PATRICIA HIGHSMITH CATASTROFI PIÙ O MENO NATURALI (Tales Of Natural And Unnatural Catastrophes, 1987) Dedicato, e non co...
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PATRICIA HIGHSMITH CATASTROFI PIÙ O MENO NATURALI (Tales Of Natural And Unnatural Catastrophes, 1987) Dedicato, e non con ammirazione, a un interrogativo mai risolto: chi ha ucciso Alex Odeh, funzionario del Comitato americano-arabo contro la discriminazione, l'11 ottobre 1985 a Santa Ana, California? INDICE 1. Dolce libertà! E un picnic sul prato della Casa Bianca 2. Moby Dick II, o la balena missile 3. Il cimitero misterioso 4. Operazione Balsamo, o Noli-me-tangere 5. Nabuti: calorosa accoglienza al Comitato ONU per gli aiuti africani 6. Guai grossi alle Torri di Giada 7. Utero-a-noleggio contro i Grandi Giusti 8. Nessuna fine in vista 9. Sisto VI, il papa della Pantofola Rossa 10. Il presidente Buck Jones scende in campo e sventola la bandiera 1 DOLCE LIBERTÀ! E UN PICNIC SUL PRATO DELLA CASA BIANCA Ci si imbatte in loro dovunque, a New York, a Chicago e a Filadelfia, e loro si imbattono in noi. Vengono chiamati «strambi» quando i cittadini sono disposti alla tolleranza, e «parassiti» in caso contrario. Sono pazzi, lievemente o totalmente, spesso declamano versi alle stelle, o chiacchierano con qualcuno che non esiste. Nessuno sa come comportarsi con loro. «Sono tanti!» dice la gente disperata. Oppure: «Ma perché devono venire a New York?» o anche a Chicago, o dovunque. Sono sia femmine che maschi e qualche volta è difficile stabilirlo, perché quello che indossano è un soprabito, scarpe piatte o stivali logori, un vecchio cappello di feltro o un berretto di lana calato sulla
fronte, e non si curano del taglio dei capelli. Tendono a gravitare nell'area delle grandi città perché lì possono mantenere l'anonimato, non danno nell'occhio come foruncoli infiammati, ma possono dormire nei vani degli ingressi, scendere nella metropolitana e vivere per qualche giorno nei sottopassaggi, o d'inverno trovare sul marciapiede una griglia da cui provenga il calore del riscaldamento e recintarla per difenderla da aspiranti usurpatoli e coabitanti, intrecciando un filo spinato tutt'attorno alla griglia, lasciando solo lo spazio necessario perché una persona ci possa dormire. Nelle grandi città vi sono anche dormitori che costano da uno a tre dollari per notte, ma bisogna stare attenti al ladro che ti dorme accanto. Da dove vengono? Molti dagli istituti psichiatrici di stato, rilasciati con la raccomandazione di recarsi alla più vicina farmacia a procurarsi le pillole necessarie. «Non le costerà nulla, ma non perda la ricetta e l'indirizzo della farmacia.» Molte di queste persone sono troppo fuori fase per attenersi a qualsiasi istruzione, o per ricordarsi che dovrebbero prendere le pillole una volta al giorno o alla settimana. Non importa, gli istituti sovraffollati se ne liberano. Inoltre, alcuni di questi esseri simili a zombi sono individui cacciati da famiglie normali. Per esempio, la vecchia zia Fran, che non riusciva ad andare d'accordo con nessuno perché sospettava e continuava ad accusare tutti di cospirare contro di lei, vide confermata la sua convinzione quando la sua stessa famiglia la buttò fuori; oppure il cugino Ben, uno scapolo incline ad alzare il gomito, abitudine che gli costò il posto di lavoro e che ora girovagava per le strade di New York, ridotto a bere vino da quattro soldi invece dello scotch, di cui era un raffinato intenditore. Aline Schroeder, uscendo dalla porta della cucina per stendere sulla corda il bucato, fu sorpresa di vedere due strani individui nel suo giardino, apparentemente intenti a guardare le rose. Dopo aver posato a terra la cesta, si stava avvicinando loro per domandare che cosa volessero, quando si voltarono verso di lei, e allora gridò. «Eddie, Eddie! Scendi!» e corse verso casa. Aline Schroeder riconosceva i malati di mente, quando li vedeva. Era un giovedì mattina in una cittadina dell'Ohio. Eddie Schroeder, dato che non riusciva a cavare nessuna informazione dai due uomini in evidente stato confusionale, se non che uno voleva andare a Chicago e l'altro a New York, li tenne d'occhio, mentre chiedeva alla moglie di telefonare alla polizia. «Sono scappati dal manicomio,» le mormorò Eddie. «Non voglio occu-
parmi di loro. Non è affar nostro.» «Si pensava che sarebbero andati alla fermata dell'autobus,» dissero quelli della polizia quando arrivarono. «Brookfield ne ha mandati a casa un centinaio o giù di lì, oggi. Questi due devono essersi persi.» La polizia caricò gli uomini in macchina senza difficoltà, con la promessa di portarli al capolinea dell'autobus. Aline Schroeder era rimasta senza parole per lo choc e Eddie era corrucciato. «Portali fuori di qui, accidenti, Sam,» disse Eddie a un agente che conosceva. «Lo faremo, ma abbiamo ricevuto ordini tassativi di trattarli bene,» rispose il poliziotto. Aline Schroeder andò in cucina a farsi una tazza di tè. La storia girò in città, naturalmente. E, malgrado gli sforzi della polizia, gli abitanti di Temple non erano però convinti che gli agenti li avessero portati tutti fuori città, quell'indimenticabile giovedì. Specialmente perché da allora furono dimessi ufficialmente altri degenti, e tuttavia il vecchio edificio del Brookfield Center all'estremità della città era ancora sovraffollato. Il Brookfield Center è il tipico esempio di molti istituti a conduzione statale o semistatale degli Stati Uniti. Non è interamente occupato da malati di mente, perché accoglie anche gli anziani le cui famiglie non hanno denaro per sistemarli in case di riposo più costose, e anche convalescenti provenienti da ospedali di stato. Nondimeno, a Temple, Ohio, Brookfield era sempre stato noto come un «manicomio». Era comunemente risaputo che alcune stanze avessero pareti imbottite e finestre con le sbarre. Dall'esterno, si potevano vedere queste finestre. Gli abitanti di Temple fra i cinquanta e i sessant'anni potevano ricordare che, quando erano bambini, erano passati davanti a Brookfield in auto con i loro genitori e avevano guardato le finestre, sperando di scorgere la faccia di qualche «ricoverato», anche se contemporaneamente provavano un certo spavento, perché anche allora quella era la «casa dei matti». I genitori scoraggiavano la curiosità dei figli rammentando che i ricoverati erano tutta gente pericolosa, anche se andava compatita. Ma una cosa era certa, dovevano essere tenuti sotto chiave. A causa del sovraffollamento di questi istituti, da Washington fu emanata una disposizione alla fine degli anni sessanta, poi ripetuta negli anni settanta, di dimettere i pazienti che non fossero ritenuti violenti. Questo provvedimento giunse come una liberazione per il provato personale di Broo-
kfield e di molti altri posti analoghi nel paese. Lo stesso messaggio fu indirizzato alle prigioni, e lo slogan fu «risparmiare ed essere più umani», il che voleva dire che il paese, in tal modo, poteva risparmiare denaro e contemporaneamente rendere più felice la vita di gente che non era necessario emarginare. Quando ricevettero le «Norme riguardanti gli istituti medici e psichiatrici federali e di stato», al dottor Nelson e alla sua capoinfermiera vennero in mente il dieci per cento dei pazienti del Brookfield Center, facce che conoscevano bene, come pure conoscevano molti dei loro nomi. «Louis Jones,» disse la capoinfermiera Sweeney. «Dio sa che è innocuo. Ora prende da solo i suoi sedativi.» E la donna fece, dopo mesi, il suo primo sorriso. «Sì, sì,» rispose il dottor Nelson, pensando che, dopo dieci anni di sedativi, Louis Jones era l'innocenza in persona. Louis era solo confuso, un po' addormentato. «E forse anche la signorina Tiller.» «Sì, e forse anche i gemelli Kelly. E Bert! E Claude! Dovremo fare una lista. Poi guarderemo i nostri registri e ne aggiungeremo ancora un po'.» Fecero una lista. La signorina Tiller andava benissimo, se non per il fatto che pensava di essere Cleopatra, ma non aveva un parente nel Massachusetts con cui avrebbe potuto stare, almeno all'inizio? Tutto bene anche per quanto riguardava Bert, che era la quintessenza della cortesia. E, naturalmente, Brookfield avrebbe fatto in modo di tenersi in contatto con tutta questa gente. Che sollievo sarebbe stato avere un po' di respiro a Brookfield! Quando il dottor Nelson e la capoinfermiera Sweeney diedero la notizia quella sera nel refettorio, durante la cena, con l'altoparlante, quasi nessuno capì, come del resto ci si aspettava. «Qualcuno di voi se ne andrà presto, se lo vuole. E quando e se questo converrà a tutti gli interessati.» La capoinfermiera Sweeney disse tutto questo sorridendo. Cinque o sei robusti inservienti stavano come sempre in piedi tutt'attorno alle pareti del refettorio, con le mani libere, in caso di guai. Solo poche teste si sollevarono dalla scodella della minestra per guardare. La signorina Tiller, che sicuramente avrebbe replicato, come faceva per qualsiasi annuncio o istruzione impartiti a Brookfield, non era presente, perché insisteva che i pasti le fossero serviti in camera, dove ignorava le altre tre donne che dividevano con lei la stanza, se non per dar loro ordini che quelle, a loro volta, ignoravano.
«Niente di cui preoccuparsi!» proseguì in tono gaio la capoinfermiera Sweeney. «Proprio il contrario! Perciò, questa dovrebbe essere una cena particolarmente felice!» «Chi parte?» chiese una voce stridula. «Partire per dove?» domandò una donna. «Dove? Chi?... Dove?» Tuttavia, più della metà dei commensali lì riuniti poteva non avere udito l'annuncio. Il personale del Brookfield Center aveva deciso che era meglio anticipare la notizia in questo modo, facendo sì che penetrasse nei cervelli di alcuni, piuttosto che rischiare che altri meno innocui se la squagliassero; desideravano anche impedire ai «dimessi» di sentirsi improvvisamente buttati fuori. Il personale aveva previsto che qualcuno forse avrebbe opposto resistenza alla dimissione, mentre altri, inadatti a essere rimessi in libertà, potevano volerlo. Questo era più o meno il quadro quando la capoinfermiera Sweeney, un'infermiera più giovane e un paio di inservienti maschi si accinsero a dare ragguagli ai singoli e ad aiutarli a fare i bagagli. La Sweeney era convinta che qualcuno all'improvviso avrebbe finto di essere incapace o confuso o altro, perché Brookfield era stato forse troppo a lungo un nido comodo. Le ritornò la solita grinta e a più di uno disse: «Se ne andrà, che le piaccia o no, perché c'è un sacco di gente che ha più bisogno di lei di questa camera!» La signorina Gloria Tiller affermò di essere «proprio soddisfatta» alla prospettiva di lasciare quel palazzo strano e maltenuto e disse che aspettava la sua «triremi» alla porta per l'indomani mattina. Nel frattempo, nelle prigioni accadevano le stesse cose. Dal Maine alla California i tipi tranquilli, i tipi svegli, spesso gioviali, stupratori ormai anziani, rimasti per decenni in gattabuia, numerosi ladruncoli, sporadici rapinatori, assassini dall'aria tranquilla e dal basso quoziente d'intelligenza, che avevano trascorso gli ultimi anni imparando a risuolare le scarpe e a fare l'idraulico, migliaia di questi tipi furono messi in libertà. Presero degli autobus, fecero l'autostop, alcuni avevano amici o parenti che spedirono loro telegraficamente i soldi per un biglietto aereo, molti, più semplicemente, si avviarono a piedi. A tutti furono dati fra i cinquanta e i cento dollari in contanti, a seconda delle possibilità dello stato, per metterli in condizione di raggiungere le famiglie o altre destinazioni. Un uomo di cinquant'anni silenzioso e di aspetto piacevole, che era stato in prigione gli ultimi tredici anni come «recidivo per stupro», vide materia-
lizzarsi le sue fantasie sessuali appena dieci minuti dopo aver lasciato l'istituto penale dell'Illinois. Una ragazza con un vivace abito estivo stava venendo in bicicletta verso di lui, pedalando in scioltezza lungo la strada assolata alla cui estremità l'uomo appena rilasciato, un certo Fred Wechsler, stava tentando di procurarsi un mezzo per qualche direzione. Fred non esitò. Si gettò davanti alla bicicletta, che si rovesciò su di lui, sbalzandone via la ragazza e appagò il suo desiderio in un fossato a portata di mano. Il suo sogno era diventato realtà! La libertà significava il Paradiso, di nuovo il Paradiso! Fred si arrampicò fuori dal fosso e proseguì, dopo essersi ricordato di prendere la sacca con tutte le sue ricchezze. Subito ottenne un passaggio verso sud. La ragazza era rimasta tramortita nel fosso in seguito alla caduta, ma quando rinvenne, si rese conto di quanto le era capitato e riferì alla polizia della sua cittadina l'incidente. A Raleigh, Carolina del Nord, dei ladri specialisti in furti di macchine, che in prigione non si erano mai incontrati, fecero conoscenza in un bar vicino al penitenziario dal quale erano appena stati rilasciati e decisero di unire il loro talento. Ma per molti dei malati di mente la libertà provocò uno stato confusionale, ed essi non sapevano dove andare. Cominciarono a giungere ai giornali e alle stazioni radio delle lettere da parte della gente. Dei «pezzi» sui giornali diedero credito alla preoccupazione generale. Un uomo, che aveva subito una bancarotta e a causa del successivo esaurimento nervoso aveva perso la facoltà di intendere e di volere, tornò alla direzione generale della sua vecchia società, che pur conservando ancora lo stesso nome ora era in altre mani, e insistette che lui era ancora il «capo» e che quei truffatori dovevano andarsene. Ingaggiò una vera battaglia e, quando fu fatto il tentativo di cacciarlo, afferrò la scure antincendio, uccise una donna e ferì due uomini prima che riuscissero a immobilizzarlo. In un altro caso, una donna divorziata tornò nella sua vecchia casa, dove il suo ex marito viveva con la nuova moglie e la nuova famiglia, e si rifiutò di andarsene; fu necessario l'intervento delle autorità e la donna dovette essere portata via con la forza, lasciando la famiglia in uno stato di choc. La signorina Tiller, alias Cleopatra, aveva rifiutato di prendere l'autobus predisposto dal Brookfield Center, preferendo attendere la sua «triremi», che cercava ansiosamente con lo sguardo lungo l'autostrada. Fu raggiunta da un uomo gentile di bassa statura, i cui gesti mostravano che desiderava esserle d'aiuto, e la signorina Tiller gli mise in mano una borsa a rete, con-
tenente la camicia da notte, due abiti lunghi e il necessario da trucco. Fece un segno a un'enorme forma scura che veniva verso di loro sull'autostrada, e tale fu la sua decisione che la forma scura si fermò. Era un camion a diciotto ruote, due uomini erano seduti dentro la cabina del guidatore, e uno ne scese. La signorina Tiller e l'ometto servizievole vi salirono. «Dove siete diretti?» chiese l'autista. «Ad Alessandria,» rispose la signorina Tiller. «Intendete... che stato intendete? Virginia?» «Che stato? L'Egitto!» esclamò la signorina Tiller. Bert annuì. «Non scherzate!» disse l'autista, sinceramente sorpreso. «Vorrete andare all'aeroporto, allora. Forse Cleveland.» L'uomo accanto all'autista aveva cominciato a sorridere. «State andando nella direzione sbagliata, per l'aeroporto.» La signorina Tiller volse il viso minuto e piuttosto fine verso di lui e disse: «Andrò per nave, grazie.» L'autista rise e cominciò ad avviare il camion. «Nave! Magari sul canale?» Attraversarono la cittadina di Temple, dove la signorina Tiller affermò che non voleva esser sbarcata, ma si eccitò alla vista della città successiva che era molto più grande e disse all'autista di farla scendere pure, in qualsiasi punto. Era la presenza di tanta gente a eccitarla. Bert scese con lei. La signorina Tiller si alzò in punta di piedi e annusò l'aria come un cane da caccia. «Questa mi piace di più!» Bert si tirò il davanti della camicia, retaggio di Brookfield, come se lo disgustasse, e lanciò un'occhiata alla signorina Tiller. «I vestiti!» esclamò la donna, sapendo che Bert non la udiva, perché si era ormai accorta che era sordomuto. Il primo grande magazzino in cui entrarono non aveva dei vestiti di loro gusto, e Bert segnalò con delle boccacce che riteneva i prezzi esagerati, mentre la signorina Tiller informava una commessa che non intendeva accettare nessun articolo in regalo. In un'altra strada incapparono in un negozio di rigattiere nelle cui vetrine erano esposti ogni sorta d'indumenti. Bert comprò subito una bombetta nera, dei pantaloni, un paio di grosse scarpe comode, una giacca, il tutto al prezzo, sì e no, di venti dollari e acquistò anche un bastone per cinquanta centesimi. La signorina Tiller impiegò più
tempo per le sue compere, ma trovò ciò che voleva, un vestito lungo color porpora con lustrini dorati e uno spacco tremendo dietro, sfortunatamente, ma lei era così sottile che la stoffa si sovrapponeva e, con una larga cintura rossa di coccodrillo, lo spacco non si vedeva. Comprò anche sandali col tacco alto, piacevoli da portare dopo le insignificanti scarpe con i mezzi tacchi di Brookfield, e un grande borsellino piatto in cui mise il denaro, il trucco e il pettine. «Pagherà il mio servo,» disse la donna, mentre si apprestava a infilare la porta. Fu fermata. Bert pagò cavalierescamente per tutti e due, dopodiché la signorina Tiller affidò tutto il suo denaro, che ammontava a ottanta dollari, a Bert. «I reali non portano mai denaro,» affermò la signorina. Andarono alla ricerca di una trattoria e furono attratti da un ristorante con l'insegna dorata, da cui proveniva un'allegra musichetta. Molte teste si girarono quando i due entrarono, poiché al momento la donna portava un diadema di strass. «Ehi, chi è quella?» chiese un uomo. «Guarda, è Charlie Chaplin!» gridò un ragazzo. «Cleopatra, regina d'Egitto,» rispose la signorina Tiller, quando due operai in tuta le chiesero chi fosse. Nel frattempo, Bert fece qualche giravolta a tempo di musica, il cui ritmo riusciva ad afferrare dalle vibrazioni del pavimento sui suoi timpani, danzando attorno al suo bastone e sorridendo alla gente nei separé e sugli sgabelli. La signorina Tiller, in seguito a una sua richiesta, gli aveva prestato del mascara nero, con cui si era fatto baffi e sopracciglia arcuate. La gente guardava e applaudiva. Anche le cameriere erano affascinate. «Sapete ballare? Fateci un ballo!» disse qualcuno. Il juke-box stava suonando un valzer. Bert allungò la mano con grazia, e la signorina Tiller posò l'hamburger. Bert non dovette pagare il conto in quel ristorante, e a dire la verità aveva raccolto quattordici dollari, se non di più, dal pavimento, in biglietti di banca e monete, quando si allontanarono, applauditissimi. «Voi due, tornate a trovarci!» disse una cameriera. Due giorni dopo essere stato rilasciato dalla prigione, l'uomo a cui piacevano le ragazze in bicicletta ne aveva violentate altre cinque, e ora era in un altro stato. Si era comprato un cambio di abiti con il denaro della scarcerazione e ne spese un po' per il cibo, niente invece per trasporto e alloggio, poiché il tempo era mite. Otteneva facilmente passaggi lungo le auto-
strade e non si preoccupava affatto della direzione in cui andava. LO STUPRATORE DI RAGAZZE IN BICICLETTA COLPISCE LA NONA VITTIMA! annunciava un titolo di prima pagina nel periodo in cui Fred Wechsler andò in Oklahoma. La popolazione sapeva com'era d'aspetto dalle descrizioni delle vittime: sui cinquant'anni, alto un metro e settanta circa, con capelli castano chiaro tendenti al grigio, ben rasato, occhi grigi o azzurro chiaro, corporatura media. Il guaio era che parecchi milioni di uomini corrispondevano a questa descrizione. Si verificarono diverse situazioni choccanti sulla costa occidentale, dove prigioni e case di cura per malati di mente si erano svuotate di tutti i loro «ospiti» che avevano ottenuto certificati di buona condotta. Il clima era mite, e i terreni adibiti a parcheggio e i viali su cui si affacciavano i negozi ora erano popolati di figure dormienti, di gruppi che giocavano a carte al lume di una candela o di una torcia elettrica, mentre qualcuno cantava e beveva vino. I ragazzi si divertivano a molestarli, e si liberarono di almeno tre di loro gettandoli oltre una scogliera verso il Pacifico. In qualche zona gli abitanti cominciarono a starsene a casa dopo il tramonto, non volendo rischiare di distruggere la propria auto o di recar danno a se stessi investendo qualcuno che dormiva sulla strada, o di essere abbordato da qualche mendicante o, peggio, scippato. Bar e discoteche, i cinema e perfino i ristoranti, cominciarono a perdere denaro e di conseguenza dovettero dipendere dai Troll-Bashers, come amavano chiamarsi i ragazzi che ripulivano i quartieri. Questi ragazzi allontanavano con la forza molte persone dalle strade, le portavano con carri e furgoni oltre i confini della città e le scaricavano lì. Vi furono delle recriminazioni nei confronti del governo, nonché all'indirizzo di prigioni e manicomi. Fu guerra tra governo e organi di informazione, poiché da un lato il governo tentava di minimizzare la gravità del problema («Molta gente preferisce dormire all'aperto,» affermò il presidente) e, gli organi di informazione volevano avere in mano tutti i fatti e mostrare alla TV interessanti fotografie. Alcuni tipici articoli di giornale e televisione furono: TENORE SCONOSCIUTO OCCUPA IL PALCOSCENICO AL METROPOLITAN
«Un uomo si è precipitato sul palcoscenico durante la rappresentazione della Tosca di Puccini, venerdì sera, ha spinto da parte Mario e ha assunto abbastanza bene il ruolo del protagonista in un duetto con la primadonna, che era in comprensibile imbarazzo su come comportarsi. Le risate hanno lasciato il posto allo stupore per la qualità dell'esecuzione da parte dell'intruso. È stato identificato come George Jennings di ventisei anni, ex ricoverato di un ospedale della Carolina del Nord.» e «Dei clienti si sono stupiti, vedendo un uomo anziano e grassoccio seduto sul marciapiede fuori di un grande magazzino, vestito solo di una tovaglia legata attorno come un pannolino da bebè. Con linguaggio infantile, sosteneva di essere stato abbandonato dalla mamma...» Poi vi furono storie di gente che camminava a quattro zampe e, mentre alcuni lettori scrivevano lettere che accusavano i giornalisti di inventarsi queste storie, altri spedivano fotografie di individui che si aggiravano in questo modo per le città. Una donna del Kansas scrisse una lettera aperta al presidente, che fu stampata dal giornale della sua città: «Negli ultimi sei mesi sono stata perseguitata da un uomo che crede che la mia casa sia quella della sua infanzia e che io sia una certa parente che gliel'ha usurpata. Sono disgustata e stufa di trovare questo omaccione che dorme appoggiato alla mia porta d'ingresso, quando la apro per prendere il giornale del mattino. La polizia l'ha allontanato due volte, ma entro pochi giorni, rieccolo. Vi prego di rimettere quest'uomo e la gente come lui nel posto che compete loro!» Lo stupratore di ragazze in bicicletta aveva anche lui acquistato una bici e andò nel Mississippi, e poi in Louisiana, dove il tempo era ancora mite. La sua salute era migliorata e riusciva a raccogliere denaro qua e là facendo dei lavoretti, come falciare i prati e pulire i cortili, lavori per i quali richiedeva un prezzo così basso che poca gente glieli rifiutò. Faceva buona impressione. Neppure un'anima sospettò che fosse lui il violentatore ricercato da un capo all'altro del paese. Una ragazza carina vista nell'ambito
familiare non lo eccitava affatto. Lo stimolava solo una ragazza che pedalasse su una bicicletta, e per sua fortuna visioni del genere gli erano apparse finora solo su strade lontane dalle case e dalla gente. Al momento non era in grado di contare le sue conquiste e non gli interessava farlo, ma lo facevano la polizia e i giornali, e il conto era di ventotto. I poliziotti seguivano le sue tracce verso sud e una volta giunsero a meno di venti miglia da lui, ma in quel momento cercavano un uomo in bicicletta, mentre Fred Wechsler, che non leggeva i giornali, si era comprato un'auto di seconda mano proprio nello stesso periodo. Molti anni addietro, prima di essere mandato in prigione, aveva guidato la macchina, e il venditore non gli aveva chiesto di vedere la sua patente. «Una grave tragedia nazionale e sociale,» dichiarò la Società psichiatrica americana, commentando l'abitudine di dimettere dagli istituti di stato gente ancora malata di mente. «A malapena solo una piccola parte del paese si è sottratta all'onnipresenza di questi esseri umani malati e allucinanti che vagano per le strade della nostra città, che si ammucchiano nei vicoli, dormono in ogni buco. Questo è il risultato della vergognosa politica di Washington sui tagli delle spese federali...» Il presidente rispose che la maggioranza degli uomini dimessi aveva dei parenti, che la carità comincia in casa propria, e che gli americani avevano la tradizione di offrire volontariamente assistenza ai malati e ai senzatetto. «In America la gente può farlo, se ci prova. Questa è l'America.» Tali parole divennero famose come il discorso «della scodella di minestra». Una donna scrisse una lettera che fu pubblicata da Time: I legislatori e gli addetti alla distribuzione dei fondi federali, nei loro lussuosi appartamenti di Washington, non vedono quello che vediamo noi nelle nostre strade e sulla soglia di casa nostra. Propongo che noi cittadini ci si riunisca tutti e si portino questi criminali e zombi alla Casa Bianca per mostrare di che cosa stiamo parlando. (Signora) Mary V. Benson Tallahassee, Florida Questa lettera doveva avere importanti ripercussioni. Fin dal primo giorno di libertà, la signorina Tiller e Bert non erano mai rimasti senza un tetto sopra la testa. La prima sera, pensando di concedersi per cena una bistecca, erano entrati in un ristorante al margine della strada che si chiamava Casa della Bistecca, dove, di fianco al bar, c'era un piani-
sta. I commensali potevano chiedere al pianista canzoni a loro scelta. La signorina Tiller trovò la cosa molto carina. Bert fischiò un motivo al pianista, che subito cominciò a suonare Who Will Come and Buy My Violets?, una canzone dalla colonna sonora di uno dei film più famosi di Charlie Chaplin. Vedendo Bert nella sua tenuta da Chaplin, la gente ai tavoli fece uno scroscio di applausi, e vi furono grida di «Balla per noi! Facci un valzer!» La signorina Tiller passò la richiesta a Bert spalancando le braccia, e danzando lei stessa un valzer, mentre Bert piroettava con grazia su un piede solo e allungava l'altro sollevandolo dietro di sé. Si appoggiava al bastoncino con aria pensosa, accennava a qualche timido passo di valzer con la signorina Tiller, che era più alta di lui, inventava le figure della danza man mano, mentre la signorina Tiller gli sembrava difficile da seguire in tutti i sensi. «Ancora! Ancora!» Il pianista cominciò un altro valzer dei vecchi tempi, All Alone di Irving Berlin, e Bert e la sua compagna guadagnarono la pista da ballo, mentre un cono di luce li illuminava, e la loro esibizione provocò grida di gioia. La signorina Tiller danzò e cantò, fingendo di avere un telefono fra le mani. Sopra il piano c'era un piattino per raccogliere eventuali offerte in denaro, ma per Bert e per la signorina Tiller i clienti andarono loro vicino per ficcare delle banconote nelle tasche della giacca di lui o nella borsetta di lei, che le pendeva, legata con un nastro, dal braccio, e che la donna apriva con grazia. Altri fecero volare le banconote piegate come aeroplani sulla pista da ballo, e ogni tanto Bert le sollevava col bastone o si chinava per raccoglierle, e una volta la signorina Tiller lo urtò e lo fece cadere sul pavimento lungo disteso. Quando tornarono al tavolo, il direttore parlò con loro, o meglio parlò con la signorina Tiller, chiedendole se consentivano di tornare per le prossime due sere, venerdì e sabato, e se la signorina Tiller avrebbe cantato ancora. Rispose di sì, certo. Sarebbero stati spettacoli di mezz'ora, alle nove e alle undici e mezzo di sera, cento dollari per sera, in più, quello che offrivano i clienti, incluse le spese d'albergo. Il direttore possedeva un albergo a circa cinquanta metri da lì. La signorina Tiller rispose che riteneva la proposta molto interessante. Bert li guardò attentamente per capire e diede il suo consenso. Il direttore restò un po' perplesso quando la signorina Tiller firmò un contratto ufficioso come «Cleopatra», ma non disse nulla. Non fu sorpreso, invece, quando
Bert si firmò Charlie Chaplin. La voce della signorina Tiller era un po' stridula sulle note alte, e a certe non riusciva ad arrivare del tutto, come qualcuna dell'aria della Zerbinetta di Strauss, per esempio, ma nessuno se ne preoccupò. Ora aveva la sua triremi. Si trattava di tre poltrone imbottite senza braccioli, su cui erano stesi un paio di lunghi drappi, un cameriere spingeva la «nave» sulla scena e lei fumava una sigaretta con un lungo bocchino. La signorina Tiller era evidentemente soddisfatta delle sue esibizioni e anche delle risate provocate dalle sue «stecche». Vi era un'atmosfera magica, gaia che si creava fra lei e Bert e fra loro due e il pubblico. Fra un numero e l'altro si consultavano a vicenda come dilettanti, prima di informare il pianista di che cosa dovesse suonare. Dopo ogni esibizione, la gente voleva stringer loro le mani, e il denaro cadeva come se piovesse. Il proprietario della Casa della Bistecca, il cui ristorante il sabato sera era pieno zeppo, non poté competere con i compensi offerti alla signorina Tiller e a Bert da un paio di impresari di San Francisco, perciò i due se ne andarono. La signora Mary V. Benson, con la sua lettera apparsa su Time, aveva toccato il tasto giusto. Sullo stesso giornale furono pubblicate molte altre lettere sull'argomento, e altre ne giunsero alla signora Benson a Tallahassee. Sì! Facciamogliela vedere a Washington! era il programma. Si organizzarono. Ci vollero settimane, ma la tradizione americana di volontariato, caldeggiata dal presidente, non venne meno per questa causa: raccogliere zombi, svitati, matti, esibizionisti e mandarli sul prato della Casa Bianca. Le compagnie di autobus, coinvolte nel problema, offrirono il trasporto gratuito. Washington, avendo sentore di quanto si stava preparando, decise di assumere un atteggiamento conciliante di «benvenuto a tutti i convenuti», promettendo un picnic e una tribuna all'aperto, dove la gente potesse scambiare opinioni, magari con il presidente stesso. Fu stabilito il giorno, il 17 aprile, un mercoledì. Treni, autobus e perfino linee aeree offrirono biglietti gratuiti, per la pubblicità di cui l'evento li avrebbe gratificati, e molta gente che possedeva un'auto si offrì di trasportare gli sbandati dalla città fino alla più vicina stazione di autobus o fino all'aeroporto. La Casa Bianca si era aspettata l'arrivo di qualche migliaio di persone, forse cinquemila, e intendeva schierare agenti in borghese, nonché la Guardia nazionale e la polizia, per mantenere l'ordine tra la folla. Ma Washington, con un preavviso di solo dodici ore, aveva saputo che probabilmente sarebbero arrivate dalle cinquantamila alle sessantamila
persone. Per peggiorare ancora le cose, pioveva. Dei tendoni furono tirati sopra lunghe tavole, colme di panini e bevande analcoliche, disposte sui prati della Casa Bianca, ma un paio di tende crollarono prima di mezzogiorno, provocando il panico fra gli uomini e le donne che vi erano rimasti avviluppati. Molti credevano di esser stati invitati ad andare ad abitare alla Casa Bianca, e si irritarono venendo a sapere che, dopo il lungo viaggio, tutto ciò che sarebbe stato loro offerto era del cibo freddo e del tè ghiacciato, fuori sotto la pioggia. Centinaia di persone cominciarono a spostarsi verso la Casa Bianca, dove dopotutto c'era il presidente, o no?, e quando le guardie si schierarono per respingerli, scoppiò una vera e propria battaglia, e cominciarono a volare pallottole di gomma e pallottole vere. La Guardia nazionale perse la calma e colpì qualche testa col calcio del fucile. Altri uomini armati si calarono per mezzo di scalette di corda dagli elicotteri, gettandosi direttamente sulla testa della folla. Nel frattempo, arrivò ancora altra gente con gli autobus e anche a piedi, a causa del traffico congestionato di automezzi e veicoli militari. «Lasciateci entrare nella nostra casa!» gridò qualcuno, e divenne uno slogan. Vi furono urla provenienti da voci femminili e maschili, mentre la gente veniva calpestata. Gli elicotteri e le sentinelle della Casa Bianca sganciarono bombe lacrimogene con lo scopo di sospingere la gente lontano dalla dimora presidenziale ma, a causa del vento, i gas colpirono anche i militari. Poi, le porte della Casa Bianca cedettero. Lo spettacolo fu visto in tutto il paese alla televisione, e gli spettatori gridavano: «Guarda! Bene!» oppure «Orribile!» o, semplicemente, si facevano grasse risate, a seconda dello stato d'animo. Il gas lacrimogeno, invisibile ma doloroso per gli occhi, sembrò che servisse solo a stimolare l'orda di popolo sui prati umidi. Dall'interno della residenza del presidente provenne il fuoco delle mitragliatrici. Un elicottero, mandato per conto di un notiziario televisivo, si scontrò con un elicottero militare, ed entrambi precipitarono sulla folla, senza però incendiarsi. «Benvenuti, benvenuti e calma, per favore!» ripeté almeno per la quarta volta la voce del presidente con un messaggio registrato che rimbombava dalla terrazza della Casa Bianca, dove c'erano solo soldati pronti a sparare. Il presidente, in quel momento, se ne stava nascosto in una stanza blindata nel seminterrato della residenza. La stanza era stata fatta proprio per un'emergenza del genere, con comandi interni per aprirla e cibo e acqua sufficienti per una settimana a due o tre persone. Era rimasto nascosto come u-
n'ape regina nel mezzo del suo alveare, ed era un alveare popolato di derelitti e squilibrati mentali, di gente semiaccecata dal gas lacrimogeno, che saliva e scendeva le belle scale, aprendo le porte di ogni camera. A dispetto delle pallottole che volavano e dei corpi che cadevano, i più entrarono a forza dall'ingresso principale. La Guardia nazionale e i marines, che avevano sparato all'impazzata tutte le munizioni, ebbero paura per la buona ragione che quelli erano in soprannumero, e sembravano combattere contro una folla di kamikaze. Ora usavano i fucili come arieti contro quell'orda e come bastoni per difendersi. Le squadre di operatori televisivi, dall'alto dei loro elicotteri, riprendevano e riferivano: «Qui sembra un campo di battaglia! I caduti... i caduti sono soprattutto intorno al portico principale della Casa Bianca, ma... sì! ora dalle strade spuntano altri uomini della Guardia nazionale che cercano di spingersi avanti e di allontanare la gente dal prato. Non abbiamo mai visto niente... niente di simile, neppure la marcia contro la fame durante l'amministrazione Hoover... davvero!...» Gli avvenimenti sul prato della Casa Bianca, quando, fra le due e le tre del pomeriggio, diventarono burrascosi, interruppero l'esibizione pomeridiana che la signorina Tiller e Bert stavano facendo in un grande albergo di Boston. In un certo senso, le risate a cui i due avevano dato il via proseguirono, quando per gli spettatori ai tavoli venne acceso un grande schermo televisivo. «Questi sono i... i...» gridava il commentatore, che non trovava le parole. «I matti!» interferì qualcuno, e vi furono risate rumorose, poiché la marcia su Washington in programma quel giorno era stata molto ben pubblicizzata. «Suonati, zombi, scippatori!» «Speriamo bene!» gridò una donna. «Almeno non bighelloneranno dalle nostre parti, stasera!» «Iuh-uh!» Seguirono applausi. «E dov'è il presidente?» «Ci scommetto che se ne sta rintanato in cantina!» gridò un tale di rimando. La signorina Tiller e Bert, estatici, fissavano il grande schermo. «Non è disgustoso?» domandò la donna al suo partner, anche se lui non poteva udirla. «Della gente che si comporta così! Plebaglia! Credo si considerino disoccupati. Ciò di cui ha bisogno questo paese, sono gli schiavi!» La sua voce salì di tono, quando si rese conto di volersi rivolgere al suo
pubblico, che per caso era costituito da un vero e proprio convegno della categoria degli agenti immobiliari. Si diresse verso il centro della pista da ballo, e l'addetto alle luci puntò il riflettore su di lei, che con voce alta ed elegante disse: «Guardate questa plebaglia! Ciò di cui questo paese ha bisogno sono degli schiavi, come nel mio paese, l'Egitto! Tutto ciò non potrebbe mai accadere in Egitto! Li metterei a lavorare per costruire piramidi!» Vi furono grandi battimani e risate! «Iuh-uuh! Diglielo tu, Cleopatra!» La signorina Tiller, ora, aveva un aspide che usciva in parte dalla scollatura della sua tunica, all'altezza del seno un po' piatto. L'aspide era di plastica gommosa, ma sembrava vero, e la testa si muoveva assecondando i movimenti della donna. I clienti del ristorante non si rendevano conto di quanto la signorina Tiller fosse seria, nelle sue affermazioni sugli schiavi. Forse, pensava la signorina Tiller, gli schiavi, dei veri schiavi, erano, per il momento, fuori questione: l'America non era ancora pronta per loro; ma lei non aveva di che lamentarsi dei servizi di cui usufruiva. Ora, lei e Bert avevano un amministratore, che la signorina Tiller preferiva chiamare addetto alle pubbliche relazioni, un giovane di ventotto anni che avevano conosciuto a San Francisco nella loro prima tournée. Una volta, la donna lo aveva messo in riga, lei era brava con le cifre e stava attenta alla contabilità, e forse Harvey Knowles, si chiamava così, aveva sbagliato in buona fede, ma in futuro non avrebbe fatto altri errori, in buona fede o no. Avevano recitato a Chicago, Dallas e New Orleans. Lei e Bert ora risiedevano in buoni alberghi, cosa che faceva buona impressione ai giornalisti, e poiché Bert voleva starle vicino a causa dei suoi problemi di comunicazione, prendevano sempre una suite. La signorina Tiller ora eseguiva l'imitazione di personaggi come Gloria Swanson o la Garbo, per esempio. Le piaceva fingere di essere qualcun altro, amava comportarsi con sicurezza, cosa che in realtà faceva, non avendo nessuna preoccupazione per il futuro suo e del devoto Bert. La signorina Tiller e il suo socio non avevano collegato la folla tumultuosa e agitata sul prato della Casa Bianca con gente in precedenza conosciuta. Loro due, negli ultimi mesi, erano entrati in un mondo nuovo e migliore. La donna aveva di molto ampliato il suo repertorio, mentre Bert aveva inventato scenette mimiche, che racchiudevano piccole storie, alcune con la partecipazione anche della signorina Tiller, qualche altra no. Gli arnesi di Bert erano un mazzo di fiori, qualche volta un bidone della spazza-
tura, una finestra immaginaria verso cui puntava la sua attenzione mentre danzava e mimava. Presto si sarebbero recati in Inghilterra con un contratto di sei settimane, partendo da Manchester per finire a Londra. Nei giorni seguenti, il presidente blaterò contro la disavventura accaduta alla Casa Bianca, che era costata circa cinquecento vite. Il presidente aveva dichiarato, in toni cupi, che il governo avrebbe fatto quanto era in suo potere per sistemare questi individui senza tetto e «mentalmente instabili», ma che era anche compito delle famiglie e della collettività dare una mano. «Solo grazie all'aiuto di Dio, io e tutti voi andremo avanti,» intonò il presidente con espressione triste e grave. La stampa di sinistra insinuò che il governo conservatore era felice di aver eliminato cinquecento di quelli che considerava indesiderabili, e di averne terrorizzato altre migliaia. Fu messa in giro la storia del presidente nascosto in una camera blindata nel seminterrato della Casa Bianca, e qualcuno giurava che era vera, ma, a differenza di quella sulla gente che camminava a quattro zampe, nessuno aveva fotografato il presidente in quella stanza, perciò finì per diventare una barzelletta, che poteva anche essere vera. «Scommetto che sono state uccise circa duemila persone,» disse un tale che risiedeva a Washington. «Ho sentito un sacco di spari di mitragliatrici. Non mi sbaglio!» Fred Wechsler, lo stupratore, vide qualcosa, del trambusto accaduto a Washington, alla televisione, nel suo motel in Florida, e scosse la testa. Quella gente proprio non sapeva vivere, non si era adattata alla libertà. Fred aveva violentato una ragazza di circa tredici anni quel giorno. Ora, stava mangiando un panino e si sentiva a proprio agio e tranquillo, aveva un tetto sotto cui vivere e un'auto. Si ricordò di alcuni suoi amici della prigione dell'Illinois dove aveva trascorso tredici anni, uno si chiamava Willy Armstrong, era dentro per furto con scasso, un tizio simpatico, ma ingenuo, che facilmente poteva essere traviato, e Fred si chiese se Willy fosse stato abbastanza tonto da andare a quel picnic fasullo sul prato della Casa Bianca a farsi sparare. 2 MOBY DICK II, O LA BALENA MISSILE Si era a metà della stagione calda, quando il sole si posava luminoso sull'acqua azzurra e i pesciolini nuotavano vicino alla superficie.
La balena maschio procedeva tranquilla, accanto alla sua compagna, crogiolandosi come lei nelle acque tiepide, tuffandosi per il piacere di farlo, verso il fondo, e riemergendo per saltare come un delfino nella piena luce solare, prima di riprecipitare nell'acqua tranquilla. La sua compagna era prossima ad avere un piccolo e nuotava più lentamente, perlustrando con attenzione le insenature delle isole. Entrambi sapevano che le isole erano pericolose, ci vivevano gli uomini, ma a una madre balena piace partorire nell'acqua bassa. Il sud del Pacifico non era percorso da molte navi nella zona in cui stavano loro, e quelle poche erano lunghe è basse e mantenevano una rotta costante. Le isolette, apparentemente innocue, erano più minacciose, a causa dei catamarani e perfino delle canoe che qualche volta si mettevano al loro inseguimento, per non parlare di qualche sporadica barca a motore, talvolta dotata di cannoncino da fiocina. La balena maschio e la sua compagna avevano trascorso insieme tutta la loro vita di adulti. Questo sarebbe stato il loro secondo piccolo. Il primo, una femmina, dopo aver nuotato a lungo con loro, dopo essersi perso ed essere stato ritrovato, grazie ai richiami degli angosciati genitori, a tempo debito se n'era andato via per conto suo. Un pomeriggio di sole, la sua compagna si diresse verso una bassa distesa di terra gialla, e il maschio la seguì a una certa distanza. L'acqua non era profonda, e immergendosi solo un po' riusciva a sfiorare la sabbia con il ventre. Dei pesci a strisce gialle e nere guizzarono, scivolando via dai suoi paraggi, con tutta la forza dei loro corpi sottili. Avrebbe potuto catturarne parecchi, far uscire l'acqua dalla bocca e gustare una prelibatezza, invece, con un delicato movimento della coda, si diresse più vicino all'isola e restò sospeso immobile nell'acqua, ad ascoltare la sua compagna. Sentiva giungere da lei una lieve agitazione. Finalmente stava per fare il piccolo. Nel punto in cui si trovava la sua femmina, appariva una piccola colonna d'aria e acqua, non lontano dalla spiaggia gialla con i suoi alberi di palma, che si piegavano nella brezza. «Ehi!» gridò una voce umana. Sott'acqua, lui le trasmise un avvertimento. Aveva udito le voci degli uomini già molte volte prima, sempre diverse, però in qualche modo sempre le stesse. Sotto la superficie dell'acqua la vide contorcersi, col piccolo fuori a metà. Ora gli uomini stavano spingendo in acqua una barca e gridavano. Lui sollevò la testa e vide che era stato scagliato il primo arpione. La sua compagna venne verso di lui dibattendosi, in cerca di acque più
profonde. Una fiocina le spuntava dalla schiena. Lui nuotò sotto la barca e quindi contro di essa, la urtò sotto la parte anteriore appuntita e la scagliò violentemente, capovolgendola. Una fiocina lo colpì vicino alla coda. Ora gli uomini erano nell'acqua bassa, muovendosi barcollando e nuotando, tutti avevano degli arpioni e la sua compagna era circondata. La balena maschio avanzò e afferrò con la bocca un paio di uomini. Vi furono delle urla. Il sangue si sparse nell'acqua tutt'intorno. Una fiocina lo trafisse sulla fronte e vi restò. Degli uomini stavano trascinando a riva la sua femmina. Altri invece rivolgevano ora a lui la loro attenzione. La balena maschio fece guizzare la coda con intenzione calcolata, e un uomo volò in aria, fatto a pezzi dal colpo, spargendo una pioggia di sangue sulla superficie del mare. Il cetaceo si buttò in avanti con la bocca aperta: un piccolo uomo e le gambe di un altro ne urtarono la parte inferiore, e un attimo dopo vennero stritolati. Con un colpo di lingua si sbarazzò dei sanguinanti resti di carne umana e dell'acqua marina che li accompagnava. Aveva il corpo infilzato dalle fiocine e deviò rapidamente verso l'acqua più profonda, sollevando la testa per immagazzinare quanta più aria poteva con un respiro, poi si immerse. Lo stavano inseguendo con una barca, ma non c'era da temere perché era un natante privo di motore. Si sentiva trafitto e ferito ed era furioso. Quando fu lontano dall'isola, si sollevò e vomitò aria e acqua, avvistò la barca e tornò a immergersi. Quando vide sopra di sé la sottile sagoma dell'imbarcazione, descrisse un cerchio, si diresse verso il fianco della barca appena sotto la superficie, così che la barca venne schiacciata e capovolta dall'impatto. Colpì, tramortendoli, i tre o quattro uomini che strillavano nell'acqua e li lasciò lì. Eccitato da tutto ciò, si diresse ancora verso riva, dove sapeva che la sua compagna stava morendo o era morta. Erano state messe in acqua altre due barche, e lui colpì la più vicina, sollevandosi da sotto lo scafo, sbalzandone fuori gli uomini e gettandoli in acqua. La seconda barca scagliò delle fiocine, e una lo colpì al fianco. Si immerse per salvarsi, si voltò, avvistò la barca che girava sopra di lui e la speronò. Poi avanzò verso la costa, il ventre che quasi toccava la sabbia. Le grida degli uomini si fecero più acute. Sollevando la testa, la balena vide con un occhio i piccoli uomini dalla pelle scura che saltellavano intorno alla sagoma della sua compagna, tirata per metà in secco. La balena ebbe l'impulso di aggredirli tutti quanti, di puntare diritto fin sulla spiaggia, ma altrettanto improvvisamente l'impulso sva-
nì, diede un colpo di coda e si allontanò. Quando incontrò un grosso squalo maschio, la balena si slanciò verso di lui, solo per vedere lo squalo darsela a gambe, una fugace visione di qualcosa di chiaro e di terrorizzato. Quegli odiosi piccoli uomini dalla pelle scura! Era consapevole del fatto che gli animali piccoli di solito non si battevano con una creatura delle sue dimensioni, e neppure di quelle della sua compagna. I piccoli uomini attaccavano i trichechi, la cui mole era un quarto della sua. Gli squali li atterrivano. Il cetaceo nuotava in uno stato d'animo cupo, senza preoccuparsi della direzione, ma cercando inconsciamente le correnti fredde per le sue ferite. Era a sud dell'equatore e diretto ancora più a sud. Nuotò finché la sua collera si placò un po', e quando risalì in superficie per respirare il sole era basso all'orizzonte. Prima che facesse buio, incontrò un grosso branco di pesciolini e vi si diresse nel mezzo con la bocca aperta. Nei giorni e nelle settimane successive nuotò pigramente, poiché in questo periodo dell'anno non aveva motivo di puntare in una particolare direzione. L'area equatoriale del Pacifico era un mondo smisurato. Ed era strano essere solo, dopo cinque anni vissuti con una compagna, sapendo che lei era da qualche parte lì vicino e poteva trovarla alla svelta, anche se per un po' non era in vista. Si erano sempre ritrovati, erano andati sempre con piacere nella stessa direzione, di solito una direzione che lui, balena maschio, aveva scelto. Evitava le isole, anche se i pesciolini vicino a riva erano gustosi, come lo erano le distese di alghe verdi. Una volta, in un momento di disattenzione, fece qualche balzo e ricadde giù, sollevando un'alta colonna di vapore bianco, e con l'occhio sinistro scorse un'imbarcazione. Era distante, ma aveva la sagoma scura e grossa delle baleniere, il tipo di imbarcazione munito di motore. Si immerse immediatamente, senza molta riserva d'aria, e si allontanò ad angolo retto dalla rotta della nave. Ora si sarebbe trattato di procedere zigzagando, di tentare di scappare, cercando, al contempo, di immagazzinare sufficiente aria per nuotare velocemente. Era sfuggito molte volte a queste imbarcazioni, perché non poteva farlo ancora? Non era comunque una domanda, ma una necessità. La caccia si protrasse per mezz'ora, poi per un'ora. Il cetaceo lasciò che l'imbarcazione, che oscillava e girava su se stessa, venisse molto vicino, o almeno abbastanza vicino alla scia tracciata dal suo corpo dopo essere salito a galla a respirare, poi si immerse in profondità per nuotare sotto la
poppa della baleniera e allontanarsi. Per parecchi minuti la nave perse la sua preda. I motori a tutta forza mettevano a dura prova la chiglia della nave, mentre questa virava, cercando d'indovinare dove fosse la balena. Il cetaceo nuotò finché poté, prima che l'affanno lo costringesse a risalire, e ancora doveva espellere l'acqua prima di inspirare l'aria. Ora la nave era molto lontana, ma lui sapeva che sarebbe stato avvistato. Immagazzinò aria finché si sentì di rischiare, poi nuotò sotto la superficie, fingendo di andare a sinistra, cambiando direzione sott'acqua e riprendendo la stessa rotta che aveva tenuto prima. Ahimè, in pieno giorno! Trascorsero ancora due ore. Quando la nave fu di nuovo molto vicina, la balena non aveva più la forza per nuotare velocemente e aveva bisogno di aria. Un cannoncino sparò. L'arpione lo mancò, e la bomba a tempo scoppiò lontano da lui, a una distanza pari a tutta la lunghezza di una balena. Furioso per la rabbia, afferrò il cavo metallico dell'arpione e diede uno strattone come se, in questo modo, potesse rovesciare la nave o persino trascinarla. Il sottile cavo era ritorto e gli tagliò un po' la bocca. Il cavo tagliò anche la lingua, grossa ma delicata, della balena, e l'uomo che era all'altro capo della fune vide il sangue arrossare l'acqua. Allora calarono una scialuppa, facendo girare il motore al minimo. Il grosso argano sul ponte cominciò a riawolgere il cavo. La balena sentì lo strappo del cavo in bocca, udì lo sbattere della chiglia di una barca e seppe che cosa significava: era stata messa in mare una barca munita di arpioni per i colpi conclusivi da assestare dietro la pinna, nell'occhio, giù nello sfiatatoio, e infine c'erano le corde per assicurare il cadavere alla nave. Quegli stupidi nella loro barchetta di legno! Con un lento movimento della coda il cetaceo si piazzò in modo da essere rivolto verso il punto da cui era venuto lo sciabordio. Ora riusciva a vedere il fondo della barca. Investì il piccolo natante da sotto, sollevandolo con la schiena. Nello stesso momento, un arpione lo colpì davanti alla coda, attraverso l'estremità della spina dorsale, trafiggendola all'istante. La balena si inabissò. Dalla baleniera furono lanciate delle corde ad almeno tre uomini, che si trovavano nell'acqua che ribolliva tutt'attorno. La scialuppa si era rotta in due, corde e arpioni erano caduti in mare. Le grida non si arrestavano: un uomo aveva un braccio dilaniato dai bordi taglienti di una tavola di legno spezzata e sanguinava copiosamente, un altro galleggiava a faccia in giù,
immobile, e un uomo dalla nave gettò una fune oltre la fiancata per cercare di salvarlo. L'argano aveva tirato su un arpione esploso, ma senza la balena. Altri marinai a bordo della baleniera si stupirono, vedendo metà della barca di legno che si allontanava rapidamente galleggiando. L'ultimo arpione si era conficcato nella balena, e l'estremità del cavo era assicurata a un anello metallico fissato al capo di banda della barca. Naturalmente, avrebbero potuto seguire la traccia, ora visibile, della balena. Ma, in primo luogo, la rotta della balena non era la stessa assegnata loro, e più di metà dell'equipaggio era impegnato ad assistere gli uomini semiaffogati, a recuperare quel che si poteva degli arpioni e a occuparsi dell'altra metà della barca prima di abbandonarla. Tutti erano però d'accordo che quella balena pazza era grossa. Era assatanata! Il cetaceo, nel frattempo, si era reso conto di avere un'appendice. La prima volta che era risalito in superficie per prendere aria, non aveva visto il pezzo di legno dietro di sé. La seconda volta, lo vide. Si era accorto di una certa resistenza quando si immergeva a una data profondità, anche se era in grado di trascinare sott'acqua la mezza barca e di tenervela, se avesse voluto. La fune era flessibile, non come il cavo ritorto, ed era forse tre volte la sua stessa lunghezza. Quel pezzo di barca era fastidioso. Era saggio nuotare abbastanza in profondità da tenere la barca sotto la superficie. Tuttavia, quando risaliva per respirare, e gli occorreva un bel po' di tempo e parecchie inspirazioni per accumulare un'abbondante riserva d'aria, la mezza barca galleggiava dietro a lui. Questo fatto suscitò strane storie nelle isole che la balena oltrepassò. Bambini e ragazzi raccontavano di una nave o barca naufragata, che avevano visto galleggiare per un po' e che poi era sparita all'improvviso. La storia si sparse di isola in isola, ripetuta da uomini e ragazzi che si incontravano sui loro pescherecci; ci ridevano sopra, eppure non veniva accolta del tutto con incredulità, perché troppe persone attendibili giuravano di averla vista. «È una magia,» disse un uomo in tono rispettoso, poiché la sua gente provava rispetto per la magia. Ma era una magia buona o cattiva? Poteva significare fortuna o sciagura, come un uragano che con un'ondata poteva sommergere le loro isole, devastare le loro case e scaraventare tutti in mare. Vi erano alcuni uomini bianchi su qualcuna delle isole che affermavano di sapere tutto di tifoni, terremoti, eclissi di luna e di sole. Poteva essere. Ma la barca che appariva e scompariva era un'altra cosa. Gli uomini bianchi avrebbero riso di questa
storia. Ma loro non sempre sapevano che cosa era o non era importante. Come potevano? Dopotutto, erano solo uomini. Spesso, quando si nutriva di piante acquatiche o di banchi di pesciolini, alla balena piaceva oziare sulla superficie del mare, godendosi il tepore del sole sulla schiena. Di solito non vi erano isole nel suo raggio visivo, ma le isole non costituivano un rischio, se si teneva a debita distanza. Tuttavia, in una di queste pigre giornate, quando si spinse in superficie, vide un catamarano con una vela dirigersi alla sua volta, o almeno così pareva. La repentinità e il silenzio con cui questo pericolo si avvicinava, misero in agitazione la balena per la paura e la necessità di difendersi. Si immerse un po', poi si girò per poter fronteggiare la barca. Il catamarano era delle dimensioni di una barca che poteva schiacciare e danneggiare gravemente, se lo voleva. La balena si accorse che ad attirare l'interesse degli uomini era la mezza barca che ora galleggiava al suo fianco. Sull'imbarcazione vi erano due uomini, e uno di essi aveva in mano una fune. L'altro uomo vide la balena, lanciò un urlo e immediatamente sollevò una fiocina. La balena mosse la pinna di coda, scivolò sotto il pattino di bilanciamento del catamarano, colpendo la fiancata dell'imbarcazione col naso e sfondandola. L'uomo in piedi con la fiocina in mano cadde in acqua, e la balena, che aveva descritto un cerchio in un turbinio di acqua dietro a lui, gli asportò di netto i piedi. L'altro uomo fu una preda più facile. La balena semplicemente ne schiacciò il corpo, facendone uscire tutta l'aria e molto di più. L'albero del catamarano con la vela si piegò obliquamente verso il mare. La balena avrebbe potuto attardarsi per assestare qualche altro colpo, ma, quando sollevò la testa per respirare rapidamente, udì schiamazzi e grida di voci umane, lontane ma chiare. Un'altra barca? La balena non perse tempo, si immerse immediatamente e nuotò via, lontano da quei suoni. Gli uomini erano finiti, uno morto per lo schiacciamento di costole e polmoni, l'altro per la perdita di sangue. Un secondo catamarano era partito dall'isola vicina con l'intenzione di soccorrere i due uomini. Non avevano visto la balena, ma avevano visto il primo catamarano rompersi in due nei pressi del relitto galleggiante di una barca, e poi avevano visto sparire il relitto sotto la superficie dell'acqua. Perciò si accostarono con cautela al catamarano che, benché squarciato, galleggiava ancora. Uno degli uomini voleva invertire la rotta, finché erano ancora in grado di farlo. «È un sortilegio!» esclamò. «Vedete? La barca è in due pezzi, e ora trascineranno via e affonderanno altre barche... e ci uccideranno!»
Un uomo avvistò un cadavere che galleggiava. «È mio fratello!» Non si erano aspettati dei cadaveri. Si erano aspettati di trovare i due uomini magari feriti, ma abbarbicati ai rottami del catamarano. Quando un ragazzo gridò di aver visto il secondo cadavere in un mare di sangue, fu deciso all'istante e all'unanimità di tornare alla base. «Non guardate la barca!» strillò il quarto uomo. «Guardate da un'altra parte!» Volsero altrove lo sguardo, il catamarano girò, vennero usate le pagaie finché non dolsero le braccia e finché i marinai rimasero senza fiato. Un uomo che non remava recitava dei salmi per respingere gli spiriti maligni. Di ritorno all'isola raccontarono la loro avventura con una foga piena di spavento, con le ginocchia che tremavano di terrore collettivo. Per il resto del giorno e della sera, gli altri che si trovavano sull'isola ebbero paura di toccare qualcuno dei quattro. Così la storia si sparse e venne ingigantita. Il famoso relitto, che appariva e spariva come per magia, aveva solo sfiorato un catamarano e questo si era spaccato in due! E i due uomini a bordo erano stati uccisi all'istante, come se fossero stati colpiti da uno spirito del male. La mezza barca fu avvistata al largo di altre isole ed evitata. L'eventualità che la mezza barca potesse essere trascinata da uno squalo o da una balena fu in effetti prospettata ma, anche se era così, doveva trattarsi dello spirito di una balena o di uno squalo, impossibile da uccidere, eppure capace di uccidere chiunque con facilità e di distruggere qualsiasi natante solo con la sua malvagia volontà. La balena proseguì nelle acque temperate, sempre meno tormentata dal dolore sordo appena sopra la coda, provocato dall'arpione che aveva trapassato il suo strato di grasso come uno spillo. La barca galleggiante era una seccatura. La balena era passata su una ruvida formazione corallina sottomarina, pensando di logorare la fune o di staccarne la barca, ma finora non c'era riuscita. Continuava ad avere una malinconia cupa, così tutta sola. Incontrò tre balene come lei, una era una femmina giovane, le altre erano maschi, e avrebbe potuto unirsi a loro per avere un po' di compagnia, ma uno dei maschi si spaventò per la barca trascinata sott'acqua. Perciò i tre se la filarono. La balena quindi cantava da sola, nelle profondità marine: «Hu-ua-aaah-oh» con un tono piuttosto acuto, come parlando a se stessa. Era solita comunicare così con la sua compagna, segnalandole dove si trovava, mettendola in guardia contro qualche nemico, o, in tono diverso, avvertendola
che c'era cibo in vista. Una mattina, mentre stava a galla appena sotto la superficie, emergendo ogni tanto per fare provvista d'aria, sentì lo sciabordio di una pagaia. L'occhio sinistro della balena vide una barca molto piccola, con una sola persona a bordo, che si dirigeva non verso di lei, ma verso il relitto di legno che, la balena lo sapeva, stava galleggiando lateralmente dietro di lei. La piccola imbarcazione non era una minaccia, ma la balena scrutò l'orizzonte per vedere se c'erano altre barche o un'isola e vide, a una notevole distanza, una bianca striscia di terra. Nuotò un po' più in profondità. Il ragazzo che era sulla barca vide la balena, rabbrividì e si rizzò a metà, impugnando la pagaia con entrambe le mani. Era uscito in mare per sfida e pochi minuti prima si era detto: «Non mi importa di vivere o morire.» Ciò gli aveva dato un coraggio un po' incosciente. Aveva immaginato di essere colpito a morte da un sortilegio, da qualcosa che non sarebbe stato in grado di vedere né di capire. Ora aveva visto, e si trattava di una balena più grossa di tutte quelle di cui aveva sentito parlare. Scorse il lucente mostro grigio che girava attorno alla sua barca appena sotto la superficie dell'acqua. La barca ondeggiò paurosamente. Il ragazzo cadde all'indietro e, senza pensarci, tirò a bordo per sicurezza la lunga pagaia. La fune che teneva legata alla balena la mezza barca scivolò oltre la prua della barca del ragazzo, facendola ruotare. Con la mano destra il ragazzo respinse il relitto che avrebbe potuto danneggiare la sua canoa. Il mostro stava ancora girando attorno. Il ragazzo vide la lunga fiocina lucente che trapassava la pelle della balena. Aveva un puntale magnifico. Era tutta di metallo ed era molto più lunga di quanto lui era alto. Desiderò quella fiocina. Avrebbe potuto prenderla? Gli tornò quell'esaltazione che aveva provato sull'isola: non gli importava di vivere o morire! Appena vide scorrere la fune lungo il fianco sinistro della sua canoa, il ragazzo l'agguantò appena sotto il pelo dell'acqua. Sentì il terribile strappo della balena, afferrò la fune più saldamente con entrambe le mani e strinse i denti. Che cosa avrebbe fatto, se la balena lo avesse portato a fare un lungo viaggio fino all'estremità del mondo e giù negli abissi? Che avrebbe fatto, se la balena si fosse voltata e l'avesse inghiottito? La barca del ragazzo si mosse, e lui venne sospinto in avanti, ricadendo sulle ginocchia. La barca si spostò rapidamente prima su un fianco e poi sull'altro. Poi, improvvisamente, la resistenza cessò, e il ragazzo cadde all'indietro, restando un istante con i piedi nudi per aria. La fune gli pendeva molle fra le mani, e lui ansimava, sgomento e contemporaneamente solle-
vato e preoccupato. Si guardò attorno, ma non vide nessuna balena, solo un gorgo sul mare lì accanto, dove si era immerso il cetaceo. Tirò la fune allentata, usando le due mani, ed ecco il suo premio, la bella fiocina! La fiocina era persino un po' più lunga della sua barca! Aveva la punta come una freccia, acuminata e robusta. All'altro capo, un anello di metallo, parte integrante della fiocina, serviva a trattenere la fune che vi era legata saldamente. Il relitto di una mezza barca galleggiava lì vicino. Le labbra dischiuse del ragazzo cominciarono a sorridere. Ora non c'era più nulla da temere. La fiocina era sua, adesso era la sua arma. La mezza barca, che la gente aveva pensato essere un fenomeno soprannaturale, non era altro che un relitto. La balena se n'era andata. O no? Il ragazzo scrutò con attenzione una prima volta tutta la zona intorno a sé, e poi di nuovo. Le acque sembravano calme. Riprese la pagaia, recuperò la fune che era sulla fiancata della barca e diede uno strappo al relitto. Aveva osservato che su di esso vi erano pezzi di metallo pregiato. Li avrebbe liberati dal legno bruciandoli e se li sarebbe tenuti. Sulla spiaggia dell'isola, il ragazzo stette eretto e silenzioso come un capo dei tempi andati. Una folla della sua gente lo aveva atteso, era uscita a nuoto per tirare a riva la canoa e il relitto. Il ragazzo rispose con calma e concisione alle loro domande, come un vero uomo. Teneva diritta accanto a sé la fiocina con la punta verso l'alto e dapprima non voleva che nessuno la toccasse, poi aveva acconsentito, sorridendo con orgoglio mentre gli anziani facevano scorrere il pollice lungo la punta acuminata. La ragazza che gli piaceva osservava tutto da una certa distanza. Non distoglieva gli occhi da lui ma, quando era partito per l'orribile viaggio verso il relitto, aveva affermato che non lo voleva. Ora le cose sarebbero state diverse, tutto il mondo era diverso per il ragazzo. Gli era passato per la mente di dire di aver ucciso la balena, al cui corpo era stata attaccata la fiocina, ma poi decise di non farlo. Si limitò a raccontare di una balena che aveva trainato il relitto della barca, la più grossa balena mai vista o di cui avesse sentito parlare, lunga come la loro isola. Disse che si era dato da fare per acciuffare l'estremità della fiocina, quando la balena era passata, e l'aveva strappata dalla carne dell'animale. Tutti ci credettero. Tutti andarono a toccare il relitto come per assicurarsi che non avesse poteri soprannatuali. Gli uomini sollevarono e fecero ricadere l'anello che fermava la fune, ascoltandone il tintinnio contro il metallo sulla fiancata del relitto. Il ragazzo per un po' tenne anche un atteggiamento altezzoso verso la ra-
gazza che gli piaceva, fingendo di non vederla, anche se lei era in cima ai suoi pensieri. Affermò che la balena non solo era enorme, ma che era trafitta dappertutto da fiocine e arpioni, come un grosso maiale infilzato con le spezie per essere arrostito. La balena era così grande che nessun'arma sarebbe mai penetrata nei suoi organi vitali. Dicendo così, il ragazzo dava maggior risalto al suo coraggio. Ciò fece sì che la balena e la storia del mostro inattaccabile fosse conosciuta in tutte le isole, e che sui piccoli pescherecci la sorveglianza per un eventuale avvistamento venisse intensificata, al fine di evitare l'animale. La storia giunse alle orecchie di cacciatori di balene professionisti, che non avevano timore con i loro cannoncini da fiocina e ritenevano che, anche se la balena non era grande come era stato loro riferito, sarebbe valsa ugualmente la pena di catturarla. Uno di questi balenieri inseguì la balena per un giorno, ma il cetaceo riuscì a sfuggire alla caccia, immergendosi sotto la poppa di una delle lunghe petroliere che seguivano una rotta costante. La balena puntò a nord, verso mari che ora erano più freddi e che lo sarebbero diventati ancora di più. Ne aveva abbastanza delle isole! Aveva ancora qualche altro arpione, penetrato nel suo corpo con la punta di osso, dopo che si era liberata di quel pezzo di barca. Una fiocina vicino all'occhio sinistro la infastidiva, specialmente quando superava delle macchie di vegetazione che la fiocina arrivava a toccare. Aveva sempre un umore piuttosto irritabile e aggressivo. Fu per questo che, per errore, un giorno si trovò a risalire un fiume per una certa distanza. Aveva nuotato velocemente per qualche minuto dentro l'ampio estuario, senza accorgersi che non si trattava di un braccio di mare, finché il sapore aspro e amaro, le vibrazioni provocate da qualcosa di pesante che veniva gettato dentro lì vicino, avvertirono la balena del fatto che stava procedendo in una direzione sbagliata, verso un probabile ostacolo e anche verso dei nemici di razza umana. Poteva addirittura sentire il rumore sordo di macchine in movimento. Si volse e si immerse più giù, puntando verso la direzione da cui era venuta. L'acqua era sporca, il letto del fiume era coperto di pezzi frastagliati di metallo, cilindri grandi e piccoli, corde marcite e catene. Le barche alla superficie vennero sballottate dallo spostamento d'acqua che provocava, e si sentirono voci d'uomini urlare. La balena si slanciò in avanti con un possente colpo di coda; qualcosa di ruvido passò sopra la sua testa, si impigliò in un arpione restandovi attaccato. Per alcuni secondi la balena avvertì una certa resistenza, insufficiente
però a fermarla, e alla fine raggiunse il mare aperto. Ma quando si fermò, sentì su ambedue i lati un peso che tendeva a trascinarla giù. Riuscì a vedere che su entrambi i fianchi aveva parecchi pesi, tutti collegati fra loro da una grossa corda che le attraversava la parte posteriore della testa. La balena nuotò a ritroso, ma tutta quella zavorra non si staccava. La fune o catena era in qualche modo impigliata negli arpioni infilzati nel suo corpo. Diresse il muso verso uno dei pesi, ma non lo toccò: aveva la forma di quegli oggetti galleggianti che delimitavano i percorsi nei fiumi, ma erano più piccoli. Ora non era così facile emergere per prendere aria e, se voleva nuotare vicino alla superficie per nutrirsi di pesciolini, i pesi la seguivano, opponendo resistenza, e lentamente la sprofondavano di nuovo. Nel Pacifico settentrionale, durante una delle sue emersioni per immagazzinare aria, l'apparire dell'alta colonna di vapore bianco provocò delle grida, che la balena udì. Era emersa piuttosto vicino a un peschereccio, del tipo a vela e motore, un genere non temibile. Ma la balena si gettò verso il battello quasi per gioco, per sentire gli uomini gridare ancora, e ora i loro strilli sembravano terrorizzati. Il cetaceo si accorse che su entrambi i lati i pesi che si trascinava dietro provocavano dei grossi spostamenti d'acqua, come se la sua mole fosse più grande. Appena deviò, senza sfiorare il battello, vide la sagoma, ben più minacciosa, di una baleniera. Probabilmente stava puntando verso di lui, avendo avvistato il suo sbuffo. Il peschereccio aveva avviato il motore. La balena si diresse verso la nave più grande con un affondo temerario, misto di rabbia e dolore. Sapeva che, con i pesi che trascinava, non vi sarebbe stato scampo. Il dolore degli arpioni conficcati su di sé la rendeva lenta, il veloce peschereccio la stava oltrepassando, perciò la balena lasciò che la poppa le sfilasse davanti, senza sfiorarla. Qualche secondo più tardi, vi fu un'esplosione sott'acqua che provocò una sensazione di pressione alle orecchie dell'animale. Seguirono grandi spruzzi, degli oggetti caddero in mare, poi giunse il suono sordo dell'acqua che veniva risucchiata. La balena vide un grosso pezzo del peschereccio, tutta la parte di poppa, che andava a picco, e si allontanò. Degli otto uomini dell'equipaggio, cinque furono i superstiti, perciò girò un'altra storia: nella zona vi era una balena che aveva delle mine fissate tutt'attorno. Attenzione! Come sempre, uno dei superstiti disse di aver visto almeno sei mine, il successivo disse che erano dieci. Ma tutti concordavano nell'affermare che le mine erano dipinte di giallo, come quelle usate anni prima nei fiumi della Corea e del Vietnam. Tutti furono d'accordo
nel sostenere che la balena andava soppressa. Ma non un solo capitano si offrì di assumersi il compito. Sarebbero state necessarie parecchie imbarcazioni, delle baleniere munite di cannoni da fiocina, per uccidere la balena in tutta sicurezza. I balenieri affermarono di poterlo fare solo se fossero riusciti a trovarsi tutti insieme in numero sufficiente nella stessa zona in cui si trovava la balena. Con tre battelli la cosa era possibile, con quattro sicura. Ma il tempo passava, la balena non fu vista dove era stata segnalata, e l'idea di andarne alla ricerca fu abbandonata perché infruttuosa. Ogni marinaio pensava che qualche altro battello, non il suo, avrebbe finito con l'imbattersi nel grosso cetaceo. La balena continuava a spostarsi verso nord, seguendo una piacevole corrente. Al momento era la sola cosa piacevole della sua esistenza. Era sola, con un persistente dolore causato dalle numerose, anche se leggere ferite, e anche le mine la infastidivano, trascinandola ora da un lato ora dall'altro. La catena tintinnava con suono monotono sulla sua testa, impigliata in qualche frammento di fiocina. Tutto l'insieme la rendeva ostile verso ogni forma di vita. Le sue immersioni ed emersioni venivano rallentate da quei dannati pesi, e nel suo viaggio verso nord dimenticò che i pesi che portava avevano il potere di respingere i nemici, finché non incontrò una certa baleniera. Avevano visto il suo getto d'acqua e le furono subito addosso. In immersione, il cetaceo eseguì un lento arco che lo portò dietro la nave. Poi proseguì verso nord. Ma il battello gli era nuovamente vicino, quando risalì a inspirare aria. Pensò che, senza la zavorra, l'avrebbe distanziato, se ne sarebbe liberato! Il battello, con la sua prua ricoperta di spuma bianca, si avvicinava, e la balena udì il tintinnio dell'acciaio e le grida dei marinai a bordo. Rabbioso, l'animale diede un vigoroso colpo di coda, mirando al nero scafo, ma all'ultimo momento virò risolutamente a sinistra, limitandosi a sfiorare il natante col basso ventre, e subito si immerse in profondità. Udì il colpo secco di un cannone da fiocina. Più forte, e più in profondità, giunse un'esplosione alla sua destra. La mina che trascinava vagante su quel lato aveva urtato lo scafo della nave. La bomba a tempo del cannoncino da fiocina esplose senza danno da qualche parte a lato della balena e sotto di essa. La nave presentava un grosso squarcio sotto la linea di galleggiamento. Cominciò ad affondare rapidamente. Due scialuppe di salvataggio furono messe in acqua con degli uomini a bordo, che raccolsero altri uomini che
gridavano e si dibattevano in mare. La balena si allontanò da tutta quella confusione e proseguì in direzione nord. Ora vi era una notevole differenza di peso fra la zavorra di destra e quella di sinistra: dal fianco destro era sparita una mina, forse due. La balena lasciò dietro di sé una scia di racconti dell'orrore, ognuno dei quali si rifaceva alla storia che era stata narrata in precedenza. La nave colpita era giapponese. La baleniera era affondata tanto rapidamente, che, su un equipaggio di venti uomini, vi furono solo nove superstiti. Il loro marconista aveva trasmesso il suo messaggio, finché era affogato a metà della frase: COLPITI DA BALENA PORTATRICE DI MINE. AFFONDIAMO RAPIDAMENTE LATITUDINE... Prima aveva fornito la sua posizione e l'aveva ripetuta con il suo SOS, ma quando erano arrivati i soccorsi non c'era più nulla da recuperare, se non le due solitarie scialuppe di salvataggio con i loro nove superstiti a bordo. I mari locali vennero messi in stato di allarme contro la balena assassina. I marinai salvati non seppero dire quante mine la balena trasportasse, di sicuro comunque ne aveva un'intera armatura su entrambi i fianchi. Ai balenieri fu chiesto di distruggere la balena a ogni costo, nel loro stesso interesse. Il cetaceo sarebbe stato lento nei movimenti a causa delle mine che aveva su di sé, ma era estremamente pericoloso, come un pazzo armato. La storia diventò un argomento giornalistico sensazionale, anche se non vi erano fotografie disponibili. In ventiquattr'ore fu organizzata la caccia, e di notte le baleniere usavano dei riflettori per perlustrare la superficie del mare. La strategia delle navi giapponesi e russe era di tenersi in contatto via radio, di badare ai soliti affari ma, se la balena venisse avvistata, di comunicarlo subito alle altre navi. Poi avrebbero circondato il cetaceo, sparato i loro arpioni ed eventualmente fatto esplodere anche qualche mina. La balena fu avvistata per la prima volta duecento miglia marine a nord del punto in cui era affondata la nave giapponese. Quanto all'ora erano le due del mattino, a novembre notte fonda nell'emisfero settentrionale, e non c'era luna. Ma le navi che convergevano sul posto, a diverse distanze dall'obiettivo, resero il paesaggio marino quasi luminoso, o almeno come se fosse inondato da una lattiginosa, grigia luce lunare. Le luci di babordo dei piccoli vascelli mandavano segnali e oscillavano come gocce di sangue nel lugubre teatro di battaglia, che da principio ricopriva centinaia di metri. La balena era consapevole delle luci sopra di sé, dei rumori frenetici dei motori delle navi che man mano si facevano più vicini e che risuonavano
sempre più forti nelle sue orecchie. Era esausta fino alla follia e alla disperazione. Dapprima l'aveva inseguita una nave, poi una seconda, e ora ce n'erano forse otto o nove. Si rese conto che formavano un cerchio attorno a lei. Non era mai accaduto niente di simile prima. Respirò mentre poteva ancora farlo, a intervalli, preparandosi al balzo verso la libertà. Dopotutto, il cerchio di luce era vago e a una certa distanza. Ecco che giungeva la prima nave, dritta su di lei. La balena si immerse con un guizzo della coda nell'aria. Sopra e dietro di lei un cannoncino sparò nell'acqua. Nuotò direttamente sotto e oltre il cerchio, ma i pesi le causavano dolore, e alla fine fu costretta a emergere, a espirare e, lo sapeva, a rivelare la sua posizione. Le navi si mossero molto rapidamente, circondandola senza difficoltà, come se la balena non avesse percorso alcuna distanza. Avrebbe combattuto. Il vento soffiava forte e gelido, e le navi beccheggiavano, mentre si avvicinavano con cautela. La balena riuscì a distinguere su una nave un cannoncino che veniva orientato per la mira, allora si immerse subito e puntò verso il battello. Proprio al momento di investirlo - cosa che non avrebbe voluto fare, perché l'imbarcazione aveva lo scafo di metallo - il cetaceo deviò a sinistra. Di lato e dietro al suo corpo, i pesi lo seguirono, e uno colpì la fiancata della baleniera, sotto la superficie dell'acqua. Una fiocina sparata dal cannoncino sfrecciò attraverso l'acqua sopra la schiena della balena ed esplose qualche secondo dopo. La balena emerse brevemente, cercando uno spiraglio attraverso il quale fuggire, ma le navi erano anche più vicine l'una all'altra. D'impulso, il cetaceo caricò la fiancata di una nave e all'ultimo momento vi si immerse sotto. Seguì un'altra esplosione subacquea che ferì una pinna caudale della balena, facendola sanguinare copiosamente. Il dolore improvviso fece virare la balena a sinistra, riportandola di nuovo nel cerchio mortale. Per caso, una mina di quelle che si trovavano sul fianco sinistro dell'animale colpì una chiglia proprio nel centro e provocò uno squarcio. Gli uomini a bordo delle navi gridavano e sbraitavano come se fossero impazziti e i cannoni esplodevano i loro colpi come se facessero fuoco a casaccio. Ora, due navi russe e due giapponesi stavano affondando. Gli uomini si capivano fra di loro a malapena, ma il loro comune scopo era, o era stato, quello di uccidere la balena. Ora, però, alcuni ufficiali al comando delle baleniere erano pronti a interrompere la caccia per calare le scialuppe di salvataggio e soccorrere i loro uomini, trasferendoli sui battelli
che ancora galleggiavano. Un uomo su una nave russa vide lo spaventoso solco di acqua e schiuma dirigersi proprio verso la sua nave e gridò. La balena puntava con lentezza penosa verso il vascello russo; si immerse sotto lo scafo e una, forse due esplosioni seguirono, appena fu passata dall'altra parte. Ciò fece inclinare la baleniera fin quasi a capovolgerla, cosicché un cannone sbagliò la mira e la fiocina trafisse il petto di un capitano giapponese che stava coraggiosamente sul ponte squassato dalle onde, a trenta metri di distanza. Il marinaio russo, sconvolto, azionò l'argano, e i resti del capitano giapponese furono trascinati fuori bordo e trainati verso il battello russo, che stava cominciando ad affondare. «Ci sono due balene!» strillò un uomo in russo. «No, NO!» aggiunse la voce stridula di un giapponese che parlava in russo. «Eccola di nuovo! Guardate!» Esplose una mina. Come per rappresaglia, i cannoni fecero fuoco, ma con altrettante probabilità di colpire sia un uomo in mare sia la balena, che si spostava convulsamente perché aveva perso il senso dell'orientamento e, ora, perfino l'ubicazione del cerchio. La balena attaccava dovunque. Le mine che portava con sé stavano ancora esplodendo, dovunque colpisse. Poi una fiocina la prese in pieno. Si sentì scoppiare dentro e cominciò a contorcersi nel dolore e nella morte, inalando acqua. L'argano, sul battello che aveva sparato la fiocina, cominciò a girare, trascinando più vicino il corpo del cetaceo morente. L'urto della balena ferita a morte contro la fiancata della nave provocò un tonfo quasi soffocato, si elevarono le grida trionfanti dei marinai felici, poi si udì uno spaventoso colpo! La bella sbarra di ottone che correva lungo il parapetto, orgoglio del capitano giapponese, si spaccò davanti agli occhi del marinaio all'argano, poi la tolda si spezzò, sollevandosi e colpendolo alla faccia. Pochi istanti dopo, l'uomo scivolò nell'acqua gelida. Non vi era nulla da catturare della balena e nemmeno da recuperare. La coda era stata spazzata via, gli organi vitali dispersi da un secondo colpo di cannone. La pesante testa si era staccata dalla spina dorsale, quella grossa testa, così piena d'olio che era stata la parte più pregiata di una balena prima dell'avvento dei prodotti petroliferi, affondava lentamente, e gli occhi umani superstiti che potevano vederla, non guardavano.
3 IL CIMITERO MISTERIOSO Nei sobborghi della cittadina di G., nell'Austria orientale, si trova un misterioso cimitero, della misura di un acro scarso, che contiene i resti di povera gente le cui sepolture non sono contrassegnate affatto, o al massimo lo sono con frammenti di pietre tombali ora tutte fuori posto. Eppure, il cimitero divenne famoso per certe strane escrescenze, dalle forme tondeggianti di color verde-bluastro o bianchiccio, che spuntarono all'improvviso sulla superficie del suolo e crebbero, alcune di esse, fino a un'altezza di due metri o giù di lì. Alcune di queste escrescenze, simili a funghi, raggiunsero solo i cinquanta centimetri, altre anche meno, ed erano tutte di aspetto strano, come nient'altro in natura, nemmeno il corallo. Quando sul terreno erboso e fangoso furono apparse parecchie di tali protuberanrze, il custode del cimitero richiamò l'attenzione di una delle infermiere dell'attiguo Ospedale nazionale. Il cimitero si trovava nella parte posteriore della costruzione in mattoni rossi dell'ospedale, così che non si riusciva a vederlo bene, se ci si avvicinava all'ospedale sull'unica strada che lo oltrepassava con una curva e portava poi all'ingresso principale del nosocomio. Il custode, Andreas Silzer, spiegò che aveva sradicato con la zappa un paio di queste escrescenze e le aveva gettate sul mucchio di concime, convinto che sarebbero marcite, ma non era stato così. «Sono solo funghi, ma ne vengono su ancora,» disse Andreas. «Ho messo giù un funghicida, ma non vorrei distruggere i fiori con un preparato troppo violento.» Andreas si prendeva cura con molto zelo di viole del pensiero e di cespugli di rose e simili, piantati dai pochi parenti dei defunti. Qualche volta riceveva qualche mancia per i suoi servigi. L'infermiera non rispose per parecchi secondi. «Ne parlerò al dottor Müller. Grazie, Andreas.» L'infermiera Susanne Richter non riferì quanto le aveva detto Andreas. Aveva le sue buone ragioni. La prima era che Andreas probabilmente esagerava e che aveva visto solo un po' di funghi sopra le pietre tombali, a causa di tutta la pioggia che c'era stata ultimamente; la seconda era che lei sapeva stare al suo posto, che non era poi male, e ci teneva a conservarlo e a non farsi la fama di una ficcanaso che s'impicciava di cose avvenute in zone che non erano di sua competenza, cioè il cimitero. Quasi nessuno metteva piede nell'oscuro campo dietro l'Ospedale nazionale, tranne Andreas, che aveva quasi sessantacinque anni e viveva in città
con la moglie. Andava al lavoro in bicicletta tre giorni alla settimana. Andreas era semipensionato e riceveva uno stipendio per la cura dei terreni del cimitero e dell'ospedale, in aggiunta alla pensione di stato. Ai circa tre funerali che si celebravano ogni mese provvedevano il sacerdote locale, che per l'occasione pronunciava poche parole, i becchini che intervenivano per colmare la fossa, e solo la metà delle volte un membro della famiglia del defunto. Alcuni degli uomini e donne anziani che morivano erano completamente soli al mondo, o i figli vivevano lontano. Era proprio un posto triste, l'Ospedale nazionale numero trentasei. Non era triste, però, per un giovane studente di medicina dell'università di G., che si chiamava Oktavian Ziegler. Aveva ventidue anni, era alto e sottile, ma era dotato di un'energia e di un senso dell'umorismo che lo rendevano popolare fra le ragazze. Era anche uno studente brillante e godeva di un certo favore da parte degli insegnanti. Oktavian, che doveva il nome al Cavaliere della rosa (il padre, suonatore di oboe, adorava la musica di Richard Strauss e aveva sperato che magari il figlio diventasse un compositore), era stato infatti invitato ad assistere a degli esperimenti che i medici interni e un paio dei suoi professori stavano conducendo all'Ospedale nazionale sui malati di cancro all'ultimo stadio. Questi esperimenti avvenivano in una grande stanza all'ultimo piano dell'edificio, dove c'erano lunghi tavoli, molti lavandini e una buona illuminazione. Non erano indispensabili particolari condizioni igieniche, poiché a quel piano gli esperimenti venivano eseguiti sui cadaveri oppure su parti di tessuto canceroso, prelevate da un malato vivo o da un cadavere prima che fosse seppellito nel cimitero. I medici cercavano di saperne di più sulle cause, i rimedi e le ragioni dello sviluppo del tumore, una volta instaurato. Quello stesso anno, in America, gli scienziati avevano scoperto che una particolare «mutazione» in un gene costituiva una base di partenza verso il cancro, ma la terribile malattia necessitava di un ulteriore secondo passo perché le cellule maligne cominciassero a formarsi. Agenti cancerogeni era il termine generale per designare gli elementi che, una volta introdotti nelle cavie o in qualsiasi organismo, potevano dare l'avvio al tumore, se l'organismo che li riceveva aveva tale predisposizione. Questo era quanto comunemente si sapeva. I medici e gli scienziati dell'Ospedale nazionale volevano saperne di più: la velocità e i motivi dello sviluppo, la reazione del cancro quando dosi massicce di cancerogeni venivano iniettate in un tessuto già canceroso; esperimenti che non era facile condurre su soggetti viventi, ma che potevano essere fatti su un organo o un prelievo di tessuto che venissero ali-
mentati indipendentemente con la somministrazione di sangue mediante, ad esempio, una piccola pompa. Non c'era modo di purificare una certa quantità di sangue, se non riciclandolo attraverso depuratori o con il continuo apporto di sangue fresco, ma nessuno dei medici desiderava portare avanti un esperimento per settimane e settimane. Ciò che i medici e Oktavian osservarono su una sezione di fegato canceroso (prelevata da un paziente morto) fu che il tessuto malato, dopo aver ricevuto agenti cancerogeni, continuò a crescere, anche dopo che la somministrazione di sangue fu sospesa e il sangue venne completamente drenato. I medici non intendevano cercare di scoprire quali dimensioni avrebbe raggiunto, anche se ne conservarono una parte per l'osservazione al microscopio, nel caso potesse fornire qualche nuova informazione. L'eliminazione di questi resti ormai inutili aveva luogo nello scantinato dell'ospedale, dove c'era una caldaia di media grandezza, separata dall'impianto di riscaldamento e usata solo per bruciare bende e materiale infetto d'ogni genere. Ciò non accadeva con i circa tre cadaveri al mese che venivano seppelliti nel cimitero senza essere imbalsamati e qualche volta solo avvolti in un sudario, anziché in una cassa di legno. In certi malati di cancro ai loro ultimi giorni, quando la morfina aveva intorpidito i loro sensi e l'anestesia locale faceva il resto, i medici iniettavano agenti cancerogeni, sperando in risultati a sensazione, come potrebbero dire i giornalisti, anche se i medici non avrebbero mai usato una simile terminologia. I tumori si ingrandivano e i pazienti, che erano già prossimi alla fine, morivano, e non sempre ciò avveniva prima, come conseguenza di questi esperimenti. Qualche volta le parti aumentate di volume venivano asportate, ma non sempre. A Oktavian era affidato il compito, che era considerato un lavoro adatto a uno studente, di curare che i cadaveri serviti per gli esami venissero fatti scendere con il vecchio grande ascensore di servizio dal laboratorio dell'ultimo piano al cimitero, dopo una breve sosta all'obitorio sotterraneo, per essere messi nella bara o nel sudario. I becchini erano lavoratori a orario ridotto con altre attività. Oktavian doveva telefonare a due o tre di loro, qualche volta con breve preavviso, e tutti facevano del loro meglio. Uno dei becchini di solito era un po' sbronzo, ma Oktavian si adattava a questo lavoro, scherzava con gli uomini e si assicurava che la fossa fosse abbastanza profonda. Qualche volta erano costretti a sotterrare un cadavere sopra o proprio a fianco di un altro. A volte veniva gettata giù della calce. Tutto questo, ovviamente, riguardava i morti poveri, che non avevano parenti che se ne occupassero. Fu durante una di queste inumazioni in au-
tunno che Oktavian notò le escrescenze tondeggianti di cui Andreas aveva riferito all'infermiera proprio pochi giorni prima. Oktavian se ne rese conto mentre fumava una delle sue saltuarie sigarette e batteva i piedi per difendersi dal freddo. A un tratto, si rese conto di cosa fossero e di cosa le avesse provocate, ma non disse una parola agli sterratori accanto a lui. Ne esaminò una che era lì vicino (ne contò almeno dieci), inciampando, mentre camminava, su una pietra tombale caduta, poiché era una notte piuttosto scura. La «cosa» appariva bianco-azzurrognola, era alta circa quindici centimetri, arrotondata in cima in qualcosa di simile a una spira o piega, che scendeva giù fino a metà e spariva nella terra. Oktavian fu sorpreso, divertito, preoccupato, tutto quanto insieme. A confronto con quanto lui e i suoi superiori avevano prodotto in laboratorio, queste escrescenze erano enormi. Ma quanto dovevano essere grosse nel sottosuolo, per essere riuscite a spingersi per quasi due metri fino alla superficie? Oktavian tornò dai becchini e si accorse che aveva trattenuto il respiro. Immaginava, anzi era quasi sicuro, che quelle escrescenze laggiù al buio erano altamente contagiose. Riunivano in loro gli agenti cancerogeni iniettati dai medici e le virulente cellule primarie che avevano causato il tumore. Quanto sarebbero cresciute? E che cosa le alimentava? Domande terrificanti! Oktavian, come la maggior parte degli studenti di medicina, ogni tanto mandava ai compagni qualche strano pezzo anatomico. Era quasi un segno di affetto, per un compagno, ricevere per posta un dono simile da parte di una studentessa, ma qualcosa di questo genere? No. «Calpestiamolo!» disse Oktavian agli operai, e diede l'esempio, cominciando a pigiare il rigonfiamento del terreno che contrassegnava la nuova tomba. Pigia, pigia, pigia, fecero tutti insieme. Ma quanto tempo trascorrerà, si chiedeva Oktavian, prima che una pallida spirale si faccia strada a forza attraverso il suolo? Il giovane conservò il suo segreto fino al sabato sera seguente, quando ebbe un appuntamento con Marianne, la ragazza che al momento, da circa un mese, considerava la sua ragazza preferita. Marianne non era molto graziosa, studiava come una matta, di rado trovava il tempo per mettersi il rossetto e a malapena si pettinava i capelli castano chiaro per i loro appuntamenti, ma Oktavian l'adorava per la sua capacità di ridere. Dopo tutto il suo sgobbare sui libri, sapeva assaporare la gioia della libertà quando li chiudeva, e a Oktavian piaceva pensare, anche se era troppo razionale per crederci, di essere lui l'unica causa della trasformazione della ragazza.
«Qualcosa di speciale stasera,» disse Oktavian, quando la passò a prendere all'ingresso a pianterreno del suo pensionato. Lui le aveva chiesto di mettersi le soprascarpe, e lei aveva ubbidito. Oktavian aveva una motocicletta a due posti. «Non mi dirai che faremo una passeggiata al buio?» «Aspetta!» E Oktavian si avviò rombando sulla moto. Scendeva una pioggerella sottile e vi erano raffiche di vento gelido. Una serata pessima, ma era sabato sera, e Marianne si aggrappò alla vita di Oktavian, chinò la testa protetta dal casco e rise, mentre Oktavian si addentrava nella campagna. «Eccoci!» disse alla fine, fermandosi. «L'ospedale?» «No, il cimitero,» sussurrò lui e le prese la mano. «Vieni con me.» Le tenne la mano per tutto il tragitto. Le spettrali, esangui escrescenze erano più alte, pensò Oktavian, o si trattava della sua immaginazione? Marianne restò senza parole per lo stupore. Non riusciva a ridere. Respirò con affanno, sconcertata. Oktavian le spiegò che cosa fossero quelle escrescenze. Aveva portato la torcia. Un bulbo era alto quasi un metro! Somigliava quasi a un feto, osservò Marianne, a quello stadio in cui pesci e mammiferi mostrano le loro rudimentali branchie sotto la testa in via di formazione. Marianne era un tipo poetico, Oktavian non avrebbe mai potuto fare un'osservazione del genere. «Che cosa facciamo?» sussurrò. «I medici lo sanno?» «Non so,» rispose Oktavian, «qualcuno glielo riferirà.» Oktavian aveva tentato di trascinarla verso il centro del campo buio. Più in là, alla loro sinistra, si profilava la costruzione a cinque piani dell'ospedale, con metà delle finestre illuminate, e le luci dell'ultimo piano erano accese. «Guarda lì!» gridò Oktavian, dopo che la sua torcia vagante aveva sfiorato qualcosa. Si trattava di una doppia escrescenza, quasi come una coppia di gemelli siamesi uniti per i fianchi, con due teste distinte e due braccia che presentavano delle dita, non cinque dita per ogni mano, ma qualcosa di simile a delle dita, all'estremità di entrambe. Era solo un caso, però era strano. Oktavian fece un mezzo sorriso, ma non riuscì a ridere. Marianne gli diede uno strattone. «Va bene,» disse lui. «Giuro, credo di averne appena visto uno crescere!» Marianne si avviò davanti a lui verso la moto. A Oktavian sembrava sbalorditivo che nessun medico o infermiera avesse mai gettato uno sguar-
do e visto che cosa stava succedendo in quel camposanto. Era buffo pensare che medici, interni, infermiere fossero tutti così affaccendati nei loro soliti compiti, da non avere pochi secondi per guardare fuori dalla finestra o fare un giretto! Mezz'ora più tardi, mentre sedevano in una piccola locanda a mangiare un goulash caldo e piccante, con un fuoco allegro che crepitava in un camino non lontano da loro, Marianne e Oktavian risero, anche se in modo nervoso e convulso. «...bisogna dirlo a Hans!» esclamò Oktavian. «Darà i numeri!» «E Marie-Luise, e Jakob!» ridacchiò Marianne, tornando a essere la ragazza del sabato sera. «Meglio organizzare una festicciola. Presto. Perché c'è poco tempo,» disse Oktavian con serietà, attraverso la tavola. Marianne sapeva quel che intendeva dire. Fecero dei programmi, stesero una lista di una dozzina di selezionati o giù di lì. Decisero che avrebbe dovuto essere per il prossimo martedì sera. Il prossimo sabato poteva essere troppo tardi, l'ospedale avrebbe potuto scoprire le condizioni del cimitero e fare qualcosa in proposito. «Una festa di spiriti,» disse Marianne. «Verremo con addosso delle lenzuola, anche se piove.» Oktavian non rispose, perché Marianne lo conosceva abbastanza bene da sapere che era d'accordo. Stava pensando se l'acqua piovana poteva aver contribuito alla crescita di quei tumori malsani. O il terreno? Dopo che il sangue presente nei cadaveri si era esaurito, i vasi sanguigni in attività che alimentavano i tumori potevano forse aver cominciato a catturare i vermi e le larve come loro magro nutrimento? I capillari erano forse arrivati a estendersi fino a raggiungere i cadaveri adiacenti? Qualsiasi fosse la risposta a tutte queste domande, rimaneva chiaro il fatto che la morte di chi lo ospitava non significava affatto la fine del cancro. Vi furono dei sorrisetti e un po' di sprezzante scetticismo, quando Oktavian e Marianne fecero con molta circospezione degli inviti verbali per una vera festa di spiriti, fissata per martedì notte al cimitero dell'Ospedale nazionale numero trentasei. Le istruzioni erano di indossare un lenzuolo o di portarne uno con sé, e di presentarsi a un quarto a mezzanotte. La sera di martedì scendeva ancora una pioggia sottile, anche se c'erano stati due o tre giorni senza che piovesse, e Oktavian aveva sperato che il bel tempo avrebbe tenuto. Tuttavia, la pioggerella non scoraggiò gli animi dei dodici o più studenti di medicina, che più o meno puntualmente giun-
sero al cimitero, alcuni in bicicletta, come se fossero stati ammoniti a non far chiasso, perché nessuno desiderava che il personale ospedaliero piombasse loro addosso. Vi furono degli «Oooh!» e altre esclamazioni soffocate, quando gli studenti, bardati con le lenzuola, ispezionarono il terreno delle sepolture, anche se Oktavian aveva raccomandato a ognuno di stare zitto. «È tutto falso! Sono palle di plastica. Tu... come ti chiami...!» sussurrò una ragazza in maniera udibile per Oktavian. «No! No!» sussurrò Oktavian di rimando. «Dio mio! Guarda qui!» gridò un giovane, tentando di tenere bassa la voce. «I malati di cancro? Santa madre di Dio, Okky, che razza di esperimenti si fanno qui?» chiese un tizio accanto a Oktavian in tono serio. Figure paludate volteggiavano nel cimitero, muovendosi fra le pietre tombali nella notte senza luna e tenendo le torce tascabili cautamente orientate verso il basso per evitare di inciampare e di essere scoperti. Oktavian aveva pensato di chiedere loro di eseguire un girotondo di spiriti intorno al cimitero, ma aveva paura di usare la voce, tuttavia non ce ne fu bisogno. Spinti dall'eccitazione nervosa, dalla paura, dal disagio collettivo, gli studenti iniziarono una danza, dapprima non tutti nella stessa direzione, ma ben presto disponendosi in un cerchio antiorario che incespicava, si riprendeva, tenendosi per mano, canticchiando, ridacchiando e facendo ondeggiare al vento i diafani e fradici lenzuoli. Le luci dell'Ospedale nazionale brillavano più che mai. Oktavian notò che quasi metà delle finestre erano dei luminosi rettangoli di luce. Lui teneva la mano di Marianne e quella di un altro compagno. «Guardate questo! Ehi, guardate!» esclamò la voce di un ragazzo. Stava facendo convergere la luce della torcia su qualcosa che gli arrivava al fianco. «Sotto è rosa, lo giuro!» «Chiudi il becco, per amor del cielo!» gli sussurrò di rimando Oktavian. In quel momento, Oktavian vide un giovane dall'altra parte del cerchio dare un calcio a una massa chiara e lo sentì ridere. «Sono fissati al terreno! Sono di gomma!» Oktavian l'avrebbe ammazzato, quello! Non meritava di prendere la laurea in medicina! «È una cosa vera, sciocco!» disse Oktavian. «E sta' zitto!» «Maculato, chiazzato, malato, sotterrato,» cantavano gli studenti, dondolando le gambe a ritmo di conga. Il cerchio ruotava lentamente. Risuonò un fischio.
«Via, corriamo!» gridò Oktavian, accorgendosi che un guardiano dell'ospedale li aveva visti o sentiti, forse il vecchio che per la metà delle volte a mezzanotte dormiva proprio nell'ingresso principale. Oktavian corse con Marianne verso la sua moto in fondo alla strada. Gli altri seguirono ridendo, cadendo, gridando. Alcuni avevano la macchina, ma le macchine erano più lontano, a una certa distanza. «Ehi!» gridò Oktavian a un ragazzo e a una ragazza accanto a lui, «mantenete il segreto. Passa parola!» Si dispersero in un silenzio sorprendentemente discreto, dopo aver piegato le lenzuola, come un esercito ben addestrato. Oktavian sospinse la moto per parecchi metri prima di accendere il motore. Dietro di loro, delle sagome si muovevano lentamente con le torce, gente proveniente dall'ospedale che ispezionava tutt'attorno i confini del cimitero. Nei giorni seguenti, Oktavian si tenne fuori dalla faccenda. Aveva parecchio lavoro all'università, e così anche gli altri. Diedero però un'occhiata al G. Anzeiger, il giornale della città. Non vi era neppure il più piccolo accenno a «disordini» o «vandalismo» nel cimitero dell'Ospedale nazionale, e Oktavian aveva previsto questo silenzio: le autorità non potevano permettersi di riferire che qualcuno aveva calpestato le tombe o rovesciato qualche fioriera, perché poi sarebbe successo che i parenti del defunto sarebbero venuti a sistemare il danno e a lamentarsi dell'incuria, e l'ospedale non voleva che il pubblico venisse a sapere delle strane escrescenze, ormai in numero sufficiente per essere notate da tutti. Secondo Oktavian, il personale dell'ospedale doveva essere seriamente allarmato. Il giovedì sera, Oktavian arrivò come sempre all'Ospedale nazionale alle nove per aggregarsi ai medici all'ultimo piano. Aveva sbirciato verso il cimitero, mentre parcheggiava la moto. Il cimitero era scuro come sempre, ma il ragazzo vi aveva scorto ancora delle spettrali forme rotonde, sei o sette, forse le stesse che già c'erano. Di sopra, l'atmosfera era diversa. Il dottor Stefan Roeg, il più giovane dei medici e quello con cui Oktavian si intendeva meglio, gli disse salve e poi buona notte quasi con la stessa frase. Aveva in mano soprascarpe e ombrello, anche se non pioveva, ed era evidentemente tornato giusto per riprenderli. Il vecchio professor Braun, che aveva la testa fra le nuvole, testa che, tra l'altro, era calva tranne che per delle lunghe ciocche di capelli grigi sulle orecchie, fu il solo di loro sette che si comportasse come al solito. Era pronto a discutere dello «sviluppo» delle piccole sezioni di tessuto sotto vetro dalla scorsa settimana.
Oktavian capì che gli altri avevano rinunciato a seguire. Avevano le facce atteggiate in un sorriso educato, mentre auguravano la buona notte al professor Braun. «È pericoloso,» disse in fretta un medico al professor Braun, prima di allontanarsi. Anche Oktavian fece in modo di svignarsela. Il vecchio professor Braun avrebbe continuato a lavorare, tutto solo, fin dopo mezzanotte? Oktavian e i medici restarono in silenzio, mentre scendevano pesantemente per le cinque rampe di scale. A Oktavian sembrò saggio non fare domande. Erano tutti a conoscenza di uno spaventoso segreto. I medici lo trattavano come uno di loro, anche se era un semplice studente. I dottori avevano per caso un piano d'azione? O, semplicemente, avrebbero tenuto nascosta la cosa? In qualche modo, qualcosa trapelò. Quando vi fece una rapida visita in moto, Oktavian notò che alcuni cittadini curiosi si erano recati a spiare il cimitero da una certa distanza. Quei tre o quattro non si azzardavano a entrare nel cimitero, ma si limitavano a restare ai bordi, fissando le escrescenze, che nella luce del crepuscolo sembravano palloncini legati. Erano spettri, gli spiriti malvagi dei criminali e delle persone orribilmente malate che erano state sepolte lì; era il risultato bizzarro della pioggia radioattiva dovuta agli esperimenti atomici; era a causa delle condizioni malsane dell'Ospedale nazionale, che tutti sapevano non essere il più moderno del paese. Marianne riferì a Oktavian qualcuna di queste spiegazioni, udite dalle inservienti del suo pensionato che non avevano neppure visto il cimitero. La morte di Andreas Silzer fu annunciata nel G. Anzeiger con un trafiletto. «Il fedele custode dei terreni dell'Ospedale nazionale.» Era morto per «metastasi tumorale». Secondo Oktavian, il povero vecchio Andreas era stato esposto per mesi alle escrescenze del cimitero. Le autorità avrebbero mai ripulito il luogo? Un sabato sera, Oktavian e Marianne andarono all'Ospedale nazionale e videro due grandi camion nel parcheggio dell'edificio. Un paio di lanterne sul terreno del cimitero davano un po' di luce, e i due ragazzi scorsero delle sagome che si spostavano qua e là. A un controllo più attento, riuscirono a vedere che quelle figure portavano mascherine da sala operatoria e uniformi grigie e maneggiavano picconi e badili con le mani protette da guanti. «Gli addetti alle pulizie!» mormorò Marianne. «Guarda! Stanno ficcando quella roba dentro grossi sacchi di plastica!» Oktavian li vide. «Poi che ci faranno con i sacchi?» domandò quasi a se
stesso. «Vieni, andiamocene.» Solamente due giorni dopo, uno degli addetti alle pulizie ebbe un collasso. La moglie si rifiutò di farlo ricoverare all'Ospedale nazionale e disse che si era ammalato per aver lavorato nel cimitero. Questa sua affermazione fece uscire tutto allo scoperto, poiché le sue parole furono pubblicate sull'Anzeiger. Subito, gli altri addetti alla disinfezione cominciarono a lamentare nausea e debolezza. Il cimitero e qualche metro di area circostante vennero recintati da una palizzata di robusto filo metallico, con segnali di pericolo di morte appesi a intervalli. Un'ampia apertura nella palizzata permetteva l'ingresso di un bulldozer che smuoveva il terreno. Disinfettanti di ogni tipo furono versati abbondantemente sul terreno da operai che indossavano tute e maschere. I malati e il personale furono evacuati dall'Ospedale nazionale, e l'edificio stesso fu pulito a fondo e disinfettato. L'Anzeiger disse che uno strano fungo aveva aggredito il cimitero e che, finché le autorità sanitarie non ne sapessero di più, si era ritenuto saggio chiudere la zona al pubblico. Ma le escrescenze continuarono a spuntare, dapprima piccole, basse forme tondeggianti, sull'intera superficie rimossa del cimitero, poi vi furono delle crescite più rapide, come spuntate dal nulla, di uno o due metri in quindici giorni. Vennero degli artisti a farne degli schizzi, seduti su sgabelli pieghevoli. Degli altri presero delle istantanee, e i più cauti stavano a una certa distanza e guardavano col binocolo. Si parlò di un massiccio sgombero della terra del cimitero fino a una profondità di due o tre metri. Ma le autorità dove l'avrebbero fatta scaricare? Quelli della Tutela del mare qualche settimana prima avevano fatto approvare una legge: la terra del cimitero dell'Ospedale nazionale numero trentasei di G. non doveva essere scaricata nell'oceano o nel mare. Agricoltori ed ecologisti del paese protestarono contro l'interramento del suolo del cimitero nel loro territorio, o in un territorio pubblico, a qualsiasi profondità. Le guardie di frontiera dei paesi confinanti controllarono doppiamente i camion che uscivano dalla nazione, per paura che nascondessero detriti del cimitero. Allora fu deciso l'incenerimento. L'indennità di rischio raggiunse quote assurde per gli uomini che lavoravano con le gru, per mettere la terra in contenitori che venivano condotti all'entrata posteriore dell'ospedale, dalla quale tanti cadaveri erano passati in direzione opposta. La vecchia, grossa caldaia da riscaldamento e la grande fornace dell'ospedale erano di nuovo in funzione, le sole cose che funzionassero nell'edificio. Le ceneri risultarono una massa minore rispetto alla terra, una massa nera e grigio scuro,
ma furono maneggiate dagli addetti con analoga cautela. Queste ceneri dovevano essere buttate in mare? No, anche questo era proibito. Non c'era altro da fare con le ceneri, se non ammassarle provvisoriamente in robusti sacchi di plastica nell'obitorio al seminterrato e al pianterreno dell'edificio. Eppure le escrescenze continuarono a spuntare, come se centinaia di spore fossero state sparpagliate a causa di tutto quello scavare e picconare, ma Oktavian rifletté che era solo frutto dell'immaginazione, perché i tumori non si sviluppavano da spore. Tuttavia, era stupefacente come fosse fertile il terreno del cimitero! Ma il ragazzo si dimenticò dell'Ospedale nazionale, mentre dava i suoi esami finali. Marianne aveva ancora un anno di studio, poi pensavano di sposarsi. Malgrado qualche clamoroso biasimo ufficiale, ma con il plauso della sinistra radicale per le arti, alcuni scultori cominciarono a inserire nelle loro mostre delle opere ispirate alle forme viste e abbozzate al cimitero dell'Ospedale nazionale numero trentasei. Queste sculture non erano sgradevoli, poiché erano composte di molte curve come natiche o seni, a seconda di come si preferiva interpretarle. Qualcuna vinse dei premi. Una scultura semiastratta somigliava a una donna grassoccia che reggeva un pallone; un'altra, che ritraeva una figura seduta, fu intitolata «Maternità». Il suolo del cimitero, anche se diminuito di livello, continuò a buttar fuori i suoi strani frutti. Operai con tanto di maschera e guanti, perlopiù vecchi pensionati, ne intaccavano le basi con i badili, come se avessero picconato erbacce tenaci nel giardino di casa. Le radici di qualche escrescenza erano così profonde, che gli operai pensarono di proporre che il suolo venisse scavato e bruciato di nuovo. Le autorità cittadine erano stufe. Avevano già speso milioni di scellini. Avrebbero semplicemente voluto tenere l'intera zona recintata e cercare di dimenticarla. La strada che passava di lì non portava da nessuna parte, se non oltre l'ospedale vuoto e su verso la montagna, dove si trasformava in un sentiero usato perlopiù dagli escursionisti. Il cimitero sarebbe stato dimenticato. La stampa aveva già calato il silenzio sull'argomento. Si sapeva che i medici avevano eseguito esperimenti relativi al cancro all'Ospedale nazionale, ma il biasimo per le condizioni del cimitero andava ripartito fra così tanta gente, che nessun medico o amministratore dell'ospedale fu accusato di questa responsabilità. Le autorità si sbagliavano a pensare che il cimitero sarebbe stato dimenticato. Diventò un'attrazione turistica, superando di molto a G. la popolarità della casa natale di un poeta minore. Le cartoline del cimitero si vendevano straordinariamente bene. Vennero degli artisti da molte parti e anche
scienziati (anche se le loro prove su dei campioni presi dal cimitero non fornirono ulteriori informazioni sulle cause e le terapie del cancro). Artisti e critici d'arte osservarono che i disegni della natura, come dimostravano le crescite nel cimitero, superavano per inventiva quelle dei cristalli e non erano disprezzabili dal punto di vista estetico. Alcuni filosofi e poeti paragonarono le forme grottesche a una distruzione dell'anima dell'uomo per sua stessa mano, a un'insana forzatura della natura, come quella che aveva portato all'esecrata bomba atomica. Altri filosofi però controbatterono: «Il cancro non è naturale per l'uomo?» Oktavian fece notare a Marianne che potevano fare questa domanda in tutta sicurezza, perché la risposta poteva essere sì e no, o sì o no, a seconda della gente, e il discorso poteva andare avanti all'infinito. 4 OPERAZIONE BALSAMO, O NOLI-ME-TANGERE Three Mile Island era stata una catastrofe, uno scacco quasi fatale, non c'era alcun dubbio e tanto valeva parlar chiaro. Un disastro che aveva messo in guardia il popolo americano non solo sul fatto che a una centrale atomica può capitare di guastarsi e di lasciar fuoruscire nell'atmosfera gas radioattivi, ma anche sul fatto che le autorità governative per il controllo nucleare mentivano ai cittadini. «Non c'è nulla di cui preoccuparsi, gente. Tutto è sotto controllo,» avevano detto radio e televisione, sia durante quei primi giorni di ansietà che durante le settimane seguenti. E quale americano che si fosse trovato a quel tempo nel paese sarebbe mai riuscito a dimenticare o a perdonare una cosa simile? O il fatto che quattro anni più tardi gli uomini addetti alla decontaminazione non potessero ancora entrare nella zona centrale del reattore dove si trovava il nocciolo danneggiato? E che quando quattro di costoro, vestiti come astronauti, vi erano infine penetrati, era successo che dopo pochi minuti uno di essi era quasi svenuto e si era stretto il capo tra le mani, dicendo di sentirsi male? Inoltre, con questa costosa operazione erano riusciti a portar via dal fondo solo un campione di rifiuti nucleari, invece dei quattro desiderati. Il fatto era che Three Mile Island non era ancora stata ripulita. Il fatto era che i proprietari della centrale e i comitati regolatori ne erano stufi marci e desideravano soltanto che Three Mile Island sparisse. Ma le torri erano sempre lì, una delle quali disattivata per sempre e inaccessibile. Come se le
cose non andassero già abbastanza male per la Commissione per il controllo nucleare, la gente aveva preso di mira il loro ufficio. Anche la CCN aveva mentito. Non era più possibile agli impianti atomici far partire di nascosto, nel cuore della notte, camion mastodontici perché trasportassero le scorie radioattive alle discariche in altri stati e se ne tornassero indietro, passando inosservati. Anche se i grossi camion viaggiavano con le diciture PANNOLINI PER IL BEBÈ ASCIUTTO O PESCE SURGELATO PER LA VOSTRA TAVOLA - CONSEGNA IMMEDIATA, le vecchiette delle piccole città stavano di vedetta dietro alla finestra di casa. Che ci facevano quegli enormi autotreni nella loro cittadina alle tre del mattino? Perché l'attraversavano così furtivamente? Le vecchiette e i boy-scout scrivevano lettere ai giornali locali, e da questi la cosa rimbalzava alla CCN. Parecchie volte la CCN era stata colta in fallo, e Washington aveva inviato loro una nota di biasimo perché avevano permesso lo scarico del materiale nelle quasi immediate vicinanze delle zone abitate. Per Benjamin M. Jackson, capo della CCN, l'esistenza era divenuta una morsa che lo stritolava lentamente. Durante tutto l'anno aveva sofferto di un'ulcera che aveva curato solo in parte, perché al termine della giornata (se la giornata aveva un termine) non voleva e non poteva rinunziare al solito paio di scotch whisky che gli pareva di essersi guadagnati e meritati. E non riusciva mai a smettere di preoccuparsi per il suo lavoro, che era maledettamente ben pagato, e che correva il rischio di perdere se avesse fatto presente troppo spesso a Washington quanto rare fossero ormai diventate le località per le quali lui e i suoi collaboratori potessero dare il benestare come pattumiera di schifezze radioattive. I mari erano fuori questione, perché tutte le navi da carico in partenza erano ispezionate minuziosamente, nel dubbio che trasportassero in Russia materiale strategico. Quanto alle foreste, erano tutte tenute sotto continuo controllo dalle guardie federali. C'era un tipo, all'Agenzia per il controllo ambientale, che gli avrebbe consentito lo scarico nel Parco statale dell'Oregon, ma costui non gli aveva mai potuto garantire il passaggio dei camion attraverso gli specifici posti di controllo nel parco, nonostante Benny Jackson avesse promesso che il materiale trasportato sarebbe stato interrato immediatamente. Con un giuramento e una firma, Benny si era impegnato a garantire che lo smaltimento delle scorie nucleari sarebbe avvenuto con la massima cautela, ma in realtà il suo incarico si era subito trasformato in quello di trovare a tutti i costi un posto qualsiasi dove potersi sbarazzare di quelle scorie.
In sogno, Benny aveva visto se stesso assegnare a ogni membro della sua commissione - e tra tutti loro erano centotrentasette - un contenitore di rifiuti di una centrale nucleare, affinché se lo portasse a casa ogni sera e lo svuotasse nella tazza del water, azionando poi lo sciacquone; era una vera sfortuna che non si potesse trattare a quel modo il materiale radioattivo. Con il passare dei giorni, l'opinione pubblica considerava con sempre maggior sfiducia gli impianti di energia nucleare e la loro efficienza, tanto che, a causa dell'intensità delle proteste locali, diveniva sempre più difficoltoso costruire nuove centrali. Poi un qualche genio di Washington, il cui nome Benny non seppe mai, forse perché era top-secret, ebbe un'idea: Washington avrebbe regalato a una certa università del Midwest uno stadio da football coperto, con una pista ovale e posti di gradinata, e sotto questo stadio, addirittura sotto il parcheggio sotterraneo, le scorie radioattive, racchiuse in contenitori di piombo sigillati, sarebbero state immagazzinate in grandi camere di calcestruzzo e dimenticate. «Non è una zona sismica...» diceva il memorandum confidenziale di Benny riguardante il programma di cui, per il momento, lui non doveva far parola, neanche ai suoi collaboratori più stretti. La Well-Bilt Construction Company of Minnesota avrebbe iniziato subito i lavori, senza badare a spese, ed entro pochi mesi, diceva il memorandum, i primi autotreni sarebbero potuti scendere ai piani inferiori, perché la WellBilt avrebbe avuto come priorità la costruzione della struttura sotterranea. L'ulcera di Benny Jackson migliorò subito un po'. Quelli della Well-Bilt avrebbero lavorato ventiquattr'ore su ventiquattro e sette giorni alla settimana. Per Benny era stupefacente leggere quello che dicevano dello stadio in costruzione i giornali. Poiché l'attuale amministrazione non si era mai distinta per la sua generosità verso gli istituti didattici, il dono di Washington aveva grandemente sorpreso l'università. La facoltà e gli studenti, venuti a conoscenza dell'ampiezza e della bellezza del loro futuro stadio, avevano inviato a Washington un'enorme corona di fiori con un nastro che portava la scritta: «Signor presidente, vi ringraziamo!» Quando l'aveva letta, gli occhi di Benny si erano riempiti di lacrime per il sollievo, per la comicità della situazione e per il nervosismo. Adesso, alle richieste di nuove discariche, poteva rispondere per telefono che, tempo due mesi, sarebbe stato in grado di fornire un posto. «Ce la fate ad aspettare tanto?» Sapeva che avrebbero dovuto aspettare ben più a lungo, finiva sempre così, ma era piacevole poter dire o scrivere qualcosa che
sembrasse contenere un briciolo di verità. Benjamin Jackson aveva trentasei anni e capelli scuri e diritti, con uno spiazzo sul cucuzzolo della testa. Di costituzione snella, cominciava tuttavia a metter su un po' di pancia. Aveva una laurea in ingegneria civile conseguita a Cornell, moglie e due figli. Due anni prima, quando alla CCN c'era stato un rimpasto tra gli uomini a livello dirigenziale, gli era stato offerto il posto di direttore, e così Benny aveva lasciato il suo lavoro nel New Jersey al dipartimento per l'ecologia e si era installato con la famiglia nella sua attuale casa in West Virginia, tre chilometri di distanza dall'elegante complesso direzionale della CCN, una palazzina a due piani che in precedenza era stata una scuola privata di preparazione all'università. «Così, il noli-me-tangere adesso può essere toccato,» disse Gerald McWhirty, quando Benny gli riferì del progetto per lo stadio. «Una notizia confortante.» Gerry McWhirty non aveva l'aria contenta che Benny si aspettava, però non era neanche un tipo che si emozionasse facilmente. Inoltre, detestava i sotterfugi e le bugie e dava spesso a Benny l'impressione che detestasse il suo lavoro. Aveva conseguito il dottorato in fisica, ma la cosa che amava di più era condurre una vita tranquilla; gli piaceva occuparsi del suo giardino, fare dei lavoretti in garage, aggiustare l'apparecchio televisivo di qualche vicino o qualsiasi altro aggeggio che non funzionasse. Era molto bravo nell'ispezionare gli impianti, sebbene, secondo Benny, esageratamente meticoloso, tanto che lui aveva dovuto attenuare il tono dei suoi rapporti più di una volta. Per esempio, quando aveva scritto che il liquido di raffreddamento nella centrale di Wilkes-Barre era insufficiente, e che due «controllori notturni» di un impianto a Sacramento avrebbero dovuto essere sostituiti, perché «non conoscevano a fondo» le procedure d'emergenza da mettere in atto con la dovuta celerità. Benny era stato d'accordo riguardo ai controllori, ma aveva cancellato l'appunto sul liquido di raffreddamento, perché le cifre fornite da Gerry non gli erano parse sufficientemente rilevanti e degne di menzione da parte della CCN. McWhirty spesso faceva in tutto il paese dei giri di ispezione, spostandosi in aereo con qualche collaboratore. Ma Benny andò da solo, e in incognito, a esaminare i lavori dello stadio nel Midwest, perché era curioso di vedere come progredissero. Fu una vista veramente gratificante. Con la dinamite era stato creato un enorme scavo di forma ovale, le macchine per il movimento terra si muovevano senza sosta, e circa duecento operai si aggiravano sulla scena come
api attorno a un alveare. Ed era un sabato pomeriggio! «Gli spogliatoi e le docce si trovano di sotto, immagino,» disse Benny a un operaio che portava un casco protettivo in testa, tanto per sentire cosa rispondeva. «Ci sono anche i rifugi antiaerei,» ribatté l'uomo. «Anzi, dovrei chiamarli rifugi contro la pioggia radioattiva,» aggiunse con un ghigno, come se la cosa fosse assurda. Benny annuì col capo. «Un progetto coi fiocchi,» disse in tono cordiale. «Verrà fuori qualcosa di bello.» «Lei è uno degli architetti?» «No-o. Ma mi sono laureato qui,» rispose Benny, lanciando in direzione dei lontani edifici dell'università alla sua sinistra un'occhiata che cercò di far sembrare nostalgica. Fece poi un cenno di addio all'operaio, risalì sul tassi che l'attendeva e tornò all'aeroporto. Circa un mese più tardi, quando Benny pensava che la sua ulcera fosse semplicemente scomparsa, Love Canal diventò nuovamente un problema. L'Agenzia per il controllo ambientale denunciò «un inaspettato inquinamento delle acque da rifiuti chimici» a monte del Love Canal, in prossimità della città di Niagara Falls, e Benny ricevette una lettera personale da una testa calda di Washington, un certo Robert V. Clarke, il quale scriveva con il fanatismo di un carrierista alla ricerca di ogni occasione per salire un gradino della scala verso la promozione. Benny era pronto a scommettere che, in tempi brevi, a Clarke avrebbero tolto da sotto i piedi il primo piolo di quella scala, tuttavia la lettera era stata firmata anche da uno dei dirigenti dell'ACA, perché nel pattume di Love Canal erano presenti sia scorie nucleari, che «rifiuti chimici», una definizione questa adoperata spesso per mascherare i rifiuti radioattivi, quando il rapporto non voleva ammettere esplicitamente la presenza di radioattività. La firma del dirigente stava a significare che la CCN doveva fare qualcosa. Circa un anno prima, gli uomini della CCN erano andati ad analizzare l'acqua e l'aria di Love Canal, si erano fermati a mangiare, Benny se lo ricordava bene, e avevano dato il loro benestare a ciò che avevano visto ed esaminato: l'area era più che sicura per l'insediamento umano. Centinaia di famiglie, nel 1980, erano state evacuate da quella zona, quando era stato dichiarato lo stato di emergenza federale a causa delle discariche che vi erano state create negli anni quaranta e cinquanta. Il primo pensiero che si formò nella mente demoralizzata di Benny fu: qui, se la CCN e l'ACA devono avviare un nuovo programma di decontaminazione, con ulteriori esami per comprovarlo eccetera, finirà che
ci vorranno un mucchio di soldi... Che accidenti di casino! L'unico punto positivo della lettera era nell'ultimo paragrafo, in cui si diceva che la «revisione totale» da parte della ACA non sarebbe stata pronta prima di sedici mesi da oggi. Ma, nel frattempo, si richiedeva la collaborazione e l'attenzione della CCN. Love Canal, come Benny ben sapeva, era divenuto una attrazione turistica che ogni mese procurava entrate per migliaia di dollari. I motel, i ristoranti, i negozi di alimentari e le stazioni di rifornimento che vi si trovavano adesso erano numerosissimi, mentre prima del fuggi-fuggi non esistevano proprio. L'ACA non poteva lasciare le cose come stavano? Benny inghiottì una pillola per l'ulcera, per precauzione. Fortuna che almeno i proprietari dei motel e dei ristoranti non si sarebbero lamentati di quelle ultime cattive notizie! Benny compose e registrò una lettera per la sua segretaria. Disse che le improvvise infiltrazioni di agenti chimici nel Love Canal dovevano essere state causate da alcuni impianti a monte, in violazione alle norme stabilite congiuntamente dalla CCN e dall'ACA, allorché il suo comitato, guidato dal Tal-dei-Tali, in data tale, aveva ispezionato Love Canal e dichiarato le acque esenti da inquinamenti pericolosi. Benny omise di dire che la maggior parte dei dati raccolti dalla CCN proveniva dai proprietari di una centrale nucleare della zona, i cui chimici avevano provveduto a eseguire le analisi. Bugie, bugie, bugie! Tutti mentivano. In questo modo, Benny giustificava a se stesso le proprie menzogne, menzogne che spesso non erano che una presentazione tendenziosa dei fatti. Ciò che lo preoccupava era che le bugie non fossero abbastanza macroscopiche o abbastanza verosimili per soddisfare Washington, e che saltasse fuori qualche burocrate scrupoloso o qualche tirapiedi imbecille a piantargli una grana che gli avrebbe fatto perdere il posto. Infatti, la prima mossa di Washington, ovunque scoppiasse uno scandalo o si verificasse un caso di incompetenza, era quella di sostituire il capo del comitato regolatore. Una mossa che placava per un po' di tempo i malumori dell'opinione pubblica. Intanto, il programma di decontaminazione a Three Mile Island proseguiva ufficialmente, sebbene in realtà nulla si fosse mosso dall'entrata dei quattro uomini in tuta spaziale, avvenuta parecchi mesi prima. Il tizio che in quella occasione aveva avuto un collasso, era stato definito dai proprietari dell'impianto nucleare «una vittima dello stress causato dal calore», ed essi avevano anche aggiunto che i millirem da lui assorbiti erano 75, equivalenti cioè a «due volte e mezzo la dose di una radiografia del torace».
Gli altri tre si erano beccati 190 rem a testa. Il numero di rem (abbreviazione di millirem) che un organismo umano poteva sopportare era di 5000 all'anno, una cifra stabilita dal governo federale. I costosi tecnici per la decontaminazione nei loro costosi equipaggiamenti se ne erano già buscati, ognuno, tremila. Ora, con un livello di radiazioni di 200 rem all'ora (ridotti da 350, dicevano i proprietari della centrale), il capo della squadra di decontaminazione aveva deciso che lo stesso gruppo non poteva completare il lavoro senza assorbire radioattività al di là degli 8000, che costituivano il massimo delle radiazioni consentite a lavoratori con indosso tute protettive. «Questa è una delle ragioni per cui queste operazioni di repulisti sono così maledettamente costose,» aveva spiegato ai giornalisti un funzionario della società. «Tutta la protezione e l'addestramento e le prove che sono necessarie per ridurre il tasso delle dosi, accrescono di molto il costo dell'intera operazione, che già supera trecentottanta milioni di dollari.» Secondo l'opinione di Benny, la centrale di Three Mile Island non sarebbe mai stata decontaminata, mai, e adesso per giunta c'era un bruciatore che rimaneva ancora attivo e scaricava, senza dubbio, qualcosa nell'aria circostante... ma che andassero tutti all'inferno! C'era da ridere a vedere quanti curiosi e quanti turisti si avvicinassero in auto, di giorno e di notte, alle tre ciminiere di Three Mile Island, cercando di andarvi il più vicino possibile, quasi che la loro eccitazione crescesse con il diminuire della distanza di sicurezza. Forse, per loro era come poter «zumare» un incidente automobilistico, mentre la vittima giace ancora in mezzo alla strada, oppure riprendere un incendio mentre sta divorando un grattacielo. Un giornalista si era spinto a dire che la GPU, proprietaria della centrale, si era messa a reclamizzare Three Mile Island come un centro di attrazione turistica. Grazie a Gerald McWhirty, il progetto per lo stadio dell'università ricevette un nome in codice: Operazione Balsamo. Gerry spiegò che il frutto esplosivo dell'impianto noli-me-tangere gli aveva fatto venire in mente il balsamo, o meglio la balsamina, che in botanica ha il nome di Impatiens noli me tangere. Operazione Balsamo aveva un suono innocuo, e a Benny piacque moltissimo. Alla fine di giugno, un direttore della Well-Bilt inviò a Benny una lettera per informarlo che sul cantiere tutto filava a meraviglia, e che erano persino in anticipo sulla data stabilita; parte dei piani sotterranei erano addirittura già in uso. «Non capisco come tutto quel cemento possa essere già completamente
asciutto,» commentò Gerry McWhirty, incontrando per caso Benny in corridoio davanti al distributore automatico del caffè. Benny volse lo sguardo in giro. Non tutti nell'edificio erano al corrente dell'Operazione Balsamo o di ciò che essa comportava. «La Well-Bilt fa le cose per bene. Ricevono tutto il denaro necessario.» «È già qualcosa. Sappiamo cosa ha causato la catastrofe di Three Mile Island: il fatto che il costruttore mandava avanti i lavori in economia. Nell'Operazione Balsamo bisogna che i contenitori siano assolutamente a tenuta d'aria, non ci deve essere neanche un millimetro dovuto a cedimenti.» Benny lo sapeva benissimo. Le osservazioni di McWhirty avrebbero forse potuto preoccuparlo, ma lui era stufo di farsi prendere dall'ansia. L'unica cosa allegra della sua vita era, adesso, l'Operazione Balsamo. Di seccature ne aveva a bizzeffe. Lo stesso giorno in cui McWhirty aveva fatto la sua osservazione, il telefono della linea diretta con Washington squillò per Benjamin M. Jackson. «Ciao, Benny. Sono Matt. Ti ricordi di quella squadra addetta alla decontaminazione a Three Mile Island?» «I quattro che sono entrati nella camera vicino al nucleo, intendi dire?» Benny si immaginò un peggioramento dell'uomo che si era sentito male, e che questi fosse stato trasportato in un ospedale da dove aveva intentato causa ai proprietari della centrale. «Sì, be'... ce n'erano molti altri a prender parte a quella operazione, gli addetti alla sala di controllo... e anche donne. Hanno deciso di andarsene tutti in vacanza in California. Una specie di gita aziendale. Per far baldoria, sai? Ti avviso perché può darsi che ti arrivi qualche cicchetto in ufficio. La televisione si occuperà di loro, questa sera, e non volevo che ti venisse un colpo!» «Una gita aziendale? Vanno a far baldoria? Perché?» domandò Benny. «E chi lo sa? Certo sono su di giri, da come ho sentito. O si stanno ubriacando oppure sniffano coca. Adesso devo andare, ciao, Benny.» Benny guardò il telegiornale delle sei. Il giornalista conduttore del programma cercava di presentare la cosa in tono leggero. «...Operai e impiegati, esausti dopo le operazioni di decontaminazione a Three Mile Island, si sono riuniti e hanno deciso di essersi meritati una vacanza. Prenderanno oggi l'aereo a Filadelfia per andare tutti insieme, in prima classe, a San Francisco... hanno l'aria felice e contenta... ha, ha!... come i Legionari che, nei bei tempi andati, si trovavano per far baldoria al Gran Raduno di Atlantic City! Come si chiama lei, signore?»
Un uomo dallo sguardo confuso emise dei suoni incomprensibili che potevano corrispondere al nome di Joe Olsen come a quello di George O'Brien. «Godiamoci la vita, godiamocela tutta!» gridò Olsen, oppure O'Brien, interrompendo allegramente il giornalista. «È questo il nostro motto. Yippie!» «Andiamo a contaminarci ancora un po'!» aggiunse una donna con il rossetto sbavato sulla bocca. «Solo del buon sano divertimento!» disse il presentatore rivolgendosi sorridendo al pubblico. «Santo cielo! Quegli stramaledetti giornalisti ce l'hanno ancora con noi! Washington dovrebbe mandarli tutti a spasso, tutti sul lastrico!» Benny aggrottò minacciosamente la fronte, fissando per un istante la moglie allibita e poi andò diritto verso la sua bottiglia di whisky in cucina. Il resto di quanto le trenta e più persone avevano da dire sulla loro «scampagnata» non apparve né sul New York Times, né sul Washington Post, che pubblicarono solo la notizia della loro gita a San Francisco, ma c'erano degli articoli su Village Voice e Rolling Stone in cui si riferiva che il gruppo era ormai convinto di «essere stato contaminato irreparabilmente dalla radioattività». Una settimana dopo l'altra, si erano portati a casa dosi di radiazioni negli abiti, nei capelli, nella pelle, in cambio di una paga più alta e di una indennità di rischio; avevano l'impressione che anche le loro case e le loro famiglie fossero state contaminate e che a loro stessi rimanessero pochi anni di vita, e nessuno sapeva quanti, né cosa sarebbe loro successo. Perciò, prima che i capelli cominciassero a cadere e che la nausea impedisse loro di assaporare con gusto ciò che mangiavano, volevano godersi la vita. Il loro motto venne ripetuto. Mio Dio, perché non la piantano, pensò Benny. L'ulcera si rifece sentire in tutta la sua violenza. Non poteva raccontare a sua moglie dell'Operazione Balsamo, poteva però parlarle della sua ulcera, perché non sarebbe stato in grado di mangiare alcune delle pietanze che gli preparava. Alla fine, apparentemente, i vacanzieri se ne tornarono a casa, alla spicciolata e con maggior discrezione di quando erano partiti, però la faccenda era ormai di pubblico dominio. Qualcuno fu nuovamente intervistato e si meritò un trafiletto su Time e Newsweek, confermando quanto già detto. La società proprietaria della centrale di Three Mile Island li aveva licenziati tutti, ma gli ammutinati, una trentina di uomini e donne, asserirono di essere contenti di essere stati mandati via. Denunciarono la «schifosa manovra di insabbiamento» dei padroni dell'impianto e la CCN e persino l'A-
genzia per il controllo dell'ambiente, che avrebbe dovuto ora preoccuparsi della debole, ma continua fuoruscita di radioattività che stava danneggiando piante, animali e le persone abbastanza idiote da aggirarsi entro un raggio di venti miglia. Con fatica, l'ufficio di Benny Jackson compose un'altra circolare, appigliandosi a tutti i fatti favorevoli che riuscivano a trovare, e Benny non era neppure certo che si trattasse effettivamente di fatti certi, ma almeno erano stati pubblicati sul Post del settembre 1983, nello stesso numero che aveva riportato informazioni meno favorevoli e che Benny si guardò bene dall'usare. Citò invece: «Il portavoce dei proprietari dell'impianto di Three Mile Island riferisce che il 'programma di riduzione delle dosi', che ha come scopo la riduzione delle dosi di riadioattività per gli addetti alla decontaminazione, ha attualmente abbassato il livello di radiazioni da 350 millirem all'ora a circa 200 nel piano terra del complesso della centrale.» Benny si chiese, mentre dettava la dichiarazione, come i proprietari o chiunque altro potessero ridurre la radioattività, a meno di lasciarla uscire all'esterno, magari, si fa per dire, aprendo solo un po' una finestra. Dietro richiesta di Benny, Gerald McWhirty esaminò la lettera, si strofinò con energia i baffi rossicci e annuì senza commentare. «Penso che non sia male,» disse Benny «Un disastro!» esclamò McWhirty. «Questa è la mia opinione su Three Mile Island. Una centrale costruita in economia, lo sanno tutti!» Un vago patriottismo fece affiorare un sentimento di vergogna in Benny. L'America che lesinava sui quattrini! L'Inghilterra, la Francia, la Germania raramente e forse mai avevano avuto dei guai con le loro centrali nucleari, e di certo non guai così grossi e catastrofici, perché facevano le cose spendendo con dovizia e nel modo giusto. Fortuna che McWhirty non glielo avesse fatto rimarcare in quel momento, come aveva già fatto in passato. L'Operazione Balsamo fu completata negli ultimi giorni di luglio. La Commissione per il controllo nucleare ricevette un invito dalla Well-Bilt. «Le nostre installazioni sono adesso a punto. Sarete i benvenuti in qualsiasi momento per visionarle in anteprima e per un'ispezione privata e informale.» All'inizio Benny non voleva andare, perché il suo nome e la sua faccia erano conosciuti ai mass media. Cosa sarebbe successo se ci fosse stato in giro qualche giornalista? Magari a girovagare in superficie? «Non ci sarà anche l'inaugurazione ufficiale del campo da football, vero?» chiese a McWhirty, che aveva parlato al telefono con la Well-Bilt.
«No di certo. Non vorrei farmi sorprendere in quei paraggi neanche morto! Si tratta solo dell'Operazione Balsamo.» All'ultimo momento anche Benny partì, perché Douglas Ferguson, uno dei direttori della CCN e buon amico di McWhirty, aveva detto «Prendi un vecchio impermeabile e vieni con noi, Benny. Siamo solo in quindici. Si decolla domattina alle dieci e saremo di ritorno a casa prima di mezzanotte.» E così, Benny si infilò un vecchio impermeabile, che gli serviva un po' come travestimento. Con quello addosso, non aveva affatto l'aria importante. C'erano quattro auto di rappresentanza inviate dalla Well-Bilt ad attendere i funzionari della CCN all'aeroporto. Lungo tutto il bordo del tetto dello stadio, che pareva un gigantesco mezzo guscio d'uovo, sventolavano le bandierine, e sotto la luce del sole accecante il tappeto verde circostante brillava come uno smeraldo. «Stupendo!» esclamò Benny, stupefatto dei mutamenti avvenuti dopo la sua ultima visita di poco tempo prima. Un camion mastodontico, verniciato completamente di bianco, svoltò nella strada proprio dietro a loro, e Benny notò che, raggiunto un gruppo di alberi nel prato, si inclinava all'ingiù e poi spariva alla vista. Era uno di quelli, si disse Benny, carico di rifiuti radioattivi. Un insolito brivido di gioia per il successo ottenuto gli fece balzare il cuore in petto. Poiché nei sotterranei si supponeva si trovassero i rifugi atomici, l'ospedale e così via, si poteva pensare che quei camion trasportassero cibi disidratati, coperte e medicine. «Ingresso di servizio,» mormorò con un sorriso McWhirty, che aveva notato in che direzione andava lo sguardo di Benny. Al cancello li fermarono alcune guardie armate che poi fecero loro cenno di proseguire. Un uomo sulla cinquantina, vestito con eleganza, si presentò come Frank Marlucci, un sovrintendente della Well-Bilt. Insieme attraversarono le ampie sale d'accesso per gli spettatori dove si trovavano le biglietterie, delle panche e gli ascensori. «Immagino che come prima cosa vorrete visitare i piani sotterranei, no?» domandò Marlucci. Proprio così. Presero un ascensore che scese di parecchi piani, più giù di quelli con l'indicazione SPOGLIATOI e PARCHEGGIO. Uscirono in un corridoio di calcestruzzo dal soffitto alto circa quattro metri e mezzo. In fondo al corridoio ce n'erano degli altri, più grandi, abbastanza vasti per il
passaggio dei camion. Lungo i muri le frecce indicavano la direzione della circolazione dei veicoli. «Da questa parte, per favore, signori,» disse Marlucci. Benny udì, non lontano, il cambio di un camion che grattava mentre passava a una marcia inferiore. Nella zona centrale da cui si irradiavano i vari corridoi di transito, si vedevano i grandi contenitori in piombo che venivano scaricati dal fondo di un autotreno bianco mediante un carrello sollevatore. Un altro carrello li depositava con cautela su un nastro trasportatore. I contenitori sparivano lontano, come delle valigie in un aeroporto dopo che il passeggero ha espletato le formalità d'imbarco. La faccia di Benny si distese in un sorriso. Tutto gli sembrava così meravigliosamente solido, così isolato, così inattaccabile! Persino Gerry McWhirty ne era apparentemente impressionato. «E i locali? I magazzini?» domandò a Marlucci, gridando per sovrastare il baccano. Marlucci fece un cenno, e tutti ripresero a camminare. «Questo, per esempio,» disse l'uomo. Si fermò davanti a una porta d'acciaio di circa tre metri quadrati, aprì un coperchio di metallo alla sua destra e premette i pulsanti della serratura a combinazione. La porta si inserì, scorrendo, dentro il muro di cemento. «Questo locale è quasi pieno. Ma non del tutto.» Benny non riusciva a farsi un'idea dell'ampiezza di quella stanza, perché contro i muri erano stati allineati tre o quattro strati di grandi contenitori rettangolari che, sul fondo, già arrivavano a toccare il soffitto. McWhirty ebbe un attimo d'esitazione e poi entrò. Girò lo sguardo sui contenitori, sul pavimento di cemento e vi batté sopra con i piedi, come se con il suo peso-mosca, paragonato a quello dei contenitori, potesse incidere sulla stabilità della costruzione o provocare una vibrazione. «Posso vederlo chiuso un'altra volta?» chiese, mentre usciva dal locale. Marlucci schiacciò un pulsante e la porta scivolò fuori, chiudendosi. McWhirty fece scorrere il dito e l'unghia lungo il lato inferiore della porta. «Qui c'è un po' di gioco.» Marlucci scosse il capo con forza. «La porta scorre su una scanalatura, signore, tocca sul fondo, è fresata, a tenuta d'aria in un alloggiamento d'acciaio.» Benny voleva domandare quanto si supponeva fosse la durata dei contenitori di piombo, ma era lui che avrebbe dovuto saperlo. Avevano uno spessore di più di tre centimetri - fantastici - e parevano essere stati co-
struiti per l'eternità. Più in là, nel corridoio, McWhirty notò una crepa nel muro di cemento e vi passò sopra le dita. «Questo lo metteremo a posto,» disse Marlucci. «È una cosa normale, al momento.» I locali misuravano venti metri quadrati, disse Marlucci, rispondendo alla domanda di uno dei funzionali della CCN. Poi fece loro strada fino a un'ampia sala quadrata dalle pareti in cemento e il pavimento blu, attrezzata a uso del personale con il necessario per cucinare e dotata di frigoriferi, sedie e tavolini, di un bancone con gli sgabelli, di un distributore di sigarette e di servizi igienici... una visione quasi fantascientifica e completamente priva, per il momento, della presenza umana. «Appenderanno qualche manifesto,» disse Marlucci, sorridendo, «così il locale non sembrerà più tanto nudo. Si tratta in realtà solo della mensa degli addetti all'Operazione Balsamo, quindi non c'è bisogno di farla sembrare un bar alla moda.» McWhirty voleva vedere un'altra stanza per l'immagazzinaggio dei contenitori. «Magari una all'altro lato del sotterraneo, che ne dite?» Il gruppo camminò per una distanza uguale alla larghezza del campo da football, o forse anche di più. Dovettero schiacciarsi contro la parete per lasciar passare un carrello sollevatore che trasportava sei contenitori. A Benny parve di sentir tremare il pavimento sotto ai piedi. Che giù, oltre a quello, ci fosse un altro piano? A intervalli, lungo i muri erano fissati piccoli serbatoi rossi, e Benny pensò che fossero degli estintori, finché esaminandoli più da vicino, si accorse che portavano un'etichetta con la parola: OSSIGENO. Su ogni bombola era sistemato un arnese di gomma e vetro, simile a una vecchia maschera antigas, e il tutto era rinchiuso in una grossa bolla di plastica trasparente. Davanti a un'altra porta d'acciaio, tra le tante, Frank Marlucci si fermò e batté sui tasti della serratura digitale. «Quanto è pieno il sotterraneo, per ora?» domandò McWhirty. «Per un quarto? Un terzo?» «Per più della metà della sua capienza, signore,» rispose Marlucci, mentre la porta d'acciaio scivolava dentro al muro. «È sbalorditivo come si riempie in fretta. Bisogna dire, però, che gli autocarri continuano ad arrivare, di giorno e di notte, da... oh.. quasi un mese.» A queste parole, l'entusiasmo di Benny sbollì alquanto. Se avessero proseguito con quel ritmo, lui non sarebbe riuscito a servirsi di Balsamo per le due o tre spedizioni urgenti che aveva in mente. «Da dove vengono, per la
maggior parte?» domandò, sentendosi improvvisamente come un proprietario di casa il cui appartamento è stato occupato da una famiglia molto più numerosa di quanto pattuito. «Oh, ne sarebbe sorpreso, signore. Riceviamo ordini, top-secret naturalmente, da Washington di accettare carichi dal Texas, dalla California, dall'Ohio, da qualsiasi posto dove sorgano complicazioni. Quando arrivano qui, sono senza etichette, ma se i contenitori sono quelli autorizzati, siamo obbligati ad accettarli.» Benny sentì la collera montargli dentro. Era vero che erano le autorità superiori di Washington a decidere, ma perché né loro né l'Agenzia per il controllo ambientale gli avevano fatto sapere che stavano saturando quel posto? McWhirty era entrato nel locale riempito per metà e stava osservando attentamente le pareti che riusciva a vedere e i contenitori di piombo. «Hai con te una torcia elettrica, vero Doug? Controlla se ci sono crepe nel muro laggiù in fondo, fin dove riesci.» Douglas estrasse di tasca una pila ed entrò a sua volta. «Di questo passo,» disse McWhirty a Marlucci, «tra un mese, il sotterraneo sarà già al completo, no?» «Questo piano interrato...» corresse sorridendo Marlucci. «Be', direi fra tre o quattro settimane. Sarà completamente pieno e sigillato prima che inizi la stagione delle partite.» Spaventoso. Washington sarebbe stata costretta a regalare un altro stadio a un'altra università in qualche posto... e in fretta. Si avviarono verso un'uscita laterale del seminterrato che non avevano visto prima, da dove, disse Marlucci, si poteva salire con un montacarichi fino al piano terra e visitare l'interno dello stadio. Una volta fuori, sull'erba inondata dal sole, Marlucci scosse il capo, parlando con un uomo in blue jeans e in maniche di camicia, che gli si era avvicinato per chiedergli qualcosa. Benny si trovava abbastanza vicino a loro per udire la risposta di Marlucci: «I rifugi antiatomici sono ancora vuoti per il momento, e non c'è nulla da vedere. Stiamo ancora portando giù le attrezzature e i rifornimenti, come vi sarete accorto.» A Benny, mentre salivano una rampa di scale, Marlucci spiegò: «Era un professore dell'università. Adesso guardate che vista!» e con le braccia aperte fece l'atto di voler abbracciare il campo da football. Una pista grigia per le gare d'atletica leggera incorniciava il verde del campo. I posti di gradinata parevano non finir mai di salire verso l'alto,
vuoti, eppure come pronti e messi a fuoco per assistere a un dramma. «È veramente qualcosa di grandioso!» esclamò una voce tra il gruppo della CCN. Il signor Marlucci parlò del sistema di riscaldamento e di ventilazione dei locali adibiti al pronto soccorso per gli atleti e anche, nel caso ce ne fosse stato bisogno, per gli spettatori, e infine suggerì, se c'era abbastanza tempo a disposizione, di andare a bere qualcosa e mangiare un boccone in un ristorante delle vicinanze. Ma i funzionari della CCN non avevano tempo a sufficienza. Erano già passate le quattro, e il loro aereo partiva alle sei e un quarto. Il pomeriggio era trascorso in un attimo. Giunsero le auto di rappresentanza, seguì uno scambio di congratulazioni, ringraziamenti e saluti, poi le auto ripartirono in direzione dell'aeroporto. Benny Jackson si sedette accanto a McWhirty sull'aereo, perché voleva ascoltare dal collega le sue impressioni, finché erano a caldo. «Andremo a dare un'altra occhiata tra due settimane,» disse McWhirty. «Faremo noi il controllo dei rem lì sotto e in tutte le aperture di sfogo. Quelle crepe...» McWhirty fece una breve risata. «E poi si parla dei lavori fatti in fretta! Voglio parlarne a Doug.» Slacciò la cintura e si alzò. Benny sentì alle sue spalle la voce di McWhirty nel corridoio che chiedeva: «Dov'è Doug?» «Doug?» rispose un'altra voce. «Forse è andato alla toilette.» Un paio di minuti dopo, McWhirty si chinava su Benny, con una espressione angosciata sul volto. «Doug non è sull'aereo. Mi è appena venuto in mente che...» «Cosa?» chiese Benny. McWhirty si sedette rigido. «... Che non l'ho più visto da quando è entrato in quel locale dei contenitori. Pensi che sia rimasto chiuso là dentro?» «Cristo, no!» ribatté subito Benny, poi ripensandoci, aggiunse: «Non ho visto Marlucci richiudere la porta.» «Neppure io, ma... ho appena controllato con gli altri. Nessuno si ricorda di averlo visto all'aeroporto poco fa. È rimasto, là. Benny!» Con un enorme sforzo, Gerry riuscì a mantenere bassa la voce. «Telefoneremo alla Well-Bilt appena atterriamo.» «Potremmo usare la radio, adesso. Ci vogliono un paio d'ore prima dell'atterraggio.» «No,» disse Benny, scartando l'idea di mandare un messaggio radio dall'aereo per chiedere che fosse riaperto il locale dei contenitori. «No.»
Tutti e due ordinarono del whisky. «Probabilmente Doug ci telefonerà da qualche albergo di Indianapolis,» disse Benny. «Forse è andato alla toilette in quel piano interrato e poi non è più riuscito a ritrovarci.» Erano quasi le dieci di sera quando, all'aeroporto di West Virginia, trovarono un telefono. Benny si sentì rispondere che Frank Marlucci se ne era andato alle cinque e trenta. «Vorrei parlare con un incaricato del piano sotterraneo. Sono Benjamin Jackson della CCN. È urgente.» Dopo qualche minuto di attesa e molte offerte di altre monetine da parte dei funzionari della CCN che aspettavano fuori dalla cabina, un'altra voce maschile venne in linea, e Benny tornò a presentarsi. «Io e alcuni miei colleghi abbiamo visitato il piano interrato oggi. Ho ragione di ritenere che uno del nostro gruppo sia rimasto chiuso dentro uno dei locali dei contenitori. Vorrei che qualcuno andasse a verificare, adesso.» Ci fu una pausa di silenzio. «Riceviamo un'infinità di telefonate per burla degli studenti, signore. Abbiamo bisogno di un'ulteriore identificazione prima di... Abbiamo molto da fare qui, signore. Buona notte.» L'uomo riagganciò. Uno degli uomini della CCN disse che forse Doug era venuto fuori, se davvero era rimasto chiuso dentro, che avrebbe telefonato a Gerry o a Benny durante la notte, e che sarebbe tornato con il primo aereo del mattino all'indomani. Benny e Gerry concordarono di andare a casa e di aspettare la telefonata, ma allo stesso tempo avrebbero provato a chiamare ancora, durante la notte, i due numeri della Well-Bilt. McWhirty chiamò Evelyn Ferguson, la moglie di Doug, da casa, e le disse che suo marito aveva dovuto fermarsi a Indianapolis per la notte per discutere alcuni dettagli con la ditta costruttrice. Durante la notte e le prime ore del mattino le voci maschili che, allo stadio, risposero al telefono fecero un chiaro ostruzionismo alle richieste sia di Benny che di Gerry McWhirty. No, non sapevano proprio nulla del gruppo di visitatori che avevano ispezionato lo stadio e il piano interrato quel pomeriggio... e le parole «Operazione Balsamo» non suscitarono la minima reazione. I funzionari della CCN, se di CCN si trattava veramente, dovevano mettersi in contatto il giorno dopo; con quel Frank Marlucci che stavano cercando; lui avrebbe potuto occuparsi della cosa, dopo le opportune identificazioni. «Che cosa diavolo sta succedendo?» chiese Beatrice, la moglie di
Benny, entrando in soggiorno alle due del mattino. «Si tratta di Doug Ferguson, come ti ho detto; non ha ancora tutte le informazioni di cui ha bisogno per domani e non riesco a rintracciare l'albergo in cui si trova.» Quando, quella stessa mattina alle nove e trenta, Benny telefonò alla Well-Bilt, apprese che il signor Marlucci non sarebbe andato al lavoro quel giorno. «Passatemi allora il signor Siegman, per favore.» Benny aveva un breve elenco delle persone chiave della Well-Belt. «Il signor Siegman è in riunione al momento, signore. Sono tutti in riunione, perché la stampa verrà oggi pomeriggio per vedere lo stadio.» «Chi è l'incaricato dei locali per i contenitori, adesso?» chiese Benny. Silenzio. «Al momento siamo con il personale ridotto, signore. Non c'è nessun incaricato.» «Qualcuno come Marlucci. Sentite, si tratta di una cosa urgente. Ho ragione di credere che uno del nostro gruppo possa essere rimasto chiuso dentro in uno dei locali dei contenitori... da ieri... e bisogna che lo facciate uscire!» «Che... che locale, signore?» «Non sono in grado di dirvelo con esattezza. Dalla parte opposta a quella da cui entrano i camion. Sulla sinistra seguendo quello che credo sia il corridoio principale.» Benny aveva la pianta davanti a sé, ma i corridoi e le stanze non erano contrassegnati né da numeri, né da lettere. I corridoi si irradiavano dal centro, ma erano attraversati da altri passaggi circolari che li intersecavano, rendendo la mappa molto simile a una tela di ragno; tuttavia, gli sembrava che il corridoio dove si erano trovati fosse centrale e pertanto lo definì il corridoio principale. «C'è un'entrata per i camion a entrambi i lati, signore.» «Non sarà un gran lavoro aprire quei locali e guardarci dentro, vero? Fatelo e richiamatemi, per favore.» Benny si assicurò che l'uomo avesse segnato correttamente il suo numero. L'uomo non richiamò. Doug Ferguson non arrivò da Indianapolis con il primo aereo del mattino e Benny cominciò a masticare le sue pasticche alla menta, l'unico antidolorifico di cui disponeva, finché non avesse rinnovato la ricetta. Gerald McWhirty era al lavoro con un gruppo della CCN per la stesura del «Rapporto preliminare sull'Operazione Balsamo». Era destinato all'Agenzia per la protezione dell'ambiente e doveva essere favorevole e lungo almeno sessanta pagine. Marlucci aveva dato loro un fascio di documenti che si pote-
vano adattare e copiare. Evelyn Ferguson chiamò due volte l'ufficio per chiedere se Doug fosse tornato o si fosse fatto vivo con loro. «Non è da lui non telefonare,» disse Evelyn. «Mi può chiamare a qualsiasi ora del giorno o della notte, e lo fa sempre.» «So che è un lavoro impegnativo quello che sta svolgendo laggiù,» rispose Benny. «Forse non ha un minuto libero.» Quel pomeriggio, dalle due in avanti, i due numeri della Well-Bilt non risposero affatto. Benny immaginò che il piano interrato, dove forse si trovavano i telefoni, fosse stato isolato per via dei giornalisti, e che fosse stato proibito l'accesso ai camion. Non doveva esserci anima viva là sotto, eccetto forse il povero Doug, intrappolato nel locale dei contenitori, a gridare senza che nessuno lo udisse. Chissà se, quando gli aveva detto del suo collega rinchiuso nel locale, l'uomo con cui aveva parlato per ultimo gli aveva creduto? Benny Jackson e Gerry McWhirty indugiarono negli uffici della CCN, dopo che tutti gli altri erano andati a casa. McWhirty aveva l'aria distrutta e ammise di non aver chiuso occhio la notte prima. Decisero di fare un altro tentativo per mettersi in contatto con Marlucci. Benny si dette da fare con un telefono alla ricerca di informazioni e McWhirty si attaccò a un altro per cercare di sapere il numero del telefono di casa di Marlucci, che doveva abitare nella zona attorno allo stadio, anche se c'era da supporre che avesse affittato un miniappartamento per la durata dei lavori della WellBilt e che il suo nome non apparisse ancora sull'elenco. Eppure, un telefono doveva averlo, si disse Benny. Ma né Indianapolis, né nessun'altra cittadina della zona avevano nei loro elenchi il numero di Frank Marlucci. «Che non sia il suo vero nome?» si chiese Benny. Toccò a lui, questa volta, una notte insonne. Aveva detto a McWhirty che il giorno successivo, giovedì, avrebbe preso un aereo per andare allo stadio, e McWhirty l'aveva sconsigliato, dicendo che sarebbe andato lui, invece, perché avrebbe dato meno nell'occhio che non il capo della CCN. Benny si rendeva conto, adesso, che l'incidente occorso a Doug era stupido e denunciava inefficienza. Era così che Washington avrebbe considerato la cosa. Una dimostrazione di inefficienza di Benny e della Commissione per il controllo nucleare. Nonostante ciò, la prima cosa che Benny fece, il giovedì mattina, fu di parlare con Washington sulla sua linea diretta e si sentì un'anima piuttosto nobile per il fatto di mettere, in quel modo, a repentaglio il suo posto di lavoro. «Jackson, CCN. C'è Matt?» Matt Schwartz era un tipo simpatico e servi-
zievole, con cui aveva spesso occasione di parlare, anche se non l'aveva mai conosciuto di persona. No, gli risposero, Matt era in riunione in un altro edificio e non lo si poteva contattare. «Si tratta dell'Operazione Balsamo... Sì. In particolare dobbiamo assolutamente trovare un certo Frank Marlucci, uno dei sovrintendenti della Well-Bilt. Dobbiamo parlargli al telefono ma non riusciamo a rintracciarlo.» Il tono di Benny era fermo, eppure un'esitazione c'era stata: non aveva detto subito che un collega della CCN era forse rimasto per disgrazia rinchiuso dentro a un deposito di contenitori sin dal martedì precedente. «Perché lo cercate?» si informò Washington. «Gli devo chiedere qualcosa. Non è andato al lavoro... ieri.» Benny si rese conto che quella mattina non aveva cercato affatto di rintracciarlo. «Vi richiamiamo noi,» ribatté Washington e tolse la comunicazione. A tempo di record ritelefonarono. La stessa voce maschile. «Marlucci non è più un dipendente della Well-Bilt. È inutile cercare di rintracciarlo.» «Devono avere il suo numero di casa. Ho necessità di chiedergli...» «Sappiamo di quella incresciosa faccenda.» Benny era sorpreso. «E avete provveduto in merito?» «Sì, signore,» rispose la voce seccamente. «Ha a che fare con Douglas Ferguson della CCN. Volete dire che sta bene?» «Sta bene? Perché, cosa gli è successo?» «Che... che intendevate dire con 'incresciosa faccenda'?» «Marlucci ha commesso un errore ed è stato licenziato. Consigliamo vivamente che nessuno di voi si rechi là fino a che non vi si informi altrimenti.» Era chiaramente un ordine. Benny fece appena in tempo a raggiungere, a casa sua, McWhirty per dirgli di non prendere l'aereo del mattino. Gerry arrivò in ufficio alle undici. Adesso i numeri della Well-Bilt rispondevano, ma Benny non riuscì a parlare con nessuno che fosse in grado di dargli il numero di casa di Marlucci, o che sapesse se qualche locale per i contenitori fosse stato aperto il giorno prima o quel giorno stesso, per cercare un uomo che poteva esservi rimasto rinchiuso dentro. Nessuno sapeva assolutamente niente. «Parla Jackson della CCN,» ripeté Benny a un uomo. «Noi comprendiamo, signore. Non possiamo esservi d'aiuto.» Ancora una volta, Benny e Gerry ebbero la vaga speranza che Doug potesse trovarsi sull'aereo che atterrava alle undici e trenta. Se era arrivato, non telefonò, e loro non ebbero il coraggio di chiamare sua moglie per
chiederle se Doug fosse tornato a casa. Quella mattina Evelyn aveva fatto una telefonata per chiedere se la CCN avesse notizie di suo marito, e Benny disse alla sua segretaria di riferire alla signora Ferguspn che anche loro non sapevano nulla di Doug, ma che supponevano sarebbe stato di ritorno sabato, al più tardi. Benny però sapeva che Evelyn Ferguson non se la sarebbe bevuta tanto facilmente. Quel pomeriggio portò nuovi guai. Gli abitanti dell'area di Love Canal avevano organizzato una nuova campagna, e subito dopo l'intervallo per la colazione, gli uffici della CCN furono bombardati da telefonate e telegrammi di proprietari di case e di madri di famiglia infuriate perché era stato detto loro di andarsene di nuovo, dopo che era stato assicurato che potevano rientrare nelle case e negli appartamenti abbandonati in precedenza. Il Comitato per la giustizia di Love Canal bloccò tutti i centralini con le chiamate individuali e con i telegrammi che venivano letti al telefono dagli addetti dell'ufficio telegrafico tutti messaggi che incolpavano la CCN di aver mentito e propagato notizie false - finché a Benny parve di stare per uscire di senno. Magari una bomba avesse colpito quella maledetta area di Love Canal con tutti i suoi stramaledetti comitati! Il venerdì una voce femminile sul filo diretto con Washington informò Benny che Frank Marlucci era rimasto ucciso in un incidente d'auto, il pomeriggio del giorno prima, nel sud dell'Indiana. Benny indovinò cosa doveva essere successo: qualcuno aveva fatto uscire di strada Marlucci deliberatamente. Provò una sensazione di nausea, poi si ricordò di aver sentito che cose simili erano già accadute in passato, due o tre volte... Sapeva anche perché si sentiva male: la morte di Marlucci era una conferma della morte di Doug. Si sentiva male al pensiero di Doug chiuso in quella stanza piena a metà di contenitori, Doug che diventava sempre più debole per la fame e la sete, per la mancanza d'aria, che si lamentava senza essere udito, che moriva. Benny chiamò McWhirty nel suo ufficio per dirglielo. «Oh, Cristo!» Gerry McWhirty si lasciò cadere sulla poltrona di cuoio accanto alla scrivania di Benny, come se gli mancassero le forze. «Credi che forse Marlucci abbia cercato di tirarlo fuori?» chiese Benny. «O che lo abbia tirato fuori... morto?» «O forse lo hanno trovato gli addetti allo scarico e hanno incolpato Marlucci.» McWhirty pareva drogato, ma era semplicemente esausto. «Secondo me, Doug era già morto per asfissia ieri mattina.»
Era inutile cercare di scoprire che cosa fosse successo esattamente, pensò Benny. «Credi che... se l'hanno trovato, metteranno tutto semplicemente a tacere?» chiese Benny. «Sì,» rispose Gerry. Quelli della Well-Bilt con le loro macchine scavatrici non avrebbero avuto difficoltà a fare sparire il cadavere, Benny ne era certo. «Cosa diremo a sua moglie?» McWhirty aveva un'aria disperata. «Le dovremo dire che è sparito, che forse è morto. Glielo dirò io. Sai... nella nostra professione corriamo dei rischi.» «Dobbiamo assicurarci che riceva una buona pensione,» disse Benny. McWhirty sprofondò in uno stato confusionale e depresso da cui non riusciva a riprendersi, tuttavia continuò ad andare in ufficio. Nonostante il medico glielo avesse ordinato, non volle prendersi qualche giorno di permesso. La settimana seguente fu contrassegnata da una valanga di lettere e da un picchettaggio che durò due giorni e rovinò i prati attorno all'edificio, dal quale la polizia cercava di allontanare di peso i dimostranti più scalmanati; i dipendenti della CCN ne furono molto scossi, anche perché dovettero andare al lavoro in macchine blindate, dentro cui si infilavano alle otto e mezzo del mattino in località concordate. I dimostranti si definivano i Nuovi CIR, cittadini in rivolta, e il nucleo pareva provenire dal distretto di Three Mile Island; tuttavia, il loro intendimento era di fare del CIR un movimento nazionale, alleandosi agli ambientalisti militanti. I dipendenti della CCN giungevano al lavoro e ne ripartivano sotto una pioggia di pietre, uova, insolenze e minacce. Un giorno, verso la fine di settembre, Gerald McWhirty andò a finire con la macchina, una delle due di proprietà sua e della moglie, al di là del bordo dell'autostrada e precipitò nella vallata sottostante, uccidendosi. Non aveva lasciato scritto nulla. Dichiararono che si era trattato di un incidente. Evelyn Ferguson, che aveva preso a bere troppo, dopo la sparizione del marito (così era stata definita), fu ricoverata in un centro di riabilitazione del Massachusetts a spese del governo. Benny le scriveva delle cartoline di conforto, quando se ne ricordava. La CCN preparò per Washington una relazione favorevole sull'Operazione Balsamo, quando ci fu l'ispezione ufficiale dello stadio in ottobre. Benny andò sul luogo e vide nei muri delle crepe ancora peggiori di
quelle viste a suo tempo da McWhirty, ma la Well-Bilt promise di ripararle, e così nella relazione non ne fu fatta parola. La cosa peggiore fu che nel conteggio rem eseguito dalla CCN alle varie aperture di sfogo all'esterno dello stadio, ne furono riscontrati 210 all'ora in uno sfiatatoio, 300 in un altro e così via. Solo una delle venti aperture era in regola. Da dove veniva tutta quella radioattività? La Well-Bilt promise di occuparsi della cosa, ma nel frattempo assicurò che quella fuga di rem non era tale da causare allarme o da poter danneggiare percettibilmente esseri umani, animali o piante nelle vicinanze. Benny adesso aveva altri problemi da affrontare. Era sparito un carico di plutonio, chiamato in codice Fornitura italiana perché non aveva niente a che fare con l'Italia, che da Houston avrebbe dovuto giungere nella Carolina del Sud. Poteva occuparsene la CCN e controllare che non fosse stato rubato da una nazione amica o finito chissà dove? Con quello, erano almeno quattro i carichi scomparsi nel nulla che l'ufficio di Benny veniva incaricato di ritrovare. Benny sentiva la mancanza di Gerry in un modo strano. Era come se lui fosse stato la voce della sua coscienza che adesso era stata zittita. Sentiva anche la mancanza di Doug Ferguson, ma in altra maniera. Ricordava l'elegante giacca di tweed rosso ruggine che Doug aveva indossato quell'ultimo giorno e ricordava anche di avergli fatto i complimenti a questo proposito. Adesso, Doug si trovava forse in un posto chiuso e sigillato e, se le cose erano così, ci sarebbe restato per l'eternità. I locali per i contenitori erano stati riempiti e, secondo la definizione della Well-Bilt, erano stati tutti «sigillati ermeticamente e permanentemente». L'ulcera di Benny non andava meglio, ma neppure peggio, e lui, il giorno dell'ispezione dell'Operazione Balsamo, se l'era cavata proprio bene: si era ripromesso di non avere il minimo trasalimento e di non pensare che il cadavere di Doug Ferguson potesse trovarsi dietro a una di quelle porte quadrate d'acciaio accanto alle quali, quel giorno, sarebbe passato, e c'era riuscito. 5 NABUTI: CALOROSA ACCOGLIENZA AL COMITATO ONU PER GLI AIUTI AFRICANI La natura e la dea fortuna avevano arriso alla fertile e ampia terra del Nabuti, nell'Africa occidentale. Il Nabuti aveva fiumi, pianure lussureggianti, una costa che si estendeva per più di mille miglia, e nelle colline c'era il rame. I bianchi avevano sfruttato il Nabuti per duecento anni, ave-
vano scavato miniere, costruito strade e porti e ferrovie per i loro scopi. Prima della fine della prima metà del ventesimo secolo, già nel Nabuti erano state costruite strade asfaltate per cinquemila miglia, i fiumi erano stati dragati e dotati di argini e moli per le navi e per le barche, gli impianti elettrici e dell'acqua potabile erano stati installati, e le scuole avevano cominciato a funzionare. La malaria e la bilharziosi erano state sconfitte, la salute collettiva era molto migliorata e la mortalità infantile era piuttosto bassa. Il Nabuti ottenne l'indipendenza negli anni cinquanta, dietro semplice richiesta. Per tutta l'Africa si respirava aria di indipendenza, quasi fosse uno champagne che si potesse inalare. Un organico di bianchi si fermò un po' più a lungo nel paese, per assicurarsi che tutto funzionasse a dovere e che i vari addetti fossero in grado di far andare i treni, di riparare gli impianti di energia elettrica e di fornire la necessaria assistenza tecnica per ogni genere di macchinario, dai trattori alle biciclette. Tuttavia, per tutto questo periodo i bianchi non furono popolari. Prima se ne andavano, tanto meglio. Questo era il concetto. Un concetto che i bianchi compresero perfettamente, dopo che per strada divennero ripetutamente bersaglio di sputi da parte di giovani oziosi, e dopo che alcuni di loro furono assaliti e bastonati a morte. I bianchi se ne andarono. Seguirono allora quasi sei mesi di feste e baldorie, mentre tre o quattro candidati alla presidenza facevano discorsi alla popolazione per spiegare come avrebbero governato il paese. Ognuno prometteva una gran quantità di cose. Dovevano parlare in mezzo al frastuono dei juke-box e radio a transistor. Ci furono ogni genere di votazioni, poi uno spareggio tra i due concorrenti principali, una disputa sul conteggio dei voti, e infine un giovanotto sui vent'anni, grosso e robusto che si chiamava Bomo, risultò il vincitore, perché era il capo della polizia e la polizia era armata. A suo tempo, l'amministrazione bianca aveva detto che la polizia, originariamente addestrata dai bianchi, avrebbe formato i quadri giusti per la creazione di un esercito nabutiano, e fu proprio così che andarono le cose. La forza di polizia divenne un esercito in continua crescita, tanto più che, grazie ai milioni di dollari devoluti al Nabuti per la sua trasformazione in stato africano indipendente e ai prestiti e alle donazioni annuali, l'acquisto di uniformi sgargianti, di fucili, di mitragliatrici e carri armati non rappresentava affatto un problema. Bomo, che in vita sua non era mai stato buttato giù dalla branda alle sei del mattino dalla tromba che suonava la sveglia, si autonominò capo supremo dell'esercito, oltre che presidente. Le forze armate
e la minaccia delle armi erano essenziali, perché Bomo aveva intenzione di far lavorare il suo popolo. Il progresso, una parola che per Bomo stava a significare maggiori generi di conforto, una migliore assistenza sanitaria, maggiori esportazioni di rame, più auto e apprecchi televisivi, il progresso non doveva fermarsi. Dietro suo invito, giunsero parecchie imprese di costruzione di bianchi per dare inizio ad alcuni progetti: il palazzo del governo di Bomo, tanto per cominciare, e la sua abitazione privata, il Piccolo palazzo; bisognava anche costruire un certo numero di grattacieli per dare alloggio a quanti avrebbero lavorato nella capitale, Goka, e ampliare il terminal dell'aeroporto e allungare le piste, poiché il turismo era l'idea fissa di Bomo. Il salario per i lavoratori manuali fu all'inizio più che soddisfacente, e dalle campagne attirò in città molti contadini. Poi accadde l'inevitabile: cominciarono a scarseggiare i viveri di prima necessità, e il Nabuti fu costretto a importarli, anche se questo non costituiva un onere perché, grazie a un accordo con l'agenzia delle Nazioni Unite, poteva disporre di riso, farina e latte in polvere con una certa facilità. La situazione peggiore si verificava nelle miniere di rame. I minatori erano diventati ancor più indisciplinati, l'assenteismo era incontrollabile, gli uomini si ubriacavano soprattutto di birra e le loro continue richieste di salari più alti sfociavano in scioperi a singhiozzo, o in scioperi disorganizzati che nel giro di due o tre anni avevano rallentato la produzione fino al venti per cento della media normale. Ogni volta che il congegno di una macchina si guastava, l'operaio addetto sosteneva per ripicca di non saperlo aggiustare, e forse non ne era effettivamente capace. Il Nabuti fece richiesta di maggiori aiuti finanziari e li ottenne. Bomo si rendeva conto che la popolazione voleva frigoriferi, apparecchi televisivi, automobili private e gabinetti con lo sciacquone, più o meno in quest'ordine di priorità. Comprò gli apparecchi televisivi, ne comprò a milioni, a un costo piuttosto basso, una cifra modesta da aggiungere al debito nazionale. La televisione teneva la gente più tranquilla per quel che riguardava le agitazioni operaie, tuttavia, un numero sempre crescente di lavoratori si asteneva dal lavoro per stare a casa a guardarla. Quelli che avevano l'apparecchio rotto andavano in casa degli amici i cui apparecchi funzionavano ancora. Nella capitale la vita era diventata una gran festa a base di birra e televisione poiché, grazie alle trasmissioni via satellite, i programmi televisivi avevano qualcosa da mostrare ventiquattr'ore su ventiquattro, e ai nabutiani non importava molto in che lingua fossero, purché sullo schermo
apparissero delle figure. Esistevano altri problemi: gli ingorghi del traffico, per esempio. La gente non faceva nessuna attenzione ai semafori, se davano il rosso o il verde, dapprima con la scusa che nessun altro vi faceva caso, poi per il fatto (ed era un fatto) che, in realtà, la maggior parte dei semafori non funzionava. Lungo le strade principali di Goka passavano fiumi stagnanti di auto private, camion e occasionalmente qualche trattore, un mezzo di trasporto molto popolare perché un trattore riusciva a spostare dal suo percorso qualsiasi altra cosa e poteva correre, senza difficoltà, su buche o tombini stradali aperti. Nel mezzo di quel caos, a causa del surriscaldamento, si guastavano moltissime macchine che venivano regolarmente abbandonate e, nel giro di un paio d'ore, smembrate finché ne rimaneva solo lo scheletro. Non esisteva un servizio di rimozione per questi rottami, ed essi restavano dove si trovavano per un tempo indefinito. Tutto attorno a Goka, come pure attorno a due o tre altre grandi città, i disoccupati e i senzatetto avevano costruito una serie di baracche, quartieri dormitorio da cui si levava il fumo della spazzatura bruciata e il puzzo degli scoli a cielo aperto; fumo e puzzo che, da qualsiasi parte tirasse il vento, si spandevano sulla capitale. Quando non c'era vento, c'era lo smog, e a malapena si riusciva a scorgere la bandiera nazionale in cima al palazzo del governo, alto sei piani. Quanto al servizio telefonico, funzionava appena quel tanto da indurre qualcuno a tentare di usarlo, nonostante, di regola, che dopo aver formato il numero e sentito il suono di libero non si ottenesse niente altro. Come conseguenza si creò una grande richiesta di fattorini-corrieri. A piedi e di corsa i ragazzi e qualche ragazza andavano a fare le consegne di lettere, o più spesso di messaggi, di pacchi, di generi di drogheria e di cibo acquistato al mercato nero, agli inquilini degli edifici a molti piani, da cui la gente usciva il meno possibile per ragioni di sicurezza e anche perché gli ascensori non funzionavano. Ad avere molto denaro erano in pochi, la maggioranza soffriva la fame. I ricchi facevano parte o erano in qualche modo collegati con l'esercito, con il mercato nero, con la prostituzione o con la droga. Il mondo del commercio e degli affari non esisteva quasi più, e Bomo vi aveva ormai rinunciato, sebbene coscientemente e apertamente non lo avesse mai ammesso. Il suo compito, diceva a se stesso, era quello di tenere saldamente in mano il paese, mantenendo i contatti con i vari gruppi regionali e con gli uomini forti (suoi sostenitori) in grado di soffocare i disordini e schiacciare le bande di adolescenti vagabondi che derubavano la gente e saccheggiavano i negozi. Suo compito era anche fare un rapporto
alle Nazioni Unite, due volte all'anno, sui progressi in campo sanitario, mentre per quelli inesistenti nel campo dell'agricoltura e dell'industria, addossava la colpa alla siccità, agli scioperi e ai torbidi causati dalle nazioni confinanti che rovesciavano nel Nabuti i loro disoccupati e i loro affamati, i quali oltrepassavano la frontiera nonostante il fuoco delle mitragliatrici nabutiane. Questi intrusi si davano alla macchia e poi si mescolavano ai vagabondi e si accampavano tutto attorno alle grandi città. Una cosa disgustosa. Tuttavia, alle Nazioni Unite, Bomo veniva creduto quando diceva che faceva del proprio meglio e, in ogni caso, gli aiuti continuavano ad arrivare. Bomo, che da giovane era alto circa un metro e novanta, si era appesantito con gli anni. Adesso che aveva quasi cinquantadue anni, misurava di circonferenza due metri e doveva ordinare cinture Sam Browne extralunghe, in modo che gli restassero quattro o più buchi per poter infilare la linguetta nella fibbia, nel caso ne avesse bisogno. L'attenzione ai particolari è ciò che rende un uomo elegante, pensava Bomo. Aveva due dozzine di medaglie che sfoggiava quando parlava in pubblico, parecchi berretti con abbondante passamaneria dorata, e una tunica dai galloni d'oro, a collo alto, per le occasioni più importanti, quali le riviste militari. Usava raramente l'uniforme di gala, che con il caldo era scomoda da portare, però indossava sempre pantaloni cachi e non pantaloncini corti e, quasi tutti i giorni, una camicia militare con le maniche arrotolate e il colletto slacciato e sandali senza calze. Con questo abbigliamento si faceva portare sulla jeep tutte le mattine a fare un giro di ispezione a zigzag per Goka e il territorio circostante. Era in tal modo impegnato dalle dieci del mattino fino all'una del pomeriggio, quando era ora di tornare al Piccolo palazzo per fare colazione e per il successivo riposo pomeridiano. In piedi sulla jeep, tre soldati si guardavano in giro, imbracciando il fucile per individuare eventuali attacchi e soprattutto per ostentare le armi, anche se erano passati anni dall'ultima volta in cui avevano dovuto sparare. Il popolino adesso se ne stava a chiacchierare agli angoli delle strade, oppure seduto sui marciapiedi a bere birra o caffè. A dire la verità, Bomo aveva un altro scopo per questi suoi giri mattutini. Andava a trovare per mezz'ora le sue due o tre amanti, o mogli, come doveva definirle quando parlava con i diplomatici stranieri. Bomo non riusciva a contare quanti figli avesse, forse settantacinque, forse cento. Quante fossero le figlie non importava. Il paese era pieno di ragazze che sostenevano che lui fosse il loro padre, ma erano talmente tante che questa rivendicazione non dava loro il minimo diritto.
I figli prediletti di Bomo erano due, da madri diverse: uno chiamato Kuo, di circa diciotto anni, l'altro Paulo, della stessa età, o forse maggiore o minore di qualche mese. Entrambi smaniavano di essere il successore del loro padre e abitavano nel Piccolo palazzo con le mogli, tre o quattro per uno. Bomo li metteva uno contro l'altro, spingendoli a gareggiare in rigore contro ogni insurrezione e a essere sempre pronti a sparare per primi, l'unico modo per governare il Nabuti. Prima o poi, uno avrebbe ucciso l'altro, e allora Bomo avrebbe saputo che il suo paese sarebbe caduto nelle mani giuste, quelle dell'uomo più forte. Un giorno un messo portò a Bomo una lettera sigillata, unta e piena di macchie, che portava sul retro l'emblema in rilievo delle Nazioni Unite. La data della lettera risaliva a un mese prima, lo informò il vecchio interprete di Bomo, e il succo di tutto era che quindici membri del Comitato per gli aiuti africani, con cinque funzionari addetti, sarebbero venuti a visitare il Nabuti in data tale, vale a dire esattamente tra nove giorni. La lettera diceva che il comitato non era riuscito a raggiungere il palazzo del governo o il Piccolo palazzo telefonicamente e che quella era la seconda lettera che spedivano; chi scriveva, sperava che giungesse a destinazione e chiedeva una conferma, se possibile, all'Hotel Green Heaven di Gibbu, che era la capitale del Gibbi, uno stato confinante con il Nabuti lungo la frontiera orientale, e con il quale il Nabuti intratteneva pessime relazioni, tanto che Bomo aveva dubbi sul fatto che avrebbero consegnato un qualsiasi messaggio proveniente dal suo paese. Non c'era modo di evitare che venissero, Bomo lo capiva benissimo. Il comitato stava facendo un giro di ispezione in parecchie nazioni in quell'area dell'Africa, e questa era la loro prima visita in cinque anni. Bomo non poteva evitarla, nemmeno adducendo motivi di sicurezza, perché avrebbe potuto far scoppiare una vera guerra civile, cosa estremamente semplice, ma il suo governo avrebbe fatto una figura peggiore. Bomo mandò a chiamare i suoi due figli. «Fate pulizia dappertutto!» ordinò nel linguaggio indigeno e poi proseguì aggiungendo parole francesi e inglesi. «Spazzatura, lattine di birra, merde, bidonvilles, mendicanti e ladri! Fucilateli e bruciate i cadaveri! Fatto questo, bisogna pulire le strade, lavare i vetri! E l'aeroporto! Fate sgombrare le piste!» Kuo e Paulo parlarono ai capi più autorevoli dell'esercito, e questi mandarono fuori delle squadre che imposero una raccolta più rapida della spazzatura, lo sgombero e la pulizia delle strade, il lavaggio delle fogne,
con il relativo scavo dei canali di scolo, la fucilazione dei cittadini recalcitranti e di quelli troppo devastati dalla lebbra o con un aspetto troppo orrido a vedersi. Tutti i lavoratori della nazione furono impegnati in questa opera formidabile, che doveva essere portata a termine in nove giorni. I pigri e gli infingardi venivano passati per le armi dal plotone di esecuzione. Nel giro di poche ore, l'aria di Goka e di tre altre grandi città del paese fu piena di spari, di grida, di fumo e del rumore stridente del metallo, quando le carcasse delle auto venivano trascinate a forza di braccia lontano dalle strade. Bomo dedicò la sua attenzione personale all'Hotel Bomo e al palazzo del governo, dove aveva deciso che il comitato avrebbe dovuto essere condotto dopo il suo arrivo all'aeroporto Bomo. Ci sarebbe stato un banchetto nel salone più grande del palazzo, al piano terreno, e pertanto fu necessario attrezzare a questo scopo le grandi cucine sul retro dell'edificio. Il palazzo del governo era stato costruito nello stile del Partenone per quel che riguardava la facciata, a causa di una osservazione fatta da un bianco alla sua partenza dal Nabuti, cioè che in futuro in quel luogo sarebbe sorto «il Tempio del Governo nobile come il Partenone». Bomo aveva dato l'incarico a un architetto francese che, Bomo lo ricordava, era arrivato all'esasperazione quando lui gli aveva chiesto di costruire un edificio a sei piani, con due enormi colonne alte due piani sormontate da un frontone nel quale doveva esserci un balcone. Il balcone esisteva e, in passato, Bomo l'aveva adoperato spesso per i suoi discorsi, ma adesso il palazzo del governo non era più in funzione, se non come centro ricreativo non ufficiale. Tutto era cominciato quando le sentinelle si erano messe a giocare a carte, poi a biliardino; in seguito erano arrivati i juke-box e le macchinette per la distribuzione delle bibite, un numero sempre crescente di brande, e infine si era trasferito nell'edificio un bordello ben avviato. In un paio di stanze al primo piano si trovavano ancora tutti gli incartamenti e gli archivi del tempo in cui il paese aveva iniziato a essere indipendente ma, poiché nessuno pagava le tasse neppure sotto costrizione, ed era impossibile avere le ricevute dei macchinari importati o di qualsiasi altro genere di spedizione, gli impiegati erano da tempo assenti, anzi erano spariti, dopo aver svuotato lo scantinato di tutto il whisky e il vino che conteneva. La maggior parte dei vetri delle finestre nel palazzo del governo erano rotti, l'impianto elettrico era «disattivato» o «fuori uso», e gli ascensori non funzionavano neppure le rare volte in cui c'era corrente. Bomo fece chiamare i suoi migliori elettricisti.
«Voglio le luci accese e l'aria condizionata in ventiquattro ore!» gridò ai sei uomini terrorizzati sugli scalini del palazzo del governo. All'interno, le donne stavano già spazzando e pulendo i pavimenti e lavando le pareti, mentre i soldati cacciavano fuori con la punta delle baionette, tra urla e schiamazzi, fannulloni e prostitute. Lulu-Fey, una delle mogli di Bomo e la favorita del momento, si esercitava intanto nella danza del ventre, imparata nel corso di un viaggio con Bomo in Tunisia. Non era una danza indigena del Nabuti, ma Bomo le aveva detto che agli occidentali piaceva tanto e che lei doveva fare una sorpresa ai suoi onorevoli ospiti, mettendosi a danzare alla conclusione della cena. Lulu-Fey era felice di accontentarlo e già gli era stata di grande aiuto organizzando il banchetto, che aveva come piatti principali maiale arrosto e maialini. Dopo due giorni di lavoro i tecnici del telefono riuscirono a ricollegare la linea tra il palazzo del governo e il Piccolo palazzo, e la prima telefonata che Bomo ricevette fu quella del comitato dell'ONU. Per settimane e settimane, dissero i funzionari, avevano cercato di mettersi in contatto e volevano sapere se la data stabilita per la visita andava bene. Bomo assicurò di sì. Notte e giorno i tam-tam rullavano per incoraggiare il popolo al lavoro, e questo fatto, insieme alla musica pop che veniva trasmessa dalle radio a transistor ininterrottamente, fece sì che nessuno riuscisse a dormire, a meno che avesse un collasso per l'esaurimento. Un'altra buona notizia della sera del Giorno Due fu che al palazzo del governo era tornata la corrente elettrica, e che due dei quattro ascensori erano in funzione. Dato che ogni ascensore poteva contenere dodici persone, due sarebbero stati sufficienti a far salire alla terrazza i membri del comitato perché dessero un'occhiata al panorama. All'aeroporto Bomo, le lattine di birra erano stata spazzate via a migliaia, le baracche di cartone e latta rase al suolo, e la torre di controllo rimessa in ordine; le vetrate erano state lavate e in quelle in cui vi erano vetri infranti, i pezzi rotti erano stati fatti saltare via. Alla torre non arrivava l'elettricità, e nessun aereo era atterrato dall'ultima visita, anni prima, del comitato, fatta eccezione per l'aviogetto privato di Bomo, che al momento era inchiodato a terra dalla mancanza di un pezzo di ricambio. I suoi meccanici non sapevano quale fosse la parte da sostituire, e così Bomo aveva ordinato in America un altro aereo a reazione, che però non era ancora arrivato. Poi, durante la notte del Giorno Due, uno degli ascensori si fermò, e
dentro c'erano almeno venti persone. Gli uomini delle pulizie e alcuni soldati avevano voluto festeggiare il ritorno dell'elettricità con i soliti sei scatoloni di birra a loro disposizione ed erano entrati in troppi nell'ascensore per fare una salita. La cabina si era fermata tra il terzo e il quarto piano. Per tutta la notte, una folla di uomini e di ragazzi era rimasta assiepata lì intorno, ridendo e gridando consigli. «Continuate a premere i pulsanti, ah! ah!» «Prendete a calci la porta!» «Spingete tutti insieme da una parte!» Gli uomini chiusi dentro urlavano che mancava l'aria e gridavano di aprire un varco con le baionette. Si sentivano grida di rabbia e rumore di lotta provenire dall'ascensore. Alcuni ragazzotti si misero allora a pestar pugni sui pulsanti della salita e della discesa, a tutti i piani, e finirono con l'incastrarli dentro il pannello stesso o col farli staccare del tutto. All'alba, le voci degli uomini imprigionati si erano fatte rauche. Sudavano in modo pazzesco, dissero, e tre di loro erano morti e cinque erano svenuti. Bomo fu svegliato appena qualcuno trovò il coraggio di farlo. Che cosa si doveva fare? Bomo si vestì e andò a piedi fino al palazzo del governo con la fronte aggrottata, il viso arcigno, ma con l'aspetto di chi sa dare gli ordini. La folla davanti e dentro l'entrata dell'edificio si aprì al suo passaggio. Al piano terra, la tromba dell'ascensore con le sue porte chiuse ermeticamente gli rammentò la pubblicità che aveva visto in alcune riviste occidentali della camera blindata di una banca. Non voleva di sicuro che quelle porte venissero danneggiate in alcun modo, prima dell'arrivo del comitato. Bomo salì le scale in pantaloni cachi, sandali, camicia aperta e un berretto con passamanerie dorate adatto a quella situazione di emergenza. Giunto all'altezza dei gemiti, si fermò e osservò la costruzione in metallo color oro che circondava la cabina intrappolata. In che modo vi si poteva aprire un varco, se non sparandovi contro una cannonata? Duecento o più dei suoi sudditi sparsi lungo le scale lo fissavano con aria d'attesa, o intontita o addormentata. Senza sprecare neppure un secondo nell'esitazione, Bomo discese, la folla gli fece ala. «Gli elettricisti!» gridò. Solo uno venne spinto davanti a lui. Un uomo di mezz'età con l'aria terrorizzata. «Pensiamo che sia scattato un congegno di sicurezza e abbia fermato la cabina perché sovraccarica, vostra eccellenza.»
Bomo sollevò il berretto e si asciugò il sudore copioso dalla fronte. «L'elettricità c'è? Il condizionamento d'aria è in funzione?» «Sì, vostra eccellenza, ma nella cabina non esisteva quasi ventilazione. La corrente elettrica è anche molto debole.» «Allora chiudete quelle maledette finestre, se c'è l'aria condizionata in funzione!» sbraitò Bomo. «Maledizione! fa molto più caldo dentro che fuori!... Mah... avete acceso il riscaldamento, cretini!» Era vero. Toccando tutte le leve, per cercare di far ridiscendere l'ascensore, qualcuno aveva acceso l'impianto di riscaldamento. Quando Bomo uscì sulla scalinata esterna del palazzo del governo, trovò che l'aria era effettivamente più fresca, ma anche piena di fumo. Alcune folate di vento avevano spinto una nube grigio scuro in direzione della facciata dell'edificio, e una in particolare investì in pieno Bomo che, barcollando e coprendosi la faccia con le mani, fece dietrofront e rientrò nel palazzo. Da lì, appena gli riuscì di respirare, dette degli altri ordini. «Ufficiali! Soldati! Fate presto a bruciare quella spazzatura e tutto il resto. Entro domani notte bisogna che sia tutto finito e che i fuochi siano stati spenti!» «Sì, vostra eccellenza!» rispose l'ufficiale più vicino, scattando sull'attenti. Poi corse a chiamare i suoi uomini e si precipitò fuori dalla porta. L'elettricista era ritornato accanto a Bomo, era un uomo piccolo e gli arrivava sotto il gomito. «Eccellenza,» disse, «se non riusciamo ad abbassare la cabina con l'energia elettrica, possiamo spaccare la struttura esterna per...» «No!» urlò Bomo, sovrastando lo strepito della gente che schiamazzava nell'atrio e che in gran parte stava ridendo. «La parte anteriore dell'ascensore non va danneggiata!» Bomo scese giù per la scalinata un'altra volta, di corsa e gridando che gli portassero un asciugamano bagnato, inzuppato di acqua pulita. Un paio di ragazzi, al suo comando, si precipitarono a cercarlo attraverso la caligine. La strada era stata svuotata dalle auto che andavano a passo d'uomo e anche da quelle che non si muovevano affatto, e ora veniva percorsa solo da qualche bicicletta e da carrettini tirati a braccia che trasportavano cianfrusaglie, roba da mangiare, secchi e brocche. Da uno di questi si ottennero due panni bagnati, che furono portati a Bomo e da lui adoperati per coprirsi la faccia e la testa sudate. In realtà, uno di quei panni era la camicia di qualcuno, ma la cosa non aveva importanza. La gente girava in tondo gridando, schivando le grandi zaffate di fumo che in certi momenti riduceva-
no la visibilità a soli due metri. E il puzzo era orribile, faceva pensare a carne carbonizzata, a escrementi e a penne di gallina bruciacchiate. Il problema successivo di quella giornata fu di combattere gli incendi in una dozzina o più punti della città. Questo richiedeva squadre di pompieri e di portatori d'acqua che corressero veloci. I soldati snidarono tutti i bighelloni per metterli all'opera, e ci fu una grande richiesta di ragazzini di piede svelto. Quando Bomo arrivò finalmente a casa, al Piccolo palazzo, alle due circa del pomeriggio, era esausto. Lulu-Fey si esercitava nel grande salotto alla danza del ventre e si lamentò con lui del fumo. Bomo le spiegò che non ci si poteva far nulla, finché non fosse completata l'opera di repulisti. Il pomeriggio portò una cacofonia di grida e di spari di fucile. Ai soldati era stato ordinato di demolire le bancarelle del mercato nero che mettevano apertamente in mostra apparecchi Sony, articoli pornografici, scatolette di caviale e di foie gras, e bottiglie di Jack Daniel's e di Chivas Regal. I soldati si erano scontrati con una resistenza armata. Ne era scaturita una serie di piccoli tafferugli, le mitragliatrici avevano cominciato a sparare, e le bottiglie erano state confiscate e bevute. E la sera portò altre difficoltà: più della metà della ventina di uomini intrappolati nella cabina erano morti, o erano stati uccisi durante le zuffe. Le loro donne si erano assiepate attorno al pozzo dell'ascensore e tentavano di spaccarlo con le accette. Bomo ordinò di farle sgomberare, oppure di prenderle a fucilate. Entrambe le cose, se necessario. Ormai, dalla cabina non si udiva provenire che un debole gemito. Bomo imprecò con gli elettricisti. «Che crepino!» urlò, senza sapere se qualcuno lo udiva. Morirono tutti. Alla fine del quinto giorno, nessun suono usciva dall'ascensore, ma ne usciva invece un fetore tremendo di putrefazione, di qualcosa di morto, un odore non sconosciuto ai nabutiani, ma insolito perché proveniva dalla più bella costruzione del paese, dal palazzo del governo. Bomo comandò che bruciassero dell'incenso, il che sfortunatamente contribuì non poco al fumo infernale che penetrava nell'edificio, sebbene si supponesse che tutte le finestre fossero chiuse ermeticamente e che il condizionamento d'aria fosse in funzione. Fu solo all'ultimo minuto, la sera precedente all'arrivo del Comitato ONU per gli aiuti africani, previsto per le undici del mattino, che Bomo si ricordò delle auto di rappresentanza che avrebbero dovuto andare a prendere i funzionarii all'aeroporto. Urlò come un dannato contro i suoi autisti,
dodici uomini in divisa, che non avevano controllato le immense Mercedes-Benz con qualche giorno di anticipo, ma gli uomini sostennero di essere stati impegnati tutto il tempo a combattere gli incendi. Le Mercedes erano molto belle, però non funzionavano, neanche una, e Bomo ne aveva venti. A una mancava una ruota e il carburatore, a un'altra il parabrezza, a un'altra ancora il volante, mentre di un'altra non si trovava la chiave per aprire le portiere. Perché poi non si riuscisse ad avviare il motore delle rimanenti macchine, era un mistero. Bomo ordinò ai suoi meccanici di lavorare tutta la notte e di mettere tre auto in grado di funzionare. Non ci riuscirono. Fu di Lulu-Fey l'idea brillante di far trascinare le auto dalla popolazione, tirandole con dei lunghi cordoni allegramente colorati. Sarebbe stata una dimostrazione di grande rispetto, osservò, e Bomo fu d'accordo con lei. Il piccolo jet del comitato ONU atterrò puntalmente, però centrò sulla pista un paio di buche, che causarono la perdita di una ruota e il danneggiamento della punta di un'ala, sicché i funzionarii con i loro cinque addetti scesero a terra in un leggero stato di choc. La banda militare di Bomo suonò l'inno nazionale nabutiano, mentre i bambini cospargevano il suolo di fiori. Il fumo stringeva ancora in un cerchio la città e, appena fatti pochi passi, parecchi del comitato estrassero il fazzoletto per coprirsi la bocca e il naso. Bomo andò loro incontro nell'uniforme che gli teneva più caldo, quella fatta a tunica con la cintura Sam Browne e tutte le medaglie. Douglas Hazelwood, il capo del comitato, si presentò, sorrise e strinse con effusione la mano a Bomo. Così fecero tutti gli altri. «C'è un po' di fumo,» commentò qualcuno in tono faceto. Bomo non seppe cosa rispondere, ma conservò la sua dignità mentre faceva strada fino alle cinque auto, davanti alle quali erano allineati bambini scalzi che tenevano nelle mani i lunghi cordoni allegramente colorati con aria impaziente, come cavalli che mordessero il freno. Il fumo era molto peggio del giorno prima alla stessa ora, perché Bomo aveva fatto l'errore di dare l'ordine di spegnere i fuochi con l'acqua, e molti non erano stati spenti del tutto e continuavano a fumigare. Il sole, che solitamente splendeva come una grande fiamma, era ridotto a una macchia gialla e indistinta in un cielo grigiastro, come accade prima dell'arrivo di un tifone. Attraverso il fumo passava il calore, ma non la luce, e pareva fosse l'ora del crepuscolo. Le auto avanzarono lentamente verso la città, seguite dalla banda. La de-
stinazione era l'Hotel Bomo del Nabuti, dove erano state preparate trentacinque stanze al piano terra. Bomo si era atteso che, insieme con i membri del comitato, arrivassero anche qualche moglie e dei servi. A ogni modo, nell'albergo c'era l'acqua corrente, anche se mancava l'aria condizionata. Era un albergo di cinque piani e gli ascensori non andavano, ma per quelli del comitato non c'era bisogno di ascensori. All'albergo dovevano soltanto disfare i bagagli e rinfrescarsi. Poi risalirono sulle auto, che li avevano attesi fuori sotto il sole e nel fumo, e furono condotti al Piccolo palazzo per l'aperitivo. Lulu-Fey, a piedi nudi e con il corpo strettamente fasciato da una pezza di cotone, con braccialetti d'oro ai polsi e alle caviglie, era una deliziosa padrona di casa, pensò Bomo, anche se non sapeva una parola d'inglese. Gli ospiti bevvero gin rosé, scotch con acqua, succo di pomodoro, qualsiasi cosa desiderassero, mentre i servi, accanto alle finestre, facevano vento con ventagli molto decorativi per tener lontano il fumo o, perlomeno, per smuoverlo. Alcuni del comitato tossivano, ma parevano tutti allegri, e fecero delle domande non troppo difficili a Bomo sull'agricoltura, sul rame, sulle esportazioni e sulla sanità. Si era stabilito che visitassero, sul tardi, le miniere di rame, e poiché queste erano in stato di totale abbandono, Bomo aveva preparato una storiella sulle agitazioni dei minatori e sugli scioperi che questi avevano fatto, avanzando richieste di aumenti salariali talmente irragionevoli che lui era stato costretto a respingerle. Quindi, rifiutando le auto, tutti si avviarono a piedi verso il palazzo del governo, poiché uno del comitato si ricordava, dalla sua ultima visita, che l'edificio era nelle immediate vicinanze, anche se al momento non riuscivano a vederlo a causa del fumo. Maiale arrosto. Olive. Patate dolci al forno e frutta fresca di ogni tipo, boccioli di fiori porpora e arancione e piatti e posate d'argento. La lunga tavola con la sua tovaglia bianca di lino faceva una magnifica figura nel salone principale, che, entrando, si trovava alla destra degli ascensori. Ma la puzza era spaventosa e inspiegabile. Bomo notò le occhiate di perplessità e di allarme che si scambiarono i funzionari, prima di mettersi a sedere. E il fumo pareva averli accompagnati dentro. I migliori camerieri di Bomo, in giacca bianca e pantaloni neri, versarono champagne, poi Bomo si alzò e fece un brindisi in onore degli ospiti. Fece anche un discorsetto di benvenuto, inneggiando all'amicizia, che aveva provato a ripetere solo una volta, ma che andò benissimo. Bomo pareva sincero mentre diceva: «Il mio paese dà il benvenuto a voi tutti e vi ringrazia per i molti doni prezio-
si, macchinari e denaro che ci avete dato.» Gli ospiti applaudirono, tossirono, sorrisero. Alla sinistra di Bomo, sorrideva anche Lulu-Fey, irrequieta e ansiosa di fare la sua parte, esibirsi cioè nella danza del ventre. I musicisti erano seduti in un angolo e suonavano su strumenti a corda e tamburi. Bomo notò con irritazione che le finestre erano state aperte, e che i servi si davano da fare per smuovere lo spesso velo di fumo, come avevano fatto al Piccolo palazzo. Il maiale arrosto e i maialini erano stati appena affettati, quando si udì bussare con insistenza alla porta chiusa che dava sulla hall. Quando un servo l'apri, un uomo saltò dentro, cadendo per terra, e un'enorme ondata di fumo lo seguì, prima che il servo riuscisse a richiudere la porta. Il messaggio portato dall'uomo bocconi sul pavimento era che il palazzo aveva preso fuoco, o almeno così sembrava. Le sue parole non furono tradotte immediatamente in inglese, ma l'espressione allarmata di Bomo e dei servi fece nascere in tutti un senso di inquietudine, e parecchi membri del comitato si alzarono in piedi spaventati. Bomo apprese che qualche idiota era riuscito a versare della benzina sul tetto della cabina intrappolata e poi vi aveva gettato sopra un fiammifero acceso, con l'idea di cremare i cadaveri secondo il rito religioso del Nabuti. Un servo disse che i responsabili erano un paio di donne, mogli dei morti. «Maschere antigas!» gridò Bomo. «Portatele subito, o vi faccio fucilare!» I servi si misero a correre, e i soldati si precipitarono in tutte le direzioni come se avessero preso fuoco anche loro. Tutti dovevano uscire e tutti tentarono di farlo, sebbene uno dei funzionari cadesse svenuto per terra e si dovesse trascinarlo fuori attraverso l'atrio. Dalla tromba dell'ascensore fuorusciva del fumo da mille fessure invisibili, come qualcosa che sia sul punto di scoppiare, mentre l'odore di bruciato faceva pensare alle fiamme dell'inferno. Fuori dalle porte del palazzo del governo e giù lungo la scalinata, si agitavano figure frenetiche in un'atmosfera grigia in cui gli oggetti si distinguevano meglio, ma la respirazione non era meno difficoltosa e pericolosa. «Ecco le maschere, vostra eccellenza!» gridò un tenente. I soldati accorsero carichi di maschere antigas che furono aperte e infilate rapidissimamente in testa ai funzionari e ai loro addetti. «La bocca sul cannello!» gridò Bomo in inglese, ricordandosi improvvisamente le istruzioni che aveva udito moltissimi anni prima. Era contento
che i suoi uomini avessero trovato le maschere tanto in fretta. Insieme ai soldati, un paio dei quali portavano la maschera, si affrettò ad assicurare le maschere attorno al collo dei membri del comitato, ancora frastornati, e a condurli verso il Piccolo palazzo, sulla sinistra, dove l'aria pareva più chiara, almeno per il momento. Coraggiosamente, Bomo rifiutò la maschera che gli veniva offerta e afferrò per mano, con fare protettivo, Lulu-Fey che si teneva davanti al viso un tovagliolo imbevuto di champagne. I membri del comitato barcollavano e si agitavano come se cercassero di togliersi le maschere antigas. Due di loro caddero. «Tirateli su!» gridò Bomo ai soldati. Le volute di fumo si moltiplicavano. Un soldato con la maschera cadde a terra e vi rimase, contorcendosi debolmente. Al Piccolo palazzo, i servi si misero al lavoro con i ventagli. Gli uomini del comitato furono sdraiati per terra, pancia all'aria. Alcuni non si muovevano. La cosa stupì Bomo. «Altri ventagli!» gridò. «E asciugamani bagnati, subito!» Gli asciugamani erano per chi non aveva la maschera, come lui, per esempio. Dopo un paio di minuti, le cose parvero migliorare. Il vento si era girato in loro favore, e in tutta la casa entrava dell'aria più fresca. Ma tra i signori del comitato e i loro addetti ce n'erano solo due o tre che si muovevano un pochino, ma poi anche questi rimasero immobili, seppur emettendo un fievole gemito. Kuo, che aveva lasciato il suo giro di ispezione per partecipare al banchetto, si sventolò con una mano per liberarsi dal fumo, si stropicciò gli occhi e disse: «Adesso potremmo forse toglier loro le maschere, che ne dici, padre?» Era accosciato sui calcagni come Bomo, non per osservare meglio gli uomini sul pavimento, ma perché nella stanza il fumo tendeva ad andare verso l'alto. Bomo annuì. Lui e Kuo e un paio di servi cominciarono a sciogliere le fibbie delle maschere. Un servo emise un urlo di terrore, acutissimo, anche se era un uomo. «Formiche!» gridò nel suo dialetto indigeno, scuotendo le mani. «Sacri spiriti, hai ragione!» Kuo fece un salto, sbattendo le mani una contro l'altra e strofinandone il dorso. «Le formiche grigie giganti!» Tutti conoscevano quel tipo specifico di formiche grigie, che entravano in ibernazione o in estivazione nei luoghi più inaspettati e ne emergevano a schiere, assetate di sangue e inferocite, allorché venivano disturbate. Si e-
rano annidate nella parte anteriore delle maschere, dove c'era il filtro, una porzione piatta e circolare, porosa ma piuttosto simile a un feltro. Allora, tutti quelli che si trovavano nell'interno della casa si misero a trascinare fuori gli uomini del comitato, prendendoli per le spalle o per i piedi, perché se un certo numero di quegli insetti fosse fuggito e si fosse installato nel Piccolo palazzo, si sarebbe scatenato l'inferno. L'idea era di togliere le maschere e bruciarle all'aperto. Kuo, che adesso si era infilato dei guanti bianchi, tolse la prima maschera e scoprì che la faccia dell'uomo, oltre a essere di colore bluastro, era piena di sangue per i morsi delle formiche. I servi correvano qua e là e staccavano le maschere tagliandole, mentre Bomo ordinava di accendere un fuoco sul prato del Piccolo palazzo. Si udirono di nuovo degli strilli. Erano i servi e le serve a gridare. Per staccare le formiche inferocite dalle braccia, dalle mani e dai piedi nudi, vennero usati tovaglioli, asciugamani e qualsiasi altra cosa sottomano. Quanto agli uomini a cui fu tolta la maschera, avevano tutti la faccia blu, ed erano morti per asfissia, perché fin dal primo istante il passaggio dell'aria era rimasto bloccato dai corpi di tutti quegli insetti. Sebbene fosse una cosa orribile, Bomo dovette dare l'ordine di bruciare i venti cadaveri. I loro corpi furono sistemati in cerchio con i piedi in fuori, come i raggi di una ruota. Non c'era tempo per essere delicati! Come prima cosa, bisognava assolutamente distruggere le formiche, e così sulla testa dei morti e sulle maschere antigas venne sparso del cherosene cui fu dato fuoco. I servi pestavano il terreno, alla ricerca degli insetti in fuga. Lulu-Fey, che squittiva come un topo mentre le formiche le morsicavano i piedi nudi, spruzzò dell'insetticida da una bombola che aveva trovato in cucina e tracciò un ampio cerchio per terra tutto attorno a quelli del comitato, le cui gambe sporgevano in fuori. «Il pilota!» tuonò improvvisamente Bomo, aggrottando la fronte, e ricordandosi di aver visto ai comandi del jet un uomo o forse due. Kuo lo udì e alzò un dito per dire che aveva capito. «Mando subito un messaggio all'aeroporto!» Parlò con uno dei suoi soldati che gli stava accanto e badava al fuoco, e fece il gesto di passarsi l'indice attraverso la gola. Il soldato si allontanò. Il pilota americano e il secondo pilota, che erano rimasti all'aeroporto per tentare di riparare, con l'aiuto di qualche nabutiano, i danni subiti dal loro piccolo jet, furono sorpresi da una squadra di cinque soldati con la baionetta innestata, che si avvicinarono con fare aggressivo e li decapita-
rono senza dire una parola. Così sparì il Comitato ONU per gli aiuti africani, l'emanazione di un qualche dipartimento animato da buone intenzioni. Dal piccolo aviogetto fu rimosso ogni contenuto utile, anche il motore, e la carcassa venne fatta a pezzi e bruciata in modo da essere irriconoscibile, la sera dello stesso giorno della morte dei suoi passeggeri. Quando, il giorno dopo, giunsero delle telefonate per chiedere dove fossero il signor Hazelwood e i suoi funzionari, il centralinista, dietro ordine di Bomo, rispose che l'aereo del comitato non era mai arrivato, sebbene loro l'avessero atteso il giorno prima alle undici. Fu facile dare a intendere che il paese confinante, Gibbi, notoriamente sempre pronto a creare delle difficoltà al Nabuti, avesse abbattuto l'aereo. In ogni caso, il presidente Bomo non poteva dare nessuna informazione e gli spiaceva molto che il comitato non avesse potuto compiere quella visita, che lui aveva atteso con tanta impazienza. 6 GUAI GROSSI ALLE TORRI DI GIADA VIVERE NEL LUSSO E SENTIRSI SICURI... ALLE TORRI DI GIADA È POSSIBILE, diceva con molta discrezione la pubblicità del grattacielo di ottantotto piani, elegante e raffinato, che sorgeva in Lexington Avenue tra la Settantesima e l'Ottantesima Strada. Il grande atrio pavimentato in pietra, gli ascensori, i corridoi, avevano tutti la stessa sfumatura verde chiaro, uno dei colori più riposanti. Le porte d'entrata con vetri antiproiettile potevano essere aperte unicamente dai portieri, di stanza tra la prima porta e la seconda, che dava sull'atrio. Al piano terra si trovavano una serie di servizi per i clienti residenti: un piccolo salone di bellezza, un barbiere, un fiorista, un caffè, un accogliente piano-bar, un negozio di gastronomia minuscolo ma ben fornito, un ufficio postale automatizzato. L'entrata era seminascosta da piante di ficus e filodendro. All'ottantasettesimo piano, sotto gli appartamenti ad attico, si trovava la piscina riscaldata, rivestita di piastrelle color giada. Sul tetto, due torri gemelle, dalla cupola di un verde chiaro che faceva pensare al colore del rame invecchiato, erano il simbolo inconfondibile delle Torri di Giada, un complesso che, ben presto, diventò a New York il posto più raffinato dove abitare, per chi se lo poteva permettere. E la gente arrivava, firmava il contratto d'affitto o comprava gli appartamenti. Gli aspiranti condomini e inquilini venivano selezionati con atten-
zione, e una famosa cantante pop e il proprietario di una casa da gioco di Atlantic City furono respinti, un fatto ampiamente riportato dalla rivista People e da alcuni giornali di New York nelle colonne dedicate ai pettegolezzi mondani. Verso la fine dei primi cinque mesi di gestione delle Torri di Giada, la direzione poté annunciare con orgoglio che il grattacielo era occupato per il novantacinque per cento, e che in tutto il complesso non si era verificato un solo furto, un solo scippo o atti di violenza di alcun genere. Sidney Clark, il direttore che aveva il turno di giorno al banco della ricezione, fu molto sorpreso una mattina, quando l'inquilina dell'appartamento 3M gli citofonò per lamentarsi della presenza di scarafaggi nella sua cucina. Disse che ne aveva appena visti due. «Ci siamo trasferiti qui solo ieri, e io non ho comprato neppure del pane, fino a questo momento,» si lamentò la donna. «Ho preso dell'acqua tonica e un cartone di latte questa mattina, ma non li ho neanche aperti.» «Ci occuperemo immediatamente della cosa, signora Fenton. Sono davvero spiacente,» rispose il signor Clark. «Finlay. Mi chiamo Finlay. Sono assolutamente meravigliata, perché in questo edificio tutto è così nuovo e pulito!» Il direttore al banco sorrise. «Sì, signora Finlay, e rimarrà sempre così. Riferirò al nostro servizio di disinfestazione. Passeranno da lei forse oggi stesso, oppure domani di certo. Le telefonerò, prima, e non entreranno nell'appartamento se lei non c'è.» Sidney Clark ricevette una seconda protesta per via degli scarafaggi un'ora più tardi da una coppia al decimo piano. Aveva già avvertito la ExPest, la ditta di disinfestazione con cui le Torri di Giada avevano un contratto, e gli avevano risposto che sarebbero venuti nel pomeriggio. Si segnò che andassero anche a quell'appartamento al decimo piano. Poi, decise di andare a dare un'occhiata alla Tazza di Giada, la pasticceria che si trovava al piano terra, in uno dei due corridoi laterali. Il pavimento verde chiaro e il banco di vendita erano lucidi e puliti, neanche la minima briciola in vista. Raccontò alla signora che gestiva il negozio delle due lamentele ricevute quel giorno e le chiese gentilmente di poter controllare la cucina. Anche lì, a parte un leggero disordine normale in qualsiasi cucina, regnava la massima pulizia, come al banco e ai tavolini. Il signor Clark guardò il pane avvolto nella plastica, quello pronto per essere affettato, e le paste alla crema. «Curioso aver avuto due lamentele per gli scarafaggi nello stesso gior-
no,» disse alla donna di mezz'età che lo accompagnava. «Oh, quegli orribili insetti,» rispose lei, arricciando il naso per il disgusto, «non si riesce a far granché in questi casi, sapete, anche nelle case più belle. Dovunque c'è gente e c'è acqua, anche se non si cucina per niente, anche se si è puliti quanto si vuole, gli scarafaggi saltano fuori.» Il signor Clark fece una smorfia di disapprovazione. «Be', non alle Torri di Giada, signorina...» «Signora Donleavy.» «Signora Donleavy. Le Torri di Giada devono essere perfette e rimanere tali; siamo quasi al completo proprio perché abbiamo promesso la perfezione. Sicché, mi aspetto che anche lei faccia la sua parte, e che mantenga la Tazza di Giada pulita e immacolata.» «Lei vede qualcosa che non va, signore? Qui non ho visto nessuno scarafaggio, neppure uno,» rispose la donna. «Se vi capitasse di vederne, fatemelo sapere immediatamente,» insistette Clark. E si accomiatò. Verso le quattro del pomeriggio arrivarono due uomini della Ex-Pest e ispezionarono i due appartamenti da cui erano venute le lamentele. Un'ora circa più tardi, si ripresentarono a Clark e gli riferirono di non aver visto neanche uno scarafaggio nelle due cucine visitate, ma di averle fumigate entrambe e di aver consigliato agli inquilini di tenerne chiuse le porte per almeno sessanta minuti. «Adesso adoperiamo per la disinfestazione un nuovo prodotto, l'Ex-Pest Unique, che è praticamente privo di odore. È stato fatto e brevettato dai nostri laboratori,» disse con un sorriso uno dei due della Ex-Pest, un tipo dai capelli rossi che indossava la divisa da lavoro e un berretto verde scuro. Posò sull'alto banco della ricezione un opuscolo, battendovi sopra la mano con forza. «Grazie,» rispose il signor Clark, seccato che i due operai fossero entrati nell'atrio dall'ascensore di servizio situato sul fondo, tutti e due con il contrassegno della Ex-Pest ben visibile, ricamato in bianco sul taschino della camicia verde. «Sareste tanto gentili da uscire dalla porta sul retro?» «Oh, senz'altro,» disse con un allegro cenno d'assenso l'uomo dai capelli rossi, sempre sorridendo. Una coppia vestita in modo piuttosto eccentrico stava entrando nell'atrio in quel momento. Il signor Clark sapeva che Hiram Zilling, un ricco texano, dava quel pomeriggio, a partire dalle sei, un cocktail party nel suo superattico, e indirizzò la coppia verso l'ascensore giusto, quello diretto per
gli ultimi piani. Nei giorni seguenti, il signor Clark ricevette dei complimenti che accolse con garbo, promettendo di trasmetterli «alla direzione». Tra gli inquilini, che ne tessevano le lodi sia verbalmente che, in un caso, per iscritto, riscuoteva un enorme successo la piscina. Nella sua parte centrale c'era una sezione rialzata e in leggera pendenza dove i bagnanti potevano starsene sdraiati ad abbronzarsi, a qualsiasi ora del giorno o della notte, sotto le invisibili lampade al quarzo che facevano piovere su di loro i raggi ultravioletti. Nella pubblicità delle Torri di Giada la piscina veniva definita come una delle tante agevolazioni «per risparmiare tempo», insieme all'ufficio postale a orario continuato, con servizio di fotocopiatrici e di computer che fornivano ogni informazione sugli orari e sui prezzi degli aerei, nonché la possibilità di acquistare i biglietti mediante la carta di credito. Passati dieci giorni, il signor Clark pensava già che la storia degli scarafaggi appartenesse al passato, ma improvvisamente, e in una sola giornata, ricevette tre altre telefonate di protesta. Venivano dagli appartamenti ai piani settimo, ottavo e quattordicesimo. Quest'ultimo era in realtà il tredicesimo, come lui ben sapeva, sebbene lo irritasse dover occupare la sua mente per ricordare questo particolare irrilevante. Telefonò ancora alla ExPest. Questa volta, gli uomini della disinfestazione vennero notati, o forse gli inquilini afflitti dagli scarafaggi avevano parlato del loro problema con altri inquilini, il signor Clark non seppe mai come fossero andate le cose, ma non aveva importanza. Gli telefonarono in tre, un uomo e due donne, per chiedergli di far salire ai rispettivi appartamenti gli uomini della Ex-Pest. Il signor Clark e l'uomo dai capelli rossi della disinfestazione ebbero un colloquio a quattr'occhi nel corridoio di servizio in fondo all'atrio, prima che gli uomini della Ex-Pest se ne andassero. «Se vuole la mia opinione, tutto l'edificio è pieno di scarafaggi, ed è ormai solo questione di tempo...» «Pieno di scarafaggi? Non dica sciocchezze! Questo grattacielo ha, sì e no, sei mesi di vita. Gli inquilini sono cominciati a entrare meno di sei mesi fa,» rispose il signor Clark, pensando che, senza dubbio, la Ex-Pest tendesse a esagerare per inserire nel contratto la disinfestazione estensiva. «E va bene, signor Clark, aspettate pure. E poi vedrete.» «Quale sarebbe stata la sua proposta? O meglio, cosa ha intenzione di proporre?» «Disinfestazione totale,» disse l'uomo dai capelli rossi. «Disinfestare to-
talmente e definitivamente con il nostro nuovo Ex-Pest Unique. Diciamo che gli scarafaggi sono venuti qui con il materiale di costruzione...» «Materiale di costruzione nuovo?» «E va bene, il vecchio materiale sarà probabilmente rimasto sparpagliato sul terreno, prima che fossero costruite le Torri di Giada. Ci sarà stato del legno vecchio e tutte le macerie del vecchio edificio. Non mi chieda come è successo, ma io conosco gli scarafaggi! Di certo, ci saranno stati un duecento muratori, qui, che si portavano dietro la roba da mangiare.» L'uomo della Ex-Pest scosse la testa. «Se vuole che si faccia piazza pulita, ci telefoni. Altrimenti, andrete incontro a dei guai. Questa gente, con la puzza sotto il naso, non sopporterà la vista degli scarafaggi, non come noi poveri mortali nelle nostre umili case, eh?» L'uomo fece una larga risata, seguita da un ampio gesto di saluto con la mano. Il signor Clark era rimasto sotto choc e si chiedeva se fosse il caso di avvisare il consiglio di amministrazione delle Torri di Giada. Poi decise di non farlo, per il momento. Come aveva detto quell'uomo della Ex-Pest, gli inquilini delle Torri di Giada erano estremamente schizzinosi e forse avevano esagerato. Lui non riusciva a credere che gli scarafaggi fossero già da tempo annidati nell'edificio e che vi avessero deposto le uova un po' dappertutto. Sidney Clark associava gli scarafaggi a case vecchie e fatiscenti, a luridi montacarichi dove la gente gettava la spazzatura in sacchi di carta, a edifici pieni di crepe. Alle Torri di Giada non esisteva neanche una crepa. «Ehi, guarda qui, Sidney!» disse Bernard Newman, proprietario di un teatro di Broadway e inquilino delle Torri di Giada. Aveva buttato sul banco un giornale popolare della sera e adesso puntava l'indice su un titolo a caratteri cubitali. «Scarafaggi, ancora scarafaggi!» disse Bernard Newman con una risata forzata. Sidney Clark lesse la rubrica intitolata «Cronaca cittadina», che alternava paragrafi a caratteri normali con paragrafi in grassetto. Diceva: Le tanto decantate e magnificate Torri di Giada sulla Lexington hanno appena ricevuto la classica torta in faccia. Secondo le voci raccolte ai vari club, pare che alcuni inquilini, ben noti in città, ma che desiderano mantenere l'anonimato, abbiano confidato che anche i loro costosissimi appartamenti, proprio come succede da noi e da voi, sono infestati dagli scarafaggi. Una giovane signora di raffinata eleganza ha detto di aver intenzione di rompere il contratto e di traslocare immediatamente.
Il signor Clark scosse la testa, come se non avesse mai avuto sentore di scarafaggi alle Torri di Giada. «Lei ha mai visto quegli insetti nel suo appartamento, signor Newman?» «No, ma una signora mi ha fatto la stessa domanda, ieri, in ascensore. Lei ne aveva visto un paio ed era stupefatta. Mi ha detto che abita in un piano alto, forse in un attico, non ricordo. Pazzesco, vero?» Con un sorriso amichevole, il signor Newman riprese il giornale e si avviò a lenti passi verso gli ascensori. In quello stesso momento, William C. Fordham, un agente di borsa di Wall Street, era in terrazza, seduto al sole in calzoncini corti, e lavorava come sempre, senza muoversi dal suo attico, con un computer da un lato e il telefono dall'altro. Né lui, né la sua ragazza, Phyllis, come del resto la maggior parte degli altri inquilini, avevano sentito una sola parola sulla presenza di scarafaggi nell'edificio. Più tardi, quel giorno, proprio mentre Sidney Clark stava per lasciare il suo posto al direttore del turno di notte, Paul Vinson, che era arrivato, si avvicinarono al banco della ricezione un uomo e una donna, accompagnati da uno dei guardaportone. «I signori vorrebbero delle informazioni sugli appartamenti da affittare,» spiegò il guardaportone. «Buona sera,» disse il signor Clark. «Per loro due? Con una o due camere da letto?» «Una,» rispose la donna, «esposto verso est, se è possibile... È vero che alle Torri di Giada attualmente c'è un problema di scarafaggi?» Il signor Clark scosse lentamente il capo. «No, signora, no.» «L'abbiamo letto oggi sul Post. E ieri l'abbiamo sentito dire da qualcuno... un amico a cui avevamo accennato che saremmo venuti qui a cercare un appartamento.» «In un edificio appena costruito come questo?» Il signor Clark fece un sorriso. «Credo che si tratti di una voce messa in giro... per fare uno scherzo.» «Ma anche a lei saranno giunte queste voci,» insistette l'uomo. «No, no. A me, no,» rispose il signor Clark. Cominciava a pensare che si trattasse di un paio di giornalisti ficcanaso. «Desiderate vedere uno dei nostri appartamenti con una camera da letto? Ce ne sono rimasti soltanto due, mi pare.» Non c'erano scarafaggi in vista in nessuno dei due appartamenti mostrati
dal signor Clark al signore e alla signora Ellis, e la coppia prese il primo. Trascorsero nove giorni senza lamentele sugli scarafaggi, poi Bertram Cushings, capo del consiglio di amministrazione delle Torri di Giada, fece una visita a sorpresa. Prima di allora, il signor Clark lo aveva visto solo due volte e, quando era stato assunto come uno dei tre direttori addetti alla ricezione, aveva ricevuto da lui una stretta di mano vigorosa. Adesso, il signor Cushings era accompagnato da un uomo dalla faccia grave di cui Sidney non afferrò il nome. Entrò nell'ufficio dietro la ricezione e comunicò a Clark che parecchi inquilini, più di venti in effetti, si erano coalizzati e, dopo aver assunto un avvocato, minacciavano di rompere il contratto d'affitto se non veniva fatto subito qualcosa alle Torri di Giada riguardo agli scarafaggi. «Sembra che lei non sappia niente di tutto questo,» disse il signor Cushings. «Niente affatto, signore. Gli addetti alla disinfestazione sono già venuti due volte e ho inviato un rapporto al consiglio di amministrazione. Dall'ultima visita della Ex-Pest non ci sono più state lamentele,» rispose Sidney, sentendosi impallidire. «Non so cosa stia succedendo, ma le dico che è una vergogna,» riprese il signor Cushings. «Battute di spirito sui giornali, lettere di avvocati... una perfino dal nostro stesso legale, che minacciano querele. È lei la persona preposta a tenere sotto controllo la situazione, qui. Lei e... come si chiama... Vinson. E Fred Miller.» «Sì, signore.» Il signor Clark, osservando la posizione della mascella inferiore del signor Cushings, dedusse che, forse, aveva già perso il posto. Solo il fatto che questi avesse in mente, in quel momento, cose più importanti, cioè milioni di dollari in pericolo, gli faceva trascurare un licenziamento verbale. Il signor Cushings si mise allora a spiegare il piano d'attacco della ExPest, ma borbottava appena, con aria assente, quasi fosse inutile entrare nei particolari, e come se, probabilmente, Sidney Clark non sarebbe stato più lì per tutta la durata dei lavori. «Disinfestazione piano per piano. Evacuazione, piano per piano; tutte le spese pagate dalle Torri di Giada, fino alla soluzione definitiva di questo problema di scarafaggi. Lei riceverà il progetto per iscritto. Anzi, lo riceveranno i direttori della ricezione,» concluse il signor Cushings, come per far capire che i direttori della ricezione forse non sarebbero stati più gli stessi.
Il signor Cushings e il suo collega se ne andarono. Come a sottolineare le parole del signor Cushings, arrivò una telefonata per Sidney Clark: due minuti prima, una donna nel 49L, quando era rientrata in casa e aveva acceso la luce in cucina, aveva visto scappare almeno sei scarafaggi. «Non è la prima volta,» disse, «ma sei tutti insieme! Ho pensato che dovevo proprio fare reclamo...» In tono rassicurante, il signor Clark rispose che l'intero edificio sarebbe stato disinfestato con la fumigazione e che il problema era in buone mani. Quando Paul Vinson lo sostituì al banco, Sidney gli parlò della visita di Cushings. «Evacuati piano per piano,» disse Vinson. «Costerà alle Torri di Giada un sacco di soldi!» Il mattino seguente, verso le dieci, Sidney Clark ricevette da un fattorino della Ex-Pest il piano per la disinfestazione e lo controfirmò. La busta era indirizzata a lui, al signor Vinson e al signor Miller. Conteneva un programma dettagliato con date e orari per la disinfestazione, piano per piano, mediante l'Ex-Pest Unique, che sarebbe cominciata dal seminterrato e dal piano terra e avrebbe richiesto la chiusura «per non più di quarantott'ore» della Tazza di Giada, del piano-bar e, naturalmente, di tutti i negozi, come il fiorista eccetera, che vi si trovavano. Contemporaneamente, gli inquilini del secondo piano (quello sopra il piano terra) avrebbero abbandonato il loro alloggio per quarantott'ore, e lo stesso procedimento sarebbe stato seguito nei giorni successivi. Quanto ai servizi dell'accettazione, e alla presenza dei direttori e dei guardaportone, tutto sarebbe continuato come sempre. Agli inquilini sarebbe stata data comunicazione individuale della data dell'evacuazione. Dopo i primi dieci giorni si progettavano tempi più rapidi, in modo tale da riuscire a evacuare e disinfestare tre piani alla volta nel tempo di quarantott'ore, in modo da portare a termine in un mese l'intera operazione. Chissà come, la notizia di queste direttive trapelò, e il giorno dopo ne parlarono alcuni quotidiani. «Alcuni dei nostri inquilini sono giustificatamente disturbati dalla presenza di qualsiasi genere di insetti nel nostro edificio,» spiegò il signor Cushings alla stampa, e le sue parole furono riportate dal Times. «Una piccola pecca diviene un peccato grave qui da noi, ed è proprio questo tipo di reazione che le Torri di Giada desiderano ricevere da chi vi abita. Ecco perché abbiamo intenzione di risolvere il problema attuale con la maggior
efficacia e prontezza che sia umanamente possibile mettere in atto.» Alle Torri di Giada si organizzarono delle feste all'insegna dello scarafaggio, appena il programma per il loro sterminio prese il via. Negli appartamenti e in piscina la gente doveva aguzzare gli occhi per scovare gli scarafaggi e contare quanti ne aveva visti. Vinceva la gara l'uomo o la donna con il punteggio più alto. Un burlone aveva messo a galleggiare sull'acqua della piscina dei grossi palloni a forma di scarafaggi, dipinti in verde e giallo. Vennero fotografati di nascosto e apparvero sul New York Magazine. Si raccontava in giro che gli alberghi di lusso godessero di una clientela particolarmente numerosa, poiché tutti gli inquilini delle Torri di Giada vi venivano alloggiati alla grande per almeno due giorni. Poi cominciarono a girare storielle amene su certi superscarafaggi che, dopo essersi nutriti di caviale e crostini ben imburrati, erano diventati così grossi e audaci, da respingere l'attacco degli uomini della disinfestazione che volevano entrare negli appartamenti per fumigarli. Un'altra storiella diceva che gli scarafaggi avevano catturato un ascensore e lo usavano per salire e scendere a loro piacimento. Andavano ai piani alti perché erano più sicuri e, grazie al loro numero, facevano scappare via spaventati gli operai che cercavano di farli fuori con i fumi. Quest'ultima storiella aveva forse un fondamento di verità. Poteva darsi che alcuni degli insetti, accidentalmente, avessero fatto uso degli ascensori, perché in effetti tutti gli scarafaggi ancora in vita si muovevano verso l'alto. Gli uomini della Ex-Pest avevano però previsto la cosa, e proprio per questa ragione avevano sferrato il loro attacco dai piani bassi. Quando giunsero al quarantesimo piano, la presenza degli insetti si fece più evidente nei piani superiori. Il consiglio di amministrazione inviò agli inquilini delle Torri di Giada lettere in cui si chiedeva, con la massima cortesia, di evacuare quattro piani per volta «... allo scopo di affrettare i lavori e ridurre al minimo gli inconvenienti...» Leggendo queste parole, gli inquilini residenti in alto sorridevano sarcasticamente. Gli inconvenienti li avevano già e numerosi, per via di quelle bestiacce che correvano dappertutto, tuttavia, volevano restare in casa fino all'ultimo minuto per due ragioni: una era di essere trasferiti negli ottimi alberghi offerti dall'amministrazione, l'altra il fatto che quasi tutti, a parte la seccatura degli scarafaggi, restando fino all'ultimo, avrebbero avuto il prestigio di poter rispondere «c'ero anch'io» alla domanda: «Quando ci fu il gran massacro degli scarafaggi, tu ti trovavi davvero alle Torri di Gia-
da?» Nel frattempo gli uomini delle pulizie della Ex-Pest con i loro apparecchi e aspiratori avevano spazzato e rimesso in ordine i piani inferiori, mentre le guardie delle Torri di Giada li controllavano, così come avevano fatto durante la fumigazione, per accertarsi che non avvenissero furti e che nulla venisse danneggiato. Poi, gli appartamenti furono arieggiati. Gli inquilini dei piani alti dissero al signor Clark e al signor Vinson di aver visto degli scarafaggi incredibilmente grossi, sia in cucina che in bagno, e di aver usato su di loro gli insetticidi che avevano in casa, nell'attesa che venisse il loro turno di traslocare in albergo. Sidney Clark e Paul Vinson erano sempre al loro posto, così come Fred Miller, e si comportavano con coraggio, cominciando a pensare che se fossero riusciti a resistere a quella stagione di scarafaggi, che doveva pur finire tra sette giorni massimo, restando al timone come capitani in un mare tempestoso, forse non sarebbero stati licenziati. Tutti e tre avevano un lavoro pazzesco, dovendo telefonare agli alberghi per anticipare le prenotazioni perché, d'improvviso, molti inquilini dei piani superiori aveva deciso contemporaneamente di voler lasciare l'appartamento. Erano stati infatti visti degli enormi scarafaggi sugli scivoli al centro della piscina, e nessuno voleva più andarci a nuotare. Una vecchia signora elegante che abitava all'ottantaseiesimo piano sotto la piscina, e che era la matriarca di una delle famiglie più ricche d'America, si avvicinò al banco, mentre Sidney Clark era di servizio, e vi depositò una spessa busta gialla. «Adesso la cosa non è più divertente, nonostante le battute di spirito,» disse in tono acido. «Queste sono le copie. Gli originali saranno spediti per raccomandata al consiglio d'amministrazione.» Dette un leggero colpo con il bastone, poi si voltò verso la porta e uscì con il suo passo incerto, accompagnata dalla segretaria e dal cameriere che, entrambi, vivevano con lei nell'appartamento. Il signor Clark aprì la busta con le mani che gli tremavano leggermente. La signora Mildred Pringle dell'appartamento 86H dichiarava che, dopo aver liberato la cucina dalla presenza degli scarafaggi con molto incomodo e molti inconvenienti sia per lei che per il suo personale, aveva scoperto che scarafaggi «di inusitata grandezza» avevano rovinato gli abiti custoditi negli armadi e, in aggiunta, anche tre pellicce. Per questi danni la signora, dopo essersi consultata con la compagnia di assicurazione, intendeva presentare il conto e nel frattempo dava la disdetta dell'appartamento, che avrebbe lasciato entro due giorni, o anche prima, appena avesse potuto disporre del servizio di una ditta di traslochi.
In quel momento, nell'atrio, c'era una gran confusione, come c'era stata dal primo giorno in cui la Ex-Pest aveva dato inizio al suo piano di attacco; si vedevano entrare e uscire fattorini in divisa e inquilini, carichi di bagagli, e i guardaportone che andavano in su e in giù per informare la gente in attesa che il loro tassi era arrivato. Le ragazze al centralino, tre in tutto, erano indaffarate a rispondere principalmente agli inquilini che volevano sapere se la stanza in albergo era stata confermata e se potevano andarsene. Sidney Clark aveva avuto un paio di incubi popolati da scarafaggi: aveva sognato di aver acceso la luce nella sua piccola e linda cucina e di aver visto le pareti brulicanti di insetti che, terrorizzati, si arrampicavano uno sopra l'altro per scavalcarsi nella fuga. E, come se la realtà fosse un seguito del sogno, Paul Vinson gli aveva raccontato di essere stato chiamato con urgenza alle tre del mattino da un inquilino infuriato del cinquantesimo piano (dove si supponeva non ci fossero più scarafaggi) il quale, dopo aver acceso la luce in cucina, gli aveva mostrato almeno un centinaio di insetti che si agitavano freneticamente dietro al contenitore del pane, oppure si infilavano sotto ai mobili o negli angoli. Adesso che Sidney Clark aveva sotto agli occhi il confuso andirivieni della gente e osservava l'aria seccata di alcuni, o l'espressione furiosa di altri, i suoi sogni parevano sempre più reali. La Ex-Pest avrebbe vinto? Ogni giorno, ormai, Sidney faceva parecchie ore di straordinario, come Vinson, e nessuno dei due aveva intenzione di chiedere alcun compenso per questo lavoro in più; la cosa principale era salvare il posto di lavoro, se mai ci fossero riusciti. Erano entrambi convinti (e lo pensava anche Miller) che il consiglio di amministrazione si stesse servendo di loro come capro espiatorio durante la crisi degli scarafaggi e che, appena conclusa la disinfestazione, il signor Cushings li avrebbe licenziati. Anche i dipendenti della Ex-Pest, sebbene si alternassero in tre turni, facevano gli straordinari. Entravano e uscivano dalla porta di servizio delle Torri di Giada a ogni ora del giorno e della notte, e circa una trentina di loro, nelle uniformi verde scuro, dovevano aver certamente lavorato per più di dodici ore consecutive. Nonostante questo, le proteste continuavano a fioccare alla ricezione. Un inquilino era rientrato nel suo appartamento al cinquantasettesimo piano e aveva scoperto che molti dei suoi libri e dei suoi documenti avevano subito «un danno irrimediabile», sebbene li avesse riparati con una copertura di plastica, assicurata al pavimento con nastro adesivo. Intendeva fare causa al consiglio di amministrazione delle Torri di Giada e chiedere il risarcimento dei danni. Una inquilina aveva trovato degli scarafaggi in mezzo ai
suoi tre tappeti orientali, che erano stati arrotolati e sigillati dentro a un involucro di carta da pacchi pesante. Gli insetti li avevano rovinati in maniera talmente grave «da non poter essere restaurati, almeno in questo paese», e lei intendeva citare l'amministrazione per danni. L'uomo dai capelli rossi della Ex-Pest, quello stesso giorno, si presentò al banco della ricezione. Adesso, il signor Clark non considerava più così sconveniente la sua presenza nell'atrio, tanto più che alcuni inquilini, di passaggio con le valigie, lo salutavano come se lo conoscessero. L'uomo era tutto sudato e rosso in faccia per la fatica. «Che buon odore ha l'aria fresca qui sotto,» disse a Sidney. «Potrei avere un bicchier d'acqua lì dentro? Ho ancora sete,» aggiunse, indicando la porta aperta dietro al bancone. Fece il giro, entrò nell'ufficio e bevve avidamente il bicchiere d'acqua che il signor Clark gli porse. «Uau! Di sopra... quegli scarafaggi stanno depositando le uova molto più rapidamente del normale, lo giuro!» Si asciugò le labbra con l'avambraccio nudo. «A... a che piano siete arrivati oggi?» «Ottantacinquesimo e ottantaseiesimo. Con i tempi ci siamo dentro, ma ragazzi! Non c'è più nessun inquilino là in alto. Soltanto noi... e gli scarafaggi! Ah! Ah!» Il signor Clark sapeva che da quasi una settimana tutti gli attici erano vuoti, che la piscina era stata tenuta semivuota, e che l'acqua era stata avvelenata perché molti scarafaggi andavano lì a bere. Come se gli stesse leggendo nel pensiero, l'uomo della Ex-Pest gli disse: «Teniamo d'occhio la piscina, ogni giorno ne troviamo circa duemila morti, che galleggiano sull'acqua, e li aspiriamo con le pompe; ma abbiamo visto degli scarafaggi giganti avvicinarsi ai bordi, bere e andarsene via tranquillamente. Lei è mai andato di sopra?» «No,» rispose il signor Clark, chiedendosi contemporaneamente se stesse sognando. Ma no! La grossa coscia dell'uomo dai capelli rossi era solidamente appoggiata al bordo della sua scrivania, dove il signor Clark non avrebbe mai voluto vederla parcheggiata. «Ma per forza dovete essere a buon punto. Lei ha detto che ne eliminate tantissimi già morti.» Il signor Clark si mosse verso la porta, per far capire che doveva tornare al banco. «Certo, ma quelli degli ultimi piani sono quasi tutti eccezionalmente grossi e non muoiono così rapidamente. È questa la cosa interessante. E, anche, si moltiplicano più in fretta. Pure i ratti lo fanno, lo sa? Dopo un programma di disinfestazione totale, si danno da fare per riempire i vuoti nella popolazione. Lei lo sapeva? Be', ora filo via. Grazie dell'acqua.»
Un paio di persone erano in attesa alla ricezione, e una delle telefoniste cercava di tener loro testa. Il signor Clark raddrizzò le spalle e andò verso di loro. «Ehi!» gridò l'uomo della Ex-Pest. «Se lei sale, chieda di Ricky!» Si percosse il petto con il pollice. «Lassù non mi riconoscerebbe, bardato come sono!» Sidney Clark pensò che, se avesse detto di essere salito agli ultimi piani per controllare lo svolgimento dei lavori, avrebbe fatto buona impressione sul consiglio. Perciò, nel primo pomeriggio, appena arrivò Vinson, lasciò il suo posto. Entrò in ascensore insieme con una coppia silenziosa che uscì al cinquantesimo, e continuò a salire con la netta sensazione di essere sul punto di entrare in una zona ad alto rischio, come un campo di battaglia dove i proiettili volavano da tutte le parti. Che assurdità! si disse. Lì dove andava c'erano almeno trenta uomini al lavoro, e fino a quel momento non era stata ancora comunicata nessuna notizia di morti o di feriti. «Ecco, ho una tuta per lei,» disse una figura che il signor Clark non riconobbe, ma che identificò come Ricky dalla voce. L'uomo era coperto dalla testa ai piedi da una tuta verde scuro, con un rettangolo di plastica all'altezza degli occhi per poter vedere. «Tiri su la lampo davanti. Non deve preoccuparsi per l'aria... per un po'.» Nell'aria c'era odore di limone, ma non quello di un frutto fresco e sano, piuttosto quello di una sostanza sintetica. Le porte degli appartamenti erano spalancate, e figure inguainate di verde andavano e venivano per i corridoi, il cui pavimento color giada era ingombro di fili elettrici, tubi, taniche per la vaporizzazione montate su rotelle, aspiratori collegati da un tubo a un contenitore centrale alto tre volte un normale bidone dell'immondizia. Le parole che gli uomini si gridavano l'un l'altro erano soffocate e incomprensibili. «Le farò vedere contro cosa andiamo a combattere!» gridò Ricky all'orecchio di Sidney Clark. «Di qua!» Ricky aprì la porta di un appartamento, che non era chiusa a chiave, e tutti e due si trovarono in un ambiente molto rumoroso, dove quattro o cinque uomini spruzzavano il disinfestante dalle taniche strettamente legate sulle spalle. Ne dirigevano il getto dietro agli scaffali rivestiti da fogli di plastica, sotto i divani e le poltrone. Il signor Clark stava già sudando. Abbassò lo sguardo sul pavimento e fece un sobbalzo. C'erano scarafaggi che si dimenavano, che rotolavano gli uni sugli altri... ce n'era uno rovesciato sul dorso con le zampe all'aria. Altri guizzavano da tutte le parti come im-
pazziti ed erano di diverse grandezze, da quella che secondo il signor Clark era una dimensione normale, a una lunghezza di quasi otto centimetri. Sidney sbatté un piede per scuoterne via uno che gli si arrampicava sulla gamba protetta dalla tuta verde. «Tutti questi moriranno!» gridò Ricky. «Non si preoccupi, non le possono entrare dentro la tuta! Vengono su dai piani inferiori!» Sidney Clark sferrò un calcio a un grosso scarafaggio che pareva deciso ad attaccarsi saldamente a lui. Cristo! Sbirciò verso l'alto, attraverso il rettangolo di plastica davanti agli occhi, e vide che il soffitto era tutto un brulichio luccicante di dorsi marrone chiaro, tutto un tremolio di scarafaggi, alcuni dei quali caddero giù mentre li stava a osservare. Ricky gli batté una mano sulla spalla, rassicurante. «Domani i ragazzi saranno qui con gli aspiratori per far sparire i cadaveri! Andiamo!» La visita successiva fu in un appartamento dove gli uomini erano già alla tappa aspirazione. Per il frastuono, era impossibile parlare. Con grande disgusto, Sidney vide risucchiare dal pavimento degli scarafaggi ancora vivi, in mezzo alle centinaia immobili e rinsecchiti. Che tutti gli scarafaggi di New York si fossero dati convegno in quel posto? «...bruciati!» Ricky ruggì nell'orecchio del signor Clark. «Di sotto!» gridò facendo segno, forse per indicare le caldaie nel seminterrato. Appena furono di nuovo fuori nel corridoio, Ricky gridò: «Vuole vedere la piscina?» Il signor Clark scosse il capo, fece un sorriso cortese che Ricky non poté vedere e, accompagnandosi con un gesto, disse che doveva tornare al lavoro. Mentre guardava le porte dell'ascensore lì accanto, il direttore della ricezione notò due grossi scarafaggi che si stavano infilando con fatica, appiattendosi al massimo, nella fessura tra il pavimento e le porte della tromba dell'ascensore. Non avevano certo intenzione di suicidarsi buttandosi giù nel vuoto, stavano invece arrampicandosi verso l'alto per sfuggire ai fumi velenosi. Sidney Clark si tolse la tuta ed entrò nell'ascensore che Ricky aveva chiamato e teneva bloccato per lui. «Fateci un buon rapporto!» gridò Ricky. «Perché concludiamo tutto mercoledì, con un paio di giorni di anticipo!» Quella notte Sidney Clark non fece brutti sogni, perché non dormì affatto. Quando chiudeva gli occhi, vedeva scarafaggi che si dimenavano, con le lunghe antenne tremanti, alla ricerca di una via di fuga. I dorsi erano lucidi come se fossero oliati e, nella sua immaginazione, ricoprivano tutte le
superfici possibili: pareti, soffitti, pavimenti. Sciocchezze, si disse. Fece un lunghissimo sospiro, perché aveva trattenuto il fiato. Aveva visto gli aspiratori che ne inghiottivano centinaia in pochi secondi, centinaia morti per sempre. Gli scarafaggi salivano verso l'alto, verso la distruzione inevitabile, e gli inquilini delle Torri di Giada stavano tornando alle loro abitazioni. Dal secondo al sessantesimo piano erano già rientrati tutti, eccetto quelli che erano in viaggio. Nei prossimi due giorni ne dovevano ritornare circa cento. Tutti i piani fino al settantacinquesimo erano ormai disinfestati e arieggiati, tuttavia il consiglio di amministrazione, come gesto di buona volontà, aveva offerto ai propri inquilini un giorno in più in albergo, anche per evitare le lamentele di mali di testa da parte di quelli che erano allergici ai prodotti della Ex-Pest. Per essere onesto, tuttavia, Sidney doveva far pesare sull'altro lato della bilancia il fatto che almeno tre inquilini, pur eccettuando la ricca signora Pringle, avevano portato via quel giorno, o meglio il giorno prima perché erano ormai le quattro del mattino, i mobili e tutto ciò che avevano dal loro appartamento. E prima di mezzogiorno era anche venuto di nuovo Bernard Newman a mostrargli un altro articolo di giornale, qualcosa a proposito di superscarafaggio in un paragrafo in cui si diceva che le Torri di Giada di Lexington Avenue, imbattute fino a quel momento per lusso e raffinattezza rispetto a qualsiasi altro genere di abitazione nella «Grande Mela», attualmente battevano il primato per le dimensioni dei loro scarafaggi; insetti giganti che, fuggendo dai fumi della disinfestazione, stavano dando la scalata ai superattici. Il signor Clark, con gli occhi annebbiati, ma perfettamente in ordine nel suo abito scuro e camicia bianca con i gemelli ai polsini, era al banco della ricezione prima delle nove. Si stampò un bel sorriso di benvenuto sulla faccia all'indirizzo degli inquilini che rientravano. Ricky telefonò dai piani alti. Dalla voce pareva stanco ma allegro. «Oggi terminiamo con gli attici. È finita. Ci sono ancora le torri, e lì potremmo avere delle seccature.» «Le torri? Ma nelle torri non ci abita nessuno!» Le torri erano semplici cupole vuote sostenute internamente da sbarre di metallo. Una volta, il signor Clark era salito a vederle. «Già, ma noi vogliamo fare un lavoro completo, sa? Desidera salire a ispezionare la piscina? Non c'è ancora dentro l'acqua, ma le piastrelle sono pulite e lucenti come uno specchio.» Il signor Clark rispose che era lieto di sentirglielo dire, ma che era troppo occupato al banco per muoversi.
Verso le tre del pomeriggio, Ricky telefonò giù di nuovo e chiese se il signor Clark e il signor Vinson potevano salire subito, perché doveva sottoporre loro un problema molto urgente. Il suo tono era agitato, e il signor Clark rispose che saliva immediatamente. Interruppe il signor Vinson per riferirgli la cosa e chiese a Madeleine, una delle ragazze al centralino, di stare lei al banco per qualche minuto. Vinson e Clark salirono e trovarono Ricky che li aspettava con due tute. «È per la vostra sicurezza!» gridò. Erano al livello degli attici, e agli occhi di Sidney si ripresentò la stessa scena di cavi, tubi e carrelli. Vide anche degli scarafaggi sul pavimento, ma con suo grande sollievo, gli parvero morti stecchiti. «Il guaio grosso è di sopra!» disse Ricky, facendo un cenno. Salirono su per una scala di servizio, una di quelle antincendio, e nella zona pareva che la Ex-Pest non fosse ancora stata all'opera. C'erano centinaia di scarafaggi di dimensioni notevoli che si arrampicavano nervosamente lungo i gradini di metallo, ma poi mutavano di continuo direzione, come se non sapessero se salire o scendere. Tuttavia, in numero crescente tendevano ad andare in alto. «Solo quelli più grossi sono sopravvissuti malgrado i fumi,» disse Ricky. «Adesso il nostro problema è questo...» Erano ora a livello del tetto, sotto il cielo. Sulla superficie grigia del tetto un'infinità di scarafaggi circolavano in ogni senso, senza meta. A Sidney venne in mente che per sfuggire alla morte avrebbero dovuto lanciarsi nel vuoto... ma, a pensarci bene, all'aria aperta i fumi dei disinfestanti sarebbero riusciti ad annientarli? E non poteva essere che si mettessero a camminare all'ingiù, lungo i muri esterni dell'edificio? E come era possibile, soprattutto, che li avessero lasciati salire fino a lì in cima? Stava per fare una domanda, ma Ricky lo prevenne. «Sono tutti là in alto, li vedete?» Ricky non indicò la torre più vicina a loro, ma quell'altra, distante una quindicina di metri, dove cinque o sei operai con le tute verdi, alcuni dei quali sulle scale, dirigevano i loro getti di disinfestante verso l'alto, all'interno della cupola. «Non riusciamo a farli fuori tutti in questo modo, dobbiamo bruciarli.» Al pensiero del fuoco, Sidney Clark si allarmò. Non poteva certo concedere lui, di sua iniziativa, il permesso. Si voltò verso Paul Vinson, che gli stava battendo nervosamente un dito sulla spalla e gli diceva qualcosa che lui non udiva. «La vaporizzazione non basta per distruggerli!» gridò Ricky ai due uo-
mini. «L'aria non è circoscritta lì dentro, e le cupole ne sono piene! Guardate!» Da una tasca della tuta, Ricky estrasse una grossa torcia elettrica e tenendola nella mano guantata ne indirizzò il fascio di luce verso l'interno della cupola. Sidney Clark fece un passo all'indietro, inorridito. Aveva visto un enorme cerchio, con un diametro di quasi otto metri, brulicante di scarafaggi impazziti, che non riuscivano a salire più in alto e nemmeno a fuggire. «Capite cosa intendo?» urlò Ricky. «L'unica soluzione è di usare un lanciafiamme!» Paul Vinson emise un grido soffocato e ondeggiò come se fosse sul punto di svenire. Ridendo, Ricky lo afferrò per un braccio e apri la lampo del cappuccio, in modo che Vinson potesse respirare un po' d'aria. «Scendete, cominciate a scendere!» Ricky indicò la porta aperta sulla scala antincendio. «Devo assolutamente chiedere l'autorizzazione al consiglio perché possiate far uso del fuoco!» disse il signor Clark, muovendosi anche lui verso la porta e dando la sua assicurazione che, appena l'amministrazione avesse comunicato la sua decisione, si sarebbe fatto vivo. Il signor Clark e il signor Vinson si tolsero la tuta e presero l'ascensore veloce che portava direttamente nell'atrio. «Guarda!» esclamò Paul Vinson, indicando uno scarafaggio che pareva lungo venti centimetri e si trovava nell'angolo del pavimento dell'ascensore, vicino alle porte. Stava deponendo un uovo! I due uomini si ritrassero verso il fondo della cabina, nonostante lo scarafaggio non facesse loro la minima attenzione. L'uovo emerse: una forma marrone rettangolare, grande quasi come le piccole saponette che le Torri di Giada distribuivano in scatolette di cartone nelle sale da bagno di quegli inquilini che ricorrevano per le pulizie del loro appartamento al personale di servizio delle Torri. Schiaccia quell'insetto e il suo uovo, si disse Clark, ma non riuscì a farlo. Non ne aveva il coraggio. «Cristo,» disse stancamente a Paul Vinson. L'ascensore era arrivato al piano terra, ed entrambi ne emersero. Immediatamente, Sidney Clark premette il bottone per l'alto e spedì agli attici lo scarafaggio partoriente. Il signor Clark telefonò al consiglio di amministrazione, non riuscì a mettersi in contatto con Cushings, ma parlò con un tale che apparve atterrito all'idea di usare un lanciafiamme all'interno delle cupole, sebbene Sidney gli spiegasse che, apparentemente, non c'era nulla di infiammabile lì
dentro, solo un'incastellatura metallica. L'uomo disse che sarebbe venuto immediatamente e riattaccò. Paul Vinson se ne era andato a casa perché si sentiva male, o così sosteneva, e Sidney ebbe un gran da fare, perché quel giorno rientravano nelle loro abitazioni moltissimi inquilini, che gli chiedevano continuamente se c'erano lettere o messaggi per loro. «Ho visto che oggi si fa festa,» disse una giovane donna, che Sidney riconobbe essere Susan Dulcey, un'attrice che viveva ai piani alti. «Ci sono i fuochi artificiali sul tetto. Molto carini. Lei li ha già guardati?» Il signor Clark scosse la testa e sorrise. «No, non ancora. Ben tornata, signorina Dulcey!» Fuochi d'artificio? Il signor Clark, appena poté, uscì fuori per dare un'occhiata. Erano circa le sei di pomeriggio e calava il crepuscolo. Sul marciapiede, all'altro lato della strada, c'era della gente che guardava in su con aria sciocca, indicava in alto con il dito e ridacchiava. Nonostante il frastuono della Lexington Avenue, a Sidney parve di captare la parola «...scarafaggi...» Oppure era una sua idea fissa? Attraversò il viale con il semaforo rosso. Adesso distingueva sui bordi inferiori delle cupole gemelle tante scintille rosso-arancione che saettavano da tutte le parti... ogni scintilla uno scarafaggio; udiva, o immaginava di udire, e riconosceva il crepitio degli insetti che sfrigolavano e si incenerivano. Le torri stesse mandavano lampi color rosa-arancio, come se stessero sul punto di sciogliersi sotto il calore delle fiamme, e ancor più spaventoso era il bordo rosa che contrassegnava il margine estremo dell'edificio. Che si trattasse di un riflesso del fuoco nelle torri? «Chi vuole scarafaggi arrosto?» chiese una voce maschile dalla folla. «Ah! Ah! Ma no, sono dei fuochi d'artificio di un nuovo tipo.» «No!» disse un'altra voce. «Riesco a vedere gli operai, lassù! Hanno dei lanciafiamme!» L'uomo che parlava aveva un binocolo davanti agli occhi. «Mi lascia dare un'occhiata?» chiese una donna. Sidney Clark trotterellò indietro fino al suo bancone. Che succederà adesso, si chiese, un incendio? Già gli pareva di sentire l'urlo lacerante delle autopompe dei vigili del fuoco che si facevano strada tra il traffico della Lexington Avenue! «Salve, signor Clark,» disse un inquilino che era appena entrato. «C'è posta per Simpson, 59H? Grazie. I fuochi d'artificio sono proprio simpatici, lassù sul tetto. Oggi è un giorno speciale, no?»
Il signor Clark sorrise a sua volta. «Davvero! Il nostro edificio è perfettamente ripulito, ormai.» «Signor Clark, c'è una telefonata per lei,» disse una ragazza del centralino. «Kellerman, del settimo J,» disse una voce maschile. «Negli ultimi dieci minuti, da quando sono tornato a casa dall'ufficio, ho visto quattro scarafaggi, e sono tutti di formato gigante! Se non mi crede, venga da me! Ho sentito che gli uomini della disinfestazione sono ancora qui, perciò me li mandi subito, per favore!» «Sono veramente spiacente, signor Kellerman. Salirò da lei immediatamente. Grazie per avermi avvisato.» Il signor Clark disse a una centralinista di chiamare quelli della Ex-Pest al piano degli attici, dicendo di inviare immediatamente qualcuno al 7J. Poi, si affrettò verso uno degli ascensori. Se nella cabina ci fossero degli scarafaggi, il signor Clark non lo sapeva, perché non abbassò gli occhi, e inoltre, fino al settimo piano la salita era breve. Nel corridoio notò un gran movimento. La porta di Kellerman era spalancata, così come le porte di tre altri appartamenti, e c'erano un paio di donne che parlavano in tono concitato nel corridoio. «Oh, signor Clark!» disse una delle due. «Questi scarafaggi non sono spariti! Ce ne sono due nella mia cucina, e non riesco neanche a scacciarli dallo scolapiatti!» «Il mio bagno,» disse l'altra donna con una smorfia di angoscia sulla faccia. «Per favore, entri a dare un'occhiata!» Il signor Clark fece un gesto in direzione dell'appartamento di Kellerman. «Appena ho finito con il signore... signora.» Entrò svelto nel 7J. «Da questa parte,» disse Kellerman, un uomo corpulento in maniche di camicia, facendo strada fino alla stanza da bagno. Uno scarafaggio mostruoso, senz'altro lungo almeno tredici centimetri, galleggiava nella vasca dove erano poche dita d'acqua. «Bontà divina!» esclamò il signor Clark. L'insetto galleggiava davanti a lui, immobile, ma ben vivo, perché le lunghe antenne flessibili si muovevano pigramente da sinistra a destra. Un paio delle sue tre paia di zampe si agitarono, e lo scarafaggio si girò un pochino; era una cosa bizzarra, ma il signor Clark non poteva fare a meno di pensare che assomigliasse a uno di quegli uomini grassi che facevano il morto a fior d'acqua in piscina. «Che ne dice, allora?» chiese il signor Kellerman. «Mi stavo preparando
per fare il bagno... Che imbecilli, incompetenti, quelli della Ex-Pest!» Afferrò una spazzola e colpì lo scarafaggio con il dorso della stessa. L'acqua spruzzò fuori, e il signor Clark fece un passo indietro. Il colpo aveva risvegliato l'insetto all'attività. Nuotò fino al fondo della vasca, si arrampicò a grandi falcate lungo la ripida superficie smaltata e arrivò sul bordo della vasca, dove si fermò, affrontandoli. «Bene. Lo uccida,» disse il signor Kellerman. «Giuro che ne ho abbastanza e che non mi fermerò qui neppure una notte!» «E io dico la stessa cosa.» A parlare era stata una delle due donne, che dal corridoio era entrata nell'appartamento di Kellerman e stava affacciata sulla soglia del bagno. «Mi scusi se sono entrata. Mio marito è appena arrivato, signor Clark, e abbiamo intenzione di...» Sidney Clark annuì nervosamente e raggiunse la porta d'ingresso. Nel corridoio c'erano altre voci e altre persone, alcune delle quali cercarono di richiamare la sua attenzione. «Cos'è questo, uno scherzo?» chiese con aria concitata un giovanotto che pareva aver voglia di dare un pugno al signor Clark. Sidney aveva l'impressione che l'ascensore non arrivasse mai. «Parlerò immediatamente,» disse, «a quelli della Ex-Pest e all'amministrazione.» «Che faccia di bronzo, tutti quanti!» gridò una donna. «Prima ci hanno fatto andar via e poi ci fanno tornare... a questo schifo!» Il signor Clark si infilò in fretta nella cabina e premette il pulsante per il piano terra, poi si rese conto che nell'ascensore c'erano anche un uomo e una donna con alcune valigie, e un secondo dopo notò per terra due cose rettangolari, che riconobbe all'istante per sacchi di uova. «Signor Clark, che cosa sta succedendo?» chiese la donna. «Ci sono scarafaggi giganti in tutto l'edificio! Questa notte noi andiamo a passarla a casa di amici.» «E sono molti gentili a ospitarci,» aggiunse il marito. Era piuttosto anziano, come la moglie. «Immagino che abbiano voglia di disinfestarci, prima!» Sidney non riusciva a ricordare i loro nomi. «Faremo subito presente la cosa alla ditta di disinfestazione, signore.» Giunti al pianterreno, il signor Clark si ricordò le buone maniere e portò la valigia della donna, mentre lei e il marito lo precedevano. Il grande atrio era stipato di gente, di bagagli, tra i quali addirittura due bauli, e sembrava che tutti stessero parlando allo stesso tempo. «... basta!» urlò una voce femminile adirata.
«Assolutamente no! Ah, ah, ah!... Vuole dividere il tassi con me?» «...come quelli nel mio appartamento. Il mio dobermann ne ha paura!» Il signor Clark si fece strada fino al banco della ricezione, dove trovò Ricky con la schiena contro il banco, assediato dalla gente che lo tempestava di domande. «...tutto è sotto controllo, lo giuro...» diceva Ricky, «naturalmente qualcuno, qualcuno dei più grossi, è sopravvissuto.» Fu subissato dalle grida e si asciugò la fronte sudata con un braccio. Si era gettato all'indietro il cappuccio e pareva un viaggiatore spaziale vestito di verde, invece che di bianco. Non sfuggì a Sidney il fatto che gli inquilini nell'atrio stavano ridendo della tuta superprotettiva di Ricky e dei suoi sforzi per spiegare la presenza di scarafaggi giganti, quasi che la loro straordinaria crescita fosse «... del tutto normale». «Le razze più deboli sono state sterminate... noi le abbiamo distrutte,» stava dicendo Ricky a chi gli stava attorno. «Adesso, ci basta trovare un altro prodotto che uccida i superstiti.» Ricky cercava di difendere il suo lavoro, pensò Sidney, e contemporaneamente di salvare le Torri di Giada. «Questi scarafaggi devono andare allo zoo!» gridò un uomo. «Dietro alle sbarre!» Molti si misero a ridere. «Ho l'impressione che qui stia scoppiando un incendio!» gridò una donna che era entrata nell'atrio di corsa. «Il tetto! Andate fuori a vedere!» «Adesso siamo conciati per le feste!» disse un uomo. Sidney Clark udì il tanto temuto urlo delle sirene dei pompieri, che dovevano essere ormai vicini, altrimenti, a causa del frastuono nell'atrio, non sarebbe riuscito a sentirli. «Ricky,» gridò, «che succede sul tetto?» «Niente!» rispose Ricky, con un gesto stanco della mano. «Lassù c'è l'acqua. Li stiamo bruciando mano a mano che salgono.» «Come sarebbe a dire, mano a mano che salgono?» chiese un uomo. «Stanno salendo verso l'alto e depongono le uova a una velocità molto maggiore del normale, e noi dobbiamo bruciare anche le uova, eh, già...» Ricky appoggiò un braccio sul banco della ricezione, cercando di ostentare sicurezza, tuttavia le sue parole furono accolte con derisione dagli ascoltatori. La gente se ne andava attraverso le porte di vetro, e altra se ne riversava
fuori dagli ascensori con le valigie e i cappotti sul braccio. Improvvisamente, Sidney notò degli sconosciuti entrare dall'esterno. Si allarmò. Per lui, un intruso non poteva essere che un ladro. «Michael!» gridò seccamente a un guardaportone. «Chi sono quei tizi che stanno entrando?» «Dicono che hanno appuntamento. Mi hanno fatto dei nomi,» rispose Michael. «Tienili fuori!» gridò Sidney Clark. «Capito? Fuori!» Le ragazze del centralino erano altrettanto indaffarate dei guardaporte, perché dovevano darsi da fare con le chiamate per i tassi e affrontare le proteste degli inquilini. Ma no, Sidney se ne rendeva conto adesso, lo stadio delle lamentele era ormai superato, adesso stava assistendo a un esodo in massa. «Madeleine!» chiamò. «Sei riuscita a contattare il signor Cushings?» «Sì, signore, due ore fa. Il signor Cushings non verrà.» Era come se il capitano della nave avesse abbandonato il suo vascello. Chi sarebbe stato al comando adesso, lui forse? «Paul è tornato?» domandò. «No, signore,» rispose Madeleine in fretta, tornando a occuparsi delle chiamate. Si udì un suono di sirena provenire da fuori, e il signor Clark vide un'autopompa davanti al marciapiede. Che le Torri avessero preso fuoco? «Oh, attenzione!» Con queste parole, una donna fece immediatamente il vuoto attorno a sé. «Oooh! Mio Dio!» «Calpestatelo dunque, voi uomini coraggiosi! Ah, ah, ah!» Il signor Clark capì, a giudicare dal vuoto creato dalla folla, che si divideva tenendo lo sguardo rivolto verso il basso, che doveva trattarsi di uno scarafaggio in movimento verso l'uscita. I robusti guardaportone guardarono anch'essi per terra, ma nessuno dei quattro fece il tentativo di ucciderlo. L'arrivo di due pompieri, diretti agli ascensori, suscitò un cinico evviva tra le persone più ridanciane dei gruppi in continuo movimento. Adesso, c'erano anche gli operatori televisivi! Uno avanzò su una scaletta mobile e filmò la scena dall'alto. «Qui ce n'è uno! Riprendetelo!» Una donna indicò la parete vicino a lei. Il signor Clark capì che gli intrusi che aveva visto fare irruzione erano operatori di una rete televisiva, o almeno lo erano alcuni, che adesso, senza neanche chiedere l'ombra di un permesso, stavano collegando le luci alle prese di corrente nell'atrio. Fece una corsa fino alla porta, curioso di sapere
cosa stesse bruciando sul tetto. Trovò la gente assiepata sul marciapiede, e poliziotti e pompieri che gridavano di stare indietro. «C'è un incendio?» chiese Sidney a un poliziotto. «No, un falso allarme,» rispose l'agente. «Lassù si vede del fumo, e qualcuno ha fatto scattare l'allarme. Ma era fumo di scarafaggi!» Il poliziotto rideva. La folla guardava l'autopompa, poi guardava in alto e indicava con la mano. Lungo il marciapiede c'erano grosse carcasse nere di scarafaggi bruciati. Alcune persone si toglievano la polvere dalle spalle e fissavano le Torri con aria stanca, eppure indugiavano lì, come affascinate. «Che roba disgustosa,» disse una donna di passaggio. «Guardate!» gridò un ragazzino, indicando poco lontano. «Che cavolo è?» Un enorme scarafaggio stava attraversando il marciapiede in direzione della strada, avanzando molto lentamente, e il signor Clark si avvide che stava deponendo un uovo. Per questa ragione, pareva due volte più lungo di qualsiasi altro avesse visto fino allora. Le donne gridarono. Gli uomini dissero qualcosa come «È incredibile! Ma è proprio uno scarafaggio, lo si vede!» L'autopompa si allontanò e il suo posto fu preso immediatamente dai tassi, che accostarono al marciapiede. Le macchine da presa della televisione lavoravano a pieno ritmo, riprendendo i personaggi famosi e anche quelli meno famosi che uscivano a uno a uno con i loro bagagli. «Ha intenzione di fare causa, signorina Dulcey?» domandò un tale. «Non lo so ancora,» rispose la signorina Dulcey con un sorriso, mentre seguiva Michael che le portava le valigie fino al tassi. Pareva proprio che nessuno avrebbe dormito alle Torri di Giada quella notte. Erano passate le nove di sera, come constatò sorpreso Sidney. Le squadre degli operatori TV stavano recuperando i lunghi cavi. Alcuni degli uomini della Ex-Pest dall'aria esausta si sparpagliarono nell'atrio alla ricerca di Ricky. Ricky era accanto al banco della ricezione e rispondeva a un intervistatore della televisione. «Faremo una pulizia totale. Forse non stanotte...» Erano arrivate le telefoniste del turno successivo e tutte e tre parlavano ininterrottamente. Sidney pensò che rispondessero alle domande degli inquilini, preoccupati della sicurezza delle loro cose e dei loro mobili. «I nostri guardaportone saranno in servizio come sempre,» disse una
delle ragazze a qualcuno. «Paul, procuraci qualcosa da mangiare, per favore,» disse Ricky a uno dei suoi uomini. «Io non posso allontanarmi.» «C'è la Tazza di Giada,» disse il signor Clark. «Hamburger con le uova...» «È da stamattina che la Tazza di Giada è chiusa,» lo interruppe uno della Ex-Pest. «Lei avrebbe dovuto vedere che razza di scarafaggi c'erano lì! Quelli giganti sono scesi giù, capisce, e si sono diretti alla cucina. La direttrice... be', le cameriere se ne sono andate tutte in mattinata.» «È solo perché gli scarafaggi si sono immunizzati. L'Ex-Pest Unique non fa più effetto su di loro,» disse Ricky al signor Clark, «ma appena avremo trovato un...» «Sono stufo di questa storia!» lo interruppe Sidney, ora che il giornalista televisivo se ne era andato. «Lei ha fatto fiasco e mi ha anche fatto perdere il posto!» «Vuole vedere contro che cosa dobbiamo combattere?» ribatté Ricky. «Faglielo vedere, Joey! Qualsiasi corridoio. Prova al secondo.» Riluttante, Sidney seguì Joey su per le scale di servizio fino al secondo piano e vide che sugli scalini c'erano una trentina di scarafaggi di ogni dimensione che salivano e scendevano. Ricky, che era con loro, ebbe la forza di schiacciarne col piede un certo numero, imprecando ad alta voce. Sidney notò però che sceglieva quelli più piccoli o più giovani. Accanto agli ascensori c'erano dei portacenere di pietra. Ricky ne spostò uno, rivelando un sacco di uova e due scarafaggi in una posizione che, secondo Sidney, poteva essere di accoppiamento. «Vede?» disse Ricky. «Ci sono questi maledetti sacchi di uova dappertutto, nascosti dappertutto. Sotto i tappeti... chi riuscirebbe mai a trovarli, chi?» ripeté con enfasi. «Negli angoli degli armadi, in qualche fessura di una libreria... è un'impresa disperata.» «Ma allora, che cosa si può fare?» chiese Sidney, illudendosi ancora che, anche se ci voleva tempo, si potesse trovare una via d'uscita. «Sviluppare un nuovo insetticida?» «Prima che riusciamo a produrlo... questo posto...» Ricky fece un gesto con la mano. «Bisogna dargli fuoco, ecco il mio consiglio.» Dar fuoco all'edificio? Sidney Clark inorridì. «Vado fuori a prendere qualcosa da mangiare. Ho saltato la seconda colazione e adesso mi sento a terra.» Scesero tutti al piano terreno e trovarono che Paul e un altro avevano
portato dei contenitori di caffè e dei sacchetti pieni di panini. Invitarono il signor Clark a unirsi a loro e si sedettero attorno ai tavolini dell'atrio, che erano sufficienti per una trentina di persone. Ricky si riprese dopo un paio di sandwich e un contenitore di caffè e ripeté sottovoce a Sidney: «Bisogna dargli fuoco con il lanciafiamme, capite. È una perdita, certo, ma c'è l'assicurazione, no? Questa è una causa di forza maggiore, no? Non sono un flagello, questi scarafaggi?» Le sue parole continuarono a ossessionare Sidney Clark durante la notte, trascorsa in un sonno agitato, come un ritornello: ... causa di forza maggiore... flagello. Scarafaggi! Il silenzio di Cushings era di cattivo presagio. Che stesse progettando di dar fuoco alle Torri di Giada? E quando gli avrebbe notificato di averlo licenziato? Alle nove del mattino seguente, Sidney era di nuovo in servizio, stanco e sfiduciato. C'era una grande attività alle Torri di Giada per via degli uomini dei traslochi adesso, e al posto dei tassi lungo il marciapiede c'erano file di furgoni in attesa. Facchini muscolosi in maniche di camicia si aggiravano nell'atrio, in attesa di portare il loro furgone davanti alle due porte più grandi dell'ingresso principale o del retro. Il disordine che causavano era emblematico del collasso totale, pensò Sidney. Le tre ragazze al centralino avevano anche loro l'aria di chi ha passato una notte in bianco, e c'era qualcosa di disperato nel loro cortese tono di voce, quando rispondevano alle chiamate. Sul bancone della ricezione erano posati un paio di giornali, il Times e il Daily News con le foto di uno scarafaggio lungo, secondo la didascalia, circa quindici centimetri, che era stato fotografato alle Torri di Giada. Per tutta la giornata, in direzione della porta principale o di quella di servizio, sfilò una processione di carrelli carichi di casse o scatoloni pieni di arredi per la casa, sedie, divani tenuti ritti, di lampade a stelo, tavoli, scrivanie e tappeti; i facchini si chiamavano l'un l'altro con grida, e si davano la voce per andare avanti oppure per aspettare. Avrebbero lavorato tutta la notte, disse uno di questi a Sidney Clark, perché gli inquilini avevano fretta di portar fuori la loro roba e metterla in un deposito. A mezzogiorno Madeleine, la ragazza al centralino, scoppiò in lacrime. «Signor Clark, faranno tutti causa! Abbiamo avuto almeno quindici chiamate questa mattina... e molte persone volevano parlare con lei. Ma non le abbiamo passato le telefonate. Noi abbiamo.. abbiamo detto che il direttore della ricezione era fuori sede al momento.» Sidney Clark si intenerì. «È stata molto gentile, Madeleine. Adesso vada
pure a mangiare qualcosa fuori.» Seguì una settimana molto penosa per le Torri di Giada. Barzellette sui giornali e commenti da parte di chi vi aveva abitato, alcuni sarcastici, altri invece addirittura faceti, del tipo «mi arrendo senza condizioni davanti allo strapotere di Superscarafaggio». Le Torri di Giada non furono date alle fiamme da incendiari prezzolati, come molti avevano predetto. Le cause intentate dai condomini e dagli inquilini fecero fare bancarotta ai proprietari dell'edificio, nonostante il consiglio di amministrazione avesse vinto la causa contro la Ex-Pest, facendola fallire. Le richieste di risarcimento dei danni subiti erano innumerevoli, perché gli scarafaggi avevano rosicchiato tappeti, libri e tappezzerie, come pure articoli di abbigliamento, sebbene questi in misura minore. Qualche giorno dopo che gli uomini della disinfestazione ebbero lasciato il campo, riconoscendo tacitamente la vittoria degli scarafaggi giganti, le Torri di Giada si svuotarono completamente, fatta eccezione per le squadre di guardie armate che erano in servizio di giorno e di notte accanto alle porte dell'ingresso principale e a quelle dell'entrata sul retro. Gli abitanti di New York e anche quelli di fuori città guardavano ancora il grattacielo, ma con un senso di stupore molto diverso: era un edificio fantasma, abitato da insetti così enormi che la gente aveva paura di risiedervi. Ci furono altre proposte: sigillare l'intero edificio e fumigare tutto fino allo stermino degli insetti. Aprire un Cellophane Bar al piano terra, i cui proventi avrebbero alleggerito la situazione rovinosa delle Torri di Giada. Venne fatto eseguire un progetto da un architetto: ci sarebbe stato un piano-bar in cui le pareti sarebbero state rivestite di cellofan e sigillate con nastro isolante al pavimento e al soffitto, con aerazione assicurata da ventole, ma non sarebbe stato servito nessun tipo di cibo per non attirare gli scarafaggi. Il progetto non decollò, perché c'era ancora troppo scetticismo nell'aria. Nell'atrio potevano esserci ancora degli scarafaggi, no? I frequentatori del piano-bar, dopo la prima sera, non avrebbero trovato la cosa divertente. Sidney Clark perse il posto, insieme con tutto il resto del personale. Ricevette dal consiglio di amministrazine una lettera di referenze che non era né buona né cattiva, perciò aveva la speranza di trovare un altro posto simile a quello già avuto. Tutta New York sapeva del lavoro stressante che il personale delle Torri di Giada aveva svolto per cercare di combattere gli scaraL'edificio era in vendita, anche se nessun cartello appariva all'esterno. I
giornali dissero che «si mormorava» (ed era vero) che un paio di ditte di disinfestazione erano andate a dare un'occhiata alla situazione scarafaggi nelle Torri di Giada e poi avevano rifiutato di assumersi qualsiasi impegno. Ma di cosa si nutrivano adesso gli scarafaggi? Della moquette che rivestiva tutti gli appartamenti? Era stata tolta l'acqua, ma un poco ne era rimasta nelle tubazioni; inoltre, pioveva, e gli scaravaggi avevano l'accesso al tetto. Vivevano. Alcune persone sostennero di aver visto dei grossi scarafaggi che lasciavano di notte le Torri di Giada, probabilmente per andare alla ricerca di altri edifici dove trovare del cibo. Ma la cosa non fu mai comprovata. Le guardie preposte alla sicurezza delle Torri avevano chiesto e ottenuto delle somme extra per il fatto di dover lavorare in prossimità degli insetti che, loro lo giuravano, diventavano sempre più grossi. Naturalmente, le guardie si annoiavano durante il loro turno di otto ore, poiché la gente se ne stava alla larga dall'edificio e nessuno tentava di entrarvi di soppiatto o con la forza. Escogitarono allora un gioco nel lungo vestibolo di servizio al piano terra. In fondo al locale deposero come esca dei pezzetti di sandwich e con i loro fucili ad aria compressa sparavano contro gli scarafaggi da una buona distanza. «A lungo andare, può darsi che ne facciamo fuori più noi che i disinfestatori,» disse una guardia a un giornalista curioso. L'uomo aggiunse che in ventiquattro ore, lui e i suoi compagni avevano centrato quasi un migliaio di bestiacce; avevano poi scopato via le carcasse, buttandole nei sacchi della spazzatura che venivano regolarmente raccolti sul retro delle Torri di Giada dai camion della nettezza urbana. Incredibile, pensò Sidney Clark, le Torri di Giada erano divenute un tiro a segno con scarafaggi come bersaglio. Forse, però, questa storia del tiro allo scarafaggio era un'altra delle tante invenzioni dei giornalisti. Un giorno, quando un appuntamento per un colloquio di un eventuale lavoro lo portò nelle vicinanze delle Torri, Sidney si avvicinò al retro dell'edificio e accostò l'orecchio alle porte di metallo grigio che impedivano l'accesso dalla strada al corridoio di servizio. Allora lo udì: un pop-pop-pop soffocato e lieve, seguito da uno scoppio di risa. Era vero. Forse ne ammazzavano un migliaio al giorno. Sidney Clark non desiderava pensarci. Gli scarafaggi erano divenuti una specie di statistica incomprensibile, come il debito nazionale o la popolazione della terra entro l'anno duemila. E va bene, che li prendessero pure a fucilate, pensò. Non sa-
rebbero certo riusciti a diminuire il numero degli scarafaggi nelle Torri di Giada in misura percettibile. 7 UTERO-A-NOLEGGIO CONTRO I GRANDI GIUSTI Alicia Newton non si era mai interessata al problema delle cosiddette madri in affitto fino al giorno in cui, una domenica, i suoi genitori le raccontarono che il reverendo Townsend aveva affrontato nel suo sermone l'argomento. Questo accadde durante il pranzo, dopo che i suoi genitori erano tornati dalla funzione. «Ha anche menzionato il Frick Medical Center,» disse la madre di Alicia. «Alicia non mi hai detto che, qualche volta, anche Geoff ha effettuato qualcuna di queste operazioni?» Il dottor Geoffrey Robinson, fidanzato di Alicia, era ostetrico al Frick Medical Center. «Di sicuro ne ha eseguite,» rispose Alicia, «ma lui lavora soprattutto ai parti e alla terapia prenatale...» «Townsend ha detto che questa faccenda delle madri in affitto sta diventando un'attività disonesta a scopo di lucro,» aggiunse suo padre, tagliando altre fette dell'arrosto di maiale. Alicia immaginò che Townsend avesse citato qualche versetto della Bibbia sull'iniquità di interferire con le leggi della natura. «Non credo proprio che al Frick ci guadagnino molto, per quel che so. È un'operazione talmente rapida: si estrae l'ovulo con un'anestesia locale.» «Il lucro è da parte di quelle che affittano il loro utero,» spiegò la madre di Alicia. «Sai come vengono ingaggiate, cara?» La ragazza rimase un istante in silenzio, perplessa. «Non sono ingaggiate, mamma, si offrono volontarie. È vero che molte donne giovani hanno bisogno di denaro, ma chiedono solo un normale compenso, più qualcosa per il loro matenimento, credo.» «Chiami 'normale' un compenso di diecimila dollari e passa?» chiese suo padre. «Non credo che ci sia una remunerazione fissa. Si tratta di una contrattazione privata,» ribatté Alicia. «Il fatto è che queste madri 'in affitto' sono richieste dalle coppie che non riescono ad avere figli, quando la moglie è sterile, oppure non riesce a portare a termine la gravidanza.» Dopo qualche mormorio da parte dei genitori, l'argomento fu lasciato
cadere, ma ad Alicia parve che l'atmosfera rimanesse un po' tesa. I suoi genitori si erano sempre mostrati restii alle innovazioni ed erano divenuti più che mai conservatori negli ultimi due anni, forse influenzati dal recente atteggiamento decisamente reazionario assunto dalle chiese di Meadsville (una città che aveva più chiese che scuole) e dalle trasmissioni radiofoniche e televisive dei Grandi Giusti. A capo dei Grandi Giusti c'era il reverendo Jimmy Birdshall ed essi disponevano di una loro televisione privata, di stazioni radio e di case editrici che stampavano le riviste del fondamentalismo. La televisione e le stazioni radio chiedevano al pubblico delle donazioni e le ottenevano. In questo modo, Birdshall disponeva di denaro per sostenere i candidati della destra, in lizza per ogni genere di carica pubblica, da membro del congresso a procuratore generale. Birdshall appoggiava il presidente, conservatore, e aveva già ottenuto che alla Corte Suprema venissero nominati dei giudici conservatori. Grazie ai soldi, Birdshall, detto Birdshit (cacca di uccello) dai suoi oppositori, poteva divulgare il suo fondamentalismo in tutti gli Stati Uniti. Il padre di Alicia, David Newton, era nel ramo immobiliare e ci teneva a mostrare una buona immagine di sé, perciò ogni domenica andava in chiesa con la moglie, come facevano tutti in città. Quanto alla madre di Alicia, era attiva nelle associazioni locali con fini assistenziali e apparteneva a diversi club femminili che si dedicavano alle opere buone. Alicia era stata incoraggiata a fare qualcosa per «il bene comune» e aveva seguito un corso per infermiere mentre era all'università, aveva superato i difficili esami finali e adesso, a ventidue anni, era stata assunta dal Frick Medical Center, alla periferia della città. Al Frick aveva conosciuto Geoff, che lei adorava e con il quale si sarebbe sposata entro pochi mesi. Geoff, che aveva ventotto anni ed era già un ginecologo molto apprezzato, fortunatamente era piaciuto ai signori Newton, i quali lo vedevano come un giovane medico, elegante e di piacevole aspetto, che aveva davanti a sé ottime prospettive di carriera. Geoff, sempre allegro, aveva uno sfrenato senso dell'umorismo, che Alicia gli aveva raccomandato di tenere sotto controllo in presenza dei suoi genitori. Poiché Alicia era nubile, il centro medico la chiamava, in caso di emergenza, a preferenza delle altre infermiere sposate. La stessa cosa capitava a Geoff, poiché i bambini nascevano a ogni ora del giorno e della notte, tanto che il giovanotto sosteneva di aver perso il suo orologio del tempo biologico, se mai l'avesse avuto. I due innamorati riuscivano tuttavia a trascorrere ogni settimana una o due serate insieme, e Geoff aveva un appar-
tamentino in città. Quando si incontrarono alla mensa del Frick per bere un caffè, Alicia gli raccontò dell'osservazione fatta dal reverendo Townsend sul mercantilismo delle madri in affitto. «Un buon affare a diecimila dollari più le spese mediche?» chiese Geoff ridendo. «Io non ci starei per quella somma. Forse, i seguaci di Birdshit pensano che qui si stia facendo dell'ingegneria genetica, che si voglia creare una razza superiore. Ah, ah! Oh, questo mi fa venire in mente quanto mi ha detto un'infermiera a proposito di una certa Sarah Morley... o Morgan... non ricordo il cognome. Ha perso il posto a Cleveland per questa ragione.» «Per quale ragione?» «Perché una volta è stata una madre in affitto. Già. È una ragazza di Meadsville. Può darsi che abbia raccontato la cosa a un'altra ragazza, in ufficio, che l'ha riportata al suo capo, il quale forse è un simpatizzante di Birdshit anche lui. A ogni modo, adesso Sarah è a corto di denaro e vuole trovare un altro lavoro... da noi.» Geoff alzò la tazza di caffè nero e bevve. «Ho detto all'infermiera di risponderle e di farla venire per i soliti esami clinici...» Alicia non si ricordava di Sarah. In ogni caso, tutte le madri in affitto erano sulla ventina, sane e in ottime condizioni fisiche. Con una semplice operazione che non richiedeva anestesia, veniva loro inserito nell'utero l'uovo fecondato in vitro, che sarebbe diventato un bambino. Al piano terreno, nel lungo locale del laboratorio dove Geoff spesso lavorava, e dove Alicia andava per ritirare i risultati degli esami del sangue, si trovavano i frigoriferi per le uova e lo sperma, tutti etichettati, e le incubatrici per le uova fertilizzate. In una stanza adiacente c'erano un tavolo, un divano e un televisore, a uso dei tecnici di laboratorio e dei medici quando volevano riposarsi un poco o fare un sonnellino. Questa stanza poteva essere chiusa a chiave dall'interno, spiegò Geoff, ed era anche la stanza dove i mariti venivano per «produrre». Il Frick aveva messo a loro disposizione dei giornaletti semipornografici per dar loro l'ispirazione, ma alcuni uomini non ce la facevano neppure dopo la terza o quarta visita, il che Geoff trovava divertente, seppur normale. «Sono sicuro che non ci riuscirei neanche io, in circostanze simili!» aveva detto con una risata. «Però è sempre un ambiente migliore di quelle cabine di cui ho sentito parlare, con i potenziali padri allineati fuori in attesa del loro turno!» Geoff si raddrizzò sulla sedia. «Adesso devo andare. Sei sempre libera per martedì sera?» Alicia sorrise. «Caspita, che memoria! Sì.» «Ci vediamo!» L'alta figura dinoccolata di Geoff si avviò verso la porta
della mensa, mentre i lembi del camice sbottonato svolazzavano a ogni suo passo. Il martedì sera, Alicia preparò la cena a casa di Geoff, e in seguito i due andarono a un bar-ristorante lungo la strada statale, dove si ballava. Poi tornarono all'appartamentino di Geoff, e Alicia vi passò la notte. Parlarono della casa che intendevano comprare. Geoff aveva già dato un anticipo per l'opzione e sperava di fare un buon affare con il proprietario. Era una casa a due piani, vecchia abbastanza per avere personalità, ed era ubicata in una zona della città non lontana dal Frick. Alicia si era quasi dimenticata della faccenda delle madri in affitto, quando le arrivò una lettera di una sua vecchia compagna di scuola, Stephanie Adams, che viveva in un'altra città a circa sessanta miglia di distanza. Stephanie, come Alicia sapeva, era ora sposata e aspettava un bimbo. Stephanie scriveva che la società per cui lavorava, la Jebson Parts, non voleva ridarle il suo impiego dopo i due mesi di aspettativa per la maternità, come aveva promesso un anno prima. Questo perché la Jebson aveva scoperto che lei, una volta, era stata una madre in affitto. ... Hanno tirato fuori questa storia e io ho detto sì, lo ero stata, perché ero senza un soldo. Pareva quasi che mi fossi prostituita! E sai chi muove le fila dietro a tutto questo? Quei fanatici dei Grandi Giusti. In chiesa non fanno che blaterare contro l'aborto, i contraccettivi alle minorenni eccetera. Perché i Grandi Giusti non attaccano la prostituzione, per esempio, che può diffondere l'AIDS, invece di prendersela con le giovani più sane del paese?... Sono in contatto con dieci ragazze che hanno fatto da madri in affitto e che, a quanto pare, ne conoscono delle altre, forse ormai sposate o che vivono altrove. Da una di queste che sta in Florida ho saputo che in alto loco stanno cercando di abbassare il nostro onorario da diecimila dollari più le spese. E sai in che modo? Ci fanno passare per delle poco di buono che pensano solo al denaro e/o come schiave al soldo di ricconi che non si adattano ad accettare la volontà di Dio, o che sono troppo pigri per portarsi in grembo i loro propri figli... Sintonizzati su una delle stazioni radio o TV di quelle associazioni religiose e ne sentirai delle belle! Perciò io e alcune delle ragazze stiamo pensando di formare un sindacato, chiamato Utero-a-noleggio. Non ridere, abbiamo bisogno di un nome che colpisca l'attenzione per richiamare il pubblico. Poi, che di-
cano pure che abbiamo un animo mercantile, io, tanto, sono sicura che l'intera nazione ci starà a sentire! Il nostro governo se ne frega altamente «della classe sociale in continua crescita costituita da giovani e da poveri», come scrive un giornale di stamani... A quando le nozze? Saluti e auguri a Geoff! George ha spedito il suo romanzo all'agente di New York e tiene le dita incrociate. E io avrò il bambino fra tre settimane. Un forte abbraccio dalla tua vecchia amica, Steph Alicia si ricordava che George Fuller, il marito di Stephanie, faceva lo scrittore e che fino ad allora era riuscito a pubblicare parecchi racconti, ma mai un romanzo. Steph aveva fatto la madre in affitto nel periodo in cui lei seguiva il corso per diventare infermiera. Steph aveva detto che era stato Geoff ad assisterla durante il parto, solo che Alicia, allora, ancora non lo conosceva. Senza il denaro che le avevano dato per quella gravidanza, Steph e George non avrebbero potuto sposarsi, o almeno non tanto presto. I genitori del bebè nato da Steph erano stati così soddisfatti, che le avevano dato una mancia extra di cinquecento dollari. A quel tempo George Fuller, laureato, eseguiva dei lavori di falegnameria e di imbiancatura a Meadsville e ancora adesso, secondo la lettera di Steph, aveva quel genere di occupazione per guadagnarsi da vivere. Chissà, si chiese Alicia, se adesso che Steph aveva perso il posto ce l'avrebbero fatta ad arrivare alla fine del mese? Raccontò della lettera a Geoff, alla prima occasione, quando si incontrarono alle tre del pomeriggio alla mensa. «Non è tremendo? Lei e George hanno appena di che vivere,» disse Alicia. «Te la ricordi, Steph? Capelli castano chiaro, piena di pepe?» «Certo che me la ricordo!» Geoff si era spinto indietro la cuffia da sala operatoria, che adesso gli penzolava sul collo. Su una manica del camice spiccava qualche goccia di sangue. Aveva detto ad Alicia di aver aiutato due donne a partorire, un'ora prima. «Ricordo anche che mi ha detto di essere sorpresa per quanto era facile... fare un bambino. Ed era il suo primo.» Geoff fece un ampio sorriso. Aveva capelli neri e diritti, e baffi sottili e ben curati che secondo lui, come aveva detto una volta ad Alicia, lo facevano sembrare più vecchio. «Così, adesso forma un sindacato? Buona idea. Questo mi fa venire in mente... Conosci la signora Wilkes, capelli rossi, chiacchierona?»
«Uhmm. Sì. Perché?» «È stata ricoverata in emergenza questa mattina presto. Ha avuto un altro aborto ed è proprio sconvolta. Appena si sarà ripresa, domani, le consiglierò una madre in affitto... Un sindacato nazionale è una buona trovata, così avremo un elenco di nominativi.» «Chiamata per il dottor Geoffrey Robinson. Dottor Robinson, per favore si rechi alla camera cinquecento e...» Geoff scostò la sedia. «Il nostro appuntamento per stasera è sempre valido? Alle sette? Alle sei?» «Forse ce la faccio per le sei, se ho fortuna.» «Forse anch'io. Cercami in ostetricia,» disse Geoff, e si allontanò in fretta. Si ritrovarono all'appuntamento e andarono con le due macchine a casa di Geoffrey. Lui preparò due Bloody Mary. «Ehi, sai che poco fa qualcuno ha lasciato da noi sulla scrivania un volantino che riguarda proprio ciò di cui parlavamo. Te lo mostro.» Geoff si avvicinò al suo impermeabile e ne estrasse di tasca un foglio giallo. «Ecco. È questa la chiesa in cui vanno i tuoi?» Alicia osservò il nome della chiesa stampato a grossi caratteri neri sul fondo della pagina. «No, per fortuna,» disse. I BAMBINI NON SONO UN PRODOTTO COMMERCIALE era l'intestazione, seguita da un versetto della Bibbia che, secondo Alicia, non aveva niente a che fare con l'argomento. Poi c'era un paragrafo sulle madri in affitto che cercavano di organizzarsi «allo scopo di alzare i prezzi della loro professione contro natura», grazie alla quale persino «certi ospedali» traevano profitto. Continuò a leggere: ... Il corpo di una donna non è una fabbrica e i bambini non sono oggetti da fabbricare come le auto o gli aerei. L'unione tra un uomo e una donna è una cosa sacra. Interferire nelle leggi della natura e di Dio nel momento del concepimento e della gravidanza, non potrà che portare all'infelicità e alla disperazione. Esse scaturiranno dalla certezza di aver tradito la fiducia che il Signore aveva riposto in noi, suoi figli. La nostra chiesa è una delle tante che si oppongono allo sfruttamento del concepimento e delle nascite. Parlatene con il vostro consigliere spirituale nella vostra o nella nostra comunità religiosa locale.
Fate sentire anche voi la vostra voce! «Cavolo!» disse Alicia, «ce l'hanno con il controllo delle nascite.» «Sì, e adesso raccontami di questo sindacato...» «Steph mi ha detto che un paio di queste ragazze erano giornaliste e avevano già scritto degli articoli su Utero-a-noleggio.» «Bene,» disse Geoff, lasciandosi cadere su una poltrona con il bicchiere in mano, mentre Alicia se ne stava comodamente sdraiata sul divano con i piedi appoggiati sul bracciolo. «Probabilmente, hanno più computer al quartier generale dei Grandi Giusti che in tutti gli uffici del fisco messi insieme.» Il giorno dopo, quando Alicia aveva il suo pomeriggio di riposo ed era a casa per l'una, sua madre le mostrò un articolo sul Sun di Meadsville e domandò alla figlia se l'avesse visto. Alicia rispose di no. C'era scritto: LE MADRI IN AFFITTO FORMANO UN SINDACATO In risposta alla provocazione e ai tentativi di diminuire le loro tariffe liberamente contrattate, alcune donne che attualmente «affittano», o in passato hanno «affittato» il loro utero, si sono unite in un'associazione chiamata Utero-a-noleggio. Le due massime esponenti, la signora Fuller e Frances Chalmers di Brookvale, dicono di avere già trecento iscritte in tutta la nazione e che ogni giorno accettano nuove adesioni. Queste giovani donne hanno ricevuto in passato diecimila dollari come onorario, più il rimborso delle spese mediche e, occasionalmente, anche abiti pré-maman. Utero-a-noleggio sostiene che alcuni gruppi «male informati» tentano di fermare la pratica, ormai consolidata, di usare madri a prestito nel caso che la vera madre non riesca a concepire o a portare a termine la gestazione, oppure ancora, nel caso di sterilità da parte della sola moglie, quando la gravidanza nella madre «supplente» viene ottenuta mediante inseminazione artificiale. «Stigmatizzando queste madri in affitto come 'prostitute' o, nel migliore dei casi, come 'donne prive di scrupoli e assetate di denaro', alcuni gruppi cercano di fermarci», ha detto la portavoce del sindacato, e ha aggiunto: «È vero che la maggior parte di noi ha avuto o ha bisogno di denaro, ma a noi i bambini piacciono e non avremmo mai ottenuto questo lavoro da medici stima-
ti, se non fossimo sane e normali. Centinaia di genitori felici non sarebbero divenuti tali senza di noi.» La portavoce ha anche detto che questi «nuovi genitori» potrebbero dare il loro contributo parlando contro i detrattori del sindacato Utero-a-noleggio. «Be'...» cominciò a dire Alicia, vedendo che sua madre si aspettava un commento. «Non è mercantilismo? La loro prossima mossa sarà di alzare il prezzo. Cos'altro fanno i sindacati?» «Io ho visto dei genitori felici, mamma. Proprio come dicono qui. A chi nuocciono le madri a prestito, dopotutto?» La madre di Alicia fece un sorrisetto gelido. «Ma cercare di organizzarsi in questo modo... con tanta sfacciataggine! Senza dubbio, queste donne del sindacato sono dello stesso genere di quelle che sono a favore dell'aborto libero. Tipi duri e privi di scrupoli, ho l'impressione che tu sia dalla loro parte.» Alicia esitò, conscia che viveva ancora in casa dei suoi genitori. «Considerami neutrale, mamma. Ci sono due aspetti di questa faccenda. Sono le coppie sposate a chiedere a queste giovani donne di fare un figlio per loro.» «Ma quale giovane donna sarebbe disposta a una cosa simile?» «Generalmente si tratta di ragazze povere, mamma. Tu credi che non ci siano poveri in America, ma ce ne sono tanti, tantissimi...» Alicia ebbe un'altra esitazione e poi si lanciò a capofitto. «Alcune ragazze povere diventano delle prostitute o qualcosa di molto simile, perché si trovano senza soldi. Non sono solo i giovani negri che non riescono a trovare lavoro o che sono al verde.» La madre di Alicia ebbe un sussulto. «Il fatto che la gente possa o non possa avere figli è cosa che dipende dalla natura e da Dio, cara Alicia, e non è una delle croci più difficili da sopportare nella vita. È vero che gli scienziati sono capaci di incrociare uno scimpanzé con una capra, almeno credo. Ma a che serve?» Alicia rimase in silenzio. Sua madre aveva giocato a golf quella mattina. Era molto in forma e snella, di qualche anno oltre la quarantina, eppure parlava come Matusalemme. O come Birdshall. I suoi genitori, e quelli come loro, dicevano spesso che Birdshall era «davvero troppo conservatore», però non contraddicevano mai quello che lui sosteneva. «Direi che Birdshit è un fossile,» aveva detto una volta Geoff, «però lui non crede nei
fossili. È convinto che il mondo sia stato creato circa diecimila anni fa, quattromila se è fuori di sé.» «Rosemary mi ha detto stamattina,» proseguì la signora Newton, «che il Comitato americano per l'aiuto agli emarginati ha in programma un funerale di massa a Los Angeles, tra pochi giorni, per i feti abortiti. Hanno raccolto sacchi di questi feti ammucchiati sul retro degli ospedali e...» «Un funerale? Non può essere vero, mamma!» l'interruppe Alicia. La cosa la colpiva, quasi fosse una vignetta satirica nella rivista Mad. «Invece è proprio vero. Ho sentito dire che, di solito, gli ospedali si liberano dei feti come se fossero spazzatura.» «Ti sbagli mamma. Vengono adoperati,» disse Alicia con compunzione. «Sono molto utili ai laboratori di ricerca... per la realizzazione di farmaci per la profilassi, per esempio. Non vanno sprecati.» La signora Newton era sbiancata per la sorpresa. «Allora, è una cosa ancora più spaventosa.» Quel giorno, dopo la conversazione con sua madre, Alicia ricevette altre notizie da Steph. Il tono della lettera era eccitato, e lo scritto era punteggiato da una serie di abbreviazioni. Diceva che Utero-a-noleggio procedeva a balzi da gigante, ma purtroppo, cresceva in proporzione anche l'opposizione sotto forma di messaggi o «bolle» quotidiane da parte di Birdshall. ... Quest'uomo, che si è autonominato papa, dice qualcosa contro di noi ogni giorno sia alla TV che alla radio... Dobbiamo contrattaccare duramente e in fretta, perciò una sezione di Utero-a-noleggio con ventidue socie verrà a Meadsville ven. per un raduno sab., perché Birdshall domenica inveirà contro di noi e sarà udito in tutta la nazione. La maggior parte delle ragazze alloggerà all'Hotel Crown, da cui abbiamo già avuto conferma per le camere, e ci saranno anche tre roulotte dove potranno dormire almeno in due. Io sono senza un soldo, adesso, a causa delle spese pazzesche per la posta, la tipografia e il telefono, perciò mi chiedo se tu possa darmi da dormire per due notti, ven. e sab. Sarò sempre fuori, eccetto che per la notte. Penso che la mia presenza, dato il mio attuale pancione, possa essere di aiuto: madre in affitto una volta, ora sposata e in attesa di un bambino del mio proprio marito!... Potresti procurarmi un elenco delle ragazze che hanno fatto da madri in affitto per il Frick, magari per mezzo del tuo cavalierservente Geoff? Se prima della manifestazione non riuscirò a contattarle tutte, la lista mi sarà utile in futuro... Frances Chalmers è in gam-
ba. Ventidue anni, giornalista, è stata madre in affitto due volte e ha una bambina sua. Mi ha detto di una ragazza di San Antonio che ha accettato di farlo per solo ottomila dollari, senza alcun rimborso spese durante la gravidanza, e Frances pensa che noi si debba intervenire. Il suo ultimo articolo apparirà sab. sui giornali locali, qui, e anche sul New York Times e su un giornale di San Fran. Che te ne pare? Alicia mostrò la lettera di Stephanie a Geoff, il quale si impegnò a farsi fare l'elenco che Steph desiderava da una segretaria del Frick. «Sarà un sabato molto interessante,» disse. «Una manifestazione dell'Utero-a-noleggio a Meadsville! Forse proprio sui terreni dell'ospedale! Ah, ah! C'è un sacco di posto sui prati lì attorno. Può darsi che si faccia vedere anche qualcuno dei Grandi Giusti. I tuoi genitori ti hanno detto niente?» «Non ancora.» Alicia, come sempre, si vergognava un po' dell'atteggiamento conservatore dei suoi genitori. «Non credo che lo sappiano.» I suoi ebbero la notizia quella sera. La prima cosa che sua madre le disse, quando Alicia tornò a casa alle sette, fu che sabato ci sarebbe stata una manifestazione dell'Utero-a-noleggio. Loro lo avevano sentito durante il telegiornale delle sei. «L'annunciatore ha anche detto che al Frick sono state eseguite almeno trenta operazioni per... per surrogare, non saprei come definire questo genere di commercio,» aggiunse suo padre. Alicia telefonò a Steph dall'ospedale e le disse che, naturalmente, poteva stare nella camera degli ospiti venerdì e sabato. Le era impossibile dire di no a una vecchia amica e sapeva che, nel caso i suoi genitori facessero delle storie, avrebbe sempre potuto chiedere a Geoff di ospitarla in qualche modo a casa sua. Probabilmente, i suoi genitori non avrebbero collegato Stephanie Adams con la signora Fuller. Venerdì era il giorno dopo. Mettendosi d'accordo con un'amica, cui promise di restituire il favore, Alicia si prese qualche ora nel pomeriggio di venerdì per andare a prendere Stephanie al terminal della stazione degli autobus. Steph portava con sé una valigetta e una grossa scatola di cartone, legata con la corda, contenente volantini e altro materiale pubblicitario. Alicia le tolse subito di mano il pacco e lo portò lei. «Che bello rivederti!» esclamò Steph, tutta rosea e sorridente. «E ho un sacco di notizie da dirti!»
Decisero di andare a bere un caffè in un locale lì vicino, prima di salire in macchina e andare a casa dei Newton. Steph parlava in fretta, pareva una mitragliatrice. «Utero-a-noleggio sarà l'argomento del sermone di domenica che Birdshall trasmetterà a tutta la nazione. Non avremmo potuto chiedere una pubblicità migliore. Non saremmo riuscite a pagarci neppure un minuto alla TV, ed ecco che lui invece parlerà di noi per un'ora! Dovrebbe essere un segreto, ma noi l'abbiamo saputo. Abbiamo i nostri informatori, Alicia... se sapessi... ti stupiresti. E come sta Geoff? A proposito, tu hai un ottimo aspetto, meglio certo del mio attualmente. Però il morale è alto!... Senti un po', i tuoi come la pensano?» Alicia glielo disse. «Sarà meglio che tenga questa scatola in camera mia, dove tu, naturalmente, puoi entrare quando vuoi. Io sto molto fuori casa. E in camera ho anche il telefono, perché certe volte mi arrivano delle chiamate dal Frick di notte. Sai, i miei non sanno che tu sei la signora Fuller di Utero-a-noleggio. Io ho semplicemente detto che arrivava Steph.» «Capisco. Grazie, Alicia. Sei un tesoro.» Stephanie continuò a chiacchierare. Le ragazze dell'Utero-a-noleggio si erano già installate a Meadsville, all'Hotel Crown o nelle roulotte, e stavano preparando il piano pubblicitario per il giorno dopo. Volevano scattare delle foto a Stephanie sui gradini del Frick Medical Center e speravano nell'arrivo per sabato di operatori televisivi di almeno due stazioni. Quando giunsero a casa, Alicia presentò Stephanie semplicemente con il nome di battesimo. «Se mi ricordo di te? Ma certamente!» esclamò la signora Newton, che aveva appena finito di lavorare in giardino e indossava una tuta di tela grezza. «Non è passato poi tanto tempo... Quanto? Due anni?» «Più o meno. Sono successe tante cose, sa? Adesso sono sposata e aspetto un bambino.» «Che Dio ti benedica!» disse la signora Newton. «Alicia, ci sono state due telefonate, una per te e una per Stephanie. Ho lasciato un biglietto vicino al telefono nell'entrata.» «Grazie, mamma.» Alicia prese i due foglietti di carta e poi salì su per le scale con l'amica, portando la scatola di cartone che pesava più di venti chili. La mamma di Alicia voleva portare la valigetta, ma Steph la ringraziò e disse che preferiva portarla lei, perché qualsiasi esercizio le faceva bene.
Una telefonata era di Geoff. Chiedeva che lo richiamasse alle 5.55 se possibile. L'altra era di qualcuno, noto a Steph, che chiedeva di essere richiamato al Crown. «C'è una cosa che dobbiamo sistemare subito,» disse Steph, frugando nella borsetta. «Voglio lasciar giù venti dollari per le telefonate che faccio da qui... No, no, Alicia, lasciamelo fare. Mi sentirei a disagio altrimenti. Non farò nessuna interurbana, te lo prometto. Se non accetterai questo denaro mi farai abortire!» esclamò ridendo. Con riluttanza, Alicia prese il biglietto da venti dollari. Dalla stanza, Steph fece la sua telefonata e promise di incontrare qualcuno al Crown entro mezz'ora. Poi, siccome erano le sei meno cinque, Alicia chiamò Geoff al numero del laboratorio al piano terra, dove sapeva che lo avrebbe trovato. Rispose Geoff in persona. «Come sta Steph? Dille che le ragazze del sindacato sono già state qui, si sono guardate in giro per organizzare la manifestazione di domani. Lo sapevi che il Grande Rompiballe in persona verrà qui, domani, anche lui? E come vanno le cose con tua madre?» «Bene, per adesso. Steph dice che starà sempre fuori casa.» «Sei in servizio questa sera? Io rimarrò qui fino a mezzanotte, da quel che sembra.» «Il mio turno è dalle nove a mezzanotte. Reparto speciale a pagamento,» rispose Alicia. «Terzo piano, lo sai vero?» intendeva dire che Geoff poteva lasciarle un messaggio al terzo piano, tramite l'addetta al reparto. Alicia entrò nella camera degli ospiti, dove la sua amica aveva aperto la valigia e appeso un vestito nell'armadio. Stephanie si lavò le mani nel bagno al primo piano ed era pronta ad andarsene con un fascio di opuscoli tolti dalla scatola, quando la madre di Alicia chiamò da sotto: «Alicia, puoi scendere un istante?» La ragazza andò giù. Sua madre la portò nel soggiorno e le disse di aver appena avuto una telefonata da Rosemary che le aveva rivelato l'attività della loro ospite: Stephanie Fuller era il capo del movimento femminile Utero-a-noleggio. «Si tratta della stessa Stephanie?» chiese la signora Newton. «Rosemary mi ha detto che una volta abitava a Meadsville.» Alicia sospirò. «Sì, mamma... adesso ce ne andiamo. Voglio dire... cercherò un posto dove Steph possa passare la notte.» «Guarda, io proprio non posso... non posso accettare una donna del genere sotto il mio tetto... anche se una volta era una tua amica.»
Alicia non rispose nulla. Non che fosse risentita, ma non trovava nulla da dire. Quando aiutò Stephanie a scendere le scale con il suo bagaglio, sua madre non era in vista. Alicia portò Stephanie al Crown e le assicurò che Geoff le avrebbe potuto cedere il suo appartamentino, oppure avrebbe potuto farsi prestare facilmente una branda dall'ospedale. «Oppure mi posso sistemare con una delle ragazze al Crown,» disse allegramente Stephanie. «Le ragazze mi finanzieranno per due notti. Non avrei mai dovuto impormi a quel modo in casa tua.» «Oh, smettila, Steph. Proprio tu, la mia amica del cuore di quando eravamo alle superiori... e anche prima! Mi scuso per i miei.» «Se credi che questo mi faccia impressione! Ci hanno insultato e persino picchiato, sai? Sia donne che uomini. A ogni modo, ringrazia lo stesso tua madre, per favore.» Alicia si ricordò di restituire a Steph i venti dollari. Nella hall dell'albergo Stephanie le presentò tre o quattro socie del sindacato, tutte ragazze sorridenti e simpatiche. Una di loro era incinta. Alicia fu colpita dal loro aspetto così lindo e sano, molto più sano della media delle donne di quell'età; d'altronde, era necessario che fossero più sane della media, altrimenti non sarebbero state delle madri in affitto. Steph aveva dato ad Alicia tre o quattro libretti in cui veniva illustrato il loro «pacchetto di proposte» e che le donne di Utero-a-noleggio distribuivano agli angoli delle strade. Alcune pagine erano ciclostilate, altre stampate, e Alicia le scorse mentre era alla mensa del Frick, dove si era fermata a mangiare invece di tornare a casa. L'opuscolo color arancione diceva: PERCHÉ L'UTERO-A-NOLEGGIO? Dopo quasi vent'anni di attività, con un primato di nascite di bambini sani, le «madri in affitto», che hanno accettato di essere tali in base ad accordi prestabiliti con coppie di aspiranti genitori, si trovano ora ostacolate nell'offerta dei loro servizi da alcuni gruppi attivi negli Stati Uniti. Come? Con una campagna verbale da cui risulta che il nostro è un lavoro mercenario (e chi lo nega? La maggior parte di noi ha bisogno di denaro, oppure ne ha avuto bisogno in passato), immorale (in che modo?), dannoso alla vita familiare (noi aiutiamo a creare nuclei fami-
liari) e pernicioso per il neonato, che viene tolto alla madre in affitto subito dopo la nascita. Chi si ricorda dei minuti o delle ore immediatamente successivi alla propria nascita? L'onorario non ufficiale per le madri in affitto è stato, finora, diecimila dollari più le spese mediche, con l'aggiunta, talvolta, di una somma per il sostentamento durante le ultime settimane di gravidanza, nel caso che il lavoro svolto dalla madre in affitto non potesse essere continuato nel periodo precedente il parto. Adesso, certi gruppi religiosi e certe associazioni femminili o maschili stanno cercando di fermare l'attività delle madri in affitto, ma non appellandosi ai tribunali e presentando un'accusa specifica, bensì, per esempio, esercitando pressioni sugli ospedali (ai quali hanno elargito donazioni che ora minacciano di togliere o di interrompere) per impedire la fecondazione artificiale (in vitro). Questo è un tentativo di trasformare le madri in affitto in fuorilegge, disposte ad accettare compensi sempre più bassi, mentre per le coppie sposate che desiderano un bambino la procedura diverrebbe sempre più costosa, nel caso si dovessero pagare degli intermediari. Se avranno la meglio gli oppositori del nostro movimento, tutte le operazioni fatte in ospedale dovranno essere fatte clandestinamente... Alicia esaminò rapidamente un altro opuscolo. DI COSA SI TRATTA? Di mettere al mondo dei bambini sani... Il tentativo di fermarci, di abbassare i nostri compensi, avrà il risultato di: 1) fare divenire la nostra attività un commercio clandestino e/o 2) un lusso, come lo è l'aborto nelle nazioni e negli stati dove esso è fuori legge. È incredibile che siano proprio gli antiabortisti a inveire più di tutti contro di noi. Come mai non passa loro per la testa che Utero-anoleggio vuole mettere al mondo bambini, e non ucciderli? Perché mai non chiedono a centinaia di genitori felici cosa ne pensano? Venite a conoscere alcune di noi domani, ci troverete sui prati lungo il lato ovest del Frick Medical Center. Siete tutti i benvenuti!
Alicia gettò un'occhiata alla porta della mensa. Geoff aveva promesso che verso le nove avrebbe fatto una corsa giù fin da lei. Era in sala parto, perciò era sicuramente da escludere che sarebbe riuscito a scendere in mensa. La ragazza sfogliò un opuscolo giallo dal titolo IL LATO BELLO, un elenco di otto o dieci coppie il cui primo bebé era stato procreato da una madre in affitto. La lista aveva un'aria familiare: Charles e Edwina Nagel, 212 Chestnut Street, Pittsfield, Massachusetts. Figlio Charles Junior, due anni e mezzo. «Non avevamo figli. Ora non più.» Felipe e Dora Ortega, 10 Cedar Heights Road, Leacock, Michigan. Figlia Josephine, tre anni. «Siamo riconoscenti a colei che si è prestata come madre e speriamo di avere un altro bambino, non appena ce lo potremo permettere.» «Ciao!» «Oh, ciao Geoff! Guarda questa roba che mi ha dato Stephanie. Vuoi che vada a prenderti un caffè?» Geoff aveva l'aria stanca e la barba lunga, ma sorrise e annuì, poi prese gli opuscoli e cominciò a esaminarli. Alicia tornò con il caffè. «Mia madre si è rifiutata di tenere in casa Stephanie.» «Cosa? Stai scherzando?» Alicia gli assicurò di no e aggiunse che Steph non se l'era presa a male, anzi, neppure si era stupita. «Una delle mie pazienti in ostetricia, questo pomeriggio...» Geoff parlava sottovoce e gettò un'occhiata all'infermiera e all'interno che stavano seduti a un tavolino accanto a loro, ma poiché parevano assorti nella loro conversazione, proseguì con tono compassato: «... mi ha detto che le donne in città sono veramente indignate per la presenza delle ragazze di Uteroa-noleggio e, da quel che ho capito, intendono farsi vive anche loro, domani.» «Peccato che io entri in servizio alle dieci,» disse Alicia. «Se posso, mi accontenterò di guardare dalla finestra.» «Che buffo, domani ho tre tipi che vengono per 'produrre'. Che bel momento hanno scelto! Proprio mentre i Grandi Rompiballe lì fuori scandiranno a gran voce 'anormali, pervertiti, voi offendete la natura!' Ah, ah!» Geoff si contorceva per l'ilarità. Si terse una lacrima dagli occhi e bevve
d'un fiato il resto del caffè. «Ciao, ciao, tesoro! Torno alla mia missione!» Il mattino seguente, Alicia fece fatica a trovare posto nel parcheggio, perché altre auto avevano usurpato le zone riservate alle infermiere, zone che non erano così sacre come quelle riservate ai dottori. Vi trovò infatti tre pullman parcheggiati, e almeno due che vi stavano entrando. In tutta quella confusione di gente era inutile cercare Steph. I prati sul lato est dell'edificio erano gremiti di uomini e donne, alcuni con bandiere e striscioni, che gridavano e urlavano. C'erano perfino degli agenti che tentavano di mantenere l'ordine. Alicia si affrettò a entrare al Frick e timbrò il cartellino prima delle dieci. «Fuori! Fuori! Sbattetele fuori!» furono le prime parole che sentì gridare attraverso la finestra chiusa, nella stanza dove era intenta a inserire un ago-cannula nel braccio destro di un paziente. Era un uomo anziano e si trattava di una trasfusione di sangue. «Le ho fatto male?» chiese la ragazza. «Neanche un po', grazie. Cos'è tutto quel baccano, là fuori?» Poi Alicia provò la pressione a quattro pazienti. Quando andò a lavarsi le mani, erano circa le dieci e trenta. Aprì la finestra nel brillante sole di ottobre e guardò fuori in direzione della folla. Le giunsero alle orecchie delle voci femminili, poi una voce maschile all'altoparlante tuonò: «Mantenete puro il nostro paese!» Era il Grande Giusto con un amplificatore. «Ascoltate per che cosa ci battiamo... Date un'occhiata a... (le parole erano inintelligibili) e lasciate che parlino!» Quella era una delle ragazze di Utero-a-noleggio, e la voce proveniva da sotto uno striscione viola tenuto alle due estremità da due giovani donne. Lo striscione portava la scritta UTERO-A-NOLEGGIO e si gonfiava e sgonfiava sotto le folate di vento. Dai pullman, dagli autobus e da moltissime auto proveniva il suono assordante dei clacson. Alicia si rese conto che ognuna delle due parti cercava di sovrastare l'altra con il baccano. Le noleggiatrici di utero avevano a loro disposizione una piattaforma, notò con soddisfazione, mentre gli antagonisti avevano un piccolo stand, come una sezione di tribuna con posti a sedere e una piattaforma più ampia appena sotto. Da quella piattaforma, l'uomo al microfono gridava. «... la tradizione americana... il dono di Dio... i bambini... un disgustoso commercio... vedete qui...» Alicia si staccò dalla finestra e la richiuse. Tornò al lavoro. Ci dovevano essere più di seicento persone sui prati a est del Frick, pen-
sò. Chissà se c'era anche sua madre con l'amica Rosemary? La seconda volta in cui le riuscì di guardare fuori si accorse che la situazione si era fatta calda. Sembrava che delle donne sulla cinquantina stessero spintonando un gruppo di ragazze di Utero-a-noleggio sul prato più a sinistra. Un'infermiera, tutta eccitata e sorridente, si avvicinò ad Alicia. Si chiamava Mary Jane. «Mettetelo nel culo a quei fanatici!» esclamò, facendo un gesto volgare che improvvisamente sembrò a entrambe molto comico. «Loro hanno tutto il tempo che ci vuole! Bastardi pieni di soldi!» Mary Jane era irlandese, pensò Alicia. Eppure era in favore di Utero-anoleggio e probabilmente in favore anche dell'aborto libero. Risero tutte e due come matte e si dettero delle pacche sulle spalle, sentendosi come sorelle. «Hai visto la televisione?» Mary Jane trascinò Alicia nella sala riservata alle infermiere, che aveva sulla porta un cartellino con le parole: «Riservato al personale». L'apparecchio era acceso, e parecchie infermiere in piedi o sedute fissavano assorte lo schermo; alcune ridevano, altre applaudivano con entusiasmo. Si vedevano i volti di due donne che, una di fronte all'altra, urlavano e sembravano sul punto di prendersi a schiaffi. «Che posto è?» chiese Alicia. «Dallas!» risposero all'unisono un paio di infermiere. Una aggiunse: «Abbiamo appena visto Los Angeles! Uau! È in tutto il paese!» «Magari potessi scendere giù,» disse Alicia a Mary Jane. «La mia migliore amica è praticamente il capo del movimento. Stephanie Fuller.» «Oh, davvero?» Mary Jane guardò Alicia con improvvisa ammirazione e disse: «Ehi, ho sentito che il Grande Rompiballe ha intenzione di... Tu lo sai del funerale ai feti a Los Angeles? Be', il Grande Rompiballe...» Mary Jane non completò la frase, perché tutte sentirono il suono del campanello nella hall e dovettero andare. Alicia aveva creduto che Gran Rompiballe fosse un termine usato solo da Geoff. «... vorrei presentarvi...» udì Alicia mentre attraversava la hall. Di sicuro quella era la voce di Stephanie, o almeno lei lo sperava, che voleva presentare alcuni dei «genitori felici». Quando ebbe l'intervallo di mezz'ora, la ragazza, invece di andarsi a prendere un panino, diresse tutta la sua attenzione alla zona est, dove sull'erba pareva si fosse riunita molta più gente di quando aveva guardato in precedenza. Riusciva a discernere i «genitori felici», tre coppie in piedi, in
fila, sul podio, tra i sostenitori di Utero-a-noleggio. Tutti ridevano o sorridevano, forse per la difficoltà di udire alcunché, perché dalle parti opposte c'erano almeno due microfoni che amplificavano i suoni al massimo. I sostenitori dei Grandi Giusti infatti, dopo aver innalzato i loro striscioni rosso-bianco-blu, stavano suonando «avanti, soldati di Cristo», mentre dalla parte di Utero-a-noleggio si riconoscevano le note di Alexander's Ragtime Band. «... per leggervi di Abramo e di Sara!» gridò una voce femminile dal tono deciso. «Quando Abramo pensò che Sara fosse sterile, giacque con Agar...» «Scopava Agar...» «... chiedo un po' di silenzio! Il presidente vi parlerà... di sedicimila feti abortiti... non dimenticati!» Evviva da voci di gente anziana, un po' roche, da parte dei Grandi Giusti, e urla di derisione da parte di Utero-a-noleggio. Applausi e risate. «... feti raccolti negli ospedali, nei quali, altrimenti, si sarebbero buttati via quei bambini come fossero spazzatura,» tuonò una voce maschile, che proveniva da qualcuno che Alicia non riuscì a scorgere. «... ora la voce del nostro presidente, che si dedica a coloro che nessuno vuole...» «Noi li vogliamo!» urlarono le ragazze di Utero-a-noleggio, battendo le mani e urlando. «Controllo delle nascite! Questo è il risultato di non voler controllare le nascite!» Ci furono risate da entrambe le parti. «... alle esequie di...» Ci fu un intenso crepitio nell'altoparlante regolato al massimo, poi la voce familiare del presidente disse: «Così come il terribile tributo di morti a Gettysburg si può far risalire a una decisione tragica... così queste morti ci addolorano...» Alicia scese le scale di corsa. Doveva avvicinarsi, doveva partecipare! Quasi andò a sbattere contro Mary Jane e un paio di infermiere che stavano salendo. «Venite giù! Non potete assentarvi per pochi istanti?» Alicia corse fuori nella luce del sole verso il punto del prato occupato da Utero-anoleggio, in cerca di Stephanie. «... esseri umani... sottratti alla protezione della legge da un tribunale che con i suoi decreti si scontra contro le nostre convinzioni morali più profonde...» Era il presidente, che pareva terribilmente sincero. «... da questa strage di innocenti, nasca una maggiore dedizione alla causa di ristabilire i diritti di coloro cui non è consentito di nascere.» Seguirono applausi fragorosi ingigantiti dall'amplificatore.
Anche i Grandi Giusti applaudirono, ma non troppo, perché non volevano perdere neanche una sillaba del discorso. «Che cosa c'entra Gettysburg con l'aborto?» Alicia sentì chiedere da una donna a un uomo in piedi dietro di lei. «Uhm, ehm... Be', è un po' complicato, ma cercherò di spiegartelo quando saremo a casa,» rispose l'uomo. «Alicia! Sono qui!» Era Steph a parlare e le faceva cenno, in piedi su qualcosa, altrimenti Alicia non sarebbe riuscita a vederla in mezzo alla folla. Alicia si fece strada verso Steph, aiutata in questo dalla sua uniforme da infermiera e dalla cuffietta bianca. «Ciao, cara!» «Ciao!... Sylvia, ti presento la mia amica Alicia Newton. Questo è Jed, il marito di Sylvia.» Alicia disse ciao. Steph le spiegò che erano una delle coppie dei «genitori felici». «Sapessi quanta gente ci ha fatto delle domande,» proseguì Steph. «Donne che non riescono mai a rimanere incinte, sebbene non abbiamo nulla né loro, né i mariti... ebbene, vogliono sapere come poter mettersi in contatto con una madre in affitto!» «... Persistere,» ruggì l'amplificatore al di sopra del frastuono della folla che chiacchierava. «... è quello che ci induce a trovare un luogo, oggi, dove quei bambini e quelle bambine possano riposare...» «Ma sono feti, sempre solo feti!» gridò, ridendo, un uomo. «Non è giusto!» urlò una donna tra i Grandi Giusti. «Smettetela! Che cattivo gusto!» «No, il cattivo gusto è nel funerale dei feti a Los Angeles!» gridò una ragazza. Nella confusione, si udì scandire con decisione lo slogan: Ogni Grande Giusto sa Quale sia la verità! a cui si unirono, però, solo una dozzina di voci. «Quello non era il presidente che parlava!» gracchiò una donna. «No, l'ultima voce era di qualcuno a quel funerale disgustoso e ben vi sta!» gridò un uomo che patteggiava per Utero-a-noleggio, tirando un calcio a due giovanotti in pullover bianco della compagine dei Grandi Giusti che sembrava volessero malmenarlo. Poi, una ragazza e due ragazzi si pre-
cipitarono in aiuto dell'uomo che veniva minacciato dai due con i pullover bianchi. Ogni Rompiballe sa Che ci ha scocciato già. Intonarono quelli di Utero-a-noleggio, e il canto si fece più forte. «Alicia!» Alicia riconobbe la voce di sua madre e la vide, a parecchi metri di distanza, con la mano o con le dita alzate, quasi la stesse ammonendo o mettendo in guardia contro qualche pericolo. In quello stesso istante, dal prato sul lato dell'ospedale e muovendosi in direzione della strada, un'ondata di una ventina di persone si frappose tra di loro. Parecchia gente venne travolta e cadde. Un paio di donne gridarono, e la zuffa scoppiò, senza risparmio di colpi agli anziani di entrambe le fazioni. «State calmi! Non vogliamo violenze!» gridò Stephanie a quelli di Utero-a-noleggio. Alzò le braccia per richiamare la loro attenzione e cercò perfino di fare un salto in aria, con grande spavento di Alicia, perché la pancia di Steph sotto il suo vestito di lana color lampone pareva un barilotto. In città suonò la sirena del mezzogiorno, nelle immediate vicinanze si udirono le sirene della polizia, e Stephanie lanciò un grido. Tutto nello stesso istante. «Oh, Geoff!» urlò Alicia. «Qui!» Lo aveva individuato mentre il giovanotto scendeva incerto gli scalini dell'ospedale. Geoff si precipitò verso di lei, e il camice bianco si aprì nella corsa. «Che fortuna che ci sia un ospedale vicino, ah, ah!» Geoff evitò con abilità un giovanotto alto che, essendo stato caricato da qualcuno, era caduto all'indietro sull'erba. «Ho visto Steph un minuto fa,» disse Alicia. «Adesso non riesco a trovarla. Non dovrebbe restare in questo caos.» Lei e Geoff cercavano di sottrarsi alla gente che, agitando le braccia, arretrava e avrebbe potuto travolgerli. I poliziotti usavano il fischietto e gridavano per ristabilire l'ordine. C'erano delle persone a terra sul prato, svenute o intontite. «Barelle!» gridò qualcuno. Le barelle arrivarono. Erano cinque o sei interni che correvano giù dalle scale dell'ospedale con le barelle e le cassette di pronto soccorso.
«Ciao, Alicia! Sono Frances, ti ricordi di me?» Frances aveva il naso che le sanguinava. «Stiamo tentando di proteggere Steph. Venite da questa parte.» Steph non era per terra, ma pareva stesse male ed era sostenuta da un paio di ragazze di Utero-a-noleggio che, chiaramente, stavano cercando di portarla verso l'ospedale, ma senza riuscirci a causa della folla. Geoff afferrò la situazione e chiamò a gran voce un interno che conosceva di nome. «Questo è un lavoro per il mio reparto, credo,» disse ad Alicia. Nel giro di pochi secondi, Steph veniva portata sulla barella verso l'ospedale, accompagnata da Alicia e da un altro paio di ragazze di Utero-anoleggio che le facevano da scorta. Alicia sentì due o tre frizzi da parte dei Grandi Giusti, qualcosa come: «ecco un altro bebè prodotto in fabbrica», che cercò di non raccogliere. Non si arrabbiò nemmeno. Sapeva che Steph aveva dichiarato pubblicamente, quel giorno, che portava in grembo «il suo bambino», e se certa gente non l'aveva udita, peggio per loro. «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!» «Abbiamo vinto!» Da quale parte venivano scandite quelle parole? Da tutte e due. Ma chi aveva davvero vinto? Chi avrebbe mai vinto? Alicia se lo chiese mentre, accoccolata sull'erba, aiutava, preparando la fasciatura, un'altra infermiera che puliva con il disinfettante una brutta scorticatura sul braccio di una donna. Molta gente ora se ne stava andando, e così le figure a terra, una dozzina circa, erano più visibili. Alcuni esagitati di entrambe le fazioni si gridavano insulti a vicenda. Quando Alicia sollevò lo sguardo dal successivo intervento di pronto soccorso, notò le ragazze di Utero-a-noleggio, alcune delle quali conosceva di vista, intente a ripiegare lo striscione e a raccogliere gli opuscoli sparpagliati sull'erba. Quando la ragazza rientrò nell'ospedale, camminando accanto a un ragazzo spaventato, che aveva un taglio sulla fronte da cui continuava a scorrere il sangue, si rese conto che non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso dal caos di mezzogiorno. Fece sedere il giovane su una poltroncina, medicò la sua ferita e gli assicurò che non avrebbe avuto bisogno di punti. Alicia trovò un'altra infermiera che la sostituì e che persuase il ragazzo a stendersi per qualche minuto, poi guardò l'orologio. Era quasi l'una e mezzo! Non faceva che pensare a Steph. Salì al quinto piano, dove c'erano sia le sale parto che quelle per il travaglio, e andò dall'infermiera nella hall a chiedere informazioni, perché lei non avrebbe potuto entrare in sala parto.
In quell'istante, la porta si aprì e ne uscì Geoff. Appena vide Alicia, spalancò le braccia e rise. «È una bambina! Il parto più facile che abbia visto in vita mia!» «Steph sta bene, vero?» «Sarà difficile farla stare a letto. Ah, ah! Come vanno le cose sul campo di battaglia?» Pensare agli scontri avvenuti là fuori fece venire la nausea ad Alicia. L'importante era che Steph stesse bene e avesse avuto la sua bambina! I bambini erano stati la causa di tutto quel pandemonio, bambini desiderati, voluti! E nessuna delle due parti aveva vinto, confidò a Geoff, perché nessuna delle due aveva ascoltato quel che diceva l'altra. Geoff fu d'accordo. «Ma tutte e due le fazioni sono felici, non dimenticarlo,» disse Geoff. «I Grandi Giusti sono sempre sicuri di aver vinto. E Steph mi ha appena detto che Utero-a-noleggio ha avuto un mucchio di richieste, con nomi e indirizzi, da parte di genitori che desiderano dei figli. Perciò, è convinta che il suo partito abbia vinto.» La madre di Alicia aveva un occhio nero. Di tutti i lividi che le potevano venir fuori, quello era il meno appropriato, pensò la ragazza, perché le dava un aspetto comico. In casa, l'atmosfera era peggiorata, anzi si era fatta insopportabile, così Alicia pensò di allentare la tensione andandosene. Non ci furono problemi. Lei e Geoff si sposarono un po' prima di quando avevano stabilito, conclusero il contratto per la casa in anticipo e vi si trasferirono. 8 NESSUNA FINE IN VISTA Ora giace distesa, ha certamente centonovant'anni, qualcuno dice addirittura duecentodieci, e non è in vista la fine. Non distingue la domenica dal mercoledì, e non potrebbe importargliene di meno; negli ultimi novant'anni si è rifiutata di portare l'apparecchio acustico, ha buttato giù dal gabinetto la dentiera almeno un secolo fa, perciò da allora il personale infermieristico della clinica ha dovuto tritarle tutto il cibo. Ora viene imboccata tre volte al giorno, quattro, se si conta anche il tè, e fa la pipì a letto nei pannolini. I pannolini di Naomi devono essere cambiati dieci volte o più nelle ventiquattr'ore, giorno e notte. La Casa di cura e di riposo per anziani Old Homestead addebita degli extra per gli ospiti che fanno uso di pannolini. Naomi non sa o non vuole darsi il disturbo di premere il pulsante elettri-
co con la spia rossa che pende sul bordo del comodino a portata di mano; se la fa addosso. Quando è il momento di cambiare la biancheria del letto, cosa che avviene due volte alla settimana, due infermiere la sollevano per deporla lì accanto su una poltrona che ha un buco nel sedile e si chiama comoda. Le infermiere aprono la camicia da notte di Naomi sul di dietro, nel caso avesse voglia di fare i suoi bisogni mentre le rifanno il letto. In due, le infermiere sollevano Naomi con facilità dato che non pesa molto, per metterla due volte al mese su una sedia a rotelle e portarla giù all'«istituto di bellezza» nell'atrio per lo shampoo e la messa in piega, manicure e pedicure. Il tutto per settantaquattro dollari. I suoi sottili capelli bianchi sembrano una nuvola di fumo, tuttavia il suo cuoio capelluto deve essere lavato e quella peluria spazzolata per farla assomigliare di più a dei capelli, anche se Naomi non ha chiesto da decenni di avere uno specchio e, se lo avesse fatto, non avrebbe potuto comunque guardarcisi dentro: la donna ha volontariamente rotto gli occhiali molti anni prima in un accesso di collera e, poiché si trattava del quinto paio che la casa di cura aveva fatto fare (naturalmente a spese della degente), non ne vennero fatti fare degli altri. O, forse, era stato l'ottico a creare difficoltà, poiché ricordava come era stata sgradevole Naomi l'ultima volta che lui aveva tentato di misurarle la vista. Ma se ci fosse stato un paio di occhiali presso la lampada accanto al suo capezzale, lei se li sarebbe messi? No. Che cosa «vedeva» con quegli occhi semichiusi, come del resto li teneva la maggior parte del giorno e della notte? Che cosa vedeva, nei rari momenti in cui li teneva più aperti? Che cosa ricordava? I ricordi della sua infanzia erano più vividi in lei degli avvenimenti degli anni maturi, come dicevano tutti? Forse. Naomi borbottava, qualche volta parlava a personaggi immaginari, e raramente le infermiere riuscivano ad afferrare quello che diceva, ma a chi importava? Ormai, Naomi non diceva più niente di divertente sulla gente di lì, come aveva fatto un centinaio di anni prima, quando, assistita di solito da un'infermiera, scendeva ancora con le sue gambe nel refettorio per i pasti. Da allora, generazioni di infermiere erano venute e se ne erano andate, e i commenti strani e maliziosi, poiché erano detti così a voce e non scritti, non erano stati tramandati alla memoria dell'attuale personale paramedico. La sola discendenza di Naomi, il figlio Stevey, non era ricco quando morì, ma aveva lasciato alla madre tutto ciò che aveva, circa diciassettemila dollari. Stevey non si era mai sposato. Naturalmente, il suo piccolo patrimonio, che aveva investito al meglio in depositi a termine e roba del ge-
nere, si era esaurito da tempo. Ma la fortuna di gente come Naomi è tale, che ricevette un'eredità, un altro piccolo patrimonio da uno zio di Stevey da parte del padre, e questo denaro era durato incredibilmente a lungo, anche se non tanto a lungo quanto stava resistendo Naomi. Stevey era già morto da circa centodieci anni. La sua vita ebbe una durata normale, e lui morì prima degli ottant'anni. Vi era un televisore nella stanza di Naomi, e di tanto in tanto lei era solita fissare lo schermo spento opalescente, come se vedesse qualcosa, come se volesse rispondere a personaggi immaginari di qualche telenovela o situation comedy, ma ora non più. Stevey le aveva comprato il televisore quando lei aveva ottant'anni (ne aveva settantotto quando era entrata all'Old Homestead), ma quando era diventata più tocca, le infermiere lo avevano portato via di nascosto per metterlo nelle stanze di altri pazienti (naturalmente addebitandone l'uso a carico dei ricoverati), e quando infine le immagini si erano messe a «saltare», nessuno si era dato la pena di aggiustarlo ed era stato riportato, inservibile, nella camera di Naomi. Se mai qualche parente fosse capitato lì e gli fosse venuto in mente di accennare al televisore, chiedendo dove fosse, eccolo lì. Ma i parenti di Naomi, della gente normale che vivesse, camminasse, facesse visite, avevano sempre brillato per la loro assenza. Il personale amministrativo dell'Old Homestead e il personale paramedico maschile e femminile qualche volta ridacchiavano, a proposito di Naomi Barton Markham. Dicevano che era prossima ai duecento, giorno più, giorno meno. E tirava ancora avanti! Non aveva motivo di morire! Si diceva che nessuno, della famiglia di Naomi, le avesse fatto visita in un secolo. Lo zio di Stevey era morto senza figli e, poiché ricordava con ammirazione il proprio fratello Eugene, aveva lasciato tutto ciò che aveva alla vedova di Eugene, Naomi, che non aveva mai conosciuto. Molto gentile da parte di quello zio, poiché Naomi si era sposata una seconda volta con un certo Doug Villars, che non era stato molto bravo a far soldi. Sorprendentemente, l'eredità di Naomi aveva resistito sessant'anni contro le malversazioni dell'amministrazione dell'Old Homestead, il sovraccarico di ore di «cure speciali», le ricette di preparati inutili, il più assurdo dei quali era il lassativo, cosa di cui l'intestino di Naomi non aveva affatto bisogno, ma che la farmacia era felice di aggiungere alla lista dei preparati che le occorrevano. Una truffa infernale. La stanza di Naomi Barton Markham, al pianterreno della Casa di cura e di riposo Old Homestead dell'Oklahoma meridionale, era una cameretta
con una finestra e un bagno privato, nel quale Naomi non aveva messo piede da quando aveva avuto circa centoventi anni. La stanza, oltre al letto di Naomi, aveva una poltrona per i visitatori, un comodino con sopra delle boccette e un bicchiere d'acqua, e sul pavimento vicino al letto una padella che di rado le infermiere facevano a tempo a metterle sotto, se serviva durante il cambio dei pannolini. Qualcuno del personale aveva commentato che «i bambini sono proprio una gran barba, con i pannolini bagnati e così via, ma la cosa non dura tanto, forse due anni. Ma con Naomi, ora saranno circa cinquant'anni.» E più avanti: «Sono già ottant'anni... sono quasi cento anni ora, no?» E un gruppo di infermiere, e forse anche un medico della clinica, erano soliti riderne insieme nella tavola calda della casa di cura, aperta ventiquattr'ore e che si trovava nel seminterrato. Certe storie venivano trasmesse come parte del folclore. «Quando Naomi aveva ottant'anni o novanta ed era ancora attiva, si trascinava sempre di notte da una stanza all'altra, scambiando i bicchieri con dentro le dentiere o buttandole giù nel gabinetto. Me l'hanno raccontato quando sono venuta a lavorare qui!» La storia aveva provocato risate fino alle lacrime in dozzine di giovani infermieri e medici. Era vero! Se lo sentivano che doveva essere tutto vero! E circolavano anche storie di Naomi che entrava in cucina, durante quel breve periodo, intorno alle tre del mattino, quando il personale di cucina non lavorava, e la donna versava il sale nelle zuccheriere e viceversa, staccava le prese di corrente dai surgelatori, faceva ogni genere di dispetti. Era un fatto che Naomi aveva dovuto essere relegata in una grande poltrona per parecchie settimane, imbottita di sedativi, poco tempo dopo essere entrata all'Old Homestead, e ogni infermiera poteva verificarlo, perché era documentato. Alcune infermiere lo avevano fatto e, dopo, avevano chiesto orari più ridotti e una miglior retribuzione per l'assistenza di Naomi, poiché si pensava che la casa di cura non fosse un manicomio. La verità era che Naomi Barton Markham era una demente, oltre a essere decrepita, ma demente in una misura che non poteva essere etichettata o definita. Ischemie plurime al cervello? Perché no? Una diagnosi valida come un'altra, e implicava un'insufficiente flusso di sangue al cervello, una condizione clinica in cui si trovava la donna, a quanto avevano detto un paio di medici a Stevey, come se ciò giustificasse e assolvesse tutte le stramberie varie che Naomi aveva esibito negli anni. Qualsiasi cosa avesse, non si trattava del morbo di Alzheimer.
Un'altra verità era che Naomi, dall'età di diciassette anni o giù di lì, aveva afflitto quasi tutti quelli che le sbavano attorno, li aveva maltrattati, in un modo o nell'altro. Prima i suoi innamorati, che ovviamente non andavano abbastanza bene per lei, poi il marito Eugene Markham, che si diceva avesse avuto la pazienza di Giobbe, poi il secondo marito Doug Villars, che aveva avuto anche più pazienza di Eugene (Naomi sapeva bene come sceglierli), e infine Stevey, che dapprima aveva adorato la terra su cui la madre camminava, poi le si era rivoltato contro in senso emotivo e freudiano (cioè, diciamo, non l'aveva più amata dopo l'età di quattordici anni), ma non dal punto di vista filiale o legale, poiché le aveva sempre scritto, se erano separati, e aveva continuato a pagarle i conti, finché aveva portato avanti la sua esistenza piuttosto solitaria. E adesso, anche se la parola adesso non significa nulla per Naomi, è l'anno 2071. Il televisore di Naomi è lì, antico come, nel 1980, sarebbe sembrata una radio Atwater Kent. La Casa di cura Old Homestead si chiama ancora così, anche se l'edificio è stato restaurato un paio di volte e anche ampliato, perché di gente vecchia ce n'è sempre di più. Naomi è fortunata anche per un altro motivo: non soffre, non ha bisogno di morfina e neppure di aspirina. Incredibile. I medici sono giunti a studiare in lungo e in largo i suoi organi interni, meditandoci sopra e chiedendosi se questa mitica Naomi Barton Markham potesse avere lo stesso basso metabolismo dei rettili. No. Il suo metabolismo, a dire il vero, è abbastanza basso, ma lei non è proprio ibernata. Semplicemente, la sua temperatura si mantiene fredda, e lei ha bisogno di coperte leggere sia in estate che in inverno. Ma c'è stato un lento cambiamento. Ora la donna parla di più, parla a figure inesistenti nella stanza, come se avesse delle visite. Ora parla con voce infantile e con accento lievemente meridionale. Ha cominciato a importunare il personale. «Di dove siete?» chiede sempre. Poi riconosce, pare, un vecchio innamorato di nome Ned, che si diverte a prendere in giro. Oppure si rivolge alla madre, a cui mente e con cui si affatica, o finge di farlo, ansimando come se fosse esasperata perché non riesce a farsi capire da lei, che chiama mammina. Poi c'è il marito Eugene, che a quanto pare Naomi vuole evitare, schivare, picchiando il bianco pugno ossuto sulle lenzuola e gridandogli di uscire dalla sua camera. Tutto ciò sembra molto buffo, perché Naomi parla senza denti, anzi,
sembra buffo per le prime settimane per il personale infermieristico di ambo i sessi, che va e viene recando i vassoi, portando via i pannolini sporchi. Alla fine, le infermiere cominciano a fare in modo di togliersi dal servizio nella stanza di Naomi. «Non la posso proprio sopportare, davvero non ce la faccio,» diceva un'infermiera di ventiquattro anni del Wisconsin, una ragazza grassoccia e robusta, fidanzata e in procinto di sposarsi di lì a poche settimane. «Non credo una parola di quanto dice, ma mi irrita.» Era così, irritava la gente. Non potevano credere a Naomi Barton Markham, eppure era lì davanti ai loro occhi, che brontolava in continuazione sia di giorno che di notte, e parlava con gente del passato con tanta convinzione che sembrava stessero lì in quella stanza. «Ehi, non l'ho detto questo, e lo sai...» diceva sempre Naomi con tono sommesso e truce fra le gengive sdentate, e magari un'infermiera, che entrava in quel momento, quasi faceva cadere il vassoio. Malgrado il ripetersi di questo parlottare, infermieri e medici ispezionavano tutti gli angoli della stanza per vedere se c'era qualcuno, il che li faceva sentire sciocchi, e di conseguenza la cosa li infastidiva un po'. Perciò, gli infermieri passavano l'assistenza in quella stanza al personale nuovo in arrivo o trascuravano un po' Naomi; la situazione pannolini peggiorava per l'infermiera successiva, e inevitabilmente arrivava un'altra infermiera, perché la Casa di cura Old Homestead non era un istituto di carità o un ente statale, e si cercava di tenerne alto il livello. I giornalisti della carta stampata venivano qualche volta, accompagnati da fotografi, a trovare Naomi e riuscivano sempre a dare un'immagine spettrale del suo piccolo viso rugoso sorretto da bianchi guanciali. Il più delle volte, si rifiutava perfino di biascicare un «salve», come se sentisse che, scontentando i giornalisti, poteva colpirli, far vedere loro il suo potere. Naomi, nel fondo dell'anima, era un tipo malvagio. Non aveva un vero e proprio certificato di nascita. Si diceva che ne avesse avuto uno, quando era entrata nella Casa di cura e di riposo Old Homestead, ma in qualche modo era riuscita a metterci sopra le mani e lo aveva eliminato per vanità. Aveva sempre preteso di essere più giovane di quanto non fosse. Perciò, aveva anche di più di duecentodieci anni? Stranamente, l'andirivieni di giornalisti e fotografi, nonché di medici curiosi che sottoponevano Naomi a esami ai raggi X e analisi per il metabolismo, la rendevano, agli occhi del personale della casa di cura, più irreale che reale.
«È quasi come una statua, adesso. Capite che cosa intendo?» chiese un'infermiera bevendo il caffè con una collega. «In un certo senso, è come fotografare un monumento.» «Il monumento sdraiato di George Washington!» esclamò un infermiere sorridendo. «Pallidissimo e luminescente, ah, ah! Ma che fa sia pipì che pupù!» «Qualche volta, sembra che emani della luce, quando ci si muove al buio nella sua stanza,» disse un'infermiera di mezz'età con voce sommessa. «Anch'io l'ho notato!» saltò su un'infermiera più giovane. «Una luce pallida e quasi verdognola, vero?» A nessuno piaceva Naomi. Non faceva vedere molto di sé che potesse piacere o no, ma quel poco che si vedeva, non piaceva. Ed era stato sempre così, per Naomi. In gioventù, era stata una ragazza di paese appena un po' più carina del normale, con una certa inclinazione per la danza. Non le mancavano i corteggiatori e si era sposata a ventidue anni. A quel tempo, faceva la ballerina in una compagnia di varietà che si esibiva a Chicago, Saint Louis, New Orleans e Filadelfia. Naomi Barton era bionda, snella, sveglia, scarsa dal punto di vista intellettuale, poiché non era più andata a scuola dopo aver frequentato, con mediocri risultati, una scuola superiore in una città del Tennessee. L'uomo che Naomi sposò, tuttavia, era un ambizioso e promettente ingegnere di trent'anni, Eugene Markham, innamorato pazzo di lei, davvero stregato. Per un po', le loro carriere si integrarono, poiché lui svolgeva attività di consulenza in città in cui Naomi era impegnata per una settimana o poco più. La carriera di Naomi aveva successo. Eugene le suggerì che poteva ambire al balletto, un genere più prestigioso del ruolo attuale, che era quello di ballerina di fila in qualche commedia musicale. «Avrò paura del pubblico!» diceva Naomi, che voleva esser rassicurata. «Certo che no! Possiamo permetterci delle lezioni di ballo! Quando vuoi cominciare?» Cominciò le lezioni a Filadelfia, ma proprio in questo periodo, Naomi scoprì di essere incinta, e la cosa non le piacque. La sconvolse. La notizia sconvolse un po' anche Eugene. «Se è solo di un mese o sei settimane, come hai detto, forse puoi liberartene? Con dei bagni caldi o qualcosa del genere? Non so.» Eugene non lo sapeva davvero. Si era all'inizio del ventesimo secolo, e l'aborto mediante aspirazione non era noto come adesso, anche se, molto probabilmente, certi popoli primitivi in terre
lontane avevano aspirato dei piccoli embrioni non desiderati per centinaia se non addirittura per migliaia di anni prima dei tempi di Naomi ed Eugene. Naomi tentò con bagni violenti e anche col gin, riuscendo ad avere il viso paonazzo e a sudare come una bestia, ma senza riuscire a riavere il ciclo mestruale. Provò a camminare a passo di carica in giro per Filadelfia, una passeggiata che la portò nella parte sbagliata della città, da dove fu addirittura costretta a scappare di corsa, tuttavia non abortì. A questo punto, Naomi si sentì disorientata: non poteva firmare un nuovo contratto per i sei mesi successivi con il suo impresario, dato che ormai si era appesantita a causa del bambino. Stranamente, né lei, né Eugene, pensarono di cercare un medico che eseguisse l'aborto. «Be', avremo il bambino,» disse infine Eugene sorridendo. «Non è la fine del mondo, tesoro! Significa solo una pausa nella tua carriera. E neppure una pausa lunga. Stiamo allegri, io ti amo, tesoro.» Eugene tentò di baciarla, ma lei si girò da un'altra parte. «Non è vero! Volevi che mi sbarazzassi del nostro bambino!» Naomi non pianse, non fu plateale né isterica, era semplicemente decisa. Eugene non riuscì a convincerla che lui non solo si adattava alla situazione, ma ne era addirittura felice. Naomi voleva il divorzio. Eugene ne fu assolutamente sorpreso. «Ma perché mai?» «Perché tu non vuoi il nostro bambino e non mi ami!» Naomi fece i bagagli e prese un treno per Memphis, dove allora viveva la madre. Eugene Markham seguì la moglie a Memphis con un altro treno, fece in modo di vederla a casa dei genitori e tentò di persuaderla a non chiedere il divorzio. Fece fiasco e parlò del problema con i genitori di lei. Eugene parlò bene e con eloquenza, ma i genitori di Naomi (Eugene era riuscito a vederli da solo) assunsero quell'atteggiamento che, secondo loro, era «moderno e corretto»: i genitori non dovrebbero intromettersi negli affari dei figli. Naomi ottenne il divorzio col motivo dell'incompatibilità, dato che non c'era né adulterio, né abbandono del tetto coniugale. Il bambino, un maschio, nacque in casa dei genitori di Naomi, e l'offerta di Eugene di pagare la parcella del medico e le altre spese relative alla nascita fu respinta dalla sua ex moglie. Due o tre settimane dopo il parto, Naomi riprese la carriera di ballerina di commedie musicali (ora a Chicago) e affidò il piccolo Ste-
vey alla madre, signora Sarah Barton. Quando Stevey aveva quasi quattro anni, Naomi sposò un uomo che si chiamava Doug Villars, più giovane di lei di circa un anno, un individuo semplice, ma rispettabile, con un titolo di ragioniere che lo metteva in condizione di poter lavorare quasi dovunque. Finora, anche Naomi era riuscita ad avere un lavoro quasi dovunque, sia che lavorasse in una compagnia o no, ma il quadro stava mutando. La commedia musicale era un genere in estinzione, Naomi si avvicinava alla trentina e non era in sintonia con i tempi. Mentre le sue capacità e la sua fama calavano, e di conseguenza otteneva meno ingaggi, lei si illudeva che la sua reputazione crescesse. «È il pubblico ordinario che non mi apprezza,» diceva a Doug. «Avrei dovuto tener duro con le mie lezioni di danza, come mi diceva sempre Eugene. Eugene aveva delle idee, non era un mediocre come te!» Doug Villars forse era ferito nel vivo da osservazioni come queste. Ma poi Naomi si riconciliava con lui a letto. Sapeva fare i propri interessi e non ignorava da dove le veniva il pane, dallo stipendio modesto, ma sicuro di Doug. Inoltre, le piaceva fare l'amore. Ma soprattutto le piaceva il potere che le derivava dall'amore, cioè la sua abilità nel concedere o rifiutare il rapporto sessuale. Il ragazzo Stevey era legato affettivamente alla nonna Sarah, che lo aveva tirato su dalla nascita fino ai quattro anni, e Stevey e la nonna si scrivevano assiduamente, dopo che Naomi aveva sposato Doug Villars e aveva traslocato dalla casa dei genitori. A nove e dieci anni Stevey era innamorato della mamma, come capita a molti ragazzi a quell'età, ma a Stevey era capitato più che agli altri, per il fatto che sua madre era di rado in famiglia. Qualche volta viaggiava in tournée per spettacoli di varietà, mentre lui e il suo patrigno restavano a casa a cucinare e ad accudire a loro stessi, sognando la graziosa donna che non c'era. Inevitabilmente, Stevey ebbe delle difficoltà ad affiatarsi con ragazze di età adatta a lui, quando aveva quattordici o quindici anni. Avrebbe dovuto «interessarsi» a ragazze di quattordici e quindici anni, e poi di sedici e così via, ma tutte gli davano la sensazione di essere delle sciocchine. Gli piacevano donne «più anziane», sui venti, ventidue anni, qualcuna riuscì anche a conoscerla, ma si rese conto che non gli avrebbero dedicato molta attenzione, perché lui era solo un sedicenne o giù di lì. Non aveva un gran desiderio di precipitarsi a letto con loro, si limitava ad adorarle, le idolatrava da lontano, anche donne di trent'anni. Poiché leggeva molto, seppe
della sua sindrome già all'epoca in cui aveva quindici anni: gli piacevano le donne più vecchie perché aveva bisogno di una madre, di un tipo materno, secondo la teoria di Freud. Stevey divenne elettricista, e non perse molto tempo a meditare sui suoi problemi personali. Si rendeva conto, con un vago senso di orrore, che sua madre stava smarrendo l'intelletto, cioè se ne accorse quando aveva circa vent'anni. Aveva lasciato la casa dopo aver finito la scuola tecnica e aveva vissuto in California, Florida, Alabama, ma si teneva in contatto con la madre e il patrigno e andava a trovarli qualche volta a Natale. Stevey era anche in buoni rapporti col padre, Eugene Markham, si teneva in contatto con qualche sporadica lettera, ma Eugene aveva mantenuto un garbato riserbo dopo il secondo matrimonio di Naomi, cosa che Stevey riteneva fin troppo naturale, date le circostanze. Poi, Doug Villars manifestò i sintomi della leucemia. Doug aveva qualche assicurazione, ma la sua malattia, dal decorso lento e dall'esito mortale, consumò molta parte dei risparmi della coppia. Dopo che Doug morì, Naomi non seppe «affrontare la vita», come si legge nei libri. Faceva sempre bruciare qualcosa sui fornelli. Trascurò cane e gatto fino a ridurli denutriti e tormentati dalle pulci, e la casa era disastrosamente sporca. I vicini si lamentarono (Naomi viveva in una casetta nell'Oklahoma settentrionale, all'epoca), e le autorità intervennero. Stevey ne fu informato, e una volta andò in Oklahoma e restò atterrito dallo stato della casa, della madre e anche dal deterioramento mentale della donna. Diceva di non voler andare in un «ospizio», ma Stevey sapeva di non poterla ospitare sotto il suo stesso tetto. Sembrava che stesse alzata per metà della notte, aggirandosi per casa come un lupo impazzito, esaminando vecchie carte in disordine, che non voleva fossero toccate. Un caso classico. Con qualche difficoltà, Stevey mise sua madre nella Casa di cura e di riposo per anziani Old Homestead (dove, per alcuni giorni, dovette essere relegata in una cella a pareti imbottite, e nessun'altra casa di cura nella zona aveva voluto neppur tentare di assumerne la responsabilità), pagò perché la casa di Naomi fosse ripulita, poi la vendette al prezzo migliore che poté ricavarci. Il denaro ottenuto lo mise in un conto che gli garantisse buoni interessi, poiché prevedeva per la madre un lungo periodo di degenza all'Old Homestead e come aveva ragione! Stevey Markham scrisse alla madre un paio di volte, ma ne ebbe, in risposta, solo una lettera in cui lo rimproverava di averla messa in una stupida «casa di riposo per vecchi». Perché non aveva potuto lasciarla a casa, dove sarebbe stata a suo agio e indipendente? Stevey conosceva abbastan-
za bene sua madre per rendersi conto che voleva iniziare una serrata disputa epistolare. Perciò, smise di scriverle, ed entro qualche mese smise anche lei. Andò a trovarla qualche volta, forse cinque in tutto, cominciando dal Natale, ovviamente. Ma di solito Naomi decideva di fare l'offesa, di rimproverarlo per non essere andato a trovarla più spesso. E alla quarta o quinta visita aveva simulato indifferenza verso di lui, guardando il soffitto, come se non potesse tollerare la vista del figlio e dei regali che le aveva portato. Si rifiutò di parlargli, e in questo atteggiamento Stevey riconobbe il solito piacere di ferirlo, o almeno di provare a farlo. Così, rinunciò a queste visite. Il mantenimento di Naomi costò a Stevey più del proprio nel suo ultimo decennio di vita, perché il denaro della donna (in realtà, era quello di Doug, oltre ai soldi ricavati dalla vendita della casa) era finito. Poi, quasi a «salvare» Stevey, un lontano zio, fratello del padre, era morto e aveva lasciato in eredità parecchie migliaia di dollari a Naomi, solo perché era stata la moglie di suo fratello Eugene. Stevey pensò che fosse un piccolo miracolo: sua madre avrebbe potuto campare per almeno altri vent'anni (ormai, era in grado di calcolare gli interessi dei depositi a scadenza, anche senza matita), mentre Stevey non poteva affermare la stessa cosa di se stesso. Senza un soldo e ormai giunto a settant'anni, Stevey stava esaurendo la sua carica come un vecchio orologio, e morì nel sonno per un attacco cardiaco, anche se non era mai stato in sovrappeso e non era mai stato un fumatore. Stevey Markham non si era mai preso nella vita una vera vacanza. Poco prima di morire, gli era venuto uno strano pensiero: sua madre Naomi si era industriata di essere un tormento per gli altri, una spina nel fianco anche prima che lui nascesse, insistendo per avere un divorzio che suo padre non aveva voluto, ma a cui aveva però accondisceso, in modo che Stevey era nato in una casa senza padre: durante la sua infanzia, la madre aveva litigato col patrigno Doug Villars, rendendo la loro vita domestica peggio che instabile. E dopo la morte di Stevey, Naomi avrebbe continuato a essere un tormento e una spesa per qualcun altro. Forse per lo Stato dell'Oklahoma? Lo stato con la «s» minuscola, cioè l'amministrazione? La casa di cura l'avrebbe dirottata in qualche posto meno costoso, una volta finito il denaro dello zio. Vi erano un sacco di istituti a conduzione statale più a buon mercato. Stevey, mentre si disponeva a dormire la sua ultima notte di vita, pensava che prima, durante e dopo, sua madre era stata un cruccio e una sofferenza per tutti quanti la circondavano, aveva fatto piangere uomini buoni,
aveva fatto piangere suo figlio. E continuava a vivere. Ma per l'epoca in cui era finito il denaro dello zio, Naomi era diventata un pezzo raro, e la gente paga per le rarità. Qualche volta. Oh, sì, Naomi continua a vivere. E di notte, secondo la gente, emana della luce. Mormora: «Io vi ucciderò!» e poi ride, in modo indistinto, con la bocca sdentata come per dire, «Non intendo farlo, per davvero.» Perché Naomi sa ancora da che parte sta il suo interesse, sa che senza quelle figure sfocate che sono le infermiere, che Naomi riesce a vedere a malapena, creperebbe, morirebbe di fame e di sete. Perciò, si ricorda di ungerle un po'. Ma non più del necessario. In effetti, è sgradevole con loro quando ne ha il coraggio, qualche volta rovesciando deliberatamente la minestra. Si rende vagamente conto che le infermiere sono delle schiave pagate, che sono obbligate a ruotarle attorno. Fa venire la pelle d'oca alle infermiere. Gli infermieri d'ambo i sessi ridono, sogghignano, ma sogghignano un po' sulla difensiva. In fondo alle loro menti si chiedono: «Ma questa pazza di Naomi, dopotutto, è più forte di tutti noi? Vivrà davvero per sempre? Perché è sicuro come l'oro che ora è vicina ai duecento!» Ma loro non proferiscono queste domande, questi pensieri, neppure quando sono soli con un altro collega. Vi è qualcosa, intorno a Naomi, che fa rabbrividire fin nel profondo ognuno di loro. E come se Naomi, in qualche modo, potesse mostrar loro il significato della vita e della morte. E quel che mostrava non era piacevole, così loro, e tutti quanti, hanno paura di guardarla. Quelli del personale rabbrividiscono, perché sanno che in tutti gli Stati Uniti, in tutto il «mondo civilizzato», dove i vecchi non vengono più buttati giù dalle scogliere, gli anziani superano come numero i giovani. Infatti è il marchio di un mondo eletto, di un paese avanzato, quello di aver ridotto a zero la natalità e di curare gli anziani. Così sia. E forse è giusto così. Ma la gente come Naomi è orribile. I figli si distruggono finanziariamente per mantenere queste persone fuori casa e in qualche istituto, dove non sono costretti a badar loro quotidianamente. La gente che paga i conti sa di essere stata ridotta sul lastrico dagli istituti, se sono enti privati e non statali, perché occorre molto denaro per tenere in vita questi anziani con vitamine e antibiotici in continuazione e, quando occorre, con il respiratore. Non come nei ricoveri di stato, dove una finestra socchiusa in una fredda notte invernale può eliminare mezza corsia di
ospiti non paganti grazie a una polmonite... puff! Così è molto meglio, vi è una quantità di anziani che aspettano di prendere il loro posto, e una quantità di gente più giovane che tira un sospiro di sollievo a far sparire da casa e dalla loro vista i propri genitori. «È orribile! Non ce la faccio!» diceva una giovane infermiera addetta al servizio di Naomi, accasciata per il pianto e sconvolta emotivamente. Be', alla giovane infermiera fu concessa una vacanza. Dopo un po' di sonno supplementare, si riprese e tornò. E come molte altre, cercò di schivare Naomi, cercò di assistere ricoverati più giovani, quelli sui cent'anni di età. Alcuni di loro volevano ancora portare apparecchi acustici e dentiere, una benedizione per il personale. Ora è il 2090, e Naomi ha certamente superato i duecento anni. Al buio brilla di una luce verde-giallognola, mangia e beve così poco, che non vale la pena parlarne, eppure fa ancora pipì parecchie volte, e defeca di solito una volta al giorno. Quello è il segno che Naomi Barton Markham è viva, vero? Quei puzzolenti pannolini, bagnati e ripugnanti! Naomi ha cominciato la vita con i pannolini, come tutti, e la sta finendo con i pannolini, se mai vi sarà una fine, ma, in realtà, non c'è fine in vista. La sua condizione è rimasta immutata negli ultimi centodieci anni. Il conto è salito dai circa 2100 dollari al mese alla fine del ventesimo secolo, ai 6300 dollari, ma paga tutto l'Old Homestead, perché Naomi è una pubblicità così buona per loro. I giornali possono telefonare ogni volta che vogliono per avere un appuntamento, allo scopo di fare nuove foto del vecchio fantasma e un'«intervista», ma gli articoli stanno diventando superati, ora Naomi va bene solo per un «servizio» una volta ogni lustro. Tuttavia Naomi serve come simbolo della competenza della rinnovata Casa di cura Old Homestead e delle altre cliniche private. GUARDATE CHE COSA PUÒ FARE UNA BELLA CASA DI CURA. TENETE VIVE PER SEMPRE LE PERSONE CHE AMATE! Non importa se quel «per sempre» sembra eccessivo. Chi mai lo farà rimarcare? Ora nessuno muore più, al massimo, trapassa. Suona meglio. «Morte» è una parola da evitare. La storiella della vecchia cassa da morto funziona ancora: non comprate soltanto una cassa di acciaio foderata di raso, comprate invece una cassa di acciaio rinforzato. Manterrà il vostro caro estinto più a lungo e presumibilmente in bello stato con il rossetto,
messo dall'impresario delle pompe funebri sulle guance e sulle labbra ormai spente, ben visibile forse per tre, quattro o cinquecento anni (o almeno così si sottintende, ma voi per quale esatto periodo di durata lo pretendereste a chiare lettere?), e l'acciaio rinforzato presumibilmente terrà lontano più a lungo i vermi, anche se, ovviamente, non si deve usare la parola «vermi» e neppure pensarci, e ancor meno fare cenno al fatto che i vermi provengono da vecchie uova d'insetto già dentro di noi, e non dall'atmosfera esterna o dallo spazio siderale, perciò l'acciaio costoso non aiuterà un accidente contro il destino che è in serbo per tutti noi. Tuttavia, tornando al parcheggio dei vecchi nelle case di riposo private americane: non volete che il vostro o i vostri cari vivano il più a lungo possibile? E nelle maggiori comodità che vi potete permettere? O che addirittura non potete permettervi del tutto? Se altra gente vi guarda e ascolta, fareste meglio a rispondere: «Sì, naturalmente.» Ma se la gente non vi stesse guardando, né ascoltando, lo vorreste davvero? Vorreste che vostra madre o vostro padre vivessero «il più a lungo possibile»? Dentro di voi non sapete che per ognuno di noi vi è un momento per morire? Vorreste che la vostra mamma continuasse a vivere come Naomi, emanando una luce giallo-verdognola di notte, che facesse pipì in un pannolino, che defecasse almeno una volta ogni due giorni, dipendendo sempre da qualcuno che le ficchi il cibo in bocca, dipendendo da qualcuno che le cambi il pannolino? E senza intravedere la fine? Vi piacerebbe continuare a vivere così, senza essere più in grado di vedere la televisione, di udire, di camminare anche se aiutati, di leggere una lettera da parte di un eventuale vecchio amico, con la testa ormai davvero troppo lontana per capire qualsiasi cosa vi possano leggere? Naomi Barton Markham di notte riluce e popola la sua solitaria cameretta di figure del passato, gente morta da tempo, più spettrale di lei, i suoi genitori, i suoi innamorati maltrattati, suo figlio trascurato ma fedele fino alla fine, i suoi mariti bistrattati. Li maledice, li schernisce, li deride, tenta ancora con le sue forze, ormai ridotte al minimo, di sogghignare, di girare via la faccia, come ai vecchi tempi, come faceva una volta con gli uomini che l'amavano e anche con coloro che tentavano di esserle amici. Tu farai morire tutti noi, Naomi. Se non proprio tu personalmente, allora quelli della tua risma. Tu rappresenti il trionfo della medicina moderna, delle vitamine, degli antibiotici eccetera. Peccato che non possa pagare tu
stessa per tutto ciò, ma sappiamo che tu non dedichi a questo problema neppure il pensiero di un momento. Sei lontana anni luce da pensiero, ragionamento, problemi economici. Fortunata te, Naomi! Cioè, se te la godi. Lo fai? Questo incubo vivente come si sente, mentre giace sulla schiena con una ciambella di gomma sotto il sedere, per evitare le piaghe da decubito? A cosa pensa? Va avanti a fare ghu, ghu ghu con le gengive sdentate come nella prima infanzia, quando era ancora fasciata sui fianchi dentro un pannolino? Naomi Barton Markham, tu ci seppellirai tutti, finché ci sarà una casa di cura e di riposo Homestead a rastrellare quattrini, finché ci sarà qualche sciocco a darglieli. 9 SISTO VI, IL PAPA DELLA PANTOFOLA ROSSA Il papa Sisto VI, il mattino della sua partenza per l'America centrale e meridionale, si schiacciò malamente l'alluce. Aveva ai piedi dei sandali, mentre si dirigeva verso una cappella sotterranea del Vaticano per il mattutino, e stava salendo i quattro gradini di pietra che aveva in passato salito almeno un migliaio di volte, quando il suo alluce destro urtò contro l'ultimo scalino, e sarebbe caduto, se non fosse stato per padre Stephen, che si precipitò in avanti e lo prese saldamente per un braccio. Aveva provato a sorridere, ma il dolore era piuttosto acuto, e lui e Stephen avevano proseguito verso la cappella. Alle nove e trenta, quando il papa e il suo seguito salirono a bordo dell'aereo del Vaticano, l'alluce era diventato di un colore rosa acceso e pulsava. Si era anche gonfiato in modo preoccupante, e Sisto VI all'ultimo momento, aveva effettuato un cambio di calzature, infilando delle pantofole nere più comode al posto di quelle bianche, più aderenti, che si addicevano alla veste talare chiara. Era giugno, e a Roma il clima era piuttosto caldo e afoso. Il medico di Sisto VI, il dottor Franco Maggini, aveva dato un'occhiata all'alluce e aveva prescritto al papa di immergerlo in quella che aveva definito «una lozione calda astringente», mentre faceva colazione, ma Sisto non aveva trovato che quel pediluvio gli avesse giovato. Alla punta dell'alluce, la pelle aveva assunto una sfumatura color viola, forse provocata dalla rottura di capillari. Salendo sull'aereo, però, Sisto si voltò, alzò un braccio e sorrise, come
faceva sempre, alle poche centinaia di fortunati che avevano potuto accostarsi ai cordoni che delimitavano l'estremità della pista. Dalla folla salirono un piccolo boato, degli applausi e grida di «Sisto santo, buon viaggio!» «Vi benedico!» gridò lui di rimando. «Dio sia con voi!» Poi, il pontefice si sistemò nell'ampio e comodo sedile, si allacciò la cintura e accettò una tazzina di tè, che il suo cameriere Giorgio gli portò su un vassoio, poiché Giorgio si sarebbe dispiaciuto se l'avesse rifiutata. «Vostra Santità ha un bell'aspetto oggi,» disse il cameriere. Era vero? Attraverso il corridoio, scambiò un sorriso con Stephen, il giovane prete canadese che aveva di recente preso gli ordini e con cui al papa piaceva conversare, perché Stephen si interessava di politica come di teologia. Il giovane Stephen era un conservatore. La politica dunque. La politica era la ragione di questo viaggio, il suo secondo viaggio in Sudamerica in nove mesi, anche se, questa volta, avrebbe visitato paesi diversi. Questa era la volta di Città del Messico, poi la Colombia, il derelitto Perù, infine il Cile, dove c'era un governo militare e la gente spariva. Dovunque vi era inquietudine, insoddisfazione e infelicità. Sisto VI ne era ben consapevole, consapevole di quanto fosse difficile, se non impossibile, guardare un uomo affamato negli occhi e dirgli: «Abbi fede in Dio, e tutto andrà bene.» Era inadeguato quasi come la solita vecchia esortazione, il vecchio luogo comune: «Sopporta gli stenti qui sulla terra e, se hai fede, vivrai in eterno in paradiso dopo la tua morte.» La gente stava perdendo la fede nel paradiso e nell'inferno, e anche nel fatto che esistesse una vita dopo la morte. I motori spinti al massimo avevano cominciato a ruggire, e l'aereo si mosse, spingendo la schiena di Sisto con energia contro il sedile. Poi furono in volo, e il papa allungò immediatamente la mano per prendere l'elegante borsa di pelle nera, che era sul tavolino davanti a lui. Fece scattare la chiusura della cintura di sicurezza, anche se l'aereo stava ancora salendo. Tirò fuori il discorso di cinque pagine che doveva tenere a Città del Messico a mezzogiorno, ora locale, fra un giorno circa, a partire da ora. «...La parola di Dio ci assiste sempre,» lesse Sisto, «e Lui ci guarda tutti, non trascura nessuno. Ma vi sono elementi in mezzo a noi, oggi, che cercano di distruggere questa nostra solida struttura fatta di forza spirituale, conforto e verità. Vi offrono invece una cristianità indebolita e contaminata, una cristianità che può affascinare di primo acchito, ma che è menzognera e falsa... Per prima cosa e sempre, fede e obbedienza assoluta...»
Le palpebre del papa si contrassero per il dolore all'alluce, e le sue stesse parole gli divennero astratte, difficili da comprendere. Il giorno prima aveva ripetuto ad alta voce il discorso, l'aveva registrato e riascoltato, e gli era sembrato energico, veritiero e semplice. Il papa ammirava la semplicità: spesso, si rivolgeva a degli analfabeti. La semplicità significava sincerità per Sisto, come a dire che, se un uomo disonesto parla con semplicità, non riesce a mascherare la sua disonestà. Ma doveva riesaminare qualcuna delle cose che aveva lì già scritte? Il tempo c'era, ma era difficile pensare con quel dolore all'alluce destro, un dolore lancinante quasi come un mal di denti. «Santità,» il dottor Maggini era apparso al suo fianco, sorridendo in modo deferente, «come va l'alluce?» «Stavo per mandarla a chiamare, Franco. È terribile, questo alluce. Ho preso solo due aspirine. Che ne dice di prenderne un'altra? O invece qualcosa di più forte?» «Fa così male?» Le spesse sopracciglia di Franco si unirono, e il medico si strofinò il mento. Aveva circa quarantacinque anni, baffi folti ma ben regolati, gli piaceva portare anche d'estate abiti scuri, e ora ne indossava uno leggero, di popeline, quasi nero, con camicia bianca e cravatta blu scuro. «Posso vederlo ancora?» Il papa si piegò per sfilarsi la pantofola. La calza bianca con l'elastico in cima gli arrivava fin sotto il ginocchio, l'abbassò, e il medico gliela tolse. Stephen si era alzato dal suo posto ed era da qualche altra parte dell'aereo, sebbene, ormai, la confidenza era tanta che non gli sarebbe importato che vedesse il suo alluce. «Vede, è più gonfio,» disse il papa. «Guardi quella sfumatura viola. Che cosa significa?» Il medico guardava accigliato l'alluce, come se non avesse mai visto niente di simile. «Per caso, non pensa che sia rotto?» «Ne dubito, se l'ha solo urtato, Santità.» «O slogato?» «Anche questo è improbabile. Credo che la parte carnosa, e naturalmente anche l'osso, si siano seriamente ammaccati contro quella pietra. Per le contusioni ossee ci vuole tempo.» «Ma...» Il dolore ricoprì di sudore la fronte di Sisto. «Il gonfiore è così doloroso, che pensavo che un'incisione non nuocerebbe. Non potrebbe dolermi più di adesso.»
Il medico scosse la testa, pensieroso. «Non ancora comunque, Santità; un'incisione potrebbe provocare delle complicazioni. Forse faremo una radiografia a Dallas-Fort Worth.» Con disappunto di Sisto, il dottore parlava sempre di quell'aeroporto come se Dallas e Fort Worth fossero un'unica città. «Oppure a New York, che è prima?» «A New York ci fermiamo solo per far rifornimento, se Vostra Santità ricorda, perciò non è stato predisposto un servizio di sicurezza. Ci fermeremo al Kennedy solo per un paio d'ore.» Sisto ricordò. Il viaggio, infatti, doveva essere dovunque programmato. Il dottor Maggini gli diede due aspirine, prese da una confezione che teneva in tasca. «Vorrei raccomandare a Vostra Santità di stare disteso e di tenere in alto il piede destro.» Sisto VI si ritirò nel suo scompartimento privato. Qui aveva un letto ampio di una piazza e mezzo, una doccia, lavandino e gabinetto, un tavolo con sedie per due presso il finestrino. Il letto poteva essere isolato con dei tendaggi, cosa che il papa riteneva un po' assurda. Dovevano essere usati nel caso lui fosse morto in volo? Un po' di riserbo per i suoi ultimi momenti? Si distese, sorresse la testa con i cuscini e si riguardò il discorso. Ma adesso, forse a causa dell'aspirina, si sentiva assonnato e chiuse gli occhi. Il ronzio dei motori conciliava il sonno. Si svegliò per una fitta acuta all'alluce, come se Franco l'avesse veramente inciso. Invece no. Franco non era lì, l'alluce pulsava come se un martello picchiasse sul nervo. Sisto strinse gli occhi per il dolore, preoccupato. Sono un essere mortale, dopotutto, furono le parole che gli passarono per la testa, ma l'aveva sempre saputo, l'aveva sempre detto nei suoi discorsi. Era solo il ponte umano fra Dio e l'uomo, niente di più. E se, per caso, un avvelenamento del sangue stesse salendo insidioso su per la gamba? Ci voleva l'amputazione? Benissimo. Non era un intervento letale. Perché il dolore era così terribile? Sisto fece per premere il campanello e chiamare Franco, poi ritirò la mano. Stava soffrendo, era questa la sofferenza, e quante volte aveva ordinato al suo popolo di sopportare le sofferenze di ogni genere? Davvero non gli si addiceva, piagnucolare per un alluce schiacciato! Il pontefice pranzò con Stephen, col dottor Franco Maggini e con il cardinale Ricci. L'atmosfera era gaia, malgrado la garbata commiserazione del cardinale per l'alluce dolorante.
«Tutto andrà bene,» era l'atteggiamento dei commensali, e proprio in questo senso si espresse il cardinale Ricci. Non erano state predisposte apparecchiature per radiografie a Dallas o a Fort Worth, e il papa non se ne lamentò, per paura di scontrarsi ancora con un problema di «mancanza di sicurezza». Ci sarebbe stato un altro rifornimento di carburante e poi via, verso Città del Messico. Il papa dormì male e in uno stato di tensione, perché si era fissato in mente di fare bella figura l'indomani. Di fare bene il suo dovere, cioè. Papa Sisto VI era nato come Luciano Emilio Padroni in una zona povera della Toscana. Curiosamente, la povertà, la tristezza e le morti avvenute nella sua famiglia, le privazioni e l'affetto che provava per padre Basilio, laggiù al villaggio, lo avevano portato verso la chiesa. Dopo qualche scappatella giovanile, quando Luciano aveva avuto diciannove anni, e poi ancora a ventidue, aveva trovato la sua strada, e la sua strada era saldamente collocata nella chiesa. Luciano credeva in Dio e in Cristo. Era di costituzione robusta, amava camminare e sciare, anche ora che era vicino alla sessantina. Si creava con facilità degli amici, anche se non era portato per gli intrighi. Alla gente piaceva la sua schiettezza e il suo aspetto. Era stato sempre così, anche quando era molto più giovane, tuttavia era stata una sorpresa per Luciano, che solo pochi anni prima era vescovo di una diocesi poco importante della Toscana, essere eletto papa. Aveva telefonato alla madre, pochi istanti dopo aver appreso la notizia. Era successo sei anni prima. Gli sembrava che il mondo allora fosse più tranquillo, che le nazioni non si prendessero a vicenda per la gola, ma probabilmente non era così. Il mondo non cambiava in modo drastico, bensì si «evolveva» in certi settori. Ora, era di nuovo la volta dei sostenitori del controllo delle nascite, che dilagavano negli Stati Uniti come era avvenuto qualche anno prima in Irlanda. Vescovi e preti nelle rispettive chiese si erano dichiarati favorevoli al controllo delle nascite, favorevoli a giustificare l'omosessualità definendola un'aberrazione psicologica, piuttosto che un vizio. Accettavano anche i rapporti sessuali prima del matrimonio e assumevano un atteggiamento analogo riguardo al secondo matrimonio di persone divorziate. Sembrava non vi fosse limite a questo sfrenato progressismo, e non si rendevano conto che non rendevano certamente la chiesa più forte con i loro «nuovi principi», ma che la trasformavano in una nave che faceva acqua. Luciano Emilio Padroni si lamentò e si agitò, incapace di prendere sonno. Ora, in Messico e altrove, si era diffusa una teologia liberale, i preti si
vestivano come i contadini, alcuni erano addirittura pronti a sparare, altri si battevano per una ridistribuzione della terra, per salari più alti, tutti elementi di disturbo, tutti irrilevanti in confronto al significato e alla funzione della chiesa cattolica romana su questa terra! Luciano aveva creduto di essere sveglio, ma il sole del Messico lo svegliò davvero, un sole dorato e caldo che penetrava dagli oblò dell'aereo. Perciò fece la doccia, si rasò e si vestì. Ora, doveva camminare appoggiandosi sul tallone del piede destro. Il gonfiore dell'alluce aveva reso lucida la pelle e faceva sembrare l'unghia assurdamente piccola, come un bottone appuntato su un cuscino. E il colore rosa acceso era ancora più accentuato. «Allora... forse adesso si potrà inciderlo?» chiese Sisto a Franco, mentre facevano colazione nello scompartimento del papa. Il medico aveva chiesto di vedere l'alluce, che ora era lì, scalzo, anche se il papa, per il resto, era completamente vestito. Franco scosse ancora la testa. «Se si rompe, ci mettiamo della penicillina in polvere. Ieri, ero in dubbio se applicare un impacco di ghiaccio o tenerlo soltanto sollevato.» Gli diede solo un paio di aspirine che servivano appena contro il dolore, secondo l'opinione del papa. Ma, educatamente, non disse nulla. Scese la scaletta, mentre la folla, trattenuta da una triplice barriera di poliziotti e soldati, alzava la voce a salutarlo. Il papa sollevò le braccia, sorrise e, appena raggiunta la pista, si chinò e baciò il suolo, il che gli provocò un dolore così acuto all'alluce che osò sperare che si fosse aperto; tuttavia, non abbassò lo sguardo verso il piede. Portava delle pantofole bianche comode, calze bianche, una veste bianca ricamata in oro e un copricapo bianco rotondo in cima al cranio. Una scorta di motociclette e un gruppo di limousine nere portarono il papa e il suo seguito a destinazione, cioè allo stadio sportivo dell'Università di Città del Messico. Sisto era già stato in precedenza a Città del Messico, ma per benedire una cattedrale, non per fare discorsi. Il presidente del Messico sedeva nella limousine accanto al papa, e dava l'impressione di essere a disagio per il caldo con il tight, il colletto rigido e la cravatta bianca. Il papa aveva sentito qualcuno dire in spagnolo che l'impianto di condizionamento dell'auto era guasto. Allo stadio, guardie in parata, squilli di trombe stonate, e un tentativo di eseguire una marcia solenne da parte di una banda militare. Il caldo era di quelli che avrebbero stroncato un cammello. Il papa, con il bastone pastorale nella mano, salì i gradini di un podio di legno e si trovò ad affrontare
la moltitudine dello stadio. Il brusio di migliaia di persone salì fino a diventare un boato. Nell'arena ovale, coloro che non erano già in piedi si alzarono di scatto dalle sedie pieghevoli, mentre anche quelli nei posti di gradinata balzarono su gridando, agitando i sombreri, applaudendo, facendo un rumore assordante. Sisto sollevò invano le braccia per chiedere silenzio. I messicani credettero che il suo gesto fosse un saluto e lo restituirono. La cosa capitava spesso. Il papa attese di buon umore, perlomeno con un'espressione di buon umore sul viso. Guardava un poliziotto dai modi sbrigativi, in maniche di camicia, che a meno di dieci metri da lui sotto il podio picchiava sulle costole un cane magro per farlo andare via. Molti tra la folla mangiavano tacos, semplici tortillas, pannocchie di granturco arrostite, e il cane bastardo, che somigliava un po' a un levriero, cercava le briciole, e il papa notò che non era l'unico cane. Si erano insinuati tra la gente anche due o tre randagi tutti pelle e ossa, e venivano inseguiti e presi a calci energicamente dai poliziotti. L'alluce pulsava, pulsava come il sangue alle tempie. Sisto sentì che il sudore gli colava dalle basette sulle guance. «Mio popolo!» cominciò in spagnolo. «Nel nome di Dio...» Lo sapeva a memoria in parecchie lingue. Una lieve brezza sollevò le pagine del suo discorso posato davanti a lui su un leggio, oltre il quale vi era una siepe di microfoni scuri, e al di là di tutto questo la moltitudine di messicani, soprattutto uomini in maniche di camicia e sombrero, ma anche un bel numero di donne e bambini. Qua e là, scorgeva dei padri che tenevano sollevati i bambini piccoli, così da poter dire in seguito: «Il mio bambino (o la mia bambina) ha visto il papa!» Sisto VI vide due uomini, che indossavano abiti logori, contendersi un posto proprio davanti a lui. C'era una famiglia che sembrava composta di almeno sei figli, che dal punto di osservazione del papa sembravano tutti piccoli. Alcune donne con il capo coperto dal rebozo si asciugavano le lacrime. «Silenzio!» gridò un uomo sul podio. «Buttatelo fuori!» strillò una voce da sotto, e il papa vide un individuo smilzo in pantaloni bianchi e maglietta senza maniche, un uomo di mezz'età, venire colpito sulla testa una, due volte da uno sfollagente, e poi trascinato svenuto fuori campo da un altro poliziotto. La maglietta gli si era stracciata, strappata a brandelli, e il papa vide chiaramente le costole del tizio, come aveva visto quelle del cane un attimo prima. «Ladro!» esclamò una voce non ben identificata. «Cercava di rubare! Vergogna!»
«Silenzio! Vergogna!» giunse alle orecchie del papa la stessa voce di prima, proveniente da sotto, da un uomo senza volto. Voleva dire vergogna perché qualcuno parlava mentre parlava il papa? «Mio popolo!» ricominciò il papa, parlando senza seguire il discorso scritto. «Ho un messaggio speciale per voi.» Aveva detto spesso queste stesse parole, a Lima, a Roma, a Varsavia. «Date retta ai vostri sacerdoti, ai preti che vivono nei vostri villaggi, a uomini come padre Felipe!» Felipe, nello stato del Chiapas, era il sacerdote più progressista e quello che parlava più spregiudicatamente degli altri. Sentì che tutti erano restati senza fiato, e un unico «Ooooh!» di meraviglia uscì dalla gola di alcuni, lì sotto. «I vostri sacerdoti hanno ragione, quando sostengono che i ricchi sono spietati, che i vostri salari sono insufficienti per la dignità umana e per il sostentamento delle vostre famiglie. E anche...» Il pontefice dovette fermarsi, perché la folla fu attraversata da un mormorio che sembrava una folata di vento. Sisto batté il piede destro, afferrò il pastorale con la mano destra con la maggiore energia possibile, e irrigidì la mascella. «Santità... il discorso! Si sente bene?» Era Franco, il suo medico che, alla sua sinistra, si era piegato verso di lui con ansia, senza osare toccargli il braccio, anche se la sua mano era protesa per farlo. Sisto VI si sentì improvvisamente irritato con Franco, irritato in modo irrazionale e poco lucido, perciò ignorò con altezzosità il suo medico e proseguì. «E c'è dell'altro!» gridò nei microfoni. «La vostra miseria è un disonore non per voi, ma per quelli che sono più ricchi di voi: avete ogni diritto, ogni immaginabile diritto, di cercare di migliorare la vostra situazione. E voi donne, voi madri, non è il vostro dovere, né il destino assegnatovi da Dio, quello di essere eternamente costrette a partorire, come un asino bendato è costretto a far girare la ruota del pozzo.» Sisto fece una pausa, notando strani movimenti nella massa di popolo davanti a lui. Aveva la sensazione di una tempesta in arrivo, ma aveva anche la sensazione di aver comunicato il suo messaggio. Delle figure, in basso, alzarono silenziosamente le braccia, come se temessero di urlare, anche se lo desideravano. Il papa batté il pastorale. «Le mie parole sono la verità... le mie parole!» L'estremità del bastone batté due volte sul pavimento di legno. Il papa, anche se non guardava in giù, tentava di colpirsi l'alluce. Abbassò ancora il bastone con tutta la forza, e questa volta prese l'alluce in pieno. Il dolore fu atroce, e dappertutto dentro di lui si sprigionò un grande ca-
lore; poi, sentì una sensazione di frescura sulla fronte, e sorrise alla folla che gli stava davanti. «Vi benedico!» gridò Sisto VI. «Vi benedico!» Sollevò le braccia, la mano destra che teneva ancora stretta il pastorale. Era come se il dolore fosse defluito, e al piede destro sentiva addirittura una piacevole sensazione di fresco. «Santità!» Stephen era apparso al suo fianco col suo vestito scuro, il collarino bianco, con il giovane viso sorridente. Scosse la testa perplesso. «Il suo piede!» esclamò, indicandolo. Ora la folla era in piedi e urlava, e c'era troppo baccano perché si potessero capire bene le parole. Il presidente e i suoi collaboratori facevano dei gesti garbati per far segno al papa di scendere dal podio. Quest'ultimo sapeva qual era il prossimo appuntamento in programma: una visita in una piazza del centro, vicino alla Zócalo. «Padre Felipe è in città?» chiese il papa. «Mi piacerebbe averlo con me, oggi!» Doveva gridare per farsi capire, e si rivolgeva ai collaboratori del presidente, a chiunque fuorché al presidente stesso, poiché non era sicuro della sua disponibilità in proposito. «Troveremo Felipe!» Chi l'aveva detto? La pantofola destra del papa era tutta rossa di sangue, e Stephen l'additava con un'espressione preoccupata sul viso. Il papa fece un gesto per dire che era tutto a posto. Una limousine portò il pontefice, Stephen, il dottor Maggini e un altro paio di persone del seguito del papa, e anche il presidente, a velocità sostenuta verso Città del Messico. Il papa si tolse la pantofola e se la mise sulle ginocchia. Con l'aria calda, che entrava dal finestrino parzialmente aperto, la pantofola si asciugò rapidamente e si indurì. «V-vostra Santità,» disse il presidente del Messico, deglutendo per il nervosismo, «mi permetto di suggerire, con molta decisione, a Vostra Santità di andare direttamente all'aeroporto. È una questione di sicurezza.» Sisto VI se l'era aspettato. «Sarà fatta la volontà di Dio. Non ho paura. La gente mi aspetta in quella piazzetta, vero?» Il presidente, incapace di contraddire il papa, annuì, si morse il labbro e distolse lo sguardo. In un modo o nell'altro, padre Felipe aveva ricevuto il messaggio. Il papa scorse la sua figura sottile, vestita di nero, ancora prima che la limousine si fosse completamente fermata nella piazza. C'era abbondanza di poliziotti e di militari. Con la sua alta statura, Felipe sembrava uno spaventapasseri,
mentre girava qua e là con le braccia tese, opponendosi con calma alla polizia che sembrava volesse allontanarlo dal posto. «Felipe!» gridò il papa, mentre scendeva dalla limousine. Si trattava di Felipe Sainz, venticinquenne, che era stato in prigione due volte per aver guidato gli scioperi che avevano lo scopo di ottenere dei migliori alloggiamenti per i lavoratori dei campi, e per aver chiesto con eccessivo clamore l'assistenza medica per i lavoratori che avevano subito incidenti e un contributo per il cibo per le mogli incinte. Il giovane sacerdote sembrava sbalordito, mentre il papa lo abbracciava. Anche i soldati e i poliziotti restarono a bocca aperta, e sorvegliavano con un certo nervosismo la folla che li circondava. Al momento, avevano a che fare con più di mille persone, e altre ancora ne sopraggiungevano dalle numerose strade e stradine che portavano alla piazza. Anche qui vi era un podio o tribuna rotonda, ma era di metallo, come un vecchio palco destinato a una banda, però senza tetto. Il papa salì i gradini con Felipe, e Stephen li seguì. «Il suo piede, Santità!» gridò padre Felipe. Non si era rasato, come al solito; aveva i baffi incolti; i pantaloni scuri ordinari e la tunica erano talmente stazzonati da lasciar pensare che ci avesse dormito dentro. «Il piede mi faceva male un'ora fa, ma adesso non più,» disse Sisto, sorridendo. Anche la calza era diventata rossa, ma sembrava asciutta, come se l'emorragia si fosse fermata. «Questa...» Stephen rigirò con la punta delle dita della mano destra la pantofola irrigidita. Gli occhi di padre Felipe si spalancarono. «Sangue?» Il sangue sulla pantofola si era scurito, ma il colore rosso era inequivocabilmente quello del sangue. Sisto VI appoggiò la pantofola sul bordo del podio, allargò le braccia, pronunciò il saluto rituale, impartì una breve benedizione, poi sollevò la pantofola, leggera come sempre, malgrado avesse cambiato colore. «Il mio sangue... sono un essere umano come voi, e sono mortale,» disse Sisto. La folla restò a guardare, insieme sorpresa e perplessa; molti sorrisero, incerti su come interpretare le parole del papa, altri fissavano il suo viso con i loro occhi scuri, come se, contemplando il sant'uomo da distanza così ravvicinata, potessero attingerne tutta la saggezza di cui avevano bisogno per vivere. Così ebbe origine l'espressione «Il papa della pantofola rossa». L'inci-
dente occorsogli all'alluce (che lui descrisse), Sisto lo definì la prova della fallibilità anche di chi ricopriva un'alta carica. Il dolore conseguente, era il simbolo dell'errore; il sollievo dal dolore, una volta affrontata e risolta la situazione, era la verità, la realtà. Inciampare schiacciandosi l'alluce! Era un errore che chiunque poteva comprendere. Il papa si spostò verso un lato del podio e allungò il piede con la calza rossa, perché molti potessero vederlo. «Il dolore è sparito!» Padre Felipe rise dolcemente, e gli occhi gli brillarono. Come era accaduto nello stadio, il pubblico, un po' stordito, solo poco a poco si rese conto dell'argomento di cui il papa stava parlando, e del perché padre Felipe fosse con lui. Sisto tese la mano a padre Felipe, e il sacerdote l'afferrò. Al papa non occorreva dire altro. Il sommesso mormorio della folla crebbe di volume. Da qualche parte le campane di una chiesa cominciarono a suonare irregolarmente, gioiose. Un complesso mariachi da una strada vicina iniziò a fare degli accordi di prova, poi acquistò sicurezza e procedette spedito. La maggior parte della gente però mostrava una felicità profonda, tutti chiacchieravano e ridevano gli uni con gli altri. Il papa girava fra la calca, posando ogni tanto la mano sul capo dei ragazzi e dei bambini. I poliziotti gli stavano dietro. Il presidente, che si trovava vicino a una fila di limousine nere, guardava da lì la scena in uno stato di tensione. Almeno tre squadre televisive erano al lavoro. Per il tardo mezzogiorno era in programma un pranzo in stile messicano alla residenza del presidente. Erano ormai passate le due. Il papa chiese al presidente se poteva invitare a pranzo padre Felipe, oppure se la cosa lo disturbava. Il pontefice sapeva che la cosa avrebbe creato disagio, ma, anche se non lo disse, sperava che ciò non avrebbe precluso la presenza di Felipe. Il presidente, che per forza di cose non poteva sbilanciarsi, respirò profondamente prima di rispondere al papa, ma il dottor Maggini lo prevenne. «Vostra Santità, devo controllarle la temperatura appena possibile. Considerate le condizioni del suo piede... e il caldo...» Sisto comprese: il prudente dottore stava cercando di prepararsi una scusa per giustificare le parole del papa sia allo stadio che qui nella piazza. Sua Santità non voleva dire tutto ciò che ha detto, la sua mente era turbata a causa della febbre alta. «Mi può misurare la temperatura, Franco, ma mi sento proprio bene, benissimo, davvero.» «Vostra Santità... potrei suggerire...» il presidente cercava parole diplomatiche. «La folla sta aumentando... Prima ce ne andiamo...»
La folla stava davvero aumentando, i soldati e i poliziotti erano diventati più frenetici, balzavano in aria, agitavano gli sfollagente. Sisto vide che il popolino si radunava gioiosamente, ma il numero di agenti e di soldati non sarebbe stato sufficiente a tenerli a bada. Il cardinale Ricci si consultò con il presidente, venne indicata una limousine verso la quale il papa fu sospinto. Tutti vi salirono, tranne padre Felipe, a cui il papa dovette fare un cenno di addio attraverso il finestrino. Partirono, non per la residenza presidenziale però, ma per l'aeroporto. Mezz'ora più tardi, il pontefice sedeva in una poltrona nel suo scompartimento ad aria condizionata sull'aereo del Vaticano, con un termometro in bocca. Il buon dottor Maggini dovette ammettere che la temperatura del papa era normale. Un cameriere aveva messo a bagno il piede destro di Sisto in un catino d'acqua tiepida. La pelle sulla punta si era rotta, ma il colore e anche le dimensioni dell'alluce erano tornati quasi normali, e la piccola spaccatura al momento non stava neppure sanguinando. «È come un piccolo miracolo, vero?» disse Sisto sorridendo al medico, al cardinale Ricci e a Stephen che erano con lui nel salottino. «E dov'è la mia pantofola rossa, Stephen?» «Ah, sì, qualcuno...» cominciò Stephen imbarazzato, «potrebbe essere stato padre Felipe, Vostra Santità, anche se sono sicuro che non voleva appropriarsene, ma solo portarla in mano. C'è stata molta confusione negli ultimi minuti.» «Pochi istanti di colloquio privato, Vostra Santità,» sussurrò il cardinale. Il papa fece un gesto per indicare che desiderava che gli altri lasciassero il salottino. «Andate pure a mangiare qualcosa, amici miei.» Il cardinale Ricci esitava. «Vostra Santità si rende forse conto delle conseguenze...» «Sì, sì,» lo interruppe Sisto. «Ci vorrà un po' di tempo prima che le mie parole raggiungano tutta la gente, penetrino in profondità.» «Raggiungere, Vostra Santità!... Le spiacerebbe guardare adesso la televisione? Roma sta trasmettendo in continuazione, e anche l'Irlanda... New York, Parigi. È come una specie di bomba. Vi sarà del subbuglio per settimane... e anche di più... a meno che lei non voglia ammorbidire le sue parole, modificarle almeno un po'.» «In Irlanda, già, immagino,» rispose Sisto. «Ma sicuramente in America della gente ne è felice, no?» Il cardinale lanciò un'occhiata verso la porta chiusa dello scompartimen-
to, come se temesse che qualcuno ascoltasse o si introducesse. «Si rende conto, Vostra Santità, di dove siamo? Sulla pista dell'aeroporto di Città del Messico. Non possiamo proseguire per Bogotá. Non avranno i mezzi per proteggerla. Nessun paese del Sudamerica può fornire garanzie... in queste condizioni.» Il papa capì. Era il popolo cordiale e amico che poteva travolgere lui e il suo seguito, non gli uomini armati che avrebbero potuto sopraggiungere dopo. I proprietari terrieri erano di certo già impegnati a riprendersi. «Ma tornare in Vaticano adesso,» cominciò con calma Sisto, «sembrerebbe una ritirata, vero, mio caro cardinale? Una fuga per salvarsi?» «Ma, sì, forse!» rispose prontamente il cardinale. «A parte il fatto che la curia è sotto choc come tutti e non certo propensa a... be'... congratularsi con Vostra Santità. Ammetto però che le nostre vite non sarebbero così in pericolo in Vaticano.» Sisto disse a se stesso che se lo sarebbe potuto aspettare che la curia si mostrasse gelida, perfino ostile, ma quel pensiero, fino a quel momento, non gli era passato per la testa. «Mangiamo qualcosa e guardiamo la televisione. Questo, almeno, è quanto farò io,» disse il papa. Si fece una doccia e indossò indumenti freschi e comodi. Aveva detto chiaramente al cardinale Ricci e agli altri del suo seguito che desiderava proseguire per Bogotá, in Colombia, anche se l'ora del loro arrivo poteva non essere l'ora per la quale era atteso a Bogotá. Potevano passare la notte lì sulla pista? I soldati messicani potevano proteggerli, se era necessario? Il papa ricevette risposte evasive. Il cardinale promise di parlare con le autorità, per mezzo del radiotelefono. Nel suo scompartimento, durante il pranzo con Stephen e il dottor Maggini, il pontefice accese il televisore. Vide che non doveva preoccuparsi per aver perso la pantofola rossa. La pantofola, con la sua punta lievemente rivolta all'insù e la semplice fessura per introdurre il piede, era stata riprodotta a migliaia in Messico, a New York e perfino a Roma! La gente aveva ritagliato pantofole da pezzi di cartone. L'annunciatore del telegiornale sorrideva e balbettava emozionato, mentre spiegava in spagnolo la storia della pantofola. Bambinetti, e adulti con le lacrime che scorrevano sui visi sorridenti, mostravano le riproduzioni della pantofola, colorata di un vivo rosso sangue. Tutto questo, in meno di quattro ore! Sisto colse lo sguardo di Stephen. «Pensavo che mi avrebbe disapprovato, Stephen, lei che è conservatore.»
Stephen rispose: «È stato il modo in cui l'ha detto, specialmente nella piazzetta.» Si inumidì nervosamente le labbra, anche se stava mangiando con gusto la fresca papaya, come del resto il papa. «All'improvviso ho capito, Santità.» Stephen lanciò un'occhiata al cardinale e al dottor Maggini, che fissavano entrambi lo schermo del televisore con visi piuttosto lunghi. «Lei può contare su di me,» disse piano Stephen. «Grazie, caro Stephen. Intendo proseguire per Bogotá. Io vorrei farlo.» Sottintendeva che non avrebbe ordinato a nessuno di accompagnarlo, né al pilota, né a chiunque altro, perché adesso forse si trattava di mettere in pericolo la vita di altre persone. «Verrò con lei,» disse Stephen. Un momento più tardi, guardando la televisione, commentò: «Queste pantofoline! Sfortunatamente, Santità, da domani probabilmente le faranno di plastica! Ah, ah, ah!» Ora c'era un collegamento con l'Irlanda, Londonderry, e veniva intervistato un gruppo di donne ridenti. «Sconcertate? Certo! Ma doveva succedere, no? Siamo felici...» La voce sovrapposta dell'interprete cominciò a tradurre in spagnolo. Le donne cattoliche irlandesi erano tutte fedeli credenti ed erano grate al papa, e sarebbero state delle cattoliche anche migliori, disse una donna, per quanto aveva fatto Sisto VI. «Tra la gente, la situazione nei paesi latino-americani è la stessa,» proseguì il commentatore in lingua spagnola, mentre sullo schermo apparivano immagini di una piazza, con una cattedrale sullo sfondo, che avrebbe potuto trovarsi in una qualsiasi di molte città del Sudamerica. Uomini e donne cantavano «Arriba Sisto!» mentre dei soldati, perlopiù in atteggiamento tranquillo, li osservavano con aria quasi amichevole, con i fucili a tracolla. Con il telecomando, il papa passò a un altro canale, mentre gli veniva servito l'arrosto. Questo era un programma decisamente più serio: un anziano uomo politico veniva intervistato a Roma in italiano. Sisto lo riconobbe subito, poiché ormai il suo viso gli era familiare come quello di un parente stretto: era Ernesto Cattari, capo di un partito conservatore di minoranza che non aveva mai avuto grossa rilevanza nel governo italiano, ma che, nondimeno, era importante perché rappresentava, per l'opinione pubblica, il denaro, la posizione sociale, la stabilità della chiesa, l'anticomunismo. «... tuttavia, tutti speriamo che questo strano proclama sia un errore.» L'uomo fece una risatina nella corta barba grigia. «Conseguenza del sole
cocente, forse, e che è meglio dimenticare. Attendiamo, ovviamente, ulteriori delucidazioni da Sua Santità.» Il papa pensò che a Roma era sera tardi, e il signor Cattari sembrava davvero molto stanco. Madrid. Sera. Lo schermo inquadrò la facciata di un palazzo ad appartamenti in quello che l'annunciatore definì «un quartiere di lavoratori piuttosto poveri». Delle donne e qualche uomo si sporgevano quasi da ogni finestra, facendo cenni di saluto, sorridendo, gridando «Arriba el papa!» e «Sia ringraziato il papa!» Un giornalista televisivo con un microfono in mano parlò a una giovane donna sul marciapiede. «Interrogate me?» chiese lei in spagnolo. «Non trovo le parole, tranne per dire che il discorso di papa Sisto cambierà la nostra vita... in meglio, questo è sicuro.» Il papa sentì degli spari a qualche distanza fuori dell'aereo, o così gli parve, e nello stesso tempo qualcuno bussò alla porta. Uno dei suoi segretari mise dentro la testa. «La prego di scusare, Vostra Santità. Abbiamo appena avuto una richiesta urgente da parte del presidente,» disse il segretario deglutendo, «di lasciare l'aeroporto. La polizia sta incontrando delle difficoltà a trattenere la folla. La gente sta marciando verso l'aeroporto...» Il papa capì e depose coltello e forchetta. «Che cos'era quella sparatoria che ho sentito? La polizia sta sparando alla folla?» «Probabilmente si tratta solo di colpi di avvertimento, Vostra Santità, ma, a quanto ho capito, la cosa più saggia è di partire immediatamente per...» Si fermò. «L'aereo ha il pieno di carburante ed è pronto per il decollo, Vostra Santità.» «Per dove?» «Sarebbe meglio andare dove non siamo attesi. Possiamo chiedere il permesso di atterraggio quando siamo in volo. In Florida, a Miami, per esempio.» «Preferisco Bogotá, come programmato, anche se siamo in anticipo. Chieda se qualcuno vuole sbarcare dall'aereo.» «Sbarcare dall'aereo, Vostra Santità?» «Vi rendete conto che è pericoloso,» disse Sisto, con la sensazione di dire cose ovvie, ma spesso era necessario con il suo personale troppo cerimonioso. «Chiedete solamente. Ci deve essere il tempo... qualche minuto, mi pare?» Il segretario scomparve. I motori vennero avviati, e il muso dell'aereo cambiò direzione. Il papa spense il televisore. Guardando fuori dal finestrino, scorse quattro o cinque
persone che si allontanavano, reggendo delle valigie. Non ne riconobbe nessuno, ma non li guardò con attenzione. Sorrise a Stephen. «Bogotá. Manderò un messaggio invitando alla calma, alla dignità, alla riflessione. Una tranquilla celebrazione della pantofola rossa.» Il pontefice inviò il messaggio appena dopo il decollo, poi chiuse gli occhi, assorto in preghiera e in meditazione, sprofondato nella sua comoda poltrona. Aveva chiesto a Stephen di interromperlo, in caso di notizie importanti, e al cardinale di riferire tutto a Stephen. Il papa si sentiva piacevolmente esausto e non avrebbe trovato nessun motivo per biasimarsi, se durante la meditazione avesse sonnecchiato un poco. Qualche volta, le grandi idee vengono proprio in momenti come questo, e inoltre avrebbe avuto bisogno di tutta la sua energia e lucidità per le ore a seguire. Stephen lo svegliò con un sommesso «Vostra Santità,» e gli porse un foglio di carta piegato. Il papa lesse: «Consigliamo rispettosamente di non proseguire per Bogotá, ma di tornare a Roma. Rispettosamente proponiamo che sia diffusa appena possibile una versione modificata del discorso di Città del Messico, altrimenti potrebbero verificarsi seri disordini.» Questo telegramma proveniva da parecchi cardinali di Roma, i cui nomi, sei o sette, erano tutti in calce. «Una risposta, Vostra Santità?» chiese Stephen aspettando. «Sì, grazie, Stephen. Risponda: 'Bogotá è nel programma. Adempirò il mio dovere.'» L'aereo fece rifornimento di carburante in Costa Rica. In quel momento era buio, erano le undici di sera. Il papa vide una piccola folla, poco più numerosa di quella che si sarebbe potuta notare in qualsiasi aeroporto commerciale. Era un buon segno, per il controllo della situazione. Il personale di volo, nell'ora precedente, aveva trattato per potersi rifornire a San José. Ora erano attesi a Bogotá per le otto del mattino. L'aereo rimase per un po' a San José, indugiando, non c'era fretta. Un meccanico farfugliò, rivolgendosi a qualcuno a bordo, che era onorato di assistere al rifornimento dell'aereo di papa Sisto, il quale lo sentì attraverso un portello aperto. Prima dell'alba giunse un messaggio da parte di un rappresentante del governo di Bogotá: «Diamo il benvenuto a Sua Santità Sisto VI sul nostro suolo e faremo tutto il possibile per garantire la sua sicurezza.» Secondo il papa, il testo tradiva una certa preoccupazione. Il crepitio di una sparatoria si mescolò al sibilo dei motori dell'aereo, quando questo atterrò all'aeroporto di Bogotá. Dei soldati schierati in du-
plice fila stavano davanti agli edifici principali dell'aeroporto, mentre l'aereo rullava sulla pista. Erano stati accesi dei riflettori. Il papa vide uno o due carri armati e degli automezzi da trasporto militari all'estremità del campo d'aviazione. Un messaggio, inviato al pilota per telefono, chiedeva educatamente che l'aereo del Vaticano attendesse con i portelli chiusi per motivi di sicurezza, fino a nuovo avviso. Il papa si fece la doccia e fece colazione. Erano appena passate le otto e trenta del mattino e non c'era fretta. Pensava di tenere il suo discorso alle undici sui gradini di una cattedrale della capitale. La giornata prometteva un sole cocente. Il dottor Maggini entrò per dare un'occhiata all'alluce del papa. La ferita si stava rimarginando, e la pelle non era quasi più arrossata. Tuttavia, il medico vi cosparse ancora un po' di penicillina. Alle undici, un po' più tardi di quanto era stato preannunciato per telefono, giunse una guardia armata che scortava il presidente della Colombia, un uomo vigoroso di circa sessant'anni, con i capelli brizzolati. Indossava un abito bianco e salutò il papa con cortesia, anche se denunciando un certo nervosismo, dopo che Sisto ebbe sceso la scaletta. Questi sorrise, poi si inginocchiò a baciare la terra, si alzò e si diresse tranquillamente verso le limousine che attendevano, già pronte a partire. Le auto avevano il tetto di vetro, certamente a prova di proiettile. Stephen, il cardinale Ricci e il dottor Maggini erano accanto al papa. «La gente è eccitatissima,» disse il presidente tutto sudato, dopo che, con il papa e gli altri, si fu sistemato in una limousine. «Ma felice, spero. È sempre così,» rispose affabilmente il pontefice. Un boato di voci umane esplose, quando la macchina arrivò a un centinaio di metri dalla cattedrale. Qui c'erano cordoni di soldati che trattenevano la folla, mentre gli elicotteri si libravano nell'aria, facendo un terribile frastuono. Come riuscire a farsi sentire al di sopra del rumore degli elicotteri? Il papa scese dalla macchina. Sentiva che la folla premeva verso di lui, al di là della barriera dei soldati. «Papa... Sisto!... La zapatilla roja! Dónde está...» Dov'è la pantofola rossa? domandavano con calore. Sisto sorrise e alzò le braccia. «Vi benedico! Vi benedico nel nome del Signore!» Prima lentamente, poi in un'esplosione di colore, apparvero le pantofole rosse. I bambini estraevano dalle tasche della carta rossa piegata. Un gruppo di adolescenti dispiegò una pantofola rossa di almeno tre metri. Tutti
ridevano e chiacchieravano. Alcuni soldati che, in piedi, formavano cordone con le braccia, furono spinti a terra, trascinando con loro altri soldati da entrambi i lati. Si udirono allora grida minacciose in spagnolo, che il papa sentì e comprese. «State indietro, restate indietro o dovremo usare gli sfollagente.» «Parla ai nostri proprietari terrieri, Sisto!» gridò una voce maschile. «Parla ai nostri padroni!» «Mio marito è stato ucciso da un soldato, Santità! Perché coltivava...» Coltivava la coca? Il papa sapeva che erano molti i colombiani che coltivavano la coca per l'industria della cocaina, perché altrimenti non avrebbero avuto abbastanza denaro per mangiare. L'argomento era troppo complesso per essere affrontato in quel momento. «Mio popolo!» cominciò il papa sui gradini di pietra della cattedrale. La gente si calmò, ma non così gli elicotteri. Il papa si volse verso il presidente, ma parlò a un uomo che gli stava più vicino. «Questi elicotteri...» «Ce ne rammarichiamo! Ma possono essere necessari, Vostra Santità! La sicurezza...» «Vogliamo che il papa venga nei nostri campi! I nostri campi!» Questo slogan proveniva da una strada laterale, e il pontefice vide circa duecento uomini e ragazzi, forse anche di più, che avanzavano, con i capofila che portavano sopra le loro teste una pantofola rossa fatta da loro, lunga più o meno un metro. Dei soldati fischiarono, e i militari puntarono le armi verso questa piccola folla che avanzava dalla strada laterale. «Indietro! State indietro!» gridavano i soldati. Un elicottero lanciò un candelotto che scese oscillando, toccò terra con violenza e sprigionò una nuvola di fumo biancastro. Dalla folla si levò un mormorio di disapprovazione. I soldati risposero con delle urla. Sisto li vide puntare i fucili, ancora senza sparare, ma intuì il loro nervosismo da come muovevano i piedi in continuazione. «Prima mi rivolgerò alle donne!» cominciò il papa con voce ancora più forte. «Alle nostre madri, alle nostre sorelle, alle nostre amate mogli!» A questo punto, sembrò che le acclamazioni salissero al cielo, non solo, più acute, da parte delle donne, ma anche da parte degli uomini. «Le donne non sono le schiave, ma le compagne degli uomini!» gridò. La folla urlò nuovamente il suo assenso, e il papa capì che non c'era bisogno di pronunciare le parole «aborto» o «controllo delle nascite» perché il popolino comprendesse. «Le donne non devono essere neppure schiave del loro corpo,» proseguì il pontefice. «È meglio non creare nuove vite non
desiderate, se non possono essere nutrite e alloggiate con dignità.» «Olé!» Vi furono applausi e acclamazioni. Il papa intuì che il tempo che gli era stato destinato per il discorso sarebbe stato breve. Il presidente stava camminando ostentatamente su uno dei gradini a metà della scalinata. I microfoni facevano rimbombare le parole del pontefice fin nelle strade laterali, e Sisto vedeva una folla sempre più numerosa avanzare a piedi verso la cattedrale. «Io, come vostro pastore, vi mostrerò la via!» continuò il papa, sperando che tutto andasse per il meglio per quella gente che aveva davanti. «Non ci deve essere violenza! Il nostro Salvatore ci ha insegnato a non essere violenti! Dobbiamo percorrere la sua strada, seguire le sue orme!» Sisto si rese conto che il concetto era un po' astratto, ma la gente rispondeva e applaudiva con l'aria felice. Il papa aveva un ultimo, importante messaggio. «Seguite con attenzione i vostri padres, i vostri sacerdoti, i soli che vi parlino da uomo a uomo!» Fu il caos. Improvvisamente, la scena sembrò trasformarsi in un enorme alveare, pieno di figure che si agitavano freneticamente, saltando qua e là, donne le cui voci raggiungevano tonalità acute da soprano, uomini che esultavano con toni gutturali e avanzavano verso di lui, travolgendo i soldati. Sisto vide un accenno di sorriso sul volto di un soldato con il naso sanguinante. «Santità,» sussurrò rapidamente padre Stephen all'orecchio del papa, «c'è tanta gente che sta venendo dall'esterno...» Il presidente si fece coraggio. «Vostra Santità, la folla vi travolgerà anche dentro la cattedrale. Non riusciremo a tenere chiuse le porte!» Era evidente a Sisto che il presidente non voleva che il papa morisse sul suolo del suo paese per mancanza di difesa e protezione. Furono lanciati altri candelotti fumogeni, e alcune donne gridarono. La polizia cominciò a sparare sopra le teste della gente. Lo scopo era di fermare almeno quelli che sopraggiungevano. «La cosa migliore per Vostra Santità è andare all'aeroporto! Temo per la vostra vita!» Il presidente sembrava temere anche per la propria, di vita. Un elicottero che volteggiava sopra di loro calò un seggiolino di plastica a due posti, una specie di panchina con delle cinghie, e il presidente fece segno al papa di salirvi. «Stephen?» chiese Sisto, indicando il sedile. «No, Santità. Magari il presidente?» replicò Stephen. «Ci sono altri elicotteri!» esclamò il presidente. «Nessun problema! Non
perdete tempo!» Il papa salì su un seggiolino da solo, lasciando vuoto l'altro posto, e si allacciò la cintura. Era molto teatrale, pensò, una specie di assunzione, però con parecchio rischio in più, poiché lui era ancora di carne e ossa e mortale, e volavano pallottole. «Ai nostri campi! I nostri campi!» gridò da sotto un folto gruppo. Sisto dondolava dolcemente, strinse il bracciolo con una mano e alzò l'altra per salutare la folla. Che spettacolo! Le facce si giravano in su verso di lui, sorridendo, guardandolo intensamente, come per fissare per sempre nella memoria l'immagine del «papa della pantofola rossa». Fu tirato su lentamente nell'abitacolo dell'elicottero. «Andiamo ai campi? A El Re Verde, magari?» chiese il pontefice. El Re Verde era un'enorme piantagione di coca e caffè che faceva notizia, perché i lavoratori dovevano vivere separati da mogli e figli per essere impiegati lì, tanto era vasta la regione. Si diceva che la produzione di coca servisse tutta per la cocaina. Un agente governativo colombiano della squadra antidroga era stato ucciso con un'arma da fuoco per aver provato a fare delle indagini a El Re Verde. «Non è sicuro, El Re,» disse il timido e imbarazzato secondo pilota. «I proprietari hanno delle guardie del corpo, un esercito privato... è vero, ma...» Il pover'uomo non sapeva come dire di no al papa. «Andiamoci!» replicò quest'ultimo. «Mi può lasciar giù nello stesso modo in cui mi ha preso a bordo.» Il secondo pilota alzò il ricevitore del telefono. «Rinforzi!» ripeté parecchie volte. Secondo il papa, si sarebbe sparsa velocemente la voce che lui stava andando a El Re Verde. Un soldato, nell'ufficio con cui stava parlando il secondo pilota, lo avrebbe detto a qualcun altro e così di seguito. Qualche minuto dopo, quando l'elicottero raggiunse i campi di El Re Verde, il papa udì una sparatoria. «Non è sicuro... Sire,» disse il secondo pilota. «Il patrón sta sparando sui... lavoratori, adesso, perché stanno attaccando.» «Attaccando?» Il papa poteva scorgere delle figure stese a terra, forse sei, fra le basse costruzioni bianche che erano certamente il quartier generale della piantagione, e dei contadini che avanzavano in semicerchio. Degli sbuffi e delle nuvolette di fumo provenivano dalle costruzioni, dove soldati o guardie stavano evidentemente sparando dai tetti. «Potete farmi scendere in qualche punto nei campi?» chiese il papa.
Queste furono le ultime parole di Sisto VI, a parte «Pace! Pace tra i fratelli, nel nome del Signore Gesù Cristo!» che proferì, rimanendo in piedi per qualche secondo sul terreno irregolare ma cedevole, in mezzo ai contadini sbalorditi. Alcuni dei lavoratori avevano in mano dei bastoni, altri il machete, ma quest'ultimo probabilmente serviva per il lavoro. Tutti si fermarono per guardare quest'uomo, questo papa, che riconobbero, sceso da un elicottero dell'esercito colombiano come un deus ex machina. Smisero di lavorare e avanzarono, e, disse uno degli uomini al papa, la loro intenzione era di «parlare con los patrónes...» per gli alloggi e i salari. Ma i patrónes avevano i fucili, o li avevano le loro guardie del corpo, e una pallottola colpì il papa alla gola. Visse per un minuto o poco più, circondato dai contadini sbigottiti, il cui gruppo divenne un bersaglio per i tiratori collocati nel quartier generale della società. Alcuni lavoratori sollevarono Sisto per portarlo «via», dovunque purché lontano dagli edifici principali da cui proveniva il fuoco. E appena circolò la voce che il papa era stato colpito, proprio il «papa della pantofola rossa», i contadini si radunarono, noncuranti dei proiettili, e assalirono gli edifici dirigenziali, uno dei quali consisteva in una casa a due piani stile fattoria, dove il patrón, la sua famiglia e il personale amministrativo potevano lavorare e, se necessario, dormire. L'assalto dei contadini fu accolto con una pioggia di proiettili, molti sparati da mitragliatrici. Nessuno dei contadini in campo aperto fu lasciato in piedi. Ma alcuni, che erano alle estremità, scapparono per raccontare l'episodio. Da allora in poi gli schieramenti furono: esercito e proprietari terrieri insieme da una parte contro il popolo dall'altra, e non solo a Bogotá, ma a Città del Messico, nel Chiapas, a Lima e a Santiago del Cile, dove Sisto sarebbe stato atteso. Padre Stephen andò a Santiago, ma del tutto per conto suo, perché l'aereo del Vaticano tornò a Roma la notte dell'assassinio del papa. Stephen venne ascoltato: era stato al fianco di Sisto negli ultimi giorni del pontefice, ed era come se avesse toccato il lembo della sua veste. Stephen predicò ripetutamente: «Pace e discussione su tutti i problemi, la dignità dell'uomo come pure quella della donna.» Ma padre Stephen non piaceva alle autorità, e venne tollerato per un tempo minimo (sei ore), non gli fu data protezione dalle folle esuberanti, tranne quella offerta spontanamente da poliziotti comprensivi e ben disposti. Stephen aveva l'assoluta convinzione che i governanti di quel paese sarebbero stati felici che lui subisse lo stesso destino del papa, ma non avevano avuto il tempo, secondo
Stephen, di ridurre lo schieramento di polizia. Comunque, si imbarcò su un volo della Pan-Am e viaggiò in classe turistica, sano e salvo, in direzione di Miami, Florida. Sapeva di essere guardato di traverso da alcuni prelati nordamericani, come pure da alcuni sudamericani, ma sentiva di avere la pelle dura, sentiva che sarebbe sfuggito ai proiettili, che poteva fare di ogni angolo di strada la sua «chiesa», che avrebbe trovato degli ascoltatori e dei credenti. Una lenta rivoluzione stava percorrendo il mondo, ma sfortunatamente provocava un gran numero di morti. Nei successivi, numerosi attacchi e lotte della classe lavoratrice, perfino nelle Filippine, contadini e operai erano molto più numerosi di quanto fossero stati durante la scaramuccia a Bogotá che aveva causato l'uccisione del papa, perché avevano avuto il tempo di riunirsi. Le tenute agricole, le fabbriche, i quartieri residenziali erano altrettanto pronti a respingerli con gas lacrimogeni, idranti, grandi cancelli di acciaio e mitragliatrici, ma il fatto era che c'erano persino più contadini e operai che proiettili. In molti scontri, i lavoratori avevano travolto i corpi dei loro caduti, erano entrati nelle case e le avevano occupate. Poi cominciarono i «confronti», le trattative. Le grandi masse popolari avevano la tranquillità che derivava loro dalla consapevolezza del loro numero e della loro forza, e dalla convinzione che la chiesa e Dio fossero dalla loro parte. Vi furono disordini in Irlanda, a Belfast e a Londonderry, zuffe e tumulti minori a Manhattan, mentre la gente manifestava la propria protesta per un inusitato evento che tutti sapevano essere un'ingiustizia: l'assassinio di un papa che aveva parlato chiaramente in favore della giustizia, dell'umanità e dell'individuo. Sisto VI, nei suoi ultimi momenti, aveva invocato la «pace», e sembrava che il genere umano si odiasse per aver colpito il papa e aver permesso che si verificasse la sua morte. Ma apparentemente, i disordini avvenivano per problemi specifici, come per esempio quelli fra abortisti e antiabortisti. Solo alcuni ricchissimi proprietari, in Sudamerica e altrove, che disponevano di eserciti privati, ebbero tisicamente la meglio sui lavoratori, affermando con soddisfazione o facendo capire con i loro atteggiamenti che avevano fatto la «cosa giusta» contro i «comunisti militanti». Ma l'essenza della rivoluzione era penetrata nel nucleo della chiesa cattolica, e questa cambiò per sempre. I lavoratori avrebbero potuto tornare al lavoro, ma ora le loro condizioni erano migliori, ed erano animati da una sicurezza che ai proprietari terrieri mancava. I preti fautori di una teologia della liberazio-
ne, e quelli che, prima, si erano tenuti al di fuori di tali conflitti sociali si erano fatti avanti apertamente, e con tale forza e in tale numero che nessuno stato avrebbe osato assassinarli, imprigionarli o anche metterli a tacere. Avevano il sostegno dei liberali europei, nonché della stragrande maggioranza dei paesi appartenenti alle Nazioni Unite. Gli echi dei due discorsi della «pantofola rossa» risuonarono per più di un anno, come il brontolio sordo di un'eruzione vulcanica. Persero la vita a migliaia, molti sfilando per le strade nel corso di marce realmente parìfiche, ma che furono male interpretate da poliziotti armati e da soldati spaventati. Qualcuno affermò che il numero dei morti superava i due milioni. La chiesa cattolica dovette rivedere le proprie posizioni riguardo al controllo delle nascite e all'aborto, cosa che fece adottando un atteggiamento passivo, non intervenendo quando i sacerdoti ne parlavano senza timori ai fedeli, e quando la pillola e gli altri mezzi contraccettivi divennero facilmente ottenibili, per esempio, in Irlanda. I medici cominciarono tranquillamente a praticare aborti, specialmente quando lo desideravano sia il marito che la moglie, e quando si seppe che i preti e i vescovi locali non protestavano. Fu detto e confermato che in America e in Francia il numero dei fedeli che frequentavano le chiese cattoliche era sensibilmente aumentato. Ora c'era un altro papa, Giovanni XXIV, eletto appena cinque giorni dopo la morte di Sisto VI. Papa Giovanni XXIV non si pronunciava, e dopo un anno era ancora impegnato a costruire la sua immagine di cattolico tollerante, anche se fervente. Nel frattempo la curia vaticana, inflessibile come sempre, e parecchi vescovi fecero sfoggio di una serie di acrobazie di logica e di metafisica, e di esercizi di contorsionismo, mentre si sforzavano di spiegare e chiarire le parole di Sisto VI sia come delle interpretazioni del vecchio e consolidato dogma, sia come delle aberrazioni della linea di pensiero di papa Sisto, imputabili all'esposizione al caldo eccessivo del Messico e della Colombia e a un abnorme gonfiore all'alluce destro che gli procurava una sofferenza atroce, fatto che il suo medico Franco Maggini poteva attestare. La «mania della pantofola rossa», come affermò L'Osservatore Romano, non era altro che questo, una mania che si sarebbe spenta ed era indegna dell'attenzione di uomini consacrati a Dio. Forse, L'Osservatore Romano desiderò di non aver contribuito, nemmeno per quel tanto, alla pubblicità della pantofola rossa, perché la mania non si esaurì, e le piccole pantofole rosse, di ogni misura e grandezza, si dimostrarono popolari e decorative,
legate con un nastro e portate attorno al collo, oppure come spille sulle camicette femminili, o come piccoli distintivi sul bavero delle giacche maschili. Anche se rivoluzionaria, la pantofola rossa diceva: «Sono sempre un credente.» 10 IL PRESIDENTE BUCK JONES SCENDE IN CAMPO E SVENTOLA LA BANDIERA Alla Casa Bianca la domenica fu una giornata infernale, a partire dalle nove del mattino. Il presidente e la first lady erano a Washington, il che era un evento eccezionale poiché, di solito, il venerdì a mezzogiorno partivano in elicottero e poi in aereo verso la loro vasta proprietà in Arizona, un grande ranch che si chiamava Lucky Buck, e non ritornavano a Washington fino al lunedì pomeriggio. In questo fine settimana si era verificata una crisi, anzi due, una internazionale e una interna. Nei giorni precedenti era stato scoperto che l'«amministrazione» aveva venduto armi a entrambi i contendenti di un conflitto nel Medio Oriente, mentre aveva assicurato che non ne avrebbe venduto a nessuna delle due parti. Al presidente erano state date assicurazioni che nessuno avrebbe smascherato la faccenda, perché entrambe le parti ne traevano vantaggio, così come ne traevano vantaggio un numero spaventoso di mercanti d'armi e di mediatori. La cosa, secondo i più stretti consiglieri di Buck, avrebbe potuto andare avanti all'infinito, perché la guerra fra i due stati petroliferi del Golfo si stava ormai trascinando da otto anni. Ma entrambi i paesi tenevano come ostaggi degli americani, circa cinquanta in tutto, e Buck e la sua amministrazione speravano che le forniture di armi avrebbero ammansito le due parti, rendendole maggiormente disposte a rilasciare i prigionieri americani. Poi, proprio uno del gruppo di collaboratori di Buck, Fulton J. Phipps, noto come Phippy, aveva messo la faccenda allo scoperto, apparentemente per un lapsus involontario nel corso di un'intervista televisiva. «... Poiché noi forniamo loro...» era stata la frase di Phippy. Che cosa? Che cosa forniamo loro? Phippy aveva risposto, altrettanto tranquillamente: «Armi.» Fulton J. Phipps, quarantasette anni, era stato per tutta la vita un funzionario del servizio governativo di carriera, negli anni precedenti era stato uno dei più vicini collaboratori di un paio di presidenti, si era occupato per un po' della stesura dei discorsi, conosceva tutti a Washington e piaceva a tutti.
Ma ora Phippy insisteva nella sua versione dei fatti, secondo la quale l'America aveva fornito e continuava a fornire «una grande quantità di armi» nella guerra fra questi due paesi, mentre Buck e i suoi avevano deciso di sostenere la tesi (ed era quanto avevano fatto) che solo alcuni rinnegati mercanti avevano venduto armi a entrambi gli avversari o a uno dei due, e che tali forniture non erano mai rientrate, né rientravano, nella politica del governo. La gaffe di Phippy, se di gaffe si trattava, era stata paragonata dalla stampa a quella di Butterfield, quando aveva affermato, casualmente, che le conversazioni di Nixon con i collaboratori sull'affare Watergate «venivano, naturalmente, registrate». Dopo quella osservazione, tutti avevano cominciato a reclamare a gran voce di ascoltare le registrazioni. Perciò il pubblico voleva saperne di più sulle vendite di armi, perché sembrava che «la parte sbagliata», cioè quella più antiamericana ed estremista del Golfo, ora stesse vincendo, grazie al vantaggio di un maggior numero di carri armati di fabbricazione americana di quanti ne disponesse, o ne avesse acquistati, l'altra parte. E questa parte era quella fanatica, quella che secondo l'opinione della maggior parte dei capi di stato di tutto il mondo, e sicuramente dell'Europa occidentale, non doveva vincere. In breve, nella settimana che era preceduta gli Stati Uniti avevano fatto la figura degli stupidi e dei bugiardi. Il mondo rideva, quando non biasimava o si preoccupava per il futuro. E la piccola Millie Jones (era minuscola, paragonata all'alto e corpulento Buck) nei giorni scorsi si era spremuta il cervello per cercare di proteggere il marito. Dio sapeva quanto lei era fedele! «Sbatti fuori quel Phippy!» aveva gridato, a portata di voce del personale di servizio della Casa Bianca, di parecchi giornalisti e di collaboratori dell'ufficio di Fulton J. Phipps, gente simpatica, ai quali Phippy piaceva e piaceva anche il presidente. Ora era domenica mattina, e Buck stava ancora ponendo a Millie la stessa domanda: aveva tenuto una «piccola conferenza stampa» attorno alle cinque e trenta di sabato pomeriggio, e ripetuto i suoi sentimenti antiPhipps, o no? Millie non rispondeva, forse, pensava Buck, perché non riusciva a ricordare. Ma lui non aveva rinunciato a cercare di risvegliarne la memoria. Vi erano un sacco di altre cose che poteva aver detto nella conversazione di uno o due minuti che poteva aver avuto con i giornalisti. Il fatto era che Millie, spesso, si faceva uno scotch per calmare i nervi. Vi erano persino stati degli accenni alla cosa da parte della stampa, e il detto in vino veritas spesso era vero, anche se chi parla dimentica di aver detto quello che ha detto. Di conseguenza, i giornalisti erano felicissimi di riu-
scire a trovarsi da soli con Millie, anche per mezzo minuto. E Buck, il personale della Casa Bianca e i segretari, cercavano sempre di tenere Millie alla larga dalla stampa, le cui domande brevi, a sorpresa, così spesso ottenevano delle risposte. La situazione era particolarmente penosa per Buck Jones quella domenica mattina, esattamente alle undici meno dieci, quando una limousine della Casa Bianca depositò lui, Millie e due guardie del corpo davanti ai gradini di una chiesa presbiteriana, in tempo per il servizio religioso delle undici. Quella mattina l'argomento del sermone era: «Che cosa puoi fare tu per Dio?» secondo quanto si leggeva su un avviso appeso all'esterno. «Alza la testa!» sussurrò Buck. «E sorridi!» La seconda parte della raccomandazione non era necessaria, perché il sorriso di sua moglie era stato fissato con i punti. Interventi di plastica facciale. Lui tenne saldamente il braccio di lei sotto il suo, e annuì sorridendo a un fotoreporter che scattava delle foto. «Mi fai male alla mano!» esclamò Millie. «Zitta!» sussurrò il presidente. Millie avrebbe barcollato, senza il braccio fermo di lui sotto il suo. Buck pensò che forse la stampa avrebbe commentato quel loro atteggiamento di intimità, dicendo che sembravano sposi novelli, il che non avrebbe fatto che bene. «Se vuoi sapere che cosa ho detto ieri...» mormorò Millie nel colletto della pelliccia di visione, «ho detto che la cosa non sarebbe così grave, se non ci fossero stati tanti elementi che hanno cercato di coprirla.» «Elementi?» chiese il presidente, allarmato. «Ma sì, via, persone, dannazione! Cercano di coprire la faccenda per proteggere se stessi.» «Be', non è normale?» borbottò Buck, cominciando a concentrare lo sguardo e il suo famoso sorriso su un pastore della chiesa che stringeva le mani alla gente che entrava. «Il piacere è nostro!» disse Buck, in risposta a ciò che il pastore disse e che lui non aveva afferrato. «Salve!» Che Millie si stesse burlando di lui e non avesse invece detto niente? Mentre vi pensava, il presidente non riusciva a concentrarsi sul sermone. Non aveva importanza, non doveva commentare il sermone con il predicatore. Stava pensando che le dichiarazioni non ufficiose di Millie non venivano sempre riportate subito, ma piuttosto saltavano fuori un giorno o anche una settimana dopo, quando faceva comodo alla stampa. Avevano usato un tono sprezzante, tre settimane prima, quando lei aveva tenuto un discorso un po' confuso davanti al pubblico riunito nello stadio coperto di un
college di Filadelfia. Era arrivata in ritardo di mezz'ora e aveva cominciato col leggere due volte la stessa pagina, finché una segretaria si era fatta avanti e aveva voltato il foglio. Ciò era stato attribuito a un eccessivo ardore per la causa antidroga, stando almeno a un giornale che era stato mostrato a Buck, ma Phippy, il fedele e serio Phippy, di vent'anni più giovane di Buck, gli aveva detto che forse quelle parole avevano un significato sarcastico, e aveva riferito a Buck che un altro giornale aveva affermato che Millie preferiva semplicemente l'alcool alla droga. Un cronista spiritoso aveva già sfruttato questa idea per un articolo divertente. Buck boicottò questo cronista, insieme a un disegnatore di vignette legato a numerose agenzie di stampa. «Amen!» Furono di nuovo fuori, sorridenti, stringendo qualche mano. Domani è lunedì, pensava Buck. L'indomani mattina, a quest'ora, la CSI (Commissione Speciale Investigativa) sarebbe stata riunita in seduta da più di due ore. Il loro compito era di «chiarire fino in fondo» in che modo armamenti, carri armati e aeroplani, per un valore di almeno quattrocento milioni di dollari e forse più, fossero potuti arrivare, l'anno precedente, a due paesi confinanti, ma in conflitto armato. Il presidente cercava di circoscrivere il tempo di durata delle forniture a un solo anno, ma la cosa era andata avanti per tre o quattro anni. Buck ricordava che anche Phippy lo sapeva, perché era un suo collaboratore sin dai «vecchi tempi» dell'inizio della sua amministrazione. Naturalmente, anche un'altra mezza dozzina di grossi personaggi politici ne erano al corrente, ma - e Buck li ammirava per questo - erano talmente decisi a non sapere niente di queste forniture di armi che veramente non ne sapevano niente. Non se ne erano semplicemente dimenticati: non l'avevano mai saputo; no, a loro la cosa giungeva del tutto nuova. Era quella, per Buck Jones, l'idea di come essere dei professionisti della politica, il tipo di uomini di cui il paese aveva bisogno. E poi, perdiana, consideriamo il denaro! Le armi erano fatte per essere vendute, e magari anche usate. E allora, cos'hanno tutti quanti da strillare e da guaire come delle vergini offese? «Lasciami!» si lamentò Millie, quando furono alla limousine. Lui le aveva nuovamente premuto la mano con troppa forza. Buck tornò in sé e le diede un bacio sulla guancia. Qualcuno scattò delle foto. Bene. Dopo pranzo, un paio dei più stretti collaboratori del presidente, un addetto alla stesura dei discorsi e un segretario particolare, entrarono nel
soggiorno con degli appunti. «Queste sono le date da ricordare, signore. Lei le ha già viste in precedenza, ma se c'è qualcosa che vuole chiedere, se vuole dare ancora un'occhiata...» Richard Coombes, sulla trentina, un ragazzo di provincia emergente, segretario e braccio destro di Buck, sorrise al presidente in modo rassicurante. Buck diede uno sguardo ai foglietti di piccolo formato, che potevano essere infilati facilmente in una tasca della giacca. Sul primo foglietto vi era scritto: UNO, sottolineato in rosso, e, sotto, la data del primo invio di armi di cui Buck fosse a conoscenza. Per quanto riguarda il materiale e il prezzo di questo primo invio, VOI NON SAPETE NULLA, PERCHÉ NON VI È STATO RIFERITO CON ESATTEZZA. Il foglietto DUE gli rammentava che la sua principale fonte d'informazione era stato John B. Sprague, il suo segretario di stato. Di tutti gli uomini dello staff presidenziale, Sprague era quello che maggiormente si avvicinava, per solidità, alla Rocca di Gibilterra. Sprague era uno di quegli esseri rari che sanno guardare un uomo dritto negli occhi e negare di sapere qualcosa che invece sanno benissimo. Sprague era probabilmente a prova di macchina della verità. «Benissimo,» disse Buck, dando un'occhiata al resto. «Ne è sicuro?» «Se non lo sono, la richiamerò.» Il fatto era che Buck si sentiva assonnato. Gradiva fare un pisolino, dopo pranzo. Congedò anche l'addetto alla stesura dei discorsi, ma mentre i due si stavano dirigendo alla porta, il presidente disse: «Non dovrò fare un discorso domani, vero, Pete?» Pete White, l'addetto ai discorsi, si voltò. «No, signore, ma ho scritto una mezza pagina, qualcosa come un messaggio introduttivo augurale e un riepilogo per la conclusione dell'udienza di domani mattina.» «Magari più tardi. È Phippy quello che parlerà più di tutti. Datevi da fare con lui.» «Credo che sia stato ben istruito, signore. Il signor Sprague e io abbiamo passato con lui tutta la mattina.» «Tutto a posto, allora! Bene! Splendido!» Di lì a breve il presidente dormiva, in pantofole, pigiama e vestaglia, sprofondato in un'ampia e comoda poltrona, con i piedi protesi verso il camino. Sognò i comunisti. Schiacciava un paio di pulsanti, e la potenza dell'America veniva scatenata per terra, cielo e mare. I vividi bagliori delle bombe esplose rischiaravano un paesaggio tropicale in qualche zona dell'America meridionale o forse centrale, e la gente veniva bruciata dal calo-
re, fatta a pezzi dall'esplosione. Tutti i comunisti venivano uccisi, e gli americani ne uscivano sorridenti, senza nemmeno un morto, e nessuno sorrideva con più soddisfazione di lui, Buck, mentre si rallegrava con gli eroi americani in collegamento televisivo con l'intera nazione, e appendeva loro medaglie al collo. Buck si svegliò di buon umore. Qualche volta, i suoi sogni sui comunisti erano spiacevoli: i rossi avevano visi aspri, duri, resistevano come granito, e l'America perdeva. Buck si svegliava sempre con un umore schifoso da questi sogni «perdenti». Appena ebbe premuto due volte il campanello, che era il segnale per il caffè, si verificò dell'altro. Lo attendevano tre telefonate, le prime due erano messaggi di augurio da parte di un paio di senatori repubblicani per l'inchiesta del giorno dopo; la terza era di un suo collaboratore che lo avvertiva che un coro voleva cantare per lui, e gli chiedeva se volesse dire loro qualche parola di apprezzamento per l'iniziativa. Propose questa frase: «Dio mio, sono davvero sorpreso e onorato di avere un intero coro alla mia porta la domenica pomeriggio, grazie.» «Quale coro?» lo interruppe Buck. «Volete dire il coro di una chiesa?» «Della chiesa dove lei e la signora Jones siete andati stamattina,» rispose il collaboratore, di cui Buck aveva dimenticato il nome, anche se ne riconosceva la voce. «Adesso non possiamo rifiutare. Durerà circa nove minuti, verranno e se ne andranno in autobus... Oh, saranno qui entro mezz'ora.» Il presidente si vestì di malavoglia, abito scuro, camicia bianca e cravatta. Non era il caso, questa domenica, di stare in pantaloni sportivi, maglione e camicia col collo aperto, quando tutti pensavano che stesse lavorando sodo, a mettere insieme tutti gli elementi per l'indomani. Al procuratore generale (che non era amico di Buck) c'erano volute tre settimane per formare una giuria di dodici uomini per l'udienza dell'indomani. Buck aveva fatto in modo di farne sostituire tre, ma di più non aveva potuto, e l'interrogatorio sarebbe stato duro. Buck intendeva fare un gioco di difesa, controbattendo con l'aiuto dei suoi foglietti tascabili, che non contenevano però un accidenti quanto a informazioni e fatti. «Non dimenticare, Buck, che Phippy è pronto ad assumersi la colpa, se si dovesse arrivare a questo, perciò, non preoccuparti,» gli aveva detto uno dei suoi collaboratori. Era vero, Phippy aveva detto a John Sprague, alla presenza di Buck, che si sarebbe preso la colpa, perché sapeva bene che quello che stavano facendo era illegale. Be', pensò Buck, non proprio ille-
gale, non dovrebbe considerare la cosa in questi termini. Ma quello che stavano facendo era in contrasto con la dichiarata politica territoriale, che escludeva la fornitura di qualsiasi armamento da parte degli USA ai due paesi in questione, perché era nell'interesse della pace mondiale, e del prezzo del petrolio, che il loro stupido conflitto cessasse il più presto possibile. «... un aiuto dal Cielo...» Un canto penetrò, attraverso le finestre chiuse, nella camera da letto dove il presidente aveva appena finito di vestirsi. Il coro era già arrivato. Un domestico bussò e annunciò che il presidente era atteso ora sui gradini dell'ingresso principale. «Siate forti, ed erediterete il...» Era sceso il crepuscolo. Almeno cinquanta ragazzi, fra i dieci e i quindici anni di età, si erano disposti in tre file ai piedi dell'ultimo gradino della scalinata. Cantavano un inno senza accompagnamento musicale, ma sotto la direzione di un maestro di canto che voltava la schiena al presidente. «Bene! E adesso cantate: 'Non fa per me... non io... non fa per me... non io...'» Era Millie, in piedi, che cantava, circa tre gradini più sopra del coro e a sinistra della visuale del presidente. Intonava, malamente, i versi di Io no!, l'inno contro la droga, e la sua versione stonata faceva a pugni con quella vera. «Millie, Millie!» gridò Buck, scendendo verso di lei. Millie credeva, evidentemente, di essere di fronte a un gruppo di tossicodipendenti o di drogati pentiti. «Potete riuscirci! Siete adorabili! Voi...» Buck la prese energicamente per un braccio, ma sorrideva. «Millie? Salve, gente!» In un orecchio, le sussurrò: «Millie, è un coro di chiesa. Non è...» Ma dovette fermarsi, perché non poteva farsi sfuggire una frase tipo «un raduno di drogati», quando lo sapeva solo Dio quanti microfoni potevano esserci in giro a sentire tutto. «Siate fo-orti...» intonò Buck, unendosi al secondo ritornello. Il gruppo di giovani, dopo la nota finale, alzò le braccia ridacchiando, e subito Buck Jones rispose garbatamente: «Vi ringrazio tutti. Perbacco, sono davvero sorpreso e onorato di avere addirittura un coro alla mia porta la domenica pomeriggio!» «Hiii... Huuuu...!» gridarono in risposta i ragazzini, ridendo e battendo le mani in segno di apprezzamento, anche se molti portavano i guanti per l'aria pungente.
Poi il presidente scortò Millie su per i gradini fino all'entrata della Casa Bianca, accompagnato da due guardie del corpo spuntate da dietro le colonne. Tenendo sempre il braccio destro di Millie fermamente sotto il suo, le disse, mantenendo l'espressione sorridente: «Sorridi, alza il braccio sinistro per salutare quei ragazzi!» Millie ubbidì, ma non appena furono all'interno della Casa Bianca, si voltò verso Buck e gli disse: «Tu non mi ami!» con voce lamentosa, incrinata dal pianto. «Oh, mio Dio!» esclamò Buck, dandosi una pacca sulla fronte. Si trovavano proprio nell'atrio rotondo, la cui acustica era eccellente, ma Buck sapeva che il personale e le guardie del corpo erano ormai a conoscenza di tutto. E lui veniva a sapere tutto da loro, a pensarci bene. Anche senza l'apparecchio acustico alzato al massimo, Buck aveva raccolto commenti, appena sussurrati, come «Dannazione, questo dannato posto sta andando in pezzi, giuro,» oppure «È una nave che affonda, e i topi l'abbandonano!» In effetti, di recente, alcuni si erano dimessi. «Domani sarà una giornata dura,» stava dicendo pochi minuti dopo il presidente, di nuovo nell'intimità del suo soggiorno, a Richard Coombes. Millie era andata nella propria camera da letto. «Meglio che mia moglie non sia qui. Che ne dice di combinarle una visita a quel centro di recupero per drogati nei paraggi di Houston? Come si chiama?» «Il New Start Ranch,» rispose Coombes, «ma ci siamo serviti di un centro di recupero anche l'ultima volta, signore. Ci sono moltissime altre possibilità, come... Ah, c'è una mostra di giardinaggio che si inaugura domani ad Atlanta. Serre invernali. I fiori faranno bella figura in televisione, e ad Atlanta saranno felici se diciamo loro che la signora Jones sarà presente.» Buck sorrise. «Che farei senza di lei, Dick? Proviamo, allora... Scommetto che ci andrà. Se ci sono problemi, me lo faccia sapere. Le dica che domani sarò occupato tutto il giorno: prima la sessione a porte chiuse della commissione investigativa, poi fuori per il pranzo, e che verrò scaricato qui alle cinque del pomeriggio.» Eppure, di fronte a questa terribile prospettiva, Buck cercò di ridere. «Ecco quello che avrei voluto rivedere con lei, signore. Il quadro è questo... Sì, sediamoci tutti e due. Tutta la faccenda è di così vaste proporzioni, queste vendite di armi...» «Sono i mezzi di informazione che la gonfiano!» «Volevo dire che si è diffusa su larga scala e che vi sono coinvolte parecchie persone, signore. Così tante che penso sia più sicuro dire che un
paio di questi aerei da trasporto, non importa quanti o quando, sono stati dirottati e catturati da dei pazzi fanatici. Non intendo dire che sia vero, signore, ma noi lo sosterremo. Armi e denaro sono andati perduti. Forse, qualcuno di questi invii aerei era destinato a Israele, quindi perfettamente legale. Se la faccenda è andata avanti per cinque o sei anni, noi...» «Dieci mesi.» «È quello che dice lei, signore, e ciò che crede e ciò che le è stato detto.» «In altre parole, ho ragione,» ribatté Buck, con la sua espressione più convincente, mentre fissava Dick Coombes. «Sì, signore, lei si attenga a questa versione, benissimo. Quello di cui io sto parlando, è la realtà. Perché quei tizi, domani, chiederanno a lei a proposito di materiale per un valore di due miliardi, non milioni di dollari, del fatto che la cosa sia durata parecchio, la metteranno davanti a una quantità di nomi, da Israele alla Turchia, a...» «Turchia?» «Be', la Turchia non c'entra, si tratta solo di un tale della Turchia. Tornando al punto. Questa faccenda è andata avanti un bel po' di tempo via terra, via mare e per via aerea. Il denaro, quello che ne è rimasto, è stato impiegato per combattere il comunismo nell'America centrale, questo è vero. Lei non ne era al corrente fino a pochi giorni fa, così dirà domani, perché i suoi collaboratori, quelli collegati alla faccenda, volevano tenerla come sorpresa per il suo compleanno il prossimo mese, in marzo.» «A quanto mi sembra di ricordare... anzi ricordo,» disse pensoso il presidente, «quelli che combattono per la libertà nell'America centrale asseriscono di aver ricevuto, in tutto, circa ventimila dollari.» «Come prima cosa, mentono, come sempre. Secondo, i loro stessi capi si sono intascati Dio sa quanto. Non dobbiamo cercare di metterli con le spalle al muro, signore...» «Oh, no!» convenne il presidente. «Torniamo a domani. Lei è profondamente addolorato per i diciassette ostaggi americani che sono stati decapitati, davanti alle telecamere, dieci giorni fa. Un accenno lo farei senz'altro, signore.» «Oh, sì!» disse Buck con sussiego. «Mi annoterò di prepararle un promemoria su un foglietto, per quella decapitazione. Ma, vede, le nostre vendite di armi - di cui lei era un po' informato - erano intese a guadagnare l'amicizia di entrambi i paesi. Non c'è senso a farsi amico un paese, e nemico l'altro, no?» «Siamo d'accordo, Dick. Che diavolo, guardiamo al profitto! È vero, si è
causato un prolungamento del conflitto, ma questo significa più vendite di armi, no? Quello che non riesco a capire è perché qualcuno di questa gente sia così furioso!» «Perché le vendite di armi sono proibite, senza che il congresso ne sia informato, signore.» «Al diavolo il congresso! Ne ho avuto abbastanza di loro quando ho ordinato di minare... che porto era?» «Già, ma minare un porto è un atto di guerra, signore, è esattamente come una guerra, e secondo la Costituzione solo il congresso può dichiarare guerra.» Buck Jones scosse la testa, seccato. «Troppo complicato per me. Al congresso sono in troppi. Se ne stanno lì seduti, mentre vengono presi degli ostaggi americani e una settimana viene tagliata loro la testa e la settimana prima gli ha fatto saltare le cervella, e il congresso non muove un dito. Noi, io, i miei uomini qui alla Casa Bianca, almeno ci abbiamo provato.» «Questo è proprio ciò che non può dire domani, signore. Le vendite di armi non devono essere messe in relazione con gli ostaggi, perché lei aveva assicurato che non avrebbe ceduto. 'Non si deve sottostare al ricatto dei terroristi' è quello che lei, noi si era detto.» Il presidente annuì, imprimendoselo nella mente. Buck e Millie guardarono un film prima di andare a letto, una storia di epiche avventure del vecchio West, con un eroe che era l'unico padrone di se stesso e non prendeva ordini da nessuno. Millie sorseggiava del rum e cola. Buck era di buon umore dopo il film, e non accennò a Millie del viaggio ad Atlanta, per timore che montasse su tutte le furie e dicesse che non ci sarebbe andata. A lei non piacevano queste piccole manifestazioni ufficiali, in cui doveva tagliare qualche nastro, fare un breve discorso, sorridere a giornalisti e fotografi. Preferiva stare a casa, sovrintendere alla lucidatura della sua collezione di pezzi d'argenteria (servizi da tè, zuccheriere, regali di capi di stato), controllare che le cameriere passassero la cera sui mobili, e conferire con la sua segretaria Ethel riguardo a come mantenere e migliorare l'immagine pubblica sua e di Buck. Buck faceva fatica ad addormentarsi, cosa per lui insolita. Cercava di non pensare all'indomani... tutto si era risolto sempre bene per lui, era stato sempre così, no? Ma non riusciva a distogliere il pensiero dall'udienza del giorno dopo, alle dieci del mattino. Evocava la faccia nervosa ma ottimista di Fulton J. Phipps, il buon vecchio Phippy, sempre desideroso di collaborare, di aiutare. Phippy avrebbe avuto pronte le risposte domani, nel caso il
presidente avesse avuto delle esitazioni. Nessuno aveva detto che sarebbe stato interrogato da solo in una stanza chiusa. No, avrebbe avuto intorno a sé i suoi amici fedeli. Finalmente, Buck dormì. Ma quando il ronzio, proveniente dall'apparecchio vicino alla lampada da comodino, lo svegliò, a Buck sembrava di essersi appena addormentato. Sollevò il ricevitore del telefono interno. «Parla Dick Coombes, signore. Mi ha appena telefonato la moglie di Fulton Phipps e... è parecchio agitata. Phippy è morto, signore.» «Cosa? Che significa morto?» «Una overdose, signore. Secondo la moglie. Ha notato... be', è così fuori di sé che non ha ancora telefonato a un medico o a un ospedale, solo a me, perché sa che posso mettermi in contatto con lei in qualsiasi momento.» Buck vide sul quadrante luminoso dell'orologio che erano le cinque e venti. Suicidio. Non ci voleva. Il cervello di Buck cominciò a lavorare d'intuito, che era poi il modo in cui funzionava meglio. «Ascolti,» disse, interrompendo il farfugliare di Dick, «Phippy ha una piscina, no?» Phippy aveva una bella proprietà fuori Washington, Buck c'era stato qualche volta. «Sistemi le cose in modo che sembri che Phippy vi sia affogato incidentalmente. Ha afferrato, Dick?» «Ma... è febbraio, signore, e nessuno fa il bagno in piscina!» «Faccia come le ho detto! Non possiamo avere un suicidio in questa storia!» gridò Buck, come se fosse il protagonista del film che aveva visto poche ore prima. Riappese. «Tesoro...» La voce di Buck aveva svegliato Millie, malgrado il sonnifero. Buck stava infilandosi la vestaglia. «Problemi al ranch. Ho delle cose da sistemare. Torna a dormire, Millie.» «...Che ora è?» Buck non si diede la pena di risponderle. Stava pensando. Caffè, caffè a barili, si ricordò. Era una battuta sentita in un bel film che aveva visto, quando in un accampamento militare americano si era dovuti passare immediatamente all'azione a causa di un attacco nemico. Poi, l'autentica efficienza americana e il duro contrattacco dei marines avevano avuto il sopravvento. Così sarebbe stato anche ora. Con in mano la sua prima tazza di caffè, nel soggiorno dove il fuoco del camino ardeva ancora, Buck parlò al telefono con il segretario di stato John B. Sprague. «Mi dispiace svegliarla a quest'ora, John, ma è accaduto qualcosa.»
«Non un altro rapimento...» «Peggio. Phippy si è ucciso... Sì, me l'ha appena detto Dick Coombes, che l'ha saputo dalla moglie di Phippy. Ora senta... non possiamo affrontare una cosa del genere. Dobbiamo fare in modo di rimandare l'udienza di questa mattina, trovando qualche motivo perché io, di sicuro, non andrò certo davanti a quella gente senza Phippy. Mi capisce?» Sprague capiva. Sprague era un tipo tozzo, lento e pesante, prolisso quando parlava, ma del genere che sapeva sempre tenersi fuori dai guai e, di conseguenza, tenerne fuori anche gli altri. «Suicidio,» mormorò, come se ponderasse il fatto. «Che diventerà un incidente. Adesso lei, John, telefoni al procuratore generale. Dovremo fare una dichiarazione ufficiale...» «Procuratore generale? Non vuol dire per caso il coroner, il patologo legale, signore?» «Sì, ha ragione, mi scusi. Intendo quel tipo che certifica... quello che è accaduto. Sarà un annegamento... Be', non mi chieda di spiegarglielo ora, perché devo andare dalla moglie di Phipps, e subito anche. Mi chiami proprio il responsabile del servizio di patologia legale di Washington, chiunque sia, e gli chieda di recarsi alla casa di Fulton Phipps, a Fairfax, adesso. Gli dica che è un'emergenza, e che sono ordini del presidente.» Poi Buck entrò in punta di piedi nella camera da letto, dove Millie si era riaddormentata, prese un'agenda di indirizzi e tornò in soggiorno. Compose il numero privato di Phippy. Ora, erano le sei meno cinque. «Pronto?» disse una voce femminile, tremante e incrinata dal pianto. «Parla Buck, Laura,» disse Buck con voce profonda, poiché aveva appena letto sull'agenda che la moglie di Phippy si chiamava Laura. «Non ha ancora chiamato nessun ospedale?» La donna singhiozzò, uno scoppio di dolore represso. «Io... Phippy è morto!» «Lei è sola,» continuò Buck con la stessa calma. «D'accordo, saremo lì da lei, cara. Non si affatichi. Si faccia un po' di tè. Saremo lì entro... facciamo quindici minuti. La piscina è piena d'acqua?» «La piscina?... sì, è piena, ma con la copertura invernale. Per non farci cadere sopra le foglie, capisce? Perché mi chiede della piscina?» «Ci vediamo fra poco, Laura cara.» La telefonata successiva fu per Coombes, che in effetti era rimasto su un'altra linea in attesa di ottenere la comunicazione con il presidente. Mentre questi parlava con Coombes, un cameriere bussò ed entrò, chie-
dendo se desiderava la colazione. «Succo d'arancia e croissant, Tim, grazie... E dell'altro caffè.» Buck riprese a parlare con Coombes: «Ho sentito dalla moglie che la piscina è piena, ma con la copertura invernale. Quindi la toglieremo.» «Certo, va bene, capisco signore. Ma mi è venuto in mente che non entrerà acqua nei polmoni, non nello stesso modo... forse non ne entrerà affatto... quando una persona è morta.» Queste parole fecero suonare un campanello d'allarme nella testa di Buck. L'aveva sentito da qualche parte e questo intoppo lo irritava come lo irritavano un sacco di intoppi, ultimamente. Si alzò in piedi, serrando il telefono fra le mani. «Va bene, dannazione, gliela pomperemo nei polmoni, se sarà necessario! Attraverso un tubo! Per che cosa paghiamo il capo del servizio patologia legale? Oggi ha un lavoro da fare, e farà meglio a eseguirlo! Mi ha capito, Dick? Può venirmi a prendere fra dieci minuti? Ingresso dell'ala occidentale.» Al presidente era venuto in mente qualcosa su cui poteva fare validamente leva. La signora Phipps non avrebbe voluto che si sapesse che suo marito era un suicida. Vi era qualcosa di vergognoso in un suicidio, qualcosa che implicava l'incapacità di un uomo di affrontare quello che tutti si aspettavano che affrontasse. Mentre, se il marito era affogato nella piscina per aver voluto fare un tuffo la mattina presto, prima di un'udienza importante, la cosa suggeriva che l'uomo fosse stato nella miglior forma, che teneva in esercizio il corpo e la mente prima di dedicarsi ai compiti prefissati. Un mattino gelido, certo, ma Phippy era sempre stato un temerario; questa volta, però, doveva averlo colto un crampo, ed era stata la fine. Millie si svegliò, mentre Buck si stava annodando la cravatta blu e gialla e la raddrizzava sotto il colletto di una camicia bianca pulita. «Perché così presto, Buck? Che succede?» chiese con voce sonnacchiosa. «Phippy...» Buck si voltò verso di lei. Era preparato alla cosa. «Phippy, questa mattina, stava nuotando in piscina ed è affogato. Stanno cercando di rianimarlo, ma non credo che ci riusciranno. Vado là a vedere...» «Nuotava? Con questo freddo?» «Forse hanno una piscina riscaldata, non so.» Millie sollevò un po' la testa. «Hai detto che è morto?» «Sì, tesoro! Te lo giuro! È quanto ho saputo dalla moglie stamattina. Era quella la telefonata che mi ha svegliato.» «Be', chi... Quel mascalzone! Uccidersi proprio adesso! Piantandoti in asso!»
Qualche volta, le intuizioni di Millie avevano un che di prodigioso. «Non strillarlo perché lo sentano tutti, qua dentro! Farò quello che posso, rimanderò gli impegni di oggi, se ci riesco.» Dick Coombes prelevò Buck Jones qualche minuto più tardi, e il presidente aveva rifiutato di essere accompagnato o seguito dalla solita coppia o quartetto di guardie del corpo. Lasciarono Washington nel traffico rado del primo mattino e raggiunsero l'elegante area residenziale di Fairfax, con le sue belle palazzine a due piani quasi nascoste da grandi querce e da alberi di noce sui prati ben tenuti. Sfortunatamente, una vicina aveva raggiunto Laura. Le due donne erano in cucina quando Buck e Dick arrivarono. «Laura,» disse Buck in tono tenero, riconoscendola e cingendola dolcemente con un braccio, quando lei si alzò. «Mi dispiace davvero.» «Lui non poteva affrontare tutto questo,» mormorò Laura, guardando il presidente con gli occhi arrossati. «Sapeva che si voleva che mentisse, per quanto era possibile, per proteggere lei. E lui odiava farlo!» «Che significa, mentire?» chiese il presidente. «Questa stupida storia di vendere armi a due paesi. Crede che sia il delitto del secolo? È Phippy ora che importa, che...» «Ho la nausea di tutto questo!» esclamò Laura. «Signor presidente, Phippy ha lasciato un biglietto per spiegare il suicidio. Lo vuole vedere?» chiese la vicina in tono garbato. «Non mostrarglielo, non lo permetto!» gridò Laura. «Cerchi di stare calma, signora, per favore,» intervenne Dick Coombes in tono pacato. In quel momento, udirono tutti qualcuno battere alla porta principale. Era arrivato il patologo legale, accompagnato da un uomo che reggeva una borsa da medico. Il presidente strinse la mano al patologo. Questi si presentò come George Davies e presentò l'altro, il dottor Munzie; tutt'intorno vennero sussurrate delle presentazioni, poi entrarono, uno dietro l'altro, nella camera da letto dove Fulton J. Phipps giaceva sulla schiena, con la coperta tirata fino al mento. Buck Jones cominciò subito il suo discorso. «Signore e signori, e specialmente lei, Laura. Tutti sappiamo che il suicidio è una cosa terribile, una cosa vergognosa, agli occhi della maggior parte del mondo e soprattutto agli occhi della gente del nostro grande paese. Perciò, sia io che i miei più intimi collaboratori riteniamo opportuno che la morte di Phippy venga at-
tribuita ad annegamento nella sua stessa piscina, dopo aver fatto un buffo... no un tuffo,» si corresse il presidente, aggrottando le ciglia a sottolineare la gravità del suo pensiero. La vicina lo interruppe, dicendo: «Ma via! La piscina ha ancora la copertura invernale, e l'acqua è gelata!» «Questi sono i miei ordini,» disse il presidente, guardando Davies, il patologo. «Desidero ricordarvi che io sono il capo dell'esecutivo.» «Toglieremo la copertura alla piscina, signora,» disse Dick Coombes alla signora Phipps, con una voce così ferma che anche un ipnotizzatore avrebbe invidiato o comunque apprezzato. Le cose cominciarono a muoversi. Il medico e Dick Coombes uscirono dalla porta posteriore e cominciarono a darsi da fare con la copertura della piscina. Per prima cosa dovevano esser rimosse le foglie da una pozzanghera al centro del telone, poi andavano slegate le corde dai paletti che tenevano bloccato il telone con degli anelli tutt'intorno ai bordi. Sotto, l'acqua sembrava abbastanza pulita e limpida. Piegarono la copertura di tela e la portarono fuori dalla vista, in un ripostiglio per gli attrezzi vicino alla casa. In casa, intanto, il presidente aveva esposto a Davies i suoi desideri: doveva certificare che Phippy era morto per annegamento. Laura Phipps sembrava aver assunto un atteggiamento d'indifferenza dato che, comunque, suo marito era morto. Ma la sua ostilità nei confronti del presidente era palese. «Non potrebbe introdurre dell'acqua nei polmoni?» chiese Buck Jones con voce sommessa, dando un'occhiata al pallido profilo di Phippy, a un paio di metri da lui. «Perché preoccuparsi, signore?» ribatté Davies, che non sembrava affatto contento. «Se noi affermiamo, se io affermo che è morto per annegamento, e se la signora Phipps è d'accordo...» «Dannazione a tutti voi!» esclamò la signora Phipps. «Ne sarà ricompensata, Laura,» cominciò il presidente. «Non avrà da preoccuparsi... per il resto della vita.» La donna, emettendo un suono che stava fra il grido e il lamento, abbandonò la stanza, dirigendosi in cucina. «... nessuno metterà in dubbio le nostre affermazioni ed eseguirà l'autopsia,» continuò il patologo. Gli era stato appena promesso un lauto onorario per gli attuali servigi. E così, ai mezzi d'informazione fu annunciato alle nove di quella mattina
che Fulton J. Phipps era affogato nella sua piscina, a Fairfax, appena un paio d'ore prima di testimoniare davanti alla commissione speciale investigativa sulle vendite di armi a due paesi in guerra fra loro nella zona del Golfo, e sull'eventuale appropriazione indebita di grosse somme di denaro da parte di sconosciuti. Laura Phipps aveva dovuto essere ricoverata in ospedale e sottoposta a sedativi, cosa che, secondo Buck e i suoi collaboratori, l'opinione pubblica avrebbe trovato normale. Prima delle nove, Buck aveva detto a qualcuno di informare il capo della commissione investigativa che l'udienza in programma per quella mattina doveva essere cancellata a causa dell'improvvisa morte di Fulton J. Phipps, un teste chiave, dovuta ad annegamento nelle prime ore del mattino. «Phippy era ansioso di presentarsi davanti alla commissione,» fu una frase attribuita alla signora Phipps, il cui tono energico lasciava desumere che Phippy, quella mattina, si sentiva così al settimo cielo, che aveva deciso di farsi una nuotata. A mezzogiorno, tuttavia, questa situazione confusa, ma ancora comprensibile, aveva subito un brusco cambiamento, ovvero aveva assunto dei contorni molto netti. Qualcuno, forse la vicina di Laura Phipps, o forse un burlone, anche se gli scherzi, nell'amministrazione Jones, non riuscivano a superare la realtà, disse che Fulton J. Phipps, noto come Phippy, aveva preso una overdose a casa sua, che sua moglie, il lunedì mattina presto, l'aveva trovato morto a letto, e che aveva lasciato un biglietto per spiegare il suicidio che però la moglie non aveva fatto vedere a nessuno. E peggio ancora, continuava lo scherzo o pettegolezzo che fosse, era «l'amministrazione» che si era intromessa subito per far attribuire il decesso ad annegamento in una piscina all'aperto, quando la temperatura non superava i tre gradi sopra lo zero. Questa storia ispirò macabre e graffianti vignette a sfondo politico. Ma una cosa era certa nella mente di tutti: Fulton J. Phipps aveva dovuto scegliere fra mentire o dire la verità, ed evidentemente non aveva saputo affrontare nessuna delle due eventualità. La televisione, la radio, e le trasmissioni via satellite diffusero questa storia drammatica in tutto il mondo a mezzogiorno e all'una, ora di Washington. Un altro tentativo di insabbiamento? Poteva essere accaduto che l'amministrazione si fosse in qualche modo sbarazzata di Phippy? A dire il vero, non c'era più molto che si potesse insabbiare. Buck Jones e i suoi collaboratori, perfino John B. Sprague, il vigoroso bufalo d'acqua, tutti avevano mentito, alcuni più di altri, e sapevano più di quanto ammettessero di sapere. Quel giorno, alla radio e alla televisione vi furono accenni al fatto che Buck Jones fosse sul punto di dimettersi o dovesse farlo, che era finito,
che nessuno, né in patria, né all'estero, credeva più a quanto diceva. Millie Jones era fortemente sconvolta, anche se assunse l'atteggiamento di chi manteneva il fortino, laddove il fortino era la Casa Bianca, e il capo suo marito. Quella mattina era stata messa al corrente della situazione, e aveva chiesto alla sua segretaria Ethel di annullare l'appuntamento di Atlanta, con le sue scuse. Alle dieci, accendendo il televisore mentre si vestiva e si truccava (con maggior cura del solito), Millie sentì una battuta alla conclusione di un programma: l'annunciatore aveva detto che, se anche l'amministrazione non aveva una politica estera che potesse essere riconosciuta come tale, aveva invece una politica interna chiara come il sole, perché gli uomini con cariche importanti appartenenti alla cerchia di Buck Jones erano fermamente decisi a restare attaccati ai loro posti e alle loro remunerazioni, qualunque cosa fosse. Lo sdegno di Millie per questa battuta non fu mitigato dalle dimissioni di due funzionari della Casa Bianca prima di mezzogiorno, uno del dipartimento per l'economia, l'altro del dipartimento pubbliche relazioni di Buck, dimissioni motivate da offerte di lavoro più stimolanti altrove. Ethel informò Millie che Laura Phipps aveva deciso di tornare a casa dall'ospedale (dove non era stata tenuta sotto sedativi, ma solo sotto osservazione) e che forse sarebbe stato diplomatico da parte di Millie andare a farle visita. La first lady approvò con entusiasmo, e passò quasi un'ora al telefono, con l'aiuto di Ethel, a tentare di convincere Laura di permetterle di andarla a trovare nella casa di Fairfax. Ma Laura fu irremovibile, voleva restare «a casa con qualche amica, grazie». Alle dodici e mezzo, Millie cercò di raggiungere Buck con il telefono interno per pranzare con lui, ma una voce maschile, che Millie non riconobbe, le disse che il presidente stava andando a pranzo da solo con il suo nuovo portavoce, Vince Donegan. «Nuovo portavoce? E che ne è di Chet?» Già, dov'era ieri e oggi a mezzogiorno Chet, quando si era sparsa la notizia di Phippy?» «Chet Swanson dice di essere sovraffaticato, signora, e non è nella condizione di svolgere un buon lavoro. Così ha detto.» Millie non si diede la pena di chiedere con chi stesse parlando. Avrebbe voluto pranzare con Buck, mentre istruiva il nuovo incaricato su un lavoro importante, ma sapeva anche che, quando suo marito era teso e nervoso come lo era adesso, la cosa migliore era che stesse senza di lei. Prese un corroborante bicchiere di scotch con ghiaccio, prima di un pranzo a base di roastbeef freddo e formaggio fresco. Aveva invitato Ethel a unirsi a lei. Accesero la radio e anche due televisori nella stanza dove
pranzavano, e Millie si irritò per una dichiarazione del premier russo: «La parola ora spetta al governo del signor Buck Jones,» disse il capo del governo sovietico, annunciando di aver sospeso tutti gli esperimenti nucleari fino a nuovo ordine, e ripeté la sua offerta di ridurre subito del dieci per cento il numero di testate nucleari attualmente negli arsenali sovietici, se gli Stati Uniti erano disposti a fare altrettanto. «Sta mentendo, non credo a una parola,» disse Millie quasi a se stessa, mentre fissava il televisore. «Vi è stata un'esplosione di insolita potenza provocata da una o più bombe sganciate su un porto nel Golfo. La notizia ci è arrivata proprio in questo momento,» proseguì l'annunciatore con voce vibrante. «Secondo testimoni oculari, l'esplosione ha provocato un bagliore accecante, e l'aria è ancora rovente mentre tutto brucia. Circolano voci, finora non confermate, che possa essersi trattato di una bomba atomica. Risultano anche circolare voci che indicherebbero che forse la Russia, a causa della sua animosità verso...» «Al diavolo!» esclamò Millie. Aveva terminato il suo pranzo, poiché aveva appena toccato il cibo, e ormai aveva preso la sua decisione. Congedò Ethel ancora prima del dessert e del caffè e si ritirò nei suoi alloggi privati per ritemprarsi con un rilassante goccio di whisky nella stanza da bagno chiusa a chiave. Checché ne dicesse la gente, l'alcool calmava i nervi e contemporaneamente tirava su. La cosa importante, naturalmente, era non esagerare. Quante persone conosceva anche lei che non riuscivano a combinare niente se non si facevano quasi una bottiglia al giorno. Bene! Eppure, dove sarebbe il mondo senza di loro? Buck, praticamente, non beveva niente, e adesso guardate il risultato! Errori e decisioni sbagliate a destra e a manca, su tutti i fronti! Buck non era così, una volta, pensò Millie. Ultimamente, aveva troppa fiducia nella gente, prendeva per scontato che tutti lo amassero, che tutti amassero lui. Be', forse era vero, ma pensavano prima a loro stessi, e poi a Buck Jones. Millie posò con fermezza il bicchiere vuoto, controllò nello specchio la pettinatura corta e vaporosa e uscì. Andò direttamente nell'ufficio del presidente, che sapeva essere vuoto, perché Buck era ancora fuori a pranzo. Aprì la porta di una stanza che dava accesso all'ufficio, una camera più piccola, con una scrivania e un paio di sedie, e restò a guardare una piccola tastiera appoggiata sopra la scrivania. Aveva quindici o venti pulsanti. Millie premette quello più in alto a destra per mettere in funzione il quadro. La parola chiave, per quello che aveva in
mente, era «Replay», anche se questo programma non era mai stato trasmesso in diretta. Premette quindi il tasto «Replay» che era collocato in alto a sinistra fra altri pulsanti contrassegnati con i nomi «Litex», «Tryon» e simili. Doveva premere poi i tasti tre, due e uno e li premette. Su un pulsante apparve una luce verde. Millie era soddifatta di sé, per essersi ricordata tutto così bene e perché ora stava facendo qualcosa di importante per il marito e per il paese. L'ultimo pulsante che schiacciò fu «Sani», che poteva benissimo significare «Fuoco!» «Sani» era Francoforte, e significava l'ordine di lanciare una prima testata nucleare contro una base militare e un deposito di munizioni in territorio sovietico. Era considerato un «avvertimento» in confronto a quanto gli USA erano in grado di fare, come Millie ricordava di aver sentito dire a Buck dal segretario della difesa, Somebody. Non era stata presente, quando qualcuno aveva mostrato a Buck le varie funzioni della tastiera, ma lui, più tardi, l'aveva portata nel suo ufficio e con grande orgoglio, ma tenendo spenta la corrente, le aveva mostrato come funzionava. Alcuni minuti più tardi, o forse addirittura subito, non ricordava, lei si era scritta la sequenza dei tasti, considerandola una misura di sicurezza nel caso che a qualche stupido borioso saltasse in testa, chissà mai, di premerli, o persino a Buck, in un momento di ira o di eccessiva fiducia: almeno avrebbe saputo cosa si stava facendo, se lo avesse visto. Ma ora i tempi erano maturi, perfetti anzi, lo sentiva. La Russia si sarebbe fatta piccina per la paura. Il mondo avrebbe visto che gli Stati Uniti non erano paralizzati da stupidi problemi interni e che non avrebbero accettato supinamente che la Russia lanciasse un missile nucleare dritto su un porto del Golfo, così vitale agli USA e all'Europa occidentale per il petrolio. La base centrale di Francoforte per l'immediato intervento nucleare delle forze armate americane lanciò il suo missile dodici minuti dopo che Millie aveva premuto il pulsante, nonostante le vane argomentazioni di un colonnello secondo il quale si sarebbe dovuto chiedere conferma via radio. Il generale comandante volle lanciare. La base militare russa e il deposito di munizioni furono fatti esplodere, uccidendo all'istante duecento soldati e alcuni civili, gettando nel panico le città adiacenti; la gente fuggì, proteggendosi gli occhi dallo spaventoso bagliore nel cielo, di cui fino a quel momento aveva visto solo delle foto. Interi villaggi presero fuoco, sebbene questa base militare fosse considerata come situata in «un'area scarsamente popolata». Mosca non fu lenta a reagire. Un grosso aereo militare, con attaccato alla fusoliera un velivolo
radiocomandato, venne fatto decollare alla volta della costa orientale americana. Al momento giusto, l'aereo-madre avrebbe sganciato il velivolo che era stato programmato per puntare su Filadelfia. Un generale americano dell'alto comando e anche un ammiraglio tentavano di mettersi in contatto con il presidente: questo rapporto di un lancio nucleare da Francoforte era un incidente? O era stata dichiarata la guerra? Il presidente, dopo un lungo e informale colloquio con il suo nuovo portavoce, Vince Donegan, aveva deciso di portare Vince a conoscere Laura Phipps, il che avrebbe offerto a Vince l'occasione di dare una prova di diplomazia e di tatto. «Continui a parlare, la guardi negli occhi,» disse Buck, mentre l'auto, guidata da un autista, guadagnava silenziosamente la salita davanti alla casa di Phipps a Fairfax. Il presidente recava dei fiori. In quel momento il radiotelefono della limousine presidenziale suonò, e la luce rossa del segnale di URGENZA si accese. Buck sollevò il ricevitore e disse: «Sì?» «Francoforte ha appena lanciato una testata nucleare sul suolo russo, signore... Sì, signore, le nostre forze armate, signore... dietro ordine.» Buck stava cercando di rendersi conto dell'accaduto, guardando la faccia sconvolta e interdetta di Vince Donegan che aveva potuto sentire, quando una donna accostò il viso al finestrino semiaperto dalla parte del presidente. «Farebbe meglio ad andarsene, signor Jones.» Era la vicina amica di Laura Phipps, la donna con cui Buck Jones l'aveva vista proprio quella mattina di buon'ora; ora aveva un'aria risoluta. «Laura ha sentito il notiziario riguardo a Phippy, che diceva si sia trattato di un incidente in piscina. È nauseata e vuole dire la verità! Perciò, si tolga dai piedi, signor presidente!» Gli occhi le lampeggiavano. Buck aveva la sensazione di avere vicino una tigre selvaggia, pronta ad assalire. «Joey! Muoviamoci! Torniamo alla... torniamo indietro, per favore,» disse Buck all'autista. Quando Buck e Vince arrivarono al viale d'accesso, uno spiegamento di marines si stava schierando tutto intorno alla Casa Bianca. La guardia del corpo che aprì lo sportello dell'auto disse: «Notizie importanti, signore, deve andare immediatamente nel suo ufficio!» Le notizie erano che Mosca aveva fatto decollare un aereo, con un velivolo radiocomandato che trasportava una testata nucleare, e che i russi si erano dichiarati disposti a richiamarlo se Washington avesse confermato che il missile nucleare lanciato da Francoforte era stato un incidente.
«Missile nucleare da Francoforte?» chiese il presidente. «Ma chi ha ordinato questo lancio?... Dick! Ragazzo mio, sono felice di vederla.» Il presidente sorrise. Dick Coombes era arrivato di corsa in quel momento, in maniche di camicia e con la cravatta allentata. «V...v...venga nel mio ufficio, signore!» Buck aveva avuto la sensazione che l'atmosfera, nell'ampio atrio dove aveva appena sostato, fosse tesa per la paura, e perfino ostile. Quattro o cinque persone che conosceva bene erano rimaste lì, senza dire niente. «Un missile russo sta arrivando?» chiese Buck, quando Dick ebbe chiuso la porta dell'ufficio. «Millie ha azionato il sistema 'Replay'. Oggi intorno all'una o subito dopo, signore. Ha raggiunto Francoforte e Francoforte ha ubbidito agli ordini. Ora, quello che...» «Cristo Santo! Millie è uscita di senno?» Il presidente si girò verso la porta. «Dove diavolo è?» «Signore! Non adesso... Il tempo stringe! La nostra migliore possibilità e ho avuto il tempo di controllare con un paio di generali - è quella di dire che si è trattato di un errore tecnico, un errore umano, accidenti, ma un errore. E che per favore richiamino il loro aereo-missile. È questo, quello che dovremmo dire ai russi.» «Io non dico 'per favore' ai russi,» rispose Buck, buttando in fuori la mascella. «I russi,» disse Dick Coombes con un sospiro di sgomento, «hanno detto che il missile è diretto sulla zona di Filadelfia. Interesserà anche New York, e forse anche noi qui.» «Lo intercetteremo. A che servono i nostri intercettatori? Mettiamoli alla prova contro qualcosa di reale. Il satellite ha rilevato quell'aereo? Lo stanno individuando?» «Via satellite, sì, signore, ma ora sta volando ad altissima quota, e colpirlo... Sarebbe come continuare la guerra, non so se mi spiego. Ci rifletta un attimo, signore. Meglio dire che il lancio di Francoforte è stato...» Uno strano suono lamentoso interruppe Dick Coombes, un lamento profondo, lugubre, penetrante. Lui non sapeva che cosa fosse, ma il presidente sì. «È il segnale di allarme della Casa Bianca, l'allarme atomico,» spiegò Jones. «Forse è scattato un po' in anticipo. In questo momento, l'aereo russo ha appena oltrepassato la Francia.» Dick Coombes deglutì. «Probabilmente seguiranno la rotta polare, si-
gnore, arrivando da nordest. Il servizio manutenzione ha annunciato che avrebbero provato l'allarme.» Delle porte si aprivano, dei campanelli suonavano, i campanelli sulla scrivania di Dick. I generali chiedevano per telefono chi fosse responsabile. Nessuno fu in grado di saperlo per i successivi quarantacinque minuti, e persino dopo. La notizia che la bomba atomica russa era già in volo aveva raggiunto i mezzi di informazione a livello nazionale, e in particolare la costa orientale versava in uno stato di confusione e di panico. Buck Jones chiese un minuto di trasmissione alla radio e alla televisione, ma il suo segretario gli riferì che nessuna squadra di operatori radiofonici o televisivi era in grado di arrivare alla Casa Bianca, in quanto la polizia stradale aveva dichiarato lo stato di emergenza, soprattutto a protezione della Casa Bianca. «D'accordo, date loro un messaggio da parte mia,» disse Buck. «Noi distruggeremo questa bomba in arrivo, la faremo sparire del tutto dal cielo, capito?» A Buck fu detto che Millie era nel suo studio privato, perciò si diresse all'appartamento della moglie, che consisteva in un'anticamera, uno studio e una camera da letto. Millie era con la segretaria Ethel, a cui stava dettando qualcosa, quando Buck bussò e fu fatto entrare. «Sì, ho inviato il messaggio 'Replay' a Francoforte,» disse Millie. «È ora che questa amministrazione ritorni alla dignità e autorità... è questo il modo di farlo!» Buck vide subito che sua moglie era alticcia e su di giri, ma anche lui era in un tale stato di tensione nervosa, che un po' dell'esaltazione di lei gli si comunicò, facendolo sentire leggermente meglio. «Be', Francoforte ha ubbidito, eccome,» disse Buck «ma, ascolta, tesoro, potremmo... potremmo ancora dire ai russi che Francoforte è stato un errore tecnico. E loro richiamerebbero la loro bomba atomica. Ne sta arrivando una. Lo sapevi? Una bomba atomica che punta su Filadelfia!» «Sì, qualcuno me l'ha detto. C'era da aspettarselo. Quando sarà abbastanza vicina, tu manda su un detonatore a farla esplodere. Nel frattempo, bisogna che noi ne facciamo partire ancora una o due. Questo, l'ho lasciato a te da fare, Buck.» Il sorriso contratto di Millie si allargò leggermente. Sedeva eretta sul divano, come una cavallerizza in sella. «Va' di là e fallo!» Buck sapeva che alludeva alla sala controllo accanto al suo ufficio. An-
nuì, salutò con un gesto appena percettibile la silenziosa Ethel, e girò sui tacchi. «Pronti a fare fuoco!» disse sopra la spalla. Fatene lanciare uno da Monaco, Buck Jones stava dicendo, due minuti più tardi, a un telefono privato della stanzetta accanto al suo ufficio. A questo telefono, la voce gli suonava strana alle sue stesse orecchie. Oh, gente, immaginatelo da voi, disse Buck allegramente, in risposta alla domanda Quali bersagli dobbiamo colpire? da parte di un generale al quale stava parlando. Erano ormai le quindici passate. I dati forniti dal satellite indicavano che la bomba russa avrebbe colpito Filadelfia intorno alle diciannove. «A meno che lei non revochi gli ordini, signore,» disse Dick Coombes. «I russi non hanno ancora sganciato quel velivolo.» Proprio in quel momento, John B. Sprague stava in piedi in un angolo dell'ufficio presidenziale in silenzio, a capo chino, anche se il suo sguardo era fissato su Buck Jones. «Vorrebbe dire tirarsi indietro, non crede?» chiese Buck, sogghignando. «Noi non ci tireremo indietro. Disponiamo di un arsenale di armi atomiche.» «Anche i russi,» rispose Sprague. «Avanti, Buck, vuole riflettere per un minuto? Per mezzo minuto?» La figura massiccia di Sprague in un abito di tweed avanzò di qualche passo, agitando un dito. «Abbiamo al massimo due o tre ore, Buck, ma io non ne sarei tanto sicuro... per mettere fine a questo gioco. Naturalmente, anche noi richiameremo le nostre bombe.» «Che cos'è? Ha paura delle armi, John? È spaventato? Pensa che non riusciremo a tenere testa ai russi?» Vi fu ancora qualche scambio di battute fra Buck e gli altri due, ma alla fine Dick Coombes e John B. Sprague rinunciarono a convincere il presidente. Vi erano momenti in cui Buck Jones, semplicemente, non ascoltava più. «Un'amica della moglie di Phippy, oggi, mi ha detto di togliermi dai piedi,» aggiunse Buck per buona misura. «Io non me ne andrò fuori dai piedi.» Così le bombe si levarono in volo, e Washington e gli USA si prepararono a cercare un riparo, se ve ne era uno. E così fece la Russia. Nel frattempo l'Europa, territorio di sorvolo, supplicò le due superpotenze di annullare tutto e sperò che qualche bomba non mancasse il bersaglio andando a colpire il suo territorio l'Inghilterra, la Francia o altri. Ma perfino alle quattro e alle cinque, ora media della costa orientale, vi
erano dubbi e domande, a New York e altrove. Le bombe c'erano davvero, oppure sia gli USA che l'URSS stavano mettendo in atto delle minacce, per vedere che cosa avrebbe fatto o detto l'altra parte? Il presidente non aveva ancora fatto dichiarazioni circa un'avvenuta esplosione di una bomba atomica, e neppure il segretario di stato Sprague. Le storie delle bombe in volo erano solo indiscrezioni dei giornalisti che stazionavano attorno ai gradini d'ingresso della Casa Bianca, facendo domande a tutti e a chiunque. Alle cinque e trenta del pomeriggio, un nervoso Pete White, il redattore dei discorsi, raggiunse il presidente nel suo studio e gli presentò una dichiarazione battuta a macchina di centosessanta parole. «È un annuncio della bomba o delle bombe russe imminenti, signore. Il pubblico non sa ancora a cosa credere, capisce?» Il presidente era con Dick Coombes e un uomo imponente in uniforme da generale, e guardava una grossa carta geografica aperta davanti a loro sul tavolo. Era stata tirata fuori la bottiglia di whisky, e il generale aveva in mano un bicchiere. «Me ne rendo conto,» disse Buck prendendo il foglio dalle mani di Pete White, «ma averlo detto prima avrebbe provocato solo del panico. Ora è il momento, sono d'accordo; al notiziario televisivo delle sei, in diretta. Questo dovrebbe dare alla gente circa un'ora per...» «Ma, mi scusi signor presidente, il panico c'è già! Le autostrade sono tutte intasate!... Disporrò immediatamente per gli operatori radiotelevisivi.» Pete White si inumidì le labbra. Aveva la voce rauca. «Dovrebbero dirigersi ai rifugi antiaerei,» disse Buck. «Ve ne sono milioni in tutto il paese!» A quelle parole Pete White trasalì e scambiò un'occhiata con Dick Coombes. «Potrebbero non esserci rifugi a sufficienza, signore,» disse Dick. Il generale sembrava annoiato della conversazione, come se volesse tornare alla mappa che giaceva davanti a lui. Mentre il presidente stava aprendo bocca per rispondere a Dick, l'allarme atomico, con il suo sinistro lamento, si mise a suonare. «Ora ci siamo davvero!» esclamò Pete White, alzando la voce per farsi sentire. «La bomba forse è vicina!» «Voglio fare quell'annuncio! È un annuncio storico,» disse Buck, con il tono profondamente autoritario che sapeva assumere istantaneamente, se si rendeva necessario. «Faccia venire qui quei tizi dei mezzi d'informazione,
Pete. Anche lei, Dick!... Mi dispiace, generale...» «Wyman.» «... Wyman. Mi dispiace, ma prima le cose da fare subito. Farò l'annuncio, poi torneremo a parlare di dove dobbiamo bombardare i russi.» Il presidente Buck Jones insistette per parlare dai gradini della Casa Bianca, il che rese le cose difficili alla squadra di operatori televisivi (ne era riuscita ad arrivare solo una) per la sistemazione delle luci. Una dozzina di microfoni furono spinti verso il presidente, mentre intonava: «Oggi, in questo storico giorno di febbraio, le circostanze hanno costretto gli Stati Uniti d'America a reagire contro quello che giudichiamo un attacco nucleare da parte della Russia contro gli interessi americani nella zona del Golfo, a migliaia di miglia da qui. È stato con il più profondo rammarico che abbiamo impartito l'ordine che un'analoga arma nucleare venisse lanciata dalla nostra base di immediato intervento nucleare presso Francoforte, in Germania. Ora, come era prevedibile e come abbiamo previsto, il nemico ha deciso di lanciare una bomba sul nostro sacro suolo. Questo solenne messaggio è per annunciare la causa di questo pericolo, e per informare tutti i cittadini della costa orientale di lasciare le loro abitazioni e di dirigersi al più vicino rifugio antiaereo o, in mancanza di questo, di chiudersi nelle cantine, portando con sé acqua e viveri solidi come fagioli, riso, latte in polvere. L'America vincerà, perché la sua causa è giusta. Dio vi benedica e vi conservi.» Fu di un tempismo drammatico, perché cinque secondi dopo aver udito il discorso (che confermava i peggiori timori) il pubblico americano ebbe a malapena il tempo di dire «Uauh!» che la bomba cadde, non proprio al centro dell'area urbana di Filadelfia, ma abbastanza vicino. Un paio di navi della marina americana presso la costa avevano lanciato alcuni missili terra-aria contro il velivolo radiocomandato, ma i missili avevano mancato l'obiettivo. In pochi secondi, a Filadelfia, migliaia di persone furono uccise, bruciate, accecate. Milioni di altre persone si ammassarono nelle auto e in ogni genere di veicolo e, a finestrini chiusi, continuarono a spostarsi lentamente verso sudovest e nordovest, lontano dalla metropoli radioattiva in fiamme. In altre zone della costa orientale, la gente gridava e picchiava invano alle porte chiuse di alcuni rifugi antiaerei e delle cantine degli agricoltori e del-
le case di campagna. Vi erano rifugi antiaerei sui versanti delle montagne o talvolta nei campi da coltivazione, ma vi erano più persone che rifugi, e con rabbioso risentimento gli esclusi spinsero delle pietre contro le porte dei rifugi e delle cantine, perché la gente che si trovava all'interno non ne potesse mai uscire. Le strade che portavano fuori da Filadelfia e da New York erano disseminate di macchine abbandonate che avevano esaurito la benzina. Naturalmente, la bomba su Filadelfia non fu tutto. Altre ora ne cadevano su Chicago, San Francisco e all'interno del Texas. Questo perché quella sera alle otto (ora media della costa orientale) l'URSS era stata colpita da missili lanciati da Monaco e altre località, o perlomeno sapeva, tramite i dati via satellite, che bombardieri in volo ad alta quota e missili intercontinentali a lunga gittata puntavano verso il suo territorio. Qualsiasi calma, qualsiasi atteggiamento improntato al solo «occhio per occhio», erano svaniti. Nessuna delle due parti voleva cedere, anche se entrambe intendevano conservare una parte dei loro giganteschi depositi d'armi per un'ultima, disperata resistenza, ammesso che si potesse usare ancora questo termine quando l'atmosfera sarebbe diventata intollerabile per la vita animale e vegetale. Buck e Millie Jones avevano abbandonato la Casa Bianca alle sei e quarantacinque della sera, lasciando la servitù a riporre le cose di valore nel seminterrato della residenza, che non era stato ritenuto un valido rifugio per la coppia presidenziale, poiché l'attacco nemico era più massiccio sulla costa orientale. I Jones intendevano recarsi molto più a ovest. La piazzola per gli elicotteri della residenza era già stata invasa da personale di servizio della Casa Bianca e dai loro effetti personali, tutti in attesa che le auto di servizio con autista o le mogli con le loro auto private venissero a prelevarli, perciò la limousine del presidente, con l'autista e una guardia del corpo, puntò direttamente verso l'aeroporto Dulles. Una scorta di motociclisti fece loro largo nel traffico, sospingendo le auto private fuori strada sulle banchine laterali, se necessario, in modo che la macchina presidenziale potesse superare le altre nel lungo tragitto verso l'aeroporto. Qualcuno avrebbe pensato che tutta Washington stesse lasciando la città, dirigendosi al Dulles. All'aeroporto, dove gente impazzita cercava in tutti i modi di salire a bordo di qualsiasi cosa volasse, le maniere si fecero ancora più brutali. La guardia del corpo tirò fuori la pistola, e gridando si diresse di corsa verso l'Air Force One, l'aereo presidenziale, la cui posizione gli era stata trasmessa tramite il ricetrasmettitore portatile.
Il gruppo del presidente decollò con destinazione Cincinnati, Ohio, un nome che a Buck e Millie suonava confortevole e «di casa». Millie aveva nella borsetta una fiaschetta piena, o quasi, di whisky, ma un certo disappunto aveva cominciato a insinuarsi. Spaventata, ma decisa, continuava ad assicurare a Buck che lei e lui, loro, avevano fatto la cosa giusta. Uno steward premuroso aprì la valvola di erogazione dell'ossigeno del sistema di aerazione, e un altro servì la cena a base di filets mignons. «Avremmo potuto pensare di chiedere a Laura Phipps di venire con noi,» disse Buck a Millie. «Non farà buona impressione alla stampa.» «Co...o...sa? Dopo che Laura e la sua amica ti hanno detto di andartene dalla sua proprietà? Che vada pure arrosto!» disse Millie, affrontando il suo secondo filet. A Cincinnati non poterono atterrare, girarono sopra l'aeroporto per mezz'ora, poi il pilota comunicò via radio che stavano esaurendo il carburante (il che era quasi vero), ripetendo di avere a bordo il presidente con la moglie, quindi venne loro data via libera e fu eseguito un brusco atterraggio. Sembrava però che tutti stessero lasciando anche Cincinnati. La gente aveva paura della pioggia radioattiva e si dirigeva a ovest. D'altra parte, una bomba aveva già colpito San Francisco, perché dunque andare a ovest? Be', c'era il Nevada, posti del genere, non così popolati. Il presidente e Millie rimasero in piedi nella rumorosa sala dell'aeroporto, e la donna era un po' offesa che non venisse loro riservata alcuna accoglienza. «Andiamo a un rifugio o... facciamo qualsiasi cosa si debba fare per essere al sicuro!» strillava Millie. «Chi è il responsabile qui?» «Sono io!» esclamò Buck. «Ehi, Sam!» chiamò, rivolgendosi alla guardia del corpo. «Mettiti in contatto con Dick Coombes, capito?» «A... E dove si trova, signore?» chiese Sam. Il presidente cercò di pensare, ma non ci riusciva. «Non possiamo contattarlo via radio dall'Air Force One?» Sam fece una smorfia. «Non vorrei provare a tornare su quell'aereo, signore! Tutta la pista è invasa di folla!» «Procuraci un'auto!» esclamò Buck. «Hai una pistola!» Sam tirò fuori nuovamente la pistola dalla fondina sotto la giacca e aprì loro un varco verso una porta con la scritta TAXI-AUTOBUS. Sempre tenendo in mano la pistola, la guardia convinse un autista di tassi (che diceva di essere diretto a casa) a prenderli sull'auto e a portarli al più vicino rifugio antiaereo.
«Rifugio antiaereo!» esclamò l'autista. «Ce n'è uno a qualche miglio da qui, ma è pieno zeppo ed è chiuso, ve lo posso dire perché ci ho già portato un paio di clienti. Scordatevelo.» «Nessun altro?» chiese Sam. L'autista disse che non ne conosceva altri, perciò Sam e Buck decisero di provare al rifugio già pieno e, se necessario, di entrarci con la forza. «Non sarebbe molto più comodo un albergo, Buck?» chiese Millie. «Non possiamo correre rischi,» rispose Buck. «Questa è un'emergenza.» Il tassi procedeva lentamente, avanzando in direzione opposta al traffico diretto all'aeroporto, che si era riversato nella corsia stradale sbagliata. Poi, l'autista fu costretto a fermarsi per fare benzina. «Non possiamo vendervi più di un gallone,» disse l'addetto alla stazione di servizio. «Si dice che una bomba sia diretta qui, e dobbiamo essere imparziali con tutti.» «C'è il presidente degli Stati Uniti nel sedile posteriore,» disse la guardia del corpo, che era sceso dal tassi. «Ah, sì? Quello che ha fatto lanciare...» L'addetto, un uomo sulla trentina che sembrava esausto, riagganciò la pompa della benzina e guardò dentro il finestrino del tassi. «Un gallone anche a voi come a tutti gli altri. Dannazione a lei per quella bomba...» «Noi abbiamo reagito!» gridò Millie attraverso un finestrino semiaperto. «La Russia lo ha fatto per prima!» «Non era la Russia! L'hanno detto i notiziari! È stato qualche altro paese, con una bomba che noi gli abbiamo fatto avere! Non ho tempo per discutere, mia moglie sta per avere un bambino all'ospedale in città, o io non sarei qui. Avrete il vostro gallone e potete andare all'inferno!» «Lei non parla in questo modo al presidente!» disse Sam, protendendo la mascella. Oltre a essere grosso, sovrastava di parecchi centimetri l'addetto alla stazione di servizio. «Non me ne frega un accidente!» ribatté l'uomo, di nuovo con la pistola della pompa in mano. «Questo gallone ve lo dò in faccia, a lei e al suo presidente, se vi va!» Tolse con violenza il tappo del serbatoio e rabbiosamente cominciò a erogare benzina, con l'occhio al contatore dietro di lui. «Non voglio soldi da voi. Teneteveli da parte!» Circa un miglio oltre, passarono davanti a un ristorante chiuso. Avevano tutti sete, sete di normale acqua. Erano quasi le tre del mattino quando raggiunsero il rifugio antiaereo in un campo agricolo sul lato sinistro della strada. Era solo una lieve protuberanza del terreno che poteva facilmente
sfuggire, tranne per il fatto che ora lì vicino ardevano dei falò, e della gente stava seduta intorno ai fuochi, raggomitolata nelle coperte come degli indiani. «Non vi apriranno le porte,» disse a Sam un uomo accovacciato sui talloni. «No, signore, non aprirebbero neppure al presidente, perché è tutto pieno là dentro!» «In modo particolare al presidente,» disse qualcuno. Degli altri risero. Il whisky, evidentemente, scorreva. Sam serrò i pugni e provò a picchiare, gridando, contro le due porte chiuse, inclinate nel terreno. Le porte di metallo somigliavano a quelle di una camera blindata di una banca. Non ottenne risposta e rinunciò. «Provate nel posto in fondo alla strada!» gridò la voce di un giovane, e le sue parole furono seguite dalle acute risate delle donne e dagli sghignazzi maschili. «Quale posto?» chiese Sam. «Quello più giù, a circa un miglio e mezzo. A destra sulla strada,» intervenne un'altra voce. «Ma è un rifugio nucleare!» «Ah, ah, ah, hi, hi!» Risate maniacali da tutt'intorno. Sam era piuttosto dubbioso, ma disse all'autista di proseguire nella stessa direzione tenuta in precedenza, che era poi quella indicata dalla gente dei falò. Il «posto» era ben visibile, grazie a un paio di lanterne che poggiavano su dei sostegni. Qui, una cinquantina o sessantina di persone si muovevano disordinatamente, alcuni badavano ai fuochi, altri sembrava che scavassero nel fianco di una collina con picconi e badili. Il presidente si era addormentato, con la testa in grembo a Millie. Sam scese dall'auto, era stanco, assetato e affamato, ma comunque in condizioni migliori dell'autista del tassi, che era crollato sullo sterzo. Dei puntini luminosi, velivoli di tutte le dimensioni, attraversavano il cielo buio, diretti perlopiù verso ovest. «Avete un piccone o un badile?» fu la domanda con cui fu accolto Sam. «No. Questo è un rifugio antiaereo?» «Ah, ah! Questo è quanto si crede, amico, invece è un rifugio per il deposito dei rifiuti nucleari.» «Ci hanno preso in giro, capisce?» disse una donna con voce impastata. «Allora perché scavate qui? Fate una grotta?» domandò Sam, cercando di ingraziarseli, perché quella gente aveva cibo e bevande. «Magari vi possiamo aiutare.» «Stiamo scavando perché il terreno è piuttosto cedevole, ma tutto quello
che incontriamo sono contenitori d'acciaio, pareti di cemento...» «E forse radioattività,» concluse la voce di una ragazza. «Ma forse meno distruttiva di quello che sta per arrivarci addosso!» disse una voce maschile, e le sue parole vennero salutate da fragorose risate, che suonavano alquanto ubriache. Sam esitò, poi domandò: «Potete offrirci un po' d'acqua? Magari una tazza? Siamo in quattro e siamo stati...» «Amico, non possiamo, perciò fila!» Un tizio con i capelli rossi, visibile soltanto dalla vita in su nel raggio luminoso di una pila, si fece avanti. Era giovane e furioso. «Arrivate in tassi e chiedete a noi dell'acqua? Questa zona è nostra. Sono ammessi solo gli sterratori.» «Via!... Fuori dai piedi!... Non ci serve nessun altro!» Una pietra grande come una palla da baseball colpì Sam al petto, che perciò si girò, camminando il più in fretta possibile nel buio verso il tassi. «Ehi!... Guarda! Eccolo!» L'eccitazione della voce dietro di lui, fece fermare e voltare Sam: lo vide immediatamente, un chiarore simile alla luce argentea della luna che sorge, con un filamento di luce più intenso che saliva fino al centro. Sam si mise a correre verso il tassì. Buck Jones ridacchiava, con il gomito fuori dal finestrino. «Non è una bellezza, tesoro? Guarda quanto è grande! Gliela faremo vedere!» «Ma quello è uno dei loro missili, non dei nostri, Buck!» replicò Millie. «Niente da fare, qui!» disse Sam, svegliando l'autista con un leggero colpo sulla spalla. «Muoviamoci!» Si immersero nuovamente nel traffico, nel lento, rabbioso flusso di veicoli, passarono davanti a un altro ristorante sulla strada, chiuso e immerso nel buio. Poi, finirono la benzina; l'auto ansimò per qualche metro e si bloccò. Le auto dietro di loro li urtarono, svegliando il presidente che si era riaddormentato. Millie, invece, adesso dormiva profondamente. Buck chiese all'autista di provare ad accendere la radio per sentire un notiziario, e questi ubbidì. Si stavano intanto muovendo, anche se di poco, sospinti da dietro e di fianco dalle altre auto, ma gli automobilisti che stavano dietro di loro gridavano perché si togliessero dalla strada. «La radio è muta,» disse l'autista, e in quell'istante un veicolo pesante urtò il fianco sinistro della vettura, il tassi scivolò in un fosso e cadde sul fianco destro. L'autostrada era senza illuminazione, e tre auto, una dopo l'altra, seguirono il tassi nel fosso. Il presidente e i suoi compagni di viag-
gio furono seppelliti sotto la prima auto e metà di un'altra, cioè quasi due tonnellate di lamiera e di umanità isterica, e la loro fu una morte lenta e dolorosa, sanguinosa e sofferta. Prima che arrivasse l'alba, il cielo sopra l'America e tutta la zona temperata dell'emisfero settentrionale era diventato un porpora pallido in cui nuvole dalle sfumature argentee salivano e si abbassavano. L'atmosfera letale, piena di colori, aveva una sua bellezza, mentre filtrava nell'emisfero meridionale in lunghe e lente strie, causando la fuga di milioni di persone verso il Polo sud. Gli affidabili, piccoli satelliti orbitavano ancora attorno alla terra, o se ne stavano fissi, come se nulla fosse accaduto, continuando a scattare fotografie e a inviarle verso la terra, dove nessuno era vivo o in condizione di riceverle, tranne qualche isolata base militare nel Pacifico del sud. Nel passato, degli artisti come Hieronymus Bosch, Max Ernst, Tanguy avevano rappresentato in qualche modo scene del genere. La gente dell'emisfero meridionale che non era fuggita si riunì in piccoli e grandi gruppi (qualche centinaio di persone), cercando di dividere equamente il cibo e parlando della necessità di sperare e di avere coraggio (la chiesa, a questo proposito, fece molto); parole che suonavano bene, anche se il novanta per cento di chi le pronunciava, in via formale o informale, non credeva minimamente quanto diceva. La terra tutta, ruotando, era diventata troppo satura di atmosfera radioattiva, che la forza di gravità tratteneva saldamente. Sembrava che il vento, o i venti, fossero calati al di sotto della norma, l'ultima maledizione di tutto. FINE