?» Kalam scrollò le spalle. «Pensavo che nessuno potesse andarsene - vivo.» Altra scrollata di spalle. Fiddler, lo zappatore, emise un ruggito incomprensibile, alzandosi dalla sedia. Cominciò a camminare avanti e indietro; le gambe storte lo portavano da un muro all'altro, come una volpe in una fossa. Presto tutti smisero di prestargli attenzione. Whiskeyjack porse una tazza a Tattersail. «Rimani con noi, maga. Di solito, Ben lo Svelto non guasta le cose... non troppo, almeno. Ammetto di non essere convinto del tutto, nemmeno io, ma ho imparato a fidarmi di lui. Te lo dico per quel che vale.» Tattersail bevve una lunga sorsata di vino. Si asciugò le labbra. «Il tuo squadrone andrà a Darujhistan stasera. Segretamente, per cui non potrò comunicare con voi se la situazione degenera.» «Se usassi i soliti metodi, Tayschrenn se ne accorgerebbe», osservò Ben lo Svelto. «Hairlock è il nostro solo legame indistruttibile - puoi raggiungerci attraverso di lui, Tattersail.» Whiskeyjack squadrò la maga. «Tornando a Hairlock: non ti fidi di lui.» «No.» Il sergente ammutolì, lo sguardo fisso sul piano del tavolo. La sua espressione impassibile scomparve, rivelando un tumulto di emozioni. Cerca di mantenere il controllo sul suo mondo, ma la pressione sta aumentando. La maga si chiese cosa sarebbe successo, quando tutto quanto fosse esploso dentro di lui. I due uomini di Sette Città aspettavano, gli occhi sul loro sergente. Solo Fiddler continuava la sua passeggiata inquieta. L'uniforme male assortita portava ancora le macchie dei tunnel. Sul davanti della giubba spiccava una grande chiazza di sangue - come se un amico gli fosse morto fra le braccia. Sotto la barba ispida e asimmetrica di guance e mascelle, si vedevano vesciche mal guarite, e i capelli rossi e flosci scendevano irregolarmente sotto l'elmo di cuoio.
Passò un lungo minuto, poi il sergente annuì vigorosamente col capo. Gli occhi ancora puntati sul tavolo, proseguì: «E va bene, maga. Senti questa. Ben lo Svelto, dille di Dispiacere». Tattersail alzò le sopracciglia. Incrociando le braccia, fronteggiò il suo interlocutore. Ben lo Svelto non sembrava affatto contento. Imbarazzato, spostò il peso da un piede all'altro; lanciò un'occhiata speranzosa a Kalam, ma l'omone distolse il viso. «Avanti», ringhiò Whiskeyjack. Ben lo Svelto incrociò lo sguardo fermo di Tattersail con espressione quasi infantile; paura, rimorso e mortificazione guizzarono sui suoi lineamenti fini. «Te la ricordi?» Tattersail proruppe in un'aspra risata. «Non è facile dimenticarla. Ha... un'aura... strana. Pericolosa.» Pensò all'opportunità di rivelare quanto appreso durante il Fatid con Tayschrenn. La Vergine della Morte. Ma qualcosa di indefinito la trattenne. No, si corresse, so di cosa si tratta: non mi fido ancora di loro. «Sospetti che sia al servizio di qualcun altro?» Il mago aveva il volto cinereo. Si schiarì la gola. «È stata arruolata due anni fa a Itko Kan, in uno dei soliti reclutamenti per tutto il cuore dell'Impero.» La voce di Kalam tuonò accanto alla donna. «A quell'epoca, lì è successo qualcosa di brutto. La storia è stata sotterrata ben bene, ma è intervenuto l'Aggiunto, e al suo seguito è arrivato un Artiglio, che ha zittito quasi tutti quelli che in città avrebbero potuto parlare. Servendomi di vecchie fonti, ho raggranellato qualche dettaglio strano.» «Strano», riprese Ben lo Svelto, «e rivelatore, se si sa quello che si cerca». Tattersail sorrise fra sé. Quei due uomini sembravano parlare in tandem. Riportò l'attenzione sul mago, che continuò. «A quanto pare, una compagnia di cavalleggeri ha avuto qualche sciagura. Nessun superstite. Per quanto riguarda il loro problema, aveva qualcosa a che fare con...» «Cani», terminò Kalam, senza perdere un colpo. La maga guardò il sicario con un cipiglio. «Fai due più due», riattaccò Ben, attraendo di nuovo la sua attenzione. «L'Aggiunto Lorn è l'ammazza-maghi personale di Laseen. Il suo arrivo sulla scena implica che la magia aveva un ruolo nel massacro. Alta magia.» L'uomo guardò Tattersail con gli occhi stretti, e aspettò.
Lei inghiottì un'altra sorsata di vino. Il Fatid me li ha mostrati. I cani e la magia. Nella sua mente tornò l'immagine della Fune, così come l'aveva vista durante la lettura delle carte. L'Alta Casa dell'Ombra, governata da Tronod'Ombra e dalla Fune, e al loro servizio «I Sette Segugi dell'Ombra.» Guardò Whiskeyjack ma il sergente teneva gli occhi bassi, il viso rigido come una pietra. «Allora», sbottò Ben lo Svelto, con una certa impazienza. «I Segugi sono andati a caccia. È un'ipotesi, ma è plausibile. Tutto il diciannovesimo Reggimento dell'Ottavo Cavalleggeri è rimasto ucciso, persino i cavalli. Un'intera lega di insediamenti costieri ha avuto bisogno di essere ripopolata.» «D'accordo», sospirò Tattersail. «Ma questo cosa ha a che fare con Dispiacere?» Il mago distolse il viso; fu Kalam a parlare. «Hairlock seguirà più di una pista, Maga. Siamo sicuri che Dispiacere è immischiata con la Casa dell'Ombra...» «Certo», commentò Tattersail, «sembra che da quando è arrivato nel Mazzo e il suo Canale è stato aperto, il sentiero dell'Ombra incroci quello dell'Impero troppo spesso perché sia una coincidenza. Perché il Canale fra la Luce e l'Oscurità dovrebbe esibire una tale... ossessione per l'Impero Malazan?». Kalam aveva lo sguardo velato. «Strano, non è vero? Dopo tutto, il Canale è apparso solo dopo l'assassinio dell'Imperatore per mano di Laseen. Tronod'Ombra e il suo compagno, il Patrono dei Sicari - Cotillion - erano sconosciuti prima della morte di Kellanved e di Dancer. Sembra anche che... il disaccordo fra la Casa dell'Ombra e l'Imperatrice Laseen sia, ehm, di carattere personale...» Tattersail chiuse gli occhi. Maledizione, è talmente ovvio, no? «Ben lo Svelto», riprese, «non è sempre esistito un Canale dell'Ombra accessibile? Rashan, il Canale delle Illusioni?». «Rashan è un falso Canale, maga. Un'ombra di quello che pretende di rappresentare, se mi scusi il gioco di parole. È di per sé un'illusione. Solo gli dei sanno da dove sia venuto, o chi l'abbia creato, o perché. Ma il vero Canale dell'Ombra è stato chiuso, inaccessibile, per millenni, fino al 1154esimo anno del Sonno di Burn, nove anni fa. I primi scritti della Casa dell'Ombra sembrano indicare che il suo trono era occupato da un Tiste Edur...» «Tiste Edur?» s'intromise Tattersail. «E chi sarebbero?»
L'uomo scosse le spalle. «Cugini dei Tiste Andii? Non lo so, Maga.» Non lo sai? A quanto pare, sai un sacco di cose. «Ad ogni modo», aggiunse Ben lo Svelto, «crediamo che Dispiacere sia legata alla Casa dell'Ombra». Whiskeyjack fece trasalire tutti quanti levandosi in piedi. «Non sono convinto», annunciò, lanciando a Ben lo Svelto un'occhiataccia dalla quale Tattersail capì che c'erano state infinite discussioni sull'argomento. «A Dispiacere piace uccidere, e averla intorno è come avere dei ragni sotto la camicia. Lo so, lo vedo e lo sento come voialtri. Non significa, però, che sia una specie di demone.» Si volse verso Kalam. «Uccide come lo fai tu, Kalam. Entrambi avete il ghiaccio nelle vene. E allora? Guardo te e vedo un uomo, perché è di questo che sono capaci gli uomini - non cerco scuse perché non mi piace pensare a quanto possiamo diventare cattivi. In Dispiacere, vediamo il riflesso di noi stessi. Se non ci piace lo spettacolo, peggio per noi.» Si sedette tanto bruscamente quanto si era alzato, allungando la mano verso la brocca del vino. Quando proseguì il discorso, la sua voce si era abbassata lievemente. «Così la vedo io, almeno. Non sono esperto di demoni, ma ho visto abbastanza uomini e donne mortali comportarsi come demoni, all'occorrenza. Il mago del mio squadrone ha una paura matta di una quindicenne. Il mio sicario afferra il coltello ogni volta che lei arriva nel raggio di venti passi.» Incrociò gli occhi di Tattersail. «Così, Hairlock ha due missioni anziché una; e se tu pensi che i sospetti di Ben lo Svelto e di Kalam siano giustificati, puoi abbandonare il campo - so come vanno le cose quando gli dei si buttano nella mischia.» Per un attimo, un'ondata di ricordi gli fece approfondire le rughe intorno agli occhi. «Lo so bene», bisbigliò. Tattersail esalò lentamente il respiro, che tratteneva da quando il sergente si era alzato. Comprendeva perfettamente il suo bisogno: voleva che Dispiacere fosse soltanto umana, soltanto una ragazza gravemente distorta da un mondo duro. Perché quello era qualcosa che capiva, qualcosa che poteva affrontare. «A Sette Città», riferì sommessamente, «si racconta che la Prima Spada dell'Imperatore - il comandante dei suoi eserciti - Dassem Ultor, avesse accettato l'offerta di un dio. Hood fece di Dassem il suo Cavaliere della Morte. Poi successe qualcosa, qualcosa andò... storto. E Dassem rinunciò al titolo, e giurò vendetta contro Hood - contro lo stesso Signore della Morte. Tutt'a un tratto, altri Ascendenti cominciarono a interferire, a manipolare gli eventi. La vicenda culminò nell'assassinio di Das-
sem, poi in quello dell'Imperatore, e in sangue nelle strade, guerra fra templi, atti selvaggi di stregoneria». Si fermò, vedendo i ricordi di quell'epoca riflessi nel viso di Whiskeyjack. «Tu c'eri.» E non vuoi che succeda ancora, adesso e qui. Pensi che, se neghi che Dispiacere sia al servizio dell'Ombra, la tua convinzione sarà sufficiente a forgiare la realtà. Hai bisogno di crederci per preservare la tua sanità mentale, perché nella vita ci sono cose che si possono subire una volta sola. Oh, Whiskeyjack, non posso alleviare il tuo fardello. Vedi, io ritengo che Ben lo Svelto e Kalam abbiano ragione. «Se l'Ombra ha preso possesso della ragazza, la pista sarà evidente, e Hairlock la troverà.» «Hai intenzione di abbandonare il campo?» chiese il sergente. Tattersail sorrise. «L'unica morte che temo è quella nell'ignoranza. La mia risposta è no.» Parole coraggiose, donna. Questa gente ha il dono di portare alla luce il meglio - o il peggio - che c'è in me. Whiskeyjack annuì, con un luccichio negli occhi. «Siamo intesi, allora», concluse in tono burbero. Si appoggiò allo schienale. «Che cosa ti preoccupa, Fiddler?» chiese allo zappatore, che continuava a camminare dietro di lui. «Ho una brutta sensazione», borbottò l'uomo. «C'è qualcosa che non va. Non qui, ma vicino. È solo...» s'interruppe, inclinando la testa, poi sospirò e riprese la sua passeggiata nervosa. «Non sono sicuro, non sono sicuro.» Tattersail seguì con gli occhi l'uomo basso e muscoloso. Un talento naturale? Un'impressione fondata sul puro istinto? Roba rara, però... «Credo che dovreste ascoltarlo», sentenziò. Whiskeyjack le lanciò un'occhiata sofferente. Kalam fece un largo sorriso, e una ragnatela di rughe s'increspò intorno agli occhi scuri. «Fiddler ci ha salvato la vita nel tunnel», spiegò. «Una delle sue brutte sensazioni.» Tattersail si appoggiò allo schienale, incrociando le braccia. «Dov'è Dispiacere in questo momento?» domandò. Fiddler si girò, gli occhi sulla maga. Aprì la bocca, poi la richiuse di botto. Gli altri tre balzarono in piedi, rovesciando le sedie all'indietro. «Dobbiamo andare», ordinò Fiddler, in tono stridulo. «Là fuori c'è un coltello, ed è coperto di sangue.» Whiskeyjack controllò il suo spadone. «Kalam, avanti dritto di venti passi.» Si voltò verso Tattersail, mentre il sicario scivolava fuori. «L'abbiamo persa un paio d'ore fa. Capita spesso, fra una missione e l'altra.»
Aveva il viso tirato. «Ma forse lei non c'entra con il coltello insanguinato.» Un'esplosione di potere riempì la stanza, e Tattersail si piantò di fronte a Ben lo Svelto. Il mago era entrato nel suo Canale. L'incantesimo emanava una fragranza strana, vorticosa, che lei non riusciva a identificare, e che la spaventava con la sua intensità. Incrociò gli occhi sfavillanti del nero. «Dovrei conoscerti», mormorò. «Non ci sono abbastanza veri maestri a questo mondo, perché tu mi sia ignoto. Chi sei, Ben lo Svelto?» «Pronti?» intervenne Whiskeyjack. Per tutta risposta, il mago rivolse a Tattersail un'alzata di spalle. «Pronto», rispose al sergente. Questi andò alla porta. «Mi raccomando, Maga.» Un attimo dopo, erano usciti. Tattersail raddrizzò le sedie, poi si riempì la tazza di vino. L'Alta Casa dell'Ombra, e un coltello nel buio. È cominciato un gioco nuovo, oppure è appena cambiato quello vecchio. *** Paran aprì gli occhi a una luce calda, radiosa, ma il cielo sopra di lui era... sbagliato. Non vide nessun sole; il bagliore giallo era vivido, ma privo di origine. Raffiche di calore lo colpivano dall'alto, pesanti, opprimenti. Un gemito riempiva l'aria; ma non c'era vento. Cercò di pensare, di richiamare alla mente gli ultimi ricordi, ma il passato era come vuoto, strappato via. Restavano solo frammenti: la cabina di una nave, il tonfo del suo pugnale mentre lo lanciava ripetutamente contro un palo di legno, un uomo con tanti anelli, i capelli bianchi e il sorriso sardonico. Si girò su un fianco, in cerca della fonte del lamento. A una dozzina di passi di distanza, sulla pianura che non era né d'erba, né di terriccio, si levava una porta ad arco che conduceva a... Niente. Ho già visto porte del genere. Nessuna grande come questa, però, mi sembra. Nessuna che avesse esattamente quest'aspetto. Dalla sua posizione, la vide verticale, per quanto distorta. La porta non era, capì, fatta di pietra. Corpi, figure umane nude. Imitazioni scolpite? No... oh, no. Le figure gemettero, si contorsero lentamente. Carne annerita, come macchiata di torba, occhi chiusi e bocche aperte in lamenti deboli, infiniti. Paran si mise in piedi; barcollò in preda alle vertigini, e ricadde di nuovo. «Sembri un po' indeciso», sentenziò freddamente una voce. Battendo le sopracciglia, Paran rotolò sulla schiena. Sopra di lui stavano
un giovane e una giovane - gemelli. L'uomo portava ampi vestiti di seta, bianchi e dorati; il viso esile era pallido, inespressivo. La gemella era avvolta in un mantello porpora brillante, e i capelli biondi mandavano riflessi rossastri. Era l'uomo ad aver parlato. Rivolse a Paran un sorriso privo di umorismo. «Ammiriamo da tempo la tua...» Sgranò gli occhi. «Spada», terminò la donna, in tono ironico. «Molto più sottile di, diciamo, una moneta, non credi?» Il sorriso dell'uomo si fece beffardo. «I più», continuò, inclinando la testa a studiare l'orribile struttura della porta, «non si fermano qui. Si dice ci fosse un culto, un tempo, dedito ad affogare le vittime nelle paludi... Presumo che Hood li trovi esteticamente piacevoli». «Non c'è da stupirsi», commentò la donna, strascicando le parole, «che la Morte sia priva di gusto». Paran cercò di mettersi a sedere, ma il suo corpo rifiutò di collaborare. Lasciò cadere la testa all'indietro, sentendo lo strano, molle suolo cedere sotto il suo peso. «Che cos'è successo?» gracchiò. «Sei stato ucciso», rispose l'uomo in tono leggero. Paran chiuse gli occhi. «Perché, allora, non sono passato attraverso la Porta di Hood, se è quello che è?» «Ci siamo messi in mezzo», spiegò la donna. Oponn, i Gemelli della Fortuna. E la mia spada, la mia spada mai usata, comprata anni fa, con un nome che ho scelto tanto capricciosamente... «Che cosa vuole Oponn da me?» «Solo questa cosa, piena di esitazioni e di ignoranza, che chiami la tua vita. Il problema degli Ascendenti è che cercano di truccare tutti i giochi. Naturalmente, noi adoriamo... l'incertezza.» Un ululato lontano vibrò nell'aria. «Oh, oh», borbottò l'uomo. «Vengono a controllare, direi. Meglio che ce ne andiamo, sorella. Mi spiace, capitano, ma sembra che, dopo tutto, passerai da quella Porta.» «Forse», ribatté la donna. Il fratello l'investì. «Avevamo un patto! Niente scontri! Gli scontri sono imbarazzanti. Spiacevoli. Non tollero la confusione! E poi, quelli che stanno arrivando giocano sporco.» «Anche noi, se è per questo», sbottò la sorella. Girandosi verso la porta, alzò la voce. «Signore della Morte! Vogliamo parlare con te! Hood!» Paran girò la testa, e vide una figura curva, zoppicante, emergere dalla
Porta. Vestita di stracci, si avvicinò lentamente. Paran socchiuse gli occhi una vecchia, un bambino con la bava sul mento, una ragazza deforme, un Trell rachitico, malfermo, un Tiste Andii avvizzito... «Oh, deciditi! Ferma lì!» esclamò la sorella. L'apparizione inclinò una testa di morto, scoprendo in un sorriso denti macchiati di fango giallastro. «Avete scelto», commentò con voce tremante, «senza fantasia». «Tu non sei Hood.» Il fratello aggrottò la fronte. Ossa si mossero sotto la pelle scricchiolante. «Il signore è occupato.» «Occupato? Non ci piacciono gli insulti», disse la sorella. L'apparizione scoppiò in una risata chioccia, che terminò subito. «Che peccato. Una risata dolce, di gola, sarebbe stata più di mio gusto. Ah, bene, per rispondere: e il mio signore non apprezza che abbiate interrotto il passaggio naturale di un'anima.» «Uccisa per mano di un dio», osservò la sorella. «Questo la rende una legittima preda.» La creatura grugnì, e si avvicinò a Paran trascinando i piedi. Abbassò lo sguardo su di lui. Le orbite oculari brillavano debolmente, come se ci fossero vecchie perle nascoste fra le ombre. «Oponn», chiese, mentre studiava il capitano, «che cosa vuoi dal mio signore?». «Io, niente», rispose il fratello, allontanandosi. «Sorella?» «Anche per gli dei», replicò lei, «la morte aspetta, un'incertezza nascosta nel profondo del loro animo». S'interruppe. «Voglio sfruttare quest'incertezza.» La creatura riprese la sua risata chioccia, e di nuovo smise bruscamente. «Ma dev'esserci reciprocità.» «Certo», rispose la sorella. «Cercherò un'altra morte prematura. Senza senso, perfino.» L'apparizione rimase muta, poi la testa annuì con uno scricchiolio. «Nell'ombra di questo mortale, naturalmente.» «Intesi.» «La mia ombra?» domandò Paran. «Che cosa significa, esattamente?» «Molto dolore, ahimè», rivelò l'apparizione. «Qualcuno che ti è caro attraverserà la Porta della Morte... al posto tuo.» «No. Prendi me, invece. Ti supplico.» «Zitto!» sbottò l'apparizione. «Il pathos mi dà la nausea.» L'ululato risuonò di nuovo, stavolta molto più vicino.
«Meglio che ce ne andiamo», ripeté il fratello. L'apparizione aprì le mascelle come per ridere, poi le chiuse di scatto. «No», borbottò. «Basta.» Tornò zoppicando alla Porta, fermandosi una volta per salutare con uno sventolio del braccio. La sorella alzò gli occhi al cielo. «Andiamocene», ribadì il fratello, a disagio. «Sì, sì», convenne la sorella, gli occhi fissi su Paran. Il capitano sospirò, distogliendo il viso. «Finiamola con gli indovinelli, se non vi dispiace.» Quando guardò di nuovo, Oponn era sparito. Ancora una volta, provò a mettersi seduto. E ancora una volta, non ci riuscì. Arrivò una nuova presenza, che riempì l'aria di tensione, di un odore di minaccia. Sospirando, Paran allungò il collo all'intorno. Vide un paio di Segugi creature massicce, goffe, scure, con la lingua fuori. Lo guardavano, sedute. Sono loro ad aver ucciso la compagnia a Itko Kan. Sono loro le bestie orride, maledette. Entrambi i Segugi si immobilizzarono, le teste tese verso di lui, come se vedessero l'odio nei suoi occhi. Paran si sentì gelare il cuore davanti a quell'avida attenzione. Impiegò un po' di tempo a rendersi conto di aver scoperto i denti. Una chiazza d'ombra separava i due Segugi, semitrasparente, con una vaga forma d'uomo. L'ombra parlò. «L'inviato di Lorn. Mi sarei aspettato un uomo di... abilità. Però, devo dire, sei morto bene.» «Evidentemente no», ribatté Paran. «Ah, sì», concesse la forma, «e così tocca a me completare il compito. C'è molto da fare, di questi tempi». Paran ripensò alla conversazione di Oponn con il servo di Hood. L'incertezza. Se c'è una cosa che un dio teme... «Il giorno che morirai, Tronod'Ombra», disse tranquillamente, «ti aspetterò dall'altra parte della porta. Con un sorriso. Gli dei possono morire, non è vero?». Qualcosa scricchiolò nel vano della Porta. Tronod'Ombra e i Segugi trasalirono. Paran continuò, meravigliandosi del suo coraggio, a stuzzicare gli Ascendenti. Ho sempre disprezzato l'autorità, no? «A metà strada fra la vita e la morte... questa promessa non mi costa niente.» «Bugiardo, l'unico Canale che può toccarti ora è...» «La morte», terminò Paran. «Naturalmente», aggiunse, «qualcun altro... ha interceduto, e ha badato ad andarsene molto prima che tu e i tuoi rumorosissimi cani arrivaste».
Il Re dell'Alta Casa dell'Ombra si avvicinò. «Chi? Chi si oppone a noi? Quali sono i suoi piani?» «Trova da solo le tue risposte, Tronod'Ombra. Capisci, vero, che se mi mandi per la mia strada ora, la tua... opposizione cercherà altri mezzi? Non sapendo niente di quale sarà il loro prossimo strumento, come farai ad anticipare le loro mosse? Ti troverai a scagliare frecce nel buio.» «È più facile seguire te», concesse il dio. «Devo parlare con il mio compagno...» «Come vuoi», l'interruppe Paran. «Vorrei potermi alzare...» Il dio fece una risata aspra. «Se ti alzi, camminerai. Godi di una tregua e se Hood verrà a rimetterti in piedi, la mano che guiderà sarà la sua, non la nostra. Ottimo. E se vivrai, la mia ombra seguirà la tua.» Paran grugnì. «La mia ombra è alquanto affollata, di questi tempi.» I suoi occhi ricaddero sui Segugi. Le creature lo guardavano ancora, i loro occhi deboli tizzoni. Vi eliminerò, un giorno. Come attizzato da quella tacita promessa, il rosso bagliore s'intensificò. Il dio riprese a parlare, ma il mondo intorno a Paran era precipitato nell'oscurità; sbiadì, scemò, finché la voce scomparve, e insieme a essa ogni consapevolezza, eccetto che per il tenue tintinnio di una moneta che girava. *** Trascorse un lasso di tempo indefinito, in cui Paran vagò attraverso i ricordi che credeva perduti per sempre: i suoi giorni di bambino, che stava attaccato al vestito della madre e muoveva i suoi primi, incerti passi; la notte della tempesta, in cui era corso lungo il corridoio gelido fino alla camera dei genitori, battendo i piedini sulla pietra fredda; le due sorelle che lo tenevano per mano mentre, in piedi sui duri ciottoli del cortile, aspettavano, aspettavano qualcuno. Le immagini sembravano vacillare nella sua mente. Il vestito della madre? No, di una vecchia al servizio della casa. Non la camera dei genitori, ma quella dei domestici; e insieme alle sorelle, nel cortile, aveva aspettato per metà mattina l'arrivo del padre e della madre, due persone che conoscevano appena. Nella sua mente, le scene si dispiegavano più volte, momenti dalla portata misteriosa, dal significato nascosto; pezzi di un mosaico ignoto, forgiati da mani che non erano le sue, per uno scopo che non riusciva a comprendere. Un tremito di paura gli attraversò i pensieri, quando avvertì che
qualcosa - qualcuno - era impegnato a riordinare gli eventi formativi della sua esistenza, capovolgendoli e gettandoli nelle ombre del presente. In qualche modo, una mano... giocava. Con lui, con la sua vita. Era uno strano tipo di morte... Gli arrivarono delle voci. «Ah, diavolo.» Un viso si chinò su quello di Paran, guardando nei suoi occhi assenti. Era Picker. «Non aveva nessuna possibilità», osservò. Il sergente Antsy parlò da qualche piede di distanza. «Nessuno, nel Nono, l'avrebbe ridotto così. Non qui in città.» Picker allungò la mano e gli toccò la ferita sul petto. Le sue dita gli parvero sorprendentemente tenere sulla carne lacerata. «Questa non è opera di Kalam.» «Rimani qui, okay?» suggerì Antsy. «Vado a prendere Hedge e Mallet, e tutti gli altri che trovo.» «Intesi», approvò Picker; cercò e trovò la seconda ferita, otto pollici sotto la prima. «Questa è arrivata dopo, più debole, inferta con la destra.» Era proprio una strana morte, pensò Paran. Che cosa lo teneva lì? C'era stato un altro... posto? Un posto pieno di calore, di luce gialla abbagliante? E voci, figure tenui, indistinte, là sotto l'arco di... di persone tenute stranamente ferme, gli occhi chiusi, la bocca aperta. Una folla di morti... Era andato da qualche parte, solo per tornare a queste voci reali, a queste mani reali sulla sua carne? Come faceva a vedere attraverso il vetro vuoto dei suoi occhi, o sentire il tocco delicato della donna sul suo corpo? E cos'era quel dolore, che saliva da una profondità immensa, come un mostro marino? Picker ritirò le mani e appoggiò i gomiti sulle cosce, accovacciandosi davanti a Paran. «Ehi, come mai sanguini ancora, capitano? Quelle ferite da coltello sono vecchie almeno di un'ora.» Il dolore arrivò in superficie. Paran sentì dividersi labbra gonfie. Le giunture della mascella scricchiolarono, e lui ansimò selvaggiamente. Poi urlò. Picker balzò all'indietro; la spada le apparve in mano dal nulla, mentre si ritraeva verso il muro opposto del vicolo. «Per la misericordia di Shedunul!» Stivali batterono sui ciottoli alla sua destra, e la sua testa si girò di scatto. «Guaritore! Il bastardo è vivo!» ***
La terza campana dopo la mezzanotte squillò sonoramente attraverso la città di Pale, riecheggiando per le strade svuotate dal coprifuoco. Era cominciata una pioggia leggera, che colorava il cielo notturno di una sfumatura d'oro opaco. Davanti al complesso grande, irregolare, a due isolati dal vecchio palazzo, che era diventato parte dei quartieri del Secondo, due soldati avvolti in cappe nere, impermeabili, montavano la guardia fuori dalla porta principale. «Nottataccia, eh?» osservò uno, rabbrividendo. L'altro spostò la picca sulla spalla sinistra, sputando un grumo di muco nel canale di scolo. «Ma non mi dire!» replicò, scuotendo la testa. «Qualunque altra brillante intuizione tu voglia comunicarmi, non avere esitazioni, eh?» «Che cosa ho fatto?» chiese il primo, offeso. Il secondo soldato s'irrigidì. «Zitto, sta arrivando qualcuno.» Le guardie aspettarono nervosamente, le mani sulle armi. Una figura attraversò la strada, entrando nella luce delle torce. «Alt!» ruggì il secondo soldato. «Vieni avanti piano, e augurati di avere un motivo per la tua venuta.» L'uomo si avvicinò di un passo. «Kalam, Arsori di Ponti, Nono Squadrone», annunciò tranquillamente. I soldati rimasero diffidenti, ma l'altro si tenne a distanza, la faccia scura luccicante sotto la pioggia. «Perché sei qui?» indagò la seconda guardia. Kalam grugnì, lanciando un'occhiata giù per la strada. «Non pensavamo di ritornare. Quanto al motivo della nostra venuta, be', è meglio che Tayschrenn non lo sappia. Mi segui, soldato?» La guardia sogghignò, sputando un'altra volta nel canale. «Kalam - devi essere il caporale di Whiskeyjack.» Stavolta, nella sua voce c'era una nota di rispetto. «Chiedi, e ti sarà dato.» «Esatto», ruggì l'altro soldato. «Io ero a Nathilog, signore. Se vuoi farci accecare dalla pioggia per ore, dillo e basta.» «Stiamo portando dentro un corpo», spiegò Kalam. «Ma durante il vostro turno, non è successo niente?» «Per la Porta di Hood, no», ribatté il secondo soldato. «Tranquillo come la Settima Alba.» Dalla strada, venne il rumore di un gruppo di uomini che si avvicinava. Kalam fece loro segno di avanzare, poi scivolò dentro mentre la prima guardia apriva la porta. «Secondo te, che cosa stanno combinando?» do-
mandò questi al suo compagno, quando Kalam fu scomparso. L'altro scosse le spalle. «Spero che concino Tayschrenn per le feste, che Hood si prenda quell'assassino traditore. E, conoscendo gli Arsori di Ponti, è proprio quel che faranno.» Ammutolì, all'arrivo del gruppo. Due uomini ne trasportavano un terzo in mezzo a loro. Il secondo soldato sgranò gli occhi, vedendo il grado della vittima, e il sangue che gli macchiava il davanti della bandoliera. «C'è di mezzo lo zampino di Oponn», sibilò all'Arsore di Ponti più vicino a lui, che portava un cappello di cuoio infangato. «La parte che tira, non quella che spinge», aggiunse. L'Arsore di Ponti gli lanciò un'occhiata pungente. «Se vedete una donna che ci segue evitatela a tutti i costi, intesi?» «Una donna? Chi?» «È nel Nono, e probabilmente è assetata di sangue», rispose l'uomo, mentre lui e il suo compagno trascinavano il capitano attraverso la porta. «Lasciate perdere la sicurezza», concluse, girando la testa a guardarli un'ultima volta. «Pensate solo a restare in vita, se ci riuscite.» I due soldati si fissarono a vicenda, dopo il passaggio degli uomini. Il primo allungò la mano a chiudere la porta, ma l'altro lo fermò. «Lasciala aperta», borbottò. «Troviamo delle ombre, vicine ma non troppo.» «Gran brutta notte», disse il primo soldato. «Hai il dono di dire ovvietà, eh?» ribatté il compagno, allontanandosi dalla porta. Il primo uomo scrollò le spalle impotente, poi si affrettò a seguirlo. *** Tattersail fissò a lungo, intensamente, la carta al centro del campo che aveva disposto. Aveva scelto un motivo a spirale, procedendo per l'intero Mazzo dei Draghi e arrivando a un'ultima carta, che poteva segnare un apice, o un'epifania, a seconda di come si metteva. La spirale era diventata un pozzo, un tunnel diretto verso il basso, e alla sua sommità, apparentemente distante e offuscata dall'ombra, aspettava l'immagine di un Segugio. La maga avvertì l'urgente rilevanza di quella lettura. L'Alta Casa dell'Ombra era ora coinvolta nel gioco, una sfida al comando di Oponn. I suoi occhi furono attratti dalla prima carta che aveva messo giù, all'inizio della spirale. Lo Scalpellino dell'Alta Casa della Morte occupava una posizione umile nei ranghi, ma ora la figura incisa nel
legno sembrava essere assurta a un ruolo importante. Fratello del Soldato della stessa Casa, lo Scalpellino era un uomo magro, brizzolato, vestito di pelle sbiadita. Le mani massicce, solcate da vene, reggevano strumenti per tagliare la pietra, e intorno a lui si levavano macigni rozzamente levigati. Tattersail scoprì di poter scorgere sulle pietre tenui geroglifici, una lingua a lei ignota ma che le ricordava la scrittura di Sette Città. Nella Casa della Morte, lo Scalpellino era il costruttore di tumuli, il posatore di lapidi, una promessa di morte non per un singolo, o per pochi, ma per molti. La lingua sui macigni comunicava un messaggio non destinato a lei: lo Scalpellino aveva scolpito quelle parole per sé, e il tempo ne aveva logorato i bordi l'uomo stesso appariva fortemente segnato dalle intemperie, il volto grinzoso, la barba d'argento sottile e arruffata. Era un uomo che una volta aveva lavorato la pietra, ma ora non lo faceva più. La maga aveva difficoltà a interpretare quel campo. I disegni davanti ai suoi occhi la sbigottivano: era come se fosse cominciato un gioco del tutto nuovo, con partecipanti che intervenivano sulla scena a ogni piè sospinto. A metà spirale c'era il Cavaliere dell'Alta Casa dell'Oscurità, la cui posizione faceva da contrappunto sia all'inizio che alla fine. Come l'ultima volta che il Mazzo aveva svelato questa figura micidiale, qualcosa, più elusivo che mai, aleggiava nel cielo d'inchiostro dietro al Cavaliere; a volte, sembrava addirittura una macchia scura sugli occhi di Tattersail. La spada del Cavaliere disegnava una striscia nera, fumosa, verso il Segugio all'apice della spirale; e stavolta, la donna ne indovinò il significato. Il futuro riservava uno scontro fra il Cavaliere e l'Alta Casa dell'Ombra. Il pensiero le arrecò sia spavento che sollievo: si parlava chiaramente di un conflitto. Non ci sarebbero state alleanze fra le Case. Era raro vedere un legame così netto e diretto fra due Case: il potenziale distruttivo la faceva gelare dalla preoccupazione. Il sangue versato a un livello di potere così alto causava violenti riverberi in tutto il mondo. Inevitabilmente, molti ci sarebbero andati di mezzo. E questo riportò Tattersail allo Scalpellino dell'Alta Casa della Morte. Sentì il cuore martellarle in petto. Batté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi, e riuscì a tirare qualche respiro profondo. «Il sangue», mormorò, «scorre sempre verso il basso». Lo Scalpellino sta forgiando un tumulo - dopo tutto, è il servo della Morte - e mi toccherà direttamente. Quel tumulo... è il mio? Devo ritirarmi? Abbandonare gli Arsori di Ponti al loro destino, fuggire da Tayschrenn, dall'Impero? Le inondò la mente un antico ricordo, che aveva represso per quasi due
secoli. L'immagine la scosse. Ancora una volta, si ritrovò a camminare per le strade fangose del villaggio in cui era nata, bambina portatrice del Talento, bambina che aveva visto i cavalieri della guerra irrompere nelle loro vite protette. Bambina che era scappata dalla conoscenza, senza dirlo a nessuno, finché era venuta la notte, una notte di grida e di morte. Il rimorso le montò dentro, il suo viso spettrale una familiare ossessione. Dopo tutti quegli anni, quel viso aveva ancora il potere di distruggere il suo mondo, di rendere fragili le cose che le servivano solide, di sconvolgere la sua illusione di sicurezza con una vergogna vecchia quasi duecento anni. L'immagine sprofondò nella sua pozza viscida, ma la lasciò cambiata. Adesso, non ci sarebbe stata nessuna via di fuga. I suoi occhi tornarono un'ultima volta al Segugio. Gli occhi della bestia sembravano ardere di fuoco giallo, che la trapassavano come per marchiarle l'anima. Si irrigidì sulla sedia, mentre una presenza fredda l'investiva da dietro. Lentamente, Tattersail si girò. «Scusami per non averti avvertito», disse Ben lo Svelto, emergendo dalla nube turbinosa del suo Canale. Emanava un aroma strano, pungente. «Arriva compagnia», annunciò, con aria concentrata. «Ho chiamato Hairlock; sta venendo via Canale.» Tattersail rabbrividì; un presentimento le accarezzava la spina dorsale. Si volse di nuovo verso il Mazzo, e cominciò a raccogliere le carte. «La situazione si è appena complicata di molto», disse Ben lo Svelto, alle sue spalle. La donna si fermò, concedendosi un sorrisino tirato. «Davvero?» mormorò. *** Il vento gettava la pioggia contro il viso di Whiskeyjack. La quarta campana risuonò debolmente nella notte scura. Il sergente si strinse addosso la cappa impermeabile, e cambiò stancamente posizione. La vista dalla sommità della torre orientale del palazzo era, per lo più, oscurata da cortine di pioggia. «Sono giorni che rimugini qualcosa», borbottò all'uomo al suo fianco. «Sentiamo di che si tratta, soldato.» Fiddler si asciugò la pioggia dagli occhi, socchiudendoli per guardare verso est. «Non ho molto da dirti, sergente», ribatté burbero. «Solo sensazioni. Quella maga, per esempio.»
«Tattersail?» «Già.» Si udì un tintinnio metallico, mentre lo zappatore si slacciava il cinturone. «Odio questa maledetta cosa», bofonchiò. Whiskeyjack guardò l'uomo gettare il cinturone e il fodero con lo spadone sul tetto, alle loro spalle. «Non dimenticartelo, però, come l'ultima volta,» si raccomandò il sergente, nascondendo un sorriso. Fiddler fremette. «Un piccolo errore, e te lo fanno pesare per sempre.» Whiskeyjack non rispose, anche se l'ilarità gli faceva vibrare le spalle. «Per le Ossa di Hood», riprese Fiddler, «non sono un combattente. Non in quel senso, comunque. Sono nato in un vicolo nella città di Malaz, ho imparato il mestiere di tagliapietre forgiando i tumuli sulla pianura dietro alla Roccaforte di Mock». Alzò lo sguardo sul suo sergente. «Anche tu, una volta, eri un tagliapietre. Proprio come me. Solo che io non ho imparato a fare il soldato in fretta come te. Io ho dovuto decidere fra l'esercito e le miniere - e a volte penso di aver fatto la scelta sbagliata.» Il divertimento di Whiskeyjack cessò: una fitta di dolore seguì alle parole di Fiddler. Imparare cosa? si chiese. Come uccidere le persone? Come mandarle a morire in terra straniera? «Che sensazione hai riguardo a Tattersail?» «Ha paura», rivelò lo zappatore. «È tormentata da vecchi demoni, che la stanno accerchiando.» Whiskeyjack grugnì. «È raro trovare un mago con un passato piacevole», osservò. «Si racconta che si sia unita alle forze non attraverso un normale reclutamento, ma come via di fuga. Poi ha fatto pasticci con la sua prima assegnazione.» «Questo non è il momento di rammollirsi.» «Ha perso il suo quadro. È stata tradita. Senza l'Impero, cosa le rimane cui aggrapparsi?» Cosa rimane a tutti noi? «È come se fosse sull'orlo del pianto, costantemente. Credo che abbia perso la spina dorsale, sergente. Se Tayschrenn la stringe in pugno, si metterà a strillare.» «Credo che tu la sottovaluti, Fiddler», disse Whiskeyjack. «È una che ha lottato per sopravvivere - ed è leale. Non lo sanno in molti, ma più di una volta le è stato offerto il titolo di Grande Mago, e ha sempre rifiutato. Non è immediatamente evidente, ma un testa a testa fra lei e Tayschrenn non sarebbe affatto scontato. È Maestra del suo Canale, e non è cosa che si ottenga senza spina dorsale.» Fiddler fischiò sommessamente, appoggiando le braccia sul parapetto.
«Riconosco il mio errore.» «Nient'altro, zappatore?» «Solo una cosa», rispose Fiddler, impassibile. Whiskeyjack s'irrigidì. Sapeva cosa significava quel tono. «Parla.» «Stasera sta per scatenarsi qualcosa, sergente.» Fiddler si girò d'un tratto; gli occhi gli brillavano nel buio. «Ci sarà un po' di confusione.» Entrambi si voltarono sentendo scattare la botola del tetto. Emerse il Gran Pugno Un-braccio Dujek; la luce della stanza sottostante lo rivestiva di un chiarore frastagliato. Superando l'ultimo gradino della scala, approdò alla sommità della torre. «Datemi una mano con questa maledetta porta», ordinò ai due uomini. Si avvicinarono; gli stivali scricchiolavano sulla ghiaia. «Notizie del capitano Paran, Gran Pugno?» chiese Whiskeyjack, mentre Fiddler si accovacciava accanto alla botola, richiudendola con un grugnito. «Nessuna», fece Dujek. «È scomparso. E lo stesso vale per quel tuo sicario, Kalam.» Whiskeyjack scosse la testa. «So dov'è Kalam, e dov'è stato per tutta la notte. Hedge e Mallet sono stati gli ultimi a vedere il capitano, che usciva dalla Locanda di Knob; dopodiché è scomparso. Gran Pugno, non siamo stati noi a uccidere il capitano Paran.» «Vieni al dunque», borbottò Dujek. «Maledizione, Fiddler, quella è la tua spada? In una pozzanghera?» Fiddler sibilò fra i denti, e si affrettò a raccogliere l'arma. «Quell'uomo è un caso disperato», commentò Dujek. «Che Shedunul protegga la sua pellaccia.» S'interruppe; sembrò raccogliere i pensieri. «D'accordo, ritiro l'insinuazione. Non avete ucciso voi Paran. Allora, dov'è?» «Lo stiamo cercando», annunciò Whiskeyjack, in tono incolore. Il Gran Pugno sospirò. «Intesi. Volete sapere chi altri potrebbe volere Paran morto, e questo significa spiegarvi chi l'ha mandato. È un uomo dell'Aggiunto Lorn, lo è da qualche tempo. Non è un Artiglio, però. È il figlio di un dannato nobiluomo di Unta.» Fiddler aveva indossato la spada e ora stava a venti passi di distanza, sul bordo del tetto, le mani sui fianchi. Whiskeyjack si ripulì gli occhi dalla pioggia battendo le palpebre. «Viene dalla capitale? Il suo nemico potrebbe essere qualcuno di quei circoli. Nessuno ama le famiglie nobili, nemmeno i nobili stessi.» «È possibile», concesse Dujek, senza troppa convinzione. «Ad ogni mo-
do, deve comandare il tuo squadrone, e non solo per questa missione. L'incarico è permanente.» «L'infiltrazione di Darujhistan è una sua idea?» indagò Whiskeyjack. «No», rispose il Gran Pugno, «ma non si sa di chi sia. Forse dell'Aggiunto, forse dell'Imperatrice stessa. Comunque, vi mandiamo lo stesso». Aggrottò la fronte per un attimo. «Devo comunicarvi gli ultimi dettagli.» Si voltò verso il sergente. «Partendo dal presupposto che Paran sia sparito per sempre.» «Posso parlare liberamente, Gran Pugno?» Dujek proruppe in una risata aspra. «Credi che io non lo sappia, sergente? Il piano fa schifo. Un incubo tattico...» «Non sono d'accordo.» «Che cosa?» «Credo che sortirà esattamente il suo scopo», ribadì il sergente in tono neutro, lo sguardo prima sull'orizzonte orientale che schiariva, poi sul soldato in piedi sul margine del tetto. Perché il suo scopo è farci uccidere tutti. Il Gran Pugno studiò il volto del sergente, poi ordinò: «Vieni con me». Portò Whiskeyjack da Fiddler. Lo zappatore li salutò con un cenno del capo. Un attimo dopo, tutti e tre guardavano la città sottostante. Le strade mal illuminate di Pale si snodavano fra i disarmonici blocchi di edifici che sembravano restii a rinunciare alla notte; dietro a cortine di pioggia i loro tozzi profili sembravano tremare davanti all'alba imminente. Dopo un po', Dujek commentò sommessamente: «Ci si sente molto soli qui fuori, no?». Fiddler grugnì. «Sicuramente, signore.» Whiskeyjack chiuse gli occhi. Qualunque cosa stesse succedendo a migliaia di leghe di distanza, si sentiva concretamente lì. Così era l'Impero, e così sarebbe sempre stato, indipendentemente dal luogo o dalle persone. Erano tutti strumenti ciechi alle mani che li modellavano. Il sergente aveva affrontato quella verità molto tempo prima. L'aveva irritato allora e l'irritava ora. L'unico sollievo, in quei giorni, sembrava venire dallo sfinimento. «Esistono sollecitazioni», continuò lentamente il Gran Pugno, «a sciogliere gli Arsori di Ponti. Ho già ricevuto ordine di unire il Secondo con il Quinto e il Sesto. Diventeremo il Quinto, a effettivo quasi completo. Le maree portano nuove acque alla nostra sponda, signori, acque dall'odore amaro». Esitò, poi disse: «Se tu e il tuo squadrone uscirete vivi da Darujhistan, sergente, avete il mio permesso di andarvene».
Whiskeyjack voltò bruscamente la testa, e Fiddler s'irrigidì. Dujek annuì. «Mi hai sentito. Quanto al resto degli Arsori di Ponti, be', sta' sicuro che me ne prenderò cura.» Il Gran Pugno lanciò un'occhiata a est, scoprendo i denti in un sorriso privo di allegria. «Mi stanno facendo pressione. Ma non riusciranno mai a lasciarmi senza spazio di manovra. Ho diecimila soldati cui devo moltissimo...» «Scusate, signore», intervenne Fiddler, «ci sono diecimila soldati i quali dicono di dovere a voi. Basta che parliate e...». «Silenzio», intimò Dujek. «Sì, signore.» Whiskeyjack rimase zitto; i suoi pensieri erano un vortice tempestoso. Diserzione. La parola gli risuonava in testa come un lamento funebre. E l'affermazione di Fiddler, sentiva, era sincera. Se il Gran Pugno Dujek decideva di fare una mossa, l'ultimo posto in cui Whiskeyjack desiderava essere era in fuga, a centinaia di leghe di distanza dal cuore delle cose. Era troppo vicino a Dujek e, per quanto si sforzassero di nasconderlo, la storia fra loro ribolliva costantemente sotto la superficie. C'era stato un tempo in cui Dujek aveva chiamato lui «signore» e, anche se non gli portava rancore, il sergente sapeva che Dujek aveva ancora difficoltà ad accettare il rovesciamento di sorti. Al momento giusto, Whiskeyjack intendeva essere al fianco di Un-braccio. «Gran Pugno», riprese infine, consapevole del fatto che entrambi gli uomini aspettavano di sentirlo parlare, «rimangono ancora alcuni Arsori di Ponti. Ci sono meno mani sulla spada; ma la spada è ancora affilata. Non è nel nostro stile rendere la vita facile ai nostri oppositori - di chiunque si tratti. Non è nel nostro stile andarcene tranquillamente...». Il sergente sospirò. «Gli farebbe comodo, no? Finché c'è una mano sulla spada, una sola mano, gli Arsori di Ponti non si ritireranno. È una questione d'onore, presumo.» «Buono a sapersi», replicò Dujek. Poi grugnì. «Eccoli che arrivano.» Whiskeyjack alzò lo sguardo, puntandolo, come il Gran Pugno, verso il cielo orientale. *** Ben lo Svelto inclinò la testa, poi sibilò fra i denti. «I Segugi hanno fiutato la sua pista», annunciò. Kalam imprecò con veemenza, balzando in piedi.
Seduta sul letto, gli occhi velati, Tattersail rivolse un cipiglio all'uomo imponente che camminava avanti e indietro, provocando a malapena uno scricchiolio sulle tavole del pavimento. Per quanto grosso fosse, Kalam sembrava scivolare, conferendo alla scena un'atmosfera surreale; considerato anche che il mago stava sospeso nell'aria al centro della stanza, le gambe incrociate, a una spanna dal pavimento di legno. Tattersail si rese conto di essere esausta. Stava accadendo troppo, e tutto in una volta. Si riscosse mentalmente, riportando l'attenzione su Ben lo Svelto. Il mago era legato a Hairlock; la marionetta aveva trovato la pista di qualcuno - di qualcosa - che portava al Canale dell'Ombra. Hairlock era arrivato alle porte del Regno dell'Ombra, e poi le aveva varcate. Per qualche tempo, Ben lo Svelto aveva perso contatto con la marionetta, e quei lunghi minuti di silenzio avevano lasciato tutti con i nervi a pezzi. Quando il mago aveva captato di nuovo la presenza di Hairlock, aveva capito che non era più solo. «Sta uscendo», annunciò Ben lo Svelto. «Sta cambiando Canale. Se la fortuna di Oponn lo assiste, seminerà i Segugi.» Tattersail trasalì davanti all'uso noncurante che il mago faceva del nome del Giullare. Con tante correnti che turbinavano così vicine alla superficie, non c'era bisogno di richiamare attenzione sgradita su di loro. La stanchezza aleggiava pesantemente nella stanza come incenso amaro, odorante di sudore e di tensione. Dopo le sue ultime parole, Ben lo Svelto aveva chinato la testa. Tattersail sapeva che la sua mente stava attraversando i Canali, aggrappata alla spalla di Hairlock con una morsa d'acciaio. Camminando camminando, Kalam arrivò davanti alla maga. Si fermò, guardandola. «E Tayschrenn?» chiese in tono burbero, le mani scosse da uno spasmo. «Sa che è successo qualcosa. È a caccia, ma la preda gli sfugge.» Sorrise al sicario. «Lo sento muoversi con prudenza. Molta prudenza. Per quel che ne sa lui, la preda potrebbe essere un coniglio oppure un lupo.» Kalam mantenne la sua espressione cupa. «O un Segugio», borbottò, poi ricominciò a camminare. Tattersail lo fissò. Era questo che Hairlock stava facendo? Si stava facendo seguire da un Segugio? Stavano tutti quanti attirando Tayschrenn in un'imboscata mortale? «Spero di no», ribatté, puntando occhi duri sul sicario. «Sarebbe sciocco.» Kalam l'ignorò, ignorando ostentatamente il suo sguardo.
Tattersail si alzò. «Anzi, non sciocco. Folle. Vi rendete conto di cosa potrebbe scatenarsi qui? Secondo alcuni, i Segugi sono più antichi dello stesso Regno delle Ombre. Ma non si tratta solo di loro - il potere attira potere. Se un Ascendente apre il tessuto qui e ora, ne arriveranno altri, fiutando sangue. Tempo dell'alba, tutti i mortali di questa città potrebbero essere defunti.» «Calma, donna», la rimbeccò Kalam. «Nessuno vuole un Segugio libero in città. Parlo per paura.» Ma si rifiutava ancora di guardarla. L'affermazione del sicario stupì Tattersail; era la vergogna che teneva il suo sguardo lontano da lei. La paura era un'ammissione di debolezza. «Per carità di Hood», sospirò, «sono due ore che sto seduta, tanto mi tremano le gambe». Funzionò. Kalam si fermò, si girò verso di lei, poi scoppiò a ridere. Era una risata profonda, armoniosa, che le fece un piacere immenso. La porta della camera da letto si aprì, ed entrò Mallet, il viso rotondo rosso e lucido. Il guaritore lanciò una fuggevole occhiata a Ben lo Svelto, poi andò da Tattersail, accovacciandosi davanti a lei. «Non c'è dubbio: il capitano Paran dovrebbe essere in una Tomba da Ufficiale, con cinque piedi di terra sul suo bel visino.» Rivolse un cenno del capo a Kalam, che li aveva raggiunti. «La prima ferita era mortale; dritta sotto al cuore. Un colpo da professionisti», aggiunse, con un'occhiata eloquente al sicario. «La seconda l'avrebbe ucciso più lentamente, ma non meno sicuramente.» Kalam fece una smorfia. «Così, dovrebbe essere morto. Ma non lo è. Il che significa?» «C'è stato un intervento», rispose Tattersail, lo stomaco scosso dalla nausea. Gli occhi dalle palpebre pesanti si posarono su Mallet. «Le tue doti Denul sono state sufficienti?» Il guaritore fece un sorrisetto storto. «È stato facile. Ho avuto aiuto», rivelò. «Il danno era già riparato; le ferite si stavano già chiudendo. Ho affrettato un po' le cose, e basta. Ha subito un grosso trauma, nel corpo e nella mente. Passeranno settimane prima che si riprenda; e questo da solo potrebbe essere un problema.» «Che cosa intendi dire?» indagò Tattersail. Kalam andò al tavolo, prendendo una brocca di vino e tre tazze di terracotta. Li raggiunse e cominciò a versare, mentre Mallet diceva: «La guarigione non dovrebbe mai fare distinzione fra la carne e la percezione della carne. È difficile da spiegare. I Canali Denul riguardano ogni aspetto della guarigione, poiché il danno, quando si verifica, si verifica a tutti i livelli.
Lo shock è la cicatrice che colma la distanza fra il corpo e la mente». «Grandioso», ruggì Kalam, porgendo una tazza al guaritore. «E di Paran che ci dici?» Mallet bevve una lunga sorsata, asciugandosi la bocca. «Qualunque sia la forza che ha interceduto, si è occupata solo di guarire la carne. Potrebbe essere in piedi fra un paio di giorni, ma ci vorrà tempo per sanare lo shock.» «Non potresti farlo tu?» chiese Tattersail. Lui scosse la testa. «Queste cose sono tutte strettamente connesse. Chiunque abbia interceduto, ha reciso quei legami. Quanti shock, quanti eventi traumatici, ha subito Paran in vita sua? Quale cicatrice devo seguire? Nella mia ignoranza, potrei fare più male che bene.» Tattersail pensò al giovane uomo che avevano trascinato nella sua stanza un'ora prima. Dopo il grido nel vicolo, con cui aveva annunciato a Picker che era ancora vivo, era caduto nell'incoscienza. Tutto ciò che sapeva di Paran era che era figlio di un nobile, che veniva da Unta, e che era il nuovo comandante dello squadrone nella missione che doveva portarli a Darujhistan. «Ad ogni modo», riprese Mallet, svuotando la sua tazza, «Hedge lo sta tenendo d'occhio. Potrebbe rinvenire da un momento all'altro, ma non c'è modo di dire in che stato sarà la sua mente». Il guaritore rivolse un sorriso a Kalam. «Hedge ha preso il ragazzaccio in simpatia.» Un'imprecazione del sicario fece allargare il sorriso. Tattersail alzò un sopracciglio. Vedendo la sua espressione, Mallet spiegò: «Hedge adotta anche i cani randagi e altre, ehm, creature bisognose». Lanciò un'occhiata a Kalam, che aveva ripreso a camminare. «E può anche diventare ostinato, al riguardo.» Il caporale fece un ringhio. Tattersail sorrise, ma il sorriso svanì quando i suoi pensieri tornarono al capitano Paran. «Verrà usato», sentenziò, categorica. «Usato come spada.» A quelle parole, Mallet diventò pensoso. «La sua guarigione non è dovuta a misericordia, ma a puro calcolo», concordò. La voce di Ben lo Svelto li fece sussultare tutti. «L'attentato alla sua vita viene dall'Ombra.» La stanza cadde nel silenzio. Tattersail sospirò. Prima, si era trattato solo di un sospetto. Vide Mallet e Kalam scambiarsi degli sguardi, e intuì ciò che passava fra loro. Ovun-
que fosse Dispiacere, quando fosse tornata all'ovile sarebbe stata pesantemente interrogata. E Tattersail ora sapeva - con certezza - che la ragazza apparteneva all'Ombra. «E questo significa», ricominciò Ben lo Svelto, in tono leggero, «che chiunque abbia interceduto a favore di Paran, si trova ora in diretta opposizione al Regno dell'Ombra». Girò la testa, puntando gli occhi scuri sulla maga. «Dovremo venire a sapere ciò che sa Paran, quando riprende conoscenza. Solo che...» «Non saremo qui», terminò Kalam. «Come se Hairlock non bastasse», borbottò Tattersail, «ora volete che assista quel vostro capitano». Ben lo Svelto si raddrizzò. «Forse Hairlock starà assente per un po'. Quei Segugi sono testardi; potrebbe impiegare qualche tempo a scuoterseli di dosso. O, nella peggiore delle ipotesi», il mago fece un sorriso cupo, «si rivolterà contro di loro e darà al Signore dell'Ombra qualcosa cui pensare». «Va' a prendere Hedge», disse Kalam a Mallet. «Dobbiamo muoverci.» L'ultimo commento di Ben lo Svelto provocò un brivido a Tattersail. Fece una smorfia sentendo in bocca un sapore di cenere, e guardò in silenzio lo squadrone prepararsi alla partenza. Avevano davanti una missione, che li avrebbe portati dritti nel cuore di Darujhistan, la prossima voce sulla lista dell'Impero, l'ultima Città Libera, l'unica gemma del continente abbastanza preziosa da suscitare cupidigia. Lo squadrone si sarebbe infiltrato, preparando la via. Non avrebbero avuto alcuna assistenza. Strano ma vero, Tattersail quasi invidiava l'isolamento in cui stavano per entrare. Non del tutto, però: temeva che sarebbero morti, dal primo all'ultimo. Il Tumulo dello Scalpellino tornò nei suoi pensieri, come richiamato dalle sue paure. Era, si rese conto, abbastanza grande da contenerli tutti. *** Con l'alba una striscia cremisi sottile come una lama alle loro spalle, i Moranth Neri, accucciati sulle alte selle delle montature Quorl, scintillavano come diamanti lucidi di sangue. Whiskeyjack, Fiddler e il Gran Pugno guardarono avvicinarsi i dodici cavalieri. Sopra di loro, la pioggia era diminuita, e chiazze di foschia grigia calavano a sfiorare la pietra e le tegole dei tetti vicini. «Dov'è il tuo squadrone, sergente?» chiese Dujek. Whiskeyjack fece segno col capo a Fiddler, che si girò e tornò alla boto-
la. «Arriveranno presto», rispose il sergente. Le ali sfavillanti, sottili come pelle dei Quorl, quattro per ognuno, sembrarono sussultare per un attimo, e i Moranth scesero all'unisono verso il tetto della torre. L'acuto frullio delle ali fu inframmezzato dalla parlata a scatti con cui i cavalieri Moranth si impartivano ordini l'un l'altro. Passando a cinque piedi appena dalle teste dei due uomini, atterrarono alle loro spalle senza cerimonie. Fiddler era scomparso nella stanza sottostante. Dujek, la mano sul fianco, guardò torvo i Moranth per un attimo, prima di dirigersi alla botola con un borbottio incomprensibile. Whiskeyjack camminò fino al Moranth più vicino. La visiera di corno nero che copriva il volto del soldato si girò verso il sergente; il tutto in completo silenzio. «Fra di voi, c'era un uomo con una mano sola», esordì Whiskeyjack. «Aveva ricevuto cinque decorazioni al valore. È ancora vivo?» Il Moranth Nero non rispose. Il Sergente scrollò le spalle e rivolse l'attenzione ai Quorl. Malgrado li avesse già cavalcati, continuavano ad affascinarlo. Le creature alate stavano in equilibrio su quattro zampe sottili che spuntavano da sotto le selle. Aspettavano sul tetto con le ali spiegate, e fremevano abbastanza forte da creare intorno a sé una foschia di goccioline d'acqua. Le code multicolori, stranamente segmentate, sporgevano diritte dietro di loro, lunghe venti piedi. Le narici di Whiskeyjack tremarono quando l'odore acre, familiare, lo raggiunse. La testa enorme, a forma di cuneo, del Quorl più vicino era dominata da occhi sfaccettati e mascelle snodate. Sotto di essa erano infilati altri due arti - braccia, supponeva. La creatura ruotò di scatto la testa, puntando l'occhio sinistro sul sergente. Questi continuò a fissare il Quorl, chiedendosi cosa vedesse, cosa pensasse - se mai pensava. Curioso, gli rivolse un cenno del capo. La testa s'inclinò, poi si girò dall'altra parte. Whiskeyjack sgranò gli occhi nel vedere la punta della coda del Quorl arricciarsi per un attimo. Era la prima volta che assisteva a un movimento simile. L'alleanza fra i Moranth e l'Impero aveva cambiato il volto della guerra Imperiale. La tattica Malazan lì a Genabackis aveva assunto una forma nuova, sempre più dipendente dal trasporto aereo di soldati e approvvigionamenti. Tale dipendenza, a parere di Whiskeyjack, era pericolosa. Sappiamo così poco di questi Moranth - nessuno ha mai visto le loro città nella foresta. Non riesco neanche a capire di che sesso sono. La maggior par-
te degli studiosi riteneva che fossero veri umani, ma non c'era modo di dirlo: i Moranth raccoglievano i propri morti dai campi di battaglia. L'Impero avrebbe passato dei guai, se i Moranth avessero mai mostrato sete di potere. Da quel che aveva sentito, però, le fazioni di vari colori indicavano una gerarchia in continuo mutamento, in cui rivalità e competizione erano esasperate. Il Gran Pugno Dujek tornò al fianco di Whiskeyjack; la sua espressione dura era lievemente ammorbidita dal sollievo. Dalla botola, voci si levarono in un alterco. «Sono arrivati», annunciò Dujek. «Stanno dando alla tua nuova recluta una tirata d'orecchi per qualcosa - e non dirmi cosa, perché non voglio saperlo.» Il momentaneo conforto di "Whiskeyjack fu distrutto dalla mancata realizzazione della segreta speranza (che solo ora si rendeva conto di aver nutrito) che Dispiacere avesse disertato. E così, i suoi uomini l'avevano trovata, dopo tutto, oppure lei aveva trovato loro. Comunque fosse, i suoi veterani non sembravano troppo felici di vederla. Non poteva biasimarli. Aveva cercato di uccidere Paran? Così, a quanto pareva, sospettavano Ben lo Svelto e Kalam. Kalam era quello che gridava di più, più di quanto non giustificasse il suo ruolo di caporale; l'occhiata inquisitoria di Dujek a Whiskeyjack bastò a spingerlo verso la botola. Arrivato al bordo, guardò nella stanza sottostante. C'erano tutti, ad attorniare in un cerchio minaccioso Dispiacere, che stava appoggiata alla scala come annoiata dall'intera faccenda. «Silenzio!» ruggì Whiskeyjack. «Controllate l'equipaggiamento e salite qui, subito!» Vedendoli scorrazzare all'intorno, annuì soddisfatto e tornò a dove aspettava il Gran Pugno. Dujek si strofinava il moncone del braccio sinistro, esibendo un fiero cipiglio. «Maledetto questo tempo», borbottò. «Mallet potrebbe alleviare il dolore», suggerì Whiskeyjack. «Non ce n'è bisogno», ribatté Dujek. «Sto solo diventando vecchio.» Si grattò la mascella. «Tutti i vostri pesanti rifornimenti sono stati portati al punto di raccolta. Pronto per volare, sergente?» Whiskeyjack esaminò le selle ondulate che sporgevano dal dorso dei Quorl come cappucci, e annuì decisamente. Guardarono i membri dello squadrone emergere dal vano quadrato della botola; ognuno indossava una cappa impermeabile e portava uno zaino voluminoso. Fiddler e Hedge erano impegnati in una lite a suon di bisbigli; il secondo lanciò un'occhiataccia a Trotts, che gli aveva calpestato il tallo-
ne. Il Barghast aveva attaccato la sua intera collezione di amuleti, ninnoli e trofei a varie parti del suo corpo robusto, e assomigliava a un albero adornato per la festa Kanese degli Scorpioni. I Barghast erano famosi per il loro strano senso dell'umorismo. Ben lo Svelto e Kalam fiancheggiavano Dispiacere, entrambi torvi e nervosi, mentre la ragazza, ignorando tutti quanti, si dirigeva lentamente verso i Quorl in attesa. La sua sacca non era più grande di una coperta avvolta su se stessa, e la sua cappa impermeabile assomigliava più a un mantello - tutt'altro che regolamentare - lungo fino alle caviglie. Aveva alzato il cappuccio. Malgrado la nascente luce del giorno, il suo viso rimaneva nell'ombra. Questo è tutto ciò che mi rimane. Whiskeyjack sospirò. «Come va la ragazza, sergente?» mormorò Dujek. «È ancora viva», replicò Whiskeyjack, duro. Il Gran Pugno scosse la testa. «Di questi tempi, sono così maledettamente giovani...» Mentre rifletteva sulle parole di Dujek, Whiskeyjack fu assalito da un ricordo. Durante una breve missione con il Quinto, lontano dall'assedio di Pale, nel cuore della Campagna di Mott, Dispiacere li aveva raggiunti, a partire dalle nuove truppe arrivate a Nathilog. L'aveva vista puntare un coltello contro tre mercenari locali fatti prigionieri a Greydog; il fine apparente era quello di raccogliere informazioni ma, ricordò con un brivido, la realtà era stata ben diversa. Dispiacere non aveva agito per convenienza. Aveva sgranato gli occhi, inorridito, mentre lei torturava gli uomini ai lombi. Ricordò di aver incrociato lo sguardo di Kalam, e il proprio gesto disperato che aveva fatto balzare il nero in avanti, i coltelli sguainati. Kalam aveva spinto Dispiacere da parte e, con tre rapidi movimenti, aveva squarciato la gola agli uomini. E poi era arrivato il momento che torceva ancora il cuore a Whiskeyjack: con le loro ultime parole, la bocca impastata dalla schiuma, i mercenari avevano benedetto Kalam. Dispiacere aveva semplicemente rinfoderato la sua arma, e si era allontanata. Malgrado fosse con lo squadrone da due anni, i suoi uomini la chiamavano ancora recluta e, probabilmente, l'avrebbero fatto fino al giorno della loro morte. C'era una ragione per questo, e Whiskeyjack la capiva bene. Le reclute non erano Arsori di Ponti. Dispiacere era una recluta perché l'idea di associarla inestricabilmente agli Arsori di Ponti bruciava come un coltello incandescente in gola a tutti i membri dello squadrone. E il sergente stesso non era immune a quella valutazione.
In preda a questi pensieri, Whiskeyjack perse la sua solita, impassibile espressione. Giovane? rispose mentalmente. No, puoi perdonare i giovani, puoi soddisfare i loro semplici bisogni, e puoi guardarli negli occhi e trovarvi qualcosa di riconoscibile. Ma lei? No. Meglio evitare quegli occhi, in cui non c'era niente di giovane - assolutamente niente. «Muoviamoci», ruggì Dujek. «Fai montare tutti in sella.» Il Gran Pugno si girò per dire al sergente le ultime, poche parole, ma ciò che vide sul suo viso gliele fermò in gola. *** Mentre l'oriente dispiegava verso il cielo il suo mantello cremisi, nella città risuonarono due tuoni smorzati, a distanza di pochi minuti l'uno dall'altro. Le ultime lacrime della notte vorticarono lungo le pareti degli edifici e i canali di scolo delle strade. Le buche si riempirono di pozzanghere fangose, che racchiudevano un riflesso opaco delle nubi sempre più rade. Fra i vicoli stretti e curvi del Quartiere Krael di Pale, il freddo e l'umido della notte si aggrapparono tenacemente agli spazi oscuri. Lì, i mattoni ammuffiti e i ciottoli consunti avevano inghiottito il secondo tuono, impedendo all'eco di sfidare il picchiettio delle gocce. Giù per un passaggio che si snodava a sud lungo il muro esterno, camminava a lunghi balzi un cane grosso come un mulo. La testa massiccia era china in avanti, in linea con i larghi fasci dei muscoli delle spalle. Che avesse trascorso una notte senza pioggia era dimostrato dal pelo polveroso, asciutto, screziato grigio e nero. Il muso dell'animale era punteggiato di grigio, e gli occhi ardevano di un fuoco ambra. Il Segugio, di nome Gear, classificato Settimo fra i servi di Tronod'Ombra, era a caccia. La preda era astuta, elusiva, e rapida nella sua fuga. Ma Gear si sentiva vicino alla meta. Sapeva di non stare rincorrendo un essere umano - nessun uomo o donna mortale avrebbe potuto sottrarsi per tanto tempo alle sue mascelle. Ancora più stupefacente era il fatto che Gear non avesse mai visto la sua preda. Ma questa aveva sconfinato, era entrata impunemente nel Regno dell'Ombra, ricercando Tronod'Ombra stesso e sfilacciando tutte le reti intessute dal signore di Gear. L'unica risposta per un simile affronto era la morte. Presto, il Segugio sapeva, sarebbe stato lui a essere cacciato e, se i cacciatori venivano in numero e forze sufficienti, avrebbe avuto difficoltà a continuare il suo inseguimento. C'era chi, in città, aveva avvertito le vio-
lente rotture del tessuto. E meno di un minuto dopo essere passato attraverso la porta del Canale, Gear aveva sentito irrigidirsi il pelo intorno al collo, segno dello sbocciare della magia nelle vicinanze. Fino a ora, il Segugio aveva evitato di essere individuato, ma non sarebbe durata. Si mosse silenziosamente, con cautela, per il labirinto di baracche e capannoni appoggiati al muro della città, ignorando i residenti che, di tanto in tanto, uscivano a respirare l'aria dell'alba, purificata dalla pioggia. Calpestò i mendicanti sdraiati sul suo cammino. I cani e i gatti locali gli lanciavano un'occhiata e se la svignavano, le orecchie piatte e la coda strisciante sul terreno fangoso. Mentre superava l'angolo di una casa di pietra crollata, Gear sentì la brezza mattutina colpirgli la testa. Si fermò, scrutando la strada davanti a sé. Banchi di foschia scivolavano qua e là, e i primi carri venivano tirati fuori dai piccoli mercanti, avvolti in abiti caldi contro il freddo. Il tempo stringeva. Gear spinse gli occhi lungo tutta la strada, concentrandosi su una vasta proprietà, contornata da muri, all'estremità. Quattro soldati stavano, rilassati, davanti alla porta, guardando i passanti con scarso interesse e parlando fra loro. Gear sollevò la testa, trovando una finestra infranta al secondo piano dell'edificio. Aspettativa e piacere gli montarono nel sangue. Aveva trovato il capo della pista. Abbassando la testa, si mosse, lo sguardo fisso sulle quattro guardie. *** Il turno era finito. Avvicinandosi, i due soldati nuovi notarono che la porta era socchiusa. «Che cosa succede?» chiese uno, guardando i visi contratti dei colleghi appoggiati contro al muro. «È stato quel tipo di notte», rispose il più anziano. «Il tipo in cui non si fanno domande.» I due nuovi si scambiarono un'occhiata, poi quello che aveva parlato annuì e sorrise in direzione del più anziano. «So di cosa parli. Be', andate, allora. Le vostre brande vi aspettano.» Il più anziano spostò la picca e sembrò afflosciarsi. Il suo sguardo guizzò verso il compagno, ma il giovane rivolgeva la sua attenzione a qualcosa lungo la strada. «Immagino che sia troppo tardi», disse l'anziano ai nuovi
venuti, «nel senso che non succederà, per cui non ha importanza, ma se arriva una donna, una degli Arsori di Ponti, lasciatela passare e tenete gli occhi sui muri». «Guardate quel cane», esclamò il giovane. «Caspita!» replicò il nuovo. «La vita nel Secondo...» «Guardate quel cane», ripeté il soldato giovane. Gli altri si girarono verso la strada. La guardia anziana sgranò gli occhi, poi sibilò un'imprecazione e armeggiò con la picca. Nessuno degli altri riuscì nemmeno a fare altrettanto prima che il Segugio fosse su di loro. *** Tattersail giaceva sul letto, sdraiata sulla schiena. Il suo sfinimento aveva raggiunto un punto tale che persino il sonno le sfuggiva. Fissava il soffitto, mentre i suoi pensieri rivedevano disordinatamente gli eventi degli ultimi sette giorni. Malgrado la rabbia iniziale per essere stata coinvolta nelle macchinazioni degli Arsori di Ponti, doveva riconoscere di provare una certa eccitazione. Il desiderio di radunare i suoi averi e aprire un Canale, lontano dall'Impero, lontano dalla follia di Hairlock, lontano dal campo di una guerra infinita, ora sembrava antico, nato da una disperazione che non sentiva più. Ma era più di un rinnovato senso di umanità che la spingeva a rimanere fino alla fine - gli Arsori di Ponti, dopo tutto, avevano dimostrato più volte di saper badare ai propri affari. No, voleva vedere Tayschrenn abbattuto. Era una verità che la spaventava. La sete di vendetta avvelenava l'animo. E probabilmente, avrebbe dovuto aspettare a lungo prima di assistere alla giusta caduta di Tayschrenn. Si chiese se, dopo essersi nutrita di veleno per tanto tempo, non avrebbe finito per osservare il mondo con gli occhi di Hairlock, brillanti di follia. «Troppo», borbottò. «Troppo in una volta.» Un suono alla porta la fece sussultare. Si mise a sedere. «Oh», esclamò, aggrottando la fronte. «Sei tornato.» «Sano e salvo», rispose Hairlock. «Mi spiace deluderti, 'Sail.» La marionetta agitò una mano piccola, guantata e la porta alle sue spalle si chiuse; il chiavistello si infilò al suo posto. «Sono molto temuti, questi Segugi dell'Ombra», disse, saltellando fino al centro della stanza e facendo una piroetta prima di sedersi, le gambe aperte e le braccia molli lungo i fianchi. Ridacchiò. «Ma alla fine, sono solo stupidi, lenti bastardi, che si fermano
ad annusare ogni albero. Senza trovare traccia del furbo Hairlock.» Tattersail s'incurvò; chiuse gli occhi. «Ben lo Svelto era seccato dalla tua trascuratezza.» «Sciocco!» Hairlock sputò. «Lo lascio a montare la guardia, lo lascio convinto che tale conoscenza abbia potere su di me mentre vado dove voglio. È tanto sicuro di comandarmi, un'illusione che gli lascio adesso, per rendere più dolce la mia vendetta.» Lei aveva già sentito questi discorsi; sapeva che la stava manipolando, per indebolire la sua determinazione. Sfortunatamente, ci stava in parte riuscendo, perché fu assalita dal dubbio. Forse Hairlock diceva la verità: forse Ben lo Svelto l'aveva già perso, e non lo sapeva. «Conserva la tua vendetta per l'uomo che ti ha rubato prima le gambe e poi tutto il corpo», ribatté seccamente Tattersail. «Tayschrenn ti sta ancora prendendo in giro.» «Sarà il primo a pagare!» strillò Hairlock. Poi si piegò in avanti, afferrandosi i fianchi. «Una cosa alla volta», mormorò. Dal complesso fuori dalla finestra vennero le prime grida. Tattersail scese dal letto, mentre Hairlock urlava: «Mi ha trovato! Non devo essere visto, donna!». La marionetta balzò in piedi, correndo alla sua scatola appoggiata al muro più lontano. «Distruggi il Segugio! Non hai scelta!» Con gesti frettolosi, aprì la scatola e vi entrò. Il coperchio si richiuse con un tonfo, e l'alone di un incantesimo protettivo lo circondò. Tattersail stava accanto al letto, esitante. Sentì infrangersi del legno, e l'edificio tremare. Uomini gridavano, armi sferragliavano. La maga raddrizzò le spalle, mentre il terrore le penetrava nelle membra come piombo fuso. Distruggere un Segugio dell'Ombra! La finestra fu scossa da tonfi pesanti, come di corpi gettati alla rinfusa sull'impiantito sottostante, poi i tonfi raggiunsero i piedi delle scale, e le grida cessarono. Sentì soldati vociare dal complesso. Tattersail attinse al proprio Canale Thyr. Il potere la investì, spingendo da parte il terrore paralizzante. Libera da ogni stanchezza, volse lo sguardo sulla porta. Il legno scricchiolò, poi il pannello esplose verso l'interno, come lanciato da una catapulta, ma venne subito deviato dallo scudo magico di Tattersail. Il doppio impatto lo mandò in frantumi; una moltitudine di schegge volò contro il soffitto e i muri. Del vetro si ruppe alle sue spalle; le imposte delle finestre si erano aperte con violenza. Un vento gelido invase la stanza.
Apparve il Segugio, gli occhi fiamme gialle, i muscoli delle alte spalle tesi, increspati sotto la pelle. Il potere della creatura colpì come un'onda Tattersail, che tirò bruscamente il respiro. Il Segugio era vecchio, più vecchio di qualunque altra cosa avesse mai incontrato. Si fermò nel vano della porta, annusando l'aria; sangue gli colava dalle labbra nere. Poi il suo sguardo si fissò sulla scatola cerchiata di ferro appoggiata al muro alla sinistra di Tattersail. La bestia cominciò ad avanzare. «No», disse la donna. Il Segugio s'immobilizzò. La testa massiccia ondeggiò lentamente e si sintonizzò su di lei, come se la notasse per la prima volta. Le labbra si ritrassero a scoprire il riflesso luminescente di canini lunghi come il pollice di un uomo. Maledizione, Hairlock! Ho bisogno del tuo aiuto! Ti prego! Una striscia bianca lampeggiò sopra gli occhi del Segugio, mentre le palpebre si ritraevano sulle orbite. La bestia caricò. L'attacco fu così rapido che Tattersail non riuscì ad alzare le mani prima che il nemico le arrivasse sopra, attraversando la sua magia esterna come se non fosse più di un venticello frizzante. La sua protezione più intima, uno strato di Alte Difese, si oppose all'assalto del Segugio come un muro di pietra. La maga sentì crepe irradiarsi all'esterno, fenditure profonde arrivare alle sue braccia e al suo petto con uno schiocco, subito seguito da uno schizzo di sangue. Questo, e la forza del Segugio, la lanciarono all'insù. Le Difese alle sue spalle attutirono il colpo quando sbatté contro il muro accanto alla finestra. Malta salì a sbuffi nell'aria, e frammenti di mattone si sparsero per tutto il pavimento. Il Segugio era caduto in ginocchio. Scuotendo la testa, si rimise in piedi, ansimò, poi attaccò di nuovo. Tattersail, la mente scossa dalla prima carica, sollevò debolmente davanti alla faccia un braccio striato di sangue; era incapace di fare altro. Mentre il Segugio balzava verso la sua testa con le mascelle spalancate, un'onda di luce grigia colpì la bestia sul fianco, gettandola sul letto alla destra di Tattersail. Il legno scricchiolò. Con un grugnito, il Segugio si rialzò sul pavimento, e stavolta si voltò verso Hairlock, che stava appollaiato sopra la sua scatola, luccicante di sudore, le braccia alzate. «Oh, sì, Gear», strillò. «Sono io la tua preda!» Tattersail crollò a terra, poi si girò su un fianco e vomitò. Un Canale caotico vorticò nella stanza, un miasma che ribollì in lei come una tumultuosa pestilenza. Irradiava da Hairlock in sprazzi visibili di grigio granuloso,
screziato di nero. Il Segugio studiò Hairlock; il respiro affannoso gli faceva vibrare ritmicamente i fianchi. Sembrava cercasse di scacciare le onde di potere dal cervello. Un ringhio sommesso gli risuonò nel petto - il primo verso che emetteva. La testa voluminosa si afflosciò. Tattersail sgranò gli occhi, poi la comprensione la colpì come un martello nel petto. «Segugio!» gridò. «Vuole prenderti l'anima! Scappa! Esci di qui!» La bestia ringhiò più forte, ma non si mosse. Nessuno dei tre notò il fatto che, sulla sinistra, si stava aprendo la porta affacciata sulla camera interna, né la zoppicante apparizione del capitano Paran, avvolto fino alle caviglie in un'incolore coperta di lana. Pallido e tirato, l'uomo avanzò, gli occhi opachi, fissi sul Segugio. Mentre l'invisibile scontro di volontà continuava fra Gear e Hairlock, Paran si avvicinò. Tattersail colse il movimento con la coda dell'occhio. Aprì la bocca per lanciare un avvertimento, ma Paran l'anticipò. La coperta si dischiuse a rivelare uno spadone, la cui punta lampeggiò mentre il capitano praticava un affondo. Lo spadone si conficcò nel petto di Gear; Paran balzò all'indietro, girando l'arma per liberarla. Un urlo straziante si levò dalla gola di Gear. Il Segugio barcollò, finendo nei resti del letto; mordeva la ferita sul fianco, che sprizzava sangue. Hairlock cacciò un grido di rabbia e scattò in avanti, verso Gear. Tattersail fece lo sgambetto alla marionetta, scagliandola contro il muro opposto. Gear ululò. Una fenditura buia si aprì intorno a lui, accompagnata dal suono della tela lacerata. Il cane si girò di scatto, tuffandosi nell'ombra sempre più fitta. Lo squarcio si chiuse e la bestia sparì, lasciando una scia di fluttuante aria gelida. Tanto sbigottita da non provare dolore, Tattersail rivolse l'attenzione al capitano Paran e all'arma insanguinata fra le sue mani. «Come?» ansimò. «Come hai fatto ad attraversare la magia del Segugio? La tua spada...» Il capitano abbassò gli occhi a guardarla. «Pura fortuna, presumo.» «Oponn!» sibilò Hairlock, mentre si rialzava in piedi con un'occhiata micidiale a Tattersail. «Che Hood maledica il Giullare! Quanto a te, donna, non dimenticherò. Me la pagherai, lo giuro!» Tattersail distolse lo sguardo, sospirando. Un sorriso le sfiorò le labbra mentre parole ascoltate in precedenza ritornavano ora con un significato nuovo, cupo. «Sei troppo occupato a restare in vita, Hairlock, per attaccare
me. Hai dato a Tronod'Ombra qualcosa cui pensare. E ti pentirai di aver attratto la sua attenzione, marionetta. Negalo, se hai il coraggio.» «Torno alla mia scatola», proclamò Hairlock, movendosi con passo frettoloso. «Tayschrenn sarà qui a minuti. Non dire niente, maga.» Entrò nel suo rifugio. «Niente.» Il coperchio si chiuse con uno scatto. Il sorriso di Tattersail si allargò; il sapore di sangue nella sua bocca era come un presagio; un tacito, tangibile avvertimento ad Hairlock di cose future - un avvertimento che, sapeva, lui non poteva vedere. Ciò rendeva il sapore quasi dolce. *** Cercò di muoversi, ma le sembrava di avere le membra irrigidite dal gelo. Nella sua mente galleggiavano visioni, ma muri d'ombra le soffocarono prima che potesse percepirle appieno. Ebbe l'impressione di sbiadire. Una voce d'uomo parlò al suo fianco, ansiosa. «Che cosa senti?» Tattersail aggrottò la fronte, cercando di concentrarsi. Poi sorrise. «Una moneta che gira. Sento una moneta che gira.» LIBRO SECONDO DARUJHISTAN Quale inaspettata fortuna ha sfiorato i nostri sensi? questo oscillante cumulonembo che sfiora le tranquille acque del lago e fa roteare le ombre di una sola giornata come una ruota che ci fa girare dall'alba al tramonto, mentre noi vacilliamo... Quale argano suggerisce infausti presagi là nelle dolci alture che lanciarono verso di noi un sughero galleggiante? con il suo gradevole profumo magenta che si diffonde come una panoplia di petali che potrebbero essere cenere al rosso del tramonto...
La nascita della voce Fischer (n?) CAPITOLO QUINTO E se quest'uomo ti vede nei suoi sogni, mentre ti dondoli nella notte pensosa sotto un robusto ramo d'albero, e la tua ombra è celata sopra la fune annodata, così i venti del suo passaggio spingeranno le tue rigide membra in una sorta di corsa... La nascita della voce Fisher (n.) 907esimo anno del Terzo Millennio La Stagione di Fanderay nell'anno delle Cinque Zanne Duemila anni dalla nascita di Darujhistan, la città Nel sogno l'ometto grasso lasciava la città di Darujhistan attraverso la Porta dei Due Buoi per poi dirigersi verso il sole calante. Le code sbrindellate della marsina dal rosso ormai sbiadito svolazzavano per il suo passo affrettato. Non sapeva per quanto avrebbe dovuto camminare, ma già gli dolevano i piedi. C'erano le sofferenze del mondo e poi c'era la sofferenza. In momenti di coscienziosità, i problemi del mondo sarebbero venuti prima dei suoi. Fortunatamente, rifletté, momenti simili erano pochi e quello, si disse, non era uno di essi. «Ahimè, lo stesso identico sogno spinge avanti questi arnesi dotati di dita posti sotto queste traballanti ginocchia.» Sospirò. «Sempre lo stesso sogno.» E così era. Davanti a sé vide il sole a cavallo delle lontane vette collinari, un disco di rame attraverso un velo di fumo. I piedi lo portarono giù per la tortuosa e sporca strada Gadrobi, dove baracche e capanne si susseguivano su entrambi i lati della via. Anziani, avvolti in sudici stracci
gialli di lebbrosi erano accovacciati accanto a piccoli falò. Donne altrettanto cenciose se ne stavano vicino al pozzo fangoso e per un attimo smettevano di immergere i gatti nell'acqua - gesti spaventosi il cui simbolismo l'uomo aveva dimenticato. Attraversò il ponte sul fiume Maiten, superò gli accampamenti Gadrobi fino a raggiungere la strada aperta fiancheggiata da vigneti. Lì si fermò un istante a pensare al vino profumato che quelle viti avrebbero prodotto. Ma i sogni proseguirono a tutta velocità e quel pensiero fu rapido come un battito d'ali. Sapeva che la sua mente era in volo - in fuga dalla città distrutta alle sue spalle, in fuga dal fumo denso e nero nel cielo sopra di essa; ma soprattutto, in fuga da tutto ciò che sapeva e da tutto ciò che lui era. Per alcuni, il talento posseduto trovava il proprio canale attraverso il lancio di ossa o la lettura del Mazzo dei Draghi. Ma Kruppe non aveva bisogno di niente di simile. Il potere della divinazione era nella sua testa e per quanto ci provasse, non poteva respingerlo. Fra le pareti del suo cranio risuonava il lamentoso canto della profezia, che riecheggiava in tutto il suo essere. Mormorò a denti stretti. «Certo che questo è un sogno, il volo del sonno. Forse, Kruppe pensa che questa volta scapperà davvero. Nessuno può definire Kruppe stupido, dopo tutto. Grasso per la pigrizia e la trascuratezza, sì; incline agli eccessi, sicuramente, a volte maldestro persino con un piatto di minestra, non lo si può negare. Ma non stupido. Momenti simili calano su di noi quando l'uomo saggio deve scegliere. Non è saggezza concludere che le altre vite sono meno importanti della propria? Certo, è segno di profonda saggezza. Sì, Kruppe è saggio.» Si fermò per prendere fiato. Le colline e il sole innanzi a lui non sembravano più vicini. Così erano i sogni, come l'affrettarsi della giovinezza nell'età adulta, una corsa precipitosa che non è possibile bloccare - ma chi aveva parlato di giovinezza? O di una giovinezza in particolare? «Sicuramente non il saggio Kruppe! La sua mente vaga, tormentata dalla sofferenza delle sue suole, che sono stanche, mezze consumate da questa andatura sprezzante. Sicuramente sono già comparse le vesciche. Il piede implora un balsamo rinfrescante, calmante. Il suo compagno si unisce al coro. Ah! Quale litania! Quale grido di disperazione! Cessate di lamentarvi, dolci ali della fuga. Ma quanto dista il sole? E subito dietro le colline, Kruppe ne è sicuro. Sicuramente non più lontano. Sì, ne è sicuro come la moneta che gira senza sosta - ma chi ha parlato di monete? Kruppe proclama la propria
innocenza!» Una leggera brezza sfiorò il suo sogno; soffiava da nord e portava con sé il profumo della pioggia. Kruppe si affrettò ad allacciare il logoro pastrano. Tirò indietro la pancia per cercare di allacciare gli ultimi due bottoni, ma riuscì a bloccarne solo uno. «Persino nel sonno», brontolò, «il senso di colpa si fa sentire». Strinse gli occhi contro il vento. «Pioggia? Ma l'anno è appena iniziato! Piove in primavera? Kruppe non si è mai preoccupato di simili facezie terrene. Forse questo odore è quello del lago. Sì, sicuramente. La questione è risolta.» Fissò lo spesso strato di nubi nere sopra il lago Azzurro. «Kruppe deve correre? No, dov'è il suo orgoglio? La sua dignità? Non una volta hanno mostrato i loro volti nei sogni di Kruppe. Non esiste riparo su quella strada? Ah, i piedi di Kruppe sono flagellati, le sue suole brandelli insanguinati di carne palpitante! Che cos'è quello?» In fondo alla strada c'era un crocevia. Un edificio si ergeva su una bassa altura subito dietro. Luci di candele tremolavano dietro le finestre chiuse. Kruppe sorrise. «Ma certo, una locanda. Il viaggio è stato lungo e quello è un luogo di riposo per lo stanco viandante. E così è Kruppe, inaridito avventuriero con più di poche leghe sotto la cintura.» Affettò il passo. Un grande albero spoglio segnava il crocevia. Da un ramo massiccio qualcosa di lungo e avvolto in tela ruvida dondolava sospinto dal vento. Kruppe gli lanciò una breve occhiata. Raggiunse il sentiero e cominciò la salita. «Pessima idea, afferma Kruppe. Le locande per gli stanchi viandanti non dovrebbero trovarsi sulla cima di colline. La sventura della salita è scoprire quanto bisogna salire ancora. Sarà necessario scambiare due chiacchiere con il proprietario. Ma solo dopo che il dolce nettare avrà bagnato la gola, bocconi di morbida carne rossa e di gustose patate avranno riempito lo stomaco e bende pulite e spalmate di olio avranno donato sollievo ai piedi. Simili questioni devono avere la precedenza su tutto. Così la pensa Kruppe.» Interruppe il monologo e con il respiro ansante si arrampicò sul sentiero. Quando arrivò alla porta era così esausto che non fece nemmeno la fatica di alzare lo sguardo, limitandosi a spingere il fatiscente pannello fino a quando questo ruotò, cigolando su cardini arrugginiti. «Ahimè!» si lamentò, fermandosi a spazzare via la polvere dalle maniche del pastrano. «Un boccale schiumoso per questo...» Le parole gli morirono in gola mentre guardava i volti sudici giratisi verso di lui. «Qualcosa mi dice che gli affari
non vanno un gran che bene», borbottò. Quella era sicuramente una locanda - o lo era stata, forse più di un secolo fa. «C'è aria di pioggia là fuori», disse alla mezza dozzina di mendicanti accovacciati intorno a una spessa candela di sego posata a terra. Uno degli uomini annuì. «Ti concederemo un'udienza, sventurato amico.» Indicò un tappetino di paglia. «Siediti e intrattienici.» Kruppe sollevò un sopracciglio. «Kruppe vi è grato per l'invito, sire.» Chinò il capo e fece un passo avanti. «Ma, vi prego, non pensiate che sia privo di doni per questa onorata assemblea.» Si sedette a gambe incrociate, lamentandosi per lo sforzo, e si rivolse all'uomo che aveva già parlato. «Kruppe dividerà il pane con tutti voi.» Da una manica estrasse una piccola forma di pane di segale. Un coltello gli apparve nell'altra mano. «Conosciuto agli amici come ai forestieri è Kruppe, l'uomo che è seduto innanzi a voi. Abitante della scintillante Darujhistan, il gioiello mistico di Genabackis, l'uva succosa matura per la vendemmia.» Esibì una forma di formaggio di capra e rivolse un sorriso smagliante ai presenti. «E questo è il suo sogno.» «Così deve essere», disse il portavoce dei mendicanti, il volto rugoso arricciato per il divertimento. «Siamo sempre felici di gustare il tuo cibo, Kruppe di Darujhistan. E siamo sempre felici di ascoltare le tue avventure.» Kruppe posò a terra il pane e lo tagliò a fette. «Kruppe vi ha sempre considerato semplici aspetti di se stesso, una mezza dozzina di Affamati fra tanti. Eppure, per soddisfare le vostre esigenze, che cosa chiedereste al vostro signore? Che interrompa la sua fuga, naturalmente. Che combatta la via dell'inganno e del tradimento - eppure dall'alto della sua lunga esperienza, Kruppe vi assicura che l'inganno nasce nella mente e là viene nutrito mentre le virtù muoiono di fame.» Il portavoce accettò una fetta di pane e sorrise. «Allora, forse noi siamo le tue virtù.» Kruppe si fermò a studiare il formaggio nella sua mano. «Un pensiero su cui Kruppe non si è mai soffermato prima d'ora. Ma suvvia, il soggetto corre il rischio di essere perso di vista in questo labirinto semantico. Voi siete tornati ancora una volta e Kruppe ne conosce il perché, come ha sempre spiegato con ammirevole serenità d'animo.» «La Moneta gira, Kruppe, continua a girare.» Sul volto del portavoce apparve un'espressione grave. Kruppe sospirò. Porse il pezzo di formaggio all'uomo alla sua destra.
«Kruppe la sente», ammise stancamente. «Non può evitare di sentirla. Un trillo continuo che risuona nella mente. E per quanto Kruppe abbia visto, per quanto sospetti di essere, lui è solo Kruppe, un uomo che sfiderebbe gli dei al loro stesso gioco.» «Forse noi siamo i tuoi Dubbi», disse il portavoce, «che prima d'ora non hai mai avuto paura di affrontare. Eppure anche noi cerchiamo di farti voltare indietro, anche noi domandiamo che tu combatta per la vita di Darujhistan, per la vita dei tuoi innumerevoli amici, e per la vita del giovane ai cui piedi cadrà la Moneta». «Cadrà questa notte stessa», affermò Kruppe. A quelle parole, i sei mendicanti annuirono, sebbene la maggior parte di loro non sollevò lo sguardo dal pane e dal formaggio. «Kruppe accetterà allora questa sfida? Dopo tutto, che cosa sono gli dei se non le vittime perfette?» Sorrise, sollevando le braccia e battendo le mani. «Per Kruppe, la cui agilità di mano è pari solo alla sua agilità di mente? Perfette vittime della presunzione, sostiene Kruppe, accecate dall'arroganza, convinte della loro infallibilità. Non c'è da stupirsi che siano sopravvissute così a lungo?» Il portavoce annuì e fra un boccone di formaggio e l'altro, disse: «Allora, forse noi siamo i tuoi Doni». «Chissà», mormorò Kruppe, gli occhi socchiusi. «Eppure solo uno di voi parla.» Il mendicante smise di mangiare, poi scoppiò a ridere, gli occhi che danzavano alla luce della candela. «Forse gli altri devono ancora trovare la voce, Kruppe. Aspettano solo il segnale del loro signore.» «Il mio», Kruppe sospirò, iniziando ad alzarsi, «ma Kruppe è pieno di sorprese». Il portavoce sollevò lo sguardo. «Torni a Darujhistan?» «Naturalmente», replicò Kruppe, rimettendosi in piedi con un lamento. «Kruppe è uscito solo per prendere una boccata d'aria, un'aria molto più pulita al di fuori delle mura ormai fatiscenti della città, non trovate? Kruppe ha bisogno di esercizio per affinare il suo già prodigioso talento. Una passeggiata nel sonno. Questa notte», disse, infilando i pollici nella cintura, «la Moneta cadrà. Kruppe deve prendere il proprio posto al centro delle cose. Ritorna al suo letto, la notte è ancora giovane». I suoi occhi scivolarono sui mendicanti. Sembrava che tutti avessero guadagnato peso e un salutare rossore imporporava i loro volti sollevati verso l'alto. Kruppe sospirò soddisfatto. «È stato un piacere, signori. La prossima volta, però, vediamo di incontrarci in una locanda che non sia in cima a una collina,
d'accordo?» Il portavoce sorrise.«Ah, ma, Kruppe, ottenere Doni non è facile e nemmeno Virtù, così come non è semplice sconfiggere i dubbi e gli Affamati sono sempre i più impetuosi nella scalata.» Gli occhi di Kruppe si focalizzarono sull'uomo. «Kruppe è troppo intelligente», borbottò. Lasciò i mendicanti e chiuse delicatamente la porta scricchiolante. Riprese il sentiero e raggiunse il crocevia, dove si fermò davanti alla figura avvolta nella tela che dondolava dal ramo. Kruppe piantò i pugni nei fianchi e la osservò. «So chi sei», disse in tono gioviale. «L'aspetto finale di Kruppe per completare questa serie di facce che sono dello stesso Kruppe. O così dovresti affermare. Tu sei l'Umiltà ma, come tutti sanno, l'Umiltà non ha posto nella vita di Kruppe, ricordatelo. E perciò rimarrai qui.» Detto ciò, spostò lo sguardo sulla grande città che illuminava il cielo a oriente. «Ah, quella meravigliosa e focosa gemma che è Darujhistan è la casa di Kruppe. E così è», aggiunse mentre riprendeva il cammino, «come dovrebbe essere». *** I tetti di Darujhistan presentavano superfici piatte, timpani ad arco, torri coniche, campanili e piattaforme distribuiti in tale caotica profusione da nascondere al sole le vie principali; dal molo si estendevano disordinatamente lungo la riva del lago, salivano sul terreno degradante dei quartieri Gadrobi e Daru, tra i complessi dei templi e le Grandi Proprietà, fino alla sommità della Collina Reale dove si riuniva il Consiglio Cittadino. Le torce, allineate lungo le vie di maggior passaggio, erano aste concave che con dita in ferro annerito stringevano pietre pomice. Distribuito attraverso condutture in rame, il gas soffiava intorno alla pietra pomice, producendo lingue di fuoco che proiettavano una luce azzurro-verdognola. Il gas veniva estratto da grandi caverne sotterranee e incanalato in tubi. A occuparsi dell'erogazione del gas erano i Faccia Grigia, uomini e donne che silenziosi come spettri si muovevano sotto l'acciottolato. Per novecento anni il soffio del gas aveva rischiarato almeno uno dei quartieri della città. E nonostante i violenti scoppi che di tanto in tanto avvenivano nelle cavità sotterranee, i Faccia Grigia tenevano duro e continuavano a lottare contro quel drago invisibile. Sotto i tetti si apriva un mondo irradiato da un bagliore azzurro. Quella
luce illuminava le vie principali e le strette e affollate strade di transito dei mercati. Tuttavia, più di ventimila vicoli, larghi appena quanto bastava per un carretto a due ruote, rimanevano nell'ombra, infranta soltanto dalla torcia del passante o dalle lanterne delle guardie cittadine. Di giorno, i tetti erano illuminati e scaldati dai raggi del sole, affollati dai fluttuanti vessilli della vita domestica che asciugavano alla brezza lacustre. Di notte, la luna e le stelle illuminavano un mondo coperto da un reticolato di fili da bucato vuoti e dalle ombre da essi proiettate. Quella notte, una figura si muoveva furtiva fra le funi di canapa. In cielo, uno spicchio di luna si faceva strada fra le nuvole. La figura indossava abiti aderenti sporchi di fuliggine, così come il viso, su cui spiccavano solo gli occhi, impegnati a perlustrare i tetti adiacenti. A tracolla, l'uomo portava un'imbracatura di cuoio nero, fornita di tasche e anelli ai quali erano agganciati gli strumenti del mestiere: rotoli di filo di rame, lime di ferro, tre seghe metalliche avvolte in carta oleata, un pezzo quadrato di sego, un rocchetto di filo da pesca, un pugnale dalla lama sottile e un coltello da getto, entrambi infilati in un fodero sotto il braccio sinistro dell'uomo. Le punte dei mocassini del ladro erano state immerse nella pece e mentre avanzava sui tetti, l'uomo stava ben attento a non appoggiare il peso del corpo sulla punta dei piedi, lasciando così intatta la sottile striscia di appiccicoso catrame. Raggiunto il bordo dell'edificio guardò giù. Tre piani più sotto si apriva un giardinetto, debolmente illuminato da quattro lampade a gas poste agli angoli di un patio lastricato intorno a una fontana. Un bagliore purpureo tingeva le foglie che invadevano il patio e scintillava sull'acqua che da una cascatella si tuffava nella fontana. Su una panchina accanto a questa sedeva una guardia, il capo reclinato nel sonno, una lancia sulle ginocchia. La proprietà D'Arle era spesso argomento di conversazione tra la nobiltà di Darujhistan, soprattutto per la bellezza della figlia più giovane della famiglia. Molti erano i corteggiatori e ancora di più i doni e i ninnoli preziosi che affollavano la stanza della fanciulla. Se simili chiacchiere costituivano il pane quotidiano per i ceti più alti, fra la gente comune erano in pochi a prestare attenzione a simili facezie. C'erano però coloro che ascoltavano attentamente, affamati di particolari. Lo sguardo puntato sulla guardia addormentata, la mente di Crokus Mano-giovane prese rapidamente in considerazione le eventuali mosse. Innanzitutto, avrebbe dovuto scoprire quale, fra le numerose stanze della casa, fosse quella della fanciulla. Crokus non amava gli indovinelli ma
aveva scoperto che in tali circostanze, i suoi pensieri, spinti dall'istinto, si muovevano secondo una loro logica. Alla figlia più giovane e bella dei D'Arle era sicuramente destinato l'ultimo piano, probabilmente con un balcone che si affacciava sul giardino. Spostò la propria attenzione dalla guardia al muro sottostante. Al terzo piano si aprivano tre balconi, ma solo uno sulla sinistra. Crokus avanzò sul tetto fino a quando ritenne di essere sopra il balcone, quindi si avvicinò al bordo e guardò giù. Almeno dieci piedi. Su entrambi i lati del balcone si innalzavano delle colonne intagliate in legno dipinto. Un arco a mezza luna largo circa un braccio le divideva, completando così il grazioso quadretto. Con un'ultima occhiata alla guardia, che non si era mossa e la cui lancia non sembrava stesse per cadere rovinosamente sul lastricato, Crokus iniziò a calarsi lungo la parete. Le scarpe dalla punta di pece facevano sufficiente presa sulla grondaia. Il legno intagliato offriva molti appigli e si lasciò scivolare lungo la colonna fino a quando i piedi toccarono la ringhiera del balcone nel punto in cui confinava con la parete. Un istante dopo il giovane si acquattava sulle lucide piastrelle all'ombra di un tavolino in ferro battuto e una sedia imbottita. Non un raggio di luce filtrava dalla porta scorrevole. Con passi felpati Crokus fa raggiunse. Gli bastò una rapida occhiata per identificare il tipo di chiavistello. Estrasse una sega dentellata e si mise al lavoro. Il rumore prodotto dall'arnese era quasi impercettibile, non più del tremore di una zampa di una locusta. Un ottimo strumento, raro e probabilmente costoso. Crokus era fortunato ad avere uno zio che si dilettava di alchimia e aveva bisogno di simili meravigliosi strumenti per costruire i suoi bizzarri meccanismi di condensazione e filtrazione. Ma ancora di più lo era ad avere uno zio sbadato e incline a lasciare in giro i propri strumenti. Venti minuti dopo la sega tranciò la sbarra metallica. Crokus rimise l'attrezzo nell'imbracatura, si asciugò il sudore dalle mani e aprì la porta. Infilò la testa nella stanza. Alla sua sinistra nella grigia oscurità individuò un grande letto a baldacchino, la testiera contro la parete più lontana. Una zanzariera circondava il giaciglio, terminando in morbidi mucchi sul pavimento. Dall'interno proveniva il respiro regolare di un individuo profondamente addormentato. La stanza era impregnata di profumo, un aroma speziato e probabilmente costoso. Di fronte a lui Crokus scorse due porte, una socchiusa che dava sulla
stanza da bagno; l'altra una barriera di robusta quercia chiusa da una serratura enorme. Contro la parete alla sua destra erano sistemati un cassettone e una toeletta sulla quale era posato uno specchio a trifora. Crokus si girò su di un fianco e scivolò dentro. Si alzò lentamente e si stiracchiò, alleviando la tensione muscolare che lo aveva attanagliato nell'ultima mezz'ora. Spostò lo sguardo sulla toeletta e in punta di piedi la raggiunse. *** La proprietà D'Arle era la terza dalla cima della Old K'rul Avenue, la via che saliva sulla prima delle colline interne della città fino ad aprirsi in uno spiazzo ricoperto di erbacce e dolmen irregolari e semisepolti. Di fronte allo spiazzo si ergeva il tempio K'rul, le antiche pietre ridotte a una ragnatela di crepe coperte dal muschio. L'ultimo monaco del Dio Antico era morto alcune generazioni prima. Il campanile quadrato che svettava nel cortile interno del tempio testimoniava il gusto architettonico di un popolo scomparso ormai da anni. Quattro colonne di marmo rosa segnavano gli angoli dell'alta piattaforma, che ancora sosteneva un tetto aguzzo rivestito da tegole di bronzo chiazzato di verde. Il campanile dominava una dozzina di tetti piatti appartenenti alle dimore di famiglie nobili. Uno di quegli edifici era confinante con le pareti sbozzate del tempio e sul suo tetto si allungava l'ombra della torre. Su quello stesso tetto era acquattato un sicario, le mani rosse di sangue. Talo Krafar del Clan Jurig Denatte ansimava e sbuffava. Rivoli di sudore gli scivolavano lungo la fronte e gocce cadevano dal naso aquilino. L'uomo si fissava le mani con occhi sgranati, poiché il sangue che le macchiava era il suo. Quella notte era lui a pattugliare i tetti della città che, con l'eccezione di qualche occasionale ladro, erano il regno indiscusso dei sicari, la via attraverso la quale questi ultimi si spostavano indisturbati da una parte all'altra della città. I tetti costituivano il luogo ideale per mettere in atto missioni politiche... non autorizzate, per porre fine alla contesa tra due Case sulla proprietà di un feudo o per mettere in atto una vendetta in seguito a un tradimento. Il Consiglio governava di giorno sotto l'occhio di tutti; la Corporazione governava di notte, non vista, senza testimoni. Era sempre andata così, fin dalla nascita di Darujhistan lungo le sponde del lago Azzurro.
Talo stava attraversando un tetto in tutta tranquillità quando da una balestra era stato scagliato un dardo che lo aveva colpito alla spalla destra. La violenza dell'impatto lo aveva fatto volare a terra e per un periodo di tempo imprecisato era rimasto a fissare inebetito le nuvole soprastanti, chiedendosi che cosa fosse successo. Finalmente, quando la confusione aveva lasciato il posto al dolore, si era girato su un fianco. Il quadrello lo aveva trapassato e ora giaceva a pochi passi da lui. Rotolando, lo aveva raggiunto. Una sola occhiata gli era bastata per capire che quello non era il dardo di un ladro. Era stato scagliato da un'arma pesante - l'arma di un sicario. Mentre quell'idea si faceva strada nel dedalo confuso dei suoi pensieri, si era trascinato sulle ginocchia e poi in piedi. Con passo barcollante aveva raggiunto il bordo del tetto. Il sangue scorreva dalla ferita mentre scivolava verso il buio vicolo sottostante. Quando le scarpe avevano finalmente toccato l'acciottolato scivoloso e invaso dall'immondizia, si era fermato per mettere ordine nella propria mente. Quella notte era iniziata una guerra di sicari. Ma quale capoclan era così stupido da pensare di potere strappare il potere a Vorcan, la prima Signora della Corporazione? Ad ogni modo, lui sarebbe tornato fra le mura sicura del suo clan. Con quel pensiero in mente, aveva iniziato a correre. Si era infilato nel buio di un vicolo quando il sangue gli si era ghiacciato nelle vene. Trattenendo il fiato, si era irrigidito. Non aveva dubbi, l'istinto non sbagliava: qualcuno lo inseguiva. Lanciata un'occhiata alla camicia inzuppata di sangue aveva capito di non avere speranze: non sarebbe riuscito ad avanzare più rapidamente del suo inseguitore. Quest'ultimo doveva averlo visto entrare nella via e probabilmente aveva già raggiunto l'estremità opposta del passaggio; forse aveva già la balestra incoccata e puntata su di lui. Per lo meno, era così che Talo si sarebbe comportato. Doveva rovesciare il gioco, preparare una trappola. E per quello aveva bisogno dei tetti. Raggiunto l'imbocco dello stretto vicolo si era guardato intorno. Due strade sulla destra correvano verso il tempio K'rul. Lo sguardo si era posato sul campanile. Là. La scalata lo aveva lasciato totalmente senza fiato e ora stava acquattato nell'ombra del campanile, a un edificio di distanza dal tempio. Per lo sforzo, il sangue usciva a fiotti dalla ferita. Non era certo la prima volta che vedeva sangue, ma non era mai stato il suo. Per la prima volta si chiese se sarebbe morto. Improvvisamente, avvertì un pericoloso torpore diffondersi
in braccia e gambe e capì che se non si fosse mosso rapidamente avrebbe corso il rischio di restare lì per sempre. Con un debole lamento si sollevò. Il salto verso il tetto del tempio era cosa da poco, ma l'impatto lo fece cadere sulle ginocchia. Ansante, Talo scacciò dalla mente l'idea della sconfitta. Non doveva fare altro che scivolare lungo il muro interno del tempio fino al cortile, quindi salire sulla scala a chiocciola del campanile. Semplice. Estremamente semplice. E una volta all'ombra del campanile, avrebbe avuto sotto controllo tutti i tetti vicini. L'inseguitore sarebbe caduto nella trappola. Talo controllò la balestra che portava agganciata sulla schiena e i tre dardi nel fodero sulla coscia sinistra. Lasciò vagare lo sguardo nell'oscurità intorno a lui. «Chiunque tu sia, bastardo», mormorò, «per te è la fine». Iniziò a strisciare sul tetto del tempio. *** Forzare la serratura del cofanetto dei gioielli era stato un gioco da ragazzi. Dieci minuti dopo essere entrato nella stanza, Crokus l'aveva già ripulita. Una piccola fortuna in gioielli in oro, perle e pietre preziose si trovava ora in un sacchetto di pelle agganciato alla sua cintura. Si inginocchiò davanti alla toeletta e prese quello che considerava il suo premio. Questo è mio. Tra le mani stringeva un turbante di seta azzurra con fiocchi in filo d'oro. Restò qualche istante in muta ammirazione, poi fece scivolare il turbante sotto il braccio e si alzò. Lo sguardo si soffermò sul letto e si avvicinò. La zanzariera nascondeva la figura semisepolta da morbide coperte. Un altro passo e raggiunse il bordo del letto. Dalla vita in su la ragazza era nuda. Un imbarazzato rossore colorì le guance del ladro, che tuttavia non distolse lo sguardo. Regina dei Sogni, è deliziosa! A diciassette anni, Crokus aveva visto sufficienti prostitute e danzatrici per non restare a bocca aperta davanti alle virtù scoperte di una donna; ciononostante, il suo sguardo si attardò. Infine, si diresse verso la porta sul balcone. Un istante dopo era fuori. Si riempì i polmoni della fresca aria della notte. Nella coltre di oscurità sovrastante, un pugno di stelle era sufficientemente brillante da trapassare il velo di nubi. No, non erano nuvole, ma fumo, sospinto da nord. La caduta di Pale nelle mani all'Impero Malazan era sulla bocca di tutti da ormai due giorni.
E poi toccherà a noi. Lo zio gli aveva spiegato che il Consiglio continuava a dichiarare la neutralità di Darujhistan nel disperato tentativo di mantenere la distanza con l'ormai distrutta alleanza delle Città Libere. Ma i Malazan non sembravano ascoltare. E perché dovrebbero? Si era chiesto lo zio Mammot. L'esercito di Darujhistan è uno sprezzante pugno di figli di nobili che non fanno altro che pavoneggiarsi per le vie della città, stringendo le impugnature incastonate di pietre preziose delle loro spade... Crokus si arrampicò fino al tetto dell'edificio e avanzò silenziosamente. Davanti a lui si trovava un'altra casa delle stessa altezza, il tetto piatto a meno di sei piedi. Il ladro si fermò sul bordo e guardò giù nella via; non vedendo altro che l'oscurità della notte, spiccò un salto e atterrò con grazia sul tetto opposto. Cominciò ad attraversarlo. Sulla sua sinistra svettava l'ombra della torre del campanile di K'rul. Crokus portò una mano al sacchetto di pelle agganciato alla cintura per controllare il nodo. Soddisfatto, si accertò che il turbante fosse bloccato sotto una cinghia dell'imbracatura. Tutto era in ordine. Continuò ad avanzare sul tetto. Decisamente una bella notte. Sorrise fra sé e sé. *** Talo Krafar aprì gli occhi. Stordito e confuso, si guardò intorno. Dove si trovava? Perché si sentiva tanto debole? Poi ricordò e un gemito gli sfuggì dalle labbra. Era svenuto, appoggiato alla colonna di marmo. Ma che cosa lo aveva fatto tornare in sé? Con uno sforzo su se stesso, il sicario si sollevò spingendosi lungo la colonna e scrutò i tetti sottostanti. Là! Una figura avanzava sul tetto di una casa a meno di quindici piedi da lui. Adesso, bastardo. Adesso. Sollevò la balestra, appoggiando un gomito contro la colonna. Aveva già incoccato il dardo, anche se non ricordava quando l'avesse fatto. A quella distanza era impossibile sbagliare. Fra pochi secondi il suo inseguitore sarebbe morto. Talo strinse i denti e prese la mira. *** Crokus era a metà tetto, le dita di una mano che carezzavano la morbida seta del turbante posato sul cuore, quando una moneta rimbalzò con rumo-
re metallico ai suoi piedi. D'istinto si piegò e l'intrappolò fra le mani. Qualcosa sibilò nell'aria sfrecciandogli sopra la testa; sollevò lo sguardo, sbigottito, quindi si acquattò di nuovo quando sentì una piastrella di ceramica andare in frantumi a una ventina di passi da lui. Finalmente comprese ciò che stava accadendo. Gemette. Mentre si sollevava, una mano raccolse la moneta e la infilò in tasca. *** Talo imprecò, incredulo. Abbassò la balestra e guardò la figura sotto di lui, attonito, poi l'istinto lo avvertì del pericolo. Si girò di scatto, trovandosi davanti a una figura incappucciata, le braccia sollevate. Poi le braccia si abbassarono e due lunghi pugnali affondarono nel petto di Talo. Con un flebile gemito, il sicario morì. *** Un fruscio raggiunse le orecchie di Crokus e il giovane si voltò verso il campanile. Una figura nera si lanciò fra le colonne e atterrò con un tonfo a una quindicina di piedi da lui. Crokus sollevò lo sguardo e vide una sagoma incorniciata fra le colonne, le lame scintillanti di due coltelli fra le sue mani. La figura sembrava stesse studiandolo. «Oh, Mowri», pregò il ladro, quindi si voltò e fuggì via. *** Sul campanile di K'rul gli occhi dal peculiare taglio del sicario guardarono il ladro correre verso il lato opposto del tetto. Con un lieve movimento del capo, l'uomo annusò l'aria, quindi aggrottò la fronte. Un'improvvisa esplosione di potere aveva appena strappato il tessuto della notte, come un dito che s'infila in una trama ormai logora. E attraverso lo squarcio era giunto qualcosa. Il ladro raggiunse il bordo opposto e scomparve. Il sicario evocò un incantesimo in una lingua più antica del campanile e del tempio, una lingua che in quella terra nessuno sentiva da millenni; poi, saltò dalla torre. Avvolto dalla magia, la sua discesa verso il tetto fu lenta, controllata e quando l'uomo toccò terra, si udì soltanto un lieve fruscio. Dall'oscurità soprastante apparve una seconda figura; il mantello spiega-
to come un'ala nera, raggiunse il compagno. Infine un terzo uomo, silenzioso come gli altri due, atterrò sul tetto. L'ultimo arrivato mormorò un ordine, quindi si allontanò. Gli altri due parlarono per un breve istante, poi si misero sulle tracce del ladro. Mentre avanzavano, prepararono la balestra. *** Dieci minuti dopo, Crokus si lasciò andare sul tetto della casa di un mercante. Intorno a lui c'era il deserto e il silenzio regnava sovrano. I casi erano due: o il sicario non lo aveva seguito oppure era riuscito a seminarlo. O a seminarla. Con gli occhi della mente rivide la misteriosa figura. No, non poteva essere una donna - troppo alto e magro. Un brivido gli corse lungo la schiena. In che cosa era inciampato? Un sicario lo aveva quasi ucciso per poi finire ammazzato lui stesso. Una guerra fra Corporazioni? In tal caso, restare sui tetti era estremamente pericoloso. Si alzò con circospezione, guardandosi intorno. Il rumore di una tegola mossa risuonò alle sue spalle. Si girò di scatto e vide il sicario correre verso di lui. Un'occhiata ai due pugnali che guizzarono in aria e il ladro schizzò verso il bordo del tetto da dove si lanciò nel buio. L'edificio di fronte a lui era troppo lontano, ma Crokus stava muovendosi su terreno familiare. Mentre cadeva allungò le braccia. La fune di sicurezza gli sfiorò le braccia e il giovane agitò freneticamente le mani alla ricerca di un appiglio, infine restò appeso a venti piedi sopra il vicolo. Se la maggior parte dei fili per la biancheria tesi per le vie della città non erano altro che sottili e fragili corde, intorno a essi erano tuttavia avvolte resistenti funi. Sistemate nel passato da generazioni di ladri erano saldamente ancorate ai muri. Di giorno, la Via delle Scimmie, come la chiamavano i ladri, non appariva diversa da tutte le altre, addobbata con biancheria e lenzuola. Ma al calar del sole, ecco che emergeva la sua vera natura. Le mani ustionate per l'attrito, Crokus si lasciò scivolare lungo la fune verso il muro dall'altra parte del vicolo. Sollevò lo sguardo e raggelò. Sul bordo del tetto di fronte a lui era apparso un secondo inseguitore, impegnato a prendere la mira con una pesante e antiquata balestra. Crokus lasciò andare la fune. Un dardo sfrecciò sopra di lui mentre precipitava. Alle sue spalle una finestra andò in frantumi. La caduta venne rallentata dalla prima di una serie di fili per i panni che gli strattonò brac-
cia e gambe e lo pizzicò prima di spezzarsi improvvisamente con uno schiocco. Dopo quella che apparve un'eternità di scossoni e frustate che penetrarono gli abiti fino a scorticargli la pelle, Crokus atterrò sui piedi ma il violento colpo d'urto lo proiettò in avanti. Le ginocchia cedettero. Buttò una spalla avanti per attutire la rovinosa caduta ma non poté impedire di sbattere la testa contro un muro. Confuso e dolorante, si tirò in piedi. Alzò lo sguardo. La vista annebbiata per il dolore, vide una figura scendere lentamente dall'alto. Spalancò gli occhi. Magia! Si girò, barcollò confuso per alcuni istanti prima di trasformare il passo vacillante in una zoppicante corsa giù per il vicolo. Raggiunse l'angolo, attraversò rapidamente una grande via illuminata dalle lampade a gas e s'infilò in un altro vicolo. Una volta nell'ombra, si fermò. Sporse con circospezione la testa oltre l'angolo del muro per dare un'occhiata. Un dardo colpì il mattone accanto al suo viso. Balzò indietro, si voltò e riprese la corsa. Sentì il fruscio di un mantello sopra di sé. Un bruciore improvviso al fianco sinistro lo fece incespicare. Un altro dardo sfrecciò oltre la sua spalla e scivolò sull'acciottolato. Il dolore passò tanto rapidamente quanto era comparso e Crokus riprese la corsa. Davanti a lui, alla fine del vicolo, scorse l'ingresso illuminato di un'abitazione. Un'anziana donna sedeva sui gradini di pietra, in bocca una pipa. I suoi occhi scintillarono quando vide avvicinarsi il ladro. Con un balzo Crokus superò la donna e i gradini. La vecchia batté la pipa contro la suola della scarpa e scintille caddero a pioggia sui ciottoli. Crokus spinse la porta e si tuffò all'interno. Si fermò. Davanti a lui si apriva uno stretto corridoio malamente illuminato, al cui termine saliva una scala gremita di bambini. Gli occhi sui gradini, attraversò correndo il corridoio. Da oltre le porte disposte su entrambi i lati giungeva una cacofonia di rumori: voci concitate, pianti di neonati, tintinnii di stoviglie. «Non dormite mai?» gridò Crokus correndo. I bambini si scostarono per lasciarlo passare e il giovane si lanciò sulla scala superando i gradini due alla volta. Giunto all'ultimo piano si fermò davanti a una porta di solida quercia posta a un terzo del corridoio. La spinse ed entrò. Un uomo anziano, seduto dietro a una massiccia scrivania, sollevò distrattamente lo sguardo dal suo lavoro, poi riprese a scrivere su un foglio di pergamena. «Buona sera, Crokus», disse in tono pacato. «Buona sera a te, zio», rispose Crokus, senza fiato.
Sulla spalla dello zio Mammot era appollaiata una scimmietta alata, il cui sguardo scintillante e folle seguì il giovane ladro sfrecciare per la stanza verso la finestra posta di fronte alla porta. Spalancate le ante, Crokus salì sul davanzale. Sotto di lui si apriva uno squallido e incolto giardino immerso nell'oscurità. Un unico, nodoso albero allungava le sue fronde verso l'alto. Il ragazzo fissò i rami, fece un respiro profondo e si lanciò in avanti. Mentre si tuffava nel vuoto sentì un'esclamazione di sorpresa provenire direttamente sopra di lui, seguita da un forte strofinio contro la pietra. Un attimo dopo qualcuno piombò rovinosamente nel giardino sottostante. I gatti miagolarono spaventati e una voce imprecò per il dolore. Crokus era aggrappato a un ramo ricurvo. Si sincronizzò con i rimbalzi del legno e allungò le gambe mentre il ramo lo portava in alto. I piedi toccarono il davanzale di una finestra. Con un colpo di reni, il giovane si spinse in avanti e lasciò andare il ramo. Senza pensarci due volte, sferrò un poderoso pugno alle imposte di legno, che si spalancarono verso l'interno immediatamente seguite da Crokus, che finì a terra, sul pavimento. Da un'altra stanza dell'appartamento giunsero dei rumori. Balzato in piedi, il giovane ladro sfrecciò verso la porta d'ingresso, la spalancò e scivolò fuori mentre una voce ruggiva un'imprecazione dietro di lui. Crokus corse fino all'estremità del passaggio, dove una scala conduceva a una botola sul soffitto. Ben presto raggiunse il tetto. Si acquattò nell'oscurità per cercare di riprendere fiato. Avvertì nuovamente nel fianco la sensazione di bruciore. Doveva essersi infortunato mentre precipitava dalla fune di sicurezza. Allungò la mano per massaggiarsi e sotto le dita trovò qualcosa di duro, caldo e rotondo. La moneta! La prese. Sentì un improvviso sibilo e pezzi di pietra schizzarono intorno a lui. Si tuffò a terra e vide un dardo, la punta aperta in due per l'impatto, rimbalzare sul tetto per poi precipitare oltre il bordo roteando su se stesso. Un gemito soffocato gli sfuggì dalle labbra mentre attraversava a tutta velocità il tetto diretto sul lato opposto. Saltò senza nemmeno fermarsi. Dieci piedi più sotto c'era una tenda, pendente e sformata, sulla quale atterrò. I pennoni di ferro che incorniciavano la tela si abbassarono ma resistettero. Da là, gli bastò un salto per raggiungere la strada. Crokus corse fino all'angolo, dove sorgeva un vecchio edificio dalle cui sudice finestre filtravano raggi di luce giallognola. Sopra la porta era appesa un'insegna di legno su cui era stato disegnato un uccello morto, le zam-
pe per aria. Il ladro si precipitò sui gradini e aprì l'uscio. Una cascata di luce e rumori dilavò su di lui come un balsamo. Sbatté la porta dietro di sé e ci si appoggiò contro. Chiuse gli occhi, togliendosi il cappuccio che gli copriva il volto e la testa e rivelando lunghi capelli neri bagnati per il sudore - e tratti regolari intorno a espressivi occhi azzurri. Mentre sollevava il braccio per asciugarsi la fronte, si ritrovò con un boccale di birra in mano. Aprì gli occhi e vide Sulty passargli rapidamente innanzi, su una mano un vassoio carico di boccali di peltro. La ragazza si girò a lanciargli un'occhiata, sorridendo. «Notte turbolenta, Crokus?» Lui la fissò, poi disse: «No, niente di speciale». Si portò il boccale alle labbra e bevve avidamente. *** Dall'altra parte della strada di fronte alla Locanda della Fenice, un cacciatore se ne stava sul bordo del tetto e studiava la porta che il ladro aveva appena oltrepassato. La balestra giaceva fra le sue braccia. Arrivò il secondo cacciatore, i due lunghi coltelli infilati nel fodero. «Che cosa ti è successo?» chiese in tono tranquillo il primo parlando nella sua madre lingua. «Ho bisticciato con un gatto.» I due restarono alcuni istanti in silenzio, poi il primo sospirò, preoccupato. «Tutto sommato, è andato tutto troppo storto per essere naturale.» L'altro annuì. «Allora anche tu hai avvertito la separazione.» «Un Ascendente... si è intromesso. Ma troppo guardingo per mostrarsi completamente.» «Peccato. Sono anni che non uccido un Ascendente.» Si concentrarono sulle armi. Il primo cacciatore caricò la balestra e fece scivolare altri quattro dardi nella cintura. Il secondo tolse dal fodero i pugnali e con cautela pulì le lame eliminando ogni traccia di sudore e sporcizia. Sentirono dei passi alle loro spalle; si voltarono e videro il loro comandante. «È nella locanda», lo informò il secondo cacciatore. «Non lasceremo testimoni di questa guerra segreta con la Corporazione», aggiunse il primo. Il comandante guardò la porta della Locanda della Fenice e ai suoi uomini disse: «No. La lingua sciolta di un testimone potrebbe esserci utile».
«Il verme ha ricevuto aiuto», affermò il primo cacciatore. Il comandante scosse la testa. «Torniamo all'ovile.» «Molto bene.» I due cacciatori riposero le armi. Il primo lanciò un'ultima occhiata alla locanda e chiese: «Chi pensi lo proteggesse?». «Qualcuno dotato di senso dell'umorismo», rispose l'altro in tono aspro. CAPITOLO SESTO C'è una cabala che respira più a fondo dei mantici che attizzano i fuochi smeraldo sotto i ciottoli lucidi di pioggia; anche se potrete sentire il gemito delle caverne sotterranee, il sussurro della magia è meno forte del sospiro morente di un ladro che incappa senza volerlo nella ragnatela segreta di Darujhistan... Cabala (frammento) Puddle (n. 1122?) Crone sfiorò con la punta dell'ala destra distesa la roccia nera e sfregiata, mentre risaliva le sibilanti correnti ascensionali accanto alla Progenie della Luna. Dalle caverne bucherellate e dalle cornici illuminate di stelle i suoi fratelli e le sue sorelle la chiamarono inquieti. «Veniamo anche noi?» chiesero. Ma Crone non rispose. Gli occhi neri e lucenti erano puntati sulla volta celeste; le ali enormi battevano un fragoroso ritornello di potere spietato, inesorabile. Non aveva tempo per gli schiamazzi nervosi dei giovani; non aveva tempo per soddisfare i loro bisogni semplicistici con la saggezza che i suoi mille anni di vita le avevano guadagnato. Quella notte, Crone era in missione per il suo signore. Mentre si levava sopra i pinnacoli distrutti della cresta della Luna, il vento le raschiò le ali, freddo e asciutto contro le penne oleose. Intorno a lei, brandelli sottili di fumo risalivano l'aria notturna come spiriti sperduti. Crone volteggiò una volta, cogliendo con lo sguardo acuto il brillio dei pochi fuochi rimasti fra le rupi sottostanti, poi si abbassò a cavalcare il
flusso del vento diretto a nord, verso il Lago Azzurro. Sotto di lei, nella distesa uniforme della Pianura Deserta, l'erba oscillava in onde grigie ininterrotte da case o colline. Appena oltre, giaceva il mantello ingioiellato e sfavillante di Darujhistan, che irradiava nel cielo un chiarore zaffiro. Mentre si avvicinava alla città, la sua vista straordinariamente penetrante distinse qua e là, fra gli edifici che affollavano il livello superiore, l'emanazione acquamarina della magia. Crone gracchiò sonoramente. La magia era nettare per i Grandi Corvi. Li attraeva con l'odore di sangue e di potere, e all'interno della sua aura le loro vite si allungavano fino a durare secoli. Il suo sentore aveva anche altri effetti. Crone gracchiò di nuovo. Il suo sguardo si fissò su un edificio in particolare, intorno al quale risplendeva un alone di magia protettiva. Il suo signore le aveva comunicato una descrizione dettagliata della firma magica che doveva trovare, e ora l'aveva trovata. Piegando le ali, discese con grazia verso il palazzo. *** A partire dal porto del Distretto Gadrobi, la terra si levava in quattro livelli che salivano verso est. Pavimenti di ciottoli, mutati dall'uso in lucidi mosaici, contrassegnavano le Strade Commerciali del Distretto Gadrobi, cinque in tutto, le uniche ad attraversare il Distretto Palude e a condurre al livello successivo, il Distretto Lago. Oltre ai corridoi tortuosi del Distretto Lago, dodici porte di legno si aprivano sul Distretto Daru, e da Daru altre dodici porte - stavolta presidiate dalla Guardia Cittadina e sbarrate da saracinesche di ferro - collegavano la città superiore con quella inferiore. Sul quarto livello, il più alto, torreggiavano i palazzi della nobiltà di Darujhistan, oltre a quelli dei maghi pubblicamente noti. All'incrocio fra il Passaggio del Vecchio Re e la Strada Panoramica si levava una collina dalla sommità piatta; lì si innalzava il Palazzo Vecchio, dove ogni giorno si riuniva il Consiglio. Uno stretto parco circondava la collina, con sentieri cosparsi di sabbia che serpeggiavano fra acacie vecchie di secoli. All'entrata del parco, vicino alla Collina delle Forche, si ergeva un'imponente porta di pietra sbozzata, ultimo resto del castello che, una volta, dominava la Collina Reale. I giorni dei re erano finiti da lungo tempo a Darujhistan. La porta, nota come Barbacane del Despota, era nuda, disadorna; il suo groviglio di crepe era un documento sbiadito della passata tirannia.
All'ombra dell'unica, massiccia architrave del Barbacane stavano due uomini. Uno, la spalla contro la roccia bucherellata, indossava una cotta ad anelli e un cappello di cuoio con lo stemma della Guardia Cittadina. Attaccato al cinturone, aveva un fodero con una spada corta, l'impugnatura avvolta in pelle levigata dall'uso. Appoggiata a una spalla, teneva una picca. Era vicino alla fine del turno di guardia di mezzanotte e aspettava con pazienza l'arrivo dell'uomo che l'avrebbe ufficialmente sostituito. Di tanto in tanto, i suoi occhi guizzavano verso il compagno, con il quale, nell'ultimo anno, aveva condiviso quel luogo per molte notti. Gli sguardi che lanciava al gentiluomo elegante erano furtivi, privi di espressione. Come ogni altra volta che era venuto alla porta a quell'ora silenziosa, il nobile Consigliere Turban Orr aveva a malapena degnato la guardia della sua attenzione; né aveva mai dato segno di riconoscervi lo stesso uomo in tutte le occasioni. Turban Orr sembrava un tipo dalla scarsa pazienza: passeggiava nervosamente avanti e indietro, fermandosi ogni tanto ad aggiustare il mantello ingioiellato rosso borgogna. I suoi stivali lucidi battevano sul terreno, creando un'eco sommessa sotto il Barbacane. Dall'ombra, gli occhi della guardia intravidero la mano guantata di Orr posata sul pomo d'argento di una spada da duello: il dito indice picchiettava all'unisono con gli stivali. Nella parte iniziale del suo turno, molto prima dell'arrivo del consigliere, la guardia era solita camminare lentamente intorno al Barbacane, allungando di quando in quando la mano a toccare la pietra antica, cupa. Sei anni di guardie notturne a quella porta avevano costruito uno stretto rapporto fra l'uomo e il basalto grossolanamente tagliato: conosceva ogni crepa, ogni cicatrice da scalpello; sapeva dove i ferramenti si erano indeboliti, dove il tempo e gli elementi avevano fatto uscire la malta fra una pietra e l'altra, corrodendola in polvere. E sapeva anche che le sue debolezze erano solo apparenti. Il Barbacane, e tutto ciò che rappresentava, attendeva paziente, spettro del passato ansioso di rinascere. E questo, la guardia aveva giurato molto tempo prima, non gliel'avrebbe mai lasciato fare - per quanto dipendeva da lui. Il Barbacane del Despota gli forniva tutte le ragioni di cui aveva bisogno per essere ciò che era: il Violatore del Cerchio, una spia. Sia lui che il consigliere aspettavano l'arrivo dell'altro; quello che non mancava mai di apparire. Turban Orr, disgustato dal ritardo, si sarebbe lamentato a gran voce; poi l'avrebbe afferrato per il braccio e avrebbero camminato fianco a fianco sotto la protezione dell'architrave. E, con gli
occhi abituati all'oscurità, la guardia avrebbe osservato il viso dell'altro, imprimendolo indelebilmente nella superba memoria nascosta dietro i lineamenti banali, inespressivi. Quando i due membri del Consiglio fossero tornati dalla loro passeggiata, la guardia sarebbe stata sostituita, e impegnata nella consegna di un messaggio in conformità con le istruzioni del suo padrone. Se il Violatore del Cerchio continuava ad avere fortuna, forse sarebbe sopravvissuto alla guerra civile in cui Darujhistan, sentiva, stava per sprofondare - e al diavolo la nemesi dei Malazan. Un incubo alla volta, si diceva spesso, specialmente in notti come quella, in cui il Barbacane del Despota sembrava emanare la sua promessa di resurrezione con beffarda sicurezza. *** «Poiché ciò può interessarvi», l'Alto Alchimista Baruk lesse ad alta voce dalla pergamena fra le mani grassocce. Sempre la stessa frase iniziale, la stessa allusione a un'inquietante conoscenza. Un'ora prima, il suo servo Roald aveva consegnato il messaggio che, come tutti gli altri pervenuti nell'ultimo anno, era stato trovato infilato in una delle feritoie ornamentali della porta posteriore del palazzo. Riconoscendo il modello familiare, Baruk aveva immediatamente letto la missiva, poi aveva inviato i suoi messaggeri in città. Notizie del genere richiedevano azioni concrete, e lui era uno dei pochi poteri segreti all'interno di Darujhistan in grado di gestire la cosa. Ora, seduto in una poltrona lussuosa del suo studio, rifletteva. Il suo sguardo falsamente sonnolento guizzò ancora alle parole sulla pergamena. «Il consigliere Turban Orr cammina nel giardino con il consigliere Feder. Mi firmo Violatore del Cerchio, servo dell'Anguilla, i cui interessi continuano a coincidere con i vostri.» Ancora una volta, Baruk si sentì tentato. Con i suoi talenti, sarebbe stato facile scoprire l'identità dello scrivente anche se non dell'Anguilla, naturalmente; quella era un'informazione cercata da molti, invano - ma, come sempre, qualcosa lo trattenne. Spostò il peso sulla poltrona, sospirando. «Benissimo, Violatore del Cerchio, rispetterò la tua scelta, malgrado, evidentemente, tu sappia di me molto più di quanto io sappia di te, ed è proprio una fortuna che gli interessi del tuo padrone coincidano con i miei. Però...» Aggrottò la fronte, pensando all'Anguilla, agli interessi nascosti dell'uomo - o della donna. Ne sapeva abbastanza per riconoscere che troppe forze erano scese in campo -
una riunione dei poteri degli Ascendenti era una cosa micidiale. Continuare a muoversi non visti in difesa della città diventava sempre più difficile. La domanda ritornava implacabile: quest'Anguilla lo stava usando a sua volta? Stranamente, la possibilità non lo preoccupava più di tanto; molte informazioni vitali erano già passate nelle sue mani. Piegò la pergamena con cura, borbottando una semplice formula. Il messaggio svanì con un lieve schiocco, andando a raggiungere gli altri in un luogo sicuro. Baruk chiuse gli occhi. Alle sue spalle, le ampie imposte della finestra sbatterono per una folata di vento, poi tornarono a posto. Un attimo dopo, si udì un colpo secco contro il vetro color fumo. Baruk si tirò dritto, e aprì gli occhi di scatto. Un altro colpo, più forte del primo, lo fece alzare con un'agilità sorprendente per uno della sua mole. Si mise davanti alla finestra. Accovacciato sul davanzale esterno, c'era qualcosa, visibile solo come una forma nera e voluminosa. Baruk inarcò le sopracciglia. Impossibile. Niente poteva penetrare le sue barriere magiche senza essere scoperto. A un gesto dell'alchimista, le imposte si spalancarono. Dietro il vetro, aspettava un Grande Corvo. Ruotò fulmineamente la testa per osservare Baruk prima con un occhio, poi con l'altro. Spinse audacemente il petto massiccio, corrugato, contro il vetro sottile. Il pannello s'incurvò, quindi andò in frantumi. Il suo Canale aperto del tutto, Baruk alzò entrambe le mani, con un incantesimo feroce sulle labbra. «Non sprecare il fiato!» stridette il Corvo, gonfiando il petto e arruffando le penne malconce per liberarsi dalle schegge di vetro. Inclinò la testa. «Hai chiamato le tue guardie», osservò. «Non ce n'è bisogno, mago.» Con un solo salto, l'uccello enorme balzò sul pavimento. «Ti porto parole che troverai preziose. Hai niente da mangiare?» Baruk studiò la creatura. «Non ho l'abitudine di invitare Grandi Corvi a casa mia», ribatté. «E non credo che tu sia un demone camuffato.» «Certo che no. Mi chiamo Crone.» La testa si chinò beffardamente. «Al tuo servizio, signore.» Baruk esitò, meditabondo. Dopo un attimo, sospirò e disse: «Benissimo. Ho rimandato le guardie ai loro posti. Il mio servo Roald sta venendo con i resti della cena, se la cosa ti sta bene». «Ottimo!» Crone avanzò goffamente sul pavimento, accomodandosi sul tappeto davanti al camino. «Ah. E ora, un rilassante calice di vino, non
credi?» «Chi ti ha mandato, Crone?» indagò Baruk, raggiungendo la caraffa sul suo scrittoio. Solitamente, non beveva dopo il tramonto, perché di notte lavorava, ma doveva riconoscere i poteri di intuizione di Crone. Una bevanda rilassante era proprio ciò di cui aveva bisogno. Il Grande Corvo indugiò lievemente prima di rispondere. «Il Signore della Progenie della Luna.» Baruk interruppe l'azione di versare il vino. «Capisco», mormorò, sforzandosi di controllare il cuore in tumulto. Posò lentamente la caraffa e, con grande concentrazione, si portò il calice alle labbra. Il liquido era fresco sulla sua lingua, e il passaggio giù per la gola servì effettivamente a calmarlo. «E allora», riprese, girandosi, «che cosa vuole il tuo signore da un pacifico alchimista?». Il becco scheggiato di Crone si aprì in quella che, realizzò Baruk, era una risata silenziosa. L'uccello gli puntò addosso un solo occhio luccicante. «La risposta è venuta sullo stesso vento delle tue parole. La pace. Il mio signore vuole parlarti. Vuole venire qui, stanotte. Entro un'ora.» «E tu devi aspettare la mia decisione.» «Solo se arriverà in fretta. Ho cose da fare, dopo tutto. Sono più di un semplice messaggero. Coloro che riconoscono la saggezza quando la sentono mi hanno cara. Sono Crone, la più anziana dei Grandi Corvi della Luna, i cui occhi hanno visto un millennio di umana stoltezza. Il mio mantello malandato e il mio becco rotto sono prova della vostra distruttività indiscriminata. Non sono che un testimone alato della vostra eterna follia.» «Più di un semplice testimone», replicò Baruk, prendendola quietamente in giro. «È ben noto come tu e i tuoi simili abbiate banchettato sulla pianura fuori dalle mura di Pale.» «Ma non dimenticare, signore, che non siamo i primi ad aver banchettato con carne e sangue.» Baruk distolse il viso. «Lungi da me difendere la mia specie», borbottò, più fra sé che rivolto a Crone, le cui parole l'avevano ferito. I suoi occhi caddero sulle schegge che sporcavano il pavimento. Pronunciò un incantesimo di riparazione, e le guardò riunirsi. «Parlerò con il tuo signore, Crone.» Annuì, mentre il pannello di vetro si levava dal pavimento, incastrandosi nel telaio della finestra. «Dimmi, sdegnerà le mie difese con la tua stessa facilità?» «Il mio signore possiede onore e cortesia», decretò ambiguamente Crone. «Devo chiamarlo, allora?»
«Fallo», convenne Baruk, sorseggiando il suo vino. «Gli verrà fornito un sentiero per il suo passaggio.» Bussarono alla porta. «Sì?» Roald entrò nella stanza. «C'è qualcuno che vuole parlarvi», annunciò il servo dai capelli bianchi, posando un vassoio carico di maiale arrosto. Baruk lanciò un'occhiata a Crone e alzò un sopracciglio. L'uccello arruffò le penne. «Il tuo ospite è terreno, un personaggio inquieto i cui pensieri ribollono di avidità e di tradimento. Accovacciato sulla spalla ha un demone di nome Ambizione.» «Come si chiama, Roald?» domandò Baruk. Il servo esitò; imbarazzato, fece guizzare gli occhi dolci verso l'uccello che zampettava in direzione del cibo. Baruk scoppiò a ridere. «L'opinione della mia saggia ospite indica che lei ben conosce il nome dell'uomo. Parla, Roald.» «Il consigliere Turban Orr.» «Vorrei essere presente», suggerì Crone. «Se ti interessa il mio parere.» «Va bene, e sì, mi interessa», approvò l'alchimista. «Non sarò più di un cane domestico», cantilenò astutamente il Grande Corvo, anticipando la sua domanda successiva. «Agli occhi del consigliere, intendo. Alle sue orecchie, le mie parole saranno solo un uggiolio.» Infilzò col becco un pezzo di carne e l'inghiottì rapidamente. Baruk cominciava ad apprezzare questa strega sotto forma di uccello malmesso. «Introduci il consigliere alla nostra presenza, Roald.» Il servo si allontanò. *** Torce di foggia arcaica illuminavano il giardino di una proprietà circondata da alte mura, con un chiarore guizzante che gettava ombre vacillanti sulle mattonelle dell'impiantito. La brezza notturna in arrivo dal lago faceva stormire le foglie e danzare le ombre come spiritelli. Al secondo piano dell'edificio, c'era un balcone che dava sul giardino. Dietro le finestre velate da tende, si muovevano due figure. Rallick Nom giaceva a faccia in giù sul muro del giardino, in una nicchia oscura sotto il cornicione a timpano della proprietà. Studiava il profilo della donna con la pazienza di un serpente. Era la quinta notte di fila che occupava quella occulta posizione di vantaggio. Gli innamorati di Lady
Simtal erano molti, ma ne aveva identificati due degni di attenzione in particolare. Entrambi erano consiglieri della città. La porta a vetri si aprì e una figura uscì sul balcone. Rallick sorrise, riconoscendo il Consigliere Lim. Il sicario cambiò posizione leggermente, infilando una mano guantata sotto la base della balestra e alzando l'altra a tirare indietro la manovella oliata. Gli occhi sull'uomo appoggiato alla ringhiera del balcone davanti a lui, Rallick inserì un quadrello con cura. Uno sguardo alla punta di ferro del dardo lo rassicurò. Il liquido velenoso brillava lungo i bordi affilati come rasoi. Riportando l'attenzione sul balcone, vide che Lady Simtal aveva raggiunto Lim. Non c'è da stupirsi che gli innamorati non le manchino, pensò Rallick, socchiudendo gli occhi per osservarla meglio. I capelli neri, ora sciolti, ricadevano soffici e lucenti fino alle reni. Indossava una camicia da notte sottile come un velo e le lampade della stanza alle sue spalle rendevano chiaramente visibili le morbide curve del suo corpo. Le voci dei due arrivarono al punto in cui stava nascosto Rallick. «Perché l'alchimista?» chiedeva Lady Simtal, riprendendo evidentemente una conversazione iniziata all'interno. «Un vecchio grasso che puzza di zolfo. Cosa c'entra col potere politico? Non è nemmeno membro del consiglio, no?» Lim rise sommessamente. «La vostra ingenuità è un incanto, signora, un incanto.» Simtal si allontanò dalla ringhiera, incrociando le braccia. «Istruitemi, allora.» Le parole le uscirono aspre, cariche di insofferenza. Lim scrollò le spalle. «Abbiamo solo sospetti, signora. Ma il lupo saggio segue tutte le piste, per quanto tenui. A quel vecchio scemo tremolante dell'alchimista farebbe comodo che la gente la pensasse come voi.» Lim si fermò, come assorto; forse soppesava quanto avrebbe dovuto rivelare. «Disponiamo di fonti», continuò cautamente, «fra i maghi. Siamo informati di un fatto certo, denso di implicazioni. La maggior parte dei maghi in città teme l'alchimista; lo chiamano con un titolo - cosa che basta a indicare un qualche tipo di cabala segreta. Una riunione di stregoni, signora, è una cosa micidiale». Lady Simtal era tornata al fianco del consigliere. Entrambi studiavano il giardino buio, chini sulla ringhiera. La donna stette in silenzio per un po', poi disse: «Ha legami con il Consiglio?». «Se li ha, le prove sono sepolte in profondità.» Lim le rivolse un largo sorriso. «E se non li ha, la cosa potrebbe cambiare - stanotte stessa.»
La politica, ringhiò Rallick fra sé. E il potere. La cagna allarga le gambe per il Consiglio, offrendo una tentazione che pochi possono ignorare. Le sue mani furono scosse da uno spasmo. Quella notte avrebbe ucciso. Non per contratto: la Corporazione non c'entrava. Si trattava di una vendetta personale. La donna radunava potere attorno a sé, come un cuscino isolante, e Rallick pensava di capire perché. I fantasmi del tradimento non la lasciavano in pace. Pazienza, ricordò a se stesso, mentre prendeva la mira. Da due anni, Lady Simtal viveva una vita di indolenza; le ricchezze da lei rubate erano servite solo a stimolare ogni sua bramosia, e il prestigio di cui godeva come unica titolare della proprietà aveva avuto un ruolo decisivo nell'ungere i cardini della sua camera da letto. Il delitto che aveva commesso non era diretto contro Rallick ma, a differenza della sua vittima, Rallick non aveva orgoglio che impedisse la vendetta. Pazienza, ripeté, formulando la parola con le labbra, mentre puntava l'obiettivo. Una qualità definita dai suoi frutti. E i frutti sarebbero stati colti da lì a pochi attimi. *** «Un bellissimo cane», osservò il Consigliere Turban Orr, porgendo il mantello a Roald. Nella stanza, Baruk era l'unico a poter scorgere l'aura di illusione che circondava il nero cane da caccia accoccolato sul tappeto davanti al camino. L'alchimista sorrise e indicò una poltrona con un gesto. «Sedete, consigliere, ve ne prego.» «Mi scuso per avervi disturbato a quest'ora di notte», esordì Orr, accomodandosi nella poltrona lussuosa. Baruk si sedette di fronte a lui, con Crone fra di loro. «Si dice», continuò Orr, «che l'alchimia scorra meglio nel buio profondo». «Quindi avete puntato sul fatto che fossi ancora sveglio», replicò Baruk. «Scommessa vinta, consigliere. Ora, cosa desiderate da me?» Orr abbassò la mano ad accarezzare la testa di Crone. Baruk distolse lo sguardo per impedirsi di ridere. «Il Consiglio voterà fra due giorni», rivelò Orr. «Con una dichiarazione di neutralità quale quella cui aspiriamo, la guerra con l'Impero Malazan sarà evitata - ma ci sono membri del Consiglio che non ci credono. L'orgoglio li ha resi irragionevoli, bellicosi.»
«Come fa con tutti», mormorò Baruk. Orr si chinò in avanti. «Il sostegno dei maghi di Darujhistan avvantaggerebbe di molto la nostra causa», asserì. «Attento», borbottò Crone. «La caccia si fa seria.» Orr lanciò un'occhiata al cane. «Gli fa male una zampa», intervenne Baruk. «Non fateci caso.» L'alchimista si appoggiò allo schienale, tirando un filo allentato sulla veste. «Non vi nascondo la mia confusione, consigliere. Sembra che diate un po' troppe cose per scontate.» Allargò le braccia, incrociando gli occhi di Orr. «I maghi di Darujhistan, tanto per cominciare. Potreste attraversare i Dieci Mondi senza trovare una cricca di individui più rabbiosi e maligni. Oh, non voglio dire che siano tutti così - ci sono quelli il cui unico interesse o, meglio, ossessione, sta nella pratica dell'arte magica. Tengono il naso sepolto nei libri da tanto di quel tempo che non saprebbero nemmeno dirvi in che secolo siamo. Gli altri hanno fatto dei futili litigi il loro unico piacere nella vita.» Mentre Baruk parlava, un sorriso era salito alle sottili labbra di Orr. «Ma», ribatté questi con un luccichio astuto negli occhi scuri, «c'è una cosa che tutti riconoscono». «Oh? E cioè, consigliere?» «Il potere. Siamo tutti consapevoli della vostra eccellenza fra i maghi della città. La vostra parola basterebbe a convincere gli altri.» «Un'opinione che mi lusinga», rispose Baruk. «Sfortunatamente, lì sta la seconda supposizione erronea. Anche se avessi l'influenza che mi attribuite», Crone sbuffò e l'alchimista la fulminò con lo sguardo, «il che non è vero, per quale ragione dovrei mai sostenere una posizione ostinatamente ignorante come la vostra? Una dichiarazione di neutralità? Sarebbe come fischiare contro il vento, consigliere. A cosa servirebbe?». Il sorriso di Orr si era fatto teso. «Certo, signore», insinuò mellifluo, «non avete alcun desiderio di condividere il destino dei maghi di Pale?». Baruk aggrottò la fronte. «A cosa vi riferite?» «Sono stati assassinati da un Artiglio dell'Impero. La Progenie della Luna è rimasta totalmente sola contro i Malazan.» «Le vostre informazioni contraddicono le mie», obiettò rigidamente Baruk, poi maledì se stesso. «Non esserne troppo sicuro», interloquì Crone, in tono compiaciuto. «Avete torto tutti e due.» Alle parole di Baruk, Orr aveva alzato le sopracciglia. «Davvero? Forse
scambiarci le informazioni arrecherebbe beneficio a entrambi?» «È improbabile», ribatté Baruk. «Prospettarmi la minaccia dell'Impero implica cosa? Che se la dichiarazione non viene approvata, i maghi della città moriranno tutti per mano dell'Impero. Ma se invece passa ai voti, sarete liberi di giustificare l'apertura delle porte ai Malazan sotto l'ideale della coesistenza pacifica, e in tale scenario i maghi rimarranno in vita.» «Astuto, signore», commentò Crone. Baruk studiò la rabbia ora visibile sotto l'espressione di Orr. «La neutralità? Come siete riuscito bene a distorcere quella parola. La vostra dichiarazione costituisce il primo gradino verso l'annessione totale, consigliere. È una fortuna per voi che io non abbia peso, influenza o potere di voto.» Baruk si alzò. «Roald vi accompagnerà fuori.» Anche Turban Orr si alzò. «Avete commesso un grave errore», disse. «La dichiarazione non è stata ancora formulata del tutto. Sembra che dovremmo togliere ogni elemento riguardante i maghi di Darujhistan.» «Troppo audace», rimarcò Crone. «Prova a pungolarlo e vedi cos'altro viene fuori.» Baruk si avviò a grandi passi verso la finestra. «Si può solo sperare», riprese seccamente girando la testa, «che il vostro voto esca sconfitto». La risposta di Orr fu veemente e repentina. «Secondo i miei conti, abbiamo raggiunto la maggioranza stanotte, alchimista. Avreste potuto fornirci la ciliegina sulla torta. Ahimè», sogghignò, «vinceremo per un voto solo. Ma basterà». Baruk si mise di fronte a Orr, mentre Roald entrava silenziosamente nella stanza, portando il mantello del consigliere. Crone si allungò sul tappeto. «Proprio questa notte, fra tutte», osservò, in tono fintamente sgomento, «tentare una moltitudine di destini con simili parole». Inclinò la testa. Debolmente, come da una grande distanza, le sembrava di sentire girare una moneta. C'era un fremito di potere, che veniva da qualche parte in città. Il Grande Corvo rabbrividì. *** Rallick Nom aspettava. Niente più indolenza per Lady Simtal. La fine di tutti i lussi sarebbe arrivata quella notte. Le due figure si staccarono dalla ringhiera, girandosi verso la porta a vetri. Il dito di Rallick si strinse sul grilletto. L'uomo impietrì. La sua mente si riempì del ronzio di qualcosa che gira-
va, di parole bisbigliate che lo lasciarono bagnato di sudore. All'improvviso, tutto si mosse, si capovolse. I suoi piani di rapida vendetta caddero nello scompiglio, e dalle rovine emerse qualcosa di molto più... elaborato. Tutto era successo fra un respiro e l'altro. Lo sguardo di Rallick tornò limpido. Lady Simtal e il consigliere stavano davanti alla porta. La donna allungò la mano per far scorrere lateralmente il pannello. Rallick spostò la balestra di un pollice a sinistra, poi premette il grilletto. Il telaio di ferro annerito dell'arma fremette per lo scarico della tensione. Il quadrello schizzò in avanti, talmente veloce da essere invisibile finché non colpì il bersaglio. Una figura sul balcone ruotò su se stessa per l'impatto; barcollò, agitando le braccia. Poi cadde addosso alla porta a vetri, infrangendola. Lady Simtal cacciò un urlo d'orrore. Rallick non aspettò oltre. Mettendosi sulla schiena, alzò il braccio e infilò la balestra nella stretta fenditura fra il cornicione e il tetto. Poi si calò giù per la parte esterna del muro, restando appeso con le mani mentre grida di allarme riempivano la proprietà. Un attimo dopo, balzò a terra con una capriola, atterrando nel vicolo come un gatto. Il sicario si rimise in piedi, aggiustò il mantello, poi imboccò con calma la via trasversale che conduceva lontano dalla proprietà. Niente più indolenza per Lady Simtal; ma neanche una morte rapida. Un membro del Consiglio Cittadino molto potente, molto rispettato, era appena stato assassinato sul suo balcone. La moglie - ora vedova - di Lim avrebbe certamente avuto qualcosa da dire al riguardo. Quella era la prima fase, si disse Rallick, mentre camminava svelto per il Passaggio di Osserc e discendeva l'ampia rampa che portava giù al Distretto Daru, solo la prima fase, un suggerimento a Lady Simtal che era cominciata una caccia, con la sua eminente persona come preda. Non sarà facile: quella donna è abile nel gioco degli intrighi. «Scorrerà altro sangue», bisbigliò, voltando un angolo e dirigendosi all'entrata malamente illuminata della Locanda della Fenice. «Ma alla fine cadrà, e quella caduta segnerà l'ascesa di un vecchio amico.» In prossimità della locanda, una figura emerse dall'ombra di un vicolo adiacente. Rallick si fermò. La figura fece dei gesti, poi si ritirò nell'oscurità. Rallick la seguì. Nel vicolo, aspettò che i suoi occhi si abituassero alla mancanza di luce. L'uomo davanti a lui sospirò. «La tua vendetta ti ha probabilmente salvato la vita stanotte», osservò, in tono amaro.
Rallick si appoggiò a un muro, incrociando le braccia. «Oh?» Il Capoclan Ocelot si avvicinò, il viso stretto, butterato, distorto nel solito cipiglio. «Questa notte è stata un macello, Nom. Non hai sentito niente?» «No.» Le labbra sottili di Ocelot si arricciarono in un sorriso privo di allegria. «È cominciata una guerra sui tetti. Qualcuno ci sta uccidendo. In meno di un'ora abbiamo perso cinque Esploratori, il che significa che là fuori c'è più di un assassino.» «Sicuramente», ribatté Rallick, dimenandosi; l'umidità delle pietre della locanda penetrava attraverso il mantello e gli gelava la carne. Come sempre, gli affari della Corporazione lo annoiavano. «Abbiamo perso Talo Krafar, che era grosso come un toro, e anche un Capoclan.» L'uomo girò la testa sopra la spalla, come aspettandosi che un pugnale lo trafiggesse repentinamente alla schiena. Malgrado la sua mancanza di interesse, Rallick alzò le sopracciglia davanti a quest'ultima notizia. «Devono essere bravi.» «Bravi? Tutti i nostri testimoni oculari se ne sono andati, ecco il brutto scherzo di stanotte. Non commettono errori, quei bastardi.» «Tutti commettono errori», borbottò Rallick. «Vorcan è uscita?» Ocelot scosse la testa. «Non ancora. È troppo occupata a richiamare tutti i Clan.» Rallick aggrottò la fronte, curioso suo malgrado. «Potrebbe trattarsi di una sfida al suo controllo della Corporazione? Forse una faccenda interna, una fazione...» «Ci credi tutti sciocchi, eh, Nom? Quello è stato il primo sospetto di Vorcan. No, non è una faccenda interna. Chiunque stia uccidendo i nostri è esterno alla Corporazione, esterno alla città.» D'un tratto, la risposta sembrò ovvia a Rallick, che scosse le spalle. «Un Artiglio dell'Impero, allora.» Nonostante la sua espressione riluttante, Ocelot si riconobbe d'accordo. «Probabile», replicò, in tono aspro. «Si dice che siano i migliori, no? Ma perché prendersela con la Corporazione? Sarebbe più logico eliminare i nobili.» «Mi stai chiedendo di indovinare le intenzioni dell'Impero, Ocelot?» Il Capoclan batté le palpebre; il suo cipiglio si approfondì. «Sono venuto ad avvertirti. È un favore, Nom. Ora che sei assorbito dalla tua vendetta, la Corporazione non è obbligata a stendere la sua ala su di te. Ti ho fatto un
favore.» Rallick si staccò dal muro, girandosi verso l'imbocco del vicolo. «Un favore, Ocelot?» Rise sommessamente. «Stiamo tendendo una trappola», riprese Ocelot, muovendosi a bloccargli la strada. Puntò il mento sfregiato contro la Locanda della Fenice. «Mettiti in mostra, e non lasciare dubbi su come ti guadagni da vivere.» Rallick piantò su Ocelot uno sguardo fermo, impassibile. «Un'esca.» «Fallo e basta.» Senza rispondere, Rallick uscì dal vicolo, salì i gradini ed entrò nella locanda. *** «C'è qualcosa che si forma nella notte», annunciò Crone, dopo che Turban Orr se ne fu andato. L'aria intorno a lei scintillò, mentre riprendeva le sue vere sembianze. Baruk si avviò al tavolo delle mappe, le mani intrecciate dietro la schiena per placare il tremore che se ne era impossessato. «L'hai sentito anche tu, allora.» S'interruppe, poi sospirò. «Per una ragione o per l'altra, queste sembrano le ore più intense.» «Una convergenza di potere fa sempre quest'effetto», commentò Crone, levandosi a stendere le ali. «I venti oscuri si radunano, alchimista. Attento al loro soffio sferzante.» Baruk grugnì. «Mentre tu li cavalchi, messaggera dei nostri tragici mali.» Crone scoppiò a ridere. Andò goffamente alla finestra. «Sta arrivando il mio padrone. Quanto a me, ho altri compiti che mi aspettano.» Baruk si girò. «Permettimi», intervenne, con un gesto. La finestra si aprì. Crone svolazzò sul davanzale. Ruotò la testa, puntando un occhio su Baruk. «Vedo dodici navi che attraversano un porto profondo», rivelò. «Undici sono avvolte dalle fiamme.» Baruk s'irrigidì. Non aveva previsto una profezia; ora aveva paura. «E la dodicesima?» chiese, la voce ridotta a un sussurro. «Una pioggia di scintille riempie il cielo notturno. Le vedo girare, girare intorno all'ultima imbarcazione.» Crone si fermò. «Stanno ancora girando.» Partì. Baruk sentì afflosciarsi le spalle. Tornò alla mappa sul tavolo, e studiò le undici ex Città Libere, che ora portavano la bandiera dell'Impero. Rimane-
va solo Darujhistan, la dodicesima e ultima, a essere contrassegnata da una bandiera non grigia e rosso borgogna. «Così finisce la libertà», mormorò. All'improvviso, le mura intorno a lui gemettero, e Baruk ansimò, come schiacciato da un peso enorme. Il sangue gli martellò nella testa, trafiggendolo di dolore. Afferrò il bordo del tavolo delle mappe per riprendere l'equilibrio. La luce dei globi incandescenti che pendevano dal soffitto si affievolì, poi si spense. Nell'oscurità, l'alchimista udì crepe fendere i muri, come se la mano di un gigante fosse discesa sull'edificio. Poi, di colpo, la pressione svanì. Baruk si portò una mano tremante alla fronte lucida di sudore. Una voce sommessa parlò alle sue spalle. «Saluti, Alto Alchimista. Sono il Signore della Progenie della Luna.» Ancora rivolto verso il tavolo, Baruk chiuse gli occhi e annuì. «Il titolo non è necessario», mormorò. «Chiamatemi Baruk, ve ne prego.» «Sono a mio agio nell'oscurità», spiegò il Signore. «Questo costituirà un fastidio per te, Baruk?» L'alchimista borbottò un incantesimo. Davanti a lui, i particolari della mappa sul tavolo divennero netti, emanando un freddo chiarore azzurro. Si girò davanti al Signore, e restò sbigottito nello scoprire che quella figura alta, ammantata, rifletteva tanto poco calore quanto gli oggetti inanimati della stanza. Tuttavia, riusciva a distinguere abbastanza chiaramente i lineamenti dell'uomo. «Siete un Tiste Andii», osservò. Il Signore fece un leggero inchino. I suoi occhi obliqui, cangianti, scrutarono l'ambiente. «Hai del vino, Baruk?» «Ma certo, signore.» L'alchimista andò al suo scrittoio. «Il mio nome, nella versione che meglio può essere pronunciata dagli umani, è Anomander Rake.» Il Signore seguì Baruk allo scrittoio; i suoi stivali martellavano sul pavimento di marmo lucido. Baruk versò del vino, poi si volse a osservare Rake con una certa curiosità. Aveva sentito che guerrieri Tiste Andii combattevano contro l'Impero su a nord, agli ordini di una belva feroce di nome Caladan Brood. Si erano alleati con la Guardia Cremisi e, insieme, le due forze stavano decimando i Malazan. Così, c'erano dei Tiste Andii nella Progenie della Luna, e chi gli stava davanti era il loro Signore. In quel momento, Baruk vedeva un Tiste Andii faccia a faccia per la prima volta. Ne era alquanto turbato. Occhi straordinari, pensò. Un attimo, una sfumatura intensa di ambra, felini, sconvolgenti, un attimo dopo grigi come quelli di un serpente - un arcobaleno micidiale, ad accompagnare
ogni stato d'animo. Si chiese se fossero in grado di mentire. Nella biblioteca dell'alchimista giacevano copie dei tomi superstiti della Follia di Gothos, uno scritto Jaghut dei millenni passati. I Tiste Andii erano menzionati qua e là con un'aura di paura, ricordò Baruk. Gothos stesso, uno stregone Jaghut che aveva disceso i canali più profondi dell'Antica Magia, aveva ringraziato gli dei dell'epoca perché i Tiste Andii erano così pochi. E, da allora, il numero degli appartenenti a quella razza misteriosa, dalla pelle nera, era probabilmente diminuito. La pelle di Anomander Rake era nera come l'ebano, in accordo con le descrizioni di Gothos, ma la criniera fluente era color argento. Era alto quasi sette piedi. I suoi lineamenti erano angolosi, come scolpiti nell'onice, e i grandi occhi dalle pupille verticali erano leggermente inclinati verso l'alto. Alla schiena, aveva legata una spada da reggere con entrambe le mani; il pomo d'argento a forma di teschio di drago e l'elsa a croce, di foggia arcaica, sporgevano da un fodero di legno lungo sei piedi e mezzo abbondanti. L'arma trasudava potere, che macchiava l'aria come l'inchiostro nero una pozza d'acqua. Nel posarvi lo sguardo, Baruk quasi barcollò, vedendo, per un attimo, una vasta oscurità spalancarsi davanti a lui, fredda come il cuore di un ghiacciaio, da cui venivano il puzzo dell'antichità e un debole gemito. Baruk strappò gli occhi dalla spada; alzandoli, vide che Rake lo studiava con la testa piegata. Il Tiste Andii fece un sorrisetto storto, d'intesa, e porse a Baruk uno dei calici pieni di vino. «Crone è stata melodrammatica come al solito?» Baruk batté le palpebre, poi non poté fare a meno di sogghignare. Rake sorseggiò il suo vino. «Non è mai stata modesta nell'esibire i suoi talenti. Ci sediamo?» «Certo», rispose Baruk, rilassandosi malgrado la sua apprensione. Gli anni di studio gli avevano insegnato che il grande potere forgiava ogni anima in modo diverso. Se quella di Rake fosse stata distorta, l'alchimista l'avrebbe capito subito. Ma il Signore sembrava avere un controllo assoluto. Ciò bastava a generare timore reverenziale. Quell'uomo plasmava il suo potere, e non viceversa. Un controllo simile era, be', disumano. Baruk sospettava che, al riguardo del mago-guerriero, avrebbe avuto altre intuizioni che l'avrebbero lasciato sbigottito e spaventato. «Lei mi ha gettato contro tutto quello che aveva a disposizione», proclamò Rake d'un tratto. I suoi occhi luccicavano di verde ghiaccio. Sorpreso dalla veemenza di quello sfogo, Baruk aggrottò la fronte. Lei?
Oh, l'Imperatrice, naturalmente. «E malgrado ciò», continuò Rake, «non è riuscita ad abbattermi». L'Alchimista s'irrigidì sulla sedia. «Tuttavia», replicò cauto, «siete stato respinto, bastonato e sconfitto. Percepisco il vostro potere, Anomander Rake», aggiunse, con una smorfia, «pulsa da voi come una successione di onde. Perciò devo chiedere: come avete potuto essere battuto? So qualcosa di Tayschrenn, Grande Mago dell'Impero. Ha potere, ma non è paragonabile al vostro. Come? ripeto». Lo sguardo sul tavolo delle mappe, Rake spiegò: «Ho impegnato i miei maghi e i miei guerrieri nella campagna settentrionale di Brood». Volse su Baruk un sorriso privo di allegria. «Nella mia città ci sono bambini, sacerdoti e tre anziani indovini, assolutamente privi di senso pratico.» Città? C'era una città all'interno della Progenie della Luna? Un tono spento era entrato negli occhi di Rake. «Non posso difendere un'intera fortezza da solo. Non posso essere dappertutto nello stesso tempo. E quanto a Tayschrenn, non gli importava niente di chi gli stava intorno. Pensavo di dissuaderlo, di rendere il prezzo troppo alto...» Scosse la testa come perplesso, poi guardò Baruk. «Per salvare la dimora della mia gente, mi sono ritirato.» «Lasciando Pale a cadere...» Baruk chiuse la bocca, maledicendo la sua mancanza di tatto. Ma Rake si limitò a scrollare le spalle. «Non avevo previsto un attacco completo. La mia sola presenza era bastata a tenere a bada l'Impero per quasi due anni.» «Ho sentito che l'Imperatrice sta perdendo la pazienza», mormorò Baruk, pensoso. Strinse gli occhi, poi li alzò sul suo interlocutore. «Avete chiesto di incontrarmi, Anomander Rake, ed eccoci qui. Che cosa volete da me?» «Un'alleanza», rispose il signore della Luna. «Con me? Personalmente?» «Niente giochi, Baruk.» La voce di Rake si era raffreddata all'improvviso. «Non mi faccio ingannare da quel Consiglio di idioti che bisticciano nel Palazzo Vecchio. So che siete tu e i tuoi colleghi maghi a governare Darujhistan.» Si alzò, fulminando l'alchimista con occhi grigi. «Ti dirò una cosa. Per l'Imperatrice, la tua città è la perla solitaria su questo continente di fango. La vuole; e ciò che lei vuole, solitamente ottiene.» Baruk abbassò la mano a tirare l'orlo sfilacciato della veste. «Capisco», osservò con voce sommessa. «Pale aveva i suoi maghi.»
Rake aggrottò la fronte. «Già.» «Eppure», proseguì Baruk, «quando la battaglia è cominciata sul serio, il vostro primo pensiero non è stato per l'alleanza che avevate stipulato con la città, ma per il benessere della vostra fortezza». «Chi te l'ha detto?» indagò Rake. Baruk alzò lo sguardo, ed entrambe le mani. «Alcuni di quei maghi sono riusciti a scappare.» «Sono in città?» Gli occhi di Rake erano diventati neri. Alla loro vista, Baruk si sentì coprire di sudore sotto i vestiti. «Perché?» chiese. «Voglio le loro teste», spiegò Rake con noncuranza. Si riempì di nuovo il calice, bevendo un sorso. Una mano gelida era scivolata intorno al cuore di Baruk, e lo stringeva. Negli ultimi secondi, il suo mal di testa era aumentato di dieci volte. «Perché?» ripeté, quasi in un ansito. Se il Tiste Andii era a conoscenza dell'improvviso disagio dell'alchimista, non lo diede a vedere. «Perché?» Sembrò assaporare la parola come vino; un leggero sorriso gli sfiorava le labbra. «Quando l'esercito dei Moranth è sceso dalle montagne, e Tayschrenn ha cavalcato alla testa del suo quadro di maghi, e si è sparsa la voce che un Artiglio Imperiale si era infiltrato in città», il sorriso di Rake si contorse in un ringhio, «i maghi di Pale sono fuggiti.» S'interruppe, come se rivivesse dei ricordi. «Ho liquidato l'Artiglio quando aveva fatto soltanto dodici passi oltre le mura.» Si fermò di nuovo; il suo viso tradì un lampo di rammarico. «Se i maghi della città fossero rimasti, l'assalto sarebbe stato respinto. Tayschrenn, a quanto pareva, era assorbito da... altri imperativi. Aveva avvolto la sua postazione - la cima di una collina - di difese magiche. Poi ha scatenato dei demoni non contro di me, ma contro alcuni dei suoi compagni. La cosa mi ha sconcertato ma, piuttosto che permettere a simili creature di vagare a piacimento, ho consumato potere vitale nel distruggerle.» Sospirando, rivelò: «Ho tirato indietro la Progenie della Luna a pochi minuti dalla sua distruzione. L'ho lasciata scivolare verso sud, e ho inseguito quei maghi». «E...?» «Li ho rintracciati tutti, tranne due.» Rake fissò Baruk. «Voglio quei due; preferibilmente vivi, ma mi accontento delle loro teste.» «Avete ucciso quelli che avete trovato? Come?» «Con la mia spada, naturalmente.» Baruk arretrò, come se fosse stato colpito. «Oh», bisbigliò. «Oh.»
«L'alleanza», decretò Rake, prima di vuotare il suo calice. «Parlerò alla Cabala di questa faccenda», concluse Baruk, alzandosi barcollante. «La decisione vi verrà comunicata presto.» Puntò lo sguardo sulla spada legata alla schiena del Tiste Andii. «Ditemi, se prenderete quei maghi vivi, userete quella su di loro?» Rake aggrottò le sopracciglia. «Naturalmente.» Girandosi, Baruk chiuse gli occhi. «Avrete le loro teste, allora.» Alle sue spalle, Rake scoppiò in una risata aspra. «Tu, alchimista, hai troppa misericordia nel cuore.» *** La luce pallida oltre la finestra indicava l'alba. Nella Locanda della Fenice, un solo tavolo rimaneva occupato. Intorno, sedevano quattro uomini, uno addormentato sulla sedia con la testa in una pozza di birra vecchia. Russava sonoramente. Gli altri giocavano a carte; due avevano gli occhi rossi dalla stanchezza, mentre l'ultimo studiava la sua mano e parlava. E parlava. «E poi c'è stata la volta che ho salvato la vita a Rallick Nom, in fondo alla Strada della Vigilia. Quattro, no, cinque teppisti scellerati l'avevano messo con le spalle al muro. Riusciva a malapena a stare in piedi; perdeva sangue a fiotti da cento ferite da coltello. Era chiaro, purtroppo, che quella rissa sarebbe finita in tempi brevi. Ho raggiunto gli assassini da dietro, io, il vecchio Kruppe col fuoco danzante sulla punta delle dita - un incantesimo dalla forza spaventosa. Ho pronunciato la formula tutto d'un fiato e bam! Cinque mucchi di cenere ai piedi di Rallick. Cinque mucchi di cenere luccicanti delle monete dei loro borsellini - ah! Una degna ricompensa!» Murillio inclinò il corpo alto, elegante vicino a Crokus Mano-Giovane. «È possibile?» bisbigliò. «È possibile che un turno duri tanto quello di Kruppe?» Crokus rivolse all'amico un sorriso stanco. «A me non dispiace, in realtà. Qui siamo al sicuro, ed è questo che conta, per me.» «Guerra fra sicari, bah!» esclamò Kruppe, e si appoggiò allo schienale per asciugarsi la fronte con un fazzoletto di seta spiegazzato. «Kruppe non è assolutamente convinto. Ditemi, non avete visto Rallick Nom qui prima? Ha parlato a lungo con il nostro Murillio, il ragazzo. Ed era calmo come al solito, no?» Murillio fece una smorfia. «Nom diventa così tutte le volte che uccide
qualcuno. Posa una carta, maledizione! Ho degli appuntamenti che mi aspettano.» «Di cosa ti stava parlando Rallick?» chiese Crokus. Per tutta risposta, Murillio scrollò le spalle. Fulminava Kruppe con lo sguardo. L'ometto alzò le sopracciglia sottili. «È il turno di Kruppe?» Chiudendo gli occhi, Crokus si afflosciò sulla sedia. Gemette. «Ho visto tre sicari sui tetti, Kruppe. E i due che hanno ucciso il terzo mi hanno inseguito, anche se è evidente che non sono un sicario.» «Be'», intervenne Murillio, osservando i vestiti laceri del giovane ladro e i tagli e le sbucciature sul viso e sulle mani, «sono propenso a crederti». «Sciocchi! Kruppe siede a un tavolo di sciocchi!» Kruppe lanciò un'occhiata all'uomo che russava. «E Coll, qui, è il peggiore di tutti. Ma, purtroppo, Kruppe è dotato di autoconoscenza. Perciò si trova in uno stato da cui possono essere tratte molte verità profane. Appuntamenti, Murillio? Kruppe non credeva che le molteplici signore della città si svegliassero così presto. Dopo tutto, cosa potrebbero vedere nei loro specchi? Kruppe rabbrividisce al solo pensiero.» Crokus massaggiò il livido nascosto sotto i capelli lunghi, castani. Sussultò dal dolore, poi si chinò in avanti. «Avanti, Kruppe», borbottò. «Gioca una carta.» «È il mio turno?» «Sembra che l'autoconoscenza non permetta di sapere a chi tocca», commentò seccamente Murillio. Sulle scale risuonò un picchiettio di stivali. Girandosi, i tre videro Rallick Nom che scendeva dal primo piano. L'uomo alto, dalla pelle scura, sembrava riposato. Portava il mantello da giorno, color porpora scuro, chiuso al collo da una spilla d'argento a forma di conchiglia. I capelli neri, intrecciati di recente, incorniciavano il viso stretto, appena sbarbato. Rallick raggiunse il tavolo, e abbassò la mano ad afferrare i capelli di Coll, ogni giorno più radi. Gli alzò la testa dalla pozza di birra e si piegò in avanti a studiare la faccia bitorzoluta. Poi la posò delicatamente, e prese una sedia. «È lo stesso gioco di ieri sera?» «Ma certo», rispose Kruppe. «Kruppe ha messo questi due uomini con le spalle al muro; rischiano di perdere anche la camicia! È bello rivederti, amico Rallick. Il ragazzo, qui», indicò Crokus con una mano molle, dalle dita svolazzanti, «parla senza tregua di uccisioni sulle nostre teste. Una
vera pioggia di sangue! Hai mai sentito tali sciocchezze, caro amico di Kruppe?». Rallick scosse le spalle. «È solo una voce. Questa città è stata costruita sulle voci.» Crokus si accigliò. A quanto pareva, quel mattino nessuno era disposto a rispondere alle domande. Si chiese per l'ennesima volta di cosa avessero parlato il sicario e Murillio, prima; vedendoli curvi su un tavolo fiocamente illuminato in un angolo della stanza, aveva sospettato qualche sorta di cospirazione. Non che cose del genere fossero strane per loro; anche se, per lo più, c'era Kruppe al centro. Murillio girò lo sguardo sul bar. «Sulty!» chiamò. «Sei sveglia?» Da dietro il banco di legno arrivò un borbottio, poi Sulty, i biondi capelli arruffati e il viso più paffuto del solito, si alzò. «Sì», borbottò. «Che c'è?» «Colazione per i miei amici, se non ti dispiace». Murillio si mise in piedi, gettando un'occhiata critica, di disapprovazione, sui suoi vestiti. La camicia morbida, ampia, color verde brillante, gli pendeva dal corpo scarno, stropicciata e macchiata di birra. I pantaloni di fine cuoio conciato avevano lo stesso aspetto. Sospirando, Murillio si allontanò dal tavolo. «Devo fare un bagno e cambiarmi. Quanto al gioco, mi arrendo, vinto dalla disperazione. Kruppe, ora credo, non giocherà mai la sua carta, lasciandoci intrappolati nell'improbabile mondo delle sue reminescenze, potenzialmente per sempre. Arrivederci a tutti.» Intrecciando lo sguardo con Rallick, annuì debolmente. Crokus assistette allo scambio, e il suo cipiglio si aggravò. Vide Murillio andarsene, poi lanciò un'occhiata a Rallick. Seduto al tavolo, il sicario fissava Coll, con espressione più indecifrabile che mai. Sulty si diresse in cucina, e un attimo dopo uno sferragliare di pentole riecheggiò nella stanza. *** Crokus gettò le sue carte al centro del tavolo e si appoggiò allo schienale, chiudendo gli occhi. «Anche il ragazzo si arrende?» chiese Kruppe. Crokus annuì. «Ah, Kruppe rimane invitto.» L'uomo posò le sue carte e si infilò un tovagliolo davanti al collo largo, che si muoveva a piccoli scatti. Nella mente del ladro, i sospetti di intrighi vorticavano all'impazzata.
Prima la guerra dei sicari, e ora qualcosa bolliva in pentola fra Rallick e Murillio. Sospirò mentalmente e aprì gli occhi. Gli doleva tutto il corpo per le avventure della notte, ma sapeva di essere stato fortunato. Fissò Coll senza vederlo. La visione di quegli assassini alti e neri gli tornò davanti, facendolo rabbrividire. Eppure, malgrado la quantità di pericoli che l'avevano inseguito sui tetti, doveva ammettere che era stato tutto molto eccitante. Dopo essersi sbattuto la porta alle spalle e aver tracannato la birra che Sulty gli aveva ficcato in mano, si era sentito tremare da capo a piedi per un'ora intera. Concentrò l'attenzione su Coll. Coll, Kruppe, Murillio e Rallick. Che strana compagnia - un ubriacone, un mago obeso dalle dubbie capacità, un damerino azzimato e un sicario. Però, erano i suoi migliori amici. I suoi genitori erano morti per la Peste Alata quando lui aveva quattro anni. Da allora, era stato allevato dallo zio Mammot. Il vecchio studioso aveva fatto del suo meglio, ma non era stato abbastanza. Crokus trovava le ombre" delle strade e le notti senza luna sui tetti molto più entusiasmanti dei libri ammuffiti dello zio. Ora, tuttavia, si sentiva molto solo. Kruppe non abbandonava mai la sua maschera di beata idiozia, nemmeno per un attimo - in tutti gli anni in cui Crokus era stato suo apprendista nell'arte del furto, non l'aveva mai visto comportarsi altrimenti. La vita di Coll sembrava ruotare intorno alla sistematica fuga dalla sobrietà, per ragioni a lui ignote - anche se sospettava che, una volta, Coll fosse stato qualcosa di più. E Rallick e Murillio l'avevano appena escluso da qualche nuovo intrigo. Quando nei suoi pensieri si affacciò un'immagine - le membra illuminate dalla luna di una fanciulla dormiente - scosse rabbiosamente la testa. Sulty arrivò con la colazione, croste di pane fritte nel burro, un pezzo di formaggio di capra, un grappolo d'uva locale e una brocca di caffè amaro. Servì per primo Crokus, che borbottò i suoi ringraziamenti. L'impazienza di Kruppe crebbe mentre Sulty serviva Rallick. «Che impertinenza», sbottò l'uomo, aggiustando le maniche della giacca, ampie e macchiate. «Kruppe ha intenzione di lanciare mille orribili incantesimi su quella maleducata di Sulty.» «Kruppe farebbe meglio a ripensarci», intervenne Rallick. «No, certo che no», si corresse Kruppe, asciugandosi la fronte con il fazzoletto. «Un mago della mia levatura non si sminuirebbe mai con una sguattera.» Sulty si girò verso di lui. «Sguattera?» Afferrò dal piatto una crosta di
pane e gliela sbatté sul cranio. «Non preoccuparti», lo rassicurò, tornando al banco. «Con i capelli che hai, non se ne accorgerà nessuno.» Kruppe si tolse la crosta dalla testa. Stava per gettarla per terra, poi cambiò idea. Si leccò le labbra. «Kruppe è magnanimo stamattina», annunciò, erompendo in un largo sorriso e posandosi il pane sul piatto. Si chinò in avanti e intrecciò le dita grassocce. «Kruppe desidera cominciare il suo pasto con dell'uva, se permettete.» CAPITOLO SETTIMO Vedo un uomo accovacciato in un fuoco che mi lascia freddo e mi chiedo che cosa lui faccia così coraggiosamente accovacciato nella mia pira... Epitaffio Gadrobi Anonimo Questa volta il sogno portò Kruppe fuori dalla Porta della Palude, lungo la Strada Meridionale, quindi a sinistra verso il Distretto Lago. Sopra di lui, il cielo era un turbinio argenteo. «Tutto fluisce», mormorò Kruppe senza fiato, i piedi che si affrettavano sulla strada polverosa e deserta. «La Moneta è finita tra le mani di un bambino, sebbene lui non lo sappia. È Kruppe che deve percorrere questa Via delle Scimmie? Meno male che il corpo perfettamente rotondo di Kruppe è un esempio di perfetta simmetria. Non basta nascere possedendo un perfetto equilibrio, è necessario imparare attraverso una dura pratica. Naturalmente, Kruppe è l'unico ad apprendere senza avere mai bisogno di esercizio.» Nei campi alla sua sinistra, circondato da giovani alberi, un focherello proiettava un confuso bagliore rossastro fra i rami carichi di germogli. Grazie alla sua vista acuta, Kruppe individuò una figura solitaria seduta davanti al fuoco, le mani all'apparenza fra le fiamme. «Troppe pietre da girare sotto i piedi su questa strada sassosa», borbottò. «Kruppe proverà la nuda terra, che deve ancora coprirsi del verde della primavera.» Lasciò la strada e si diresse verso la radura. Mentre superava due esili tronchi e raggiungeva il cerchio di luce, la fi-
gura incappucciata si voltò lentamente verso di lui, il volto nascosto nell'ombra nonostante il fuoco. Le mani dalle lunghe dita affusolate erano sempre fra le fiamme. «Vorrei condividere questo calore», disse Kruppe, accennando un inchino. «Ultimamente così raro nei sogni di Kruppe.» «Degli sconosciuti vagano in essi», replicò la figura con voce sottile. «Come me, d'altronde. Allora sei tu che mi hai convocato? È molto tempo che non cammino sulla nuda terra.» Il volto di Kruppe si fece scuro. «Convocato? No, non Kruppe poiché è anch'egli vittima dei suoi sogni. Ma guardami, straniero, perché io ho freddo; di più, sono gelato.» L'altro rise sommessamente e invitò Kruppe ad avvicinarsi al fuoco. «Sto cercando ancora una volta di provare sensazioni», spiegò, «ma le mie mani non sentono nulla. Essere adorati significa condividere il dolore di chi ti supplica. Temo che i miei seguaci non siano più tali». Kruppe non replicò. Non gli piaceva l'atmosfera malinconica di quel sogno. Allungò le mani davanti al fuoco, ma avvertì ben poco calore. Un senso di gelo gli aveva invaso le membra. Infine sollevò lo sguardo oltre le fiamme, sulla figura incappucciata di fronte a lui. «Kruppe pensa che tu sia un Dio Antico. Hai un nome?» «Sono conosciuto come K'rul.» Kruppe s'irrigidì. Aveva indovinato. L'idea di un Dio Antico risvegliatosi e che vagava per i suoi sogni fece schizzare via i suoi pensieri come lepri spaventate. «Come mai sei qui, K'rul?» domandò con voce tremante. Tutto a un tratto quel posto gli sembrò troppo caldo. Estrasse il fazzoletto dalla manica e si asciugò il sudore sulla fronte. K'rul non rispose subito e Kruppe avvertì il dubbio nella voce del dio. «Dietro le mura di questa scintillante città è stato versato del sangue, Kruppe, su pietre un tempo consacrate a me. Tutto questo è per me... nuovo. In passato regnavo nelle menti di molti mortali e loro mi nutrivano bene con il sangue e le ossa spezzate. Quando ancora le prime torri di pietra non erano sorte per soddisfare i capricci dei mortali, me ne sono andato fra i cacciatori.» Il cappuccio scivolò indietro e Kruppe sentì occhi immortali fissi su di sé. «È stato nuovamente versato sangue, ma soltanto quello non basta. Sono convinto di essere qui per aspettare qualcuno che verrà svegliato. Uno che ho conosciuto anni e anni fa.» Kruppe deglutì a vuoto, spaventato. «E che cosa porti a Kruppe?» Il Dio Antico si alzò bruscamente. «Un fuoco primitivo che ti donerà ca-
lore nei momenti del bisogno», disse. «Ma tu dovrai cercare il T'lan Imass che condurrà la donna. Loro sono i Risvegliatoti. Penso di dovermi preparare per la battaglia. Una battaglia che perderò.» Gli occhi di Kruppe si spalancarono: aveva finalmente compreso. «Ti stanno usando», sussurrò. «Forse. Se così fosse, allora gli Dei Bambini avrebbero commesso un grave errore. Dopo tutto», un sorriso spettrale sembrò sottolineare quelle parole, «perderò una battaglia. Ma non morirò». K'rul si allontanò dal fuoco. «Continua a giocare, mortale. Ogni dio cade per mani mortali. Così si pone fine all'immortalità.» La malinconia nel tono della voce del dio non sfuggì a Kruppe. L'uomo sospettava che gli fosse stata rivelata una profonda verità, una verità che ora aveva il permesso di sfruttare. «E Kruppe la sfrutterà», mormorò. Il Dio Antico aveva lasciato il cerchio di luce e ora si dirigeva verso nord-est attraverso i campi. Kruppe fissò il fuoco. Consumava avidamente la legna, eppure non c'era cenere e sebbene dal suo arrivo non fosse stato alimentato non accennava a diminuire. Rabbrividì. «Nelle mani di un bambino», mormorò. «Questa notte, Kruppe è veramente solo al mondo. Solo.» *** Un'ora prima dell'alba il Violatore del Cerchio ricevette il cambio al Barbacane del Despota. Quella notte nessuno si era dato appuntamento davanti alla torre. A nord, i lampi giocavano fra i picchi frastagliati dei Monti Tahlyn, mentre l'uomo avanzava in solitudine lungo la Via dell'Anice nel Quartiere delle Spezie. Davanti a lui scintillava il Distretto Lago; le navi mercantili provenienti dalle lontane Callows ed Ellingarth beccheggiavano fra moli illuminati. Una fresca brezza lacustre portò all'uomo il profumo della pioggia, sebbene in cielo le stelle splendessero con sorprendente nitidezza. Toltosi la cotta d'arme, l'aveva infilata in una sacca di cuoio gettata su una spalla. Soltanto la spada che portava su un fianco denunciava il suo ruolo di soldato, ma un soldato senza provenienza. Si era spogliato dei suoi doveri di ufficiale e mentre camminava verso l'acqua, gli anni di servizio scivolavano via dal suo spirito. Nella sua mente erano ancora vividi i ricordi dell'infanzia trascorsa lungo quei moli, dove veniva attratto dal fascino dei mercanti stranieri che saltavano giù dalle
loro imbarcazioni come stanchi e provati eroi di ritorno dalla guerra. In quei giorni non era raro vedere le galere corsare entrare nella baia, lucide e pesanti per il bottino. Provenivano da porti misteriosi quali Filman Orras, Mezzo Forte ed Esilio; nomi che sapevano di avventura alle orecchie di un bambino che non aveva mai superato le mura della propria città. Raggiunto il molo di pietra l'uomo rallentò. Gli anni che lo separavano da quel bambino affollavano la sua mente, un assembramento di immagini belliche sempre più sinistre. Se avesse ripensato" ai molti bivi a cui era giunto in passato, avrebbe visto i cieli oscurati dalle tempeste, le terre esauste e spazzate dal vento. Le forze dell'età e dell'esperienza lavoravano ora su quei bivi e qualunque scelta avesse fatto in passato sembrava predestinata e quasi disperata. È solo il giovane che conosce la disperazione? si chiese mentre si sedeva sulle pietre del molo. Innanzi a lui s'increspavano le acque fuligginose della baia. Venti piedi più sotto, la costa rocciosa si allungava nell'oscurità; frammenti di vetro e terracotta sparsi qua e là scintillavano come stelle. L'uomo girò il capo verso destra. Con lo sguardo percorse il leggero pendio sulla cui sommità si ergeva il Palazzo Vecchio. Non mirare troppo in alto. Una semplice lezione di vita che aveva imparato tempo addietro sul ponte in fiamme di una nave corsara, lo scafo che imbarcava acqua mentre la nave scivolava fuori dalle fortificazioni a pinnacolo di una città chiamata Mascella Spezzata. Non mirare troppo in alto. Gli occhi dell'uomo si soffermarono sul Palazzo Vecchio. Le difficoltà subentrate in seguito all'assassinio del Consigliere Lim non erano ancora state superate. Il Consiglio girava a vuoto e ore preziose venivano sprecate in stupidi pettegolezzi e assurde ipotesi, invece che dedicate a questioni di stato. Turban Orr, dopo essersi visto soffiare la vittoria all'ultimo momento, aveva slegato i suoi segugi, che ora cercavano incessantemente le spie che Orr era convinto si fossero infiltrate fra i suoi seguaci. Il consigliere non era uno stupido. In cielo, uno stormo di gabbiani volava verso il lago, gridando nella fresca aria della sera. L'uomo trasse un respiro profondo, spinse indietro le spalle e si obbligò a distogliere lo sguardo dal Palazzo Vecchio. Era troppo tardi per preoccuparsi di non mirare troppo in alto. Dal giorno in cui l'agente dell'Anguilla era andato da lui, il suo futuro era stato segnato; alcuni l'avrebbero definito tradimento. E forse, alla fine, era tradimento. Chi poteva dire che cosa si celasse nella mente dell'Anguilla? Persino il suo più importante agente - il contatto del militare - ignorava i
piani del suo superiore. La mente del soldato tornò a Turban Orr. Si era schierato contro un uomo astuto, un uomo di potere. L'unica sua difesa contro Orr era l'anonimato. Ma non sarebbe durato. Sedeva sul molo in attesa dell'agente dell'Anguilla. E avrebbe affidato a quell'uomo un messaggio per il suo capo. Quanto sarebbe cambiato con la consegna di quella missiva? Sbagliava a cercare aiuto, a mettere in pericolo il suo anonimato - quella solitudine che gli dava tanta forza interiore, che consolidava la sua decisione? Eppure, non pensava di poter tenere testa da solo a Turban Orr. Infilò la mano nella giacca ed estrasse il rotolo di pergamena. Si trovava nuovamente a un punto cruciale della propria esistenza. In risposta alla propria paura, aveva scritto su quella pergamena una richiesta di aiuto. Sarebbe stato facile arrendersi ora. Strinse tra le mani la delicata pergamena, avvertendone la lieve oleosità, la trama ruvida del nastro. Una cosa facile da fare. Sollevò la testa. Il cielo aveva iniziato a schiarirsi, la brezza lacustre soffiava lieve. Da nord sarebbe presto giunta la pioggia, come accadeva spesso in quel periodo dell'anno. Avrebbe pulito la città, rinfrescato l'aria carica degli odori dell'abitato. Tolse il nastro al rotolo e svolse la pergamena. Così facile. Con movimenti lenti, studiati, stracciò la missiva. Lasciò che il vento trasportasse i pezzi spargendoli sulla sponda del lago, dove ben presto vennero catturati dall'alta marea. Da un angolo remoto della mente gli sembrò di udire una moneta che girava. Era un suono triste. Pochi istanti dopo lasciò il molo. L'agente dell'Anguilla, nel corso della sua passeggiata mattutina, avrebbe notato l'assenza del suo contatto e avrebbe semplicemente continuato per la propria strada. Il militare s'incamminò lungo il Distretto Lago, lasciandosi alle spalle il Palazzo Vecchio. Mentre passava, apparvero i primi mercanti, indaffarati a sistemare le loro merci sull'ampia passeggiata. Fra le sete l'uomo riconobbe i filati ritorti e le pezze color lavanda di Illem, i gialli pastello di Setta e Lest - due città del sud-est che nell'ultimo mese erano state conquistate dal Veggente Pannion - e i pesanti tessuti di Sarrokalle. Rispetto a un tempo, l'offerta era diminuita: l'attività commerciale delle regioni del nord era infatti crollata sotto il dominio Malazan. Abbandonò il lago all'ingresso del Bosco Profumato e si diresse in città.
A quattro isolati di distanza lo aspettava la sua stanza al secondo piano di un edificio grigio, fatiscente, silenzioso alle prime luci dell'alba. In quella stanza non permetteva l'ingresso ai ricordi; niente doveva risvegliare l'attenzione di un mago o svelare al cacciatore di spie dettagli della sua vita. In quella stanza, era anonimo persino a se stesso. *** Lady Simtal misurò la stanza a grandi passi. In quegli ultimi giorni troppo di quell'oro che aveva conquistato duramente era stato speso per placare le acque. Quella dannata cagna di Lim non aveva permesso al dolore di intralciare la sua avidità. Due giorni appena fasciata di nero e poi fuori, al braccio di quello zerbinotto di Murillio, compiaciuta come una sgualdrina a un ballo. Simtal corrugò le sopracciglia disegnate. Murillio: quel giovane sapeva come farsi notare. Tutto sommato, era una conoscenza che avrebbe dovuto approfondire. Si fermò e puntò gli occhi sull'uomo sdraiato sul suo letto. «E così, non hai scoperto niente.» Senza volere, il tono della donna aveva assunto una nota sprezzante. Chissà se l'amante l'aveva percepita. Il consigliere Turban Orr, gli occhi nascosti da un braccio coperto da una ragnatela di cicatrici, non si mosse mentre rispondeva, «Te l'ho già detto. Non c'è modo di sapere da dove provenisse quella freccia avvelenata, Simtal. Diamine, avvelenata! Quale sicario usa il veleno oggigiorno? La magia è ormai ovunque e qualsiasi altra cosa è obsoleta.» «Stai divagando», osservò la donna sollevata perché lui non aveva colto il suo stato d'animo. «È come ti ho detto», continuò Orr. «Lim era coinvolto in più di un ... eh... affare delicato. Il suo omicidio probabilmente non ha niente a che fare con te. Poteva essere il terrazzo di chiunque; è stato un puro caso che si sia trattato del tuo.» Lady Simtal incrociò le braccia. «Non credo alle coincidenze, Turban. Dimmi un po', è stata una pura coincidenza il fatto che la sua morte abbia spezzato la maggioranza la notte prima del voto?» Vide la guancia dell'uomo contrarsi e capì di avere colto nel segno. Sorrise e si avvicinò al letto. Si sedette e lasciò scivolare una mano sulla coscia nuda del Consigliere. «Ad ogni modo, ultimamente hai fatto dei controlli su di lui?» «Lui?»
Simtal si rabbuiò; ritirò la mano e balzò in piedi. «Il mio adorato spodestato, stupido.» La bocca di Turban si arricciò in un sorriso sinistro. «Lo tengo sempre d'occhio per te, mia cara. Niente è cambiato a quel riguardo. Non si è più ripreso da quando l'hai cacciato via a calci nel culo.» L'uomo si sedette e allungò una mano verso gli abiti posati su una sedia accanto al letto. Iniziò a vestirsi. Simtal si girò di scatto. «Che cosa stai facendo?» chiese con voce stridula. «Indovina un po'!» Turban s'infilò i pantaloni. «Il dibattito infuria a Palazzo Vecchio. Hanno bisogno di me.» «Per fare che cosa? Piegare un altro consigliere al tuo volere?» Lui si mise la camicia di seta, il sorriso ancora sulle labbra. «Quello e altro.» Simtal sollevò gli occhi al cielo. «Oh, ma certo... la spia. Me n'ero dimenticata.» «Personalmente», affermò Orr, «ritengo che il decreto di neutralità verrà approvato domani o forse il giorno dopo». La donna commentò quelle parole con una risata beffarda. «Neutralità! Cominci a credere alla tua stessa propaganda! Ciò che tu vuoi, Turban Orr, è potere, il potere nudo e crudo che si ottiene con la nomina di Grande Pugno Malazan. Pensi che questo sia il primo passo per arrivare all'Imperatrice. Naturalmente a spese della città, ma è un particolare di cui non ti importa un accidente!» Turban fissò la donna con sguardo di scherno. «Stai alla larga dalla politica, donna. La caduta di Darujhistan nelle mani dell'Impero è inevitabile. Ma meglio un'occupazione pacifica che violenta.» «Pacifica? Hai forse dimenticato quello che è successo ai nobili di Pale? Oh, i corvi hanno banchettato con quella carne delicata per giorni. Quest'Impero divora il sangue nobile.» «Ciò che è accaduto a Pale non è semplice come può sembrare», replicò Turban. «Erano coinvolti anche interessi dei Moranth, una clausola del patto di alleanza. Qui non accadrà niente di simile e anche in caso contrario, che cosa importa? Potremmo sempre approfittarne a nostro vantaggio.» Di nuovo il sorriso. «Non me la dai a bere. La tua preoccupazione per la città è in realtà preoccupazione per te stessa.» Si sistemò le ghette. Simtal si avvicinò alla sedia e allungò la mano per sfiorare il pomo d'argento della spada di Orr. «Dovresti ucciderlo e farla finita», disse.
«Ancora lui?» Il consigliere scoppiò a ridere. «Il tuo cervello ha l'astuzia di un bambino malizioso.» Prese la spada e legò il cinturone in vita. «È sorprendente che tu abbia strappato ogni cosa a quell'idiota di tuo marito in fatto di astuzia eravate pari.» «Non c'è niente di più facile da spezzare del cuore di un uomo», ribatté Simtal con un sorriso soddisfatto. Si sdraiò sul letto. Allungando le braccia e arcuando la schiena, disse: «E la Progenie della Luna? È sempre là?». Lo sguardo che scivolava sul corpo della donna, il consigliere rispose in tono distratto: «Dobbiamo ancora trovare il modo per inviare un messaggio lassù. Abbiamo eretto una tenda sotto la sua ombra e vi abbiamo piazzato dei nostri rappresentanti, ma quel misterioso signore ci ignora». «Forse è morto», suggerì Simtal, rilassandosi con un sospiro. «Forse la Luna resta là perché al suo interno sono tutti morti. Ci avevi mai pensato, caro Consigliere?» Turban Orr si girò verso la porta. «Naturalmente. Ti vedrò questa sera?» «Lo voglio morto», disse Simtal. Il consigliere sganciò il chiavistello. «Forse. Ci vediamo questa sera?» «Forse.» La mano di Turban Orr restò sospesa un istante sul chiavistello, poi l'uomo aprì la porta e lasciò la stanza. Sdraiata sul letto, Lady Simtal sospirò. I suoi pensieri corsero a un certo damerino, la cui perdita a danno di una certa vedova sarebbe stato un colpo da maestro. *** Murillio sorseggiò il vino speziato. «I dettagli sono incompleti», affermò, il viso distorto in una smorfia quando l'alcool scivolò in gola. Nella via sottostante una carrozza dipinta in colori brillanti e trainata da tre cavalli bianchi dalle briglie nere passava sferragliando. L'uomo seduto a cassetta era vestito di nero e aveva la testa nascosta sotto un cappuccio. I cavalli agitavano i musi, le orecchie dritte, gli occhi che roteavano, ma le forti mani del cocchiere li avevano in pugno. Su entrambi i lati della carrozza camminavano due donne di mezza età. Sulle loro teste rasate erano posate coppe di bronzo dalle quali si levavano pinnacoli di fumo profumato. Murillio si appoggiò alla ringhiera e abbassò lo sguardo sulla compagnia teatrale. «La cagna di Fander viene portata via», disse. «Rituali macabri e
sanguinosi.» Si appoggiò allo schienale della sedia imbottita e sorrise alla sua compagna, sollevando il calice. «La Dea Lupa dell'Inverno muore come sempre al termine della sua stagione e fra una settimana la Festa di Gedderone riempirà le strade di fiori, finendo per intasare i canali di scolo di tutta la città.» La giovane donna di fronte a lui sorrise, gli occhi sul calice di vino che teneva con entrambe le mani. «A quali dettagli vi riferivate?» chiese lanciando all'uomo un'occhiata veloce. «Dettagli?» Lei abbozzò un sorriso. «Quelli incompleti.» «Oh.» Murillio agitò una mano con fare distratto. «Secondo la versione di Lady Simtal, il consigliere Lim era andato da lei per ringraziarla per l'invito.» «Invito? Parlate della festa che lei organizza alla vigilia di Gedderone?» Murillio la guardò di sottecchi. «Naturalmente. La vostra Casa è stata invitata, non è vero?» «Oh, sì. E la vostra?» «Ahimè, no», rispose l'uomo, sorridendo. La donna tacque, un'espressione pensierosa dipinta sul viso. Murillio tornò a posare lo sguardo sulla strada sottostante. Aspettava. Simili cose, dopo tutto, procedevano per conto loro e persino lui non poteva indovinare le vie seguite dai pensieri di una donna, soprattutto in materia di sesso. E quello era sicuramente un gioco di favori - il suo gioco migliore, dove non perdeva mai. Mai deluderle, quello era il segreto. Sulla terrazza erano pochi i tavoli occupati, poiché la nobiltà locale preferiva l'atmosfera profumata della sala da pranzo interna. Murillio trovava conforto nel brusio delle strade e sapeva che anche la sua ospite la pensava come lui - per lo meno in quell'occasione. Il rumore che saliva dalla via copriva le loro voci, impedendo a chiunque di udire la loro conversazione. Mentre lasciava vagare lo sguardo lungo la Via dei Gioielli, a un tratto s'irrigidì, gli occhi puntati su una figura sulla soglia di un edificio dall'altra parte della strada. Si agitò sulla sedia, sporgendo la mano oltre la ringhiera di pietra, fuori dalla visuale della donna. Quindi, cominciò ad agitarla, fissando la figura. Il viso di Rallick Nom s'illuminò di un sorriso. L'uomo si allontanò dall'uscio e s'incamminò lungo la via, fermandosi a esaminare un filo di perle esposte su un tavolino di ebano davanti a un negozio. Il proprietario si avvicinò immediatamente, insospettito, per poi rilassarsi appena Rallick
si allontanò. Murillio sospirò; si lasciò andare contro lo schienale della sedia e bevve un altro sorso di vino. Idiota! Il volto dell'uomo, le mani, la camminata, gli occhi, tutto diceva una sola cosa: sicario. Diamine, persino l'abbigliamento aveva il calore e la vitalità dell'uniforme di un carnefice. Rallick Nom non sapeva nemmeno dove stesse di casa la perspicacia. Particolare piuttosto strano se si pensava che un piano complesso come quello aveva preso forma nella mente quadrata del sicario. Ma qualunque fosse la sua origine, era un piano semplicemente geniale. «Ci tenete molto a parteciparvi, Murillio?» domandò la donna. Murillio esibì un affascinante sorriso. Distolse lo sguardo. «È una casa molto grande, vero?» «Quella di Lady Simtal? Altro che. Un dedalo di stanze.» La donna immerse un dito nel liquido forte e aspro e se lo portò alle labbra, succhiandolo soprappensiero. Continuò a studiare il calice nell'altra mano. «Immagino che buona parte degli appartamenti della servitù, sebbene privi di ogni lusso, rimarranno deserti per quasi tutta la notte.» Murillio non aveva bisogno di un invito più palese. Il piano di Rallick era basato proprio su quello e sulle relative conseguenze. Tuttavia, l'adulterio aveva un inconveniente. Murillio non desiderava incontrare il marito della donna in un duello. Scacciò quei pensieri molesti con un altro sorso di vino. «Sarei felice di partecipare alla festa, ma a una condizione.» Sollevò lo sguardo e imprigionò gli occhi della donna. «Che quella notte, per almeno un paio di ore, voi mi onoriate della vostra compagnia.» Aggrottò la fronte. «Naturalmente non intendo ledere i diritti di vostro marito su di voi.» Che era esattamente ciò che avrebbe fatto, come entrambi ben sapevano. «Naturalmente», replicò la donna, a un tratto timida. «Sarebbe sconveniente. Quanti inviti desiderate?» «Due. È meglio che mi faccia vedere con un compagno.» «Sì, è meglio.» Murillio guardò il calice ormai vuoto con espressione afflitta. Sospirò. «Ahimè, è ora che me ne vada.» «Ammiro la vostra autodisciplina», commentò la donna. Non la penserai così alla vigilia di Gedderone, rispose Murillio fra sé e sé alzandosi dalla sedia. «La Signora del Fato mi ha graziato di questo incontro», disse inchinandosi. «A presto, Lady Orr.» «A presto», rispose la moglie del consigliere, apparentemente già disin-
teressata all'uomo. «Arrivederci.» Murillio si esibì in un altro inchino, quindi lasciò la terrazza. La sua uscita fu seguita da più di una delle nobildonne presenti. *** La Via dei Gioielli di Morul terminava alla Porta della Falce. Mentre superava il passaggio tra le pietre massicce della Terza Muraglia, Rallick sentì su di sé gli occhi delle due guardie in piedi accanto alla rampa. Ocelot gli aveva detto di essere chiaro e se Murillio era dell'opinione che soltanto un cieco avrebbe potuto scambiarlo per qualcos'altro che non fosse un sicario, Rallick si era dato da fare per ottenere l'ovvio. Naturalmente, le guardie non si mossero. Avere l'aspetto di un sicario non significava esserlo veramente. Le leggi cittadine erano severe in merito. Sapeva che avrebbero potuto seguirlo mentre scendeva lungo le opulente vie delle Grandi Proprietà, ma che facessero pure, non avrebbe cercato di seminarli. I nobili di Darujhistan pagavano profumatamente le spie che si aggiravano per le vie della città. Che si guadagnassero pure il loro pane. A Rallick non piacevano i nobili. Tuttavia, non condivideva l'odio che la maggior parte della popolazione nutriva per loro. Dopo tutto, i loro atteggiamenti sussiegosi, la loro suscettibilità e i loro continui litigi erano sempre fonte di affari. Quando fosse subentrato l'Impero Malazan temeva che tutto ciò sarebbe finito. Nell'Impero, le corporazioni dei sicari erano illegali e i migliori del mestiere venivano arruolati nelle file segrete dell'Artiglio. Degli altri, si perdevano le tracce. Per i nobili le cose non andavano meglio, se le voci provenienti da Pale dicevano il vero. Quando fosse giunto l'Impero il mondo sarebbe cambiato e Rallick non era sicuro di volerne far parte. Tuttavia, c'erano ancora un paio di lavoretti da finire. Si chiese se Murillio fosse riuscito a ottenere gli inviti. Tutto dipendeva da quello. La notte precedente avevano discusso a lungo. Murillio preferiva le vedove. L'adulterio non era nel suo stile. Ma Rallick si era mostrato irremovibile e alla fine l'altro aveva ceduto. Il sicario non riusciva a capire la riluttanza di Murillio. Inizialmente aveva pensato che l'amico temesse un eventuale duello con Turban Orr. Ma Murillio non era un incapace con lo stocco. Rallick si era allenato con lui sufficientemente a lungo da sospettare che fosse un Adepto - e in tal caso Turban Orr non poteva certo impensierirlo.
No, non era la paura a rendere Murillio esitante riguardo quella parte del piano. A Rallick venne il sospetto che si trattasse di una questione di ordine morale. In tal caso, ai suoi occhi si era rivelato un nuovo aspetto della personalità dell'amico. Stava riflettendo sulle eventuali implicazioni quando i suoi occhi si posarono su un volto familiare in mezzo alla folla. Si fermò e si guardò intorno; sgranò gli occhi quando si rese conto dove l'aveva portato il suo vagabondare. Riportò l'attenzione sulla figura familiare che appariva e scompariva sul lato opposto della via. Gli occhi del sicario si strinsero, pensosi. *** Sotto il cielo azzurro di metà mattina, Crokus camminava lungo il Distretto Lago circondato dalla confusione di mercanti e acquirenti. A una dozzina di isolati di distanza, oltre la Terza Muraglia, sorgevano le colline. Su quella più a oriente svettava il campanile di K'rul, la sottile lamina a scaglie di bronzo scintillante sotto la luce del sole. Nella mente del giovane la torre sfidava l'alterigia del Palazzo Vecchio, sovrastando le proprietà e gli edifici posti sulle colline più basse e fissandoli con gli occhi velati e il volto segnato dalla storia. Crokus condivideva qualcosa dell'immaginaria sardonica riservatezza della torre nei confronti della pretenziosità del Palazzo Vecchio; un sentimento dello zio che nel corso degli anni aveva messo radici anche nel ragazzo. Ad aggiungere carburante a quel fuoco era una sana dose di risentimento giovanile verso tutto quanto puzzasse di autorità. E sebbene non si fosse mai soffermato a rifletterci, era proprio quell'atteggiamento ribelle a spingerlo nella sua attività di ladro. Tuttavia, prima di allora non aveva mai compreso l'insulto più sottile e doloroso provocato dai suoi furti - l'invasione e la violazione dell'intimità. Da giorni e giorni, l'immagine della ragazza addormentata lo perseguitava. Alla fine, era giunto alla conclusione che quell'immagine avesse a che fare con... tutto. Era penetrato nella stanza della fanciulla, un luogo dove i nobili rampolli che la corteggiavano non potevano entrare, un luogo dove lei parlava con le bambole di pezza della sua infanzia, quando innocenza non significava solo un fiore non ancora raccolto. La sua stanza: il suo santuario. E lui l'aveva saccheggiato; aveva sottratto a quella giovane il bene più prezioso: la sua intimità.
Non importava che lei fosse la figlia dei D'Arle, che fosse di sangue puro - non corrotto dal tocco della Signora dei Mendicanti - che avrebbe camminato nel corso della vita protetta dalle degradazioni del mondo reale. Niente di tutto ciò importava. Per Crokus, il crimine commesso ai danni della fanciulla era equivalente allo stupro. Avere così audacemente distrutto il suo mondo... Gravato da un profondo senso di colpa, il giovane ladro svoltò in Via dell'Anice, facendosi largo tra la folla. Nella sua mente, quelle che un tempo erano le indistruttibili mura dell'onesto oltraggio cominciavano a crollare. La tanto odiata nobiltà gli aveva mostrato un volto che ora lo ossessionava per la sua bellezza e lo trascinava in direzioni inaspettate. Trasportato dalla calda brezza, il dolce aroma delle botteghe di spezie suscitava in lui emozioni fino ad allora sconosciute. Le grida nei vicoli dei bambini Daru riempirono i suoi occhi di una sentimentale malinconia. Crokus attraversò la Porta del Garofano e imboccò il Vicolo di Osserc. Proprio davanti a lui saliva la rampa che conduceva alle Grandi Proprietà. Mentre avanzava, dovette spostarsi rapidamente su un lato per evitare una grande carrozza che arrivava dietro di lui. Non ebbe bisogno di vederne il cimiero che decorava lo sportello della carrozza per riconoscerne la casa. I cavalli agitavano i musi e scalciavano, lanciandosi in avanti incuranti di persone o cose che incontravano sul loro cammino. Crokus si fermò per guardare la carrozza sferragliare su per la rampa, i passanti che si appiattivano lungo i muri delle case. Da quanto aveva sentito sul consigliere Turban Orr, pareva proprio che i cavalli del Consigliere ben riflettessero il disprezzo dell'uomo per coloro che apparentemente serviva. Quando il giovane raggiunse la proprietà Orr, la carrozza aveva già superato il cancello. Quattro corpulente guardie private avevano ripreso la loro posizione su entrambi i lati. Il muro dietro di loro era alto quindici piedi abbondanti e sulla sommità erano conficcati pezzi di ferro arrugginito. Torce di pomice correvano lungo tutto il muro di cinta a una decina di piedi l'una dall'altra. Crokus passò davanti al cancello ignorando le guardie. Continuò lungo la via, poi svoltò a destra per controllare il muro di fronte al vicolo. Un'unica porta di servizio, in robusta quercia con rinforzi di bronzo, si apriva oltre l'angolo. E non c'erano guardie. Le ombre della proprietà di fronte gettavano una pesante coltre sullo stretto vicolo. Crokus s'infilò nell'umida oscurità. Era arrivato a metà vicolo quando una mano gli calò sulla bocca da dietro le
spalle e la punta di un pugnale gli solleticò il fianco. Crokus raggelò, poi grugnì quando la mano gli voltò la faccia. Si ritrovò a fissare un paio d'occhi familiari. Rallick Nom allontanò il pugnale e indietreggiò, il volto atteggiato in un cipiglio severo. Crokus prese fiato e si umettò le labbra. «Per il Cuore di Beru, Rallick, mi hai spaventato!» «Bene», replicò il sicario. Gli si avvicinò. «Apri bene le orecchie, Crokus. Non provarci nella proprietà di Orr. Non ti avvicinare mai più.» Il ladro si strinse nelle spalle. «Era solo un'idea, Nom.» «Dimenticala», ordinò Rallick. Le labbra serrate, Crokus annuì. «Va bene.» Si voltò e si diresse verso la striscia di sole che illuminava la via successiva. Sentì gli occhi di Rallick su di sé fino a quando svoltò nel Viottolo del Traditore. Si fermò. In lontananza, sulla sinistra, si innalzava la Collina delle Forche, l'immacolato declivio fiorito in un'esplosione di colore intorno ai cinquantatré scalini. I cinque cappi sopra la piattaforma dondolavano pigramente sospinti dalla brezza, le loro ombre strisce nere che si allungavano lungo la china fino all'acciottolato della strada. Era passato molto tempo dall'impiccagione dell'ultimo Grande Criminale, mentre più in là, nel Distretto Gadrobi, le funi delle Forche Basse venivano sostituite settimanalmente per l'usura. Uno strano contrasto che sottolineava la tensione dei tempi. Scosse la testa, bruscamente. Evitare il tumulto degli interrogativi era un duro sforzo. Nom lo aveva seguito? No, probabilmente Nom era là per uccidere Orr o qualcuno all'interno della proprietà. Un contratto audace. Chi poteva avere il fegato di offrirlo? Probabilmente, un nobile. Ma il coraggio di quell'offerta era niente in confronto al coraggio di Rallick per averlo accettato. Ad ogni modo, l'ammonimento del sicario era motivo sufficiente per indurre il giovane a lasciar perdere qualsiasi furto nella proprietà di Orr - per il momento, almeno. Crokus affondò le mani in tasca. Mentre camminava, la mente persa nei propri pensieri, si accorse che una delle mani si era chiusa su una moneta. La estrasse. Sì, era la moneta che aveva trovato la notte degli omicidi. Ripensò a quando gli era apparsa all'improvviso, un istante prima che la freccia del sicario lo sfiorasse. Alla luce del giorno, Crokus si concesse il tempo di osservarla. Su una faccia era riportato il profilo di un giovane, l'espressione divertita e uno strano cappello floscio in testa. Sul bordo erano incise lettere somiglianti a minuscoli simboli magici - un linguaggio
che il ladro non riconobbe, essendo molto diverso dai caratteri corsivi della scrittura Daru a lui nota. Girò la moneta. Che strano! Un'altra testa, ma questa volta di donna, rivolta nell'altro senso. Le lettere incise erano diverse da quelle dell'altra faccia. La donna sembrava giovane, con lineamenti simili a quelli dell'uomo; ma la sua espressione non era divertita, al contrario, era fredda e scostante. Il metallo era vecchio, venato di rame e butterato intorno ai volti con stagno grezzo. La moneta era sorprendentemente pesante sebbene Crokus giunse alla conclusione che il valore dell'oggetto stesse nella sua unicità. Il giovane aveva visto le monete di Callows, Genabackis, Amat El e, una volta, le tavolette ondulate di Seguleh, ma nessuna di esse era simile a quella che aveva in mano. Da dove era caduta? Le aveva dato un calcio mentre attraversava il tetto? O faceva parte del tesoro sottratto alla giovane D'Arle? Crokus si strinse nelle spalle. Comunque fosse, il suo arrivo era stato tempestivo. Immerso nei propri pensieri aveva così raggiunto la Porta Orientale. Subito fuori le mura della città sorgeva quel pugno di vecchi edifici che costituivano il Quartiere di Worry, meta del ladro. Durante il giorno la porta restava aperta e una fila di carri lenti e pesanti affollava lo stretto passaggio. Fra di essi, Crokus vide le prime carrettate di rifugiati provenienti da Pale, coloro che erano riusciti a superare le linee d'assedio durante la battaglia, avevano attraversato la Pianura Rhivi, superato le Colline Gadrobi e infine avevano raggiunto Jatem's Worry. Sui loro volti, il giovane lesse una profonda disperazione mista a spossatezza: i loro sguardi stanchi si posavano sulle scarne difese della città e sebbene si rendessero conto di avere guadagnato ben poco tempo con la loro fuga erano troppo esausti per reagire. Turbato da quello spettacolo, Crokus superò di buon passo la porta e si diresse verso la struttura più grande del Quartiere di Worry: la locanda. Sopra la porta era appesa un'insegna sulla quale, decine di anni prima, era stato dipinto un ariete a tre zampe. Spesso il ladro si era chiesto che cosa avesse a che fare quel disegno con il nome della taverna - Le Lacrime del Cinghiale - senza tuttavia riuscire a darvi risposta. La moneta ancora stretta in pugno, Crokus entrò nel locale. Alcuni volti si girarono per lanciargli un'occhiata, poi tornarono ai loro bicchieri. A un tavolo in un angolo, Crokus vide una figura familiare, le braccia che gesticolavano. Le labbra del ladro si arricciarono in un sorriso
e il giovane si diresse verso l'uomo. «... e allora Kruppe si mosse così velocemente che nessuno riuscì a vederlo. Troppi sacerdoti in questa tomba, pensa Kruppe, uno in meno sarebbe un sollievo per tutti per timore che il respiro antico del re defunto si accorci svegliando così il suo fantasma. Molte volte prima di questa, Kruppe ha affrontato l'ira di uno spirito in una qualche fossa profonda di D'rek, dove l'essere misterioso ripeteva l'elenco dei suoi peccati e piangeva sul suo bisogno di divorare la mia anima - ma suvvia, Kruppe è sempre stato troppo sfuggente per simili spiriti e le loro vili chiacchiere.» Crokus posò una mano sulla spalla umida di Kruppe e la rubiconda faccia si girò di scatto verso di lui. «Ah!» esclamò Kruppe, agitando una mano verso l'altro commensale e spiegando: «Un apprendista venuto ad adularmi! Crokus, siediti. Ragazza! Un'altra brocca del miglior vino, presto!». Crokus guardò l'uomo seduto di fronte a Kruppe. «Forse voi due siete impegnati.» Lo sguardo dello sconosciuto s'illuminò di speranza e l'uomo scattò in piedi. «Oh, no», assicurò. «Assolutamente, no!» I suoi occhi guizzarono su Kruppe poi nuovamente su Crokus. «Io devo proprio andare, ve lo assicuro. Buona giornata, Kruppe. A presto.» Chinò il capo in un rapido saluto e si allontanò. «Creatura precipitosa», borbottò Kruppe, allungando una mano per prendere il bicchiere di vino che l'uomo aveva lasciato. «Ah, guarda qui», disse, aggrottando la fronte. «È praticamente pieno. Un vero spreco!» Svuotò il bicchiere in un sol sorso, poi sospirò soddisfatto. Crokus si sedette. «Quell'uomo era il tuo contatto?» domandò. «Per l'amor del cielo, no!» Kruppe agitò una mano. «Un povero rifugiato di Pale, un vagabondo sperduto. Fortunatamente per lui ha incontrato Kruppe, le cui brillanti intuizioni lo hanno mandato...» «Dritto fuori dalla porta», finì Crokus scoppiando a ridere. Kruppe si rabbuiò. La cameriera arrivò con una caraffa di vino dal profumo acido. Kruppe riempì nuovamente i bicchieri. «E ora, si chiede Kruppe, che cosa cercherà questo ragazzo perfettamente addestrato da questo grande maestro in efferati crimini? O hai trionfato ancora una volta e vieni con il bottino alla ricerca del giusto compenso?» «Be', sì... cioè, no, non proprio.» Crokus si guardò intorno, poi si chinò in avanti. «Riguarda l'ultima volta», mormorò. «Sapevo che ti avrei trovato qui a vendere la roba che ti ho portato.»
Kruppe si piegò per avvicinarsi al giovane, i loro volti si sfiorarono. «L'acquisizione D'Arle?» sussurrò, inarcando le sopracciglia. «Esatto! Hai già venduto tutto?» Kruppe estrasse un fazzoletto da una manica e si asciugò la fronte. «Con tutto questo parlare di guerra, le vie commerciali sono bloccate. Così, per rispondere alla tua domanda, uhm, non ancora, ammette Kruppe...» «Ottimo!» Kruppe trasalì al grido del giovane, gli occhi ridotti a fessure. «Ah, Kruppe comprende. Il ragazzo desidera che tutto torni in suo possesso per cercare da qualche altra parte compensi più alti?» Crokus batté le palpebre, sorpreso. «No, certo che no. Voglio dire, sì, rivoglio tutto indietro. Ma non ho intenzione di offrire quella roba a un altro. Voglio dire, intendo continuare a trattare con te. Ma questo bottino è speciale.» Mentre parlava, Crokus sentì le guance imporporarsi e fu felice di trovarsi nella penombra. «Si tratta di un caso speciale, Kruppe.» Un ampio sorriso illuminò il volto a luna piena dell'altro. «Ma allora, certamente, ragazzo. Vuoi che ti renda la tua roba questa sera? Perfetto, considera chiusa la faccenda. Però dimmi, che cosa stringi fra le dita?» Crokus lo fissò confuso, poi abbassò lo sguardo sulla mano. «Oh, è solo una moneta», spiegò, mostrandola a Kruppe. «L'ho trovata la stessa notte in cui ho fatto il colpo dai D'Arle. Ha due teste, vedi?» «Davvero? Kruppe può esaminarla più da vicino?» Crokus gliela porse, quindi prese il bicchiere di vino. Si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «Per il prossimo colpo stavo pensando alla proprietà di Orr», disse in tono disinvolto, gli occhi fissi su Kruppe. «Mmm.» Kruppe continuava a rigirare la moneta fra le dita. «Stampo di pessima qualità», commentò. «Anche la punzonatura non vale niente. Hai detto la proprietà di Orr? Kruppe consiglia prudenza. La casa è ben protetta. Il fabbro che l'ha fusa dovrebbe essere impiccato, e forse così è stato, pensa Kruppe. Rame nero. Stagno da due soldi, temperature troppo basse. Mi fai un favore, Crokus? Dai un'occhiata fuori. Se individui un carro rosso e verde avanzare oscillando lungo la strada, Kruppe ti sarà grato per tale informazione.» Crokus si alzò e raggiunse la porta. L'aprì, uscì all'aperto e si guardò intorno. Non vedendo alcun carro, si strinse nelle spalle e tornò dentro. Raggiunse il tavolo. «Niente carro.» «Ah, bene», commentò Kruppe. Posò la moneta sul tavolo. «Nel suo insieme priva di alcun valore, giudica il saggio Kruppe. Puoi separartene
quando vuoi.» Crokus prese la moneta e la fece scivolare in tasca. «No, la tengo. Come portafortuna.» Kruppe sollevò lo sguardo, gli occhi scintillanti, ma l'attenzione di Crokus era sul bicchiere fra le sue mani. L'uomo rubicondo guardò altrove, sospirando. «Kruppe deve allontanarsi immediatamente, perché l'appuntamento di questa sera possa essere propizio per tutti quanti.» Crokus svuotò il bicchiere. «Possiamo tornare indietro insieme.» «Ottimo.» Kruppe si alzò, fermandosi per scuotere le briciole dalla giubba. «Andiamo?» Alzò gli occhi e vide Crokus fissarsi preoccupato le mani. «Qualcosa ha colpito il ragazzo?» si affrettò a domandare. Crokus trasalì. Spostò lo sguardo, imbarazzato, il colore che gli imporporava le guance. «No», borbottò. Tornò a guardarsi le mani. «Devo avere toccato della cera da qualche parte», spiegò. Si sfregò la mano sulla gamba e sfoderò un sorrisetto impacciato. «Andiamo.» «È una bella giornata per una passeggiata, afferma Kruppe, che è saggio in ogni cosa.» *** La Rotonda dell'Oro Bianco circondava una torre abbandonata con un arcobaleno di tende colorate. Le botteghe dei mercanti d'oro, ciascuno con la propria guardia all'ingresso, si affacciavano sulla via circolare, i passaggi fra di essi strette crepe che conducevano alla torre in rovina. Le numerose storie di morte e pazzia che circolavano sulla Torre di Hinter e i suoi dintorni la mantenevano vuota, evitando così che divenisse un sicuro nascondiglio per i ladri che intendevano svuotare le botteghe degli orafi. Con il passare delle ore e man mano che il pomeriggio scivolava verso il tramonto, la folla cominciava a diminuire e le guardie private a diventare più guardinghe. Griglie di ferro apparvero davanti alle vetrine e le poche botteghe che ancora restavano aperte accesero luminose torce. Raggiunta la rotonda, Murillio si fermò per osservare la merce di una bottega. Avvolto in uno sfavillante mantello blu sapeva che il suo aspetto di ostentata ricchezza l'avrebbe aiutato a mitigare eventuali sospetti. Dopo avere passeggiato per la via, si diresse verso una bottega, incorniciata su entrambi i lati da oreficerie ormai chiuse. L'orafo, un tipo dal viso lungo e il naso a patata, se ne stava appoggiato al bancone, le mani innanzi
a sé deturpate da numerose cicatrici grigie assomiglianti alle orme dei corvi nel fango. Un dito martellava sul legno. Murillio si avvicinò, incontrando gli occhi tondi dell'uomo. «È questa la bottega di Krute di Talient?» «Io sono Krute», rispose l'orafo con voce roca. «Le perle di Talient, montate in oro rosso proveniente dalle miniere di Moap e Belt, non hanno eguali in tutta Darujhistan.» Si chinò in avanti e sputò oltre Murillio, che d'istinto si scansò di lato. «Niente clienti oggi?» domandò, estraendo un fazzoletto dalla manica per portarlo alla bocca. Gli occhi di Krute si socchiusero «Solo uno», disse. «Gli ho mostrato delle pietre di Goaliss, rare quanto il latte di drago. Un centinaio di schiavi persi per ogni gemma strappata all'arida miniera.» Krute drizzò le spalle e i suoi occhi saettarono qua e là. «Le tengo nel retro per evitare che la tentazione inondi la via di sangue e violenza.» Murillio annuì. «Mi sembra una buona idea. Le ha comprate?» Krute sorrise, scoprendo orribili denti neri. «Una, ma non la migliore. Venite, ve la mostro. Da questa parte.» Krute condusse Murillio in una stanza dal penetrante odore di muffa. L'orafo lasciò cadere la tenda che separava i due ambienti e si voltò verso Murillio. «Sbrigati! Ho esposto una marea di oro e pietre false sul banco davanti alla bottega. Se un cliente se ne accorge sono finito.» Diede un calcio alla parete posteriore e un pannello girò sui cardini. «Avanza a gattoni, dannazione, e dì a Rallick che la Corporazione non è contenta di come generosamente svela i nostri segreti. Vai!» Murillio si mise in ginocchio e avanzò attraverso il portale, il pavimento di terra umido sotto le mani. Disgustato avanzò pochi metri mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, poi si alzò. Davanti a lui si ergeva la Torre di Hinter, i muri di pietra scintillanti alla luce del tramonto. Un sentiero invaso da erbacce conduceva all'entrata ad arco priva di porta e affollata di ombre. Della stanza all'interno Murillio vide solo l'oscurità. Le radici delle scarne e basse querce che fiancheggiavano il sentiero avevano smosso buona parte dei ciottoli, rendendo il cammino accidentato. L'uomo avanzò cautamente e infine raggiunse l'ingresso. Strinse gli occhi e cercò di trapassare l'oscurità. «Rallick?» sibilò. «Dove diavolo sei?» Una voce parlò dietro di lui. «Sei in ritardo.» Murillio si voltò di scatto, uno stocco da duello lungo e sottile apparve
nella sua mano sinistra mentre assumeva rapidamente la posizione di difesa. «Dannazione, Rallick!» esclamò, rilassandosi. Il sicario grugnì divertito, fissando la punta acuminata dello stocco, che gli aveva quasi sfiorato il plesso solare. «Mi fa piacere vedere che i tuoi riflessi non si sono annebbiati, amico. Dopo tutto, vino e paste non ti hanno appesantito... non troppo, per lo meno.» Murillio infilò l'arma nel fodero. «Mi aspettavo di trovarti nella torre.» Gli occhi sgranati, Rallick disse: «Sei pazzo? Quel posto è infestato dai fantasmi». «Vuoi dire che non è una frottola che vi siete inventati voi sicari per tenere lontana la gente?» Rallick si girò e si diresse verso una bassa terrazza che un tempo si affacciava sul giardino. Panchine di pietra bianca erano disseminate nel prato dall'erba secca e gialla come ossa chiazzate di qualche gigantesca bestia. Sotto la terrazza, Murillio scoprì che si apriva uno stagno ricolmo di alghe. Nella tiepida e umida aria, le rane gracidavano e le zanzare ronzavano. «A volte, di notte», disse Rallick spazzando via le foglie morte da una panchina, «gli spettri affollano l'ingresso - puoi raggiungerli e ascoltare le loro suppliche e le loro minacce. Vogliono uscire tutti». Si sedette. Murillio rimase in piedi, lo sguardo sulla torre. «E Hinter? Il suo spirito aleggia fra di loro?» «No. Il pazzo dorme all'interno, o per lo meno così dicono. I fantasmi sono intrappolati negli incubi del mago - lui li tiene prigionieri e persino Hood non può attirarli a sé. Vuoi sapere da dove provengono quegli spettri, Murillio?» Rallick sghignazzò. «Entra nella torre e lo scoprirai.» Murrilio stava per entrare nella torre quando Rallick lo aveva spaventato. «Grazie per l'ammonimento», ribatté in tono sarcastico, sollevando i lembi del mantello e sedendosi. Rallick scacciò le zanzare dal viso. «Allora?» «Ce li ho», affermò Murillio. «Il più fidato servitore di Lady Orr me li ha consegnati questo pomeriggio.» Dall'interno del mantello estrasse un rotolo di bambù legato con un nastro azzurro. «Come promesso, due inviti per la festa di Lady Simtal.» «Bene.» Il sicario sollevò immediatamente lo sguardo sull'amico. «Kruppe ha già subodorato qualcosa?» «Non ancora. L'ho incontrato nel pomeriggio. Pare che Crokus stia facendo domande bizzarre. Naturalmente», aggiunse Murillio accigliandosi, «chi può dire quando Kruppe ha annusato qualcosa? Ad ogni modo, non
ho visto niente che possa suggerire che l'infido gnomo sospetti che stiamo tramando qualcosa». «Cos'è questa storia di Crokus che fa domande bizzarre?» «Una cosa strana», replicò l'altro, in tono pensieroso. «Quando questo pomeriggio ho fatto un salto alla Fenice, Kruppe stava restituendo al ragazzo il bottino del suo ultimo furto. Ora, sicuramente Crokus non ha abbandonato Kruppe come suo ricettatore, altrimenti lo avremmo saputo.» «Era penetrato in una proprietà, vero? Quale?» domandò Rallick. «Quella dei D'Arle», rispose Murillio. A un tratto inarcò un sopracciglio. «Per il bacio di Gedderone! La fanciulla D'Arle! Quella ormai adulta con il viso da angelo. Ha fatto il suo ingresso in società e non c'è un giovane che non le sia caduto ai piedi. Oh, ragazzi! Il nostro ladruncolo è innamorato e adesso si tiene per sé i ninnoli della fanciulla. Fra tutti i sogni impossibili che un ragazzo può nutrire, lui ha scelto il peggiore.» «Forse», disse Rallick in tono pacato. «E forse no. Una parola a suo zio...» L'espressione addolorata di Murillio si rasserenò. «Una spintarella nella direzione giusta? Sì, finalmente! Mammot sarà felice di...» «Pazienza», lo interruppe Rallick. «Trasformare un ragazzino ladro in un uomo di un certo livello e cultura richiederà molto più lavoro di quanto riuscirà a sopportare un cuore svenevole.» Murillio si accigliò. «Be', perdonami per essere così eccitato all'idea di poter salvare la vita del ragazzo.» Il sorriso di Rallick era indulgente. «È un vero piacere», disse. Avendo colto il tono derisorio del sicario, Murillio sospirò, rinunciando alla risposta sarcastica che aveva sulla punta della lingua. «È da molti anni che non abbiamo tante cose per cui combattere», affermò in tono tranquillo. «Il cammino per la conquista di una di esse sarà macchiato di sangue», replicò Rallick. «Non dimenticarlo. Ma, sì, sono passati molti anni. Chissà se Kruppe ricorda ancora quei giorni.» Murillio sbuffò. «La memoria di Kruppe cambia di ora in ora. È solo la paura di essere scoperto a tenerlo insieme.» Gli occhi di Rallick s'incupirono. «Scoperto?» L'amico sembrava a mille miglia ma poi si riprese e sorrise. «Oh, nient'altro che vecchi sospetti. Un tipo sfuggente, è Kruppe.» Rallick ridacchiò per l'imitazione della sintassi abituale di Kruppe. Osservò lo stagno davanti a loro. «Sì», convenne dopo qualche istante, «è
uno sfuggente». Si alzò. «Krute vorrà chiudere. La Rotonda ormai è addormentata.» «Bene.» I due uomini lasciarono la terrazza. Raggiunto il sentiero, Murillio si voltò per lanciare un'occhiata all'ingresso della torre, chiedendosi se sarebbe riuscito a scorgere gli spettri. Ma sotto il grande arco non vide altro che un muro di oscurità. Senza riuscire a spiegarsene il motivo, trovò quello spettacolo più inquietante di un'orda di anime perdute. *** La luminosa luce del mattino inondava lo studio di Baruk attraverso le immense finestre e un vento caldo portò nella stanza gli odori e i rumori della strada sottostante. L'alchimista, ancora in pigiama, sedeva su un alto sgabello davanti al tavolo con le mappe. In una mano aveva un pennello che di tanto in tanto immergeva in un calamaio d'argento. L'inchiostro rosso era stato diluito. Lo passò sulla mappa, coprendo le zone ormai in pugno all'Impero Malazan. Metà della cartina, quella settentrionale, era completamente rossa. Una sottile striscia chiara a sud della Foresta del Cane Nero indicava le forze di Caladan Brood, fiancheggiate su entrambi i lati da due macchie più piccole indicanti la Guardia Cremisi. Il rosso circondava quelle chiazze chiare e si estendeva verso sud, dove comprendeva Pale e proseguiva fino al margine settentrionale dei Monti Tahlyn. Mentre si piegava sulla mappa, Baruk notò che i rumori della strada erano divenuti piuttosto assordanti. Lavori in corso, concluse nel sentire lo stridore di argani e una voce che tuonava ai passanti. I rumori si persero in lontananza ma a un tratto la pace venne infranta da un forte scoppio. Baruk sobbalzò, il braccio destro scattò in avanti rovesciando il calamaio. L'inchiostro rosso invase tutta la mappa. Imprecando, l'alchimista restò immobile a guardare la chiazza rossa allargarsi e coprire Darujhistan per poi continuare a sud fino a Catlin. Abbandonò lo sgabello alla ricerca di uno straccio per pulirsi le mani, più che scosso da quello che poteva essere interpretato come un triste presagio. Attraversò la stanza fino alla finestra, si sporse e guardò giù. Una squadra di operai era impegnata a picconare la strada proprio sotto la sua casa. Due uomini corpulenti erano ai picconi mentre altri tre formavano una catena passandosi l'acciottolato sollevato e gettandolo su un
mucchio che cresceva a vista d'occhio. Il caposquadra era a pochi passi, la schiena a un carro, impegnato a studiare una pergamena. Baruk aggrottò la fronte. «Chi è il responsabile del mantenimento strade?» si chiese pensando a voce alta. Un leggero colpo alla porta attirò la sua attenzione. «Sì?» Roald, il fedele servitore, entrò nella stanza. «È arrivato uno dei vostri agenti, Signore.» Baruk lanciò un'occhiata al tavolo con le mappe. «Fallo aspettare un attimo, Roald.» «Sì, Signore.» Il servitore uscì e chiuse la porta dietro di sé. L'alchimista raggiunse il tavolo e arrotolò la mappa rovinata. Dall'ingresso giunse una voce tonante seguita da un mormorio. Baruk appoggiò la mappa su uno scaffale e si voltò in tempo per vedere entrare l'agente, tallonato da un Roald accigliato.» Congedato il servitore con un gesto della mano, Baruk abbassò lo sguardo sul visitatore. «Buongiorno, Kruppe. Roald se ne andò e chiuse delicatamente l'uscio dietro di sé. «Più che buono, Baruk, caro amico di Kruppe. Una giornata veramente meravigliosa! Vi siete riempito i polmoni della fresca aria del mattino?» Baruk lanciò un'occhiata alla finestra. «Sfortunatamente», disse, «l'aria fuori dalla mia finestra è diventata piuttosto polverosa». Kruppe tacque. Le braccia crollarono lungo i fianchi, quindi infilò una mano in una manica ed estrasse un fazzoletto. Si asciugò la fronte. «Ah, sì, gli operai per la strada. Kruppe ci è passato davanti venendo qui. Un gruppo piuttosto bellicoso, pensa Kruppe. Tipi rudi, ma perfetti per lavori simili.» Baruk indicò una sedia. Kruppe si sedette con un sorriso beato. «È una giornata così calda», disse, lanciando un'occhiata alla caraffa di vino sul camino. Ignorando le parole dell'altro, Baruk si diresse verso la finestra, alla quale voltò le spalle. Studiò il suo ospite, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a comprendere ciò che si nascondeva dietro l'aspetto angelico di Kruppe. «Che cosa hai sentito?» domandò in tono sommesso. «Che cosa ha sentito Kruppe? Che cosa non ha sentito Kruppe!» Baruk inarcò un sopracciglio. «Puoi essere conciso?» L'uomo si agitò sulla sedia e si asciugò la fronte. «Fa un tal caldo!» Nel vedere l'espressione di Baruk indurirsi, continuò: «Torniamo a noi». Si sporse in avanti, la voce ridotta a un sussurro. «Corre voce negli angoli
delle locande, nei vicoli bui, nelle nefaste ombre della notte, nei...» «Taglia corto!» «Sì, certo. Be', Kruppe ha udito una voce. Niente meno che una guerra fra sicari. Si dice che la Corporazione abbia subito delle perdite.» Baruk si voltò verso la finestra, lo sguardo sulla strada sottostante. «E da che parte stanno i ladri?» «I tetti cominciano a essere affollati. Le gole vengono tagliate. I profitti sono crollati.» «Dov'è Rallick?» Kruppe sbatté le palpebre. «È scomparso», disse. «Kruppe non lo vede da giorni.» «Questa guerra fra sicari, non è intestina?» «No.» «È già stata identificata questa nuova forza?» «No.» Baruk strinse gli occhi. Per strada, gli operai sembrava trascorressero più tempo a discutere che a lavorare. Una guerra fra sicari poteva essere un problema serio. La Corporazione di Vorcan era forte, ma l'Impero lo era ancora di più, sempre che i nuovi arrivati fossero degli Artigli. Eppure qualcosa non tornava. In passato l'Imperatrice aveva usato le corporazioni locali, spesso aveva reclutato uomini da esse. L'alchimista non riusciva a immaginare lo scopo di una simile guerra e quel particolare lo inquietava ancora più della guerra stessa. Sentendo un fruscio dietro di sé si ricordò del suo agente. Si voltò e sorrise. «Puoi andare ora.» Un scintillio negli occhi di Kruppe sorprese Baruk. Con movimento fluido, il grasso agente si alzò. «Kruppe ha altro da raccontare, Mastro Baruk.» Perplesso, l'alchimista annuì. «Il racconto è difficile e confuso, ahimè», cominciò l'altro, raggiungendo Baruk alla finestra. Il fazzoletto era scomparso. «Kruppe può solo riassumere al meglio possibile per un uomo dagli innumerevoli talenti. In momenti di piacere, nel corso di giochi d'azzardo e così via. Nell'aura dei Gemelli un Adepto può sentire, vedere, odorare e toccare cose impalpabili come il vento. Un assaggio della Signora della Fortuna, il pungente avvertimento del Signore della Risata.» Lo sguardo di Kruppe saettò sull'alchimista. «Mi seguite, Maestro?» «Stai parlando di Oponn», disse Baruk in tono pacato, gli occhi sul volto rotondo dell'altro.
Kruppe tornò a guardare la strada sottostante. «Forse. Forse un bieco inganno per fuorviare uno stupido come Kruppe...» Stupido? Baruk sorrise fra sé e sé. Non quest'uomo. «... chi può dirlo?» Kruppe sollevò una mano, rivelando nel palmo un disco piatto di cera. «Un oggetto», mormorò, gli occhi sul disco, «che passa senza provenienza, inseguito da molti assetati del suo gelido bacio, in cui la vita e tutto quanto essa contiene spesso viene messo a repentaglio. Da sola, la corona di un mendicante. In grande numero , la follia di un re. Appesantita dalla rovina, ma il sangue scorre da essa sotto la pioggerellina leggera e il successivo non ha idea del suo costo. È come deve essere, dice Kruppe, priva di valore ma non per coloro che insistono». Baruk si scoprì a trattenere il fiato. I polmoni bruciavano, eppure non riusciva a prendere aria. Le parole di Kruppe lo avevano trascinato dentro qualcosa - un luogo, che lasciava intendere un'ampia conoscenza e la mano sicura, infallibile che l'aveva raccolta. Una biblioteca, scaffali di legno nero, tomi rilegati in pelle lucida, rotoli ingialliti, una scrivania bucherellata, macchiata - Baruk si sentì come se non avesse mai guardato veramente quella stanza. La mente di Kruppe, il luogo segreto la cui porta era chiusa a tutti tranne a uno. «Stai parlando», disse Baruk lentamente, cercando di tornare alla realtà focalizzando l'attenzione sul disco di cera nella mano di Kruppe, «di una moneta». La mano di Kruppe si chiuse. L'uomo si voltò e posò il disco sul davanzale. «Guardate quest'immagine, Mastro Baruk. È su entrambe le facce della moneta.» Il fazzoletto ricomparve e Kruppe indietreggiò, tamponandosi la fronte. «Però, fa veramente caldo, dice Kruppe!» «Versati del vino», mormorò Baruk. Mentre l'altro si allontanava, l'alchimista aprì il proprio Canale. Agitò una mano e il disco di cera si sollevò in aria, fluttuando lentamente fino a essere ad altezza d'occhi dell'uomo. Baruk osservò l'immagine davanti a sé. «La Signora», sussurrò, annuendo. Il disco si voltò, mostrandogli il Signore. Il disco tornò a voltarsi e Baruk sgranò gli occhi quando iniziò a girare. Un ronzio riecheggiò in un angolo remoto della sua mente. Sentì il Canale resistere a una pressione che aumentava con il ronzio, poi la sua fonte cedette. Debolmente, come se le parole giungessero da lontano, sentì Kruppe parlare. «Anche in quest'immagine, Mastro Baruk, soffia l'anelito dei Gemelli. Il Canale di un mago, chiunque egli sia, non può resistere a questo vento.» Il disco girava ancora in aria davanti a Baruk, un frullo argenteo. Una
nebbia sottile si diffuse da esso. Gocce calde caddero sul viso del mago, che indietreggiò. Fiamme azzurre si sprigionarono dalla cera che andava sciogliendosi rapidamente fino a quando scomparve. Il ronzio e la pressione che accompagnavano il movimento rotatorio cessarono di colpo. L'improvviso silenzio pervase Baruk di paura. L'uomo posò una mano tremante sul davanzale in cerca di sostegno, poi chiuse gli occhi. «Chi ha la moneta, Kruppe?» domandò in un rauco sussurro. «Chi?» Kruppe gli fu nuovamente accanto. «Un ragazzo», rispose in tono noncurante. «Che Kruppe, ma anche gli altri vostri agenti, Murillio, Rallick e Coll conoscono.» Baruk riaprì gli occhi. «Non può essere una coincidenza», mormorò, la speranza che tentava di nascere nonostante il terrore. Oponn era entrato nel gioco e in simili intrichi di potere la vita di una città e di coloro che vi abitavano non significava nulla. Guardò Kruppe. «Riunisci il gruppo. Tutti quelli che hai nominato. Mi servono da lungo tempo e devono continuare a farlo ora, assolutamente. Mi hai capito?» «Kruppe riferirà le vostre parole. Rallick è forse legato ai doveri della Corporazione, mentre Coll, trovato ancora una volta uno scopo nella vita, potrebbe prendere a cuore la missione. Mastro Baruk? Ma qual è la missione?» «Proteggere colui che porta la moneta. Sorvegliarlo, osservare i volti di coloro che lo guardano con simpatia od odio. Devo sapere se è la Signora ad averlo, o il Signore. E, Kruppe, per questo cerca Rallick. Se il Signore reclama colui che porta la moneta, saranno necessari i servigi e l'abilità del sicario.» Kruppe ammiccò. «Che la misericordia protegga il giovane Crokus.» «Crokus?» Baruk aggrottò la fronte. «È un nome che ho già sentito.» Kruppe restò impassibile. «Non importa. Molto bene, Kruppe.» Si voltò per l'ennesima volta verso la finestra. «Tienimi informato.» «Come sempre, Baruk, Kruppe è un amico.» L'uomo s'inchinò. «E grazie per il vino, era ottimo.» Baruk sentì la porta aprirsi e quindi chiudersi. Abbassò lo sguardo sulla strada. Era riuscito a controllare la paura. Oponn sapeva distruggere i piani migliori. Baruk non sopportava l'idea che il caso potesse mettere il naso nei suoi affari. Non poteva più contare sulla sua capacità di predizione, di prepararsi a ogni evenienza, di prendere in considerazione ogni possibilità e scegliere quella che meglio si adattava ai suoi desideri. La Moneta gira,
e così la città. A ciò si aggiungeva lo strano modo di agire dell'Imperatrice. Baruk si sfregò la fronte. Doveva dire a Roald di portagli del tè curativo. I suoi mal di testa stavano raggiungendo livelli insopportabili. Mentre abbassava la mano, intravide un lampo rosso. Sollevò entrambi i palmi. Erano sporchi di inchiostro rosso. Si appoggiò al davanzale. Oltre la nuvola di polvere si estendevano i tetti di Darujhistan e oltre di essi, il porto. «E tu, Imperatrice», mormorò il mago. «So che sei qui, da qualche parte. Le tue pedine si muovono ancora nell'oscurità, ma le troverò. Stanne certa. Con o senza la dannata fortuna di Oponn.» LIBRO TERZO LA MISSIONE Marionette danzano nel campo guidate da mani esperte Io inciampo fra loro intralciato dai fili che si ingarbugliano confusi e maledico tutti questi sciocchi nelle loro folli piroette io non vivrò come loro oh, no, lasciatemi alla mia danza roteante questi sussulti spontanei giuro sulla Tomba di Hood sono arte in movimento. Detti dello Sciocco Theny Bule (n.?) CAPITOLO OTTAVO Discese allora in mezzo a donne e uomini, il sigillo sottratto dalla folle epurazione di lei;
là sulla sabbia imbevuta di sangue caddero le vite dell'Imperatore e della Prima Spada tanto tragico fu il tradimento... Lui apparteneva alla Vecchia Guardia, che comandava la punta affilata della furia dell'Impero, così nel discendere senza andarsene costituì il ricordo davanti ai suoi occhi, la maledizione di una coscienza che lei non poteva tollerare. Gli fu messo davanti un prezzo che lui guardò di sfuggita al suo primo passaggio inconsapevole, impreparato nel discendere fra donne e uomini, trovò ciò che aveva abbandonato e maledì il suo risveglio... Gli Arsori di Ponti Toc il Giovane Un quarto d'ora prima dell'alba, il cielo era color del ferro, screziato di ruggine. Appollaiato su una cupola rocciosa nella spiaggia di ciottoli, il sergente Whiskeyjack fissava la superficie calma, brumosa, del Lago Azzurro. A sud, sulla lontana riva opposta, si levava il debole chiarore di Darujhistan. Il viaggio attraverso le montagne della notte appena trascorsa era stato infernale: i Quorl si erano trovati sballottati dal vento in mezzo a tre bellicose nubi temporalesche. Era un miracolo che non si fosse perso nessuno. Da allora, la pioggia era cessata, lasciando l'aria fresca e umida. Sentendo alle sue spalle un rumore di stivali accompagnato da un clicchettio, Whiskeyjack si voltò, raddrizzando il corpo. Erano in arrivo Kalam e un Moranth Nero, che avanzavano guardinghi fra l'ammasso di pietre muschiose alla base del pendio. Dietro di loro, si ergeva l'ombrosa foresta di sequoie, i cui tronchi a chiazze torreggiavano come sentinelle barbute contro il lato della montagna. Il sergente inalò una profonda boccata della frizzante aria mattutina. «È tutto a posto», annunciò Kalam. «I Moranth Verdi hanno consegnato tutto quanto ordinato, e anche di più. Fiddler e Hedge sono due zappatori felici.»
Whiskeyjack alzò un sopracciglio. Si girò verso il Moranth Nero. «Credevo che le vostre munizioni scarseggiassero.» Il volto della creatura rimase nascosto dietro l'elmo. Le sue parole, producendo un'eco sorda, sembrarono uscire da una caverna. «Non per tutti, Uccello che Ruba. Ti conosciamo bene, Arsore di Ponti. Tu cammini sull'ombra del nemico. Da parte dei Moranth, l'assistenza non sarà mai scarsa.» Sorpreso, Whiskeyjack distolse lo sguardo; la pelle intorno ai suoi occhi si raggrinzì. Il Moranth continuò: «Mi hai chiesto del destino di uno della nostra razza. Un guerriero con un braccio solo, che combatté al tuo fianco nelle strade di Nathilog molti anni fa. Egli vive ancora». Il sergente inspirò intensamente la dolce aria della foresta. «Grazie», rispose. «Auspichiamo che il sangue che ti troverai sulle mani in futuro appartenga al tuo nemico, Uccello che Ruba.» Whiskeyjack aggrottò la fronte, poi annuì bruscamente e rivolse l'attenzione a Kalam. «Che altro c'è?» Il volto del sicario divenne impassibile. «Ben lo Svelto è pronto», disse. «Bene. Raduna gli altri. Esporrò il mio piano.» «Il tuo piano, sergente?» «Il mio», ribadì Whiskeyjack, deciso. «Quello studiato dall'Imperatrice e dai suoi strateghi viene rifiutato, da ora. Faremo le cose a modo mio. Va', caporale.» Kalam salutò e si allontanò. Whiskeyjack scese dalla cupola; i suoi stivali affondarono nel muschio. «Dimmi, Moranth, uno squadrone dei tuoi Neri potrebbe perlustrare questa zona a due settimane da oggi?» La testa del Moranth ruotò rumorosamente verso il lago. «Simili pattuglie non programmate sono comuni. Prevedo di comandarne una io stesso fra due settimane.» Whiskeyjack fissò fermamente il guerriero dall'armatura nera che gli stava al fianco. «Non so bene come prendere quest'affermazione», osservò infine. Il guerriero si girò verso di lui. «Non siamo così diversi», ribatté. «Ai nostri occhi, le azioni hanno una misura. Noi giudichiamo, e agiamo in base al nostro giudizio. Come a Pale, abbiniamo spirito con spirito.»
Il sergente fece un'espressione corrucciata. «Che cosa intendi dire?» «Diciottomilasettecentotrentanove anime se ne sono andate nella purga di Pale. Una per ogni Moranth caduto vittima della storica inimicizia di Pale nei nostri confronti. Spirito con spirito, Uccello che Ruba.» Whiskeyjack scoprì di non avere risposta. Le parole successive del Moranth lo lasciarono profondamente scosso. «Nella carne del tuo Impero sono presenti dei vermi. Ma tale degrado è naturale in tutti i corpi. L'infezione del tuo popolo non è ancora fatale. Può essere eliminata. I Moranth sono abili in simili opere di pulizia.» «Esattamente», Whiskeyjack s'interruppe, scegliendo le parole con cura, «come concepisci questa pulizia?». Ricordando le serpentine di carri stipati di cadaveri che uscivano da Pale, lottò contro il gelo che gli formicolava nella schiena. «Spirito con spirito», ripeté il Moranth, riportando l'attenzione sulla città sulla riva meridionale. «Per ora, vi lasciamo. Ci troverai qui fra due settimane, Uccello che Ruba.» Whiskeyjack guardò il Moranth Nero allontanarsi, aprendosi un varco nel boschetto che circondava la radura dove aspettavano i suoi cavalieri. Un attimo dopo, udì il rapido scatto delle ali, poi i Quorl si levarono sopra gli alberi, scivolando fra i tronchi barbuti. I Moranth descrissero un cerchio nell'aria, quindi risalirono verso nord. Il sergente si sedette di nuovo sulla cupola, gli occhi sul terreno mentre i membri del suo squadrone arrivavano, accovacciandosi accanto a lui. Apparentemente ignaro della compagnia, rimase in silenzio; la fronte corrugata e la mascella sporgente, digrignava i molari con lenta, costante precisione. «Sergente?» mormorò Fiddler. Trasalendo, Whiskeyjack alzò lo sguardo. Tirò un respiro profondo. Tutti si erano raccolti lì, a eccezione di Ben lo Svelto. Avrebbe chiesto a Kalam di aggiornare il mago, più tardi. «Va bene. Il piano originale è stato abbandonato, poiché aveva lo scopo di farci uccidere tutti. Quella parte non mi piaceva, per cui faremo a modo mio e, spero, resteremo vivi.» «Non mineremo le porte della città?» chiese Fiddler, lanciando un'occhiata a Hedge. «No», rispose il sergente. «Sfrutteremo le munizioni Moranth in maniera migliore. Due obiettivi, due squadre. Kalam ne guiderà una, e con lui staranno Ben lo Svelto e...» esitò, «... e Dispiacere. Io guiderò l'altra squadra. Il primo compito sarà quello di entrare in città senza essere visti. Niente
uniforme». Guardò Mallet. «Quindi i Verdi hanno consegnato?» Il guaritore annuì. «Fabbricazione locale, senza dubbio. Un peschereccio di diciotto piedi, a quattro remi, dovrebbe portarci dall'altra parte del lago senza troppa difficoltà. Ci sono persino un paio di reti.» «E noi le useremo», commentò Whiskeyjack. «Entrare in porto senza pesca sembrerebbe sospetto. Qualcuno di voi ha mai pescato?» Ci fu un silenzio, poi Dispiacere parlò. «Io sì, molto tempo fa.» Whiskeyjack la fissò, e disse: «Bene. Scegliti il compagno che vuoi». Dispiacere fece un sorriso beffardo. Whiskeyjack strappò gli occhi dai suoi, imprecando sommessamente. Guardò i suoi due sabotatori. «Quante munizioni?» «Due casse», rivelò Hedge, aggiustandosi il cappello di cuoio. «Potremmo illuminare la strada fino a Smokers.» «E cuocere un palazzo intero», aggiunse Fiddler, muovendosi eccitato. «Niente male», concluse Whiskeyjack. «Allora, ascoltate tutti attentamente, o non ne usciremo vivi...» *** In una radura isolata nella foresta, Ben lo Svelto versò un cerchio di sabbia bianca, e si sedette al centro. Prese cinque bastoncini appuntiti e li mise in fila davanti a sé, spingendoli a varie profondità nel terriccio. Il bastoncino centrale, il più alto, sporgeva di circa tre piedi; quelli ai suoi lati di due piedi, e gli esterni di un piede. Il mago svolse una iarda di budello. Prendendo un capo, forgiò un piccolo cappio, che strinse vicino alla punta del bastoncino centrale. Passò la corda a sinistra, allacciandola una volta sul bastoncino successivo, poi la spostò a destra, ripetendo l'operazione. Portò il budello sul bastoncino all'estrema sinistra, borbottando qualche parola nel contempo. Lo avvolse due volte, e lo trasferì sul bastoncino all'estrema destra, dove fece un nodo, tagliando la corda che avanzava. Ben lo Svelto si raddrizzò, intrecciando le mani in grembo. Un cipiglio gli corrugò la fronte. «Hairlock!» Un bastoncino esterno si contorse, si girò leggermente, poi tornò fermo. «Hairlock!» ruggì ancora il mago. Tutti e cinque i bastoncini sobbalzarono. Quello centrale si piegò verso di lui. La corda si tese, emanando un ronzio grave. Un vento freddo colpì Ben lo Svelto in viso, scacciandone le gocce di
sudore che vi si erano raccolte nell'ultimo minuto. La testa invasa da uno scroscio, si sentì cadere attraverso caverne oscure; nelle orecchie gli risuonava il battito di martelli di ferro contro le loro pareti invisibili. Lampi di accecante luce argento gli ferirono gli occhi, e il vento gli tirò la pelle e la carne del viso. In una parte protetta della mente, conservava un senso di distanza, di padronanza. All'interno di questa calma poteva pensare, osservare, analizzare. «Hairlock», bisbigliò, «sei andato troppo in là. Troppo a fondo. Questo Canale ti ha assorbito e non ti sputerà più fuori. Stai perdendo il controllo, Hairlock». Ma simili pensieri erano solo per sé; sapeva che la marionetta era ancora lontana. Si vide continuare a turbinare attraverso le Caverne del Caos. Hairlock era costretto a imitare il suo movimento, ma verso l'alto. D'un tratto, si ritrovò in piedi. Sotto di lui, la roccia nera sembrò ruotare; le sue lente circonvoluzioni facevano apparire, qua e là, screziature rosso acceso. Guardandosi intorno, si accorse di stare su una cornice, che si levava obliquamente; l'apice frastagliato era una dozzina di piedi davanti a lui. Girandosi, seguì con gli occhi la cornice che precipitava fuori vista, dentro una tumultuosa coltre di nubi gialle. Ben lo Svelto fu colto dalle vertigini. Barcollò; poi, mentre riguadagnava l'equilibrio, udì qualcuno ridacchiare alle sue spalle. Voltandosi, vide Hairlock appollaiato sull'apice; il corpo di legno era sporco e bruciacchiato, gli abiti da bambola laceri e sfilacciati. «Questa è la Cornice di Andii, vero?» chiese Ben lo Svelto. La testa rotonda di Hairlock annuì con uno scatto. «A metà strada. Ora sai fin dove sono arrivato, mago. Ai piedi del Canale, dove il potere trova la sua prima forma, e tutto è possibile.» «Solo non molto probabile», ribatté Ben lo Svelto, fissando la marionetta. «Come ci si sente, a stare in mezzo a tutta quella creazione, senza poterla usare, né toccare? È troppo aliena, vero? Ogni suo contatto brucia.» «Riuscirò a dominarla», sibilò Hairlock. «Tu non sai niente. Niente.» Ben lo Svelto sorrise. «Sono già stato qui, Hairlock.» Studiò i gas che vorticavano, sospinti da venti contrastanti. «Sei stato fortunato», decretò. «Anche se sono poche, ci sono creature che chiamano questo regno casa.» S'interruppe, rivolgendo il sorriso alla marionetta. «Non amano gli intrusi hai visto cosa fanno loro? Cosa si lasciano alle spalle?» Il sorriso del mago si allargò, quando questi vide il sobbalzo involontario di Hairlock. «Evidentemente sì», concluse tranquillo. «Tu sei il mio protettore», sbottò Hairlock. «Io sono legato a te, mago!
La responsabilità è tua, e se verrò catturato non lo nasconderò.» «Legato a me, già.» Ben lo Svelto si accovacciò. «Sono lieto di sentire che ti è tornata la memoria. Dimmi, come sta Tattersail?» La marionetta s'incurvò, e distolse lo sguardo. «La sua è una guarigione difficile.» Ben lo Svelto aggrottò le sopracciglia. «Guarigione? Da cosa?» «Il Segugio Gear mi ha rintracciato.» Hairlock si dimenò, a disagio. «C'è stata una scaramuccia.» Il mago si accigliò ulteriormente. «E?» La marionetta scosse le spalle. «Gear è fuggito, gravemente ferito da una spada mondana, nelle mani di quel tuo capitano. Poi è arrivato Tayschrenn, ma Tattersail ormai era scivolata nell'incoscienza, e lui non ha potuto ottenere le risposte che voleva. Però, il fuoco del sospetto gli si è acceso dentro. Manda fuori i suoi servi, che battono i Canali. Vanno a caccia di indizi su chi e cosa io sia. E sul perché sia in questo stato. Tayschrenn sa che c'è coinvolto il vostro squadrone, sa che state cercando di salvarvi la pelle.» Lo sguardo folle della marionetta guizzò. «Vi vuole tutti morti, mago. Quanto a Tattersail, forse spera che la sua febbre la uccida, così non sarà costretto a farlo lui - ma perderebbe moltissimo se lei morisse senza poter essere interrogata prima. Sicuramente inseguirebbe la sua anima, cercherebbe di strapparle le sue conoscenze fin nel regno di Hood, ma lei ne saprebbe abbastanza da riuscire a sfuggirgli.» «Sta' zitto per un attimo», ordinò Ben lo Svelto. «Torniamo all'inizio. Hai detto che il capitano Paran ha colpito Gear con la sua spada?» Hairlock prese un'espressione torva. «Sì. Un'arma mondana - sarebbe dovuto essere impossibile. Eppure, forse ha inflitto al Segugio una ferita mortale.» La marionetta si fermò, poi ringhiò: «Non mi hai detto tutto, mago. Ci sono degli dei implicati in questa storia. Se mi tieni in questa ignoranza, forse finirò sul sentiero di uno di loro». Sputò. «È già abbastanza brutto essere tuo schiavo. Credi che potresti sfidare un dio per riavere il controllo su di me? Verrei preso, trasformato, forse persino...» Hairlock estrasse uno dei suoi coltellini «... usato contro di te». Avanzò di un passo, con un luccichio cupo negli occhi. Ben lo Svelto alzò un sopracciglio. Il cuore gli balzò in petto. Era possibile? Non avrebbe dovuto captare qualcosa? Un sentore, un indizio di qualche presenza immortale? «Un'ultima cosa, mago», mormorò Hairlock, facendo un altro passo. «La scorsa notte, la febbre di Tattersail è salita. Lei ha urlato qualcosa riguardo
a una moneta. Una moneta che girava, ma poi è caduta, è rimbalzata, è entrata in mano a qualcuno. Devi dirmi di questa moneta, devo conoscere i tuoi segreti, mago.» Hairlock s'interruppe di colpo, abbassando lo sguardo sul coltello. Esitò, apparentemente confuso, poi rinfoderò l'arma e si accucciò a terra. «Che cosa c'è di tanto importante in una moneta?» ruggì. «Niente. Quella strega delirava - ed era più forte di quanto pensassi.» Ben lo Svelto impietrì. La marionetta sembrava essersi dimenticata della sua presenza. Ciò che il mago udiva ora erano i pensieri di Hairlock. Capì di stare guardando, attraverso una finestra infranta, nella sua mente invasa dalla pazzia. Ed era lì che stava tutto il pericolo. Il mago trattenne il respiro mentre Hairlock continuava, gli occhi fissi sulle nubi sottostanti. «Gear avrebbe dovuto ucciderla - ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per quello stupido capitano. E ora lui l'assiste e mette mano alla spada ogni volta che cerco di avvicinarmi a lei. Sa che spegnerei la sua vita in un attimo. Ma la spada! Quale dio gioca con questo nobile idiota?» La marionetta proseguì, ma le sue parole scemarono in un borbottio impercettibile. Ben lo Svelto aspettò, sperando di udire altro, anche se ciò che già aveva appreso bastava a fargli martellare il cuore. Quella creatura demente era imprevedibile, e a tenerla a freno c'era solo un debole controllo - i fili di potere che lui aveva attaccato al suo corpo di legno. Ma quel tipo di follia era accompagnato dalla forza - una forza sufficiente a rompere quei fili? Il mago non era più tanto sicuro del suo dominio su Hairlock. Questi era ammutolito. Gli occhi dipinti guizzavano ancora di una fiamma nera - l'emanazione del potere del Caos. Ben lo Svelto avanzò di un passo. «Esegui i piani di Tayschrenn», intimò, sferrando un calcio poderoso. La punta del suo stivale colpì Hairlock in petto, facendolo ruotare su se stesso. Hairlock scivolò giù dalla cornice, precipitando verso il basso. Il suo ringhio di indignazione si affievolì mentre egli spariva in mezzo alle nubi gialle. Ben lo Svelto inspirò una boccata dell'aria pesante, viziata. Sperava che questa brusca cacciata fosse stata sufficiente ad alterare il ricordo degli ultimi minuti nella mente di Hairlock. Però, sentì i fili del controllo tendersi ulteriormente. Più quel Canale distorceva Hairlock, e più questi guadagnava potere. Il mago sapeva cosa doveva fare - era stato Hairlock stesso a dirglielo. Eppure, non l'aspettava con ansia. Il sapore acido della bile gli salì in gola: sputò oltre il margine della cor-
nice. L'aria puzzava di sudore; impiegò un attimo a capire che si trattava del proprio. Sibilò un'imprecazione. «Ora di andarsene», bofonchiò. Alzò le braccia. Il vento tornò rombando; sentì il suo corpo essere lanciato verso l'alto, nella caverna soprastante, poi in quella successiva. Mentre le caverne si offuscavano alla vista, una sola parola dominò i suoi pensieri, una parola che sembrava intrecciarsi come una ragnatela intorno al problema di Hairlock. Ben lo Svelto sorrise, ma era un sorriso di reazione al terrore. La parola restava: Gear, e con quel nome il terrore del mago trovò un volto. *** Whiskeyjack si alzò in mezzo al silenzio. I soldati schierati intorno a lui avevano l'espressione sobria, gli occhi fissi a terra o altrove; stavano chiusi in qualche spazio personale, privato, in cui nuotavano i pensieri più grevi. L'unica eccezione era Dispiacere, che fissava il sergente con occhi lucenti, entusiasti. Whiskeyjack si chiese chi fosse veramente a manifestare approvazione dietro a quegli occhi - poi scosse la testa, arrabbiato per aver fatto scivolare nei propri pensieri una punta dei sospetti di Kalam e Ben lo Svelto. Distogliendo lo sguardo, vide arrivare Ben lo Svelto. Il mago sembrava stanco; il suo viso aveva un colorito cinereo. Whiskeyjack girò bruscamente gli occhi su Kalam. Il sicario annuì. «Tutti quanti, all'opera», ordinò. «Caricate la barca e preparatela.» Con Mallet alla testa, gli altri si diressero giù alla spiaggia. In attesa che li raggiungesse Ben lo Svelto, Kalam disse: «Lo squadrone sembra esausto, sergente. Fiddler, Trotts e Hedge hanno mosso abbastanza terra, in quei tunnel, da seppellire i morti dell'Impero. Sono preoccupato per loro. Mallet sembra reggere, per il momento... Però, per quanto esperta di pesca sia Dispiacere, dubito che nessuno di noi saprebbe usare i remi per uscire da una vasca da bagno. E dovremmo attraversare un lago grande quasi come un mare?». Whiskeyjack strinse la mascella, poi si costrinse a scuotere le spalle con noncuranza. «Sai benissimo che qualunque Canale dovesse aprirsi nei pressi della Città verrebbe probabilmente individuato. Non abbiamo scelta, capitano. Dobbiamo remare. A meno che non allestiamo una vela.»
Kalam grugnì. «Da quando in qua la ragazza è un'esperta di pesca?» Il sergente sospirò. «Già. È stata una sorpresa, eh?» «Maledettamente conveniente.» Ben lo Svelto raggiunse la cupola di roccia. Entrambi gli uomini ammutolirono nel vedere la sua espressione. «Sto per proporre una cosa che non vi piacerà affatto», annunciò il mago. «Sentiamo», rispose Whiskeyjack, con voce priva di emozione. Dieci minuti dopo, i tre arrivarono sulla spiaggia di ciottoli lucidi; sia Whiskeyjack che Kalam sembravano scossi. A una dozzina di iarde dal bordo dell'acqua stava il peschereccio. Trotts tirava faticosamente la corda attaccata al gancio di prua, ansimando e gemendo mentre si piegava in avanti con tutto il suo peso. Il resto dello squadrone stava ammassato da una parte, a discutere sommessamente degli sforzi futili del compagno. Fiddler alzò lo sguardo; vedendo Whiskeyjack marciare verso di loro, sbiancò in viso. «Trotts!» urlò il sergente. Il Barghast girò la faccia verso Whiskeyjack, i tatuaggi al guado illeggibili tanto erano tesi. Aveva gli occhi sgranati. «Molla la corda, soldato.» Kalam sbuffò divertito alle spalle di Whiskeyjack, che fulminò gli altri con lo sguardo. «Ora», esordì, con voce dura, «dal momento che uno di voi idioti ha convinto gli altri che caricare tutto l'equipaggiamento sulla barca quand'era ancora a riva era una buona idea, potete tutti mettere mano alla corda e tirare verso il lago - non tu, Trotts. Tu sali e ti metti comodo, là a poppa». Whiskeyjack si fermò. Studiò il viso impassibile di Dispiacere. «Da Fiddler e Hedge potevo anche aspettarmelo, ma pensavo di aver messo te a capo delle operazioni.» Dispiacere scrollò le spalle. Whiskeyjack sospirò. «Puoi allestirci una vela?» «Non c'è vento.» «Be', forse arriverà!» sbottò il sergente, esasperato. «Sì», ammise Dispiacere. «Abbiamo della tela. Ci servirà un albero.» «Prendi Fiddler e costruiscine uno. Voialtri, mettete questa barca in acqua.» Trotts si arrampicò dentro, sedendosi a poppa. Distese le lunghe gambe, lasciando scivolare un braccio oltre il paraspruzzi. Scoprì i denti limati in una specie di sorriso.
Whiskeyjack si girò verso Kalam e Ben lo Svelto, che esibivano un sogghigno. «Be'?» domandò. «Che cosa aspettate?» I sogghigni si spensero. CAPITOLO NONO Hai visto colui che sta in disparte maledetto in un rituale sigillo della sua gente oltre la morte la moltitudine ammassata e vorticosa come un flagello di polline se ne sta in disparte il Primo fra tutti velato nel tempo eppure reietto e solo un T'lan Imass che vaga come un seme non caduto. Ballata di Onos T'oolan Toc il Giovane Seduto in sella, Toc il Giovane si sporse in avanti e sputò. Era il terzo giorno che trascorreva lontano da Pale e desiderava con tutto se stesso avere le alte mura della città intorno a sé. La Pianura Rhivi si estendeva in tutte le direzioni, rivestita da un manto di erba gialla che fremeva sospinta dalla brezza pomeridiana. Si grattò gli angoli della ferita che gli aveva portato via l'occhio sinistro, borbottando fra sé e sé. Qualcosa non andava. Avrebbe dovuto incontrarla due giorni prima. Di quei tempi niente procedeva come previsto. Con il Capitano Paran che spariva ancora prima di incontrare Whiskeyjack e la storia che circolava su un Segugio che aveva attaccato l'ultimo mago sopravvissuto del Secondo Squadrone, lasciando dietro di sé quattordici soldati morti, forse non doveva sorprendersi che anche quell'appuntamento fosse andato storto. Il caos sembrava un segno dei tempi. Toc si raddrizzò e si sollevò sulla
sella. Sebbene non ci fosse una strada vera e propria, le carovane dei mercanti avevano tracciato una via che correva da nord a sud lungo il bordo occidentale. L'attività commerciale era ormai inesistente, ma il passaggio di generazioni di convogli di carri e cavalli aveva lasciato il segno. Al centro della Pianura vivevano i Rhivi, una popolazione di bassa statura e dalla pelle scura che si spostava con il bestiame seguendo un ciclo stagionale. Sebbene non avesse dovuto ricorrere alla guerra, l'Impero Malazan aveva forzato la mano e ora i Rhivi combattevano contro l'Impero accanto alle legioni di Tiste Andii di Caladan Brood. Stando ai rapporti dei Moranth, i Rhivi vivevano nella zona settentrionale e orientale, particolare che riempì Toc di gioia. Si sentiva molto solo in quella immensa distesa ma, tutto considerato, la solitudine era il minore dei mali. Toc sgranò il suo unico occhio. A quanto pareva, non era poi così solo. A circa una lega di distanza i corvi giravano in tondo. L'uomo imprecò e allentò il fodero della scimitarra sul fianco. Resistette alla tentazione di spingere il cavallo al galoppo, accontentandosi di un trotto veloce. Avvicinandosi, vide l'erba calpestata al di là del bordo della pista. Il silenzio era infranto dal gracchiare dei corvi. Avevano già iniziato il festino. Toc tirò le redini e fermò il cavallo; restando in sella, si sporse in avanti. Nessuno dei corpi distesi sembrava potesse muoversi all'improvviso e i bisticci dei corvi erano la prova della mancanza di sopravvissuti. Ciononostante, nutriva un cattivo presentimento. C'era qualcosa nell'aria, qualcosa fra un odore e un sapore. Aspettò, non sapeva bene che cosa, e un'improvvisa riluttanza a muoversi s'impadronì di lui. A un tratto identificò ciò che avvertiva: magia. Era stata liberata proprio lì. «Detesto tutto ciò», borbottò, quindi smontò da cavallo. I corvi gli fecero posto, ma non troppo. Ignorando le loro grida offese, Toc si avvicinò ai corpi. Erano dodici in tutto. Otto indossavano le uniformi dell'Impero Malazan - ma quelli non erano comuni soldati. Puntò lo sguardo sui sigilli d'argento sui loro elmi. «Jakatakan», disse. L'elite. Erano stati fatti a pezzi. Spostò l'attenzione sugli altri corpi e sentì un brivido di paura corrergli lungo la schiena. Non c'era da stupirsi che i Jakatakan fossero stati sconfitti in quel modo. Si avvicinò a uno dei corpi e si chinò accanto a esso. Conosceva alcuni emblemi dei clan dei Barghast e sapeva che ogni gruppo di
cacciatori si distingueva per un tatuaggio. Il fiato corto, allungò una mano per voltare il volto dell'uomo verso di sé. Annuì. Quelli erano del Clan Ilgres. Prima che la Guardia Cremisi li arruolasse, il loro territorio era a quindicimila leghe a oriente, fra le montagne subito a sud di Porule. Toc si alzò, lentamente. Gli Ilgres erano tra i più forti fra coloro che si erano uniti alla Guardia Cremisi nella Foresta del Cane Nero, ma quella si trovava a quattrocento leghe più a nord. Ma allora, che cosa li aveva portati lì? Il fetore della magia versata gli aleggiò sotto il naso e Toc si voltò, gli occhi su un corpo che prima non aveva notato. Giaceva accanto a ciuffi d'erba bruciata. «E così», mormorò, «ho la risposta alla mia domanda». Quella compagnia era stata guidata da uno sciamano Barghast. Chissà come erano finiti su una pista e lo sciamano l'aveva riconosciuta per ciò che era. Toc osservò attentamente il corpo dell'uomo. Ucciso con un taglio alla gola. Lo sciamano aveva dato via libera alla magia, ma nessun'altra forza magica si era opposta a lui. E quello era strano, soprattutto perché era lo sciamano a essere morto e non chi era stato attaccato da lui. Toc grugnì. «Be', dicono che lei sia un tormento per i maghi.» Girò intorno ai cadaveri e ben presto trovò la pista. Alcuni Jakatakan erano sopravvissuti e dalle impronte più piccole di stivali, sembrava lo fossero anche i loro assalitori. E sopra quelle orme c'erano quelle di una mezza dozzina di mocassini. Le tracce si allontanavano bruscamente dalla pista dei mercanti, pur continuando a procedere verso sud. Toc raggiunse il cavallo e montò in sella. Sganciò il piccolo arco e lo incordò, quindi accoccò una freccia. Non poteva sperare di raggiungere i Barghast senza essere scoperto. Su quella pianura sarebbe stato visibile molto prima di entrare a tiro di freccia - e da quando aveva perso l'occhio quella distanza si era molto ridotta. Così, sapeva che lo avrebbero aspettato con quelle dannate lance. Ma non aveva altra scelta; sperava solo di riuscire ad abbatterne un paio prima che loro lo infilzassero. Sputò di nuovo, poi avvolse le redini intorno all'avambraccio sinistro e sistemò l'impugnatura sull'arco. Grattò con furia la cicatrice rossa che gli attraversava la faccia, pur sapendo che il fastidioso prurito sarebbe tornato nel giro di pochi minuti. «Oh, be'», disse, quindi piantò gli speroni nei fianchi del cavallo. *** La collina solitaria che si ergeva davanti all'Aggiunto Lorn non era natu-
rale. La parte superiore di sassi semisepolti ne circondava la base. Si chiese che cosa potesse esserci stato sotterrato, poi scacciò i suoi timori. Se quei sassi verticali erano della stessa dimensione di quelli che aveva visto intorno ai misteriosi tumuli fuori Genabaris, allora quell'altura era vecchia di millenni. Si girò verso i due esausti soldati che arrancavano dietro di lei. «Ci fermiamo qui. Tu, con la balestra, vai a fare la guardia lassù.» In risposta l'uomo chinò la testa e barcollò verso la sommità erbosa dell'altura. Sia lui che il compagno sembravano sollevati per quella pausa, sebbene sapessero che mancavano ormai pochi minuti alla loro morte. Lorn squadrò l'altro soldato. Era stato ferito da una freccia nella spalla sinistra e il sangue continuava a scorrere profusamente sulla corazza. Come avesse fatto a restare in piedi in quell'ultima ora era al di là dell'umana comprensione. L'uomo guardò l'Aggiunto con espressione rassegnata; gli occhi spenti non lasciavano trapelare il dolore che il militare doveva provare. «Vi coprirò da sinistra», disse, stringendo la scimitarra nella mano destra. Lorn sguainò il suo spadone e rivolse la sua attenzione verso sud. Vide quattro dei sei Barghast avvicinarsi lentamente. «Vogliono attaccarci ai fianchi», gridò all'arciere. «Mira a quello sulla tua sinistra.» Il soldato accanto a lei grugnì. «La mia vita non deve essere protetta», disse. «Siamo stati attaccati con la vostra protezione, Aggiunto...» «Zitto», ordinò Lorn. «Più tu resti in piedi e più io sono coperta.» Il soldato tornò a grugnire. I quattro Barghast indugiavano, poco al di là della portata dell'arco. Due stringevano lance, gli altri corte asce. All'improvviso, una voce gridò alla destra di Lorn e la donna si voltò di scatto per vedere una lancia sfrecciare verso di lei e dietro di essa un Barghast all'attacco. Lorn portò la spada davanti al corpo e si acquattò sollevando l'arma oltre la testa. La lancia colpì la spada e contemporaneamente la donna si voltò, abbassando l'arma. La lancia deviata andò a conficcarsi per terra, alla destra dell'Aggiunto. Dietro di sé, Lorn sentì l'arciere scoccare un quadrello. Mentre si girava indietro verso i quattro Barghast all'attacco, dall'altra parte dell'altura si levò un grido di dolore. Il soldato accanto a lei sembrava aver dimenticato la propria ferita, mentre stringeva la scimitarra con entrambe le mani e si piantava a gambe larghe. «Attenta, Aggiunto», disse.
Il Barghast sulla destra gridò e lei lo vide piroettare a causa dell'impatto con un quadrello. I quattro guerrieri davanti a loro erano a non più di trenta piedi di distanza. I due lancieri scagliarono le loro armi. Lorn non si mosse: aveva capito subito che la lancia diretta su di lei l'avrebbe mancata. Il soldato accanto a lei si spostò sulla sinistra, ma non a sufficienza per evitare la lancia che penetrò nella sua coscia destra. Tale era la sua potenza che trapassò la carne dell'uomo per poi conficcarsi nella nuda terra. Il soldato era sofferente, ma dalla sua bocca sfuggì un solo, flebile lamento, mentre l'uomo sollevava la spada per parare un'ascia scagliata contro di lui. Nel frattempo, Lorn aveva già chiuso con il Barghast diretto su di lei. L'ascia del militare era un'arma corta e la donna ne approfittò sferrando un colpo prima che l'uomo potesse attaccarla. Quest'ultimo sollevò l'impugnatura rivestita di rame per parare il colpo, ma Lorn girò di scatto il polso, completando l'attacco e affondando sotto l'ascia. La punta della spada scomparve nel petto del Barghast, penetrando l'armatura di cuoio come se fosse stata di tela. L'attacco l'aveva impegnata a fondo e la spada le era quasi sfuggita di mano quando il feroce avversario si tirò indietro. Sbilanciata, Lorn vacillò, aspettandosi il colpo micidiale di un'ascia. Che non giunse. Riacquistato l'equilibrio, si voltò di colpo per trovare l'arciere, che ora brandiva la scimitarra, impegnato a combattere contro l'altro Barghast. La donna si guardò intorno alla ricerca dell'altra guardia. Con sua sorpresa scoprì che era ancora vivo, sebbene stesse confrontandosi con due Barghast. Era riuscito a tirare fuori la lancia conficcata a terra, ma dalla ferita nella gamba il sangue usciva a fiotti. Il fatto che riuscisse a muoversi e addirittura a difendersi la diceva lunga sulla disciplina e l'addestramento dei Jakatakan. Lorn si precipitò ad affrontare il Barghast sulla destra del guerriero. Mentre si muoveva, un'ascia penetrò la difesa del soldato e lo colpì al petto. Schegge schizzarono ovunque mentre la micidiale arma penetrava l'armatura. Il soldato gemette e cadde in ginocchio, il sangue che colava a terra. Lorn non era nella posizione di poterlo difendere e non poté fare altro che guardare inorridita l'ascia che si abbassava nuovamente, questa volta colpendo l'uomo alla testa. Il soldato rotolò su un fianco, atterrando ai piedi dell'Aggiunto. Lo slancio in avanti della donna la portò proprio sopra di lui.
Imprecando, stese le braccia in avanti, finendo contro il Barghast innanzi a lei. Cercò di sollevare la punta della spada per conficcargliela nella schiena ma l'altro si girò bruscamente di lato e schivò il colpo. Lorn cercò l'affondo ma lo mancò, finendo rovinosamente a terra. Cadendo, picchiò violentemente la spalla sul terreno e la spada le sfuggì di mano. Ora, pensò, l'unica cosa che resta da fare è morire. Rotolò sulla schiena. Con un grido il Barghast le balzò accanto, l'ascia sollevata. Lorn era nella posizione giusta per vedere la mano scheletrica spuntare dalla terra sotto il Barghast. Gli afferrò una caviglia. Le ossa scricchiolarono e il guerriero urlò. Mentre guardava, la donna si chiese dove fossero finiti gli altri due selvaggi. I rumori della battaglia sembravano improvvisamente cessati, ma dal terreno giungeva il rombo crescente del tuono. Il Barghast abbassò lo sguardo sulla mano che gli aveva spezzato la tibia. Emise un altro grido quando la lama larga, seghettata di una spada di silice comparve fra le sue gambe. L'ascia abbandonò le mani del guerriero mentre quest'ultimo le usava per cercare di deviare la spada, girandosi su un lato e scalciando con la gamba libera. Ma era ormai troppo tardi. La spada lo impalò, scivolando dentro di lui e sollevandolo da terra. Il grido di morte del militare salì al cielo. Lorn si rimise faticosamente in piedi, il braccio destro che penzolava inerte lungo il fianco. Riconobbe il rombo di tuono come il rumore di zoccoli al galoppo e si voltò in quella direzione. Un Malazan. Spostò l'attenzione dal militare in avvicinamento e si guardò intorno. Le sue guardie erano entrambe morte e i corpi di due Barghast erano infilzati da frecce. Prese fiato e guardò la creatura emersa dal terreno. Era avvolta in una pelliccia imputridita ed era in piedi sopra il cadavere del guerriero, una gamba ancora in mano. L'altra mano stringeva la spada, spinta per tutta la lunghezza dentro al corpo del Barghast. «Ti aspettavo giorni fa», disse Lorn, fissando la figura. Quest'ultima si voltò verso di lei, il volto nascosto dall'ombra dell'elmo. L'elmo, si accorse la donna, era la calotta cranica di una bestia cornuta, un corno spezzato alla base. Il Malazan sopraggiunse dietro di lei. «Aggiunto!» gridò, scendendo da cavallo. Le fu subito accanto, l'arco accoccato e pronto a colpire. Il suo unico occhio scrutò Lorn e tranquillizzato perché la ferita della donna non sembrava mortale, spostò l'attenzione sulla creatura massiccia, ma tarchiata, davanti a loro. «Per il respiro di Hood, un T'lan Imass.» Lorn continuò a fissare il T'lan Imass. «Sapevo che eri nei dintorni. Era
l'unica spiegazione possibile per la presenza di uno sciamano Barghast e dei suoi arcieri. Deve avere usato un Canale per arrivare qui. Allora, dov'eri?» Toc il Giovane lanciò un'occhiata all'Aggiunto, sorpreso per quello scoppio d'ira, poi tornò a scrutare il T'lan Imass. Soltanto una volta, otto anni prima, aveva visto altri esponenti di quella razza. Si trovava a Sette Città e da lontano, aveva seguito con lo sguardo le legioni di non-morti che marciavano verso le distese occidentali in una missione di cui nemmeno l'Imperatrice poteva sapere niente. Finalmente a distanza ridotta, Toc osservò accuratamente il T'lan Imass. Non ne era rimasto molto, concluse. Nonostante la magia, si vedeva che di anni ne aveva tremila. La pelle che copriva le ossa tozze e robuste dell'uomo era di un lucente color nocciola. La carne che un tempo aveva coperto il corpo era ormai ridotta a sottili strisce della consistenza di radici di quercia - qua e là, attraverso brandelli di carne strappata, s'intravedeva qualche muscolo. Il volto della creatura era privo di mento, presentava zigomi alti e una pronunciata arcata sopraccigliare. Le orbite erano buchi neri. «Ti ho fatto una domanda», affermò Lorn con voce stridula. «Dov'eri?» La testa scricchiolò quando l'Imass abbassò lo sguardo a terra. «In esplorazione», rispose in tono pacato con una voce che sapeva di pietre e polvere. «Il tuo nome?» incalzò Lorn. «Onos T'oolan, un tempo del Clan Tarad, dei Lofros T'lan. Sono nato nell'autunno dell'Anno Buio, nono figlio del Clan, addestrato come guerriero nella Sesta Guerra Jaghut...» «Basta», lo interrupe Lorn. Si piegò, esausta, e Toc le fu subito accanto. Sollevando lo sguardo su di lui si fece cupa. «Hai un aspetto arcigno.» Poi abbozzò un sorriso: «Ma va bene così». Il viso di Toc s'illuminò. «Per prima cosa, Aggiunto, dobbiamo trovare un posto dove possiate riposare.» Lei non protestò quando lui la guidò a una montagnola erbosa e con delicatezza la obbligò a sedersi. Lanciò un'occhiata dietro di sé e vide il T'lan Imass ancora immobile nel punto in cui era emerso. Però si era girato e sembrava stesse studiando l'altura. «Dobbiamo immobilizzare il braccio», disse Toc alla donna, provata ed esausta. «Mi chiamo Toc il Giovane», si presentò accovacciandosi. A quelle parole lei sollevò lo sguardo. «Conoscevo tuo padre», affermò. Sul suo viso riapparve il sorriso. «Un grande arciere.» L'uomo annuì in risposta.
«Era anche un ottimo comandante», continuò Lorn, osservando il giovane dal volto devastato che si prendeva cura del suo braccio. «L'Imperatrice si è dispiaciuta per la sua morte...» «Non siamo certi della sua morte», la interruppe Toc con voce tesa. «Lui è scomparso.» «Sì», mormorò Lorn. «Scomparso dalla morte dell'Imperatore.» Trasalì quando lui le tolse il guanto e lo gettò da parte. «Ho bisogno di qualche striscia di tessuto», disse Toc, alzandosi. Lorn lo guardò avvicinarsi a uno dei Barghast defunti. Prima dell'incontro non sapeva chi sarebbe stato l'Artiglio che l'avrebbe contattata, aveva saputo soltanto che era l'unico superstite delle forze di Dujek. Si chiese come mai si fosse tanto allontanato dal cammino paterno. Non c'era niente di piacevole, né di cui vantarsi, nell'essere un Artiglio. Solo efficienza e paura. Il giovane prese un coltello e tagliò l'armatura di cuoio scoprendo una camicia di lana nella quale immerse la lama. Poi tornò dalla donna con un pugno di strisce in mano. «Non sapevo aveste un Imass a tenervi compagnia», disse, inginocchiandosi accanto a lei. «Scelgono il modo di viaggiare che fa più comodo loro», replicò l'Aggiunto in tono piuttosto seccato. «E arrivano quando ne hanno voglia. Ma sì, è una pedina fondamentale per la mia missione.» Tacque, stringendo i denti per il dolore mentre Toc le faceva scivolare la rudimentale fascia sopra la spalla e sotto il braccio. «Ho ben poco di buono da riferire», disse Toc per poi raccontarle della scomparsa di Paran e della partenza di Whiskeyjack. Quando ebbe terminato, osservò soddisfatto la fasciatura. «Dannazione», imprecò Lorn. «Aiutami ad alzarmi.» Una volta in piedi venne colta dalle vertigini e dovette appoggiarsi alla spalla del giovane per riacquistare l'equilibrio. Poi annuì. «Portami la spada.» Toc raggiunse il punto che lei gli indicò. Dopo una breve ricerca trovò lo spadone nell'erba e il suo occhio si strinse a una fessura nel vedere la lama rossa e polverosa dell'arma. Gliela portò e disse: «Una spada Otataral, Aggiunto, il minerale che distrugge la magia». «E uccide i maghi», aggiunse Lorn, prendendo la spada con la mano sinistra e infilandola nel fodero. «Mi sono imbattuto nello sciamano morto», riferì Toc. «Be'», disse Lorn, «L'Otataral non è un mistero per voi delle Sette Città,
ma da queste parti sono in pochi a conoscerlo e non intendo diffondere la notizia». «Afferrato», Toc si voltò a guardare l'Imass immobile. Lorn sembrò leggergli nel pensiero. «L'Otataral non può estinguere la loro magia - credimi, c'è chi ci ha provato. I Canali degli Imass sono simili a quelli dei Jaghut e dei Forkrul Assail; quella spada di silice non può spezzarsi e taglia il ferro con la stessa facilità con cui affetta carne e ossa.» Toc rabbrividì e sputò. «Non invidio la vostra compagnia, Aggiunto.» Lorn sorrise. «La condividerai anche tu per qualche giorno, Toc il Giovane. La strada per arrivare a Pale è lunga.» «Sei, sette giorni», sottolineò Toc. «Ma mi aspettavo foste a cavallo.» Il sospiro di Lorn era pieno di struggimento. «Lo sciamano Barghast ha usato la sua magia sui cavalli. Sono morti tutti a causa di una malattia, persino il mio stallone, che mi ero portata attraverso il Canale.» Il volto severo si addolcì un istante e Toc avvertì il sincero dispiacere della donna. Ne restò sorpreso. Dopo tutto quello che aveva sentito sull'Aggiunto si era fatto l'immagine di un mostro a sangue freddo, la mano guantata della morte che può abbassarsi ovunque e in qualsiasi momento. Forse quell'aspetto di lei esisteva veramente ma si augurò di non doverlo scoprire. «Salite sulla mia giumenta, Aggiunto. Non è un cavallo robusto come quelli da guerra, ma è veloce e resistente.» Si avvicinarono al destriero e Lorn sorrise. «È un Wickan, Toc il Giovane», commentò accarezzando il collo della giumenta. «Uno splendido animale. Smettila di fare il modesto, se no perderò fiducia in te.» Toc l'aiutò a montare in sella. «L'Imass lo lasciamo lì?» Lorn annuì. «Troverà la strada da solo. Adesso diamo a questa giumenta la possibilità di mostrarci di che tempra è fatta. Si dice che il sangue dei Wickan odori di ferro.» Stese il braccio sinistro verso l'uomo. «Salta su», lo invitò. Toc nascose a fatica il proprio stupore. Condividere la sella con l'Aggiunto dell'Impero? L'idea era così assurda che quasi scoppiò a ridere. «Posso camminare, Aggiunto», disse in tono imbarazzato. «Non possiamo perdere tempo e voi farete meglio a partire al gran galoppo. Arriverete a Pale in tre giorni. Io posso camminare anche per dieci ore.» «No, Toc il Giovane.» Il tono di Lorn non ammetteva repliche. «Ho bisogno di te a Pale e ho bisogno di conoscere tutto quanto c'è da sapere sulle legioni occupanti, Dujek e Tayschrenn. Meglio arrivare qualche giorno dopo che arrivare impreparati. Afferra il mio braccio e falla finita.»
Toc obbedì. Mentre si accomodava sulla sella dietro a Lorn, la giumenta nitrì e scartò bruscamente di lato. I due corsero il rischio di cadere. Si voltarono e videro il T'lan Imass accanto a loro. La creatura alzò la testa verso Lorn. «Il tumulo contiene una verità, Aggiunto», disse Onos T'oolan. Toc sentì la donna irrigidirsi. «E cioè?» «Siamo sul sentiero giusto», replicò il T'lan Imass. Qualcosa disse a Toc che il sentiero al quale la creatura si riferiva non aveva niente a che fare con la pista che si dirigeva a sud, verso Pale. Mentre Lorn lanciava il cavallo al galoppo, buttò un'ultima occhiata al tumulo dietro di sé; poi a Onos T'oolan. Nessuno dei due sembrava avesse intenzione di svelargli il segreto, ma la reazione di Lorn gli aveva fatto rizzare i capelli e il prurito intorno all'occhio cieco si svegliò prepotentemente. Toc imprecò silenziosamente e iniziò a grattarsi. «Qualcosa non va, Toc il Giovane?» chiese Lorn senza girarsi. L'uomo rifletté sulla risposta e infine disse: «Il prezzo dell'essere cieco, Aggiunto. Niente di più». *** Il capitano Paran andava nervosamente su e giù per la stanza. Era follia pura! Tutto ciò che sapeva era che veniva tenuto nascosto e le uniche risposte alle sue domande sarebbero potute venire da una maga confinata a letto a causa di qualche misteriosa febbre e da un orribile marionetta i cui occhi dipinti sembravano fissarlo con odio profondo. Era inoltre perseguitato da vaghi ricordi, la sensazione della pietra liscia e fredda che scivolava sotto le sue dita nel momento in cui la forza aveva abbandonato il suo corpo; e poi l'immagine indistinta di un cane massiccio - un Segugio? - nella stanza, un cane che sembrava foriero di morte. Aveva cercato di uccidere la donna e lui l'aveva fermato - non sapeva bene come, poiché i dettagli gli sfuggivano ancora. In lui cresceva il sospetto che l'animale non fosse morto e che sarebbe tornato. La marionetta ignorava la maggior parte delle sue domande e quando gli parlava era per dare voce a terribili minacce. Apparentemente, sebbene la maga fosse malata, la sua sola presenza - e la sua esistenza - era ciò che impediva a Hairlock di mettere in pratica le sue minacce. Dov'era Whiskeyjack? Il sergente se n'era andato senza di lui? Che cosa ne sarebbe stato del piano dell'Aggiunto Lorn?
Si fermò di colpo e posò lo sguardo sulla maga distesa a letto. Hairlock gli aveva spiegato che lei lo aveva nascosto quando era arrivato Tayschrenn, poiché il Grande Mago aveva percepito la presenza del cane. Paran non ricordava assolutamente nulla e comunque non poteva fare a meno di chiedersi come la donna avesse potuto fare una cosa simile dopo l'aggressione di cui era stata vittima. Hairlock l'aveva derisa affermando che la maga non si era nemmeno accorta di avere aperto il Canale e che aveva agito d'istinto. Paran aveva l'impressione che la marionetta avesse temuto quella rivelazione di potere. Hairlock sembrava desiderare la morte della donna, ma o non era in grado di infliggerla lui stesso o era troppo spaventato per provarci. La creatura aveva borbottato qualcosa a proposito di difese che la donna aveva evocato a protezione della propria persona. Eppure niente aveva impedito a Paran di soccorrerla quando la febbre aveva raggiunto il picco massimo. Dalla notte precedente sembrava stesse finalmente abbassandosi e ora Paran sentiva l'impazienza aumentare in lui. La maga dormiva ma se non si fosse svegliata presto, il giovane capitano avrebbe preso in mano la situazione - lasciando quel nascondiglio e andando alla ricerca di Toc il Giovane, sempre che uscendo dall'edificio fosse riuscito a evitare Tayschrenn o qualcuno dei suoi ufficiali. Lo sguardo di Paran rimase fisso sulla donna, la mente che correva. A un tratto trasalì. Gli occhi della donna erano aperti e lei lo stava scrutando. L'uomo fece un passo avanti ma si bloccò di colpo, pietrificato dalle prime parole della maga. «Ho sentito cadere la Moneta, Capitano.» Il volto di Paran sbiancò. Qualcosa risuonò nella sua mente. «Una moneta?» domandò, la voce ridotta a un sussurro. «Una moneta che gira?» Le voci degli dei, di uomini e donne defunte. Ululati di Segugi - la mia memoria è come una tappezzeria strappata. «Non gira più», rispose la donna. Si tirò su a sedere. «Che cosa ricordi?» «Poco», confessò il capitano, sorpreso lui stesso di trovarsi a dire la verità. «La marionetta non mi ha detto nemmeno il tuo nome», confessò. «Tattersail. Sono stata, eh, nella compagnia di Whiskeyjack e nel suo squadrone.» Un velo di cautela sembrò calare sul suo sguardo addormentato. «Dovevo prendermi cura di te fino a quando non ti fossi ripreso.» «Immagino sia quello che hai fatto», replicò Paran. «Io ti ho restituito il favore, e così siamo pari, Maga.» «Così pare. E adesso?» Paran sgranò gli occhi. «Non lo sai?»
Tattersail si strinse nelle spalle. «Ma è ridicolo», sbottò Paran. «Io non so niente di quello che sta accadendo qui. Mi sono svegliato in compagnia di una strega mezza morta e di una marionetta parlante, senza traccia del mio nuovo comando. Sono già partiti per Darujhistan?» «Non posso darti molte risposte», mormorò Tattersail. «Quello che posso dirti è che il sergente ti voleva vivo, perché ha bisogno di sapere chi ha cercato di ucciderti. A dir la verità, lo vorremmo sapere tutti.» Tacque, in attesa. Paran osservò il volto rotondo, mortalmente pallido della donna. C'era qualcosa in lei che sembrava disprezzare la sua materialità, anzi sopraffarla, al punto che il capitano si trovò a rispondere con parole che lo sorpresero. Quello era un volto amico e non ricordava più quando era stata l'ultima volta che ne aveva visto uno. Provò un improvviso senso di disorientamento e solo Tattersail sembrava poterlo aiutare a mantenere l'equilibrio. A un tratto ebbe la sensazione di scivolare lungo una spirale, al cui centro c'era la maga. Scivolare? Forse saliva, non scendeva. Non ne era certo e l'incertezza lo rese guardingo. «Non ricordo niente», disse. E non era proprio una bugia, anche se suonava come tale con quegli occhi puntati su di sé. «Penso», aggiunse nonostante i suoi timori, «fossero in due. Ricordo una conversazione, anche se ero morto. Penso». «Ma hai sentito una moneta girare», affermò Tattersail. «Sì», rispose Paran, sbigottito. E poi... sono andato in un posto - una luce gialla, infernale, un coro di lamenti, la testa di un morto... Tattersail annuì fra sé e sé quasi a conferma di un sospetto. «È intervenuto un dio, Capitano Paran. E ti ha restituito la vita. Forse penserai che sia stato per il tuo bene, ma dubito sia stato un atto di altruismo. Mi segui?» «Mi stanno usando», affermò Paran in tono piatto. La donna sollevò un sopracciglio. «E non ti infastidisce?» Paran si strinse nelle spalle e le voltò la schiena. «Non è una novità», mormorò. «Capisco», commentò Tattersail. «Allora Whiskeyjack aveva ragione. Non sei semplicemente un nuovo capitano, sei molto di più.» «Quelli sono fatti miei», sbottò Paran, evitando lo sguardo della donna. Infine la guardò con espressione dura. «E qual è il tuo ruolo in questo gioco? Ti sei presa cura di me. Perché? Stai servendo il tuo dio?»
Tattersail trattenne a stento una risata. «Non proprio. E comunque non ho fatto molto per te. È stato Oponn a occuparsene.» Paran restò di sasso. «Oponn?» I Gemelli, sorella e fratello, i Gemelli della Fortuna. Lui spinge, lei tira. Sono stati nei miei sogni? Voci, accenni alla mia... spada. Restò immobile un istante, poi si avvicinò al cassettone. Su di esso giaceva la sua spada. Posò una mano sull'impugnatura. «Ho questa spada da tre anni ma l'ho usata per la prima volta qualche sera fa contro il cane.» «Ti ricordi del cane?» Qualcosa nella voce di Tattersail lo fece girare. Negli occhi della donna vide la paura. La maga non fece niente per nasconderla. Paran annuì. «Eppure ho dato il nome all'arma il giorno in cui l'ho comprata.» «Che nome?» Il sorriso di Paran era spettrale. «Fortuna.» «Il disegno ha impiegato tempo per trovare la propria trama», mormorò Tattersail, chiudendo gli occhi e sospirando. «Sebbene io sospetti che nemmeno Oponn potesse immaginare che il primo sangue assaporato dalla tua lama potesse essere quello di un Segugio dell'Ombra.» Paran chiuse a sua volta gli occhi, sospirando. «Il cane era un Segugio.» Lei lo guardò e annuì. «Hai conosciuto Hairlock?» «Sì.» «Guardati da lui», lo ammonì la maga. «È stato lui a liberare un Canale del Caos e a provocare la mia malattia. Se i Canali sono effettivamente strutturati, allora quello di Hairlock è diametralmente opposto al mio. È pazzo, Capitano, e ha giurato di ucciderti.» Paran allacciò il cinturone con la spada intorno alla vita. «Qual è il suo ruolo?» «Non ne sono sicura», ammise Tattersail. Alle orecchie di Paran quelle parole suonarono come una bugia, ma il giovane non fece commenti. «È sempre venuto a controllare i tuoi progressi», spiegò. «Ma da due notti non si fa vivo.» «Per quanti giorni sono rimasta priva di conoscenza?» «Sei, penso. Non so nemmeno io con certezza quanto tempo è passato.» Si diresse verso la porta. «Tutto quello che so è che non posso restare qui per sempre.» «Aspetta!» Paran sorrise. «Molto bene.» Si voltò verso di lei. «Spiegami perché non dovrei andarmene.»
Dopo un attimo di esitazione, la maga parlò. «Ho ancora bisogno di te, qui», confessò. «Perché?» «Non è di me che Hairlock ha paura», spiegò, trovando a fatica le parole. «Ma di te, della tua spada. Ha visto che cosa hai fatto al Segugio.» «Dannazione», imprecò Paran. Sebbene quella donna fosse per lui una perfetta sconosciuta, la sua confessione lo aveva colpito. Cercò di combattere la compassione che sentiva crescere dentro di sé. Si disse che la sua missione veniva al primo posto, che aveva già pagato il suo debito nei confronti della donna, se mai debito c'era stato, che lei non gli aveva sicuramente spiegato tutti i motivi per cui lui doveva continuare a nascondersi, il che significava che non si fidava di lui - si disse tutto ciò, ma non fu abbastanza. «Se te ne vai», aggiunse la maga, «Hairlock mi ucciderà». «E le difese che ti circondano?» domandò il capitano in tono affranto. «Hairlock ha detto che sei protetta.» Un sorriso ironico apparve sul volto di Tattersail. «Pensi che se ne verrebbe fuori a dirti quanto sei pericoloso? Difese?» Scoppiò a ridere. «Ho appena la forza per stare seduta. Se cercassi di aprire il mio Canale in queste condizioni, il potere mi consumerebbe, mi ridurrebbe in cenere. Hairlock vuole tenerti all'oscuro - in ogni senso. La marionetta ha mentito.» Anche quelle parole suonarono alle orecchie di Paran come una mezza verità. Tuttavia, spiegavano l'odio di Hairlock nei suoi confronti e la paura della marionetta. L'inganno maggiore sarebbe giunto da Hairlock e non da Tattersail, o così credeva, anche se aveva ben poco a sostegno delle sue convinzioni - solo... per lo meno lei era umana. Sospirò. «Prima o poi», disse, slacciando il cinturone con la spada e appoggiandolo nuovamente sul cassettone, «tu e io dovremo smetterla con questi giochetti ingannevoli. Oponn o meno, abbiamo un nemico in comune». Tattersail sospirò. «Grazie. Capitano Paran?» Lui la fissò guardingo. «Cosa?» La maga sorrise. «Sono contenta di averti incontrato.» L'uomo si fece cupo. Ecco che lei ricominciava. *** «Sembra un esercito infelice», commentò Lorn mentre aspettavano fuori dalla porta settentrionale di Pale. Una delle guardie era entrata in città alla
ricerca di un altro cavallo, mentre gli altri tre bisbigliavano a qualche passo di distanza. Toc il Giovane era smontato di sella. Si avvicinò alla giumenta e disse: «Lo è, Aggiunto. Molto infelice. Oltre allo scioglimento della Seconda e della Sesta Armata c'è stato un avvicendamento nel comando. Nessuno è dov'era prima, a cominciare dal soldato semplice. Gli squadroni sono stati tutti smembrati. E adesso circola la voce che gli Arsori di Ponti verranno sciolti». Lanciò un'occhiata ai tre militari e colse lo sguardo diffidente con cui fissavano lui e l'Aggiunto. «La gente non è contenta», spiegò in tono pacato. Lorn si appoggiò indietro, sulla sella. La spalla pulsava dolorosamente e la donna era felice che il viaggio fosse finito - almeno per il momento. Da quando avevano lasciato il tumulo non avevano più visto il T'lan Imass, sebbene spesso lei ne avesse avvertito la presenza, nel vento polveroso, sotto la superficie screpolata della pianura. Mentre era in compagnia di Toc il Giovane, aveva percepito la rabbia inquieta che serpeggiava fra le forze Malazan su quel continente. A Pale, diecimila soldati erano sull'orlo della rivolta, in attesa soltanto di una parola del Gran Pugno Dujek. E l'aperto contrordine del Grande Mago Tayschrenn agli ufficiali di Dujek non aveva certo migliorato la situazione. Eppure, ciò che più preoccupava l'Aggiunto era quella strana storia di un Segugio dell'Ombra che aveva attaccato l'ultimo mago del Secondo Squadrone - c'era sotto un mistero e Lorn sospettava fosse di vitale importanza scoprirlo. Tutto il resto poteva essere risolto, a patto che fosse lei a occuparsene. L'Aggiunto era impaziente di incontrare Tayschrenn e la maga Tattersail - un nome che le era familiare, che sembrava ancorato all'infanzia. Intorno a simili vaghi indizi frusciava un manto di paura, ma era decisa ad affrontare anche quella donna quando fosse giunto il momento. La porta si spalancò e dietro di essa apparve il militare con un cavallo, e non solo. Toc il Giovane scattò sull'attenti con una tale energia da indurre Lorn a interrogarsi sulla fedeltà dell'uomo. L'Aggiunto smontò lentamente, quindi annuì al Gran Pugno Dujek. Il militare sembrava essere invecchiato di dodici anni dall'ultima volta che lei lo aveva incontrato, tredici mesi prima a Genabaris. Un sorriso salì alle labbra della donna mentre la scena prendeva forma nella sua mente: il Gran Pugno, un uomo stanco, provato, con un braccio solo, l'Aggiunto dell'Imperatrice, il braccio che reggeva la spada legato al collo, e Toc il
Giovane, l'ultimo rappresentante dell'Artiglio a Genabackis, con un solo occhio e metà viso ustionato dal fuoco. Eccoli lì, i rappresentanti di tre dei quattro poteri dell'Impero sul continente, e tutti avevano un aspetto orribile. Interpretando erroneamente il sorriso della donna, Dujek s'illuminò. «Sono anch'io felice di vedervi, Aggiunto. Stavo controllando i rifornimenti quando mi hanno informato del vostro arrivo.» L'espressione del viso divenne grave quando osservò meglio la donna. «Vi troverò un guaritore Denul, Aggiunto.» «La magia non funziona su di me, Gran Pugno. Da molto tempo ormai. Un comune guaritore basterà.» Lo sguardo si concentrò su Dujek. «Purché non debba sguainare la spada tra le mura di Pale.» «Non garantisco nulla, Aggiunto», affermò Dujek in tono leggero. «Venite, camminiamo.» Lorn si voltò verso Toc il Giovane. «Grazie per avermi scortato, soldato.» Dujek scoppiò a ridere, gli occhi su Toc. «Non è necessario, Aggiunto. So chi, e che cosa, è Toc il Giovane - come d'altronde lo sanno tutti. Se è un buon Artiglio quanto è un buon soldato, farai bene a tenerlo in vita.» «Sarebbe a dire?» Dujek la invitò a camminare. «Sarebbe a dire che la sua reputazione di soldato del Secondo è l'unica cosa che lo salva dal ritrovarsi un coltello nella gola. Sarebbe a dire, caccialo da Pale.» L'Aggiunto guardò Toc. «Ci vediamo più tardi,» disse. Raggiunse Dujek, che era già passato sotto la grande porta ad arco, e insieme a lui entrò in città. I militari affollavano le vie dirigendo i carri di mercanti e la moltitudine disordinata di cittadini. Molti edifici portavano ancora chiari segni della pioggia di morte abbattutasi sulla città, ma gli operai erano già al lavoro sotto la direzione dei militari. «I nobili stanno per essere selezionati», spiegò Dujek camminandole affianco. «Tayschrenn vuole andare fino in fondo e vuole che tutto avvenga pubblicamente.» «Così vuole la politica dell'Impero», replicò Lorn in tono gelido. «Lo sai perfettamente, Gran Pugno.» Dujek la guardò. «Impiccare nove nobili su dieci, Aggiunto? Bambini inclusi?» Lorn lo fissò. «Mi sembra eccessivo.» Dujek restò in silenzio, guidandola lungo la via principale e quindi sulla
collina dove si trovava il quartier generale dell'Impero. Mentre passavano, molti volti si girarono a osservarli. A quanto pareva l'identità di Dujek era conosciuta fra i cittadini di Pale. Lorn cercò di percepire l'atmosfera creata dalla presenza dell'uomo, ma restò indecisa fra la paura e il rispetto, o entrambi. «La mia missione», riprese Lorn, mentre si avvicinavano a un edificio di pietra a tre piani, il cui ingresso era sbarrato da una dozzina di guardie, «mi porterà presto fuori città...». «Non voglio dettagli, Aggiunto», la interruppe Dujek. «Fate quello che dovete fare, basta che mi stiate alla larga.» Il tono era pacato, quasi piacevole, ma Lorn sentì i muscoli irrigidirsi. Quell'uomo era sottoposto a pressione e dietro di lui c'era Tayschrenn. Che cosa stava combinando il Grande Mago? L'intera situazione puzzava d'incompetenza. «Come stavo dicendo», continuò Lorn, «non mi fermerò qui a lungo. Tuttavia, per il tempo che sarò qui», e il tono della voce divenne più duro, «farò capire al Grande Mago che qualsiasi sua interferenza nella gestione della città non sarà tollerata. Se hai bisogno di sostegno, ce l'hai, Dujek». Si fermarono davanti all'ingresso dell'edificio e il militare fissò intensamente l'Aggiunto, come se ne stesse valutando la sincerità. Ma quando parlò, le sue parole sorpresero la donna. «Posso risolvere da solo i miei problemi, Aggiunto. Fate quello che volete, ma sia chiaro che io non vi chiedo niente.» «Allora permetterai lo sterminio indiscriminato dei nobili?» Un'espressione caparbia apparve sul volto dell'uomo. «Le tattiche di combattimento possono essere applicate in qualsiasi situazione, Aggiunto. E il Grande Mago non è un tattico.» Si girò e la guidò sulle scale. Due guardie aprirono le porte, nuove e rifinite in bronzo. Il Gran Pugno e l'Aggiunto entrarono. Si avviarono lungo un ampio corridoio sui cui lati si apriva una porta ogni dodici passi circa. Militari facevano la guardia davanti a ognuna di esse, le mani sulle spade. A Lorn fu subito chiaro che l'incidente con il Segugio aveva portato la cautela a un livello assurdo. Poi, un dubbio s'insinuò nella sua mente. «Gran Pugno, ci sono stati attentati alla tua vita?» Lui la guardò con un sorrisino sarcastico. «Quattro nell'ultima settimana, Aggiunto. Ci si abitua. Questi soldati si sono offerti volontari - non mi ascoltano nemmeno più. L'ultimo sicario è stato ridotto in pezzetti così piccoli che non sono nemmeno riuscito a capire se fosse un uomo o una
donna.» «Nelle tue legioni ci sono molti soldati originari di Sette Città, Gran Pugno?» «Già. Quando vogliono, fedeli a un errore.» Fedeli a che cosa, si chiese Lorn, e a chi? Di quei tempi, le reclute di Sette Città venivano inviate altrove. L'Imperatrice non voleva che i soldati di Dujek si rendessero conto che il loro paese era sull'orlo dell'aperta ribellione. Una simile notizia avrebbe potuto surriscaldare gli animi lì, a Genabackis, e poi fare scattare la sommossa a Sette Città. Sia Lorn che l'Imperatrice erano perfettamente consapevoli di quanto la situazione fosse difficile e nel riparare i danni dovevano procedere con estrema circospezione. E ora era chiaro che Tayschrenn era diventato un grave problema. Comprese di avere bisogno del sostegno di Dujek più di quanto lui avesse bisogno del suo. Giunsero alla fine del corridoio e si fermarono davanti a una robusta porta a battenti. I soldati su entrambi i lati scattarono sull'attenti, quindi aprirono l'uscio. Entrarono in una grande stanza dominata da un tavolo in legno massiccio, coperto da mappe, rotoli, penne e calamai. «Tayschrenn è stato informato del tuo arrivo, ma verrà trattenuto in qualche modo», spiegò Dujek sedendosi sul bordo del tavolo. «Se hai delle domande sui recenti eventi di Pale, falle adesso.» Lorn sapeva che lui le stava offrendo l'opportunità di sentire delle risposte diverse da quelle di Tayschrenn. Quale delle due versioni accettare come verità dipendeva da lei. Lorn iniziò ad apprezzare l'affermazione di Dujek a proposito delle tattiche belliche. Si avvicinò a una sedia e si sedette sui morbidi cuscini. «Molto bene, Gran Pugno. Cominciamo dalle piccole cose. Avete avuto difficoltà con i Moranth?» Dujek si fece torvo. «È strano che tu lo chieda. Stanno diventando piuttosto arroganti riguardo ad alcune questioni. È stata dura convincere le legioni Dorate - la loro élite - a combattere contro Caladan Brood. Ho avuto la sensazione che lo considerino una figura troppo onorabile per essere trattato da nemico. L'alleanza ha corso seri rischi, ma alla fine sono riuscito a convincerli. Presto verranno raggiunti dai Neri.» Lorn annuì. «Abbiamo avuto problemi simili anche con i Verdi e i Blu a Genabaris», affermò, «e questo spiega la mia venuta. L'Imperatrice vuole sfruttare al massimo l'alleanza, poiché non sappiamo quanto durerà ancora». «Non abbiamo molta scelta», commentò Dujek. «Quante legioni avrò
con lo sbarco di primavera?» Lorn esitò un istante, poi disse: «Due. E un reggimento di lancieri Wickan. Questi ultimi e l'Undicesima Legione sbarcheranno a Nathilog. La Nona sbarcherà a Nisst e si unirà alle forze coscritte - l'Imperatrice è convinta che questi ultimi rinforzi saranno sufficienti per piegare la Guardia Cremisi a Fox Pass, aprendo così un varco sul fianco di Brood». «Allora l'Imperatrice è una pazza», replicò Dujek in tono grave. «I coscritti sono praticamente inutili. L'anno prossimo a quest'epoca la Guardia Cremisi avrà liberato Nisst, Treet, Porule, Garalt e...» «Conosco l'elenco.» Lo interruppe bruscamente Lorn. «Il prossimo anno riceverai altre due regioni, Gran Pugno. È tutto.» Dujek rifletté un istante, lo sguardo sulla mappa spiegata sul tavolo. Lorn attese. Sapeva che l'uomo stava riordinando, rivalutando i propri piani per la campagna della stagione successiva e che era immerso in un mondo di equipaggiamenti e divisioni. Infine, il militare si schiarì la gola. «Aggiunto, è possibile invertire gli sbarchi? L'Undicesima e i lancieri Wickan dovrebbero sbarcare sulla costa orientale, a sud di Apple. La Nona sulla costa occidentale, verso Tulips.» Lorn si avvicinò al tavolo e studiò la mappa. Tulips? Perché là? Non aveva senso. «L'Imperatrice sarebbe curiosa di conoscere i motivi di questi cambiamenti, Gran Pugno.» «Il che significa "forse".» Dujek si strofinò il mento, infine annuì. «Va bene, Aggiunto. Primo, i coscritti non apriranno un varco a Fox Pass. Quando arriveranno i nostri rinforzi, la Guardia Cremisi sarà nelle terre settentrionali. Buona parte di quella zona è terra coltivata, pascoli. Mentre ci ritireremo, riportando i coscritti verso Nisst, distruggeremo i campi. Niente raccolti, niente bestiame. K'azz dovrà portare con sé i rifornimenti di cui avrà bisogno. Ora, Aggiunto, qualsiasi esercito all'inseguimento di un nemico in marcia, è obbligato a lasciare indietro il carro con i rifornimenti, ad allargarsi sulle fasce spinto dalla fretta di raggiungere il nemico e infliggere il colpo mortale. Ed è a quel punto che entreranno in gioco i lancieri Wickan.» Lorn sapeva che i Wickan erano predoni nati. In quella campagna sarebbero stati sfuggenti, colpendo fulmineamente e con conseguenze letali. «E l'Undicesima? Dove sarà?» «Un terzo sarà di stanza a Nisst. Il resto sarà in marcia verso Fox Pass.» «Perché Caladan Brood resta a sud della Foresta del Cane Nero? Non ha senso, Gran Pugno.»
«Da Tulips, i Moranth e il loro Quorl organizzeranno un trasporto massiccio.» Strinse gli occhi mentre studiava la mappa. «Quando avrò spostato le mie forze da qui e le avrò sistemate a sud di Brood, voglio che la Nona si trovi a sud della Palude del Cane Nero. Un assalto concertato dei Moranth Dorati e di quelli Neri dovrebbe spingere Caladan fra le nostre braccia, mentre il suo alleato, la Guardia Cremisi, sarà bloccata dall'altra parte di Fox Pass.» «Intendi spostare un'intera legione per via aerea?» «L'Imperatrice vuole vincere la guerra in questa vita o no?» Dujek si allontanò dal tavolo e iniziò a passeggiare nervosamente avanti e indietro. «Ma attenzione», disse, come se i dubbi si fossero improvvisamente insinuati nella sua mente, «la mia potrebbe essere pura teoria. Se fossi Brood io...» La voce gli venne meno e puntò lo sguardo sull'Aggiunto. «Gli ordini saranno invertiti?» Lorn lo fissò negli occhi. Qualcosa le diceva che il Gran Pugno aveva appena fatto un salto intuitivo che aveva a che fare con Caladan Brood e che l'uomo non avrebbe mai condiviso con lei le sue intuizioni. L'Aggiunto scrutò ancora una volta la mappa, cercando di vedere ciò che Dujek aveva visto. Ma era inutile, non era una tattica. Se cercare di indovinare i pensieri di Dujek era difficile, cercare di indovinare quelli di Caladan Brood era impossibile. «Il tuo piano, per quanto temerario, viene ufficialmente accettato in nome dell'Imperatrice. Le tue richieste verranno soddisfatte.» Dujek annuì, sollevato. «Una cosa, Gran Pugno, prima che arrivi Tayschrenn. C'è stato un Segugio dell'Ombra qui?» «Sì. Io non ero presente, ma ho visto il disastro che ha combinato. Se non fosse stato per Tattersail le cose sarebbero andate anche peggio.» Lorn scorse un lampo d'orrore negli occhi di Dujek e alla mente le tornò l'immagine della strada costiera di Itko Kan, due anni prima. «Ho già visto la devastazione provocata da un Segugio», mormorò, incontrando lo sguardo dell'uomo. In quel momento condivisero qualcosa di profondo, poi Dujek guardò altrove. «Questa Tattersail», riprese Lorn per nascondere il rammarico, «deve essere una maga molto abile». «È l'unico Mago del Quadro a essere sopravvissuto all'assalto di Tayschrenn alla Progenie della Luna.» «Davvero?» Per Lorn quella rivelazione fu ancora più significativa. Si chiese se Dujek sospettasse qualcosa, ma le successive parole dell'uomo la
tranquillizzarono. «Lei l'ha definita fortuna e forse ha ragione.» «È una Maga del Quadro da molto tempo?» domandò Lorn. «Da quando io ho il comando. Saranno otto o nove anni.» La familiarità di quel nome assalì nuovamente, e dolorosamente, l'Aggiunto. La donna dovette tornare a sedersi e Dujek le si avvicinò, sul viso un'espressione di sincera preoccupazione. «Le vostre ferite devono essere medicate», disse in tono brusco. «Non avrei dovuto aspettare.» «No, no, sto bene. È solo stanchezza.» L'uomo la fissò con sguardo interrogativo. «Volete un bicchiere di vino, Aggiunto?» Lorn annuì. Tattersail. Era possibile? Presto lo avrebbe scoperto. «Nove anni», mormorò, «il Topo». «Scusate?» Sollevò la testa e si trovò Dujek innanzi a sé. Lui le offrì un calice di vino. «Niente», rispose accettando la bevanda. «Grazie.» Quando la porta si aprì, entrambi si voltarono. Tayschrenn entrò nella stanza come una furia, il volto scuro. «Maledetto!» esclamò l'uomo rivolgendosi a Dujek. «Se tutto questo è opera tua lo scoprirò, stanne pur certo!» Il Gran Pugno inarcò un sopracciglio. «Tutto questo che cosa, Grande Mago?» domandò con voce gelida. «Sono appena stato al Palazzo del Registro. Un incendio? Quel posto sembra un forno.» Lorn si alzò e si frappose fra i due uomini. «Grande Mago Tayschrenn», mormorò in tono pacato, tagliente, «forse puoi spiegarmi perché un incendio in un palazzo di burocrati ti sconvolga a tal punto». Tayschrenn la guardò, sorpreso. «Vi chiedo scusa, Aggiunto», disse a denti stretti, «ma all'interno del Palazzo del Registro si trovavano gli elenchi degli abitanti della città». Gli occhi scuri del mago saettarono sul comandante. «Dove erano registrati i nomi della nobiltà di Pale.» «Che sfortuna», commentò il Gran Pugno. «Hai avviato un'indagine? I servigi dei miei uomini sono, naturalmente, a tua disposizione.» «Non ce n'è bisogno, Gran Pugno», ribatté il mago in tono ironico. «Perché sovraccaricare di lavoro le tue spie?» Tayschrenn tacque, quindi indietreggiò e s'inchinò a Lorn. «I miei omaggi, Aggiunto. Chiedo scusa per questa riunione alquanto sgradevole...»
«Conserva per dopo le tue scuse», lo interruppe Lorn. Si rivolse a Dujek. «Grazie per il vino e la conversazione», disse, notando Tayschrenn irrigidirsi nell'udire quelle parole. «Questa sera ci rivedremo a cena, non è vero?» Dujek annuì. «Naturalmente, Aggiunto.» «Potresti essere così gentile da invitare anche Tattersail?» Il Grande Mago la fulminò con lo sguardo mentre negli occhi di Dujek lei vide nascere un nuovo rispetto, quasi un riconoscimento delle sue abilità in quel genere di tattica. Tayschrenn intervenne. «Aggiunto, la maga è stata malata in seguito all'incontro con il Segugio dell'Ombra», rivolse un sorriso a Dujek, «che sono sicuro vi è stato raccontato dal Gran Pugno». Non bene come avrei voluto, pensò Lorn. «Mi interessa l'opinione di un mago su quell'avvenimento, Grande Mago», spiegò. «Che avrete fra breve.» Dujek s'inchinò. «Mi informerò sulla salute di Tattersail, Aggiunto. Se volete scusarmi, andrò subito da lei.» Salutò Tayschrenn con un brusco cenno del capo. Il mago guardò l'anziano con un braccio solo lasciare la stanza e aspettò che la porta si fosse chiusa alle sue spalle. «Aggiunto, questa situazione è...» «Assurda», terminò Lorn in tono concitato. «Dannazione, Tayschrenn, dov'è il tuo buon senso? Ti sei accaparrato il bastardo più astuto che le forze dell'Impero abbiano mai avuto il privilegio di possedere e vi state mangiando vivi.» Girò intorno al tavolo e si riempì il bicchiere. «E te lo meriti.» «Aggiunto...» Lei lo guardò. «No. Ascoltami, Tayschrenn. Parlo in nome dell'Imperatrice. Laseen ha approvato con riluttanza che fossi tu a comandare l'assalto alla Progenie della Luna - ma se avesse saputo fino a che punto manchi di astuzia, ti avrebbe negato il permesso. Pensi che siano tutti degli stupidi?» «Dujek è solo un uomo», ribatté Tayschrenn. Lorn buttò giù una lunga sorsata di vino, poi posò il calice e si sfregò la fronte. «Dujek non è il nemico», disse in tono stanco. «Dujek non è mai stato il nemico.» Il mago le si avvicinò. «Era il braccio destro dell'Imperatore, Aggiunto.» «Sfidare la lealtà di quell'uomo all'Impero è offensivo ed è proprio quell'insulto che potrebbe portarlo a voltarci le spalle. Dujek non è un solo uo-
mo. In questo momento è diecimila uomini e nel giro di un anno sarà venticinquemila uomini. Non si sottomette quando tu fai pressione, vero? No, perché non può. Ha diecimila soldati dietro di sé - e, credimi, quando saranno così arrabbiati da fare a loro volta pressione, non sarai capace di respingerli. Per quanto riguarda Dujek, finirà per essere trascinato dalla corrente.» «Allora è un traditore.» «No. È un uomo a cui sta a cuore la vita dei suoi soldati. È il migliore dell'Impero. Se sarà obbligato a voltarci le spalle, allora saremo noi i traditori, Tayschrenn. Sono stata chiara?» Il volto del Grande Mago era attraversato da un profondo solco. «Sì, Aggiunto», rispose in tono sommesso. «Siete stata chiara.» La guardò. «Il compito che l'Imperatrice mi ha affidato grava pesantemente sulle mie spalle, Aggiunto. Non è per questo che sono tagliato. Sarebbe un bene se mi esoneraste.» Lorn prese in seria considerazione quell'eventualità. Per quella che era la loro natura, i maghi non suscitavano mai lealtà. Paura, sì, e il rispetto nato dalla paura, ma se c'era una cosa che un mago non riusciva a comprendere o ad affrontare era la lealtà. Eppure, tanto tempo fa, c'era stato un mago che aveva preteso fedeltà: l'Imperatore. «Grande Mago», replicò, «siamo tutti d'accordo sul fatto che la vecchia guardia debba scomparire. Tutti coloro che stavano con l'Imperatore e che ancora si aggrappano al suo ricordo agiranno sempre contro di noi, sia consapevolmente sia inconsapevolmente. Dujek rappresenta l'eccezione e come lui ce ne sono pochi altri. Quelli non dobbiamo perderli. Gli altri devono morire. Ma non devono capirlo. Se agiamo in modo troppo scoperto potremmo ritrovarci a dover affrontare un'insurrezione di proporzioni tali da mettere a rischio l'esistenza dell'Impero». «Con l'eccezione di Dujek e Tattersail», spiegò Tayschrenn, «tutti gli altri li abbiamo eliminati. Per quanto riguarda Whiskeyjack e il suo squadrone, è tutto vostro, Aggiunto». «Con un po' di fortuna», commentò Lorn. A un tratto, vide l'uomo trasalire. «Che cosa c'è?» «Ogni notte leggo il mio Mazzo dei Draghi», disse. «E sono sicuro che Oponn è entrato nel mondo delle faccende mortali. La lettura di Tattersail ha confermato i miei sospetti.» Lorn lo trapassò con lo sguardo. «È un'Adepta?» «Più di me», ammise l'altro.
«Che cosa potete dirmi del coinvolgimento di Oponn?» «Darujhistan», replicò il mago. Lorn chiuse gli occhi. «Temevo che lo diceste. Abbiamo bisogno di Darujhistan - assolutamente. Soltanto con la sua ricchezza riusciremo a spezzare la schiena di questo continente.» «Lo so, Aggiunto. Ma la situazione è peggiore di quanto pensiate. Credo anche che Whiskeyjack e Tattersail siano in qualche modo in combutta.» «Notizie del capitano Paran?» «Niente. Qualcuno sta nascondendo lui, o il suo corpo. Sono incline a credere che sia morto, Aggiunto, ma la sua anima deve ancora attraversare la Porta di Hood e solo un mago può impedirlo.» «Tattersail?» Il Grande Mago si strinse nelle spalle. «Forse. Vorrei saperne di più sul ruolo del capitano in tutto questo.» Lorn esitò, quindi disse: «Era impegnato in una lunga e difficile ricerca». Tayschrenn si fece cupo. «Forse ha trovato quello che cercava.» Lorn lo fissò. «Chissà. Dimmi, Tattersail è molto brava?» «Sufficientemente brava per essere un Grande Mago», rispose Tayschrenn. «Sufficientemente brava da sopravvivere all'attacco di un Segugio e da cacciarlo via, sebbene io non pensassi fosse possibile. Io stesso avrei avuto difficoltà in quella situazione.» «Forse è stata aiutata», ipotizzò Lorn. «Non ci avevo pensato.» «Pensaci adesso», ribatté Lorn. «Ma prima che tu lo faccia, l'Imperatrice desidera che tu prosegua nei tuoi sforzi, sebbene non contro Dujek. Devi restare qui, pronto a intervenire nel caso la missione a Darujhistan fallisse. Non ti immischiare nella gestione dell'occupazione di Pale. Inoltre, dovrai fornire a Dujek tutti i dettagli della comparsa di Oponn. Se un dio è entrato in gioco, il Gran Pugno ha il diritto di saperlo e di agire di conseguenza modificando i suoi piani.» «Come è possibile pianificare qualcosa se Oponn partecipa al gioco?» «Lascia che ci pensi Dujek.» Lorn osservò il volto dell'uomo. «Le mie istruzioni ti creano difficoltà?» Tayschrenn sorrise. «A essere sincero, Aggiunto, mi sento molto sollevato.» Lorn annuì. «Bene. Ora ho bisogno di un guaritore e di una stanza.» «Naturalmente.» Tayschrenn si avviò verso la porta, poi si bloccò e si
girò. «Aggiunto, sono felice che siate qui.» «Grazie, Grande Mago.» Quando se ne fu andato, Lorn si lasciò andare sulla sedia e la sua mente tornò indietro di nove anni, alle immagini e ai suoni di bambina; a una notte, una notte nel Topo, quando l'incubo più terribile che una ragazzina potesse immaginare era diventato realtà. Ricordava sangue, sangue ovunque e i volti attoniti della madre, del padre e del fratello maggiore - volti increduli nella realizzazione di essere stati risparmiati, nella consapevolezza che quel sangue non era il loro. Mentre i ricordi affollavano ancora una volta la sua mente, un nome cavalcò i venti, frusciando nell'etere. Le labbra di Lorn si schiusero e la donna mormorò: «Tattersail». *** La maga aveva trovato la forza di lasciare il letto. Ora era alla finestra, una mano appoggiata al davanzale e lo sguardo sulla strada sottostante affollata di carri militari. Il saccheggio che il quartier generale definiva «rifornimento» era in pieno corso. Lo sfratto dei nobili dalle loro proprietà per permettere l'insediamento dei corpi ufficiali, di cui lei faceva parte, era terminato giorni addietro, mentre la riparazione delle mura più esterne e delle porte distrutte continuava di buon passo. Era felice di essersi persa il fiume di cadaveri che doveva avere riempito le vie della città durante la fase iniziale di pulizia - carro dopo carro che avanzava cigolando sotto il peso di corpi senza vita, carne umana bruciata dal fuoco e squarciata dalla spada, rosicchiata dai topi e beccata dai corvi uomini, donne e bambini. Era uno spettacolo che aveva già visto e non desiderava rivedere. Spavento e terrore erano ormai penetrati e scivolati via. La vita sembrava stesse riprendendo il suo normale corso, mentre contadini e mercanti emergevano dai loro nascondigli per soddisfare le esigenze di occupanti e occupati. I guaritori Malazan avevano invaso la città, bloccando sul nascere il pericolo di epidemie e curando i banali disturbi. A nessun cittadino sarebbero state negate le cure di cui aveva bisogno e i sentimenti avrebbero iniziato il lungo e programmato percorso. Tattersail sapeva che, presto, avrebbe avuto inizio l'eliminazione della nobiltà, un flagello che avrebbe portato alla forca gli avidi nobili. E le esecuzioni sarebbero state pubbliche. Un metodo già sperimentato che favoriva il reclutamento sull'onda della vendetta pura - con ogni mano corrotta
da una giusta allegria. Una spada in mani simili avrebbe completato la congiura e avrebbe trascinato tutti i partecipanti nella caccia alla prossima vittima della causa - la causa dell'Impero. Aveva visto quel sistema al lavoro in centinaia di città. Non importava quanto generosi fossero i governanti natii o la nobiltà, la parola Impero, gravata dal potere, trasformava il passato in una tirannia di demoni. Un triste commento sull'umanità, una lezione amara resa ripugnante dal ruolo giocato da lei stessa. Nella sua mente tornarono i volti degli Arsori di Ponti, uno strano contrappunto al cinismo con il quale lei osservava il mondo intorno a sé. Whiskeyjack, un uomo che andava avanti spinto dalle proprie convinzioni, dalla propria fede. Un uomo che guidava un gruppo sparuto delle uniche persone che contavano ancora. Un uomo che teneva duro e respingeva. Le piaceva pensare - no, voleva credere - che lui alla fine avrebbe vinto, che avrebbe vissuto per vedere quel mondo strappato all'Impero. Ben lo Svelto e Kalam, impegnati nel tentativo di alleggerire dalle responsabilità le spalle del loro sergente. Era l'unico modo in cui potevano dimostrare il loro affetto per quell'uomo, sebbene non l'avessero mai messo in quei termini. Negli altri, con l'eccezione di Dispiacere, vedeva lo stesso impegno, anche se in loro c'era una disperazione che lei trovava commovente, un desiderio quasi infantile di alleviare Whiskeyjack di ciò che la loro bieca posizione aveva gettato su di lui. Tattersail reagiva a tutto ciò in modo più profondo ed emotivo di quanto pensasse fosse possibile, con un cuore che era convinta fosse arso da tempo, le ceneri sparse in un muto lamento - un cuore che nessun mago poteva permettersi. Tattersail riconobbe il pericolo, che tuttavia rendeva la vita più affascinante. Dispiacere era tutta un'altra faccenda e si scoprì a desiderare di evitare di pensare alla giovane donna. E poi restava Paran. Che cosa doveva farne del capitano? In quel momento l'uomo era nella stanza, seduto sul letto dietro di lei impegnato a ingrassare la spada, Fortuna. Da quando lei si era svegliata, quattro giorni prima, non avevano parlato molto. La diffidenza era ancora troppa. Forse era quel mistero, quell'incertezza che li faceva sentire tanto attratti l'uno all'altra. E l'attrazione era palese: anche adesso, che gli voltava le spalle, avvertiva un forte legame tra di loro. Qualunque fosse l'energia che bruciava fra di loro, sapeva di pericolo. Particolare che la rendeva eccitante.
Tattersail sospirò. Hairlock era apparso quella mattina, ansioso e agitato per qualcosa. La marionetta non aveva risposto alle loro domande, ma la maga sospettava che avesse trovato una pista, che forse lo avrebbe portato fuori da Pale e fino a Darujhistan. Quel pensiero non l'allietava. S'irrigidì quando sentì scattare le difese poste a guardia della porta. Si girò di scatto. «Un visitatore», disse. L'uomo si alzò, Fortuna in mano. La maga lo bloccò con un gesto della mano. «Nessuno deve vederti, Capitano. Né avvertire la tua presenza. Non fare rumore e aspetta qui.» Raggiunse la stanza adiacente proprio quando un lieve colpo risuonò alla porta. L'aprì e si trovò davanti un giovane militare. «Che cosa c'è?» chiese. Il soldato s'inchinò. «Il Gran Pugno Dujek chiede notizie sulla vostra salute, Maga.» «Sto molto meglio», rispose la donna. «È molto gentile da parte sua. Ora, se vuoi...» Il giovane la interruppe timidamente. «Allora devo comunicarvi che il Gran Pugno richiese la vostra presenza a una cena ufficiale che si terrà questa sera al quartier generale.» Tattersail imprecò fra sé e sé. Non avrebbe dovuto dire la verità. Adesso era troppo tardi. Non poteva sottrarsi a una «richiesta» del comandante. «Informa il Gran Pugno che sarò onorata di condividere la sua compagnia.» Un pensiero le attraversò la mente. «Posso sapere chi altri sarà presente?» «Il Grande Mago Tayschrenn, un messaggero di nome Toc il Giovane e l'Aggiunto Lorn.» «L'Aggiunto Lorn è qui?» «È arrivata questa mattina, Maga.» Oh, per il respiro di Hood. «Riferisci la mia risposta», disse Tattersail combattendo contro un'ondata crescente di paura. Chiuse la porta e sentì i passi del militare allontanarsi lungo il corridoio. «Che cosa c'è?» domandò Paran in piedi sul vano porta. «Metti via quella spada, Capitano», ordinò Tattersail. Raggiunse il cassettone e cominciò a rovistare nei cassetti. «Devo partecipare a una cena», disse. Paran si avvicinò. «Una riunione ufficiale.» Tattersail annuì con fare distratto. «Anche con l'Aggiunto Lorn, come se
Tayschrenn non fosse già abbastanza.» «E così, alla fine è arrivata», mormorò il capitano. Tattersail si bloccò di colpo. Poi, lentamente, si girò verso l'uomo. «La stavi aspettando, vero?» Paran la fissò con occhi spaventati. La maga comprese che quelle parole non avrebbero dovuto giungere alle sue orecchie. «Dannazione», sibilò. «Lavori per lei!» La risposta del capitano fu chiara quando il giovane le voltò le spalle. Lo guardò scomparire in camera da letto, la mente invasa da mille pensieri. I fili del complotto cominciarono a unirsi in una trama. E così, i sospetti di Ben lo Svelto erano corretti: era in atto un piano per uccidere lo squadrone. Anche la sua vita era in pericolo? Doveva prendere una decisione. Non sapeva ancora quale, ma sentiva che i suoi pensieri si erano incanalati in una direzione e acquistavano l'inevitabile velocità di una valanga. *** Il settimo rintocco risuonò da una qualche torre lontana, mentre Toc il Giovane entrava nel quartier generale dell'Impero. Mostrò l'invito a una guardia dal volto arcigno e venne esortato a proseguire lungo il corridoio fino alla sala da pranzo. L'ansia gli attorcigliava lo stomaco. Sapeva che dietro l'invito c'era l'Aggiunto, ma quella donna poteva essere imprevedibile e subdola come tutti gli altri. Oltre la porta a cui stava avvicinandosi poteva anche esserci una fossa di vipere, tutte avidamente in attesa del suo arrivo. Toc si chiese se sarebbe riuscito a soffocare le proprie emozioni, e conoscendo la condizione della ferita sul viso, si chiese anche se gli altri sarebbero stati in grado di fare altrettanto. Fra i soldati, le sue ferite venivano notate appena: nell'esercito di Dujek era raro trovare un militare che non avesse una o addirittura tre cicatrici. I pochi amici che aveva sembravano semplicemente felici che lui fosse ancora vivo. A Sette Città si diceva che la perdita di un occhio fosse accompagnata dalla nascita di una vista interiore. Di tanto in tanto, lampi di luce gli squarciavano la mente, ma sospettava non fossero niente di più che un ricordo dell'ultima cosa che aveva visto il suo occhio: il fuoco. E ora stava per sedersi con la compagnia più nobile dell'Impero. A un tratto, provò vergogna per quella ferita. Lui era la testimonianza vivente degli orrori della guerra - s'irrigidì proprio all'ingresso della sala da pranzo.
Era forse quello il motivo per cui l'Aggiunto lo aveva invitato? Esitò, poi scrollò le spalle ed entrò. Dujek, Tayschrenn e l'Aggiunto si girarono contemporaneamente. Toc il Giovane s'inchinò. «Grazie per essere venuto», disse l'Aggiunto Lorn. Era in piedi con i due uomini accanto al più grande dei tre camini, sulla parete opposta all'ingresso. «Unisciti a noi. Dobbiamo aspettare un altro ospite.» Toc si mosse verso di loro, grato del sorriso di Dujek. Il Gran Pugno posò il calice di vino sulla mensola del camino e si grattò il moncone del braccio sinistro. «Scommetto che ti sta facendo impazzire», disse l'anziano comandante con un aperto sorriso. «Mi gratto con tutte e due le mani», spiegò Toc. Dujek non trattenne una risata. «Qualcosa da bere?» «Grazie.» Notò la soddisfazione di Lorn quando lui accettò un calice da Dujek. Mentre prendeva la caraffa da un tavolo vicino, il suo sguardo scivolò sul Grande Mago, ma Tayschrenn era concentrato sul fuoco scoppiettante dietro Lorn. «Il tuo cavallo si è ripreso?» gli domandò l'Aggiunto. Toc annuì versandosi da bere. «L'ultima volta che le ho dato un'occhiata stava facendo la verticale», rispose. Lorn sorrise esitante, quasi non avesse capito se lui la stesse prendendo in giro. «Ho raccontato come mi hai difeso, come hai scagliato quattro frecce e abbattuto quattro Barghast.» Lui la fissò intensamente. «Non sapevo di avere ancora due colpi», replicò. Sorseggiò il vino, resistendo al desiderio di grattarsi la ferita. «Anche tuo padre aveva l'abitudine di sorprendere. Ecco un uomo di cui sento la mancanza», commentò Dujek. «Anch'io», confessò Toc abbassando lo sguardo. Il silenzio imbarazzato che seguì a quello scambio di battute venne fortunatamente spezzato dall'arrivo dell'ultimo ospite. Toc si voltò con gli altri quando la porta si aprì. Fissò la donna all'ingresso, poi trasalì. Quella era Tattersail? L'aveva sempre vista con addosso indumenti militari e ora era senza parole. Ehi, pensò fra sé e sé, un po' formosa, ma niente male. Sorrise. Anche Lorn sussultò all'apparizione di Tattersail. «Ci siamo già incontrate, anche se dubito che tu possa ricordartene», disse. Tattersail la guardò sorpresa. «Penso invece che me ne ricorderei», re-
plicò. «Non credo. Al tempo avevo appena undici anni.» «Allora temo vi confondiate. Raramente sto in compagnia di bambini.» «Hanno bruciato il Quartiere Topo una settimana dopo il vostro passaggio, Tattersail.» I presenti gelarono nell'udire il tono di controllata ira dell'Aggiunto. «I pochi sopravvissuti, quelli che vi eravate lasciati alle spalle, si erano rifugiati nella Fossa di Mock. E in quelle caverne infestate dalle malattie, sono morti mia madre, mio padre e mio fratello.» Tattersail sbiancò in volto. Attonito, Toc guardò gli altri. L'espressione di Dujek era impassibile, ma nei suoi occhi si intravedeva la tempesta. Sul volto di Tayschrenn apparve una luce improvvisa. «Era il nostro primo incarico», replicò Tattersail in tono tranquillo. Toc vide Lorn tremare e trattenere il fiato. Ma quando parlò, la voce era controllata, le parole precise. «Sarà necessaria una spiegazione.» Si rivolse al Gran Pugno Dujek. «Erano reclute, un quadro di maghi. Erano a Malaz City, in attesa del loro nuovo comandante, quando il comandante dell'Artiglio emise un editto contro la stregoneria. Vennero mandati nella Città Vecchia - il Quartiere Topo - per ripulirlo. Furono...» le mancò la voce «... indiscriminati». Riportò l'attenzione su Tattersail. «Questa donna era uno di quei maghi. Quella fu l'ultima notte con la mia famiglia. Il giorno successivo venni consegnata all'Artiglio. La notizia della morte dei miei cari mi è stata tenuta segreta per anni. Eppure», la voce divenne un sussurro, «ricordo bene quella notte - il sangue, le grida». Tattersail era ammutolita. L'atmosfera nella stanza si era fatta pesante. Finalmente la maga riuscì a staccare lo sguardo da Lorn e si rivolse a Dujek. «Gran Pugno, era il nostro primo incarico. Perdemmo il controllo. Il giorno dopo mi ritirai dal corpo ufficiali e venni assegnata a un'altra armata.» Prese fiato. «Se è desiderio dell'Aggiunto convocare una corte, non mi difenderò e accetterò la mia esecuzione come giusta punizione.» Lorn rispose: «Mi sembra corretto». Posò la mano sinistra sulla spada e si preparò a sguainarla. «No», la bloccò il Gran Pugno. «Non è corretto.» Lorn s'impietrì. Fissò l'anziano. «Sembri aver dimenticato il mio grado.» «No, tutt'altro. Aggiunto, se è vostro desiderio che coloro che hanno commesso dei crimini all'interno dell'Impero vengano uccisi», fece un passo avanti, «allora dovete includere anche me. Sono convinto che anche il Grande Mago Tayschrenn abbia sulle spalle un buon numero di orrori per-
petrati in nome dell'Impero. E infine, c'è la stessa Imperatrice da tenere in considerazione. Laseen, dopo tutto, comandava l'Artiglio dell'Imperatore l'ha addirittura creato. Inoltre, l'Editto era opera sua, anche se fortunatamente ha avuto vita breve». Si rivolse a Tattersail. «Io ero là, Tattersail. Su ordine di Whiskeyjack venni inviato a fermarvi.» La maga scosse la testa. «Su comando di Whiskeyjack?» Strinse gli occhi. «Tutto questo ha il sapore dello scherzo di un dio.» Dujek tornò a rivolgersi all'Aggiunto. «L'Impero ha la sua storia e noi tutti ne facciamo parte.» «In questo», intervenne Tayschrenn, «sono d'accordo con il Gran Pugno, Aggiunto». «Non c'è bisogno di rendere tutto questo ufficiale», disse Tattersail, gli occhi su Lorn. «Vi sfido a duello. Da parte mia farò ricorso a tutte le mie conoscenze magiche per cercare di distruggervi. Voi potrete difendervi con la vostra spada, Aggiunto.» Toc fece un passo avanti. Aprì la bocca, per poi richiuderla immediatamente. Era stato sul punto di rivelare a Tattersail che Lorn aveva una spada di Otataral, che il duello sarebbe stato impari, che lei sarebbe morta nel giro di pochi secondi, man mano che la spada avesse distrutto i suoi incantesimi. Ma si accorse che la maga sapeva tutto. Dujek si girò verso Tattersail. «Dannazione, donna! Pensi che alle parole debbano sempre seguire i fatti? Esecuzione. Duello. Tutto ciò non ha nessuna importanza! Tutto ciò che l'Aggiunto fa, tutto ciò che dice, è in nome dell'Imperatrice Laseen.» Si voltò verso Lorn. «Voi siete qui come voce di Laseen, in rappresentanza della sua volontà, Aggiunto.» Tayschrenn parlò in tono sommesso. «La donna di nome Lorn, la donna che un tempo era una bambina, che un tempo aveva una famiglia», fissò l'Aggiunto con espressione addolorata, «quella donna non esiste. Ha cessato di esistere il giorno in cui è divenuta l'Aggiunto». Lorn fissò i due uomini, gli occhi sgranati. Accanto a lei, Toc osservò quelle parole scontrarsi contro la volontà della donna, distruggere la rabbia e ridurre in polvere ogni residuo di identità. E da quegli occhi emerse la gelida compostezza dell'Aggiunto dell'Imperatrice. Toc sentì il cuore galoppare. Aveva appena assistito a un'esecuzione capitale. La donna di nome Lorn era emersa dalle nebbie del passato, emersa per vendicare un torto, per cercare giustizia e in quell'atto riscattare la propria vita - ma era stata sconfitta. Non dalle parole di Dujek o Tayschrenn, ma dalla cosa conosciuta come l'Aggiunto.
«Naturalmente», disse allontanando la mano dall'impugnatura della spada. «Vi prego, Maga Tattersail, entrate e sedetevi a tavola con noi.» Il tono piatto della voce disse a Toc che quell'invito non le era costato niente - e quella realizzazione lo scosse fin nel profondo. Una rapida occhiata gli permise di scoprire che anche Tayschrenn e Dujek avevano avuto una reazione simile. Tattersail sembrava sinceramente scossa, accettò con un cenno del capo l'invito dell'Aggiunto. Toc prese la brocca e un calice vuoto. Si avvicinò alla maga. «Sono Toc il Giovane», si presentò, sorridendo, «e voi avete bisogno di un bicchiere di vino». Riempì il calice e glielo porse. «Spesso, quando ci accampavamo sotto le stelle, vi ho vista avvolta in quegli informi abiti da viaggio. Ora ho finalmente visto che cosa nascondono. Maga, siete un piacere per gli occhi.» Tattersail lo fissò con sguardo grato. Sollevò un sopracciglio. «Non mi ero accorta che i miei abiti da viaggio attirassero tante attenzioni.» Toc sorrise. «Temo che siate stata oggetto di scherno nel Secondo. Qualsiasi cosa accadesse, che fosse un'imboscata o una scaramuccia improvvisa - il nemico proveniva invariabilmente dal vostro guardaroba da viaggio, Maga.» Dietro di lui, Dujek ridacchiò divertito. «Mi sono spesso chiesto da dove venisse quella frase e, dannazione, l'ho sentita spesso - persino dai miei ufficiali.» Nella stanza l'atmosfera divenne più rilassata; la tensione che ancora persisteva sembrava scorrere solo tra Tattersail e il Grande Mago Tayschrenn. La maga posava lo sguardo su Lorn ogniqualvolta l'attenzione dell'Aggiunto era su qualcos'altro e in quegli occhi Toc vi lesse la pietà e il suo rispetto nei confronti della donna aumentò considerevolmente. Se fosse stato al suo posto, ogni occhiata che avesse lanciato a Lorn sarebbe stata colma di paura. E qualsiasi tempesta aleggiasse fra Tattersail e Tayschrenn sembrava originata da una differenza d'opinione e dal sospetto, ma non sembrava niente di personale. Ancora una volta Toc rifletté sul fatto che la presenza di Dujek forse aveva rappresentato l'ago della bilancia. Il padre aveva sempre speso parole di lode per Dujek, un uomo che non perdeva mai la sensibilità nei confronti di coloro che gli erano inferiori, un uomo che Toc il Vecchio aveva ritenuto un amico. Non appena si furono accomodati a tavola e venne servito il primo piat-
to, fu tuttavia l'Aggiunto Lorn a prendere il comando. Dujek vi rinunciò senza un gesto o una parola, evidentemente sicuro che l'incidente di poc'anzi fosse già dimenticato. Lorn si rivolse a Tattersail con quella sua voce piatta, arcana. «Maga, permettimi di complimentarmi con te per come hai saputo sconfiggere un Segugio dell'Ombra e per la tua rapida guarigione. So che Tayschrenn ti ha già interrogata su questo spiacevole incidente, ma mi piacerebbe sentirlo raccontare direttamente da te.» Tattersail posò il bicchiere e guardò brevemente il piatto prima di alzare gli occhi e incontrare lo sguardo fermo dell'Aggiunto. «Come probabilmente vi ha già spiegato il Grande Mago, è ormai chiaro che gli dei si sono buttati nella mischia. Più specificatamente, vogliono intervenire nei piani dell'Impero per quanto riguarda Darujhistan...» Toc si alzò di scatto. «Credo», disse, «sia venuto il momento di andarmene, poiché ciò che sta per essere discusso supera...». «Siediti, Toc il Giovane», ordinò Lorn. «Qui tu sei il rappresentante dell'Artiglio e come tale parli in suo nome.» «Davvero?» «Davvero.» Lentamente, Toc tornò a sedere. «Prego, Maga, continua.» Tattersail annuì. «Oponn riveste un ruolo fondamentale in questo inizio di gioco. La mossa di apertura dei Giullari Gemelli ha provocato delle increspature - sono sicura che il Grande Mago è d'accordo con me - attirando così l'attenzione di altri dei.» «Tronod'Ombra», mormorò Lorn. Guardò Tayschrenn. Il Grande Mago ne convenne. «Forse avremmo dovuto aspettarci una mossa simile. Io, tuttavia, non ho avvertito l'attenzione di Tronod'Ombra su di noi, anche se dopo l'attacco del Segugio ho preso seriamente in considerazione tale eventualità.» Lorn sospirò, lentamente. «Maga, ti prego, continua.» «Il Segugio è stato provocato per puro caso», spiegò Tattersail lanciando una rapida occhiata a Tayschrenn. «Stavo leggendo il mio Mazzo dei Draghi e ho girato la carte del Segugio. Come accade a tutti gli Adepti, mi sono accorta che, in una certa misura, l'immagine si animava. Quando le ho dedicato tutta la mia attenzione, ho avuto la sensazione», si schiarì la gola, «che si aprisse un portale, creato dall'altra parte di quella carta dalla stessa Alta Casa dell'Ombra». Sollevò le mani e fissò il Grande Mago. «È
possibile? Il regno dell'Ombra è nuovo fra le Case, il suo potere non si è ancora espresso appieno. Be', qualunque cosa sia accaduta - un portale, uno strappo - è apparso il Segugio Gear.» «Ma perché», domandò Tayschrenn, «è apparso per strada? Perché non nella tua stanza?». Tattersail sorrise. «Posso solo fare delle ipotesi.» «Ti prego, parla», la invitò l'Aggiunto. «Nella mia stanza ho delle difese», spiegò la maga, «quelle più interne appartengono a Thyr». A quelle parole Tayschrenn trasalì, chiaramente sorpreso. «Quelle difese», proseguì la maga, «creano un flusso di potere che si innalza e si abbassa come un cuore pulsante, un cuore che batte molto velocemente. Credo che queste difese siano state sufficienti per allontanare da me il Segugio, poiché quando si trova nel punto di transizione - a metà strada tra il nostro regno e il suo - non può esprimere appieno la sua forza. Cosa che tuttavia può fare una volta arrivato, e che ha fatto». «Come sei riuscita a respingere l'attacco di un Segugio dell'Ombra?» domandò Tayschrenn. «Fortuna», rispose Tattersail, senza un attimo di esitazione. Quella parola restò sospesa in aria e Toc ebbe l'impressione che tutti avessero dimenticato la cena. «In altre parole», disse Lorn in tono sommesso, «credi che sia intervenuto Oponn». «Esatto.» «Perché?» Tattersail non trattenne una risata. «Se lo sapessi, Aggiunto, sarei una donna felice. Per come stanno le cose», la voce perse il tono divertito, «direi che qualcuno ci sta usando. Lo stesso Impero è diventato una pedina». «C'è una via d'uscita?» domandò Dujek, le sue parole un ringhio che fecero sussultare i presenti. Tattersail si strinse nelle spalle. «Se esiste, dobbiamo cercarla a Darujhistan, poiché è là che Oponn sembra avere accentrato il gioco. Ma attenzione, attirarci a Darujhistan potrebbe proprio essere quello che Oponn vuole ottenere.» Toc si lasciò andare contro lo schienale, una mano che grattava distrattamente la ferita. Era convinto ci fosse dell'altro, sebbene non capisse da dove derivassero i suoi sospetti. Grattò con più foga. Quando voleva, Tattersail sapeva essere loquace; la sua storia aveva un che di autentico. Le
bugie migliori erano quelle semplici. Eppure, gli altri non sembravano sospettosi. La maga aveva spostato l'attenzione dalla sua storia alle implicazioni per le loro azioni future. Nessuno pensava più a lei, e più i pensieri correvano veloci, più i dubbi su di lei venivano lasciati indietro. La guardò osservare gli altri e fu l'unico a notare il lampo di trionfo e sollievo nei suoi occhi quando Lorn parlò. «Oponn non è il primo dio che prova a manipolare l'Impero Malazan», affermò l'Aggiunto. «Altri hanno fallito, e malamente. È un peccato che Oponn non abbia imparato la lezione - e anche Tronod'Ombra.» Sospirò. «Tattersail, qualunque siano i tuoi dissapori con il Grande Mago, è necessario, anzi no, vitale, che voi due collaboriate per cercare di scoprire i dettagli dell'intervento di Oponn. Nel frattempo, il Gran Pugno Dujek continuerà a preparare l'esercito alla marcia, oltre a rafforzare la nostra presenza a Pale. Per quanto mi riguarda, lascerò presto la città. Resta inteso che la mia missione ha obiettivi identici alla vostra. Un'ultima cosa», si rivolse a Toc, «vorrei sentire l'opinione dell'Artiglio su quanto detto a questo tavolo». Il giovane la fissò sorpreso. Drizzò la schiena e guardò Tattersail. La donna ora sembrava nervosa, le mani nascoste sotto il tavolo. Lui attese fino a quando i loro sguardi s'incrociarono, poi si rivolse all'Aggiunto. «Per quanto le è dato di sapere, la maga dice la verità», affermò. «Le sue congetture erano sincere, sebbene io sia totalmente all'oscuro delle dinamiche della magia. Forse il Grande Mago Tayschrenn potrebbe esprimere un giudizio a proposito.» Lorn sembrò seccata dalla valutazione di Toc, ma annuì e disse: «Molto bene. Grande Mago?». Tayschrenn rilasciò un profondo respiro. «Accurata», commentò. «Le ipotesi sono corrette.» Toc tornò a riempirsi il bicchiere. I piatti con la prima portata venero ritirati pressoché intatti ma quando giunse la pietanza, tutti si concentrarono sul cibo e la conversazione languì. Toc mangiava lentamente, evitando gli occhi di Tattersail, per quanto di tanto in tanto li sentisse su di sé. Si interrogò sulle proprie azioni: ingannare l'Aggiunto dell'Imperatrice, il Grande Mago e il Gran Pugno in una volta sola era un'azione suicida. E la ragione per cui si comportava così non era del tutto razionale e quindi ancora più angosciosa. La Seconda Armata aveva una storia lunga e sanguinosa. Più volte di quante Toc potesse contare un elemento si era fatto avanti in difesa di un
altro, qualunque fossero le circostanze. E molto spesso quel qualcuno era stato il quadro dei maghi. Lui era presente nella pianura fuori Pale e insieme ad altri aveva guardato il quadro venire distrutto senza pietà. Quel genere di perdita non si addiceva al Secondo. E per quanto lui fosse un Artiglio, i volti che lo circondavano, i volti che lo guardavano speranzosi, disperati e, a volte, rassegnati, erano lo specchio del suo stesso volto e ogni volta sfidavano l'Artiglio. Gli anni nell'Artiglio, dove sentimenti e attenzioni erano stati sistematicamente aggrediti, non reggevano la realtà quotidiana che era la Seconda Armata. Quella sera, e con le sue parole, Toc aveva restituito qualcosa a Tattersail, non solo per lei ma per il quadro. Non aveva importanza che lei capisse e lui sapeva che doveva essere confusa per le sue azioni; niente di tutto ciò aveva importanza. Ciò che aveva fatto lo aveva fatto per se stesso. Raddrizzò la schiena. Che strano, pensò, la ferita non prude più. *** La testa leggera, Tattersail barcollò mentre avanzava lungo il corridoio verso la porta della sua stanza. Sapeva che la colpa non era del vino. Quel delizioso nettare era andato giù come acqua e come tale aveva avuto effetto. L'Aggiunto Lorn aveva risvegliato nella maga ricordi che aveva impiegato anni a seppellire. Per Lorn si era trattato di un avvenimento chiave della sua vita. Ma per Tattersail era stato solo un incubo fra tanti. Eppure, l'aveva spinta dove non erano riusciti altri crimini e, come risultato, si era trovata a far parte della Seconda Armata - l'Armata dove era stata mandata come recluta, la chiusura di un cerchio, ma da allora era cambiata. Quell'attaccamento, quei vent'anni di servizio, quella sera le avevano salvato la vita. Sapeva che Toc il Giovane aveva mentito per lei e l'occhiata che le aveva lanciato prima di parlare era stato un messaggio che lei aveva compreso perfettamente. Sebbene lui fosse giunto nel Secondo come un Artiglio, quindi come spia, nemmeno gli anni di addestramento all'interno dell'organizzazione segreta potevano resistere al mondo in cui si era trovato. Tattersail comprendeva tutto ciò fin troppo bene, poiché la stessa cosa era accaduta a lei. La maga in un quadro di maghi che tanti anni prima si era infilata nel Quartiere Topo non aveva certo a cuore gli altri, ma solo se stessa. Persino il suo tentativo di sottrarsi agli orrori a cui aveva preso par-
te era nato dal desiderio egoista di fuggire, di assolvere la propria coscienza - ma l'Impero glielo aveva impedito. Un anziano soldato era andato da lei il giorno dopo il massacro nel Quartiere Topo. Vecchio, anonimo, un veterano inviato per convincerla che era ancora necessaria. Ricordava bene le parole dell'uomo. «Se mai vi sottrarrete al senso di colpa che avvolge il vostro passato, Maga, vi sarete sottratta alla vostra anima. Quando vi ritroverà, vi ucciderà.» E poi, invece di negare le sue disperate necessità, l'aveva mandata in un'armata di veterani, la Quinta, dove era rimasta fino a quando era giunto il momento di tornare indietro, di tornare al Secondo sotto il comando di Dujek Un-braccio. Le era stata così offerta una seconda possibilità. Tattersail raggiunse la porta e si fermò per controllare lo stato delle sue difese. Tutto andava bene. Sospirando, entrò nella stanza, chiuse la porta e si appoggiò a essa. Il capitano Paran emerse dalla camera da letto, l'espressione stanca e intimidita. «Non sei in arresto? Ne sono sorpreso.» «Anch'io.» «Hairlock è stato qui», disse Paran. «Mi ha lasciato un messaggio per te.» Tattersail studiò il volto dell'uomo alla ricerca di una traccia di ciò che stava per dirle. Lui evitò il suo sguardo e rimase vicino all'ingresso della camera da letto. «Allora?» domandò la donna. Paran si schiarì la gola. «Innanzitutto era, eh, eccitato. Sapeva dell'arrivo dell'Aggiunto e ha detto che lei non era sola.» «Non era sola? Che cosa voleva dire?» Paran si strinse nelle spalle. «Ha detto che la polvere cammina intorno all'Aggiunto, la sporcizia scivola sotto i suoi stivali e il vento soffia gelo e fuoco.» Inarcò le sopracciglia. «Ti dice niente tutto ciò? A me, no.» Tattersail si avvicinò al cassettone. Si tolse i gioielli che aveva indossato per la serata. «Penso di sì», rispose lentamente. «Ha detto nient'altro?» «Sì. Ha detto che l'Aggiunto e il suo compagno lasceranno presto Pale e che lui intende seguirli. Maga...» La donna si accorse che Paran combatteva contro qualcosa, forse il proprio istinto. Posò un braccio sul cassettone e attese. Quando incontrò lo sguardo dell'uomo, trattenne il respiro. «Stavi per dire qualcosa», mormorò. Il suo cuore batteva all'impazzata e sentiva il corpo rispondere quasi fosse stato dotato di una propria volontà. Ciò che aveva letto negli occhi dell'uomo era molto chiaro.
«So qualcosa della missione dell'Aggiunto», rivelò. «Dovevo essere io il suo contatto a Darujhistan.» Qualunque cosa stesse nascendo fra loro si disintegrò e sul volto di Tattersail apparve l'ira. «Sta andando a Darujhistan, vero? E tu e lei dovevate sovrintendere alla tanto attesa eliminazione degli Arsori di Ponti. Insieme pensavate di riuscire a uccidere Whiskeyjack, di sgominare il sua squadrone dall'interno.» «No!» Paran fece un passo avanti, ma quando Tattersail sollevò una mano, il palmo rivolto verso di lui, si fermò di colpo. «Aspetta», mormorò. «Prima di fare qualsiasi cosa, ascoltami.» Il Canale Thyr della donna si gonfiò fra le sue mani, smanioso di essere liberato. «Perché? Che Oponn sia maledetto per averti salvato!» «Tattersail, ti prego.» Lei lo guardò, torva. «Parla.» Paran indietreggiò e si diresse verso una sedia. Le mani lungo i fianchi, si sedette e la guardò. «Tieni le mani in alto», ordinò Tattersail, «e lontane dalla spada». «Questa è stata fin dall'inizio la missione personale dell'Aggiunto. Tre anni fa ero di stanza a Itko Kan, Corpo Ufficiali. Un giorno, tutti i soldati disponibili vennero chiamati a raccolta e venne dato loro l'ordine di mettersi in marcia sulla strada costiera.» Le mani gli tremavano e i muscoli della mascella s'irrigidirono. «Non hai idea di ciò che abbiamo visto laggiù, Tattersail.» Le tornò alla mente la storia di Ben lo Svelto e di Kalam. «Un massacro. Una compagnia di cavalleria.» Paran la fissò, sbigottito. «Come fai a saperlo?» «Continua, Capitano.» «L'Aggiunto Lorn giunse dalla capitale e assunse il comando. Immaginò che il massacro fosse stato un... diversivo. Ci movemmo seguendo una pista. Non era molto chiara, per lo meno non all'inizio. Maga, posso abbassare le braccia?» «Lentamente. Posale sui braccioli della sedia.» Lui sospirò grato e fece come gli era stato ordinato. «Comunque, l'Aggiunto giunse alla conclusione che una ragazza era stata presa, posseduta da un dio.» «Quale dio?» Paran fece una smorfia. «Suvvia, se sai del massacro non dovrebbe essere difficile indovinarlo, no? Quella compagnia venne uccisa dai Segugi
dell'Ombra. Quale dio? Be', viene naturalmente in mente Tronod'Ombra», affermò sarcastico. «L'Aggiunto è convinta che fosse coinvolto Tronod'Ombra, ma il dio che ha posseduto la ragazza era la Fune - non so con quale altro nome viene chiamato - il Protettore dei Sicari, il compagno di Tronod'Ombra.» Tattersail abbassò le braccia. Aveva chiuso il suo Canale un minuto prima, poiché aveva iniziato a spingere insistentemente e lei aveva temuto di non avere la forza necessaria per resistere. «Hai trovato la ragazza», affermò. Paran si chinò in avanti. «Sì!» «Si chiama Dispiacere.» «Lo sapevi già», disse Paran, lasciandosi andare contro lo schienale. «Questo significa che anche Whiskeyjack ne è al corrente, poiché chi altro avrebbe potuto dirtelo?» La guardò negli occhi con espressione turbata. «A questo punto sono molto confuso.» «Non sei l'unico», replicò Tattersail. «Allora il tuo arrivo e quello dell'Aggiunto sono collegati alla ricerca della ragazza?» Scosse la testa. «Non basta, non può bastare, Capitano.» «È tutto quello che so, Tattersail.» Lei lo scrutò un istante. «Ti credo. Conosci i dettagli della missione dell'Aggiunto?» «No», rispose Paran, sollevando le mani. «Una volta trovato me, ed essendo io con lo squadrone, sarebbe giunta alla ragazza.» «L'Aggiunto è una donna dai molti talenti», commentò la maga. «Attraverso l'antitesi della magia potrebbe essere in grado di collegarsi a te, soprattutto se sei con lei da ormai due anni.» «E allora perché non ha ancora buttato giù quella porta?» Lo sguardo di Tattersail era fisso sui gioielli sparsi sul cassettone. «Oponn ha reciso il vincolo, Capitano.» «Non mi piace l'idea di essere continuamente una pedina», brontolò Paran. «Ma non è tutto», mormorò Tattersail, più a se stessa che al giovane. «Lorn ha con sé un T'lan Imass.» Paran sobbalzò. «Le strane parole di Hairlock significavano questo», spiegò la maga. «Credo che la missione avesse due obiettivi. Uccidere, sì, Dispiacere, ma anche uccidere Whiskeyjack e il suo squadrone. Il T'lan non sarebbe coinvolto se il suo piano riguardasse solo te. La spada Otataral è sufficiente per
distruggere Dispiacere, e forse anche la Fune, sempre che sia lui a possedere la ragazza.» «Non posso crederci», mormorò Paran. «Quegli uomini sono al mio comando. Sono sotto la mia responsabilità. L'Aggiunto non mi tradirebbe così...» «No? E perché?» Il capitano non seppe trovare le parole, ma i suoi occhi brillarono di uno scintillio caparbio. «Hairlock se n'è andato troppo presto», affermò la maga. «Era troppo impaziente di seguire l'Aggiunto e il T'lan Imass. Deve avere scoperto qualcosa su di loro, su quello che vogliono fare.» «Chi è il capo di Hairlock?» domandò Paran. «Ben lo Svelto, il mago di Whiskeyjack.» Lo guardò. «È il migliore che conosca. Certo, non è il più potente, ma è astuto. Tuttavia, se il T'lan Imass dovesse coglierlo di sorpresa per lui sarà la fine e così per gli altri.» Si fermò, gli occhi fissi sul capitano. «Devo lasciare Pale», disse bruscamente. Paran scattò in piedi. «Non da sola.» «Da sola», insistette Tattersail. «Devo trovare Whiskeyjack, ma se tu mi segui alla fine Lorn troverà anche lui.» «Mi rifiuto di credere che l'Aggiunto rappresenti un rischio per il sergente», ribatté Paran. «Dimmi un po', pensi di riuscire a uccidere Dispiacere? Anche con l'aiuto di Ben lo Svelto?» La maga esitò. «Non sono sicura di volerlo fare», replicò scandendo le parole. «Che cosa?» «La decisione spetta a Whiskeyjack, Capitano. E non penso di poterti fornire una valida ragione per convincerti di questo. Sento solo che è la cosa giusta.» «Comunque sia», disse Paran, «non posso restare nascosto qui, ti pare? Che cosa potrei mangiare? Le lenzuola?». «Posso portarti in città», propose Tattersail. «Nessuno ti riconoscerà. Ti prendi una stanza in una locanda ed eviti di indossare l'uniforme. Se tutto andrà bene sarò di ritorno nel giro di un paio di settimane. Puoi aspettare fino ad allora, vero, Capitano?» Paran la guardò. «E che cosa succederebbe se uscito da qui andassi a presentarmi a Dujek Un-braccio?» «Il Grande Mago Tayschrenn ridurrebbe a brandelli la tua mente con la
magia cerca-verità. Sei stato toccato da Oponn e dopo questa sera, Oponn è un nemico ufficiale dell'Impero. Una volta che avrà finito con te, Tayschrenn ti lascerà morire, cosa che sarà sempre preferibile alla pazzia che s'impossesserebbe di te nel caso decidesse di tenerti in vita.» Tattersail anticipò la domanda di Paran. «Dujek potrebbe anche cercare di proteggerti, ma in questo caso Tayschrenn gli è superiore di grado. Sei diventato uno strumento di Oponn e per Dujek la salvezza dei suoi soldati viene prima della sua personale vendetta su Tayschrenn. Mi spiace, Capitano, ma se te ne vai ti troverai veramente solo.» «Quando te ne andrai sarò comunque solo, Maga.» «Lo so, ma non sarà per sempre.» Lo cercò con gli occhi. «Paran», disse, «non tutto va male. Nonostante la diffidenza che nutriamo l'uno per l'altra, provo per te sentimenti che non avvertivo... be', da molto tempo». Sorrise, di un triste sorriso. «Non so quanto valgano le mie parole, Capitano, ma sono contenta di averle pronunciate.» Paran la fissò a lungo, infine disse: «Molto bene, Tattersail. Farò come vuoi. Una locanda? Hai delle monete locali?». «Te ne procurerò.» Abbassò la testa. «Scusami ma sono esausta.» Mentre si girava lo sguardo cadde sul cassettone, dove tra la biancheria vide spuntare il Mazzo dei Draghi. Sarebbe stato stupido non intraprendere una lettura, considerata la decisione presa. «Tattersail, quanto sei stanca?» le domandò Paran a pochi passi da lei. Sentì il calore nelle sue parole infiammare un fuoco che covava sotto la cenere e mentre si voltava verso il capitano, il suo sguardo abbandonò il Mazzo. Non aprì bocca, ma la sua risposta fu comunque chiara. Lui le prese la mano, sorprendendola con tale innocenza. Così giovane, pensò, e ora mi porterà in camera da letto. Sarebbe scoppiata a ridere se quel gesto non fosse stato tanto dolce. *** Una flebile alba illuminava l'orizzonte mentre l'Aggiunto Lorn guidava il suo destriero e il cavallo da soma fuori dalla Porta Orientale di Pale. Come Dujek aveva promesso, non c'era traccia delle guardie e la porta era aperta. Si augurò che i pochi occhi assonnati che l'avevano seguita per le vie della città non fossero divorati da un'incontenibile curiosità. Per prudenza, aveva indossato una semplice armatura di pelle e il viso era seminascosto dall'ombra proiettata dalla visiera dell'elmo. Persino i cavalli erano
di una razza locale, robusti e tranquilli, ma molto più piccoli dei purosangue Malazan a cui era abituata. Le precauzioni assunte avrebbero dovuto consentirle di allontanarsi dalla città senza destare alcun sospetto. L'orizzonte meridionale era una linea frastagliata di montagne incappucciate di neve. I monti Tahlyn sarebbero rimasti sulla sua destra per parecchio tempo prima che la Pianura Rhivi lasciasse il posto alla Pianura Catlin. Davanti a lei, l'alba iniziava a mostrare il suo volto. La pioggia era cessata da ormai qualche giorno e il cielo era azzurro e sereno, ancora punteggiato da poche stelle, sempre più deboli man mano che la luce del mattino prendeva il sopravvento. Sarebbe stata una giornata calda. L'Aggiunto allentò le cinghie di cuoio sul petto, scoprendo la sottile cotta d'arme sottostante. Entro mezzogiorno avrebbe raggiunto il primo pozzo, dove avrebbe fatto una nuova scorta d'acqua. Lasciò scivolare una mano sulla superficie di una delle borracce agganciate alla sella. Il contenitore era così umido da bagnarle la mano, che si passò sulle labbra. Sobbalzò per lo spavento quando una voce parlò accanto a lei. «Camminerò con te», disse Onos T'oolan, «per un po'». Lorn fissò il T'lan Imass. «Avresti fatto meglio ad annunciare il tuo arrivo», affermò in tono seccato, «e da lontano». «Come vuoi.» Onos T'oolan scomparve nel terreno sollevando una nuvola di polvere. L'Aggiunto imprecò. Poi lo vide aspettare a un centinaio di iarde davanti a lei, la schiena illuminata dal sole nascente. Il T'lan Imass restò immobile fino a quando lei lo raggiunse, dopo di che le camminò accanto. Lorn strinse le gambe intorno al cavallo e tirò le redini per cercare di calmare l'animale, innervosito dalla presenza del nuovo arrivato. «Perché non cerchi di essere un po' più elastico, Tool?» domandò. Lo scheletrico guerriero sembrò rifletterci, quindi annuì. «Accetto quel nome. Tutto della mia storia è ormai morto. Ora inizia una nuova esistenza e con essa un nuovo nome. Può andare.» «Perché sei stato scelto tu per accompagnarmi?» chiese l'Aggiunto. «Nelle terre a ovest e a nord di Sette Città sono l'unico del mio clan a essere sopravvissuto alla ventottesima Guerra Jaghut.» Lorn sgranò gli occhi. «Pensavo foste arrivati a ventisette», commentò. «Quando le tue legioni se ne sono andate dopo la conquista di Sette Città e vi siete spostati nelle terre desertiche...»
«Il nostro Divinatore percepì l'esistenza di un'enclave di Jaghut sopravvissuti», spiegò Tool. «Logos T'lan, il nostro comandante, decise che dovevamo sterminarli. E così facemmo.» «Cosa che spiega la vostra decimazione», osservò Lorn. «Avreste potuto comunicare la vostra decisione all'Imperatrice. Per come sono andate le cose, lei è stata lasciata senza l'esercito più forte e senza sapere quando sarebbe tornato.» «Il ritorno non era assicurato, Aggiunto», replicò Tool. Lorn fissò la creatura cenciosa. «Capisco.» «Insieme al capo del mio clan, Kig Aven, sono morti tutti i miei compagni. Io sono l'unico sopravvissuto. Il Divinatore di Kig Aven, Kilawa Onass, se n'è andato molto prima che l'Imperatore ci risvegliasse.» La mente di Lorn cominciò a correre. Nell'Impero Malazan, i T'lan Imass erano conosciuti anche come i Silenziosi. Non aveva mai conosciuto un Imass loquace come quel Tool. In quell'esercito, soltanto il comandante Logos parlava regolarmente con gli umani e per quanto riguardava i Divinatori - gli sciamani Imass - non si facevano mai vedere. L'unico apparso una volta era un certo Olar Ethil, che aveva affiancato il capo clan Eitholos Ilm durante la battaglia di Kartool. Ad ogni modo, aveva già imparato di più sugli Imass da quella breve conversazione con Tool che da quanto era scritto sugli Annali dell'Impero. Per anni gli studiosi avevano discusso sulla teoria secondo la quale l'Imperatore aveva risvegliato i T'lan Imass e ora lei sapeva che quella teoria corrispondeva alla verità. Quanti altri segreti le avrebbe svelato Tool? «Hai mai conosciuto personalmente l'Imperatore?» gli chiese. «Mi sono svegliato prima di Galad Ketan e dopo Onak Shendok e, come tutti i T'lan Imass, mi sono inginocchiato davanti all'Imperatore quando lui sedette sul Primo Trono.» «L'Imperatore era solo?» «No. Era accompagnato da un uomo di nome Dancer.» «Dannazione», imprecò Lorn. Dancer era morto accanto all'Imperatore. «Dov'è il Primo Trono, Tool?» Il guerriero restò in silenzio alcuni istanti, poi disse: «Alla morte dell'Imperatore, i Logos T'lan Imass hanno unito le menti - un evento raro mai più verificatosi dopo la Diaspora - creando così un vincolo. Aggiunto, la risposta alla tua domanda è all'interno di questo vincolo. Non posso soddisfare la tua curiosità. Questo vale per tutti i Logos T'lan Imass e per tutti i Kron T'lan Imass».
«Chi sono i Kron?» «Stanno arrivando», replicò Tool. Gocce di sudore imperlarono a un tratto la fronte dell'Aggiunto. Quando le legioni di Logos erano apparse sulla scena erano costituite da circa diciannovemila soldati. Si riteneva che ora il numero si aggirasse intorno ai quattordicimila e la maggior parte di quelle perdite era avvenuta al di là dei confini dell'Impero, nel corso di quell'ultima Guerra Jaghut. Stavano forse per arrivare altri diciannovemila Imass? L'imperatore che cosa aveva liberato? «Tool, che cosa significa che i Kron stanno arrivando?» domandò in tono pacato, quasi dispiaciuta per il suo bisogno di continuare a porre domande. «L'Anno del Trecentesimo Millennio si avvicina», rispose il guerriero. «E che cosa accadrà?» «Aggiunto, la Diaspora terminerà.» *** Il Grande Corvo di nome Crone cavalcava i venti sopra la Pianura Rhivi. L'orizzonte settentrionale era ora una curva tinta di verde, che aumentava con il passare delle ore. La stanchezza le appesantiva le ali, ma le correnti erano forti. Inoltre, niente poteva distruggere la sua certezza che importanti cambiamenti stavano per avvenire e per questo continuava ad attingere alle sue ampie riserve di potere magico. Se mai ci fosse stata un'infausta convergenza di grandi forze, sarebbe stata allora, e in quel luogo. Gli dei stavano scendendo sul suolo mortale per dare battaglia, forme di carne e ossa venivano forgiate e il sangue della magia ribolliva. Crone non si era mai sentita così viva. Il risveglio di quei poteri aveva fatto sollevare la testa a molti. E Crone volava da uno di questi, in risposta a una convocazione che non poteva ignorare. Anomander Rake non era il suo unico padrone e questo particolare rendeva il gioco ancora più interessante. E per quanto riguardava le sue ambizioni, le avrebbe tenute per sé; per il momento, la conoscenza era il suo potere. E se c'era un segreto più affascinante di qualsiasi altro, era il mistero che circondava il guerriero mezzo-umano di nome Caladan Brood. L'eccitazione sollevò le ali di Crone con rinnovata energia. A nord, la Foresta del Cane Nero stendeva il suo ampio mantello.
CAPITOLO DECIMO Kallor disse: «Ho percorso questa terra quando i T'lan Imass erano ancora bambini. Ho comandato armate forti di centomila uomini. Ho sparso il fuoco della mia collera per interi continenti, e occupato da solo alti troni. Comprendi il significato di tutto ciò?» «Si», rispose Caladan Brood. «Non impari mai.» Conversazioni di guerra (Il vicecomandante Kallor parla con l'Alto Comandante Caladan Brood, registrate dal ricognitore Hurlochel, 6° Esercito) La Locanda di Vinkaros stava appena oltre Piazza Eltrosan, nel Quartiere Opale di Pale. Questo, Toc lo sapeva dalle sue peregrinazioni in città. Ma non riusciva assolutamente a pensare a nessun ospite di sua conoscenza. Eppure, le istruzioni per quell'incontro misterioso erano state chiare. Si avvicinò guardingo alla struttura pomposa. Non vide niente di sospetto. La piazza era affollata dei soliti piccoli proprietari terrieri e dei negozi dei mercanti; guardie Malazan ce n'erano poche. L'eliminazione della nobiltà aveva avuto un gran ruolo nel rivestire l'atmosfera di Pale di una sbalordita paralisi che gravava sulla gente come un giogo invisibile. Negli ultimi giorni, Toc si era tenuto parecchio sulle sue, facendo baldoria con i compagni soldati solo quand'era dell'umore giusto; e, ultimamente, ne aveva sempre meno voglia. Con la partenza dell'Aggiunto, e la scomparsa di Tattersail, Dujek e Tayschrenn erano impegnati in compiti che si escludevano a vicenda. Il Gran Pugno era occupato a riorganizzare Pale, e il suo 5° Esercito di recente formazione; mentre il Grande Mago cercava Tattersail, evidentemente senza molto successo. Toc sospettava che la pace fra i due non sarebbe durata. Dalla sera della cena, si era tenuto lontano da ogni occasione formale, scegliendo di mangiare con i compagni invece che con gli ufficiali, com'era suo privilegio, in quanto Artiglio di grado più elevato. Per quanto lo riguardava, meno si faceva notare, e meglio era. Entrato nella Locanda di Vinkaros, si fermò. Davanti a lui c'era un cortile senza tetto con sentieri che si snodavano in un ricco giardino. Eviden-
temente, la locanda era sopravvissuta illesa all'assedio. Un ampio sentiero centrale portava direttamente a un ampio banco, dietro al quale sedeva un vecchio robusto, intento a mangiare dell'uva. Alcuni ospiti percorrevano i sentieri laterali, camminando fra le piante e conversando a voce bassa. Il messaggio aveva insistito sulla necessità di indossare abiti locali. Perciò, Toc attirò poca attenzione mentre si avvicinava al banco. Il vecchio interruppe il suo spuntino, chinando la testa. «Al vostro servizio, signore», esordì, asciugandosi le mani. «Dovrebbe esserci un tavolo prenotato a mio nome», spiegò Toc. «Sono Render Kan.» Il vecchio studiò una tavoletta di cera davanti a sé, poi alzò lo sguardo con un sorriso. «Ma certo. Seguitemi.» Un minuto dopo, Toc sedeva a un tavolo su un balcone sovrastante il giardino. Come sola compagnia, aveva una caraffa di vino ghiacciato di Saltoan, arrivata contemporaneamente a lui; sorseggiando da un calice, sorvegliava con l'unico occhio gli individui ai suoi piedi. Arrivò un servo, che gli si inchinò davanti. «Egregio signore, devo riferirvi il seguente messaggio», annunciò. «Presto vi raggiungerà un gentiluomo che è stato nell'acqua alta senza esserne consapevole. Ma ora lo è.» Toc aggrottò le sopracciglia. «Questo è il messaggio?» «Sì.» «Le sue parole esatte?» «Precisamente.» Con un altro inchino, il servo si allontanò. Il cipiglio di Toc si approfondì, mentre egli si piegava in avanti, tutti i muscoli in tensione. Si girò verso l'entrata del balcone in tempo per vedere entrare il capitano Paran. Era vestito come i proprietari terrieri locali, senza armi; sembrava piuttosto in forma. Toc si alzò, con un largo sorriso. «Non sarete troppo scioccato, spero», cominciò Paran. Si sedettero, e il capitano si versò del vino. «Il messaggio vi ha preparato?» «A malapena», rispose Toc. «Non sono sicuro di come ricevervi, Capitano. State seguendo le istruzioni dell'Aggiunto?» «Lei mi crede morto», annunciò Paran, corrugando la fronte. «E, per un po', lo sono stato. Ditemi, Toc il Giovane, sto parlando a un Artiglio, o a un soldato del Secondo?» Toc strinse gli occhi. «È una domanda difficile.» «Davvero?» chiese Paran, lo sguardo intenso e saldo. Toc esitò, poi sorrise di nuovo. «Per il respiro di Hood, no, che non lo è! Va bene, capitano, le presento ciò che resta del defunto Secondo.»
Paran scoppiò a ridere, evidentemente sollevato. «Ora, cos'è questa storia che eravate morto ma non sul serio, Capitano?» L'ilarità di Paran svanì. L'uomo prese un sorso di vino e inghiottì, distogliendo lo sguardo. «Un tentato assassinio», spiegò, con una smorfia. «Sarei morto, se non fosse stato per Mallet e Tattersail.» «Chi? Il guaritore di Whiskeyjack e la maga?» Paran annuì. «Sono stato in convalescenza fino a poco fa nell'alloggio di Tattersail. Le istruzioni di Whiskeyjack erano di tenere segreta la mia esistenza, per il momento. Toc», il capitano si chinò in avanti, «che cosa sapete dei piani dell'Aggiunto?». Toc osservò il giardino sottostante. Tattersail sapeva - ed era riuscito a tenerlo nascosto a tutti, durante la cena. Davvero notevole. «Ora», mormorò, «state interrogando un Artiglio». «Sì.» «Dov'è Tattersail?» Toc girò lo sguardo sul capitano, puntando gli occhi nei suoi. Il capitano mosse la testa di scatto. «Benissimo. Sta viaggiando per terra - verso Darujhistan. Sa che un T'lan Imass accompagna l'Aggiunto, e crede che il piano di Lorn comprenda l'uccisione di Whiskeyjack e del suo squadrone. Io non sono d'accordo. Il mio ruolo nella missione era tenere d'occhio un membro di detto squadrone, e quella persona doveva essere la sola a morire. L'Aggiunto mi ha concesso il comando dopo che ho passato tre anni al suo servizio - si tratta di una ricompensa, e non riesco a credere che me lo toglierebbe. Ecco, non so altro. Potete aiutarmi, Toc?» «Per quanto ne so io, la missione dell'Aggiunto riguarda molto più dell'uccisione di Dispiacere», rivelò Toc, dopo aver emesso un lungo sospiro. «Il T'lan Imass sta con lei per un altro scopo. Capitano», l'espressione di Toc era cupa, «gli Arsori di Ponti hanno i giorni contati. Il nome di Whiskeyjack è quasi sacro fra gli uomini di Dujek. Non sono riuscito a convincere l'Aggiunto di questo - anzi, lei sembra pensare il contrario - ma se il sergente e gli Arsori di Ponti vengono eliminati, quest'esercito non sarà ricondotto all'ordine: si ammutinerà. E l'Impero Malazan si troverà a combattere contro il Gran Pugno Dujek senza un solo comandante che possa tenergli testa. La campagna di Genabackis andrà in frantumi, ed è probabile che la guerra civile contamini il cuore dell'Impero». Paran era sbiancato in volto. «Vi credo», disse. «Avete preso i miei dubbi, trasformandoli in convinzioni. Convinzioni che mi lasciano un'unica scelta.»
«Cioè?» Paran si rigirò il calice vuoto fra le dita. «Andrò a Darujhistan», annunciò. «Con un po' di fortuna, rintraccerò Tattersail, e insieme cercheremo di trovare Whiskeyjack prima che lo faccia l'Aggiunto.» Lanciò un'occhiata a Toc. «Evidentemente, l'Aggiunto non è più in grado di individuare la mia posizione. Tattersail mi ha proibito di accompagnarla, sostenendo che Lorn sarebbe stata in grado di scoprirmi, ma si è anche lasciata sfuggire che la mia "morte" aveva tagliato i legami fra me e l'Aggiunto. Avrei dovuto farci caso prima, ma Tattersail mi ha... distratto.» Nella mente di Toc tornò il ricordo di com'era stata bella quella sera; mosse la testa in segno d'intesa. «Non stento a crederlo.» Paran sospirò. «Sì, be'. Ad ogni modo, mi servono almeno tre cavalli, e provviste. L'Aggiunto segue una specie di tabella di marcia; questo lo so. Non viaggia con particolare fretta. Dovrei raggiungere Tattersail in un paio di giorni, poi insieme potremo cavalcare di buona lena fino al margine dei Monti Tahlyn, costeggiarli e scivolare oltre l'Aggiunto.» Durante l'esposizione del piano, Toc si era appoggiato allo schienale, con un mezzo sorriso sulle labbra. «Vi serviranno destrieri Wickan, capitano, poiché ciò che avete descritto richiede cavalcature superiori a quelle che sta usando l'Aggiunto. Ora, come pensate di superare le porte della città vestito come un abitante del luogo ma guidando cavalli imperiali?» Paran batté le palpebre. Toc sogghignò. «Ho io la risposta, Capitano.» Allargò le braccia. «Verrò con voi. Lasciate a me i cavalli e le provviste, e vi garantisco che uscirete dalla città inosservato.» «Ma...» «Quelle sono le mie condizioni, Capitano.» Paran tossì. «D'accordo. E ora che ci penso, la compagnia mi sarebbe gradita.» «Bene», grugnì Toc. Allungò la mano verso la caraffa. «Beviamoci sopra, allora.» *** La strada diventava sempre più ardua, e Tattersail avvertì il suo primo fremito di paura. Percorreva un Canale di Alto Thyr, che nemmeno Tayschrenn era in grado di assalire; eppure, si trovava sotto attacco. Non direttamente. Il potere che le si opponeva era pervadente, diffuso, e smorza-
va la sua magia. Il Canale era diventato stretto, irto di ostacoli. Di tanto in tanto, le tremava all'intorno: le pareti scure su entrambi i lati si contorcevano, come sottoposte a una tremenda pressione. E l'aria puzzava di qualcosa che aveva difficoltà a identificare. C'era un'aspra punta di zolfo, e un odore di muffa che le ricordava le tombe scoperte e sembrava risucchiarle il potere a ogni respiro che tirava. Capì di non poter continuare. Sarebbe dovuta rientrare nel mondo fisico per riposare. Ancora una volta, maledì la propria trascuratezza. Aveva dimenticato il Mazzo dei Draghi; con loro, avrebbe saputo cosa aspettarsi. Fu nuovamente assalita dal sospetto che una forza esterna avesse agito su di lei, recidendo il suo legame con il Mazzo. La prima distrazione era venuta dal capitano Paran; era stata piacevole ma, ricordò a se stessa, Paran apparteneva a Oponn. Dopo di che, aveva avvertito un impulso inspiegabile a partire, tanto violento che si era lasciata tutto alle spalle. Priva del suo Canale, si sarebbe trovata sola sulla Pianura Rhivi, senza cibo, senza nemmeno una coperta. La fretta forsennata che l'aveva colta era contraria a ogni suo istinto. Diventava sempre più certa che le fosse stata imposta; che lei, Tattersail, avesse in qualche modo abbassato le sue difese, lasciandosi esposta a simili manipolazioni. E questo la fece pensare di nuovo al capitano Paran, servo della volontà di Oponn. Infine, non poté più proseguire. Cominciò a ritirare il suo stanco potere, facendosi crollare il Canale all'intorno, strato dopo strato. Il suolo sotto i suoi stivali diventò solido, rivestito di erba giallastra, e l'aria circostante assunse la spenta sfumatura lavanda del crepuscolo. Le accarezzò il viso una brezza profumata di terriccio. L'orizzonte si stabilizzò su tutti i lati; a destra, in lontananza, il sole bagnava ancora i Monti Talhyn, le cui vette scintillavano come oro. Proprio davanti a lei, si stagliò una sagoma enorme, che emise un grugnito di sorpresa. Tattersail arretrò allarmata; la voce che emerse dalla sagoma le fece uscire l'aria dai polmoni in un rumoroso sibilo di sollievo prima, e di terrore, poi. «Tattersail», esordì Bellurdan, in tono triste, «Tayschrenn non si aspettava che avresti fatto tanta strada. Per cui, pensavo di scorgerti da lontano». Il gigante Thelomen sollevò le braccia in un ampio, infantile gesto di scusa. Ai piedi, aveva un familiare sacco di tela ruvida, anche se il corpo all'interno si era rimpicciolito dall'ultima volta che la donna l'aveva visto.
«Come ha fatto il Grande Mago a ostacolare il mio Canale?» chiese lei. Sulla scia del terrore era arrivata la stanchezza, la rassegnazione, quasi. «Non era nelle sue possibilità», rispose Bellurdan. «Ha semplicemente previsto che avresti cercato di raggiungere Darujhistan, e poiché il tuo Canale Thyr non può funzionare sull'acqua, ha concluso che avresti preso questa strada.» «Allora cos'è successo al mio Canale?» Bellurdan fece un grugnito di disgusto. «Il T'lan Imass che accompagna l'Aggiunto ha creato intorno a loro uno spazio morto. La nostra magia viene divorata dagli Antichi Poteri del guerriero. L'effetto è cumulativo. Se dovessi aprire completamente il tuo Canale, saresti consumata del tutto, Tattersail.» Il Thelomen fece un passo avanti. «Il Grande Mago mi ha ordinato di arrestarti e di riportarti da lui.» «E se oppongo resistenza?» «Allora dovrò ucciderti», rispose Bellurdan, in tono carico di dolore. «Capisco.» Tattersail rifletté per un po'. Il suo mondo sembrava essersi ristretto; ogni suo ricordo era inutile, non pertinente. Il cuore le picchiava in petto come un tamburo. Tutto ciò che rimaneva del suo passato, e l'unica vera percezione della sua esistenza, era il rimpianto - un rimpianto indefinito, e tuttavia schiacciante. Alzò sul Thelomen occhi che si riempivano di compassione. «E dove sono questo T'lan e l'Aggiunto, allora?» «Forse otto ore a est. L'Imass non è nemmeno consapevole della nostra presenza. Il tempo per la conversazione è scaduto, Tattersail. Verrai con me?» La gola secca, lei ribatté: «Non ti facevo tipo da tradire un'amica di lunga data». Bellurdan allargò ulteriormente le braccia e disse, in tono afflitto: «Non ti tradirò mai, Tattersail. Il Grande Mago comanda sia me che te. Come puoi parlare di tradimento?». «Non intendo questo», spiegò Tattersail. «Una volta ti ho chiesto se potevo parlarti a lungo. Ricordi? Tu hai detto di sì, Bellurdan. Ma ora mi dici che la conversazione è finita. Non immaginavo che la tua parola fosse tanto priva di valore.» Nella luce morente, era impossibile vedere il Thelomen in viso, ma l'angoscia nella sua voce era palese. «Mi dispiace, Tattersail. Hai ragione. Ti ho dato la mia parola che avremmo parlato di nuovo. Non possiamo farlo mentre torniamo a Pale?» «No», proruppe Tattersail. «Adesso.»
Bellurdan chinò la testa. «Benissimo.» Tattersail cercò di scacciare la tensione da collo e spalle. «Ho qualche domanda», attaccò. «Primo, Tayschrenn ti ha mandato a Genabaris per un po', no? Hai guardato delle pergamene per lui.» «Esatto.» «Posso chiederti di che si trattava?» «È di vitale importanza, ora, Tattersail?» «Sì. La verità mi aiuterà a decidere se seguirti, o morire qui.» Bellurdan esitò solo un attimo. «D'accordo. Fra gli archivi strappati ai maghi della città - che furono tutti giustiziati, come sai - furono trovati alcuni frammenti copiati della Follia di Gothos, un antico tomo Jaghut...» «So di che si tratta», interruppe Tattersail. «Va' avanti.» «Come Thelomen, possiedo sangue Jaghut, anche se, naturalmente, Gothos lo negherebbe. Il Grande Mago mi aveva affidato l'esame di questi scritti. Dovevo cercare informazioni riguardanti la sepoltura di un Tiranno Jaghut, una sepoltura che era in realtà una prigione.» «Aspetta», saltò su Tattersail, scuotendo la testa. «Gli Jaghut non avevano governo. Cosa intendi dire con "Tiranno"?» «Uno il cui sangue era contaminato dall'ambizione di dominare gli altri. Questo Tiranno Jaghut assoggettò la terra che lo circondava - con tutte le cose viventi - per quasi tremila anni. Gli Imass dell'epoca cercarono di distruggerlo, ma invano. Toccò ad altri Jaghut provvedere a imprigionare il Tiranno - che trovavano abominevole quanto gli Imass.» Tattersail sentì il cuore martellare. «Bellurdan.» Lottò per articolare le parole. «Dove fu sepolto questo Tiranno?» «Ho concluso che il tumulo si trovi a sud di qui, nelle Colline Gadrobi, proprio a est di Darujhistan.» «Oh, Regina dei Sogni. Bellurdan, lo sai cos'hai fatto?» «Ho eseguito gli ordini del nostro Grande Mago.» «E questo è il motivo per cui il T'lan Imass è con l'Aggiunto.» «Non capisco quello che dici, Tattersail.» «Maledizione, sei un mulo senza cervello!» sbottò lei. «Intendono liberare il Tiranno! La spada di Lorn - la sua spada Otataral...» «No», tuonò Bellurdan. «Non farebbero una cosa del genere. Piuttosto, cercano di impedire che lo liberi qualcun altro. Sì, è più probabile. La verità è questa. Ora, Tattersail, la nostra conversazione è finita.» «Non posso tornare indietro», decretò la maga. «Devo proseguire il mio viaggio. Ti prego, non fermarmi.»
«Dobbiamo rientrare a Pale», ripeté ostinatamente Bellurdan. «La tua richiesta è stata accontentata. Permettimi di riportarti indietro, cosicché io possa continuare a cercare il posto giusto per seppellire Nightchill.» A Tattersail non restava scelta, eppure doveva esserci una via d'uscita. La conversazione le aveva fatto guadagnare tempo, tempo per riprendersi dalla fatica di viaggiare via Canale. Le giunsero alla mente le parole di Bellurdan: se fosse entrata nel suo Canale Thyr in quel momento, sarebbe stata consumata. Incenerita dall'influenza reattiva del T'lan Imass. Gli occhi le caddero sul sacco di tela accanto al Thelomen; emanava un debole barlume di magia. Un incantesimo. Il mio incantesimo. Ora ricordava: un gesto di compassione, un incantesimo di... conservazione. È questa la mia via d'uscita? Per il respiro di Hood, è mai possibile? Pensò a Hairlock, al suo viaggio da un corpo morente a un... contenitore senza vita. Shedenul, abbi pietà di noi... Facendo un passo indietro, Tattersail aprì il suo Canale. La magia dell'Alto Thyr le fiammeggiò all'intorno. Vide Bellurdan barcollare, poi raddrizzarsi. Il gigante urlò qualcosa, ma lei non poteva sentirlo. Poi lui le balzò contro. Nello stesso momento in cui, il suo mondo oscurato dal fuoco, apriva le braccia per stringerlo, si rammaricò del coraggio fatale del Thelomen. *** Lorn raggiunse Tool a grandi passi. Il T'lan Imass guardava verso ovest, ed era avvolto da una tensione che la donna riusciva quasi a vedere. «Che cos'è?» chiese lei, gli occhi sulla bianca fontana di fuoco che si innalzava sopra l'orizzonte. «Non ho mai visto niente del genere.» «Nemmeno io», rispose Tool. «È all'interno della barriera che ho eretto intorno a noi.» «Ma è impossibile», sbottò l'Aggiunto. «Sì, è impossibile che duri tanto a lungo. La sua fonte avrebbe dovuto essere consumata quasi immediatamente. Eppure...» Il T'lan Imass ammutolì. Non c'era bisogno che Tool finisse la frase. Il pilastro di fuoco continuava a infuriare nella notte. Le stelle nuotavano nel cielo inchiostro, intorno alla magia che vorticava frenetica, come proveniente da un pozzo senza fondo. Sulle ali del vento, arrivò un odore che diede a Lorn una leggera nausea. «Riconosci il Canale, Tool?»
«I Canali, Aggiunto. Tellan, Thyr, Denul, D'riss, Tennes, Thelomen Toblakai, Starvald Demelain...» «Starvald Demelain? Che cos'è, in nome di Hood?» «Un Canale Antico.» «Credevo che ci fossero solo tre Canali Antichi, e non si tratta di uno di quelli.» «Tre? No, ce n'erano molti, Aggiunto, e tutti nati da uno. Lo Starvald Demelain.» Lorn si strinse il mantello addosso, gli occhi sulla colonna di fuoco. «Chi potrebbe operare un prodigio del genere?» «C'era uno... una volta. Ma adoratori non ne sono rimasti, per cui non esiste più. Non ho risposta alla tua domanda, Aggiunto.» L'Imass barcollò mentre il pilastro sbocciava verso l'esterno, per poi spegnersi. Li raggiunse un lontano rombo di tuono. «Sparito», mormorò Lorn. «Distrutto», osservò Tool. Il guerriero inclinò la testa. «Strano, la fonte è davvero distrutta. Ma è anche nato qualcosa. Percepisco una nuova presenza.» Lorn controllò la sua spada. «Che cos'è?» indagò. Tool scosse le spalle. «Non so; è nuova, e sta fuggendo.» C'era da inquietarsi? Lorn aggrottò la fronte, volgendosi verso il T'lan Imass, ma lui aveva già lasciato il suo fianco, per dirigersi velocemente al loro fuoco da bivacco. L'Aggiunto lanciò un'altra occhiata all'orizzonte occidentale. Una nuvola oscurava le stelle. Pareva enorme. La donna rabbrividì. Era ora di dormire. L'Imass avrebbe montato la guardia, per cui non doveva preoccuparsi di visitatori inaspettati. La giornata era stata lunga, e lei aveva ecceduto con il razionamento dell'acqua. Si sentiva stanca, una sensazione inconsueta, per lei. Il suo cipiglio si aggravò, mentre tornava all'accampamento. La posizione di Tool, in piedi, immobile, accanto alle fiamme, le ricordò l'arrivo di lui, due giorni prima. Il bagliore vivido che guizzava sul suo elmo di carne e ossi essiccati le smosse nella mente qualcosa di primordiale, accompagnato da una profonda, irrazionale paura del buio. Si avvicinò all'Imass. «Il fuoco è vita», mormorò; la frase sembrò salire dalle profondità dell'istinto. Tool annuì. «La vita è fuoco», ripeté. «Con queste parole nacque il Primo Impero. L'Impero di Imass, l'Impero dell'Umanità.» Il guerriero si girò verso l'Aggiunto. «Complimenti, bambina mia.»
*** La grigia cortina di fumo aleggiava immobile sopra la Foresta del Cane Nero, a una dozzina di leghe verso nord, mentre Crone abbassava la coda aperta, lasciandosi scivolare stancamente verso l'esercito accampato sulla Pianura Rhivi. Le tende sparavano all'infuori come raggi da un mozzo centrale: un ampio tendone, che si increspava alla brezza mattutina. Il Grande Corvo puntò verso di esso. Il suo sguardo acuto distinse gli abitanti della pianura che si muovevano fra i corridoi. Sul margine orientale, sventolavano le bandiere verdi e argento, a indicare il contingente mercenario dell'esercito di Caladan Brood. La stragrande maggioranza dei soldati, tuttavia, era costituita dai Tiste Andii, il popolo di Anomander Rake, i residenti della città dentro alla Progenie della Luna; le loro forme alte, vestite di scuro, sgusciavano fra le tende come ombre. Piste segnate da ruote conducevano a nord, ai bordi della foresta: vie di rifornimento alle trincee una volta controllate dai Malazan e ora contrassegno delle prime linee di Caladan Brood. Carri guidati da Rhivi spingevano in avanti un fiume infinito di provviste, mentre altri, carichi di morti e di feriti, entravano nell'accampamento in un flusso sinistro. Crone fece una risata chioccia. Dal tendone principale, s'irradiò un incantesimo, che tinse l'aria grigiastra di un magenta cupo, ricco, il colore del Canale D'riss, quello della magia terrestre. Le sue ali, diventate leggere, battevano l'aria con slancio giovanile. «Ah», sospirò, «la magia». Insinuandosi fra trappole e difese incantate, il Grande Corvo sorvolò il tendone e vi atterrò davanti con un rapido frullio. Non c'erano guardie a presidiare l'entrata, che era stata lasciata aperta, il lembo di tela legato a un palo di sostegno. Crone saltellò all'interno. A eccezione di una piccola cortina appesa in fondo, dietro alla quale stava una bassa branda, nel tendone non erano state create altre divisioni. Al centro, troneggiava un tavolo massiccio, sulla cui superficie erano incisi i contorni della terra circostante. Un uomo, solo, vi stava chino, con le spalle all'entrata. Sull'ampia schiena aveva legato un enorme martello di ferro; malgrado la grandezza e il peso evidenti, sembrava quasi un giocattolo contro quella distesa di ossa e di muscoli. Il potere emanava da quella figura in onde muschiate. «Ritardi, ritardi», borbottò Crone, svolazzando in cima al tavolo.
Caladan Brood fece un grugnito distratto. «Hai avvertito la tempesta di magia ieri notte?» chiese lei. «Avvertito? Si poteva vedere. Gli sciamani Rhivi sono alquanto turbati, ma non hanno risposte. Ne parleremo più tardi, Crone. Ora devo pensare.» Crone piegò la testa sulla mappa. «Il fianco occidentale fugge nel più totale scompiglio. Chi comanda quella massa di Barghast?» «Quando li hai avvistati?» indagò Brood. «Due giorni fa. Solo un terzo della forza originaria rimaneva in vita.» Brood scosse la testa. «Jorrick Lancia-Acuta, che ha sotto di sé cinquemila Barghast e sette Spade della Guardia Cremisi.» «Lancia-Acuta?» Crone scoppiò in una risata sibilante. «Pieno di sé, vero?» «Sì, ma sono stati i Barghast a chiamarlo così. Stavo dicendo che cinque legioni di Moranth Dorati gli sono piombati addosso tre giorni fa. Jorrick si è ritirato col favore delle tenebre, e ha perso due terzi dell'esercito a est e a ovest - i suoi Barghast hanno il dono di scomparire dove non c'è riparo possibile. Ieri, la sua cricca in preda al panico ha fatto dietro-front, incontrando i Dorati. I suoi Barghast sono avanzati come tenaglie. Due legioni Moranth sono state spazzate via, e le altre tre sono scappate nella foresta lasciando metà delle provviste sparse nella pianura.» Crone inclinò la testa. «Era un piano di Jorrick?» Brood l'imitò. «Appartiene alla Guardia Cremisi, anche se i Barghast lo definiscono uno di loro. È giovane, quindi impavido.» Il corvo studiò la mappa. «E l'est? Come regge Fox Pass?» «Be'», cominciò Brood, «dall'altra parte ci sono soprattutto coscritti di Stannis, che dimostrano ai Malazan una riluttante alleanza. Vedremo il coraggio della Guardia Cremisi fra dodici mesi, quando la prossima ondata di soldati Malazan sbarcherà a Nisst». «Perché non spingere a nord?» propose Crone. «Il principe K'azz potrebbe affrancare le Città Libere durante l'inverno.» «Il principe e io siamo d'accordo su questo», ribatté Brood. «Lui rimarrà dov'è.» «Perché?» insistette Crone. Brood grugnì. «La nostra strategia è affar nostro.» «Bastardi sospettosi», borbottò Crone. Zampettò lungo il bordo meridionale della mappa. «Il tuo basso ventre non offre una visione confortante. Fra te e Pale ci sono solo abitanti della pianura. E ora questa è attraversata da forze di cui nemmeno i Rhivi sanno niente - eppure tu mostri scarsa
preoccupazione, guerriero. Perché, si domanda Crone?» «Mi sono messo in contatto con il principe K'azz e i suoi maghi, e con gli sciamani Barghast e Rhivi. La creatura nata sulla pianura ieri notte non appartiene a nessuno. È sola, e spaventata. I Rhivi sono già partiti alla sua ricerca. Preoccupato? No, non per questo; nel sud sta succedendo molto altro.» Brood si raddrizzò. «E c'è di mezzo Anomander», osservò Crone, con voce melliflua. «Studia trame e controtrame, spargendo vetri rotti sul sentiero di tutti. Non l'ho mai visto di umore migliore.» «Basta pettegolezzi. Hai notizie per me?» «Ma certo, padrone.» Crone allargò le ali con un sospiro. Infilò il becco in un punto che le prudeva, sgranocchiò una pulce e l'inghiottì. «So chi possiede la Moneta Rotante.» «Chi?» «Un giovane la cui fortuna è la sua ignoranza. La moneta gira e rivolge una faccia a tutti i suoi compagni. Ognuno ha il proprio gioco, ma tutto convergerà in un disegno più ampio, e così i tenui fili di Oponn si ripercuotono in sfere altrimenti immuni all'influenza del Giullare.» «Che cosa sa Rake?» «Di questo, poco. Ma conosci bene la sua antipatia per Oponn. Se ne avesse la possibilità, taglierebbe quei fili.» «Idiota», bofonchiò Brood. Rifletté per un po', senza muoversi, come una statua di ferro e pietra, mentre Crone percorreva goffamente la Pianura Rhivi, disseminando qua e là con i lunghi artigli neri, quasi fossero tessere del domino, le pedine di legno che segnavano reggimenti e divisioni. «Senza Oponn, il potere di Rake è attualmente ineguagliato», commentò Brood. «Troneggia su Darujihistan come un faro e l'Imperatrice gli manderà per forza qualcosa contro. Una battaglia del genere...» «Raderebbe Darujhistan al suolo», cinguettò allegramente Crone. «La dodicesima fiamma; e così le Città Libere voleranno come cenere al vento.» «Il disprezzo di Rake per tutto quello che è sotto di lui ci ha mandati troppe volte faccia a terra», decretò Brood. Lanciò un'occhiata a Crone, alzando un sopracciglio senza peli. «Mi stai scompigliando gli eserciti. Finiscila.» Crone smise di camminare e si accovacciò. «Ancora una volta», sospirò, «il Grande Guerriero Caladan Brood cerca la via incruenta. Rake otterrà quella moneta, tirerà dentro Oponn e infilzerà il Signore e la Signora su
quella sua bellissima spada. Immagina il caos che seguirebbe - uno splendido flusso di conseguenze che potrebbe rovesciare dei e sommergere reami». Udì la propria eccitazione e ne trasse ulteriore diletto. «Uno spasso.» «Buona, uccello», intimò Brood. «Il Portatore della Moneta ha bisogno di protezione, ora che Rake ha richiamato i suoi maghi.» «Ma chi può competere con i Tiste Andii?» chiese Crone. «Certo non intenderai lasciare la tua campagna qui?» Brood scoprì i denti limati in un sogghigno malevolo. «Ah, ti ho colto in fallo, a quanto pare. Bene. Devi abbassare un po' le ali, Crone. Come ci si sente a non sapere tutto?» «Ti consento di torturarmi così, Brood», stridette Crone, «solo perché rispetto il tuo caratteraccio. Ma non provocarmi troppo. Dimmi, chi c'è nelle vicinanze che possa competere con i maghi di Rake? Lo devo sapere. Tu e i tuoi segreti. Come faccio a servire fedelmente i desideri del mio padrone quando questi mi nasconde informazioni vitali?». «Che cosa sai della Guardia Cremisi?» indagò Brood. «Poco», rispose Crone. «Una compagnia di mercenari tenuta in gran conto da gentaglia come i suoi simili, bella roba.» «Chiedi ai Tiste Andii di Rake che cosa ne pensano, cornacchia.» Crone arruffò le penne indignata. «Cornacchia? Non starò qui a farmi ingiuriare. Me ne vado. Torno alla Luna, a stendere una lista di insulti per Caladan Brood tanto lunga da insozzare tutti i regni!» «Addio, allora», salutò Brood, con un sorriso. «Ottima decisione.» «Se solo Rake non fosse ancora più spilorcio di te», commentò Crone, allontanandosi a saltelli, «le mie abilità di spia verrebbero usate contro di te, anziché lui». «Un'ultima cosa, Crone», la chiamò Brood. Lei si fermò all'entrata, inclinando la testa. Il guerriero aveva riportato l'attenzione sulla mappa. «Quando ti troverai sulla parte più meridionale della Pianura Rhivi, bada a quali poteri attivi percepisci lì. Ma sta' attenta. Qualcosa bolle in pentola, e puzza.» Per tutta risposta, Crone fece una risata chioccia, e partì. Brood si chinò sulla mappa, riflettendo intensamente. Rimase immobile per quasi venti minuti, poi si raddrizzò. Uscendo dal tendone, scrutò il cielo. Crone era sparita. Con un grugnito, si girò a esaminare le tende più vicine. «Kallor! Dove sei?» Un uomo alto e grigio emerse da dietro una tenda e si avvicinò lentamente a Brood. «I Dorati si sono impantanati nella foresta, Alto Coman-
dante», annunciò con voce acuta, puntando gli occhi antichi, senza vita, in quelli di Brood. «Dalle Alture Laederon sta scendendo una tempesta. I Quorl dei Moranth rimarranno bloccati a terra per un po'.» Brood annuì. «Ti lascio il comando. Io vado a Fox Pass.» Kallor alzò un sopracciglio. Brood lo fissò, poi disse: «Non eccitiamoci troppo. La gente comincerà a pensare che non sei poi tanto annoiato quanto mostri di essere. Devo incontrare il principe K'azz». Un lieve sorriso increspò le labbra sottili di Kallor. «Che follia ha compiuto Jorrick Lancia-Acuta, stavolta?» «Nessuna, per quanto ne sappia», rispose Brood. «Non essere troppo severo con il ragazzo, Kallor. Ha condotto bene l'ultima azione. Ricorda, sei stato giovane anche tu.» Il vecchio guerriero scosse le spalle. «L'ultimo successo di Jorrick appartiene alla Signora della Fortuna. Certo non era frutto del suo genio.» «Non intendo contestarlo.» «Se posso chiederlo, per quale ragione volete parlare con K'azz di persona?» Brood si guardò intorno. «Dov'è il mio maledetto cavallo?» «Probabilmente, sta rannicchiato da qualche parte per la paura», ribatté seccamente Kallor. «Si dice che le sue zampe siano diventate più corte e più tozze sotto la vostra sublime persona. Io rimango scettico che una cosa del genere possa succedere, ma chi può discutere con un cavallo?» «Mi servono alcuni uomini del principe», spiegò Brood, imboccando un corridoio fra le tende. «Per la precisione», aggiunse, girando la testa, «mi serve la Sesta Spada della Guardia Cremisi». Guardando Caladan Brood allontanarsi a grandi passi, Kallor sospirò. «Di nuovo Rake, eh, Alto Comandante? Fareste meglio a seguire il mio consiglio e distruggerlo. Vi pentirete di non averlo fatto, Brood.» I suoi occhi spenti lo seguirono finché non svoltò un angolo, scomparendo alla vista. «Consideratelo il mio ultimo avvertimento.» *** La terra bruciacchiata scricchiolava sotto gli zoccoli dei loro cavalli. L'occhiata che Toc il Giovane si lanciò alle spalle fu accolta da un cupo cenno di assenso da parte del Capitano Paran. Si stavano avvicinando all'origine della colonna di fuoco della notte prima.
Come Toc aveva promesso, uscire dalla città era stato semplice; nessuno li aveva accostati, e le porte erano state lasciate socchiuse. I cavalli erano veramente di razza Wickan, snelli e dalle lunghe zampe; e anche se appiattivano le orecchie e roteavano gli occhi, rispettavano la disciplina imposta dalle redini. L'aria immobile del mezzogiorno era greve di zolfo, e già un sottile strato di cenere copriva i due uomini e i loro cavalli. Sulle loro teste, il sole era uno splendente globo di rame. Toc fermò il suo destriero, e aspettò che arrivasse il capitano. Paran si asciugò dalla fronte il sudore rigato di sporco, aggiustandosi l'elmo. Il camaglio gli pesava sulle spalle; strinse gli occhi per scrutare la strada avanti a sé. La notte prima il capitano aveva provato una profonda paura: né lui né Toc avevano mai assistito a una tale esplosione di magia. Nonostante fossero accampati a leghe di distanza, avevano sentito il calore che ne emanava. Ora che giungevano alla fonte, Paran era pervaso dal terrore. Né lui né Toc parlavano. Forse a un centinaio di iarde a est si levava qualcosa che somigliava a un ceppo d'albero deforme, con un ramo annerito, contorto, allungato verso il cielo. Intorno, un cerchio perfetto di terreno erboso si estendeva, intatto, per circa cinque iarde. Paran diede una manata di incitamento al cavallo, e Toc lo imitò, dopo aver preso e incordato l'arco. Quando arrivò all'altezza del capitano, questi vide che il suo compagno aveva incoccato una freccia. Più si avvicinavano, e più la cosa carbonizzata perdeva l'aspetto di un albero. Il ramo che ne sporgeva aveva contorni familiari. Paran strinse ulteriormente gli occhi, poi imprecò e spronò il cavallo. Percorse rapidamente la distanza, lasciandosi dietro un Toc stupefatto. Smontò di sella e andò a grandi passi verso quelli che ora riconosceva come due corpi, di cui uno gigantesco. Entrambi erano stati resi irriconoscibili dal fuoco, ma Paran non aveva illusioni sull'identità dell'altro. L'unica persona che mi è venuta vicina, l'unica persona di cui mi importi... «Tattersail», mormorò, cadendo in ginocchio. Toc lo raggiunse, ma rimase in sella, alzandosi sulle staffe ed esaminando l'orizzonte. Un attimo dopo, scese e camminò lentamente, in cerchio, intorno ai corpi abbracciati, fermandosi alla macchia scura che avevano visto da lontano. Si accovacciò per studiarla. Paran alzò la testa, sforzandosi di tenere gli occhi sui due. Il braccioramo apparteneva al gigante. Il fuoco che li aveva consumati entrambi
l'aveva annerito per quasi tutta la lunghezza, ma la mano era solo leggermente bruciata. Paran fissò le dita protese verso il cielo, e si chiese quale salvezza il gigante avesse cercato di afferrare nel momento della fine. La libertà della morte, una libertà che a me è negata. Siano dannati gli dei, siano dannati tutti quanti. Stordito, non capì subito che Toc lo stava chiamando. Fece fatica a rimettersi in piedi. Raggiunse Toc a passo malfermo. Sul terreno davanti a questi c'era un sacco di tela lacera. «Ne partono delle impronte», annunciò Toc con voce tremante, una strana espressione in viso. Si grattò vigorosamente la cicatrice, poi si alzò. «Dirette a nordest.» Paran lo guardò senza capire. «Impronte?» «Piccole, come quelle di un bambino. Solo che...» «Solo che cosa?» L'uomo si strinse le braccia intorno al petto. «Quei piedi erano soprattutto ossa.» Incrociò lo sguardo sconcertato di Paran. «Come se le piante fossero marcite, o bruciate - non so... Qui è successo qualcosa di orribile, capitano. Sono contento che quella creatura stia andando via, di qualunque cosa si tratti.» Paran si girò a guardare le due figure allacciate. Sussultò, alzando una mano a toccarsi il viso. «Quella è Tattersail», disse, in tono piatto. «Lo so. Mi dispiace. L'altro è Bellurdan, il Grande Mago Thelomen. È logico.» Toc abbassò gli occhi sul sacco di tela. «Aveva chiesto il permesso di venire qui a seppellire Nightchill. Non credo che Nightchill abbia più bisogno di essere seppellita», aggiunse sommessamente. «È Tayschrenn il responsabile», decretò Paran. Qualcosa nella voce del capitano fece alzare la testa a Toc. «Tayschrenn. E l'Aggiunto. Tattersail aveva ragione; altrimenti non l'avrebbero uccisa. Però non ha avuto una morte facile, non prendeva mai la via facile in niente. Lorn l'ha portata via da me, come mi ha portato via tutto il resto.» «Capitano...» Paran serrò inconsciamente il pomo della spada. «Quella strega senza cuore subirà un bel colpo, e sarò io ad assestarglielo.» «Benissimo», ruggì Toc. «Però facciamolo bene.» Paran gli lanciò un'occhiata severa. «Andiamo, Toc il Giovane.» Toc guardò un'ultima volta il nordest. Non era finita, si disse, rabbrividendo. Trasalì quando un pizzicore violento, feroce, si levò sotto la sua
cicatrice. Malgrado i suoi sforzi, scoprì di non riuscire a raggiungerlo. E un fuoco informe gli bruciava dietro l'orbita oculare vuota - cosa che, ultimamente, gli capitava spesso. Borbottando, andò al suo cavallo e montò in sella. Il capitano aveva già girato verso sud il suo destriero e l'altro cavallo. La posizione rigida della sua schiena la diceva lunga a Toc il Giovane, che si chiese se non avesse commesso un errore nell'accompagnarlo. Poi scosse le spalle. «Be'», disse ai due corpi bruciati, mentre li superava, «ormai è fatta, no?». *** La pianura giaceva avvolta nelle tenebre. Guardando a ovest, Crone poteva ancora vedere il sole del tramonto. Cavalcava le correnti più alte, e l'aria intorno a lei era gelida. Il Grande Corvo aveva lasciato Caladan Brood due giorni prima. Da allora, non aveva visto segno di vita nelle lande sottostanti. Persino le enormi greggi di Bhederin, che i Rhivi avevano l'abitudine di seguire, erano scomparse. La notte, i sensi di Crone erano limitati, anche se era proprio nell'oscurità che meglio riusciva a individuare gli incantesimi. Continuando il volo verso sud, scrutò il terreno con occhio avido. Altri suoi fratelli della Progenie della Luna pattugliavano regolarmente le pianure al servizio di Anomander Rake. Doveva ancora incontrarne uno, ma era solo questione di tempo; allora, gli avrebbe chiesto se, ultimamente, avesse riconosciuto qualche fonte di magia. Brood non era tipo da avere reazioni eccessive. Se laggiù stava accadendo qualcosa che gli lasciava la bocca amara, poteva essere di rilievo eccezionale, e lei voleva venirlo a sapere prima di chiunque altro. Un fuoco lampeggiò nel cielo davanti a lei, forse a una lega di distanza. Divampò per poco, color verde e blu, poi si spense. Crone si irrigidì. Quella era magia, ma di un tipo a lei sconosciuto. Entrando in quella zona, fu avvolta da un'aria calda e umida, con un puzzo orrendo che le ricordava inclinò la testa - le penne bruciate. Risuonò un grido, rabbioso e spaventato. Crone aprì il becco per rispondere, poi lo richiuse. Veniva da qualcuno della sua razza, ne era certa, ma per una ragione o per l'altra sentiva il bisogno di mantenere il silenzio. Lampeggiò un'altra palla di fuoco, stavolta abbastanza vicina da permetterle di vedere che cosa racchiudeva: un Grande Corvo.
Il respiro le uscì dal becco con un sibilo. In quel breve istante di luce, aveva visto un'altra dozzina dei suoi fratelli volteggiare nel cielo che la precedeva e più a ovest. Battendo rapidamente le ali, si diresse verso di loro. Quando si sentì circondata dai loro svolazzi frenetici, chiamò: «Bambini! Ascoltate Crone! È arrivata la Grande Madre!». Emettendo grida di sollievo, i corvi le si strinsero intorno. Stridettero all'unisono nel tentativo di dirle cosa stava accadendo, ma il sibilo furioso di Crone li zittì tutti insieme. «Ho sentito fra le vostre la voce di Hurtle», annunciò. «O mi sbaglio?» Un maschio la raggiunse velocemente. «Non ti sbagli», rispose. «Io sono Hurtle.» «Arrivo ora dal nord, Hurtle. Spiegami cos'è successo.» «Un po' di confusione», disse lui in tono sarcastico. Crone fece una risata chioccia. Adorava le battute. «Già! Va' avanti, ragazzo!» «Prima del crepuscolo Kin Clip ha individuato un'esplosione di magia sotto di lei. Le ha dato una sensazione insolita, ma era chiaro che un Canale si era appena aperto e qualcosa ne era uscito sulla pianura. Kin Clip me ne ha parlato, poi è andata in avanscoperta. Io l'ho seguita da sopra durante la discesa, per cui ho visto quello che ha visto lei. Crone, sono dell'opinione che, ancora una volta, sia stata esercitata l'arte della trasmigrazione delle anime.» «Eh?» «Quella che era uscita dal Canale e camminava sulla pianura era una piccola marionetta», spiegò Hurtle, «animata e dotata di grande potere. Scorgendo Clip, le ha rivolto dei gesti, e Clip è stata avvolta dalle fiamme. Da allora, la creatura si è rintanata nel suo Canale, ricomparendo solo per uccidere un altro di noi». «Perché resti qui?» indagò Crone. Hurtle ridacchiò. «Volevo determinare la sua rotta, Crone. Finora, sembra viaggiare verso sud.» «Benissimo. Ora che lo sai, vattene e porta gli altri con te. Torna alla Progenie della Luna a fare rapporto al nostro signore.» «Agli ordini, Crone». Inclinando le ali, Hurtle scivolò nel buio. Emise un grido, cui fece eco un coro. Crone aspettò. Voleva essere sicura che tutti avessero lasciato la zona prima di svolgere le sue indagini personali. La marionetta era la cosa nata
nella colonna di fuoco? Sembrava improbabile. E che tipo di magia usava, perché nessun Grande Corvo fosse in grado di assorbirla? C'era di mezzo la Magia Antica. La trasmigrazione delle anime non era un incantesimo semplice, e non era mai stata comune fra i maghi, anche quando si sapeva come praticarla. Giravano troppe storie di follia provocata dal passaggio. Forse la marionetta era una superstite di quei tempi. Crone ci pensò: era poco probabile. La magia sbocciò sulla pianura sottostante, poi sbiadì. Dal punto dell'esplosione, una piccola forza magica uscì serpeggiando velocemente. Lì, si disse il Grande Corvo, lì stanno le risposte alle mie domande. Distruggi i miei piccoli, eh? Te la caveresti tanto facilmente con Crone? Piegando le ali, puntò verso il basso. L'aria fischiò intorno a lei. Creò un'aura di magia protettiva che la circondò nel preciso momento in cui la piccola figura cessava la sua marcia e alzava lo sguardo. Debolmente, Crone udì una risata folle levarsi verso di lei, poi la marionetta fece dei gesti. Il potere che avvolse Crone era immenso, di molto superiore al previsto. Le sue difese ressero, ma si ritrovò sballottata, come se venisse presa a pugni da tutte le parti. Gridando di dolore, cadde a spirale. Impiegò tutta la sua energia e la sua forza di volontà per spiegare le ali malconce e infilarsi in una corrente ascensionale. Con un urlo di indignazione e di allarme, risalì nel cielo notturno. Un'occhiata verso il basso le rivelò che la marionetta era ritornata al suo Canale, perché non si vedeva più niente di magico. «Uff!» sospirò. «La conoscenza si paga a caro prezzo! È proprio un Canale Antico, il più antico di tutti. Chi gioca con il Caos? Crone non ne sa niente. Cose di ogni genere si raccolgono, si raccolgono qui.» Trovò un altro flusso d'aria e virò verso sud. Anomander Rake doveva essere informato, in barba alle istruzioni di Caladan Brood che il signore dei Tiste Andii fosse tenuto all'oscuro quasi di tutto. Rake era più abile di quanto Brood pensasse. «Abile nel distruggere, tanto per cominciare.» Crone rise. «E nell'uccidere. Abile nell'uccidere!» Aveva preso velocità, e non notò la macchia fosca sulla terra sottostante, né la donna che vi stava accampata al centro. E comunque, lì la magia non c'entrava niente. ***
Accovacciata accanto alla coperta arrotolata, l'Aggiunto Lorn scrutava il cielo notturno. «Tool, tutto questo era legato a ciò cui abbiamo assistito due notti fa?» Il T'lan Imass scosse la testa. «Credo di no, Aggiunto. Stavolta, sono ancora più preoccupato. Si tratta di magia, e supera la barriera che ho eretto intorno a noi.» «Come?» chiese lei sommessamente. «C'è solo una possibilità, Aggiunto. È un Canale Antico, appartenente a ere passate, riapparso ai tempi nostri. Chiunque sia a manovrarlo, dobbiamo pensare che ci insegua, con uno scopo.» Lorn si tirò in piedi stancamente, poi stirò la schiena, sentendo schioccare le vertebre. «Il suo odore è quello di Tronod'Ombra?» «No.» «Allora non partirei dal presupposto che ci stia inseguendo, Tool.» Guardò la sua coperta. Tool si girò verso la donna e, in silenzio, la guardò prepararsi a dormire. «Aggiunto», riprese, «questo cacciatore sembra in grado di penetrare le mie difese, e quindi potrà aprire il portale del suo Canale proprio dietro di noi, una volta che ci troverà». «Non ho paura della magia», borbottò Lorn. «Fammi dormire.» Il T'lann Imass smise di parlare, ma continuò a fissare la donna mentre le ore notturne passavano lente. Tool si spostò leggermente quando l'alba illuminò l'est, poi si immobilizzò di nuovo. Con un gemito, Lorn si girò sulla schiena sentendo un raggio di sole colpirla in viso. Aprì gli occhi e batté rapidamente le palpebre, poi s'irrigidì. Alzando piano la testa, trovò il T'lan Imass che torreggiava su di lei. E, sospesa a una spanna dalla sua gola, c'era la punta della spada di selce del guerriero. «Il successo», esordì Tool, «richiede disciplina, Aggiunto. Ieri sera abbiamo assistito a una manifestazione di Antica Magia, che si è scelta i corvi come bersaglio. Forse penserai che la combinazione delle mie abilità con le tue garantisca la nostra sicurezza. Ma non è così». Il T'lan Imass ritirò la spada, facendosi da parte. Lorn tirò un respiro tremante. «Una pecca», disse, fermandosi a schiarirsi la gola prima di continuare, «che sono pronta a riconoscere, Tool. Grazie per avermi avvertito della mia negligenza». Si mise a sedere. «Dimmi, non ti sembra strano che questa Pianura Rhivi, che dovrebbe essere deserta, pulluli invece di attività?»
«Convergenze», rispose Tool. «Il potere attira sempre altro potere. Non è un'idea complicata, eppure è sfuggita a noi, gli Imass.» L'antico guerriero volse la testa verso l'Aggiunto. «Come sfugge ai loro figli. Gli Jaghut compresero bene il pericolo. Si evitarono a vicenda, si abbandonarono reciprocamente alla solitudine, e lasciarono che una civiltà si riducesse in polvere. Pure i Forkrul Assail capirono, anche se scelsero un'altra strada. Lo strano, Aggiunto, è che, di questi tre popoli fondatori, siano stati gli Imass a far sopravvivere nel tempo il loro lascito di ignoranza.» Lorn fissò Tool. «Era una battuta?» chiese. Il T'lan Imass si aggiustò l'elmo. «Dipende dal tuo umore, Aggiunto.» La donna si tirò in piedi, e andò a controllare i cavalli. «Diventi sempre più strano, Tool», disse sommessamente, più a se stessa che all'Imass. Le tornò alla mente la prima cosa che aveva visto nell'aprire gli occhi - quella maledetta creatura con la sua spada. Per quanto tempo era rimasto in quella posizione? Per tutta la notte? L'Aggiunto si fermò a saggiare cautamente lo stato della spalla. Stava guarendo in fretta. Forse la lesione non era tanto grave quanto aveva pensato all'inizio. Mentre sellava il suo cavallo, lanciò un'occhiata a Tool. Il guerriero la scrutava. Che genere di pensieri potevano occupare la mente di qualcuno che viveva da tremila anni? E gli Imass vivevano veramente? Prima di incontrare Tool, li aveva sempre ritenuti esseri soprannaturali, senz'anima, fatti solo di carne animata da qualche forza esterna. Ma ora non ne era più tanto sicura. «Dimmi, Tool, cos'hai nella testa?» L'Imass scosse le spalle prima di rispondere. «Penso alla futilità, Aggiunto.» «Tutti gli Imass pensano alla futilità?» «No. La maggior parte non pensa affatto.» «E perché?» Lui piegò la testa da una parte e la guardò. «Perché, Aggiunto, è un'attività futile.» «Andiamo, Tool. Stiamo perdendo tempo.» «Sì, Aggiunto.» Lorn montò in sella, chiedendosi cosa significasse veramente quel «sì». LIBRO QUARTO
I SICARI Ho sognato una moneta Dal volto mutevole Quanti volti giovanili, quanti sogni preziosi, e girava e suonava intorno al bordo dorato di un calice incastonato di pietre preziose. Vita di Sogni Ilbares la Strega CAPITOLO UNDICESIMO La notte era scesa mentre vagavo il mio spirito slegato dalla terra o dalla pietra districato dall'albero libero da chiodi di ferro ma come la notte stessa un sussurro d'aria privato di luce così giunsi da loro, gli scalpellini che tagliano e incidono la pietra nella notte illuminati dalle stelle e guidati da una mano. «Che ne è del sole?» chiesi loro. «Non è forse il suo mantello rivelatore, il calore della ragione delle vostre forme?» E uno fra loro rispose: «Nessuna anima può sopportare gli strali di luce del sole e la ragione si offusca quando scende l'oscurità -
così nella notte noi modelliamo tumuli per te e la tua specie». «Allora perdonate la mia interruzione», dissi io. «I morti non interrompono», replicò lo scalpellino, «arrivano». La Pietra del Povero Darujhistan Un'altra notte, un altro sogno», borbottò Kruppe, «con solo un misero focherello a tenere compagnia a questo viandante». Allungò le mani sulle fiamme crepitanti che non conoscevano sosta, alimentate da un Dio Antico. Sembrava uno strano dono, ma sentiva che aveva uno significato particolare. «Kruppe comprenderà questo significato, poiché rara e fastidiosa è questa frustrazione.» La campagna intorno a lui era brulla; persino la terra coltivata era scomparsa e non c'era segno di vita. Era seduto accanto a un fuoco solitario in una tundra desertica, dove il soffio dell'aria era freddo come il ghiaccio. A nord e a est l'orizzonte brillava di una luce verde, sebbene la luna non fosse ascesa in cielo per sfidare le stelle. Kruppe non aveva mai visto niente di simile, eppure quell'immagine era presente nella sua mente. «Decisamente inquietante, proclama Kruppe. Queste immagini compaiono in questo sogno per uno scopo preciso? Kruppe non lo sa e se potesse, tornerebbe subito nel suo caldo letto.» Si guardò intorno, osservando il terreno coperto di muschi e licheni, aggrottando la fronte davanti a quegli strani colori brillanti. Aveva sentito diversi racconti sulla Pianura delle Guglie Rosse, la terra nel lontano nord che si estendeva oltre l'altopiano Laederon. La tundra era così? Aveva sempre immaginato un mondo spento, privo di colori. «Ma Kruppe sottopone a lettura le stelle sopra di lui. Brillano di un'energia giovane, no, luccicano come se fossero divertite da colui che le contempla. Mentre la terra emette bagliori rossi, arancioni e lavanda.» Kruppe si alzò e un improvviso rombo sopraggiunse da ovest. In lontananza vide avanzare un branco di bestie dal pelo scuro. Mentre correvano, il vapore dei loro respiri fluttuava come nuvole argentee sopra e dietro di loro. Le guardò per alcuni istanti. Quando furono più vicine, distinse le strisce rossastre nella pelliccia e le corna, che si alzavano e si abbassavano. La terra tremò al loro passaggio.
«Così è la vita in questo mondo? si chiede Kruppe. E forse tornato indietro, all'origine del tutto?» «Esatto», disse una voce profonda dietro di lui. Kruppe si voltò. «Ah, avvicinati al mio fuoco.» Vide una figura tarchiata, coperta da pelli di daino o di qualche animale simile. Lunghi palchi emergevano da una calotta cranica sulla testa dell'uomo, grigia e coperta di peluria. Kruppe s'inchinò. «Hai davanti a te Kruppe, di Darujhistan.» «Io sono Pran Chole del Clan Cannig Tol appartenente al Kron Tlan.» Pran si avvicinò e si accovacciò davanti al fuoco. «Sono anche la Volpe Bianca, Kruppe, saggio fra i ghiacci.» Guardò Kruppe e sorrise. Il viso di Pran era largo, le ossa prominenti sotto una pelle liscia e dorata. Gli occhi erano piccoli, ma di un sorprendente color ambra. Pran allungò sul fuoco mani lunghe e affusolate. «Il fuoco è vita e la vita è fuoco. L'età del ghiaccio se ne va, Kruppe. Abbiamo vissuto a lungo qui, cacciando le grandi mandrie, unendoci in guerra con i Jaghut nelle terre del sud, nascendo e morendo con il flusso e il riflusso dei fiumi ghiacciati.» «Allora Kruppe è giunto molto lontano.» «All'inizio e alla fine. La mia stirpe lascia il posto alla tua, Kruppe, sebbene le guerre non cesseranno. Ciò che vi daremo è la libertà da simili guerre. I Jaghut diminuiscono e si ritirano in luoghi proibiti. I Forkrul Assail sono scomparsi, sebbene non avessimo mai avuto bisogno di combatterli. E i K'chail Che'Malle non esistono più - il ghiaccio ha parlato loro con parole di morte.» Lo sguardo di Pran tornò alle fiamme. «La nostra caccia ha portato la morte ai grandi branchi, Kruppe. Stiamo spingendoci a sud e così non deve essere. Noi siamo i Tlan, ma presto giungerà il Raduno e così verrà espresso il Rito di Imass e la Scelta del Divinatore, e allora giungerà la separazione della carne e del tempo stesso. Con il Raduno nasceranno i T'lan Imass e il Primo Impero.» «Kruppe si chiede perché è qui.» Pran Chole si strinse nelle spalle. «Sono venuto perché sono stato chiamato. Da chi, non lo so. Forse è lo stesso per te.» «Ma Kruppe sta sognando. Questo è il sogno di Kruppe.» «Allora sono onorato.» Pran si raddrizzò. «Uno del tuo tempo sta giungendo. Forse possiede le risposte che cerchiamo.» Kruppe seguì lo sguardo di Pran verso sud. Aggrottò la fronte. «Se Kruppe non si sbaglia, quella è una Rhivi.» La donna che si avvicinava era di mezza età, il ventre gonfio per il bambino che cresceva in lei. Il viso rotondo, scuro, aveva lineamenti simili a
quelli di Pran Choles, sebbene meno pronunciati. Nei suoi occhi si leggeva la paura, sebbene la donna emanasse una forte determinazione. Raggiunse il fuoco e guardò i due uomini per poi fissare lo sguardo su Pran Chole. «Tlan», disse, «il Canale Tellann degli Imass del nostro tempo ha partorito una figlia in una confluenza di magie. La sua anima vaga smarrita. La sua carne è un abominio. È necessario un cambiamento». Si voltò verso Kruppe e aprì la pesante veste di lana che indossava, rivelando l'addome gonfio. Sulla pelle nuda, tirata, era stato disegnato un tatuaggio: una volpe bianca. «Il Dio Antico è tornato a camminare, risvegliato dal sangue versato sulla pietra sacra. K'rul è giunto in risposta al bisogno della bambina e ora ci aiuta nella nostra ricerca. Ti chiede scusa, Kruppe, per avere usato il mondo nel tuo sogno, ma nessun dio più giovane può influenzare questo luogo. In qualche modo hai reso la tua anima immune a essi.» «La ricompensa del cinismo», commentò Kruppe, inchinandosi. La donna sorrise. «Se ho capito bene», disse Pran Chole, «vorresti fare di questa bambina, nata dai poteri Imass, un Soletaken». «Sì. È la cosa migliore che possiamo fare, Tlan. Un mutante - che entrambi conosciamo come Soletaken - deve essere creato.» Kruppe si schiarì la gola. «Vi prego di scusare Kruppe. Ma non stiamo dimenticando qualcuno fondamentale per questo piano?» «Lei è in bilico tra due mondi», disse la Rhivi. «K'rul ora la guida nel tuo. Ma lei è ancora spaventata. Spetta a te, Kruppe, darle il benvenuto.» Kruppe sistemò le maniche del logoro pastrano. «Non sarà difficile per uno dal fascino di Kruppe.» «Forse», commentò la Rhivi, aggrottando la fronte. «La sua carne è un abominio. Sei stato avvisato.» Kruppe annuì affabilmente, poi si guardò intorno. «Andrà bene qualsiasi direzione?» Pran scoppiò a ridere. «Suggerisco il sud», disse la Rhivi. Kruppe si strinse nelle spalle e dopo un rapido inchino, si diresse verso sud. Trascorsero pochi minuti e si voltò indietro: del fuoco non c'era più traccia. Era solo nella notte gelida. A oriente apparve una luna piena, che inondò la terra di una luce argentea. Davanti a Kruppe, la tundra si estendeva a perdita d'occhio, piatta e brulla. A un tratto, l'uomo si fermò, gli occhi socchiusi. Qualcosa avanzava, con grande difficoltà, verso di lui. La vide cadere una volta, poi rialzar-
si con fatica. Nonostante la luce, la figura appariva nera. Kruppe riprese a camminare. Non lo aveva ancora visto e l'uomo si fermò a una trentina di piedi di distanza. La Rhivi aveva ragione. Kruppe estrasse il fazzoletto di seta e si asciugò il sudore che a un tratto gl'imperlava la fronte. La figura era stata una donna, alta, con lunghi capelli neri. Ma quella donna era morta da tempo. La sua pelle era avvizzita e aveva assunto il colore del legno scuro. Ma la parte più orribile di quella figura erano gli arti, che erano stati malamente ricuciti al corpo. Un tempo, quella donna era stata dilaniata. La testa della donna scattò in su e occhi vuoti si posarono su Kruppe. Lei si fermò, la bocca si aprì ma non uscirono parole. Di nascosto, Kruppe evocò un incantesimo su se stesso, poi tornò a guardare la donna. Aggrottò la fronte. Intorno a lei era stato tessuto un incantesimo di conservazione. Ma era successo qualcosa a quell'incantesimo, qualcosa che lo aveva rimodellato. «Ragazza!» ruggì Kruppe. «So che puoi sentirmi.» Non lo sapeva, ma decise comunque di insistere. «La tua anima è intrappolata in un corpo che non è il tuo. Mi chiamo Kruppe e sono qui per aiutarti. Vieni!» Si girò e iniziò a camminare. Un istante dopo sentì un fruscio dietro di sé. Sorrise. «Ah», sussurrò, «Kruppe ha fascino da vendere. Ma soprattutto, sa essere duro se necessario». Il fuoco era ricomparso e Kruppe vide le due figure che lo aspettavano. I residui dell'incantesimo che aveva lanciato su se stesso rendevano il Tlan e la Rhivi accecanti ai suoi occhi, tale era il loro potere. Kruppe e la donna arrivarono. Pran Chole fece un passo avanti. «Grazie, Kruppe.» Scrutò la donna e annuì lentamente. «Sì, riconosco gli effetti dell'Imass su di lei. Ma c'è di più.» Guardò la Rhivi. «Era una maga un tempo?» La Rhivi si avvicinò alla donna. «Ascoltami, anima smarrita. Il tuo nome è Tattersail, la tua magia è Thyr. Il Canale fluisce dentro di te, ti anima, ti protegge.» Aprì ancora una volta la veste. «È ora di riportarti nel mondo.» Tattersail indietreggiò, allarmata. «Dentro di te c'è il passato», disse Pran. «Il mio mondo. Tu conosci il presente e la Rhivi ti offre il futuro. In questo luogo tutto converge. Il corpo che ti trascini ha su di sé un incantesimo di conservazione e mentre morivi hai aperto il tuo Canale all'influsso Tellann. E ora vaghi in un sogno mortale. Kruppe è il recipiente attraverso il quale può avvenire il cambiamento. Permettici di aiutarti.» Con un muto grido Tattersail barcollò fra le braccia di Pran. La Rhivi si
unì subito a loro. «I sogni di Kruppe hanno preso una strana svolta», commentò Kruppe. «Anche se le sue paure e preoccupazioni sono sempre presenti, ancora una volta deve metterle dà parte.» A un tratto K'rul gli fu accanto. «Non lamentarti. Non è da me usarti senza ripagarti.» Kruppe sollevò lo sguardo sul Dio Antico. «Kruppe non chiede niente. C'è un dono in tutto questo e sono felice di farne parte.» K'rul annuì. «Ciononostante, voglio che mi parli dei tuoi problemi.» «Rallick e Murillio cercano di riparare un vecchio torto», disse Kruppe, sospirando. «Pensano che io non conosca i loro piani, ma girerò quei piani a mio favore. Non sono immune dal senso di colpa, ma non ho scelta.» «Capisco. E il Portatore della Moneta?» «Viene protetto. So che l'Impero Malazan è presente a Darujhistan, anche se si nasconde ancora. Ciò che cercano...» «Non è chiaro nemmeno a loro. Sfrutta questa nozione a tuo vantaggio quando li incontrerai. Gli alleati potrebbero giungere da quartieri inaspettati. Ascolta bene: due stanno già avvicinandosi alla città; uno è un T'lan Imass, l'altro una maledizione per la magia. Il loro obiettivo è distruggere, ma altre forze sono già in moto per opporsi a loro. Non contrastare apertamente questi nemici. Sono pericolosi. Il potere attira altro potere, Kruppe. Lascia che vengano travolti dalle conseguenze delle loro azioni.» Kruppe annuì. «Kruppe non è uno stupido, K'rul. Non si oppone apertamente a nessuno e ritiene che il potere sia da evitare a tutti i costi.» Mentre parlavano, la donna Rhivi aveva preso Tattersail fra le braccia. Pran Chole le si accovacciò accanto, gli occhi chiusi e le labbra che sillabavano parole misteriose. La donna Rhivi cullava il corpo avvizzito con un lento dondolio, cantando con voce lieve. Gocce d'acqua scendevano lungo le gambe della donna. «Si sta preparando a partorire», mormorò Kruppe. A un tratto, la Rhivi allontanò bruscamente il corpo, che ricadde in un mucchio senza vita. La Luna ora splendeva direttamente sopra di loro; la luce era così forte da impedire a Kruppe di sollevare lo sguardo. La Rhivi si era accovacciata e si muoveva con il ritmo del travaglio, il viso bagnato dal sudore. Pran Chole era immobile, sebbene il suo corpo fosse scosso da forti tremiti e il viso fosse contratto in una smorfia di dolore. Gli occhi erano spalancati e fissi sulla Luna.
«Dio Antico», mormorò Kruppe, «questa Tattersail quanto ricorderà della sua precedente vita?». «Non lo so», rispose K'rul. «La migrazione dell'anima è una questione delicata. La donna è stata vittima di una conflagrazione. La sua anima è stata inizialmente trasportata su ali di sofferenza e violenza. Inoltre, lei è scivolata in un altro corpo devastato, già gravato dei propri traumi. La bambina che sta per nascere sarà unica. La sua vita è un mistero, Kruppe.» «Visti i genitori, sarà sicuramente eccezionale», grugnì Kruppe. Un pensiero gli attraversò la mente e una profonda ruga apparve sulla sua fronte. «K'rul, e che cosa ne sarà della bambina che era prima nel ventre della Rhivi?» «Non c'era nessuna bambina, Kruppe. La donna Rhivi è stata preparata in modo sconosciuto agli uomini.» Ridacchiò. «Compreso il sottoscritto.» Alzò il capo. «Questa magia appartiene alla Luna, Kruppe.» Continuarono a seguire il travaglio. A Kruppe sembrò di aspettare per un numero di ore maggiore di quante ne contenesse la notte. La Luna restò sopra di loro, come se la posizione trovata fosse di suo gradimento - o, rifletté, come se stesse facendo la guardia. A un tratto, un vagito riempì l'aria e la Rhivi sollevò fra le braccia una bambina ricoperta da una peluria argentea. Mentre Kruppe guardava, la peluria scivolò via. La donna voltò la bambina e posò la propria bocca sulla pancia della piccola. Con un morso recise il cordone ombelicale, che cadde a terra. Pran Chole raggiunse Kruppe e il Dio Antico. Il T'lan sembrava esausto. «La bambina ha assorbito più potere di quanto immaginassi», mormorò. Mentre la donna Rhivi si sedeva a terra, stringendo la piccola al seno, Kruppe sgranò gli occhi. Il ventre della madre era piatto e liscio e il tatuaggio della volpe bianca era scomparso. «Mi rattrista l'idea di non poter tornare fra vent'anni per vedere la donna che sarà diventata questa bambina», confessò Pran. «E invece tu potrai», disse K'rul a bassa voce, «ma non come un T'lan. Come un Divinatore T'lan Imass». Pran trattenne il respiro. «Fra quanto?» domandò. «Trecentomila anni, Pran Chole del Clan di Cannig Tol.» Kruppe posò una mano sul braccio di Pran. «Ora hai qualcosa da aspettare con trepidazione», disse. Il T'lan fissò Kruppe per un istante, poi gettò la testa indietro e scoppiò in una roboante risata.
*** Le ore precedenti al sogno di Kruppe erano state movimentate, a cominciare dall'incontro con Baruk che aveva permesso la scoperta del Portatore della Moneta, sottolineata dalla fluttuazione della moneta di cera. Subito dopo l'incontro, quando gocce di cera ormai indurita gli picchiettavano le braccia, Kruppe si fermò fuori dalla porta dell'alchimista. Di Roald non c'era traccia. «Oh, ragazzi», sospirò Kruppe, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Perché Mastro Baruk dovrebbe trovare familiare il nome di Crokus? Ah, stupido Kruppe! Lo zio Mammot, naturalmente. Oh, povero Kruppe. Che guaio!» Proseguì lungo il corridoio e verso le scale. Per un istante, là dentro, il potere di Oponn era cresciuto considerevolmente. Avrebbe fatto bene a evitare simili contatti. Il potere aveva l'abitudine di potenziare le sue capacità. Sentiva già il bisogno di prendere in mano il Mazzo dei Draghi. Scese rapidamente le scale e si diresse a passo svelto verso la porta. In quel momento entrò Roald, carico di provviste. Kruppe notò che un velo di polvere copriva gli abiti dell'anziano servitore. «Caro Roald, sembra tu sia appena uscito da una tempesta di sabbia! Hai bisogno dell'aiuto di Kruppe?» «No», grugnì Roald. «Grazie, Kruppe. Ce la faccio. Puoi essere così gentile da chiudere la porta mentre esci?» «Ma certo, gentile Roald!» Kruppe diede una pacca affettuosa al braccio dell'uomo e uscì in giardino. Il cancello che si apriva sulla strada era stato lasciato aperto e oltre di esso turbinava una nube di polvere. «Ah, già, i lavori stradali», borbottò Kruppe. Gli era improvvisamente scoppiato un forte mal di testa e l'abbagliante luce del sole non gli era certo di aiuto. Era quasi al cancello, quando si fermò. «La porta! Kruppe ha dimenticato di chiudere la porta!» Si girò e tornò indietro, sospirando soddisfatto quando sentì la serratura della porta scattare. Mentre tornava a girarsi, dalla strada risuonò un grido seguito da uno schianto, ma Kruppe non udì il secondo rumore. Quel grido aveva fatto scatenare una tempesta magica nella sua mente. Cadde in ginocchio, la testa scattò verso l'alto, gli occhi sbarrati. «Quella», mormorò, «era sicuramente un'imprecazione Malazan. Allora perché l'immagine della Casa dell'Ombra brucia come fuoco nella mente di Kruppe? Chi si aggira per le vie di Darujhistan?». Una serie di infiniti nodi... «Mi-
steri risolti e nuovi misteri.» Il dolore era passato. Kruppe si alzò in piedi e si scosse la polvere di dosso. «È un bene che tali tormenti colpiscano esseri sospettosi, osserva Kruppe con sollievo. E tutto grazie a una promessa fatta all'amico Roald. Buon vecchio Roald. L'anelito di Oponn questa volta è il benvenuto, per quanto a malincuore.» Raggiunse il cancello e guardò per strada. Un carro carico di ciottoli si era rovesciato. Mentre lo sollevavano e cominciavano a riempirlo, due uomini litigavano su chi fosse il responsabile dell'accaduto. Kruppe li osservò. Parlavano bene la lingua Daru, ma a chi li avesse ascoltati attentamente non sarebbe sfuggito un leggero accento... straniero. «Oh, accidenti», mormorò Kruppe, indietreggiando. Si sistemò il pastrano, fece un respiro profondo, spalancò il cancello e uscì per strada. *** L'ometto grasso con le maniche larghe uscì dal cancello della casa e girò a sinistra. Sembrava avesse fretta. Il sergente Whiskeyjack si asciugò il sudore dalla fronte con un braccio sfregiato, gli occhi socchiusi contro l'abbagliante luce del sole. «È quello, Sergente», disse Dispiacere accanto a lui. «Sei sicura?» «Sì, sono sicura.» Whiskeyjack guardò l'uomo farsi largo fra la folla. «Perché è così importante?» domandò. «Devo ammettere», ripose Dispiacere, «che ho qualche dubbio sulle sue capacità. Ma so che è vitale, Sergente». Whiskeyjack si mordicchiò il labbro, quindi si voltò verso il carro, dentro il quale era stata srotolata una mappa, bloccata agli angoli con delle pietre. «Chi abita in quella casa?» «Un certo Baruk», spiegò Dispiacere. «Un alchimista.» Un cipiglio oscurò il volto dell'uomo. Lei come faceva a saperlo? «Mi stai dicendo che quel grasso piccoletto è questo Baruk?» «No. Lui lavora per l'alchimista. Ma non è un servitore. Forse è una spia. Pare sia un abile ladro e che possieda... talento.» Whiskeyjack la guardò. «Un Veggente?» Per qualche oscuro motivo Dispiacere sussultò. Il sergente, perplesso, vide il volto della donna sbiancare. Dannazione, che cosa diamine nascon-
derà questa ragazza, si chiese. «Credo di sì», rispose lei con voce tremante. «Va bene. Seguilo.» Lei annuì bruscamente, quindi s'infilò fra la folla. Il sergente appoggiò la schiena contro il fianco del carretto. Trotts faceva oscillare il piccone come se si fosse trovato sul campo di battaglia. Le pietre volavano ovunque. I passanti si abbassavano e imprecavano quando venivano colpiti. Hedge e Fiddler erano acquattati dietro a una carriola e trasalivano ogni volta che il piccone del Barghast toccava la strada. Mallet era a pochi passi di distanza, impegnato a dirottare i pedoni sull'altro lato della via. Non urlava più, avendo perso la voce litigando con un vecchio con un somaro traballante sotto un enorme cesto di legna da ardere. I fastelli erano ora sparsi per strada - il vecchio e il somaro erano scomparsi offrendo così un'efficace barriera per fermare carri e carrozze. Tutto sommato, rifletté Whiskeyjack, i suoi uomini si erano calati nel ruolo di operai consumati dal caldo con una facilità stupefacente. Hedge e Fiddler avevano acquistato il carro e lo avevano caricato di ciottoli a meno di un'ora dallo sbarco, avvenuto a mezzanotte a un molo pubblico davanti al lago. Whiskeyjack non osava chiedere come ci fossero riusciti. Ma la loro idea si accordava perfettamente con i loro piani. Qualcosa s'insinuò in un angolo della sua mente, ma se ne liberò con un gesto della mano. Lui era un soldato e un soldato seguiva gli ordini. Quando fosse giunto il momento, a tutti i crocevia più importanti della città si sarebbe scatenato il caos. «Posare mine non è facile», aveva sottolineato Fiddler, «così lo faremo sotto il naso di tutti. Lavori stradali». Whiskeyjack scosse la testa. Come Fiddler aveva previsto, nessuno aveva fatto loro alcuna domanda. Continuavano a sollevare la pavimentazione locale e a sostituirla con munizioni Moranth incassate nell'argilla cotta a fuoco. Sarebbe stato tutto così semplice? I suoi pensieri tornarono a Dispiacere. Ben lo Svelto e Kalam alla fine lo avevano convinto che avrebbe fatto meglio ad allontanarla e ora il sergente dovette ammettere di sentirsi sollevato per averla mandata a pedinare l'ometto grasso. Ma che cosa aveva spinto una diciassettenne ad arruolarsi? Non riusciva a capirlo - non riusciva a dimenticare la sua giovane età, non riusciva a vedere dietro quegli occhi spenti la fredda e spietata assassina. Per quanto continuasse a ripetere ai suoi uomini che lei era umana quanto tutti loro, i
dubbi crescevano a ogni interrogativo su di lei che non trovava risposta. Non sapeva praticamente nulla di Dispiacere. L'aveva sorpreso scoprire che sapeva portare una barca da pesca eppure lì, a Darujhistan, non si comportava come una fanciulla cresciuta in un villaggio di pescatori. Sfoggiava un portamento e una sicurezza tipici delle classi sociali più elevate. Ovunque si trovasse, si comportava come se appartenesse a quell'ambiente. Tutto ciò ben si accordava con una diciassettenne? No, ma sembrava accordarsi con le affermazioni di Ben lo Svelto e questo lo irritava. Come poteva quella ragazzina essere la donna di ghiaccio che torturava i prigionieri fuori Nathilog? Quando la guardava una parte di lui pensava: «Giovane, di aspetto gradevole, una sicurezza che la rende attraente». Mentre un'altra parte si chiudeva con un colpo secco. Giovane? Gli pareva di sentire la propria risata, roca, aspra. Oh, no, non quella ragazza. Lei era vecchia. Aveva camminato sotto una luna insanguinata all'alba del mondo. Il suo viso è il viso di ciò che non può essere capito a fondo e lei ti guarda negli occhi, Whiskeyjack, e tu non sai che cosa pensa. Sentì gocce di sudore scivolargli lungo la faccia e il collo. Sciocchezze. Quella parte della mente era vittima delle sue paure. S'impossessava dell'ignoto e spinto dalla disperazione, gli dava un volto che poteva riconoscere. La disperazione, disse a se stesso, ha sempre bisogno di una direzione verso la quale incanalarsi. Trova la direzione e la disperazione scompare. Naturalmente non era così semplice. La disperazione che provava non aveva forma. Non era semplicemente Dispiacere, non quella guerra infinita e nemmeno il tradimento all'interno dell'Impero. Non sapeva da che parte girarsi alla ricerca di risposte ed era stanco di fare domande. Quando a Greydog il suo sguardo era caduto su Dispiacere, l'origine del suo sconcerto era la scoperta di ciò che lui stava diventando: un assassino privo di rimorso, corazzato nel gelido ferro della crudeltà, libero dalla necessità di porre domande, di cercare risposte, di modellare una vita equilibrata come un'isola in un mare di massacri. Negli occhi vuoti di quella ragazzina aveva visto l'inaridimento della propria anima. L'immagine riflessa era apparsa perfetta, immacolata, priva di imperfezioni che potessero invalidare la verità di quanto aveva visto. Le gocce di sudore che gli correvano lungo la schiena gli sembrarono bollenti in contrasto con il gelo che si era impadronito di lui. Portò una mano tremante alla fronte. Nei giorni e nelle notti a venire, uomini e donne sarebbero morti per suo ordine. Aveva pensato a quel momento come il
giusto premio per la sua precisa e attenta pianificazione. La città - la sua brulicante moltitudine, individui magri e grassi, coraggiosi e codardi - ridotta a niente più che un gioco da tavolo, e il gioco disputato a beneficio esclusivo di altri. Aveva studiato il piano come se niente di se stesso fosse in gioco. Eppure i suoi amici avrebbero potuto morire - ecco, finalmente li aveva chiamati per quello che erano - e gli amici di altri avrebbero potuto morire, e i figli, le figlie, i genitori. L'appello di vite distrutte sembrava infinito. Whiskeyjack premette la schiena contro il carro per tentare di riacquistare il controllo. Guardò in alto. Alla finestra del secondo piano della casa vide un uomo. L'uomo li guardava e le sue mani erano di un rosso brillante. Scosso, il sergente distolse lo sguardo. Si morse l'interno della bocca fino a quando sentì una fitta di dolore, e sentì il sapore del sangue. Concentrati, si disse. Allontanati da quell'abisso. Concentrati o morirai. E non solo tu, ma anche il tuo squadrone. I tuoi uomini fanno affidamento su di te per uscire da qui. Devi meritare la loro fiducia. Inspirò profondamente, si voltò su un fianco e sputò sangue. Fissò il ciottolo tinto di rosso. «Ecco», mormorò. «È facile guardarlo, no?» Sentì dei passi, alzò gli occhi e vide arrivare Hedge e Fiddler. Sui loro volti un'espressione preoccupata. «Tutto a posto?» domandò Fiddler. Dietro i due sabotatori, si avvicinò Mallet, lo sguardo fisso sul volto cinereo e sudato del sergente. «Siamo in ritardo sul piano. Quanto manca?» li aggredì Whiskeyjack. Le facce sporche di polvere e sudore, i due uomini si guardarono. «Tre ore», rispose infine Hedge. «Abbiamo optato per sette mine», comunicò Fiddler. «Quattro Ignitori, due Fiamme e un Cusser.» «Faranno crollare degli edifici?» domandò Whiskeyjack, evitando gli occhi di Mallet. «Certo. È il modo migliore per bloccare un crocevia.» Fiddler sorrise soddisfatto al compagno. «Ti interessa una costruzione in particolare?» chiese Hedge. «La casa dietro di voi è di un'alchimista.» «Bene», disse Hedge. «Illuminerà il cielo a meraviglia.» «Avete due ore e mezza», affermò Whiskeyjack. «Dopo di che dovremo spostarci al crocevia per il Palazzo Vecchio.» Mallet si avvicinò. «Un altro mal di testa?» domandò in tono sommesso. Il sergente chiuse gli occhi, quindi annuì bruscamente.
Il guaritore sollevò una mano e la passò sulla fronte del militare. «Per alleviarlo», disse. Whiskeyjack ridacchiò. «Dici sempre così, Mallet.» «Quando avremo tempo, scoprirò la causa», replicò l'altro. «Bene.» Il sergente sorrise. «Quando avremo tempo.» «Speriamo che Kal e Ben non abbiano problemi», commentò Mallet, voltandosi a guardare il traffico cittadino. «Hai allontanato Dispiacere?» «Sì. Ora siamo soli. Ma tutti e tre sanno dove trovarci.» Guardò in alto, verso la finestra della casa. L'uomo con le mani rosse era ancora là, sebbene il suo sguardo fosse perso sui tetti lontani. Una nuvola di polvere si levò fra di loro e Whiskeyjack spostò la sua attenzione sulla mappa della città, dove i crocevia più importanti, gli edifici militari e il Palazzo Vecchio erano stati cerchiati in rosso. «Mallet?» «Sergente?» «Mi sono di nuovo morso in bocca.» Il guaritore si avvicinò e sollevò nuovamente la mano. *** Crokus Mano-Giovane camminava di buon passo lungo il vicolo Trallit, in direzione sud. I primi segni dell'imminente festa di Gedderone erano comparsi. Striscioni colorati pendevano dai fili per la biancheria sopra la via, fiori dipinti e piante secche erano stati attaccati alle pareti degli edifici. Le strade erano già affollate di forestieri: pastori Gadrobi, commercianti Rhivi, tessitori Catlin - una moltitudine di gente sudata, urlante ed eccitata. Gli odori animali si mescolavano con quelli umani, rendendo gli stretti vicoli così maleodoranti da bloccare il transito e affollare le vie principali già gremite. Negli anni passati, Crokus aveva sempre partecipato con gioia ai festeggiamenti, sgomitando fra la folla che anche di notte si riversava per le strade e riempiendosi le tasche svuotando quelle degli ignari passanti. Durante la festa, le paure di un'invasione da parte dell'Impero Malazan svanivano. Suo zio sorrideva sempre a quel pensiero, commentando che la svolta della stagione offriva agli sforzi umani la loro giusta prospettiva. «Le azioni sciocche e insignificanti», soleva dire, «di una specie mortale e non lungimirante, Crokus, non possono fare niente per fermare il Grande Ciclo della Vita». Mentre si dirigeva verso casa, le parole dello zio gli tornarono alla men-
te. Aveva sempre considerato Mammot un vecchio saggio, per quanto debole. Ma con il passare del tempo scopriva che le osservazioni di Mammot lo inquietavano sempre più. Festeggiare il Rito di Gedderone di Primavera non avrebbe dovuto essere una scusa per evitare le pressioni della realtà. Non era soltanto un'innocua fuga: era un modo per rinviare il possibile e renderlo inevitabile. Possiamo danzare per le strade tutto l'anno, pensò fra sé e sé, per festeggiare centinaia di Cerchi della Vita e con la stessa certezza riservata all'andare e venire delle stagioni, l'Impero Malazan marcerà attraverso le nostre porte. Giunse davanti a un edificio e, salutata con un cenno del capo la donna che fumava la pipa seduta sui gradini, entrò. L'atrio era vuoto, i bambini dovevano essersi riversati a giocare per le strade e da dietro le porte chiuse giungeva un rilassante mormorio domestico. Salì le scale fino al primo piano. Fuori dalla porta di Mammot, la scimmietta alata dello studioso volava, grattando e tirando disperatamente il chiavistello. Ignorò Crokus fino a quando il giovane la spinse da parte, allora squittì e volò in cerchio sulla testa del ragazzo. «Ti sei di nuovo comportata male, eh?» disse Crokus alla creatura, agitando una mano mentre l'animale, avvicinandosi sempre più, finì per aggrovigliarsi nei suoi capelli. Minuscole zampe simili a mani umane gli si aggrapparono al cuoio capelluto. «Va bene, Moby», capitolò Crokus, aprendo la porta. All'interno, Mammot stava preparando un tè alle erbe. «Vuoi del tè, Crokus?» domandò senza voltarsi. «E per quanto riguarda quel mostriciattolo che probabilmente si nasconde sulla tua testa, dille che per oggi ne ho abbastanza di lei.» Moby arricciò il naso indignata e volò sulla scrivania dello studioso, dove atterrò di pancia spargendo ovunque i fogli che affollavano la superficie del tavolo. Sospirando, Mammot si girò con il vassoio in mano. I suoi occhi slavati si posarono su Crokus. «Sembri stanco, ragazzo.» Crokus si lasciò andare sulla sedia meno logora fra le due che occupavano la stanza. «Sì. Stanco e di cattivo umore.» «Il mio tè farà come sempre meraviglie», affermò Mammot sorridendo. Crokus grugnì, senza alzare lo sguardo. «Forse, sì. O forse no.» Mammot posò il vassoio su un tavolino fra le due sedie. Si sedette con un gemito sommesso. «Come sai, mi faccio pochi scrupoli morali riguardo
la professione che hai scelto, Crokus, poiché io contesto diritti di ogni genere, compreso quello della proprietà. Persino i privilegi richiedono responsabilità, come ho sempre sostenuto, e il privilegio della proprietà esige che il proprietario protegga ciò che possiede. Naturalmente, la mia unica preoccupazione è per i rischi che tu sei necessariamente obbligato a correre.» Mammot si chinò e versò il tè. «Ragazzo, un ladro deve essere sicuro di una cosa: la sua concentrazione. La distrazione è pericolosa.» Crokus guardò lo zio. «Che cosa hai scritto in tutti questi anni?» domandò a un tratto, indicando la scrivania. Sorpreso, Mammot prese la tazza e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «Finalmente un sincero interesse per la cultura? Come ho già detto spesso, Crokus, tu possiedi l'intelligenza per andare lontano. E per quanto io sia un umile uomo di lettere, la mia parola ti aprirà molte porte in città. Persino il Consiglio Cittadino può essere alla tua portata, se sceglierai di muoverti in quella direzione. Disciplina, ragazzo, la stessa qualità che hai già affinato come ladro.» Un'espressione scaltra illuminò il viso del ragazzo. «Quanto tempo ci vuole», domandò in tono pacato, «per farsi conoscere in quei circoli?». «Be', dipende dalla capacità di apprendimento.» «Certo.» Nella mente di Crokus si fece strada l'immagine di una fanciulla addormentata. Mammot soffiò sulla bevanda. «Studiando tutto il giorno, e con l'entusiasmo della gioventù, oso azzardare un anno, forse qualcosa di più, o anche di meno. Hai fretta?» «Solo impazienza giovanile, immagino. Comunque, non hai risposto alla mia domanda. Che cosa stai scrivendo, zio?» «Ah.» Mammot lanciò un'occhiata alla scrivania, sollevando un sopracciglio nel vedere Moby che, aperto il calamaio, stava bevendo l'inchiostro. «La storia di Darujhistan», rispose. «Sto iniziando il quinto volume, che si apre con il regno di Ektalm, il secondo dei Re Tiranni.» Crokus sgranò gli occhi. «Chi?» Sorridendo, Mammot sorseggiò il tè. «L'usurpatore di Letastte a cui successe la figlia Sandenay, con la quale ebbe inizio il Tempo della Rinascita che segnò la fine dell'era dei tiranni.» «Ah, ho capito.» «Crokus, se vuoi, potremmo cominciare proprio dalla storia di Darujhistan, ma non certo dal quinto volume. Bisogna partire dall'inizio.» Il giovane annuì. «Sorta su una voce», disse.
Sulla scrivania, Moby emise un grido rauco, poi tossì. Mammot le lanciò un'occhiata distratta per poi riportare la propria attenzione su Crokus. «Sì, ragazzo. Darujhistan è sorta su una voce.» Esitò. «Lo hai sentito dire di recente?» «Qualcuno ne ha parlato», rispose il nipote in tono distratto. «Ma non ricordo chi.» Era una bugia. Lo aveva detto il sicario, Rallick Nom. «Sai che cosa significa?» Crokus scosse la testa. Mammot si rilassò. «Bevi il tuo tè, ragazzo mio.» Tacque un istante, poi iniziò. «Nei Primi Cicli di questo Regno, tre grandi popoli combattevano per il dominio, nessuno di essi era umano nel senso che intendiamo oggi. Nel corso della lotta, i primi a gettare le armi furono i Forkrul Assail, o Krussail come li chiamiamo oggi. Non per debolezza ma per... disinteresse. Gli altri due popoli combatterono senza tregua. Alla fine uno di essi crollò, poiché era un popolo di individui impegnati a combattere fra di loro quanto contro le altre razze. Erano gli Jaghut, quelli che oggi chiamiamo Jhag o Shurl. Per quanto avessero perso la guerra non scomparvero completamente - si dice che alcuni Jaghut vivano ancora oggi anche se, fortunatamente, non su Genabackis. «Così», Mammot avvolse le mani intorno alla tazza, «Darujhistan è sorta su una voce. Fra le tribù indigene dei Gadrobi è sopravvissuta la leggenda secondo la quale, da qualche parte sulle colline, si trova il tumulo Jaghut. Devi sapere che i Jaghut erano possessori di magia, creatori di Canali segreti e oggetti di potere. Con il passare del tempo la leggenda Gadrobi si diffuse oltre le colline, nelle terre settentrionali di Genabackan e nel Catlin meridionale, fino a regni ormai scomparsi a est e a ovest. Fu così che sulle colline giunsero dei cercatori - piccole tribù guidate da sciamani e stregoni assetati di potere. Dagli accampamenti e le baracche, dai migliaia di cercatori di tesori che arrivavano ogni primavera, nacque una città.» «Darujhistan», disse Crokus. «Esatto. Il tumulo non è mai stato trovato e nessuno ne ha più parlato oggi sono in pochi a conoscere la leggenda e quei pochi sanno che non sarebbe una buona idea riprendere la ricerca.» «Perché?» Mammot aggrottò la fronte. «Raramente una costruzione Jaghut appare nelle mani di un umano, ma è accaduto e le conseguenze sono state catastrofiche.» Il volto dell'uomo si fece torvo. «La lezione è chiara per coloro che scelgono di capirla.»
«Quindi i Krussail scomparirono e i Jhag vennero sconfitti», osservò Crokus dopo un attimo di riflessione. «Che cosa ne è stato del terzo popolo? Quello che ha vinto? Perché non sono qui al nostro posto?» Mammot aprì la bocca per rispondere, poi ci ripensò. Crokus strinse gli occhi. Si chiese che cosa lo zio stesse per rivelargli e perché avesse cambiato idea. Mammot posò la tazza. «Nessuno sa con certezza che cosa accadde loro, Crokus, o come divennero ciò che sono oggi. Esistono, in un certo senso, e tutti coloro che hanno affrontato l'Impero Malazan li conoscono come i T'lam Imass.» *** Dispiacere si faceva largo fra la folla, attenta a non perdere di vista l'ometto grasso. Non che fosse difficile seguirlo, ma la ragazza stava combattendo contro la tempesta che era scoppiata nella sua mente, scatenata da una parola pronunciata dal sergente Whiskeyjack. Veggente. Con quella parola qualcosa di oscuro e compatto si era spalancato nel suo cervello e ora combatteva contro tutto ciò che lo circondava. Inizialmente, aveva percepito una forza prepotente, che tuttavia ora cominciava a scemare. Qualunque cosa stesse combattendo, stava vincendo la battaglia. A un tratto, in lontananza, le sembrò di udire il pianto di un bambino. «Io sono Cotillon», si trovò a mormorare, «Protettore dei Sicari, a tutti conosciuto come la Fune dell'Ombra». Il pianto divenne un flebile lamento. «La Veggente è morta.» Una parte della sua mente gridò, mentre un'altra si chiese: Quale Veggente? «Io sono uno, eppure divido. Io sono al fianco di Tronod'Ombra, lui è Ammanas, il Signore delle Ombre. Io sono qui come la mano della morte.» Dispiacere sorrise e annuì, nuovamente padrona di sé. Qualunque cosa avesse cercato di emergere era stata sconfitta e sepolta. Lei non poteva permettersi il lusso di piangere, di arrabbiarsi, di avere paura, né mai aveva potuto farlo. Trasse un respiro profondo e i suoi sensi si focalizzarono sull'incarico ricevuto. Quell'ometto grasso era pericoloso. Non sapeva ancora né come né perché, ma ogni potere sibilava in allarme ogni volta che lo intravedeva tra la folla. E tutto ciò che è pericoloso, si disse, deve morire.
*** Sotto la Seconda Muraglia nel Distretto Lago, il mercato lungo la Via del Sale era come sempre brulicante di persone. Il caldo, che nel corso della giornata era andato via via aumentando, aveva raggiunto il suo picco massimo. Mercanti sudati ed esausti s'insultavano vicendevolmente da una bancarella all'altra. Ogni cinque minuti scoppiava una rissa, rapidamente sedata dalla folla che divideva i litiganti prima dell'arrivo delle irascibili guardie. Accovacciati sui loro tappetini, i Rhivi della pianura cantilenavano con voce nasale esaltando la qualità della carne di cavallo. Ai crocevia, i pastori Gadrobi erano circondati da capre e pecore belanti, mentre altri venditori spingevano carretti carichi di forme di formaggio e brocche d'argilla piene di latte fermentato. Circondati da nugoli di mosche, i pescatori Daru si facevano strada sollevando sopra la testa lunghe lance da cui dondolavano pesci affumicati. Tessitori Catlin sedevano dietro montagne di tessuti dai colori brillanti. Dai loro carri, i contadini Gredfalan vendevano frutta e tuberi di stagione. I venditori di legna guidavano, attraverso la folla, i carri trainati da buoi, i bambini appesi come scimmie alle fascine accatastate. Gli appartenenti alle sette di D'rek, uomini e donne vestiti di nero, inneggiavano al loro credo. Kruppe avanzava lungo il mercato con aria disinvolta, le braccia che si agitavano apparentemente di loro volontà. In realtà, quel movimento nascondeva i gesti necessari per evocare incantesimi. Come ladro, Kruppe sapeva accontentarsi. Rubava cibo - per lo più frutta e dolci - ed era proprio per appagare il palato che aveva affilato le proprie abilità magiche. Mentre camminava, la danza scomposta delle sue braccia era sincronizzata per permettergli di afferrare mele che volavano via dai cesti, paste che scivolavano da vassoi, ciliegie ricoperte di cioccolato che saltavano da terrine a una velocità tale da confondere l'occhio. All'interno delle ampie maniche del pastrano erano state cucite delle tasche di varie dimensioni. Tutto ciò che arrivava in mano a Kruppe scompariva nelle maniche, dove scivolava nella tasca della misura corretta. Un'espressione soddisfatta sul viso rotondo, l'ometto proseguiva per la sua strada. Finalmente, dopo un lungo giro vizioso, Kruppe raggiunse la Locanda della Fenice. Si fermò sui gradini a scambiare quattro chiacchiere con un delinquente fermo sulla scala. Poi, diede un morso alla mela caramellata
che aveva estratto dalla manica, spinse la porta e scomparve nel locale. *** A mezzo isolato di distanza, Dispiacere si appoggiò contro il muro di un edificio e incrociò le braccia. L'ometto grasso era un portento. Aveva visto a sufficienza del suo delizioso balletto per riconoscere in lui un Adepto. Eppure era confusa, poiché la mente dietro a quella rubiconda facciata nascondeva capacità decisamente maggiori rispetto a quelle che aveva espresso. Tutto ciò era la conferma che quella era una creatura decisamente pericolosa. Dal suo punto di osservazione studiò l'uomo sui gradini. Lo sconosciuto sembrava scrutare attentamente tutti gli avventori, ma Dispiacere non individuò nessun gesto che potesse denunciarlo come ladro. Le conversazioni erano brevi, probabilmente un semplice scambio di saluti. La ragazza decise di entrare nella locanda. Era il genere di locale che Whiskeyjack aveva ordinato a Kalam e a Ben lo Svelto di cercare - un covo di ladri, farabutti e assassini. Perché il sergente volesse trovare un luogo simile non le era stato spiegato. Il mago e Kalam non si fidavano di lei ed era convinta che le loro argomentazioni cominciassero a influenzare anche Whiskeyjack. Se avessero potuto, l'avrebbero tenuta fuori da tutto, ma non intendeva permetterglielo. Allontanatasi dal muro, attraversò la strada e si avvicinò alla Locanda della Fenice. Nel frattempo, il pomeriggio era scemato in un crepuscolo afoso e nell'aria si respirava l'odore della pioggia. Mentre si avvicinava ai gradini dell'ingresso, l'attenzione del delinquente si focalizzò su di lei. L'uomo sorrise. «Stai seguendo Kruppe, eh?» Scosse la testa. «Le ragazze non dovrebbero portare armi. Spero tu non stia pensando di entrare. Non con una spada. E non senza un accompagnatore.» Dispiacere indietreggiò. Guardò a destra e a sinistra lungo la strada. Il pedone più vicino era dall'altra parte della via e andava in direzione opposta rispetto alla locanda. Tirò a sé i lembi del corto mantello, chiudendolo in vita. «Lasciami passare», ordinò in tono pacato. Come aveva fatto quell'omuncolo a individuarla? L'uomo si appoggiò alla ringhiera. «Sembra proprio che tu abbia bisogno di scambiare due chiacchiere. Amichevolmente», replicò. «Ti faccio una proposta. Adesso, tu e io ce ne andiamo nel vicolo; tu metti giù la spada e io sarò carino. Altrimenti, potrei non rispondere delle mie azioni, ma
non sarebbe divertente se...» La mano sinistra di Dispiacere guizzò fuori. Un pugnale scintillò alla luce del tramonto. La lama penetrò nell'occhio destro dell'uomo e raggiunse il cervello. Il disgraziato indietreggiò e cadde oltre la ringhiera, atterrando con un tonfo sordo accanto alla scala. Dispiacere si avvicinò a lui e riprese il pugnale. Si fermò, sistemò il cinturone con la spada e diede un'occhiata per strada. Poiché nessuno dei passanti sembrava sufficientemente vicino per avere notato qualcosa, salì i gradini ed entrò nella locanda. Non aveva ancora fatto due passi che si trovò davanti a un ragazzino gemente appeso a testa all'ingiù. Due donne dall'aspetto rozzo lo spingevano a turno. Ogni volta che il malcapitato cercava di raggiungere la fune legata ai suoi piedi, si beccava una botta in testa. Una delle donne sorrise a Dispiacere. «Ehi, dai!» esclamò la donna, afferrando Dispiacere per un braccio mentre la ragazza cercava di passare. La giovane la fulminò con lo sguardo. La donna si chinò su di lei, l'alito che puzzava di birra. «Se ti trovi nei guai, chiama Irilta e Meese. Siamo noi, d'accordo?» «Grazie.» Dispiacere si allontanò. Aveva già individuato l'ometto grasso - come l'aveva chiamato il farabutto? Kruppe. Era seduto a un tavolo vicino al muro dall'altra parte del locale, sotto il ballatoio. Attraverso la folla, Dispiacere vide un posto libero al bancone, da dove avrebbe potuto tenere d'occhio l'uomo. Si fece strada. Poiché Kruppe era evidentemente consapevole della sua presenza, decise di non fare alcuno sforzo per nascondere il proprio interesse. Spesso era proprio quella la tattica migliore per spezzare la volontà di un uomo. In una guerra di pazienza, il mortale è sempre svantaggiato, pensò la ragazza sorridendo compiaciuta. *** Crokus svoltò l'angolo e si diresse verso la Locanda della Fenice. Il progetto educativo elaborato da Mammot era ambizioso: alle comuni materie di studio si aggiungevano infatti l'etichetta e le buone maniere, le funzioni dei diversi ufficiali governativi e la genealogia delle famiglie più in vista della città. Ciononostante, il giovane si era ripromesso di seguirlo fino in fondo. L'obiettivo era quello di poter, un giorno, essere presentato uffi-
cialmente alla fanciulla D'Arle. L'idea lo fece ridere. Ecco Crokus, lo studioso, la sofisticata giovane speranza, il ladro. Era tutto troppo assurdo. Ma era una sfida, ed era deciso a vincerla. Ce l'avrebbe fatta. Tuttavia, fino al grande giorno, aveva altre questioni di cui occuparsi, interessi da sistemare. Raggiunte le scale della locanda vide una massa informe nascosta nell'ombra, sotto la ringhiera. Si avvicinò con circospezione. *** Dispiacere aveva appena raggiunto il bancone che la porta d'ingresso della locanda si spalancò. Si girò insieme a tutti gli altri clienti e vide un giovane dai capelli neri. «Qualcuno ha ucciso Chert!» gridò il ragazzo. «È stato accoltellato.» Mezza dozzina di avventori sfrecciarono verso la porta, spingendo di lato il ragazzo e scomparendo all'esterno. Dispiacere si voltò verso il bancone. Attirata l'attenzione del locandiere disse: «Una birra di Gredfalan, per favore, in boccale di peltro». La donna che Irilta aveva chiamato Meese si materializzò accanto a lei e appoggiate sul bancone due braccia muscolose, si sporse in avanti. «Servi la signora, Scurve», ringhiò Meese. «Ha gusto.» Meese avvicinò la testa all'orecchio di Dispiacere. «Ben fatto. Chert era un porco.» Dispiacere trasalì. Le mani scivolarono sotto il mantello. «Tranquilla, ragazza», disse Meese a voce bassa. «Non abbiamo la lingua lunga. Fatti pure gli affari tuoi. Non voglio un coltello in un occhio. E poi, non abbiamo detto che ci saremmo prese cura di te?» La birra arrivò, come ordinato. Dispiacere sollevò una mano e la chiuse sul boccale. «Voi non volete prendervi cura di me, Meese», affermò in tono tranquillo. Accanto a Meese arrivò un'altra persona: il giovane dai capelli neri e il viso pallido. «Dannazione, Meese», sussurrò, «che giornataccia!». Meese sogghignò e passò un braccio intorno alle spalle del ragazzo. «Scurve, servici due Gredfalan. Crokus si è guadagnato la migliore birra di Darujhistan.» Girò la testa e tornò ad avvicinarla a quella di Dispiacere. «La prossima volta», bisbigliò, «evita di sfoggiare gusti così sofisticati. Per lo meno da queste parti».
Dispiacere aggrottò la fronte. Aveva sbagliato a ordinare la birra migliore della città. Ne bevve un sorso. «Non male», commentò. «Davvero niente male.» Meese sorrise, dando una gomitata a Crokus. «La signora dice che non è niente male.» Crokus si sporse in avanti, rivolgendo a Dispiacere un sorriso stanco ma cordiale. Dall'esterno giunsero le grida delle Guardie. Scurve servì le due birre. Dispiacere seguì lo sguardo di Crokus scivolare sul suo corpo, poi fermarsi di colpo. Il sorriso del giovane si trasformò in una smorfia e il voltò impallidì ancora di più. Il ragazzo distolse bruscamente lo sguardo e allungò una mano per prendere il boccale. «Paga prima di bere, Crokus», lo bloccò Scurve. «Stai diventando inaffidabile quanto Kruppe.» Crokus infilò una mano in tasca ed estrasse una manciata di monete. Mentre cercava di contarle, tre gli scivolarono fra le dita e rimbalzarono sul bancone. Due tintinnarono un istante, poi si fermarono. La terza iniziò a girare. Gli occhi di Dispiacere si spostarono su di essa, così come quelli di Scurve e di Meese. Crokus allungò una mano, poi esitò. La moneta stava ancora girando, sempre alla stessa velocità. Dispiacere fissò la moneta, avvertendo echi di potere sbattere contro la sua mente come onde oceaniche. E dentro di lei, un'altra onda si sollevò. Scurve gridò quando la moneta scivolò sul bancone, scomparve oltre il bordo e tintinnò a terra, fermandosi ai piedi di Crokus. Nessuno dei quattro aprì bocca. Dietro di loro, gli altri avventori non si erano accorti di nulla. Crokus allungò la mano e raccolse la moneta. «Non questa», mormorò con voce roca. «Va bene», replicò Scurve con voce altrettanto rauca e con mani tremanti prese le altre monete che Crokus aveva posato sul bancone. Con gesto furtivo, Dispiacere passò la mano sull'impugnatura del pugnale e sul fodero. Era bagnata. E così, Crokus aveva visto il sangue. Avrebbe dovuto ucciderlo. Eppure sapeva che non lo avrebbe fatto. «Crokus, ragazzo mio!» gridò una voce sotto il ballatoio. Meese ridacchiò. «Il pesce lesso si è svegliato», borbottò. «Kruppe ti chiama, ragazzo.» Crokus sbuffò. Infilata la moneta in tasca, prese il boccale e disse: «Ci vediamo, Meese».
Ce l'aveva fatta: Dispiacere aveva trovato l'uomo di Oponn - era stato molto più semplice di quanto avesse osato sperare. Ed era in qualche modo legato a Kruppe. Era tutto troppo facile. S'insospettì. «Un ragazzo gradevole», commentò Meese. «Io e Irilta ci prendiamo cura di lui, va bene?» Dispiacere si appoggiò al bancone, gli occhi sul boccale che stringeva fra le mani. Doveva stare molto attenta. Quello scoppio di magia dell'Ombra, in risposta all'influsso della Moneta, era stato totalmente istintivo. «Va bene, Meese», disse. «Il primo giro lo pago io, non preoccuparti. Ok?» Meese sospirò. «Ok. Adesso sarà meglio tornare a qualcosa di più economico. Scurve? Una Daru, per favore. In un bicchiere di terra cotta, se ce l'hai.» *** Il Bar delle Facezie, normale ritrovo di marinai e pescatori, si trovava a ridosso della Seconda Muraglia nel Distretto Lago. I muri del locale erano in pietra arenaria e con il passare del tempo l'intero edificio si era inclinato indietro, quasi volesse ritrarsi dalla strada. Con il crepuscolo giunse anche una pioggia leggera e una lieve foschia che dall'acqua strisciava verso terra. All'orizzonte, i lampi illuminavano il cielo, ma erano troppo distanti perché giungesse l'eco dei tuoni. Kalam emerse dal Bar delle Facezie proprio mentre un Faccia-Grigia avvicinava il bastone intinto di pece a una lampada a gas, di cui un istante prima aveva aperto le valvole di rame. La lanterna si accese con una fiammata azzurra che diminuì nel giro di pochi istanti. Kalam si fermò fuori dal locale a guardare l'uomo vestito di grigio proseguire lungo la strada. Sollevò lo sguardo al cielo, poi si avviò. Raggiunta una baracca poco distante vi entrò. Ben lo Svelto era seduto a gambe incrociate al centro del sudicio pavimento. Alzò gli occhi. «Sei stato fortunato?» «No», rispose Kalam. «La Corporazione è a terra - perché, non lo so.» Attraversò la stanza e si sedette sul suo letto. Si appoggiò contro la parete scrostata e fissò il compagno. «Pensi che quelli del Consiglio Cittadino abbiano preso l'iniziativa per eliminare i sicari?» Gli occhi di Ben scintillarono nella penombra. «Stai suggerendo di anticiparli per cercare di stabilire un contatto?» Kalam distolse lo sguardo. «Non sono idioti. Devono sapere che è così
che l'Impero si muove. Offriamo alla Corporazione un contratto che non può rifiutare, dopo di che ci accomodiamo e guardiamo i governanti cadere come mosche. Whiskeyjack ha proposto il piano. Dujek lo ha approvato. Quei due parlavano la lingua del vecchio Imperatore, Ben. Laggiù, all'inferno, il vecchio deve essere piegato in due dal ridere.» Il mago rabbrividì. «Un'immagine sgradevole.» «Ma se non troviamo un sicario locale le nostre restano solo supposizioni», osservò Kalam. «Ovunque siano, non è nel Distretto Lago. Potrei scommetterci. L'unico nome che sono riuscito a captare è quello di un certo Anguilla. Ma non è un sicario. Il problema è che non so che cosa sia.» «Prossima tappa?» domandò Ben lo Svelto. «Il Distretto Gadrobi?» «No. Là ci sono solo un pugno di contadini e pastori. Dannazione, l'odore di quel posto è sufficiente per depennarlo dalla lista. Proveremo il Distretto Daru. A partire da domani.» Ebbe un attimo di esitazione. «E a te, com'è andata?» Ben lo Svelto chinò la testa. «Sono quasi pronto», rispose in un sussurro. «Per poco a Whiskeyjack non è venuto un colpo quando ha sentito la tua proposta. E anche a me. T'infilerai nella tana della vipera, Ben. Sei sicuro sia necessario?» «No.» Ben guardò l'amico. «Personalmente preferirei che lasciassimo perdere tutto e scappassimo via - dall'Impero, da Darujhistan, dalla guerra. Ma prova a convincere il sergente a farlo. È fedele a un'idea e non cambierà.» Kalam annuì. «Onore, integrità e tutto il resto.» «Giusto. Perciò proseguiamo su questa strada perché non abbiamo alternative. La pazzia di Hairlock è diventata pericolosa, ma possiamo usare la marionetta un'ultima volta. Il potere attira potere e con un po' di fortuna, è proprio quello che farà la morte di Hairlock. Più Ascendenti possiamo attirare nella mischia e meglio è.» «Ho sempre pensato il contrario, Ben.» «Hai ragione», concordò il mago. «Ma in questo momento, maggiori sono il caos e la confusione e meglio è.» «E se Tayschrenn fiutasse qualcosa?» «Per noi sarebbe la fine. Così vanno le cose.» «Già. Così vanno le cose», ripeté Kalam in tono affranto. «Il sole è calato oltre l'orizzonte. È ora di cominciare», disse Ben. «Vuoi che me ne vada?» chiese Kalam. Il mago scosse la testa. «No, voglio che resti esattamente dove sei. Se
non dovessi tornare indietro, prendi il mio corpo e riducilo in cenere. Spargi le ceneri al vento e maledici il mio nome con tutto il cuore.» Kalam restò in silenzio. Poi, chiese: «Quanto devo aspettare?». «Fino all'alba», rispose l'altro. «Sai che non posso chiederlo che al mio migliore amico.» «Lo so. Adesso vai, dannazione.» Ben lo Svelto agitò le braccia. Un anello di fuoco emerse dal terreno, circondando il mago. L'uomo abbassò le palpebre. Agli occhi di Kalam sembrò che l'amico si afflosciasse lievemente, come se qualcosa di essenziale per la vita fosse scomparso. Il collo di Ben lo Svelto scricchiolò quando il mento gli cadde sul petto, le spalle si abbassarono e un lungo respiro soffiò dalle sue labbra. L'anello di fuoco sfolgorò, poi si affievolì fino a diventare un lieve barlume. Kalam cambiò posizione, allungando le gambe e incrociando le braccia. Nel silenzio, iniziò l'attesa. *** Murillio, bianco come un lenzuolo, tornò al tavolo e si sedette. «Stanno rimuovendo il cadavere», disse, scuotendo la testa. «Chiunque abbia ucciso Chert era un professionista: ha centrato in pieno l'occhio e...» «Basta!» lo interruppe Kruppe, sollevando le mani. «Si dà il caso che Kruppe stia mangiando, caro Murillio e che Kruppe abbia lo stomaco delicato.» «Chert era uno stupido», continuò imperterrito Murillio, «ma non era certo il tipo da suscitare tanta ferocia». Crokus non aprì bocca. Aveva visto il sangue sul pugnale della donna dai capelli scuri. «Chi può dirlo?» mormorò Kruppe. «Forse aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.» Crokus si guardò intorno. Gli occhi si posarono nuovamente sulla donna al bancone accanto a Meese. In armatura di pelle con una spada da duello sul fianco, gli ricordava quando, da bambino, aveva visto una truppa di mercenari marciare per la città. La Guardia Cremisi, così si chiamavano. Continuò a fissare la donna. Era vestita come un mercenario, un assassino che uccideva a cuor leggero. Che cosa aveva fatto Chert per meritarsi un coltello in un occhio? Distolse lo sguardo giusto in tempo per vedere Rallick Nom entrare nel-
la locanda. Il sicario si diresse verso il tavolo, ma Coll lo intercettò. «Nom, vecchio bastardo!» lo salutò con una pacca sulla schiena. Rallick abbracciò l'amico e insieme raggiunsero il tavolo. «Oh, miei cari compagni!» esclamò Kruppe appena li vide. «Kruppe vi invita a unirvi a noi.» E indicò due sedie vuote. «Per aggiornarvi sulle nostre ultime attività, vi dirò che mentre il giovane Crokus guardava fisso nel vuoto con aria sognante, Murillio e Kruppe hanno parlato delle voci che circolano insistentemente.» Coll rimase in piedi, il volto scuro. Rallick si sedette e allungò la mano verso un boccale di birra. «Quali voci?» chiese il sicario in tono disinvolto. «Le voci secondo le quali ora siamo alleati con la Progenie della Luna», spiegò Murillio. «Naturalmente è una sciocchezza», commentò Kruppe. «Avete visto niente a conferma di tutto ciò?» Un ghigno apparve sul volto di Murillio. «La Luna non si è mossa, giusto? E inoltre, sotto di essa c'è ancora quella tenda del Consiglio.» «Ho sentito lo zio Mammot dire che i consiglieri non sono riusciti a far pervenire un messaggio a quelli della Luna», intervenne Crokus. «Tipico», commentò Murillio, lanciando una breve occhiata a Rallick. «Chi abita lassù?» domandò Crokus. Coll vacillò e appoggiò entrambe le mani sul tavolo per sostenersi. Poi, si chinò su Crokus e mormorò: «Cinque draghi neri». *** All'interno del Canale del Caos, Ben lo Svelto era a conoscenza dell'esistenza degli innumerevoli sentieri che conducevano alle porte. In realtà, quelle che lui chiamava porte erano barriere create nel punto in cui i Canali si toccavano, ammassi di energia solidi quanto il basalto. Il Caos sfiorava tutti i regni con dita nodose che sanguinavano potere, le porte, ferite indurite nella carne di altri mondi, altre vie della magia. Il mago aveva orientato i propri talenti su quelle porte; aveva infatti scoperto come modellare tale energia, come modificare le barriere, come percepire ciò che si trovava al di là di esse. Ciascun Canale possedeva un odore, ciascun regno possedeva una struttura e per quanto il sentiero lungo il quale s'incamminava non fosse mai lo stesso imboccato prima, aveva scoperto il sistema per trovare quello che cercava. Ed era proprio lungo uno di quei sentieri che ora avanzava, un sentiero
del nulla circondato dalle escrescenze del Canale stesso, carico di contraddizioni. Avrebbe voluto andare avanti e invece si trovò a muoversi all'indietro; giunse a una brusca curva, seguita da un'altra e un'altra ancora tutte nella stessa direzione. Sapeva che era la forza della sua mente ad aprire i passaggi, ma questi ultimi avevano le loro leggi - o forse erano le sue leggi e lui ancora non lo sapeva. Qualunque fosse la fonte di tutto ciò, era pazzia pura. Finalmente raggiunse la porta che cercava. La barriera gli apparve come un semplice masso color grigio ardesia. Ben lo Svelto mormorò un comando e il suo spirito assunse la forma del suo corpo. Restò immobile un istante poi, dopo avere ripreso il controllo di quel corpo spettrale, fece un passo avanti e appoggiò le mani sulla porta. I bordi erano duri e caldi. Verso il centro, la porta diventava morbida e infocata. Lentamente, sotto le mani del mago, la superficie perse opacità per divenire trasparente come l'ossidiana. Ben chiuse gli occhi. Non aveva mai provato a passare attraverso una porta simile. Non era nemmeno sicuro che fosse possibile. E se ce l'avesse fatta, esisteva un modo per tornare? Al di là delle difficoltà tecniche, si profilava il motivo di maggior ansia: stava per cercare di entrare in un regno dove non era il benvenuto. Aprì gli occhi. «Io sono la direzione», mormorò scandendo le parole. Si appoggiò contro la barriera. «Io sono la forza di volontà in un luogo che la rispetta e non rispetta altro.» Si appoggiò con maggior vigore. «Io sono il tocco del Canale. Niente è immune al caos, in nessun luogo.» Sentì la porta cominciare a cedere. «Soltanto io passerò!» A un tratto, con un tonfo sordo, oltrepassò la soglia, il corpo avvolto da uno sfolgorio di energia. Il mago barcollò su un terreno inaridito, bruciato. Riacquistò l'equilibrio e si guardò intorno. Si trovava in una pianura desolata, l'orizzonte sulla sinistra segnato da morbide colline. Sopra di lui si stendeva un cielo coloro mercurio, dove si rincorrevano nuvole nere e sfilacciate. Ben si sedette, piegando le gambe e incrociando le mani sul grembo. «Tronod'Ombra», disse, «Signore delle Ombre, sono venuto nel tuo regno. Mi riceverai come si confà a un pacifico visitatore?». Dalle colline giunse una risposta: l'ululato di Segugi. CAPITOLO DODICESIMO Cammina con me
sulla Strada dei Ladri senti il suo canto sotto i piedi com'è chiaro il suo tono quando accompagna il ritmo, dei tuoi passi Filastrocca di Apsalar Drisbin (n. 1135) Massaggiandosi la fronte, Kruppe leggeva seduto nello studio di Mammot. ...e nella Chiamata verso terra il Dio fu reso Storpio, e quindi Incatenato al suo posto. Nella Chiamata molte lande furono divise dai Pugni del Dio; cose nacquero e cose furono liberate. Storpio e Incatenato era questo Dio. Distogliendo lo sguardo dall'antico tomo, Kruppe levò gli occhi al cielo. «Brevità, Kruppe invoca la brevità!» Tornò al manoscritto sbiadito. e mostrò cautela nel disvelamento dei suoi poteri. Il Dio Storpio mostrò cautela, ma non abbastanza, perché alla fine lo raggiunsero i poteri della terra. Incatenato era il Dio Storpio, e così Incatenato fu distrutto. E su questa pianura spoglia che imprigionava il Dio Storpio molti si raccolsero ad assistere. Hood, il grigio vagabondo della Morte, era fra i presenti, come pure Dessembrae, allora guerriero di Hood, malgrado fosse qui e in questo momento che Dessembrae recise i legami che Hood vantava su di lui. Presenti erano anche Con un gemito, Kruppe girò le pagine. La lista sembrava interminabile, assurdamente lunga. Da quel resoconto si aspettava quasi di veder emergere il nome di sua nonna. Finalmente, dopo tre pagine, trovò i nomi che cercava. E fra coloro che vennero dai cieli dalle volte argentee, i Tiste Andii, gli Oscuri abitanti del Luogo prima dell'arrivo della Luce, Draghi Neri in
numero di cinque, e nella loro scia volava Silanah dalle ali rosse, che si diceva risiedesse fra i Tiste Andii nella loro Zanna di Oscurità discendente dai cieli dalle volte argentee Kruppe annuì, borbottando fra sé. Una Zanna di Oscurità discendente dai cieli - la Progenie della Luna? Ospitante cinque Draghi Neri e una Dragonessa Rossa? Rabbrividì. Come aveva fatto Coll a scoprire una cosa del genere? Vero, quell'uomo non era sempre stato un ubriacone, ma anche la sua condizione precedente, per quanto elevata, non aveva avuto nulla di accademico. Chi, allora, aveva parlato attraverso la bocca sporca di vino del vecchio? «La risposta», sospirò Kruppe, «dovrà aspettare. L'importanza, tuttavia, della vibrata affermazione di Coll sta nella sua evidente verità, e nel modo in cui si riferisce alla situazione presente». Chiuse il libro e si alzò. Udì un rumore di passi alle sue spalle. «Ti ho portato del tè alle erbe», annunciò il vecchio, entrando nella stanzetta. «Il Compendio dei Reami di Alladart ti è stato utile, Kruppe?» «Utilissimo», rispose Kruppe, accettando con riconoscenza la tazza di terracotta. «Kruppe ha imparato il valore della lingua moderna. Gli sbrodolamenti comuni a quegli antichi studiosi sono una maledizione che Kruppe è grato di trovare estinta nel nostro tempo.» «Ah, ah», disse l'uomo, tossendo leggermente e distogliendo lo sguardo. «Be', ti dispiace se ti chiedo cosa stavi cercando?» Kruppe sollevò la testa; gli angoli dei suoi occhi si incresparono. «Niente affatto, Mammot. Pensavo di trovare menzionato il nome di mia nonna.» Mammot aggrottò la fronte, poi annuì. «Oh. Be', non indagherò sulla tua fortuna, allora.» «Per favore, non farlo», ribatté Kruppe, sgranando gli occhi. «La fortuna, di questi giorni, è un compagno terribile, con la confusione che ci circonda. E grazie per aver compreso il bisogno di cautela di Kruppe.» «Non c'è di che», mormorò Mammot, agitando una mano come per respingere il complimento. «Non intendevo... ebbene sì. Curiosità, capisci. Del tipo intellettuale.» Kruppe fece un sorriso beato, sorseggiando il suo tè. «Torniamo nel salotto», propose Mammot, «a ristorarci davanti al fuoco?». Andarono nell'altra stanza. Una volta seduto, Kruppe allungò le gambe, appoggiandosi allo schienale. «Come va il tuo lavoro di scrittura?» chiese.
«Lentamente», ammise Mammot, «com'è naturale». Sembrava che Mammot covasse qualcosa, per cui Kruppe aspettò, muovendo pigramente gli alluci. Passò un minuto, poi il vecchio si schiarì la gola e parlò. «Kruppe, hai visto il mio caro nipote ultimamente?» Kruppe alzò le sopracciglia. «Molto tempo fa», rispose, «Kruppe fece una promessa a un uomo, un uomo che era lo zio preoccupato di un ragazzo che trovava le strade un campo giochi eccitante. Il ragazzo sognava duelli e azioni oscure commesse nei vicoli per conto di principesse in incognito, o simili...». Mammot annuiva a occhi chiusi. «... e tale promessa Kruppe ha rispettato ampiamente, poiché anche lui amava il ragazzo. E dal momento che, come in ogni altra impresa, la sopravvivenza è misura dell'abilità, Kruppe ha preso il ragazzo sotto la sua ala di seta con un certo successo, eh?» Mammot sorrise, senza smettere di annuire. «E così, per rispondere alla domanda dello zio, sì, Kruppe ha visto il ragazzo.» Piegandosi in avanti, Mammot puntò uno sguardo intenso su Kruppe. «Hai notato niente di originale nelle sue azioni? Voglio dire, ti ha fatto domande strane, o richieste particolari?» Kruppe strinse gli occhi. Si fermò a bere. «A essere schietti, sì. Ha preteso la restituzione di una bella raccolta di gioielli che aveva acquisito di recente, per ragioni personali... come ha detto lui. Ragioni personali. Kruppe era perplesso allora ed è perplesso ora, ma l'evidente sincerità, no, l'intensa concentrazione del ragazzo gli sono parse lodevoli.» «Sono d'accordo! Ci credi che Crokus ha espresso interesse per l'istruzione accademica? Non riesco a capire. C'è senz'altro qualcosa che lo ossessiona.» «Forse, allora, Kruppe dovrebbe ricucire i pezzi.» «Grazie», approvò Mammot, sollevato. «Vorrei conoscere la fonte di tutto ciò. Tanta ambizione tutta in una volta... temo che si esaurirà presto. Se potessimo nutrirla, però...» «Ma certo», intervenne Kruppe. «Dopo tutto, la vita non si esaurisce nei furtarelli.» Mammot sogghignò. «Be', Kruppe, mi stupisce sentirtelo dire.» «Simili commenti debbono rimanere fra te e Kruppe. Ad ogni modo, credo che Murillio sappia qualcosa di questa storia. L'ha lasciato intendere stasera, mentre cenavamo alla Locanda della Fenice.»
«Murillio sta bene?» chiese Mammot. Kruppe sorrise. «La rete intorno al ragazzo resta intatta», rivelò. «Rallick Nom ha preso la responsabilità molto sul serio. Forse vede in Crokus qualcosa della sua perduta giovinezza. In realtà, Rallick è un uomo la cui vera natura sfugge a Kruppe. Ferocemente leale, certo, e una persona che, come ben sai, onora i suoi debiti con tanto vigore da umiliare coloro che lo circondano. Tranne Kruppe, naturalmente. Ma è sangue quello che gli scorre nelle vene? A volte sorgono dei dubbi.» Sul viso di Mammot si era dipinta un'espressione distante. Kruppe s'irrigidì. L'aria odorava di magia. Chinandosi in avanti, studiò il vecchio seduto davanti a lui. Qualcuno stava comunicando con Mammot, e il Canale che pulsava ora nella stanza era familiare a Kruppe. Si appoggiò allo schienale e aspettò. Alla fine, Mammot scattò in piedi. «Devo svolgere delle ricerche», osservò, agitato. «Quanto a te, Kruppe, Mastro Baruk desidera parlarti immediatamente.» «Mi sembrava di aver percepito la presenza dell'alchimista», osservò Kruppe, alzandosi con un lieve grugnito. «Ah, queste notti fatidiche non smettono di spronarci con i loro rigori. A più tardi, allora, Mammot.» «Arrivederci», salutò lo studioso, e attraversò il salotto con la fronte increspata da un cipiglio. Entrò nella stanzetta in cui Kruppe aveva trascorso l'ultima ora. Kruppe si aggiustò le maniche del mantello. Qualunque cosa fosse successa, era stata sufficiente a compromettere l'etichetta di Mammot, ciò che era indice di eventi sinistri. «Be'», mormorò, «meglio non fare aspettare Baruk, allora. Almeno», si corresse, dirigendosi alla porta, «non troppo a lungo. Il decoro esige che Kruppe conservi il suo senso della dignità. Kruppe camminerà veloce, sì. Ma non correrà, perché ha bisogno di tempo per pensare, per pianificare, per prevedere, per tornare indietro con qualche riflessione, per balzare avanti con altre, per fare tutto il necessario. Soprattutto, Kruppe deve scoprire la natura della donna che lo seguiva, e che ha ucciso Chert, e che si è accorta che Crokus aveva visto il sangue sulla sua arma, e che ha riconosciuto Rallick Nom come sicario nello stesso momento del suo arrivo. Potrebbe fornire la chiave di tutto, e anche dell'altro, poiché la moneta ha rivolto la faccia verso di lei, anche se solo per un attimo. E questo, pensa Kruppe, avrà conseguenze su tutti noi, nel bene o nel male». Si fermò a guardarsi intorno, battendo rapidamente le palpebre. «Ma almeno», borbottò, «Kruppe dovrebbe lasciare il salotto di Mammot».
Lanciò un'occhiata alla stanza in cui era entrato quest'ultimo. Dall'interno veniva il rumore di pagine fragili che venivano girate velocemente. Kruppe sospirò di sollievo, poi uscì. *** Crone arruffò le penne bruciacchiate, saltellando qua e là in preda all'agitazione. Dov'era quell'alchimista? Aveva mille cose di cui occuparsi prima della fine della notte, anche se, in verità, non riusciva a pensare a nulla di preciso. Però non le piaceva che la facessero aspettare. La porta dello studio si aprì e Baruk entrò a grandi passi, avvolgendosi una veste attorno alla mole considerevole. «Le mie scuse, Crone, una necessità fisiologica.» Crone grugnì. La magia irradiava da quell'uomo in correnti dense, pungenti. «Il mio signore, Anomander Rake», esordì, senza preamboli, «mi ha ordinato di riferirti ciò che gli ho detto delle mie avventure sulla Pianura Rhivi». Baruk raggiunse il Grande Corvo che camminava avanti e indietro sul tavolo delle mappe. Corrugò la fronte. «Sei stata ferita.» «Solo nell'orgoglio. Ascolta la mia storia.» Baruk alzò un sopracciglio. La vecchia strega era di umore cupo. Non parlò più, e lei cominciò. «Una piccola marionetta di legno sta arrivando dal nord, frutto della trasmigrazione della anime; proviene da un Canale del Caos. Il suo potere è immenso, distorto, nocivo persino per i Grandi Corvi. Ha ucciso molti dei miei fratelli mentre entrava e usciva dal suo Canale. Ed, evidentemente, si è divertita nel farlo.» Crone fece schioccare rabbiosamente il becco, poi proseguì: «Insegue un potere cui non ho potuto avvicinarmi; un potere che, in qualunque cosa consista, punta dritto alle Colline Gadrobi - su questo io e il mio signore concordiamo. Il potere cerca qualcosa fra quelle colline. Poiché noi non siamo originari di questa terra, rechiamo a te la notizia, alchimista. Due forze stanno convergendo sulle Colline Gadrobi. Il mio signore ti chiede perché». L'uomo era completamente sbiancato. Girandosi lentamente, andò a una poltrona. Si sedette, unì le mani davanti al viso chino e chiuse gli occhi. «L'Impero Malazan cerca qualcosa che non può sperare di controllare, qualcosa sepolto nelle Colline Gadrobi. Che una delle due forze sia in grado di liberarlo, è un'altra questione. Cercare non è lo stesso che trovare, e
trovare non è lo stesso che riuscire.» Crone emise un sibilo di impazienza. «Chi è sepolto lì, alchimista?» «Un Tiranno Jaghut, imprigionato dagli stessi Jaghut. Generazioni di studiosi e di maghi hanno cercato il suo tumulo. Nessuno ha mai scoperto nemmeno un indizio.» Baruk alzò il viso increspato dalla preoccupazione. «Conosco un uomo, qui a Darujhistan, che ha raccolto tutte le informazioni disponibili su questa tomba. Devo parlare con lui. Posso rivelare questo al tuo signore, però. Nelle Colline Gadrobi esiste una lapide - so esattamente dove si trova. È quasi invisibile; solo la cima segnata dalle intemperie sporge, per una spanna circa. Gli altri venti piedi sono sottoterra. Vedrai i resti di molte buche e fossi scavati all'intorno - invano. Perché la lapide segna il margine del tumulo, ma non ne è l'entrata.» «Dov'è l'entrata, allora?» «Non intendo dirtelo. Quando avrò parlato con il mio collega, forse potrò darti altri dettagli. O forse no. Ma il modo in cui si penetra nel tumulo deve restare segreto.» «Questo non ci serve a niente! Il mio signore...» «È estremamente potente», l'interruppe Baruk. «Le sue intenzioni sono tutt'altro che chiare, Crone, per quanto noi siamo alleati. Ciò che giace in quel tumulo può distruggere una città - questa città. Non consegnerò questo potere nelle mani di Rake. Conoscerai l'ubicazione della lapide, perché è lì che tutti i cercatori devono cominciare. Ho una domanda da farti, Crone. La marionetta... sei sicura che insegua quell'altro potere?» Crone chinò la testa. «Insegue. All'occorrenza si nasconde. Tu presumi che entrambi i poteri siano Malazan. Perché?» Baruk grugnì. «Primo, i Malazan vogliono Darujhistan. Faranno qualunque cosa per appropriarsene. Nelle terre che hanno conquistato hanno avuto accesso a vaste biblioteche; il tumulo Jaghut non è un segreto di per sé. Secondo, hai detto che i poteri venivano dal nord; devono per forza essere Malazan. Perché uno si nasconda all'altro, sfugge alla mia comprensione; anche se sono certo che all'interno dell'Impero esistono fazioni contrastanti - qualunque entità politica di una tale ampiezza pullula di dissensi. Ad ogni modo, pongono una minaccia diretta a Darujhistan e, per estensione, al desiderio del tuo signore di impedire all'Impero Malazan di sopraffarci.» Il dispiacere di Crone era evidente. «Verrai tenuto informato dell'attività sulla Pianura Rhivi. Il mio signore deve decidere se intercettare questi poteri prima che raggiungano le Colline Gadrobi.» Puntò su Baruk un occhio furente. «Ha ricevuto scarsa assistenza dai suoi alleati. Confido che, in
occasione del nostro prossimo colloquio, quella situazione avrà avuto rimedio.» L'alchimista scosse le spalle. «Il mio primo incontro con Anomander Rake si è rivelato l'unico. L'assistenza richiede comunicazione.» Il suo tono s'indurì. «Informa il tuo signore che l'insoddisfazione non esiste solo da parte sua.» «Il mio signore è stato occupato con il suo lato delle cose», borbottò Crone, svolazzando fino al davanzale della finestra. Baruk fissò l'uccello che si preparava ad andarsene. «Occupato?» chiese cupo. «In che senso?» «A tempo debito, alchimista», ribatté Crone con voce mielata. Un attimo dopo, era sparita. Baruk imprecò; con un gesto rabbioso, rimise a posto la finestra e richiuse le imposte di scatto. Ma farlo da lontano, attraverso la magia, non dava la stessa soddisfazione di un'azione fisica. Bofonchiando, si alzò e andò al camino. Stava versandosi del vino, quando s'interruppe. Meno di mezz'ora prima, aveva materializzato un demone. Nulla di ambizioso: gli serviva una spia, non un sicario. Però qualcosa gli diceva che, in futuro, avrebbe evocato creature molto più micidiali. «Mammot», bisbigliò, aprendo il suo Canale, «ho bisogno di te». Sorrise quando nella mente gli apparve la scena di un salottino con un focolare di pietra. Seduto sulla sedia davanti al suo punto di vista c'era Kruppe. «Ottimo. Ho bisogno di entrambi.» *** Il Segugio che correva verso Ben lo Svelto era robusto e pesante; il mantello era di un bianco irreale. Quando si avvicinò ancora, il mago vide che anche gli occhi erano bianchi. La creatura non possedeva pupille. Si fermò a breve distanza e si sedette. Ben lo Svelto fece un inchino. «Tu sei il Segugio di nome Blind», disse, «compagna di Baran e madre di Gear. Non ho intenzioni malevole. Vorrei parlare con il tuo padrone». Un ringhio al suo fianco lo fece gelare. Lentamente, girò la testa e abbassò lo sguardo. A meno di un piede dalla sua gamba destra giaceva un altro Segugio, magro, pieno di cicatrici, dal mantello screziato marrone e beige. Teneva gli occhi fissi su Blind. «Baran.» Ben lo Svelto annuì. Un altro ringhio fece eco a quello di Baran, stavolta dietro al mago. Ruotando
ulteriormente la testa, questi vide, a dieci piedi di distanza, un terzo Segugio, lungo, nero, lucido. Gli occhi, puntati su di lui, rosseggiavano. «È Shan», mormorò Ben. Riportò lo sguardo su Blind. «Hai trovato la tua preda, oppure devi farmi da scorta?» Baran si alzò silenziosamente accanto a lui, le spalle in linea con il petto. Blind lo imitò, poi si diresse a sinistra. Si fermò a guardarsi indietro. Un doppio ringhio incitò Ben lo Svelto a seguire le bestie. La terra intorno a loro cambiava lentamente; particolari scivolavano in ombre senza origine e riapparivano sottilmente alterati. Su quello che il mago riteneva l'orizzonte settentrionale, una foresta grigia si arrampicava su un pendio fino a quello che sarebbe potuto essere un muro. Questo muro stava al posto del cielo - forse era il cielo - ma a Ben lo Svelto sembrava stranamente vicino, anche se la foresta si trovava a leghe di distanza. Uno sguardo all'insù non gli servì né a confermare né a respingere la sensazione che quel regno fosse circondato da un muro magico. Nuvole nere cavalcavano i venti sopra di lui, falsando le sue percezioni e dandogli le vertigini. Un altro Segugio si era unito a loro. Maschio, aveva il mantello grigio scuro, e un occhio azzurro e l'altro giallo. Anche se non si avvicinava molto, Ben lo Svelto stimò che fosse il più grosso di quelli che l'attorniavano, e il suo movimento indicava una velocità micidiale. Lo conosceva come Doan, primogenito del capobranco, Rood, e della sua prima compagna, Pallick. Doan trottò accanto a Blind per un po', poi, quando arrivarono in cima a una bassa altura, balzò in avanti. Dall'alto della cresta, Ben lo Svelto vide qual era la loro destinazione. Sospirò. Identica all'immagine incisa sull'altare nei templi dedicati a Tronod'Ombra, la Fortezza dell'Ombra si levava dalla pianura come un enorme blocco di vetro nero, inframmezzato da piani curvi, increspato qua e là, con alcuni angoli color bianco sfavillante. La superficie più ampia che stava loro di fronte, di ossidiana rovinata dalle intemperie - un muro, supponeva - era smorta e screziata come la corteccia di un albero. Non c'erano finestre vere e proprie, ma molte delle superfici lucide sembravano semi-trasparenti, e soffuse di una luce interna. Per quanto poteva vedere Ben lo Svelto, non esistevano né porta, né cancello, né ponte levatoio. Arrivarono, e il mago proruppe in un'esclamazione sorpresa quando Blind entrò nella pietra e scomparve. Esitò; per spronarlo, Baran arrivò
tanto vicino a toccarlo quanto Ben stesso permetteva. Il mago si portò davanti alla superficie screziata e tese le mani, mentre vi scivolava dentro. Non sentì nulla: l'attraversò senza sforzo, ritrovandosi in un corridoio che avrebbe potuto essere tipico di qualunque residenza terrena. Privo di ornamenti, il corridoio avanzava dritto per, forse, trenta piedi, terminando davanti a una porta doppia. Blind e Doan si sedettero ai lati opposti di quest'ultima, che si aprì spontaneamente. Ben lo Svelto entrò. La stanza al di là aveva il soffitto a volta. Davanti a lui, un semplice trono di ossidiana si ergeva su un palco leggermente sopraelevato. Il pavimento cupo, acciottolato, non aveva tappeti, e le pareti erano spoglie tranne che per torce poste a dieci piedi di distanza l'una dall'altra. Ben lo Svelto ne contò quaranta, ma la luce era intermittente, come se lottasse contro l'assalto del buio. Dapprima, pensò che il trono fosse vuoto ma, avvicinandosi, vide la figura che vi stava seduta. Sembrava composta di ombre quasi trasparenti; aveva forma vagamente umana, ma il cappuccio nascondeva persino il luccichio degli occhi. Tuttavia, il mago sentì l'attenzione del dio puntata unicamente su di lui, e riuscì a malapena a trattenere un brivido. Tronod'Ombra parlò, con voce calma e chiara. «Shan mi dice che conosci il nome dei miei Segugi.» Ben lo Svelto si fermò davanti al palco. Fece un inchino. «Una volta ero un accolito nel vostro tempio, signore.» Il dio stette in silenzio per un po', poi ribatté: «È saggio ammettere una cosa del genere, mago? Vedo di buon occhio coloro che un tempo mi servivano ma poi abbandonarono le mie strade? Dimmi. Vorrei sentire da te cosa insegnano i miei sacerdoti». «Imboccare il Sentiero dell'Ombra e poi lasciarlo vuol dire essere ricompensati dalla Fune.» «Ossia?» «Tutti i tuoi seguaci hanno l'ordine di uccidermi, signore.» «Eppure sei qui, Mago.» Ben lo Svelto fece un altro inchino. «Vorrei concludere un patto, signore.» Il dio ridacchiò, poi alzò una mano. «No, cara Shan. Non attaccare.» Ben lo Svelto s'irrigidì. Il Segugio nero gli girò intorno, poi salì sul palco. Si sdraiò davanti al suo dio e fissò il mago con espressione neutra. «Sai perché ti ho appena salvato la vita, mago?» «Sì, signore.»
Tronod'Ombra si piegò in avanti. «Shan vuole che tu me lo dica.» Ben lo Svelto incrociò lo sguardo rosseggiante del Segugio. «Tronod'Ombra ama i patti.» Il dio sospirò, appoggiandosi allo schienale. «Un vero accolito. Bene, allora parla, mago, finché puoi.» «Devo cominciare con una domanda, signore.» «Falla.» «Gear è ancora vivo?» Gli occhi di Shan fiammeggiarono; la bestia si alzò a metà prima che la mano del dio la toccasse sulla testa. «Questa», replicò Tronod'Ombra, «è una gran bella domanda. Sei riuscito in qualcosa che pochi altri, ahimè, sono stati in grado di fare. Tu, mago, hai stimolato la mia curiosità. Per cui, ti rispondo: sì, Gear sopravvive. Continua, te ne prego». «Signore, vorrei consegnare nelle vostre mani colui che ha ferito il vostro Segugio.» «Come? Appartiene a Oponn.» «Non lui, signore. Ma colui che ha portato Gear in quella stanza. Colui che ha cercato di prendergli l'anima, e ci sarebbe riuscito se non fosse stato per lo strumento mortale di Oponn.» «In cambio di che cosa?» Ben lo Svelto imprecò fra sé. Non riusciva a intuire niente dal tono del dio, e ciò rendeva le cose ancora più difficili del previsto. «La mia vita, signore. Vorrei essere esentato dalla ricompensa della Fune.» «Nient'altro?» «Sì.» Il mago esitò, poi proseguì: «Vorrei scegliere il tempo e il luogo, signore. Altrimenti, colui di cui parlo sfuggirà ai vostri Segugi attraverso il suo Canale del Caos. Solo io posso impedirlo. Questo fa parte del patto. Voi non dovrete far altro che tener pronti i Segugi. Io vi visiterò al momento opportuno, comunicandovi l'ubicazione precisa della creatura. Il resto tocca ai Segugi». «Un piano perfetto, mago», osservò Tronod'Ombra. «Per ora, non mi viene in mente nessun modo per uccidere sia la creatura che te. I miei complimenti. Però, come farai a visitarmi? Certo non intenderai penetrare di nuovo nel mio regno.» «Signore, verrete contattato. Ve lo garantisco, ma non posso dirvi altro in merito.» «E se dovessi scatenare i miei poteri su di te ora, Mago? Se dovessi
spremere qualunque cosa stia nascosta in quel tuo fragile cervello, come faresti a impedirmelo?» «Per avere risposta, signore, dovete prima rispondere alla mia proposta.» Shan ringhiò, e stavolta il dio non accennò a calmarla. Ben lo Svelto si affrettò ad aggiungere: «Dato che cercherete di tradirmi alla minima occasione, che andrete a caccia di ogni debolezza nel mio piano, dato tutto questo, vorrei avere la vostra parola che, qualunque cosa accada, rispetterete la vostra parte dell'accordo, signore. Assicuratemelo, e io risponderò alla vostra ultima domanda». Tronod'Ombra rimase in silenzio per un lungo minuto. «Ah, be'», borbottò. «La tua astuzia è ammirevole, Mago. Sono stupefatto e, devo ammetterlo, molto divertito da questo duello. Il mio solo rammarico è che tu abbia abbandonato i Sentieri dell'Ombra - saresti arrivato lontano. D'accordo. Hai la mia parola. I Segugi saranno pronti. Ora, perché non dovrei fare a brandelli il tuo cervello in questo momento, mago?» «Vi siete già risposto da solo, signore.» Ben lo Svelto alzò le braccia. «Sono davvero arrivato lontano, Tronod'Ombra, al vostro servizio.» Aprì il suo Canale. «Non mi avrete, signore, perché non potete avermi.» Ben lo Svelto mormorò il suo richiamo, un richiamo generato dal Caos. Il potere esplose intorno a lui; lui ebbe l'impressione di essere stato avvolto da una mano gigante. Mentre questa lo riportava nel suo Canale, udì il grido di riconoscimento di Tronod'Ombra. «Sei tu! Delat! Il bastardo mutante!» Ben lo Svelto sorrise. Ce l'aveva fatta. Era al sicuro. Ce l'aveva fatta - di nuovo. *** Kruppe fu introdotto nello studio di Baruk senza nessuno degli indugi che gli piaceva tanto criticare. Lievemente deluso, si sedette, asciugandosi la fronte con il fazzoletto. Baruk entrò. «Ce ne hai messo del tempo ad arrivare», ringhiò. «Be', non importa. Hai qualche notizia?» Kruppe si posò il fazzoletto in grembo e cominciò a piegarlo con cura. «Continuiamo a proteggere il Portatore della Moneta, secondo le istruzioni. Quanto alla presenza di infiltrati Malazan, non siamo riusciti a trovarne.» Era una bugia colossale, ma necessaria. «Devo trasmettervi un messaggio», continuò, «dalla fonte decisamente insolita. Davvero strano, in
verità, è il modo in cui Kruppe l'ha ricevuto». «Avanti, parla.» Kruppe sussultò. Baruk era di umore terribile. Sospirò. «Un messaggio destinato a voi personalmente, padrone.» Finì di piegare il fazzoletto e alzò lo sguardo. «Da parte dell'Anguilla.» Baruk s'irrigidì, poi un cipiglio gli incupì i lineamenti. «Perché no?» borbottò. «Quell'uomo sa persino chi sono i miei agenti.» Il suo sguardo si schiarì; lo puntò su Kruppe. «Sto aspettando», tuonò. «Ma certo!» Kruppe spiegò il fazzoletto con uno scossone e se lo passò sulla fronte. «"Guarda nelle strade per trovare coloro che cerchi". Nient'altro. Comunicato a Kruppe dal bambino più piccolo che avesse mai visto...» Si fermò e scosse la testa. No, non era il caso di usare una simile esagerazione, non con Baruk così di cattivo umore. «Un bambino piccolo, comunque.» Baruk fissava torvo le braci morenti nel camino; le mani intrecciate dietro la schiena, girava con le dita un grosso anello d'argento. «Dimmi, Kruppe», chiese lentamente, «che cosa sai di quest'Anguilla?». «Poco, Kruppe deve ammettere. Uomo, donna? Mistero. Origini? Sconosciute. Piani? Perpetuare uno status quo consistente nell'avversione alla tirannia. O così si dice. Influenza? Di larga portata; anche ignorando nove voci su dieci di quelle legate all'Anguilla, i suoi agenti devono essere nell'ordine delle centinaia. Tutti dediti a proteggere Darujhistan. Si dice che il consigliere Turban Orr stia dando loro la caccia, convinto che abbiano rovinato le sue trame. Forse è vero, e possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo per questo.» Baruk pareva tutt'altro che sollevato. A Kruppe sembrava quasi di potergli sentire digrignare i denti. Tuttavia, si girò verso Kruppe e annuì. «Ho un compito da darti. Per svolgerlo, dovrai radunare Murillio, Rallick e Coll. E conduci con te il Portatore della Moneta, tanto per tenerlo al sicuro.» Kruppe alzò un sopracciglio. «Fuori dalla città?» «Sì. Mi raccomando il Portatore della Moneta - tienilo lontano dalla portata di chiunque. Quanto alla tua missione, dovrai osservare. Nient'altro. Mi capisci, Kruppe? Osservare. Fare qualunque altra cosa significherebbe rischiare di far cadere il Portatore della Moneta nelle mani sbagliate. Pur essendo lo strumento di Oponn, è anche il mezzo attraverso il quale un altro Ascendente può raggiungere Oponn. L'ultima cosa che ci serve è una battaglia degli dei sul piano mortale.»
Kruppe si schiarì la gola. «Che cosa dobbiamo osservare, padrone?» «Non ne sono sicuro; forse una squadra di lavoro straniera, che scava qua e là.» Kruppe trasalì. «Come... come quelle che riparano le strade?» L'alchimista corrugò la fronte. «Ti manderò alle Colline Gadrobi. Rimani lì finché non verrà qualcuno, oppure io non ti contatterò con altre istruzioni. Se arriva qualcuno, Kruppe, dovrai nasconderti. Non farti scoprire a nessun costo - se ce n'è bisogno, usa il tuo Canale.» «Nessuno troverà Kruppe e i suoi degni, leali compagni», decretò Kruppe, sorridendo e agitando le dita. «Bene. Non c'è altro.» Sorpreso, Kruppe balzò in piedi. «Quando dobbiamo partire, padrone?» «Presto. Te lo farò sapere almeno un giorno prima. Ti basta come preavviso?» «Sì, amico Baruk. Kruppe lo ritiene un tempo ampiamente sufficiente. Rallick pare momentaneamente indisposto, ma con un po' di fortuna sarà disponibile.» «Recluta anche lui, se puoi. Se l'influenza del Portatore della Moneta si rivolge contro di noi, il sicario dovrà uccidere il ragazzo. Lo capisce questo?» «Ne abbiamo discusso», replicò Kruppe. Baruk chinò la testa, e ammutolì. Kruppe aspettò un attimo, poi se ne andò silenziosamente. *** Meno di un'ora dopo aver lasciato il corpo seduto sul pavimento della baracca e aver viaggiato nel Regno dell'Ombra, l'anima di Ben lo Svelto se ne riappropriò con uno scricchiolio. Gli occhi rossi dalla stanchezza frutto della tensione costante, Kalam si tirò in piedi e aspettò che il suo amico riprendesse conoscenza. Il sicario posò le mani sui suoi coltelli, tanto per stare sul sicuro. Se Ben lo Svelto era stato catturato, qualunque cosa lo controllasse avrebbe potuto annunciare il suo arrivo attaccando indiscriminatamente. Kalam trattenne il fiato. Il mago aprì gli occhi; la patina opaca che li ricopriva scivolò via con il ritorno della consapevolezza. Vedendo Kalam, sorrise. Il sicario esalò il respiro. «Fatto? Hai avuto successo?»
«Sì, su entrambi i fronti. Difficile da credere, vero?» Kalam si ritrovò a sorridere in modo incontrollabile. Facendo un passo avanti, aiutò Ben lo Svelto ad alzarsi. Il mago si appoggiò pesantemente a lui, sorridendo a sua volta. «Ha capito chi ero proprio mentre me ne stavo andando.» Il sorriso di Ben lo Svelto si allargò. «Avresti dovuto sentirlo gridare.» «Be', te ne stupisci? Quanti Grandi Sacerdoti bruciano le loro vesti?» «Non abbastanza, secondo me. Senza templi e sacerdoti gli dei non potrebbero toccare il regno mortale con le loro maledette ingerenze. E sarebbe un paradiso, eh, amico?» «Forse», commentò una voce dal vano della porta. Entrambi gli uomini si girarono e videro Dispiacere in piedi sull'entrata, il mantello stretto intorno al corpo esile. Era bagnata di pioggia; solo allora Kalam notò l'acqua che gocciolava dalle fenditure tutt'intorno a loro. Il sicario si allontanò da Ben lo Svelto per liberare le mani. «Che ci fai qui?» chiese. «Sogni il paradiso, Mago? Vorrei aver sentito l'intera conversazione.» «Come hai fatto a trovarci?» indagò Ben lo Svelto. Dispiacere entrò, spingendo indietro il cappuccio. «Ho trovato un sicario», annunciò. «L'ho riconosciuto. Si trova in un luogo chiamato Locanda della Fenice, nel Distretto Daru. Vi interessa?» domandò, guardando i due con sguardo spento. «Voglio delle risposte», ribatté sommessamente Kalam. Ben lo Svelto arretrò fino al muro, per dare spazio al sicario e per preparare, all'occorrenza, i suoi incantesimi - anche se non era davvero in condizioni di gestire il suo Canale. E, si rese conto, nemmeno Kalam sembrava perfettamente in forma - non che se ne sarebbe fatto fermare. In quel momento, era più pericoloso che mai; quella voce bassa la diceva lunga. Dispiacere tenne gli occhi morti su Kalam. «Il sergente mi ha mandato da voi...» «Storie», la rimbeccò Kalam, piano. «Whiskeyjack non sa dove siamo.» «Benissimo. Ho avvertito il tuo potere, Mago. Ha un'impronta caratteristica.» Ben lo Svelto era stupefatto. «Ma ho eretto uno scudo intorno a questo posto», spiegò. «Sì. Anch'io sono rimasta sorpresa. Di solito non riesco a trovarti. Sembra che ci siano delle crepe.» Ben lo Svelto ci pensò. «Crepe», decise, non era la parola giusta, ma Dispiacere non lo sapeva. Aveva individuato la sua posizione perché era
quello che sospettavano, una pedina della Fune. Il Regno dell'Ombra era stato legato, per quanto debolmente e fugacemente, alla sua carne e al suo sangue. Ma nessuno, tranne un servo dell'Ombra, possedeva la sensibilità necessaria per captare quel legame. Il mago si portò accanto a Kalam, e posò una mano sulla spalla dell'omaccione. Kalam gli lanciò un'occhiata sbigottita. «Dispiacere ha ragione. Sono apparse delle crepe, Kalam. Evidentemente, ha un talento naturale per la magia. La ragazza ha trovato quello che cercavamo; seguiamo quella pista.» Dispiacere si tirò il cappuccio sulla testa. «Io non vi accompagnerò», disse. «Riconoscerete quell'uomo quando lo vedrete. Sospetto che abbia il compito di rendere ovvia la sua professione. Forse la Corporazione sta anticipando le vostre mosse. Ad ogni modo, dovete andare alla Locanda della Fenice.» «E tu che diavolo farai?» chiese Kalam. «Devo eseguire una missione per il sergente.» Girandosi, la ragazza lasciò la baracca. Kalam lasciò afflosciare le spalle, ed emise un lungo respiro. «È quella che pensavamo che fosse», osservò tranquillamente Ben lo Svelto. «In altre parole», ringhiò il sicario, «se l'avessi attaccata, adesso sarei un uomo morto». «Proprio così. La elimineremo, al momento opportuno. Ma per ora ci serve.» Kalam annuì. «Locanda della Fenice?» «Ci puoi giurare. E quando arriveremo, per prima cosa prenderò da bere.» Ben lo Svelto sorrise. «D'accordo.» *** Rallick alzò lo sguardo quando l'uomo massiccio entrò nel bar. La pelle nera lo identificava come uno del sud, il che non era, di per sé, inconsueto. Ad attirare l'attenzione di Rallick furono, però, i lunghi coltelli dall'impugnatura di corno e il pomo d'argento infilati nello stretto cinturone. Quelle armi erano tutt'altro che meridionali, e inciso sui pomi c'era un disegno dal tratteggio incrociato, riconoscibile a tutti quelli del mestiere come il mar-
chio di un sicario. L'uomo entrò a passo tronfio nella stanza, come se ne fosse il padrone, e nessuno degli avventori che spinse via a spallate sembrava disposto a dissentire con lui. Arrivato al bar, ordinò una birra. Rallick studiò i sedimenti nel suo boccale. Evidentemente, l'uomo voleva essere notato, e proprio da qualcuno come Rallick Nom, sicario della Corporazione. Per cui, chi era l'esca, a quel punto? C'era qualcosa che non andava. Ocelot, il suo Capoclan, era convinto, come tutti gli altri membri della Corporazione, che gli Artigli dell'Impero fossero entrati in città, e stessero muovendo loro guerra. Rallick non ne era così sicuro. L'uomo in piedi al bar avrebbe potuto essere tanto un abitante di Sette Città, quanto un viaggiatore proveniente da Callows. Il suo aspetto diceva «Impero Malazan». Era un Artiglio? E se sì, perché si mostrava apertamente? Fino ad allora, il nemico non aveva lasciato un solo indizio, né un solo testimone oculare, della propria identità. Quella sfrontatezza non quadrava: segnava un cambiamento di strategia? Ed era stato l'ordine di Vorcan di nascondersi a scatenarlo? Campanelli d'allarme squillarono nella mente di Rallick. Quella faccenda era tutta sbagliata. Murillio si chinò verso di lui. «C'è qualcosa di storto, amico?» «Affari della Corporazione», replicò Rallick. «Hai sete?» Murillio fece un largo sorriso. «È un'offerta che non posso rifiutare.» Dopo un'unica, perplessa occhiata alla sagoma incosciente di Coll, abbandonata sulla sedia, il sicario lasciò il tavolo. Cos'era quella storia sui cinque draghi neri? Si diresse al bar. Mentre si faceva strada tra la folla, diede una forte gomitata sulla schiena a un ragazzo. Questi ansimò, poi svicolò furtivamente verso la cucina. Al suo arrivo, Rallick chiamò Scurve, e ordinò un altro boccale. Anche se non guardò dalla parte dell'uomo, sapeva di esserne stato notato. Era soltanto una sensazione, ma aveva imparato a fidarsi di impressioni simili. Sospirò, mentre Scurve gli consegnava la birra schiumosa. Bene, aveva obbedito alla richiesta di Ocelot, anche se sospettava che il suo Capoclan gli avrebbe domandato dell'altro. Tornato al tavolo, conversò con Murillio per un po', offrendo all'amico una birra dopo l'altra. Sentendo la tensione crescere in Rallick, Murillio capì l'antifona. Finì il boccale e si alzò. «Bene», disse, «Kruppe se l'è filata, e anche Crokus. E Coll ronfa di nuovo della grossa. Rallick, grazie per
la birra. È ora di infilarsi in un letto caldo. A domani, allora». Rallick rimase seduto per altri cinque minuti, sfiorando una sola volta lo sguardo dell'uomo dalla pelle nera appoggiato al bar. Poi balzò in piedi e andò in cucina. Mentre li superava, i due cuochi levarono gli occhi al cielo. Lui li ignorò. Arrivò alla porta, lasciata socchiusa nella speranza di una corrente rinfrescante. Il vicolo al di là era bagnato, anche se la pioggia era cessata. Da un recesso ombroso sul muro di fronte alla locanda emerse una figura familiare. Rallick raggiunse Ocelot. «Fatto. Il tuo uomo è quello grosso e nero che sorseggia una birra. Due coltelli, col tratteggio incrociato. Sembra malevolo; non mi piacerebbe azzuffarmi con lui. È tutto tuo, Ocelot.» L'uomo contorse il viso butterato. «È ancora dentro? Bene. Rientra anche tu. Devi essere sicuro che ti abbia notato - assolutamente sicuro, Nom.» Rallick incrociò le braccia. «Lo sono già», ribatté deciso. «Attiralo fuori, portalo nel magazzino di Tarlow - nella zona di carico.» Ocelot fece un sorriso beffardo. «Ordini di Vorcan, Nom. E quando esci, fallo dalla porta principale. Niente sottigliezze.» «Quell'uomo è un sicario», lo rimbeccò aspramente Nom. «Se non uso sottigliezze, capirà che si tratta di una trappola e mi salterà addosso nel giro di secondi.» «Farai come vuole Vorcan, Nom. Ora torna dentro!» Rallick fissò il suo capo, per comunicargli il suo disgusto, poi riandò in cucina. I cuochi sogghignarono al suo indirizzo, ma solo per un attimo. Uno sguardo al suo viso bastò a spegnere qualunque ilarità nella stanza. Si chinarono sul loro lavoro come schiavi pungolati da un proprietario terriero. Rallick entrò nella stanza principale, poi si fermò di colpo. «Maledizione», borbottò. L'uomo dalla pelle nera era sparito. E adesso? Scosse le spalle. «Porta principale, no?» Si aprì un varco attraverso la folla. *** In un vicolo, su un lato del quale correva un alto muro di pietra, Crokus si appoggiò ai mattoni umidi della casa di un mercante e puntò lo sguardo verso una finestra. Si trovava al terzo piano, oltre il muro, e dietro la sua facciata coperta dalle imposte c'era una stanza che conosceva bene. Era stata illuminata da una luce per quasi tutte le due ore in cui lui era
rimasto lì sotto, ma negli ultimi quindici minuti era precipitata nell'oscurità. Intorpidito dalla stanchezza e tormentato dai dubbi, Crokus si strinse il mantello intorno al corpo. Si chiese, e non per la prima volta, cosa stesse facendo lì sotto. Tutta la sua risolutezza sembrava essere finita nei canali di scolo insieme alla pioggia. Era colpa della donna dai capelli scuri nella Locanda della Fenice? L'aveva sconvolto a tal punto? Il sangue sul suo coltello diceva chiaramente che non avrebbe esitato a ucciderlo, solo per mantenere intatto il suo segreto. Forse era stata la moneta rotante a renderlo così confuso. Quell'incidente non aveva avuto niente di naturale. Cosa c'era di così sbagliato nel suo sogno di essere presentato alla fanciulla dei D'Arle? Non aveva alcun legame con quell'assassina nel bar. «Niente», borbottò, poi aggrottò la fronte. Ecco che si metteva a parlare da solo. Lo colpì un pensiero che aggravò il suo cipiglio. La folle catena di avvenimenti era cominciata la notte che aveva derubato la fanciulla. Se solo non si fosse fermato, se solo non avesse guardato il suo viso bello, soave, delicato. Gli sfuggì un gemito; cambiò posizione. Una nobile. Era quello il vero problema, no? Ora sembrava tutto così stupido, così assurdo. Come aveva potuto convincersi che fosse possibile incontrarla? Si riscosse. Non importava: aveva studiato un piano, era tempo di metterlo in pratica. «Non ci credo», bofonchiò, staccandosi dal muro e avviandosi giù per il vicolo. La sua mano accarezzò la borsa che portava appesa alla vita. «Sto per restituire il tesoro di una fanciulla.» Arrivò al punto desiderato del muro, e cominciò a salire. Tirò un respiro profondo. Va bene, chiudiamo questa faccenda. La pietra era bagnata, ma lui aveva tanta determinazione da scalare una montagna. Continuò l'ascesa, e nemmeno una volta il suo piede scivolò. CAPITOLO TREDICESIMO C'è un ragno qui in questo angolo in quell'angolo i suoi tre occhi camminano furtivi nel buio, le sue otto zampe
scivolano sulla mia schiena, lui riflette e imita la mia andatura. C'è un ragno qui che sa tutto di me la sua tela è la mia storia. in qualche angolo in questo strano luogo un ragno aspetta il mio balzo incontrollato... La Cospirazione Gallan il Guercio (1078) Appena il sicario della Corporazione lasciò la stanza, Kalam scolò il boccale di birra, pagò e salì le scale. Dal ballatoio lanciò un'occhiata nella sala sottostante e accortosi che nessuno gli prestava attenzione, si avviò lungo il corridoio e s'infilò nell'ultima camera sulla destra. Chiuse la porta a chiave. Ben lo Svelto era seduto a gambe incrociate sul pavimento, al centro di un cerchio di cera blu. Il mago era piegato in avanti, a petto nudo, gli occhi chiusi; gocce di sudore gli scivolavano lungo il viso. Intorno a lui l'aria luccicava, quasi fosse stata passata una mano di lacca. Kalam girò intorno al cerchio di cera e raggiunse il letto. Prese una borsa di cuoio da un tassello nella colonna del letto e la posò sul materasso di paglia. Aprì la borsa ed estrasse i meccanismi per una balestra. Le parti metalliche erano state brunite, lo stretto fusto di legno immerso nella pece e ricoperto di sabbia nera. Lentamente, con calma, Kalam montò l'arma. Ben lo Svelto parlò dietro di lui. «Fatto. Quando sei pronto, amico.» «L'uomo è uscito dalla cucina. Ma tornerà», disse Kalam, alzandosi con la balestra in mano. Agganciò una cinghia all'arma e se la buttò su una spalla. Poi, si voltò verso il mago. «Sono pronto.» Alzatosi, Ben si asciugò la fronte. «Due incantesimi. Il primo ti permetterà di fluttuare e controllare la discesa. Il secondo di vedere tutto quello che è magico - be', quasi tutto. Se dovesse esserci in giro un Grande Mago, la partita per noi è chiusa.» «E tu?» chiese Kalam mentre controllava le frecce. «Di me vedrai solo l'aura», rispose Ben con un sorriso, «ma sarò sempre
con te». «Be', speriamo vada tutto bene, senza intoppi. Stabiliamo il contatto con quelli della Corporazione, offriamo il contratto dell'Impero, loro accettano e ci tolgono dai piedi tutti quelli che in città rappresentano una minaccia per noi.» Infilò il mantello nero e tirò su il cappuccio. «Non possiamo proprio limitarci a scendere, andare dall'uomo e risolvere la questione qui?» Kalam scosse la testa. «No. Noi abbiamo identificato lui e lui ha identificato noi. Probabilmente si è già messo in contatto con i suoi superiori e vorranno fare a modo loro. Il nostro uomo dovrebbe condurci ora all'incontro.» «Non staremo per cadere in un'imboscata?» «Più o meno. Ma prima vorranno sapere che cosa noi vogliamo da loro. E una volta che glielo avremo spiegato, dubito che il capo della Corporazione vorrà ancora ucciderci. Sei pronto?» Ben lo Svelto sollevò una mano verso Kalam e mormorò alcune parole. Kalam si sentì pervadere da una piacevole leggerezza, che come una fresca brezza gli avvolse il corpo. Davanti ai suoi occhi, la figura di Ben lo Svelto creò una penombra verde-blu, che convergeva verso le lunghe mani affusolate del mago. «Ce li ho», disse il sicario, sorridendo, «due vecchi amici». Ben sospirò. «Sì, eccoci qui a rifarlo un'altra volta.» Incontrò lo sguardo dell'amico. «Abbiamo Hood alle calcagna, Kal. In questi giorni ne sento il respiro sul collo.» «Ma non sei solo.» Kalam si girò verso la finestra. «A volte», disse in tono secco, «ho la sensazione che l'Impero ci voglia morti». Raggiunse la finestra, l'aprì e appoggiò le mani sul davanzale. Ben gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. Guardarono fuori nell'oscurità, improvvisamente inquieti. «Abbiamo visto troppo», mormorò Ben. «Per il respiro di Hood», borbottò Kalam, «ma perché lo facciamo?». «Forse se l'Impero otterrà ciò che vuole - ovverosia Darujhistan - ci lasceranno andare.» «Sicuramente, ma chi convincerà il sergente ad abbandonare l'Impero?» «Gli faremo capire che non ha scelta.» Kalam salì sul davanzale. «Meno male che non sono più un Artiglio. Soldati semplici, giusto?» Dietro di lui, Ben lo Svelto si sfiorò il petto e scomparve. La voce incor-
porea del mago risuonò divertita. «Giusto. Basta con i giochi di cappa e spada per il vecchio Kalam.» Il sicario iniziò ad arrampicarsi sul muro, verso il tetto. «Già, li ho sempre odiati.» La voce di Ben risuonò accanto a lui. «Non più omicidi.» «Non più spionaggio», aggiunse Kalam, allungandosi verso il bordo del tetto. «Non più travestimenti.» Salito sul tetto, Kalam si buttò a terra, dove restò immobile per qualche istante. «Non più pugnali nella schiena», sussurrò, poi si sedette e scrutò i tetti vicini. Non vide nulla; nessuna strana forma, nessuna aura magica. «Dei vi ringrazio», sussurrò la voce di Ben lo Svelto sopra di lui. «Dei vi ringrazio», echeggiò Kalam. Si sporse oltre il bordo del tetto e guardò giù. Un fascio di luce indicava l'ingresso della locanda. «Tu tieni d'occhio la porta sul retro. Io, questa.» «Va bene.» Il mago stava ancora rispondendo che Kalam s'irrigidì. «Eccolo», bisbigliò. «Sei ancora con me?» Ben assentì. Videro Rallick Nom, ora nascosto sotto un mantello, attraversare la strada e infilarsi in un vicolo. «Gli vado dietro», disse Ben. Un bagliore verde-blu sorse intorno al mago. L'uomo si sollevò in aria e volò rapidamente oltre la strada, rallentando man mano che si avvicinava al vicolo. Kalam si alzò in piedi e a passi felpati avanzò lungo il bordo del tetto. Raggiunto l'angolo, abbassò lo sguardo verso il tetto di un edificio adiacente e saltò. Scese lentamente, come se stesse affondando nell'acqua e atterrò in perfetto silenzio. Alla sua destra, su un sentiero parallelo, avanzava l'aura magica di Ben lo Svelto. Kalam attraversò il tetto diretto all'edificio successivo. Il loro uomo puntava verso il porto. Kalam continuò a seguire la luce di Ben, spostandosi da un tetto all'altro, a volte saltando giù, altre arrampicandosi. Non c'era molta astuzia in Kalam: dove gli altri usavano la sagacia, lui usava la forza delle possenti braccia e delle gambe muscolose. Tutto ciò faceva di lui un sicario inverosimile, ma nel corso degli anni aveva imparato a trasformare in vantaggio ciò che poteva sembrare esattamente il contrario. Si avvicinarono alla zona del porto con gli edifici larghi e bassi, l'aria impregnata del puzzo di fogna e di pesce, le strade raramente illuminate,
con l'eccezione delle porte d'ingresso dei magazzini, piantonate da guardie private. Finalmente Ben si fermò sopra il cortile di un magazzino, quindi si affrettò a raggiungere Kalam, che aspettava sul bordo di un vicino edificio a due piani. «Il posto sembra quello», disse il mago, fluttuando a pochi piedi sopra Kalam. «E adesso?» «Ho bisogno di un posto da cui si goda un'ottima visuale di quel cortile.» «Seguimi.» Ben lo Svelto lo condusse su un altro edificio. Videro il loro uomo, accovacciato sul tetto del magazzino, l'attenzione puntata sul cortile sottostante. «Kal, senti odore di bruciato?» Kalam sbuffò. «Diamine, no, qui fuori sono tutte rose e fiori. Mettiti in posizione, amico.» «Va bene.» *** Rallick Nom si sdraiò sul tetto, la testa che sporgeva dal bordo. Sotto di lui si apriva il cortile, piatto, grigio, deserto, immerso nell'oscurità. Subito sotto di lui le ombre erano impenetrabili. Gocce di sudore gli scivolarono lungo il viso. Dall'ombra giunse la voce di Ocelot. «Sei sotto tiro?» «Sì.» «Si sta muovendo?» «No. Ascoltami, sono sicuro che non sia solo. Mi sarei accorto se mi avesse seguito, ma dietro di me non c'era nessuno. Sento puzza di magia, Ocelot, e tu sai che cosa penso della magia.» «Dannazione, Nom. Se solo cominciassi a usare la roba che ti abbiamo dato, saresti tra i migliori. Ma tu sei un testone. Comunque, stai tranquillo. Abbiamo degli osservatori e a meno che qui in giro non ci sia un gran bravo mago, siamo in grado di individuare qualsiasi traccia di magia. Fattene una ragione», osservò Ocelot con una punta di malizia, «è migliore di te. Ti ha seguito. Punto». «E adesso?» chiese Rallick. Ocelot ridacchiò. «Stiamo chiudendo il cerchio. Il tuo lavoro è finito, Nom. Questa notte la guerra dei sicari terminerà. Fra cinque minuti potrai andartene a casa.»
*** Alto nel cielo sopra la città, un demone batteva le ali coriacee, gli occhi verdi da rettile scrutavano i tetti sottostanti con una vista capace di individuare la più piccola traccia di magia con la stessa facilità con cui individuava il calore. Per quanto il demone non fosse più grande di un cane, il suo potere era immenso, pari quasi a quello dell'uomo che quella notte lo aveva convocato e incatenato. Sui tetti vide due aure vicine, una appartenente a un uomo su cui era stato evocato l'incantesimo e l'altra a un mago, un ottimo mago. In un cerchio irregolare su altri tetti intorno ai due, uomini e donne si muovevano verso l'interno, alcuni traditi dal calore del loro corpo, altri da oggetti saturi di magia. Fino ad allora il demone aveva cavalcato i venti notturni annoiato e irritato con il suo padrone. Una semplice missione esplorativa per uno del suo potere! Ma ora il demone si sentì pervadere da una brama sanguinaria. Se solo il suo padrone fosse stato più debole, così da permettergli di spezzare le catene e scendere sui tetti, allora sì, che avrebbe fatto un massacro. Il demone era assorto nei propri pensieri, gli occhi fissi sulla scena sottostante, quando qualcosa lo colpì con violenza alla testa. La creatura vacillò, per un breve istante perse il controllo, poi si girò per affrontare il suo assalitore, l'ira che gli ribolliva nel cervello. Scoppiò una lotta all'ultimo sangue. La figura che si era avventata sul demone possedeva un'aura magica accecante. Avvinghiati in un corpo a corpo, le energie dei due esseri si scontrarono, avviluppandosi come tentacoli. Un gelo bruciante invase la testa del demone, un freddo alieno al suo potere che lo colse impreparato al punto da non sapere come opporsi a esso. I due combattevano in perfetto silenzio con forze invisibili agli abitanti della città sottostante. E mentre lentamente scendevano, altre figure intorno a loro si abbassarono verso il magazzino, i mantelli spiegati come vele, le balestre chiuse fra le braccia, i volti nascosti dietro maschere nere. In undici superarono il demone e il suo assalitore. Nessuno prestò loro attenzione e accorgendosene, il demone conobbe ciò che non aveva mai provato prima: la paura. Improvvisamente preoccupato per la propria sopravvivenza, il demone si sottrasse alla presa dell'avversario. Con un grido acuto, riprese a salire verso l'alto.
La figura non lo inseguì, ma si unì agli altri nella loro silenziosa discesa sulla città. Mentre i dodici sicari si abbassavano sul cerchio sottostante di uomini e donne, presero la mira e diedero il via al massacro. *** Kalam fissava il sicario supino sul tetto sottostante, chiedendosi che cosa fare. Aspettavano forse che fosse lui a stabilire il contatto? Non trattenne un sommesso brontolio. Qualcosa non andava. Se lo sentiva come la febbre nelle ossa. «Dannazione, Ben. Andiamocene da qui!» «Aspetta!» mormorò la voce incorporea di Ben lo Svelto. «Oh, maledizione!» esclamò poco dopo. Davanti a Kalam, due forme fiammeggianti atterrarono sul tetto sottostante, dietro al loro bersaglio. «Che diamine...» A un tratto sentì le tegole sotto le sue mani tremare. Rotolò sulla schiena, schivando un quadrello che sfrecciò accanto a lui. Più in là, a circa trenta piedi da lui, vide una figura nascosta da un mantello. Dopo averlo mancato, la figura si lanciò in avanti. Un'altra atterrò dietro la prima, vicino al bordo del tetto. Kalam schizzò via, saltando oltre il bordo del tetto. Ben lo Svelto fluttuava sopra di lui. L'incantesimo di deflessione che aveva evocato intorno a sé era un esempio di alta magia e grazie a esso il mago era certo di risultare invisibile agli occhi dei nuovi venuti. Guardò la figura rallentare, quindi avvicinarsi con cautela al bordo del tetto oltre il quale Kalam era scomparso. Un pugnale in entrambe le mani, il sicario raggiunse il bordo e si chinò. Ben trattenne il respiro quando la figura si sporse. Kalam non era andato lontano. Era infatti appeso alla falda del tetto. Quando l'assalitore si sporse, coprendo le stelle dietro di sé, si tirò su con la forza di un solo braccio, mentre l'altro scattava in avanti per chiudersi come una morsa d'acciaio intorno al collo del sicario. Kalam strattonò l'avversario tirandolo verso il basso e sollevando contemporaneamente un ginocchio. Avvolta nel mantello, la faccia dello sconosciuto si scontrò con il suo ginocchio emettendo un sinistro scricchiolio. Continuando a tenersi appeso con un solo braccio, Kalam tirò a sé il corpo ormai privo di energia
dell'avversario e lo lasciò cadere nel vuoto. Ansimando, si issò sul tetto. Dall'altra parte vide il secondo sicario girarsi. Kalam balzò in piedi e, con un ringhio, si lanciò verso l'avversario. Lo sconosciuto indietreggiò, quasi fosse spaventato, quindi abbassò una mano e scomparve. Kalam si fermò, lasciandosi andare sulle ginocchia, le braccia lungo i fianchi. «La vedo», mormorò Ben lo Svelto. Kalam girò su stesso, quindi scattò di lato, volgendo la schiena al bordo del tetto. «Io, no.» «Sta riversando energia», disse Ben. «Continuo a perderla. Aspetta, Kal.» Il mago tacque. La testa di Kalam scattava al più lieve rumore. Il respiro era ansante, il cuore galoppava. Aspettare. Aspettare che cosa? Un coltello in gola? Improvvisamente, la notte esplose di fuoco e rumori. Il sicario apparve dal nulla davanti a Kalam, il pugnale puntato contro di lui. Fumo e scintille sprizzavano dalla donna, ma quest'ultima si muoveva come se niente fosse. Kalam si piegò di lato, cercando di schivare il colpo. Il pugnale strappò la camicia sotto le costole, affondando nella carne per poi lacerarla lateralmente. Sentì un fiotto di sangue caldo quando sferrò un pugno al torace della donna. Senza fiato, quest'ultima barcollò, fili di sangue che scivolavano dal pugnale nella sua mano destra. Con un ringhio, Kalam si buttò su di lei e ignorando il pugnale, la colpì nuovamente. Le costole scricchiolarono. Senza concederle un attimo di tregua, abbatté l'altra mano contro la fronte della donna. Il sicario crollò a terra con un tonfo sordo. Il corpo immobile. Kalam si lasciò andare sulle ginocchia, senza fiato. «Aspettare? Dannazione, che cosa ti ha preso, Ben?» Premette un pezzo di tessuto contro la ferita sotto le costole. «Ben?» Non ci fu risposta. S'irrigidì, poi si girò e scandagliò i tetti più bassi. Corpi senza vita giacevano sparsi ovunque. Il tetto del magazzino, dove aveva visto atterrare due figure dietro il loro contatto, era vuoto. Con un sommesso lamento crollò a terra. Mentre era impegnato a difendersi dall'attacco della donna aveva sentito uno scoppio, anzi no, due scoppi in rapida successione. Uno scambio di magia. Trattenne il respiro. C'era forse un terzo sicario? Un mago? Ben lo Svelto lo aveva ferito, ma qualcun altro doveva avere colpito Ben. «Oh, Hood», mormorò guardandosi intorno.
*** Rallick capì di essere nei guai quando un forte colpo fra le scapole lo lasciò senza fiato e incapace di muoversi. Era stato colpito da un quadrello, ma l'armatura Jazeraint che portava sotto la camicia aveva resistito all'impatto - la punta del dardo aveva trapassato il ferro ma non era andata oltre. Sentì dei passi avvicinarsi dietro di sé. Dall'ombra sottostante giunse la voce di Ocelot: «Nom? Che cosa succede?». Dietro a Rallick i passi si fermarono e l'uomo sentì il lieve fruscio di una balestra che veniva incoccata. Riprese fiato e con esso ritrovò la forza di muoversi. La sua arma giaceva accanto a lui, pronta. Attese. «Nom?» Un altro passo risuonò alle sue spalle e a sinistra. Veloce come un gatto, Rallick rotolò sulla schiena, afferrò la balestra, si sedette e sparò. Il sicario, a meno di quindici piedi di distanza, cadde all'indietro sotto l'impatto del quadrello. Rallick si spostò lateralmente e solo allora vide il secondo assalitore nascosto dietro il primo. La figura si accovacciò e fece partire il colpo. Il quadrello prese la parte superiore destra del torace di Rallick, poi rimbalzò oltre la sua testa e scomparve nel buio. Il colpo gli aveva messo momentaneamente fuori uso il braccio destro. Seppur con fatica, riuscì ad alzarsi; sguainò il coltello, la lama ricurva un guizzo blu nella notte. Il sicario di fronte a lui avanzò cautamente, poi indietreggiò verso il bordo opposto e saltò. «Per il respiro di Hood!» esclamò la voce di Ocelot accanto a Rallick. L'uomo si girò ma non vide nessuno. «Ha visto la mia magia», disse Ocelot. «Bel lavoro con il primo, Nom. Forse potremo finalmente stabilire chi sono.» «Non credo», mormorò Rallick, gli occhi puntati sul corpo immobile. Un bagliore incandescente lo avvolse. Ocelot non trattenne un'imprecazione nel vedere il corpo scomparire. «Una sorta di incantesimo di richiamo», commentò. Finalmente il Capo Clan apparve agli occhi di Rallick. Il volto atteggiato a una smorfia si guardò intorno. «Abbiamo preparato la trappola e stavamo per lasciarci la pelle.» Rallick non rispose. Allungò una mano dietro la spalla, tirò fuori il qua-
drello e lo buttò di lato. I cacciatori erano diventati le vittime, era vero, ma era sicuro che l'uomo che lo aveva seguito non aveva niente a che fare con quei nuovi arrivati. Si girò e posò lo sguardo sul tetto dove si era appostato il suo inseguitore. Mentre guardava vide un lampo di luce rossa e gialla e udì due fragori, uno dopo l'altro e in quell'istante individuò una sagoma sul bordo del tetto impegnata a difendersi da un attacco frontale. La luce svanì lasciando solo l'oscurità. «Magia», sussurrò Ocelot. «Roba da maghi potenti. Forza, andiamocene da qua.» Si calarono nel cortile del magazzino e si allontanarono rapidamente. *** Una volta individuati, per Dispiacere fu facile trovare l'ometto grasso e il Portatore della Moneta. Per quanto avesse avuto intenzione di seguire quel Kruppe dopo avere lasciato Kalam e Ben lo Svelto nella baracca, qualcosa l'aveva invece spinta dietro al ragazzo. Un sospetto, la sensazione che le sua azioni fossero - almeno per il momento - più importanti delle peregrinazioni di Kruppe. Il Portatore della Moneta era sotto il diretto influsso di Oponn e per il dio, quel ragazzo era il giocatore più importante. Finora, era convinta di avere fatto bene a eliminare gli altri potenziali giocatori - uomini come il capitano Paran, l'assistente dell'Aggiunto e, indirettamente, un servitore dell'Impero. E c'era stato anche quel Capo dell'Artiglio che aveva ucciso a Pale. Nel suo cammino per arrivare agli Arsori di Ponti altri erano stati eliminati, ma solo se necessario. Sapeva che il ragazzo avrebbe dovuto morire, eppure qualcosa dentro di lei sembrava opporsi a quella conclusione, ed era una parte di sé che non conosceva. Due anni prima, su una strada costiera, era stata presa e trasformata in gelida assassina. Il corpo nel quale viveva era innocente, ancora inviolato dagli eventi tragici della vita - il corpo di una ragazza, una ragazza la cui mente non poteva competere con il potere che la schiacciava, l'annientava. Ma era veramente annientata? La moneta che cosa aveva toccato dentro di lei? E di chi era quella voce che parlava con tanta arroganza e determinazione nella sua testa? L'aveva sentita anche prima, quando Whiskeyjack aveva pronunciato la parola Veggente. Cercò di ricordare quali contatti potesse avere avuto con una veggente
negli ultimi due anni, ma non le venne in mente niente. Si strinse il mantello sulle spalle. Trovare il ragazzo era stato facile, ma capire che cosa stesse combinando era un'altra faccenda. Apparentemente, tutto lasciava pensare a un semplice furto. Crokus era rimasto in un vicolo a osservare una finestra illuminata al terzo piano di un edificio, in attesa che la luce venisse spenta. Avvolta da ombre innaturali, lui non l'aveva vista quando aveva iniziato ad arrampicarsi sul muro contro il quale lei era appoggiata. Quando il ragazzo si fu allontanato, la donna trovò un altro ottimo punto di osservazione, da cui poteva vedere il balcone e la porta scorrevole. Aveva però dovuto entrare nel giardino della proprietà e trovata la guardia, l'aveva eliminata senza difficoltà. Ora se ne stava sotto a un albero con gli occhi puntati sul balcone. Crokus si era già arrampicato, aveva raggiunto il balcone, forzato la serratura ed era entrato nella stanza. Era bravo, dovette ammettere. Ma quale ladro sarebbe rimasto quasi mezz'ora nella camera dove intendeva rubare? Trenta minuti e ancora niente. Non aveva sentito grida di allarme, non aveva visto luci accendersi dietro ad altre finestre della casa, niente che indicasse che qualcosa era andato storto. Ma allora che cosa stava combinando Crokus là dentro? Dispiacere s'irrigidì. La magia era germogliata in un'altra parte della città e il suo profumo le era conosciuto. Esitò, incapace di decidere. Lasciare il ragazzo e andare a cercare quella nuova emanazione di magia? O restare lì, fino a quando Crokus fosse riapparso o fosse stato scoperto? A un tratto vide qualcosa dietro le porte scorrevoli del balcone che pose fine alla sua indecisione. *** Il sudore scorreva lungo il viso di Crokus e più volte il giovane dovette asciugarsi gli occhi. Per entrare aveva forzato la nuova serratura e ora avanzava con passo felpato verso la toeletta. Una volta là, s'impietrì, incapace di muoversi. Idiota! Che cosa ci faccio qui? Ascoltò il respiro dolce e regolare della fanciulla dietro di lui - come il respiro di un drago - era certo di sentirlo soffiare contro il collo. Sollevò gli occhi e guardò torvo la propria immagine allo specchio. Che cosa gli succedeva? Se non se ne fosse andato subito... Iniziò a svuotare la borsa. Quando ebbe finito, lanciò un'altra occhiata al proprio viso - e ne vide un
altro dietro di sé, un viso tondo, dalla pelle candida, che lo fissava dal letto. La ragazza parlò. «Visto che stai restituendo tutto, preferirei che disponessi ogni cosa al suo posto. Il vasetto va alla sinistra dello specchio», disse in un sussurro. «La spazzola a destra. Hai anche i miei orecchini? Lasciali lì, sulla toeletta.» Crokus gemette. Si era dimenticato di coprirsi il viso. «Non ti muovere», ringhiò. «Ho restituito tutto e adesso me ne vado. Capito?» La ragazza allontanò le coperte e si avvicinò al bordo del letto. «Le minacce non servono, ladro», disse. «Basterebbe che gridassi e il capo delle guardie sarebbe qui in pochi secondi. Ti piacerebbe incrociare il tuo pugnale con la sua spada?» «No», rispose Crokus. «Ma però lo punterei alla tua gola. Con te come ostaggio, fra me e lui, pensi che oserebbe toccarmi? Dubito.» La ragazza impallidì. «Come ladro perderesti solo una mano, ma come rapitore finiresti sulla forca.» Crokus si strinse nelle spalle, sfoggiando un'indifferenza che era ben lungi dal provare. Lanciò un'occhiata al balcone, valutando quanto tempo avrebbe impiegato per uscire e arrampicarsi sul tetto. Quel nuovo filo teso a terra come trappola era una vera seccatura. «Resta dove sei», ordinò la fanciulla. «Accendo una lampada.» «Perché?» domandò Crokus, inquieto. «Per vederti meglio», rispose lei e la luce si diffuse nella stanza dalla lanterna sul suo grembo. Il ragazzo si fece cupo. Non si era accorto fosse così a portata di mano. Lei gli stava rovinando i piani anche mentre li stava progettando. «E perché vorresti vedermi meglio? Che cosa te ne importa?» l'aggredì in tono iroso. «Chiama le tue dannate guardie e fammi arrestare. Così la facciamo finita.» Estrasse il turbante di seta dalla camicia e lo lasciò cadere sulla toeletta. «E con questo ho restituito tutto», disse. La ragazza guardò il turbante e alzò le spalle, indifferente. «Quello faceva parte del mio costume per la Festa», affermò. «Ma ormai ne ho trovato un altro più carino.» «Che cosa vuoi da me?» sibilò Crokus. La paura apparve negli occhi della ragazza, ma fu solo un attimo. «Mi piacerebbe sapere perché un ladro che è riuscito a rubarmi tutti i gioielli ora me li restituisce. Non è così che si comportano solitamente i ladri», osservò infine, sorridendo.
«E a ragione», borbottò Crokus, più a se stesso che a lei. Fece un passo avanti ma si fermò appena lei balzò indietro sul letto, gli occhi spalancati. Crokus sollevò una mano. «Scusa, non volevo spaventarti. Volevo solo... vederti meglio. Tutto qua.» «Perché?» Crokus era veramente nei guai, totalmente impreparato a una simile domanda. Dopo tutto, non poteva certo confessarle di essersi pazzamente innamorato di lei. «Come ti chiami?» chiese non sapendo che altro dire. «Challice D'Arle. E tu?» Challice. «Ma certo», commentò facendo roteare gli occhi. «Non potevi che avere un nome del genere.» La fissò. «Il mio nome? Non sono fatti tuoi. I ladri non si presentano alle loro vittime.» Lei aggrottò le sopracciglia. «Vittima? Ma non sono più una vittima, giusto? Hai risolto tu la questione restituendomi tutto. Io penso», disse in tono malizioso, «che tu sia più o meno obbligato a rivelarmi il tuo nome, considerato quello che stai facendo. E devi essere il tipo che rispetta gli impegni, per quanto strani siano». Crokus si fece ancora più cupo. Che cosa stava dicendo? Che cosa ne sapeva lei del suo modo di comportarsi? E perché aveva ragione? «Mi chiamo», disse infine, sconfitto, «Crokus Mano-giovane. E tu sei la figlia dell'alto dignitario D'Arle, quella che ha una fila di pretendenti che aspettano di essere presentati. Ma un giorno ci sarò anch'io in quella fila, Challice, e soltanto tu saprai dove mi hai visto l'ultima volta. Sarà una presentazione formale e ti porterò un dono, come impongono le buone maniere». La fissò, inorridito dalle sue stesse parole. Lei sostenne il suo sguardo, gli occhi scintillanti per l'emozione - un'emozione che lui non poteva comprendere - poi scoppiò a ridere. Si portò subito una mano alla bocca e balzò in avanti, sul letto. «Farai meglio ad andare, Crokus. Qualcuno mi avrà sentito. Presto, e stai attento alla fune tirata per terra!» Demoralizzato, Crokus raggiunse la porta scorrevole. Quella risata aveva affossato i suoi sogni. Dentro si sentiva morto, sordo a ogni cosa, ad eccezione di una cinica risatina che avrebbe potuto essere sua, considerato la strana occhiata che lei gli aveva lanciato. Le coperte erano scivolate via e ancora una volta lei era nuda. Lo stupì che lei sembrasse non essersene nemmeno accorta. Oltre la porta che si apriva sul corridoio giunse una voce. «Sbrigati, sciocco!» bisbigliò la ragazza.
Campanelli d'allarme scattarono nella mente di Crokus, riportandolo alla realtà. Doveva muoversi, e velocemente. Superò la fune tesa per terra e aprì la porta. Si fermò per girarsi a guardarla un'ultima volta, e sorrise quando lei afferrò le coperte portandole al collo. Be', per lo meno qualcosa aveva ottenuto. Un colpo risuonò alla porta dall'altra parte della stanza. Crokus uscì sul balcone e si issò sulla ringhiera. Guardò giù nel giardino e per poco non cadde. La guardia era sparita. Al suo posto c'era una donna - e sebbene portasse il mantello, la riconobbe all'istante. Era la donna della locanda e lo stava fissando con occhi che lo incenerirono. La porta nella stanza si spalancò e Crokus si riscosse. Accidenti a quella donna! Accidenti a tutte e due! Afferrò la gronda sopra di sé, si diede una spinta e con l'agilità di una scimmia salì sul tetto e scomparve nel buio. *** Immobile, un pugnale in entrambe le mani, Kalam si acquattò al centro del tetto. Intorno a lui regnava il silenzio, l'aria umida e pesante. Passarono i minuti. Talvolta si convinceva che era solo, che Ben lo Svelto e l'altro mago avevano lasciato il tetto e che si davano la caccia nel cielo soprastante, o nelle strade e per i vicoli, o su un altro tetto. Ma poi sentiva qualcosa, un respiro ansante, il fruscio del tessuto contro il cuoio, o un alito di vento gli sfiorava la guancia in quella notte senza vento. A un tratto, davanti ai suoi occhi, il buio si squarciò. Apparvero due forme, sospese sopra il tetto. Il sicario attaccò Ben lo Svelto con un fulmine di fuoco, cogliendo l'avversario di sorpresa e veloce come un gatto, scattò in avanti per diminuire la distanza fra sé e il mago. Kalam fece un balzo, pronto a intervenire. Ben lo Svelto svanì, per poi riapparire subito dopo dietro al sicario. Il lampo di energia azzurra emanata dalle mani del mago colpì il sicario alla schiena. Gli abiti in fiamme, l'uomo barcollò nel vuoto. Ben si girò di scatto verso Kalam. «Presto! Muoviti!» Kalam si mise a correre, l'amico che volava accanto a lui. Quando ebbero raggiunto il bordo del tetto, si voltò per un'ultima occhiata. Il mago sicario era riuscito a soffocare le fiamme e stava riacquistando il controllo. Accanto a lui apparvero due compagni. «Salta», disse Ben. «Li fermo io.» «Con che cosa?» chiese Kalam in bilico sul bordo.
In risposta Ben lo Svelto gli mostrò una fialetta. Fece una piroetta in aria e la scagliò. Imprecando, Kalam saltò. La fialetta cadde sul tetto e si frantumò con un debole tintinnio. I tre sicari si fermarono. Ben lo Svelto non si mosse, gli occhi sul fumo bianco che si levava dalle schegge di vetro. Una figura prese forma dal fumo, e crebbe. Ma era una sagoma inconsistente, il fumo che si allungava come fili in un punto e si arrotolava come lana in altri. Solo gli occhi erano visibili, due fessure nere che fissarono Ben. «Tu», disse con voce di bambino, «non sei Padron Tayschrenn». «Esatto», replicò il mago, «ma appartengo alla sua legione. I tuoi servigi restano all'Impero». Indicò dall'altra parte del tetto. «Là ci sono tre nemici dell'Impero, Demon. Tiste Andii giunti fino a qui per opporsi all'Impero Malazan.» «Mi chiamo Pearl», mormorò il demone Korvalah, quindi si girò verso i tre sicari schierati lungo il bordo opposto. «Non volano», osservò Pearl, sorpreso. Ben si asciugò il sudore dalla fronte. Guardò in basso. Kalam era una figura indistinta in attesa nel vicolo. «Lo so», disse a Pearl. Quell'osservazione aveva innervosito anche lui. Se voleva, un solo Korvalahrai era in grado di distruggere una città intera. «Accettano la mia sfida», commentò Pearl. «Devo avere pietà di loro?» «No», rispose il mago. «Uccidili e facciamola finita.» «Poi tornerò da Padron Tayschrenn.» «Sì.» «Come ti chiami, Mago?» Dopo un attimo di esitazione, l'uomo rispose: «Ben Adaephon Delat». «Dovresti essere morto», affermò Pearl. «Così è scritto sui rotoli di quei Grandi Maghi caduti per mano dell'Impero a Sette Città.» Ben alzò gli occhi al cielo. «Ne arrivano altri, Pearl. Preparati a combattere.» Il demone sollevò lo sguardo. Delle figure luminose scendevano dall'alto. Prima ne giunsero cinque, poi una. Quest'ultima irradiava un potere così forte che Ben indietreggiò; sentì il sangue gelarsi nelle vene. La figura aveva qualcosa di stretto e lungo agganciato alla schiena. «Ben Adaephon Delat», disse Pearl, «guarda l'ultimo che ha toccato terra. Stai mandandomi a morire». «Lo so», sussurrò Ben.
«Vai, allora. Li tratterrò quanto basta per assicurarti la fuga, non di più.» Ben si tuffò oltre il bordo del tetto. Prima che svanisse alla vista, Pearl tornò a parlare. «Ben Adaephon Delat, hai pietà di me?» «Sì», rispose il mago in tono sommesso, poi scomparve nel buio. *** Rallick raggiunse il centro della via. Su entrambi i lati si elevavano alte colonne dalle quali sporgevano torce a gas, che proiettavano cerchi di luce azzurra sull'acciottolato bagnato. Aveva ricominciato a cadere una pioggerellina leggera e ogni cosa era ammantata di un lucido bagliore. Alla sua destra e oltre le case allineate su quel lato della strada, le pallide cupole del Grande Thalanti si stagliavano luccicanti contro il cielo grigio. Risalente a più di duecento anni fa, il tempio era tra le strutture più antiche della città. I monaci Thalanti erano giunti, come molti altri, trasportati sulle ali della voce. Di quella storia Rallick ne sapeva meno di Murillio e Coll. Pareva che un appartenente ai Popoli Antichi fosse sepolto nelle colline, un individuo di grandi ricchezze e potere. Ma quella voce aveva avuto molte conseguenze. Se non fosse stato per le migliaia di pozzi scavati nel terreno, le caverne del gas non sarebbero mai state scoperte. E sebbene nel corso dei secoli molti di quei pozzi fossero crollati o fossero stati dimenticati, altri esistevano ancora ed erano ora collegati per mezzo di gallerie. In una delle molte stanze sotto il tempio aspettava Vorcan, Signora dei Sicari. Rallick immaginò Ocelot presentarsi a lei con la notizia del massacro e un sorriso gl'illuminò il volto magro. Non aveva mai incontrato Vorcan, ma Ocelot era perfetto per quelle catacombe. Rallick sapeva che, un giorno, sarebbe diventato capoclan e avrebbe incontrato Vorcan faccia a faccia in qualche luogo sotterraneo. Si chiese in che modo tutto ciò lo avrebbe cambiato e l'idea non gli piacque. Non aveva scelta. Non più. Una volta, pensò mentre si avvicinava alla Locanda della Fenice, molto tempo fa, gli erano state offerte opportunità diverse, che lo avrebbero condotto su una strada diversa. Ma quei giorni erano ormai lontani e il futuro offriva solo notti, una distesa nera che conduceva al buio eterno. Sarebbe giunto il momento in cui avrebbe incontrato Vorcan e avrebbe prestato giuramento alla Signora della Corporazione, e così si sarebbe chiusa anche l'ultima porta. E il suo sdegno per le ingiustizie intorno a lui, per la corruzione del
mondo, sarebbe avvizzito nelle buie gallerie sotto Darujhistan. Nel rigore dei metodi di assassinio, la sua vittima finale sarebbe stato lui stesso. E questo, più di qualsiasi altra cosa, rendeva il piano suo e di Murillio il gesto più umano che avesse mai compiuto. Nella mente di Rallick, il tradimento era in assoluto il crimine peggiore, poiché prendeva tutto ciò che di umano c'era in un individuo e lo trasformava in dolore. In considerazione di ciò, l'omicidio era preferibile: era rapido e metteva fine all'angoscia e alla disperazione di una vita senza speranza. Se tutto fosse andato come pianificato, Lady Simtal e gli uomini che insieme a lei avevano cospirato tradendo il marito, Lord Coll, sarebbero morti. L'omicidio avrebbe riparato il torto, avrebbe pareggiato la scala dei peccati? No, ma forse avrebbe restituito a un uomo la vita e la speranza. Per lui, simili doni erano ormai andati perduti, e non era il tipo d'uomo che agitava le ceneri. I tizzoni si spegnevano, nessuna fiamma poteva rinascere. La vita apparteneva ad altri e la sua unica rivendicazione era il suo potere di strapparla alle loro mani. Né avrebbe riconosciuto la speranza se si fosse presentata. Da troppo tempo era solo un fantasma. Mentre si avvicinava all'entrata della locanda, vide Crokus dirigersi nella stessa direzione. Aumentò il passo. «Crokus», chiamò. Il ragazzo si girò e vedendo l'amico, si fermò ad aspettarlo. Rallick lo prese per un braccio e senza dire una parola, lo trascinò in un vicolo. Giunti nell'ombra aumentò la presa, e attirò il ragazzo vicino a sé: «Ascoltami», bisbigliò, il volto a una spanna da quello attonito del giovane ladro, «questa notte i migliori uomini della Corporazione sono stati assassinati. Questo non è un gioco. Stai lontano dai tetti, mi hai capito?». Crokus annuì. «E porta a tuo zio questo messaggio: c'è un Artiglio in città.» Il ragazzo sgranò gli occhi. «C'è dell'altro», continuò Rallick. «Uomini che scendono dal cielo e uccidono chiunque vedano.» «Allo zio Mammot?» «Diglielo. E adesso ascoltami attentamente, Crokus. Ciò che sto per dirti dovrà restare fra me e te. Chiaro?» Crokus annuì di nuovo, il volto pallido. «Se continui su questa strada finirai morto. Non me ne importa un accidente se sembra eccitante - ciò che è eccitante per te, per altri rappresenta una tragedia. Smettila di alimentare la linfa vitale della città, ragazzo. Non c'è niente di eroico nel risucchiare gli altri fino all'ultima goccia. Mi hai
capito?» «Sì», sussurrò Crokus. Rallick lasciò il braccio del giovane e indietreggiò. «E adesso, vai.» Guardò Crokus allontanarsi e scomparire oltre l'angolo. Tirò un sospiro di sollievo, mentre con mani tremanti allentava il collo del mantello. Murillio uscì dall'ombra. «Non sono sicuro che funzionerà, amico, ma almeno ci hai provato.» Posò una mano sulla spalla del sicario. «Padron Baruk ha un lavoro per noi. Kruppe insiste per portare Crokus con noi.» Rallick aggrottò la fronte. «Con noi? Lasciamo Darujhistan?» «Temo di sì.» «Andate senza di me», replicò Rallick. «Dì a Baruk che non mi avete trovato. Siamo ormai a un punto critico.» «Che cosa sta accadendo, Nom?» «Hai sentito il messaggio che ho comunicato a Crokus per suo zio?» Murillio scosse la testa. «Sono arrivato tardi allo spettacolo.» «Be'», disse Rallick, «andiamo dentro. Questa è una notte che farà sorridere Hood». I due uomini s'incamminarono lungo il vicolo. Fuori dalla Locanda della Fenice, la luce dell'alba s'insinuò nella foschia. *** Al centro del tetto giaceva un ammasso di cenere e ossa che crepitava debolmente emettendo una flebile luce. Con gesto stizzoso, Anomander Rake infilò la spada nel fodero. «Vi ho mandati in dodici», disse alla figura dal nero mantello accanto a lui, «e siete tornati in otto. Che cosa è successo, Serrat?». La Tiste Andii era chiaramente esausta. «Abbiamo lavorato sodo, Signore.» «Voglio i dettagli», ordinò Rake in tono brusco. Serrat sospirò. «Jekaral ha una gamba rotta e tre costole incrinate. Il viso di Boruld è sfigurato: naso, zigomi e mascella fratturati...» «Contro chi combattevano?» domandò Rake, esasperato. «La Signora della Corporazione è uscita allo scoperto?» «No, Signore. Jekaral e Boruld sono stati battuti da un uomo solo, uno che non appartiene alla Corporazione cittadina.» Gli occhi di Rake mandarono scintille. «Un Artiglio?» «Forse. Era accompagnato da un Grande Mago. Quello che ci ha manda-
to contro questo Korvolah.» «Qui c'è lo zampino dell'Impero», borbottò Rake, lo sguardo sull'ammasso di cenere. «Uno degli incantesimi di Tayschrenn, direi.» Un ghigno feroce gl'illuminò il viso. «Peccato avere disturbato il suo sonno questa notte.» «Dashtal è stato colpito da un quadrello avvelenato», rivelò Serrat. «È opera di uno dei sicari della Corporazione.» esitò. «Signore. La campagna contro Brood ci ha messo a dura prova. Abbiamo bisogno di riposo. Questa notte sono stati commessi degli errori. Alcuni sicari della Corporazione ci sono scivolati fra le dita e, se voi non aveste soddisfatto la mia richiesta, avremmo subito più perdite nel tentativo di distruggere questo demone.» Rake posò le mani sui fianchi e osservò il cielo del mattino. Dopo qualche istante di silenzio, sospirò. «Ah, Serrat. Non mi prendere per un insensibile. Ma la Signora della Corporazione deve essere eliminata. Questa Corporazione deve essere schiacciata.» Fissò il proprio tenente. «Riguardo all'Artiglio che avete incontrato, pensi fosse stato organizzato un incontro?» «Non un incontro», rispose Serrat. «Una trappola.» Rake annuì. «Bene. Torna pure alla Progenie della Luna. Assicurati che la Grande Sacerdotessa si prenda cura di Jekaral.» Serra s'inchinò. «Grazie, Signore.» Si voltò e fece segno agli altri di seguirla. «Oh», disse Rake rivolgendosi al suo quadro di maghi-sicari, «un'ultima cosa. Siete stati bravi, molto bravi. Vi meritate un po' di riposo. Vi concedo tre giorni e tre notti di assoluta libertà». Serrat si inchinò di nuovo. «Ci riuniremo in preghiera, Signore.» «In preghiera?» «Il quadrello avvelenato ha ucciso Dashtal. Il veleno era il prodotto di un alchimista, Signore. E un alchimista di una certa levatura. Conteneva del paralto.» «Capisco.» «Tornerete con noi?» «No.» Il tenente s'inchinò una terza volta. In perfetto sincronismo, gli otto Tiste Andii sollevarono le mani e scomparvero. Rake abbassò lo sguardo sull'ammasso sfrigolante che, lentamente, stava consumando il pavimento. A un tratto si aprì uno squarcio e il Korvalah precipitò nell'oscurità. Lord Anomander Rake sollevò gli occhi al cielo e
sospirò. *** Il sergente Whiskeyjack si dondolò sulle due gambe posteriori della sedia e si appoggiò contro il muro decrepito. La camera, piccola e lurida, puzzava di umido e di urina. Due letti singoli, con intelaiatura in legno e materassi di paglia, erano disposti lungo la parete alla sua sinistra. Le altre tre sedie traballanti erano state trascinate intorno al tavolo al centro della stanza. Sopra il tavolo era appesa una lampada a petrolio che proiettava un cono di luce su Fiddler, Hedge e Mallet impegnati a giocare a carte. Avevano finito il loro lavoro subito prima del calare dell'oscurità. Prima dell'alleanza con i Moranth, i sabotatori Malazan non erano altro che semplici zappatori, scavatori di gallerie e addetti allo sfondamento delle porte delle città. L'alchimia dei Moranth aveva portato all'Impero un'ampia varierà di esplosivi chimici e con polvere da sparo, la maggior parte dei quali esplodevano al contatto con l'aria. Il sabotaggio era diventato un'arte, dove il giusto rapporto fra lo spessore dell'argilla e la forza dell'acido era fondamentale e pochi sopravvivevano per imparare dai loro errori. Per Whiskeyjack, Hedge e Fiddler erano dei pessimi soldati. Non ricordava nemmeno più da quanto tempo non sguainassero la spada. Quale che fosse la disciplina alla base del loro addestramento, si era disintegrata nel corso degli anni. Eppure, quando si trattava di sabotaggio non avevano eguali. Gli occhi socchiusi, il sergente osservò i tre uomini seduti al tavolo. Da qualche minuto non si muovevano né parlavano. Un nuovo gioco di Fiddler, decise il militare. Il sottoposto era un vero pozzo di idee, capace di improvvisare nuove e complesse regole. Nonostante le infinite discussioni, Fiddler non era mai a corto di giocatori. «Ecco che cosa fa la noia», mormorò fra sé e sé. Ma no, non era solo noia. L'attesa consumava, soprattutto quando erano coinvolti degli amici. Per quanto ne sapevano, Ben lo Svelto e Kalam potevano giacere senza vita in un vicolo. Lo sguardo di Whiskeyjack scivolò verso uno dei letti, sul quale erano appoggiati la sua armatura e il suo spadone. La ruggine punteggiava la cotta d'arme quasi fosse sangue antico. Consumata dall'usura, la maglia di ferro presentava buchi e strappi. Sulle sue ossa e sui suoi muscoli restava il ricordo del più piccolo danno: ogni taglio, ogni colpo era un dolore che lo
salutava ogni mattina al risveglio come un vecchio amico. La spada, dalla semplice impugnatura di cuoio e la corta elsa, era infilata nel fodero, il cinturone poco distante. Possedeva quell'arma da anni, l'aveva trovata in un campo di caduti dopo la sua prima battaglia. Sugli stivali aveva ancora il gesso della cava di suo padre e nella mente la presunzione di conquistare il mondo per l'Impero. La spada era nuova, scintillante, perfetta, quasi fosse stata forgiata appositamente per lui. Lo sguardo di Whiskeyjack si perse nel vuoto. La mente era tornata indietro, sui sentieri fangosi della sua giovinezza, dove lui vagava smarrito e accecato da un misterioso dolore. La porta si spalancò e Trotts entrò nella stanza. Gli occhi scuri del Barghast incontrarono quelli del sergente. Whiskeyjack balzò in piedi. Si avvicinò al letto e prese la spada. Al tavolo gli altri continuarono a giocare, soltanto il lieve spostamento delle sedie tradì il loro nervosismo. Whiskeyjack superò Trotts e chiuse la porta, lasciando solo uno spiraglio, attraverso il quale guardò fuori. Dall'altra parte della via, all'imbocco di un vicolo, due figure erano accovacciate, la più grande appoggiata all'altra. «Mallet», mormorò il sergente senza voltarsi. Al tavolo, il guaritore aggrottò la fronte, fissò i due sabotatori e mise giù le carte. Le due figure nel vicolo attraversarono la strada. La mano di Whiskeyjack scivolò all'elsa della spada. «Chi?» domandò Mallet, sistemando le coperte di uno dei letti. «Kalam», rispose Whiskeyjack. I due uomini raggiunsero la porta che lui si affrettò ad aprire per poi richiudere con altrettanta rapidità. Fece un cenno a Trotts, che andò alla finestra, sollevò un lembo della tenda e sbirciò la strada. Kalam era pallido, tremante. La camicia grigia era inzuppata di sangue. Mallet si avvicinò al mago per aiutarlo e insieme trasportarono Kalam a letto. Appena l'ebbero deposto sul materasso, il guaritore allontanò Ben e cominciò a togliere la camicia di Kalam. Ben lo Svelto scosse la testa e fissando Whiskeyjack, si sedette sulla sedia occupata fino a poco prima da Mallet. «Che gioco è?» domandò, sollevando le carte di Mallet e aggrottando la fronte mentre le studiava. Né Hedge né Fiddler risposero. «Non ne ho idea», disse Whiskeyjack, avvicinandosi al tavolo. «Se ne
stanno seduti e immobili.» Ben lo Svelto sorrise. «Ah, un gioco d'attesa, giusto, Fid?» Si lasciò andare contro lo schienale della sedia e allungò le gambe. Mallet guardò il sergente. «Sarà fuori uso per un po'. La ferita è pulita ma ha perso molto sangue», spiegò il guaritore. Piegatosi accanto al letto, Whiskeyjack osservò il volto pallido del sicario. Lo sguardo di Kalam restava attento, puntato sul sergente. «E allora?» domandò Whiskeyjack. «Che cosa è successo?» Ben lo Svelto rispose dietro di lui. «Ha avuto uno scontro con un mago.» Kalam annuì, confermando le parole dell'altro. «E?» insistette il sergente, alzandosi per guardare il mago. Questi si girò appena. «Si è messa male. Ho dovuto rilasciare un demone dell'Impero per salvare la pelle.» Scese il silenzio. «È libero per la città?» chiese Whiskeyjack. «No, è morto.» «Con chi avete avuto a che fare?» ringhiò il sergente, agitando le mani. «Non lo so con esattezza», replicò Ben in tono tranquillo. «Chiunque fosse si è liberato del demone in meno di un minuto. Ho sentito il grido di morte quando non eravamo a nemmeno un isolato di distanza. Maghi sicari, Sergente, scesi dal cielo. Sembrerebbero impegnati a spazzare via la Corporazione della città.» Whiskeyjack tornò alla sua sedia e ci si lasciò cadere pesantemente; il legno scricchiolò sotto il suo peso. «Dal cielo. Tiste Andii.» «Sì», mormorò Ben. «L'abbiamo pensato. La magia sapeva di loro. Antica, oscura e gelida. Kurald Galain.» «Da quello che abbiamo visto», aggiunse Kalam, «hanno fatto un ottimo lavoro. Non abbiamo stabilito nessun contatto, Sergente. La situazione era caotica lassù». «Così, la Luna è attiva anche qui.» Whiskeyjack tacque un istante prima di abbassare il pugno sul bracciolo della sedia. «E quel che è peggio è che il signore della Luna è un passo avanti a noi. Ha capito che avremmo cercato di contattare la Corporazione e che cosa ha cercato di fare?» «Eliminare la Corporazione», rispose Kalam. «Arrogante l'amico, eh?» «Sarà anche arrogante», commentò Whiskeyjack, «ma ha ragione a esserlo, devo ammetterlo. Mi chiedo quanto valga la Signora della Corporazione di questa città. Sarà sufficientemente brava da tenere testa ai Tiste Andii? Ne dubito».
«Per quanto riguarda l'altra faccenda», aggiunse Ben, «ha funzionato». Il sergente fissò il mago per un breve istante prima di annuire. «Abbiamo incontrato anche Dispiacere», aggiunse Kalam, trasalendo quando Mallet gli posò una mano sulla ferita. Il guaritore bisbigliò parole incomprensibili. «Davvero? L'ho mandata dietro a un ometto grasso che secondo lei era uno importante. Come mai ve la siete trovata tra i piedi?» Ben lo Svelto inarcò le sopracciglia. «Allora ci ha detto la verità. Non so come abbia fatto a trovarci, ma lei ha trovato l'uomo che cercavamo - e ce lo ha consegnato.» Mallet sollevò la mano. Dove prima c'era la ferita ora era rimasta solo una cicatrice rosata. Kalam borbottò un ringraziamento e si mise seduto. Whiskeyjack tamburellò le dita sul bracciolo della sedia. «Se solo avessimo saputo chi è al comando di questa dannata città, avremmo potuto tentarci noi stessi.» Il sicario tirò su con il naso. «Se cominciassimo a fare sparire i membri del Consiglio, forse i veri capi verrebbero allo scoperto.» Il sergente aggrottò la fronte. «Non male», commentò alzandosi. «Lavoraci su. Dopo la faccenda del demone, il signore della Luna ormai sa che siamo qui. Dobbiamo muoverci rapidamente.» «Potremmo fare saltare il Palazzo Vecchio», propose Fiddler, sorridendo compiaciuto a Hedge. «Avete munizioni a sufficienza per farlo?» chiese Whiskeyjack. Fiddler si rabbuiò. «Be', ne abbiamo a sufficienza per danneggiare una casa... forse. Ma se recuperassimo alcune delle mine che abbiamo sotterrato...» Il sergente sospirò. «No, è assurdo. Lasciamo le cose come stanno.» Lo sguardo fisso sulle carte, ripensò all'inesistente gioco. Sembrava richiedesse una completa e totale immobilità. Strinse gli occhi. Stavano forse cercando di dirgli qualcosa? *** Tonalità gialle e arancioni accendevano l'orizzonte orientale, proiettando un bagliore ramato sui muri e i ciottoli della città. A parte il gocciolio dell'acqua, la città era immersa nel silenzio, sebbene nel giro di pochi istanti sarebbero apparsi i primi segni di risveglio. I contadini che avevano terminato le scorte di granaglie, frutta e radici avrebbero preso i loro carri e sa-
rebbero usciti dalla città. I commercianti avrebbero preso posto nelle botteghe e dietro le bancarelle in attesa dei primi clienti della giornata. In tutta Darujhistan, i Faccia Grigia si preparavano a chiudere le valvole del gas che alimentava le torce nelle vie principali. Si muovevano in gruppetti, radunandosi ai crocicchi e disperdendosi alla prima campana del giorno. Dispiacere guardò Crokus salire con passo stanco i gradini di una casa. Era a mezzo isolato di distanza, nascosta da ombre che sembravano riluttanti a scomparire nonostante la luce aumentasse sempre più. Pochi istanti prima, aveva sentito la morte del demone Imperiale colpirla quasi fisicamente, nel profondo del cuore. Se colpiti al punto da mettere in pericolo i canali di collegamento, i demoni solitamente tornavano nel loro regno. Ma il Korvolah non era stato semplicemente abbattuto o scacciato con forza. Nella sua fine c'era stato un qualcosa di così definitivo da scuoterla intimamente. Una vera e propria morte. Quel grido silenzioso, disperato, le risuonava ancora nella mente. L'ambivalenza che circondava il Portatore della Moneta era scomparsa, trascinata via. Ora sapeva che l'avrebbe ucciso. Doveva essere fatto, e presto. Ma prima doveva ancora risolvere il mistero delle azioni del ragazzo. Fino a che punto Oponn lo stava usando? Sapeva che lui l'aveva scorta nel giardino dei D'Arle, subito prima che si arrampicasse sul tetto della casa. Nel vedere la luce accendersi oltre la porta scorrevole del balcone aveva preso la decisione di continuare a seguire Crokus. Quella dei D'Arle era una famiglia potente a Darujhistan. L'idea che il ragazzo fosse coinvolto in una storia d'amore clandestina con la più giovane del clan era assurda quanto oltraggiosa, eppure non le veniva in mente altro. Così, l'interrogativo restava: Oponn stava lavorando direttamente attraverso il ragazzo, cercando di influenzare attraverso vie tortuose il Consiglio Cittadino? Quanta influenza aveva quella fanciulla? Era solo una questione di posizione, di possibile scandalo. Ma qual era la posizione politica del consigliere Estraysian D'Arle? Dispiacere si rese conto che per quanto avesse scoperto molto sulla situazione politica di Darujhistan, non ne sapeva a sufficienza per indovinare le mosse di Oponn. Il consigliere D'Arle era il principale oppositore di Turban Orr riguardo alla faccenda della dichiarazione di neutralità - ma che importanza aveva? All'Impero Malazan era del tutto indifferente. A meno che la dichiarazione fosse solo una finta. Turban Orr stava forse gettando le basi per un contrattacco all'Impero?
Le risposte alle sue domande sarebbero giunte molto lentamente. Sapeva di dover avere pazienza. Ma dopo tutto, la pazienza era la sua migliore qualità. Aveva sperato che farsi vedere da Crokus una seconda volta, là nel giardino, avrebbe gettato nel panico il ragazzo - o perlomeno, irritato Oponn, se effettivamente il controllo del dio era così diretto. Dispiacere aveva visto il sicario di nome Rallick afferrare il ragazzo e tirarlo in disparte e si era attardata per cercare di carpire brandelli della conversazione fra Rallick e Murillio. Sembrava che il ragazzo avesse dei protettori, e non pochi, dando per scontato che l'ometto grasso, Kruppe, fosse una sorta di capogruppo. Sentire che intendevano portare Crokus fuori dalla città su ordine del loro «padrone» aveva reso l'intera faccenda ancora più interessante. Sapeva di doversi muovere rapidamente. La protezione offerta da Kruppe e quel Murillio non la preoccupava in modo particolare. Certo, Kruppe non doveva essere quel sempliciotto che sembrava, ma forza e violenza non dovevano rientrare fra le sue doti migliori. Avrebbe ucciso Crokus fuori dalla città. Appena avesse scoperto la natura della loro missione e chi fosse il loro padrone. Appena ogni tassello del mosaico fosse andato al suo posto. Il sergente Whiskeyjack avrebbe dovuto aspettare ancora un po' il suo ritorno. Dispiacere sorrise al pensiero, consapevole del sollievo che avrebbe pervaso l'intero squadrone non vedendola in giro. Per quanto riguardava quell'altra faccenda - la minaccia rappresentata da Ben lo Svelto e Kalam be', ogni cosa a suo tempo. *** La feroce emicrania dell'alchimista Baruk stava diminuendo. Qualsiasi presenza fosse stata liberata in città se n'era andata. Era seduto in poltrona, sulla fronte una pezzuola avvolta intorno a un pezzo di ghiaccio. Si era trattato di una congiura. Ne era certo. Le emanazioni puzzavano di demoniaco. Ma non era tutto. Un istante prima che la presenza svanisse, Baruk aveva provato uno strazio mentale che l'aveva portato sull'orlo dell'incoscienza. Aveva condiviso il grido di morte della creatura, unendosi a lei in uno strillo che aveva fatto precipitare alla porta della sua stanza le guardie che sorvegliavano la casa. Nel suo profondo aveva avvertito un'ingiustizia, come se la sua anima
fosse stata colpita. Per un unico, breve istante, aveva visto un mondo di completa oscurità, e da quell'oscurità giungevano suoni, lo scricchiolio di ruote di legno, il rumore metallico di catene, i gemiti di migliaia di anime prigioniere. Poi, tutto era svanito e si era trovato seduto in poltrona, Roald inginocchiato al suo fianco con un secchio di ghiaccio. Ora sedeva nello studio, da solo, e il ghiaccio premuto contro la fronte era caldo in confronto a ciò che sentiva nel cuore. Un colpo alla porta lo fece sussultare. Roald entrò, sul volto un'espressione preoccupata. «Signore, avete visite.» «Visite? A quest'ora?» Si alzò con gambe tremanti. «Chi è?» «Lord Anomander Rake.» Roald esitò. «E... un altro.» La fronte aggrottata, Baruk agitò una mano. «Falli entrare.» «Sì, Signore.» Rake entrò, tenendo per la nuca una creatura alata delle dimensioni di un cane. La creatura si agitava e soffiava, poi posò su Baruk uno sguardo implorante. «Questa cosa mi ha seguito fino a qua», disse Rake. «È tua?» Sorpreso, Baruk annuì. «Lo immaginavo», commentò Rake, lasciando il demone, che spiegò le ali e attraversò la stanza, posandosi ai piedi dell'alchimista. Baruk abbassò lo sguardo. Il demone tremava. Rake raggiunse una sedia e si sedette, allungando le gambe. «Una notte movimentata», disse. A un gesto di Baruk, il demone scomparve con un debole schiocco. «Decisamente, sì», affermò con voce dura. «Il mio servo era in missione. Non avevo idea che avrebbe coinvolto voi.» Si avvicinò al Tiste Andii. «Perché vi siete trovato coinvolto in una guerra fra sicari?» «Perché no?» replicò Rake. «Sono stato io a farla scoppiare.» «Che cosa?» «Tu non conosci l'Imperatrice bene quanto la conosco io, Baruk», affermò il Tiste Andii sorridendo. «Vi prego di spiegarmi.» Un lieve rossore aveva colorito il viso dell'alchimista. Rake distolse lo sguardo. «Dimmi un po', Baruk», iniziò puntando nuovamente gli occhi in quelli dell'alchimista, «chi in questa città potrebbe essere a conoscenza del tuo consiglio segreto? E chi potrebbe trarre maggior beneficio dalla tua eliminazione? E, cosa più importante, chi in questa città sarebbe capace di ucciderti?».
Baruk non rispose subito. Raggiunse lentamente il tavolo, su cui era stata spiegata una nuova mappa e si appoggiò, le mani sul bordo della cartina. «Sospettate che l'Imperatrice voglia contattare Vorcan per farle un'offerta. Un contratto.» «Offrendogli la tua testa e quella degli altri Grandi Maghi», affermò Rake dietro di lui. «L'Imperatrice ha mandato qui un Artiglio, non tanto per distruggere le difese della città, quanto per stabilire un contatto con la Signora dei Sicari. Non ne avevo la certezza matematica, ma intendevo evitare quel contatto.» Gli occhi di Baruk restarono sulle macchie rosse della mappa. «Così, avete mandato i vostri sicari a eliminare la Corporazione.» Si voltò verso Rake. «E poi che cosa? Uccidere Vorcan? Tutto sulla base di qualche vostro sospetto?» «Questa notte», ribatté Rake in tono pacato, «abbiamo impedito all'Artiglio di stabilire quel contatto. Il tuo demone te lo confermerà. Ma al di là di tutto, non mi starai dicendo che la morte di Vorcan e la decimazione dei sicari delle città è una cosa negativa, vero?». «Temo di sì.» Baruk andava su e giù per la stanza, cercando di soffocare un crescente risentimento. «Forse non conoscerò l'Imperatrice bene come voi, Rake», disse in mezzo ai denti, «ma conosco questa città - molto meglio di quanto potrete mai conoscerla voi». Fissò il Tiste Andii. «Per voi, Darujhistan è soltanto un altro campo di battaglia per la vostra guerra personale contro l'Imperatrice. Non ve ne importa niente di come sopravvive questa città - di come sia riuscita a sopravvivere per più di tremila anni.» Rake si strinse nelle spalle. «Illuminami.» «Il Consiglio Cittadino ha una funzione vitale. È il motore della città. Certo, Palazzo Vecchio è il regno della meschinità, della corruzione, degli infiniti bisticci ma nonostante tutto ciò, è anche un luogo dove si lavora e si produce.» «E tutto questo che cosa c'entra con Vorcan e la sua banda di assassini?» Baruk non trattenne una smorfia. «Come per ogni carro carico di merci, le ruote devono essere oliate. Senza l'alternativa dell'assassinio, le famiglie nobili si sarebbero distrutte a vicenda, trascinando la città in una guerra civile. Inoltre, l'efficienza della Corporazione costituisce una sorta di mezzo di controllo su vendette, litigi e via dicendo.» «Curioso», commentò Rake. «Al di là di tutto, non pensi che Vorcan sarebbe attratta da un'offerta avanzata dall'Imperatrice? In fin dei conti, non sarebbe la prima volta che Laseen affida il governo di una città conquistata
a un sicario. Infatti, almeno un terzo degli attuali Grandi Pugni provengono da quella professione.» «Non avete afferrato il concetto!» sbottò Baruk. «Non ci avete consultati e questo è intollerabile.» «Tu non hai risposto alla mia domanda», ribatté Rake in tono gelido. «Vorcan accetterebbe la proposta? Sarebbe in grado di governare la città? È così brava, Baruk?» L'alchimista gli voltò le spalle. «Non lo so. Questa è la mia risposta, a tutte e tre le domande.» Rake fissò Baruk con sguardo duro. «Se tu fossi un semplice alchimista, potrei anche crederti.» «E che cos'altro dovrei essere?» chiese Baruk, sul volto un sorriso ironico. Toccò a Rake sorridere. «Pochi sono capaci di discutere con me senza battere ciglio. Non sono abituato a essere trattato come un eguale.» «Molti sono i sentieri che conducono al rango di Ascendente, alcuni più sottili di altri.» Baruk raggiunse la mensola sopra il camino, prese una caraffa, quindi si avvicinò al tavolino accanto alla scrivania e sollevò due calici di cristallo. «È una Grande Maga. Tutti noi abbiamo difese magiche, ma contro di lei...» Riempì i bicchieri di vino. Rake raggiunse l'alchimista. Accettò il calice e lo sollevò. «Chiedo scusa per non averti informato. Per essere sincero, non mi è mai venuto in mente che potesse essere importante. Fino a questa notte, ho agito basandomi su nient'altro che una teoria.» Baruk sorseggiò il vino. «Anomander Rake, ditemi una cosa. Ho avvertito una presenza questa notte nella nostra città...» «Uno dei demoni Korvalah di Tayschrenn», spiegò Rake. «Liberato da un mago dell'Artiglio.» Bevve una lunga sorsata del profumato nettare, lo assaporò un istante tenendolo in bocca, poi lo mandò giù, soddisfatto. «È andato.» «Andato?» chiese Baruk. «Dove?» «Fuori dalla portata di Tayschrenn», spiegò Rake, sulle labbra un sorriso tirato. «Fuori dalla portata di tutti.» «La vostra spada», mormorò Baruk, soffocando un tremito quando il ricordo della visione gli si presentò alla mente. Lo scricchiolio delle ruote, il rumore metallico delle catene, i gemiti di migliaia di anime prigioniere. E il buio. «Oh, sì», confermò Rake riempiendosi il bicchiere. «Ho ricevuto le teste
dei due maghi di Pale. Come avevi promesso. Ammiro la tua efficienza, Baruk. Hanno protestato?» Baruk impallidì. «Ho illustrato loro le alternative», rispose. «No, non hanno protestato.» La sommessa risata di Rake gelò il sangue nelle vene di Baruk. *** Il rumore in lontananza spinse Kruppe ad alzarsi in piedi. Il focherello crepitava davanti a lui, sebbene sembrasse aver perso calore. «Ah», sospirò, «le mani di Kruppe sono fredde e intirizzite, ma le sue orecchie sono aperte come sempre. Ascolta questo debole suono nelle regioni inferiori di questo sogno di Kruppe. Lui ne conosce l'origine?». «Forse», rispose K'rul accanto a lui. Sorpreso, Kruppe si girò, le sopracciglia inarcate. «Kruppe pensava te ne fossi andato da tempo, Dio Antico. È comunque grato per la tua compagnia.» Il dio incappucciato annuì. «Tutto va bene con la bambina Tattersail. La Rhivi la protegge e la piccola cresce rapidamente, come è nella natura di una Soletaken. Un potente signore della guerra la difende.» «Bene», disse Kruppe sorridendo. I rumori in lontananza tornarono ad attirare la sua attenzione. Guardò nell'oscurità, senza riuscire a scorgere nulla. «Dimmi, Kruppe, che cosa senti?» chiese K'rul. «Mi sembra di sentire passare un grande carro o qualcosa del genere», rispose l'uomo, cupo. «Ne sento le ruote, le catene e i lamenti degli schiavi.» «Il suo nome è Dragnipur», spiegò K'rul. «Ed è una spada.» «Come possono un carro e degli schiavi essere una spada?» chiese Kruppe, confuso. «Forgiata nell'oscurità, incatena le anime al mondo che esisteva prima dell'arrivo della luce. Kruppe, colui che la maneggia è in mezzo a voi.» Alla mente di Kruppe apparve il Mazzo dei Draghi. Vide l'immagine di una figura mezzo-uomo, mezzo-drago - il Cavaliere dell'Alta Casa dell'Oscurità, conosciuto anche come il Figlio dell'Oscurità. L'uomo teneva sollevata una spada nera che trascinava catene annerite dal fumo. «Il Cavaliere è a Darujhistan?» domandò, sopprimendo un brivido di paura. «A Darujhistan», confermò K'rul. «Intorno a Darujhistan. Sopra Daru-
jhistan. La sua presenza è una calamita per il potere, e grande è il pericolo.» Il Dio Antico guardò Kruppe. «È in combutta con Mastro Baruk e la Cabala T'orrud - i segreti governanti di Darujhistan hanno trovato un infido alleato. Questa notte, nella tua città, Dragnipur ha assaporato l'anima di un demone. La sua sete è insaziabile e presto cercherà altro sangue.» «Nessuno è in grado di resistere all'attacco della spada?» chiese Kruppe. K'rul si strinse nelle spalle. «Quando è stata forgiata nessuno era in grado di opporsi a lei, ma è stato molto tempo fa. Non posso rispondere per il presente. Ho un'altra informazione, Kruppe.» «Kruppe ti ascolta.» «Riguarda il viaggio che Padron Baruk ti ha ordinato di fare verso le Colline Gadrobi. Un'antica magia sta per essere rilasciata. È Tellann - degli Imass - ma ciò che tocca è Omtose Phellack - l'antica magia Jaghut. Kruppe, tienti alla larga. E soprattutto, proteggi il Portatore della Moneta. Il pericolo incombente è terribile e devastante quanto il Cavaliere e la sua spada, e altrettanto antico. Stai attento, Kruppe.» «Kruppe è sempre attento, Dio Antico.» LIBRO QUINTO LE COLLINE GADROBI Oltre queste mura sottili siede una bambina; davanti a lei sulla seta logora viene disposto un Mazzo. Non può ancora parlare e in questa vita non ha mai visto le scene sotto i suoi occhi. La bambina guarda una carta solitaria di nome Obelisco; sente nella mente la ruvidezza della pietra grigia. Obelisco si erge da un poggio erboso come una nocca che spunta dalla terra, passato e futuro insieme. La bambina sgrana gli occhi dal terrore, perché crepe sono apparse nella pietra delle pietre e lei sa che la distruzione è cominciata.
La Volpe d'Argento Ricognitore Hurlochel, Sesta Armata CAPITOLO QUATTORDICESIMO Li ho visti sulle sponde le fosse profonde del loro sguardo giuravano guerra immortale alla calma sospirosa dei mari Jaghut... La Follia di Gothos Gothos (n.?) 907esimo anno del Terzo Millennio ha Stagione di Fanderay nell'Anno delle Cinque Zanne Secondo il calendario Malazan, 1163esimo anno del sonno di Bum Secondo il calendario T'lan Imass, l'anno del Raduno Col passare dei giorni, l'Aggiunto Lorn sentì svanire depressione e stanchezza, e recuperò la chiarezza mentale. Il pensiero che non poteva permettersi di scivolare tanto facilmente nella negligenza l'aveva lasciata scossa, e quella non era una sensazione che le fosse familiare. Non sapendo come affrontarla, si sentiva sbilanciata, piena di dubbi sulla propria efficienza. Quando apparvero le Colline Gadrobi, prima a sud e poi anche a ovest, avvertì l'urgenza disperata di riacquistare la sua sicurezza. La missione si avvicinava a un punto cruciale. Il successo con il Tumulo Jaghut avrebbe quasi certamente garantito il successo in tutto il resto. Fin dall'alba, aveva cavalcato di buona lena; voleva rispettare la tabella di marcia dopo aver proceduto tanto lentamente negli ultimi giorni. Poiché entrambi i cavalli avevano bisogno di riposo, camminava davanti a loro, le redini infilate nel cinturone. E accanto a lei, camminava Tool. Anche se l'Imass parlava spesso, dietro suo incitamento, di molti argomenti affascinanti, si rifiutava di rispondere alle sue insistenti domande su questioni importanti per l'Impero e per il mantenimento del potere da parte di Laseen. Tutti i suoi discorsi sembravano vertere intorno ai voti da lui
pronunciati all'ultimo Raduno. Secondo l'Imass, qualcosa stava giungendo a maturazione. Lei si chiese se la liberazione del Tiranno Jaghut c'entrasse qualcosa; era un pensiero allarmante. Però, non intendeva permettere ad alcuna ambivalenza di minacciare la missione. Lei era il braccio di Laseen, che seguiva non la propria volontà, ma quella dell'Imperatrice. Dujek e Tayschreen le avevano ricordato quella verità. La donna di nome Lorn non giocava alcun ruolo. Come poteva essere ritenuta responsabile di qualcosa? «Nei miei anni fra gli umani», disse Tool, al suo fianco, «ho imparato a riconoscere il passaggio delle emozioni nella postura del corpo e nell'espressione del volto. Aggiunto, sono due giorni che esibisci un cipiglio. La cosa ha qualche rilevanza?». «No», sbottò lei. Purificare i suoi pensieri dai sentimenti personali non era mai stato tanto difficile - era un effetto duraturo dell'interferenza di Oponn? Forse Tool avrebbe potuto eliminarlo. «Tool», esordì, «ad avere rilevanza, come ti esprimi tu, è che non ne so abbastanza su quel che stiamo facendo. Stiamo cercando una lapide, il contrassegno del tumulo. Be', se questo può essere trovato, perché non lo è stato già molto tempo fa? Perché tremila anni di ricerche si sono rivelati vani?». «Troveremo la lapide», replicò tranquillamente Tool. «È veramente il contrassegno del tumulo, ma il tumulo non è lì.» L'Aggiunto corrugò la fronte. Altri indovinelli. «Spiegati meglio.» L'Imass rimase in silenzio per un attimo, poi rivelò: «Io sono nato da un Canale Antico, Aggiunto, noto come Tellan, il quale è più di una fonte di magia, è anche un tempo». «Stai insinuando che il tumulo esiste in un tempo diverso? È così che vuoi raggiungerlo - usando il tuo Canale Tellan?» «No, non esiste un tempo parallelo diverso da quello che noi conosciamo. Il tempo del tumulo è andato, passato. È più una questione di... odore. Aggiunto, posso continuare?» Lorn strinse la bocca in una linea diritta. «Gli Jaghut che seppellirono il Tiranno erano nati da un Canale Antico diverso. Ma il termine "Antico" è relativo solo ai Canali esistenti nel nostro tempo. L'Omtose Pellack degli Jaghut non è "Antico" in confronto al Tellan. Quei due hanno lo stesso odore. Mi segui fin qui, Aggiunto?» «Bastardo condiscendente», borbottò lei fra sé. «Sì, Tool.» L'Imass annuì, con uno scricchiolio di ossa. «Il tumulo non è mai stato scoperto, proprio perché appartiene all'Omtose Pellack. Giace in un Canale
ormai inaccessibile al mondo. Tuttavia, io sono un Tellan. Il mio Canale tocca l'Omtose Pellack. Posso arrivarci, Aggiunto. Qualunque T'lan Imass ci riuscirebbe. Io sono stato scelto perché sono senza Clan. Sono solo in tutti i sensi.» «Perché questo dovrebbe avrebbe importanza?» chiese Lorn, lo stomaco in preda agli spasmi. Tool la guardò. «Aggiunto. Il nostro scopo è la liberazione di un Tiranno Jaghut. Tale essere, se dovesse sfuggire al nostro controllo, o smentire le nostre predizioni, è capace di distruggere questo continente. Può assoggettare tutti coloro che vi vivono, e lo farebbe se gli fosse permesso. Se, al posto mio, Logros avesse scelto un Divinatore, e se il Tiranno fosse liberato, quel Divinatore verrebbe fatto schiavo. Un Tiranno Jaghut è pericoloso da solo. Un Tiranno Jaghut con un Divinatore Imass al fianco è irrefrenabile. Sfiderebbero gli dei, e ne ucciderebbero la maggior parte. Inoltre, essendo io senza Clan, il mio asservimento - dovesse succedere - non implicherebbe l'asservimento dei miei consanguinei.» Lorn fissò l'Imass. Che cosa avevano in mente l'Imperatrice e Tayschrenn? Come potevano sperare di controllare questa cosa? «Stai dicendo, Tool, che puoi essere sacrificato.» «Sì, Aggiunto.» E io pure, si rese conto. «Che cosa fermerà il Tiranno?» domandò. «Come lo controlleremo?» «Non sarà possibile, Aggiunto. Stiamo facendo una scommessa.» «E questo cosa significa?» Tool scosse le spalle; le ossa si mossero rumorosamente sotto la pelliccia marcita. «Il Signore della Progenie della Luna, Aggiunto. Non avrà altra scelta che intervenire.» «E lui è in grado di fermare il Tiranno?» «Sì, Aggiunto. Anche se pagherà un prezzo alto, e ne uscirà indebolito. Però è in grado di comminare la punizione che un Tiranno Jaghut teme maggiormente.» Un lieve bagliore emerse nelle orbite oculari di Tool, mentre questi fissava Lorn. «La schiavitù, Aggiunto.» Lorn si arrestò di colpo. «Vuoi dire che il Signore della Progenie della Luna farà lavorare il Tiranno al suo fianco?» «No, Aggiunto. La schiavitù viene imposta dal signore, ma è anche oltre il suo controllo. Vedi, l'Imperatrice sa chi è il signore, e cosa lui possiede.» Lorn annuì. «È un Tiste Andii, e un Grande Mago.» Tool emise una risata stridula. «Aggiunto, stiamo parlando di Anoman-
der Rake, il Figlio dell'Oscurità. Il Portatore di Dragnipur.» Lorn aggrottò le sopracciglia. Tool sembrava aver notato la sua confusione, perché approfondì. «Dragnipur è una spada, nata in un'Era precedente all'arrivo della Luce. E l'Oscurità, Aggiunto, è la Dea dei Tiste Andii.» Qualche minuto dopo, Lorn ritrovò la voce. «L'Imperatrice», replicò sommessamente, «sa come scegliere i suoi nemici». E poi Tool la colpì con un'altra sbalorditiva rivelazione. «Sono sicuro», affermò l'Imass, «che i Tiste Andii si rammaricano di essere venuti in questo mondo». «Sono venuti in questo mondo? Da dove? Come? Perché?» «I Tiste Andii erano originari del Kurald Galain, il Canale dell'Oscurità. Il Kurald Galain stava per conto suo, senza contatti. La Dea, la madre dei Tiste Andii, soffriva di solitudine...» Tool esitò. «Probabilmente, c'è ben poca verità in questa storia, Aggiunto.» «Va' avanti», mormorò Lorn. «Te ne prego.» «Nella sua solitudine, la Dea cercò qualcosa al di fuori da sé. Così nacque la Luce. I suoi figli, i Tiste Andii, lo considerarono un tradimento, e la rifiutarono. Alcuni sostengono che furono scacciati, altri che lasciarono volontariamente l'abbraccio della madre. Per quanto usino ancora il Canale Kurald Galain, i maghi Tiste Andii non ne fanno più parte. E alcuni si servono di un altro Canale, lo Starvald Demelain.» «Il primo Canale.» Tool annuì. «E lo Starvald Demelain a chi apparteneva?» «Era la dimora dei draghi, Aggiunto.» *** Murillio arrestò il mulo sulla strada polverosa. Guardò avanti a sé. Kruppe e Crokus avevano già raggiunto il Crocevia di Worry. Si batté sulla fronte la pezzuola di raso morbido, poi si lanciò un'occhiata alle spalle. Curvo sulla sella, Coll stava vomitando la sua colazione. Murillio sospirò. Era già abbastanza strano vederlo sobrio, ma che avesse insistito per accompagnarli aveva del miracoloso. Murillio si chiese se Coll sospettasse alcunché dei piani di Rallick - ma no, se avesse anche solo intuito cosa stavano facendo, avrebbe picchiato il pugno sulla sua testa e su quella di Rallick, in rapida successione.
Era stato l'orgoglio a cacciare Coll negli attuali pasticci, e l'alcool non sembrava certo averlo diminuito. Al contrario. L'omaccione aveva persino indossato un'armatura completa di schinieri. Una spada gli pendeva dal fianco e, con la calotta di maglia e l'elmo, sembrava in tutto e per tutto un nobile cavaliere. L'unico dettaglio che stonava era il colorito verdastro sul viso rotondo. Era anche il solo, fra loro, ad aver trovato un cavallo anziché quei maledetti muli rubati da Kruppe. Coll si raddrizzò sulla sella e rivolse un debole sorriso a Murillio, poi spronò il cavallo per accostarsi a lui. Ripresero il viaggio senza una parola, spingendo i cavalli al piccolo galoppo fino a raggiungere gli altri. Come sempre, Kruppe stava pontificando. «Non più di una manciata di giorni, assicura Kruppe, viaggiatore avvizzito delle lande desolate oltre la luccicante Darujhistan. Non c'è ragione di essere tanto tristi, ragazzo. Considerala una straordinaria avventura.» Crokus guardò Murillio e buttò le braccia in alto. «Avventura? Non so neanche cosa stiamo facendo qua! Perché nessuno mi dice niente? Non posso credere di aver accettato di venire!» Murillio gli rivolse un largo sorriso. «Avanti, Crokus. Quante volte hai espresso curiosità per i nostri continui viaggi fuori città? Be', eccoci - tutte le tue domande stanno per trovare risposta.» Crokus si afflosciò sulla sella. «Mi hai detto che lavoravate tutti come agenti per qualche mercante. Quale mercante? Non vedo nessun mercante. E dove sono i nostri cavalli? Com'è che Coll è l'unico con un cavallo? Com'è che nessuno ha dato a me una spada, o un'arma qualunque? Perché...?» «Va bene!» Murillio scoppiò a ridere, alzando una mano. «Basta, ti prego! Siamo agenti di un mercante», spiegò. «Ma quella che vogliamo ottenere è mercanzia piuttosto insolita.» «E anche il mercante è piuttosto insolito», aggiunse Kruppe con un caldo sorriso. «Ragazzo, siamo agenti in cerca di informazioni per conto del nostro padrone, che è nient'altri che il Grande Alchimista Baruk!» Crokus fissò Kruppe. «Baruk! E non può permettersi di darci dei cavalli?» Kruppe si schiarì la gola. «Ah, sì, be'. C'è stato una specie di equivoco fra il degno, onesto Kruppe e uno stalliere ingannevole e truffaldino. Tuttavia, Kruppe ha volto le cose per il meglio, risparmiando al nostro benevolo padrone undici monete d'argento.» «Che lui non vedrà mai», borbottò Murillio.
«Quanto alla spada, ragazzo», riprese Kruppe, «a che ti serve? Ignora il nostro pallido, spavaldo Coll, con tutta la sua bardatura di guerra. È una semplice affettazione. E lo stocco di Murillio è solo un gingillo ornamentale, anche se lui, indubbiamente, sosterrebbe che i gioielli e gli smeraldi che tempestano l'elsa servono a garantire il perfetto equilibrio, o qualche dettaglio marziale del genere». Kruppe rivolse a Murillio un sorriso beato. «No, ragazzo, chi è veramente abile nell'acquisire informazioni non ha bisogno di tali rozzi pezzi di metallo; anzi, li disdegna.» «D'accordo», bofonchiò Crokus, «che tipo di informazioni cerchiamo, allora?». «Tutte quelle che quei corvi lassù possono vedere», ribatté Kruppe, agitando una mano nell'aria. «Altri viaggiatori, altri sforzi compiuti sulle Colline Gadrobi, tutto fa brodo per la cucina di Mastro Baruk. Noi osserviamo senza essere osservati. Noi apprendiamo rimanendo un mistero per tutti. Noi ascendiamo al...» «Vuoi chiudere il becco?» gemette Coll. «Chi ha le ghirbe?» Sorridendo, Murillio staccò dal pomo della sella una brocca d'argilla avvolta in una rete di spago e la porse a Coll. «Una spugna», commentò Kruppe, «schiacciata sotto il peso dell'armatura. Guardate quell'uomo che tracanna la nostra acqua preziosa, guardate come essa riappare immediatamente, sporca e salata, sulla sua pelle grinzosa. Che veleni trasudano lì? Kruppe rabbrividisce al solo pensiero». Coll lo ignorò, e tese la brocca a Crokus. «Fatti coraggio, ragazzo», gli disse. «Sei pagato, e bene. Con un po' di fortuna, non ci saranno problemi. Credimi, in questo tipo di lavoro, l'eccitazione è l'ultima cosa che ci interessa. Però», lanciò un'occhiataccia a Murillio, «mi sentirei molto meglio se Rallick fosse con noi». Crokus rizzò il pelo. «E io sono un surrogato indegno, giusto? Pensi che non lo sappia, Coll? Pensi...» «Non pensare al posto mio», tuonò Coll. «Non ho mai detto che eri un surrogato, Crokus. Tu sei un ladro, e le tue abilità ci saranno molto più utili di qualunque cosa io possa architettare. Lo stesso vale per Murillio. Quanto a Kruppe, be', i suoi talenti si limitano al suo stomaco e a quello che ci vuole schiaffar dentro. Hai in comune con Rallick più di quanto tu creda, ed ecco perché sei il nostro elemento più qualificato.» «Se non si conta l'intelligenza, naturalmente», intervenne Kruppe, «che è la mia vera dote - anche se uno come Coll non potrebbe mai comprendere una simile qualità, tanto gli è estranea».
Coll si chinò verso Crokus. «Ti chiederai perché porto quest'armatura», brontolò a voce bassa, ma chiaramente udibile. «E perché Kruppe è al comando. E con Kruppe al comando, non mi sento al sicuro se non sono pronto alla guerra. Se arriveremo a quel punto, ragazzo, sarò io a tirarci fuori vivi.» Raddrizzandosi, puntò lo sguardo avanti a sé. «L'ho già fatto. Vero, Kruppe?» «Accuse assurde.» Kruppe tirò su col naso. «Allora, a cos'è che diamo la caccia?» chiese Crokus. «Lo sapremo quando lo vedremo», spiegò Murillio. Indicò con un movimento della testa le colline che si levavano verso est. «Lassù.» Crokus rimase in silenzio per un po', poi strinse gli occhi. «Le Colline Gadrobi. Stiamo inseguendo una voce, Murillio?» Murillio s'irrigidì, ma fu Kruppe a rispondere: «Esattamente, ragazzo. Voci costruite su voci. Mi complimento con te per la tua astuta conclusione. Ora, dov'è la brocca dell'acqua? La sete di Kruppe è diventata intensa». *** Dispiacere uscì dalla Porta di Jammit con disinvoltura, senza urgenza. Rintracciare il Portatore della Moneta era semplice, e non c'era bisogno che il ragazzo rimanesse nel suo raggio visivo. Avvertì la presenza di Crokus e di Kruppe, in compagnia di altri due, sulla strada oltre il Quartiere di Worry, a una lega da esso. Non sembravano essere di fretta. Qualunque fosse la loro missione, era chiaro che riguardava il benessere di Darujhistan. A pensarci bene, Dispiacere era sicura che gli uomini di quel gruppo fossero spie e, con tutta probabilità, abili. Il damerino, Murillio, sapeva muoversi nei circoli nobiliari con naturalezza abbinata a un'attraente modestia - la perfetta combinazione per una spia. Rallick, che pure non faceva parte di quella missione, era gli occhi e le orecchie della Corporazione dei Sicari, e copriva così un'altra base di potere. Il mondo di Kruppe era quello dei ladri e delle classi sociali inferiori, da cui le voci spuntavano come erbacce dal suolo fangoso. Il terzo uomo era evidentemente un militare, e sicuramente fungeva da braccio armato. All'atto pratico, quindi, un gruppo adeguato a proteggere il Portatore della Moneta, anche se non tanto da poterle impedire di ucciderlo - specialmente data l'assenza del sicario. Eppure, qualcosa assillava Dispiacere, il vago sospetto che il gruppo stesse puntando verso un pericolo - un pericolo che minacciava anche lei.
Una volta superato il Quartiere di Worry, aumentò il ritmo. Non appena si ritrovò da sola sulla strada, aprì il Canale dell'Ombra e scivolò nei suoi rapidi binari. *** L'Aggiunto non trovò nulla di particolare nella collina cui si avvicinavano. La cima rivestita d'erba era piccola, in confronto a quelle che la circondavano. Mezza dozzina di querce scheletriche, distorte dal vento, ricoprivano un pendio, in mezzo al ghiaione dei massi rotti. La sommità si appiattiva in un cerchio irregolare, su cui rocce sporgevano qua e là. In cielo volteggiavano i corvi, tanto in alto da essere solo puntini nella distesa grigia, greve di umidità. Lorn guardò Tool che avanzava rapido davanti a lei, dritto verso la base della collina. Si afflosciò sulla sella; si sentiva sconfitta dal mondo all'intorno. Il calore del mezzogiorno le risucchiava le forze, e l'indolenza pervadeva i suoi pensieri. Non era opera di Oponn, lo sapeva; era il timore diffuso che aleggiava nell'aria, il senso che quello che stavano facendo era sbagliato, terribilmente sbagliato. Gettare questo Tiranno Jaghut fra le braccia del nemico dell'Impero, confidare che Anomander Rake, il Tiste Andii, lo distruggesse, ma con un grave costo personale - aprendo così la via perché gli incantesimi Malazan potessero a loro volta annientare il Figlio dell'Oscurità - ora sembrava un piano precipitoso, tanto ambizioso da essere assurdo. Arrivato sotto alla collina, Toll aspettò l'Aggiunto. Ai piedi di Tool, avvolti di pelli, Lorn vide una roccia grigia che spuntava una decina di pollici dal terreno. «Aggiunto, questo è il contrassegno che cerchiamo.» Lei alzò un sopracciglio. «Il suolo qui è praticamente nudo», osservò. «Vorresti dire che questa pietra si è erosa fino alle dimensioni attuali?» «La pietra non si è erosa», rispose Tool. «È qui da prima che le distese di ghiaccio ricoprissero questa terra. Era qui quando la Pianura Rhivi era un mare interno, molto prima che le acque si ritirassero a quello che ora è il Lago Azzurro. Aggiunto, in realtà la pietra è più alta di noi due messi insieme, e quello che tu ritieni letto roccioso è roccia scistosa.» Lorn fu sorpresa dalla punta di rabbia nella voce di Tool. Smontò di sella, e cominciò a impastoiare i cavalli. «Quanto tempo rimarremo qui?» «Per tutta la notte. All'alba di domani, riaprirò il cammino, Aggiunto.» Dall'alto, giungevano debolmente i gridi dei corvi. Lorn alzò la testa e
fissò i puntini che ruotavano sulle loro teste. Li accompagnavano da giorni. Era strano? Non lo sapeva. Scrollando le spalle, dissellò i cavalli. L'Imass restò immobile, lo sguardo apparentemente fisso sulla pietra. Lorn si mise ad allestire il loro campo. In mezzo alle querce, trovò del legno per accendere un piccolo fuoco. Era asciutto, stagionato, e probabilmente avrebbe fatto poco fumo. Anche se non prevedeva l'arrivo di nessuno, si era abituata a essere prudente. Prima del crepuscolo, scoprì una collina vicina più alta delle circostanti, e la scalò. Da quella posizione, il suo sguardo spaziava per leghe in ogni direzione. La distesa ondulata delle colline proseguiva verso sud, declinando in steppe a sud-est. A est si allungava la Pianura Catlin, deserta fino a dove lei poteva vedere. Lorn si volse verso nord. La foresta che avevano aggirato qualche giorno prima era ancora visibile, una linea scura che si ispessiva man mano che si avvicinava ai Monti Tahlyn, a ovest. Si sedette, aspettando l'arrivo del buio. Solo allora avrebbe potuto individuare eventuali fuochi di bivacco. Anche con il calar della sera, il caldo rimase opprimente. Lorn camminò lungo il bordo della sommità, per sgranchirsi le gambe. Trovò segni di scavi passati, cicatrici che incidevano la roccia scistosa. E c'erano anche testimonianze dei pastori Gadrobi, risalenti all'epoca in cui forgiavano utensili di pietra. Il lato meridionale della collina era stato svuotato, non in cerca di un tumulo, ma come cava di pietra. Sembrava che sotto la roccia scistosa ci fosse silice, color marron cioccolato, tagliente e incrostato di gesso bianco. Curiosa, Lorn indagò, scendendo nella cava. Scaglie di pietra rivestivano il pavimento. Accovacciandosi, raccolse un pezzo di silice. Era una punta di lancia, modellata con maestria. L'eco di quella tecnologia si trovava nella spada di calcedonio di Tool. Non aveva bisogno di ulteriori conferme delle asserzioni di quest'ultimo: gli esseri umani discendevano veramente dagli Imass, avevano veramente ereditato un mondo. L'Impero era una loro emanazione; la loro eredità scorreva come sangue nei muscoli, nel sangue, nel cervello umani. Ma una cosa del genere poteva benissimo essere vista come una maledizione. Erano destinati, un giorno, a diventare versioni umane dei T'lan Imass? Non c'era altro che la guerra, nella vita? Le avrebbero tributato eterna schiavitù, meri dispensatori di morte? Lorn si sedette nella cava, appoggiandosi alla pietra scalpellata, erosa dalle intemperie. Gli Imass avevano condotto una guerra di sterminio dura-
ta centinaia di migliaia di anni. Chi o cosa erano stati gli Jaghut? A detta di Tool, avevano abbandonato il concetto di governo, e girato le spalle agli imperi, agli eserciti, ai cicli dell'ascesa e della caduta, del fuoco e della rinascita. Avevano camminato da soli, disdegnando i propri simili, disprezzando la comunità, gli scopi più grandi di loro. Non avrebbero iniziato una guerra, capì. «Oh, Laseen», mormorò, gli occhi gonfi di lacrime, «so perché temiamo questo Tiranno Jaghut. Poiché divenne umano, divenne come noi: schiavizzò, distrusse, e lo fece meglio di come noi avremmo potuto farlo». Chinò la testa fra le mani. «Ecco perché ne abbiamo paura.» A quel punto, ammutolì, lasciando che le lacrime le scorressero giù per le guance, gocciolando fra le dita e lungo i polsi. Chi piangeva dai suoi occhi? si chiese. Era Lorn, o Laseen? O era un pianto per la razza umana? Che importanza aveva? Lacrime simili erano già state versate, e lo sarebbero state ancora - da altri simili a lei, e tuttavia diversi. E i venti le avrebbero asciugate tutte. *** Il capitano Paran lanciò un'occhiata al suo compagno. «Hai una teoria al riguardo?» indagò. Toc il Giovane si grattò la cicatrice. «No, maledizione.» Fissò il corvo bruciato, ricoperto da una crosta nera, che giaceva per terra davanti a loro. «Li ho contati, però. Questo è l'undicesimo uccello arrosto in tre ore. E, a meno che non ricoprano la Pianura Rhivi come un dannato tappeto, sembra che siamo sulle tracce di qualcuno.» Paran grugnì, poi spronò il cavallo con un calcio. Toc lo seguì. «E quel qualcuno è poco raccomandabile», proseguì. «Quei corvi sembrano fatti esplodere dal di dentro. Persino le mosche li evitano.» «In altri termini», ribatté Paran, in tono aspro, «si tratta di magia». Toc socchiuse gli occhi per guardare le colline in direzione sud. Nella Foresta Tahlyn, avevano trovato la pista di un taglialegna, che aveva risparmiato loro giorni di viaggio. Non appena erano ritornati alla strada dei mercanti Rhivi, però, si erano imbattuti nei corvi, e anche nelle impronte di due cavalli e di un essere umano coi mocassini. Queste ultime risalivano solo a qualche giorno prima. «Non capisco perché l'Aggiunto e quell'Imass si muovano così lenta-
mente», borbottò Toc, ripetendo parole che aveva pronunciato una dozzina di volte dall'inizio del viaggio. «Credi che lei non sappia di essere pedinata da qualcosa?» «È una donna arrogante», ribatté Paran, afferrando la spada con la mano libera. «E con quell'Imass al seguito, perché dovrebbe preoccuparsi?» «Il potere attira potere», decretò Toc, grattandosi ancora la cicatrice. Quel movimento gli scatenò nella testa l'ennesimo lampo di luce, ma quel sintomo stava cambiando. A volte, gli sembrava quasi di vedere immagini, scene dentro la luce. «Dannate superstizioni da Sette Città», ringhiò sottovoce. Paran lo guardò curioso. «Hai detto qualcosa?» «No.» Toc si piegò sulla sella. Il capitano li aveva fatti avanzare a passo molto rapido. La sua ossessione li stava sfiancando; anche con la bestia in più, i cavalli erano quasi senza forze. E Toc era assillato da un pensiero. Che cosa sarebbe successo quando avessero raggiunto Lorn? Evidentemente, Paran intendeva catturare lei e l'Imass, spinto da un desiderio di vendetta che superava le sue intenzioni precedenti. Morta Lorn, o sconvolti i suoi piani, la posizione di comando di Paran sarebbe stata al sicuro. Avrebbe potuto riunirsi a Whiskeyjack e al suo squadrone con tutta calma. Sempre che vivessero ancora, naturalmente. Toc vedeva mille difetti nel piano del capitano. Innanzitutto, c'era il T'lan Imass. La spada di Paran sarebbe stata al suo livello? In passato, incantesimi erano stati scagliati contro i guerrieri Imass con la frenesia della disperazione. Invano. L'unico modo per distruggere un Imass era tagliarlo a pezzi. Toc non credeva che l'arma del capitano, per quanto toccata da un dio, avrebbe potuto riuscirci ma, di quei tempi, Paran sembrava inflessibile nelle sue convinzioni. Incontrarono un altro corvo, le penne svolazzanti al vento, le viscere gonfiate dal sole e rosse come ciliegie. Toc si strofinò ancora la cicatrice, e per poco non cadde dalla sella quando un'immagine, chiara e precisa, gli sbocciò nella mente. Vide una piccola forma, che si muoveva così rapidamente da sembrare una macchia indistinta. Cavalli nitrirono forte, e uno squarcio enorme si aprì nell'aria. Sussultò, come colpito da qualcosa di voluminoso e pesante, e lo squarcio si spalancò; dentro c'era un vortice d'oscurità. Toc sentì gridare il proprio cavallo. Poi la visione sparì, e lui si ritrovò aggrappato con tutte le sue forze al pomo della sella. Paran cavalcava avanti a lui. A quanto pareva, non si era accorto di niente; teneva la schiena diritta e lo sguardo fisso verso sud. Una mano gioche-
rellava distrattamente con il pomo della sella. Toc si riscosse, si piegò da un lato e sputò. Che cosa aveva appena visto? Quello squarcio... come poteva l'aria stessa lacerarsi così? La risposta lo colpì d'un tratto. Un Canale, un Canale che si apriva poteva avere un effetto simile. Spronò il cavallo fino a portarsi al fianco di Paran. «Capitano, siamo diretti verso un'imboscata.» Paran girò la testa di scatto. I suoi occhi emisero un bagliore. «Allora, preparati.» Toc aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse senza parlare. A cosa sarebbe servito? Incordò la balestra e smosse la scimitarra nel fodero, poi incoccò una freccia. Lanciò un'occhiata a Paran, che aveva sguainato la spada e se l'era posata sulle cosce. «Proverrà da un Canale, Capitano.» Paran non vide alcun bisogno di mettere in dubbio la certezza del compagno. Sembrava quasi impaziente. Toc studiò Fortuna, la spada. La luce smorta, caliginosa, guizzava come acqua lungo la lama lucente. Per qualche motivo, anche quest'ultima sembrò impaziente ai suoi occhi. CAPITOLO QUINDICESIMO Insanguinate sono le staffe quando i Jaghut cavalcano le loro anime, un attacco tonante che non conosce fine, nodi resistenti colpiscono ferocemente il fluire del ghiaccio una certa promessa... combattono il crepuscolo gli Jaghut in un campo di pietre spezzate... Jaghut Fisher (n?) Ben lo Svelto sedeva nella capanna, la schiena alla vecchia Muraglia di pietra. Davanti a sé aveva i cinque bastoncini che lo congiungevano a Hairlock. Il filo che collegava i bastoncini era teso. Di fronte al mago, vicino all'ingresso nascosto, sedeva Trotts. Kalam non si era ancora sufficientemente ripreso da poter accompagnare Ben o proteggerlo come stava facendo Trotts. Il mago conosceva il guer-
riero Barghast da anni, avevano combattuto fianco a fianco in più di una battaglia e più di una volta uno dei due aveva salvato la vita all'altro. Eppure, Ben si rese conto di sapere ben poco di Trotts. Tuttavia, quel poco che sapeva lo tranquillizzava. Il Barghast era un feroce e brutale guerriero, abile con l'ascia da tiro quanto lo era con lo spadone che teneva ora in grembo. E rassicurato dai feticci legati fra i capelli e dai tatuaggi di guado, opera dello sciamano del suo clan, non temeva la magia. Considerato ciò che sarebbe potuto accadere, anche quel genere di protezione poteva risultare utile. Alla fioca luce, il Barghast guardava il mago con occhi fermi, inespressivi. Ben lo Svelto slegò i nodi dei fili nelle sue mani e si curvò in avanti per osservare la disposizione dei bastoncini legati. «Hairlock è accovacciato nel suo Canale», disse. «Non si muove. Sembra in attesa.» Si sedette ed estrasse il pugnale, che infilzò con la punta nel terreno compatto. «Allora aspetteremo anche noi. E guarderemo.» «Guarderemo, che cosa?» chiese Trotts. «Non importa.» Ben sospirò. «Hai quel pezzo di lenzuolo?» Trotts estrasse da una manica un pezzo di tessuto stracciato. Si alzò, si avvicinò al mago e gli mise in mano quanto aveva chiesto. Ben lo posò alla sua sinistra. Mormorò alcune parole e vi passò sopra la mano. «Torna al tuo posto», disse. «E tieni la spada pronta per ogni evenienza.» Chiuse gli occhi e raggiunse il suo Canale. Davanti a lui prese forma un'immagine e il mago sobbalzò per la sorpresa. «Che cosa sta facendo Hairlock nella Pianura Rhivi?» sussurrò. *** Paran sentiva il fuoco bianco della vendetta crescere dentro di sé, invadergli la mente, illuminargli il corpo. Oponn aveva scelto di usarlo. Ora lui avrebbe usato Oponn, il potere dei Gemelli, il potere distruttivo che giungeva con il rango di Ascendente. E come gli dei, l'avrebbe usato a sangue freddo, anche se ciò avesse significato trascinare un recalcitrante Oponn in quella pianura ad affrontare ciò che li aspettava. Un dubbio, o forse un avvertimento inviato dalla coscienza, raggiunse la sua mente. Toc il Giovane era suo amico, forse l'unico che avesse mai avuto. Senza la protezione di un dio, le probabilità che sopravvivesse a ciò che
stava per accadere erano minime. Avrebbe avuto sulla coscienza un'altra morte? Paran mise da parte quel pensiero. Era lì per vendicare la morte di Tattersail. L'Aggiunto gli aveva insegnato l'importanza di perseguire un unico scopo. Ma Tattersail che cosa ti ha insegnato? «Se le cose dovessero mettersi molto male», disse, «vattene, Toc. Torna a Darujhistan. Cerca Whiskeyjack». Il soldato annuì. «Se io dovessi morire...» «Ti ho sentito, Capitano.» «Bene.» Fra i due scese il silenzio, rotto soltanto dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli e dal caldo vento occidentale che soffiava come sabbia frusciante attraverso le pietre. Un interrogativo si affacciò alla mente di Paran. L'Aggiunto li stava aspettando? Se li avesse riconosciuti non avrebbe avuto motivo di attaccare. Per quanto ne sapeva lei, il capitano era stato ucciso. E Toc era un Artiglio. Non ci sarebbe stata nessuna imboscata. L'Aggiunto sarebbe uscita alla scoperto e lo avrebbe salutato, probabilmente sconvolta dalla sua comparsa ma non certo sospettosa. E quando si fosse avvicinata, Fortuna avrebbe cantato. E dopo essersi liberato di lei, se fosse stato necessario si sarebbe occupato anche dell'Imass. In realtà, sperava che quest'ultimo se ne sarebbe andato, una volta crollato il piano. Senza l'Aggiunto niente aveva più senso. Questo era quanto sperava. Fortuna era sicuramente una spada particolare, ma i T'lan Imass erano creature Antiche, il prodotto di magie al cui confronto Oponn era meno di un bambino. Paran stringeva con forza l'impugnatura della spada. La mano gli doleva e sentiva il sudore scivolare fra le dita. Fortuna non sembrava diversa dalle altre spade. Doveva aspettarsi qualcosa di più? Non ricordava molto dell'ultima volta che l'aveva usata, contro il Segugio. Ma se la spada fosse stata dotata di potere, non avrebbe dovuto avvertire qualcosa? In quel momento. Fortuna era gelida, come se il giovane stesse stringendo un pezzo di ghiaccio che rifiutava di sciogliersi a contatto con il calore della sua mano. Che cosa aveva fatto scattare in lui quell'improvvisa fiducia nelle proprie capacità? Trascinare un Ascendente nel gioco... come potrò farlo? Certo, se Oponn fosse impaziente come l'ultima volta... Forse era solo la tensione che accompagnava l'attesa di un evento. Toc aveva torto? Si girò verso
l'uomo dietro di sé e aprì la bocca per parlare. Una risata acuta, folle, lo gelò. Tirò le redini con violenza. Il cavallo nitrì e indietreggiò. L'aria sembrò lacerarsi e un vento gelido investì i due giovani. Il capitano sollevò la spada, imprecando. Il cavallo nitrì di nuovo, questa volta per il dolore. Si sbriciolò sotto di lui, come se le ossa fossero state trasformate in polvere. Paran cadde lungo disteso, le gambe sotto il corpo senza vita dell'animale. La spada gli volò via di mano. La corda dell'arco di Toc vibrò e la freccia si schiantò contro qualcosa di duro. Paran girò la testa e sollevò lo sguardo. La marionetta di nome Hairlock fluttuava a circa venti piedi da terra. Mentre il capitano guardava, una seconda freccia si schiantò, andando in mille pezzi. Hairlock tornò a ridere, lo sguardo spiritato puntato su Toc. Sollevò una mano. Paran gridò nel vedere Toc sbalzato da cavallo. L'Artiglio piroettò in aria. Uno squarcio si aprì nell'aria davanti a lui. Paran gridò una seconda volta in preda all'orrore quando Toc il Giovane affondò in quello squarcio e scomparve nel vortice di nebbie. Lo strappo si chiuse con uno schiocco, cancellando ogni traccia del compagno di Paran. Hairlock scese lentamente a terra. Si fermò per sistemare gli abiti sbrindellati, quindi si diresse verso Paran. «Pensavo fossi tu», sghignazzò Hairlock. «La vendetta non è forse più dolce del miele, Capitano? La tua morte sarà lunga, lenta e molto, molto dolorosa. Già pregusto il piacere.» Paran spinse con le braccia, riuscendo infine a liberare le gambe da sotto il corpo del cavallo. Si tuffò sulla spada, afferrandola mentre ruotava sulla schiena e infine balzò in piedi. Hairlock seguì quelle acrobazie con aria divertita e iniziò ad avanzare. «Quell'arma non è per me, Capitano. Non può nemmeno tagliarmi. Buttala via.» In preda alla disperazione, Paran sollevò la spada. Hairlock si fermò e piegò la testa. Si girò verso nord. «Impossibile!» esclamò la marionetta. Anche Paran avvertì ciò che Hairlock aveva appena sentito: l'ululato dei Segugi. ***
Nella capanna, Ben lo Svelto aveva assistito all'imboscata, attonito. Che cosa stava facendo Paran? Dov'era Tattersail? «Il Sentiero di Hood», sussurrò infuriato. Ma tutto era accaduto così in fretta che non avrebbe potuto fare niente per impedire la morte dell'uomo con un solo occhio che accompagnava il capitano. Aprì gli occhi di scatto e afferrò il pezzo di tessuto. «Dispiacere», sussurrò. «Dispiacere! Ascoltami, donna! Ti conosco. So chi sei. Cotillion, Protettore dei Sicari, la Fune, io ti chiamo!» Sentì una presenza scivolare nella sua mente, seguita da una voce d'uomo. «Ben fatto.» «Ho un messaggio per te, Fune. Per Tronod'Ombra», disse il mago avvertendo una forte tensione. «Un patto è stato infranto. I Segugi del tuo signore sono affamati di vendetta. Ora non ho il tempo di spiegarti tutto ci penserà Tronod'Ombra. Sto per dirti dove si trova esattamente colui che Tronod'Ombra sta cercando.» «Io sono il collegamento, giusto?» affermò la Fune, divertito. «Il mezzo grazie al quale tu resti vivo. Devo congratularmi con te, Ben lo Svelto. Pochi mortali sono riusciti a evitare con successo la propensione all'inganno del mio signore. Sembra che tu l'abbia superato in astuzia. Molto bene, trasmetti attraverso di me l'informazione. Tronod'Ombra la riceverà immediatamente.» Ben lo Svelto comunicò l'esatta posizione di Hairlock nella Pianura Rhivi. Sperava solo che i Segugi arrivassero in tempo. Aveva molte domande per Paran e voleva che il capitano li raggiungesse sano e salvo, ma dovette ammettere che le possibilità che ciò avvenisse erano scarse. Ora non gli restava altro da fare che impedire la fuga della marionetta. Sorrise. Ecco qualcosa di cui non vedeva l'ora di occuparsi. *** Onos T'oolan si era accovacciato davanti alla pietra alle prime luci dell'alba. Nelle ore seguenti, Lorn aveva vagabondato per le colline vicine, in guerra con se stessa. Ora sapeva con certezza che ciò che stavano facendo era sbagliato, che le conseguenze sarebbero andate ben oltre i gretti sforzi di un Impero terreno. I T'lan Imass lavoravano da millenni per raggiungere obiettivi che erano solo loro. Eppure la loro guerra infinita era diventata la sua guerra. L'Impe-
ro di Laseen era una copia del Primo Impero. La differenza era che gli Imass compivano genocidi contro un'altra specie. I Malaz uccidevano la loro specie. Dall'età buia degli Imass, l'umanità non era risalita, era precipitata verso il basso. Il sole splendeva alto in cielo. Era passata un'ora da quando aveva lanciato un'occhiata a Tool. Il guerriero non si era mosso. Lorn salì su un'altra collina, distante circa un quarto di miglia dalla pietra. Sperava di riuscire a scorgere il lago Azzurro, a occidente. Giunta sulla sommità della collina si trovò a non più di trenta piedi da quattro sconosciuti a cavallo. Era difficile stabilire chi fosse più sorpreso, ma l'Aggiunto si mosse prima, sguainando la spada e balzando in avanti. Un ragazzo e un ometto grasso erano disarmati. Quei due e un tipo dagli abiti sgargianti, ora impegnato a estrarre uno stocco, cavalcavano muli. Ma fu il quarto uomo ad attirare l'attenzione di Lorn. Perfettamente armato in sella a un cavallo, fu il primo a reagire alla carica. Lanciato un grido, spronò il destriero e sguainò la spada. Lorn sorrise quando l'ometto grasso tentò, inutilmente, di aprire un Canale. La sua spada Otataral esalò vapore prima che un fiotto di aria fredda sgorgasse da essa. L'ometto grasso, gli occhi sgranati, balzò indietro e, perdendo l'equilibrio, capitombolò a terra. Il ragazzo smontò di sella e si bloccò, incerto se aiutare l'uomo grasso o estrarre il pugnale dal cinturone. Quando l'uomo a cavallo lo superò, prese una decisione e corse ad aiutare l'amico caduto. Anche l'uomo con lo stocco era sceso dal mulo e avanzava in scia al guerriero. Gli occhi di Lorn colsero tutto con una rapida occhiata, poi il guerriero fu su di lei, la spada puntata alla sua testa. L'Aggiunto non si preoccupò di parare il colpo ma con un balzo passò davanti al cavallo in modo da potersi trovare alla sinistra dell'uomo, essendo il braccio armato quello destro. Il cavallo indietreggiò. Veloce come il vento, Lorn sfrecciò accanto al cavaliere lasciando scivolare la spada sulla coscia dell'uomo, sopra la corazza. La lama di Otataral tagliò cotta d'arme, cuoio e carne con la stessa facilità. Il guerriero grugnì e si portò una mano alla ferita proprio mentre il cavallo lo disarcionava. Lorn lo ignorò, ingaggiando un duello con l'uomo armato di stocco. Il suo avversario era più abile di quanto si aspettava e con agilità e destrezza riusciva a tenerla lontana. L'oscillazione della spada la sbilanciò prima che potesse effettuare un affondo e in quel momento, l'avversario allungò lo
stocco. La punta dell'arma penetrò la cotta d'arme e s'infilò nella spalla sinistra. Una feroce fitta di dolore s'irradiò lungo tutto il braccio. In collera per il colpo subito, roteò la spada mirando alla testa dell'uomo. La parte piatta della lama lo colpì in piena fronte e l'uomo crollò a terra come una bambola di pezza. Lorn lanciò un'occhiata al guerriero ancora impegnato a cercare di fermare il sangue che sgorgava dalla gamba, quindi si girò per affrontare gli altri due uomini. Il ragazzo era davanti all'ometto grasso, steso a terra privo di conoscenza. Per quanto pallido, il giovane brandiva un pugnale in una mano e un coltello nell'altra e la fissava con occhi gelidi. Solo allora a Lorn venne in mente che forse non ci sarebbe stato bisogno di attaccare quegli uomini. Dopo tutto, lei indossava abiti da mercenaria e il T'lan Imass era fuori dal campo visivo. Avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati con le parole e poi detestava spargere sangue. Ma ormai era troppo tardi. Avanzò lentamente. «Non vogliamo fare del male a nessuno», disse il ragazzo in Daru. «Lasciaci in pace.» Lorn esitò. La proposta la sorprese. Perché no? Si raddrizzò. «D'accordo», rispose nella stessa lingua. «Prendi i tuoi amici e vattene.» «Torneremo a Darujhistan», affermò il ragazzo, ugualmente sorpreso. «Ci accamperemo qui per la notte e partiremo domani mattina.» L'Aggiunto indietreggiò. «Fai ciò che hai detto e avrai salva la vita. Fai il furbo e vi ucciderò, tutti. Sono stata chiara?» Il ragazzo annuì. Lorn si allontanò, dirigendosi a nord. Avrebbe proceduto ancora un po' in quella direzione per poi deviare verso est e tornare da Tool. Non sapeva che cosa avesse portato quegli uomini sulle colline, ma riteneva non avesse niente a che fare con lei o con il tumulo. Mentre si allontanava, vide il ragazzo correre dal guerriero. In ogni caso, non era rimasto molto di quel gruppo da poterla preoccupare. Il duellante non era morto, ma si sarebbe svegliato con un forte mal di testa. Il guerriero era in realtà ferito solo superficialmente, anche se aveva perso molto sangue. L'ometto grasso forse si era rotto il collo e comunque, come mago era innocuo vicino a lei. Restava il ragazzo, ma da quando in qua un ragazzo poteva impensierirla? Affrettò il passo. ***
Dopo il sorprendente messaggio di Ben lo Svelto, Dispiacere aveva contattato Tronod'Ombra. Il Signore dell'Ombra si era adirato e dopo avere informato la Fune che Ben Adeaphon Delat era stato un sommo sacerdote dell'Ombra, Dispiacere aveva scoperto di condividere l'ira di Tronod'Ombra. Quell'uomo avrebbe pagato per i suoi inganni. I Segugi di Tronod'Ombra erano pronti e lei era sicura che in quel preciso momento stessero concludendo la caccia. Nel riprendere il viaggio nel Canale, si accorse di incontrare una misteriosa resistenza, che aumentava man mano che si dirigeva a est. Alla fine, si acquietò ed emerse sulle Colline Gadrobi. Era mezzogiorno e a circa mezzo miglio più avanti, si trovavano il Portatore della Moneta e i suoi amici. Coprì la distanza rapidamente fino a quando fu a non più di cento iarde dietro di loro; per prudenza, nascose la sua presenza con l'aiuto delle ombre, uno sforzo che le costò più fatica di quanto fosse abitualmente necessaria. Non poteva esserci che una spiegazione a tutto ciò: la presenza nelle vicinanze di un T'lan Imass. Verso che cosa e verso chi cavalcava il Portatore della Moneta? Aveva sbagliato tutto? Erano forse agenti dell'Impero Malazan? Quella possibilità non andava d'accordo con l'influsso di Oponn, ma non riusciva a giungere a nessun'altra conclusione. Quella, si disse, sarebbe stata una giornata interessante. Il gruppetto era a una cinquantina di iarde da lei e stava salendo su una collina. Raggiunta la sommità, i quattro scomparirono alla sua vista. La ragazza accelerò il passo e a un tratto, dalla vetta della collina, giunsero i rumori di una lotta - una lotta nel corso della quale Otataral si rivelò. L'ira esplose in lei. Un ricordo molto personale era legato a Otataral. Muovendosi con circospezione, cercò un punto dal quale seguire la scena. Lo scontro era stato breve e, alla fine, il Portatore della Moneta e i suoi amici avevano avuto la peggio. Solo il ragazzo era ancora in piedi, davanti a una donna alta e flessuosa che brandiva una spada Otataral. Dispiacere riconobbe l'Aggiunto Lorn. In missione, senza dubbio, per la cara Imperatrice; una missione che coinvolgeva un T'lan Imass, ancora fuori dal raggio visivo ma nelle vicinanze. Sentì le loro parole. Se il ragazzo e gli altri non erano agenti dell'Impero, allora forse il loro padrone a Darujhistan aveva avvertito la presenza dell'Imass e li aveva mandati a compiere indagini. Più tardi avrebbe scoperto la natura della missione dell'Aggiunto. Ma
ora era giunto il momento di uccidere il Portatore della Moneta. E la vicinanza dell'Imass aumentava le probabilità di successo. Nemmeno i poteri di Oponn potevano sovrastare l'influsso di un Canale Tellann. Uccidere il ragazzo sarebbe stato un lavoretto da niente. Dispiacere attese e un sorriso le illuminò il viso quando l'Aggiunto Lorn si allontanò diretta a nord. Nel giro di pochi minuti, la Moneta di Oponn sarebbe stata nelle sue mani. E quel giorno, un dio sarebbe morto. Appena Lorn fu sufficientemente lontana, Crokus corse dal guerriero. Dispiacere si accovacciò e cominciò ad avanzare lentamente, il laccio per strangolare in una mano. *** I Segugi ripresero a ululare, le loro grida fameliche erano sempre più vicine e lo chiudevano su tutti i lati. Hairlock si acquattò, indeciso. Quindi si rivolse al Capitano. «Dovrai aspettare ancora un po' per morire, Capitano. Non intendo fare le cose di fretta. No, la tua morte sarà lenta, molto lenta.» Le mani sudate chiuse intorno a Fortuna, Paran si strinse nelle spalle. Con sua grande sorpresa, si rese conto che per lui faceva poca differenza. Se i Segugi fossero arrivati e non avessero trovato Hairlock, avrebbero probabilmente sfogato la loro ira su di lui e sarebbe stata la fine. «Ti pentirai di esserti lasciato sfuggire quest'occasione, Hairlock. Indipendentemente da questa spada, non vedevo l'ora di farti a pezzetti. La tua magia può tener testa al mio odio? Sarebbe stato divertente scoprirlo.» «Oh, un'improvvisa esplosione di coraggio! Che cosa ne sai dell'odio, Capitano? Al mio ritorno ti mostrerò dove può arrivare l'odio.» La marionetta sollevò una mano e nell'aria si aprì uno squarcio, dal quale uscì un puzzo nauseabondo. «Bastardo ostinato», borbottò Hairlock. «A più tardi, Capitano». E dopo un rapido inchino si diresse verso lo squarcio. *** Nella capanna, un'espressione feroce apparve sul volto di Ben lo Svelto. Afferrò il pugnale con la mano destra e, con un movimento fluido, tagliò i fili che univano i bastoncini. «Addio, Hairlock», sibilò. ***
Paran sgranò gli occhi quando la marionetta crollò a pancia in giù. Un istante dopo Hairlock gridò. Il capitano strinse gli occhi. «Sembrerebbe che qualcuno abbia tagliato i tuoi fili, Hairlock», disse. I Segugi erano vicini. Pochi secondi e sarebbero stati su di loro. «La tua vita, Capitano!» strillò Hairlock. «Scaraventami nel Canale e la tua vita sarà salva, te lo giuro!» Paran si appoggiò alla spada, senza rispondere. «Pedina di Oponn», sbottò Hairlock. «Ti sputerei addosso se potessi! Sputerei sulla tua anima!» La terra tremò e creature possenti si mossero intorno a Paran, chiudendo il cerchio sulla marionetta immobile. Paran riconobbe Gear, il Segugio che aveva ferito. Sentì la spada nelle sue mani reagire a quella sfida con un fremito impaziente che si diffuse anche alle braccia. Quando gli passò innanzi, Gear girò di scatto la testa e in quegli occhi Paran lesse una promessa. Sorrise. Hairlock gridò un'ultima volta prima che i Segugi fossero sopra di lui. Un'enorme ombra scivolò sulla collina; Paran sollevò lo sguardo e vide un Grande Corvo volteggiare sopra di loro. L'uccello gracchiò famelico. «Mi spiace», mormorò Paran rivolgendosi all'animale, «dubito che i suoi resti siano saporiti». Tre Segugi cominciarono a combattere per impadronirsi dei frammenti di legno - quanto restava di Hairlock. Gli altri quattro, fra cui Gear, si voltarono verso Paran. Il capitano sollevò la spada e assunse la posizione di combattimento. «Forza. Attraverso di me al dio usando me, per una volta lasciate che l'arnese giri nelle mani dei Gemelli. Forza, Segugi, inondiamo la terra di sangue.» Le creature si aprirono a semicerchio, con Gear al centro. Paran sfoggiò un largo sorriso. Vieni, Gear. Sono stanco di esser usato e la morte non mi sembra più così spaventosa. Facciamola finita. Qualcosa di pesante iniziò a premere su di lui, come se una mano fosse scesa dal cielo e cercasse di spingerlo nel terreno. I Segugi arretrarono. Paran barcollò, incapace di respirare, un improvviso velo nero davanti agli occhi. La terra gemette sotto di lui. Poi la pressione diminuì e l'aria gli riempì i polmoni. Avvertendo una presenza, il capitano si girò. «Mettiti da parte», ordinò un uomo alto, dalla pelle nera e i capelli bian-
chi, mentre si preparava ad affrontare i Segugi. Paran lo fissò attonito e per poco la spada non gli cadde di mano. Un Tiste Andii? L'uomo portava una massiccia spada agganciata sulla schiena. Immobile davanti ai Segugi, sembrava non avesse intenzione di prendere l'arma. Gli animali lo scrutavano guardinghi. Il Tiste Andii lanciò un'occhiata a Paran. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto per attirare l'attenzione degli dei è stata una mossa poco saggia», disse, parlando in Malazan. «Temo che non imparerò mai», replicò Paran. Il Tiste Andii sorrise. «Allora siamo molto simili, mortale.» Mortale? I Segugi si muovevano nervosamente, ringhiando e addentando l'aria. Il Tiste Andii li guardò, poi parlò. «Smettetela di intromettervi. Ci vediamo, Rood», disse a un Segugio, il pelo malconcio e gli occhi gialli. «Prendi la tua stirpe e vattene. Riferisci a Tronod'Ombra che non tollererò altre ingerenze. La mia battaglia contro Malaz è solo mia. Darujhistan non è per te.» Rood era l'unico Segugio che non ringhiava. I suoi occhi incandescenti erano fissi in quelli del Tiste Andii. «Hai sentito il mio ammonimento, Rood.» Il Tiste Andii girò la testa e riportò la sua attenzione sul capitano. «Gear vorrebbe vederti morto.» «È il prezzo che pago per avere avuto pietà.» Il Tiste Andii sollevò un sopracciglio. Paran si strinse nelle spalle. «Vedi le sue cicatrici?» «Quello è stato un tuo errore, mortale. Devi finire ciò che hai iniziato.» «La prossima volta. E adesso che cosa succede?» «Per il momento, mortale, trovano l'idea di uccidere me più allettante di quella di sbranare te.» «E quante probabilità hanno?» «La risposta sta nella loro esitazione, non pensi, mortale?» I Segugi attaccarono a una velocità fulminea. Il cuore di Paran fece un balzo quando un turbine circondò l'altro uomo. Mentre il capitano indietreggiava, il buio esplose improvviso dietro i suoi occhi, pesanti catene schioccarono, immense ruote di legno scricchiolarono. Strinse gli occhi per combattere quel dolore insopportabile; quando li riaprì, scoprì che lo scontro era finito. Il Tiste Andii aveva la spada in mano, la lama nera macchiata di sangue - sangue che ribolliva e si trasformava rapidamente in cenere. Due Segugi giacevano immobili.
Paran vide che un Segugio era stato quasi decapitato, mentre l'altro aveva profonde ferite sull'ampio torace - non sembravano ferite letali, ma gli occhi della creatura, uno blu l'altro giallo, fissavano il cielo. Rood guaì e gli altri arretrarono. Paran sentì in bocca il sapore del sangue. Sputò, si portò una mano al viso e si accorse di perdere sangue dalle orecchie. Il dolore alla testa stava diminuendo. Sollevò lo sguardo nel momento in cui il Tiste Andii si girava verso di lui. Vedendo la morte negli occhi dell'uomo, Paran indietreggiò, cercando di sollevare la spada. Confuso, vide il Tiste Andii scuotere la testa. «Per un momento ho pensato... No, ora non vedo niente...» Paran batté gli occhi, mentre lacrime pungenti gli bagnavano le guance. Trasalì quando si accorse che le macchie lasciate dalle lacrime sulle braccia erano rosa. «Hai appena ucciso due Segugi dell'Ombra.» «Gli altri si sono ritirati.» «Chi sei?» Il Tiste Andii non rispose, la sua attenzione era stata nuovamente catturata dai Segugi. Dietro di essi, una nube d'ombra stava prendendo forma, più profonda e spessa al centro. Un momento dopo scomparve e al suo posto apparve una figura nera, celata, luminosa, le mani infilate nelle maniche. Le ombre coprivano il volto che si nascondeva dietro al cappuccio. Il Tiste Andii abbassò la punta della spada. «Li avevo avvisati, Tronod'Ombra. Voglio chiarire una cosa. Forse qui sarai anche alla mia altezza, soprattutto se la tua Fune si trova nei dintorni. Ma ti assicuro che se continuerai a interferire mi vendicherò. La tua esistenza, Tronod'Ombra, potrebbe diventare sgradevole. Non ho ancora perso la pazienza. Chiamati fuori dal gioco e nulla cambierà.» «Io non sono coinvolto», replicò Tronod'Ombra in tono tranquillo. «I miei Segugi hanno trovato il quadrello che cercavo. La caccia è finita.» Il dio girò la testa per osservare le due creature morte. «Per Doan e Ganrod è finita per sempre.» Tronod'Ombra sollevò lo sguardo. «Non c'è liberazione per loro?» «No. Non per chi cercherebbe vendetta.» Un sospiro emerse dall'oscurità del volto del dio. «Capisco. Come ho già detto, non sono coinvolto. Ma la Fune, sì.» «Chiamalo», ordinò il Tiste Andii. «Subito.» «Sarà molto contrariato, Anomander Rake. I suoi piani vanno ben oltre Darujhistan; mirano infatti al trono di Malazan.»
Anomander Rake... Paran ricordò le parole di Tattersail dopo avere interrogato il Mazzo dei Draghi. Il Cavaliere dell'Alta Casa dell'Oscurità, il Figlio dell'Oscurità, il signore con la spada nera e le catene mortali. Padrone della Progenie della Luna, così pensava Tattersail. La donna aveva visto quell'incontro fra l'Ombra e l'Oscurità, il sangue versato... «Io combatto le mie battaglie», ringhiò Rake. «E preferisco avere a che fare con colei che siede sul trono Malazan piuttosto che con un servo dell'Ombra. Chiamalo.» «Un'ultima cosa», disse Tronod'Ombra in tono divertito. «Ricordati che non sono responsabile di eventuali iniziative che la Fune prenderà contro di te.» «Convincilo a seguire la strada del Saggio. Non ho tempo da sprecare con i vostri giochetti. Se troverò ancora sul mio cammino te, i tuoi Segugi o la Fune, attaccherò il Regno dell'Ombra e a quel punto sarà difficile per te cercare di fermarmi.» «L'astuzia non è il tuo forte», commentò il dio, sospirando. «Molto bene.» Tacque un istante e ombre strisciarono intorno a lui. «È stato richiamato. Hai di nuovo campo libero, Anomander Rake. L'Impero Malazan è tutto tuo, così come Oponn», aggiunse Tronod'Ombra. «Oponn?» Rake girò lentamente la testa e il capitano si ritrovò a guardare occhi di un azzurro di ghiaccio. Lo sguardo del Tiste Andii cadde sulla spada, poi tornò sul dio. «Vattene», ordinò Rake. «La questione è conclusa.» Tronod'Ombra chinò il capo. «Per ora.» Il dio sollevò le mani e le ombre si raccolsero intorno a lui. I Segugi sopravvissuti si avvicinarono, lasciando i corpi dei loro fratelli dove si trovavano. Le ombre si addensarono, divennero opache, fino a nascondere totalmente dio e cani. Quando si dispersero, di Tronod'Ombra e dei suoi fedeli Segugi non c'era più traccia. Paran fissò il Tiste Andii che si girò verso di lui. Dopo qualche istante, il capitano si strinse nelle spalle. Rake aggrottò la fronte. «Tutto qua?» domandò. «Non hai altri commenti da fare? Parlo direttamente con Oponn? Mi era sembrato di avvertire una presenza, ma quando ho guardato più attentamente non ho visto niente.» Spostò la spada nell'altra mano, sollevando la punta. «Ti nascondi dentro di lui, Oponn?» «Non che io sappia», rispose Paran. «Pare che Oponn mi abbia salvato la vita, o meglio, mi abbia restituito la vita. Non so il perché, ma mi è stato detto che sono diventato uno strumento di Oponn.»
«Stai andando a Darujhistan?» Paran annuì. «Posso avvicinarmi?» chiese Rake, rinfoderando la spada. «Perché no?» Il Tiste Andii gli fu subito accanto e posò una mano sul petto del giovane. Paran non sentì niente. Rake arretrò. «Oponn forse è stato dentro di te in passato, ma sembra che i Gemelli si siano ritirati in tutta fretta. Ne ho individuato le tracce, ma ora nessun dio ti controlla, mortale.» Esitò. «Non ti hanno trattato molto bene. Se Caladan Brood fosse qui potrebbe curare quella... Tu non sei più uno strumento di Oponn.» Gli occhi del Tiste si accesero divenendo color del cielo. «Ma la tua spada, sì.» Un grido rauco ruppe il silenzio. I due uomini si girarono e videro un Grande Corvo posarsi su uno dei Segugi morti. Gli strappò un occhio e lo ingoiò. Paran trattene a stento un conato di vomito. L'immenso uccello saltellò verso di loro. «La spada di quest'uomo, Signore», disse il corvo, «temo non sia l'unico strumento di Oponn». Paran scosse la testa, sorpreso soltanto che niente ormai potesse più sorprenderlo. Rinfoderò la spada. «Parla, Crone», ordinò Rake. Con un gesto della testa il corvo indicò Paran. «Qui, Signore?» Rake aggrottò la fronte. «Forse no.» Si rivolse ancora una volta al capitano. «Fidati di quella spada fino a quando la fortuna non ti abbandonerà. Quando accadrà, e se sarai ancora vivo, spezzala o dalla al tuo peggior nemico.» Un sorriso gli illuminò il volto. «Fino ad adesso pare che la fortuna ti sia rimasta accanto.» Paran esitò. «Sono libero di andare?» Lord Anomander Rake annuì. Il capitano si guardò intorno, poi si allontanò alla ricerca dei cavalli. *** Qualche istante dopo, la terribile scoperta ridusse Paran in ginocchio. Toc non c'era più. Era stato lui a trascinarlo in quell'assurdo inseguimento attraverso la pianura. Sollevò gli occhi al cielo, guardando nel vuoto. Proclamò Hairlock suo nemico e la morte di Lorn il suo obiettivo finale, quasi così facendo potesse scacciare l'angoscia che provava dentro di sé, potesse sconfiggere il dolore della perdita. Ma il demone è dentro di me.
«Oponn non lo aveva trattato bene... Che cosa aveva voluto dire Rake? Qualcuno di questi pensieri è forse mio? Guardati - ogni tua mossa sembra una caccia disperata alla ricerca di qualcuno da biasimare, sempre qualcun altro. Hai usato il fatto di essere diventato lo strumento di un dio come una scusa, una giustificazione per non pensare, per limitarti a reagire. E altri sono morti per questo.» Rake aveva anche detto: «Finisci quello che hai iniziato». Avrebbe dovuto occuparsi dei suoi demoni in un secondo tempo. Non poteva tornare indietro. Ma aveva sbagliato a pensare che ciò che aveva pianificato avrebbe posto fine al dolore che sentiva dentro di sé. Aggiungere il sangue di Lorn alle sue mani già sporche non gli avrebbe permesso di ottenere ciò che cercava. Si alzò, prese le redini dei cavalli sopravvissuti e li condusse sul luogo della battaglia. Il Tiste Andii era scomparso, ma i Segugi erano ancora là, figure nere e immobili nell'erba secca. Lasciò andare le redini e si avvicinò a un cane. Dalla ferita nel torace usciva ancora sangue. Accovacciatosi, Paran allungò una mano e lasciò scivolare le dita sul fianco dell'animale. Hai visto dove ti ha portato il desiderio di morte? Per il respiro di Hood, eri una bestia così bella. Le dita toccarono il sangue. Il capitano arretrò al contatto, ma era troppo tardi. Qualcosa strisciò sul suo braccio, dentro di lui. Cadde indietro nell'oscurità, il suono delle catene nelle orecchie. Paran si ritrovò a camminare e non era solo. Attraverso il buio distinse delle figure che lo circondavano su tutti i lati, figure curve sotto il peso delle catene che si trascinavano dietro. La terra era arida, brulla, senza vita. L'oscurità era ovunque. Oltre al rumore metallico delle catene, Paran avvertiva un altro suono, più profondo. Si diresse verso la fonte del suono superando creature incatenate, molte delle quali non appartenevano alla razza umana. Apparve una forma, gigantesca, oscura. Un carro di dimensioni enormi, dalle ruote più alte di un uomo. Spinto da un irrefrenabile desiderio di scoprire che cosa trasportasse, Paran si avvicinò. Una catena lo colpì al petto, gettandolo a terra. Un penetrante ululato risuonò sopra di lui. Lunghi artigli penetrarono nel suo braccio destro, inchiodandolo al suolo. Una catena strisciò sotto la sua schiena. Si dimenò quando sentì sotto il mento denti aguzzi e un naso freddo e umido. Le fauci si aprirono, gli scivolarono intorno al collo, poi si chiusero. Paran giaceva perfettamente immobile, in attesa dello schiocco fatale di quelle fauci. Ma a un tratto, la presa si allentò e il giovane si ritrovò a fissare gli occhi di un Segugio, uno azzurro, uno marrone. Un massiccio col-
lare di ferro circondava il collo della bestia, che indietreggiò. Un forte strattone richiamò la catena sotto Paran, facendolo volare in aria. Atterrò lungo disteso in uno dei solchi delle ruote di legno del grande carro. Una mano lo afferrò per la collottola e lo trascinò via. Il capitano si alzò faticosamente in piedi. Una voce dietro di lui parlò. «Un uomo che ha suscitato la pietà di un Segugio e che cammina senza catene in questa terra è un uomo con il quale vale la pena incontrarsi. Vieni con me.» L'ombra di un cappuccio nascondeva i lineamenti dello sconosciuto. L'uomo era alto, vestito di stracci. Lasciò Paran e riprese a tirare le sue catene. «Mai prima d'ora», brontolò, «questa prigione è stata messa alla prova». Indietreggiò, quando il vagone si piegò pericolosamente su un lato trascinato dal frenetico tentativo di fuga del Segugio. «Ho paura che si ribalterà.» «E se dovesse succedere?» Il viso si girò verso il giovane e nell'oscurità, Paran vide il bagliore dei denti. «Trascinarlo diventerà più difficile.» «Dove siamo?» «Nel Canale dentro la Spada. Dragnipur non ha preso anche la tua vita?» «Se così fosse, non sarei incatenato anch'io?» «Hai ragione. E allora, che cosa ci fai qui?» «Non lo so», ammise Paran. «Ho visto i Segugi uccisi dalla spada di Rake e ho toccato il sangue di una delle bestie senza vita.» «Ecco spiegata la loro confusione. All'inizio ti hanno scambiato per uno di loro. Sei stato saggio a sottometterti alla provocazione di quel Segugio.» «Più che altro ero troppo spaventato per muovermi.» Lo sconosciuto scoppiò a ridere. «L'importante è il risultato.» «Qual è il tuo nome?» «I nomi non significano nulla. Rake mi ha ucciso. Tempo fa. È tutto.» Paran tacque. Imprigionato qui per l'eternità, condannato a tirare una catena. E io gli ho chiesto come si chiama. Come posso scusarmi? Il vagone sobbalzò pericolosamente; la terra schizzò via sotto le pesanti ruote. Dei corpi caddero, gemendo. I Segugi ulularono la loro rabbia. «Per il respiro di Gethol», sussultò lo sconosciuto. «Non smetteranno mai?» «Non credo», affermò Paran. «Quelle catene possono essere spezzate?» «No. Per lo meno, nessuno ci è mai riuscito. E fra di noi ci sono anche dei draghi. Ma questi Segugi...» Sospirò. «È incredibile, ma anelo alla pa-
ce distrutta dal loro arrivo.» «Forse posso aiutarvi.» Lo straniero non trattenne una risata. «Prova pure.» Paran si allontanò, dirigendosi verso i Segugi. Non aveva in mente nessun piano. Ma sono l'unico senza catene. Il pensiero lo fece fermare di colpo e portò un sorriso sulle sue labbra. Senza catene. Non sono lo strumento di nessuno. Riprese ad avanzare, pensieroso. Superò figure che si trascinavano faticosamente, alcuni in silenzio, altre sconvolte dalla pazzia. Nessuna sollevò la testa al suo passaggio. Il respiro ansante delle bestie risuonava nell'aria. «Segugi!» gridò. «Voglio aiutarvi!» Trascorsero alcuni minuti e finalmente gli animali emersero dall'oscurità. Avevano spalle e torace coperti di sangue, la carne strappata e maciullata dal collare. Tremavano. I loro occhi, alla stessa altezza di quelli di Paran, esprimevano una tale mesta rassegnazione che il giovane sentì il cuore balzargli in gola. Si rivolse a quello dagli occhi bicolori. «Posso esaminare i vostri collari e le catene alla ricerca di un difetto, un'imperfezione», disse loro. Il Segugio si avvicinò. Paran lasciò scivolare le mani sul collare, alla ricerca di una giuntura. Non c'era. Catena e collare sembravano un pezzo unico. Per quanto conoscesse poco l'arte del fabbro, sapeva che il punto di collegamento tra collare e catena doveva essere quello più debole e avrebbe dovuto già mostrare segni di usura. Ma così non era. Il ferro era perfetto. Paran fece scorrere la mano lungo la catena, allontanandosi dall'animale. Si accorse che gli altri Segugi seguivano ogni suo movimento, ma non si fermò. Dall'animale al carro, per una lunghezza superiore alle settanta braccia, lasciò scivolare le dita da un anello all'altro, alla ricerca di un punto di fusione, una scanalatura, un assottigliamento dello spessore del ferro. Niente. Arrivò accanto al carro. La ruota era di legno massiccio, perfetta. Le fiancate erano alte più di venti piedi. La distanza tra una tavola laterale e l'altra era appena sufficiente per fare passare un dito. Paran balzò indietro nel vedere dita scheletriche affollare le fessure. Fu la struttura sotto le assi laterali ad attirare la sua attenzione. Lì, il legno era nero, ricoperto di pece. Le estremità delle catene s'infilavano dentro, affondavano nel legno prive di alcuna giuntura. Sotto la mano, la struttura sembrava robusta, eppure era come se gli anelli della catena passassero attraverso di essa - ciò significava che la catena era agganciata a qualcosa al di là del telaio del carro. Paran trasse un respiro profondo e s'infilò
sotto il carro. La trave portante della struttura era spessa una dozzina di pollici; dal fondo impeciato, gocce di condensa colavano in una pioggia continua. Lungo il bordo interno, Paran ritrovò le catene, che proseguivano sotto il carro. Ne afferrò una e la seguì. Gli anelli divennero più freddi, come l'aria intorno a lui. Dopo pochi istanti dovette abbandonare la presa, le mani bruciate dal freddo. La pioggia cadeva dalla parte inferiore del carro in gocce di ghiaccio. Due passi più avanti, le catene convergevano, inghiottite da una pozza sospesa di oscurità totale. Un'aria gelida scendeva in rapide ondate. Paran non poté avvicinarsi di più. Frustrato, avanzò lungo la parte opposta della pozza, confuso sul da farsi. Anche se fosse riuscito a spezzare una catena, non sapeva quale fosse quella che legava i Segugi. Per quanto riguardava gli altri... Anomander Rake sembrava un uomo che sapeva applicare la giustizia, per quanto potesse essere implacabile. Spezzare una catena avrebbe potuto significare liberare antichi orrori sul regno dei viventi. Anche lo sconosciuto con cui aveva parlato poteva essere stato un Tiranno, un feroce dominatore. Paran sguainò Fortuna. Appena la lama ebbe abbandonato il fodero, si agitò fra le mani del giovane. Il capitano sorrise, nonostante brividi di paura gli gelassero il sangue. «Oponn! Gemelli, io vi chiamo! Adesso!» L'aria gemette. Paran inciampò su qualcuno, che imprecò pesantemente. Ringuainata la spada, il capitano allungò un braccio e la mano si chiuse su un broccato. «Perché tu?» domandò Paran. «Volevo tua sorella.» «La tua è una follia, mortale!» sbottò il Gemello. «Chiamarmi qui! Vicino alla Regina dell'Oscurità - qui, in una spada ammazza-dei.» Paran lo afferrò, scuotendolo violentemente. In preda a una rabbia furibonda, bestiale, il capitano scosse il dio. Sentì i Segugi ululare e soffocò un improvviso desiderio di unire la sua voce al loro coro. Il Gemello, terrorizzato, ghermì Paran. «Che cosa... che cosa stai facendo?» Paran si fermò, gli occhi puntati su due catene allentate. «Stanno arrivando.» Il carro sembrava stesse per spiccare un salto, ondeggiando come mai aveva fatto. Il rombo dell'impatto riempì l'aria e una cascata di legno e ghiaccio si riversò a terra. «Hanno sentito il tuo odore, Gemello.» Il dio gridò, sferrò un pugno in faccia a Paran, lo graffiò, lo prese a calci, ma il capitano non mollò la presa.
«Ti prego!» implorò il Gemello. «Qualsiasi cosa! Chiedimi tutto quello che vuoi!» «Le catene dei Segugi», disse Paran. «Spezzale.» «Io... io non posso!» Il carro riprese a vacillare sotto una pioggia di violenti colpi. «Fatti venire in mente qualcosa, o ti darò in pasto ai Segugi», minacciò Paran. «Io... non ne sono sicuro, Paran.» «Non sei sicuro, di che cosa?» Il Gemello indicò l'oscurità. «Là dentro. Le catene sono bloccate là dentro - dentro il Canale dell'Oscurità, dentro Kurald Galain. Se i cani dovessero entrare... non lo so, non ne sono sicuro, ma le catene potrebbero scomparire.» «Come fanno a entrare?» «Potrebbero lasciare un incubo solo per trovarne un altro.» «Niente può essere peggiore di questo posto, Gemello. Ti ho chiesto, come?» «Adescali.» «Come?» Il Gemello sorrise, tremante. «Come hai detto, stanno arrivando. Ma Paran, devi lasciarmi andare. Tienimi davanti al portale, ma ti prego, all'ultimo momento...» «Ti lascerò andare.» Il dio annuì. «Molto bene.» I Segugi colpirono nuovamente il carro e questa volta riuscirono ad aprirsi un varco. Paran si girò e vide le bestie emergere dall'oscurità. Il Gemello gridò. I Segugi spiccarono il salto. Paran lasciò il dio, che cadde a terra lungo disteso mentre i Segugi passavano attraverso l'aria soprastante. Il Gemello svanì. I Segugi scomparvero nel portale. Paran si allontanò, mentre l'oscurità lo sfiorava non con il freddo dell'oblio ma con un vento caldo. Aprì gli occhi e si ritrovò a bocconi nella pianura, accanto a una chiazza di erba schiacciata dove prima giaceva il corpo di un Segugio. Gli insetti ronzavano intorno a lui. La testa che gli martellava, Paran si alzò in piedi. Anche il corpo dell'altro Segugio era scomparso. Che cosa aveva fatto? E perché? Fra tutte le cose che il Gemello avrebbe potuto offrirgli... Tatter-
sail... Toc il Giovane... Ma poi ricordò, riportare indietro un'anima attraverso la Porta di Hood non rientrava nei poteri di Oponn. Aveva liberato i Segugi? Probabilmente non lo avrebbe mai saputo. Avanzò barcollando verso i cavalli. Per lo meno, per lo spazio di un attimo, era stato libero dalle catene. E ciò che aveva fatto lo aveva fatto per sua libera scelta. Per mia scelta. Volse lo sguardo a sud. Darujhistan e l'Aggiunto ti aspettano. Finisci ciò che hai iniziato, Paran. Finiscilo una volta per tutte. *** «Dannatamente inopportuna», brontolò Coll, mentre Crokus completava il bendaggio. «Era brava», aggiunse. «Sapeva quello che faceva. Deve essere stata addestrata. Probabilmente era una mercenaria.» «Io continuo a non capire», affermò Crokus, sedendosi. Lanciò un'occhiata a Murillio e Kruppe. Entrambi erano ancora privi di conoscenza. «Perché ci ha attaccati? E perché non mi ha ucciso?» Coll non rispose. Restò immobile a guardare il suo cavallo che brucava placidamente a pochi passi da lui. Lo aveva già coperto di insulti e Crokus sospettava che il loro rapporto era ormai, come avrebbe detto Kruppe, irrimediabilmente compromesso. «Chi è quella?» borbottò Coll, la fronte aggrottata. Crokus si accorse che l'uomo guardava oltre il cavallo. Sollevò lo sguardo, lanciò un grido selvaggio e balzò in piedi afferrando i pugnali. Lo stivale finì sotto un sasso e il giovane inciampò, finendo a terra. Si rialzò subito, i coltelli in mano. «È lei!» urlò. «È la donna della locanda! È un sicario, Coll.» «Tranquillo, ragazzo», disse Coll. «Non sembra per niente pericolosa, nonostante la spada sul fianco. Anzi», aggiunse raddrizzandosi, «direi che sembra totalmente smarrita». Crokus guardò la donna sulla sommità della collina. «Per il respiro di Hood», mormorò. Coll aveva ragione. Non aveva mai visto nessuno così confuso, disorientato. Li fissava con sguardo terrorizzato. La sicurezza, la strafottenza che aveva sfoggiato alla Locanda della Fenice erano scomparse. Crokus rinfoderò il pugnale. «E adesso che cosa facciamo, Coll?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Tranquillizziamo la ragazza, direi. Penso abbia bisogno di aiuto.»
«Ma ha ucciso Chert», insistette Crokus. «Ho visto il sangue sul suo coltello.» Coll osservò la fanciulla. «Non lo metto in dubbio, ma quella ragazza non sembra capace di uccidere nessuno.» «E pensi che non me ne sia accorto?» ribatté Crokus. «Ti dico solo quello che ho visto. So che non ha senso!» Coll sospirò. «Comunque sia, ha chiaramente bisogno del nostro aiuto. Vai e portala qui, Crokus.» Il ragazzo sollevò le mani al cielo. «E come faccio?» «Lo sapessi», rispose Coll. Poi, un sorriso gli illuminò il viso. «Prova a farle la corte.» Crokus lanciò all'amico un'occhiata disgustata ma poi si alzò e si diresse verso la ragazza. Lei s'irrigidì e indietreggiò. «Attenta!» gridò Crokus, puntando il dito dietro di lei. La fanciulla si accorse di essere sull'orlo di un dirupo. Stranamente, quella scoperta sembrò rilassarla. Avanzò di pochi passi verso Crokus, i grandi occhi che cercavano quelli del ragazzo. «Così va meglio», mormorò Crokus. «Stai tranquilla, va tutto bene. Mi capisci?» Indicò la bocca e si aiutò con i gesti. Coll gemette. La ragazza li sorprese entrambi rispondendo in Daru. «Ti capisco», disse con voce esitante. «Non sei Malazan, non parli Malazan, ma ti capisco.» Aggrottò la fronte. «Come mai?» «Malazan, eh?» disse Coll. «E da dove vieni?» Lei ci pensò un attimo prima di rispondere. «Da Itko Kan», disse infine. «Che cosa?» Coll scoppiò a ridere. «E che cosa ti ha portata fino a qua?» La preoccupazione le oscurò il viso. «Dov'è mio padre? Che cosa è successo alle reti? Ho comprato le funi e c'era la Veggente - Riggalai la Veggente, la strega della cera. Mi ricordo di lei - è morta!» La ragazza cadde in ginocchio. «È morta. E poi...» L'espressione di Coll era grave, assorta. «E poi?» «Non ricordo», sussurrò la ragazza, guardandosi le mani. «Non ricordo nient'altro.» Scoppiò a piangere. «Per tutti i capezzoli di Gedderone», imprecò Coll, facendo cenno a Crokus di avvicinarsi. «Ascoltami bene, ragazzo. Non aspettarci. Porta questa ragazza da tuo zio. Portala da Mammot, e velocemente.» «Perché?» domandò il ragazzo, confuso. «Non posso lasciarvi qui, Coll. Non sappiamo quando Murillio e Kruppe riprenderanno conoscenza. E se
la mercenaria dovesse tornare?» «E allora?» ribatté Coll in tono mordace. Crokus arrossì e distolse lo sguardo. «Murillio è un bastardo dalla pelle dura, nonostante si faccia il bagno nel profumo», disse Coll. «In men che non si dica sarà in perfetta forma. Porta la ragazza da tuo zio, Crokus. Fa' come ti dico.» «Non mi hai ancora spiegato perché», insistette Crokus. «È solo un sospetto, nient'altro.» Coll afferrò il ragazzo per le spalle. «Questa ragazza è stata posseduta. Penso. Qualcuno, qualcosa, l'ha portata qui, a Darujhistan, e l'ha messa sul nostro cammino. La verità è da qualche parte nella sua mente, Crokus, e potrebbe essere di vitale importanza. Tuo zio ha le conoscenze giuste, persone che possono aiutarla. Sella il mio cavallo. Io resterò qui ad aspettare che i nostri amici si sveglino. Tanto non posso camminare. Kruppe e Murillio si occuperanno di me. Vai!» Crokus lanciò un'occhiata alla ragazza in lacrime. «Va bene», disse infine. «La porto a Darujhistan.» «Bene», borbottò Coll. «Lasciami una coperta e del cibo. Poi lancia il cavallo al galoppo e se quell'animale dovesse schiattare davanti alla porta della città, tanto meglio. Adesso vai, ragazzo.» CAPITOLO SEDICESIMO Dessembrae conosce i dolori nei nostri animi Cammina a fianco di ogni mortale ricettacolo di rimpianti che riposa sui fuochi della vendetta. Dessembrae conosce i dolori, e ora vorrebbe condividerli con noi tutti. Il Signore della Tragedia Preghiera del Libro Sacro (Canone di Kassal) La ferita a forma di foro nella spalla sinistra di Lorn non era profonda. Senza il supporto della magia, però, il rischio di infezione era preoccupante. Tornando al campo, la donna trovò Tool nello stesso punto in cui stava dall'alba.
Ignorando l'Imass, l'Aggiunto recuperò la sua raccolta di erbe nella bisaccia. Si sedette, si appoggiò alla sella e cominciò a curare la ferita. Il suo attacco era stato sciocco, inutile. Di recente, si erano accumulate troppe cose, troppe idee, troppe interferenze della donna Lorn con le funzioni e i doveri dell'Aggiunto dell'Imperatrice. Stava commettendo errori che, un anno prima, avrebbe evitato. Toll le aveva dato più argomenti di meditazione di quanti non fosse in grado di gestire. Le parole che l'Imass aveva lasciato cadere ai suoi piedi avevano toccato un recesso profondo del suo animo, e lo stringevano in una morsa. Le emozioni la pervadevano, offuscando il mondo circostante. Da molto tempo aveva abbandonato il dolore, insieme al rimpianto. La compassione era anatema, per lei. E ora, tutti questi sentimenti la invadevano a ondate, scuotendola da tutte le parti. Si scoprì aggrappata al titolo di Aggiunto, e a ciò che significava, come se fosse il suo unico legame con la stabilità, la sanità mentale, il controllo. Finì di ripulire la ferita come meglio poteva, poi preparò un impiastro. Il controllo. La parola rimbalzò nella sua mente, netta, dura. Cosa c'era al cuore dell'Impero, se non il controllo? Che cosa plasmava ogni atto, ogni pensiero dell'Imperatrice Laseen? E cosa c'era stato al cuore del primissimo Impero - delle grandi guerre che, a tutt'oggi, influenzavano la forma dei T'lan Imass? Sospirò, abbassando lo sguardo sul terriccio. Ma tutti quanti cerchiamo la stessa cosa, si disse. Da una ragazza che porta la corda per le reti al padre, a casa, al potere immortale che se n'era impossessato per i propri fini. Dalla nascita alla morte, ci sforziamo di ottenere il controllo; una ricerca eterna, disperata del modo di modellare il mondo intorno a noi, del privilegio di poter prevedere la forma delle nostre vite. L'Imass e le sue parole vecchie di trecentomila anni avevano infuso in Lorn un senso di futilità, che minacciava di sopraffarla. Aveva risparmiato la vita al ragazzo, sorprendendo sia lui che se stessa. Fece un mesto sorriso. Il privilegio della predizione le era ormai estraneo. Non riusciva nemmeno a penetrare le proprie azioni, o il corso dei propri pensieri; figuriamoci il mondo esterno. Era questa la vera natura dell'emozione? si chiese. La grande sfida alla logica, al controllo - il capriccio della natura umana. Che cosa le riservava il futuro? «Aggiunto.» Lorn trasalì; alzando lo sguardo, vide Tool torreggiare su di lei. Il guer-
riero era coperto di ghiaccio, che evaporava nell'aria calda. «Sei stata ferita.» «Una scaramuccia», ribatté lei brusca, quasi imbarazzata. «È tutto finito.» Si premette l'impiastro contro la ferita, poi si avvolse un panno intorno alla spalla. Avere l'uso di una mano sola rendeva goffi i suoi gesti. Tool si inginocchiò accanto a lei. «Ti aiuto, Aggiunto.» Stupita, Lorn studiò il volto di morte del guerriero. Ma le parole successive dell'Imass spazzarono via ogni sospetto che egli stesse dimostrando compassione. «Abbiamo poco tempo, Aggiunto. L'apertura ci aspetta.» Lei sentì una maschera inespressiva ricoprirle il viso. Annuì di scatto con la testa quando Tool finì il suo lavoro, legando abilmente le estremità del panno in un nodo, con le mani lacere, avvizzite, dalle unghie curve, smussate, color marrone lucente. «Aiutami ad alzarmi», ordinò. Il contrassegno era andato distrutto, vide, mentre l'Imass la portava avanti. A parte questo, però, tutto sembrava immutato. «Dov'è quest'apertura?» indagò. Tool si fermò davanti alle pietre rotte. «Ti farò da guida, Aggiunto. Seguimi dappresso. Quando saremo dentro la tomba, sguaina la spada. L'effetto attenuante sarà minimo, ma rallenterà il risveglio dello Jaghut; abbastanza, almeno, perché possiamo portare a termine i nostri sforzi.» Lorn tirò un respiro profondo. Scrollò le spalle per allontanare i dubbi. Non c'era più modo di tornare indietro. Ma era mai esistita una simile possibilità? La domanda, si rese conto, era puramente accademica: ormai la rotta era stata tracciata per lei. «Benissimo», rispose. «Procediamo, Tool.» L'Imass allargò le braccia, perpendicolarmente ai fianchi. Di fronte a loro, il fianco della collina si annebbiò, come velato da una cortina di sabbia. Un vento tempestoso infuriava in quella strana foschia. Tool fece un passo avanti. Lorn lo seguì, ma subito arretrò davanti al puzzo che le invase le narici, un puzzo d'aria avvelenata da secoli di palpitante magia, da innumerevoli difese incantate disperse dai poteri Tellan di Tool. Si costrinse ad avanzare, gli occhi fissi sulla schiena ampia, sbrindellata dell'Imass. Entrarono dentro al pendio. Davanti a loro apparve un rozzo corridoio, che conduceva nel buio. Brina bordava i massi accostati che formavano il soffitto e le pareti. Man mano che procedevano, l'aria si fece pungente, priva di odori, e strisce di folto muschio verde e di candido ghiaccio rivestirono i muri. Il pavimento cambiò dalla terra compressa, gelata, a lastre
di pietra, viscide di ghiaccio. Le estremità e il viso di Lorn si intorpidirono. Il suo respiro si condensò in un flusso bianco, risucchiato dall'oscurità che giaceva innanzi. Il corridoio si restrinse, e lei vide strani simboli dipinti sopra e dentro il ghiaccio che venava i muri, color ocra spento. Questi motivi smossero in lei qualcosa di profondo - per poco non li riconobbe, ma non appena si sforzò di ricordare, il senso di familiarità scomparve. Tool parlò. «La mia gente è già stata qui», annunciò, fermandosi e girando la testa verso l'Aggiunto. «Ha aggiunto le proprie difese a quelle degli Jaghut che imprigionarono il Tiranno.» Lorn era irritata. «E allora?» L'Imass la fissò in silenzio, poi replicò, in tono opaco: «Aggiunto, credo di conoscere il nome di questo Tiranno Jaghut. E ora sono assillato dai dubbi. Non dovrebbe essere liberato. Però, come te, sono vittima di una costrizione». Lorn sentì il respiro fermarsi in gola. «Aggiunto», continuò Tool, «riconosco la tua ambivalenza. La provo anch'io. Alla fine del nostro lavoro, me ne andrò». La donna era confusa. «Te ne andrai?» Tool annuì. «Dentro a questa tomba, e con quello che faremo, i miei voti saranno adempiuti. Non sarò più legato agli obblighi che lo Jaghut addormentato mi impone. E di questo, sarò grato.» «Perché mi dici queste cose?» «Aggiunto, sarò felice se mi accompagnerai.» Lorn aprì la bocca, ma poiché non riusciva a pensare a nessuna risposta immediata, la richiuse subito. «Ti chiedo di esaminare la mia proposta, Aggiunto. Viaggerò in cerca di una risposta, e la troverò.» Una risposta? A cosa? voleva chiedere lei. Ma la fermò un'ondata di paura, che le disse: meglio non sapere; meglio restare ignari. «Andiamo avanti», intimò, aspra. Tool riprese la marcia nel buio. Dopo un minuto, Lorn domandò: «Quanto tempo ci vorrà?». «Tempo?» la voce dell'Imass era divertita. «In questo tumulo, Aggiunto, il tempo non esiste. Gli Jaghut che hanno imprigionato il membro della loro razza hanno portato in questa terra un'era glaciale, il sigillo definitivo del tumulo. Sopra a questa camera funeraria si erge mezza lega di ghiaccio. Siamo arrivati in un'epoca e in un luogo precedenti allo scioglimento
dei ghiacci Jaghut, precedenti alla venuta del grande mare interno noto agli Imass come Jhagra Til, precedenti al trascorrere di innumerevoli ere...» «E quando torneremo indietro?» lo interruppe Lorn. «Quanto tempo sarà passato?» «Non sono in grado di dirlo, Aggiunto.» L'Imass si arrestò e si voltò verso di lei; le sue orbite oculari brillavano di una luce senza origine. «Non ho mai fatto una cosa del genere.» *** Malgrado l'armatura di cuoio indurito, la sensazione di una donna appoggiata alla sua schiena aveva fatto salire al viso di Crokus più sudore di quanto non giustificasse il calore del pomeriggio. Tuttavia, era un misto di sensazioni quello che gli faceva martellare il cuore contro il petto. Da una parte, c'era il fatto nudo e crudo di avere strette intorno alla vita le braccia sorprendentemente forti di una ragazza quasi sua coetanea, per giunta attraente, nonché, sul collo, il suo alito caldo, umido. D'altra parte, costei aveva ucciso un uomo, e l'unica ragione plausibile per il suo arrivo sulla scena là, fra le colline, era che intendesse uccidere anche lui. Per cui, era troppo teso per godersi quella cavalcata condivisa. Da quando avevano lasciato Coll, si erano scambiati poche parole. Nel giro di un'altra giornata, Crokus sapeva, le mura di Darujhistan sarebbero sorte alla vista. Si chiese se lei si sarebbe ricordata della città. E poi, nella sua mente risuonò una voce del tutto simile a quella di Coll: Perché non glielo chiedi, idiota? Crokus corrugò la fronte. La ragazza parlò per prima. «Itko Kan è lontana da qui?» Lui stava per scoppiare a ridere ma qualcosa - un istinto - lo fermò. Vai con i piedi di piombo, si raccomandò. «Non ho mai sentito di un posto del genere», ribatté. «Si trova nell'Impero Malazan?» «Sì. Non siamo nell'Impero?» «Non ancora», ringhiò Crokus. Le sue spalle si afflosciarono. «Siamo su un continente chiamato Genabackis. I Malazan sono venuti dai mari a est e a ovest, e ora controllano tutte le Città Libere del nord, oltre alla Confederazione Nathilog.» «Oh», mormorò la ragazza. «Siete in guerra con l'Impero, allora.» «Più o meno, anche se non si direbbe mai, per quanto riguarda Darujhistan.» «È il nome del paese in cui vivi?»
«Paese? Darujhistan è una città. La città più grande, più ricca di tutta la regione.» Il tono di lei era pervaso di eccitazione e di timore reverenziale. «Una città. Non sono mai stata in una città. Tu ti chiami Crokus, vero?» «Come fai a saperlo?» «Il tuo amico soldato ti ha chiamato così.» «Oh, certo.» Perché il fatto che lei conoscesse il suo nome gli faceva balzare il cuore? «Non mi chiedi come mi chiamo io?» domandò sommessamente la ragazza. «Te lo ricordi?» «No», ammise lei. «È strano, no?» Il pathos nella sua risposta gli sciolse qualcosa dentro - facendolo arrabbiare ancor di più. «Be', in questo non posso proprio aiutarti.» La ragazza sembrò ritrarsi, e le sue braccia allentarono la stretta. «No.» La rabbia scemò di colpo. Crokus voleva urlare contro il caos che aveva in testa. Invece, si spostò sulla sella, costringendola ad afferrarlo saldamente. «Ah, così va meglio», bisbigliò, con un sorriso compiaciuto. Poi i suoi occhi si allargarono. Che cosa sto dicendo? «Crokus?» «Eh?» «Dammi un nome di Darujhistan. Scegline uno. Scegli quello che ti piace di più.» «Challice», replicò subito lui. «No, aspetta! Non puoi essere Challice. Conosco già una Challice. Devi essere qualcun altro.» «È la tua ragazza?» «No!» sbottò Crokus. Tirò le redini per fermare il cavallo. Si passò una mano fra i capelli, poi allungò una gamba verso il basso e si lasciò scivolare a terra. Fece passare le redini sopra la testa della bestia. «Voglio camminare», annunciò. «Sì», approvò lei. «Anch'io.» «Be', allora forse voglio correre!» La ragazza gli si mise davanti, con espressione turbata. «Correre? Lontano da me, Crokus?» Lui vide cose cadere in rovina dietro gli occhi di lei - ma quali cose? Provava il bisogno disperato di sapere, ma fare una domanda diretta era impossibile. Perché fosse impossibile, non lo sapeva. Era così, e basta. Abbassando lo sguardo a terra, diede un calcio a una pietra. «No», borbot-
tò. «Non intendevo quello. Mi dispiace.» Lei sgranò gli occhi. «Ecco come mi chiamavo, Crokus!» ansimò. «Dispiacere!» «Come?» Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. «Sì!» Lei distolse lo sguardo. «Però, non è sempre stato il mio nome, credo. No. Non era il nome che mi aveva dato mio padre.» «Quello te lo ricordi?» La ragazza scosse la testa e si accarezzò i capelli lunghi e scuri. Crokus prese a camminare, e lei si avviò al suo fianco. La strada scendeva tortuosa attraverso le basse colline. Nel giro di un'ora, avrebbero raggiunto il Ponte Catlin, le disse. Il panico che l'aveva attanagliato sembrava essersi esaurito. Si sentiva rilassato, e la cosa lo sorprendeva, perché non ricordava l'ultima volta in cui si era sentito rilassato in compagnia femminile. Procedettero in silenzio per un po'. Davanti a loro, il sole tramontava in una vampa dorata, sopra una luccicante linea blu e verde all'orizzonte, oltre le colline. Crokus la indicò col dito. «Quello è il Lago Azzurro. Darujhistan si trova sulla riva meridionale.» «Non hai ancora pensato a un nome per me?» ribadì la ragazza. «L'unico che mi viene in mente», rispose lui, imbarazzato, «è quello della mia patrona». Lei gli lanciò un'occhiata. «La patrona della tua città?» Crokus rise. «No, intendevo la Signora dei Ladri, Apsalar. Però non si può usare il suo nome, perché è una dea. Che ne dici di Salar?» Lei arricciò il naso. «No, mi piace Apsalar. Facciamo Apsalar.» «Ma ho appena detto...» «Quello è il nome che voglio», insistette la ragazza, incupendosi in viso. Oh, oh, pensò Crokus. Meglio cedere su questo punto. «Va bene.» Sospirò. «E così, sei un ladro.» «Che c'è di male?» Apsalar sogghignò. «Dato il mio nuovo nome, niente. Proprio niente, Crokus. Quando ci accamperemo?» Lui impallidì. Non ci aveva pensato. «Forse dovremmo continuare fino alla città», disse cauto, senza incrociare il suo sguardo. «Sono stanca. Perché non ci accampiamo presso quel Ponte Catlin?» «Be', ho solo una coperta. Puoi usarla tu. Io monterò la guardia.» «L'intera notte? Che bisogno c'è?»
«Perché tutte queste domande?» l'investì duramente Crokus. «Questo posto è pieno di pericoli! Non hai visto la ferita di Coll? E come facciamo a sapere che la guarnigione è ancora al suo posto?» «Quale guarnigione?» Crokus si maledì. Girò la testa dall'altra parte. «La guarnigione sul lato opposto del ponte», rivelò. «Ma il ponte è lungo...» «Oh, avanti, Crokus!» Apsalar scoppiò a ridere, picchiandogli il gomito contro le costole. «Divideremo la tua coperta. Non mi dispiace, se terrai le mani a posto.» Massaggiandosi le costole, Crokus si limitò a fissarla. *** Imprecando, Kruppe girò la testa per fulminare Murillio con lo sguardo. «Dannazione! Non puoi dare una mossa a quella bestia?» Il mulo, fedele alla sua reputazione, si rifiutava di abbandonare la sua lenta camminata. Murillio fece un sorriso imbarazzato. «Che fretta c'è, Kruppe? Il ragazzo può badare a se stesso.» «Mastro Baruk ha ordinato esplicitamente di sorvegliarlo, e sorvegliarlo dobbiamo!» Murillio strinse gli occhi. «Non fai che ripeterlo», borbottò. «È un favore che deve a Mammot? Lo zio del ragazzo si preoccupa tutt'a un tratto del suo destino? Perché Baruk si interessa tanto a Crokus? Tu trasmetti gli ordini dell'alchimista, Kruppe, ma non li spieghi.» Kruppe tirò le redini della sua bestia. «Oh, benissimo», replicò. «L'ammutinamento fra i ranghi forza l'astuta mano di Kruppe. Oponn ha scelto Crokus, per qualunque scopo quell'ambigua divinità possa escogitare. Baruk vorrebbe che tenessimo d'occhio il ragazzo, impedendo, inoltre, ad altri poteri di trovarlo.» Murillio si strofinò il livido sulla fronte, e trasalì per il dolore. «Maledizione.» Sospirò. «Tutto questo avresti dovuto spiegarlo fin dall'inizio, Kruppe. Rallick lo sa?» «Certo che no», lo rimbeccò Kruppe, in tono caustico. «È troppo occupato; incapace di districarsi dalle sue varie responsabilità. Ecco perché», Kruppe fece un'espressione scaltra, «il sicario non partecipa a questo viaggio. Ma perché dovrebbe essere Kruppe a fornire simili informazioni a Murillio? Evidentemente, Murillio conosce i movimenti di Rallick meglio del povero, ignorante Kruppe».
Murillio rimase impassibile. «Che cosa intendi dire?» Kruppe ridacchiò, poi diede un calcio al mulo per farlo ripartire. Murillio lo seguì. «Quanto alla nostra missione attuale», continuò allegramente Kruppe, «quello che sembra un gran fallimento, specialmente da parte di Coll, è in verità uno straordinario successo. Mastro Baruk va messo al corrente delle nefande attività in corso sulle Colline Gadrobi». «Successo? Di cosa stai parlando?» Kruppe sventolò una mano. «Caro amico, anche se durante l'alterco sono rimasto cosciente solo per un attimo, era chiaro che quella guerriera possedeva una spada Otataral. Il che significa, come può indovinare anche un bambino, che è una Malazan.» Murillio sibilò lentamente fra i denti. «E noi abbiamo lasciato Coll là indietro? Sei pazzo, Kruppe?» «Presto si riprenderà abbastanza da seguirci», ribatté Kruppe. «La nostra urgenza supera qualunque altra considerazione.» «Eccetto i loschi traffici con un certo stalliere», ringhiò Murillio. «Così, c'è una Malazan nelle Colline Gadrobi. Che intenzioni ha? E non cercare di dirmi che non lo sai. Se non sospettassi qualcosa, non saremmo così di fretta.» «Sospetti, già.» Kruppe annuì, alzando le spalle. «Ricordi che Crokus ha pronunciato quell'intelligente osservazione mentre lasciavamo l'incrocio? Sul fatto che davamo la caccia a una voce, o simili?» «Aspetta un attimo», gemette Murillio. «Ancora quella leggenda del tumulo? Non c'è una...» Levando un dito, Kruppe intervenne in tono mellifluo: «Quel che crediamo noi è irrilevante, Murillio. Rimane il fatto che i Malazan cercano la verità di quella voce. E sia Kruppe che Mastro Baruk, essendo di eguale intelligenza, sospettano che potrebbero benissimo scoprirla. Ecco il motivo di questa missione, mio irrequieto amico». Inarcò le sopracciglia. «Otataral fra le mani di una spadaccina dell'Impero. Un T'lan Imass nascosto nelle vicinanze...» «Che cosa?» esplose Murillio, con gli occhi sbarrati. Fece per girare il mulo, ma questo protestò, piantando gli zoccoli nel terreno. Murillio lottò con la bestia, imprecando. «Coll è pieno di ferite e attorniato da un'assassina Malazan e da un Imass! Hai perso il cervello, Kruppe!» «Ma, caro Murillio», cantilenò il suo compagno, «Kruppe ti credeva ansioso, disperatamente ansioso di tornare a Darujhistan il più presto possibi-
le!». A queste parole, Murillio si fermò. Si girò bruscamente verso Kruppe, cupo in volto. «Avanti», lo incitò in tono stridulo, «sputa fuori». Kruppe prese un'espressione stupita. «Sputare cosa?» «Continui a provocarmi con le tue allusioni. Se pensi di sapere qualcosa, dillo chiaro e tondo. Altrimenti, ci giriamo subito e torniamo da Coll.» Vedendo guizzare gli occhi di Kruppe, Murillio sogghignò. «Ah, pensavi di distrarmi, eh? Be', non funzionerà.» Kruppe alzò le mani, con i palmi all'insù. «Qualunque sia il cervello responsabile del vostro piano per restituire Coll al suo legittimo titolo, Kruppe non può far altro che applaudire con ardore!» Murillio spalancò la bocca. In nome di Hood, come faceva Kruppe a...? L'uomo proseguì: «Ma tutto questo è insignificante, in confronto alla situazione di Crokus, e al grave pericolo in cui si trova. Inoltre, se quella ragazza era veramente posseduta, come sospetta Coll, i rischi sono semplicemente spaventosi! C'era solo lei a caccia della vita fragile, non protetta, di Crokus? Che mi dici delle migliaia di dei e di demoni che sarebbero lieti di sfidare Oponn alla prima opportunità? Murillio, antico amico di Crokus, vorrebbe forse abbandonarlo con indifferenza al suo destino? Murillio è forse uomo da soccombere al panico, alle congetture, a un esercito di incubi immaginari che si aggirano fra le ombre della sua immaginazione eccitata...?». «Va bene!» abbaiò Murillio. «Ora chiudi il becco e andiamo avanti.» Davanti a questo saggio incitamento, Kruppe annuì bruscamente con il capo. Un'ora dopo, mentre il crepuscolo risaliva per i pendi delle colline e verso il sole calante, a ovest, Murillio sobbalzò, con un borbottio. «Murillio mormora qualcosa?» chiese Kruppe. Murillio si massaggiò la fronte. «Ho degli attacchi di vertigine», spiegò. «Accampiamoci. Crokus e la ragazza non arriveranno comunque in città prima di domani. Dubito che corra dei pericoli lungo la strada, e lo troveremo facilmente prima del crepuscolo. Durante il giorno non dovrebbero avere problemi.» «Kruppe riconosce la propria stanchezza. Dovremmo proprio trovare un posto per accamparci, e Murillio potrà allestire un piccolo fuoco, forse, e preparare la cena, mentre Kruppe pondera pensieri vitali, e simili.» «Bene.» Murillio sospirò. «Benissimo.»
*** Un paio di giorni dopo il suo incontro con il Tiste Andii e gli avvenimenti all'interno della sua spada, il capitano Paran capì che Rake non aveva sospettato la sua identità di soldato Malazan. Altrimenti, a quell'ora sarebbe stato morto. Sembrava protetto dalle disattenzioni. Il suo assassino, a Pale, avrebbe dovuto controllare il suo operato; e ora il Figlio dell'Oscurità, dopo averlo strappato alle mascelle dei Segugi, l'aveva lasciato camminare libero. C'era sotto una costante? Si sentiva puzza di Oponn, anche se Paran non dubitava delle affermazioni di Rake. Allora la sua fortuna stava veramente nella spada? E questi doni della sorte segnavano momenti cruciali - momenti che sarebbero tornati a ossessionare coloro che l'avevano risparmiato? Per il suo stesso benessere, egli sperava di no. La sua strada non era più quella dell'Impero. Aveva percorso quel sentiero di sangue e di tradimento per troppo tempo. Mai più. Ciò che gli stava davanti era lo sforzo eccezionale di cercare di salvare la vita a Whiskeyjack e al suo squadrone. Se ci fosse riuscito, non avrebbe rimpianto di morire, per questo. Alcune cose superavano la vita del singolo, e forse la giustizia esisteva oltre le menti dell'umanità, persino oltre gli occhi avidi degli dei e delle dee, come un'entità pura, brillante, definitiva. Alcuni filosofi da lui letti durante la sua educazione a Unta, la capitale Malazan, adottavano quella che, all'epoca, gli era sembrata una posizione assurda. La moralità non era relativa, sostenevano, né esisteva solamente nel regno della condizione umana. No, essi proclamavano la moralità come un imperativo della vita tutta, una legge naturale che non consisteva né negli atti brutali delle bestie né nelle elevate ambizioni dell'umanità, ma in qualcos'altro, qualcosa di inoppugnabile. Solo un'altra ricerca di certezze. Paran aggrottò la fronte e si irrigidì sulla sella, gli occhi fissi sulla pista mercantile che si snodava davanti a lui fra colline basse, arrotondate. Ricordava di aver discusso di questo con l'Aggiunto Lorn, in un momento in cui nessuno dei due subiva pressioni da parte del mondo esterno. Solo un'altra ricerca di certezze, aveva detto lei, con voce fredda e cinica, ponendo fine al colloquio altrettanto nettamente che se avesse piantato un coltello nel tavolo macchiato di vino a cui sedevano. Sentendo simili parole venire da una donna non più vecchia di lui, Paran
aveva sospettato, e sospettava ancora, che quell'opinione fosse soltanto una comoda, pigra imitazione di quella dell'Imperatrice Laseen. Ma Laseen vi aveva diritto, e Lorn no, almeno secondo lui. Se c'era qualcuno che aveva diritto allo stanco disincanto nei confronti del mondo era l'Imperatrice Malazan. Lorn si era veramente trasformata nell'estensione di Laseen. Ma a quale costo? Aveva visto la giovane donna dietro la maschera una volta sola mentre avevano guardato una strada ricoperta di soldati morti e poi si erano aperti un varco fra di loro. La ragazza pallida, spaventata, si era mostrata in un unico momento di fragilità. Non riusciva a ricordare cosa avesse provocato il ritorno della maschera - doveva essere stato qualcosa che lui aveva detto, qualche frase buttata lì per darsi una parvenza da soldato agguerrito. Paran sospirò profondamente. Troppi rimpianti. Occasioni perdute - e col passare di ognuna, meno umani diventiamo, e più sprofondiamo nell'incubo del potere. La sua vita era irrecuperabile? Avrebbe voluto avere una risposta a quella domanda. Un movimento a sud catturò la sua attenzione; contemporaneamente, si accorse di un rombo, che si levava dalla terra circostante. Si alzò sulle staffe. Un muro di polvere s'increspava sopra la porzione di terra davanti a lui. Girò il cavallo verso est, spronandolo in un trotto. Qualche attimo dopo, tirò le redini. Le cortine di polvere aleggiavano anche in quella posizione. Imprecando, puntò rapidamente verso la sommità di un'altura vicina. Polvere. Polvere da tutte le parti. Una tempesta? No, i tuoni erano troppo regolari. Discese sulla pianura e tirò di nuovo le redini, incerto sul da farsi. Il muro di polvere crebbe, sommergendo la collina che lo fronteggiava. I tuoni si intensificarono. Paran strinse gli occhi. Sagome scure, massicce si muovevano nella polvere, allargandosi a destra e a sinistra, per poi convergere su di lui. In pochi attimi, si ritrovò circondato. I Bhederin. Aveva sentito racconti su quelle creature enormi, pelose, che si spostavano per le pianure interne in branchi di mezzo milione di elementi. Su tutti i lati, Paran vedeva soltanto le schiene gobbe, bruno-rossastre, incrostate di polvere delle bestie. Non c'era nessun luogo in cui potesse condurre il cavallo, nessun posto sicuro in vista. Paran si mise comodo sulla sella, e aspettò. Un lampo balenò alla sua sinistra, di color fulvo, a poca distanza dal terreno. Il capitano si stava girando, quando qualcosa di pesante lo attaccò da
destra e gli si aggrappò, trascinandolo giù. Imprecando, Paran sbatté duramente in mezzo alla polvere; lottò con un essere dagli arti robusti e i capelli neri e ispidi. Il suo ginocchio alzato urtò contro uno stomaco duro. Il suo assalitore rotolò su un fianco, ansimando. Paran si tirò faticosamente in piedi, per ritrovarsi faccia a faccia con un giovane avvolto in pelli conciate, che gli balzò di nuovo addosso. Paran si fece da parte, colpendo l'avversario sul lato della testa. Questi finì a terra scompostamente, privo di conoscenza. Gridi laceranti risuonavano da tutti i lati. I Bhederin si disperdevano, allontanandosi. Emersero delle figure, che attorniarono Paran. I Rhivi. Nemici giurati dell'Impero, alleati al nord con Caladan Brood e la Guardia Cremisi. Due guerrieri arrivarono ai lati del compagno svenuto; ognuno lo afferrò per un braccio, trascinandolo via. Il branco si era fermato. Un altro guerriero avanzò audacemente a grandi passi verso Paran. Il suo viso striato di polvere era cucito di punti rossi e neri, dalla parte alta delle guance fino alla mascella, e tutt'intorno alla bocca. Una pelle Bhederin gli copriva le spalle ampie. Arrestandosi a meno di un braccio dal capitano, il guerriero allungò la mano e la chiuse sull'impugnatura di Fortuna. Paran la spinse via bruscamente. Il Rhivi sorrise, fece un passo indietro e cacciò un grido acuto, simile a un ululato. Sul dorso peloso dei Bhederin all'intorno spuntarono figure accovacciate, le lance strette nelle mani. Le bestie enormi ignoravano i guerrieri, quasi fossero uccelletti. I due Rhivi che avevano portato via il ragazzo ritornarono, raggiungendo il guerriero con la faccia ricucita; questi disse qualcosa a quello alla sua sinistra, facendolo avanzare. Prima che Paran potesse reagire, si lanciò alla carica, gettando una gamba dietro al capitano, e conficcandogli una spalla nel petto. Il guerriero gli cadde addosso, atterrandolo. La lama di un coltello scivolò lungo la mascella di Paran, tagliando la cinghia dell'elmo. La calotta di ferro fu strappata via, e dita afferrarono una manciata dei suoi capelli. Tirando il guerriero con sé, Paran si rialzò. Ne aveva abbastanza. La morte era una cosa, la morte senza dignità un'altra. Mentre il Rhivi muoveva la mano per volgergli la testa all'insù, il capitano allungò la sua fra le gambe del guerriero, trovò l'obiettivo e strinse forte. Il guerriero urlò, lasciando i capelli di Paran. Riapparve un coltello, che
lampeggiò davanti al viso del capitano. Questi si scostò di lato; alzando di scatto la mano libera, afferrò il polso dell'avversario e lo costrinse a mollare il coltello. Strizzò ancora con l'altra mano. Il Rhivi gridò di nuovo, poi Paran lo lasciò andare, si girò rapidamente e spinse il gomito corazzato contro il suo viso. Sangue schizzò come pioggia nella polvere. Il guerriero barcollò all'indietro e si afflosciò al suolo. Un manico di lancia toccò lateralmente la tempia di Paran; l'impatto lo fece voltare. Un'altra lancia gli assestò all'anca un colpo forte come un calcio di cavallo, che gli intorpidì la gamba. Qualcosa gli inchiodò il piede sinistro al suolo. Paran sguainò Fortuna. L'arma gli fu quasi scalzata di mano, con un sonoro tintinnio. La spinse all'insù, e venne colpita ancora. Mezzo accecato dal dolore, dal sudore e dalla polvere, Paran si erse in tutta la sua altezza, afferrando Fortuna con due mani; poi la calò avanti a sé, in posizione difensiva. La lama fu colpita una terza volta, ma lui mantenne la presa. Cadde il silenzio. Ansimando, battendo le palpebre, Paran alzò la testa, e si guardò intorno. I Rhivi lo circondavano, ma nessuno si mosse. I loro occhi scuri erano spalancati. Paran fece guizzare lo sguardo dall'arma ai guerrieri, poi lo riportò su Fortuna. E lì lo tenne. Dalla lama spuntavano come foglie tre punte di lancia in ferro, spezzate; i manici erano distrutti, e solo frammenti di legno biancastro sporgevano dall'alloggiamento. Abbassò gli occhi sul piede bloccato. Una lancia gli aveva trapassato lo stivale, ma la punta era girata, e l'ampio lato piatto gli premeva contro il piede. Schegge di legno lo circondavano. Un rapido sguardo all'anca gli rivelò che non era ferita. Uno squarcio frastagliato segnava il cuoio del fodero di Fortuna. Il guerriero Rhivi con il viso spaccato giaceva immobile, a poca distanza. Il capitano vide che il suo destriero e i cavalli da soma erano illesi e non si erano mossi. Gli altri Rhivi erano indietreggiati. Il cerchio si aprì, all'arrivo di una piccola figura. Una bambina: non doveva avere più di cinque anni. I guerrieri si scostarono da lei come per soggezione, o per paura, o forse per entrambe. Indossava pelli di antilope legate alla cintola con una corda, e niente ai piedi. In lei c'era qualcosa di familiare, il modo di camminare, il portamento
quando gli si fermò davanti, l'aspetto degli occhi dalle palpebre pesanti, che spinse Paran ad aggrottare le sopracciglia, in preda al disagio. La bambina lo osservò; il visetto rotondo arrivò lentamente a rispecchiare il suo cipiglio. Alzò una mano, come per toccarlo, poi la lasciò ricadere. Il capitano scoprì di non riuscire a staccare gli occhi da lei. Bambina, ti conosco? Mentre il silenzio fra loro si allungava, dietro di lei spuntò una vecchia, che le posò una mano rugosa sulla spalla. L'aria stanca, quasi esasperata, la vecchia studiò il capitano. La bambina disse qualcosa, nella lingua rapida e ritmata dei Rhivi; la sua voce era sorprendentemente grave per una persona così giovane. La vecchia incrociò le braccia. La piccola riprese a parlare, con urgenza. La vecchia si rivolse a Paran in Daru. «Cinque lance ti hanno rivendicato come nemico.» Fece una pausa. «E cinque lance hanno fallito.» «Ne avete molte altre», ribatté Paran. «Sì, e il dio che protegge la tua spada qui non ha seguaci.» «Per cui facciamola finita», ruggì Paran. «Sono stufo di questo gioco.» La bambina parlò, con un tono imperioso che stridette come il ferro contro la pietra. La vecchia si girò verso di lei, evidentemente sorpresa. La bambina continuò; era chiaro che stava dando una spiegazione. La vecchia ascoltò, poi riportò gli occhi scuri, lucenti sul capitano. «Tu sei un Malazan, e i Malazan hanno scelto di essere nemici dei Rhivi. Anche tu hai fatto la stessa scelta? E sappi che so riconoscere una bugia quando la sento.» «Sono Malazan per nascita», replicò Paran. «Non ho interesse a chiamare i Rhivi miei nemici. Preferirei non avere nemici.» La vecchia batté le palpebre. «Lei ti offre parole per lenire il tuo dolore, soldato.» «Ossia?» «La tua vita non deve finire.» Paran diffidava di questa piega degli eventi. «Che parole ha per me? Non l'ho mai vista.» «Neanche lei ti ha mai visto. Eppure vi conoscete.» «No, invece.» Gli occhi della vecchia si indurirono. «Vuoi sentire le sue parole oppure no? Ti offre un dono. Vuoi ributtarglielo in faccia?» Profondamente imbarazzato, Paran concesse: «No, presumo di no».
«La bambina dice che non devi affliggerti. La donna che conosci non è passata per l'Arco di Alberi della Morte. Ha viaggiato oltre le terre che puoi vedere, oltre quelle che lo spirito dei mortali percepisce. E ora è tornata. Devi essere paziente, soldato. Vi incontrerete ancora, così promette questa bambina.» «Quale donna?» chiese Paran, con il cuore in gola. «Quella che credevi morta.» Guardò di nuovo la bambina. Il senso di familiarità tornò, come un colpo al petto. Barcollò all'indietro. «Non è possibile», mormorò. La bambina si ritrasse, in un vortice di polvere. Scomparve. «Aspetta!» Risuonò un altro strepito. Il branco si mise in moto; avvicinandosi, oscurò i Rhivi. Nel giro di momenti, Paran vide solo il dorso delle bestie enormi, che lo superavano goffamente. Pensò di passare in mezzo a loro, ma sapeva che ne sarebbe morto. «Aspetta!» gridò ancora il capitano, ma il fragore di centinaia - migliaia - di zoccoli sulla pianura soffocò i suoi sforzi. Tattersail! *** Passò un'ora piena prima che apparisse la coda del branco dei Bhederin. Mentre l'ultima bestia transitava davanti al capitano, questi si guardò intorno. Il vento spingeva la nube di polvere a est, verso le colline rotonde, dai morbidi pendii. Paran montò in sella, e rigirò il destriero verso sud. Le Colline Gadrobi si ergevano davanti a lui. Tattersail, che cosa hai fatto? Toc, ricordò, aveva notato la pista di piccole impronte a partire dal pilastro bruciato, che era tutto ciò che restava di Bellurdan e di Tattersail. Per il respiro di Hood, avevi pianificato una cosa del genere? E perché i Rhivi? Rinata, bambina già di cinque anni, forse sei - donna, sei ancora mortale? Sei assurta allo stato divino? Ti sei trovata un popolo, un popolo strano, primitivo - a quale scopo? E quando ci incontreremo di nuovo, quanti anni sembrerai avere? Pensò ancora ai Rhivi. Conducevano il branco verso nord, un branco abbastanza grande da nutrire... un esercito in marcia. Caladan Brood - sta andando a Pale. E non credo che Dujek vi sia preparato. Il vecchio Unbraccio è nei guai.
Aveva altre due ore di cavalcata prima del tramonto. Oltre le Colline Gadrobi c'erano il Lago Azzurro, e la città di Darujhistan. E dentro la città, Wiskeyjack e il suo squadrone. E in quello squadrone, una giovane donna che mi preparo a incontrare da tre anni. Ma il dio che la possiede è ancora mio nemico? La domanda sorse all'improvviso, gelandogli il cuore. Per gli dei, che viaggio è stato questo! E io che pensavo di attraversare la pianura senza essere notato. Che idea sciocca. Studiosi e maghi scrivono continuamente di convergenze sinistre - sembra che io sia una convergenza ambulante, una calamita per attrarre gli Ascendenti. A loro rischio e pericolo, si direbbe. La mia spada, Fortuna, ha respinto quelle cinque lance, malgrado il modo in cui ho trattato uno dei Gemelli. Come si spiega? La verità è che la mia causa, ormai, appartiene solo a me. Non all'Aggiunto, né all'Impero. Ho asserito che preferivo non avere nemici - e la vecchia ha riconosciuto quelle parole come vere. E, a quanto pare, lo sono. Le sorprese non finiscono mai, Ganoes Paran. Va' avanti, e vedi cosa succede. *** La pista risaliva una collina; il capitano spronò il cavallo su per il pendio. Arrivato in cima, tirò forte le redini. Il cavallo sbuffò indignato e girò la testa di qua e di là, roteando gli occhi. Ma l'attenzione di Paran era altrove. Mettendosi comodo sulla sella, smosse la spada nel fodero. Un uomo dall'armatura pesante si alzò a fatica accanto a un piccolo fuoco da bivacco. Dietro a lui, c'era un mulo impastoiato. L'uomo barcollò, caricando il peso su una gamba, ed estrasse una spada, su cui si appoggiò, mentre guardava il capitano. Paran incitò il cavallo con una gomitata, scrutando i dintorni. Il guerriero sembrava solo. Arrestò il cavallo a trenta piedi da lui. L'uomo parlò in Daru. «Non sono in condizioni di combattere, ma se proprio ci tieni...» Ancora una volta, Paran provò gratitudine per l'insistenza dell'Aggiunto che egli fosse approfonditamente istruito: nel rispondere, parlò con la stessa scorrevolezza dell'indigeno. «No. Ho perso il gusto.» Chinandosi in avanti sulla sella, sorrise in direzione del mulo. «Quella bestia è un Mulo di Guerra?» L'uomo proruppe in una sonora risata. «Sono sicuro che pensa di esser-
lo», replicò, rilassandosi. «Ho del cibo che mi cresce, viandante, se ti interessa.» Il capitano smontò di sella e si avvicinò. «Mi chiamo Paran», annunciò. Si sedette accanto al fuoco. L'altro lo imitò. Le fiamme ardevano fra loro. «Coll», grugnì, allungando una gamba bendata. «Vieni dal nord?» «Da Genabaris, inizialmente. Di recente, ho passato un po' di tempo a Pale.» A quelle parole, Coll alzò le sopracciglia. «Hai l'aspetto di un mercenario», osservò, «probabilmente, un ufficiale. Ho sentito che lassù le cose andavano piuttosto male». «Sono arrivato un po' tardi», ammise Paran. «Ho visto molte macerie e molti morti, per cui sono propenso a credere alle storie.» Esitò, poi aggiunse: «A Pale correva voce che la Progenie della Luna ora sia sopra Darujistan». Coll grugnì di nuovo, gettando una manciata di stecchi sul fuoco. «È vero», confermò. Indicò con un gesto una pentola malconcia appoggiata contro i carboni. «Quello è stufato, se hai appetito. Serviti pure.» Paran si rese conto di essere affamato. Accettò con riconoscenza l'offerta di Coll. Mentre mangiava, con un cucchiaio di legno che l'altro gli aveva prestato, pensò di indagare su quella ferita alla gamba. Ma poi ricordò il suo addestramento da Artiglio. Quando reciti la parte del soldato, devi farlo fino in fondo. Nessuno parla di quello che è ovvio. Se qualcosa ti salta all'occhio, guardi dall'altra parte e ti lamenti del tempo atmosferico. Ciò che è importante, verrà fuori a tempo debito. Poiché i soldati non hanno niente da aspettare con ansia, la pazienza diventa una facile virtù; e a volte non si tratta nemmeno di virtù, ma di pura indifferenza. Così, Paran svuotò la pentola, mentre Coll aspettava in un noncurante silenzio, attizzando il fuoco e aggiungendo di tanto in tanto uno stecco da una pila enorme alle sue spalle. Da dove fosse venuto il legno era un mistero. Infine, Paran si asciugò la bocca con la manica e ripulì il cucchiaio meglio che poté in mancanza d'acqua. Cercò una posizione comoda, e ruttò. «Stai andando a Darujhistan, allora?» riprese Coll. «Sì. E tu?» «Dovrei farcela in un altro giorno o giù di lì, anche se devo dire che non muoio dalla voglia di entrare in città a dorso di mulo.» Paran guardò a ovest. «Be'», ribatté, socchiudendo gli occhi, «il sole è calato quasi del tutto. Ti dispiace se uso questo campo per la notte?».
«Assolutamente no.» Il capitano si alzò e si prese cura dei suoi cavalli. Pensò di posticipare la sua partenza di un giorno per permettere a quell'uomo di guarire meglio, e poi prestargli un cavallo. Arrivare in città in compagnia di un indigeno presentava dei vantaggi - gli avrebbe fornito indicazioni, forse persino dato un posto in cui stare per un paio di giorni. Non solo; nel frattempo, avrebbe potuto imparare qualcosa. Un ritardo di un giorno avrebbe avuto importanza? Probabilmente sì, ma sembrava che ne valesse la pena. Impastoiò i cavalli Wickan vicino al mulo, poi portò la sella vicino al fuoco. «Ho riflettuto sul tuo problema», disse, lasciando cadere la sella e appoggiandovisi con la schiena. «Verrò con te. Puoi usare il mio cavallo da soma.» «Un'offerta generosa», commentò Coll, con un'espressione vigile negli occhi. Vedendo il sospetto sul suo viso, Paran sorrise. «Per prima cosa, ai cavalli farebbe bene un altro giorno di riposo. Secondo, non sono mai stato a Darujhistan, per cui, in cambio della mia cosiddetta generosità, probabilmente nei prossimi due giorni ti tormenterò con un'infinità di domande. Dopo di che, riavrò indietro il mio cavallo e tu andrai per la tua strada; se qualcuno trarrà frutto da questa cosa, sarò io.» «Meglio che ti avvisi subito, Paran; non sono un gran conversatore.» «Correrò il rischio.» Coll meditò per un po'. «Perdio», sbottò. «Sarei pazzo a non accettare, no? Non sembri tipo da infilzarmi alla schiena. Non conosco la tua vera storia, Paran. Se vuoi tenerla per te, sono affari tuoi. Ma questo non mi impedirà di fare domande; sta a te decidere di mentire oppure no.» «Credo che questo valga per entrambi, giusto?» reagì Paran. «Be', vuoi sentire la mia storia? Eccola, Coll. Sono un disertore dell'Esercito Malazan, con il grado di capitano. Ho lavorato molto anche con l'Artiglio e, a ripensarci, è lì che sono cominciati i guai. Comunque, ormai è fatta.» Oh, sì, e un'altra cosa: quelli che mi si avvicinano di solito ci lasciano la pelle. Coll stava zitto; gli occhi, splendenti per il fuoco, puntati sull'uomo davanti a lui. Poi gonfiò le guance ed emise un lungo soffio. «Una verità così nuda e cruda pone una sfida, no?» Fissò il fuoco, poi si appoggiò ai gomiti e sollevò il viso verso le stelle che comparivano in cielo. «Una volta ero un nobile di Darujhistan, l'ultimogenito di una famiglia antica, potente. Ero destinato a un matrimonio combinato, ma mi innamorai di un'altra donna una donna ambiziosa, avida, anche se io non me ne rendevo conto.» Fece
un sorriso beffardo. «In effetti, era una prostituta; però, mentre quasi tutte le prostitute che ho conosciuto hanno i piedi per terra, lei era l'anima più contorta che si possa immaginare.» Si passò una mano sugli occhi. «Comunque, respinsi i miei obblighi, sottraendomi al matrimonio combinato. Mio padre ne morì, credo, quando sposai Aystal - così si chiamava la prostituta, anche se da allora ha cambiato nome.» Rise aspramente verso il cielo notturno. «Non impiegò molto a realizzare i suoi piani. Ancora non so bene come gestì i particolari, quanti uomini si portò a letto per comprare la loro influenza, o come essi agirono. So solo che un giorno mi svegliai e mi ritrovai privato del titolo, privato persino del mio nome di famiglia. La proprietà era sua, il denaro era suo, era tutto suo, e lei non aveva più bisogno di me.» Le fiamme lambivano il legno secco fra loro. Paran non disse nulla. Sentiva che l'uomo davanti a lui voleva aggiungere altro, ma faticava a decidersi. «E quello non fu il tradimento peggiore, Paran», riprese infine il suo compagno, incrociando gli occhi del capitano. «Oh, no. Quello arrivò quando me ne andai. Avrei potuto combatterla. Avrei persino potuto vincere.» La sua mascella si irrigidì - l'unico indizio di angoscia a sfuggire al suo autocontrollo - poi egli proseguì, in tono piatto, inespressivo: «Persone che frequentavo da decenni fingevano di non conoscermi. Per tutti, ero come morto. Scelsero di non starmi a sentire. Mi passavano accanto senza guardarmi, o non venivano nemmeno ai cancelli delle loro proprietà quando facevo loro visita. Ero morto, Paran, anche gli archivi della città lo sostenevano. E così, mi dichiarai d'accordo. Mi allontanai. Scomparvi. Una cosa è che i tuoi amici piangano la tua morte davanti a te, un'altra è tradire la tua stessa vita, Paran. Ma, come hai detto tu, ormai è fatta». Il capitano distolse gli occhi, socchiudendoli per vedere nel buio. Cos'è questo impulso umano, si chiese, che ci porta a una tale rovina? «I giochi degli aristocratici», mormorò, «sono gli stessi in tutto il mondo. Sono nato nobile, come te, Coll. Ma a Malaz incontrammo l'opposizione del vecchio Imperatore. Ci schiacciò a ogni passo, finché non ci rannicchiammo per la paura, come cani frustati. Così per anni. Ma era solo una questione di potere, no?» disse, più a se stesso che al suo compagno. «Per un nobile, non ci sono lezioni degne di essere ascoltate. Ripenso ai miei anni in quella compagnia avida, contorta - ripenso a quella vita ora, Coll, e vedo che non era vita affatto.» Rimase in silenzio per un po', poi un sorriso gli increspò lentamente la bocca e il suo sguardo si girò verso Coll. «Da quando ho lascia-
to l'Impero Malazan, e rinunciato una volta per tutte ai dubbi privilegi del mio sangue nobile, non mi sono mai sentito più vivo, maledizione. La vita di prima era solo una pallida ombra di quello che ho trovato ora. Si tratta forse di una verità che la maggior parte di noi ha troppa paura di affrontare?» Coll grugnì. «Non sono l'uomo più intelligente che incontrerai, Paran, e i tuoi pensieri sono un po' troppo profondi per me. Ma se capisco bene, stai seduto qui a guardare un vecchio scemo ferito e stai cercando di convincerlo che è vivo. Più vivo che mai. E che quella che ha tradito allora non era vita. Giusto?» «Dimmelo tu, Coll.» L'uomo fece una smorfia, passandosi una mano fra i capelli radi. «Il problema è che la voglio indietro. Voglio tutto indietro.» Paran scoppiò a ridere, e continuò a ridere finché forti dolori non gli attanagliarono lo stomaco. Coll rimase a fissarlo, poi un chiocciolio grave, sommesso, gli sorse dal petto. Allungando la mano dietro di sé, recuperò una manciata di stecchi e li gettò nel fuoco, uno alla volta. «Be', dannazione, Paran», riprese, la pelle intorno agli occhi increspata dall'ilarità, «sei arrivato all'improvviso come un fulmine mandato dagli dei. E lo apprezzo. Lo apprezzo più di quanto non saprai mai». Paran si asciugò le lacrime. «Per il respiro di Hood», disse. «Siamo due Muli di Guerra che si parlano, no?» «Presumo di sì, Paran. Ora, se guardi nel mio zaino, troverai un orcio di vino di Worry. È vecchiotto, ormai.» Il capitano si alzò. «E allora?» «Allora bisogna farlo fuori.» LIBRO SESTO LA CITTÀ DEL FUOCO AZZURRO Voci come bandiere stracciate garriscono al vento ed echeggiano nelle strade sottostanti raccontano la storia dei giorni andati... Si dice che un'anguilla scivolò sulla spiaggia ma non una bensì cento
sotto una luna seghettata che poteva essere morta, si sussurra che un artiglio grattò i ciottoli della città, anche mentre un drago volava alto nel cielo della notte. Si dice che il grido di un demone riecheggiò sui tetti in una notte di sangue, mentre il signore di quelle cento mani perdeva cento pugnali nell'oscurità, e si dice che una signora di nobili natali offrì agli ospiti indesiderati una festa per ricordare... La nascita della voce Fischer (n.?) CAPITOLO DICIASSETTESIMO Pochi possono vedere la mano scura che tiene sospeso in aria il frammento, o le catene destinate a essere udite prima dell'arrivo della morte, ma odono la ruota di servi e vittime che ripetono il nome del signore nel cuore oscuro della Progenie della Luna... La Volpe d'Argento Ricognitore Hurlocher, Sesta Armata Mentre Rallick Nom si dirigeva verso la Locanda della Fenice, una donna grassa e corpulenta uscì dall'ombra e gli bloccò il passo. L'uomo sollevò un sopracciglio. «Che cosa vuoi, Meese?»
«Lascia perdere quello che voglio.» Gli rivolse un sorriso malizioso. «Quello lo sai da anni. Devo parlarti, Nom. Perciò rilassati.» L'uomo incrociò le braccia e attese. Meese lanciò un'occhiata lungo il vicolo, quindi si avvicinò al sicario. «C'è uno nella locanda che ha chiesto di te.» «Che aspetto ha?» domandò Rallick con finta indifferenza. «Di un soldato senza uniforme», rispose Meese. «Non l'ho mai visto da queste parti. Che cosa ne pensi, Nom?» Il sicario distolse lo sguardo. «Niente. Dov'è seduto?» Meese tornò a sorridere. «Al tavolo di Kruppe.» Rallick superò la donna e si diresse verso la locanda. Quando lei si mosse per seguirlo, lui sollevò una mano. «Un'ultima cosa, Meese», disse senza voltarsi. «Dov'è Irilta?» «Dentro», rispose la donna dietro di lui. «Buona fortuna, Nom.» «La fortuna va conquistata», borbottò Rallick, svoltando l'angolo e salendo la scala. Fermo nel vano della porta, studiò gli avventori. Lo sguardo scivolò su un uomo seduto al tavolo di Kruppe. Si diresse verso di lui. Finalmente i loro occhi si incontrarono, l'uomo restò impassibile. Rallick prese una sedia e si sedette di fronte allo sconosciuto. «Sono Rallick Nom.» Quell'uomo aveva un che di fidato, rassicurante. Rallick si sentì improvvisamente più tranquillo, rilassato. Ma le prime parole dello sconosciuto modificarono subito il suo stato d'animo. «L'Anguilla ha un messaggio per te», disse in tono pacato. «Ma prima che io te lo comunichi, devo darti alcune spiegazioni.» Si fermò, bevve un sorso di birra e riprese a parlare. «Turban Orr ha assoldato un'altra dozzina di cacciatori. Che cosa cacciano? Be', me , per esempio. Il tuo problema è che raggiungere lui sarà più difficile. L'Anguilla apprezza i tuoi sforzi riguardo a Lady Simtal. Il ritorno di Coll è auspicato da tutti coloro che, all'interno del Consiglio, apprezzano l'integrità e l'onore. Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, chiedila ora e l'avrai.» Gli occhi di Rallick erano diventati di ghiaccio. «Non sapevo che Murillio avesse una lingua così sciolta», commentò. L'uomo scosse la testa. «Il tuo compatriota non ha rivelato nulla. E nemmeno tu. Ma questo è il lavoro dell'Anguilla. E adesso dimmi, che cosa vuoi?» «Niente.»
«Bene.» Lo sconosciuto annuì come se si aspettasse quella risposta e ne fosse soddisfatto. «Gli sforzi di Turban Orr per fare approvare il decreto sono stati casualmente... bloccati. A tempo indefinito. L'Anguilla desidera ringraziarti per il tuo inconsapevole aiuto. Ciononostante, il Consigliere sta prendendo in considerazione altre possibilità. È stato tenuto sotto stretto controllo. E ora arriviamo alla fortunata scoperta che è al centro del messaggio per te da parte dell'Anguilla. La scorsa notte, sotto il Barbacane del Despota, Turban Orr ha incontrato un rappresentante della Corporazione dei Sicari - come abbia fatto non lo sappiamo, sapendo quanto sia stato difficile trovare i tuoi compagni. Ad ogni modo, Turban Orr ha proposto un contratto.» L'uomo attese che lo stupore svanisse dal volto di Rallick, quindi riprese. «Come ho detto, un contratto proposto da Turban Orr, ma non a suo nome. Lady Simtal ha infatti deciso che la morte di Coll diventi reale e non sia più solo sulla carta.» «Chi?» chiese Rallick con voce stridula. «Chi era il contatto.» «Ci sto arrivando. Innanzitutto, la proposta è stata accettata, anche perché la cifra offerta era considerevole. Sanno che Coll è attualmente fuori Darujhistan. Stanno semplicemente aspettando il suo ritorno.» «Il nome del sicario.» «Ocelot.» L'uomo si alzò. «L'Anguilla si augura che tu raggiunga il successo, Rallick Nom. Così termina il messaggio. Buona serata.» Si alzò per andarsene. «Aspetta.» «Sì?» «Grazie.» Lo sconosciuto sorrise e se ne andò. Il sicario si sedette al posto dell'uomo e appoggiò la schiena al muro. Chiamò Sulty con la mano. La ragazza si affrettò da lui. Dietro di lei arrivarono anche Irilta e Meese. Si sedettero senza tanti preamboli, ognuna di loro con un boccale in mano. «Respirano ancora tutti», commentò Irilta, sollevando il bicchiere. Meese si unì al brindisi e le due donne bevvero una lunga sorsata di birra. «Notizie di Kruppe e del ragazzo?» domandò poi Meese. Rallick scosse la testa. «Potrei non essere qui quando torneranno,» disse. «Dite a Murillio di andare avanti nel caso io non arrivassi e altri... eventi dovessero accadere. E, in tal caso, ditegli che gli occhi del nostro uomo sono aperti.» Rallick riempì il suo boccale e lo svuotò in un sol sorso. Quindi si alzò. «Non auguratemi buona fortuna», disse.
«È successo?» chiese Meese, un'espressione preoccupata dipinta in viso. Rallick annuì e lasciò la locanda. *** Anomander Rake nascondeva qualcosa. Baruk ne era sicuro. Era seduto davanti al camino, nella mano sinistra un bicchiere di latte di capra e nell'altra un pezzo di pane di segale Daru. Perché il Tiste Andii aveva permesso all'Imass di entrare nel tumulo? Aveva già posto la domanda al Signore seduto accanto a lui, ma temeva che non avrebbe ottenuto risposta. Per il momento, tutto quello che aveva ottenuto da Rake era quell'irritante compiacimento. Contrariato, diede un morso al pane. Rake allungò le gambe e sospirò. «Una strana ora per cenare», commentò. «Ultimamente tutte le mie ore sono strane», replicò Baruk prima di bere un sorso di latte. «Non sapevo che il Signore dell'Ombra e Oponn fossero coinvolti in faccende private.» Baruk sentì gli occhi di Rake su di sé, ma tenne lo sguardo fisso sul fuoco. «Ho ricevuto un messaggio da Oponn», disse. «Ma niente di particolare.» Rake sbuffò in risposta. Baruk mandò giù altro latte. «Voi vi tenete stretti i vostri indizi e io mi tengo stretti i miei.» «Questo atteggiamento non giova a nessuno», sbottò Rake. L'alchimista si voltò per guardare in faccia il Tiste Andii. «I vostri corvi hanno visto quella donna e il T'lan Imass entrare nel tumulo. Siete ancora convinto che falliranno?» «E tu?» rimbeccò Rake. «Se non sbaglio quella era la tua posizione riguardo a questa questione, Baruk. Comunque andrà, ci sarà una lotta. Ho il sospetto che tu sperassi ci fosse il modo per evitarla. Ovviamente, la tua conoscenza dell'Impero Malazan è piuttosto scarsa. Laseen conosce una sola cosa: la forza. Ignorerà il potere fino a quando non sarà svelato e allora ti colpirà con tutto quello che ha a disposizione.» «E voi ve ne state lì seduto ad aspettare che accada?» Baruk si fece cupo. «È così che le città vengono distrutte. È così che muoiono migliaia di persone. Non v'importa niente di tutto questo, Anomander Rake? L'importante è che voi, alla fine, vinciate?»
Un sorriso tirato apparve sulle labbra sottili del Tiste Andii. «Un'attenta valutazione, Baruk. Tuttavia, in questo caso Laseen vuole Darujhistan intatta. E io intendo impedirlo. Ma distruggere la città per sfidare l'Imperatrice sarebbe troppo semplice. Avrei potuto farlo settimane fa. No, voglio che Darujhistan resti com'è. Ma fuori dalla portata di Laseen. Questa, Alchimista, si chiama vittoria.» Gli occhi grigi erano fissi su Baruk. «Altrimenti non avrei pensato a un'alleanza con te.» L'alchimista aggrottò la fronte. «A meno che voi non pensaste al tradimento.» Rake restò qualche istante in silenzio, lo sguardo sulle mani unite in grembo. «Baruk», disse infine in tono sommesso, «come sa qualsiasi comandante di lunga esperienza, il tradimento genera tradimento. Una volta commesso, che sia contro un nemico o un alleato, diventa una scelta legittima per tutti coloro al tuo comando, dal più umile soldato in cerca di una promozione, a ufficiali e guardie. La mia gente è al corrente dell'alleanza con te, Alchimista. Se ti tradissi, non resterai ancora per molto il Signore della Progenie della Luna. E giustamente». Baruk sorrise. «E chi oserebbe sfidare il vostro potere, Rake?» «Caladan Brood, per esempio», rispose subito Rake. «E poi i miei quattro maghi sicari. Persino Silanah, l'abitante delle caverne della Luna, potrebbe sentirsi in diritto di giudicarmi. E potrei citartene molti altri, Baruk.» «Allora la paura vi tiene in scacco, Figlio dell'Oscurità?» Rake s'incupì. «Quel titolo viene usato da quegli stolti che mi credono degno di adorazione. Io lo detesto, Baruk, e non vorrei più sentirlo da te. La paura mi tiene in scacco? No. Per quanto la paura sia potente, non è alla mia altezza per quanto mi viene imposto. Il dovere.» Gli occhi di Rake erano improvvisamente divenuti di un grigio spento mentre restavano fissi sulle sue mani, che ora aveva girato con i palmi verso l'alto. «Hai un dovere nei confronti della tua città, Baruk. Ti guida, ti modella. Conosco che cosa significa. Nella Progenie della Luna vivono gli ultimi Tiste Andii di questa terra. Stiamo morendo, Alchimista. Nessuna causa sembra sufficientemente importante per poter restituire alla mia gente il gusto per la vita. Io ci provo, ma l'estro non è mai stato tra i miei migliori talenti. Nemmeno questo Impero Malazan ci ha fatto insorgere a difesa di noi stessi - fino a quando non abbiamo più avuto un luogo in cui rifugiarci. «Continuiamo a morire su questo continente. E se così deve essere, meglio che lo sia per opera di una spada.» Lasciò cadere le braccia lungo i
fianchi. «Prova a immaginare la morte del tuo spirito mentre il tuo corpo continua a vivere. Non per dieci anni, non per cinquanta. Ma un corpo che continua a vivere per quindicimila, ventimila anni.» Rake si alzò bruscamente. Abbassò lo sguardo su un silenzioso Baruk e il sorriso che apparve sul suo volto fu come una stilettata nel cuore dell'alchimista. «E così il dovere mi tiene in scacco, sebbene sia un dovere vuoto in se stesso. È sufficiente per proteggere i Tiste Andii? Semplicemente proteggerli? La Progenie della Luna, dove noi viviamo sospesi in cielo, ci protegge dai rischi, dalle minacce? Ma dopo tutto, che cosa sto proteggendo? Una storia, una posizione particolare.» Si strinse nelle spalle. «La storia è ormai finita, Baruk, e la posizione dei Tiste Andii è di disinteresse, di tranquilla e vuota disperazione. Vale la pena proteggere questi doni per il mondo? Penso di no.» Baruk non aveva una risposta immediata. Ciò che Anomander Rake aveva descritto era quasi al di là dell'umana comprensione, eppure il suo grido di dolore aveva raggiunto l'alchimista. «E tuttavia», disse infine, «siete qua. Alleato con le vittime dell'Impero. La vostra gente approva questa decisione, Rake?». «A loro non importa», rispose l'altro. «Accettano i miei ordini. Mi seguono. Servono Caladan Brood quando glielo chiedo. E muoiono nel fango e nelle foreste di una terra che non appartiene loro, in una guerra che non è la loro, per un popolo che è terrorizzato da loro.» Baruk si piegò in avanti. «Allora perché? Perché fai tutto questo?» Un'aspra risata fu la risposta di Rake. Ma dopo pochi istanti, l'amaro sorriso scomparve e l'uomo disse: «Di questi tempi una causa onorevole vale qualcosa? Noi l'abbiamo presa in prestito: cambia qualcosa? Combattiamo come tutti gli altri uomini. Moriamo accanto a loro. Siamo mercenari dello spirito. E anche quella è una moneta a cui diamo poco valore. Perché? Non importa il perché. Ma non tradiremo mai i nostri alleati. «So che sei preoccupato perché non ho fatto niente per impedire al T'lan Imass di entrare nel tumulo. Credo che il Tiranno Jaghut verrà liberato. Ma meglio ora, che sono accanto a te, che in un altro momento quando nessuno sarebbe in grado di opporsi allo Jaghut. Prenderemo questa leggenda e da essa modelleremo la vita, Alchimista, e la minaccia non ti ossessionerà più.» Baruk fissò il Tiste Andii. «Sei sicuro che riuscirai a distruggere lo Jaghut?» «No. Ma quando avrà finito con noi la sua forza sarà molto diminuita.
Poi toccherà agli altri - alla tua Cabala, per l'esattezza. Non c'è certezza in ciò che stiamo per fare, Baruk. Impara ad accettarlo. Forse riusciremo a distruggere il Tiranno Jaghut, ma anche così favoriremo i piani di Laseen.» L'alchimista era perplesso. «Non capisco.» Rake lo guardò con un largo sorriso. «Quando avremo finito con lo Jaghut, noi saremo molti di meno. E così l'Impero Malazan avrà via libera. Come vedi, comunque vadano le cose, lei vincerà. Se c'è qualcosa che la preoccupa è la tua Cabala T'orrud, Baruk. Lei non sa niente delle tue capacità. Ed è per questo che i suoi agenti cercano questa Vorcan. Se la Signora della Corporazione accetterà il contratto, l'Imperatrice avrà risolto il problema che tu rappresenti.» «Eppure», mormorò Baruk in tono pensoso, «altri giocatori stanno partecipando a questa partita». «Oponn», affermò Rake. «Quello è un pericolo per tutti. Pensi che a Oponn importi qualcosa di una città mortale? Della gente che ci vive? È il legame con il potere che a lui interessa, il vortice dove il gioco si fa sporco. Verrà versato sangue immortale? Questa è la domanda a cui gli dei sono impazienti di avere una risposta.» Baruk guardò il bicchiere di latte che teneva ancora in mano. «Be', per lo meno quello siamo riusciti a evitarlo, finora.» Bevve un sorso di latte. «Sbagliato», lo corresse Rake. «È bastato spingere Tronod'Ombra fuori dal gioco perché venisse versato il primo sangue immortale.» Baruk si bloccò di colpo. Posò il bicchiere e guardò il Tiste Andii. «Di chi?» «Due Segugi sono morti sotto la mia spada. Tronod'Ombra non se l'aspettava.» Baruk si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. «Allora la posta in gioco è aumentata.» «Per quanto riguarda la Progenie della Luna, Alchimista.» Rake tornò alla sedia e si sedette, allungando ancora le gambe verso il tepore del fuoco. «Allora, che cosa mi sai dire di nuovo su questo Tiranno Jaghut? Se non sbaglio, avevi detto che volevi consultarti con un'autorità in materia.» Baruk aspri gli occhi e buttò il pane nel fuoco: «C'è un problema a quel riguardo, Rake. Spero che potrai aiutarmi a capire che cosa è successo. Per favore», disse alzandosi, «seguimi». Brontolando, Rake tornò ad alzarsi in piedi. Quella notte non portava la spada. A Baruk l'ampia schiena del Tiste Andii apparve incompleta, ma era felice per l'assenza dell'arma.
Condusse Rake fuori dallo studio e giù dalle scale fino alle stanze sotterranee, nella prima delle quali un uomo anziano dormiva sdraiato su una branda. Baruk lo indicò. «Come vedi, sembra stia dormendo. Si chiama Mammot.» Rake sollevò un sopracciglio. «Lo storico?» «E Sommo sacerdote di D'rek.» «Ecco spiegato il cinismo dei suoi scritti», commentò Rake, sorridendo. «Il Verme dell'Autunno genera molta scontentezza.» Baruk fu sorpreso che quel Tiste Andii avesse letto le Storie di Mammot ma dopo tutto, perché no? Una vita lunga ventimila anni doveva avere bisogno di passatempi. «Così», disse Rake avvicinandosi al letto, «questo Mammot dorme di un sonno profondo. Che cosa lo ha provocato?». Si accovacciò davanti all'anziano. Baruk lo raggiunse. «È quello che non ho capito. Devo ammettere di sapere poco di magia della terra. D'riss è un Canale che non ho mai esplorato. Ho chiamato Mammot, come ti avevo detto, e quando è arrivato gli ho chiesto di dirmi tutto quello che sapeva sul Tiranno Jaghut e il tumulo. Lui si è immediatamente seduto e ha chiuso gli occhi. Non li ha più riaperti e da allora non ha pronunciato una parola.» Rake si alzò. «Direi che ha preso la tua richiesta seriamente.» «Che cosa vuoi dire?» «Come hai giustamente pensato, ha aperto il suo Canale D'riss. Ha cercato di rispondere alla tua domanda andando, diciamo, alla fonte. E adesso qualcosa l'ha intrappolato.» «Ha viaggiato nel Canale fino al tumulo del Tiranno Jaghut? Vecchio sciocco!» «Si è ritrovato in una concentrazione di magia Tellan, per non parlare dello Jaghut Omtose Phellack. A tutto questo si aggiunge una donna con una spada Otataral.» Rake incrociò le braccia. «Non si sveglierà fino a quando il T'lan Imass e la spada Otataral non avranno lasciato il tumulo. E anche allora, se non sarà veloce, lo Jaghut che si starà risvegliando potrebbe prenderlo.» Il gelo scese nelle ossa di Baruk. «Prenderlo, nel senso di possederlo?» Rake annuì, sul viso un'espressione arcigna. «È un Sommo Sacerdote? Lo Jaghut potrebbe ritenerlo molto utile. Per non parlare dell'accesso che Mammot ha al Canale D'rek. Baruk, sai se questo Tiranno è in grado di sottomettere una dea?»
«Non lo so», mormorò Baruk. Gocce di sudore gli scivolarono lungo il viso, mentre fissava il corpo immobile di Mammot. *** L'anziana donna seduta sui gradini della casa strizzò gli occhi sotto il sole del tardo pomeriggio, mentre schiacciava nella pipa le foglie secche di Italbe. Accanto a lei era posato un piccolo braciere di bronzo. Sottili bastoncini per accensione spuntavano fuori da numerosi fori nel contenitore. La vecchia ne prese uno, accese la pipa e lo gettò per strada. L'uomo che avanzava dall'altra parte della strada vide il segnale e si passò una mano fra i capelli. Il Violatore del Cerchio era pressoché in preda al panico. Aggirarsi in quel modo per le strade era diventato troppo rischioso. I cacciatori di Turban Orr gli erano quasi addosso - ne era certo. Prima o poi, il consigliere si sarebbe ricordato dei molti incontri sotto il Barbacane del Despota e della guardia che era sempre lì, in servizio. Mostrarsi in giro così sfacciatamente comprometteva l'intero piano. Svoltò un angolo, sparendo alla vista della vecchia e continuò per tre isolati fino a quando si trovò davanti alla Locanda della Fenice. Due donne, ferme sulla porta d'ingresso, scherzavano fra loro. Il Violatore del Cerchio infilò i pollici nel cinturone e spinse infuori il fodero. L'estremità rivestita di bronzo raschiò contro la parete di pietra accanto a lui. A quel punto, l'uomo abbassò le mani e continuò per la sua strada diretto verso il Distretto Lago. È fatta. Ora non gli restava che un ultimo contatto, che sperava verbale, ma come sempre avrebbe seguito gli ordini dell'Anguilla. Ogni tassello del mosaico cominciava ad andare al suo posto. Non si aspettava di vivere molto più a lungo, ma fino ad allora avrebbe fatto il suo dovere. Che altro si poteva volere da lui? *** All'entrata della Locanda della Fenice, Meese diede di gomito a Irilta. «Eccolo», mormorò. «Questa volta riferisci tu. Solito procedimento.» Irilta s'incupì, poi annuì. Meese scese le scale e si avviò lungo la strada in direzione opposta rispetto a quella verso cui si era diretto il Violatore del Cerchio, fino a quando raggiunse la casa. Vide la vecchia seduta sui gradini che guardava annoiata i passanti. Appena scorse Meese, l'anziana si tolse la pipa di boc-
ca e la batté contro il tacco della scarpa. Una cascata di scintille cadde sull'acciottolato. Quello era il segnale. Messe raggiunse l'angolo dell'isolato, girò a destra e s'infilò in un vicolo seguendo l'edificio. A un terzo dello stabile, una porta si aprì e la donna entrò in una stanza a malapena illuminata. Sul muro opposto si apriva un'altra porta. Qualcuno si nascondeva dietro alla prima porta, ma la donna non ne avvertì la presenza. Oltrepassò la seconda porta interna e si trovò in un corridoio. Ora non le restava che salire le scale. *** Apsalar - o Dispiacere, come si chiamava prima - non era rimasta particolarmente colpita dal primo impatto avuto con Darujhistan. Per qualche oscura ragione, nonostante la sua eccitazione e le sue aspettative, tutto le era sembrato troppo familiare. Irritato, Crokus non aveva perso tempo e l'aveva portata a casa dello zio subito dopo avere portato nelle scuderie il cavallo di Coll. Il viaggio verso la città e attraverso le sue vie era stato, per Crokus, una fonte continua di confusione. Quella donna sembrava avesse la capacità di coglierlo continuamente con la guardia abbassata e ora, tutto quello che desiderava era affidarla alle mani di qualcun altro e togliersela dai piedi. Ma se le cose stavano veramente così, perché il solo pensiero lo rendeva triste? Crokus lasciò lo studio di Mammot ed entrò nell'altra stanza. Moby, placidamente appollaiata sul tavolo, lo salutò con uno schiocco della lingua. Ignorando la creatura, Crokus si piantò davanti ad Apsalar, che si era seduta nella più comoda delle due sedie - la sua, naturalmente. «Non capisco. Sembra se ne sia andato da almeno un paio di giorni.» «E allora? È così strano?» domandò Apsalar in tono indifferente. «Sì», borbottò il ragazzo. «Hai dato da mangiare a Moby come ti ho detto?» La ragazza annuì. «L'uva?» «Sì.» Posò le mani sui fianchi. «Strano. Forse Rallick ne sa qualcosa.» «Chi è Rallick?» «Un amico sicario», rispose Crokus distrattamente. Apsalar balzò in piedi, gli occhi spalancati. «Che cosa c'è?» le domandò Crokus avvicinandosi. La ragazza sembrava terrorizzata. Il giovane ladro si guardò intorno, quasi aspettandosi di vede-
re sbucare un demone dal pavimento o dalla credenza. Ma nella stanza nulla era cambiato - forse era solo un po' più in disordine del solito. Probabilmente era opera di Moby. «Non lo so con precisione», disse Apsalar, cercando di rilassarsi. «Per un attimo mi è sembrato di essere sul punto di ricordare qualcosa. Ma poi tutto è svanito.» «Capisco», mormorò Crokus. «Allora potremmo...» Un colpo risuonò alla porta. Crokus s'illuminò. «Oh, probabilmente ha perso la chiave o qualcosa del genere», affermò andando ad aprire. «Non era chiusa a chiave», sottolineò Apsalar. Crokus aprì la porta. «Meese! Che cosa...» «Zitto!» sibilò la donna corpulenta, entrando nella stanza e chiudendo la porta dietro di sé. Sgranò gli occhi appena il suo sguardo cadde su Apsalar. Si girò di colpo verso Crokus. «Meno male che ti ho trovato, ragazzo! Non hai visto nessuno da quando sei tornato?» «No, perché? Sono appena...» «Uno stalliere», disse Apsalar, squadrando Meese. «Ci conosciamo?» «Ha perso la memoria», spiegò Crokus. «Ah, sì, abbiamo portato il cavallo di Coll nella stalla.» «Perché?» chiese Meese. Poi riprese a parlare senza aspettare la risposta del ragazzo. «Non importa. Lo stalliere non dovrebbe essere un problema. Bene, siamo fortunati!» «Dannazione, Meese», sbottò Crokus. «Che cosa succede?» I loro sguardi s'incrociarono. «Si tratta della guardia dei D'Arle che hai ucciso l'altra notte. Quella nel giardino. Hanno il tuo nome e la tua descrizione, ragazzo. Non chiedermi come abbiano fatto. Ma se ti prendono, i D'Arle ti trascineranno al patibolo.» Crokus impallidì. Poi girò di scatto la testa verso Apsalar. Aprì la bocca, ma la richiuse subito dopo. No, lei non lo ricordava davvero. Ma doveva essere stata lei. Crollò nella sedia di Mammot. «Dobbiamo nasconderti, ragazzo», disse Meese. «Entrambi, direi. Ma non preoccuparti, Crokus, io e Irilta ci prenderemo cura di voi fino a quando non troveremo una soluzione.» «Non posso crederci», mormorò il ragazzo fissando la parete davanti a lui. «Mi ha tradito, maledetta!» Meese lanciò ad Apsalar un'occhiata interrogativa. «Tiro a indovinare», disse la ragazza, «ma penso si riferisca a una certa
Challice». Meese chiuse per un attimo gli occhi. «Challice D'Arle, la più corteggiata della città!» La compassione ammorbidì i tratti del suo viso quando posò lo sguardo su Crokus. «Oh, ragazzo. È così che stanno le cose.» Crokus sobbalzò sulla sedia e la guardò negli occhi. «Non più.» Un largo sorriso illuminò il volto di Meese. «Bene. Per ora», disse, incrociando le braccia, «ce ne staremo qui fino al calare della notte. Dopo di che, ci allontaneremo per i tetti. Non preoccuparti, andrà tutto bene». Apsalar si alzò. «Mi chiamo Apsalar», affermò. «Piacere di conoscerti, Meese. E grazie per il tuo aiuto a Crokus.» «Apsalar, eh? Be'», commentò con voce divertita, «immagino che per te i tetti non siano un problema, allora». «Nessun problema», rispose la ragazza sentendo di dire la verità. «Perfetto. Adesso che cosa ne dite se cercassimo qualcosa da bere?» propose Meese. «Meese, sai dove sia andato mio zio?» chiese Crokus. «Mi spiace, non ne ho idea, ragazzo.» Non era sicuro della vecchia sulle scale, ma quella subito sotto, quella che si teneva nell'ombra e non perdeva d'occhio la casa - quella non doveva essere persa di vista. A quanto pareva, il Portatore della Moneta era ben protetto. Serrat non era particolarmente preoccupata. Dopo il suo signore, Anomander Rake, lei era la più spietata tra i Tiste Andii della Progenie della Luna. Trovare quel ragazzo, servo di Oponn, non era stato difficile. Una volta che il suo signore le aveva dato le indicazioni necessarie, rintracciare l'impronta magica di Oponn era stato un gioco da ragazzi. Il fatto di averla già incontrata sui tetti della città un paio di settimane prima - sempre in relazione a quel ragazzo - era stato di grande aiuto. Quella notte i suoi agenti avevano seguito il Portatore della Moneta fino alla Locanda della Fenice, dopo di che, e su suo ordine, se n'erano andati. Se allora lei avesse sospettato ciò che ora sapeva, la presenza di Oponn sarebbe stata cancellata quella stessa notte. Mera sfortuna. Sul tetto, Serrat sorrise tra sé e sé e si agitò alla ricerca di una posizione più comoda. Aveva il sospetto che si sarebbero mossi con l'oscurità. Per quanto riguardava la donna nascosta disotto, doveva essere eliminata. Chissà, con un incantesimo visivo e l'aiuto delle ombre forse avrebbe potuto prendere il suo posto.
L'altra donna, quella che era nella casa con il Portatore della Moneta, non avrebbe sospettato niente. Serrat annuì. Sì, è così che avrebbe giocato la partita. Ma per il momento non poteva che aspettare. E la sua pazienza sarebbe stata premiata. *** «Be'», disse Murillio, scrutando fra la folla, «non sono qui. Il che significa che sono con Mammot». Kruppe respirò a pieni polmoni l'aria maleodorante e fumosa. «Ah, la civiltà. Kruppe ritiene che la tua deduzione sia corretta, amico. Perciò, possiamo anche fermarci qui per una o due ore, bere qualcosa e cenare.» Detto ciò, si fece largo tra gli avventori della Locanda della Fenice. Un paio di vecchie conoscenze, sedute al tavolo di Kruppe, presero i loro boccali e si alzarono, mormorando parole di scuse. Kruppe li salutò con un cenno del capo e con un sospiro di soddisfazione si lasciò andare sulla sua solita sedia. Murillio si fermò al bancone per un rapido scambio di battute con Scurve, poi raggiunse Kruppe. «Non vedo l'ora di fare un bagno», disse Murillio, scuotendosi la polvere di dosso. «Rallick è stato qui alcune ore fa. Pare si sia incontrato con uno sconosciuto. Da allora, nessuno l'ha più visto.» Kruppe agitò la mano con fare distratto. «Arriva la dolce Sulty», annunciò. Pochi istanti dopo, una brocca di birra troneggiava sul tavolo. Kruppe pulì il boccale con il fazzoletto di seta e lo riempì di birra schiumosa. «Non dovremmo fare rapporto a Baruk?» chiese Murillio, gli occhi sull'amico. «Tutto a tempo debito», rispose Kruppe. «Per prima cosa, dobbiamo riprenderci dalle fatiche. Che cosa accadrebbe se Kruppe dovesse perdere la voce nel bel mezzo di detto rapporto? Che vantaggio ne trarrebbe Baruk?» Sollevò il boccale e bevve una lunga sorsata. Murillio tamburellava incessantemente le dita sul tavolo, gli occhi che scrutavano la folla. Infine si drizzò sulla sedia e si riempì il boccale. «Ora che sei a conoscenza di ciò che io e Rallick dobbiamo fare, come intendi agire a riguardo?» Kruppe inarcò le sopracciglia. «Kruppe? Be', nel modo migliore, naturalmente. Tempestiva assistenza e via dicendo. Non c'è bisogno di preoccuparsi, caro amico. Tutto procederà come pianificato. Pensa al saggio
Kruppe come a un gentile chaperon.» «Per il respiro di Hood», commentò Murillio, sollevando gli occhi al cielo. «Ce la cavavamo bene senza il tuo aiuto. La cosa migliore che puoi fare per noi è stare fuori dai piedi. Stai alla larga.» «E abbandonare i miei amici al loro destino? Quale assurdità!» Murillio finì la birra e si alzò. «Vado a casa», disse. «Per quel che me ne importa, puoi fare il rapporto a Baruk anche fra una settimana. E quando Rallick scoprirà che sai tutto dei nostri piani, be', Kruppe, non vorrei essere nei tuoi panni.» Kruppe agitò un braccio con fare distratto. «Vedi, Sulty, amico? Sul suo vassoio c'è la cena di Kruppe. Gli orribili pugnali di Rallick Nom e il suo pessimo carattere impallidiscono davanti alla cena che sta per essere servita. Buona notte, Murillio. A domani.» «Buona notte, Kruppe», brontolò Murillio in risposta. Lasciò la locanda dalla porta sul retro. Era appena entrato nel vicolo che una figura gli si avvicinò. Murillio s'incupì. «Sei tu, Rallick?» «No», rispose la figura nascosta dall'ombra. «Non avere paura, Murillio. Ho un messaggio per te da parte dell'Anguilla. Il sono il Violatore del Cerchio.» L'uomo si avvicinò. «Il messaggio riguarda il Consigliere Turban Orr...» *** Nell'oscurità, Rallick passava di tetto in tetto. Il bisogno di assoluto silenzio rallentava la sua avanzata. Non ci sarebbe stata conversazione con Ocelot. Rallick sapeva di avere a disposizione un solo colpo per quell'uomo. Se avesse perso quell'opportunità, la magia del capoclan sarebbe diventata l'elemento decisivo. A meno che... Rallick si fermò e controllò la borsa. Anni addietro, l'alchimista Baruk l'aveva ricompensato per un lavoro ben fatto donandogli un sacchettino contenente una polvere rossastra capace, secondo quanto gli aveva spiegato Baruk, di attutire i rumori. Ma Rallick non aveva mai riposto fiducia nella polvere. Dopo tanti anni, la sua efficacia sarebbe stata immutata? Sarebbe stata all'altezza dei poteri di Ocelot? Non ne aveva idea. Attraversò il tetto di un edificio particolarmente alto, rasente a una cupola. In basso, alla sua sinistra, si trovava la muraglia orientale della città. Dietro di essa s'intravedeva il debole bagliore del Quartiere di Worry. Il sicario sospettava che Ocelot avrebbe atteso l'arrivo di Coll alla Porta di
Worry, mantenendosi così fuori tiro. Avrebbe fatto meglio a uccidere l'uomo prima che entrasse in città. Questo, naturalmente, limitava considerevolmente le possibilità. Le linee di mira erano poche e la collina K'rul era la migliore. Tuttavia, Ocelot poteva essere già ricorso alla magia e giacere nascosto a occhi terreni. Rallick correva il rischio di inciampare su di lui. Raggiunse il lato settentrionale del bordo della cupola. Davanti a lui si ergeva il tempio di K'rul. Dal campanile, avrebbe potuto vedere Coll mentre superava la porta. Rallick estrasse il sacchettino dalla borsa. Baruk aveva detto che tutto quello che veniva coperto dalla polvere diveniva impenetrabile alla magia. Inoltre, agiva su una vasta zona. Il sicario aggrottò la fronte. Vasta quanto? E dopo un po', la polvere perdeva efficacia? Rallick ricordava perfettamente che l'alchimista si era raccomandato di evitare che la pelle venisse a contatto con la polvere. «È velenosa?» aveva chiesto Rallick. «No», aveva risposto Baruk. «La polvere ha il potere di cambiare alcune persone. Tuttavia, non c'è modo di prevedere tali cambiamenti. Meglio non correre il rischio, Rallick.» Gocce di sudore gli scivolarono lungo il viso. Le probabilità di trovare Ocelot erano già esigue. La morte di Coll avrebbe rovinato ogni cosa e, inoltre, avrebbe privato Rallick del suo diritto... a che cosa? All'umanità. Il prezzo del fallimento era diventato molto alto. «Giustizia», sibilò in tono furioso. «Deve significare qualcosa. Deve!» Rallick aprì il sacchettino ed estrasse una manciata di polvere. La sfregò fra le dita. Aveva la consistenza della ruggine. Chissà se aveva perso la sua efficacia. Si strinse nelle spalle e iniziò a passarsela sulla pelle, cominciando dal viso. «Quali cambiamenti?» borbottò. «Non sento niente.» Infilata la mano sotto i vestiti, Rallick utilizzò la polvere fino all'ultimo granello. Si accorse che l'interno del sacchettino era macchiato. Lo rovesciò, quindi lo agganciò al cinturone. E adesso, pensò con un ghigno sul viso, la caccia continua. Là fuori, nascosto nel buio, un sicario aspettava, gli occhi fissi su Jammit's Worry. «Ti troverò, Ocelot», mormorò, lo sguardo puntato sul campanile di K'rul. «E magia o no, non mi sentirai; sentirai il mio fiato sul collo solo quando sarà troppo tardi. Te lo giuro.» Iniziò a salire. CAPITOLO DICIOTTESIMO Questa città azzurra
cela sotto il suo manto una mano nascosta che racchiude una spada avvelenata dal Paralto a otto zampe il suo morso porta la morte nel momento di dolore che accompagna l'ultimo respiro così questa mano sfida la ragnatela della magia e fa fremere il filo sottile della minaccia letale di un ragno. Questa mano sotto il mantello azzurro della città vuole ristabilire il delicato equilibrio del Potere La Cospirazione Gallan il Guercio (n. 1078) Il sergente Whiskeyjack andò al capezzale di Kalam. «Sei sicuro di potercela fare?» gli chiese. Il sicario, seduto con la schiena contro il muro, alzò lo sguardo dai coltelli che stava affilando. «Non c'è molta scelta, no?» Tornò al suo lavoro. Whiskeyjack aveva un'espressione tesa e smunta per la mancanza di sonno. Guardò dall'altra parte della stanzetta, dove Ben lo Svelto stava accucciato in un angolo, con gli occhi chiusi e un frammento di coperta in mano. Al tavolo, Fiddler e Hedge avevano smontato la loro enorme balestra, e stavano ripulendo ed esaminando ciascun pezzo. Vedevano un combattimento nel loro futuro. Whiskeyjack condivideva la loro previsione. Ogni ora che passava portava più vicini i loro molti cacciatori. Fra questi, quello che temeva di più era il Tiste Andii. Il suo squadrone era capace, ma non così capace. Accanto alla finestra c'era Trotts, appoggiato al muro con le braccia robuste incrociate sul petto. E contro un muro dormiva Mallet, il cui russare risuonava nella stanza. Il sergente riportò l'attenzione su Kalam. «Le probabilità sono scarse, eh?»
Il sicario annuì. «L'uomo non ha alcun motivo per mostrarsi di nuovo. L'ultima volta, hanno preso una bella scottatura.» Scosse le spalle. «Proverò ancora nella locanda. Se va bene, qualcuno mi noterà e la Corporazione uscirà allo scoperto. Se riuscirò a buttar lì una parola prima che mi uccidano, c'è una possibilità. Non è molto...» «... ma dovremo accontentarci», terminò Whiskeyjack. «Avrai domani per agire. Se faremo fiasco», guardò Fiddler e Hedge e trovò i loro occhi su di lui, «faremo esplodere gli incroci. Così li danneggeremo per bene». Un gran sorriso segnalò la brama dei due sabotatori. Ben lo Svelto emise un forte sibilo di frustrazione, che fece girare tutti verso di lui. Il mago aveva aperto gli occhi. Gettò il tessuto lacero sul pavimento, con un gesto sprezzante. «Niente da fare», sergente. «Non riesco a trovare Dispiacere da nessuna parte.» Kalam borbottò un'imprecazione e gettò le sue armi nei foderi. «E questo cosa significa?» indagò Whiskeyjack. «Con ogni probabilità», rispose Ben lo Svelto, «è morta». Indicò il pezzo di coperta. «Usando quello, dovrei essere in grado di individuare la Fune. Se ancora possiede Dispiacere.» «Forse, una volta che gli hai detto di avere scoperto il suo gioco», osservò Fiddler, «ha gettato la spugna e abbandonato il campo». Ben lo Svelto fece una smorfia. «La Fune non ha paura di noi, Fiddler. Scendi con i piedi per terra. Anzi, si preparerà ad attaccarci. Tronod'Ombra, ormai, deve avergli detto chi sono o, meglio, chi ero una volta. Non sono affari della Fune, ma Tronod'Ombra potrebbe insistere. Agli dei non piace essere ingannati; specialmente due volte.» Tirandosi in piedi, stirò la schiena fino a farla scricchiolare. Incontrò lo sguardo di Whiskeyjack. «Non capisco questa storia, sergente. Sono perplesso.» «Dobbiamo abbandonare la ragazza?» chiese Whiskeyjack. Ben lo Svelto annuì. «La mia risposta è sì.» S'interruppe, poi fece un passo avanti. «Tutti ci auguravamo di averla giudicata male», aggiunse, «ma le sue azioni non avevano niente a che vedere con l'essere umano. E, per quanto mi riguarda, ne sono felice». «Odio pensare», intervenne Kalam, dal suo letto, «che il male sia reale, che esista con un volto netto come quello di un uomo. So, Whiskeyjack, che tu hai le tue ragioni per volere che le cose stiano così». Ben lo Svelto si avvicinò a Whiskeyjack; il suo sguardo si ammorbidì. «È una cosa che protegge la tua sanità mentale ogni volta che ordini la morte di qualcuno», commentò. «Lo sappiamo tutti, sergente. E saremmo
gli ultimi a suggerire che esista un'alternativa a cui non hai ancora pensato.» «Be', sono felice di sentirlo», ruggì Whiskeyjack. Abbracciando la stanza con lo sguardo, vide che Mallet era sveglio e lo squadrava. «Qualcun altro ha qualcosa da dire?» «Io sì», saltò su Fiddler, poi trasalì davanti all'occhiata assassina del sergente. «Be', l'hai chiesto tu, no?» «Sputa l'osso, allora.» Fiddler si raddrizzò sulla sedia e si schiarì la gola. Mentre stava per cominciare, Hedge gli diede una gomitata nelle costole. Un cipiglio minaccioso sulla fronte, l'uomo riprovò. «Ascolta, sergente. Abbiamo visto morire moltissimi nostri amici, giusto? E forse non per nostro ordine, per cui penserai che sia stato più facile per noi. Ma io non lo credo. Vedi, quelle persone vivevano, respiravano. Erano nostri amici. Quando sono morti, ne abbiamo sofferto. Ma tu continui a ripeterti che l'unico modo per non impazzire è sottrarre loro la loro umanità, per cui non devi pensarci, non devi sentire niente quando muoiono. Ma, maledizione, quando togli l'umanità a qualcuno, la togli anche a te stesso. E questo ti farà impazzire, garantito. È il dolore che proviamo a farci andare avanti, sergente. Forse ora non staremo arrivando da nessuna parte, ma almeno non stiamo scappando da niente.» Nella stanza era calato il silenzio. Poi Hedge mollò a Fiddler un pizzicotto sul braccio. «Che io sia dannato! C'è un cervello in quella testa, dopo tutto. Credo di averti giudicato male per tutti questi anni.» «Sì, giusto», ribatté Fiddler, roteando gli occhi verso Mallet, «e chi è che si è bruciato i capelli tante di quelle volte che deve tenersi sempre addosso un brutto cappello di cuoio?». Mallet rise, ma la tensione restava; tutti ripuntarono lo sguardo sul loro sergente. Lentamente, Whiskeyjack studiò ogni uomo del suo squadrone. Vide l'affetto nei loro occhi, l'aperta offerta di amicizia che aveva passato anni a soffocare. Li aveva sempre respinti, tutti quanti, e quei bastardi ostinati continuavano a tentare. E così, Dispiacere non era stata umana. La sua convinzione che le sue azioni rientrassero nella gamma delle umane possibilità era scossa. Ma non crollò del tutto. Aveva visto troppo, in vita sua. Nella sua concezione della storia umana non ci sarebbe stata nessuna fiducia improvvisa, nessun nascente ottimismo a scacciare i micidiali ricordi degli inferni che aveva attraversato.
Però, arrivava il momento in cui alcuni rifiuti perdevano la loro funzione, in cui l'implacabile insistenza del mondo rendeva la sua stoltezza evidente persino ai suoi stessi occhi. Era, finalmente, dopo tutti questi anni, fra amici. La sensazione era difficile da ammettere, e gli provocava già una certa impazienza. «Va bene», ruggì, «basta chiacchiere adesso. Abbiamo del lavoro da fare. Caporale?». «Sergente?» rispose Kalam. «Preparati. Hai le ore del giorno per ripristinare il contatto con la Corporazione dei Sicari. Nel frattempo, voglio che tutti tirino fuori le armi e le ripuliscano per bene. E riparate le armature. Ci sarà un'ispezione, e se trovo una sola cosa che non mi piace, vi beccherete una bella lavata di capo. Capito?» «Sicuro», disse Mallet, con un gran sorriso. *** Malgrado il ritmo lento della loro avanzata, la ferita di Coll si era aperta una mezza dozzina di volte dall'inizio del viaggio. Ma da quando, quel mattino, egli aveva trovato un modo speciale di stare in sella, piegato da una parte e con la maggior parte del peso appoggiata sulla gamba sana, l'incidente non si era più ripetuto. Quella posizione scomoda, tuttavia, gli provocava crampi e dolori al resto del corpo. Paran sapeva riconoscere qualcuno di cattivo umore, quando lo vedeva. Benché fosse chiaro a entrambi che fra loro si era formato un legame, piacevole, privo di finzioni, si erano scambiati solo poche parole mentre la ferita di Coll continuava a tormentarlo. L'intera gamba sinistra, dall'anca, dove la spada l'aveva colpito, giù fino al piede, era di un color bruno uniforme, scurito dal sole. Grumi di sangue essiccato si erano raccolti nelle giunture fra la piastra sulla parte superiore della gamba e la protezione del ginocchio; e quando la coscia si era gonfiata, erano stati costretti a tagliare l'imbottitura di cuoio sotto la piastra. La guarnigione del Ponte Catlin aveva negato loro soccorso, poiché l'unico chirurgo di stanza lì stava smaltendo nel sonno una delle sue «brutte notti». Però avevano ricevuto bende pulite, ed erano queste - già fradice di sangue - che ora coprivano la ferita. Su Jammit's Worry c'era poco traffico, malgrado le mura della città fossero in vista. Il flusso di rifugiati dal nord era terminato, e quelli intenzionati a riunirsi per il Festival di Gedderone l'avevano già fatto.
Mentre si avvicinavano al confine del Quartiere di Worry, Coll si riscosse dallo stato di semi-incoscienza in cui versava da qualche ora. Il suo viso era mortalmente pallido. «Questa è la porta di Worry?» chiese in tono spento. «Credo di sì», rispose Paran, dal momento che la strada su cui si trovavano portava lo stesso nome. «Ci lasceranno entrare?» indagò. «Le guardie chiameranno un chirurgo?» Coll scosse la testa. «Fammi passare. La Locanda della Fenice. Portami alla Locanda della Fenice.» La sua testa si afflosciò di nuovo. «Benissimo, Coll.» Sarebbe rimasto sorpreso se le guardie l'avessero permesso, e avrebbe avuto bisogno di una storia da raccontare loro, anche se Coll non aveva rivelato niente di come era stato ferito. «Spero», borbottò, «che in questa Locanda della Fenice ci sia qualcuno con il tocco del guaritore». L'uomo sembrava messo male. Paran puntò lo sguardo sulla porta della città. Aveva già visto abbastanza da capire perché l'Imperatrice la volesse così avidamente. «Darujihistan.» Sospirò. «Sei una vera meraviglia, lo sai?» *** Rallick si tirò su faticosamente di un altro pollice. Le membra gli tremavano dalla stanchezza. Se non fosse stato per le ombre del mattino su quel lato del campanile, sarebbe stato individuato già da tempo; e stanti così le cose, non sarebbe rimasto nascosto molto a lungo. Prendere le scale sarebbe stato un suicidio, nel buio. Ocelot aveva sicuramente posto degli allarmi lungo tutto il tragitto - quell'uomo non era uno stupido, quando si trattava di coprire le vie di accesso alla sua posizione. Sempre che fosse lassù, Rallick ricordò a se stesso. Altrimenti, Coll era nei guai. Non c'era modo di dire se il suo amico fosse già arrivato alla porta, e il silenzio dalla cima del campanile poteva significare qualunque cosa. Si fermò a riposare e alzò lo sguardo. Ancora dieci piedi, i più critici. Era talmente esausto, che riusciva a malapena a stringere gli appigli. Un approccio silenzioso, ormai, era al di là delle sue possibilità. L'unico vantaggio stava nel fatto che Ocelot sarebbe stato concentrato verso est, mentre lui ora risaliva il lato occidentale della torre. Tirò qualche respiro profondo, poi allungò la mano verso un altro appiglio.
*** Passanti si fermarono a guardare Paran e Coll attraversare lentamente il Quartiere di Worry, verso la porta. Ignorando loro e le loro domande, il capitano concentrò l'attenzione sulle due guardie alla porta, che avevano scorto lui e Coll, e ora li aspettavano. All'arrivo, Paran fece segno di voler passare. Una guardia annuì, mentre l'altra camminava accanto al cavallo del capitano. «Il tuo amico ha bisogno di un chirurgo», decretò la prima. «Se aspetterete appena dentro, potremo averne qui uno in cinque minuti.» Paran rifiutò l'offerta. «Dobbiamo trovare la Locanda della Fenice. Sono del nord, e non sono mai stato qui. Quest'uomo desidera andare alla Locanda della Fenice, e lì lo porterò.» La guardia era dubbiosa. «Sarei sorpreso se riuscisse ad arrivarci. Ma se è questo che volete, il minimo che possiamo fare è darvi una scorta.» Mentre emergevano dall'ombra della porta, l'altra guardia emise un grido di sorpresa. Paran trattenne il respiro, mentre l'uomo si avvicinava a Coll. «Lo conosco», annunciò. «È Coll Jhamin, del Casato di Jhamin. Ho lavorato al suo servizio.» «Credevo che Coll fosse morto anni fa», ribatté il suo compagno. «Dimentica i documenti ufficiali», sbottò l'altro. «So quello che dico, Vildron. Questo è Coll, senza dubbio.» «Vuole andare alla Locanda della Fenice», gli comunicò Paran. «È l'ultima cosa che mi ha detto.» Quello annuì. «Facciamolo bene, però.» Si girò verso la prima guardia. «Se ci saranno ramanzine, me le beccherò io, Vildron. Prendimi il carro - è ancora attaccato da stamattina, vero?» La guardia sorrise a Paran. «Grazie per averlo portato qui. Qualcuno, in città, ha ancora gli occhi, e al diavolo quello che bisbigliano i pezzi grossi. Lo metteremo in fondo al carro - così subirà meno scossoni.» Paran si rilassò. «Grazie, soldato.» Guardò oltre l'uomo, ansioso di vedere ciò che poteva della città ora che il muro era alle sue spalle. Proprio davanti a loro si ergeva una collina rotonda, con i lati rivestiti di erbacce e di alberi nodosi. Sulla cima, stava accovacciato una sorta di tempio, abbandonato da molto, da cui si levava una torre dai lati quadrati, ricoperta da un tetto con le tegole in bronzo. Raggiungendo con lo sguardo la piattaforma aperta del campanile, il capitano vide il guizzo di un movimento.
Socchiuse gli occhi. *** Rallick alzò cautamente la testa oltre il bordo della piattaforma. Per poco, non ansimò sonoramente. Il campanile era deserto. Poi ricordò le arti magiche di Ocelot. Trattenendo il respiro, sforzò un'ultima volta le braccia di piombo, issandosi sulla piattaforma. Non appena cercò di tirarsi in piedi, vide scintillare la pietra nuda e Ocelot sdraiato davanti a lui, la balestra carica, puntata verso un obiettivo al di sotto. Rallick sguainò i suoi coltelli e si mosse, all'unisono. Ma la stanchezza lo tradì, e gli stivali strascicarono sulla pietra. Ocelot si girò di scatto, puntando la balestra su Rallick. Il Capoclan contorse il viso in una maschera di rabbia e di paura. Non sprecò tempo in parole, e subito scoccò il quadrello infilato nell'arma. Rallick si irrigidì, in previsione dell'impatto che, ne era certo, l'avrebbe fatto scivolare lungo la piattaforma e, forse, anche oltre il bordo. Un lampo di rosso davanti al petto l'accecò momentaneamente, ma l'urto non arrivò. Sbattendo le palpebre, Rallick abbassò lo sguardo. Il quadrello era svanito. La verità lo colpì in un attimo. Il quadrello era magico, creato per volare dritto verso l'obiettivo, ma la polvere rugginosa di Baruk aveva funzionato. Mentre questo pensiero gli scoppiava nella testa, si lanciò in avanti. Ocelot imprecò e lasciò cadere la balestra. Mentre questi allungava la mano verso il suo pugnale, Rallick atterrò su di lui. Il Capoclan emise un sonoro grugnito, serrando gli occhi dal dolore. Rallick spinse il coltello che stringeva nella destra contro il petto di Ocelot. L'arma grattò contro la maglia sotto la camicia di tessuto. Maledizione, l'uomo aveva imparato qualcosa dall'altra notte; e Rallick aveva preso la stessa precauzione, nel venirlo a sfidare ora. Rallick indirizzò il coltello nella sinistra obliquamente, sotto il braccio destro di Ocelot. L'arma trafisse la carne, conficcandosi nell'ascella. Rallick vide, a una spanna dal suo viso, la punta del coltello emergere dal tessuto che copriva la spalla destra di Ocelot, seguita da un'esplosione di sangue. Sentì un pugnale strisciare sul lastrico con un raschio. I denti scoperti, Ocelot alzò di scatto la mano sinistra verso la nuca di Rallick, trovando la sua treccia. La tirò violentemente, ruotando la testa dell'avversario. Poi cercò di affondargli i denti nel collo. Ocelot ansimò, quando Rallick gli mollò una ginocchiata all'inguine. In-
tensificò la stretta sulla treccia, stavolta vicino all'estremità annodata. Udendo un tintinnio, Rallick cercò disperatamente di rotolare verso sinistra. Per quanto ferito, il braccio destro di Ocelot colpì il suo corpo abbastanza forte da trapassare la maglia con il pugnale, fino al petto. Un fuoco sordo fiorì dalla ferita. Ocelot liberò l'arma con uno strattone e, senza lasciare la treccia di Rallick, prese lo slancio per attaccare di nuovo. Rallick alzò il braccio destro e, con un unico movimento circolare, tagliò la propria treccia. Finalmente libero, si spostò verso destra, ritirando nel contempo il coltello infilato nel corpo di Ocelot. Questi menò fendenti all'impazzata verso il suo viso, mancando il bersaglio per pochi pollici. Con la forza che gli restava nel braccio sinistro, Rallick tuffò il coltello nello stomaco di Ocelot. Gli anelli della maglia si ruppero e la lama affondò fino all'impugnatura. Il Capoclan si ripiegò intorno all'arma. Ansimando, Rallick balzò in avanti e piantò l'altro coltello nella fronte di Ocelot. Rallick stette fermo per un po', meravigliandosi dell'assenza di dolore. Ora toccava a Murillio eseguire il piano. Coll sarebbe stato vendicato. Murillio poteva farcela - del resto, non aveva scelta. Ocelot ebbe la sensazione che il suo corpo si appesantisse, malgrado la perdita di sangue. «Avevo sempre creduto di essere all'altezza di quest'uomo», borbottò. Lottando contro gli spasmi, si distese sulla schiena, al centro della piattaforma. Aveva sperato di vedere per l'ultima volta il cielo, il suo blu intenso, insondabile. Invece, si ritrovò a guardare il disotto del tetto del campanile, con l'antico arco di pietra affollato di pipistrelli annidati. Questo particolare gli si fissò in testa, mentre sentiva il sangue sgorgargli dal petto. Gli sembrò di vedere occhi piccoli e lucenti puntati su di lui. *** Non avendo visto altri segni di movimento sul campanile, Paran spostò lo sguardo sul viale alla sua sinistra. Vildron arrivava, seduto su un carro tirato da due cavalli. La guardia che aspettava accanto alla bestia di Coll disse: «Dammi una mano, eh? Tiriamo giù il vecchio». Paran smontò, affrettandosi ad aiutarlo. Lanciò uno sguardo a Coll che, benché ancora in sella, era privo di coscienza. Quanto ancora sarebbe potuto durare? Se fossi nei suoi panni, si rese conto Paran, a quest'ora sarei morto. «Dopo tutto quello che abbiamo passato», ruggì mentre lo tiravano giù, «farai meglio a vivere, maledizione».
*** Con un gemito, Serrat si girò sulla schiena. Il sole le batteva forte e caldo sulle palpebre, mentre i frammenti sparsi della memoria si raccoglievano nella sua mente. La Tiste Andii era stata sul punto di attaccare la donna nel vicolo sottostante. Con la sua morte, i protettori del Portatore della Moneta si sarebbero ridotti a uno. E quando questo avesse lasciato il casamento col favore delle tenebre, sarebbe finito dritto nella sua trappola. Aprì gli occhi contro il sole di metà mattino. I pugnali, che aveva tenuto in mano quando stava accovacciata sul bordo del tetto, ora giacevano sull'acciottolato al suo fianco, posti ordinatamente uno accanto all'altro. Un dolore sordo, intenso, le pulsava alla nuca. Trasalendo, sondò la ferita, poi si tirò a sedere. Il mondo le girò all'intorno prima di fermarsi. Serrat era perplessa e arrabbiata. Era stata colpita di sorpresa, e chiunque fosse il responsabile era abile, abbastanza abile da fare una cosa del genere a una maga-sicario Tiste Andii. E questo era preoccupante, perché non si era ancora visto un simile asso a Darujhistan, a eccezione di quei due Artigli la notte dell'imboscata. Ma se fossero stati loro gli artefici, non sarebbe rimasta in vita. Invece, il piano sembrava essere stato studiato, più che altro, allo scopo di confonderla. Lasciarla lì in piena luce, con le armi accanto, indicava un senso dell'umorismo sottile, astuto. Oponn? Forse, anche se raramente gli dei agivano così direttamente, preferendo agenti inconsapevoli scelti dalle masse mortali. Una certezza emergeva dal mistero, però, ed era che aveva perso l'occasione di uccidere il Portatore della Moneta - almeno, per un altro giorno. La prossima volta, giurò a se stessa, mentre si tirava in piedi ed entrava nel suo Canale Kurald Galain, i suoi nemici segreti l'avrebbero trovata pronta ad affrontarli. L'aria intorno a lei fremeva di magia. Quando si acquietò, Serrat era sparita. *** Granellini di polvere fluttuavano nell'aria calda e stantia del solaio della Locanda della Fenice. Il soffitto obliquo si alzava dai cinque piedi del muro orientale ai sette del muro occidentale. La luce del sole entrava a fiotti
dalle finestre a entrambe le estremità del locale lungo e stretto. Sia Crokus che Apsalar dormivano, anche se ai lati opposti della stanza. Seduta su una cassa da imballaggio accanto alla botola, Messe si puliva le unghie con una scheggia di legno. Lasciare il casamento di Mallet e attraversare i tetti fino a quel nascondiglio si era rivelato facile. Fin troppo. Irilta aveva riferito che nessuno, per le strade, li aveva seguiti. E i tetti stessi erano stati deserti. Era come se fosse stato creato per loro un sentiero privo di ostacoli. Un altro segno del talento dell'Anguilla? Meese emise un leggero grugnito. Forse. O più probabilmente, lei attribuiva troppo peso all'istintivo disagio che le correva per la spina dorsale come uno sfuggente prurito. Persino in quel momento, sentiva occhi nascosti puntati su di loro, e questo, si disse, abbracciando con lo sguardo il solaio muffito, era impossibile. Si udì un leggero colpo alla botola. La porticina si spalancò, e apparve Irilta. «Meese?» sussurrò. «Sono qui che ti respiro sul collo», tuonò Meese, gettando la scheggia di legno sul pavimento unto. «Di' a Scurve che questo posto aspetta solo di incendiarsi.» Irilta grugnì, issandosi nella stanza. Chiuse la botola, ripulendosi le mani dalla polvere. «Giù succedono cose strane», annunciò. «È arrivato un carro cittadino, e ne sono scesi una guardia e un altro tipo che sorreggevano Coll. Il vecchio scemo è quasi morto per una ferita da spada. L'hanno messo nella stanza di Kruppe, un piano più sotto. Sulty è andata a cercare un chirurgo, ma sembra messo male. Molto male.» Meese strinse gli occhi nell'aria polverosa, fissando lo sguardo su Crokus che ancora dormiva. «L'altro che aspetto aveva?» indagò. Irilta sogghignò. «Abbastanza buono per rotolarcisi insieme sul materasso, direi. Ha detto di aver trovato Coll su Jammit's Worry, che sprizzava sangue da tutti i pori. Coll è rinvenuto abbastanza a lungo da dirgli di portarlo qui. Adesso è giù al bar, che mangia abbastanza per tre uomini.» Meese grugnì a sua volta. «Straniero?» Irilta andò alla finestra affacciata sulla strada. «Parla Daru come se fosse la sua lingua madre. Ma ha detto che veniva dal nord. Da Pale, e prima ancora da Genabaris. Ha l'aria del soldato, direi.» «Sentito niente dall'Anguilla?» «Per adesso, dobbiamo tenere il ragazzo qui.» «E la ragazza?» «Pure.»
Meese sospirò sonoramente. «A Crokus non piacerà stare rinchiuso in questo posto.» Irilta lanciò un'occhiata alla sagoma del ladro. Stava veramente dormendo? «Non ha scelta. Ho saputo che un paio di guardie aspettano davanti alla casa di Mammot - è troppo tardi, naturalmente, ma ci sono andate maledettamente vicino.» Ripulendo un pezzo di finestra dalla polvere, Irilta si chinò in avanti. «A volte giuro di vedere qualcuno, o forse qualcosa. Poi batto le palpebre e sparisce.» «So cosa intendi.» Con uno scricchiolio d'ossa, Meese si tirò in piedi. «Credo che persino l'Anguilla stia cominciando a sudare.» Ridacchiò. «La vita si riscalda, amica mia. Dovremo rollare.» «E rolleremo», annuì Irilta con aria cupa. *** Il capitano Paran si riempì il boccale per la terza volta. Era questo che aveva inteso il Tiste Andii nell'affermare che la sua fortuna sarebbe cambiata? Da quando era arrivato in quella terra, aveva trovato tre amici qualcosa di totalmente nuovo e inaspettato per lui; di prezioso, persino. Ma la Tattersail che conosceva era morta, e al suo posto... una bambina. Toc era morto. E ora sembrava che Coll si sarebbe unito alla lista. Passò un dito in una pozza di birra rovesciata sul tavolo, creando un fiume che portava a una fessura fra due assi, poi guardò la birra gocciolare fuori vista. Sentì una macchia di bagnato allargarsi sulla sua coscia, ma l'ignorò, puntando gli occhi sulla fessura. Le assi spesse erano state fissate coi bulloni a un telaio egualmente robusto. Che cosa aveva detto Rake? Paran si alzò, slacciando il cinturone. Lo posò sul tavolo, poi estrasse Fortuna. I pochi clienti regolari del bar ammutolirono, girandosi a guardarlo. Dietro il banco, Scurve allungò la mano verso il suo bastone. Il capitano non si accorse di niente. Tenendo la spada nella destra, infilò la punta nella fessura, e portò l'arma in posizione verticale. Spingendola avanti e indietro, riuscì a infilarla fin quasi a metà fra le due assi. Poi tornò a sedersi, prendendo la sua birra. Tutti si rilassarono, e ricominciarono a parlare in un chiacchiericcio confuso. Paran inghiottì una sorsata di birra, e guardò Fortuna con un cipiglio. Che cosa aveva detto Rake? Quando la tua fortuna cambierà, rompi la spa-
da. Oppure dalla al tuo peggior nemico. Poiché dubitava che Oponn l'avrebbe accettata, non restava che romperla. La spada era con lui da molto tempo. L'aveva usata in battaglia solo una volta, contro il Segugio. Debolmente, riudì le parole di uno dei suoi precettori d'infanzia. Il viso rugoso dell'uomo salì nei suoi pensieri ad accompagnare la voce. «Quando gli dei scelgono qualcuno, si dice, lo separano dagli altri mortali - con il tradimento, strappandogli la vita dello spirito. Gli dei porteranno tutti i tuoi cari alla morte, uno a uno. E, man mano che ti indurirai, che diventerai ciò che vogliono, gli dei sorrideranno e annuiranno col capo. Ogni compagnia che disdegnerai ti porterà più vicino a loro. Così si foggia uno strumento, figliolo, tirando e spingendo, e l'ultimo soccorso che ti offriranno servirà a porre fine alla tua solitudine - a quello stesso isolamento che ti hanno aiutato a creare.» Non farti mai notare dagli dei, ragazzo. La foggiatura era già cominciata? Paran aggrottò le sopracciglia. Era lui a condurre Coll alla sua fine? Quel bocciolo di amicizia fra loro era sufficiente a condannarlo? «Oponn», bisbigliò, «devi rispondere di molto, e di molto risponderai». Posando il boccale, si alzò. Poi allungò la mano a prendere la spada. *** Mentre saliva i gradini della Locanda della Fenice, Kalam si arrestò. Maledizione, eccola di nuovo, la sensazione che occhi invisibili fossero fissi su di lui. Tale sensazione, frutto dell'addestramento da Artiglio, l'aveva colpito quattro volte in rapida successione da quando era arrivato in vista del locale. Dare retta a simili avvertimenti lo manteneva in vita; tuttavia, non sentiva malevolenza in quell'attenzione indesiderata - aveva più il carattere della curiosità divertita, come se chiunque lo stesse osservando sapesse benissimo chi e cosa egli fosse, ma non vi trovasse motivo di preoccupazione. Si riscosse, ed entrò nel bar. Al suo primo passo nell'atmosfera greve, stagnante, Kalam capì che c'era qualcosa di storto. Chiudendosi la porta alle spalle, aspettò che i suoi occhi si abituassero alla penombra. Udì il sibilo di respiri, il lieve strascichio di sedie e il tintinnio dei boccali posati sui tavoli. C'erano persone, lì dentro. Allora, perché il silenzio? Man mano che i grigi confini del bar si definivano, vide che i suoi occupanti gli giravano le spalle e guardavano un uomo in piedi dietro al suo tavolo, sul lato più lontano della stanza. La luce della lanterna si rifletteva
debolmente da una spada conficcata nel tavolo, intorno alla cui impugnatura l'uomo aveva stretto la mano. Sembrava inconsapevole della presenza altrui. Kalam fece mezza dozzina di passi, arrivando all'estremità del banco. Tenne gli occhi scuri sull'uomo con la spada; un cipiglio gli increspava la fronte ampia e piatta. Il sicario si fermò. Era uno scherzo di quella maledetta luce? «No», esclamò, facendo trasalire il locandiere dietro al banco, «non lo è». Allontanandosi dal banco, abbracciò con lo sguardo gli altri avventori - erano tutte persone del luogo. Avrebbe dovuto rischiare. Un anello di tensione si strinse intorno al collo e alle spalle di Kalam, mentre questi puntava dritto verso l'uomo, che sembrava sul punto di strappare la lama dal tavolo. Il sicario agguantò una sedia vuota sul suo cammino e gliela sbatté davanti, con una mano sola. Occhi stupefatti si fissarono su di lui. «La vostra fortuna di origine divina tiene, Capitano», borbottò il sicario, in tono sommesso, confidenziale. «Sedetevi.» L'aria confusa e spaventata, Paran mollò la spada, lasciandosi cadere sulla sedia. Kalam lo imitò, e si chinò sul tavolo. «Cos'è tutto questo melodramma?» chiese, in un bisbiglio. Il capitano corrugò la fronte. «Chi sei?» Dietro di loro, le conversazioni ripresero; i nervi scossi fecero alzare le voci. «Non l'avete indovinato?» Kalam scosse la testa. «Caporale Kalam, Nono Squadrone degli Arsori di Ponti. L'ultima volta che vi ho visto, stavate guarendo da due ferite da coltello letali...» Le mani di Paran scattarono in avanti, afferrandolo per la camicia. Il sicario era troppo sorpreso per reagire, e le parole del capitano lo confusero ancor di più. «Il guaritore del tuo squadrone è ancora vivo, caporale?» «Come? Vivo? Sì, certo, perché no? Che cosa...?» «Zitto», sbottò Paran. «Ascolta e basta, soldato. Portalo qui. Ora! Niente domande. Ti sto dando un ordine preciso, caporale.» Lasciò andare la camicia. «Va'! Subito!» Kalam per poco non salutò, ma si fermò in tempo. «Come volete, signore», mormorò. ***
Paran fissò la schiena del caporale finché l'uomo non scomparve al di là della porta principale. Poi balzò in piedi. «Locandiere!» chiamò, aggirando il tavolo. «Fra qualche minuto, arriverà l'uomo dalla pelle nera, in compagnia. Mandali su nella stanza di Coll, di gran carriera. Capito?» Scurve annuì. Paran si avviò a grandi passi verso le scale. Giunto ai loro piedi, si girò verso la spada. «E non toccate quella spada», ordinò, fulminando con lo sguardo tutti gli occupanti della stanza. Nessuno sembrava propenso a sfidarlo. Con un brusco cenno del capo, il capitano segnalò la sua soddisfazione, poi salì le scale. Al primo piano, percorse il corridoio fino all'ultima stanza sulla destra. Entrando senza bussare, trovò Sulty e un chirurgo del luogo seduti all'unico tavolo. La sagoma di Coll giaceva immobile sul letto, sotto una coperta. Il chirurgo si alzò. «Non va affatto bene», decretò, con voce sottile, acuta. «L'infezione è troppo avanzata.» «Respira ancora?» domandò Paran. «Sì», rispose il chirurgo. «Non durerà a lungo, però. Se la ferita fosse stata più in basso, avrei potuto tagliare la gamba. Anche se temo che il veleno si sia ormai diffuso in tutto il corpo. Mi dispiace, signore.» «Vattene», sbottò Paran. Il chirurgo si inchinò, preparandosi a uscire. «Che cosa ti devo per i tuoi servigi?» ricordò di chiedere il capitano. Il chirurgo guardò Sulty con un cipiglio. «Be', niente, Signore. Ho fallito.» Lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Sulty raggiunse il capitano al capezzale di Coll. Mentre lo osservava, si asciugò il viso dalle lacrime, ma non disse nulla. Qualche minuto dopo, anche lei uscì, incapace di resistere oltre. Paran trovò uno sgabello e lo tirò accanto al letto. Si sedette, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia. Non sapeva con certezza quanto fosse rimasto lì, gli occhi fissi sul pavimento coperto di paglia, ma la porta che sbatteva dietro di lui lo fece scattare in piedi. All'entrata stava un uomo barbuto, gli occhi grigio ardesia duri e freddi. «Sei Mallet?» indagò Paran. Scuotendo la testa, quello entrò a grandi passi. Alle sue spalle comparvero Kalam e un altro uomo. Quest'ultimo trovò Coll con lo sguardo, e raggiunse rapidamente il letto. «Sono il sergente Whiskeyjack», annunciò il barbuto, con voce tranquilla. «Perdonatemi la schiettezza, Signore, ma che diavolo ci fate qui?»
Ignorando la domanda, Paran si unì al guaritore. Mallet posò una mano sulle bende incrostate di sangue. Lanciò un'occhiata severa al capitano. «Non sentite l'odore di marcio? Se n'è andato.» Mallet aggrottò le sopracciglia, chinandosi in avanti. «No, aspettate... maledizione, non ci credo.» Il guaritore prese dalla borsa una lama ricurva e tolse le bende. Poi, con la stessa lama, cominciò a scavare nella ferita. «Per la misericordia di Shedenul, qualcuno l'ha riempita di erbe!» Vi infilò dentro le dita. Coll sussultò, gemendo. Mallet fece un largo sorriso. «Reagisci, eh? Bene.» Sondò più in profondità. «Questa ferita arriva a metà osso.» Ansimò dallo stupore. «Quelle maledette erbe hanno avvelenato il midollo. Chi diavolo l'ha curato?» chiese, guardando il capitano con aria accusatrice. «Non lo so», ammise Paran. «Va bene», concluse Mallet, ritirando la mano e asciugandola sulle coperte. «State indietro, tutti quanti. Lasciatemi un po' di spazio. Ancora un momento, Capitano, e quest'uomo sarebbe passato per la Porta di Hood.» Premette la mano sul petto di Coll e chiuse gli occhi. «E siate contento che io sia così bravo.» «E ora, Capitano?» indagò Whiskeyjack. Paran andò al tavolo, facendo segno al sergente di raggiungerlo. «Primo, l'Aggiunto Lorn vi ha già contattato?» Lo sguardo vacuo di Whiskeyjack era una risposta sufficiente. «Bene, allora sono in tempo.» Paran guardò Kalam, che si era messo dietro al sergente. «Siete stati ingannati. Il piano era sì conquistare la città, ma anche assicurarsi che tutti ci lasciaste la pelle.» Whiskeyjack alzò una mano. «Un momento, Signore. Questo l'avete capito voi e Tattersail?» Paran chiuse gli occhi per un attimo. «Tattersail è... morta. Rincorrendo Hairlock sulla Pianura Rhivi. Tayschrenn l'aveva rintracciata. Era anche sua intenzione trovare voi e dirvi tutto quello che vi sto dicendo. Temo che non sarò alla sua altezza come alleato una volta che arriverà l'Aggiunto, ma almeno posso prepararvi un po'.» Kalam prese la parola. «Non mi piace l'idea che sia la pedina di Oponn a sostenere di darci una mano.» Paran annuì. «Ho appreso da fonte sicura che non appartengo a Oponn. La spada al piano di sotto sì, però. Il mago del vostro squadrone dovrebbe essere in grado di confermarlo.» «Il piano dell'Aggiunto», gli ricordò Whiskeyjack, battendo lentamente
sul tavolo con le dita di una mano. «Non avrà problemi a trovarvi. È molto dotata in quel campo. Ma temo che non sia Lorn la minaccia più grave. Con lei c'è un T'lan Imass. Forse la sua missione consiste solo nel condurlo da voi, dopo di che lui si occuperà del resto.» Kalam imprecò, e cominciò a passeggiare avanti e indietro dietro la sedia del sergente. Whiskeyjack prese una decisione. «La borsa, caporale.» Il sicario aggrottò le sopracciglia, poi sollevò la borsa d'ordinanza del sergente, lasciata accanto alla porta. La posò sul tavolo. Whiskeyjack aprì le cinghie, tirando fuori un oggetto avvolto nella seta rosso borgogna. Tolse il tessuto, rivelando due ossa gemelle, ingiallite, di avambraccio umano. Le giunture a palla del gomito erano unite con un filo di rame rivestito di verderame; anche i polsi erano legati insieme, ma a guisa di una deforme impugnatura di coltello, dalla quale sporgeva una lama seghettata. «Che cos'è?» chiese il capitano. «Non ho mai visto niente del genere.» «Sarei sorpreso del contrario», ribatté Whiskeyjack. «Ai tempi dell'Imperatore, ogni comandante militare appartenente alla cerchia interna ne possedeva uno; si tratta del bottino del saccheggio di una tomba K'Chain Che'Malle.» Afferrò le ossa con entrambe le mani. «Quest'oggetto è stata la fonte di gran parte del nostro successo, Capitano.» Alzandosi, conficcò nel tavolo la punta della lama. Un lampo di luce bianca esplose dalle ossa, poi si contrasse in fili sottili che ruotavano fra le due in un vortice. Paran udì una voce che conosceva. «Cominciavo a preoccuparmi, Whiskeyjack», ruggì il Gran Pugno Dujek. «Non avevamo scelta» replicò il sergente, guardando Paran con un cipiglio. «C'era ben poco da riferire... fino a ora. Ma ho bisogno di conoscere la situazione a Pale, Gran Pugno.» «Vuoi un aggiornamento prima di spiattellare le cattive notizie,. eh? D'accordo», concordò Dujek. «Tayschrenn non sa dove sbattere la testa. L'ultima volta che è stato felice è stata quando Bellurdan è morto insieme a Tattersail. Altri due membri della Vecchia Guardia spariti in un colpo solo. Da allora, gli rimangono solo domande. A che gioco gioca Oponn? C'è stato veramente uno scontro fra il Cavaliere dell'Oscurità e Tronod'Ombra? Una marionetta animata ha veramente rapito, torturato e poi ucciso un ufficiale dell'Artiglio a Nathilog, e quali verità sono state rivelate dal pove-
ruomo?» «Non sapevamo che Hairlock avesse fatto una cosa simile, Gran Pugno.» «Ti credo, Whiskeyjack. Ad ogni modo, buona parte dei piani dell'Imperatrice è stata scoperta; sembra effettivamente convinta che lo smantellamento del mio esercito mi riporterà sotto le sue ali, in tempo per affibbiarmi il comando delle guarnigioni di Sette Città e porre una fine sanguinosa alla ribellione che lì fermenta. Ma ha fatto male i suoi calcoli - avrebbe dovuto dar retta ai rapporti di Toc il Giovane. Comunque... per ora Laseen fa assegnamento sull'Aggiunto Lorn e Onos T'oolan. Sono arrivati al tumulo dello Jaghut, Whiskeyjack.» Mallet li raggiunse, incrociando lo sguardo stupefatto di Kalam. Evidentemente, nemmeno loro avevano idea che il loro sergente fosse così bene informato. Il sospetto sorse negli occhi del sicario, e Paran annuì fra sé. Stava accadendo, infine. Dujek proseguì: «I Moranth Neri sono pronti a marciare; ma è solo per scena, e per farli uscire dalla città. Per cui, qual è la situazione, amico mio? L'equilibrio del mondo è nelle tue mani, a Darujhistan. Se Lorn e Onos T'oolan riusciranno a scatenare il Tiranno sulla città, puoi star certo che tu e il tuo squadrone finirete nell'elenco delle vittime. Per tornare più vicino a casa, ecco le ultime notizie: siamo pronti a partire. Sarà lo stesso Tayschrenn a dare l'avvio agli eventi, quando annuncerà lo scioglimento degli Arsori di Ponti - quel cieco idiota. Per ora, aspetto». «Gran Pugno», ricominciò Whiskeyjack, «il capitano Paran è arrivato. Mi sta seduto davanti, in questo momento. Sostiene che Oponn agisce attraverso la sua spada, non attraverso di lui». Incrociò lo sguardo del capitano. «E io gli credo.» «Capitano?» chiamò Dujek. «Sì, Gran Pugno?» «Toc vi è stato di qualche aiuto?» Paran trasalì. «Ha dato la sua vita, Gran Pugno. La marionetta Hairlock ci ha teso un'imboscata, e ha gettato Toc in... in una specie di squarcio.» Cadde il silenzio, poi Dujek disse, con voce roca: «Mi dispiace sentirlo, Capitano. Più di quanto possiate sapere. Suo padre... Be', basta. Va' avanti, Whiskeyjack». «Non siamo ancora riusciti a contattare la locale Corporazione dei Sicari, Gran Pugno. Abbiamo minato gli incroci, però. Stasera spiegherò ogni cosa ai miei uomini. Rimane la questione di cosa fare con il capitano Pa-
ran.» «Capito», rispose Dujek. «Capitano Paran?» «Signore?» «Siete giunto a una conclusione?» Paran lanciò un'occhiata a Whiskeyjack. «Sì, signore. Credo di sì.» «Allora? Che scelta farete?» Paran si passò una mano fra i capelli, appoggiandosi allo schienale. «Gran Pugno», esordì lentamente, «Tayschrenn ha ucciso Tattersail». Voleva farlo, e non c'è riuscito; ma questo è un segreto che terrò per me. «Il piano dell'Aggiunto comprende il tradimento della parola che lei ha dato a me, e probabilmente anche la mia uccisione. Ma, ammetto, ciò è secondario rispetto a ciò che ha fatto Tayschrenn.» Alzando la testa, incontrò lo sguardo fermo di Whiskeyjack. «Tattersail si era presa cura di me, e io di lei, dopo la lotta con quel Segugio. Questo...» - esitò - «... questo significava qualcosa, Gran Pugno». Si raddrizzò. «Da quanto ho capito, intendete sfidare l'Imperatrice. Ma come? Attacchiamo le cento legioni dell'Impero con diecimila uomini? Proclamiamo un regno indipendente e aspettiamo che Laseen ci distrugga per dare un esempio? Ho bisogno di altre informazioni, Gran Pugno, prima di decidere se unirmi a voi. Perché, Signore, io voglio vendetta.» «L'Imperatrice perderà Genabackis, capitano», illustrò Dujek. «Disponiamo di appoggi a questo fine. Quando i marinai Malazan arriveranno a rafforzare la campagna, sarà già tutto finito. La Guardia Cremisi non li lascerà nemmeno sbarcare. Aspettatevi che Nathilog si sollevi e che Genabaris la segua. L'alleanza con i Moranth sta per perdere efficacia - anche se temo di non potervi dare dettagli in proposito. «I miei piani, capitano? Forse vi sembreranno senza senso, poiché non ho il tempo di spiegarli. Ma ci prepariamo a fare entrare in scena un nuovo giocatore - qualcuno che è completamente al di fuori della storia, e maledettamente pericoloso. È il Veggente Pannion, che sta preparando le sue armate per una guerra santa. Volete vendetta? Lasciate Tayschrenn ai nemici più vicini a casa. Quanto a Lorn, è tutta vostra, se ce la fate. Non posso offrirvi nient'altro, Capitano. Potete rifiutare; nessuno vi ucciderà per questo.» Paran si fissò le mani. «Quando il Grande Mago Tayschrenn avrà quel che si merita, vorrò essere informato.» «D'accordo.» «Va bene, Gran Pugno. Ma per quanto riguarda la situazione qui, al
momento, preferirei che il sergente Whiskeyjack rimanesse al comando.» «Whiskeyjack?» l'interpellò Dujek, in tono scherzoso. «Accetto», disse il sergente. Sorrise a Paran. «Benvenuto a bordo, Capitano.» «Basta così?» domandò Dujek. «Riparleremo alla fine di tutto», osservò Whiskeyjack. «Fino ad allora, Gran Pugno, auguri.» «Auguri, Whiskeyjack.» I fili di luce sbiadirono. Non appena furono spariti, Kalam assalì il suo sergente. «Vecchio bastardo! Fiddler mi ha detto che Dujek non voleva sentir parlare di rivolta! Non solo, il Gran Pugno ti aveva detto di andartene dopo questa missione!» Whiskeyjack scrollò le spalle, togliendo lo strano aggeggio dal tavolo. «Le cose cambiano, caporale. Quando Dujek ha saputo degli ordini dell'Aggiunto riguardo ai rinforzi per l'anno prossimo, è diventato ovvio che qualcuno voleva assicurarsi che la campagna di Genabackis sarebbe finita in un disastro. Ora, nemmeno Dujek può tollerare questo. Evidentemente, i piani andavano rivisti.» Si girò verso Paran; i suoi occhi si indurirono. «Mi dispiace, capitano: Lorn deve vivere.» «Ma il Gran Pugno...» Whiskeyjack scosse la testa. «Lorn verrà in città, ammesso che lei e l'Imass riescano a liberare lo Jaghut. Il Tiranno avrà bisogno di una ragione per venire a Darujhistan, e possiamo solo supporre che, in qualche modo, lei sarà quella ragione. Ci troverà, Capitano. Dopodiché, decideremo cosa fare di lei, a seconda di quello che ci dirà. Se la sfiderete apertamente, vi ucciderà. Se sarà necessario, morirà, ma la sua dipartita dovrà essere sottile. La cosa vi causa qualche problema?» Paran emise un lungo respiro. «Posso almeno sapere perché avete minato la città?» «Fra un attimo», replicò Whiskeyjack, alzandosi. «Prima», chiese, «chi è il malato?». «Non è più malato», annunciò Mallet, con un gran sorriso a Paran. «Solo addormentato.» Paran si alzò a sua volta. «Anch'io spiegherò tutto. Lasciatemi solo andare giù a prendere la mia spada.» Alla porta, si fermò, volgendosi verso Whiskeyjack. «Un'altra cosa. Dov'è la vostra recluta, Dispiacere?» «Dispersa», rispose Kalam. «Noi sappiamo cos'è in realtà, capitano. E voi?»
«Sì.» Ma forse non è più quello che era una volta, se Tronod'Ombra non ha mentito. Pensò di riferire quella parte della storia, poi accantonò l'idea. Dopo tutto, non poteva essere sicuro. Meglio aspettare e vedere. *** La camera funeraria si rivelò una piccola, insignificante tomba ad alveare, con una bassa volta costituita di pietre rozzamente squadrate. Il corridoio che vi portava era stretto, alto meno di quattro piedi e leggermente inclinato verso il basso. Il pavimento della camera era di terra battuta; al centro sorgeva un muro di pietre, circolare, ricoperto da una sola, massiccia architrave, sulla cui superficie piatta giacevano oggetti incrostati di ghiaccio. Tool si girò verso l'Aggiunto. «L'oggetto che cerchi si chiama Finnest. Al suo interno è racchiuso il potere del Tiranno Jaghut. Si potrebbe meglio definire un Canale Omtose Pellack indipendente. Una volta completamente sveglio, lo Jaghut si accorgerà della sua assenza, e lo cercherà senza fallo.» Lorn si soffiò sulle mani intorpidite, poi si avvicinò lentamente all'architrave. «E mentre sarà in mio possesso?» chiese. «La tua spada Otataral ne attutirà l'aura, senza spegnerla del tutto. Il Finnest non dovrebbe rimanere a lungo nelle tue mani, Aggiunto.» Lorn esaminò gli oggetti sparsi sulla superficie di pietra. L'Imass la raggiunse. Lorn raccolse un coltello col suo fodero, poi lo scartò. In questo, Tool non poteva aiutarla. Doveva fidarsi dei suoi sensi, affinati dagli strani, imprevedibili effetti dell'Otataral. Uno specchio incastonato in un corno. La superficie di mica era attraversata da una rete di ghiaccio, tuttavia sembrava brillare di luce propria. Lei allungò la mano, poi esitò. Al suo fianco, quasi perso . in mezzo alla brina cristallina, c'era un oggetto piccolo e rotondo, posato su un lembo di pelle. Lorn aggrottò le sopracciglia, e lo prese. Man mano che il manto di gelo si scioglieva, vide che non era perfettamente rotondo. Ripulendo la superficie annerita, lo studiò attentamente. «Mi sembra una ghianda», osservò Tool. Lorn annuì. «Ed è il Finnest.» Il suo sguardo ricadde sulla collezione. «Che strana scelta.» L'Imass scrollò le spalle, con un acciottolio d'ossa. «Gli Jaghut sono uno strano popolo.»
«Tool, non erano molto bellicosi, no? Voglio dire, prima che la tua gente cercasse di annientarli.» L'Imass tardò a rispondere. «Nemmeno dopo», rivelò infine. «La chiave stava nel farli arrabbiare, perché allora distruggevano indiscriminatamente, compresi i membri della propria razza.» Lorn chiuse gli occhi per un attimo. Mise il Finnest in tasca. «Usciamo di qua.» «Sì, Aggiunto. Il Tiranno Jaghut si sta muovendo.» CAPITOLO DICIANNOVESIMO Ma qualcuno morì qui ahimè. Chi si abbevera di te e di tanto in tanto smuove le ceneri della tua pira? Creatore di Sentieri, tu non fosti mai così assetato in gioventù... Il Tempio Antico Sivyn Stor (b.1022) «Così non va, Meese», brontolò Crokus sfregandosi gli occhi ancora gonfi di sonno. «Non possiamo restare nascosti qui dentro per sempre.» «È quasi buio», commentò Apsalar dalla finestra. Meese si piegò per controllare per l'ennesima volta la serratura della botola. «Dopo il dodicesimo rintocco, uscirete. Irilta è di sotto per definire gli ultimi dettagli.» «Chi dà questi ordini?» domandò Crokus. «Avete trovato lo zio Mammot?» «Rilassati, ragazzo.» Meese si drizzò. «No, non abbiamo trovato tuo zio. E gli ordini arrivano dai tuoi protettori. Non intendo rispondere a nessuna domanda sulla loro identità, Crokus, perciò risparmia il fiato.» Apsalar si allontanò dalla finestra e si girò versò Meese. «La tua amica ci sta impiegando molto tempo», osservò. «Pensi sia successo qualcosa?» Meese distolse lo sguardo. La ragazza era sveglia. Ma di quello se n'era già accorta la prima volta che l'aveva incontrata, e il vecchio Chert l'aveva
scoperto nel modo peggiore. «Non lo so», ammise. Si chinò per aprire la botola. «Non vi muovete», ordinò, fissando Crokus. «Mi spiacerebbe molto se faceste qualcosa di stupido. Chiaro?» Le braccia incrociate, il ragazzo aveva un'aria triste e sconsolata. Guardò Meese aprire la botola e scendere le scale. «Chiudete subito», disse la donna dal basso, «a chiave. Aspettate me o Irilta, capito?». «Sì.» Crokus si avvicinò al buco nel pavimento e abbassò lo sguardo su Meese. «Abbiamo capito», rispose, prima di chiudere la botola. «Crokus, perché hai ucciso una guardia?» gli chiese Apsalar. Da quando erano giunti in città era la prima volta che restavano soli. «È stato un incidente. Non voglio parlarne», rispose il ragazzo in tono gelido. Attraversò la stanza fino alla finestra che si affacciava sul retro dell'edificio. «C'è troppa gente che cerca di proteggermi. Ci deve essere qualcosa di più che un ordine di arresto», affermò. «Per il respiro di Hood, la Corporazione dei Ladri si occupa di questioni del genere, è per questo che si becca il dieci percento di ogni colpo che porto a termine. No, tutto questo non ha senso, Apsalar. E», aggiunse mentre apriva la finestra, «sono stufo di sentirmi dire che cosa devo fare». Lei gli fu subito accanto. «Ce ne andiamo adesso?» «Puoi starne certa. È già il tramonto, prendiamo la via dei tetti.» «E dove andiamo?» Un largo sorriso illuminò il viso di Crokus. «Ho in mente un nascondiglio perfetto. Nessuno ci troverà, nemmeno i miei protettori. Una volta là, potrò fare quello che voglio.» Gli occhi castani di Apsalar cercarono il volto del ragazzo. «Che cosa vuoi fare?» gli domandò in tono sommesso. Lui distolse lo sguardo, concentrandosi sulla finestra. «Voglio parlare con Challice D'Arle», spiegò. «Faccia a faccia.» «Ti ha tradito, vero?» «Non m'importa. Tu resti qua?» «No», rispose Apsalar, sorpresa. «Vengo con te, Crokus.» *** Il potere del Canale le solleticava il corpo. Serrat scrutò intorno a sé e ancora una volta non vide niente. Era sicura di essere sola. La Tiste Andii s'irrigidì quando la finestra nel solaio sotto di lei cigolò sui cardini arrug-
giniti. Sapendo di essere invisibile, si sporse in avanti. La testa del ragazzo sbucò fuori. Il giovane lanciò un'occhiata al vicolo sottostante, ai tetti di fronte e a quelli sopra di lui. Il suo sguardo scivolò su Serrat, senza vederla. La donna sorrise, soddisfatta. Non era stato difficile rintracciarlo. Percepì che la sua unica compagnia era una ragazza la cui aura era innocua, sorprendentemente innocente. Le altre due donne se n'erano andate. Ottimo. Sarebbe stato molto più facile. Arretrò quando il Portatore della Moneta si arrampicò uscendo dalla finestra. Un momento dopo, il giovane si issava sul tetto inclinato. Serrat decise di non perdere tempo. Crokus non si era ancora alzato in piedi, che lei spiccò un salto in avanti. Una mano invisibile la bloccò, colpendola al petto con una forza micidiale. La spinse indietro fino a darle una spinta finale che la spedì oltre il bordo del tetto. Gli incantesimi di invisibilità e di volo non l'abbandonarono, nemmeno quando rimbalzò su un camino di mattoni, stordita e confusa. *** Apsalar apparve sul bordo del tetto. Crokus si accovacciò davanti a lei, i pugnali in mano e gli occhi che saettavano intorno a loro. «Che cosa c'è?» sussurrò la ragazza, spaventata. Lentamente, Crokus si rilassò e le rivolse un sorriso incoraggiante. «È la tensione», spiegò. «Mi era sembrato di vedere qualcosa, di sentire un fruscio. Ma mi sono sbagliato.» Tornò a guardarsi intorno. «Qui non c'è niente. Forza, andiamo.» «Dov'è questo nuovo nascondiglio?» domandò Apsalar, alzandosi in piedi. Crokus si girò verso est e indicò le sagome delle colline che si stagliavano dall'altra parte delle mura. «Lassù», disse. «Proprio sotto il loro naso.» *** Murillio stringeva il cinturone con la spada. Più aspettava l'arrivo di Rallick e più si convinceva che Ocelot avesse ucciso l'amico. Rimaneva un unico interrogativo. E riguardava Coll. Era ancora vivo? Forse Rallick aveva ferito Ocelot in modo sufficientemente grave da impedire al capo-
clan di portare a termine il contratto. Posso sempre sperare. Alla Locanda della Fenice sicuramente sapevano già tutto e quel pensiero rendeva la sua camera spartana ancora più angusta e soffocante. Se Coll fosse sopravvissuto, Murillio giurò a se stesso che avrebbe sostituito Rallick nel portare a termine il piano. Controllò lo stocco. Erano passati anni dal suo ultimo duello e Turban Orr si diceva fosse il miglior spadaccino della città. Le sue possibilità erano scarse. Prese il mantello e allacciò il colletto. E chi era quel Violatore del Cerchio, foriero di notizie devastatrici? Che cosa c'entrava l'Anguilla nei loro piani? Murillio strinse gli occhi. Era possibile? Quel piccolo e grasso verme spregevole? Infilò i guanti di daino, borbottando fra sé e sé. Un colpo leggero alla porta attirò la sua attenzione. Non trattenne un sospiro di sollievo. «Rallick, vecchio bastardo», disse aprendo la porta. Per un attimo pensò che il corridoio fosse vuoto, poi lo sguardo gli cadde a terra. Il sicario era là, sul pavimento, e lo guardava con un debole sorriso, gli abiti zuppi di sangue. «Scusa per il ritardo», mormorò. «Le gambe continuavano a cedere.» Imprecando, Murillio aiutò Rallick a entrare in camera e a sdraiarsi sul letto. Tornò alla porta, controllò che il corridoio fosse libero, quindi chiuse l'uscio e bloccò il chiavistello. Rallick si tirò su, appoggiandosi alla testata del letto. «Orr ha offerto un contratto su Coll...» «Lo so, lo so», lo interruppe Murillio, avvicinandosi. S'inginocchiò accanto al letto. «Fammi dare un'occhiata alla ferita.» «Prima devo togliermi l'armatura. Ocelot ha colpito per primo, ma l'ho ucciso. Per quanto ne so, Coll è ancora vivo. Che giorno è?» «Lo stesso giorno», rispose Murillio, mentre aiutava l'amico a sfilare la cotta d'arme. «Siamo ancora in gioco, anche se con tutto il sangue che stai perdendo dubito che tu possa affrontare Orr alla festa di Lady Simtal. Me ne occuperò io.» «Pessima idea.» Rallick gemette. «Tu ci lasceresti le penne e Turban Orr se ne andrebbe indisturbato e ancora sufficientemente potente da impedire a Coll di avanzare i suoi diritti.» Murillio non replicò. Sollevò l'imbottitura di cuoio per scoprire la ferita. «Ma da dove viene tutto questo sangue?» domandò. «Qui c'è solo una vecchia cicatrice.» «Eh?» Rallick si tastò con la mano nel punto in cui la spada di Ocelot
l'aveva colpito. La parte era lievemente dolorante e pruriginosa lungo la fascia più esterna. «Che io sia dannato», borbottò. «Portami una pezza bagnata, così mi tolgo di dosso questa ruggine.» Murillio si sedette sui talloni, chiaramente confuso. «Quale ruggine?» «Quella che ho in faccia», spiegò Rallick. Murillio si chinò su di lui. «La polvere magica di Baruk! Quella per attutire i rumori!» sbottò il sicario. «Come pensi sia riuscito a uccidere Ocelot?» «La tua faccia è pulita, Rallick», affermò Murillio. «Ti do comunque la pezza, così ti togli di dosso quel sangue rappreso.» «Prima dammi uno specchio.» Murillio ne trovò uno e restò a osservare l'amico che studiava la propria immagine riflessa, solcata da un cipiglio profondo. «Be', quell'espressione è una conferma», osservò. «Una conferma di che cosa?» chiese il sicario in tono brusco. «Del fatto che tu sei tu, Rallick.» Murillio drizzò le spalle. «Resta qui a riposare. Hai perso molto sangue. Vado a cercare l'Anguilla per dirgli un paio di cosette.» «Sai chi è l'Anguilla?» «Ho un sospetto», rispose l'amico avviandosi verso la porta. «Se riesci a camminare, chiudi la porta dietro di me, d'accordo?» Kruppe si asciugò la fronte con il fazzoletto ormai fradicio. «Kruppe ha ripetuto ogni singolo dettaglio almeno un migliaio di volte, Padron Baruk», si lamentò. «Questo tormento non avrà mai fine? Guardate alla finestra. Un'intera giornata della vita di Kruppe se n'è andata!» L'alchimista fissava con sguardo cupo le proprie pantofole, muovendo, di quando in quando, le dita dei piedi. Era come se avesse dimenticato la presenza di Kruppe nella stanza ed era così da almeno un'ora, per quanto Kruppe non avesse taciuto per un minuto. «Padron Baruk», Kruppe partì nuovamente alla carica, «il vostro servo fedele ha il permesso per congedarsi? Non si è ancora ripreso dopo quel terrificante viaggio nelle terre orientali. Piatti semplici come montone arrosto, patate, cipolle e carote fritte, cozze in burro all'aglio, datteri, formaggio, frutta e una caraffa di vino occupano ora la mente di Kruppe con totale esclusione di qualsiasi altro pensiero. Così si è ridotto per...». Baruk lo interruppe. «Nell'ultimo anno», disse scandendo bene le parole, «un agente dell'Anguilla, a me conosciuto come Violatore del Cerchio, mi ha fornito vitali informazioni riguardanti il Consiglio Cittadino».
La bocca di Kruppe si chiuse con uno schiocco sonoro. «Naturalmente, i miei poteri mi consentirebbero di scoprire in qualsiasi momento l'identità di questo Violatore del Cerchio. Ho una pila di missive scritte di suo pugno - mi basta la pergamena.» Sollevò lo sguardo sul camino. «Sto prendendo in considerazione l'idea di farlo», disse. «Devo parlare con questa Anguilla. Siamo giunti a un punto critico nella vita di Darujhistan e ho bisogno di conoscere gli obiettivi dell'Anguilla. Potremmo lavorare insieme, condividere le nostre informazioni e forse, così, potremmo salvare questa città. Forse.» Kruppe si schiarì la gola e si asciugò di nuovo la fronte. Posò il fazzoletto in grembo, lo piegò e lo infilò nella manica. «Se volete trasmettere questo messaggio», replicò con voce tranquilla, «Kruppe sarà onorato di farlo». Lo sguardo di Baruk si spostò lentamente su Kruppe. «Grazie. A quando la risposta?» «A questa sera.» «Ottimo. Cercherò di evitare di compromettere questo Violatore del Cerchio. Il tuo sistema sembra il migliore. Ora puoi andare, Kruppe.» Kruppe abbassò la testa di scatto. Si alzò. «A questa sera, allora, Padron Baruk.» *** Mentre Coll dormiva, gli uomini nella stanza proseguirono la discussione. Mallet disse che il poveretto avrebbe potuto dormire per giorni, tanto era andato vicino alla Porta di Hood. Paran si sentiva frustrato e depresso. Alle spiegazioni di Whiskeyjack mancava qualcosa. I sabotatori erano andati avanti a seminare mine e anche ora, il piano del sergente prevedeva di detonarle. Inoltre, era ancora sua intenzione contattare la Corporazione dei Sicari allo scopo di offrire un contratto relativo ai governanti di Darujhistan. Quei fatti non andavano d'accordo con l'idea di una rivolta a tutti i livelli, all'interno dell'intero continente. In tal caso, Dujek non avrebbe dovuto cercare di creare alleanze a livello locale? Man mano che il sergente parlava, nella mente del capitano cominciava a emergere uno schema. Dopo un'ora di silenzio si rivolse a Whiskeyjack. «Voi avete ancora intenzione di mutilare Darujhistan. E la cosa non mi convince e ora ho capito perché.» Osservò l'espressione perplessa di Whi-
skeyjack. «Ciò che volete è distruggere la tranquillità di questa città, aprendola in due. Caos nelle strade, un governo allo sbando. Coloro che contano escono allo scoperto e iniziano a uccidersi vicendevolmente. A quel punto, che cosa resta?» Paran si chinò in avanti, sul viso un'espressione dura. «Dujek ha un esercito di diecimila anime, che stanno per rivoltarsi contro l'Impero. Mantenere un esercito di tali proporzioni costa molto. Alloggiarlo è ancora più difficile. Dujek sa che i giorni di Pale sono contati. In questo preciso istante, Caladan Brood sta marciando nella Pianura Rhivi. I Moranth intendono tirarsi fuori dall'alleanza? Andare avanti da soli? Tayschrenn è a Pale - forse il vecchio Un-braccio è in grado di gestirlo, forse no. Come sto andando, Sergente?» Whiskeyjack lanciò una rapida occhiata a Kalam, poi scrollò le spalle. «Continuate», disse a Paran. «Darujhistan è in preda al panico. Nessuno sa niente. Dujek è in marcia con il suo esercito di ribelli. Riporterà l'ordine e si ritroverà fra le mani una quantità enorme di ricchezze - di cui avrà bisogno per confrontarsi con le forze che l'Imperatrice invierà contro di lui. Così, dopo tutto, la città viene conquistata. Che cosa ne dite?» «Non male», ammise Whiskeyjack, ridacchiando divertito davanti ai volti increduli di Mallet e Kalam. «Ma manca ancora qualcosa. Qualcosa», guardò Paran, «che potrebbe sollevare il peso del tradimento dalle spalle del capitano». Il sorriso di Palan era gelido. «Illuminatemi.» «Molto bene, Capitano. Non ce ne frega un accidente se l'Imperatrice vuole darci la caccia. Non potrà fare molto, visto che Sette Città sta per reclamare la sua indipendenza. Sta scendendo, Capitano. Da tutti i lati. Allora perché manteniamo il nostro esercito? Guardate a sud. Laggiù si sta muovendo qualcosa, sta crescendo qualcosa di così spaventoso che al confronto gli Imass sono dei cuccioletti. Quando dico che siamo nei guai, non mi riferisco solo a Genabackis, mi riferisco al mondo intero. Stiamo per ritrovarci tutti quanti in guerra, Capitano. Ed è per questo che abbiamo bisogno di Darujhistan.» «Che cosa c'è a sud?» chiese Paran in tono scettico. Nella risposta di Kalam si avvertì la paura. «Il Veggente Pannion. Le voci sono vere. Il Veggente ha proclamato una guerra santa. Il genocidio è iniziato.» Whiskeyjack balzò in piedi. «Faglielo capire», disse a Kalam. «Se possibile, dobbiamo tentare ancora di contattare quella Corporazione. Per il
respiro di Hood, non siamo certo passati inosservati in questa locanda. Ma forse è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.» Guardò Paran. «Capitano, non penso che l'Aggiunto Lorn debba sapere che siete vivo, vero?» «No.» «Potete restare qui fino a quando vi farò chiamare?» Paran lanciò un'occhiata a Kalam, poi annuì. «Bene. Mallet, andiamo.» *** «Abbiamo perso almeno due giorni», affermò Lorn, felice per il piacevole tepore della giornata. «I cavalli hanno sete.» In piedi accanto alla pietra del tumulo, Tool osservava l'Aggiunto preparare i cavalli per il viaggio di ritorno a Darujhistan. «Come va la tua ferita, Aggiunto?» chiese. «È quasi guarita. Otataral ha quest'effetto su di me.» «Il mio compito è finito», disse l'Imass. «Se al termine della tua missione, deciderai di accompagnarmi, mi troverai qui ancora per dieci giorni. Voglio osservare questo Tiranno Jaghut - anche se non mi vedrà, né io intendo interferire. Che il successo ti arrida, Aggiunto.» Lorn montò in sella e guardò l'Imass. «Buona fortuna per la tua ricerca, Onos T'oolan.» «Quel nome non mi appartiene più. Ora sono Tool.» Lei sorrise, prese le redini e diede di speroni, il cavallo da soma legato dietro di lei. Una volta liberatasi del Finnest, si sarebbe concentrata nella ricerca di quel Portatore della Moneta. Fino ad allora non si era concessa un istante per pensare a Oponn. Altri pensieri più pressanti affollavano la sua mente. Dispiacere, per esempio. La perdita del capitano Paran aveva suscitato in lei un forte senso di rimpianto. Quell'uomo avrebbe reso il suo compito molto più semplice, forse addirittura piacevole. Per quanto fosse stato un uomo arcigno, severo, doveva ammettere che si era sentita attratta da lui. Avrebbe potuto nascere qualcosa fra di loro. «Be'», sospirò, mentre spingeva il cavallo lungo il versante di una collina, «morire non rientra mai nei piani di nessuno». Secondo la stima di Tool, aveva due giorni di vantaggio, non di più. A quel punto lo Jaghut si sarebbe svegliato completamente e avrebbe abbandonato il tumulo. Il Finnest sarebbe stato in un luogo sicuro molto prima di
allora. Non vedeva l'ora di incontrare Dispiacere e d'istinto passò la mano sul pomo della spada. Uccidere un servo dell'Ombra, forse la Fune stessa. L'Imperatrice ne sarebbe stata immensamente felice. Si accorse che i dubbi che l'avevano perseguitata, sorti sulle ali scure della conoscenza, ora l'avevano abbandonata. Un effetto del tempo trascorso nel tumulo? Più probabilmente era dovuto alla ghianda che aveva in tasca. O forse li aveva superati inconsciamente. Quando giunge il momento dell'azione, tutti i dubbi devono essere fugati. Un vecchio principio dell'Artiglio. Lei lo sapeva bene e sapeva anche come controllare ciò che era dentro di sé. Anni di addestramento, disciplina, lealtà e dovere. Le virtù del soldato. Era pronta per la missione e improvvisamente il peso che gravava sulle sue spalle svanì. Spinse il cavallo al galoppo.
*** Crokus allungò il collo e strinse gli occhi nell'oscurità. «In cima, presto», disse. «Da lassù vedremo tutta la città.» Apsalar lanciò un'occhiata dubbiosa alla scala. «È terribilmente buio», si lamentò. «Sei sicuro che questa torre sia abbandonata? Sai, mio padre mi ha raccontato storie di fantasmi, di spiriti di mostri che vagano in luoghi in rovina.» Si guardò intorno con occhi spalancati. «In posti proprio come questo.» Crokus sbuffò. «Il dio K'rul è morto da migliaia d'anni», disse. «Inoltre, poiché nessuno viene mai qui non pensi che i mostri si annoierebbero? E che cosa mangerebbero? Dimmelo un po'? Sono solo stupide storie.» Raggiunse i piedi della scala a chiocciola. «Forza, la vista è fantastica.» Apsalar guardò il ragazzo salire e si affettò a seguirlo prima che sparisse alla vista. Quella che inizialmente sembrava un'impenetrabile oscurità si attenuò lentamente e con sua grande sorpresa, Apsalar scoprì di riuscire a distinguere il più piccolo dettaglio. La prima cosa che notò furono i dipinti polverosi sulla parete alla loro sinistra. «Crokus», sussurrò, «su questo muro c'è dipinta una storia». «Non essere ridicola!» la prese in giro il ragazzo. «Qui non si riesce a vedere nemmeno la propria mano.» Non si riesce? «Aspetta fino a quando saremo in cima», continuò Crokus. «La luna ormai dovrebbe avere fatto capolino tra le nubi.»
«C'è qualcosa di bagnato su questi gradini», osservò Apsalar. «È acqua che scende dall'alto», spiegò il ragazzo, esasperato. «No», insistette lei. «È qualcosa di denso e appiccicoso.» Crokus si fermò di colpo. «Vuoi stare un po' tranquilla? Siamo quasi arrivati.» Emersero su una piattaforma illuminata dal bagliore argenteo della luna. Accanto a uno dei bassi muri Crokus vide un mucchio di stoffa. «E quello cos'è?» si chiese. «Sembra che qualcuno si sia accampato quassù.» Apsalar trasalì. «Quello è un uomo morto!» «Che cosa?» esclamò Crokus. «Un altro!» Corse accanto alla figura immobile e si chinò. «È stato colpito alla testa.» «C'è una balestra qui.» Crokus grugnì. «Un sicario. La scorsa settimana ne ho visto un altro. È in corso una guerra fra sicari. Proprio come ho detto a Kruppe e Murillio.» «Guarda la luna», mormorò Apsalar, dall'altra parte della piattaforma. «Quale?» chiese Crokus alzandosi. «Quella argentea, naturalmente.» Quasi per dispetto, Crokus posò invece lo sguardo sulla Progenie della Luna. Un lieve bagliore rosso la circondava - non aveva mai visto niente di simile. Un'improvvisa paura gli chiuse lo stomaco. Spalancò gli occhi. Cinque massicce forme alate sembravano girare intorno alla Luna. Batté le palpebre: erano scomparse. «Li vedi i mari?» domandò Apsalar. «Che cosa?» Si girò. «I mari della luna. Il Grallin. Quello è il più grande. Là vive il Signore delle Acque Profonde, Grallin. Nel suo regno sommerso crescono giardini meravigliosi. Un giorno Grallin scenderà da noi, verrà nel nostro mondo a scegliere i suoi eletti, che porterà con sé sulla luna. E noi vivremo in quei giardini, scaldati da fuochi profondi e i nostri bambini nuoteranno come delfini. Saremo finalmente felici perché non ci saranno più né guerre né imperi, né scudi né spade. Oh, Crokus, sarebbe meraviglioso, non trovi?» Il suo profilo si stagliava in controluce. La guardò. «Sicuramente», disse con voce pacata. «Perché no?» E poi quella domanda rimbombò nella sua mente per un motivo completamente diverso. Perché no? LIBRO SETTIMO LA FESTA
Lo scorticamento di Fander, la Lupa dell'Inverno, segna l'Alba di Gedderone. Le sacerdotesse corrono lungo le strade; strisce di pelle di lupo ondeggiano dalle loro mani. Si dispiegano bandiere. I rumori e gli odori del mercato salgono nell'aria del mattino. Si indossano maschere, i cittadini abbandonano le preoccupazioni dell'anno trascorso e ballano per tutto il giorno, fino a notte inoltrata. La Signora della Primavera rinasce. È come se gli stessi dei trattenessero il respiro... Volti di Darujhistan Maskral Jemre (n. 1101) CAPITOLO VENTESIMO Si dice che il sangue della patrona, simile a ghiaccio, portò in questo mondo la nascita dei draghi e il rapido fiume del fato portò la luce nell'oscurità e l'oscurità nella luce, svelando infine, con i loro freddi, freddi occhi, i figli del caos... I figli di T'matha Heboric Murillio contemplò ancora il mistero della ferita di Rallick. Aveva già concluso che la polvere anti-magia di Baruk era responsabile della guarigione. Tuttavia, Rallick aveva perso molto sangue, e avrebbe avuto bisogno di tempo per riprendersi - tempo che non avevano. Il sicario era in grado di uccidere Orr in quello stato? In risposta alla propria domanda, Murillio posò la mano sullo stocco al suo fianco. Percorse a grandi passi la strada vuota, fendendo i vortici di foschia che sembravano mantelli incandescenti alla luce delle lampade a gas. Mancavano ancora due ore al sorgere del sole. Secondo l'abitudine Daru, i festeggiamenti per il nuovo anno sarebbero iniziati all'alba, per continuare per tutto il giorno e buona parte della notte.
Attraversò una città deserta, come se fosse l'ultimo dei viventi a dover ancora abbandonare il tumulto dell'anno precedente, e stesse condividendo il mondo solo con i fantasmi dei morti dell'anno in corso. L'Anno delle Cinque Zanne era scivolato indietro nell'antico ciclo, e a prendere il suo posto veniva l'Anno delle Lacrime della Luna. Murillio meditò su questi titoli oscuri, arcani. Un enorme disco di pietra nel Palazzo Vecchio segnava i Cicli dell'Era, attribuendo un nome a ogni anno in armonia con i suoi movimenti misteriosi. Da bambino, aveva pensato che la ruota fosse magica, poiché ruotava lentamente col passare del tempo, entrando nell'anno nuovo perfettamente allineata con l'alba, che ci fossero o no nubi in cielo. Da allora, Mammot gli aveva spiegato che la ruota era, in realtà, una macchina. Era stata donata a Darujhistan oltre mille anni prima, da un uomo di nome Icarium. Mammot riteneva che Icarium avesse sangue Jaghut. Certo aveva cavalcato un cavallo Jaghut, e suo al fianco camminava un Tell - chiare prove, aveva asserito Mammot, che aumentavano il portento della ruota stessa, poiché gli Jaghut erano famosi per la loro abilità in simili creazioni. Murillio si chiese quale fosse il significato dei nomi portati da ogni anno. Lo stretto legame delle Cinque Zanne con le Lacrime della Luna era profetico, secondo i Veggenti. Le zanne del Cinghiale Tennerock si chiamavano Odio, Amore, Risata, Guerra e Lacrime. Quale si sarebbe rivelata dominante in quell'anno? Era il suo stesso nome a fornire la risposta. Murillio scrollò le spalle. Guardava quelle speculazioni astrologiche con occhio scettico. Come poteva un uomo di mille anni prima - uno Jaghut o chi per esso - aver predetto gli eventi? Tuttavia, riconosceva di nutrire più di qualche apprensione. L'arrivo della Progenie della Luna spargeva una luce diversa sul titolo del nuovo anno, e sapeva che gli studiosi del luogo - specialmente quelli che si muovevano nei circoli della nobiltà - erano diventati agitati e irascibili. Una bella differenza rispetto al loro solito atteggiamento condiscendente. Nell'avvicinarsi alla Locanda della Fenice, Murillio svoltò un angolo, e si scontrò con un uomo basso e grasso con un cappotto rosso. Entrambi grugnirono; tre grosse scatole che l'uomo aveva avuto in mano caddero fra loro, e il contenuto si rovesciò. «Ehilà, Murillio! Un colpo di fortuna per i quali Kruppe è famoso! Qui finisce la sua ricerca, in questa strada scura e umida, dove persino i topi sfuggono l'ombra. C'è qualcosa che non va, amico Murillio?» Murillio fissava gli oggetti sui ciottoli ai suoi piedi. Lentamente, chiese:
«A cosa servono questi, Kruppe?». Facendo un passo avanti, Kruppe guardò con cipiglio le tre maschere intagliate con maestria. «Sono regali, naturalmente, amico Murillio. Per te e per Rallick Nom. Dopo tutto», alzò la testa con un sorriso beato, «la Festa di Lady Simtal richiede la fattura più squisita, il disegno più preciso perfettamente accoppiato all'intento ironico. Credi che il gusto di Kruppe non sia sufficientemente elegante? Temi l'imbarazzo?». «Stavolta non riuscirai a distrarmi», ringhiò Murillio. «Prima di tutto, qui ci sono tre maschere, non due.» «Certo!» replicò Kruppe, piegandosi a raccoglierne una. Ripulì il volto dipinto dagli schizzi di fango. «Questa è di Kruppe. Ben scelta, dichiara Kruppe con una certa fiducia.» Gli occhi di Murillio si indurirono. «Ma tu non verrai, Kruppe.» «Be', naturalmente Kruppe parteciperà alla festa! Credi che Lady Simtal si mostrerebbe se la sua vecchia conoscenza, Kruppe Primo, non fosse fra gli ospiti? Appassirebbe dalla vergogna!» «Maledizione, non l'hai mai nemmeno incontrata!» «Questo non scalfisce la tesi di Kruppe, amico Murillio. Kruppe è a conoscenza dell'esistenza di Simtal da molti anni. Tale associazione è resa migliore, pura, dal fatto che lei non ha incontrato Kruppe, e Kruppe non ha incontrato lei. E, come ultimo argomento volto a porre fine a ogni discussione, ecco» - estrasse dalla manica un rotolo di pergamena legato con un nastro di seta blu - «l'invito di Kruppe, firmato da Lady Simtal in persona». Murillio tese la mano per afferrarlo, ma Kruppe lo rimise destramente nella manica. «Rallick ti ucciderà», decretò Murillio in tono piatto. «Sciocchezze.» Kruppe si coprì il viso con la maschera. «Come farà a riconoscere Kruppe?» Murillio studiò il corpo grassoccio, il panciotto rosso sbiadito, i polsini ripiegati, e i ricci corti e unti in cima alla testa. «Non importa.» Sospirò. «Ottimo», ribatté Kruppe. «Ora, ti prego di accettare queste due maschere in dono dal tuo amico Kruppe. Un viaggio risparmiato, e Baruk non dovrà aspettare oltre un messaggio segreto che non va menzionato.» Ripose la sua maschera nella scatola, poi si girò a osservare l'orizzonte orientale. «Mi reco alla dimora dell'alchimista, allora. Buonasera, amico...» «Aspetta un attimo», lo interruppe Murillo, afferrandolo per il braccio e facendolo ruotare verso di lui. «Hai visto Coll?»
«Ma certo. Egli smaltisce i suoi cimenti in un sonno profondo, ristoratore. È stato guarito magicamente, secondo Sulty. Da uno sconosciuto. Coll è stato condotto qui da un secondo sconosciuto, che ha trovato un terzo sconosciuto, che a sua volta ha portato un quinto sconosciuto in compagnia dello sconosciuto che ha guarito Coll. Così va, amico Murillio. Strani fatti, davvero. Ora, Kruppe deve andare. Arrivederci, amico...» «Non ancora», ringhiò Murillio. Lanciò uno sguardo all'intorno. La strada era ancora vuota. Si piegò verso Kruppe. «Ho capito alcune cose. Il contatto con il Violatore del Cerchio ha messo ordine nella mia mente. So chi sei.» «Ahiii!» gridò Kruppe, indietreggiando. «Non lo negherò! È vero, Murillio, Kruppe è Lady Simtal abilmente travestita.» «Basta! Niente diversivi, stavolta. Tu sei l'Anguilla, Kruppe. Tutti questi piagnucolii da topolino mite e spaventato sono solo una commedia. Tieni mezza città in pugno, Anguilla.» Con gli occhi sgranati, Kruppe estrasse il fazzoletto dalla manica e si asciugò la fronte dal sudore. Quando lo strizzò, sui ciottoli schizzarono prima gocce, e poi un vero e proprio torrente. Murillio scoppiò in una risata aspra. «Finiscila con le stregonerie, Kruppe. Ti conosco da molto tempo, ricordi? Ti ho visto lanciare incantesimi. Hai ingannato tutti quanti, ma non me. Non farò la spia, però. Non devi preoccuparti di questo.» Sorrise. «Tuttavia, se non confessi subito, potrei irritarmi.» Sospirando, Kruppe rimise il fazzoletto nella manica. «L'irritazione è ingiustificata», dichiarò, alzando una mano e sventolando le dita. Murillio batté le palpebre, colto da una vertigine improvvisa. Strofinandosi la fronte, aggrottò le sopracciglia. Di cosa stavano parlando un attimo prima? Non doveva essere importante. «Grazie per le maschere, amico. Ci torneranno utili, ne sono sicuro.» Il suo cipiglio si approfondì. Che osservazione assurda! Non era nemmeno arrabbiato per il fatto che Kruppe avesse scoperto i loro piani, né che avrebbe partecipato alla Festa. Era tutto molto strano. «È bello che il vecchio Coll sia guarito, eh? Ora», borbottò, «è meglio che vada a controllare come sta Rallick». Sorridendo, Kruppe annuì. «Arrivederci alla Festa, allora, Murillio, squisito e caro amico di Kruppe.» «Buonanotte», replicò Murillio, volgendosi verso il punto da cui era venuto. Aveva bisogno di dormire. Tutte quelle notti semiinsonni si facevano sentire; ecco qual era il problema. «Chiaro», borbottò, cominciando a
camminare. *** Incupendosi in volto, Baruk studiò il Tiste Andii disteso sulla poltrona di fronte alla sua. «Non credo si tratti di una buona idea, Rake.» Il Signore alzò un sopracciglio. «Per quanto so di queste cose, l'evento implica l'uso di maschere», osservò, con un leggero sorriso. «Temi che manchi di gusto?» «Non ho dubbi che la vostra tenuta sarà appropriata», sbottò Baruk. «Specialmente se sceglierete di travestirvi da comandante militare Tiste Andii. È il Consiglio a preoccuparmi. Non sono tutti sciocchi.» «Mi stupirei se lo fossero», ribatté Rake. «Anzi, vorrei che mi indicassi quelli astuti. Non credo confuterai il mio sospetto che nel Consiglio c'è chi cerca di aprire la strada all'Imperatrice - per un prezzo, naturalmente. Il potere, per esempio. I nobili che praticano il commercio certo si fanno venire l'acquolina in bocca davanti alla prospettiva di scambi mercantili con l'Impero. Sono tanto lontano dalla verità, Baruk?» «No», ammise l'alchimista, in tono irritato. «Ma abbiamo la cosa sotto controllo.» «Ah, sì», disse Rake. «Il che mi fa pensare all'altra ragione per cui desidero partecipare a questa Festa di Lady Simtal. Come hai annunciato tu stesso, saranno presenti le autorità della città. Presumo che fra queste figurino i maghi della tua Cabala T'orrud?» «Alcuni verranno», riconobbe Baruk. «Ma devo avvertirvi, Anomander Rake, che i vostri fallimenti con la Corporazione dei Sicari hanno fatto deplorare a molti la nostra alleanza. Non apprezzeranno affatto la vostra partecipazione.» Rake risfoderò il sorriso. «Al punto da rivelare la loro comunità ai membri astuti del Consiglio? Non credo.» Si alzò con un movimento fluido. «Tengo molto a intervenire a questa Festa. La mia gente tiene in scarsa considerazione tali occasioni sociali, e ci sono momenti in cui mi stanco delle loro cupe preoccupazioni.» Baruk concentrò lo sguardo sul Tiste Andii. «Sospettate una convergenza, vero? Una micidiale riunione di forze, come la limatura di ferro che accorre verso una calamita.» «Con tanto potere raccolto in un posto solo», concordò Rake, «è probabile. In simili circostanze, preferirei essere presente». I suoi occhi sosten-
nero quelli di Baruk; il loro colore mutò dal verde spento all'ambra. «Inoltre, se questo evento è pubblicamente conosciuto come sostieni, allora gli agenti dell'Impero in città ne saranno al corrente. Se volessero colpire Darujhistan al cuore, non avrebbero migliore opportunità.» Baruk contenne a malapena un brivido. «Ovviamente, sono state ingaggiate guardie supplementari. E se un Artiglio imperiale volesse attaccare, dovrebbe vedersela con i maghi T'orrud.» Rifletté per un attimo, poi annuì stancamente. «Benissimo, Rake. Simtal vi accetterà come mio ospite. Indosserete un travestimento efficace?» «Naturalmente.» Tirandosi in piedi, Barak andò alla finestra. Il cielo andava schiarendosi. «E così, comincia», sussurrò. Rake lo raggiunse. «Comincia cosa?» «L'anno nuovo», spiegò l'alchimista. «L'anno delle Cinque Zanne è passato. L'alba che vedete segna la nascita dell'Anno delle Lacrime della Luna.» Anomander Rake s'irrigidì. Baruk se ne accorse. «Già. Una strana coincidenza, anche se non vi attribuirei molto peso. I titoli furono elaborati oltre un millennio fa, da un visitatore in queste terre.» Rake parlò in un bisbiglio tormentato. «I doni di Icarium. Riconosco lo stile. Le Cinque Zanne, le Lacrime della Luna - la Ruota è sua, giusto?» Con gli occhi spalancati, Baruk cacciò un sibilo di sorpresa fra i denti. Una dozzina di domande gli salirono alla bocca, ma il Signore continuò: «In futuro, ti consiglio di prestare attenzione ai doni di Icarium - a tutti quanti. Mille anni non sono poi molti, alchimista. Non molti. Icarium mi rese visita per l'ultima volta ottocento anni fa, in compagnia del Trell Mappo, e di Osric - o Osserc, come lo chiamano gli adoratori di qui». Rake fece un sorriso amaro. «Osric e io litigammo, rammento, e Brood faticò a tenerci separati. Era una vecchia discussione...» Gli occhi a mandorla sfumarono nel grigio. Ammutolì, perso nei ricordi. Ci fu un colpo alla porta; girandosi, entrambi videro Roald entrare e inchinarsi. «Mastro Baruk, Mammot si è svegliato e sembra ristorato. Inoltre, il vostro agente Kruppe ha recato un messaggio a voce. Esprime il suo rammarico per non poterlo comunicare a voi personalmente. Volete sentirlo ora?» «Sì», rispose Baruk. Roald s'inchinò di nuovo. «L'Anguilla vi contatterà questa sera. Alla Fe-
sta di Lady Simtal. Inoltre, l'Anguilla trova interessante la prospettiva della collaborazione e dello scambio di informazioni. È tutto.» Baruk si illuminò in volto. «Ottimo.» «Devo condurre Mammot alla vostra presenza, padrone?» «Se è in grado di venire.» «Lo è. Un attimo solo.» Roald uscì. L'alchimista sorrise. «Come ho detto», riprese, «ci saranno tutti e, in questo caso, tutti è la parola giusta». Il suo sorriso si allargò davanti all'espressione perplessa di Rake. «L'Anguilla, Signore. La spia principale di Darujhistan, una figura senza volto.» «Dal volto mascherato», gli ricordò il Tiste Andii. «Se i miei sospetti sono corretti», proseguì Baruk, «la maschera non l'aiuterà nemmeno un po'». La porta si riaprì e apparve Mammot; sembrava in forma e pieno di energia. Rivolse a Baruk un cenno del capo. «Il ritiro si è rivelato più facile di quanto avessi immaginato», annunciò, senza preamboli. Fissò lo sguardo brillante su Anomander Rake; poi sorrise e si inchinò. «Saluti, Signore. Aspetto quest'incontro con ansia, dal momento in cui Baruk ci ha portato l'offerta di alleanza.» Rake lanciò un'occhiata a Baruk, alzando un sopracciglio. «Mammot fa parte della Cabala T'orrud», spiegò l'alchimista. Si voltò di nuovo verso il vecchio. «Eravamo profondamente preoccupati, amico, date le Magie Antiche in gioco intorno al tumulo.» «Per un po', sono rimasto intrappolato», ammise Mammot, «ma ai confini estremi dell'influenza dell'Omtose Pellack. L'osservazione statica si è rivelata la condotta corretta, poiché colui che si muoveva dentro non ha avvertito la mia presenza.» «Quanto tempo abbiamo?» chiede Baruk, teso. «Due, forse tre giorni. Anche per un Tiranno Jaghut, è uno sforzo ritornare alla vita.» Gli occhi di Mammot caddero sulla mensola del camino. «Ah, la tua caraffa di vino attende come al solito. Splendido.» Vi si avvicinò a grandi passi. «Hai notizie di mio nipote, per caso?» Baruk corrugò la fronte. «No, dovrei averne? L'ultima volta che l'ho incontrato erano, vediamo, cinque anni fa?» «Mmm», rispose Mammot, alzando il calice appena riempito e bevendo un sorso. «Be', da allora Crokus è cresciuto un po', te l'assicuro. Spero che il ragazzo stia bene. Era...» Baruk sollevò una mano di scatto e fece un passo avanti, barcollando.
«Che cosa? Come si chiama?» domandò, invaso dal timore. «Crokus? Crokus!» L'alchimista si batté il palmo sulla fronte. «Oh, che sciocco sono stato!» Il viso di Mammot si increspò in un sorriso saggio. «Oh, ti riferisci alla questione del Portatore della Moneta, vero?» Sul volto di Baruk si dipinse lo shock. «Lo sapevi?» Stando in disparte, gli occhi grigio carbone fissi su Mammot, Rake disse, in tono stranamente piatto: «Mammot, perdonami l'interruzione. Parteciperai alla Festa di Lady Simtal?». Il vecchio annuì con disinvoltura. «Certo.» «Ottimo», osservò Rake, con una sorta di aspettativa. Estrasse dalla cintola i guanti di pelle. «Parleremo allora.» Baruk non ebbe il tempo di pensare alla partenza improvvisa di Rake. Fu il primo errore della giornata. *** Una donna dalla testa rasata e dalle vesti lunghe e fluenti si allontanò urlando dalla porta della città; una striscia di pelliccia marrone le sventolava dalla mano. L'Aggiunto Lorn fece un passo indietro per lasciarla passare; la guardò tuffarsi nella folla alle sue spalle. Le celebrazioni si erano estese fuori dalle mura di Darujhistan, e la strada principale del Quartiere di Worry era un torrente di folla che cercava da mezz'ora di attraversare nel suo cammino verso la porta. Si massaggiò distrattamente la ferita da stocco sulla spalla. Il suo viaggio nel tumulo sembrava aver rallentato la guarigione, e un dolore si era insediato nel foro, freddo come il ghiaccio della tomba. Osservando le due guardie sulla porta, si avvicinò con cautela. Solo una sembrò notarla; le rivolse un'occhiata brevissima, prima di riportare l'attenzione sulla calca del Quartiere di Worry. Lorn entrò in città inosservata, come un qualunque viaggiatore venuto a partecipare al festival della primavera. Appena oltre la porta, il viale si divideva a contornare la base di una tozza collina, sulla quale erano appollaiati un tempio mezzo in rovina e una torre. Alla sua destra si ergeva un'altra collina, adibita evidentemente a giardino, dati gli ampi scalini che salivano fino alla cima, coperta di alberi, e i molti feticci e stendardi legati ai rami e alle lampade a gas. L'intuizione di Lorn per le sue prede era forte, infallibile. Una volta su-
perate le colline, vide un muro. Il sergente Whiskeyjack e il suo squadrone erano da qualche parte al di là, nella città bassa. Lorn si aprì un varco fra le ondate di folla, una mano infilata nel cinturone, l'altra impegnata a massaggiare la carne rossa e gonfia intorno alla ferita. *** La guardia presso la porta di Worry si staccò dal muro cui stava appoggiata per camminare lentamente in cerchio sui ciottoli. Si fermò ad aggiustare l'elmo appuntito, allentando la cinghia di una tacca. L'altra guardia, un uomo anziano, basso e dalle gambe storte, gli si avvicinò. «Quegli sciocchi là fuori ti mettono a disagio?» chiese, con un sorriso più buchi che denti. Il primo uomo lanciò un'occhiata alla folla. «Un paio di anni fa qui c'è stata una semi-sommossa», spiegò. «Io c'ero», annunciò il compagno, sputando sulle pietre. «Abbiamo dovuto sguainare le spade, far scorrere un po' di sangue. Li abbiamo fatti scappare, e non credo che si siano dimenticati la lezione. Non mi preoccuperei troppo. Questo non è il tuo orario regolare, vero?» «No, sto solo sostituendo un amico.» «Quand'è il tuo solito turno?» «Da mezzanotte fino alla terza campana, al Barbacane del Despota», rispose il Violatore del Cerchio. Si aggiustò ancora l'elmo, sperando che gli occhi non visti dell'alleato avessero notato il suo segnale. La donna che era passata dalla porta pochi attimi prima corrispondeva perfettamente alla descrizione dell'Anguilla. Il Violatore del Cerchio sapeva di non sbagliarsi. Aveva l'aria della guerriera, vestita da mercenaria, impegnata a cercare di nascondere le macchie di sangue di una ferita alla spalla. Non le aveva lanciato che una fugace occhiata indagatrice; anni di pratica, tuttavia, la rendevano sufficiente. Aveva colto tutto ciò che il messaggero dell'Anguilla gli aveva detto di cercare. «Questa è una guardia infernale», commentò l'anziano al suo fianco, girandosi a guardare il Parco del Despota con gli occhi socchiusi. «E tu eri qui ad accogliere l'alba.» Scosse la testa. «I bastardi ci fanno lavorare troppo di questi tempi, col fatto che le spie dell'Impero sono infiltrate in città, e roba del genere.» «Diventa sempre più dura», convenne il Violatore del Cerchio. «Devo star qui per altre tre ore, e credi che mi daranno un po' di tempo
per partecipare al festival con mia moglie e i miei figli?» L'anziano sputò di nuovo. «Niente affatto. Il vecchio Berrute sarà costretto a guardare altra gente che si diverte in qualche maledetta proprietà.» Il Violatore del Cerchio trattenne il fiato, poi sospirò. «Ti riferisci alla Festa di Lady Simtal, immagino.» «Proprio così. Dannati consiglieri che se ne vanno in giro con la puzza sotto il naso. E io lì, fermo come una statua, con i piedi doloranti.» Che colpo di fortuna, pensò il Violatore del Cerchio, sorridendo fra sé. La postazione successiva del suo compagno era esattamente quella che l'Anguilla aveva voluto per lui. E meglio ancora, l'anziano se ne lamentava. «Hanno bisogno di quelle statue», commentò. «Li fa stare al sicuro.» Si avvicinò a Berrute. «Non hai detto al sergente che hai male ai piedi?» «A che servirebbe?» gemette Berrute. «Lui non fa gli ordini; li riferisce e basta.» Il Violatore del Cerchio spinse lo sguardo su per la strada, come riflettendo su qualcosa, poi posò una mano sulla spalla del compagno e incontrò il suo sguardo. «Senti, io non ho famiglia. Per me, oggi è un giorno come tutti gli altri. Prenderò il tuo posto, Berrute. Ma la prossima volta che vorrò staccare per un po', verrò a cercarti.» Gli occhi dell'anziano si illuminarono di autentico sollievo. «Che Nerruse ti benedica», esclamò, il volto gioioso. «Affare fatto, amico. Ehi, non so nemmeno come ti chiami!» Il Violatore del Cerchio sorrise, poi glielo disse. *** Con la maggior parte della baldoria fuori nelle strade, l'interno del Bar delle Facezie era quasi deserto. L'Aggiunto Lorn si fermò sulla porta, in attesa che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. Qualche voce sporadica le arrivò alle orecchie, mista al picchiettio delle carte di legno. Entrò nella stanza dal soffitto basso. Una vecchia trasandata la guardò con occhi spenti da dietro il banco. Presso il muro più lontano, c'era un tavolo cui sedevano tre uomini. Monete di rame brillavano alla luce della lampada, in mezzo a pozze di birra rovesciata. Gli uomini avevano in mano delle carte. Quello con la schiena contro il muro, e un berretto di cuoio bruciacchiato sulla testa, alzò gli occhi a incontrare quelli di Lorn. Indicò una sedia vuota. «Accomodatevi, Aggiunto», l'invitò. «Giocate con noi.»
Lorn batté le palpebre, poi nascose lo stupore con una scrollata di spalle. «Non gioco d'azzardo», ribatté, lasciandosi cadere sulla sedia traballante. L'uomo studiò le sue carte. «Non intendevo questo», disse. Quello seduto alla sinistra di lei borbottò: «Hedge si riferiva a un altro gioco». Lorn si girò a guardarlo. Magro, basso, con i polsi massicci. «E tu come ti chiami, soldato?» chiese sommessamente. «Fiddler. E quello che sta perdendo i suoi soldi è Mallet. Vi stavamo aspettando.» «Lo vedo», commentò seccamente Lorn, appoggiandosi allo schienale. «Sono colpita dalla vostra intelligenza, signori. Il sergente è nelle vicinanze?» «Sta facendo il giro di ispezione», rivelò Fiddler. «Dovrebbe arrivare fra una decina di minuti. Abbiamo il quartier generale in una topaia. Proprio contro il muro del Livello.» «Una casa abbandonata accanto al Distretto Daru», aggiunse Hedge. «Io e Fiddler abbiamo aperto un buco nella base del muro, spessa sette stramaledetti piedi.» Sorrise. «È il nostro passaggio segreto.» «Così, voi siete i sabotatori. E Mallet? È un guaritore, giusto?» Mallet annuì, senza smettere di esaminare le carte. «Avanti, Fiddler», incitò. «È il tuo gioco. Sentiamo la prossima regola.» Fiddler si piegò in avanti. «Il Cavaliere della Casa dell'Oscurità è il jolly», dichiarò. «È anche la carta di apertura. A meno che non abbiate in mano la Vergine della Morte. In quel caso, potete aprire con mezza posta e raddoppiarla se vincete il giro.» Mallet buttò sul tavolo la Vergine della Morte. Spinse una sola moneta di rame al centro del tavolo. «Facciamo questo giro, allora.» Fiddler gli diede un'altra carta. «Ora alziamo la posta, Hedge, due monete a testa.» Lorn osservò procedere quel gioco bizzarro. Gli uomini usavano un Mazzo dei Draghi. Stupefacente. Fiddler inventava le regole man mano, e tuttavia le carte componevano uno schema coerente sul piano del tavolo. Aggrottò le sopracciglia, pensierosa. «Il Segugio è alle strette», osservò Fiddler, indicando l'ultima carta posata sul tavolo da Mallet. «Il Cavaliere dell'Oscurità è vicino, lo sento.» «E la maledetta Vergine della Morte?» brontolò il guaritore. «È stata resa inoffensiva. Guarda, la Fune è fuori dal quadro, no?» Fiddler buttò un'altra carta. «E qui c'è quel bastardo del Drago, con la spada
fumante, e nero come una notte senza luna. È lui ad aver messo in fuga il Segugio.» «Aspetta un attimo», gridò Hedge, sbattendo una carta sul Cavaliere dell'Oscurità. «Hai detto che il Capitano della Luce si sta alzando, no?» Fiddler si concentrò sullo schema. «Ha ragione, Mallet. Paghiamo due monete a testa. Quel Capitano sta già ballando sull'ombra del Cavaliere...» «Scusatemi», intervenne Lorn ad alta voce. I tre uomini la guardarono. «Tu possiedi il Dono, Fiddler? È giusto che usi questo Mazzo?» Fiddler si accigliò. «Non sono affari vostri, Aggiunto. Giochiamo da anni, e nessuno ci ha mai puntato un coltello addosso. Se volete partecipare, basta dirlo. Vi darò la prima carta.» Prima che lei potesse protestare, le mise davanti una carta, a faccia in su. Lei la fissò. «Non è strano?» commentò Fiddler, «Il trono, invertito. Ci dovete dieci monete d'oro a testa - un anno di paga, tra parentesi. Diavolo di una coincidenza.» Hedge sbuffò rumorosamente. «È anche il risarcimento che l'Impero pagherà alle nostre famiglie quando saremo ufficialmente morti. Grazie tante, Fiddler.» «Prendi i soldi e chiudi il becco», sbottò Fiddler. «Non abbiamo ancora tirato le cuoia.» «Ho ancora una carta in mano», annunciò Mallet. Fiddler alzò gli occhi al cielo. «Vediamola, allora.» Il guaritore la posò. «Globo.» Fiddler scoppiò a ridere. «La visione e il giudizio nitidi chiudono questo gioco. Interessante, eh?» Lorn avvertì una presenza alle sue spalle. Girandosi lentamente, vide un uomo barbuto, i cui occhi grigi sostennero il suo sguardo. «Sono Whiskeyjack», disse questi, a voce bassa. «Buongiorno, Aggiunto, e benvenuta a Darujhistan.» Trovò una sedia vicina e la tirò verso il tavolo, mettendosi accanto a Hedge. «Desiderate un rapporto, eh? Stiamo ancora cercando di contattare la Corporazione dei Sicari. Tutte le mine sono state posate; aspettano solo gli ordini. Finora, abbiamo perso solo un membro dello squadrone. In altre parole, siamo stati maledettamente fortunati. In città ci sono dei Tiste Andii che ci danno la caccia.» «Chi avete perso, sergente?» indagò Lorn. «La recluta. Si chiamava Dispiacere.» «Morta?»
«Risulta dispersa da alcuni giorni.» Lorn strinse i denti per trattenere un'imprecazione. «Così, non sapete se è morta?» «No. Qual è il problema, Aggiunto? Era solo una recluta. Anche se fosse stata acchiappata dalle guardie, potrebbe dire loro ben poco. Inoltre, non ci risulta niente del genere. Più probabilmente, è stata fatta fuori in un vicolo - cercando i sicari abbiamo visto un sacco di topaie abitate da delinquenti.» Scosse le spalle. «È un rischio che si corre.» «Dispiacere era una spia», spiegò Lorn. «Una spia molto abile, sergente. Potete star certo che nessun delinquente l'ha uccisa. No, non è morta. Si nasconde, perché sapeva che sarei venuta a cercarla. Sono sulle sue tracce da tre anni. La voglio.» «Se avessimo avuto sentore di questo», ribatté Whiskeyjack, in tono tirato, «avremmo potuto aiutarvi, Aggiunto. Ma ve lo siete tenuto per voi, e ora dovrete sbrigarvela da sola». I suoi occhi si indurirono. «Che contattiamo la Corporazione o no, faremo esplodere le mine prima dell'alba di domani, e poi andremo via di qui.» Lorn si raddrizzò. «Io sono l'Aggiunto dell'Imperatrice, sergente. Da questo momento questa missione è sotto il mio comando. Prenderete ordini da me. Tutte queste velleità d'indipendenza sono finite, capito?» Per un attimo, le parve quasi di vedere un lampo di trionfo negli occhi dell'uomo; ma un secondo sguardo rivelò che si trattava solo della naturale rabbia. «Capito, Aggiunto», ripeté seccamente Whiskeyjack. «Quali sono i vostri ordini?» «Parlo sul serio, sergente», l'avvisò lei. «E non mi importa di quanto vi arrabbierete. Ora, propongo di ritirarci in un luogo più privato.» Si alzò. «I vostri uomini possono restare qui.» Whiskeyjack si levò a sua volta. «Ma certo, Aggiunto. Se mi seguite, vi porterò al quartier generale.» *** Lorn abbassò la mano sulla coperta del letto. «Qui c'è del sangue, sergente.» Si girò verso di lui, che stava chiudendo la porta. Whiskeyjack sostenne il suo sguardo. «Uno dei miei uomini ha avuto una scaramuccia con un mago-sicario Tiste Andii, ma guarirà.» «Altamente improbabile, sergente. I Tiste Andii sono tutti con Caladan Brood, al nord.» Spalancò gli occhi, incredula. «Non vorrete insinuare che
il Signore della Progenie della Luna in persona ha lasciato la sua fortezza? Per fare cosa? Per dare la caccia alle spie Malazan? Non dite assurdità.» Whiskeyjack aggrottò le sopracciglia. «Il caporale Kalam e il mago del mio squadrone hanno avuto uno scontro sui tetti con almeno mezza dozzina di Tiste Andii. Il fatto che i miei uomini siano sopravvissuti esclude la possibilità che il Signore della Progenie della Luna fosse nelle vicinanze, non trovate, Aggiunto? Mettete insieme i pezzi. La fortezza si insedia a sud della città. Il suo signore stipula un'alleanza con i governanti di Darujhistan, e il loro primo compito è quello di eliminare la locale Corporazione dei Sicari. Perché? Per impedire a gente come noi di contattarli e di offrire loro un patto. E, finora, ha funzionato.» Lorn rifletté per un po', poi disse: «Se la Corporazione non può essere contattata, perché non mettervi voi stessi a uccidere? Il vostro caporale Kalam era uno dei migliori membri dell'Artiglio prima del suo... abbandono. Perché non sopprimere i governanti della città?». L'uomo incrociò le braccia sul petto, appoggiandosi al muro accanto alla porta. «Ci abbiamo pensato, Aggiunto. E siamo un passo avanti a voi. In questo momento, uno dei miei uomini è in trattative per farci lavorare come guardie private presso una Festa dell'alta società, stasera. Dovrebbero partecipare tutti quelli che contano - membri del Consiglio, Grandi Maghi, e compagnia bella. I miei sabotatori hanno avanzato abbastanza munizioni perché questa diventi un'occasione che la città farà fatica a dimenticare.» Lorn lottò contro un crescente senso di frustrazione. Per quanto avesse ritenuto necessario assumere il comando della situazione, sembrava che questo Whiskeyjack se la fosse cavata egregiamente fino ad allora, date le circostanze. Sospettava che lei stessa non avrebbe potuto fare di meglio, anche se la storia dei Tiste Andii la lasciava ancora diffidente. «Perché mai», chiese infine, «una proprietà dovrebbe ingaggiare un gruppo di sconosciuti come guardie?». «Oh, ci saranno anche soldati della città. Ma nessuno di loro è un Barghast.» Whiskeyjack fece un sorriso sarcastico. «Il senso di eccitazione, Aggiunto. È questo che fa sbavare la nobiltà. Un grosso barbaro tatuato che li guarda minaccioso. Stuzzicante, eh?» Scosse le spalle. «È un rischio, ma vale la pena di correrlo. A meno che, naturalmente, voi non abbiate un'idea migliore.» Lei avvertì il suo tono di sfida. Se ci avesse pensato, si sarebbe resa conto da tempo che quell'uomo non si sarebbe fatto intimidire dal suo titolo e dal suo potere. Era stato al fianco di Dassem Ultor, e aveva discusso stra-
tegie con la Spada dell'Impero nel bel mezzo della battaglia. E, a quanto pareva, la degradazione a sergente non l'aveva piegato - questo l'aveva capito dalla reputazione degli Arsori di Ponti a Pale. Non avrebbe esitato a mettere in discussione ogni suo ordine se avesse trovato motivo per farlo. «Il vostro piano è valido», commentò. «Chi è il padrone di questa proprietà?» «Una donna di nome Lady Simtal. Ne ignoro il cognome, ma sembra che tutti la conoscano. Si dice sia una vera bellezza, dotata di influenza presso il Consiglio.» «Benissimo», rispose Lorn, aggiustandosi il mantello. «Tornerò fra due ore, sergente. Ci sono altre questioni che richiedono la mia attenzione. Assicuratevi che sia tutto pronto - procedimento di detonazione compreso. Se non verrete ingaggiati, dovremo trovare un altro modo di partecipare a quella festa.» Si diresse alla porta. «Aggiunto?» La donna lo guardò. Whiskeyjack andò al muro posteriore, scostando una tenda sbrindellata. «Questo tunnel sbocca in un'altra casa. Da lì, potrete entrare nel Distretto Daru.» «Non ce n'è bisogno.» Lorn era irritata dal suo tono condiscendente. Non appena fu uscita, Ben lo Svelto balzò fuori dal tunnel. «Maledizione, sergente», borbottò. «Per poco non me l'hai spedita addosso!» «Niente affatto», osservò Whiskeyjack. «Anzi, ho fatto in modo che non lo usasse. Notizie di Kalam?» Ben lo Svelto camminava su e giù per la piccola stanza. «Non ancora. Ma sta per perdere la pazienza.» Si voltò verso il sergente. «Allora? Pensi che l'abbia bevuta?» «Bevuta?» Whiskeyjack scoppiò a ridere. «Aveva le vertigini per la sbornia.» «Paran ha detto che avrebbe sganciato qualche bomba», osservò Ben lo Svelto. «L'ha fatto?» «Non ancora.» «La situazione si fa difficile, sergente. Maledettamente difficile.» Si aprì l'altra porta ed entrò Trotts, i denti limati esposti in qualcosa che stava a metà fra il sorriso e la smorfia. «Successo?» chiese Whiskeyjack. Trotts annuli.
*** Mentre il pomeriggio volgeva al termine, Crokus e Apsalar aspettavano in cima alla piattaforma della torre. Ogni tanto, allungavano il collo oltre il bordo per guardare i festeggiamenti. Nella folla sottostante c'era una punta di frenesia, come se ballasse sull'orlo della disperazione. Malgrado la baldoria, l'ombra dell'Impero Malazan aleggiava su tutti. E con la Progenie della Luna insediata presso il confine meridionale, a nessuno sfuggiva la posizione di Darujhistan fra le due forze. «Chissà perché», borbottò Crokus, osservando la folla muoversi per le strade come un fiume tumultuoso, «Darujhistan sembra più piccola. Quasi insignificante». «A me sembra enorme», ribatté Apsalar. «È una delle città più grandi che abbia mai visto. Grande come Unta, credo.» Lui la fissò. Ultimamente diceva cose strane, che non sembravano appropriate per una pescatrice proveniente da un piccolo villaggio costiero. «Unta. È la capitale dell'Impero, no?» Lei aggrottò le sopracciglia, cosa che la fece sembrare più vecchia. «Sì. Ma non ci sono mai stata.» «Allora come fai a sapere che è grande?» «Non lo so, Crokus.» Era stata posseduta, aveva detto Coll. Due memorie diverse guerreggiavano in quella ragazza, e la battaglia andava inasprendosi. Si chiese se Mammot si fosse già fatto vivo. Per un attimo, quasi si rammaricò della loro fuga da Meese e Irilta. Ma poi i suoi pensieri si volsero al futuro. Si sedette sulla piattaforma, appoggiandosi al muretto. Fissò il corpo del sicario davanti a sé. Il sangue si era annerito sotto il calore del sole. Una pista di gocce attraversava l'impiantito, fino alle scale. Evidentemente, anche l'uccisore era rimasto ferito. Tuttavia Crokus, pur non essendo sicuro del perché, non si sentiva in pericolo lassù. Per essere un campanile abbandonato, recentemente quel posto era stato teatro di forti drammi. «Stiamo aspettando la notte?» chiese Apsalar. Crokus annuì. «E poi cercheremo quella Challice?» «Esatto. I D'Arles saranno alla Festa di Lady Simtal, ne sono certo. La proprietà ha un giardino enorme, quasi una foresta, che arriva fino al muro posteriore. Penetrare all'interno dovrebbe essere facile.»
«Non verrai notato una volta che ti unirai agli ospiti, però?» «Mi vestirò da ladro. Tutti indosseranno costumi. Inoltre, ci saranno centinaia di persone. Forse impiegherò un'ora o due, ma la troverò.» «E poi?» «Penserò a qualcosa», concluse Crokus. Apsalar allungò le gambe sulle mattonelle, incrociando le braccia. «E io dovrei nascondermi fra i cespugli, eh?» Lui scosse le spalle. «Forse ci sarà anche lo zio Mammot», aggiunse. «In tal caso, andrà tutto bene.» «Perché?» «Perché l'ha detto Coll», sbottò Crokus, esasperato. Doveva dirle che era stata posseduta per chissà quanto? «Troveremo il modo di farti tornare a casa», dichiarò. «È questo che vuoi, no?» Lei annuì lentamente, come se non ne fosse più sicura. «Mi manca mio padre», mormorò. A Crokus, sembrava che Apsalar stesse cercando di convincere se stessa. Quando erano arrivati l'aveva guardata, pensando, Perché no? E anche ora, doveva ammettere che la sua compagnia non era male. Tranne che per tutte quelle domande, naturalmente. Però, se fosse toccato a lui svegliarsi a mille miglia da casa, cosa avrebbe provato? Puro terrore. Avrebbe retto tanto bene quanto sembrava che lei stesse facendo? «Mi sento bene», annunciò lei, guardandolo. «È come se qualcosa dentro di me tenesse le cose insieme. Non riesco a spiegarlo meglio, ma è come una pietra nera, liscia. È calda e solida, e ogni volta che mi prende la paura, posso andare a toccarla. E tutto torna a posto. Mi dispiace», aggiunse. «Non intendevo essere antipatica.» «Non importa», replicò lui. *** Da dentro l'ombra della scala, Serrat studiava le due figure sulla piattaforma. Aveva aperto il suo canale Kurald Galain, circondandosi di uno strato di difese. Basta con i nemici invisibili. Se la volevano, avrebbero dovuto mostrarsi. E allora, lei li avrebbe uccisi. Quanto al Portatore della Moneta e alla ragazza, dove potevano sperare di scappare, lì su quella torre? Sguainò i coltelli, preparandosi all'attacco. Una dozzina di difese le proteggeva le spalle, lungo tutta la scala. Nessuno sarebbe potuto venire da lì.
Due punte aguzze le toccarono la carne, una sotto il mento e l'altra sotto la scapola sinistra. La Tiste Andii si immobilizzò. E poi sentì una voce vicina all'orecchio - una voce che riconobbe. «Da' a Rake quest'avvertimento, Serrat. Non lo ripeterò più, e lo stesso vale per te. Al Portatore della Moneta non va recato danno. I giochi sono fatti. Provaci ancora e morirai.» «Bastardo!» esplose lei. «La rabbia del mio signore...» «Sarà vana. Sappiamo entrambi chi manda questo messaggio, no? E come Rake sa bene, non è tanto lontano come una volta.» La punta sotto il mento si scostò per permetterle di annuire, poi tornò. «Bene. Trasmetti l'avvertimento al nostro comune amico, allora, e spera che non ci incontriamo più.» «Non me ne dimenticherò», promise Serrat, fremendo di collera. Le rispose un risolino sommesso. «Ossequi da parte del Principe, Serrat.» I pugnali lasciarono la sua carne. Serrat esalò un lungo respiro, poi rinfoderò le armi. Recitò velocemente un incantesimo Kurald Galain, e svanì. *** Crokus sobbalzò sentendo un debole tonfo provenire dalla tromba della scala. Posò le mani sui coltelli, irrigidendosi. «Cosa c'è che non va?» domandò Apsalar. «Shhh. Aspetta.» Sentiva il cuore martellargli in petto. «Niente, ho paura delle ombre», concluse, rimettendosi comodo. «Be', tanto ce ne andremo presto.» *** Era un'era di vento, che spazzava le pianure erbose sotto un cielo color peltro, un vento la cui sete assaliva ogni forma vivente, noncurante, inesorabile, come una bestia ignara di se stessa. Fu la prima lezione di vita assorbita da Raest, che ancora trotterellava ai calcagni della madre. Nella brama di dominio che avrebbe forgiato la sua vita, osservò i molti modi del vento - la sottile scultura della pietra lungo centinaia e poi migliaia di anni, le raffiche furibonde che abbattevano le foreste - e trovò più vicino al suo cuore la forza ululante, violenta. La madre di Raest era stata la prima a eludere la sua volontà di manipo-
lare il potere. L'aveva rinnegato apertamente, proclamando la Scissione del Sangue, che gli aveva dato la sua libertà. Il rituale l'aveva distrutta, ma lui era rimasto indifferente. Non era importante. Un futuro dominatore doveva imparare presto che coloro che resistevano al suo imperio andavano annientati. La madre, non lui, doveva pagare il prezzo del fallimento. Mentre gli Jaghut temevano la collettività, e dichiaravano la società la culla della tirannia - della carne e dello spirito - citando a riprova la loro storia sanguinosa, Raest la desiderava ardentemente. Il suo potere richiedeva l'esistenza di sottoposti. La forza era sempre relativa, e lui non poteva dominare senza vittime. Dapprima, pensò di soggiogare altri Jaghut, ma il più delle volte gli sfuggivano, oppure era costretto a ucciderli. Simili contese gli offrivano solo una soddisfazione momentanea. Raest radunava bestie intorno a sé, piegando la natura alla sua volontà. Ma la natura, asservita, appassiva, trovando un'evasione che egli non poteva controllare. Nella sua collera, devastò la terra, provocando l'estinzione di innumerevoli specie. Il pianeta gli resistette. Ma il suo potere, per quanto immenso, era privo di direzione, e col suo flusso perenne non poteva sopraffare Raest. Quello dello Jaghut era un potere concentrato, preciso nel distruggere e dagli effetti diffusi. Poi sulla sua strada entrò il primo degli Imass, creature che lottavano contro la sua volontà, opponendosi alla schiavitù e pretendendo di vivere. Creature di infinita, miserevole speranza. Con loro, Raest trovò la gloria del dominio, schiacciandone uno dopo l'altro. Il loro legame con la natura era minimo, perché essi stessi praticavano la tirannia sopra le loro terre. Non potevano sconfiggerlo. Forgiò una specie di Impero, privo di città ma afflitto dagli infiniti drammi della società, con le sue patetiche vittorie e i suoi inevitabili scacchi. Gli Imass prosperarono in questa palude di meschinità. Riuscirono persino a convincersi di possedere la libertà, un arbitrio personale capace di modellare il destino. Elessero dei campioni, ma li buttarono giù dal piedestallo non appena il fallimento avvolse intorno a loro il suo triste sudario. Chiamarono crescita, sviluppo, conoscenza il loro correre all'impazzata senza una meta. E nel contempo, presenza invisibile ai loro occhi, Raest imponeva la sua volontà. La sua più grande gioia venne quando i suoi schiavi - pur senza conoscerlo - lo proclamarono dio, costruirono templi per servirlo e organizzarono ordini sacerdotali le cui attività imitavano la sua tirannia con un'ironia così cosmica che allo Jaghut non restò che scuotere la testa.
L'Impero sarebbe dovuto durare millenni, e morire per mano sua, quando lui se ne fosse, infine, stancato. Raest non aveva mai immaginato che altri Jaghut avrebbero trovato ripugnanti le sue attività, che avrebbero messo a repentaglio la loro persona e il loro potere nell'interesse di quegli Imass dalla vita breve e dalla mentalità ristretta. Ma a stupire Raest più di qualunque altra cosa fu il fatto che, quando vennero da lui, gli Jaghut si organizzarono in una comunità. Una comunità la cui esistenza aveva il solo scopo di imprigionarlo e di distruggere il suo Impero. Era impreparato a una cosa simile. Ma aveva imparato la lezione e, comunque il mondo fosse cambiato da quel momento, Raest adesso era pronto. Dapprima le sue membra scricchiolarono, tormentate da dolori sordi inframmezzati da fitte lancinanti. Lo sforzo di tirarsi fuori dalla terra gelata l'aveva lasciato paralizzato per un po', ma infine si sentì in grado di percorrere il tunnel che si apriva su una terra nuova. La preparazione. Aveva già pensato alle prossime mosse. Sentiva che altri gli erano venuti incontro, liberando il cammino dalle difese e dai sigilli Omtose Phellack. Forse esistevano ancora i suoi adoratori fanatici, che da generazioni cercavano la sua liberazione, e ora lo aspettavano al di là del tumulo. Il Finnest scomparso sarebbe stato la sua prima preoccupazione. I traditori Jaghut gli avevano sottratto gran parte del suo potere, immettendolo in quel seme. Non era stato portato lontano, e niente poteva impedirgli di recuperarlo. La magia Omtose Phellack non era più presente nella terra soprastante; ne avvertiva l'assenza come un vuoto senz'aria. Non avrebbe incontrato alcun ostacolo. La preparazione. Il volto avvizzito, screpolato si contorse in un ghigno sinistro; le zanne inferiori ruppero la pelle essiccata. I potenti dovevano radunare altro potere, piegarlo alla loro volontà e indirizzarlo con precisione verso un obiettivo. Le sue mosse erano già iniziate. Sguazzò attraverso la melma che ora ricopriva il pavimento del tumulo. Davanti a lui si erse il muro obliquo che segnava il confine della tomba. Oltre la terra rigata di fango aspettava un mondo da schiavizzare. A un gesto di Raest, il muro esplose verso l'esterno. Sprazzi di sole lucente divamparono nelle nubi di fumo che gli turbinavano intorno, e ondate di aria fredda, antica lo colpirono, superandolo. Il Tiranno Jaghut entrò nella luce.
*** Il Grande Corvo Crone cavalcava le correnti di vento caldo, molto al di sopra delle Colline Gadrobi. L'esplosione di potere che lanciò tonnellate di terra e di rocce un centinaio di piedi alte nel cielo le strappò una risata chioccia. Inclinando le ali verso il basso, virò verso il pilastro di fumo bianco, su cui teneva puntati gli occhi. La cosa, sogghignò fra sé, si sarebbe rivelata interessante. Un'ondata d'aria l'investì. Urlando di indignazione, Crone si girò, scivolando sul vento rapido. Ombre massicce le correvano sopra. La rabbia fu spazzata via da un impeto di eccitazione. Allungando il collo, sferzò l'aria con le ali e risalì. In questioni del genere, era essenziale avere un punto di vista corretto. Crone salì ancora, poi piegò la testa per guardare giù. Alla luce del sole, scaglie brillavano iridescenti su cinque dorsi muniti di creste; uno dei cinque scintillava come un fuoco. Dalla ragnatela di ali spiegate emanavano cerchi di potere magico. I draghi veleggiavano silenziosi sopra il paesaggio, avvicinandosi alla nuvola di fumo che ribolliva dalla tomba dello Jaghut. Gli occhi neri di Crone si fissarono sul drago fiammeggiante di rosso. «Silanah!» gridò, ridendo. «Dragnipurake t'na Draconiaes! Eleint, eleint!» Il giorno dei Tiste Andii era arrivato. *** Raest emerse nella vivida luce del pomeriggio. Colline coperte di erba verde, segnate dalle intemperie, si levavano in ogni direzione tranne che in quella verso cui lui guardava. A est, una pianura deserta si estendeva dietro a una cortina di fumo sempre più sottile. Il Tiranno Jaghut grugnì. Le cose non erano poi tanto cambiate. Alzando le braccia, sentì il vento scivolare lungo i muscoli tesi. Tirò un respiro, assaporando l'aria vibrante di vita. Saggiò leggermente il suo potere e gioì delle ondate di paura che vi risposero - da parte della vita bruta che gli stava sotto i piedi, o si nascondeva nell'erba all'intorno. Ma della vita più evoluta, delle concentrazioni di forza più elevate, non avvertì nulla. Raest spinse i suoi sensi sotto il terreno, cercando ciò che vi abitava. Oltre lo strato di roccia, attraverso il fiume lento, buio, della materia liquefatta, giù, giù, fino a trovare la dea addormentata - giovane, per quanto lo riguardava. «Devo svegliarti?» mormorò. «Non ancora. Ma ti farò sanguinare.» Strinse
la mano destra a pugno. Trafisse la dea con un colpo doloroso, e sentì il fiotto del suo sangue; fu sufficiente a farla muovere, ma non a svegliarla. A nord, la linea delle colline si alzò verso il cielo. Magma schizzò nell'aria in mezzo a una colonna di fumo, cenere e roccia. La terra tremò, mentre il rumore dell'eruzione lo investiva accompagnato da un vento caldo, impetuoso. Il Tiranno Jaghut sorrise. Osservando la catena distrutta, respirò l'aria greve, sulfurea, poi si girò e si diresse a ovest, verso la collina più alta in quella direzione. Il suo Finnest si trovava al di là di essa, forse a tre giorni di cammino. Pensò di aprire il suo Canale, ma decise di aspettare finché non avesse raggiunto la cima della collina. Da quella posizione di vantaggio, avrebbe potuto valutare meglio l'ubicazione del Finnest. Giunto a metà pendio, Raest udì una risata lontana. S'irrigidì, mentre il giorno si incupiva all'improvviso intorno a lui. Vide cinque ombre enormi ascendere rapidamente il pendio, e superare la cima della collina. La luce del sole tornò. Il Tiranno Jaghut levò la testa al cielo. Cinque draghi volavano in perfetta formazione, inclinando la testa a guardarlo mentre viravano verso di lui. «Estideein eleint», mormorò, nella sua lingua Jaghut. Quattro erano neri, con le ali bordate d'argento; affiancavano, a due a due, un quinto drago, rosso e grande il doppio degli altri. «Rossa Silanah», borbottò Raest, stringendo gli occhi. «Nata nei tempi antichi, Tiam purosangue, tu conduci i Soletaken, il cui sangue è estraneo a questo mondo. Sento la presenza di tutti voi!» Alzò i pugni al cielo. «Più freddi del ghiaccio nato dalle mani Jaghut, scuri come la cecità - vi sento!» Abbassò le braccia. «Non datemi fastidio, eleint. Non posso farvi schiavi, ma vi distruggerò. Sappiatelo. Vi abbatterò, uno dopo l'altro, e vi strapperò il cuore dal petto con le mie stesse mani.» Concentrò l'attenzione sui quattro draghi neri. «Soletaken. Vorreste sfidarmi agli ordini altrui. Vorreste combattermi per ragioni non vostre. Ah, ma se fossi io a comandarvi non getterei via la vostra vita con tanta disinvoltura. Avrei cura di voi, Soletaken. Vi darei cause degne in cui credere, vi mostrerei i veri vantaggi del potere.» Raest si accigliò, sentendo la loro derisione penetrargli nella mente. «E così sia, allora.» I draghi passarono bassi sulla sua testa, virando di nuovo e scomparendo dietro le colline a sud. Raest allargò le braccia e scatenò il suo Canale. Il flusso di potere che l'invase gli spaccò la carne. Pelle cadde come cenere dalle sue braccia. Sentì le colline fendersi tutt'intorno a lui, il fragore delle
rupi che crollavano. Su tutti i lati, l'orizzonte fu coperto da una cortina di fumo che saliva. Si volse verso sud. «Questo è il mio potere! Venite da me!» Passò un lungo minuto. Guardò le colline davanti a sé con un cipiglio, poi cacciò un'esclamazione di sorpresa e si girò di scatto a destra, nel momento in cui Silanah e i quattro draghi neri, tutti a meno di dieci piedi dal suolo, spuntavano dalla cima della collina che stava risalendo. Raest urlò, colpito da un mulinello di potere. Le sue pupille contratte fissarono gli occhi vacui, letali di Silanah - grandi come la testa del tiranno che lo attaccava con la velocità di una vipera. La dragonessa rossa spalancò le mascelle, e Raest si ritrovò a fissare la gola della belva. Urlò di nuovo, poi scatenò il suo potere tutto in una volta. Lo scontro dei Canali fece esplodere l'aria. Frammenti seghettati di roccia schizzarono in tutte le direzioni. Lo Starvald Demelain e il Kurald Galain guerreggiavano con l'Omtose Phellack in un selvaggio vortice di volontà. Ovunque, erba, roccia e terra si ridussero a cenere fine. Nell'occhio del ciclone stava Raest, che emanava onde ruggenti di potere. Staffilate di magia provenienti dai draghi gli trafissero il corpo, penetrando nella carne avvizzita. Il Tiranno Jaghut brandì il suo potere come una falce. Sangue schizzò a terra, in una pioggia di gocce. I draghi urlarono. Un'ondata incandescente colpì Raest da sinistra, solida come un ariete. Scagliato, ululante, nell'aria, lo Jaghut atterrò su un mucchio di cenere polverosa. Il fuoco di Silanah lo avvolse, annerendo ciò che restava della sua carne. Il Tiranno si alzò barcollante, il corpo scosso da spasmi incontrollabili; un fiotto di magia gli uscì dalla mano destra. La terra tremò mentre il potere di Raest abbatteva Silanah, mandandola scivoloni e rotoloni giù per il pendio. Ma il ruggito di esultanza del Tiranno fu presto interrotto dagli artigli che, lunghi come un avambraccio, gli si conficcarono dentro da dietro. Una seconda zampa si unì alla prima, spezzandogli le ossa del petto come se fossero ramoscelli. Poi gli si piegarono intorno gli artigli di un altro drago che cercava la presa. Il Tiranno si agitò impotente, mentre gli artigli lo sollevavano nell'aria, e lo laceravano. Si slogò la spalla, allungando il braccio per affondare le dita nelle scaglie lucenti. A quel contatto, l'Omtose Pellack invase la gamba del drago, frantumando ossa, facendo ribollire il sangue. Raest rise, quando gli artigli si allentarono di scatto, e lui fu gettato lontano. Sbattendo a terra, si ruppe altre ossa, ma non aveva importanza. Il suo potere era assoluto, il
contenitore che lo racchiudeva contava ben poco. All'occorrenza, il Tiranno avrebbe trovato altri corpi, migliaia di altri corpi. Si tirò in piedi ancora una volta. «Ora», mormorò, «dispenserò la morte». CAPITOLO VENTUNESIMO Lo sbocciare della luce dall'oscurità portò la mia vista laggiù sul campo un esercito di draghi imprigionati come un pennacchio di vento davanti alla fiamma eterna. Vidi i secoli nei loro occhi una mappa del mondo incisa su ogni squama avvizzita del loro possente corpo. La magia sanguinava da quelle forme come il respiro delle stelle e io allora capii che i draghi erano giunti fra noi... Anomandaris Fisher (n.?) Le ombre affollavano la boscaglia. L'Aggiunto Lorn si alzò in piedi e si tolse lo sporco dalle mani. «Trova una ghianda.» Sorrise fra sé e sé. «Piantala.» Al di là del rigoglioso giardino, i servi gridavano, indaffarati negli ultimi preparativi. Infilò l'orlo del mantello nel cinturone e con passo leggero scivolò fra gli alberi. Poco dopo, giunse in prossimità del muro posteriore. Oltre di esso si apriva un vicolo, stretto e soffocato dalle foglie e dai rami caduti dagli alberi che crescevano oltre i muri di cinta che correvano su entrambi i lati. Uscire sarebbe stato facile quanto lo era stato entrare. Si arrampicò sul muro di pietra aggrappandosi ai rampicanti e in un attimo raggiunse la cima. Spiccò un salto e atterrò con un lieve scricchiolio di ramoscelli e foglie secche, nuovamente nascosta da ombre profonde quanto quelle nel giardino. Si sistemò il mantello e raggiunse la fine del vicolo da dove, appoggiata a un angolo, incrociò le braccia e sorrise ai passanti che camminavano
frettolosamente lungo la via. Ancora due lavoretti e avrebbe potuto lasciare la città. Tuttavia, uno di quei due lavori poteva rivelarsi impossibile. Non avvertiva in alcun modo la presenza di Dispiacere. Forse, la donna era veramente morta. Considerate le circostanze, sembrava l'unica spiegazione possibile. Osservò il mare di persone, una marea di volti che turbinavano innanzi a lei. La follia latente che aleggiava ovunque la inquietava e il freddo distacco delle guardie non serviva certo a tranquillizzarla. Si meravigliò per come quella moltitudine di volti sembrasse sconvolta dal terrore e per come ogni volto sembrasse quasi familiare. Nella sua mente, Darujhistan divenne un'immagine confusa che andò a unirsi a centinaia di altre città e ognuna di esse sorgeva dal suo passato come in una festosa parata. Gioia e paura, dolore e felicità - tutto si fuse in un'unica espressione. Non distingueva nulla, i volti divenivano inespressivi, i suoni un ruggito di storia privo di significato. Lorn si passò una mano sugli occhi, indietreggiò e si rifugiò nelle ombre del vicolo dietro di lei. Scivolò lungo una parete, accasciandosi al suolo. Una celebrazione insignificante. È questo quello che siamo alla fine? Ascoltali! Nel giro di poche ore i crocevia della città sarebbero esplosi. A centinaia sarebbero morti sul colpo, e migliaia li avrebbero seguiti. Fra i detriti e le macerie ci sarebbero stati quei volti, le loro espressioni fra la gioia e il terrore. E dai morenti sarebbero giunte grida disperate che lentamente sarebbero diminuite, fino a spegnersi per sempre. Aveva già visto quei volti. Li conosceva, conosceva il suono delle loro voci, suoni che esprimevano le emozioni umane, suoni che riflettevano i pensieri umani. È questa, si chiese, la mia eredità? E un giorno sarò solo un altro di quei volti, paralizzato nella morte e nello stupore. Lorn scosse la testa, ma era un vano sforzo. Si rese improvvisamente conto che stava cedendo. L'Aggiunto stava incrinandosi, la sua armatura si sbriciolava e la gloria l'aveva abbandonata. Un titolo insignificante quanto la donna che lo portava. L'Imperatrice - soltanto un altro volto che aveva già visto da qualche parte, una maschera dietro la quale qualcuno si nascondeva alla moralità. «Non serve nascondersi», mormorò, posando uno sguardo cupo sulle foglie morte e i rami intorno a lei. «Non serve.» Trascorsero alcuni minuti e finalmente si rialzò. Scosse via lo sporco dal mantello. Le rimaneva un compito che avrebbe saputo portare a termine. Trovare il Portatore della Moneta. Ucciderlo e impossessarsi della Moneta
di Oponn. Il dio avrebbe pagato per essersi intromesso nelle questioni dell'Impero - ci avrebbero pensato l'Imperatrice e Tayschrenn. Quel lavoro richiedeva concentrazione: doveva focalizzare i suoi sensi su un segno particolare. Sarebbe stato il suo ultimo incarico, lo sapeva. Ma ce l'avrebbe fatta. La morte a causa del fallimento era impensabile. Lorn si girò verso la strada. Il crepuscolo strisciava implacabile e circondava la folla. Da est giunse il rombo distante di un tuono, eppure l'aria era secca, non c'era traccia di pioggia. Controllò le armi. «La missione dell'Aggiunto», mormorò, «è quasi giunta al termine». S'infilò nella via e scomparve fra la folla. *** Kruppe si alzò dal tavolo alla Locanda della Fenice e cercò di allacciare l'ultimo bottone del panciotto. Non riuscendoci, rilassò i muscoli addominali e sospirò, esausto. Be', per lo meno il mantello era stato pulito. Sistemò i polsini della camicia nuova e uscì dalla locanda ormai quasi deserta. Aveva trascorso l'ultima ora seduto al tavolo, apparentemente perso in pensieri di poca importanza, sebbene nella sua mente stesse prendendo forma uno schema, originato dal suo Talento. La scomparsa di Crokus e della ragazza gli aveva permesso di mettere a fuoco la situazione - come accadeva alla maggior parte dei servi inconsapevoli degli dei, una volta che il gioco era terminato così era anche la vita del servo. La Moneta poteva essere giocata in un'unica partita, ma lasciare che continuasse a fluttuare era troppo pericoloso. No, la fortuna avrebbe abbandonato Crokus proprio quando ne aveva maggiormente bisogno e quella perdita gli sarebbe costata la vita. «No, no», aveva mormorato Kruppe, lo sguardo fisso sul boccale. «Kruppe non può permetterlo.» Eppure, lo schema del successo era ancora confuso. Era certo di essersi occupato di tutte le potenziali minacce che potevano colpire il ragazzo o, per meglio dire, qualcuno stava facendo un ottimo lavoro nel proteggere Crokus - questo era quanto gli mostrava lo schema. Aveva il sospetto che quel «qualcuno» non fosse lui o qualcuno dei suoi agenti, ma non poteva fare altro che fidarsi. Il Violatore del Cerchio ce l'aveva fatta ancora una volta e Kruppe era certo che la caccia all'uomo di Turban Orr non avrebbe dato alcun frutto. L'Anguilla sapeva come proteggere i suoi uomini. Infatti, era stato deciso che il Violatore del Cerchio si ritirasse dall'attività e Kruppe intendeva
dargli la buona notizia quella sera stessa, alla Festa di Lady Simtal. Dopo tutti quegli anni, il Violatore del Cerchio non meritava niente di meno. Lo schema gli diceva anche qualcosa che sapeva già: la sua copertura era saltata. L'incantesimo che aveva gettato su Murillio non sarebbe durato ancora a lungo, né sarebbe stato necessario. Dopo di ciò, le cose sarebbero andate come dovevano e questo valeva anche per il suo incontro con Baruk. Ciò che più preoccupava Kruppe era la brusca fine dello schema. Dopo quella notte, il futuro era oscuro. Era stato raggiunto un punto cruciale e la svolta, come lui sapeva, si sarebbe verificata alla Festa di Lady Simtal. Kruppe entrò nel quartiere nobiliare, dove salutò con un cenno del capo la guardia vicina alla rampa. L'uomo aggrottò la fronte, ma non fece commenti. La Festa sarebbe iniziata nel giro di trenta minuti e Kruppe intendeva arrivare fra i primi. Il pensiero delle delicate leccornie che lo aspettavano gli fece salire l'acquolina in bocca. Estrasse la maschera dalla tasca interna del mantello e sorrise. Forse, fra tutti gli ospiti presenti, solo l'alchimista Baruk avrebbe apprezzato l'ironia di quel volto modellato. Ah, be', sospirò. Uno è più che sufficiente, considerato anche chi è. Dopo tutto, Kruppe è forse ingordo? Il suo stomaco brontolò in risposta. *** Calava l'oscurità e Crokus aguzzò la vista puntando lo sguardo a est. Dei lampi, in rapida successione, illuminavano il cielo oltre le colline. Ma il rombo del tuono, che continuava dal pomeriggio, suonava in qualche modo diverso dall'abituale brontolio che scuoteva la terra. Sembrava quasi fragile. Le nubi apparse qualche ora prima sulla collina erano di un giallo smorto, malaticcio e cominciavano ad avvicinarsi alla città. «Quando ce ne andiamo?» domandò Apsalar, appoggiandosi al muro dietro di lei. Crokus si scosse. «Adesso. È sufficientemente buio.» «Crokus? Che cosa farai se Challice D'Arle dovesse tradirti una seconda volta?» Lui vedeva a malapena il volto della ragazza. Glielo aveva chiesto perché voleva tagliare con lui? Era difficile capirlo dal tono della voce. «Non lo farà», rispose, cercando di convincersi di quelle parole. «Fidati di me.» E si girò verso la scala.
«Mi fido», replicò lei. Crokus trasalì. Perché per lei le cose sembravano così semplici? Per il respiro di Hood, se fosse stata nei suoi panni non si sarebbe fidato di lui. Naturalmente, non conosceva Challice molto bene. Si erano parlati una sola volta. E se lei avesse chiamato le guardie? Be', si sarebbe assicurato che Apsalar potesse andarsene sana e salva. Si fermò e l'afferrò per un braccio. «Ascoltami», disse con voce esageratamente aspra, «se qualcosa dovesse andare storto, corri alla Locanda della Fenice, d'accordo? Cerca Meese, Irilta o i miei amici Kruppe e Murillio. Spiega loro quello che è accaduto». «Va bene, Crokus.» «Perfetto.» Le lasciò il braccio. «Una lanterna ci farebbe comodo», borbottò addentrandosi nell'oscurità, un braccio steso davanti a lui. «Perché?» chiese Apsalar superandolo. Gli prese la mano e lo guidò giù. «Io ci vedo. Non lasciare la mia mano.» Improvvisamente Crokus si rese conto che sarebbe stato difficile farlo, anche se lo avesse desiderato. Eppure, quella piccola mano era tempestata di duri calli, che gli ricordarono ciò di cui era capace quella donna. Gli occhi spalancati, pur non vedendo niente, Crokus si lasciò guidare lungo la scala. *** Il capitano della Guardia della proprietà di Lady Simtal scrutò Whiskeyjack e i suoi uomini con evidente disgusto. «Pensavo foste tutti Barghast.» Si avvicinò a Trotts e gli piantò un dito nel poderoso torace. «Tu mi hai fatto credere che fossero tutti come te, Niganga.» Un ringhio basso e minaccioso uscì dalle labbra di Trotts e il capitano arretrò, una mano sulla corta spada. «Capitano», disse Whiskeyjack, «se fossimo tutti Barghast...». Il viso oblungo dell'uomo si girò di scatto verso il sergente, fissandolo con un profondo cipiglio. «... non avreste di che pagarci», terminò il sergente con un sorriso tirato. Lanciò un'occhiata a Trotts. Niganga? Per il respiro di Hood. «Niganga è il mio secondo, Capitano. Ora, come dobbiamo disporci?» «Subito dietro la fontana», spiegò il militare. «Volterete le spalle al giardino che, eh, è esageratamente rigoglioso. Non vogliamo che gli ospiti si perdano al suo interno, perciò voi dovrete spedirli indietro. Con genti-
lezza, naturalmente. Capito? Dovete salutare chiunque vi rivolga la parola e in caso di discussione, mandatemi subito a chiamare. Sono il capitano Stillis. Nel caso abbiate bisogno di me, le guardie della casa sapranno dove trovarmi.» Whiskeyjack annuì. «D'accordo, signore.» Si voltò a controllare il suo squadrone. Fiddler e Hedge erano dietro a Trotts, entrambi sembravano impazienti. Oltre di essi Mallet e Ben lo Svelto erano sul bordo della strada, impegnati in una fitta conversazione. Il sergente aggrottò la fronte nel vedere come il mago trasalisse a ogni rombo di tuono proveniente da est. Dopo averli accompagnati in giardino, il capitano Stillis si allontanò. Whiskeyjack aspettò che l'uomo fosse fuori il suo campo visivo prima di dirigersi con passo rapido verso Ben lo Svelto e Mallet. «Che cosa c'è?» chiese. Ben sembrava spaventato. Fu Mallet a parlare. «Vedi quei lampi laggiù, Sergente? Be', non si tratta di un temporale. La storia di Paran sembrerebbe vera.» «Il che significa che abbiamo poco tempo», mormorò Whiskeyjack. «Mi chiedo come mai l'Aggiunto non si sia ancora fatta vedere - che stia scappando?» Mallet scrollò le spalle. «Non capite?» esclamò Ben con voce scossa. Respirò profondamente, poi continuò: «Quella creatura là fuori è impegnata in una lotta. Qui si parla di alta magia e si sta avvicinando a noi. E questo significa che...». «Siamo nei guai», concluse Whiskeyjack. «Va bene, per il momento andiamo avanti secondo i piani. Forza, le posizioni assegnateci sono proprio quelle che volevamo. Ben, sei sicuro che Kalam e Paran riescano a trovarci?» «Sanno tutto, Sergente», bofonchiò il mago. «Bene. E allora diamoci una mossa. E tenete gli occhi aperti.» *** «Potrebbe andare avanti a dormire per giorni», affermò Kalam, allontanandosi dal letto di Coll e girandosi verso il capitano. Paran si fregò gli occhi rossi per la stanchezza. «Deve aver dato loro qualcosa», insistette, «e loro non se ne sono accorti». Kalam scosse la testa. «Ve l'ho detto, signore, non ha fatto niente del genere. Ci aspettavamo tutti qualcosa del genere e tenevamo gli occhi ben
aperti. Lo squadrone è ancora pulito. Ma adesso faremo meglio a muoverci.» Paran si alzò, a fatica. Era esausto e sapeva di essere soltanto un ulteriore fardello. «E allora verrà qui», affermò, allacciando il cinturone. «Be'», disse Kalam avviandosi verso la porta, «è proprio lì dove entriamo in azione noi due, no? Lei viene qui e noi ce ne liberiamo - proprio come vorreste fare da tempo». «Considerata la mia forma fisica, temo che il mio ruolo nello scontro sarà piuttosto breve», commentò Paran raggiungendo il sicario. «Diciamo che sarò il fattore sorpresa, qualcosa che lei non si aspetta e che la bloccherà per un secondo.» Fissò gli occhi in quelli dell'uomo. «Usa bene quel secondo, Caporale.» Kalam sorrise. «Tranquillo, Capitano.» Lasciarono Coll immerso in un sonno profondo e scesero nella sala principale della locanda. Mentre passavano davanti al bancone, Scurve li guardò con circospezione. Kalam si girò di scatto e, imprecando, allungò un braccio e afferrò l'uomo per la camicia. Lo sollevò di peso trascinandolo sul bancone fino a quando i loro volti furono a pochi pollici di distanza. «Sono stanco di aspettare», ringhiò il sicario. «Porta un messaggio alla Signora dei Sicari di questa città. Non m'interessa come. Ma fallo, e in fretta. Il messaggio è questo: la più grande offerta di contratto della vita della Signora l'aspetterà al muro posteriore della proprietà di Lady Simtal. Questa notte. Se la Signora della Corporazione è degna di quel nome allora forse - ma solo forse -l'affare si può ancora concludere. Consegna questo messaggio, anche se dovrai urlare sui tetti, o tornerò qui a ucciderti.» Paran guardò il caporale, troppo stanco per essere sorpreso. «Stiamo perdendo tempo», affermò strascicando le parole. Kalam aumentò la prese e fissò Scurve negli occhi. «Augurati che non sia così», grugnì. Lasciò l'uomo e buttò accanto a lui una manciata di monete d'argento. «Per il disturbo», disse. Paran indicò la porta e il sicario annuì. Lasciarono la Locanda della Fenice. «Continui a seguire gli ordini, Caporale?» Kalam grugnì. «Secondo le istruzioni ricevute dovevamo avanzare l'offerta in nome dell'Imperatrice, Capitano. Se il contratto viene accettato e gli omicidi vengono commessi, allora Laseen dovrà pagare, indipendentemente da quella che sarà la nostra posizione.»
«Una città per Dujek e il suo esercito e l'Imperatrice dovrà anche pagare. Le verrà un colpo, Kalam.» Un largo sorriso illuminò il viso dell'uomo. «Fatti suoi.» Per strada, i Faccia-Grigia si muovevano fra la folla chiassosa come spettri silenziosi, accendendo le lampade a gas con accendini dai lunghi bastoni. Alcuni viandanti, euforici per il troppo vino, abbracciavano e benedivano quelle taciturne figure. I Faccia-Grigia, anonimi e nascosti sotto lunghi mantelli, rispondevano con un rapido inchino e continuavano il loro lavoro. Kalam li fissò, sul viso un profondo cipiglio. «Qualcosa non va, Caporale?» chiese Paran. «Solo una sensazione. Ma non so dire che cosa. Però ha a che fare con quei Faccia-Grigia.» Il capitano scrollò le spalle. «Tengono accese le lanterne. Possiamo andare, ora?» Kalam sospirò. «Andiamo, Signore.» *** La scintillante carrozza nera, trainata da due bai, avanzava lentamente fra la folla. Una dozzina di piedi più avanti marciavano due guardie private di Baruk, pronte a intervenire in qualsiasi evenienza. All'interno della confortevole carrozza gli schiamazzi esterni aumentavano e diminuivano come una marea lontana, smorzati dall'incantesimo dell'alchimista. La testa china, l'uomo studiava il Tiste Andii seduto di fronte a lui. Rake non aveva detto niente dal suo arrivo a casa di Baruk, pochi minuti prima della partenza. Baruk sentiva la testa pulsare. La magia scuoteva le colline a oriente, investendo con la sua potenza qualsiasi mago all'interno del suo raggio d'azione. L'alchimista conosceva l'origine di quella tempesta magica. L'abitante del tumulo si avvicinava e ogni suo passo era contrastato dai Tiste Andii di Anomander Rake. La previsione di Mammot era stata ottimistica. Non avevano giorni, avevano ore. Eppure, nonostante i Canali di guerra, nonostante il fatto che il potere del Tiranno Jaghut fosse superiore a quello dei maghi di Rake, il Signore della Progenie della Luna sedeva placido sul divanetto imbottito, le gambe allungate davanti a sé, le mani guantate sul grembo. La maschera deposta sul velluto accanto a lui era di squisita fattura, seppur agghiacciante. In
tempi migliori Baruk avrebbe saputo apprezzare quel piccolo capolavoro di artigianato ma, in quel momento, tutto ciò che quell'oggetto sapeva suscitare era il sospetto. Un segreto era rinchiuso in quella maschera, qualcosa che avrebbe parlato dell'uomo che stava per indossarla. Ma quel segreto sfuggiva a Baruk. *** Turban Orr si sistemò la maschera da falco e si fermò davanti all'ampia scalinata che conduceva alla porta principale della casa. Sentì arrivare una carrozza e si voltò. Dall'ingresso alle sue spalle giunse un fruscio di passi. «Avrei preferito che aveste permesso a uno dei miei servitori di avvertirmi del vostro arrivo, Consigliere», disse alle sue spalle Lady Simtal. «Concedetemi il privilegio di accompagnarvi nel salone.» Fece scivolare un braccio sotto quello dell'uomo. «Un attimo», mormorò Orr, gli occhi sulla figura che emergeva dalla carrozza. «È la carrozza dell'alchimista», osservò, «ma quello non mi sembra Baruk, non trovate?». Lady Simtal seguì lo sguardo dell'uomo. «E chi è?» «L'ospite di Baruk», rispose Orr in tono secco. «Questo lo avevo capito, Consigliere. Ma ditemi, lo conoscete?» L'uomo si strinse nelle spalle. «È mascherato. Come posso riconoscerlo?» «Quanti uomini conoscete, Turban, che sono alti sette piedi e portano la spada sulla schiena?» Strinse gli occhi. «Quei capelli bianchi, pensate facciano parte del travestimento?» Il consigliere non rispose. Guardò emergere Baruk dietro allo sconosciuto. La maschera dell'alchimista era del genere tradizionale e copriva appena gli occhi. Una palese dichiarazione contro la doppiezza. Turban Orr grugnì, ben sapendo che i suoi sospetti sull'influenza e il potere dell'alchimista erano fondati. I suoi occhi tornarono allo straniero. Indossava la maschera di un drago nero illuminata da sottili motivi argentati; non capiva perché, ma l'espressione del drago sembrava... scaltra. «Allora? Vogliamo restare qui fuori tutta la notte?» domandò Lady Simtal. «E comunque, dov'è la vostra deliziosa moglie?» «È malata», rispose l'uomo in tono distratto. Le sorrise. «Vogliamo presentarci all'ospite dell'alchimista? Siete splendida, questa sera. Ve lo avevo già detto?»
«Non ancora», rispose la donna. «La maschera della pantera vi si addice, Signora.» «Potete ben dirlo», replicò lei in tono malizioso, mentre Baruk e il suo ospite si dirigevano verso di loro. Lei liberò il braccio e fece un passo avanti. «Buona sera, Alchimista Baruk. Benvenuto», aggiunse rivolgendosi all'uomo dalla maschera di drago. «Un travestimento straordinario. Ci conosciamo?» «Buona sera, Lady Simtal», disse Baruk, inchinandosi. «Consigliere Turban Orr. Permettetemi di presentarvi», esitò ma il Tiste Andii era stato chiaro a quel proposito, «Lord Anomander Rake, un ospite di Darujhistan». L'alchimista attese la reazione del consigliere nell'udire quel nome. Non ve ne fu. Turban Orr si inchinò formalmente. «In nome del Consiglio della Città, vi do il benvenuto, Lord Anomander Rake.» Baruk sospirò. Anomander Rake, un nome conosciuto da poeti e studiosi ma non, a quanto pareva, da consiglieri. Orr continuò: «Essendo un lord, immagino possediate delle terre». Stava per indietreggiare quando il volto del drago si girò di scatto verso di lui. Profondi occhi azzurri lo fissarono. «Terre? Sì, Consigliere. Tuttavia, il mio titolo è onorario, essendomi stato offerto dalla mia gente.» Rake lasciò scivolare lo sguardo oltre Orr, nella vasta sala dietro l'ampia entrata. «Vedo, Signora, che la festa è già in corso.» «Avete ragione. Ma venite, lasciate che vi accompagni.» Baruk si lasciò sfuggire un altro sospiro di sollievo. *** Murillio dovette ammettere che la maschera di Kruppe si adattava perfettamente all'ometto. Nonostante la tensione, si scoprì a sorridere dietro alla sua maschera da pavone. Era vicino alla porta aperta che conduceva sul patio e nel giardino, un calice di vino in una mano, l'altra infilata nel cinturone. Rallick era appoggiato alla parete accanto a lui, le braccia incrociate. Portava la maschera di una tigre Catlin. Murillio sapeva che la posizione del sicario non era dettata dalla noia ma dalla stanchezza. A un tratto lo vide irrigidirsi, gli occhi sulla porta dall'altra parte della stanza. Murillio allungò il collo per vedere oltre la ressa. Eccolo, il falco. «Quel-
lo è Turban Orr», mormorò. «Ma con chi è?» «Simtal», grugnì Rallick. «Baruk e un uomo grande e grosso con una maschera di drago... e una spada.» «Baruk?» Murillio ridacchiò nervoso. «Speriamo che non ci riconosca. Impiegherebbe un attimo a fare due più due.» «Non importa», affermò Rallick. «Non ci fermerà.» «Forse hai ragione.» Girò la testa e per poco il bicchiere non gli cadde di mano. «Per i piedi stanchi di Hood!» Rallick fischiò tra i denti. «Accidenti! Guardalo! Sta andando dritto da loro!» *** Lady Simtal e Turban Orr si scusarono e si allontanarono, lasciando Baruk e Rake momentaneamente soli al centro della stanza. Gli invitati si muovevano intorno a loro, alcuni piegando il capo in gesto deferente nei confronti di Baruk, ma tutti mantenendosi a debita distanza. Una folla di curiosi attorniò Lady Simtal ai piedi della scala, sommergendola di domande su Anomander Rake. Una figura si avvicinò a Baruk e al suo compagno. Piccolo, grasso, con indosso un panciotto rosso sbiadito e in entrambe le mani deliziose paste alla crema, l'uomo indossava una maschera da cherubino, le labbra rosso fuoco sporche di glassa e di briciole. Nel dirigersi verso di loro, l'uomo si destreggiò fra la folla, schivando abilmente gli invitati. Rake dovette notarlo, perché disse: «Sembra ansioso, non trovate?». Baruk ridacchiò. «Ha lavorato per me», disse. «E io ho lavorato per lui. Anomander Rake, quello è l'Anguilla. La più abile spia di Darujhistan.» «State scherzando?» «No.» Kruppe arrivò, ansante. «Padron Baruk!» esclamò. «Che sorpresa trovarvi qui!» La faccia di cherubino scrutò Rake dalla testa ai piedi. «Il colore dei capelli è un tocco geniale, signore. Di gran classe. Mi chiamo Kruppe, signore. Kruppe il Primo.» Portò una pasta alla bocca e la ingoiò. «Questo è Lord Anomander Rake, Kruppe.» Kruppe abbassò la testa di scatto. «Ma certo! Voi allora sarete abituato a una posizione elevata. Ho sempre invidiato chi può guardare dall'alto tutti gli altri.» «Ma è facile sbagliarsi e vedere quelli al di sotto piccoli e insignifican-
ti», replicò Rake. «Kruppe potrebbe anche darvi ragione. Ma chi può negare che la schiera dei draghi non sia al di là della comprensione umana? Kruppe può soltanto immaginare l'emozione del volo, la voce del vento in alta quota, i conigli che sulla terra scappano quando l'ombra minacciosa scivola su di loro.» «Mio caro Kruppe», sospirò Baruk, «è solo una maschera». «Questa è l'ironia della vita», proclamò Kruppe, sollevando una pasta sopra la testa. «Impariamo a diffidare di ciò che è evidente, arrendendoci invece a insidiosi sospetti e conclusioni confuse. Ma, suvvia, è stato forse Baruk ingannato? Un'anguilla può nuotare? Queste acque all'apparenza fangosa sono come una casa per Kruppe e i suoi occhi sono spalancati per lo stupore!» S'inchinò, mandando briciole di dolce su Rake e Baruk, quindi si allontanò continuando a parlare. «Un'ispezione della cucina è necessaria. Kruppe sospetta...» «Un'anguilla, non c'è dubbio», commentò Rake in tono divertito. «È un esempio per tutti noi, no?» «Sono d'accordo», rispose Baruk, le spalle improvvisamente curve. «Ho bisogno di bere qualcosa. Porterò un bicchiere anche a voi. Scusate.» *** Appoggiato alla parete, Turban Orr lasciava vagare lo sguardo per la sala affollata. Non riusciva a rilassarsi. Quella settimana era stata sfiancante. Aspettava ancora la conferma della morte di Coll da parte della Corporazione dei Sicari. Non era da loro impiegare tanto tempo per chiudere un contratto e affondare un coltello nella gola di un ubriacone non doveva essere così difficile. La ricerca della spia all'interno della sua organizzazione era a un punto morto, ma lui restava convinto che la spia, uomo o donna che fosse, esisteva. Dopo l'assassinio di Lim, le sue mosse all'interno del Consiglio venivano continuamente bloccate da contromosse, ma era impossibile per lui puntare il dito su una persona in particolare. Ma il decreto era stato affondato. Era giunto a quella conclusione la mattina stessa. E aveva agito. In quel momento il suo più fidato e abile messaggero si dirigeva verso Pale, cavalcando lungo la strada dei mercanti e passando probabilmente per le Colline Gadrobi e attraverso quel temporale. Verso l'Impero. Turban Orr sapeva che i Malazan stavano per arrivare. Nessuno a Darujhistan poteva fermarli.
E il signore della Luna era stato già sconfitto una volta, a Pale. Perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso? No, era giunto il momento di assicurarsi che la sua posizione sopravvivesse all'occupazione dell'Impero. O meglio ancora, che la sua figura assurgesse a ruoli più importanti, in considerazione anche del suo fondamentale apporto alla causa dell'Impero. Lo sguardo gli cadde su una guardia in piedi accanto alla scala a chiocciola. L'uomo aveva qualcosa di familiare - non tanto nell'aspetto fisico, quanto nella postura. Era forse uno dei militari solitamente di guardia al Palazzo Vecchio? No, l'uniforme era quella di un soldato comune, mentre Palazzo Vecchio era il regno dell'Elite. Sotto la maschera da falco, Turban Orr s'incupì. A un tratto la guardia si sistemò il cinturino dell'elmo: Orr trasalì. Il Barbacane del Despota! Notte dopo notte, per anni interi, quella guardia aveva assistito agli incontri notturni con i suoi alleati. Aveva trovato la spia. Si raddrizzò, una mano chiusa sul pomo della spada. Non avrebbe lasciato spazio alle domande e al diavolo la suscettibilità di Simtal - e al diavolo quella festa. Voleva che la sua vendetta fosse rapida e immediata. Non avrebbe permesso a nessuno di fermarlo. Gli occhi fissi sull'ignaro militare, Turban Orr avanzò verso di lui. Sbatté contro una solida spalla e indietreggiò. Un uomo possente con la maschera da tigre si girò verso di lui. Orr si aspettò parole di scuse, ma lo sconosciuto non aprì bocca. Stava per allontanarsi quando il braccio dell'uomo lo urtò. Turban Orr imprecò quando una mano guantata gli versò del vino sulla camicia. «Idiota!» sbottò. «Sono il Consigliere Turban Orr! Toglietevi dai piedi!» «So chi siete», replicò l'uomo in tono pacato. Orr affondò un dito nel torace dell'uomo. «Non togliete la maschera, così più tardi saprò chi cercare.» «Personalmente, non avevo nemmeno notato la vostra maschera», ribatté l'uomo, la voce fredda e distante. «Colpa del naso, probabilmente.» Il consigliere strinse gli occhi. «Avete fretta di morire, vero? Esaudirò il vostro desiderio.» La mano strinse il pomo della spada. «Fra pochi minuti. Ora devo...» «Io non aspetto nessuno», disse Rallick Nom. «E sicuramente non un uccello con pretese da uomo. Se avete il fegato per affrontare un duello fermatevi ora o smettetela di farmi perdere tempo con le vostre chiacchiere.» Turban Orr, in preda a un'ira furibonda, indietreggiò e si piazzò in faccia
all'uomo. «Come vi chiamate?» domandò con voce roca. «Non siete degno di saperlo, Consigliere.» Turban Orr sollevò le mani e si girò verso la folla. «Ascoltatemi, amici! Un inatteso intrattenimento per tutti voi!» La conversazione si spense e tutti si voltarono verso il consigliere. L'uomo continuò: «Uno sciocco ha offeso il mio nome. E Turban Orr ha mai permesso un simile insulto?». «Un duello!» gridò una voce in tono eccitato. Orr indicò Rallick Nom. «Quest'uomo, così audace da indossare la maschera con il volto di Trake, tra poco morirà. Guardatelo, amici, come lui sta guardando voi - e sappiate che è già morto.» «Basta blaterare», ordinò Rallick. Il consigliere si tolse la maschera. «Uccidervi mille volte non sarebbe sufficiente per saziare la mia sete di giustizia. Tuttavia, mi accontenterò di quest'unica sola volta.» Rallick si sfilò la maschera e la buttò a terra. «Siete pronto, Consigliere?» «Siete dunque uno straniero», disse Orr. «Che si cominci. Cercatevi un padrino.» Un pensiero improvviso gli attraversò la mente e si voltò verso gli invitati, frugando con gli occhi fra la folla. In fondo alla stanza vide la maschera che cercava, quella di un lupo. La scelta del suo padrino poteva diventare un'astuta mossa politica, sempre che il prescelto avesse accettato. E con tutta quella gente, sarebbe stato uno stupido a negare un favore a Orr. «Per quanto mi riguarda», disse a voce alta, «sarei onorato se il Consigliere Estraysian D'Arle accondiscendesse a essere il mio padrino». Il lupo trasalì. Accanto a lui c'erano due donne, di cui una era poco più che una ragazzina. La moglie di D'Arle era vestita come le donne velate di Callows, mentre la ragazza aveva scelto, alquanto provocatoriamente, l'abbigliamento di una guerriera Barghast. Moglie e figlia parlarono a Estraysian. L'uomo fece un passo avanti. «L'onore è mio», disse con voce stentorea, completando il rituale. Turban Orr nascose a stento la propria soddisfazione. Avere accanto a sé in quel duello il suo più potente rivale all'interno del Consiglio avrebbe gettato nella più totale confusione, e forse paura, metà dei membri del Consiglio presenti in quella sala. Compiaciuto per la propria astuzia, si rivolse al suo avversario. «E il vostro padrino?» Nella sala scese il silenzio. ***
«Non ho molto tempo», mormorò Lady Simtal. «Dopo tutto, essendo la padrona di casa...» «È vostro dovere», sussurrò l'uomo davanti a lei, «soddisfare i vostri ospiti». Allungò una mano e le scostò i capelli dalla fronte. «Cosa che sono certo sappiate fare, e anche bene.» Lei sorrise e si diresse verso la porta, che bloccò con il chiavistello. Poi, si voltò di nuovo verso l'uomo. «Forse mezz'ora», disse. L'uomo si avvicinò al letto e si liberò dei guanti di pelle. «Sono certo», affermò, «che quei trenta minuti saranno pienamente soddisfacenti, uno più dell'altro». Lady Simtal lo raggiunse accanto al letto. «Immagino», bisbigliò, facendo scivolare le braccia intorno al collo dell'uomo e avvicinando quel viso alla sua bocca, «che ormai non abbiate più scelta e che siate obbligato a comunicare alla vedova Lim la triste notizia». Gli sfiorò la bocca con le labbra, poi con la lingua seguì il contorno del suo volto. «Mmm? Quale brutta notizia?» «Oh, ma che vi siete trovato un'amante migliore, naturalmente.» La lingua raggiunse l'orecchio dell'uomo. Bruscamente lei si ritrasse e lo cercò con gli occhi. «Avete sentito?» chiese. Lui portò le braccia intorno a lei e l'attirò a sé. «Sentito che cosa?» «Di sotto. Improvvisamente è sceso il silenzio. Farò meglio...» «Sono sicuramente in giardino», la tranquillizzò l'uomo. «I minuti passano, Signora.» Lei ebbe un attimo di esitazione, poi commise l'errore di lasciare che lui premesse il corpo contro il suo. Lady Simtal spalancò gli occhi. Il respiro divenne ansante. «Ma allora», mormorò, «che cosa facciamo ancora vestiti?». «Bella domanda», borbottò Murillio, trascinandola sul letto. *** Nel silenzio seguito alla domanda di Turban Orr, Baruk si preparò a fare un passo avanti. Era consapevole di quanto un gesto simile avrebbe rivelato, ma si sentiva comunque in obbligo. Rallick Nom era lì per riparare un terribile torto. Inoltre, quell'uomo era un amico, più vicino all'alchimista di Kruppe o Murillio - e, nonostante la sua professione, un uomo d'integrità morale. E Turban Orr era l'ultimo anello che avrebbe permesso a Lady
Simtal di ottenere il vero potere. Se Rallick avesse ucciso il Consigliere, la donna sarebbe crollata. Il ritorno di Coll nel Consiglio era qualcosa che Baruk e i suoi maghi seguaci desideravano con tutto il cuore. E la morte di Turban Orr sarebbe stata un sollievo. Da quel duello dipendeva più di quanto Rallick immaginava. L'alchimista si sistemò la veste e trasse un respiro profondo. Una mano si chiuse sul suo braccio e, prima che Baruk potesse reagire, Lord Anomander Rake fece un passo avanti. «Offro i miei servigi come padrino», disse a voce alta. Incontrò lo sguardo di Rallick. Il sicario non tradì alcuna emozione, né lanciò un'occhiata a Baruk. Rispose all'offerta di Rake con un cenno del capo. «Forse», insinuò Turban Orr, «i due stranieri si conoscono». «Non ci siamo mai incontrati», affermò Rake. «Tuttavia, condivido pienamente il disprezzo di quest'uomo per le vostre inutili chiacchiere, Consigliere. Per questo ho cercato di evitare un dibattito del Consiglio su chi avrebbe dovuto essere il padrino di quest'uomo. Possiamo iniziare?» Turban Orr fece strada dirigendosi verso il portico, Estraysian D'Arle dietro di lui. Mentre Baruk si girava per seguire il gruppo, sentì un familiare contatto di energie accanto a sé. «Per tutti gli dei, Mammot! Dove hai preso quell'orribile maschera?» Gli occhi dell'anziano studioso incrociarono il suo sguardo, poi scivolarono via. «Credo si tratti di un'accurata imitazione dei tratti Jaghut», disse in tono sommesso. «Per quanto ritenga che le zanne siano un po' corte.» «Sei riuscito a trovare tuo nipote?» domandò Baruk appena si fu ripreso dallo stupore. «No, e sono terribilmente preoccupato», rispose Mammot. «Be'», mormorò l'alchimista mentre uscivano all'aperto, «speriamo che la fortuna di Oponn protegga il ragazzo». «Speriamo.» *** Whiskeyjack sgranò gli occhi quando una folla di ospiti infervorati si riversò dalla grande sala interna al patio. Fiddler scivolò al suo fianco. «Si tratta di un duello, Sergente. Il tipo con la macchia di vino sulla camicia è uno dei duellanti; un certo Orr, un Consigliere. Nessuno conosce l'altro uomo. È laggiù con quel tipo alto con la maschera da drago.»
Il sergente se ne stava appoggiato con le braccia conserte a una delle colonne di marmo che circondavano la fontana, ma quando vide l'uomo mascherato da drago per poco non cadde nell'acqua. «Per le balle di Hood!» imprecò. «Non ti ricordano niente quei lunghi capelli d'argento, Fid?» Il sabotatore aggrottò la fronte. «La Progenie della Luna», lo aiutò Whiskeyjack. «Quello è il mago. Il Signore che stava sul portale e lottava contro Tayschrenn.» Sciorinò una serie di imprecazioni, quindi aggiunse: «Non è umano». Fiddler gemette. «Un Tiste Andii. Il bastardo ci ha trovati.» «Taci.» Whiskeyjack stava cercando di riprendersi dal brutto colpo. «Raduna tutti in giardino. E mani sulle armi. Presto!» Fiddler scattò. Il sergente guardò il sabotatore riunire gli uomini. Ma dove accidenti erano Kalam e Paran? Incrociò lo sguardo di Ben lo Svelto e gli fece segno di avvicinarsi. «Fid mi ha spiegato tutto», disse il mago, «forse non sarò di grande aiuto, Sergente. Quello del tumulo rilascia energia negativa. Ho la testa che sta per scoppiare». Abbozzò un sorriso. «Guardati intorno. Se uno ha la faccia sofferente è sicuramente un mago. Se tutti accedessimo ai nostri Canali, allora staremmo bene.» «E allora perché non lo fate?» «Quello Jaghut ci prenderebbe di mira, buttandosi sui più deboli - e riuscirebbe a distruggerli anche da lontano.» Whiskeyjack guardò gli ospiti disporsi sui lati del patio lasciando uno spazio al centro. «Vai da Hedge e Fiddler», ordinò, gli occhi fissi sul Tiste Andii. «Assicurati che abbiano qualcosa a portata di mano nel caso la situazione si metta male. Se dovesse accadere, questa casa dovrà diventare una torcia. Avremo bisogno di un diversivo per fare esplodere le mine ai crocevia. Fammi un cenno del capo appena hai sistemato tutto.» «Va bene.» Ben lo Svelto si allontanò. Whiskeyjack trasalì quando un giovane gli passò accanto travestito da ladro. «Scusate», mormorò il ragazzo, infilandosi fra la folla. Il sergente lo seguì con lo sguardo, poi lanciò un'occhiata dietro di sé, al giardino. Come accidenti aveva fatto quel ragazzo a passargli sotto il naso? Avrebbe giurato di avere perfettamente sotto controllo il giardino. La mano scivolò d'istinto alla spada. ***
Crokus non sapeva che genere di costume avrebbe indossato Challice D'Arle e si era perciò rassegnato a una lunga ricerca. Aveva lasciato Apsalar al muro posteriore del giardino e adesso si sentiva in colpa. Eppure, lei sembrava averla presa bene - anche se in un modo che lo faceva sentire ancora peggio. Perché doveva essere così paziente e gentile? Non fece caso alla strana disposizione degli ospiti, limitandosi a guardarsi intorno alla ricerca di una testa che arrivasse alle spalle di tutti gli altri. Quando si voltò, scoprì che quell'espediente era inutile, poiché il costume di Challice non si poteva dire che la nascondesse. Crokus si trovò fra due corpulente guardie. Davanti a lui, a circa venti piedi di distanza e senza nessun ostacolo in mezzo, se ne stava Challice in compagnia di una donna più vecchia, probabilmente la madre. La loro attenzione era puntata su un uomo alto e dall'aspetto severo in piedi a un'estremità dello spiazzo, impegnato a parlare con un altro uomo che stava infilandosi un guanto. Finalmente Crokus capì che cosa stava per accadere: un duello. Schiacciato fra le due guardie, Crokus allungò il collo alla ricerca dell'altro duellante. Inizialmente pensò fosse il gigante con la maschera di drago e la spada sulla schiena. Poi il suo sguardo trovò l'uomo. Rallick Nom. I suoi occhi tornarono sull'avversario dell'amico. Era un volto familiare. Diede una gomitata alla guardia alla sua sinistra. «Quello è il Consigliere Turban Orr?» «Sì, signore», rispose la guardia con voce tesa. Crokus sollevò lo sguardo e vide il viso dell'uomo completamente bagnato e gocce di sudore che gli scendevano da sotto l'elmo e lungo il collo. Strano. «Ma dov'è Lady Simtal?» domandò in tono indifferente. «È sparita», rispose la guardia. «Altrimenti avrebbe impedito il duello.» Crokus annuì. «Be'», disse, «Rallick vincerà». Gli occhi della guardia, duri e penetranti, si abbassarono su di lui. «Conoscete quell'uomo?» «Be'...» Qualcuno gli toccò la schiena e voltandosi si trovò davanti la faccia di un sorridente cherubino. «Crokus, ragazzo! Che costume originale ti sei inventato!» «Kruppe?» «Indovinato!» rispose Kruppe. Il volto di legno dipinto si girò verso la guardia. «Oh, signore, ho un messaggio scritto per voi.» Kruppe mise un
rotolo nella mano dell'uomo. «Con i complimenti di un vecchio ammiratore.» Crokus sorrise. Quelle guardie avevano tutte le fortune quando si trattava di nobili signore. Il Violatore del Cerchio accettò il rotolo e tolse il nastro di seta che lo legava. Più di una volta aveva avvertito gli occhi di Turban Orr su di lui. Prima nella sala interna, quando gli era sembrato che il consigliere intendesse affrontarlo subito e adesso mentre gli altri discutevano su chi avrebbe dovuto arbitrare il duello. Il Violatore del Cerchio sperava che Rallick uccidesse Turban Orr. Sentiva la paura scorrergli in tutto il corpo e fu con mani tremanti che lesse il messaggio dell'Anguilla. È giunto il momento che il Violatore del Cerchio si ritiri dall'attività. Il cerchio è chiuso, amico leale. Sebbene tu non abbia mai visto l'Anguilla, sei stato il suo aiuto più fidato e ora devi goderti il meritato riposo. Non pensare che l'Anguilla si limiti a scaricarti. Non è nel suo stile. Il sigillo su questa pergamena ti procurerà un passaggio per la città di Dhavran, dove servi fedeli dell'Anguilla hanno preparato il tuo arrivo acquistando una proprietà e un titolo legittimo a tuo nome. Presto entrerai in un altro mondo, con i suoi giochi. Abbi fiducia dei tuoi nuovi servitori, amico, per qualsiasi questione. Questa notte stessa, recati al molo di Dhavran nel Distretto Lago. Cerca la nave di nome Enskalader. Mostra il sigillo a uno qualsiasi dei marinai che troverai a bordo - sono tutti servitori dell'Anguilla. È giunto il momento, Violatore del Cerchio. Il cerchio è chiuso. Addio. Baruk sollevò le mani esasperato. «Basta!» gridò. «Io giudicherò questo duello e mi addosserò ogni responsabilità. Io decreterò il vincitore. Entrambe le parti sono d'accordo?» Turban Orr annuì. Ancora meglio che avere Estraysian come suo padrino. Se fosse stato Baruk a proclamarlo vincitore del duello avrebbe segnato un colpo da maestro. «Accetto.» «Anch'io», disse Rallick, il corto mantello avvolto intorno al corpo. Un vento improvviso soffiò da est, sferzando le punte degli alberi del giardino. Il tuono rombò da quel lato delle colline. Gli invitati sussultarono. Turban Orr sorrise, avanzando nello spiazzo centrale. «Prima che pio-
va», disse. I suoi alleati fra la folla risero a quelle parole. «Naturalmente», continuò Orr, «sarebbe più divertente se mi dilungassi un pochino. Una ferita qui, un'altra là. Devo tagliarlo a pezzetti lentamente?». Finse sorpresa ai cori di incitamento. «Siete troppo assetati di sangue, amici miei! Volete forse che le signore danzino su pietre scivolose quando sarà scesa l'oscurità? E non dimentichiamo la padrona di casa che...» Ma dov'era Simtal? Alla mente si presentò un'immagine e l'uomo aggrottò la fronte. «Certamente, no», disse in tono gelido, «sarà una cosa rapida». Il consigliere sguainò la spada e scrutò i volti dei presenti alla ricerca del tradimento nelle loro espressioni - aveva amici che erano nemici, nemici che avrebbero potuto essere amici, il gioco sarebbe continuato anche dopo il duello ma quello poteva essere un momento della verità. Più tardi avrebbe ripensato a ogni volto. Turban Orr prese posizione. Il suo avversario era a dieci piedi di distanza, entrambe le mani nascoste sotto il mantello. Sembrava tranquillo, quasi annoiato. «E allora? Dov'è la vostra arma?» domandò Orr. «Sono pronto», rispose Rallick. Baruk si mise alla stessa distanza dai due duellanti, in posizione lievemente arretrata. Aveva il volto pallido, quasi fosse ammalato. «I padrini vogliono dire qualcosa?» chiese con un filo di voce. Rake non rispose. Estraysian D'Arle si schiarì la gola. «È mio desiderio rendere noto che ritengo questo duello facile e banale.» Fissò Turban Orr. «Trovo la vita del consigliere irrilevante. Nel caso lui dovesse morire», guardò Rallick, «la Casa D'Arle non stringerà alcun patto di vendetta. Voi, signore, non correrete alcun rischio». Rallick s'inchinò. Turban Orr lanciò un'occhiata gelida a D'Arle. Il bastardo l'avrebbe pagata, giurò. Si accovacciò pronto a lanciare un attacco appena il duello fosse iniziato. «Le vostre parole sono state ascoltate, Estraysian D'Arle», disse Baruk. L'alchimista sollevò un fazzoletto innanzi a sé, poi lo lasciò cadere. Turban Orr balzò in avanti e affondò in un unico movimento fluido e a una tale velocità che aveva già allungato l'arma prima ancora che il fazzoletto toccasse terra. L'uomo vide la mano dell'avversario sfrecciare sotto la sua lama, quindi girarsi verso l'alto e infuori, un coltello ricurvo stretto in pugno. Orr riuscì a parare il colpo e a sottrarsi abilmente, abbassando la
punta della spada e puntandola allo stomaco dell'uomo. Tuttavia non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi del secondo coltello, mentre Rallick si girava lateralmente, il pugnale nella mano destra che deviava la spada di Orr. Il sicario scattò in avanti e la mano sinistra, con un ampio e rapido movimento rotatorio, affondò il coltello nel collo del consigliere. Subito dopo, Rallick infilò l'altro pugnale nel petto del suo avversario. Il consigliere vacillò. La spada cadde a terra e rimbalzò sul lastricato, mentre una mano dell'uomo scattava verso la ferita sul collo. Si trattò di un riflesso muscolare, poiché Orr era già morto per la ferita al cuore. Rallick indietreggiò, le armi già nascoste sotto il mantello. «Uccidervi mille volte», sussurrò a voce così bassa che solo Baruk e Rake sentirono, «non sarebbe stato sufficiente per saziare la mia sete di giustizia. Tuttavia, mi accontenterò di quest'unica volta». Baruk si avvicinò ulteriormente e stava per parlare quando a un gesto di Rake si girò e vide avvicinarsi Estraysian D'Arle. Gli occhi del consigliere erano puntati su Rallick. «Considerato il vostro stile», disse, «ho il sospetto che ciò a cui abbiamo assistito sia un assassinio. Naturalmente, nemmeno la Corporazione dei Sicari è così sfacciata e insolente da commettere un omicidio sotto gli occhi di tutti. Perciò, non mi resta che tenere tale sospetto per me. E lasciare perdere. Buona sera, signori». Si voltò e si allontanò. «Ritengo», disse Rake, il volto mascherato rivolto verso il sicario, «che sia stato uno scontro impari». Un nugolo di persone si precipitò intorno al corpo di Turban Orr. Voci si sollevarono sgomente. Baruk osservò la fredda soddisfazione dipinta sul volto di Rallick. «È finita, Rallick. Vai a casa.» Una donna dalla corporatura massiccia in abito verde brillante con ricami d'oro si unì a loro. Il viso scoperto, sorrise a Baruk. «Buona sera», disse. «Interessante serata, non trovate?» Un cameriere personale, con in mano un vassoio sul quale era posato un narghilè, era immobile al suo fianco. Rallick arretrò con un rapido inchino e se ne andò. Baruk sospirò. «Buona sera, Derudan. Lascia che vi presenti Lord Anomander Rake. Lord, la strega Derudan.» «Perdonate la maschera», disse Rake rivolgendosi alla donna. «Tuttavia, è meglio che resti dove si trova.» Nuvolette di fumo salirono dal naso di Derudan. «I miei compatrioti condividono la mia inquietudine, vero? Avvertiamo l'avvicinarsi della
tempesta e mentre Baruk continua a rassicurarci, i timori non ci abbandonano.» «Se dovesse essere necessario», affermò Rake, «mi occuperò personalmente della questione. Tuttavia, non credo che la minaccia maggiore sia quella al di là delle mura della città. È solo un sospetto, Strega, nient'altro». «Ci piacerebbe conoscere questi vostri sospetti, Rake», disse Baruk in tono titubante. Il Tiste Andii esitò, poi scosse la testa. «Non sarebbe saggio. La questione è ancora troppo delicata per poterla affrontare. Tuttavia, per il momento resterò qui.» Derudan agitò una mano con gesto sdegnoso, fissando l'espressione furibonda di Baruk. «Certo che la Cabala T'orrud non è abituata a sentirsi inutile, non è vero? In questo momento i pericoli abbondano e alcuni potrebbero essere solo un diversivo. L'Imperatrice è astuta. Per quanto mi riguarda, confermo la fiducia che ci lega, Signore.» Sorrise a Baruk. «Io e te dobbiamo parlare, Alchimista», disse facendo scivolare un braccio sotto quello dell'uomo. Rake si inchinò alla donna. «È stato un piacere incontravi, Strega.» Guardò la strega e l'alchimista allontanarsi seguiti dal servitore con il narghilè. *** Kruppe intercettò un cameriere con un vassoio di ghiotte prelibatezze. Servitosi a volontà, si voltò per riprendere la conversazione con Crokus. Tacque. Il ragazzo era sparito. La folla vagava per il patio, alcuni invitati sconvolti, altri semplicemente confusi. Dov'era Lady Simtal?, chiedevano. Taluni, sorridendo, cambiarono la domanda in, Con chi era? La curiosità ebbe il sopravvento e i nobili iniziarono a girare in cerchio come avvoltoi in attesa della loro ospite. Sorridendo beato dietro la maschera di cherubino, Kruppe sollevò lo sguardo verso il balcone che si affacciava sul patio e in quel momento vide apparire dietro le imposte il profilo di un corpo femminile. Si leccò lo zucchero appiccicoso sulle dita, facendo schioccare le labbra. «Ci sono volte, mormora Kruppe, in cui il celibato sorto dalla triste privazione diventa un piacere, anzi, una fonte di grande sollievo. Caro Murillio, preparati per la tempesta.»
*** Simtal spinse da parte due stecche delle imposte e guardò giù. «Avete ragione», disse. «Sono tutti nel patio. È strano, con il temporale che si avvicina. Dovrei vestirmi.» Si avvicinò al letto e cominciò a raccogliere gli abiti che giacevano sparsi ovunque. «E voi che cosa fate, Murillio?» chiese. «Non temete che la vostra compagna di sotto si stia chiedendo dove siate sparito, mio amato?» Murillio buttò le gambe giù dal letto e infilò i pantaloni. «Non credo», rispose. Simtal gli lanciò un'occhiata interrogativa: «Con chi siete venuto?». «Un amico», rispose l'uomo, allacciandosi la camicia. «Dubito che voi abbiate mai sentito il suo nome.» In quell'istante il chiavistello si spezzò e la porta si spalancò. Con addosso solo la biancheria intima, Simtal lanciò un grido spaventato. I suoi occhi mandarono scintille in direzione dell'uomo avvolto nel mantello in piedi sul vano della porta. «Come osate entrare nella mia stanza? Andatevene subito o chiamerò...» «Entrambe le guardie che sorvegliavano questo corridoio se ne sono andate, Signora», la informò Rallick Nom, entrando nella camera e chiudendo la porta dietro di sé. Il sicario guardò Murillio. «Vestiti», ordinò. «Andati?» Simtal si allontanò per mettere il letto fra sé e Rallick. «La loro lealtà è stata comperata», spiegò il sicario. «Una lezione che dovreste imparare.» «Basta che gridi e ne accorreranno altri», affermò Simtal, in tono stizzoso. «Turban Orr ve la farà pagare.» Il sicario avanzò di un altro passo. «Sono qui solo per parlare, Lady Simtal. Nessuno vi farà del male, per quanto ve lo meritiate.» «Meritare? Non ho fatto niente. Non so nemmeno chi siate.» «Non lo sapeva nemmeno il consigliere Lim», affermò Rallick in tono pacato. «E questa sera potremmo dire lo stesso di Turban Orr. Entrambi gli uomini hanno pagato per la loro ignoranza, ahimè. Meno male che vi siete persa il duello, Signora. È stato sgradevole, ma necessario.» Fulminò la donna con lo sguardo. «Lasciate che vi spieghi. L'offerta di contratto di Turban Orr alla Corporazione dei Sicari è ufficialmente annullata. Coll è vivo e ora il suo ritorno in questa casa è assicurato. È la fine per voi, Lady Simtal. Turban Orr è morto.»
Si girò e uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé. Murillio si alzò lentamente. Guardò Simtal e nei suoi occhi vide crescere la paura. Privata dei suoi legami con il potere, le sue difese crollavano. La guardò contrarsi fisicamente, le spalle cascanti, le mani allo stomaco, le ginocchia che si piegavano. Poi non ce la fece più. Distolse lo sguardo. Lady Simtal era svanita e non osò osservare troppo da vicino la creatura che era ora al suo posto. Sguainò il suo pugnale ornamentale e lo buttò sul letto. Senza un altro gesto o una parola, lasciò la stanza, sapendo che sarebbe stato l'ultimo uomo ad avere visto viva Lady Simtal. Nel corridoio si fermò. «Mowri», mormorò. «Non sono tagliato per questi giochetti.» Progettare di raggiungere quel risultato era una cosa; averlo raggiunto era un'altra. Non aveva preso in considerazione come si sarebbe sentito. Così procedeva la giustizia. La giustizia lo aveva sedotto e in quel momento si chiese che cosa avesse appena perso, s'interrogò sulla morte che sentiva propagarsi dentro di lui. Il rimorso nella scia di quella vita distrutta minacciava di travolgerlo. «Mowri», sussurrò una seconda volta, vicino alla preghiera come mai era stato, «penso di essere perduto. Sono perduto?». *** Crokus scivolò intorno alla colonna di marmo, gli occhi sulla guerriera Barghast seduta sul bordo della fontana. Accidenti a quelle guardie sul margine della boscaglia. Ma dopo tutto, lui era un ladro, no? Inoltre, sembravano piuttosto distratte. Aspettò il momento buono e quando arrivò, sfrecciò a nascondersi nell'ombra tra la prima fila di alberi. Dietro di lui non risuonarono grida di allarme. Scivolando nell'oscurità, Crokus si girò e si accovacciò. Sì, lei era ancora là, rivolta verso di lui. Trasse un respiro profondo e si alzò, un sasso in una mano. Tenendo d'occhio le guardie, attese. Mezzo minuto dopo giunse il suo momento. Fece un passo avanti e gettò il sasso nella fontana. Challice D'Arle trasalì. Poi, mentre asciugava le gocce sul viso, si guardò intorno. Il cuore del giovane si fermò quando lo sguardo della fanciulla lo superò, per poi tornare subito indietro. Crokus cominciò ad agitare le braccia. Era giunto il momento della veri-
tà; il momento in cui avrebbe scoperto da che parte lei stava. Trattenne il fiato e tornò a sbracciarsi. Con un'ultima occhiata al patio, Challice si alzò e corse da lui. Mentre si avvicinava, lo guardò di traverso. «Gorlas? Sei tu? Era tutta la sera che ti aspettavo.» Crokus si sentì gelare. Poi, agì d'istinto. Balzò in avanti e le mise una mano sulla bocca, mentre con l'altro braccio le circondava la vita. Challice si dimenò, cercando di mordergli la mano, ma lui la trascinò nell'oscurità del giardino. E adesso? si chiese. *** Il Violatore del Cerchio si appoggiò contro la colonna di marmo all'interno della grande sala. Alle sue spalle, gli ospiti si aggiravano intorno al corpo di Turban Orr, discutendo a voce alta e dando voce a vuote minacce. L'aria sopra il giardino era pesante, puzzava di sangue. Si passò una mano sugli occhi, cercando di calmare il suo cuore. È finita. Regina dei Sogni, sono salvo. Ora posso riposarmi. Finalmente riposare. Si raddrizzò, inspirò lentamente, sistemò il cinturone con la spada e si guardò intorno. Del capitano Stillis non c'era traccia e la stanza era quasi vuota. Lady Simtal non era ancora ricomparsa e la sua assenza stava dando adito a illazioni di ogni genere. Il Violatore del Cerchio lanciò un'ultima occhiata agli ospiti in giardino, quindi si avviò verso la porta. Mentre passava accanto a un tavolo su cui erano disposte torte e paste, udì un leggero russare. Giunto all'estremità del tavolo si trovò davanti all'ometto grasso seduto in una confortevole sedia antica. La maschera da cherubino nascondeva il volto dell'uomo, ma il respiro regolare gli disse che lo sconosciuto era profondamente addormentato. La guardia esitò. Poi, scuotendo la tesa, si allontanò. Oltre i cancelli della proprietà aspettavano le strade di Darujhistan, e la libertà. Ora che muoveva i primi passi in quella direzione non avrebbe permesso a niente di fermarlo. Ho fatto la mia parte. Caro Hood, porta con te l'anima avvizzita di quell'uomo - i suoi sogni sono finiti, distrutti dal capriccio di un sicario. Per quanto riguarda invece la mia anima, be', dovrai aspettare ancora un po'. Oltrepassò i cancelli, accettando con gioia il sorriso che sorse spontaneo sul suo viso.
CAPITOLO VENTIDUESIMO Corvi! Grandi Corvi! Il vostro severo gracchiare deride le storie che circolano sotto le vostre ali nere Frantumate il giorno o bandiere della notte, lacerate con le ombre questa luce innocente Corvi! Grandi Corvi! Le vostri nubi arrivano improvvise, tonanti, sibilando travagli da un posto all'altro Frantumate il giorno o bandiere della notte, lacerate con le ombre questa luce innocente Corvi! Grandi Corvi! I vostri becchi si aprono rumorosi riversando il sudore del nervoso sgomento e lo schiocco delle ossa promesso in questo giorno Ho visto il lucore dei vostri occhi la risata che accompagna la vita il vostro passaggio è solo un'illusione ci fermiamo, guardiamo malediciamo i vostri freddi venti
sapendo che il sentiero del vostro volo vi porta intorno a noi ancora, oh, ancora e per sempre! Corvi Collitt (n. 978) Raest aveva eliminato dalla battaglia due dei draghi neri. I due restanti volteggiavano alti nel cielo, mentre la rossa Silanah si allontanava rapidamente, oltre la collina. Il Tiranno Jaghut sapeva che provava dolore: la sua immensa forza vitale l'abbandonava insieme al sangue. «E ora», disse, fra le labbra stracciate, «morirà». La carne gli era stata strappata dal corpo, distrutta dal virulento potere dei draghi, potere che erompeva dalle loro mascelle come un fiotto di fuoco. Le sue ossa fragili, ingiallite, erano schiacciate, ridotte in pezzi. A tenerlo in piedi e in movimento era solo il Canale Omtose Pellack. Una volta rimesse le mani sul Finnest, avrebbe rigenerato il suo corpo, riempiendolo del vigore della salute. Ed era vicino all'obiettivo. Un'ultima catena di colline e le mura della città sarebbero diventate visibili; quelle fortificazioni erano l'unica cosa che separava Raest dalle sue piene facoltà. La battaglia aveva devastato le colline, incenerendo ogni cosa nello scontro micidiale dei Canali. E Raest aveva respinto i draghi. Aveva ascoltato le loro grida di dolore. Ridendo, aveva lanciato verso il cielo dense nubi di terra e di pietre per accecarli. Aveva incendiato l'aria sulla loro rotta di volo. Sentiva che era bello essere di nuovo vivo. Mentre camminava, continuò a danneggiare il paesaggio all'intorno. Con un solo scatto del capo, aveva frantumato un ponte di pietra su un fiume ampio, poco profondo. In quel punto, c'era un corpo di guardia, e soldati con armi di ferro - strani esseri, più alti degli Imass, eppure, sentiva, facili da schiavizzare. Ma li annientò, per timore che lo distraessero nella sua battaglia con i draghi. Aveva incontrato un altro uomo, vestito in modo simile, in sella a un cavallo; l'aveva ucciso insieme alla sua bestia, irritato per la loro intrusione. Avvolto nel fuoco crepitante della sua magia, Raest scalò il lato della collina dietro il quale Silanah era scomparsa. Prevedendo un'altra imboscata, il Tiranno Jaghut radunò il suo potere, stringendo i pugni. Ma raggiunse la cima senza intoppi. Era fuggita? Allungò il collo verso il cielo. No, i due draghi neri erano ancora lì, e fra loro troneggiava un Grande Corvo.
Raest attraversò la sommità della collina, fermandosi quando emerse alla vista la valle adiacente. Silanah aspettava lì, la pelle rossa zigrinata striata di nero, il petto ansimante percorso da ustioni trasudanti siero. Le ali ripiegate, lo osservava dalla sua posizione in fondo alla valle, dove un torrente infliggeva alla terra una ferita tortuosa, seghettata, fitta di rovi. Il Tiranno Jaghut cacciò una risata aspra. Lì la dragonessa sarebbe morta. Il lato più lontano della valle era una bassa cresta, oltre la quale, scintillante nell'oscurità, giaceva la città che racchiudeva il suo Finnest. Raest si fermò a guardarla. In confronto, faceva sembrare piccole persino le grandi città Jaghut dei tempi antichi. E che dire di quella strana luce blu e verde, che combatteva il buio con tale ferma, costante determinazione? Lì c'erano dei misteri. Era ansioso di svelarli. «Silanah!» gridò. «Eleint! Ti lascio la tua vita! Fuggi ora, Silanah. Mostrerò misericordia una volta sola. Ascoltami, eleint!» La dragonessa lo guardò fisso; gli occhi sfaccettati brillavano come fari. Non si mosse, né rispose. Raest avanzò velocemente verso di lei, stupito dell'assenza del suo Canale. Si era arresa, allora? Rise di nuovo. Mentre si avvicinava, il cielo sopra di lui cambiò, riempiendosi di un chiarore vivido, senza origine. La città svanì, sostituita da distese fangose, spazzate dal vento. In lontananza, la frastagliata linea delle montagne si ergeva massiccia, non scavata da fiumi di ghiaccio, lucida, possente di giovinezza. Raest rallentò il passo. Questa è una visione dei tempi Antichi, antecedenti persino agli Jaghut. Chi mi ha attirato qui? «Oh, perdinci...» Abbassando lo sguardo di scatto, il Tiranno vide un mortale. Alzò un sopracciglio spelacchiato davanti ai suoi strani vestiti: la giacca logora, color rosso sbiadito, con grandi polsini macchiati di cibo, i pantaloni larghi di uno stupefacente rosa brillante, e gli stivali di pelle nera, troppo ampi per quei piccoli piedi. L'uomo estrasse una pezza, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Egregio signore», sibilò, «non siete affatto invecchiato bene!». «In te c'è qualcosa dell'Imass», stridette Raest. «Persino la lingua che parli ricorda i loro suoni gutturali. Sei venuto per strisciare ai miei piedi? Sei il mio primo accolito, ansioso di ricevere le mie ricompense per i tuoi servigi?» «Ahimè», replicò l'uomo, «vi sbagliate, signore. Kruppe - questo debole, modesto mortale che vi sta davanti - non si inchina a nessuno, Jaghut o dio
che sia. Tali sono le sfumature di questa nuova era che voi siete annientato dall'indifferenza, e i vostri sforzi poderosi sono resi insignificanti dall'umile mortale nel cui sogno siete indegnamente sconfinato. Kruppe vi sta davanti perché possiate osservare la sua espressione benevola negli ultimi momenti prima della vostra dipartita. Tutto considerato, si tratta di un'azione magnanima da parte di Kruppe». Raest rise. «Ho camminato altre volte nei sogni dei mortali. Tu credi di essere il padrone qui, ma ti sbagli.» Il Tiranno spinse in avanti la mano, da cui emanava un potere micidiale. La magia avvolse Kruppe, con un cupo bagliore, poi sbiadì; dell'uomo non restavano più tracce. Una voce parlò alla sinistra di Raest. «Tanta precipitazione è scortese e sgradevole, dichiara Kruppe.» Lo Jaghut si girò di scatto, stringendo gli occhi. «Che gioco è questo?» L'uomo sorrise. «Il gioco di Kruppe, naturalmente.» Un suono alle spalle di Raest lo mise sul chi va là, ma troppo tardi. Si voltò, nel momento in cui una massiccia spada di selce gli lacerava la spalla sinistra, aprendosi un cammino che ruppe costole e trapassò sterno e colonna vertebrale. Il colpo fece crollare il Tiranno a terra. Raest allargò gli arti scompostamente; pezzi del suo corpo si sparsero sul terreno all'intorno. Alzò lo sguardo sul T'lan Imass. L'ombra di Kruppe si mosse sul viso di Raest, che incrociò gli occhi acquosi del mortale. «È senza Clan, naturalmente. Non è legato e non può più esserlo, ma l'antico richiamo lo vincola ancora - con suo sgomento. Immaginate la sua sorpresa nell'essere individuato. Onos T'oolan, Spada del Primo Impero, ancora una volta subisce il richiamo del sangue che, tanto tempo fa, scaldava le sue membra, il suo cuore, la sua vita.» «Fai strani sogni, mortale», intervenne il T'lan Imass. «Kruppe riserva molte sorprese, anche a se stesso.» «Avverto», continuò Onos T'oolan, «la mano di un Divinatore in quest'appello». «Così è. Pran Chole del clan di Kig Aven dei Kron T'lan Imass, credo si chiamasse.» Raest si alzò da terra, circondandosi di magia per tenere assieme il suo corpo devastato. «Nessun T'lan Imass può reggere al mio potere», sibilò. «Affermazione discutibile», ribatté Kruppe. «E comunque, egli non è solo nei suoi sforzi.» Raddrizzandosi, il Tiranno Jaghut vide una figura alta, avvolta in un
manto nero, emergere dal letto del torrente. Inclinò la testa, nel vederla avvicinarsi. «Mi ricordi Hood. Il Vagabondo della Morte è ancora vivo?» Aggrottò le sopracciglia. «Ma no. Non sento niente provenire da te. Tu non esisti.» «Forse», ammise l'apparizione, in tono grave, sommesso, venato di rimpianto. «Ma se è così, non esisti nemmeno tu. Apparteniamo entrambi al passato, Jaghut.» La figura si fermò a quindici piedi da Raest, volgendo la testa incappucciata verso la dragonessa. «Il suo padrone attende il tuo arrivo, Jaghut, ma attende invano, e per questo dovresti ringraziarci. Assesterebbe un tipo di morte cui nessuno può sfuggire, nemmeno una creatura come te.» La testa si girò, e l'oscurità dentro il cappuccio tornò a guardare il Tiranno. «Qui, nel sogno di un mortale, poniamo fine alla tua esistenza.» Raest grugnì. «In quest'era non esiste chi possa sconfiggermi.» La figura fece una risata chioccia. «Sei uno sciocco, Raest. In quest'era, persino un mortale può ucciderti. Il flusso dell'asservimento si è invertito. Ora siamo noi dei a essere gli schiavi, e i mortali i nostri padroni - anche se loro non lo sanno.» «Tu saresti un dio, allora?» Il cipiglio di Raest si aggravò. «Una volta ero un dio», replicò la figura. «Venerato come K'rul. Sono il Creatore dei Sentieri - trovi qualche significato in quel titolo antico?» Raest fece un passo indietro, alzando le mani essiccate. «Impossibile», mormorò. «Sei passato nei Regni del Caos, tornando al tuo luogo di nascita - non sei più fra noi...» «Come ho detto, le cose sono cambiate», spiegò tranquillamente K'rul. «A te la scelta, Raest. Onos T'oolan può distruggerti. Tu non capisci cosa significhi il suo titolo di Spada: è senza uguali in questo mondo. Puoi cadere ignobilmente sotto la lama di un Imass, oppure puoi venire con me perché in una cosa siamo uguali, tu e io. Il nostro tempo è passato, e le Porte del Caos ci aspettano. Che cosa scegli?» «Né la prima né la seconda alternativa, Antico.» Una risata sorda, sommessa, accompagnò il crollo del corpo rovinato, avvizzito del Tiranno. K'rul piegò la testa. «Ha trovato un altro corpo.» Kruppe tirò fuori il suo fazzoletto. «Oh, perdinci», concluse. *** A un brusco gesto di Kalam, Paran si chinò di colpo. Il capitano aveva la bocca secca. In quel giardino, c'era qualcosa di gravemente storto. Forse
era solo colpa della sua stanchezza, ma l'aria stessa bastava a irritargli i sensi. Gli sembrava di vedere pulsare l'oscurità, e l'odore di marcio era diventato un puzzo. Kalam allungò le mani verso i coltelli. Paran si irrigidì, non potendo vedere nulla oltre il sicario. C'erano troppi alberi, e non abbastanza luce. In qualche punto guizzavano le lampade a gas, e gruppi di persone affollavano la terrazza. Ma la civiltà sembrava lontana mille leghe. Lì, il capitano si sentiva inglobato in un'entità primordiale, che respirava lentamente e profondamente su tutti i lati. Kalam gli fece segno di restare dov'era, poi scivolò nelle ombre alla loro destra. Accucciandosi vicino al terreno, Paran raggiunse pian piano il punto abbandonato dal sicario pochi attimi prima. Sembrava che avanti a lui ci fosse una specie di radura. Non riusciva a vedere niente di strano, ma il senso di anomalia gli martellava nella testa. Fece un altro passo. Qualcosa occupava il centro della radura, qualcosa di squadrato, simile a un altare, davanti al quale stava la figura quasi spettrale di una piccola donna, con la schiena rivolta a lui. Un attimo dopo, Kalam spuntò dietro di lei, i coltelli scintillanti nelle mani. Tirò indietro le braccia. La donna si mosse fulminea, conficcando un gomito nello stomaco del sicario. Poi si girò e gli piantò un ginocchio nell'inguine. Barcollando all'indietro, Kalam cacciò un grido, poi cadde a terra con un forte tonfo. Paran aveva la spada in mano. Corse nella radura. La donna lo vide ed emise uno strillo sorpreso, spaventato. «No!» esclamò. «Vi prego!» Il capitano si fermò davanti a quella voce infantile. Kalam si mise a sedere. Gemette, poi disse: «Maledizione, Dispiacere. Non mi aspettavo di trovarti qui. Ti credevamo morta, ragazza». Lei fissò diffidente Paran che si avvicinava guardingo. «Dovrei conoscerti, no?» chiese a Kalam. Poi, in preda alla paura, alzò una mano fra sé e il capitano, arretrando. «Io... io ti ho ucciso!» Cadde in ginocchio con un lamento sommesso. «Avevo il tuo sangue sulle mani. Me lo ricordo!» Un fuoco di rabbia divampò in Paran, che, alzando la spada, fece per ergersi sopra di lei. «Aspettate!» sibilò Kalam. «Aspettate, Capitano. Qui c'è qualcosa che non va.» Con grande difficoltà, il sicario si tirò in piedi. Era sul punto di sedersi sul blocco di pietra, quando la ragazza ansimò: «Fermo! Non lo senti?».
«Io sì», ruggì Paran. Abbassò la sua arma. «Non toccare quella cosa, Caporale.» Kalam indietreggiò. «Pensavo che fosse solo una mia impressione», borbottò. «Non si tratta affatto di pietra», annunciò la ragazza, il viso libero dall'angoscia che lo distorceva solo un attimo prima. «È legno.» Si alzò, girandosi verso Kalam. «E sta crescendo.» Paran fu colto da un sospetto. «Ragazza, ti ricordi di me? Sai chi sono?» Lei gli rivolse un cipiglio, poi scosse la testa. «Conosco Kalam», rispose. «È un vecchio amico, credo.» Il sicario parve sul punto di soffocare, poi tossì sonoramente, scuotendo la testa. La donna indicò il blocco di legno. «Vedete? Diventa sempre più grande.» Entrambi gli uomini guardarono. Una foschia annebbiava i contorni del blocco; turbinando, si gonfiò, poi scomparve. Paran vide chiaramente che la cosa era aumentata di dimensioni. «Ha le radici», aggiunse la ragazza. Paran si riscosse. «Caporale? Resta qui con lei. Io tornerò presto.» Rinfoderando la spada, lasciò la radura. Con un breve, tortuoso passaggio attraverso il sottobosco, arrivò al bordo; gli apparve una terrazza piena di ospiti. Una fontana dalle pareti basse si ergeva dall'impiantito alla sua sinistra, circondata di pilastri di marmo distanti una iarda circa l'uno dall'altro. Il capitano vide che Whiskeyjack e lo squadrone si erano disposti in una fila irregolare, a una dozzina di piedi dal confine del giardino, il viso rivolto verso la terrazza. Avevano l'aria tesa. Paran trovò un ramoscello caduto e lo spezzò a metà. A quel rumore, tutti e sei gli uomini si girarono. Il capitano indicò Whiskeyjack e Mallet, poi arretrò fra gli alberi. Il sergente bisbigliò qualcosa a Ben lo Svelto. Poi, prendendo il guaritore con sé, raggiunse Paran. Questi si attirò Whiskeyjack vicino. «Kalam ha trovato Dispiacere, e anche qualcos'altro», annunciò. «La ragazza non c'è del tutto con la testa, e non credo che si tratti di una commedia. Un attimo si ricorda di avermi ucciso, e un attimo dopo se l'è dimenticato. E adesso è convinta che Kalam sia un suo vecchio amico.» Mallet grugnì. Dopo un breve sguardo alla festa, Whiskeyjack indagò: «E il "qualcos'altro" che roba è?».
«Non ne sono sicuro, ma non è niente di buono.» «Va bene.» Il sergente sospirò. «Va' con il capitano, Mallet. Da' un'occhiata a Dispiacere. Notizie dalla Corporazione dei Sicari?» chiese a Paran. «No.» «Allora ci muoveremo presto», concluse Whiskeyjack. «Lasceremo agire Fiddler e Hedge. Al tuo ritorno, porta con te Kalam, Mallet. Dobbiamo parlare.» *** Rallick non incontrò ostacoli, mentre attraversava la sala centrale, diretto alla porta principale. Visi si volsero verso di lui, e conversazioni si spensero, per rianimarsi dopo il suo passaggio. Il sicario fu invaso fin nelle ossa da uno sfinimento, più profondo di quanto non potesse spiegare il sangue perso da una ferita ormai guarita. La sua inquietudine era di origine emotiva. Si fermò nel vedere Kruppe che si alzava da una sedia, la maschera dondolante dalla mano grassoccia. Il viso dell'uomo era velato di sudore, e i suoi occhi erano pieni di paura. «Fai bene a essere terrorizzato», dichiarò Rallick, avvicinandosi a lui. «Se avessi saputo che saresti stato qui...» «Zitto!» sbottò l'altro. «Kruppe deve pensare!» Il sicario corrugò la fronte, ma non disse nulla. Non aveva mai visto Kruppe senza la solita facciata di amabilità, e il suo evidente turbamento lo metteva profondamente a disagio. «Rimettiti in cammino, amico», lo esortò Kruppe, in un tono strano. «Il tuo destino ti attende. Inoltre, pare che questo nuovo mondo sia pronto ad accogliere un tipo come Raest, di qualunque carne sia rivestito.» Il cipiglio di Rallick si aggravò. Quest'uomo sembra ubriaco. Sospirò, poi si girò dall'altra parte, tornando con la mente ai risultati di quella notte. Riprese la sua strada, lasciandosi Kruppe alle spalle. E adesso? si chiese. Talmente tante energie erano state incanalate verso quel momento, che ora la sua concentrazione sembrava offuscata dal successo. Rallick non era mai stato un crociato; la sua ossessione a raddrizzare il torto veniva dall'essersi accollato il ruolo che Coll stesso avrebbe dovuto assumere. Aveva fatto da surrogato alla sua volontà, confidando che questa sarebbe tornata presto.
E se non fosse successo? Sempre più accigliato, Rallick soffocò la domanda, prima che potesse condurre il suo cervello in cerca di una risposta. Come aveva detto Baruk, era giunto il momento di andare a casa. Una donna dalla maschera d'argento lo toccò sul braccio. Trasalendo al contatto, egli si girò a guardarla. Lunghi capelli castani circondavano la maschera inespressiva, i cui fori per gli occhi non rivelavano nulla del volto al di sotto. La donna si avvicinò. «Da un po' di tempo sei oggetto della mia curiosità», mormorò. «Ma ora vedo che avrei dovuto tenerti d'occhio di persona, Rallick Nom. La morte di Ocelot avrebbe potuto essere evitata.» Lo sguardo del sicario si incupì. «Vorcan.» Lei inclinò la testa quasi impercettibilmente. «Ocelot era uno sciocco», sbottò Rallick. «Se il contratto di Orr era autorizzato dalla Corporazione, attendo la mia punizione.» La donna rimase zitta. Rallick aspettò con calma. «Sei un uomo di poche parole, Rallick Nom.» La risposta fu il silenzio. Vorcan rise sommessamente. «Dici che attendi la tua punizione, come se fossi già rassegnato alla morte.» Spostò lo sguardo da lui alla terrazza affollata. «Il consigliere Turban Orr possedeva una protezione magica, che però non gli è servita a nulla. Strano.» Sembrò assorta in qualche pensiero, poi annuì. «Mi servono le tue capacità, Rallick Nom. Accompagnami.» Battendo le palpebre, lui seguì la donna che si avviava verso il giardino dietro la casa. *** Sdraiato sopra Challice, Crokus le teneva una mano sopra la bocca. Con l'altra, si tolse la maschera da ladro. Lei spalancò gli occhi, riconoscendolo. «Se urli», l'ammonì lui in tono aspro, «te ne pentirai». Era riuscito a trascinarla nel sottobosco per forse dieci iarde, prima che Challice gli facesse lo sgambetto. Avevano lottato per un po', ma lui aveva vinto la battaglia. «Voglio solo parlarti», annunciò Crokus. «Non ti farò del male, Challice, lo giuro. A meno che tu non combini qualche scherzo, naturalmente. Ora tirerò via la mano. Per favore, non gridare.» Cercò di leggere l'espressione dei suoi occhi, ma vi vide solo la paura. In
preda alla vergogna, alzò la mano. Lei non gridò, e un attimo dopo Crokus si trovò a desiderare che l'avesse fatto. «Maledizione a te, ladro! Quando ti prenderà, mio padre ti farà spellare vivo! Se Gorlas non ti trova prima. Alza un dito sopra di me, e ti metterà a bollire, lentamente...» Crokus le sbatté di nuovo la mano sopra la bocca. Spellare? Bollire? «Chi è Gorlas?» chiese, fulminandola con lo sguardo. «Un cuoco dilettante? E così, mi hai tradito!» Lei lo fissò. Crokus sollevò la mano. «Non ti ho tradito», ribatté Challice. «Di cosa stai parlando?» «La guardia assassinata. Non l'ho uccisa io, ma...» «Certo che no. Mio padre ha ingaggiato un veggente. Quella guardia è stata uccisa da una donna, una serva della Fune. Il veggente era terrorizzato ed è fuggito prima di farsi pagare! Ora levati di torno, ladro.» Lui la lasciò andare, sedendosi sul terreno. Puntò lo sguardo sugli alberi. «Tu non mi hai tradito! E Meese? Le guardie da zio Mammot? La grande caccia?» Challice si tirò in piedi, ripulendosi il mantello di pelle dalle foglie morte. «Che cosa stai blaterando? Devo tornare a casa; Gorlas mi starà cercando. È il primo figlio del Casato di Tholius, e si addestra a diventare un maestro del duello. Se ti vede con me, saranno guai seri.» Lui la guardò sconvolto. «Aspetta!» Balzò in piedi. «Ascolta, Challice. Dimentica quell'idiota di Gorlas. Entro la fine dell'anno, mio zio ci presenterà ufficialmente l'uno all'altra. Mammot è uno scrittore famoso.» Challice alzò gli occhi al cielo. «Scendi con i piedi per terra. Uno scrittore? Un vecchio con le mani sporche d'inchiostro che sbatte contro i muri quando cammina? Possiede potere? Influenza? Il Casato di Tholius ha potere, influenza, tutto ciò che serve. E poi, Gorlas mi ama.» «Ma io...» si fermò, distogliendo lo sguardo. Era vero? No. Ma aveva importanza? E comunque, cosa voleva da lei? «Comunque, cosa vuoi da me?» domandò Challice. Lui abbassò gli occhi sui piedi. Poi li alzò a incontrare i suoi. «Compagnia?» rispose, esitante. «Amicizia? Che cosa sto dicendo? Sono un ladro! Le donne come te le derubo!» «Esatto», sbottò lei. «Perché fingere altrimenti?» La sua espressione si ammorbidì. «Crokus, non ti tradirò. Sarà il nostro segreto.» Per un fuggevole attimo, lui si sentì come un bambino accarezzato e
consolato da una madre affettuosa; l'esperienza gli piacque. «Prima di te», aggiunse Challice, sorridendo, «non avevo mai incontrato un ladro vero, un ladro proveniente dalle strade». Il suo godimento finì in un impeto di collera. «Per il respiro di Hood, no», la schernì. «Vero? Tu non sai quello che è vero, Challice. Non hai mai avuto le mani sporche di sangue. Non hai mai visto morire un uomo. Ma è così che va il mondo, eh? Lascia il sudiciume a noi, ci siamo abituati.» «Stasera ho visto morire un uomo», sussurrò Challice. «Non voglio che mi succeda più. Se è questo il "vero", non mi interessa. È tutto tuo, Crokus.» Si girò e se ne andò. Crokus fissò la sua schiena, i capelli raccolti in una treccia; le sue parole gli risuonavano in testa. Improvvisamente esausto, si volse verso il giardino. Sperava che Apsalar fosse rimasta là dove l'aveva lasciata; l'ultima cosa che voleva era doverla cercare. Scivolò dentro le ombre. *** Dopo il primo passo nella radura, Mallet si ritrasse. Paran lo afferrò per il braccio, incrociando il suo sguardo. Il guaritore scosse la testa. «Non posso avvicinarmi oltre, signore. Quella creatura laggiù è micidiale per il mio Canale Denul. E la mia presenza... le provoca... appetito.» Si asciugò il sudore dalla fronte, tirando un respiro tremante. «Meglio portare la ragazza qui da me.» Paran gli lasciò il braccio e sfrecciò nella radura. Il blocco di legno ora era grande come un tavolo, venato da radici spesse, tortuose; i lati presentavano buchi, di forma rozzamente quadrata. La terra all'intorno sembrava imbevuta di sangue. «Caporale», bisbigliò, rabbrividendo, «manda la ragazza da Mallet». Kalam le posò una mano sulla spalla. «È tutto a posto, piccola», disse, nel tono di uno zio benevolo. «Adesso va'. Ti raggiungeremo presto.» «Sì.» Lei sorrise, e si avviò verso il guaritore, al margine della radura. Kalam si strofinò la mascella ispida, seguendola con gli occhi. «Non avevo mai visto Dispiacere sorridere», osservò, rivolto a Paran. «Ed è un vero peccato.» Guardarono Mallet parlare sommessamente con la ragazza, poi avanzare e metterle una mano sulla fronte.
Paran inclinò la testa. «La tempesta è finita», osservò. «Già. Spero che significhi quello che desideriamo.» «Qualcuno vi ha posto termine. E condivido la tua speranza, Caporale.» Per il capitano, tuttavia, si trattava di una speranza esile. Qualcosa bolliva in pentola. Sospirò. «Per quanto difficile sia da credere, non è ancora suonata la dodicesima campana.» «Ci aspetta una lunga notte», ribatté il sicario, chiarendo che nemmeno lui era molto ottimista. Grugnì. Mallet aveva cacciato un grido. Staccando la mano dalla fronte della ragazza, il guaritore la sventolò in direzione di Paran e di Kalam. «Andate», esortò il sicario. Perplesso, il capitano guardò l'uomo dalla pelle nera con un cipiglio. Poi raggiunse il guaritore e Dispiacere. Questa teneva gli occhi chiusi, e sembrava in trance. «Non è più posseduta», annunciò Mallet, senza mezzi termini. «L'avevo immaginato», replicò Paran, studiando la ragazza. «C'è ancora una cosa, però», proseguì il guaritore. «Ha qualcun altro in corpo, signore.» Paran alzò le sopracciglia. «Qualcuno che c'è sempre stato. Come sia sopravvissuto alla presenza della Fune, va al di là della mia comprensione. E ora ho una scelta.» «Spiegati.» Mallet si accovacciò, trovò un ramoscello e cominciò a tracciare sul terriccio motivi senza senso. «Quel qualcuno ha protetto la mente della ragazza, agendo come il filtro di un alchimista. Negli ultimi due anni, Dispiacere ha fatto cose che, se le avesse ricordate, l'avrebbero condotta alla pazzia. La presenza sta ancora lottando contro quelle memorie, ma ha bisogno di aiuto, perché non è più forte come una volta. Sta morendo.» Paran si acquattò accanto all'uomo. «E tu pensi di offrirle quell'aiuto?» «Non ne sono sicuro. Vedete, signore, non conosco le sue intenzioni. Non so che cosa abbia in mente, non riesco a leggere i suoi disegni. Se io l'aiuto, e quella vuole il controllo assoluto? La ragazza sarebbe posseduta un'altra volta.» «Così, credi che la presenza proteggesse Dispiacere dalla Fune, solo per poter poi espandersi e prendere il suo posto al momento opportuno?» «Messa così, la cosa non ha senso», commentò Mallet. «Ma per quale altra ragione quella presenza avrebbe dovuto impegnarsi tanto? Il suo corpo, la sua carne sono spariti. Se abbandona la ragazza, non avrà nessun posto in cui andare. Ora, forse si tratta di una persona cara, di una parente,
o simili. Qualcuno disposto a sacrificarsi completamente. È una possibilità.» «"Una"? È una donna?» «Lo era. Cosa sia ora, non lo so proprio. Percepisco solo la sua tristezza.» Il guaritore incrociò lo sguardo di Paran. «È la cosa più triste che abbia mai incontrato, Signore.» Paran studiò il viso dell'uomo per un attimo, poi si alzò. «Non ti darò ordini su cosa fare, guaritore.» «Ma?» «Ma, per quel che vale, ti dico di procedere. Dalle ciò di cui ha bisogno per fare ciò che vuole.» Mallet gonfiò le guance, poi gettò il ramoscello e si raddrizzò. «Il mio istinto va nella stessa direzione, Signore. Grazie.» «Voi laggiù», esclamò Kalam, dalla radura. «Mostratevi.» Girandosi, i due videro Kalam che guardava nel bosco alla loro sinistra. Paran afferrò Mallet per il braccio, tirandolo nell'ombra. Il guaritore trascinò Dispiacere con loro. Due figure, un uomo e una donna, entrarono nella radura. *** Crokus si avvicinò zigzagando fra i viticci e il fango. Per essere un giardino privato, quello somigliava più a un bosco intricato. Le voci che aveva udito cercando Apsalar si rivelarono appartenere a due uomini e a una donna dalla maschera d'argento. Tutti e tre guardavano uno strano ceppo d'albero, dalla forma indistinta, al centro della radura. Crokus espirò lentamente. Uno degli uomini era Rallick Nom. «C'è del male qui dentro», affermò la donna, indietreggiando. «Una specie di appetito.» L'uomo robusto, dalla pelle nera, che le stava al fianco grugnì. «Non intendo contestare la vostra opinione, Signora della Corporazione. Ma qualunque cosa sia, non è Malazan.» Il ladro spalancò gli occhi. Spie Malazan? Signora della Corporazione? Vorcan! La donna si girò verso Rallick. «Che effetto ha su di te, Rallick?» «Nessuno», rivelò lui. «Avvicinati, allora.» Scrollando le spalle, il sicario raggiunse il blocco nodoso, scosso dai fremiti. Il suo movimento cessò.
Vorcan si rilassò. «Sembra che tu ostacoli i suoi sforzi, Rallick. Curioso.» L'uomo grugnì. «Polvere Otataral.» «Che cosa?» «Me la sono spalmata sulla pelle.» Vorcan lo fissò. L'altro uomo lo guardò attraverso gli occhi socchiusi. «Mi ricordo di te, sicario. Eri la nostra preda, la prima volta che abbiamo cercato di metterci in contatto. La notte dell'imboscata dall'alto.» Rallick annuì. «Be'», continuò il Malazan. «Mi stupisce che tu sia sopravvissuto.» «È un uomo dalle tante sorprese», commentò Vorcan. «Allora, caporale Kalam degli Arsori di Ponti, la tua richiesta di colloquio mi è arrivata, e l'ho accontentata. Prima che cominciamo, però, preferirei che ci raggiungesse il resto del tuo squadrone.» Si volse verso gli alberi alla sua destra. La mente di Crokus già vacillava - gli Arsori di Ponti! - ma fu sul punto di scoppiare quando egli vide due uomini emergere dall'ombra, con Apsalar in mezzo a loro. La ragazza sembrava drogata, e aveva gli occhi chiusi. «Signora della Corporazione», esordì uno degli uomini, «sono il capitano Paran, del Nono Squadrone». Tirò un respiro profondo, poi continuò: «In questa faccenda, però, è Kalam il portavoce dell'Impero». Vorcan riportò lo sguardo sull'uomo dalla pelle nera. «Diamo inizio al colloquio.» «Sappiamo entrambi, Signora della Corporazione, che il Consiglio della Città non è il vero centro di potere di Darujhistan. E dal momento che nemmeno voi lo siete, abbiamo concluso che i maghi cittadini operano in segreto, con l'interesse prevalente di mantenere intatto lo status quo. Quali che siano le loro identità, sono bravi a nascondersi. Ora, potremmo semplicemente decidere di uccidere tutti i maghi di Darujhistan, ma la cosa richiederebbe troppo tempo, e potrebbe rivelarsi complicata. Invece, Signora della Corporazione, l'Impero Malazan ha posto una taglia sui veri governanti di Darujhistan. Centomila monete d'oro. Per uno. Inoltre, l'Imperatrice offre il controllo della città, accompagnato dal titolo di Gran Pugno e da tutti i privilegi che ne conseguono.» Incrociò le braccia. Dopo un breve silenzio, Vorcan chiese: «L'Imperatrice Laseen è disposta a pagare novecentomila monete d'oro a me?». «Se quello è il numero delle vittime, sì», confermò Kalam. «La Cabala T'orrud è una forza potente, caporale. Ma prima di risponde-
re, vorrei sapere della creatura che si avvicina da est.» Il suo viso si irrigidì leggermente. «Per un po', l'hanno contrastata cinque draghi, probabilmente provenienti dalla Progenie della Luna. Ne deduco che Mastro Baruk e la sua Cabala abbiano firmato un accordo con il Figlio dell'Oscurità.» Kalam assunse un'espressione sconvolta, ma si riebbe in fretta. «Signora della Corporazione, la forza in avvicinamento non è di nostra creazione. Saremmo contenti se il Figlio dell'Oscurità la distruggesse. Quanto alla vostra domanda implicita, ritengo che l'alleanza fra il Tiste Andii e la Cabala perderà di valore con la morte dei membri della Cabala stessa. Non vi stiamo chiedendo di cercare di uccidere il Signore della Progenie della Luna.» Paran si schiarì la gola. «Signora della Corporazione, la Progenie della Luna e l'Impero Malazan si sono già scontrati. A giudicare dal passato, è più probabile che il Figlio dell'Oscurità si ritiri, invece di affrontarci da solo.» «Valutazione accurata», convenne Vorcan. «Caporale Kalam, non ho intenzione di sprecare le vite dei miei sicari in un'impresa del genere. Solo un sicario che sia anche un Grande Mago potrebbe riuscire. Accetto il contratto. Mi occuperò io degli omicidi. Ora, per quanto riguarda il pagamento...» «Verrà consegnato via Canale dopo l'adempimento del contratto», concluse Kalam. «Forse lo saprete già, Signora della Corporazione, ma l'Imperatrice una volta era un sicario. Rispetta le regole del mestiere. L'oro verrà pagato, e il titolo e il governo di Darujhistan concessi senza esitazione.» «Intesi, caporale Kalam. Comincerò subito.» Vorcan si volse verso Rallick. «Rallick Nom, il compito che ti affido ora è di importanza vitale. Ho visto la tua strana capacità di opporti alla crescita di questa... cosa malvagia. Il mio istinto mi dice che non dobbiamo permetterle di continuare a svilupparsi. Rimarrai qui, tenendola ferma.» «Per quanto tempo?» ruggì lui. «Fino al mio ritorno. A quel punto, saggerò le sue difese. Oh, e un'altra cosa: le azioni di Ocelot non erano autorizzate dalla Corporazione. Giustiziarlo ha soddisfatto i criteri della Corporazione riguardo alla giusta punizione. Grazie, Rallick Nom. La Corporazione è soddisfatta.» Rallick raggiunse lo strano ceppo, e vi si sedette sopra. «A più tardi», salutò Vorcan, allontanandosi dalla radura. Crokus vide le tre spie Malazan riunirsi per discutere a bisbigli. Poi uno degli uomini afferrò Apsalar per il braccio e la condusse delicatamente nel
bosco, diretto al muro posteriore del complesso. Gli altri due, il capitano Paran e il caporale Kalam, si volsero a guardare Rallick. La testa fra le mani, i gomiti sulle cosce, il sicario fissava cupamente il terreno. Kalam emise un sospiro fra i denti, scuotendo la testa. Un attimo dopo, entrambi gli uomini partirono alla volta della terrazza. Crokus esitò. Una parte di lui voleva correre nella radura e affrontare il sicario. Uccidere i maghi! Consegnare Darujbistan ai Malazan? Come poteva Rallick permettere una cosa simile? Tuttavia, non si mosse; dentro di lui crebbe l'angosciosa consapevolezza che, in realtà, non sapeva nulla di quell'uomo. L'avrebbe ascoltato? Oppure gli avrebbe risposto piantandogli un coltello nella gola? Crokus non aveva voglia di correre il rischio. Nell'ultimo minuto, Rallick non si era mosso. Infine, si alzò, girandosi direttamente verso il punto in cui stava Crokus. Il ladro gemette. Rallick lo chiamò con un gesto. Lentamente, Crokus si avvicinò. «Ti nascondi bene», osservò Rallick. «E sei stato fortunato che Vorcan abbia tenuto su la maschera - le ha impedito di guardarsi intorno. Hai sentito, allora?» Crokus annuì; suo malgrado, il suo sguardo corse a quello che aveva definito un ceppo. Sembrava più una casetta di legno. I fori sui lati avrebbero potuto benissimo essere finestre. A differenza di Vorcan, percepiva non un appetito, ma una specie di urgenza, di frustrazione, quasi. «Prima di condannarmi, Stammi a sentire, Crokus.» Il ladro distolse l'attenzione dal blocco di legno. «Ti ascolto.» «Baruk forse è ancora alla festa. Devi trovarlo, dirgli esattamente cos'è successo. Digli che Vorcan è una Grande Maga, e che li ucciderà tutti se non si riuniscono per difendersi a vicenda.» Il sicario tese una mano a stringere Crokus sulla spalla. Il ragazzo sobbalzò, con la diffidenza negli occhi. «E se Baruk è tornato a casa, trova Mammot. L'ho visto qui non molto tempo fa. Indossa la maschera di una bestia con le zanne.» «Lo zio Mammot? Ma lui è...» «È un Gran Sacerdote di D'riss, Crokus, e membro della Cabala T'orrud. Su, sbrigati. Non c'è tempo da perdere.» «Vuoi dire che tu resterai qui, Rallick? Seduto su quel... quel ceppo?» Il sicario intensificò la stretta. «Vorcan ha detto il vero, ragazzo. Di qualunque cosa si tratti, sembra che io riesca a tenerla sotto controllo. Baruk
deve sapere di questo sortilegio. Mi fido più dei suoi sensi che di quelli di Vorcan, ma per ora le obbedirò.» Per un attimo, Crokus resistette, pensando ad Apsalar. Le avevano fatto qualcosa, ne era certo... e se le avevano recato danno, gliel'avrebbero pagata. Ma... lo zio Mammot? Vorcan aveva intenzione di uccidere suo zio? Il ladro sollevò su Rallick due occhi duri. «Consideralo fatto», disse. In quell'attimo, un ruggito di rabbia e di tormento, proveniente dalla terrazza, scosse gli alberi. Il blocco di legno rispose con un'esplosione di fuoco giallo brillante; le radici si gonfiarono e si contorsero, simili a dita brancolanti. Rallick diede uno spintone a Crokus, poi si girò, buttandosi sul blocco. Il fuoco si spense e nella terra si aprirono delle crepe, che avanzarono in tutte le direzioni. «Va'!» gridò Rallick. Il ladro, con il cuore martellante, scattò verso la proprietà di Lady Simtal. *** Baruk allungò la mano verso la corda della campanella e la tirò violentemente. Sentì il vetturino emettere un grido. La carrozza si fermò con uno scivolone. «È successo qualcosa», sibilò a Rake. «Ce ne siamo andati troppo presto, maledizione!» Spostandosi verso il finestrino, aprì le tende. «Un momento, alchimista», rispose Rake in tono neutro, aggrottando le sopracciglia e inclinando la testa, come se stesse in ascolto. «Si tratta del Tiranno», decretò. «Ma è indebolito, e restano abbastanza maghi per affrontarlo.» Aprì la bocca per aggiungere qualcosa, poi la richiuse. Osservò l'alchimista con occhi azzurro scuro. «Baruk», riprese sommessamente, «torna alla tua proprietà. Preparati per la prossima mossa dell'Imperatrice non avremo molto da aspettare». Baruk fissò il Tiste Andii. «Ditemi cosa sta succedendo», lo esortò rabbioso. «Sfiderete o no il Tiranno?» Rake gettò la sua maschera sul pavimento, stringendosi il colletto del mantello. «Se sarà necessario, lo farò.» Pugni picchiarono intorno a loro e voci gridarono con allegria. La folla spinse la carrozza su tutti i lati, facendola oscillare. Il festival si avvicinava alla Dodicesima Campana, l'Ora dell'Ascensione, in cui la Signora della Primavera saliva al cielo con l'avvento della luna. Rake continuò: «Nel frattempo, bisogna sgomberare la strade della città.
Immagino che sia tuo desiderio minimizzare le perdite umane». «È questo tutto l'aiuto che mi date, Rake?» Baruk gesticolò bruscamente. «Sgomberare le strade? E com'è possibile, in nome di Hood? A Darujhistan ci sono trecentomila persone, e sono tutte per le strade!» Il Tiste Andii aprì la portiera al suo fianco. «Allora lascia fare a me. Mi serve una posizione di vantaggio, alchimista. Suggerimenti?» Baruk era talmente frustrato che dovette combattere il desiderio di opporsi a Rake. «Il Campanile di K'rul», rispose. «Una torre quadrata vicina alla Porta di Worry.» Rake uscì dalla carrozza. «Riprenderemo la conversazione a casa tua, alchimista», sentenziò, chinandosi verso l'interno. «Tu e i tuoi amici maghi dovete prepararvi.» Si volse verso la folla, fermandosi un attimo, come per annusare l'aria. «Quant'è lontano questo campanile?» «Trecento passi - non vorrete andare a piedi?» «Certo che sì. Non sono ancora pronto a svelare il mio Canale.» «Ma come...?» Baruk ammutolì, mentre Anomander Rake forniva la risposta alla sua domanda. Torreggiando con la testa e le spalle sopra la folla turbinosa, sguainò la spada. «Se avete care le vostre anime», gridò il Figlio dell'Oscurità, «fate largo!». La spada sollevata si animò con un gemito, mandando serpeggianti catene di fumo dalla lama. Un terribile cigolio di ruote riempì l'aria, seguito da un coro di lamenti disperati. Davanti ad Anomander Rake la folla sulla strada si ritrasse, e ogni letizia fu spazzata via. «Che gli dei ci proteggano!» mormorò Baruk. *** Era cominciato tutto in modo innocente. Ben lo Svelto e Whiskeyjack stavano vicino alla fontana. Servi correvano qua e là, poiché, malgrado lo spargimento di sangue e l'assenza della padrona di casa, la festa aveva ripreso nuovo slancio con l'avvicinarsi della dodicesima campana. Furono raggiunti dal capitano Paran. «Ci siamo incontrati con la Signora della Corporazione», annunciò questi. «Ha accettato il contratto.» Whiskeyjack grugnì. «Dove finiremmo tutti quanti senza l'avidità?» «Mi sono appena reso conto di una cosa», annunciò Ben lo Svelto. «Il mio mal di testa è sparito. Sono tentato di entrare nel mio Canale, sergente. Di vedere quel che posso.»
Whiskeyjack rifletté per un attimo. «D'accordo.» Ben lo Svelto si ritrasse nell'ombra di un pilastro di marmo. Davanti a loro, un vecchio con una maschera spaventosa scivolò verso la fila degli uomini di Whiskeyjack. Poi una donna prosperosa con un tubo dell'acqua in mano si avvicinò al vecchio. Era seguita dappresso dal suo servo, e si lasciava una scia di fumo alle spalle. Chiamò il vecchio. Un attimo dopo, la notte fu lacerata da un'ondata di energia che fluì come un torrente fra Whiskeyjack e Paran, colpendo il vecchio al petto. Il sergente afferrò la spada, girandosi a cercare il suo mago; questi, avvolto da un turbine magico, si era lanciato verso la donna. «No!» urlò Ben lo Svelto. «Sta' lontana da lui!» Anche Paran aveva sguainato la spada, la cui lama gemeva, come invasa dal terrore. Scattò in avanti. Un bestiale ruggito di rabbia scosse l'aria mentre il vecchio, persa la maschera, girava su se stesso. I suoi occhi brucianti trovarono la donna; allungò una mano nella sua direzione. La corrente di potere che uscì da lui era grigia come l'ardesia, e crepitava sonoramente. Whiskeyjack, paralizzato, guardò incredulo il corpo di Ben lo Svelto urtare quello della donna. Entrambi si scontrarono con il servo, e tutti e tre caddero a mucchio. Il flusso ondeggiante di energia si aprì un varco attraverso la folla allibita, incenerendo tutti quelli che toccava. Al posto di uomini e donne, rimase solo cenere bianca. L'attacco si ramificò verso ogni cosa in vista. Alberi si disintegrarono, pietra e marmo esplosero in nubi di polvere. Persone morirono; in alcuni, parti del corpo semplicemente sparirono, e il sangue li abbandonò in spruzzi neri mentre si afflosciavano. Una freccia di energia schizzò verso l'alto, e lampeggiò nel cielo notturno, circondata da un denso alone. Un'altra cozzò contro la proprietà con un rombo fragoroso. Una terza serpeggiò verso Paran, che si avvicinava al vecchio. Il potere colpì la spada, e questa scomparve insieme al capitano. Il sergente avanzò di mezzo passo, poi qualcosa di duro e massiccio gli toccò la spalla lateralmente. Girò su se stesso; il ginocchio destro cedette verso l'interno, facendolo cadere. Sentì lo schiocco dell'osso, poi lo strappo di carne e pelle mentre il suo stesso peso lo trascinava a terra. La sua spada sferragliò. Invaso da un dolore lancinante, rotolò per liberare la gamba incastrata, fermandosi contro un pilastro rovesciato. Un attimo dopo, mani afferrarono il suo mantello. «Ti ho preso!» grugnì Fiddler.
Whiskeyjack urlò dal male, mentre il sabotatore lo trascinava per l'impiantito. Poi l'oscurità lo avvolse, e perse conoscenza. Ben lo Svelto si trovò sepolto sotto la carne; per un attimo non riuscì più a respirare. Poi, premendogli con le mani contro le spalle, la donna si staccò da lui. «Mammot! Anikaleth araest!» gridò lei al vecchio. Ben lo Svelto sgranò gli occhi, nel sentire l'ondata di potere che le attraversava il corpo. D'un tratto, l'aria odorò di terriccio della foresta. «Araest!» ripeté la donna, e il potere esplose da lei in un impeto violento. Ben lo Svelto udì l'urlo di dolore di Mammot. «Attento, mago!» esclamò lei. «È posseduto dallo Jaghut.» «Lo so», ruggì lui, girandosi sulla pancia, e mettendosi poi carponi. Una rapida occhiata gli mostrò Mammot che, a terra, agitava debolmente una mano. Lo sguardo del mago guizzò al punto in cui era stato Whiskeyjack. I pilastri intorno alla fontana erano caduti, e il sergente non si vedeva da nessuna parte. E lo stesso, si rese conto, valeva per i membri del suo squadrone. Sulla terrazza, corpi accartocciati giacevano in pile grottesche, tutti immobili. Chi c'era riuscito, era fuggito. «Mammot si sta riprendendo», disse la donna, disperata. «Non ho più risorse, mago. Devi fare qualcosa, subito.» Lui la fissò. *** Paran incespicò, scivolò lungo un tratto di argilla viscida e si fermò contro un banco di canne ornate di ciuffi. Una tempesta lacerò il cielo sopra di lui. Si tirò in piedi; la spada Fortuna gli stava in mano, calda e tintinnante. Un lago calmo, poco profondo, si estendeva alla sua sinistra, terminando contro una lontana cresta color verde luminescente. Alla sua destra, la palude continuava fino all'orizzonte. L'aria era fresca, pervasa dall'odore dolciastro del marciume. Paran emise un sospiro tremante. Studiò la tempesta sulla sua testa. Fulmini guerreggiavano fra loro in archi frastagliati; le nubi scure si contorcevano come in preda a un dolore tormentoso. Sentendo una scossa risuonare alla sua destra, il capitano si girò. A mille passi di distanza, era apparso qualcosa. Strinse gli occhi. Si innalzava sopra l'erba della palude come un albero animato, nero e nodoso, afferrando e gettando da parte le radici che lo stringevano. Spuntò un'altra figura, che vi danzava flessuosa
all'intorno; fra le mani aveva una spada dalla lama bruna, seghettata. Tentava evidentemente di schivare le mefitiche onde di potere che la nodosa forma d'uomo le scagliava contro. Entrambi venivano verso Paran. Udendo alle sue spalle risucchi e ribollimenti, il capitano si girò. «Per il respiro di Hood!» Dal lago si levava una casa. Erba palustre e melma scivolavano dalle malconce pareti di pietra. Un'enorme entrata nera emanava fumo, sibilando. Il secondo livello della struttura sembrava deforme, sfregiato; qua e là, le mattonelle si scioglievano, rivelando uno scheletro di legno. Un'altra esplosione riportò la sua attenzione sui combattenti. Ora erano molto più vicini; Paran vedeva chiaramente la figura con la spada stretta fra entrambe le mani. Un T'lan Imass. Malgrado la sua straordinaria maestria con l'arma di calcedonio, l'avversario lo stava respingendo. Questi era una creatura alta e magra, con la carne simile a legno di quercia, e due zanne scintillanti che sporgevano dalla mascella inferiore. Gridava di rabbia. Colpì di nuovo il T'lan Imass, che fu gettato a quindici passi di distanza; rotolando nel fango, si fermò quasi ai piedi di Paran. Il capitano si trovò a fissare occhi senza fondo. «L'Azath non è ancora pronto, mortale», annunciò il T'lan Imass. «È troppo giovane, e non ha la forza di imprigionare ciò che l'ha messo in vita - il Finnest. Quando il Tiranno è fuggito, ho cercato il suo potere.» Cercò di rialzarsi, senza successo. «Difendi l'Azath, il Finnest vuole distruggerlo.» Alzando lo sguardo, Paran vide l'apparizione che avanzava rapidamente verso di lui. Difendere? Contro quella roba? La scelta gli fu tolta. Il Finnest ruggì e un'ondata di potere sfrigolante sfrecciò in direzione del capitano. Egli buttò Fortuna sul suo cammino. La lama attraversò l'energia. Senza subire conseguenze, il potere colpì Paran. Accecato, il capitano urlò, sentendosi trapassare da un freddo aspro, che frantumava i suoi pensieri, il suo senso di sé. Una mano invisibile si strinse intorno alla sua anima. Mio! La parola gli risuonò nella mente, trionfante, piena di compiacimento selvaggio. Sei mio! Mollando la spada, Paran cadde in ginocchio. Il controllo sulla sua anima era assoluto. Poteva solo obbedire. Frammenti di consapevolezza lo investirono. Uno strumento, niente di più. Tanto ho fatto, tanto ho attraversato, solo per arrivare a questo. Nel profondo di sé, udì un suono, che si ripeté più volte, sempre più forte. Un ululato. Il gelo che gli aveva riempito ogni parte del corpo cominciò
a incrinarsi. Lampi di calore, bestiale, provocatorio, squarciarono il freddo del suo sangue. Gettò indietro la testa; l'ululato aveva raggiunto la gola. Quando eruppe, il Finnest barcollò all'indietro. Sangue di segugio! Sangue che nessuno può assoggettare. Paran si scagliò contro il Finnest. I suoi muscoli bruciarono di dolore, mentre una forza travolgente li invadeva. Come osi sfidarmi! Colpì la creatura e l'atterrò, picchiando con i pugni sulla sua carne di quercia, affondando i denti nel suo viso di corteccia. Il Finnest cercò di respingerlo, ma invano. Gridò, agitando le membra all'impazzata. Paran cominciò a farlo sistematicamente a pezzi. Una mano l'afferrò per il collare del mantello, trascinandolo via dal corpo lacerato. In preda alla frenesia, Paran cercò di girarsi, per annientare la creatura che lo bloccava. Il T'lan Imass lo scosse. «Smettila!» Il capitano batté le palpebre. «Smettila! Non puoi distruggere il Finnest. Ma l'hai tenuto a bada abbastanza a lungo. Ora l'Azath può prenderlo. Capisci?» Paran si afflosciò; il fuoco al suo interno si indebolì. Abbassando lo sguardo sul Finnest, vide radici e viticci fibrosi spuntare dalla terra bagnata per avvolgersi intorno al loro prigioniero e cominciare a tirarlo giù nel fango che si addensava. In un attimo, il Finnest era sparito. Il T'lan Imass lasciò andare Paran, indietreggiando. Per un lungo momento, lo guardò fisso. Paran sputò dalla bocca sangue e schegge, poi si asciugò le labbra con il dorso della mano. Chinandosi, recuperò la spada. «La maledetta fortuna è cambiata», borbottò, rinfoderando l'arma. «Hai qualcosa da dire, Imass?» «Sei molto lontano da casa, mortale.» *** Paran riapparve un attimo dopo; attraversò la terrazza barcollante, mezzo cieco; poi crollò a terra. Ben lo Svelto aggrottò le sopracciglia. Per il respiro di Hood, che cosa gli era successo? Dalle labbra di Mammot sfuggì un'imprecazione Jaghut, violenta come se gli fosse stata strappata dall'animo. Il vecchio si tirò in piedi, tremante di rabbia. Posò gli occhi socchiusi sul mago. «Sette che siete in me, svegliatevi!» ruggì Ben lo Svelto, poi gridò, mentre sette Canali si aprivano dentro di lui. Il suo urlo angoscioso cavalcò le onde di potere che invadevano la terrazza.
Il Posseduto dallo Jaghut sollevò le braccia davanti alla faccia; il suo corpo avvizzì sotto quell'attacco frenetico. Gli fu strappata la carne, e fuochi lo trafissero, scavandolo di buchi. Cadde in ginocchio; un vortice folle gli turbinava all'intorno. Mammot ululò, alzando un pugno ridotto a un osso carbonizzato. Il pugno sobbalzò, e uno dei Canali di Ben lo Svelto si chiuse di scatto. Il pugno ebbe un altro spasmo. Ben lo Svelto si afflosciò. «Ho finito.» Derudan l'afferrò per il mantello. «Mago! Ascoltami!» Un altro Canale fu allontanato. Ben lo Svelto scosse la testa. «Ho finito.» «Ascolta! Quell'uomo - laggiù - cosa sta facendo?» Ben lo Svelto alzò lo sguardo. «Per il respiro di Hood!» gridò, colto dal terrore. A una dozzina di passi di distanza, stava accovacciato Hedge; la testa e le spalle spuntavano da sopra una panca. Gli occhi del sabotatore luccicavano di un bagliore febbrile che il mago riconobbe; in mano aveva una voluminosa balestra, puntata direttamente contro Mammot. Hedge cacciò un urlo lamentoso. Il mago gridò, buttandosi un'altra volta sulla donna. Mentre volava nell'aria, udì il toc della balestra del sabotatore. Chiuse gli occhi prima di scontrarsi ancora con la sua protetta. *** Crone volava in stretti cerchi sopra la pianura dov'era stato il Tiranno Jaghut. Era arrivato a cinquanta passi da Silanah, poi era sparito. Non era fuggito attraverso un Canale; la sua sparizione era più completa, più assoluta, e per questo più affascinante. Era stata una notte gloriosa, una battaglia degna di essere ricordata, la cui fine si era rivelata non essere affatto tale. «Un mistero delizioso», chiocciò Crone. Sapeva che la sua presenza era richiesta altrove, ma era riluttante ad andarsene. «Ho assistito al dispiegarsi di energie terribili.» Scoppiò a ridere. «Che spreco, che pura follia! Ah, e ora restano solo domande, domande!» Allungò il collo verso l'alto. I due Soletaken Tiste Andii del suo signore erano ancora nel cielo. Nessuno voleva allontanarsi prima che fosse rivelata la verità sul destino del Tiranno Jaghut. Si erano guadagnati il diritto a conoscerla, anche se Crone cominciava a sospettare che le risposte giuste non sarebbero mai arrivate.
Con un grido lugubre, Silanah si alzò da terra; il Canale che consentiva il suo volo emanava un odore intenso, pungente. La dragonessa rossa girò la testa verso ovest, e cacciò un altro grido. Con un frenetico frullio d'ali, Crone discese, poi rasentò il terreno malconcio. Risalendo di nuovo verso il cielo, vide ciò che aveva visto Silanah. Nel suo stridio c'erano gioia, sorpresa, e pregustazione. «Arriva! Arriva!» *** Serrando gli occhi, Ben lo Svelto chiuse l'ultimo dei suoi Canali. Nell'essere colpita da lui, la donna gli strinse le braccia all'intorno e, con un sonoro grugnito, crollò sotto il suo impeto. Lo scoppio gli strappò tutta l'aria dai polmoni. Le pietre sotto di loro sobbalzarono; un lampo di fuoco e un vortice di detriti riempirono il loro mondo, a esclusione di tutto il resto. Poi tutto tornò calmo. Ben lo Svelto si mise a sedere. Guardò verso il punto in cui si era trovato Mammot. Le mattonelle erano sparite, e vicino alla fontana si apriva ora una buca ampia, profonda, fumante. Il vecchio non si vedeva da nessuna parte. «Caro mago», mormorò la donna sotto di lui. «Siamo vivi?» Ben lo Svelto abbassò lo sguardo. «Avevi chiuso il tuo Canale. Mossa molto intelligente.» «L'avevo chiuso, sì, ma non per scelta. Perché intelligente?» «Le munizioni Moranth sono armi mondane, strega. I Canali aperti attirano la loro forza esplosiva. Quel Tiranno è morto. Cancellato.» E poi Hedge arrivò al loro fianco, il cappello di cuoio mezzo spazzato via, un lato del viso coperto da ustioni. «State bene?» ansimò. Il mago allungò una mano a schiaffeggiarlo. «Idiota! Quante volte ti...» «È morto, no?» ribatté Hedge, offeso. «Una buca bruciacchiata nel terreno... è il modo migliore di trattare con gli stregoni, no?» Videro il capitano Paran alzarsi tremante dalla terrazza coperta di macerie. Esaminando la scena, egli trovò il mago con lo sguardo. «Dov'è Whiskeyjack?» chiese. «Nel bosco», rivelò Hedge. Paran si avviò barcollante in quella direzione. «Non è stato di grande aiuto», borbottò Hedge. «Ben!» Girandosi, il mago vide arrivare Kalam. Il sicario si fermò accanto al
bordo del cratere, poi annunciò: «Qualcosa si muove laggiù». Impallidendo, Ben lo Svelto si tirò in piedi, poi aiutò la strega ad alzarsi. Si avvicinarono al cratere. «Impossibile», mormorò il mago. Una sagoma d'uomo si era condensata in fondo alla buca. «Siamo morti, o peggio.» Un tramestio proveniente dal giardino attirò la loro attenzione. I tre impietrirono, mentre radici stranamente sfocate emergevano dal sottobosco, serpeggiando avide verso il cratere. Il Posseduto dallo Jaghut si raddrizzò, allargando braccia grigie, roteanti. Le radici si chiusero intorno alla creatura, che gridò, in preda al terrore. «Azath edieirmarn! No! Hai preso il mio Finnest - ma risparmia me! Ti supplico!» Viticci risalirono freneticamente il suo corpo, avvolgendolo. Il potere Omtose Pellack si dibatté nello sforzo disperato di fuggire, ma invano. Le radici tirarono l'apparizione a terra, poi la trascinarono, urlante, verso il giardino. «Azath?» bisbigliò Ben lo Svelto. «Qui?» «Curioso, direi», rispose Derudan, bianca in volto. «Si dice che spuntino...» «Là dove il potere incontrollato minaccia la vita», terminò il mago. «So dove si trova ora», intervenne Kalam. «Ben lo Svelto, quello Jaghut fuggirà?» «No.» «Bene; non ci darà più fastidio. E l'Azath?» Ben lo Svelto si circondò con le braccia. «Lascialo stare, Kalam.» «Devo andare», annunciò frettolosamente Derudan. «Ti ringrazio ancora per avermi salvato la vita due volte.» La guardarono correre via. Fiddler li raggiunse, con l'aria inquieta. «Mallet si sta occupando del sergente», disse, chiudendo le cinghie di una borsa voluminosa che aveva con sé. «Si parte, allora.» Mollò una gomitata a Hedge. «Abbiamo un lavoretto da svolgere.» «Whiskeyjack è ferito?» chiese Ben lo Svelto. «Ha una gamba rotta», rispose Fiddler. «È messa piuttosto male.» A un grido di sorpresa di Derudan, che era andata sul lato opposto della fontana, tutti si girarono. Si era imbattuta in un giovane vestito di nero, che doveva essere rimasto accovacciato dietro il muro di pietra della fontana. Con un balzo da coniglio, il ragazzo sfrecciò verso la casa. «Cosa avrà sentito?» domandò Fiddler. «Niente che significhi molto per lui», rispose Ben lo Svelto, ricordando
la loro conversazione. «Tu e Hedge farete saltare gli incroci?» «Fino al cielo.» Fiddler si esibì in un largo sorriso. I due sabotatori controllarono la loro attrezzatura un'ultima volta, poi si girarono verso la veranda. Nel frattempo, Kalam guardava la buca con aria torva. Antichi tubi di rame spandevano acqua lungo i lati scabri. Per qualche motivo, l'immagine dei Faccia-Grigia gli lampeggiò nella mente. Il sicario si accucciò, vedendo un tubo da cui non usciva nulla. Annusò l'aria, poi si sdraiò sulla pancia, allungando la mano sull'estremità rotta. «Per Osserc», mormorò. Si tirò in piedi e chiese a Ben lo Svelto: «Dove sono?». «Chi?» ribatté il mago, con aria sorpresa. «I sabotatori, maledizione!» ruggì Kalam. «Sono appena andati via», rivelò Ben, perplesso. «Attraverso la proprietà.» «Fila al muro sul retro, soldato», sbottò il sicario. «Trova gli altri. Paran ha preso il comando - digli di lasciar perdere.» «E tu dove vai?» «Dietro ai sabotatori.» Kalam si asciugò il sudore dalla fronte. «Non appena puoi, tira fuori la mappa della città.» Il sicario aveva la pelle intorno agli occhi tesa dalla paura. «Controlla la legenda. Abbiamo messo mine a tutti gli incroci più importanti. E lì ci sono le valvole principali - non capisci?» Agitò un braccio. «I Faccia-Grigia! Il gas, Ben lo Svelto!» Girandosi di scatto, Kalam attraversò la veranda. Un attimo dopo, sparì dentro la casa. Ben lo Svelto lo seguì con lo sguardo. Il gas? Sgranò gli occhi. «Salteremo tutti fino al cielo», mormorò. «L'intera maledetta città!» CAPITOLO VENTITREESIMO Puntò la lama contro di sé poi, per rubare la magia della vita. Chiamata all'Ombra (IX.II) Felisini Esausto, Paran si fece strada nel sottobosco e si lasciò andare nell'ombra accanto a un albero - e il mondo mutò. Possenti fauci si chiusero sulla sua
spalla sinistra e lo sollevarono. La potenza di muscoli invisibili lo scaraventò in aria. Atterrò pesantemente, rotolò sulle ginocchia e alzò gli occhi mentre il Segugio si scagliava ancora su di lui. Il braccio sinistro gli pendeva mollemente lungo un fianco; si allungò in un disperato tentativo di prendere la spada e fu allora che il Segugio spalancò la bocca e la chiuse intorno al suo petto. Denti aguzzi penetrarono la cotta di maglia e la carne, gocce di sangue schizzarono ovunque mentre l'animale tornava a sollevarlo. Il capitano pendeva fra le fauci della bestia gigantesca. Trascinata dal peso, Fortuna scivolò dal fodero e gli sfuggì di mano. Il Segugio lo scosse violentemente. Spruzzi di sangue arrossarono il terreno. Improvvisamente, la bestia mollò la presa e indietreggiò; sembrava confusa, perplessa. Guaì e iniziò a camminare avanti e indietro, gli occhi fissi sul capitano. «Sembra che Rood abbia bisogno di un capro espiatorio», disse una voce. Paran trasalì, aprì gli occhi e vide un uomo dal lungo mantello nero torreggiare su di lui. «Ma non era ancora giunto il momento e per questo mi scuso. È chiaro che fra te e i Segugi c'è un conto in sospeso.» L'uomo guardò Rood. «Però, c'è qualcosa in te che lo ha confuso... una parentela? No, è impossibile.» «Tu sei... tu sei quello che ha posseduto la ragazza», mormorò Paran. «Sì, sono Cotillion», affermò l'uomo guardando il capitano fisso negli occhi. «Tronod'Ombra si è pentito di averti lasciato fuori dalla Porta di Hood - una scelta che gli è costata due Segugi. Lo sapevi che quelle preziose creature vivevano da un migliaio d'anni? Ti rendi conto che nessun uomo - mortale o Ascendente - aveva mai ucciso un Segugio?» Ho salvato le loro anime? Servirebbe a qualcosa dirlo? No, saprebbe di supplica. Paran lanciò un'occhiata a Rood. Parentela? «Che cosa vuoi?» chiese a Cotillion. «La mia morte? E allora lasciami qua, sono già a buon punto.» «Visto che ora odi l'Imperatrice, avresti dovuto lasciarci fare il nostro lavoro, Capitano.» «Ciò che hai fatto a quella ragazza...» «È stato un atto di pietà. È vero, l'ho usata ma lei non lo sapeva. Si può dire lo stesso di te? Dimmi un po', è stato un bene sapere di essere una pedina?» Paran non rispose. «Se vuoi, posso donare alla ragazza tutti i suoi ricordi. I ricordi di ciò che ho fatto, di ciò che lei ha fatto, quando la possedevo...»
«No.» Cotillion annuì. Paran sentì tornare il dolore e ne fu sorpreso. Aveva perso talmente tanto sangue che si aspettava di perdere conoscenza da un momento all'altro. Il dolore era invece di nuovo lì, incessante, pulsante. Tossì. «E adesso?» «Adesso?» ripeté Cotillion in tono stupito. «Adesso ricomincio.» «Un'altra ragazza?» «No, il piano aveva delle crepe.» «Le hai rubato la vita!» Cotillion lo fissò con sguardo gelido. «Ora l'ha avuta indietro. Vedo che hai ancora Fortuna, quindi non si può dire lo stesso di te.» Paran voltò la testa; la spada era a pochi passi da lui. «Quando la fortuna gira», mormorò. Ed era girata. Scoprì di poter muovere il braccio sinistro e il dolore al torace sembrava diminuire. Cotillion commentò le parole di Paran con una secca risata. «Allora sarà troppo tardi, Capitano. Hai scommesso che la Signora continuerà a guardarti con occhio benevolo. Hai ripudiato la saggezza che possedevi un tempo. A tanto giunge il potere dei Gemelli.» «Sto guarendo», disse Paran. «Esatto. Come ho già detto, Rood si è mosso troppo presto.» Il capitano si sedette, lentamente, con cautela. La cotta d'arme era a brandelli, ma sotto di essa l'uomo vide l'ombra rossa della carne in via di guarigione. «Io... io non ti capisco, Cotillion, o Tronod'Ombra.» «E non sei l'unico. Ora, per quanto riguarda Fortuna...» Paran guardò la spada. «Se la vuoi, è tua.» «Ah.» Cotillion sorrise, avvicinandosi per raccogliere l'arma. «Sospettavo un capovolgimento totale, Capitano. Il mondo è così complesso, non trovi? Dimmi un po', provi pietà per quelli che ti hanno usato?» Paran chiuse gli occhi. Sentì un pesante fardello scivolare via. Ricordò la morsa del Finnest sulla sua anima. Sollevò lo sguardo sul Segugio. Negli occhi di Rood vide qualcosa di... dolce. «No.» «Una volta reciso il legame, il buon senso trova la strada di casa», affermò Cotillion. «Un ultimo consiglio, Capitano. Cerca di non farti notare. E la prossima volta che vedrai un Segugio, corri.» Un turbine oscuro avvolse Paran. L'uomo batté le palpebre, vide gli alberi del giardino sollevarsi innanzi a sé. Ma correrò via dalla bestia... o con la bestia? «Capitano?» Era la voce di Mallet. «In nome di Hood, dove siete?»
«Sono qui, Mallet. All'ombra.» Il guaritore gli fu subito accanto. «La situazione è precipitata. Sembrate...» «È tutto a posto», lo zittì Paran, alzandosi. Mallet lo fissò, sbalordito. «Per il respiro di Hood, avete un aspetto terribile... Signore.» «Intendo inseguire Lorn. Se dovessi farcela, ci vediamo alla Locanda della Fenice. D'accordo?» «Sì, Signore.» «Capitano?» «Cosa?» «Non abbiate pietà.» Paran si allontanò. *** Devastanti nella loro nitidezza, i ricordi non abbandonavano Crokus. Continuavano a perseguitarlo, nonostante i suoi disperati tentativi di cacciarli. Lo zio Mammot era morto. Una voce in un angolo della mente gli diceva che l'uomo che aveva la faccia di Mammot non era l'uomo che lo aveva cresciuto e che ciò che era stato... reclamato dalle radici era qualcos'altro, qualcosa di orribile. La voce continuava a ripetere quelle parole e il giovane le sentiva andare e venire nella tempesta che gli sconvolgeva la mente. Il salone della casa di Lady Simtal era abbandonato, le decorazioni per la festa sparse sul pavimento fra pozze di sangue. I morti e i feriti erano stati portati via dalle guardie; i servitori erano scappati via. Crokus si precipitò verso la porta d'ingresso. Al di là di essa, la luce delle torce proiettava un tremulo bagliore azzurro sul sentierino e sul cancello socchiuso. Il ladro saltò i gradini e corse verso l'uscita. A un tratto rallentò: c'era qualcosa di strano. Come la casa di Lady Simtal, la strada era deserta, cosparsa di striscioni, vessilli e feticci. Mulinelli di vento sollevavano brandelli di tessuti e pezzi di carta in girotondi danzanti. L'aria era afosa e pesante. Il giovane uscì sulla strada. Ovunque guardasse vedeva il deserto e un arcano silenzio gravava intorno a lui. Il vento turbinava lungo la via, in una direzione poi nell'altra, quasi cercasse una via di fuga. Nell'aria si respirava odore di morte.
La mente tornò alla fine di Mammot. Si sentiva terribilmente solo, ma le parole di Rallick lo spronavano ad andare avanti. Giorni prima, il sicario lo aveva afferrato per la camicia, accusandolo di essere assetato del sangue della città. Voleva smentire quelle parole, ora più che mai. Darujhistan era importante. Era la sua casa, era nel suo cuore. Si incamminò in direzione dell'abitazione di Baruk. Con le strade così vuote avrebbe impiegato poco tempo ad arrivare. Iniziò a correre. Folate di vento rallentavano la sua avanzata, i capelli gli sferzavano il viso. Si fermò di colpo a un angolo. Aveva sentito qualcosa. Si guardò intorno, trattenendo il respiro. Restò in ascolto. Eccolo, di nuovo. Avvertì il puzzo di nidi di uccello. Aggrottò la fronte, pensieroso. Poi sollevò la testa. Cacciò un grido e si buttò a terra. Sopra di lui, sospeso a pochi pollici dagli edifici più alti, un soffitto di frastagliata roccia nera nascondeva il cielo stellato. Restò a fissarlo, attonito, poi venne colto da improvvise vertigini e distolse lo sguardo. Il soffitto stava girando, lentamente. Nelle balze, nelle sporgenze, nelle rientranze aveva scorto miriadi di corvi, i loro nidi macchie oleose contro la superficie granulare. La Progenie della Luna era arrivata, per ripulire le strade, per zittire la festa della rinascita. Che cosa significava? Crokus non lo sapeva, ma Baruk avrebbe sicuramente saputo spiegarglielo. Il ladro riprese a correre, i suoi passi un sussurro sull'acciottolato. *** Kruppe trasse un respiro profondo, gli occhi che scintillavano mentre scrutava gli avanzi abbandonati in cucina. «È così che vanno sempre le cose.» Sospirò, battendosi una mano sullo stomaco. «Ogni tanto, i sogni di Kruppe si realizzano. Certamente lo schema prende forma, ma Kruppe sente che tutto va bene nel mondo e prova ne è l'abbondanza che stuzzica nuovamente il suo appetito. Dopo tutto, i rigori della carne esigono soddisfazione.» Si riempì di nuovo i polmoni dell'aria profumata. «Alla fine dobbiamo aspettare che la moneta giri. Nel frattempo, il cibo meraviglioso chiama.» *** Nascosta in un vicolo di fronte al cancello delle proprietà di Lady Sim-
tal, l'Aggiunto Lorn aveva visto sbucare il Portatore della Moneta e un lento sorriso soddisfatto le aveva arricciato le labbra. Trovare il ragazzo era stato facile, ma non desiderava entrare nel giardino dove aveva sotterrato il Finnest. Pochi istanti prima aveva avvertito la morte del Tiranno Jaghut. Il Signore della Progenie della Luna era forse stato trascinato nella battaglia? Se lo augurava. Aveva sperato che il Tiranno raggiungesse la città, magari recuperasse anche il Finnest, e sfidasse il Figlio dell'Oscurità come un suo pari. Ripensandoci però, si rese conto che il Signore non avrebbe mai permesso una cosa simile. Il che significava che Whiskeyjack era ancora vivo. Be', avrebbe risolto quel problema un'altra volta, quando la città fosse stata in mano all'Imperatrice e a Tayschrenn. Forse per allora non avrebbero nemmeno dovuto agire in segreto: avrebbero potuto rendere l'arresto uno spettacolo pubblico. Se avessero portato a termine un colpo simile, nemmeno Dujek avrebbe potuto opporsi loro. Aveva osservato il Portatore della Moneta correre lungo la strada, apparentemente ignaro della Progenie della Luna che incombeva sopra di lui. Qualche istante dopo, lo aveva seguito. Una volta in possesso della Moneta, l'Imperatrice avrebbe piegato Oponn. Dalle recondite profondità della sua mente prese forma una domanda carica di disperazione, di delusione: che cosa ne è dei tuoi dubbi? Che cosa ne è della donna che a Pale ha osato sfidare Tayschrenn? È cambiata così tanto? Così tanto è stato distrutto in lei? L'Aggiunto scosse la testa, scacciando quelle grida malinconiche. Lei era il braccio dell'Imperatrice. La donna di nome Lorn era morta, da anni, e non avrebbe conosciuto mai più la vita. E ora l'Aggiunto si aggirava per quelle ombre vuote, in una città che si faceva piccola per la paura. L'Aggiunto era un'arma e come tale poteva colpire in profondità, poteva azzannare, poteva spezzare. Si fermò e si appiattì contro un muro quando il Portatore della Moneta si bloccò a un angolo e finalmente si accorse di ciò che si librava sopra di lui. Quello era il momento di attaccarlo, per coglierlo di sorpresa, confuso, terrorizzato. Ma poi il giovane riprese la corsa. L'Aggiunto si accovacciò. Era ora di mettere in atto il piano di Tayschrenn. Sperava che il Tiranno Jaghut fosse riuscito a colpire in una certa misura il signore della Luna. Estrasse una fiaschetta dalla tasca e ne osservò il contenuto alla luce delle torce.
Si alzò e lanciò il contenitore in strada. La fiaschetta sbatté contro un muro di pietra e andò in mille pezzi. Un fumo rosso acceso si sollevò a spirale e piano piano prese forma. L'Aggiunto parlò: «Conosci il tuo compito, signore Galayn. Portalo a termine e avrai la libertà». Sguainò la spada e chiuse gli occhi, localizzando nella mente il Portatore della Moneta. Il ragazzo era veloce, ma lei lo era anche di più. Tornò a sorridere. Fra poco, la Moneta sarebbe stata sua. Sfrecciò via, più rapida di quanto potessero seguirla gli occhi, persino quelli di un signore Galayn liberato nel mondo terreno. *** Nel suo studio, Baruk era piegato, la testa fra le mani. La morte di Mammot era stata come un colpo al cuore, di cui avvertiva ancora il dolore insopportabile. Era solo. Rake aveva avuto dei sospetti, ma non aveva voluto parlarne ritenendolo un argomento troppo delicato. L'alchimista doveva ammettere che il Tiste Andii aveva avuto ragione. Lui gli avrebbe creduto? Il potere che si era impossessato di Mammot aveva saputo celarsi, camuffarsi. Rake aveva immaginato la rabbia di Baruk se avesse avanzato una simile ipotesi e saggiamente, aveva preferito tacere. E ora Mammot era morto, come anche il Tiranno Jaghut. Era stato Rake a uccidere il suo vecchio amico? Se lo aveva fatto non aveva utilizzato la sua spada; un unico pensiero consolava Baruk: nel grido di morte di Mammot aveva avvertito una sorta di sollievo. Un lieve colpo di tosse all'ingresso della stanza gli fece sollevare la testa di scatto. «Strega Derudan!» Il volto della donna era pallido, il sorriso debole. «Ti ho pensato dopo la morte di Mammot. E così sono qui. Ahimè», disse avvicinandosi a una sedia davanti al camino e posando a terra il narghilè, «il mio servitore si è preso il resto della serata libera». Estrasse il contenitore della cenere e lo svuotò nel focolare spento. «Che lavori volgari e terreni», commentò, sospirando. Inizialmente, Baruk fu irritato dall'intrusione della donna. Voleva starsene solo con il proprio dolore. Ma mentre guardava l'amica e osservava la fluida grazia dei suoi movimenti, cambiò idea. Il Canale di Derudan era Tennes, un canale antico legato ai cicli delle stagioni; e fra le divinità a cui
lei poteva chiedere aiuto c'era Tennerock, il Cinghiale dalle Cinque Zanne. Il più grande potere della strega era la Zanna di nome Amore. Baruk si rimproverò, poiché nella sua mente stava facendosi strada il pensiero che lei fosse lì per portargli un dono. Derudan rimise il contenitore della cenere al suo posto e lo riempì di foglie. Chiuse la mano intorno a esso e subito apparve il bagliore di una tremula fiamma. La donna si lasciò andare contro lo schienale della sedia e aspirò soddisfatta. «Rake è convinto che non sia ancora finita», disse Baruk. La strega annuì. «Ho visto morire Mammot. L'abbiamo contrastato... io e un altro potente mago. Il corpo di Mammot è stato distrutto da un incendio Moranth. Lo spirito Jaghut è sopravvissuto ma è stato preso... da un Azath.» «Azath? Qui, a Derujhistan?» «Sicuramente, tali misteriosi apparizioni, famose per la loro sete di maghi, richiederanno da parte nostra una certa... cautela.» «Dove è apparso?» «Nel giardino della proprietà Simtal. E l'incendio Moranth? Alla festa di Lady Simtal partecipavano ospiti inconsueti, non trovi?» «Malazan?» «Due volte mi è stata salvata la vita - il mago di cui ti parlavo, che al suo comando ha sette canali...» «Sette?» ripeté Baruk, incredulo. «Per il respiro di Hood, ma è mai possibile?» «Se hanno cattive intenzioni, sarà il Figlio dell'Oscurità a occuparsi di loro.» S'irrigidirono entrambi quando avvertirono un'improvvisa ondata di potere prendere vita. L'alchimista balzò in piedi, i pugni serrati. «È stato liberato un demone», mormorò. «Lo sento anch'io», confermò Derudan, impallidendo. «Di grande potere.» «Un Signore dei Demoni. Ecco quello che aspettava Rake», aggiunse Baruk. Derudan spalancò gli occhi e aspirò una boccata di fumo. Poi chiese: «È in grado di sconfiggere una creatura simile?». «Non lo so», rispose Baruk in tono sommesso. «Se non ne sarà capace, per la città sarà la fine.» Avvertirono un colpo, seguito in rapida successione da un altro. La ma-
ga e l'alchimista si guardarono: due della loro Cabala avevano appena incontrato una morte violenta. «Paran», sussurrò la donna, spaventata. «E Tholas», disse Baruk. «È iniziata la lotta e accidenti a Rake per avere avuto ragione.» Lei lo fissò con sguardo assente. Una smorfia distorse il volto di Baruk. «Vorcan.» *** In piedi sulle tegole di bronzo macchiate e butterate del tetto del campanile, Anomander Rake girò la testa di scatto. I suoi occhi divennero neri come la pece. Il vento soffiò sui lunghi capelli argentei e il grigio mantello. L'uomo sollevò lo sguardo sulla Progenie della Luna mentre quest'ultima si muoveva verso ovest. Ne avvertiva il dolore e la sofferenza, come se le ferite che le erano state inflitte a Pale riecheggiassero nel suo corpo. Il rimorso si dipinse sul volto scarno. Una folata d'aria lo schiaffeggiò e Rake udì un battito d'ali. Sorrise. «Silanah», mormorò sapendo che lei lo avrebbe sentito. La dragonessa rossa scivolò fra due torri e toccò terra, raggiungendolo. «So che avverti la presenza del Signore dei Demoni, Silanah. Vorresti aiutarmi. Lo so.» Scosse la testa. «Torna alla Progenie della Luna, amica mia. Questa battaglia è mia. La tua è conclusa. Ma nel caso io dovessi fallire, vendica la mia morte.» Silanah si sollevò in volo, lasciando dietro di sé l'eco di un pianto. «Torna a casa», sussurrò Rake. La dragonessa rossa puntò a oriente, svanendo nel cielo notturno. Rake avvertì una presenza accanto a sé; si voltò e lo vide: era un uomo alto, avvolto in un mantello, il viso nascosto sotto un cappuccio. «È da stolti apparire così, all'improvviso», commentò Rake. L'uomo sospirò. «Le pietre sotto i tuoi piedi, Signore, sono state nuovamente consacrate. Sono rinato.» «Non c'è posto nel mondo per un Dio Antico», affermò Rake. «Credimi.» K'rul annuì. «Lo so. Speravo di tornare nel Regno del Caos in compagnia di un Tiranno. Ma ahimè, mi è sfuggito.» «E ha trovato un'altra prigione.» «Ne sono sollevato.»
I due restarono in silenzio per un lungo minuto, infine K'rul sospirò. «Mi sento smarrito. In questo mondo. In questo tempo.» Rake grugnì. «Non sei l'unico a sentirti così, Dio Antico.» «Sto forse seguendo il tuo esempio? Sto forse cercando nuove battaglie, nuove partite da giocare in compagnia degli Ascendenti? Il tuo spirito trova soddisfazione negli sforzi compiuti?» «A volte», rispose Rake in tono pacato. «Ma spesso, no.» Il volto incappucciato si girò verso il Tiste Andii. «Allora, perché?» «Non conosco altro modo di vivere.» «Non posso esserti di alcun aiuto questa notte, Anomander Rake. Mi manifesto in questo luogo sacro e nel sogno di un mortale, ma in nessun altro luogo.» «Allora farò del mio meglio», replicò Rake, «per evitare di danneggiare il tuo tempio». K'rul s'inchinò e scomparve. Di nuovo solo, Rake puntò l'attenzione sulla strada sottostante. Un'apparizione avanzava. Si fermò per annusare l'aria, poi cominciò la mutazione. Un Signore Galayn e un Soletaken. «Be'», ruggì il Signore della Progenie della Luna, «lo sono anch'io». Il Tiste Andii spalancò le braccia e si sollevò. La magia Kurald Galain turbinò intorno a lui, fondendo i suoi abiti, la sua massiccia spada e trasformandoli nella forma che si apprestava ad assumere. Ali nere si spiegarono dalle sue spalle; carne e ossa aumentarono di dimensione, assunsero una nuova conformazione. Mentre volava sempre più in alto, gli occhi fissi sulle stelle, Anomander Rake divenne un drago nero, dalla criniera d'argento e dal corpo così imponente che al suo confronto persino Silanah scompariva. Gli occhi della creatura mandavano bagliori argentei, le pupille verticali si dilatavano. Il suo respiro soffiava in violente raffiche, lo schiocco delle ali sovrastava il profondo lamento del muscolo sull'osso. Il torace si gonfiò dell'aria fredda e secca e la forza e il potere riempirono il suo essere. Rake continuò la sua scesa, scivolando attraverso una nube randagia che correva spinta dal vento nell'oscurità sopra la città. Quando infine inclinò le ali in avanti e accarezzò la superficie di un vento ribelle, abbassò lo sguardo sulla città che luccicava come una moneta di rame sul fondo di un limpido stagno. Di tanto in tanto ondate di magia lo raggiungevano e in quelle emanazioni, Rake avvertita la morte. Pensò al messaggio riferitogli da Serrat,
proveniente da un mago infame che lui credeva a migliaia di leghe di distanza. Quella magia era forse opera di indesiderati intrusi? Borbottò, frustrato. Si sarebbe occupato di loro più tardi. Ora lo attendeva una battaglia. L'Imperatrice e l'Impero lo avevano sfidato ancora una volta e ancora una volta volevano mettere alla prova la sua forza. Ogni volta lui si era ritirato, riluttante a farsi coinvolgere. Molto bene, Imperatrice, la mia pazienza ha raggiunto il limite. La membrana delle ali si tese, le articolazioni scricchiolarono. Sospeso e immobile per quasi un secondo, studiò la città sottostante. Infine, ripiegando le ali, Anomander Rake, Figlio dell'Oscurità e Signore della Progenie della Luna, si lanciò in picchiata. *** Kalam conosceva lo schema delle esplosioni che avrebbero seguito i sabotatori. Mentre correva, si mantenne su un lato della strada. Il fatto che la Progenie della Luna li sovrastasse, quasi fosse pronta a scendere sulla città e a schiacciare ogni forma di vita, a Fiddler e Hedge non importava un accidenti. Avevano un compito da assolvere. Il sicario maledisse le loro teste dure. Perché non scappavano via come persone normali, sane di mente? Raggiunse un angolo e attraversò diagonalmente il crocevia. Davanti a lui, alla fine della via, si ergeva il Palazzo Vecchio. Stava per raggiungere l'angolo opposto quando mancò poco che si scontrasse con i due sabotatori. Fiddler schizzò da una parte, Hedge dall'altra, correndo come se non avessero riconosciuto l'amico, il terrore dipinto sui loro volti. Kalam scattò in avanti e afferrò il cappuccio dei mantelli, uno per mano. Tempo pochi secondi e si ritrovò a gambe all'aria, atterrato dai due sabotatori. Un grugnito di dolore gli sfuggì dalle labbra. «Dannati bastardi!» gridò. «Smettetela!» «È Kal!» strillò Hedge. Kalam si girò di scatto e si ritrovò puntato contro il viso un pugnale arrugginito e il viso pallido di Fiddler che lo fissava a occhi spalancati. «Metti subito via quel pezzo di ferro», sbottò il sicario. «Vuoi che mi prenda un'infezione?» «Ce ne stiamo andando», disse Hedge in tono concitato. «E al diavolo le dannate mine! Al diavolo tutto!» Tenendoli ancora saldi per i mantelli, Kalam scosse entrambi. «Calma-
tevi. Che cosa è successo?» Fiddler gemette e indicò un punto lungo la strada. Voltatosi, Kalam s'irrigidì. Una creatura alta venti piedi avanzava con andatura dinoccolata in mezzo alla via, le spalle cadenti avvolte in una cappa con cappuccio. Un'ascia era appesa all'ampio cinturone, il manico lungo quanto Kalam era alto. Sul volto largo e piatto brillavano due occhi sottili. «Oh, per le Porte di Hood», borbottò il sicario. «Quello è il prezioso signore di Tayschrenn.» Spinse i due sabotatori oltre l'angolo. «Continuate a correre. Tornate alla proprietà Simtal.» Nessuno dei due obiettò e un istante dopo correvano veloci come il vento. Kalam si acquattò all'angolo e aspettò che il signore Galayn si avvicinasse. Quando lo vide, sbiancò in volto. «Soletaken.» Il Galayn stava assumendo una forma più consona alla distruzione totale. Il drago grigio-marrone si fermò, la punta delle ali che sfregava gli edifici su entrambi i lati. La terra tremò. Kalam guardò la creatura tendere le membra per poi sollevarsi verso il cielo spinta da un'ondata di potere. L'oscurità la inghiottì. «Adesso sì che tutto si complica.» Si girò e si mise a correre dietro ai sabotatori. *** Il Portatore della Moneta giunse in una via fiancheggiata da proprietà cintate da mura. Rallentò il passo, osservando attentamente ogni struttura. L'Aggiunto capì che era arrivato il momento. Doveva agire prima che il ragazzo entrasse in uno di quegli edifici e trovasse riparo. Strinse la mano intorno all'impugnatura della spada, avanzando a passi felpati. Trasse un respiro profondo e si lanciò in avanti, la spada sguainata. *** Nel sentire il suono squillante del metallo alle sue spalle, Crokus si tuffò in avanti. Atterrò su una spalla, rotolò e balzò nuovamente in piedi. Si voltò. Un grido di paura gli salì alla gola. La donna che aveva attaccato Coll sulle colline era impegnata in un duello all'ultimo sangue con un uomo alto, dalle spalle curve, armato di due scimitarre. Sbigottito, il ladro seguì lo scontro. La donna, che aveva dimostrato grande abilità contro Coll, sembrava in difficoltà sotto una raffica di af-
fondi. I due si muovevano a una tale velocità, che Crokus non riusciva nemmeno a vedere gli affondi, le parate o le lame stesse ma mentre guardava, si accorse che sul corpo della donna aumentavano le ferite - su braccia, gambe e torace. L'espressione sul volto della sconosciuta era di assoluta incredulità. «È bravo, vero?» disse a un tratto una voce accanto al ragazzo. Crokus si voltò di scatto e si trovò davanti un uomo alto, magro, le mani affondate nelle tasche di un lungo pastrano grigio e cremisi. Lo sconosciuto girò verso il giovane ladro un volto dai lineamenti affilati. «Dove stai andando, ragazzo? In un posto sicuro?» domandò sorridendo. Crokus annuì, incapace di aprire bocca. L'uomo s'illuminò. «Allora ti farò da scorta. E stai tranquillo, sei protetto anche dall'alto. Cowl è lassù, sui tetti. Accidenti ai suoi camuffamenti. Ma stai tranquillo, è un ottimo mago. Ho saputo che Serrat era furibonda. Sarà meglio andare ora.» Crokus lasciò che l'uomo lo prendesse per un braccio e lo allontanasse dal duello. Lanciò un'occhiata alle sue spalle. La donna cercava di contenere l'assalto. Il braccio sinistro le pendeva mollemente lungo il fianco, ma l'avversario non diminuiva la pressione dell'attacco e silenzioso come uno spettro, continuava a combattere. «Non preoccuparti», disse l'uomo. «Quello è il Caporale Blues. Adora i duelli.» «C... caporale?» «È da un pezzo che ti copriamo le spalle, Portatore della Moneta.» L'uomo sollevò una mano e la portò al colletto del pastrano, che voltò scoprendo una spilla. «Mi chiamo Fingers, Sesta Spada della Guardia Cremisi. Tu sei sotto la nostra protezione, ragazzo, come ordinato dal principe K'azz e da Caladan Brood.» Crokus fissò l'uomo, confuso. «Portatore della Moneta? Che cosa significa? Temo abbiate sbagliato persona.» Fingers commentò quelle parole con una secca risata. «Abbiamo immaginato che non ti fossi accorto di nulla, ragazzo. Era l'unica spiegazione possibile. Ci sono altre persone che cercano di proteggerti, lo sai. In tasca hai una moneta a due facce, giusto?» Sorrise davanti all'espressione sbigottita del giovane. «Appartiene a Oponn. Stavi servendo un dio e nemmeno lo sapevi! Come sei messo a fortuna, ultimamente?» Scoppiò nuovamente a ridere. Crokus si fermò a un cancello.
«È qui che siamo diretti?» chiese Fingers, guardando l'edificio che sorgeva dietro al muro di cinta. «Questa è la casa di un potente mago, giusto? Be'», disse lasciando andare il braccio di Crokus, «qui dovresti essere al sicuro. Buona fortuna, ragazzo, davvero. Ma ascoltami bene», gli occhi del caporale s'indurirono, «nel caso la fortuna girasse, butta via quella moneta, capito?». «Grazie, Signore», mormorò Crokus in preda alla confusione più totale. «È stato un piacere», replicò Fingers, infilando nuovamente le mani in tasca. «Vai, forza.» *** L'Aggiunto riuscì a sganciarsi, sebbene quell'ultima mossa le costò una profonda ferita alla spalla destra. Scappò via, il sangue che scendeva a fiotti, ma l'uomo non la inseguì. Che stupida era stata a pensare che il Portatore della Moneta non fosse protetto! Ma chi era quell'uomo? Non aveva mai incontrato uno spadaccino di tale levatura e la cosa più incredibile era che lo sconosciuto aveva combattuto senza ricorrere all'aiuto della magia. Per una volta, la spada Otataral e la sua abilità non le erano bastate. Barcollò ansante lungo la strada, poi svoltò un angolo. A un tratto, con la coda dell'occhio scorse un movimento. Si gettò contro un muro e sollevò la spada. Una donna dalla corporatura robusta le si parò innanzi. «Guardami», ordinò, «come hai già fatto». «Lasciami in pace», ansimò Lorn. «Non posso», replicò Meese. «Ti stiamo alle calcagna da quando il Violatore del Cerchio ti ha avvistata. L'Anguilla sostiene che hai dei conti in sospeso. Siamo qui per riscuotere il dovuto.» Mentre la donna parlava, l'Aggiunto avvertì un'altra presenza, alla sua sinistra. Lanciò un grido mentre cercava di assumere una posizione di difesa e in quel grido era contenuta tutta la sua disperazione. No, non così! Le due donne l'attaccarono contemporaneamente. L'Aggiunto parò la lama proveniente da sinistra ma non poté fare niente quando la donna che aveva parlato estrasse due spade, puntandogliele al petto. Lorn gridò per la rabbia quando le armi affondarono dentro di lei. La spada le sfuggì di mano e cadde a terra rimbalzando sui ciottoli. L'Aggiunto scivolò lungo il muro. «Chi?» mormorò con un bisogno disperato di
conoscere la verità. «Chi?» Una delle donne si chinò su di lei. «Che cosa?» Il dolore stravolse il volto di Lorn, i lati della bocca si abbassarono mentre le palpebre si chiudevano. «Chi?» sussurrò ancora. «Chi è l'Anguilla?» «Andiamo, Meese», disse la donna, ignorando il corpo ai suoi piedi. *** Paran la trovò all'imbocco di un vicolo, distesa sui luridi ciottoli. Qualcosa lo aveva attratto verso di lei, un desiderio di porre fine a quel misterioso legame che li aveva uniti. La spada della donna era accanto a lei, l'impugnatura lucida di sangue. Il capitano si accosciò accanto al corpo. «Hai combattuto duramente», mormorò, «ma ne valeva la pena?». Gli occhi della donna si aprirono di scatto. Lei lo fissò fino a quando lo riconobbe. «Capitano. Ganoes.» «Aggiunto.» «Mi hanno ucciso.» «Chi?» Un debole sorriso apparve sul volto della donna. «Non lo so. Due donne. Sembravano... ladre. Delinquenti. Percepisci... l'ironia, Ganoes Paran?» Le labbra tese, lui annuì. «Niente... fine gloriosa... per l'Aggiunto. Se tu fossi arrivato... qualche minuto prima...» Il capitano non aprì bocca. Guardò la vita lasciare Lorn e non provò nulla. Sei stata sfortunata a conoscermi, Aggiunto. Mi spiace. Raccolse la spada Otataral e la fece scivolare nel suo fodero. Sopra di lui due voci parlarono all'unisono. «Hai dato a lui la nostra spada.» Si sollevò e si trovò davanti Oponn. «Per essere più precisi, me l'ha presa la Fune.» I Gemelli non celarono l'ira. Posarono su Paran uno sguardo quasi supplichevole. «Cotillion ti ha risparmiato», disse la sorella, «i Segugi ti hanno risparmiato. Perché?». Paran scrollò le spalle. «Biasimate la lama o la mano che la stringeva?» «Tronod'Ombra non gioca mai lealmente», piagnucolò il fratello. «Voi e Cotillion avete usato i mortali», disse il capitano in tono gelido, «avete pagato per questo. Che cosa volete da me? Pietà? Aiuto?». «La spada Otataral», rispose la sorella.
«Questa spada non verrà usata per i vostri sporchi giochetti», affermò Paran. «Farai meglio a fuggire, Oponn. Scommetto che Cotillion ha dato a Tronod'Ombra la spada Fortuna e che i due stanno già pensando a che uso farne.» I Gemelli trasalirono. Paran posò una mano sull'impugnatura appiccicosa della spada. «Ora non posso che restituire il favore a Cotillion.» Gli dei svanirono. Il capitano sospirò, sollevato. Abbassò ancora una volta lo sguardo su Lorn. Tolta l'armatura, era leggera come una piuma fra le sue braccia. *** L'aria ruggì intorno ad Anomander Rake mentre lui si tuffava, il Canale avvolto intorno a sé. In basso, il drago grigio-marrone girava in cerchio sopra Darujhistan. La creatura era grande e possente quanto Rake ma era una stupida se pensava di trovare il suo avversario fra le vie della città. Rake spiegò le ali, puntando il signore Galayn. Allungò le zampe posteriori, gli artigli pronti a colpire. Chiamò a sé tutto il proprio potere. Lui era Kurald Galain, Tiste Andii, e l'oscurità era la sua casa. Il signore Galayn era ora sotto di lui, sempre più vicino e più imponente. Rake spalancò le fauci, la testa che scattava indietro mentre penetrava un muro d'aria. Il rumore attirò l'attenzione dell'altro drago, che sollevò lo sguardo verso il cielo, ma era già troppo tardi. CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Io sono la Casa che imprigiona con la sua nascita cuori demoniaci; chiusa in ogni stanza un'antichità infuriata, tremante. E queste radici di pietra diffondono crepe profonde nella terra inaridita che racchiuderà per sempre il sogno della frutta; ah, i viandanti vengono alla mia porta
e muoiono d'inedia... Azath (b.?) Adaephon (b.?) Il complesso dietro al cancello era vuoto. Crokus lo attraversò di corsa, chiedendosi se non fosse arrivato troppo tardi. Balzò su per i gradini, allungando la mano verso il chiavistello del portone. Un'ondata di energia lo spinse indietro. In preda allo stordimento, il ladro si ritrovò seduto sull'impiantito ai piedi dei gradini; la sua pelle era tutta un formicolio. Il bagliore porpora intenso davanti al portone sbiadì lentamente. Una difesa magica. «Per Hood!» sibilò, tirandosi in piedi. Aveva già incontrato barriere del genere, nelle proprietà nobiliari. Erano impossibili da oltrepassare. Con un'altra imprecazione, Crokus si girò di scatto e sfrecciò verso il cancello. Sbucando sulla strada, si guardò intorno, senza vedere nessuno. Se quelli della Guardia Cremisi lo proteggevano ancora, non davano segno della loro presenza. C'era la possibilità - per quanto molto remota - che l'accesso alla casa di Baruk affacciato sul giardino non fosse protetto dalla magia. Correndo giù per la strada, svoltò nel primo vicolo sulla destra. Ci sarebbe stato un muro da scalare, ma non lo considerava un grande ostacolo. Arrivato alla fine del vicolo, si fermò bruscamente sulla strada al di là. Il muro, vide, era alto. Avrebbe dovuto prendere la rincorsa. Crokus si portò sull'altro lato della strada, cercando di riprendere fiato. A cosa serviva tutta quella manfrina? Baruk non poteva badare a se stesso? Non era forse un Grande Mago? Persino Fingers aveva alluso all'efficacia delle sue protezioni, no? Esitò, guardando con cipiglio il muro che gli stava davanti. In quell'attimo, un grido lacerante, tanto forte da scuotere la terra, risuonò proprio sopra la strada. Crokus si appiattì contro il muro alle sue spalle, mentre una sagoma enorme calava nella luce delle lampade a gas. Riempiendo la strada, atterrò a meno di venti iarde alla sinistra del ladro che, per l'impatto, perse l'equilibrio. Pietre del selciato si frantumarono. Crokus si rannicchiò sotto la pioggia di ciottoli e mattonelle; poi, quando questa accennò a diminuire, saltò in piedi. Un drago, con le ali lacere e striate di sangue, si raddrizzò lentamente sulla strada, scuotendo la testa conica, massiccia. Lungo i fianchi bruni,
scaglie erano cadute, rivelando fori profondi. Il collo e le spalle luccicavano di sangue. Crokus vide che il muro dietro di esso - quello della casa di Baruk - era crollato, aprendo il giardino alla sua vista. Tronchi d'albero spezzati si levavano dalla terra fumante. Una veranda sopraelevata segnalava la prossimità dell'entrata sul retro. Due statue rovesciate giacevano in pezzi davanti alla porta. Il drago sembrava tramortito. Crokus s'irrigidì. Quello era il momento di muoversi. Quasi senza credere alla propria audacia, il ladro schizzò dietro alla creatura, sperando di raggiungere il riparo del giardino. Mentre correva, tenne lo sguardo sulla bestia, e i pensieri sulla moneta della fortuna che aveva in tasca. Poi, sotto ai suoi occhi, il drago cambiò forma, ritraendosi in se stesso in una foschia scintillante. Crokus rallentò, poi si fermò, incapace di distogliere l'attenzione. Il cuore gli martellava contro le costole, quasi volesse scappare. Ogni suo respiro era un ansito doloroso. La sua fortuna, si disse in preda al terrore, era appena finita. Il luccichio svanì, e sulla strada apparve una forma d'uomo gigante, avvolta in un mantello con cappuccio. Crokus cercò di costringersi a muoversi, ma il suo corpo rifiutò di obbedire. Fissò con gli occhi sgranati il demone che si girava verso di lui. Ringhiando, questi estrasse dal cinturone un'ascia enorme. Soppesandola fra le mani, parlò con voce morbida, profonda. «Che ragione c'è di continuare?» chiese, ragionevolmente. «L'Imperatrice consente alla tua fuga, signore. Ancora una volta, ti mostra misericordia. Accettala, e vattene.» «Buona idea», mormorò il ladro. Poi aggrottò le sopracciglia, rendendosi conto che l'attenzione del demone era rivolta alle sue spalle. Un uomo parlò dietro di lui. «Dobbiamo combattere, Galayn.» Una mano cadde sulla spalla del ladro, rompendo l'incantesimo dell'immobilità. Crokus si scansò, girandosi di lato; poi alzò lo sguardo su occhi color indaco, incastonati in un volto stretto e scuro. «Allontanati, mortale», ordinò l'uomo dai capelli d'argento, togliendo dal fodero appeso fra le scapole una spada pesante. L'arma nera sembrava quasi invisibile, come se assorbisse tutta la luce che la toccava. «Voi eravate alla festa!» sbottò Crokus. Gli occhi dell'uomo guizzarono, come se lo vedessero per la prima volta. «Portatore della Moneta», disse, con un sorriso ironico, «non avere timore. Brood mi ha convinto a risparmiarti, almeno per il momento. Fila via, ra-
gazzo». Il suo sguardo tornò sul signore Galayn. «Non sarà tanto facile sconfiggermi.» «Conosco quell'arma», ringhiò il demone. «Dragnipurake. E sento l'odore di Tiama. In te c'è più lei che sangue Tiste Andii.» Crokus arretrò contro ciò che rimaneva del muro di Baruk. Il signore Galayn sogghignò, rivelando canini lunghi, curvi. «L'Imperatrice ti ricompenserebbe per i tuoi servigi, signore. Devi solo dire di sì, e questa battaglia può essere evitata.» Anomander Rake fece un passo avanti. «Preparati, Galayn.» Con un ruggito, il demone attaccò; l'ascia attraversò l'aria sibilando, seguita da una scia di fuoco blu. Rake roteò la sua spada, colpendo l'ascia e incrementandone la velocità. Mentre la lama lo superava, il Tiste Andii si avvicinò, la spada ritratta, il pomo contro il fianco sinistro. Fece scattare l'arma in avanti, tanto rapidamente da offuscarne i confini. Il demone si scansò e, staccando una mano dal manico dell'ascia, l'allungò verso la gola di Rake. Il Tiste Andii si girò, accusando il colpo sulla spalla sinistra. Gettato all'indietro, Rake atterrò pesantemente sui ciottoli. Il demone balzò su di lui, l'ascia fiammeggiante sulla testa. Rake si rialzò in tempo per intercettarla con la spada. Lo scontro delle armi mandò uno scossone per aria e per terra. L'ascia del demone lampeggiò di un bianco intenso, grondando luce come se fosse liquido. La spada di Rake fu avvolta dall'oscurità e divorò le ondate di luce che la sferzavano. Le pietre sotto i piedi di Crokus si inclinarono minacciosamente, quasi fossero diventate d'argilla. Sulla sua testa, le stelle oscillavano all'impazzata. In preda alla nausea, il ladro cadde in ginocchio. Rake cominciò a menare fendenti selvaggi con la sua arma nera. Dapprima, il demone resistette, assestando riposte violente, poi arretrò di un passo, e di un altro ancora. Rake insistette, implacabile. «Con rammarico della Madre», declamò in tono aspro, fra un colpo e l'altro, «alla Luce fu concesso di nascere. Con suo sgomento... ella vide troppo tardi... la sua corruzione. Galayn... tu sei la vittima accidentale... di una punizione... attesa da troppo tempo». Il demone vacillò, parando disperatamente gli assalti, senza più contrattaccare. La luce che colava dall'ascia tremolò, si indebolì, lampeggiò a scatti, mentre l'oscurità circondava la lama. Gridando, il demone si lanciò contro Rake. Mentre discendeva sul Tiste Andii, Crokus vide una striscia
nera erompere dalla sua schiena, trapassando il mantello. L'ascia volò via dalle mani della creatura, e il suo fuoco morì quando atterrò rumorosamente sul selciato. Con uno stridio d'orrore, il demone strinse la spada che l'infilzava. Fumo nero si allargò dall'arma in rapidi raggi, avvolgendolo. Il fumo si ritorse, trasformandosi in catene, che si tesero. Il Galayn urlò disperatamente. Rimettendosi in piedi, Rake spinse la spada attraverso il petto del demone, finché l'elsa non sbatté contro l'osso. Il demone crollò in ginocchio; i suoi occhi neri incrociarono quelli di Rake. Le stelle ondeggianti si fermarono e le pietre sotto i piedi del ladro ridiventarono solide, anche se deformate. Crokus inghiottì la bile, gli occhi fissi sul demone. Questi sembrava afflosciarsi su se stesso; le catene di fumo nero si stringevano sempre più, tirandolo verso la spada. Si rovesciò all'indietro, e Rake conficcò la spada nell'acciottolato, inchiodandolo. Poi il Tiste Andii si appoggiò pesantemente sull'elsa, e Crokus notò il tessuto intriso di sangue sulla sua spalla, là dove l'aveva colpito la mano del demone. Rake girò stancamente lo sguardo sul ladro. «Va', in fretta», ansimò. «L'alchimista è in pericolo. Ora non posso proteggerlo. Sbrigati, Portatore della Moneta.» Crokus si voltò di scatto, mettendosi a correre. *** La morte di Travale, terzo della Cabala, riecheggiava ancora nei loro pensieri. La strega Derudan aveva tracciato un cerchio di cenere sul pavimento al centro della stanza. Con l'aiuto di Baruk, vi aveva messo dentro le due poltrone lussuose, e ora sedeva, fumando e seguendo con gli occhi scuri l'alchimista che passeggiava avanti e indietro. Baruk si scoprì riluttante a entrare nel cerchio protettivo. Lì sarebbero stati al sicuro, circondati dall'alta stregoneria Tennes, ma non sarebbero stati in grado di contrattaccare, se fosse arrivata Vorcan. Inoltre, certe cose potevano penetrare le protezioni magiche. L'Otataral, quello strano minerale rugginoso proveniente dalle Colline Tanno di Sette Città, era il primo esempio che veniva in mente. Era improbabile che Vorcan, essendo una Grande Maga, ne fosse in possesso, ma Baruk esitava a mettersi in una posizione in cui non avrebbe potuto usare il suo Canale contro la donna sicario. «Quelli della Cabala», cominciò lentamente Derudan, «che ora sono
morti, erano ostinati, convinti della propria invincibilità, sì? Certo aspettavano l'arrivo imminente di Vorcan passeggiando impazienti per la stanza». Baruk si fermò per rispondere, ma fu interrotto da un grido forte, disumano, proveniente da fuori, immediatamente seguito da una scossa che fece tremare le pareti. L'alchimista si avviò verso la porta. «Aspetta!» gridò Derudan dal cerchio. «Non soddisfare questa curiosità, Baruk, perché Vorcan ne trarrà sicuramente vantaggio, sì?» «È crollata una difesa», annunciò Baruk. «Le mie protezioni sono state violate.» «A maggior ragione, occorre essere prudenti», l'ammonì Derudan. «Amico, ti supplico, raggiungimi qui.» «D'accordo.» Baruk sospirò, muovendo verso di lei. Una folata di vento gli sfiorò il lato sinistro del viso. Derudan lanciò un grido di avvertimento, proprio mentre l'alchimista si girava. Vorcan, le cui mani guantate emettevano un bagliore rosso, balzò verso Baruk. Lui sollevò le braccia, pur sapendo bene di agire troppo tardi. In quel momento, però, un'altra figura emerse dall'oscurità per bloccare la Signora dei Sicari con una scarica di colpi. Vorcan barcollò all'indietro, poi assestò un pugno obliquamente al suo assalitore. Un urlo angoscioso risuonò per la stanza. Baruk sgranò gli occhi, rendendosi conto solo allora che il suo protettore era una donna Tiste Andii. Si spostò agilmente di lato, mentre questa gli volava accanto, colpendo prima il pavimento e poi il muro, contro il quale giacque immobile. Riportando lo sguardo su Vorcan, l'alchimista vide che una delle sue mani aveva smesso di scintillare. Fece un gesto, e la magia proruppe dal suo braccio, in un arco di luce gialla. Vorcan sibilò un contro-incantesimo, e la luce fu inghiottita da una foschia rossa davanti al suo corpo, che sbiadì velocemente fino a sparire. Lei avanzò. Baruk sentì indistintamente la strega Derudan chiamarlo. Ma erano gli occhi ricolmi di morte della Signora dei Sicari a tenerlo avvinto. La facilità con cui aveva dissipato il suo potere mostrava chiaramente la sua superiorità nell'arte magica. Ormai, capì, non gli restava che attendere la morte. Ma poi sentì un grugnito alle sue spalle; Vorcan ansimò. Dal suo petto spuntava l'elsa di un pugnale. Inarcando le sopracciglia, vi portò sopra le mani, lo estrasse e lo gettò da parte. «Non...» l'alchimista udì la donna Tiste Andii rantolare dal pavimento dietro di lui, «non posso fare altro. Le mie scuse, signore».
Derudan apparve dietro a Vorcan. Mentre la strega alzava le braccia per iniziare un incantesimo, Vorcan si girò di scatto e qualcosa sfrecciò dalle sue mani. Derudan grugnì, poi si afflosciò a terra. Baruk fu invaso dall'angoscia. Con un ruggito, si buttò verso Vorcan. Lei rise e si spostò di lato, spingendo in avanti la mano scintillante. L'alchimista si contorse; quasi perse l'equilibrio, evitò per poco il tocco assassino, poi avanzò barcollando. Sentì di nuovo la risata di lei, che si spostava alle sue spalle. A una dozzina di piedi davanti a Baruk, c'era la porta. L'alchimista sgranò gli occhi nel vederla aperta. Acquattato nel vano, c'era un giovane, che teneva in ciascuna mano oggetti simili a blocchi. Aspettandosi il tocco di Vorcan da un momento all'altro, Baruk si gettò in avanti. Vide il ragazzo raddrizzarsi, ed estendere prima il braccio destro, poi il sinistro. Mentre l'alchimista cadeva verso il pavimento, due mattoni volarono sopra di lui. Li sentì colpire la donna alle sue spalle; uno fece uno scricchiolio, l'altro uno scoppiettio. Un lampo rosso accompagnò il secondo rumore. Quando colpì il pavimento, Baruk sentì tutto il fiato prorompergli dai polmoni. Passarono secondi tormentosi, mentre cercava di immettere aria nel petto dolente. Si girò sulla schiena. Vide che Vorcan giaceva immobile quasi contro i suoi piedi. E vide anche la faccia del ragazzo, rigata di sudore, la fronte increspata dalla preoccupazione. «L'alchimista Baruk?» chiese questi. L'uomo annuì. Il ragazzo sospirò, poi fece un largo sorriso. «Siete vivo. Bene. Rallick mi ha mandato ad avvisarvi.» Baruk si mise a sedere. «La strega», disse, con voce rauca. L'indicò. «Occupati di lei, ti prego.» Sentì la sua forza ritornare, mentre guardava il ragazzo accovacciarsi accanto a Derudan. «Respira», annunciò Crokus. «Ha in corpo una specie di coltello; sembra coperto di linfa.» Abbassò la mano a toccarlo. «No!» gridò Baruk. Crokus balzò indietro, allarmato. «Veleno», spiegò l'alchimista, rialzandosi. «Aiutami a raggiungerla, presto.» Un attimo dopo, era inginocchiato accanto a Derudan. Un rapido sguardo alla sostanza che rivestiva la lama confermò i suoi sospetti. «Paralto bianco», decretò.
«È un ragno, vero?» Baruk posò una mano su Derudan. «La tua conoscenza mi stupisce, ragazzo», ribatté. «Fortunatamente, lei si trova nella casa dell'unico uomo a possedere l'antidoto.» Borbottò qualcosa, e in mano gli apparve una fiala. «Rallick diceva che non esiste antidoto al paralto bianco.» «Non è una cosa che io ami rendere nota.» Stappando la fiala, Baruk ne versò il contenuto in gola alla strega, scatenando un accesso di tosse. Quando il suo respiro tornò regolare, Baruk si mise comodo, guardando Crokus. «Sembri un intimo di Rallick. Come ti chiami?» «Crokus. Mammot era mio zio, Signore. L'ho visto morire.» Derudan sbatté le palpebre, poi aprì gli occhi. Sorrise lentamente. «Ciò che vedo mi piace, sì?» disse con voce debole. Baruk restituì il sorriso. «Sì, amica mia. Ma non mi arrogo il merito di avere sconfitto Vorcan. Esso appartiene a Crokus, nipote di Mammot.» Derudan spostò lo sguardo sul giovane. «Ah, quello che stasera ho quasi calpestato.» Abbandonò l'espressione divertita. «Mi dispiace per Mammot, ragazzo.» «Anche a me», replicò lui. Baruk si alzò, girandosi. Sibilò un'imprecazione violenta. Il corpo di Vorcan era sparito. «È fuggita.» Correndo dalla donna Tiste Andii, si chinò a esaminarla. Era morta. «Presto conoscerò il tuo nome», mormorò, «e me lo ricorderò». «Devo andare!» annunciò Crokus. Baruk si stupì del panico improvviso sul suo volto. «Cioè», proseguì il ragazzo, «se qui è tutto finito». «Credo di sì», affermò l'alchimista. «Ti ringrazio, Crokus, per la tua abilità nel tirare mattoni.» Il ragazzo andò alla porta. Si fermò, poi lanciò in aria una moneta. La riprese al volo, con un sorriso tirato. «Pura fortuna, immagino.» Uscì. *** Il capitano Paran si accovacciò accanto al letto di Coll. «Dorme ancora», annunciò, alzandosi e volgendosi verso Whiskeyjack. «Procedi.» Kalam e i due sabotatori erano arrivati qualche minuto prima. Fino ad ora, rifletté il sergente, non c'erano state perdite, anche se il capitano aveva l'armatura ammaccata, e l'espressione sul suo viso quando era entrato nella stanza con il corpo di Lorn fra le braccia aveva ammonito Whiskeyjack a
non sondare troppo profondamente il suo stato d'animo. Il corpo dell'Aggiunto, pallido e immobile, occupava ora un secondo letto; uno strano sorriso ironico le increspava le labbra esangui. Il sergente studiò tutti i presenti; i visi che conosceva così bene lo fissavano, in attesa. Il suo sguardo indugiò su Dispiacere, o Apsalar, come ora chiamava se stessa. Qualunque influenza Mallet avesse avuto su di lei, era un'altra donna rispetto a quella che aveva conosciuto. Aveva qualcosa in meno, ma anche qualcosa in più. Nemmeno Mallet era sicuro di cosa avesse fatto. Certi ricordi, certe abilità erano state liberate, e insieme a essi una consapevolezza brutale. Il dolore era evidente nei suoi occhi, un dolore stratificatosi in anni di orrore - ma lei sembrava tenerlo sotto controllo, sembrava aver trovato un modo, la forza, di vivere con ciò che era stata. Nell'incontrarlo, le sue uniche parole erano state: «Voglio tornare a casa, Sergente». Lui non aveva obiezioni, anche se si chiedeva come pensasse di attraversare due continenti e l'oceano che li separava. Whiskeyjack allungò la mano verso le ossa di avambraccio legate che giacevano sul tavolo. «Sì, signore», mormorò, in risposta all'ordine di Paran. L'aria calda, pervasa di sudore, si riempì di tensione. Whiskeyjack esitò. C'era stata battaglia nelle strade di Darujhistan, e Ben lo Svelto aveva confermato la morte del signore Galayn. Il mago sembrava ancora scioccato. Con un sospiro sommesso, il sergente si massaggiò la gamba appena guarita, poi conficcò la lama degli avambracci nel piano del tavolo. Il contatto fu immediato. La voce aspra del Gran Pugno Dujek riecheggiò nella stanza. «Era ora, Whiskeyjack! Non perdere tempo a raccontarmi del signore Galayn - Tayschrenn è in coma, o suppergiù. Tutti, nel quartier generale, hanno sentito il suo grido. Anomander Rake ha fatto fuori la bestia. Che altro?» Whiskeyjack lanciò un'occhiata a Paran, che annuì deferente. «La manovra dell'Aggiunto Lorn è fallita», rivelò il sergente. «È morta. Abbiamo il suo corpo con noi. Gli incroci sono ancora minati - non li faremo esplodere, Gran Pugno, poiché probabilmente si aprirebbero le grotte piene di gas sotto la città, riducendoci tutti in cenere. Quindi», tirò un respiro profondo, avvertendo una fitta alla gamba - Mallet aveva fatto il possibile, ed era molto, ma rimaneva qualche strascico, che lo faceva sentire fragile «quindi», ripeté piano, «ci ritiriamo, Gran Pugno». Dujek rimase zitto per un po', poi grugnì. «Sta' a sentire che problemi abbiamo, Whiskeyjack. Uno, stiamo per perdere Pale. Come sospettavo,
Caladan Brood ha lasciato la Guardia Cremisi a gestire le cose su a nord, ed è sceso quaggiù con i suoi Tiste Andii. Ha con sé anche dei Rhivi, e i Barghast di Jorrick, che hanno appena finito di masticare i Moranth Dorati. Due, la situazione sta peggiorando.» Il Gran Pugno inghiottì sonoramente. «Sette Città è a forse una settimana dalla rivolta aperta. L'Imperatrice lo sa. Un Artiglio di Genabaris è arrivato mezz'ora fa, in cerca di Tayschrenn. I miei soldati l'hanno trovato per primi. Portava un messaggio per Tayschrenn, di pugno dell'Imperatrice. Sono appena stato dichiarato fuorilegge da parte dell'Impero. È ufficiale, e Tayschrenn avrebbe dovuto provvedere al mio arresto e alla mia esecuzione. Siamo soli, amico.» Il silenzio cadde sulla stanza. Whiskeyjack chiuse gli occhi per un attimo. «Ho capito, Gran Pugno. Quando intendi marciare?» «Sembra che i Moranth Neri siano con noi - non chiedermi perché. Comunque, domani all'alba ho un colloquio con Caladan Brood e Kallor. Questo deciderà le cose, presumo. O Brood ci lascerà al nostro destino, o ci ucciderà, prendendo Pale. Tutto dipende da quello che sa sul Veggente Pannion.» «Noi abbiamo appuntamento fra un paio di giorni con alcuni Moranth Neri, Gran Pugno», annunciò Whiskeyjack. «Mi chiedo quanto avessero già capito quando fu preso l'accordo. Comunque, ci porteranno da te, ovunque tu sia.» «No», rispose Dujek. «Qui potremmo essere sotto assedio. I Neri vi lasceranno sulla Pianura Catlin. I loro ordini al riguardo sono chiari, ma se vuoi cercare di cambiarli, fa' pure.» Il sergente fece una smorfia. Non era il caso. «Vada per la Pianura Catlin. Però significa che impiegheremo più tempo a riunirci.» Il bagliore che circondava le ossa guizzò; un tonfo risuonò nella stanza. Fiddler proruppe in un risolino. All'altro capo della conversazione, Dujek aveva appena picchiato un pugno sul tavolo. Whiskeyjack lanciò un'occhiataccia al sabotatore. «Capitano Paran?» sbottò Dujek. «Sono qui, Gran Pugno», replicò Paran, facendo un passo avanti. «Ciò che sto per dire è rivolto a Whiskeyjack, ma voglio che lo sentiate anche voi, capitano.» «Sto ascoltando.» «Sergente, se vuoi far parte del mio esercito, dovrai abituarti al nuovo ordine. Primo, metterò gli Arsori di Ponti sotto il comando del capitano Paran. Secondo, non sei più un sergente, Whiskeyjack. Sei il mio viceco-
mandante, e questo significa responsabilità nuove. Non ti voglio nelle vicinanze di Pale. E sai che ho ragione, maledizione. Capitano Paran?» «Sì?» «Lo squadrone del sergente Whiskeyjack si è guadagnato il diritto di lasciare la vita militare. Se qualcuno vuole di nuovo far parte degli Arsori di Ponti, benissimo. Ma non voglio recriminazioni se decidono altrimenti. Spero sia chiaro.» «Sì, Gran Pugno.» «E in attesa di assumere il suo prossimo incarico», continuò inesorabilmente Dujek, «Whiskeyjack si godrà semplicemente lo spettacolo, se capite cosa intendo, capitano». «Capisco.» Paran fece un largo sorriso. «Ora, quando verranno a prendervi, i Moranth Neri conosceranno già la storia, per cui seguiteli e basta.» «Sì, Gran Pugno.» «Domande, Whiskeyjack?» ruggì Dujek. «No», ammise cupamente il veterano brizzolato. «Ottimo. Spero che potremo parlare più tardi.» Il bagliore intorno alle ossa si spense. Il capitano Paran si girò verso i soldati. Studiò i visi, uno per uno. Dovevano essere i miei sottoposti. E sono i migliori che avrei potuto chiedere. «Bene», esordì in tono burbero. «Chi è pronto a essere dichiarato fuorilegge e contato fra i ribelli di Dujek?» Trotts fu il primo ad alzarsi, con i denti scoperti. Fu seguito da Ben lo Svelto, Hedge e Mallet. Ci fu un silenzio stupito, poi Kalam annuì in direzione di Fiddler, schiarendosi la gola. «Siamo con voi, ma non vi accompagneremo. Io e Fiddler, cioè.» «Puoi spiegarti meglio?» chiese calmo Paran. Apsalar prese la parola, con sorpresa di tutti. «Non potranno farlo, capitano. Ammetto di non sapere bene che intenzioni abbiano, ma torneranno con me all'Impero. A casa.» Scrollando le spalle imbarazzato, Fiddler si alzò, girandosi verso Whiskeyjack. «Glielo dobbiamo, signore», osservò. «La nostra decisione è presa. Ma se potremo, vi raggiungeremo.» Perplesso, Whiskeyjack si tirò faticosamente in piedi. Nel volgersi verso Paran, impietrì. Dietro al capitano, Coll sedeva dritto sul letto. «Um», borbottò il sergente, puntando il dito verso di lui.
La tensione rinacque nella stanza. Tutti guardarono Coll. Autenticamente sollevato, Paran avanzò verso di lui. «Coll! Sono...» Si fermò di colpo, e proseguì in tono neutro: «Siete sveglio da tempo, a quanto vedo». Gli occhi di Coll guizzarono verso le ossa piantate nel tavolo, poi si posarono su Paran. «Ho sentito tutto», rivelò. «Ditemi, Paran, i vostri soldati hanno bisogno di aiuto per uscire da Darujhistan?» *** Rallick stava nell'oscurità sotto gli alberi al margine della radura. I suoi poteri anti-magia si erano rivelati insufficienti, dopo tutto. Era stato scalzato dal suo posto da quella che gli era sembrata una mano gigante - la mano di un dio, potente, sicura e inflessibile. Stupefatto, aveva visto un labirinto di radici estendersi rapidamente per la radura, dirette alla terrazza. Aveva sentito un grido, poi le radici erano tornate, avvolte intorno a un'apparizione in forma umana, che avevano tirato bruscamente sottoterra. D'un tratto, Rallick era stato invaso da una specie di euforia. Sapeva, con inspiegabile certezza, che quel che cresceva lì era retto, e giusto. Era giovane, nuovo. Continuando a guardarlo, vide fremiti di costruzione sotto le superfici angolari, geometriche. Ciò che, meno di un'ora prima, era stato solo il ceppo di un albero, ora era una casa. Una porta massiccia giaceva mezza sepolta nell'ombra sotto un ramo inarcato. Viticci sbarravano finestre munite di imposte. Un balcone stava sopra la porta, alla sua sinistra, inghirlandato di rampicanti. Portava a una specie di torre, che si ergeva sopra il primo piano, con la sua punta di assi nodose. Un'altra torre, più tozza, priva di finestre, segnava il fianco destro della casa. Il tetto era piatto, con il bordo orlato di merloni frastagliati. Rallick sospettava si trattasse di una piattaforma, cui si accedeva attraverso una qualche specie di botola. Anche la radura intorno alla costruzione era cambiata; qua e là erano sorti dei tumuli, come il cortile della casa fosse un cimitero. Alberi giovani, scheletrici, circondavano i tumuli oblunghi, ognuno dei quali cresceva come se un vento invisibile lo estraesse dalla terra erbosa. Le radici avevano trascinato l'apparizione dentro un tumulo simile. Retto, e giusto. Quelle due parole riecheggiavano nella mente del sicario; la loro attrattiva gli infondeva calma nel cuore. Gli pareva quasi di sentire un'affinità con quella casetta - come se essa lo conoscesse e lo ac-
cettasse. Sapeva che era vuota. Un'altra certezza priva di fonte. Rallick continuò a guardare, mentre le linee della casa diventavano ferme, nettamente definite. Un odore pungente riempì l'aria, come di terra appena rivoltata. Il sicario si sentì in pace. Un attimo dopo, udì un trapestio alle sue spalle; girandosi di scatto, vide Vorcan attraversare il sottobosco barcollando. Aveva il viso coperto di sangue per una ferita alla fronte, e per poco non crollò fra le braccia di Rallick. «Tiste Andii», ansimò. «Mi inseguono. Vogliono vendicare un omicidio!» Rallick guardò oltre di lei, e i suoi occhi, da tempo abituati all'oscurità circostante, distinsero figure che si muovevano silenziosamente fra gli alberi, avvicinandosi. Esitò, stringendo fra le braccia la donna ormai incosciente. Poi si chinò, si gettò Vorcan sopra la spalla, si volse e corse verso la casa. Sapeva che la porta si sarebbe aperta per lui; e così accadde. Al di là, c'era un ingresso buio; un arco conduceva a un corridoio che attraversava la casa da un lato all'altro. Una ventata di aria calda, dolce investì Rallick, che entrò deciso. Korlat, consanguinea di Serrat, rallentò nell'avvicinarsi alla strana casa. La porta si era chiusa dietro la loro preda. Arrivata al margine della radura, si accovacciò. I compagni le si raccolsero intorno. Horult emise un sibilo rabbioso, poi disse: «Hai chiamato il nostro signore, Korlat?». La donna scosse la testa. «Conosco queste antiche creazioni», spiegò. «La Casa della Morte della città di Malaz, la Casa di Odhan di Sette Città... Azath edieimarn, i Pilastri dell'Innocenza - questa porta non si aprirà per noi.» «Ma si è aperta per loro», ribatté Horult. «Gli Azath fanno entrare chi vogliono. Fu così con la Casa della Morte. Due uomini furono scelti: uno che sarebbe stato Imperatore, l'altro che l'avrebbe accompagnato. Kellanved e Dancer.» «Avverto il suo potere», mormorò Orfantal. «Il nostro signore potrebbe distruggerla, ora che è ancora giovane.» «Sì», convenne Korlat. «Lui potrebbe.» Rimase in silenzio per un attimo, poi si alzò. «Ho lo stesso sangue di colei che è caduta», affermò. «Lo stesso sangue», intonarono gli altri.
«La spedizione in cerca di vendetta termina qui», sentenziò Korlat, stringendo gli occhi a mandorla. «Il nostro signore non sarà chiamato. Lasciamolo alla sua guarigione. L'Azath non verrà toccato perché è nuovo, un bambino.» I suoi occhi, di un morbido marrone, guardarono lentamente quelli dei compagni. «La Regina dell'Oscurità così disse della Luce quando essa venne al mondo, "È nuova, e ciò che è nuovo è innocente, e ciò che è innocente è prezioso. Osservate questa figlia della meraviglia, e portatele rispetto".» Orfantal aggrottò le sopracciglia. «Così la luce sopravvisse, l'Oscurità fu distrutta, e la purezza sconfitta - e tu vorresti che noi mostrassimo gli stessi difetti della nostra Regina. La luce si corruppe e annientò il nostro mondo, Korlat, o te lo sei dimenticato?» Korlat fece un sorriso triste. «Abbi cari questi difetti, cara sorella, perché quello della nostra Regina era la speranza, e il mio pure. Ora dobbiamo andare.» *** Kruppe assunse un'espressione benevola mentre guardava avvicinarsi Crokus, evidentemente esausto per quella notte di corse infinite. Dando una gomitata a Murillio, agitò le dita in direzione del giovane ladro. «Il ragazzo torna con fretta eccessiva. E mi spiace per le tristi notizie che Kruppe deve recargli.» «Ha avuto una nottataccia», osservò Murillio. Si appoggiò contro il muro di sostegno del cancello, fuori dalla proprietà di Lady Simtal. Le strade restavano vuote; i cittadini erano storditi e scioccati dai recenti orrori. Kruppe indicò con un gesto la Progenie della Luna, che si trovava una lega a ovest, molto oltre le mura della città. «Una struttura notevole. Tuttavia, Kruppe è contento che abbia scelto di andarsene. Pensa, persino le stelle erano oscurate, e al mondo non restava altro che la paura.» «Ho bisogno di bere qualcosa», borbottò Murillio. «Ottima idea», approvò Kruppe. «Non dovremmo aspettare il ragazzo, però?» L'attesa non fu lunga. Crokus li riconobbe e rallentò la sua corsa frenetica. «Apsalar è stata rapita dall'Impero!» gridò. «Ho bisogno di aiuto!» Si fermò barcollando davanti a Murillio. «E Rallick è ancora nel giardino...» «Shh, shh», ribatté Kruppe. «Calmati, ragazzo. Kruppe sa dove si trova Apsalar. Quanto a Rallick, be'...» Si volse verso la strada, agitando am-
piamente le braccia. «Respira l'aria della notte, Crokus! È cominciato un nuovo anno! Vieni, facciamo una passeggiata, noi tre, i signori di Darujhistan!» Prendendo a braccetto i compagni, li tirò avanti. Murillio sospirò. «Rallick è sparito», spiegò. «Ora nel giardino di Coll c'è una specie di casa straordinaria.» «Ah, quest'unica frase rivela tante cose!» Kruppe si appoggiò a Crokus. «Ma, sicuramente, la preoccupazione principale, segreta del ragazzo, al momento riguarda il destino di una bella giovanetta bionda, la cui vita è stata salvata all'ultimo momento da un nobile di nome Gorlas, nientemeno. Salvata, dice Kruppe, da una tonnellata di muratura spinta giù da un muro. Un'azione eroica, invero. La ragazza per poco non è svenuta dalla soddisfazione.» «Di cosa stai parlando?» chiese Crokus. «Chi è stato salvato?» Murillio sbuffò. «Credo, caro Kruppe, signore di Darujhistan, che tu abbia in mente la giovanetta sbagliata.» «Non è bionda», dichiarò Crokus. Kruppe gonfiò leggermente il petto. «Ora, ragazzo, ti interessa sapere come la proprietà di Lady Simtal stanotte è diventata la proprietà di Coll? Oppure la tua mente è così assorta in questo nuovo amore che nemmeno il destino dei tuoi amici più cari - Kruppe compreso - stimola la tua curiosità?» «Certo che mi interessa!» s'indignò Crokus. «Allora la storia comincia, come sempre, con Kruppe...» Murillio gemette. «Così parlò l'Anguilla.» EPILOGO Ho visto nascere una voce avvolta in uno stretto mistero lasciata a giacere sotto il sole nelle colline dei Gadrobi dove le pecore si sono disperse sulle ali dei venti rapaci e i pastori hanno fuggito il sussurro della sabbia e tremolò nel bagliore
cuore indurito nella pietra mentre l'ombra della Porta del Nulla strisciava attraverso il flusso della polvere Ho visto nascere questa voce centomila cacciatori del cuore in una città bagnata di luce azzurra... La nascita della voce (n.?) Fisher (n.?) Il sole illuminò la bianca cortina di foschia che aleggiava sopra il lago. Giù sulla spiaggia, un peschereccio oscillava colpito dallo sciabordio delle onde. Privo di ormeggio, si staccò dai ciottoli nel giro di qualche attimo. Mallet aiutò Whiskeyjack a salire su una collina di roccia sopra la spiaggia, dove si sedettero. Il guaritore osservò Ben lo Svelto, che se ne stava con le spalle curve, gli occhi fissi verso la sponda opposta del lago. Seguì lo sguardo del mago. Moon's Spawn incombeva bassa sull'orizzonte; il basalto malconcio aveva una sfumatura dorata. Mallet grugnì. «Si dirige verso sud. Chissà cosa significa?» Whiskeyjack socchiuse gli occhi contro il bagliore del sole. Cominciò a massaggiarsi le tempie. «Ancora mal di testa?» chiese Mallet. «Ultimamente va meglio», rispose l'uomo brizzolato. «È la gamba che mi preoccupa», borbottò il guaritore. «Devo lavorarci su ancora, e tu dovresti lasciarla a riposo per un po'.» Whiskeyjack sogghignò. «Non appena ci sarà il tempo», rispose. «Aspetteremo, allora», sospirò Mallet. Dal pendio alberato alle loro spalle, Hedge chiamò: «Stanno arrivando!». Il guaritore aiutò Whiskeyjack ad alzarsi. «Per tutti i demoni», mormorò. «Sarebbe potuta andare molto peggio, eh, sergente?» Whiskeyjack guardò dall'altra parte del lago con aria torva. «Tre perdite non sono poi così tante, tutto sommato.» Un'espressione di dolore attraversò il viso di Mallet, che non disse nulla. «Muoviamoci», ruggì Whiskeyjack. «Il capitano Paran odia i ritardatari. E forse i Moranth hanno buone notizie. Sarebbe un bel cambiamento, no?» Dalla spiaggia, Ben lo Svelto guardò Mallet che assisteva il suo sergente
nella salita. Era giunta l'ora? si chiese. Nessuno che volesse rimanere vivo in quelle intemperie poteva permettersi di lasciarsi andare. I piani migliori erano quelli che operavano dentro altri piani, e quando era giusto fare una finta, bisognava farlo bene. Tenere nascosta l'altra mano era la parte più difficile. Il mago avvertì una fitta di rammarico. No, non era ancora il momento. Doveva dare al vecchio la possibilità di riposare. Si costrinse a muoversi. Non avrebbe permesso a se stesso di guardare indietro - non era mai una buona idea. Era in ballo, e doveva ballare. «Whiskeyjack urlerà quando sentirà questa», bisbigliò fra sé. *** Il capitano Paran ascoltò gli altri parlare sulla spiaggia sottostante, ma non accennò a raggiungerli. Non ancora. La sua schermaglia con gli Ascendenti sembrava avergli dato una sensibilità nuova - o forse era colpa della spada Otataral che portava appesa al fianco. Ma ora avvertiva la presenza di lei, già adolescente, paffuta come era certo sarebbe stata, che studiava sorridente il cielo mattutino, gli occhi dalle palpebre pesanti fintamente assonnati. Verrò da te, le promise. Quando questo Veggente Pannion e la sua maledetta guerra santa saranno stati schiacciati, allora verrò da te, Tattersail. Lo so. S'irrigidì. La voce che aveva udito nella mente non era stata la sua. Oppure sì? Aspettò, aspettò dell'altro. Tattersail? Gli rispose solo il silenzio. Ah, è soltanto la mia immaginazione, e nulla più. Sono stato uno sciocco a pensare che avresti rievocato abbastanza della tua vecchia vita, da trovare i sentimenti che una volta provavi per me, da trovarli e da provarli ancora. Abbandonando la posizione accovacciata al fianco del tumulo di Lorn un mucchio di pietre - si alzò e si ripulì i vestiti da ramoscelli e aghi di pino. Guardami. Una volta agente dell'Aggiunto, ora soldato. Finalmente, un soldato. Sorridendo, si avviò verso lo squadrone. Allora aspetterò la venuta di un soldato. Paran si bloccò, poi, con un altro sorriso, proseguì il cammino. «Quella», mormorò, «non era la mia immaginazione».
*** Il battello mercantile costeggiò la riva sud, dirigendosi verso Dhavran e la foce del fiume. Appoggiato al parapetto, Kalam abbracciava con lo sguardo le montagne scabre, incappucciate di neve, sull'orizzonte settentrionale. Non lontano da lui, stava un altro passeggero, piuttosto insignificante e poco incline alla conversazione. Le uniche voci che arrivavano al sicario erano quelle di Apsalar e di Crokus. I due sembravano eccitati, e si giravano intorno reciprocamente in una danza sottile che doveva ancora trovare le sue parole di accompagnamento. Un mezzo sorriso increspò lentamente la bocca di Kalam. Da lungo tempo non assisteva a una simile manifestazione di innocenza. Un attimo dopo, Crokus apparve al suo fianco; il demone familiare di suo zio gli stava aggrappato alla spalla. «Coll dice che Unta, la capitale dell'Impero, è grande come Darujhistan. È vero?» Kalam scosse le spalle. «Forse. Certo è molto più brutta. Ma non credo che avremo la possibilità di visitarla. Itko Kan è sulla costa meridionale, mentre Unta è nella Baia di Kartool, sulla costa nordorientale. Hai già nostalgia di Darujhistan?» Sul viso di Crokus si dipinse un'espressione di rimpianto. Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle onde. «Solo di alcuni suoi abitanti.» Il sicario grugnì. «So come ti senti, Crokus. Perdinci, guarda Fiddler laggiù, con l'aria sconvolta come se qualcuno gli avesse tagliato un braccio e una gamba.» «Apsalar non riesce ancora a credere che vi diate tutto questo disturbo per lei. Non ricorda di essere stata particolarmente amata dal vostro squadrone.» «Ma allora non era la stessa di adesso, no? Questa ragazza qui è una pescivendola di un piccolo villaggio. Ed è molto lontana da casa.» «È più di questo», borbottò Crokus. In mano, aveva una moneta, con cui giocava distrattamente. Kalam gettò al ragazzo un'occhiata penetrante. «Davvero?» disse, impassibile. Crokus annuì con calore. Alzando la moneta, ne esaminò la faccia. «Credi nella fortuna, Kalam?» «No», ruggì il sicario. Crokus fece un sorriso beato. «Neanch'io.» Lanciò la moneta nell'aria. La guardarono precipitare nel mare, lampeggiare una volta, e infine spa-
rire sotto le onde. Da vicino alla prua, il Violatore del Cerchio annuì lentamente fra sé. L'Anguilla sarebbe stata felice della notizia, e senz'altro grandemente sollevata. Riportando l'attenzione a occidente, si chiese come sarebbe stato riacquistare un nome nel mondo. Così finisce la prima storia del Libro Malazan dei Caduti. GLOSSARIO Titoli e gruppi ALTO COMANDANTE: il titolo di Caladan Brood ARSORI DI PONTI: leggendaria divisione d'elite nel Secondo Esercito Malazan ARTIGLIO: organismo segreto dell'Impero Malazan GRAN PUGNO: comandante di eserciti in una Campagna Malazan GUARDIA CREMISI: famosa compagnia mercenaria comandata da un principe deposto KRON T'LAN IMASS: il nome dei clan sotto il comando di Kron LOGOS T'LAN IMASS: il nome dei clan sotto il comando di Logos PRIMA SPADA DELL'IMPERO: titolo che indica un campione dell'Impero, fra i Malazan e i T'lan Imass PUGNO: governatore militare nell'Impero Malazan VEGGENTE PANNION: misterioso profeta che governa le terre a sud di Darujhistan Popoli (umani e non-umani) BARGHAST (non-umani): società guerriera, nomade e pastorale DARU: gruppo culturale residente in varie città della parte nord di Genabackis GADROBI: gruppo culturale indigeno della parte nord di Genabackis GENABARII: gruppo e lingua - culturali della parte nord-ovest di Genabackis FORKRUL ASSAIL (non-umani): mitico popolo estinto (una delle quattro Razze Fondatrici) JAGHUT (non-umani): mitico popolo estinto (una delle quattro Razze
Fondatrici) K'CHAIN CHE'MALLE (non umani): mitico popolo estinto (una delle quattro Razze Fondatrici) MORANTH (non umani): civiltà fortemente irreggimentata con sede nella Foresta delle Nubi RHIVI: società nomade, pastorale abitante le pianure centrali di Genabackis T'LAN IMASS: una delle Quattro Razze Fondatrici, ora immortale TISTE ANDII (non-umani): una Razza Antica TRELL (non-umani): società nomade, pastorale in via di transizione verso la sedentarietà. Ascendenti AMMANAS/TRONOD'OMBRA: (Re dell'Alta Casa dell'Ombra) APSALAR: Signora dei Ladri BERU: Signore delle Tempeste BURN: Signora della Terra, la Dea Dormiente CALADAN BROOD: l'Alto Comandante militare COTILLION/LA FUNE: (Sicario dell'Alta Casa dell'Ombra) DESSEMBRAE: Signore della Tragedia IL DIO STORPIO: il Re delle Catene D'REK: il Verme dell'Autunno (a volte Regina della Malattia, vedi Poliel) FANDERAY: la Lupa dell'Inverno FENER: il Cinghiale (vedi anche Tennerock) IL FIGLIO DELL'OSCURITÀ/SIGNORE DELLA PROGENIE DELLA LUNA/ANOMANDER RARE (Cavaliere dell'Alta Casa dell'Oscurità) GEDDERONE: Signora della Primavera e della Rinascita I GRANDI CORVI: corvi sorretti dalla magia HOOD (Re dell'Alta Casa della Morte) JHESS: Regina della Tessitura KALLOR: l'Alto Re K'RUL: Dio Antico MOWRI: Signora dei Mendicanti e degli Schiavi NERRUSE: Signora dei Mari Calmi e del Vento Favorevole OPONN: Gemelli del Giullare della Fortuna OSSERC: Signore del Cielo POLIEL: Signora della Pestilenza
LA REGINA DEI SOGNI (Regina dell'Alta Casa della Vita) I SEGUGI (dell'Alta Casa dell'Ombra) SHEDUNUL/SOLIEL: Signora della Salute SOLIES: Signora della Guarigione TENNEROCK/FENER: il Cinghiale dalle Cinque Zanne TOGG (vedi Fanderay), il Lupo dell'Inverno TRAKE/TREACH: la Tigre dell'Estate e della Battaglia TREACH: Primo Eroe Il Mondo della Magia I Sentieri, ossia i Canali accessibili agli umani DENUL: il Sentiero della Guarigione D'RISS: il Sentiero della Pietra IL SENTIERO DI HOOD: il Sentiero della Morte MAENAS: Il Sentiero dell'Ombra e dell'Illusione RUSE: il Sentiero del Mare RASHAN: il Sentiero dell'Oscurità SERC: il Sentiero del Cielo TENNES: il Sentiero della Terra THYR: il Sentiero della Luce I Canali Antichi KURALD GALAIN: il Canale dell'Oscurità Tiste Andii OMTOSE PELLACK: il Canale Jaghut TELLAN: il Canale T'lann Imass STARVALD DEMELAIN: il Primo Canale, il Canale Tiam Il Mazzo dei Draghi - il Patio (e gli Ascendenti associati) ALTA CASA DELLA VITA Il Re La Regina (La Regina dei Sogni) Il Campione Il Sacerdote L'Araldo Il Soldato Il Tessitore Lo Scalpellino
La Vergine ALTA CASA DELLA MORTE Il Re (Hood) La Regina Il Cavaliere (un tempo Dassem Ultor) I Maghi L'Araldo Il Soldato Il Filatore Lo Scalpellino La Vergine ALTA CASA DELLA LUCE Il Re La Regina Il Campione Il Sacerdote Il Capitano Il Soldato La Cucitrice Il Muratore La Fanciulla ALTA CASA DELL'OSCURITÀ Il Re La Regina Il Cavaliere (Il Figlio dell'Oscurità) I Maghi Il Capitano Il Soldato Il Tessitore Lo Scalpellino La Moglie ALTA CASA DELL'OMBRA Il Re (Tronod'Ombra/Ammanas) La Regina
Il Sicario (La Fune/Cotillion) I Maghi I Segugi INDIPENDENTI Oponn (Il Giullare della Fortuna) Obilisk (Bum) Corona Scettro Globo Trono LA CABALA T'ORRUD: la Cabala di Darujhistan I CANALI DEL CAOS: i sentieri miasmatici fra i Canali D'IVERS: ordine superiore di trasmutazione delle forme DRAGNIPUR: spada usata da Anomander Rake FINNEST: oggetto usato da uno Jaghut come ricettacolo di potere FORTUNA: spada dedicata a Oponn DIVINATORE: sciamano dei T'lan Imass OTATARAL: minerale rossastro con poteri anti-magia estratto dalle Colline Tanno, presso Sette Città I RE TIRANNI: gli antichi governanti di Darujhistan SOLETAKEN: ordine di trasmutazione delle forme Nomi di luogo Abisso del Cercatore
Il nome Malazan per Oceano Meningalle
Altopiano Laederon
Tundra nella parte nord di Genabackis
Apple
città libera di Genabackis
Città di Malaz
Città-isola, dimora dell'Imperatore fondatore dell'Impero Malazan
Città Libere
Alleanza mercantile di città-stato nel nord di Genabackis; dai tempi del loro patto, tutte,tranne una, sono state conquistate dall'Im-
pero Malazan Colline Gadrobi
Catena collinare a est di Darujhistan, al momento scarsamente popolata, ma un tempo patria dei Gadrobi
Darujhistan
Leggendaria città di Genabackis, la più grande e la più influente delle Città Libere, situata sulla sponda meridionale del Lago Azzurro e abitata principalmente da popolazioni Daru e Gadrobi; l'unica città conosciuta a usare il gas naturale come fonte di energia
Dhavran
Città a ovest di Darujhistan
Dominio di Pannion
Impero emergente nella parte sud-orientale di Genabackis, governato dal Veggente Pannion
Foresta del Cane Nero
sul continente di Genabackis, vasta foresta boreale su strato roccioso, sede di importanti battaglie fra l'Impero Malazan e le armate di Caladan Brood con la Guardia Cremisi durante le Prime Campagne
Foresta delle Nubi
Dimora dei Moranth, situata sulla costa nord-occidentale di Genabackis
Fortezza di Mock
Una Roccaforte sovrastante la Città di Malaz, dove l'Imperatore e Dancer furono assassinati
Garalt
Città Libera di Genabackis
Genabaris
Grande città controllata dall'Impero Malazan sulla costa nord-occidentale di Genabackis; cruciale punto di sbarco durante le campa-
gne Gerrom
Piccolo villaggio rurale di Itko Kan
Greydog
Città di Genabackis
Impero Malazan
Impero che ebbe origine sull'Isola di Malaz, al largo della costa del continente Quon Tali. I fondatori originari, l'Imperatore Kellanved e il suo compagno Dancer, furono entrambi assassinati da Laseen, l'attuale Imperatrice. L'Impero comprende Quon Tali, il subcontinente di Falar, Sette Città, e le coste della parte settentrionale di Genabackis. Scorrerie occasionali invadono i continenti di Stratem e Korel
Itko Kan
Provincia sul continente di Quon Tali, all'interno dell'Impero Malazan
Kan
La capitale di Itko Kan
Test
Città-stato a est di Daruihistan
Monti Moranth
La catena montuosa che circonda la Foresta delle Nubi
Monti Tahlyn
Catena montuosa sul lato settentrionale del Lago Azzurro
Mott
Città di Genabackis
Nathilog
Città controllata dall'Impero Malazan nella parte nord-occidentale di Genabackis
Nisst
Città Libera di Genabackis
One Eye Cat
Città Libera di Genabackis
Oceano Meningalle
Il nome Genabackis per l'Abisso del Cercatore
Pale
Città Libera di Genabackis, recentemente conquistata dall'Impero Malazan
Pianura Rhivi
Pianura nella parte settentrionale di Genabackis
Progenie della Luna
Una montagna galleggiante di basalto nero dentro la quale si trova una città, dimora del Figlio dell'Oscurità e dei Tiste Andii
Ponile
Città Libera di Genabackis
Quartiere Topo
Un distretto sfortunato della Città di Malaz
Quon Tali
Continente dimora dell'Impero Malazan
Setta
Città sulla costa orientale di Genabackis
Tulips
Città Libera di Genabackis
Unta
Capitale dell'Impero Malazan, su Quon Tali
Darujhistan e Dintorni BAR DELLE FACEZIE: bar cadente nel Distretto Lago BARBACANE DEL DESPOTA: antico edificio, resto dell'Età dei Tiranni CAMPANILE/TEMPIO DI K'RUL: tempio abbandonato nel Distretto Nobile JAMMIT'S WORRY: la strada che conduce in città da oriente LOCANDA DELLA FENICE: ritrovo popolare nel Distretto Daru IL PALAZZO VECCHIO: sede attuale del Consiglio LE PROPRIETÀ (le Case) TORRE DEL SUGGERITORE: torre un tempo abitata da uno stregone,
ora abbandonata, nel Distretto Nobile QUARTIERE DI WORRY: il quartiere povero fuori dalle mura, sulla Jammit's Worry FINE