WILLIAM PETER BLATTY GEMINI KILLER (Legion, 1983) A Billy e Jennifer Parte prima «E Gesù domandò all'uomo il suo nome e ...
234 downloads
1011 Views
832KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
WILLIAM PETER BLATTY GEMINI KILLER (Legion, 1983) A Billy e Jennifer Parte prima «E Gesù domandò all'uomo il suo nome e quello rispose: "Il mio nome è Legione, perché siamo molti".» Marco, 5.9 1 Domenica 13 marzo Pensava alla morte e alle infinite sofferenze che l'accompagnavano. Agli Aztechi che strappavano il cuore ancora palpitante dal corpo delle vittime; al cancro; ai bambini di tre anni sepolti vivi. Si chiese se Dio fosse un'entità straniera e spietata. Poi si ricordò della musica di Beethoven, della infinita varietà delle cose, del lato divertente di esse e dell'"Evviva Karamazov!" e della dolcezza. Levò gli occhi al sole che spuntava alle spalle del Campidoglio striando di riflessi aranciati il Potomac e poi li riabbassò sull'orribile violenza che giaceva ai suoi piedi. Tra l'uomo e il suo creatore qualcosa doveva essere andato storto: la prova eccola lì, su quella banchina dinanzi a quella rimessa per le imbarcazioni. — Tenente, credo che l'abbiano trovato. — Prego? — Il martello. L'hanno trovato. — Il martello. Oh, certo. Kinderman tornò con i piedi per terra. Vide quelli della scientifica sulla banchina. Erano al lavoro armati di contagocce, provette e pinzette; filmavano, prendevano appunti, eseguivano schizzi, contornavano il suolo col gesso, il tutto con voci sommesse e muovendosi così silenziosamente da sembrare gli inconsistenti personaggi di un sogno. Lì accanto, i motori schiumanti delle draghe azzurre della polizia che rimescolavano la superficie del fiume si accordavano perfettamente all'orrore di quel mattino. — Be', penso che abbiamo quasi terminato qui, tenente. — Ah, sì, davvero?
Kinderman strinse gli occhi per il freddo. L'elicottero, agitando lievemente l'oscura melmosità del fiume, si allontanò con le sue luci intermittenti rosse e verdi. L'investigatore lo seguì con lo sguardo finché rimpicciolì all'orizzonte e scomparve nel chiarore dell'alba come svanisce una speranza. Rimase in ascolto col capo leggermente piegato di lato; poi rabbrividì e affondò ancor più le mani nelle tasche del cappotto. Le grida della donna si erano fatte più acute; e ora, mentre penetravano l'intrico della silenziosa boscaglia che ricopriva le rive del fiume ghiacciato, gli laceravano il cuore. — Gesù. Kinderman guardò Stedman. Il patologo della polizia, ginocchio a terra, si trovava accanto a un sudicio lenzuolo di tela grossa. Sotto di esso s'intuiva un corpo che Stedman stava osservando con grande concentrazione. Il patologo era immobile e soltanto il suo respiro, che in vapori gelati gli usciva dalle nari per dissolversi nell'aria pungente, pareva dotato di vita. D'un tratto si levò e guardò Kinderman in modo strano. — Sa quei tagli sulla mano sinistra della vittima? — Ha scoperto qualcosa? — Be', ho l'impressione che compongano un disegno. — Sicuro? — Sì, penso di sì. Un segno zodiacale. Direi quello dei Gemelli. Il cuore di Kinderman ebbe un sussulto. Respirò profondamente e poi guardò il fiume. Un sandolino dei canottieri della Georgetown University scivolò agile e silenzioso dietro la tozza poppa della draga, scomparve, ricomparve, svanì sotto il Key Bridge. Uno scintillio sulle acque del fiume lo indusse a riportare gli occhi sul lenzuolo spiegazzato. No. Non può essere, pensò. Non può essere. Il patologo seguì la direzione dello sguardo di Kinderman e con una mano arrossata dall'aria gelida si strinse al collo il bavero del cappotto. Si rammaricò di non aver indossato la sciarpa quel giorno, se n'era dimenticato, si era vestito troppo in fretta. — Che modo strano di morire — disse sommessamente. — Così innaturale... Il respiro di Kinderman era enfisematico e bianchi vapori si levavano dalle sue labbra. — Nessuna morte è naturale — mormorò. Qualcuno aveva creato il mondo. Gli aveva dato senso. Se no, perché avremmo gli occhi? Per vedere? E a che scopo vedere? Per sopravvivere? E perché sopravvivere? E perché? E perché? Questa infantile domanda era l'ossessione di tutta la galassia, il pensiero che a caccia del suo artefice
metteva alle strette la ragione, la costringeva in un labirinto senza uscita e assicurava Kinderman che l'universo materialista costituiva il più grande pregiudizio della sua epoca. Credeva nel prodigioso ma non nell'impossibile; non credeva all'infinito regresso delle circostanze né che l'amore o l'azione della volontà potessero essere riducibili a scariche di neuroni nel cervello. — Da quant'è che Gemini è morto? — chiese Stedman. — Dieci, dodici anni — rispose Kinderman. — Dodici. — E siamo sicuri che sia morto? — È morto. In un certo senso, pensò Kinderman, parzialmente. L'uomo non era soltanto un fascio di terminazioni nervose. L'uomo possedeva un'anima. Perché come potrebbe altrimenti la sola materia riflettere su se stessa? E com'era che Carl Gustav Jung aveva visto un fantasma nel suo letto e che la confessione di un peccato aveva il potere di guarire una malattia fisica e che gli atomi del suo corpo si rinnovavano incessantemente senza però che ogni mattina al risveglio si ritrovasse diverso? Senza un aldilà che valore aveva quest'opera? Che significato aveva l'evoluzione? — È morto sulla diagonale... — mormorò Kinderman. — Come dice, tenente? — Nulla. Gli elettroni viaggiano da un punto a un altro senza mai attraversare lo spazio tra di essi. Dio ha i Suoi misteri. Jahvè: "Sarò là come colui che sono sarò là". Va bene. Amen. Ma era tutto così confuso, così sottosopra. Il Creatore ha dato all'uomo la capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, di sentirsi offeso dalla mostruosità e dalla malvagità; eppure, lo schema stesso della creazione era oltraggioso, perché fondava la vita sulla legge del nutrirsi in un universo stracolmo di astri che esplodevano e di fauci insanguinate. E quand'anche si scampava dal divenir cibo per qualcuno, c'era sempre la possibilità di restarci secco scivolando sul fango o in un terremoto o nella culla oppure per aver ingerito del veleno per topi somministrato dalla mamma o anche di finire i propri giorni nell'olio bollente di Gengis Khan ovvero scuoiato vivo o decapitato o soffocato, così, tanto per provare il brivido, per lo spasso. Cinquantatré anni di servizio e ne aveva viste... Tutte, le aveva viste tutte. E ora questo. Per un istante tentò le vie di fuga familiari: immaginò che l'universo e tutto ciò in esso contenuto non fossero che i pensieri partoriti dalla mente del Creatore; oppure che il mondo della realtà esterna non esistesse che nella sua testa, fosse un
suo parto, cosicché nulla al di fuori di lui stesso soffrisse realmente. Talvolta funzionava. Stavolta no. Kinderman osservò quelle forme nascoste dal telo. No, non questo, pensò, non il male che scegliamo o infliggiamo. L'orrore era il male insito nel tessuto della creazione. Il canto delle balene era bello, ammaliante, ma il leone squartava lo stomaco della preda e la minuscola mangusta si cibava di bruchi che animavano le profondità dei prati sui quali fiorisce il grazioso lillà; la nera gola del falco pecchiaiolo canta allegramente ma è lo stesso uccello che depone le uova nel nido di un altro e il suo piccolo è quello che, non appena rotto il guscio, fa scempio dei fratellastri col suo rostro duro e affilato. Quale mano od occhio immortale? Il volto di Kinderman si contrasse in una smorfia al ricordo di un reparto psichiatrico per bambini. In una stanza c'erano cinquanta piccole gabbie e dentro ciascuna un lettino e in ogni lettino un bambino che urlava. E tra di loro uno di otto anni affetto da rachitismo fin dalla nascita. La gloria e la bellezza della creazione potevano giustificare le sofferenze di quel bimbo? Ivan Karamazov meritava una risposta. — Stedman, gli elefanti muoiono di trombosi. — Come dice, prego? — Nella giungla. Muoiono per le fatiche cui sono sottoposti dalla ricerca di cibo e di acqua. Cercano di aiutarsi l'un l'altro; e se uno di essi muore troppo lontano dal gruppo, allora gli altri ne trasportano la carcassa nel loro cimitero. Il patologo sbatté le palpebre e si strinse più saldamente addosso le falde del cappotto. Aveva già sentito di queste sparate, di queste sortite che non c'entravano nulla e che negli ultimi tempi si erano fatte sempre più frequenti; ma questa era la prima a cui gli capitava di assistere personalmente. Nel distretto circolavano voci sul fatto che il comportamento di Kinderman, più o meno pittoresco, adesso stesse rivelando i segni della senilità; e Stedman dunque l'osservò ora con un occhio professionale. Nell'abbigliamento non vide nulla di insolito; i soliti pantaloni col risvolto non stirati e sformati; il solito feltro floscio con infissa nel nastro la pennetta screziata di un qualche uccellaccio. Una bancarella di abiti di seconda mano, pensò, e l'occhio colse qua e là delle macchie d'uovo rappreso. Ma fin lì nulla di strano, quello era sempre stato il suo stile. Né nulla di strano rivelava il suo aspetto fisico: le dita corte e grassocce ben curate, le gote piene e cascanti tirate a lucido col sapone, e gli occhi castani, un po' acquosi, con quel taglio leggermente piegato alle estremità che gli conferiva
l'aria di chi stia sempre contemplando il passato. E come sempre le sue maniere e il suo gestire misurato suggerivano l'immagine di un genitore all'antica, viennese, costantemente impegnato a sistemare i fiori. — All'Università di Princeton — continuò Kinderman — stanno facendo degli esperimenti con gli scimpanzé. Uno scimpanzé abbassa una leva e dalla macchina esce una bella banana. Fin qui tutto bene, giusto? Ma ecco che quei bravi dottori costruiscono una gabbia e ci mettono dentro un altro scimpanzé. Come al solito arriva il primo scimpanzé per servirsi della sua banana; soltanto che stavolta, quando la leva si abbassa e spunta la banana, lo scimpanzé si accorge che il suo compagno in gabbia urla colpito da una scarica elettrica. Dopodiché, il primo scimpanzé, nonostante la fame e il digiuno non abbassa più la leva finché nella gabbia scorge un suo simile. Ci hanno provato con cinquanta, cento scimpanzé diversi, ottenendo lo stesso risultato. Certo, forse qualche tonto, forse qualche perfetto idiota, forse qualche sadico, avrà pure abbassato la leva; ma novantanove volte su cento non l'hanno fatto. — Non lo sapevo. Kinderman continuò a fissare il telo. In Francia avevano trovato due scheletri di Neanderthal; una volta esaminati, gli scienziati avevano concluso che quei due uomini erano stati tenuti in vita per due anni nonostante i resti presentassero gravissime ferite invalidanti. Era chiaro, pensò, che la tribù si era presa cura di loro. E consideriamo i bambini, rifletté. Non esisteva senso della giustizia più profondo, di ciò che è leale e di come le cose dovessero essere, di quello di un bimbo. E dove l'avevano imparato? E quando la mia Julie aveva tre anni non potevi darle un biscotto o regalarle un giocattolo senza che lei non lo mettesse da parte per qualche altro bimbo. In seguito aveva appreso a serbarli, a tenerli per sé. Il potere non corrompeva, pensò, bensì la sleale competizione del mondo dell'esperienza che li affogava in un cumulo di mille e mille cose di nessun peso. I bambini varcano le porte di questo mondo senza nessun bagaglio a parte la loro innocenza, la loro innata bontà. Una bontà che nessuno aveva loro insegnato e che non dava motivo all'esistenza dell'egoismo. Quando mai uno scimpanzé avrebbe adulato una cliente per indurla ad acquistare la gamma completa dei suoi negligée primaverili? Ridicolo. Sul serio. Chi mai ha sentito dire una cosa simile? Ed eccolo là il paradosso. Il male fisico e la bontà s'intrecciavano come le curve di una doppia ellisse nel codice genetico del cosmo. Ma come può essere? si chiese l'investigatore. Nell'universo c'era forse un predone in libertà? Un Satana? No. È sciocco. Dio gli a-
vrebbe assestato una tale botta in testa da rincretinirlo per l'eternità e spedirlo a girare intorno al sole per spiegargli di quella volta che aveva incontrato e stretto la mano ad Arnold Schwarzenegger. Satana lasciava intatto il paradosso, una ferita nella mente sempre sanguinante e mai destinata a guarire. Kinderman assestò il peso spostandolo da un piede all'altro. L'amore di Dio ardeva di un calore intenso e vivo ma non diffondeva luce. C'erano ombre nella Sua natura? Egli era fulgido e sensibile ma, per così dire, poco chiaro? Dopo tutto quel che si era detto e fatto la risposta al mistero non era altra che Dio fosse in realtà una specie di banca di credito. O poteva darsi che Egli fosse più vicino a essere un putz, un ragazzino, come dicono gli ebrei, come nessuno prima d'allora aveva immaginato che fosse, un essere di straordinaria potenza eppure limitato? L'investigatore immaginò un simile Dio mentre si difendeva in tribunale, «Colpevole, Vostro Onore, ma con un'attenuante.» La dottrina faceva ricorso in appello. Era razionale, ovvia, e di sicuro la più semplice e confacente. Ma Kinderman la respinse senza indugio e subordinò la logica alla sua intuizione, come aveva fatto nei tanti casi di omicidio che aveva dovuto affrontare. «Non sono venuto in questo mondo per vendere porta a porta Guglielmo d'Occam», così spesso l'avevano sentito dire ai colleghi perplessi e, in una occasione, persino a un computer. «È una mia idea, una mia opinione» soleva dire. E adesso, posto nuovamente dinanzi al problema del male, gli tornò quella sensazione. Qualcosa dentro di lui gli sussurrò che la verità era sconcertante e in qualche modo connessa al peccato originale, ma soltanto analogicamente, oscuramente. C'era qualcosa di diverso nell'aria. Kinderman alzò lo sguardo. I motori della draga erano stati spenti. Ancora le urla della donna. Nel silenzio udì lo sciabordìo del fiume contro il molo. Si volse e incrociò lo sguardo paziente di Stedman. — Punto primo: non possiamo continuare a imbatterci in cose di questo tipo. Punto secondo: ha mai provato a mettere un dito in una friggitrice bollente e a tenercelo? — No. — Io sì. Non si può. Fa troppo male. Sui giornali si legge che qualcuno è morto nell'incendio di un hotel. "Trentadue morti nel rogo del Mayflower" scrivono. Ma non ci si rende conto di quel che significhi sul serio. Non si riesce a valutarlo, a immaginarlo. Se si mette un dito in una friggitrice bollente, lo si capisce. Stedman assentì silenziosamente. Le palpebre di Kinderman si abbassa-
rono e fissò accigliato il patologo. Guardalo, pensò, crede che sia matto. È impossibile parlare di cose come queste. — C'è altro, tenente? Sì. Shadrach, Meshach e Abednego. "Poi il re, adirato, ordinò che si portassero al calor bianco friggitrici e crogiuoli di ottone; e ordinò che a quello che aveva parlato per primo si tagliasse la lingua, gli si scuoiasse il capo, gli si mozzassero mani e piedi. E quindi ordinò, poiché quello era ancor vivo, che fosse condotto dov'erano i bracieri e venisse gettato nella friggitrice." — No, nient'altro. — Possiamo far portare via il cadavere adesso? — Non ancora. Il dolore ha le sue modalità, ruminò Kinderman, e il cervello aveva la facoltà di farlo cessare in qualsiasi momento. Ma come? Il Grande Fantasma del Cielo non ce l'ha detto. "Il Crittografo delle Pene dell'Orfanella Annie svela alcuni Errori Ecclesiastici" non era stato ancora pubblicato. Delle teste rotoleranno, pensò cupamente Kinderman. — Stedman, vada. Sparisca. Si prenda un caffè. Kinderman lo guardò avviarsi verso la rimessa delle barche, dove fu raggiunto dagli altri della scientifica, quello che eseguiva gli schizzi, quello che raccoglieva gli indizi, quello che prendeva le misure e quello che redigeva i verbali del sopralluogo. Avevano tutti un'aria disinvolta. Uno di essi ridacchiò. Kinderman si chiese che cosa si erano detti per provocare quella risata e pensò a Macbeth e al progressivo intorpidimento del senso morale. Quello che redigeva i verbali porse a Stedman un registro. Il patologo annuì e il gruppetto si allontanò. La ghiaia del vialetto scricchiolò sotto i loro passi mentre rapidamente superavano l'ambulanza e il personale paramedico in attesa; presto le loro voci, che celiavano e sparlavano come al solito delle mogli, avrebbero risuonato per le strade acciottolate e deserte di Georgetown. Si affrettavano; probabilmente avevano messo la prua verso la prima colazione e forse puntavano verso l'accogliente White Tower sulla M Street. Kinderman gettò un'occhiata all'orologio e annuì. Sì. La White Tower era aperta tutta la notte. Tre uova veloci, per favore, Louis, e un mucchio di pancetta, O.K.? E pane tostato. Anche la foga ha le sue modalità. Svoltarono un angolo e scomparvero. Risonò una risata. Kinderman riportò lo sguardo sul patologo, che stava parlando con un altro, il sergente Atkins, l'assistente di Kinderman. Il giovane e gracile A-
tkins sopra la giacca del completo di flanella marrone indossava una giubba alla marinara, mentre la testa, con la sua setolosa e ordinata capigliatura a spazzola, scompariva dentro un berretto di lana nera da pescatore calato fin sulle orecchie. Stedman gli stava porgendo il registro. Atkins annuì, si allontanò di pochi passi e si sedette sulla panchina di fronte alla rimessa. Aprì il registro e si mise a esaminarne il contenuto. Non lontano da lui sedevano una donna in lacrime e un'infermiera che, cingendola con le braccia, cercava di consolarla. Stedman, adesso solo, fissava la donna, immobile. Kinderman osservò la sua espressione con interesse. Allora senti qualcosa, Alan, pensò; anni e anni di mutilazione, di violenze, e ancora dentro di te c'è qualcosa che sente. Molto bene. Anch'io. Facciamo parte del mistero. Se la morte fosse come la pioggia, cioè semplicemente naturale, perché dovremmo sentirci così, Alan? In particolare tu e io, perché? Kinderman moriva dalla voglia di trovarsi a casa, nel suo letto. La stanchezza gli affondava nelle ossa delle gambe e poi proseguiva ancor più giù, lenta e pesante, fin dentro il terreno sotto i suoi piedi. — Tenente? Kinderman si voltò. — Sì? Era Atkins. — Sono io, signore. — Sì, lo vedo che sei tu, lo vedo. Kinderman finse di osservarlo con antipatia, soffermandosi lugubremente sulla giubba e sul berretto prima di guardarlo negli occhi. Occhi piccoli e color della giada, che convergendo leggermente donavano ad Atkins un'aria di perenne meditazione. A Kinderman ricordò un monaco medievale, di quelli che si vedono nei film, con quelle espressioni gravi, oneste ma un po' vuote. Vuoto, Atkins non lo era di certo, il tenente lo sapeva. Trentadue anni, veterano della marina in Vietnam, università cattolica, dietro quella maschera compassata nascondeva qualcosa di luminoso e potente che ronzava, mugolava, mormorava qualcosa di meraviglioso e di fatato non esente da una certa tortuosità - secondo l'opinione di Kinderman - ma anche di una schietta finezza d'animo. Benché fosse di corporatura esile, una volta aveva salvato la gola, e quindi la pelle, a Kinderman stendendo un gigante armato di coltello e imbottito di stupefacenti. E quando la figlia di Kinderman aveva avuto quell'incidente d'auto quasi mortale, Atkins non si era mosso dalla sala d'aspetto del reparto ospedaliero in cui era stata ricoverata per dodici giorni e dodici notti consecutive. Per farlo, aveva preso le ferie. Kinderman gli voleva molto bene. Era fedele come può esserlo
soltanto un cane. — Sono qui anch'io, Martin Lutero, e ti ascolto. Kinderman, il saggio ebreo, è tutt'orecchi. Che altro fare se no, piangere? Ti ascolto, Atkins, tu, anacronismo su due gambe. Dimmi. Riferisci le buone nuove. Impronte digitali? — Un mucchio. Dappertutto sui remi. Ma praticamente illeggibili, tenente. — Peccato. — Mozziconi di sigaretta... — propose Atkins speranzoso. Questo era utile. Li avrebbero analizzati per rintracciare il gruppo sanguigno del fumatore. — E capelli sul corpo della vittima. — Bene. Ottimo. — Potevano risultare utili per l'identificazione dell'assassino. — E qui c'è questo... — disse Atkins, mostrandogli un sacchetto di cellophane. Kinderman delicatamente lo afferrò per una estremità e osservandolo aggrottò le sopracciglia. Dentro c'era un aggeggio rosa di materiale plastico. — Cos'è? — Un fermaglio. Una molletta per capelli. Kinderman strinse gli occhi guardando più da vicino il reperto. — Sopra c'è scritto qualcosa... — Sì, Great Falls, Virginia. Kinderman abbassò il sacchetto e guardò Atkins. — Le vendono sulle bancherelle di souvenir di Great Falls — disse. — Mia figlia Julie ne ha una. Anni orsono, Atkins, gliela comprai io. Anzi, due. Ne aveva due. — Restituì il sacchetto ad Atkins. Dalla bocca gli uscì un denso sbuffò di vapore. — È di una bambina. Atkins si strinse nelle spalle, lanciò un'occhiata in direzione della rimessa e si rimise il sacchetto in tasca. — Quella donna, tenente... — Ti dispiacerebbe toglierti quel ridicolo copricapo? Non stai interpretando Dick Powell in Arriva la marina, Atkins. Smettila di bombardare Haiphong, è finita. Atkins deferentemente si sfilò il berretto e se lo ficcò nell'altra tasca della giubba. Rabbrividì. — Rimettilo — disse Kinderman pacatamente. — Sto bene. — Io no. Il taglio a spazzola è peggio. Rimettilo.
Atkins esitò, allora Kinderman aggiunse — Su, rimettilo. Fa freddo. Atkins obbedì. — Dicevo, quella donna, tenente... — Chi? — Quella signora anziana... Il corpo era stato rinvenuto da Joseph Mannix, il gestore della rimessa, al suo arrivo sulla banchina quella mattina, domenica 13 marzo. Mannix vendeva esche e attrezzature da pesca oltre che noleggiare kayak, canoe e barche a remi. La sua dichiarazione era stata breve. DICHIARAZIONE DI JOSEPH MANNIX — Mi chiamo Joseph Mannix e... come? (Interruzione dell'agente.) "Sì. Ah, sì, ho capito. Mi chiamo Joseph Francis Mannix, abito al 3618 di Prospect Street, Georgetown, Washington D.C. Sono il proprietario e il gestore della rimessa Potomac. Sono arrivato qui intorno alle cinque e mezza. "E l'ora in cui di solito apro, sistemo le esche e faccio il caffè. I clienti cominciano a farsi vivi verso le sei; ma talvolta li trovo già qui ad aspettarmi. Oggi non c'era nessuno; ho tirato su il giornale ai piedi della porta e... oh, Dio, Dio mio... (Interruzione; il testimone si ricompone.) "Sono arrivato qui, ho aperto la porta, sono entrato, ho messo su il caffè. Poi sono uscito per andare a contare le barche. Capita che le stacchino. Tagliano le catene con le tronchesi. Così le conto. Oggi c'erano tutte. Poi faccio per voltarmi per rientrare e vedo il carrettino e il mucchio dei giornali e vedo... vedo..." (Il testimone fa dei cenni in direzione del corpo della vittima; non riesce a proseguire; l'agente pone ulteriori domande.) La vittima era Thomas Joshua Kintry, dodici anni, nero, figlio di Lois Annabel Kintry, vedova, trentotto anni, insegnante di lingue alla Georgetown University. Thomas Kintry distribuiva il Washington Post agli abbonati. Quella mattina doveva aver fatto la sua consegna alla rimessa intorno alle 5 antimeridiane. La chiamata di Mannix alla centrale di polizia era giunta alle 5 e 38. L'identificazione della vittima era stata immediata per via della targhetta con indirizzo e recapito telefonico cucita sulla giacca a vento verde scoz-
zese della vittima: Thomas Kintry era muto. Compiva quel giro soltanto da tredici giorni, altrimenti Mannix l'avrebbe riconosciuto. E infatti non l'aveva riconosciuto; Kinderman invece sì. Era lo stesso ragazzo che consegnava il giornale al circolo della polizia. — Quella signora anziana... — gli fece ottusamente eco Kinderman. Poi corrugò la fronte, perplesso, e fissò il fiume. — L'abbiamo fatta entrare nella rimessa, tenente. Kinderman si voltò e gli piantò gli occhi addosso. — È al caldo? — chiese. — Assicurati che stia ben calda. — L'abbiamo avvolta in una coperta e il camino è acceso. — Deve mangiare. Datele della zuppa, zuppa calda. — C'è del brodo... — Il brodo va bene, basta che sia ben caldo. Gli agenti che setacciavano la zona l'avevano scovata a una cinquantina di metri dalla rimessa, sulla riva erbosa del canale prosciugato della C&O (attualmente in disuso ma dove un tempo dei barconi trainati da cavalli trasportavano la gente su e giù per i suoi sessanta chilometri di lunghezza), oggi frequentato soprattutto da chi praticava il jogging. Quando la squadra l'aveva trovata, la donna, probabilmente sui settanta, era in piedi, scossa da violenti brividi, le braccia appiccicate ai fianchi, gli occhi pieni di lacrime, lo sguardo perso nel vuoto come se si fosse smarrita o fosse disorientata e impaurita. Ma non era riuscita o non aveva voluto rispondere alle domande degli agenti. Dava l'impressione che fosse o svanita o stordita o in stato catatonico. Nessuno capiva cosa facesse in quel posto, tanto più che nelle vicinanze non c'erano abitazioni e aveva indosso un pigiama di cotone a fiorellini sotto una vestaglia di lana azzurra con cintura e pantofole foderate color rosa pallido. La temperatura era sotto zero. Ricomparve Stedman. — Ha finito col cadavere, tenente? Kinderman abbassò lo sguardo sul telo macchiato di sangue. — E Thomas Kintry ha finito? Il pianto gli salì nuovamente in gola. Scosse il capo. — Atkins, accompagna la signora Kintry a casa. E l'infermiera, portatela dietro. Fa' che resti con lei oggi, tutto il giorno. Pagherò io lo straordinario, niente paura. Portala a casa. Atkins fece per parlare ma Kinderman lo interruppe. — Sì, sì, sì, quell'anziana signora. Me lo ricordo. Andrò a vederla. Atkins si allontanò per eseguire l'ordine ricevuto. Kinderman, un po' ansimando un po' gemendo per lo sforzo, si curvò su un ginocchio. — Tho-
mas Kintry, perdonami — mormorò, poi sollevò il telo e lasciò che i suoi occhi percorressero lievemente quelle braccia, quel petto, quelle gambe. È così minuto, sembra un passero, pensò. Il ragazzo era stato un orfanello e aveva avuto la pellagra. All'età di tre anni era stato adottato da Lois Kintry. Una vita nuova. E adesso? Finita. Era stato crocifisso, inchiodato mani e piedi sulle pale dei due remi incrociati di un kayak. Un ferro dello spessore di tre pollici gli aveva spaccato circolarmente la sommità del cranio e, penetrata la dura madre, gli si era infisso nella materia cerebrale. Rivoletti contorti di sangue rappreso gli rigavano il contorno degli occhi, tuttora spalancati, e della bocca, anch'essa spalancata in quel che doveva essere stato il silenzioso grido di indicibile dolore e d'indicibile terrore del piccolo muto. Kinderman esaminò i tagli sul palmo della mano sinistra. Era vero: un disegno... il segno zodiacale dei Gemelli. Poi guardò l'altra mano e vide che mancava del dito indice. Era stato mozzato di recente. Kinderman fu percorso da un brivido. Sistemò il telo e lentamente si rimise in piedi. Continuò a fissare il telo con triste determinatezza. Troverò il tuo assassino, Thomas Kintry, pensò. Fosse anche stato Dio. — Bene, Stedman, vada a farsi un giro — disse. — Prenda il cadavere e se ne vada. Lei puzza di formaldeide e di morte. Stedman si mosse per andare a chiamare il personale dell'autoambulanza. — No, no, aspetti un minuto — lo richiamò Kinderman. Stedman si volse. L'investigatore gli si avvicinò e gli disse in tono sommesso: — Aspetti che sua madre sia andata via. Stedman annuì. La draga attraccò. Un sergente di polizia con indosso un giubbotto di pelle nera foderato d'agnello balzò agilmente sulla banchina e li raggiunse recando qualcosa avvolto in un panno. Stava per parlare ma Kinderman lo fermò. — Aspetti un attimo. Lo tenga, non adesso. Soltanto un minuto. Il sergente seguì la direzione dello sguardo di Kinderman. Atkins stava parlando con l'infermiera e con la signora Kintry, la quale annuì. Le due donne si alzarono. Kinderman dovette stornare lo sguardo quando la madre fissò il suo sul telo. Sul suo bambino. L'investigatore attese qualche istante e quindi chiese: — Sono andate? — Sì, stanno salendo in auto — disse Stedman. — Sì, sergente — disse Kinderman. — Vediamo.
Senza dir nulla il sergente sciolse le cocche del panno e mostrò quel che sembrava essere un batticarne da cucina. Prestò ogni attenzione a non toccarlo con le mani. Kinderman lo guardò e disse: — Mia moglie ne ha uno simile. Per le schnitzel. Soltanto più piccolo. — È la misura da ristorante — osservò Stedman. — O nelle cucine delle mense. Ne ho visti di simili sotto le armi. Kinderman spostò lo sguardo su di lui. — Può averlo fatto con questo? — chiese. Stedman annuì. — Lo dia a Delyra — ordinò Kinderman al sergente. — Io vado dentro a trovare la donna. L'interno della rimessa era caldo. Alcuni ciocchi ardevano e crepitavano in un grande camino dalla cornice formata da massicce pietre rotondeggianti. Nelle pareti erano incastonati gruppi di conchiglie d'ogni sorta. — Posso chiederle come si chiama, signora? La donna sedeva assieme a una poliziotta su un vecchio divano giallo in tessuto algonchino dinanzi al caminetto. Kinderman stava tra loro e il caminetto, respirando affannosamente e tenendo il feltro per la tesa. La donna pareva che non lo vedesse né lo sentisse; con lo sguardo assente sembrava fissare un punto inesistente. L'investigatore si fece perplesso. Si accomodò su una sedia dinanzi a lei e delicatamente posò il cappello su alcune vecchie riviste spiegazzate e senza copertina che giacevano sull'angolo di un tavolino di legno tra il sofà e la sedia. Il feltro coprì la pubblicità di un whisky. — Mia cara, ci vuol dire come si chiama? Nessuna risposta. Gli occhi di Kinderman interrogarono il volto della poliziotta, che subito assentì e gli spiegò con calma: — Non ha fatto altro per tutto il tempo, salvo quando le abbiamo dato qualcosa da mangiare. E quando le ho spazzolato i capelli — aggiunse. Lo sguardo di Kinderman tornò sulla donna, che muoveva con strane e ritmiche cadenze le mani e le braccia. Poi i suoi occhi caddero su qualcosa che prima non aveva colto, qualcosa di piccolo e rosa posato sul tavolino vicino al suo cappello. Lo prese e lesse la minuscola scritta — Great Falls, Virginia. — La n di Virginia mancava. — Non sono riuscita a trovare l'altra — disse la poliziotta — così, quando le ho spazzolato i capelli, non gliel'ho rimessa.
— L'aveva indosso? — Sì. Il cuore di Kinderman palpitò per la scoperta e lo sconcerto. Quella donna, concepibilmente, era stata testimone del delitto. Ma che ci faceva sulla banchina a quell'ora? E con quel freddo? E per la stessa ragione, che ci faceva lungo il canale della C&O, dove l'avevano trovata? Immediatamente a Kinderman passò per la mente che quella poveretta non ci stesse più con la testa e che fosse magari uscita a passeggio col cagnolino. Un cane? Sì, forse le era scappato e non era riuscita a ritrovarlo. Questo spiegherebbe la sua disperazione. Poi, un altro terribile sospetto gli balenò nella mente: la donna poteva aver assistito all'assassinio ed esserne rimasta sconvolta in maniera traumatica, almeno per il momento. Avvertì una strana sensazione di pietà, di eccitazione e di fastidio. Dovevano convincerla a parlare. — Signora, può dirci come si chiama, per favore? Nessuna risposta. Si limitava a continuare i suoi misteriosi gesti nel più assoluto silenzio. Una nuvola scivolò sul disco del sole e una tenue luce invernale penetrò con inaspettata dolcezza da una finestra vicina, illuminando delicatamente il volto e gli occhi della vecchia signora, donandole un'aura di grazia e di tenera pietà. Kinderman si curvò un po' in avanti. Pensò che osservandone i movimenti ne avrebbe scoperto il senso. La donna, che teneva le gambe strette e spostava alternativamente una mano poi l'altra sulle cosce, compiva un leggero, curioso movimento per sollevare infine in alto la mano sopra la testa, dove terminava la sequenza con una serie di fitti e convulsi colpetti. Continuò a osservarla per un po', quindi si alzò in piedi. — Portala al distretto, Jourdan, e tienila lì, finché non scopriamo chi è. La poliziotta annuì. — E spazzolale i capelli — aggiunse. — Le piace. Sta' con lei. — Sì. Kinderman si volse e uscì. Impartì alcune disposizioni, si impose di non pensare, salì in auto e si diresse a casa, una piccola, accogliente costruzione in stile Tudor nei pressi di Foxhall Road. Soltanto sei anni prima, per compiacere la moglie, aveva deciso di interrompere la consuetudine di vivere in appartamenti e tuttora continuava a definire quella zona moderatamente rustica "la campagna". Entrò in casa e chiamò: — Ciccia, sono qua. Sono io, il tuo eroe, l'ispettore Clouseau. — Appese cappello e cappotto all'attaccapanni del minuscolo atrio, si liberò di pistola e fondina e le chiuse a chiave nel cassettino
della piccola, scura cassapanca accanto all'attaccapanni. — Mary? — Nessuna risposta. Percepì l'odore del caffè appena fatto e si diresse col suo passo strascicato verso la cucina. Julie, la figlia ventiduenne, senza dubbio dormiva. Ma Mary dov'era? E Shirley, sua suocera? La cucina era in stile coloniale. Kinderman gettò una malinconica occhiata alle padelle di rame e ai diversi utensili appesi coi gancetti alla cappa sopra i fornelli, sforzandosi di figurarseli appesi in una qualche cucina del ghetto di Varsavia; quindi, a passo lento e pesante si avvicinò al tavolo. — Acero — borbottò (gli capitava spesso di parlottare tra sé e sé quand'era solo). — Quale ebreo distinguerebbe dell'acero da un pezzo di formaggio? Non ci riuscirebbero, è impossibile, è una cosa estranea. — Sul tavolo c'era un biglietto; lo prese e lesse: Mio caro Billy, non prendertela, ma quando la telefonata ci ha svegliato, mamma ha insistito perché andassimo a Richmond (come punizione, immagino) e così ho pensato che fosse meglio muoversi subito. Mamma dice che nel sud gli ebrei dovrebbero sostenersi a vicenda. Chi c'è a Richmond? Ti sei divertito con la tua squadra di poliziotti d'assalto? Non vedo l'ora di tornare a casa e sentire tutto. Ti ho preparato le solite cose e le ho messe in frigo. Pensi di essere a casa stasera o di farti la solita pattinatina sul Potomac ghiacciato insieme a Ornar Sharif e Catherine Deneuve? Baci. Un piccolo, tenero sorriso gli illuminò il volto. Posò il biglietto e su un vassoio nel frigorifero trovò la crema di formaggio, i pomodori, il salmone affumicato, i sottaceti e un pasticcino alla mandorla. Tagliò a metà e tostò due ciambelle salate, si versò del caffè e si accomodò al tavolo. Poi notò la copia domenicale del Washington Post posata sulla sedia alla sua sinistra. Guardò il cibo di fronte a lui. Aveva lo stomaco vuoto ma non poteva mangiare. Non aveva più appetito. Per un po' rimase seduto a sorseggiare il caffè. Alzò lo sguardo alla finestra. Fuori, un uccello cantava. Con questo tempo? Dovrebbero farlo ricoverare. È malato, ha bisogno di aiuto. — Anch'io — mormorò. Poi l'uccello smise e non si udì che il ticchettìo dell'orologio a pendolo alla parete. Controllò l'ora: le 8 e 42. Tutti i goyim staranno andando in chiesa. Poco male. Dite una preghiera per Thomas Kintry, per favore. — E per William F. Kinderman — aggiunse a voce alta. Sì, per l'uno e per l'altro. Sorseggiò
il caffè. Che coincidenza strana, pensò, che un omicidio come quello di Kintry sia accaduto in un giorno come questo, in questo dodicesimo anniversario di un omicidio altrettanto scioccante, violento e misterioso. Kinderman guardò l'orologio alla parete. Si era fermato? No. Camminava. Cambiò posizione sulla sedia. Nella stanza percepì una sorta di estraneità. Cos'era? Nulla. Sei stanco. Prese il dolcetto, lo scartò e lo mangiò. Non è altrettanto buono senza aver mangiato prima i sottaceti, si dolse. Scosse il capo e si alzò con un sospiro. Mise via il vassoio con il cibo, sciacquò la tazza, uscì dalla cucina e prese le scale per andare al piano superiore. Pensò di farsi un sonnellino e di lasciar lavorare l'inconscio, che selezionasse per lui indizi ancora ignoti; ma giunto in cima alle scale si arrestò e mormorò: — Gemini. Gemini? Impossibile. Quel mostro è morto; non può essere. Sì? E allora perché quel formicolìo sul dorso delle mani? si chiese. Le sollevò, le palme rivolte in basso. Sì. Gli si erano rizzati i peli. Che significava? Sentì che Julie si era alzata e che stava andando nel suo bagno. Restò dov'era, perplesso, incerto sul da farsi. Avrebbe dovuto fare qualcosa. Ma cosa? Inutile tentare le strade consuete: si cercava un maniaco e la scientifica non avrebbe potuto fornire alcuna indicazione prima di sera. Da Mannix, intuiva, non c'era null'altro da cavare e la madre di Kintry era meglio lasciarla in pace. E, a ogni modo, il ragazzo era sempre stato a posto, Kinderman lo sapeva più che bene dal regolare contatto che aveva avuto con lui. Scosse il capo. Doveva uscire, darsi da fare, iniziare la caccia. Udì scorrere l'acqua della doccia di Julie. Si voltò e ridiscese le scale fino all'atrio. Riprese la pistola, indossò cappello e cappotto e uscì. Una volta fuori restò con la mano sulla maniglia, inquieto, pensieroso, indeciso. Il vento fece rotolare giù per la strada un piccolo contenitore di polistirolo rigido. Ascoltò il suono lieve e sconsolato dei suoi rimbalzi che si allontanavano. Poi, silenzio. Bruscamente si diresse all'auto, salì, mise in moto e partì. Senza riuscire a capire come avesse fatto, si ritrovò in divieto di sosta sulla 33a Strada, vicino al fiume. Scese dall'auto. Qua e là ai piedi delle porte vide la copia domenicale del Washington Post. Una vista penosa. Distolse lo sguardo e chiuse l'auto. Attraversò un piccolo parco che conduceva a un ponte che valicava il canale. Percorse un'alzaia che portava alla rimessa, dove già si era radunata una minuscola folla di curiosi, che si dava d'attorno interrogandosi su
cosa fosse successo. Kinderman andò alla porta della rimessa che trovò chiusa a chiave e sbarrata da un cartello bianco e rosso con la dicitura CHIUSO. Kinderman gettò un'occhiata alla panchina vicino alla porta e si sedette. Respirava con un po' di affanno e si appoggiò con la schiena alla parete della rimessa. Osservò la gente sulla banchina. Sapeva che spesso i criminali psicotici godevano dello spettacolo e dell'interesse suscitati dai loro delitti. Il suo poteva trovarsi lì, tra quella gente sulla banchina, forse chiedendo qua e là: «Cos'è accaduto? Lei lo sa? C'è stato un omicidio?». Cercava con gli occhi qualcuno che sorridesse un po' troppo fissamente o che avesse un tic o lo sguardo del drogato e, soprattutto, quello che, essendosi informato e avendo già ricevuto risposta sull'accaduto, si attardasse e chiedesse ancora informazioni a qualche nuovo venuto. Kinderman si frugò in una delle tasche del cappotto, dove teneva sempre un paio di tascabili, estrasse Il divo Claudio e ne considerò con disappunto la copertina. Voleva fingere di essere un vecchio che trascorreva la domenica sul fiume ma quel romanzo di Robert Graves avrebbe potuto rivelarsi pericoloso, perché senza volerlo gli sarebbe potuto capitare di mettersi a leggerlo sul serio, permettendo forse così all'omicida di passare inosservato. L'aveva già letto due volte e conosceva bene il pericolo di rimmergersi in quelle pagine suggestive. Lo rimise in tasca ed estrasse un secondo libro. Aspettando Godot. Emise un sospiro di sollievo e lo aprì al secondo atto. Si attardò sulla banchina fino a mezzogiorno senza scorgere nessun sospetto. Dalle undici non c'era stato nessun altro e il passeggio dei curiosi era terminato; ma attese, sperando, per un'altra ora. Guardò l'orologio, poi le barche incatenate sul molo. Qualcosa lo tormentava. Cosa? Ci pensò su per un po' ma non riuscì a trovare risposta. Ripose Godot e se ne andò. Sul parabrezza dell'auto trovò una multa per divieto di sosta. La sfilò dal tergicristallo e la osservò incredulo. L'auto era una Chevrolet Camaro qualsiasi ma aveva la targa della polizia distrettuale. Si ficcò la multa in tasca, aprì la portiera, salì a bordo e partì. Non aveva idea di dove dirigersi e andò a finire al distretto di Georgetown. Una volta dentro, si avvicinò al sergente di turno dietro la scrivania. — Chi è che fa le multe sulla Trentatreesima vicino al canale la mattina, sergente? Il sergente alzò lo sguardo. — Robin Tennes. — Sono entusiasta di essere ancora in vita in un'epoca e in un posto in cui persino una cieca può diventare poliziotta — disse Kinderman, che gli
porse la multa e si allontanò con la sua andatura dondolante. — Niente di nuovo sul ragazzo, tenente? — esclamò il sergente senza neanche dare un'occhiata alla multa. — Niente di nuovo, niente di nuovo — replicò Kinderman. — Nulla di nulla. Salì al piano superiore, attraversò il centro operativo della omicidi sviando le domande dei curiosi e infine raggiunse il proprio ufficio. Lo spazio di un'intera parete era occupato da una mappa particolareggiata della zona nordoccidentale della città, mentre un'altra era dominata da una grande lavagna. Sulla parete dietro la scrivania, tra due finestre che guardavano il Campidoglio, era appeso un poster di Snoopy, regalo di Thomas Kintry. Kinderman si sedette alla scrivania, il cappello in testa, il cappotto ancora abbottonato. Sulla scrivania c'erano un calendario a blocchetto, un'edizione economica del Nuovo Testamento e una scatola di plastica trasparente contenente dei kleenex. Ne prese uno, si soffiò il naso e poi fissò le foto disposte dinanzi alla scatola: sua moglie e sua figlia. Col fazzolettino ancora al naso spostò un po' la scatola e apparve la foto di un sacerdote dai capelli bruni. Senza mutare posizione, Kinderman lesse la dedica: "Tenga sotto controllo quei domenicani, tenente". Poi la firma: "Damien". Lo sguardo dell'investigatore si spostò di scatto sul sorriso di quel volto dai lineamenti marcati e quindi sulla cicatrice sopra l'occhio destro. D'un tratto, appallottolò il fazzolettino, lo gettò nel cestino e fece l'atto di afferrare il ricevitore del telefono allorché entrò Atkins. Kinderman sollevò lo sguardo mentre l'altro stava già richiudendo la porta. — Oh, sei tu. — Lasciò la cornetta e incrociò le mani sulla pancia. Sembrava una specie di Budda, in abiti borghesi. — Già qui? Atkins lentamente si avvicinò, si accomodò su una sedia di fronte alla scrivania e si tolse il berretto. I suoi occhi si posarono sul cappello del tenente. — Scusa l'impertinenza — disse Kinderman pacato — ma non ti avevo detto di restare con la signora Kintry? — Sono arrivati suo fratello e sua sorella. E altre persone dall'università. Ho pensato che potevo rientrare. — E hai fatto bene, Atkins. Ho un sacco di cose per te. — Kinderman attese che Atkins tirasse fuori il suo taccuino e una penna a sfera, poi riprese: — Primo: mettiti in contatto con Francis Berry. Era l'investigatore capo del caso Gemini anni or sono. È ancora alla Omicidi di San Franci-
sco. Voglio sapere tutto su quell'assassino. Tutto. L'intero incartamento. — Ma Gemini è morto da dodici anni. — Ah sì, davvero, Atkins? Non ne ho idea. Vuoi dire che tutti quei titoloni sui giornali corrispondevano alla verità? E quello che dissero alla radio e alla televisione? Sorprendente. Davvero? Mi hai messo a terra, Atkins. Atkins scriveva con un sorrisetto ironico disegnato sulle labbra. La porta scricchiolò e la testa di uno della scientifica fece capolino. — O.K., smettila di occhieggiare dagli usci ed entra, Ryan — disse Kinderman e Ryan entrò e richiuse la porta. — Fa' attenzione, Ryan — proseguì Kinderman. — Osserva il giovane Atkins. Ti trovi alla presenza di una maestà, un gigante. No, guarda, davvero. Un uomo dovrebbe ricevere il riconoscimento che gli spetta. Di sicuro, desideri conoscere a quali vette sia giunta la carriera di Atkins presso di noi. Non si dovrebbero offuscare le stelle con un canestro di gombo. La scorsa settimana, per la diciannovesima... — La ventesima — lo corresse Atkins, levando enfaticamente la penna. — Per la ventesima volta ha messo dentro Mishkin, quel famigerato malfattore. Il reato? La sua puntuale cambiale? Scasso con "risistemazione": entra negli appartamenti e sposta tutta la mobilia. — Kinderman si rivolse ad Atkins. — Stavolta lo spediamo alla neuro, giuro. — E la Omicidi che c'entra? — chiese Ryan. Atkins, impassibile, disse: — Mishkin lascia messaggi con minacce di morte per i proprietari nel caso che dovesse tornare e scoprire che qualcosa è fuori posto. Ryan sbatté le palpebre. — Impresa eroica, Atkins, omerica — disse Kinderman. — Ryan, hai qualcosa per me? — Non ancora. — E allora perché sei qui a farmi perdere tempo? — Mi chiedevo se ci fosse qualcosa di nuovo. — Sì, fuori fa molto freddo e, inoltre, il sole quest'oggi s'è levato. Altri quesiti da porre all'oracolo, Ryan? Più di un re d'Oriente sta attendendo il proprio turno. Ryan fece una smorfia di disgusto e uscì. Kinderman lo seguì con lo sguardo finché la porta non gli si richiuse alle spalle e poi guardò Atkins. — La storia di Mishkin, se l'è bevuta tutta. Atkins annuì.
Kinderman scosse il capo. — Non afferra l'antifona. — Ci prova, signore. — Grazie, Madre Teresa. — Kinderman starnutì e afferrò un kleenex. — Salute. — Grazie, Atkins. — Kinderman si soffiò il naso e si sbarazzò del fazzolettino. — Dunque, procurami l'intero incartamento Gemini. — Sissignore. — Dopodiché, informati se qualcuno ha chiesto dell'anziana signora. — Per ora no, signore. Ho controllato quando sono rientrato. — Chiama il Washington Post, ufficio distribuzione. Fatti dare il nome del responsabile del giro di Kintry e passalo all'FBI. Di' che controllino al computer se si è mai messo nei guai con la giustizia. Può darsi il caso che alle cinque del mattino e con 'sto freddo l'assassino non stesse facendosi una passeggiata e non si sia imbattuto fortuitamente in Kintry. Sapeva che l'avrebbe trovato lì. Dal piano sottostante il rumore sferragliante di una telescrivente cominciò a filtrare attraverso il pavimento. Kinderman abbassò lo sguardo in direzione del rumore. — Ma in questo posto come si fa a riflettere? Atkins annuì. Di botto la telescrivente cessò. Kinderman sospirò e guardò il suo assistente. — C'è un'altra ipotesi. Qualcuno può aver ucciso Kintry mentre faceva il suo giro, qualcuno a cui aveva già consegnato il giornale prima di raggiungere la rimessa. È possibile. Quindi, voglio che tutti i nomi degli altri addetti alla distribuzione seguano quello del principale dentro il computer. — Molto bene, signore. — Un'altra cosa. Quasi la metà delle copie di Kintry doveva essere ancora consegnata. Chiedi al Post chi ha chiamato per segnalare di non aver ricevuto il giornale. Poi depennali dalla lista e i nomi che restano, i nomi di tutti coloro che non hanno telefonato al giornale, falli mettere insieme agli altri nel computer. Atkins smise di prendere appunti e guardò il superiore con aria pensosa. Kinderman annuì. — Sì, esattamente. La domenica la gente vuole sempre il suo bel giornale, Atkins. Quindi, se qualcuno non ha chiamato per avvertire che non lo ha ricevuto ci sono soltanto due motivi: o l'abbonato è defunto o è l'omicida. È un tiro lungo, una supposizione, ma non si sa mai. Dovresti controllare i nomi anche col computer dell'FBI. A proposito, A-
tkins, pensi che un giorno i computer saranno in grado di pensare? — Ne dubito. — Anch'io. Una volta ho letto la risposta che un teologo aveva dato a questa domanda. Affermava che questo problema avrebbe cominciato a fargli perdere il sonno soltanto quando i computer avrebbero preso a preoccuparsi personalmente dell'usura dei loro componenti. La mia opinione è che i computer, per fortuna e che Dio li benedica, sono O.K.; ma un oggetto che esiste grazie ai suoi componenti, ossia grazie ad altri oggetti, non può sviluppare un pensiero. Dico bene? Che possedere una mente significhi possedere un cervello è roba da pappagalli. Certo, la mia mano è nella mia tasca; ma la mia tasca è la mia mano? Ogni ubriacone della M Street sa che un pensiero è un pensiero e non delle cellule o dei chazerei che vanno a spasso nel cervello. Sanno che la gelosia non è una specie di sport che si pratica ad Atari. Ma intanto, chi sta prendendosi gioco di chi? Se tutti quei sapientoni giapponesi riuscissero a costruire una cellula cerebrale artificiale sia pur della grandezza di un millimetro, per alloggiare un intero cervello artificiale ci sarebbe bisogno dello spazio di un capannone di un milione di metri cubi. E come faresti, dimmi, a farlo passare inosservato alla tua vicina, la signorina Briskin, e ad assicurarle che non sta succedendo nulla di strano? Inoltre, Atkins, io posso fantasticare sul futuro: conosci un computer in grado di farlo? — Ha scartato Mannix? — Non sto dicendo di immaginare l'abituale e prevedibile futuro, ma quello che non potresti mai congetturare. E non soltanto io. Leggi Esperimenti col tempo di J.W. Dunne; e anche Jung e Wolfgang Pauli, quel pezzo da novanta dei fisici quantisti suo compare che adesso chiamano il padre del neutrino. Di gente come questa ti puoi fidare, Atkins. In quanto a Mannix, ha sette figli, è un santo, lo conosco da diciotto anni. Dimenticalo. Quel che colpisce, secondo me, è che Stedman non ha rilevato nessun indizio che possa far pensare che Kintry sia stato prima colpito alla testa. Con quel che gli hanno fatto, cosa ne consegue? Che era cosciente. Dio mio, era cosciente. — Kinderman abbassò gli occhi e scosse il capo. — Dobbiamo cercare più di un mostro, Atkins. Qualcuno avrà dovuto tenerlo fermo. Non può essere altrimenti. Il telefono squillò. Kinderman guardò i pulsanti: la linea diretta. Sollevò il ricevitore e disse: — Kinderman. — Bill? — Era sua moglie. — Ah, sei tu, cara. Dimmi, com'è a Richmond? Siete ancora là?
— Sì, abbiamo appena visitato il Campidoglio. È bianco. — Che emozione. — Come va da te, tesoro? — Oh, meravigliosamente, cuor mio. Tre omicidi, quattro stupri e un suicidio. A parte questo, il mio solito passatempo quaggiù coi ragazzi del Sesto Distretto. Tesoro, quand'è che la carpa uscirà dalla vasca? — Ora non posso parlare... — Oh, capisco. La Madre dei Gracchi è lì accanto. Madre Mistero. Ti tiene sotto torchio, non è vero? — Non posso parlare. Ci sei stasera a cena? — Temo di no, mio angelo adorato. — E per pranzo? Non mangi come si deve quando non ci sono. Dovremmo ripartire ormai... Saremo a casa per le due del pomeriggio. — Grazie cara, ma oggi devo passare a salutare padre Dyer. — Cos'è successo? — Ogni anno, in questo giorno, è giù di corda. — Oh, è oggi... — Sì, è oggi. — Me n'ero dimenticata. Due poliziotti attraversarono la centrale tirandosi dietro un uomo che, gridando e imprecando, opponeva una violenta resistenza. — Io non c'entro! Levatemi le mani di dosso, stronzi bastardi! — Che c'è? — chiese la moglie di Kinderman. — Soltanto un goyim, tesoro. Nulla di preoccupante. — La porta della camera di sicurezza si richiuse alle spalle del fermato. — Porterò Dyer al cinema. Faremo quattro chiacchiere. Si distrarrà. — Allora, va bene. Ti preparerò qualcosa e te lo lascerò in forno, nel caso... — Sei un tesoro. Oh, a proposito: chiudi le finestre stanotte. — Come mai? — Mi sentirò più tranquillo. Abbracci e baci, ciccia. — Anche a te. — Lasciami un biglietto che mi avvisi della carpa, ti spiace, cara? Non vorrei rientrare e trovarla ancora lì. — Ma Bill! — Ciao, tesoro. — Ciao. Riagganciò e si alzò. Atkins lo guardava. — La carpa è una faccenda
personale — gli disse Kinderman. — Ti basti sapere che c'è del marcio in Danimarca. — Si avviò alla porta. — Hai un sacco di cose da fare, quindi, ti prego, comincia. In quanto a me, dalle due alle quattro e mezzo sono al Biograph. Dopo, sarò da Clyde o qui. Fammi sapere quando c'è qualcosa dal laboratorio. Qualsiasi cosa. Avvisami. Addio, Lord Jim. Goditi la tua lussuosa crociera sul Patna. Occhio alle falle. Varcò la soglia e si diresse nel mondo dei mortali. Atkins lo seguì con lo sguardo mentre, strascicando i piedi, attraversava la sala operativa e con un gesto della mano respingeva le domande come fossero mendicanti che affollavano una via di Bombay. Poi scese le scale e scomparve alla sua vista. Ne avvertiva già la mancanza. Atkins lasciò la sedia e si avvicinò alla finestra, da dove contemplò i marmorei monumenti cittadini, vivi e luminosi nella calda radiosità solare, e ascoltò i rumori del traffico domenicale. Era inquieto. Su quella luminosità si agitavano delle ombre, di cui non riusciva a capacitarsi, anche se ne percepiva gli spostamenti. Di che si trattava? Kinderman l'avrebbe capito, gliel'avrebbe spiegato. Atkins se ne sbarazzò. Credeva nel mondo e negli uomini e per entrambi provava un sentimento di pietà. Espresse la speranza che tutto volgesse al meglio, si voltò e si mise all'opera. 2 Joseph Dyer, gesuita, irlandese, cinquantacinquenne, insegnante di religione alla Georgetown University, aveva iniziato la sua domenica con la messa di Nostro Signore Gesù Cristo, rianimando la propria fede e rinnovandone il mistero, celebrando la speranza nella vita a venire e invocando misericordia per tutto il genere umano. Dopo la messa, si era recato a piedi fino al cimitero gesuita, situato in una valletta del campus, dove aveva deposto dei fiori su una tomba che recava il nome di DAMIEN KARRAS, Superiore Gesuita. Quindi, si era diretto nel refettorio universitario dove aveva consumato di buon appetito una colazione di proporzioni pantagrueliche: frittelle, costolette di maiale, pane di granturco, salsicce, uova e pancetta. Aveva mangiato tutto quel ben di Dio intrattenendosi col rettore dell'università, padre Riley, suo amico da anni. — Joe, ma dove lo metti? — si stupì Riley mentre osservava come quel pel di carota minuscolo e lentigginoso edificasse un enorme sandwich di
frittelle e costolette. Dyer si limitò a spostare quei suoi elfici occhi azzurri dal piatto al volto del rettore e a rispondere imperturbabilmente: — Nel condurre una vita retta, mon père. — Quindi, afferrata la brocca del latte, si versò un secondo bicchiere. Padre Riley scosse il capo e sorseggiò il suo caffè dimenticandosi a che punto erano giunti nella loro conversazione sulla figura di John Donne, poeta e sacerdote. — Hai in mente qualcosa per oggi, Joe? Sei da queste parti? — Vuoi mostrarmi la tua collezione di cravatte o cos'altro? — La prossima settimana dovrò tenere quella conferenza per l'associazione forense americana. Mi piacerebbe che dessimo un'occhiata insieme al testo... Riley osservò ammaliato il lago di sciroppo d'acero che Dyer munificamente si versava nel piatto. — Sarò qui sino a un quarto alle due. Poi andrò al cinema con un amico, il tenente Kinderman. Lo hai conosciuto, vero? — Quello con la faccia da pesce lesso? Il poliziotto? Dyer annuì mentre si riempiva la bocca. — Un tipo interessante — osservò il rettore. — Ogni anno in questo giorno si sente giù, depresso, e così io vedo di tirarlo su, di farlo divertire. Adora il cinema. — È oggi? Dyer annuì, con la bocca di nuovo piena. Il rettore sorseggiò un altro po' di caffè. — Me n'ero dimenticato. Come d'accordo, Dyer e Kinderman si trovarono al cinema d'essai sulla M Street e assistettero a quasi metà della proiezione del Falcone maltese, un piacere interrotto allorché l'uomo che sedeva accanto a Kinderman, dopo alcuni rilievi tanto sensibili quanto calorosi nei confronti della pellicola, che Kinderman apprezzò e condivise, fingendo di continuare a guardare lo schermo gli posò una mano sulla coscia; al che Kinderman, incredulo, si era voltato verso di lui e gli aveva sussurrato: — Con tutta onestà, mi sembra impossibile — e contemporaneamente gli aveva assicurato le manette ai polsi. Era seguito un po' di trambusto mentre Kinderman conduceva l'uomo nell'ingresso, chiamava un'auto della polizia e ce lo infilava dentro. — Spaventatelo un po' e poi mollatelo — sussurrò il tenente al poliziotto al volante. L'uomo ficcò la testa fuori dal finestrino posteriore ed esclamò: — Sono amico intimo del senatore Klureman!
— Sono sicuro che sarebbe terribilmente dispiaciuto di apprenderlo dal notiziario delle diciotto — ribatté Kinderman e, rivolto all'autista, concluse: — Avanti! Vai! L'auto si allontanò. Si era radunata una piccola folla all'ingresso del cinema; Kinderman si guardò intorno alla ricerca di Dyer e infine lo scorse rincantucciato nel vano d'una porta. Si teneva con una mano il bavero del cappotto stretto alla gola, cosicché il colletto che lo identificava come un sacerdote cattolico restava invisibile, e osservava la strada. Kinderman gli si avvicinò. — Che fai, fondi un nuovo ordine, i Padri Celati? — Sto tentando di rendermi invisibile. — Fiasco — disse Kinderman candidamente e con una mano toccò l'amico. — Vedi, questo è il tuo braccio. — Perdiana, ci si diverte un sacco a uscire con lei, tenente. — Ti stai rendendo ridicolo. — Ma va? — Quel patetico putz... — mormorò Kinderman addolorato — mi ha rovinato il film. — L'hai già visto dieci volte. — E altre dieci, anzi venti, lo rivedrei. — Kinderman prese l'amico a braccetto e s'incamminarono lungo il marciapiede. — Dai, andiamo a mangiare un boccone al Tombs o da Clyde o da Scott — lo allettò. — Ci facciamo uno spuntino e discutiamo e parliamo del film. — Di metà film? — Il resto lo so a memoria. Dyer si fermò. — Bill, hai un'aria stanca. Qualche brutta gatta da pelare? — Niente di particolare. — Sei depresso — insistette Dyer. — No, sto bene. E tu? — Bene. — Menti. — Anche tu. — Vero. Gli occhi di Dyer si piantarono sul volto dell'amico, scrutandolo preoccupato. Aveva un'aria esausta e profondamente turbata. Doveva essere accaduto qualcosa di veramente brutto. — Guarda, hai un aspetto terribilmente affaticato — gli disse. — Perché non vai a casa a schiacciarti un sonnellino? Ecco, ora si preoccupa per me, pensò Kinderman. — No, non posso —
disse. — E perché? — La carpa. — Come? Mi è parso che tu abbia detto "carpa". — La carpa — ripeté Kinderman. — L'hai detto di nuovo. Kinderman si fece più accosto a Dyer, col volto su cui era stampato un ghigno a pochi centimetri da quello dell'amico, fissandolo con aria truce. — La madre della mia Mary è venuta a trovarci, chiaro? Colei che si duole che io frequenti cattive compagnie e sia in qualche modo sodale con Al Capone; colei che per Hanukkah porta a mia moglie Chutzpah e Kibbutz numero 5, profumi di fabbricazione israeliana, naturalmente. Il meglio. Shirley. Ti sei fatto un'idea di lei, adesso? Bene. Presto ci cucinerà una carpa. Un pesce gustoso. Non ho nulla in contrario. Ma poiché la si ritiene piena di impurità, Shirley l'ha acquistata viva e da tre giorni sta nuotando nella mia vasca da bagno. Su e giù, giù e su. Liberandosi delle impurità. E io la odio. Un'ultima osservazione. Padre Joe, tu mi stai molto vicino, giusto? Te ne sei accorto? Sì. Ti sei accorto che non devo aver fatto il bagno da alcuni giorni. Sì. Da tre. La carpa. Pertanto, io non rientro a casa finché la carpa non dorme. Temo che se la vedessi ancora mentre nuota nella mia vasca, la ucciderei. Dyer scoppiò a ridere. Meglio, molto meglio, pensò Kinderman. — Forza, allora, Clyde, Tombs o Scott? — Billy Martin. — Non fare il difficile. Ho già riservato da Clyde. — Clyde. — Sai, pensavo che avresti detto quello. — L'ho detto. E i due amici si avviarono. Atkins sedette alla scrivania. Sbatté le palpebre. Pensò di aver frainteso o forse di non essersi spiegato abbastanza chiaramente. Ripeté tutto minuziosamente, stavolta tenendo il ricevitore del telefono più vicino alla bocca e nuovamente udì le risposte di prima. — Sì, capisco... Sì, grazie. Grazie molte. — Riagganciò. Nel suo minuscolo ufficio privo di finestre riusciva a percepire il proprio respiro. Il fascio di luce della lampada da tavolo lo disturbava. Lo indirizzò lontano dagli occhi. Vi mise sotto le mani e le os-
servò. Le estremità delle dita erano esangui, addirittura terree sotto le unghie. Aveva paura. — Potrei avere un altro po' di pomodoro per l'hamburger? — chiese Kinderman facendo posto sul tavolo alle patate fritte che la giovane cameriera bruna aveva appena portato. — Oh, grazie — disse lei e posò il vassoio tra Kinderman e Dyer. — Tre fette le bastano? — Due sono anche troppe. — Altro caffè? — No, va bene così, grazie signorina. — Kinderman guardò interrogativamente l'amico. — E tu, Bruce Dern? Una settima tazza? — No, grazie — disse Dyer riponendo la forchetta accanto al piatto, nel quale l'omelette al cocco e curry era rimasta in gran parte intatta. Cercò sulla tovaglia azzurra e bianca il pacchetto di sigarette. — Le porto il pomodoro — disse la cameriera, che sorridendo si avviò verso le cucine. Kinderman fissò il piatto di Dyer. — Non mangi? Ti senti bene? — Troppo piccante. — Troppo piccante? Ti ho visto annegare i twinki nella mostarda. Qua, figliolo, lascia che l'esperto ti dica cos'è il piccante. Lo chef Milani al salvataggio. Kinderman prese la forchetta e l'affondò in un angolo dell'omelette di Dyer. Assaggiò. Poi riabbassò la forchetta e fissò con vacua espressione il piatto di Dyer. — Hai ordinato una scoperta archeologica. — Torniamo al film — disse Dyer, espirando la prima boccata. — È nella mia lista dei dieci film più belli di tutti i tempi — dichiarò Kinderman. — E quali sono i suoi favoriti, padre? Forse potrebbe citarcene i primi cinque. — Le mie labbra sono sigillate. — Non così tanto — ribatté Kinderman salando le patate fritte. Timidamente, Dyer si strinse nelle spalle. — Chi può dire quali siano i migliori cinque di qualsiasi cosa? — Atkins — rispose immediatamente l'amico. — È capace di snocciolarteli a tamburo battente in ogni settore: film, fandango... tutto. Chiedigli degli eretici e ti fornirà una lista di dieci, e in ordine di preferenza, senza la benché minima esitazione. Atkins è un uomo dalle decisioni affrettate, ma cionostante ha gusto e, di solito, ragione.
— Oh, davvero? E quindi quali sono i suoi film favoriti? — I primi cinque? — I primi cinque. — Casablanca. — E gli altri quattro? — Lo stesso. Stravede per quel film. Il gesuita annuì. — Annuisce — commentò tetro Kinderman. — Dio è una scarpa da tennis, gli fa l'eretico e lui, Torquemada, annuisce e dice: "Guardia, lascialo andare. Ci sarebbe molto da dire da entrambe le parti". Davvero, padre, questi suoi giudizi a ruota libera dovrebbero finire. È quel che ti accade con tutto questo bombardamento di canzoni e di chitarre. — Vuoi sapere qual è il mio film preferito? — Ti prego, in fretta — s'infervorò Kinderman squadrandolo in cagnesco. — Rex Reed attende una mia chiamata in una cabina telefonica. — La vita è meravigliosa — disse Dyer. — Contento? — Sì, scelta eccellente — rispose Kinderman raggiante. — Penso di averlo visto una ventina di volte — ammise il sacerdote con un sorriso. — Poco male. — Lo adoro. — Sì, è pieno di innocenza e di bontà. Fa bene al cuore. — Hai detto lo stesso di Eraserhead. — Non parlarmi di quella oscenità — ringhiò Kinderman. — Atkins lo chiama Lungo viaggio al termine del caprone. Tornò la cameriera con le fette di pomodoro. — Ecco a lei, signore. Kinderman la ringraziò. La cameriera guardò l'omelette nel piatto di Dyer. — Qualcosa non va nell'omelette? — No, sta soltanto dormendo — rispose Dyer. La ragazza rise. — Posso servirle qualcos'altro? — No, va bene così. Temo di non avere appetito. Lei indicò il piatto. — Posso portar via? Dyer assentì, lei lo prese e si allontanò. — Mangia qualcosa, Ghandi — disse Kinderman avvicinandogli il vassoio con le patatine. Il sacerdote le ignorò e chiese: — Atkins come sta? Non l'ho più visto dalla messa della vigilia di Natale. — Sta bene e a giugno si sposa.
Dyer si illuminò. — Oh questa sì è una notizia! — Si conoscono fin dall'infanzia. Hanno un'aria così graziosa, dolce. Due bambini nel bosco. — E dove si sposeranno? — Su un camion, temo. Non cessano di mettere da parte soldi per il mobilio. Lei è impiegata come cassiera in un supermercato, Dio la benedica; Atkins, come al solito, di giorno fa il mio assistente e di sera svaligia i negozi che vendono a rate. A proposito, è immorale che un impiegato del governo svolga due lavori o sono io che sono troppo pignolo? Gradirei il suo consiglio spirituale in merito, padre. — Non credo che in quei negozi il contante abbondi. — A proposito, come sta tua madre? Dyer stava spegnendo la sigaretta. Si fermò e guardò Kinderman con aria perplessa. — Bill, è morta. Kinderman rimase di sasso. — È morta un anno e mezzo fa. Mi sembrava di avertelo detto. Kinderman scosse il capo. — Non lo sapevo. — Bill, te l'ho detto. — Mi spiace terribilmente. — A me no. Aveva novantatré anni, soffriva, è stata una benedizione. — Dyer volse lo sguardo altrove. Al bar avevano acceso il jukebox e lui guardò in quella direzione. C'erano alcuni studenti che bevevano birra da grossi boccali di terracotta. — Negli ultimi anni c'erano stati almeno cinque o sei falsi allarmi — disse ritornando a guardare Kinderman. — Ora telefonava il fratello ora la sorella per dirmi: "Joe, mamma sta morendo, è meglio che vieni". E l'ultima volta era vero. — Mi spiace tanto. Dev'essere stato terribile. — No, non lo è stato. Quando arrivai mi dissero che era morta, mio fratello, mia sorella, il medico. Allora entrai nella sua camera e recitai l'ufficio per i defunti accanto al letto. E quand'ebbi finito, aprì gli occhi e mi guardò. Per poco non ci restavo secco. Mi disse: "Joe, che bella, dolce, cara preghiera. E ora, figliolo, potresti prepararmi qualcosa da bere?". Ebbene, Bill, ero così maledettamente sottosopra che non riuscii a far altro che precipitarmi giù per le scale in cucina, versarle uno scotch con ghiaccio e portarglielo. Lo bevve; le tolsi il bicchiere dalle mani e lei mi guardò negli occhi e disse: "Joe, non credo di avertelo mai detto, figlio mio, ma sei un ragazzo meraviglioso". Poi morì. Ma la cosa che mi colpì di più... — S'interruppe perché si accorse che gli occhi di Kinderman s'inumidivano. —
Se non la smetti di piagnucolare, me ne vado. Kinderman si strofinò gli occhi con le nocche delle mani. — Scusa. Ma è così triste pensare che le madri si sbaglino... — disse. — Continua, ti prego. Dyer si addossò al tavolo e protese il capo verso l'amico. — Quel che non posso dimenticare, ciò che mi ha colpito di più veramente, fu che di fronte a me c'era quella vecchia di novantatré anni, senza più energie, ottenebrata, mezza cieca e quasi sorda, col corpo ridotto a uno straccio, l'ombra di quel che era stata... ma quando mi parlò, Bill... quando mi parlò, c'era tutta. Kinderman annuì, abbassò lo sguardo sulle mani che teneva intrecciate sopra il tavolo. Lugubre e improvvisa, l'immagine di Kintry inchiodato ai remi irruppe nel suo cervello. Dyer posò una mano sul polso dell'amico. — Ehi, su, tutto bene — disse. — Lei sta bene. — Ho l'impressione che il mondo intero sia succube di un assassino — osservò Kinderman cupamente. Alzò lo sguardo sull'amico. — Può un Dio aver inventato una cosa come la morte? Per dirla chiara, è un'idea spregevole. Non va, padre. Non è un successo né tantomeno una vittoria. — Non essere sciocco. Non vorrai vivere per sempre... — Sì che lo voglio. — Ti annoieresti. — Ho i miei hobby. Il gesuita rise. Incoraggiato, Kinderman si protese verso di lui e riprese. — Pensavo al problema del male. — Oh, quello... — Devo ricordarmene. Proprio una bella espressione... Sì, "Terremoto in India, Migliaia di morti", leggo sul giornale e dico: "Oh, quello". Su questa terra san Francesco parla agli uccelli e nel frattempo ci becchiamo il cancro e nascono bambini mongoloidi, per non dire del nostro sistema gastrointestinale e di certe "estetiche" connesse ai nostri corpi che Audrey Hepburn non gradirebbe le si dicessero in faccia. Come si può parlare della bontà di Dio dinanzi a queste assurdità? Di un Dio che se ne va gioiosamente pervadendo il cosmo, come una specie di onnipotente Billie Burke, mentre i bambini soffrono e coloro che amiamo agonizzano e muoiono? Il tuo Dio su questa faccenda tira sempre fuori il Quinto Emendamento. — E perché alla Mafia non si dovrebbe dare l'opportunità di riparare? — Parole istruttive. Padre, a quando la prossima predica? Amerei udire
ancora tali assennate profondità. — Bill, la questione è che proprio nel mezzo di quest'orrore esiste una creatura di nome uomo capace di capire che è orribile. Allora, da dove tiriamo in ballo nozioni come "male", "crudeltà" e "ingiustizia"? Non puoi affermare che una linea sia leggermente curva se non possiedi la nozione di linea retta. — Kinderman fece per interromperlo ma il sacerdote proseguì. — Noi siamo una parte del mondo. Se è male, noi non dovremmo pensarlo come tale. Dovremmo invece ritenere che le cose che definiamo come il male sono soltanto naturali. Il pesce non avverte l'umidità dell'acqua. Sono cose di questo mondo. Gli uomini no. — Sì, l'ho letto Chesterton, padre. In realtà, il vostro Pezzo Grosso, a quanto ne so, non è una specie di Jekyll e Hyde. Ma, padre, questo non fa che comporre quel grande mistero, quell'enorme giallo delle sfere celesti che dai salmisti fino a Kafka ha fatto ammattire un sacco di gente per risolverlo. Non importa. Il tenente Kinderman si occupa del caso. Conosci il pensiero gnostico? — Ammiro i testoni. — Sei uno spudorato. Gli gnostici ritengono che il mondo sia stato creato da un "Vice". — Intollerabile. — Si fa per conversare. — Fra un po' affermerai che san Pietro era cattolico. — Giusto per conversare, su. Ebbene, Dio un bel giorno chiamò uno dei suoi angeli, questo suo Vice, e gli disse: "Tieni, ragazzo, questi due dollari sono per te. Vai e creami il mondo. È una mia trovata - geniale, nevvero? l'ultimo parto della mia fervida mente". E l'angelo andò e fece il mondo, soltanto non in maniera così perfetta da non doverci oggi intrattenere sull'argomento da me proposto. — È questo quel che pensi? — gli chiese Dyer. — No, questa teoria non toglie Dio dagli impicci. — Non scherzare. Dimmi la tua teoria. Kinderman si fece evasivo. — Lasciamo stare. Si tratta di qualcosa di nuovo, di sbalorditivo, di grosso. La cameriera intanto si era avvicinata e aveva fatto scivolare il conto sul tavolo. — Eccolo — disse Dyer occhieggiandolo. Kinderman centellinava distrattamente il suo caffè ormai freddo e gettava qua e là per il locale occhiate circospette quasi si aspettasse di scoprirvi un qualche agente segreto intento a origliare i loro discorsi. Con fare co-
spiratorio protese la testa in direzione dell'amico. — Considero il mondo — disse guardingo — come se fosse la scena di un delitto, capisci? Sto mettendo insieme gli indizi. Nel frattempo, ho preparato diversi manifesti di "ricercato". Potresti essere così cortese da appenderne qualcuno nel campus? Sono gratuiti. Il tuo voto di povertà già ti è così gravoso... sono molto sensibile a questo genere di cose. Non costano nulla. — Non vuoi proprio dirmi la tua teoria? — Te ne darò un assaggio — disse Kinderman. — Coagulazione. Dyer aggrottò le ciglia. — Coagulazione? — Quando ti accade di tagliarti, il sangue non può coagularsi senza che si compiano dentro il tuo organismo e secondo un certo ordine una serie di piccole operazioni, quattordici, per la precisione; tante piccole piastrine, questi ingegnosi e graziosi corpuscoli, si danno un gran daffare, su e giù, a destra e a manca, il tutto con un particolare modo e un particolare ordine, altrimenti finiresti col fare la figura dello scemo con tutto quel sangue che continua a colarti sul pastrami. — L'assaggio sarebbe questo? — Eccotene un altro: il sistema autonomo. Ancora. Le viti riescono a succhiare acqua a chilometri di distanza. — Sono smarrito. — Stai fermo, abbiamo localizzato il suo segnale. — Kinderman accostò ancora il viso a quello di Dyer. — Le cose che supponiamo non abbiano coscienza si comportano come se l'avessero. — Grazie, professor Irwin Corey. Kinderman improvvisamente si raddrizzò sullo schienale e guardò l'amico in cagnesco. — Tu sei la prova vivente della mia tesi. Conosci Alien, quel film del terrore? — Sì. — La storia della tua vita. Comunque, stai tranquillo, ho imparato la lezione. Mai mandare delle guide sherpa all'attacco di una vetta, la montagna rovinerebbe loro sulle zucche e si buscherebbero un bel mal di testa. — Ma è tutto qui quel che hai da dirmi della tua teoria? — protestò Dyer alzando la tazza di caffè. — È tutto. La mia ultima parola. D'un tratto, la tazza che Dyer teneva in mano cadde sul tavolo. La vista gli si annebbiò. Kinderman agguantò la tazza e la raddrizzò; poi prese dei tovagliolini di carta e asciugò il rivolo di caffè che minacciava di riversarsi
in grembo all'amico. — Padre Joe, che succede? — esclamò Kinderman allarmato, e fece l'atto di alzarsi; ma Dyer gli fece cenno di rimanere seduto. Sembrava che fosse passata. — Sto bene, sto bene — disse il sacerdote. — Ti senti male? Cosa c'è che non va? Dyer estrasse una sigaretta dal pacchetto. Scosse il capo. — No, non è niente. — Accese la sigaretta, soffiò sul fiammifero e lo gettò con delicatezza nel portacenere. — Ultimamente mi sono capitati alcuni di questi sciocchi piccoli capogiri... — Sei andato da un medico? — Sì, ma non ci ha capito nulla. Potrebbe essere qualsiasi cosa. Un'allergia, un virus. — Fece spallucce. — Anche mio fratello Eddie ne ha sofferto per anni. Stati emotivi. In ogni caso, domattina avrò modo di verificare le mie reazioni a certi test. — Verificare? — Georgetown General. Il padre rettore insiste. Coltiva l'inconfessato sospetto che io sia allergico agli scritti e vuole delle conferme scientifiche. La cicalina dell'orologio da polso di Kinderman si mise a ronzare. La spense e controllò l'ora. — Le cinque e mezzo — mormorò. Gettò un'occhiata inespressiva all'amico. — La carpa dorme — salmodiò. Dyer si nascose il volto tra le mani e rise. Stavolta suonò il cerca-persone. Kinderman lo tolse dalla cintura e lo spense. — Vuoi scusarmi un istante, padre Joe? — Ansimò e sbuffò nel tentativo di liberarsi da tavolo e sedia. — Non scappare senza pagare il conto — disse Dyer. Kinderman non rispose e si diresse al telefono, chiamò il distretto e parlò con Atkins. — C'è qualcosa di singolare, tenente. — Davvero? Atkins lo informò di due sviluppi. Il primo riguardava gli abbonati del giro di Kintry. Nessuno si era lamentato di non aver ricevuto il giornale; era stato consegnato a tutti, persino a coloro a cui Kintry avrebbe dovuto portarlo dopo la fermata alla rimessa sul Potomac. Tutti avevano ricevuto la loro copia anche dopo la morte del ragazzo. Il secondo sviluppo riguardava la signora anziana trovata lungo il fiume. Kinderman aveva chiesto il confronto di routine tra i capelli di lei e quelli rinvenuti nel pugno di Kintry.
Corrispondevano. 3 Quando, dopo soltanto alcuni minuti, lei lo rivide dalla finestra, ebbe un moto di delizia irrefrenabile e gli corse incontro. Si slanciò fuori dalla porta a braccia aperte, con un sorriso radioso sul giovane volto. "Amore mio!" gli gridò al colmo della gioia e, di lì a un istante, si ritrovò a stringere tra le braccia il sole. — 'Giorno, Doc. Il solito? Amfortas non lo udì. Fantasticava. — Il solito, Doc? Si riebbe. Si trovava in un negozietto di generi alimentari e drogheria a due passi dalla Georgetown University. Si guardò intorno. L'altro cliente era uscito e Charlie Price, il vecchio droghiere, col suo sguardo gentile lo stava osservando da dietro il banco. — Sì, Charlie, il solito — rispose infine Amfortas distrattamente, in tono basso e sommesso. Guardò e vide Lucy, la figlia del droghiere, che si riposava su una sedia vicino alla vetrina anteriore del negozio. Si chiese come mai il suo turno fosse arrivato così presto. — Un pan pepato per il dottore — mormorò Price. Il droghiere si curvò sui compartimenti a vetro del bancone dove conservava le ciambelle e le paste dolci fresche ed estrasse una focaccina lucida farcita di cannella, uva passa e noci. Si rialzò, avvolse la focaccina in un foglio di carta oleata e la infilò in un sacchetto che depose sul banco. — E un caffè nero. — Strascicando i piedi si diresse alla Silex e alle tazze di plastica. Ormai erano andati in bicicletta per mezza Bora Bora allorché lui, improvvisamente, pedalando di gran carriera, era scattato davanti a lei per scomparire dietro una curva, dove sapeva che lei non avrebbe potuto vederlo. Frenò e saltò a terra. Rapido rapido cominciò a raccogliere in mazzo i papaveri rossi che crescevano spontanei in prossimità della strada a frotte fiammeggianti, simili all'amore espresso dagli angeli quando si affollarono ai piedi del Signore. E quando lei sbucò dalla curva lo trovò in mezzo alla via, ad attenderla, mostrandole la vampa ardente di quei fiori. Lei si arrestò sorpresa e quasi stordita per la sorpresa; e quindi le lacrime cominciarono a scorrerle sul volto. — Ti amo, Vincent. — Un'altra notte in bianco nel laboratorio, Doc? Il sacchetto di carta ripiegato e chiuso all'estremità attendeva sul banco.
Amfortas alzò lo sguardo. — Non tutta la notte. Qualche ora. Il droghiere esaminò il viso smunto del medico, gli occhi color d'ombra, foschi come una foresta. Cosa tentavano di comunicargli? Qualcosa, senza dubbio. Scintillavano di un velo di pianto silente e misterioso. Qualcosa di più di una semplice pena. Qualcosa di diverso. — Non lo schiacci — lo avvertì il droghiere riferendosi al sacchetto. — Ha l'aria stanca. Amfortas annuì. Frugò in una tasca del cardigan azzurro che indossava sopra il camice, ne estrasse un dollaro sgualcito e lo porse al droghiere. — Grazie, Charlie. — Si ricordi di quel che le ho detto. — Me lo ricorderò. Amfortas prese il sacchetto e in un battibaleno, oltrepassato il lieve scampanellìo della porta, si ritrovò nella luce del mattino che inondava la strada. La sua figura alta e magra, un po' curva, per qualche istante sostò, meditabonda, dinanzi al negozio, a capo chino. Con una mano teneva il sacchetto contro il petto. Il droghiere si avvicinò alla figlia e tutti e due si misero a guardarlo. — In tutti questi anni non l'ho mai visto sorridere — mormorò Lucy. Il droghiere appoggiò un braccio a una mensola. — E perché dovrebbe? Sorrideva quando le disse: "Non posso sposarti, Ann". "Perché no? Non mi ami forse?" "Ma hai soltanto ventidue anni." "Che male c'è?" "Io ne ho il doppio. Un giorno ti ritroverai a spingermi su una sedia a rotelle." Lei balzò in piedi animata da quella sua allegra risata e gli si accoccolò in grembo cingendolo con le braccia. "Oh, Vincent, ti farò restar giovane." Amfortas udì delle grida e un rumore di passi di corsa, guardò a destra verso la Prospect Street e il pianerottolo alla sommità della lunga rampa di gradini che perpendicolarmente si immergeva nella lontana M Street e, un po' al di sotto di essa, verso il fiume e la rimessa. Da anni erano noti come "i gradini di Hitchcock". La squadra del Georgetown li stava risalendo di corsa. Un esercizio che faceva parte dell'allenamento. Amfortas li vide spuntare e sbarcare sul pianerottolo, trotterellare verso il campus, allontanarsi e scomparire. Non si mosse finché le grida diminuirono e si persero in lontananza, lasciandolo solo nel silenzioso corridoio dove la vita degli uomini sfocava e l'intera esistenza non aveva altro fine che l'attesa.
Attraverso il sacchetto sentì contro il palmo della mano il calore del caffè. Diede le spalle alla Prospect Street e lentamente s'incamminò per la 36a, finché non giunse dinanzi ai due piani della sua allampanata casa di legno. Vecchissima e spoglia, distava soltanto pochi metri dalla drogheria. Dall'altro lato della via sorgevano un pensionato femminile e una scuola di perfezionamento del ministero degli esteri; l'isolato sulla sinistra era occupato dalla Holy Trinity Church. Amfortas si sedette sotto il portico bianco e squallido, aprì il sacchetto ed estrasse la focaccina. Gliela andava a prendere lei la domenica. "Dopo morti si torna a Dio" le disse. Gli aveva parlato del padre che aveva perso l'anno prima e lui cercava di consolarla. "Torniamo a far parte di Lui" disse ancora. "Così come siamo?" "Forse no. Probabilmente la nostra identità si perde." Vide i suoi occhi colmarsi di lacrime, il viso contorcersi nello sforzo per non piangere. "Che c'è?" le chiese. "Perderti per sempre..." Fino a quel giorno non aveva mai temuto la morte. Le campane della chiesa suonarono e una snella formazione di storni s'inarcò sulla Holy Trinity, virando e volteggiando in una danza sfrenata. La gente cominciò a uscire dalla chiesa. Amfortas controllò l'ora: le sette e un quarto. In un modo o nell'altro, aveva perso la messa delle sei e trenta. Non ne aveva mancata una negli ultimi tre anni. Com'è che l'aveva persa oggi? Fissò per qualche istante la focaccina che teneva in mano e poi, lentamente, la ripose nel sacchetto. Sollevò le mani e appoggiò il pollice e due dita della sinistra rispettivamente sul polso e sul palmo della mano destra. Quindi esercitò una pressione con la punta di tutte e tre le dita e cominciò a muovere circolarmente le due che teneva sul palmo. La mano destra, costretta da un'azione riflessa, annaspò e seguì il movimento delle dita. Amfortas smise di massaggiarsi. Si fissò le mani. Quando i suoi pensieri tornarono a concentrarsi su ciò che lo circondava, controllò nuovamente l'ora. Le sette e venticinque. Prese il sacchetto e raccolse la voluminosa copia domenicale del Washington Post che, fresca d'inchiostro, giaceva accanto alla porta. Mai che la confezionino. Entrò nella malinconica oscurità della sua casa vuota, posò il sacchetto e il giornale sul tavolino dell'ingresso. Poi tornò fuori e chiuse la porta a chiave. Andò sul pianerottolo e guardò il cielo: si rannuvolava, ingrigiva. Sul fiu-
me cupe nubi si addensavano verso occidente sospinte dallo stesso vento pungente che scuoteva i rami spogli dei sambuchi che fiancheggiavano le strade. Lentamente, Amfortas si abbottonò fino al collo il maglione e, senz'altra scorta che la sua pena e la sua solitudine, si avviò verso il lontano orizzonte. Il sole distava da lui milioni e milioni di chilometri. Il Georgetown General Hospital era una costruzione imponente e discretamente recente. La facciata moderna si estendeva tra la 0 Street e Reservoir Road e fronteggiava il lato occidentale della 37a. Da casa sua Amfortas lo raggiungeva in un paio di minuti; e quella mattina fece il suo ingresso al reparto neurologia del quarto piano alle sette e trenta esatte. Il medico interno lo attendeva nel suo ufficio e insieme iniziarono le visite, passando da una camera all'altra e da paziente a paziente. L'interno lo aggiornava sui nuovi arrivi e Amfortas gli rivolgeva domande sulla cartella clinica di ciascuno. Discutevano delle diagnosi ritornando verso l'ingresso del reparto. Il 402 era un piazzista trentaseienne che presentava sintomi di lesione cerebrale, in particolare di "disuso unilaterale". Vestiva con ogni cura metà del suo corpo, quella opposta alla lesione, ignorando completamente l'altra. Si radeva soltanto una metà del volto. Il 407 era un economista di cinquantaquattro anni. I suoi problemi erano cominciati sei mesi prima, quando si era sottoposto a un'operazione al cervello perché affetto da epilessia. Il chirurgo era stato costretto ad asportargli alcune sezioni dei lobi temporali. Un mese prima di venir internato al Georgetown Hospital, il paziente si era recato a una riunione di un comitato senatoriale e, per nove estenuanti ore filate, aveva illustrato un nuovo progetto di revisione dell'ordinamento fiscale basandosi sulle richieste che il comitato gli aveva sottoposto quella mattina stessa. La sua esposizione, il suo criterio e la sua padronanza dei fatti, non meno della sua profonda conoscenza dell'ordinamento in vigore, avevano lasciato tutti sbalorditi. Per mettere a punto i particolari del progetto e per sistemarli impeccabilmente aveva impiegato sei ore. Al termine della riunione, l'economista aveva riassunto le fila del suo pensiero con un discorso di un'ora e mezzo, durante il quale non aveva mai fatto ricorso agli appunti presi nella seduta. Dopodiché si era ritirato nel suo ufficio e aveva dettato tre lettere. Infine, si era rivolto alla sua segretaria dicendole: "Ho l'impressione che oggi avrei dovuto partecipare a una riunione del senato". Non riusciva più a ricordare quel che aveva appena fatto. La 411 era una ragazza ventiduenne, probabilmente affetta da meningite
meningococcica. L'interno era fresco di laurea e quando Amfortas aveva prospettato quel tipo di malattia disse che non si era accorto delle contrazioni muscolari involontarie. Il 420 era un falegname di cinquantadue anni che accusava la cosiddetta sindrome dell'"arto fantasma". L'anno prima aveva perso un braccio e continuava ad affermare di provare dei dolori lancinanti alla mano che non aveva più. Quel disturbo mentale si era sviluppato nella maniera consueta. Dapprima il falegname aveva cominciato ad avvertire dei "formicolii" e la sensazione di possedere ancora la mano. Gli sembrava che si muovesse e potesse spostarla nello spazio come se fosse reale, sia che camminasse, sia che stesse seduto o che si distendesse sul letto. Quand'era sovrappensiero gli pareva che con quella potesse anche afferrare degli oggetti. Poi, si erano manifestati i dolori, insopportabili, come se la mano si serrasse senza più riuscire a rilasciarsi. Si era sottoposto a un'operazione di plastica ricostruttiva, che aveva contemplato la rimozione di piccoli neuromi, noduli di tessuto nervoso rigeneratisi. E, sulle prime, si era sentito meglio. La sensazione di possedere la mano persisteva, ma adesso aveva anche quella di poterla flettere e di poter muovere le dita. Ma il dolore tornava se la mano fantasma assumeva un atteggiamento particolare: le dita strette a pugno che serravano il pollice e il polso flesso fino allo spasimo. Inutile ogni sforzo di volontà per ricondurre la mano in posizione normale. Talvolta la sensazione di tensione dell'arto diveniva insopportabile ed altre volte - così si era espresso il falegname - era come se un bisturi affondasse ripetutamente nel punto in cui si era verificata la mutilazione. Inoltre, avvertiva una sensazione di perforazione nelle ossa del dito indice, una sensazione che inizialmente pareva localizzarsi sulla punta del dito ma che poi si diffondeva sino alla spalla facendo subire al moncherino degli spasmi clonici. Il falegname riferiva che all'acme del dolore provava frequentemente nausea. Quando infine il dolore diminuiva, lo stato di tensione della mano pareva allentarsi ma mai a sufficienza da permettergli di muoverla. Amfortas, accortosi che l'ansia del falegname sembrava soprattutto concentrarsi sullo stato di tensione della mano, gli chiese se riusciva a spiegargli il perché. Il falegname gli rispose invitandolo a serrare le dita sul pollice, a flettere quanto più poteva il polso, quindi a levare il braccio in posizione di leva
articolare al gomito, e tenerlo così. Il neurologo eseguì; ma dopo qualche minuto il dolore si era fatto troppo acuto e il medico aveva rinunciato a proseguire l'esperimento. Il falegname aveva annuito e commentato: — Ecco. Soltanto che lei può riabbassare la mano, io no. Erano usciti dalla camera senza aggiungere altro. Lungo il corridoio, l'interno, stringendosi nelle spalle, gli aveva detto: — Non so... Come possiamo aiutarlo? Amfortas gli aveva consigliato iniezioni di novocaina nei gangli simpatici della sezione superiore del torace. — Per un po' dovrebbero dargli sollievo. Per alcuni mesi. — Ma non oltre. Per gli "arti fantasma" non esistevano cure. E neanche per un cuore straziato. La 424 era una casalinga. Sin dall'età di sedici anni aveva accusato dolori addominali talmente incoercibili che nel corso degli anni si era dovuta sottoporre a ben quattordici interventi chirurgici. Dopodiché, e in conseguenza di una leggera lesione alla testa, si erano manifestate violente emicranie e per attenuarle si era intervenuto praticandole una decompressione subtemporale. Attualmente accusava indicibili dolori agli arti e alla schiena. Dapprincipio si era rifiutata di raccontare la sua storia. Passava il tempo distesa sul fianco sinistro e gridava ogniqualvolta l'interno cercava di metterla supina. Quando Amfortas si era chinato su di lei e con delicatezza le aveva toccato la regione coccigea, la donna aveva lanciato un urlo ed era caduta preda di violenti tremori. Quando uscirono dalla sua camera, Amfortas convenne col collega che si doveva passarla al reparto psichiatria, dove, probabilmente, sarebbero ricorsi a un altro intervento chirurgico. E ad altro dolore. La 425, anch'essa casalinga, trentenne, accusava una lancinante emicrania cronica con conseguente anoressia accompagnata da vomito. L'ipotesi peggiore era che si trattasse dell'effetto collaterale di una lesione; ma il dolore era circoscritto a un solo lato del capo e il soggetto manifestava anche il fenomeno della tecopsia, una cecità temporanea provocata dall'apparizione entro il campo visivo di una zona luminosa delimitata da linee zigzaganti. Di solito, la tecopsia era uno dei sintomi dell'emicrania. Inoltre, la paziente proveniva da una famiglia che enfatizzava il successo e che possedeva criteri di comportamento molto rigidi, secondo i quali ogni espressione di aggressività veniva o repressa o punita. Si trattava del classi-
co caso di emicrania emotiva, in cui l'antagonismo costantemente represso si trasformava inconsciamente in collera, che sfociava in disordine mentale. Un altro caso da indirizzare al reparto psichiatrico. Il 427, l'ultimo dei nuovi degenti, era un uomo di trentotto anni che presentava una probabile lesione del lobo temporale. Era uno degli addetti alla portineria e alla sorveglianza dell'ospedale, e proprio il giorno precedente era stato scoperto mentre, in un ripostiglio del sottosuolo, cercava di affondare in un secchio pieno d'acqua una dozzina di lampadine elettriche. Non ricordava di averlo fatto. Si trattava di un fenomeno di automatismo, di una cosiddetta "azione automatica", manifestazione tipica di un accesso psicomotorio. Attacchi del genere possono rivelarsi assai pericolosi (dipende dallo stato emotivo inconscio del soggetto), anche se il più delle volte sfociano in gesti innocui o semplicemente impropri. Sempre bizzarre, tali evasioni normalmente sono di breve durata, benché in casi rari possano durare anche diverse ore, e vengono considerate come totalmente inesplicabili, come nel caso sorprendente di quell'uomo che, alla guida di un aereo da turismo, si era recato dalla Virginia a Chicago, pur non avendo mai prima di allora pilotato un aereo e non ricordando poi nulla di ciò che aveva fatto. Talvolta, gli attacchi potevano sfociare nella violenza. Un uomo in preda a un accesso di furore epilettico aveva ucciso la moglie (in seguito si era scoperto che aveva una lesione lobo-temporale in associazione con un emangioma). Il caso del guardiano rientrava più nella norma. La sua anamnesi era costellata di accessi maniacali, aure di sapori o odori spiacevoli: il sapore di una tavoletta di cioccolato lo descriveva come "metallico" e il suo aroma come di "pesce marcio" senza alcun motivo. Presentava anche evasioni sia nel déja vu che nel suo opposto, il jamais vu (senso di estraneità in ambienti familiari). Queste manifestazioni erano spesso precedute da un caratteristico schiocco delle labbra e spesso la loro causa immediata era da ricercarsi nell'abuso di sostanze alcoliche. Inoltre, si riscontravano fenomeni di allucinazioni visive (tra le altre, la micropsia, per cui gli oggetti appaiono più piccoli di quanto siano) e di levitazione. Il guardiano aveva anche manifestato un breve episodio di "doppio": aveva visto la sua copia tridimensionale che riproduceva ogni sua parola e azione. Il risultato dell'elettroencefalogramma si era dimostrato particolarmente infausto. I tumori di quel tipo, se di tumore si trattava, aumentavano len-
tamente e insidiosamente nell'arco di diversi mesi, operando una pressione alla base del cervello, per poi improvvisamente accelerare e, nel giro di poche settimane, se non s'interveniva con tempestività, comprimere e schiacciare il midollo. Col conseguente decesso del soggetto. — Willie, dammi la mano — gli aveva chiesto Amfortas con dolcezza. — Quale? — gli aveva risposto il guardiano. — Una. La sinistra. Il guardiano aveva eseguito. L'interno aveva ascoltato la richiesta di Amfortas con un'espressione vagamente stizzosa. — L'ho già fatto io — aveva commentato con una punta di acredine. — E io voglio rifarlo — gli aveva pacatamente risposto Amfortas. Aveva posato l'indice e il medio della sua mano sinistra sul palmo di quella del guardiano e il pollice destro sul polso di lui, quindi aveva esercitato una pressione e aveva impresso un movimento circolare alle dita. Per azione riflessa la mano del guardiano aveva annaspato e aveva seguito il movimento delle dita. Al che Amfortas aveva smesso e lasciato la mano. — Grazie, Willie. — Nulla, signore. — Non preoccuparti. — No, signore. Alle nove e mezzo Amfortas e l'interno erano di fronte al distributore di caffè dietro la porta d'ingresso del reparto psichiatrico. Parlavano delle diagnosi, dilungandosi approfonditamente sui nuovi casi. Quando giunsero a parlare del guardiano, il riepilogo della situazione si risolse in poche battute. — Ho già prescritto una Tac — disse l'interno. Amfortas annuì, era d'accordo. Soltanto dopo quell'esame sarebbero stati certi della presenza della lesione, che, probabilmente, era già prossima allo stadio finale. — Potresti anche già richiedere la disponibilità di una camera operatoria, non si sa mai. — Forse un tempestivo intervento chirurgico sarebbe stato ancora in grado di salvare la vita a Willie. Quando l'interno arrivò a parlare della ragazza con sospetta meningite, Amfortas s'irrigidì, divenne quasi brusco. L'interno si accorse del repentino mutamento del collega ma, pensò, si sapeva della reputazione di cui godevano i neurologi ricercatori, tipi introversi, poco comunicativi e bizzarri. Quindi attribuì l'eccentricità di quel comportamento a quel motivo o forse anche alla giovane età della degente, che aveva scarse probabilità di ca-
varsela e sulla quale addirittura gravava il destino di una morte spaventosamente dolorosa. — Come va la ricerca, Vincent? L'interno aveva finito di bere il caffè, e stava accartocciando il bicchiere di carta prima di gettarlo nella pattumiera. Fuori dalla portata dei pazienti, le formalità scomparivano. Amfortas si strinse nelle spalle. Guardò un'infermiera che li oltrepassò spingendo un carrello di medicinali. Il giovane interno cominciava a essere infastidito da quell'atteggiamento indifferente. — Da quant'è che ci lavori? — insistette caparbiamente, ormai determinato a infrangere quella strana barriera che li divideva. — Tre anni — rispose Amfortas. — Qualche passo avanti? — Nessuno. Poi Amfortas gli chiese di aggiornarlo sui degenti che da tempo erano ricoverati nel reparto. Alle dieci, Amfortas partecipò alla riunione di tutto lo staff programmata fino a mezzogiorno. Il primario di neurologia tenne una lezione sulla sclerosi multipla ma, al pari dei neolaureati e degli interni che affollavano l'ingresso dell'aula, Amfortas non riuscì a seguirla nonostante fosse seduto al tavolo della riunione; semplicemente, non ascoltava. Dopo la lezione seguì un dibattito, che presto prese la via di un'accesa discussione sulla politica interdipartimentale e quando Amfortas disse: — Scusatemi un istante — e uscì, nessuno si accorse che poi non era più rientrato in aula. La riunione si concluse con l'ammonimento del primario che urlò: — E sono arcistufo delle bisbocce che avvengono durante il servizio! Smettetela o andate a smaltire le sbornie da qualche altra parte, per Dio! — E questo l'udirono anche i neolaureati e gli interni. Amfortas era tornato nella 411. La ragazza se ne stava seduta a letto con lo sguardo ipnoticamente incollato sul televisore sistemato sulla parete di fronte. Col telecomando passava da un canale all'altro. Quando Amfortas entrò, spostò gli occhi su di lui senza girare la testa. La malattia le aveva già causato l'irrigidimento del collo, e muoverlo le provocava dei dolori fortissimi. — Salve, dottore. Col dito premette il tasto di comando e l'immagine televisiva svanì crepitando. — No, no, va bene... non spegnerlo — disse subito Amfortas. — A quest'ora non c'è nulla. Nessun programma passabile — rispose lei
fissando lo schermo vuoto. Amfortas si avvicinò ai piedi del letto e l'osservò. Aveva le treccine e le lentiggini. — Tutto bene? Stai comoda? — s'informò. La ragazza rispose facendo spallucce. — Cosa c'è che non va? — le chiese ancora Amfortas. — Mi annoio. — Lo sguardo si spostò nuovamente su di lui. Sorrideva. Ma il dottore vide che aveva gli occhi stanchi, cerchiati. — Di giorno alla TV non c'è mai niente di buono. — Hai dormito bene? — le chiese. — No. Guardò la sua cartella ai piedi del letto. Le avevano già prescritto idrato di cloralio. — Mi hanno dato delle pillole; ma non funzionano — disse la ragazza. Il dottore rimise a posto la cartella. Quando alzò lo sguardo vide che il corpo di lei si tendeva penosamente in direzione della finestra. Guardava fuori. — Posso tenere accesa la TV di notte? Senz'audio. — Ti farò dare degli auricolari — disse Amfortas. — Così non disturberai nessuno. — Tutti i canali cessano le trasmissioni alle due di notte — disse lei ottusamente. Le chiese cosa facesse. — Gioco a tennis. — Professionalmente? — Sì. — Dai lezioni di tennis? No, partecipava ai tornei. — Sei testa di serie? — Sì. Numero nove. — Nazionale? — No, del mondo. — Perdona la mia ignoranza. — Si sentì gelare. Non riusciva a capire se lei si rendesse conto di quanto l'attendeva. La ragazza continuava a fissare la finestra. — Be', immagino che ora non sia altro che un ricordo... — mormorò. Amfortas sentì chiuderglisi lo stomaco. Sapeva. Prese una sedia, l'accostò al letto e le chiese che tornei avesse vinto. A quella domanda la ragazza parve illuminarsi e lui si sedette. — Oh, be', quello in Francia e quello in Italia. E quello di Clay Courts. Quando vinsi in Francia, c'erano tutte schiappe.
— E in Italia? — le chiese. — Chi hai battuto nelle finali? Chiacchierarono di tennis per un'altra mezz'ora. Quando infine Amfortas controllò l'ora e si alzò per andarsene, la ragazza istantaneamente si richiuse in se stessa e riprese a fissare la finestra. — Certo, va bene — sussurrò e al dottore sembrò di udire il clangore metallico degli scudi difensivi di lei che scivolavano nuovamente nei loro alloggi. — Hai parenti in città? — No. — E dove sono? Piegò il corpo nella direzione opposta alla finestra e accese il televisore. — Sono tutti morti — scandì con tono realistico, poi il frastuono di un programma sportivo s'impadronì della stanza. Quando uscì gli occhi di lei continuavano a puntare lo schermo. Dall'atrio la udì singhiozzare. Amfortas saltò il pranzo, andò nel suo studio e si mise al lavoro per completare le relazioni su alcuni casi. Due di essi erano di epilessia, i cui attacchi si presentavano in maniera inconsueta. Nel primo - una donna sui trentacinque anni - l'accesso era provocato da una musica; nel secondo, una ragazzina di undici anni, era sufficiente che la paziente si guardasse una mano. Gli altri riguardavano tutti problemi di afasia: una donna che ripeteva qualsiasi cosa le si dicesse; un uomo capace di scrivere ma completamente incapace di leggere ciò che aveva scritto; un altro che non riusciva a riconoscere una persona soltanto vedendone il volto bensì con l'ausilio della voce o l'osservazione di certe caratteristiche somatiche, come un neo o il colore particolare dei capelli. Le afasie erano connesse a lesioni cerebrali. Amfortas sorseggiò un caffè e cercò di concentrarsi. Invano. Depose la penna e fissò una foto che teneva sulla scrivania. Una ragazza coi capelli d'un biondo dorato. La porta si spalancò e Freeman Temple, primario di psichiatria, molleggiandosi leggermente sulle punte dei piedi, irruppe nello studio con passo elastico e spigliato. Si precipitò verso una sedia vicino alla scrivania e vi si lasciò cadere. — Ragazzo, ho una pupa per te! — esclamò allegramente. Distese le gambe, le accavallò con agio, si accese un sigarillo, agitò nell'aria il fiammifero per spegnerlo e lo gettò sul pavimento. — Giuraddio — continuò — ti piacerà. Ha delle gambe... e un culo... E le tette? Cristo, se una sembra un melone, l'altra non è da meno! E pare anche che le piaccia Mozart. Vince, devi portarla fuori!
Amfortas lo osservò, impassibile. Temple era basso, sui cinquanta, con un'espressione maliziosamente giovanile sul volto perennemente faceto. Tuttavia, i suoi occhi ricordavano un campo di frumento spettinato dal vento e talvolta erano capaci di assumere un'espressione di astuzia micidiale. Ad Amfortas non piaceva affatto. Quando Temple non era impegnato nel millantare le sue conquiste amorose, si dava d'attorno per l'università a raaccontar spacconate sui suoi incontri di boxe, non perdendo occasione per coltivare il suo vezzo di farsi chiamare da chiunque incontrasse col soprannome di "Duke". «Così mi chiamavano a Stanford» ripeteva. «Il Duca, mi chiamavano.» E immancabilmente abbordava le infermiere più carine raccontando loro di come "per legge" gli era stato proibito di battersi, perché «Le mie mani sono considerate armi letali». Quando alzava il gomito diventava insopportabile, e quel suo fascino fanciullesco si mutava nel più tetro squallore. Ora doveva aver bevuto, pensò Amfortas, o era sotto amfetamine, oppure tutt'e due. — Ho un appuntamento con una sua amichetta — riprese Temple a spron battuto. — È sposata ma, cazzo, chi se ne frega? Che differenza fa? In ogni caso quella per te non lo è. Vuoi il suo numero? Amfortas riprese la penna e riabbassò lo sguardo sugli appunti. Scrisse qualcosa. — No, grazie, sono anni che non do appuntamenti alle ragazze — rispose tranquillamente. D'un tratto lo psichiatra sembrò tornare lucido e appuntò su Amfortas due occhi freddi e cattivi. — Ho capito — disse infine. Amfortas continuò il suo lavoro. — Che problemi hai? Eh? Sei impotente? — gli chiese. — Succede a un mucchio di gente nella tua situazione. Ti posso guarire con l'ipnosi. Posso guarire qualsiasi cosa con l'ipnosi. Sono bravo. Davvero, molto bravo. Il migliore. Amfortas continuò a ignorarlo. Corresse una parola. — Quel maledetto EEG è andato a puttane, ti rendi conto? Amfortas non disse nulla e continuò a scrivere. — O.K., che cazzo significa questo? Amfortas levò lo sguardo e vide che Temple si frugava in una tasca. Estrasse un foglietto ripiegato in quattro e glielo gettò sulla scrivania. Amfortas lo raccolse e lo aprì. Vi lesse, in quella che pareva essere la sua calligrafia, questa frase enigmatica. — La vita è meno abile. — Che cazzo vuol dire, eh? — ripeté Temple. I suoi modi si erano fatti ormai apertamente ostili.
— Non lo so — rispose Amfortas. — Non lo sai? — Non l'ho scritto io. Temple scattò su dalla sedia e balzò verso la scrivania. — Cristo! Me l'hai dato tu ieri di fronte all'accettazione! Avevo da fare e me lo sono ficcato in tasca. Che significa? Amfortas mise da una parte il foglietto e riprese a scrivere. — Non l'ho scritto io — ripeté. — Sei pazzo? — Temple afferrò il foglietto e lo piazzò sotto il naso di Amfortas. — Questa è la tua calligrafia! Vedi il puntino delle i fatto con un circoletto? E, per inciso, questi circoletti sono la spia di qualcosa che non funziona! Amfortas cancellò una parola e sopra di essa ne scrisse un'altra. Il volto dello psichiatra, coronato dalla chioma bianca, si fece scarlatto. Si slanciò verso la porta e la spalancò. — Sarà meglio che mi fissi un appuntamento — schiumò, — Sei un individuo pieno di rabbia, di livore, di ostilità, il più stramaledetto stronzo tra tutti i mentecatti che conosco — e si tirò dietro la porta. Per qualche istante Amfortas fissò il foglietto, poi si rimise al lavoro. Doveva finire entro la settimana. Nel pomeriggio, Amfortas tenne una lezione alla facoltà di medicina dell'università di Georgetown. Illustrò il caso di una donna che fin dalla nascita era stata incapace di provare qualsiasi tipo di dolore. Da piccola, mangiando, si era staccata con un morso la punta della lingua e aveva riportato delle ustioni di terzo grado stando in ginocchio per alcuni minuti su un radiatore bollente per raggiungere l'altezza della finestra da cui avrebbe potuto vedere un tramonto. In seguito, esaminata da uno psichiatra, aveva riferito di non provare nessuna sensazione dolorosa né da scarica elettrica né da acqua bollente né dall'immersione prolungata in un bagno di acqua gelata. Egualmente anormale il fatto che la pressione sanguigna, il battito cardiaco e la respirazione non registrassero nessuna variazione. Non ricordava neppure di aver mai starnutito o tossito. I riflessi nervosi si potevano registrare soltanto con grande difficoltà e quelli corneali erano totalmente assenti. Sottoposta a una serie di stimoli, come la perforazione delle nari, la compressione dei tendini o iniezioni di istamina sottocutanee - esperimenti tutti considerati di solito alla stregua di torture - il risultato era stato parimenti nullo.
Infine, aveva cominciato ad accusare alcuni seri problemi medici: alterazioni patologiche alle ginocchia, alle anche e alla spina dorsale. Era stata sottoposta a diversi interventi ortopedici. Il chirurgo che l'aveva operata attribuiva alla mancanza di protezione delle giunture, che normalmente è comunicata dalla sensazione dolorosa, l'origine dei suoi problemi. La donna, infatti, non mutava mai di posizione se stava in piedi, non distribuendo pertanto il peso uniformemente sugli arti, né avvertiva la necessità di cambiarla nel sonno, né, in generale, di evitare certe posture che provocano l'infiammazione delle giunture. Era deceduta all'età di ventinove anni a causa di un gravissimo stato infettivo, impossibile da debellare. Non ci fu nessuna domanda. Alle quindici e trentacinque Amfortas tornò nel suo studio. Chiuse la porta a chiave, si sedette e attese. Sapeva che non avrebbe potuto rimettersi a lavorare. Non ora. Un paio di volte qualcuno bussò alla porta ma lui attese finché non udì i passi allontanarsi nel corridoio. Poi qualcuno tentò la maniglia della porta, bussò con forza: capì che si trattava di Temple ancor prima di udirne il sordo ringhio al di là della porta. — Su, andiamo, maledetto bastardo, lo so che ci sei. Fammi entrare, posso aiutarti. — Amfortas non rispose e per qualche istante dall'altra parte della porta non si udì più nulla. Poi percepì un sussurro circospetto: — Tette enormi. — Un altro silenzio. Si figurò Temple con l'orecchio incollato all'uscio. Infine, lo udì allontanarsi con quel suo caratteristico elastico scricchiolìo prodotto dalla doppia suola delle scarpe. Amfortas continuò ad aspettare pazientemente. Alle sedici e quaranta telefonò a un amico di un altro ospedale, un neurologo interno. — Eddie, sono Vincent. Il risultato della mia Tac è arrivato? — Sì. Stavo appunto per chiamarti. Silenzio. — Positivo? — chiese infine Amfortas. Un altro silenzio. Poi, dall'altro capo del filo giunse un — Sì — quasi impercettibile. — Ne terrò conto. Arrivederci, Ed. — Vince? Ma Amfortas aveva già riagganciato. Dal cassetto destro della scrivania estrasse un foglio di carta intestata del reparto e si concentrò nella stesura di una lettera indirizzata al primario di
neurologia. Caro Jim, mi scuso, ma mi trovo nella necessità di dover essere esonerato dai miei impegni di reparto a partire dalla notte di martedì 15 marzo. Ne ho bisogno per le mie ricerche. Finché non troverai con chi sostituirmi, c'è Tom Soames che è molto bravo e i miei pazienti saranno al sicuro affidati alle sue cure. Per martedì le mie relazioni sui degenti già ricoverati saranno terminate e Tom e io oggi abbiamo già visitato e concordato le terapie dei nuovi. Dopo martedì, farò il possibile per essere reperibile per i consulti, ma non posso promettertelo con certezza. In ogni caso, mi troverai al laboratorio o a casa. So che è una cosa inaspettata e che ti causerà qualche difficoltà. Scusami tanto di nuovo. So anche però che rispetterai il mio desiderio di non chiedermi altro in merito alla mia decisione. Per la fine della settimana avrò rimesso in ordine tutto il materiale. In corsia c'è un lavoro terrificante. Quindi ciao e grazie. Mi rincresce, tuo Vincent Amfortas Dopodiché Amfortas lasciò lo studio, mise la lettera nella cassetta del primario neurologo e uscì dall'ospedale. Erano quasi le diciassette e trenta e affrettò il passo in direzione della Holy Trinity per non perdere la messa serale. La chiesa era affollata, quindi si tenne in prossimità dell'ingresso e seguì la messa con un senso di angosciosa speranza. Tutte le sofferenze di cui era stato testimone negli anni l'avevano permeato della consapevolezza della fragilità e della solitudine umane. Gli esseri umani non erano che flebili fiammelle di candela, che andavano separatamente alla deriva in un terrificante e buio vuoto senza fine. Questo sentimento lo portava a comprendere l'umanità intera. Tuttavia, Dio gli sfuggiva. Aveva scoperto le Sue occulte vestigia nel cervello, ma il Dio del cervello non era stato che un cenno per avvicinarsi a Lui; e quando gli si era fatto più accosto, Egli l'aveva tenuto a distanza, gli si era rifiutato. E da abbracciare e da seguire non era rimasta che la sua fede, capace di fare di quelle fiammelle un fascio luminoso per rischiarare le tenebre della notte. "O Signore, ho amato la bellezza della Tua casa..." Null'altro al di fuori di essa. Amfortas gettò un'occhiata alla lunga teoria di fedeli in fila per la con-
fessione. Decise che l'avrebbe fatta il giorno seguente. Una confessione totale, pensò, la confessione dei peccati di tutta la sua vita. Alla messa del mattino ci sarebbe stato più tempo, pensò. A quell'ora difficilmente c'era la coda. "E possa per noi divenire la guarigione eterna..." — Amen — disse Amfortas con voce ferma. Aveva deciso. Aprì la serratura della porta d'ingresso ed entrò in casa. Nell'atrio prese il sacchetto e il Post e li portò nel piccolo tinello, dove accese tutte le luci. La casa, in affitto, era modestamente e monotonamente ammobiliata in stile falso coloniale. Dal tinello si accedeva alla cucina e a un minuscolo angolino che fungeva da zona-pranzo. Al piano superiore c'erano una camera da letto e uno studiolo. Tutto ciò di cui Amfortas avesse bisogno o desiderasse. Si lasciò andare su una sedia imbottita. Si guardò intorno. La stanza era, come al solito, in disordine. La confusione non lo aveva mai infastidito prima d'allora; ma in quel momento provò lo strano impulso di rimettere a posto, di riordinare e ripulire l'intera casa. Qualcosa di simile a quel che si prova prima di partire per un lungo viaggio. Ma rimandò l'impresa al giorno dopo. Si sentiva a pezzi. Guardò il registratore posato su uno scaffale. Era collegato a un amplificatore e dotato di auricolari. Troppo stanco anche per quello, decise. Ora non ce l'avrebbe fatta. Abbassò lo sguardo sul Washington Post posato sulle ginocchia e istantaneamente fu assalito da un feroce mal di testa. Annaspò e si premette le mani sulle tempie. Si alzò e il giornale cadde a terra. Barcollando, salì le scale ed entrò in camera. Cercò a tentoni la lampada e l'accese. Vicino al letto teneva la borsa per le visite; l'aprì, ne estrasse un tampone, una siringa monouso e una fiala color ambra. Si sedette sul letto, si sbottonò e abbassò i calzoni scoprendo le cosce. Si iniettò nel muscolo della gamba sei milligrammi di Decadron, uno steroide; il Dilaudid non era più sufficiente. Si lasciò andare sul letto e attese. Nella mano continuava a stringere la fiala color ambra. Il battito cardiaco e il martellìo della testa procedevano a ritmi dissonanti, ma dopo un po' si fusero in uno solo. Perse la cognizione del tempo. Quando infine si ritirò su vide che aveva ancora i calzoni alle ginocchia.
Mentre se li riaggiustava, colse con l'occhio la ceramica bianca e verde sul comodino, un anatroccolo arruffato con un vestitino da bambina e la scritta: FAI QUA-QUA SE MI TROVI ADORABILE. Per un istante la fissò malinconicamente. Poi si allacciò la cintura e scese al piano inferiore. Andò nel tinello e raccolse da terra il Washington Post. Pensò di leggerlo mentre si riscaldava qualcosa per la cena. Quando accese la luce della cucina, si arrestò. Sul tavolino vide i resti di una colazione e una copia del Washington Post domenicale, aperto e con le pagine in disordine. Qualcuno l'aveva letto. 4 RIPARTIZIONE SERVIZI DI LABORATORIO RIUNITI Ufficio di Medicina Legale Verbale di laboratorio 13 marzo 1983 A: dr. Alan Stedman Vs. Caso n. 50 Vittima (e): Kintry, Thomas Joshua Età: 12 Razza: N; Sesso: M Indiziato (i): Nessuno c.u.: dr. Francis Caponegro LAB. MED. LEG. n. 77-N-025 Perito: dr. Samuel Hirschberg Laboratorio: Bethesda Data accettazione: 13 marzo 1983 Campioni d'esame sottoposti da: dr. Alan Stedman Un flacone di sangue e un flacone di urina per test alcoltossicologici. ESITO DELL'ESAME Sangue: etanolo per peso/volume 0,06% Urina: etanolo per peso/volume 0,08% Sangue e urina: cianuro, floruro: negativo; barbiturici, carbamatici, idantoinici, glutarimidi e altre sostanze ipno-sedative: negativo; anfetamine,
antistaminici, fenciclidinici, benzodiazepinici: negativo; narcotici e analgesici di origine naturale o sintetici: negativo; antidepressivi triadici: negativo; monossido di carbonio: negativo; metalli pesanti: negativo. Positivo (18 milligrammi): clorato di succinilcolina. Dr. Samuel Hirschberg Tossicologo 5 "Esiste una dottrina non scritta secondo la quale l'uomo è prigioniero e come tale non ha alcun diritto di aprire la porta della sua cella e fuggire; questo è un mistero che non riesco a penetrare in alcun modo. Tuttavia, io credo anche che gli dei siano i nostri guardiani e che noi uomini apparteniamo loro." Kinderman rifletté su questo passo di Piatone. Come avrebbe potuto farne a meno? Tornava e ritornava ossessivamente in connessione al suo caso. — Che cosa significa? — chiese Kinderman agli altri. — Come può essere? Kinderman, Atkins, Stedman e Ryan sedevano intorno a una scrivania al centro della sala operativa della Omicidi. Kinderman aveva bisogno di sentirsi circondato dall'attività, dal movimento, aveva bisogno del sollecito e costante andirivieni di un mondo in cui regnasse l'ordine, di un mondo che non gli svanisse di colpo di sotto il naso. Aveva bisogno di luce. — Be', naturalmente non si tratta di una identificazione inequivocabile... — disse Ryan grattandosi un avambraccio (come Stedman e Atkins, era in maniche di camicia; l'ambiente era surriscaldato) e scrollando le spalle. — I capelli non possono certo fornirla, si sa. Eppure... — aggiunse. — Sì, eppure... — ripeté Kinderman — eppure... Il midollo dei capelli era identico per spessore e forma, misura, e numero per unità di lunghezza delle gamme comparative delle cuticole corrispondevano esattamente ai campioni. I capelli rinvenuti nel pugno di Kintry non risalivano a molto tempo prima del decesso e la radice era rotonda, segno che erano stati strappati, ossia che c'era stata una colluttazione. Kinderman scosse il capo. — Non può essere — disse ancora. — È assurdo. — Considerò la foto che avevano scattato alla donna e poi il fondo della sua tazza di tè. Giocherellò con la fetta di limone assestandole dei
colpetti con un dito. Aveva ancora indosso il cappotto. — Cosa lo ha ucciso? — chiese. — Collasso — rispose Stedman. — Oltre a una lenta asfissia — aggiunse. Tutti lo fissarono. — Gli è stata iniettata della succinilcolina, una sostanza narcotica. Dieci milligrammi per cinquanta libbre di peso corporeo causano la paralisi immediata. — Continuò. — Kintry ne aveva in corpo circa venti. Non sarebbe stato in grado di muoversi o di gridare, e nel giro di una decina di minuti neppure di respirare, perché quella sostanza colpisce il sistema respiratorio. Una cappa di silenzio discese su di loro, isolandoli dal resto del locale, dall'alacre brusio prodotto dall'attività di uomini e macchine. Kinderman l'udiva ma come sordo e lontano, come il suono di preghiere dimenticate. — A cosa serve questa... — chiese Kinderman — questa... come l'ha chiamata? — Succinilcolina. — Se non le spiace informarci, Stedman... — Di norma è impiegata come rilassante muscolare — rispose Stedman. — È adoperata in anestesia e soprattutto nella terapia con elettroshock. Kinderman annuì. — C'è da sottolineare — aggiunse il patologo — il fatto che questa sostanza praticamente non ammette margini di errore. L'omicida doveva sapere quel che stava facendo per ottenere l'effetto desiderato. — Quindi, un medico — disse Kinderman. — Forse un anestesista. Chissà. Qualcuno, comunque, che s'intende di medicina, giusto? O che, in ogni caso, può procurarsi quella sostanza. A proposito, non è che per caso sulla scena del delitto è stata rinvenuta una siringa ipodermica e non, come al solito, qualche ninnolo dei Cracker Jack, quelli che i bimbi ricchi gettano invariabilmente via? — Niente siringhe — rispose Ryan impassibile. — Logico. — Kinderman sospirò. Fino a quel momento avevano scoperto ben poco; certo, il fermacapelli recava i segni delle unghie, ma le impronte digitali erano risultate illeggibili; e l'analisi della saliva sui mozziconi di sigaretta aveva dimostrato che il fumatore apparteneva al gruppo sanguigno 0, ossia al più comune. Kinderman vide che Stedman controllava l'ora. — O.K., Stedman, vada — disse. — E anche Ryan. Andate, andate. Andate dalle vostre famiglie a sparlare degli ebrei. Dopo le consuete amenità, Ryan e Stedman si allontanarono in tutta fretta per le vie della città senza più pensare ad altro che non fosse il traffico e
la cena. Mentre Kinderman li seguiva con lo sguardo, la sala operativa si fece nuovamente sentire, viva, nei suoi orecchi, come se quelle loro banalità l'avessero punta sul vivo. Udì i telefoni squillare, gli uomini sbraitare. Finché i due uscirono dalla porta e i rumori si tacquero. Atkins guardò Kinderman che, sprofondato nei suoi pensieri, sorseggiava il tè; lo vide frugare dentro la tazza, estrarre la fetta di limone, spremerla e lasciarla ricadere nella tazza. — Questa faccenda dei giornali, Atkins... — rimuginò. Alzò lo sguardo e incontrò quello fermo dell'assistente. — Potrebbe esserci uno sbaglio, tenente. Può essere. Una spiegazione ci dev'essere. Riproverò al Post domattina. Kinderman guardò il tè e scosse il capo. — Non serve. Non scopriresti nulla. È indifferente, Atkins. Qualcosa di terribile se la ride di noi. Non scopriresti nulla. — Sorseggiò un altro po' di tè e quindi mormorò: — Clorato succinilcolinico. E basta. — E della vecchia che ne facciamo, tenente? — Ancora nessuno aveva chiesto di lei. Sui vestiti non le erano state riscontrate tracce di sangue. Kinderman lo guardò, improvvisamente animato. — Hai presente la vespa cacciatrice, Atkins? No, non la conosci. È piuttosto rara. Ma è una vespa incredibile. Un mistero. Tanto per cominciare, vive soltanto due mesi. Un tempo assai breve; ma poco importa se lo si vive in salute. Dunque, esce dall'uovo; è un piccolo e grazioso animaletto, una simpatica vespuccia. Nel giro di un mese è completamente sviluppata e depone a sua volta delle uova. Ed ecco che le uova hanno bisogno di cibo ma di un genere particolare e unico: insetti vivi, Atkins, diciamo cicale, sì, le cicale vanno bene. Sì, cicale. La vespa cacciatrice lo capisce, chissà come; è un mistero. O.K., non ti preoccupare, proseguiamo. Il cibo dev'essere vivo; lo stato di decomposizione potrebbe risultare fatale per le uova e le larve; e una cicala viva e normale potrebbe distruggere le uova o addirittura cibarsene. Quindi la vespa non può mettersi in saccoccia un grappolo di cicale, volarsene al nido, depositarle sulle uova e dire: "Ecco qua, la cena è servita". Pensi che la vespa cacciatrice abbia una vita facile, Atkins? Pensi che se ne vada tutto il giorno a zonzo a punzecchiare allegra e spensierata? No, non è così facile. Per nulla. Ci sono dei problemi. Ma se la vespa riesce a paralizzare la cicala, almeno quel problema è risolto e la cena è in tavola. Ma per riuscirci deve capire in che punto esatto pungere la cicala, il che comporta una conoscenza approfondita dell'anatomia della cicala, Atkins... Sai, sono ricoperte da tutta quell'armatura, quelle lamelle, e deve anche conoscere esattamente le quantità di veleno da iniettare, altrimenti o la nostra cicala
se ne va indisturbata o ci resta secca. Ha bisogno di tutte queste nozioni medico-chirurgiche. Non ti abbattere, Atkins, davvero. Va tutto bene. Tutte le vespe cacciatrici del creato, dappertutto, persino mentre noi ce ne stiamo seduti qui, stanno cantando Don't Cry for Me, Argentina... e paralizzando insetti in ogni angolo del reame. Non è sbalorditivo? E come è possibile che si verifichi? — Be', istinto... — provò Atkins sapendo benissimo ciò che Kinderman voleva sentirsi rispondere. Kinderman lo fulminò con lo sguardo. — Atkins, cerca di non dire più "istinto" e io ti do la mia parola che non dirò mai "parametri". Possiamo trovare il modo d'intenderci? — Cosa ne dice di "istintività"? — Verboten. Istinto. Cos'è l'istinto? Può un appellativo essere una spiegazione? Qualcuno ti racconta che oggi il sole non sorgerà su Cuba e tu rispondi: "Poco male, oggi è il Giorno-in cui-il sole-non sorgerà-su Cuba"? È una spiegazione questa? Mettiamo un'etichetta ai miracoli, giusto? E lascia che te lo dica, anche parole come "gravità" mi fanno un baffo, Atkins. Va bene, è tutto un altro paio di maniche. Ma intanto, Atkins, la vespa cacciatrice è sbalorditiva, Atkins. Fa parte della mia teoria. — La teoria sul nostro caso? — Non so. Può darsi. O forse no. Sto soltanto chiacchierando, Atkins. No, un altro caso. Qualcosa di più grande. — Fece un gesto per indicare la globalità. — È tutto connesso. Ma per tornare all'anziana signora... — la sua voce scemò e lontano si udì il brontolìo di un tuono. Guardò verso una delle finestre oltre le quali cominciava a tambureggiare incerta una leggera pioggerella. Atkins si spostò sulla sedia. — L'anziana signora... — sussurrò Kinderman perduto nei suoi pensieri — ci sta conducendo nel suo mistero, Atkins. E io esito a seguirla. Sì. Per un po' continuò a fantasticare, poi, d'un tratto, accartocciò la tazza ormai vuota e la gettò nel cestino vicino alla scrivania. Si alzò. — Vai dalla tua ragazza, Atkins. Masticate gomma e bevete limonata. E raccontatevi le solite frottole. In quanto a me, me ne vado. Adieu. — Ma si trattenne ancora un istante guardandosi attorno. — Tenente, ce l'ha indosso — disse Atkins. Kinderman si toccò la tesa del feltro. — Sì. È vero. Bel colpo. Ben fatto. Kinderman continuò ad attardarsi, rimuginando. — Mai fidarsi dei fatti — sbuffò. — I fatti ci odiano. Fanno schifo. Odiano noi e la verità. — Poi, di botto, si voltò e si allontanò con la sua andatura dondolante.
Dopo un istante, rovistandosi nelle tasche del cappotto in cerca di qualche libro, eccolo ricomparire. — Un'altra cosa — disse. Il sergente si alzò. — Solo un istante — disse ancora. Frugò tra i libri sulla scrivania, ne scorse velocemente le pagine e infine mormorò — Ah! — Dalle pagine di un'opera di Teilhard de Chardin estrasse un appunto vergato sul retro di uno stampato dell'Hershey Bar. Se l'accostò al petto. — Non guardare — disse ad Atkins severo. — Non sto guardando — rispose il sergente. — In ogni modo, non farlo — ribatté Kinderman; poi, con aria circospetta, guardò l'appunto e lesse: — "Un'altra fonte di convinzione nell'esistenza di Dio, connessa alla ragione e non ai sentimenti, è data dall'estrema difficoltà o piuttosto impossibilità di concepire quest'universo immenso e meraviglioso come il cieco risultato del caso o della necessità". — Kinderman si riaccostò il foglietto al petto e chiese: — Chi l'ha scritto, Atkins? — Lei. — Risparmiati. Gli esami per tenente ci saranno il prossimo anno. Riprova. — Non lo so. — Charles Darwin — disse Kinderman. — In L'origine delle specie. — E con ciò si ficcò l'appunto in tasca e uscì. Per rientrare dopo un momento. — Qualcos'altro — disse, facendosi molto sotto al sergente, le mani ben affondate nelle tasche del cappotto. — Qual è il significato del nome Lucifero? — Portatore di luce. — E qual è la materia dell'universo? — L'energia. — E qual è la forma più comune di energia? — La luce. — Appunto — e nuovamente bordeggiò per la sala operativa e poi giù per le scale. Stavolta non tornò. L'agente Jourdan sedeva in un angolo di una camera del reparto di sicurezza. La vecchia, inondata dall'arcana luminescenza color ambra della lampada da notte posta sopra il letto, giaceva immobile e muta, le braccia lungo i fianchi, gli occhi fissi e assenti. Jourdan poteva percepire il respiro regolare inframmezzato dal picchiettio della pioggia contro la finestra. Si accomodò meglio sulla sedia. Pigramente chiuse gli occhi. Ma subito dopo
li riaprì. Nella camera c'era uno strano rumore. Una specie di lieve crepitìo. Appena percepibile. A disagio, la Jourdan scandagliò con lo sguardo la camera senza rendersi conto di essere spaventata finché istintivamente non esalò in un sospiro di sollievo quando scoprì che il rumore era causato dal lento disciogliersi dei cubetti di ghiaccio contenuti nel bicchiere posato accanto al letto. La porta si aprì. Kinderman entrò piano piano nella camera. — Faccia una sosta — disse alla Jourdan, che con un sentimento di gratitudine uscì. Per qualche tempo Kinderman considerò la donna; quindi si tolse il cappello. — Come si sente, mia cara? — Nessuna risposta. Ma all'improvviso, ecco che la donna levò le braccia e con le mani ricominciò a ripetere i gesti misteriosi che Kinderman le aveva visto compiere nella rimessa sul Potomac. Con ogni attenzione l'investigatore prese una sedia e delicatamente l'accostò al letto. Odorava di disinfettante. Si sedette e cominciò a studiare con cura i movimenti di lei. Avevano un significato. Ma quale? Le mani proiettavano ombre, neri geroglifici, sulla parete opposta. Sembravano messaggi in codice. Kinderman osservò il volto della donna, che sembrava pervaso da un'aura di santità, mentre negli occhi le albergava un'espressione come di desiderio. Kinderman rimase seduto per quasi un'ora, immerso in quella luminescenza, nel rumore della pioggia, nel suo respiro un po' affannoso e nei suoi pensieri. Si riprovò a pensare ai quark e alle teorie dei fisici secondo i quali la materia non era costituita da cose bensì semplicemente da processi in un mondo d'ombre e d'illusioni mutevoli, un mondo in cui i neutrini erano considerati come fantasmi e gli elettroni erano capaci di tornare indietro nel tempo. Poni lo sguardo sulle stelle più remote, svaniscono, pensò; la loro luce per l'occhio umano non è che un alone; ma guarda al di là di esse, ed ecco che riesci a scorgerle: la loro luce colpisce nel segno. Kinderman ebbe la sensazione che in questo strano e nuovo universo si dovesse guardare ai contorni per trovare la soluzione del caso. Rifiutava la possibilità che quella vecchia fosse coinvolta nell'omicidio ma in un certo qual modo, che non riusciva a spiegarsi, sapeva che lei lo incarnava. Una sensazione sconcertante eppure precisa, che si presentava ogniqualvolta si allontanava dalla mera considerazione dei fatti. Quando infine la donna smise di gesticolare, il detective si alzò, abbassò lo sguardo sul letto e tenendo il feltro per la tesa con entrambe le mani disse: — Buonanotte, signora. Mi spiace averla disturbata. — Uscì dalla ca-
mera. La Jourdan stava fumandosi una sigaretta nell'ingresso. Kinderman le si avvicinò e l'osservò. Sembrava a disagio. — Ha parlato? — le chiese. L'agente Jourdan espirò una boccata di fumo e scosse il capo. — No. Non ha parlato. — Ha mangiato? — Sì, farinata d'avena calda. — Scosse della cenere che non c'era. — Mi sembra un po' turbata — le disse Kinderman. — No... soltanto c'è qualcosa di raccapricciante là dentro. Senza ragione, così, una semplice sensazione. — Si strinse nelle spalle. — Non so. — È molto stanca. Vada a casa, su, ci sono le infermiere... — Sarebbe lo stesso. Non voglio lasciarla, mi fa così pena. — Scosse ancora la cenere dalla sigaretta e i suoi occhi ebbero un breve guizzo. — Be', sì, credo di essere un po' a terra, però. Pensa veramente che dovrei...? — È stata meravigliosa. Ora vada a casa. La Jourdan parve sollevata. — Grazie, tenente. Buonanotte. Si volse e si allontanò con passo svelto. Kinderman la seguì con lo sguardo. L'ha sentito anche lei, pensò, la stessa cosa. Ma cosa? Qual è il problema? Non è stata la vecchia signora. Kinderman guardò un'anziana inserviente col capo avvolto in un fazzolettone rosso vivo, che armata di spazzolone finiva di pulire il pavimento. Un'inserviente che spazza, ecco tutto, pensò. Ripreso nuovamente contatto con la realtà, decise di andare a casa. Desiderò ardentemente di essere nel suo letto. Mary lo attendeva in cucina, seduta al tavolino di acero, con indosso una vestaglia di lana azzurro pallido. Aveva disegnata sul volto un'espressione risoluta e maliziosa. — Ciao, Bill. Hai l'aria stanca — gli disse. — Sto in piedi per miracolo. La baciò sulla fronte e sedette. — Hai fame? — Non molto. — C'è un po' di petto di pollo. — La carpa no? Lei ridacchiò. — E allora, come ti è andata oggi? — gli chiese. — Uno spasso, come al solito, capo. Mary sapeva di Kintry, l'aveva appreso dal telegiornale. Ma da anni tra
loro vigeva il tacito accordo che il lavoro del marito doveva restare fuori della porta di casa, almeno come argomento di conversazione. Per le telefonate nel cuore della notte non c'era nulla da fare. — Allora, che c'è di nuovo? E Richmond? — le chiese. La moglie fece una smorfia. — Abbiamo fatto colazione là: uova e pancetta al burro, che servono assieme ai fiocchi d'avena. E mamma al banco ha commentato a voce alta: "Questi ebrei sono pazzi". — E dov'è la nostra venerabile mavin dei fondali fluviali? — Dorme. — Sia ringraziato il cielo. — Bill, sii buono. Può sentirti. — Mentre dorme? Oh, sì, naturalmente, tesoro. Il Fantasma della Vasca è sempre all'erta. Sa che potrei compiere qualcosa di veramente inconsulto. Mary, quand'è che la mangiamo 'sta carpa? Dico sul serio. — Domani. — Quindi, anche per stasera niente bagno? — Fai la doccia. — Voglio un bel bagno con tante bollitine. Alla carpa dispiaceranno? Ho in mente di concordare una riconciliazione. A proposito, Julie dov'è? — A scuola di danza. — Di notte? — Bill, sono soltanto le otto. — Dovrebbe andarci di giorno. È meglio. — Meglio, in che senso? — C'è più luce. È meglio. Può vedersi la punta delle scarpette. Soltanto i goyim danzano bene al buio. Gli ebrei incespicano. Agli ebrei non piace. — Bill, non t'inquietare ma avrei una piccola notizia da darti. — La carpa ha cinque gemelli. — Smettila. Julie vuole cambiare il cognome in Febré. Kinderman la guardò inebetito. — Non dici sul serio. — Sì, sul serio. — No, scherzi. — Julie dice che migliorerebbe la sua immagine di danzatrice. Kinderman scandì con voce atona: — Julie Febré. — Perché no? — disse la moglie. — Gli ebrei sono farmischt, non Febré. Cos'è il frutto di tutta questa segatura che riempie la nostra cultura di oggi? Poi sarà la volta del dottor Bernie Feinerman, che verrà a raddrizzarle il naso perché vada d'accordo
col nome; e poi toccherà alla Bibbia e al Libro di Febré e nell'arca di Noè non ci sarà più nulla che somigli a uno gnu, soltanto degli armoniosi animaletti di bella presenza e dai nomi come Melody o Tabby, tutti autentici WASP. E un giorno i resti dell'arca saranno rinvenuti sulle Hamptons. Non ci resta che ringraziare il Signore che il faraone, quel gonijf, quello sciacallo, oggi non sia qui, altrimenti ci riderebbe sul muso. — Le cose potrebbero andar peggio — disse la moglie. — Forse — grugnì lui. — E se l'arca si arrestasse a Richmond? Kinderman fissò lo sguardo nel vuoto. — I Salmi di Lancillotto — disse. — Sprofondo. — Sospirò e reclinò la testa sul petto. — Caro, ti prego, vai a letto — disse Mary. — Sei esausto. Lui annuì. — Sì, sono stanco. — Si alzò, si curvò su di lei e la baciò sulla guancia. — Notte, ciccia. — Notte, Bill. Ti amo. — Anch'io. Salì in camera e nel giro di pochi minuti già dormiva. Sognò. Sulle prime ebbe la sensazione di essere in volo su una campagna dai colori accesi e brillanti; poi, apparvero villaggi e quindi città dall'aspetto strano e comune al tempo stesso. Sembravano normali ma in esse c'era qualcosa di insolito, di estraneo, e Kinderman si accorse che non avrebbe saputo spiegarsi cosa fosse. Come in qualsiasi altro sogno, non aveva la sensazione fisica del proprio corpo eppure lo percepiva forte e vigoroso. E il sogno era lucido: sapeva di trovarsi addormentato nel suo letto e di star sognando ed ebbe chiaro il ricordo di tutti gli avvenimenti della giornata. Improvvisamente, si ritrovò all'interno di un gigantesco edificio di pietra, dalle pareti levigate e di color rosa pallido che terminavano in volte di altezza vertiginosa. Ebbe la sensazione di trovarsi in un'enorme cattedrale. Un immenso locale pieno di letti, del tipo in uso negli ospedali, stretti e bianchi, e di centinaia e centinaia di persone che sedevano o giacevano nei loro letti oppure camminavano qua e là in pigiama o in vestaglia. I più chiacchieravano o leggevano, mentre un gruppetto di cinque vicino a Kinderman si era radunato intorno a un tavolo sul quale era posto una sorta di radiotrasmettitore. I loro volti denunciavano un grande impegno e Kinderman ne udì uno che diceva — Mi riceve? — Degli strani esseri si muovevano in mezzo a loro, uomini alati come angeli e con indosso camici da medico. Si spostavano tra i letti e i fasci di luce solare che penetravano at-
traverso oblò dai vetri colorati. Alcuni parevano intenti a operare delle medicazioni, mentre altri s'intrattenevano in pacati conversari. Su tutto regnava un'atmosfera di pace sovrana. Kinderman s'incamminò lungo le interminabili file di letti, di cui non riusciva a scorgere la fine. Nessuno fece caso alla sua presenza salvo, forse, uno degli angeli, che al suo passaggio voltò il capo e lo guardò con simpatia, per poi tornare alle sue occupazioni. Kinderman scorse suo fratello Max, che per anni, fino alla morte avvenuta nel 1950, era stato uno studioso rabbinico. Al pari di qualsiasi altro sogno, dove i defunti non sono mai considerati come tali, Kinderman si avvicinò senza nessuna fretta al fratello e sedette accanto a lui sul letto. — Sono felice di vederti, Max. — Poi aggiunse: — Ora entrambi stiamo sognando. Il fratello scosse il capo con gravità e rispose: — No, Bill, io non sto sognando. — E Kinderman si ricordò che Max era morto. E insieme a quest'improvvisa percezione, ebbe l'assoluta certezza che Max non fosse un'illusione. Kinderman lo bersagliò di domande sull'aldilà. — Tutta questa gente... sono tutti morti? — chiese. Max annuì. — Che mistero — disse. — Dove siamo? — domandò ancora. Max si strinse nelle spalle. — Non so. Non ne siamo sicuri... Ma dapprima si arriva qui. — Sembra un ospedale — osservò Kinderman. — Sì, siamo tutti in cura qui — disse Max. — E sapete dove andrete dopo? — No. Continuarono a conversare, e infine Kinderman si decise a chiedergli senza mezzi termini: — Max, Dio esiste? — Non nel mondo dei sogni, Bill — gli rispose il fratello. — Qual è il mondo dei sogni, Max? È questo? — È quello in cui meditiamo su noi stessi. Ma allorché Kinderman insistette perché gli fornisse dei chiarimenti, Max si fece vago e prolisso; a un certo punto affermò che "abbiamo due anime". Ma poi tornò dubbioso e incerto e il sogno cominciò a perdere di vivezza, a disfarsi, a divenire monotono e inconsistente, finché alla fine di Max non rimase che uno spettro farfugliante. Kinderman si svegliò. Alzò la testa dal cuscino. Attraverso una fessura
delle tende che schermavano la finestra penetrava la luce cobalto dell'alba. Reclinò nuovamente la testa sul cuscino e pensò al sogno. Cosa significava? — Dottori angelici... — mormorò tra sé. Mary si mosse nel sonno accanto a lui. Con cautela scivolò fuori dal letto e andò nel bagno. Cercò a tastoni l'interruttore, chiuse la porta e accese la luce. Alzò il sedile del water e urinò. Mentre lo faceva gettò un'occhiata alla vasca, dove vide la carpa, che nuotava pigramente con lenti colpi di coda. Distolse lo sguardo e scosse il capo. — Momzer — borbottò. Tirò lo sciacquone, da un gancio dietro la porta prese la vestaglia, spense la luce e scese al piano inferiore. Si preparò un po' di tè e, immerso nei suoi pensieri, sedette al tavolo. Un sogno premonitore? Un presagio di morte? Scosse il capo. No, i sogni premonitori hanno una struttura particolare, che quello non possedeva. Quel sogno non era simile a nessun altro. Lo aveva profondamente colpito. — "Non nel mondo dei sogni..." — mormorò. — "Due anime... È quello in cui meditiamo su noi stessi." — Si chiese se con quel sogno l'inconscio non avesse voluto fornirgli delle indicazioni sulla questione del dolore. Forse. Si rammentò di Visioni, un saggio di Jung nel quale lo psichiatra aveva descritto un suo lieve contatto con la morte attraverso un coma subito durante una degenza ospedaliera. Mentr'era in coma, Jung improvvisamente si sentì fuori del proprio corpo, trasportato a chilometri di distanza dalla Terra. Nel momento in cui stava per entrare in un tempio che galleggiava nello spazio, gli apparve circonfusa di luce l'immagine archetipica del suo medico, quella di un basileo di Kos. Il medico lo rimproverò e gli intimò di far ritorno nel corpo affinché potesse portare a termine il suo operato sulla Terra. Un istante dopo, Jung si era risvegliato dal coma. Il suo pensiero andò per prima cosa al medico, provando un sentimento di pena, perché gli era apparso nella sua forma archetipica; infatti, alcune settimane dopo il sogno il medico fu colpito da una grave malattia e ben presto morì. Ma i sentimenti dominanti che Jung provò e continuò a provare per i successivi sei mesi, furono di rabbia e di scontento per aver fatto ritorno in un corpo, in un mondo e in un universo che adesso percepiva come "scatole". Era quella la risposta? si chiese Kinderman. L'universo tridimensionale era forse una costruzione artificiale predisposta per risolvere, una volta che lo si fosse penetrato, alcuni problemi specifici altrimenti irrisolvibili? E la questione del male nel mondo era intenzionale? L'anima poteva "indossare" un corpo come l'uomo indossa uno scafandro per immergersi nell'oceano e lavorare nelle profondità di un mondo a lui estraneo? Il dolore che innocentemente soffriamo, lo scegliamo?
Kinderman si chiese se agli esseri umani fosse possibile restare tali senza la condizione del dolore o, almeno, senza la possibilità di soffrire. Ma l'uomo così forse non sarebbe stato altro che una specie di orsetto panda che gioca a scacchi. E cose come l'onore o il coraggio o la gentilezza sarebbero potute esistere? Un Dio buono non avrebbe potuto fare a meno di intervenire al richiamo di dolore di un bimbo. Ma non lo faceva. Se ne stava a guardare. Ma ciò si verificava perché l'uomo gliel'aveva chiesto? Perché l'uomo aveva deliberatamente scelto la prova del fuoco per poter essere uomo ancor prima che il tempo avesse inizio e comparisse il fiammeggiante firmamento? Un ospedale. Dottori angelici. Sì, siamo tutti in cura qui. Naturalmente, pensò Kinderman, torna. Dopo morto passa una settimana alla Porta d'Oro. O forse, anche, una specie di Florida. Mica male. Kinderman per un po' si trastullò con queste riflessioni e decise che la teoria esposta nel sogno non reggeva se messa a confronto con le sofferenze degli animali superiori. Di sicuro gli animali selvatici non avevano scelto il dolore e il più fedele tra i cani non possedeva una vita a venire. Ma c'è qualcosa, pensò; vicino. Qualcosa che necessitava, perché il tutto avesse senso e preservasse la bontà divina, di un balzo, di un progresso, estremo e sorprendente. Fu certo di essere prossimo a rintracciarlo. Passi sulle scale, rapidi e leggeri. Kinderman distolse lo sguardo dalla porta e fece una smorfia. I passi si arrestarono dinanzi al tavolo. Alzò lo sguardo: la madre di Mary. Una vecchietta di ottant'anni, piccolina e con i capelli argentei raccolti a crocchia. Kinderman la osservò. Mai visto prima un accappatoio nero. — Non sapevo che fossi alzato — disse lei con tono imperscrutabile. Tutto il suo volto era increspato. — Sono alzato — disse Kinderman. — È un fatto. Per un attimo lei parve rifletterci sopra, poi ciabattò fino ai fornelli e disse: — Ti faccio il tè. — Già fatto. — Prendine ancora. E così dicendo tornò indietro, toccò con la mano la tazza di lui e quindi gli scoccò un'occhiata simile a quella che Dio doveva aver elargito a Caino una volta sentita la nuova. — È freddo — disse. — Ci vuole caldo. Kinderman guardò l'orologio. Quasi le sette. Cos'era accaduto al tempo? Si chiese. — Com'è andata a Richmond? — Tutti schvartzers (diavoli neri). Non provatevi più a costringermi a tornarci. — Schiaffò un pentolino sul fuoco e cominciò a bofonchiare in
yiddish. Squillò il telefono. — Fermo, vado io — disse la madre di Mary, e svelta afferrò il ricevitore. — Sì — disse. Kinderman la guardò mentre ascoltava quanto le stavano dicendo dall'altra parte del filo. Gli tese la cornetta con aria tetra. — Per te. Qualcun altro dei tuoi amici gangster. Kinderman sospirò, si alzò e prese il ricevitore. — Kinderman — disse stancamente. Ascoltò. Sul viso gli calò un'espressione inebetita. — Vengo subito — disse e riagganciò. Alla Holy Church, durante la messa delle sei e mezzo era stato assassinato un sacerdote cattolico; decapitato nel confessionale mentre stava ascoltando la confessione di qualcuno. Nessuno dei presenti alla funzione aveva la benché minima idea di chi potesse essere l'omicida. 6 Lunedì 14 marzo L'esistenza della vita sulla Terra dipendeva da una particolare pressione atmosferica. Questa pressione, a sua volta, dipendeva dall'opera costante di forze fisiche a loro volta dipendenti dalla posizione della Terra nello spazio che, nuovamente, a sua volta dipendeva da una particolare costituzione dell'universo. E la causa di quest'ultimo? si chiese Kinderman. — Tenente? — Eccomi a te, Horatio Hornblower. A che punto siamo? — Nessuno ha visto nulla di insolito — disse Atkins. — Possiamo mandare a casa i parrocchiani? Kinderman sedeva su una panca vicino alla scena del delitto, uno dei confessionali sul fondo della chiesa. Avevano richiuso la porta del confessionale, ma il sangue ancora filtrava e colava in direzione della navata centrale, dove si diramava in piccole pozze. La scientifica si dava da fare attorno a esse scavalcandole con noncuranza. Le porte della chiesa erano state sprangate e dinanzi a ciascuna montava di guardia un agente in divisa. Al parroco era stato permesso di entrare e Kinderman lo vide ascoltare qualcosa che gli stava comunicando Stedman. L'anziano sacerdote annuiva mordicchiandosi il labbro inferiore e sul suo viso si leggeva lo sforzo di reprimere un'angoscia che minacciava di soffocarlo. — Sì, va bene, lasciali
andare — disse infine Kinderman ad Atkins. — Trattieni soltanto i quattro testimoni. Sto riflettendo. Atkins annuì, poi si guardò intorno alla ricerca di un punto elevato dal quale annunciare ai fedeli ancora in chiesa che potevano andare. Vide la galleria del coro e s'avviò in quella direzione. Kinderman ritornò sui suoi pensieri. L'universo era eterno? Probabile. Chissà? Un dentista immortale potrebbe otturare carie per sempre. Ma cos'era che sosteneva l'universo adesso? Che l'universo fosse la causa della sua propria costituzione? Era importante che le articolazioni nella catena causale si estendessero indefinitamente? Non servirebbe, concluse l'investigatore. Si figurò un treno merci che trasportava uniformi alla Abraham and Straus dal piccolo stabilimento di munizioni vicino a Cleveland, dove aveva sempre immaginato che venissero fabbricate. Ciascun vagone era mosso da quello precedente. Nessuno di essi avrebbe potuto muoversi altrimenti. Una serie infinita di vagoni non fornirebbe a nessuno di essi ciò di cui mancano, ossia il movimento. Zero moltiplicato all'infinito era uguale a zero. Il treno non potrebbe muoversi se non grazie a una forza motrice, pertanto qualcosa di totalmente diverso da un vagone. La Prima Causa Incausata, il Primo Motore Immoto. Era contraddittorio? si chiese Kinderman. Se tutto doveva possedere una causa, perché Dio no? Stava semplicemente esercitandosi; infatti, subito, si rispose: il principio di causalità deriva dall'osservazione dell'universo materiale, quindi da un particolare genere di sostanza, di stoffa. E quella stoffa era l'unico indumento disponibile nella rastrelliera delle possibilità? Perché non un tipo di sostanza completamente diverso, che fosse al di fuori del tempo, dello spazio e della materia? La teiera pensa di essere tutto ciò che c'è? — Tenente, stavo pensando... Kinderman si volse a guardare Ryan. — Vuoi che chiami la United Press o conserviamo questo miracolo qui tra noi in chiesa? — Potremmo trovare delle impronte nella parte interna dei pannelli scorrevoli del confessionale ma... — E per quale altra ragione ci saremmo ritrovati qui? Cercate le impronte sull'esterno e sull'interno dei pannelli, certo, e in particolare su quei piccoli tiranti metallici. — Ma all'interno non troveremmo che quelle del sacerdote — disse Ryan. — A che ci servirebbero? — Sto gonfiando il lavoro. Il dipartimento ci paga a ore. Se tenessi d'occhio il tuo idraulico quando lavora non mi rivolgeresti domande ridicole
come queste. Ryan insistette sul proprio punto di vista. — Non riesco a capire cosa c'entrino le impronte del sacerdote. — E tu fallo per fede, allora. Il posto è quello giusto. — O.K. — disse Ryan e si allontanò portandosi dietro quel differimento dal senso di nausea, dalla sensazione di disperazione che montava dentro di lui. Ricominciò la lotta per raggnippare le sue convinzioni. Sì, il posto è questo, pensò. E il tempo. Udì lo strascichìo dei passi dei parrocchiani che lasciavano la chiesa per allontanarsi nella luce del mattino lungo le consuete strade cittadine. Un astronauta americano scende su Marte, pensò, e ci trova una macchina fotografica. Come potrebbe spiegarsene la presenza? Potrebbe pensare di non essere stato il primo a metter piede su Marte, immaginò. Non i russi, però. È una Nikon. Troppo cara. Ma forse qualche altra nazione... O anche, è concepibile, degli extraterrestri che prima avevano fatto tappa sulla Terra e avevano preso la macchina fotografica per studiarla. Potrebbe anche pensare che il governo gli avesse mentito e che avesse inviato degli altri americani prima di lui. Potrebbe infine concludere che si trattasse di un'allucinazione o che se lo fosse sognato. Ma l'unica cosa che non avrebbe potuto pensare, Kinderman ne era certo, era che, poiché Marte era stato bombardato da piogge meteoritiche e sconvolto da eruzioni vulcaniche, fosse ragionevole immaginare che in miliardi di anni si fossero formate combinazioni di materiali pressoché infinite e che la macchina fotografica fosse il risultato di una di quelle combinazioni casuali. Gli direbbero che è completamente meshugge a causa dell'esposizione a una qualche specie di raggio cosmico e quindi lo farebbero sparire in una clinica specializzata con una bella scorta di matzoh e coi galloni da cadetto spaziale. Otturatore, lenti, regolatore dell'otturatore, diaframma, messa a fuoco automatica, esposizione automatica. Poteva un simile meccanismo formarsi casualmente? Nell'occhio umano ci sono dieci milioni di contatti elettrici che possono manovrare simultaneamente due milioni di messaggi, ma possono percepire la luce di un solo fotone. Un occhio umano è stato trovato su Marte. Il cervello umano, pochi etti di tessuto, contiene più di cento miliardi di cellule cerebrali e 500.000 miliardi di sinapsi. Sogna, compone musica, formula equazioni einsteiniane; crea il linguaggio, la geometria e le apparecchiature per sondare le stelle; e fa dormire una madre in mezzo a una tempesta mentre la fa svegliare al più debole pianto del figlio. Un compu-
ter capace di tutte queste funzioni coprirebbe per dimensioni l'intera superficie terrestre. Un cervello umano è stato trovato su Marte. Il cervello può individuare una sola unità di mercaptanio in mezzo a cinquanta miliardi di unità d'aria; e se l'orecchio umano possedesse una maggiore sensibilità, udrebbe entrare in collisione le molecole dell'aria. Le cellule sanguigne, dinanzi a un minuscolo restringimento venoso, si mettono in fila; e le cellule del cuore pulsano con un ritmo diverso finché non entrano in contatto con un'altra cellula, e soltanto allora pulsano all'unisono. Un corpo umano è stato trovato su Marte. Le centinaia di milioni di anni di evoluzione dal paramecio all'uomo non hanno svelato il mistero, pensò Kinderman. Il mistero era l'evoluzione stessa. La tendenza fondamentale della materia era verso una totale disorganizzazione, verso uno stato conclusivo di assoluta accidentalità dalla quale l'universo non potrebbe mai risollevarsi. Istante dopo istante, le sue connessioni si sciolgono ed esso precipita nel vuoto disperdendosi disordinatamente, ansioso che i suoi soli si spengano. Eppure, in ciò consisteva l'evoluzione, si meravigliava Kinderman, un uragano che accatasta paglie in cumuli, fasci di complessità sempre maggiore che non riconoscono la reale natura della loro sostanza. L'evoluzione era un teorema scritto su una foglia che galleggia controcorrente sul fiume. Un Progettista al lavoro. Dunque, che altro? Più chiaro di così. Quando un uomo ode un rumore di zoccoli nel Central Park, non dovrebbe cercare con lo sguardo delle zebre. — Tenente, abbiamo sgombrato la chiesa. Gli occhi di Kinderman si posarono su Atkins, poi sul confessionale, dentro il quale giaceva ancora il cadavere del sacerdote. — Ah, sì, Atkins? Davvero? Lo sguardo di Kinderman indugiò su Ryan che stava cospargendo di polvere l'esterno dei pannelli per rilevare le impronte. Le palpebre di Kinderman lentamente cominciarono ad abbassarsi. — Anche l'interno — disse. — Non dimenticarlo. — Non lo dimenticherò — borbottò Ryan. — Ottimo. Kinderman con un sospiro si tirò su dalla panca e seguì Atkins verso un secondo confessionale sul fondo a destra dell'ingresso. Seduti sulle due ultime panche della chiesa c'erano le persone che Atkins, secondo le indicazioni di Kinderman, aveva trattenuto. Kinderman sostò brevemente per e-
saminarli. Richard Coleman, avvocato, cinquantenne, alle dipendenze del ministero della giustizia. Susan Volpe, un'attraente studentessa ventiquattrenne del Georgetown College. George Paterno, allenatore di football al Bullis Prep del Maryland. Basso e robusto, Kinderman lo giudicò sui trent'anni. Accanto a lui sedeva un cinquantenne elegantemente vestito, Richard McCooey, laureato alla Georgetown e proprietario del "1789", un ristorante in un isolato a poca distanza dalla chiesa. Kinderman lo conosceva perché possedeva anche il Tombs, una birreria assai frequentata, nella quale Kinderman si era recato spesso in compagnia di un amico ormai morto da diversi anni. — Se non vi dispiace, ancora un paio di domande — disse Kinderman. — Sarà questione di un minuto. Farò alla svelta. Signor Paterno, lei per primo. Potrebbe essere così gentile da entrare in questo confessionale? Il confessionale era diviso in tre sezioni separate. In quella centrale, chiusa da una porta, il confessore sedeva in una oscurità appena rischiarata dalla poca luce che filtrava da una grata posta alla sommità della porta. Gli altri due scomparti, uno per lato rispetto al confessore, erano anch'essi forniti di porta e all'interno di inginocchiatoi. Su ciascun lato c'era un pannello scorrevole. Quando un fedele veniva a confessarsi, il sacerdote apriva il pannello e riceveva la confessione; terminato con quello, richiudeva il pannello e apriva l'altro sul lato opposto, dove un secondo fedele attendeva il proprio turno. Quella mattina, intorno alle 6 e 35, un uomo, ancora non identificato ma descritto dai testimoni come un giovane sui vent'anni, con occhi color verde chiaro, testa rasata e con indosso un maglione a collo alto blu scuro, aveva lasciato la parte sinistra del confessionale dopo un lasso di tempo piuttosto lungo e al suo posto era entrato George Paterno. Nel frattempo, la vittima, padre Kenneth Bermingham, già rettore della Georgetown University, aveva incominciato a confessare un uomo che aveva preso posto nella parte destra del confessionale. Quest'uomo, anch'egli non ancora identificato, secondo i testimoni indossava pantaloni di tela bianchi e una giacca a vento di lana nera con cappuccio. Dopo sei o sette minuti, l'uomo era uscito dal confessionale e il suo posto era stato preso da un uomo anziano con una borsa della spesa. Poi, dopo un periodo di tempo descritto come "lungo", il vecchio aveva lasciato il confessionale, a quanto sembrava senza che avesse potuto confessarsi giacché il turno di Paterno avrebbe dovuto precedere il suo; tuttavia, Paterno non era stato visto uscire dal confessionale. McCooey era allora entrato al posto del vecchio e sia lui sia
Paterno avevano atteso nel buio il loro turno, McCooey convinto che il sacerdote fosse tuttora impegnato con Paterno e questi invece che l'uomo con la giacca a vento non avesse ancora finito di confessarsi. Comunque fosse andata, né il turno della Volpe né quello di Coleman giunsero mai. Era stato quest'ultimo ad accorgersi del sangue che fuoriusciva da sotto la porta. — Signor Paterno? Paterno si era inginocchiato nel lato sinistro del confessionale. Il colorito che gradualmente stava tornandogli sul volto rivelò una complessione olivastra. Si girò verso Kinderman e sbatté le palpebre. — Mentre si trovava nel confessionale — riprese l'investigatore — l'uomo con la giacca a vento si trovava dall'altra parte, seguito poi dal vecchio e quindi dal signor McCooey. Lei afferma di aver udito a un certo punto il pannello sul lato opposto richiudersi. Se lo ricorda? — Sì. — E ha detto inoltre di aver supposto che l'uomo con la giacca a vento avesse finito. — Sì. — Ha sentito il pannello riaprirsi? Come se, per esempio, il sacerdote si fosse dimenticato di qualcosa che voleva dirgli? — No, non l'ho sentito. Kinderman annuì. Poi chiuse la porta di Paterno, entrò nello scomparto del confessionale e si sedette. — Chiuderò il pannello sul suo lato — disse a Paterno. — Dopodiché, ascolti con attenzione, per favore. — Chiuse il pannello e quindi lentamente fece scorrere quello sul lato opposto. Riaprì il pannello dalla parte di Paterno. — Ha udito qualcosa? — No. Kinderman rimuginò sulla risposta. Paterno stava per alzarsi e uscire ma Kinderman lo invitò a rimanere dove si trovava. Kinderman uscì dallo scomparto del confessore e s'inginocchiò in quello di destra. Aprì il pannello, gettò un'occhiata a Paterno e disse: — Chiuda il suo pannello e stia nuovamente in ascolto. — Paterno eseguì. Kinderman allungò la mano dentro lo scomparto del confessore, sul retro del pannello trovò il tirante e fece scorrere il pannello finché il polso non gli restò tra il battente e l'imposta e gli fu impossibile chiuderlo ulteriormente. Allora, lasciò il tirante e, premendo con l'estremità delle dita la superficie del pannello dal suo lato, riuscì a farlo scivolare fino in fondo con un tonfo sordo. Kinderman si rialzò e si diresse allo scomparto di sinistra. Ne aprì la porta e guardò Paterno. — Ha sentito nulla? — gli chiese.
— Sì. Ha chiuso il pannello. — È stato un rumore simile a quello che udì mentre attendeva il suo turno? — Sì, esattamente lo stesso. — Per favore, me lo descriva. — Descriverlo? — Sì, descriverlo. Com'è stato questo rumore? Paterno esitò. Poi disse: — Be', ho sentito il pannello scorrere per un po' e poi fermarsi; quindi ho sentito che riprendeva a scorrere finché non si è chiuso. — Una breve pausa mentre scorreva, quindi? — Proprio come l'ha fatto lei ora. — E come può essere certo che sia stato richiuso completamente? — C'è stato un tonfo alla fine. Forte. — Vuol dire più forte del normale? — Forte... — Più del solito? — Sì, molto forte. — Capisco. E non si è chiesto perché il suo turno ancora non giungesse dopo aver sentito chiudersi l'altro pannello? — Chiedermi cosa? — Perché non toccasse a lei. — Immagino di sì. — E quando udì quel rumore? Quanto tempo prima della scoperta del cadavere? — Non ricordo. — Cinque minuti? — Non so. — Dieci? — Non so. — Più di dieci? — Non ne sono sicuro. Kinderman ci pensò su per qualche istante. Quindi chiese: — Ha udito altri rumori mentre si trovava lì dentro? — Vuol dire delle parole? — Qualsiasi cosa. — No, niente. — Vuol dire che talvolta le è capitato di udirne?
— Talvolta. Soltanto se pronunciate ad alta voce, però, come l'atto di contrizione al termine della confessione. — Ma stavolta niente. — Niente. — Nessun tipo di conversazione? — Niente. — Mormorii? — No. — Grazie, può tornare al suo posto. Paterno distolse gli occhi da Kinderman, si rialzò agilmente dall'inginocchiatoio e tornò a sedersi con gli altri. Kinderman li osservò. L'avvocato controllò l'orologio. L'investigatore si rivolse a lui. — Il vecchio con la borsa della spesa, signor Coleman. — Sì? — disse l'avvocato. — Quant'è che ha detto che è rimasto nel confessionale? — Forse sette, otto minuti, circa. Forse di più. — È rimasto in chiesa dopo che ha finito di confessarsi? — Non lo so. — E cosa mi dice lei, signorina Volpe, l'ha visto, lei? La ragazza stava ancora tremando e lo fissò senza capire. — Signorina Volpe? Trasalì e rispose: — Sì? — Il vecchio con la borsa della spesa, signorina Volpe. Dopo la confessione, è rimasto in chiesa o se n'è andato? Lo guardò per un momento come se ancora non capisse ma infine rispose: — Potrebbe essere uscito... Non ne sono certa. — Non ne è certa. — No, non lo sono. — Ma pensa che potrebbe essere uscito. — Sì, avrebbe potuto. — Nel suo comportamento c'era qualcosa di strano? — Strano? — Signor Coleman, c'era nulla di strano? — Mi è parso soltanto un po' svanito — disse Coleman. — Immaginai che fosse per questo che ci metteva così tanto tempo. — Ha detto che era sui settanta? — Passati. Camminava in maniera insicura, incerta. — Camminava? Per andare dove?
— Alla sua panca. — Quindi è rimasto in chiesa — disse Kinderman. — No, non ho detto questo — precisò Coleman. — Tornò alla sua panca, forse per recitare la penitenza. Dopo potrebbe essere uscito. — Mi ha giustamente corretto, avvocato. Grazie. — Ma le pare. — Negli occhi del legale balenò un guizzo di compiacimento. — E che dire dell'uomo con la testa rasata e di quello con la giacca a vento? — riprese Kinderman. — Nessuno di voi può dirmi se rimasero in chiesa oppure uscirono? Nessuna risposta. Kinderman tornò con lo sguardo sulla ragazza. — Signorina Volpe, l'uomo con la giacca a vento, le è parso che in qualche modo avesse un comportamento insolito? — No. Cioè, voglio dire, non l'ho osservato granché. — Le è sembrato irritato? — Era calmo. Normale. — Normale. — Esatto. Ha schioccato un po' le labbra, ecco tutto. — Ha schioccato le labbra? — Be', sì. Per qualche istante Kinderman rimuginò su quel particolare, poi congedò i testimoni. — È tutto — disse. — Grazie per la collaborazione. Sergente Atkins, li faccia uscire. Poi torni da me, è importante. Atkins accompagnò i testimoni fino all'agente che sorvegliava l'ingresso più vicino. Questione di quattro passi ma Kinderman lo seguì ansiosamente con lo sguardo, quasi che Atkins stesse partendo per il Mozambico per non fare più ritorno. Invece Atkins in un momento fu di nuovo lì e disse: — Sì, signore? — Un'altra cosetta sull'evoluzione. Insistono ad affermare che è frutto del caso, delle probabilità, che è una cosa elementare. Miliardi di pesci continuavano a morire sulle spiagge ed ecco che un bel giorno il più ganzo di tutti si guarda intorno e fa: "Splendido, Miami Beach. Il Fontainebleau. Penso proprio che mi farò un giretto da queste parti, giusto una boccata d'aria". "Ma, che Dio mi aiuti, questa è la frottola della carpa di Piltdown. Non è che schmeckle, una panzana. Se il pesce respira all'asciutto, muore, non c'è scampo, e la sua carriera di playboy è bell'e finita. Va bene, va bene, così
suona la faccenda a un orecchio comune. La vuoi messa meglio? Scientifica? Sono qui per questo. La storia vera è che questo sgombro dei mari del nord non resta sulla spiaggia. Si limita a prendere una boccatina d'aria, una tiratina, un assaggino, così, per prova, e poi torna in terapia intensiva nell'oceano, dove può starsene a strimpellare il banjo componendo canzoncine sugli allegri momenti passati sulla terraferma. Così va avanti per qualche tempo e forse, un po' per volta, respira un po' più a lungo. Forse respira proprio, forse no. Ma dopo tutto questo allenamento, depone delle uova e muore lasciando un testamento, nel quale spiega ai suoi piccoli orfani come dovrebbero cercare di respirare sulla terraferma, firmato e suggellato da queste parole: Fatelo per il vostro babbo. Baci, Bernie. E quelli lo fanno. Passano anni e anni, forse centinaia di milioni di anni, spesi in tentativi, generazione dopo generazione, sempre più sicuri e con risultati sempre migliori, perché la somma dell'esercizio, della pratica, si stampi nel loro codice genetico. E infine, uno di essi, magrolino, con gli occhiali, sempre col naso nei libri, e mai a divertirsi con gli altri in palestra, respira l'aria e si accorge che può continuare a respirarla; e ben presto fa il nautilo tre volte la settimana alle De Funiack Springs e gioca a bowling con gli schvartzer. "Naturalmente, non occorre ricordarlo, tutti i suoi figli non presentano difficoltà nel respirare indefinitamente, il loro unico problema è camminare e, forse, sollevarsi. E questo è quanto ti raccontano gli scienziati. Sì, certo, io te l'ho assai semplificata. Loro non lo fanno? Oggi uno schlump, uno sciamannato qualsiasi che dice vertebrato viene automaticamente considerato alla stregua di un genio. E pure se dice 'filo-'. Con questa ti si aprono liberamente le porte del Cosmos Club. La scienza ci fornisce molti fatti ma ben poca conoscenza. Per quanto concerne la teoria sui pesci, c'è soltanto un piccolo problema, Dio impedisca che ciò possa scoraggiarli, anche se questo problema fa cadere tutta la baracca; accade infatti che tutto quest'esercizio di respirazione non conduca di gran carriera a nessun successo: ogni pesce ricomincia tutto daccapo e il patrimonio genetico non muta nell'arco di una sola esistenza. Il grande motto del pesce è: Un giorno alla volta. "Non sto dicendo che sono contro l'evoluzione. Mi sta bene. Comunque, eccoti la storia dei rettili. Pensaci su. Sbucano sulla terra asciutta e depongono le uova. Fin qui è una bazzecola, giusto? Un gioco da ragazzi. Ma il piccolo rettile all'interno dell'uovo ha bisogno di acqua o morirà disidratato e non verrà mai al mondo. Oltre a ciò, e immediatamente dopo, ha bisogno
di cibo, un mucchio di cibo, perché esca dall'uovo adulto, proprio un bel pezzo di ragazzo grande e grosso. Nessun problema. Hai fame? Eccoti da mangiare. E infatti all'interno dell'uovo ecco comparire un sacco di tuorlo che esclama: 'Son qua!'. Quello è il cibo. E l'albume fungerà da acqua. Ma l'albume necessita di un particolare rivestimento altrimenti evapora e ciao. Così si forma un guscio di sostanza coriacea e il piccolo rettile sorride. Troppo presto. Non è così facile. Perché adesso per via del guscio l'embrione non può sbarazzarsi dei suoi rifiuti. Ci vuole una vescichetta. Ti fa un po' schifo? Mi sbrigo. Adesso c'è anche bisogno di una qualche specie di draydle, di un qualche attrezzo col quale il piccolo embrione possa sfondare quel guscio spesso e duro e liberarsene. C'è ancora dell'altro ma per ora basta così. Mi fermo, è sufficiente. Perché, caro Atkins, tutti questi mutamenti nell'uovo del rettile devono avvenire nello stesso momento! Mi ascolti? Nello stesso momento! Se uno soltanto di essi non si verifica, va tutto a monte e gli embrioni mantengono il loro appuntamento a Samarra. Non è che si può far sviluppare il tuorlo e metterlo da parte per un altro milione di anni finché l'involucro o la vescichetta non siano pronti e se ne vengano allegramente a dirti: Scusate siamo in ritardo, il rabbi non la finiva più. Metti la segreteria telefonica. Ciascun mutamento dev'essere derhangenet, deve accadere proprio nell'istante in cui il successivo comincia a verificarsi. Intanto, adesso abbiamo rettili fino ai nostri tokis. Chiedi alla gente di Okefenokee, te lo racconteranno. Ma come è possibile che accada tutto ciò? Tutti i mutamenti che si verificano nell'embrione avvengono istantaneamente per una incredibile coincidenza? Lo possono credere soltanto i deficienti, te lo garantisco io. Intanto, per quanto concerne quest'assassinio, l'omicida è lo stesso di Kintry. Senza l'ausilio di un agente paralizzante istantaneo, oggi non ci sarebbe stato nessun delitto. Troppo baccano. Non sarebbe stato possibile compierlo. Punto secondo, abbiamo cinque sospetti. McCooey, Paterno, l'uomo con la borsa della spesa, quello con la testa rasata e quello con la giacca a vento nera e i pantaloni bianchi. In ogni modo, siamo dinanzi a degli atti criminali tanto brutali quanto inspiegabili e cerchiamo uno psicopatico che s'intende di medicina. McCooey lo conosco e, entro certi limiti (ivi compresa la camera da letto nella quale non so come faccia ad entrare considerati i capi di abbigliamento che deve possedere), è sufficientemente sano di mente. Inoltre, che io sappia, non possiede nessuna conoscenza medica. Lo stesso vale per Paterno. Giusto per scrupolo e per evitare ogni omissione, procurati la sua scheda dal centro di allenamento di Bullis. E siccome l'omicida non è il tipo che si attarda
sulla scena del delitto, escluderei assolutamente che sia McCooey o Paterno. È uno degli altri tre. Punto terzo, il vecchio potrebbe averlo fatto. La decapitazione eseguita con un filo di ferro o con un paio di cesoie non richiede molta forza. Anche un coltello affilato sarebbe stato adatto, qualcosa come un bisturi. Il vecchio si è trattenuto a lungo nel confessionale e avrebbe potuto simulare quell'atteggiamento svanito di cui parlano i testimoni. Inoltre, è stato l'ultimo a vedere il sacerdote. Questo lo scenario numero uno. Ma anche l'uomo con la giacca a vento potrebbe averlo fatto. Avrebbe potuto chiudere il pannello per evitare che il vecchio con la borsa della spesa si accorgesse che il sacerdote era morto. Il vecchio, nel frattempo, avrebbe atteso e infine lasciato il confessionale senza aver mai visto il sacerdote. Può darsi che si sia messo a ciarlare al vuoto oppure che si sia sentito stanco e, se è svanito come è parso a Coleman, potrebbe aver immaginato di confessarsi veramente mentre in realtà si sarebbe assopito nella confortevole oscurità del confessionale. Questo lo scenario numero due. Nello scenario numero tre, l'omicida è l'uomo con la testa rasata. Ha ucciso il sacerdote, ha chiuso il pannello ed è uscito. Ma l'uomo con la giacca a vento ha visto il sacerdote subito dopo, il che significherebbe che era ancora in vita. Potrebbe essere andata così. L'uomo con la giacca a vento attendeva il suo turno mentre quello con la testa rasata commetteva l'omicidio. Potrebbe essere che l'uomo con la giacca a vento si sia stufato di attendere e abbia lasciato il confessionale senza aver fatto la confessione. Potrebbe aver pensato che stava perdendo gran parte della funzione. Qualsiasi motivo è plausibile" concluse Kinderman. "E il resto è silenzio." L'esposizione del caso era stata recitata con rapida, precisa e monotona cadenza. Atkins sospettò che la divagazione del capo nascondesse il lavorìo della sua mente su qualche altro livello e che forse c'erano anche delle ragioni perché quel secondo livello fosse in funzione. Il sergente annuì. Era anche incuriosito dalle domande che Kinderman aveva posto a Paterno sui rumori del pannello scorrevole, ma sapeva che era meglio tacere. — Ryan, le impronte? — chiese Kinderman. Atkins si guardò intorno e vide alle sue spalle Ryan che si avvicinava a loro. — Sì, quante ne vuole — disse Ryan. Kinderman lo guardò senza nessuna espressione e disse: — Una sola bella chiara sarebbe sufficiente. — Be', ce ne sono. — Sia dell'interno sia dell'esterno, naturalmente.
— Dell'interno no. — Debbo leggerti i tuoi diritti. Ascolta attentamente... — cominciò Kinderman. — Ma come cavolo facciamo col cadavere ancora dentro? — lo interruppe Ryan. Così era, e non c'era nulla da aggiungere. Stedman aveva finito di esaminare il cadavere da un pezzo ed erano già state scattate tutte le foto necessarie. Non restava che il sopralluogo di Kinderman. Lo aveva rimandato sino all'ultimo. Aveva conosciuto quel sacerdote molto tempo prima, durante le indagini per un altro caso e nel corso degli anni gli era capitato di rincontrarlo in compagnia di Dyer, che era stato suo assistente. Una volta avevano preso una birra tutti assieme al Tombs. Gli era rimasto simpatico. — Hai ragione — disse a Ryan. — Grazie per il tuo tempestivo sollecito. Non so cosa farei senza di te, sul serio. — Ryan si allontanò e si buttò a sedere all'estremità di una panca. Incrociò le braccia e assunse un'aria stizzita. Kinderman si diresse verso l'altro confessionale sul fondo della chiesa. Guardò a terra. Il sangue era stato rimosso e la grigia, levigata superficie delle mattonelle riluceva dopo i vigorosi colpi di spazzolone. Era ancora umida. Per un po' Kinderman restò a fissarla, ansimando; poi, d'un tratto, si decise, alzò lo sguardo e aprì la porta del confessionale. Padre Bermingham sedeva all'interno dello scomparto. C'era sangue dappertutto e gli occhi del sacerdote lo fissarono sbarrati dal terrore. Kinderman dovette dirigere lo sguardo verso il basso per vederli. La testa, che aveva il viso rivolto verso la porta, gli era stata appoggiata in grembo e le mani sistemate in modo tale da sorreggerla e mostrarla. Kinderman respirò profondamente prima di muoversi e sollevare con ogni cura la mano sinistra del cadavere. Ne osservò il palmo e vi vide tracciato il segno dei Gemelli. Riabbassò la mano ed esaminò l'altra. Mancava dell'indice. Kinderman piano piano riabbassò anche quella e fissò il piccolo crocifisso nero appeso alla parete dietro la sedia. Restò immobile come quell'immagine per alcuni secondi. Poi, bruscamente, si voltò e uscì dal confessionale. Fuori c'era Atkins. L'investigatore si infilò le mani nelle tasche del cappotto e fissò il pavimento. — Toglietelo di lì — disse con calma. — Chiama Stedman. Toglietelo e rilevate le impronte. — S'incamminò lentamente verso l'altare maggiore.
Atkins lo seguì con lo sguardo. Un uomo così corpulento, pensò, e così disperato. Vide Kinderman arrestarsi in prossimità dell'altare maggiore e lentamente sedersi su una delle panche. Poi si voltò e andò a chiamare Stedman. Kinderman si appoggiò le mani in grembo e si mise a fissarle meditabondo. Si sentiva abbandonato. Intenzionalità e causalità, pensò. Dio esiste. Lo so. Molto bene. Ma cosa poteva aver pensato? Perché non era semplicemente intervenuto? Libero arbitrio. O.K. Teniamocelo. Ma non esistevano limiti alla tolleranza divina? Gli tornò in mente una frase di G.K. Chesterton: "Quando l'autore sale sul palcoscenico, la commedia è finita". Allora, che finisca. Chi la vuole? Fa schifo. I suoi pensieri tornarono sulla possibilità che Dio fosse un essere dal potere limitato. Perché no? Una risposta di quel genere era chiara e semplice. Tuttavia, Kinderman non poté fare a meno di opporvisi fieramente. Dio un bifolco? Un putz? Non poteva essere. Dio e la perfezione nella sua mente non conoscevano transizione. Costituivano una identità monolitica. Scosse il capo. Un'idea che considerasse Dio meno che onnipotente seppur di una inezia era spaventosa quanto quella che lo negava completamente. Forse ancor più. Senza un Dio, la morte significava perlomeno la fine. Ma chi sarebbe stato capace di immaginare cosa poteva compiere un Dio imperfetto? Se era meno che onnipotente, perché non avrebbe potuto anche essere meno che puro bene, simile al vano, capriccioso e crudele Dio di Giobbe? Con tutta l'eternità a Sua disposizione, quali nuovi abominevoli tormenti sarebbe stato capace di escogitare? Un Dio limitato? Kinderman cancellò questo pensiero. Il Dio Padre delle orbite celesti e del moto incessante delle nebulose, il Pastore delle lune di Saturno, l'Autore della gravità e del cervello, l'occulto Artefice dei geni e delle particelle subatomiche... non riusciva a occuparsi del cancro e di qualche sanguinella? Levò gli occhi al crocifisso sopra l'altare e lentamente l'espressione del volto gli s'indurì, severa. Che parte hai in questo sporco affare? Vuoi rispondere, eh? Vuoi un avvocato? Devo leggerti i tuoi diritti? Fai con calma. Sono tuo amico, io. Ti posso proteggere. Rispondi soltanto a un paio di domandine, O.K.? L'espressione di Kinderman s'addolcì e guardò il crocifisso con occhi miti e pervasi da una tranquilla meraviglia. Chi sei? Il figlio di Dio? No, lo sai che non ci credo. Te lo chiedo per pura cortesia. Non ti dispiace se sarò franco con te ancora un pochino? Non c'è nulla di male. Se mi spingo
un po' in là, magari un po' troppo in là, potresti dare un colpetto ai vetri delle finestre. E io tacerò. Un colpetto alle finestre. Basterà. Non occorre farmi precipitare l'intero edificio sulla zucca. Ho già Ryan. Te ne sei accorto? È una pena che Giobbe in qualche modo è riuscito a scansare. Chi si è sbagliato là da voi? Non importa, non voglio piantar grane. Intanto, non so chi tu sia ma di certo sei Qualcuno. E chi potrebbe ingannarsi? Sei Qualcuno. Su questo non ci piove. Non ho bisogno di prove che dimostrino che tutti quei miracoli li hai fatti tu. Chi se ne frega delle prove? Non occorrono. Lo so. E lo sai come lo so? Dalle tue parole. Quando leggo: "Ama il tuo nemico", fremo, ammattisco. E dentro al petto sento qualcosa che galleggia, qualcosa che ho l'impressione sia stata sempre là. È come se tutto il mio essere per quei pochi momenti fosse composto del totale riconoscimento di una verità. E allora so che tu sei Qualcuno. Nessuno sulla Terra avrebbe mai potuto dire ciò che hai detto tu. Nessuno avrebbe potuto persino inventarlo. Come immaginarlo? Le parole ti stendono. Qualcos'altro, un'altra cosetta che pensavo di poterti comunicare. Ti spiace? Che male c'è? Si fa per parlare. Ti ricordi, sulla barca, quando i discepoli ti videro sulla riva e poi capirono che eri tu e che eri risorto? E Pietro che se ne stava sul ponte come mamma l'aveva fatto (be', perché no? Pescatore, giovane, se la spassava). Ma, subito, non poté aspettare che la barca ti si avvicinasse, era cosi eccitato, così fuori di sé per la gioia che fossi tu. E così afferrò la prima cosa che gli capitò sottomano per coprirsi (ti ricordi?) ma non stette neanche a perder tempo a indossarla, se la legò sui fianchi, si tuffò in acqua e si mise a nuotare come un matto verso la riva. Significa qualcosa? Ogni volta che ci penso, avvampo! Non è come una di quelle sacre immagini dei cristiani piene di reverenza e di formalità, e probabilmente bugiarde; non è alla stregua di una leggenda, non è propaganda. Non posso credere che non sia accaduto, è così umana, così stupefacente e al tempo stesso così reale... Pietro deve averti amato proprio tanto. E anch'io. Ti sorprende? Be', è la verità. Che tu sia esistito è un pensiero che mi conforta; che gli uomini possano averti inventato è un pensiero che mi dà speranza; e quello che tu potresti esistere ancora mi darebbe una sicurezza e una gioia incontenibili. Mi piacerebbe toccare il tuo viso e farti sorridere. Non c'è nulla di male. Questo è quanto per la pausa del tè. Chi sei? Cos'è che vuoi da noi? Soffrire come hai sofferto tu sulla croce? Be', lo facciamo, mi pare. Per favore, non crucciarti su questo problema e dormi tranquillo. Siamo tutti
bravissimi al riguardo. Lo facciamo proprio bene. Ecco, questo è quanto principalmente volevo comunicarti. E anche che padre Bermingham, il tuo amico, ti saluta. 7 Martedì 15 marzo Alle nove Kinderman arrivò in ufficio, dove l'attendeva Atkins con i risultati degli esami di laboratorio. Kinderman si sedette alla sua scrivania, la liberò dai libri disseminati qua e là per fare un po' di spazio alle cartelle dattiloscritte del rapporto e le sfogliò. Nell'omicidio del sacerdote si confermava l'uso della succinilcolina. Inoltre, erano state rilevate diverse impronte sul tirante metallico e sul legno intorno a esso del pannello interno del confessionale, impronte che corrispondevano alle altre trovate sul davanti del pannello, ossia sulla parte che guardava verso lo scomparto nel quale prendeva posto il penitente. Non erano quelle del sacerdote. Le ulteriori informazioni chieste al Washington Post non avevano dato esito diverso dalle precedenti. Atkins aveva un resoconto su Paterno ma Kinderman gli fece segno di metterlo da parte. — Non serve — disse. — È la borsa della spesa o la giacca a vento. Per favore, non confondermi coi fatti. Ryan dov'è? — Fuori. — Bene. Kinderman sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia. Quindi fissò la confezione di kleenex sulla scrivania. Pareva perso nei suoi pensieri. — Il talidomide cura la lebbra — disse distrattamente. D'un tratto si curvò verso Atkins. — Hai idea del perché la velocità della luce debba essere il limite massimo della velocità universale? — gli chiese. — No — rispose Atkins. — Perché? — Non lo so — disse Kinderman e scrollò le spalle. — Chiedevo, così... ma intanto, finché non entriamo nel vivo, sai come la tua Chiesa definisce la natura degli angeli? — Puro amore — rispose Atkins. — Esatto. Vale anche per quelli caduti. E perché non me l'hai detto prima? — Non me l'ha mai chiesto. — Ma devo pensare a tutto io?
Kinderman liberò dalla selva di libri che ingombrava la scrivania un volume dalla copertina verde, l'aprì rapidamente al segno, costituito da un pezzo di carta oleata piegato in due che un tempo aveva ospitato dei sottaceti, e disse: — Mi ci sono imbattuto per caso. È qui, in questo libro, Satana, opera dei tuoi lanzichenecchi, tutti sacerdoti e teologi cattolici. Ascolta! — L'investigatore cominciò a leggere: — "La conoscenza di un angelo è perfetta. A causa di ciò, l'ardore dell'amore di un angelo non si costruisce lentamente né conosce stadi di formazione; l'angelo è piuttosto un olocausto immediato, una tempestosa conflagrazione, che arde d'un amore mai diminuito dalla volontà". — Kinderman gettò il libro nel mucchio. — Dice anche che questa situazione è immutabile... Angeli caduti, angeli shmallen, sminuiti, tutti. E allora, cos'è tutta quella roba che si legge sui diavoli, sempre sudici e puzzolenti, che se ne vanno dappertutto a far danni? È una barzelletta. Non può essere; almeno secondo la tua Chiesa. — Aveva intanto ripreso a cercare un altro libro. — Quelle impronte, che significano? — gli chiese Atkins. — Ah! — Kinderman aveva trovato quanto cercava e aprì il libro a una pagina segnata da un'orecchia. — Possiamo imparare qualche altra cosuccia dagli uccelli — disse. — Possiamo imparare qualche altra cosuccia dagli uccelli? — ripeté Atkins. Kinderman si accigliò. — Atkins, cosa ti ho appena detto? E ora, fai attenzione. Ascolta cosa dicono qui sulla pispola. — La pispola? Kinderman lo fissò con uno sguardo imperscrutabile. — Atkins, per favore, non rifarlo. — Non volevo. — No, non volevi. Bene. E ora ti leggerò di come la pispola... — attese — ...di come la pispola si costruisce il nido. È incredibile. — Abbassò lo sguardo sul libro e cominciò a leggere: — "La pispola usa quattro materiali diversi da costruzione: muschio, tela di ragno, licheni e piume. Dapprima cerca e trova il ramo che si biforchi nel modo adatto; poi, raccoglie il muschio che ammucchia sulla biforcazione. Gran parte di esso cade a terra ma l'uccello insiste finché qualche pezzo fa presa sulla superficie scabrosa della biforcazione. Quindi, è la volta della tela di ragno, che sfrega sul muschio finché non si attacca. A quel punto, col becco la distende e la tira come fosse un filo che adopera per legare. Continua questa operazione finché non ha dato forma a una piattaforma. L'uccello torna poi al muschio e
inizia a costruire intorno a esso la coppa che costituirà il nido, dapprima con una tessitura laterale poi con una verticale, tessitura che esegue stando seduto e ruotando ininterrottamente il corpo. Quando la coppa comincia a prendere forma, inizia a compiere anche altri movimenti: preme col petto e calpesta con le zampe la superficie interna della coppa. Quando questa è completa per un terzo, l'uccello raccoglie i licheni coi quali ricopre l'esterno del nido, grazie a una serie di manovre acrobatiche. Quando la coppa è terminata per i due terzi, la procedura di costruzione cambia in modo tale da provvedere il nido di un foro d'ingresso nel punto d'accesso più conveniente. Poi, viene rafforzata la parete intorno al foro; si completa la copertura; e infine s'inizia il rivestimento interno con le piume." — Kinderman ripose il libro. — Allora, Atkins, pensavi che fosse facile costruire nidi? Una specie di bifamiliare prefabbricata a Phoenix? Ma ti rendi conto? L'uccello deve possedere un certo concetto di come dovrà risultare il nido! E inoltre una certa idea che con un po' di muschio qui, un po' di lichene là, stia costruendo qualcosa che ancora non esiste. È intelligenza? La pispola ha un cervello non più grande di un fagiolo. Cos'è che lo guida in questa sbalorditiva impresa? Tu pensi che Ryan sarebbe capace di costruire un nido simile? Lasciamo stare. E, tanto per gradire, così, una pennellatina che non guasta, dove cavolo sarebbe quel sistema di apprendimento del "bastone e la carota" che i comportamentisti ci dicono sia necessario affinché l'uccello esegua queste operazioni, corrispondenti a tredici diversi generi di attività manuale? B.F. Skinner fece proprio una bella cosa: durante la Seconda guerra mondiale addestrò dei piccioni-kamikaze. Questa è una faccenda omissis ma in qualche libro potresti anche trovarla. Dunque, avevano assicurato queste graziose bombettine sotto la pancina dei piccioni; ma accadde che i pennuti continuavano a perdere l'orientamento e finirono col compiere i loro raid su Filadelfia. Tanto basti per l'insufficienza del libero arbitrio nell'uomo. Per quanto concerne le impronte, non significano nulla: non fanno che confermare quanto già sapevo. L'omicida deve aver chiuso il pannello in modo che chi sarebbe entrato dopo non avrebbe visto il cadavere del sacerdote. E anche per far cadere i nostri sospetti su qualcun altro. Ecco il perché del rumore molto forte che Paterno asserisce di aver udito. L'omicida voleva convincere chiunque fosse nelle vicinanze che aveva finito di confessarsi e che il sacerdote era ancora in vita, visto che si sarebbe udito il rumore prodotto dal pannello che veniva richiuso. Ed è anche il perché dell'interruzione nel rumore prodotto dallo scorrere del pannello udita da Paterno. Il pannello scorre, si blocca, e poi si chiude rumo-
rosamente. L'omicida non avrebbe potuto farlo scorrere fino in fondo dall'interno. Quindi terminò l'opera chiudendolo dal lato che dava dalla sua parte. Le impronte sono quelle dell'omicida. Questo esclude l'uomo con la testa rasata, che si trovava sulla sinistra, mentre le impronte e i rumori interessano soltanto la destra. L'omicida è il vecchio con la borsa della spesa oppure l'uomo con la giacca a vento di lana nera. — Kinderman si alzò e prese il cappotto. — Vado a trovare Dyer all'ospedale. Tu vai a vedere come sta la signora anziana, Atkins. Guarda se ha recuperato la parola. L'incartamento Gemini è arrivato? — Non ancora. — Telefona. Fai venire i testimoni della chiesa e tirami fuori gli identikit dei due sospetti. Avanti. Ti rivedrò presso le rive di Babilonia; ho l'impressione di sentirmi pronto per qualche grave compianto. — Sulla porta si fermò. — Ho il cappello in testa? — Sì, ce l'ha. — Non è che per praticità. Varcò la porta ma poi rientrò. — Eccoti un argomento di conversazione per qualche altra volta: chi indossa pantaloni di tela bianca d'inverno? Pensaci. Adieu. Remember me. — Varcò nuovamente la porta e sparì. Sulla strada per il Georgetown General Hospital Kinderman fece un paio di acquisti e giunse al banco informazioni dell'ospedale con in mano un sacchettone di hamburger della White Tower e sottobraccio un orsacchiotto di peluche (misura grande) con indosso un paio di pantaloncini celesti e una maglietta. — Oh, signorina... — disse Kinderman. La ragazza dietro il banco gettò un'occhiata alla maglietta dell'orsacchiotto, sulla quale si leggeva: SE DEPRESSO, SOMMINISTRARGLI IMMEDIATAMENTE DELLA CIOCCOLATA. — Com'è grazioso — disse sorridendo la ragazza. — È per un maschietto o per una femminuccia? — Per un maschietto — rispose Kinderman. — E il nome, prego? — Padre Joseph Dyer. — Ho capito bene, signore? Ha detto "padre"? — Sì, esatto. Padre Dyer. La ragazza guardò nuovamente l'orsacchiotto e poi Kinderman, quindi controllò la lista dei ricoverati. — Neurologia, stanza 4-0-4, quarto piano. Uscito dall'ascensore a destra.
— Grazie mille. Molto gentile. Quando Kinderman giunse nella camera di Dyer, trovò l'amico seduto nel letto, con gli occhiali da lettura e comodamente immerso nelle pagine di un quotidiano. Lo sa? si chiese Kinderman. Forse no. Dyer era stato ricoverato quasi contemporaneamente all'omicidio. Sperò che sino a quel momento lo avessero tenuto impegnato e sotto qualche leggero sedativo. Sapeva che l'avrebbe capito dall'atteggiamento disarmato e dall'espressione del gesuita e, senza sapere a cosa dovesse prepararsi, Kinderman si avvicinò al letto con passo circospetto. Dyer non si era accorto della sua presenza e l'investigatore ebbe agio di esaminarne il volto. A quanto pareva, tutto bene; ma il sacerdote era assorto nella lettura del giornale. Che stesse leggendo dell'omicidio? Kinderman sogguardò il giornale cercando di scorgere il titolo e improvvisamente gli mancò il cuore. — Be'? Vuoi sederti o hai intenzione di startene lì in piedi a soffiarmi addosso tutti i tuoi germi? — disse Dyer. — Cosa leggi? — gli chiese Kinderman con un filo di voce. — Il Women's Wear Daily. E allora? — L'occhio del gesuita cadde sull'orsacchiotto. — È per me? — Ma... L'ho trovato per strada. Ho pensato che facesse al caso tuo. — Oh. — Non ti piace? — No... forse il colore... — rispose Dyer scontrosamente. Tossì. — Oh, capisco. Oggi danno Anastasia. Mi sembrava che mi avessi detto che non era nulla di grave — disse Kinderman. — Non si può mai dire — commentò Dyer cupamente. Kinderman si rilassò. Aveva finalmente capito che Dyer godeva di buona salute e che ancora ignorava tutto del delitto. Ficcò orsacchiotto e sacchetto nelle mani di Dyer. — Ecco, prendi — disse, poi prese una sedia, l'accostò al letto e si mise seduto. — Non posso crederci: leggi il Women's Wear Daily. — Devo tenermi informato — rispose l'amico. — Non posso dar consigli spirituali nel vuoto. — Non pensi che dovresti leggere qualcosa dal tuo messale o simili? Gli esercizi spirituali, per esempio? — Non ti dicono qual è l'ultimo grido della moda — commentò ironicamente il sacerdote. — Mangia gli hamburger — disse Kinderman. — Non ho fame.
— Mangiane la metà. Vengono dalla White Tower. — E l'altra metà da dove viene? — Dallo spazio, il tuo paese natale. Dyer cominciò ad aprire il sacchetto. — Be', forse uno. Un'infermiera bassa e robusta, dall'andatura dondolante e il cipiglio della veterana, entrò nella stanza brandendo un laccio emostatico e una siringa ipodermica. Si avvicinò a Dyer. — Le prendo un po' di sangue, padre. — Di nuovo? L'infermiera esitò. — Come "di nuovo"? — chiese al sacerdote. — Sono già venuti a prendermelo dieci minuti fa. — Ha voglia di scherzare, padre? Dyer indicò il piccolo cerotto rotondo all'interno dell'avambraccio sinistro. — Qui c'è il buco — disse. L'infermiera guardò e commentò arcignamente sottovoce. Si voltò e bellicosamente si diresse fuori della stanza. Dalla soglia abbaiò nel corridoio: — Chi l'ha bucato il ragazzo? Dyer occhieggiò attraverso la porta aperta. — Adoro tutte queste premure — commentò malinconicamente. — Sì, un bel posticino — rincarò Kinderman. — Tranquillo. Quando cominciano le esercitazioni dei caccia? — Oh, quasi dimenticavo... — disse Dyer e si dette a rovistare dentro il cassetto del comodino. Ne estrasse una vignetta umoristica ritagliata dalle pagine di una rivista. — L'ho conservata per te — disse a Kinderman e gliela porse. Kinderman la osservò. La vignetta mostrava un baffuto pescatore in posa accanto a una carpa gigantesca. La didascalia recitava: ERNEST HEMINGWAY, A PESCA NELLE MONTAGNE ROCCIOSE, CATTURA UNA CARPA DI OLTRE UN METRO E MEZZO E DECIDE DI NON SCRIVERNE. Kinderman scrutò Dyer severamente. — Da dove l'hai presa — disse. — Our Sunday Messenger — rispose Dyer. — Sai, comincio a sentirmi un po' meglio. — Tirò fuori un hamburger e l'addentò. — Mmmm, grazie, Bill. Ottimo. A proposito, la carpa è sempre nella vasca? — È stata giustiziata l'altra sera. — L'investigatore vide che Dyer attaccava un secondo hamburger. — La madre di Mary a tavola ha pianto senza ritegno. In quanto a me, ho fatto il bagno. — Si vede — disse Dyer. — Ti godi gli hamburger, eh padre? Siamo di Quaresima.
— Sono esonerato dal digiuno. Motivi di salute. — Nelle strade di Calcutta i bambini muoiono di fame. — Non mangiano le mucche. — Mi arrendo. Moltissimi ebrei hanno tra i loro amici un sacerdote, e sempre qualcuno del calibro di Teilhard de Chardin. E io? Un prete che sa le ultimissime da Giorgio's, e tratta le persone come se fossero il cubo di Rubik, rigirandosele sempre tra le mani per formare vari colori. A che pro? No, davvero, sei la vergogna dei tokis. — Un hamburger? — Dyer gli porse il sacchetto. — Sì, penso che ne prenderò uno. — Guardare Dyer che mangiava gli aveva messo appetito. — Sono i sottaceti che mi fanno impazzire — disse. — Proprio. — Addentò con voracità il panino e levò lo sguardo nel momento in cui un medico varcava la soglia della camera. — Buongiorno, Vincent — disse Dyer. Amfortas rispose con un cenno del capo e si fermò ai piedi del letto. Prese la cartella di Dyer e l'osservò. — Le presento un mio amico, il tenente Kinderman — disse Dyer. — Bill, il dottor Amfortas. — Piacere di conoscerla — disse Kinderman. Amfortas parve non averli uditi, scriveva qualcosa sulla cartella. — Mi hanno detto che domani esco — disse Dyer. Amfortas annuì e rimise al suo posto la cartella. — Cominciava a piacermi qui... — disse Dyer. — Oh, sì, le infermiere sono così carine — aggiunse Kinderman. Per la prima volta dacché era entrato il medico guardò l'investigatore. Sul volto gli si leggeva la solita espressione seria e malinconica, ma nelle profondità di quei suoi occhi scuri e tristi qualcosa si agitò. A cosa sta pensando? si chiese Kinderman. C'è come un vago sorriso dietro quegli occhi? Questione di un attimo, Amfortas si era già voltato e, superata la soglia della camera, era scomparso nel corridoio di sinistra. — Un'orgia di risate, questo dottore — commentò Kinderman. — Da quando Milton Berle fa il medico? — Povero ragazzo — disse il gesuita. — Povero ragazzo? Che ha che non va? Ne sai qualcosa? — La moglie... andata. — Oh, capisco. — Non è mai riuscito a superare lo shock. — Divorzio.
— No. È morta. — Oh, scusa... Recentemente? — Tre anni fa. — Ormai alcuni anni addietro. — Sì, ma è morta di meningite. — Oh. — Ha l'animo esacerbato dalla rabbia. La curava lui; ma non è riuscito a salvarla né a farla soffrire di meno. Ne è rimasto dilaniato. Stasera non è al reparto: impiega tutto il suo tempo nella ricerca, a cui si è dedicato dopo la scomparsa della moglie. — Che tipo di ricerca, esattamente? — Sul dolore. Studia il dolore. Kinderman considerò questo fatto con interesse. — Ne sai parecchio su di lui... — disse. — Sì, è stato ieri, si è finalmente aperto con me. — Ah, parla? — Be', sai com'è con noi cattolici, l'abito che indossiamo agisce come un magnete sulle anime in angoscia. — Dovrei trame delle illazioni personali? — Se le calosce ti stanno, allora indossale. — È cattolico? — Chi? — Toulouse-Lautrec. Non stavamo parlando del dottore? — Ti capita spesso di essere contorto? — È la procedura classica quando si ha a che fare con degli zucconi. Amfortas è cattolico sì o no? — Sì, è cattolico. Da anni segue quotidianamente la messa. — Quale messa? — Quella delle 6 e 30 alla Holy Trinity. A proposito, riflettevo su quel tuo problema... — Quale problema? — Quello del male — disse Dyer. — Non è soltanto un problema mio. — disse Kinderman esterrefatto. — Ma che v'insegnano in quelle vostre scuole? Al seminario per ciechi "Lo Struzzo" passate il tempo a intrecciare panierini teologici e basta? È un problema di tutti. — Capisco — disse il gesuita. — Questa è nuova.
— Faresti meglio a cominciare a essere gentile con me. — Ne desumo che l'orso non sia che spazzatura allora. — L'orso mi ha commosso profondamente. Posso parlare? — È assai pericoloso — replicò Kinderman. Quindi sospirò e raccolse il giornale; lo aprì a caso e cominciò a leggere. — Va' avanti, ti seguo con la massima attenzione — disse. — Be', stavo pensando — disse Dyer — all'essere qui in ospedale, eccetera eccetera... — All'essere qui in ospedale perfettamente sano — lo corresse Kinderman. Dyer lo ignorò. — Ho cominciato a pensare a certe cose che ho sentito dire sulla chirurgia. — Tutta gente mezzanuda... — disse Kinderman assorto nel Women's Wear Daily. — Si dice che quando sei sotto anestesia — proseguì Dyer — l'inconscio si rende conto di tutto quel che sta accadendo. Ode i medici e le infermiere che parlano del tuo caso; avverte il dolore del bisturi. — Kinderman sollevò lo sguardo dal giornale e l'osservò. — Ma quando ti risvegli dall'anestesia è come se nulla fosse accaduto — disse ancora Dyer. — Così, forse, quando si torna a Dio avviene qualcosa di analogo e vale anche per tutto il dolore del mondo. — È vero — disse Kinderman. — Sei d'accordo? — gli chiese sbalordito il sacerdote. — Dico per l'inconscio — precisò l'investigatore. — Alcuni psicologi del passato, pezzi grossi, nomi di fama, hanno studiato il fenomeno e concluso che dentro di noi esiste una seconda coscienza, ciò che noi oggi chiamiamo inconscio. Alfred Binet, per esempio. Ascolta! Una volta Binet fece un esperimento. Ipnotizzò una ragazza e le disse che d'ora innanzi non sarebbe stata in grado di vederlo, ascoltarlo o capire cosa stesse facendole. La sistemò di fronte ad alcuni fogli di carta e le mise in mano una matita. Un assistente di Binet cominciò a parlare alla ragazza e a rivolgerle un sacco di domande. Nel frattempo, anche Binet le rivolgeva delle domande, cosicché mentre la ragazza rispondeva a voce a quelle dell'assistente contemporaneamente rispondeva per iscritto a Binet! Stupefacente? Aspetta. A un certo punto Binet le bucò una mano con uno spillo. La ragazza non sentì nulla e continuò a parlare all'assistente. Ma contemporaneamente la matita si mosse e sul foglio apparve la frase: "Per favore, non mi faccia male". Che te ne sembra? Comunque sia, è vero quanto hai detto sulla chi-
rurgia. Tutto quel taglia e cuci della sala operatoria qualcuno Io avverte. Ma chi? — D'un tratto, gli tornò in mente il sogno e l'enigmatica affermazione di Max: "Abbiamo due anime." L'inconscio... — rifletté Kinderman. — Cos'è? Chi è? Ha a che fare con l'inconscio collettivo? Tutto ciò fa parte della mia teoria, capisci? Dyer stornò lo sguardo e fece un gesto di impazienza. — Oh ancora quella — borbottò. — Sì, sei divorato dalla gelosia perché quel Kinderman, quel genio, l'ebreo Mister Moto in mezzo a voi, è sul punto di risolvere il problema del male — disse Kinderman aggrottando le sopracciglia. — Il mio gigantesco cervello è come uno storione circondato dalle sanguinerole. Dyer scosse il capo. — Non pensi di stare esagerando? — No, affatto. — Ebbene, allora perché non me la dici questa tua teoria? Sentiamola e facciamola finita — disse Dyer. — Stanlio e Ollio aspettano di là, dopo tocca a loro. — Non riusciresti ad afferrarla — rispose Kinderman, scontroso. — Insomma, cos'è che non va col Peccato Originale? — I neonati sono responsabili di qualcosa compiuta da Adamo? — È un mistero. — No, è uno scherzo. Ma ammetto di essermi trastullato con tale nozione — disse Kinderman. Poi con gli occhi scintillanti si protese verso l'amico. — Se il peccato consistesse nel fatto che molti milioni di anni or sono degli scienziati fecero saltare la Terra con qualcosa di simile a delle bombe al cobalto, da questo tsimmis ne avremmo derivato delle mutazioni atomiche. Forse la creazione dei virus che provocano le malattie, forse anche lo scompiglio dell'intero sistema ambientale, oggi causa di terremoti e catastrofi naturali. In quanto agli esseri umani, sono tutti impazziti e per via delle orribili mutazioni si son trasformati in mostri; hanno cominciato a cibarsi di carne, come se fossero animali, cosa che li induce a recarsi al bagno e ad apprezzare il rock'n roll. Non possono farci nulla. Genetica. Persino Dio non può farci nulla. Il peccato è una condizione trasmessa per via genetica. — E cosa ne diresti se ogni nuovo nato fosse davvero parte di Adamo? — gli chiese allora Dyer. — Voglio dire fisicamente... sul serio, una delle cellule del suo corpo? Lo sguardo di Kinderman improvvisamente si fece sospettoso. — Allora in testa non hai soltanto il catechismo domenicale, padre. Tutti
questi giochetti al bingo si stanno facendo un po' azzardati... da dove ti salta fuori quest'idea? — Come sarebbe? — Ci hai pensato, ma questa idea non va. — E perché no? — È troppo ebraica. Fa apparire Dio come un tipetto un po' permaloso. E la stessa cosa di ciò che ho detto io sui geni. Ma vediamo: Dio potrebbe porre fine a questa stupida insensatezza quando più gli piacesse; potrebbe far ricominciare tutto dall'inizio. Non potrebbe dire: "Adamo, vatti a lavare le mani, è quasi ora di cena" e dimenticare tutta la faccenda? Non potrebbe sistemare i geni? Il Vangelo ti dice di perdonare e di dimenticare e Dio non Io fa? L'aldilà è come la Sicilia? Puzo dovrebbe informarsi... Entro due secondi avremo Il Padrino 4. — E allora, qual è la tua teoria? — insistette Dyer. L'investigatore fece una faccia furba. — Ci sto ancora lavorando, padre. Il mio inconscio la sta coccolando. Dyer si volse e abbandonò la testa sul cuscino, esasperato. — Che noia — disse. Gli occhi fissarono lo schermo del televisore spento. — Te ne darò un altro piccolo assaggio — disse Kinderman. — Almeno venissero a riparare quello stupido aggeggio — disse Dyer alludendo al televisore. — Smettila di essere scortese e ascoltami. Dyer sbadigliò. — È dai tuoi Vangeli — proseguì Kinderman e parafrasò: — "Ciò che farete al più piccolo di essi, lo farete a me". — Potrebbero perlomeno tenerci gli Space Invaders in questo posto. — Gli Space Invaders? — ripeté stupidamente Kinderman. Dyer si volse nuovamente verso di lui e gli chiese: — Potresti prendermi un giornale giù all'edicola? — Certo, il National Enquirer, il Globe o lo Star? — Credo che lo Star esca il mercoledì, no? — Mi sforzo di scoprire un qualche legame tra i nostri due pianeti. Dyer parve offeso. — Cos'è che non va in quei giornali? Mickey Rooney ha visto un fantasma che somigliava ad Abe Lincoln: notizie così dove le trovi? L'investigatore si frugò nelle tasche. — Tieni, questi dovrebbero piacerti — disse ed estrasse e gli porse un paio di libri economici. Dyer gettò un'occhiata ai titoli.
— Niente romanzi — borbottò contrariato. — Noia. Non puoi portarmi un romanzo? Kinderman si tirò su dalla sedia faticosamente. — Ti porterò un romanzo — disse, andò ai piedi del letto e prese la cartella. — Di che genere? Storico? — Scrupoli — rispose Dyer. — Sono al terzo capitolo ma mi sono dimenticato di portarmelo dietro. Kinderman l'osservò senza alcuna espressione, quindi riagganciò la cartella. Si volse e lentamente raggiunse la porta. — Dopo pranzo — gli disse. — Prima di pranzo non è il caso che ti ecciti. Vado a mangiare anch'io. — Dopo esserti fatto fuori tre hamburger? — Due. E allora? — Se non avessero Scrupoli, prendimi La principessa Daisy — gli precisò Dyer. Kinderman uscì scuotendo il capo. Cominciò a percorrere il corridoio ma dopo un po' si arrestò. Vide Amfortas intento a scrivere qualcosa seduto alla scrivania del responsabile di reparto. L'investigatore gli si avvicinò con sul volto un'aria di tragica sollecitudine. — Dottor Amfortas? — gli disse gravemente. Il neurologo alzò lo sguardo. Quegli occhi, pensò Kinderman, che mistero racchiudono! — È per padre Dyer — aggiunse. — Sta bene — disse tranquillamente Amfortas e riconcentrò l'attenzione sui suoi appunti. — Sì, lo so — disse Kinderman. — È qualcos'altro... qualcosa della massima importanza. Entrambi siamo amici di padre Dyer ma io qui non posso aiutarlo. Soltanto lei... Il tono impellente fece rialzare lo sguardo del dottore e gli occhi scuri e stanchi cercarono quelli di Kinderman. — Di cosa si tratta? — chiese. Kinderman si guardò intorno con aria circospetta. — Non posso dirglielo qui — disse. — Non potremmo spostarci da qualche altra parte e parlarne? — controllò l'ora e aggiunse — A pranzo, magari. — Non pranzo mai — rispose Amfortas. — Allora mi ascolti, per favore, è importante. Amfortas ne sondò lo sguardo. — Bene — disse infine. — Il mio studio può andare? — Ho fame. — Vado a prendere la giacca.
Amfortas sparì e quando fece ritorno aveva indosso il solito cardigan azzurro. — Pronto — disse all'investigatore. Kinderman fissò il maglione e disse: — Gelerà. Si metta anche qualcos'altro. — Questo basterà. — No, no, si metta qualcosa di più caldo. Mi pare di vedere già i titoli: "Neurologo deceduto per congelamento. Si ricerca uno grassone sconosciuto". Per favore, si metta anche qualcos'altro. Una giacca a vento, magari. Qualcosa di più caldo. Mi sentirei troppo in colpa. Mi scusi, ma lei non mi pare proprio il ritratto della salute. — È gentile — rispose Amfortas pacatamente. — La ringrazio per il suo interessamento. — Be', come vuole — disse Kinderman mortificato. — L'ho avvertita. — Dove andiamo? Non posso allontanarmi troppo. — Al Tombs — disse Kinderman. — Andiamo. — Prese sottobraccio il neurologo e si diressero agli ascensori. — Le farà bene. Ha bisogno di prendere una boccata d'aria, un po' di colorito. E uno spuntino non la farà ingrassare. Ma sua madre lo sa di questa sciocchezza di saltare i pasti? Come non detto. È un tipo ostinato. Si vede. È fortunata. — L'investigatore gettò un'occhiata di apprezzamento al dottore. Sorrideva? Chissà. È un caso difficile, sì, difficile, pensò Kinderman. Mentre si dirigevano al Tombs, il detective s'informò sulle condizioni di Dyer. Amfortas pareva preoccupato e si limitava a rispondere con frasi brevi e chiare o con cenni d'assenso o di diniego del capo. Quanto se ne ricavava era che con ogni probabilità i sintomi accusati da Dyer, anche se talvolta potevano risultare i campanelli d'allarme di un tumore cerebrale, in questo caso erano da attribuirsi a uno stato di affaticamento e di superlavoro. — Superlavoro? — esclamò Kinderman incredulo mentre scendevano i gradini del Tombs. — Affaticamento? E chi potrebbe immaginarlo? Ha un aspetto più rilassato di uno spaghetto stracotto. Il Tombs era arredato con dei tavolini dalle tovaglie a scacchi bianchi e rossi e con un bar col bancone di quercia scuro dove la birra veniva servita in grandi e pesanti boccali di vetro. Alle pareti, stampe e litografie della vecchia Georgetown. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno e il locale non era ancora affollato. Kinderman scorse un angolino tranquillo. — Laggiù — disse. Si accomodarono.
— Ho una fame... — disse Kinderman. Amfortas taceva. Se ne stava seduto a capo chino fissandosi le mani che teneva intrecciate dinanzi a sé sul tavolo. — Dottore, lei mangia qualcosa? Amfortas fece cenno di no col capo. — Cosa voleva sapere di Dyer? — chiese. — Cosa voleva dirmi? Kinderman si chinò verso di lui con un'espressione e un fare vagamente sinistro. — Non riparategli la TV — disse. Amfortas levò lo sguardo, senza capire. — Prego? — Non riparategli la TV. Lo scoprirebbe. — Cosa scoprirebbe? — Non ha sentito dell'assassinio del sacerdote? — Sì, ho sentito. — Era amico di padre Dyer. Se gli riparate la TV lo saprà dal telegiornale. E non fategli avere i giornali, dottore. Avvertite le infermiere. — È per dirmi questo che mi ha portato qui? — Non sia spietato, dottore — disse Kinderman. — Padre Dyer è un uomo assai sensibile. E in ogni caso chi è ricoverato all'ospedale non dovrebbe ricevere notizie di quel genere. — Ma lo sa già — disse Amfortas. Il detective lo guardò piuttosto sconcertato. — Lo sa? — Ne abbiamo parlato — disse Amfortas. Kinderman distolse lo sguardo con un'espressione di consapevole rassegnazione. — Com'è tipico di lui — annuì. — Non ha voluto angustiarmi col suo dolore e ha imbastito la scena del perfetto ignaro. — Perché mi ha portato qui, tenente? Kinderman lo guardò. Il dottore lo fissava intensamente, con una espressione che metteva in imbarazzo. — Perché l'ho portata qui? — disse Kinderman tentando di resistere allo sguardo del dottore, nonostante avvertisse che gli si stavano rapidamente imporporando le guance. — Sì, perché? Di sicuro, non per parlarmi di un televisore — insistette Amfortas. — Ho mentito — sbottò l'investigatore. Era arrossito e aveva cominciato a scuotere il capo sorridendo. — Mi si legge tutto in faccia — ridacchiò. — Non mi riesce di farla di bronzo. — Si volse nuovamente verso Amfortas levando le mani in alto. — Sì, sono colpevole. Spudoratamente, ho mentito. Non ho potuto farne a meno, dottore. Sono stato sopraffatto da strane forze. Ho offerto loro dei dolcetti e poi le ho anche minacciate:
"Andatevene!" Ma lo sapevano che sono un debole, non hanno mollato e mi hanno detto: "Menti o per pranzo ti beccherai una quiche e una fetta di melone caldo!" — Ha provato coi tacos? Forse sarebbero stati più efficaci. — disse Amfortas. Kinderman, sorpreso, abbassò le braccia. Il volto del neurologo era rimasto impassibile, come al solito, e il suo sguardo immutato e impenetrabile. Ma possibile che avesse scherzato? — Sì, anche coi tacos — rispose Kinderman come intontito. — Cos'è che vuole? — gli chiese ancora Amfortas. — Mi perdoni, ma volevo sentire la sua opinione... — Su cosa? — Il dolore. Quest'argomento mi fa impazzire. Padre Dyer mi ha detto che lei ci lavora, che è un esperto in materia. Le dispiace? Sono ricorso a uno stratagemma per poterne parlare un po' con lei. Ora mi sento a disagio e le devo le mie scuse, dottore. Mi perdona? Può sospendere la sentenza? — Il suo è un dolore ricorrente? — s'informò Amfortas. — Sì, un tale di nome Ryan. Ma il problema non è questo; la faccenda è di tutt'altro genere. Amfortas rimaneva impassibile. — Qual è? — chiese con calma. Prima che l'investigatore potesse rispondere, comparve un cameriere con i menu. Era giovane, probabilmente uno studente universitario, e indossava panciotto e cravatta di un verde brillante. — Pranzano, signori? — s'informò educatamente. Porse a entrambi il menu ma Amfortas fece cenno di no. — Per me no — disse a bassa voce. — Vorrei soltanto una tazza di caffè nero. — Neanche per me — disse Kinderman. — Prenderò tè col limone e biscotti. Avete quelli piccoli, rotondi, allo zenzero e noci? — Sì, li abbiamo, signore. — Ecco, un po' di quelli. A proposito, come mai panciotto e cravatta verdi? — Per la festa di san Patrizio, signore. Al Tombs dura l'intera settimana — rispose il giovane cameriere. — Nient'altro, signori? — C'è la zuppa di pollo, oggi? — Con le fettuccine. — Con qualsiasi cosa. Me ne porti una, per favore. Il cameriere annuì e se ne andò con le ordinazioni. Kinderman gettò un'occhiata in cagnesco a un altro tavolo sul quale tro-
neggiava un enorme boccale colmo di birra verde. — Follia — borbottò. — Un tizio se ne va in giro a caccia di serpenti come un mentecatto e invece di ricoverarlo in una bella cella imbottita alla neuro, i cattolici lo fanno santo. — Guardò Amfortas. — Serpentelli di giardino, innocui, non morsicherebbero una patata... È un comportamento razionale questo, dottore? — Mi era parso di capire che fosse affamatissimo — disse Amfortas per tutta risposta. — Be', non può lasciare a un povero Cristo un briciolo di dignità? — fece Kinderman. — Va bene, era un'altra bugia. Sono un incorreggibile bugiardo, la vergogna del mio distretto. Contento, adesso, dottore? Si prenda il mìo cervello per i suoi esperimenti e scopra perché accade. Almeno, quando morirò un po' di pace l'avrò trovata... saprò il perché. È un problema che mi tormenta da tutta la vita! Negli occhi del medico aleggiò la parvenza di un sorriso. — Mi diceva del dolore — disse. — Vero. Vede, lei sa che sono della Omicidi. — Sì. — Ogni giorno tanti innocenti sono costretti a subire pene indicibili — continuò Kinderman gravemente. — E questo cosa c'entra con lei? — Qual è la sua religione, dottore? — Sono cattolico. — Va bene, allora lei saprà, lei mi capirà. Le mie domande hanno a che fare con la bontà divina e col perché piccoli bambini innocenti possono morire. Alla fine, Dio li salva, li sottrae all'atrocità del dolore? È come in quel film, Arriva mister Jordan, in cui l'angelo spinge l'eroe giù dall'aereo un attimo prima che precipiti al suolo? Ho sentito di storie di questo tipo. Dobbiamo crederci? Per esempio, ecco un incidente automobilistico; nella macchina ci sono tre bambini, non si sono fatti troppo male ma l'auto è in fiamme e quelli sono intrappolati dentro, non possono uscire. Bruciano vivi. Lo si legge sui giornali il mattino dopo. È orrendo. Ma cos'hanno provato, dottore? Ho sentito dire che la pelle diventa insensibile. È vero? — È un poliziotto della Omicidi assai atipico — osservò Amfortas, guardandolo fisso negli occhi. Kinderman si strinse nelle spalle. — Invecchio. Mi accade di pensare a queste cose un po' più spesso. Niente di più. Ma cosa mi risponde? Amfortas abbassò lo sguardo sul tavolo. — Nessuno lo sa — disse pia-
no. — I morti non ce lo raccontano. Può accadere di tutto. Le inalazioni di fumo possono uccidere prima del fuoco — proseguì. — O un attacco di cuore, o lo shock. Inoltre, il sangue tende ad affluire repentinamente verso gli organi vitali nel tentativo di proteggerli. Ciò spiegherebbe l'insensibilità della pelle — si strinse nelle spalle. — Non so. Esistono soltanto delle congetture. — E allora cosa accadrebbe se tutte queste cose non si verificassero? — gli chiese Kinderman. — Siamo nel campo delle ipotesi — gli ricordò Amfortas. — E allora, per favore, dottore, ipotizzi. Quest'argomento mi divora. Tornò il cameriere. Stava per servire la zuppa all'investigatore ma Kinderman lo trattenne con un gesto. — No, la dia al dottore — disse e quando Amfortas cominciò a schermirsi lo interruppe dicendogli: — Non mi faccia telefonare a sua madre. È ricca di vitamine e di un sacco di altre cose ricordate soltanto nella Torah. Non s'incaponisca, la mangi, è piena di una strana bontà. Amfortas cedette e il cameriere gli servì la zuppa. — Oh, a proposito, c'è il signor McCooey? — chiese Kinderman al cameriere. — Sì, al piano superiore, credo — rispose quello. — Le dispiacerebbe chiedergli se posso vederlo un istante? Se è occupato, non importa. Non è urgente. — Sì, glielo chiamo. Il suo nome, signore? — William F. Kinderman. Mi conosce. Se è occupato, lasci perdere. — Gli dirò che la desidera. — Il cameriere si allontanò. Amfortas fissò la zuppa. — Dalla prima sensazione alla morte passano una ventina di secondi. Quando le terminazioni nervose bruciano cessano di funzionare e non si avverte più il dolore. Quanto occorra prima che ciò si verifichi è pura ipotesi. Ma non più di dieci secondi. Nel frattempo, il dolore raggiunge un acme inimmaginabile. Si è totalmente coscienti e assolutamente consapevoli. Ci sono scariche violente di adrenalina. Kinderman scuoteva il capo, lo sguardo a terra. — E Dio come può permetterlo? È un tale mistero... — Sollevò lo sguardo. — Lei non ci pensa a queste cose? Non la mandano in bestia? Amfortas esitò, Quindi incontrò lo sguardo dell'investigatore. Quest'uomo brucia dalla voglia di dirmi qualcosa, pensò Kinderman. Che segreto nasconde? Gli parve di leggervi del dolore e il desiderio di condividerlo con qualcuno. — Temo di averla mandata fuori strada — disse il dottore.
— Le stavo illustrando il caso senza tener conto delle sue premesse. Le ho detto che quando il dolore diventa intollerabile, il sistema nervoso va in sovraccarico, per così dire, cessa di botto di funzionare e il dolore scompare. — Oh, capisco. — Il dolore è una cosa strana — continuò Amfortas meditabondo. — Circa il due per cento delle persone sottratte a una lunga sensazione dolorosa sviluppa gravi danni mentali non appena la fonte del dolore scompare. Ci sono stati anche esperimenti sui cani — proseguì — che hanno dato esiti particolari. Amfortas illustrò a Kinderman una serie di esperimenti tenutisi nel 1957, nei quali alcuni scottish terrier furono allevati dalla nascita fino alla maturità in gabbie di isolamento, in modo tale da privarli d'ogni stimolo ambientale, ivi compreso il benché minimo rumore che potesse arrecare loro fastidio. Raggiunta la maturità furono sottoposti ad alcune stimolazioni dolorose, alle quali i cani non risposero in maniera normale. Dinanzi alla fiamma di un fiammifero molti di essi reagirono toccandola col naso, per ritrarsi e subito dopo tornare ad annusarla. Quando accadde che inavvertitamente la fiamma si spense, i cani continuarono a reagire nello stesso modo dinanzi a un secondo e anche a un terzo fiammifero acceso. Altri soggetti non annusarono affatto il fiammifero ma non fecero neanche nessuno sforzo per sottrarsi alla fiamma con cui gli sperimentatori toccarono i loro nasi ripetute volte. Né i cani reagirono alle punture di spillo. Invece, altri soggetti della stessa cucciolata, che erano stati allevati in condizioni e in ambiente normali, si resero conto del pericolo così rapidamente che gli sperimentatori non riuscirono a sfiorarli con la fiamma, né a pungerli più di una volta. — Il dolore è una cosa assai misteriosa — concluse Amfortas. — Dottore, me lo dica francamente, Dio non avrebbe potuto escogitare qualche altro sistema di protezione? Un qualche diverso genere di sistema d'allarme che ci comunicasse di essere fisicamente in pericolo? — Vuol dire una sorta di riflesso automatico? — Voglio dire qualcosa come un campanello che squillasse nel cervello. — E cosa accadrebbe se le si recidesse un'arteria? — chiese Amfortas. — Cercherebbe di stringersi immediatamente un laccio emostatico oppure si sorbirebbe la soneria della campanella finché non muore dissanguato? E se capitasse a un bambino? No, non funzionerebbe. — E perché non abbiamo un corpo resistente alle ferite, impassibile al
dolore? — Questo lo chieda a Dio. — Ma lo sto chiedendo a lei. — Non so risponderle. — Allora, dottore, cos'è che studiate nei vostri laboratori? — Cerchiamo di imparare in che modo eliminare il dolore quando è superfluo. Kinderman attese che Amfortas proseguisse ma questi non aggiunse altro. — Mangi la zuppa — lo spronò allora Kinderman. — Si raffredda. Come l'amore per Dio. Amfortas ne prese una cucchiaiata ma non la portò alla bocca. Rimise il cucchiaio nel piatto, che emise un suono ottuso come se fosse stato di peltro. — Non ho fame — disse. Controllò l'ora. — Mi sono ricordato di una cosa. — aggiunse. — Dovrei andare. — Quindi alzò lo sguardo sull'investigatore e lo fissò. — Come fa a credere in Dio con tutto quel che sa sui processi cerebrali? — disse Kinderman. — Signor Kinderman? — Era il cameriere. — Il signor McCooey mi è parso molto indaffarato e ho ritenuto di non disturbarlo. Mi spiace. L'investigatore parve come bloccarsi. — No, lo interrompa — disse. — Ma lei mi ha detto che non era così importante... — Non lo è; ma lo interrompa comunque. Sono un tipo imprevedibile. Non faccio mai nulla di sensato. Sono vecchio. — Be', va bene, signore. — E il cameriere si avviò con aria dubbiosa verso i gradini che conducevano al piano superiore. Kinderman riportò la sua attenzione su Amfortas. — Non pensa che non siano che neuroni tutta questa roba che chiamiamo anima? Amfortas controllò l'ora. — Mi sono ricordato di una cosa... — disse. — Dovrei andare. Kinderman lo guardò perplesso. Sono impazzito? Non l'ha appena detto? — Dov'era? — gli chiese. — Prego? — disse Amfortas. — Niente, niente. Ascolti, rimanga ancora un minuto. Ho dell'altro per la testa. Altri tormenti. La prego, resti ancora un minuto. E inoltre, non è educato andarsene adesso. Non ho ancora finito il tè. Le sembra civile? Gli stregoni non lo farebbero mai. Se ne starebbero lì seduti a ingrandire delle teste rimpicciolite per passare il tempo mentre il vecchio bianco rimbambito continua a chiacchierare e a sragionare. Così si fa. Mi sono spinto trop-
po in là su quest'argomento? Me lo dica sinceramente. La gente mi ripete sempre che sono un tipo che non dice mai le cose direttamente e quindi mi sforzo di correggermi e forse esagero. Eh? Che dice, è vero? Sia onesto! Sul volto di Amfortas comparve un'espressione benevola; si rilassò e disse: — In cosa posso aiutarla, tenente? — Si tratta di questo pasticcio cervello-contro-mente — rispose Kinderman. — Per anni ho coltivato il desiderio di interpellare in proposito un neurologo, ma sono molto riservato con chi non conosco. Ed ecco che oggi m'imbatto in lei. La mia scodella di pane azzimo trabocca. Nel frattempo, mi dica, quanto definiamo come sensazione e pensieri altro non sono che dei neuroni eccitati all'interno del cervello? — Vuol dire che corrispondono agli stessi neuroni? — Sì. — Lei che ne pensa? — chiese Amfortas. Kinderman assunse un'aria estremamente prudente e annuì. — Io credo che siano la stessa cosa — disse poi con risolutezza. — E perché? — Perché no? — ribatté Kinderman. — Chi avrebbe bisogno di tirar fuori questa faccenda chiamata anima quando è chiaro che è il cervello a fabbricare tutte queste cose? Dico bene? Amfortas si curvò un po' in avanti. Una qualche zona del suo sistema nervoso reagiva. Parlò con foga. — Supponga di star contemplando il cielo. Vi scorgerà un'enorme distesa omogenea. È la stessa identica cosa della struttura composta da una serie di scariche elettriche che percorrono i fili all'interno del cervello? Lei guarda un pompelmo; esso produce un'immagine circolare nel suo campo sensibile. Ma la proiezione corticale di questo cerchio nel suo lobo occipitale non è circolare. Occupa uno spazio ellissoidale. Quindi, com'è possibile che queste cose corrispondano allo stesso identico fatto? Quando pensa all'universo come fa a contenerlo nel cervello? O anche, se è per questo, gli oggetti che vede qua dentro? Hanno tutti una forma diversa rispetto a quelli che già ha nel cervello, e allora come possono assumervi la loro forma? Ci sono diversi altri misteri che dovrebbe considerare. Uno di essi è l'esecutivo connesso al pensiero. Ogni secondo si è bombardati da centinaia, forse migliaia, di impressioni sensibili ma si vagliano e scelgono soltanto quelle immediatamente necessarie al raggiungimento dei fini del momento; e quelle innumerevoli decisioni si compiono ogni secondo e in meno di una frazione di secondo. Cos'è che induce a quella decisione? Cos'è che induce la decisione stessa a quella decisione?
E un'altra cosa su cui riflettere, tenente: accade spesso che i cervelli degli schizofrenici siano strutturati meglio di quelli di coloro che non presentano problemi mentali; accade inoltre che taluno, cui è stato rimosso gran parte del cervello, non perda la propria identità. — Ma che dire di quello scienziato coi suoi elettrodi? — disse Kinderman. — Se toccava una cellula cerebrale particolare, il soggetto udiva una voce di anni e anni prima o provava una certa emozione. — Wilder Penfield — disse il neurologo. — Ma i suoi pazienti hanno sempre affermato che qualunque cosa gli provocasse dentro di loro con l'ausilio degli elettrodi non era una parte di essi, bensì qualcosa fatta a essi. — Sono sbalordito nell'udire che un uomo di scienza abbia di queste idee — commentò Kinderman. — Penfield non ritiene che la mente sia il cervello — continuò Amfortas. — E neanche Sir John Eccles, il fisiologo britannico che ha vinto il Nobel per i suoi studi sul cervello. Kinderman ebbe un'espressione stupita. — Davvero? — Già. E se la mente è il cervello, allora quest'ultimo possiede delle capacità totalmente inutili per la sopravvivenza fisica del corpo. Intendo cose come la capacità di meravigliarsi e la consapevolezza di sé. E alcuni di noi si spingono fino ad asserire che la coscienza medesima non ha sede nel cervello. E c'è qualche ragione per credere che l'intero corpo umano, ivi compreso il cervello, e quindi anche il mondo esterno, sia tutto spazialmente situato all'interno della coscienza. E ancora un'estrema considerazione per lei, tenente, un distico. — Li adoro. — A me piace in particolare questo: "Se la massa del cervello corrispondesse alla massa della mente, l'orso mi sparerebbe nel sedere immantinente" — e detto ciò il neurologo si curvò sulla zuppa e cominciò a divorarla. Con la coda dell'occhio, l'investigatore scorse McCooey avvicinarsi al loro tavolo. — Esattamente quel che penso io — disse ad Amfortas. — Cosa? — Amfortas fissò Kinderman al di sopra del cucchiaio. — Be', mi sono divertito a fare un po' l'avvocato del diavolo... Sono d'accordo con lei, dottore. La mente non è il cervello, ne sono certo. — Lei è proprio un tipo strano. — Sì, me l'ha già detto. — Voleva vedermi, tenente? Kinderman alzò lo sguardo verso McCooey, che con i suoi occhiali sen-
za montatura e il completo coi colori del college (blazer blu mare e pantaloni di flanella grigia) aveva un'aria assai zelante. — Il signor McCooey, il dottor Amfortas — disse Kinderman presentandoli. McCooey allungò la mano e strinse quella del dottore. — Piacere di conoscerla — disse. — Piacere mio. Poi si rivolse all'investigatore: — Che succede? — chiese mentre gettava un'occhiata all'orologio. — Il tè — disse Kinderman. — Il tè? — Ultimamente, che marca di tè usate? — Lipton, come sempre. — Ha un sapore un po' diverso... — È per questo che voleva vedermi? — Oh, potremmo fare quattro chiacchiere, così, conversare un po' del più e del meno ma so che lei è un uomo estremamente impegnato. La lascerò andare. McCooey squadrò freddamente il tavolo. — Cosa avete ordinato? — chiese. — Quel che vede — rispose il detective. McCooey lo guardò senza tradire alcuna emozione. — È un tavolo per sei. — Stiamo andandocene. McCooey si voltò e sparì senza aggiungere altro. Kinderman guardò Amfortas, che aveva terminato la zuppa. — Molto bene — disse. — Sua madre ne sarà contenta. — Ha altre domande? — gli chiese Amfortas toccando la superficie esterna della sua tazza di caffè. Freddo. — Clorato di succinilcolina — scandì Kinderman. — Nel suo ospedale si usa? — Sì. Cioè, non io personalmente. È impiegato nella terapia con l'elettroshock. Perché me lo chiede? — Se qualcuno nell'ospedale ne volesse sottrarre un po', lo potrebbe? — Sì. — E come? — Da uno dei carrelli dei medicinali... Ma perché me lo chiede? Kinderman eluse nuovamente la domanda. — E qualcuno che non è dell'ospedale?
— Se sa quel che cerca. Dovrebbe conoscere gli orari nei quali quel farmaco è impiegato e somministrato. — Le capita di lavorare nel reparto psichiatrico? — Talvolta. Mi ha portato qui per chiedermi questo, tenente? — Amfortas lo trapassò con lo sguardo. — Oh, no — si schermì Kinderman. — Sul serio, Dio m'è testimone. Ma visto che eravamo qui... Se l'avessi chiesto all'ospedale, mi avrebbero ovviamente risposto che no, che nessuno avrebbe potuto prenderlo. Capisce? Mentre si parlava ho capito che lei invece mi avrebbe detto la verità. — È molto gentile da parte sua, tenente. Grazie. È un uomo molto simpatico. Kinderman sentì giungergli qualcosa da lui. — Idem con patatine per me — riconobbe; poi sorrise e aggiunse: — Idem, sa, è una parola che mi è sempre piaciuta. L'adoro, davvero. Mi fa venire in mente Arriva Mister Jordan. Joe Peddleton la ripete continuamente. — Sì, mi ricordo. — Le piace quel film? — Sì. — Anche a me. Sono un sostenitore delle commedie sdolcinate, ammettiamolo. Ma quella dolcezza, quell'innocenza, oggi... be', non esistono più. Che vita... — sospirò Kinderman. — È una preparazione alla morte. Ancora una volta Amfortas lo sorprendeva. Stavolta gli crebbe assai nella stima. — È vero. Bisognerà riparlarne uno di questi giorni — disse Kinderman e cercò coi suoi i tragici occhi del medico. C'era qualcosa adesso in essi... ma cosa? — Ha finito il caffè? — gli chiese. — Sì. — Io mi trattengo ancora un po', mi faccio portare il conto. È stato gentile a dedicarmi il suo tempo, lei che è così impegnato. — L'investigatore gli tese la mano; Amfortas la prese, la strinse con fermezza e si alzò. Indugiò ancora un attimo, guardò con calma Kinderman e infine disse: — La succinilcolina è l'assassino. Non è vero? — Sì, proprio così. Amfortas annuì e si allontanò. Kinderman lo seguì con lo sguardo mentre si faceva strada tra i tavolini, raggiungeva e saliva i gradini e spariva dalla sua vista. Sospirò. Chiamò il cameriere, pagò il conto e salì le tre rampe che lo dividevano dall'ufficio di McCooey. Lo trovò che parlava col ragioniere. McCooey alzò su di lui uno sguardo
imperscrutabile. — Qualcosa che ha a che fare col ketchup? — chiese senza alcuna espressione. L'investigatore gli fece cenno di avvicinarsi. McCooey si alzò e lo raggiunse. — Quell'uomo che era con me — disse Kinderman — l'ha guardato bene? — Sì, abbastanza. — L'ha mai visto prima d'ora? — Non so... vedo migliaia di persone ogni anno nei miei ristoranti. — Non l'ha visto ieri tra coloro che attendevano di confessarsi? — Oh. — L'ha visto? — Non mi pare. — Sicuro? McCooey rifletté. Poi si mordicchiò il labbro inferiore e scosse il capo. — Quando sei in attesa di confessarti non badi alle altre persone. Per lo più tieni gli occhi a terra e ripensi ai tuoi peccati. Se anche l'avessi visto di certo non me lo ricorderei. — Ma lei però ha visto l'uomo con la giacca a vento. — Sì. Soltanto non so se quello era lui. — Potrebbe giurarlo? — No. Ma davvero non mi pare. — No? — No. Ne dubito, davvero. Kinderman uscì dal locale di McCooey e si diresse all'ospedale. Una volta là, andò al negozio di articoli da regalo e passò in rassegna i tascabili. Trovò Scrupoli, col capo fece un gesto di disapprovazione e lo tolse dallo scaffale. Lo aprì a caso e lesse. Lo divorerà, concluse e si dette a cercare qualcos'altro che impegnasse il gesuita fino all'uscita dall'ospedale. L'occhio gli cadde su Il rapporto Hite sul comportamento sessuale degli uomini ma poi si decise per un romanzo gotico. Coi due libri si diresse alla cassa. La commessa lanciò un'occhiata ai titoli. — Sono certa che a sua moglie piaceranno — disse. — Sì, ne sono certo anch'io. Kinderman si mise a cercare qualche oggettino buffo da aggiungere al regalo tra i ninnoli che invadevano l'intera superficie del banco. Poi, d'un tratto, qualcosa attrasse la sua attenzione. S'immobilizzò. — Ha trovato qualcos'altro?
L'investigatore non la udì neppure. Da una scatola prese una bustina di plastica che conteneva un assortimento di fermacapelli rosa, ciascuno con la dicitura "Great Falls, Virginia". 8 La sezione psichiatrica del Georgetown General era situata in un'ala dell'ospedale che si estendeva disordinatamente accanto a quella di neurologia e consisteva di due reparti principali. Il primo era quello "agitati". Qui venivano ricoverati i pazienti soggetti ad attacchi di violenza, come i paranoici e i catatonici attivi. Nel dedalo dei corridoi e delle camere che componevano questo reparto trovavano posto anche alcune celle d'isolamento. Vigeva una stretta sorveglianza. L'altro reparto era costituito dalla cosiddetta "corsia aperta", dove erano ospitati i pazienti che non erano pericolosi né a se stessi né agli altri. La maggior parte erano anziani che si trovavano ricoverati perché affetti da diversi stadi di senilità mentale. Vi trovavano posto anche gli schizofrenici, i maniaco-depressivi, gli alcolizzati, degenti con danni cerebrali da apoplessia e gli affetti dal morbo di Alzheimer, che provocava uno stato di senilità mentale prematura. Tra i ricoverati c'erano anche alcuni casi di catatonici passivi a lungo termine, che trascorrevano le loro giornate in uno stato di completo rifiuto dell'ambiente circostante, chiusi in se stessi, immobili, spesso con un'espressione attonita e bizzarra dipinta sul volto. Uno stato dal quale accadeva che talvolta si riscuotessero per attaccare a parlare incessantemente e, poiché estremamente suggestionabili, a eseguire alla lettera quanto veniva loro detto. In questo reparto la sorveglianza era assai ridotta e, di fatto, ai pazienti era concesso di uscire quotidianamente o anche per un certo numero di giorni sotto la sola responsabilità di chi firmava il modulo d'uscita, cioè di uno dei dottori del reparto o, più spesso, di una delle infermiere di turno o anche, talvolta, dell'assistente sociale. — Chi l'ha fatta uscire? — chiese Kinderman. — L'infermiera Allerton. Caso vuole che sia di servizio proprio oggi. Sarà qui tra un secondo — disse Temple. Erano seduti di fronte alla scrivania del suo studio, un angusto ma accogliente angolino ricavato proprio dietro l'ufficio della capo-sala del reparto aperto. Kinderman diede un'occhiata alle pareti, che erano ricoperte da diplomi e da fotografie di Temple. Due di esse lo ritraevano in atteggiamenti da pugile: giovane, sui diciannove-vent'anni, con indosso guantoni, ma-
glietta e casco dei pugili dell'Unione sportiva universitaria. Lo sguardo era minaccioso. Tutte le altre foto immortalavano un Temple che, immancabilmente sorridente e con l'occhio dritto nell'obiettivo, con un braccio cingeva la vita di una qualche bella ragazza, ognuna rigorosamente diversa dall'altra. Kinderman fece scivolare lo sguardo sulla scrivania, dove notò una piccola scultura intagliata in un materiale di color verde riproducente l'Excalibur, la leggendaria spada di re Artù. Sulla base si leggeva: DA ESTRARRE IN CASO DI EMERGENZA. Imbullettata su un lato della scrivania notò anche la seguente massima: "Alcolizzato è colui che beve più del suo medico". Le carte che disordinatamente si trovavano sul ripiano della scrivania erano maculate dalla cenere di numerose sigarette. Lo sguardo di Kinderman, evitando la parte alta dei pantaloni dello psichiatra, che avevano la patta aperta, sostò infine su Temple. — Non riesco a credere che abbiate fatto uscire quella donna da sola — disse. La signora anziana trovata sulla banchina era stata identificata. Una volta uscito dal negozio di articoli da regalo, l'investigatore aveva mostrato la foto della donna a ogni ufficio accettazione di ciascun reparto dell'ospedale a cominciare dal primo piano. E al quarto, quello di psichiatria, era stata identificata come una paziente del reparto aperto. Si chiamava Martina Otsi Lazlo e proveniva dall'ospedale distrettuale, nel quale aveva trascorso cinquantuno anni. Il suo disturbo era stato inizialmente classificato come un caso di leggera catatonia da demenza precoce, un tipo di senescenza mentale che si manifesta durante l'adolescenza. La diagnosi era stata poi confermata, anche se con terminologie diverse, finché la Lazlo non era stata trasferita nell'appena inaugurato Georgetown General nel 1970. — Oh sì, ho visto la sua anamnesi — disse Temple — e ho visto subito che era un gran casino. Dev'essere accaduto qualcos'altro. — Si accese un sigarillo e gettò con noncuranza il fiammifero in direzione di un portacenere sulla scrivania, lo mancò e il fiammifero andò ad atterrare sulla cartella clinica di un caso di schizofrenia. Temple osservò cupamente l'esito del suo lancio. — Cazzo, nessuno ne sa di più. E rimasta al distrettuale così a lungo che nessuno è a conoscenza dei primi accertamenti. Li hanno persi. Allora, ho dato un'occhiata a quel suo modo di gesticolare, così, con le mani... — disse Temple cominciando a riprodurre la mimica a Kinderman ma il detective lo interruppe. — Sì, lo conosco — disse Kinderman pacatamente. — Oh, l'ha già visto?
— È nella nostra camera di sicurezza. — Meglio così. A Kinderman rimase subito antipatico. — Che significano quei gesti? — gli chiese. Prima che Temple potesse rispondere si udì un leggero picchiettio alla porta. — Avanti — disse Temple e una giovane, attraente infermiera sui vent'anni fece il suo ingresso nello studio dello psichiatra. — Le do una controllatina? — sussurrò Temple sbirciando il detective con uno sguardo tra il furbo e il lascivo. — Mi voleva, dottore? Temple guardò l'infermiera. — Signorina Allerton, sabato ha firmato lei il permesso di uscita della Lazlo? — Prego? — Lazlo. L'ha fatta uscire lei sabato, giusto? L'infermiera parve confusa. — Lazlo? No, non io. — E questo cos'è? — le chiese Temple pescando dalla scrivania un modulo e leggendoglielo. — Paziente: Lazlo, Martina Otsi. Motivo: visita al fratello, residente a Fairfax, Virginia. Valido fino al 22 marzo. — Quindi lo tese all'infermiera aggiungendo: — Porta la data di sabato e la sua firma. Lo sguardo dell'infermiera mentre osservava il modulo si fece vieppiù perplesso. — L'orario del turno è il suo: dalle due alle dieci — aggiunse Temple. L'infermiera lo guardò: — Signore, non l'ho scritto io questo. Il volto dello psichiatra avvampò. — Mi stai prendendo in giro, tesorino? L'infermiera trasalì e s'innervosì ancora di più. — No, non è mio. Lo giuro. Non è neanche uscita. Ho fatto il giro delle camere alle ventuno e l'ho vista nel suo letto. — Ma non è la tua calligrafia? — insistette Temple. — No. Cioè, sì, ma... Oh, non lo so! — esclamò la Allerton. Riabbassò lo sguardo sul modulo. — Sì, sembra la mia ma non lo è. C'è qualcosa di diverso. — E che cosa? — chiese Temple. — Non so. Ma non l'ho scritto io. — Dia qua. — Temple le tolse di mano il modulo e si mise a esaminarlo. — Oh, capisco... — disse. — Lei dice questi circolini? Questi circoletti sulle i invece dei puntini?
— Posso vederlo? — chiese Kinderman allungando la mano per farsi dare il modulo. Temple glielo porse. — Certo. — Grazie — Kinderman esaminò a sua volta il foglietto. — Non l'ho scritto io — ripeté l'infermiera. — Sì, penso che tu abbia ragione — mormorò Temple. L'investigatore gettò un'occhiata allo psichiatra. — Come ha detto? — gli chiese. — Oh, nulla — Temple guardò di nuovo l'infermiera. — Va tutto O.K., bambina. Fatti viva per la pausa che ti offro un caffè. La Allerton annuì, poi rapidamente si volse e uscì. Kinderman restituì il modulo a Temple. — Strano, no? Possibile che qualcuno abbia falsificato il permesso per fare uscire la signora Lazlo? — È un manicomio — completò lo psichiatra levando le mani. — E perché qualcuno avrebbe voluto farlo? — chiese Kinderman. — Gliel'ho appena detto. Gli svitati qua dentro non sono soltanto i ricoverati. — Vuol dire qualcuno del personale? — È contagioso. — E si riferisce a qualcuno in particolare, mi dica? — Ah, be', cavolo, come non detto. — Come non detto? — Scherzavo. — Ma come? Non si sente in qualche modo coinvolto in questa faccenda? — No, io no. — Temple gettò sulla scrivania il modulo che andò a planare sul portacenere. — Merda. — Lo spostò. — Probabilmente si tratta dello scherzetto di uno di quei neolaureati mezziscemi che girano da queste parti o forse di qualcuno che ho mandato a farsi un bagno e che ce l'ha con me. — Ma in questo caso — precisò l'investigatore — la calligrafia avrebbe dovuto imitare la sua. — Toccato. — E non si chiama paranoia, dico bene? — Ben detto. — Gli occhi di Temple divennero due fessure. Della cenere azzurrina gli cadde dal sigarillo sulla spalla della giacca. Se la scosse via con un colpetto della mano e la cenere si trasformò in una macchia grigiastra.
— Potrebbe averlo scritto lei — disse. — La signora Lazlo? Temple fece spallucce. — Può darsi. — Davvero? — No, poco probabile. — Nessuno ha visto uscire la signora Lazlo? Con lei non c'era nessuno? — Non lo so. Domanderò. — Dopo le ventuno si effettua un'altra ispezione nelle camere? — Sì, il turno di notte passa alle due. — Potrebbe controllare se la signora Lazlo era sempre nel suo letto? — Sì, lo farò. Lascerò un appunto alla caposala. Ascolti, com'è che è così importante? Ha a che fare con quegli omicidi? — Che omicidi? — Ma sì, il ragazzo e il prete. — Sì, ha a che fare con quelli. — Lo immaginavo. — E perché? — Be', non sono esattamente un cretino... — No, non lo è — disse Kinderman. — Lei è un uomo estremamente intelligente. — E allora, che c'entra la Lazlo con quegli omicidi? — Chissà. È implicata, ma non direttamente. — Sono perduto. — La condizione umana. — E non è forse vero? — disse Temple. — Allora, è prudente riportarla qui? — Spero di sì. Nel frattempo, dica, lei è convinto che il modulo sia stato falsificato? — Senza alcun dubbio. — Da chi? — Non lo so. Non fa che ripetermi le stesse domande. — Conosce nessuno dello staff che fa i circoletti sopra le i? Temple fissò negli occhi Kinderman, poi distolse lo sguardo e disse con enfasi: — No. Troppa enfasi, pensò Kinderman. L'investigatore l'osservò per un momento, quindi gli chiese: — Dunque, qual è il significato degli strani gesti della signora Lazlo? Temple si voltò a guardarlo con una smorfia di autocompiacimento.
— Sa, il mio lavoro, sotto diversi aspetti, assomiglia molto al suo. Sono un segugio. — Si protese verso il detective. — Dunque, ecco quel che ho fatto. L'apprezzerà, lo so. I gesti della Lazlo seguono uno schema, giusto? Lo stesso tutte le volte. — Temple mimò i gesti della donna. — Un giorno mentre mi trovavo da un calzolaio in attesa che mi riparassero le suole di un paio di scarpe, mi misi a osservare come il ciabattino cucisse le suole. Come sa, oggi si fa a macchina. Allora mi avvicinai e gli chiesi: "Mi dica, come le si cucivano prima che inventassero queste macchine?" Era anziano e dall'accento direi serbo-croato o giù di lì. Avevo avuto come un presentimento non appena entrato nel negozio. "A mano" mi rispose ridendo. Evidentemente, pensava che fossi scemo. E io gli dissi: "Mi mostri come". Mi disse che aveva da fare ma io gli offrii del denaro (cinque verdoni, mi pare) e lui accondiscese. Si mise a sedere con una delle mie scarpe stretta tra le ginocchia e cominciò a fare il gesto di cucire la suola della scarpa con un immaginario spago. E lo sa che faceva esattamente i movimenti della Lazlo? Sì, gli stessi! Non appena mi fu possibile mi misi in contatto con suo fratello in Virginia e gli posi alcune domande. Sa quel che ne venne fuori? Proprio prima di impazzire la Lazlo era stata piantata dal suo innamorato, un ragazzo che secondo lei l'avrebbe sposata. E lo sa che mestiere faceva? — Il calzolaio. — Bingo! Non riuscendo a sopportare l'idea di perderlo, lo divenne. Quando il ragazzo l'abbandonò, la Lazlo aveva soltanto diciassette anni, ma per tutto il resto della sua vita si è completamente identificata con lui. È lui da oltre cinquantadue anni, ormai. Kinderman si sentì invadere dalla tristezza. — E come arrivarci se non grazie a un sesto senso? — disse lo psichiatra con espansività. — O ce l'hai o non ce l'hai. È questione di istinto. Un istinto che compare presto. Una volta, ero interno allora, scrissi una relazione su un paziente, un uomo affetto da depressione. Uno dei suoi sintomi era costituito da un tintinnìo che udiva continuamente in un orecchio. Quand'ebbi finito di interrogarlo, mi balenò un pensiero. "In quale orecchio lo sente?" gli chiesi. E lui: "Sempre nel sinistro". "Mai in quello destro?" feci io. "No. Soltanto nel sinistro". "Le dispiace se ascolto?" continuai io. E lui "No" mi disse. Così appoggiai un orecchio al suo e ascoltai. E, Cristo, lo sa che quel tintinnìo c'era sul serio? E forte! Il martelletto di quel timpano, diciamo così, scivolava e produceva quel rumore. Lo sottoponemmo a un intervento chirurgico e guarì. Lo sa che era andato avanti in
quelle condizioni per quasi sei anni? A causa del tintinnìo aveva cominciato a credere di essere pazzo, idea che l'aveva condotto alla depressione. Non appena seppe che il tintinnìo esisteva realmente la depressione scomparve. — Veramente interessante — disse Kinderman. — Davvero. — Mi servo molto dell'ipnosi — disse Temple. — A molti medici non piace. Pensano che sia troppo pericolosa. Ma quella gente sta forse meglio di prima? Cristo, per essere O.K. si dev'essere segugi e inventori. E, soprattutto, però, creativi. Sempre. — Ridacchiò. — Pensavo a quella volta che, ero ancora studente, in ginecologia ricoverarono una donna sui quaranta che soffriva di certi misteriosi dolori alla micina. Bighellonandole intorno mi convinsi che il caso era assolutamente da psichiatria. Ero certo che fosse picchiata; ma proprio forte. Allora andai dall'interno di psichiatria e gli dissi quel che pensavo; quello andò da lei e ci parlò per un po'. Quando lo rivedo mi dice che non è della mia opinione. Be', passano i giorni, e io mi convinco sempre più che quella donna è proprio andata. Ma l'interno di psichiatria non mi dà ascolto. Così un giorno, prendo una scaletta e un telo di gomma, mi reco nella camera della donna; chiudo la porta a chiave, le metto addosso il telo fino al collo, salgo sulla scaletta, mi tiro fuori il birillo e le piscio sul letto. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Scendo dalla scaletta, la chiudo, riawolgo il telo ed esco dalla camera con il tutto. Poi aspetto. Il giorno seguente, mi pare, all'ora di pranzo m'imbatto nell'interno di psichiatria che mi guarda negli occhi e mi dice: "Freeman, ricordi quella donna? Be', avevi ragione. Non hai idea di quel che ha raccontato alle infermiere". — Temple si appoggiò allo schienale con aria soddisfatta. — Proprio così, per nulla facile, ce ne vuole — disse. — Oh, sì. — Molto istruttivo, dottore — disse Kinderman. — Davvero. Mi ha aperto gli occhi su molte cose. Sa, ci sono tanti dottori, di altre branche mediche, che continuano a criticare la psichiatria. — Teste di cazzo — grugnì Temple. — A proposito, oggi ho pranzato con un suo collega. Il dottor Amfortas, sa? Il neurologo... Per un attimo gli occhi dello psichiatra ridivennero due fessure. — Già, Vince della psichiatria farebbe piazza pulita. — Oh no, no — protestò Kinderman — non è vero, non lui. Ho fatto il suo nome soltanto perché abbiamo pranzato insieme. È stato cordiale. — È stato cosa?
— Simpatico. Ma a parte questo, c'è qualcuno che potrebbe farmi fare un giretto qua attorno? — Si alzò. — Dalle parti della signora Lazlo. Dovrei darci un'occhiata. Temple si alzò a sua volta e spense il sigarillo nel portacenere. — L'accompagno io stesso — si offrì. — Oh, no, no, lei ha molto da fare. No, davvero, non potrei mai... — obiettò l'investigatore levando le mani in segno di rifiuto. — Roba da niente — disse Temple. — Sicuro? — Questo posto è una mia creatura. Ne sono orgoglioso e quindi, forza, che glielo mostro — e così dicendo aprì la porta. — Proprio sicuro? — Affermativo. Kinderman varcò la soglia e Temple lo seguì. — Da questa parte — indicò Temple piegando di buon passo sulla destra. Kinderman gli tenne dietro sforzandosi di non perdere il ritmo dell'elastica premura dei passi del medico. — Mi sento proprio in colpa... — disse l'investigatore. — Be', allora è in compagnia dell'uomo che le ci vuole. Kinderman visitò l'intero reparto aperto, che era formato da un labirinto di corridoi, sulla maggior parte dei quali si aprivano le camere dei degenti, anche se altri conducevano alle salette per le riunioni e ai locali riservati al personale. C'era anche uno snack bar e un centro attrezzato per la terapia fisica. Il nucleo vitale del reparto era però costituito da una grande sala ricreativa, che conteneva l'ufficio infermiere, un tavolo da ping-pong e un apparecchio televisivo. Quando Kinderman e Temple vi giunsero, lo psichiatra gli indicò un gruppetto di pazienti che pareva impegnato a seguire qualcosa come un programma agonistico. La maggior parte era composta da anziani che in pigiama, vestaglia e pantofole fissavano stupidamente lo schermo televisivo. — Questa è la zona "calda" — disse Temple. — Bisticciano tutto il santo giorno per decidere che programma guardare. L'infermiera di turno passa il tempo a far da arbitro. — Quello sembra che piaccia — disse Kinderman. — Aspetti. Ecco là un caso classico — disse Temple e tra coloro che guardavano la TV indicò un uomo con in testa un berretto da baseball. — Un castrofrenico — spiegò Temple. — Ritiene che dei nemici gli stiano succhiando dal cervello i pensieri. Mah, potrebbe anche aver ragione... E la c'è Lang, quel tizio in piedi laggiù in fondo. Era un bravo chimico ma poi cominciò a udire delle voci su nastri. Morti che rispondevano alle sue do-
mande. Aveva letto dei libri su quell'argomento prima di cominciare a udirle. Perché mi suona familiare? si chiese Kinderman e nell'intimo avvertì una curiosa sensazione. — Dopo un po' cominciò a udirle nella doccia — proseguì Temple. — Poi in ogni genere di acqua corrente: un rubinetto, l'oceano. Quindi, nei rami scossi dal vento o nel fruscio delle foglie. E di lì a poco le udì nel sonno. Ora non riesce più a liberarsene e dice che la televisione le soffoca. — Sono le voci che lo hanno condotto alla follia? — chiese Kinderman. — No. È la follia che gli fa sentire le voci. — Come il tintinnìo nell'orecchio? — No, il ragazzo è toccato sul serio. Mi creda, lo è. Vede quella donna con quel cappello strampalato? Un altro pezzo forte. Ma anche un mio successo. La vede? — Indicava una donna di mezza età, obesa, seduta tra coloro che guardavano la TV. — Sì, la vedo. — Oh-oh — fece Temple. — Mi ha visto. Eccola che viene. La donna ciabattò nella loro direzione di buon passo, producendo un rumore stridulo con la suola delle pantofole che strascicava sul pavimento. Presto fu loro dinanzi. Il copricapo, un feltro tondo azzurro, era ricoperto da stecche di cioccolato e da altri dolcetti attaccati con spilli. — Niente asciugamani — disse la donna rivolgendosi a Temple. — Niente asciugamani — ripeté lo psichiatra. Al che la donna si voltò e ritornò verso il gruppetto. — Aveva l'abitudine di fare incetta di asciugamani — disse Temple. — Li sottraeva agli altri pazienti. Ma io l'ho guarita. Per una settimana le abbiamo dato sette asciugamani extra ogni giorno. La settimana seguente, venti, e la successiva, quaranta. Ben presto la sua camera ne fu così piena che non riusciva neppure a muoversi. E un giorno, quando le portammo la sua razione, cominciò a strillare e a gettarli all'aria. Non ne voleva più sapere. — Lo psichiatra tacque per qualche istante seguendo con lo sguardo la donna che tornava a sedersi al suo posto. — Suppongo che ora tocchi ai dolcetti... — aggiunse infine con voce atona. — Sono molto calmi — osservò il detective guardandosi intorno. Alcuni pazienti sedevano con espressione assente e distratta sulle panche con lo sguardo perso nel vuoto. — Già, la maggior parte vegeta — disse Temple e con un dito si toccò la testa. — Irrecuperabili. Naturalmente, i farmaci non servono.
— Farmaci? — Torazina — disse Temple. — La prendono tutti i giorni. Tende a isolarli ancora di più. — Il carrello dei medicinali viene portato qui? — Certo. — E oltre la torazina trasporta altri farmaci? Temple si voltò a guardarlo. — Perché? — Così... Lo psichiatra si strinse nelle spalle. — Può essere. Se è lo stesso che poi prosegue per il reparto agitati. — È il posto dove eseguite l'elettroshock? — Be', diciamo piuttosto che è la sala dove lo eseguivamo. Non si usa più tanto spesso. — No? — Di tanto in tanto. Quand'è necessario. — In questo reparto ha dei pazienti che possiedono una certa conoscenza della medicina? — Che buffa domanda — disse Temple. — È il mio albatro — disse Kinderman. — Il mio orso al guinzaglio. Non posso farne a meno. Quando penso a una cosa non riesco a non esprimerla subito a voce. Temple parve disorientato dalla risposta ma poi si voltò e accennò a un paziente, un uomo magro, di mezza età, seduto vicino a una finestra. La luce del tardo pomeriggio lo tagliava obliquamente dividendolo in due metà, l'una luminosa, l'altra scura. Sul suo viso non si leggeva nulla. — Negli anni Cinquanta, è stato tenente in Corea — spiegò Temple. — Ha perso i genitali. Sono quasi trent'anni che non dice più una parola. Kinderman annuì. Spostò lo sguardo sull'ufficio infermiere. Dietro il banco, l'infermiera di turno compilava una scheda, mentre accanto a lei un nero robusto, un addetto ai servizi, se ne stava con le braccia appoggiate al banco a sorvegliare l'attività della sala. — Avete una sola infermiera qui — osservò Kinderman. — Di più non ne occorrono — rispose Temple con disinvoltura. Si posò le mani sui fianchi e guardò dritto davanti a sé. — Sa, quando il televisore è spento, tutto quel che può sentire qua dentro è lo strascichìo delle pantofole — disse. Continuò a fissare qualcosa dinanzi a sé per qualche istante, quindi si girò in direzione del detective. Kinderman guardava l'uomo vicino alla finestra. — Ha l'aria depressa — disse lo psichiatra.
Kinderman si voltò verso di lui e disse: — Chi, io? — Lei tende a rimuginare, si vede, e un bel po'. Ha continuato ad avere quell'aria meditabonda fin da quando è entrato nel mio studio. È sempre così tormentato? Con sorpresa Kinderman riconobbe che quanto Temple gli stava dicendo era vero. Fin dal suo ingresso nello studio dello psichiatra, l'investigatore non si era sentito a suo agio. La personalità di Temple lo dominava. Come faceva? Lo guardò negli occhi e vi scorse come un turbinìo. — Il mio lavoro — disse Kinderman. — Allora, lo cambi. Una volta qualcuno mi chiese: "Cosa posso fare con questi mal di testa che mi assalgono tutte le volte che mangio del maiale?" Sa cosa gli risposi? "Smetta di mangiare maiale." — Posso vedere la camera della signora Lazlo, per favore? — Le spiace rasserenarsi un po'? — Ci provo. — Bene. Allora, venga, l'accompagno. È qua vicino. Temple guidò Kinderman attraverso un corridoio, poi in un altro e poco dopo giunsero nella camera. — Piuttosto spoglia — disse Kinderman. — Sì, già. Di fatto non c'era nulla. Kinderman si affacciò nel bagno. C'era un altro accappatoio azzurro. Ispezionò i cassetti: vuoti. Nel bagno non c'erano che asciugamani e sapone, null'altro. L'investigatore si voltò nuovamente verso la camera. Improvvisamente percepì sul volto come un soffio freddo, che parve penetrarlo per poi svanire. Guardò verso la finestra. Chiusa. Ebbe una strana sensazione. Controllò l'ora: cinque minuti alle quattro. — Be', devo andare — disse. — Grazie mille. — A sua disposizione — disse Temple. Lo psichiatra condusse Kinderman fuori dal suo reparto fino a uno degli accessi all'ala di neurologia. Lì si salutarono. — Io torno dentro — disse Temple. — Da qui la strada la sa? — Sì. — Le ho fatto guadagnare la giornata, tenente? — E forse anche la serata. — Bene. Se dovesse sentirsi ancora depresso, mi chiami o venga a trovarmi. Posso aiutarla. — A quale scuola psichiatrica appartiene, dottore? — Sono un'irriducibile comportamentista — affermò Temple. — Mi
fornisca tutti i dati e io le dirò sui due piedi quello che uno sta per fare. Kinderman abbassò lo sguardo e scosse il capo. — Perché scuote la testa? — Oh, non è nulla. — No, è qualcosa — disse Temple. — Qual è il problema? Kinderman sostenne lo sguardo bellicoso dello psichiatra. — Be', dottore, mi sono sempre rammaricato per i comportamentisti. Non riescono mai a dire un semplice: "Grazie per avermi passato la senape". Lo psichiatra serrò le labbra. — Quando riavremo la Lazlo? — disse. — Stasera. Me ne occuperò io. — Bene. Molto gentile. — Temple spinse la porta del reparto e aggiunse: — Al piacere di rivederla, tenente — e scomparve. Kinderman rimase ancora un momento, in ascolto. Percepì il passo elastico delle suole di gomma dello psichiatra che si allontanavano rapidamente. Non appena anche quel rumore svanì, provò un'immediata sensazione di sollievo. Sospirò; poi gli parve di essersi dimenticato di qualcosa. Avvertì un peso in una delle tasche del cappotto. I libri di Dyer. Si girò di scatto e si affrettò per il corridoio. Quando Kinderman entrò nella camera del gesuita trovò l'amico ancora a letto con in mano il messale. — Finalmente, ce ne hai messo di tempo — si lamentò Dyer. — Da quando te ne sei andato, mi hanno fatto sette trasfusioni. Kinderman si fermò accanto al letto e gettò i libri sullo stomaco dell'amico. — Ecco qua, come richiesto — disse. — La vita dì Monet e Dialoghi con Wolfgang Pauli. Sai perché hanno crocifisso Gesù, padre? Lo preferì all'andarsene in giro con questi libri. — Non fare lo snob. — Padre, in India esistono tante missioni gesuitiche. Perché non te ne trovi una? Lo mosche non sono così malvagie come si dice. Tutt'altro, sono assai graziose, di tanti colori diversi... E anche Scrupoli è stato or ora tradotto in hindi: potresti continuare ad avere tutti i tuoi soliti comfort a portata di mano. Oltre ad alcuni milioni di copie del Kamasutra. — L'ho letto. — Non ne dubito. — Kinderman si era spostato ai piedi del letto, aveva preso la cartella clinica di Dyer, vi aveva gettato un'occhiata e l'aveva rimessa a posto. — Vuoi essere così gentile da perdonarmi se momentaneamente interrompiamo questa mistica conversazione? Troppa estetica mi
procura sempre il mal di testa. E in un altro reparto mi attendono altri due pazienti, sacerdoti come te: Joe di Maggio e Jimmy il Greco. Debbo lasciarti. — Vai, allora. — Che fretta hai? — Voglio rimmergermi in Scrupoli. Kinderman si voltò e si diresse verso la porta. — Ho detto qualcosa che non va? — chiese Dyer. — La Madre India la chiama, padre. Kinderman uscì nel corridoio e fu subito fuori di vista. Dyer fissò il vano vuoto della porta rimasta aperta. — Ciao, Bill — mormorò con un caldo, profondo sorriso. Dopo un istante, tornò alla lettura del messale. Rientrato al distretto, Kinderman attraversò con la sua andatura dondolante la sala operativa della Omicidi, entrò nel suo ufficio e chiuse la porta. Dentro c'era Atkins, che lo attendeva appoggiato a una parete. Indossava un paio di blue jeans e, sotto un logoro giubbotto di pelle, un maglione a collo alto, nero. — Stiamo scendendo troppo, capitan Nemo — disse Kinderman squadrandolo dalla porta con un'occhiata tetra. — La carena non può sopportare tutta questa pressione. — Andò alla scrivania. — E neanch'io. Atkins, a cosa stai pensando? Basta. La dodicesima notte è già in cartellone al Folger, non qui. Che roba è questa? — aggiunse curvandosi sul piano della scrivania per afferrare due identikit. Li osservò come se non capisse, quindi lanciò un'occhiata disperata ad Atkins. — I sospetti sarebbero questi? — chiese. — Nessuno li ha visti bene — disse Atkins. — Questo lo vedo. Il vecchio assomiglia a un avocado rinsecchito che cerca di passare per Harpo Marx. E l'altro mi fa cascare le braccia, L'uomo con la giacca a vento aveva i baffi? Nessuno dei testimoni ha parlato di baffi, nessuno. — È un particolare fornitoci dalla signorina Volpe. — La signorina Volpe — Kinderman mollò gli identikit e si passò una mano sul volto. — Meshugge, cioè matto. Signorina Volpe, le presento Julie Febré. — Ho qualcosa da comunicarle, tenente. — Ora no. Non vedi che quest'uomo sta cercando di morire? Ci vuole una concentrazione totale, assoluta. — Kinderman si lasciò andare stancamente sulla poltrona dietro la scrivania e fissò gli identikit. — Per Sher-
lock Holmes era facile — commentò cupamente. — Non aveva da confrontarsi con gli identikit del mastino dei Baskerville. E inoltre, la signorina Volpe vale senza dubbio dieci dei suoi Moriarty. — È arrivato l'incartamento Gemini, signore. — Lo so. Eccolo qui. Stiamo risalendo, Nemo? La mia vista è un po' meno sfuocata. — Ho da riferirle una cosa, tenente. — Tientela, ho trascorso una magnifica giornata al Georgetown Hospital. Stai per chiedermi cos'è successo? — Cos'è successo? — Non me la sento di parlarne adesso. Ma, ad ogni modo, voglio sentire la tua opinione su un paio di cosette. Pura accademia, m'intendi? Ammetti semplicemente per ipotesi quanto sto per dirti. Un dotto psichiatra, qualcuno del calibro del primario di psichiatria dell'ospedale, compie dei goffi sforzi per indurmi a pensare che stia coprendo un collega, diciamo un neurologo che sta compiendo delle ricerche sul dolore. Ciò si verifica, in questo ipotetico caso, allorché domando a questo immaginario psichiatra se nessuno dello staff medico ha una certa particolarità calligrafica. Il presunto psichiatra mi guarda negli occhi due o tre volte, quindi distoglie lo sguardo e dice "No". Con grande enfasi. Inoltre, diciamo che io, vecchia volpe, ho scoperto che tra i due esiste un certo attrito. Forse non c'è ma a me pare di sì. Cosa ne deduci da questa astrusità, Atkins? — Lo psichiatra vuole metterla sulla pista del neurologo ma non vuole farlo apertamente. — E perché no? — disse Kinderman. — Ricorda: quest'uomo, così facendo, ostacola la giustizia. — Ha commesso qualcosa. È implicato nella faccenda. Ma se dà l'impressione di star coprendo qualcuno lei non sospetterà mai di lui. — Non gli basterebbe una vita. Ma sono d'accordo con te. Nel frattempo, ho qualcosa di più importante da dirti. A Betsville, Maryland, anni or sono esisteva un ospedale per malati di cancro terminali. A questi pazienti venivano somministrate massicce dosi di LSD. Niente di male, giusto? E inoltre, dà sollievo al dolore. A un certo punto accadde a tutti qualcosa di assai strano. Tutti quanti, indipendentemente dal bagaglio culturale o dalle convinzioni religiose di ciascuno, cominciano a provare le stesse sensazioni. Immaginano di sprofondare sottoterra attraverso ogni sorta di sozzura, sudiciume, spazzatura. E mentre compiono questo viaggio, diventano quelle cose: tra loro ed esse non c'è più distinzione. Poi ecco che prendono a
salire, su, su, e ancora più su e improvvisamente tutto intorno a loro è bello e si ritrovano dinanzi al Signore, che li guarda e dice loro: "Venite qua da me, non siamo a Newark". Ciascuno di essi ha avuto quest'esperienza, Atkins. Be', diciamo il novanta per cento. È sufficiente, direi. Ma la cosa principale è un'altra ancora. Tutti hanno dichiarato di avere la sensazione di possedere l'universo intero. Di essere tutt'uno, una sola persona. Non è stupefacente che tutti abbiano dichiarato la stessa cosa? Inoltre, considera il teorema di Bell, Atkins. Quel fisico afferma che se in un qualsiasi sistema formato da due particelle si muta la rotazione di una delle due, simultaneamente muta la rotazione dell'altra, senza alcun riguardo per la distanza che intercorre tra di esse, fosse pure di miliardi di anni luce! — Tenente? — Per favore, taci quando parli con me! C'è dell'altro. — Il detective si protese verso l'assistente con occhi scintillanti. — Considera il sistema autonomo. È quello che consente a tutte quelle componenti apparentemente intelligenti del tuo corpo di funzionare e mantenerlo in vita. Eppure, non possiede un'intelligenza propria. La tua mente conscia non lo dirige. "E allora cos'è che lo comanda?" mi chiederai. Il tuo inconscio. Ora, pensa all'universo come al tuo corpo e all'evoluzione e alle vespe cacciatrici come al sistema autonomo. Cos'è che lo comanda, Atkins? Riflettici. E ricordati dell'inconscio collettivo. Nel frattempo, non posso star qui a sedere a chiacchierare all'infinito. Sei andato o no a trovare la vecchia signora? Non importa. Appartiene al Georgetown General Hospital. Telefona e mandagliela. È una paziente del reparto psichiatrico. Una reclusa. — È morta — disse Atkins. — Cosa? — È morta questo pomeriggio. — E chi l'ha uccisa? — Collasso cardiaco. Kinderman lo fissò; poi abbassò il capo e annuì. — Sì, non aveva altro modo per uscirne — mormorò. Si sentì sommergere da una profonda e acuta tristezza. — Martina Otsi Lazlo — disse con affetto. Rialzò lo sguardo su Atkins. — Quella donna era un gigante — gli disse dolcemente. — In un mondo dove l'amore non dura, è stata un gigante. — Aprì un cassetto ed estrasse il fermacapelli rinvenuto sulla banchina. Lo fissò per un attimo. — Spero che l'abbia raggiunto adesso — disse ancora con calma. Ripose il fermacapelli nel cassetto e lo chiuse. — Aveva un fratello in Virginia. Si chiama Lazlo. Avverti l'ospedale e pensa tu al da farsi. Chiedi di Temple,
il dottor Temple. È il primario di psichiatria, un goniff. Non consentirgli di ipnotizzarti. Sarebbe capace di farlo anche per telefono, suppongo. L'investigatore si alzò e si avviò alla porta, soltanto per fermarsi e tornare nuovamente alla scrivania. — Camminare fa bene al cuore — disse. Prese la cartella che conteneva l'incartamento Gemini e gettò un'occhiata all'assistente. — La sfrontatezza è inammissibile — lo avvertì. — Non parlare. — Andò alla porta, l'aprì, e si voltò. — Fai fare una ricerca al computer sulle prescrizioni di succinilcolina emesse nel distretto in questo e nel mese scorso. I nomi sono Vincente Amfortas e Freeman Temple. Vai alla messa tutte le domeniche? — No. — Perché no? Come dicono tra i tonaconi, Nemo, sei uno da "tre spruzzi"? Battesimo, matrimonio ed estrema unzione. Atkins si strinse nelle spalle. — Non ci penso — disse. — Estremamente illuminante. Ma, intanto, un'altra domandina, Atkins, prima di abbandonarti ai tormenti che ti attendono. Se Cristo non si fosse fatto crocifiggere, avremmo mai sentito parlare di resurrezione? Zitto, non rispondere. È ovvio, Atkins. Grazie per la collaborazione e per il tempo cortesemente regalatomi. Goditi il tuo viaggio nelle profondità marine. Ti assicuro che ci troverai unicamente pesci con la faccia da stupido, salvo per il loro capo, una carpa gigante di tredici tonnellate e col cervello di una focena. È molto rara, Atkins. Evitala. Se le viene in mente che noi due ci teniamo in contatto, potrebbe fare qualcosa di pazzesco. — Il detective si volse e uscì dall'ufficio. Atkins lo vide indugiare nel mezzo della sala operativa, guardare in alto e toccarsi con la punta delle dita la falda del malconcio cappello. Un poliziotto, con a traino un tizio dalla faccia poco raccomandabile, andò a sbattere contro la massiccia figura del tenente. Kinderman disse loro qualcosa che Atkins non riuscì a udire e infine si allontanò. Atkins andò alla scrivania e si sedette. Aprì il cassetto, guardò il fermacapelli e si chiese cosa mai Kinderman avesse voluto dire con quel riferimento all'amore. Udì dei passi e alzò lo sguardo. Sull'uscio c'era di nuovo Kinderman. — Se trovo che mi manca anche una sola Almond Roca — disse — allora, tra Batman e Robin è finita. Senti, a che ora è morta la vecchia signora? — Alle quattro meno cinque circa — rispose Atkins. — Capisco — disse Kinderman che, dopo aver fissato lo sguardo nel
vuoto per un po', d'un tratto si volse e uscì senza dire una parola. Atkins rimuginò sul perché della sua domanda. L'investigatore tornò a casa. Nell'ingresso si tolse cappello e cappotto, quindi entrò in cucina. Julie sedeva al tavolo d'acero e leggeva una rivista di moda mentre Mary e la suocera armeggiavano ai fornelli. La moglie alzò gli occhi da una salsa che stava preparando e sorrise. — Ciao, tesoro. Sono contenta che ce l'hai fatta a venire a cena. — Ciao, pa' — disse Julie senza distogliere gli occhi dalle pagine della rivista. La madre di Mary voltò le spalle al detective e con uno straccio asciugò il ripiano della cucina. — Salve, ciccia — disse Kinderman e baciò la moglie su una guancia. — Senza di te la vita non è che perline di vetro e pizza rinsecchita — disse. — Che si cucina? — aggiunse. — Sento un buon profumino o sbaglio? — Non c'è nessun odore — brontolò Shirley. — Mettiti a posto il naso. — A quello ci pensa Julie — commentò foscamente Kinderman sedendosi dall'altro lato del tavolo, di fronte alla figlia. In grembo teneva l'incartamento Gemini. La figlia, con le braccia conserte sul tavolo e la lunga chioma bruna che sfiorava le pagine di Glamour, distrattamente si gettò indietro una ciocca e voltò pagina. — Allora, cos'è questa storia di Febré? — le chiese il padre. — Paparino, ti prego, non ti agitare — rispose Julie laconicamente. Voltò un'altra pagina. — E chi si agita? — Ci sto soltanto pensando. — Anch'io. — Bill, non la irritare — intervenne Mary. — Chi, io? Julie, guarda, per noi sarà un grosso problema. Il componente di una famiglia cambia cognome. Okay, è semplice. Ma quando tre componenti della stessa famiglia lo cambiano, tutti insieme e con cognomi diversi, non so come vada a finire. Potrebbe condurli all'isteria collettiva, per non parlare di una certa, anche se insignificante, confusione. Julie puntò i begli occhi azzurri sul padre. — Pa', non ti capisco. — Tua madre e io cambieremo il cognome in Darlington. Si udì il rumore di un mestolo di legno che piombava nell'acquaio e Kinderman seguì con lo sguardo la suocera che si affrettava a lasciare la stanza. Mary, trattenendo una risatina che le stava salendo in gola, si volse verso il frigorifero.
— Darlington? — disse Julie. — Sì — disse Kinderman. — E ci convertiamo, anche. Julie per lo stupore si portò una mano alla bocca. — Volete diventare cattolici? — chiese in un rantolo. — Non essere sciocca — disse il padre affabilmente. — Sarebbe come restare ebrei; è altrettanto brutto. Pensavamo luterani, chissà. Siamo proprio stufi di quelle svastiche sui muri della sinagoga. — Kinderman udì alle sue spalle Mary che abbandonava la cucina. — Sai, tua madre è un po' scombussolata... — disse. — All'inizio, cambiare non è facile. Si abituerà. Non lo faremo così, di botto; lo faremo per gradi. Prima cambieremo il cognome, dopo ci convertiremo e quindi ci abboneremo alla National Rewiew. — A questo non ci credo — disse Julie. — E invece ci credi. Entreremo nel frullatore dei tempi e diverremo purea se non Febré. Poco male. Era inevitabile. L'unico problema reale adesso è come coordinare tutta la faccenda. Siamo aperti a ogni suggerimento, Julie. Cosa ne pensi? — Penso che non dovreste cambiare il cognome — rispose Julie con enfasi. — Perché no? — Ma è il vostro! — disse. Sua madre rientrò. — Mamma, dite sul serio? — Non è che debba essere per forza Darlington, Julie — disse Kinderman. — Ne potremo trovare un altro che ci trovi tutti d'accordo. Che ne dici di Bunting? Mary annuì saggiamente. — Mi piace. — Oh, Dio mio, è scandaloso! — esclamò Julie alzandosi e precipitandosi fuori della cucina proprio mentre la madre di Mary rientrava. — Avete finito con le vostre follie? — chiese Shirley. — In questa casa è impossibile capire chi sia di ciccia e chi no, forse siete tutti dei fantocci che parlano di shutss per tormentarmi e farmi sentire le voci per poi farmi rinchiudere. — Sì, hai ragione — disse Kinderman sinceramente. — Me ne scuso. — Ma capisci quel che dico? — squittì la suocera. — Mary, digli di smetterla! — Bill, smettila, su — disse Mary. — Chiuso. Cenarono e quindi Kinderman s'immerse nella vasca sforzandosi di non
pensare a nulla. Come al solito, scoprì che gli era impossibile. A Ryan riesce così facilmente, rifletté. Devo chiedergli il suo segreto. Attenderò finché non faccia qualcosa come si deve e si senta espansivo. La sua mente si spostò dal concetto di segreto ad Amfortas. Quell'uomo è talmente misterioso, oscuro. Nascondeva qualcosa, ma cosa? Afferrò il bagnoschiuma e ne versò un altro po' nella già spumeggiante acqua della vasca. A malapena riuscì a trattenersi dallo schiacciare un pisolino. Finito il bagno, Kinderman indossò la vestaglia, prese l'incartamento Gemini e si recò nel suo studiolo. Le pareti erano tappezzate da manifesti cinematografici di classici in bianco e nero degli anni Trenta e Quaranta. La scrivania di legno scuro era sepolta dai libri. Kinderman sussultò. Era scalzo, e aveva messo il piede su un'edizione dai margini assai puntuti di Il fenomeno uomo di Teilhard de Chardin. Si chinò, lo raccolse e lo posò sulla scrivania. Accese la lampada. La luce sorprese dei foglietti accartocciati di carta stagnola per dolciumi che si acquattavano nel caotico paesaggio della scrivania come luccicanti criminali. Kinderman fece posto all'incartamento, si grattò il naso, si sedette e cercò di mettere a fuoco la vista. Frugò in mezzo ai libri e pescò gli occhiali da lettura. Li pulì con la manica della vestaglia e li inforcò. Ancora non andava. Chiuse un occhio, poi l'altro; quindi, si tolse gli occhiali e ripeté l'operazione. Decise che vedeva meglio senza la lente sinistra. Avvolse gli occhiali in una manica della vestaglia e con un colpo secco sbatté la lente sinistra contro un angolo della scrivania. La lente si ruppe in due. Il Rasoio di Occam, pensò. Rinforcò gli occhiali e riprovò. Niente da fare. Il problema era la stanchezza. Si tolse gli occhiali, uscì dallo studiolo e andò di filato a letto. Sognò. Sedeva assieme ai ricoverati del reparto aperto in una sala dove si proiettava un film. Pensò che stessero dando Orizzonte Perduto, anche se ciò che vedeva sullo schermo erano sequenze di Casablanca. Non gli sembrava affatto strano. Il pianista del Rick's Café era Amfortas. Stava cantando As Time Goes By quando entrò il personaggio interpretato dalla Bergman. Nel sogno era Martina Lazlo, mentre la parte del marito la recitava il dottor Temple. La Lazlo e Temple si avvicinarono al piano e Amfortas disse: — Lo lasci, signorina Ilse. — E Temple: — Uccidilo. — Allora la Lazlo tirò fuori dalla borsetta un bisturi e lo piantò nel cuore di Amfortas. Improvvisamente Kinderman si vide nel film. Sedeva a un tavolino con Humphrey Bogart. — I lasciapassare sono falsi — disse Bogart. — Sì, lo so — disse Kinderman. Poi gli chiese se Max, suo fratello, fosse coin-
volto nella faccenda, e Bogart si strinse nelle spalle e disse: — Questo è il Rick's. — Sì, ci passano tutti — disse Kinderman annuendo. — Questo film l'ho visto venti volte — aggiunse. — Non ci sono controindicazioni — rispose Bogart. Poi Kinderman provò una sensazione di panico perché aveva dimenticato il seguito delle sue battute e cominciò a parlare del problema del male e fornì a Bogart un riassunto della sua teoria. Nel sogno c'impiegava una frazione di secondo. — Sì, Ugarte — disse Bogart. — Dovrò avere più rispetto per lei, d'ora innanzi. — Poi attaccò a parlare di Cristo. — L'ha lasciato fuori dalla sua teoria — disse. — Le spie tedesche lo scopriranno. — No, no, c'è anche lui — si affrettò a dire Kinderman. D'un tratto Bogart divenne padre Dyer e al tavolino c'erano seduti Amfortas e la Lazlo, che ora appariva giovane e molto bella. Dyer stava ascoltando la confessione del neurologo, e quando gli impartì la benedizione la Lazlo porse ad Amfortas una rosa bianca. — E dissi che non ti avrei mai lasciato — gli disse. — Andate e non vivete più — disse padre Dyer. Istantaneamente, Kinderman fu nuovamente nella sala e capì che stava sognando. Lo schermo si era fatto più grande, copriva tutto il suo spazio visivo, e in luogo di Casablanca vide due luci che si stagliavano contro uno sfondo verde pallido di vuoto senza fine. La luce di sinistra era grande e corrusca, risplendente di una radiosità bluastra. Lontano alla sua destra c'era una piccola sfera bianca che ardeva con una brillantezza e una forza pari a quella di un astro ma meno accecante: era chiara e serena. Kinderman provò una sensazione di trascendenza. Nella mente udì la luce di sinistra che parlava: — Non posso fare a meno di amarti — diceva. L'altra luce non rispondeva. Seguì un silenzio. — Questo è quel che sono — continuò la prima luce — puro amore. Voglio donare liberamente il mio amore — disse. Ancora nessuna risposta dalla sfera luminosa. La prima luce parlò nuovamente: — Voglio crearmi — disse. La sfera allora parlò e disse: — Sarà doloroso. — Lo so. — Tu non ti rendi conto di cosa sia. — L'ho scelto — disse la luce bluastra. Poi attese tremolando dolcemente. Passarono diversi secondi prima che la luce bianca parlasse ancora. — Ti invierò qualcuno — disse. — No, non devi. Non devi interferire.
— Sarà parte di te — disse ancora la sfera. La luce bluastra si concentrò su se stessa, il suo chiarore si smorzò, rimpicciolì. Poi si espanse nuovamente. — Allora, sia. Seguì un silenzio più lungo e ancor più totale. Grave. Infine la luce bianca parlò. — Che il tempo cominci — disse pacatamente. La luce bluastra si ravvivò, danzò, per poi lentamente tornare a stabilizzarsi nel suo stato originario. Per un po' ci fu silenzio. Quindi la luce bluastra disse con dolce tristezza: — Arrivederci. Tornerò da te. — Che sia presto. La luce bluastra cominciò a corruscarsi sfrenatamente, crebbe, facendosi più luminosa e bella di prima. Poi lentamente divenne compatta, piena, raggiungendo quasi la misura della sfera. In quello stato parve perdurare per un momento. — Ti amo — disse. L'istante successivo esplose in getti brillanti che si frantumarono con potenza inimmaginabile in miliardi di schegge luminose dotate di una forza e di un fragore incredibili. Kinderman si svegliò di soprassalto. Si mise a sedere sul letto e si toccò la fronte madida di sudore. Nelle retine aveva ancora stampata la luce dell'esplosione. Per un po' rimase così, immobile. Realtà? pensò. Il sogno era stato così vivido... neanche quello col fratello Max aveva avuto una simile profondità... Non pensò alla parte del sogno nel cinema. Le scene seguenti l'avevano offuscata completamente. Scese dal letto e andò in cucina, dove accese la luce e sbirciò la pendola alla parete. Le quattro e dieci? Folle, pensò. Frank Sinatra va a letto ora. Tuttavia si sentiva ben sveglio e molto riposato. Accese il fornello sotto la teiera e attese sorvegliandola. Doveva toglierla prima che fischiasse, altrimenti Shirley sarebbe scesa. Mentre aspettava ripensò al sogno delle luci. Lo aveva profondamente impressionato. Cos'era quest'emozione che provava? si chiese. Un senso di intensa, straziante, insopportabile perdita. La stessa che aveva provato alla fine di Un breve incontro. Riandò con la mente al libro su Satana che aveva letto, quello scritto da una équipe di teologi cattolici. La bellezza e la perfezione di Satana vi erano descritte come di qualità sconvolgente. "Il Portatore di Luce", "Lia Stella del Mattino". Dio doveva averlo amato moltissimo. Quindi, come aveva potuto dannarlo per l'eternità? Toccò la teiera. Appena calda. Ancora qualche minuto. Pensò ancora a Lucifero, a quell'essere dall'indicibile radiosità. I cattolici affermavano che la sua natura era immutabile. È così? Poteva essere stato veramente lui a portare la malattia e la morte nel mondo? Lui l'artefice di mali e crudeltà
da incubo? Era senza senso. Perfino il vecchio Rockefeller qua e là qualche centesimo l'aveva donato. Pensò ai Vangeli, a tutti quei personaggi posseduti. Da che? Non dagli angeli caduti, pensò. Soltanto i goyim mescolavano demoni e dibbuq. È uno scherzo. Questi ultimi sono morti che cercano di tornare? Cassius Clay può farlo all'infinito ma non un povero sarto defunto? Satana non se ne va in giro a invasare i vivi; neanche i Vangeli lo dicono, rifletté Kinderman. Oh, sì, Gesù una volta ci aveva anche scherzato sopra, concesse. Un giorno gli apostoli si erano recati da lui in gran fretta e assai contenti di sé per essere riusciti a scacciare dei demoni. Gesù aveva annuito e impassibile aveva detto loro: "Sì, ho visto Satana cadere dal cielo come un fulmine". Amara ironia e lieve canzonatura. Ma perché il fulmine? si chiese Kinderman. Perché Cristo chiama Satana il "Principe di questo mondo"? Cinque minuti più tardi, sì versò una tazza di tè e se la portò nello studiolo. Chiuse piano piano la porta, raggiunse la scrivania, accese la luce della lampada e si sedette. Cominciò a leggere l'incartamento. Gli omicidi di Gemini si erano tutti verificati a San Francisco e avevano coperto un arco di sette anni, dal 1964 al 1971, allorché Gemini fu ucciso da una pioggia di proiettili mentre si arrampicava su un traliccio del Golden Gate, dove finalmente la polizia l'aveva intrappolato dopo una innumerevole serie di tentativi falliti. Durante la sua vita si era dichiarato responsabile di ventisei orribili omicidi, ciascuno siglato da mutilazioni sul corpo delle vittime, sia maschi sia femmine, di età diverse, talune bambini. La città aveva vissuto nel terrore, anche dopo che l'identità di Gemini era stata scoperta. L'aveva rivelata lui stesso in una lettera al San Francisco Chronicle immediatamente dopo il primo omicidio. Si chiamava James Michael Vennamun, figlio trentenne di un celebre evangelista le cui riunioni venivano mandate in onda dalla televisione nazionale ogni domenica sera alle ventidue. Ciononostante, Gemini continuava a essere imprendibile, anche dopo la diretta collaborazione del padre, che cessò l'attività pubblica nel 1967. Quando alla fine venne ucciso, il suo corpo cadde nel fiume e, benché giorni di ricerche nel letto del fiume non ne avessero portato alla superficie il cadavere, pochissimi dubbi sussistevano sulla sua morte. Era stato raggiunto da centinaia di pallottole; e comunque, gli omicidi erano cessati. Kinderman voltò pagina con calma. Questa parte concerneva le mutilazioni. D'un tratto si bloccò su un paragrafo. Sentì rizzarglisi i capelli in testa. Com'era possibile, pensò. Dio mio, non poteva essere! Ma così era.
Alzò lo sguardo, respirò e per qualche istante sprofondò nelle sue riflessioni. Poi riprese a leggere. Giunse al profilo psichiatrico, ampiamente basato sulle missive di Gemini e su un diario che aveva tenuto in gioventù. Aveva un fratello gemello, Thomas, mentalmente ritardato, che viveva nello spasmodico terrore del buio, persino quando si trovava in compagnia. Dormiva sempre con la luce accesa. Il padre, divorziato, si era curato assai poco dei figli ed era stato James ad allevare e seguire Thomas. Kinderman ben presto fu completamente assorbito dalla lettura. Thomas con lo sguardo assente e remissivo sedeva al tavolo di cucina mentre James gli preparava delle altre frittelle. Karl Vennamun, con indosso soltanto i pantaloni del pigiama, entrò con passo malfermo in cucina. Era ubriaco. Impugnava un bicchierino e una bottiglia di whisky quasi vuota. Il suo sguardo annebbiato si posò su James. — Che stai facendo? — gli chiese con asprezza. — Preparo le frittelle per Tommy — disse James e stava per oltrepassare il padre con un piatto colmo, quando costui lo colpì selvaggiamente sul volto col dorso della mano facendolo rovinare a terra. — Non ti ci provare, piccolo bastardo moccioso — ringhiò Vennamun. — Ho detto che oggi non deve mangiare! Se l'è fatta addosso! — Ma è colpa sua? — protestò James. Il padre gli assestò una pedata nello stomaco e si avvicinò a Thomas, che tremava come una foglia. — E tu! Ti avevo detto di non mangiare! Non mi hai sentito? — e con una manata gettò a terra i piatti che si trovavano sulla tavola. — Tu, scimmia, t'insegnerò io a essere obbediente e pulito, accidenti a te! — Il predicatore aveva afferrato il ragazzo, l'aveva tirato su e trascinato verso la porta che conduceva all'esterno, colpendolo ripetutamente. — Sei come tua madre! Sudicio! Un sudicio, bastardo cattolico! Vennamun trascinò il ragazzo fuori e fino alla porta della cantina. Era una bella giornata di sole sulle boscose colline della Reyes Peninsula. Spalancò la porta della cantina. — Te ne starai giù in cantina coi topi, maledetto! Thomas, coi grandi occhi sbarrati dal terrore, ricominciò a tremare. Gridò: — No! No! Non mi mettere al buio! Ti prego, babbo, no! Ti prego... Vennamun lo schiaffeggiò e lo scaraventò giù per le scale. Thomas gridò: — Jim! Jim! Il padre richiuse la porta della cantina e mise il catenaccio. — Oh sì, ti
divertirai coi topi! — bofonchiò Vennamun. Cominciarono le urla di terrore. Vennamun rientrò in casa, legò il figlio James a una sedia e si mise a guardare la TV mentre continuava a bere. Alla fine cadde addormentato. Ma James continuò a udire le urla del fratello per tutta la notte. All'alba calò il silenzio. Vennamun si svegliò, slegò James, uscì e aprì la porta della cantina. — Puoi uscire adesso — tuonò nell'oscurità. Non ebbe risposta. Vennamun guardò James che accorreva e si precipitava giù per le scale. Poi udì piangere. Non Thomas. James. Aveva capito che la mente del fratello era irrimediabilmente sconvolta. Thomas fu affidato permanentemente al San Francisco State Mental Hospital. James lo andava a trovare tutte le volte che poteva. All'età di sedici anni scappò di casa e andò a lavorare come fattorino in una ditta di San Francisco. Ogni sera si recava a visitare Thomas, gli prendeva la mano e gli leggeva delle fiabe, trattenendosi finché il fratello non si era addormentato. Così fino a una sera del 1964. Era sabato e James era rimasto con Thomas tutto il giorno. Erano le ventuno e Thomas era a letto. James sedeva a fianco del letto, molto vicino al fratello, mentre un medico controllava il battito cardiaco di Thomas. Il medico si tolse lo stetoscopio e sorrise a James. — Tuo fratello suona proprio bene — disse. Sulla porta si affacciò un'infermiera e disse rivolta a James: — Mi spiace, ma l'orario delle visite è finito. Il dottore fece cenno a James di restare dov'era e andò alla porta. — Lasci che le parli un minuto, signorina Keach. No, nel corridoio. — Uscirono. — È il suo primo giorno qui, signorina Keach? — Sì. — Bene, mi auguro che si troverà bene. — Ne sono sicura. — Il giovanotto di là con Tom è il fratello. Di certo se ne sarà accorta. — Sì, l'ho notato. — Da anni viene qui tutte le sere. Gli abbiamo permesso di rimanere finché il fratello non si addormenta. Talvolta resta anche tutta la notte. Va tutto bene. È un caso particolare — le spiegò il dottore. — Oh, capisco. — E si ricordi della lampada nella camera; il ragazzo è terrorizzato dal buio, patologicamente; non la spenga mai, ho paura che il suo cuore non reggerebbe, è molto fragile.
— Me lo ricorderò — disse l'infermiera sorridendo. Il dottore ricambiò il sorriso e la congedò: — O.K., allora ci vediamo domattina. Buonanotte. — Buonanotte, dottore. — Non appena l'infermiera lo vide allontanarsi verso l'ingresso il suo sorriso si trasformò in uno sguardo torvo. Scosse il capo e borbottò: — Stupido. Nella camera intanto James stringeva la mano del fratello. Teneva il libro delle fiabe dinanzi a sé anche se lo sapeva a memoria, erano tutte parole dette e ridette migliaia di volte. — Buonanotte casetta e buonanotte topolino; buonanotte pettine e buonanotte spazzola; buonanotte nessuno; buonanotte pappa. E buonanotte alla cara vecchietta che sussurra: "Zittizitti. Buonanotte stelle. Buonanotte aria. Buonanotte rumorini in ognidove". — James, stanco, chiuse un attimo gli occhi; poi, gettò uno sguardo al fratello per vedere se dormiva. Ancora no, fissava il soffitto. James vide una lacrima tremargli all'angolo di un occhio e poi rigargli il volto. — Ti, ti, ti vo-vo-voglio bene, J-J-J-James — balbettò Thomas. — Ti voglio bene anch'io, Tom — rispose dolcemente il fratello. Thomas chiuse gli occhi e in pochi minuti si addormentò. Dopo che James ebbe lasciato l'ospedale, l'infermiera Keach si trovò a passare dinanzi alla porta della camera. Si fermò, tornò indietro, si affacciò e vide che Thomas era solo e dormiva. Entrò, spense la lampada e uscì richiudendosi la porta alle spalle. — Un caso particolare... — borbottò e tornò nel suo ufficio. Nel cuore della notte un urlo di terrore risonò nell'ospedale. Thomas si era svegliato. Le urla si protrassero per diversi minuti, quindi, improvviso, calò il silenzio. Thomas Vennamun era morto. E Gemini, l'assassino dei Gemelli, era nato. Kinderman alzò lo sguardo alla finestra. Albeggiava. Si sentì stranamente commosso da quanto aveva letto. Si poteva aver pietà per un simile mostro? Ripensò alle mutilazioni. L'emblema di Vennamun era stato il dito di Dio che tocca Adamo; pertanto, alle sue vittime mozzava l'indice. E ciascuna di esse aveva il nome o il cognome che iniziava per K., come Karl Vennamun. Finì di leggere il resoconto psichiatrico. "I reiterati omicidi di persone con l'iniziale K indica la ripetuta uccisione del padre 'per procura'. La rinuncia del padre a proseguire la sua attività pubblica suggerisce inoltre il motivo secondario di Gemini, cioè la distruzione della carriera e della re-
putazione paterna a ragione della sua connessione con gli omicidi del figlio." Kinderman fissò l'ultima pagina dell'incartamento. Si tolse gli occhiali e la guardò ancora. Sbatté le palpebre. Non sapeva che fare. Si precipitò sul telefono al primo squillo. — Sì, parla Kinderman — sussurrò. Diede un'occhiata all'orologio. Udì la voce di Atkins. Quindi, non udì più nulla. Soltanto un ronzio. Nel profondo della sua anima provò un sentimento di inebetudine, di vuoto, di nausea. Padre Dyer era stato ucciso. Parte seconda "I più grandi eventi nella storia della Terra che hanno luogo oggi, possono davvero essere, per coloro che hanno occhi per vedere, la graduale scoperta non semplicemente di Qualcosa, bensì di Qualcuno, in quel vertice creato dalla convergenza dell'universo che evolve su se stesso (...) "Esiste un solo Male: la mancanza di Unità." Pierre Teilhard de Chardin 9 Mercoledì 16 marzo Caro padre Dyer, potrebbe chiedersi subito: Perché io? Perché un estraneo pone quest'onere nelle mie mani piuttosto che in quelle dei suoi colleghi scienziati, mani certamente più adatte a questo compito? Ebbene, non sono le più adatte. La scienza è incline a questo genere di cose come può esserlo un bambino che deve prendere una medicina. Immagino, inoltre, che lei stesso vi nutra un atteggiamento scettico e probabilmente penserà: Ecco un altro svitato che asserisce di possedere una statuetta di Gesù che piange lacrime autentiche. Soltanto perché sono un sacerdote crede che mi debba bere tutte le storie sulle vacche miracolose e in questo caso, per giunta, di una color porpora. Be', padre, io non lo credo affatto, davvero. Mi rivolgo a lei perché di lei posso fidarmi. Non della veste che indossa, padre, ma di lei. Se lei avesse meditato di tradirmi, l'avrebbe già fatto. Ma non l'ha fatto. Ha mantenuto la sua parola. Questo significa veramente qualcosa. Quando abbiamo parlato
non è stato sotto il vincolo della confessione. Qualsiasi altro sacerdote (qualsiasi altra persona) probabilmente avrebbe spifferato tutto. Ma prima di confidarmi a lei, l'ho valutata. Sono molto dispiaciuto che la ricompensa che le spetta costituisca tuttavia un ulteriore vincolo. Ma so che l'adempirà. Questo è quanto e lo farà. Non è contento di avermi incontrato, padre? Non so assolutamente in che modo spiegarglielo. È maledettamente difficile. Desidero così tanto che lei dia credito a quanto sto per dirle, che mi creda. Quanto sto per rivelarle l'atterrirà. Quindi, per favore, mi permetta di affrontarla così; sarà la cosa migliore. Sospenda per un po' la sua curiosità e non prosegua nella lettura fintanto che non avrà seguito le indicazioni che sto per darle. Per prima cosa, si procuri un registratore a doppia bobina, del tipo di quelli che consentono una ripetizione rapida. Meglio ancora, prenda il mio. Alla presente accludo, attaccandola con del nastro adesivo, la chiave di casa mia. Ora guardi nella scatola di cartone che le ho inviato. Dentro troverà alcune bobine di registrazioni effettuate da me. Prenda quella contrassegnata dalla dicitura "9 gennaio 1982". La sistemi nel registratore. L'indicatore della misura del nastro dovrà segnare zero quando l'estremità della linguetta iniziale del nastro tocca l'arganetto della bobina sinistra. Ciò fatto, vada avanti fino a 383, quindi metta gli auricolari, metta il volume al massimo (non l'energia, soltanto il microfono e l'ascolto) e la velocità al minimo. Ora prema il tasto di avvio e ascolti. Udrà a un livello assai fastidioso l'amplificazione dei sibili e dei fruscii elettrostatici. Per favore, resista. Poco dopo sentirà qualcuno parlare. L'indicatore arriverà fino a 388. Continui ad ascoltare e riascoltare il brano finché non sarà sicuro di aver capito cosa la voce sta dicendo. È piuttosto alta, ma le interferenze elettrostatiche tendono a offuscarla sino all'inintelligibilità. Quando avrà compreso ciò che dice, metta la velocità al massimo (il doppio) e ripeta il procedimento. Voglio che lo ripeta. Dimentichi ciò che ha udito precedentemente e ascolti di nuovo. Per favore segua queste istruzioni enon prosegua nella lettura della presente finché non ha fatto quanto le chiedo. Benché mi fidi di lei, continuo su un foglio a parte. Tutti abbiamo bisogno dell'aiuto della Grazia prima o poi. Ora ha ascoltato. Quanto ha udito alla velocità minima, ne sono certo, è una voce maschile che ben distintamente dice "Merletto". E alla massima velocità la stessa registrazione si trasforma nelle parole, parimenti distinguibili, "Speralo". Ora lei deve fare appello alla sua fede nonché al senso
comune per credere che io non ho nulla da guadagnare nell'ingannarla. E adesso le racconto come ho fatto quella registrazione. Ho messo un nastro pulito, mai usato, nel registratore, l'ho collegato con un diodo (elimina tutti i rumori dalla stanza in cui avviene la registrazione o dall'ambiente circostante ma agisce come una specie di microfono), ho messo la velocità al minimo, ho detto ad alta voce: — Dio esiste? — con microfono e ascolto al massimo e quindi ho premuto i tasti per la registrazione. Per i successivi tre minuti non ho fatto nient'altro che respirare e attendere. Quindi, ho interrotto la registrazione. Quando ho riascoltato il nastro ho udito quella voce. Spedii il nastro a un amico della Columbia University, che l'analizzò per me con uno spettrografo. Mi ha poi inviato una lettera e alcune copie della lettura spettrografica. Le troverà nella scatola. La lettera diceva che l'analisi spettrografica portava a concludere che la voce non poteva essere assolutamente umana; e che per ottenere quell'effetto si sarebbe dovuto disporre di una laringe artificiale programmata per pronunciare quelle parole. Il mio amico afferma che lo spettrografo non poteva sbagliarsi. Inoltre, non riusciva a capire in che modo una parola come "merletto" si potesse trasformare in "speralo" raddoppiandone la velocità. Osservi anche (e questo commento è mio, non suo) che la risposta alla mia domanda è priva di logica, se non totalmente priva di senso, a meno che non la si ascolti a una velocità doppia rispetto alla registrazione originale. Ciò esclude qualsiasi bizzarria dovuta a una interferenza radiofonica (che, comunque, padre, non possono verificarsi con un registratore), che si potrebbe invocare, assieme alla pura coincidenza, come spiegazione del fenomeno. Senza dubbio ci vorrà veder chiaro, e io la invito calorosamente a farlo. Il mio amico della Columbia University è il professor Cyril Harris. Lo chiami. Meglio ancora, si faccia fare una seconda analisi spettrografica, magari da qualcun altro. Sono certo che scoprirà che il risultato è il medesimo. Cominciai a fare queste registrazioni alcuni mesi dopo la morte di Ann. Nel reparto psichiatrico dell'ospedale c'è un paziente di nome Anton Lang. Per favore, di questa cosa non gliene parli; è affetto da disturbi veramente seri che lo inducono a ridurre la credibilità fenomenica, oltre che la mia, più di quanto possa immaginare. Io sono venuto in contatto con Lang a ragione della sua emicrania cronica. Naturalmente, ho letto la sua anamnesi e ho scoperto che per anni ha fatto delle registrazioni di quanto egli semplicemente definisce "le voci". Gli chiesi di parlarmene e Lang mi rivelò cose assai interessanti e mi suggerì di leggere un libro sull'argomento, il cui ti-
tolo era Passaggi. È opera di un lettone, Kostantin Raudieve, ed è disponibile in lingua inglese presso un editore britannico. L'ordinai e lo lessi. Mi segue fino adesso? Il libro perlopiù consisteva delle trascrizioni delle voci registrate da Raudieve. Ciò che le voci dicevano temo che non fosse particolarmente stimolante, poiché non si trattava che di sciocchezze e di insensatezze. Se quelle erano realmente le voci dei trapassati, come quel professore lettone era convinto che fossero, tutto ciò che avevano da comunicargli consisteva in frasette come "Kosti oggi è stanco", "Kosti lavora", "Qui ci sono dei doganieri sul confine", "Dormiamo". Mi tornò in mente l'antico Libro tibetano dei morti. Lo conosce, padre? È un testo assai curioso, una sorta di manuale con una sequela di istruzioni ad uso dei morenti perché siano pronti ad affrontare l'altro mondo. La prima esperienza, secondo la loro convinzione, consiste in un confronto immediato e determinante col trascendente, che essi definiscono la "Chiara Luce". Lo spirito di colui che è appena morto può optare di unirsi a essa; ma pochi lo fanno perché per la maggior parte sono impreparati, la vita mortale non li ha adeguatamente preparati all'altra vita. Quindi, dopo questo confronto iniziale, il morto subisce degli stadi di deterioramento via via che degenera verso la definitiva rinascita nel mondo. Tale condizione, ecco cosa mi colpì, poteva essere la causa delle banalità e delle insensatezze ricordate non soltanto nel libro di Raudieve ma anche nella maggioranza della letteratura spiritistica. Tutta roba piuttosto sconfortante se non addirittura seccante. E insomma, della lettura di Passaggi non rimasi, a dir poco, esattamente entusiasta. Quel libro però conteneva anche una prefazione, a firma di Colin Smythe, che trovai del tutto misurata e attendibile, oltre che diverse asserzioni di fisici, ingegneri e persino di un arcivescovo cattolico tedesco, che avevano compiuto per proprio conto simili registrazioni e che non davano tanto l'impressione di essere ansiosi di far proseliti tra i lettori quanto di congetturare sulle cause delle voci, prendendo in esame, tra le altre cose, la possibilità che in qualche maniera le voci apparissero sul nastro a opera dell'inconscio dello sperimentatore. Decisi di provare. Per dirla chiara, ero sconvolto dalla perdita di Ann. Possiedo un registratore portatile della Sony, che è sufficientemente piccolo da poter essere alloggiato nella tasca di un cappotto e ha il vantaggio di possedere un ritorno al riascolto assai rapido, qualcosa di cui presto avrei scoperto l'importanza. Una sera, era estate e c'era ancora molta luce, mi accomodai in salotto col Sony e invitai qualsiasi voce in grado di udirmi a
entrare in comunicazione con me e a manifestarsi sul nastro. Quindi premetti il tasto "registra" e lasciai scorrere per intero la cassetta nuova. Premetti poi il tasto di riascolto. Non udii nulla a eccezione di qualche rumore captato dalla strada e di qualche suono amplificato prodotto da fenomeni elettrostatici. A quel punto lasciai perdere. Un paio di giorni dopo decisi di ascoltare di nuovo il nastro. A un certo punto, verso la metà della registrazione, udii qualcosa di anomalo, un piccolo click seguito da un suono fievole e strano, appena percepibile e che pareva connesso al brusìo elettrostatico, se non a qualche livello al di sotto di esso. Ma mi colpì perché, insomma, m'incuriosiva. Tornai quindi ad ascoltare e riascoltare più e più volte quel punto del nastro. A ogni ripetizione, il suono si faceva maggiormente forte e distinto, finché infine udii (o pensai di udire) una voce maschile che a voce alta e chiara pronunciava il mio nome: "Amfortas". Soltanto. Il tono era alto, distinto, ma di una voce che non riconoscevo. Credo che il mio cuore cominciò a battere un po' più in fretta. Ascoltai anche il resto del nastro ma senza alcun esito; quindi tornai al punto in cui avevo udito la voce. Stavolta non percepii niente. Le mie speranze svanirono come quelle del poveretto che perde il portafoglio in un precipizio. Mi misi a riascoltare quel punto decine di volte e alla fine riudii quel suono fievole e strano. Dopo altre tre ripetizioni potei udire di nuovo la voce con tutta chiarezza. Uno scherzetto della mia fantasia? Stavo fornendo intelligibilità a fenomeni uditivi fortuiti? Continuai ad ascoltare il nastro e stavolta dove prima non avevo udito nulla captai un'altra voce. Di donna. No, non Ann. Di donna. Diceva una frase piuttosto lunga, di cui non riuscii a comprendere l'inizio, nonostante le numerose ripetizioni. Il tutto, comunque, aveva un'acutezza e un ritmo assai insoliti, tanto più che l'accentazione delle parole era tutta sbagliata. Trasmettevano però un forte effetto di continuo cadenzato, abbassandosi e quindi impennandosi incessantemente. La parte che riuscii a comprendere diceva: "...continua ad ascoltarci", anche se a causa di quel ritmo cadenzato suonava piuttosto come una domanda. Ero semplicemente stupefatto. Non v'erano dubbi sul fatto che l'avessi udita. Ma perché non l'avevo udita anche prima? Conclusi che probabilmente il mio cervello si era adattato alla vaghezza e alla stranezza della voce e aveva imparato come trapassare il velo dei brusii elettrostatici per afferrare la voce che vi era dietro. Ma sorsero nuovi dubbi. Che il registratore avesse semplicemente intercettato delle voci provenienti dalla strada o dalla casa accanto? Talvolta mi
era capitato di udire i miei vicini che parlavano; e uno di loro poteva qualche volta aver pronunciato il mio nome. Allora mi recai in cucina, che è un po' più lontana dalla strada, e lì feci un'ulteriore prova con un'altra cassetta nuova. Chiesi ad alta voce se vi fosse nessuno che volesse comunicare con me e ripetei la parola "Kirios", il cognome da ragazza di mia madre. Ma nel riascolto non udii nulla, soltanto i soliti saltuari rumoretti. Uno di essi somigliava all'improvviso arrestarsi dei pneumatici di un'auto. Senza dubbio veniva dalla strada, pensai. Ero stanco. Quello starmene in ascolto richiedeva una intensa concentrazione. Quella notte non feci altre registrazioni. Il mattino seguente, mentre attendevo che bollisse l'acqua per il caffè, riascoltai entrambi i nastri. Sul primo udii distintamente "continua ad ascoltare" e "Amfortas"; sul secondo mi concentrai sul rumore della frenata, riascoltandolo più e più volte, finché d'un tratto il mio cervello compì uno strano adattamento, perché in luogo del rumore udii le parole "Anna Kirios", pronunciate con tono assai acuto e molto velocemente da una voce femminile. L'acqua bollì e bollì. Ero stordito. Quel giorno, quando mi recai all'ospedale, portai con me i nastri e il registratore; all'ora di pranzo feci ascoltare a una delle infermiere, Emily Allerton, i due brani con le voci. Mi disse di non aver udito nulla. Più tardi provai con Amy Keating, una delle caposala di neurologia. Le feci ascoltare il brano della registrazione numero uno pregandola di tenere l'altoparlante contro l'orecchio. Dopo che l'ebbe ascoltato soltanto una volta mi restituì il registratore e annuì. — Sì, ho udito il suo nome — mi disse e poi tornò alle sue occupazioni. Decisi di fermarmi lì, almeno con le infermiere. Nelle settimane successive, quell'esperienza divenne una vera e propria ossessione. Acquistai un registratore a doppia bobina, un preamplificatore, altri auricolari e cominciai a passare gran parte delle notti registrando. E con cospicui risultati. I nastri adesso sembravano virtualmente affollati di voci, che si susseguivano quasi incessantemente e persino si sovrapponevano. Talune erano così deboli da non potersi decifrare, ma altre possedevano diversi gradi di chiarezza. Alcune parlavano a velocità normale mentre altre divenivano intelligibili soltanto quando le rallentavo a metà della velocità (e alcune non si captavano neppure altrimenti). Continuai a chiedere di Ann, senza però mai udirla. Saltuariamente udivo una voce femminile che diceva "Sono qui" o "Sono Ann" ma non era lei, non era la sua voce. Una notte d'ottobre, mentre riascoltavo una registrazione della settimana
precedente che conteneva un frammento interessante, una voce che diceva "Controllo della Terra", improvvisamente udii, dopo diverse ripetizioni e dopo essere andato di poco innanzi, una voce che mi diceva: "Vincent, è Ann". Trattenni il respiro e un intenso formicolìo mi percorse la schiena. Non era soltanto la mia mente che mi avvertiva che quella voce era la sua, tutto me lo diceva: il mio corpo, il mio sangue, i miei ricordi, il mio essere, il mio inconscio. L'ascoltai e riascoltai e ogni volta riprovai quel formicolìo che mi percorreva come una scossa. Cercai anche di reprimerlo, ma inutilmente. Era Ann. Il mattino dopo, speranze e dubbi mi assalirono nella stessa misura. La voce non era che una proiezione dei miei desideri? L'intelligibilità si sovrapponeva a rumori casuali originari del nastro? Decisi di sistemare quella questione definitivamente. Mi rivolsi a Eddie Flanders, docente all'istituto di lingue della Georgetown University oltre che mio amico e, un tempo, mio paziente. Dio solo sa cosa gli raccontai, ma lo convinsi ad ascoltare la voce di Ann. Quando si tolse gli auricolari gli chiesi cosa avesse udito. — Qualcuno che parla... ma è molto debole — mi rispose. E io: — Cosa dicono? Ti riesce di capirlo? — Sembra quasi il mio nome — disse lui. Gli tolsi gli auricolari e mi assicurai che avesse ascoltato la parte giusta del nastro. Quindi gli chiesi di ascoltare ancora. Con lo stesso risultato. Ero del tutto sconcertato. — Ma è una voce — gli chiesi — non un rumore? — Sì, è chiaramente una voce — disse. — Ma non è la tua? — aggiunse. — Hai sentito la voce di un uomo? — chiesi. E lui: — Sì. Sembrava la tua. — Per quel giorno le mie ricerche, bene o male, si arrestarono lì. Ma la settimana seguente mi rifeci vivo. L'istituto ha un suo studio di registrazione per la realizzazione di nastri educativi dotato di potenti amplificatori, di registratori ampex professionali e di una postazione microfonica insonorizzata. Persuasi Eddie ad aiutarmi a fare una registrazione. Andai nella cabina microfonica e badando che Eddie non mi guardasse rivolsi il mio solito invito alle voci affinché si manifestassero sul nastro. Posi anche due domande dirette che richiedevano come possibile risposta soltanto le parole "affermativo" oppure "negativo", che sarebbero state di più facile individuazione durante il riascolto invece di un "sì" o un "no". Poi uscii dalla cabina, chiusi la porta e segnalai a Eddie di far partire il nastro e iniziare la registrazione. — Ma cosa registriamo? —
mi chiese. — Molecole dell'aria. Ha a che fare con degli studi sul cervello che sto realizzando. — Eddie parve soddisfatto della risposta e registrammo alla velocità di sette pollici e mezzo al secondo. Dopo circa tre minuti ci fermammo, tornammo indietro e ascoltammo con velocità al massimo. Sul nastro c'era qualcosa. Non una voce, bensì una specie di gorgoglìo, direi almeno dieci volte più forte di tutte le voci che pensavo di aver udito nelle mie registrazioni casalinghe, e della durata di circa sette secondi. Null'altro. — È uno dei soliti rumori che captate quando registrate? — chiesi al mio amico. Pensavo che si trattasse dell'amplificazione di un suono prodotto da uno dei componenti l'attrezzatura. Ed mi disse di no, che non poteva essere. Mi sembrò sinceramente perplesso e mi disse che quel suono non avrebbe dovuto esserci. Chiesi se poteva trattarsi di un difetto del nastro e lui mi rispose che forse poteva darsi. Il suono, dopo averlo riascoltato più volte, parve assumere le caratteristiche d'una voce. Ma non riuscimmo a ricavarci nulla. Allora decidemmo di smettere. Proseguii i miei esperimenti a casa e continuai a udire le voci sia che rispondevano alle mie domande sia che si servivano del mezzo che mettevo a loro disposizione per comunicare. Ma non udii più una voce simile a quella di Ann. Da tutto ciò dedussi le seguenti impressioni: a quanto pareva, mi ero messo in contatto con persone che si trovavano in un qualche luogo o in una qualche condizione di transizione. Non erano chiaroveggenti; ad esempio, non conoscevano il futuro anche se la loro conoscenza superava di gran lunga la mia. Erano in grado di dirmi il nome dell'infermiera di turno in un dato reparto in qualsiasi momento, gente con la quale non avevo né contatti né familiarità. Spesso quelle voci avevano opinioni divergenti tra loro. Talvolta, quando ponevo delle domande concrete, come quella della data di nascita di mia madre, mi fornivano più di una risposta, nessuna esatta, dandomi l'impressione complessiva di non voler deludere l'interesse che nutrivo nei loro confronti. Alcune delle loro affermazioni non erano che una sequela di bugie sobillatrici o congegnate per turbarmi: così almeno arrivai a pensare. Giunsi comunque a riconoscere le voci che me le fornivano e a ignorarle, nello stesso modo in cui mi comportavo con quelle che occasionalmente dicevano oscenità. Altre voci mi chiedevano aiuto, ma quando domandavo loro e più volte cosa potessi fare per aiutarle, la risposta era solitamente del tipo: — Felici. Stiamo bene. — Talune mi chiedevano di pregare per esse, mentre talaltre asserivano di pregare per me. Non potei fare a meno di pensare alla Comunione dei Santi. Riscontrai anche un certo senso dell'umorismo. Durante la fase iniziale
dei miei esperimenti, una notte che stavo registrando con indosso un vecchio accappatoio (a strisce multicolori e con un grosso strappo sulla spalla destra) udii una voce che diceva "coperta da cavalli". Nelle numerose occasioni in cui avevo chiesto: — Chi ha creato l'universo materiale? — una volta una voce mi rispose con chiarezza: — Io. — Una sera avevo invitato un neolaureato, che compiva il praticantato presso il nostro ospedale, a seguire insieme a me uno dei miei esperimenti. Si trattava di un giovane che mi aveva manifestato il suo interesse nei riguardi dei fenomeni psichici, e io mi sentivo disposto a parlarne con lui. Per tutta la sera continuò a dirmi che non riusciva a udire nulla mentre io, al solito, sì. Udii quindi tra le altre una voce che disse: — Ma a che pro? — e — Perché questa seccatura? — e ancora — Lascia perdere. Alcune settimane dopo appresi che quel medico era terribilmente duro d'orecchi, ma non voleva che lo si sapesse. Talvolta mi capitò anche che le voci mi venissero in aiuto suggerendomi altri sistemi di registrazione. Come l'uso del diodo o la ricerca di una banda di "rumore bianco" (l'intervallo che c'è tra una stazione e un'altra) su un ricevitore radio da collegare al registratore. Quest'ultimo sistema non l'ho mai provato perché si corre il rischio di ricevere e registrare soltanto voci reali trasmesse via etere. Il microfono funzionava al meglio se collocato in una stanza insonorizzata o estremamente silenziosa, ma infine optai per il diodo perché escludeva i possibili errori di interpretazione dei suoni ordinari dell'ambiente circostante. Qualche volta le voci mi riprendevano quando mi accadeva di sbagliare nel manovrare gli strumenti. Una volta che premetti un tasto invece di un altro mi capitò di udire una voce che diceva: — Non sai quel che stai facendo — (e con un tono particolarmente esasperato. Ero stanco e avevo continuato a far cilecca per tutta la seduta). Tutte queste reazioni facevano parte di un complesso di cose che mi dava l'impressione di essere alle prese con personalità ben definite e del tutto normali. Di essere in contatto con gente di tutti i giorni. Verso la fine del nastro spesso dicevano: — Buonanotte — e quindi scoprivo di essere stanco e di volermene andare a letto. Una volta più di una voce disse: — Grazie — e — Ti ringrazio. — Un caso curioso. In un'occasione chiesi se fosse importante che cercassi di far conoscere questo fenomeno, e la risposta fu un assai chiaro: — Negativo. — Ne rimasi sorpreso. Verso la metà del 1982 decisi di scrivere a Colin Smythe, l'autore della prefazione di Passaggi. Era l'unico a sembrarmi credibile. Gli rivolsi un
sacco di domande ed egli mi rispose immediatamente dicendo di far ricorso a un suo libro che trattava dell'argomento in questione (il titolo è Continuare a conversare). Nella sua lettera mi era parso reticente ad approfondire l'argomento che, inevitabilmente e in particolare sulla stampa londinese, aveva assunto toni fuori misura e sensazionalistici. C'era gente che asseriva di aver parlato con J.F. Kennedy e con Freud e cose simili. Ma mi raccontò qualcosa di affascinante. Alcuni neurologi di Edimburgo, mentre si trovava a Londra per un congresso, erano andati a trovarlo per manifestargli la loro ammirazione e sottoporgli delle registrazioni da loro effettuate in presenza di persone in coma o di soggetti che avevano perduto l'uso della parola in seguito a traumi; sui nastri erano registrate le voci di questi pazienti. Non molto tempo dopo, portai il registratore portatile all'ospedale. Verso le due o le tre di notte mi recai nel reparto malattie mentali, dove era ricoverato un catatonico molto grave di tipo amnesico, che aveva vissuto per anni nell'ospedale psichiatrico. Nessuno ne conosceva l'identità. La polizia l'aveva fermato nel 1970 o giù di lì mentre vagava intontito per la M Street e da quel momento non aveva pronunciato neppure una parola, benché, probabilmente, possedesse tutte le capacità per farlo. Quando fui nella sua camera, dopo avergli chiesto come si chiamasse e se fosse in grado di udirmi, accesi il registratore e lasciai che il nastro scorresse fino in fondo. Una volta a casa, riascoltai la registrazione. Il risultato fu assai insolito. In primo luogo, nei trenta minuti di registrazione riuscii a udire soltanto due frammenti di discorso. Normalmente, il nastro ne sarebbe risultato letteralmente invaso, anche se per la maggior parte appena percepibili. Stavolta, a parte i due che ho detto, non si udiva che un silenzio totale e molto strano. L'altra cosa bizzarra (ma forse dovrei dire più appropriatamente "paurosa") erano le voci registrate. Appartenevano alla stessa persona, un uomo, e fui virtualmente certo che stessi ascoltando la voce del paziente catatonico. Mi parve che dicesse: — Comincio a ricordare. — Questo il contenuto del primo frammento. E poi udii quanto supposi che fosse il nome del paziente, in risposta alla mia prima domanda. Qualcosa come "James Venamin", per quanto ricordo. Per una qualche ragione il suono di quella voce non mi piacque e non ho mai più ritentato l'esperimento. Verso la fine dello scorso anno accadde un avvenimento decisivo. Fino ad allora avevo continuato, nonostante tutto, a nutrire dei dubbi su quanto avevo udito. In seguito no. Permutai il mio registratore con un Revox dotato di un controllo variabile di acutezza incorporato. Acquistai anche un fil-
tro di passaggio-banda, che escludeva tutte le frequenze sonore che non rientravano nello spettro acustico della voce umana. Un sabato un giovanotto del negozio di stereofonia mi consegnò la nuova attrezzatura e la collegò all'impianto elettrico. Quando ebbe finito, mi venne in mente una cosa. Quel giovane doveva sentirci assai meglio del normale, pensai, e i suoi timpani, di sicuro, funzionavano. Quindi tirai fuori il nastro che conteneva dei suoni piuttosto rimbombanti e gli chiesi di ascoltarlo con gli auricolari. Quando la registrazione finì gli domandai cosa avesse udito. Subito mi disse: — Qualcuno che parla. — Ciò mi colse di sorpresa. — È la voce di un uomo o quella di una donna? — gli chiesi. — Di un uomo — rispose lui. — Riesce a capire quel che dice? — No, è troppo lento — affermò lui. Un'altra sorpresa. Ero abituato a voci troppo veloci. — No, vuol dire troppo veloce — dissi allora io. — No, lento. Almeno penso che sia troppo lento — disse lui. Si rimise gli auricolari, riportò il nastro indietro e poi manualmente fece scorrere più velocemente il nastro. Quindi si tolse gli auricolari e annuì. — Già, troppo lento. — Mi porse gli auricolari. — Ecco, provi — disse — le faccio sentire. — Infilai gli auricolari e ascoltai mentre il giovane faceva di nuovo scorrere il nastro più velocemente. E udii la voce di un uomo che forte e chiaro diceva: — Affermativo. Mi senti? Quest'esperienza sembrò spalancarmi una porta, perché dopo di ciò cominciai a udire sui miei nastri, forse una ogni tre quattro sedute di registrazione, delle voci forti e chiare. La prima fu: — Merletto/Speralo. — Probabilmente stavolta le avrebbe udite anche quel neolaureato. Tre di esse le spedii al mio amico della Columbia col risultato che le ho già detto. Le ascolti. Poi faccia delle registrazioni anche lei. Dapprincipio forse non avrà successo e otterrà soltanto quelle voci debolissime ed effimere. Se non sarà riuscito a imparare il trucco che le permetterà di ascoltarle, di infrangere il velo dei sibili e delle interferenze elettrostatiche, allora prenda i miei nastri più rumorosi e si basi su quelli. Prima dovranno essere ripuliti. Esiste un'attrezzatura particolare che è in grado di eliminare tutti i brusii elettrostatici. Dopodiché, li sottoponga a un'altra analisi spettrografica. C'è anche un sistema per determinare la velocità originale con la quale sono stati registrati. Ciò le permetterà, come tengo a ribadirle, di eliminare dal campo delle spiegazioni anche le più bizzarre tra le interferenze radiofoniche. Le voci sono vere. E io credo che siano le voci dei morti. Non potrà mai venir provato, ma che esse provengano da intelligenze immateriali (almeno
per quanto possiamo supporre) può essere dimostrato con ogni validità scientifica. La Chiesa cattolica ha i mezzi (e, Dio solo lo sa, dovrebbe avere anche l'interesse) per arrivare a fornire un insieme organico di prove scientifiche sull'esistenza di queste voci e, senza temere le spiegazioni di tipo materialistico, dimostrare che la loro provenienza è oltremondana e che possono venir riprodotte in qualunque momento e indefinibilmente in laboratorio dai più scettici tra gli uomini e dalle attrezzature più sofisticate. C'è stata quella voce che mi disse che farlo non era importante. Ma per chi non lo è? L'uomo su questa Terra dinanzi alla morte si dispera e vive nel terrore della scomparsa definitiva e dell'oblio. Ogni essere umano piange la perdita di qualcuno che ha amato. La fede è sufficiente per liberarci da quest'angoscia? Può bastarci? Questi nastri sono la mia preghiera per tutti coloro che piangono. Essi non possono essere che un sostegno per chi si schiera dalla parte di Cristo; non abbastanza per superare quel dubbio finale, proprio come accadde con la resurrezione di Lazzaro, che non riuscì a convincere tutti tra i presenti, i testimoni oculari del miracolo. Ma Gesù cosa ci ha chiesto di fare? Se il nostro amaro calice non è colmo sino all'orlo lo si deve pertanto ignorare? Se Dio non può intervenire, l'uomo sì. Che lo si faccia è certamente Sua intenzione, perché questo è il nostro mondo. Grazie per non dirmi che la mia decisione è il peccato della disperazione. Io so che non lo è. Non faccio nulla, attendo e basta. Forse nel suo intimo ha pensato che fosse sbagliata; ma non l'ha detto. Posso congedarmi bene. Nei giorni a venire, è probabile che sul mio conto udrà delle cose assai strane. Temo spaventosamente questa possibilità ma, se dovesse mai verificarsi, per favore, sappia che io non ho mai voluto far del male a nessuno. Di me pensi nel modo migliore, padre, vuole? Per quanto tempo l'ho conosciuta? Due giorni? Ebbene, mi mancherà. Eppure, so che un giorno la rivedrò. Quando leggerà questa lettera avrò raggiunto la mia Ann. Per favore, ne sia contento. Con stima e affetto suo Vincent Amfortas Amfortas rilesse la lettera e vi apportò alcune piccole correzioni; poi controllò l'ora e pensò che sarebbe stato meglio praticarsi un'iniezione di steroide. Aveva imparato a non aspettare gli assalti dell'emicrania, e adesso
ogni sei ore assumeva sei milligrammi di quel prodotto. Presto la mente gli si sarebbe alterata e quindi aveva dovuto scrivere la lettera ora. Salì in camera, assunse la dose e ritornò alla macchina per scrivere sul tavolo dove faceva colazione. Consultò gli appunti e quindi decise di aggiungere un poscritto. Batté sui tasti e scrisse: P.S. Nei tantissimi mesi in cui ho effettuato queste registrazioni ho chiesto innumerevoli volte: — Descrivetemi la vostra condizione, stato, natura, ubicazione più concisamente che potete. — Qualche volta sono riuscito a strappare una risposta, perlomeno una risposta che potessi udire; e poiché domande concrete di questo tipo sono sempre eluse dalle voci, ho pensato che le sarebbe piaciuto conoscere che genere di risposte ho avuto io. Eccole: Siamo qui per la prima volta. Qui si aspetta. Limbo. Morte. È come una nave. È come un ospedale. Dottori angelici. Ho loro chiesto anche: — Cosa dovrebbero fare i viventi? — e una risposta che udii abbastanza chiaramente fu: — Opere di bene. — Sembrava la voce di una donna. Amfortas tolse il foglio dalla macchina per scrivere, al suo posto infilò una busta e batté l'indirizzo del destinatario: Rev. padre Joseph Dyer Georgetown University Da consegnarsi in caso di mia morte. 10 Più Kinderman si avvicinava all'ospedale; più la sua andatura si faceva lenta. Quando raggiunse la soglia si guardò intorno e scrutò il cielo piovigginoso cercandovi un'alba che in qualche modo aveva smarrito; ma non vide che i lampi rossi delle auto della Omicidi che, muti e implacabili, ac-
cendevano e spegnevano la viscida e lustra superficie del nero manto stradale. A Kinderman tutto ciò appariva come un sogno, un fondale contro il quale si muoveva la sua figura senza consistenza. Quando vide sopraggiungere la troupe del telegiornale, rapidamente si volse ed entrò nell'ospedale. Prese l'ascensore e salì fino al quarto piano, reparto neurologia, dove regnava un caos generale: giornalisti, telecamere, poliziotti, interni e neolaureati (la maggior parte di altri reparti), pazienti spaventati che le infermiere cercavano di rassicurare, tranquillizzare e persuadere a rientrare nelle loro camere. Kinderman dalla soglia dell'ascensore si guardò intorno. Dal lato opposto all'accettazione del reparto, un poliziotto in divisa sorvegliava l'ingresso della camera di Dyer. Accanto, vide Atkins che, muto, continuava a scuotere il capo al fuoco di fila di domande delle persone che gli si affollavano rumorosamente intorno. Kinderman si diresse verso di lui. Atkins lo scorse e i suoi occhi affranti colsero l'espressione del tenente, che, raggiuntolo, si chinò su di lui e gli sussurrò all'orecchio: — Atkins, spediscili giù nell'atrio — intendendo i cronisti. Poi, gli strinse il braccio e per una frazione di secondo lo fissò negli occhi. Non concesse di più al proprio dolore. Entrò nella camera di Dyer e chiuse la porta. Il sergente fece cenno a un gruppetto di poliziotti e: — Mandateli giù! — ordinò bruscamente provocando un coro di proteste da parte dei cronisti. — Disturbate i ricoverati — tagliò corto. Seguirono dei mormorii di disapprovazione, ma i poliziotti presero a imbrancarli e a sospingerli verso l'uscita. Atkins con calma raggiunse il banco dell'accettazione del reparto e vi si appoggiò di schiena. Incrociò le braccia sul petto e fissò con espressione sconvolta la porta della camera di Dyer. Al di là di essa, l'orrore, un orrore tale di cui la sua mente non riusciva ancora a capacitarsi. Dalla camera emersero Stedman e Ryan, pallidi e tirati. Ryan teneva gli occhi a terra e senza mai rialzarli percorse in fretta il corridoio e sparì in direzione dell'ingresso. Stedman, che aveva seguito il suo assistente con lo sguardo, si volse adesso verso Atkins. — Kinderman vuol restare solo — disse con voce cupa. Atkins annuì. — Fumi? — gli chiese Stedman. — No. — Neanch'io. Ma ora una sigaretta mi andrebbe. — Distolse gli occhi dal sergente, sollevò una mano e l'osservò: tremava. — Gesù Cristo — mormorò. Il tremito aumentò. Di botto si ficcò la mano in tasca e si allon-
tanò nella stessa direzione di Ryan. Atkins poté udirlo mormorare ancora: — Gesù! Gesù! Gesù Cristo! Da qualche parte suonò un cicalino. Un ricoverato che chiamava l'infermiera. — Sergente? Atkins spostò lo sguardo sul poliziotto di fronte alla porta. — Sì, che c'è? — gli chiese Atkins. — Che diavolo sta succedendo qui, sergente? — Non lo so. Alla sua destra Atkins udì i toni accesi di una discussione. Si girò e vide che di fronte agli ascensori due poliziotti tentavano di convincere ad andarsene un gruppetto di cronisti e di tecnici del telegiornale. Tra i più scalmanati riconobbe un noto conduttore televisivo, responsabile del notiziario locale delle sei. Aveva i capelli impomatati e un atteggiamento tanto chiassoso quanto bellicoso. Lentamente i poliziotti riuscirono a sospingere l'intero gruppetto verso gli ascensori; ma a un certo punto il conduttore incespicò, per poco non perse l'equilibrio e non rovinò a terra. Imprecò, si riprese e, percuotendosi con un giornale arrotolato il palmo d'una mano, riprese ad arretrare insieme agli altri. — Mi sa dire chi è che comanda qui, per favore? Credevo di essere io, un tempo. Atkins guardò alla sua sinistra e vide accanto a sé un omino di complessione nervosa vestito con un completo di flanella blu. Dietro le lenti dalla solida montatura due occhi piccoli e svegli lo fissavano. — È lei? — chiese l'omino. — Sono il sergente Atkins, signore. Cosa posso fare per lei? — Sono il dottor Tench, ossia il dirigente sanitario di quest'ospedale, suppongo — disse con foga. — Qui dentro abbiamo un sacco di pazienti in condizioni gravi se non addirittura critiche. Tutta questa confusione non li favorisce di certo. — Mi rendo conto, signore. — Non voglio apparire insensibile — proseguì Tench — ma prima porterete via il cadavere prima la confusione cesserà. Pensa che lo farete presto? — Sì, signore, penso di sì. — Lei comprende la mia posizione. — Certo, signore. — Grazie — concluse Tench allontanandosi a passi svelti e decisi.
Contemporaneamente, Atkins si accorse che il chiasso era diminuito. Si guardò intorno e capì il perché: il gruppetto della televisione se n'era quasi andato. Mentre il conduttore - che continuava a tempestarsi il palmo della mano col giornale arrotolato - stava per montare sull'ascensore per la discesa, da quello accanto sortirono Stedman e Ryan, che, muti e a capo chino, si diressero verso Atkins. Il conduttore televisivo li guardò e gridò al loro indirizzo: — Ehi, ma cos'è successo? — Le porte dell'ascensore scivolarono silenziosamente e si richiusero sulla sua domanda. Atkins udì aprirsi la porta della camera di Dyer. Uscì Kinderman. Aveva gli occhi gonfi e lustri. Si fermò dinanzi a due della scientifica e disse loro con un filo di voce: — Va bene, ora potete finire. — Tenente, mi spiace — disse Ryan con un'espressione e una voce piene di compassione. Fissando il pavimento Kinderman annuì. — Grazie, Ryan. Sì, grazie — mormorò e poi, senza mai rialzare lo sguardo, si allontanò rapidamente in direzione degli ascensori. Atkins gli fu dietro. — Vado soltanto a fare quattro passi, Atkins. — Sì, signore — disse il sergente senza smettere di camminargli al fianco. Quando raggiunsero gli ascensori, uno di essi giunse al piano e si aprì. Scendeva. Atkins e Kinderman meccanicamente vi montarono e si voltarono. — Chick, penso di aver beccato l'ascensore giusto — disse una voce. Atkins udì il ronzìo di un apparecchio. Ruotò la testa e incontrò il ghigno del conduttore televisivo e l'occhio acceso di una telecamera impugnata da un altro uomo. — Il prete è stato decapitato — chiese il conduttore — oppure... Il pugno di Atkins gli si abbatté sulla mascella e il conduttore andò a sbattere il capo sulla parete alle sue spalle che risonò sotto la potenza del colpo. Il sangue cominciò a fluirgli dalle labbra ed egli si accasciò a terra privo di sensi. Allora Atkins squadrò il cameraman, che, con grande tempestività, abbassò piano piano la telecamera. Il sergente guardò infine Kinderman. L'investigatore sembrava che non si fosse accorto di nulla e se ne stava immobile con lo sguardo perso nel vuoto e le mani affondate nelle tasche del cappotto. Atkins premette un bottone e l'ascensore si arrestò al secondo piano. Prese sotto braccio il tenente e lo condusse fuori. — Atkins, che stai facendo? — gli chiese Kinderman con aria stupefatta. Sembrava un vecchio debole e smarrito. — Voglio andare a fare una passeggiata — aggiunse.
— Sì, tenente, ci stiamo andando. Di qua. Atkins lo condusse in un'altra ala dell'ospedale, da dove scesero con un secondo ascensore. Voleva evitare i cronisti nell'atrio. Attraversarono diversi corridoi e, in breve, furono fuori dell'ospedale dal lato che guardava verso il campus universitario. Sopra di loro, una piccola tettoia li riparava dalla pioggia che, adesso, cadeva più fitta. La osservarono in silenzio. In distanza videro diversi studenti che, avvolti in impermeabili e giacconi multicolori di plastica, attraversavano il campus sotto la pioggia per andare a fare colazione. Due studentesse corsero fuori da un edificio riparandosi la testa con un giornale. — Quell'uomo era una poesia — disse Kinderman in un soffio. Atkins taceva. Guardava la pioggia. — Voglio stare solo, Atkins, per favore. Grazie. Atkins si voltò a osservare il tenente, che continuava a fissare dinanzi a sé. — Va bene, signore — disse il sergente. Si voltò e rientrò nell'ospedale per infine tornare al reparto di neurologia, dove cominciò a interrogare i possibili testimoni. A tale scopo tutto il personale del turno di notte, ivi compresi medici, infermieri e inservienti dello psichiatrico, era stato invitato a rimanere. Mentre Atkins era intento a parlare con la caposala di neurologia in servizio all'ora della morte di Dyer, un medico gli si avvicinò e lo interruppe: — Vuole scusarmi, per favore? La prego. Atkins gli gettò un'occhiata. Quell'uomo sembrava assai scosso. — Sono il dottor Amfortas — disse. — Padre Dyer è un mio paziente. Ma è vero quello che è successo? Il sergente annuì gravemente. Amfortas, ancor più pallido e con gli occhi ancor più affossati, lo fissò inebetito per qualche istante, poi, infine, disse: — Grazie — e con passo malfermo se ne andò. Atkins si rivolse nuovamente all'infermiera: — A che ora prende servizio il dottore? — No — rispose l'infermiera sforzandosi di trattenere le lacrime — il dottore non lavora più al reparto. Atkins annotò qualcosa sul suo taccuino e stava per rivolgere un'altra domanda all'infermiera allorché scorse Kinderman che, cappello e cappotto fradici, gli si avvicinava. "Ha camminato sotto la pioggia" pensò Atkins. Il tenente gli era ormai davanti. Il suo contegno era completamente diverso e il suo sguardo era intenso, chiaro, risoluto. — Bene, Atkins, smettila di fare il perdigiorno con le infermiere: qui si lavora. — L'infermiera Keating è l'ultima persona ad averlo visto vivo — disse
il sergente. — Quand'è stato? — chiese il detective alla Keating. — Intorno alle quattro e mezzo. — Signorina Keating, posso parlarle a quattrocchi? Mi spiace, ma è necessario. Lei annuì, e con un fazzoletto si compresse leggermente il naso. Kinderman indicò l'ufficio chiuso da vetri dietro il banco dell'accettazione. — Forse là? L'infermiera annuì nuovamente e Kinderman la seguì nell'ufficio, che conteneva uno scrittoio, due sedie e alcune mensole piene di incartamenti. L'investigatore le fece cenno di sedersi e chiuse la porta. Al di là del vetro vide Atkins che li guardava. — Così ha visto padre Dyer alle quattro e mezzo — disse. — Sì. — Dove? — Nella sua camera. — E lei cosa ci faceva, per favore? — Be', ero entrata per dirgli che non ero riuscita a trovare il vino. — Ha detto "vino"? — Sì. Poco prima mi aveva chiamato col campanello per chiedermi se potevo procurargli un po' di pane e del vino. — Voleva celebrare la messa? — Sì, esatto — disse l'infermiera, che arrossì e si strinse nelle spalle. — Be', un paio del personale talvolta tengono degli alcolici... — Capisco. — Ho dato un'occhiata nei soliti posti. Poi sono rientrata e gli ho detto che mi dispiaceva ma che non l'avevo trovato. Però gli ho portato il pane. — E lui cosa le ha detto? — Non ricordo. — Che orario fa, signorina Keating? — Dalle ventidue alle sei. — Tutte le notti? — Quando sono di turno. — E quand'è il suo turno di notte, per favore? — Dal martedì al sabato. — Padre Dyer aveva già celebrato la messa qui? — Non lo so. — Ma prima non aveva mai chiesto il pane e il vino.
— Esatto. — Le ha detto perché voleva celebrare la messa oggi? — No. — Quando gli comunicò che non aveva trovato il vino, le disse qualcosa? — Sì. — E cosa le disse, signorina Keating? Si servì nuovamente del fazzoletto, quindi fece una pausa e parve ricomporsi. — "Ve lo bevete tutto?" così mi disse. — La voce le s'incrinò e il volto le si contrasse in una smorfia di dolore. — Aveva sempre voglia di scherzare — disse. Voltò la testa e scoppiò in lacrime. Kinderman scorse una scatola di fazzolettini su una delle mensole, se ne servì abbondantemente e glieli porse; ormai il fazzoletto dell'infermiera non era che una palla umida e grinzosa. — Grazie — disse lei prendendoli. Kinderman attese. — Scusi — disse la Keating. — Non si preoccupi. Padre Dyer non aggiunse altro? L'infermiera scosse il capo. — E quando l'ha rivisto? — Vuol dire quando l'ho trovato. — Quando è stato? — Alle cinque e cinquanta circa. — Tra le quattro e mezzo e le sei meno dieci ha visto nessuno entrare nella camera di padre Dyer? — No. — Qualcuno che ne usciva? — No. — E in quell'arco di tempo lei è rimasta in quest'ufficio di fronte alla camera di padre Dyer? — Esatto. Ho completato le schede dei pazienti. — Ma è rimasta qui per tutto il tempo? — Be', salvo i pochi minuti durante i quali sono andata a portare le medicine ad alcuni pazienti. — E quanto tempo ci ha messo? — Oh, un paio di minuti per ciascuno, suppongo. — Quali camere? — 417, 419 e 411. — Si è allontanata per tre volte?
— No, due. Due prescrizioni erano le stesse. — E a che ora l'ha fatto, per favore? — La codeina per il signor Bolger e la signorina Ryan alle quattro e quarantacinque; l'eparina e il destrosio per la signorina Freitz della 411 circa un'ora dopo. — Queste camere danno sullo stesso corridoio di quella di padre Dyer? — No, sono dopo l'angolo. — Quindi, se qualcuno fosse entrato nella camera di padre Dyer intorno alle quattro e quarantacinque lei non avrebbe potuto vederlo, come non avrebbe potuto vederlo se ne fosse uscito un'ora più tardi. — Sì, è così. — Quei medicinali vengono somministrati ogni giorno negli stessi orari? — No, l'eparina e il destrosio per la signorina Freitz sono nuove. Non le erano mai state prescritte prima. — E chi le ha prescritte, per favore? Se lo ricorda? — Sì, il dottor Amfortas. — Ne è sicura? Vuol controllare sui registri? — No, ne sono certa. — E come mai? — Be', è insolito. Normalmente le prescrive l'interno. Ma penso che al dottor Amfortas il caso della Freitz interessi particolarmente. L'investigatore apparve perplesso. — Ma io credevo che il dottor Amfortas non lavorasse più al reparto. — Esatto. È stata la sua ultima notte. — Ma era andato a trovare la ragazza? — Niente di strano, ci andava spesso. — A quelle ore? La Keating annuì. — La ragazza soffre d'insonnia. E anche lui, ho idea. — E perché? Voglio dire, perché lo pensa? — Oh, da mesi compare qui alle ore più strane, si attarda un po' con chi è di turno, scambia quattro chiacchiere e girella qua attorno. Lo chiamano "il fantasma". — E quando è andato a trovare la signorina Freitz l'ultima volta? — Ieri. — E a che ora? — Direi alle quattro o alle cinque. Poi è andato da padre Dyer. — È andato nella camera di padre Dyer?
— Sì. — Ha sentito nulla di quel che si sono detti? — No, la porta era chiusa. — Già — fece Kinderman fissando Atkins al di là del vetro. Ci rimuginò sopra per un po'. Il sergente se ne restò appoggiato al banco fissandolo a sua volta. L'investigatore rivolse nuovamente la sua attenzione all'infermiera. — Chi altri ha visto in quelle ore nel reparto? — Vuol dire del personale? — Chiunque. Chiunque sia passato di qua. — Be', soltanto la signora Clelia. — Chi è? — Una paziente di psichiatria. — Camminava nel corridoio? — Be', no. L'ho trovata sdraiata nel corridoio. — Sdraiata? — Era alquanto stordita. — Si trovava proprio nel corridoio? — Appena svoltato l'angolo, vicino all'ingresso di psichiatria. — A che ora è successo? — Subito prima che scoprissi padre Dyer. Ho chiamato quelli del reparto aperto, che sono venuti e l'hanno portata via. — La signora Clelia è affetta da particolari disturbi mentali? — Proprio non glielo so dire. Immagino. Non so. Posso dire che sembra un po' catatonica. — Catatonica? — È la mia impressione. — Capisco — Kinderman rifletté per qualche istante poi si alzò. — La ringrazio, signorina Keating. — Di niente. Kinderman le porse un altro fazzolettino, uscì dall'angusto ufficio e parlò ad Atkins. — Fatti dare il numero telefonico del dottor Amfortas e convocalo per interrogarlo, Atkins. Nel frattempo, io vado a psichiatria. In pochi minuti Kinderman fu nel reparto aperto. Quant'era accaduto quella mattina non aveva assolutamente inciso sul normale andamento del reparto. Intorno al televisore già si affollava la solita moltitudine di silenziosi spettatori. Un vecchio si avvicinò al detective. — Stamattina voglio cereali e fichi — disse. — Non dimenticare quei dannati fichi. Voglio i fi-
chi. — Un inserviente lentamente si diresse verso di loro. Kinderman cercò con gli occhi l'infermiera di turno e la vide parlare al telefono nel suo ufficio. Aveva un'espressione tesa e affaticata. L'investigatore andò verso il banco lasciando che il vecchio continuasse a parlare al vuoto. — Non voglio quegli stramaledetti fichi. D'un tratto comparve Temple. Sbucò da una porta e dette un'occhiata intorno. Aveva un'aria arruffata e assonnata. Scorse Kinderman e lo raggiunse. — Cristo santo — esclamò. — Non posso crederci. Ma è vero che è morto così? — Sì, è vero. — Mi hanno svegliato con quella telefonata... Cristo santo! Non posso crederci! Temple gettò un'occhiata all'infermiera e s'incupì. Lei lo vide e in tutta fretta riagganciò. L'inserviente intanto aveva raggiunto il vecchio e lo stava conducendo verso una sedia. — Vorrei vedere uno dei suoi pazienti — disse Kinderman. — La signora Clelia. Dove la trovo? Temple lo squadrò. — Vedo che è già stato informato — disse. — Cosa desidera dalla signora Clelia? — Vorrei farle un paio di domande. Tutto qui. — A Clelia? — Sì. — Sarebbe come parlare a un muro — disse Temple. — Ci sono abituato — lo rassicurò Kinderman. — Cosa vorrebbe dire? — Nulla. — Kinderman si strinse nelle spalle e mostrò i palmi delle mani. — Mi si apre la bocca e mi escono parole ancor prima di capire quel che sto dicendo. Di solito, scemenze. Per comprenderne il significato ci sarebbe bisogno dell'I Ching. Temple lo valutò con occhio cauto, quindi si volse verso l'infermiera, che adesso era dietro al banco e si dava da fare a riordinare delle carte. — Dov'è Clelia, bellezza? — le chiese Temple. L'infermiera rispose senza alzare il capo. — Nella sua camera. — Vuol essere indulgente con questo povero vecchio e lasciarmela vedere? — chiese Kinderman. — Certo, perché no? — disse Temple. — Venga. Kinderman lo seguì e in breve entrarono in una cameretta. — Ecco qua la sua ragazza — disse Temple indicando una donna coi capelli bianchi seduta in una poltrona accanto alla finestra. Si teneva stretto sulle spalle
uno scialle di lana rossa, e si fissava le pantofole. Non alzò lo sguardo. L'investigatore si tolse il cappello e disse: — Signora Clelia? La donna lo guardò con aria assente. — Sei il mio figliolo? — gli chiese. — Sarei orgoglioso di esserlo, signora — rispose dolcemente Kinderman. Per un istante la donna sostenne il suo sguardo ma poi si volse da un'altra parte. — Non sei mio figlio — mormorò. — Sei cera. — Si ricorda cosa ha fatto stamattina, signora Clelia? La donna cominciò sommessamente a canticchiare una cantilena stonata e fastidiosamente dissonante. — Signora Clelia? — la sollecitò l'investigatore. Sembrò che non l'avesse neanche udito. — Gliel'ho detto — disse Temple. — Naturalmente, si potrebbe provare a metterla sotto. — Metterla sotto? — Ipnosi. Ci provo? — Senz'altro. Temple chiuse la porta e tolse una sedia di fronte alla donna. — Prima, non fa buio nella stanza? — si meravigliò Kinderman. — No, è una sciocchezza — disse Temple. Dal taschino del camice estrasse un piccolo medaglione triangolare attaccato a una corta catenella. — Clelia — disse Temple. Immediatamente la donna girò gli occhi verso lo psichiatra, che alzò il medaglione e lo fece oscillare delicatamente dinanzi agli occhi di lei. Quindi disse: — Sogna. — Subito la donna chiuse gli occhi, si lasciò andare pesantemente sulla poltrona e le mani le scivolarono in grembo. Temple gettò un'occhiata soddisfatta all'investigatore. — Cosa devo chiederle? — domandò. — La stessa cosa? — Kinderman annuì. Temple si riconcentrò sulla donna. — Clelia — disse — ti ricordi cosa hai fatto stamattina? La donna continuò a sedere immobile e non disse una parola. Temple sembrò perplesso. — Cosa hai fatto stamattina? — ripeté. Nessuna risposta. — Dorme? — chiese Kinderman in un soffio. Temple scosse il capo. — Stamattina, Clelia, hai visto un prete? — le chiese lo psichiatra. Improvvisamente la donna ruppe il suo mutismo. — Nooooo — rispose in un tono basso e sforzato, più simile a un gemito pervaso da una vaga angoscia che a una voce.
— Hai fatto una passeggiata, stamani? — Nooooo. — Ti è venuto a prendere qualcuno? — Noooooo. — Merda — mormorò Temple e guardò il detective, che disse: — Va bene, basta così. Temple si girò nuovamente verso la signora Clelia. Le toccò la fronte e le disse: — Svegliati. Lentamente la donna si ritirò su a sedere, aprì gli occhi e guardò Temple. Poi fissò l'investigatore col solito sguardo vacuo e innocente. — Mi ha riparato la radio? — gli chiese. — Gliela riporterò domani, signora — disse Kinderman. — Dicono tutti così — replicò la donna e tornò cantilenando a fissarsi le pantofole. Kinderman e Temple tornarono nel corridoio. — Le è piaciuta la mia domanda sul prete? — gli chiese Temple. — Dico, poche cazzate e puntiamo al sodo. E quella su qualcuno che era venuto a prenderla a neurologia? Ho pensato che fosse mica male. — Perché non le ha risposto? — chiese Kinderman. — Non so. A dire il vero un po' mi sorprende. — L'ha ipnotizzata spesso? — Un paio di volte. — Cade in ipnosi molto facilmente — osservò Kinderman. — Be', sono bravo — disse Temple. — Gliel'ho detto. Ma, Cristo santo, non riesco a capacitarmi di quel che hanno fatto a quel prete. Dico, ma come è possibile, tenente? — Vedremo. — Ed era mutilato? — chiese Temple. Il detective lo fissò attentamente. — Gli hanno mozzato l'indice destro — disse. — E sul palmo della mano sinistra l'assassino ha inciso un segno zodiacale. Quello dei Gemelli — aggiunse continuando a fissarlo. — Cosa ne pensa? — Nulla — rispose Temple senza alcuna espressione. — No, non può... perché dovrebbe? — disse Kinderman. — A proposito, da qualche parte qui c'è il reparto patologia? — Certo. — Dove si fanno le autopsie e cose del genere? Temple annuì. — Giù, al livello B. Prenda l'ascensore in neurologia e gi-
ri a sinistra. Vuole andarci? — Sì. — Non può sbagliarsi. Kinderman si voltò e si allontanò. — E cosa va a cercarci? — gli disse Temple ma l'investigatore senza voltarsi si strinse nelle spalle e continuò a camminare. Temple imprecò sottovoce. Atkins era sempre appoggiato al banco dell'accettazione di neurologia quando vide Kinderman scendere lungo il corridoio. Si raddrizzò e gli andò incontro. — Hai trovato Amfortas? — gli chiese il tenente. — No. — Continua a provare. — Stedman e Ryan hanno finito. — Io no. — Ci sono un sacco di impronte sulle vaschette, assai chiare — l'informò il sergente. — Sì, l'assassino si sente molto in gamba. Ci sta prendendo in giro, Atkins. — Giù c'è padre Riley. Dice che vuol vedere la salma. — No, impedisciglielo. Vai giù e parlagli, Atkins. Stai sul vago. E di' a Ryan di sbrigarsi con le impronte. Voglio che le confronti immediatamente con quelle del confessionale. Io, intanto, vado a patologia. Il sergente annuì ed entrambi si diressero agli ascensori. Discesero. Quando Atkins uscì nell'atrio, l'investigatore scorse padre Riley seduto in un angolo con la testa tra le mani. Kinderman distolse lo sguardo e si sentì sollevato quando le porte dell'ascensore si chiusero nuovamente. Kinderman trovò il reparto patologia e attraversò una sala dove alcuni studenti di medicina erano impegnati a notomizzare dei cadaveri. Cercò di non guardare. Un medico seduto a una scrivania di un ufficio sollevò il capo e vide il detective che vagava per la sala. Si alzò, uscì dall'ufficio e lo raggiunse. — Posso esserle d'aiuto? — gli disse. — Forse — fece Kinderman mostrandogli il distintivo. — Tra i vostri strumenti chirurgici non avete per caso qualcosa che assomigli a un paio di cesoie? — Certo — rispose il medico e condusse Kinderman dinanzi a una parete, dov'erano appesi numerosi strumenti. Ne tolse uno dalla rastrelliera e lo porse al tenente. — Faccia attenzione — lo avvertì.
— Sì — disse Kinderman e osservò lo strumento lucente e affilatissimo. Era di acciaio inossidabile e nella forma ricordava un paio di cesoie, soltanto che le lame alle estremità si curvavano formando due mezzelune. — Queste... — mormorò l'investigatore. Quello strumento chirurgico che rimandava in bagliori la bianca luce al neon della sala gli comunicò una sensazione di orrore. — Come le chiamate? — chiese al medico. — Cesoie. — Già, naturale. Nella terra dei morti il gergo non esiste. — Come dice? — Nulla. — Con somma attenzione Kinderman provò a separare le lame facendo leva sui manici. Gli costò un discreto sforzo. — Sono proprio deboluccio... — si lamentò. — No, è che sono dure — spiegò il medico. — Sono nuove. Kinderman lo guardò stupito. — Ha detto "nuove"? — Le abbiamo appena ricevute. — Il medico le prese e, aiutandosi con l'unghia, grattò via il cartellino adesivo incollato su uno dei manici. — C'è ancora il cartellino del prezzo — disse. Lo appallottolò e se lo fece scivolare in una delle tasche del camice. — Le rinnovate spesso? — gli chiese il detective. — Ha voglia di scherzare? È roba che costa. E, in ogni caso, non si rovinano. Non so perché ne abbiamo preso un altro paio. — E si voltò in direzione della parete passando in rassegna con lo sguardo gli strumenti allineati. — Mah, non vedo quelle vecchie — disse infine. — Forse le ha fatto sparire uno di questi studenti... Kinderman cautamente gli restituì le cesoie. — Molte grazie, dottor... come si chiama, mi scusi? — Arnie Derwin. Non ha bisogno di altro? — Mi basta. Quando Kinderman arrivò all'accettazione del reparto neurologia c'era un gruppetto di infermiere radunate come per assistere a un diverbio tra Atkins e il direttore sanitario, il dottor Tench, che si fronteggiavano faccia a faccia. Kinderman sopraggiunse giusto in tempo per sentire Tench che diceva: — Questo è un ospedale, non uno zoo e i pazienti hanno la precedenza, sono stato chiaro? — Cos'è tutto questo tsimmis? — chiese Kinderman. — Il dottor Tench — disse Atkins. Tench si girò e puntando il mento in direzione dell'investigatore disse:
— Io sono il direttore sanitario. E lei chi è? — Un misero tenente di polizia che dà la caccia ai fantasmi. Mi farebbe la cortesia di farsi da parte? Dobbiamo lavorare — disse Kinderman. — Cristo! Lei mi dà sui nervi! Lo sa? L'investigatore lo ignorò e si rivolse ad Atkins. — L'assassino è qui dentro l'ospedale. Chiama il distretto. Avremo bisogno di molti più uomini. — Ora mi ascolti — esplose Tench. Ma Kinderman lo ignorò nuovamente. — Piazza due uomini a ogni piano. Fai chiudere a chiave tutte le uscite e mettici un uomo ciascuna. Nessuno deve entrare o uscire senza autorizzazione. — Non può farlo! — esclamò Tench. — Chiunque esca dev'essere perquisito. Cerchiamo un paio di cesoie chirurgiche. Passiamo al setaccio tutto l'ospedale — proseguì Kinderman. Tench si era fatto rosso come un peperone. — Vuole ascoltarmi, per favore, maledizione! L'investigatore stavolta si girò di scatto verso il medico. — No, è lei che deve ascoltare me — tagliò corto a voce bassa. — Voglio che sappia di fronte a cosa ci troviamo — disse. — Ha mai sentito parlare di Gemini, il serial killer? — Cosa? — rispose il querulo Tench. — Ho detto Gemini, l'assassinio che uccide in serie — ripeté Kinderman. — Sì, ne ho sentito parlare. E allora? È morto. — Rammenta nessuna di quelle notizie riportate dalla stampa sul suo modus operandi? — Senta, dove vuole andare a parare? — Se le ricorda o no? — Mutilazioni? — Già — disse Kinderman in tono deciso e si protese verso il medico. — Alla mano sinistra della vittima veniva sempre reciso il medio e sul dorso inciso un segno zodiacale, quello dei Gemelli. E il nome delle vittime iniziava invariabilmente per K. Se ne rammenta ora, dottore? Ebbene, dimentichi tutto questo, lo cancelli istantaneamente dalla sua mente. La verità è che il dito mozzato era questo qua! — L'investigatore levò l'indice destro. — Non il medio ma l'indice! Non la mano sinistra ma la destra! E il segno dei Gemelli non era sul dorso bensì sul palmo della sinistra! Tutto questo lo sa soltanto la Omicidi di San Francisco, nessun altro. Fu la Omicidi a fornire le false informazioni alla stampa per evitare di venir scoccia-
ta ogni giorno dal mitomane di turno che asseriva di essere Gemini, facendole perdere tempo in investigazioni inutili. — Kinderman si fece ancor più sotto a Tench. — Ma in questo caso, dottore, in questo e in altri due, il modus operandi è quello vero! Tench parve sbigottito. — Non riesco a crederlo — disse. — E invece lo creda. E inoltre, quando Gemini scriveva le sue lettere alla stampa, raddoppiava sempre le l in fine di parola, anche quando era sbagliato. Questo le dice qualcosa, dottore? — Dio mio. — Capisce adesso? È chiaro? — Ma che mi dice del nome di padre Dyer? Non comincia per K — disse Tench perplesso. — Il suo secondo nome era Kevin. E adesso le dispiacerebbe lasciarci continuare a lavorare per cercare di proteggervi? Tench, terreo, annuì. — Mi scusi — sussurrò e si allontanò. Kinderman sospirò e lanciò un'occhiata affaticata ad Atkins; poi lo sguardo gli cadde sull'accettazione, dove un'infermiera di un altro reparto se ne stava a braccia conserte fissandolo intensamente. Gli parve esageratamente in ansia. Kinderman tornò a occuparsi di Atkins e, guidandolo per un braccio, lo allontanò dal banco di alcuni passi. — Va bene, fai come ti ho detto — gli disse. — E Amfortas, l'hai rintracciato? — No. — Insisti. Su. Forza. — Lo sospinse gentilmente in direzione del telefono all'interno dell'ufficio a vetri. Kinderman si sentì oppresso da un peso enorme e s'incamminò verso la porta della camera di Dyer. Evitò lo sguardo del poliziotto di guardia, posò la mano sulla maniglia, aprì la porta e ne varcò la soglia. Ebbe la sensazione di entrare in un'altra dimensione. Si appoggiò alla porta e guardò Stedman, che sedeva su una sedia con aria inebetita. Alle sue spalle la pioggia picchiettava sui vetri della finestra. Metà della stanza era in ombra e la grigiastra luminosità dell'esterno immergeva il resto in un chiarore pallido e spettrale. — Non c'è una sola macchia né una sola goccia di sangue in tutta la camera — mormorò Stedman con voce atona. — Neanche sui bordi delle vaschette — aggiunse. Kinderman annuì. Respirò profondamente e guardò il cadavere disteso sul letto e coperto da un lenzuolo bianco. Su un carrello accanto al letto erano disposte in file simmetriche ventidue vaschette. Contenevano tutto il sangue di padre Dyer. Il detective spostò lo sguardo sulla parete dietro il
letto, dove l'assassino aveva scritto col sangue del gesuita: LA VITA È MERAVIGLIOSA Verso l'ora del tramonto l'impenetrabilità del mistero superò la ragione. Nella sala operativa Ryan illustrò a Kinderman i risultati del confronto tra le impronte. L'investigatore lo guardò sbigottito. — Stai dicendomi che questi omicidi sono opera di due persone diverse? Le impronte del confessionale non corrispondevano a quelle rinvenute sulle vaschette. 11 Giovedì 17 marzo L'occhio comunica al cervello la centesima parte dei dati che riceve. Le probabilità che quanto trasmette sia dovuto al caso sono di un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo dell'un per cento. Il modo in cui si recepiscono i dati comunicati dai sensi è sempre lo stesso. Cosa determina ciò che dev'essere trasmesso al cervello? Un uomo decide di muovere una delle sue mani. Le sue reazioni motorie sono messe in moto dai neuroni, che a loro volta sono stati messi in moto da una catena di altri neuroni che risale fino a quelli cerebrali. Ma qual è il neurone che prende quella decisione? Dando per scontato che la catena dei neuroni proceda sino ai miliardi di neuroni presenti nel cervello, quando si arriva al termine della catena, cosa resta che possa mettere in moto il libero atto della volontà dell'uomo? Un neurone ha la capacità di decidere? Esiste il Neurone Primario? Quello che decide senza essere deciso? O forse è l'intero cervello che decide. E ciò fornirebbe alla sua totalità quanto nessuna delle sue singole componenti possiede? E lo zero moltiplicato miliardi di volte può dare un risultato superiore a zero? E cosa fa sì che il cervello nella sua totalità possa prendere una decisione? Le riflessioni di Kinderman tornarono a concentrarsi sulla funzione. — Possano gli angeli condurti in Paradiso — disse sommessamente la voce di padre Riley. — Possano i cori angelici accoglierti e con Lazzaro il mendico possa tu trovare l'eterno riposo. Padre Riley asperse d'acqua benedetta la bara. E il cuore di Kinderman ebbe una stretta. Terminata la messa funebre nella Dahlgren Chapel, la salma era stata trasportata sul pendìo erboso del campus universitario e lì,
adesso, nelle prime ore del mattino, i pochi intervenuti alla cerimonia si erano radunati per dare l'estremo saluto a padre Dyer. Il cimitero gesuita contava adesso un'altra tomba. Erano convenuti lì i sacerdoti della Holy Trinity e i pochi gesuiti della Georgetown (la maggior parte degli insegnamenti era ormai appannaggio di laici). Nessun familiare. Non sarebbero arrivati in tempo, i funerali gesuitici avevano luogo entro ventiquattro ore. Kinderman osservò quegli uomini austeri vestiti di nero, dai volti stoici e impenetrabili, che si stringevano intorno alla fossa. Stavano riflettendo sulla condizione dei mortali? — Da lassù la luce dell'alba scenderà su di noi per illuminare coloro che brancolano nelle tenebre e disperdere l'ombra della morte. Kinderman pensò al suo sogno di Max. — Io sono la resurrezione e la vita — continuò Riley. Kinderman guardò i vecchi edifici scolastici in mattoni rossi che li circondavano e li sovrastavano e li facevano sentire ancor più piccoli in quella silenziosa valletta. Come il resto del mondo, essi continuavano la loro implacabile esistenza. Dyer, come poteva essersene allontanato? Dalla notte dei tempi tutti gli esseri umani hanno sempre bramato la stessa cosa, cioè la felicità assoluta, pensò amaramente Kinderman. Ma come potremmo mai ottenerla se sappiamo che siamo destinati a morire? Ogni gioia era sempre offuscata dalla consapevolezza che non sarebbe durata. E dunque la natura ci aveva istillato nel cuore un desiderio inappagabile? No. Non poteva essere. Era privo di senso. Tutti gli altri desideri che la natura ci ha infuso si rivolgono a degli oggetti che a quei desideri corrispondono, e sono oggetti tutt'altro che fantasmatici. Perché questa eccezione? È la natura che ci fa provare la fame quando da mangiare non c'è. Noi continuiamo. Andiamo avanti. Così la morte dimostra la vita. I prelati cominciarono a defluire in silenzio. Restò soltanto padre Riley, immobile, con lo sguardo fisso sulla tomba. Poi, sommessamente, si riscosse e iniziò a recitare una poesia di John Donne: — "Morte, non andar fiera se anche t'hanno chiamata possente e orrenda, perché non lo sei" — intonò con dolcezza e i suoi occhi si colmarono di lacrime. — "Perché coloro che tu pensi di annientare non muoiono, povera morte, né tu puoi uccidere me. Dal riposo e dal sonno, mere immagini di te, vivo piacere, dunque da te maggiore, si genera. E più presto se ne vanno con te i migliori tra noi, sia pace alle loro ossa, liberazione dell'anima. Tu, schiava della sorte, del caso, dei re e dei disperati hai dimora nel veleno, nella malattia, nella guerra; e il papavero e il filtro ci fan dormire anch'essi e meglio del tuo
fendente. Di che dunque t'inorgoglisci? Un breve sonno e ci destiamo eterni. E la morte non sarà più e tu, morte, morrai." Poi tacque e frenò col dorso d'una mano una lacrima che minacciava di rigargli il volto. Kinderman gli si avvicinò. — Mi dispiace così tanto, padre Riley — disse. Il sacerdote annuì continuando a fissare la tomba. Poi alzò lo sguardo e incontrò quello di Kinderman, nel quale si leggeva l'angoscia, il dolore, la perdita. — Lo trovi — disse il gesuita con fermezza. — Trovi quel bastardo e gli tagli le palle. — Si voltò e risalì il pendìo. Kinderman indugiò a guardarlo. Gli uomini bramano anche la giustizia. Quando infine il gesuita fu fuori di vista, l'investigatore vagò per il piccolo cimitero finché non giunse a una tomba sulla quale lesse: DAMIEN KARRAS Superiore Gesuita 1928-1971 Kinderman fissò l'iscrizione. Gli stava comunicando qualcosa. Cosa? Le date? Non ci si raccapezzava. Ma nulla ha senso ormai, rifletté tristemente. La logica se n'era andata insieme al confronto delle impronte e il caos governava quel piccolo angolo di mondo. Che fare? Non lo sapeva. Guardò verso l'edificio del rettorato. Kinderman raggiunse l'ufficio di Riley. Si tolse il cappello. La segretaria del rettore lo salutò con un rapido cenno del capo e gli domandò in cosa potesse essergli utile. — Padre Riley c'è? Potrei vederlo? — Be', dubito che abbia voglia di vedere qualcuno adesso — sospirò. — Non ha risposto neppure alle telefonate. Ma qual è il suo nome, per favore? Kinderman si presentò. — Oh, sì — disse lei, alzò il ricevitore di uno dei telefoni e chiamò l'interno dello studio di Riley. Quand'ebbe finito di parlare col rettore, riagganciò la cornetta e disse: — La riceverà. La prego, si accomodi — e gli indicò la porta. — Grazie, signorina. Kinderman entrò in un ufficio spazioso, per lo più arredato con mobili di
legno scuro lucidati a cera e con una serie di litografie e di oli che ritraevano importanti gesuiti del passato. Il fondatore dell'Ordine, sant'Ignazio di Loyola, osservò mitemente il detective da un olio inquadrato in una solida cornice di massello di quercia. — Cosa la tormenta, tenente? Vuol bere qualcosa? — No, grazie, padre. — Si accomodi, per favore — Riley gli indicò una sedia di fronte alla scrivania. — Grazie, padre. — Kinderman si sedette. Quella stanza gli comunicava una sensazione di sicurezza. Tradizione. Ordine. Ne aveva bisogno. Riley bevve d'un fiato il bicchierino di scotch che teneva in mano. Quindi lo ripose sulla levigata superficie di cuoio che rivestiva il piano della scrivania. — Dio è grande e misterioso, tenente. Allora, di che si tratta? — Due sacerdoti e un ragazzo crocifisso — disse Kinderman. — Tra essi esiste chiaramente un qualche legame di tipo religioso. Ma quale? Non so cosa cercare, padre, brancolo. Ma a parte il sacerdozio, cosa potevano avere in comune padre Bermingham e padre Dyer? Cosa poteva unirli? Ne ha idea lei? — Certo che ce l'ho — rispose Riley. — Lei no? — No, io no. Mi dica. — Lei. E vale anche per il piccolo Kintry. Lei li conosceva tutti e tre. Non ci aveva pensato? — Sì — ammise l'investigatore. — Ma, di certo, si tratta di una pura coincidenza — aggiunse. — La crocifissione di Thomas Kintry... è priva di qualsiasi attinenza con me. — E spalancò le braccia in segno di sconcerto. — Già, ha ragione — disse Riley che intanto si era voltato verso la finestra e osservava gli studenti che, finita una lezione, disordinatamente si avviavano verso i successivi appuntamenti. — Potrebbe essere l'esorcismo — mormorò. — Esorcismo, padre? Non capisco. Riley si voltò nuovamente verso di lui. — Andiamo, qualcosa ne sa anche lei, tenente. — Be', un pochino. — Ci scommetto. — C'entrava padre Karras, in qualche maniera... — Se morire le sembra una qualche maniera... — disse Riley e guardò di nuovo al di là dei vetri. — Damien era uno degli esorcisti. Joe Dyer cono-
sceva la famiglia della succube. Ken Bermingham dette il permesso d'investigare a Damien e lo aiutò a scegliere l'altro esorcista. Non so cosa possa significare tutto ciò ma di sicuro costituisce una specie di connessione, non crede? — Sì, naturalmente — disse Kinderman. — È molto strano. Ma comunque lascia fuori Kintry. Riley lo guardò. — Sì? La madre di Kintry insegna lingue alla facoltà di linguistica. Damien le consegnò un nastro che desiderava venisse analizzato. Voleva sapere se i suoni registrati corrispondevano a una qualche lingua o se invece erano privi di ogni senso. Voleva capire se la succube stesse comunicando in una qualsiasi lingua che la Kintry conoscesse. — E il risultato? — Era inglese ma alla rovescia. E chi lo scoprì fu la madre di Kintry. Kinderman perse quel senso di sicurezza che aveva provato prima. Quel filo che connetteva gli omicidi spariva nel buio. — Quel caso di possessione, padre... lei crede che fosse vero? — Gli spiriti maligni non mi piacciono — disse Riley. — I bisognosi sono sempre con noi. Per me è sufficiente, il più delle volte. — Afferrò il bicchierino e ci giocherellò distrattamente. — Come l'hanno fatto, tenente? — gli chiese poi con calma. Kinderman esitò. Ma infine sussurrò: — Con un catetere. Riley continuò a baloccarsi col bicchierino. — Forse dovrebbe cercare un demonio — mormorò. — Lo farà un medico — rispose Kinderman. L'investigatore si congedò dal rettore e, a piedi, attraversò in tutta fretta il campus e uscì dal cancello principale. Aveva già il fiatone ma proseguì per la 36a. Aveva smesso di piovere e i suoi passi rilucevano sui marciapiedi di mattoni rossi. In fondo alla 36a svoltò a destra e puntò in direzione di una piccola, angusta costruzione. La casa di Amfortas. Le tendine di tutte le finestre erano chiuse. Salì i gradini del portico e suonò il campanello. Passò un minuto. Suonò ancora ma senza nessun esito. Ci rinunciò. Si allontanò e si diresse all'ospedale, sempre più in fretta e sempre più confuso ma con l'impressione che aumentando l'andatura potesse finalmente tirar fuori dal marasma della sua mente almeno un pensiero. Giunto all'ospedale, Kinderman non riuscì a trovare Atkins e nessuno dei poliziotti seppe dirgli dove fosse. Allora l'investigatore andò all'accettazione di neurologia e chiese all'infermiera di turno, Jane Hargaden, se sapesse dove poteva trovare Amfortas.
— Non so. Non fa più servizio al reparto — rispose lei. — Sì, lo so, ma talvolta passa di qui. L'ha visto? — No, non l'ho visto. Provo al suo laboratorio — disse l'infermiera, che prese il telefono e formò un numero interno. Nessuno rispose. Riagganciò e disse: — Mi spiace. — Forse è partito? — le chiese Kinderman. — Proprio non saprei dirle. Ho qui alcuni messaggi per lui. Vediamo. — La Hargaden andò a un casellario e da una delle apposite buche estrasse un certo numero di foglietti. Li scorse velocemente e poi li porse a Kinderman. — Guardi lei stesso, se vuole. — Grazie — disse Kinderman che li prese e li passò in rassegna. Uno era il messaggio di una ditta di strumenti e attrezzature ospedaliere in merito a un'ordinazione di una sonda laser. Tutti gli altri erano della stessa persona, il dottor Edward Coffey. Kinderman ne mostrò uno all'infermiera. — È uguale agli altri — disse. — Posso tenerlo? — Certo — rispose lei. Kinderman se lo mise in tasca e le restituì gli altri. — Le sono molto grato — le disse. — Se comunque le capitasse di vedere il dottor Amfortas o di ricevere notizie da lui, per favore, le dispiacerebbe dirgli di telefonarmi? — Le porse un biglietto da visita. — A questo numero. — Glielo indicò. — Naturalmente, signore. — Grazie. Kinderman si diresse agli ascensori. Premette il tasto per la discesa. L'ascensore scese lentamente al piano e, dopo che ne fu uscita un'infermiera, vi salì Kinderman. Ma l'infermiera vi rientrò. L'investigatore la riconobbe: era quella che l'aveva guardato in maniera così strana il giorno precedente. — Tenente? — disse lei un po' accigliata ed esitante. Si stringeva al petto con entrambe le braccia una borsetta di pelle bianca. Kinderman si tolse il cappello. — Posso esserle d'aiuto? L'infermiera stornò lo sguardo, incerta. — Non so. È una cosa folle. Non so — disse. Giunsero al piano terra. — Su, andiamo da qualche parte e parliamone — la invitò il detective. — Mi sento proprio una sciocca. È una cosa... — si strinse nelle spalle. — Mah, non so. Le porte dell'ascensore si aprirono. Uscirono e Kinderman la condusse
verso un angolo dell'atrio, dove si accomodarono su un paio di poltroncine azzurre. — È terribilmente stupido... — asserì l'infermiera. — Non c'è niente di stupido — la rassicurò il detective. — Se adesso arrivasse uno e mi dicesse: "Il mondo è un'arancia" io gli chiederei di che qualità, e poi chissà cos'altro. No, davvero — diede un'occhiata al suo cartellino d'identificazione: CHRISTINE CHARLES. — Allora, cosa c'è, signorina Charles? Lei espirò profondamente. — Va tutto bene — la rassicurò il detective. — Dunque, mi dica. L'infermiera alzò il capo e lo guardò negli occhi. — Lavoro allo psichiatrico — disse. — Reparto agitati. C'è un paziente... — si strinse nelle spalle. — Io ancora non ci lavoravo quando lo internarono. È stato anni fa. Dieci, dodici anni fa. L'ho letto nella sua scheda. — Frugò nella borsetta ed estrasse un pacchetto di sigarette. Ne prese una e, dopo aver sfregato più volte un fiammifero sulla scatoletta, l'accese. Voltò il capo e soffiò una densa colonna di fumo. — Mi scusi. — Prosegua, la prego. — Dunque, dicevo di quest'uomo. La polizia l'aveva trovato mentre vagabondava con aria smarrita per la M Street. Non riusciva a parlare, credo, e con sé non aveva nessun documento di identificazione. Insomma, alla fine lo ricoverarono da noi. — Aspirò nervosamente una rapida boccata di fumo. — Gli venne diagnosticato uno stato catatonico, anche se, a essere sinceri, chissà cosa diavolo avesse realmente. Comunque, quest'uomo in tutti questi anni non ha mai aperto bocca e, fino a poco tempo fa, stava nel reparto aperto. Sto andando troppo in fretta. Quest'uomo non si sa come si chiami e allora gli abbiamo dato un nome noi; lo chiamiamo Tommy Sunlight perché quand'era nella sala comune passava il tempo spostandosi di sedia in sedia seguendo il corso della luce solare. Se poteva evitarlo, non si sedeva mai dove non battesse il sole. — Si strinse nuovamente nelle spalle. — Era sempre stato, come dire, mansueto; ma poi era improvvisamente cambiato. Verso gli inizi dell'anno cominciò, ecco, a uscire dal suo isolamento; e quindi, un po' alla volta, cominciò a emettere dei suoni, come se volesse parlare. Almeno, penso che questa fosse la sua intenzione, anche se, visto che da anni non aveva più esercitato l'apparato fonico, non riusciva a tirar fuori che gemiti e brontolii. — Si protese verso un portacenere e con qualche rapido e deciso colpo vi schiacciò la sigaretta. — Dio, come la sto facendo lunga per nulla. — Guardò nuovamente l'investigatore. — In breve, alla fine è diventato violento e l'abbiamo dovuto mettere in isola-
mento. Camicia di forza. Cella imbottita. Come da manuale. È là da febbraio, tenente, quindi è assolutamente impossibile... ma sostiene che Gemini è lui. — Cosa dice? — Tenente, insiste a dire di essere Gemini, l'assassino. — Ma ha detto che è rinchiuso, no? — Sì, esatto. Ed è per questo che esitavo a raccontarglielo. Potrebbe anche raccontare di essere Jack lo Squartatore, capisce? E allora? Eppure... — La voce le mancò, l'espressione dei suoi occhi si fece ancor più preoccupata e smarrita. — Insomma, la scorsa settimana, quando gli ho portato la sua solita torazina, mi è parso che dicesse qualcos'altro. — E che cosa, mi dica? — Il prete. L'ingresso del reparto agitati era sorvegliato da un'infermiera che, da una cabina circolare di vetro posta al centro di un ampio spazio quadrato formato dalla confluenza di tre corridoi, controllava chiunque entrasse o uscisse. L'infermiera premette un tasto e una porta di metallo si aprì scivolando sulle guide. Temple e Kinderman la varcarono. La porta si richiuse silenziosamente alle loro spalle. — Da qui non c'è modo di uscire — disse seccamente Temple. Era irritato. — O si fa aprire dall'infermiera di turno, che controlla a vista chi vuole entrare, oppure deve conoscere la combinazione di quattro numeri che viene cambiata ogni settimana e premere questi tasti qui. Vuole ancora vederlo? — gli chiese Temple. — Se non le spiace. Lo psichiatra lo fissò incredulo. — La cella è chiusa a chiave. Ha la camicia di forza. Le gambe legate. Il detective fece spallucce. — Giusto un'occhiatina. — Cavoli suoi, tenente — tagliò corto scortesemente lo psichiatra e si avviò seguito da Kinderman per un corridoio fiocamente illuminato. — Continuiamo a cambiarle e quelle continuano a fulminarsi — bofonchiò Temple. — Una delle contrarietà del mondo — commentò Kinderman. Temple pescò da una tasca un grosso mazzo di chiavi. — È qui — disse. — La dodici. Attraverso lo spioncino della porta, dotato di un vetro speciale che consentiva di vedere senza essere visti, Kinderman gettò un'occhiata all'interno della camera di isolamento, che aveva le pareti imbottite e il cui spoglio arredamento consisteva in una sedia con lo schienale dritto, un lavabo, una
tazza con sciacquone e una fontanella a pedale con acqua potabile. Su una branda contro la parete di fondo, sedeva un uomo chiuso in una camicia di forza. Non poté vederne il volto, perché l'uomo teneva la testa reclinata in avanti e i lunghi capelli neri gli ricadevano in un intrico di ciocche unte sul petto. Temple girò la chiave e aprì la porta. Gli fece cenno di entrare. — Si accomodi — disse ironicamente. — Quando ha finito, prema il cicalino vicino alla porta. Verrà l'infermiera. Sarò nel mio studio. Non chiudo la porta a chiave. — Gratificò il tenente di un'occhiata di disgusto e sparì lungo il corridoio. Kinderman entrò e si richiuse delicatamente la porta alle spalle. Dal centro del soffitto assicurata a un filo pendeva una lampadina, che aggiungeva allo squallore della stanza la sua debole e giallastra luminosità. Kinderman guardò il lavabo bianco. Uno dei rubinetti gocciolava con lenta intermittenza. Nel silenzio quel piccolo rumore si magnificava, diveniva pesante e chiarissimo. Il tenente si avvicinò di qualche passo alla branda. Si fermò. — Ce ne hai messo di tempo a venire — disse una voce. Era bassa, sussurrante. E sardonica. Kinderman parve perplesso. Quella voce gli suonava in qualche modo familiare. Dove l'aveva già udita? si chiese. — Signor Sunlight? — disse. L'uomo sollevò la testa e quando Kinderman ne scorse il volto bruno, dai lineamenti marcati, per lo shock non poté fare a meno di arretrare, barcollando. — In nome di Dio! — farfugliò. Il cuore gli batteva come impazzito. Le labbra dell'uomo si schiusero in un ghigno. — La vita è meravigliosa — disse guardando il tenente di sottecchi — non credi? Kinderman incespicò, arretrò brancolando fino alla porta, si volse, premette il cicalino per chiamare l'infermiera, quindi schizzò fuori dalla stanza e, pallido come un morto, si diresse di gran carriera allo studio di Freeman Temple. — Ehi, ragazzo mio, che diavolo succede? — esclamò Temple preoccupato non appena Kinderman irruppe sudato e ansante nel suo studio. — Ehi, si sieda. Non ha proprio un bell'aspetto. Su, cosa c'è? Kinderman si lasciò andare su una sedia. Non riusciva né a parlare né a pensare. Lo psichiatra si alzò da dietro la scrivania, gli si avvicinò e lo guardò attentamente. — Come si sente? Kinderman serrò gli occhi e annuì. — Potrei avere un po' d'acqua, per
favore? — riuscì finalmente a dire. Si posò una mano sul petto e sentì che il cuore gli batteva ancora molto velocemente. Temple da una brocca versò dell'acqua ghiacciata in una tazza di plastica che teneva sulla scrivania e gliela porse. — Ecco, beva. — Grazie. Sì — disse Kinderman afferrando la tazza. Ne bevve un po', poi ribevve e quindi attese che il suo cuore si calmasse. — Sì, va meglio — alla fine mormorò. — Molto meglio — ben presto il suo respiro tornò normale. — Sunlight — disse a Temple che ancora lo osservava preoccupato. — Voglio vedere il suo incartamento. — E perché? — Voglio vederlo! — gridò Kinderman. Lo psichiatra trasalì. — Sì, O.K., d'accordo. Si calmi. Vado a prenderglielo. Temple infatti in un sol balzo fu fuori dallo studio sgomitando Atkins che proprio in quel momento era sul punto di entrare. — Tenente? — disse Atkins. Kinderman lo guardò con aria assente. — Dove sei stato? — gli chiese. — A scegliere gli anelli per le nozze, tenente. — Questo è bene, Atkins. Normale. Bene, Atkins, resta reperibile — disse Kinderman e voltò la testa verso una delle pareti. Atkins, perplesso, tornò al banco dell'accettazione, vi si appoggiò, si guardò attorno e attese. Non aveva mai visto il tenente così. Temple rientrò e consegnò l'incartamento al tenente, che cominciò a leggerlo mentre lo psichiatra tornava a sedersi. Temple si accese un sigarillo e osservò con cura il volto del detective; quindi abbassò lo sguardo sulle mani che rapidamente sfogliavano le pagine dell'incartamento. Tremavano. Kinderman alzò gli occhi dall'incartamento. — Era già qui quando ricoverarono quell'uomo? — gli chiese bruscamente. — Sì. — Faccia uno sforzo di memoria, per favore, dottor Temple. Com'era vestito? — Cristo, è stato un sacco di anni fa. — Se lo ricorda? — No. — Aveva segni di ferite? Lividi? Lacerazioni? — Dovrebbe essere scritto lì — si limitò a dire Temple. — E invece non c'è! Non c'è! — esclamò Kinderman sbattendo l'incartamento sulla scrivania a ogni "non".
— Ehi, si calmi. L'investigatore si alzò. — Lei o una delle infermiere ha detto all'uomo della cella dodici dell'omicidio di padre Dyer? — Io no. Perché diavolo avremmo dovuto dirglielo? — Chieda alle infermiere — gli ordinò Kinderman. — Voglio la risposta entro stamattina. Poi si voltò e lasciò lo studio. Raggiunse Atkins. — Voglio che tu faccia un controllo alla Georgetown University — gli disse. — V'insegnava un sacerdote... padre Damien Karras. Chiedi se hanno ancora la sua scheda medica e anche quella odontoiatrica. E telefona a padre Riley. Voglio che venga qui immediatamente. Atkins fissò interrogativamente il suo superiore e Kinderman rispose alla sua muta domanda. — Padre Karras era mio amico — disse. — È morto tredici anni fa. Cadde giù dai gradini di Hitchcock. Sono stato al suo funerale — disse ancora. — L'ho visto. È qui. In questo reparto, chiuso in una camicia di forza — concluse. 12 Nella missione per indigenti e vagabondi di Washington, D.C., Karl Vennamun scodellò la zuppa serale ai poveretti seduti alla lunga tavola comune. A coloro che lo ringraziavano, rispondeva con voce calda e profonda: — Dio ti benedica. — La signora Tremley, la fondatrice di quella pia organizzazione, lo seguiva distribuendo il pane tagliato in grosse fette. Quei disgraziati cominciarono a mangiare con mani tremanti e il vecchio Vennamun salì su un piccolo podio di legno e lesse a voce alta brani dalle Sacre Scritture. Verso la fine del pasto, con occhi accesi dal fervore, recitò l'omelia. Aveva ancora una voce ricca e piena, cadenzata, ipnotica, persino nelle pause, con la quale riusciva a tenere in pugno il suo uditorio. La signora Tremley guardò a uno a uno i volti dei suoi protetti e, salvo per un paio che sonnecchiavano vinti dal cibo e dal calore della stanza, su tutti scorse un'intima radiosità, quasi il rapimento. Uno di essi piangeva. Dopo cena, la signora Tremley e Vennamun sedettero a una delle estremità della lunga tavola ora deserta. La donna soffiò sulla tazza di caffè bollente, dalla quale si levavano lente volute di vapore. L'assaggiò. Vennamun teneva le mani conserte sul tavolo e se le fissava in silenzio, assorto nei suoi pensieri. — Karl, preghi magnificamente — gli disse la signora Tremley. — Il tuo è un dono tale... — Vennamun non disse nulla.
La signora Tremley posò la tazza sul tavolo. — Devi tornare a farne partecipe gli altri, Karl. Ormai è tutto passato. Hanno dimenticato quella terribile tragedia. Dovresti ricominciare. Per un po' il vecchio Vennamun non si mosse. Quando infine rialzò il capo e incontrò lo sguardo della Tremley, le disse sommessamente: — Stavo pensando proprio a quello. 13 Venerdì 18 marzo Si dice che ogni essere umano abbia il suo doppio, pensò Kinderman, una controparte fisicamente identica da qualche parte del mondo. Che fosse quella la spiegazione? si chiese. Abbassò lo sguardo sui necrofori che di buona lena lavoravano per disseppellire la bara di Damien Karras. Lo psichiatra gesuita non aveva avuto né fratelli né altri familiari che potessero giustificare la sconvolgente rassomiglianza tra il sacerdote e l'uomo della cella di isolamento. Le schede mediche e odontoiatriche di Karras non esistevano più, erano state gettate dopo la sua morte. Non restava da far altro che questo, pensò Kinderman. Ed eccolo infatti nel cimitero, con Atkins e Stedman, a pregare che la salma contenuta in quella bara fosse quella di Karras. Altrimenti, sarebbe stato l'orrore, inimmaginabile, lo spostamento della mente dai suoi assi. No. Non poteva essere, pensò Kinderman. Impossibile. Eppure, persino padre Riley aveva detto che Sunlight era Karras. — Hai parlato della luce — disse l'investigatore riflettendo. Atkins non aveva parlato affatto ma lo ascoltò comunque, abbottonandosi il colletto del giaccone di pelle. Nonostante fosse mezzogiorno, soffiava un vento gelido e penetrante. Stedman continuò a sorvegliare il lavoro di scavo. — Ciò che vediamo è soltanto una parte dello spettro — rimuginò Kinderman. — Una sottile fessura tra i raggi gamma e le onde radio, una piccola frazione della luce esistente. — Strinse gli occhi e osservò l'argenteo disco del sole appena velato da una nube e dai contorni netti e accecanti. — Quindi, allorché Dio disse: "Sia la luce" — riprese — è probabile che Egli intendesse "Sia la realtà". Atkins non seppe cosa dire. — Hanno finito — disse Stedman e guardò il tenente. — L'apriamo? — Sì, apriamola. Stedman si rivolse ai necrofori e quelli con ogni cura fecero leva sul coperchio della bara e lo sollevarono. Kinderman, Stedman e Atkins guarda-
rono. Il vento rinforzò e scosse e tagliò gelido le falde dei loro soprabiti. — Scoprite chi è — disse infine Kinderman. Non era padre Karras. Kinderman e Atkins entrarono nel reparto agitati. — Voglio vedere l'uomo della cella dodici — disse Kinderman all'infermiera di turno. Gli pareva di sognare e non era sicuro di sapere chi fosse o dove si trovasse. Dubitava persino del fatto che stesse respirando. L'infermiera Spencer controllò i loro documenti. Quando gli occhi di lei incontrarono i suoi, Kinderman vi lesse la stessa ansia e la stessa ombra di timore che aveva già visto in quelli di tutto il resto del personale. Sull'intero ospedale era calata una cappa di silenzio e quelle figure vestite di bianco parevano spettri su una nave fantasma. — Va bene — disse infine con riluttanza. Prese le chiavi dalla scrivania e si avviò verso la cella numero dodici. Kinderman la seguì. Giunti dinanzi alla porta, l'infermiera inserì la chiave e la girò. Kinderman alzò lo sguardo al soffitto del corridoio e in quel momento un'altra lampadina si fulminò. — Entri. Kinderman guardò l'infermiera. — Debbo richiudere a chiave? — gli chiese. — No. Lei lo guardò ancora per un istante, quindi si allontanò. Indossava scarpe nuove, e le pesanti suole di para produssero sulle piastrelle del corridoio vuoto un rumoroso ciac-ciac. Il detective la seguì con lo sguardo poi entrò nella stanza e richiuse la porta. Guardò in direzione della branda. Sunlight lo stava osservando senza alcuna espressione. Il gocciolìo regolare nel lavabo sembrava il lontano battito d'un cuore. Guardandolo negli occhi, l'investigatore avvertì come un palpito di terrore. Si diresse verso la sedia appoggiata alla parete e il suono dei propri passi gli parve di un'evidenza addirittura penetrante. Sunlight continuò a osservarlo sempre col solito sguardo tra l'ingenuo e l'assente. Kinderman si sedette. Per un attimo i loro occhi s'incontrarono, poi quelli di lui si soffermarono sulla cicatrice sopra l'occhio destro e quindi ridiscesero su quello sguardo fisso e inquietante. Kinderman non riusciva a capacitarsi di quel che stava vedendo. — Chi sei? — gli chiese. In quella piccola stanza imbottita, il suono delle sue parole assunse una strana chiarezza. Quasi si chiese chi le avesse pronunciate. Tommy Sunlight non rispose. Lo fissava.
Una goccia. Silenzio. Un'altra goccia. Una sensazione di panico cominciò a insinuarsi nel petto del detective. — Chi sei? — ripeté. — Qualcuno. Kinderman trasalì. La bocca di Sunlight si piegò in una specie di sorriso mentre nei suoi occhi compariva un breve e malevolo scintillìo di scherno. — Sì, naturalmente sei qualcuno — ribatté Kinderman facendo appello al suo autocontrollo. — Ma chi? Sei Damien Karras? — No. — Allora chi sei? Come ti chiami? — Il mio nome è Legione, perché siamo molti. Kinderman fu percorso da un senso di gelo. Desiderò essere fuori di lì ma non riuscì a muoversi. Improvvisamente Sunlight arrovesciò il capo ed emise il chicchiricchì del gallo; poi nitrì come un cavallo. I suoni erano autentici, non semplici imitazioni. A Kinderman si mozzò il fiato. Sunlight chiocciò, e quel suo modo di ridere ricordò al tenente il suono prodotto da un liquido sciropposo, amaro e denso che precipitasse a terra dall'alto. — Sì, le mie imitazioni sono piuttosto buone, non è vero? Dopotutto, me le ha insegnate un maestro — disse e le sue parole parvero le fusa soddisfatte di un grosso gatto. — E poi ho un mucchio di tempo per perfezionarle. Esercizio, esercizio! Ah, sì, ecco la chiave! È il segreto della perizia del mio mattatoio, tenente. — Perché mi chiami tenente? — Non fare l'ingenuo con me — disse e pareva che ringhiasse. — Sai come mi chiamo? — chiese Kinderman. — Certo. — E come lo sai? — Senza fretta — sibilò Sunlight. — Ti mostrerò i miei poteri un poco alla volta. — I tuoi poteri? — Mi stai seccando. — Chi sei? — Lo sai chi sono. — No, non lo so. — Sì, lo sai. — Dimmelo. — Gemini. Kinderman tacque. Ascoltò il gocciolìo del rubinetto. Quindi disse: —
Provamelo. Sunlight arrovesciò nuovamente il capo e ragliò come un asino. Kinderman sentì che gli si rizzavano i peli sul dorso delle mani. Sunlight abbassò lo sguardo e disse in tono realistico: — È spesso consigliabile cambiare argomento di conversazione. Non ti pare? — Sospirò e distolse lo sguardo da terra. — Sì, ne ho vissute di belle esperienze nella mia vita. Molto divertenti. — Chiuse gli occhi e sul suo volto apparve un'espressione beata, quasi stesse odorando una qualche deliziosa fragranza. — Ah, Karen — cantilenò. — Dolce Karen. Nei capelli aveva dei nastrini, dei bei nastrini gialli. Profumava di Houbigant Chantilly. Mi par quasi di sentirlo ancora. Involontariamente Kinderman sollevò le sopracciglia e impallidì. Sunlight lo guardò e lesse sul suo volto ciò che stava pensando. — Sì, l'ho uccisa io — disse Sunlight. — Dopotutto, fu inevitabile, non è vero? Naturalmente. Una divinità modella i nostri destini... e via dicendo. La pescai a Sausalito e poi, più tardi, la mollai nella discarica comunale. Almeno in parte. Un pezzetto me lo tenni. Sono un inguaribile sentimentale. È un difetto; ma chi è perfetto, eh, tenente? A mia discolpa posso dire che conservai i suoi seni nel congelatore per qualche tempo. Sono uno che mette da parte. Indossava un bel vestito. Una camicetta con increspature bianche e rosa. Di tanto in tanto la sento ancora. Urla. Penso che sarebbe meglio che i morti tacessero se non hanno nulla da dire. — Guardò di traverso il tenente poi rovesciò la testa all'indietro e muggì come un vitello. Un suono straordinariamente reale. D'un tratto smise e guardò nuovamente Kinderman. — Ci vuole più impegno — disse con aria corrusca. Per un po' stette zitto osservando Kinderman con uno sguardo fisso e impenetrabile. — Calmati — gli disse infine con voce atona e smorta. — Odo il suono del tuo terrore che ticchetta come un orologio. Kinderman deglutì e ascoltò il gocciolìo del rubinetto, incapace di distogliere lo sguardo. — Sì, ho ucciso anche il ragazzino nero vicino al fiume — disse Sunlight. — È stato divertente. Tutti lo sono stati. Salvo quelli dei preti. Quelli sono stati diversi. Non nel mio stile. Io uccido a caso. Sta lì l'eccitante. Senza motivo. Più divertente. Ma coi preti è stato diverso. Oh, certo, la K ce l'avevano anche loro. Sì, su quello mi sono impuntato. Si deve continuare a uccidere il papà, no? Ma coi preti è stato diverso, non è nel mio stile. Non è stato a caso. Ero in debito... be', lo dovevo a un... amico. — Tacque e attese, continuando a fissare l'investigatore.
— Che amico? — chiese infine Kinderman. — Sai, un amico di là. Dall'altra parte. — Tu sei dell'altra parte? In Sunlight si verificò uno strano quanto repentino mutamento. Quell'aria di sottile assenza scomparve per essere rimpiazzata da un senso di disagio e di paura. — Non sia invidioso, tenente. Si soffre di là. Non è semplice. Oh, no, non è semplice. Talvolta loro possono essere crudeli. Molto crudeli. — "Loro" chi? — Come non detto. Non posso, è proibito. Kinderman rifletté. Si protese verso di lui. — Sai come mi chiamo? — disse. — Ti chiami Max. — No, non mi chiamo così. — Se lo dici tu. — Perché hai pensato che fossi Max? — Non lo so. Mi ricordi mio fratello, immagino. — Hai un fratello di nome Max? — Qualcuno ce l'ha. Kinderman sondò quegli occhi inespressivi. C'era qualcosa di sardonico in esso? Della beffa? Improvvisamente, Sunlight muggì di nuovo come un vitello. Quand'ebbe finito, apparve soddisfatto. — Va meglio — brontolò. Quindi ruttò. — Come si chiama tuo fratello? — chiese Kinderman. — Sbattitene di mio fratello — ringhiò Sunlight ma subito dopo i suoi modi si fecero espansivi. — Lo sai che stai parlando a un artista? — disse. — Talvolta faccio delle cose speciali alle mie vittime. Roba creativa. Ma, è ovvio, ci vuole esperienza, conoscenza, e il giusto orgoglio per il proprio lavoro. Per esempio, sai che le teste decapitate possono continuare a vedere per, oh, diciamo, una ventina di secondi? Così, quando me ne capita una che ha una faccia da allocco, l'afferro e la sollevo in modo che possa contemplare il suo corpo. Un extra che faccio assolutamente gratis. Devo ammettere che mi fa ridere ogni volta, però. Ma perché il divertimento dovrei godermelo soltanto io? Mi piace condividerlo. Ma, naturalmente, non riscuoto nessun credito tra i mezzi d'informazione. Vogliono soltanto stampare delle cosacce sul mio conto. Ma ti pare bello? Kinderman di botto lo interruppe gridando: — Damien! — Per favore, non urlare — disse Sunlight. — Ci sono dei malati qui.
Attieniti alle regole o dovrò cacciarti fuori. Ma, per inciso, chi è questo Damien che insisti a dire che io sia? — Non lo sai? — Talvolta me lo chiedo. — Cosa? — I prezzi del formaggio, e se papà ce la fa ancora. Sui giornali li chiamano gli omicidi di Gemini, eh? Tenente, è importante. Devi fare in modo che lo scrivano. Così paparino lo sa. Questo è il punto. E il motivo. Sono così lieto di poter scambiare queste quattro chiacchiere con te per convincertene. — Gemini è morto — disse Kinderman. Sunlight lo gelò con un'occhiata minacciosa. — Sono vivo — sibilò. — E proseguo. Fai in modo che lo si sappia, ciccione, o ti punirò. — E come? Nuovamente e senza alcun preavviso i modi di Sunlight tornarono amabili. — Danzare è divertente — disse. — Tu danzi? — Se sei Gemini, provalo — disse Kinderman. — Di nuovo? Cristo, ma se ti ho riempito con tutte le tue prove del cazzo! — strillò Sunlight rabbiosamente e i suoi occhi parvero trafiggere il tenente con mille dardi velenosi. — Non puoi avere ucciso né i sacerdoti né il ragazzo. — Sì, invece. — Come si chiama il ragazzo? — Kintry, il piccolo bastardo negro. — Come sei potuto uscire da qui per farlo? — Mi hanno fatto uscire. — Cosa? — Mi hanno fatto uscire. Mi hanno tolto la camicia di forza, hanno aperto la porta e mi hanno lasciato andare a caccia. Tutti i medici e tutte le infermiere. Sono tutti d'accordo con me. Talvolta quando rientro porto loro una pizza o magari una copia del Washington Post. Altre volte, mi chiedono soltanto di cantare. Canto bene. — Rovesciò il capo all'indietro e si mise a cantare con una bella voce impeccabilmente impostata su un acuto falsetto. "Brinda a me solo con i tuoi occhi." La cantò tutta. E Kinderman ancora una volta sentì la morsa della paura. Sunlight terminò e sogghignò. — Ti è piaciuta? Penso di essere piuttosto bravo. Non ti pare? Sono multiforme, poliedrico, come si dice. La vita è
divertente. È una vita meravigliosa, per la verità. Per qualcuno. Troppo cattiva col povero padre Dyer. Kinderman lo fissò. — L'ho ucciso io — disse Sunlight con calma. — Un problema interessante. Ma ha funzionato. Per cominciare, un goccio della vecchia succinilcolina per consentirmi di lavorare senza fastidiose distrazioni; quindi, un catetere, inserito direttamente nella vena cava inferiore... o, in realtà, la vena cava superiore. Questione di gusti, non credi? Poi si fa scivolare il tubicino del catetere dentro la vena dalla piega del braccio e su su fino alla vena che arriva al cuore. A quel punto, gli sollevi le gambe e fai defluire il sangue manualmente sia dalle braccia che dalle gambe. Non è perfetto; nel corpo un po' di sangue ci resta - sono mortificato - ma, insomma, poco male, perché l'effetto è stupefacente e, in fondo, non è proprio questo quello che conta? Kinderman lo ascoltava come stordito. Sunlight chiocciò. — Sì, certo. È il sale dello spettacolo, tenente. Dico l'effetto. Il tutto senza perdere neanche una gocciolina di sangue. È lì che si vedono la bravura dell'allestimento e l'occhio dell'impresario, tenente. Ma, naturalmente, nessuno se ne accorge. Perle ai... Sunlight non ebbe tempo di finire, perché Kinderman si era alzato di scatto, era balzato su Sunlight e l'aveva colpito sulla faccia con un violentissimo manrovescio. E ora, tremante, incombeva su di lui pronto a colpirlo ancora. Il sangue cominciò a fluire dalla bocca e dal naso di Sunlight. — Qualche fischio dal loggione, a quanto pare. Va benissimo. Sì, è giusto. Sì, capisco. Sono stato monotono. Be', vorrà dire che ravviverò un po' la scena per te. Kinderman era confuso, il suono delle parole di Sunlight si era fatto sempre più impastato e le sue palpebre sembrarono improvvisamente cedere a una inaspettata sonnolenza. La testa gli ciondolò. Sussurrò qualcosa. Kinderman si curvò su di lui per afferrare quanto diceva. — Buonanotte, luna; buonanotte, mucca... che salti... sulla luna. Buonanotte... Amy... Piccola, dolce... Avvenne qualcosa di straordinario. Benché le labbra di Sunlight si muovessero appena, un'altra voce cominciò a parlare con la sua bocca. Era una voce maschile ma più giovane e più lieve. Parve giungere come un grido lontano. — F-F-F-Fermalo! — piagnucolò la voce balbettando. — N-N-Non permetter...
— Amy — sussurrò la voce di Sunlight. — N-N-N-No! — gridò l'altra da lontano. — J-J-J-James! N-N-N-No! N-N-N... La voce tacque. Sunlight, la cui testa era ricaduta sul petto, sembrò aver perso i sensi. Kinderman lo fissò, sgomento, senza capire. — Sunlight — chiamò ma quello non rispose. Kinderman si voltò e guadagnò la porta. Premette il pulsante del cicalino e uscì. Attese nel corridoio, l'arrivo dell'infermiera. — È svenuto — le disse. — Di nuovo? Kinderman la guardò con aria interrogativa mentre lei si affrettava a entrare nella cella, controllava le condizioni di Sunlight, usciva dalla cella e lesta ripercorreva il corridoio. Il detective si vergognò e si dispiacque quando la udì gridare: — Il naso, è rotto! Kinderman si affrettò all'accettazione di neurologia, dove Atkins lo attendeva con un fascio di carte. Gliele porse. — Stedman mi ha detto che le voleva subito — disse il sergente. — Cos'è? — chiese Kinderman. — Il referto patologico dell'uomo nella bara — rispose Atkins. L'investigatore si ficcò le carte in tasca. — Primo: voglio un poliziotto di guardia nel corridoio fuori della cella numero dodici — ordinò. — Digli che non si muova finché non glielo dico io. Secondo: trovami il padre di Gemini. Si chiama Karl Vennamun. Cerca di ottenere l'accesso al computer nazionale. Ho bisogno di lui qui, urgentemente. Per favore, Atkins, riescici. È importante. — Sì, signore — rispose il sergente e scappò via. Kinderman si appoggiò al banco ed estrasse le carte che si era messo in tasca. Le scorse rapidamente. Ma poi si fermò e tornò a rileggere un paragrafo. Trasalì. Udì un caratteristico rumore di passi e alzò lo sguardo. L'infermiera Spencer era dinanzi a lui e lo stava squadrando con aria accusatoria. — Lo ha colpito? — gli chiese. — Posso parlarle in privato? — Che si è fatto alla mano? — disse lei. — È gonfia. — Niente, niente, non è niente — disse lui. — Possiamo parlare nel suo ufficio, per favore? — Intanto entri. Devo prendere una cosa — disse l'infermiera e si allontanò dietro l'angolo. Kinderman entrò nel suo piccolo ufficio e sedette alla scrivania. Mentre l'aspettava, rilesse il referto. Già scosso, cadde ancor più
profondamente nel dubbio e nella confusione. — Okay, vediamo la mano — disse l'infermiera rientrando col necessario per le medicazioni. Kinderman le tese la mano e lei iniziò a imbottirla di garza e quindi a fasciarla. — È molto gentile — disse Kinderman. — Si figuri. — Quando le ho detto che Sunlight era come svenuto lei ha detto... "Di nuovo". — Sì? — Sì. — Be', è già successo. Il detective sussultò a un giro più stretto della fascia. — Ecco cosa succede a tirar cazzotti alla gente — disse l'infermiera. — Gli è capitato spesso di cadere in stato d'incoscienza? — Be', in realtà, solo da questa settimana. La prima volta credo sia accaduto domenica. — Domenica? — Sì, mi pare — disse la Spencer. — Poi, di nuovo, il giorno dopo. Se vuol sapere esattamente a che ora, posso controllare sulla cartella. — No, no, a che ora per adesso no. Altre volte? — Be'... — L'infermiera sembrò a disagio. — Intorno alle quattro del mattino di giovedì... cioè, subito prima che trovassimo... — Tacque e guardò Kinderman con aria agitata. — Basta così — fece lui. — Lei è molto emotiva. La ringrazio. In ogni modo, quando accade, le pare un sonno normale? — Per nulla — rispose la Spencer recidendo con un paio di forbici il rotolo della fascia. Assicurò con un cerotto l'estremità tagliata. — Il suo sistema autonomo rallenta fin quasi a cessare: battito cardiaco, temperatura, respirazione. È come se fosse ibernato. Ma il tracciato dell'attività cerebrale dimostra esattamente il contrario. Accelera in maniera folle. Kinderman la fissò in silenzio. — Significa qualcosa? — gli chiese l'infermiera. — Che lei sappia, qualcuno ha detto a Sunlight cos'è successo a padre Dyer? — Non so. Io no. — Il dottor Temple? — Non so. — Ci passa molto tempo da Sunlight?
— Temple? — Sì, Temple. — Sì, penso di sì. Immagino che la consideri come una sfida. — Usa l'ipnosi? — Sì. — Molto spesso? — Non lo so. Non ne sono sicura. Non posso esserlo. — E, per favore, mi sa dire quando ha visto Temple ipnotizzarlo l'ultima volta? — Giovedì mattina. — A che ora? — Intorno alle tre. Coprivo io il turno di una ragazza che è in ferie. Muova un po' le dita. Kinderman agitò la mano fasciata. — Tutto bene? — gli chiese. — Non è troppo stretta? — No, benissimo, grazie. E grazie per le cose che mi ha detto. — Si alzò. — Un'altra cosa — aggiunse. — Le spiace considerare riservata la nostra conversazione? — Certo che sì. Lo stesso vale per il naso rotto. — Sunlight, sta bene adesso? Annuì. — Gli stanno facendo I'EEG proprio adesso. — Mi può informare dell'esito? — Sì. Tenente? — Sì. — È tutto molto strano. Si guardarono in silenzio per qualche istante, poi lui la ringraziò e uscì. Si affrettò per i corridoi fino allo studio di Temple. La porta era chiusa. Alzò la destra per bussare, poi si ricordò che era quella bendata e bussò con l'altra. Dall'interno la voce di Temple disse: — Avanti — e Kinderman entrò. — Oh, è lei — disse lo psichiatra, che col suo camice bianco macchiato di cenere se ne stava seduto alla sua scrivania. Prese un sigarillo, l'umettò, gli indicò una sedia. — Si accomodi. Qualche altro guaio? Ehi, cos'ha fatto alla mano? — Una piccola sbucciatura... — disse Kinderman e si mise a sedere. — Mica tanto piccola... — fece Temple. — Be', in cosa posso esserle utile, tenente?
— Lei ha il diritto di non rispondere — cominciò diligentemente a recitare Kinderman con voce monotona. — Se rinuncia a questo diritto qualsiasi cosa lei dica potrà essere usata contro di lei in tribunale. Lei ha il diritto di interpellare un avvocato e di richiederne la presenza durante l'interrogatorio. Se lo desidera e nel caso in cui non potesse permetterselo, le sarà assegnato un avvocato d'ufficio e senza alcuna spesa prima di venire interrogato. Ha ben compreso il senso di ognuno di questi diritti che le ho ora enunciato? Temple era rimasto di stucco. — Ma che cosa diavolo sta dicendo? — Le ho fatto una domanda — disse secco Kinderman. — Risponda. — Sì. — Ha capito quali sono i suoi diritti? Lo psichiatra parve intimorito. — Sì... ho capito — disse piano. — Dottore, il signor Sunlight nel reparto di isolamento, è in cura presso di lei? — Sì. — Lo cura lei personalmente? — Sì. — Ha usato l'ipnosi? — Sì. — Quante volte? — Direi una o due volte la settimana. — Da quanto tempo? — Alcuni anni. — A che scopo? — Dapprima per indurlo a parlare, poi per scoprire chi fosse. — E l'ha scoperto? — No. — No? — No. Sui due calò un perfetto silenzio. Kinderman continuò a fissare lo psichiatra, che, a disagio, si agitò un po' sulla sedia e infine sbottò: — Mah, ha detto di essere Gemini... È pazzesco. — Perché? — Ma Gemini è morto. — Dottore, è vero o non è vero che tramite l'ipnosi lei ha instillato nel signor Sunlight la convinzione di essere Gemini?
Il volto dello psichiatra si fece di brace, scosse risolutamente la testa e disse: — No. — Non l'ha fatto? — No, non l'ho fatto. — Dottore, ha detto al signor Sunlight il modo in cui padre Dyer è stato ucciso? — No. — Gli ha detto il mio nome e grado? — No. — Ha contraffatto lei uno dei cosiddetti permessi di uscita concernente Martina Lazlo? Temple lo fissò in silenzio, avvampò e disse: — No. — Ne è sicuro? — Sì. — Dottor Temple, è vero o non è vero che lei collaborò in qualità di consulente psichiatrico con la squadra Omicidi di San Francisco che si occupò del caso Gemini? Temple trasalì. — È vero o non è vero? — ripeté Kinderman con tono tagliente. — Sì — rispose lo psichiatra in un soffio. — Il signor Sunlight è a conoscenza di informazioni particolari, esclusivamente note alla squadra Omicidi del caso Gemini, riguardanti l'omicidio di una donna di nome Karen Jacobs assassinata da Gemini nel 1968. Ha fornito lei al signor Sunlight queste informazioni? — No. — Non è stato lei? — No. Lo giuro. — È vero che tramite l'ipnosi lei ha instillato nell'uomo rinchiuso nella cella numero dodici la convinzione d'essere Gemini? — Ho detto di no! — Vuole modificare una qualsiasi parte delle sue dichiarazioni? — Sì. — Quale? — Quella del permesso... — sussurrò Temple. L'investigatore si mise una mano a coppa dietro un orecchio. — Il permesso d'uscita — ripete Temple a voce più alta. — L'ha contraffatto lei? — Sì.
— Per mettere nei pasticci il dottor Amfortas? — Sì. — Perché si sospettasse di lui? — No. Non per questo. — E allora perché? — Non mi piace. — E perché non le piace? Temple esitò. Ma infine disse: — Il suo comportamento. — Il suo comportamento? — Quell'aria di superiorità — spiegò Temple. — E per questa ragione lei ha falsificato il permesso, dottore? Silenzio. — Quando giovedì le parlai dell'omicidio di padre Dyer, le descrissi l'autentico modus operandi di Gemini. Ma lei non fece alcun commento. Perché? Perché mi ha taciuto di esserne già direttamente a conoscenza, vista la sua collaborazione al caso Gemini, dottore? — Non volevo nascondere nulla. — E allora perché ha taciuto? — Ero spaventato. — Cos'era? — Impaurito. Ero sicuro che sospettasse di me. — Durante il caso Gemini, lei balzò agli onori della cronaca per poi ripiombare nell'oscurità. È vero che lei aveva interesse a far sì che le imprese criminali di Gemini avessero un seguito? — No. Kinderman lo perforò con un'occhiata secca, dura, decisa. Lo psichiatra per qualche istante fu incapace di muoversi e di parlare. Poi, infine, Temple si fece terreo e disse con voce tremante: — Non vorrà mica arrestarmi? — Il disgusto, anche il massimo disgusto — disse perentoriamente l'investigatore — non è considerato motivo attendibile per trarre in arresto chicchessia. Lei, dottor Temple, è un uomo orrendo, indecente; ma per il momento posso soltanto ordinarle di tenersi alla larga dal signor Sunlight. Lei non lo avrà più in cura né entrerà nella sua cella fino a nuovo avviso. E si tenga alla larga da me. — Quindi Kinderman si alzò e uscì dallo studio di Temple sbattendosi dietro la porta. Per la maggior parte di ciò che restava del pomeriggio, Kinderman girovagò per il reparto agitati attendendo che l'uomo della dodici riprendesse conoscenza. Attese invano. Intorno alle diciassette e mezzo lasciò l'ospe-
dale. Le strade acciottolate erano ancora scivolose di pioggia. Dalla O Street voltò nella 36a e si diresse verso la casa di Amfortas. Suonò e bussò più e più volte ma anche stavolta non rispose nessuno e Kinderman ci rinunciò. Risalì la O Street e varcò i cancelli dell'università. Andò all'ufficio di padre Riley. La piccola sala d'aspetto era vuota né c'era traccia della segretaria. Il tenente gettò un'occhiata all'orologio e in quell'istante udì padre Riley che dall'ufficio interno lo invitava a entrare. — Sono qui, amico mio. Venga. Il gesuita sedeva alla sua scrivania con le mani allacciate dietro la nuca. Aveva un'aria stanca e depressa. — Si sieda, si rilassi — disse all'indirizzo di Kinderman. Il tenente annuì e si accomodò su una sedia accanto alla scrivania. — Sta bene, padre? — Sì, grazie a Dio, e lei? Kinderman abbassò lo sguardo e annuì. Poi si ricordò del cappello. — Scusi — mormorò togliendoselo. — Cosa posso fare per lei, tenente? — Padre Karras — disse il detective. — Dopo che fu trasportato con l'autoambulanza, cosa accadde, padre? Ne è a conoscenza? Voglio dire, con precisione, padre. Tutto quel che è successo dal momento della morte all'inumazione. Riley gli raccontò ciò che sapeva e, quand'ebbe finito, su entrambi cadde un profondo silenzio. Fuori, il vento nel crepuscolo di quella serata ancora invernale sferzava e ululava alle impannate degli edifici del campus. Quindi il silenzio fu interrotto dallo scricchiolìo prodotto dal tappo metallico di una bottiglia di scotch che il gesuita aveva cominciato lentamente a svitare. Se ne versò due dita in un bicchiere, lo assaggiò e fece una smorfia. — Non so — sussurrò guardando le luci della città che cominciavano a punteggiare i vetri della finestra. — Proprio non so più nulla. Kinderman annuì in silenziosa intesa. Si piegò in avanti, con le mani intrecciate sul grembo e si sforzò di rintracciare a tentoni in quell'intrico di pensieri e di sensazioni che affollavano la sua mente il filo che avrebbe potuto condurlo verso la ragione. — Fu sepolto il mattino dopo — disse, ricapitolando quanto gli aveva detto padre Riley. — La bara era già chiusa, secondo le vostre consuetudini; ma chi l'ha visto per ultimo, padre Riley? Lo sa? Se lo ricorda? Voglio dire, chi l'ha visto l'ultima volta mentre giaceva nella sua bara? Riley con un delicato movimento del polso fece ruotare lo scotch nel
bicchiere osservandone gli ambrati riflessi. Pensava. Poi — Fain — mormorò — padre Fain. — Tacque come se stesse ripassando nella memoria quelle scene di tanti anni prima. Quindi, annuì e confermò: — Sì, esatto, toccò a lui vestire la salma e sigillare la cassa. Dopodiché, nessuno l'ha più visto. — Come ha detto? — Ho detto che nessuno l'ha più rivisto. — Riley si strinse nelle spalle e scosse il capo. — Un triste caso — sospirò. — Si era sempre lamentato che l'Ordine non lo trattasse bene. Aveva dei familiari nel Kentucky e continuava a chiedere di essere trasferito da quelle parti. Verso la fine... — Verso la fine? — Era vecchio; ottanta, ottantuno. Diceva sempre che quando gli sarebbe toccato di morire voleva essere sicuro di morire a casa. Abbiamo sempre pensato che se ne fosse andato perché aveva sentito che la sua ora era ormai prossima. Aveva già un paio di coronarie ridotte molto male. — Proprio due coronarie? — Sì. A Kinderman venne la pelle d'oca. — L'uomo nella bara di Damien... — disse come intontito. — È stato sepolto con l'abito talare? Se lo ricorda? Riley annuì. — L'autopsia... — proseguì Kinderman. — L'uomo era assai anziano e presentava i segni di tre importanti attacchi di cuore. Due, più quello che l'aveva ucciso. I due si guardarono in silenzio. Padre Riley attese che l'investigatore gli dicesse il resto. E Kinderman continuando a fissarlo negli occhi gli disse: — Ci sono tutti gli indizi per concludere che quell'uomo sia morto dì paura. L'uomo nella cella numero dodici non riprese conoscenza fino alle sei circa del mattino successivo, pochi minuti prima che il cadavere dell'infermiera Amy Keating venisse scoperto in una camera vuota del reparto di neurologia. Le avevano squartato il torsp, estratto gli organi e, prima di ricucirlo, l'avevano imbottito di interruttori elettrici. 14 In una zona tra la paura e il desiderio sedeva, con un registratore portatile stretto in pugno, e ascoltava le cassette musicali che avevano scelto e
ascoltato insieme. Era giorno oppure notte, fuori? Non lo sapeva. Il mondo era al di là delle pareti del suo salotto e la luce delle lampade era fioca e indistinta. Non ricordava da quanto tempo sedesse lì. Ore? O soltanto pochi minuti? La realtà danzava ora dentro ora fuori del suo campo visivo in una silenziosa e sconcertante sarabanda. Aveva raddoppiato la dose di steroide, questo lo ricordava; e il dolore si era mutato in una sinistra pulsazione, un prezzo che il suo cervello aveva preteso per la propria rovina, perché la droga corrodeva tutte le sue connessioni vitali. Spostò lo sguardo su un divano e gli parve che si fosse ridotto della metà. Quando lo capì, sorrise, chiuse gli occhi e si lasciò andare completamente alla musica, una canzone da uno spettacolo che avevano visto insieme: Toccami. È facile lasciarmi da solo, col ricordo dei giorni passati con te. Quella canzone l'ossessionava, lo trascinava e l'invadeva. Volle alzare il volume e a tastoni cercò il comando sul registratore allorché udì il suono di una cassetta che cadeva sul pavimento. Quando si chinò per raccoglierla altre due cassette gli scivolarono dal grembo e rovinarono a terra. Aprì gli occhi e lo vide. Difronte a lui c'era il suo doppio. Galleggiava a mezz'aria e teneva le gambe accavallate come fosse seduto, riproducendo esattamente la posizione di Amfortas. Indossava gli stessi blue jeans e lo stesso maglione azzurro e lo fissava col medesimo stupore. Amfortas si chinò in avanti; e quello si curvò in avanti. Amfortas si toccò il viso con la mano; quello replicò esattamente il suo movimento. Amfortas disse — Salve — e quello gli rispose — Salve. Il doppio era un fenomeno di allucinazione che si verificava molto frequentemente in presenza di gravi alterazioni dei lobi temporali; ma guardare quegli occhi, quel volto gli provocò un'inquietudine misteriosa, quasi spaventosa. Amfortas serrò gli occhi e cominciò a respirare profondamente. Un poco alla volta il cuore cominciò a calmarsi. Il doppio sarebbe stato ancora lì quando avrebbe riaperto gli occhi? si chiese. Guardò. Era lì. Adesso Amfortas cominciò a provare una sensazione di fascinazione. Nessun neurologo aveva mai visto "il doppio" né la letteratura sul fenomeno era mai stata esauriente, bensì vaga e contraddittoria. Si sentì sopraffare dall'interesse clinico. Alzò i piedi. Il doppio fece lo stesso. Li rimise giù. Il doppio lo imitò. Quindi Amfortas cominciò ad accavallare e a sca-
vallare le gambe con una sincronicità che si sforzò di mantenere casuale e fortuita ma il doppio riproduceva tutti i suoi movimenti istantaneamente senza la benché minima variazione o imperfezione. Amfortas si fermò e rifletté. Quindi alzò la mano che teneva il registratore. Quando il doppio ripeté l'azione, la sua mano stringeva l'aria. Amfortas si chiese perché quell'illusione non comprendesse anche il registratore; dopotutto, il doppio indossava i suoi abiti. Non riuscì nemmeno a immaginare una spiegazione. Amfortas osservò le scarpe del doppio. Come le sue, erano delle Nike con bande bianco-azzurre. Si guardò i piedi e curvò la punta delle scarpe verso l'interno senza guardare il doppio e quindi senza sapere se quello lo stesse imitando. Se compiva un'azione senza osservarlo, quello l'avrebbe comunque riprodotta? Spostò lo sguardo sui piedi del doppio. Erano curvati verso l'interno. Amfortas si mise a riflettere su quale altro esperimento potesse fare quando si accorse che sull'estremità della stringa sinistra della Nike del doppio c'era come una macchiolina di inchiostro o una piccola sdrucitura. Controllò la sua: identica. Strano, pensò. Fino a quel momento non se n'era accorto. Com'è che l'aveva vista su quella del doppio? Forse lo sapeva inconsciamente, concluse. Amfortas alzò lo sguardo su quello del doppio, che lo guardò a sua volta con occhi stravolti, febbricitanti. Amfortas si protese per osservarli meglio; pensò di scorgervi una luce ardente, probabilmente il riflesso del lume della lampada, pensò. Ma come poteva essere? Nuovamente provò un senso di inquietudine. Il doppio lo fissava con attenzione. Amfortas udì delle voci provenire dalla strada; studenti che passavano. Tornò di nuovo il silenzio. Stava pensando che avrebbe potuto sentire il battito del cuore, allorché, improvvisamente, il doppio si afferrò la testa fra le mani e boccheggiò per il dolore nello stesso istante in cui Amfortas faceva altrettanto. Fu incapace di distinguere tra l'azione del doppio e la sua. Si alzò barcollando e il registratore e le cassette caddero a terra. Dopo aver rovesciato un tavolino e una lampada, Amfortas, a tentoni, raggiunse le scale. Le tenaglie che gli serravano le tempie non cedevano. Gemette; si trascinò fino alla camera, aprì la valigetta da medico che era sul letto e cercò la siringa e la fiala. Impazziva dal dolore. Si accasciò sul bordo del letto e con mani tremanti riempì la siringa. Attraverso la stoffa dei pantaloni si piantò l'ago nella coscia e si iniettò venti milligrammi di steroide. Aveva schiacciato lo stantuffo della siringa così rapidamente che il liquido gli colpì il muscolo come una martellata. Ma presto avvertì un certo sollievo; la morsa si allentava e
lentamente fu di nuovo in grado di pensare. Respirò profondamente e lasciò che la siringa gli scivolasse dalle dita, cadesse a terra e rotolasse sul parquet sino a fermarsi contro la parete di fronte. Quando Amfortas sollevò gli occhi vide dinanzi a sé il doppio, che, seduto a mezz'aria, tranquillamente ricambiava il suo sguardo. Amfortas vide che gli sorrideva, che lui sorrideva. — Avevo perso le tue tracce — dissero all'unisono. Amfortas cominciò a provare una sensazione di leggera allegria. — Sai cantare? — dissero; quindi insieme canticchiarono a bocca chiusa un brano dell'adagio dalla Sinfonia in do di Rachmaninov. Quando smisero, ridacchiarono. — È piacevole la tua compagnia — dissero. Amfortas spostò lo sguardo sul comodino e sulla piccola ceramica biancoverde con l'anatroccolo. Lo prese, lo tenne in mano teneramente, accarezzandolo con gli occhi. — Glielo regalai una delle prime volte che uscimmo insieme — dissero. — Da "Mama Leone" a New York. Il cibo era terribile, ma l'anatroccolo fece centro. Ann lo adorava. Guardò il doppio. Sorrisero affettuosamente. — Diceva che era romantico — dissero. — Come quei fiori a Bora Bora. Diceva che li conservava nel profondo del suo cuore. Amfortas aggrottò le sopracciglia e anche il doppio le aggrottò. Amfortas aveva cominciato a stufarsi di sentire l'eco della propria voce. Provò una curiosa sensazione di fluttuamento, di separazione da ciò che lo circondava. Qualcosa puzzava in maniera orribile. — Vattene — disse al doppio. Ma quello non fece che ripetere simultaneamente — Vattene. — Amfortas si alzò e con passo malfermo si diresse verso le scale. Al suo fianco, come se la sua immagine si riflettesse in uno specchio, il doppio le discese con lui. Amfortas si ritrovò seduto sulla poltrona in salotto. Non ricordava come avesse fatto ad arrivarci. In grembo teneva l'anatroccolo. La sua mente era di nuovo calma e sgombra, anche se si sentiva oppresso dalla sensazione di essersi in qualche modo allontanato dalle sue facoltà percettive. Poteva udire il sordo martellìo che aveva dentro la testa ma sensibilmente non lo avvertiva. Guardò con disgusto il doppio, che, sempre a mezz'aria, lo guardava torvo. Per sottrarsi alla visione, Amfortas chiuse gli occhi. — Ti spiace se fumo? Per un istante fu come se il neurologo non l'avesse sentita, la voce. Ma poi Amfortas aprì gli occhi e trasalì. Il doppio sedeva nell'angolo del divano con una gamba comodamente distesa sui cuscini. Si accese una sigaretta ed espirò il fumo. — Dio solo sa se ho provato a smettere — disse. —
Oh, be', perlomeno a diminuire. Amfortas era come pietrificato. — Ti ho scombussolato? — gli chiese il doppio, che parve sinceramente preoccupato e aggiunse: — Sono terribilmente dispiaciuto. — Si strinse nelle spalle. — Per dirla chiara, non avrei dovuto rilassarmi in questo modo ma, cielo, sono stanco... ecco tutto. Ho bisogno di una sosta. E in questo caso, che male c'è? Capisci ciò che voglio dire? — Fissò Amfortas con un'aria di aspettativa ma il neurologo era ancora senza parole. — Comprendo — disse il doppio alla fine. — Immagino che un po' ce ne voglia per abituarsi. Non mi è mai riuscito di imparare l'entrata "dolce". Suppongo che avrei potuto perlomeno provare con gradualità. — Scrollò le spalle in segno di resa e disse ancora: — Del senno di poi... In ogni modo, sono qui e ti devo delle scuse. In tutti questi anni io sapevo di te, naturalmente, ma tu nulla di me. Un vero peccato. In certi momenti avrei voluto stringerti la mano e parlarti; insomma, presentarmi direttamente. Be', immagino che non possa farlo, nemmeno adesso. Stupide regole. Ma almeno ora due chiacchiere le possiamo fare. — Improvvisamente si fece premuroso. — Ti senti meglio? No. Vedo che la lingua te l'ha mangiata il gatto. Non prepccuparti, continuerò a parlare finché non ti sarai abituato alla mia presenza. — Un po' di cenere gli cadde sul maglione. La guardò e la soffiò via. Mormorò: — Sbadato. Amfortas rise scioccamente. — È vivo — disse il doppio. — Che bello. — Fissò Amfortas che continuava a ridere. — Fino a un certo punto — aggiunse il doppio severamente. — Vuoi che ricominci a imitarti? Amfortas scosse il capo continuando a ridacchiare. Poi si accorse che il tavolino e la lampada che aveva rovesciato erano di nuovo al loro posto. Li guardò, confuso. — Sì, li ho tirati su io — disse il doppio. — Sono reale. Amfortas spostò lo sguardo su di lui. — Sei nella mia mente — disse. — Quattro parole. Bene. Si fanno dei progressi. Mi riferisco alla forma — precisò il doppio — non al contenuto. — Sei un'allucinazione. — Anche la lampada e il tavolino? — Mentre scendevo le scale devo aver perso la coscienza di ciò che facevo, li ho ritirati su e poi l'ho dimenticato. Il doppio sospirando emise un'altra boccata di fumo. — Anime terrestri — mormorò scuotendo la testa. — Potrebbe servire a convincerti se ti toc-
cassi? Se potessi percepirmi col tatto? — Forse — disse Amfortas. — Be', non si può — disse il doppio. — È fuori discussione. — Perché sei un'allucinazione. — Se lo dici ancora una volta, vomito. Ascolta, con chi credi di star parlando? — Con me stesso. — Be', in un certo senso è vero. Complimenti. Sì. Sono la tua seconda anima — disse il doppio. — Di' "Piacere di conoscerti" o qualcos'altro del genere, ti spiace? Per educazione. Oh, questo mi fa tornare in mente una storiella... sulle presentazioni e simili. È assai graziosa. — Il doppio si tirò su a sedere. Sorrise. — Me l'ha raccontata il doppio di Noel Coward e lo stesso Coward dice che è vera, che è accaduto veramente. Dunque, pare che mentre si trovava a un ricevimento a corte, con la regina da una parte e Nicol Williamson dall'altra che davano il benvenuto agli ospiti, arrivò un tale di nome Chuck Connors, un attore americano - lo conosci? naturalmente - che gli tese la mano per stringere la sua e gli disse: "Signor Coward, io sono Chuck Connors!". E Noel immediatamente gli rispose con tono rassicurante: "Diamine, ragazzo mio, certo che lo sei". Non è graziosa? — Il doppio si riappoggiò allo schienale del divano. — Che spirito, quel Coward. Peccato che abbia proseguito oltre il confine. Meglio per lui, naturalmente. Peccato per noi. — Il doppio guardò significativamente Amfortas. — Conversatori di quel calibro sono rari — disse. — Capisci cosa intendo dire oppure no? — Lanciò il mozzicone della sigaretta sul pavimento. — Niente paura. Non brucia — disse. Amfortas provava una strana sensazione, un miscuglio di dubbio e di eccitazione. Nel doppio c'era qualcosa di reale, un gusto per la vita a lui estraneo. — Perché non mi dimostri che non sei un'allucinazione? — gli chiese. Il doppio parve sorpreso. — Dimostrarlo? — Sì. — Come? — Dimmi qualcosa che io non conosco. — Potrei star qui per sempre — ribatté il doppio. — Qualche fatto che non conosco ma che posso verificare. — Conosci quell'aneddoto su Noel Coward? — Potrei essermelo inventato. Non è un fatto. — Sei proprio insaziabile — disse il doppio. — E pensi di possedere
l'arguzia sufficiente per inventartelo? — Il mio inconscio, sì — replicò Amfortas. — Ancora una volta sei vicino alla verità — affermò il doppio. — Il tuo inconscio è la tua seconda anima. Ma non proprio nella maniera in cui l'immagini tu. — Spiegati, per favore. — "Preveniente" — disse il doppio. — Cosa? — Questo è un fatto che tu non conosci. Mi è venuta così. "Preveniente." È una parola. L'ho udita usare da Noel. Ecco, sei soddisfatto? — La parola non la conosco ma conosco però la sua radice latina. — È una cosa assolutamente esasperante se non addirittura insopportabile — disse il doppio. — Ci rinuncio. Hai delle allucinazioni. E ora immagino che starai per dirmi che quegli omicidi non sono opera tua. A rigor di termini tu non lo sai, vecchio mio. Amfortas si sentì gelare. Il doppio l'osservò maliziosamente. — Non negarlo, è evidente. — Quali omicidi? — riuscì infine ad articolare il neurologo. — Lo sai. I preti. Quel ragazzo. — No. — Amfortas scosse vigorosamente il capo. — Oh, non ti ostinare. Sì, lo so, tu non ne eri consapevole a livello conscio. Ancora. — Il doppio si strinse nelle spalle. — Lo sapevi. Lo sapevi. — Non ho nulla a che vedere con quegli omicidi. Il doppio gli lanciò un'occhiata rabbiosa e diffidente. Si tirò su a sedere. — Oh, immagino che adesso tu voglia prendertela con me. Be', io non li ho mai toccati; quindi, lasciami fuori. E oltre a ciò, noi non c'impicciamo. Hai capito? Sei stato tu e la tua collera a commettere quegli omicidi. Sì, la tua collera contro Dio, che ti ha preso Ann. Ammettilo, coraggio. E questa è la ragione per cui ti sei convinto di dover morire. Perché la colpa è tua. Per inciso, è un'idea stupida. È un modo vigliacco per uscirne. Ed è prematuro. Amfortas guardò la ceramica. La strinse scuotendo il capo. — Voglio stare con Ann — disse. — Non è là. Amfortas sollevò lo sguardo su di lui. — Vedo che finalmente ho la tua attenzione — disse il doppio. Si rilassò di nuovo contro la spalliera del divano. — Sì, stai morendo, pensi, perché vuoi riunirti alla tua Ann. Non voglio discutere su questo ora. Sei troppo ostinato. Ma è una cosa inutile. Ann è in un altro settore. E con tutto quel
sangue che hai sull'anima dubito alquanto che tu possa arrivarci. Mi spiace terribilmente dovertelo dire ma non sono qui per dare alimento alle tue bugie. Non posso permettermelo. Ho già abbastanza guai così. — Dov'è Ann? — Il cuore del neurologo cominciò a battere all'impazzata. Il dolore cominciò nuovamente a superare la soglia della coscienza. — Ann è stata curata — disse il doppio. — Come tutti noi. — Lo guardò con malizia. — Sai da dove vengo ora? Amfortas voltò la testa, e fissò inebetito il registratore a bobine sopra uno scaffale e quindi la voltò nuovamente verso il doppio. — Sorprendente. Una pietra miliare nella storia del sapere. Sì, hai già sentito la mia voce sui tuoi nastri. Vengo da lì. La vuoi conoscere tutta questa storia? Amfortas era come ipnotizzato. Annuì. — Sono proprio dispiaciuto, ma non posso dirtela — continuò il doppio. — Scusami. Ci sono norme e regolamenti. Diciamo soltanto che è un posto di transizione. E in quanto ad Ann, come ti ho già detto, ha proseguito. E va bene. Ti eri impegnato a scoprire di lei e di Temple. Al neurologo mancava il fiato. Il martellìo nel cervello ora si era fatto intenso e il dolore ancor più tangibile e penetrante. — Cosa vuoi dire? — balbettò. Il doppio fece spallucce e distolse lo sguardo. — Vuoi sentire una bella definizione della gelosia? È quel sentimento che provi quando qualcuno che tu assolutamente detesti se la spassa alla grande senza di te. C'è del vero in questo. Riflettici. — Tu non sei reale — disse Amfortas con voce rauca. La sua immagine visiva cominciava a sfocare e la figura del doppio di fronte a lui sul divano a tremolare, a ondeggiare. — Cristo, ho finito le sigarette. — Non sei reale. — La luce si offuscava. Il doppio non era più che una voce in mezzo a un vago scintillìo fluttuante. — Oh, davvero? Be', per Dio, mi toccherà infrangere un'altra regola. No, sul serio. La mia pazienza è agli sgoccioli. Oggi a neurologia per la signorina Cecily Woods è il primo giorno di lavoro come infermiera. Non è possibile che tu lo sappia. È di servizio in questo momento. Su, prendi il telefono e controlla se ho ragione oppure no. Volevi un fatto, no? Qualcosa che non conoscevi? Eccotelo. Avanti, chiama il reparto e chiedi dell'infermiera Woods.
— Non sei reale. — Chiamala adesso. — Non sei reale! — gridò Amfortas. Si alzò dalla poltrona stringendo in pugno la ceramica, col corpo scosso dai brividi e il dolore che lo trafiggeva, lo dilaniava, lo stritolava e — Dio! Oh, mio Dio! — urlò mentre singhiozzando e incespicando, ciecamente, a tentoni, si dirigeva verso il divano. Poi la stanza cominciò a turbinare e Amfortas sbandò, inciampò e cadde in avanti sbattendo violentemente la testa contro un angolo del tavolino tra lui e il divano. Rovinò a terra e la ceramica bianca e verde che ancora teneva in mano si frantumò in mille pezzi con uno schianto d'irrimediabile perdita. In pochi secondi il sangue, che fluiva copioso dalla testa, sulla tempia, lambì le schegge della ceramica e bagnò le dita che non mollavano un ultimo frammento, un pezzetto dell'iscrizione che diceva: ADORABILE. Il sangue infine sommerse anche quello e Amfortas sussurrò: — Ann. 15 Sabato 19 marzo Il vecchio si chiamava Perkins ed era ricoverato nel reparto aperto. Era stato trovato svenuto nella camera 400, dove, dalla caposala che aveva preso servizio alle sei, era stato scoperto il cadavere della Keating. Rispetto all'accettazione di reparto la camera risultava oltre l'angolo e fuori dalla portata visiva dei poliziotti di guardia in cima e in fondo alle scale e dinanzi agli ascensori. Il vecchio aveva le mani macchiate di sangue. — Vuole rispondermi? — gli disse ancora Kinderman. Il vecchio, seduto su una sedia, guardava con aria assente innanzi a sé. — Mi piace la cena — disse. — Non dice altro — spiegò l'infermiera Lorenzo a Kinderman. La caposala di neurologia, colei che aveva scoperto il cadavere, se ne stava in piedi accanto alla finestra sforzandosi di non cedere all'orrore che aveva visto. Quello era il suo secondo giorno di lavoro nel reparto. — Mi piace la cena — ripeté ottusamente il vecchio schioccando le labbra sulle gengive sdentate. Kinderman si volse verso l'infermiera di neurologia, ne valutò la pienezza del collo e del viso, poi abbassò lo sguardo sul cartellino di identificazione. — Grazie, signorina Woods — disse. — Può andare. Lei si affrettò a uscire e a richiudersi la porta alle spalle. — Per favore,
vuole accompagnare il vecchio nella stanza da bagno? — disse Kinderman alla Lorenzo. Lei esitò un istante, poi aiutò il vecchio ad alzarsi e lo condusse verso la porta del bagno. L'investigatore era già dentro. L'infermiera e il vecchio si fermarono sulla soglia e Kinderman indicò lo specchio sullo sportello dell'armadietto dei medicinali appeso sopra il lavabo, sul quale era stata tracciata una scritta col sangue. — L'ha scritto lei? — chiese l'investigatore al vecchio girandogli la testa in direzione dello specchio. — Gliel'ha fatto scrivere qualcuno? — Mi piace la cena — ripeté. Il tenente lo fissò, quindi riabbassò la mano con cui teneva la testa del vecchio e disse all'infermiera: — Lo porti via. Lei annuì e accompagnò il vecchio fuori del bagno. Kinderman ascoltò i loro passi incerti che si allontanavano e, quando udì chiudersi delicatamente la porta della camera, osservò la scritta sullo specchio. Si umettò le labbra secche. IL MIO NOME È LEGIONE, PERCHÉ SIAMO MOLTI Kinderman uscì in fretta dalla camera e andò da Atkins, che lo attendeva al banco dell'accettazione. — Seguimi, Nemo — gli ordinò il detective senza fermarsi. Il sergente gli tenne dietro finché giunsero nel settore di isolamento e dinanzi alla porta della cella numero dodici. Kinderman guardò dentro attraverso lo spioncino. L'uomo nella cella era sveglio. Con indosso la camicia di forza era seduto sul bordo della branda. Ghignava. Le sue labbra cominciarono a muoversi come se stesse dicendo qualcosa, ma Kinderman non poteva udirlo. — Da quanto sei qui? — chiese il detective al poliziotto di guardia accanto alla porta. — Da mezzanotte. — Da allora è entrato nessuno là dentro? — Soltanto l'infermiera, un paio di volte. — Dottori? — No. Soltanto l'infermiera. Kinderman rifletté, quindi si rivolse ad Atkins. — Di' a Ryan che voglio le impronte digitali di tutto il personale ospedaliero — disse. — Cominci con Temple e poi vada avanti con tutti quelli che lavorano a neurologia e psichiatria. Dopo vedremo. Procurati degli altri uomini per aiutarlo a pren-
dere le impronte; e poi voglio, di corsa, che le confronti con quelle trovate sulle scene dei delitti. Procurati più uomini che puoi. Bisogna sbrigarsi. Avanti, Atkins. Datti da fare. E di' all'infermiera di venire qui con le chiavi. Kinderman lo guardò affrettarsi lungo il corridoio e poi sparire dietro l'angolo. Allora il tenente ne ascoltò i passi che poco alla volta svanivano portandosi dietro la loro sonora tangibilità. Sull'anima di Kinderman discese nuovamente il buio. Gettò un'occhiata al soffitto. Tre lampadine fulminate. Sul corridoio era come se ristagnasse una cortina. Passi. L'infermiera che si avvicinava. L'attese. Lo raggiunse e lui le indicò la porta della dodici. L'infermiera lo guardò bene negli occhi, quindi aprì la porta e il tenente entrò. Sunlight aveva il naso incerottato e bendato. Tenne gli occhi inchiodati su Kinderman, che si avvicinò alla sedia e si mise a sedere. Sui due cadde un silenzio grave e claustrofobico. Sunlight se ne stava perfettamente immobile, una statua di ghiaccio con gli occhi spalancati. Ricordava un personaggio da museo delle cere. Kinderman alzò lo sguardo alla lampadina che dondolava dal soffitto. Tremolava. Si fermò. Il tenente udì una risatina. — Sì, sia la luce — disse la voce di Sunlight. Kinderman fissò quei suoi occhi spalancati e vacui. — Hai avuto il mio messaggio, tenente? — gli chiese. — L'ho lasciato alla Keating. Brava ragazza. Di cuore. A proposito, sono contento che tu abbia fatto chiamare il babbo. Una cosa, però, un piacere. Puoi telefonare alla United Press e assicurarti che babbo sia fotografato assieme alla Keating? È la ragione per cui uccido, sai... per disonorarlo. Aiutami. Ti ricompenserò. La morte se ne andrà in vacanza. Solo un giorno, però. Ti assicuro che me ne sarai grato. Nel frattempo, potrei parlare ai miei amici di te. Metterci una buona parola. A loro non piaci, sai? Non chiedermi perché. Continuano a dire che anche il tuo cognome comincia per K ma io faccio finta di nulla. Non sono bravo? E coraggioso. Sono così capricciosi quando si arrabbiano. — Parve riflettere su qualcosa e si strinse nelle spalle. — Lasciamo stare. Non parliamo di loro adesso. Proseguiamo. Costituisco un interessante problema per te, non credi, tenente? Voglio dire, immagino che adesso ti sia convinto che io sono sul serio Gemini. — Il suo volto divenne una maschera minacciosa. — Ne sei convinto? — No — replicò Kinderman. — Ti comporti molto scioccamente — disse con voce stridula Sunlight. — E chiaramente mi inviti a danzare.
— Non so cosa tu voglia dire — disse Kinderman. — Neanch'io — rispose Sunlight con tono inespressivo. Il suo volto assunse un'aria ingenua. — Sono pazzo. Kinderman continuò a guardarlo ascoltando il gocciolìo del rubinetto. Poi disse: — Se sei Gemini, come fai a uscire da qui? — Ti piace l'opera? — chiese Sunlight e cominciò a cantare con voce ricca e profonda un brano della Bohème. Improvvisamente s'interruppe e lo guardò. — I drammi mi piacciono assai di più — disse. — Quello che preferisco è Tito Andronico. È tenero — ridacchiò. — Come sta il tuo amico Amfortas? — gli chiese. — Ho sentito che di recente ha avuto una visitina. — Cominciò a starnazzare come un'anatra, poi s'interruppe. Stornò lo sguardo e ringhiò: — Più impegno. — Si concentrò nuovamente su Kinderman. — Vuoi sapere come faccio a uscire? — Sì, dimmelo. — Amici.' Vecchi amici. — Quali amici? — No, mi secca. Parliamo d'altro. Kinderman attese sostenendo il suo sguardo. — Hai fatto male a colpirmi — disse alla fine Sunlight. — Non posso difendermi. Sono matto. Kinderman ascoltò il gocciolìo del rubinetto. — La signorina Keating mangiava tonno — disse Sunlight. — L'ho sentito dall'odore. Robaccia che danno negli ospedali. Disgustoso. — Come fai a uscire di qui? — ripeté l'investigatore. Sunlight arrovesciò il capo e chiocciò. Quindi piantò due occhi lucenti sul tenente. — Ci sono parecchie possibilità... ci ho pensato tanto. Cercherò di formularle. Tu pensi che questo possa essere vero? Può darsi che io sia il tuo amico padre Karras. Forse mi hanno dato per morto senza che lo fossi. In seguito sono resuscitato in un momento... diciamo... imbarazzante, e poi ho vagato per le strade senza sapere chi fossi. Se è per questo, non lo so ancora. E, inutile dirlo, naturalmente, io sono completamente e inguaribilmente pazzo. Sogno spesso di cadere da una lunga rampa di scale. È qualcosa che è accaduto realmente! Se è così, di sicuro deve aver avuto delle conseguenze sul mio cervello. È accaduto, tenente? Kinderman non rispose. — Altre volte sogno di essere un tale di nome Vennamun — disse Sunlight. — Quei sogni sono belli. Ammazzo. Ma non posso separare i sogni dalla realtà. Sono pazzo. Fai proprio bene a essere scettico, tu. Però, sei un
investigatore della Omicidi. Quindi è chiaro che qualcuno è stato ammazzato. Questo torna. Sai quel che penso? E il dottor Temple. Non potrebbe ipnotizzare i suoi pazienti e fargli fare delle, diciamo, azioni socialmente inaccettabili ai nostri giorni? Ah, che tempi! Vanno di male in peggio, non credi? Chissà, forse sono telepatico e possiedo delle facoltà psichiche particolari che mi consentono di conoscere i delitti di Gemini. È un'idea, che ne dici? Sì, vedo che ci stai riflettendo. Fai bene. A proposito, medita anche su questo. Ancora non ci hai pensato. — I suoi occhi ebbero un lampo sarcastico e si protese un poco verso l'investigatore. — E se Gemini avesse un complice? — Chi ha ucciso padre Bermingham? — Chi è? — rispose Sunlight con aria innocente. — Non lo sai? — Non posso essere dappertutto nello stesso momento. — Chi ha ucciso la Keating? — "Spegni la luce; e poi spegni la luce." — Chi l'ha uccisa? — La luna invidiosa. — Sunlight arrovesciò il capo e muggì come un vitello. Poi tornò a guardare Kinderman. — Penso che ci siamo — disse. — Manca poco. Di' alla stampa che sono Gemini, tenente. Ultimo avviso. Poi tacque fissando l'investigatore minacciosamente. — Padre Dyer era stupido — disse alla fine. — Uno stupido. E la tua mano come va? Ancora gonfia? — Chi ha ucciso la Keating? — Sobillatori. Sconosciuti e, senza alcun dubbio, gente grossolana. — Se sei stato tu, cosa ne hai fatto dei suoi organi? Questo lo saprai. Cosa ne hai fatto? Dimmelo. — Mi piace la cena — disse Sunlight con voce atona. Kinderman squadrò i suoi occhi inespressivi. — Vecchi amici. — Il cuore dell'investigatore perse un colpo. — Papà l'ha saputo — disse alla fine Sunlight distogliendo lo sguardo dal tenente e fissando il vuoto con aria assente. — Sono stanco — disse piano. — Il mio lavoro non finisce mai, a quanto pare. Sono stanco. — Per un istante diede l'impressione di una grande impotenza. Quindi assunse un aspetto sonnolento. Chinò il capo. — Tommy non capisce — mormorò. — Gli ho detto di proseguire senza di me ma non vuole. Ha paura. Tommy è... arrabbiato... con me. Kinderman si alzò, gli si avvicinò e quasi accostò l'orecchio alla bocca
di Sunlight per riuscire ad afferrare il senso dei suoi sussurri. — Il piccolo Jack Horner. Gioco... da ragazzi. — Kinderman attese di udire dell'altro ma invano. Sunlight aveva nuovamente perso conoscenza. L'investigatore lasciò in fretta la cella. Si sentiva oppresso da un terribile presentimento. Uscendo, suonò il cicalino per avvertire l'infermiera, che arrivò in pochi secondi. Kinderman si diresse a neurologia in cerca di Atkins, che trovò al solito posto, al banco dell'accettazione, intento a telefonare. Quando vide il tenente accanto a sé si affrettò a concludere la conversazione. In quel momento, un ragazzino sui sei anni, seduto su una sedia a rotelle sospinta da un inserviente, fece il suo ingresso nel reparto. — Ecco qua il tuo ometto — disse l'inserviente alla caposala quando i due giunsero al banco. L'infermiera sorrise al bambino e lo salutò. — Ehi, ciao. L'attenzione di Kinderman continuò a concentrarsi su Atkins. — Cognome? — chiese l'infermiera. L'inserviente disse: — Korner. Vincent P. — Vincent Paul — precisò il bambino. — Con la C o con la K? — chiese ancora l'infermiera all'inserviente, che le porse delle carte. — Con la K. — Atkins, sbrigati — lo incalzò Kinderman. Nel giro di qualche altro secondo il sergente terminò e il bambino venne accompagnato in una camera di neurologia. Atkins riagganciò. — Metti un uomo all'ingresso del reparto aperto di psichiatria — gli disse allora Kinderman. — Sorveglianza ventiquattr'ore su ventiquattro. Nessun paziente deve uscirne, per nessun motivo. Per nessun motivo! Atkins riprese il telefono ma il tenente lo trattenne. — Telefona dopo. Procurami qualcuno subito. Atkins con un gesto richiamò l'attenzione di uno dei poliziotti in divisa di guardia agli ascensori che rapidamente li raggiunse. — Vieni con me — disse Kinderman. — Atkins, me ne vado. Ciao. L'investigatore e il poliziotto si affrettarono verso il reparto aperto. Quando giunsero nell'ingresso, Kinderman si fermò e istruì il poliziotto. — Nessun paziente deve uscire di qui. Soltanto il personale. Capito? — Va bene, signore. — Finché non verranno a darti il cambio, non ti allontanare per nessuna ragione. Non andare neppure al bagno.
— Sì, signore. Kinderman lo salutò ed entrò nel reparto. Ben presto si ritrovò nella sala comune a pochi passi dall'ufficio infermiere sulla destra. Si guardò intorno lentamente, scrutando ogni volto con circospezione e con un crescente senso di timore. E tuttavia tutto sembrava normale. Cosa c'era di strano? Improvvisamente si rese conto del silenzio. Guardò la piccola folla intorno al televisore. Sbatté le palpebre e fece per avvicinarsi ma fatti pochi passi si arrestò. Stavano fissando con grande attenzione lo schermo vuoto. Il televisore era spento. Kinderman girò lo sguardo per la sala e per la prima volta si accorse che non c'erano né infermiere né inservienti. Gettò una rapida occhiata all'ufficio dietro il banco. Nessuno. Guardò ancora il gruppo silenzioso intorno al televisore. Il cuore cominciò a battergli forte. In un attimo fu al banco, lo superò e aprì la porta del piccolo ufficio. Per lo shock indietreggiò: a terra giacevano feriti al capo e privi di sensi un'infermiera e un inserviente. L'infermiera era nuda ma l'uniforme lì intorno non c'era. Gioco da ragazzi! Vincent Korner! Quelle parole apparvero nella mente di Kinderman come un lampo. Si voltò di corsa e si gettò fuori dall'ufficio; ma ciò che lo attendeva varcata la soglia lo paralizzò. Tutti i pazienti della sala stavano dirigendosi verso di lui, formando una specie di laccio che, passo dopo passo, veniva serrandosi, in uno spaventoso, terrificante silenzio, reso ancor più agghiacciante dall'unico rumore percepibile: il lento frusciare delle loro pantofole. I pazienti lo fissavano con aria astuta, gli occhi scintillanti, e ora uno, ora un altro, ora un altro ancora cantilenò un amabile ma sconcertante — Salve. — Oh, salve. — Che piacere vederti. Poi, sempre avvicinandosi, cominciarono a sussurrare parole inintelligibili. Allora, Kinderman gridò, chiamò aiuto. Il bambino era stato medicato e dormiva. Le tapparelle della finestra erano state chiuse e l'oscurità della camera era fiocamente interrotta dallo sfarfallìo dei cartoni animati trasmessi dal televisore a cui era stato spento l'audio. La porta silenziosamente si aprì e una donna vestita da infermiera entrò nella stanza. In mano teneva una borsa per la spesa. Richiuse con cura la porta dietro di sé, posò a terra la borsa e ne estrasse qualcosa. Fissò con attenzione il bambino e quindi, senza far rumore, gli si avvicinò. Il piccolo, supino, si agitò e socchiuse gli occhi assonnati. Mentre si chinava su di lui la donna lentamente sollevò una mano. — Guarda un po' cos'ho
per te, tesoro — canticchiò. In quell'istante Kinderman irruppe nella stanza, e gridando un disperato: — No! — da dietro agguantò la donna per il collo. La donna annaspò, tentando di liberarsi dalla stretta strangolante del tenente, agitando debolmente le braccia. Il bambino, che si era tirato su, cominciò a piangere terrorizzato mentre Atkins seguito da un poliziotto si scaraventava nella camera. — L'ho presa! — esclamò con voce rauca Kinderman. — La luce! Accendi la luce! La luce! — Mamma! Mamma! Si accesero le luci. — Non respiro! — gracchiò l'infermiera e un orsacchiotto le cadde di mano. Kinderman, sorpreso, lo guardò e lentamente mollò la sua spasmodica presa. L'infermiera flesse il collo e se lo massaggiò. — Gesù Cristo! — esclamò. — Ma che diavolo le prende? È pazzo? — Voglio la mamma! — gemette il bambino. L'infermiera l'abbracciò, stringendoselo al petto. — Mi ha quasi spezzato il collo! — strillò all'indirizzo di Kinderman. Il detective cercò di riprendere fiato. — Mi scusi... — disse ansimando. — Mi scusi... — Tirò fuori un fazzoletto e con quello si tamponò un lungo graffio sulla guancia. — Sono mortificato. Atkins prese la borsa e controllò il contenuto. — Giocattoli — disse. — Che giocattoli? — disse il bambino calmandosi improvvisamente e sciogliendosi dall'abbraccio dell'infermiera. — Rovescia l'ospedale! — ordinò Kinderman ad Atkins. — Sto cercando qualcuno! Trovatela! — Che giocattoli? — ripeté il bambino. Altri poliziotti apparvero sull'uscio ma Atkins li rimandò indietro con nuovi ordini. Anche il poliziotto che era entrato col sergente uscì e si unì agli altri. L'infermiera prese la borsa e la portò al bambino. — Non le credo — disse l'infermiera al tenente rovesciando il contenuto della borsa sul lettino. — Tratta così anche la sua famiglia? — continuò risentita. — La mia famiglia? — La mente di Kinderman cominciò a galoppare e d'un tratto gli occhi gli caddero sul cartellino di identificazione dell'infermiera: JULIE FANTOZZI. — ...m'inviti a danzare... — Julie! Dio mio! Si scaraventò fuori della camera.
Mary Kinderman e sua madre erano in cucina a preparare il pranzo. Julie era seduta al tavolo e leggeva un romanzo. Suonò il telefono. Anche se Julie era la più lontana dall'apparecchio andò lei a rispondere. — Pronto?... Oh, ciao, papà... certo. Ecco mamma. — Tese la cornetta alla madre e poi tornò a leggere. — Ciao, tesoro. Vieni a pranzo? — Mary ascoltò per qualche istante. — Oh, davvero? — disse. — Perché? — Ascoltò ancora. Infine disse: — Certo, caro, se lo dici tu. Ma, senti, vieni a pranzo o no? — restò in ascolto. — Va bene, caro. Lo terrò in caldo. Ma sbrigati, mi manchi. — Riagganciò il telefono e tornò al pane che aveva infornato. — Allora? — disse sua madre. — Nulla — disse Mary. — Sta arrivando un'infermiera con un pacco. Il telefono squillò nuovamente. — Contrordine — borbottò la madre di Mary. Di nuovo Julie balzò verso il telefono ma sua madre le fece segno di star seduta. — Non rispondere — le disse. — Tuo padre vuole la linea libera. Se chiama lui, prima ci fa due squilli. Kinderman era in piedi al banco dell'accettazione di neurologia. A ogni segnale di libero del telefono la sua ansia aumentava. Si premette il ricevitore contro l'orecchio. Qualcuno risponda! Risponda! pensò. Lasciò che dall'altra parte del filo il telefono squillasse per un altro, interminabile minuto, poi sbatté giù il ricevitore e si precipitò giù per le scale. Non pensò neppure di attendere l'ascensore. Quando sbucò nell'atrio boccheggiava ma non si fermò e a perdifiato uscì sulla strada. Raggiunse una delle auto della polizia, vi saltò sopra e si tirò dietro la portiera. — 2-0-7-1-8 Foxhall Road e di corsa! — ordinò ansimando al poliziotto seduto al volante. — La sirena! Al diavolo il codice! E corri! Corri! Con uno stridìo di pneumatici schizzarono via e in pochi minuti a sirene spiegate imboccarono Reservoir Road e quindi risalirono la Foxhall in direzione dell'abitazione di Kinderman. Per tutto il percorso, il tenente aveva tenuto gli occhi serrati, pregando; e ancora pregava quando l'auto con un secco colpo di freni inchiodava. Aprì gli occhi. Erano di fronte a casa. — Fai il giro! La porta sul retro! — ordinò al poliziotto, che si scaraventò dall'auto e prese a correre pistola in pugno. Kinderman schizzò fuori dall'auto e, precipitandosi verso la porta d'ingresso, estrasse la pistola e pe-
scò da una tasca le chiavi di casa. Con mano tremante tentò di infilare la chiave nella toppa ma proprio in quel momento la porta si spalancò. Julie gettò un'occhiata alla pistola, quindi si volse verso l'interno della casa e a voce alta chiamò: — Mamma, è papà! — Un istante dopo Mary era sulla soglia. Guardò la pistola e poi il marito severamente. — La carpa è già morta. Cosa diavolo ti piglia? — gli disse. Kinderman abbassò la pistola, entrò in fretta e abbracciò la figlia. — Dio mio, grazie! — sussurrò. Comparve la madre di Mary. — Sulla porta posteriore c'è un assaltatore — disse. — Ci siamo. Che debbo dirgli? — Bill, voglio una spiegazione — disse Mary. Kinderman baciò su una guancia la figlia e rinfoderò la pistola. — Sono pazzo. Ecco tutto. Non c'è altro da dire. — Gli dirò che siamo i Febré — brontolò la madre di Mary e sparì dentro casa. Squillò il telefono e Julie corse a rispondere all'apparecchio del salotto. Kinderman entrò in casa e si diresse verso la porta di servizio. — Avvertirò io il poliziotto — disse. — Avvertirlo di che? — chiese Mary e si mosse per seguirlo in cucina. — Bill, che sta succedendo? Me lo vuoi spiegare, per piacere? Kinderman si gelò. Vicino a una delle pareti del corridoio che conduceva in cucina vide una borsa per la spesa. Si affrettò per raccoglierla allorché dalla cucina udì una voce anziana di donna che lo salutava. — Salve — cantilenò la voce. Kinderman in un baleno estrasse la pistola, varcò la soglia della cucina e puntò l'arma verso la tavola, dov'era seduta una donna anziana vestita da infermiera che lo fissava senza alcuna espressione. — Bill! — gridò la moglie. — Oh, caro, sono così stanca — disse la donna. Mary afferrò il braccio del marito e l'abbassò. — Metti giù la pistola qui dentro! Mi senti? — urlò. In quel momento anche il poliziotto si precipitò in cucina spianando il revolver. — Giù quella pistola! — strillò Mary. — Volete piantarla? — gridò Julie dal salotto. — Sono al telefono! La madre di Mary borbottò: — Goyim — e continuò a rimestare un intingolo che sobbolliva su un fornello. Il poliziotto guardò Kinderman. — Tenente? Il detective teneva gli occhi incollati sulla donna, che aveva un'espres-
sione affaticata e confusa. — Mettila giù, Franck — disse Kinderman. — Va tutto bene. Torna indietro. Torna all'ospedale. — Bene, signore. — Il poliziotto rimise la pistola nella fondina e uscì. — In quanti siamo a pranzo? — domandò la madre di Mary. — A questo punto vorrei saperlo. — Bill, cos'è tutta questa messinscena? — chiese Mary. Indicò la donna. — Che infermiera sarebbe questa che mi hai mandato? Le ho aperto la porta ed è svenuta. Ha buttato la testa all'indietro, ha gridato qualcosa e poi è caduta a terra svenuta. Dio mio, è troppo anziana per essere un'infermiera. Lei... Kinderman le fece cenno di tacere. La donna lo guardò smarrita. — È ora di andare a dormire? — gli chiese. L'investigatore lentamente si sedette al tavolo. Si tolse il cappello e lo appoggiò delicatamente su una sedia. — Sì, è quasi ora di andare a dormire — le disse piano. — Sono così stanca. Kinderman la guardò bene negli occhi. Occhi dolci e ingenui. Poi guardò la moglie, che gli stava accanto con sul volto dipinta un'espressione in cui si mescolavano stupore, perplessità e fastidio. — Hai detto che ha detto qualcosa? — le chiese Kinderman. — Come? — rispose Mary accigliata. — Hai detto che lei ha detto qualcosa. Cosa? — Non ricordo. Insomma, cosa sta succedendo? — Per favore, sforzati di ricordarlo. Cos'ha detto? — "Finito" — bofonchiò la madre di Mary dai fornelli. — Sì, ecco — confermò Mary. — Ora ricordo. Ha gridato "Ha finito" e poi è svenuta. — "Ha finito" oppure "Finito"? — insisté Kinderman. — Quale delle due? — "Ha finito" — disse Mary. — Dio, dalla voce sembrava un lupo mannaro... Cos'ha fatto questa donna? Chi è? Kinderman guardava altrove. — Ha finito — mormorò pensierosamente. Julie entrò in cucina. — Allora, cosa succede? — disse. — Che c'è? Il telefonò squillò di nuovo. Stavolta rispose Mary. — Pronto? — È per me? — chiese Julie. Mary porse la cornetta a Kinderman. — Per te — disse. — Le darò un po' di minestra, poveretta. L'investigatore prese il telefono. — Kinderman — disse.
Era Atkins. — Tenente, sta chiedendo di lei — disse il sergente. — Chi? — Sunlight. È fuori di sé. Continua a sbraitare il suo nome. — Arrivo subito — disse Kinderman e con calma riagganciò. — Bill, queste cosa sono? — gli domandò Mary da dietro. — Erano nella borsa della spesa... Il pacchetto era questo? Kinderman si volse e gli mancò il respiro. Mary gli mostrava un luccicante paio di cesoie chirurgiche. — Ma ne abbiamo bisogno? — gli chiese la moglie. — No. Kinderman chiamò un'altra auto della polizia e riaccompagnò la vecchia all'ospedale, dove venne riconosciuta come una delle pazienti del reparto aperto di psichiatria. Fu presa in consegna e immediatamente trasferita per osservazioni nel reparto agitati. Kinderman fu informato sulle buone condizioni di salute dell'infermiera e dell'inserviente, che non erano stati feriti gravemente e che sarebbero tornati al lavoro la settimana seguente. Soddisfatto, si diresse al reparto isolamento, dove l'attendeva Atkins. Il tenente lo trovò a braccia conserte appoggiato con le spalle alla parete di fronte alla porta aperta della cella numero dodici. Aveva uno sguardo assorto e preoccupato. — Che ti succede? — gli chiese Kinderman. — C'è qualcosa che non va? Atkins scosse il capo. Kinderman l'osservò. — Ha detto che lei era qui — disse Atkins. — Quando? — Un minuto fa. Dalla cella uscì l'infermiera Spencer. — Entra? — domandò al detective. Kinderman annuì, si volse e lentamente varcò la soglia della cella. Si richiuse la porta alle spalle, andò alla solita sedia e si accomodò. Sunlight lo fissava con occhi scintillanti. Cosa c'era di . diverso in lui? si chiese l'investigatore. — Volevo semplicemente vederti — disse Sunlight. — Mi hai portato fortuna. Sono in debito con te, tenente. Inoltre, voglio raccontarti come è andata tutta la faccenda. — E come è andata? — gli chiese Kinderman. — Julie l'ha scampata per un pelo, non trovi? Kinderman attese che proseguisse. Ascoltò lo sgocciolìo del rubinetto. Di botto Sunlight arrovesciò la testa ed esplose in una delle sue solite risa-
te chiocce. Quindi, tornò a fissarlo coi suoi occhi fiammeggianti. — Non l'hai indovinato, tenente? Diamine, sì che l'hai indovinato. Alla fine hai ricomposto tutto il quadro... Come i miei piccoli, preziosi surrogati svolgessero il mio lavoro, i miei cari, dolci, vecchi, vuoti recipienti. Be', sono ospiti perfetti, naturalmente. Non sono qui. Le loro personalità sono andate in frantumi. E io ci scivolai dentro. Temporaneamente. Soltanto temporaneamente. Kinderman lo fissava. — Oh, sì, sì, certo. Questo corpo. Un tuo amico, tenente? — Sunlight fu scosso da un attacco di risa che si trasformò in un acuto raglio di asino. Kinderman provò una sensazione di gelo alla nuca. Improvvisamente Sunlight la smise e lo guardò con aria assente. — Be', una morte così brutta — disse. — Non mi piaceva, no? È sconvolgente. Sì, mi sentivo proprio male. Sai... alla deriva. Avevo ancora un sacco di lavoro da fare e nessun corpo. Non era giusto. Ma poi, alla fine, arrivò... be', un amico. Sai, uno di loro. Pensò che il mio lavoro dovesse continuare. Ma in questo corpo. Questo qui in particolare, sì. Il detective lo ascoltava come ipnotizzato. — Perché? — chiese. Sunlight si strinse nelle spalle. — Chiamiamola ripicca. Vendetta. Burla. Una certa questione riguardante un esorcismo, credo, al quale il tuo amico Karras aveva partecipato e, insomma, espulso certi componenti dal corpo di una bimba. Certi componenti piacevoli, a dir poco. No, infelici. — Per un istante lo sguardo di Sunlight si fece assorto, tormentato. Rabbrividì. Tornò a guardare l'investigatore. — Così pensò a questa beffa per ritornare: usare questo pio, eroico corpo come lo strumento di... — Sunlight si strinse nelle spalle. — Be', lo sai. La mia cosa. La mia opera. Quel mio amico fu molto comprensivo. Mi portò dal nostro comune amico padre Karras. Che non stava troppo bene in quel momento. Temo. Nel trapasso. In punto di morte, come si dice. Così mentre lui scivolava via, il mio soccorrevole amico mi aiutò a scivolarci dentro. Navi che s'incrociano di notte e via dicendo. Oh, naturalmente, ci fu un po' di confusione ai piedi delle scale quando quelli dell'ambulanza dissero che Karras era morto. Be', morto lo era, tecnicamente parlando. Voglio dire, in senso spirituale. Era fuori. Ma io ero dentro. Un po' traumatizzato, a dire il vero. E come poteva essere altrimenti? Il suo cervello era come una gelatina. Mancanza di ossigeno. Disastro. Non è semplice essere morti. Ma, insomma, mi sono arrangiato. Sì, un grosso sforzo, che almeno mi fece rialzare dalla bara. Poi un po' di farsa e un tocco di sana comicità quando quel vecchietto, Fain, mi vide in
piedi. Mi hanno aiutato. Sì, talvolta è la capacità di sorridere che ci fa andare avanti, lo stimolo di un'allegrezza inaspettata. Ma poi, per qualche tempo andò piuttosto male. Per qualche tempo? Dodici anni. Troppi danni alle cellule cerebrali, capisci? Se n'erano rovinate troppe. Ma il cervello possiede dei poteri sorprendenti, tenente. Chiedilo al tuo amico, il buon dottor Amfortas. Oh, no, immagino che dovrò chiederglielo io per te. Sunlight tacque. — Il loggione tace? — disse infine. — Non mi credi, tenente? — No. Quell'aria beffarda svanì dal volto di Sunlight e per un attimo apparve sconcertato, impotente. — Non mi credi? — chiese ancora e la sua voce tremò. — No. Gli occhi di Sunlight si fecero supplichevoli, spaventati. — Tommy dice che non mi perdonerà finché non saprai la verità — disse. — Quale verità? Sunlight abbassò lo sguardo e disse inebetito: — Mi puniranno per questo. — Quale verità? — ripeté l'investigatore. Sunlight rabbrividì e riportò gli occhi su Kinderman. L'espressione del suo volto non era più che una supplica. — Non sono Karras — sussurrò con voce roca. — Tommy vuole che tu lo sappia. Non sono Karras! Ti prego, credimi. Se no, Tommy dice che non può andare. Dovrà rimanere qui. Non posso lasciare mio fratello da solo. Ti prego, aiutami. Non posso andare senza mio fratello! Kinderman non capiva. — Andare dove? — chiese sconcertato. — Sono così stanco. Voglio andare avanti. Non c'è ragione perché mi fermi qui. Voglio andare avanti. Il tuo amico Karras non ha niente a che vedere con gli omicidi. — Sunlight disperato si protese verso il tenente. — Di' a Tommy che mi credi! — implorò. — Diglielo! Kinderman trattenne il respiro. Avvertiva l'importanza di quel momento ma non riusciva a spiegarselo. Cos'era? Cos'era? Perché provava quella sensazione? Credeva a quanto gli stava dicendo Sunlight? Non capiva, ma si decise. Sapeva che doveva dirlo. — Ti credo — scandì risolutamente. Sunlight si accasciò contro la parete, gli occhi arrovesciati verso l'alto, e dalla bocca gli uscì quel balbettìo, quell'altra voce: — Io t-t-t-ti voglio bene, J-J-J-Jimmy. — Poi gli occhi di Sunlight si fecero sonnolenti, le palpebre divennero pesanti e il capo gli si reclinò sul petto. Chiuse gli occhi.
Kinderman balzò su dalla sedia e, allarmato, rapidamente si avvicinò alla branda, chinò il capo su Sunlight e gli accostò l'orecchio alla bocca. Ma Sunlight non disse più nulla. Allora, Kinderman si precipitò al cicalino, lo premette, spalancò la porta e uscì nel corridoio. Incrociò lo sguardo di Atkins e disse: — Muoviamoci. Kinderman corse al telefono dell'accettazione di reparto. Chiamò casa. Gli rispose Mary. — Tesoro, non uscire di casa. Che nessuno esca di casa! Spranga finestre e porte e non fare entrare nessuno finché non arrivo io! Alle proteste della moglie rispose ripetendo quanto le aveva appena detto quindi riagganciò. Tornò nel corridoio della cella numero dodici. — Chiama la centrale: voglio subito alcuni uomini a casa mia — ordinò ad Atkins. L'infermiera Spencer uscì dalla cella. Guardò il tenente e disse: — È morto. Kinderman la fissò senza capire. — Cosa? — È morto. Il cuore non batte più. L'investigatore guardò oltre la spalla di lei nella cella. Sunlight giaceva supino sulla branda. — Atkins, aspetta qui — mormorò. — Non chiamare. Non importa. Resta qui. Lentamente entrò nella cella. La Spencer lo seguì. L'investigatore si fermò vicino alla branda; la Spencer un po' più indietro. Kinderman guardò Sunlight, a cui avevano tolto i legacci e la camicia di forza. Gli occhi erano chiusi e la morte aveva donato ai lineamenti del suo volto quella pace che si raggiunge alla fine di un viaggio da troppo tempo atteso. Kinderman quell'espressione l'aveva già vista una volta. Cercò di riordinare i suoi pensieri, quindi, senza volgersi, chiese all'infermiera: — Aveva chiesto di me anche prima? — Sì — rispose la Spencer alle sue spalle. — E basta? — Non capisco cosa vuol dire — disse l'infermiera e gli si avvicinò. — L'ha sentito dire qualcos'altro? — le chiese Kinderman guardandola. — Be', non propriamente — disse lei incrociando le braccia. — Non propriamente? Che cosa intende? Gli occhi di lei nella penombra della stanza sembravano ancor più scuri. — Era quella voce balbettante... — disse. — Sì, quella voce bizzarra che talvolta faceva. Tartagliante. — Ha detto qualcosa? — Non ne sono certa. — L'infermiera si strinse nelle spalle. — Non so.
È stato subito prima che cominciasse a chiamarla. Ho l'impressione che fosse ancora in stato d'incoscienza. Ero venuta a controllargli il polso e a un certo punto ha cominciato a balbettare. Qualcosa... mah, non sono sicura, ma direi qualcosa come "babbo". — "Babbo"? — Qualcosa di assai simile, mi pare. — Ed era ancora svenuto? — Sì. Poi sembrò riprendersi e... oh, sì, ora mi ricordo di qualcos'altro. Ha gridato: "Ha finito". Kinderman sbatté le palpebre. — "Ha finito"? — ripeté interrogativamente. — Proprio prima che iniziasse a urlare il suo nome. L'investigatore restò sovrappensiero per qualche istante, guardandola, poi riabbassò gli occhi sul cadavere. — "Ha finito" — mormorò, — È una cosa strana — disse l'infermiera. — Alla fine sembrava felice. Ha riaperto gli occhi per un attimo e sembrava felice. Come un bambino. — C'era dello sconforto nella sua voce quando aggiunse: — Mi spiace per lui. Psicotica o no, una persona terribile; ma in lui c'era qualcosa che mi faceva sentire addolorata... Capisce, tenente? — È la sua parte angelica — mormorò Kinderman senza distogliere lo sguardo dal volto di Sunlight. — Non ho sentito, tenente. Kinderman ascoltò una, poi un'altra goccia precipitare dal rubinetto nel lavabo di porcellana. — Può andare, signorina Spencer. E grazie — disse. La udì uscire. Allora Kinderman si chinò su Sunlight e gli accarezzò il volto. Poi si tirò su, si volse e a passi lenti uscì nel corridoio. C'era qualcosa di diverso, pensò. Cosa? — Hai l'aria preoccupata, Atkins. Che c'è? — Non so — disse e scrollò le spalle. — Ma ho un'informazione per lei, tenente. Il padre di Gemini... l'abbiamo trovato. — Sì? Atkins annuì. — E dov'è? Gli occhi di Atkins sembravano più verdi del solito, fissi e come se ruotassero intorno a un'iride non più grande di una capocchia di spillo. — È morto — disse. — Infarto. — Quando? — Stamattina.
Kinderman rifletté. — Cosa diavolo sta succedendo, tenente? E Kinderman capì cosa c'era di diverso. Alzò lo sguardo al soffitto: tutte le lampadine erano accese e la luce brillava. — Penso che sia finita — mormorò. Poi annuì. — Sì. Penso di sì. — Riabbassò lo sguardo su Atkins e disse: — È passata. — Tacque un attimo e quindi aggiunse: — Gli ho creduto. L'istante successivo, il terrore e lo smarrimento, il sollievo e il dolore, ruppero gli argini dei nervi di Kinderman e l'invasero. Si curvò contro una parete e cominciò a singhiozzare irrefrenabilmente. Atkins, colto di sorpresa, sul momento non seppe assolutamente che fare; ma poi si avvicinò al tenente e l'abbracciò. — Va tutto bene, signore — disse e lo ripeté e ripeté ancora perché i singhiozzi e le lacrime non accennavano a smettere. E proprio quando Atkins cominciava a temere che il tenente non riuscisse più a controllarsi, il pianto, lentamente, scemò; ma il sergente non lasciò l'abbraccio. — Sono così stanco... — sussurrò alla fine Kinderman. — Scusami. Non c'è motivo. Nessun motivo. Sono soltanto tanto stanco. Atkins lo accompagnò a casa. 16 Domenica 20 marzo Qual era il mondo reale, si chiese Kinderman, questo in cui viviamo o l'altro? Dovevano compenetrarsi. Astri che silenziosamente collidono. — Per lei dev'essere stato un colpo doppiamente terribile... — mormorò Riley. Nel cimitero il sacerdote e l'investigatore contemplavano la bara dell'uomo che poteva essere Karras. La cerimonia era finita e nelle prime luci del mattino non erano rimasti che loro due soli, coi loro pensieri, e la quieta, funebre terra che avrebbe accolto quelle spoglie. Kinderman alzò lo sguardo su Riley, che gli stava accanto. — Perché dice così? — L'ha perduto due volte. Kinderman continuò a guardarlo in silenzio per qualche istante, poi lentamente riabbassò lo sguardo sulla bara. — Non era lui — mormorò il tenente. Scosse il capo. — Non lo è mai stato. — Posso offrirle da bere? — disse Riley voltandosi verso di lui. — E perché no?
Epilogo Sul marciapiede opposto al Cinema Biograph, Kinderman attendeva l'arrivo del sergente Atkins. Con le mani affondate nelle tasche del soprabito, controllava ansiosamente le due estremità della M Street. Sudava. Era quasi mezzogiorno di domenica 20 giugno. Il 23 marzo era stato definitivamente stabilito che le impronte digitali rilevate sulle scene di tre dei delitti corrispondevano a quelle di altrettanti pazienti del reparto aperto, tutti e tre in quel momento ricoverati sotto osservazione nel reparto agitati. Nelle prime ore del mattino del 25 marzo, Kinderman si era recato a casa del dottor Amfortas in compagnia del dottor Edward Coffey, amico di Amfortas e neurologo all'ospedale distrettuale, che aveva eseguito la TAC con la quale aveva identificato la fatale lesione cerebrale dell'amico. Cedendo alle insistenze di Coffey, Kinderman aveva autorizzato la forzatura della porta d'ingresso e nel salotto era stato rinvenuto il cadavere di Amfortas. Era passato troppo tempo dal momento del decesso per stabilire se la morte fosse stata accidentale, visto che Amfortas era deceduto a causa dell'ematoma alla tempia provocatosi cadendo, anche se, come Coffey spiegò al tenente, in ogni caso il dottor Amfortas sarebbe morto nel giro di un paio di settimane, perché si era deliberatamente rifiutato di sottoporsi a qualsiasi trattamento della lesione cerebrale scoperta dalla TAC. Quando Kinderman aveva chiesto al dottor Coffey la possibile spiegazione del perché Amfortas avesse voluto lasciarsi morire, l'unica risposta del dottor Coffey era stata: — Questione d'amore. — In un armadietto nella camera di Amfortas era stata trovata una giacca a vento di lana nera con cappuccio. Il 3 aprile, l'ultimo sospettato da Kinderman, Freeman Temple, era stato colpito da un grave disturbo cerebrale e attualmente si trovava ricoverato nel reparto aperto di psichiatria. Le misure di sicurezza predisposte dalla polizia al Georgetown General Hospital erano proseguite per le tre settimane successive all'omicidio della Keating. Poi, gradualmente, erano cessate. Nessun altro omicidio che implicasse il modus operandi di Gemini aveva più avuto luogo nel distretto di Columbia e l'11 giugno la Omicidi aveva archiviato gli assassinii apparentemente attinenti al caso Gemini con la qualifica di aperti e ancora insoluti. — Sto sognando. Ma che combini? — disse Kinderman contemplando sconcertato il sergente, che gli stava dinanzi in completo gessato e cravatta
fantasia. — Stai scherzando? Atkins assunse un'aria impenetrabile. — Be', ormai sono un uomo sposato — disse. Era tornato dalla luna di miele il giorno innanzi. Ma Kinderman continuava a non capacitarsi. — Oh, Atkins, questa non la reggo — disse. — Sei strano, innaturale. Ti prego, abbi pietà: togliti la cravatta. — Potrei essere visto — disse Atkins flemmatico. Kinderman fece una smorfia di incredulità. — Potresti essere visto? — ripeté. — E da chi? — Gente. L'investigatore lo fissò un istante in silenzio quindi disse: — Mi arrendo. Sono tuo prigioniero, Atkins. Di' alla mia famiglia che sto bene e che mi trattano bene. E che scriverò loro non appena smetteranno di tremarmi le mani. Direi tra un paio di mesi. — Abbassò lo sguardo sulla cravatta del sergente che era a motivi floreali hawaiani. — Chi ha scelto la cravatta? — gli chiese con voce spenta. — L'ho scelta io — disse il sergente. — Lo immaginavo. — Potrei rammentarle il suo cappello — ribatté Atkins. — Non farlo. — Kinderman gli si fece più vicino, scrutandolo negli occhi. — Avevo un compagno di scuola che divenne trappista — disse. — Monaco, per undici anni. Passava il tempo a fare il formaggio e saltuariamente a raccogliere uva, benché per gran parte di esso pregasse per l'anima di quelli che il saio non lo portano. Poi lasciò la vita monastica. E lo sai cosa si comprò? La prima cosa che si comprò? Un paio di scarpe da duecento dollari. Mocassini Loafer, per la precisione, con le nappe, e con due bei penny lucidi lucidi inseriti nella fascetta sul collo della scarpa. Rabbrividisci? Aspetta. Non ho finito. Le scarpe erano viola, Atkins, anzi, lavanda. Ti sembra significativo o al solito è come se stessi parlando a un palo? — È significativo — disse Atkins, benché dal suo tono non trasparisse nulla. — Meglio la Marina, Atkins. — Stiamo perdendo l'inizio del film, tenente. — Sì, potremmo essere visti — ribatté oscuramente Kinderman. Entrarono nel cinema e presero posto in sala. I film in programma erano Gunga Din seguito da Il terzo uomo. Verso la fine di Gunga Din, quando Din in cima al tempio d'oro riesce a suonare con la tromba le prime note dell'allarme prima di cadere sotto la scarica di fucileria dei Thugs, una
donna nella fila alle loro spalle cominciò a ridacchiare provocando la subitanea reazione di Kinderman, che si voltò e la fulminò con gli occhi ma senza nessun effetto. Quando Kinderman allora si protese verso Atkins per dirgli che era il caso di cambiar posto, vide che il sergente piangeva. Il detective si raggelò. Rinunciò a cambiare di posto, si sentì appagato e in pace col mondo e, sulle note di Auld Lang Syne che sottolineavano emotivamente le esequie di Din e la fine del film, pianse anch'egli. — Che film — mormorò commosso. — Così schmaltz. Bellissimo. Terminata la seconda proiezione, uscirono e si fermarono dinanzi al cinema, in mezzo alla folla domenicale che si accalcava sul marciapiede. — E ora andiamo a fare uno spuntino — disse Kinderman avidamente. — Voglio che mi racconti della luna di miele, Atkins, e del tuo guardaroba, naturalmente. Dove si va? Al Tombs? No, no, aspetta. Mi è venuta un'idea. — Stava pensando a Dyer. Prese a braccetto il sergente e s'incamminò. — Vieni, conosco il posto che ti ci vuole. Ben presto si ritrovarono nella White Tower avvolti dall'odore degli hamburger alla piastra a commentare i film appena visti. Fuorché loro non c'erano altri clienti. L'uomo dietro il banco - alto, robusto, con una faccia e un'espressione tagliata con l'accetta - dava loro le spalle ed era intento a sorvegliare la cottura degli hamburger sulla piastra. La giacchetta e la bustina bianche erano doviziosamente costellate di macchie d'unto. — Sai, si parlava del male in questo mondo e da dove provenisse — disse Kinderman. — Ma come spiegarcene tutto il bene? Se non fossimo che ammassi di molecole penseremmo esclusivamente a noi stessi. E allora com'è che ci sono sempre i Gunga Din, gente disposta a sacrificare la propria vita per qualcun altro? E persino Harry Lime — aggiunse con enfasi. — Harry Lime, che è l'opposto, un malvagio, persino lui compie qualcosa di significativo in quella scena sulla ruota panoramica. — Stava riferendosi al Terzo uomo. — Quella battuta che dice sulla Svizzera e su come dopo tutti questi secoli di pace in cui quella nazione ha vissuto il massimo che sia stata capace di esprimere fosse l'orologio a cu-cù... C'è del vero, Atkins. Sì. Dice qualcosa d'importante. È probabile che il mondo non possa progredire senza angoscia. A proposito, sto lavorando su uno scasso in P Street in cui c'è scappato il morto. È della scorsa settimana. Cominceremo a occuparcene domani. L'uomo dietro il banco si voltò e in silenzio lo gratificò di un'arcigna occhiata. Quindi, tornò a occuparsi dagli hamburger, sistemandone una dozzina sulla metà inferiore di altrettanti panini. Kinderman lo osservò mentre
disponeva una fetta di cetriolo sottaceto su ogni hamburger, e nei suoi occhi passò un lampo di ansiosa cupidigia. — Potrebbe metterci una fetta di cetriolo in più, per piacere? — Troppo cetriolo li rovina — ringhiò l'uomo. Possedeva una voce da sergente in divisa, bassa e aspra. Sistemò la metà superiore dei panini sopra gli hamburger. — Se vuole cucina continentale, vada al Beau Rivage. Ci sbattono sopra tutte le salse che le pare. Kinderman socchiuse le palpebre. — L'extra lo pago. L'uomo si girò e piazzò sei hamburger in un vassoietto di cartone dinanzi a ciascuno. Il viso e gli occhi erano di pietra. — Da bere? — chiese. — Una cicuta piccola, per favore — disse Kinderman. — Finita — rispose l'uomo con voce atona. — Non mi prendere per il culo, ragazzo. Ho mal di schiena. Allora, che si beve? — Espresso — disse Atkins. L'uomo spostò lo sguardo sul sergente. — Che cazzo è, professore? — Due Pepsi — disse svelto Kinderman frenando la possibile reazione di Atkins premendogli una mano sull'avambraccio. L'uomo tirò su col naso e con un'occhiataccia si volse per prendere le bevande. — Tutti i somari della M Street vengono qui — borbottò. Entrò un nutrito gruppo di studenti della Georgetown, e nel giro di un minuto il frastuono delle risa e delle chiacchiere riempì il locale. Kinderman pagò e disse: — Sono stufo di star seduto. — Si alzò e Atkins lo seguì. Portarono gli hamburger e le Pepsi in un angolo di una lunga mensola sistemata su un'apposita parete e cominciarono a mangiare. — Harry Lime aveva ragione — disse Kinderman addentando e masticando di gusto uno dei panini. — Dal frastuono nasce la musica come dal silenzio la poesia... come questi hamburger. Atkins fece capire di essere d'accordo annuendo e masticando con soddisfazione. — Fa parte della mia teoria — disse Kinderman. — Tenente? — farfugliò Atkins alzando un indice. Finì di masticare e inghiottì il boccone. Quindi prese il tovagliolino dal contenitore sulla mensola, si pulì le labbra e si protese in direzione del tenente. Il vocìo del locale si era fatto quasi assordante. — Mi farebbe un favore, tenente? — Sono qui per servirla, Mister Chips. Sto mangiando e pertanto mi sento comunicativo. Consegnami la tua supplica. È sigillata a dovere? — Vorrebbe spiegarmi la sua teoria? — Impossibile, Atkins. Mi metteresti agli arresti domiciliari.
— Non può dirmela? — Assolutamente no — disse Kinderman, che diede un altro vorace morso al suo hamburger, masticò e buttò giù il boccone aiutandosi con una generosa sorsata di Pepsi. Quindi, si concentrò nuovamente sul sergente. — Ma visto che insisti. Stai insistendo? — Sì. — Lo immaginavo. Prima, via la cravatta. Atkins sorrise. Ne sciolse il nodo e se la tolse. — Ottimo — disse Kinderman. — Non posso raccontarla a un perfetto sconosciuto. È talmente enorme. Incredibile. — I suoi occhi scintillarono. — Conosci bene I fratelli Karamazov? — gli chiese. — No, affatto — mentì Atkins che non voleva far affievolire la parlantina di Kinderman. — Dunque, è la storia di tre fratelli — cominciò l'investigatore. — Dimitri, Ivan e Alioscia. Dimitri rappresenta la materialità dell'uomo, Ivan la mente e Alioscia lo spirito. Alla fine, è proprio la scena finale, Alioscia conduce alcuni scolaretti a visitare la tomba del loro compagno Iljuscia, col quale un tempo si erano comportati assai meschinamente, perché... be', era un tipo strano, senza dubbio. Ma poi, alla sua morte, avevano compreso il suo modo di agire e quanto fosse stato adorabile e genuinamente coraggioso. Quindi Alioscia (per inciso, è un monaco), tiene loro un discorso dinanzi alla tomba del compagno, durante il quale si sforza soprattutto di far capire loro che quando saranno cresciuti e dovranno affrontare i mali del mondo dovranno sempre riandare con la memoria a quel giorno e ricordarsi della bontà della loro infanzia. Di quella bontà, Atkins, che era dentro di loro, di quella bontà che non aveva mai cessato di esistere nei loro cuori. Un solo ricordo buono di quell'età avrebbe potuto salvarli e farli certi della bontà del mondo. Come disse esattamente... — Il tenente volse gli occhi al soffitto e cominciò a picchiettarsi con un indice le labbra che già si atteggiavano al sorriso. — Ah, sì, ecco! "Forse quel solo ricordo ci tratterrà dal fare del male e ci ricrederemo e diremo: sì, allora ero buono, onesto e coraggioso". Poi Alioscia aggiunge qualcosa di fondamentale importanza... "Prima di tutto, e soprattutto, cerchiamo di essere buoni." Ecco cosa dice. E i ragazzi, che gli vogliono un gran bene, gridano tutti assieme: "Evviva Karamazov!" — Provò un groppo alla gola. — Mi viene da piangere tutte le volte che ci penso — disse. — È così bello, Atkins, così commovente. Gli studenti, coi loro sacchetti di hamburger, cominciarono a uscire con-
tinuando a ridere e scherzare. Kinderman li seguì con lo sguardo. — È questo che Cristo deve aver voluto dire... — rifletté — sulla necessità di tornare bambini prima di poter varcare la porta del regno dei Cieli. Non so. Può darsi. — Guardò l'uomo dietro il banco che gettava sulla piastra altri hamburger, in previsione di un nuovo, probabile assalto; e poi si sedeva su uno sgabello e cominciava a leggere un giornale. Kinderman riportò la sua attenzione su Atkins. — Non so come dirlo — disse. — È pazzesco. Incredibile. Ma null'altro ha senso, null'altro può render conto delle cose, Atkins, nulla. Sono convinto che questa sia la verità. Ma torniamo un istante a Karamazov. Il nocciolo è quando Alioscia dice che bisogna "essere buoni". Senza di ciò non esiste evoluzione, progresso; non ci arriveremo — disse Kinderman. — Non arriveremo, dove? — chiese Atkins. La White Tower era silenziosa adesso; si udivano soltanto lo sfrigolìo della piastra e di quando in quando il frusciare delle pagine del giornale. — Oggi i fisici sono completamente sicuri — disse con voce calma e ferma — che tutti i processi naturali conosciuti un tempo hanno fatto parte di una sola forza unificante. — Kinderman fece una pausa per riprendere subito dopo. — Io credo che questa forza fosse una persona che in epoche immemorabili si fece a pezzi a ragione del suo desiderio di dar forma al suo proprio essere. Quella fu la Caduta, il Big Bang: l'inizio del tempo e dell'universo materiale allorché l'uno si divise in molti, divenne... legione. Ed ecco perché Dio non può intervenire: l'evoluzione è questa persona che ridiventa se stessa. Il volto del sergente era il ritratto dello sconcerto. — Ma chi è questa persona? — chiese infine. — Non lo immagini? — disse il tenente guardandolo con due occhi vispi e sorridenti. — Ma se è da un pezzo che ti ho dato la maggior parte degli indizi. Atkins scosse il capo sempre più confuso e attese la risposta. — Noi siamo l'Angelo Caduto — disse Kinderman. — Noi siamo il Portatore di Luce. Noi siamo Lucifero. Kinderman e Atkins si guardarono negli occhi. Si udì lo scampanellìo della porta d'ingresso. Entrambi si volsero e videro entrare un barbone. Il poveretto, scarmigliato, vestito poco più che di luridi stracci, si diresse in silenzio verso l'uomo dietro il banco e quindi rimase in piedi di fronte a lui implorandolo con lo sguardo. L'uomo dietro il banco gli gettò un'occhiata truce da sopra il giornale, si alzò, preparò degli hamburger, li infilò in un
sacchetto e glieli porse; e quello, silenziosamente com'era entrato, riguadagnò la porta e uscì. — Evviva Karamazov — mormorò Kinderman. FINE