TANITH LEE DANZA MACABRA (Dark Dance, 1992) «Ma io non voglio andare in mezzo ai matti,» ribatté Alice. «Oh, non puoi fa...
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TANITH LEE DANZA MACABRA (Dark Dance, 1992) «Ma io non voglio andare in mezzo ai matti,» ribatté Alice. «Oh, non puoi farne a meno,» disse il Gatto: «qui siamo tutti matti. Lo sono io, e lo sei anche tu.» «Come fai a sapere che sono matta?» domandò Alice. «Devi esserlo,» rispose il Gatto, «altrimenti non saresti venuta qui.» Alice nel Paese delle Meraviglie Lewis Carroll CAPITOLO PRIMO La donna nella nebbia: Le si stringeva intorno, come una densa parete di respiro giallo. La donna camminava in una prigione mobile. Ogni tanto emergeva la sagoma sfocata di un lampione, simile a un albero scheletrico, o si intravedeva l'angolo di un edificio. Dall'alto facevano capolino finestre elettriche pallide come vecchi lampioni. La donna conosceva la strada a memoria. La nebbia aveva un triste e malinconico odore che ricopriva ogni cosa. E la donna aveva la sensazione di essere seguita, ma in modo irrazionale, come se gli inseguitori venissero da ogni parte. Continuava a camminare. Il cappotto scuro che indossava la rendeva molto sottile. I capelli, nerissimi, le scendevano fitti lungo la schiena come un folto cespuglio. Un volto bianco e magro e due occhi pallidi. Con una mano teneva chiuso il bavero del cappotto. Le unghie erano piuttosto lunghe ma prive di smalto. Svoltò in Lizard Street, passò davanti al grande edificio con i leoni ed entrò nella libreria. «Oh, Rachaela. Sei in ritardo.» «Sì,» disse lei. «Venti minuti.» Poi passò accanto a Mr. Gerard e andò nel retro, quella minuscola stanzetta con la teiera, le pile di giornali e i libri accatastati, alcuni nuovi e scintillanti, altri vecchi e fragili come falene morenti. Si tolse il cappotto e lo appese.
Indossava una gonna nera, un maglione scuro e un paio di stivali. Nel negozio non faceva mai caldo, tranne che nel clima soffocante dell'estate, quando vi si arrostiva come in un forno e si sopportavano solo camicie leggerissime, mentre Mr. Gerard si ostinava a bighellonare tutto sudato in giubbetto e cravatta. Oggi indossava il pullover di Fair Isle, che splendeva sotto il grasso frutto rancido del suo viso. Mr. Gerard cedette il posto dietro la cassa a Rachaela. «Metti il prezzo ai libri che ho segnato su questa lista.» Rachaela annuì. La pagava molto poco, e le faceva anche preparare il tè, comprare i sandwich, pulire il pavimento e spolverare i libri, cosa che faceva raramente. Lei non discuteva mai e non si lamentava, ma non si era mai neanche scusata per la sua fiacchezza, per il suo cronico ritardo. Mr. Gerard del resto non l'aveva mai minacciata. Lei non gli aveva mai rubato niente, e non ribatteva mai ai suoi appunti. Quando lui si adirava per qualche ragione, Rachaela guardava lontano, e dopo un po' aveva dimenticato tutto. Con i clienti, che non erano molti, era educata come una statua. Mr. Gerard non sapeva quasi niente di lei. Una donna circondata dal mistero. Appena Mr. Gerard si ritirò nel retro della sua polverosa e angusta caverna, nel negozio entrò un uomo che doveva ritirare un libro. Con lui penetrò un turbine di nebbia, che riempì lo spazio e cinse nelle sue volute le miriadi di volumi accatastati. «Giornata orrenda,» disse l'uomo. «Pensavo che con queste cose avessimo finito anni fa. Dannato maltempo.» Rachaela mise il libro in una busta e batté il prezzo sulla cassa. La cassa era una delle ragioni per cui, un anno prima, si era offerta per questo lavoro. Rachaela odiava i computer, la spaventavano. Le piacevano le vecchie cose. Ecco perché in questo negozio non si trovava tanto male. Il cliente prese il libro e le porse il denaro. Prima di dargli il resto Rachaela lo contò attentamente. Anche i conti la infastidivano. Solo le parole stampate riuscivano a renderla felice. «Mi scusi,» disse il cliente. Rachaela lo guardò terrorizzata. Aveva fatto qualche errore con i soldi? «Lei è Miss Day, vero?» Rachaela ebbe un attimo di esitazione. Poi, come se stesse confessando un terribile segreto, disse, «Sì.» Le era uscita una voce bassa, morbida e soffocata. «Lo immaginavo. Mi hanno detto di portarle questo.» Le porse una busta marrone. Lei la prese con fare da spia. Non gli do-
mandò nulla, ma la mano sottile con le unghie lunghe esitò nel ritornare con la busta verso il corpo, e restò sospesa a mezz'aria tra loro due. «Meglio che le spieghi,» disse l'uomo. Aveva un tono amichevole. «Vengo dalla porta accanto. Lane & Soames. Il capo mi ha chiesto di portarle questa. L'hanno cercata, capisce.» Rachaela parlò. «Chi?» «La mia ditta, Lane & Soames. L'hanno cercata, e per tutto questo tempo lei è stata qui.» Le avevano dato la caccia, allora. Rachaela si portò la busta al petto, stringendola tra le mani. Lo aveva sentito che c'era qualcuno che la seguiva in silenzio nella nebbia. Day non era il suo vero nome, ma erano anni che lo usava. Pensava che ormai fosse diventato legittimo; di sicuro era il nome che stava scritto sulla sua assicurazione, e quello con cui pagava le bollette. E comunque poteva anche trattarsi di un errore. «È sicuro che sia io la persona che cerca?» «Non me lo chieda. Io sono solo il fattorino. A me hanno detto di darla a lei.» Gli occhi vivaci del giovane erano vuoti, si capiva che Rachaela non gli piaceva, non gli piaceva la sua freddezza, o forse la sua bellezza, che passava quasi inosservata, per nulla esasperata da trucco o abiti vistosi. «Okay,» disse lui. «Torno nella mischia.» Detto questo se ne andò, e la porta, richiudendosi, produsse un altro vortice di nebbia. Ora il negozio ne era pieno, e a Rachaela venne in mente Alice attraverso lo Specchio, il negozio con la pecora e l'acqua che saliva sempre più... Nel retro, Mr. Gerard parlava al telefono. «Ma io gli ho detto, Mac, vecchio mio, non puoi proprio...» Ne avrebbe avuto per un'ora. Oltre le finestre si vedeva ancora il morbido muro giallo-grigio. Dietro poteva esserci qualunque cosa, un plotone d'esecuzione o delle bestie fameliche scappate dallo zoo. Era stato un leopardo a seguirla nella nebbia? Rachaela si accorse che le tremavano i polsi. Aprì la busta. «Cara Miss Day.» Non lo sanno. «Sarebbe così gentile da passare dal mio ufficio? Decida lei quando.» Qualcuno, qualcuno lo sa.
«I miei clienti, la famiglia Simon, mi hanno pregato di contattarla per discutere di una faccenda che può portare dei vantaggi sia a lei che a loro.» Neanche questo nome è vero. A meno che... qualcos'altro... Ma cos'altro poteva essere? La cosa più semplice era quella di ignorare la lettera dell'avvocato. Ma erano veramente vicini. Lane & Soames, a una manciata di metri oltre le pareti del negozio. Rachaela rivide nei propri ricordi il volto stanco e inasprito della madre. «Non avere mai niente a che fare con loro.» Poteva sentire il battito del proprio cuore. Un tamburo nella nebbia. «Oh andiamo, andiamo!» tuonò Mr. Gerard a chi lo ascoltava dall'altro capo del telefono, in qualche posto lontano oltre le colline. Alle sei Rachaela uscì in strada. Mr. Gerard, infagottato in un vecchio montgomery e in una sciarpa, chiuse il negozio. «Che serata orribile!» Stava per fare buio, la nebbia si oscurava, punteggiata dal bagliore di una miriade di luci sfocate e minacciose. «Stai attenta per la strada, Rachaela.» «Sì,» disse la ragazza, «buona notte.» Poi attraversò la strada all'altezza di Lane & Soames. I grandi leoni, neri e bagnati, restarono accovacciati e non le saltarono addosso. Nessuno sarebbe riuscito a spingerla tra i loro artigli. Rachaela camminò in direzione est, finendo nel mezzo di quell'enorme animale che era la folla della sera, che la sballottava e la trascinava con sé. Poi si fermò ad aspettare l'autobus, in silenzio, mentre la gente imprecava e si infuriava perché quello non arrivava. «Tu non vivi nel mondo reale in cui tutti vivono.» Era stata un'accusa accecante. Sua madre era fermamente convinta che Rachaela fosse insensibile al mondo. L'autobus arrivò. Uomini e donne le si accalcarono davanti. Lei li lasciò fare. Per Rachaela il mondo era soprattutto una cosa orribile da cui non si aspettava nulla di buono. Questa era la ragione per cui aveva sempre evitato amicizie e amori, cosa che tuttavia non le aveva evitato di essere violentata da un conoscente dopo un noiosissimo party. Dal mondo lei si aspettava solo assalti alla sua privacy e alla sua persona. Lo stupro non l'aveva scioccata. Era riuscita a liberarsene.
Dopo mezz'ora scese dall'autobus, e rientrò nel cuore della nebbia. Doveva attraversare il grande prato davanti casa. Ne conosceva i pericoli, ma non li temeva, perché erano dei pericoli reali. Ciò che spaventava Rachaela era qualcos'altro. Qualcosa che veniva con la nebbia, come era venuta la lettera. All'ora di pranzo, mentre sedeva al bar, aveva pensato di non andare a lavorare nel pomeriggio. Ma fino allora non lo aveva mai fatto, neanche quando era malata, e per qualche stupida ragione non voleva rovinare il suo record. Voleva conservare l'occasione per un giorno migliore, quando avrebbe deciso di rifugiarsi in pittoreschi giardini oppure di vedere un film. E comunque non avrebbe potuto impedire che la lettera fosse recapitata al negozio. Non sarebbe riuscita a sfuggirle. Gli alberi le passavano accanto avvolti nella nebbia e gocciolanti. Più avanti la luce di un lampione riluceva come una livida luna. D'un tratto Rachaela si trovò di fronte un uomo. Era molto alto, bruno, sospeso nel vuoto e senza volto. Rachaela trasalì e sentì tutto il corpo sciogliersi. Poi l'uomo svanì. Al suo posto c'era solo un altro albero. «Mi perdoni,» disse una voce. Ora le stava accanto, piccolo, con indosso un cappotto nero e un cappello di lana. Rachaela pensò che le avrebbe chiesto dei soldi, invece l'uomo disse, «Mr. Simon attende con ansia che lei lo vada a trovare da Lane & Soames.» «Lei chi è?» disse Rachaela. «Un amico di Mr. Simon.» «Mi lasci in pace.» «Ma deve andarci, lo sa.» Tutti obbedivano all'autorità, e tutti avrebbero obbedito alla lettera di un legale. Ma Rachaela era una che pagava le bollette solo quando cominciavano a minacciarla. Aveva sempre ignorato le buste che le infilavano nella porta con le richieste di soldi per i bambini che muoiono di fame e per i malati. «Se ne vada,» disse all'uomo. Ma non si mise a correre. Il prato finiva con un marciapiede, e un lampione riempiva la nebbia di un impenetrabile vortice di luce. L'uomo bruno la fissava. Aveva un volto estraneo e degli occhi gelidi. Avrebbe cercato di farle violenza? «Vada da Mr. Soames,» disse. Poi si voltò e scivolò via nella nebbia.
Rachaela attraversò la strada e d'improvviso, come un'apparizione, le sfrecciò accanto un ragazzo in bicicletta. Lei salì i gradini e aprì la porta. Una nuvola di nebbia invase l'ingresso e andò a posarsi sul pavimento di pietra e sul polveroso tavolo della posta. Rachaela temeva di trovarvi una seconda lettera, invece c'era solo una bolletta del telefono, di cui non aveva da preoccuparsi, visto che non chiamava mai nessuno: se il telefono non fosse stato incluso nell'appartamento, lei non se ne sarebbe affatto interessata. Prese la bolletta e si diresse verso un minuscolo spazio affollato di scale. Fino all'anno prima aveva avuto una gatta, una grassa gatta nera sempre troppo pigra per venire a salutarla. Ma era una gatta vecchia, e una notte, mentre lei dormiva, era morta. Il mattino dopo l'aveva trovata priva di vita sul letto. Rachaela aveva pianto per il senso di solitudine, ma da allora il fantasma di questo primo gatto, che ogni tanto le appariva in giro per la casa, le aveva impedito di prenderne un altro. Perciò, al rientro in casa non c'era niente ad aspettarla se non le solite pareti che il proprietario aveva imbiancato di un color crema, e un pavimento che aveva coperto con un tappeto di un beige molto chiaro. La grande libreria di Rachaela, sommersa da montagne di libri, molti dei quali erano in piedi appoggiati alla parete, non le faceva affatto pensare al negozio, sebbene fosse stata proprio la sua passione per i libri a suggerirle quel tipo di impiego. Prima di lavorare nella libreria Rachaela aveva fatto altri lavoretti, la cameriera in un caffè, la cassiera in un negozio di tessuti, e cose simili. Faceva freddo. Rachaela accese il camino elettrico, anch'esso fornito dal padrone di casa, un oggetto brutto ma efficace. Poi chiuse le tende beige sulla cortina di nebbia. Di nebbia ce n'era anche nella stanza, penetrata come pulviscolo o gas attraverso le numerose e invisibili crepe delle pareti. Rachaela si diresse verso la zona cucina e aprì il frigorifero. Tirò fuori delle fette di pane per tostarle. Si preparò una tazza di caffè, che in realtà non le andava, ma che le faceva piacere perché rappresentava il rituale del ritorno a casa. Non si preoccupava quasi mai di prepararsi da mangiare. Invece, finché sua madre era stata viva, c'era sempre stata una cena pronta, salsicce di pessima qualità con contorno di cavolo, omelette annacquate e non di rado bruciate, e patate al forno piene di occhi penetranti che la guardavano tor-
vamente. La madre di Rachaela era morta improvvisamente per un attacco cardiaco. Rachaela aveva ricevuto il conforto dei vicini e degli amici della madre. All'epoca aveva venticinque anni e dal momento che aveva sempre vissuto con la madre tutti si sarebbero aspettati di vederla in preda alla disperazione e al dolore. Invece Rachaela, lasciando tutti di stucco, aveva accettato la morte della madre senza versare una sola lacrima. Al cimitero, quando l'allegro e giovane prete aveva promesso eterna memoria per la "cara, vecchia signora", che in vita non aveva voluto considerarsi più che una donna di mezz'età, Rachaela aveva sentito un terribile dolore in ogni muscolo del corpo, e neanche il più piccolo fastidio al cuore. Era il suo corpo, che per la prima volta in quindici anni si rilassava. Era diventata libera. E non cessò mai di essere grata per questa libertà. La propria solitudine era il proprio piacere. Le mancava la gatta, che le aveva dato un amore tutt'altro che sdolcinato e quasi del tutto privo di preoccupazioni, quella gatta che non si arrabbiava e non alzava mai la voce, che non le parlava mai dei suoi problemi, che non le chiedeva mai niente. Sua madre invece era stata un peso di ferro, e alla sua morte Rachaela si era sentita leggera come l'aria. Fino a oggi. Perché oggi era stato come se fosse riapparsa sua madre. Improvvisamente erano riemersi i risvolti sinistri della sua storia familiare: la figura del padre, mai conosciuto, che prima di scomparire aveva rivelato quel poco che bastava per lasciare il marchio indelebile dell'inganno e della frode. La famiglia del padre, il cui nome non era Simon, ma un nome che Rachaela avrebbe difficilmente potuto dimenticare e che a forza di ripetere aveva perso per lei ogni stranezza, "Scarabae", pronunciato Scarrabi. Un nome strano per un uomo strano e inaffidabile. «Io lo amavo quel porco, quel bastardo,» le diceva la madre. La donna non aveva preso il cognome del marito, il suo era Smith, talmente insulso che Rachaela appena era rimasta sola se n'era disfatta. Rachaela accese la radio sul terzo canale e sentì l'inconfondibile stridore di corde d'argento di Shostakovich. Si mise a sedere davanti alla stufa e si sfilò gli stivali. Ancora una mezz'ora e si sarebbe preparata la cena, pane tostato e formaggio. Il giorno dopo era venerdì e sarebbe andata a comprare un'insalata
e della carne fredda al delicatessen. Forse avrebbe preso anche un bicchiere di vino. Fuori stava in agguato il silenzio della nebbia. Al negozio Rachaela aveva accartocciato e buttato nella spazzatura la lettera di Lane & Soames. Poteva essere entrata in possesso di una somma di denaro. L'avrebbe accettata se fosse venuta dal ramo malato della famiglia, il ramo del padre? «Ormai sarà morto e sepolto. Deve essere morto, se ha continuato a vivere come viveva allora,» disse nella mente di Rachaela la voce della madre. Erano passati quattro anni dal suo funerale. «Non c'è andata, no?» disse il giovane in tono accusatorio. Rachaela aveva cercato di evitarlo mettendosi a spolverare le pile di libri, tirando fuori vecchi libri leggermente scoloriti e spolverandoli con delicatezza. «È un affare che ti riguarda?» Il giovane restò ammutolito. Le persone non si aspettano che voi siate scortesi quando loro tentano in maniera sempre più aperta di essere insolenti. Ma a Rachaela questo gioco non piaceva. «No... be', sì. Io dovevo consegnare la lettera. Ora il vecchio Soames pensa che sia stato in giro a bighellonare e che non l'abbia mai portata.» «Ma tu l'hai portata.» «Sì, dannazione, certo che l'ho portata. Ma perché lei non c'è andata?» «Scusami,» disse Rachaela, e scomparve dietro gli scaffali. «Che succede?» domandò Mr. Gerard, che emerse dal retro masticando biscotti. «C'è qualcosa che non va?» «Ehm, no, questa signorina... le ho portato una lettera da parte di Lane & Soames e lei non l'ha presa in considerazione, così il vecchio Soames ha dato la colpa a me.» «Di che lettera si tratta?» Rachaela non rispose. Stava togliendo la polvere da una copia del The Egiptian che poi rimise con cura a posto. «Qualcosa che ha a che vedere con delle proprietà,» disse il giovane, «ma questo è solo quello che immagino io. C'è un gran mistero intorno a questa faccenda, dannazione.» La nebbia aveva di nuovo invaso il negozio. Implacabile, serrava in una
morsa la capitale. «Non c'è bisogno di prendere un appuntamento. Deve solo fare un salto da noi e Mr. Soames la incontrerà subito. Questione di un minuto...» «Potresti andare durante la pausa del pranzo, Rachaela. Dio mio, non credi che sia il caso di andarci? Potrebbe valerne la pena.» Rachaela non rispose. Non disse a Mr. Gerard di farsi gli affari suoi, perché non era mai stata maleducata con lui. Lui le dava una paga, per quanto misera. Il giovane sospirò. «Allora prendo soltanto la biografia. Leggere narrativa è solo una perdita di tempo.» «Per fortuna non la pensano tutti così,» disse con astio Mr. Gerard. Divenuto improvvisamente impopolare, il giovane uscì in fretta dal negozio. «Che diavolo stai facendo, Rachaela?» «Sto togliendo la polvere.» «Ma non lo fai mai! Smettila. Stai alzando nuvole di sporco. Vai a mangiare. E prenditi dieci minuti in più per andare a vedere questo Soames.» Era sabato mattina e la folla animalesca era fuori a fare shopping. Aveva il solito umore quell'animale, scontroso e disperato. Rachaela si avviò verso lo snack bar. Un passante le urtò con violenza una spalla facendola quasi girare su se stessa. «Miss Day, mi permetta di accompagnarla.» La prese per il gomito e la fece girare nella direzione opposta. Si muovevano in senso contrario alla folla, che era tutta un agitarsi e bofonchiare in faccia a loro. «Mi sta costringendo ad andarci?» «No, no, Miss Day. Le farà piacere. Andiamo.» Era sabato. Soames si sarebbe trovato in ufficio? Così pareva. Tre ragazzi con le maglie di una squadra di football di Marte si scontrarono con loro due. Improvvisamente lo sconosciuto non fu più al fianco di Rachaela. Erano stati separati violentemente. Rachaela si girò rapidamente nella nebbia e si immerse nella folla, adeguandosi al suo ritmo frenetico. L'uomo non la seguì e non l'afferrò per il braccio. Rachaela si diresse verso il museo, dove di solito trascorreva la pausa del pranzo tra le pietre blu e rosa di divinità in forma di uccello e i volti sorridenti dei faraoni, magari mangiando due banane comprate a un chiosco, al mattino, mentre si recava al negozio, banane nebbiose.
L'uomo non venne al negozio, e neanche il giovane riapparve. «Ci sei andata?» domandò Mr. Gerard. «No.» «Sciocca. Sciocca, sciocca ragazza! Prepara un po' di tè.» Rachaela stava in piedi nell'autobus che la portava a casa. Il veicolo era pieno di gente eccitata alla ricerca di un'evasione. Di sabato il negozio chiudeva mezz'ora prima per dare a Mr. Gerard e alla sua impiegata la possibilità di precipitarsi a qualche baccanale. Ma Rachaela dubitava che lui avesse più opportunità di quante ne poteva avere lei. Per Rachaela Mr. Gerard rimaneva un gradito mistero, tanto quanto lei rappresentava per lui un avvincente enigma. Aveva una moglie con cui abitava dalle parti di Kennington. Rachaela poteva solo immaginarsi una Mrs. Gerard versione femminile del marito, tutta sudata dentro un vestito e un cardigan di lana di Fair Isle, e sempre occupata a mangiare dolci alla crema o a leggere articoli di giornale chiacchierando al telefono. La nebbia avvolgeva il verde con la stessa intensità di sempre, ma Rachaela non si aspettava di rincontrare lo sconosciuto. Non sapeva esattamente cosa aspettarsi, in ogni caso era qualcosa di spiacevole. Mentre sorseggiava un bicchiere di vino, la metà avanzata dalla bottiglia di venerdì, qualcuno suonò alla porta dell'appartamento. Rachaela non riceveva mai visite. Pensò quindi a un caso di emergenza. Forse in strada c'era stato un incidente. Forse non era riuscita a distinguere lo stridore dei freni dalla tempesta di Beethoven, per non parlare del rock che si sentiva dal piano inferiore. «Chi è?» «Miss Day?» Rachaela non riconobbe la voce, che il citofono distorceva fino a renderla metallica. «Cosa vuole?» «Miss Day, sono Mr. Soames di Lane & Soames. Sarebbe così gentile da lasciarmi entrare?» «Temo di no.» «Ma Miss Day, sono venuto apposta per vederla e per parlarle di questa urgentissima faccenda. È una cosa importante, Miss Day...» «No, Mr. Soames, non mi interessa.» «Il mio cliente, Mr. Simon, ha autorizzato...»
«Addio, Mr. Soames.» Dopo che ebbe riattaccato, il campanello del citofono suonò altre tre volte. Rachaela si mise a camminare su e giù per la minuscola stanza. Al piano di sopra c'era una camera da letto ancora più piccola e un armadio trasformato in bagno... era un appartamento minuscolo ma costoso, che poteva permettersi solo grazie ai risparmi della madre. Ma quando quei risparmi sarebbero finiti, cosa sarebbe successo? Forse Mr. Soames voleva offrirle dei soldi. I soldi erano qualcosa di remoto per Rachaela. In parte li temeva, perché significavano responsabilità, problemi e guai. Tuttavia... Il citofono smise di suonare. Mr. Soames se n'era andato. La domenica pomeriggio Rachaela fece un lungo bagno con la radio accesa. Si depilò le gambe, come faceva ogni tre giorni, e le ascelle. Si lavò i capelli, come faceva ogni tre giorni, e li fece asciugare al calore artificiale di due sbarre elettriche. Queste abitudini erano sue. Quando era piccola la madre la lavava ogni quindici giorni. Fuori un'impalpabile pioggerella penetrava la nebbia gialla. Per cena aveva una braciola d'agnello, e mentre la mangiava pensava alla bellissima creatura dal vello bianco che era stato quel pezzo di carne. Questo pensiero non le provocava nausea, la rendeva solo triste. In un certo senso quella carne le piaceva ancora di più proprio perché le piaceva l'animale che era stato prima; le dispiaceva solo che fosse finito così. Una volta, quando era adolescente, Rachaela aveva provato a diventare vegetariana, ma aveva vomitato tutto e per settimane era stata afflitta da terribili fitte allo stomaco. Aveva allora deciso di lasciar perdere. La madre aveva riso sia del tentativo che del suo fallimento. Aveva portato Rachaela davanti a un piatto di bastoncini di pesce carbonizzati : «Falla finita con questa assurdità.» La madre aveva dovuto tirarla su da sola. Ma Rachaela stava pensando troppo alla madre. Non le faceva male, però la turbava. Non le aveva nemmeno detto addio, e forse era quello il problema. Il senso di liberazione era nato spontaneo. Forse avrebbe dovuto dare un bacio d'addio sulla fronte al corpo imbalsamato, come nel più delicato dei vecchi film dell'orrore. Dopo l'imbalsamazione il cadavere non sembrava
più quello della madre. Qualcosa nel processo non aveva funzionato e lo stomaco piuttosto prominente della madre era finito nella parte alta del torace, sicché la donna aveva assunto un aspetto corpulento e giunonico che in vita non aveva mai avuto. Sulle guance si vedevano delle chiazze rosse. Non sembrava morta, ma addormentata... no: decisamente morta. Rachaela sentiva la mancanza della gatta, che quando lei faceva il bagno si accovacciava sempre sul bordo della vasca, colpendo incuriosita l'acqua con la zampa. La ricordava anche quando se ne stava immobile sul tavolo con dignità, senza chiedere niente. Forse si sarebbe dovuta trovare un lavoro più remunerativo. Ma dove? Chi l'avrebbe assunta? Non aveva alcuna esperienza, e aveva ventinove anni. Doveva finire a lavorare in un bar, ora? Pensò al chiasso e alla confusione, ai bicchieri rotti e agli ubriachi. No, il negozio di libri era più sicuro. E dopo tutto le permetteva anche di comprarsi le braciole di agnello. Tirò un profondo sospiro. Oltre le tende la nebbia cominciava a diradarsi. Al di là del prato si poteva vedere un rilucente autobus domenicale muoversi pigramente in direzione ovest. Il lunedì mattina Rachaela percorse una grigiastra Lizard Street e salì i gradini tra i due leoni neri. Entrata nell'edificio si diresse verso il banco della reception. Tre minuti più tardi si trovava nell'efficientissimo ascensore che l'avrebbe portata in fretta fino al cranio di quella costruzione. Diradatasi la nebbia, si poteva vedere da una finestra il piccolo negozietto che traballava sotto un tetto sudicio cinque piani più in basso. Sembrava un negozio per nani. La segretaria di Mr. Soames la salutò calorosamente e la condusse immediatamente nell'ufficio, come fosse una cliente di riguardo. L'ufficio era una stanza buia e vitrea le cui finestre davano sul parco. Sugli alberi indugiava ancora un ultimo leggero velo di nebbia. Il manto si era dissolto. Il cacciatore era allo scoperto. «Eccomi,» disse Rachaela. «Sì, finalmente. Sono davvero contento che lei ci abbia ripensato.» «Era diventata un'ossessione, non trova? I suoi appelli, voglio dire. Quell'ometto con il cappotto e il cappello di lana.» «Temo di non sapere di chi stia parlando,» disse con modi suadenti Mr. Soames. Non aveva mai avuto occhi, solo un paio di occhiali, ai quali tutto il suo viso aveva finito per soccombere. «Non vuole sedersi?»
Rachaela si accomodò su una poltrona di pelle. Non le fece affatto piacere pensare che un tempo quella poltrona era stata un toro nero che scorrazzava su prati fiammeggianti. Ma forse era solo una buona qualità di plastica. Rachaela sedeva con le mani giunte e le gambe incrociate. Il cuore le batteva in modo fastidioso, ma Mr. Soames sembrava anche più nervoso di lei. «Miss Day... prima di tutto, credo che, fino a non molto tempo fa, il suo cognome fosse un altro. Ho ragione?» «Forse.» «Non avrei voluto puntualizzarlo, ma i miei clienti, i Simon, ne hanno fatto una questione. Sua madre... una Miss Smith, e suo padre... be', sono cose che succedono.» Rachaela aspettava. Mr. Soames si vergognò della mancanza di tatto dimostrata. «I Simon sono parenti da parte di suo padre. Credo che le siano cugini.» Rachaela aspettava. La madre non le aveva mai parlato di cugini, ma solo della famiglia Scarabae, misteriosa, folle, e sinistramente minacciosa, che viveva da qualche parte fuori città, inaccessibile e potente. «Lui non restò con me perché la famiglia avrebbe continuato a tormentarlo,» diceva la madre. Ma naturalmente il padre non era restato perché la donna era incinta di Rachaela. E a Rachaela pareva strano che lei non le avesse mai rinfacciato la cosa. Sarebbe stato in linea con il suo modo di essere. «...E sebbene sia passato molto tempo, spero che lei abbia voglia di far loro una visita.» Rachaela non aveva mai fatto visita a nessuno. «Una visita? A questi Simon?» «Sì, proprio loro. Voglio che lo sappia, Miss Day, è una famiglia molto facoltosa.» «Il nome è Simon?» «Sì, Miss Day.» «Allora non capisco cosa abbiano a che fare con me.» «Forse dovrebbe acconsentire a vederli. Allora lo scoprirà. Le dico anche che sono disposti a pagarle le spese del viaggio.» Rachaela non lo aveva più ascoltato, così non seppe in quale direzione avrebbe dovuto viaggiare. «Trovo tutto questo veramente strano. È una cosa sospetta.» Mr. Soames suonò un campanello per farsi portare un documento.
«Le mostrerò la corrispondenza, Miss Day.» Lei non la voleva vedere. Non era affatto curiosa. E si sentiva minacciata. Il loro nome non era Simon, e Dio solo sapeva dove vivessero o perché volessero trovarla, anche se tutta la faccenda non aveva alcun senso, vista la coincidenza dell'avvocato a due passi da lei. A meno che loro non l'avessero trovata già da tempo, e poi non avessero stabilito i loro affari con la ditta di Lane e Soames per dare a tutta la macchinazione una patina di ordinarietà e renderla più facile. Sarebbe stato semplice prenderla in trappola quando Rachaela si trovava a soli pochi metri di distanza... era stato perfetto per loro. E quell'altro sconosciuto era di sicuro un loro agente. Il documento giunse nelle mani della radiosa segretaria dagli artigli rosso ciliegia. La donna entrò e uscì barcollando come fosse ubriaca di qualcosa. «Il nome della famiglia,» chiese Rachaela, «è in realtà Scarabae?» Soames non parve irrigidirsi e non ebbe un attimo di esitazione. Era impenetrabile, solo un po' seccato. «Il nome che a me risulta è Simon, Miss Day.» Aprì l'incartamento davanti a Rachaela e le mostrò una cospicua corrispondenza, un gran numero di lunghi fogli di carta con le date ben visibili e una scrittura a macchina leggermente difettosa, e altre lettere scritte invece a mano su carta bianca senza intestazione. Rachaela non sapeva leggere nessun tipo di calligrafia. Probabilmente le faceva ripugnanza il carattere di intimità che la scrittura a mano possedeva. Lanciò un'occhiata all'indecifrabile indirizzo sulle lettere manoscritte inarcando le sopracciglia, come per dare a Soames un'impressione di intensa concentrazione. Non stava rispondendo come lui desiderava. Si sentiva con le spalle al muro. Il leopardo si aggirava per la stanza in cerca della propria preda. Aveva sempre temuto che un giorno quella gente sarebbe riuscita a trovarla. Ma perché la sola idea era così spaventosa? Perché lo era, era orripilante. La madre le aveva sempre parlato male di loro, pur non sapendone niente. Erano stati come un'ombra alle spalle di colui che amava, e la donna li aveva ritenuti responsabili del fatto che lui l'avesse abbandonata. Alla bambina doveva aver raccontato orribili storie ora troppo nascoste e sommerse per venire alla luce, storie incastrate nell'inconscio di Rachaela come neri fossili. Perché lei aveva paura della tribù degli Scarabae. «No, Mr. Soames, mi dispiace molto. Io non credo che i suoi clienti siano onesti, né con lei né con me. Se sono parenti di mio padre non c'è dav-
vero alcuna ragione per cui debbano interessarsi a me. Io non ho mai conosciuto mio padre. Non posso aiutarli. E questo è tutto.» Rachaela si alzò dalla sedia. «Ora spero di essere lasciata in pace.» «Mi rincresce che lei la pensi così, Miss Day.» Era pedante e nervoso, aveva perso. Rachaela uscì dalla stanza e passò accanto alla segretaria, che si profuse in un sorriso terribilmente falso, tutto denti e rossetto. L'ascensore ridiscese. In strada stava piovendo. Me ne devo liberare ora. Ma non vi riuscì. Il leopardo, invisibile alla luce quanto al buio, le stava ancora alle calcagna. «Sei in ritardo, Rachaela,» disse Mr. Gerard. «Tre quarti d'ora. È troppo. C'è stata moltissima gente, dieci persone, e tu dov'eri?» «Sono andata da Lane & Soames.» «Niente di buono?» disse Mr. Gerard urlando. Rachaela detestò la sua espressione, ma da uno come lui non si aspettava nient'altro. «C'è stato un errore,» disse. «È gente che non ha nulla a che fare con me.» «Che peccato. Una sfortuna.» Quella settimana Rachaela andò avanti come al solito; continuò a fare la spola tra il negozio e l'appartamento, a occuparsi della magra spesa, a mangiare al piccolo snack bar, e una volta andò al cinema a vedere un film cruento che la annoiò. Comprò tre libri, uno shampoo, il dentifricio e delle arance, e per tutto il tempo le arrivò alle narici l'odore del leopardo. Era ancora lì. Sentiva una corda che si stringeva sempre più, come una corda di chitarra troppo tesa. Non riusciva ad apprezzare appieno la musica che ascoltava. I rumori che provenivano dagli appartamenti vicini la infastidivano. Una notte poi, ci fu un party che andò avanti fino alle quattro del mattino, e lei restò sveglia senza riuscire neppure a leggere, con le parole che le saltavano via sotto gli occhi, e il significato delle frasi che le sfuggiva. Al negozio aveva cominciato a detestare l'entrata di qualsiasi cliente. Temeva di vedere l'uomo con il cappotto o l'idiota mandato dagli avvocati, o anche Soames in persona. Per qualche strana ragione non si aspettava di vedere nessuno della temibile tribù degli Scarabae. No, loro portavano a-
vanti i loro affari da lontano. Dal posto remoto il cui nome era scritto in maniera così elegante e illegibile sul foglio di carta. Mi aspetta qualcos'altro. Ma cosa? Cos'altro poteva accadere? Aveva rifiutato. Era finita. Il venerdì mattina trovò una busta per lei sul tavolo impolverato della posta, una in mezzo a sei identiche buste mandate dal proprietario della casa. Aprendola apprese che la strada doveva essere allargata o riparata o rivoltata chissà come, e che aveva sei mesi di tempo per trovarsi un'altra sistemazione. Rachaela non pensò a una coincidenza, neppure al destino. Sentì un ondata di paura. Rimase in piedi con le mani pallide intrecciate sotto il pallido viso. Era il complicarsi della situazione, più che la propria rovina, a terrorizzarla. Si recò al lavoro e quando arrivò, in ritardo poiché aveva perso l'autobus, Mr. Gerard la portò nella stanzetta interna dall'odore di muffa. «Rachaela, sono spiacente, ma dovrò fare a meno di te.» A Rachaela venne quasi da ridere per il modo perfetto in cui si bilanciavano le sue disgrazie. «Non pensare che la mia decisione abbia a che fare con la tua, come dire, eccentrica puntualità. Ce la siamo cavata benissimo io e te. Il problema è che questo posto non frutta. Ci ho pensato un po'. Poi ieri ho visto il vecchio ragioniere. Non posso fare altrimenti.» Le offrì un biscotto di consolazione, che lei accettò. Immaginò l'agente del leopardo che veniva a minacciare Mr. Gerard con un lucente pugnale. Pensò che forse altri agenti si erano occupati del proprietario degli appartamenti. Diede un morso al biscotto e ne masticò la scipitezza. «Resta fino alla fine del mese. Ti darò anche un altro stipendio, anche se mi rendo conto che è un po' troppo. È un anno che lavori qui, vero? Mi mancherai.» Rachaela sapeva che lui mentiva, che nel suo intimo era contento di calpestarle la spina dorsale. Per tutte quelle volte che aveva cercato di sapere qualcosa di lei e lei non glielo aveva permesso. Per tutte le battute a cui lei non aveva riso, per i finti pienoni di clienti che si era persa perché arrivava sempre in ritardo. Per il fatto che non si giustificava mai. Doveva essere ben contento di liberarsi di una così. Ma Rachaela, cosa avrebbe fatto? Sapeva cosa ci si aspettava da lei. Era abbastanza ovvio. Il leopardo sta-
va lì ad aspettarla, la sua forma d'inchiostro avvolta in un abito intessuto nella nebbia e nella notte. Prese in mano uno di quei fragili libri tutti strappati, una falena nera morta. Aprendone le pagine lesse: «E lei si rianimò al pensiero di quel felice incontro.» Rachaela fu scossa da un brivido. Era inevitabile, lo era stato fin dall'inizio. Doveva arrendersi. Nessuno degli altri inquilini parlò con Rachaela dell'imminente distruzione delle loro case. Forse per loro era una cosa di nessuna importanza. Due degli appartamenti passavano continuamente di mano in mano, e anche il maniaco del rock era arrivato solo da pochi mesi. Fino allora Rachaela aveva evitato ogni contatto con tutti. Ma probabilmente loro sapevano quanto lei di essere completamente indifesi di fronte alla burocrazia. Da quel giorno cominciò ad andare al lavoro in orario, e durante la pausa del pranzo non si fermava più del necessario. Era diventata scrupolosa. Mr. Gerard la teneva fissa alla cassa mentre lui, invece di starsene rintanato nel retro, aveva cominciato a servire i clienti, per abituarsi a quando Rachaela non ci sarebbe più stata. Non faceva più le sue lunghe telefonate, in compenso mangiava enormi quantità di biscotti. Quando la settimana terminò e la fine del mese si fece più vicina, Mr. Gerard cominciò a mostrare un certo imbarazzo, prese a fare dei terribili scherzetti, a chiedere a Rachaela di pulire il pavimento, cosa di cui fino allora non si era mai dovuta preoccupare. Non la mandava più a prendere i sandwich perché ora mangiava fette di pane con sottaceti. A Rachaela non piaceva la sua continua vicinanza. Erano sempre più rare le volte in cui si trovava sola nel negozio. Così cominciò a desiderare che il mese finisse. Avrebbe dovuto cercarsi un altro lavoro. Sarebbe stato meglio provare in una delle agenzie. Erano veloci ed efficienti. Ma lei le odiava. Pioveva furiosamente e attraversando di corsa il prato Rachaela quasi si scontrò con l'uomo con il cappotto e il berretto di lana. «Miss Day. Mi è stato chiesto di consegnarle questo direttamente nelle sue mani.» Rachaela prese la busta. Era scritta a macchina. Rimasero così, sotto il diluvio, l'uno di fronte all'altra, due creature della giungla che potevano anche ignorare la pioggia. «Non la voglio.»
«La deve prendere. La legga.» «Credevo che tutto questo fosse finito.» «La prego, Miss Day.» «D'accordo. Molto bene.» Se ne andò portando con sé la lettera, mentre le gocce di pioggia cadevano fitte sui suoi meravigliosi capelli come frammenti di vetro. Quando fu nell'ingresso si scrollò l'acqua di dosso con un breve borbottio di ribellione. La porta di casa era una barricata. Il demonio era stato chiuso fuori. Uno degli altri inquilini stava scendendo rumorosamente le scale. Una ragazza con una giacca rossa. Rachaela pensò di fermarla per discutere dell'abbattimento della loro casa. Ma la ragazza non sembrava vera. Era così giovane che pareva quasi non esistere; il volto ovale, liscio, senza una ruga o un'espressione a mostrare che aveva vissuto, che era viva. Rachaela la lasciò passare, e aprì la porta del proprio appartamento. La piogjia creava una strana luce, verdastra ed elettrica. Le pareti danzavano. Rachaela moriva dalla nostalgia del caldo e morbido corpo della gatta, di farsi svegliare da lei e premere il viso contro il pelo vaporoso con quel segreto profumo di erbe e di esistenza. Ma la gatta non c'era più: evocato da occhi stanchi, ne era rimasto a perseguitarla con indifferenza solo il fantasma. Rachaela si tolse la giacca, gli stivali, si mise a sedere sull'orlo di una sedia e aprì la lettera con un tagliacarte di bronzo tanto simile a un pugnale. La carta era spessa. La lettera era battuta a macchina, come se avessero saputo che lei non era in grado leggere la loro calligrafia, o che comunque non l'avrebbe fatto. Cara Miss Smith, Ormai saprà già che l'abbiamo rintracciata e che siamo ansiosi di incontrarla. La preghiamo di darci questa opportunità. Sua madre sapeva molto poco della famiglia e suo padre, lo capiamo fin troppo bene, la abbandonò. Ci dia l'occasione di fare ammenda, per quel che possiamo. Il legame con la famiglia è complesso e non cercheremo di illustrarlo in questa sede; speriamo di poterlo fare con lei in persona, in un futuro incontro. È chiaro che il nostro nome non è quello che abbiamo dato agli agenti, ma, come lei ha giustamente supposto, "Scarabae". Il nome a cui lei stessa ha diritto.
Come Mr. Soames le avrà detto, ogni spesa di viaggio e qualunque altra spesa dovrà affrontare sarà sostenuta da noi. Speriamo di avere presto sue notizie. La lettera era vistosamente firmata "Scarabae". Non c'era neanche un'iniziale. Solo quel nome collettivo che non diceva nulla. Non c'era indirizzo. Come unica intestazione le parole "La Casa" e la data. Rachaela guardò d'impulso verso il camino elettrico spento. Avrebbe voluto bruciare quella lettera. Invece restò seduta per tre quarti d'ora nella stanza gelida con il foglio tra le mani, mentre la pioggia picchiettava corrosiva contro le finestre e i muri della casa. «Sì, ho cambiato idea.» «Sono davvero contento, Miss Day,» disse soddisfatto Soames. «Sono sicuro che questa sia la decisione più saggia.» Quando Rachaela finì la telefonata, chiamò Mr. Gerard. «Mi dispiace, ma non intendo terminare il mese.» «Oh, be', non è giusto da parte tua.» «Lei mi ha licenziata. Che differenza fa?» Mr. Gerard, urlando, cominciò a informarla in maniera dettagliata della differenza. Rachaela mise giù la cornetta. Quattro giorni dopo ricevette un assegno. Non le aveva pagato il mese extra che le aveva promesso, e non le aveva dato un penny in più di quello che le spettava fino all'ultimo giorno in cui aveva lavorato per lui, che era venerdì. D'ora in poi Mr. Gerard avrebbe dovuto cavarsela da solo nei pienoni di due persone del sabato. Rachaela vagava per il piccolo appartamento, mettendolo in ordine per l'ultima volta. Se fosse tornata, l'appartamento non sarebbe più esistito. Avrebbe depositato i mobili in un magazzino che le avrebbero pagato gli Scarabae. Giorno dopo giorno l'appartamento diventava sempre più una prigione. Rachaela non riusciva più a fare altro che riempire le sue due nuove valigie e impaccare le poche cose che avrebbe lasciato al negozio di beneficenza. Le piante erano tutte morte, non era capace di far crescere niente. La gatta era morta. Non aveva un amico, nessuno a cui dire addio. Mandò il nuovo indirizzo al padrone di casa, che l'avrebbe quasi certamente ignorato. In ogni caso era un recapito surreale, forse inventato, un posto che non esi-
steva. Lasciò in sospeso molte cose per quando sarebbe tornata. Ma era impossibile pensare già al ritorno, quando ancora l'attendeva il viaggio d'andata con .tutte le sue difficoltà e insidie. Per due volte le sembrò di vedere fuori sul prato l'agente con il berretto di lana che si nascondeva tra gli alberi grondanti d'acqua per spiarla. Ma poteva anche trattarsi di un'allucinazione. Sperava che il fantasma della gatta svanisse da quelle stanze nel momento in cui lei le avrebbe lasciate. Questo pensiero la fece scoppiare in un pianto violento ma breve, come a volte le succedeva. Sin dall'infanzia, quando riposava oppure la sera prima di addormentarsi, Rachaela amava abbandonarsi a fantasie erotiche puramente emotive. Immaginava avventure imprecise con uomini quasi senza volto, alti e con i capelli neri. Nella realtà non incontrava mai uomini come questi, e sebbene qualche volta le capitasse di vederne di sfuggita uno all'angolo di una strada o dentro una stanza, si trattava sempre di fugaci miraggi che si dissolvevano nel momento in cui si fermava a guardarli. Dopo la morte della madre, avvenuta quando Rachaela aveva venticinque anni, aveva deciso di essere ormai troppo grande per questi sogni nebulosi e incoerenti, ripetitivi e improbabili... incontri in mezzo a burrasche e nebbie, su declivi di colline, sotto gli alberi a mezzanotte... Li aveva perciò messi da parte. Di tanto in tanto poteva capitare che un film o un libro le facessero tornare in mente il ricordo di quelle fantasie, ma ormai ne restava insensibile. In questo momento le escursioni della sua immaginazione erano dirette tutte al luogo in cui si sarebbe recata. Un posto che evocava con terrore. Era come una palude che lentamente la risucchiava. CAPITOLO SECONDO Al termine del viaggio, durato molte ore, la viaggiatrice era come ipnotizzata, il corpo che seguiva ancora il dondolio e lo sballottare del treno, gli occhi storditi dall'immobilità. Stava in piedi davanti alla piccola stazione semiabbandonata, in mezzo alle erbacce invernali. Il cielo incombeva sulla terra. Era come un quadro di Turner, enormi nuvole e colline appena accennate; non uno squarcio di sole nel pomeriggio sconfitto. Ad un tratto, lungo la strada asfaltata che scendeva verso la stazione, la viaggiatrice vide una Cortina fulva venire verso di lei.
Isolate nello scenario, la donna e la macchina sembravano destinate l'una all'altra. La Cortina entrò nel piazzale di fronte alla stazione, schiacciando le erbacce. Il finestrino si abbassò. «Si chiama Smith?» L'autista aveva un non meglio precisato accento forestiero. «Sì.» Lo sportello si aprì e l'autista con fare cortese scese dalla macchina per mettere le due valigie nel portabagagli. Appesantite dai libri, non dai vestiti, l'uomo dovette faticare a sollevarle. Quando ebbe finito parlò: «Venuta in vacanza?» «No,» rispose Rachaela con freddezza, per scoraggiarlo. Non essendo un autista di città, l'uomo non fu così impertinente da insistere dando per scontato che lei desiderasse chiacchierare. Invece si ammutolì e aprì lo sportello alla passeggera. Rachaela entrò in macchina. Appena la macchina si mosse lei ebbe come un senso di sollievo. Il suo corpo si era così abituato al movimento del treno che ora le sembrava di stare bene solo quando veniva trasportata. Nel veicolo l'aria era soffocante e umida, ma Rachaela si lasciò andare sullo schienale, desiderosa solo di chiudere gli occhi. Tuttavia la presenza dell'autista forestiero la tratteneva da un completo abbandono. Restò a guardare il verde chiaro della campagna che le scorreva davanti agli occhi a fianco della strada. Di tanto in tanto apparivano chiazze scure di boschi o distese di campi color tabacco, una fattoria in pietra, una vecchia autorimessa con l'insegna caduta e coperta di ruggine. Per trenta miglia l'autista non parlò. Poi disse cortese, «Non conosco la zona molto bene, vengo dalla città. Lei per caso sa dov'è il posto?« «No, mi dispiace.» «Allora bisogna indovinare. Mr. Simon mi ha mandato una piccola mappa. Forse può esserci d'aiuto.» Rachaela immaginò l'autista che la lasciava in mezzo a quella landa desolata per correre con la sua malconcia automobile verso casa, verso un camino elettrico, verso un disordinato calore fatto di giocattoli e biancheria sporca, hamburger per merenda, una moglie affettuosa e due bambini vivaci, forse anche un neonato. Per un attimo provò invidia, un'invidia passionale e furiosa di quella rassicurante normalità. Doversi preoccupare solo dell'ipoteca, delle lunghe ore extra di lavoro, e poi, a casa, trovare una mo-
glie affettuosa e i frutti dell'antico amore. E io cosa sono? Come devo vedermi? Immaginò una nera falena che annaspava nella notte, un cervo che correva in mezzo a ombre densissime. Una visione drammatica, ma terribilmente appropriata. Non c'era nessun focolare ad attendere Rachaela. Verso cosa stava andando, allora? Dove la stava portando questo autista confuso, anche lui incerto? La palude aveva spalancato le fauci. Rachaela si irrigidì e si ritrovò con le mani avvinghiate alla morbida borsa nera da tempo malconcia. Una leggera nausea le strisciava subdola nelle viscere, un malessere che già da giorni le compariva ogni volta che pensava a cosa l'attendeva. Un'avventura, dopo tutto. Forse era giusto avere paura. Gli Scarabae. Rachaela vide d'improvviso un sole acquoso e velato affondare nelle vallate occidentali, là dove la piatta monotonia dei campi aveva fine. I contorni delle colline si ergevano netti e decisi sul suolo; alcune indossavano bianche maschere di gesso, facce di animali immaginali, ghignanti, sorridenti, o fisse in una smorfia, con buchi al posto degli occhi. Gli alberi si arrampicavano sulla roccia. Sul terreno cresceva l'edera, che ornava di festoni vecchi muri crepati. Dovevano esserci case una volta. Ora, più niente. Tutto svanito. «Che posto desolato, vecchio,» disse l'autista, avventurandosi ancora una volta nel silenzio di Rachaela, e facendola trasalire. «Presto vedremo il mare.» Il suono di quelle parole la irritò. Rachaela non aveva capito che si stavano avvicinando alla costa. Lei era all'oscuro di tutto. Il mondo era un mistero, strani nomi e strane lingue che sentiva alla radio. A momenti il negozio di libri in Lizard Street avrebbe chiuso. Gli autobus sarebbero sfrecciati nelle strade. Un pianeta lontano, perduto, scomparso. Alcuni gabbiani attraversarono la scena. La strada continuava a salire, quando un'improvvisa frattura nella roccia rivelò il bagliore argentato del mare. Giù in basso un'ondata bianca di schiuma si infranse contro la rupe con il fragore di un colpo di cannone. Rachaela sentì il cuore gonfiarsi e poi restringersi, affaticato e spaventato. Il mare non le portava conforto. La strada correva a strapiombo sull'acqua. Ogni tanto appariva il nastro sinuoso di una spiaggia e per un po' all'orizzonte si vide un'enorme nave
cisterna, un dinosauro che avanzava lento nell'acqua. «Ora dovrebbe esserci una svolta, se leggo bene la mappa.» Ancora una volta la voce dell'autista venne a disturbare Rachaela. «Una svolta,» gli ripeté, ma ora era lui che non aveva voglia di conversare. Sulla sinistra apparve subito il bivio, una strada che scompariva dentro una vasta distesa di alberi. Era una collina coperta da fronde scure di pini, una foresta in miniatura, come quelle delle fiabe. Imboccando la strada si allontanarono dal mare, e presto un tunnel di fronde li avvolse nell'ombra. I rami urtavano con violenza i fianchi della macchina. Era una strada dissestata, piena di buche e di ciottoli che schizzavano in aria come proiettili di una mitragliatrice. «Sarà dura per le mie gomme,» disse l'autista. Rachaela non disse che le dispiaceva. «Non mi avevano detto che era così brutta,» aggiunse allora l'uomo. Continuavano a inoltrarsi nella foresta. Una fìtta oscurità si addensava sotto gli alberi. Il sole squarciò il buio con un raggio e svanì ancora. La strada fece ancora un'altra curva e si fermò contro il fianco di una collina franosa. Era buio, tutt'intorno si ammassavano gli alberi, ascoltavano. La macchina si fermò e nel silenzio si udì il ripetitivo cinguettare degli uccelli, uno strano suono primordiale. «Guardi lì.» Rachaela guardò e vide una lastra di pietra. Si leggevano solo due parole: La Casa. Nient'altro, neanche una freccia che indicasse la direzione. «Deve essere in cima alla collina.» L'uomo si voltò verso Rachaela con un ghigno, mostrandole alla fine il volto nemico che lei si aspettava. «Non posso portare la macchina fin lassù. Non c'è più strada. Dovrà andarci a piedi.« Aprirono il portabagagli e l'autista tirò fuori le due pesanti valigie che Rachaela aveva trascinato per tutto il giorno. «Ce la fa?» le domandò con aria vaga, ansioso solo di andarsene. «Cosa le devo?» domandò a sua volta Rachaela. «Già sistemato. Hanno un conto, i Simon. Non so perché, ma prima d'oggi non avevano mai usato la macchina. È la prima volta che uno di noi arriva fin quassù. Attenta a dove mette i piedi.» Dal punto in cui si trovava il segnale, saliva su per la collina una specie di sentiero, solcato da radici e cosparso di aghi di pino. D'estate il sottobosco doveva essere più rigoglioso, e forse il sentiero diventava irriconoscibile.
Nell'oscurità, Rachaela cominciò ad allontanarsi dall'automobile. Sentì il motore accendersi, poi il rumore della macchina che si girava sulla strada ciottolosa. Non volle voltarsi. Le valigie erano pesanti come piombo, ma contenevano tutto ciò che le era sembrato essenziale. Rachaela faticava a trascinarle. Era esausta, e la paura e il nervosismo avevano ceduto alla stanchezza, estinguendosi quasi completamente. Forse quella casa non esisteva, forse era illusoria come la maggior parte dei suoi sogni. Saliva in mezzo a pini, cedri ed enormi querce coperte di muschio, fra tronchi lucenti di crisolito emersi dal suolo, possenti colonne su cui poggiava un intreccio traslucido di fronde. Non luce, ma solo contrasto col buio. In un posto simile, dagli alberi poteva venir fuori qualunque cosa. Dopo molte circonvoluzioni il sentiero uscì dal bosco. Rachaela si trovò in cima alla collina. Si sentiva il ribollire del mare. Era il crepuscolo, il sole era scomparso verso l'interno e la volta del cielo si chiudeva. Rachaela vide due stelle, e sul terreno che le si era aperto dinanzi, piuttosto distante, una costruzione. C'era una torre con il tetto conico, merlature e pareti oblique. Gli ultimi sprazzi di luce davano alle strette finestre a schiera una strana brunitura. Era una casa grande, che al calare della sera si trasformava in un vegetale in muratura. Dove finiva il corpo dell'edificio la terra cominciava a scendere. Più in basso il mare si frangeva contro la roccia e quando non si sentiva l'urlo dei gabbiani gridava il silenzio. Qui? Era qui che avrebbe dovuto affrontarli? E affrontare cosa? Stordita dalla tensione, Rachaela aveva messo giù i due blocchi di piombo. Non le restava che attraversare l'informe terreno tra sé e la casa, suonare un campanello o picchiare un primitivo battente, e uno di loro sarebbe apparso. Sarebbe allora entrata in casa e avrebbe finalmente cominciato a capire. Faceva freddo su quel promontorio. Ora si vedevano sette o otto stelle di stagnola che ardevano gelide, pallide e terse. Nel riprendere le valigie Rachaela sentì le bacchettate del dolore sulle spalle. Camminava in direzione della casa, e ogni tanto inciampava sulle pietre o su ciuffi d'erbacce invernali. Sospesa nel blu del crepuscolo, la casa si faceva sempre più vicina. Rachaela raggiunse un muro di cinta interrotto da due pilastri. Nessun
cancello. La strada era aperta, ma tutt'altro che invitante. In alto, sospesa sull'imponente folla degli alberi di un giardino, si illuminò una finestra della casa. Rachaela la fissò. Per quanto fioca fosse la luce, la finestra era diventata un frutto di vetro colorato di carminio sfumato, porpora densa e verde prugna. Cosa proponeva quella finestra? Qualcosa? Nulla? Non sembrava un'accoglienza, piuttosto un'esclusione. Il sentiero dal muro di cinta alla casa procedeva dritto. Sui due lati c'erano enormi tassi secolari, alberi da cimitero, tra le cui fronde stava in agguato e mormorava l'oscurità. Anche la casa, a parte quell'unica finestra illuminata, era nera e senza volto. Cominciò a distinguersi un portico. Di legno d'ebano preziosamente intagliato, poggiava su cinque bassi scalini, tutti con un'oscura sigla, sui quali Rachaela salì. Nessuna luce da dentro la porta, una solida struttura di legno. Nessun campanello. Rachaela cercava un battente, un segnale che invitasse alla comunicazione. Ma la porta era solo socchiusa. Stava aperta su quel mondo vuoto, sulla notte e sugli alberi. Rachaela posò ancora una volta le valigie, spinse con diffidenza il battente... e la porta si aprì. Buio, e ancora quella misteriosa sigla su una mattonella bianca nel pavimento. C'era un'altra porta all'interno della prima, un rettangolo nero nell'oscurità. Poco a poco Rachaela cominciò a distinguervi un pomello dalla forma antiquata, una sfera che impugnò e fece ruotare. Ma anche quella porta era aperta. All'interno apparve un bagliore soffocato di luce rossa, vago e incerto come quello di una candela che muore. Avrebbe dovuto inoltrarsi nella semioscurità di quella trappola? O rimanere fuori al freddo e ai sussurri del buio? All'interno della seconda porta si apriva un grande spazio rettangolare, un atrio o un corridoio con un pavimento di marmo a scacchi color ruggine e neri. Era largo come una grande stanza e vi si intravedevano delle ombre che potevano essere qualunque cosa, porte, passaggi o orsi accovacciati. Su un tavolo di mogano ammorbidito da uno strato lanuginoso di polvere bruciava una lampada a olio color rubino, con lo stoppino piegato verso il basso, mentre dal soffitto pendeva, spento, un lampadario simile a un fiocco di neve. Sottili ragnatele avvolgevano i prismi di vetro del lampada-
rio, che ondeggiava dolcemente avanti e indietro nella corrente d'aria creata dalle porte aperte. Colpiti dai raggi della lampada rossa, i prismi diventavano gocce di inchiostro carminio. Rachaela sentiva l'odore della polvere e delle umide volte della casa, ma anche quello dell'olio della lampada, e un profumo come di pelo, erbe e polveri, aromi misteriosi. Portò le valigie nell'atrio e si voltò per chiudere la porta interna. «La lasci aperta, per favore,» disse una voce bassa e monotona. Rachaela si voltò di scatto verso il centro dell'atrio. Dal lato opposto rispetto alla lampada stava in piedi, un po' china in avanti, la figura minuta e smilza di un uomo. «Le porte vanno lasciate sempre un po' aperte quando è buio.» La curiosa dichiarazione sfiancò Rachaela, che lasciò perdere la porta. Restò immobile accanto alle valigie in attesa di vedere cosa sarebbe successo. «Chiamerò qualcuno per portarle i bagagli. Se me lo permette vorrei mostrarle la stanza che è stata preparata per lei.» «Lei chi è?» disse Rachaela. Oltre il bagliore della lampada vedeva un manichino in un abito vecchio e logoro, con un piccolo volto esangue e due macchie all'altezza degli occhi. Aveva i capelli grigi. «Mi chiamo Michael. Sono il domestico della famiglia.» «E lei mi conosce?» Ma chi altri poteva avventurarsi fin lassù con il buio? «Lei è Miss Rachaela.» «E... la famiglia?» domandò lei, serrando le mani. «Miss Anna e Mr. Stephan verranno subito giù a darle il benvenuto.» La piattezza e il tono basso della voce, insieme alle parole che aveva detto, non riuscirono a calmare Rachaela. L'uomo afferrò la lampada e al rapido movimento della luce le ombre presero il volo e le pareti precipitarono. Per un istante apparvero intagli straordinari che svanirono subito dopo insieme alla luce. Sulla destra emerse dal buio una scala. Rachaela la guardò con meraviglia. Una ninfa di legno faceva la guardia al primo pilastro reggendo in mano una lampada decorata, anche questa spenta. La scala, che sembrava non avere fine, era coperta da un tappeto persiano di un rosso che la lampada a olio rendeva più carico. I due cominciarono a salire avvolti nella magica aureola di quella lam-
pada. Rachaela contò ventidue scalini. Dietro di sé le valigie furono ingoiate dalla desolata oscurità dell'atrio. Solo il lampadario catturava ancora qualche goccia di luce rossa da sotto gli strati di polvere. In cima alla scala c'era un pianerottolo coperto da un tappeto. Apparve un corridoio, illuminato da un'altra lampada a olio che poggiava su un supporto. D'un tratto, alla luce rosata di questa lampada, Rachaela ebbe modo di vedere per un istante il volto della propria guida, un cammeo tra ombra e fiamma. Non era giovane e aveva gli occhi fissi come quelli di un cieco. Li offuscava un velo molto simile alla patina di polvere che Rachaela aveva notato sul tavolo e su altri mobili della casa. Cominciarono a percorrere il corridoio e svoltarono all'altezza di una grande finestra piombata. I vetri colorati, privi della luce del giorno, avevano perso i loro colori e mostravano solo il buio della notte. Sulle pareti si intravedevano complicati affreschi. Michael aprì una porta. «Questa è la sua stanza, Miss Rachaela.» La stanza, come la casa, era arredata in stile gotico, tutta in verde e blu. Sulla mensola del caminetto, rivestito di piastrelle verdi, ardeva una lampada con una base di vetro color smeraldo. Nel camino il fuoco consumava con zelo una pila di ceppi. In candelabri appesi alle pareti erano accese semplici candele bianche. Rachaela notò che non c'era molta polvere, forse lì avevano pulito per lei, o forse lo aveva fatto l'obliquo domestico. Al centro della stanza c'era un letto dalle cui colonne pendeva un drappo di velluto verde bottiglia. Una coperta indaco era rimboccata a mostrare dei guanciali bianchi e dall'aspetto molto lindo. Forse avevano comprato della biancheria nuova apposta per lei. Rachaela sentì che erano stati fatti dei preparativi, che per quella casa lei rappresentava qualcosa di speciale e di eccitante, come un bambino appena nato. C'era un leggero odore di umidità, e su questo l'aroma secco e pungente del fuoco, oltre a un profumo che pareva di cipria. «Ora le porteremo su le borse.» Michael indicò il corridoio. «Il bagno verde è lì. C'è l'acqua calda.» «Grazie.» La casa era decisamente vecchia e certo in passato aveva fatto a meno di una simile comodità. Rachaela era ansiosa di restare sola. Quella stanza la opprimeva, tuttavia le avrebbe offerto un rifugio per pochi altri istanti preziosi. «Mr. Stephan e Miss...»
«Miss Anna e Mr. Stephan saranno giù tra poco.» «Come farò a trovarli?» domandò Rachaela. «Le stanze al pianterreno saranno illuminate, Miss Rachaela.» L'uomo uscì dalla camera chiudendosi dietro la porta. Una drappeggio come quello del letto ricadde sullo stipite. Dietro il letto c'era un'altra finestra grande e lunga con le tende aperte ; anche questa era di verro colorato annerito dal buio. Guardando fuori Rachaela riuscì a distinguere i contorni piumati di un albero, che sembravano due figure. Avrebbe dovuto attendere la luce del giorno per vedere cosa le avrebbe tenuto compagnia in quel luogo. Si avvicinò al focolare. Era invitante, un lusso, e non sarebbe toccato a lei il fastidio di pulirlo e di prepararlo. C'era un domestico... gli Scarabae avevano aiuto in casa. Rachaela cercò di godere del piacere del fuoco. Sulle mattonelle intorno al focolare c'erano degli iris blu smaltati. Il tappeto dentro la camera era molto vecchio, probabilmente persiano, con disegni di piante rosa e blu e uccelli verdi. In due diversi punti della stanza ammiccava da dietro le candele uno specchio, mimetizzato da elaborate decorazioni di gemme di vetro colorato. Un vecchio ed enorme tavolo da toletta sorreggeva un altro specchio a battenti la cui superficie era allo stesso modo celata. Rachaela si guardava attraverso una siepe di gigli e un furioso tramonto pieno di raggi e rondini, sì che la propria immagine le ritornava frantumata. Un effetto davvero bizzarro, ma non le importava nulla, aveva portato con sé il suo comunissimo specchio. Si mise a sedere per qualche attimo sul letto, cogliendo il cupo fragore del mare e il ticchettio di due orologi, uno nero con due angeli sulla mensola del camino, e uno più piccolo a forma di torre accanto al letto. Quello grande segnava le sette e mezza, il quadrante della torre le nove. Rachaela diede un'occhiata all'orologio che aveva al polso, ma avendo dimenticato come al solito di dargli la carica, lo trovò fermo. Ma ora doveva prepararsi per l'incontro con Stephan e Anna. Non riusciva a immaginarli. Si alzò e si convinse a uscire nel corridoio rischiarato dalla lampada. Impiegò solo un attimo a trovare il bagno, l'unica porta oltre alla sua su quel lato del corridoio. La stanza da bagno era tutta un pezzo d'antiquariato, per cui i ricchi della città avrebbero sborsato migliaia di sterline. Anche qui una lampada a olio illuminava la vasca di marmo verde, il lavabo sempre di marmo e il gabi-
netto con la seduta di legno decorata da un intreccio di margherite verdi. L'acqua calda vantata da Michael veniva fuori da un rubinetto Ascot. Su una cassapanca stavano in mostra alcuni asciugamani d'epoca, una brocca e un catino eau-de-Nil, e un vassoio di petali secchi. Era verde perfino la saponetta, che profumava di caprifoglio. Saponetta nuova, asciugamani nuovi. Sulle mattonelle delle pareti si tuffavano delle sirene. Rachaela alzò gli occhi verso il soffitto. L'impianto elettrico c'era, mancava solo l'elettricità. Si lavò il viso, le mani e le braccia, e si accorse che stava tremando. Sullo specchio sopra il lavabo c'era un oceano di vetro solcato da una nave a tre alberi. Rachaela vedeva la propria immagine a frammenti, le labbra, gli occhi, il nero dei capelli. Tornando in camera notò che qualcuno, senza fare rumore, le aveva portato su le valigie. Si cambiò il maglione, si tolse gli stivali, e mise un paio di scarpe con il tacco alto. Più tardi avrebbe appeso i pochi abiti che possedeva nel grande armadio con le ghirlande e le orlature di mogano, tutte rivestite da un sottile strato di polvere. Non le piaceva indossare cose colorate, non ci si vedeva, e trovò curioso il fatto che con un guardaroba come quello, nero, grigio e crema, verde appassito e blu, sarebbe sempre stata in sintonia con la stanza che le era stata destinata. Ebbe ancora una volta la sensazione dell'importanza del proprio arrivo, della loro eccitazione, e anche della lunga permanenza che l'attendeva. Erano sensazioni che la spaventavano, ma ormai era troppo tardi per avere paura. Era arrivata fin lì, e loro l'avevano fatta entrare. Aiutandosi con il suo piccolo specchio si incipriò il viso e diede una ripassata di matita nera agli occhi. Dopo essersi anche pettinata i capelli stava per uscire dalla stanza, ma giunta alla porta si bloccò. Non si era accorta di niente quando le avevano portato le valigie, ma ora sentì chiaramente che qualcuno stava camminando nel corridoio. Era un passo particolare, ritmato e irregolare. Poi si udì anche una voce, acuta e petulante: «Hop! Hop!» Rachaela pensò a un bambino che faceva fìnta di andare a cavallo. Un vecchio bambino che giocava a correre avanti e indietro per il corridoio. Si sentì un po' di trambusto; il cavallo doveva essersi impennato: «Ferma!» gridò il bambino, e galoppò via. Rachaela aprì immediatamente la porta.
Vide solo un'ombra nera impennarsi e scomparire in fondo al corridoio. Qualcosa giaceva però fuori dalla porta. Rachaela si chinò, e con un dito toccò il corpo di un graziosissimo topo dalla lunga coda. Era morto, ma non sembrava ferito. Intorno al corpo gli era stato legato un nastro scolorito di seta rosa. Rachaela raccolse il topo, infiocchettato come un dono. Lo teneva in mano. Non lo trovava affatto ripugnante. Era morbido e commovente, e sembrava un bellissimo giocattolo ora che era morto. Dopo averlo posato sulla toletta, Rachaela prese la borsa e si avventurò fuori dalla camera. Al piano di sotto erano sbocciate dappertutto lampade e candele. Rachaela vide che lungo le pareti dell'atrio c'erano diverse porte; una di esse, coperta da rinforzi di ferro nero, assomigliava al portone di un castello. Sul pavimento di marmo guizzavano riflessi rosso fiamma. Attraverso un'arcata si entrava in un salotto, una stanza immensa piena di mobili deliziosamente lugubri e ornata dai raffinati merletti e dai drappeggi della polvere. Gli Scarabae vivevano in un deserto polveroso dove solo alcune zone venivano pulite, sicché ogni tanto, in mezzo a quel deserto, si vedeva un tavolo lustro come un nero specchio d'acqua. Un fuoco ardeva al centro di un caminetto di marmo bianco come ghiaccio e ornato da pilastri e scudi araldici. Non c'era nessuno nella stanza, piena solo d'attesa. Rachaela sentì quello spazio accoglierla e richiudersi sul suo capo. Il mare risuonò più forte. Di sicuro, uno tra loro era pazzo... il misterioso galoppatore, latore di topi morti. La sua era una voce d'uomo, acuta, spaventosa, ma d'uomo. Era stato Mr. Stephan a galoppare via in quel modo? D'improvviso, un rumore. Michael, il domestico degli Scarabae, era entrato nel salone portando un vassoio d'argento su cui scintillavano bottiglie e caraffe, e che appoggiò su uno dei lucenti specchi d'acqua. A Rachaela venne in mente la scena di un sontuoso spot pubblicitario: si sarebbe aspettata che da un momento all'altro apparissero dall'arcata due personaggi eleganti e raffinati. «Posso servirle qualcosa, Miss Rachaela?» Rachaela chiese del vino, e Michael le riempì un bicchiere. Il cristallo era prezioso, il vino trasparente. Lei lo bevve con gusto e il liquore le andò dritto al cervello. Al-
l'improvviso una consapevolezza elettrizzante la indusse a voltarsi. Entrate da una delle porte o venute fuori dal nulla, erano apparse nella stanza due figure. Stavano in piedi fianco a fianco. Erano due persone molto vecchie, magrissime, una donna e un uomo, che, giunti alla soglia dell'età in cui i sessi si confondono, avevano mantenuto intatte le caratteristiche dei rispettivi generi. La donna aveva una chioma grigia scura che teneva raccolta sul capo con delle forcine di madreperla ingiallita. Indossava un abito di foggia antica scuro e lungo fino alle caviglie, uno di quelli che si potevano trovare nei mercati dell'usato in città. Le scarpe che aveva ai piedi erano di quelle che andavano di moda nel secolo scorso, ora di nuovo attuali. Si vide un luccichio, poi ancora un altro: la donna era cosparsa da uno zucchero a velo di lustrini. Anche l'uomo vestiva all'antica: giacca da smoking, pantaloni neri, e una camicia inamidata. I capelli erano bianchi e foltissimi, e le sopracciglia nere come due schegge di ferro. Avevano entrambi le mani riccamente inanellate. Stavano immobili al centro della stanza come due bambole invecchiate, mentre il chiarore del fuoco e delle candele gettava intensi bagliori sui loro occhi. Erano occhi scaltri di gatti, non certo di topi. «È Rachaela,» disse il vecchio con voce chiara e inaridita e con una dizione impeccabile, priva di qualsiasi accento, anche del paese che li circondava. Non sembrava la voce del galoppatore misterioso. «È lei,» confermò la donna. «È lei.» E restarono fermi dov'erano, senza muovere un passo né per avvicinarsi né per andarsene. Erano talmente vecchi da non poter essere più turbati dalle ridicole palpitazioni della giovinezza. Allora Rachaela parlò: «Voi dovete essere Miss Anna e Mr. Stephan.» «Anna e Stephan,» la corresse la donna; poi fece un sorriso e la pelle raggrinzita del suo volto cominciò a muoversi a strati come le onde del mare. Quel sorriso era solo una maschera. «Quant'è educata! Niente formalità con noi, per favore,» disse l'uomo. Lui non sorrise, ma anche le pieghe immobili scolpite sul suo volto erano solo una facciata. Era come se l'età avesse alzato sui loro volti un muro, dietro al quale i loro occhi continuavano a sbirciare come i vispi occhietti dei topi dai fori di una parete. «Più tardi conoscerai anche gli altri,» disse la donna. «Li incontrerai ad
uno ad uno, in un posto o nell'altro. Non c'è alcuna fretta.» «Noi ceniamo, capisci,» spiegò l'uomo. «A me piace cenare, è una questione di civiltà. Gli altri invece... abbiamo orari diversi.» «Ci farai l'abitudine,» disse Anna. «Puoi fare come ti pare qui. Ora è casa tua.» «No,» ribatté Rachaela. Parlò con troppa irruenza, quasi con violenza. Ma loro non lo notarono, oppure non vi badarono. «Ti abbiamo invitata,» disse Stephan. «Chi di voi ha battuto a macchina... la lettera che ho ricevuto?» «Oh, nessuno di noi,» rispose Anna. Una marea di onde si mosse sul suo volto. «Nessuno di noi.» «Odio quegli aggeggi,» disse Stephan, e con una smorfia fece come per scrollarsi dalle mani le briciole della macchina da scrivere. «La lettera...» ripeté Rachaela. «Non stare a preoccuparti della lettera, ora. Ormai sei qui, fra noi. Noi siamo la tua famiglia, Rachaela.» Il domestico entrò e si diresse verso il vassoio, mentre loro, in silenzio, aspettavano di essere serviti. Alla luce scintillante del fuoco l'uomo portò a Stephan un calice piccolo e stretto pieno di un liquido scurissimo, e ad Anna un minuscolo bicchiere di granato. «Tra poco ceneremo,» disse Stephan. Michael si esibì in un impeccabile inchino e lasciò la stanza. «Spero che la cena sarà di tuo gusto,» disse Anna a Rachaela. «Vivendo in un posto così isolato dobbiamo accontentarci di cibi molto semplici.» Andò quindi verso una poltrona e si mise a sedere. Stephan restò in piedi, e quando Rachaela si mise seduta per permettere anche a lui di farlo, lui continuò lo stesso a stare in piedi. Si avvicinò a un tavolo impolverato che esibiva una scacchiera con le pedine di onice, ne mosse con cautela una, e si allontanò di nuovo a grandi passi. «Vi devo chiedere la ragione per cui sono stata invitata,» disse a un tratto Rachaela. «Mi avete perseguitata. Perché mi volete qui?» «Ma è naturale che ti vogliamo, e non solo Stephan e io, anche gli altri. È giusto che tu prenda il tuo posto fra noi.» Anna era perfettamente calma. «Siamo in molti,» disse Stephan. «Eravamo tutti d'accordo.» «Eravate tutti d'accordo sul fatto che io dovessi... che io dovessi venire qui?» «Certo.»
«Abbiamo aspettato diversi anni, finché non è arrivato il momento.» «E perché il momento è ora?» domandò Rachaela. «C'è un momento per ogni cosa,» rispose Anna, leggera come una ragnatela. «L'arte sta nel saperlo riconoscere.» «Miriam, Eric, George, Peter, e forse anche Sylvian, ti avrebbero voluta qui già da molto tempo,» disse Stephan. Rachaela restò inorridita nel sentirsi elencare uno appresso all'altro tutti quei nomi. Era tanto numerosa la tribù degli Scarabae? «Ma non era ancora il momento giusto,» continuò Anna. «Ora quel momento è arrivato.» Detto questo inghiottì in un sorso il contenuto del suo piccolo bicchiere, quindi si alzò e andò verso una tenda che celava una porta. «La cena è pronta,» disse Stephan, e si affrettò a precedere Anna per scostare la tenda e aprire la porta. Rachaela si alzò e si mise a seguirli come una bambina obbediente. Quando lei ancora non era nata, quei due, già adulti, se ne andavano in giro per il mondo conducendo chissà quali vite. Rachaela non aveva mai mangiato carne di coniglio prima di allora. Le dissero che era pasticcio di coniglio e le chiesero se avesse qualcosa in contrario, se lo gradisse. Prima era stata servita una zuppa di pomodoro piuttosto annacquata. Rachaela era stata informata che gli ortaggi erano coltivati da Michael e Cheta. Facevano assegnamento sulla città quanto meno potevano. A Rachaela il coniglio non dispiacque, non era cattivo, ma lo trovò piuttosto insipido. Si domandò chi di loro catturasse i conigli... Michael forse, con quei suoi strani occhi che parevano ciechi? La cena era stata servita da Cheta, un Michael donna con un semplice abito scuro e una spilla sul colletto le cui pietre bianche sembravano vere. Aveva i capelli grigi raccolti in una crocchia alla base della nuca, quasi un segnale di sottomissione, e portava scarpe basse. I suoi occhi erano uguali a quelli di Michael. Michael e Cheta non erano vecchi come Anna e Stephan, ma lo erano abbastanza, e anche loro sembravano usciti da una soffitta polverosa. Erano Anna e Stephan scesi in terra. La lunga tavola, illuminata dalle candele, era apparecchiata solo con tre posti. Dal soffitto pendeva un lampadario spento che catturava bagliori di luce dal fuoco. Sulla mensola del camino un orologio dorato da cui non
veniva nessun ticchettio, fermo probabilmente da decenni. Il pasto era stato effettivamente semplice. Dopo il pasticcio, accompagnato da un contorno di carote e cavolo fritto provenienti presumibilmente dall'orto di casa, era stato servito un dessert di frutta tagliata a fette e condita con un liquore alcolico. La cena si era infine conclusa con un piatto di formaggi e dei biscotti preparati da Cheta e Maria, un'altra domestica che ancora non si era vista. Che relazione esisteva tra Anna e Stephan? E c'era qualche legame con i servitori, visto che i loro volti si somigliavano tutti? Rachaela li trovava di una familiarità sconcertante: doveva dedurne che notava una somiglianza anche con se stessa? Non voleva fare loro domande così intime. Era stato già abbastanza difficile chiedere il poco che aveva chiesto, e loro non avevano neanche risposto... oppure non c'era davvero alcuna risposta. Forse i loro vecchi cuori cigolanti avevano solo bisogno del balsamo della sua giovinezza. Erano affascinati da lei, Rachaela lo capiva. Le futili domande con cui a turno la assediavano, domande sul cibo, sui piatti che le piacevano di più, e su faccende del genere, le venivano poste come fossero state lucide monete che loro introducevano in una scatola magica per sollecitarne le risposte. La osservavano con occhi limpidi e crudeli; era come se la divorassero viva, nutrendosi semplicemente del suo esistere. Avevano mangiato il coniglio a bocconi veloci, quasi con fastidio, e durante la cena i discorsi erano stati piuttosto superficiali. Ma gli Scarabae non erano grandi conversatori. Erano venuti in quella stanza solo per cibarsi. Stephan stava ancora piluccando dal piatto dei formaggi, che venivano quasi certamente dalla città, quando si sentì il fruscio di una tenda e si aprì una porta: un altro esilissimo vecchio entrò nel salone come galleggiando senza peso e con un libro sotto il braccio. Scivolò morbido sul tappeto fino alla tavola, ma non per cenare. Fissò Rachaela con cupidigia, chinandosi un po' su di lei. «Eric, ecco Rachaela,» disse Anna. Gli occhi erano gli stessi di Anna e Stephan, il volto raggrinzito di mummia non esprimeva nulla, le labbra sottili e aride erano sigillate. Il vecchio emise un brevissimo suono, quasi un singhiozzo, e sempre levitando uscì dalla stanza superando un'altra tenda e un'altra porta, che per un attimo sembrò si aprisse su un giardino.
«Non devi farci caso,» disse Anna. «Non tutti siamo chiacchieroni. Eric è un pensatore, ama leggere.» Come Anna finì di parlare la tenda che copriva la porta si mosse di nuovo e leggere come un soffio entrarono nella stanza due donne anziane in vetusti abiti che scintillavano di perline. Anche loro levitarono verso la tavola. Avevano gli stessi occhi degli altri. «Rachaela è arrivata.» L'annuncio di Anna era del tutto superfluo, visto che gli occhi fiammeggianti e crepitanti delle due donne avevano già preso di mira l'ospite. «Rachaela, questa è Alice, e questa Sasha.» «Buona sera,» disse Rachaela, ansiosa di vedere come avrebbero reagito. Alice, in un abito prugna scuro, si mise ad agitare velocemente le mani, mentre Sasha, che sfoggiava un colletto di pizzo, rispose al saluto: «Buona sera, Rachaela.» Come Anna e Stephan, anche Sasha, che avrebbe dovuto avere una pronuncia straniera, sfoggiò una dizione del tutto priva di accento. Rachaela invece si aspettava che parlassero tutti come degli idioti, con l'accento di qualche altipiano montagnoso dell'Europa. «Hai fatto buon viaggio?» disse d'un tratto Alice, che aveva la stessa voce di Anna e Sasha. «Non proprio,» rispose Rachaela. «Oh, mi dispiace davvero,» disse Alice, e le onde del viso si mossero fino a rendere evidente la sua preoccupazione. «Viaggiare è diventato così noioso, così faticoso. E sono tutti così scortesi.» «Via, Alice, sono anni che non vai da nessuna parte!» la rimproverò Anna con fare scherzoso. Alice continuò eccitata, «Ricordo ancora quegli enormi treni neri immersi in nuvole di vapore e di fumo. Ci si insudiciava tutti. Una volta mi volò via il cappello, e Peter dovette inseguirlo.» Rachaela immaginò una fuga fra le pianure innevate della Russia, il treno che volava via in un turbinio di scintille e vapori come un mostro preistorico. «Sono anni che nessuno di noi si avventura fuori,» disse Stephan parlando con la bocca piena di formaggio. «Ormai non ne abbiamo quasi più bisogno.» «Prima vi eravamo costretti,» disse Alice a Rachaela. Il suo volto era ancora una maschera, ma una maschera di confidenza. La curiosità di sapere come avrebbe reagito Rachaela le faceva brillare gli occhi. «Ci cacciavano.»
«I pogrom,» disse all'improvviso Sasha. Rachaela afferrò con avidità quella parola straniera. Si erano lasciati sfuggire un segreto. «La nostra non è sempre stata una storia tranquilla,» disse Anna. Non c'era ammonimento né rimprovero nella sua voce. «Ma è ancora troppo presto per opprimere Rachaela con il nostro passato. Lei non ha mai conosciuto cose come quelle, e forse non ne conoscerà mai.» «Vecchie cicatrici,» disse Stephan, e scostò via il proprio piatto. «Vecchie storie. La famiglia ne ha passate davvero tante.» In un punto lontano della casa, forse nella stanza di Rachaela, un orologio batté l'ora. «Non è ancora il momento,» disse Anna, ancora senza ammonimento nella voce. Rachaela fu scossa da un brivido al pensiero della potenza del suono in quello spazio rettangolare. Erano tanti, quanti ora non osava pensarlo. Uno sciame, gli Scarabae, e opprimenti per quel passato che non era il suo, e che tuttavia, per il legame che c'era, avrebbe finito per appartenere anche a lei. Rachaela sentì una terribile affinità. Lei ora credeva di essere legata a loro, lo aveva in qualche modo capito nelle poche grottesche ore che aveva trascorso in quella casa. «Le faremo vedere la biblioteca,» disse Alice senza esitare. Anna fece una risatina che suonò come delle lastre infrante. «La biblioteca!» «Sylvian era occupato oggi,» disse Stephan. Sospirarono, tutti insieme, come fossero uno. La grande casa pullulava di queste creature, ma loro erano una sola cosa, varie sfaccettature di una totalità, di un'entità. E in tutto questo lei, Rachaela, che posto aveva? Sarebbe stata assorbita, divorata? «Anna,» disse, sforzandosi a pronunciare il nome, come se il solo nominarli fosse una stregoneria. «Sono terribilmente stanca. Ti dispiace se vado su a dormire?» «Devi fare solo quello che ti va, Rachaela. Nella tua stanza, accanto al camino, c'è un campanello. Se dovessi avere bisogno di qualunque cosa, Michael o Maria o Cheta provvederanno. Carlo ha portato su le tue valigie?» «Qualcuno lo ha fatto.»
«Sì, sarà stato Carlo. È il nostro uomo di fatica.» Rachaela si alzò. In mezzo a loro era la più alta. Anna e Stephan sedevano ancora al tavolo, Cheta e Michael, Alice e Sasha le stavano di fronte all'altro capo di quella lucida superficie su cui erano stati apparecchiati solo tre posti. Le candele rilucevano e mandavano calore. In alto, in una miriade di riflessi di luce, il secondo lampadario lasciava cadere a gocce la sua bellezza mutilata. «Quanti siete?» disse Rachaela, reprimendo il terrore che era nella sua voce. Il ruggito del mare le risuonava forte nelle orecchie. Stephan si mise a ridere. La sua risata era la versione maschile di quella di Anna. «Molti, molti.» «Al momento siamo in ventuno,» disse Anna con calma. «Dimentichi...» aggiunse Stephan. «No,» ribatté Anna. «No.» Il corpo del topo era stato portato via dalla toletta, ma il nastro era ancora lì, ripiegato con cura. Rachaela si mise seduta a spazzolarsi i capelli. Quando era viva la madre glieli spazzolava lei. Lo faceva con mano pesante, come se pensasse che quella fitta proliferazione di capelli le precludesse ogni sensibilità alle radici. Da bambina Rachaela aveva i capelli sempre arruffati. Una volta, per comodità, la madre le aveva fatto tagliare la criniera. Rachaela aveva pianto e le aveva tenuto il broncio finché la massa di capelli non le era ricresciuta. La casa non la fece soffermare sul ricordo di sua madre. Usò per qualche attimo quel frammento di memoria come uno scudo di protezione tra sé e la casa. Gli Scarabae. Di ritorno nella propria stanza aveva incontrato sulle scale un altro vecchio con una giacca verdastra. Lui l'aveva scrutata in volto con occhi infuocati. «Io sono Rachaela,» aveva detto. «E tu?» Ma l'uomo era sgambettato via, non perché fosse spaventato da lei, piuttosto perché non desiderava comunicare. Era Peter, o George, o Sylvian di ritorno dalla biblioteca? Ma che importanza aveva? Erano una sola cosa, e ventuno di numero. Nella serratura della porta c'era una chiave che Rachaela, dopo essere stata al bagno, usò per chiudersi dentro. Naturalmente immaginò che esistessero altre chiavi con cui si poteva aprire quella porta, ed ebbe la visio-
ne di un gruppo di loro che entrava in silenziosa processione per spiarla mentre dormiva. Dita inanellate di ragnatele che toccavano le sue cose, il pettine e la spazzola, la cipria e lo specchio, vestiti puzzolenti di muffa che le frusciavano accanto, e la manica della camicia di un vecchio che la sfiorava... Era impossibile andarsene. Non c'era il modo. E poi era costretta a rimanere. Non aveva nessun altro posto dove andare. Il mondo intero non aveva abbastanza nascondigli per sottrarla agli Scarabae. Perché lei sapeva di appartenere a loro. Se lo sentiva nelle ossa. Stava solo fuggendo da una certezza. Alla fine si svestì e indossò una delle due camicie da notte che teneva da parte per le emergenze; normalmente dormiva nuda. Ma qui sentì il bisogno di proteggersi con uno strato in più di leggera seta fabbricata dall'uomo. Era una camicia da notte nera. Rachaela si osservò attraverso la siepe di gigli e lo sprazzo di sole sullo specchio. Nelle stanze al piano di sotto aveva notato due o tre specchi, ed erano tutti decorati con vetro colorato, quasi li si volesse nascondere. Come se il vedersi riflessi doveva essere mantenuto al minimo. Appoggiata alla parete della stanza c'era una libreria vuota. Rachaela, per rilassarsi, aveva già disfatto le valigie e l'aveva riempita di libri. Li guardò. Le appartenevano, erano suoi. Proprietà davvero esigue, le sue, nella casa degli Scarabae. E come si sentiva impalpabile anche lei rispetto a quelle stanze e quei corridoi, alle porte e alle camere più nascoste di questa cosa così fittamente costruita. Ventuno, i vecchi scarafaggi si aggiravano furtivi e striscianti perseguendo i loro oscuri fini. Ma lei stava da sola, oppressa dall'architettura e dalle insolite forme dell'edificio. Rachaela entrò nelle bianchissime lenzuola e si appoggiò sui lindi guanciali, osservando la camera incorniciata da un velluto verde bottiglia. Il fuoco bruciava piano. Oltre le pareti della casa si sentivano i lamenti soffocati del bosco, il respiro del suo cuore vivo ed esausto. La notte invernale stava immobile dietro la finestra con l'albero. Il mare quasi non si sentiva. Rachaela riconobbe un rumore di passi anziani che passavano strascicando nel corridoio della sua stanza. Poi, d'un tratto, tacchi di donna dal ritmo lento e misurato, che passarono dietro la porta senza fermarsi.
Il galoppatore non era tornato. Come avrebbe potuto dormire? Giaceva sui guanciali, il corpo che tremava per la stanchezza. Per dormire bisogna fidarsi, potersi lasciare andare. In una culla come quella avrebbe probabilmente trascorso insonne innumerevoli notti. I rintocchi di un orologio abbatterono pareti e stanze. Rachaela aveva visto diversi orologi, nessuno dei quali segnava la stessa ora. Non posso neanche leggere. Aveva paura di togliere gli occhi dalla stanza, dal camino, dalla porta chiusa a chiave. Vegliare, allora. Vegliare tutta la notte. Alla fine il sonno sarebbe diventato irresistibile. Pensò al suo appartamento. Ma non era suo. Il suo appartamento non era mai esistito. Alla gatta sarebbe piaciuta questa casa. Sarebbe andata in giro in cerca di prede, grattando piano sulle porte per chiedere di entrare o di uscire. Lei avrebbe dormito, raggomitolata lì sul copriletto indaco. Rachaela vide la micia seguire la morte del focolare. No, per un attimo aveva sognato. Avrebbe dormito, dopo tutto. Era al sicuro. Loro erano folli, ma era destino che lei venisse da loro. «Non avere mai niente a che fare con loro,» diceva sua madre, fermamente impressa in una stanza del passato quasi dimenticata. «No, mamma,» le rispondeva Rachaela. Chiuse gli occhi e vide un'imponente figura maschile, senza volto, con i capelli neri, sospesa a mezz'aria tra il pavimento e il soffitto. Poi Rachaela si addormentò. CAPITOLO TERZO Un'incredibile invasione di luce. La donna nel letto aprì gli occhi e si trovò annegata viva. Era la finestra di vetro colorato, su cui ora si abbatteva la luce del giorno. Rachaela si mosse e un lago di rosso sangue e verde smeraldo scivolò sul suo corpo, facendo diventare il copriletto nero e scarlatto e tingendole la pelle. La stanza era tutta screziata, immersa nei colori. Una follia di verde e rosso, di magenta, oro e blu zaffiro. Dove il vetro riluceva bianco era opa-
co, impenetrabile. Attraverso la finestra non si vedeva nulla. Rachaela vide l'immagine rappresentata, sospesa su di lei come una visione. L'albero tagliava in due la finestra, e culminava in una volta di foglie da cui pendevano delle mele rosse come sangue. Sotto l'albero un uomo con un'armatura dorata e un paio di grandi ali offriva a una donna nuda uno di quei frutti. Un serpente stava attorcigliato alla mela offerta come una collana preziosa. Sullo sfondo dei due personaggi si vedeva un cielo intenso e i viali di un giardino dove riposavano quieti degli animali, una gazzella, un leone, un unicorno. Alto nel cielo, un sole radioso e furente osservava la scena. Eva tentata da Lucifero in persona? Era imbarazzante svegliarsi davanti a tutto questo, a una simile esplosione. Tutta la camera era imprigionata nella sua rete. Non infondeva tranquillità. Perché avevano pensato che la tentazione di Eva fosse appropriata alla loro ospite? Oppure quel soggetto non voleva sottintendere niente? Queste finestre decorate riempivano la casa, Rachaela ne aveva notate nel salotto e nella sala da pranzo; fuori dalla sua camera ce n'era un'altra nel punto in cui il corridoio svoltava. Avrebbe dovuto vivere insieme a Eva e Lucifero. L'orologio accanto al letto segnava le dieci esatte. Quello nero sulla mensola del camino le diceva che erano le otto e mezza. Rachaela non sapeva quale dei due avesse ragione, e proprio mentre pensava questo, si sentì il rintocco di un altro orologio da un punto distante della casa. Rachaela contò: cinque colpi. Rachaela uscì dal suo letto colorato, lasciando le lenzuola inondate di colori. Il volto di Lucifero si rifletteva sul suo guanciale, misterioso e nitido. Aveva la maschera pallida e senza macchia di un santo, questo angelo caduto. Nello specchio della toletta, tra i gigli e il sole, Rachaela vide riflesso alle proprie spalle l'albero. Era serrata fra i vetri. Si recò al bagno. La finestra era un mare pieno di conchiglie. Fece scorrere l'acqua della vasca. Mentre faceva il bagno e si lavava i denti notò che non si sentiva nessun rumore nella casa, tranne il continuo brontolare sommesso dell'edificio, i movimenti delle sue travi, il creparsi dell'intonaco, il cedimento di qualche piastrella. La casa era sporca e in cattivo stato. La tenevano in piedi solo la sua lunatica bellezza e i suoi ventuno abitanti.
Mentre Rachaela tornava dal bagno, un'anziana donna con un abito marrone di circa sei decenni prima le sfrecciò accanto con la testa abbassata. Non fece neppure caso a Rachaela. Allora non tutti erano interessati a lei. Per alcuni di loro lei, forse, rappresentava una minaccia, un nuovo giocattolo laccato che poteva far male. Rachaela si vestì e suonò il campanello, per fare venire uno a caso tra Michael, Cheta, Maria o Carlo. Fu Cheta a presentarsi con il suo abito scuro ma senza la spilla. «In cosa posso esserle utile, Miss Rachaela?» «Voglio fare colazione,» disse Rachaela. «Cosa devo fare?» «Posso portarle qualcosa io, Miss Rachaela. Oppure, se lo preferisce, può fare colazione insieme a Mr. Peter e Mr. Dorian. Fanno sempre colazione nella stanza del mattino.» «Mi porti qualcosa qui, per favore.» Era sorprendente che non fossero venuti in massa nella sua stanza durante la notte armati di forchette e coltelli. Si poteva avere del pane tostato, ma non il caffè. La famiglia non ne beveva. tè, allora. «Come fate a procurarvi il tè?» domandò Rachaela. «Non lo coltivate voi?» «C'è un furgone che viene dalla città. Io e Carlo compriamo quello che ci serve da questo furgone.» «Ci sono altre case?» Rachaela fu presa da un irrazionale accesso di speranza. Il mondo non era poi così lontano. Ma la donna disse: «A sei miglia da qui, Miss Rachaela. È una camminata lunga e faticosa, ma noi ci siamo abituati.» Se solo non fosse stato impossibile, guardando gli occhi di Cheta Rachaela avrebbe giurato che quella donna fosse cieca. Erano occhi scuri, come quelli di tutte le persone che aveva fino allora incontrato nella casa, ma non acuti e vivaci; al contrario, gli occhi di Cheta erano fissi, appannati da un velo, e quasi non si muovevano. Nonostante questo Cheta si muoveva da un posto all'altro con estrema precisione. Con movimenti perfettamente coordinati, la donna si mosse in mezzo alla luce frantumata e sciropposa della finestra e uscì dalla stanza. Il rumore del mare andava e veniva nella casa, svanendo dietro gli angoli dei muri, dietro pezzi di mobilio o lunghe tende. In altri punti, al contrario, esso diventava improvvisamente forte, e lo si sentiva infrangersi con vio-
lenza contro le rocce giù in basso. Dalla casa non era possibile vederlo. Ma dalla casa non si vedeva niente. Ogni finestra era di vetro spesso e colorato. Sui vetri c'erano dei motivi decorativi, oppure delle nature morte: frutti, urne, piante rampicanti e cieli di cremisi, zafferano e rosa salmone, verde veronese e malva come edere velenose, azzurro cielo e rosso ardente. Le camere diventavano dei mosaici alla luce di quei riflessi variegati. Molte delle finestre più grandi contenevano delle rappresentazioni. Rachaela vi riconosceva grottesche e alquanto blasfeme parodie della Bibbia: Caino ucciso forse da Abele sul suo dono di uva e grano, e il cervo ucciso sulle spalle da cacciatore di Abele, con la ferita intorno al collo come una collana di corniole. Altre corniole decoravano una finestra rotonda in cima alle scale, in cui un principe, durante un banchetto matrimoniale, tramutava il vino bianco in sangue. Rachaela trovava piuttosto divertente il cattivo gusto di queste curiose scene, studiate probabilmente per dilettare la famiglia all'inizio della sua permanenza in quella casa. E tuttavia Rachaela desiderava con tutto il cuore di trovare in quei vetri una piccola crepa, o un quadratino di comunissimo vetro trasparente, che le permettesse di guardare fuori. La casa era una scatola, una chiesa, che rinchiudeva chi vi stava dentro. Quegli spaventosi colori inondavano le stanze, creando un'atmosfera malata. Gemme di fuoco pendevano a mezz'aria, caleidoscopici arcobaleni si posavano sulla polvere. Tutti i legni apparivano come intagliati. La vecchia Anna aveva assicurato Rachaela che poteva fare tutto ciò che voleva. In mancanza di meglio Rachaela si mise a girare per la casa, perdendosi nei suoi corridoi, scoprendo porte serrate e aprendone altre che non lo erano. Passava di stanza in stanza studiandone gli arredi stravaganti, e in una di esse scoprì due vecchi che giocavano a scacchi sotto una finestra con un dipinto di un angelo in bianco e blu. Le loro scheletriche mani blu si pietrificarono sulla scacchiera. Le due facce da antiche mummie si girarono verso Rachaela come meccanismi arrugginiti. «E lei,» disse una delle facce. «Guardale i capelli,» disse l'altra. Rachaela non era un'intrusa, piuttosto un pezzo da esposizione. Se ne andò richiudendo la porta. Durante quel giro ebbe altri incontri con gli Scarabae o con le loro tracce.
Alcuni la salutarono educatamente, divorandola fino all'ultima briciola con quei loro occhi penetranti, uno o due la ignorarono, affaccendati in qualche folle missione in giro per la casa. Rachaela si era abituata a questi incontri fugaci. Conoscere i loro nomi non le importava, sebbene a un certo punto una donna, avvicinandosi furtivamente a lei, le avesse detto: «Io sono Miranda, e tu sei Rachaela.» Essendo elementi di un tutto, il nome collettivo, Scarabae, sarebbe andato bene. D'improvviso la fecero pensare a degli insetti, con quel loro aspetto scheletrico e le mani ossute e leste. Non era peggio che trovarsi in un fantastico ospizio. Anzi, era meglio, perché loro erano tutti indipendenti e in grado di badare a se stessi. Uno di loro, uno di quelli interessati a lei, la stava seguendo, Rachaela ne era sicura. Le veniva dietro con passo furtivo, rifugiandosi nel vano di ogni porta per paura che Rachaela tornasse sui propri passi. Non le piaceva essere seguita, ma che altro ci si poteva aspettare? La pianta della casa le sfuggiva. Era un mutevole caleidoscopio di vetro colorato e ombre. Le stanze erano molto più buie di giorno che durante la notte. Ogni orologio che vedeva o che sentiva le diceva un'ora diversa. Ogni specchio era oscurato e coperto da disegni. In un corridoio ve n'era uno comunissimo su cui qualcuno stava dipingendo con destrezza seppur accademica una scena di boschetti e fontane, prati e colline. Raggruppati con ordine accanto allo specchio ormai perduto c'erano tutti gli strumenti dell'artista: un vassoio con le vernici, la tavolozza, pennelli e acqua ragia, stracci. Aveva visto quadri anche da altre parti, ma non li aveva studiati attentamente. In uno, dal ventre di una donna coperto da un grembiule, sembrava spuntare una capra. Dunque non v'è nulla di certo qui, né il giorno, né l'ora, e nemmeno il proprio riflesso in uno specchio. Era davvero un manicomio. Non sapendo che ora era, Rachaela si lasciò guidare da un vago senso di fame. Trovò la strada per la sala da pranzo e lì vide il lungo tavolo apparecchiato con dieci coperti, e dieci della tribù già ai loro posti. Tutti alzarono gli occhi al suo ingresso. C'erano sei vecchie donne in abiti antiquati e quattro vecchi in giacche
ammuffite. Erano tutti uguali ad Anna e Stephan, con folti capelli spazzolati all'indietro o raccolti sul capo con forcine. Artigli inanellati si affaccendavano su pasticcio freddo di coniglio e insalata. Rachaela riconobbe vestiti e gioielli che aveva notato durante il suo viaggio attraverso la casa; era impossibile distinguere i volti e le pettinature gli uni dagli altri. Poteva essere che tutte queste vecchie fossero lei stessa in un arco di tempo di cento anni? Avrebbe dovuto sedersi e mangiare quel che restava insieme a loro? Non c'era il piatto per lei, ma una donna con un vestito scuro, che come Cheta aveva gli occhi apparentemente ciechi e i capelli raccolti in una crocchia bassa sulla nuca, ma doveva essere Maria, sistemò la cosa apparecchiando un posto per Rachaela a capotavola. Rachaela si mise a sedere. La tribù la osservò mentre si prendeva un pezzo di pasticcio e un po' di pomodori e lattuga. Nessuno parlò. Poi una delle vecchie, Miranda, disse con voce malsicura, «Non sta bene fissare.» E con riluttanza smisero tutti di guardare, tornando ciascuno al proprio piatto e riprendendo a mangiare con la stessa nervosa agilità di Anna e Stephan. Rachaela non provò neanche a fare conversazione. Tutto questo era un'orribile farsa. Lei sapeva di non poter dire nulla che li interessasse neppure lontanamente, e tuttavia loro sarebbero tornati a fissarla, venti occhi neri. Anna e Stephan dovevano essere i leader. Loro erano coerenti, o quasi, non avevano abbandonato ogni pretesa di una normale interazione sociale. Tutti gli altri erano folli creature che vivevano in una foresta di vetro colorato. Venivano alla pozza ad abbeverarsi, mangiavano bacche e coniglio seduti in posizione eretta, fissavano, meditavano, scappavano via o inseguivano. Era uno di questi che l'aveva seguita? Rachaela non riusciva a pensare a nessuna domanda da rivolgere loro. E in ogni caso, sarebbero stati pronti a rispondere a una domanda? Perché sono così importante per voi? Un tesoro temuto, cibo per i vostri pensieri? Se le avessero risposto qualcosa, le avrebbero detto che lei doveva stare lì. Che era una parte di loro. Che lì era il suo destino. Ma in quel momento li immaginò a scavare intorno alla sua domanda, a tastarla con le zampe, per poi lasciarla stare.
Erano talmente vecchi che le forme non avevano alcuna importanza. Né Rachaela si era mai preoccupata troppo della forma delle cose. Dopo tutto non aveva molta fame. Quel vivaio di vecchi continuò a beccare e inghiottire rumorosamente il cibo, fino a lasciare i piatti perfettamente puliti. Quindi si passarono l'un l'altro la frutta. I loro denti, aveva notato Rachaela, seppur scoloriti, erano ancora efficaci. Rimase ad ascoltare il rumore di tutte quelle bocche che masticavano e bevevano, della frutta che veniva sbucciata e affettata, dei semi che venivano eliminati. Non si scambiarono una parola. Anche i due vecchi alla scacchiera erano rimasti in completo silenzio. La finestra, liberata dai drappeggi, dipingeva un combattimento tra un dragone e un unicorno, e dal forte ruggito del mare Rachaela immaginò che si affacciasse proprio sull'oceano. Michael e Cheta entrarono nella stanza con due teiere, e subito apparve una pletora di eleganti tazze di porcellana. Rachaela decise di non fermarsi per il tè e, come si mosse, le creature della foresta alzarono gli occhi e la seguirono con lo sguardo finché lei non scomparve. Durante quello che supponeva fosse il pomeriggio, Rachaela scoprì al piano di sopra una camera con un pianoforte e un'arpa senza corde. L'arpa era grande, bella e ricoperta di polvere, e così pure il pianoforte. Dovevano essere passati anni dall'ultima volta che qualcuno li aveva suonati. Rachaela tolse la polvere dal pianoforte e ne toccò i tasti. Ne vennero fuori delle note sorprendentemente pulite. Ma Rachaela non sapeva suonare. Lei stava dalla parte del pubblico, non del creatore. Avrebbe desiderato tanto poter ascoltare della musica in quel momento, così le venne in mente la radio che aveva tirato fuori dalla valigia quel mattino. Aveva solo una batteria di riserva. Quando anche quella si sarebbe consumata, come avrebbe fatto? Non aveva visto nessuna radio in casa, soltanto un registratore. Quanto distava la città? C'era qualche mezzo di trasporto affidabile? Le avrebbero permesso di noleggiare una macchina per raggiungere la città, o anche lei, che era l'ospite, era diventata una prigioniera? Nel corso del pomeriggio Rachaela trovò anche la biblioteca, un enorme ambiente con alti scaffali pieni di libri, in cui tutto era impolverato tranne un tavolo rotondo, reso lucido dall'uso. Sul tavolo una pila di libri, un regolo d'ebano, un calamaio e una penna.
Rachaela si avvicinò a uno scaffale e prese un libro a caso, togliendo con la mano la polvere che lo ricopriva. Aprendolo scoprì che ogni riga del libro era sistematicamente sbarrata da una linea. Provò ad aprire un altro libro, ma il risultato fu lo stesso. Allora ne prese un altro e un altro ancora da diversi punti dello scaffale. Sempre la stessa cosa. Sylvian... indaffarato nella biblioteca. Ma non la stupiva più nulla. Fece fare un giro al mappamondo tutto sfregiato che stava sul tavolo e uscì dalla biblioteca. Quindi cercò la strada verso la propria stanza. All'incrocio tra due corridoi, avendo preso la direzione sbagliata, si imbatté in una grande finestra con una scena di un neonato che sembrava sul punto di annegare nel canneto di una palude. Sotto la finestra si poteva ammirare il trionfo di un eccelso impagliatore, che consisteva in un cavallo imbalsamato con in sella un uomo coperto da pezzi di armatura. L'uomo agitava una spada verso Rachaela ridacchiando nervosamente con una fievole vocina da soprano. Rachaela si fermò. «Al trotto!» Nel tentativo di spronare il destriero il cavaliere calciava i fianchi dell'animale imbalsamato, sollevando così nuvole di polvere. Rachaela gli passò avanti e continuò per la sua strada, e subito si sentì la furtiva presenza dell'uomo alle calcagna. Era lui, probabilmente, il personaggio che l'aveva seguita, e doveva essere lui che portava in dono topi morti. Forse li catturava lui stesso. Non era esattamente uguale agli altri, lui portava i capelli molto lunghi sotto l'elmo dell'armatura. Ma doveva averlalevata altrimenti Rachaela ne avrebbe sentito il suono metallico lungo i corridoi. Quando finalmente ebbe raggiunto la propria stanza, Rachaela provò un debilitante senso di sollievo. Chiuse la porta a chiave e si lasciò andare sul letto, consapevole del volto innocente del Diavolo che si rifletteva nitidamente sul suo. Si addormentò quasi istantaneamente, come se qualcuno le avesse fatto un incantesimo. La finestra era buia e l'orologio nero segnava le sette e mezza. Il bagliore del fuoco dava alla stanza un'aria di mistero. Accanto al letto c'erano dei fiammiferi, sulla mensola del camino degli stoppini, così Rachaela accese le candele e le lampade. Si preparò, come aveva già fatto, per una cena intima con Anna e Ste-
phan. In fin dei conti c'erano delle domande che doveva porre. I bisogni dell'igiene e della vanità: dentifricio, cipria... La questione delle batterie per la radio. Altri libri che non fossero solcati da linee... Se doveva restare doveva... doveva... Nel corridoio, sopra il fragore dei flutti, Rachaela udì dei nuovi passi. Non erano come gli altri, ma più leggeri e veloci. Qualcosa strusciò contro la porta. Rachaela trattenne il respiro. C'era qualcosa di diverso dietro la porta. Poi il rumore cessò. Rachaela non riuscì ad avvicinarsi alla porta per circa un minuto, e quando lo fece naturalmente non era rimasto nulla a dimostrare chi o cosa fosse passato. Allora avrebbe aggiunto anche questo alle sue domande. Nel corridoio c'era uno strano odore. Le ricordò qualcosa di piacevole, ma non riuscì a scoprire cosa. «Devi dare una lista di quello che ti serve a Cheta. Il furgone che viene alle case porta la maggior parte delle cose, quelle più comuni.» Questa fu la risposta di Anna alla prima domanda di Rachaela. «Ma preferirei scegliere da me,» disse Rachaela. «Oh, no,» ribatté Anna, «non ne varrebbe la pena, il cammino è lungo e difficile. Oltre il bosco c'è solo la brughiera, e per giunta è in salita. Cheta è molto forte, vero, Cheta?» «Sì, Miss Anna.» «Tu invece non sei abituata a un viaggio così lungo. Sono sette miglia.» Rachaela notò che la distanza pareva aumentata. «Non potrei noleggiare una macchina per farmi portare in città?» «Oh, mia cara... sarebbe troppo costoso. La città dista trentacinque miglia.» Avrebbe dovuto crederle? «Inoltre, sarebbe davvero complicato noleggiare una macchina. Non abbiamo telefono in casa.» «Ma alla stazione c'era una macchina ad aspettarmi.» «C'è un telefono pubblico al villaggio. Carlo ha chiamato la compagnia da lì. C'era ancora qualche istruzione da impartire loro.» Complicato, allora, ma non oltre i limiti della ragione. Ma Anna stava chiaramente cercando di scoraggiarla. Rachaela decise che per ora avrebbe lasciato stare. Forse il prezioso furgone sarebbe riuscito a procurarle le batterie e le altre cose strettamente necessarie. Quella sera sul lungo tavolo erano stati apparecchiati cinque posti. Ma si erano presentati solo altri due degli Scarabae, i due vecchi della scacchiera
blu, Dorian e Peter. I due mangiarono voraci come vespe, fissando di tanto in tanto Rachaela per non perdere troppo della sua presenza. Non dissero che una o due parole. Rachaela fu contenta di non aver fatto colazione insieme a loro. Durante il pasto, che consisteva in soufflé e pesce in salsa piccante, erano entrate nella sala tre vecchie. I loro nomi erano Miriam, Livia e Unice, nomi che come al solito non significavano molto. Le donne non rimasero, si limitarono a riempirsi gli occhi di grandi sorsate di Rachaela per poi sgambettare via. «C'era qualcosa fuori dalla mia stanza,» disse Rachaela. «Sarà stato zio Camillo,» disse Stephan. «Gli piace fare scherzi, stramberie.» «Sì, credo di averlo visto su un cavallo imbalsamato. Mi ha pure seguita.» Anna scosse la testa con aria grave. «Camillo è molto anziano,» disse con estrema serietà. «È birichino ma innocuo, come uno sciocco bambino.» «Non era Camillo.» Anna ebbe un attimo di esitazione. Poi disse: «C'è un grosso gatto nella casa. È un animale notturno. Noi lo vediamo raramente, fa una vita appartata.» Rachaela scosse il capo. «Non penso che un gatto...» La porta si aprì. «Ecco Sylvian,» disse Anna. «Sylvian, questa è Rachaela.» Il deturpatore dei libri venne avanti lentamente, le mani giunte all'altezza del petto e gli occhi famelici fissi su Rachaela. «Desideravo tanto incontrarti,» disse Rachaela. «Perché passi con il regolo su tutte le parole?» «Le parole,» ripeté Sylvian. Sembrava troppo fragile per subire un interrogatorio, ma questo non fermò Rachaela. Erano tutti fragili, come le ali di chitina delle cavallette, fragili ma voraci come locuste. «Nella biblioteca. E c'era un mappamondo con dei graffi su tutti i continenti.» «Le parole non significano nulla,» disse Sylvian, «si accumulano come la polvere.» «Le parole esprimono concetti e sogni,» disse Rachaela. «Possono anche non esprimere niente.»
«E così tu sfregi i libri.» «Li correggo,» disse Sylvian con quella voce rigida e spezzata. Allentò le mani e le stese in fuori, «Quando avrò finito, la biblioteca sarà salva.» «Spero di trovare qualche zona che non hai ancora danneggiato,» disse gelida Rachaela. «La parete a nord,» le disse Sylvian con gentilezza. «Lì devo ancora lavorarci. È un lavoro lungo.» «Sylvian fa ciò che sente di dover fare,» disse Anna, la traduttrice. «Mi dispiace se desideravi leggere i libri. Ma io mi faccio sempre mandare libri dalla città. Permettimi di ordinarne qualcuno per te, basta solo che tu mi dica quali...» «I libri vengono consegnati qui?» domandò veloce Rachaela. «Oh, no. Il furgone li trasporta fino al villaggio, e Carlo me li porta qui.» «Capisco.» «Per quel che riguarda il mappamondo,» disse Stephan sorridendo bonariamente, «quello non è opera di Sylvian. E stata Alice a graffiarlo con lo spillone di un cappello.» «Sono i posti da cui la famiglia è stata scacciata,» disse Anna. «I pogrom,» disse Rachaela. «Oh, Sasha usa questa parola,» disse Anna. «Lei la trova adatta. In effetti può andare.» «Sono tanti i paesi che hanno scacciato gli Scarabae,» disse Rachaela, mentre il ricordo del mappamondo le tornava improvvisamente vivido in mente. «Perché?» «La famiglia è antica,» rispose Anna. «E malvoluta,» aggiunse con una risatina Stephan. «Paure superstiziose di gente ignorante,» disse Anna. «Paura di che?» «Noi siamo diversi,» disse Anna. «Lo hai già visto. Facciamo una vita ritirata e abbiamo le nostre usanze.» «Le finestre di questa casa,» disse Rachaela a caso. «Alcune provengono dalle altre nostre case. Qui ci sentiamo al sicuro.» «Ma queste finestre,» insisté Rachaela, «scene da una Bibbia infernale.» «Proprio così,» disse semplicemente Anna. «Molte furono distrutte dalla plebaglia e ricomposte poi da artigiani. Non tutte sono antiche. Ne sono state foggiate anche alcune nuove.» «E non vi piacciono le viste che si godono dalla casa?» «È la luce del giorno che non ci piace,» rispose Anna.
Rachaela ricordò la doppia porta dell'ingresso. Immaginò Cheta e Carlo nel loro viaggio verso il villaggio, imbacuccati come se stessero per affrontare una tempesta. Creature notturne dunque, notturne come il loro gatto. «E voi vi aspettate che anch'io viva così?» disse Rachaela. «Finirai per trovarti a tuo agio,» le disse Anna. Dai loro posti Dorian e Peter scoppiarono improvvisamente in una risata, come fossero una sola persona. «Mi è permesso di uscire fuori?» domandò Rachaela. «Ma certo. Certo Rachaela. Di giorno o di notte. Oh, lascia che ti mostri il giardino. Vieni.» Stephan si precipitò davanti ad Anna per aprirle la porta, già socchiusa, che Rachaela aveva notato la notte prima. Quella porta si apriva su una serra di piante giganti. Delle felci torreggiavano fino al tetto di vetro. Rinforzato da nervature e diviso in pannelli riccamente decorati, il vetro qui era trasparente. Una testa di leone in pietra si ergeva tra i vasi di fiori. «Da questa parte,» disse Anna, e spalancò una seconda porta sulla nuda notte. Rachaela fece un istintivo sospiro di sollievo. Si sentiva un odore di foglie e di brina, e il respiro notturno di grandi alberi. La luna, come un perfetto lampadario, stava sospesa sulla campagna. Con il suo bagliore bianco azzurro illuminava il giardino di un sogno, lussurreggiante e troppo cresciuto. Un tasso, un pioppo, un cedro che stendeva immensi rami, e querce come colonne che sorreggevano il cielo. Un tetto dai nudi ricami che in estate sarebbe diventato un ombrello di fogliame. L'edera si avvinghiava ai tronchi e i rovi di rose si arrampicavano sul cedro. Il mare tuonava e si frantumava senza sosta contro il muro della notte. «Alla fine c'è un piccolo cancello. Un sentiero porta sull'orlo della scogliera. Devi fare molta attenzione,» disse Anna. E alzò quel suo volto rugoso e crepato verso il fresco balsamo della luna. «Senti che profumo mandano i pini,» disse. «Sono degli alberi terribili, se li si lasciasse crescere liberamente coprirebbero tutto. Carlo li estirpa dal giardino, e in estate taglia il prato.» Era veloce come una vecchia fata. Anche gli altri, bisbigliando tra loro, si erano avventurati nel giardino sulle orme di Rachaela. Stephan si era spinto fra i cespugli per controllare le rose selvatiche, Do-
rian e Peter stavano fermi in una posa grottesca sul prato incolto, Sylvian era rimasto sulla porta. La luna era un quadrante d'orologio con il volto di un teschio. Ma il quadrante non poteva dire l'ora, i numeri non erano segnati. Rachaela si spinse fra le rose, verso il cancelletto. Provò a spingerlo. Il cancello era aperto. Fuori c'era la notte sconfinata, la scogliera con i cespugli di fiori selvatici, la distesa di pini. Il mare oltre la scogliera era lucente come la carta argentata delle sigarette. Ozono, sale, anidride carbonica. I vecchi, rimasti dietro Rachaela, godevano del suo piacere, e i loro volti placidi cuciti intorno agli occhi famelici non smettevano mai di guardarla. Rachaela si svegliò, e la scioccante visione della finestra la fece trasalire. L'orologio a forma di torre le diceva che erano le dieci in punto. Le venne in mente che forse stava continuando a svegliarsi ogni giorno alle sette e mezza, come aveva fatto per tutto il periodo in cui aveva lavorato al negozio di Mr. Gerard. Se era così, dieci significava sette e mezza, e anche le otto e mezza che segnava ora l'orologio nero con gli angeli dovevano essere in realtà le sette e mezza. La logicità di quel ragionamento la fece esultare. Era il suo trionfo sulla casa. Si liberò dalle coperte, e dal corpo del Demone dorato che era giaciuto sul suo mentre lei dormiva. Oggi non sarebbe stata costretta a esplorare i corridoi e le stanze. La attendeva la libertà del giardino e del sentiero lungo la scogliera. Non si sarebbe preoccupata della colazione, come aveva fatto spesso nella sua precedente vita. Le mancava da morire il caffè. Forse Cheta gliene avrebbe comprato un barattolo di quello liofilizzato dal mitico furgone a sette miglia di distanza. Sarebbe stato divertente mandare Cheta e Carlo con una lista piena di cose di cui i vecchi non avevano mai bisogno, come batterie e tamponi. Il piano inferiore della casa doveva essere deserto. Dorian e Peter facevano sempre colazione nella stanza del mattino, ma Rachaela non sapeva neppure dove fosse. Scese le scale. Le sorgenti viola e i tramonti color zaffiro delle due alte finestre si riflettevano sul pavimento a scacchi. La ninfa di legno era sempre al suo posto. Istintivamente Rachaela si avvicinò alla porta con i rinforzi di ferro.
Provò a spingerla, ma la porta era chiusa a chiave. Ricordando la struttura della casa come l'aveva vista quando era arrivata, le sembrò possibile che questa porta fosse l'accesso alla torre. L'averla trovata chiusa era un particolare che si accordava perfettamente all'atmosfera di capriccioso mistero di quella cattedrale di specchi ciechi. Rachaela attraversò il salotto ed entrò nella sala da pranzo. Il tavolo era vuoto, e Maria lo stava lentamente lucidando. Dall'alto del soffitto il lampadario, coperto da una polvere vecchia di anni, guardava con disprezzo la propria immagine riflessa. «Buon giorno, Maria.» «Buon giorno, Miss Rachaela.» Maria continuava a lucidare con aria sonnolenta. Rachaela attraversò la stanza fino alla tenda, la spostò, e vide che la porta era chiusa. C'era ancora la serra dietro quella porta, o era svanita come un fantasma? Come aprì la porta, una violenta espolsione di luce bianchissima la investì. La mente di Rachaela traballò, e lei ebbe quasi l'impulso di coprirsi gli occhi. Era la luce del giorno, e le era già estranea: in così poco tempo la casa l'aveva già accecata e impregnata con le sue fetide secrezioni. Voltandosi indietro ebbe il tempo di vedere Maria che usciva dalla stanza a tastoni. Lei invece uscì fuori alla luce abbagliante e cristallina della serra, costringendo gli occhi ad abituarsi all'intensa luminosità. Passati due o tre minuti le tornò la vista. Rimase lì a respirare in piena luce. Le piante erano in festa perché c'era il sole e la serra era già ben riscaldata. Rachaela si fece strada tra le foglie tubolari, le verdi piume delle felci giganti, i gigli fuori stagione. Sebbene avesse trovato chiusa anche la porta della serra, essa di notte veniva lasciata socchiusa, a discapito della salute delle piante. Anche le altre porte della casa rimanevano aperte dopo che faceva buio. La notte in quella casa era ben accolta, come non lo era il giorno. Sul pavimento di pietra vicino alla porta della serra Rachaela vide dei petali di giglio. No. Non erano petali. Grosse piume d'uccello bianche sparse a terra come per un sacrificio. E c'era del sangue. Rachaela pensò al gatto menzionatole da Anna. Ma le piume erano molto grandi, e di sicuro il gatto non sarebbe stato in grado di acchiappare una preda di quelle dimensioni, forse un grosso gabbiano.
Rachaela rimosse dalla propria mente il senso di disagio che quella visione le aveva provocato. Non voleva essere turbata, così spalancò la porta, la richiuse e fu all'aria aperta. La giornata invernale era fredda ma non rigida. Il sole si muoveva in un cielo azzurro tenue screziato da nuvole vaporose. I pini formavano una parete nera. Da quel lato si erano arrampicati fin sopra la casa e, molto distante dagli spigolosi contorni di quella architettura, avevano costruito la loro terrazza, da cui guardavano il mare che si apriva oltre il margine della scogliera. Il sentiero era ben definito, largo e sufficientemente sicuro, come aveva detto Anna. Sui lati era costellato di fiori selvatici, che non avrebbero dovuto essere lì, perché era troppo presto per la primavera. Prima di precipitare la scogliera si gonfiava, si incurvava. Attraverso alcune brecce nella roccia era possibile osservare il frangersi delle onde a una trentina di metri più in basso. Rachaela si mise a camminare lungo il sentiero, rianimata dalla freschezza della luce e dell'aria. Gli scorci sul mare le facevano girare la testa. Conosceva bene la pericolosa attrazione che esercitava il vuoto, la facilità con cui si poteva cadere, e faceva perciò attenzione a tenersi all'interno del sentiero. A un certo punto il tracciato girava da un lato e si addentrava in mezzo ai pini. Rachaela si voltò a guardare la casa. Era di un grigio pallido, macchiato dalla pioggia e da altre intemperie, e dalle ditate vellutate dei licheni. Dai tetti si ergevano le merlature, il fumo dei comignoli, i parapetti, un gruppo di banderuole che, non si sa come, riuscivano a puntare ciascuna in una direzione diversa. La cima della torre si vedeva appena. Sembrava che la costruzione non avesse finestre, sebbene fossero molte quelle che ne attraversavano la facciata fin quasi al livello del terreno. Erano davvero il prodotto di qualche stregoneria notturna. Qualcuna, rischiarata da un raggio di luce proveniente dall'interno, si tingeva di un rosa sonnolento, di un verde paludoso, o del blu di una vecchia bottiglia di medicinali. Ma questo era un gioiello, non una breccia per la luce. Non avvicinatevi, dicevano le finestre. Una casa stitica, asfissiante ed eccessiva, che tuonava nel grigio teschio delle sue pareti. Rachaela restò lì ad ammirarla. Se ne sentiva attratta. Tutto quello che le piaceva meno di quella casa, il senso di soffocamento e di prigionia, la affascinava da un punto di vista artistico e intellettuale, anche ora che il soffio fresco dell'aria faceva rianimare il suo corpo. Aveva ragione Anna, pre-
sto sarebbe stata sopraffatta da quella casa. Perché opporvisi? Riprese a percorrere il sentiero, ed entrò in mezzo al buio dei pini. Gli aghi le scricchiolavano sotto gli stivali. La terra aveva il colore del manto di una volpe. Intorno al tronco di un albero erano disseminate altre piume d'uccello; era abbastanza prevedibile che il gatto avesse assassinato il suo Golia fuori dal giardino, nel bosco selvaggio. D'improvviso gli alberi finirono e il paesaggio mutò. I pini erano terminati con virile determinatezza proprio sul margine di un'ondulata distesa d'erba costellata di erica e ginestra spinosa. In basso c'era il mare, mentre in alto si stendeva per miglia e miglia la brughiera. In lontananza si vedevano delle piccole baie e le scogliere tutte coperte di verde e imbiancate di schiuma. E si vedeva anche il rigonfiarsi e precipitare della terra, di un verde pallido screziato di marrone, e, a più breve distanza, il curioso albero dritto come quello di una nave e una grande pietra che sembrava un fulmine abbattutosi al suolo. Rachaela si diresse verso la pietra. Di sicuro era vecchia quanto gli alberi, ma probabilmente lo era anche di più. Forse era già lì quando i Romani esploravano quelle coste. Forse passandole davanti durante una marcia ne erano rimasti sorpresi e avevano mormorato qualcosa ai loro dei. Come Rachaela si avvicinò, alcuni conigli che mangiavano l'erba del prato si dileguarono. La roccia aveva delle macchie bianche ed era corrosa. La sua curiosa forma faceva pensare a storie di violenza. Storie, come quella dei Romani in marcia, che non contavano nulla. Le parole non hanno alcun senso, aveva detto Sylvian. Certo, niente aveva senso. Neanche questo. Neanche Rachaela, ritta nel cappuccio nero della sua chioma e nella sua giacca londinese, con quel viso bianco che era ancora il viso di una ragazza: non contava lei e non contava quello che sarebbe stato di lei. Le avrebbero attaccato il virus dell'età. Sarebbe diventata incredibilmente vecchia, ossuta, friabile e dura, come loro. I capelli le sarebbero diventati grigi, i seni le sarebbero calati come due sacche avvizzite. Non avrebbe perso i denti, perché loro non li avevano persi. Tra gli Scarabae non v'era segno di alcuna malattia storpiante, nessun segno di artrite, nessun arto zoppicante o slogato. I bianchi fili metallici dei loro capelli erano spessi come quelli di Rachaela. I loro occhi più concentrati e ferini. Era stupido domandarsi cosa ci facesse lì. Era stato inevitabile. La voce ossessiva e lagnosa della madre, che non svaniva mai del tutto, continuava
a mettere in guardia Rachaela dagli Scarabae, ma a lei sembrava che fossero stati anche quegli ammonimenti a spingerla nella loro tana. L'orrore che provava verso di loro era ormai svanito. Era in trappola. E quando sarebbe diventata vecchia come loro, cosa sarebbe successo? Lei non era uguale a loro. Lei era la diversa. Questo era il suo scopo. Rachaela girò intorno alla pietra. Aveva notato degli strani squarci sui tronchi di alcuni pini, e sul terreno ai piedi della pietra c'erano i solchi di lunghi artigli, come i denti di un rastrello. Sarebbe riuscita a raggiungere a piedi il villaggio? Sei o sette miglia. Quanto ci avrebbe impiegato... l'andata sembrava molto faticosa. E lei non conosceva la strada. Una nuvola frastagliata, sorta lentamente dall'orizzonte, coprì il sole. Una luce cupa oscurò la brughiera. Rachaela decise di salire in cima alla collina per ammirare la vista. Si sarebbe di sicuro stancata, non essendo abituata a camminare. Sarebbe quindi rientrata in casa per mangiare, si sarebbe ritirata in camera e avrebbe acceso la radio per ascoltare un po' di musica. L'indomani avrebbe camminato più a lungo. Come era isolata quella brughiera. Non c'era nessuno oltre lei e gli Scarabae. Quella sera Rachaela indossò il vestito verde e una collana di perline di vetro verdi che aveva trovato a una vendita di beneficenza. Anna e Stephan erano seduti su un divano nel salone, sorseggiando già i loro aperitivi. Rachaela si servì un bicchiere di vino bianco. «Ti è piaciuta la passeggiata?» le domandò Anna. «Molto.» Completamente esausta, si era di nuovo addormentata nel mosaico di colori della finestra, ascoltando Verdi. «Come si fa ad arrivare al villaggio?» «Attraversando la brughiera. Ma sono sette miglia. Sei sicura che non sia troppo lontano per te?» «Potrei allenarmi,» rispose Rachaela. «Un po' di esercizio mi farà bene.» Si diressero verso la sala da pranzo, dove erano stati apparecchiati tre posti. Li servirono Cheta e Maria. Maria si era ripresa dal malessere provocatole dall'esplosione di luce della serra. C'era una zuppa di asparagi e un piatto di carne già affettata e condita con una salsa. La carne sapeva di pesce ed era piuttosto fibrosa. «Che carne è?» «Gabbiano,» rispose con cortesia Anna. E aggiunse: «Spero che non ti
dispiaccia.» Rachaela smise di mangiare e mise giù la forchetta. Mangiare un gabbiano non era peggio che mangiare un coniglio o un agnello, eppure, per qualche motivo, la cosa l'aveva turbata. Non ne volle mangiare più. «Mi dispiace, ma non riesco ad abituarmi all'idea.» «Le nostre abitudini nascono dal bisogno.» Chi aveva catturato il gabbiano, calpestandone le piume sotto i piedi? Certamente non il gatto, come Rachaela aveva supposto. «No, capisco perfettamente,» disse Rachaela. «Ma proprio non ci riesco.» Per dolce c'era una crostata di mele, e Anna insistette perché Rachaela ne prendesse due porzioni. Lei rifiutò, perché era abituata a mangiare poco. Dopo la cena non si scambiarono una parola. Stephan guardava il fuoco. Anna ricamava lunghi fiori e ghirlande di foglie. Rachaela restò seduta in silenzio per un po', poi si congedò. Giunta nell'ingresso sentì nell'aria ipnotica una corrente di energia, come se fosse passato qualcuno che forse stava ancora nascosto nell'ombra. Si diresse allora verso quella che riteneva la porta della torre, e provò ancora una volta ad aprirla. La porta non si smosse. Una vecchia in rosso porpora venne giù dalle scale e le passò accanto rivolgendole solo un'occhiata. Rachaela non seppe stabilire se si fossero già incontrate prima. Era Livia o Unice? Sarebbe mai riuscita a riconoscerne qualcuno? Anna e Stephan, forse. E Sylvian il distruttore. Nel corridoio in cima alle scale c'era odore di qualcosa di caldo, di vivo, ma nulla si muoveva. Nessun topo morto all'ingresso della camera. Oltre le pareti dell'opprimente sarcofago che era la casa si stava levando il vento, che brontolava dietro ogni angolo. La pioggia batteva sulla finestra della tentazione. La giornata fredda e quieta era stata l'annuncio di una bufera. Rachaela immaginò la pioggia che schizzava dentro la serra e contro la doppia porta sulla facciata della casa, che penetrava attraverso ogni altro ingresso lasciato socchiuso sulla notte. Il tuono scosse la casa come volesse demolirla. Le mura tremarono. Rachaela aprì gli occhi e sollevò il busto. La pioggia faceva pulsare e tremolare la finestra oscurata, il vento e il mare producevano insieme un
frastuono in cui potevano distinguersi in lontananza antiche urla e crolli di mura. L'aria era elettrica, riluceva come per un fuoco invisibile. Rachaela avrebbe voluto poter ammirare la tempesta dalla finestra. Rimase seduta sul letto aspettando il lampo. Il lampo finalmente arrivò. L'immagine della finestra mandò uno spettrale bagliore blu e ocra imprimendosi sulle pareti della stanza, sulle candide braccia e sul corpo di Rachaela. E su una sedia all'altro capo della stanza, di fronte a lei, era seduto qualcuno. La luce era svanita. Poteva essersi sbagliata... uno scherzo del buio, forse? Allungando lentamente una mano trovò i fiammiferi e la candela che stava sul comodino. Doveva solo dar vita a quel primordiale bagliore e guardare. Rachaela accese il fiammifero. E sulla sedia apparve un uomo, nero sul buio, pallore sul nero. Zio Camillo... quel briccone di Camillo si era introdotto nella sua stanza. Con le mani quasi paralizzate, Rachaela accese la candela e la sollevò. La luce che ne sgorgò illuminò l'uomo che era effettivamente lì. Non era Camillo. «Ti piacciono le tempeste,» disse l'uomo. «Sì, ma non mi piace trovare degli estranei nella mia stanza.» «Non sono un estraneo, Rachaela.» Sebbene fosse seduto si capiva che era alto. Non si riusciva invece a capire cosa indossasse, qualcosa di scuro, comunque. I capelli, anch'essi neri, tracciavano i contorni del suo viso, niente di più. Il volto era una forma di luce e ombra, ossa chiare ricoperte di pelle. Non era vecchio, poteva avere la stessa età di Rachaela. Ma i suoi occhi non erano come quelli di tutti loro, neri e immobili come pozze di vernice. «Non m'importa,» disse Rachaela con fermezza, «voglio che tu esca da qui. Subito.» «Ma ti sto solo guardando. Ho dovuto aspettare quasi trent'anni. Sono curioso.» La familiarità di quel volto la sconvolgeva. Le sembrava quasi che fosse il suo stesso volto. «Chi sei?» disse Rachaela. «Uno degli Scarabae? » «L'ultimo, tranne che per te,» rispose lui. «Vorresti dire che sei mio padre?»
«Non hai nulla di tua madre. Non si è mai lamentata di quanto assomigliassi a me?» Senza che lei lo avesse evocato, le tornò in mente il volto della madre, di aspetto differente, sempre ostile. Una madre che non si confidava e non consolava mai, sempre a raccontare storie spaventose, come quella del lupo che con un soffio abbatteva la casa del porcellino... «Sei davvero troppo giovane per essere mio padre.» «Sembro più giovane di quello che sono. Come te, Rachaela.» Pronunciò quel nome come se lo stesse assaporando. Rachaela non avrebbe tirato su le lenzuola per coprire la camicia da notte, non avrebbe distolto lo sguardo. «Devi essere pazzo,» disse. «Che tu sia mio padre o no, devi essere pazzo.» «E dove dovrei essere se non qui?» disse lui. Venne un altro lampo, e sulle sue ali il tuono. Come nel più trito dei melodrammi, una corrente d'aria o una vibrazione spense la candela. E nel buio più pesto Rachaela sentì la sedia sussurrare, e la porta mormorare tra sé aprendosi e richiudendosi subito. CAPITOLO QUARTO Erano vestiti esattamente come aveva previsto, con lunghi cappotti e stivali, sciarpe avvolte intorno al collo e guanti. Lui indossava un vecchio e malconcio cappello, lei un fazzoletto da testa esageratamente colorato. Entrambi portavano occhiali da sole dalle lenti molto spesse. Un abbigliamento degno di una gita sulle Alpi svizzere. Erano rimasti immobili, i volti fissi in un'espressione di stupore. Rachaela li aveva sorpresi in cucina, informata la sera prima da Anna: «Domani Cheta e Carlo andranno al villaggio. Hai preparato la tua lista? Partiranno presto.» Invece di consegnare a Cheta la lista, alle otto in punto Rachaela si era presentata personalmente nella cucina, di cui aveva individuato la posizione vedendoli introdursi in uno stretto passaggio che partiva dall'ingresso della casa. Per un attimo aveva anche visto Carlo intento a estirpare le erbacce invernali dal giardino. Il giardino era sempre florido e incolto, indipendentemente dalla stagione dell'anno. Carlo era un vecchio omone alto e muscoloso, sembrava uno zingaro, ma non era diverso dagli altri domestici.
La stessa faccia, gli stessi occhi fissi e opachi di Michael, Cheta e Maria. «So che state andando al villaggio. Vengo con voi,» disse Rachaela. «Il cammino è lungo, Miss Rachaela.» «Sì, lo so. Nove o dieci miglia.» Cheta lanciò un'occhiata a Carlo. Non potevano dirle di no, se lei insisteva. Si era allenata per una settimana, percorrendo ogni giorno lunghe distanze lungo la scogliera o in mezzo alla brughiera. Era arrivata fino alle colline più lontane ed era tornata indietro. L'orologio, da lei ricaricato e aggiornato alle sette e mezza, l'orario al quale supponeva di svegliarsi ogni mattina, l'aveva informata che per compiere quel tragitto aveva impiegato tre ore. Ce l'avrebbe fatta ad affrontare il lungo cammino insieme a Cheta e Carlo. La cucina era grande, piena di lavelli, mensole e stoviglie, con una cucina economica tutta annerita che probabilmente non veniva usata, perché da una parte si intravedeva una cucina a gas ancora più vecchia. Nella casa il gas arrivava solo lì e nelle caldaie dei bagni. Il pavimento era di pietra e c'era un tavolo di legno tutto graffiato. Si vedevano chiaramente parecchie tane di topo. Rachaela immaginò le incursioni notturne dei roditori e il gatto che balzava sulle sue prede. Dalla cucina si apriva una dispensa. Quelli di loro che non cenavano venivano sicuramente a saccheggiarla durante la notte, come topi. Rachaela immaginò Zio Camillo che al buio si ingozzava di carne di gabbiano fredda. C'erano vasi di pesce sotto sale e altri di conserve marroni e color malva. Sul tavolo due cavoli verdi screziati di porpora e un grosso coltello. Le finestre, bianche e opache, erano decorate da foglie di vetro del colore dei cavoli, e c'erano alcune lampade a olio pronte a illuminare la preparazione dei cibi. Una cucina curiosamente subacquea. In questa cucina i due avventurieri, chiusi nei loro abiti da alpinisti e protetti dai loro occhialoni, si attardavano in preda all'incertezza. «Magnifica giornata,» disse Rachaela aprendo la porta. Fuori c'era un corridoio rivestito di piastrelle e, naturalmente, una seconda porta. «Andiamo?» La seguirono riluttanti, come due cani, sgusciando dalla seconda porta nell'animosità della pallida luce solare. Dopo la tempesta il tempo era rimasto bello per tutta la settimana. Rachaela si era però convinta che la bufera non fosse stata poi così violenta come l'aveva sentita. Doveva essere stato il sogno ad amplificarla. Il mat-
tino successivo, al risveglio, Rachaela era rimasta a lungo nel letto cercando di ricordare ogni cosa. Era certa che fosse stato un sogno, il boato del tuono, il candido bagliore del lampo e l'uomo seduto nella sua stanza. Più tardi, quando si era alzata, aveva esaminato la sedia, quasi che quell'oggetto potesse trasmetterle delle sensazioni medianiche. In realtà aveva capito fin dal primo momento che si trattava di un sogno. Aveva avuto già altre volte questa visione, l'uomo alto e bruno e l'incontro nella tempesta. Era naturale che facesse sogni del genere in quel luogo. Era naturale anche che avesse ricreato la figura del padre dal corpo e dagli ambienti della casa. Lui era stato il mostro immaginario della sua adolescenza, il lupo nero e cattivo che aveva piantato nella vita della madre l'indesiderato seme. Tuttavia, per quanto Rachaela avesse cercato di essere razionale, la straordinaria concretezza di quel sogno aveva continuato a turbare i suoi pensieri. La sera, giacendo nel letto, si era più volte domandata se il padre le sarebbe apparso ancora. Ma dopo quella volta aveva ripreso a sognare solo le solite cose senza senso. Aveva sognato la libreria, con Mr. Gerard che metteva biscotti sugli scaffali, e un'altra volta l'appartamento dove aveva abitato raso al suolo dai bulldozer mentre sciami di pipistrelli si levavano in volo insieme alle macerie. Appena fuori dalla casa il sentiero correva per un tratto lungo la scogliera e poi si inoltrava in mezzo ai boschi, verso la brughiera. Cheta stava alla guida del gruppo. Dietro di lei veniva Carlo e dopo Carlo Rachaela. Tre temerari esploratori nel freddo e limpido mattino. Per un'ora e un quarto camminarono su un terreno abbastanza dolce, poi svoltarono verso l'interno, tra boschetti di pini e trincee di ginestra spinosa. Cheta e Carlo non scambiarono parola né tra loro né con Rachaela. Lei non ci teneva. Gli uccelli cantavano tra le fronde degli alberi. Nel cielo planavano i gabbiani. Lontano dalla magnificenza del mare il paesaggio era nudo e desolato. Le grotte che apparivano sulle rocce potevano nascondere meravigliose creature. Era il luogo adatto per un combattimento tra un cavaliere e un drago. Mezz'ora più tardi apparve una strada: poco più larga di un viottolo, fen-
deva senza fine la campagna. Cheta e Carlo la imboccarono e si misero a camminare al centro della carreggiata. Non temevano improvvise ondate di traffico, e di fatto non ne incontrarono. La strada era fiancheggiata da spoglie siepi, dietro le quali a tratti si stendevano strisce di prati inselvatichiti, una volta campi coltivati. Qua e là sbucavano alberi solitari piegati dai venti. Da un nudo boschetto esplose in volo uno stormo di cornacchie, poi costeggiarono i resti scheletrici di una fattoria. Dopo un'altra ora di cammino la strada si riversò in una valle, e lì apparve il villaggio. Rachaela non era stanca, ed era una fortuna, perché ad aspettarla c'era ancora il ritorno, che avrebbe richiesto altre tre ore di cammino. Forse Anna non aveva mentito sulla lunghezza del viaggio. Il villaggio era deprimente. Su entrambi i lati della strada si ammassavano casette di pietra grigia. I campi anneriti dall'inverno si stendevano fino ai piedi delle colline; in uno di essi giaceva un vecchio trattore arrugginito. C'erano parecchie carcasse di automobili, con i tetti sfondati e corvi gracchianti neri come l'inchiostro sui cofani. I tre scesero giù per la strada e passarono davanti a un piccolo e tetro pub con un'insegna cigolante: The Armitage. All'interno del villaggio c'era uno spiazzo e lì, pronto a fare affari, c'era il grande furgone azzurro. Non c'erano altri clienti. Gli abitanti del triste villaggio dovevano aver già fatto i loro acquisti ed essere rientrati nelle loro deprimenti case di pietra. Una cabina telefonica faceva capolino da dietro il furgone. Restando a una certa distanza, Rachaela vide che il ricevitore pendeva invano dal filo, che era stato strappato. Fu colta allora da un brivido di vera paura. L'unica cabina del telefono in mezzo a quella landa desolata era stata vandalizzata. Era probabile che le case nascondessero dei telefoni, almeno alcune di esse. Rachaela si immaginò a percorrere le miglia che separavano la casa da questo vilaggio di pietra e a bussare di porta in porta senza che nessuno le aprisse, mentre i corvi gracchiavano dalle carcasse delle auto. Raggiunto il retro del furgone, vi trovarono un uomo grasso con una giacca a vento e una donna magrissima con il naso rosso e i geloni sulle nocche delle mani bluastre. I due si alzarono. «Eccovi,» disse con falsa espansività l'uomo a Carlo e Cheta, ov-
viamente abituato alle loro visite. «Cosa possiamo fare per voi oggi?» L'uomo aveva un accento londinese, l'accento della città che Rachaela aveva lasciato. Cheta gli porse una lista. «Solo le solite cose,» disse lui. «Anche la signora ha bisogno di qualcosa,» disse Cheta. L'uomo rivolse una maliziosa occhiata a Rachaela, e lei, dovendogli chiedere degli articoli così intimi, provò la vecchia e ben nota vergogna che conosceva sin da quando era bambina, nonostante le vivaci scatolette dei Tampax fossero vistosamente esposte tra il sapone e il pane. La donna cominciò a riempire di farina e burro, zucchero e carta igienica le sacche di tela che Cheta aveva tirato fuori dalla giacca e le aveva dato. L'uomo intanto aveva tirato fuori due enormi latte d'olio e le aveva messe da parte per Carlo. Rachaela pensava di dover portare da sé le proprie cose, ed era stata zitta. Invece fu Carlo a prendere la busta di plastica: era l'uomo di fatica degli Scarabae. «Puoi portare un po' di brandy la prossima volta? Due bottiglie,» disse Cheta. «Se riescono a trovarlo, lo porto.» L'uomo fece il conto e lesse un prezzo. Cheta prese i soldi da un rotolo di banconote marroni. Ma da dove, oh da dove, gli Scarabae prendevano i loro soldi? Nessuno chiese a Rachaela di pagare. Ne fu sollevata ma non sorpresa. Cheta e Carlo, talmente carichi ora da sembrare uno di quei poster di protesta contro il maltrattamento degli asini, si allontanarono dal furgone. Non c'era un attimo di respiro, non c'era tregua. Per non parlare delle relazioni sociali. Mentre i tre ritornavano verso la strada, l'uomo grasso e la donna con i geloni si allontanarono. Rachael poteva immaginarsi la loro conversazione. «È stata davvero un'apparizione.» «Chi era?» «Una giovane.» «Senza occhiali da sole.» L'avventura del villaggio dal telefono vandalizzato era finita. Restava solo la passeggiata di tre ore per tornare a casa. Un'improvvisa stanchezza si impossessò di Rachaela. Cosa avrebbero fatto se lei fosse rimasta indietro, per sedersi su una roccia? Be', l'avrebbero aspettata pazientemente sotto il peso dei loro fardelli.
Non le dispiaceva lasciare il villaggio. Era deprimente e scoraggiante. I corvi ridevano tra le carcasse delle macchine. Disfatta da cose astratte e indefinite, Rachaela si trovò rigettata dalla brughiera nella casa degli Scarabae, stanca morta e con le forze completamente esaurite. Durante la sua assenza qualcuno le aveva riassettato con cura il letto, cosa di cui lei non si preoccupava mai, limitandosi a scuotere le coperte e a riassettare i cuscini perché la faccia del Diavolo vi si potesse riflettere. Riempì la vasca e vi si adagiò, ascoltando Mozart dalla radio per cui era riuscita a procurarsi le batterie. Era un concerto per pianoforte. Le sembrò di aver sognato il suono di un pianoforte in quella casa... Il suo orologio, assiduamente ricaricato, segnava le tre e mezza. Alle quattro e mezza uscì dalla vasca e tornò nella sua stanza. Si cambiò gli abiti e si sdraiò sul letto, ora in un bagno di sola musica. Si mise a pensare intensamente alla casa. Durante la sua settimana di passeggiate all'aperto l'aveva trascurata, limitandosi di tanto in tanto a provare ad aprire la porta della torre, ma facendolo con indolenza, perché sapeva già che l'avrebbe trovata serrata. Osservando con maggiore attenzione gli affreschi del corridoio che partiva dalla sua stanza, aveva notato che in alcuni punti lo strato di pittura si era scrostato svelando altre immagini. Le tornò in mente allora la testa di capra che veniva fuori dal ventre di donna. E aveva anche trovato la cucina con il fornello a gas e le tane dei topi. Ripensò alla tempesta e all'uomo del sogno. Aveva cominciato a immaginare, con una certa frequenza, che qualche essere misterioso la seguisse nei suoi giri per la casa. Una sensazione che l'aveva abbandonata quando si era trovata sulla brughiera. Alla fine aveva deciso che doveva trattarsi di una sorta di isterismo, giacché il folle e vecchissimo vecchio non l'aveva più seguita, e non le era più sbucato di fronte in una delle sue improvvise apparizioni. Forse il suo interesse per lei era svanito. Rachaela cominciò a prepararsi per andare a letto. Avrebbe potuto riposare fino all'ora della cena con Anna e Stephan. Non aveva intenzione di perderla. Ora voleva parlare con loro, con Anna. Sarebbe stato semplice continuare a sonnecchiare, a passeggiare, a perdere il tempo oziando, come se questo fosse tutto ciò che le chiedevano.
Ma lei sapeva che non era così, sapeva che da lei si aspettavano qualcos'altro. Doveva essere così. Lei era l'agnello da sacrificare, tenuto in vita e ingrassato per il giorno del rito mortale. Era un'ipotesi così inverosimile? E che altro ci si poteva aspettare dagli Scarabae? Era facile attribuire loro un simile piano: il suo mantenimento, e poi l'uccisione rituale in coincidenza con una precisa fase lunare. Stretta senza pietà dalle mani forti di Carlo e Cheta e trascinata urlante nella brughiera a mezzanotte; e Sylvian che stringe con grazia il coltellaccio dei cavoli come fosse il regolo d'ebano. Un'altra parola da cancellare: Rachaela. La stanza svanì. Rachaela si trovava a un incrocio in mezzo alla brughiera, vestita solo della sua chioma svolazzante. Aspettava, ma arrivava solo il furgone azzurro con l'uomo grasso, che frenava e le diceva sorridente: «Vuoi un passaggio? Salta su.» Stephan non venne a "cenare", apparve solo Anna, nel suo lungo abito color carbone e con il ricamo in mano. Michael servì a lei il solito bicchierino di granato, a Rachaela il bicchiere di vino bianco. Si mangiava di nuovo pasticcio di coniglio. Rachaela pensò ai conigli che aveva visto cibarsi di erica. Ce n'erano in quantità enormi, una dispensa per gli Scarabae. Doveva essere Carlo che li cacciava. Eppure lei non aveva mai sentito un colpo di fucile. Si misero a sedere davanti al focolare del salone. Alle pareti specchi oscurati, affreschi che coprivano altri affreschi, tende chiuse dietro cui premevano immagini di vetro colorato. Sulla scacchiera regnava lo scompiglio: qualcuno aveva perso la pazienza con le pedine; la regina giaceva a faccia in giù. Le candele e le lampade gialle erano accese. Era piacevole o macabro stare davanti a quel fuoco? «Anna, ho davvero bisogno di parlarti. Voglio dire, gradirei delle risposte.» «Se posso, Rachaela, volentieri.» Anna era, come sempre, cortese. «Sono andata al villaggio con Cheta e Carlo.» «Sei stata veramente coraggiosa. Ma vedo che la camminata ti ha stancata.» «Il villaggio pareva completamente morto. E l'unico telefono pubblico era stato vandalizzato.» «Oh, cara,» disse Anna, continuando tranquilla a ricamare. «Supponi,» disse Rachaela, «di aver bisogno del telefono. È saggio non
averne uno?» «Tutto il fastidio di farselo installare,» disse Anna. «Mi dispiace, ma noi teniamo molto alle nostre abitudini. E odiamo le intrusioni.» «Ma io sono un'intrusa» «Tu? Rachaela, tu sei una di noi.» «Supponi,» insisté Rachaela, «che uno di voi si ammali.» «Noi non ci ammaliamo mai,» disse Anna. «Invecchiamo soltanto.» «Allora questo solo...» «No, Rachaela. Il caso non si verificherebbe mai. Abbiamo cura di noi stessi.» «E io,» disse Rachaela, «se volessi telefonare a qualcuno?» «Mi dispiace,» disse Anna. Ma aveva alzato lo sguardo, e quegli occhi taglienti dicevano a Rachaela, Sei sola. Non hai nessuno. «Mi sconcerta il modo in cui vivete. E se devo restare, il modo in cui dovrò vivere con voi.» «Perdonami,» disse Anna, «ma noi sappiamo alcune cose di te, Rachaela. La tua mancanza di contatti sociali, il modo in cui conducevi la tua vita. Quasi un eremita.» «Ma avevo la possibilità di scegliere.» «Davvero? E non hai fatto una scelta anche quando hai deciso di stare con noi?» «No,» disse Rachaela. «Sarò onesta. La scelta di venire qui mi è stata imposta. E voi mi avete perseguitata, non è vero forse?» «Oh, sì,» disse Anna, «non lo neghiamo.» «Ve l'ho già domandato, e devo domandarvelo ancora. Perché?» «Tu appartieni a questa casa, sei una di noi.» «Non sono d'accordo.» Rachaela mentiva. Anna accennò un sorriso. Non le sarebbe servito a nulla mentire. «Non ho responsabilità. Non ho autonomia qui. Mi sento una specie di pupazzo. E ho una sensazione, che mi teniate qui per qualche scopo.» «Per quello che sei,» disse Anna. «Non capisci cosa significhi la tua presenza? Noi teniamo in gran conto le tradizioni. Crediamo nel valore della famiglia. E tu sei l'ultima di noi. L'ultimo fiore sul nostro albero.» Rachaela pensò alle parole dell'uomo del sogno: L'ultimo, tranne che per te. Sentì una morsa alla gola, e parlò con la voce spezzata. «E l'ultimo prima di me era mio padre.» «Sì.»
«Perché lui non è qui con voi?» «Ma Rachaela, lui è qui. È qui con noi.» Rachaela pensò ai vecchi uomini della casa. Per un attimo si sentì mancare. Sua madre le aveva parlato di lui come di un uomo giovane. «Qui,» disse. «Allora devo averlo incontrato.» «Tuo padre è un eremita, Rachaela. Come lo sei anche tu. Vive qui, ma non ama stare in nostra compagnia.» Anna mise da parte il suo ricamo. «Quando era più giovane, aveva la tua età, fuggì. Fuggì nel mondo, e noi lo lasciammo andare. Era il momento giusto. Nel mondo concepì te, e poi tornò da noi.» «Spontaneamente?» «No, non spontaneamente, ma con rassegnazione. Non aveva altro posto dove andare. Voi due, tu e tuo padre, non sopportate gli angusti confini della casa, eppure odiate gli spazi aperti del mondo esterno, le città, la gente. Vi irritano, come vi irrita la vita. Siete degli Scarabae. Solo qui sarete al sicuro.» «Lui,» disse Rachaela, stringendo le mani una nell'altra, «lui dov'è?» «Hai provato ad aprire la porta della torre diverse volte. È lì. Ma temo che dovrai lasciar decidere a lui il momento del vostro incontro. Immagino che tu sia ansiosa di vederlo, e forse anche in collera con lui.» «In collera, sì.» «È una faccenda che devi risolvere insieme a lui. Voi due non siete come tutti noi. E siete uguali. Verrà a cercarti.» «Dimmi il suo nome,» disse Rachaela. Sua madre non gliel'aveva mai detto. Lui era solo oscurità senza volto, rabbia. «Adamus,» disse Anna. «Il suo nome è Adamus. È un nome molto vecchio. Una tradizione della famiglia.» Rachaela non riuscì ad accettare quel nome. Continuava a risuonarle in testa come una musica da un'altra stanza. «Dunque vive nella torre. E di notte vaga per la casa?» «Che domanda intelligente. Una volta lo faceva. Ora è più tranquillo.» Rachaela fissò lo sguardo sul fuoco. Ma allora era stato davvero un sogno? O era stata realtà? O forse una sorta... di visione, di premonizione dei fatti. L'uomo del sogno era troppo giovane. Suo padre l'aveva concepita nel mondo quando aveva la sua età. Doveva avere quasi sessant'anni. Un uomo segnato dalla vecchiaia, come lo erano Stephan e Sylvian, Peter e Camillo. Rachaela non riuscì a fare altre domande. L'agitazione del disprezzo era
completamente svanita. Un nuovo fuoco ardeva in lei. Adamus. Come il nome di un santo o di un demonio in una sacra rappresentazione. Murato in quella buia torre. «Vado a letto, Anna,» disse Rachaela. Anna fece un altro sorriso, poi riprese a ricamare i petali di un fiore, rossi come gocce di sangue. Quella notte Rachaela sedette sulla sedia che aveva accolto lui, realmente non nel sogno. I pensieri continuavano a turbinarle nella mente. Continuava a rivederlo. Quell'uomo era suo padre. Erano tante le cose che avrebbe voluto dirgli, gridargli. Ma di sicuro, quando lo avrebbe avuto di fronte, sarebbe rimasta in silenzio, ammutolita da tutti quei rimproveri e quelle accuse. Il fuoco bruciava troppo piano, così gli aggiunse della legna che prese dal contenitore d'ottone. Durante il giorno i domestici degli Scarabae entravano e uscivano continuamente dalla stanza: spolveravano, facendo muovere la polvere da una superficie all'altra, si occupavano del letto, delle lampade e delle candele, provvedevano al fuoco e al rifornimento della legna. Ma per entrare durante la notte lui aveva sicuramente usato una chiave, perché la porta era chiusa. Se Rachaela non si fosse svegliata sarebbe solo rimasto lì a guardarla per un po'? Lei non avrebbe mai saputo di quella sua visita. E se fosse tornato altre volte senza che lei se ne accorgesse? L'orologio distante batté l'ora. Rachaela guardò quello nero sulla mensola del camino: segnava le due... era l'una del mattino. Rachaela si alzò. Prese la lampada a olio con la base verde e aprì la porta della stanza. Come prevedeva, la lampada del corridoio si era spenta. La luce che lei teneva in mano, oscillando nel buio, riportava in vita in maniera brusca e per un solo istante oggetti, dipinti, e i grappoli d'uva e le mele intagliati nel legno. Dopo mezzanotte gli Scarabae perlustravano la casa, li aveva sentiti parecchie volte. E doveva esserci anche lui, malgrado Anna lo avesse negato: a volte infatti i dinieghi di Anna significavano che si era scoperta la verità. La lampada tremò un po' nelle mani di Rachaela. Lei la fermò. Del resto, era lui ciò che aveva sempre temuto. Non la casa, e neanche la famiglia,
ma lui. Da dove cominciare... perché non dalla porta della torre, che era quella da cui sarebbe emerso? Rachaela attraversò il corridoio e giunse all'imbocco delle scale. Per un attimo ebbe paura, l'intera area dell'ingresso era nella più nera oscurità. Poi riuscì a distinguere un debolissimo chiarore che proveniva dal salone, come se vi fosse stata una lampada o delle candele accese. Allora cominciò a scendere con cautela le scale, lasciando che la sua lampada illuminasse gli scalini. Come era rosso il tappeto sotto il lago di luce. Sorreggendo la sua lanterna vuota, la ninfa balzò fuori dal buio. Appena Rachaela pose il piede sul pavimento dell'ingresso, la luce nella stanza accanto svanì. Si sentì sgocciolare la cera dell'ultima candela che era rimasta accesa. Sembrava che non ci fosse nessuno: niente passi strascicati né rumore di tacchi, fruscio di un abito o di una camicia. Al buio l'ingresso pareva enorme, quasi che si diffondesse dalla luce di Rachaela all'infinito. Ma qualunque osservatore, accovacciato nell'oscurità senza essere visto, poteva invece vedere distintamente Rachaela nel chiarore della sua stessa lampada. Non era improbabile che qualcuno la stesse osservando. Con l'immaginazione Rachaela varcò i confini della propria mente. L'ingresso era popolato da oggetti senza forma ma coscienti, gli spiriti della casa, affamati come gli Scarabae. Poi, improvvisamente, qualcosa sbucò dal corridoio e si immerse nell'oscurità dell'ingresso. Era giunto invisibile e silenzioso, eppure Rachaela ne sentiva la presenza. Le si drizzarono i peli. Questa non era immaginazione. Rachaela sollevò la lampada, e una parte dell'ingresso si illuminò. Due occhi verdi e fissi luccicavano nel nulla. Un gatto. Ma erano troppo alti per essere gli occhi di un gatto. Rachaela udì il morbido fruscio di un passo felpato, come una piuma che sfiorasse il pavimento. Si sentì raggelare, e stese in avanti il braccio con cui teneva la lampada. Nell'ingresso, oltre a lei c'era un'altra creatura. Aveva l'aspetto di un gatto, ma era alto come un labrador. Il pelo, lungo, folto e nero, rifulgeva sotto il fascio di luce che spezzava il buio. La grande testa era rivolta verso Rachaela, e gli occhi scintillavano ora come due topazi, impassibili, severi e terribili.
Rachaela non si mosse. Non osava. Una creatura del genere non poteva esistere, eppure stava lì a fissarla, talmente immobile che un suo balzo sarebbe stato troppo veloce per permettere al cervello di Rachaela di reagire. Se la sarebbe trovata addosso, con le enormi zampe piantate sul suo corpo, gli artigli che laceravano la carne, e le zanne alla gola. «Non avere paura di lui, non ti farà alcun male.» Una voce venuta dal nulla, assurdamente incorporea. Rachaela non osava parlare né muoversi. «Ti conosce,» disse la voce. Poi dal buio emerse un uomo, che portava con sé altro buio. L'uomo pose la pallida mano sulla testa dell'enorme animale, e cominciò a carezzarlo delicatamente tra le orecchie. Il gatto non emetteva alcun suono, aveva solo socchiuso gli occhi. Pareva gradire le attenzioni. L'uomo era Adamus, il padre di Rachaela. Doveva essere uscito dalla porta della torre, oppure dal corridoio che portava in cucina, da dove era venuto il gatto. Indossava un paio di pantaloni neri e un pullover nero, comunissimi abiti moderni. Le lunghe mani non sfoggiavano anelli. Il nero incorniciava anche la testa, e il contorno dei capelli sull'ampia fronte metteva in risalto le ossa del viso. «È lui che ti procura il pranzo, non lo sapevi?» le domandò con indolenza. «Solo quando ha cacciato per gli Scarabae, può inseguire la preda per se stesso. Disdegna i topi. Li uccide solo per hobby.» Il corpo di Rachaela si abbandonò a un rilassamento incontrollato che le fece quasi scivolare di mano la lampada. «Attenta,» disse Adamus. Lasciò il gatto per andarle incontro, e la luce vacillante proiettò ombre gigantesche da quel corpo alto e ossuto. Adamus le prese la lampada dalle mani. «Eppure credevo che avresti accolto con la stessa serenità tutte le sorprese di questa casa,» disse. Il gatto li guardò, poi si voltò e con passo ovattato si diresse verso il salone. Rachaela pensò a tutte quelle porte aperte. Vide il gatto che vi entrava e usciva in continuazione. Lo vide balzare sul gabbiano, sui conigli intenti a cibarsi al fioco chiarore dell'alba. «Perché non parli?,» disse Adamus. «E cosa dovrei dire?»
«Quello che vuoi.» La lampada gli infiammava il volto. I nerissimi occhi erano vivi e ardenti, diversi da quelli degli Scarabae, e anche da come Rachaela li aveva visti la volta prima, due laghi di piombo nella forma bianca del viso. Ora si poteva notare la durezza tutta mascolina della mascella, con i segni della rasatura; le sottilissime rughe intorno agli occhi e alle labbra; le nitide pennellate nere delle sopracciglia; le ciglia imperlate di luce. Quel volto aveva trent'anni, non di più. «Chi sei?» disse Rachaela. «Ma te l'ho detto, Rachaela.» «E io ho detto qualcosa a te. Troppo giovane.» «In famiglia tutti sembriamo più giovani di quello che siamo. Che età dai ad Anna? E a Stephan? Bene, se aggiungi un altro centinaio di anni forse indovini quella giusta.» «Tutto questo è ridicolo,» disse Rachaela. Ma gli credeva. Anna, centottant'anni. E Sylvian, ancora più vecchio. «Eppure,» continuò, «c'è ancora qualcosa che non quadra. Se è vero che tu hai sessant'anni e tutti gli altri duecento, come spieghi questo divario tra voi?» «C'erano altri che facevano parte di questa famiglia, ma caddero in disgrazia e morirono.» «Lasciando solo te.» «Ora ci sei anche tu,» disse Adamus, posandole una mano sul braccio. A quel tocco i nervi di Rachaela sussultarono con violenza. «Vieni, andiamo di là,» le disse. Lei si lasciò guidare. Un fioco rossore sonnecchiava nel focolare del salone. Adamus poggiò la lampada su un tavolo. I due sedettero l'uno di fronte all'altra, e in quell'oasi il nero che li circondava non contò più nulla. Lui era lì. E il gatto, quasi il suo simbolo, era svanito nella notte. Adamus gettò un ceppo nel fuoco con l'impeto spensierato di un uomo giovane. E quando egli volse il capo, Rachaela vide che i suoi capelli non erano corti come lei aveva creduto, ma solo tirati indietro e raccolti alla base della nuca, e che da lì scendevano lungo la schiena in una grossa corda di seta nera. Era la chioma di un uomo giovane. «Forse tu mi dirai perché sono stata voluta qui,» disse Rachaela. «Sei stato tu a battere a macchina la lettera?» L'ombra fugace di un sorriso cambiò per un attimo il volto di Adamus. «Loro hanno paura della macchina da scrivere. Un oggetto davvero utile.»
«Allora sei stato tu a volermi portare qui.» «Era il momento di farlo.» «È quello che dice anche Anna. Il momento.» «Sì,» disse lui. «Anna è molto astuta. Non puoi immaginare quanto fosse bella. Devo mostrarti le fotografie. Bella quasi quanto te.» Udendo quelle parole Rachaela si sentì scuotere dalla testa ai piedi da una gelida vampata. «Strano,» disse, «un complimento da te.» «Non sono il tipo che fa complimenti, Rachaela. Questo è un fatto. La bellezza degli Scarabae è cosa risaputa, e li ha anche resi noti, in alcune epoche.» «Dunque sei d'accordo anche tu con questa mistica tribale.» «Può darsi.» «Gente folle ed eccentrica, che si considera speciale.» «Cosa ti ha detto di me tua madre?» disse Adamus. Rachaela si voltò a guardare il fuoco. Avrebbe dovuto tradire la madre, quella donna acida, accigliata e maldestra? «Molto poco. Quel poco che le hai dato modo di dire.» «Sì, è stato poco. Non so se te l'ha detto, Rachaela, ma io sono stato con lei solo tre notti. Soltanto tre notti. Due all'inizio, e una tre mesi più tardi, quando lei già ti portava in grembo.» «Perché ci sei tornato?» «Per vedere se era incinta, per quale altro motivo altrimenti?» «E tu hai visto che lo era e l'hai lasciata.» «Avevo finito. Non avevo altro da fare.» «Se ho ben capito stai dicendo che loro,» disse Rachaela, «la tua amata famiglia, ti hanno lasciato andare solo perché piantassi il tuo seme. E che quando il tuo dovere fu compiuto ti hanno fatto tornare in questa casa.» «Sono stato io a tornare. Mi ero già reso conto di quanto fosse futile tutto il resto. Questa casa è la mia prigione, ma io ne ho bisogno. Il resto è tutta robaccia. Non la pensi così anche tu?» «No.» Rachaela stava ancora mentendo. «Io tenevo molto alla mia libertà.» Adamus sorrise. Ma lo fece in modo talmente freddo e ripugnante, che Rachaela si pentì di aver parlato. Quell'uomo la intimidiva, ma questo era assurdo. Lui e gli Scarabae erano una cosa sola, e anche lui recitava in quella farsa. Non aveva davvero nulla da dirgli, non avrebbe voluto gridargli la sua maledizione? Le era impossibile pensare a lui come a un pa-
dre. No, non ci credeva. Doveva essere qualche loro scherzo. La presenza di Adamus aveva magnetizzato Rachaela. Non sarebbe riuscita a staccarsi dal focolare finché lui fosse rimasto lì. Non si era mai trovata di fronte una simile incarnazione di se stessa, e così spaventosamente calzante. «Anch'io credo che la casa sia una sorta di prigione,» disse Rachaela. «Dove altro vorresti andare? E comunque chi te lo impedisce? Devi solo fare le valigie e andartene.» «È più facile dirlo che farlo. Non esistono mezzi di trasporto, e l'unico telefono nel raggio di parecchie miglia è fuori uso.» «Capisco,» disse Adamus. «Vogliono proprio che tu resti.» Gli si era contratto il volto. Gli occhi erano di nuovo come Rachaela li aveva visti la prima volta, fissi e ombrosi. «Non lo sapevi?» gli domandò. «Oh, forse me lo immaginavo. Allora non hai scelta. Dovrai restare.» «Per cosa?» domandò con ansia Rachaela. «Per qualunque cosa accada.» «Non spiarmi più,» gli disse. «Non ne hai il diritto.» «Oh,» fece Adamus, «i diritti. Se la cosa ti preoccupa metti una sedia sotto la maniglia.» «Basterebbe questo a tenerti fuori?» «Ormai ti ho vista. Sono sodisfatto.» «Che la stirpe della famiglia vada avanti?» «Tu sei mia,» le disse Adamus. «Era una curiosità naturale.» «Io non sono tua. Come puoi dire una cosa così assurda? Io non sono nulla per te. Come non lo era mia madre.» «In questo non sbagli.» «Allora non puoi pretendere nulla.» «Io non pretendo assolutamente nulla,» disse Adamus, «ma ciò non toglie che tu sia mia. Sono stato io a crearti.» «Stronzate,» disse Rachaela con freddezza. «Mi hai lasciata come si lascia una moneta caduta dalla tasca, forse come qualcosa di ancora più infimo.» «Volevo crearti. Avevo provato con molte donne. Il seme degli Scarabae è piuttosto riluttante. Poi, con mia grande sorpresa, scoprii che quella donna scialba e stupida che era tua madre possedeva gli ingredienti adatti a ricevere il mio seme. Sapevo che con lei sarebbe successo. Quando tornai da lei quella notte sapevo già cosa avrei trovato.»
«Per tutta la vita,» disse Rachaela, sentendo la finta disperazione della propria voce, «per tutta la vita ha odiato te e ciò che avevi creato. Era una battaglia continua. È a me che ha fatto pagare le tue colpe.» «Mi dispiace,» disse Adamus inespressivo. «Ma ora è finita, no?» «Perché non mi hai lasciata in pace?» «Hai avuto la tua pace quanto è bastato.» «Bastardo,» gli disse Rachaela. Ma lui non era suo padre. Era un uomo emerso dalla notte quello che la teneva lì, senza toccarla, mentre il fuoco, che si arrampicava sul ceppo, illuminava di un bagliore dorato i loro volti. Non riusciva ad andare. Si alzò: «È meglio che vada a letto.» «Sì,» disse Adamus. «Dormi bene, Rachaela.» Con grande sorpresa Rachaela sentì negli occhi il bruciore delle lacrime. Le parlava senza tenerezza, e lei non provava niente per lui, eppure era come se, per tutti i ventinove anni della sua vita, questo semplice e insincero desiderio fosse rimasto in attesa accumulando vero sentimento. Non gli rispose. Prese la lampada e lo lasciò alla luce del focolare, mentre l'enorme gatto andava a caccia nella notte nera come la pece. Rachaela si guardò nello specchio a battenti, fra gigli e squarci di sole. Era nuda, incorniciata dalla chioma nera. Osservava quel corpo candido, ma privo della parte inferiore, di cui si vedeva solo il vello scuro all'altezza dell'inguine. Lungo e snello, come un oggetto intagliato nell'osso, ma dal seno fiondo, con i capezzoli rosa come due piccoli canditi. Un'ombra verde-blu si rifletteva sul biancore, creando un'atmosfera sottomarina. Rachaela fissava quel corpo, i frammenti che ne riusciva a distinguere attraverso lo specchio, e cercava di riconoscerlo come proprio. Non aveva mai visto la madre nuda. La sua figura curva e sconfitta era sempre fasciata da abiti sigillati da cerniere lampo o da camicie da notte e vestaglie molto simili a delle tende. Una volta Rachaela, bussando alla porta del bagno, aveva sentito la voce dura e spaventata della madre che le diceva di non entrare. Lei era scandalizzata dal fatto che Rachaela dormisse nuda, come era scandalizzata dalla frequenza con cui si lavava i capelli e dal ritardo con cui arrivava al posto di lavoro. Tutto lo stesso, tutto da condannare. Per lei la figlia era una marziana. Le comprava caste camicie da notte, le segnava la bottiglia dello sham-
poo, e al mattino si svegliava apposta per andare nella sua stanza a tirarla giù dal letto. «Non ti sopporterò a lungo. Lo sai che hai usato quasi tutta la bottiglia per lavarti i capelli? Perché non li tagli?» Un giglio copriva l'ombelico di Rachaela, tagliando il vello pubico a metà con il verde stelo di vetro. Rachaela voltò le spalle allo specchio ed entrò nuda nel letto. Aveva messo una sedia sotto la maniglia della porta. Era ridicolo. Lui ormai l'aveva vista. Passò parecchio tempo prima che Rachaela si addormentasse, e sentendo per ben due volte dei passi felpati nel corridoio, non poté fare a meno di immaginare il grosso gatto che avanzava furtivo, sfiorando la porta con un fianco e stringendo in bocca qualcosa di morto. Rachaela si trovava ai piedi della torre. Non c'era luce, ma gigli di vetro crescevano sulla scala, che era scarlatta, umida, e disseminata di piume. Lui le tendeva la mano. Ma lei non voleva stringerla. Continuava a salire. La scala non finiva mai. Mentre saliva un terrore le stringeva la gola. Voleva raggiungere lui, ma aveva paura di farlo. Alla fine arrivò in una grande stanza rotonda sotto il cono del tetto. Con profondo stupore notò che le finestre erano di vetro trasparente. Si poteva vedere il bosco, la scogliera e il mare. Adamus, se così doveva chiamarlo, non c'era. La stanza era vuota. E Rachaela cominciò a piangere. L'immagine sulla finestra del corridoio era spaventosa, un leone che massacrava una pecora, e la luce del sole, da essa respinta, ne diffondeva ovunque i vividi colori. Rachaela perlustrava senza meta la casa. Il corridoio era molto lungo e sebbene non ne fosse certa, le sembrava di ricordare che conducesse alla biblioteca. Vi avrebbe trovato Sylvian, tutto indaffarato a cancellare le parole dai libri, oppure Alice, che graffiava il mappamondo con uno spillone da cappello. Rachaela immaginò gli Scarabae cacciati da ogni parte del globo. Vide bagliori di case in fiamme e loro che scappavano in mezzo alla neve, neve che la luce del fuoco tingeva di rosso. Qualcuno la stava seguendo. Era il gatto? E cosa avrebbe fatto, sola di fronte al gatto? Non avrebbe
osato toccarlo. Il corridoio era lunghissimo. Era passata davanti a molte porte, e aveva provato ad aprirne alcune, trovandole però tutte chiuse. Cosa si nascondeva dietro le porte chiuse degli Scarabae? Rachaela sentì dietro di sé un roco affanno, e una risatina come quella di un bambino dispettoso. Camillo. C'era da sentirsi sollevata? Persa nei meandri della casa con un folle ansimante alle calcagna. Aveva la spada? Il corridoio svoltava, e girato l'angolo, Rachaela vide che terminava con una porta. La porta aveva rinforzi di ferro nero. Che si trattasse di un altro accesso alla torre? Allora l'avrebbe trovata chiusa. In quel momento i passi di Camillo si fecero più decisi, Rachaela li sentì battere sul tappeto dietro di sé. Camillo correva. Correva per raggiungerla, questo vecchio folle. Lei si ritrasse contro la parete e quel matto dispettoso di Zio Camillo le sfrecciò accanto come un baleno. Superandola le fece una delle sue sciocche risatine, poi, sempre di corsa, raggiunse la porta. Aveva una chiave con cui aprì la serratura: un rettangolo di oscurità apparve all'improvviso, come notte sul giorno. Camillo fece un inchino, tenendo la porta aperta su quel pezzo di notte per lei. Rachaela sollevò le palpebre e vide la propria stanza immersa nel delirio di colori della finestra della tentazione. Era stato solo un altro sogno. Zio Camillo non le aveva aperto la porta della torre. Ma l'incontro con Adamus, quello non era stato un sogno. In quel mare di incubi il suo ricordo si stagliava solido come un faro. Dormi bene, le aveva detto. CAPITOLO QUINTO Sylvian era indaffarato in biblioteca, e non staccò gli occhi dal proprio lavoro per un istante. Rachaela lo guardò mentre sistemava con cura il regolo, intingeva la penna nell'inchiostro e tracciava con precisione una linea. Un'altra frase scomparsa. Un altro pensiero cancellato. Rachaela si avvicinò al tavolo e gli si mise a sedere di fronte. «Vorrei poterti fermare.» «No, Rachaela. Non posso fermarmi. È necessario.»
Seduta, Rachaela continuava a osservarlo. Sentiva crescere in sé il desiderio di urlare, ma preferì soffocarlo. Quello era solo un altro vecchio folle. I libri che lui distruggeva venivano venduti e letti in qualunque altro luogo. O forse no, alcuni sembravano piuttosto antichi, forse le uniche copie erano quelle sopravvissute nella casa degli Scarabae, e Sylvian le deturpava con un regolo. «Perché mi trovo qui, Sylvian?» «Perché qui sono le tue origini,» le rispose, senza fermarsi neppure allora e lanciandole solo una rapidissima occhiata con gli occhi acuminati. «Dove devo andare a cercare Camillo?» domandò Rachaela. «Zio Camillo va sempre in giro, può essere ovunque. È inafferrabile.» «Zio,» disse lei. «È davvero tuo zio, Sylvian?» «È della generazione precedente, come Anna,» rispose Sylvian. «È molto vecchio.» «Duecento, trecento,» azzardò cautamente Rachaela, con il cuore che le batteva forte nel petto. «Di più, di più,» fece Sylvian con aria assente. «Zio Camillo ricorda la fuga dall'ultima città, in un altro paese. Era molto tempo fa. Non ricordo l'anno. Io ero appena nato, allora.» Come nel sogno, Rachaela vide una casa in fiamme, e una plebaglia urlante che fracassava le finestre colorate a sassate. «Dimmi che età hai, Sylvian.» «Oh, non lo ricordo.» «Quanto è grande Adamus?» Sylvian cancellò una frase. Lo faceva con amore. Vista dall'altro capo del tavolo la pagina aveva assunto un bell'aspetto, con tutte quelle righe separate da spazi perfettamente uguali. «Adamus è tuo padre,» disse. «È quello che sostiene anche lui. Quanti anni ha?» «Devi domandarlo a lui. Io dimentico queste cose. Il tempo scorre lentamente, eppure sembra velocissimo. Un anno passa come un mese, un giorno diventa un anno.» «E tu non mi dirai nulla di Camillo.» «Va in giro per la casa. Ti ha seguita.» «Ora non più. Ha perso ogni interesse in me.» «Anna forse lo sa,» disse lui. «Non vedo mai Anna durante il giorno, ed è difficile anche incontrare voi altri, a parte i domestici. Loro cosa sono? Un ramo più umile della fa-
miglia?» Sylvian aveva finito di cancellare l'ultima pagina. Posò il libro e se ne mise davanti un altro. Rachaela non poté più guardare. A chiunque degli Scarabae incontrasse domandava dove fosse Camillo. Credeva nel buon auspicio del sogno. Camillo le avrebbe mostrato l'accesso alla torre. E allora avrebbe potuto fare irruzione nella torre come Adamus aveva fatto nella sua stanza. L'immaginazione di Rachaela non osava spingersi oltre. Era solo che detestava quel senso di impotenza, che intanto si faceva sempre più forte. Il sogno poteva essere stato, come probabilmente era, una folle illusione. Si era ingannata. Ma non sapeva che altro fare. Scese giù in cucina. Aveva intenzione di sottoporre a un interrogatorio Cheta, Carlo, Michael e Maria. Ma non c'era nessuno, svaniti anche loro. Provò a immaginare dove potessero essere, in caverne non meglio localizzate adibite a camere da letto, o in anguste celle, al buio, costretti a stare in piedi appoggiati alle pareti. Ma quella casa era già una tomba. Le creature che l'abitavano, e che evitavano la luce del giorno, non avevano bisogno di strisciare dentro una scatola: le doppie porte e le finestre bastavano a rinchiuderli. Rachaela ritrovò il corridoio con il neonato che annegava nel canneto e il cavallo impagliato. Ma di Camillo non v'era traccia, neanche un pezzo dell'armatura. Ripassò davanti allo specchio dipinto. Erano apparse altre colline. E la capra nel ventre della donna faceva parte in realtà di un quadro che era stato coperto. Nella stanza con il pianoforte impolverato e l'arpa senza corde qualcuno aveva poggiato su un sostegno una chitarra gialla. La finestra della stanza della musica, che Rachaela non aveva ancora osservato, esibiva un'orchestra di animali: tigri che suonavano il flauto, un elefante seduto all'organo, un coccodrillo con una viola. Ideata forse con intenti comici, la scena risultava invece decisamente spaventosa, una sorta di allucinazione infantile. In qualche altra stanza Rachaela ricordava di aver visto un'Arca di Noè trascinata dal diluvio, mentre i due splendidi unicorni venivano lasciati a terra. Ma la finestra con il leone e la pecora doveva essere un prodotto del sogno. A meno che non fosse stato un indizio che il suo cervello addormentato le aveva voluto suggerire.
Forse Zio Camillo non sapeva come si entrava nella torre, forse lo aveva dimenticato, o non lo voleva rivelare. Un leone che divorava una pecora... e il lupo vivrà accanto all'agnello... il giovane leone insieme alle bestie da ingrasso... Sarebbe stato degno di loro avere una finestra così. E un piccolo bambino sarà alla loro guida. Un bambino. Dove sarebbe andato un bambino? Rachaela alzò il capo. Camillo, il bambino cattivello... giocava in soffitta. Doveva per forza essercene una. Polvere, ragnatele e antichi giocattoli di quando gli Scarabae erano giovani, secoli prima. Rachaela non aveva notato nulla che facesse pensare all'accesso a una soffitta. Né avrebbe voluto andarci. Se anche Zio Camillo si fosse trovato lassù con i suoi balocchi e le chiavi della casa, della torre, nessuno avrebbe avuto il diritto di disturbarlo. Rachaela attese nella sua stanza fin quando, aiutandosi con gli orologi, stabilì che era giunta l'ora del pranzo. Poi scese nella sala da pranzo. Per qualche misteriosa ragione sapeva già cosa l'aspettava, perciò non rimase stupita quando aprì la porta. La tavola era affollata. I posti non erano più dieci, ma sedici. Rachaela restò sulla porta e si mise a contarli ad alta voce. Loro sollevarono le vecchie teste coperte di fili di metallo argentei e bianchi, e le lanciarono occhiate rapide come proiettili. Rachaela si avvicinò a un capo della tavola, dove non era seduto nessuno, e cominciò a elencare tutti i nomi che aveva sentito e che riusciva a ricordare, come una maestra che chiamava l'appello: «Anna, Stephan, Peter, Dorian, Sylvian, Alice, Unice, Miriam, Sasha, Eric, George, Miranda, Livia...» E quando ebbe finito, i tre che non aveva nominato, come dei bravi scolari, dissero con voce stridula: «Teresa.» «Jack.» «Anita.» Gli altri quattro, Micahel, Cheta, Carlo e Maria giravano indaffarati per la stanza. Le due donne servivano omelette al formaggio, Carlo era occupato con il fuoco, e Michael portava l'insalata. Avevano un comportamento da insetti. Erano sciamati tutti intorno a quel tavolo. Solo Camillo non era venuto, l'unico che Rachaela avrebbe voluto vedere. Camillo e Adamus, vecchiaia e gioventù... perché per loro
Adamus era un ragazzo, e lei... lei era una neonata. Maria le venne accanto e cominciò ad apparecchiare per lei il posto a capotavola. Rachaela sedette in silenzio e mangiò quello che le fu portato. Poi gli Scarabae cominciarono tutti a ciarlare. Pigolavano e stridevano tra loro come uno stormo di piccoli e terribili uccelli dai becchi taglienti come rasoi. Rachaela captò solo qualche parola, tanto era il brusio: pizzo, omelette, scacchi. Anna, che di solito faceva da portavoce, era particolarmente loquace, e Rachaela notò il perfido sorriso che le rivolse una o due volte. Vedi come possiamo essere, le diceva quel sorriso. Ti piace più così? La stanza scricchiolava e vibrava sull'orlo della follia. Rachaela sedeva ipnotizzata, vittima riluttante di un incanto. Era come stare in una scatola musicale impazzita. Per farli tacere sarebbe bastato girare una chiave. Ma qual era la chiave giusta? Una volta che i piatti furono lucidati, e la frutta finì di essere divorata, arrivarono le teiere, che stavolta erano tre. Rachaela sedeva in quella chiassosa uccelliera bevendo il suo tè. Alice e Sasha furono le prime ad alzarsi. Rachaela si alzò anche lei e si avvicinò a loro. Aveva riconosciuto Alice, che ora indossava un golfino rosso prugna lavorato a mano e una lunga collana di perline cremisi. «Alice, dimmi della soffitta.» «Oh, la soffitta,» replicò Alice all'istante, come un meccanismo a orologeria. «È piena di cianfrusaglie. Un abito di mia madre...» - strano, che questa avesse avuto una madre - «...su un manichino. E il vecchio cavallo a dondolo, ricordi, Sasha?» «Come ci si arriva?» domandò Rachaela. «C'è una scala,» disse Alice. «Te la mostriamo.» Gli altri le seguirono con gli occhi mentre loro uscivano dalla stanza. Il cicaleccio non diminuì. Giunte al pianerottolo, Alice e le altre girarono a sinistra. Il corridoio si torceva e si ramificava. Alice svoltò ancora a sinistra. Nella parte che stavano percorrendo c'era una finestra in cui Salomè danzava con la testa di Giovanni, almeno secondo l'interpretazione che Rachaela diede dell'immagine color zaffiro e rosso ciliegia. Più oltre, tavolati scoperti, porte chiuse, e due anguste scale, di cui una scendeva e l'altra saliva, entrambe senza
tappeto. Rachaela non era mai stata in quest'ala della casa. Il posto era buio, illuminato fiocamente solo dalla Salomè danzante, barlumi rosso antico di un tramonto morente su un muro scrostato. «Lassù,» indicò Alice. «Ora lo sai.» «Attenta a Zio Camillo,» disse Sasha. «Lui in soffitta tiene il vino.» «Oh, sì,» riprese Alice, «ne fece così tanto. Era davvero orribile, asprissimo e acido. Imbevibile. Ma lui disse che gli piaceva fare il vino. In cucina i tappi continuavano a saltare, così ora lo conserva lassù.» Appena Rachaela mise il piede sulla scala, Alice la salutò, «Addio, addio,» come se stesse partendo per un epico viaggio in treno. La porta della soffitta non era coperta di ragnatele, quindi veniva usata. C'era una serratura, ma il battente era socchiuso. Rachaela lo spinse. Le altre due donne erano scomparse. La soffitta era lunga e alta, e piena di cose. C'erano casse, vecchi armadi, uccelli impagliati, e c'erano anche un manichino con un vecchio vestito rosso e un cavallo a dondolo rosso e bianco sospeso in un fascio di luce. La parete sul fondo era squarciata da una finestra, rotonda e raggiata come una ruota. Il vetro, impolverato e verdastro, era tuttavia trasparente. Una delle finestre del sogno, ma nel posto sbagliato. Grazie alla luce che vi penetrava, Rachaela cominciò prima a distinguere le bottiglie marroni, che invadevano ogni angolo della soffitta, e poi Zio Camillo, seduto su una sedia a dondolo che forse aveva scambiato per il cavallo. Il fascio di luce irrorava la soffitta con i suoi strali, sfiorando con bianche scintille le mani giunte di Camillo, filiformi e con tre anelli, e accendendo il lungo cappuccio biancheggiante dei capelli. Teneva gli occhi chiusi, ma appena lei lo guardò, li aprì. «Al trotto!» disse, e fece dondolare la sedia. I cigolii erano come emanazioni del suo corpo sbiadito. «La luce,» disse Rachaela. «Dovrai imparare a sopportarla,» disse Camillo. «Evita i raggi diretti.» «A me non dà nessun fastidio.» «Te ne darà.» «E tu,» disse ancora Rachaela, «non hai paura della luce?» «Sono troppo vecchio,» rispose Camillo dondolando. «Ti va di scendere fino al mare?» «No. Come si fa a entrare nella torre?» «Adamus chiude a chiave le porte,» disse Camillo. «Un giorno Adamus fuggì. Fuggì nel mondo di fuori, da solo. Poi ritornò.»
«Tu sai come si entra nella torre,» disse Rachaela. «Semplice,» rispose Camillo. «Dal tetto.» E indicò la finestra. Rachaela camminò fino a trovarsi al centro del cerchio di luce che filtrava dal vetro impolverato. C'era un paletto, la finestra si poteva aprire. Fuori si stendeva un tetto piano con un parapetto di pietra. Una delle banderuole, a forma di dragone, oscillava a un'angolatura assurda. Oltre il tetto piano ce n'era un altro, e poi quello a forma di cono della torre. Sotto quel coperchio conico c'era una finestra alta e scura, di vetro colorato e impiombato. Sembrava inaccessibile. «Prendi del vino,» disse Zio Camillo. Non pareva così matto come lei aveva pensato. Forse si comportava in modo folle per camuffare una lucidità del tutto fuori luogo in quella casa. «No, grazie,» fece Rachaela, e aprì la finestra della soffitta. Non era affatto diffìcile scavalcarla. Diede allora un'occhiata ai tetti e alla finestra della torre. Se fosse uscita, Camillo avrebbe potuto richiudere la finestra, serrare il paletto, e lasciarla fuori. Ma vedendolo dondolare tranquillo sulla sedia, pensò che non l'avrebbe fatto. Avrebbe invece evitato la luce diretta del sole, come aveva consigliato anche a lei. «Dovrò tornarci,» gli disse Rachaela. Non era affatto convinta che sarebbe potuta entrare nella torre per questa via. Ed era ancor meno convinta che, nel caso che la finestra potesse essere aperta, l'uomo Adamus l'avrebbe aperta. Scavalcò la finestra e uscì sul tetto. Più sotto si vedevano altri tetti della casa, accenni di muri, e poi il terreno bruno, gli alberi del giardino e il bosco. Da un lato uno scorcio di mare, verde e tempestoso. Cadeva una fìnissima pioggerella. Rachaela attraversò il primo tetto e saltò sul secondo. Avvicinandosi alla torre cominciò a sentire il suono di un pianoforte: carezze rudi e geniali sulla tastiera, e una rabbiosa melodia che si accordava superbamente con il dimenarsi del mare, con il boato delle onde. Rachaela pensò a una radio o un registratore acceso nella torre. Era come lei, anche lui aveva bisogno della musica, e se la faceva portare da moderni apparecchi. In quella torre anche la macchina da scrivere aveva mandato il suo ticchettio. Rachaela raggiunse la finestra. Seguendo le nervature del piombo vide la forma di un leone, che non si abbatteva su una pecora ma su un guerriero in armatura. I colori, talmente densi, non si potevano distinguere. Non sembrava che vi fosse modo di entrare. Rachaela bussò con rabbia contro il vetro. Poi tirò indietro il pugno, al-
larmata da quel gesto. Ma il pianoforte continuava a suonare. Nulla si era mosso: non un segno che le facesse pensare di essere stata udita. Rachaela tornò indietro sotto la pioggia. La finestra della soffitta era aperta, Camillo stava ancora dondolando. Fu meno agile a rientrare. «Sì, prenderò del vino.» «Sei la benvenuta. Serviti pure.» «Non posso aprire le bottiglie.» «Allora dovrai farne a meno.» «Tu hai una chiave della torre,» disse Rachaela. E Camillo: «Stava suonando il pianoforte? C'è un'entrata. Hai bussato? Forse non ti ha sentita.» Rachaela si mise a sedere su una cassa in mezzo alla polvere. Camillo continuava a dondolare. «Sono il più vecchio di tutti,» disse. «Me l'hanno detto.» «Ti piacerebbe sapere quanto?» «Sì.» «Non posso dirtelo. Non lo ricordo. Al trotto!» ripeté alla sedia, e chiuse di nuovo gli occhi. Poi aggiunse: «Conosco un modo per scendere giù alla spiaggia. Si può passeggiare vicino al mare.» Rachaela voleva compiacerlo. «Va bene. Verrò con te.» Si aspettava un altro diniego, invece Camillo si alzò all'istante dalla sedia. Con mossa agile e in certo modo frivola si piegò per evitare il raggio di luce. I pezzi di un'armatura scintillavano in un angolo insieme a una spada. Era stato lui a prendere il topo dalle fauci enormi del gatto. «Vieni allora, Rachaela.» *** Oltre il punto in cui il sentiero si immetteva nel bosco, cominciava, nascosta da rovi e cespugli, una scalinata scavata nella roccia. Gli scalini erano pericolosamente scivolosi, e Rachaela procedeva con molta cautela. Camillo invece scendeva giù come un furetto, intrepido e disinvolto. Ai piedi della scalinata c'era una baia con una profonda spiaggia, mentre su entrambi i lati il mare, arrivando fino alla scogliera, si scontrava con le imperterrite falde rocciose. «Quando c'è bassa marea,» disse Camillo con l'aria di chi sta dando u-
n'informazione attesa, «Carlo prende il pesce.» «Pensavo che fosse il gatto a procurare tutto il cibo.» «Gabbiani, conigli,» disse ancora Camillo. «Una volta prese un pettirosso, ma lo lasciò andare. Lo vidi.» «E topi,» disse Rachaela. «Ti è piaciuto il topo? Era perfetto.» «Sì, era perfetto. Ma deve averlo portato via qualcuno, Cheta o Michael.» «L'avranno messo nello stufato,» fece Camillo, e si esibì nella folle e squillante risatina di cui da troppo tempo aveva fatto a meno. Stavano alla luce del giorno. Camillo non se ne curava più di quanto si curasse della pioggerella che continuava a cadere. Aveva una pelle sottile come carta velina, l'ossatura pareva fatta di rigidi legnetti. Ma non sembrava fragile. «Perché la famiglia evita la luce del sole?» gli chiese Rachaela. «Non le si addice.» «E tu?» «A me nulla si addice. Mi piacciono i colori del giorno. Prima non li sopportavo. Ricordo che una volta al termine di una cavalcata notturna mi ritrovai alla luce dell'alba: nascosi la testa piangendo dal dolore.» «Non eri qui.» «Molto lontano,» e farfugliò qualcosa in un'altra lingua. Russo forse, o qualche idioma serbo. Poi ridacchiò e riprese a parlare. «Non voglio raccontarti la storia della famiglia. Ce l'ho tutta aggrovigliata in testa. Ricordo una cattedrale nella notte di Natale, un letamaio, duecento donne e tutti quei cani, ma non ricordo dove né quando. E perché dovrei? La cosa non mi interessa. Non mi interessi neppure tu. All'inizio per un po' hai scintillato. Ma sei così prevedibile, ragazza. Sei proprio come avevo immaginato che fossi. Sempre in giro con quei vestiti neri e la pelle bianca. Anche tu te ne andrai, ma tornerai. Sei fatta così. Come lui.» «Adamus.» «Il ragazzo.» «È mio padre?» «Se lo dice lui,» rispose Camillo. Stava accovacciato su uno scoglio come un doccione gotico, e il vento umido gli scompigliava i lunghi capelli bianchi. Il mare esplodeva e si ritirava, come disperato furore. «Perché sono così importante?» «Per un gene,» rispose Camillo. «Lo possediamo tutti, ma si rivela solo
in alcuni di noi. È successo con Adamus. Succede con te.» «Cosa significa?» Rachaela si sentì pugnalata dalla paura. «C'erano altri come voi,» disse Camillo, «ma morirono. Siete rimasti solo voi due. Anche noi avremmo voluto essere così. Seducenti e malvagi. All'inizio le pecore nere venivano allontanate. Poi si cominciò ad accettarle. La famiglia si compiace della propria molteplicità.» D'improvviso Camillo balzò in piedi. Cominciò quindi a trottare per tutta la spiaggia agitando la mano come se impugnasse una frusta. Nitriva, e la baia echeggiava tutta del suono equino e tuttavia umano. La sua follia era solo un abito, ma a furia di indossarlo Camillo lo aveva fatto diventare indispensabile. La maschera era diventata il volto. Rachaela lo guardava impaziente, aspettando che la danza equina finisse. Eppure una parte di sé avrebbe voluto correre insieme a lui, far finta di galoppare. Rachaela non aveva mai avuto un'infanzia. A undici anni l'unica bambola che possedeva le era stata presa ed era stata portata in un negozio di beneficienza della zona. Rachaela aveva continuato a vederla in vetrina per una settimana; poi era stata comprata da qualcuno. Camillo, il cavallo marino, si placò. «Se lui non viene da te,» ansimò, «sarai tu ad andare da lui. È inevitabile. E così sei tu che vorresti andare, per violare il suo mistero.» «Mi ha spiata mentre dormivo,» disse Rachaela. «Imperdonabile,» disse Camillo. «Ti mostrerò come si entra nella torre. Te lo avrebbe potuto dire chiunque altro di noi, ma a loro piace giocare. Cheta, Maria o Carlo ti ci avrebbero portata.» «Ho sognato che tu avevi la chiave.» «Una giovane donna mi sogna. Sono lusingato.» Poi risalirono l'insidiosa scalinata. A un certo punto Rachaela scivolò e vide la scogliera e il mare girare. Finì la scalata a quattro zampe, terrorizzata. Camillo invece non temeva la morte, sfrecciò su velocissimo senza mai scivolare. Rientrarono in casa dalla porta di servizio che avevano usato per uscire. Attraverso un corridoio la porta conduceva nella stanza dove Peter e Dorian solevano fare colazione, e dove ora sedevano dopo il pranzo, sonnecchiando su due poltrone davanti al fuoco. Parevano morti. Camillo non prestò loro attenzione. La finestra di quella stanza mostrava una regina che raccoglieva grappoli verdi in un vigneto... Jezebel? Camillo non riportò Rachaela in soffitta. La condusse invece fino al cor-
ridoio con Salomè e lì le indicò la scala che scendeva. «Conduce a un corridoio che termina con una porta. Aprendo la porta ti troverai nella torre di Adamus. Bussa prima di entrare.» «Lui non ha bussato quando è venuto a spiarmi.» «Allora non bussare,» le disse Camillo, e se ne andò saltellando per l'altra scala. Rachaela ebbe un attimo di esitazione, poi andò giù. Il corridoio non era illuminato, a parte il debole chiarore rosato della Salomè che filtrava dal pozzo della scala. Rachaela passò davanti a porte chiuse e piene di ragnatele, che non aveva alcun desiderio di aprire. Il corridoio svoltò, e la già fioca luce si disperse in un'inquietante e spettrale oscurità. Come nel sogno, dritto in fondo al corridoio apparve la porta. Rachaela la raggiunse e si fermò ad ascoltare. Il piano suonava ancora, qualcosa di Brahms, le sembrò, un concerto per pianoforte senza orchestra. Ma non si sentì pronta. Si voltò e tornò di corsa verso la luce. Rachaela si mise un vestito celeste e una spilla d'argento intrecciato che una volta, sotto la pioggia, aveva trovato davanti al suo appartamento. Scese nel salone e si fermò davanti al camino bianco, in attesa di Anna e Stephan. Ormai si era abituata a mangiare con loro la sera. Ma Anna e Stephan non venivano. Con un certo ritardo apparve Michael, che portava il solito vassoio di bottiglie e caraffe. «Dov'è Anna?» «Non lo so, Miss Rachaela.» Come erano apparsi a sorpresa al pranzo pigolante, ora, a sorpresa, non sarebbero venuti a cena. Rachaela consumò da sola la cena: pesce in casseruola e crostata di uva spina. Grosse gocce di pioggia cadevano dal comignolo facendo crepitare e scoppiettare il fuoco. Quando ebbe finito di cenare, Rachaela ritrovò la strada fino alla stanza di Peter e Dorian, ora completamente buia. Non c'era nessuno, il camino era spento. Poi sedette per un'ora davanti al focolare nella sala da pranzo. Non entrò nessuno. Si fermò dieci minuti nel salone, dove l'orologio dorato continua-
va a tacere. Non aveva lancette. In tutte quelle stanze non si vide nessuno. E per tutto il pomeriggio Rachaela non aveva neppure sentito i passi che di solito udiva oltre la porta della sua stanza. Michael, che le aveva servito da solo la cena, era anche lui svanito. La casa scricchiolava e sussultava come un albero sotto la pioggia e il vento che cresceva. Poteva sembrare vuota, tranne che per lei. Rachaela tornò di sopra. Andò in bagno e si preparò per andare a letto. In camera, si mise a sedere in camicia da notte di fronte al fuoco. Fuori il tempo burrascoso ruggiva come una tempesta in mare. Sembrava come se l'oceano si stesse riversando sulla terra. Rachaela prese un libro e provò a leggere. Ma leggeva e rileggeva sempre lo stesso paragrafo. L'orologio con gli angeli le disse che era l'una: era mezzanotte. Rachaela si mise a letto. Tentò per un'ora di addormentarsi. Oltre la parete e la finestra la tempesta di vento aumentava. Gli spigoli della casa stridevano, e schegge metalliche di pioggia sferzavano il vetro. Se avesse cominciato a lampeggiare, sarebbe stato impossibile dormire. Un pallido bagliore, e l'immagine di Eva e Lucifero sotto l'albero si impresse sulla stanza. In una notte come questa... Rachaela uscì dal letto. Accese la lampada, si vestì, si incipriò il viso e truccò gli occhi. Le ciglia nere gettavano lunghe ombre sul suo viso, la bocca, alla luce della lampada, appariva rossa come un frutto maturo. Era giunto il momento. Come la volta precedente, decise di portare con sé la lampada, e come la volta precedente il corridoio era completamente buio e la frutta intagliata nel legno entrava e usciva dalle tenebre. Temeva di incontrare il mostruoso gatto, ma questo timore non bastò a dissuaderla. Girò a sinistra e percorse il corridoio fin dove si biforcava, girò ancora a sinistra e trovò Salomè sprofondata nelle tenebre. Scese l'angusta scaletta, mentre i ragni catturavano la luce nelle loro reti di filigrana. La lampada illuminò uniformemente il corridoio ai piedi della scala. Rachaela passò davanti alle numerose porte, finché il rettangolo nero dell'ultima non si manifestò ai suoi occhi. Avrebbe trovato chiusa anche questa? Raggiunta la porta, e senza fermarsi, Rachaela provò a muovere la ma-
niglia, che girò obbediente. Come nel sogno, dentro c'erano solo le tenebre. Dormiva forse, l'abitante della torre, immerso nell'oceano del buio mentre la tempesta mugghiava tutt'intorno? Prenderlo alla sprovvista come fa Psiche con il mostro della leggenda, e far cadere una goccia d'olio bollente dalla lampada: questa sarebbe stata giustizia. Ma Rachaela non avrebbe osato tanto. Trovarlo addormentato le sarebbe forse bastato a vendicarsi. La luce scoprì all'interno della torre una scala, che Rachaela a lenti passi cominciò a salire. In alto un sottile velo di rossore, come di un fuoco che bruciava piano. Rachaela sbucò in una stanza. La lampada le rivelò l'interno della finestra con il leone che lei aveva visto da fuori, e le nere superfici di un pianoforte su cui spiccava lieve il pallore dei tasti. Dunque era stato lui, non una macchina, a produrre la musica che Rachaela aveva udito. Rachaela si voltò e lasciò scorrere la luce della lampada sulle travi del soffitto, sulla mobilia, fino al focolare. Il gigantesco gatto stava lì a fissarla con gli occhi a mezzaluna. Poi un'altra luce si stagliò contro quella di Rachaela. Sulla mensola del camino si erano accese tre candele. Rachaela vide Adamus accanto al camino nei suoi abiti neri, e il fiammifero che saltava tremolante dentro il fuoco. «Non riuscivo a dormire,» disse Rachaela, come riprendendo la precedente conversazione. «Neanch'io.» Adamus era sempre lo stesso, quasi che dovesse sempre esserlo. Si inchinò per grattare la testa d'ebano del gatto e, prima che l'ombra lo sommergesse, piccoli ruscelli di luce scorsero sul suo volto non comune. Prese posto su una poltrona di fronte al fuoco. Era il volto di uno straniero che Rachaela conosceva. «Allora vieni qui,» le disse, «siediti, e di' tutto quello che hai da dire.» Rachaela si avvicinò e posò la lampada sulla mensola del camino. Lì sopra c'era uno specchio coperto da spirali color ferro e un orologio bianco che, come notò Rachaela, correva velocemente all'indietro. «Non ho niente da dire.» «Allora perché sei qui?» «Sono curiosa,» lo scimmiottò Rachaela, «ho dovuto aspettare quasi trent'anni per vedere mio padre.» Adamus la osservava, seduta sulla poltrona di fronte alla propria. Il gatto
giaceva tra loro simile a un tappeto, con la testa abbassata a riposare sulle zampe. Erafacile, tutto sommato, accettare ladomesticità di quell'animale. Non quella di Adamus. Sulle mattonelle davanti al focolare stava in bella mostra una bottiglia di vino rosso. C'erano due bicchieri, uno pieno e uno vuoto. Adamus si chinò a riempire di vino il secondo, che poi porse a Rachaela. Lei lo prese. Adamus aspettava qualcuno, e quel qualcuno doveva essere lei. «Sapevi che sarei venuta. Hai parlato con Camillo.» «Non parlo quasi mai con nessuno di loro. E Camillo, in particolare, mi evita. Trova la mia... giovinezza offensiva.» «Anna e Stephan non hanno cenato insieme a me. Lo fanno sempre. Eppure a pranzo c'erano tutti. Anche i domestici Stavano lì a ciarlare, a pigolare. Producevano un brusio particolare.» «Un altro gioco,» disse Adamus. «Stanno giocando con noi due. Faresti meglio a capirlo.» «Ma sei stato tu,» obiettò Rachaela, «a scrivere a macchina la lettera per me.» «Me lo chiese Anna. Lei sa essere davvero suadente, persuasiva. È stata lei a dettarmi le parole.» «E chi l'ha firmata?» domandò Rachaela. «Io.» «Scarabae.» «È il mio nome.» E Rachaela, «Hai un nome così melodrammatico... Cosa ne pensava mia madre?» «Lei credeva che mi chiamassi Adam. In qualche modo è vero.» «Uomo,» disse Rachaela. Adamus fece una scrollata di spalle. Poi entrambi, senza volerlo, portarono il bicchiere alla bocca nello stesso istante. Il vino era ricco, dal gusto intenso e metallico. «Eccoti, dunque,» disse Adamus dopo un po'. «Sì. Pensavo di ricambiare la tua visita. E Camillo mi ha mostrato quest'altro accesso alla torre.» «Di solito è chiuso.» «Una sbadataggine.» «Sapevo che saresti venuta.» «Come facevi a saperlo?» «Non lo so,» rispose Adamus.
«Non ti credo.» «È questo il tuo problema, Rachaela.» «Perché dici il mio nome in quel modo?» «Perché mi piace. È un nome di famiglia, e fui io a proporlo a tua madre. Dapprima lei lo rifiutò con disprezzo e repulsione. Pensava che sarei tornato per fare di lei una donna onesta.» «Sì, avrebbe preferito essere sposata. Ma credo che si sarebbe anche accontentata di un tuo sostegno, della tua presenza accanto a lei.» «Io non potevo restare,» disse Adamus. «Non mi interessava. La famiglia mi aveva fatto il lavaggio del cervello per convincermi che lo dovevo fare. Ma sono bastati due anni fuori dalla mia prigione per farmi odiare il mondo. Ti concepii: era la sola cosa che dovevo fare. Finita quella, avevo bisogno di tornare al mio universo, che era questo.» «Nemmeno io ti interessavo?» «No. Da piccola non eri niente per me. Eri solo una cosa che avevo realizzato.» Insieme al vino dal gusto di rame Rachaela inghiottì tutta l'amarezza lasciatale dalla madre, i venticinque anni di convivenza con quella donna curva e irascibile. Le sole cose magiche, la musica classica e i libri, le aveva trovate per caso, ed erano cose che la madre detestava. Quante volte, mentre Rachaela ascoltava la radio, le aveva cambiato canale, cancellando tutti i suoi sogni? Quante volte le aveva strappato dalle mani un libro? «Lava tutti quegli strofinacci, se non hai niente da fare,» le diceva poi. «Mi hai abbandonata in un deserto,» disse Rachaela. E pensò a un'infanzia in cui un uomo alto dai capelli scuri la portava per mano in un parco, con i cigni nel laghetto, il pane per le anatre... Pensò alla voce di un uomo che le leggeva le favole. A un'ombra che suonava un pianoforte. E sentì le lacrime come stilettate negli occhi. Un dolore improvviso era divampato in lei. «Ma tu ti saresti annoiato con una bambina.» «Devo cercare di trovarti ora,» disse Adamus. «È troppo tardi. Ormai non ti voglio più. Non ho più bisogno di te. Hai sprecato l'occasione. Non ti lascerò entrare.» «Però sei qui.» «Ero curiosa, come te. Curiosa di vedere l'uomo che mi ha abbandonata ventinove anni fa, quando ero ancora cieca e muta.» «Non dire così, Rachaela,» fece Adamus. E lei gli lesse in volto una sofferenza, vide quegli occhi giovani e quelle labbra irrigidirsi.
«E poi è una menzogna,» disse Rachaela. «Ancora non credo che tu sia mio padre.» «Ancora.» Restarono in silenzio, e il gatto si alzò e si stiracchiò, lo splendido pelo tinto di rosa dal fuoco morente. «Ha bisogno di notte,» disse Adamus. «Devo farlo uscire. Andiamo,» disse dolcemente al gatto, che lo seguì fuori dalla stanza e giù per le scale, probabilmente fino alla porta da cui era entrata Rachaela. Rachaela cominciò a guardarsi intorno. La stanza era poco illuminata; fuori dal raggio di luce della lampada e delle candele tutto era avvolto in una nera oscurità, in cui gli oggetti come per magia catturavano il rosso scintillio del fuoco o la sfumatura verdastra del vetro della lampada, come occhi o pensieri. Rachaela sentì che il vino sapeva di sale. Era idiota farsi sopraffare dall'emozione. Ma non si aspettava questo colloquio con un finto padre, perché certo era tutto un inganno. Lo avrebbe pure creduto possibile, se gli Scarabae fossero stati davvero così longevi come essi stessi dichiaravano. Ma anche quella doveva essere una menzogna, un capriccio senile dettato dal desiderio di divertirsi e di spaventare. Fuori dalla finestra ululavano le tenebre. Aveva smesso di lampeggiare. Rachaela non aveva sentito rientrare Adamus, che era apparso dal nulla, in un punto in cui la luce non lo illuminava a sufficenza. Si vedeva solo un'ombra imponente. Invece di venire verso di lei, Adamus attraversò la stanza e andò a sedersi al pianoforte. Colta di sorpresa, Rachaela trattenne il respiro. E nel buio Adamus cominciò a suonare. La musica si levò in lunghi accordi sul monotono picchiettio della pioggia. Il basso e cupo registro si accendeva sotto i colpi delle note più alte. Rachaela non conosceva il compositore di quella melodia, una corsa da un'ottava all'altra. La tempesta sonora copriva quella che infuriava intorno alla torre. Rachaela chiuse gli occhi. Restò seduta, e si lasciò fluttuare in quella marea di suoni, stringendo mollemente in mano il bicchiere pieno di fuoco. Sentiva che si stava abbandonando contro la propria volontà a lui. Alla fine la marea si ritirò, rifluendo in rivoli separati. Finì.
Senza riaprire gli occhi Rachaela disse, «Suona ancora.» Adamus non rispose. Ma un attimo dopo le rapide note di un preludio di Chopin volteggiavano nella stanza. Cosa sarebbe stato di lei se avesse avuto questo durante l'infanzia? Le lacrime cominciarono a rigarle lentamente il viso. Lei le lasciò scendere, e annegò nella musica. «Ti eri addormentata.» Adamus era in piedi davanti al focolare. Il fuoco si era spento. La lampada faceva brillare di un rosso porpora il vino nel suo bicchiere. Rachaela era meravigliata dalla lunghezza dei suoi capelli. «L'ho ascoltata tutta.» «Lo so. Ti sei addormentata solo quando ho smesso di suonare.» Si era calmata. In quell'abbandono era svanito ogni dolore. Erano svanite anche le piccole rabbie e quella più grande. «Mi devi fare tornare,» gli disse. «Voglio sentirti suonare ancora.» «Perché no?» Rachaela si scostò i capelli dal viso come una bambina. Le lancette dell'orologio giravano vorticosamente dalle quattro e mezza alle tre, poi verso le due. Dovevano essere le prime ore del mattino. Rachaela non voleva andarsene, ma aveva freddo, e tutto d'un tratto ebbe paura. Gli era venuta così vicina... Ma vicina a cosa, poi? Non lo conosceva, non sapeva chi o cosa era. Sapeva solo che vedeva al buio come il gatto. Adamus si chinò, e prendendola per mano la aiutò a sollevarsi. La sua mano era giovane e calda. Era la mano di un uomo. Rachaela ne fu sorpresa... e la mano la lasciò. Stava in piedi da sola, esausta. «Quale delle porte?» gli domandò. «Quella che preferisce la signora.» L'idea di dover raggiungere la stanza pesava sulla stanchezza di Rachaela. Ma doveva sbrigarsi e scappare. Non sapeva quello che stava pensando. «Quella andrà bene.» Adamus la accompagnò alla porta tenendole la lampada. Quando furono in cima alle scale gliela porse educatamente. Rachaela la prese, uscì dalla porta e scese le scale fino all'ingresso principale, da cui infine penetrò nella densa e opprimente oscurità di un corridoio. La porta le si richiuse alle spalle. Rachaela si aspettava il rumore di una chiave, che non sentì.
Rachaela sognò la madre che preparava un pranzo domenicale, cosa che faceva all'incirca ogni sei mesi. C'era sempre un gran daffare. Rachaela stava al lavello a pulire una quantità enorme di cavolini di Bruxelles, che doveva marchiare ciascuno con una croce per scacciare Satana. Le duolevano le mani. Dalla porta della cucina, avvolto nella nebbia del sogno, la chiamava Adamus. «No,» le diceva la madre. «Prima finisci quello che devi fare.» Ma Rachaela lasciava i cavolini nella ciotola. L'uomo aspettava sulla porta a braccia tese. «Non andare,» diceva a Rachaela la madre. «Stai lontana da lui.» Ma Adamus la prendeva in braccio, nonostante Rachaela fosse alta come un'adulta, la prendeva in braccio e la portava via. Rachaela si svegliò con questo sogno negli occhi, turbata dalla sua concretezza. L'orologio della torre segnava le dodici e trentacinque. Le dieci, suppose. Aveva dormito fino a tardi. Decise di fare un bagno, e quando aprì la porta della camera trovò sul tappeto un delizioso oggetto, una collana di piccole conchiglie rossastre, rosa e avorio. Un altro dono di Cannilo, forse, pescato dai tesori della soffitta. Rachaela restò un po' con le conchiglie in mano, poi le posò sulla toilette. Quando tornò dal bagno, narcotizzata piuttosto che rianimata, si vestì e si spazzolò i capelli immersa in una sorta di letargo, fin quando rivide le conchiglie sul mobile. Le afferrò d'impulso e, malgrado fossero troppo piccole, le accostò all'orecchio una per una. La madre le aveva insegnato quel trucchetto quando lei era ancora bambina, anche se all'inizio non le era parso che funzionasse. Si trovavano in qualche posto sul mare, dove erano andate a trascorrere una giornata. Piovigginava, e dal mare soffiava un vento tagliente. Rachaela si era tagliata un ginocchio cadendo su un pezzo di vetro nascosto dalla sabbia, mentre la madre si era infuriata per una grossa lisca che aveva trovato nella zuppa di pesce. Naturalmente in quelle piccole conchiglie non si sentiva la voce del mare. Quella voce era già, seppur debole, nella stanza.
Eppure, quando Rachaela scostò le conchiglie dall'orecchio, le giunse un'onda, un suono. Rachaela. Udì il proprio nome in un mugghiare sussurrato, come se a pronunciarlo fossero state le pareti della stanza, le pietre dei muri. Una sciocca fantasia. Che la spaventò. Rimise giù le conchiglie. Le tornò in mente il pezzo di croccante che aveva voluto perché lo aveva visto agli altri bambini, e che la madre, brontolando, le aveva comprato. «Ti romperai i denti.» E le tornò in mente la madre nella bara, strizzata nell'abito sbagliato, morta stecchita, e impiastrata di rossetto. Le lacrime le riapparvero negli occhi, come la notte prima. Pianse con foga per pochi minuti, poi smise. Era un addio allora, a qualcosa. CAPITOLO SESTO Ora che sapeva come arrivare alla spiaggia, ogni tanto Rachaela si faceva coraggio e si avventurava giù per l'insidiosa scalinata. Esplorava la piccola baia, che con l'alta marea il mare ricopriva lasciandosi poi dietro alghe, pezzi di legno, qualche medusa morta, e altri relitti non identificabili. Quando non scendeva sulla spiaggia continuava le sue faticose passeggiate nella brughiera, in mezzo a ginestra selvatica e felci secche, con i conigli che le scappavano davanti e i gabbiani che strillavano alti nel cielo. Si costringeva a camminare per la propria sanità di mente. Non aveva niente da fare. Era tutta una lunga vacanza ipnotica. Passeggiava anche nella casa, cercando di fissarne gli angoli e le curve in un disegno coerente. Ma quel posto continuava a restare per lei un labirinto, anche nelle parti che ormai conosceva. Aveva ricominciato a provare ogni porta, e un paio di volte sotto quelle lapidi aveva trovato alcuni degli Scarabae: la vecchia Anita che lavorava a maglia davanti ai vetri rossi e viola di una finestra con la scena del funerale di un re, o Miriam e Unice che sfogliavano enormi album fotogafici sotto una finestra verde giada... forse Giona nella balena. Miriam e Unice l'avevano fatta entrare e le avevano mostrato, fino a istupidirla, centinaia di fotografie. Uomini e donne con abiti antichi in posa come statuine sullo sfondo di vedute panoramiche o di sorgenti di fiumi circondate da palmizi. Nessuno scatto recente, nessuna foto a colori. Il solo fatto che le fotografie fossero riuscite a catturare quei corpi aveva sorpreso
Rachaela, convinta che gli Scarabae fossero invisibili come fantasmi all'occhio dell'obbiettivo, come pure era convinta che non potessero riflettersi nei loro ornatissimi specchi. Un mattino aveva fatto colazione insieme a Peter e Dorian. Non avevano detto una parola. Una volta aveva incontrato Alice che sfrecciava inspiegabilmente per la casa avvolta in uno scialle, come la folle Regina Bianca. Rachaela aveva evitato Sylvian e la biblioteca, preferendo rileggere ì libri che si era portata. Aveva ascoltato la radio. C'era una parte dell'opera che non le piaceva. Quella in cui la voce umana si imponeva sulla musica. La sera Anna e Stephan erano ricomparsi nel salone. Si comportavano come se nulla fosse cambiato, eppure Rachaela aveva notato che Anna le rivolgeva degli sguardi particolarmente sdolcinati. Sembravano contenti di lei. Si comportavano come se le fossero stati riconoscenti. Rachaela non chiese loro per cosa. Non aveva più visto Cannilo, e gli altri solo per qualche istante, colti nei loro frenetici andirivieni. Dopo sette giorni e sette notti Rachaela un pomeriggio decise di andare alla porta della torre passando dalla scala di servizio e dal sinistro corridoio. La porta era chiusa a chiave. Rachaela bussò, ma non ebbe risposta. Fu allora assalita da una rabbia quasi violenta; era stata diffidente, quasi imbarazzata. L'ottava sera, dopo cena, trovò nell'ingresso il gigantesco gatto che strusciava la zampa contro la porta della torre. Rachaela ebbe uno scatto improvviso. Si avvicinò al gatto e prese ad accarezzargli la testa. Il pelo era arruffato ed elettrico, ma l'animale non sembrava dispiaciuto. «Sei rimasto fuori,» disse Rachaela, e provò a girare la maniglia. La porta, fino allora sempre sbarrata contro possibili intrusioni dalla casa, stavolta si aprì. Il gatto vi guizzò dentro, e lei lo seguì. La scala era fiancheggiata da due porte chiuse, che Rachaela non ebbe il coraggio di toccare. Raggiunse il pianerottolo dove si apriva la seconda porta, e da lì salì fino alla grande stanza del pianoforte. La finestra con il leone era buia e nuda, ma stavolta erano accese due lampade, una sul pianoforte e l'altra sulla mensola del camino. Nel camino la fiamma era alta, e sul tavolo si vedevano i resti dì un pasto. Adamus aveva lasciato parecchie tracce di sé, ma non c'era. Il gatto avanzò con fare maestoso fino al focolare, davanti al quale si adagiò con familiarità.
Rachaela si mise al pianoforte, sfiorandone cautamente i tasti con le dita. Adamus non venne, e dopo circa un'ora Rachaela lasciò la stanza. Il gatto dormiva accanto al fuoco. Adamus non si fece vedere per quindici giorni e quindici notti. Rachaela provò ad aprire le due porte della torre altre tre volte, trovandole sempre sbarrate. Forse Adamus la temeva come lei temeva lui. Rachaela giurava a se stessa che non gli sarebbe più andata così vicino, eppure era come se una corda dorata la trascinasse verso quell'uomo. Un mattino una busta scritta a macchina apparve sotto la porta della stanza di Rachaela. Si indirizzava a lei come Ms R. Smith. Il tono di leggerezza la mandò in collera, le parve beffardo. Per un po' Rachaela. non aprì la lettera, la sola posta che avrebbe mai ricevuto nella dimora degli Scarabae. Alla fine cedette. Rachaela... Ho sentito il tuo odore nella stanza. E sul piano ho trovato un capello lungo, nero e ondulato. Qualcosa di tua madre, malgrado tutto, nell'onda morbida dei tuoi capelli. Una visita, e io ero assente. Torna oggi, nel pomeriggio. Cosa preferisci? Chopin? Prokofiev? Ravel? Ti aspetto. Stavolta si era firmato Adam. La lettera era ipocrita, ma invitante. Si sentiva come una scolaretta che aveva marinato la scuola... leggermente eccitata, con il cuore in tumulto. Bene, allora non ci sarebbe andata. Per punire la propria smania. Indossò l'abito verde e la collana di vetro. Non usava mai profumi. Il proprio odore... poteva essere solo l'odore della pelle e dei capelli, alieno in quella torre. Lasciò la stanza che l'orologio nero segnava le quattro e un quarto, all'incirca le tre e un quarto del pomeriggio, come se andasse a un appuntamento. E in effetti lo era. Decise di passare dalla porta di servizio, più appartata, e la trovò aperta. La finestra con il leone fulvo e il guerriero rugginoso riempiva di sé la stanza e la trasfigurava. Le travi del soffitto erano bordate di giallo. Adamus stava in piedi davanti al fuoco, a leggere un libro vecchio e annerito come quelli abbandonati nella libreria di Mr. Gerard. Appena Rachaela entrò, lui mise giù il libro senza segnare la pagina. «Eccoti.» «Sì.» Era timida e imbarazzata di fronte ai lunghi capelli e alla giovinezza di Adamus. E c'erano stati parecchi sogni tra il loro ultimo incontro e questo.
Quanto avrebbe voluto che Adamus fosse stato vecchio come quel libro, o che lei non avesse accettato di vederlo. «Vieni vicino al fuoco,» le disse, e lei si avvicinò. Quando gli fu accanto, Adamus si allontanò. Ha paura. Aveva paura di lei, e come lei si sentiva a disagio. Il loro terreno comune, la musica. «Mi suonerai Prokofiev?» disse Rachaela a malincuore, per aiutarlo. «Il brano che preferisci.» «Ne conosci così tanti?» «Vi sono giorni e notti in cui non faccio altro che suonare il pianoforte.» Rachaela lo immaginò nel buio della torre, mentre note e melodie infuriavano nell'aria accarezzata dal mare. Il gatto non c'era. Rachaela aveva finito per identificare Adamus e il gatto. Era seduta sulla stessa poltrona della volta prima. Si domandò se Adamus si fosse rilassato almeno un po'. Lui andò al piano e la musica ebbe inizio. Era come se le parlasse. Morbide cadenze, un movimento tempestoso, una risoluzione in rapidi accordi. La melodia si sviluppava sul piano del bianco e nero. Rachaela si voltò a guardare Adamus. Le mani si muovevano con padronanza, sia veloci che lente. Sulla schiena, sotto la camicia scura, si intuiva il movimento a ventaglio dei muscoli, mentre il lungo getto dei capelli si agitava e si scompigliava. Le sembrò di vedere la sua aura. Era fredda e bianca come acciaio, la sua essenza ombrosa. Cosa avrebbe provato a stargli dietro, a sfiorargli le spalle e la nuca sotto la tempesta dei capelli? A sentire a contatto con la propria pelle la potenza vibrante di quelle mani e di quel corpo? «Adamus,» disse Rachaela sottovoce. Il brano terminò o cambiò. Accordi aciduli, un tempo furibondo. Il cuore di Rachaela batteva così forte da farle male. Chi era quell'uomo? A tratti ne intravedeva il profilo, i lineamenti che mutavano col mutare della melodia. Il volto assorto e rigido, l'occhio infuocato e le labbra che di tanto in tanto si muovevano. Su quel volto, rabbia e disperazione. Una volta sola Rachaela aveva avuto davanti a sé un viso simile, ma non così puro, e neppure così bello. Era successo in una stanza con la luce accesa alle due
del mattino: una faccia disperata e cieca a tutto, preghiere o minacce, finché non era rimasto altro da fare che stare ferma e pensare a quando sarebbe finita. Straziata e ferita dalla disgustosa violenza di quella faccia. E questo volto così diverso, che tuttavia gliela ricordava, la faccia di un viaggiatore nella notte. Rachaela balzò in piedi in preda a un improvviso terrore. «Basta!» Adamus staccò istantaneamente le mani dalla tastiera, senza voltarsi a guardare. Le note risuonavano ancora nell'aria. «Che c'è?» «Non so.» «Lo sai, invece.» E poi, dandole la schiena e con il viso girato per metà, «Dimmelo.» «Mi fa... paura,» disse Rachaela. Non era più riuscita a trattenersi. «Sì,» fece lui. «La musica ti porta a un limite,» continuò Rachaela. «Non voglio superarlo.» «È la sola scelta che abbiamo. Cadere nel baratro.» Rachaela serrò le mani, e Adamus si alzò dal piano. Parve oscurare tutta la luce che entrava dalla finestra. Rachaela era in un lago d'oro, di giallo e di bruno e questa forma nera si era avvicinata fluttuando verso di lei. Non poteva più vederne il volto, ma solo gli occhi ora, che ardevano di un fuoco nero. «No,» fece Rachaela, e indietreggiò. Dietro di lei il calore grezzo del focolare. Stava tra l'incudine e il martello. Adamus venne ancora avanti e Rachaela fu coperta dal nero. Quelle mani, che ora le stringevano le braccia per tenerla lontana dalle fiamme, erano come due anelli arroventati. «Finirai per cadere.» «L'hai detto tu che non c'era altra scelta.» «Rachaela, smettila di lottare o ti farai male.» «Mi farai male tu,» disse lei. «Lo farai.» «Forse.» «Lasciami andare.» Lui la tirò a sé. Il seno di Rachaela venne a contatto con il suo corpo, con quel petto duro, piatto e mascolino, come una voluttuosa armatura. Ora le fiamme erano qui, dove i loro corpi si toccavano. La stanza comin-
ciò lentamente a girare. Rachaela stava scivolando nelle acque di un lago, e solo lui la poteva salvare, solo lui la poteva tenere... Rachaela lo colpì con un pugno. Si erano separati. Li dividevano un paio di metri. «E ora che ti prende?» disse Adamus. «Niente,» rispose Rachaela, «cosa credevi, Papà?» «Mi hai detto che non ci credi?» «Non so a cosa credo. Qui tutto è possibile.» «Questo è vero,» disse Adamus. Ora il suo volto era vuoto. Come in tutti i sogni di Rachaela, era quasi senza volto. Gli occhi come due pozze opache di vernice. Le labbra contratte e rigide. «Me ne vado,» disse Rachaela. «Me ne vado, e non voglio più rivederti. Bloccherò la porta della mia stanza con una sedia. Se entrerai lotterò. Ti ucciderò.» «Non verrò nella tua stanza. Povera Rachaela, dove altro potresti nasconderti?» Rachaela si voltò e attraversò la stanza misurando con cura i propri passi, quindi scese le scale. Oltre la porta l'orribile corridoio le sembrò saturo di mefitiche esalazioni. Senza scomporsi continuò a camminare verso la luce della Salomè. Questa era la sua fuga. Il mare aveva abbandonato sulla spiaggia una vecchia polena. Era un tritone, su cui si vedevano ancora parti verniciate di verde e arancione. Il torso, del colore dei pesci, finiva in un sostegno che gli faceva da coda. Aveva in mano un tridente completamente sformato. Rachaela pensò che sarebbe certamente piaciuto a Camillo. Stava appoggiato contro le rocce come se lo stesse aspettando. Restò seduta nella baia a osservare il mare. Ma il mare non aveva risposte, anche i suoi relitti erano in qualche modo una beffa. A questo punto la sola cosa che le restava da fare era preparare le valigie e raggiungere a piedi il villaggio, e lì cercare una casa con il telefono. Quindi avrebbe noleggiato una macchina per farsi portare da qualche parte. Ma dove? E poi, passando a questioni più pratiche, come avrebbe fatto a portare quelle pesanti valigie per un tragitto così lungo? Si sarebbe dovuta disfare di ogni cosa per fuggire. Adamus l'avrebbe di sicuro lasciata in pace, ora. Sarebbe bastato non
andare più da lui per non provocare nulla. Era stata colpa sua. Era una cosa diversa dallo stupro, ciò che le era stato inflitto. Lei aveva incoraggiato quest'uomo senza sapere ciò che faceva. Doveva essere così. Un altro millimetro, un altro minuto, e sarebbe precipitata nel baratro. Voleva fuggire. Cheta, portandole la colazione, le aveva detto con una certa ironia che nel giro di uno o due giorni lei e Carlo avrebbero rifatto la spedizione per incontrare il furgone. Non sarebbe mai riuscita a convincere Carlo e Cheta a portarle le valigie. Anche loro partecipavano al complotto appositamente studiato per tenerla lì. Non avrebbero opposto un aperto rifiuto, ma avrebbero trovato il modo di non aiutarla. Rachaela era un possesso della famiglia. Come era stata sdolcinata Anna la sera prima. E Stephan aveva sbagliato varie mosse sulla scacchiera. Ma era Anna che rappresentava la famiglia. Il suo sorriso d'approvazione era il dono di tutta la tribù. Stanno giocando con noi due. Faresti meglio a capirlo. Così le aveva detto Adamus. Doveva credere anche lui una vittima indifesa presa in trappola nella loro rete? Il mare assaltava la scogliera e si frantumava. Rachaela si alzò e si avviò verso i precari scalini nella roccia. Cosa sarebbe successo se fosse scivolata? Sarebbe stata la fine di tutti i loro progetti di propagazione della stirpe. Arrivò in cima alla scogliera. Sulla brughiera sentì il grido di un chiurlo, ma non vide nulla. Per rientrare in casa passò dalla serra. Lì trovò Carlo, chino su una tinozza di fiori di malva e tutto imbacuccato. Non trovò nessuno né in sala da pranzo né in salone. Da qualche parte della casa giunsero i rintocchi di un orologio, tredici. Poi entrando nell'ingresso vi trovò otto degli Scarabae in piedi, immobili: Eric, pensò Rachaela, Peter e Dorian, Unice, Livia, Miranda, George e Jack. Stava succedendo qualcosa. Ma cosa? Sul pavimento a scacchiera, nel punto in cui i vetri delle finestre mandavano i loro riflessi colorati, si vedeva un'ombra nera. In un primo momento Rachaela non riuscì a capire di cosa si trattasse. Poi vide che era un vecchio: stava riverso a faccia in giù, con indosso una vecchia giacca, gli arti vecchi e ossuti tutti scomposti, le mani come accartocciate. Miranda si voltò verso Rachaela. «È caduto,» disse lentamente.
«Io l'ho visto,» continuò Unice. «Stava scendendo le scale ed è caduto. Proprio così.» «Sta male,» disse imbarazzata Rachaela. Quella loro fragilità di ghisa aveva finito per incrinarsi. «No, non sta male,» disse Jack dall'altra parte della stanza. «È proprio morto. Gli ho sentito il polso.» E Miranda: «Ne siamo certi, assolutamente certi.» «È così,» disse Livia. «Tutto d'un colpo,» disse ancora Miranda. «Ma...» fece Rachaela. «Succede così, a noi,» la interruppe George, e posò una mano sulla spalla di Jack. «È meglio chiamare Carlo.» «È nella serra,» li informò Rachaela. «Vado a...» «Sì, sì,» disse Miranda, «vai, mia cara.» Rachaela si voltò sbalordita e li lasciò lì, tutti in piedi come statue di vecchi scioccati, con volti calmi e avvizziti e intensi occhi neri. Carlo si aggirava tra le felci della serra come una scimmia con un vaporizzatore. «Carlo. Sylvian è caduto nell'ingresso.» L'uomo mise giù l'arnese e si avviò senza dire una parola. Aveva un volto inespressivo. Rachaela lo seguì fino all'ingresso. Erano arrivate altre tre Scarabae, anche loro ferme in posa sulle scale, Anita, Sasha e Alice. Gli stessi volti. E mentre Rachaela le guardava, sul pianerottolo ne spuntò un'altra, Miriam. Dal corridoio che portava in cucina apparve infine Cheta con un grembiule sull'abito scuro, e Michael e Maria come echi dietro a lei. Apprendevano l'accaduto e si raccoglievano lì, senza parole né lamenti. Carlo si avvicinò a Sylvian e lo raccolse senza indugio. Sarebbe stato inutile consigliare una maggiore prudenza. Rifiutavano le medicine, i dottori, qualunque trattamento ragionevole. Per loro Sylvian era morto. E probabilmente avevano ragione. Rachaela ripensò alle lunghe dita ossute intente a cancellare con metodo le parole dai libri della biblioteca. Forse i libri della parete nord erano stati risparmiati. Carlo cominciò a salire le scale. Gli Scarabae lo seguirono in processione, senza fretta. Rachaela, intimidita, fece lo stesso. Imboccarono un corridoio sulla destra al termine del quale Carlo aprì una porta, che doveva essere quella della camera da letto di Sylvian. Il
morto fu portato dentro, e gli altri lo seguirono in gruppo. Non si sentiva alcun suono a parte il debole fruscio dei vestiti, delle ciabatte e delle scarpe. Sylvian fu adagiato su un letto. Sulla parete si ergeva alta la finestra, una specie di battaglia con destrieri e pennacchi su un cielo carminio. La camera era inondata da una luce color mosto, e Sylvian giaceva lì, sul grande letto grigio a quattro colonne, le scarpe sul copriletto e la testa scolpita sul guanciale. Carlo gli sistemò le mani lungo i fianchi. «No, no, Carlo,» fece Miriam, «mettigliele sul petto. Sarà più facile, poi.» Carlo obbedì allo strano e sinistro ordine. Mancavano solo Anna, Stephan e Camillo. La folla si raccolse intorno al letto. Guardavano fissamente Sylvian, come per accertarsi che fosse morto. Ed era di sicuro la faccia di un morto quella, con il bianco degli occhi che si vedeva appena e la bocca completamente aperta. Poteva sembrare un vecchio addormentato, solo che non respirava. Forse avevano controllato il battito del cuore, oppure non ne avevano avuto bisogno. Era così che si aspettavano il loro trapasso? Dopo tante centinaia di anni, tra un passo e l'altro, il respiro che si fermava, un grande silenzio e una fitta oscurità, e quella poco dignitosa dignità era subito dimenticata. «Voglio chiudergli gli occhi,» disse Alice. Si avvicinò al morto e fece con un gesto rapido ciò che aveva detto. Provò anche a chiudergli la bocca, ma quella tornava ostinata a spalancarsi. «Meglio lasciar perdere,» suggerì Jack. Alice lasciò in pace Sylvian e andò via. Uno o due alla volta, gli Scarabae cominciarono a ritirarsi, a uscire dalla stanza. Rachaela osservò l'esodo, confusa e ammutolita. Erano già tutti scomparsi prima ancora che lei potesse pensare a qualcosa da dire. Rimase sola con il morto, e fuori dalla stanza trovò vuoto anche il corridoio. Sul pianerottolo raggiunse Cheta. «Cheta, che succederà ora?» «Riguardo a cosa, Miss Rachaela?» «Riguardo a Sylvian, ovviamente.» «Se ne occuperanno Miss Anna e Mr. Stephan.»
Cheta si rimise in moto e andò giù per le scale. Erano tante le cose da fare. Il certificato di morte, la sepoltura... Rachaela ripensò ai numerosi compiti dei vivi in occasione di una morte. La remota dimora sarebbe stata violata, disturbata. Rachaela immaginò gli Scarabae in qualche cimitero di campagna, tutti intorno alla tomba come ventuno corvi neri. Non le pareva inconcepibile. Ritornò nella propria stanza e accese la radio. La musica veniva fuori per riempire lo spazio, ma stavolta non le era di nessun aiuto e la finestra la disturbava. La loro assoluta mancanza di paura era inquietante. Le erano parsi del tutto indifferenti a quel segnale di vulnerabilità. E Rachaela era rimasta turbata nel vedere che gli Scarabae, invece di piangere e tremare, reagivano esattamente come lei aveva reagito alla morte della madre... con disinteresse, e forse addirittura con sollievo. «Ci sei, Camillo?» La finestra della soffitta era azzurra per il crepuscolo, una cortina di cielo impolverato. Il cavallo a dondolo si stagliava come una doppia collina sulla luce del giorno morente. Le bottiglie scintillavano. La sedia a dondolo era vuota. Rachaela vide il profilo di Camillo seduto a terra su un cuscino, indaffarato in qualcosa. «Sei venuta a dirmelo, vero? Lo so già.» Doveva essere salito qualcun altro a dargli la notizia. «Sylvian,» disse Rachaela. «Il distruttore di libri.» Neppure Camillo dava cenno di compassione o di paura. Rachaela non si aspettava simili sentimenti, si aspettava tuttavia qualcosa. «Nessuno di voi prova niente,» gli disse. «Come se non fosse successo niente. Io credevo che foste tutti parte di un'unica cosa.» «Sì,» rispose Camillo. «La corolla di un fiore. Da cui si è staccato un petalo.» Nella semioscurità Rachaela riuscì a vedere che Camillo aveva davanti a sé il regolo di Sylvian. Stava incidendo qualcosa sull'ebano, bianco su nero. «E la sepoltura?» domandò Rachaela. «Non vedi l'ora, eh?» fece Camillo, e diede un colpetto al cavallo, che si lanciò in un oscillante galoppo statico. «Spero che ti piaccia.» «Potrebbe piacermi?»
«Corri come il vento, cavallino!» Rachaela avrebbe voluto parlargli di Adamus, ma per dirgli cosa? «Perché gli Scarabae sono fatti così, Camillo?» «E come sono fatti?» «Neppure il dottore quando un uomo muore.» «Sono molto vecchi,» disse Camillo, «come briciole tra le pieghe della poltrona della vita. Stantii. Ma non sono vecchi quanto me. Ti piacerebbe sapere quanti anni ho?» «Non te lo ricordi.» «Qualche volta sì.» «Ma non oggi,» disse Rachaela. Camillo ridacchiò. «Oggi no.» «Cosa faranno di Sylvian?» «Qualcosa.» Rachaela esitò, poi: «Adamus uscirà dal suo nascondiglio per questo qualcosa?» «Non credo,» rispose Camillo. «Sylvian cominciò a cancellare i libri quando Adamus era bambino. Adamus cercò di fermarlo. Vi fu una scenata in biblioteca. Un bambino che gridava contro un vecchio. Dovette intervenire Anna. A quei tempi la si poteva ancora incontrare durante il giorno, qualche volta.» «Adamus si preoccupava dei libri.» «Allora sì.» «E di cosa si preoccupa ora?» Rachaela fu scossa da un brivido. Ma Camillo le disse soltanto, «Chiedilo a lui.» «Non voglio vederlo.» «Non vederlo, allora.» Stava incidendo uno scheletro sul regolo. «Non mi dirai niente di utile.» «Vai, cavallino, vai!» «È Sylvian quello che stai disegnando?» «Chiunque,» rispose Camillo. «Se ti tocchi la faccia senti lo scheletro sotto la pelle.» «Lo so,» disse Rachaela. «Allora sei a posto.» «No, Camillo. Camillo...» «Trotta, cavallino!» Rachaela lo lasciò e ritornò nella sua stanza verde e blu.
Si mise a guardare la tentazione di Eva. Cosa c'era di tanto seducente in una mela? Quando Anna e Stephan entrarono nel salone, Rachaela restò per un attimo in tensione, in attesa di vedere se sarebbero venuti anche gli altri, come si erano riuniti per lo strano pranzo. Ma oltre a loro non apparve nessun altro. Era una sera come tutte le altre. Michael servì da bere e andò via. «Anna,» disse Rachaela, «come farete? Manderete Cheta al villaggio a cercare un telefono?» «Non devi preoccuparti di questo,» disse Anna. «Ce ne occuperemo noi,» aggiunse Stephan. «Ma avrete bisogno di un dottore per il certificato di morte. Quando andrà Cheta? Domani?» «Cheta domani andrà al villaggio perché ci sarà il furgone.» «E chiamerà un dottore?» «Rachaela,» disse Anna, «non preoccuparti. Avremo cura di ogni cosa. Cerca di capire. È già successo, e succederà ancora. Siamo vecchi, moriamo.» Il volto di Anna era sereno, la voce seducente. Suadente e persuasiva, aveva detto Adamus. Sorrideva, come se stesse consolando una bambina capricciosa. «No,» obiettò Rachaela, «non vi seguo. Questa completa indifferenza...» «È morto,» disse Anna. «È morto,» le fece eco Stephan. «Ma è di sopra,» ribatté Rachaela, «in quella stanza grigia con la finestra infuocata. Bisogna fare qualcosa per lui!» «Certo, certo. Ma perché tanta veemenza? Siamo abituati a vedere queste cose.» Anna sospirò. «Riesci a immaginare quanti ne abbiamo già persi? Anche di giovani.» «Perdere i giovani è la cosa peggiore. Un vero spreco,» disse Stephan, bevendo il suo liquore nero e fissando il fuoco. «Sylvian invece ha avuto una vita lunga e intensa,» aggiunse Anna. «E dunque non vi dispiace,» disse Rachaela, colpita dalla loro tranquillità, e desiderosa di vederli manifestare qualcosa di sensato e di diverso da ciò che provava lei. «Il dolore è superfluo,» concluse Anna. «È tutto.» Poi si alzò e insieme a Stephan passò in sala da pranzo.
Rachaela fece lo stesso. A tavola non c'erano posti in più, solo i loro tre. Anna e Stephan presero posto. Anche Rachaela sedette. E subito arrivarono Cheta e Mario portando una zuppiera piena di minestra di cavolo. Mangiarono in silenzio. Rachaela sentiva un'emozione agitarsi dentro di lei, l'angoscia e l'allarme che provava già dal giorno prima, quando era sfuggita ad Adamus, e che ora aveva messo a fuoco. «E il funerale?» domandò. «Dove seppelliranno Sylvian gli Scarabae?» Anna la guardò. Gli occhi di questa gente non sembravano più famelici come prima. La loro fame si era trasformata in qualcos'altro. Ora si poteva vedere la somiglianza tra gli occhi di Anna e quelli di Adamus. Pozze di un denso liquido nero. Due laghi di montagna al posto degli occhi. «Non farti angustiare da ciò che è successo, Rachaela. Non devi preoccuparti. Abbiamo le nostre usanze, più vecchie della casa. Devi lasciare a noi il compito di occuparci dei nostri morti.» «Come?» «Come a noi sembra giusto,» disse Anna. Suadente, persuasiva, e con un cuore di pietra. Non c'era modo di penetrarla. Parlava per tutti loro. Finirono la zuppa. Michael portò un tortino di pesce. Anna e Stephan cominciarono a elogiare la bontà degli ortaggi invernali e la bravura di Carlo e Michael nel far crescere le cose fuori stagione. Rachaela ascoltava. Provava il senso di depressione e di paura che loro avrebbero dovuto sentire. Al piano di sopra il morto giaceva nel proprio letto. La casa puzzava come di fumo. Rachaela veniva esclusa. Non c'era posto per lei nei loro riti. Non l'avrebbero invitata al funerale. Perché la morte non aveva nulla a che fare con lei; lei, come Adamus, era la nuova vita. Il peccaminoso fiore dell'incesto che tutti loro avevano nutrito con i loro sorrisi e la loro ambiguità. Cominciò a provare rabbia. Ma anche questo era inutile. Lei non era solo la loro garanzia, ma anche la loro adorata ragionevolezza. Se in quella casa il dolore era superfluo, ebbene, lo era anche lei. Stephan e Anna finirono le loro porzioni di tortino. Rachaela mangiò di malavoglia. Fu servita della frutta cotta. Rachaela non aveva più aperto bocca, e quando ebbe finito di giocare
con il piatto lasciò Anna e Stephan e andò sopra. Non le restò altro che sedere in camera da letto e cercare conforto nella radio, facendo fìnta che quella in cui alloggiava fosse una casa confortevole, in cui il fuoco e le lampade a olio rappresentassero deliziose ricercatezze d'altri tempi, una casa senza angoli bui, senza ombre, con i vetri trasparenti pronti a far entrare il nuovo giorno. Una cupa sinfonia di Mahler aumentò la cupezza di Rachaela, che compì allora un gesto per lei molto raro: cambiò canale e si sintonizzò su una stazione dove si parlava, per sentire una normale voce umana. Uomini e donne discutevano con consapevolezza di politica. Rachaela sedeva ipnotizzata. Là fuori c'era il mondo, pericoloso e vero. Non riusciva a crederci, e si aggrappava a quelle voci che parlavano nello sforzo di crederle vere. In quanti posti normali persone che conducevano vite normali ascoltavano quelle parole, che ora per lei erano come una valanga di neve da un precipizio? Non aveva mai imparato i punti strategici sulle carte geografiche. E stanotte gli altri paesi erano come sogni, la capitale un'illusione. C'era solo questo ora. A mezzanotte Rachaela li sentì muoversi per la casa come l'acqua in un tubo. Per un po' fece la ronda avanti e indietro davanti al camino. Sapeva che si stavano occupando di Sylvian, qualche cerimonia delle loro, niente a che vedere con dottori, preti e chiese. Aprì istintivamente il guardaroba e tirò fuori la giacca. Uscì dalla stanza e restò nel corridoio ad ascoltare. Sul momento non sentì quasi nulla, poi una lieve esplosione, come uno squittio di pipistrelli. Erano sulle scale, sul tappeto persiano rosso, e stavano scendendo. Doveva esserci anche Carlo, il possente facchino, con il suo fardello. Rachaela si avviò con passo deciso verso il pianerottolo. Quando fu lì, li vide giù in basso nell'ingresso. C'erano tutti tranne Camillo, Camillo e Adamus... uno troppo vecchio, l'altro troppo giovane per far parte di questo. E lei, l'avrebbero mandata via? L'avrebbero pregata o minacciata? Mentre Rachaela scendeva le scale, la testa farraginosa di Livia si voltò; Miriam e Jack la illuminarono con i loro fiammanti occhi di ratti. Ma nessuno parlò. Lei era una della famiglia. Non era come loro, ma non c'era ragione di escluderla. Avrebbe fatto da testimone.
Attraverso l'anticamera entrarono nel salone. I fuochi erano spenti. Le stanze erano già fredde. Da lì passarono nella camera d'equilibrio della serra. Li guidava Carlo: portava qualcosa che Rachaela non ebbe bisogno di vedere per identificare. Sfiorarono le piante torreggianti, e stavolta i petali cadevano per davvero. Rachaela ripensò alle parole di Camillo, alla corolla del fiore... Fuori la notte era fredda e rigida, dolorosamente immobile tranne che per l'impeto delle onde. C'era bassa marea, e la luna era alta. Forse, insieme al calare della notte, avevano atteso questi altri due fenomeni. Rachaela li guardava procedere in fila lungo il sentiero dove erano sbocciati i fiori selvatici. Si manteneva a una certa distanza dall'ultimo di loro, che ora era Miriam. Costeggiarono la scogliera e procedettero oltre lungo il sentiero, fiancheggiando il bosco e poi deviando verso il mare. Stavano andando verso la scivolosa scalinata sulla roccia. Facile è la discesa all'Averno... Tutti quei vecchi corpi friabili su quegli scalini melmosi. Rachaela trattenne il respiro per loro, che non mostrarono esitazione accalcandosi tutti sull'orlo della scogliera. A quel punto Carlo si chinò per fare qualcosa. Rachaela vide apparire una corda, poi un fagotto che scendeva lungo la scogliera urtando in continuazione contro la roccia. Avevano legato il corpo di Sylvian e lo stavano calando giù per la scogliera, e a Rachaela si gelava il sangue nel sentirlo strusciare di continuo contro la roccia. Si immaginò a trascinarsi il corpo della madre fino ai contenitori per la spazzatura, e la fiele le riempì la gola. Loro invece stavano calando il corpo di Sylvian sulla spiaggia, a mare. Cosa ne avrebbero fatto? Lo avrebbero consegnato all'oceano come un vichingo? I vecchi, uomini e donne, cominciarono a scendere giù per la scalinata. Procedevano con attenzione, ma non usavano troppa cautela. Tastavano il terreno come vermi, senza passi falsi o scivoloni. Nessuno degli Scarabae era vestito per il funerale. Nella luce bluastra della luna le loro giacche avevano molti colori, e loro erano avvolti nelle sciarpe. Alice con violette di velluto sul cappello e Miriam con una cuffia di pelliccia bianca.
Seguendoli sulle scale, fu Rachaela a conoscere la paura. Scendeva sulla roccia con passo incerto, aggrappandosi a ogni spuntone, scorticandosi i palmi delle mani, spezzandosi un'unghia, terrorizzata. Si trovava ancora a metà strada quando li vide riversarsi sulla spiaggia. Si fermò a guardarli. Poi si costrinse a continuare la discesa. Le loro voci stregate le giunsero all'improvviso, costringendola a fermarsi ancora, le mani aggrappate alla scogliera e i piedi di traverso. Cosa stavano facendo? Per un attimo la scena vacillò e si gonfiò come una vela al vento. Rachaela si strinse alla roccia e tirò tre lunghi respiri. Non riusciva più ad andare avanti. Aprì gli occhi e vide quelle piccole figure muoversi indaffarate come formiche attorno allo zucchero. Il tritone fradicio stava ancora appoggiato sugli scogli ad aspettare Camillo. Carlo e Michael si stavano arrampicando verso di lui. Il corpo di Sylvian giaceva proprio lì sotto, steso sulla striscia di sabbia come lo era stato sul pavimento a scacchi. Gli Scarabae andavano avanti e indietro, raccogliendo oggetti dalla spiaggia. Rachaela sentiva il bisogno di avvicinarsi. Provò a scendere altri quattro scalini e si fermò ancora una volta. La luna aveva reso la scala ancora più scivolosa, era come se fosse bagnata. Ma Rachaela pensò che poi le sarebbe comunque toccato di risalire davanti a loro. Cercò quindi di rilassarsi e di riprendere fiato, perché tremava tutta e aveva la bocca asciutta. Poteva vederli e sentirli, ma li vedeva piccoli e le parole non le giungevano chiare. Stavano ammucchiando le offerte intorno a Sylvian. Cheta, Jack e George prendevano degli oggetti da un sacco, accanto al quale stava in piedi sulla sabbia un rettangolo nero su cui si rifletteva la luna. Nel frattempo Carlo e Michael avevano raggiunto il tritone. Gli si misero ai lati e lo afferrarono. Poi, come braccianti o taglialegna, cominciarono a spingerlo giù verso la spiaggia. Non riuscivano quasi a manovrarlo. Rachaela sentì il grido di Carlo che avvertì del pericolo. Poi il tritone cominciò a rotolare sulle rocce, scendendo a balzi verso la spiaggia, come era già successo al cadavere di Sylvian. Carlo gli saltava dietro, e Michael correva dietro Carlo. La polena si arrestò infine sulla sabbia. I due uomini la raggiunsero e
cominciarono a trascinarla verso il cadavere. Quando fu all'altezza di Sylvian gliela sistemarono accanto. Volevano forse legare Sylvian al tronco del tritone, e dopo averlo messo in acqua sulle labbra del mare aspettare che risalisse la marea? Gli Scarabae si raccolsero di nuovo. Rachaela si aspettava che da un momento all'altro si levasse un canto tremolante o un inno selvaggio, ma non vi fu alcun suono. In lontananza il mare si adornava di bianchi merletti. Un fiore color mandarino sbocciò nelle mani di Carlo. Era un fiammifero. Il venticello umido glielo spense. Rachaela vide Michael sollevare il rettangolo nero, svitarne il tappo e versare la libagione che esso conteneva su Sylvian e su tutti i pezzi di legno che gli avevano messo intorno. «Vogliono bruciarlo,» disse Rachaela a voce alta. Lo avrebbero cremato così, sulla riva del mare, senza una preghiera né un canto, come si bruciano gli abiti vecchi o i rifiuti. Nelle mani di Carlo si accese una seconda fiammella che andò a finire sulla pira. Per qualche secondo niente, poi dalla benzina si levò una grande fiammata blu e arancione. Alcuni di loro indietreggiarono. Altri tesero le mani gelide verso il fuoco. La morte li riscaldava. Rachaela sentì la puzza del fumo vero, e con essa l'orribile fetore della carne umana bruciata. Voltò la testa verso la roccia cercando di coprirsi il naso, ma il vento soffiò via tutto. Faceva inoltre troppo freddo perché il fetore le restasse nelle narici. Uno di loro, Eric, si era allontanato di qualche passo, e tornava ora portando un altro dono. Grande e bianco, gli pendeva dalla mano un gabbiano morto, raccolto in riva al mare. Eric lo gettò nel falò funebre di Sylvìan. Una furia di scintille si levò dal fuoco. Alcune piume, catturate da un vortice di calore, svolazzarono in fiamme nell'aria. Penne d'oca per cancellare i libri del fuoco e della notte. Quando il fuoco avrebbe finito di consumarlo se ne sarebbero andati, lasciando le ossa sottili di Sylvian alle braccia della marea. L'oceano avrebbe avuto quelle ossa, che avrebbe lucidato e trasformato in corallo... Il tritone scoppiettava mentre le fiamme gli sgorgavano dalla coda e dal ventre. Rachaela doveva risalire la scogliera. Restò in piedi contro la parete rocciosa, mentre il falò del morto si riflet-
teva con bagliori al neon nei suoi occhi. CAPITOLO SETTIMO Il mattino colorava di verde Cheta, intenta a pigiare le pesanti sacche di tela, accuratamente ripiegate, nelle tasche della propria giacca. Carlo stava in piedi accanto a lei, e dietro di lui la cucina a gas risplendeva nella luce verde e acquatica della finestra. «Viene di nuovo con noi, Miss Rachaela?» Rachaela annuì. «Sì.» Li avrebbe fatti ritardare. Era davvero cattiva. Si avviarono per il sentiero, allontanandosi dal punto in cui i malefici scalini conducevano alla baia e ai resti di Sylvian immersi nell'acqua. Era un mattino terso, assolato e gelido, le pesanti sciarpe e gli occhiali da sole non parevano più tanto assurdi su di loro. Raggi di luce cristallizzata colpivano il paesaggio. Come la volta precedente, gli uccelli cantavano in mezzo alle fronde. La brughiera era sempre la stessa, luminosa e brulla. L'idea della lunga camminata che l'aspettava fiaccava Rachaela, e al tempo stesso le procurava una tensione che le serpeggiava nello stomaco come un branco di anguille. Portava in spalla con disinvoltura la borsa nera. Ma le pesava. Ripassarono dalla zona che le aveva fatto immaginare duelli tra draghi e cavalieri e raggiunsero la strada, sempre vuota. Come la volta precedente Carlo e Cheta si misero a camminare al centro della carreggiata. Avrebbero avuto tutto il tempo dì sentire se si fosse avvicinato qualcosa, ma nulla si avvicinò. Una specie di cardo selvatico spuntava da sotto l'asfalto. Passarono tra le due file di siepi. Rachaela non vedeva l'ora di arrivare alla fattoria sventrata, e quando le apparve le sembrò che fosse passato un secolo. Aveva tutto il corpo indolenzito, come se non avesse camminato per settimane. Poi, finalmente, la strada traboccò nella valle, che si apriva dinanzi a loro come un catino verde e sudicio. Ecco le carcasse d'auto arrugginite, i campi sprofondati e le case di pietra. Cheta e Carlo, come la volta precedente, non si erano scambiati una parola. Rachaela non poté trattenersi dal fare una domanda: «Il furgone ci sarà oggi?» «Oh, sì. Questo è il giorno in cui viene.»
E Rachaela si rese conto che nella sua astuta battaglia per non perdere la cognizione del tempo, dei minuti e delle ore, delle mattine e dei pomeriggi, aveva dimenticato di includere i giorni. Che giorno era? E se lo avesse domandato a Cheta, Cheta glielo avrebbe detto? Non si persuase a provarci. Percorsero la discesa e passarono davanti al tetro pub con l'insegna cigolante. Il furgone azzurro era fermo nello spiazzo nella stessa posizione della volta prima. E sullo sfondo, ancora fuori uso, la cabina del telefono vandalizzata. Non c'erano altri clienti, come al solito. Nel retro del furgone l'uomo grasso stava leggendo il giornale. Sembrava che stesse aspettando proprio Cheta e Carlo. La donna sferruzzava qualcosa di rosa e soffice. In questa occasione Rachaela osservò con particolare attenzione i due individui. Vide la fede nuziale tra i geloni della donna, e ne notò gli occhi azzurri come jeans scoloriti. All'uomo uscivano dei peli dal naso, e sotto la giacca a vento indossava un maglione che forse gli aveva fatto la moglie. «Eccovi,» disse l'uomo, ripetendosi. «Quasi non vi aspettavo più. Che possiamo fare per voi?» Cheta gli consegnò la lista. «E la signorina non vuole niente?» «No,» disse Rachaela, «oggi non ho bisogno di niente,» e rivolse all'uomo, che era rimasto sorpreso, un sorriso formale. «Fate molte altre fermate dopo questa?» «Questa è l'ultima,» rispose l'uomo. «Poi torno in città e mi metto a pancia all'aria.» La moglie ossuta tirò su col naso. «Ed è lì che comincia il mio lavoro.» «Il lavoro di una donna non finisce mai,» disse l'autista del furgone, chiaramente compiaciuto da questa massima che difendeva anni e anni di indolenza maschile e di scarico di responsabilità. L'uomo aveva tirato fuori le latte d'olio per Carlo, insieme a una tanica di benzina. Certo, ne avevano consumata tanta di benzina per Sylvian. Vedendo Carlo trasportare le latte, Rachaela lo ricordò mentre sollevava il tritone dagli scogli e lo trascinava sulla spiaggia. Cheta, con le sacche già piene di sapone, soda, farina d'avena e altro, domandò all'uomo, «Hai portato il brandy?» «Ne ho trovata solo una bottiglia. Aspetta un attimo.» L'uomo si introdusse con un certo sforzo nel retro del furgone, spostando
leggermente la moglie che sferruzzava come fosse una pila di scatole di cornflakes, quindi riapparve con la bottiglia nera. Il drink di Stephan. E senza dubbio la frugale consolazione di alcuni degli altri. Gli Scarabae non erano grandi bevitori, ma apprezzavano i loro piccoli comfort. «E un paio di libri, per la padrona,» aggiunse l'autista, porgendo a una Cheta assurdamente carica di pesi un pacchetto legato all'antica, con dello spago. Cheta tirò fuori il rotolo di banconote marroni. Rachaela pensò alla busta di banconote marroni e turchesi che aveva in borsa. «Potreste per caso darmi un passaggio fino in città?» Rachaela fece quella domanda in maniera limpida e innocente, con la massima disinvoltura. Cheta, che le stava a fianco, si era alterata, ma era impossibile capire per cosa, se per stupore, allarme o desiderio di minaccia. «Be'... il furgone è piccolo.» «Pagherò volentieri.» Come Rachaela aveva previsto, l'uomo fu tentato dal denaro facile. «Tu cosa dici, Rene? Aiutiamo la ragazza ad andare via?» Rene ripiegò il suo lavoro. «Per me è lo stesso.» «Ci vediamo,» disse Rachaela a Cheta, mentendo con candore e innocenza. Cheta e Carlo rimasero fermi sulla strada senza dire nulla, senza reagire, i volti vuoti e gli occhi fissi. Rachaela aveva scommesso che non avrebbero fatto scenate davanti all'autista del furgone e alla sua sposa, e aveva avuto ragione. La facilità della fuga aveva dato alla testa a Rachaela. Si era seduta davanti, accanto a Rene, a cui era stato ordinato di spiaccicarsi sul lungo sedile. L'uomo del furgone chiuse il furgone e andò a riempire l'abitacolo. Non sarebbe stato un viaggio comodo, ma Rachaela non aveva mai pensato che lo sarebbe stato. «Un bel viaggio,» disse l'uomo. «Devo chiederti cinque sterline. E per il peso in più e per la benzina,» spiegò con una certa goffaggine e incombendo con tutta la sua mole su Rene e Rachaela. Quando il furgone partì Rachaela si sporse dal finestrino a guardare indietro. Carlo, piegato dal peso delle latte, la guardava allontanarsi; lo vide diventare sempre più piccolo. L'uomo e la moglie parlarono incessantemente per tutto il viaggio. Rene
aveva chiesto a Rachaela di chiudere il finestrino, e dopo un po' all'interno del furgone l'aria era diventata calda e irrespirabile, densa dell'odore di cibarie e detersivi. Alle loro spalle le cose sbattevano e si muovevano come tanti orchi che si bilanciavano per non cadere. «Ecco, i Cavalieri di Castiglia sono caduti. Te l'avevo detto che non erano messi bene,» disse Rene. Non avevano un accento locale, ma di Londra, quasi stessero lì a indicarle la strada. Rachaela cercava di concentrarsi su ciò che stava facendo, ma l'eccitazione della fuga le aveva procurato un senso di nausea, mentre il continuo chiacchierio e le domande la distraevano e la sfiancavano. «Mi andrebbe proprio un bel pezzo di filetto per pranzo,» ripeteva a intervalli l'uomo. «Bastoncini di pesce o niente,» lo rimbeccava ogni volta Rene. «Non ti dispiace se ti dico una cosa,» disse a un tratto a Rachaela, «ma sono proprio dei tipi strani i vecchi di quella casa. Lavori lì?» «Sì,» rispose Rachaela. «Deve essere di una noia mortale starsene rinchiusi lassù. E tu che fai?» «In che senso?» «Che lavoro ti fanno fare?» «Sto scrivendo un libro,» disse Rachaela a casaccio. «Oddio, non vorrai dirmi che fanno libri!» «Le loro memorie.» «Ah, le loro memorie.» Cosa sapevano quei due della casa? Non molto. «Strano vedere dei domestici, no? Di questi tempi, e poi così vecchi. Chi sarebbe così pazzo da fare un lavoro come quello? È avvilente. Due o tre vecchi e i domestici che gli girano intorno.» Si vide una vacca al pascolo su un prato, una sola, e neanche una casa in vista. «Vedi quella vacca? Mi fa solo pensare a un bel pezzo di filetto.» «Bastoncini di pesce o niente.» Finalmente la desolazione della campagna cominciò a riempirsi di piccoli villaggi, non derelitti e malefici come quello con le carcasse d'auto, ma graziosi, con bei giardini e piante d'edera, il bucato steso ad asciugare, e ogni tanto un'altalena o un bambino che giocava su un prato con un cane. I campi erano seminati e ben curati, con alti filari di alberi che li riparavano dal vento. La strada, che era diventata più larga, era costeggiata da
siepi. Dopo un'ora di viaggio cominciarono a incontrare qualche macchina, e una volta anche una corriera. Alla fine li ricevette un'ampia strada maestra. Lungo la strada case di pietra, ma anche a intonaco e pebbledash, vivaci portoncini rossi, vialetti con motociclette. «Dove devi andare?» domandò l'autista a Rachaela. «Al centro della città.» «Noi andiamo da un'altra parte,» disse subito Rene. «Ti lascio a Market Street,» disse l'uomo, «è abbastanza facile da lì.» Rachaela gli diede le sue cinque sterline e il furgone si fermò in un'ampia strada piuttosto anonima dominata da un alto campanile marrone. «Basta andare verso la chiesa,» disse l'uomo. «Non sei contenta di avere un po' di tempo per te, di vedere un po' di facce nuove?» «Sì.» Rachaela scese dal furgone con in spalla la pesante borsa che conteneva solo le cose strettamente necessarie. Restò lì, disorientata, mentre il furgone azzurro si richiudeva come un'ostrica e ripartiva. «Be' era simpatica laragazza.» «Non ha parlato molto di sé.» «Un po' musona.» «Adesso potrei solo mangiarmi un bel filetto.» «Bastoncini di pesce.» Il piano di Rachaela stava procedendo. Aveva pensato di raggiungere la città in cui ora. si trovava e da lì tornare a Londra. Non c'era nulla per cui fosse valsa la pena di restare, ogni cosa era da evitare. Era vero anche che il ritorno a Londra poneva dei problemi, dal momento che non c'era niente di sicuro, niente casa, niente lavoro, e che presto i soldi sarebbero finiti. Ma Londra era il mondo che lei conosceva. Ed era lontano dagli Scarabae. Era stata una follia avvicinarsi a loro. La prima parte del piano era andata meglio di quello che si aspettava. L'autista avrebbe potuto infatti negarle il passaggio, oppure Cheta e Carlo le avrebbero potuto impedire di andare stringendola come fosse una loro prigioniera. E così ora era libera. Libera in quella città. Provava un senso di agorafobia, quasi di paura. Era stata chiusa nella penombra colorata della casa così a lungo, uscendo solo per andare sulla spiaggia o in mezzo alla brughiera, che ormai le strade e la città le parevano un mondo alieno. La via in cui si trovava era lunga e su entrambi i lati si affollavano case che salivano verso la collina.
La gente si affrettava portando cestini e buste di plastica o spingendo carrozzine. C'era un intenso viavai di macchine. Questo brulicante movimento in ogni direzione diede a Rachaela la sensazione che il terreno le girasse sotto i piedi. Ma sarebbe stato incredibilmente stupido lasciarsi influenzare da simili sciocchezze. Così si mise a camminare verso il campanile della cattedrale. C'erano molti negozi e il marciapiede pullulava di folla. Rachaela sentì un bambino gridare e una tavoletta di cioccolato le andò a finire fra i piedi. «Sammy, te l'avevo detto!» A un certo punto la strada svoltava per immettersi in un'altra via. Sulla sinistra si vedeva il campanile, ma non c'era nessuna via che portasse in quella direzione. Rachaela si fece coraggio. Avrebbe dovuto chiedere la strada. Al centro della città avrebbe sicuramente trovato qualcuno disposto a darle delle informazioni. «Mi scusi, come si fa ad arrivare alla chiesa da qui?» La donna la guardò come se avesse avuto di fronte un imbecille. «Basta andare fin laggiù, attraversare e poi salire.» «Grazie.» Rachaela attraversò la strada e prese un vicoletto. La folla che lo percorreva le si accalcava addosso e passava oltre. In un minuscolo ufficio postale erano esposte cartoline della città. Due o tre turisti fuori stagione si erano fermati a guardarle, congestionando ulteriormente la piccola stradina. Rachaela emerse dal vicolo. C'era un attraversamento pedonale e una strada che andava su per la collina. Oltre i tetti riapparve il campanile insieme a parti del tetto della chiesa. La folla continuava a muoversi e a spingere. «E io gli ho detto, vai al diavolo!» «Che cosa si aspettava?» A differenza dei due del furgone, lì la gente parlava con l'accento della città. Forse Rene e il sognatore di manzo vivevano lì da pochi anni, subendo l'ostracismo della gente perché forestierri. La strada terminava con una biblioteca pubblica, un edificio di pietra grigia visibilmente chiuso. La strada correva in entrambi i sensi ai piedi del campanile, ancora in parte nascosto dai tetti della case. Rachaela svoltò a sinistra e cominciò a percorrere la strada. C'erano curiosi negozi con vivaci vetrine piene di merci dei giorni di festa, caraffe
per il latte dipinte, animali intagliati nel legno, e le prime uova di Pasqua. Un poliziotto gironzolava per la strada. Rachaela diffidava delle uniformi, ma anche questo era da stupidi. Era stata fortunata a incontrarlo. «Mi scusi.» «Sì, signora.» «C'è un treno per Londra in questa città?» «Certo, signora. Deve solo cambiare a Fleasham e quindi a Poorly, dove c'è la linea per Londra. Un servizio non molto regolare, purtroppo.» Certo, chi mai avrebbe voluto lasciare quella graziosa città per un posto come Londra? Sarebbe stato più facile partire dall'altra stazione, quella in cui era arrivata, perché avrebbe dovuto cambiare un solo treno, ma quel posto era circondato dal nulla, e poiché Rachaela non era in grado di localizzarlo, era sicura che non sarebbe mai riuscita a farcisi riportare. Avrebbe potuto ritrovare la ditta da cui era stata noleggiata la macchina che era venuta a prenderla, ma non ricordava di averne visto il nome. E poi gli Scarabae avrebbero di sicuro immaginato che avrebbe tentato la fuga da quella stazione, e magari avrebbero mandato qualcuno a intercettarla, come avevano già fatto. Qui invece c'era la folla, c'erano i villeggianti fuori stagione. Gli occhi le tornarono sulle uova di Pasqua. Stava per arrivare la primavera? E la primavera le avrebbe portato un nascondiglio? «Può indicarmi la strada per la stazione?» «Sì, signora. Ma posso anche dirle che oggi da Fleasham non c'è coincidenza per Poorly, e non ce ne saranno fino a venerdì.» Rachaela non osò chiedere che giorno era. «Ad ogni modo, dove si trova la stazione?» «All'inizio di Wagon Street. Superando il fiume da Saint Bees.» «La chiesa invece è laggiù.» «Sì, signora.» «È da un po' che cerco di arrivarci.» Ma aveva importanza ora? Sì, ne aveva, doveva trovare l'orientamento. «Arrivi fin laggiù, giri a sinistra all'altezza del Baker's Arm e andando sempre dritto se la troverà davanti.» «Grazie.» Rachaela non gli credette. Ma siccome il poliziotto poteva vederla, si mise comunque a camminare nella direzione indicatale. Il modo in cui l'uomo aveva parlato del venerdì lasciava intendere una
lunga attesa. Certo non si poteva pensare che il furgone avesse fatto la consueta visita al triste villaggio di domenica, giorno di riposo; mentre i borbottii dell'anonimo autista riguardo la scorpacciata di carne di manzo sembravano più vaneggiamenti che non sintomi di un pranzo domenicale. Forse era lunedì. Ma la folla era densa, sia di uomini che di donne, molti passeggiavano con indolenza, ed era l'una del pomeriggio. Che fosse sabato? Rachaela raggiunse il Baker's Arm, un pub verde coccodrillo dal cui interno veniva un ronzio di frullatori. Una strada più stretta, costeggiata da alberi, conduceva a una piazza con la pavimentazione a ciottoli. Doveva essere la direzione giusta. Al termine della strada, infatti, si aprì la piazza, tutta bordata di negozietti ancora più strani e invitanti, pieni di oggetti curiosi e pupazzi di pelouche. In fondo alla piazza la cattedrale affrontava il presente: una struttura marrone come la melassa con la facciata butterata di incisioni e le escrescenze dei doccioni che si protendevano pericolosamente verso il suolo da altezze vertiginose. Sulla piazza c'era un albergo. Era troppo elegante e di sicuro troppo costoso, ma ebbe l'effetto di spingere i pensieri di Rachaela nella direzione giusta. Avrebbe dovuto trovare un rifugio fin quando non fosse partita. Stabilito questo, il piano si era solo allargato, non era fallito. Alle quattro del pomeriggio Rachaela era riuscita a trovare una piccola pensione dove servivano anche la colazione. Si trovava in un groviglio di stradine alle spalle della chiesa, un edificio intonacato di epoca georgiana a cui se ne affiancavano altri, ancora un segnale della meta di quella fuga: Londra. Quando lo aveva trovato, Rachaela era al limite delle proprie risorse. Affamata e incredibilmente stanca, si era lasciata andare sul misero lettino rimanendo distesa e con gli occhi chiusi. Sarebbe dovuta uscire per cercare qualcosa da mangiare. Quelli della pensione si erano rifiutati di prepararle un sandwich; nelle camere servivano solo la colazione, tra le sette e mezza e le nove. Già si avvicinava il buio, il giorno luminoso si chiudeva dentro nuvole plumbee. Dalla finestra della stanza si vedeva un cortile, delle tubature, e di fronte una finestra velata da una tenda bianca che ovviamente offriva la stessa visuale: cortile, tubature, finestra. Uno scorcio immateriale. Rachaela aveva scoperto che giorno era guardando sul registro della pensione: martedì. Solo due giorni dunque, poi il
treno per Fleasham, quello per Sickly o Poorly o come diavolo si chiamava, e infine la capitale. Dove si sarebbe una volta per tutte sottratta agli Scarabae, con i loro intimi ed eccentrici roghi di cadaveri sulla spiaggia. Dove si sarebbe sottratta all'uomo che pretendeva di essere suo padre, l'uomo che con il suo fuoco nero l'aveva ustionata, spingendola alla fuga. Rachaela provò a regolare il respiro, aveva il petto talmente rigido che le faceva male. L'eccitazione si placò. Ma non c'era nulla da temere. Come avrebbero fatto a trovarla? Lei stessa si era persa a forza di girare per le vie di quella città spettrale e di entrare nei negozi per chiedere informazioni. Si era anche seduta a un caffè ma non era riuscita a bere il tè né a mangiare il dolce. Si doveva calmare, ormai ce l'aveva fatta. Non aveva nulla da temere. Alle otto uscì dalla pensione e si diresse verso il piccolo caffè in fondo alla strada. Ordinò omelette e patate fritte, e con l'aiuto di un bicchiere di vino riuscì a mandare giù qualcosa. Non aveva voglia di rientrare nell'angustia di quella stanza anonima, ma non aveva scelta, e non le andava neanche di rimettersi a vagare per la città affollata di gente. C'erano dei riflettori puntati sulla chiesa... Saint Bees by night. Gli occhi bianchi delle macchine lampeggiavano e sfrecciavano via. Gli abitanti della città e i turisti passeggiavano lì intorno ridendo e gesticolando. Rachaela si sentiva in un paese straniero. Aveva dimenticato come era fatto il mondo. Cosa le aveva detto Adamus? La casa è la mia prigione. Ma sono bastati due anni fuori dalla mia prigione per farmi odiare il mondo.... Avevo bisogno di tornare al mio universo. Ma a lei non mancava la prigione della casa. No. Aveva lasciato tutti i libri, tranne due. Era stata una decisione estrema, disperata. Si trattava di libri molto significativi, difficili da procurarsi, forse aveva fatto male. Forse un giorno sarebbe riuscita a recuperare quei beni abbandonati, a meno che gli Scarabae, mancando lei, non avessero imprigionato i suoi oggetti. Ma una cosa era certa: non avrebbe più avuto alcun contatto con la famiglia.
Qual era stata la vera causa della sua fuga? Sylvian o Adamus? O qualcos'altro di più insidioso? A quell'ora le lampade e le candele erano sicuramente accese. Anna e Stephan dovevano essere a cena: gabbiano in fricassea. Avrebbero anche potuto mangiare quello gettato da Eric nel rogo di Sylvian, che malgrado tutto si poteva considerare un dono. Cosa si sarebbero detti Anna e Stephan? Rachaela se n'è andata. Aveva inferto un colpo terribile? Ma non aveva voglia di pensare a loro. Rientrò nella stanza della piccola pensione. Il bagno si trovava in fondo al corridoio, ma le avevano detto che in quel periodo dell'anno non c'erano altri ospiti, quindi lo avrebbe avuto tutto per sé. Fece un bagno, si depilò e si lavò i capelli, temendo per tutto il tempo che qualcuno venisse a bussare alla porta, malgrado le rassicurazioni che le erano state fatte. Infine si lavò la biancheria e la riportò nella stanza per metterla ad asciugare. Il riscaldamento era tiepido. Si mise a letto, ma aveva freddo. Sulla città prese a cadere la pioggia, e Rachaela se ne rallegrò. Tutto quel brulicare al pub e quelle cene a base di pizza mandati all'aria da una spruzzatina d'acqua. Il rumore delle macchine che investivano le pozzanghere si fece incessante. A mezzanotte sentì i rintocchi dell'orologio della chiesa. Faceva la stessa ora del suo, ed era martedì. Nello specchio sopra la cassapanca Rachaela vedeva riflessa la propria immagine. Stava tutta raccolta in posizione fetale, tremando per il freddo in quel letto ghiacciato. Buona notte. Al mattino fu svegliata dal fracasso degli spazzini davanti alla pensione. Erano le sette e mezza. Rachaela si alzò e si vestì, e alle otto una ragazza impiastrata di cipria e rossetto le portò una misera colazione: panini e caffè caldo. Il caffè, ancora caldo, era un piacere. Sì, era un vero piacere. E ora, che avrebbe fatto di quella giornata?
Poteva nascondersi, certo, come una spia in un romanzo, ma il solo pensiero di stare in clausura in quella stanza per altre dieci ore e forse più, la portava sull'orlo di un leggero isterismo. Inoltre, dovendo rifare la stanza, i gestori della pensione si aspettavano che gli ospiti si assentassero. Doveva perciò assentarsi. Tolse dalla borsa le cose più pesanti e le mise nel cassetto della cassapanca. Lo spazzolino e il dentifricio, le creme e altre cose stavano sul piano del mobile come tanti soldatini. Dovette lottare contro il desiderio di portare tutto con sé. Fuori la giornata era di un giallo ingrigito. Sui marciapiedi marciavano gli ombrelli. La folla non era diminuita, uomini con buste di plastica e donne con passeggini, bambini infagottati in involucri di polietilene che guardavano sprezzanti gli adulti schiaffeggiati dal vento e poco coperti che sarebbero diventati anche loro. Rachaela procedeva con attenzione, cercando di tenere in mente un abbozzo di mappa. Entrò nei negozi a guardare oggetti d'antiquariato vecchi di cinquant'anni, giacche di lana, anitre azzurre con fiori sulla schiena. All'ora di pranzo entrò in uno snack bar, e ordinò un'insalata asciutta con del prosciutto ancora più asciutto. Ma era da un po' che non mangiava prosciutto. Lo trovava salato, grasso. Aveva dimenticato che era fatto così. Poi di nuovo in mare. Andava tutto bene. Le rimaneva solo quel giorno, il giorno dopo, e finalmente avrebbe potuto prendere il treno. Voleva cercare la stazione. Alle spalle della chiesa, superato il fiume, Wagon Street. Aveva memorizzato l'indirizzo della pensione perciò ritrovò la strada. Nella città c'erano delle rovine romane. Le aveva cercate con un po' di pigrizia, e non le aveva trovate. La stazione era più importante. Raggiunse il fiume, ampio e giallastro come il cielo e solcato da barche leste e lucenti e da altre malconce e moribonde. Sul fiume si incurvava un ponte, e oltre il ponte si apriva un groviglio interminabile di strade che si intersecavano l'un l'altra. Rachaela dovette chiedere indicazioni una ventina di volte. Ormai ne era certa, c'era gente in quella città che la mandava nei posti sbagliati: era forestiera e andava tormentata. Finalmente, a un quarto alle quattro, riuscì a trovare Wagon Street, e quando vide la facciata in ferro e muratura della stazione fu come se avesse visto El Dorado.
Accelerando il passo entrò nell'edificio. Era tutto molto lindo e plastificato, con molti contenitori per i rifiuti e i gabinetti con le targhette come quelle di Londra, con la donna con una gamba sola. Alla biglietteria non c'era nessuno. Nessuno sull'ampia e ventosa banchina su cui l'oscurità cominciava a spiegare le ali. Alla fine Rachaela bussò a una porta su cui era scritto "Riservata al personale". Nessuno rispose. Era come se la stazione fosse stata solo un dono propiziatorio, se l'avessero messa lì solo per dimostrarle che era possibile scappare, e di fatto non fosse operativa. Chi mai avrebbe desiderato partire? Non un treno che passasse su quei binari lucenti, non una luce che cambiasse. Dai gabinetti non si sentiva nessuno scroscio d'acqua e i contenitori per i rifiuti erano vuoti. Ma cosa le importava? La stazione esisteva, era lì, e se ne poteva usufrurire. Venerdì ci sarebbe venuta prestissimo, prima delle otto, rinunciando anche alla tiepida colazione, se fosse stato necessario. Avrebbe aspettato e se fosse stata costretta avrebbe interrogato il conducente di ogni treno che si fosse fermato. Fleasham, Poorly, e poi la grande città cieca e indifferente che ti inghiottiva e ti seppelliva. Era proprio così, si veniva sepolti. Rachaela lasciò la stazione fantasma e si mise con cautela sulla via del ritorno. Il sole stava tramontando in un ghetto di nuvole. Nelle strade scivolavano ancora gli ombrelli. Si perse tre volte prima di ritrovare la pensione. Ciò nonostante riuscì ad arrivarci. In camera ogni cosa era al suo posto, il letto era stato rifatto con una precisione sciocca e inamidata, strizzato nelle coperte come in un corsetto. Rachaela si era disfatta del mercoledì. Restava solo la sera, la notte, e il giovedì. Ce l'avrebbe fatta. Alla casa stavano accendendo le lampade. Lo stavano portando giù alla spiaggia. Non c'erano scalini, ma una lunga discesa. Lo trascinavano Carlo e Michael. Alle loro spalle Camillo, i lunghi capelli bianchi che gli danzavano sulla schiena. Alice aveva un topo sul cappello. «Non devi piangere,» le diceva Anna. Ma lei non piangeva, non versava lacrime, libera da tutto. Lo avrebbero cremato. Ne avrebbero bruciato il corpo snello, le mani a-
gili, il volto ossuto, il cordone nero dei capelli. Il fuoco nei suoi occhi, questa volta per davvero. Sarebbe stata costretta a vederne il teschio, dopo il fuoco e prima che il mare venisse areclamarlo. Ma voleva sapere, e soloquel teschio poteva dirle qualcosa. Erano sulla spiaggia. Adamus giaceva tra i legnetti e i ceppi. Michael e Carlo trascinavano il pianoforte verso il suo corpo. Rachaela si svegliò. Era notte fonda. Le macchine tacevano. Riusciva quasi a sentire il meccanismo dell'orologio della torre che girava silenziosamente verso il mattino. I rintocchi suonavano solo a mezzogiorno e a mezzanotte. Tastando alla cieca trovò l'orologio, e alla fioca non-luce che filtrava dalla finestra riuscì a leggere l'ora: erano le quattro. Perché aveva sognato che Adamus era morto? Perché lo temeva. La sua morte sarebbe stata la soluzione adatta. Nel sogno aveva sentito qualcosa di terribile: non era dolore né senso di perdita, era qualcosa di molto peggio. Si rimise a dormire. Quando si svegliò erano le sette e mezza e una luce verdastra furtiva come un topo strisciava lenta verso la finestra. Al mattino andò a fare sontuose compere: un golfino di lana beige, un pacchetto di mutandine di cotone, un paio di collant, e un libro di una collana economica. Poi comprò una capiente borsa nera per metterci tutto dentro. A Londra avrebbe dovuto comprare vestiti, altri libri e una radio, ma ci avrebbe pensato quando si sarebbe sistemata. Aveva ancora un po' di soldi, ma si sarebbe trovata un altro lavoro. Sarebbe andata bene qualunque cosa. Col passare di quei giorni, seppure così pochi, il pensiero delle urgenze che avrebbe incontrato a Londra era diventato qualcosa di remoto, a cui pensava in termini di "quando" e "se". Prima doveva arrivarci. Il giorno si inclinava, vacillando lentamente di ora in ora. Rachaela mangiò un'altra insalata allo snack bar, che era economico, poi fece una passeggiata e andò a sedere sulla riva del fiume. Il pomeriggio era luminoso e sul fiume c'erano delle anitre che non aveva visto prima. Il pane per le anitre e una mano calda che stringeva la sua. Era quasi un ricordo, ma illusorio e tardivo. Si imbatté in un cinema ed entrò a vedere il film. Voleva essere un film
divertente, e ogni tanto i vecchi pensionati seduti nelle prime file scoppiavano in una risata lamentosa. Come erano diversi dagli Scarabae... quanto più giovani di loro. Acciaccati e ingobbiti, curvi e doloranti, questi vecchi ispiravano compassione; gli Scarabae no, neppure Sylvian sulla pira. Rachaela uscì dal cinema prima che il film terminasse. Sia l'orologio della cattedrale che il suo segnavano le cinque. Il giovedì era quasi passato. Rachaela si sentì rinvigorita all'idea del venerdì, anche se quel pensiero le procurava un po' di disagio. Sarebbe stato come uno strappo, un taglio di forbice, una separazione che sarebbe avvenuta nel momento in cui il treno si sarebbe mosso. Cosa avrebbe provato allora? La sua prigione, scomparsa. La sera riempì con cura la nuova borsa nera dei pochi oggetti che si era portata nella fuga. Poi uscì e andò a mangiare degli annacquati spaghetti alla bolognese al solito caffè. Il vino, che sapeva di aceto, non la aiutò a mangiare, ma le procurò una leggera sbronza di circa mezz'ora durante la quale tutti gli ultimi eventi le apparvero comici. Questa euforia si trasformò in depressione proprio al momento di andare a letto. Cercò di leggere il libro che aveva comprato, ma la realtà era onnipresente e lei non riusciva a sospendere la propria consapevolezza. Chissà se Adamus aveva saputo che se n'era andata. Gliel'avevano detto? E lui come aveva reagito? Probabilmente con sollievo. Era tutto un rituale, qualcosa che la famiglia lo costringeva a fare. E quegli attimi di fuoco davanti al camino... erano il frutto di un impulso di Adamus, o facevano parte anche quelli del rituale? Come poteva pensare a lui come a un padre? Lui non lo era mai stato. Adamus era un estraneo, e il fantasma dei suoi sogni a occhi aperti. Era stata lei a provocarlo, e se fosse successo qualcosa, sua sarebbe stata la colpa. Rachaela si addormentò e sognò Sylvian sul fondo del mare, a dieci metri di profondità, con i pesci che entravano e uscivano dalle cavità degli occhi. Il sogno trasmetteva un senso di pace. Quando si svegliò capì il significato di quanto avevano fatto. Sylvian era morto, che senso aveva preoccuparsi di che fine avrebbe fatto il suo corpo? Dopo tutto non avevano fatto altro che cremarlo, una cosa igienica e moderna. Capì allora che non stava fuggendo dal rogo funebre della spiaggia e neanche da quell'uomo o da ciò che era stato sul punto di accadere con lui, ma solo dall'angustia di quella casa. Stava fuggendo dalla sicurezza, e si lasciava dietro i vestiti, la radio e i libri come una bambina di sei anni che scappa di casa.
Era venerdì. Rachaela aveva pagato il conto alla pensione la sera prima. Ora doveva solo alzarsi, vestirsi e andare. Non volle la colazione, aveva lo stomaco in subbuglio. Bevve dell'acqua che sapeva di sostanze chimiche, fece una visita allo scomodo bagno, e fu pronta per uscire. Alle sette meno un quarto era giù in strada. Anche questo mattino era piovoso, le strade erano lucide come la pelle delle foche, un paio di lampioni erano rimasti ancora accesi, disorientati dalla giornata buia. Le macchine sguazzavano avanti e indietro come al solito. I negozi erano vuoti. Le persone cominciavano a emergere dalle case, come frotte di conigli impauriti andavano al lavoro, mentre autobus illuminati si riversavano nelle strade. Ormai Rachaela conosceva la strada. Superò con sicurezza il fiume e si infilò nel groviglio di strade che lo sovrastava. Sbagliò solo una volta, prima di raggiungere Wagon Street. Erano le otto e dieci, ma chi le assicurava che l'unico treno della settimana per Fleasham non partisse prestissimo? Forse non aveva calcolato bene i tempi. Entrò di corsa alla stazione. Grazie a Dio sulla banchina c'era gente, anzi ce n'era su entrambe le banchine, tutti in piedi come in attesa dell'esecuzione, chini e rassegnati in mezzo a ombrelli sgocciolanti e giornali umidicci. Alla biglietteria c'era un uomo. «A che ora parte il treno per Fleasham?» L'uomo la guardò accigliato: «Quale treno?» «Quello per Fleasham. C'è solo oggi, va a Poorly, devo arrivare a Londra.» «Ah, allora è il treno per Bleasham che ti serve.» L'uomo tirò fuori una bibbia che consultò. Per quanto ne sapeva Rachaela la corsa poteva anche essere alle sei del pomeriggio. Ma non le importava, poteva aspettare. «È alle dieci e tre quarti.» Rachaela fece un sorriso. «Allora non l'ho perso.» La risata che fece l'uomo le ispirò fiducia. «Be', in un certo senso l'hai perso. Questo treno passa il martedì, non il venerdì. Quello di oggi è un altro.» «Non c'è altro modo di arrivare a Poorly?» domandò Rachaela. «Non con il treno. E comunque prima di martedì da Poorly non parte
nessun treno per Londra. C'è solo il martedì e il giovedì, alle undici e un quarto.» Il giorno in cui Rachaela aveva chiesto le informazioni al poliziotto, quel giorno era martedì, e lui le aveva detto che il treno sarebbe passato il venerdì. Le piombò addosso come un carico di mattoni. Non aveva dove andare e avrebbe dovuto aspettare ancora altri quattro giorni. Be', avrebbe aspettato, che altro poteva fare? Non ringraziò l'uomo della biglietteria, radioso di contentezza nel darle tutte quelle cattive notizie. Avrebbe sicuramente raccontato l'aneddoto ai compagni di lavoro: «Prima è venuta una scocciatrice che voleva andare a Bleasham per prendere la coincidenza per Poorly, e pretendeva che il treno passasse oggi solo per lei e i suoi dannati comodi. Io gliel'ho detto, niente fino alla prossima settimana.» Rachaela si sarebbe cercata un'altra pensione; no, non sarebbe tornata in quella di prima. Certo era uno spreco di soldi preziosi, ed era anche uno spreco di giorni; avrebbe sciupato un venerdì e un sabato, giorni orrendi e chiassosi, una noiosa domenica riecheggiante di campane, e lunedì le sarebbe rimasto solo un giorno. Sempre che le cose che le aveva detto quest'ultimo fossero vere. Appena uscita dalla stazione la colse un fremito di paura. Ma non era paura della casa degli Scarabae, né delle loro persecuzioni, era paura della città, delle sue strade e della sua gente, delle macchine, di un'altra camera che affacciasse su tubi di scarico e tendine da glaucoma. Non essere stupida. Va tutto bene. Non era vero. Non ce la faceva più. Sembrava che il mondo partecipasse a un complotto per fare fallire la sua fuga. Era entrata in un caffè, dove aveva tentato di mangiare del pane tostato e di bere una tazza di caffè. Era riuscita a mandare giù solo il caffè. Poi si era messa a cercare un'altra pensione, diversa dalla prima. La ricerca era stata infruttuosa, e, passo dopo passo, Rachaela si era ritrovata a camminare sui ciottoli ai piedi della cattedrale. Si fermò e alzò gli occhi verso i doccioni. Ci voleva poco a immaginare gli artigiani che lavoravano alla costruzione della chiesa, in abiti medievali sulle impalcature, intenti a scolpire diavoli, demoni, e mostri grotteschi, usando come modello il volto del capo-
mastro o della vecchia strega di turno. A guardare in alto le erano venute le vertigini, i doccioni si sporgevano in fuori, pronti a balzarle addosso. Pensò che sarebbe potuta entrare in chiesa e sedersi un po', al riparo dalla strada e dal flusso della folla, senza bisogno di mangiare, senza bisogno di fingere. Si trascinò con le due borse sotto il portico scolpito, attraverso il portone di legno. Appena fu dentro ebbe subito l'impressione di qualcosa di familiare, una sensazione di oppressione che le procurò tuttavia un innegabile sollievo. Erano le finestre colorate. Un enorme spazio buio riempito solo da legni lucidi e da un pavimento di pietra, e la luce intrappolata in gabbie di rosso, verde veronese e blu indaco e quindi sparsa in frantumi su ogni cosa. Perfino il profumo d'incenso ricordava l'odore polveroso della casa. Rachaela si avvicinò a un banco e si mise a sedere. In tutta la chiesa un dolce sussurrare, come all'interno di una conchiglia. Non c'era nessuno oltre a lei, neanche un turista ad ammirare l'organo e il coro, a guardare di sfuggita le finestre. Neanche una persona che pregasse. Ai piedi del banco c'erano dei cuscini ricamati per appoggiarvi le ginocchia. Rachaela ebbe un forte impulso di inginocchiarsi e pregare. Ma per cosa? Ricordò le preghiere a scuola, per le quali era sempre più irrimediabilmente in ritardo: Padre Nostro che sei nei Cieli... quel propiziarsi una divinità irascibile e gelosa di cui si invocava sempre la misericordia, e che in quanto a bisogno di lodi era peggio di un adolescente insicuro. Esisteva un Dio? Logicamente no. Nessuno su cui poter contare. Nessuno da comprendere o da implorare. Rachaela era sola, come sempre. E invece di appoggiarsi a Dio si appoggiava dolorante al banco. Le sembrava di essere stata torturata da capo a piedi, aveva la schiena e il collo irrigiditi dal dolore, e la testa cinta e lacerata da fili di metallo incandescente. Quattro giorni. Oh Dio, padre inesistente, ancora quattro giorni. Attraverso una finestra vide la luce scarlatta del sole squarciare una nuvola. Qui le immagini sui vetri non erano folli. Qui Cristo trasformava l'acqua in vino, i neonati galleggiavano, non annegavano, in mezzo ai canneti. E il leone giaceva insieme all'agnello. C'era un leopardo dentro la chiesa.
Si muoveva silenziosissimo, mantenendo una tale immobilità tra un passo e l'altro, che Rachaela non se n'era accorta ed era riuscita a calmarsi. Ma ora veniva verso di lei e Rachaela ne sentiva l'odore, pur non sapendo quale odore lo tradisse, lo udiva, pur non udendo alcun suono. Rachaela non si era ancora voltata. L'ombra del leopardo passò nel riflesso azzurro della Vergine, oscurandone la luce. Era arrivato. Era chiaro, dove altro avrebbe potuto aspettarla se non qui, al riparo dal sole, fra le ombre, dove sapeva che lei alla fine sarebbe venuta. O forse l'aveva capito sul momento, quando la mano di Rachaela aveva spinto il portone, quando il suo corpo si era accasciato sul banco della chiesa? Alla fine Rachaela si voltò, e vide Adamus che incombeva su di lei. CAPITOLO OTTAVO Una volta, all'età di circa cinque anni, Rachaela si era persa in un grande magazzino mentre era insieme alla madre. Alla fine qualcuno l'aveva presa per mano, e attraverso quel mondo gigantesco e brulicante l'aveva condotta fino al punto in cui la madre la stava aspettando. Rachaela aveva avuto l'impressione che la donna non fosse venuta lì per lei, e che non fosse stata affatto contenta che gliel'avessero riportata, infatti la sua prima reazione era stata quella di darle uno schiaffo. «Come facevi a sapere che sarei venuta qui?» domandò ad Adamus. «Ti piacciono gli edifìci antichi, i santuari.» «Da quanto tempo mi stavi cercando?» «Non da molto.» «E alla luce del giorno, addirittura,» disse Rachaela con malizia. Adamus indossava una giacca di pelle nera, che sarebbe stata troppo giovanile se lui avesse dimostrato la sua vera età. Ma Adamus non dimostrava la propria età. Non portava occhiali da sole. Li aveva sicuramente in tasca, pronti per il giorno. Contento della cortina di nubi? Purtroppo era appena spuntato il sole. «Non mi piace la luce,» disse, «ma riesco a sopportarla.» «E trovarmi era di vitale importanza.» «Ti eri perduta.» Quelle parole si adattavano perfettamente all'idea vaga che aveva Rachaela della propria situazione.
«No, non mi ero perduta. Volevo andare a Londra.» «È piuttosto complicato da qui, se ricordo bene.» «C'è un solo treno alla settimana e hanno sbagliato a dirmi il giorno, altrimenti sarei scomparsa.» «Allora avrei dovuto aspettare fin quando non saresti tornata.» «Non mi sarei mai più avvicinata a te.» «È quello che credi.» «È quello che so. Non riuscirai a farmi tornare con te. Se mi tocchi mi metto a gridare.» «Faresti chiasso.» «Lo farò, Adamus.» «Come suona medievale il mio nome in bocca a te. Interessante. Anna al massimo riesce a farlo sembrare vittoriano.» «Basta con questi giochetti. Andrò a cercarmi un albergo, e il giorno che ci sarà il treno lo prenderò.» «Va bene,» fece Adamus, «se è quello che vuoi.» «E così mi hai inseguita per niente.» «Solo per il piacere di vederti ancora.» Si mise a sedere accanto a lei sul banco. La sua figura buia oscurò la luce blu della finestra, le mani della Vergine in atto di benedire. Rachaela avrebbe dovuto spostarsi fino all'altro capo del banco e andarsene, ma era tremendamente stanca e non aveva dove andare. E poi lui l'avrebbe seguita, camminandole a fianco, forse l'avrebbe anche tenuta per il braccio come un gentiluomo. Quanta di quella luce grigia avrebbe potuto sopportare? Rachaela poteva solo sperare che si stancasse prima di lei. Aveva però il sospetto che non si sarebbe affatto stancato. «Devi lasciarmi andare,» gli disse. «Perché?» «Non hai diritto di fermarmi. Se insisti sarò costretta a rivolgermi alla polizia.» Ripensò al gentile poliziotto che le aveva fatto perdere il treno. «Non ho nessuna intenzione di portarti via trascinandoti per i capelli, scalpitante e urlante. Se volessi farti del male lo farei in altri modi.» Rachaela sentì l'interno del proprio corpo pulsare e agitarsi, mentre il sottile tegumento che lo avvolgeva restava freddo, impassibile. «Stai zitto!» fece Rachaela. «Non parlarmi.» Adamus tacque. Era calmo, forte, imponente, quasi come l'aveva visto in quei momenti infuocati nella stanza della torre. Non proprio in quel modo. «Me ne vado per davvero. Mi senti?» disse Rachaela.
«Posso parlare?» «Non posso impedirtelo.» «No, certo, non puoi. Se vuoi partire, parti. Dove vai a stare adesso?» «E credi che te lo direi?» «Hai pagato il conto in una pensione e devi ancora cercartene un'altra.» «Tu... mi hai seguita?» «No, Rachaela. E abbastanza ovvio, non credi? Hai pagato il conto, oppure, per quanto ne so, sei corsa via senza pagare, perché dovevi prendere il treno. Ma il treno non si è materializzato, ed eccoti seduta in chiesa con le tue due borse.» «Farò qualunque cosa per impedirti di venirmi dietro.» «Potrebbe essere divertente. Ma non temere, non ti verrò dietro. Me ne resterò seduto qui e ti lascerò andare. Aspetterò che passi un'ora, non mi sembri in grado di andare molto veloce.» «Facciamo un altro gioco. Ti copri gli occhi e poi ti metti a cercarmi: non mi troveresti.» «Non ci proverei. Mi basterebbe solo scoprire in che giorno parte il tuo treno e aspettarti in agguato sulla banchina.» «Fallo, e vedrai cosa accadrà.» «Non accadrà nulla. Ti darei un bacio sulla guancia e tu mi saluteresti dal finestrino. Breve incontro.» Rachaela cercava di respirare con calma. Era tremendamente eccitata, avrebbe voluto prenderlo a pugni. «Stai dicendo che quando uscirò dalla chiesa sarò sola?» «Completamente.» «Libera dagli Scarabae.» «No, non ti libererai mai dagli Scarabae. Sei una di noi, e la tua natura ti riporterà indietro.» «Vivrai con questa speranza.» «Lo so da quello che è successo a me. Sono fuggito e sono tornato. Per te è troppo tardi, sei già corrotta.» «E tu credi che preferirei essere murata viva in quel mausoleo... in quella tomba di casa?» «C'è qualcosa di meglio?» Prima che Rachaela riuscisse a eludere la domanda, il futuro le era improvvisamente balzato davanti agli occhi. I treni, la città, l'affannosa ricerca di qualche orribile lavoro, estenuante e mal pagato, una stanza chissà dove, il chiasso dei vicini, le strade brulicanti di gente, la lampante disso-
lutezza della capitale. Vide le giornate interminabili e le celle nere delle notti, vide la propria solitudine, e si affacciò sul panorama della vecchiaia, finora mai contemplato. Era senza risorse, senza provviste, aveva sempre vissuto come in attesa di soccorso, i soldi della madre, l'apparizione degli Scarabae. «Sarà la mia vita.» «Lo è, dovunque tu sia.» Questo era un fatto basilare. Rachaela sentiva che doveva alzarsi e uscire subito da quella chiesa: più restava, più aumentava il potere che Adamus esercitava su di lei. Stava tessendo la sua rete. Ma Rachaela era esausta e il cuore le batteva velocissimo. Non voleva andarsene. Era contenta che Adamus fosse lì, che le stesse accanto con tutto il suo vigore su quel banco di chiesa, proteggendola con le sue tenebre dall'azzurra santità della Vergine. La finestra rossa era diventata di un rosa cupo. Il sole si era nascosto ancora una volta. «Come sei venuto in città?» domandò Rachaela per tergiversare. «Ho noleggiato una macchina, in che altro modo? Credevi che mi sarei fatto tutta la strada a piedi, come il povero Carlo?» «E come hai fatto a chiamare la macchina?» «Di questo s'è occupato Carlo. O Cheta. Devono aver telefonato da qualche casa al villaggio.» «La macchina non è arrivata alla casa.» «Come ben sai, la strada non arriva fin lassù.» «Perché sei venuto tu e non gli altri?» «Sono io il giovane, non dimenticarlo, e sono quello che ha con te il legame di sangue più stretto.» «Il sangue,» fece Rachaela. «Il sangue della tribù.» «Io e te abbiamo un sangue diverso.» «In che senso?» disse ancora Rachaela. Seguì una lunga pausa. Rachaela lo sentì raccogliersi, come un animale sulle potenti molle degli arti. «Torna e lo vedrai,» disse infine Adamus. «Tu vuoi venire a letto con me. Ecco cos'è. Dici che sono tua figlia, ci credi, però mi vuoi scopare.» Con la coda dell'occhio vide Adamus voltarsi verso di lei. Come mossa da un meccanismo, anche la sua testa si girò fino a trovarsi faccia a faccia con lui. Il volto di quell'uomo fu un colpo, le tolse il respiro.
«Sì, ti voglio scopare. Torna con me e lasciati scopare.» «Finalmente sei sincero, bastardo.» «Sì, sono sincero, qual è il problema? A casa saranno tutti eccitati, ne esulteranno. È sempre successo, madri e figli, padri e figlie, fratelli e sorelle. Due terzi di loro sono nati da incroci del genere. Un'eccitante orgia privata che va avanti da secoli. I piaceri segreti della casa. Che altro ti trattiene? I principii della chiesa, della moralità, del mondo? Per te non valgono nulla. Vieni a me, e lascia che ti dia quello che vuoi.» «Non è quello che voglio.» Adamus tese una mano: dita lunghe, pallore osseo, e una leggera peluria nera, la mano si muoveva lenta. Era così lenta che Rachaela avrebbe avuto tutto il tempo di evitarla, e invece non fu abbastanza veloce, e la mano le afferrò la nuca affondando le dita nei capelli. Una scarica di elettricità liquida le attraversò la spina dorsale. Con il ghiaccio nello stomaco e la testa in fiamme, non ebbe modo di reagire. «Lascia,» disse, «lasciami...» L'ombra si lanciò verso di lei e le fu addosso con un movimento lento ma impetuoso, quasi violento. Gli occhi di Adamus erano due strali neri, lucidi e sfolgoranti. Rachaela sentì il sapore della sua pelle, di quella bocca fresca e ignota, e chiuse le palpebre. Era cieca, in preda a un vortice turbinoso che la rigirava in ogni direzione, e solo la pressione della mano sulla nuca la teneva ancorata nell'infuriare di quella tempesta. Raramente era stata baciata, ma non era mai stata baciata sulla bocca, e mai era stata assalita e posseduta in quel modo con un bacio. La bocca di Adamus si muoveva nella sua e Rachaela, abbandonato il capo, si lasciò trascinare in profondi abissi, troppo debole perfino per sollevare le braccia e avvinghiarsi a lui. Un precipitare senza fine in un oceano smisurato. Quando la bocca di Adamus si sollevò, la sua mano le stringeva ancora la nuca. Rachaela non riuscì a riaprire immediatamente gli occhi. Quando lo fece la chiesa era tutta una macchia di colori e un groviglio di luci. I volti candidi dei santi avevano assunto un aspetto insano e borioso, la loro purezza profanata. Il volto di Adamus era ancora calmo, si leggeva un cambiamento solo sulla bocca, con le labbra ora separate. Rachaela si voltò verso di lui sul banco, sollevò le mani, e lo prese per il bavero della giacca. «Baciami ancora.»
«Ancora?» le fece Adamus, e scoppiò a ridere come un ragazzino. Rideva ancora mentre la possedeva una seconda volta, e la sua risata morì sulla punta di un coltello. Il corpo di Rachaela riprese a girare vorticosamente. Lei si aggrappò alla giacca di Adamus per non cadere, e ancora una volta si immerse in acque abissali, abbandonandosi a quel naufragare. Gli si spingeva contro dissolvendosi nella sua carne, nella sua durezza, era persa, completamente persa. «Non fermarti.» «Non qui,» disse Adamus. «Dove allora?» «Dove pensi, Rachaela?» «Non m'importa,» rispose lei. «Vengo con te.» *** La macchina aspettava in una via laterale. Rachaela e Adamus la raggiunsero e vi entrarono. L'autista, senza curarsi di loro, mise in moto. Adamus non aveva indossato gli occhiali da sole. Sedeva cingendo Rachaela con un braccio. Quel braccio, la sua pressione, le faceva perdere la testa. Avrebbe voluto che la macchina si fermasse, e vedendo ai lati della strada gli alberi scheletriti avrebbe voluto essere sotto di lui in mezzo a un bosco nudo e senza foglie. Non aveva mai provato nulla di simile, solo delle vaghissime allusioni, fantasticherie. Moriva dalla voglia di ridere della stupidità dell'autista, che non sapeva, che era escluso. Non le importava che stessero tornando alla casa degli Scarabae. Che importanza doveva avere? L'unica cosa che le importava era potersi ancora abbandonare all'assalto di quelle labbra. Il paesaggio scorreva come un nastro. Il viaggio sembrava lunghissimo. Ma alla fine raggiunsero la casa, o piuttosto la strada ai piedi della collina, e quando Adamus ebbe pagato l'autista, alla luce di un mezzogiorno ombroso si avviarono su per il friabile sentiero. Emersi quindi fra le querce verdi e gocciolanti, apparve ai loro occhi la casa, e Rachaela tornò in sé. Ecco i tetti, le finestre, il cono della torre. «Sono di nuovo qui.»
«Lo hai voluto,» disse Adamus, senza provare a toccarla. «Sì, l'ho voluto.» Il suo corpo cominciava a dimenticare l'altro. Il fuoco, il gelo e la vertigine di quell'urgente desiderio erano svaniti. Rachaela si guardava come su uno schermo, ansiosa. Raggiunsero il portico e la doppia porta dell'ingresso. Per aprire Adamus usò una comunissima chiave. Entrarono quindi nell'atrio a scacchi, che era silenzioso e deserto. Anche questo le sembrava di osservare a distanza. «Non andare,» disse Rachaela. «Devi avere pazienza,» fece lui, «e ne devo avere anch'io. Di notte: è l'unica regola.» «Non ci sono regole, lo hai detto tu.» «Sì.» Come una ridicola sposina in luna di miele, avrebbe dovuto aspettare l'ora prestabilita. Ma non credeva alla storia della regola, questa era di sicuro una crudeltà o qualche altro dei suoi esperimenti. «Potrei cambiare idea,» lo provocò Rachaela. Adamus le stava di fronte e la guardava, e lei ne era tremendamente attratta, come se delle catene la trascinassero verso di lui. Fece un enorme sforzo per restare dov'era. «Non farlo.» «È una regola idiota e offensiva.» «Mi dispiace.» «Odio questa casa,» fece lei. «No. Vattene nella tua bella stanza verde e blu. Vai lì e aspettami.» «Sei una noia,» disse acida Rachaela. Adamus sghignazzò con l'aria di un ragazzino, la stessa che Rachaela aveva notato in chiesa, quando era scoppiato a ridere. Era possibile che un uomo anziano ridesse e sghignazzasse ancora in quel modo? Forse sì, forse nelle persone normali quella freschezza era solo nascosta e distorta dalla pelle raggrinzita, dagli occhi e dai denti ingialliti. «Mi desideri tantissimo ora,» disse Adamus. «Ne sono felice.» «Passerà.» «Spero di no. Fidati di me. Stanotte.» Rachaela si voltò e se ne andò per le scale, confusa. Eccola lì, di nuovo in quella casa. La stanza era esattamente come prima. Il letto rifatto, i mobili spolverati.
Nell'armadio c'erano i vestiti, sulla toletta la radio. Rachaela guardava le proprie cose con un placido stupore. Era istupidita da ciò che le era successo nella chiesa... in una chiesa... e con lui. Camillo le aveva detto che sarebbe fuggita e poi sarebbe tornata. Ma lei doveva arrivare fino a Londra, così era stato assurdo. Si mise a sedere accanto al focolare. Il fuoco comunque non era stato acceso: non erano certi che sarebbe tornata. Restò seduta in poltrona ad aspettare che la sbornia di Adamus le passasse. Era stata come la breve ebbrezza procuratale dal vino inacidito della sera prima. Questa era durata di più, ma solo perché aveva toccato Adamus più a lungo. Si era resa ridicola. Si era lasciata attrarre di nuovo in quella casa, e ora le sarebbe toccato rifare tutto daccapo. Ancora... Baciami ancora. Aveva detto queste parole. Una vampata di fuoco traboccò dal profondo del suo ventre per risalire fino al petto, alla gola, al viso. Era sbigottita di fronte a se stessa, alla propria banalità. Ma era anche sfinita; nella piccola pensione aveva dormito malissimo. Si alzò e accese la radio. La stanza fu riempita da una musica balsamica: quanto le era mancato il suo conforto. Si mise a letto, tirò su le coperte, e il volto dorato di Satana sfavillò sulle sue palpebre chiuse. Il letto era comodo e caldo, e Rachaela si addormentò. Quella sera fece un bagno, indossò una gonna e il golfino nuovo, e scese nella sala da pranzo. Non sapeva cosa c'era ad aspettarla, ma trovò solo Anna e Stephan. «Bentornata,» esordì Anna. «Siamo felici di vederti di nuovo qui.» «Devo esservi mancata,» fece Rachaela. «Sì, certo. Sei mancata a tutti.» «Tranne che a Sylvian.» «Oh, sì. Tranne che a lui.» «Sono scappata.» disse Rachaela. «Volevo comprarmi questo golfino.» «Avresti dovuto dirlo che morivi dalla voglia di andare in città.» «Morivo dalla voglia di andare a Londra.» «Londra è così lontana... Non puoi sbrigare i tuoi affari per posta? Se hai delle lettere Cheta le può portare al villaggio.» «Era una fuga,» disse Rachaela, «come avrete ben capito. Sono scappata come Adamus, e Adamus mi ha portata indietro persuadendomi con un ba-
cio paterno.» Anna sorrise e abbassò gli occhi. Stephan intonò un motivetto a bocca chiusa rimestando la minestra nel suo piatto. Era chiaro: sapevano tutto. «Non vi capisco proprio,» disse Rachaela. «Che importanza ha? A noi interessa solo che tu stia bene con noi.» L'impatto con la città era stato orribile, con tutta quella folla e la gente che le dava indicazioni sbagliate o le diceva cose non vere. Un vero e proprio incubo. La casa invece era un posto sicuro, che aveva un senso seppure assurdo. No. La casa era pura follia, solo il mondo esterno era reale. Dopo la minestra fu servita una casseruola di verdure con del formaggio tostato, e per dessert una mousse di uva spina. Rachaela mangiò con grande appetito. Il cibo le sembrò saporito e gustoso, ormai l'avevano indottrinata. Dopo la cena andò a sedere insieme ad Anna e Stephan davanti al camino del salone. Poco dopo arrivarono Alice e Unice: le fecero dei brevi cenni con il capo e si misero a lavorare a maglia. Eric, quello del gabbiano, vagava per il salone con un libro in mano. Jack e Dorian fecero una brevissima apparizione. Ma non furono i soli; per tutto il tempo Rachaela percepì con la coda dell'occhio un muto andirivieni di ombre nella stanza: doveva trattarsi di Miriam, Sasha, Anita, Teresa, Miranda e Livia, George, Peter. A un certo punto entrò anche Carlo portando della legna da ardere. Maria, Cheta e Michael avevano servito la cena. «Oh, Michael, bisogna accendere il fuoco nella stanza di Miss Rachaela.» «Abbiamo già provveduto, Miss Anna.» Il fuoco: il lusso, la comodità. Rachaela aveva smesso di desiderare Adamus. Ora avrebbe voluto solo essere una ragazzina che insieme ai cari vecchi nonni e alla grande micia abitava in quella casa calda e sicura con i letti come quelli delle bambole e le finestre dagli splendidi mosaici. Stammi lontano, pensò. Nulla avrebbe dovuto distruggere questo mondo fantastico, nulla di così assoluto come il sesso.
Mentre Unice sferruzzava, Anna cuciva e Alice consultava il modello, e il buon vecchio nonno Stephan fissava il fuoco, Rachaela pensò che era strano, strano come prima di quel giorno non avesse mai sentito veramente il sesso. Era come se ne fosse stata tenuta lontana, quasi non fosse stata una cosa adatta a lei. Non avrebbe mai immaginato di baciare ed essere baciata sotto gli occhi bianchi della Vergine. «Michael,» disse a un tratto Rachaela, «vorrei un altro bicchiere di vino.» Tutti i vecchi nonni che erano nella stanza sorrisero compiaciuti alla nipote prediletta. A lei sarebbe toccato il compito di mantenere viva la tradizione della famiglia, giacendo insieme al proprio padre. Rachaela si spogliò e si infilò sotto le coperte. L'orologio a forma di torre segnava quasi l'una, quindi erano più o meno le dieci e mezza. Ancora troppo presto per andare a dormire. Una timida sposina nella sua prima notte di nozze. Aveva chiuso a chiave la porta; era un segnale, un segnale necessario. Del resto Adamus aveva una chiave per ogni porta. Chissà, forse l'avrebbe fatta aspettare fino a mezzanotte. Rachaela cercava di non pensare a cosa sarebbe accaduto dopo, ma ogni tanto non poteva trattenersi dall'immaginare qualcosa, alternando sconcerto, paura e rabbia. A tratti riusciva perfino a trovare la cosa divertente. Aveva visto il volto di Adamus mentre faceva l'amore con il pianoforte. La radio era spenta: mandavano un melodramma, ma non c'erano melodrammi che la potessero catturare più di quello che lei stessa stava vivendo. Passò un'ora. La sola lampada accesa era quella sulla mensola del camino. Si sentiva il respiro del mare. Nel corridoio non era passato nessuno. La casa mormorava e cigolava, le finestre scricchiolavano nelle nervature di piombo. Ormai era chiaro. Non sarebbe venuto ad aprire quella porta. La notte sarebbe cominciata e terminata senza di lui. Attraverso le corde vocali il corpo di Rachaela produsse un suono, una protesta che la sua mente non aveva ordinato né permesso. Allora la maniglia si mosse e la porta si aprì. Fuori dalla stanza c'era il buio, e come sem-
pre il buio entrò con lui, sparso sui capelli e sugli abiti che indossava. Adamus entrò e richiuse la porta a chiave. Poi si fermò a guardare Rachaela. Sul suo volto non appariva nulla che lei potesse interpretare come affetto o desiderio. Era il volto di un sacerdote al momento del sacrificio. E lei... lei era l'altare su cui doveva compiersi il sacrificio, e verso cui Adamus si avvicinò spontaneamente. «Rachaela,» le disse, «vuoi la luce?» «Sì, voglio la luce.» Era entrato a piedi scalzi. Si sfilò il pullover dalla testa, sbottonò la camicia e la lasciò cadere a terra, poi con rapidità ed eleganza, come fosse stato un gesto praticato a lungo, si liberò dei pantaloni e degli slip. Alla luce della lampada e del fuoco il suo corpo era diventato un'icona, il candore della pelle trasformato in oro, la muscolatura lunga e snella, il ventre quasi concavo, le costole evidenti e come scolpite. Le gambe erano lunghe e forti come quelle di un corridore e le spalle più larghe di come apparivano quando erano nascoste dai vestiti. Una peluria nero-blu gli ricopriva il pube: e lì riposava il serpente che Rachaela aveva conosciuto solo dalla letteratura, da uno stupro e dalle sciocchezze che facevano i bambini quando erano piccoli. Come d'ambra, il serpente riposava morbido e quieto; il pensiero di Rachaela, il vederla sotto le coperte, non lo aveva ancora risvegliato. Quando fu nudo Adamus afferrò le coperte e le tirò piano fino a scoprire completamente il corpo di Rachaela. Rachaela immaginò che Adamus la stava vedendo come lei aveva visto lui, immersa nella luce dorata, i seni come due boccioli d'ambra, il vello del pube nero indaco, ma chiuso e segreto come quello dell'uomo non era. Adamus la guardò, e Rachaela vide il magico meccanismo del pene maschile ergersi e gonfiarsi fino a diventare una grossa verga infuocata come un tramonto. Rachaela si spostò su un lato del letto e Adamus si adagiò al suo fianco fendendo la luce dorata. Quando le fu accanto Rachaela conobbe un terrore primordiale, vecchio come le colline... molto più vecchio degli stessi Scarabae. «Ho paura.» «Sì.» Appoggiandosi su un gomito Adamus si protese su di lei. Il suo volto era austero, composto. Una creatura dalla doppia natura, la verga gonfia di desiderio e il volto di un prete. Le sfiorò le labbra con un dito, quindi chinò
la testa e spinse la bocca su quella di Rachaela. Mentre le dava questo bacio casto e freddo, con la mano libera si scioglieva qualcosa dietro la nuca. Una cascata di pioggia nera si riversò su Rachaela: i capelli di Adamus, ora sciolti, le inondarono il seno come un diluvio di seta grezza. «I tuoi capelli,» fece Rachaela, «i tuoi capelli,» e sollevò le braccia per riempirsene le mani; il baciò allora cambiò, e diventò come il bacio che si erano dati dentro la chiesa. Un terrore divampò in lei, fino a sommergerla. No, non era affatto terrore. Quando la bocca di Adamus lasciò quella di Rachaela lei si voltò per cercarla ancora e una ciocca di capelli che sapeva di notte le sfiorò le labbra. Rachaela la strinse quando sentì che la bocca di lui scendeva lungo il collo e arrivava fino al seno. La lingua di Adamus lasciava tracce incandescenti sulla sua pelle, e quando le strinse i capezzoli fra le labbra il corpo di Rachaela fu percorso da un dolcissimo tremito. Una corda d'arpa le vibrò fra le gambe, catene di stelle corsero su autostrade di piume e di luci dai capezzoli al ventre, alle piante dei piedi, al cervello. Il corpo sodo e levigato di Adamus scivolò sul suo e lei sentì il tocco vellutato del pene turgido sfiorarle il ventre, le cosce... Poi le posò le mani sul seno, dove prima era stata la bocca. La musica divenne tumultuosa, lampi di fuoco che guizzavano. Con il volto crudele come quello di un angelo, Adamus si inginocchiò in preghiera fra le sue cosce e abbassò la testa. Cominciò un ritmo simile a un respiro. In un attimo Rachaela si sentì sciogliere le viscere e tutto il suo corpo fu pervaso da lunghe onde di pura estasi. Rachaela gemeva e si dimenava sul letto in preda a un'agonia di piacere, il fuoco negli occhi e una musica nelle orecchie, come l'eco del mare in una conchiglia. La lingua di Adamus descriveva vallate, colline, anse di fiumi, e ondate oceaniche di piacere travolgevano Rachaela. Si sentì gridare, come se lo spasmo che la scuoteva l'avesse espulsa dal suo stesso corpo. Poi Adamus si adagiò di nuovo accanto a lei, guardandola e accarezzandole con delicatezza le costole e lo stomaco. Rachaela lo fissava, non voleva parlare. Il movimento lento della mano di Adamus la placò e Rachaela si sentì
come alleggerita di un grosso peso. Dai piedi della scogliera giungeva incessante il cupo ruggito del mare. Adamus le prese una mano e la guidò fino al turgore del proprio sesso. Rachaela cominciò a toccare quel totem con cautela, acquistando confidenza man mano che lo vedeva fremere e allungarsi, e giocandovi come Adamus aveva giocato con lei. Adamus si sdraiò sulla schiena e lei si allungò su di lui, posando la bocca sulla sua e separandogli le labbra con la lingua. Dove le loro carni vennero a contatto, Adamus e Rachaela divennero una cosa sola, e lei si abbandonò a lui, a se stessa, e al proprio istinto. La chioma di Adamus era sparsa sul cuscino come un drappo nero. Rachaela vi fece scorrere in mezzo le mani, che poi scesero ad accarezzargli i fianchi. Adamus la afferrò e la rivoltò sulla schiena, e rigirandosi su di lei le coprì con il manto nero dei capelli i fianchi e le gambe. Rachaela sentì ancora il dardo appuntito della sua lingua che come una fiamma le lambiva le parti più intime del corpo. Allora prese a baciargli l'addome e la solida cavità dell'ombelico. La sua lingua si muoveva in magica sintonia con quella di Adamus. Quando la bocca trovò la verga infuocata ne saggiò la lunghezza, assaporandone poi la testa scura e torreggiante come fosse stato un frutto dalla buccia morbida e gonfio di succo. Si era completamente abbandonata a lui, alla sua pelle, al sapore della sua carne, al dolcissimo supplizio che le infliggeva con la bocca e con le dita. Tutto il resto era scivolato nell'oblio. E Rachaela non era più altro che un groviglio di sensi quando Adamus si rigirò e si adagiò su di lei, allargandole le cosce con tenera violenza. La paura era svanita, e lei si aprì alla sua invasione. Malgrado questo si senti forzata e lacerata. La sua unica esperienza con gli uomini era stata un'inutile lotta alla luce del neon. Già una volta era stata dilaniata, ora veniva dilaniata per la seconda volta, ma non le importava. Costringendo il proprio corpo ad aprirsi lo spinse contro il membro di Adamus. Il piacere fu squarciato da una fitta lancinante, a cui seguì un dolore ancora più profondo, simile a un tuono. Rachaela emise un gemito e rimase sotto di lui, piena del suo sesso, impalata. Adamus le baciò la bocca e il seno, e lei fu ancora inondata dalla dolcezza del piacere.
Quando Adamus ricominciò a muoversi, il dolore si trasformò in una piacevolissima frizione. Rachaela premette di nuovo il proprio corpo contro il sesso di Adamus, ne fu lacerata, e tornò ancora a spingersi contro di lui. Poi, sul punto di sprofondare nel caos, gli si avvinghiò afferrandolo per il torace e i capelli. Il volto di Adamus sul suo non era che un'ombra, ma lei ne vide lo stesso la bramosia, che uguagliava la propria. Adamus si immerse ancora in lei e sotto il suo peso Rachaela sprofondò nel letto come se fosse stato di sabbia. Lei si mosse con un balzo per ricevere il suo attacco. Il dolore era svanito in un delirio di piacere che cresceva sempre più. La bocca di Adamus scivolò dalle labbra alla mascella di Rachaela, e in un attimo le fu sul collo. In quel vortice tumultuoso una seconda invasione, il morso tagliente e implacabile di due denti; Rachaela cercò di gridare il nome di Adamus ma il grido le morì in gola. Il sangue fluì nella bocca di Adamus come un filo di seta estratto dalle vene. Adamus si avventò su di lei con la furia di un leone, penetrandola con violenza mentre le sue labbra le succhiavano la vita. Rachaela si sentì sciogliere fin dentro le viscere. Questo era un vero cataclisma rispetto a ciò che aveva provato poco prima. Travolta da un vortice di piacere folle Rachaela si mise a gridare, mentre lampi di luce e buio le investivano gli occhi. Era una crocefissione, un completo dissolversi nel piacere. E mentre si abbandonava a quel vortice, sentiva Adamus che si immergeva in lei come una meteora infuocata, lo sentiva mentre le succhiava il sangue dalla gola. «La lampada si sta spegnendo,» disse Rachaela. «Cheta non ha messo abbastanza olio.» «Non ti muovere,» disse lui. Continuava a toccarla anche ora, sfiorandole con le mani tutto il corpo, accarezzandole il seno, lisciandole i capelli. Un piccolissimo fiore di sangue, come quello che aveva ricamato Anna, era apparso sul cuscino. «Come una vergine,» disse Rachaela. «La prima volta ho sanguinato per
una settimana.» «Non puoi compararlo a questo.» «Certo, lui non mi bevve il sangue.» Adamus si sollevò su un fianco e posando con dolcezza le labbra sul collo di Rachaela le baciò la piccola ferita. Deliziosa la sensazione, un altro dissolvimento. «Ti è necessario?» Lui alzò la testa. «No.» «Però ti piace.» «Molto.» «Da quanto tempo...?» «Tua madre è stata l'ultima.» «Un'altra cosa che non mi aveva mai detto.» Adamus le si attaccò ancora alla vena. La pressione della bocca le riaccese di stelle tutto il corpo, che si irrigidì in un fremito di piacere. Adamus le insinuò una mano tra le cosce, mettendosi a frugare delicatamente con le dita. In un istante Rachaela era di nuovo al colmo dell'eccitazione. «Fallo per me,» le sussurrò lui, e chiudendo gli occhi cominciò a leccarle famelico il collo. Rachaela afferrò la torre di Adamus, di nuovo eretta, dura e lucente, e accarezzandola sentì i fremiti di quella creatura che viveva come separata dal resto del corpo. Il movimento si fece incalzante, il respiro di Adamus sul collo di Rachaela divenne spasmodico, e infine i succhi fiammanti del suo sesso le esplosero in mano. Adamus la baciò e Rachaela sentì un sapore salato, il sapore del proprio sangue. «Cosa mi succederà?» domandò con un sussurro ad Adamus. «Niente. Un morso d'amore.» Dal corridoio, oltre il buio universo della stanza, giunse un debole rumore. «È il gatto che ti cerca?» «Lui non mi cerca mai. Va e viene.» «Forse ci stanno spiando, come dei voyeur...» «Loro? No, sono cose che hanno già visto, e già fatto.» Rachaela si alzò dal giaciglio di lenzuola e guanciali, pelle e capelli. «No,» fece Adamus.
«Voglio andare a vedere.» Prendendo dal comodino un fiammifero accese una candela, andò alla porta e l'aprì: Qualcosa giaceva sul pavimento. «Uno dei regali di Camillo,» disse. Si piegò a raccogliere l'oggetto. Era un cuore particolare, fatto di legnetti intrecciati. Un'opera di Camillo. Rachaela si chinò per raccoglierlo ma appena lo toccò il cuore andò in frantumi. «Oh.» Rientrò nella stanza e richiuse a chiave la porta. «Che ti ha lasciato? Lui è noto per i suoi regali stravaganti.» «Un cuore spezzato.» «Non un solo commento sul nostro comportamento.» Rachaela posò la candela. La luce tremolante illuminava il lungo corpo di Adamus, bianco come il ghiaccio sul lago nero dei capelli. Sembrava il principe di un racconto non censurato, un'illustrazione di perfezione maschile uscita dalla mano di Beardsley. Perfetto anche il suo fallo addormentato, che Beardsley avrebbe senza dubbio disegnato in erezione. «Perché un cuore che si spezza?» domandò Rachaela. «Camillo è un romantico. Non ti ha raccontato della sua fuga notturna da una città assediata?» «No,» rispose Rachaela. «È come un bambino vecchio. Dispettoso e furbo. Non gli importa di niente.» «Può darsi che gli importi di te.» «Allora è il mio cuore che si è spezzato.» «Vieni qui,» le disse Adamus. Rachaela gli si avvicinò lentamente. Adamus la tirò a sé e ancora una volta lei giacque su di lui. Ormai si era abituata a quel torrente di sensazioni. «Domani mi vergognerò,» disse Rachaela. «Domani sarà troppo tardi.» «È vero.» Adamus la cinse tra le braccia, e Rachaela gli mise il capo nell'incavo del collo e con le labbra ne assaporò la pelle, come lui aveva fatto a lei prima di morderla con bramosia. «Abbiamo fatto l'amore cinque volte,» disse Rachaela.
«Le hai contate.» «Non abbiamo dormito affatto.» «Dormirai domani,» le disse Adamus, «quando ti vergognerai di quello che hai fatto.» Poi si rigirò insieme a lei sul letto e la serrò nella sua morsa. «Non posso più farlo,» disse Rachaela. «Ancora una volta, in ricordo dei vecchi tempi.» Dietro l'ombra di Adamus, Rachaela vide le forme opache della finestra della tentazione. «Sta facendo giorno.» «Succede.» Rachaela non voleva la luce del giorno, il giorno della vergogna e della confusione. Adamus la penetrò senza preamboli, e il corpo di Rachaela, ormai avvezzo al suo, lo ricevette senza opporre resistenza. Poi Adamus cominciò a muoversi lento dentro di lei, seguendo il ritmo del mare che si sentiva in lontananza. Rachaela sentì di nuovo un dolore profondo e melodioso, che le era impossibile ignorare. Raggiunsero insieme le vette del piacere e ricaddero sulle sabbie del silenzio. La luce argentata che entrava dalla finestra alle spalle di Adamus si trasformò in un fievole chiarore verde e bianco crisantemo, e infine apparvero le gocce rosso sangue delle mele. «Voglio vederti,» disse Adamus. Uscì dal corpo di Rachaela, a cui questa privazione provocò un gemito di dispiacere, quindi si fece indietro, spense la candela e guardò il corpo di Lucifero steso su di lei. «La mela ti sta sull'inguine, il posto più appropriato.» «Avranno studiato apposta la posizione del letto. Torna qui da me, presto!» Adamus si stese su di lei e la penetrò ancora una volta, facendola gemere di piacere. Danzava sotto di lui, dimenandosi in un vortice di eccitazione. «Vai più veloce.» «Non ancora.» La tenne in fremente attesa sul confine tra la terra e il ciclo, mentre la finestra sbocciava nella sua follia di colori. Rachaela sentì in testa un fran-
gersi violento di onde. La bocca di Adamus le si posò con dolcezza sul collo e lei si diede ancora una volta al leone. Questa volta non le riuscì neppure di gridare. La finestra ribolliva, Rachaela aveva dimenticato ogni cosa, passato e futuro, e dietro la porta della camera minuscole creature venivano fuori dal cuore di legnetti intrecciati. CAPITOLO NONO «Per andare a Babilonia quante miglia devo fare? Ne devi far settanta. Una candela mi basterà per arrivare? Ti basterà per arrivare e ritornare.» Un tordo o un altro uccello con le piume marroni le rispose dal folto di un boschetto. Rachaela lo guardò, quindi riprese a camminare. L'uccello intonò qualche altra nota e volò via. «Quante miglia, quante miglia?» Dove aveva sentito quel ritornello? Certo non dalla madre. Forse le era venuto in mente perché era attinente alla sua situazione: era stata a Babilonia ed era tornata. Che lungimiranza da parte sua aver scelto proprio un maglione con il collo alto, che insieme a un piccolo cerotto nascondeva il segno più scandaloso della sua visita a Babilonia. Quando si era svegliata il sangue aveva smesso di uscire, e la ferita era asciutta. Adamus era svanito come un sogno, ma il corpo di Rachaela, indolenzito e pieno di lividi come se fosse stato picchiato, era il monumento che ne testimoniava la concretezza. Non provava vergogna né imbarazzo, e non provava neanche rabbia, confusione o felicità. Non sentiva nulla, solo il vuoto. Adamus l'aveva purgata. E doveva essere stato lui a togliere dal tappeto del corridoio quello che restava del cuore di Camillo, a meno che non l'avessero fatto Michael o Maria, come per il topo. Cosa provo? Doveva pur sentire qualcosa. Ma insieme al sangue Adamus le aveva succhiato anche la sensibilità. Un sole capriccioso lambiva la brughiera, oscurato a tratti da raggi di tenebra. «Ti basterà per arrivare e ritornare.» Si mise a sedere su una grande pietra da cui poteva vedere la casa e a
metà strada la roccia a forma di lampo conficcata nel terreno. Oggi non c'erano i conigli. Rachaela si mise a piangere in silenzio. Allora, malgrado tutto, le restava ancora qualche sentimento. Il mare ruggiva. E la brughiera non faceva caso alle sue lacrime. Per giorni e notti cadde una pioggia incessante che cancellò le tracce lasciate sulla terra dagli artigli del gatto, che trascinò con sé i delicati fiorellini che costeggiavano il sentiero e le ragnatele agli angoli esterni delle finestre, che dissolse il ricordo, giacché nella mente di Rachaela quel recentissimo passato si era già trasformato in un ricordo. Adamus aveva aperto la sua porta, aveva giaciuto con lei, era stato il suo amante. E prima di questo era andato a prenderla nel mondo e l'aveva riportata a casa, nell'enclave degli Scarabae. Le porte della torre erano serrate. Rachaela aveva provato ad aprirle dopo due giorni, aveva anche bussato. Il suo intuito le diceva che Babilonia era stata solo per una notte. Adamus l'aveva voluta solo per una notte, e c'era anche da chiedersi se l'avesse veramente voluta così intensamente, se non fosse stata la casa a costringerlo a quell'atto, come l'adempimento di un dovere. Neanche il sangue di Rachaela era abbastanza seducente per lui: se era vero ciò che le aveva detto, ne aveva fatto a meno per trent'anni, come un monaco. Rachaela non voleva andarsene ora. Il tormento che la affliggeva la spingeva ad attaccarsi alla casa con i suoi focolari scoppiettanti e con le maschere delle finestre. Lì poteva nascondersi, rintanarsi, e sentirsi al sicuro, libera da ogni preoccupazione, dall'incombenza di guadagnarsi da vivere e dal fastidio di dover trattare con la gente. Ma proprio per questo quella casa era estremamente pericolosa, un'enorme culla di pietra imbottita di ovatta per avvolgerla meglio. La luce del focolare e la radio le bastavano a vivere, quasi ogni sera scendeva a cenare insieme a Stephan e Anna, e ogni tanto apparivano anche gli altri. Ormai li conosceva tutti. Non era più scesa sulla spiaggia. Ma la pioggia avrebbe lavato anche la spiaggia. C'erano tutti, seduti al tavolo da pranzo, tutti tranne Camillo, che non si era mai visto a cena. Sedici Scarabae, e i quattro che servivano.
Insieme al pesce fu portato del vino. Da questo, se non l'aveva già intuito, capì che si trattava di una celebrazione, e il sangue le si gelò nelle vene. Ogni tanto le sorridevano tutti insieme, sorrisetti pungenti che mettevano in mostra i loro denti vecchi e forti. Allora Rachaela si sentì di nuovo in trappola; non era una culla quella in cui si trovava. Salita in camera si fece un altro bagno, ma l'acqua era così calda che Rachaela fu sul punto di sentirsi male. Dopo il bagno fece un po' di ginnastica sul tappeto accanto al letto, una consuetudine che aveva preso negli ultimi tempi. Avrebbe dovuto bere più vino. Quando poi si stese sul letto immaginò di non essere mai venuta in quella casa, di aver continuato la sua vita come prima, tra il negozio di Mr. Gerard e l'appartamento. Doveva certo esserci un rimborso per la perdita dell'appartamento; lei non ne aveva saputo niente, ma come avrebbe potuto saperlo da un simile eremo? Restò sul letto aspettando che la porta si aprisse. Ma naturalmente questo non accadde. Sull'orologio accanto al letto erano le cinque... le tre e mezza del mattino. La pioggia, il mare che si agitava senza tregua. Finalmente la pioggia era cessata, e a cena era apparsa solo Anna. Questa mossa sembrò a Rachaela altrettanto studiata quanto la riunione dell'intero clan la sera precedente. Volevano che si confidasse con Anna. «Stavo pensando,» esordì Rachaela, «che in ogni caso potrei aver bisogno di andare a Londra per un po'.» «Come mai?» Anna non mostrò alcuno stupore o rabbia. Era carezzevole come sempre. «Una questione di soldi di cui mi sarei dovuta già occupare.» «Sono certa che potrai farlo anche con una lettera.» «Qui non arriva mai posta.» «La porta il furgone. E Cheta...» «Penso proprio che sia necessaria la mia presenza.» «Bene, se devi farlo...» Nessun divieto, quindi, e nulla da presenziare.
Rachaela guardò il fuoco, ma non vide niente, neanche la pira funeraria di Sylvian. «Come già sai,» disse Rachaela, «ho dormito con lui.» «Oh, mia cara!» fu la reazione di Anna, ovvia, perché Rachaela aveva violato ogni etichetta. «Era quello che tutti voi volevate e vi aspettavate. Pensavo che volessi esserne certa.» Anna non disse nulla. «Da allora non si è più visto.» Rachaela non aveva intenzione di dire questo. «Adamus è molto riservato,» cercò di rassicurarla Anna. «Devi dargli del tempo.» «L'innocente ero io, non lui. E per quale motivo dovrei dargli del tempo? Ha avuto già trent'anni di tempo.» «Lui ha difficoltà a comunicare,» disse Anna con fare indulgente. «Vi sono stati lunghi periodi in cui io stessa l'ho visto pochissime volte. Devi avere pazienza.» «Me lo avevi già detto. Perché devo essere paziente?» «Che altro puoi fare?» disse semplicemente Anna. «Certo, capisco. Assolutamente niente. Per quanto tempo pensi che si nasconderà? Due mesi, tre?» «Non lo so, Rachaela.» «O forse la situazione rimarrà così per sempre? Forse dovrei convincere Michael o Cheta a farmi entrare nella torre insieme a loro quando portano i pasti.» «Non funzionerebbe. Non puoi costringerlo ad accettarti.» «Lui mi ha costretta, tutti quanti voi mi avete costretta.» «No, Rachaela, c'è stato un certo consenso da parte tua.» «È tutto un gioco,» disse Rachaela, «come sospettavo.» «Niente affatto. È più... è più una danza, Rachaela. Uno scambio di partner sull'arco del tempo.» «E io sono rimasta sola sulla pista, e la banda se n'è andata. Quando l'ultima piccola stella ha lasciato il cielo,» aggiunse Rachaela citando una banalità, «e non ancora insieme.» «Lui è fatto così.» «L'ho capito. E io?» «Tu sei al sicuro, Rachaela, hai tutti noi.» Rachaela ebbe un attimo di sgomento. «Ma voi siete tutti matti.» Anna le fece uno dei suoi sorrisi. «Cosa posso risponderti?» Rachaela vide tra le fiamme un'immagine: era Camillo che cavalcava a
dorso del grande gatto nero. «Bene, andrò a Londra.» «Aspetta un po',» insisté ancora Anna. «Perché?» «Può darsi che succeda qualcosa.» «Ma è già successo qualcosa, te l'ho detto.» Poi Rachaela pensò: È successo davvero? Un altro sogno. E pensò anche: Londra, avrò la forza di provarci ancora? *** Ora sapeva che giorno era, aveva continuato a contare con attenzione, ed era un sabato quando decise di salire in soffitta. Erano passate due settimane e un giorno da quando Adamus l'aveva riportata indietro, due settimane e un giorno dal loro incontro sul letto verde e blu. Le porte della torre erano rimaste chiuse. Rachaela si era tenuta occupata con lunghissime passeggiate, a volte sotto fontane di pioggia, e con i suoi esercizi di ginnastica. Alcune sere era arrivata a bere tre bicchieri di vino. Con Anna non aveva più parlato, limitandosi a risponderle con gentilezza ogni volta che lei le rivolgeva la parola. Camillo non era in soffitta. Sembrava aver perso ogni interesse anche per quel posto. Il cavallo a dondolo era fermo come una pietra, e lei gli diede un colpetto sul dorso per farlo muovere. Tre bottiglie erano esplose macchiando di vino le pareti. Rachaela assaggiò il vino. Era acido, come le avevano detto le vecchie. Acido ma potente. Avrebbe potuto bere quello invece del vino raffinato che serviva Michael. Ispezionando la soffitta tra una macchina da cucire e un uccello impagliato, Rachaela trovò un martello, che stava lì come in attesa di essere usato. Aprì la finestra trasparente, la scavalcò e uscì sul tetto. Il cielo era azzurro, e tutto chiazzato di grossi nuvoloni come cumuli usciti dalla bocca di un vulcano. Attraverso i due tetti Rachaelaraggiunse la torre con la sua finestra. Da dentro non proveniva alcun rumore. Il pianoforte taceva. Come era silenzioso Adamus. Ma c'era? E dove andava quando scompariva? Lei lo aveva visto, non aveva timore di affrontare la luce del giorno. Avere paura del sole era solo una posa degli Scarabae, come se questo fosse ciò che ci
si aspettava da loro. Rachaela bussò delicatamente con il manico del martello. Forse Adamus era lì dentro e faceva solo finta di non esserci, rintanato nella torre, che lo proteggeva da lei. Nessun rumore, solo quello del mare. Rachaela si appoggiò contro il muro della torre. Avrebbe voluto essere in un altro luogo, essere un'altra persona, le sarebbe andato bene chiunque, una ragazzina foruncolosa, una moglie con montagne di calzini da lavare, qualunque cosa, qualunque cosa sarebbe stata meglio. Batté piano il martello sulla finestra. Al primo colpo si formò una crepa sulla testa del leone. Rachaela diede un altro colpo; schegge di cristallo giallo si sparsero sul tetto come caramelle. Ma non era riuscita a violare la torre. C'era dell'altro vetro o un materiale ancora più spesso dietro il buco dentellato che aveva fatto. Allora diede un altro colpo, ma violento, che fece tremare la finestra e la cosparse di sottili crepe come quelle che si formano con il terremoto. Il materiale che stava dietro e in mezzo ai pannelli di vetro non cedette. Avrebbe dovuto immaginarlo. Il lancio di sassi della plebaglia aveva insegnato qualcosa agli Scarabae; il vetro era stato studiato per resistere a ogni attacco. Rachaela lasciò le schegge a terra e riportò il martello in soffitta, rimettendolo a posto accanto a un uccello del paradiso dalle piume giallo cedro e rosso ciliegia. Un'aggressione inutile. Lo aveva già visto, gli Scarabae le erano inaccessibili. E lei non era una vandala, non le veniva naturale distruggere le cose. Così tornò nella sua camera. Con una biro scrisse un messaggio su un pezzo di carta invecchiata che aveva trovato in mezzo a un mucchio di fogli in uno scrittoio nel soggiorno. Adamus, è ingiusto da parte tua non lasciarmi entrare. Voglio parlarti. Il mio non è uno stupido capriccio. Per quanto tempo hai intenzione di nasconderti, e come riesci a farlo? Poi strappò questa lettera, e le altre due o tre che scrisse dopo, e le gettò tutte nel fuoco. Adamus era il Principe delle Tenebre, non avrebbe mai risposto al suo appello. Spirito capriccioso e maligno, creatura delle ombre, aveva imposto la propria volontà, e la volontà degli Scarabae, su quella di Rachaela.
Ora toccava a lei liberarsi dalle loro catene. Doveva e poteva farlo, era semplice. Restò impaurita a pensare a tutto quello che era successo. Era stata un'imbecille e non meritava nient'altro. Ma doveva trovare la forza, doveva trovarla. Verso le quattro del mattino alla luce di una candela Rachaela gettò due libri nella nuova sacca nera, ne sentì il peso e la chiuse. Questa volta ci aveva messo anche un po' di vestiti e parecchi libri dei più leggeri, quelli economici. Nella borsadi ogni giorno andarono i trucchi e i prodotti per la pulizia. Non poté portarsi la radio, ma lo sapeva già, come la volta precedente, e dovette lasciare la maggior parte dei libri. Era martedì, Rachaela aveva tenuto conto dei giorni. Forse era il giorno del furgone, ma la cosa non aveva alcuna importanza, perché non poteva servirsene di nuovo. Di sicuro questa volta Carlo e Cheta glielo avrebbero impedito. Indossò la giacca e si mise la sacca nera sulla schiena come uno zaino. Il peso c'era ma era sopportabile, e comunque avrebbe dovuto resistere. La borsa più piccola la mise su una spalla. Poi aprì la porta della camera sulla consueta oscurità notturna, stringendo fermamente la candela in una mano. Gli intagli sul legno emersero d'improvviso dal buio, e una civetta anch'essa di legno la fissò dal fogliame di un albero. Ma c'era qualcosa che non andava. Lo sentì ancora prima di raggiungere il pianerottolo: nell'atrio ardeva una luce, la lampada rossa. Rachaela arrivò all'inizio delle scale e guardò in basso. Erano tutti lì. Tutti gli Scarabae. Rachaela li osservò uno a uno, Unice e Alice, Peter e Dorian, Jack, George ed Eric, Stephan e Anna un po' in disparte, e ancora Teresa, Miranda, Anita, Sasha, Livia e Miriam. C'era perfino Zio Camillo in armatura, con la corazza e l'elmo che riflettevano i bagliori della lampada e la visiera abbassata che non lasciava vedere se stava ridendo. Rachaela restò ferma. Li fronteggiava, aspettando che uno o tutti parlassero. Come avevano fatto a saperlo? All'imbocco del corridoio c'erano persino i quattro domestici, con Carlo che giganteggiava sugli altri, pronto forse a prenderla e immobilizzarla.
«Me ne vado,» disse Rachaela ad alta voce. «Non mi fermerete.» Tenendo ben alta la candela cominciò a scendere le scale. Un breve fremito scosse il gruppo, e Rachaela si strinse nelle braccia, ma oltre a questo nessuno di loro si mosse. Lei era forte e loro erano vecchi. Al vecchio Carlo sarebbe bastato un calcio negli stinchi o un morso sul polso, e poi c'era la candela che poteva essere usata come un'arma. Quando Rachaela finì di scendere le scale, gli Scarabae le stavano di fronte come un muro che la separava da tutte le porte. Dovendo andare nel salone Rachaela cominciò a dirigersi verso di loro. Mentre si avvicinava pensò che forse avrebbe dovuto colpirli, e immaginò il suono che avrebbero fatto le vecchie ossa spezzandosi. Lo avrebbe fatto se l'avessero costretta... Eric e Stephan si scansarono per lasciarla passare. Rachaela entrò nella stanza buia, e la candela gettò i suoi bagliori sugli spigoli dei mobili. La porta della serra era rivolta verso di lei, aperta per metà come lo era sempre di notte. Gli Scarabae la pedinavano, Rachaela ne sentiva il fruscio dei vestiti e i passi felpati delle pantofole; le venivano dietro furtivi come fiere all'inseguimento della preda. Le sarebbero saltati addosso? Lei spalancò la porta e si infilò tra le enormi piante nere bianche e grigie, che la sfioravano come mani debolissime e accusatici. Rachaela le allontanava con forza da sé, e allora gli steli si rompevano e piogge di petali come confetti cadevano a terra. Infine raggiunse la porta che dava sulla notte, la spinse e varcò la soglia. Attraversò quindi il giardino, camminando sul prato curato da Carlo e sotto le travi dei rami del cedro. Le restava solo da superare il piccolo cancello. Quando lo ebbe raggiunto posò a terra la candela e la lasciò lì a bruciare, poi, mentre richiudeva il cancelletto, diede un'occhiata alle sue spalle. Gli Scarabae erano tutti radunati nel giardino, tutti tranne uno, e la guardavano. I loro volti vecchi e sinistri non esprimevano nulla. La fissavano mentre stava ferma dall'altra parte del cancello come dei ragazzini invecchiati impegnati in un gioco che non capivano e di cui tuttavia intuivano l'importanza. Addio, pensò Rachaela. Addio per sempre. Con una sensazione di freddo intenso, quasi di terrore, Rachaela si voltò, e con la mano si tolse una manciata di petali che le era rimasta sulla giac-
ca. Chi l'avrebbe immaginata questa fuga nel cuore della notte? Pensò a tutti quegli occhi che luccicavano al bagliore della candela, e resisté alla tentazione di voltarsi un'altra volta. Poi percorse il sentiero e si inoltrò in mezzo ai pini, lasciandosi sulla destra il cupo ruggito del mare. Quando il boschetto finì, Rachaela fu sul prato incolto della brughiera. Il mare si lanciava con violenza tra le paratie della scogliera, e la roccia a forma di fulmine si ergeva candida nell'oscurità. La luna era sottile e le nuvole nel cielo sembravano alghe. La notte era piena di rumori. Rachaela doveva ricordare la strada che avevano preso Cheta e Carlo, doveva ritrovare il villaggio al buio. Si mise a camminare sulla brughiera, e a un tratto dal buio emerse qualcosa che le sbarrò la strada. L'ultimo degli Scarabae, il gatto. Rachaela rallentò il passo ma non si fermò. Il gatto la fissava; era tranquillo, le orecchie erano ben tese verso l'alto. L'avrebbe riconosciuta oppure ora che era un'esiliata le si sarebbe scagliato contro? Era forse un essere soprannaturale che faceva la guardia agli Scarabae? Quando lo ebbe raggiunto, Rachaela allungò la mano e l'animale la annusò. Lei gli accarezzò l'enorme testa selvaggia. «Sei un bellissimo mostro,» gli disse, «mi lascerai passare?» Il gatto si sottrasse alle sue carezze come un fantasma coperto di fuliggine e scomparve sul declivio che portava verso la pietra a forma di fulmine. Quando fu a una decina di metri di distanza, Rachaela lo sentì scavare con gli artigli nel terreno, per nulla interessato a lei. Ormai la prova più dura era stata superata, non le restava che compiere il viaggio. Rachaela camminava e aveva paura. La sconfinata brughiera era immobile e animata allo stesso tempo. Si sentivano in continuazione rumori, versi di animali inimmaginabili, un improvviso frusciare di qualcosa in un cespuglio, un battito d'ali. A un tratto tre uccelli notturni si levarono in volo nel nero blu del cielo. Era lei che disturbava il mondo notturno della brughiera. Il cielo era pieno di stelle luminose, erano così tante che ci si sentiva ridicoli a credere che fossero soli e pianeti. Sotto la luna le nuvole avevano creato la forma di un teschio, e attraverso le enormi orbite degli occhi il cielo sbirciava giù sulla terra. Qualunque cosa sarebbe potuta piovere dal cielo.
O sbucare dalla terra. Ma Rachaela andava avanti impassibile, trascinandosi il proprio peso sulla schiena come il pellegrino si trascinava i propri peccati nei racconti morali. E quali erano i peccati di Rachaela? L'incesto, per dirne uno. Ma quella parola non significava niente. Fai quello che ti pare finché non vieni scoperto. E poi... Forse la lunga e faticosa camminata che l'attendeva l'avrebbe aiutata a scrollarsi di dosso il peccato. Ma era stupido sperare in questo. Aveva agito sconsideratamente e ora veniva punita. Era stato un peccato anche lasciare gli Scarabae? Forse erano ancora nel giardino immobili come statue. Chissà se Anna e Stephan li avevano riportati dentro casa. Ma ora doveva dimenticare gli Scarabae, e doveva dimenticare Adamus. Sua madre non c'era mai riuscita; per lei sarebbe stato diverso. Non fu difficile ricordare la via che avevano seguito Carlo e Cheta, poiché la memoria aveva incamerato inconsciamente alcuni punti di riferimento. Era sicura di avere girato verso l'interno al punto giusto, ma ora dov'era la strada? D'un tratto da un boschetto di pini emerse una bestia grigia e magra che si fermò a guardare Rachaela. I cerchi intorno agli occhi le davano un'aria selvaggia, lupesca, ma era solo una volpe, ed era più spaventata di lei dall'incontro, infatti corse subito via. Ed ecco oltre i pini la strada, deserta e nerissima. A Rachaela non piacque l'aspetto che aveva di notte, e si mise a percorrerla facendo bene attenzione a mantenersi a lato della carreggiata. Qualcosa di colossale poteva emergere dal buio e travolgerla. Dopo un po' apparvero le rovine della fattoria, su cui la luna aveva steso un bagliore argentato. Rachaela si aspettava di vedere un balenio di luci soprannaturali nelle finestre, ma non vi fu nulla di simile. Un uccello nero, una cornacchia o un corvo, stava sulla siepe con aria di sfida. Rachaela ne vide il luccichio degli occhi. Ogni cosa in quel posto erano gli Scarabae, ma la cornacchia non fece caso a lei, e non le venne incontro gridando con voce umana Torna indietro! La notte aveva un'enorme influenza sulla sua immaginazione. E anche il villaggio per lei poteva essere scomparso o morto, oppure poteva essere successo che gli abitanti fossero diventati di pietra come le ca-
se. No, il villaggio sarebbe stato lo stesso di prima, obbediente come sempre alle leggi della normalità. Lì avrebbe trovato i telefoni, e se avesse bussato abbastanza forte le avrebbero aperto. Doveva solo continuare a seguire la strada. Non c'era niente che camminasse o si ergesse dietro di lei. La luna stava per tramontare, alcune nuvole sembravano capelli al vento, altre vapore ribollente. Rachaela non ricordava il bosco che vedeva ora dalla strada. Possibile che avesse preso una svolta sbagliata su quella superficie dritta e priva di diramazioni? O che un pezzo di paesaggio fosse stato raccolto e portato via? Ma ecco che apparve un muro isolato che ricordava di aver visto. Al termine della salita che aveva davanti avrebbe trovato il villaggio. Forse. Giunta alla sommità del pendio la strada si riversava sull'altro fianco della collina, e in fondo alla valle giaceva il villaggio, silenzioso come se fosse rimasto per un secolo sul fondo di un lago. La porta del pub The Armitage era di legno spesso e non aveva né campanello né battente. Ce n'era un'altra di servizio dipinta a strisce, con due miseri vasi di erbacce ai lati, un campanello e una cassetta per la posta. Il cielo era più alto e le stelle avevano perso il loro fulgore da meccanismo a orologeria. L'alba era vicina. Sveglia! Sveglia! Rachaela suonò il campanello con brutalità, tenendovi la mano attaccata e sbattendo nello stesso tempo il coperchio della cassetta della posta. Dopo una lunga attesa dal piano di sopra giunsero dei rumori smorzati e si illuminò una finestra. Come Rachaela aveva immaginato, era stato meglio coglierli di sorpresa. Il vetro si alzò e una testa quasi pelata e tuttavia arruffata si sporse dalla finestra. «Sei tu Sandy?» Rachaela si schiarì la gola. «No. Ho bisogno d'aiuto, un'emergenza, il vostro telefono.» «C'è un telefono più avanti su questa stessa strada,» disse dall'alto quell'essere afflitto. «Vandalizzato,» gli fece Rachaela. Come se il bastardo non lo sapesse. «La prego, è urgente. La pagherò per la telefonata.» «A quest'ora della notte,» disse l'uomo.
«La prego,» ripeté Rachaela. «Viene dalla fattoria?» «No.» «Aspetti lì.» Il cielo era di un blu grigiastro, e il buio scivolava via in lunghi e sottilissimi strati. Dagli avamposti del sudicio villaggio gli uccelli diedero inizio al loro sfrenato canto mattutino. Rachaela immaginò l'uomo mentre scendeva rumorosamente le scale del suo pub, irato e costretto dal senso del dovere. Chi era Sandy? Qualcun altro che gli bussava prima del sorgere del sole. La serratura girò e la porta si aprì strusciando il pavimento. «Allora, cos'è che vuole?» «Il suo telefono.» «Non so. Lei chi è?» «È estremamente urgente, devo chiamare una macchina.» «Una macchina? A che le serve una macchina?» L'uomo, notò Rachaela, parlava con un accento londinese, come i due del furgone. Un altro forestiero. «È un'emergenza,» ripeté Rachaela. «Va bene, allora sarà meglio che entri.» Rachaela varcò la soglia. L'ingresso puzzava di birra e di sporco. «Ho bisogno del numero di un autonoleggio,» lo informò Rachaela. «Vuole il telefono, vuole un dannato numero, che altro vuole?» «Sono sicura che avete dei numeri.» «Forse, nel bar. Devo andare a cercarli, aspetti qui.» L'uomo scomparve nella sua vestaglia marrone. Dal piano di sopra giunse la voce lamentosa di una donna: «Che c'è, Harry?» Rachaela restò in piedi nell'ingresso buio e logoro a fissare il telefono. Si sentiva ubriaca, forse era l'odore. L'uomo riapparve e le lanciò sul tavolo un cartoncino. «Quello andrà bene. Per la telefonata dovrà darmi due sterline, ma non stia più di cinque minuti.» Rachaela prese il cartoncino, aprì la borsa e posò i soldi sul tavolo sudicio. L'uomo li raccolse all'istante. «Harry!» gridò la donna. «Che diavolo c'è?»
«Harry, che succede?» «C'è una ragazza qui che vuole il telefono,» rispose lui. «Alzati e fai un po' di tè. Voi donne,» disse poi a Rachaela disgustato. Rachaela prese la cornetta del telefono e con diffidenza compose il numero che c'era sul cartoncino. Quickies. Il telefono squillava, squillava e squillava. Servizio ventiquattr'ore diceva il cartoncino. Forse stavano preparando il tè anche loro, oppure erano andati al gabinetto. «Quickies Cars.» Rachaela prese fiato. «Ho bisogno di una macchina che mi porti alla stazione della città.» «Da dove?» Da dove. «Un attimo,» disse Rachaela, e rivolgendosi all'uomo del pub gli domandò, «come si chiama questo posto?» «Cosa, questo posto?» «Sì, il villaggio.» «Non lo sa?» «No.» «Bidgely,» le disse l'uomo, o almeno così aveva capito Rachaela. «Bidgely,» ripeté timidamente lei nella cornetta. «Non ho capito,» le disse l'uomo al telefono. «Bidgely. Può compitare la parola, per favore?» domandò Rachaela al proprietario del pub. L'uomo fece come lei gli aveva chiesto. «P-i-t-c-h-l-e-y.» «Non penso di conoscere il posto,» disse l'uomo dell'autonoleggio. Allora Rachaela si rivolse con decisione all'impaziente proprietario del pub: «Sarebbe così gentile da dargli delle indicazioni?» «Certo che lei ha una bella faccia tosta! Mi butta giù dal letto a quest'ora e pretende anche che mi metta a dare indicazioni!» Rachaela gli porse la cornetta. Con suo grande sollievo l'uomo la prese e fece quello che lei gli aveva chiesto. Le cose che diceva le erano incomprensibili, ma quando le ripassò la cornetta l'uomo al telefono disse: «OK, ho capito. Ma mi ci vorrà almeno un'ora, al più presto.» «Va bene, grazie.» «Dov'è che devo venirla a prendere?» «Al pub Armitage.» «D'accordo.»
Quickies riattaccò nel vuoto. «Ce l'abbiamo fatta, allora,» disse l'uomo del pub. La sua donna stava scendendo le scale avvolta in una vestaglia blu che la faceva assomigliare a uno stoppino, e con la testa piena di bigodini. Guardarono entrambi Rachaela mentre usciva dal pub e dopo aver sbattuto la porta la richiusero a chiave. Un'ora di attesa, e forse un'altra per rientrare in città: poi, come aveva già calcolato, avrebbe avuto molto più del tempo necessario per prendere il treno delle dieci e quarantacinque per Bleasham. E se il giorno in cui si effettuava quella corsa non fosse stato il martedì? Lo era. Lo era e lei sarebbe arrivata in tempo. Doveva pur esserci qualcuno che diceva la verità. E lei ora era determinata, avrebbe fatto in modo di riuscirci. Rachaela si mise a sedere a terra sullo spiazzo in fondo alla strada dove si fermava il furgone quando veniva al villaggio. Aspettava di vedere la macchina. Intorno a lei il piccolo paesino cominciava a risvegliarsi, in alcune finestre si accesero le luci, che tornarono a spegnersi quando la luce del giorno divenne più forte. Una donna uscì dalla propria abitazione e parve versare una tazza di tè alla base di un cespuglio. Un'altra uscì a stendere il bucato, lenzuola appariscenti e tristi camicie. Un paio di macchine, non quella che aspettava Rachaela, si misero in viaggio in direzione della città. Si sentì un cane abbaiare. Come Rachaela aveva immaginato, quel villaggio era una discarica in cui il tempo veniva sminuzzato con qualche procedimento antiquato. Un luogo inquinato dagli Scarabae. Ma la macchina sarebbe arrivata. Sebbene fosse in ritardo. Erano già le nove e mezza e ancora non si era vista. Rachaela si alzò in piedi. Che l'autista si fosse perso? No, l'autista non si sarebbe perso. Alla fine una vecchia Ford Zodiac verde si materializzò in cima alla strada, diretta verso il vilaggio, passò davanti a Rachaela e si fermò davanti al pub. Rachaela si mise a correre. «Devo prendere il treno delle dieci e tre quarti alla stazione della città.»
«Temo che non ce la farà, signorina,» disse dispiaciuto l'autista. «Lei è in ritardo.» «Colpa del traffico. Avrebbe dovuto chiamare prima, signorina.» «Ho chiamato molto presto,» disse Rachaela ed entrò in macchina. «Ci proverà?» «E la coincidenza per Poorly che deve prendere?» «Poorly, sì. Devo andare a Londra.» «Allora conviene che la porti direttamente a Poorly. Le costerà un po' di più, ma riuscirà sicuramente a prendere il treno per Londra delle undici e un quarto.» «D'accordo, allora lo faccia,» lo esortò risoluta Rachaela. «Sto solo cercando di aiutarla, lei mi capisce.» «Mi porti a Poorly.» «Non voglio che pensi che io lo stia facendo soloper guadagnarci.» «Non importa, basta che riesca a prendere quel treno.» Il villaggio arretrò, fu inghiottito dalla valle e scomparve. Malgrado tutto, era pur sempre un distacco. La macchina correva veloce sulla strada. Rachaela sentì una vampata di gioia folle, come se si stesse lasciando alle spalle tutti i problemi. Invece i problemi stavano soltanto cominciando. L'autista era loquace e Rachaela lo lasciava parlare, rispondendo di tanto in tanto con appropriati monosillabi. Voleva solo raccontarle la propria storia, non ascoltare la sua. Forse le aveva mentito dicendole che avrebbe rischiato di perdere la coincidenza per Poorly. Aveva quattro figli, due genitori, e una sorella sfaticata. La campagna, grigio verde come la macchina, scorreva via veloce. Si vedevano case, campi, e svariati graziosissimi pub, che mostravano come l'influenza degli Scarabae fosse ormai lontana. In mezzo ai prati si ergevano chiese pittoresche circondate da lapidi sbilenche, e su alcuni alberi si vedeva già una debole fioritura, come ciuffi di veli da sposa. La primavera cominciava anche qui. Ma Rachaela aveva perso il conto dei mesi. Era marzo? A un certo punto la macchina imboccò delle strade secondarie, percorse per un tratto un'autostrada, quindi la lasciò. Erano le dieci e trentacinque, ormai era troppo tardi per il treno per Poorly. Incontrarono un segnale: Porlea 6 miglia. A Rachaela venne da ridere.
Forse ogni cosa sarebbe cambiata come i nomi quando si sarebbe completamente districata dalla loro rete. Sul binario degli odiati treni per Londra non c'era nessuno, ma alla biglietteria l'avevano assicurata che andava tutto bene, o perlomeno che tutto era normale. La stazione era rallegrata da molta plastica rossa, ma i cestini dei rifiuti erano pieni e su un sedile era stato abbandonato un giornale. Gli uccelli andavano avanti e indietro sui binari. E finalmente giunse il treno, enorme, polveroso e reale. Un annuncio informò la banchina vuota e Rachaela che quello era il treno per Londra via qualcos'altro, che si sarebbe fermato in un posto e in un altro e che diavolo le importava? In un'estasi egoistica lei salì sul magico veicolo. Era abbastanza affollato, ma rapita dal proprio piacere Rachaela non se ne curò. Trovò un posto e sistemò le borse ai propri piedi. Dio sia lodato, oh, Dio sia lodato. Con una guizzante spinta in avanti il treno portò a compimento la propria verità: la stava portando via, e tutto sarebbe andato bene. La donna con il cestino della spesa stretto in grembo fece il suo quinto tentativo su Rachaela. «Non trova che questi viaggi così lunghi siano una seccatura? Deve essere il movimento. Non riesco a fare niente. Mi ero portata i ferri. Lei lavora a maglia? Ma mi sembra di aver saltato delle maglie. Sto facendo un golf per mio nipote. Mi porto sempre dietro una sua foto. È un bambino così grazioso. Non assomiglia affatto a mia figlia, più alla parte di mia madre. Sapesse che bei capelli, proprio biondi. Ma si scuriranno di sicuro. Non ho mai lasciato che mia figlia facesse qualcosa ai suoi capelli. Bisogna lasciarli nel modo in cui Dio ce li ha fatti.» Perché non li tagli, diceva la madre di Rachaela, e non li sistemi un po'? Ti sarà più facile tenerli in ordine. La donna sul treno tirò fuori una foto e la mostrò a Rachaela. Si vedeva un bambino sorridente, grasso e pallido, con i capelli giallastri e il labbro superiore sporco di marmellata, a meno che non avesse anche un paio di baffi rossi. «Sì,» fece Rachaela. «Lei ha figli?» le domandò la donna. «No.»
«Ho sempre pensato che sia un peccato non averli fin quando si è giovani. È il momento migliore. Io ho avuto la mia Janet quando avevo diciott'anni. Poi sono venuti John e Kieran. Io adoro i bambini, e lei?» Rachaela non rispose. Fuori dal finestrino scorrevano campi e piloni per l'elettricità, case lontane con tetti cremisi, e ancora più distante un fiume con un castello adagiato sulla riva. Oh, poter essere lì, avere un posto dove andare. Per Rachaela c'era soltanto Londra, e fino allora quella donna. «Sbrigati a darmi un nipote, le ho detto. Ma mamma, mi fa lei, ho ancora vent'anni. Io ti ho avuta che ne avevo diciotto, le ho detto io. Non vorrai stare ad aspettare che arrivi il principe azzurro.» La donna continuava a parlare a Rachaela. «Io e il mio Martin siamo stati insieme per venticinque anni. Un'unione perfetta, diceva mia sorella. Avrei proprio voluto avere il tuo Martin e i tuoi splendidi bambini, mi diceva anche. Cosa ti piacerebbe avere per prima, mia cara, un maschio o una femmina? È meglio una femmina, tiene i maschi in ordine. La mia Janet era come un'altra mamma.» Rachaela si alzò. La donna non sembrò offesa. Rachaela si rifugiò nella toilette. La serratura faceva i capricci, e quando finalmente Rachaela riuscì a chiudere la porta e a chinarsi, malgrado le difficoltà, sul vaso traballante, il suo stomaco vuoto vomitò fluidi incolori. Dunque era questa la verità, sebbene così prematura, era questo il risultato dei fatti? Non il treno, non Londra, ma questo? Appena le si schiarì la testa Rachaela si rialzò e si appoggiò contro la parete, tirò lo sciacquone, aprì il rubinetto dell'acqua fredda, e si lavò la faccia, le mani e i polsi. Era ancora troppo presto per allarmarsi. Era solo la paura. CAPITOLO DECIMO Un manifesto sulla parete mostrava una rosa sanguinante. Tetano: non sempre è un chiodo arrugginito, recitava la didascalia. Sotto il manifesto c'era un avviso scritto a mano: Se voi o il vostro bambino vi sentite male, avvertite il personale alla ricezione. La sala d'attesa dello studio medico era affollata come un ospedale in tempi di peste. Bambini che starnutivano, piangevano e correvano in giro eccitati; uomini e donne che tossivano e si soffiavano il naso, e un vapore
bluastro e saturo di germi che fumava dalle loro bocche nel freddo della stanza. Le sedie erano dure e c'erano pochi giornali. Nulla incoraggiava a venire in questo posto. Il campanello si mise a suonare con rabbia. Chi sarebbe stato il prossimo ad avventurarsi? «Miss Day? Si accomodi, prego.» Rachaela entrò nello studio del dottore, una stanza molto spaziosa con finestre protette da grate che davano su un giardino. L'uomo era vestito in giacca e cravatta. Era snello e in forma, con i capelli ben pettinati e piuttosto radi, e accolse Rachaela con un sorriso pulito e stirato. «Cosa posso fare per lei?» Rachaela si accomodò sulla sedia che lui le indicò. «Ho bisogno di abortire.» Il dottore mise da parte il suo sorriso e aggrottò le sopracciglia. «Non mettiamo il carro innanzi ai buoi, va bene? Lei dunque pensa di essere incinta. Cosa glielo fa pensare?» «Non mi sono più venute le mestruazioni e ho sofferto di nausea diverse volte.» «Quanti cicli mestruali le sono saltati?» «Due.» «Ha portato un campione delle sue urine preso al mattino appena sveglia?» «Ho fatto un test di gravidanza.» «Capisco. Bene, dal momento che è qui, le darò un'occhiata.» Schiacciò un tasto sul citofono. «Mrs. Beatty, venga qui, per favore.» Poi tornò a rivolgersi a Rachaela: «Vada dietro quel paravento e si spogli dal bacino in giù. Lasci solo gli slip.» Rachaela fece come le aveva detto il dottore e si avvicinò al lettino, bianchissimo e coperto da una specie di asciugamano di carta. La grassa Mrs. Beatty entrò nella stanza e si mise a sedere in un angolo oltre il paravento. «Alzi le ginocchia, per favore e tenga unite le caviglie. Si rilassi.» L'ultima volta che un uomo l'aveva toccata era stato un piacere, un miracolo di sensazioni. Questo invece aveva dei modi bruschi, sapendo quanto doveva essere forte il corpo della donna, e quanto poteva sedurre. «Sì,» disse il dottore, «dunque...» E intanto frugava e tastava la vagina e il ventre di Rachaela. Poi vi guar-
dò dentro da dietro una luce, come un minatore. «Va bene, ora può rivestirsi.» Mentre lui si lavava le mani sporche di Rachaela in un lavandino, Mrs. Beatty sgattaiolò via dalla stanza. «Bene, Miss... ah, Miss Day. Direi senza dubbio che lei è incinta.» «Lo so.» «Sembra tutto a posto,» continuò il dottore. «Diamo un'occhiata alla pressione,» e preso l'apposito strumento si apprestò a effettuare il controllo. Aspettarono in silenzio. «Ha una pressione ottima, lei è una giovane sanissima.» I suoi complimenti non la fecero esultare. «Voglio abortire.» «Non ce n'è assolutamente alcun motivo. Lei ha...» consultò il modulo compilato da Rachaela, «...ventinove anni, no? È ancora in tempo, e se è preoccupata per il bambino possiamo fare degli esami...» Non è un bambino. È una cosa, un parassita che si è installato in me. «Io non lo voglio.» «Ma, Miss Day, non è una cosa così semplice. Lei ha una responsabilità. Il bambino è stato concepito, è una vita, Miss Day, quella che porta con sé.» «E stato un incidente.» Poteva dirlo? Non aveva preso alcuna precauzione, non ci aveva neanche lontanamente pensato. Aveva lasciato il cancello aperto, e il fertile seme degli Scarabae, al suo meglio negli incroci tra consanguinei, si era piantato in lei durante uno dei cinque vortici di estasi. Sì, era responsabile. «Mi dispiace, ma incidente o no il bambino è una realtà.» Il dottore, che odorava di disinfettante e dopobarba, squadrò Rachaela, poi le chiese: «Ha una famiglia?» «No.» «E scommetto che al suo ragazzo non importa niente.» Il suo ragazzo. «L'ho lasciato.» «Capisco. È una situazione scomoda, ma la gente ne supera di peggio, deve farsi coraggio. E poi al giorno d'oggi le cose sono molto più facili per una giovane madre, per un genitore che si trovi solo. Vedo dal suo indirizzo che lei abita in una zona abbastanza bella.» Rachaela aveva appena ricevuto un piccolo appartamento attraverso le procedure di risarcimento per la perdita dell'altro. Aveva impiegato setti-
mane per sbrigare ogni cosa, perciò si era presentata così tardi da quest'uomo. Quest'uomo che credeva nella sacralità della vita, la vita del bambino, non quella della donna. Quella della donna era irrilevante. «Il mio indirizzo non significa niente, non ho soldi...» «Ci sono aiuti per le donne nella sua situazione.» «Ma le ho detto che non lo voglio. Sono... sono stata obbligata.» «Non ci credo.» Dicendole questo l'uomo lasciò trapelare un certo disgusto. «Non posso... non posso averlo, occuparmene.» «Questo potrà deciderlo quando il bambino sarà nato, e allora vedrà che cambierà idea. I bambini sono delle creature meravigliose, speciali.» «Non per me.» «Beh, Miss Day, mi dispiace, ma non trovo alcun motivo per consigliarle di ricorrere a un'interruzione di gravidanza. Naturalmente la sua storia andrebbe esaminata più a fondo, ma giudicando da quello che ho visto e da quello che lei mi ha detto non vedo ragioni plausibili per cui lei non debba affrontare questa realtà e assumersi le sue responsabilità. Pensi a quante donne desiderano avere un figlio e non possono farlo.» «Non mi importa nulla, a me importa del mio corpo, voglio la mia libertà.» «Allora mi dispiace, Miss Day, io non posso aiutarla.» «E dove posso andare?» «Dovrà scoprirlo da sé. Io non sono qui per fare il macellaio, per me la vita è importante.» «Sono disperata.» L'uomo divenne paonazzo: «La gente come lei mi fa schifo.» Poi si alzò, e Rachaela si alzò insieme a lui. Lo colpì sul lato sinistro del volto con una violenza che gli stravolse completamente l'espressione, e lo lasciò a bocca aperta, con l'occhio sinistro lacrimante e l'impronta rossa della mano sulla guancia perfettamente rasata e profumata di dopobarba. In queste condizioni avrebbe dovuto presentarsi al prossimo paziente. Pesante come il piombo Rachaela uscì dalla stanza. L'ambiente principale era di tre metri e mezzo per cinque. Le pareti e il soffitto erano di un bianco leggermente sfumato rosa pesca, il tappeto grigio. Queste cose Rachaela le aveva già sapute prima di andarci ad abitare, dalla lettera dell'agenzia immobiliare.
Il bagno dava su una minuscola anticamera all'ingresso dell'appartamento; i sanitari erano bianchi, il pavimento a mattonelle bianche e nere, e c'era una finestra di vetro smerigliato. L'area della cucina si apriva sull'ambiente principale ma senza porta. Aveva il pavimento nero, le credenze bianche, e un lavello con scolapiatti d'acciaiò inossidabile. L'unica finestra della cucina e le due della stanza principale affacciavano sullo stesso versante dell'edificio: oltre le basse casette e gli isolati degli appartamenti si vedeva in lontananza il fazzoletto verde di un parco con alti alberi spogli. Lo scaltro agente le aveva fatto notare che in estate sarebbero diventati verdi. Rachaela aveva dovuto pagare un caro prezzo per riavere i mobili che aveva lasciato in deposito. Sul letto aveva steso una coperta indiana blu e porpora, aveva montato dei paralumi e appeso alle finestre delle tende blu. L'appartamento non era scomodo, ma era per una persona, solo per una. La radio stava sul piano di lavoro in cucina. Rachaela la accese: Haydn, sobrio e misurato, la passione solo nella melodia. Si era spaventata moltissimo. Aveva dovuto raccogliere tutte le forze per andare dall'uomo che pensava che i bambini fossero speciali. Ma cosa ci trovava di speciale? Erano dei fagotti senza forma, degli esseri incompleti, destinati a deformarsi fino a essere inglobati alla massa inutile e pericolosa degli esseri umani adulti. Rachaela si toccò la pancia e tirò subito via la mano. Era lì dentro, una cosa che cresceva cibandosi instancabilmente di lei, che si gonfiava attimo dopo attimo. Ci sarebbe voluto un enorme coraggio a rivolgersi a un altro dottore, e sarebbe sicuramente dovuta andare in un ospedale. Rachaela aveva paura degli ospedali, diffidava dell'uniforme del camice bianco, e poi le sarebbe potuto capitare un altro dottore come quello di prima. Poteva fare qualcosa da sola? Aveva provato tutti quei sani rimedi casalinghi che aveva sentito dire servivano a stanare il feto. Gin e bagni bollenti, esercizi di ginnastica. Non era riuscita però a convincersi a provare la caduta dalle scale: tutta quella confusione, la gente che usciva dalle case, e magari anche una gamba rotta. E aveva anche paura dell'aborto. Durante la notte, il solo pensiero di farsi raschiare o aspirare la creatura dall'utero l'aveva fatta correre al bagno a vomitare dentro la moderna tazza di ceramica bianca. Ma doveva trovare qualcuno, qualcuno gentile che avrebbe pensato pri-
ma a lei che al bambino. Si era detta che non avrebbe più dovuto pensare a loro, ma non poté fare a meno di immaginarsi gli Scarabae che la rintracciavano, i loro agenti nello studio medico, il dottore che li ascoltava annuendo. Ma questo non era un complotto, era semplice sfortuna. Le tradizioni della famiglia. La continuità. Non c'era da meravigliarsi che Adamus l'avesse lasciata; si era occupato di lei come si era occupato di sua madre, solo che con lei era stato più sicuro del risultato. Rachaela si mise a sedere nella sua poltrona e gettò sul tappeto il nuovo cuscino blu. Come era carino il suo nuovo appartamento. Lì avrebbe potuto vivere in pace, da sola. Avrebbe dovuto trovare un lavoro. C'era la caffetteria da Lyle and Robbins, un posto all'antica, non troppo esigente e senza ubriachi, oppure il Pizza Eater di Beaumont Street, che per le mance era ottimo. Niente librerie né registratori di cassa computerizzati, queste cose potevano essere evitate. Non quello che portava nel ventre. Rachaela si lasciò andare sullo schienale. Era sfinita. Le finestre trasparenti le mostravano i tetti di Londra, una profusione di comignoli e una messe di antenne televisive, e sopra ogni cosa il cielo di primavera. Si vide passare un aeroplano. Sulla brughiera non ricordava di averne mai visti, era un luogo fuori dal tempo. Può darsi che succeda qualcosa. Era stata Anna a dirlo. Intendeva dire la gravidanza. Era sbagliato ucciderlo? Era un mostro. *** Nel buio rumoroso delle scale che scendevano fino al centro ben illuminato del palazzo, Rachaela incontrò una donna che era uscita da una porta, un'inquilina del piano di sotto. «Oh, Miss Day, ho preso questa lettera per errore. Temo che sia roba da buttare, ma è indirizzata a lei.» Rachaela prese in mano la busta lucente.
«Grazie.» «Non si può mai sapere di questi tempi, magari è qualcosa di cui ha bisogno.» Il suo abbigliamento, in una calda tonalità di fulvo, le dava un'aria docile. I capelli, biondo-grigi, erano folti e tagliati maldestramente. Aveva un volto quadrato e grandi occhi castani e sorridenti. Voleva fare amicizia. «Che gliene pare dell'appartamento?» «È bello.» «Io lo trovo piccolissimo,» disse la donna. «Ma è vero anche che in tutti questi anni ho accumulato un sacco di robaccia.» Rachaela aspettava, con il cuore che palpitava e il ventre ingombro, di sfidare la strada e la notte. «Beh, non la voglio trattenere. Faccia attenzione,» aggiunse con cortesia, «è una brutta serata.» Rachaela riprese a scendere le scale, infilando la lettera nella borsa. Quando fu fuori aveva già dimenticato l'incontro con la donna. Il vento la frustava e il cielo era ingombro di ribollenti nuvoloni blu scuro. Dopo aver percorso un tratto di strada a un incrocio salì su un autobus che attraverso una serie di giri la portò in un sobborgo squallido e minaccioso, desolatamente immerso nella luce arancione dei lampioni. Nel punto in cui scese dal mezzo erano stati demoliti alcuni edifici, grandi pareti tremolanti di lamiera ondulata tappezzata di manifesti pubblicitari la separavano dai crateri che si aprivano nel terreno. Superato il pub chiassoso che le era stato nominato Rachaela si avviò su per una collina di case popolari con imposte finte e giardini disseminati di gnomi e di mulini a vento che giravano vorticosamente. La strada terminava in uno spiazzo deserto. Alcuni ragazzi in giubbotto di pelle erano radunati sul misero prato; uno di loro gridò qualcosa a Rachaela, una minaccia rituale. Lei proseguì per la sua strada fino a raggiungere un edifìcio a un piano circondato da un recinto di rete metallica. Rachaela varcò il cancello e si diresse verso la porta, da cui entrò in un corridoio lungo e stretto con un pavimento di legno scricchiolante. L'aria era calda e maleodorante, la stanza affollata, e le sedie di legno allineate lungo le pareti erano piene di donne di ogni età, dalla vergine alla vecchia rugosa. Era un club per sole donne triste e piuttosto sordido. Da una porta gialla emerse un uomo in camice bianco, e tutti gli occhi del suo harem di supplicanti si posarono su di lui, mentre il tintinnio dei ferri da lana e il fruscio delle pagine dei giornali cessarono.
L'uomo scherzò per qualche attimo con una donna con un cardigan lilla che stava seduta a una scrivania, e poi scomparve come un dio. Rachaela si diresse verso la scrivania. «Ho un appuntamento alle sette.» «Oh, sì. Miss Day, vero? Sì. Può darmi il suo indirizzo?» La donna cominciò a entrare nei dettagli e tutte le donne sedute lì vicino si misero ad ascoltare. Una ragazza pallida con due occhi sporgenti da rana guardò Rachaela ficcandosi una caramella nella bocca rosa e carnosa. «Mi dispiace, ma oggi siamo un po' indietro, forse ci sarà da aspettare.» «Va bene.» Rachaela andò a sedersi alla fine della fila. Davanti a lei c'erano una trentina di persone, ma alcune erano sicuramente insieme. Erano le sette meno dieci. La principessa ranocchia era la più vicina alla porta gialla. Rachaela immaginò che quando una donna veniva chiamata tutte le altre avanzavano di un posto, e ciascuna si sedeva sul calore della persona che la precedeva, con familiarità. Siamo tutte donne, dobbiamo proteggerci. Il cappuccio e la pillola, il raschiare della spatola che ci toglie lo sporco per salvarci dallo sperma e dal cancro. Solo noi siamo responsabili. Ma alcune donne erano con i loro bambini, bambini repressi che mangiavano patatine o disegnavano su pezzi di carta seduti sul pavimento. Quattordicenni con figli e troppo mascara, magre e con strane facce gonfie che non avevano vissuto, ma che avevano assistito, fra urla e lacrime, alla nascita di un figlio dal loro stesso tronco. Nessuna di loro sembrava impaurita. Si trovavano tutte bene nel loro club serale, la Family Planning Clinic. Mi dispiace, ma non ho pianificato. Con il peso di un bambino vengo a chiedere un aborto. Questa volta l'avrebbero ascoltata? Era lui il dottore, quello che era sbucato da dietro la porta gialla? Rachaela aveva sperato che a farle questa visita sarebbe stata una donna. Forse il tocco di una donna sarebbe stato meno orribile. Ma queste erano tutte donne. Rachaela le guardò. Guardò quella che sferruzzava tenendo il tempo come un cronometro, i capelli gialli e sporchi ammassati sulla testa e la bocca imbrattata di rossetto che sembrava una ferita aperta. E un'altra che scriveva, forse una lettera, tenendo la carta di sghembo e mangiandosi le unghie. La sala odorava di donne, profumi da quattro soldi e altri più costosi, deodoranti per le ascelle, lacca, odore di neonati e di bucato.
Rachaela cominciò a sentire un po' di nausea. Se le fosse venuto da vomitare come avrebbe fatto a trovare il gabinetto? Doveva essercene uno. Avrebbe dovuto domandare. Poteva sentire la pressione della cosa dentro la pancia, come quella di una forte indigestione. Provò a non pensarci, respirando lentamente quell'aria nauseante. Una ragazza in un completo rosso porpora cominciò a parlare con l'amica che le sedeva accanto. «Non mi piace quest'attesa, mi rende nervosa.» «Sì.» Sì, pensò Rachaela. «Chissà che mi dice stavolta. Penso di piacergli.» «Non dire idiozie.» «Be', perché no?» «Lui fa solo il suo lavoro.» La ragazza rosso porpora giocava con un pacchetto di sigarette sotto il cartello Vietato Fumare, come se avesse avuto in mano un giocattolo. Non poteva fumarle, ma almeno le poteva tenere in mano. «Continua a dirmi di lasciar perdere. Io l'ho già fatto, no? Ho cominciato con tutti quei casini.» «Sì.» «Tutti quegli assistenti sociali e quegli psichiatri. Sei sicura? Sì che lo sono, dannazione. Non posso avere un altro bambino, no? Non ce la faccio, e poi lui mi lascerebbe.» «Oh, Lyn!» «Sì, lo avrebbe fatto, Eravamo nei guai. E io prendevo quella fottuta pillola. Sì che la prendevo, regolarmente. E invece rimango incinta. Sarebbe stato il numero tre.» «Lyn, basta.» «È questo posto che me lo fa tornare in mente. Tutti gli psichiatri all'ospedale. Ne ho dovuti vedere quattro. Mi sembrava di essere davanti a una fottuta giuria; cercavano di persuadermi a fare il bambino. Non lo posso fare, ne ho già due.» Rachaela ascoltava, gli occhi fissi sul legno del pavimento. «Be' alla fine te ne sei liberata, Lyn,» disse l'amica poco amichevole. «È stata una battaglia. E poi il modo in cui ti trattano, e il dolore. Cristo, pensavo che sarebbe andata bene, invece da allora non sono stata più la stessa. Lo sai che è così. Dopo non potevo sopportare neanche che lui mi si
avvicinasse.» «Quella era una cosa psicologica, te l'avevano detto.» «No, non era così. Mi hanno fatto qualcosa, quegli schifosi bastardi. Ti trattano come merda quando vai ad abortire.» La porta gialla si aprì e una ragazza magra e con la faccia gonfia ne uscì con aria soddisfatta. Il dio emerse di nuovo e si avvicinò alla scrivania, diede delle istruzioni e svanì ancora una volta. «Miss Garland,» chiamò la donna vestita di lillà, e la principessa ranocchia, continuando a succhiare senza timore la caramella, si alzò e scomparì dietro la porta. La donna che lavorava ai ferri perse una maglia e bestemmiò. «Esco a fumarmi una sigaretta,» disse la ragazza porpora. Quindi si alzò e andò fuori. Una nuova immagine: esplorazioni nel corpo e un altro genere di esplorazioni per la mente. Una squadra di psichiatri pronti a scavare a fondo nelle motivazioni della futura assassina. Sarebbe bastato questo per avere paura? No. Non era bastato neanche il sogno che aveva fatto, lei che giaceva su una spiaggia e il mare che le entrava dentro, la apriva in due, e poi fiamme che le uscivano dalle budella. Naturalmente non avrebbero fatto nulla per rendere le cose più semplici. Non doveva essere facile. Lei aveva in sé una vita, non avrebbe potuto svuotare il proprio corpo come si svuota la tazza del gabinetto. La ragazza che veniva dopo l'amica di Lyn stava parlando di cibo. «Una bella bistecca cotta in padella con le cipolle, potrei dargliela tutte le sere. È inutile dirgli, Tony, ti fa male, ti verrà un infarto, e provare a dargli un'insalata. Vuole le patate fritte con tutto. Il soffitto di casa nostra è diventato nero a furia di friggere patate, cola grasso. Mi fa venire la nausea.» La donna aveva fatto il favore a Rachaela. Rachaela si alzò e uscì di fretta dalla sala d'attesa. Fuori per fortuna c'era il fresco della notte, e un odore di esterni di case e di strade aperte. E c'era il disgustoso bagliore dei lampioni che rendeva il mondo piatto e incolore. La ragazza porpora, ora in nero, fumava avidamente accanto al recinto. Diede un'occhiata a Rachaela e tornò a guardare altrove. Non era possibile domandarle qualcosa, e comunque ormai le era stata svelata ogni cosa. Una faccenda complicata. Una faccenda faticosa e umiliante, che avrebbe comportato un trattamento duro, molto dolore e una ci-
catrice permanente. Rachaela sentì il lampione vicino sfrigolare come un isotopo radioattivo. La terra brulicava di veleni, ed era circondata dalla minaccia dello spazio. Nulla aveva senso. La ragazza dell'aborto seguì con gli occhi Rachaela mentre varcava il cancello e ritornava in strada. Dal suo volto si capiva che si era un po' offesa, come se avesse capito che Rachaela si era sottratta a tanta bassezza e sofferenza, ai segreti del club delle donne. Sul concerto di Beethoven si sentì a un tratto bussare alla porta. Rachaela restò sulla poltrona ad ascoltare l'eco dei colpi. Per quale motivo sarebbe dovuta andare a rispondere? Non era nessuno, oppure qualcuno che aveva sbagliato. Dopo tre giorni che si era trasferita nell'appartamento un uomo, entrato insieme a un altro inquilino; si era trascinato a fatica su per le scale ed era venuto a bussare alla sua porta. «Vivono qui i Chambers?» Rachaela gli aveva detto di no e dato che lui non le credeva alla fine aveva dovuto sbattergli la porta in faccia. Si sentirono degli altri colpi e la voce smorzata di una donna. «Sono io. La porta numero cinque, al piano di sotto.» Rachaela si alzò dalla poltrona. Faceva parte anche questo del complotto degli Scarabae? Perché ormai era chiaro che c'era un complotto. Rachaela aprì la porta. Era la donna dai capelli biondo-grigi del piano di sotto. «Mi spiace disturbarla per un motivo così stupido, ma avrebbe un po' di latte da darmi? È tutto il giorno che muoio di freddo, e a forza di farmi tazze su tazze di caffè e tè mi è finito il latte. Il lattaio me lo porta domani, glielo farò riavere subito.» «C'è solo del latte in cartone.» «Oh, va benissimo, se me ne può dare un po'.» Rachaela andò in cucina, aprì il frigorifero e prese il suo cartone di latte da tre quarti. La donna aspettava sul tappeto grigio. «Com'è carino qui,» disse la donna, «e neanche un po' di disordine. L'ammiro proprio. Il mio invece sembra un incrocio tra una biblioteca e la bottega di un antiquario.» Rachaela pensò a tutti i libri che aveva lasciato. Il concerto di Beethoven continuava a suonare ignorato.
«Può darmi tutto il cartone?» «Sì.» «Be', allora grazie mille. Come le ho già detto...» «Non si preoccupi, ne ho un altro,» disse mentendo Rachaela. «Glielo devo.» La donna si fermò un attimo. «Questa è la terza, no? Io sono un'ammiratrice di Beethoven, adoro la sua furia. Povera creatura, perché non avrebbe dovuto arrabbiarsi visto che stava diventando sordo?» «Sì.» «Forse dovrei presentarmi.» Rachaela si limitava a guardarla. Apparentemente impassibile la donna disse, «Emma Watt. Signora. Non che conti più molto, il mio povero vecchio amore è morto due anni fa. Io ho venduto la casa e ho preso l'appartamento, cercando di stringermi in quel minuscolo spazio. Abbiamo tutti dei modi davvero curiosi nel cercare di affrontare il dolore.» E il dolore. Cristo... «Ad ogni modo,» concluse finalmente la signora Emma Watt, «immagino che abbia da fare. Grazie ancora per il latte. Domani farò un salto quassù e lascerò una bottiglia fuori dalla porta.» «Non ce n'è bisogno.» «Glielo devo.» Detto questo la donna uscì nel corridoio e si diresse verso le scale con uno smagliante sorriso di autosufficienza, e con gran sollievo da parte di Rachaela. Come sarebbe stato essere Emma Watt, cinquantenne triste e sola e serenamente strizzata nel suo appartamento troppo piccolo? E come sarebbe stato essere la ragazza con il completo rosso porpora, che l'ansia e le precedenti gravidanze avevano reso frigida? Ma non c'era scampo, lei era Rachaela, in quel luogo e in quel momento. E la cosa era incastrata e rannicchiata nel suo ventre. Rachaela fu assunta da Pizza Eater, dove le fu dato un vestito rosso con un grembiule verde pallido e le fu chiesto di raccogliersi i capelli. Lei si fece una treccia, e i datori di lavoro ne furono ugualmente soddisfatti. Lavorava dalle dieci del mattino fino alle sei del pomeriggio, oppure dalle tre del pomeriggio fino alle undici e mezza la sera. Alcuni degli ultimi clienti finivano per ubriacarsi, ma di solito si comportavano bene. Spesso, trattenuta per le pulizie, non lasciava il ristorante prima di mezza-
notte. Oltre a servire ai tavoli di finto legno doveva tagliare i sandwich, mettere le bistecche nel grill e il gelato nelle vaschette, preparare i contenitori con le pizze per il servizio take-away, e ogni tanto lavare i piatti. Dopo un po' si abituò, come aveva dovuto fare altre volte, ai piedi gonfi e doloranti, alla scortesia e alla taccagneria di molti clienti, alle confidenze e alle chiacchiere dei compagni di lavoro di entrambi i sessi. Le davano gratis il pranzo o la cena, ma il cibo del ristorante non le piaceva molto. A volte riusciva ad avere una vera bistecca, altrimenti mangiava insalata e gelato. Questo le risparmiava ulteriori sforzi quando tornava a casa. Era riuscita anche a venire a patti con il registratore di cassa, che le capitava spesso di dover usare. Un pomeriggio le era capitato di dare una sterlina in meno rispetto al resto che era apparso sul display in numeri verde smeraldo. Il cliente non se n'era accorto, e quando se ne era resa conto lei, era già andato via. Quando poi si era trovata sola alla cassa, Rachaela aveva preso la sterlina in più e se l'era tenuta per sé. Il Pizza Eater si trovava a soli venti minuti di cammino dall'appartamento. Per le prime sette settimane Rachaela si era preoccupata di arrivare sempre in orario, poi, da quando aveva smesso di essere così scrupolosa, i suoi ritardi non avevano mai superato i dieci o quindici minuti, e in questo era stata spesso battuta dai compagni di lavoro, che arrivavano con ritardi anche di mezz'ora su quelli già previsti a causa della metropolitana o degli ingorghi. Per lei questo era un lavoro temporaneo, era certa che le si sarebbe presentato qualcosa di più allettante. Nel frattempo aveva uno stipendio niente male, senza contare la sterlina occasionalmente sottratta dal resto che si era rivelata un utile espediente per mettere da parte qualcosa in più. Solo una volta un cliente aveva controllato i soldi e l'aveva informata che gli aveva dato meno di quello che avrebbe dovuto. Rachaela era apparsa imbarazzata, si era scusata, e aveva pescato la banconota dalla cassa. «Non fa niente,» l'aveva rassicurata con un sorriso il cliente, «tutti possiamo sbagliare.» L'altro sbaglio che aveva commesso l'aveva completamente dimenticato. Nel periodo in cui, come aveva letto su un libro preso in biblioteca, la maggior parte delle donne cominciava ad avere le nausee, lei aveva smesso di soffrirne. Non aveva avuto più nessun sintomo, a parte l'assenza del ciclo mestruale. Si era allargata un po' in vita e sui fianchi. Se n'era resa conto prima quando aveva dovuto allargare i bottoni delle gonne, poi quando aveva cominciato a indossare vestiti di una taglia più grande. Si era com-
prata delle magliette larghe, mentre il vestito rosso, che le era sempre andato largo, ora le stava benissimo. Passando attraverso una primavera tempestosa, il tempo volgeva verso un maggio piovoso. Sugli alberi che si vedevano in lontananza dalla finestra erano sbocciate chiome arruffate di verde scintillante. I cieli grigi e burrascosi li rendevano se non altro più verdi. Il centonchio faceva capolino tra le mattonelle dei marciapiedi, e la città era tutta un germogliare rigoglioso in ogni crepa e fessura. Il tempo mentiva, era quasi estate. Rachaela non pensava più alla cosa che aveva dentro. L'aveva completamente rimossa. E come d'accordo con il suo piano, quella non dava segni evidenti della propria esistenza. La sua più grande bravata, l'enorme impianto stereo che aveva ordinato dal catalogo che le aveva dato Emma la prima volta che si erano incontrate, era probabilmente arrivato mentre lei si trovava al ristorante. Di ritorno a casa a mezzanotte e mezza, Rachaela lo trovò nel portone, portato dentro sicuramente da qualche altro inquilino. Cominciò allora a trasportare i pacchi per tre piani. Era impegnata nell'ultimo viaggio e stava passando davanti al numero cinque quando vide la porta aprirsi ed Emma Watt che si sporgeva a guardare. «Santo cielo! Credevo che fossero gli uomini dell'agenzia! Mio Dio, ma non deve portarlo da sola, lasci che la aiuti. No, insisto.» E così, con l'aiuto di Emma Watt, Rachaela portò l'ultimo pacco nell'appartamento. «Non mi dica che li ha portati tutti da sola! Ce ne sono alcuni che sembrano davvero pesanti. Queste ditte di oggi lavorano malissimo. Non avrebbero potuto portargliele loro? Nelle sue condizioni... oh, mi scusi,» si interruppe Emma Watt, arrossendo per l'imbarazzo. «Le devo sembrare una ficcanaso. Voglio dire, quasi non si vede, ma io non ho potuto fare a meno di notarlo, lei è così snella... io ne ho avuti tre, e ho visto passarci le mie figlie. Spero che non si sia dispiaciuta se gliel'ho detto.» «No.» «Deve stare attenta,» continuò Emma Watt. «Non sarà successo niente, ma non dovrebbe portare niente che pesi più di una borsa... era quello che mi diceva sempre il mio povero marito, e poi aggiungeva che il peso delle mie borse avrebbe fatto impallidire anche un forzuto.»
Rachaela, quasi seguendo il suggerimento, si sentì d'improvviso indebolita, e si mise a sedere sul letto. «Ecco, vede, ha esagerato. Vuole che le prepari una tazza di tè?» «Sto bene.» «Io gliela faccio lo stesso. Non si preoccupi, non ho intenzione di fermarmi, giusto il tempo di farle una tazza di tè. La cucina deve essere da questa parte, no? Come la mia. Lei pensi solo a rilassarsi, e a tenere i piedi sollevati.» Dalla cucina si sentì lo scroscio dell'acqua ed Emma che scopriva con stupore che Rachaela non possedeva una teiera. «Fa lo stesso, userò le bustine, sono comodissime, non trova?» Rachaela guardò i pacchi. Avrebbe mai trovato la forza di aprirli? «Cosa c'è dentro le scatole?» domandò Emma tornando dalla cucina. «Un impianto stereo? È capace di montarlo da sola? Io sono senza speranze per questo genere di cose. Comunque, se dovesse avere dei problemi si rivolga all'ometto in Horsley Street, quello del negozio di materiale elettrico. È un tesoro, ha messo il filo a tutte le mie lampade e mi ha collegato la lavatrice.» «Me ne ricorderò.» «Il bollitore ci metterà un attimo. Oh, deve essere stanchissima, lavora fino a tardi, vero? Spesso la sento quando rientra... non deve pensare che mi disturbi, lei è davvero silenziosa e io resto sempre alzata fino all'una o le due. Ho il sonno molto difficile. Potrei prendere delle pillole, ma al mattino mi fanno sentire uno straccio. La prego, non pensi che mi voglia impicciare dei suoi affari, ma mi piacerebbe tanto sapere quando nascerà il bambino.» Rachaela le ripeté quello che aveva appreso dal solito libro. «Dicembre.» «Un Capricorno, sono stupendi. Mio Dio, è al quarto mese ed è ancora così magra. La mia figlia di mezzo era come lei, alta e snella, era difficile credere che fosse incinta, e la disturbava vedere come nessuno se ne accorgesse. Diceva che avrebbe voluto volare sulla terra come le serve di Titania. La mia figlia maggiore invece, povera ragazza, si era gonfiata come un elefante. Che le hanno detto all'ospedale?» E Rachaela: «Sembra che sia tutto a posto.» «Sì, certo. E poi lei è giovanissima, ha proprio l'età giusta.» Emma Watt arrossì ancora. «Certo è un peccato che debba sbrigarsela tutta da sola.» «Questa è stata una mia decisione.» «Sì, è coraggioso da parte sua, ed è stata estremamente saggia a decidere
di andare avanti e tenersi il bambino, se lo voleva.» «Io non lo volevo,» disse Rachaela, «non lo voglio.» Ma si pentì subito di aver parlato. Emma Watt non pareva scioccata, ma solo profondamente triste. «Ma è terribile. Perché...» «Mi sono rivolta al medico sbagliato.» «Oh, povera ragazza. Ma non poteva... no, suppongo di no. Quindi ormai si è rassegnata. Ma continuo ancora a pensare che sia stata la cosa migliore. Quando il bambino sarà nato... ti ripagano di tutto. Per me è stato bellissimo averli piccoli e vederli crescere. Io li amo, amo i miei figli. È un peccato che siano tanto lontani, non li vedo quasi mai. Loro mi telefonano, certo, ma non è molto bello. Hanno sempre avuto paura che io non ce la facessi ad andare avanti da sola dopo la morte di mio marito, e io devo continuamente dimostrare loro che posso farcela.» Emma sorrise con fierezza, orgogliosa della propria maschera, ma i suoi occhi erano umidi. «Mi sono mancati molto tutti i nipoti, è bruttissimo. Io amo davvero tanto i bambini, mi affascinano questi esserini minuscoli e indifesi che prendono forma giorno dopo giorno finché non diventano persone. Oh, sono certa che sarà contenta.» Alzò quindi il capo. «L'acqua bolle.» Emma andò a preparare a Rachaela il tè indesiderato. Per sé non ne aveva fatto, e si congedò subito da Rachaela lasciandola con la tazza in mano. La stanza stranamente si oscurò, forse per uno scherzo dell'elettricità. L'estate giunse all'inizio di agosto. La città arrostiva, gli alberi diventavano color rame. Una polvere ocra si levava dal selciato infuocato. Un cielo di cobalto faceva da coperchio a ogni puzza o esalazione. Su ogni cosa odore e sapore d'asfalto, di benzina, dei gas di scarico delle macchine e di gelati troppo dolci. A Rachaela doleva senza tregua la schiena, ma era una cosa che poteva attribuire al lavoro. Il vestito rosso della divisa era teso e lei lo copriva con il grembiule. Una delle altre ragazze aveva sparso la notizia che Rachaela avesse messo su peso per colpa del cibo. Un giorno riuscì a raccogliere dieci sterline grazie ai clienti distratti che non contavano il resto. L'uomo di Horsley Road le aveva montato l'impianto. La radio non funzionava granché bene, ma il registratore e il giradischi erano eccellenti.
Rachaela comprò dei libri e li sistemò sulle mensole della libreria. Ogni tanto Emma compariva con qualche scusa, ma non lo faceva troppo spesso. Ancora non sapeva come si chiamava Rachaela. Settembre fu un mese fulvo, abbronzato. Pelli cotte per la strada, e una friabilità rossiccia sulle foglie degli alberi. Ottobre ingialliva tutto; tramonti color banana screziati di lame dorate, e le prime luci dell'aurora giallo limone, quando Rachaela, tirata fuori dal letto dai crampi e dall'insonnia, guardava sorgere il giorno e gli alberi del parco trasformarsi in bandiere giallo topazio. Di notte tempeste, diluvi di pioggia bollente. Sibelius, Mozart, Shostakovich. Nessun bisogno di pensare e molta indolenza. Avrebbe dovuto lasciare il lavoro al Pizza Eater. La schiena le urlava, e quando si chinava a servire gli ultimi clienti della sera con i loro aliti di birra e Cinzano, le girava subito la testa. Nessuno si era accorto che era incinta. Pensavano che fosse ingrassata, una buona pubblicità per il cibo succulento che servivano. L'estate era terminata con la prima notte d'ottobre. La grandine aveva sferzato i tetti e i vetri delle finestre. Rachaela era rientrata in casa a pezzi e si era seduta davanti alla finestra a guardare fuori, con la schiena imballata tra cuscini e guanciali. Aveva avuto un'allucinazione, le era sembrato di vedere giù in strada un uomo alto e con i capelli scuri che camminava sotto la grandine, Adamus in un mantello di tuoni che veniva a reclamarla per conto degli Scarabae. Poi era finito tutto, era stato solo un sogno, una fantasia innocente, e Rachaela si era ritrovata lì, schiava del tumore che racchiudeva il suo utero, e che era reale. CAPITOLO UNDICESIMO Dai grandi negozi che affacciavano sulla strada principale giungevano lamentosi canti natalizi e scampanellii tintinnanti, una gioia forzata. Pioveva forte, e c'era molta influenza in giro. Rachaela si era licenziata dal Pizza Eater, lasciandolo proprio quando si cominciavano a regalare i palloncini e il pudding di Natale era appena apparso sul menù. Dei bambini avevano rovesciato l'albero di plastica verde e rossa, e tutti erano corsi a rialzarlo: era questa l'ultima immagine che aveva avuto del ristorante. Emma Watt venne fuori dalla porta del suo appartamento come l'uccelli-
no di un orologio a cucù. «Ho comprato una bottiglia di un buonissimo sherry e un po' di vino. Ti va di scendere da me a bere un bicchiere? Per brindare al mio alberello. Ne faccio sempre uno, bisogna farlo. Il Natale è molto importante, bisogna salutarlo, anche se... ecco... anche se si è soli. Vai da qualche parte a Natale?» «No.» «Te ne stai tranquilla per conto tuo. Fai bene, devi riposare quanto più puoi. Allora poi vieni giù, va bene verso le sei?» «D'accordo,» disse Rachaela per farla smettere di parlare. Rachaela non si era mai preoccupata del Natale, che per lei aveva sempre significato soltanto un giorno di privacy in più. Sentiva echi distanti di campane e un insolito silenzio nelle strade. Alla radio trasmettevano musiche natalizie che di solito non le piacevano, lunghissimi oratorii e particolari drammi quasi religiosi. Una volta per curiosità aveva ascoltato la funzione della notte di Natale, di cui conosceva gli inni, o perlomeno le melodie, per averli imparati a scuola. Anche la madre di Rachaela era stata una sostenitrice delle celebrazioni natalizie. Di solito preparava una cena con tacchino o pollo ripieno, salsicce e patate arrosto che comportava più o meno lo stesso subbuglio e nervosismo dei saltuari pranzi della domenica: Rachaela reclutata a pulire ortaggi e a incidere croci su migliaia di cavolini di Bruxelles. Un Natale la madre si era ustionata con il grasso del tacchino. I vicini venivano da loro per un drink e ci si scambiavano scatole di cioccolatini e fazzoletti. Dopo i vicini, la cena e il discorso della Regina, cominciava la depressione per il cibo troppo pesante e i numerosi gin tonic. La madre le faceva sempre regali stimolanti, una camicetta nuova o un paio di scarpe che stringevano. Una volta Rachaela aveva ricevuto da una vicina un costume da fata. L'aveva indossato e ci aveva giocato per ore, aveva sei anni, e le era sembrata una cosa meravigliosa e magica. Ma chissà come le ali si erano strappate, come un simbolo, e la madre l'aveva sgridata facendola vergognare. Rachaela non aveva voglia di andare a brindare all'albero di Natale di Emma Watt. Fino ad allora aveva evitato di entrare nel suo appartamento. Si era perciò accomodata in preda all'angoscia davanti al caminetto elettrico, con la schiena rincalzata con cuscini e in mano un bicchiere di vino. Il mal di schiena continuava a tormentarla e aveva anche preso tre analge-
sici. Poi, malgrado il dolore aveva deciso di andare a letto. Fu svegliata dai colpetti vivaci di uno scoiattolo che bussava alla porta: Emma Watt. «Accidenti a lei.» Era meglio andare ad aprire e dirle che non si sentiva bene, che non poteva scendere, che le era venuto sonno più presto del solito e così via. Non ricevendo risposta Emma si preoccupò e bussò ancora chiamandola; era già successo. Come Rachaela si alzò qualcosa dentro di sé parve strapparsi verso il basso, tra la spina dorsale e lo stomaco. Si fermò, disorientata, ad aspettare un seguito, ma non successe nulla. Allora raggiunse la porta e l'aprì. «Stai bene?» le domandò Emma Watt. «Oh, mia cara, hai un aspetto orribile.» «Sì, forse è meglio che non scendo.» Un dolore come quello del peggiore mal di denti la agguantò dalle viscere, e lei si sentì avvizzire. «Che c'è?» le fece Emma. «Soltanto un dolore.» «Che tipo di dolore?» Intontita Rachaela glielo spiegò. Aveva dovuto aggrapparsi all'infisso della porta, per la prima volta dopo mesi sentì di nuovo una forte nausea. «Scusami, devo andare al bagno.» Vomitò, e ogni cavità del suo corpo si svuotò. Quando, tremante, uscì dal bagno, Emma Watt ovviamente era ancora lì, in piedi al centro della stanza. «Mia cara,» le fece, «credo che tu abbia cominciato.» «Cominciato cosa?» «Il tuo bambino sta nascendo. Oh, non devi avere paura, questo finirà presto, e allora comincerà la parte meravigliosa.» Rachaela si mise a sedere. Il dolore tornò, stringendo in una morsa le budella svuotate, torcendo il corpo come uno straccio. «Devi proprio dire simili idiozie?» Emma ci passò sopra. «Dimmi quello che ti pare,» disse a Rachaela, «coprimi di insulti. So che questo momento non è particolarmente bello. Ti chiamo l'ospedale, qual è... il St Mary? Come si chiama il dottore?» «Ah, quello,» fece Rachaela. «Niente dottore, niente ospedale.»
«Che?» «Non ho visto nessuno, Emma, quello era solo un idillio della tua fantasia. Non lo sa nessuno.» «Dio mio, Dio mio!» gridò Emma. Presa per un attimo dal panico, tornò subito in possesso delle proprie facoltà: «Non importa, ora chiamo un'ambulanza.» Rachaela la guardò con un sorriso sulle labbra. Ingoiò un sorso di vino ma lo rigurgitò subito e questa volta non fece in tempo a raggiungere il bagno. «Non bere. Prendi la mia mano, così. Non ci metteranno molto,» la rassicurò Emma, che Rachaela vedeva ormai immersa in una nebbia bianca. Il dolore tornò e la annientò. «Dio mio,» fece Emma, «farebbero meglio a sbrigarsi. Tu cerca di resistere, resisti, tesoro, andrà tutto bene.» «Ora spingi,» le diceva qualcuno, una donna che sembrava pazza. «Ecco, spingi, brava.» Stavano parlando a lei questi folli? Era sdraiata su una spiaggia rosso scarlatto e Zio Camillo, chino su di lei, le tirava via dal ventre il fardello cremisi. Era come se il corpo le venisse sbudellato. Dunque era questo l'aborto. Il dolore era terribile, molto peggio di come l'aveva descritto quella ragazza. «Un ultimo sforzo. Spingi.» Non poteva spingere, che significava? Un ritmo spaventoso come di cavalli al galoppo... poi più nulla. Tutto tornò quieto. C'era moltissima luce, ma diventava sempre più buio. «Ora puoi riposare.» Chi erano tutte queste persone che le si affollavano intorno circondandola come una barriera bianca? Era caduta per la strada? Il dolore era cessato. Ne sentiva un altro, ma era diverso, lento e sempre più debole. Qualcosa urlò come un animale selvaggio nel deserto. Era vivo. Le avevano tirato fuori la cosa, ed era viva, faceva dei versi orribili e non umani. In uno squarcio che si aprì nella barriera Rachaela vide un neonato bianchissimo appeso a testa in giù a un chiodo di luce. Un nastro rosso sangue
gli scintillava sulla schiena. «È una bambina, vedi? È perfetta.» Emma Watt sedeva accanto al letto. Gli occhi le brillavano ed era leggermente arrossata. Aveva portato delle rose rosa e una bottiglia di succo di mele, e poi dell'uva e delle caramelle con la carta colorata. «Non devi preoccuparti di nulla, Rachaela,» doveva avere chiesto il nome a qualche infermiera. «Ho pensato a tutto io, non ho dimenticato nulla. Ai soldi ci penseremo più avanti, ma non voglio che tu te ne preoccupi, per me è una questione senza importanza. Ho più del necessario, il mio caro amore si è preoccupato del mio benessere. E io so... be', non parliamo di queste cose ora. I vestitini della piccola sono rosa, naturalmente. È stato meglio non aver preso niente finché non si è saputo se era un maschio o una femmina.» Emma ebbe un attimo di esitazione. «Presto saranno di nuovo qui, no?» «Sì.» «Non vedo l'ora di rivederla. Oh, Rachaela, non ti senti orgogliosa? È una bambina stupenda.» «Non provo niente.» «Be', può succedere. Lo hai detto a loro come ti senti?» «È una cosa che non li riguarda.» «Ma Rachaela, li riguarda, eccome! Possono aiutarti a sentirti meglio.» «Io mi sento bene.» «Ma hai detto...» «Emma, te l'avevo già detto, io non volevo questo... bambino.» «Ma ora la bambina c'è, ed è tua.» «Sì.» «Vorresti che lui...?» disse cauta Emma. «No. A lui non interesserebbe più di quanto interessi a me.» Emma guardò da un'altra parte e un attimo dopo le domandò: «Hai avuto più fortuna con il latte?» «Vuoi dire se sono in grado di allattarla? No, non posso, pare che io non abbia molto latte.» Rachaela soffocò il proprio disgusto. «Lo trovo repellente, è già abbastanza disgustoso con il biberon.» «Mi dispiace tantissimo,» disse Emma. «Emma, tu sei stata più che gentile, ma non puoi capire.» «No, e mi dispiaccio anche di questo.» «Non importa. Non posso fare nulla per aiutarti a capire, so che non pos-
so.» Tutti quei mesi a gonfiarsi, il dolore, il peso, e ora far finta che non esistesse. Invece era arrivato ed esisteva. Il dolore aveva assunto una forma che strillava e sbavava da ogni orifizio, impacchettata in una confezione bianca da ospedale che puzzava di feci, urina e malati. Una cosa che doveva amare. Per lei era come se gliela avessero messa dentro degli alieni, come se fosse uscita dal suo corpo squarciandolo... come del resto aveva fatto. L'aveva schiavizzata e danneggiata, e ora avrebbe condizionato tutta la sua vita, perché avrebbe dovuto amare questo demonio? Le balie stavano tornando con i loro sacchi di Babbo Natale pieni di neonati che frignavano e strillavano. «Ecco, Emma, è il tuo momento.» Il volto infelice di Emma ringiovanì all'istante, senza che questo le facesse perdere un po' del suo contegno. Si alzò e prese la bambina di Rachaela dalle braccia della balia con un insinuante «Posso?», come se stesse facendo un gioco di prestigio. La teneva esattamente nel modo in cui un neonato andava tenuto. «Ciao, tesoro, ciao dolcezza mia!» Emma l'amava, ma rispettosa mise il piccolo fagotto nelle braccia candide e fredde di Rachaela. Rachaela scrutò la piccola faccia da gnomo. Quella creatura era vissuta in lei, aveva usato il suo corpo, ma non le apparteneva. Apparteneva a loro, agli Scarabae. Nel suo pallore poteva già vedere la polvere finissima del pelo nero e lucente. Anche gli occhi erano già neri; ancora non focalizzavano, ma avevano già un'aria indagatrice. Ancora niente denti. Non ancora. Rachaela si diede un'occhiata intorno. La corsia era piena di donne soddisfatte in attesa di poter offrire le proprie mammelle ai figli come vacche. Nei corridoi aspettavano orgogliosi i mariti, i fidanzati e i genitori. Le balie nella corsia erano severe ma plaudenti. Appena i neonati furono messi sul seno delle madri, la stanza, che quasi vacillava per i loro guaiti, piombò nel silenzio. Le piccole bocche avide, le mani che palpavano e stringevano. Tutti dei piccolissimi vampiri, mentre il suo, questo mostro, avrebbe dovuto accontentarsi di un biberon. «Non ti piace, vero?» disse Rachaela al mostro mentre succhiava. «O il biberon o stai senza.» Rachaela lo odiava. Quando si metteva a piangere lo fissava con uno sguardo assente, lei che gli aveva fatto da valigia.
Nella stanza era cambiato qualcosa: c'era un lettino per neonati. Rachaela metteva la bambina in questa prigione in miniatura e lei andava carponi nella trappola. Ogni tanto doveva tirarla fuori per cibarla e cambiarle i pannolini pieni di escrementi. La stanza puzzava, e Rachaela teneva sempre la finestra aperta e il camino elettrico acceso. Quando il tempo cominciò a diventare più mite il camino non fu più acceso. Emma andava e veniva. Era lei a occuparsi dei pasti controllando la temperatura del latte, lei a tirare fuori dal recinto la bambina per giocarci. Le aveva comprato dei giocattoli di gomma rosa e celesti che la piccola guardava con occhi sempre più imperlati. «Non è carina?» diceva Emma a Rachaela, forse per incoraggiarla. La bambina non era carina. Era una neonata: un essere primitivo e incompleto che strisciava carponi come una lumaca bianca affaccendata. Quella notte piangeva in continuazione. Rachaela si alzò e le diede da mangiare. La cullò in modo brusco, odiandola, e la bambina diventò isterica. Era forte, giorno dopo giorno la sua voce si faceva più sonora, i pugni e i calci più potenti. Rachaela la toccava il meno possibile. Alla fine la lasciò piangere. Lei strillò per ore svegliando certamente tutto il palazzo, finché verso il mattino il suo pianto si smorzò da solo. Allora Rachaela si alzò e andò a guardarla. Gli occhi nero blu della bambina sembrarono focalizzarsi su di lei per la prima volta. Aveva imparato qualcosa. Rachaela ed Emma la portavano in carrozzina in giro per i negozi e poi fino al minuscolo parco con le sue tre o quattro aiuole e i bordi alberati. Il vento gelido sferzava i loro volti, ma la piccola stava al riparo dentro il suo letto mobile, mentre i coniglietti rosa e celesti ciondolavano tra il suo viso e il mondo reale. «È una fortuna che non sia nata il giorno di Natale,» disse Emma. «Comunque non saranno mai abbastanza i regali che riceverà, povero tesorino.» La bambina ora aveva un nome, si chiamava Ruth. «Rachaela e Ruth,» disse Emma, e poi, rivolgendosi alla bambina, «Dovunque tu vada, io andrò.»
A decidere come chiamare la piccola era stata in effetti Emma; un giorno si era messa a snocciolare uno dopo l'altro una serie di nomi, fermandosi a valutare i meriti di ciascuno, a consigliare, e a persuadere, fin quando Rachaela per farla smettere ne aveva approvato uno. Il nome non stonava tra quelli degli Scarabae. Un nome ineluttabile, biblico: Ruth, figlia di Adamus. «Ti starà venendo la nausea a stare chiusa in casa tutto il giorno,» riprese Emma mentre avanzavano a fatica contro il vento tagliente. «So com'è. Mia figlia, la grande, stava per diventare matta con Richard. Ricordo che mi telefonava spesso, soltanto per sentire una voce adulta che sapesse parlare.» Rachaela spinse la carrozzina in mezzo agli alberi spogli. «Perciò, se vuoi uscire un po' da sola e ti fidi di me,» concluse Emma, «a Ruth posso badare io.» «Grazie,» rispose Rachaela, «ma quello di cui ho veramente bisogno è trovarmi un lavoro. I soldi se ne sono andati in fretta.» «Ma puoi ottenere degli aiuti, Rachaela, e devi farlo.» «Sì.» «È una follia cercare di farcela da sola.» Rachaela non aveva ancora reso a Emma il denaro che lei aveva speso per la marea di vestitini rosa, per le coperte e i giocattoli, la carrozzina e la culla. Emma le ripeteva sempre che non voleva quei soldi, che la ripagava già abbastanza Ruth, il poter godere di una parte di lei. E a poco a poco Emma e Rachaela divennero compiici: l'una nel volere Ruth un po' di più di tanto in tanto, e l'altra nel cedergliela volentieri. «Ho bisogno di un po' di spazio per pensare,» disse un giorno Rachaela. «Falla tenere a me, allora. Te l'ho già detto, ti puoi fidare di me... e se vuoi tornare a lavorare me ne occuperò io. Ma solo se sei sicura...» «Sì. Non sono brava con... lei. Sei stupenda,» aggiunse poi Rachaela con freddezza, un complimento senza senso. Ma nel parco spogliato dall'inverno Emma fiorì. «Sai, ne ho avuti tre. E per un po' ho seguito Pauline quando era piccola, quel poco che è mi bastato a ricordare come si fa. Ruth è un tesoro, Rachaela, puoi star certa che mi prenderò cura di lei.» Rachaela aveva già notato la nuova libreria che avevano aperto sulla strada principale: Isis Books. Trattati femministi e piccoli romanzi erano allineati nelle vetrine. Aveva già un aspetto polveroso che ricordava a Ra-
chaela il negozio di Mr. Gerard in Lizard Street. Un giorno entrò e comprò un romanzo ambientato in India, affascinata dal modo in cui era scritto, dal calore, dalla polvere e dal profumo di cannella di posti lontani. Alla cassa c'era una ragazza gentile e dai capelli increspati. «Sto cercando lavoro. Prima della gravidanza stavo in una libreria.» «Oh, un figlio,» disse la commessa. Le donne erano madri, predilette di Iside. «Mi domandavo se avevate bisogno di un'altra persona.» Rachaela ricordava che in principio ci lavoravano tre ragazze e una donna; ora era rimasta solo questa ragazza. «Come, a mezza giornata?» «No, a orario completo.» «E il bambino?» «Me la guarda un'amica.» «Ah, è una bambina? Che bello!» La ragazza le diede il resto senza sbagliare. La cassa non era computerizzata. «Devi parlare con Jonquil, ma oggi non viene. La puoi trovare domani mattina. Perché non passi e parli con lei?» Il mattino seguente Rachaela tornò alla libreria, lasciando Ruth dentro il suo recinto nell'appartamento affollato di Emma. Jonquil venne fuori dal retro. Era una donna di circa trentasette anni, alta e smilza e con i capelli ispidi striati di grigio. Indossava un paio di jeans e un largo maglione, stivali da cowboy, e un orecchino d'acciaio. «Sì, certo, ti posso dare lavoro. Denise sta qui tutto il giorno. Lo stipendio non è il massimo, ma non posso pagare di più.» Aveva gli occhi di un grigio pallido e il viso rovinato dalle intemperie. «Questa è una libreria per le donne. Se possiamo aiutare qualcuno ci va bene. Non assumiamo uomini.» Lo stipendio era davvero basso, ma era pur sempre qualcosa, ed Emma si sarebbe presa cura della bambina, che avrebbe trascorso tutto il giorno insieme a lei. E poiché Emma la stava già svezzando, a Rachaela sarebbe toccato soltanto dormirci insieme, tutto lì. Senza contare che qualche volta gliel'avrebbe potuta lasciare anche di notte. Jonquil mostrò a Rachaela il negozio. Tutti i libri erano scritti da donne. «Dunque hai una figlia? Scommetto che il porco ti ha lasciata. Fregatene. È una bambina, avrà delle chance, le cose stanno cambiando.»
Ogni tanto degli uomini con l'impermeabile si fermavano a guardare dentro le vetrine del negozio, ma in genere non ne entrava nessuno. Rachaela stava alla cassa a leggere, facendosi ogni tanto un caffè. All'ora di pranzo chiudeva il negozio per un'ora o più, e nel pomeriggio smontava alle cinque e mezza. Jonquil veniva ogni due o tre giorni. Denise si univa a Rachaela il giovedì e il sabato. Aveva diminuito i giorni di lavoro per dedicare quasi tutto il suo tempo e le sue energie al ragazzo con cui viveva. Un giorno aveva confessato che non poteva indossare il rosso perché a Keith non piaceva come le stava. «Perché non lo mandi al diavolo il tuo Keith?» fu quanto le disse Jonquil. Lei e Denise pensavano di conoscere la vita di Rachaela e così non le facevano troppe domande. Quando Rachaela faceva tardi all'apertura del mattino non c'era nessuno a controllarla. Solo una volta Jonquil era arrivata prima. «La bimba ti ha trattenuta,» le aveva detto. «Non fa niente.» «Ha imparato a camminare,» disse Emma, rossa come se la stessero strizzando. «Lo ha fatto per davvero. Lo so che sei appena tornata, ma vieni giù a vedere. Ti preparo un tè, anche se dovremmo bere champagne.» L'appartamento di Emma era il caos. Alle poltrone e al divano di cinz, a un altro divano che si trasformava in letto, agli orologi e ai ninnoli, alle bambole antiche e ai mucchi di fotografie, ai fiori freschi e ai fermacarte di vetro colorato, si erano aggiunti ultimamente la carrozzina e il recinto, i giocattoli sparsi dovunque, un grande orso di peluche e la bambina. La bambina non volle camminare per Rachaela. Oppose un categorico rifiuto. I suoi occhi, di un nero omogeneo erano vaghi e innocenti, e lei sedeva sul pavimento. «Oh, come sei dispettosa.» Emma la prese in braccio e la fece saltare tra le braccia. «Brutta salsicciotta, non far vedere a mamma quello che sai fare!» E Ruth si mise a ridere, come le succedeva spesso quando stava insieme a Emma. «Mi dispiace, ma lo ha fatto per davvero. Non me lo aspettavo.» «Be', immagino che prima o poi lo farà. Camminerà e comincerà a parlare.»
«Sarebbe già tempo che dicesse qualcosa. Oh, non c'è niente di male, anche Pauline è stata lenta, dipende dal loro temperamento.» «Non parla perché non ne ha bisogno,» disse Rachaela. «Tu anticipi telepaticamente ogni suo desiderio.» «È vero? È vero, salsicciotta?» domandò Emma alla piccola che ridacchiava. E quando il suo viso si corrugò in una risata Rachaela lo vide diventare vecchio, vecchio come quelli degli Scarabae. Rachaela mise il bollitore sul fuoco e preparò del tè per Emma e del caffè per sé. Ormai l'appartamento di Emma le era familiare. «Dovresti passare più tempo con lei,» le suggerì morbida Emma. «Rachaela, ti stai perdendo i momenti migliori.» «Ti dà noia? Vuoi che te ne liberi?» «Rachaela, lo sai che non è così. Io la adoro.» Emma strinse Ruth nelle braccia in modo protettivo, quasi con possessività. «Volevo solo dire...» «Non mi interessa.» «Oh, Rachaela... non puoi saperlo, non hai mai provato.» «Ho dovuto portarla dentro di me, ho dovuto farla nascere. Questo mi è bastato.» «Se solo potessi farti capire come può essere bello!» «Se potessi capirlo, Emma, me la stringerei al seno come fai tu, lei non avrebbe occhi che per me, e ora non ci troveremmo qui.» Emma impallidì. Il volto, d'un tratto raggrinzito, tornò a distendersi con difficoltà, e lei mandò giù. «Sì, hai perfettamente ragione, certo.» «Se io amassi i bambini.» «Se tu avessi amato Ruth io non avrei potuto... non avrei potuto badare a lei come ho fatto finora.» «E tu la ami molto.» «Sì, la amo.» «Dunque è una fortuna,» fu la spietata conclusione di Rachaela. «Una fortuna sia per me che per te.» «Sì,» ribadì Emma. Si abbassò e rimise Ruth a terra sulla morbida coperta e accanto ai suoi giocattoli. Poi rimase a guardarla. Rachaela bevve il suo caffè e le lasciò di nuovo sole, in modo che Emma potesse dare a Ruth il suo ributtante tè colloso.
La domenica andarono ai prati, e fu un'impresa, con Emma che ogni volta che entravano e uscivano dalla metropolitana o prendevano le scale mobili insisteva perché la carrozzina di Ruth venisse sollevata in modo da non danneggiarle la spina dorsale. Rachaela non sapeva perché aveva partecipato alla gita. Gli alberi erano ombrelli di foglie e papaveri dal colore vivace punteggiavano il prato. Dove era finito tutto quell'anno? Rachaela ebbe l'impressione di averlo passato sottoterra, in letargo tra l'appartamento e la polverosa libreria. «Si sta divertendo,» disse Emma. «Guarda, Ruth. Albero. Cagnolino. Di' cagnolino, Ruth.» Ruth guardava con quei suoi occhi spaventosi, occhi da Anna e da Zio Camillo, non come gli occhi di Adamus, molto più vecchi. Spingevano la carrozzina lungo i sentieri. Il sole era caldo e i prati inondati di gente. I cani andavano in giro ringhiando, o si tuffavano nello stagno verdastro per poi emergere e scrollarsi di dosso l'acqua a raffiche. Poi Emma e Rachaela si diressero verso il posto di ristoro per prendere un caffè. In un campo c'erano dei cavalli rossi. «Guarda Ruth, il cavallino.» «Non credo che le interessi,» disse Rachaela. «Ma certo che le interessa. Per lei è tutto straordinario e nuovo.» Rachaela pensò che dovevano sembrare un normalissimo nucleo familiare: Emma la nonna affettuosa, e Rachaela la madre con la sua bimba dai capelli neri. Le venne da chiedersi quanti degli altri gruppetti che parevano normali famigliole lo fossero davvero: forse quell'uomo con gli occhiali era uno che picchiava moglie e figli, e i due innamorati che dividevano il gelato, fratello e sorella. Ma non riusciva a immaginare che qualcuno nascondesse una stranezza pari alla propria. La sua bambina avrebbe dovuto portare al collo un cartello: Concepita da mio padre mentre beveva il mio sangue, sospettata di essere una creatura del demonio. Ovviamente Ruth non era un demonio. Emma non lo pensava affatto. E comunque non c'era motivo di preoccuparsi, Emma si sarebbe occupata di lei. Portarono la carrozzina sul campo da golf. Quando Rachaela ne prendeva la guida gli occhi neri della bambina si rivolgevano a Emma in cerca di rassicurazione. Chi era quell'estranea che
le spingeva la carrozzina? Emma incoraggiava Rachaela con frasette di circostanza. «Ti riconosce.» «Non le piaccio,» diceva Rachaela. «E perché dovrei piacerle? Sono stata solo un contenitore.» Un'intensa luce dorata splendeva nel cielo. Alle cinque cominciarono ad avviarsi verso casa. La metropolitana era piena di passeggeri abbronzati e concitati che tornavano a casa e di altri che si dirigevano verso il centro di Londra. Su tutti aleggiava una specie di polline lanuginoso di polvere e sole. L'aria puzzava di pelle e di deodoranti. Un uomo con la bombetta aiutò Emma con la carrozzina. Quando arrivarono a casa andarono nell'appartamento di Emma. Emma prese la bambina dalla carrozzina. «Santo cielo, starai morendo di caldo, povera creatura! Ora facciamo un bel bagnetto fresco.» Mentre Emma faceva il bagno a Ruth Rachaela sedeva sul divano di cinz a guardare le statuette cinesi e gli animali di vetro azzurro. Al posto d'onore sul caminetto elettrico c'era un fermacarte di vetro con dentro una giraffa su cui, quando si agitava l'oggetto, cadeva un'inopportuna nevicata. Il regalo di Pauline del Natale precedente. Lo sciabordio che veniva dal bagno terminò. «È bollente,» disse Emma. «Penso che abbia un po' di febbre, ma alla loro età sono cose normali, non c'è da preoccuparsi.» «Allora è meglio non muoverla da qui,» disse Rachaela. «No, la terrò io stanotte.» La bambina scalciò via le lenzuola innervosita. Il viso, di solito pallido, era paonazzo. Forse aveva preso troppo sole. Rientrata in casa Rachaela mise un nastro di Brahms e si preparò la tavola con un'insalata di lattuga e pomodoro e una coscia di pollo che aveva comprato al delicatessen. Mangiò senza appetito, nutrendosi invece della musica. Più tardi si mise a guardare il cielo che passava dall'oro al rubino sopra i tetti, e gli alberi distanti del parco annerirsi fino a scomparire. Dunque è questa la mia vita. Le veniva da ridere. Non aveva più pensato agli Scarabae. Era diventata bravissima a evitare ogni ricordo, specialmente quello di Adamus. Raccoglieva il pensiero e lo gettava fuori dalla mente, e quando quello ritornava lo gettava via un'altra volta. Accese la radio e ascoltò una tragedia greca, che le piacque nonostante
non ne capisse le parole. Verso le dieci e mezza, mentre si accingeva a fare un lungo bagno, Emma bussò alla porta. «Ti prego, non preoccuparti,» disse tutto d'un fiato Emma, «ma penso che dovremmo chiamare il dottore. Lui non ci sarà di sicuro, ma manderanno qualcosa. È bollente e non smette di piangere, lo sai che non piange mai. Sono sicura che non è niente, ma è meglio chiamarlo.» «Va bene,» disse Rachaela. «La vuoi portare qui?» «No, no, posso telefonare da casa mia. Tornerò a dirti cosa mi hanno detto.» «Sì.» Appena Emma se ne andò Rachaela entrò nella vasca, si depilò le gambe e le ascelle e fece lo shampoo. Emma bussò nuovamente. Rachaela andò ad aprire coprendosi con un asciugamano, e avvolgendone un altro sulla testa. «Manderanno qualcuno a vederla. Tra circa un'ora, hanno detto.» «Capito.» «Vieni giù, no?» «Se pensi che debba farlo.» «Certo che devi, Rachaela, è tua figlia.» Emma era pallida e smarrita. Rachaela non aggiunse niente ed Emma andò via. Allora Rachaela si sciacquò i capelli e li avvolse in un altro asciugamano, poi si vestì, mise le scarpe e scese da Emma. Emma teneva Ruth in braccio. Era seduta e faceva aria alla bambina con un ventaglio giapponese. Ruth sembrava un ravanello, era come se il suo sangue stesse lentamente raggiungendo l'ebollizione. Piagnucolava debolmente, senza mai fermarsi. Rachaela ed Emma sedettero l'una di fronte all'altra senza scambiarsi una parola. Ticchettando si consumò ciò che restava dell'ora d'attesa. «È il dottor Chatterjee,» disse infine Emma. «Non ho mai avuto bisogno di chiamarlo, non so neanche che aspetto abbia. Poveretto, queste chiamate notturne devono essere un tormento. I dottori ne passano di tutti i colori.» Sventagliò Ruth. «Avresti dovuto portarla alla clinica, Rachaela,» aggiunse poi, ma senza tono di accusa. «Non lo hai mai fatto.» «No.» «Le avrebbero fatto dei controlli regolari e completi. Oggi i bambini ricevono tante di quelle cure, Ruth invece non ne ha mai avute.»
«È forte,» ribatté Rachaela. Era stato l'istinto a farglielo dire. «Certo, certo. Questa vecchia stupida di Emma fa una tragedia per niente. Povera salsicciotta, povero tesorino!» La bambina ebbe un piccolo conato di vomito che sporcò i suoi vestiti e il cardigan di Emma. Emma si alzò per pulire per nulla innervosita o seccata, parlando nel frattempo a Ruth per spiegarle cosa stavano facendo. Rachaela stava sulla poltrona di cinz e si domandava se provava qualcosa, almeno un po' di dispiacere, ma non sentiva niente. Era come se Ruth fosse stata davvero la figlia di Emma, mentre lei, scesa lì per qualche altra ragione, si fosse trovata per caso ad assistere alla scena. Il vomito della bambina le dava il voltastomaco, quasi la offendeva. Ruth vomitava spesso il latte del biberon, sembrava che lo facesse apposta, come con gli infiniti miasmi pestilenziali dei pannolini sporchi. Mentre Emma e Ruth erano ancora nel bagno suonò il citofono. Rachaela andò a rispondere, e aprì il portone per far entrare il dottor Chatterjee, che dopo qualche attimo fu in casa. Era un piccolo e grasso indiano dai modi concitati e lo sguardo intelligente. Emma gli portò Ruth e lui la esaminò con attenzione. «Sì, avete fatto bene a chiamarmi,» disse a Rachaela. «La bambina sta molto male. Il mio consiglio è di portarla immediatamente all'ospedale.» Emma inorridì. Il dottor Chatterjee guardò prima una e poi l'altra donna. «Lei è la madre, no?» chiese a Rachaela. «Sì.» «Per non perdere tempo andremo con la mia auto.» «Grazie.» disse umilmente Emma. Per l'apprensione aveva stretto troppo la coperta in cui aveva avvolto Ruth, e il dottore dovette allentarla un poco. Rachaela si tolse l'asciugamano dai capelli umidi. Emma prese due dei pupazzi di peluche preferiti da Ruth. Fuori la notte era afosa e compressa, come in attesa di un temporale. Il selciato era cosparso di cartacce e una lattina ammaccata di Sprite giaceva accanto alla ruota posteriore della Sierra del dottore. Si diressero velocemente ma con prudenza al St. Mary's, con la grande facciata di mattoni come quella di una prigione, e dietro la ciminiera dell'inceneritore.
Quando Ruth fu ammessa, due lacrime sgorgarono dagli occhi di Emma. Era riuscita con eroismo a controllarsi fino a quel momento, costringendo il viso a mantenere un aspetto di ostinata freschezza. Rimasero a lungo sulle sedie di plastica marrone di un corridoio bianco. Le infermiere andavano e venivano indaffaratissime, fermandosi ogni tanto per scambiare qualche parola o una risata spensierata. A un certo punto passarono due inservienti dall'aspetto di bruti che spingevano un carrello masticando gomma americana. Era un contrasto impressionante con le stanze piene di malattie che si aprivano tutt'intorno, le corsie di un bianco scolorito affollate di corpi a cui erano stati tagliati per sempre dei pezzi, le grigie figure che, nascoste alla vista, si dibattevano strette in un ultimo abbraccio dalla vita. Rachaela si era fatta piccola dalla paura. Non le erano mai piaciuti gli ospedali, forse influenzata dalle ossessive paure della madre. La gente non andava in ospedale per farsi curare, ma per essere uccisa o mutilata. Avrebbe voluto andarsene a casa, e lasciare Emma a fare la veglia e ad aspettare. Ma sarebbe stato troppo, non era possibile. Lei, Rachaela, era la madre disperata, doveva restare e cercare di recitare la propria parte. Cosa provava? Niente, niente. Era da Ruth, trascinarla in un posto che lei detestava e costringerla a restarci per ore con i capelli bagnati. Gli Scarabae non si ammalavano mai. Poteva essere allora che Ruth non fosse una vera Scarabae, malgrado tutto? Una suora nel suo abito blu notte le si avvicinò. «Buona sera, lei è Mrs. Day? Stiamo facendo tutto il possibile, ma temo che la bambina sia molto malata.» Detto questo la donna esitò qualche istante, aspettando di vedere Rachaela mettersi a gridare, a piangere o svenire. Emma la gratificò scoppiando in lacrime. «Su, cerchi di non agitarsi troppo. Abbiamo buone speranze.» «Mi dispiace,» si scusò Emma, quasi che le sue lacrime avessero messo tutti in pericolo. «Mi sto comportando come una stupida.» «Immagino che vi farebbe piacere una tazza di tè. Vedrò di farvela avere.» «Grazie, sarebbe magnifico,» le disse Emma, e quando la suora si allontanò tornò a rivolgersi a Rachaela: «Sono tutti gentilissimi, queste persone sono dei santi. Sono sicura che andrà tutto bene.»
Dopo un po' permisero a Rachaela di andare da sola a fare una breve visita alla bambina. La stanza era piena di macchinarii, ma non c'era nessun dottore. Poi ne entrò uno, con il volto tormentato. «Lei è la madre di Ruth, vero? Be', sarò franco con lei. Siamo piuttosto preoccupati. Dobbiamo tentare ulteriori misure per fare abbassare la temperatura, e temo che possano essere un po' drastiche.» «Capisco,» fu tutto ciò che rispose Rachaela. Probabilmente il dottore aveva scambiato la sua assenza di reazione per l'intontimento che provocano gli shock. Rachaela lo sperava. Non desiderava l'ostilità di queste persone vestite con camici di neve. Il dottore aggiunse ancora qualcosa, compresi dei paroloni complicati che Rachaela non capì e che non era previsto che capisse. Nella sala degli stregoni lei doveva restare una novizia. Quando il dottore se ne andò lei tornò da Emma, a cui diede una versione epurata delle notizie. Emma era pallidissima. Non era riuscita a bere il suo tè, malgrado ci avesse provato per non sembrare scortese. Aspettarono per tutta la notte nel corridoio bianco. Alle cinque del mattino videro il tormentato dottore dirigersi lentamente verso di loro. Emma si alzò, e cercò con un gesto convulso la mano di Rachaela. Aggrottando le sopracciglia, il dottore disse che gli ultimissimi tentativi avevano avuto successo, che la temperatura di Ruth era calata, e che il respiro le si era regolarizzato. Nel giro di mezz'ora Rachaela sarebbe potuta andare a stare con lei. Emma scoppiò di nuovo a piangere, e ringraziò il dottore con un tale fervore che il volto mondano dell'uomo si illuminò dell'impaziente consapevolezza del salvatore. Rachaela fu guidata nella camera per stare con la sua bambina pallida e salva. Si mise a sedere. Aveva sperato con tutte le sue forze che Ruth morisse, non c'era ragione di mentire a se stessa. Non era ciò che anche sua madre aveva sperato? Non aveva guardato Rachaela viva come ora lei guardava Ruth? CAPITOLO DODICESIMO La bimba tra la neve:
Le si stendeva tutt'intorno come in una cartolina di Natale. La strada era trasformata dal candore fresco e morbido che ricopriva gli edifici. Si erano già formati dei sentieri di impronte nere ghiacciate. La bimba camminava lungo uno di questi, dirigendosi verso il palazzo. Era magra, una piccola bambina di sette anni, con due folte trecce di nero corvino tenute da fermagli blu. Indossava un cappello di lana rossa, una sciarpa e un paio di guanti che le aveva comprato Emma, e un impermeabile scuro con la cintura. Ai piedi portava dei piccoli stivali rossi che richiamavano il cappello, ancora un'idea di Emma. Aveva una cartella sulla spalle. Una qualunque bambina che tornava a casa dopo la scuola. Rachaela la vide dalla finestra della cucina di casa. Era stata una coincidenza che si fosse trovata lì nel momento in cui la bimba era apparsa in fondo alla strada. Nei primi tempi Emma accompagnava Ruth a scuola due volte al giorno, riportandola a casa a mezzogiorno e la sera. Ma quasi tutti gli altri bambini andavano e tornavano da soli: non c'erano grosse strade da attraversare, e per un bambino si trattava di una camminata di un quarto d'ora. Rachaela sapeva che Ruth non sarebbe salita a casa. Non credeva che Rachaela fosse a casa, e comunque pranzava e faceva merenda sempre da Emma. Quel giorno Jonquil aveva proposto di chiudere la libreria alle tre, a causa della neve. I tubi si erano congelati e le piccole stufe elettriche non funzionavano molto bene. Un idraulico maschio sarebbe dovuto venire a vedere i tubi, e questo aveva infastidito Jonquil, facendole oscillare l'orecchino d'acciaio per la stizza. Rachaela vide Ruth arrivare fino al portone e scomparire. Aveva la chiave. Rachaela si fece il caffè e uscì dalla cucina. Si fermò, come faceva sempre, a guardare l'appartamento, il suo appartamento e la zona di Ruth. Ruth di solito dormiva con lei, sebbene ogni tanto venisse a chiederle con garbo di poter passare la notte sul sofà di Emma. Era Emma che insisteva perché Ruth le chiedesse sempre il permesso. Rachaela e Ruth sapevano che non significava nulla, ma quello della richiesta era uno dei loro pochi momenti di accordo e comprensione. Anche l'area di Ruth era stata un'idea di Emma. Il letto della bimba, coperto da un drappo blu mezzanotte, stava dietro un paravento di vimini su cui era stato steso uno scialle cremisi. All'interno
erano appese delle campane che Ruth talvolta, quando si trovava in casa, faceva suonare. Dietro il paravento c'era anche una cassettiera che Ruth usava come piano d'appoggio per i suoi tesori, la scatola dei colori e la vacillante pila di libri. Emma le aveva insegnato a leggere prima ancora che avesse cominciato ad andare a scuola, e ora sulla cassettiera c'era una pila di libri di fiabe con le copertine dorate e rosa: Winnie the Pooh, Alice in Wonderland, e altre cose che probabilmente Ruth ancora non capiva o che ancora non avrebbe dovuto leggere: Lord of the Flies, The Lion, The Witch and the Wardrobe, Cleopatra. Rachaela non le controllava i libri, ed Emma credeva che la mente di un bambino dovesse sforzarsi. Ruth faceva i compiti da Emma oppure seduta sul letto blu. Prima sulla cassapanca c'era anche un vaso con una pianta che Ruth aveva chiamato David. Ma la pianta, privata della luce, non cresceva molto bene, così alla fine David era stato portato giù, e messo davanti alla finestra di Emma. Mezz'ora dopo che Rachaela aveva visto Ruth entrare nel palazzo, sentì Emma bussare alla sua porta. Rachaela la fece entrare. Emma sembrava a disagio e allo stesso tempo radiosa. Ruth doveva aver fatto qualcosa di particolarmente sorprendente, come quando era stata eletta prima damigella d'onore alla Festa della Reginetta di Maggio della scuola. Emma aveva insistito perché Rachaela andasse con lei; nella brezza pungente di maggio, erano state tutto il tempo dietro l'inferriata a guardare bambine vestite di rosa e con le gambe infreddolite che spargevano petali di carta, mentre Ruth, con il vestitino rosso che le aveva comprato Emma, incoronava di lustrini un bimbo sorridente. «Ruth sta prendendo il tè,» disse Emma. «Ho comprato le salsicce di cui va matta e un po' di pomodori.» «Grazie,» disse Rachaela automaticamente. «È successa una cosa,» continuò Emma. «Cosa ha fatto?» Una volta a scuola Ruth aveva fatto un disegno con un drago che divorava un cavaliere, e un bambino si era spaventato. Una persona della scuola era venuta a parlare a Emma, ma lei ne aveva riso. «Che ha fatto? Oh, non si tratta di Ruth, stavolta sono stata io.» «Cosa hai combinato?» «Non so da dove cominciare, sono terribilmente confusa, è successo così all'improvviso...»
Emma si mise a sedere su una poltrona vicino alla zona di Ruth. «Si tratta di Liz,» disse. Rachaela dovette scervellarsi per un po' prima di ricordare che Liz era una delle sue figlie, la più grande. «Liz,» ripeté, come per sollecitare Emma a continuare. «Mi è arrivata una sua lettera del tutto inaspettata. Lei non scrive quasi mai, ed ecco che oggi ricevo questa sua lettera. È meraviglioso, ma si trova in una situazione... Ha scoperto di essere di nuovo incinta. Non era una cosa programmata... ha trentasei anni. Lei vuole andare avanti, ma ha paura di non farcela. E pare che Brian abbia suggerito che io vada a vivere con loro. C'è una grande stanza con un bagnetto di servizio dove potrei stare, e Brian dice che mi potrà mettere anche un cucinino. La casa è deliziosa. Certo, è da anni che non la vedo, ma so che l'hanno ingrandita. Il giardino è meraviglioso... Sono emozionatissima. Cheltenham! Liz dice che ha bisogno di me. Ricordo che l'ultima volta era diventata grossissima. Naturalmente dovrà fare tutti quei noiosissimi test per essere sicura che il bambino stia bene.» Rachaela recepiva il fiume di parole di Emma con ritardo, riascoltando ogni frase nella propria testa. «Ma non ti avevano abbandonata?» «No, mai. Avevano le loro vite, e io da sola me la cavo benissimo, grazie alla mio carattere indipendente.» Emma si illuminò. «È mia figlia, non posso lasciarla nei guai.» Rachaela era appoggiata alla finestra, con la neve bianca alle spalle, e sentiva il pavimento sprofondarle lentamente sotto i piedi. «E così te ne vai.» «Devo farlo.» «E quanto tempo starai via?» «Be', penso che sia una sistemazione definitiva. Quando il bambino sarà nato, una baby-sitter le farà certo comodo. Devono poter avere una pausa. E poi, come dice Brian, be'... alla mia età un po' di sicurezza fa stare meglio. È un'opportunità stupenda, e non posso starmene qui e lasciare che Liz se la sbrighi da sola.» Liz ha lasciato che tu te la sbrigassi da sola. Ma non aveva senso mettere in evidenza l'egoismo altrui, quando era per il proprio egoismo che si stava soffrendo. «Lo hai detto a Ruth?» le domandò Rachaela. Dietro la luminosità, il volto di Emma apparve mortificato.
«No, non ne ho avuto il coraggio, e volevo dirlo prima a te. Ma Ruth è stupefacente per la sua età, e sono convinta che capirà. Lei mi vuole bene, e sarà felice per me.» «Ti adora,» rimarcò Rachaela. Emma strinse le spalle. «Credo che sia la cosa migliore. Tu e lei avete bisogno di passare più tempo insieme.» «Be', dovremo farlo per forza.» «Oh, cara, credimi, non so che fare.» Per una volta Emma era stata ipocrita, e lo sapeva bene. Cosa valeva Ruth messa a confronto con il frutto della sua carne e del suo sangue? Lei era solo una sostituta. Ora c'era la creatura vera, e Ruth era stata spazzata via. Rachaela provò un'amara compassione per la figlia, per quello che stava per abbattersi su di lei come un colpo di scure. Ruth non sarebbe stata felice per Emma. Anche lei era egocentrica ed egoista, con tutto l'egoismo di cui può essere capace un bambino. «Ciao mamma,» disse pallida dalla porta la voce di Ruth, e subito dopo, con molta più familiarità, «Emma, ho finito, e ho messo il piatto nel lavandino come mi hai detto tu.» «Grazie, Ruth.» «Perché sei quassù?» le chiese Ruth. Per lei quello era un posto dove si andava solo quando si doveva. «Dovevo vedere la mamma.» «Ora torni giù?» «Tra un minuto, tesoro.» Invece di andarsene, Ruth entrò nella stanza e si infilò dietro il paravento, nella sua zona. Le campane suonarono, ed Emma sussultò per lo spavento. Guardava Rachaela con aria supplichevole. «Perché non glielo dici adesso?» le propose Rachaela, con un tono spietato e insieme riluttante. «Tu credi...? Oddio, sì, penso che dovrei.» Emma non sapeva che fare. In quel momento Ruth sbucò dal paravento con in mano un foglio di carta vivacemente colorato di verde e malva. «Ecco il mio cavalluccio marino, Emma. Avevo dimenticato di fartelo vedere. Ho fatto bene la coda?»
«Oh, sì, è perfetto, Ruth. Lo metteremo insieme agli altri, d'accordo?» «Prima voglio mettergli delle conchiglie e delle alghe.» «Va bene, fallo pure, e poi lo appenderemo al muro. Sta diventando proprio una galleria d'arte. Ti piacerebbe andare in una vera galleria, Ruth, a vedere un po' di quadri?» «Ne avrai il tempo?» chiese Rachaela. Una rabbia senza possibilità di sfogo, come una specie di paura, le bruciava dentro. Avrebbe voluto che Emma portasse la bambina a casa sua, e che le parlasse lì. Sarebbe stato più gentile decapitarla con un coltellaccio. Si sarebbe messa a strillare? Una volta le avevano detto che a scuola aveva avuto una crisi di pianto, nessuno aveva capito perché. Emma aveva avuto il sospetto che qualcuno dei compagni l'avesse infastidita, ma Ruth aveva tenuto la bocca chiusa perfino con lei. Era stata Emma a scegliere la scuola, Rachaela aveva solo messo le firme necessarie. Il primo giorno di scuola Emma aveva accompagnato Ruth fino al cancello ed era tornata indietro con il naso rosso. Ma tutto questo era ormai passato. «Ruth, amore mio, devo dirti una cosa.» «Che cosa?» la bambina si voltò contenta verso lo splendore incupito del viso di Emma. Ruth non era graziosa, non era la Reginetta di Maggio. Aveva la pelle bianca come ghiaccio e omogenea, gli occhi grandi e di un nero luminoso ornati da frange di ciglia foltissime. I lineamenti erano già allora ben delineati, e la mascella si posava in modo grazioso sul collo bianco in mezzo alla cascata zampillante dei capelli scuri. I capelli di Ruth scendevano dritti come un getto di acqua nera. Qualcosa di suo padre, malgrado tutto. Era diffìcile dire perché fosse una bambina così poco carina. Preso un pezzo alla volta il visetto era delizioso, quasi etereo, ma visto tutto insieme era lontano dall'essere bello. E se si arrabbiava, quando un disegno non le veniva bene o quando si sentiva frustrata o confusa, quel viso diventava l'orribile faccia di una piccola bestiola. Presto sarebbe diventata brutta. «Sai,» disse Emma con tono giocoso, «mia figlia Liz, te la ricordi? Liz sta per avere una bambina.» «Sì,» disse Ruth seria, ascoltando con interesse. «E Liz vuole che io vada da lei ad aiutarla. Ma lei vive a Cheltenham, che è molto lontano da qui.»
Ruth annuì. Aveva capito. Con il tono di un uomo d'affari domandò a Emma, «Quando partiamo?» «Oh, tesoro,» disse Emma scoppiando in lacrime, «tesoro mio,» ma non riuscì ad aggiungere altro. Intervenne allora Rachaela: «Tu non ci andrai, Ruth. Emma deve partire, sua figlia ha bisogno di lei. Tu dovrai restare qui.» «No,» disse Ruth, senza scomporsi, «Io vado con Emma.» «Tesoro, mi dispiace... ma non puoi, non puoi venire con me. Mi piacerebbe tanto.» Bugiarda, pensò Rachaela. Ruth era perplessa. Prese il cavalluccio marino e lo osservò, come se cercasse una risposta tra le linee del disegno. «Devi restare qui,» disse Emma, «e badare alla mamma.» «No,» disse Ruth, sempre calma. «Sì, Ruth. È così, ti ho solo tenuta in prestito. È stato bello, e rimarremo buone amiche. Ti scriverò tutte le settimane, te lo prometto, ti dirò tutto di Cheltenham.» «No,» fece Ruth. Non aveva ancora gridato. «E poi verrò a trovarti,» cercava di convincerla Emma, «e ti porterò dei bellissimi regali.» «No.» «E forse un giorno potrai venire a trovarmi tu. Rachaela può portarti con il treno.» «No.» «Oh, cara, devi cercare di capire. È difficile, lo so, mi mancherai terribilmente, ma povera Liz, devo andare da lei. È mia figlia.» Ruth rimase in silenzio. Quindi tornò dietro il paravento portando il disegno con sé. Questa volta le campane non suonarono. Emma si voltò verso Rachaela. «È meglio che vada,» disse, sfregandosi la fronte. Aveva mal di testa. «Se vuole venire a prendere le sue cose...» «Quando parti?» le domandò Rachaela. Ruth stava sicuramente ad ascoltare da dietro il paravento. «Lei ha detto di andare al più presto possibile... Brian verrà a prendermi alla stazione. Ha detto che poi si occuperà del trasloco di tutte le mie cose. Liz è abbastanza disperata.» Disperata.
«Un mese?» «Credo... credo un paio di settimane,» balbettò Emma. «Oh, cara,» ripeté ancora una volta, e se ne andò. Non aveva pianto. Era chiaro. Perché avrebbe dovuto? Neanche Ruth aveva pianto. Forse le lacrime sarebbero scoppiate più tardi. Rachaela si mise a guardare l'imbrunire sulla strada innevata, la neve ammucchiata contro i muri, i passanti che scivolavano sul ghiaccio. Il silenzio nella stanza era assordante. La bambina non tornava più a casa per l'ora di pranzo. Si portava dei panini e li mangiava a scuola. Questo era un lavoro in più per Rachaela, preparare i panini per Ruth. Qualche volta Emma le aveva preparato la colazione, ma per quello non ci voleva niente, cornflakes o pane tostato. Il tè del pomeriggio era più fastidioso. La bambina era abituata a mangiare un pasto cotto. Quando tornava a casa andava dietro il paravento e si metteva ad aspettare Rachaela. Non le rivolgeva mai la parola per prima. «Ciao, Ruth.» «Ciao, mamma.» Rachaela detestava cucinare per Ruth. Di solito erano cose che a lei non andavano, e così doveva cucinare due volte. Rachaela cercava di prepararle le cose che mangiava quando c'era Emma, cose che le piacevano o che le facevano bene: salsicce e patate fritte, pollo con i broccoli, carote, pesce alla griglia con formaggio e fagioli al forno. Ruth era abituata anche al dolce alla fine del pasto, e Rachaela le comprava torte alla frutta e gelati, certo non come Emma che le preparava crostate di prugne e creme, biscotti e mele al forno. Rachaela aveva una capiente fruttiera blu che teneva sempre piena di mele, arance, pere e banane per la bambina, proprio come faceva Emma. Dal frigorifero non dovevano mai mancare succo d'arancia, Lucozade, e Pepsi. Quel frigorifero era sempre stracarico di roba. Era costoso nutrire la bambina. Per fortuna la lavatrice non aveva risentito del carico dei bucati di Ruth, e continuava a funzionare come aveva fatto per i sei anni precedenti. Emma aveva sempre stirato le camicette di Ruth, Rachaela invece ne aveva comprate di nuove che non ne avevano bisogno. Dopo il pasto serale, Ruth si ritirava nella sua area. Se aveva da fare qualche compitino per la scuola faceva quello, altrimenti faceva uno dei
suoi dipinti dai colori violentissimi, foreste infestate di leoni e castelli in fiamme, duelli in deserti, navi in mezzo a tempeste. La sua immaginazione era nutrita dalla scuola e dai libri; due volte a settimana Ruth andava in biblioteca, di solito da sola. A parte il cibo, costoso e noioso da preparare, e il guardaroba che doveva essere rinnovato in continuazione, Ruth creava pochissimi problemi. Quando dormiva non faceva nessun rumore, tanto che di notte era difficile immaginare che fosse lì, se non per il segnale del paravento. L'appartamento di Emma era rimasto vuoto per mesi prima che ci fosse venuto ad abitare qualcuno. I nuovi arrivi furono una sfortuna: due giovani uomini che di sera ascoltavano musica pop ad alto volume e a volte davano vita a rumorose liti... che includevano l'atterraggio sul loro campo d'azione. Ruth non aveva reagito a questo influsso alieno. Non aveva mai pianto per Emma. In principio le lettere di Emma, scritte su una carta a colori vivaci, arrivavano ogni nove o dieci giorni. Ruth si ritirava dietro il paravento per leggerle e le conservava in uno dei suoi cassetti. Non faceva mai commenti a riguardo, e non sembrava né turbata né contenta di riceverle. Dopo un paio di mesi le lettere cominciarono a diminuire. Ruth non aveva mai risposto. «Se vuoi scrivere a Emma,» le diceva Rachaela, «prendi dei fogli e una busta dallo scrittoio.» Ce li aveva messi apposta. «Ci sono tantissimi francobolli.» Ruth diceva di sì, e sapeva dei fogli e dei francobolli, ma non ne usò mai uno. Dopo quattro mesi fu Rachaela a ricevere una lettera da Emma. Emma era al settimo cielo, piena di notizie su Liz, ma ne chiedeva anche di Ruth. I bambini non sanno scrivere lettere. Io ricordo che ero una frana. Rachaela rispose alla lettera dopo una settimana. Ruth e lei stavano bene, non c'erano novità, in quel momento Ruth aveva da fare molti compiti, ma le mandava un saluto affettuoso. Rachaela non aveva chiesto a Ruth se voleva salutare Emma. Probabilmente le avrebbe risposto di no: quella di Emma era una storia chiusa. Questa banale comunicazione pose fine ai preludi di Emma, che cominciò a svanire dalle loro vite. Un giorno Rachaela trovò tutte le lettere colorate di Emma nel secchio della spazzatura sotto il lavello. Proprio all'inizio di questa faccenda, si era seduta con Ruth al piccolo
tavolo. «Mi dispiace che Emma se ne debba andare, sarà difficile per te, ma dobbiamo cercare di fare del nostro meglio.» Ruth non le aveva risposto e non le aveva neppure rivolto lo sguardo. Stava disegnando una donna alta con le maniche del vestito svolazzanti. «Tu sai che non posso dedicarti lo stesso tempo che ti dedicava Emma, perché ho il lavoro. Ma se c'è qualche problema, dovrai dirlo a me, perché Emma non ci sarà più. Hai capito?» «Sì,» aveva risposto Ruth dopo una pausa di silenzio. Rachaela non le aveva detto che l'avrebbe lasciata sola quanto più a lungo avrebbe potuto e che in cambio si aspettava di essere lasciata sola anche lei, questo fu stabilito tra loro tacitamente alla luce dell'esperienza acquisita. Rachaela pensava che l'errore che aveva fatto sua madre stava nei suoi tentativi di prendersi cura e di interessarsi a una bambina che non aveva voluto. Lei e Ruth invece avevano messo in atto una neutralità disarmata. Non sarebbero mai state amiche, ma mantenendo tra loro una grande distanza avrebbero potuto evitare di diventare nemiche. Rachaela non odiava più Ruth. Ruth ormai era un essere sensibile, poteva andare da sola al bagno, poteva lavarsi, nutrirsi, vestirsi e divertirsi senza doversi rivolgere a lei. Da quando Ruth aveva smesso di piangere, Rachaela non aveva più sentito l'onere di offrire quell'affetto e quel calore che non poteva sentire. Da parte sua Rachaela cercava di non reprimere la bambina, lasciandola andare per la sua strada folle e solitaria. Ruth non mostrava mai niente a Rachaela, le sue opere d'arte, i compiti o un libro, ma Rachaela le permetteva l'uso della libreria, ormai stracarica, e una o due volte che aveva avuto più soldi aveva comprato a Ruth dei libri di arte fantastica, Kay Nielsen, Vali Myers. Ruth accettava con gratitudine questi doni, ma si immergeva nella loro lettura solo nel chiuso della sua tana. Emma le aveva lasciato due fermacarte di vetro e un gatto blu anch'esso di vetro. Per il suo ottavo compleanno Rachaela le aveva comprato un oggetto al mercato domenicale del quartiere. Era uno specchio decorato con iris rossi, piume di pavone e conchiglie di vetro rosa opaco. «Oh!» esclamò Ruth quando lo vide, poi ringraziò con freddezza Rachaela e portò lo specchio nel suo confortevole cantuccio. La pianta, David, era morta, malgrado Rachaela l'avesse messa davanti a
una finestra. Ultimamente Ruth, con i soldi che metteva da parte, aveva cominciato a collezionare dei fiori smaltati e si era comprata una gabbietta con dentro un uccellino di legno dipinto. Sbirciando un giorno nella zona della figlia, con la parete coperta da curiose stampe in cornici di graffette e dagli ultimi esotici lavori di Ruth, con lo specchio, le campane e gli scialli, i fiori e la gabbietta e, proprio sopra la cassettiera, persino il quadrante bianco di un orologio che non camminava, Rachaela vide gli Scarabae. Forse l'aveva incoraggiata, forse no, ma Ruth era una pianta viva che produceva fiori di vetro colorato, non era possibile strapparglieli, come forse aveva tentato di fare a Rachaela sua madre. Quanto del carattere ombroso degli Scarabae quella donna aveva visto in lei, e quanto aveva cercato di distruggere con i suoi tagli di capelli e le sue croci incise sugli ortaggi? Fuori dalle finestre, per le strade, si avvicendavano i vetri colorati delle stagioni. Il parco in lontananza era come un calendario: verdi, gialle e marroni, le pagine cadevano dai suoi alberi, nudità di ragnatele nere e un'altra era glaciale di neve immacolata. Emma non fu mai più nominata. Era la scuola che portava ora Ruth nei musei, alle gallerie d'arte, nei parchi e al mare. Le sere e i fine settimana lei e Rachaela li trascorrevano in silenzio, a parte la musica e i colpi sordi dall'appartamento sotto. Era facile e tuttavia impossibile dimenticare che la bambina era lì. C'era anche Jonquil il giorno in cui la ragazza entrò nel negozio. Doveva avere ventidue o ventitré anni, portava gli occhiali e aveva un viso acqua e sapone. Si avvicinò a Rachaela. «Mrs. Day?» «Sì,» rispose Rachaela. «Salve, sono Miss Barrett, della scuola di Ruth.» «Che è successo?» chiese Jonquil. «Oh, nulla... cioè qualcosa, non a Ruth, lei sta benissimo. Mi dispiace disturbarla al lavoro, Mrs. Day, ma volevo scambiare due parole con lei senza la bambina davanti.» Jonquil tolse gli stivali da sopra la cassa. «Vai nel retro, Rachaela, e porta Miss Barrett con te. Mi occupo io di quelle riviste.» Rachaela e la ragazza andarono nell'altra stanza, affollata di scatole e
piena di pile di libri. C'era un vassoio stracolmo di lettere, mentre la vecchia macchina da scrivere occupava un posto abusivo nell'angolo del caffè. Su un radiatore erano appesi tre paia di collant di Denise, da molto tempo asciutti. «Come le ho detto, sono spiacente di essere dovuta venire qui a disturbarla, ma sentivo che sarebbe stato meglio parlarle senza Ruth. Se preferisce posso venire a casa sua in un altro momento.» «Quando ci sono io c'è sempre Ruth. Qual è il problema?» «Be', non voglio allarmarla, probabilmente non è nulla di grave, i bambini talvolta hanno strane fantasie. Non bisogna farci troppo caso, ma comunque sono cose che vanno tenute d'occhio, e io mi chiedevo se lei avesse già notato qualcosa di simile.» «Simile a cosa, esattamente?» «I bambini stavano facendo ricreazione, quando ho notato che ce n'era un folto gruppetto radunato vicino ai ripostigli. Ho aspettato un po' e siccome restavano lì, mi sono avvicinata per vedere che succedeva. Erano in cerchio e ridacchiavano, ma alcuni sembravano un po' spaventati. In mezzo c'era Terry Porter. Doveva essere caduto, perché aveva un brutto taglio sul ginocchio, ma invece di correre a farsi medicare se ne stava lì a terra con il volto sbiancato, e Ruth era seduta accanto a lui. Arrivando, ho fatto in tempo a vedere Ruth che gli metteva la mano sulla ferita e gliela stringeva in modo da farne sprizzare il sangue, che gli colava giù per tutta la gamba. Mentre faceva così Ruth gli diceva: Fattela sanguinare ancora, Terry.» Rachaela sentì un orrore strano, come rallentato, e talmente profondo che riuscì appena a capire di cosa si trattasse. Ma non disse nulla. Miss Barrett, dopo aver atteso invano di sentire qualcosa, le chiese: «Ruth ha mai fatto qualcosa del genere in casa?» «No,» rispose Rachaela. «Forse non c'è mai stata l'occasione. Ruth ha avuto i soliti graffietti che si fanno i bambini, ma mai niente di serio. Sa, alcuni bambini sono molto attratti dal sangue.» «Sì.» «Forse gliene dovrebbe parlare. Le ha detto qualcosa a proposito delle mestruazioni? Questo può determinare delle reazioni del genere.» «No.» «Be', è ancora un po' presto.» «Cosa è successo?» le chiese Rachaela. «Voglio dire, con l'altro bambi-
no.» «Ah, Terry. Be', ho detto a Ruth di non fare la stupida e l'ho accompagnato in infermeria. Ruth a volte è un po', come dire, un po' strana. I disegni che fa... e se le si chiede di raccontare una storia o di fare qualche scenetta, le vengono fuori sempre delle cose abbastanza spaventose. A volte mi chiedo da dove prenda queste idee.» Miss Barrett scrutò Rachaela attraverso le sue acute lenti. «Io non censuro le sue letture.» disse Rachaela. «No, ma forse dovrebbe essere un po' più severa. Noi stiamo molto attenti a ciò che leggono.» Rachaela ricordò un disegno che aveva visto attaccato alla parete dell'appartamento di Emma. «Però raccontate loro di come è stato crocifisso Gesù Cristo.» «Beh, è naturale, durante le lezioni di religione.» «È un soggetto decisamente macabro, e Ruth lo ha disegnato.» «Be', devo ammetterlo,» disse Miss Barrett, cercando di non guardare le calze di Denise, «sono tutti dei piccoli selvaggi assetati di sangue, non si stancherebbero mai di parlare dei chiodi.» Si era rassicurata. «Era tutto qui. Ritenevo che lei dovesse saperlo, in modo da poterle dare un'occhiata.» «Grazie.» «Non lo dica neanche.» «Tipica donna,» fu la critica di Jonquil, dopo che Miss Barrett se ne andò. Quando Rachaela tornò a casa, Ruth stava disegnando dietro il paravento. Rachaela si tolse il cappotto, si lavò le mani, e come un automa si mise a preparare il tè a Ruth. «Come è andata a scuola oggi?» Una pausa, forse lo stupore. «Bene.» «E ieri?» «Anche.» Rachaela pensò a sua madre, a tutte le prediche che le faceva a tavola. Non bisognava mai trasformare i pasti in interrogazioni. Girò lentamente le bistecche. Quella sera avrebbero cenato insieme. Bistecche per entrambe, purè di patate, pomodori e piselli per Ruth, lattuga e avocado per Rachaela.
Quando la cena fu pronta chiamò Ruth. Mangiarono in silenzio, divise dal disegno al quale Ruth tra un boccone e l'altro aggiunse un paio di tratti. Visto sottosopra aveva un aspetto minaccioso, un paesaggio desolato sotto un cielo scuro, e una strana bestia che usciva dalla propria tana. «Cosa vuoi adesso, la torta o il gelato?» «Tutti e due, grazie.» Ruth era sempre educata. Ed era anche una bambina molto golosa. Anche dopo che Emma se ne andò, il suo appetito non diminuì. Restava sempre magra come uno stecco, tuttavia nelle ultime settimane Rachaela aveva notato che cominciavano a vedersi le punte dei piccoli seni. Aveva solo nove anni. Le avrebbe dovuto rifare tutto il guardaroba, e le avrebbe dovuto comprare anche un piccolo reggiseno. Ruth si sarebbe imbarazzata? Rachaela non l'aveva mai vista mentre si faceva il bagno. Quando finirono di mangiare, Rachaela lavò i piatti e fece il caffè e Ruth si ritirò nella sua zona. «Hai compiti da fare stasera?» Di nuovo la pausa di sorpresa. «No.» «Puoi venire qui un minuto, Ruth? Devo parlarti.» Cosa avrebbe fatto Emma? Emma, con tutta la sua esperienza, non si sarebbe preoccupata. È una fase che attraversano tutti. Non te ne ricordi? Non farci caso, la supererà. Ruth emerse portando il suo disegno. Tornò a sedersi al tavolo e continuò a disegnare. «Parlami di Terry Porter,» le disse Rachaela. Silenzio. Alla fine Ruth parlò. «Non mi piace.» «Perché?» «Mi grida cose brutte.» «Che genere di cose?» «Che io non ho un papà. Che sono nata da un uovo.» «Certo che hai un padre. Non vive con noi, tutto qui. Te ne parlò Emma.» Il nome di Emma fu ignorato. Che immaginazione malvagia aveva avuto quel Terry Porter a dirle che era nata da un uovo. Forse aveva sentito parlare del ciclo riproduttivo. «Quindi sei stata contenta quando Terry Porter si è tagliato.» Ruth non rispose. «Perché ti sei comportata in quel modo? Per spaventarlo?» Ruth
continuava a disegnare. Il paesaggio, una specie di deserto, aveva un aspetto familiare. «Per favore, di' qualcosa, Ruth.» E Ruth disse, «Sanguinava.» «Era questo che ti interessava?» «Era rossissimo.» «Avevi già visto il sangue altre volte,» asserì Rachaela. Era vero? Doveva averlo visto, era nata in mezzo al sangue. «Era sangue molto rosso.» C'era compiacimento in quell'affermazione? Per essere più precisi, c'era qualche curiosità di tipo sessuale? Ruth annerì un pezzo della bestia. «Perché mio papà non vive con noi?» «Non voleva.» «Non ho neanche una nonna e un nonno.» «No, mi dispiace. Ci siamo solo noi.» «Neanche loro mi volevano?» Le sue domande non erano delle lamentele. Erano delle semplici e brutali constatazioni. Io non ti volevo. Non ti voglio. Sei un piccolo animale che ha sconvolto la mia vita, che pretende di essere nutrito e vestito, di andare a scuola e di ricevere dei regali, che deve essere seguito. Non amabile come un gatto. Pelle, capelli e voce. Ma gli Scarabae avevano voluto Ruth. Eccome. Doveva mentirle? Non voleva raccontarle menzogne, come avevano fatto con lei. «Credo che ti volessero, ma non erano loro a poter scegliere.» «Allora ho una nonna?» «Forse.» Anna era la madre di Adamus, come Rachaela sospettava? «Ma abitano molto lontano.» «Come Emma?» disse Ruth, sorprendendola. «Molto più lontano.» «Non mi scrivono mai.» «No.» «Secondo me non mi vogliono.» Era riuscita a sviare Rachaela dal discorso sul sangue. Rachaela disse, «Torniamo a Terry Porter. Non devi più fare una cosa simile.» Ruth non chiese perché. «Lo capisci, vero? Non devi permettere che la gente si faccia brutte idee sul tuo conto. Non fidarti di nessuno. Non fare vedere come sei. Cerca di comportarti come gli altri.»
Ruth mordicchiò la sua matita colorata. Spinta dall'istinto Rachaela afferrò il disegno e lo osservò. Ruth aveva disegnato la brughiera, la brughiera degli Scarabae, le rocce dei draghi, e un drago che avanzava per uccidere il cavaliere. Su un pendio c'era una roccia dalla forma strana... la roccia a forma di fulmine? «Dove hai visto questo posto?» «Non lo so.» Ruth la stava osservando con i suoi occhi neri, brillanti, penetranti. Il suo volto bianco latte senza un'imperfezione era antico. «E proprio un bel disegno.» «Grazie.» Rachaela le restituì la brughiera e il dragone. Era stata in quel posto, quando Ruth era dentro di lei. Come altro avrebbe potuto vedere quelle cose? «Mamma,» disse Ruth, «possiamo prenderci un gatto?» «Penso proprio di no. Mi dispiace, ma non abbiamo un giardino, e poi stiamo fuori casa tutto il giorno.» Non voleva che Ruth avesse un gatto. Non sapeva perché. Di sicuro Ruth non gli avrebbe fatto del male, perché Rachaela l'aveva vista mentre li accarezzava per strada. Era qualcos'altro. Ruth non fece capricci, né tentò di farle cambiare idea. Prese il disegno e si ritirò dietro il paravento. Una tempesta infuriava sulla casa. Rachaela sognò Adamus che si piegava su di lei, i capelli come il cappuccio nero di un saio. Un fulmine lo prese e lui svanì. Aprì gli occhi. Ruth era seduta a una finestra a guardare il temporale. Ci fu un lampo azzurro come una bomba incendiaria, ma la bambina non si spaventò, anzi si avvicinò ancora di più alla finestra. Ruth guardava i temporali da quando aveva tre o quattro anni. I tuoni bombardavano la capitale. Rachaela si alzò, e alla luce dei lampioni che penetrava dalle finestre senza tende si diresse con passo felpato in cucina. «Vuoi qualcosa da bere? Latte? Caffè?» «No, grazie.» Rachaela non accese la luce. Riempì il bollitore e lo mise sul fuoco. L'azzurro zaffiro della fiamma del gas si accese come una stella nell'oscurità giallastra. Ci fu un altro fulmine.
Mentre beveva il caffè qualcosa la faceva camminare per la stanza. La bambina la ignorava. Spingendosi fino al limite dell'area di Ruth vide le perline e le campane, l'orologio e i dipinti, ustionati da un altro lampo. E lo specchio che aveva regalato a Ruth. Lo specchio era cambiato. Senza entrare, Rachaela si sporse per guardare. «Cosa hai fatto al tuo specchio?» «L'ho dipinto.» Un'altra esplosione di blu. Tutto il vetro era coperto, campi e prati, fiori e nuvole, e montagne distanti in una coltre di nebbia. CAPITOLO TREDICESIMO Aveva comprato lo specchio del bagno subito dopo essersi trasferita nell'appartamento. Appena aprì il rubinetto della vasca da bagno una nube di vapore si formò sulla sua superficie. Rachaela la pulì con uno straccio. Attraverso la finestra appannata splendeva la luce fredda di un mattino invernale; una luce riflessa, tagliente. Rachaela si esaminò allo specchio il volto e il corpo. Aveva quarant'anni, ma non li dimostrava. Era la stessa di quando aveva ventinove anni, prima della nascita della bambina. Neanche quella l'aveva invecchiata. Niente smagliature, niente cellulite, il ventre e le gambe sode, bianche e vellutate, i seni pieni e ancora alti, i capezzoli piccoli e rosei. Il collo e il viso, la fronte e le guance senza un ruga. Il mento per nulla rilassato. Niente borse sotto gli occhi o ai lati della bocca. Il volto e il corpo di una donna giovane, molto giovane, e neanche un ricciolo d'argento fra i capelli e i peli neri del pube. Non le faceva piacere, ma cercava di non pensarci troppo. C'era abituata, era una cosa di tutti i giorni. Accettava senza battere ciglio i commenti come quelli di Jonquil «Ma sei solo una bambina.» Persino Denise era invecchiata un po', e a forza di cucinare per il famelico Keith era diventata una trentenne pesante e paffuta. Jonquil invece non era cambiata molto, la pelle le era diventata più dura, aveva sostituito l'orecchino di acciaio con uno di osso e tutti i suoi capelli erano grigi. Probablimente invecchierò di colpo. Poteva succedere. Nei libri succedeva. Le persone non notano la tua giovinezza quando ti vedono di continuo, e lo stesso succede quando si invecchia, il cambiamento si coglie solo con apparizioni improvvise.
«Quanti anni hai, devi stare sui ventotto adesso,» le aveva detto Jonquil l'anno prima, senza curarsi della risposta. La bambina era cambiata, naturalmente. Cresceva a vista d'occhio. Le era spuntato il seno, e aveva due piccoli reggiseni che lavava a mano. Rachaela le aveva parlato del ciclo mestruale, seduta al tavolo mentre Ruth disegnava. La madre di Rachaela non le aveva mai spiegato niente, ma le aveva dato un libro piuttosto serioso sull'argomento. Le prime mestruazioni le erano venute nel cuore della notte, e nonostante il libro ne era rimasta terrorizzata. Aveva dovuto svegliare la madre per chiederle degli assorbenti, e lei aveva reagito con i soliti brontolii. Rachaela aveva messo degli assorbenti nel cassetto della biancheria di Ruth, proprio di fronte al letto. Ruth non era apparsa né infastidita né eccitata. «Ne ho sentito parlare a scuola.» «Dai professori?» «Da una ragazza.» «Quando ti cominciano avvertimi,» si era sentita in dovere di dirle Rachaela. «Va bene.» Che aspetto aveva Ruth senza vestiti? Rachaela non l'aveva mai vista. La sera entrava in bagno vestita e ne usciva con una camicia da notte di cotone. Anche Rachaela dormiva in camicia da notte. Il pudore di Ruth gliel'aveva in qualche modo imposto. La vasca da bagno era piena. Rachaela lasciò che lo specchio si appannasse ed entrò nell'acqua. «Ciao, sei in ritardo,» disse allegramente Jonquil appena Rachaela entrò nel negozio. «E quella tua bambina che ti mette nei casini? Si è già iscritta alla scuola media?» «L'anno prossimo, quando avrà undici anni.» «Avrai già fatto progetti.» «Dipenderà da alcune prove,» disse vagamente Rachaela. Era abituata a queste domande occasionali sulla bambina, sulla cui reale esistenza Jonquil aveva forse dei dubbi. Rachaela fece il caffè, poi il tè per Jonquil, con una delle sue bustine di tè alle erbe. Jonquil le gironzolava intorno agitata. Si sedettero, ma Jonquil
si rialzò subito. «È parecchio che sei qui, vero, Raech? Quant'è, cinque anni?» «Un po' di più.» «Anche Denise. Povera vecchia Denise. Tutta colpa di quel fottuto boscaiolo con cui vive. Speravo che la lasciasse in pace, ma è uno che capisce quando ha trovato qualcosa di buono.» Jonquil bevve un sorso di tè e tirò un sospiro angosciato. «Ho paura che tra un po' saremo costrette a chiudere il negozio.» Rachaela la guardò. Questo era previsto fin dall'inizio. Era solo sorpresa dal fatto che Isis fosse durata così a lungo. «Mi dispiace.» «Sì, è un peccato. Ma qui non c'è mai stato molto interesse. Da queste parti dormono tutti. Ho la possibilità di andare a stare con un gruppo di donne dalle parti di Manchester, perciò per me non ci sono problemi. Ma significa che per te e Denise cala il sipario. Ce la farete?» «Oh, troverò qualcos'altro.» «Qualche lavoro da schiava. Oppure a correre dietro a qualche stronzo in un ufficio.» «Probabilmente.» «Vorrei poterti aiutare.» «Quando sarà?» chiese Rachaela. «Alla fine del mese. Non è certo il momento migliore, subito dopo verrà Natale, ma avrai un po' di tempo in più per stare con la bambina.» «Sì.» Sollevata dall'essersi liberata del peso, Jonquil cominciò a girare per lo sfortunato negozietto, esaminando alcuni libri. I tubi dell'acqua calda gorgogliavano come avevano sempre fatto per dieci anni. Non era la fine del mondo. Grazie agli anni di grande beneficienza di Emma, Rachaela era riuscita a mettere qualche soldo da parte, e con gli interessi avrebbe potuto restare a galla ancora un po', forse fino all'anno nuovo. La bambina era una spesa, certo, ma per il momento non c'erano problemi né per i vestiti né per le gite della scuola. Lyle and Robbins erano alla ricerca di nuovo personale, poteva andare bene. Altrimenti poteva provare al negozio d'antiquariato in Beaumont Street, tenuto da una donna svanita che era sempre assente "per dieci minuti". Non era un problema.
Rachaela ripensò a quando l'aveva licenziata Mr. Gerard, e a come quel licenziamento fosse stato tempestivo e minaccioso. Ma le cose erano cambiate. O comunque era cambiata lei. Un giovedì, il giorno in cui lavorava solo mezza giornata, Rachaela stava in poltrona ad ascoltare un balletto di Tchaikovsky, quando sentì bussare. «Sì?» «Mrs. Day, sono Miss Barrett. Si ricorda di me?» «No, credo di no.» «Lavoro alla scuola di Ruth.» «Sì?» «Devo vederla per parlarle di una cosa.» Rachaela si ricordò di Miss Barrett, circa un anno prima, la faccia scavata e gli occhiali sottili, Terry Porter e il suo ginocchio. «È meglio che venga su.» Miss Barrett entrò nell'appartamento con indosso un cappotto color fragola con il collo di pelliccia, un cappello di lana giallo e dei guanti senza dita di pelliccia marrone. Aveva anche un ombrello rosa. «Oh, Mrs. Day, sono contenta di averla trovata a casa.» «Prego, si sieda.» Miss Barrett si accomodò sulla poltrona, e Rachaela si mise a sedere su una delle dure sedie intorno al tavolo. Miss Barrett si tolse i guanti e il cappello. «Che giornataccia. Non mi sorprenderebbe se ricominciasse a nevicare.» «Cosa ha fatto Ruth, stavolta?» chiese Rachaela. «Oh povera me. Sono sempre un tormento, queste situazioni. Mr. Walker ha pensato che siccome ero già venuta una volta, sarebbe stato meglio se fossi tornata io. Non vogliamo dare troppo peso alla cosa, a meno che non continui, ovviamente.» «Cosa ha fatto Ruth?» «Si tratta più di cosa non ha fatto. Non è venuta a scuola. Immagino che lei non l'abbia tenuta a casa senza mandarci un avviso. Dobbiamo sempre avere una giustificazione, lei mi capisce. In questo momento gira molta influenza, lo so.» «Ruth non si ammala mai.» «Ah. Allora immagino che non sia qui.» «No, non c'è.»
«Mrs. Walker crede di averla vista da Woolworth's.» Che posto mondano per marinare la scuola. Perché Woolworth's? A volte, quando Rachaela andava a far compere durante la pausa del pranzo del sabato, Ruth andava con lei; passavano anche da Woolworth's, ma lei non pareva affatto interessata ai giocattoli, ai dolci o al baccano del reparto dischi. «Mrs. Walker crede di averla vista mentre provava dei trucchi,» disse Miss Barrett, spalancando gli occhi e le labbra senza neanche un filo di trucco. «Può darsi,» disse Rachaela, che per un attimo trovò la cosa quasi intrigante. Anche lei aveva fatto qualcosa di simile una volta che aveva marinato la scuola, ma aveva tredici o quattordici anni. «È una cosa molto seria, Mrs. Day. Deve parlare a Ruth e farle capire che deve venire a scuola. È stata assente parecchi giorni questo mese. L'anno prossimo dovrà sostenere un esame importante, e deve stare attenta. E una grande sognatrice. Ha un gran talento artistico, anche se alcuni dei suoi dipinti, beh... Ma deve rimboccarsi le maniche. Deve frequentare le lezioni.» «Le parlerò.» «Ruth deve venire a scuola. Se non lo fa, Mr. Walker sarà costretto a prendere ulteriori provvedimenti.» «Certo.» Miss Barrett era rossa per l'indignazione. «Sta gettando via le sue capacità,» disse. La scuola era importantissima, un salvagente in mezzo al caos. Sembrava veramente terrorizzata. Rachaela non le aveva offerto nulla da bere, e la lasciò andare senza accompagnarla alla porta, guardandola mentre si rimetteva i suoi ridicoli guanti che la facevano sembrare la parodia di un orso. «E quando rimane a casa, noi dobbiamo avere una giustificazione.» A pranzo Rachaela mangiò un toast e dei pomodori, e immaginò Ruth che mangiava il suo panino seduta su un muretto o in un parco. Doveva essersi stancata di andare a scuola. Sapeva leggere bene, ma con i numeri era una frana. Era così ai tempi di Emma, e continuava a essere così. Aveva problemi persino con le addizioni. «Quante mele sono rimaste?» le aveva chiesto poco tempo prima Rachaela. Ruth aveva osservato attentamente la fruttiera. «Non lo so, mamma.» Ce n'erano sette. La bambina nei negozi pagava sempre con una grossa moneta o una banconota, poi portava gli spiccioli a Rachaela per farseli cambiare in monete da cin-
quanta pence o in sterline. Forse era sbagliato sentire una certa complicità con Ruth semplicemente perché anche lei aveva marinato la scuola. Tuttavia restò a guardare il breve crepuscolo con una punta di divertimento, aspettando che Ruth apparisse puntuale come al solito, come se stesse tornando a casa dalla scuola. La bambina apparve in fondo alla strada gelata, e Rachaela ripensò al giorno in cui l'aveva vista nella neve, il giorno in cui Emma era uscita dalle loro vite con i suoi urgenti sorrisi. Povera utile Emma. Come era diversa Ruth, adesso. I capelli non erano più costretti nelle trecce, ma le cadevano sciolti sulla schiena fino alla base della spina dorsale. Erano folti e di un nero quasi esagerato, lucidi, come spalmati di melassa. Niente più cappello né guanti, e le mani bianche da pianista che giocavano con i bottoni del cappotto blu. La cartella c'era ancora, ma era fuori luogo. Nonostante quella borsa ingannatrice, i calzettoni bianchi alti fino alle ginocchia e le scarpe da bambina, Ruth sembrava una piccola donna che camminava in strada: una nanetta, più veloce che aggraziata, con una strana faccia bianca da elfo. Quando la porta di casa si aprì, Rachaela era seduta al tavolo. «Ciao, Ruth.» «Ciao, mamma.» «Posa la cartella, togliti il cappotto e vieni qui.» «Cosa c'è da mangiare con il tè?» «Non ci ho ancora pensato.» «Posso avere delle patatine?» «Le hai mangiate ieri.» Ruth si sedette al tavolo, con la gonna color carbone, il maglione blu e la giacca rossa. Rachaela le faceva scegliere da sola i colori. Aveva certamente più gusto di Miss Barrett. «Oggi non sei stata a scuola,» disse Rachaela. Ruth la guardò, e non cercò di mentire. «No.» «Perché no?» «Non mi piace.» «Prima ti piaceva?» «Prima sì.» «E ora non ti piace più?» Ruth non rispose.
«Gli altri bambini ti infastidiscono?» «No.» «Oggi è venuta una donna della scuola, una certa Miss Barrett.» «Batty Barrett.» disse Ruth. «Ti hanno vista da Woolworth's.» «Oh.» «Perché proprio Woolworth's?» «Pioveva.» «E quando non piove cosa fai?» «Vado in giro,» disse Ruth. Dopo una pausa riprese a parlare, «Vado al cimitero a guardare le lapidi, certe volte prendo un autobus. Mi perdo. Ma faccio sempre in modo di tornare per l'ora del tè.» «Sì, lo so.» «Stai per dirmi che devo andare a scuola?» chiese Ruth. Era pallida. Non sospettava Rachaela di complicità con le autorità, la vedeva un outsider come se stessa, per quanto fosse un'estranea. «Dipende da quello che vuoi.» «Non voglio niente.» «Non troverai mai un buon lavoro. Credo che te lo abbiano già detto.» «Ci hanno chiesto cosa vogliamo fare da grandi.» «E tu cosa hai detto?» «La bibliotecaria.» «È davvero quello che vuoi?» «No.» «Se proprio non ti interessa,» disse Rachaela, «non ti forzerò.» Le tornò in mente la faccia tremolante e furiosa di sua madre: "Ti devi dare da fare o finirai male! Devi andare a scuola, mi hai capito? Mi hai disonorata, brutta bestiaccia!" «Però dobbiamo inventarci qualche cosa,» disse Rachaela. «Dovrai dedicarci un po' del tuo tempo. Quando vuoi un giorno libero dimmelo, ti scriverò una giustificazione.» Ruth ci pensò. La sua privacy era stata violata, ma sembrava che avesse accettato l'inevitabilità della cosa. «Lo farai?» «Sì.» «Va bene,» disse Ruth. «Grazie.» Rachaela rimase a guardare la sua bambina dal viso di elfo. Assomigliava anche a lei?
«Ti vanno bene gli spaghetti sul pane tostato?» «Con il formaggio.» «Con il formaggio.» Rachaela andò in cucina e tirò fuori delle lattine. Ruth la seguì e si fermò sulla porta. «Che direbbe mio papà se sapesse che non vado a scuola?» Rachaela si bloccò. «Credo che non gliene fregherebbe niente.» «Lo vedrò mai?» Rachaela si voltò a guardare il volto pallido della figlia. «No.» «Perché no?» «Non gli interesserebbe, Ruth. Mi dispiace.» «Come fai a saperlo?» «Perche lo conosco. Non gli interessavo neanche io.» «Ma il nonno e la nonna,» disse Ruth. Tuo nonno è anche tuo padre. «Non c'è nessun nonno o nonna. È solo una grande informe famiglia di vecchi. Non ti piacerebbero.» Ma come faceva ad esserne sicura? Ruth era fatta a loro immagine. Aveva fatto le cose che facevano loro. Doveva evitare di immaginare Ruth in quella casa. La casa che con gli anni era diventata un fantasma scolorito, ma che stava ancora lì, come un grumo di nebbia, sull'orlo della sua mente. Gli specchi, le finestre. Ruth insisteva: «Potrebbero piacermi. Non mi danno fastidio i vecchi.» «Vivono molto lontano.» «Non potrei andarci?» «No, Ruth.» «Ma io ci voglio andare.» Perché il discorso era finito lì? Rachaela posò l'apriscatole e versò gli spaghetti in una padella. «No, Ruth.» «Li ho sognati,» disse Ruth. Rachaela interruppe bruscamente quello che stava facendo. «Che vuoi dire?» «Li sogno in una grande casa. Io cammino in un corridoio, apro una porta e loro sono lì.» Era ovvio, in tutti quegli anni Rachaela doveva essersi lasciata sfuggire qualcosa. Non c'era altra spiegazione. E la bambina, come tutti i bambini,
aveva le sue fantasie. «Non ne voglio parlare, Ruth. Non voglio che tu abbia niente a che fare con loro, e basta.» Stai lontana dagli Scarabae. Rachaela rivide il volto congestionato della madre. «Perché non posso? Perché?» insisteva Ruth. «Perché sono pazzi. E sono una specie di vampiri. O almeno credono di esserlo.» Non dire nient'altro. «Vampiri,» disse Ruth. «Come Dracula?» «Non come Dracula. È gente cattiva.» Rachaela girava gli spaghetti nella padella aspettando un altro assalto, che non arrivò. Quando si voltò, Ruth si era ritirata dietro il paravento. Non avrei dovuto dirlo. Troppo tardi. Ebbe una visione di Adamus che camminava sul muro della casa sotto la luce della luna, con il volto cadaverico e un filo di sangue che gli usciva dalla bocca. Un brivido di eccitazione sessuale la scosse da capo a piedi, lasciandola sgomenta. Dopo tanto tempo, dopo tutto quello che era successo, era una cosa stupida e abietta, dopo Ruth. Mise del pane a tostare, e le mani le tremarono. Da un decennio di ragnatele e vetrate colorate sentì vecchie mani leggere come foglie che la sfioravano. Il negozio era spoglio, i libri chiusi nei pacchi o mandati già via. Denise piangeva sommessamente. «Su, su,» fece Jonquil. «Bevi ancora un po' di vino.» Si sedettero a bere, arrampicate sugli sgabelli traballanti, mentre fuori i non-clienti, ormai chiusi fuori per sempre, tiravano dritto sul marciapiede nero e bagnato. «Ti ricordi quella vecchia che veniva a cercare libri di Roald Dalh, dicendo che lui era una donna?» disse singhiozzando Denise. «E quello che continuava a comprare copie di Fight the Good Fight di Angela Truebridge?» «E il demonio di Angela Carter?» «E quella ragazza che non sapeva mai il nome dell'autore?» Annuivano, rivangando nei loro ricordi. «È stato un lavoro divertente,» disse Denise soffiandosi il naso. «Lunedì
comincio a lavorare alla Coop, fino a Natale. Keith è furioso. Dovrà prepararsi la colazione da solo.» «Schifoso parassita,» fece Jonquil, «gli sta bene.» «Ma metterà sottosopra la cucina,» gemette Denise. «E poi non lava mai i piatti.» «Perché non te ne liberi?» «Beh, la settimana scorsa sull'autobus ho conosciuto un tipo veramente carino. Ci vediamo tutte le sere.» «Dalla padella alla brace,» commentò Jonquil. «Non impari mai.» «Tu cosa farai, Rachaela?» «Non ho ancora deciso.» «Se vuoi venire su a Manchester,» disse Jonquil, «basta che tu mi scriva. Puoi arrangiarti a casa di qualcuna delle ragazze, finché non trovi qualcosa di meglio.» Dalla strada due ragazzi sbirciarono dentro il negozio, osservando le donne un po' brille con le loro bottiglie e le lattine di Carlsberg di Jonquil. Stavano lì a curiosare e a fare gestacci finché Jonquil non si lanciò infuriata verso la porta. «Stronzi,» gridò Jonquil ai due mentre quelli scappavano. «Dovrebbero fare delle pattumiere apposta per loro.» «Devo andare,» disse Rachaela, lasciandosi scivolare dallo sgabello. «Devo preparare da mangiare a Ruth. Le avevo detto che avrei fatto tardi, ma sono già le sette.» «Va bene, Raech, scappa.» Denise abbracciò Rachaela, bagnandola di lacrime. «Passa alla Coop. Ti farò lo sconto.» Jonquil le strinse la mano. I suoi occhi grigio chiaro erano rassegnati. «Se ti trovi dalle parti di Manchester, vienici a trovare.» La videro uscire e immergersi in una notte gialla, piovosa e schizzata di nero. Lance di luce e lunghi nastri di neon si riflettevano sui marciapiedi. Oltre l'isolato dei negozi, i lampioni si riflettevano nelle pozzanghere come gusci d'uova in frammenti. La pioggia era densa, cercava di diventare neve. Il vento si agitava. Le luci negli appartamenti, i palazzi trasformati in appartamenti. Quante volte c'era passata, con la pioggia e il sole, nelle sere d'estate con la polvere e la puzza di gasolio, o in mezzo alla neve, quando ogni passo era una minaccia per le caviglie.
Un albero o due indossavano già ghirlande di lampadine colorate. Lì, in quella finestra blu, lo stesso stantio "Merry Christmas" che si ostinava a comparire anno dopo anno. Tra non molto un regalo per il compleanno di Ruth, poi uno per il Natale. Jonquil aveva rifilato a Rachaela alcuni libri, inadatti a chiunque. Li avrebbe portati da Oxfam. Qualcuno la seguiva. Niente di strano. Una notte un ubriaco l'aveva pedinata per tutta Rosamunde Street. A un tratto l'aveva afferrata per un braccio ma lei era riuscita a divincolarsi. «Perché tanta fretta, tesoro?» le aveva detto allora l'uomo, e lei gli aveva dato uno spintone. Lui aveva perso l'equilibrio ed era andato a finire contro un parapetto. «Lurida troia! Puttana!» aveva bofonchiato, ed era finita lì. Di solito per la strada c'era gente, persone apparentemente innocue che forse nascondevano vite di squallida depravazione, ma che non rappresentavano una minaccia per una donna sola che tornava a casa. Ecco un uomo con un cane, che veniva verso di lei. Le automobili sfrecciavano in ali d'acqua. L'uomo alle sue spalle non si allontanava né si avvicinava. Camminava con passo felpato. In qualche modo Rachaela conosceva quel passo, non chi lo compiva, ma il significato che aveva. Le si strinse lo stomaco. Si sentì stupida. L'uomo con il cane la incrociò e tirò dritto. In fondo alla via si vedevano i semafori di Beaumont Street. Verde, giallo, rosso. Una neve nera le sferzava il viso. Era come prima, come quando le avevano dato la caccia. No, era assurdo. Come avrebbero potuto trovarla adesso? Quando arrivò ai semafori dovette fermarsi. I negozi mostravano uno sfolgorio di colori. Rachaela si voltò a guardare verso la strada buia per vedere chi la stava seguendo. Eccolo lì. Un uomo fermo a una quindicina di metri. Sembrava sforzarsi per distinguere i numeri civici delle case, che erano perfettamente visibili. Il cuore di Rachaela precipitò come da una scalinata. Un uomo basso, con un cappotto scuro e un berretto di lana. Era una cosa paurosamente stupida. Perché la gente non continuava a mettere gli stessi vestiti per undici o dodici anni, la gente non rimaneva sempre uguale.
Lei sì. Glielo aveva detto lo specchio. Lei non era cambiata. Ripensò al prato davanti al vecchio appartamento e alla figura apparsa all'improvviso. «Deve andarci, lo sa.» «Se ne vada» le aveva detto, e lui invece era tornato a portarle la lettera, la lettera che aveva scritto Adamus, la lettera degli Scarabae. Era ancora troppo lontano per essere sicura, per riconoscere il volto dello sconosciuto che forse non era invecchiato di una ruga, per vederne gli occhi gelidi, invisibili. Doveva vederlo più da vicino, per essere sicura. E anche allora, poteva fidarsi della sua memoria? Non era possibile che l'avessero trovata anche questa volta, anche se avessero continuato a cercarla per tutti quegli anni. Si rifiutava di crederci. Scattò il rosso e le auto frenarono malvolentieri. Rachaela attraversò la strada. Si voltò indietro e vide che l'uomo aveva smesso di guardare i numeri delle case e attraversava la strada un po' più indietro, un attimo prima che le auto ripartissero. Camminava nella stessa direzione di Rachaela, i fiocchi di neve sciolti brillavano sul suo cappello come lustrini. Rachaela percorse Beaumont Street, finché non le sbocciò davanti la vetrina sgargiante del Pizza Eater. Sarebbe potuta entrare e ordinare qualcosa da bere. No, non si poteva bere soltanto, avrebbe dovuto ricordarlo subito. E allora dove? Un posto qualunque dove fermarsi, per vedere che cosa avrebbe fatto lui. Era una coincidenza. Doveva essere un vagabondo che le ricordava l'agente degli Scarabae. Doveva essere per forza così. La lavanderia era aperta, luci smorte e nessuno dentro. Rachaela entrò. Si mise a sedere ed aspettò che l'uomo con il cappello di lana venisse a cercarla. Una donna emerse dal retrobottega. «Ha bisogno d'aiuto?» «Sto aspettando un amico.» La donna la osservò con aria sospettosa. «Allora non ha nulla da lavare?» «No.» «Be', spero che sappia quello che fa.»
Poi la donna si mise a gingillarsi con alcuni panni tirati fuori da una macchina, gettando per terra calze e calzini. L'uomo apparve. Passò senza guardare davanti alla vetrina e sparì nella notte. La luce della lavanderia lo aveva illuminato. Era l'uomo che lei aveva visto tanti anni prima. Ne era sicura. Sicura. Rachaela si alzò. «Adesso va via?» cinguettò la donna, gettando sul pavimento un altro calzino. Rachaela uscì nel buio luccicante, nella confusione della pioggia obliqua, delle luci della strada, dei fari delle auto. Dove era l'uomo? Svanito. Doveva aver immaginato quella somiglianza. Era solo un uomo. Gli Scarabae avevano perseguitato anche la sua fantasia, e la sua memoria era talmente suggestionata che era stata capace di riconoscere uno sconosciuto. Non potevano aver continuato a darle la caccia. Non potevano volerla ancora. Percorse con cautela la strada. Gruppetti di persone si affrettavano sotto la neve. Rachaela girò a sinistra e cominciò a camminare più in fretta. Si era allontanata dalle luci e, quando fu sul tratto più scuro del marciapiede si fermò a guardarsi attorno. Non c'era nessuno, a parte una donna con l'ombrello e un ciclista che pedalava stancamente lungo il marciapiede. In alto, una finestra rossa nascondeva un piacere ordinario o un'identica ordinaria miseria. Rachaela cominciò ad affrettarsi verso casa. Quando aprì la porta trovò la casa buia, ma a volte Ruth, quando era sola, stava al buio. Rachaela passò davanti ad una finestra. Era aperta, la tenda bagnata e mossa dal vento. Rachaela la chiuse. Rimase nell'oscurità, guardando giù in strada. Ogni tanto passava un'auto. Passò anche un uomo, ma non era quello che aveva visto. Non c'era nessuno in agguato dietro le porte, o nascosto tra le pieghe dell'ombra. Nessuno che la spiasse, pronto ad avventarsi su di lei. Accese una lampada.
Una sorta di agitazione sonnolenta venne da dietro il paravento di Ruth. «Ciao, Ruth.» Ruth venne fuori. Rachaela trasalì, poi piombò in uno sconforto senza limiti. Ruth era avvolta nello scialle verde e blu, le gambe e le spalle candide come la neve scoperte. Attraverso i buchi dello scialle si intravedeva la pelle chiarissima. Sotto quel leggero indumento era nuda. I capelli le traboccavano intorno al capo in ciocche elettrizzate. Si era truccata, non ingenuamente come ci si sarebbe aspettato, ma come una bambola dipinta. Le palpebre nere con uno spesso strato di mascara, le labbra perfettamente disegnate e rosse come bacche di agrifoglio. Aveva l'aria assonnata, come se si fosse appena svegliata. Eppure emanava una specie di corrente, era come un cavo elettrico scoperto. Non stava dormendo. Rachaela ritrovò la voce. «È quello il trucco di Woolworth's?» «Sì.» La voce di Ruth era morbida. Non mostrava alcun imbarazzo o disagio. «Lo hai fatto bene.» «Sì.» «Cosa stavi facendo?» «Aspettavo.» Certo, aspettava. Rachaela si era attardata al negozio più di quanto avesse previsto. Ma Ruth voleva dire questo? Che aspettava sua madre? «Perché la finestra era aperta?» «Per lasciare entrare la notte.» Forse era una frase di un libro. Ruth non stava mentendo a Rachaela, eppure non le stava dicendo tutta la verità. Anche se la verità era in qualche modo evidente. Un vampiro. Ruth si era truccata come il vampiro di un film dell'orrore che aveva visto da qualche parte, o come l'illustrazione dì un libro. E poi si era sdraiata al buio, nuda tranne che per quell'inconsistente scialle, con la finestra aperta per lasciare entrare la notte, ed aveva aspettato. Rachaela ebbe di nuovo l'immagine di un uomo avvolto in un mantello nero che si arrampicava sul muro della casa. Stavolta nessun brivido di eccitazione si mosse tra i suoi fianchi, anzi divenne più fredda. Era una fantasia di Ruth? Dracula che camminava sulle pareti per venire
a prenderla? Rachaela accese il caminetto elettrico, la stanza era completamente gelata. Andò in cucina, si lavò le mani e mise della pancetta sulla piastra. Ruth si ritirò in silenzio dietro il paravento. Quando riuscì indossava la camicia da notte. Andò in bagno e Rachaela sentì che apriva il barattolo dello struccante. Quando uscì dal bagno, si era ripulita di tutti i colori tranne che dei suoi, il bianco e il nero. «Potevi tenerlo,» disse Rachaela. «Mi ero stufata.» Rachaela le preparò un uovo fritto. «Sono tornata adesso dalla libreria,» disse Rachaela. «Posso avere un giorno di vacanza domani?» «Sì, se vuoi. Diremo che hai avuto un altro attacco di bile.» Ruth la ringraziò e si mise a tavola a mangiare pane e burro. Rachaela servì la cena e sedette anche lei a tavola. Fuori la neve cominciava a cadere a grandi fiocchi. Quando ebbero finito, Rachaela andò verso la finestra. Aprì le tende e guardò giù nella strada deserta. «Quando sei in giro,» disse a Ruth, «non devi parlare con nessuno. Ricordo che te lo diceva anche Emma. Vale ancora.» «Qualche volta chiedo la strada.» «Va bene. Ma non metterti a chiacchierare, e parla solo con donne, mai con uomini.» «Sì, mamma.» Rachaela accostò le tende. Guardò Ruth che beveva il tè. Sembrava una bambina come le altre, solo un po' insolita, i capelli bellissimi e molto composta. «Non parlare mai con uomini.» Venne Natale. Non lo celebrarono, sebbene con Emma lo avevano sempre fatto. Rachaela regalò a Ruth tre libri e alcuni disegni colorati. Ruth le diede uno dei suoi tipici regali, stavolta una lunga candela colorata che sfumava dal vermiglio all'arancio, e che accesero come unico simbolo della festa. Per il compleanno di Ruth, circa una settimana prima, Rachaela le aveva comprato un vestito che Ruth desiderava, rosso e verde mela, e che indossava il giorno di Natale.
Mangiarono pollo, piselli e patate, e torta di mele con la crema. Fuori la pioggia, che aveva ripreso il posto della neve, scendeva in rivoli grigi. Sembrava un giorno come tutti gli altri. Rachaela ascoltava la musica, Ruth disegnava. La notte di Natale Ruth era andata a fare il bagno serale ed era uscita poco dopo in camicia da notte. «Mamma.» «Cosa c'è?» «Avevi detto che ti dovevo avvisare.» «Di cosa?» «Mi sono venute.» Rachaela ci mise un po' a capire. Poi le domandò, «Le mestruazioni?» «Sì, mamma.» «È andato tutto bene?» «Sì, grazie.» «Ti fa male? Vuoi un analgesico?» «No, non ho dolori.» «Meglio così.» Ruth rimase a guardarla. Rachaela immaginò che Emma le avrebbe fatto tutte le congratulazioni possìbili e le avrebbe augurato tutte le gioie dell'essere donna. Ruth aveva cominciato presto come Rachaela. E Rachaela, inavvertitamente, pensò sanguinare. «Adesso sono diversa.» disse Ruth. «Sì.» Rachaela non seppe dire altro. Ruth si infilò dietro il paravento e scomparve. CAPITOLO QUATTORDICESIMO Alla fine di gennaio, Rachaela lavorava nel negozio di antiquariato di Mrs. Mantini in Beaumont Street. Lavorava solo di pomeriggio, a parte il sabato, in cui Mrs. Mantini la voleva per tutto il giorno. L'attività commerciale del negozio era molto intensa, anche se costituita in prevalenza da piccoli oggetti, brocche, bacinelle, cagnolini cinesi di porcellana, vecchie cornici di dagherrotipi. Alcune di queste ultime ricordavano a Rachaela gli album di fotografie degli Scarabae, quelle figure rigidamente in posa come statue di cera davanti a delle palme, tuttavia, mentre queste altre persone potevano anche essere vissute, nel passato, gli Scarabae davano invece l'impressione di essere sempre stati cadaveri.
A Mrs. Mantini non piaceva che Rachaela si sedesse a leggere nel negozio. Avrebbe preferito che spolverasse gli articoli in esposizione, lucidasse la cassetta del carbone e pulisse i vetri delle finestre. Nei ritagli di tempo dava a Rachaela cofanetti di gioielli o monete da mettere in ordine, oggetti di valore incalcolabile destinati ad essere venduti ad altissimo prezzo. La paga non era straordinaria, tuttavia quel lavoro era molto comodo. La primavera arrivò presto. Ruth passò un periodo in cui portava a casa grandi mazzi di fiori raccolti durante i giorni in cui marinava la scuola: tromboncini e tulipani colti nei parchi o rubati dalle tombe. «Se continui a rubare prima o poi ti arresteranno,» l'ammonì Rachaela. Col tempo, l'infatuazione per i fiori si esaurì da sola. Mano a mano che le giornate si allungavano, Ruth tornava a casa sempre più tardi. Spesso non era ancora a casa quando Rachaela tornava dal negozio. A volte succedeva che cenasse in uno snack bar, dando fondo ai suoi risparmi per pagarsi un beefburger. La scuola mandò una lettera a Rachaela in cui la si avvertiva che le frequenti assenze di Ruth stavano condizionando il suo rendimento. Rachaela la gettò nel secchio dell'immondizia. «Un uomo mi ha parlato al cimitero,» annunciò Ruth mentre lei e Rachaela cenavano. «Che cosa avevi fatto?» «Niente. Lui mi ha chiesto se ero Ruth Scarabae e io gli ho detto no, sono Ruth Day.» «Non avresti dovuto rispondergli.» «Ma si sbagliava!» «D'accordo. Allora, cos'è successo, dopo?» «Mi ha detto che conosceva i parenti di mio padre, e se io li avevo mai conosciuti. Non ho detto niente e lui mi ha detto che credeva di no, che non li conoscessi.» «E poi?» «Lui mi ha chiesto se volevo una Pepsi, allora io gli ho detto che tu mi hai detto che non devo parlare con gli sconosciuti, e poi me ne sono andata.» «Ti ha seguito?» «No. È rimasto là.» «Lui... indossava un cappotto scuro e un cappello di lana?» chiese Rachaela. «Sì. Doveva avere molto caldo.»
Rachaela cercò di dominarsi. Aveva cominciato a tremare, scossa da una specie di furia Impaurita e frustrante al tempo stesso. Come aveva potuto trovarle? Come aveva potuto seguire Ruth? Come aveva osato parlarle? Alcune settimane prima lei aveva controllato i marciapiedi, la sera, scrutato da dietro le finestre a caccia di spie nascoste nell'ombra. E ciò nonostante, lui erariuscito, non visto, ad arrivare fino a loro. E non era certo lei, Rachaela, ad interessarli, ora. La loro laida brama di continuità: la bambina. «Tu non dovrai mai 'mai' avere nulla che fare con quell'uomo, Ruth.» «Perché?» «Perché è cattivo.» «Ma sembrava un uomo qualsiasi.» «Lui lavora per gli Scarabae.» «Vale a dire per mio padre?» «No. Per la sua famiglia. Te lo ripeto un'altra volta: sono pazzi, pazzi pericolosi.» Fu come gettare pietre sull'acqua, quando subito dopo l'impatto scompaiono senza lasciare traccia. Rachaela ebbe la sensazione che le sue parole, lungi dal distogliere l'attenzione di Ruth dagli Scarabae, li avevano resi agli occhi di lei ancora più misteriosi e affascinanti. Cos'altro poteva fare? «Penso che tu debba finirla con questi tuoi vagabondaggi, Ruth. O ti decidi a tornare a scuola o te ne starai chiusa a casa. Chiudila dentro, tienila chiusa. «No, mamma, non voglio!» «Eppure dovrai farlo. Non voglio che lui ti prenda.» Poteva andare alla Polizia? Signori, quest'uomo sta molestando la mia bambina undicenne... domande, domande. Signora, quest'uomo è il rappresentante del padre di sua figlia. Il padre di sua figlia ha dei diritti su di lei. Poteva complicarsi, diventare ancora più pericoloso. Doveva tenere la bambina chiusa a casa. Per quanto tempo? Doveva affrontare quell'uomo, scacciarlo da lì. Ma fino ad ora non si era mai fatto vedere da quando Rachaela era lì. «Devi tornare a scuola. Ti ci porterò io.» «No, no, non voglio!» «Lo so. Mi dispiace. Ma è una cosa grave.» «Ma mi ha solo chiesto di andare con lui a prendere una Pepsi! E io non ci sono andata!» «Lui poteva... insomma, non lo so.»
«Ti giuro che non parlerò mai più con lui.» «Ruth, fai quello che ti dico e basta.» Fai quello che ti dico. La voce di sua madre, la sua rabbia, e il suo non sapere più che fare. Ruth terminò di cenare e lasciò la tavola. Se ne andò dietro il paravento e Rachaela udì il suono familiare della punta della sua matita sulla carta. Rachaela si alzò e si avvicinò a un angolo dello studio-rifugio di Ruth. «Ruth, se succedesse mai che lui ti trovasse da sola, voglio che tu strilli, capito? Strilla più forte che puoi e poi scappa via. Mi prometti che lo farai?» «Strillo e poi scappo via,» disse Ruth. Lanciò a Rachaela uno sguardo asciutto e adulto, carico di ironia. «Esatto,» disse Rachaela. «A scuola ascoltavamo un programma alla radio,» disse Ruth. «Diceva che le figlie assomigliano ai loro padri. Se io sono come mio padre, dovrei essere cattiva anch'io, no?» Rachaela la fulminò con lo sguardo. Perché stava cercando di proteggere quella creatura? Aveva forse dimenticato com'era nata, com'era cresciuta? Ora stava interpretando un ruolo che proprio non le si addiceva, quello della madre protettiva, ma chi c'era in fondo da proteggere? Tutto intorno a Ruth, dentro il suo rifugio, pendevano bizzarri quadri, frammenti di vetro colorato, campanelli e spesse stoffe damascate. Era una spelonca d'ombra e di colori cupi, e Ruth vi stava acquattata dentro come un ragno bianco nella sua ragnatela, il suo bel visetto minaccioso segnato dagli occhi profondi e neri degli Scarabae. Rachaela deglutì. Aveva voglia di dire a Ruth d'accordo, fai quello che vuoi, parla con quell'uomo, scopri quello che ti piace. Aveva solo undici anni, Ruth, eppure già sapeva tutto quello che c'era da sapere. «Tu non sei come tuo padre. Tuo padre non ti vuole. La sua famiglia è possessiva. Tu non hai nessun debito con loro. Fai come ti dico.» «Sì, mamma,» disse Ruth, e si chinò su un suo disegno che raffigurava una strega. Rachaela poteva portare a scuola Ruth solo di mattina; perlomeno la guardava dai cancelli. Di pomeriggio doveva affidarsi a Ruth per il ritorno a casa. A volte però Ruth tornava in ritardo. «Dove sei stata?» Ruth era andata in giro per negozi oppure a casa di qualche bambina di cui non aveva mai parlato prima. Probabilmente era vero, perché Ruth in
genere non mentiva, era semplicemente evasiva. «Quell'uomo... è stato con te?» «Non l'ho mai visto.» «Dimmelo se ti capita.» Rachaela decise di smettere quel suo insulso ruolo di guardiana. Mandò a scuola Ruth da sola e la seguì. Nessuno tranne lei seguì o accostò Ruth. Un senso di apatia sommerse Rachaela. L'uomo avrebbe probabilmente insistito, già in precedenza si era comportato così, ma c'era sempre gente intorno a lei. Non si sarebbe arrischiato a rapire Ruth, anche se gli fosse stato ordinato di farlo, cosa che comunque sembrava improbabile. A Rachaela non importava. Non me ne importa. Era il turno di Ruth. Eppure Ruth era ancora una preoccupazione. Doveva ancora essere nutrita e vestita, e di lì a poco si sarebbe dovuto prendere una decisione su quale scuola media avrebbe dovuto frequentare, la sua uniforme e tutti i dettagi di quel genere. Ruth sarebbe diventata ben più di un problema man mano che cresceva. Per quanto tempo ancora Rachaela avrebbe dovuto continuare a dividere la sua vita con quella creatura? Lei era stata usata perché Ruth nascesse, e questo era tutto. E quel pensiero non era molto gratificante. Per strada. Cammina adagio e ascolta. Chi diavolo era quel tale spuntato da un androne? Solo un vecchietto con una borsa. Voltato l'angolo, scruta ogni rientranza nei muri delle case. C'era qualcuno, lì? Di sopra. Ruth non è in casa. Va alla finestra, scruta nel buio. Che cos'era, quello? Solo un uomo avvolto in una giacca a vento. Dov'era Ruth? Da quella sua amichetta, Lucile? Ora è sulle scale. La chiave nella porta. Mrs. Mantini stava dicendo: «Rachaela, lei passa più tempo a scrutare fuori da quella finestra che a pulirla.» Chi era quel tale in piedi davanti al negozio, cappotto nero, forse un cappello di lana in testa. «Questo cliente deve essere servito, Rachaela.» Ora se n'era andato. Ma non l'avrebbe seguita o guardata. «Questa collana costa quindici sterline.» C'era un po' di brina sugli alberi, e ancora un po' di luce in cielo. Ruth era seduta a tavola, mangiava pane e marmellata. «Perché non hai aspettato? Si cena fra venti minuti.» «Avevo fame. Il tè si fa sempre in ritardo.» «Tu sei sempre in ritardo.» «Vado da Lucile.»
Rachaela fissò Ruth. «Hai visto ancora quell'uomo?» «Sì.» «Ti avevo detto di dirmelo.» «Non mi ha fatto nulla. Non mi ha nemmeno parlato.» «Dov'è successo?» «Davanti ai cancelli.» «I cancelli della scuola?» «Sì. Era lì davanti, io sono uscita e lui non si è mosso. Lucile l'ha trovato buffo.» «Non dire a Lucile chi è lui.» «Non ho detto nulla a Lucile. È stata lei a dirmi "guarda quel vecchietto quant'è buffo".» Se lei era insieme a Lucile, lui non avrebbe osato avvicinarla. Forse quella sua amicizia con Lucile era una buona cosa, tutto sommato. Rachaela andò alla finestra e scrutò tutta la via. Lui era lì. Lungo la strada, sotto un'insegna luminosa che proprio in quel momento stava diventando rossa. Era lì per essere visto, per lasciarsi guardare. «Resta qui,» disse Rachaela a Ruth. Corse giù per le scale e si precipitò sulla strada. Il rappresentante degli Scarabae era scomparso. Dall'alto, il visetto bianco di Ruth la fissava da dietro la finestra, imperturbabile. Mrs. Mantini si tolse dello smalto dalle unghie. «Avevo intenzione di parlarle, Rachaela» disse «a proposito dei suoi continui ritardi. Oggi pomeriggio è arrivata in ritardo di mezz'ora. Questo non mi piace.» «Sì,» disse Rachaela. «Sono costretta a chiederle che questo non si ripeta.» Rachaela abbassò il prezzo della collana da quindici sterline a quattordici e ripose con grande cura il prezioso oggetto con il cartellino del prezzo voltato verso il basso. Mrs. Mantini fece scorrere l'estremità delle sue dita lungo la superficie di una specchiera vittoriana. «Questo specchio ha bisogno di essere pulito.» Di lì a poco Mrs. Mantini se ne andò, come suo solito, per assentarsi un paio d'ore prima dell'orario di chiusura. Entrò un signore giapponese e chiese di vedere delle papere cinesi di porcellana. Dopo che se ne fu andato, Rachaela pulì lo specchio con lo spray per il vetro, che lasciò alcune macchie, dopodiché tornò a cor-
reggere i prezzi dei cofanetti dei gioielli. Alle quattro meno un quarto, inaspettatamente, Mrs. Mantini ricomparve in negozio. «Dovrà chiudere lei il negozio, Rachaela. Io devo prendere la macchina e andare a Brighton.» Dopo che Mrs. Mantini se ne fu andata una seconda volta, cominciò ad affluire la clientela del tardo pomeriggio; alle quattro e mezza, un'ora prima dell'orario di chiusura, Rachaela chiuse il negozio di fronte a due clienti, ansiosi di entrare. Rachaela provava una sensazione di libertà, camminando verso casa. Immaginava Mrs. Mantini immersa nel traffico dell'autostrada. Era come se una nube si fosse sciolta. Per quanto riguardava il rappresentante degli Scarabae si era rassegnata; lui non avrebbe potuto fare nulla, e neanche lei. Arrivò a casa e fece a piedi i tre piani. Era una giornata nuvolosa, e l'oscurità stava sopraggiungendo. Aprì la porta. C'era uno strano rumore. Come il pianto di un bambino. Non poteva essere Ruth. Rachaela superò il vestibolo e la stanza da bagno e contemplò l'appartamento nella luce del crepuscolo. Poi si girò e gettò uno sguardo nel rifugio di Ruth. Ruth, inginocchiata sul pavimento, sollevò a sua volta lo sguardo verso di lei. I suoi occhi erano neri e vacui, resi ancora più grandi e profondi dal mascara e dal trucco con cui li aveva dipinti. Era avvolta in una specie di tunica greca ottenuta giugendo due dei suoi scialli colorati, e portava intorno al collo la collana di vetro verde di Rachaela. La sua bocca era dipinta con del rossetto rosso scuro, che si era un po' slabbrato, per cui sembrava che avesse bevuto del sangue. Sul letto di Ruth era stesa una bambina castana, che piagnucolava avvolta anch'essa in uno scialle e con il volto macchiato di trucco, anche se cosparso in modo un po' più approssimativo. Sul suo collo c'era uno spaventoso livido nero. La bambina balzò in piedi. «Oh, Mrs. Day,» disse la bambina, scoppiando in lacrime e indicando Ruth. «Mi stava mordendo il collo!» «Per amor del cielo, si può sapere che cosa stavate facendo?» Rachaela squadrò Ruth e la fece alzare in piedi. «Niente. Ci stavamo travestendo.» «Cosa le stavi facendo?» «Mi mordeva!» disse l'altra bambina, in tono isterico, e cominciò a gridare. Rachaela lasciò Ruth e afferrò l'altra bambina, incominciando a scuoterla. La bambina si gettò fra le sue braccia, affondandole in grembo il visetto
macchiato di trucco e di lacrime. «Era solo un gioco,» disse Ruth, altezzosa. «Le hai fatto tu questo segno sul collo?» «Credo di sì.» «Io glielo dicevo, di smettere,» singhiozzò l'altra bambina, che con tutta probabilità doveva essere la misteriosa Lucile. «Ma lei non voleva. Ha continuato ancora. Sto sanguinando?» «No, stai bene. Va tutto bene. Vieni vicino alla luce e fammi vedere.» Rachaela portò la spaventatissima Lucile vicino alla lampada e l'accese. Il livido era color porpora e di forma perfettamente regolare, come un bacio di quelli che si scambiano gli amanti, ma più profondo. Aveva un aspetto ripugnante, terribile. «Non c'è niente di cui preoccuparsi,» disse Rachaela. «Ora te lo disinfetto e poi mettiamo un cerotto.» «La mia mammina non mi lascerà più giocare con lei!» disse Lucile. Dal suo terrore affiorava una nota di sdegno per l'ingiustizia subita. «Sì, penso che sarà meglio così.» Forse sorpresa da questa risposta, Lucile trasformò gradualmente il suo pianto dirotto in un piagnucolio sommesso. Permise a Rachaela di pulirle la ferita con il disinfettante e di applicare sopra di essa un cerotto. Con un pizzico di fortuna "mammina" poteva anche non credere a una storia così strampalata, specialmente se il livido si fosse riassorbito un po' prima che lei lo avesse visto. Non si poteva chiedere a una bambina di mentire a sua madre. Era evidente che Lucìle non vedeva l'ora di raccontarle tutto. «Ora sei a posto, e credo che farai meglio a tornare a casa,» disse Rachaela. «Sai come tornare?» «Sì, Mrs. Day.» «Prima però vai a lavarti la faccia.» Lucile si avviò docilmente verso la stanza da bagno. Ruth disse, sovrastando il fragore dell'acqua: «Non è vero che l'ho morsa. Avrei potuto, ma non l'ho fatto.» «Tu sei pazza.» La madre di Rachaela, questo, lo aveva detto a lei dopo una sequela di offese ben più violente. «Cosa ti ha preso?» Domanda stupida. Era ovvio cosa l'avesse presa. «Era un gioco,» ripeté Ruth. «No, che non era un gioco,» disse Rachaela. «Lo so io che cos'era.»
Ruth la guardò, una piccola vampira fino al midollo, con quel suo visetto bianco, le labbra rosse, gli occhi neri e i lunghi capelli sciolti sulle spalle. Non sembrava allarmata o confusa, e nemmeno impaurita. Al contrario. Sembrava compiaciuta. Lucile uscì dal bagno. Si tolse di dosso lo scialle di Ruth e lo gettò sul letto. «La mia mammina si arrabbierà molto.» «Lo credo anch'io. Ora però vai a casa.» Lucile se ne andò, offesa. Rachaela non si era comportata nel modo in cui si comportano in genere le mammine. Un altro fallimento. Le finestre erano azzurre dietro il bagliore dorato della lampada. Dov'era, lui, per strada magari? Ruth si sedette sul suo letto e le mostrò la serie infinita dei suoi disegni raffiguranti leoni nell'atto di sbranare della gente - probabilmente Cristiani. Rachaela sentì l'improvviso bisogno di ridere. Era la volta della sua crisi isterica. «Metti giù quella roba.» Ruth ripose i disegni. «Tu hai fatto una cosa incredibilmente stupida, Ruth. Ti sei comportata in un modo che ci procurerà un mucchio di guai. Tu evidentemente ti aspetti che io ti protegga. Ma perché dovrei farlo?» Ruth guardò verso le finestre, verso la notte che scendeva. Non sembrava perplessa, ma annoiata, come se attendesse la fine di un suono fastidioso e insensato. Rachaela sentì la furia montare dentro di sé. Era una rabbia terribile, in cui tutto si mescolava improvvisamente e confusamente, le frustrazioni e le contrarietà di dodici anni. «Chi sei tu, piccolo, orribile mostriciattolo?» gridò Rachaela. Ruth si voltò verso di lei, suo malgrado. Il suo volto bianco, rosso e nero apparve sorpreso, ma solo per un momento, dopodiché si trasformò in una maschera impenetrabile. Rachaela la riconobbe come un ricordo che veniva da molto lontano. L'aveva vista, quell'espressione, anzi quell'assoluta mancanza di espressione, sul volto del piccolo demonio che era stata da bambina Ruth, tanto tempo prima. «Non era affatto un gioco,» disse Rachaela. «Era qualcosa di repellente che è sgorgato dalla tua mente immonda!» «Lucile guarirà,» disse Ruth, con voce incolore. «Non m'importa di Lucile! È solo un'altra piccola pazza disgustosa. E non m'importa nemmeno di te. Se desideri tirar fuori tutto il male che hai
accumulato dentro di te fino ad ora, credo che tu sia costretta a farlo. Ma perché farlo qui? Perché coinvolgermi in questa storia, maledetto lurido mostriciattolo?!» Ruth trasalì, come una bimbetta frastornata a scuola. Ma un attimo dopo era tornata silenziosa e passiva, quasi inerte. «Guardami,» disse Rachaela. Ruth fissò gli occhi in quelli di sua madre. Per un secondo ci fu come una strana sovrapposizione: gli occhi di Ruth divennero rossi e le sue labbra nere. «Vai a farti un bagno e fila a letto,» disse Rachaela. «Se hai fame, puoi farti un sandwich. Non voglio avere niente a che fare con te. Non ti voglio vedere intorno.» «Sì, mamma,» disse Ruth. Prese da sotto il cuscino la sua camicia da notte e si chiuse nel bagno. La mattina dopo Rachaela permise a Ruth di fare colazione. Ruth mescolò fiocchi d'avena e latte e mangiò seduta a tavola mentre Rachaela beveva il suo caffè. Ruth non provò nemmeno a parlare con la madre. Prese la sua cartella e se ne andò senza dire una parola. Sollevandosi in punta di piedi, Rachaela la guardò dalla finestra, procedere lungo la strada con la sua andatura barcollante, in direzione della scuola. Alle nove e venti squillò il telefono. Di solito non telefonava nessuno, a parte di tanto in tanto qualcuno che aveva sbagliato numero. Questa volta però non era un errore. «Sono Mrs. Keating, la mamma di Lucile.» «Sì?» «Credo che lei sappia la ragione per cui la chiamo.» Rachaela non rispose. Udì Mrs. Keating risentirsi, all'altro capo del telefono. «Sua figlia ha attaccato Lucile, ieri. Mi chiedo che cosa ha da dire lei, in proposito.» «A dire la verità, nulla. Lucile non è stata ferita.» «Se a lei pare che quell'orribile livido nero non significhi che sia stata ferita... ma cos'è sua figlia, una specie di piccolo mostro?» Oh, quanto sei intuitiva, pensò Rachaela. Ma non disse nulla. Delusa, Mrs. Keating soggiunse: «Non ho mai visto una cosa simile. È difficile credere che una bambina possa fare una cosa del genere. Penso che lei dovrebbe farla visitare da un dottore. Magari uno psichiatra.» Ancora una volta Rachaela non rispose alla provocazione di Mrs. Kea-
ting. La quale urlò: «Voglio che lo sappia, ho intenzione di scrivere alla scuola e raccontare quello che è successo.» «Se le fa piacere.» «Piacere? Devo dire che il suo atteggiamento è proprio strano. Lei faccia in modo di tenere d'occhio quella sua orribile bambina, Mrs. Day. È l'unica cosa che mi sento di consigliarle.» «La ringrazio.» Mrs. Keating borbottò qualcosa contro di lei e riappese. Rachaela accese la radio. Non aveva più voglia di pensare a Ruth. Né doveva rivederla almeno fino a sera. Un concerto per pianoforte di Rachmaninov si diffuse per tutto l'appartamento, rendendo i problemi di Rachaela volgari e indefiniti. All'una Rachaela pranzò, e alle due e cinque, con mezz'ora di ritardo, si preparò e uscì di casa per andare al negozio di antiquariato. Mrs. Mantini non la rimproverò, ma strinse le labbra color mandarino e approfittò del suo ritardo per andarsene con la massima fretta. Durante il pomeriggio non accadde nulla di speciale. Entrò una ragazza e cercò di trattare il prezzo di un vaso del diciannovesimo secolo, ma Rachaela le disse che Mrs. Mantini fissava i prezzi degli oggetti con la massima onestà e non li scontava mai di regola. Un bel giovanotto e un'affascinante signora di mezza età, forse sua madre, gironzolarono per tutto il negozio e finalmente acquistarono un piccolo cavallo a dondolo in ottone. Alle cinque meno un quarto tornò Mrs. Mantini. «Oh, Rachaela, speravo che ci avesse pensato lei a scaricare quella cassa.» La cassa in questione era piena di oggetti pesanti, ai quali in effetti avrebbe dovuto pensare un uomo, e anche robusto. Rachaela l'aveva semplicemente ignorata. «Beh, scarichiamola adesso, allora,» disse Mrs. Mantini, decisamente seccata. Cominciarono dunque a scaricare la cassa. Mrs. Mantini ansimava e sbuffava per lo sforzo. Alle cinque e mezza erano ancora immerse in quel lavoro. Mrs. Mantini chiuse il negozio e disse a Rachaela: «Rachaela, resti qui ad aiutarmi, così recupera i trentacinque minuti di ritardo con cui è arrivata oggi.» Rachaela non obbiettò nulla, e le due donne continuarono insieme a svuotare la cassa fino alle sei meno un quarto. Alla fine Mrs. Mantini si ricompose il vestito e sbuffò un'ultima fiatata del suo pranzo a base di cipol-
le e aglio. «Ora, Rachaela, vorrei dirle ancora una parola a proposito di questi suoi continui ritardi.» Rachaela si stava infilando il cappotto. Mrs. Mantini era in piedi di fronte a lei, il volto più che mai giallastro, fra alari e parafiamma in ottone. «Gliene ho parlato ieri, ma sembra che lei non mi abbia neanche ascoltato. Io non la pago per arrivare in ritardo, ma per arrivare in orario.» «Ma non è che paghi poi molto, sa?» disse Rachaela. «Se lo stipendio non la soddisfa, signorina, può anche andare a cercare altrove.» «Molto bene,» disse Rachaela. Si abbottonò il cappotto. «Mi paghi quello che mi deve fino ad oggi.» Mrs. Mantini la guardò accigliata. I suoi occhi erano accesi dall'ira. «Certo che no. Verrai fino a sabato dopodiché sarai pagata.» «No,» disse Rachaela. «Voglio la mia paga ora.» Si avvicinò a Mrs. Mantini e la guardò dritta negli occhi. Mrs. Mantini esplose improvvisamente, come un motore surriscaldato. Cominciò a insultare Rachaela come aveva fatto quella mattina Mrs. Keating, ma con espressioni ancora più pesanti, intanto che, aperta la cassa, conteggiava la paga ridotta che doveva darle. Gettò il denaro sul bancone davanti a Rachaela. «E adesso fuori, puttanella.» Rachaela uscì sulla strada. Le sue gambe tremavano un po'. Si sentiva confusa, e nello stesso tempo sollevata. Non importava. In ogni modo, era ancora colpa di Ruth. A casa, l'avrebbe ritrovata. Avrebbe dovuto proseguire con lei quel silenzio ostile o viceversa romperlo, quel silenzio, facendo finta che non fosse successo nulla. Ma che importanza aveva poi, parlare o stare zitte? Quando mai avevano parlato, loro due? Solo quando c'erano stati dei problemi. Il cielo era pallido e smorto, la luce stava calando. Le stelle cominciavano a intravedersi dietro le luci rossastre dei lampioni che cominciavano ad illuminarsi. Rachaela si sentiva libera, quasi euforica. Non aveva più lavoro. Avrebbe dovuto darsi da fare a cercarne un altro. Questo le avrebbe preso del tempo, impedendole di pensare a Ruth. Quando si trovò di fronte alla porta di casa sua, dentro il suo palazzo, sentì che Ruth non era in casa. Entrò. L'appartamento era vuoto. Rachaela si tolse il cappotto. Si preparò un caffè e accese le luci. Lavò le stoviglie per la cena e guardò dentro il frigo. Ruth si aspettava del pollo,
quella sera, per cena. Ebbene, l'avrebbe avuto. Rachaela mise in una terrina le due porzioni, aprì una lattina di passata di pomodoro Heinz e la rovesciò sul pollo per farlo cuocere in umido. Dopodiché mise il tutto nel forno. Alla radio trasmettevano musica d'opera e notizie politiche. Rachaela la spense e inserì una cassetta di Stravinsky. Il cielo mutò colore, assumendo il tipico nero-rossastro delle notti metropolitane. La gente camminava avanti e indietro lungo la strada. Alle otto e trenta Ruth non era ancora tornata. Rachaela abbassò il fuoco sotto il pollo. Alle nove e mezza la salsa di pomodoro era completamente evaporata, e a Rachaela non rimase che togliere il pollo dal forno. Si sedette in salotto, nel silenzio della casa, che era diverso da quello di Ruth. Non aveva mai fatto così tardi. Dove poteva essere? In qualche burghy, al Paradiso della Pizza? Alle dieci e mezza Rachaela accese la luce del salotto ed entrò nel rifugio di Ruth, dietro il paravento. A prima vista, tutto sembrava in ordine. Rachaela esamino il rifugio con grande attenzione. Il letto era fatto, anche se alla maniera di Ruth, pieno di pieghe e di rigonfiamenti sotto il copriletto blu scuro. Il vecchio orsacchiotto che le aveva regalato Emma era seduto nel suo angolo, segno che gli era ancora concessa una certa dignità, anche se non più la stessa attenzione di una volta. I libri erano ammucchiati in pile pericolanti, sul muro erano appesi lo specchio dipinto, i disegni e i quadri. Il gatto di vetro blu e il fermacarte verde erano stati tolti da sopra la cassapanca. Rachaela entrò nel rifugio e si spinse fino alla cassapanca, l'aprì. Mancavano il pettine e la spazzola. E anche il trucco da vampira. La camicetta scarlatta e il pullover blu erano scomparsi. E anche alcune paia di pantaloni, calzini, collant, un reggiseno e un pacchetto nuovo di assorbenti igienici. In bagno, mancavano sia lo spazzolino da denti che il piccolo stick di deodorante di Ruth. Rachaela uscì dal bagno e si sedette in salotto. Cosa provava, in quel momento? Niente. Come già era capitato un'altra volta. Non era stupita. Naturalmente sapeva bene quello che Ruth avrebbe potuto fare. Così come l'agente degli Scarabae sapeva perfettamente quello che alla fine lei avrebbe fatto. Gli era stato sufficiente mostrarsi e aspettare. Rachaela si era rivoltata contro Ruth; incapace di rimanere fredda e indifferente come riusciva di solito, aveva avuto un improvviso scoppio di antipatia e di rifiuto. E Ruth aveva tranquillamente riempito la sua cartella
durante la notte, era uscita e se ne era andata da lui. Lui poi l'avrebbe potuta prendere con sé o l'avrebbe mandata dagli Scarabae. Cosa doveva fare, lei? Niente. Non c'era niente da fare. Ruth non c'era più, semplicemente. Quei dodici anni di vita idiota erano finiti. Quattro giorni dopo Rachaela ripulì l'appartamento. Spolverò i libri e dietro ai libri, sgrassò la cucina a gas, riordinò le mensole della cucina e gettò nello scolo del lavandino tutta la Pepsi e la Sprite che rimaneva in frigo. Poi si dedicò al rifugio di Ruth, spostò il paravento e si sbarazzò degli scialli, dei fiori e dei campanelli. Disfece il letto e infilò in due grosse cassette di cartone prese al supermercato tutti i tesori di Ruth, avvolse con cura gli oggetti di vetro nella carta, poi i libri e l'orsacchiotto, e stivò il tutto in fondo al guardaroba. Ruth avrebbe potuto mandare a chiedere le sue cose. I suoi vestiti, invece, che presto le sarebbero andati stretti, li infilò in alcune borse di carta per darli in beneficenza. Da quel momento in poi toccava agli Scarabae di vestirla. A Rachaela il paravento non piaceva, ma come del resto anche il letto di Ruth, esso era troppo grosso per potersene disfare facilmente. Così lo richiuse e lo appoggiò in piedi contro un angolo del salotto, dietro l'impianto stereo. Dopodiché ricoprì il letto con il suo copriletto originale e lo adibì a divano, appoggiandovi sopra un paio di cuscini rossi e blu. Il cassettone che aveva appena svuotato lo appoggiò invece contro una parete. Ora la stanza appariva molto più grande e ariosa. Era possibile abbracciarla tutta liberamente con un solo sguardo. Non provò neanche a cercare l'uomo alla finestra. Se n'era sicuramente già andato. Sei giorni dopo Rachaela andò a piedi da Lyle & Robbins alla ricerca di lavoro, ma non c'erano posti vacanti. Anche il Paradiso della Pizza era a pieno organico, e inoltre sia i camerieri che le cameriere sembravano tutti molto giovani e fracassoni. Non c'era alcun annuncio di lavoro. Avrebbe dovuto cercarseli sui quotidiani locali. Diciassette giorni dopo Rachaela ricevette una lettera dalla scuola. La mise da parte senza neanche aprirla. Si sedette sulla sua poltrona, ascoltando la sua musica. Senza Ruth, tutto cominciava ad essere molto più facile. Forse sarebbe riuscita a procedere ancora un po' per inerzia. Fuori dalla finestra c'erano i soliti tetti e i soliti appartamenti, i camini e i lucernari. In lontananza, il parco era di un verde limpido e intenso.
Cominciava a fare caldo, e dalle finestre aperte dell'appartamento filtravano odori diversi: benzina, gerani e asfalto stradale. Ventisette giorni dopo, Rachaela sognò di Ruth a casa degli Scarabae. Le pareva che indossasse l'abito da sera di Anna, lungo e nero, con lo strascico, guarnito di lustrini. I suoi lunghi capelli ondeggiavano dietro di lei ad ogni suo movimento. Gli Scarabae applaudirono, soddisfatti. Ruth era in giardino. Intorno a lei, cespugli di rose rosse e bianche. Zio Camillo balzò fuori da dietro un cespuglio, in groppa al suo cavalluccio a dondolo, che trascinava senza sforzo lungo il prato. Porse a Ruth una lettera. Rachaela riuscì solo a distinguere le parole: Vieni da me. Ruth entrò in casa. Era notte, e nell'ingresso splendeva solo la lampada color rosso rubino. La porta di accesso alla torre era socchiusa. Nel momento in cui lei si fermò di fronte alla porta, Adamus uscì dalla torre. Rachaela aveva dimenticato o cancellato il suo volto dalla memoria, per cui lo vide come attraverso un vetro smerigliato, ma si accorse che era nudo, esattamente come lei lo ricordava, riconobbe la carnagione bronzea, il corpo snello e muscoloso, e la folta macchia di pelo scuro all'inguine, dalla quale svettava il sesso, dal colore ambrato, rosso scuro. Intorno alla testa ricadevano i lunghi capelli neri. «Sei tu,» disse lui. «Sì. E tu non devi!» disse lei, convulsamente, congiungendo le mani in uno strano gesto melodrammatico. «Io devo.» «Adamus! È solo una bambina.» «No,» disse lui. «Ha solo dodici anni,» implorò Rachaela. «È una donna.» E in quel momento Ruth comparve dall'ombra, avvolta nel suo lungo e scintillante abito nero. Era truccata, ma con grande cura, le sopracciglia nere arcuate e sottilissime, le labbra ammorbidile dal rossetto rosso. I suoi capelli erano identici a quelli di lui. Non era una bambina. Già da tempo era mestruata, e i suoi seni erano alti e pieni. Si mosse verso di lui come se Rachaela non fosse stata presente e infilò la sua piccola mano pallida in quella più grande di lui. Adamus si piegò e baciò la sua bocca scarlatta, la sollevò e la prese in braccio, facendola scivolare contro il suo corpo, per poi condurla nell'oscurità, all'interno della torre. Rachaela li seguì mentre salivano alla stanza superiore. Un fuoco ardeva
nel camino. Grazie al suo bagliore, Rachaela vide Adamus che deponeva dalle sue spalle Ruth e la faceva stendere sul coperchio del pianoforte. Anche lui vi salì sopra. Si inginocchiò sopra Ruth e cominciò lentamente a sfilarle il vestito. «Ho paura» disse Ruth. Ma ridacchiava, stava solo giocando, proprio come giocava da piccola con Emma. Adamus si piegò sui seni meravigliosamente modellati di Ruth, li baciò e li leccò. Ruth stringeva la testa di lui contro il suo corpo. Lui le aprì le cosce e percorse tutto il suo corpo, pelle e stoffa, le tolse il vestito e lo gettò via, per poi cominciare il suo secondo bacio. Piccole fiamme guizzarono dentro Rachaela. Stava quasi per gridare. Nessuno la vedeva e nessuno la sentiva, era come un fantasma. A Ruth sfuggì un gemito. Si strinse contro Adamus. Lui abbandonò la soffice montagnola di velluto del suo pube, accarezzandola ancora con le dita, poi vi appoggiò contro il suo sesso bruciante di desiderio e lo spinse dentro. Ruth gridò. «Mi fai male!» disse Ruth «Fammelo ancora!» Incapace di muoversi, Rachaela li guardava alzarsi ed abbassarsi, frenetici: come fossero saliti su uno stallone, galoppavano selvaggiamente nel loro stesso piacere. Ruth gridò ancora. Gridò e scalciò, e imprigionò il corpo di Adamus fra le sue lunghe gambe bianche. Rachaela si agitò, scossa da lunghe ondate di dolore, e si svegliò a letto, nel suo appartamento avvolto nell'oscurità. No, non era possibile. Padre e nonno. Non poteva. Ma perché si sarebbe dovuto fermare? Il giorno di Rachaela era finito, aveva adempiuto al suo compito. Ora Ruth sarebbe divenuta la regina dell'anno. Continuità. Per quei pazzi era la cosa più importante in assoluto, e Adamus era lo strumento che gliela assicurava. Non comportarti da pazza. Se così dev'essere, lascia che sia. Cercò di ricordare il volto di lui, ma, esattamente come nel sogno, le rimaneva sempre lontano e confuso. Rachaela si alzò e accese la luce. Per strada, alcuni ubriachi stavano gridando. Sentirli le fece piacere. Scese dal letto e andò a farsi un tè. Quello era il rimedio di Emma per qualsiasi difficoltà. Un tè o un goccio di sherry. Come si sarebbe comportata, Emma, al suo posto? «Non puoi permettere a loro di prenderla, Rachaela. Tu lo sai, sono per-
sone orribili. Pazze, terrificanti. È tua figlia, e tu hai il dovere di liberarla dalle loro grinfie.» «Sì, Emma,» disse Rachaela. L'acqua bollente si rovesciò sul fornello, e gli ubriachi cominciarono a cantare, felici, giù in strada. CAPITOLO QUINDICESIMO Il tassista numero tre era piuttosto cordiale. «Pitchley. Conosco Pitchley. Dove hanno fatto il nuovo complesso residenziale. Le costerà un po'.» «Sì. Lo so.» «Va bene, allora. Salga!» Guardando la fila di taxi davanti alla stazione di Porlea, Rachaela non si era sentita particolarmente ottimista, ma col tempo le distanze fra le varie località di quella regione si erano ristrette. Il territorio degli Scarabae era stato invaso. Ricordava la strada, anche se la stava rifacendo in senso inverso e nel pieno rigoglio della stagione estiva. Riconobbe la grande autostrada, le chiese e i pub. Era snervante solo quell'assoluta normalità di tutto. Il paese invece era irriconoscibile. Era stato costruito un piccolo supermercato, erano stati aperti un ufficio postale, una drogheria e un nuovo elegante pub con un'insegna a mezzaluna sulla quale era scritto «I falegnami». In cima alla collina si scorgeva il nuovo complesso residenziale, color cioccolata, con tetti spioventi, antenne televisive paraboliche, irrigazione automatica e alberi di ciliegio nei giardini. Da qualche parte erano state conservate le fondamenta delle vecchie case di pietra grigia. I campi incolti erano diventati prati. «È arrivata,» disse il tassista. «Dove vuole che la lasci?» «In cima alla collina.» «Al complesso residenziale.» Il tassista la condusse fin quasi al viale d'accesso dell'ultima delle casette del complesso. Lei lo pagò e scese. Lo guardò allontanarsi. Le cornacchie non c'erano più. Dove potevano essere andate? Era tutto così diverso. Ma era quello il posto. Il punto di partenza per la lunga camminata lungo la brughiera fino alla casa. La sua borsa era leggera, questa volta, ci aveva infilato solo le cose essenziali. Avrebbe fatto meglio a stare attenta, camminando lungo la strada. Ci po-
teva essere più traffico di una volta. La sua supposizione si dimostrò esatta. Nella sua prima mezz'ora di marcia tre automobili le passarono accanto. Il sole stava calando quando superò la vecchia fattoria crollata che ora era stata demolita. Fu allora che vide dov'erano andate a rifugiarsi le cornacchie. Ce n'era una bella rappresentanza, proprio lì. Le venne in mente il corvo o forse era una cornacchia appollaiata sulla siepe la notte in cui lei era scappata via per sempre. Quel suo per sempre, in fondo, non era durato molto a lungo. La brughiera, intorno a lei, era sempre più animata di colori, man mano che saliva. Foglie dorate e brune sparse fra il verde dell'erba, fiori rossi, ciuffi luminosi di ginestre. In cielo, stormi di uccelli volteggiavano cinguettando. Era evidente che tutto le apparisse diverso, ora. Nella sua memoria tutto in quel luogo era desolato, squallido, tetro, e questo gli aveva attribuito un ulteriore influsso negativo. Ora camminava lungo il mare, ne sentiva la presenza come quella di un immenso vuoto innanzi a lei. Dopo che ebbe camminato per un'altra mezz'ora si sentì esausta. Si sedette su una roccia. Il cielo si stava oscurando. Quanto sarebbe durata ancora, la luce? Non doveva riposarsi troppo a lungo. Nei suoi disegni, Ruth evocava proprio quel genere di luoghi, e li popolava di draghi. Il richiamo maligno di un gabbiano risuonò nel cielo. Un attimo dopo Rachaela si alzò e riprese a camminare. Non aveva più il vigore di tanti anni prima, ma l'avrebbe tanto desiderato, in quel momento. Non aveva alcuna voglia di ritrovarsi in mezzo alla brughiera quando fosse scesa la notte. Non questa volta. Dapprima il suono le sembrò simile a quella della sua stessa stanchezza: un lungo, monotono rombo nelle orecchie. Subito dopo capì di cosa si trattava. La roccia si protendeva oltre il sottile crinale d'erba e di fiori, a picco su un enorme strapiombo, e in fondo allo strapiombo c'era il mare. Rachaela raggiunse l'estremità della roccia e guardò giù, dentro la bocca del drago. Le onde si infrangevano contro le punte aguzze degli scogli. Era tutto uguale, come fosse stata 11 non più tardi del giorno prima. Le prime lingue di oscurità cominciarono a serpeggiare lungo la brughiera. Il sole cominciava a tramontare man mano che Rachaela risaliva il sentiero lungo l'oceano. Come un miraggio, riconobbe all'improvviso il gruppo di pini, neri nella luce calante, e subito dopo la casa, piccola come un giocattolo, in lontananza. Perfettamente uguale, con i suoi tetti spioventi e i suoi angoli spezzati. C'era un'unica finestra illuminata di verde. Rachaela si fermò, meravigliata, suo malgrado. Meravigliata di se stessa. Del motivo
per cui era arrivata fin lì. Dopo il tramonto le porte avrebbero dovuto essere aperte. Era il momento giusto per arrivare, pensò quando si ritrovò di fronte alla facciata della casa. Si fermò nuovamente per contemplare la sua sagoma sullo sfondo del cielo ormai scuro. Le stelle erano le stesse, solo lievemente spostate nel cielo, dal momento che erano passati molti anni e si era anche in un'altra stagione. Rachaela fissò la torre e sentì un senso di vuoto allo stomaco. No, doveva sforzarsi di ricordare che quella casa non era straordinaria in sé, ma unicamente perché così lei l'aveva percepita. Questa volta invece doveva riuscire a mantenersi razionale. Le porte si aprirono senza difficoltà, come la volta precedente. Come allora, Rachaela entrò nel grande ingresso dal pavimento a scacchi neri e rossicci. Era immenso come se lo ricordava da allora, e mantenersi calmi e ragionevoli non contribuiva a rimpicciolirlo. Lì le ombre si ammassavano ancora come orsi acquattati nel buio, pronti a colpire, o a trasformarsi in qualsiasi altra cosa. Dalle alte finestre ciò che restava della luce del sole calava verso il basso, assumendo un colore giallo-violetto. La lampada rossa splendeva sul tavolo di mogano, facendo piovere sul candeliere una cascata di gocce color rosso sangue. L'odore della casa era sempre lo stesso, da chiesa, un misto di umidità, incenso, legno vecchio, ripostigli ammuffiti, lucido, olio e su tutto un dolce aroma di putredine. Questa volta Rachaela non si girò a richiudere la porta. Diede un'occhiata alla torre. Distolse lo sguardo. Nessuno veniva a darle il benvenuto, questa volta. Era giusto. Questa volta la sua presenza era superflua, e forse neanche bene accolta. Sarebbe riuscita a ritrovare la strada, nell'oscurità? Cominciò a salire le scale. La ninfa era sempre di guardia all'estremità della balaustra, recando la sua luce spenta sul braccio levato. Una nuova ragnatela le era scivolata dalla spalla al braccio, dando alla statua un aspetto da suppellettile di scena da film dell'orrore. Rachaela posò un piede sul tappeto persiano della passatoia e cominciò a salire, sottraendosi alla luce scarlatta e sinistra della lampada. Ventidue gradini. Arrivata sul pianerottolo, vide una luce fioca che proveniva dal corridoio, proprio come la conservava nella memoria. Era accesa anche la seconda lampada, come allora. Rachaela ricordava quando era caduta sul volto e sugli occhi spenti di Michael, il primo membro della famiglia Scarabae in cui si era imbattuta la prima volta. Percorse il corridoio illuminato e ritrovò la finestra sull'angolo, chiusa come allora, e una lunga fila di
quadri appesi alle pareti. E poi, finalmente, la porta. Quanto le sembrò familiare. Almeno quanto quella del suo appartamento. E se fosse stata chiusa? Il pomello girò facilmente, e la porta si aprì sulla stanza verdeazzurra. Rachaela rimase senza parole; era esattamente come l'aveva lasciata, come se il suo ricordo si fosse materializzato lì di fronte a lei in quello stesso momento. Il caminetto verde, con sopra l'orologio nero ornato di angeli, la toeletta e la specchiera. Le coperte del letto erano state tirate indietro un po', come in un albergo, a mostrare le federe pulite e il biancore delle lenzuola. Il caminetto era spento, e contro di esso era stato appoggiato un paravento con delle roselline azzurre ricamate sopra. Mrs. Mantini avrebbe dato un occhio della testa per averlo. Rachaela appoggiò la sua borsa da viaggio sul letto. La sua radio era ancora là dove l'aveva lasciata, appoggiata sul tavolino. Rachaela la sollevò e si accorse che nel frattempo le batterie si erano liquefatte e avevano bruciato il legno. Andò al guardaroba, lo aprì e vide i suoi vecchi vestiti ordinatamente appesi in fila. Emanavano tutti un odore di polvere e di chiuso, ma nessuno di essi era stato mangiato dalle tarme, e tutti le sarebbero andati ancora a pennello, nonostante fossero passati dodici anni e lei avesse avuto un bambino. Dal fondo della stanza incombeva la finestra con il mosaico. Ne riconosceva il disegno, anche nell'oscurità: l'albero della tentazione e le figure in piedi, le mele e l'unicorno. Rachaela lasciò la stanza e si chiuse nel bagno. Mrs. Mantini avrebbe avuto molto da fare, lì. In effetti tutta quella casa sarebbe stata un paradiso, agli occhi di Mrs. Mantini. In bagno c'erano saponette nuove e asciugamani puliti. Evidentemente Rachaela era attesa. Ma perché? Gli Scarabae avevano forse pensato che il suo istinto materno sarebbe stato ferito dal rapimento della sua bambina? Eccola, nel ruolo della madre angosciata, accorrere fremente di sdegno. Del resto, che ne sapevano, loro, dei suoi incerti tentativi di aborto? E di tutti quei suoi anni di lotta e di sopportazione? Che cosa poteva avere raccontato loro, Ruth, di lei come madre? Rachaela prese dal guardaroba il vestito color segatura e lo riappese. Senza dubbio le sarebbe andato ancora bene. Tornò nel bagno e si immerse nella calda vasca. Era appena scivolata nell'acqua quando udì provenire dal corridoio un suono felpato di tacchi femminili. Una Scarabae, senza dubbio. Chi poteva essere? Unice? Miriam? Anche quel suono le sembrò così familiare. Li aveva persi negli anni vissuti nell'appartamento, quegli im-
percettibili passaggi. Era rimasta solo la musicaccia a tutto volume del piano di sotto, e le discussioni sul pianerottolo. Rachaela pensò: Lui è qui. Ci separano solo pochi muri, poche stanze, qualche scala. Fino a qual momento era riuscita a non pensare ad Adamus. Lui aveva improntato di sé la sua vita, perlomeno quella di quegli ultimi dodici anni, aveva improntato di sé tutti i giorni di lei, grazie a ciò che era successo nel corso di una sola straordinaria notte. Nel corso di quegli anni l'aveva sognata, quella notte, di tanto in tanto. Ma non aveva mai permesso a se stessa di rievocarla fino in fondo. Le aveva sovrapposto nella memoria una cortina di ferro, che però in quel momento quella casa, e la sua stessa presenza in quella casa, stavano irresistibilmente e dolorosamente rimuovendo. Sapeva che avrebbe dovuto affrontare Adamus, o anche semplicemente l'idea di lui, nel momento in cui fosse ritornata lì. In fondo era lui la ragione per cui era venuta lì: lui e Ruth. Rachaela uscì dal bagno e si asciugò. Tornò in camera e indossò il vestito color segatura, che avrebbe potuto anche essere stato acquistato il giorno prima tanto le cadeva a pennello. Non le dispiacque il suo aspetto un po' scolorito, e nemmeno il suo odore di muffa. Doveva mimetizzarsi, e corazzarsi, in qualche modo. Si incipriò il viso nello specchietto e ripassò la matita nera del trucco intorno agli occhi. Chissà se Camillo le avrebbe riservato un altro topo impacchettato? Quando però aprì la porta non c'era nessuno, fuori. Solo la lampada accesa testimoniava la flebile vita della casa. Gli Scarabae stavano ancora cenando o forse le loro abitudini erano cambiate? Doveva accertarsene. Rachaela attraversò il corridoio e il pianerottolo. Mentre scendeva le scale si accorse che in sala da pranzo la luce era accesa, come la prima notte in cui era arrivata lì, molti anni prima. In salone Michael e Maria stavano rigidi in piedi come figure scolpite nel legno, avvolti nei loro vestiti scuri da servitori. «Michael, Maria,» disse Rachaela. I due le fecero subito un rigido inchino, cosa che in effetti si sarebbe dovuta aspettare. «Miss Rachaela,» disse Michael, «prego, vada subito in sala da pranzo.» «Vorrei bere qualcosa prima, Michael.» «Miss Anna mi ha pregato di chiederle di entrare subito.» Rachaela rispose con un'alzata di spalle; qualcosa si agitò in fondo al suo ventre, quasi
un fantasma, una piccola Ruth bambina. Si incamminò verso la seconda porta, e Michael si affrettò a precederla per aprirgliela. Entrò in sala da pranzo e subito si fermò; non era stupita, solo un po' turbata da ciò che si era aspettata di vedere. Dal momento che loro erano tutti là, come nelle occasioni più memorabili in passato. Scorse ad una ad una le loro facce conosciute, pressoché identiche a come lei le ricordava, incartapecorite in sdruciti abiti da sera, cosparsi di trine e di vecchi lustrini. Riusciva ancora a ricordare tutti i loro nomi? Sì, certo. Alice, Peter, Jack, Livia... No, Camillo no. Non c'era. Vide e pensò tutto questo nell'arco di un breve istante, dal momento che la sua attenzione fu attirata dalla più straordinaria di tutti gli Scarabae, seduta ad una estremità della tavola. Indossava un vestito color verde scuro di velo e tulle, al collo portava una collana di vetro scolpito pure verde, ai lobi delle orecchie degli orecchini di giada, i lunghi capelli neri le ricadevano sulle spalle, fermati da pettini di tartaruga, il volto era incipriato, le sopracciglia tinte di nero, le labbra di cremisi: Ruth. Sedeva in mezzo agli Scarabae come una pianta rampicante emerge in mezzo a vecchie statue decrepite, sbocciata dai loro piedistalli. Sorrise a Rachaela, scoprendo i suoi splendidi denti bianchi, che non avevano mai avuto bisogno delle cure di un dentista. «Ciao, mamma.» Era la prima volta o quasi che la salutava di sua propria iniziativa. Questa volta però era lei che si trovava a casa propria, non era più ospite indesiderata a casa di Rachaela. Rachaela non le rispose. Alla destra di Ruth si alzò Anna. «Vieni e siediti con noi, Rachaela. Siamo tutti molto lieti che tu ci abbia raggiunti qui. Abbiamo sperato tanto che ti decidessi.» «Ho dovuto farlo,» disse Rachaela. E aggiunse, con voce asciutta: «Voi avete rapito mia figlia.» «Oh no, Rachaela. Non si è trattato di un rapimento. No davvero.» Ruth intervenne, allegra e presuntuosa come una brava scolaretta: «Ho chiesto a quell'uomo. Lui mi ha spiegato dov'era il posto, così ho preso il treno e ci sono venuta da sola. E stato bellissimo. E poi loro hanno mandato una macchina alla stazione.» «Certo. E poi hai risalito tutta la collina attraverso il bosco,» disse Rachaela. «C'era Michael ad aspettarmi. E lui che mi ha indicato la strada.» Non sembrava mostrare alcun timore nei confronti di Rachaela. Nessuna
esitazione. Era come se tutto fosse stato preparato nei minimi dettagli. Rachaela osservò quello che era diventata sua figlia: una misteriosa donnina in miniatura. Non sembrava affatto una bambina vestita a festa per qualche importante cerimonia, quanto invece la figlia minore di un'antica famiglia d'epoca medievale, vestita come una sorta di versione ridotta di una donna adulta, una piccola donna di dodici anni. «Coraggio, vieni qui e siediti,» ripeté Anna. I mille lustrini del suo vestito scintillarono, come tutti quelli dei presenti, compreso quello di Ruth. Rachaela si avvicinò alla tavola. Le era stato riservato un posto all'estremità opposta della tavola rispetto a quella dove sedeva Ruth. Proprio come se avessero previsto il momento esatto in cui Rachaela si sarebbe presentata. Con tutta probabilità tutto era stato preparato e tenuto pronto da settimane, dal momento in cui Ruth si era trasferita lì. Rachaela si sedette, e Cheta le si accostò per servirla. Quella sera c'era coniglio in umido. Rachaela mangiò con molta cautela, non era affatto sicura di poter sopportare ancora quel cibo. Ruth invece mangiava con grande impegno ed appetito, come un piccolo rapace. In tavola c'era anche del vino rosso, forte e denso. Cheta ne versò un bicchiere a Rachaela. Anche Ruth ne vuotò avidamente un bicchiere a piccoli sorsi. Nessuno di loro era cambiato. Non era possibile, in quella famiglia. E Ruth splendeva in mezzo a loro come una perla in mezzo a una ragnatela. La famiglia era soddisfatta, tutti emanavano un'aura di benessere. In fondo, avevano ottenuto quello che volevano e vi si crogiolavano, sia gli Scarabae che Ruth. Mancava solo Camillo. E anche Adamus. Rachaela lasciò il suo cibo nel piatto. «Pochi giorni fa,» disse Ruth, «abbiamo mangiato dei gabbiani. È stato Jack a prenderli.» «In genere era il gatto che li cacciava,» disse Rachaela. «Il gatto è molto vecchio, ormai,» disse Anna. «Dorme la maggior parte della giornata e della notte.» Qualcosa dunque era cambiato. Il gatto, almeno lui. Maria portò in tavola una crostata di fragole. Rachaela osservò Ruth infilarsi nella bocca dipinta di rosso una fetta di torta. Ne ottenne una seconda porzione, come già aveva fatto in precedenza con il coniglio. Vera cucina casalinga, come quella che una volta preparava Emma. Rachaela si alzò in piedi.
«Scusatemi.» Prese il suo bicchiere di vino e si allontanò dal tavolo, guardando il gruppo dei commensali dal fondo della stanza. Era oscena anche soltanto l'idea di farne parte. Ma se anche lei, come Ruth, fosse stata rapita quando ancora era una ragazzina, anche lei si sarebbe comportata così con loro? Chi poteva dirlo, ora. La cena finalmente ebbe termine con le ultime due portate, un vassoio di formaggi e un piatto di frutta. Ruth si servì abbondantemente anche di queste. Gli Scarabae si alzarono in piedi e si spostarono verso il salone, muovendosi tutti insieme, all'unisono, una sorta di creatura composita e amorfa, un'ameba di cui Ruth costituiva il cuore palpitante. In salone, uomini e donne si sparpagliarono e si divisero, cominciando chi a cucire e a lavorare a maglia, chi a leggere libri e a giocare a scacchi. Dal gruppo usciva un lieve ronzio, come d'insetti. Maria e Cheta servirono il tè. Ruth stava in piedi davanti al caminetto, fasciata nel suo abito da principessa, bevendo il suo tè e costituendo di fatto il centro focale di tutti gli sguardi che incessantemente si levavano e si indirizzavano a lei, e di tutti i sorrisi che scoprivano sotto labbra decrepite denti aguzzi e scoloriti. A un certo punto Ruth appoggiò tazza e piattino accanto al vecchio orologio dorato, ormai fermo. «Posso salire, ora?» «Certo,» disse Anna, sprofondata su un sofà. «Sali pure.» Rachaela osservò sua figlia staccarsi delicatamente dal caminetto e lasciare il salone col suo consueto passo felpato. Le sue attenzioni nei confronti di Rachaela erano terminate. Allontanandosi, non la degnò neanche di uno sguardo. «Dove sta andando, Anna?» chiese Rachaela, seccamente. «Alla torre.» «La torre di Adamus.» «Rachaela, Adamus le sta insegnando a suonare il piano.» Un tuffo al cuore interruppe per un istante il respiro di Rachaela. Si schiarì la gola e disse: «Già. È logico.» «Sì. Sembra avere un talento naturale per il piano.» «Naturalmente.» Rachaela ebbe un attimo di esitazione. «Anna, voglio parlarti.»
Anna si alzò subito in piedi, come una padrona di casa cortese e servizievole. «Vuoi forse vedere la camera di Ruth?» «D'accordo.» Nessuno le guardò mentre uscivano dal salone. Rachaela non era più interessante agli occhi degli Scarabae, ora. Il suo giorno era terminato. Rachaela e Anna attraversarono il soggiorno, salirono una breve scala e arrivarono a uno stretto corridoio decorato con teste di cavalli alle pareti. Rachaela non si ricordava di averlo percorso nel passato, ma doveva averlo fatto, dal momento che aveva certamente esplorato ogni angolo di quella casa. A una svolta del corridoio vide infatti un quadro di cui si ricordava, una nave in alto mare, e seminascosta sotto le onde una corsa di bighe, residuo di un quadro precedente. Il corridoio sbucava su un annesso con due finestre - oscurate, dunque impossibili da riconoscere - e all'estremità, una porta. Anna aprì la porta e Rachaela, turbata, la seguì. «È solo perché mi sembra doveroso. Sei sua madre.» Rachaela entrò in una camera che sembrava immersa nel sangue, interamente tinta di rosso. Rossa era la carta da parati in rilievo con cui erano rivestiti i muri, sulla quale si stagliavano qua e là alcune macchie scure di umidità, rosso come il fuoco era il tappeto, rosse come le labbra di Ruth le coperte e il copriletto della sua alcova. Rachaela rimase ammutolita a quella vista. Rosso. Come il sangue delle mestruazioni e della verginità violata. Rosso come il ventre che partorisce. Rosso come il sangue bevuto a una festa barbara. Quale sangue evocava, quel rosso? O riuniva forse in sé tutte insieme queste diverse significazioni? Anche le finestre di questa camera avevano un loro mosaico. Rachaela lo guardò a malincuore. Sembrava una natività, ma in effetti non era così. Un raggio di luce proveniente da una lampada posta accanto al letto rivelò che anche il vestito della vergine era color cremisi, mentre i tre Re Magi avevano teste di animali: un cavallo, una lucertola e un gatto. Accanto a loro, seminascosto, c'era un asino con la testa barbuta di un uomo. «Trovo sempre abbastanza curioso il vostro simbolismo,» disse Rachaela. «Sono le nostre usanze, Rachaela. Questa è sempre stata la camera dei bambini. Anzi, delle bambine. E ora è la sua camera, di lei che sarà la nostra salvatrice, come sai.»
«Certo. Dal momento che una ragazza può generare figli.» «Esatto,» disse Anna, imperturbabile. «Ma è troppo giovane!» «Non è vero, da un punto di vista strettamente fisiologico,» disse Anna. «Ma sono d'accordo anch'io, bisogna far passare ancora qualche anno.» «Quando avrà quattordici, quindici anni?» «Sì, qualcosa del genere.» «Ma è illegale in questo paese, Anna.» «Questo paese? Quale?» sorrise Anna. «Noi siamo il nostro paese. Siamo tutti i paesi, e nessuno.» «E chi sarà l'uomo destinato a lei?» disse Rachaela. Stava sudando, sprofondava nel colore incadescente della stanza. «Lo sai benissimo,» rispose Anna. «Lo so, infatti. Nonno, padre, e amante. Dovrebbe essere incestuoso persino per voi, credo.» Anna abbassò gli occhi, pudicamente. «È il modo migliore, per noi.» «Ma... Ruth è al corrente di ciò che intendete fare?» «Ruth è al corrente del fatto che lei è molto importante per noi; lo sa e lo accetta. Per fortuna, questa volta siamo riusciti ad accoglierla fra noi ancora molto giovane. Lei crescerà fra noi, accanto a noi, accanto a suo padre. Lui già le appare molto attraente, cosa che del resto non ci sorprende affatto. Alla fine, tutto le apparirà naturale. Si svolgerà una piccola cerimonia, che in futuro, quando lei sarà diventata più grande, la aiuterà a capire ciò che è successo.» «No, Anna,» disse Rachaela. «Comunque sia, non dipende da te,» disse Anna. «Non dipende da me? Io la porterò via di qui!» «Anche se tu riuscissi a portarla via,» disse Anna, «Ruth tornerebbe qui nel più breve tempo possibile. Lei non trova alcuna difficoltà ad identificarsi con gli Scarabae.» «È disgustoso, Anna. Quello che è successo prima a me è già stato abbastanza orribile, e infame. Ma questo...» «Quanto sei gelosa, Rachaela. Mi dispiace davvero per te. Se solo tu fossi rimasta qui, il posto di moglie sarebbe stato tuo. Ma tu non hai voluto restare. E noi abbiamo dovuto pazientare per tutti questi anni.» Gelosa? Sì, doveva essere così. Non era tanto al pensiero di proteggere quella figlia indesiderata che si angustiava, quanto a quello che il corpo di
Adamus non dovesse mai unirsi a quello di un'altra donna che non fosse lei. Neanche Anna era cambiata. Più di tutti, anzi, era la stessa del loro primo incontro. Ora però era anche una sua strenua avversaria. Loro non avevano più bisogno di lei, non la desideravano più. Sarebbe stata semplicemente tollerata fra di loro come un'ospite in più, ma le avrebbero impedito di fare altri danni. Il loro unico debito nei suoi confronti era Ruth. «No, Anna, tutto questo è spregevole, e io non lo permetterò.» Anna sollevò le braccia e le lasciò ricadere. «Come sempre, combatti contro il destino.» «Ma è una bambina! Come posso permettervi di farle questo?» «Lei sarà d'accordo. Del resto, quali alternative le puoi offrire, tu? Hai voluto la tua libertà, Rachaela, l'hai ottenuta, e cosa ne hai fatto? Una vita monotona, da sonnambula.» «Ma è la mia vita.» «E allora vivila e lascia che Ruth viva la sua.» «Non ci troveremo mai d'accordo su questo punto, Anna.» «No. Credo proprio di no.» Rachaela si sentì completamente sola e in trappola; del resto era proprio quello che si sarebbe dovuta aspettare; e anche Anna si rendeva perfettamente conto di questo. «Dunque, dovrei restare a guardare.» «Se lo desideri.» Intorno a loro la camera rossa palpitava e ardeva come brace sotto la cenere. Rachaela cercò di immaginarsi Ruth mentre vi dormiva. La immaginava accudita dai servitori, il suo letto tenuto sempre in ordine, i suoi oggetti sempre spolverati con la massima cura. Appoggiata su un tavolino c'era una scatola di colori e un album da disegno; accanto al letto c'era un'altra scatola, piena di gioielli, perle e ninnoli di vetro. Tutto era stato preparato per l'occasione. Era lì che Ruth avrebbe vissuto: sarebbe diventata una splendida bambina viziata, una principessa delle favole finalmente al sicuro, chiusa nel suo castello. È con uno splendido principe azzurro che l'aspettava, pronto per lei. «È tutto troppo perfetto,» disse Rachaela. «Succederà qualcosa. Voi non conoscete Ruth.» «Oh, sì invece. Ruth è come noi. Sei tu l'erba cattiva, mia cara Rachaela.» Rachaela era sdraiata sul suo letto verdeazzurro, ascoltava i rumori della casa e il suono della risacca in lontananza. Doveva assolutamente decidere
che fare, e doveva essere la migliore decisione possibile. Una volta o due, udì provenire dal corridoio un suono ovattato di passi. La pendola accanto al letto segnava le cinque e un quarto, dunque quasi le tre, se ricordava esattamente la differenza di orario. A meno che naturalmente la taratura dell'orologio non fosse cambiata. Ma quasi certamente anche l'orologio era come tutto il resto, in quella casa: assolutamente uguale a prima. E Adamus? Era cambiato, lui? Avrebbe avuto un aspetto invecchiato, ora? Doveva avere almeno settant'anni, se fosse stato tutto vero - ma era inutile continuare a dubitarne. Era vero, e basta. Però Ruth non sarebbe stata attratta da un vecchio. Già il trentenne che lei aveva conosciuto era troppo vecchio per una bambina di undici anni. Ma Ruth non era una bambina. Rachaela rivide Ruth come le era apparsa poco prima. Una fanciulla stregata. Una maschera fasciata in un vestito. Doveva assolutamente parlarle. Parlarle veramente, per la prima volta. Il suono della risacca aumentò di intensità, come se il mare volesse portarsi via la spiaggia. Era quello, il potere dell'oceano. Chissà se Sylvian era ancora là, a galleggiare in mezzo alle onde, fra i relitti e i galeoni sventrati? La mattina seguente, dopo essersi lavata e vestita, Rachaela tirò il cordone del campanello e subito, miracolosamente, Cheta comparì alla porta. In apparenza, era tutto esattamente come prima. Pane tostato e tè. Per un attimo, Rachaela venne colta nuovamente dal senso dell'assoluta inutilità dei suoi sforzi, e si affrettò a lasciare la sua camera. Imboccò un corridoio, giunse all'annesso di Salomè e salì all'attico. L'attico era diverso da come se lo ricordava. Il cavalluccio a dondolo non c'era più. Grossi gomitoli di polvere giocavano a rimpiattino in tutta la stanza. Sulle rastrelliere, le bottiglie di vino rosso di zio Camillo, molte delle quali prive di turacciolo, erano coperte di polvere e di ragnatele. Camillo non doveva essere più salito all'attico da mesi, o forse addirittura da anni. La polvere della vecchia casa si accumulava dappertutto, prodotta dalle sue stesse travature decrepite e scricchiolanti. Un uccello impagliato si stava trasformando lentamente in una scultura di polvere. Rachaela aveva lasciato lì il suo martello, la volta che aveva tentato di rompere la finestra della torre. La sua era stata un'esplosione di violenza del tutto inutile, alla fine. Ricordarla doveva servirle da monito. Rachaela
ritrovò il martello non molto lontano da dove l'aveva gettato allora. Abbandonò l'attico e cominciò a esplorare la casacom'era solita fare in passato: apriva tutte le porte che incontrava e quando non si aprivano cercava di forzarle. In uno squallido salottino trovò Alice che lavorava a maglia. Il mosaico della finestra del salottino era un trionfo di grigio cenere e giallo pallido. Ai piedi del mosaico alcune città bruciavano, mentre Alice, assorta, mulinava le sue bacchette di acciaio, tessendo punti molto complicati. Era stata anche prima in quella stanza, Alice? A parte Cheta, che le aveva portato la colazione, Rachaela non aveva incontrato altri Scarabae. Due delle porte che aveva forzato si erano rivelate essere ripostigli pieni di lenzuola accuratamente piegate. «Alice, dov'è Camillo?» Alice infilò un altro punto. «Non lo so, Rachaela. Potresti provare a cercarlo in biblioteca.» «Ma era Sylvian che stava sempre in biblioteca.» «Ora è Zio Camillo ad andarci. Quanti libri avevamo... camere e camere piene. Mi ricordo che Zio Camillo ci faceva degli scherzi, ci tendeva degli agguati da dietro le sedie.» Rachaela lasciò Alice, attraversò la casa ed entrò in biblioteca. Non c'era nessuno, ma sul tavolo c'era ancora il mappamondo danneggiato, l'inchiostro e il righello. Rachaela osservò il righello di ebano. Una volta aveva visto Zio Camillo incidervi sopra uno scheletro, che però adesso non c'era più. Diede una scorsa ai libri, osservando le righe che erano state tracciate sopra le frasi. Trovò un solo libro in cui le cancellature avevano risparmiato alcune singole parole. Dopo un notevole sforzo, riuscì a risalire all'unica frase alla quale era stato ridotto quel libro: Siamo scappati prima di loro. Su una sola scaffalatura, quella a nord, i libri erano ancora leggibili. Nessuno aveva ripreso in mano il lavoro di Sylvian, nonostante la minacciosa presenza del righello e dell'inchiostro lo facesse presumere. Rachaela uscì di casa e scese i gradini della scaletta che conduceva alla spiaggia. Il mare era agitato, di un verde intenso, denso di schiuma. Rachaela tornò indietro, rientrò in casa e riprese le sue ricerche. Camillo era il più vecchio di tutti. Tutti i loro segreti erano custoditi nella sua memoria. Non poteva ancora andare da Adamus. Chissà cosa stava facendo Ruth in quel momento. Forse dormiva. Le piaceva poltrire un po', il sabato e la domenica. O forse era già in piedi e stava disegnando. Rachaela finì per perdersi nei meandri della casa, trovò un'altra porta che non si apriva e bussò rumorosamente. Quando riprovò ad
aprirla la porta cedette da sola, come se avesse deciso di permetterle di entrare. Un vecchio era sdraiato su un imponente letto giallo, le coperte rimboccate fino al mento. Fra la porta e il letto, una macchia di colore, bianco e rosso, contro il pavimento color sabbia: il cavalluccio a dondolo. «Camillo?» Il vecchio volto si girò impercettibilmmente, i lunghi capelli bianchi si sparpagliarono sul cuscino. Bisognava stare attenti con gli Scarabae. Non si poteva mai sapere quali fossero le loro intenzioni. In ogni modo, lei aveva deciso di trovarlo e ci era riuscita. «Ti stavo cercando,» disse Rachaela. Fece qualche passo avanti, lentamente. Dunque in quei dodici anni si era ridotto così, incartapecorito dall'età in fondo a un letto? «Camillo?» ripeté Rachaela. Camillo la guardò. I suoi occhi erano vivi e penetranti come lame. «Una notte,» cominciò, «arrivò la plebaglia. Gridavano tutti intorno alla casa, così i servitori corsero da mia madre, terrorizzati. Mio padre mi buttò giù dal letto. "Vestiti," mi disse, "indossa i tuoi abiti più caldi." Fuori, la slitta era pronta, e anche i cavalli. Dalle briglie avevano tolto i sonagli. Mio padre schioccò la frusta e partimmo di gran carriera. Ricordo ancora la neve che si apriva davanti a noi, come un'onda.» «Non voglio ascoltare queste cose,» disse Rachaela, con voce pacata. «Eravamo riusciti a ingannarli, quei cialtroni,» continuò Camillo. «Così ci inseguirono e lanciarono una gragnuola di pietre contro la slitta. Mia madre piangeva. Aveva addosso tutti i suoi gioielli e una grande mantella di pelliccia sopra la camicia da notte. Ci dirigemmo verso la periferia della città. Ci vennero incontro di corsa alcuni uomini con delle torce accese, ma il cavallo si imbizzarrì e li travolse. Io ero eccitatissimo. Ero troppo piccolo per capire tutto quello che stavamo abbandonando. Ci lanciammo a perdifiato dentro la foresta ghiacciata, sollevando immense ondate di neve, gli alberi sembravano altissime candele bianche, scintillavano alla luce della luna. Io pensavo a tutte le storie di lupi che mi avevano raccontato, ma mio padre mi zittì, dicendomi che erano gli uomini a dovere essere temuti, non i lupi. Poi, la foresta si richiuse sopra di noi e non ci fu più luce.» «Camillo...» «La slitta corse per tutta la notte. Quando arrivammo in cima a una collina, la foresta improvvisamente si aprì, noi ci guardammo indietro e vedemmo un grande bagliore rosso lungo la linea dell'orizzonte. Mia madre
scoppiò in lacrime, disse: "Li stanno bruciando vivi tutti!" Mio padre disse: "Stanno bruciando tutta la città." Poi, gli alberi ci inghiottirono nuovamente.» «E la mattina dopo,» disse Rachaela, «quando tornò la luce, tu ti prendesti il viso fra le mani e cominciasti a piangere.» Camillo sogghignò. «Bene, non devo neanche concluderla, questa storia.» «Perché me l'hai raccontata?» «Eri qui, no?» «Chi erano loro, quelli che vennero uccisi?» «Erano Scarabae,» disse Camillo, «sempre loro.» «E invece a ucciderli è stata la superstizione, che loro stessi avevano alimentato.» «Stella stellina, la notte si avvicina,» disse Camillo. «Voi avete paura della luce poiché vi è stato insegnato così,» disse Rachaela. «E allo stesso modo credete di essere vampiri perché qualcuno vi ha convinto di questo.» «Che cos'è, questo?» disse Camillo. «Un topo? O un elefante?» «Dimmi come posso portare Ruth via da qui.» «Ruth?» disse Camillo. «Quell'odiosa bambina.» Rachaela squadrò Camillo. «Non ti piace, vero?» «È una vera serpe in seno.» «E allora aiutami a portarla via da qui, Camillo. Dimmi come posso fare.» «Non hai alcuna speranza di farcela,» disse Camillo, sprofondato nel suo letto giallo. «Lei è il loro nuovo grembo, ora. E tu invece sei la malaerba, il cespo che non dà fiori. Devi andartene.» «Camillo!» «Una notte,» ricominciò Camillo, «arrivò la plebaglia. Gridavano tutti, intorno alla casa...» Il vecchio volto incartapecorito di Camillo si rinserrò come un'ostrica intorno alla sua storia. Rachaela si avviò alla porta, e lui continuò a recitare quella sua litania finché non se ne fu andata, chiudendosi la porta dietro le spalle. Allora, nella stanza tornò il silenzio. CAPITOLO SEDICESIMO
Finita la cena e bevuto il tè, dopo che Ruth posò la tazza, si alzò in piedi e pronunciò le parole di rito: Posso salire, ora? Certo... Rachaela si alzò in piedi a sua volta e disse: «Vengo con te, Ruth.» Ruth si fermò subito, con un gesto istintivo che era il frutto di anni ed anni di obbedienza formale. «Ruth conosce la strada, Rachaela,» disse Anna. «Ne sono sicura. Ma desidero vedere una delle sue lezioni di piano.» In tutto il salone gli Scarabae si agitarono lievemente, come foglie appena smosse da una brezzolina. Dorian, che giocava a scacchi, rimase fermo con un alfiere fra le dita. Alice lasciò cadere una maglia. «Ma così puoi distrarre Ruth,» disse Stephan, che era appoggiato al camino spento. «È molto giovane, e studia da poco.» «Ma no,» disse Rachaela. «Sono sua madre.» Un lieve soffio di gelo sembrò passare su tutti loro. «Naturalmente. Andate, allora,» disse Anna. Ruth si voltò e si avviò alla porta, tuttavia non così velocemente come la sera prima, ma dando il tempo a Rachaela di raggiungerla. Arrivate all'ingresso, dove le labbra di Ruth splendevano alla luce color rubino della lampada, Rachaela disse: «Ti piacciono, le lezioni di piano?» «Oh, sì.» «Come ti trovi, con lui?» chiese Rachaela, con voce indifferente. «Oh, tu dicevi che non gli sarei piaciuta, ma invece non è affatto così,» rispose allegra Ruth. «Davvero?» «Dice che imparo molto in fretta. E poi, suona per me.» «Già,» disse Rachaela. Intanto erano arrivate alla porta. «Ti ricordi la prima cosa che ti ha detto?» chiese Rachaela. «Certo,» rispose Ruth. «Qual è stata?» «Mi ha detto: "Mi chiamo Adam. Sono tuo padre."» «E tu gli hai creduto?» «Certo.» «Secondo te quanti anni ha, lui?» Ruth mise una mano sulla porta. Disse: «Non saprei.» «Ma che cosa pensi di lui?»
Ruth fissò Rachaela. Il suo viso era come una pagina bianca, o meglio, come le pagine coperte di cancellature e rese illeggibili dei libri di Sylvian. «È mio padre.» Quell'affermazione banale e al tempo stesso spaventosa s'interpose fra di loro come un soffio di gelo. Ruth piegò la maniglia e la porta della torre si aprì. Ruth s'incamminò per prima lungo la scala, verso la stanza al piano di sopra. Rachaela saliva lentamente dietro di lei; il suo corpo era percorso da fitte dolorose, come se fosse stata colta dalla febbre.La stanza. La finestra col mosaico era già stata oscurata, non era possibile vedere se il muso del leone fosse ancora ferito. Lampade e candele illuminavano i mobili della stanza e la loro luce si rifletteva sulla superficie lucida del pianoforte. Accanto al caminetto sonnecchiava un grosso gatto, nient'altro che un mucchietto di ossa ricoperto di pelliccia. Nel momento in cui le due donne entrarono, il gatto sollevò appena le palpebre e le sue pupille offuscate dal sonno le osservarono come da molte miglia di distanza. Ruth gli si precipitò incontro, s'inginocchiò e lo prese in braccio, strofinando la sua testa contro il viso e carezzando la sua morbida pelliccia. Poi sollevò il capo verso l'uomo seduto sulla poltrona di fronte al camino. «Ciao, Adam!» disse Ruth, senza alcuna timidezza, ma anche senza nessuna malizia. O forse era già un tono possessivo, il suo? Quello era il misterioso straniero che l'aveva generata e che non avrebbe dovuto contare nulla per lei, o almeno così le era stato detto per anni. Ed ora le stava innanzi, in tutta la sua prestanza maschile. Suo per un'ora, o per tutto il tempo che avrebbero passato insieme quella sera, come tutte le sere in cui si davano appuntamento. Adamus indossava una camicia bianca. Questo era diverso da allora, pensò Rachaela, lei lo ricordava sempre vestito di nero. Oppure nudo, vestito solo della sua pelle. I suoi lunghi e fluenti capelli neri, uguali a quelli di Ruth, erano raccolti dietro la nuca, nel modo in cui lei li ricordava. Adamus non si era voltato verso Rachaela, la sua attenzione era rivolta unicamente alla piccola donna-bambina inginocchiata ai suoi piedi. Rachaela lo poteva vedere solo di profilo, e non le pareva minimamente invecchiato, il suo sguardo era fisso e oscuro, come sempre. Non aveva sorriso alla bambina, il suo volto non aveva alcuna espressione. Adamus disse: «Vai al pianoforte.» Si alzò e attraversò la stanza, e Rachaela poté rivedere il suo viso, quel
volto che aveva dimenticato. Era naturale che la sua memoria non fosse riuscita a trattenerne un'immagine: era troppo assoluto, quel volto, troppo somigliante a se stesso e a nessun altro. Ma ora c'era il tramite di una nuova somiglianza. Poiché solo in quel momento Rachaela si accorse di quanto Ruth assomigliasse ad Adamus. Forse era proprio per questa sua dolorosa somiglianza che Rachaela non aveva mai potuto sopportare il suo viso. Nel momento in cui Adamus si era mosso verso il pianoforte, i suoi occhi inevitabilmente avevano incontrato quelli di Rachaela. Il suo sguardo fisso le risultò intollerabile e nello stesso tempo impossibile da sfuggire, e non poté fare a meno di scoprire, con orrore, quanto di lui le era rimasto dentro. In quello stesso istante Ruth si allontanò dal caminetto, gli andò incontro e gli tirò un braccio. «Cosa devo suonare?» «Ti ho preparato un brano di Mozart. Prova a suonarlo.» Così Ruth tornò ad essere il centro dell'attenzione. Si sedette al pianoforte e appoggiò sulla tastiera le belle mani bianche, dalle lunghe dita affusolate. Cominciò a suonare. Era brava, in modo quasi sorprendente. Nel corso dell'esecuzione non ebbe mai tentennamenti, ma una volta o due fu costretta a rallentare, scrutando lo spartito, corrucciata. Diede del brano un'interpretazione un po' lugubre e sinistra, forse non molto appropriata, ma comunque efficace. In così poco tempo aveva imparato davvero molto. «Bene, molto bene,» disse Adamus. «Però ricordati che quando sbagli a leggere la musica non devi far finta di niente. Devi fermarti, tornare indietro e suonarla così come è scritta.» «Sì, Adam,» disse Ruth, e gli sorrise. Gli sorrise nello stesso modo in cui sorrideva ad Emma. Non c'era alcun artificio in quei sorrisi, eppure le riuscivano sottilmente provocanti, sicuri di essere recepiti per quello che erano, sotterranei inviti. Anche Adamus le sorrise, in risposta, ma il suo era un sorriso quieto e distante, quello di un insegnante che mostrava simpatia e benevolenza a un'allieva particolarmente dotata. Un respiro sfuggì dal petto di Rachaela, e le sembrò strano respirare, come se in quegli ultimi dieci minuti avesse smesso di farlo. Un fiotto di sangue caldo le affluì alla testa. Decise che era ora di parlare. «Ruth è stata davvero bravissima in così poco tempo.» «Infatti,» disse lui, come se avessero discusso fino a quel momento, tutti i giorni di quegli ultimi dodici anni. «È impressionante, in effetti. Ma anch'io ero così, alla sua età. Avrà pre-
so da me.» «Sì. Ho preso da te,» disse Ruth. «Spero proprio di no.» Ruth fece un risolino, come una bambina felice di giocare col suo nuovo giocattolo. «Suona le scale, ora,» disse lui. E Ruth cominciò i suoi esercizi. Rachaela si allontanò da loro e si sedette su una delle poltrone di fronte al camino. Si chinò ad accarezzare la testa del gatto, che ancora dormiva. La vecchiaia l'aveva dimagrito, tanto che si sentiva lo scheletro del cranio sotto un sottile strato di pelliccia. Perlomeno lui non era stato infettato da loro. Dopo le scale armoniche, Ruth suonò qualche brano molto semplice di Clementi. Adamus era un insegnante molto paziente. Non la correggeva mai durante l'esecuzione di un brano, ma solo alla fine; a volte la faceva tornare al punto dove aveva sbagliato e glielo faceva ripetere. Rachaela ascoltava il suono del piano e delle loro parole come in una sorta di trance in cui tutto quello che accadeva sembrava naturale, come se le relazioni che c'erano fra loro non fossero mai esistite, o fossero normali. Finalmente la lezione ebbe termine. «Suonami qualcosa,» disse Ruth. «Suonami quel brano di Chopin, quello che preferisco.» Ruth si divertiva a pronunciare il nome Chopin storpiandolo in Chopping, era uno dei suoi giochi infantili. Adamus cominciò a suonare. Rachaela s'irrigidì, quando le prime note cominciarono a diffondersi nella stanza, fissò duramente il suo amante e sua figlia. Ruth era piegata sulla spalla di Adamus, senza però toccarla. Fissava come ipnotizzata le sue dita che correvano sulla tastiera, protesa in avanti come un sottile ramo d'albero appena incurvato da una brezza. Ora meno che mai sembrava una bambina, avvolta nel suo abito da sera verde muschio, i pettini di tartaruga affondati nei capelli. Sembrava piuttosto uno spirito, una fata maligna, un'ancella del diavolo, curva sulla spalla di Adamus. Rachaela sentì salire dentro di lei un'ondata d'ira. Ebbene sì, sono gelosa. Ho tutte le ragioni per esserlo. Chi c'è qui, di fronte a me? La mia sostituta. Quando Adamus smise di suonare, Ruth disse: «Suonami il brano di Prokofiev, ora.» «No. Non ora, Ruth. Per stasera basta.» Ruth non fece obiezioni, fece una piroetta su se stessa e tornò al camino,
piegandosi nuovamente a carezzare il gatto. «Ruth,» disse Rachaela. «Dai la buonanotte al gatto e torna da basso.» «Ma io voglio stare qui!» «No,» disse Rachaela. «Non stasera.» Ruth la fissò. Disse: «Resto sempre qui almeno un'altra ora, dopo la lezione.» «Te l'ho già detto, non stasera.» Le avrebbe obbedito, Ruth? In effetti non c'era alcuna ragione perché lo facesse. Le vecchie regole non valevano più. Tuttavia Ruth si alzò in piedi, docile. «D'accordo.» Andò a salutare Adamus, che era ancora seduto al pianoforte, in silenzio. «Mamma dice che devo tornare da basso,» disse Ruth. Fece una breve pausa, come per permettergli di obiettare qualcosa. Ma lui non disse nulla. «Buona notte, allora.» «Buona notte, Ruth.» Ruth si piegò in avanti e lo baciò su una guancia. Dopodiché uscì e scese la scala, con l'abito lungo che le volteggiava alle spalle, sfiorando i gradini. Rachaele udì la porta della torre aprirsi e subito dopo chiudersi. Il gatto sollevò la testa, al suono della porta, per poi sdraiarsi nuovamente e tornare a dormire. «Mi dispiace di abbreviarti la serata,» disse Rachaela ad Adamus, con voce anche troppo acida. «Mi rendo conto che hai un mucchio di cose da dirle.» «Io non ho nulla da dirle,» rispose lui. «Le insegno semplicemente a suonare. Tutto il resto della conversazione è opera di Ruth.» «Stai forse cercando di giustificarti?» disse Rachaela. E aggiunse: «Non è possibile. Sei assolutamente ingiustificabile.» «Davvero?» «Lo sai benissimo,» disse Rachaela. Si interruppe e cercò di calmare il suo respiro, che si era fatto affanoso. «O magari sono io che ho capito male?» «No. Credo di no.» «Dunque è vero, dunque davvero tu dovrai accoppiarti con quella bambina?» «Accoppiarmi?» «Come vuoi che la chiami, altrimenti? Una specie di cerimonia che si conclude con l'atto sessuale?»
«Solo alla fine,» rispose lui. «Probabilmente.» «Ma tu sei suo padre!» «Se è per questo sono anche suo nonno,» ribatté lui. Si alzò in piedi e riattraversò la stanza, fermandosi di fronte a Rachaela, davanti al caminetto, nella luce della lampada. La visione del suo volto era intollerabile per lei. «Diciamo le cose come stanno.» «Certo. D'accordo. Allora, dimmi come puoi concepire un atto così disgustoso, così indecente?» «Io non concepisco nulla. È qualcosa che succederà e basta. Prima o poi.» «Come è successo fra noi. Ma almeno io ero una donna. Una donna adulta.» «Ruth crescerà. Loro aspetteranno finché non avrà quattordici o quindici anni.» «Loro. Ma cosa sei tu, Adamus? Il loro robot? Non hai una tua opinione? O sei solo una macchina?» «Sono solo una parte del meccanismo degli Scarabae.» «Non posso credere che tu accetti questo.» «Mi sembra ovvio che lo accetto,» disse lui. «Visto che sono qui.» Rachaela si alzò dalla poltrona. Ai suoi piedi, il gatto fece le fusa, sprofondato nel suo sonno. «Porterò Ruth via da qui.» «Non sei abbastanza forte per farlo,» disse lui. «Sia fisicamente che spiritualmente. Ruth ormai fa già parte di loro, nel bene e nel male.» «E tu credi che io mi siederò e starò a guardare?» «Non hai scelta,» rispose lui. «Tu puoi decidere solo della tua vita, e questo è tutto.» «Davvero? Però quando tu mi hai imposto questa cosa terribile... questa bambina... io volevo abortire, capisci? Volevo sbarazzarmene!» «Ma poi non l'hai fatto,» disse lui. «Giusto?» Rachaela chiuse gli occhi. Ripensò alla sua debolezza, alla sua sfortuna, alla sua incapacità a decidersi nel momento cruciale. Possibile che gli Scarabae fossero realmente riusciti a fare in modo che lei non si opponesse al corso degli eventi? Riaprì gli occhi e chiese: «Se io fossi rimasta, cosa sarebbe accaduto?» «Ti avremmo festeggiato e reso tutti gli onori. Saresti stata incoronata come la nostra Madonna. E saresti stata accudita in tutti i modi.»
«Senza dottori, naturalmente.» «Non ce ne sarebbe stato bisogno. Unice e Miriam hanno assistito nel migliore dei modi alla nascita di almeno venti bambine.» Rachaela scoppiò a ridere. «Una bella prospettiva. Chiusa in questa casa-utero, in questa casatomba con due vecchie che mi strappavano Ruth dalle viscere.» Rachaela ripensò all'allucinazione che aveva avuto all'ospedale, quando le era sembrato di vedere Camillo sulla spiaggia. «E poi? Cos'altro sarebbe accaduto? Ci sarebbe stata una specie di matrimonio fra di noi, e tu saresti venuto a trovarmi in camera una volta ogni due anni?» «Qualcosa del genere. Loro ci avrebbero semplicemente utilizzati per mantenere la continuità della famiglia. Tutto qui.» «Certo. E adesso intendono farlo con te e Ruth.» «Almeno finché potrò rendermi utile.» «E finché Ruth sarà in grado di partorire. Finché questo non l'ucciderà.» «Ruth non morirà affatto. La fibra della nostra famiglia è molto forte. E anche la tua, Rachaela.» «Già. Persino la mia. E dire che io sono l'eccezione. L'unica a non essere nata da un incesto.» Lui non rispose. Un muro di silenzio calò pesantemente fra di loro. Lei avrebbe voluto strapparlo via con le sue stesse mani. Disse: «Parlerò con Ruth. Cercherò di farle capire cosa significhi realmente per lei tutto questo. E poi vedremo.» «Buona fortuna,» rispose lui. «Tu pensi che lei non mi ascolterà, vero? Ma io, contrariamente a te, ho vissuto con tua figlia. Ruth è interessata unicamente a se stessa, e a tutto quello che riesce a divertirla. Questo per lei è un gioco nuovo e anche affascinante, ma prima o poi se ne stancherà. E alla fine non ne vorrà più sapere di diventare l'ape regina del vostro alveare.» «Può darsi.» «Tu pensi che questa specie di... di stregoneria della famiglia Scarabae abbia un potere molto grande, vero? Ma in realtà non sei altro che un fantoccio, un burattino senza cervello. Lo capisci? Non sei nient'altro che una specie di macchina per fecondare!» «Quante parole cattive stai dicendo,» mormorò lui. La sua bellezza spezzò improvvisamente qualcosa dentro di lei, come una frustata. Ciò che più desiderava in quel momento era di avvicinarsi a
lui, di toccarlo, accarezzarlo, di stringersi contro di lui. Desiderava le sue braccia, la sua bocca, desiderava il suo corpo, nello stesso modo irrefrenabile in cui l'aveva desiderato in quel giorno e in quella notte ormai lontani di gioia senza limiti. Rutti poteva andare al diavolo, che cos'era lei in fondo? Un granello di sabbia. Un frammento di polvere. Eppure non gli avrebbe permesso di toccarla ancora, non gli avrebbe permesso di possederla senza amore, ma solo per quella sua gelida e indegna lussuria. «D'accordo. Ho finito,» disse Rachaela. Si allontanò da lui, scese la scala fino alla porta della torre, e, come Ruth aveva fatto prima di lei, l'aprì e se la richiuse dietro le spalle. Passarono due calde giornate prima che Rachaela riuscisse a restare sola con Ruth. Prima era riuscita a vederla unicamente la sera, a cena, prima che se ne andasse a lezione di pianoforte da Adamus. L'aveva cercata dentro e fuori casa, in giardino, dove la rosa selvatica si arrampicava lungo i tronchi dei cedri, i cui rami erano coperti di boccioli. L'aveva cercata anche nella sua camera rossa, e aveva rivisto il mosaico con raffigurata la Madonna cremisi, il bambino con il diadema di perle e i Re Magi con le facce di animali. Ma Ruth non c'era. Il terzo giorno Rachaela era uscita di casa e si era incamminata lungo la brughiera. Ruth era seduta nei pressi della roccia a picco sul mare. Indossava un vestito degli inizi del secolo, con piccole maniche a sbuffo. Non era truccata e portava i capelli raccolti dietro la nuca a coda di cavallo. Rachaela si diresse verso di lei e le si fermò davanti; la sua ombra cadeva sull'erba seccata dal sole. In mezzo alla felce color tabacco volteggiavano le farfalle, mentre il cielo, di un pallido azzurro, era punteggiato di uccelli. «Voglio parlarti, Ruth.» «Sì,» rispose lei. Rachaela si sedette sull'erba, fissando la figlia. Sua figlia. Quella personcina vestita con quell'abito assurdo. «Immagino che tu ti stia divertendo, qui.» «Sì, certo.» «Ti hanno accolta molto bene. Ti hanno fatto un mucchio di regali. Ti fanno fare tutto quello che vuoi. Niente scuola, per esempio.» «Sì, e poi c'è il pianoforte,» disse Ruth. «Naturalmente. E Adamus.» «Io lo chiamo Adam.»
«Lo so. Hai notato, Ruth, che spesso le persone sono particolarmente gentili con noi quando vogliono qualcosa da noi?» Ruth guardò Rachaela. La sua espressione era sinceramente interrogativa. Sembrava dicesse: «E tu, per esempio, cosa vuoi da me?» Rispose: «Sì, a volte.» «E poi, a volte queste persone ti abbandonano.» Rachaela attese un istante prima di lanciare la sua frecciata. «Come Emma, per esempio.» Ruth non batté ciglio. I suoi occhi rimasero come sempre scuri e impenetrabili. «Già.» «Voglio che tu rifletta su questo, Ruth. Gli Scarabae sono stati gentili con te perché vogliono qualcosa da te.» «Vogliono che io rimanga qui con loro, tutto qui,» disse Ruth. E aggiunse: «In fondo sono figlia di Adam.» «E ti hanno detto quello che si aspettano da te e da Adamus?» Ruth dapprima non rispose. Poi disse: «Mi hanno detto che un giorno ci fidanzeremo.» Rachaela trasalì. Con uno sforzo cercò di mantenersi calma. «Tu sai cosa significa quella parola? Fidanzamento.» «Significa legato da una promessa di matrimonio,» rispose Ruth. E aggiunse, sollecita: «Anna mi ha mostrato quella parola su un dizionario.» «Ma tu hai capito esattamente qual è il significato di quella parola?» Ruth fissò sua madre. Rachaela spiegò: «E cioè che dovrai sposarlo?» «Oh, certo.» Rachaela non riuscì più a trattenersi e gridò: «Ruth, le figlie non sposano i loro padri!» «E invece sì. Le egiziane lo facevano.» Rachaela maledisse Miss Barrett, Mr. Walker e le scuole elementari con tutto il loro bagaglio di nozioni inutili. Ma forse Ruth l'aveva letto su qualche libro. «Ma tu non sei egiziana.» «Ma anche i re lo facevano. E le famiglie importanti. Per mantenere il loro sangue puro.» «E questo è quello che gli Scarabae ti hanno detto che tu dovresti fare? Mantenere puro il loro sangue?» Ruth sorrise, senza rispondere, e abbassò lo sguardo, concentrandosi sul-
l'erba. «Hai pensato,» insistette Rachaela, «a quello che dovrai fare con lui come moglie?» Essere presa da lui, penetrata da lui, costretta da lui a traversare quell'inferno spaventoso di piacere e dolore. Non pensarci. È a Ruth che devi pensare. A Ruth. «No, mamma,» disse Ruth. «Tu dovrai partorire i suoi figli,» disse Rachaela. «Hai idea di cosa questo significhi?» «Tu mi hai parlato di come nascono i bambini.» «Bene.» «Non mi importa,» disse Ruth. «Me l'ha spiegato Anna. La famiglia deve essere perpetuata.» «A te non importa perché non hai alcuna possibilità di capire realmente di cosa stiamo parlando. Mio Dio, non te lo posso spiegare in cinque minuti. Ruth, è... è doloroso, e anche degradante, capisci? Significa che tu non puoi essere padrona del tuo corpo!» Oh Cristo, pensò, mi sembra d'essere Jonquil. Rachaela insistette: «E loro si aspettano che tu lo debba fare e rifare, ancora e ancora, continuamente. Riesci a capire quello che sto cercando di dirti?» «Anna mi ha detto che sarà molto facile.» «Ho capito. Dunque, anche Anna ti ha spiegato come nascono i bambini?» «Sì. Noi siamo speciali,» disse Ruth. «Non come te. Tu sei diversa. Tu non capisci queste cose.» Rachaela fece ancora una volta appello a tutte le sue risorse. Rivide Ruth inginocchiata sul pavimento, avvolta nei suoi scialli, le labbra coperte di rossetto, mentre la piccola Lucile piagnucolava, riversa sul suo lettino azzurro. «Tu ti riferisci alla leggenda degli Scarabae vampiri.» «Lo sono,» disse Ruth. Poi si corresse: «Anzi, lo siamo. Nella casa non entra mai la luce del sole. Escono solo di notte. A parte Cheta e Carlo, i servitori, che però non sono dei veri Scarabae, e comunque anche loro devono coprirsi molto per ripararsi dalla luce.» «E allora perché tu sei seduta al sole, in questo momento?» «Io non sono ancora cambiata.» «E quando cambierai?» «Non appena sposerò Adam.»
Rachaela vide Ruth contorcersi, scalciare e gridare sulla superficie nera del pianoforte, Adamus piegato su di lei, la bocca contro il suo collo bianco, dal quale scendeva un rivolo sottile di sangue. «Anch'io ho sposato Adam. E non mi è successo nulla.» «Ma tu non sei come noi. Tua madre era un'estranea.» «Ruth, ho bisogno di tempo per spiegarti. Voglio che tu torni indietro con me a Londra.» «No, grazie, mamma,» rispose Ruth. Rachaela si accorse improvvisamente di quanto Ruth si fosse già trasformata. Il suo sguardo era intenso, sinistro. Nei suoi occhi brillava una nuova, fredda luce, i suoi denti erano aguzzi e le unghie delle mani molto lunghe. Prova soltanto a toccarla, pensò, e questo mostriciattolo ti morderà e ti graffierà a sangue. Avrebbe potuto colpirla con un pugno al seno, per poi divincolarsi da lei e scappare via, come già aveva fatto da bambina. C'era un demonio, in Ruth: il demonio degli Scarabae, resuscitato in una forma ancora ambigua, ma viva, giovane e vitale. In quel momento la luce del sole venne oscurata da un'ombra; Rachaela voltò la testa. Carlo era uscito di casa e si teneva a debita distanza da loro, sotto gli alberi, senza neanche cercare di nascondersi; le guardava entrambe. Era vestito col consueto abbigliamento diurno che adoperava quando usciva di casa: cappello, sciarpa e occhiali neri sotto il sole rovente. Anche Ruth si voltò e balzò in piedi. «C'è Carlo. Andrò a fare una torta di mele con Maria.» Ruth corse verso la casa, sollevando la sua lunga gonna per non incespicare. Superò Carlo, che continuò ancora per un breve istante a fissare Rachaela seduta sull'erba, per poi voltarsi anch'esso indietro e sparire sotto i pini, in direzione della casa. Non c'era nient'altro da fare. Doveva rimanere lì. Doveva diventare per loro una specie di testimone. Forse così avrebbe avuto qualche possibilità di farcela. Doveva restare. Lui non era più una minaccia per lei, ormai. E l'avrebbe dovuto rivedere ancora. Per poterlo in qualche modo separare da Ruth, avrebbe dovuto comunque mantenere una relazione con lui. L'unico genere di relazioni possibili fra loro due, ora. Anna girò la chiave nella porta della stanza sprangata. Unice accese la lampada. «Sarà molto scuro.» «Dobbiamo stare molto attente.»
Gli abiti delle vecchie Scarabae frusciavano come carta velina. Erano tutte riunite lì: le donne Scarabae, ma non gli uomini. Rachaela era con loro, in fondo al gruppo, nel suo nuovo ruolo di testimone. Ruth invece era accanto ad Anna, in testa. La lampada scivolò dentro la stanza e la illuminò in modo bizzarro. Era una cantina, senza finestre. Miriam e Teresa si spinsero avanti nell'oscurità della stanza, e subito dopo si udì il suono di fiammiferi sfregati, e il buio venne illuminato da uno sciame di fiammelle. Una fila di candele era stata accesa lungo i muri della cantina. Sembrava una stanza abbandonata da tempo, a prima vista. Le pareti erano coperte da una vecchia carta da parati rosso magenta, sulla quale sembravano disegnate coppie di pipistrelli appesi a testa in giù; come nei disegni di Escher, tuttavia, altre forme sembravano comporsi negli interstizi giallini fra le pareti. Niente appariva definito, in quella stanza. Travature a vista erano incastrate nel soffitto. La stanza era piena di vestiti. Erano appesi a manichini ammucchiati su tutta la sua superficie. C'erano tutte le sfumature e le tonalità di rosso, in quei vestiti, chiari e scuri, di stoffa grezza o di tulle, alcuni avevano il colore dei frutti acerbi, altri quello dei frutti maturi e altri ancora quello dei frutti lasciati troppo a lungo al sole. Diversamente dai frutti, però, quei vestiti non avevano mai visto il sole. Alcuni erano vecchi, altri antichi, appartenevano tutti a stili ed epoche lontane, di altri secoli e di altri paesi. La maggior parte di essi apparivano fragili come ali d'insetti. Alcuni sembravano ancora in buone condizioni. Tutti però erano coperti di polvere. Dai vestiti si sprigionava uno strano aroma, ciò che restava dei profumi e dei corpi che quei vestiti avevano coperto, mescolato all'odore aspro della polvere. «Coraggio, Ruth,» disse Anna. «Guardati in giro. Molti di quelli che vedi ti staranno sicuramente troppo larghi. Ma ce ne sono molti che sono stati fatti apposta per ragazzine come te.» Ruth avanzò di qualche passo. Alla luce delle candele i suoi occhi scintillavano come braci. Se Rachaela fosse rimasta lì, con la bambina in grembo, le Scarabae avrebbero condotto anche lei in quella stanza, a scegliere il suo abito per le cerimonie del fidanzamento e delle nozze? Ruth si fermò davanti a un abito di crinolina con grandi maniche a sbuf-
fo e lo strascico, lo osservò attentamente, passò oltre. C'erano corsetti guarniti di perline rosate, abiti lunghi con busti e strascichi, o con ampie maniche imbastite di finti rubini. O forse, chissà, erano rubini veri. Ruth era arrivata a metà della cantina, si aggirava in mezzo alle colonne rosso cremisi. Cercava con la massima cura l'abito per il suo grande giorno, guardava tutto, nulla le sfuggiva. Anna era rimasta in disparte. Teresa, Unice e Miranda, invece, si erano addentrate in fondo alla cantina, dietro Ruth. Quanto a Miriam, Alice, Anita e Sasha, erano perdute nelle rievocazioni nostalgiche del loro passato e vagolavano per tutta la cantina, tanto che sembrava che stessero anche loro cercando il loro vestito per le nozze, come probabilmente una volta, in passato, avevano fatto. Livia era rimasta sulla porta. Il suo volto era contratto in una smorfia. Disse a Rachaela: «Costantino mio!» E si premette le mani decrepite sul volto. Era come se avesse voluto piangere e non ci riuscisse. La fitta di dolore si esaurì lentamente. Livia abbassò le mani e si avvicinò a un vestito rosso, cominciando a lisciarne con un dito rinsecchito le sottilissime pieghe, irrigidite dall'usura del tempo. Rachaela passò davanti a una fila di vestiti. Ruth intanto aveva smesso di cercare e si era fermata. Nel soffitto della cantina c'era uno squarcio, una fenditura sotto la quale era appoggiato, solitario, un vestito. Come la camera di Ruth, era un vestito che sembrava essere stato intinto nel sangue, e provenire da un tempo e da un mondo irreali. Le spalle del manichino erano nude. Il corpetto era appuntito come una freccia, con una fila di bottoni color rubino che si esauriva all'altezza dell'ombelico. La gonna ricadeva a pieghe, ricamata a filo con disegni di uva, fiori e foglie di un colore rosso brillante. La maniche lunghe, ornate di gale, ricadevano dalle spalle fino al pavimento, e sotto di esse ve n'erano altre, di merletto rosso. «Voglio questo,» disse Ruth. «Oh, ha scelto quello!» esclamò Miranda «Quanto è bello!» «E quanto sarà bella lei, quando lo indosserà,» disse Teresa. E aggiunse: «Me lo ricordo bene.» E non aggiunse altro. Tutte le donne cominciarono a sussurrare fra loro, come un coro di cavallette. A un tratto la gonna del vestito cominciò a muoversi. Ondeggiò e si gon-
fiò, come se sotto la stoffa una gamba invisibile si fosse piegata. Ruth fece un balzo indietro. Fissò il vestito, e con lei tutte le Scarabae. La gonna sobbalzò e ondeggiò nuovamente. Che stava succedendo? Era forse il vestito che tornava alla vita? «No, no...» disse Anna. «No!» Attraversò velocissima la cantina, raggiunse il vestito, staccò la gonna e la scosse con grande energia. Improvvisamente una delle cuciture della gonna esplose in una nuvoletta rossa di polvere, e un uccello che vi aveva fatto il nido sotto volò via. L'uccello scavalcò Anna e sfiorò velocissimo le teste delle vecchie Scarabae, tanto da farle urlare di spavento. Rachaela non le aveva mai viste agitarsi così. L'uccello, terrorizzato a sua volta, sbatacchiò contro le pareti della cantina, suscitando nuovi strilli; le donne cercavano di scacciarlo lontano da loro agitando le mani punteggiate di anelli. Poi, di punto in bianco, l'uccello sparì al piano superiore, infilandosi nella fenditura del soffitto. Il frenetico battito delle sue ali si allontanò fino a svanire. «Ecco cos'è. L'attico!» disse Anna, indicando il punto in cui l'uccello era scappato. «Zio Camillo ha lasciato le finestre aperte.» «Sarà uscito?» chiese Unice. «Sarà volato via?» chiesero tutte. «Penso proprio di sì,» rispose Anna. Fissò Rachaela. «Forse oggi Rachaela potrebbe salire e controllare.» «È un cattivo segno, sapete, un uccello dentro casa,» disse Unice. E Miranda replicò: «Non se n'erano mai visti da sessant'anni, almeno.» «Silenzio!» disse Anna. «L'uccello se n'è andato. Allora, Ruth, avevi scelto questo? Mi sembra che la taglia sia giusta.» «Ma c'era un uccello, dentro,» disse Ruth. Non era stata presa dal panico come tutte le altre Scarabae, ma era rimasta ugualmente impressionata. «L'uccello se n'è andato, Ruth,» disse Anna. «Non lo voglio più,» disse Ruth. Le vecchie Scarabae si voltarono a guardarla, immobili come statue. Cominciarono a bisbigliare fra loro. «Va bene. Scegline un altro,» disse Anna. «Ma io volevo quello!» «E allora, devi dimenticarti dell'uccello,» disse Anna, con un sorriso pa-
ziente. «No,» disse Ruth. Anna allargò la braccia e attese la sua decisione. Tutte loro si misero ad aspettare la decisione della donna-bambina da cui dipendeva il loro futuro. Ruth restò indecisa sul da farsi, la testa lievemente piegata da un lato. Alla fine disse: «D'accordo, lo voglio. Però la cucitura si è strappata.» «Ci penserò io alla cucitura,» disse Alice. «E Cheta laverà il vestito alla perfezione. Specialmente i merletti. Sono così graziosi, i merletti!» «E il velo?» chiese Ruth. «Avrò un velo?» «Certo,» disse Miriam. «Come una sposa. Uno splendido velo rosso.» «E Carlo taglierà un bel mazzo di rose rosse...» disse Miranda. «Un giorno così speciale...» disse Teresa. Ruth stava in mezzo a loro come il mozzo di un'immaginaria ruota che stava lentamente riprendendo a girare. Aveva voltato le spalle al vestito, senza degnare Rachaela di uno sguardo. Le candele vennero spente e tutte le donne uscirono dalla cantina, dove di lì a poco Michael e Maria sarebbero tornati a prendere il manichino con il vestito prescelto. Arrivate al corridoio le vecchie Scarabae sospinsero via Ruth. Più tardi Rachaela salì all'attico. Lì, fra cassettoni e tavoli era stato gettato un vestito rosso, quello della madre di Alice. Rachaela non riuscì a scorgere lo squarcio che si apriva sulla stanza inferiore, ma vide che la finestra era spalancata al sole. Naturale, erano vampiri, quindi non potevano salire lì. Eppure Camillo si era alzato dal letto, si era spinto fin lì, aveva spalancato la finestra ed era riuscito ad attirare dentro casa un uccello e fare in modo che si infilasse sotto il vestito di Ruth. Ora però l'uccello se n'era andato davvero. Rachaela si affacciò alla finestra e guardò il tetto della torre. Il sole scintillava sulla sua sommità e si rifletteva sui vetri della finestra. La finestra di Adamus. Adamus. Anche lui aveva bevuto il suo sangue, eppure anche adesso si muoveva tranquillo alla luce del sole. Chissà se Ruth ci sarebbe rimasta male, nel momento in cui avesse scoperto, dopo la memorabile notte della sua metamorfosi, che la luce del sole non riusciva in nessun modo a farla incartapecorire. CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Poco prima di mezzanotte la fidanzata degli Scarabae scese da basso. Sembrava la sposa del Diavolo, fasciata nel suo vestito e nel suo velo color rosso sangue, che volteggiava alle sue spalle, sormontato da una coroncina, e con due rose rosse in mano. Era notte (Rachaela controllò l'ora sul suo orologio), l'ultima luce estiva era stata schiacciata dal cielo buio, le porte della casa erano tutte aperte. Ovunque erano state accese candele, file scintillanti di piccoli fuochi che diffondevano tutto intorno un calore denso e fluttuante. I vecchi Scarabae si erano agghindati con i loro vestiti da sera, polverosi e splendenti di lustrini. Solo Rachaela non si era vestita per la cerimonia. Indossava una semplice gonna e una camicetta. Ma lei si sarebbe tenuta in disparte, lei era soltanto un testimone. Il trucco sul viso di Ruth era estremamente discreto, e ciò nonostante irradiava una sorta di elettricità, centro palpitante di tutti i fuochi. Un'altra stanza era stata aperta, ripulita e riempita dai servitori di candele e rose rosse, disposte su alti tavoli di legno. All'estremità della stanza era stato posto un tavolo coperto da un drappo rosso di velluto. Sopra di esso era aperto un grosso libro dall'aspetto molto antico. In piedi dietro il tavolo Dorian attendeva, vestito anche lui con l'abito da cerimonia, la camicia bianca inamidata. Adamus invece attendeva in piedi davanti al tavolo. Rachaela notò con orrore che anch'egli era in smoking, camicia bianca e cravatta nera. Anch'egli dunque si era travestito per quella farsa. Come al solito, il suo volto era privo di espressione, gli occhi erano esattamente come lei li ricordava, due piccoli laghi brillanti come specchi, ma totalmente privi di luce interna e di profondità. D'altra parte era il loro burattino. Gli Scarabae avevano formato un corteo, e Ruth avanzò lentamente fra le due ali, fin dentro la stanza. Gli Scarabae la seguirono e presero posto dietro la coppia dei fidanzati, l'uomo e la piccola donna-bambina. Rachaela rimase a guardare sul fondo della stanza, da sopra le teste dai folti capelli neri, fra le quali ne spiccava una coperta da un elmetto, quella di zio Camillo, che si era presentato vestito con la sua armatura. Lui e Adamus erano i due più alti in tutta la stanza, cosa che aumentava l'assurdità di tutta quell'ignobile pagliacciata. Alla fine, Dorian schiuse la sua bocca raggrinzita. «Tutta la famiglia si è raccolta questa sera per assistere al fidanzamento dei suoi due rampolli, Adamus e Ruth. Questo avviene nello spirito di u-
n'antica tradizione, a garanzia della continuità della famiglia Scarabae, nella speranza che essa possa perpetuarsi e rifiorire in sempre nuove generazioni.» Gli occhi di Rachaela scintillavano alla luce delle candele. Non riusciva a seguire il discorso di Dorian, era troppo assurdo e distorto. Ora poi stava parlando in una lingua straniera, e successivamente in un'altra lingua, che poteva essere latino. Successivamente Dorian mise la mano di Ruth in quella di Adamus e le legò insieme con un laccio di seta bianca, ingiallito in tutta la sua lunghezza da una macchia dovuta alla vecchiaia. «Ricordatelo: comunque vada, voi ora siete promessi l'uno all'altra al cospetto di noi tutti. Non potrete legarvi a nessun altro, ma mantenervi reciprocamente fedeli fino alla vostra unione in matrimonio. Da questo momento in poi, siete vincolati.» Ruth sollevò lo sguardo verso Adamus e sorrise, maliziosa. «A questo punto dovete dichiarare se siete d'accordo su quanto ho detto e se rimarrete fedeli a questa promessa. Ruth, rispondi tu per prima.» «Sono d'accordo e sarò fedele,» disse Ruth. «Ora rispondi tu, Adamus.» «Sono d'accordo,» disse Adamus. «E sarò fedele.» Dorian sciolse il laccio di seta bianca. «Anche se questo laccio è sciolto, non lo è il vostro voto. Noi tutti ne siamo testimoni.» Io ne sono testimone, pensò Rachaela. Sono votati l'uno all'altra. Lei sarà più alta quando lo sposerà. E forse allora non sembrerà così perverso. O forse sarà anche peggio. Rachaela pensò: Cosa starà pensando, lui? O forse la sua mente è una pagina vuota? Adamus si piegò e baciò Ruth sulle labbra, sfiorandole appena. Lei non chiuse gli occhi, li tenne aperti per poterselo guardare meglio. Cheta si fece avanti, con una piccola torta in un piatto. Adamus la spezzò in due parti, una la diede a Ruth e l'altra la prese lui. Michael si fece avanti a sua volta con un bicchiere di vino rosso. Entrambi ne presero un sorso. «Scrivete i vostri nomi nel libro.» Adamus intinse la penna nell'inchiostro e scrisse, Ruth la prese dalle sue mani e scrisse a sua volta il suo nome. Avrà scritto Ruth Day per la forza dell'abitudine? pensò Rachaela. Dorian tuttavia non controllò le firme.
Adamus e Ruth, mano nella mano, si scostarono dal tavolo. Ruth diede ad Adamus una rosa, che lui si appuntò all'occhiello. Erano entrambi spaventosi, sembravano cattivi attori in una scena di matrimonio, il perfetto sposino e la sua sposa scarlatta. Anna andò incontro a Ruth e le porse un pacchetto. Adamus lasciò la mano di Ruth. Lei disfece il pacchetto nel suo solito modo, precisa e febbrile nello stesso tempo. Conteneva un medaglione di diamanti falsi - non potevano certamente essere autentici. Ruth lo porse ad Adamus, che glielo appese al collo. A questo punto anche gli altri Scarabae si avvicinarono a Ruth e le consegnarono i loro doni: orecchini, libri, tagli di stoffa, ninnoli e oggettini di vetro colorato. Solo io non ho niente da offrirle. Rachaela immaginò se stessa nel ruolo della tredicesima madrina, mentre si faceva avanti e offriva in dono a Ruth la morte. Ma voleva veramente che Ruth morisse, in quel preciso momento? Era davvero così spaventosa quella ridicola cerimonia, e lei stessa, travestita da sposa? La ragazzina ammucchiò su un tavolo i suoi trofei. Di tanto in tanto li mostrava ad Adamus, il trofeo più importante di tutti; e lui approvava, serio, immedesimato nella parte. Toccò a zio Camillo farsi avanti. Anche il suo regalo era incartato. Ruth strappò l'involucro con foga. Era curiosissima, assolutamente indifferente al fatto che lui le stesse di fronte vestito con la sua armatura. Dall'involucro si sentì uno strano scatto metallico. Adamus disse a Ruth: «Stai attenta.» Si fece avanti e le tolse di mano il pacchetto. Si trattava di una trappola per topi. Camillo sogghignò. Anna disse, premurosa: «Zio Camillo è un burlone, Ruth. Non farci caso.» «Zio Camillo...» disse Ruth. Ruth lo fissò con i suoi occhi di pietra. Il suo viso era un po' avvilito. Perché aveva cercato di guastare il fidanzamento? Anita andò incontro a Ruth e le porse un cuscino ricamato di fiori rossi. Quanto la consegna dei doni fu esaurita, gli Scarabae e i due fidanzati entrarono in sala da pranzo. Non avevano cenato, in precedenza, ma ora la tavola era imbandita come per un banchetto medievale, con torte salate, arrosti, polli e costolette comprati certamente al supermercato del villaggio.
Anche questa stanza era piena di candele accese, e del profumo intenso delle rose. Ruth si sedette ad una estremità del tavolo, Adamus all'estremità opposta. Rachaela si ritrovò seduta fra Stephen e Dorian. Era stato riservato un posto anche a zio Camillo, ma lui se n'era già andato. C'erano più donne che uomini, e si erano tutte concentrate all'estremità del tavolo dov'era seduto Adamus. Vennero servite ampie portate di carne tagliata a fette, torte salate e piatti di verdure. Gli Scarabae mangiavano con buon appetito. Rachaela sbirciò dalla parte di Adamus. Anch'egli stava mangiando. Non glielo aveva mai visto fare prima. Mangiava lentamente, senza alcun gusto particolare, eppure il cibo spariva dal suo piatto. Viceversa, Ruth mangiava con la sua consueta avidità. Disgustata, Rachaela allontanò il suo piatto. Non avrebbe mai celebrato quella cerimonia mangiando. Ci sarebbero stati anche i discorsi, e dello champagne d'annata? Il vino venne servito, e nessuno si alzò a parlare. Eppure quello era un banchetto di fidanzamento. Che cosa si aspettava Ruth al suo termine? Di tanto in tanto i suoi occhi si posavano su Adamus. C'era in loro una grande avidità, immaginavano chissà cosa, e nulla sarebbe avvenuto, viceversa. Forse questo non le era ancora ben chiaro. Il culmine della notte sarebbe stato quel banchetto, e niente altro. Quando Adamus si alzò, Ruth lo guardò speranzosa. «Buona notte a tutti,» disse Adamus. «Buona notte, Anna. Buona notte, Ruth.» «Devi proprio andartene così presto?» chiese Anna. «Sono restato già due ore,» rispose lui. Anna chinò il capo. Adamus lasciò il fastoso banchetto e uscì dalla stanza. Ruth fu sul punto di alzarsi. «Posso andare...» «No, Ruth. Resta e finisci di cenare.» Ruth si risedette, con una strana luce negli occhi e affondò la forchetta nel suo pollo. Un po' della sua eccitazione se n'era già andata. La cena proseguì ancora a lungo. Rachaela era assolutamente annoiata, desiderando andarsene come aveva fatto prima Adamus, ma sapeva che quello che doveva fare era restare, e assistere.
Finalmente anche frutti e dolci furono ridotti a torsoli e croste, e tutta la famiglia si alzò. Ruth si alzò a sua volta dalla sua sedia, leggera come una libellula. «Posso salire, ora?» «No,» disse Anna. «È molto tardi. Sono sicura che avrai voglia di andare a coricarti.» Il volto di Ruth si rabbuiò, alcune ombre si allungarono sotto i suoi occhi. «Certo che no.» «Ti sembra di no, ma in realtà lo desideri. Dopo tutte queste cose nuove ed eccitanti.» «E poi c'è il vestito,» disse Alice. «Va tolto e rimesso al suo posto, sopra il suo manichino.» «Ma io voglio tenerlo,» protestò Ruth. «Voglio continuare a portarlo.» Alice trasalì, sbigottita. «Oh no, non è possibile. Si è mai sentita una cosa simile? Questo genere di vestiti si portano solo nelle occasioni speciali. Non vorrai mica rovinarlo, vero?» Ruth fissò Alice e improvvisamente sorrise, radiosa, un sorriso di puro odio. Cercavano di ostacolarla. Non poteva andare da Adamus, e ora non poteva neanche tenere il suo vestito. Stavano cercando di sottrarle il suo ruolo. Un'altra bambina al posto suo si sarebbe infuriata, ma Ruth aveva imparato in fretta che infuriarsi spesso non serve a nulla. In ogni modo, Alice si fece piccola di fronte al suo sguardo gelido. Si girò verso Peter e lo implorò: «È stato sempre così, no? Lei forse non lo sa. Ti ricordi di quando Jessica scelse il suo vestito, e per indossarlo fu necessario cucirglielo addosso, e poi scucirglielo perché se lo potesse togliere.» Peter fece di sì col capo. Ruth disse, calma: «Ma è solo un vecchio vestito.» Li lasciò tutti senza fiato. Erano abituati a vederla come una bambina ma anche a ricevere da lei risposte da adulto responsabile. Non sapevano che fare. Rachaela disse: «Tutte le belle cose finiscono, prima o poi.» Ruth fissò di sbieco la madre. Non si era mai aspettata niente di buono da lei, per cui non l'aveva mai odiata per non averle mai dato nulla.
Gli Scarabae si allontanarono dalla tavola. Alcune donne portarono via Ruth perché si spogliasse del suo meraviglioso vestito. Erano le tre del mattino. In salone, Rachaela si rivolse ad Anna. «Avresti dovuto rassicurare Ruth che lo rivedrà domani, per la lezione di piano.» Anna stava ricamando una figura di pavone. «No, Rachaela, perché non lo rivedrà. Non le darà più lezioni di piano. Jack ha riparato e accordato il piano nella sala da musica. Ruth potrà fare esercizio lì.» «Così si è già stancato della novità,» disse Rachaela. Una calda fitta di dolore le attraversò il centro del corpo. «Lui fa fatica a comunicare,» disse Anna, come già le aveva detto l'altra volta. «Le ultime settimane sono state piuttosto faticose per lui.» «L'avete usato per sedurla,» disse Rachaela. «Non in senso letterale, forse, ma nella sostanza sì.» «Ruth dovrà avere molta pazienza.» «Per tre anni? Ruth ha undici anni. Tre anni le sembreranno interminabili.» «Ruth è una Scarabae.» «Questo lo dite voi.» «Ma è così.» Rachaela si voltò e lasciò il salone. Il primo filo dell'ignobile arazzo degli Scarabae era stato strappato. A questo punto, l'intero disegno poteva essere disfatto. Rachaela, la testimone, osservava Ruth, la promessa sposa. Le giornate si erano fatte caldissime, e la casa sempre chiusa era diventata una specie di forno, la luce infuocata del giorno penetrava all'interno attraverso i vetri colorati delle finestre, in un impasto soffocante di tinte e sfumature diverse. Gli Scarabae restavano tutto il giorno intrappolati nelle loro camere scarlatte, sprofondati nelle loro poltrone, cercando di sottrarsi al loro persecutore, il sole. Ruth passava la maggior parte del suo tempo nella brughiera, e a volte anche lungo la spiaggia; Rachaela l'aveva capito dopo aver trovato le sue impronte sulla sabbia. Rachaela la osservava mentre raccoglieva tesori depositati dalla risacca sulla spiaggia, o camminava fra le onde, oppure mentre disegnava con grande impegno, seduta sotto la roccia a picco sul mare.
Una o due volte vide con lei il gatto nero, che dormiva acciambellato al suo fianco. Ruth aveva una vera passione per quel gatto. Una volta gli aveva cinto il collo con una ghirlanda di margherite. Era come una predestinata che avesse smarrito la via, abbandonata dal corteo delle baccanti, che l'aveva superata, lasciandola indietro. Di sera, di tanto in tanto, Ruth suonava il piano nella sala della musica, di malavoglia e commettendo molti errori. La maggior parte delle sere abbandonava gli Scarabae in salone e si chiudeva in camera, probabilmente a leggere o a disegnare. Chissà se Anna le dava dei libri da leggere? Di certo l'aveva completamente abbandonata a se stessa. Il tempo della vita di Ruth era stato sconvolto. Se prima era stata abituata a una routine che comunque poteva spezzare a suo piacimento, come una scolara libera di marinare la scuola, ora quella routine non esisteva più, c'era solo l'ozio più completo, e nessun obbligo a cui sottrarsi. Restare a casa dapprima le era bastato, ma solo fin quando aveva avuto Adamus a sua disposizione. Ora Adamus le era interdetto, e la casa, non più vista attraverso i suoi occhi, era diventata noiosa. Rachaela vedeva chiaramente ciò che stava accadendo, vedeva Ruth trasformarsi. Una cappa di immobilità la stava lentamente avvolgendo, giorno dopo giorno, esasperandola. Una sera Ruth chiese ad Anna: «Posso andare in paese?» «In paese? Ma è molto lontano, sai...» Una piccola conversazione familiare, in cui si interpose a sorpresa Stephen. «Non c'è nulla in paese.» «Ci sono i negozi,» disse Ruth. «Ci sono negozi, ora, in paese.» «Potrebbe andarci con Carlo e Cheta.» «Ma è troppo lungo, a piedi!» disse Ruth. Era una ragazzina cresciuta in città, abituata alle strade e agli autobus. Non sembrava apprezzare particolarmente gli impervi sentieri della brughiera, in cui non c'era ombra di burghy e sale giochi. «Posso andare al cinema?» chiese Ruth. Rachaela ce l'aveva portata, qualche volta, e qualche altra volta ci era andata lei da sola. «È troppo lontano, Ruth,» disse Anna. «Troppo lontano perché tu possa
andarci.» Ruth guardò Rachaela, che però non fece nulla per sostenerla. «Ma qui non c'è nulla da fare!» disse Ruth. «Hai i tuoi disegni, e la musica,» disse Anna. «E poi Alice ti sta insegnando a cucire.» Ruth non rispose. Fissò a lungo Anna, che però continuò tranquillamente a ricamare, mentre Stephen guardava fisso il caminetto spento. Rachaela poteva proporre che lei e Ruth prendessero a nolo una macchina in paese, ma Anna avrebbe certamente rifiutato, prevedendo che Rachaela avrebbe certamente rapito la bambina. Ciò nonostante gli Scarabae avrebbero dovuto pensare a fare qualcosa, dal momento che Ruth si stava evidentemente allontanando da loro. Dopotutto, la bambina avrebbe anche potuto attraversare la brughiera di notte. Quanto tempo sarebbe passato prima che si annoiasse una volta per tutte dei suoi nuovi giochi? In realtà era già accaduto. Del resto, anche gli Scarabae erano cambiati. Non scendevano più in sala da pranzo in gruppo, ma da soli o al massimo in coppia, e a volte si presentavano solo Anna e Stephen. Inoltre, non si interessavano più come prima a Ruth. Dal punto di vista degli Scarabae, Ruth era stata vincolata, e questo era tutto. Era sana e salva. Il fidanzamento l'aveva assimilata una volta per tutte alla loro famiglia, e dunque, anche se di fatto lei era la luce dei loro occhi, essi erano liberi di dimenticarla. Quando poi si ricordavano di lei, la guardavano anche con un certo affetto, ma certo Ruth non era più la splendida stella intorno alla quale tutti loro si raggruppavano. Ruth aveva perso il suo status di principessa, ora era diventata semplicemente la bambina della casa. E anche il suo principe, anche lui se n'era andato. Chissà se Ruth aveva provato ad aprire la porta della torre? Forse aveva individuato la seconda porta in fondo all'annesso, e aveva provato ad aprirla anch'essa, senza riuscirci. Oppure, chissà, magari gli aveva scritto un biglietto e poi glielo aveva gettato dentro la sua stanza. Rachaela cominciò a seguire Ruth. La seguì lungo i corridoi tortuosi della casa, dalle finestre chiuse color rubino e blu che scottavano al calore terribile del sole. L'attese alle entrate delle camere, scure camere soffocanti in cui Ruth si aggirava senza sosta, passando dall'una all'altra, circondata dall'odore dolciastro dell'umidità resa torrida dal calore del sole. La osservò mentre tentava, come lei stessa aveva fatto in precedenza, di
forzare le porte chiuse. La guardò entrare nelle stanze degli Scarabae, sorprendere Alice nel suo salottino da lavoro, Eric che scolpiva una maschera in una camera la cui finestra di vetro smerigliato aveva un mosaico di colore biancastro, lattigginoso. La vide reggere la lana ad Alice, ammirare il lavoro di intaglio di Eric, e più tardi trattenersi in soggiorno con Dorian e Peter che giocavano a scacchi sotto il quadro della vigna di Jezebel, che appariva essa stessa infuocata, nel calore soffocante. «Mi insegnate a giocare?» chiese Ruth. Dorian, che solo pochi giorni prima l'aveva fidanzata ad Adamus, rispose: «Un giorno o l'altro, forse. Non ora. Ora abbiamo da fare.» E Peter aggiunse, in tono vago: «Ma che bella bambina, sei.» La osservò mentre cercava di distinguere i rumori della casa, penetranti e fastidiosi come i canti dei grilli. Scatti metallici, trascinamenti e spostamenti di oggetti, il fragore lontano della risacca, che sembrava penetrare sotto le fondamenta stesse della casa, trasformandola in una specie di immensa conchiglia risonante. La seguì in cucina, dove l'oscurità e il caldo erano così intensi che quasi non si respirava; tre conigli appena uccisi giacevano su un tavolo, emettendo un odore denso e sgradevole. Ruth li guardò con attenzione. Forse per la prima volta nella sua mente l'idea della carne si associò a quella degli animali morti. C'era sangue un po' dappertutto. «È stato il gatto a catturarli?» «Il gatto non cattura nessuno, ora,» disse Cheta. «Li ha presi Carlo con una trappola. Quando ci cascano dentro, gli si spezza il collo. Vuoi aiutarmi a fare il pasticcio?» «No, grazie,» disse Ruth. Era chiaro che il sangue l'aveva disgustata. Non era sangue umano. Uscita dalla cucina, Ruth cercò di disegnare Adamus. Era chiaro che si trattava di lui dati i suoi sforzi, le tante pagine strappate e appallottolate. Non riusciva in nessun modo a riprodurlo, a catturare la sua immagine. Rachaela osservò Ruth stesa sul suo letto rosso sangue, intenta a suonare sul suo stesso corpo, con mani agili e nervose, le melodie oscure e inconsapevoli del suo desiderio di bambina. Cosa vedeva, Ruth, con gli occhi della sua immaginazione? Il suo padre-amante che la sollevava fra le sue braccia, una cavalcata notturna, immagini vaghe ed indistinte - poiché ancora ne sapeva troppo poco - formate per successive stratificazioni da sogni e figure prese a prestito dai libri, e infine materializzate in qualche modo sul suo stesso corpo, nell'oscurità - poiché il suo corpo sapeva. Il suo
corpo era pronto, eppure avrebbe dovuto attendere. Lei, Ruth, avrebbe dovuto attendere. Tre, quattro anni. Anna glielo aveva spiegato. Tutto questo vide Rachaela, seguendo Ruth nella sua mente giorno e notte. O forse madre e figlia non stavano piuttosto interrogando insieme il loro corpo, ognuna inseguendo per conto proprio il culmine dell'orgasmo, il grido silenzioso dopo il quale non restava che sprofondare nel languore di una nuova solitudine? Ma forse Ruth dormiva nel suo letto, senza alcun pensiero di quel genere nella mente. O forse Dorian le stava insegnando a giocare a scacchi, o forse Stephen, o George. Forse stava ancora preparando torte e pasticci di carne in cucina. Rachaela aveva trovato solo un suo disegno di Adamus, che svolazzava per la brughiera. Il volto era molto somigliante, ma il corpo non era stato neanche abbozzato. Il corpo di Adamus era ancora troppo per Ruth. Giù in spiaggia Zio Camillo stava facendo capriole. I suoi lunghi capelli bianchi ondeggiavano come una bandiera. Si slanciava verso la risacca per poi ritrarsi indietro, come un cane attratto e impaurito al tempo stesso dal mare. Più in alto, Rachaela guardava Ruth e il suo gatto, che saltava da tutte le parti, forse all'inseguimento di qualche farfalla. Da lontano sembrava ancora giovane e agile, Ruth gli correva dietro nel suo vestito del 1910 e di tanto in tanto batteva le mani, divertita. Rachaela si accorse che Camillo stava risalendo le rocce lungo un sentiero, dalla spiaggia. Lo osservò percorrere il sentiero accidentato senza mai barcollare. Camillo sollevò lo sguardo e le strizzò l'occhio. Giunse finalmente sulla brughiera e vide Ruth. «Oh,» disse Camillo, e sputò nell'erba. «La ragazzina.» «Perché mai gli hai regalato quella trappola per topi?» «Per catturare un topo, no?» rispose Camillo. «Ruth è la speranza della famiglia,» disse Rachaela. «Ma non è più il loro passatempo preferito. E lei non ce la farà ad attendere per anni e anni.» «Ci vuole uno zuccherino per il cavallo,» disse Camillo. Aveva ripreso il suo solito delirio. «Povero cavallo. Miglia e miglia di strada, e neanche una mela.» Rachaela distolse lo sguardo da lui, cercò Ruth. Il gatto si era sdraiato fra i cespugli di ginestre. Ruth gli si era inginocchiata sopra e lo accarezzava. «Sembra proprio una bambina come tutte le altre insieme al suo gatti-
no,» disse Rachaela. «Perlomeno da qui.» «È una vipera,» disse Camillo. «La figlia del diavolo in persona. Lo sai che ha fatto?» «No. Che ha fatto?» «Ha preso un martello, è andata nella stanza dei vestiti e ha rotto il lucchetto. Poi ha preso il suo vestito rosso e se l'è portato in camera.. L'ho vista io.» Rachaela pensò che doveva essere il martello che lei aveva lasciato nell'attico, lo stesso con il quale lei aveva cercato di sfondare il vetro della torre di Adamus. «Le piace indossarlo, che male c'è?» disse Rachaela. «Ma quello non è un vestito qualunque. È il vestito del fidanzamento,» rispose Camillo. Ruth si era seduta accanto al gatto. Sembrava che gli parlasse, ed era una conversazione animata, identica a quelle che faceva con Emma quand'era bambina. «Qualcosa bolle in pentola,» disse Camillo. Rachaela lo fissò. «Davvero? E cosa succederà?» «Povero cavallo. Tanta strada e neanche uno zuccherino.» «In quale paese eravate?» chiese Rachaela. «Il cavallo, la foresta, la neve, la città che bruciava... quale paese?» «Eravamo in Russia,» rispose lui. «Lo immaginavo. E qual era l'anno?» «Il 1703.» «Ora raccontami la verità,» disse lei. «E io ti crederò.» «Ma questa non è affatto la verità,» disse Camillo. «È solo una domanda. Faresti meglio a imparare qual è la differenza.» «Il 1703,» disse lei. «Se è così tu ora dovresti avere quasi trecento anni.» «È una cosa insopportabile,» disse Camillo. «Ricordo perfettamente la mia infanzia e la mia giovinezza. Ma per il resto, è tutto vuoto.» «Ruth vivrà a lungo come te?» «Se ci credi, sì. Anche più a lungo.» «No,» disse lei. «Io non ci credo affatto.» Anna era venuta a cena, da sola, e sedeva fra Rachaela e Ruth. Cheta tagliò e servì il pasticcio di carne. Ruth cominciò a mangiare, ma risputò immediatamente il suo primo boccone nel piatto - a Rachaela tornò in mente zio Camillo mentre sputava
sull'erba - e riappoggiò sul tavolo coltello e forchetta. «È cattivo,» disse Ruth. «Disgustoso.» Rachaela la guardò, senza mangiare. Anna ebbe un attimo di esitazione. «Cheta,» disse. «Quando è stato preso il coniglio?» «Ieri mattina, Miss Anna.» «Non c'è alcun motivo che la carne vada a male in così breve tempo. Forse faresti meglio ad aspettare un po'.» «Ma è cattiva, ti dico!» ripeté Ruth rabbiosamente. «Non essere sciocca, Ruth,» disse Anna. «Pensi forse che ti lascerei mangiare qualcosa di guasto? Non vedi che lo sto mangiando anch'io?» «Voi mangereste qualsiasi cosa,» disse Ruth. «Ti assicuro di no, Ruth,» disse Anna, con voce tranquilla. «E invece sì. Voi bevete il sangue. Uscite la notte, catturate gli animali e bevete il loro sangue.» Anna la guardò, sembrava stupefatta e offesa. «Che razza di sciocchezze dici?» «Voi siete vampiri. Tutti gli Scarabae lo sono.» «Stupidaggini, Ruth. Non sai quello che dici.» «Voi bevete il sangue,» ripeté Ruth, ostinata. Anna era come in trappola. Aveva completamente perso la sua consueta compostezza, proprio come quando Rachaela le aveva parlato di argomenti che avevano a che fare con il sesso. Ovviamente il bere sangue aveva a che fare con il sesso, il cibo non c'entrava per niente. Anche se con tutta probabilità Anna non l'aveva mai fatto. Era Adamus il predestinato, colui che perpetuava in sé il germe del vampirismo. «Tu non sai quello che dici,» ripeté Anna. «Non mi sarei mai aspettata un simile comportamento da parte tua.» «Voi dissanguate i conigli in cucina! Il vecchio Dorian mastica le loro ossa e Alice le usa per lavorare a maglia!» gridò Ruth, alzandosi in piedi e cominciando a canticchiare una specie di filastrocca. «Livia fabbrica collane d'osso, Jack ha delle macchie sulle mani, sono macchie di sangue, George si sciaqua i denti nel sangue!» «Ruth! Basta così!» «Miriam e Unice bevono sangue in tazze da tè, Stephen beve sangue dopo cena! Quando morirete, andrete tutti all'inferno!» «Ruth!» La voce di Anna divenne gelida e autoritaria, e Ruth si interruppe. «Sei una piccola insolente, e ignorante per di più. Dal momento che la
cena non ti piace, lasciala stare e vattene in camera!» «Voglio vedere Adamus!» gridò Ruth con voce stridula, cattiva. Rachaela non aveva mai visto in Ruth una reazione del genere, in risposta a un rifiuto, ma del resto era anche vero che lei non le aveva mai rifiutato qualcosa che Ruth desiderasse così tanto. «Quando Adamus sarà pronto, vi rivedrete,» disse Anna. «Ma non credo proprio che gli piacerebbe vedere una ragazzina così sciocca e insolente come sei ora!» «E invece sì!» disse Ruth. «Io gli piaccio, e vuole sposarmi!» «Dimenticatelo,» disse Anna. «Te l'ho già detto, sei troppo giovane per sposarti, devi aspettare. La prova è proprio questa scenata che hai fatto stasera.» «Tu sei cattiva!» gridò Ruth. Il suo viso si era indurito, come quello di Anna. «Sei tu che gli hai proibito di vedermi!» «È lui che non vuole vederti. Ha le sue cose a cui pensare. Tu sei solo una bambina, Ruth, e ti devi comportare come una bambina. Dunque, fai come ti ho detto e vai subito in camera tua!» Ruth si alzò da tavola. Diede un'occhiata di sbieco a Rachaela, senza che dal suo volto trasparisse la minima emozione. Per quello che le importava, sua madre poteva anche essere una parte dell'arredamento. Disse: «Io vado in camera, ma tu sei cattiva, Anna. Sei cattiva e malvagia e sono sicura che andrai all'inferno.» Anna si alzò in piedi. Il suo volto gelido si fece scuro di rabbia. Ruth uscì dalla stanza. Anna si risedette e prese un sorso di vino dal suo bicchiere. Si voltò verso Rachaela e disse: «Tu non l'hai mai saputa imbrigliare a dovere, quella bambina.» «Sì invece,» rispose Rachaela. «Ma non il suo spirito. È contro di lui che dovete combattere, ora.» «Non dovremo combattere nessuno. Col tempo capirà.» «Ma non c'è proprio niente da capire,» disse Rachaela. «Lei vuole suo padre, vuole il suo marito-amante. E voi dovrete darglielo, o saranno guai grossi per tutti voi.» «Io non sono il guardiano di Adamus.» «Oh sì che lo sei. Tu e gli Scarabae. Voi potete far fare ad Adamus tutto quello che volete. Ma con Ruth è diverso, non ci riuscirete.» «Lo vedremo.» Rachaela alzò le spalle. Non aveva neanche toccato il pasticcio di carne.
Anna continuò a mangiare in silenzio. Era forse quello il momento, per Rachaela, di afferrare al volo l'opportunità favorevole, andare in camera di Ruth e affrontarla a viso aperto? No, perché Ruth non era ancora pronta. La situazione era certamente peggiorata, ma ancora non abbastanza. Occorreva che Ruth arrivasse ad odiare Adamus prima che Rachaela potesse finalmente mettere le grinfie su di lei, sottrargliela e portarla via da lì. La mattina dopo Rachaela si svegliò con il corpo tutto indolenzito, come se avesse dormito contratta come una molla per tutta la notte, in attesa di qualche evento. Si lavò, si vestì e scese da basso senza aver fatto colazione, attraversò il salone, la sala da pranzo, la sala della musica, le cui vetrate a grandi fiori gialli e marroni avvampavano al sole, e di lì uscì in giardino. Nella luce del mattino il tronco scuro del tasso era coperto di grappoli di limoni, e i pioppi verdissimi splendevano al sole. Il cedro appariva azzurro, circondato da cespugli di rose rosse rampicanti, mentre i tronchi delle querce erano ricoperti di muschio. Rachaela udiva in lontananza il fragore monotono della risacca, troppo forte, ora, per poter continuare ad essere una semplice voce dentro la sua mente. Il vecchio gatto nero era riverso nell'erba, accanto alla meridiana lunare, e Ruth gli si era inginocchiata sopra, senza toccarlo. Quando udì il suono dei passi di Rachaela, Ruth alzò il capo. «Non si vuole svegliare,» disse. Rachaela osservò il gatto. Il suo corpo appariva rigido e stecchito. Un caldo soffio di vento si alzò improvvisamente e sfiorò la sua folta pelliccia. Rachaela si avvicinò e toccò la testa e il dorso del gatto, che rimase inerte. «Mi dispiace, Ruth. Credo che sia morto.» «Non è possibile,» disse Ruth. «Mi dispiace. Credo che fosse molto vecchio. Mi ricordo che c'era anche quando vivevo io qui. Ma almeno è morto nel sonno, non se ne sarà neanche accorto.» «Non voglio che sia morto.» «No, lo capisco. Era un bravo gatto.» «Non voglio!» disse Ruth, e cominciò a scuotere il corpo del gatto, con rabbia. «Avanti, svegliati!» Rachaela la lasciò e andò a cercare Carlo. Lo trovò lì nei pressi, con la sua sciarpa e i suoi occhiali da sole, impegnato a ripulire dalle erbacce il
perimetro del giardino. Forse le stava anche controllando, lei e Ruth. «Carlo, Ruth ha trovato il gatto, ma credo che sia morto.» Carlo si rizzò in piedi, lasciò cadere a terra il falcetto e la zappa, attraversò il giardino e raggiunse Ruth. Rachaela lo seguì. Lo ricordava mentre accorreva in quello stesso modo, senza dire una parola, quando era stata la volta di Sylvian. Carlo si piegò sul gatto e lo tastò con circospezione. «Si è addormentato,» disse Ruth. Carlo non rispose. Sollevò il gatto per la collottola, poi lasciò ricadere la testa. «No, gli fai male,» disse Ruth. «Non sente nulla, ora,» disse Rachaela. E aggiunse: «Vorranno bruciarlo. Gli Scarabae cremano i loro morti.» Ruth si slanciò sul gatto. «No! No! Non osate bruciarlo!» Rachaela si rivolse a Carlo, che rimaneva sempre muto. «Per favore, Carlo, lo seppellisca allora.» «No! Non ancora!» gridò Ruth. «Fa molto caldo,» disse Rachaela. «Ed è già stato qui all'aperto tutta la notte.» Guardò Ruth. Le dispiaceva fare discorsi del genere. «Vedi, Ruth, lui non è più qui, ora. Doveva essere molto stanco, sai, chissà quanto gli spiaceva di passare tutti i giorni a dormire. Ma adesso è libero. «E dov'è, ora?» «Non lo so.» «A scuola dicono che tutti quelli che muoiono vanno in cielo.» «Allora forse è lì,» disse Rachaela. Si detestava. «Però i cattivi non ci vanno. Loro vanno all'inferno. I peccatori vanno all'inferno. E lui era il loro gatto. E quindi andrà all'inferno anche lui.» «Ma forse l'inferno non è poi così brutto,» disse Rachaela, cercando di scherzarci sopra un po'. Carlo se n'era andato, probabilmente a cercare una pala. Ruth si alzò in piedi. «Ti prego, mamma, fallo aspettare,» disse. «D'accordo.» Ruth scappò via. Quando tornò aveva indosso l'abito rosso del suo fidanzamento e Carlo, che Rachaela aveva fatto attendere fino a quel momento, seppellì il gatto sotto il tronco del tasso. Per tutto il funerale Ruth
continuò a fissare la tomba, piangendo come Rachaela non l'aveva mai vista piangere da quando era bambina. Era un pianto profondo, il suo, doloroso e fisico, che si spezzava in singhiozzi in fondo alla gola. Rachaela non poteva consolarla, non c'era alcun modo di farlo. Anche dopo che il gatto fu seppellito e Carlo se ne fu andato, Ruth restò a piangere davanti alla tomba, statuaria, stringendo fra le dita il prezioso e antico tessuto della sua gonna scarlatta, sconsolata e sola, una figura che sembrava uscita da una tragedia greca. CAPITOLO DICIOTTESIMO Nel pomeriggio Rachaela restò a letto, sotto il mosaico della sua finestra. Faceva così caldo che non avrebbe potuto sopportare il più piccolo movimento. Si chiese se Ruth fosse andata a pranzo, come faceva di solito. Rachaela non riusciva a mangiare per il troppo caldo, anche se una volta aveva chiamato Cheta con il suo campanello, e Michael era prontamente accorso in camera sua con un bicchiere d'acqua. Il succo d'arancia non si trovava, in casa Scarabae, neanche per Ruth, e tanto meno le bevande gasate che una volta ingombravano il frigo di Rachaela. L'immagine di Ruth che singhiozzava sopra la tomba del suo gattino morto era rimasta impressa nella mente di Rachaela. Qualcosa sarebbe accaduto, a questo punto. Forse Ruth sarebbe comparsa alla porta della sua camera e le avrebbe detto: «Mamma, non voglio più stare qui.» Rachaela cominciò a fare progetti per il loro viaggio di ritorno, ma i suoi pensieri non andavano oltre il momento in cui avrebbe condotto Ruth al treno per Londra. E una volta a Londra, qualcosa avrebbero fatto. Non era tanto Ruth che le premeva, né tantomeno l'onere di tenerla con sé, ciò che realmente desiderava era evitare che usurpasse il suo posto accanto ad Adamus. Se avesse portato via da quella casa Ruth, le sarebbe rimasta debitrice di qualcosa, e come avrebbe potuto pagarle quel debito? A Londra si sarebbe dovuta aspettare tutto un altro genere di angosce. Avrebbero dovuto tenere conto di tutto questo, una volta arrivate a Londra, quando si fossero sottratte una volta per tutte a quella follia degli Scarabae ed avessero dovuto finalmente affrontare le loro follie individuali. Il pomeriggio si trascinava lentamente, nel caldo sempre più insopporta-
bile. Qualcosa doveva accadere, e sarebbe accaduto a cena, o forse anche prima. La cena veniva servita molto tardi, ora, dopo il tramonto del sole. Se soltanto avesse potuto sottrarsi alla vista del mosaico infuocato dal sole. Sentiva l'armatura del serpente scottare come una piastra incandescente sul suo corpo, la mela fiammeggiante che teneva in mano era caldissima all'altezza del suo inguine, e non poteva fare a meno di pensare che proprio in quella stanza, in quello stesso letto lei aveva amato il Diavolo... No, non doveva pensarci. Scacciò quel pensiero dalla mente. Gli orologi ticchettavano, monotoni. Rachaela si stava lentamente assopendo. Forse Ruth stava aprendo la porta? No. Chissà cosa stava facendo? Rachaela si addormentò. Quando si svegliò, il pomeriggio volgeva ormai al termine. I pannelli colorati delle finestre erano diventati più scuri, i bianchi si erano ingialliti, assumendo il colore dell'avorio. La testa di Rachaela pulsava dolorosamente. Prese un paio di compresse di paracetamol e andò a prepararsi un bagno caldo. Nel corridoio, una nuova ombra la sfiorò, dall'alto. Rachaela alzò la testa. La finestra col mosaico in cui erano rappresentati Caino e Abele, la cui luminosità andava attenuandosi a causa del sole calante, era stata ulteriormente oscurata da una grande croce nera dipinta sopra le vigne e l'altare. Chi poteva aver fatto ciò? Quale altra diavoleria si stava preparando? Andò in bagno e cominciò a riempire la vasca di acqua calda, con quella croce nera che incombeva ancora nella sua mente come un peso. Dopo che si fu crogiolata nell'acqua per una mezz'ora, si rivestì di malavoglia e tornò in camera. Passando dal corridoio, rivide impressa sul pavimento l'ombra delle due diagonali della croce. Prima che la luce del giorno si spegnesse, qualcosa la fece nuovamente uscire dalla sua camera; Rachaela percorse il corridoio in tutta la sua lunghezza per poi tornare indietro e inoltrarsi nei meandri della casa. Croci neri erano state misteriosamente dipinte su tutti i pannelli colorati delle finestre, in corrispondenza dei volti delle figure. Rachaela raggiunse il pianerottolo. Sopra le scale la finestra con il mosaico del principe alla cerimonia di nozze non era stata toccata, ma questo probabilmente per il semplice fatto che era posta ad un'altezza superiore a quella delle altre. Allo stesso modo, erano rimaste intatte le urne funerarie poste al di sopra del portone d'ingresso. Quando la luce del sole si esaurì completamente, Rachaela udì Michael che andava ad accendere la lampada sul pianerottolo, e gli andò incontro.
«Michael, ha visto cosa è successo alle finestre?» «Sì, Miss Rachaela.» Michael non fece altri commenti. Ciò che facevano gli Scarabae era affare loro, com'era stato per Sylvian e la biblioteca. La biblioteca! Rachaela ci andò subito, seguendo un impulso improvviso. Una lampada era accesa sul tavolo, accanto al mappamondo, niente sembrava diverso dal solito. Rachaela andò agli scaffali della parete a nord e prese un libro. Era perfettamente intatto e leggibile. Si girò verso il tavolo e vide che c'era appoggiato un libro, aperto. Su entrambe le pagine erano state tracciate due linee che si incrociavano, formando una coppia di croci. Anche tutte le pagine precedenti erano state ricoperte di croci. Accanto al libro erano appoggiati il righello d'ebano e la penna, ormai asciutta. Una macchia d'inchiostro si era sparsa sul piano di legno del tavolo. Rachaela provò una strana paura. Uscì dalla biblioteca, tornò sui suoi passi e si diresse verso il salone. Non si vedeva in giro nessuno degli Scarabae. Quanto era silenziosa, la casa, e quanto rumoroso invece il mare. In salone le luci erano tutte accese. Rachaela si avvicinò lentamente. Con tutta probabilità era scesa solo Anna, la matriarca, quasi certamente la madre di Adamus, la portavoce degli Scarabae. Rachaela esitava a entrare in salone. Si voltò, cercando Cheta, o Maria... ma loro erano state lì certamente mezz'ora prima, a preparare le luci. Michael invece sarebbe arrivato di lì a poco a preparare le bevande. Chissà se Stephan era in camera sua... e Ruth? No, Ruth non poteva essere lì. Rachaela entrò nel salone. Osservò con attenzione tutta la stanza. I bei mobili antichi coperti di polvere, in mezzo ai quali spiccavano come oasi splendenti i tavoli di legno lucidato, la scacchiera, le poltrone e i sofà disposti intorno al camino di marmo bianco, le sue colonne scolpite sormontate dallo stemma nobiliare. Anna era stesa a terra proprio di fronte al camino. Dava l'impressione di essere caduta dalla poltrona, poiché il suo lavoro a maglia era sparpagliato in fondo al cuscino e dai braccioli penzolavano i fili dei gomitoli. Era sdraiata in modo molto composto, la lunga gonna ben panneggiata e le braccia allungate sui fianchi. La sua testa era voltata lievemente verso sinistra, e sulla sua fronte c'era uno strano segno molto marcato, come una macchia di vernice rossa. Inoltre, c'era qualcosa che sporgeva dal suo seno sinistro.
Rachaela fece qualche passo verso di lei e restò per qualche secondo a contemplare quell'assurdo spettacolo, finché non si accorse che quell'oggetto sporgente era la testa arrotondata di un ferro da calza. Era stato affondato dentro di lei con tale forza che solo il pavimento al di sotto del suo corpo l'aveva bloccato. Il volto di Anna era sorpreso, quasi calmo, ma la sua bocca era socchiusa, proprio come quella di Sylvian. Rachaela udì un lieve fruscio alle sue spalle e subito dopo uno schianto violento di vetri che andavano in frantumi. Il silenzio fu spezzato da un gemito lungo, straziante, come di un animale preso in trappola. Rachaela si voltò e vide Maria, che aveva lasciato cadere a terra il vassoio delle bottiglie e dei bicchieri di cristallo, la maggior parte dei quali si erano frantumati e giacevano sul pavimento in un lago di vino rosso. Rachaela fu colta improvvisamente dalla nausea. Le pareti della stanza vacillarono. Anna era morta. Uccisa. E tutto quello che lei riusciva a fare era restare a fissare la macchia scarlatta sulla sua fronte e il ferro da calza che sporgeva dal suo seno. Gli Scarabae accorsero lentamente, trascinandosi fuori dai loro recessi e dalle loro tane. Nessuno gridò. Una o due volte ci fu qualche lamento soffocato. Rachaela non si voltò a guardarli. Si sentiva anche lei trafitta. Forse proprio perché era come loro? Finalmente qualcuno si fece avanti e la superò. Era Stephan. Si avvicinò ad Anna e la contemplò, facendo degli strani gesti senza senso con le mani, come per allontanare delle folate d'aria. Carlo si avvicinò a sua volta, sollevò Anna e la distese su uno dei sofà. Sul tappeto non c'erano tracce di sangue. Il ferro da calza aveva esso stesso fatto da tampone alla ferita, e anche il colpo sulla fronte aveva sanguinato pochissimo. Gli Scarabae si strinsero intorno al sofà sul quale Anna era stata stesa, oltrepassando Rachaela proprio come se fosse stata una sedia. Dunque, pensò, perlomeno non avevano alcun sospetto su di lei. Si ritrovò a contarli, ad uno ad uno, assommando i loro nomi di seguito, uno dopo l'altro: Livia, Anita, Unice, Miriam, Jack, Eric, George, Teresa, Sasha, Mirandae Stephan. E poi Cheta e Maria, Carlo e Michael. E per ultima, Anna. «Deve averla prima colpita, e dopo che è caduta, ha fatto questo,» disse Stephan. «È uno dei ferri di Alice,» disse Miranda. «Un numero cinque.»
«Come è stato?» chiese George. «Prima l'ha colpita col martello. E poi l'ha piantato dentro col martello,» disse Jack. «Ha calcolato tutto,» disse Miriam. «Le è andata incontro con il ferro in una mano e il martello nell'altra,» disse Sasha. «Con indosso il vestito rosso,» disse Unice. «Il vestito rosso della cerimonia. Anna potrebbe averle detto: ti avevo proibito di indossarlo.» «E allora lei l'ha colpita,» disse Miranda. «Avete visto come è piantato dritto, il ferro?» disse Teresa. «Sapeva perfettamente quello che voleva fare.» «Vi ricordate di Zio Camillo?» esclamò Miranda, con voce terrorizzata. «Vi ricordate quando l'ha colpita con un pugno, quella notte, e ha bevuto tutto il suo sangue?» «Zitta!» fu il coro di vecchie voci. «È già abbastanza brutto questo,» disse George. «Il passato è passato,» disse Stephan. E aggiunse: «Oh, Anna, Anna.» «È proprio morta?» chiese Miranda. «Morta,» rispose Stephan. Il suo sguardo si sollevò dal corpo di Anna e incontrò quello di Rachaela. Era stordito, Stephan, ma il suo sguardo era ardente, gli occhi vivissimi. Rachaela se li sentiva bruciare sul volto. «È stata tua figlia a fare questo ad Anna,» disse Stephan. «Voi non potete saperlo,» rispose Rachaela. Ma lei, sì, lo sapeva. Disse: «Ognuno di noi potrebbe averlo fatto.» «Ma nessuno di noi l'avrebbe fatto. Neanche tu. La pulsione a uccidere è latente in ognuno di noi, ma si realizza solo in pochi.» «Come Camillo,» disse Rachaela. «Voi prima avete parlato di lui. Ha ucciso qualcuno, prima? E se l'ha fatto allora, perché non avrebbe potuto farlo adesso?» «No, questa volta non è stato Camillo. Camillo è troppo vecchio e stanco perché gli importi ancora di uccidere qualcuno. Ruth invece è giovane e decisa.» «Dobbiamo trovarla,» disse Sasha. E tutti si strinsero in gruppo, come un'unica mostruosa creatura. «Si sarà nascosta,» disse Unice. «Ma questa è casa nostra,» disse Jack. «Non c'è luogo in cui possa nascondersi, che noi non possiamo trovare.»
«Dobbiamo avvertire Adamus.» Fu Miriam a pronunciare quelle parole. Gli altri sollevarono la testa di scatto, come creature notturne che improvvisamente fiutino la presenza di una preda o di un nemico. «Sì... Adamus,» disse Stephan. Si voltò e disse a Michael: «Vai alla torre e raccontagli tutto.» Michael prese una lampada, attraversò il salone e sparì sotto l'arco d'ingresso. Rachaela si ritrovò a seguirlo. Qualcosa dentro di lei cercava di trattenerla, ma era inutile. Nessuno degli Scarabae le prestò attenzione. Come Rachaela si aspettava, Michael salì le scale e svoltò nel corridoio che terminava con l'annesso di Salomè. Rachaela lo seguiva a pochi passi di distanza. Lui non le rivolgeva la parola, né si comportava come se avvertisse la sua presenza. Oltrepassarono la finestra con il mosaico granguignolesco della danza di Salomè al cospetto della testa mozzata del Battista, discesero le scale e percorsero tutto il passaggio fino alla porta della torre. Michael trasse di tasca una chiave e aprì la porta. Cominciò a salire le scale all'interno della torre, e Rachaela lo seguì. Il cuore le batteva all'impazzata. Nella stanza in cima alla torre, Adamus era in piedi accanto al piano, come se li stesse aspettando. Forse, attraverso i muri aveva udito il grido di Maria, e questo lo aveva messo in allarme. Forse Anna stessa aveva gridato, prima. Era interamente vestito di nero, come per celebrare la morte di Anna. «Mr. Adamus,» disse Michael, «è successo qualcosa...» «Anna è stata uccisa,» disse Rachaela. Pronunciò quelle parole con la stessa decisione con cui Ruth aveva piantato il ferro da calza nel petto di Anna. Adamus dapprima non reagì. Poi il suo volto si contrasse per distendersi nuovamente. «È vero, Michael?» disse. «Sì, Mr. Adamus. Miss Anna è stata uccisa.» «Dicono che sia stata Ruth,» aggiunse Rachaela. «Tua figlia.» «Come è stato?» chiese lui, proprio come aveva fatto George in salone. Michael piegò la testa. Rachaela intervenne: «L'ha colpita con un martello e poi l'ha trafitta con un ferro da calza, all'altezza del cuore. È il modo in cui le è stato insegnato che si uccide un vampiro.» Adamus si voltò e andò al camino, voltando loro le spalle. «Grazie, Michael, puoi andare,» disse.
Michael rialzò la testa e lasciò la stanza. I suoi occhi da cieco erano assolutamente privi di espressione. Adamus chiese sottovoce: «È stata davvero Ruth?» «È molto probabile. Secondo loro è certo.» «È tua figlia!» gridò lui. «Ma tu sei suo padre,» rispose Rachaela, gelida. Adamus si voltò. La sua intera figura era cambiata, ora. Tutto il suo corpo tremava di rabbia, uno spettacolo terrificante, ma al tempo stesso riusciva a rimanere controllato. Sembrava molto pericoloso. «Anna era tua madre, vero?» «Questo non ti riguarda.» Le andò incontro, e Rachaela gli fece strada, impaurita. Adamus la superò e si avviò alle scale. Superato lo shock di quel suo passaggio, Rachaela si lanciò al suo inseguimento, giù per le scale. E così gli Scarabae cominciarono a dare la caccia a Ruth per tutta la casa. Di sopra, di sotto, nelle camere... Cheta si era procurata le chiavi di tutte le stanze, così ogni porta chiusa veniva immediatamente aperta. Ma non riuscirono a trovare Ruth. Trovarono invece quadri imbrattati di croci rosse. E trovarono Alice. Si trovava in una camera da letto dipinta di chiaro, accanto al salottino dove cuciva. Era sdraiata sul letto, vestita con un abito color pastello, con un altro ferro da calza della quinta misura piantato nel petto all'altezza del cuore. Non era stato necessario colpirla prima, dal momento che era stata uccisa nel sonno. I suoi occhi tuttavia erano aperti e avevano un'espressione sorpresa. Adamus li richiuse. Più tardi, nella stanza col mosaico dell'angelo azzurro e oro, trovarono anche Dorian e Peter. Peter era stato colpito alla testa da dietro, c'era moltissimo sangue. Dorian invece era stato colpito proprio in mezzo agli occhi. Entrambi erano scivolati sul pavimento, fianco a fianco, sotto la scacchiera, in modo molto composto. Due ferri da calza della quinta misura erano stati piantati nei loro toraci, agganciandoli al tappeto. Dorian non era morto subito, almeno a prima vista. Il suo braccio sinistro era torto e il suo volto aveva un'espressione contratta. Ruth doveva avere agito con grande rapidità, aveva sfruttato in pieno la sorpresa, e colpito, una volta, due volte. Quanto potevano essere forti quei due vecchi? Quanta resistenza potevano opporre? Comunque, Ruth era stata più forte.
Era una Scarabae, dopotutto. Ricominciarono a setacciare la casa come una muta di cani. Senza dire una parola. A parte qualcuno. «Dove si era nascosto Zio Camillo?» chiese Miranda. «Non si era affatto nascosto,» rispose Jack. «Fu lui a raccontarci quello che aveva fatto.» «Non è andata così...» disse George. «Comunque, Ruth non è Camillo,» tagliò corto Adamus. Non c'erano più morti da trovare, per il momento. Tutti gli Scarabae sopravvissuti erano lì. A parte Camillo. Rachaela li seguì, stordita, e al tempo stesso impaurita. Dunque, anche Alice, Dorian e Peter erano morti. Ecco dunque quello che aveva fatto Ruth nel corso di quel lungo e afoso pomeriggio, vestita del suo abito scarlatto. E la sera, dopo che le luci erano state accese, era stata la volta di Anna. Avrebbe potuto uccidere anche me. Ma Rachaela non rappresentava nulla per Ruth: poiché non era un vampiro. Tutto il fascino che in un primo tempo gli Scarabae avevano avuto agli occhi di Ruth si era trasformato in disgusto. Ruth non era più la principessa dei vampiri, si era trasformata in una cacciatrice di vampiri. Ogni volta che li uccideva e li trafiggeva con il ferro, ne dimostrava di fatto l'esistenza. Cominciarono a cercare nelle camere: le camere azzurre e quelle marroni, la camera gialla... ma non trovarono nessuna traccia di Camillo. Entrarono anche nella camera di Ruth, con Adamus in testa al gruppo. Ma Ruth non c'era. Perché erano così certi che Ruth stesse rintanata da qualche parte all'interno della casa? Per il semplice motivo che anche loro al posto suo si sarebbero comportati così. Gli Scarabae conoscevano Ruth. Anche malgrado ciò che aveva fatto. Si riconoscevano in lei come in uno specchio distorto. Avevano esiliato lontano da loro Camillo per tutti quegli anni, per tutte quelle centinaia di anni, dopo che aveva commesso un crimine oscuro e disgustoso. Rachaela glielo aveva detto: Credete anche voi di essere vampiri perché qualcuno ve lo ha fatto credere. Lei sapeva che Ruth non era andata da Camillo. Lo sapeva. Sapeva anche dove si stesse nascondendo? Sì. Lo sapeva e forse lo sapevano anche loro, e quella caccia doveva essere una sorta di vagabondaggio rituale che avevano deciso di compiere in
mezzo ai mosaici imbrattati di croci e a tutti i quadri, le statue e gli specchi sui quali Ruth aveva disegnato col rossetto croci scarlatte. E ora finalmente erano arrivati a quella porta. Cheta trasse di tasca una chiave e la ripose di nuovo poiché era inutile, dal momento che la serratura era stata forzata. Adamus spinse avanti la porta. E di nuovo, nella luce tremolante della lampada e delle candele, comparve la tappezzeria decorata con i pipistrelli, e le decine e decine di vestiti rossi appoggiati in fila sui loro manichini. Gli Scarabae restarono sulla soglia della stanza, ammutoliti, coprendosi la bocca con le mani incartapecorite, e appoggiandosi alle spalle dei vicini, come se qualcosa impedisse loro di entrare. Invece Adamus entrò, deciso, come se già sapesse tutto, come se qualcuno gli avesse raccontato la scena dell'uccello che si era nascosto sotto la gonna dell'abito rosso scelto da Ruth. Si spinse come un ciclone in mezzo ai manichini, urtandoli e facendoli ruotare su se stessi; cadendo all'indietro, uno dopo l'altro, i veli dei vestiti si sparpagliavano, le guarnizioni di tulle si strappavano e i ricami di perle si sgranavano sul pavimento. Adamus era la tempesta che apriva il mare scarlatto al suo passaggio. Le vecchie Scarabae si lasciarono sfuggire alcuni lamenti soffocati, come alcune di loro avevano già fatto alla vista dei cadaveri di Anna, Alice, Peter e Dorian. Quella a cui stavano assistendo in effetti era un'altra specie di morte. Senza badare a loro, Adamus si diresse verso un vestito che era appoggiato a un manichino in fondo alla stanza, un vestito con una grande gonna lunga a strascico. Diversamente dagli altri, non lo spinse indietro. Si avvicinò al vestito e con grande delicatezza sollevò la gonna, composta damolti strati sottilissimi di velo, che si frantumarono fra le sue dita. E là sotto, nel cuore del vestito, come una bambina delle favole seduta in fondo alla corolla di un fiore, c'era Ruth. Si era fatta piccola piccola nel suo vestito rosso, più scuro e prezioso di quello in cui si era nascosta. Aveva i capelli sciolti, sparsi sulle spalle. Sul vestito non c'erano macchie di sangue, e le sue mani erano vuote. Voltò la testa come un serpente, sollevò gli occhi e vide Adamus in piedi di fronte a lei. E subito il suo volto si schiarì nel più bel sorriso che Rachaela gli avesse mai visto fare, e i suoi lineamenti da fatina maligna si distesero in un'espressione di straordinaria purezza.
«Speravo fossi tu...» disse Ruth. E aggiunse: «Sapevo che saresti venuto, prima o poi. Adam...! Hanno cercato di dividerci!» Sembrava l'eroina di un romanzo rosa. Con grande dolcezza, Adamus si spinse ancora di più sotto il vestito, afferrò Ruth con entrambe le mani e la tirò fuori dal suo nascondiglio. Ruth, che poteva vedere solo lui, gli porse il volto perché lo baciasse. Adamus la sollevò in aria con la sinistra, tenendola per un gancio di stoffa fissato all'estremità del suo corpetto. E improvvisamente la schiaffeggiò con la destra, colpendola con grande violenza fra il volto e il collo. Il colpo fu così forte che il corpetto e il gancio di stoffa al quale Ruth era appesa si lacerarono, e lei venne scagliata all'indietro, cadendo sul pavimento. Lì, rimase stordita per qualche istante. Aveva perduto il corpetto, che le era stato strappato dalla violenza del colpo e le aveva lasciato scoperti i seni, bianchi e perfetti, dai capezzoli tondi come boccioli, sui quali stillava un sottile rivolo di sangue che le colava dalla bocca. In quella posa Ruth sembrò davvero per un attimo l'immagine stessa della donna vampiro, ma un attimo dopo il suo volto cominciò a illividirsi e a gonfiarsi, in corrispondenza del colpo. «Alzati,» disse Adamus. «No,» mormorò Ruth, attraverso le labbra dolorosamente socchiuse. E aggiunse, con rabbia: «Prova solo a rifarlo.» «Alzati,» ripeté Adamus. «E guardali.» Ruth si alzò. Con un braccio si coprì i seni e fissò gli Scarabae. E gli Scarabae la fissarono a loro volta. Non le chiesero se era lei che aveva fatto tutto quello che aveva fatto, né perché lo aveva fatto. Lei non negò nulla, né si vantò di nulla. I loro volti erano simili a icone. Forse fra di loro si era stabilita una comunicazione muta, senza sguardi o parole. Il silenzio durò a lungo. Quando Rachaela fissò a sua volta Adamus, si accorse che anche il suo volto era diventato uguale ai loro. Egli lasciò Ruth dov'era e ritornò verso la porta. E tutti si fecero da parte per lasciarlo passare. Solo Rachaela lo afferrò per un braccio. «No, Adamus. Non puoi farlo. Non puoi andartene. Cosa le faranno?» «Toglimi le mani di dosso,» disse lui. «Subito. Non mi costringere a usare la forza.» Rachaela lasciò il suo braccio. Adamus la superò e sparì nell'oscurità del corridoio.
Rachaela gridò agli Scarabae: «Che farete, ora?» Era spaventata, ma più per se stessa che per Ruth. «Stephan... che farete?» «Deve essere chiusa nell'attico,» disse Miranda. «Chiusa a chiave, al sicuro,» disse Miriam. «Per molti anni,» disse Sasha. «Siete pazze,» disse Rachaela. «È solo una bambina. Una bambina malata. E ha bisogno di aiuto.» «Dev'essere rinchiusa,» disse Stephan. «Carlo!» Carlo si avvicinò a Ruth, si tolse la giacca e gliela porse. Ma Ruth la rifiutò e continuò ostinatamente a coprirsi con un braccio. Carlo allora appoggiò una mano sulla spalla di Ruth e la tenne ferma. Lei sollevò il capo con fierezza e si lasciò sospingere verso la porta. Quando passò di fronte agli Scarabae, o forse quando si accorse della presenza di Rachaela, sorrise di nuovo. Ma questa volta era il sorriso del pagliaccio instupidito dal pugno appena preso. Passando, proclamò con voce incerta: «Ve lo siete meritato.» E fu portata via, nell'oscurità dell'attico. «Stephan,» disse Rachaela. «Allora non hai capito.» Stephan era seduto di fronte al camino spento. Rachaela gli era seduta di fronte. «Stephan, quello che ha fatto Ruth è terribile. Non ti accorgi che è malata di mente? Chiuderla nell'attico non risolverà nulla.» Stephan fissava assorto il fantasma del fuoco dentro il caminetto vuoto. Rachaela proseguì: «Ruth ha bisogno di essere curata. Dev'essere ricoverata in ospedale.» «Oh, Anna,» disse Stephan. «Anna ora non può più essere aiutata. Ruth invece sì. Lasciami provare.» «Noi abbiamo i nostri sistemi.» «Ruth non è vostra. È mia.» «Ruth è nostra.» I cadaveri erano stati sistemati nelle loro camere, Peter e Dorian nello stesso letto. Presto, quando ci fosse stata bassa marea, sarebbero stati condotti sulla spiaggia e poi cremati. Questo le aveva detto Stephan. «Tu mi devi ascoltare, Stephan.» «Oh, Anna, Anna,» disse lui.
Rachaela si alzò e andò in camera sua. Si sedette ad ascoltare il rumore del mare, cercando di capire il momento in cui il suono mutava, al calare della marea. Dunque, era successo. Ruth avrebbe dovuto odiare Adamus, a questo punto. Per lei non era più nulla, era finito. Che grande passione c'era stata fra di loro. Molto più di quanta ce ne fosse stata fra lei stessa e Adamus. Però ora doveva portarla via da lì. Ora era possibile. L'unico ostacolo era la porta dell'attico. Ma perché? Perché doveva salvare Ruth? Ruth in fondo si era rivelata il demonio che Rachaela aveva sempre intuito che fosse in realtà. Forse avrebbe fatto meglio a lavarsene le mani di lei e di tutto quel sangue. Ma c'era qualcosa che glielo impediva. Dopotutto esisteva un legame fra loro due. Un legame simile a un cordone ombelicale, inseparabile. Non era amore, non c'era mai stato, fra loro. Era... qualcosa. Non poteva lasciarla agli Scarabae. La marea! Era certamente calata, ora. Rachaela si mise in ascolto, non tanto della marea quanto degli impercettibili rumori prodotti degli Scarabae mentre andavano alla spiaggia per la cerimonia della cremazione dei loro morti. Come tarli in un mobile. Rachaela li udì uscire, o forse se l'immaginò. Alla fine uscì dalla sua camera e dal pianerottolo li vide avviarsi in fila nelle stanze da basso, vestiti con i loro abiti estivi, come se andassero a una festa di mezzanotte. Che falò ci sarebbe stato sulla spiaggia. Chissà se anche Adamus sarebbe andato con loro? Rachaela si voltò e imboccò il corridoio a sinistra. Quando raggiunse la scala si aspettava di trovare almeno uno di loro lasciato lì di guardia, ma non c'era nessuno. Rachaela salì all'attico. La porta era sprangata. La serratura doveva essere molto più resistente e sicura di quella della stanza dei vestiti, altrimenti non si sarebbero fidati in quel modo. Provò la maniglia. Si piegò, ma senza nessun effetto. Rachaela fissò la porta, perplessa. Cosa poteva dire a una bambina di undici anni che aveva ucciso quattro persone?
«Ruth. Ruth! Sono io. Ruth, rispondimi!» Ci fu un lungo silenzio, in cui a Rachaela parve di udire fruscii impercettibili e scrosci di scintille in un grande fuoco a miglia e miglia di distanza. «Ruth.» Una voce rispose, da dietro la porta. «Ciao, mamma.» La voce era calma e ferma, come smorzata dalle labbra gonfie, e molto infantile. Era la voce di una bambina. «Ruth. Hai paura?» «No,» disse la voce. E poi, lentamente: «Sì.» «Ti hanno lasciato un po' di luce?» «Oh, sì. Mi hanno dato delle candele.» «Mi raccomando, stai molto attenta con le candele.» «Sì, mamma.» «Farò in modo che ti facciano uscire. Poi, torneremo insieme a Londra. Non so quanto tempo ci vorrà.» «Loro non mi faranno mai uscire da qui,» disse Ruth. «Non l'hanno permesso a Zio Camillo per vent'anni. Questo è successo in un'altra casa. Me l'ha detto Sasha.» «Sasha voleva spaventarti. Ti hanno picchiato?» «No, solo il viso. Ho un taglio sulla bocca, vicino a un dente.» «E i denti? Stanno tutti bene?» «Sì. Però mi si è gonfiato un occhio.» «Avrebbe potuto ucciderti,» disse Rachaela. «Sì. Era arrabbiato.» Ci fu un secondo lungo silenzio. Alla fine, Ruth disse: «Non intendevo farlo. È stato come sul libro. Loro erano cattivi e io ho voluto punirli.» «Non ci pensare, adesso,» disse Rachaela. «Ti troverò un dottore, e potrai parlarne con lui.» «Sì, mamma,» disse Ruth. E aggiunse, un attimo dopo: «Mi hanno portato qui i vestiti, i colori e l'album da disegno. C'è anche un uccello impagliato. E tutto il vino di Zio Camillo. Ne ho bevuto un po'. È buono, mi fa stare allegra.» «Non berlo, Ruth.» «Riesco a vedere la torre di Adam, dalla finestra. La lampada è accesa, vedo il leone dorato.» «La finestra è aperta?» chiese Rachaela, con voce calma. «No, hanno sprangato anche la finestra. Stasera mi hanno portato la cena
su un vassoio. Era del pesce, orribile. La gelatina però era buona.» A Rachaela venne da pensare, assurdamente, non ho mangiato nulla, oggi. «Ruth, devi cercare di fidarti di me. Ti prometto che ti farò uscire.» «D'accordo,» disse Ruth. Ci fu un nuovo silenzio, il terzo. Rachaela ripensò a Ruth che singhiozzava sulla tomba del suo gattino. I suoi occhi si riempirono di lacrime mute, che le rigarono il volto come lame di rasoio. «Non aver paura, Ruth,» disse. «Non c'è nulla di cui aver paura.» Adesso però sono io che mento. «Pensi che mi perdonerà?» «No, Ruth, credo proprio di no!» «No, infatti,» disse Ruth. E aggiunse: «L'ho fatto per far loro del male. Ma non lo volevo veramente.» «Lo so, Ruth. Ti capisco.» «Mi dispiace, mamma.» Quando Rachaela uscì, il cielo era illuminato dal fuoco. Guardò in direzione della spiaggia, e le sembrò di toccare il cielo con un dito. Non restava più niente di loro, Anna, Alice, Peter e Dorian. Erano andati in fumo. Senza una preghiera, o un canto, come vecchi vestiti, o rifiuti: così gli Scarabae cremavano i loro morti in riva al mare. Al largo, i frangenti increspavano il mare di bianco. Gli Scarabae, quelli che erano rimasti, erano riuniti in circolo intorno alla pira, come vecchi bambini a una festa estiva di Guy Fawkes. Rachaela li guardò dall'alto, abbracciandoli tutti insieme in un solo sguardo: Teresa e Anita, Unice e Miriam, Sasha, Miranda e Livia, George, Stephan, Jack ed Eric. Accanto a loro, un po' in disparte, i servi: Maria, Cheta, Michael e Carlo. Adamus non era con loro. E neanche Cannilo. E sulla spiaggia, il fuoco continuava a bruciare, come tutti i fuochi del mondo. CAPITOLO DICIANNOVESIMO Le porte della torre erano chiuse. La donna le fissò entrambe, vestita con una gonna e una camicetta, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. Dopodiché fece ritorno nella sua
stanza verdeazzurra. Rachaela restò qualche secondo a contemplare la sua immagine nello specchio dorato, in mezzo ai gigli, alle rondini e ai raggi del sole che erano stati scolpiti sulla sua cornice. Chi sono, io? Non lo sapeva. Si vedeva come un'estranea, bella e lontana. Sempre intenta a scrutare i volti degli altri, aveva dimenticato il proprio. Sarebbe stato facile andarsene, scappare. Lasciare gli Scarabae in balia di se stessi. Ma così non se ne sarebbe liberata, sarebbero comunque rimasti con lei, dentro di lei, ovunque fosse andata. Non poteva lasciare Ruth, povera bestiolina malata, in balia dei loro cerimoniali, tanto barbari da considerare persino l'assassinio come una sorta di rituale. Rachaela scese in cucina. Cheta e Maria stavano lavando le teiere, mentre Michael era seduto al tavolo e puliva l'argenteria con grande impegno. «Michael, devo vedere Adamus. Mi devi fare entrare nella torre.» «Quando Mr. Adamus chiude le porte significa che non desidera vedere nessuno.» «Lo so. Ma è importante. E comunque tu hai la chiave.» «La uso solo quando gli porto i pasti, Miss Rachaela.» «E allora vorrà dire che ti accompagnerò.» Michael non poteva obiettarle nulla. Lei era Miss Rachaela. E non c'era più Anna per opporsi a quell'ordine. Rachaela attese in cucina l'ora di pranzo. Quando il vassoio fu pronto, con un piatto di pollo, insalata, biscotti, formaggio e un bicchiere di vino, Rachaela seguì Michael, come già aveva fatto la volta precedente. Si diressero alla stanza di Salomè, scesero la scala e attraversarono il passaggio, fino alla porta della torre. «Se mi può aspettare, Miss Rachaela, potrei avvertire...» «No. Vengo con te.» Michael non si oppose. Entrò con lui nella torre e salì la scala interna. La stanza di Adamus splendeva alla luce del sole, che filtrava dalle vetrate della finestra in varie tonalità di giallo oro, bronzo ed ambra, ed era assolutamente vuota. Michael appoggiò il vassoio su un tavolino. «Io resto,» disse Rachaela, con voce decisa. Michael si ritirò. Passò una mezz'ora. Rachaela esaminò i libri sugli scaffali, non ce n'era nessuno che riconoscesse. Sul leggio del pianoforte non c'erano spartiti. In tutta la stanza non c'erano soprammobili. Sul cami-
netto, l'orologio andava indietro. Sul soffitto, le travi erano ammuffite, incrostate di ragnatele e piene di ganci per lampade successivamente smantellate. Rachaela lasciò la stanza e scese la scala fino alle due camere più piccole da basso. Bussò alla porta della prima e poi entrò: era una stanza da bagno. Sulla finestra c'era il mosaico di un cavallo marino. Dopo un istante di esitazione, bussò alla porta della seconda stanza e poi entrò. Era una piccola camera da letto, molto scura. Infatti il mosaico sulla finestra rappresentava una torre circondata da una tempesta, molto simile a un'immagine dei tarocchi. Il letto era semplice, senza baldacchino. Adamus vi era steso sopra, e la fissava. «Tu sai perché sono qui,» disse Rachaela. «No.» «Certo che lo sai. A causa di Ruth.» «Cosa c'entra Ruth,» il suo tono era stato troppo secco per poterla considerare una domanda. «Devo portarla a Londra, in ospedale.» «E perché?» «È impazzita. E io devo aiutarla.» «Ma perché? Avranno cura di lei e la terranno al sicuro. Che faranno di più per lei i dottori del tuo ospedale?» «Forse c'è la possibilità che venga curata.» «Non c'è nessuna possibilità.» «In fondo l'ho sempre trattata come se fosse una specie di mostro, quindi forse è anche colpa mia se poi lo è diventata.» «Non pensi che in fondo siamo tutti mostri?» «Forse hai ragione,» disse Rachaela. «Però se ti dico che secondo me sono stati gli Scarabae a portare Ruth a fare quello che ha fatto, tu non sarai certamente d'accordo.» «Non m'interessa sapere perché l'ha fatto,» disse lui. «Mi stupisce che tu l'abbia presa così male. Non ti fai mai vedere.» «Rachaela,» la interruppe lui. «Ruth ha preso un ferro da calza e l'ha piantato nel petto di Anna. E poi ha fatto la stessa cosa con Alice, Dorian e Peter.» «Lo so perfettamente. E per questo che dico che forse ha bisogno di aiuto. E voi invece che fate? La chiudete nell'attico, come se fossimo in un film dell'orrore da quattro soldi.» «Invece di chiuderla in qualche stanza di qualche clinica con le pareti
imbottite. Ma tu credi davvero che Ruth si farebbe chiudere in un istituto psichiatrico?» «Ruth è spaventata da quello che ha fatto. Lei sa che ha bisogno di...» «Ruth non sa nulla di nulla. Ruth è un miscuglio di pulsioni e di istinti primari. Tu l'hai fatta crescere come un'erbaccia. Nessun affetto, in modo che diventasse forte e insensibile, e nessuna guida per fare in modo che si formasse una sua legge morale.» «E infatti è stata questa la mia colpa.» «Probabilmente.» «Ma allora lascia che l'aiuti. Restituiscimela.» Adamus si sedette sul letto. Nella luce tenebrosa che filtrava dalla finestra il suo volto era bianco e gelido come il marmo. «Se fosse stato per me, le avrei spezzato il collo.» «Ma è anche tua figlia!» «Lo so.» «Quanto tempo credi che la vorranno tenere in gabbia? E cosa succederà quando la libereranno? Gli Scarabae non sono assolutamente in grado di affrontare questa situazione.» «Se è per questo, ti assicuro che hanno affrontato situazioni anche peggiori.» «La storia di Zio Camillo?» «La storia è autentica. Si sposò con una ragazza, secondo le tradizioni della famiglia, e durante la prima notte di nozze l'ha uccisa a morsi. È morta dissanguata.» «Questo non fa testo.» «No, infatti. Probabilmente nel caso di Camillo si è trattato di un incidente.» «Ruth non sapeva quello che stava facendo.» Adamus si alzò e venne incontro a Rachaela. Lei si costrinse a restare dov'era, senza muoversi di un passo. «Ti prego, aiutami Adamus. Aiutami a farla uscire. La porterò via. Tu la dimenticherai.» «È impossibile dimenticare,» rispose lui. «Ma allora non puoi desiderare che resti.» «Non m'importa più,» disse lui. «Ma tutti i motivi per cui...» «Non m'importa più di Ruth, della casa, di nulla. Che significano, tutte queste cose? Niente.»
Rachaela fece involontariamente un passo indietro, e subito Adamus si slanciò verso di lei e l'afferrò per le braccia. «E tu,» disse, «la coraggiosa madre che lotta per salvare la sua bambina... tu avresti voluto strapparla via da te come se fosse stata un cancro!» «E tu invece,» ribatté lei, «mi hai trattato come se tu fossi un toro da monta e io la tua vacca. E poi per te la cosa si è conclusa lì. E avresti fatto lo stesso con Ruth!» Adamus la teneva così stretta che Rachaela non riusciva a muovere un muscolo. I suoi occhi spenti sogghignarono, fissandola paurosamente. «Nulla ha significato,» ripeté. «Ma ho capito perché sei venuta qui. Forza, allora!» Le fece fare una giravolta, continuando a tenerla stretta, e prima che lei potesse opporsi la spinse contro il letto. Rachaela tentò di divincolarsi, ma il corpo di lui le cadde addosso, schiacciandola con tutto il suo peso, ricoprendola tutta. Ciò che lei aveva sempre temuto stava accadendo. Rachaela liberò la sua mano destra e colpì la testa di lui, di fianco, con tutta la forza che riuscì a trovare. Ma lui le afferrò la mano e la schiacciò verso il basso. Lei tentò di puntellarsi sui suoi gomiti, cercando di solleverei, ma il corpo di Adamus era troppo pesante. Il volto di lui era inespressivo, a parte la fronte, aggrottata nello sforzo. I suoi occhi invece erano spenti e fissi - gli occhi di Ruth. Quando la sua testa si piegò su di lei, Rachaela affondò i suoi denti nel suo collo e lo morse con tutte le sue forze, pensando che alla fine sarebbe stata lei a bere il suo sangue. Un terribile brivido di eccitazione percorse come un serpente tutto il suo corpo. Adamus si divincolò via da lei con un balzo all'indietro, e lei lo colpì in pieno volto con la mano sinistra. Si avvinghiò al suo corpo, e quando Adamus le lasciò andare il polso destro, riuscì ad aggrapparsi ai suoi capelli, lo colpì ancora e si schiacciò contro di lui, percorrendo con le sue dita, centimetro dopo centìmetro, tutto il corpo snello e muscoloso di Adamus, come se stesse scalando una montagna, e infine lo avvolse fra le sue gambe, strappando la gonna lungo le cuciture. E poi urlò il suo nome, una volta, tante volte. E all'ultimo momento sfregò il viso contro il suo collo, la bocca aperta contro la sua pelle nuda, il corpo scosso da lunghi brividi, fusa nel suo calore, perduta, disfatta, cullata e lacerata in quei sussulti, sempre più indietro, sempre più lontano. E poi finalmente quel delirio cessò e lei ricadde all'indietro sul letto. Quando riaprì gli occhi, Adamus si era allontanato. La guardava, in piedi
accanto al mosaico della finestra. «Così tanto solo per questo,» disse lui. Rachaela si sentì invadere da una specie di vergogna. Si alzò dal letto, confusa e stordita, con la gonna che le penzolava assurdamente fra le gambe, strappata. Sul collo di Adamus c'era il segno dei suoi denti, ma nessuna ferita. Dunque, non aveva sparso sangue. Dopo quello che era successo non riusciva a parlare, tuttavia fece uno sforzo e disse semplicemente ad Adamus: «D'ora in poi non ti infastidirò più.» «Lo credo.» «Non c'è mai stato nulla fra di noi,» disse lei. «Ruth è stata solo un errore.» Adamus la guardò. Aspettava soltanto che lei se ne andasse. Cento frasi si affollarono nella mente di lei, ma alla fine non riuscì a dire nulla. Uscì dalla stanza, superò la porta esterna e attraversò il corridoio di passaggio, illuminato da una luce fioca e rossastra simile al tramonto di un pianeta malato. Ho avuto quello che volevo. Era stato come se avesse fatto l'amore con un cadavere. Rachaela contemplava il mare, le lunghe ondate che si spingevano contro gli scogli, dove si rompevano per poi essere nuovamente risucchiate indietro. La ripetitività del moto del mare era simile a quella della vita. Gli infiniti tentativi, i fallimenti e le ricadute. Anche quando il mare fosse finalmente riuscito a raggiungere la spiaggia, la marea sarebbe cambiata e le onde sarebbero state ricacciate nuovamente indietro. Le loro ossa erano là, sparse fra le onde. Non riusciva più a pensare a cos'altro fare. Una pesante apatia l'aveva invasa. Ma se davvero voleva portare Ruth via da lì avrebbe dovuto scuotersi, lottare. Cominciò a camminare lungo la battigia. Il caldo era spietato, e non poteva fare a meno di pensare a Ruth, chiusa nell'attico, proprio sotto il tetto, con le finestre sprangate. La prigionia come punizione. E in inverno? Come avrebbe potuto ripararsi dal freddo? O magari gli Scarabae l'avrebbero fatta congelare, per punirla di ciò che aveva fatto. Le venne in mente Adamus, ma scacciò quel pensiero. Si voltò e si incamminò verso la casa. Man mano che le si avvicinava pensava a quanto era strana, così grigia e trascurata, con quei tetti spioven-
ti così incongrui e quelle finestre scure a pannelli rossi e verde smeraldo. Camillo era seduto sul pavimento di fronte alla porta della camera di Rachaela. «Eccoci qui,» disse. «Eccoti qui,» rispose Rachaela. «Niente cavallo, oggi,» annunciò. «Sono venuto senza.» «Vedo.» «Però ti ho portato qualcosa.» Rachaela lo guardò. Camillo le ostruiva l'ingresso alla camera, seduto con le gambe incrociate proprio sotto la croce nera dipinta sul mosaico della finestra. «È molto gentile da parte tua.» «Infatti. Il ragazzo non ti vuole aiutare, vero? Adamus, intendo. Tu e lui, siete uguali. Cavalli ombrosi.» Camillo si alzò in piedi. «Avresti dovuto essere tu al posto di quella ragazzina.» «Davvero?» «Una volta ho fatto finta di essere com'è ora Adamus. Ho tagliato il collo a quella ragazza con un coltello da cucina. Ma in realtà in me il gene non si è mai trasmesso.» «Ma neanch'io sono un vampiro,» disse Rachaela. «Nessuno di voi lo è. Neanche Adamus. È solo un suo modo di fare. Ma fa così perché è malato. E anche Ruth lo è.» «Piccola vipera,» disse Camillo. «devi portarla via. Ci procurerà sicuramente dei guai, lassù nell'attico. E poi, l'attico è mio. Perlomeno non si è presa il mio cavallo a dondolo.» «Voglio portarla via,» disse Rachaela. «Molto bene. Eccoti la chiave,» disse Camillo. Porse a Rachaela qualcosa che brillò debolmente nel chiarore della finestra deturpata dalla croce. «La chiave,» disse Rachaela. «È quella dell'attico?» «Una delle chiavi dell'attico. Funziona.» Rachaela si avvicinò adagio a Camillo e prese la chiave. «Grazie, Camillo.» «Portala via,» ripeté lui. «Lo farò.» Camillo si avviò lungo il corridoio. Si voltò e disse: «Non sperare che succeda qualcosa di buono.» Le dita di Rachaela si strinsero convulsamente intorno alla chiave. Cal-
ma. Doveva stare calma, ora. Doveva fare molta attenzione. Quando Rachaela entrò in sala da pranzo si ritrovò sola. Nessuno a parte lei era sceso a cenare. Del resto in tutto il pomeriggio non aveva visto in giro un solo Scarabae. Si erano rintanati nelle varie stanze della casa, forse anche per mettersi al sicuro. Cheta servì la cena a Rachaela, cotolette di agnello, carote, piselli e patate. Rachaela mangiò con appetito. Aveva bisogno di energia. Michael non si era fatto vedere, così Rachaela aveva chiesto a Cheta di portarle un bicchiere di vino. Dopo l'agnello c'era dell'ottima gelatina di albicocca, forse un avanzo della cena del giorno precedente. Infine, Cheta le servì il tè in salone. Era strano non vedere Anna seduta sulla sua poltrona o piegata sul suo lavoro a maglia. Non si era ancora abituata all'idea della sua morte. Una sola volta era stata assente, prima. Rachaela fermò Cheta mentre stava uscendo dal salone. «Ha mangiato, Ruth?» «Certo, Miss Rachaela. Carlo ha portato su il vassoio a Miss Ruth circa un'ora fa.» Non avrebbero ripreso il vassoio della cena fino alla mattina seguente, quando avrebbero portato a Ruth quello della colazione. Rachaela si augurava che Ruth riuscisse a mangiare, malgrado la bocca gonfia. Anche lei avrebbe avuto bisogno di energia, quella notte. Rachaela terminò con comodo il suo tè. Quando lasciò il salone il suo orologio segnava le dieci e trenta circa. Salì subito in camera sua e attese un'altra mezz'ora. Non udiva provenire dalle camere degli Scarabae nessuna voce, nessun movimento, nessun rumore. A parte Cheta, non aveva visto nessuno di loro. Alle undici e cinque uscì dalla sua camera e salì all'attico. La chiave girò facilmente nella serratura. Rachaela entrò nell'attico lentamente, preparata a tutto, o quasi. Ma la stanza era esattamente come se la ricordava dall'ultima volta che c'era stata, ed era illuminata vivamente da parecchie candele appoggiate su tavoli e cassettoni. Ruth era seduta sulla sedia a dondolo; dietro di lei la finestra nera rifletteva la luce delle cadele. Ruth aveva sul volto un'espressione distorta, grottesca, e teneva in grembo una delle bottiglie di vino di Camillo. «Ti avevo detto di non berlo, quel vino,» le disse Rachaela, allarmata. Ruth la guardò, sorpresa.
«Ti hanno fatto entrare?» «No, Ruth. Ho la chiave. Quanto ne hai bevuto?» «Poco. Ha un cattivo sapore.» «Bene.» Rachaela richiuse la porta. «Questa notte ti porto via di qui,» annunciò a Ruth. Ruth fece di sì col capo e si alzò in piedi. Aveva indosso l'abito del 1910, ma avrebbe potuto tranquillamente camminarci per strada, visto che al giorno d'oggi ci si poteva vestire come si voleva, specialmente i giovani. «Mi dispiace ma dovrai lasciare tutte le tue cose qui.» «Va bene,» disse Ruth, indifferente. «Non voglio tenere nulla.» «Non voglio che tu torni nella tua camera. Se c'è qualcosa che ti interessa qui lo posso prendere io.» «No, non c'è nulla.» «Dovremo camminare per tutta la brughiera. È un bel pezzo di strada, ma non c'è altro da fare, credo.» A quella notizia Ruth sembrò contrariarsi per un attimo, ma poi disse: «Non importa.» «Poi però sarà facile noleggiare una macchina in paese, una volta arrivata l'ora di apertura dei negozi.» Ruth bevve un altro sorso di vino dalla bottiglia. «No, Ruth. Non farlo.» «Ma è solo vino.» «Non berlo, ti ho detto. Ora ti porto con me nella mia camera. Devi stare tranquilla. Se incontriamo uno di loro, nasconditi, se te ne accorgi in tempo. Se no, vedremo che fare. Ma non penso che succederà.» A Rachaela tornò in mente la notte in cui lei era scappata, undici anni prima, e se li era trovati tutti riuniti all'ingresso. Allora però l'avevano semplicemente seguita, senza protestare, consapevoli di quello che stava facendo. In quel caso però avrebbero permesso così facilmente a Ruth l'assassina di andarsene? Forse sì. Perché altrimenti le era stata affidata quella chiave? E perché mai la casa era così stranamente silenziosa? Tutti loro, qualunque cosa avessero detto o fatto, ora non desideravano altro che sbarazzarsi di Ruth. Rachaela uscì dall'attico e Ruth la seguì. Quando furono entrambe fuori sul pianerottolo, Rachaela richiuse a chiave la porta. Discesero le scale, attraversarono il passaggio e arrivarono al corridoio. Niente si muoveva, intorno a loro. Sembrava che gli Scarabae avessero voluto spianare loro la
strada. Rachaela e Ruth percorsero tutto il corridoio, attraversarono il pianerottolo, e il passaggio che conduceva alla camera di Rachaela, fino alla porta. La casa sembrava assolutamente vuota. Ruth si guardò intorno, appena entrata nella camera verdeazzurra. «È bella. Che cosa rappresenta il mosaico?» «La tentazione di Eva.» Sul letto, già chiusa, era pronta la borsa da viaggio di Rachaela. I suoi stivali erano accostati al camino. Le sarebbero stati utili, nella brughiera. Ruth per fortuna aveva ancora le scarpe che portava a scuola. «È bello tornare a casa,» disse Ruth. Rachaela pensò all'appartamento, alla zona che era stata di Ruth e che ora non esisteva più, a tutte le sue cose chiuse nelle scatole. Per fortuna però non aveva ancora portato via nulla, neanche i vestiti per la Oxfam. Sta cercando di prendermi per il verso giusto, pensò Rachaela. Lei non pensa affatto all'appartamento come a casa sua. Forse non riesce a pensare a nessun posto come casa sua. Pensò, Cristo, cosa sarà di lei? E la vide gridare e divincolarsi mentre uno stuolo di uomini in camice bianco la trascinavano lungo un corridoio rivestito di piastrelle. «Ruth, ora tu devi rimanere qui. Non uscire per nessuna ragione da questa camera. Hai bisogno di andare in bagno?» «No, mamma.» Come poteva avere risolto quel problema, quando era chiusa nell'attico? «Ora scendo e controllo che non ci sia nessuno all'ingresso. Capito? Non mi ci vorranno più di dieci, quindici minuti. E poi ce ne potremo andare.» «D'accordo,» disse Ruth, e si sedette su una sedia, la stessa sulla quale si era seduto Adamus. «Tieniti pronta, Ruth.» Ruth annuì, e allungò le gambe, stirandosi. Sfioravano il pavimento, senza toccarlo. Rachaela uscì nuovamente dalla sua camera. Percorse molto lentamente il corridoio, camminando con passo leggerissimo. Si sentiva stranamente reattiva e vivace. Sul pianerottolo si fermò. Era tutto tranquillo. Si udivano soltanto i soliti fruscii e mormorili della casa, e lontano il suono del mare. Gli Scarabae se ne restavano ben chiusi al sicuro nelle loro tane. In fondo all'ingresso erano accese tutte le luci, sia la lampada rossa che quelle del salone. Rachaela entrò nel salone, poi in sala da pranzo. Aprì con circospezione la porta della sala da musica, e quindi la porta-finestra
che dava in giardino. L'aria della notte era profumata di rose, gelsomini, e dell'odore salmastro del mare. In quel momento, Rachaela fu colta improvvisamente da una strana commozione, una specie di nostalgia per qualcosa che di lì a poco sarebbe appartenuta al passato. In realtà non si era mai resa conto di quello che provava nei confronti di quella casa. Il tronco del tasso era particolarmente scuro. Sotto di esso giaceva il gatto, che si stava lentamente imputridendo e si sarebbe presto trasformato in un mucchietto d'ossa. E lì intorno, nell'aria, nel mare, c'erano Anna, e Alice, e Dorian, e Peter, e Sylvian. E dietro di lei, chiuso nella sua torre, Adamus. Adamus. Rachaela si voltò e fissò il cono di tegole del tetto della torre, e in quel preciso istante si udì un violento accordo musicale, così forte che le parve le trapassasse il corpo, salendole da sotto i piedi attraverso la milza e il cuore, fino al cranio. Era una nota misteriosa, simile alla corda che si spezza in The Cherry Orchard. Come quella, sembrava preannunciare una sciagura, una spaventosa e irreversibile crudeltà compiuta dal destino. Rachaela scacciò via quella sensazione così sinistra che si era impossessata per un istante di lei. Rientrò in casa, attraversò di corsa le sale e il grande ingresso e salì a precipizio le scale. Sul pianerottolo si fermò nuovamente. Come poco prima, si poteva sentire solo il silenzio della casa, fatto di mille infinitesimali rumori. Andò subito alla porta della sua camera, l'aprì, e si accorse che Ruth non c'era più. Era scappata. C'era solo un posto dove Ruth sarebbe potuta andare. Nella torre. Da Adamus. Non aveva contato nulla, per lei, il suo rifiuto, la sua violenza. Erano irrilevanti. Quello che contava era solo rivederlo. Rachaela cercò di controllare il suo cuore, che aveva cominciato a pulsare come impazzito. Era terrorizzata. Ruth poteva essere con lui, in quello stesso momento. Cosa poteva accadere, fra loro? Se prima era corsa alla sua camera ora volò verso la torre, attraversò il passaggio, scese a precipizio le scale. E se la porta della torre fosse stata chiusa? Forse avrebbe trovato Ruth che attendeva in fondo alla scala. Ma Ruth non c'era. E la porta era accostata. Rachaela entrò nella torre. La camera di sopra era illuminata. Cominciò a salire le scale molto lentamente, come se portasse un macigno sulle spal-
le. Si avvicinò alla porta e guardò dentro. Ruth era accoccolata al centro della camera, accanto a un tavolo sul quale era appoggiato un candeliere che pareva essere stato messo lì apposta per illuminare il suo volto di una luce spettrale. Ruth era pressoché immobile, la mani raccolte sotto il mento, i lunghi capelli neri che ricadevano sul pavimento. Non si girò a guardare Rachaela sulla soglia. Tutta la sua attenzione era concentrata su qualcos'altro. Da un gancio fissato alle travi del soffitto sopra il pianoforte pendeva qualcosa, dondolando lentamente avanti e indietro. Sembrava non avere forma, tuttavia ad ogni movimento si intravvedeva una forma pallida, una specie di volto, irriconoscibile, che penzolava da una corda nera. I suoi piedi avevano schiacciato la tastiera del pianoforte quando lo sgabello era stato spinto via. Era stato quello il suono stridente udito da Rachaela in giardino poco prima. Penzolava informe, come una specie di bozzolo, oscillando sempre più lento e rigido. Ruth si scosse e si alzò in piedi. «E morto?» chiese con una strana voce in falsetto. Rachaela cercò di parlare, ma dalla bocca non le uscì una sola parola. «Penso che sia morto,» disse Ruth. Le sfuggì un singhiozzo, e si coprì la bocca, spaventata. Rachaela cercò di andarle incontro, ma le sue gambe si rifiutavano di muoversi. «Adam,» disse Ruth. Afferrò il candeliere e si avvicinò a quel corpo penzolante, che si muoveva come un pendolo. Alzò il candeliere per vedere meglio. E fu allora che cominciò a gridare, un grido lungo e continuo, fatto di tanti piccoli gemiti acutissimi che perforavano come spilli il cervello di Rachaela. Doveva fare in modo che Ruth smettesse. Doveva fermarla. Fece qualche passo avanti verso di lei quando improvvisamente Ruth alzò il candeliere e lo accostò all'impiccato, che prese fuoco subito, in mille piccoli rivoli di luce, come resuscitato dal fuoco. «No!» gridò Rachaela, sentendosi soffocare. Ruth si voltò verso di lei e il suo volto era tornato quello di un demonio. «Noi bruciamo i nostri morti,» disse Ruth. E cominciò a gettare le candele per la stanza, in tutte le direzioni, come fiori infuocati. Le tende si trasformarono subito in cortine di fuoco, e anche le sedie di fronte al camino cominciarono a bruciare. Ruth aveva ancora una candela in mano. Si lanciò contro Rachaela, che si rannicchiò, impaurita, cercando di scansarla. Ruth le passò davanti, la candela accesa stretta in mano, e ap-
piccò il fuoco contro la porta e le pareti dell'ingresso, che si incendiarono all'istante. Rachaela si ritrovò circondata da una cortina di fuoco. L'intera casa stava bruciando. Era come se bruciasse una foresta. Tutte le sue strutture si sgretolarono con la massima rapidità, mentre i topi fuggivano per salvarsi. I soffitti crollarono con un tonfo fragoroso. Tutti gli oggetti di legno si incendiavano e crollavano, andando in frantumi come cristalli. Ovunque c'era una spaventosa luce, soffocante, più forte di quella del sole. Rachaela scese di corsa una scala in fiamme, circondata da alte pareti di fuoco. Non sapeva più in quale punto della casa si trovasse, aveva completamente perso l'orientamento. Aveva il fuoco che correva alle sue spalle, e la spingeva via. E il fuoco era Ruth. Era necessario fermare Ruth. Ma non era più possibile, ormai. Tutte le stanze stavano bruciando. Il fuoco si estendeva con grande rapidità in tutta la casa, vecchia, asciutta e polverosa come una mummia; le vecchie tende alle finestre si trasformavano all'istante in pergole di fuoco, le tavole di legno dei pavimenti schioccavano come pigne. Era quello il passaggio? C'era una grande finestra, la sua impiombatura si scioglieva al terribile calore. Una fenditura si aprì e si allargò sopra i pannelli di vetro, infiammandoli di una luce verdastra. Rachaela scappò via. Il fuoco le scottava le braccia, si rovesciava in cascate di braci sui suoi capelli, Rachaela riuscì a spazzarle via e continuò a correre. Finalmente sbucò fuori dalla fornace e si ritrovò sul pianerottolo. Riuscì a riconoscerlo nononstante il fuoco avesse già lambito le balaustrate di legno della scala; in basso, la ninfa bruciava come una torcia: la sua lampada, sempre spenta, era stata riaccesa dal fuoco. Rachaela si voltò, si guardò intorno, non era più lei, era terrorizzata. Scese le scale, calpestando la passatoia, punteggiata da mille piccoli fuochi sfrigolanti, e raggiunse il pavimento a scacchi dell'ingresso, che era diventato un immenso specchio sul quale si rifletteva il disastro come in un lago, un lago di fuoco. Anche il salone era in fiamme, l'arcata d'ingresso era circondata da una corona di fuoco e qualcosa ardeva all'interno con grandi sibili e sbuffi. Vide gli Scarabae seduti a tavola in sala da pranzo, il fuoco aveva raggiunto i loro piatti, li divorava uno dopo l'altro, i loro vestiti bruciavano intorno ai loro corpi, e li facevano apparire come figure di affreschi medievali in cui erano rappresentati i morti che attendevano di essere divorati
dalle fiamme dell'inferno. Rachaela gridò per l'orrore, attraversò il lago di fuoco del pavimento, oltrepassò la prima e la seconda porta del corridoio d'ingresso e si ritrovò fuori, nella notte. Si gettò fra gli alberi del giardino. Si sentiva il corpo ricoperto di vesciche e i capelli che ancora bruciavano; riuscì a soffocare il fuoco. Aveva le mani ustionate, le gambe straziate dal fuoco. Tossì e scoppiò a piangere, anche le sue lacrime erano nere di fuliggine. Vide zio Camillo che cavalcava il suo cavalluccio a dondolo in mezzo alle fiamme, agitando follemente la sua spada, mentre il fuoco lo divorava. Vide gli altri sorpresi dal fuoco dentro i loro letti, che bruciavano come fogli di carta. Rachaela si inginocchiò fra le querce, accecata dal fumo e dalle sue stesse lacrime, mentre di fronte a lei la casa bruciava come in un incredibile spettacolo da circo, circondata da una corona incandescente di luce. Migliaia e migliaia di topi uscivano come un fiume di inchiostro dal terribile pozzo di fuoco che era diventata la casa, cercando rifugio nell'oscurità della notte. La casa crollò definitivamente alle tre del mattino circa, e fece come un falò di ciocchi in un camino. La parte centrale cedette e crollò rovinosamente, mentre i soffitti si accartocciarono e precipitarono verso il basso in un nuvolone di fumo e di scintille, e le finestre esplosero come fuochi artificiali. A quell'ora gli Scarabae sopravvissuti si erano già riuniti all'aperto, sulla brughiera. Rachaela, da lontano, li contò. Erano Miriam e Sasha, Miranda ed Eric, Michael e Cheta. Nessun altro era uscito dalla gigantesca pira. A parte Ruth, naturalmente. Ma Ruth era uscita e se n'era andata già molto prima di loro, lasciandosi inghiottire dall'oscurità della notte, come un folletto. Senza più candele accese in mano, dal momento che il suo compito era ormai concluso. Era volata via lontano, verso il cuore della brughiera, verso la terra dei draghi, ed era sparita. Ma cosa poteva fare in quel posto selvaggio quella bambina-demonio, senza vie e negozi da guardare, senza potere andare da Woolworth's o a visitare il cimitero? Rachaela, seduta sull'erba, la schiena contro un albero, poteva solo guardare, fare da testimone, proprio come stava facendo ora con gli Scarabae. Il suo corpo era un miscuglio confuso di dolori e di ferite, tuttavia Ra-
chaela non piangeva solo per essi ma anche per gli Scarabae che invece si limitavano semplicemente a guardare la loro casa che finiva di bruciare e di crollare, riuniti in un piccolo gruppo, con la metà dei loro abiti distrutta dal fuoco, come se nel tempo avessero già assistito a ben altri incendi e a ben altri crolli. Rachaela, esausta, li ignorò. Non gliene importava più nulla. Stretto intorno al polso, il suo orologio ticchettava. L'oscurità incombeva ancora sulla brughiera, ma nel giro di un'ora sarebbe arrivata l'alba, e il sole si sarebbe levato. E poi? FINE