DAVID GOODIS C'È DEL MARCIO IN VERNON STREET (The Moon In The Gutter, 1953) I In fondo al vicolo di fronte a Vernon Stre...
8 downloads
572 Views
437KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
DAVID GOODIS C'È DEL MARCIO IN VERNON STREET (The Moon In The Gutter, 1953) I In fondo al vicolo di fronte a Vernon Street, un gatto grigio aspettava che un grosso topo uscisse dal suo nascondiglio. Il topo si era infilato in una catapecchia di legno attraverso uno dei tanti buchi, e il gatto stava adesso ispezionando curioso tutte le fessure, forse domandandosi come avesse fatto, un topo così grosso, a infilarcisi. Nell'oscurità afosa della notte di luglio, la bestia aspettò il nemico per più di mezz'ora. Quando, stanco di aspettare, se ne andò, impresse l'orma delle zampe nel sangue essiccato della ragazza che era morta in quel vicolo circa sette mesi prima. Qualche minuto più tardi, in Vernon Street si udì un rumore di passi, lenti e pesanti, poi un uomo imboccò il vicolo. Si fermò, illuminato dalla luna, a guardare le vecchie macchie di sangue. Si chiamava William Kerrigan. Era il fratello della ragazza morta. Non gli piaceva andare lì, in quel vicolo, in quel punto, ma non riusciva a perderne l'abitudine, per quanto si sforzasse. Da qualche tempo, poi, ci veniva tutte le notti, senza capire che cosa ve lo spingesse. A volte, aveva la sensazione che fosse per una specie di rimorso, quasi che si sentisse in qualche modo colpevole per non aver saputo impedire la morte della sorella. Ma quando ragionava più serenamente, Kerrigan si ripeteva che era morta perché aveva voluto morire. La ragazza si era tagliata la gola. Lui era in ospedale, quando la sorella si era uccisa. Giù al porto, dove Kerrigan faceva lo scaricatore, una pesante cassa gli era caduta addosso, spezzandogli le gambe. Si trovava in ospedale già da tre settimane, quando gli avevano detto del suicidio della sorella. Nessun dubbio che si trattasse di suicidio, ma le circostanze erano sembrate alquanto insolite, tanto che le autorità avevano ordinato l'autopsia, e così si era scoperto che le era stata usata violenza. La polizia aveva concluso che la ragazza, sconvolta dal disgustoso episodio, disperata, non riuscendo a superare la vergogna per quello che le avevano fatto, si era tolta la vita. Sull'identità dell'uomo che l'aveva violentata, nessun indizio. In quel quartiere, il numero degli individui capaci di un atto del genere era infinito. Parecchi erano stati fermati, interrogati, e poi rilasciati. Le indagini non
erano andate più in là. "Sono passati sette mesi" pensò Kerrigan. Guardava ancora le macchie di sangue. Si era tentato di lavarle, di cancellarle, e la pioggia le aveva sbiadite, ma il rosso tra le pietre, ormai, faceva parte del lastricato, e niente l'avrebbe fatto scomparire. La luna, adesso, batteva in pieno sulle macchie, mettendole in risalto. Kerrigan abbassò la testa. Serrò forte gli occhi. Provava dolore e collera, e si domandava se quella collera avrebbe mai trovato il suo bersaglio. Riaprì gli occhi e rivide le macchie rosse, simili a un punto interrogativo tra i sassi del vicolo. Sospirò. Era alto e grosso, tanto grosso da sembrare tarchiato. Le spalle enormi, muscolose, erano la parte più imponente del suo corpo. Pesava novanta chili, aveva capelli neri e folti, spazzolati all'indietro. Gli occhi azzurri. Il naso, per quanto rotto due volte, non aveva perso la sua forma diritta. Dalla fronte, a sinistra, una cicatrice profonda scendeva a segnargli la guancia, ricordo di uno scontro con un tale che aveva usato un pugno di ferro, giù al porto. A destra, un'altra cicatrice, all'angolo della bocca, lasciata da un coltello. Ma quelle non erano le uniche cicatrici, per quanto fossero le sole visibili. Comunque, restavano una specie di vessillo, un vessillo che significava soprattutto una cosa: l'uomo di trentacinque anni fermo nel vicolo buio a pensare a una ragazza morta era uno di Vernon Street e lavorava al porto. Kerrigan si stava dicendo che Catherine era sempre stata una brava ragazza, nonostante che fosse nata e cresciuta in quel quartiere di ubriaconi e di vagabondi, di fannulloni e di teppisti, di farabutti e di canaglie. Una brava ragazza che si era mantenuta pulita per ventitré anni, e poi era morta. Sospirò ancora, scosse la testa e si voltò per andarsene. In quel momento, qualcuno lo chiamò. Alzò gli occhi e vide la camicia scolorita, i pantaloni che non tenevano più la piega, la faccia segnata e smorta di una larva d'uomo: suo fratello. «Ah, Frank...» disse. «Ti stavo cercando.» «Perché?» domandò, ma conosceva già la risposta. Bastava un'occhiata alla faccia di Frank, e la risposta era lì, sempre la stessa. Frank si strinse nelle spalle. «Quattrini» disse. Kerrigan aveva fretta di andarsene, adesso. «Quanto ti serve?» domandò. «Cinquanta dollari.» Kerrigan torse la bocca. «Facciamo cinquanta centesimi» disse.
Frank tornò a stringersi nelle spalle. «Va bene. Vedrò di farli bastare.» Tese la mano, prese la moneta d'argento, la soppesò un attimo, poi la fece scivolare in tasca. Frank Kerrigan: ventinove anni, capelli quasi bianchi, e tanto alcool in corpo quanto riusciva a contenerne. Era bravissimo alle carte, ai dadi, e al bigliardo, ma era miseramente fallito come scippatore. Non era mai stato in galera. Una volta l'avevano beccato e trattenuto al posto di polizia dove se l'erano lavorato per qualche ora. Da allora, Frank Kerrigan non ci aveva più provato, però era orgoglioso del suo passato di ladro, e gli piaceva parlare delle sue grandi imprese di un tempo. Da parecchio, William Kerrigan aveva perso la speranza che suo fratello minore potesse diventare qualcosa di diverso da un barile di alcool. «Ce l'hai, una cicca?» domandò Frank. Kerrigan tolse di tasca un pacchetto di sigarette, ne diede una a Frank e ne prese una per sé, poi accese un fiammifero. Alla luce incerta della fiammella, notò che Frank stava guardando oltre le sue spalle. Gli occhi acquosi del giovane Kerrigan fissavano un punto imprecisato, nel buio del vicolo. «Ci vieni spesso, da queste parti?» mormorò Frank. «Di tanto in tanto.» «Perché?» Kerrigan si strinse nelle spalle. «Non lo so, e vorrei saperlo.» Dopo una breve pausa, Frank disse: «Era una brava ragazza». Kerrigan approvò, con la testa. «Una bravissima ragazza» riprese Frank. Aspirò una lunga boccata dalla sigaretta, buttò fuori il fumo lentamente, poi aggiunse: «Troppo brava per questo mondo». Kerrigan sorrise. «Te n'eri accorto persino tu?» Si fissarono. Per qualche secondo, la faccia di Frank restò del tutto inespressiva, poi le labbra si contrassero e le palpebre sbatterono tre o quattro volte. Pareva che fosse sul punto di dire qualcosa, ma alla fine serrò le labbra, e il pomo d'Adamo si mosse su e giù, su e giù, come se Frank stesse ingoiando le parole non dette. Kerrigan corrugò la fronte. «Che stai pensando?» domandò. «Niente» rispose Frank. «Sembri nervoso.» «Sono sempre nervoso» disse Frank. «Calmati» consigliò Kerrigan. «Nessuno ti sta alle costole.» Frank portò la sigaretta alla bocca, aspirò e sputò alcuni fili di tabacco
che gli erano rimasti tra le labbra. «Perché qualcuno dovrebbe starmi alle costole?» «Che io sappia, non c'è motivo, infatti» ribatté Kerrigan, con tono volutamente leggero, ma dentro si sentì irrigidire. «A meno che tu non abbia combinato qualcosa» aggiunse. Frank respirò a fondo, gli occhi persi nel vuoto. Le sue labbra si mossero appena, quando domandò: «Ad esempio?» «Come faccio, a saperlo? Non sono mica la tua balia, fratello.» «Ne sei certo?» «Perché dovrei farti da balia? Sei cresciuto abbastanza, mi pare, per badare a te stesso.» «Mi fa piacere sentirtelo dire.» Frank raddrizzò le spalle, cercando di assumere un'aria severa e decisa, ma le labbra gli tremarono di nuovo. Continuava ad ammiccare. Aspirò un'ultima boccata dalla sigaretta e disse: «Ci vediamo più tardi». Kerrigan lo guardò allontanarsi, attraversare Vernon Street, e dirigersi verso la bettola all'angolo con la Terza Strada. Quello di Dugan era l'unico locale della zona che avesse la licenza per vendere alcoolici. Tutti gli altri «bar» erano nelle stanze posteriori delle baracche di legno, o nelle cantine delle case. Inoltre, l'alcool che veniva spacciato in Vernon Street era per lo più di fattura casalinga. Da parecchio, le autorità avevano rinunciato a tentare di ripulire la zona dai vari distillatori clandestini. Di tanto in tanto ne avevano preso e ne prendevano qualcuno, ma non significava niente. Lo trattenevano soltanto un po', giusto il tempo per fargli capire che le «bustarelle» dovevano essere consegnate senza ritardo, e dopo qualche giorno gli arrestati tornavano tranquillamente ai loro affari. All'imbocco del vicolo, Kerrigan guardò la misera figura del fratello che si dirigeva verso le vetrine sporche del locale di Dugan, il Dugan's Den. Finito il mezzo dollaro, Frank avrebbe ciondolato nel locale a piatire un bicchiere, o avrebbe rubato qualche moneta dal banco del bar per trasferirsi nel posto più vicino dove, per venti centesimi, servivano un bicchiere pieno di qualche porcheria a forte gradazione alcoolica. Non c'era senso, a preoccuparsi per Frank. Non valeva la pena nemmeno di pensarci, a Frank. Frank era un individuo che suscitava un unico sentimento: la vergogna. Ma anche questo non aveva importanza: ce n'erano tanti, come lui. Un suono di voci interruppe i suoi pensieri. Kerrigan alzò la testa e vide
due uomini. Riconobbe subito Mooney, il verniciatore, e Nick Andros, il muratore. I due uomini gli si avvicinarono, salutando cordialmente, e Kerrigan rispose con eguale calore. Avevano la sua stessa età, e lui li conosceva da che era al mondo. «Che cos'hai in programma?» domandò Nick. «Niente di speciale» rispose Kerrigan. «In cerca d'avventure?» domandò ancora il muratore. Nick era piccolo e grasso, col naso a becco. Il riflesso dei lampioni e la luce della luna facevano brillare la sua testa calva. «Sono uscito per prendere un po' d'aria» disse Kerrigan. «Quale aria?» brontolò Mooney. «Il termometro segna trentotto gradi. Si starebbe più freschi in una fornace, dico io.» «C'è un po' di vento che viene su dal fiume» disse Kerrigan. «Mi fa piacere che tu lo senta» ribatté Mooney. «Per cena, questa sera, io ho mangiato un piatto di ghiaccio. Ghiaccio puro e semplice.» «Non credere che serva» disse Kerrigan. «Prova un bagno caldo.» «Ho già provato tutto» disse Mooney. «Non c'è niente da fare. Questo caldo mi ammazza.» Mooney era alto e robusto, con le spalle spioventi e il collo taurino. Aveva folti capelli color carota, e li portava con la scriminatura nel mezzo, sempre accuratamente pettinati. La pelle chiara era quasi trasparente, come quella di un bambino. Nonostante i suoi trentasei anni, non aveva una sola ruga, e gli occhi, di un verde grigio, erano limpidi e vivaci. L'unica cosa in lui che rivelasse l'età era la voce. Per tutto il resto, sembrava un ragazzo cresciuto troppo. Aveva viaggiato molto, e aveva studiato pittura in Italia, ottenendo largo credito nei circoli artistici europei. Tornato in America, però, aveva scoperto che i suoi acquerelli, tanto esaltati dalla critica, venivano sdegnati dai compratori. Allora aveva cambiato stile, con la speranza di diventare un pittore commerciale; per tutto risultato, i critici avevano detto peste e corna dei suoi nuovi quadri, e poi non si erano più occupati di lui. Era tornato in Vernon Street, e per mangiare si era messo a dipingere le insegne. Di tanto in tanto, se era ubriaco, parlava della sua carriera d'artista; se poi era molto ubriaco sosteneva che presto avrebbe fatto una mostra personale. Ma, ubriaco o no, non si scagliava mai né contro i critici né contro i collezionisti. Il suo umore più nero, il suo rancore più profondo, Mooney lo riservava al tempo. Del tempo si lamentava sempre. «Avresti dovuto vederlo, mentre mangiava quel ghiaccio» disse Nick, ridendo. «Ne aveva un pezzo enorme sul piatto, e lo addentava come se
fosse stato un panino imbottito.» «Devi essere un po' matto» disse Kerrigan, a Mooney. «Finirai col rovinarti lo stomaco.» «Il mio stomaco accetta tutto» ribatté Mooney. «Se una cosa la posso mordere, la posso anche digerire. La settimana scorsa, ho fatto una scommessa, da Dugan, a questo proposito e ho vinto tre dollari.» «Cos'hai scommesso?» domandò Kerrigan. «Che avrei mangiato del legno» rispose Mooney. «E l'ha mangiato davvero» disse Nick. «C'ero, e l'ho visto. Ha staccato coi denti un pezzo di tavolo, l'ha masticato ben bene, l'ha mandato giù e ha incassato tre dollari da quella specie di turista.» «Turista?» «Il figlio di papà» spiegò Nick. «Quale figlio di papà?» «Quello dei quartieri alti» disse Nick. «Non l'hai mai visto?» Kerrigan scosse la testa. «Eppure dovresti conoscerlo» insistette Nick. «Viene sempre da Dugan.» Kerrigan si strinse nelle spalle: «Da Dugan non ci vado quasi mai». «Be', comunque è uno di quei figli di papà ai quali piace andare nei quartieri bassi. Una sera, circa un anno fa, è capitato da Dugan, e da allora ci viene regolarmente. Capita lì due o tre sere alla settimana, e beve fino a non capire più niente. Qualche volta, invece, si accontenta di due o tre bicchieri e poi esce in cerca di pollastre.» Nick scosse la testa. «È il tipo più strambo e complicato che abbia mai conosciuto. L'ho osservato, quando guarda le donne. Sembra sempre scettico su quello che può cavarne, e insoddisfatto per quello che ne ha già cavato.» «Forse è uno di quelli che dalle donne non riescono mai a cavarne molto» disse Mooney. «Può darsi» commentò Nick. «A guardarlo, però, sembra che ci sappia fare. E ho avuto la stessa impressione dalla risposta che mi ha dato quando gli ho offerto di procurargli compagnia.» Kerrigan guardò il muratore. «Che cosa ti ha detto?» domandò. «Che non gli piace doverle pagare, le donne, perché il fatto di pagare toglie tutto il piacere. Gli ho chiesto se era sposato» continuò Nick «e mi ha risposto di no, che aveva tentato un paio di volte, ma che la monotonia lo annoia. Per me, quello ha un tarlo nel cervello. Non è normale.» «Dici così per dire» domandò Kerrigan «o lo pensi davvero?»
«Be', non sono un esperto, in certe cose.» «Sentilo, poverino» borbottò Mooney. Nick guardò il compagno, poi tornò a rivolgersi a Kerrigan. «Secondo me, siamo tutti un po' anormali, in un modo o nell'altro. Non esiste uomo che non abbia qualche suo problema.» «Io non ne ho» dichiarò Mooney. «Tu ne hai uno grossissimo» ribatté Nick. «E quale? Non ho preoccupazioni. Il mio cervello è completamente libero, pulito come una lavagna nuova.» «È proprio questo, il tuo problema» sentenziò Nick. «Mi domando cosa ci viene a fare, in Vernon Street, quello» disse Kerrigan, guardando oltre i due uomini. «Mica facile indovinarlo. Possono essercene cento, di motivi» disse Nick. «Forse, nel suo ambiente non è considerato gran che, e allora viene qui perché nessuno può giudicarlo. O forse ci viene perché in questo quartiere si sente più al sicuro.» «Più al sicuro di cosa?» domandò Kerrigan. «Voglio dire che in Vernon Street può fare tutte le porcherie che nel suo quartiere non gli sono permesse» spiegò Nick. «Che genere di porcherie?» domandò Kerrigan. Nick si strinse nelle spalle. «Come faccio a sapere cos'è che lo rode? Certo dev'esserci qualcosa che non gira giusto, in lui, e se no non avrebbe bisogno di battere questa zona.» Kerrigan si voltò a fissare il vicolo buio, alle sue spalle. Poi tornò a guardare oltre le teste di Mooney e Nick, verso le vetrine del locale di Dugan. «Berrei qualcosa di fresco» disse. «Anch'io ho sete» disse Nick. «Io sto addirittura morendo, di sete» aggiunse Mooney. «Ho qualche spicciolo, in tasca. Dovrebbero bastare per un paio di birre a testa» concluse Kerrigan. I tre uomini si avviarono. Mentre attraversavano la strada, Kerrigan si voltò di nuovo a guardare il vicolo. II Il Dugan's Den aveva due volte l'età del suo proprietario, che era sui sessanta. Il locale non era mai stato rinnovato, e conservava il pavimento, le
sedie, i tavolini e il banco del suo primo giorno. Verniciature e imbiancature non esistevano più da parecchio tempo, ma i vecchi mobili di legno erano stati mantenuti puliti e lucidi dallo sfregamento di milioni di gomiti. Nel locale di Dugan, il tempo pareva essersi fermato. Il vecchio orologio appeso alla parete non funzionava da più di cinquant'anni, ma per i clienti del Dugan's Den il tempo non aveva molta importanza. Anzi, andavano lì appunto per dimenticare il tempo. Molti erano vecchi che non avevano niente da fare e che non sapevano dove andare. Poi c'erano delle donne dai capelli bianchi, completamente sdentate, la testa piena dei fumi della specialità della casa: doppia razione di whisky di riso per venti centesimi. Niente televisione, né juke-box, da Dugan. L'unico divertimento offerto dal locale veniva dal proprietario stesso, un ometto tutto pelle e ossa, con pochi ciuffi di capelli, completamente stonato e sempre intento a cantare o a fischiare, un'abitudine contratta da tempo per evitare che il bar fosse troppo silenzioso. I suoi clienti erano in genere bevitori solitari, e le poche discussioni che nascevano nel locale duravano al massimo un paio di minuti, senza raggiungere mai un punto veramente interessante. Qualche volta, ma molto raramente, volavano pugni e bottiglie, e in queste occasioni Dugan non interveniva mai a placare gli animi: la sua vita era monotona, e di tanto in tanto non gli dispiaceva un po' di movimento. Quando Kerrigan entrò con Nick e Mooney, nel bar c'erano solo tre o quattro clienti. Dugan sonnecchiava in piedi dietro il banco, le braccia conserte e la testa ciondoloni. Nick calò un pugno sul banco, Dugan aprì gli occhi e Kerrigan ordinò tre bottiglie di birra. «Niente bottiglie» annunciò Dugan. «Sono finite oggi pomeriggio. Nel quartiere, oggi, erano tutti assetati.» «Io sono assetato adesso» dichiarò Mooney. «Versaci della birra direttamente dalla spina.» Dugan riempì tre bicchieri, e Kerrigan posò i soldi sul banco. Dietro il bar c'era uno specchio, sporco ma ancora in buone condizioni, e nello specchio Kerrigan vide il riflesso di un uomo seduto a un tavolino, all'altra estremtià del locale. Sembrava che dormisse con la testa appoggiata sulle braccia. Kerrigan notò che l'uomo era vestito bene. «Questa birra è calda» disse Mooney. «C'è scarsità di ghiaccio» disse Dugan. «Tu sei sempre a corto di ghiaccio» ribatté Mooney. «Come si fa, a bere la birra calda?» «Sei venuto qui per discutere?» domandò Dugan.
«Sono venuto per rinfrescarmi» rispose Mooney, alzando la voce. «E allora rinfrescati» disse Dugan. «Calmati, e rinfrescati.» «Bere questa roba sembra di bere brodo bollente» protestò Mooney. «Ma guarda se un pover'uomo non può trovare nemmeno un po' di sollievo dal caldo!» Kerrigan continuava a osservare nello specchio l'uomo chino sul tavolo. Notò i capelli biondi tagliati a spazzola, con qualche filo bianco. «Io sto soffocando» brontolò Mooney. «Pare di essere in una fornace, qua dentro. E questa birra! Tra poco mi sciolgo!» Un tale coi capelli grigi sollevò il naso dal suo bicchiere di gin e disse: «Perché non andate in Wharf Street a buttarvi nel fiume?». Nick rise, ma Mooney considerò la proposta con somma serietà e, dopo aver riflettuto, disse convinto: «Non è una cattiva idea. Proprio non è una cattiva idea». Poi si voltò e si avviò all'uscita. Nick lo seguì. «Lasciami andare» disse Mooney, quando l'amico l'afferrò per un braccio. «Io a questo caldo non ci resisto più. Sono disposto a starmene a mollo nel fiume anche tutta la notte, pur di rinfrescarmi.» «Sbaglierò» ribatté Nick «ma se fai tanto di entrarci ci starai anche di più che tutta la notte. Non te lo ricordi che non sai nuotare?» «Be', vuol dire che mi attaccherò a qualcosa» borbottò Mooney e, liberato il braccio proseguì verso la porta. Arrivato sulla soglia, si voltò. «Voi non venite?» domandò a Nick e a Kerrigan. Nick sospirò. «Sarà meglio che ti segua. Ci vorrà bene qualcuno che ti tiri fuori dall'acqua.» Tornò al bar, finì di bere la birra, poi guardò Kerrigan. «Vieni anche tu?» Kerrigan non sentì la domanda, e Nick la ripeté. Poi si accorse che Kerrigan pensava ad altro e, guardando nello specchio, vide che cosa l'amico stava osservando. Con faccia inespressiva, Nick guardò Kerrigan fissare nello specchio l'uomo seduto sull'altro lato del locale. Mooney era già uscito, e dopo qualche secondo Nick uscì a sua volta. Dugan aveva ripreso a sonnecchiare in piedi dietro il banco. Il bevitore di gin covava con gli occhi le poche gocce rimaste nel bicchiere. Gli altri clienti davanti al bar stavano coi gomiti appoggiati al banco a fissare il vuoto. Poi si aprì la porta della toeletta degli uomini e ne uscì Frank Kerrigan. Vide il fratello e gli si accostò, dicendo: «Cosa fai qui?». Kerrigan distolse lo sguardo dallo specchio e fissò Frank, senza parlare. «Non ci vieni mai, tu, in questo posto» riprese Frank. Gli angoli della bocca gli si contrassero in un movimento spasmodico: su e giù, su e giù.
«Perché sei venuto qui, stasera? Non mi va che tu mi stia alle costole. So badare a me stesso, io. Sei venuto a vedere come spendevo il tuo mezzo dollaro?» «Sono venuto a bere una birra» rispose Kerrigan. «Allora perché non la bevi la tua birra?» Kerrigan portò il bicchiere alle labbra e bevve un lungo sorso. Tornò a posare il bicchiere e Frank era sempre lì a guardarlo, col respiro pesante e le labbra tremanti. Aveva gli occhi annebbiati e barcollava. «Cos'è che ti rode, Frank?» «Perché mi fissi sempre?» Frank parlava affannato, come se avesse corso. «Da un po' di tempo, ogni volta che alzo gli occhi tu sei lì a guardarmi. Non mi va. Piantala.» Kerrigan non rispose e non si mosse. Frank gli passò davanti e uscì dal locale. Improvvisamente, William Kerrigan sentì tutto il peso del silenzio e dell'immobilità attorno a lui. Poi udì un suono debole, lamentoso. Si guardò attorno. Era Dugan, che canticchiava sottovoce, nel dormiveglia. Kerrigan tentò di seguire la musica, di ricordare le parole della canzone, ma mentre il suo cervello cercava di attaccarsi alla melodia, gli occhi tornarono irresistibilmente allo specchio e all'uomo seduto al tavolo, all'altra estremità della sala. Kerrigan si mosse lentamente in direzione di quel tavolo. Si sedette di fronte all'uomo biondo che teneva ancora la testa affondata tra le braccia, e per quasi un minuto rimase lì a fissarlo. Infine tese una mano e afferrò l'uomo per un polso. «Ehi, Johnny, svegliati.» «Va' via» rispose l'uomo, senza alzare la testa. Si mosse solo per liberare il polso dalla stretta di Kerrigan. «Andiamo, Johnny, tirati su!» «Lasciami in pace» disse l'uomo. «Non riconosci più il tuo vecchio amico Bill?» disse Kerrigan. L'uomo sollevò la testa di pochi centimetri, ma la faccia rimase nascosta dalle braccia. Parlò lentamente e con maggior chiarezza, misurando le parole. Disse: «Non conosco nessun Bill. E non ho vecchi amici». «Sono Bill Kerrigan. Possibile che non ti ricordi di me?» «Io non mi ricordo mai di nessuno» rispose l'uomo. «Non mi piace ricordare le persone. E poi, conosco solo gente che è meglio dimenticare.» «Sei a questo punto?» «Non è un brutto punto» ribatté l'altro. «Anzi, è meraviglioso. Meraviglioso.»
«Che cos'è meraviglioso, Johnny?» «L'almanacco» disse l'uomo. «Il calendario con la fotografia della ragazza. La ragazza ha addosso una pelliccia di ermellino, la pelliccia è aperta, e sotto... sotto non c'è niente. Stavo sognando questo, quando qualcuno mi ha svegliato chiamandomi Johnny. Solo che io non mi chiamo affatto Johnny.» «Come si chiama la ragazza?» «Quale ragazza?» «Quella del sogno.» «Non ha nome» disse l'uomo. «Non ne hanno mai, quelle. Sono soltanto un numero di telefono. Questa, poi, non aveva nemmeno il telefono. Le preferisco quando non hanno il telefono. E quelle che mi piacciono di più sono quelle morte, perché almeno non mi ronzano attorno a seccarmi, neanche in sogno.» «Ma se hai appena finito di dire che era meraviglioso!» «È per questo che mi secca» disse l'uomo. «Diventa troppo meraviglioso. Diventa talmente meraviglioso da dare l'angoscia. Forse dovrei esservi riconoscente per aver interrotto il sogno. Volete che vi offra da bere?» «Certo.» L'uomo alzò la testa. Aveva la carnagione giallastra e i lineamenti delicati. Le occhiaie profonde testimoniavano su una vita di sregolatezze. Era di media statura e dimostrava una trentina d'anni. «Che cosa bevete?» domandò a Kerrigan. «Una birra, Johnny.» L'uomo sorrise. «Siete ancora convinto che sia Johnny?» Senza aspettare la risposta, si alzò e andò al bar. Kerrigan gli tenne gli occhi addosso mentre parlava con Dugan. Poi l'uomo tornò al tavolo con un bicchiere di birra e uno di whisky, per sé. «Alla nostra fortuna, Johnny» brindò Kerrigan. «La fortuna non esiste» disse l'uomo. «Va sempre tutto male.» Sorrise al whisky e ne bevve un lungo sorso. Gliene andò un poco di traverso. Tentò di bestemmiare mentre tossiva, e peggiorò la situazione. Si salvò con un altro sorso, che ingoiò tenendo gli occhi serrati. Poi sorrise ancora e disse: «Voi siete un uomo solo, vero?». «Qualche volta» rispose Kerrigan. «Io lo sono sempre.» Smise di sorridere e guardò dentro il bicchiede. «Sono stato dappertutto, ho fatto tutto, ho conosciuto tutti, e come risulta-
to, sono solo.» «Forse hai bisogno di una donna» azzardò Kerrigan. Parve che l'altro non avesse sentito. Tacquero entrambi per qualche minuto, poi il biondo tornò a sorridere e domandò: «Chi siete?». Kerrigan decise di non continuare a fingere. «Dovete scusarmi» disse. «Sapevo benissimo di non avervi mai visto prima. Solo che... volevo un po' di compagnia, ecco. Mi chiamo Bill Kerrigan.» «E io Newton Channing. Mai sentito, questo nome? Non significa niente, per voi?» Kerrigan scosse la testa. «Sapete una cosa?» disse Channing. «Non significa niente nemmeno per me.» Una lunga pausa. Kerrigan bevve un po' di birra, poi domandò: «Dove abitate?». «In centro» rispose Channing, in tono distratto. Continuò a parlare, ma era evidente che non seguiva col pensiero ciò che stava dicendo. «Un bel quartiere. Pulito. Troppo pulito. Fatto esclusivamente per gente della buona borghesia. Casa con garage, e un po' di verde davanti alla facciata. Abito là con mia sorella. Una bella ragazza, molto per bene. Una notte, la settimana scorsa, mi ha picchiato fino a farmi perdere i sensi.» Kerrigan non fece commenti. «Proprio una brava ragazza» riprese Channing. Sollevò il bicchiere all'altezza della bocca e lo vuotò. Poi si alzò, andò al banco, e tornò con un'altra birra e una bottiglia di whisky. Riempiendosi il bicchiere, aggiunse, sempre nello stesso tono: «Stavo dando fuoco alla casa e lei si è tolta una scarpa e ha cominciato a picchiarmi col tacco sulla testa. Sono rimasto senza sensi per dieci minuti buoni». Sollevò con cautela il grosso bicchiere pieno fino all'orlo, e bevve il whisky come se fosse stato acqua. «Io ammiro mia sorella» disse. «Veramente. L'ammiro. C'è soltanto una cosa, in lei, che mi dà fastidio: pensa che non sia in grado di badare a me stesso, e questo la rende materna. Da qualche tempo ha preso l'abitudine di venire a prendermi qui per accompagnarmi a casa.» «Non siete capace di tornarci da solo?» Channing si strinse nelle spalle: «Di solito sono troppo ubriaco per guidare. Quando proprio non ce la faccio, Dugan chiama un tassì. Non mi piace che mia sorella venga qui, preferisco un tassì». «È molto più sicuro» disse Kerrigan. «Per vostra sorella, voglio dire.
Questo non è un quartiere raccomandabile.» «La cosa non la preoccupa.» «Il fatto è» insistette Kerrigan «che il quartiere è particolarmente poco raccomandabile per una donna.» Channing chinò la testa di lato a sbirciare Kerrigan. «Può darsi che mi sbagli, ma voi siete venuto a sedervi qui con uno scopo preciso.» Kerrigan non rispose. «Siete preoccupato, vero?» riprese Channing. «Non state parlando con me soltanto per passare il tempo.» Si protese in avanti, fissando Kerrigan con curiosità. «Di cosa si tratta?» «Niente di speciale» rispose Kerrigan. Channing bevve dell'altro whisky, poi tenne il bicchiere in mano, guardandolo controluce. «Forse siete un rapinatore, e avete progettato di trascinarmi in qualche posto deserto per spaccarmi la testa e rubarmi il portafoglio...» «Può darsi» disse Kerrigan. «Non ci sarebbe da stupirsi, in questo quartiere. Uno che non sia del posto non può mai sapere con chi ha a che fare. È consigliabile essere prudenti.» Channing rise. «Amico mio, permettetemi di dirvi una cosa. Non me ne importa un accidente di quello che potrebbe capitarmi.» Kerrigan lo guardò vuotare il bicchiere e riempirlo. Channing aveva già bevuto metà del suo nuovo bicchiere, quando si aprì la porta. Kerrigan sollevò lo sguardo e vide la donna entrare nel locale. Venne verso di loro. Camminava lentamente, con un'andatura adatta alla sua faccia e al suo corpo. Il viso era bello, molto bello, e la figura snella ed elegante. Aveva i capelli lunghi, morbidi, e gli occhi verdi. Dimostrava ventitré o ventiquattro anni. Ma guardandola, Kerrigan non pensò alla sua età. Se glielo avessero chiesto, non avrebbe saputo dire nemmeno lui a che cosa pensava. Sapeva solo che sentiva fin dentro alla carne l'attrazione fisica per quella donna, ed era irritato perché non riusciva a staccare lo sguardo da lei. Non si accorse che anche lei lo osservava. Comunque, la donna riuscì a nascondere la sua reazione, qualunque fosse. Poi, guardò il fratello e disse: «Finisci il bicchiere, Newton, e andiamo a casa». Channing sorrise al mezzo whisky. «Dovrò pagarti lo stipendio» mormorò. «Quanto si fa pagare, oggi, una governante?» «Non sto facendo la governante.» La voce di lei era pacata e gentile. «E il mio non è un lavoro. Per lo meno, non lo intendo come tale.»
Channing scosse le spalle. «Siediti e bevi qualcosa. Non ho ancora voglia di andarmene. Devo bere un altro po'.» «Quanti ne hai già bevuti?» «Pochi.» «Significa mezza bottiglia?» «Non ha ancora fatto effetto» disse Channing. «Starò qui finché non sarò completamente partito.» «Una volta o l'altra partirai davvero, e ti dovranno portare via su una barella.» Guardava il fratello come se stesse osservando un oggetto incomprensibile. «Se continui così, finirai in un ospedale. È questo che vuoi?» «Voglio essere lasciato in pace.» Channing alzò la testa a guardarla. Sorrise. «Spero di non chiederti troppo, ma ti sarei grato se tu mi lasciassi in pace.» «Non ci penso nemmeno» disse lei. «Ci tengo troppo a te.» «Commovente» disse Channing. Guardò Kerrigan. «Non lo pensate anche voi? Non sono fortunato ad avere una sorellina tanto affettuosa?» Kerrigan non rispose. «Non sei gentile, Newton» disse lei. «Dovresti presentarmi il tuo amico.» «Oh, figuriamoci!» esclamò Channing, poi aggiunse: «Vi prego di scusare le mie cattive maniere». Si alzò a mezzo, aspettando che anche Kerrigan si alzasse. Ma Kerrigan non si mosse. Allora Channing si strinse nelle spalle, si rimise a sedere, e si versò un altro whisky. «Sto ancora aspettando la presentazione» disse lei. «Oh, al diavolo!» Channing bevve un lungo sorso di whisky. «Al diavolo tutto.» La ragazza guardò Kerrigan. «Vi prego di scusare» disse. «Non intende veramente quello che ha detto. Solo che è ubriaco.» «Va bene.» Lei studiò attentamente la faccia di Kerrigan. «Non vorrei che vi foste offeso.» Lui parlò con voce leggermente più alta. «Ho detto che va bene.» «Certo che va bene» intervenne Channing. «Perché non dovrebbe?» «Tu sta' zitto» esclamò lei. «Resta lì seduto, bevi il tuo whisky e non dir niente. Non sei in condizioni di dire niente.» Channing si alzò, rigido. Barcollò, gli occhi fissi nel vuoto. «Cosa ne sai, tu, delle mie condizioni?» Lei non si prese il disturbo di rispondere. Si rivolse a Kerrigan, invece.
«Posso presentarmi da sola? Sono Loretta Channing.» «Sai quanto gliene importa!» sbottò Channing. «Perché non gli dai l'indirizzo? Digli che sarà sempre il benvenuto. Invitalo a cena.» Lei continuava a guardare Kerrigan e, senza distogliere lo sguardo da lui, disse al fratello: «Ti ho detto di star zitto.» «Perché non ti siedi vicino a lui e non gli prendi una mano?» «Vuoi smetterla?» Channing rise. «Fagli vedere quanto sei democratica. Forse riuscirai a convincerlo se bevi un po' di birra dal suo bicchiere.» «Se non la smetti ti dò uno schiaffo.» Channing continuò a ridere. Una risata silenziosa, che a poco a poco si trasformò in colpi di tosse simili a singhiozzi. Channing si afferrò al tavolo e bevve ancora, poi si voltò verso la parete e rimase così, a bere con la faccia al muro, come se fosse stato solo. La ragazza aspettava che Kerrigan le dicesse il suo nome. Lui inghiottì a vuoto un paio di volte, prima. Poi disse tra i denti: «Mi chiamo Kerrigan. Abito qui, in Vernon Street, al numero cinquecentoventisette.» Poi si alzò e si mise davanti a lei, vicino a lei. Si sentiva lo stomaco serrato e gli sembrava di non poter respirare. «Avete capito bene?» aggiunse. «Vernon Street, cinque, due, sette. Cinquecentoventisette.» Cercava di parlare in tono calmo, ironico, ma gli tremava la voce. «Una vostra visita sarà bene accetta in qualunque momento. Venite a cena, una di queste sere.» Loretta fece una smorfia e indietreggiò di un passo. Lui avanzò, diretto alla porta, e uscì. Appena in strada, si sentì meglio. Ricordò la smorfia della ragazza. Non era stato gran che, ma pur sempre una piccola soddisfazione. Poi, a un tratto, dimenticò Loretta Channing e tutto il resto. Tutto fu cancellato dalle strade sporche, e dai gradini sconnessi delle case cadenti. Lui, la sua vita, viaggiavano con un biglietto di quarta classe. Se lo disse, e se lo ripeté. Guardò le porte di legno fradicio, i vetri sporchi delle finestre, le frasi oscene scritte sui muri. Si fermò a osservare la parola di quattro lettere scritta da qualche esperto con la vernice gialla, e in caratteri gotici: quello era il messaggio preferito di Vernon Street al mondo. Lesse la parola a voce alta. E il suono della sua voce lo calmò. Si strinse nelle spalle e riprese a
camminare. III Camminava lentamente, ma non per stanchezza. Non se la sentiva ancora, di rientrare in casa, e voleva prolungare il più possibile la camminata. Tirò fuori dal taschino dei pantaloni un orologio di metallo e lo guardò: era l'una e venti. Si chiese come mai non avesse sonno. Era in piedi dalle cinque del mattino, e per di più quel giorno aveva fatto tre ore di straordinario, al porto. Ma non era stanco. Fiancheggiò la lunga fila di baracche di legno dove viveva la gente di colore. In una delle baracche veniva distillato del whisky, e i vicini, vecchi baciapile, denunciavano continuamente il distillatore e non capivano perché non lo arrestassero. Be' la spiegazione avrebbe potuto dargliela il distillatore: mentre loro erano in chiesa, lui andava a consegnare le sue bustarelle, e questo risolveva tutto. Dopo le baracche, c'era un vicolo, poi una casa con appartamenti sfitti, poi un paio di case a due piani, abitate da armeni, ucraini, portoghesi, norvegesi, e parecchi sangue-misto. Era gente che si comportava bene, salvo il sabato e la domenica, quando bevevano come spugne. Allora, soltanto l'arrivo della polizia metteva fine ai guai. Kerrigan superò un altro vicolo e arrivò a un edificio di tre piani, vecchio di almeno duecento anni. Apparteneva a suo padre. Gli era arrivato da quattro generazioni di Kerrigan. Si fermò sul marciapiede, di fronte alla casa, a osservarla. Vide le persiane rotte e scardinate, i gradini malsicuri. Dai muri, il colore se n'era già andato parecchio tempo prima, e adesso la casa aveva chiazze, come ogni altra catapecchia di Vernon Street. I Kerrigan occupavano il primo piano. Gli altri due erano affittati ad alcune famiglie che, a poco a poco, avevano trasferito lì con loro tutti i parenti, vicini e lontani. Non era facile stabilire quanta gente vivesse in quei locali. Dal rumore che facevano, a Kerrigan sembrava di stare sotto uno zoo stipato di animali feroci. Ma non aveva il diritto di lamentarsi, perché neanche il primo piano scherzava, in quanto a baccano. Aprì la porta ed entrò in un salotto rischiarato debolmente e arredato con un tappeto consunto, alcune seggiole sgangherate e un vecchio divano che perdeva l'imbottitura. Tom, suo padre, dormiva sul divano, in quel momento, ma si svegliò, tirandosi su a sedere, quando Kerrigan fu a metà stanza.
Tom Kerrigan aveva cinquantatré anni, ma era ancora un bell'uomo dai capelli candidi, sempre ben pettinati, il corpo muscoloso e nessuna ambizione. Nella sua vita, a turno, Tom aveva promesso bene come tenore, come pugile, come uomo politico, come commerciante e come agente immobiliare. Avrebbe potuto riuscire discretamente in ognuno di questi campi, ma per natura era un perdente: più perdeva, più era felice. Seduto sul bordo del divano, Tom sbadigliò da slogarsi le mascelle, poi sorrise cordialmente al figlio. «Rientri adesso?» domandò. «Sì. Mi dispiace di averti svegliato» rispose Bill Kerrigan. Tom scosse le spalle. «Non stavo dormendo. Questo maledetto divano rompe la schiena.» «Cos'è che non va, nella tua camera da letto?» domandò il figlio. «Lola mi ha buttato fuori.» «Ancora?» Tom si accigliò. «Non so cosa diavolo le sia successo, a quella donna» disse, sfregandosi la nuca. «È sempre stata una specie di gatta selvatica, ma negli ultimi tempi è diventata addirittura una belva! Stasera per poco non mi ha ammazzato. Mi ha tirato addosso il tavolino. Se non mi fossi chinato, mi avrebbe spaccato là testa.» Kerrigan si sedette su una poltroncina, accanto al divano. Aveva capito che suo padre era in vena di parlare e a lui non dispiaceva star lì seduto ad ascoltarlo. Quando era solo con Tom, si sentiva tranquillo e rilassato. Voleva bene al vecchio. «Lascia che ti dica una cosa» riprese Tom. «Non è facile vivere con una donna del genere. È come giocare con un tubo di dinamite! Quello che mi fa imbestialire è che non riesco a capire perché me la tengo.» Tom scosse la testa e sospirò. Kerrigan si accomodò meglio sulla poltrona, la schiena appoggiata a un bracciolo e le gambe a cavallo dell'altro. «Ne ha sempre una nuova» continuò Tom. «La settimana scorsa si era messa in testa che facevo l'asino a una di quelle che abitano al piano di sopra. Ma, porco mondo, dimmi un po' tu, da uomo a uomo, ti pare che farei mai una cosa simile?» «Figuriamoci!» mormorò Kerrigan cercando di dare un tono di sincerità alla sua esclamazione che, considerata la fama di Tom Kerrigan, avrebbe potuto venire interpretata in senso ironico. «Ecco, anche tu lo sai che non farei mai una cosa del genere» riprese
Tom. «Quando sposo una donna, le resto fedele. Sono stato un ottimo marito per tua madre, e dopo la sua morte sono stato fedele alla sua memoria per ben tre anni. Per tre anni interi, capisci, non ho guardato una sottana. Questa è la verità.» Kerrigan approvò con un cenno. «E a dire la verità» continuò Tom «tua madre aveva un caratterino... Ma pace all'anima sua, poveretta. Era una peste, ma paragonata alle altre mogli che ho avuto dopo, diventa un agnello. La seconda, ad esempio, Hannah, era matta come un cavallo. E quella che è venuta dopo, la spagnola... Come si chiamava?» «Conchita.» «Già, Conchita» disse Tom. «Gran donna, ma non mi piaceva il coltello che portava sempre addosso. Non mi vanno le donne che portano il coltello. Ecco, questa è una cosa che non posso rimproverare a Lola. Lei non ha mai allungato la mano su un coltello.» «Perché ti ha tirato il tavolino?» domandò Kerrigan. Tom sospirò. «Abbiamo avuto una discussione per gli affitti» spiegò. «Dice che quelli di sopra sono indietro di quattro mesi.» «Be', ha ragione» mormorò Kerrigan. «Quattro mesi fanno... quasi cento dollari.» «Lo so» rispose Tom. «E so anche che il danaro ci serve, ma non ho il coraggio di chiedere i soldi a quelli. Non si può spremere denaro da chi non ne ha. Il vecchio Patrizzi è rimasto disoccupato per un anno. E la moglie di Cherenski è ancora in ospedale.» «E gli altri?» «Stessa storia, più o meno. L'ultima volta che sono salito a chiedere i soldi dell'affitto, ho sentito parlare di tante disgrazie che per dimenticarle mi sono ubriacato per tre giorni di seguito.» Da una delle stanze giunse il rumore di una porta che si apriva, poi dei passi pesanti si avvicinarono lungo il corridoio. Kerrigan alzò la testa e vide entrare nel salotto Lola. Era una donna alta e robusta, sui quarantacinque anni, con folti capelli neri lisci, pettinati con la scriminatura nel mezzo e raccolti sulla nuca, lasciando scoperte le orecchie. I suoi novanta chili erano distribuiti ampiamente nelle curve anteriori e posteriori. La vita era sorprendentemente sottile, e le gambe lunghissime la facevano sembrare più alta del suo metro e settanta. Camminava ancheggiando, e l'espressione della faccia era una sfida aperta al sesso maschile, quasi una dichiarazione di guerra: «Se mi volete, dovrete lottare, per avermi». I pochi che avevano
ignorato l'avvertimento, ne erano usciti coi segni delle unghie sulla faccia. Lola aveva la pelle scura e quando era in collera, quel pizzico di sangue cherokee che le scorreva nelle vene veniva a galla. Adesso era addirittura furibonda e, insieme all'origine cherokee, erano venute a galla anche la parte di sangue francese e quella di sangue irlandese. Lola andò dritta verso il divano, le mani sui fianchi, gli occhi fissi su Tom. La sua voce bassa parve l'eco di un tuono, quando disse: «Andrai a prendere i quattrini dell'affitto?». «Senti, tesoro, ti ho detto...» «Lo so cosa mi hai detto» lo interruppe Lola «e non me ne importa un accidente. Andrai a prendere il denaro, e ci andrai subito.» «Ma non ne hanno! Mi hanno giurato...» «Sono tutti una manica di maledetti bugiardi! Ci andrei io, di sopra, e ti assicuro che, o mi danno i quattrini, o li scaravento fuori. Ma non spetta a me. Il padrone di casa sei tu, e trattare con gli inquilini è affar tuo.» «Be'... io ho avuto da fare e...» «Da fare cosa?» domandò Lola. «Startene seduto tutto il giorno a bere birra? È un'altra storia di cui sono stufa. Mattino, pomeriggio, sera, il signore beve birra, birra, e birra! Abbiamo in casa tante bottìglie vuote che potremmo impiantare una vetreria!» «Il medico dice che mi fa bene allo stomaco.» «Quale medico? Quando mai sei stato dal medico, tu?» «Be'... non te l'ho detto per non preoccuparti.» Lola si avvicinò maggiormente al divano e puntò un dito contro la faccia di Tom. «Sei tanto sano che per noi è una disgrazia» gridò. «E sei tanto sano perché non fai altro che mangiare, dormire, e bere birra! Se non fosse per tuo figlio, se non ci fosse Bill a portare a casa la sua paga, saremmo finiti tutti all'ospizio!» Tom prese un'espressione offesa. «Non è colpa mia, se i tempi sono duri.» «La colpa non è dei tempi, e lo sai benissimo. Se venisse qualcuno a offrirti un lavoro, cadresti morto di paura!» Indicò Tom con un ampio gesto del braccio, come se si rivolgesse a una platea di spettatori. «Gli chiedo di andare dagli inquilini a farsi dare i quattrini dell'affitto, e lui mi risponde che non sarebbe generoso.» Si girò di nuovo verso Tom, strillando: «Da quando in qua ti senti caritatevole? La verità è che sei troppo pigro persino per fare due scale». «No, senti, tesoro...»
Lola lo interruppe con una sequela di insulti così vibrati da far tremare le pareti. Per esperienza, Kerrigan sapeva che quella storia sarebbe andata avanti per buona parte della notte, perciò uscì dal salotto e si avviò verso la stanza che divideva con Frank. Ma si fermò prima, davanti alla porta di un'altra stanza, una stanza vuota nella quale, ora, non ci stava più nessuno. Si sforzò di distogliere lo sguardo da quella porta, ma già aveva la mano sulla maniglia. Aprì adagio, entrò e fece scattare l'interruttore della luce, poi richiuse, girò lo sguardo sulle pareti e sul soffitto, sul letto, sulla poltrona, sul piccolo tavolino e sull'armadio. Lì era vissuta la ragazza morta sette mesi prima. «Catherine!» chiamò Kerrigan, in silenzio, poi corrugò la fronte, irritato con se stesso. Non aveva senso, comportarsi a quel modo. La ragazza era stata sua sorella, una ragazza dolce e gentile, col suo stesso sangue, ma era morta, e niente l'avrebbe richiamata in vita. Kerrigan si voltò per uscire, ma qualcosa lo trattenne: la sensazione di essere sul punto di udire una voce. Poi la porta si aprì ed entrò Frank. I due fratelli si fissarono. Frank aveva le labbra contratte, lo sguardo vuoto, le braccia penzoloni lungo i fianchi. Fissava un punto della parete, oltre Bill. «Che cosa fai qui?» domandò a voce bassa. Kerrigan non rispose. «Ti ho fatto una domanda. Che cosa fai in questa stanza?» ripeté Frank. «Niente.» «Sei un bugiardo!» «Va bene, sono un bugiardo.» «Voglio sapere cos'hai in testa. Voglio che tu parli chiaro, che tu lo dica, adesso, subito, qui.» «Cosa dovrei dire?» Gli occhi di Kerrigan fissavano la faccia di Frank, come se volessero leggergli nel cervello. «Non me la dai a bare» disse Frank. Ansava. «Ne hai strada da fare, prima di riuscire a darla a bere a me!» «Perché non la pianti?» disse Kerrigan. «Pare proprio che tu cerchi guai.» Frank ammiccò più volte, poi tenne gli occhi serrati per qualche secondo, quasi stesse tentando di strapparsi dal cervello un pensiero molesto. Di qualunque cosa si trattasse, pareva pesare su di lui al punto di curvargli le spalle. Teneva la testa bassa, e la luce della lampada metteva in risalto i
capelli bianchi. Quella lampada tonda, appesa al soffitto, pareva un occhio pietoso che lo guardasse. Kerrigan sentì pena per il fratello. Si disse che forse avrebbe dovuto mostrarsi più gentile con lui, che Frank stava precipitando verso un baratro, che quel povero essere pavido pareva sul punto di crollare. Fece un passo avanti e posò una mano sulla spalla di Frank. E Frank indietreggiò di colpo, quasi fosse stato punto da un ago rovente. Continuò a indietreggiare, ripiegato su se stesso, col respiro affannoso, le labbra tirate sui denti. «Tieni giù le mani» balbettò. «Volevo solo...» «Tu stai cercando di rovinarmi» balbettò Frank. «Non sarai soddisfatto finché non mi avrai visto distrutto, finito. Ma non te lo permetterò! Non te lo permetterò!» La voce si alzò in un gemito acuto sulle ultime parole, mentre Frank si guardava attorno come una bestia in trappola che cerchi disperatamente una via d'uscita. «Vuoi una sigaretta?» domandò Kerrigan. Frank non rispose. Forse non aveva sentito. Le sue labbra si muovevano incessantemente, ma non ne usciva alcun suono. Kerrigan si accese una sigaretta e rimase a guardare il fratello, che si era seduto sulla sponda del letto e aveva ripiegato la testa sulle braccia posate sulla spalliera. «Non ha paura di me» pensò Kerrigan. «Ha paura del mondo. È arrivato al punto che non riesce più ad affrontare la realtà.» «Voglio che mi si lasci in pace» mormorò Frank, con voce sorda. «Non ho mai avuto intenzione di tormentarti» disse Kerrigan. «Ti chiedo solo di lasciarmi in pace.» «D'accordo, Frank.» Usò il tono più gentile che poté. «Non è mai stata mia intenzione darti fastidio. Quello che fai riguarda te solo.» Frank si alzò. Sembrava più calmo, più controllato. Andò verso la porta senza guardare il fratello, come se Bill non fosse stato presente. Quando Frank se ne fu andato, Kerrigan rimase in mezzo alla stanza a fumare, finché il mozzicone non gli bruciò le dita. Allora buttò il mozzicone sul pavimento, lo spense col tacco e uscì in fretta. Aveva bisogno di aria. Percorse il corridoio camminando svelto, e pochi secondi dopo era fuori. Sui gradini dell'ingresso, vide l'altro membro femminile della famiglia: Bella, la figlia di Lola. Era seduta in cima alla breve scala, e si voltò subito a guardarlo, appena si accorse della sua presenza.
IV «Salve» disse Kerrigan. «Vai all'inferno!» «Ce l'hai ancora con me?» «Fammi un favore, impiccati.» Bella aveva venticinque anni. Era stata sposata tre volte. Alta e formosa, sembrava l'edizione riveduta e corretta di sua madre. Aveva gli stessi capelli neri, gli stessi occhi scuri ed espressivi, la stessa carnagione olivastra, da indiana. Come sua madre, aveva la lingua lunga e il carattere impulsivo, e non aveva paura di nessuno, tranne naturalmente che di sua madre. Qualche settimana prima, durante una discussione, aveva dato un calcio a Kerrigan con tutta la sua forza, e Lola l'aveva picchiata di santa ragione, tanto che per due giorni Bella non aveva potuto uscire di casa. Kerrigan le sorrise. «Cos'ho fatto, questa volta?» «Gira al largo» rispose Bella. «Te l'ho detto fin dalla settimana scorsa, che sei cancellato dalla mia lista.» Lui le sedette accanto sul gradino. «Non so ancora perché ce l'hai con me.» «Hai la memoria corta.» Starle vicino, quella notte, gli faceva piacere e lo confortava. «Se non mi sbaglio, si trattava di una bionda...» «E non ti ricordi quale? Forse ne hai tante che non riesci a ricordartene i nomi.» «Era Vera?» «No. E già che siamo sull'argomento, chi è Vera?» Kerrigan si strinse nelle spalle. «Una cameriera. Quando vado a mangiare, qualche volta mi capita di attaccare discorso con le cameriere. Un giorno, me lo ricordo benissimo, ho detto a Vera che volevo una bistecca con patate.» Bella non fece commenti. Kerrigan le offrì una sigaretta, che la ragazza accettò con un brontolio. Per un po' rimasero seduti a fumare in silenzio. Infine Bella disse: «Non era una cameriera, quella con cui ti ho visto. A me è sembrata piuttosto un tipo da due dollari. L'hai portata a fare una passeggiata e poi sei entrato in una casa con lei». «Quale casa?» domandò Kerrigan, sinceramente sorpreso. Poi, di colpo, ricordò. «Ma va' al diavolo! Non era una casa, era un magazzino. Quella
donna è sposata e ha cinque figli. Suo marito vende roba di seconda mano. Le avevo detto che mi serviva una lampada per il salotto, e lei mi ha accompagnato da suo marito. Se non mi credi, vai un po' dentro a vedere la lampada nuova.» Bella era convinta, adesso, ma la spiegazione non l'aveva addolcita. «Perché non me l'hai detto subito, quando te l'ho chiesto la prima volta?» «Perché non mi è piaciuta la maniera in cui me l'hai chiesto. Non mi hai nemmeno dato la possibilità di spiegarmi. Mi sei saltata addosso come una gatta infuriata.» «E c'era bisogno di darmi uno schiaffo?» «Se non l'avessi fatto, mi avresti cavato gli occhi.» «Un giorno o l'altro lo farò davvero.» «Stai attenta, però, che non ci sia tua madre, nei paraggi» ribatté lui, sorridendo. «La prossima volta non mi fermerà nemmeno lei. Non mi fermerà nessuno.» Kerrigan smise di sorridere. Non gli piaceva l'espressione di Bella. «Fuori il rospo» disse. «Cos'è che ti rode?» Per qualche secondo, la ragazza non parlò, poi disse: «Sono stufa di aspettare». «Aspettare cosa?» «Lo sai.» Lui distolse lo sguardo. «Dobbiamo ricominciare con questa storia?» mormorò. «Voglio mettere le cose in chiaro, una volta per tutte» disse Bella. «Hai intenzione di sposarmi, sì o no?» Kerrigan tirò l'ultima boccata dalla sigaretta, poi buttò il mozzicone in mezzo alla strada. «Non lo so ancora.» «Cosa significa, non lo sai ancora? Perché ti tiri indietro?» Lui cercò una risposta logica, ma non la trovò. «Perché non dovremmo sposarci?» riprese Bella. «Stiamo bene, insieme, no?» «Io ho bisogno di qualcosa di più.» «Di che cosa, per esempio?» Ancora lui non trovò niente da dire. «Io non vedo difficoltà» disse Bella. «Già viviamo nella stessa casa e mangiamo alla stessa tavola. Non devi nemmeno fare dei cambiamenti. Ci
sarebbe soltanto da far spostare Frank nella mia camera. Io porterei la mia roba da una parte all'altra del corridoio, e tutto sarebbe a posto.» Kerrigan si sentiva sempre più a disagio. Le braccia attorno alle ginocchia, fissava il terreno, alla ricerca di qualcosa da dire, ma le sue labbra sembravano sigillate e si rifiutavano di parlare. Bella chinò la testa di lato ad osservarlo con sospetto. «Forse hai fatto dei progetti nei quali non sono inclusa?» Lui non rispose. Aveva la sensazione che la ragazza avesse detto una grande verità, della quale non si rendeva conto nemmeno lui stesso. «Di qualunque cosa si tratti, attento a non prendermi in giro. Non sono tipo da sopportare certe cose.» «Sei troppo gelosa» disse Kerrigan. «Ho tutti i motivi per esserlo» rispose Bella, dopo un attimo di silenzio. «Cosa dovrei fare?» domandò lui. Gli lampeggiavano gli occhi e la voce si era alzata di tono. «Vuoi che mi chiuda a chiave in un armadio?» «Sarei felice, se tu lo facessi.» Non lo guardava. Guardava i sassi della strada, considerandoli forse gli unici ascoltatori adatti, i più attenti, nella loro rigida immobilità. «Lo capite, voi, quello che mi sta capitando?» mormorò. Poi, muovendo appena la testa a indicare Kerrigan: «Questo tipo mi è entrato nel sangue, come una malattia. Sono arrivata al punto che non riesco più a pensare ad altro». Kerrigan la sbirciò. Per la prima volta, si rendeva conto che Bella aveva davvero bisogno di lui e capiva tutta la forza di quel suo bisogno, che andava oltre l'attrazione fisica. Da tempo sapeva di piacere alla ragazza, di piacerle molto. Il suo modo di comportarsi quando erano insieme da soli era una prova sufficiente per dimostrare che Bella trovava in lui qualcosa di speciale. Ma non aveva mai pensato che il bisogno di lui, per Bella, potesse diventare tanto importante. Comprendeva adesso di aver preso Bella per comodità, di non aver mai provato per lei un sentimento profondo, il sentimento che ora lei dimostrava di provare nei suoi confronti. Improvvisamente, sentì di averle fatto torto, e ne provò rimorso. Avrebbe voluto dirle qualcosa di bello, di affettuoso, che la rassicurasse, ma non trovò le parole. Adesso lei lo guardava. «Qualche volta, la notte» disse «mi tiro su a sedere sul letto, completamente sveglia, e cerco di capire quello che c'è tra me e te. Non so per quale motivo, ma faccio spesso un sogno in cui ti vedo in cima a una montagna. Io sono da qualche parte, lì attorno, non so dove, e ci sono centinaia di altre donne che cercano di raggiungerti. Sono mesi
che faccio sempre lo stesso sogno.» Kerrigan le sorrise. «Non lasciarti impressionare. Non hai rivali.» «Se solo potessi crederti!» «Dal momento che te lo dico...» «Dirlo non basta.» Bella aveva l'espressione preoccupata, e nella voce le tremava il dubbio. «Non riesco a evitare di sentirmi gelosa. Ma perché devo sempre avere tanta paura?» Lui si strinse nelle spalle. «A me lo chiedi? Io so solo che da quando noi due abbiamo cominciato, io non ho più avuto niente a che fare con nessun'altra sottana.» Bella gli credeva, lo si capiva. Eppure la preoccupazione restava. «Non è che lavori di fantasia. E non dipende nemmeno dal modo in cui puoi guardare le altre donne. È piuttosto il modo in cui le donne guardano te, che mi fa paura. Anche se sono sull'altro marciapiede e tu cammini senza degnarle di un'occhiata, loro si voltano a mangiarti con gli occhi, e io so che cosa gli passa nel cervello.» Bill si strinse ancora nelle spalle. «Le donne di questo quartiere si voltano a guardare qualsiasi paio di pantaloni.» «Non è vero» disse lei. «Io sono del quartiere, e lo so. C'è qualcosa, in te, che attira le donne.» Da come lo disse, non era un complimento. «Che sia dannata se capisco che cos'è che le fa voltare. Non sei che una montagna di muscoli, e non hai nemmeno finito le elementari! E non sei bello di certo. Quindi non è la bellezza, e non è nemmeno l'intelligenza. Lo sa Dio che cos'è!» Quei commenti sulle sue qualità fisiche e intellettuali misero Kerrigan a disagio. «Non ti rovinare il cervello a furia di pensare. Prendimi come sono, e basta» disse. Per parecchi secondi, Bella rimase a guardarlo senza parlare, imbronciata, gli occhi velati di collera. Poi, a poco a poco, le labbra della donna si schiusero in un sorriso, e il sorriso salì a illuminarle gli occhi, le guance presero colore. Alla fine, si alzò e disse: «Vieni, entriamo». Lui fece per alzarsi, ma qualcosa lo trattenne. Aggrottò la fronte. Non capiva. «Ho voglia di stare qui ancora un po'» disse. «Un po', quanto?» «Qualche minuto.» «Va bene» disse Bella. «Ma non tardare tanto. Non sono in vena di aspettare.»
Bill sentì la porta aprirsi e richiudersi. Era solo, e gli parve che gli avessero tolto un gran peso dalle spalle. Appena formulato questo pensiero, si domandò perché la presenza di Bella gli pesasse tanto. Mentre se ne stava lì a fissare la strada, udì il rumore di una macchina che si avvicinava. Alzò la testa e vide una decapottabile col tetto abbassato scivolare lentamente lungo il marciapiede. Strizzò gli occhi per vedere meglio e si irrigidì, riconoscendo i capelli biondi di Loretta Channing. V La macchina sportiva si fermò davanti alla casa dei Kerrigan. Loretta smontò e si diresse verso Bill. Lui strizzò ancora gli occhi, tentando di ignorare l'effetto che la ragazza gli faceva. Notando che lei, al contrario, era calma e rilassata, ne provò risentimento. «Siete certa di non aver sbagliato indirizzo?» domandò, scostante, quando gli fu vicina. «Ho accettato il vostro invito» rispose lei, seria. «È un po' tardi, per la cena.» «Non sono venuta per cenare.» La squadrò dal basso. «Volevo solo farvi una visita» continuò Loretta. «Avevo voglia di vedervi» aggiunse poi, in tono amichevole. «Molto bello, da parte vostra. È una vostra abitudine, andare dalla gente verso le due del mattino?» Lei si strinse nelle spalle. Un gesto aggraziato e disinvolto. «Speravo che foste ancora sveglio.» «E se non fosse stato così, probabilmente mi avreste svegliato. Magari avreste forzato la porta e fatto irruzione nella mia stanza.» «Non credo che sarei arrivata a questo punto» ribatté Loretta. «Io non ne sono altrettanto sicuro» commentò lui, guardandola di traverso. Tacquero per qualche secondo. «Cosa ne dite di una passeggiata?» propose poi la ragazza. L'offerta lo colse di sorpresa. La fissò accigliato, gli occhi pieni di domande rivolte più che altro a se stesso. «È una nottata ideale, per una passeggiata» riprese lei e, indicando la macchina, aggiunse: «C'è la capote abbassata, l'aria ci rinfrescherà».
Prima ancora di rendersene conto, Kerrigan era in piedi e la seguiva verso la macchina. Era una MG grigio perla, con l'interno in pelle gialla. Loretta si mise al volante, e lui rimase sulla strada, esitando a salire. Guardò la ragazza. Sorrideva. Gli parve un sorriso di sfida. Serrò forte le mascelle e girò attorno alla macchina. Aprì la portiera, fece per salire, poi si fermò e disse: «Belli, questi sedili. Non avete paura che ve li sporchi? Ho addosso i pantaloni da lavoro». «Salite, vi prego.» Mise in moto. Lui salì e si appoggiò allo schienale morbido. La macchina si mosse. Fecero il giro dell'isolato e tornarono in Vernon Street. Loretta lasciava che la macchina scivolasse via dolcemente, senza premere l'acceleratore. Kerrigan si mise comodo, imponendosi di gustare la corsa e il fresco senza pensare. E al diavolo la signorina Channing. La ragazza aveva una bella macchina e lui stava facendo una bella passeggiata, tutto qui. Ma a questo punto gli venne in mente che forse i suoi pantaloni avrebbero davvero sporcato i sedili di pelle, e l'idea lo mise a disagio. Per reagire si addentò un labbro. Guardò la strada che stavano percorrendo. Da quella parte si andava in Warf Street. «Stiamo andando al porto» osservò. «Lo so» disse Loretta. «Ci siete mai stata?» domandò lui. «Parecchie volte» rispose la ragazza. «Ma non ho mai visto il fiume di notte. Vi dispiace se andiamo a dare un'occhiata?» Lui si strinse nelle spalle. «Al volante ci siete voi» disse. La MG percorse Wharf Street, poi voltò a sinistra e proseguì, fiancheggiando i docks. Andavano lentissimi, sfiorando le sagome scure dei magazzini. Sull'acqua scura si allineavano i battelli da carico, simili a una mandria addormentata in attesa del mattino. Fra un'ora, sarebbe cominciata l'attività di ogni giorno, sarebbero arrivati i camion per prendere la merce arrivata, e gli scaricatori avrebbero cominciato a sudare sotto il peso delle casse, dei sacchi, dei pesanti imballaggi di cartone. Ma ora, sotto la luna, il molo era deserto e l'unico suono, lungo il fiume, veniva dal motore della MG. Inaspettatamente, la macchina svoltò, infilando un ampio molo deserto. Da una parte della banchina era ancorato un grosso cargo-cisterna olandese, dall'altra si vedeva il ponte che collegava le rive del fiume disegnando nel cielo una specie di enorme lama ricurva, argentea contro il blu della notte. Davanti a loro il molo finiva bruscamente in tre chilometri di acqua
profonda, che le luci della città ricamavano di punti luminosi. Parevano milioni di pagliuzze multicolori spruzzate su seta nera. La macchina era ferma alla fine del molo e la ragazza fissava il fiume. «Fa mancare il respiro» disse. Lui non capì a cosa si riferisse, e la guardò con aria interrogativa. Loretta mosse una mano a indicare l'acqua e il cielo e le navi e il ponte. «È magnifico» disse. «Ci sono diversi modi di guardare questa roba» brontolò lui. Scosse le spalle. «Forse, ai turisti, lo spettacolo può anche sembrare bello.» «Perché? A voi non sembra bello?» «Lo troverei bello, immagino, se non lavorassi qui.» Chinò gli occhi a guardarsi le mani callose. Ci fu una lunga pausa, durante la quale Kerrigan indovinò la domanda che la ragazza intendeva rivolgergli. «Faccio lo scaricatore» disse alla fine. «È un lavoro pesante, che probabilmente presenta il fiume sotto un diverso punto di vista.» «Perché?» domandò lei, e indicò l'acqua illuminata dalla luna. «In questo momento voi e io stiamo vedendo la stessa cosa.» «Guardate meglio» ribatté Kerrigan, additando le travi sporgenti dal molo, a pelo d'acqua, dove galleggiavano rifiuti e rottami. «Vedete quella roba verde? Viene dalle stive delle navi. È quanto c'è di più marcio. Se vi viene a contatto della pelle, vi penetra dentro e non ve ne liberate più. Potete lavarvi, spazzolarvi, spellarvi, vi resta attaccato, e la puzza...» La sentì rabbrividire, vide la sua bocca torcersi in una smorfia di disgusto, la guardò inghiottire a vuoto, tirando in dentro il labbro inferiore. «Vi sentite male?» le domandò, sorridendo. «Sto benissimo» disse lei. «Volevo soltanto darvi un quadro completo. Siete venuta a vedere il marcio, e io ve lo mostro.» «Perché lo chiamate marcio?» «È una parola che va bene quanto un'altra.» Notò il modo in cui lei lo guardava, con gli occhi spalancati, attenti, e aggiunse: «Non siate troppo curiosa, signorina Channing. Vi state mischiando con gente violenta, brutale». «Voi non siete brutale» disse lei, con vivacità. Poi: «Vi siete ricordato il mio nome!». Lui distolse lo sguardo dalla ragazza, e non rispose. «Vi piaccio, vero?» domandò lei. Kerrigan teneva lo sguardo fisso davanti a sé, oltre il parabrezza, sull'ac-
qua nera del fiume, e diceva a se stesso che la cosa migliore da fare era scendere dalla macchina e andarsene. «Perché non volete ammettere che vi interesso?» insistette Loretta. Bill avrebbe voluto guardarla, ma aveva paura a farlo. «Naturalmente potrei sbagliarmi» riprese la ragazza. «Forse non sono affatto il vostro tipo.» «Lasciate perdere.» «Non ne ho l'intenzione.» «È un argomento pericoloso.» «Per entrambi.» «Per me no.» «Mentite» disse lei «e lo sapete benissimo.» Bill cercò con la mano la maniglia della portiera, ordinandosi di aprire, di scendere e di andarsene. La sentì dire: «Mi piacete». «Va bene, ma smettetela. È inutile.» «È vero» mormorò la ragazza. «Lo sapete anche voi. L'avete capito.» Non la guardava, ma sapeva che si stava protendendo verso di lui. Tentò di aprire la portiera, ma la maniglia non voleva funzionare. «Guardatemi» disse lei. La guardò. Era incantevole, si sentiva avvolgere dal calore del suo corpo, se ne sentiva penetrare. Si disse che non doveva toccarla. Il suo cervello cercava freneticamente di dominare il suo corpo, ma lei era vicina, e si avvicinava sempre di più, sembrava galleggiare verso di lui. O forse era lui che si muoveva verso di lei, non ne era sicuro. Sapeva con certezza solo che la vicinanza della ragazza lo faceva impazzire. Poi il suo corpo si strappò al dominio del cervello, e lui l'abbracciò stretta, chiuse gli occhi, e la baciò. Fu qualcosa di mai provato prima, qualcosa di mai conosciuto, di mai immaginato. Qualcosa che lo portò di colpo su una nuvola alta che saliva ancora e lo allontanava da Vernon Street e dai docks, via dalla città e via dal mondo. Fu una sensazione di piacere incommensurabile, con un sapore che lo rendeva avido di gustarne di più, di più, di più... Ma di colpo fu di nuovo in grado di ragionare, e il cervello gli disse: "Ti sta prendendo in giro, si sta soltanto divertendo in una maniera nuova per lei". La respinse. Lo fece così bruscamente che la ragazza trasalì. Si raddrizzò a sedere, guardandolo e scuotendo lentamente la testa. «Cos'è successo?» domandò. «Cos'è che non va?»
Lui non riusciva a parlare. «Vi prego» disse ancora lei. «Ditemi cosa c'è... vi prego.» Lui aprì la portiera e scese dalla macchina. Ma non poté fare di più. Voleva allontanarsi e si chiedeva perché mai non riuscisse a muoversi. «Avete l'aria spaventata» mormorò lei. Poi, spalancando gli occhi: «Siete spaventato!». Bill chinò la testa a guardarla e disse a bassa voce: «Andate via». Loretta continuò a fissarlo per un po' con gli occhi sbarrati, ma per il resto era calma, calmissima. Infine, con una lieve scrollata di spalle, accese il motore. La MG ripercorse il molo, a marcia indietro, e scomparve. VI Kerrigan era di nuovo in Vernon Street, diretto verso casa. Avvicinandosi, pensava a Bella e alla lite che sarebbe certamente scoppiata appena lui fosse entrato. Probabilmente, Bella lo aspettava nell'ingresso con qualche oggetto pesante in mano, pronta a scagliarglielo addosso nell'attimo in cui avrebbe aperto la porta. La prospettiva di una baruffa con Bella in quel momento non gli dispiaceva. Anzi. Voleva sentire del rumore, e farne. Forse le avrebbe dato un paio di schiaffi. La voglia di picchiare qualcuno certo era forte. Si fermò di colpo, sotto un lampione. No, si disse, non un litigio con Bella. Se c'era una cosa che in quel momento avrebbe colpito con forza, volentieri, era la propria faccia. Tolse dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette, se ne ficcò a forza una tra le labbra contratte, e l'accese. Si appoggiò al lampione a fumare rabbiosamente e a osservare la strada. «Ehi!» chiamò una voce. Si voltò. Alla finestra della baracca di legno vide i grossi orecchini luccicanti, i lucidi capelli neri, la faccia color caffè-latte di Rita Montanez. Sul mercato della prostituzione di Vernon Street, dove raramente le richieste arrivavano a tre dollari, Rita era l'unica ad avere il coraggio di chiederne cinque. E li otteneva, perché era fatta in quel modo particolare che costringeva gli uomini a inghiottire un paio di volte, quando lei passava per la strada. Rita era un miscuglio di africana e portoghese, e raggruppava in sé le migliori caratteristiche fisiche dei suoi antenati. I suoi occhi, nerissimi, avevano ciglia lunghe e folte, il naso era dritto e fine, le labbra carnose senza essere volgari. Aveva trent'anni, ma non ne dimostrava più di venti. Kerrigan le sorrise e si accostò alla finestra. Non era un cliente della ra-
gazza, ma le era affezionato. Sentimento che risaliva a quando, entrambi bambini, avevano giocato insieme per le strade. «Ce l'hai una sigaretta?» domandò Rita. Kerrigan gliela diede e gliel'accese. Lei gli strizzò l'occhio, indicò con la testa l'interno della stanza e disse: «Vuoi entrare, bello?». Lui rise, e Rita fece eco. Era un loro vecchio scherzo, quello, che non era mai arrivato più in là della battuta. «Che novità mi racconti?» domandò la ragazza. «Come sta il mio amico Tom?» Kerrigan si strinse nelle spalle. Che suo padre fosse uno dei più fedeli clienti di Rita non gli faceva né caldo né freddo, in nessun senso. Da tempo, ormai, si era abituato all'idea che il vecchio frequentasse le professioniste di Vernon Street. Rita trasse una lunga boccata dalla sigaretta, poi buttò fuori il fumo lentamente e lo guardò salire nell'aria arrotolandosi davanti alla sua faccia. «Mi piace Tom» disse. «È un uomo in gamba.» Il giovane seguiva solo a metà quello che la ragazza stava dicendo. «Farai bene a stare attenta a Lola» consigliò, distrattamente. Rita socchiuse gli occhi, un'espressione che faceva parte della sua tecnica professionale. «Credi che Lola sospetti qualcosa?» domandò. «Questo non lo so» rispose Kerrigan. «Ma prima o poi aspettati una sua visita, e preparati all'incontro.» «Dovrei aver paura di Lola? È soltanto una montagna di lardo che fa un sacco di rumore!» La donna si passò la mano davanti alla faccia, per disperdere il fumo. «Lola non mi preoccupa. Nessuna donna mi preoccupa.» Portò la mano alla testa, poi la protese. Stringeva tra le dita l'impugnatura nera di uno spillone lungo più di dieci centimetri. «Questo è il mio biglietto da visita» disse. «Una carezza con questo, e capiscono subito chi è che comanda.» Lui sorrise. «Sei una strega!» «Devo esserlo. Questo posto non è fatto per le anime tenere.» Il sorriso morì sulle labbra di Kerrigan, che fissò la parete scrostata della baracca. «Hai detto una gran verità, Rita» mormorò. Lei studiò la sua espressione, e subito capì a cosa stava pensando. Si protese e gli posò una mano sulla spalla. «Non ti tormentare» disse. Kerrigan non rispose. «Ero una buona amica di tua sorella» disse la ragazza.
Lui alzò gli occhi sulla faccia truccata della donna da cinque dollari. «Sì, davvero. Eravamo proprio buone amiche» riprese Rita. «E io non faccio amicizia facilmente. Soprattutto con le donne. Ma con Catherine era diverso. Lei era una ragazza come si deve.» «Non sapevo che fosse tua amica» disse lui, fissandola. «Catherine era amica di tutti.» Rita alzò gli occhi a guardare oltre la testa del giovane. «L'ho vista spesso dare dolci ai bambini, e soldi agli straccioni. L'ho sempre vista dare.» La voce di Kerrigan uscì dura dalla gola contratta. «È stata ricompensata bene.» «Non tormentarti» ripeté Rita. Per un po', Kerrigan rimase in silenzio, poi mormorò: «È stata colpa mia». La ragazza lo guardò, accigliata. «Sapevo che questo posto non era per lei» spiegò il giovane. «Avrei dovuto portarla via.» «Dove?» «In un qualsiasi altro posto, ma via da questo... marciume, da questa strada maledetta.» «A te non piace la nostra strada?» «Ma guardala!» Kerrigan indicò il fondo sconnesso, il marciapiede sporco, le porte scrostate. «Come può piacermi?» «A lei piaceva» disse Rita. «Non aveva scelta. Aveva sempre vissuto qui e non conosceva posti migliori.» «Ma qui le piaceva. Era felice, qui. È a questo che devi pensare.» «Io penso una cosa sola: se l'avessi portata via, non sarebbe successo.» «Non devi darti la colpa.» «Non posso darla a nessun altro.» «Sì, invece, anche se non sai chi è, anche se non sai come si chiama, anche se forse non lo saprai mai. Comunque è passato quasi un anno... Smettila di pensarci.» Voleva dire qualcosa per ribattere il punto di vista di Rita, ma era come cercare un ago in un cassetto senza fondo. Scosse la testa lentamente e mormorò: «Buona notte, Rita». All'angolo della Quarta Strada, tirò fuori di tasca l'orologio. Segnava le tre e venti. Doveva alzarsi molto presto, e non valeva più la pena di andare a letto, ormai. Inoltre, adesso, l'idea di una lite con Bella non lo attirava
più. Trasalì al pensiero che lei lo stesse ancora aspettando, pronta a riceverlo con un fiume di improperi. Di colpo pensò alla biglietteria della stazione, al capolinea degli autobus, ai battelli ancorati ai moli. Ma questo non c'entrava, con Bella. Sentiva solo il bisogno di andarsene. Voleva fare un lungo viaggio che lo portasse lontano da Vernon Street. «Ci penserai in un altro momento» si disse. Scosse le spalle, e gli parve di averle schiacciate sotto un peso. Per liberarsi di questa sensazione affrettò il passo, ma dopo pochi metri si fermò di colpo. Voltò la testa lentamente a guardare il vicolo buio, dove la luna illuminava una bottiglia rotta, una scatola di latta schiacciata e le macchie secche di sangue. Si mosse verso il vicolo. Poi fu nel vicolo, intento a guardare le tracce rosse. "Piantala" pensò. "Va' via. Vai a casa." Ma restò lì a fissare i segni rossi tra i sassi. Passò un minuto, e un altro, e a un tratto Kerrigan ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse guardando. Si voltò adagio, e vide i capelli rossi e le spalle spioventi di Mooney. Il verniciatore teneva la testa piegata su una spalla, come se stesse studiando Kerrigan per farne un ritratto. «Non ti avevo sentito» disse Kerrigan. «Sono passato e ti ho visto per caso» disse Mooney. Raddrizzò la testa e si appoggiò alla parete di una baracca. Aveva i capelli bagnati. «Ti è piaciuta, la nuotata?» domandò Kerrigan. «Ti ha rinfrescato?» «Quel maledetto fiume» brontolò Mooney. «L'unica cosa che è riuscito a fare è stata quella di cercare di annegarmi.» Kerrigan rise. «C'era Nick?» «Mi ha raggiunto appena in tempo» rispose Mooney. «Sono andato sotto due volte, prima che mi afferrasse.» «E adesso dov'è Nick?» «È andato a casa. Come dovrei fare anch'io.» Mooney scosse la testa. Poi domandò: «Hai fatto progressi?». «Di cosa stai parlando?» «Della... di quella storia.» Mooney fissava le macchie di sangue. «Ti ho visto qui più volte di quante ne sappia contare. D'accordo, non sono affari miei...» «Allora lascia perdere.» «Sei tu che non vuoi lasciar perdere.» «Lascia perdere da questo momento. Non c'è soluzione.» «Lo dici, ma continuerai a venire qui.» «Se lo farò, vuol dire che sono un maledetto idiota. È questo che pensi,
vero?» «Non ti ho mai considerato un maledetto idiota» mormorò Mooney. I due uomini si guardarono a lungo, in silenzio, poi Mooney disse: «Tu vieni qui per indagare». «Non c'è niente su cui indagare» ribatté Kerrigan. Ma mentre parlava, osservava attentamente la faccia di Mooney. «Si è uccisa» riprese, cercando di usare un tono discorsivo. «Su questo non ci sono dubbi. Ha preso un coltello, si è tagliata la gola e ha aspettato di morire. Quindi non c'è niente da scoprire.» «C'è molto, invece» disse Mooney. «Lei ha fatto quel che ha fatto per la vergogna e il dolore, o come altro vuoi chiamarlo. Non è un segreto per nessuno. Tu non c'eri, quando è successo, ma il quartiere è rimasto sconvolto. Hanno cercato tutti di scoprire chi era stato. Le volevano bene. Io gliene volevo tanto.» «Tu?» «Sì» disse Mooney. «Tanto.» «Non sapevo che foste amici.» «Non guardarmi in quel modo» disse Mooney. «Cosa ti prende?» «Non mi piace il modo in cui mi stai guardando.» La faccia di Mooney non esprimeva niente. «Non è il caso, con me. Sto dicendo la verità.» «Lo spero» disse Kerrigan. «Fino a che punto eravate amici? Non vi ho mai visti parlare.» «Abbiamo parlato tante volte» rispose Mooney. «Qualcuno le aveva detto che una volta dipingevo. Le piaceva parlare di pittura. Una volta le ho mostrato qualcuno dei miei acquerelli.» «Dove? Nella tua stanza?» «Certo.» Kerrigan fissò il collo tozzo di Mooney. «Catherine non sarebbe mai andata nella stanza di un uomo.» «Sì, invece, se si fidava dell'uomo.» «Come fai a sapere che si fidava di te?» «Lo so perché me l'ha detto lei» rispose Mooney. «Puoi dimostrarlo?» «Cosa dovrei dimostrare?» «Che hai detto la verità.» Mooney aggrottò la fronte. «Mi dispiace di essere stato io a cominciare questa discussione» mormorò più a se stesso che a Kerrigan. Poi, guardan-
do in faccia l'altro, disse: «Tu sospetti di tutti, vero?». «Non è esatto» rispose Kerrigan. «Faccio solo un sacco di ipotesi.» «Sì, capisco» disse Mooney. «E fai anche un sacco di ipotesi sballate.» Kerrigan respirò fondo, prima di dire: «Mi piacerebbe fare quattro passi con te». «Per andare dove?» «Nella tua stanza.» «Per quale motivo?» domandò Mooney. «Cosa c'è, nella mia stanza, che ti interessa?» «Gli acquerelli» disse Kerrigan. Poi aggiunse: «O forse, da te, non ci sono disegni. Forse c'è soltanto un letto. Mi piacerebbe dare un'occhiata per esserne sicuro». La faccia di Mooney restò impassibile. «Vuoi controllare quello che ti ho detto?» «Proprio così.» Per qualche secondo Mooney rimase immobile, poi si strinse nelle spalle e si avviò, seguito da Kerrigan. Percorsero Vernon Street in direzione della Terza Strada, e poco prima di arrivare all'incrocio svoltarono in un vicolo, uno stretto passaggio tra costruzioni in legno, con le finestre tutte spente. Mooney camminava lentamente e Kerrigan lo seguiva senza perderlo d'occhio. Osservava attento le spalle curve dell'uomo che lo precedeva e le braccia penzoloni lungo i fianchi, un po' scostate dal corpo e leggermente piegate ai gomiti nell'atteggiamento di chi si tiene pronto a scattare. «Ci sei?» domandò Mooney. «Sono dietro di te» rispose Kerrigan. Mooney rallentò il passo e infine si fermò. «Continua a camminare» disse Kerrigan. «Senti, Bill...» «No» interruppe Kerrigan. «Non puoi più tirarti indietro. Adesso devi accompagnarmi nella tua stanza.» «Volevo soltanto dirti...» «Me lo dirai dopo. Adesso cammina.» Mooney riprese a camminare. Arrivarono fino a metà vicolo, a una casa a due piani, senza vetri alle finestre della facciata. Mooney andò alla porta, poi si fermò di nuovo e fece per girarsi a guardare Kerrigan. «Entra» disse Kerrigan. «Bill, ci conosciamo da che siamo al mondo.» «Ci conosciamo davvero?» mormorò Kerrigan. Poi sibilò tra i denti:
«Avanti, entra. Entra, maledizione!». Mooney aprì la porta. Entrarono in una stanza piena di gente che dormiva. I letti non erano sufficienti per tutti, e il pavimento era un groviglio di bambini e ragazzi. Kerrigan si tenne vicinissimo a Mooney, stando bene attento a non camminare sui corpi addormentati. Attraversarono la stanza ed entrarono in un altro locale dove c'era altra gente. Per un attimo, Kerrigan smise di pensare a Mooney e si domandò quante famiglie vivevano in quelle topaie. "Vivono come bestie" pensò. "Almeno tenessero pulita la loro tana!" Tornò a concentrarsi sul verniciatore, quando lo vide dirigersi alla scala. "Adesso devo stare attento" si disse. "Può tentare qualcosa quando saremo a metà scala." Ma non accadde niente. Mooney non si voltò nemmeno una volta. Arrivarono al secondo piano e imboccarono un corridoio stretto e buio, col soffitto basso. Mancava l'aria. Kerrigan seguì Mooney in una stanza. Era piccola e senza mobili. C'era soltanto un materasso sul pavimento. Poi Mooney accese la luce e Kerrigan notò un'altra cosa: un grosso vaso alto circa un metro e venti, di pietra, segnato da crepe, che pareva molto antico. Kerrigan guardò cosa conteneva. Era pieno di mozziconi di sigarette. Accanto al vaso, vide una pila di fogli da disegno, di quelli ruvidi, per dipingere all'acquerello, e poi tubetti di colore, pennelli, vasetti sporchi di tinta. Altri pennelli di diversa grandezza e forma erano sparsi un po' dappertutto per la stanza. Kerrigan pensò che dovevano essere più di cento. Si chinò sulla pila dei fogli e facendoli scorrere sotto il pollice notò che parecchi non erano stati usati, ma gli altri erano tutti paesaggi ad acquerello, o nature morte, e qualche ritratto. Era quello che voleva sapere. Adesso aveva la prova che Mooney aveva detto la verità. «Bene» disse. «Gli acquerelli ci sono davvero.» Aspettò la risposta, ma Mooney non parlò. Si volse e lo vide all'altro capo della stanza, con la faccia rivolta alla parete, e trattenne il fiato. I due uomini, adesso, guardavano entrambi la parete e ciò che vi stava appeso. Era un grande dipinto fissato su un grosso cartone. Era l'unico appeso alle pareti. Il colore dominante era il giallo pallido, che faceva da sfondo al verde grigio della faccia e al marrone dorato dei capelli. La testa, le spalle, e il collo della ragazza emergevano dalle pennellate gialle. La testa era leggermente reclinata in avanti e la faccia non aveva un'espressione particolare. Era un ritratto semplice di una ragazza coi capelli lunghi. Niente di
speciale. Eppure lei sembrava viva, là sulla parete. Sembrava quasi che respirasse. Là, sulla parete, c'era Catherine Kerrigan. «Non volevo che tu lo vedessi» mormorò Mooney. «Ho tentato di dirtelo, ma...» Kerrigan indietreggiò finché andò a urtare contro qualcosa. Annaspò con le mani e si afferrò all'orlo del grosso vaso. Le sue dita si fusero con la pietra, poi furono le braccia a diventare di sasso, e poi tutto il suo corpo parve trasformarsi nella stessa materia del vaso. Continuava a guardare sua sorella e si ripeteva che era viva, era viva... era viva! Sentì la voce di Mooney. «Maledizione, Bill, ho cercato di dirtelo. Non volevo che tu venissi qui e lo vedessi!» «È tutto a posto, non preoccuparti» disse. Parole che non significavano niente. La chiamò, dentro di sé. "Catherine... Catherine." Non guardava Mooney, eppure sapeva che l'uomo stava piangendo. E quando lo guardò comprese perché. Se ne rese conto a poco a poco, ma compiutamente: Mooney aveva adorato Catherine, e l'avrebbe adorata sempre. Il dialogo silenzioso tra i due uomini durò alcuni minuti. Parlarono di lei, si dissero quanto era stata adorabile, e dolce, e gentile, e sincera. E dalla parete lei parve unirsi alla conversazione muta, pregandoli di non costruirle un simile piedistallo, perché lei era stata soltanto una ragazza di Vernon Street con poco cervello e niente fortuna. «Era perfetta» disse Mooney a voce alta. «Perfetta.» Di colpo, Kerrigan si sentì stanchissimo. Guardò in giro, cercando dove sedersi. Infine sedette sul materasso, piegò le ginocchia, circondò le gambe con le braccia e ripiegò la testa, socchiudendo gli occhi. Sentì Mooney dire: «Lei non ha mai saputo quello che provavo per lei. E ora non so se posso spiegarlo a te». «Credo di saperlo già» mormorò Kerrigan. «No, non puoi saperlo» disse Mooney. «Per te, era tua sorella, perciò non puoi saperlo. Tu non hai mai dovuto lottare per non sentire che tu eri uomo e lei donna. La desideravo in maniera tale che per soffocare il desiderio andavo in drogheria, rubavo del veleno per topi e lo inghiottivo, così i crampi allo stomaco mi tenevano occupato il cervello.» Kerrigan lo fissò. «Perché non gliel'hai detto?» «Non avrei potuto. Lei avrebbe provato pena, per me, e forse, per compassione, avrebbe fatto ciò che non si sentiva veramente di fare. Se non
avessi avuto questa paura le avrei chiesto di sposarmi.» «Avresti dovuto dirglielo.» Mooney sospirò. Teneva la testa bassa. «Lei era una ragazza pulita» disse. «E io sono un uomo sporco, di uno sporco che non se ne va lavandosi perché è dentro. È il ricordo di tutti i posti marci che ho visto, di tutte le donne marce che ho frequentato.» «Non sei così, tu. Avresti dovuto dirglielo» ripeté Kerrigan. «Forse non sono stato abbastanza uomo» disse ancora Mooney. «Io sono solo uno specialista nell'arte di perdere tempo e di rovinare tutto. C'è stata un'epoca in cui i critici mi avevano messo tra gli acquerellisti più importanti. Dicevano che in poco tempo avrei spodestato Marin dal suo primo posto. Oggi dipingo le insegne per i negozi e guadagno dai dodici ai quindici dollari la settimana. Se il fisco lo volesse sapere, la mia ricchezza, oggi, ammonta a un dollaro e sessantasette centesimi.» Mooney stava parlando alla ragazza morta come se lei fosse stata presente e lo avesse potuto sentire. «A volte, la batteria si scarica» continuò, rivolto al ritratto «e allora l'uomo si arrende. All'onorato cittadino Mooney questo è successo tanto tempo fa. Non avrei potuto fare niente per te, se non appendermi con tutto il mio peso alle tue spalle e tirarti giù. Sono uno dei migliori nell'andare a fondo, e possiedo un talento unico per tirare gli altri a fondo con me.» «Tu hai un gran talento per dipingere» disse Kerrigan, accennando al ritratto sulla parete. «Grazie» rispose Mooney nel tono in cui l'avrebbe detto a un critico d'arte. «Ho dovuto fare più di trenta schizzi, prima. Lavoravo senza modello, e... Ci sono voluti tre mesi prima che il ritratto fosse finito. Questa è la prima volta che qualcuno lo vede.» Kerrigan continuava a guardare il ritratto. A poco a poco, la faccia dipinta si animò, ai suoi occhi, il tempo tornò indietro di cinque anni, a una sera d'estate in cui lui era fermo con Catherine sull'angolo della Seconda Strada con Vernon Street. Arrivando dalla Seconda Strada, la vide appoggiata all'angolo. Poi si accorse che la ragazza ansava, come se avesse corso. «Cos'è che non va?» le chiese. Lei non rispose subito, poi diede una scrollatina di spalle, dicendo: «Niente. Sciocchezze». Sorrise, anche, ma lui capì che il sorriso era forzato.
Le mise un braccio attorno alle spalle. «Su, raccontami» disse. Catherine cercò di continuare a sorridere, ma non ci riuscì. Era pallida. A un tratto, d'impulso, si strinse al suo braccio. «Sono felice di averti incontrato, Bill» mormorò. Ma le tremavano le labbra. «Catherine, dimmi cos'è successo» insistette lui. Di qualunque cosa si trattasse era evidente che la ragazza non ne voleva parlare, né pensarci. Cambiò argomento. «Hai l'aria stanca» disse. «Giornata faticosa?» «Qualche ora di straordinario» rispose lui. «Siamo a corto di uomini.» Sotto la debole luce del fanale i lineamenti di Catherine risaltavano fini e delicati. La ragazza portava sempre scarpe basse e gonne a pieghe, e sembrava più fragile, più giovane dei suoi diciotto anni. Il vestito era di cotone, e andava ripassato col ferro qua e là, ma era pulito. Catherine non metteva mai un vestito che non fosse pulito. Lei sorrise di nuovo e disse: «Sembri proprio distrutto. Andiamo a sederci da qualche parte». Diceva sempre così, come se non sapesse che c'era un solo posto dove ci si poteva sedere: la pasticceria, che aveva un distributore automatico e degli sgabelli. «Vieni, ti curerò con una bibita.» Lo prese per mano e si mosse verso la pasticceria. «Che cosa prendi?» gli chiese, quando furono nel piccolo locale. «Aranciata» rispose lui. Catherine infilò una moneta nella macchina e ritirò due bicchieri di aranciata. Lui vuotò il suo in pochi sorsi. Lei gustò invece la bibita bevendo adagio, con una cannuccia. La guardava. Adesso aveva una espressione felice. Ci voleva così poco per farla contenta, pensò. Si alzò di scatto e andò alla rastrelliera dei giornali. A Catherine piacevano i giornali illustrati e lui voleva vedere se ce n'era qualcuno che la sorella non avesse ancora letto. Stava prendendo una rivista, quando la porta si aprì ed entrarono tre giovani. Si voltò a osservarli. Indossavano camicie stazzonate, pantaloni senza piega e scarpe scalcagnate. Era difficile stabilire quale dei tre fosse il più brutto. I tre si diedero di gomito fra loro e andarono verso Catherine. Lei stava ancora gustando la sua aranciata e non si era accorta di loro. Kerrigan aspettò, per vedere cos'avevano intenzione di fare. Vide il più piccolo, quello che sembrava un pugile, sedersi sullo sgabello vicino alla ragazza. «Ma guarda che bella sorpresa!» lo sentì dire. «Ci si incontra ancora.»
Catherine trasalì, e Kerrigan capì perché era affannata, quando si erano incontrati all'angolo. Il pugile continuava a sorridere a Catherine. Gli altri due ridacchiavano fra loro. Uno aveva la faccia segnata da una cicatrice, e il secondo, magro, col colorito giallognolo, non riusciva a tenere le labbra chiuse a causa dei denti irregolari e sporgenti. Lo Sfregiato si sedette, e Catherine si trovò così tra lui e il pugile. Poi lo Sfregiato disse qualcosa che Kerrigan non sentì. Vide, però, che Catherine trasaliva. La ragazza volse la testa a guardare il fratello in piedi accanto alla rastrelliera dei giornali, e lui le fece un cenno per rassicurarla, come a dirle: "Non ti preoccupare, sono qui. Voglio soltanto vedere a che punto arrivano". Il pugile disse: «Perché sei scappata?». Catherine non rispose. L'anziano proprietario della pasticceria si sporse dal banco. «Be'?» domandò ai tre teppisti. «Be', che cosa?» ribatté lo Sfregiato. «Questo è un negozio. Cosa ordinate?» «Non abbiamo fretta» rispose il pugile. E, guardando la ragazza, aggiunse: «Mi piace fare le cose con calma. C'è più gusto» e tirò lo sgabello più vicino a lei. «Per favore, andate via» disse Catherine. Il proprietario indicò un cartello appeso dietro la cassa e chiese: «Sapete leggere, voi tre? C'è scritto: "Non si fa flanella"». «Non stiamo facendo flanella» disse il pugile. «Siamo qui per fissare un appuntamento.» Catherine fece per alzarsi, ma le stavano tutti e tre così vicini da impedirglielo. Kerrigan non si mosse, era deciso ad aspettare finché uno di loro avesse osato metterle addosso una mano. «Questo è un negozio» ripeté il proprietario. «Se non ordinate niente, andatevene.» «E va bene, nonno!» Il pugile si frugò in tasca e ne tolse un biglietto da un dollaro. «Portateci tre birre.» Poi allungò una mano a prendere il bicchiere dalle dita tremanti di Catherine, e aggiunse: «Anzi, facciamo quattro». Catherine alzò la testa e fissò il giovane. Ora non tremava più, e le sue labbra accennavano un sorriso, dolce e timido. «Mi dispiace di essere scappata via in quel modo» disse. «Ma tu e i tuoi amici dicevate cose talmente volgari... e quando ho visto che mi venivate incontro...»
«Non volevo mica offenderti» disse il pugile. Pareva incerto, indeciso su cos'altro dire. Si rivolse allo Sfregiato e all'altro, con la fronte aggrottata, come per rimproverarli di qualcosa. Catherine continuava a sorridergli, e a poco a poco la fronte del ragazzo si spianò. «Maledizione, avrei dovuto capire da come camminavi che non eri certo il tipo. Non ti dimenavi come fanno di solito quelle.» Catherine rise. Si guardò il corpo magro, si strinse nelle spalle e disse: «Be'... io non ho niente da dimenare». Il pugile scoppiò a ridere e gli altri due lo imitarono. Kerrigan si disse che adesso andava bene. Vide il terzo ragazzo sedersi vicino allo Sfregiato; il proprietario del locale posò le quattro birre sul tavolo, poi il pugile disse: «Ecco... io mi chiamo Mickey, e questi sono Pete e Wally». «Io mi chiamo Catherine» disse la ragazza. Si girò e fece un cenno per chiamare Kerrigan. «Lui è Bill» riprese, mentre il giovane si avvicinava. «È mio fratello.» «Salve!» salutò il pugile, e ordinò al proprietario un'altra birra. Kerrigan non aveva voglia di bere, ma accettò lo stesso, ringraziando il ragazzo. Guardò la sorella. Sulla faccia di Catherine, adesso, c'era un sorriso raggiante. Era felice, perché tutti erano diventati amici. Kerrigan bevve la sua birra in silenzio, ascoltando la ragazza che chiacchierava allegra con i tre giovani teppisti. La voce della ragazza era come una carezza affettuosa. Ma le ruote del tempo girarono e davanti a lui ci fu di nuovo la stanza di Mooney, e lui era lì seduto sul materasso a fissare il ritratto appeso alla parete. «Hai la faccia di quello che non ne può più» disse Mooney. «Perché non ti butti giù a dormire un po'?» Kerrigan guardò l'amico con occhi velati. «Devo alzarmi presto e qui non c'è la sveglia.» «Non ci pensare. Ti sveglierò io. Hai l'orologio?» Kerrigan si era già disteso e aveva gli occhi chiusi. Tolse di tasca l'orologio e lo tese a Mooney. «Svegliami alle sei e mezzo» biascicò, e mentre il sonno già gli oscurava il cervello si domandò come avrebbe fatto, Mooney, a svegliarlo in tempo. Quindi s'addormentò. VII
Alle dieci del mattino, il sole era un'immensa fornace che riversava sul fiume fuoco liquido. Lungo le banchine, i grossi battelli da carico brillavano nel caldo afoso. Sui moli, gli scaricatori lavoravano nudi fino alla cintola, e alcuni si erano legati i fazzoletti attorno alla fronte, per impedire che il sudore colasse negli occhi. Lungo il molo 17 c'era un grosso cargo appena arrivato dalle Indie Occidentali con un carico di ananas. I capisquadra, esagitati, urlavano i loro ordini sollecitando gli scaricatori a fare in fretta. Tra le casse si agitavano alcuni commercianti di frutta che avevano acquistato il carico, e protestavano perché, secondo loro, le operazioni procedevano con lentezza, e con quel caldo, urlavano, gli ananas sarebbero andati a male. Kerrigan e altri due scaricatori erano alle prese con una gabbia di imballaggio del peso di duecentocinquanta chili, quando un ometto in cappello di paglia si avvicinò, gridando: «E sollevatela, per Dio! Sollevatela!». I tre uomini stavano cercando di caricare la gabbia su un grosso carrello, ma in quel punto del molo erano ammucchiate casse, altre gabbie e pesanti scatole di cartone, che limitavano lo spazio, costringendo gli scaricatori a lavorare in condizioni proibitive. Curvi in avanti, due degli uomini sostenevano la gabbia inclinata, mentre Kerrigan, inginocchiato, con le mani infilate sotto il carico, cercava di guidarne il lato alzato da terra in modo da farlo poggiare sul carrello. «Razza di idioti!» urlò l'ometto. «Non è così che si fa!» Il lato dell'enorme cassa venne finalmente a contatto con il carrello, ma in quel momento le ruote si spostarono di qualche centimetro e la cassa scivolò. Kerrigan fece appena in tempo a ritirare le mani. «Ve l'avevo detto!» urlò il commerciante. «Avete visto?» Uno degli scaricatori gli lanciò un'occhiata, poi disse a Kerrigan: «Va bene, Bill, riproviamo». L'altro inarcò la schiena all'indietro, massaggiandosi le reni. «Ci vorrebbe un po' più di spazio» osservò. «Ci vorrebbe un po' più di cervello!» urlò l'ometto con la paglietta. «È il cervello che vi manca, altro che lo spazio!» Kerrigan si asciugò la faccia sudata, tornò a mettersi di fianco alla gabbia, spinse una cassetta contro le ruote del carrello, per tenerle ferme, e domandò: «Pronti?». «Pronti.» «Forza!» disse Kerrigan, e gli uomini curvarono la schiena per ricevere il peso della cassa. Kerrigan riprese il tentativo di sollevarla fino al piano
di carico, e riuscì di nuovo a portarla all'altezza del carrello, ma una scheggia metallica gli si infilò sotto un'unghia e il dolore gli fece sfuggire la presa. «Maledizione!» imprecò mentre la cassa sbandava di lato e ripiombava sul molo. Kerrigan si alzò e prese a succhiarsi il sangue dal dito ferito. «Dovresti fasciarlo, quel dito» consigliò uno degli altri. «Oh, al diavolo» brontolò Kerrigan. L'ometto si agitava, rosso come un gambero, urlando: «Non siete nemmeno capaci di fare il vostro mestiere! E intanto gli ananas stanno qui a marcire sotto il sole!». Fece gesti frenetici all'indirizzo del caposquadra, che stava sull'altro lato del molo. «Ehi, Ruttman! Vieni un po' qui a vedere cosa stanno combinando, questi!» Il caposquadra si avvicinò, passando tra le pile di casse. Era un colosso vicino ai quaranta, quasi calvo, col naso appiattito, le labbra solcate da una cicatrice e il mento sproporzionato. Le braccia erano un tatuaggio solo, dal polso alla spalla. Seminascosta dai peli del petto, occhieggiava la testa di un bisonte africano. «Che razza di gente avete assunto, qui?» continuò a strillare il commerciante. «Guardate un po' voi cosa combinano!» «Calma, Johnny, calma!» La voce di Ruttman era profonda e sonora. Il caposquadra si avvicinò alla cassa, guardò il carrello, poi si volse ai tre scaricatori. «Cosa succede, qui?» «Non riusciamo a metterla lì sopra» rispose uno. «Siamo troppo alla stretta per fare il lavoro come va fatto.» «Non è vero!» gridò il commerciante. «Spazio ce n'è fin che si vuole, ma voi siete degli scansafatiche che lavorano giusto per arrivare a sera!» Ruttman gli disse chiaro e tondo di andarsene. L'ometto cominciò a strillare che lui aveva investito un sacco di quattrini in quegli ananas e che sarebbe restato lì a vedere che non lo derubassero. Ruttman rispose che nessuno avrebbe toccato i suoi ananas, e che per di più, andandosene, lui avrebbe fatto un grosso piacere a tutti. Al che l'altro incrociò le braccia, dichiarando che aveva tutto il diritto di stare lì. Ruttman sospirò e fece un passo verso l'ometto che trotterellò via. I tre scaricatori fecero per tornare alla cassa, ma il caposquadra li fermò con un gesto. «Così non va» disse. «Bisogna trovare un altro sistema.» Si rivolse a Kerrigan. «Vai un po' a prendermi una catena e una leva.» Kerrigan si allontanò lungo il molo, asciugandosi il sudore. Nella baracca degli attrezzi trovò un rotolo di nastro adesivo e ne strappò un pezzetto
per fasciarsi il dito, che continuava a sanguinare. Poi prese una catena e una leva, uscì, fece un paio di passi e si fermò di colpo, lasciando cadere la leva, mentre la catena gli scivolava dalle dita. A pochi metri da lui c'era Loretta Channing, seduta al volante della sua MG. Appoggiati alla macchina ferma in mezzo al molo c'erano un paio di uomini in abito di lino e col panama in testa. La ragazza, evidentemente, aveva ottenuto un permesso speciale, per poter venire sul molo. Mentre lui restava lì immobile, trattenendo il fiato, a guardarla, Loretta gli fece un cenno di saluto. Gli uomini col panama si voltarono a osservarlo con un sorriso divertito. Kerrigan avrebbe voluto raccogliere la catena e la leva e andarsene, ma nel momento in cui si chinava per raccattare gli attrezzi, vide l'oggetto scuro tra le mani di Loretta e si irrigidì. Era una macchina fotografica, e la ragazza l'aveva puntata su di lui. Si raddrizzò, respirando a piena bocca l'aria bollente, le braccia scostate dal corpo, i pugni serrati, senza rendersi conto di mostrare i denti come un cane ringhioso. La macchina emise un breve scatto. Il rumore era stato lieve, ma nel cervello di Kerrigan parve una esplosione. Gli sembrò di aver ricevuto una frustata in faccia. Si mosse, camminando lentamente verso l'MG, la testa protesa in avanti, come un'arma puntata. Un fruttivendolo in grembiule venne a trovarsi sulla sua strada, e lui lo scostò bruscamente, senza sentire il gemito di protesta dell'uomo. I due in panama si tolsero di mezzo istintivamente, ma Loretta non si mosse. Loretta rimase seduta al volante a sorridergli e ad aspettarlo, la macchina fotografica ancora in mano. Lui si fermò alla portiera della MG, indicò la macchina, e disse: «Datemela». Loretta spalancò gli occhi con espressione di finto sbalordimento. «La volete come regalo?» domandò. «Voglio la pellicola.» L'espressione della ragazza non mutò. «E cosa volete farne?» «Farvela ingoiare.» Quelli del panama si guardarono, incerti. Uno si fece coraggio e batté una mano sulle spalle di Kerrigan, mormorando: «Non è il caso di fare il villano, giovanotto. La signorina vi ha fatto soltanto una fotografia, cosa c'è di male?». «Fuori dai piedi, voi» disse Kerrigan.
«Forse non lo sapete, ma sono uno dei proprietari del molo» disse l'uomo. Kerrigan non lo ascoltò nemmeno, e si protese per afferrare la macchina. Ma Loretta fu più svelta. Aprì lo scomparto del cruscotto, vi infilò la macchina fotografica e richiuse. Kerrigan si afferrò alla portiera e, protendendosi al di sopra del volante, allungò la mano verso lo scomparto. In quel momento, il proprietario del molo lo afferrò per un braccio, dicendo: «Un momento, giovanotto. Cosa...». L'attimo dopo il panama gli volava dalla testa, e lui indietreggiava, spinto dalla mano che Kerrigan gli aveva piantato piatta sulla faccia. L'uomo inciampò in un'asse sconnessa e cadde di peso a sedere per terra, guardando Kerrigan dal basso, a bocca aperta. Loretta era rimasta impassibile. Continuò a sorridere a Kerrigan e disse: «Non capisco perché ve la prendiate tanto. Vi ho solo fatto una fotografia, in fondo!». «Me l'avete fatta per poterla mostrare ai vostri amici dei quartieri alti, per far vedere come lavorano gli scaricatori del porto, simili a bestie in gabbia.» Tornò a protendersi verso il cruscotto, mentre Loretta restava seduta tranquilla, senza tentare di fermarlo. Bill trovò il pulsante cromato che comandava l'apertura dello scomparto e lo premette. Lo sportellino ribaltò, e lui annaspò alla ricerca della macchina. L'aveva già tra le dita, quando sentì la stretta all'altezza del gomito, e il dolore lo fece trasalire. Voltò la testa e vide Ruttman. «Sta' calmo» mormorò il caposquadra. «Avanti, vieni via.» «Lasciatemi perdere» disse Kerrigan, cercando di liberare il braccio, ma Ruttman non mollò la presa. Il proprietario del molo si avvicinò a Ruttman. Era ancora senza cappello. «Licenzia immediatamente quest'uomo» ordinò. «Dagli la sua paga e buttalo fuori di qui!» «Va bene, signore» rispose Ruttman. Respirò a fondo, poi disse a Bill: «Su, andiamo. Vieni con me». Kerrigan non si mosse: stava fissando le facce dei due elegantoni. Sorridevano, adesso, si sentivano sicuri, vedendolo affidato a un colosso che aveva tutta l'aria di essere in grado di tenerlo a bada. «Andiamo, ho detto» ripeté Ruttman, a voce più alta. Ma Bill non lo sentì nemmeno. Ora guardava gli altri scaricatori, che a-
vevano abbandonato il lavoro per venire a vedere cosa stava succedendo. Ruttman era il capo indiscusso del molo 17. Parecchi si erano provati a sfidare la sua autorità, e ne erano usciti con qualche dente di meno, col naso rotto, con le mascelle fracassate. Alle banchine di Wharf Street era opinione generale che litigare con Ruttman non conveniva mai. Kerrigan guardò il caposquadra. Sulla faccia del colosso lesse il consiglio amichevole di lasciar perdere. Gli parve che gli occhi di Ruttman gli dicessero: "Non costringermi a menare le mani. Non mi va l'idea di farti male". La prudenza più elementare e il pensiero che in fondo lui non aveva nessun motivo di rancore contro Ruttman gli consigliarono un gesto di sottomissione. Chinò la testa e fece per voltarsi, ma in quel momento vide il sorriso ironico di Loretta. Bill lasciò cadere la macchina fotografica e colpì con un manrovescio la bocca della ragazza. Lo schiocco dello schiaffo risuonò nell'aria, e la testa della ragazza ruotò di scatto sul collo, ma Kerrigan non fece in tempo a constatare quale fosse il danno perché Ruttman era già partito all'attacco. Un diretto lo prese sotto l'occhio e Bill barcollò all'indietro, perse l'equilibrio e finì contro una cassa. Non cadde, però, e serrati i pugni si buttò contro Ruttman. Colpì la faccia del caposquadra con il destro e poi subito con il sinistro, e poi gli si strinse addosso, martellandolo al corpo. Ruttman si piegò in avanti, cercando di ribattere nel corpo a corpo. Kerrigan balzò indietro e gli tirò un uncino al mento, subito seguito da un pugno alla testa, indietreggiò ancora e tentò di colpire di destro, ma mancò l'avversario, e non riuscì a parare il terribile destro del caposquadra. Fu un colpo magistrale, che gli esplose sulla mascella e lo buttò a terra. «Cominciamo a contare» disse qualcuno. Kerrigan giaceva sulla schiena, con gli occhi chiusi. Non sentiva dolore, ma voleva restare lì, senza muoversi, abbandonandosi all'incoscienza. Poi sentì una voce che domandava: «Già finito?». Aprì gli occhi, vide la faccia di Ruttman sopra di sé, fece una smorfia e rispose: «Non ancora». Ruttman sospirò, rassegnato, e fece un passo indietro per dargli la possibilità di rimettersi in piedi. Bill si rialzò lentamente. Adesso sentiva il dolore in tutto il corpo, e gli pareva di avere la mascella spostata verso l'alto e stretta in una morsa. Ruttman avanzò con il destro pronto a colpire, fece una finta di sinistro e
vibrò il pugno. Kerrigan spostò rapido la testa, evitando il colpo, ne parò un secondo che gli minacciava le costole, bloccò un nuovo destro diretto alla mascella. Ruttman strinse i denti, si allungò, mancò di nuovo il colpo, si ributtò in avanti e mancò Kerrigan, che saltellava indietro e di lato, sfuggendo ai pugni dell'avversario, e avanzava per poi scartare rapido, togliendosi dalla linea di tiro. L'espressione di Ruttman era cambiata. Da annoiata, si era fatta impaziente. Respirò a fondo e caricò Kerrigan. Incontrò l'aria, perse l'equilibrio, inciampò e cadde su un ginocchio. Qualcuno rise. Ruttman si rialzò immediatamente. Caricò ancora, di sinistro. Bill si spostò e per due volte colpì il caposquadra allo stomaco, di destro. Ruttman abbassò la guardia per proteggere il corpo e Kerrigan, dopo un balzo indietro, si protese in avanti, e ben bilanciato sulle gambe gli sferrò un destro al mento. Il caposquadra barcollò e batté l'aria con le braccia per ritrovare l'equilibrio, gli occhi momentaneamente annebbiati, poi si riprese e tornò all'attacco. Trovò Kerrigan pronto a riceverlo. Bill colpì di sinistro, colpì ancora e ancora, sul naso, sulla bocca, sulla mascella, e infine, con tutta la sua forza, il destro di Bill si abbatté sul sopracciglio sinistro del caposquadra. Bill vide la pelle spaccarsi, il sangue spillare, e colpì nello stesso punto, allargando la ferita. Gli scaricatori guardavano in silenzio, delusi nel vedere Ruttman incassare senza rispondere, barcollare indietro, incassare ancora. Assistevano alla sconfitta di un uomo ritenuto invincibile. E non ne erano contenti. Un altro pugno colpì il sopracciglio sanguinante di Ruttman, e il caposquadra ebbe un grugnito di dolore. Cercò di proteggersi, ma i pugni di Kerrigan, rapidi e precisi, continuarono a martellarlo, alla testa e alla faccia, e infine altro sangue si aggiunse a quello che colava dagli occhi, quando Ruttman sputò due denti. «Forza, Ruttman!» gridò qualcuno. «Non arrenderti! Dagli addosso!» «Picchia, Ruttman! Forza!» E mentre gli uomini urlavano il loro incoraggiamento a Ruttman, Kerrigan si sentì improvvisamente stanco, come schiacciato da un peso enorme. Si rese conto che stava umiliando un uomo che non gli aveva fatto niente. Di colpo, quello che stava facendo non gli piacque. Il suo avversario non
era Ruttman. Il vero nemico era seduto al volante della MG, con i capelli che brillavano al sole e gli occhi divertiti. Strinse i denti, rendendosi conto che era vero. I pugni di Ruttman stavano per colpirlo, ma non gliene importava più; senti appena l'urto alla faccia. Non era più un combattimento, adesso, ma una scena grottesca, della quale nessuno rideva. Un colpo sulla bocca. Bill sentì il sapore del sangue, ma non vi fece caso. Non fece caso nemmeno al dolore. Stava pensando: "Non sei più forte di lei! Non puoi dominarla". Un pugno alla tempia, e Bill indietreggiò, barcollando. Vide Ruttman avanzare, le braccia in movimento, come pistoni. Ma non aveva importanza. Non si curò nemmeno di alzare le mani per proteggersi dai colpi. Continuava a indietreggiare sotto i pugni, come un fantoccio disarticolato, mentre Ruttman lo incalzava di destro, di sinistro, di destro ancora. Girò su se stesso, si inarcò sulla schiena e cadde come un masso a faccia in giù sul molo. Per un po' gli spettatori rimasero immobili, poi un paio di uomini si mossero per unirsi a Ruttman, che si era chinato su Kerrigan. «È andato» mormorò il caposquadra. «Decisamente andato.» «Ma respira?» domandò uno scaricatore. «State tranquilli, non l'ho ammazzato» disse Ruttman. Voltarono Kerrigan sulla schiena e per un po' restarono in silenzio a guardarlo. Kerrigan aveva gli occhi chiusi ma gli uomini non guardavano gli occhi. «Sta sorridendo» disse uno. «Guardate un po', questo bastardo! Cosa diavolo avrà da sorridere?» Kerrigan era in pieno stato di incoscienza, ciononostante una parte del suo cervello gli parlava, e dal suo mondo dei sogni Bill vedeva se stesso scuotere la testa e dire: "Sei un maledetto stupido". VIII Lo sollevarono e lo portarono nell'ufficio del caposquadra, dove lo adagiarono sullo sconquassato divano di pelle della stanzetta polverosa che, dietro l'ufficio, serviva da infermeria per i casi di emergenza. Gli buttarono dell'acqua sulla faccia e lo costrinsero a buttare giù un po' di whisky. Pochi minuti dopo, Kerrigan si tirò su a sedere e accettò una sigaretta offertagli da Ruttman, poi alzò la testa a guardare il caposquadra e gli sorrise.
Ruttman ricambiò il sorriso. «Come ti senti?» chiese poi. Kerrigan scosse le spalle. Gli altri scaricatori sfollarono lentamente. Ruttman aspettò che fossero usciti tutti, poi disse: «Mi hai dato del filo da torcere. Ancora un po' e mi mettevi a terra definitivamente. Perché tutto ad un tratto hai smesso di combattere?». Kerrigan scosse di nuovo le spalle. «Ero spompato» rispose. «Non è vero. Stavi andando bene, invece.» Ruttman lo fissò con la fronte aggrottata. «Avanti, dimmi perché hai mollato.» «Mi ero stancato.» Ruttman sospirò. «Mi sa che non ti va di dirmelo.» Poi fece un ultimo tentativo. «Se ti confidi, può darsi che riesca ad aiutarti.» «E chi ha bisogno di aiuto?» «Tu. Per cominciare, hai perso il posto.» Kerrigan avrebbe voluto prenderla alla leggera, ma sentì un morso d'angoscia al pensiero delle condizioni finanziarie della sua famiglia. La sua paga settimanale era l'unico introito che entrasse in casa. Sì, c'era Bella che lavorava tre sere la settimana come guardarobiera in un locale, ma la ragazza aveva il vizio del gioco, soprattutto delle corse di cavalli, ed era sempre al verde. E così lui, adesso, aveva cinque bocche da sfamare ed era senza lavoro. Un quadro molto poco divertente. Compì uno sforzo per non abbandonarsi al panico. «Ci sono altri moli» disse. «Andrò da Ferraco, al molo diciannove. Là sono sempre a corto di uomini.» «Non ci pensare. Non ti prenderanno» disse Ruttman. «Nessuno ti assumerà.» «Perché?» domandò Kerrigan, ma sapeva già la risposta. «Sei bollato» rispose Ruttman. «Ormai lo sanno tutti.» A testa bassa, Bill aspirò una boccata dalla sigaretta. Il fumo aveva un sapore amaro. Sentì il caposquadra dire: «Vorrei poterti aiutare, ma tu non mi dici niente e non so a cosa attaccarmi per difenderti». Bill non alzò gli occhi dal pavimento. «Al diavolo» brontolò. «Resta qui a riposare un po'» disse Ruttman. «Quando vorrai andartene, troverai i soldi della paga pronti.» Il caposquadra uscì. Ora Kerrigan sentiva in pieno gli effetti dei pugni incassati. Gli dolevano lo stomaco, e il ventre, e la faccia. Si distese sul divano, chiuse gli occhi, e pensò che riposare un paio d'ore gli avrebbe fatto
bene. In quel momento sentì un rumore di passi e il fruscio di un vestito. Aprì gli occhi e vide Loretta Channing che lo guardava. La ragazza era in piedi accanto al divano, con la macchina fotografica tra le mani. Bill notò che le sue dita armeggiavano attorno alla levetta per aprire la macchina, poi la vide togliere il rotolo di pellicola. La taccia della ragazza era immobile e inespressiva, quando lei tese la mano a porgergli il rotolo. Lui fece una smorfia e scosse la testa. «Prendete» disse Loretta. «Cosa dovrei farmene?» «Quello che volete. Avete detto che me lo avreste fatto ingoiare.» Kerrigan si mise a sedere, sorridendo. «L'ho detto davvero?» «Sì» rispose Loretta, poi indietreggiò di qualche passo per vederlo meglio. Aveva inarcato le sopracciglia, come se stesse aspettando qualcosa che invece non succedeva. Bill capì che lei aveva previsto una nuova esplosione di collera da parte sua. Tirò giù le gambe dal divano e si appoggiò alla spalliera, in posizione comoda, e la guardò attraversare la stanza per buttare il rotolo nel cestino dei rifiuti. Quando si volse di nuovo verso di lui, Bill notò il segno sulle labbra e trasalì. «Mi dispiace di avervi dato quello schiaffo» mormorò. Doveva dire qualcosa di più, maledizione! «Non avevo l'intenzione di farvi male» aggiunse. «Ma... per un attimo ho perso la testa.» Si alzò dirigendosi alla finestra che si affacciava sul fiume battuto dal sole. «Mi dispiace veramente» disse a voce bassa. Dopo un lungo silenzio sentì la voce della ragazza. «Non scusatevi. Sono... sono contenta che l'abbiate fatto.» Si volse a guardarla. «Sì» disse lei. «So di essermelo meritato. Non avrei dovuto venire qui sul molo, e non avevo nessun diritto di farvi quella fotografia.» «Perché siete venuta?» domandò lui. Lei aprì la bocca per rispondere, ma cambiò idea e serrò le labbra senza aver detto niente. Bill la vide arrossire. Dopo un po', Loretta mormorò, senza guardarlo: «Qualunque fosse il motivo, non era una scusa valida. Mi vergogno di quello che ho fatto». Si costrinse a guardarlo dritto in faccia e aggiunse: «Spero che mi perdonerete».
Non sapeva perché, ma Bill non riuscì a sostenere il suo sguardo. Distolse gli occhi, inghiottì a vuoto e borbottò a disagio: «Va bene, non pensateci più». «Non posso non pensarci. Voglio anzi che sappiate quanto mi sento meschina. Vi ho causato un sacco di guai... Là sul molo vi siete preso tutti quei pugni, e poi adesso ho saputo che vi hanno licenziato...» Kerrigan si passò una mano sulla nuca. «Be', è andata così» disse. «Ho cercato rogne e le ho avute.» «Ma è stata tutta colpa mia» commentò Loretta. «Non volete che cerchi di aggiustare le cose?» domandò poi, a voce più bassa. «In che modo?» chiese Bill, decidendosi a guardarla. «Conosco uno dei proprietari del molo. Gli dirò che quel che è successo non è stata colpa vostra. Forse sospenderà il licenziamento.» Di colpo, Kerrigan si sentì avvampare di collera, ma poi, a poco a poco, tornò a ragionare. "Per l'amor del cielo, stai calmo" si impose. "Non combinare altri pasticci... ne hai già abbastanza." «Permettetemi di interessarmi della faccenda, ed io fisserò subito l'appuntamento col proprietario e sistemerò tutto» disse Loretta. «Pensate veramente che sia possibile?» domandò Bill, soddisfatto di essere riuscito a parlare con calma. «Ne sono sicura» rispose la ragazza. «Be', qualunque possa essere il risultato, siete molto gentile a tentare» disse lui. «Faccio soltanto ciò che ritengo giusto» ribatté la ragazza. «Siccome la colpa di tutto è stata mia non vedo perché dobbiate soffrirne voi.» Bill non parlò. In un certo senso, gli sembrava che loro due si incontrassero adesso per la prima volta. «Se riavrò il lavoro» disse infine, sorridendo «saranno tante preoccupazioni di meno. State per farmi un grandissimo favore, sapete?» Loretta si era avvicinata a un tavolino. Vi posò la macchina fotografica, poi andò a guardare fuori dalla finestra. Dopo un lungo silenzio disse: «Forse avrete modo di ricambiarmi». Kerrigan non colse alcun significato particolare, in quelle parole. «Lo spero» rispose. «E lo farò con piacere.» «Be'» mormorò lei, avviandosi alla porta «probabilmente non ci vedremo più.» «Mi auguro di sì, invece» disse lui. Per un po', Loretta rimase sulla soglia a guardarlo intensamente, come se
volesse dirgli con gli occhi qualcosa che non osava affidare alle parole. Poi si voltò e uscì. Kerrigan tornò al divano. Si sentiva stanco. I pugni di Ruttman non c'entravano, era piuttosto colpa della mancanza di sonno. Aveva dormito sì e no tre ore, quella notte. Mentre si sdraiava, si rese conto dello sforzo che gli era costato mantenersi calmo durante quel colloquio. Non aveva mai faticato tanto in vita sua... Dormì per qualche ora, ignorando le voci degli scaricatori, il rumore delle carrucole e delle catene, il baccano delle casse spostate sul molo. Lo svegliò Ruttman alle cinque e cinque, scuotendolo per una spalla. Il caposquadra sorrideva. «Ha telefonato l'ufficio centrale» gli disse. «Sei riassunto.» Kerrigan si levò a sedere, ancora mezzo intontito dal sonno. «Che sia dannato se ci capisco qualcosa» riprese Ruttman. «La telefonata è venuta direttamente dal socio più importante.» Kerrigan non fece commenti. Ruttman, che sì aspettava una spiegazione, rimase deluso, e con una alzata di spalle si avviò alla porta. Ma a un tratto si fermò, guardando il tavolino, e Kerrigan si irrigidì. Ruttman stava fissando la macchina fotografica di Loretta Channing. «Te l'ha lasciata per ricordo?» domandò Ruttman. Kerrigan scosse la testa. «Non mi ero accorto che l'avesse dimenticata» disse. «È di lusso, questa» riprese Ruttman, prendendo in mano la macchina. «Costerà almeno cinquanta dollari. Non è il genere di cose che si lasciano in giro.» «Che cosa stai insinuando?» disse Kerrigan, stringendo i denti. Ruttman lanciò la macchina sul divano, accanto a Bill. «È come un gioco di scacchi. Adesso tocca a te muovere» disse. «Scopri dove abita e vai a restituirgliela. L'ha lasciata qui per questo.» Bill sentì la collera ribollirgli dentro, cercò di dominarsi, ma gli occhi lo tradirono. «Che vada al diavolo lei e la sua macchina» brontolò. «Non sono l'ufficio oggetti smarriti, io.» «Eppure ti converrebbe andare a restituirgliela» insistette il caposquadra. «Pensaci un momento e capirai cosa voglio dire. Del resto, se non fosse stato per lei, ora saresti senza lavoro. Non ti senti obbligato a farle una cortesìa?»
Senza aspettare la risposta, Ruttman uscì dalla stanza, lasciando Kerrigan a rigirarsi la macchina fotografica tra le mani. La calda superficie metallica pareva scottargli le dita. IX Camminò lentamente lungo Wharf Street, imboccò Vernon Street e si diresse verso casa. L'acqua limacciosa dei rigagnoli sembrava fuoco liquido, sotto i raggi del sole al tramonto. Kerrigan sollevò lo sguardo a osservare la sfera rossa incandescente che incendiava d'arancio le nubi, tingendo il cielo e rendendolo simile a un immenso opale. "È splendido" pensò lui. E si domandò se in quel momento c'era qualcun altro che guardava il cielo e pensava la stessa cosa. Ma quando riabbassò lo sguardo sulla strada, vide i bambini dai visi sudici che giocavano nei rigagnoli, vide un ubriaco sdraiato sulla soglia di casa, vide tre negri seduti sul bordo del marciapiede, a bere vino da una bottiglia avvolta in un vecchio foglio di giornale. Sotto la gloria vermiglia del sole pomeridiano, sotto la vasta magnificenza di un cielo d'opale, gli abitanti di Vernon Street non avevano idea di quello che avevano sulla testa, non si prendevano neppure la briga di sollevare lo sguardo. Sapevano solo che il sole doveva ancora tramontare e che quella notte avrebbe fatto un caldo maledetto. Già le persone più anziane uscivano dalle baracche e dalle case, per sedersi sui gradini, armate di ventagli e di brocche d'acqua. Le famiglie che erano tanto fortunate da possedere un frigorifero, si giravano in bocca dei pezzi di ghiaccio. Alcuni di loro, molto pochi, davano ai loro figli delle monetine, perché si comprassero un gelato. I bambini strillavano di gioia, ma le loro strida venivano sommerse da un suono più cupo, dal mugolio che era come un unico gemito, un unico sospiro, e che usciva dalle gole contratte degli abitanti di Vernon Street. Sembrava quasi che la strada avesse una sola corda vocale, capace di emettere unicamente dei gemiti di sopportazione. E, in alto, lo splendido cielo incendiato di rosso, che non riusciva ad attirare gli sguardi della gente, la quale sentiva che era inutile sperare. Questa consapevolezza investì Kerrigan come un'improvvisa martellata, riportandolo alla realtà. Abbassò lo sguardo sulle scarpe consunte, sulla carne callosa delle mani. E pensò: "Apri gli occhi, amico. Non fare castelli in aria". La sua bocca s'indurì. La mano destra corse alla tasca dei pantaloni, do-
ve aveva riposto la macchina fotografica. Si domandò che cosa ne avrebbe fatto, di quella macchina. "Lascia perdere" pensò. "Non è un problema. Non devi far altro che trovare l'indirizzo della ragazza e spedirgliela." Ma immaginava la faccia che avrebbe fatto lei, una volta aperto il pacchetto. Gli sembrava di vedere le sue labbra piegarsi in una smorfia di disprezzo, gli sembrava di sentire la sua voce che diceva: "Ha paura di venire qui". Kerrigan si domandò che cosa sarebbe accaduto, se fosse andato veramente nei quartieri alti, dove viveva la ragazza, se avesse suonato il campanello della sua porta. "Non c'è d'aver paura" si disse. "Nessuno ti mangerà. Ma, accidenti, ti sentirai ugualmente fuori posto!" Forse sarebbe stato diverso se si fosse vestito decentemente, se si fosse fatto il bagno e la barba. In fondo, ne aveva bisogno, di un bagno. E non ci sarebbe stato niente di male, se si fosse messo il vestito della domenica. Non c'era nessuna legge che gli impedisse di metterselo anche nei giorni lavorativi. Forse sarebbe andato tutto bene, e quei tipi dei quartieri alti non l'avrebbero messo in imbarazzo. Forse non si sarebbero neanche accorti che era diverso, che non apparteneva al loro mondo. Ma no. Nel giro di pochi minuti l'avrebbero squadrato e identificato, avrebbero capito che cos'era. Forse avrebbero tentato di essere gentili e di non dire niente, ma lui avrebbe intuito che cosa pensavano. Gliel'avrebbe letto negli occhi. "L'unica cosa da fare" si disse, "è di prendere questa maledetta macchina fotografica e buttarla in una fogna." Di nuovo, fu assalito dal pensiero che non aveva il coraggio di affrontare la situazione a viso aperto. Aveva paura, ecco tutto. Continuò a camminare per Vernon Street, domandandosi che cosa doveva farne, della macchina fotografica. Arrivò davanti alla casa dei Kerrigan, aprì la porta ed entrò. Gettò un'occhiata al divano, dove Tom russava sonoramente, tenendo in mano una bottiglia di birra ancora semipiena. Dalla cucina, giungevano il tintinnio dei piatti e le voci di Bella e di Lola. Da prima, Kerrigan non fece attenzione a quello che dicevano, e giocherellò con l'idea di andare dalle due donne a chiedere qualcosa da mettere sotto i denti. Si domandò se c'era qualcosa di caldo, sui fornelli. Si diresse verso la cucina, poi sentì Bella che sbraitava: «Aspetta che mi
capiti sotto le mani, quel verme, quell'imbroglione! Aspetta che mi capiti sotto le mani, ti dico!». «Invece lo lascerai in pace» gridò Lola a sua figlia. «Se hai tanto sale in zucca da capire qual è il tuo bene, lo lascerai in pace.» «Stai fresca!» continuò a sbraitare Bella. «Per chi mi prende? Per un'idiota? Se pensa di potermi prendere in giro, si sbaglia! Gliel'ho già detto, che cosa gli sarebbe capitato, se avesse fatto il galletto con un'altra. Gli dimostrerò che quando dico una cosa, la mantengo.» «Non in questa casa» strillò Lola. «No, eh?» Bella era fuori di sé. «Questa volta, non mi fermi neanche tu!» Risuonò lo schiocco di una mano calata con forza su una guancia. Kerrigan sentì l'urlo di Bella. Poi un altro schiocco. Bella urlò di nuovo. Lola disse: «Rispondimi male un'altra volta, e ti tiro un ceffone che ti farà volare dall'altra parte della stanza!». Poi, in cucina, scese il silenzio. Kerrigan decise di aspettare ancora qualche minuto, prima di andare a chiedere da mangiare. Forse Bella si sarebbe calmata, nel frattempo. Percorse il corridoio, entrò nella sua camera e si tolse i vestiti. Poi andò nel bagno, riempì la vasca, s'immerse nell'acqua e prese a insaponarsi il corpo. Tornato in camera, si infilò della biancheria pulita, poi andò all'armadio e tirò fuori un abito di grisaglia grigia. Era il suo vestito della domenica, l'unico che possedesse, e aveva bisogno di essere stirato, cucito qua e là, e gli mancava un bottone. Davanti allo specchio, Kerrigan allisciò i baveri con le dita, nel tentativo di togliere le grinze, e pensò che gli sarebbe piaciuto avere un altro abito da mettersi. E mentre il pensiero gli si attardava nella mente, s'infilò in tasca la macchina fotografica. Passò la cravatta sotto il colletto, rifece il nodo tre volte, prima di essere soddisfatto del risultato, poi si passò accuratamente il pettine tra i capelli umidi. Fece un paio di passi indietro, e studiò il riflesso della sua immagine, annuendo. Poteva andare. «Doveva» andare. Quando entrò in cucina, Lola stava posando dei piatti su una mensola. Bella era al lavandino, con uno strofinaccio in mano. Quando lo vide, il suo viso si oscurò, e gli occhi le si accesero di collera. Tirò il fiato e aprì la bocca per dire qualcosa. Ma dall'altra parte della stanza, sua madre la fulminò con lo sguardo. Bella si voltò di nuovo verso il lavandino, come se non avesse visto Kerrigan. Ma lui sentì che respirava affannosamente, e capì che faceva un grande sforzo, per controllare la rabbia.
Lola prese un cucchiaio e si mosse maestosamente verso i fornelli. Era una cuoca eccellente, orgogliosa della propria abilità e sempre ansiosa di darne prova. Si chinò sui fornelli, esaminò il contenuto di una pentola e di un paio di tegamini, poi esclamò: «In due minuti è pronto». «Non c'è fretta» disse Kerrigan, accendendo una sigaretta. Lola mescolò il contenuto della pentola e si portò il cucchiaio alle labbra, assaggiando lo stufato. «Ci vuole un po' di pepe» mormorò. Guardò Bella, ordinando: «Portami il pepe». «Fattelo portare da lui.» Bella pronunciò le parole con chiarezza, staccando le sillabe. «L'ho chiesto a te» disse Lola. Bella aspirò una boccata d'aria, come se le fosse mancato il fiato, poi si allontanò dal lavandino, aprì un armadietto e prese il vasetto del pepe. Lo calò con forza sul tavolo, di fronte a Kerrigan. «Non sul tavolo» disse Lola. «Ti ho detto di portarmelo qui. E portami anche la faccia, giacché ci sei, così ti schiaffeggio di nuovo.» Bella inghiottì a vuoto. Aveva paura a muoversi. Kerrigan prese il vasetto e lo porse a Lola, che lo prese senza guardarlo. Lola sorrise a sua figlia, freddamente, con aria di sfida. «Stai attenta» disse. «Non continuare così, perché sento che prima di sera te le suonerò come non te le ho mai suonate in vita mia. Ascoltami bene, ragazza: hai un caratterino che non mi va, e sono pronta a cambiartelo, a costo di spezzarti le ossa.» Le labbra di Bella tremarono. Si diresse alla porta, ma Lola l'afferrò per il braccio e la tirò indietro, spingendola verso il lavandino. «Non hai ancora finito» disse Lola. «Devi lavare le posate. E quando lui avrà finito di mangiare, laverai anche i suoi piatti.» Bella sembrava sul punto di soffocare. «Io lavare i suoi piatti? Io fare da serva a quel tipo?» «Hai sentito che cos'ho detto.» Kerrigan si agitò, sulla sedia. «Posso lavarli anche da solo.» «No, li laverà lei» dichiarò Lola, decisa. Kerrigan si strinse nelle spalle. Sapeva che era inutile discutere con Lola. La donna gli posò davanti un piatto fumante, pieno di stufato, poi gli versò una tazza di caffè e rimase a guardarlo mangiare. Kerrigan masticava lentamente, assaporando ogni boccone. La cucina
era immersa nel silenzio. L'unico rumore che si sentiva, era il tintinnio della forchetta e del coltello contro il piatto. Kerrigan dimenticò completamente la presenza di Bella, i cui occhi alternavano occhiate furiose a lui a occhiate caute a sua madre. Quando il piatto fu vuoto Lola domandò: «Ne vuoi ancora?». Kerrigan annuì, mettendosi in bocca un pezzo di pane. Lola guardò Bella. «Non startene là come un'idiota. Prendi il piatto.» Bella strinse i denti. La sua voce risuonò supplichevole, quasi stridula, quando disse alla madre: «Non basta che devo lavargli i piatti? Adesso devo anche servirgli da mangiare? Proprio come una serva?». Lo sguardo di Lola si addolcì leggermente. «No, non come una serva. Dopo tutto, sei la sua donna, no?» Kerrigan fece una smorfia e studiò il viso di Lola. D'improvviso, capì che cos'aveva in mente, la donna. A suo modo, stava dicendo alla figlia: "Se vuoi riuscire a farti sposare, te lo insegno io, come si fa". Kerrigan si spostò sulla sedia, a disagio. Gli sembrava che le pareti fossero sul punto di chiudersi su di lui, e provò il desiderio improvviso di uscire di casa. Fino a quel momento non aveva mai pensato che Lola volesse fargli sposare Bella. Ma ora che vedeva Lola in azione, era spaventato. Per un attimo, si vide sposato con la ragazza, e rabbrividì. Ma poi, mentre gli veniva posato davanti il piatto fumante, ricordò la pelle di seta della ragazza e si domandò: "Perché no?". La guardò allontanarsi dal tavolo, vide l'ancheggiare dei suoi fianchi morbidi. Non le mancava niente. Bastava che le comprasse un anello, ed era fatta. Un'altra cosa: tra poco avrebbe compiuto trentacinque anni. Era ora che si sposasse. Che diavolo aspettava? Cercò di immaginarsi mentre infilava l'anello al dito di Bella. Aveva la sensazione che quell'atto avrebbe sistemato un sacco di cose: tutte le domande che gli affollavano la mente, rincorrendosi in una specie di girotondo senza fine, avrebbero trovato una risposta. Dalla sera precedente, gli sembrava di camminare nella nebbia, di fare cose che non voleva fare, di essere fuori squadra. Si domandava che diavolo gli stava succedendo. Gli avvenimenti si succedevano troppo in fretta, togliendogli la capacità di pensare con chiarezza. Ma esisteva un modo per sistemare tutto rapidamente. Non sarebbe stato difficile trovare il pastore disposto a celebrare la cerimonia al più presto. Nella Terza Strada, a pochi passi da Vernon Street,
c'era un tipo che sistemava tutto nel giro di pochi secondi. Il greco lavorava al Municipio, e non se ne faceva certo un caso di coscienza, quando doveva rubare una licenza matrimoniale. Il greco era molto popolare, nel quartiere, perché quando gli uomini di Vernon Street decidevano di legalizzare una situazione, non volevano aspettare. Una voce rude interruppe il corso dei pensieri di Kerrigan. Bella gli domandava: «Ancora caffè?». Kerrigan sollevò lo sguardo. Bella era vicino ai fornelli. Lola era sparita, e Kerrigan si domandò quando fosse uscita dalla cucina. Poi guardò il piatto e vide che era vuoto; non riusciva a ricordare di aver finito la seconda portata. «Avanti, rispondi» disse Bella, e Kerrigan capì che era rimasta a osservarlo fino a quel momento. «Ti ho chiesto se vuoi dell'altro caffè.» Kerrigan annuì, ma non per il caffè. Voleva semplicemente dare una risposta alla ragazza. Bella prese il bricco e versò il caffè nella tazza. Poi ne riempì una tazza per sé e si mise a sedere di fronte a Kerrigan. Gli domandò se voleva una sigaretta, e lui annuì di nuovo, guardandola negli occhi, cercando di stabilire un contatto. Mentre si chinava per accendere la sigaretta al fiammifero che Bella gli porgeva, si domandò che cosa diavolo c'era, che non andava. Aveva la strana sensazione di non essere in cucina, con Bella, ma da qualche altre parte. «Che c'è?» domandò Bella. «Che ti succede?» «Niente.» Lui si strinse nelle spalle. «Ho avuto una giornataccia.» «Si vede» mormorò Bella. «Chi te le ha suonate?» «Un tizio, sul molo.» «L'hai steso?» «No, è stato lui a stendere me.» Bella gli lanciò un'occhiata perplessa. «Come mai? Hai perso la forza?» Kerrigan non rispose. Sorseggiò il caffè, aspirando di tanto in tanto una boccata di fumo, e cercò di non guardare Bella. Ma non ci riuscì: vide una fila di domande formarsi negli occhi della ragazza. Paragonò il suo umore di adesso con la collera esplosiva di pochi minuti prima, e si rese conto che si era calmata parecchio, tanto da arrivare a una sorta di passività. Non l'aveva mai vista in quello stato, e la cosa lo metteva a disagio. Mosse la testa da parte a parte, nel tentativo di allentare la cravatta. «Sbottonati il colletto» disse lei. «Non ha importanza.» «Non hai caldo? Perché non ti levi la giacca?»
«Perché no» Kerrigan parlò a voce troppo alta. «Ti dà fastidio, per caso?» Sperava che Bella gridasse, che lo offendesse, che desse il via al loro normale modo di comunicare. Invece, lei rispose: «Non mi dà nessun fastidio. Voglio solo che tu stia comodo». «Sto comodissimo. Soddisfatta?» Per qualche secondo, lei non rispose. Rimase a fissarlo in silenzio, poi disse, con voce stranamente calma: «Voglio sapere perché sei vestito a festa». Kerrigan aprì la bocca per risponderle, ma la bocca rimase aperta senza emettere alcun suono. Bella si chinò in avanti, coi gomiti sul tavolo. «Avanti, sputa il rospo. Tanto vale che tu mi dica chi è, quella pollastra. Tanto l'ho già vista.» Kerrigan batté le palpebre. «Ieri sera» continuò Bella «ero a letto e ti aspettavo. Quando ho visto che non arrivavi, mi sono alzata per vedere che diavolo stavi facendo. Ho guardato fuori dalla finestra del salotto e tu eri là, fuori, a parlare con lei. Poi siete saliti in macchina e ve ne siete andati.» Kerrigan distolse lo sguardo dal suo viso. «Non è come pensi.» Gli occhi di Bella erano inespressivi. «Non te l'ho detto, che cosa penso. Aspetto solo di sapere che cosa pensi tu, quali sono i tuoi progetti.» «Che progetti?» Gli occhi di Bella, ora, erano come due succhielli. «I tuoi progetti per te e per lei.» «Maledizione!» sbraitò Kerrigan, balzando in piedi. «Che stai almanaccando, ora? Quella sgualdrina non significa niente, per me. La conosco appena!» Affondò le mani nelle tasche dei calzoni e prese a camminare avanti e indietro. «Un'altra cosa» disse Bella. «Ieri sera, non sei tornato a casa. Ti ho aspettato tutta la notte. Dove sei stato? Dove hai dormito?» Il pavimento parve muoversi, sotto i piedi di Kerrigan, e lui desiderò che continuasse a muoversi, che lo portasse via da tutte quelle domande alle quali non sapeva rispondere. Ma il pavimento lo tenne là, vicino al tavolo, simile a un bersaglio sotto il tiro di un'arma di precisione. E Bella sparò. «Chiunque sia, ti è entrata nel sangue. Ti manovra come vuole.»
Per Kerrigan, fu come se avesse preso una mazzata tra gli occhi. Indietreggiò di qualche passo, fissando Bella. «Chi ti ha messo in testa un'idea del genere?» «Nessuno. Ce l'hai scritto in faccia.» Kerrigan respirò a fondo, parecchie volte, ma non servì a niente. Voltò le spalle al tavolo, incrociò le braccia e fissò il pavimento. Sentì Bella che diceva: «Vedi? È vero. Non riesci neanche a guardarmi negli occhi». Per un attimo, Kerrigan desiderò di essere come certi tipi che conosceva, capaci di manovrare con le parole, capaci di tirarsi fuori da una situazione come quella senza rimetterci le penne. Si girò di scatto, fissò Bella negli occhi e disse, con voce brusca: «Ascoltami bene. Te lo dico una volta sola, e non ho intenzione di ripeterlo. Non c'è un accidente di niente, tra me e quella gatta piena di fronzoli. È una di quelle fasulle dei quartieri alti. È venuta da queste parti in cerca di emozioni. Le ho dato il benservito e le ho mostrato la strada per uscire dal quartiere. Tutto qui». Il viso di Bella restava impassibile. Poi, a poco a poco, un sorriso le apparve sulle labbra, un sorriso freddo, che non arrivava fino agli occhi. «Ti ha intrappolato, quella. Lo si vede benissimo. Non capisci più niente. Non riesci neanche più a parlare.» «Come no!» sbraitò Kerrigan. «Vuoi sapere che cosa mi fa? Mi fa schifo! Non capisci un accidente!» «Davvero?» Bella si alzò lentamente dal tavolo, fissandolo negli occhi. «Mi diverte, la cosa. È buffa.» «Quale cosa?» Kerrigan s'irrigidì. Il sorriso di Bella, ora, era sprezzante. «Tu. Il pagliaccio sei tu. E quello che mi diverte di più è il vestito che ti sei messo. Vai in visita nei quartieri alti?» Cominciò a ridere. «Piantala!» Bella continuò a ridere. Kerrigan serrò i pugni e parlò a denti stretti. «Accidenti a te! Piantala!» «Non ci riesco!» Bella si teneva il petto, come se avesse temuto che le si spaccasse la gabbia toracica. La risata salì fino a diventare una specie di stridìo. Kerrigan si mosse verso di lei, digrignando i denti. Ma d'improvviso si fermò, con gli occhi fissi alle spalle di Bella. Stava guardando, in uno specchio appeso alla parete, i propri capelli allisciati, l'abito della domenica.
La risata di Bella gli penetrò nel cervello, simile a un ago rovente. Ma poi si disse che la risata non era quella di Bella; veniva dallo specchio. Si voltò e fuggì dalla cucina. La risata lo seguì lungo il corridoio, nel salotto, continuò a penetrargli dentro anche quando fu in strada. X Camminò senza meta per Vernon Street, attraversando la via più volte, senza ragione. Quando fu in Wharf Street, fece il giro dell'isolato, tornò in Vernon Street, imboccò l'Undicesima Strada. Non si rendeva conto di quello che faceva, di quanto tempo passava. L'unica cosa precisa che sentiva era il peso della macchina fotografica, nella tasca della giacca. Il cielo era buio, ora. Kerrigan continuò a camminare avanti e indietro per Vernon Street, e alla fine si fermò davanti a una vetrina, a fissare un orologio, all'interno del negozio: segnava le undici e quaranta. Fissò l'orologio e si domandò che diavolo doveva farne, della macchina fotografica. Si allontanò dalla vetrina e riprese a camminare per Vernon Street. Gli abitanti del quartiere erano raggruppati davanti alle soglie delle case, col volto coperto di sudore. Fissavano Kerrigan con stupore, notando il colletto chiuso, la cravatta, il pesante abito di lana. Poi scuotevano la testa. Per quanto Kerrigan non se ne rendesse conto, a poco a poco il caldo penetrò anche in lui, rendendogli sempre più difficili i movimenti. Aveva la gola e la bocca completamente secche. Vide l'insegna del «Dugan's Den» e pensò che un paio di birre gli avrebbero fatto bene. Entrando nel locale, sentì la melodia che Dugan stava mugolando. C'erano tre avventori, al banco: due prostitute con la faccia troppo imbellettata e uno storpio che se ne stava curvo su un bicchiere di vino. Le prostitute fissavano Dugan, che aveva gli occhi socchiusi, le braccia incrociate e si concentrava nella melodia che gli usciva dalle labbra. Una delle prostitute si chinò verso di lui e sbraitò: «Piantala, di cantare! Non ti sopporto!». Dugan continuò a mugolare. «Piantala, ti ho detto!» strillò la prostituta. «Non la pianterà» esclamò l'altra. «L'unico modo per farlo tacere è di ammazzarlo.» «È quello che farò, una di queste sere» disse la prima prostituta. «Vengo con una rivoltella e gli pianto una pallottola in gola.» Kerrigan si appoggiò al banco, riuscì ad attirare l'attenzione di Dugan e
ordinò una birra. Il vecchio riempì un bicchiere e glielo portò. Kerrigan lo vuotò subito e ne ordinò un altro. L'orologio appeso alla parete sopra il banco segnava le dodici e dieci. La macchina fotografica pesava come un macigno. La prima prostituta indicò Kerrigan e disse: «Guarda quel matto. Ma guarda come è vestito!». «Con abito di lana» disse la seconda. «Magari crede di essere in inverno» aggiunse la prima. Era piccola e mal fatta, con capelli opachi, di un rosso sbiadito. La seconda prostituta cominciò a ridere: pareva che stesse sfregando l'uno contro l'altro due pezzi di metallo arrugginito. La gola della donna era segnata da tre o quattro cicatrici da coltello, e il segno di una vecchia ferita le solcava verticalmente la faccia, dall'occhio destro sino al mento, sfigurandola. Era di media statura e pesava sì e no quarantacinque chili. Puntando un dito ossuto contro Kerrigan strillò: «Volete morire di caldo? È per questo che vi siete vestito così?». «Non ti ha nemmeno sentito» disse l'altra. «Si è vestito in quel modo per andare chissà dove, e non ti ha nemmeno sentito.» «Ehi, tu, matto!» continuò la prostituta magra «vai a una festa? Perché non ci porti con te?» «Già, perché non ci porti?» fece eco la compagna. «Anche noi siamo vestite a festa!» Kerrigan le guardò. Guardò gli stracci che ricoprivano le due donne, e le scarpe con la tomaia spaccata e i tacchi storti. Poi guardò le facce e le riconobbe. Quella mal fatta con i capelli arancione si chiamava Frieda e abitava in una baracca poco lontano da casa sua. L'altra era la vedova di uno spazzino e si chiamava Dora. Avevano tutte e due più di quarant'anni, e lui le conosceva da quando era bambino. «Salve Frieda» salutò. «Salve, Dora.» Le due prostitute si irrigidirono. «Non mi riconoscete?» domandò Bill. Senza muoversi dal loro posto, all'altro capo del banco, le prostitute si protesero verso di lui per vederlo meglio. «Io lo so, chi è» disse Frieda. «È un agente federale.» Dora chinò la testa di lato, squadrò Kerrigan dalla testa ai piedi e approvò con un cenno della testa. «Un maledetto agente federale» riprese Frieda. «Io li annuso a un chilometro di distanza!»
«Che cosa vuole, da noi?» disse Dora, in tono cauto. «Io sto tranquilla, con gli agenti federali» dichiarò Frieda, a voce alta. «Non possono farmi un bel niente. Ehi, voi!» gridò a Kerrigan. «Qualunque cosa vi passi per il cervello, scordatevela. Noi non spacciamo alcoolici, e non procuriamo droghe a nessuno. Siamo due oneste lavoratrici, andiamo in chiesa, e abbiamo sempre pagato le tasse!» «E non battiamo neanche moneta falsa» concluse Dora. «Siamo oneste cittadine» dichiarò Frieda, con la sua voce gracchiante. «Quindi, lasciateci in pace. Capito?» Kerrigan sospirò e continuò a bere la sua birra. Non era il caso che cercasse di farsi riconoscere dalle due donne. Frieda e Dora godevano a mischiare la loro paura della legge con il piacere di sentirsi importanti. Nella loro testa si erano ormai fatte l'idea che il governo degli Stati Uniti avesse mandato lì un suo agente per prendere contatti con le due regine del vizio: loro. Si erano immedesimate della parte ed erano contente di essere state tanto furbe da mascherarlo subito, prima che lui riuscisse a fare la minima mossa. Bill chiamò Dugan e gli disse di portare da bere alle due donne. Frieda e Dora ordinarono due doppie razioni di gin e non pensavano nemmeno a ringraziarlo, prese com'erano dalla smania di vuotare immediatamente i bicchieri. Poi, quando li ebbero vuotati si dimenticarono dell'" agente federale». Dugan aveva ripreso a canticchiare, e Kerrigan, chino sul banco, teneva gli occhi fissi sul bicchiere di birra, consapevole solo del peso che gli gonfiava la tasca della giacca. Dopo un po' la porta si aprì e qualcuno entrò nel locale. Le due prostitute si voltarono a guardare l'uomo, che salutò educatamente e si diresse a un tavolino in fondo alla sala. Newton Channing indossava una camicia candida e un fresco abito di tela appena stirato. Sedette e accese una sigaretta con un accendino smaltato di verde. Il viso delicato e i capelli biondi presero bizzarri riflessi verdognoli, quando lui accostò la faccia alla fiamma. Le due prostitute continuavano a fissare il giovane ben vestito con un'espressione assurda di invidia. Kerrigan aveva alzato la testa e guardava nello specchio dietro il banco. La sua mano scivolò lungo la giacca, infilandosi poi nella tasca dove c'era la macchina fotografica. Aspettò finché Dugan ebbe portato a Channing un bicchiere di whisky, poi si diresse al suo tavolo, tolse di tasca la macchina
e la posò davanti al giovane. «Che cos'è?» domandò Channing senza interesse. «È la macchina fotografica di vostra sorella» rispose Kerrigan. «Dove l'avete presa?» «Me l'ha lasciata lei.» Channing aggrottò la fronte, prese la macchina e la rigirò tra le mani, osservandola attentamente, poi la rimise giù e alzò la testa a guardare Kerrigan. «Non siete quello di ieri sera?» domandò. «Già. Mi avete offerto una birra, e abbiamo chiacchierato un po'.» «Sì, ricordo.» Channing tornò a osservare la macchina. «Che storia è questa?» disse. Kerrigan rise. «Cos'ho detto di buffo?» La voce di Channing era modulata. Kerrigan sedette di fronte a lui, mentre l'altro, respinto il bicchiere, stava proteso in avanti, con lo sguardo fisso sulla macchina con espressione perplessa. «Sarebbe meglio che faceste quattro chiacchiere con vostra sorella» spiegò Kerrigan. «Ditele che questa volta è stata fortunata, ma che se ci riprova potrebbe non andarle altrettanto bene.» «Non capisco» mormorò Channing, guardandolo. «Non siete capace di fare due più due.» Channing scosse la testa. «Mi ha fatto la ronda» riprese Kerrigan e, appoggiatosi allo schienale della sedia, aspettò la reazione di Channing. Ma non ci fu nessuna reazione, il giovane si strinse nelle spalle, allungò la mano a prendere il bicchiere e bevve un lungo sorso di whisky, poi aspirò lentamente una boccata dalla sigaretta ributtando il fumo dal naso e dalla bocca. Le nuvole azzurrognole si levarono alte nell'aria calda come i vapori dell'incenso da un turibolo. Kerrigan si irrigidì. Cercò di allentare la tensione, ma i suoi occhi si erano induriti, e quando parlò la sua voce suonò aspra e tesa. «Non avete sentito cos'ho detto? Vostra sorella mi ha fatto la ronda.» «E allora?» «Sembra che non ve ne importi.» n Dovrebbe importarmi?» «Vostra sorella è una ragazza di classe» disse Kerrigan, in tono ironico. «Non dovreste permetterle di avere a che fare con gli scaricatori del porto
e gli ubriaconi.» «Non mi interessa con chi ha a che fare mia sorella.» «E il fatto che sia vostra sorella non ha nessun significato, per voi?» «Sono molto orgoglioso di Loretta. È molto importante, per me.» «Allora perché non state attento a quello che fa?» «È abbastanza grande per badare a se stessa.» «Non di notte, e non in questo quartiere. Nessuna donna è al sicuro, qui.» Channing alzò gli occhi a osservare Kerrigan, e disse: «Non mi preoccupo io, non vedo perché dovreste preoccuparvene voi». Osservazione assolutamente logica. Kerrigan deglutì a vuoto e disse: «Volevo solo darvi un consiglio, nient'altro». «Grazie» rispose Channing e, chinata la testa di lato a studiare la faccia di Kerrigan, aggiunse: «Secondo me, siete voi ad aver bisogno di un consiglio...». Kerrigan fissò la macchina posata al centro del tavolino. Sentì la voce del giovane che diceva: «Non dovete aver paura di lei». A Bill sembrò che il ripiano del tavolo si sollevasse per colpirlo in faccia, e scostò la testa. Non riuscì a guardare Channing, e si domandò il perché. «Non c'è motivo di averne paura» riprese il giovane. «In fondo, non è che una donna.» Kerrigan cercò qualcosa da dire, ma non trovò le parole. «Ve l'ho detto» mormorò Channing «perché so che Loretta vi piace.» «Siete pazzo.» «Può darsi» ammise Channing, con serietà. «Ma a volte i pazzi sono i più saggi. Forse non vi rendete conto di desiderarla, ma l'avete scritto negli occhi. La desiderate e ne avete paura. Una gran paura.» Un groppo alla gola gli fece uscire la voce in un bisbiglio. «Certo» disse «ho paura che se mi viene ancora a rompere le scatole le butto giù i denti.» Channing inarcò le sopracciglia e per qualche secondo rimase in silenzio, pensoso. Poi disse: «Be', è comprensibile. Dal vostro punto di vista, Loretta può sembrare il tipo che cerca solo di divertirsi». Kerrigan posò le mani sul tavolo, premendo i palmi sul ripiano. Non disse niente. «Ma può anche darsi che faccia più sul serio di quanto non pensiate» continuò Channing. «Perché non cercate di scoprirlo?» «Non mi interessa. Per il momento, c'è un'altra cosa che vorrei sapere.»
Tacque aspettando che la sua frase facesse effetto, ma Channing rimase impassibile. «È una cosa che riguarda voi» un'altra pausa, più lunga. «Vorrei saperne qualcosa di più sul vostro conto.» Channing si accigliò. «Perché? C'è qualche motivo particolare?» «Credo che il motivo lo sappiate, anche se non potrei ancora giurarlo. Però credo che lo sappiate.» Channing inarcò di nuovo le sopracciglia. «Ora mi avete incuriosito.» «Non preoccupato?» domandò Kerrigan. «No, soltanto incuriosito.» «Eppure dovreste essere preoccupato.» Channing sorrise. «Non mi preoccupo mai. Soffro, ma non mi preoccupo.» Vuotò il bicchiere, poi si versò dell'altro whisky dalla bottiglia e bevve ancora. «Perché non mi dite di cosa si tratta?» domandò. «Non sono ancora disposto a dirvelo.» Channing continuava a sorridere, calmo. «Spero che sia qualcosa di eccitante» mormorò. «Non mi piacciono le cose troppo normali.» «Lo immaginavo» disse Kerrigan. Channing accese un'altra sigaretta. «Alcune settimane fa» riprese «mi è venuto in mente che mi sarebbe piaciuto andare in Alaska. Non c'ero mai stato e mi era venuta improvvisamente voglia di andarci. Ho avuto l'idea un mercoledì. Un'ora dopo ero su un aereo, e il giovedì notte facevo l'amore con una esquimese di sessant'anni.» Kerrigan lo guardò un momento senza parlare, poi domandò: «E com'è l'amore in Alaska?». «Bello» rispose Channing. «Molto freddo, forse, ma anche molto bello.» Kerrigan teneva ancora le mani premute contro il legno del tavolo. Abbassò gli occhi a guardarsele. «Fate spesso cose del genere?» «Ogni tanto» rispose Channing. «Dipende dall'umore.» «Scommetto che potete avere una infinità di umori diversi.» «Ne ho a migliaia» ammise Channing, ridendo. «Potrei riempire un classificatore alto fino al soffitto con le schede dei miei umori. Non è facile ricordarli tutti, tanto sono diversi. Comunque, una cosa è certa: i miei umori, per la maggior parte, mi spingono a compiere azioni che la gente normale giudicherebbe senza dubbio immorali.» Kerrigan chiuse gli occhi e per un attimo vide tutto nero. Poi quel buio prese forma e diventò un vicolo scuro, macchiato di sangue. Sentì un tremito che gli saliva dal petto, gli invadeva il cervello e gli tornava al cuore. Aprì gli occhi, e si guardò le mani. Le vide strette a pugno, adesso, con le
nocche sbiancate. "Stai calmo, Bill" si disse. "Non ne sei ancora sicuro, non hai prove, e finché non ne avrai, non potrai fare niente.'' Le due prostitute, appoggiate al banco, fissavano lui e Channing. Alla fine si mossero e vennero verso di loro, esitando. Si avvicinarono al tavolo, le facce tirate e l'espressione spavalda, eppure la piega triste delle bocche dipinte dava loro l'aria di chi stia implorando qualcosa. Frieda ancheggiava pietosamente e cercava di mettere ordine ai capelli rossi. Dora camminava con le spalle buttate all'indietro, nel tentativo di mettere in mostra forme inesistenti. Un sacco di patate e un manico di scopa. «Andate all'inferno!» mormorò Kerrigan, quando le due donne arrivarono al tavolo. «Abbiamo anche noi il diritto di sederci» disse Dora. Lo fissò, e finalmente lo riconobbe. «Ehi. Ma guarda un po', è Bill Kerrigan!» «Che mi venga un colpo se non è veramente lui!» fece eco Frieda. «Si è messo l'abito della festa» aggiunse Dora, e scoppiò in una risata stridula. «Ti avevamo preso per un agente federale.» Incrociò le braccia, le sciolse, le incrociò ancora. «Perché ti sei combinato in quel modo?» «Perché questo è un tavolo speciale» disse Frieda, indicando Channing che sedeva tranquillo, sorridendo. Dora aveva smesso di ridere e la sua faccia era un ricamo di rughe disegnate all'ingiù. «Può darsi che sia speciale» disse «ma non è riservato. Se ci stanno seduti loro, possiamo sederci anche noi.» «Hai ragione» approvò Frieda, e sedette accanto a Channing. Dora occupò la sedia accanto a Kerrigan e gli passò un braccio attorno alle spalle. Lui bestemmiò fra i denti, l'afferrò per il polso e respinse il braccio. Ma subito Dora lo riabbracciò. «Fa' un po' quel diavolo che vuoi» brontolò Bill, e lasciò il braccio dove stava. «Ci offri da bere?» domandò Frieda, a Channing. «Certo» rispose il giovane. «Cosa volete?» «Gin» disse Dora. «Non beviamo altro che gin, noi.» Channing ordinò a Dugan una bottiglia di gin e due bicchieri. Quando Dugan portò la bottiglia con i due bicchieri, Channing guardò Kerrigan. «E voi?» domandò. «Non voglio niente» rispose Bill. «Ora me ne vado.» Tentò di sottrarsi alla stretta di Dora, ma lei gli mise anche l'altro braccio attorno al collo. Preso com'era dal tentativo di liberarsi di Dora, Kerrigan non sentì il rumore della porta che si apriva e i passi che si avvicinavano. Poi, chissà perché, alzò gli occhi e la vide, accanto al tavolo. Vide la bella faccia e i
capelli dorati di Loretta Channing. Lei lo fissava, intensamente, senza curarsi degli altri. «Chi è questa baldracca?» disse Frieda. «Questa baldracca» rispose Channing «è mia sorella.» «Mica brutta» commentò Dora. «Cos'è venuta a fare qui?» domandò Frieda. «A cercare clienti?» A Dora non piaceva il modo in cui Loretta guardava Kerrigan. Strinse più forte le braccia attorno a lui e riprese: «Non vedi che qui siamo a posto? Non puoi sederti con noi, se prima non ti procuri un uomo». Loretta continuava a guardare Kerrigan. Il respiro di Dora diventò affannoso. «Piantala!» sibilò a Loretta. «Non tenergli gli occhi addosso in quel modo. Lui sta con me. L'ho visto prima io.» Channing rise. «Attenta, Dora» avvertì. «Mia sorella picchia forte.» «Non mi fa paura» disse Dora. «Se fa tanto di toccarmi, dovrà prendersi un'infermiera che la curi giorno e notte.» Ma la ragazza non ascoltava nemmeno. Guardava Kerrigan e sembrava che non esistesse altro, per lei. La prostituta si alzò e andò a piantarsi di fronte a Loretta, strillando: «Sentimi bene, tu! Ti ho detto di piantarla di guardarlo». «Non strillatemi in faccia a questo modo» rispose Loretta, senza scomporsi. «Continua a guardarlo, e in faccia vedrai cosa ti arriva!» Loretta sorrise. Con gli occhi fissi su Kerrigan, rispose: «Non mi arriverà niente». «È una sfida?» urlò Dora. «Certo che ti sta sfidando» disse Channing. «Non hai capito che è venuta a cercar guai?» «E li avrà» dichiarò Dora. «Quando sto con un uomo, non voglio che nessuna sgualdrina gli ronzi intorno.» Loretta guardò la scheletrica prostituta. «Avete ragione» disse. «Vi chiedo scusa.» Voltò le spalle al tavolo e andò al banco del bar. Ma Dora non era soddisfatta. «Non te la caverai così a buon mercato, cagna!» gridò e, chinata la testa, si lanciò in avanti, verso la ragazza. Ma all'ultimo momento Loretta si scostò e Dora finì contro il banco, rimbalzando indietro e cadde lunga distesa sul pavimento. Cercò di rimettersi in piedi, ma inciampò e ricadde. Al secondo tentativo, però, riuscì a rialzarsi. Poi vide l'espressione di Loretta, che aspettava il secondo attacco con le
mani sui fianchi, e la prudenza le consigliò di non insistere. Frattanto, Loretta, senza più badare a lei, ordinava un whisky. Al tavolo, Frieda stava dicendo a Channing che doveva prendersi una moglie e sistemarsi. La donna parlava a bassa voce, in tono serio, cercando di convincere il giovane dei benefici del matrimonio. Channing aveva spostato la sedia, in modo da guardarla in faccia, e ascoltava interessato, approvando. Lui era più che favorevole a una tranquilla vita domestica, dichiarò, poi chiese a Frieda quanti anni avesse. Quarantatré, rispose la donna. E quanto pesava? Settantasette chili, rispose Frieda, e Channing disse che era il peso giusto. E sapeva cucinare? Frieda disse di no. Channing allora disse che avrebbe dovuto imparare a cucinare perché a lui piaceva mangiare in casa. Kerrigan sedeva di fronte a loro, ascoltava e guardava la macchina fotografica. Sentì Frieda dire: «Parli sul serio?». E Channing che rispondeva: «Sì, Frieda». Poi la donna esclamò: «Questa non me l'aspettavo, giuro!». Kerrigan ascoltava e intanto si diceva di piantarla di guardare la macchina, si diceva di alzarsi di lì e di andarsene. Ma non si alzò. Era come inchiodato alla sedia, e i suoi occhi erano inchiodati alla macchina. Sentì la voce roca della prostituta. «Vuoi dire che ci sposiamo, tu e io?» Senza la minima esitazione, Channing rispose: «È proprio quello che voglio dire, se tu accetti». Kerrigan si afferrò ai bordi del tavolo. Non riusciva. Non riusciva ad alzarsi. «Quando ci sposeremo?» domandò Frieda. «Fissa tu la data» rispose Channing. Le gambe della sedia grattarono il pavimento, quando Kerrigan la spinse indietro. Si alzò, finalmente, e guardando la prostituta disse: «Perché gli permetti di prenderti in giro?». Frieda alzò gli occhi a guardarlo. «Mi sta prendendo in giro?» domandò. Si volse a studiare la faccia di Channing. «È vero? L'hai detto per prendermi in giro?» Channing si riempì il bicchiere; bevve un lungo sorso, poi ripeté: «Fissa la data». «Maledetta stupida!» esplose Kerrigan. «Non ti accorgi che si diverte alle tue spalle? Ti ha pagato il gin e adesso vuole rifarsi.» «Ahhh, chiudi il becco» disse Frieda. «Non ho chiesto il tuo parere.» Sorrise a Channing. «Per me va bene lo stesso. Lo so che è solo uno scher-
zo e che non puoi aver parlato sul serio.» «Invece sì» rispose Channing. La voce del giovane era dolce, persuasiva. «Devi credermi» riprese, ignorando Kerrigan. «Prova a credermi, non è difficile.» Con una smorfia di disgusto, Kerrigan si allontanò dal tavolo, diretto alla porta. Ma dopo qualche passo guardò Loretta e si fermò di colpo. Tornò indietro, prese la macchina fotografica, attraversò lentamente il locale, andò vicino alla ragazza e posò la macchina sul banco del bar, davanti a lei. «L'avete dimenticata al molo» disse, e si voltò per andarsene. Loretta gli posò una mano sul braccio. «Vi prego, non ve ne andate.» «Ho un appuntamento.» Lei lo guardò dalla testa ai piedi. «È per questo che vi siete messo elegante?» Bill non rispose. Loretta lo fissò a lungo, poi disse: «Certo che avete un appuntamento. L'avete con me». «Da quando?» «Da quando vi siete fatto il bagno, e vi siete rasato, e avete indossato il vostro vestito migliore.» Si accigliò. «Non l'ho fatto per voi» disse. La ragazza piegò la testa sbirciando da sotto in su. «Per chi altro avreste potuto farlo?» chiese. L'intenzione era quella di darle una rispostaccia che le levasse la pelle, ma le parole non gli uscirono dalla gola. Aspettava che lei gli lasciasse il braccio, permettendogli di andarsene, poi si accorse che Loretta non gli teneva affatto il braccio. Si domandò, rabbioso, perché mai avesse ancora la sensazione della mano della ragazza premuta sulla manica. Dietro il banco, Dugan aspettava che Loretta pagasse il whisky. Lei aprì la borsetta, ne tolse un biglietto da un dollaro e glielo diede. Dugan contò il resto: due monete da dieci e un mezzo dollaro. Lo fece con una lentezza esasperante, così almeno parve a Kerrigan. Non capiva perché fosse tanto impaziente. Sapeva soltanto che aveva fretta e che non si poteva muovere di lì, a meno che la ragazza non andasse con lui. Aspettò che Loretta mettesse via il resto. Aspettò che lei finisse di bere il suo whisky. Aspettò che, dopo, bevesse il bicchiere d'acqua che si era fatta portare. Dio, com'era lenta. Lei si voltò a guardarlo, posò il bicchiere sul banco, prese la macchina fotografica, gli sorrise, e finalmente disse: «Se vogliamo andare, io sono
pronta». A Kerrigan parve che fosse il pavimento a scivolargli di sotto ai piedi, allontanando il banco del bar. Anche il soffitto e le pareti scivolarono all'indietro, mentre la porta si avvicinava. Alle sue spalle, si levò la voce stridula di Dora che lo stava insultando, e il mormorio di Frieda e Channing, intenti nella loro conversazione, e il canticchiare stonato di Dugan. Voci e suoni senza significato per Bill. Lui non li ascoltava. Lui sentiva soltanto il rombo che gli riempiva il cervello, che gli premeva alle tempie, accompagnando il suo andare, mentre, con accanto Loretta, arrivava alla porta, l'apriva, e usciva dal «Dugan's Den». XI Si fermò all'angolo. La macchina sportiva era parcheggiata sull'altro lato della strada e brillava, lucida, sotto la luna. Pareva un gioiello, così pulita e lustra, sullo sfondo delle baracche e delle case coi muri scrostati. Stonava, in quel posto. Non si inquadrava col resto. Kerrigan guardò la ragazza. La ragazza aspettava che dicesse qualcosa. Lui si fece forza e mormorò: «Facciamo quattro passi?». «Possiamo prendere la macchina» disse lei. Attraversarono la strada e salirono sulla MG. Lei mise in moto. Lui si appoggiò allo schienale del sedile, cercando una posizione comoda. Si sentiva strano, a disagio, ma il sedile della macchina non c'entrava. Loretta notò che si muoveva, imbarazzato, e disse: «In questa macchina il posto è così ristretto...». «Oh, no, va benissimo» disse Bill. Ma non andava affatto bene. Non ci si ritrovava, in quella macchina. Non era per lui. Avrebbe voluto aprire la portiera e andarsene, ma chissà perché, non riusciva a muoversi, quasi che fosse paralizzato. La macchina scivolò via dal marciapiede. «Dove andiamo?» domandò Kerrigan. «Dove preferite. Volete che vi porti a vedere dove abito?» disse lei. Kerrigan scosse la testa con gesto brusco. «Perché no?» disse lei. Kerrigan non trovò nessuna risposta da darle. «Non è molto lontano» insistette Loretta. «In venti minuti ci si arriva.» «Non voglio andarci.» «C'è qualche motivo particolare?»
Lui non parlò. «È un bel quartiere, sapete?» «Ci credo» disse Kerrigan, tra i denti. «Sarà certo molto più bello di qui.» «Non intendevo questo.» «Volete farmi un favore?» disse lui, aggrappandosi con le mani al sedile. «Cerchiamo di mettere le cose in chiaro. Voi siete una dei quartieri alti, io sono dei bassifondi. Lasciamo le cose come stanno.» «Mi sembra stupido» disse lei. «D'accordo, è stupido, ma è così. Perciò limitatevi ad andare verso il fiume.» Loretta accelerò. In Wharf Street, Bill le disse di andare diritto. Continuarono per parecchi isolati, finché lui non le fece voltare a sinistra, dirigendola verso un ampio spiazzo deserto tra i moli. Lì la strada finiva su una distesa d'erba che degradava dolcemente fino al fiume. Era soltanto un pezzo di verde, e di giorno non offriva niente. Ma sotto la luna acquistava un fascino particolare, con i cespugli che spuntavano alti qua e là a interrompere la monotonia del prato. «È bellissimo!» mormorò lei. «È un posto tranquillo, e almeno c'è un po' d'aria.» Rimasero in silenzio per un po'. Bill si domandava perché diavolo l'avesse fatta andare lì, e poi gli venne in mente che quando era bambino aveva l'abitudine di venirci per stare solo e in pace, a godersi il fresco. O forse per togliersi dalle brutture di Vernon Street. «È come una piccola isola» mormorò Loretta. «Sembra di essere lontani da tutto.» La guardò. La luna metteva in risalto i suoi capelli biondi e le faceva risplendere gli occhi. Era irresistibile, così bella. Assaporò il piacere di averla vicina. La voleva. Doveva averla. Il desiderio era così intenso che non capiva perché non la stringesse tra le braccia. Poi, di colpo, capì. Ciò che provava era qualcosa di più profondo del desiderio fisico. Voleva avere il suo cuore, tutto di lei. "Ma lei, no" si disse. "Lei vuole soltanto divertirsi." «Andiamo via» mormorò. «Mettete in moto, andiamocene.» «Perché?» Loretta si accigliò. «Cos'è successo?» «State solo cercando un passatempo» rispose Bill, senza guardarla. «Volete divertirvi e basta.» «Non è vero!»
«Figuriamoci! Sono abbastanza grande da capirle, certe cose.» «State traendo delle conclusioni sbagliate» protestò la ragazza. «Davvero?» La guardò di traverso. «Chi credete di imbrogliare?» Loretta scosse la testa lentamente, senza parlare. Bill indicò la chiavetta dell'accensione. «Su, mettete in moto.» Lei restò immobile, con le mani strette in grembo. «Non mi date nessuna possibilità» disse, tenendo gli occhi bassi. «Possibilità di far cosa? Di menarmi per il naso come un idiota?» «Perché dite così?» «È quello che penso.» «Ne siete sicuro? Sapete realmente ciò che pensate?» «So che non mi piace essere preso per il bavero.» «Dunque non vi fidate di me?» «Come no? Alla stessa maniera in cui mi fiderei a sollevare da solo un camion di dieci tonnellate.» Loretta sorrise. Un sorriso triste. «Be', almeno ho tentato.» «Tentato, cosa?» domandò lui, accigliandosi. «Di fare quello che non avevo mai fatto. Non è nella natura femminile dare la caccia a un uomo apertamente. Ma ho pensato che fosse l'unico modo per arrivare a voi.» Si strinse nelle spalle. «Mi dispiace di non essere riuscita a interessarvi.» «State parlando seriamente?» domandò Bill, incerto. Loretta si limitò a guardarlo, senza rispondere. «Maledizione!» brontolò lui. «Adesso avete confuso tutto e io non so più cosa pensare.» «Ho cercato di fare la furba» riprese la ragazza in tono di rammarico. «Come oggi, al molo, quando vi ho fatto la fotografia. Ma dentro di me sapevo che il vero motivo era uno solo: volevo una vostra fotografia.» Bill distolse lo sguardo. «Volevo tenerla per me» continuò lei, calma. «Volevo "avervi" con me almeno in fotografia. Ma dopo, quando ho lasciato la macchina fotografica sul tavolino, l'ho fatto volutamente, con l'idea che fosse una mossa astuta. Invece avrei dovuto dirvelo chiaramente.» «Dirmi, cosa?» «Che vi voglio.» Sentì il cervello turbinare. «Non sono in vendita per il divertimento di una notte» disse. «Non è questo che intendevo. Lo sapete che non volevo dire questo.»
Per qualche secondo, Bill non riuscì a parlare. Prima doveva mettere ordine nei suoi pensieri. «È successo troppo in fretta» mormorò infine. «Non ci conosciamo nemmeno, quasi.» «Cosa c'è da conoscere? I particolari sono tanto importanti? Io ho sentito qualcosa dentro nell'attimo stesso in cui vi ho visto la prima volta. È stata una sensazione che non avevo mai provato. Ed è quello che conta. Ciò che ho provato in quel momento, conta. Nient'altro.» «Sì» disse lui. «Lo so... So cosa volete dire.» «È stato così anche per voi?» «Sì.» Sedevano immobili, divisi dallo spazio tra i due sedili come da un baratro, eppure era come se fossero abbracciati. Senza muoversi, senza toccarla, lui le accarezzò gli occhi e le labbra. «È questo che voglio. Solo questo. Solo esservi vicina» la sentì dire. «Loretta...» «Sì?» «Non andare via.» «No.» «Voglio dire... Non andare via mai. Mai.» Lei chiuse gli occhi. «Lo vuoi realmente?» mormorò. «Sì. È l'unica cosa che voglio.» «E sarà così. Sarà tutto quello che vuoi.» Lui non sentì le parole, ma una musica. Una musica che gli arrivava da un sogno, e il sogno lo trasportava lontano da tutto ciò che era stato fino a quel momento, lontano da ogni cosa tangibile del mondo in cui aveva vissuto fino a quel momento, via dalle tappezzerie cadenti della casa dei Kerrigan, via dai rumori degli inquilini del piano di sopra, via dalle urla, dalle discussioni, dalle bestemmie. Il sogno lo portò via dalla voce rauca di Lola e dalle bottiglie vuote di birra sparpagliate negli angoli del salotto, e dal russare di suo padre disteso sul divano. Nel sogno una voce, la sua voce, diceva addio al vecchio Tom, addio alla brutta casa, addio alla sporca Vernon Street, alle baracche di legno, ai mobili polverosi, alle finestre rotte, alle scritte sui muri, ai gatti miagolanti nei vicoli bui. Ma c'era un vicolo che rifiutava l'addio. E quel vicolo entrò nel sogno, col suo acciottolato sconnesso e la sola luce di un raggio di luna che batteva come un faro sulle vecchie macchie di sangue. «Parla... Di' qualcosa...» Non riusciva a uscire dal sogno, non riusciva a entrarci completamente.
E nel suo cervello si svolgeva una guerra senza vinti né vincitori: da un lato il sogno che lo tratteneva, dall'altro la realtà che lo chiamava. Sua sorella dormiva nella tomba nella quale si era buttata da sola perché un uomo aveva violato la sua carne e umiliato il suo spirito. E lui... lui doveva trovare quell'uomo, e fargliela pagare. Le mani di Bill tremavano per l'ansia di stringersi attorno a una gola sconosciuta. Loretta aspettava che lui parlasse, e gli sorrideva. «Vuoi bene a tuo fratello?» domandò Bill, fissando dritto davanti a sé. «Molto» rispose la ragazza. «È un ubriacone, e un fannullone, ma qualche volta è molto caro. Perché me lo chiedi?» «Mi lascia perplesso» rispose. «Mi sono domandato parecchie volte perché venga nel locale di Dugan.» Lei non rispose subito, poi, stringendosi nelle spalle, disse: «È un posto, quello, dove lui si può nascondere». «Da che cosa?» «Da se stesso.» «Non capisco.» Gli occhi di Loretta si incupirono, e la ragazza distolse lo sguardo. «Preferisco non parlarne» mormorò. «Perché?» «Non è un discorso allegro...» Ma subito aggiunse: «No, sto sbagliando. Tu hai il diritto di sapere». Gli parlò della sua famiglia: suo padre, sua madre, il fratello e lei. Una comune famiglia della media borghesia, di condizioni più che agiate. Ma sua madre beveva, e suo padre aveva delle amanti. Adesso erano morti entrambi, e lei poteva anche parlarne. I suoi non erano mai andati d'accordo, e avevano finito per odiarsi. Alla fine, non litigavano nemmeno più, per evitare di rivolgersi la parola. Una sera, suo fratello, allora aveva diciassette anni e aveva appena ottenuto la patente di guida, aveva portato fuori i genitori per una passeggiata in macchina. Era tornato solo, con la testa fasciata. Il padre era morto sul colpo, e la madre aveva cessato di vivere appena arrivata all'ospedale. Poco dopo, Newton Channing aveva cominciato ad avere delle crisi isteriche, durante le quali non riusciva a frenarsi dal ridere mentre si domandava a voce alta se per caso non avesse provocato intenzionalmente la disgrazia, allo scopo di offrire ai genitori un modo rapido per risolvere la loro situazione insostenibile. Per qualche tempo uno zio scapolo era andato a vivere con i due ragazzi, ma non aveva resistito alle stranezze di Newton, e dopo un po' li aveva lasciati soli.
All'età di diciannove anni, Newton aveva sposato la loro padrona di casa, che ne aveva quarantacinque. La donna era piccola e magra, con la faccia segnata dalle orribili cicatrici rimastele in seguito a un incidente. Nessun uomo l'aveva mai guardata senza disgusto, e Newton l'aveva sposata apposta per sentirsi spregevole e disgustoso lui stesso. Il ragazzo faceva di tutto per farla andare in furia, e quando ci riusciva ne era pienamente soddisfatto, soprattutto se la donna si ribellava, graffiandolo o tirandogli dietro qualunque oggetto si trovasse sottomano. Ma dopo sette anni, la donna non ne aveva potuto più e aveva ottenuto il divorzio. Pochi mesi dopo, Newton sposava una zingara di origine ungherese, alta, ossuta, con un gran naso a becco e diversi mariti sparsi un po' dappertutto. Aveva cinquant'anni, e per mantenere neri i capelli usava lucido da scarpe. E beveva. Beveva moltissimo. Newton usufruiva di un lascito del padre che gli assicurava sessanta dollari la settimana, ma spesso non bastavano nemmeno a pagare le bottiglie di whisky per la moglie. A quell'epoca, Loretta lavorava presso lo studio di un dentista e guadagnava quaranta dollari la settimana, ma le restava ben poco, perché gli sposi le chiedevano continuamente soldi. A vent'anni, Loretta aveva sposato un giovane dentista, e per qualche tempo aveva vissuto con lui in un piccolo appartamento. Ma lei era sempre preoccupata per Newton, e alla fine aveva insistito per tornare alla casa paterna. Il marito aveva rifiutato, ne era seguita una discussione, poi altre, sempre più violente, finché lui l'aveva lasciata. Ottenuto il divorzio, la ragazza era tornata a vivere con il fratello e la zingara. La convivenza non era stata facile. Newton e la moglie erano quasi sempre ubriachi, e la donna non faceva niente per tenere in ordine la casa. Inoltre, i due litigavano sempre. Una volta la zingara aveva colpito Newton con un attizzatoio, rompendogli due costole, e lui, caduto a terra, era scoppiato in una risata e le aveva detto che era una donna adorabile e che l'amava alla follia. Col passare del tempo, le cose erano peggiorate. Poi una volta Newton aveva comperato uno scheletro e se n'era servito per spaventare la moglie, facendoglielo comparire davanti in piena notte. La zingara si era spaventata a morte e da allora era sembrato che avesse perso del tutto la ragione. Poco più tardi si era ammalata. Una banale influenza, ma la donna si era trascurata ed era morta di polmonite. Durante il funerale della moglie, Newton era stato preso da una delle sue crisi isteriche. Poi, per qualche mese, era sembrato che stesse meglio, e aveva cominciato persino a lavorare presso un concessionario di automobili. Lavorava sodo e non beveva
più. Con Loretta si comportava da fratello generoso e affezionato. A Natale, le aveva regalato la MG, ed erano stati fuori a festeggiare insieme la solennità. Ma una settimana più tardi, le crisi erano ricominciate, Newton aveva lasciato il lavoro e aveva ripreso a bere. «Quando è stato, questo?» domandò Kerrigan. «Circa un anno fa.» «E quando ha cominciato a frequentare il Dugan's Den?» «Pressappoco alla stessa epoca.» Kerrigan avrebbe voluto continuare a farle domande, ma l'espressione di Loretta lo fece ammutolire. La ragazza aveva gli occhi asciutti, eppure sembrava che stesse piangendo. «Oh, no» disse. «Non fare quella faccia...» La ragazza tentò di sorridere, ma le tremavano le labbra. «Ti capisco» disse ancora Bill. «Non deve essere stato facile, per te.» Lei chinò la testa e si coprì la faccia con le mani. Di colpo, Bill sentì tutta la sofferenza della ragazza. Allora respinse ogni pensiero, ogni ipotesi su Newton Channing, rifiutò l'orribile conclusione a cui era arrivato, e sentì un'unica cosa: il desiderio di tenerla tra le braccia per sempre. Si immerse nel sogno che lo portava via da Vernon Street. «Guardami.» La sua voce fu un mormorio rauco. Loretta abbassò le mani. «Voglio prendermi cura di te. Da questo momento, a te, ci penserò io.» Loretta trattenne il fiato. «Per sempre.» Lei lo guardò. «Sai cosa significa?» domandò a bassa voce. Lui fece di sì con la testa. Ma nel suo cervello si accese una luce d'allarme. La ignorò. Non sapeva da cosa volesse metterlo in guardia quella luce, ma la ignorò. Non voleva sapere. «Deve essere per sempre» disse. «Non può, non deve essere diversamente.» Accecato dal desiderio, travolto dal bisogno di averla, l'afferrò per i polsi, ansimando. «Non aspettiamo... Non posso aspettare. Deve essere adesso, subito.» «Adesso?» «Conosco una persona che ci può far avere la licenza matrimoniale» mormorò, gli occhi annebbiati. «Ma...»
«Devi soltanto dire di sì. Dillo!» Lentamente Loretta girò lo sguardo sul fiume, sulla luna, sui cespugli. Per qualche secondo l'unico rumore attorno fu il battere dell'acqua contro la riva. Poi Bill sentì la sua voce. «Sì» disse. XII Bill non si mosse. Era come paralizzato, come se avesse preso una mazzata al cervello e fluttuasse nell'incoscienza. L'aria era diventata nebbia nera. «Sì» ripeté lei. Bill trasalì. Di nuovo il segnale luminoso nel cervello. Ma non più d'avvertimento, ora. Ora la luce gli diceva: "È troppo tardi, adesso. Ormai ci sei dentro fino al collo e non puoi più tirarti indietro". Le sue labbra si mossero macchinalmente, per dire a Loretta di mettere in moto. Mentre il motore della MG cominciava a ronzare, e la macchina rispondeva docile al comando dell'acceleratore, lui guardò lo scenario di pace dissolversi davanti ai suoi occhi. Ebbe un'ultima visione della luna sull'acqua e del dolce pendio erboso, poi la macchina svoltò in Wharf Street, e furono tra cemento e mattoni. Vide i moli dritti e i lunghi magazzini, subito sostituiti dalle brutte baracche e dalle case sudice attorno a Vernon Street. Cominciò a sentire i miagolii dei gatti nei vicoli, le voci degli ubriachi, i mille rumori di stanze sovraffollate. «Rallenta» disse. «Devo fermare?» «No. Rallenta, soltanto.» Loretta diminuì la velocità. Lui sedeva rigido, gli occhi fissi davanti a sé. Lei lo sbirciava, di tanto in tanto. «Cosa c'è?» domandò infine. «Niente» rispose. Da una finestra venne il rumore di una disputa. Da un terzo piano giunsero gli strilli isterici di una donna, intercalati alle bestemmie oscene del marito ubriaco. Ma quella donna e il suo uomo avrebbero fatto la pace, sarebbero andati a letto insieme, e sarebbero rimasti insieme perché si appartenevano e appartenevano allo stesso mondo: la spazzatura di Vernon Street.
Bill li invidiò. La voce di Loretta Channing lo riscosse. Una voce estranea a quel mondo. Chiedeva da che parte doveva andare. Kerrigan le disse di svoltare in Vernon Street, e gli parve di udire le proteste del quartiere contro l'intrusa che non sapeva nemmeno da che parte andare. La macchina, adesso, procedeva lentissima. Un ubriaco si parò all'improvviso davanti alla MG, che lo evitò per un pelo, e si voltò a ingiuriare contro il guidatore. Le parole, pesanti, oscene, fecero trasalire la ragazza. Kerrigan si volse a guardare l'uomo. Lo riconobbe, era un vicino di casa. Loretta premette l'acceleratore per allontanarsi più in fretta. «Tra poco, per fortuna, saremo lontani da tutto questo» disse. Lui si impose di tacere. All'incrocio con la Terza Strada, le disse di prendere a destra e, percorsa metà della via, la fece fermare. La ragazza ubbidì, guardandolo con aria interrogativa. Lui le indicò un caseggiato a due piani. Il riflesso di un lampione illuminava le parole scritte a mano su un cartone incollato a una delle finestre. C'era scritto: «Matrimoni». L'aiutò a smontare dalla macchina, e insieme aspettarono davanti alla porta, dopo aver bussato. Finalmente la porta si aprì. Il vecchio greco li guardò dalla soglia, avvolto in una veste da camera cenciosa, con la barba lunga, gli occhi gonfi di sonno. «Avete una licenza matrimoniale?» domandò Kerrigan. Il greco ammiccò. «Licenza? Quante ne volete. Ne ho pacchi, di licenze.» Era un ometto smilzo vicino ai settant'anni, con tre soli ciuffi di capelli, uno per parte sopra le orecchie e il terzo al centro del cranio. Sorrise, mostrando le gengive sdentate. «Avete l'anello?» domandò. Kerrigan scosse la testa, e guardò Loretta. La ragazza teneva lo sguardo fisso oltre il greco, e non disse niente. «Lo troverò io, un anello, da qualche parte» disse il vecchio. Fece strada fino a un misero salotto, dove Loretta sedette in una poltrona sgangherata, l'unica. Kerrigan rimase in piedi in mezzo alla stanza. Si sentiva le gambe pesanti. Il greco scomparve nella stanza vicina, ma tornò subito, con una boccetta d'inchiostro, una penna e un foglio arrotolato, tenuto fermo da un elastico. Tolse l'elastico e porse il foglio a Kerrigan, che scorse macchinalmente
le frasi stampate sull'atto di matrimonio, poi si accostò a Loretta e le disse: «Firma prima tu». La ragazza guardò il greco. «È un documento valido, questo?» chiese. Il vecchio accennò di sì con la testa, ripetutamente. «Viene dal Municipio» disse. «Dall'ufficio licenze. Domani porterò quel foglio in Municipio e lo metterò nell'archivio.» «Voglio essere sicura che sia valido» insistette Loretta. Kerrigan corrugò la fronte. «Certo che lo è» disse. «Guarda l'intestazione stampata.» «Non preoccupatevi» la rassicurò il greco. «Sono anni che faccio questo lavoro, ed è sempre andato tutto bene.» «Perché se non è legale» riprese Loretta «non ha alcun valore, non significa niente...» Il greco alzò gli occhi al soffitto. «Vi assicuro che questo documento è valido, legale, il più legale che ci sia, e finirà regolarmente nell'archivio del Municipio come tutti gli altri atti di matrimonio.» Loretta si alzò, andò al tavolino sul quale il vecchio aveva deposto la penna e l'inchiostro, e prese la penna. Kerrigan teneva gli occhi fissi sul tappeto consunto. La ragazza lo guardò di sfuggita, respirò a fondo, mise la firma in calce al documento e poi tese la penna a Kerrigan. Lui si accostò lentamente al tavolo. Gli tremavano le mani. Sentiva su di sé lo sguardo di Loretta e cercò di dominare il tremito, ma fu peggio: non riusciva ad accostare la penna al documento. «Cosa stai aspettando?» domandò lei. Non c'era niente da rispondere. «Non hai che da mettere la tua firma» aggiunse Loretta. «Scrivi il tuo nome sulla linea punteggiata.» La paralisi continuava. Il documento era lì davanti a lui, con il nome di Loretta scritto in calce, e la linea punteggiata che aspettava il suo. Ma lui non riusciva a muovere la mano. «Forse non sa scrivere» disse il greco. «Ne vengono qui tanti che non sanno fare la firma.» «So scrivere» mormorò Kerrigan. Gocce di sudore gli rotolavano giù dalla fronte. «Allora perché non firmate?» domandò il greco. «Non fategli fretta» disse la ragazza. «È un po' scombussolato.» «Sembra nervoso» commentò il greco. «Sì, credo proprio che sia effetto di nervi.»
«Forse, ma non capisco perché.» La voce di Loretta aveva un tono divertito. «In fondo, l'idea è stata sua.» «Può aver cambiato idea» disse il vecchio, serio. «Il matrimonio non è uno scherzo, bisogna pensarci bene. Molti uomini, sapete, sono spaventati all'idea di sposarsi.» «Be', se vuol tirarsi indietro, questo è il momento giusto» commentò Loretta. Kerrigan si voltò a guardarla, e lei gli sorrise. Di scatto, lui si chinò sul tavolino e firmò. Poi consegnò il documento al greco. «Ecco, adesso, dov'è l'anello?» Il greco infilò una mano nella tasca della vestaglia, vi frugò un momento e ne tolse un cerchietto nichelato. Kerrigan lo guardò attentamente e si accorse che era l'anello di un'agenda da muro. «Ma... Questa non è una fede» protestò. Il vecchio si strinse nelle spalle. «È tutto quello che sono riuscito a trovare» disse e, guardando Loretta aggiunse: «Dopo, ve ne comprerà lui uno più bello. Questo è solo un simbolo, per la cerimonia». Diede l'anello a Kerrigan, poi prese una Bibbia da un cassetto del tavolino, e mentre la sfogliava disse: «Il prezzo complessivo è di due dollari e cinquantadue centesimi. Due dollari per la cerimonia e cinquanta centesimi per la licenza». «E i due centesimi?» domandò Kerrigan. «Li ho aggiunti per l'anello» rispose il greco, e senza alzare gli occhi dalla Bibbia tese la mano per ricevere il denaro. Quando ne sentì il peso sul palmo sbirciò un attimo, giusto per controllare e, intascato il suo compenso, disse: «Adesso la sposa si metta vicina allo sposo». Erano passate tre ore da quel momento, e adesso Kerrigan aveva la testa affondata in un guanciale. Teneva gli occhi chiusi, ma non dormiva. Stava solo cercando di sottrarsi ai fumi dell'alcool. Non se ne ricordava, ma doveva aver bevuto troppi whisky, così adesso il suo cervello era imbottito di un batuffolo di cotone che impediva agli ingranaggi di funzionare regolarmente. Gli pareva di avere la testa enorme, grossa almeno due volte il normale, e gli sarebbe piaciuto sapere come diavolo aveva fatto a ridursi in quello stato. Poi, a poco a poco, la nebbia si diradò, e il cervello prese a funzionare. Non volle forzarlo a lavorare troppo, così, subito. Non volle nemmeno aprire gli occhi per capire dov'era. Si disse che se fosse rimasto disteso
tranquillo, i ricordi sarebbero venuti da soli. E una serie di immagini cominciò a sfilare sullo sfondo delle palpebre abbassate, scene staccate che gli raccontarono gli avvenimenti della sera. Si vide intento a infilare l'anello al dito di Loretta. Poi sentì la voce del greco che diceva: "E con questo vi dichiaro marito e moglie". Ancora il vecchio greco, che gli diceva di baciare la sposa, e siccome lui non la baciava, insisteva: "Su, dunque, datele un bacio". E la sua voce. "Accidenti a voi, impicciatevi un po' dei fatti vostri!". La voce di Loretta. "Vi prego di perdonare mio marito...". Era uscito dalla casa del greco, seguito da lei. Si era voltato a chiedere: "Dove andiamo, adesso?". Lei aveva detto: "Dove vuoi tu". E lui: "Dovremmo festeggiare". La ragazza si era stretta nelle spalle, e aveva sorriso. "Come vuoi tu, caro". Poi Loretta aveva smesso di sorridere. "Mi sembra che tu abbia bisogno di bere qualcosa di forte" gli aveva detto. Erano saliti in macchina. Avevano percorso la Terza Strada, e la Quarta, e avevano svoltato in Vernon Street. La MG ferma davanti al «Dugan's Den» e loro che entravano. Non c'era più nessuno, nel locale. Dugan stava chiudendo. Loretta aveva messo del denaro sul banco, e Dugan aveva tirato fuori una bottiglia di whisky e due bicchieri. Avevano brindato. "Alla nostra prima notte di nozze" aveva detto Loretta. Poi un altro brindisi. "A mio marito!" Al terzo bicchiere lui aveva detto: "Andiamo fuori di qui. Non ho voglia di bere". Ma si era scolato anche il terzo e aveva allungato il braccio per averne un quarto. Bicchieri vuoti. Bicchieri pieni. Vuoti e pieni. Quanti? Non se lo ricordava. Tanti, comunque. Loro che andavano verso la macchina. No. Lei che lo aiutava a reggersi in piedi fino alla macchina. La testa gli ciondolava in avanti. Voleva alzarla per guardare Loretta, ma non ci riusciva. Non riusciva nemmeno a parlare. Le scene si confondevano, ma gli pareva di ricordare una breve corsa in macchina, poi la MG che si fermava, Loretta che lo sosteneva facendogli salire alcuni gradini. E una porta. Ma quale porta? Di quale casa? La rapida visione di Loretta seduta su un divano a guardarlo mentre lui arrancava per attraversare una stanza. Poi, il buio assoluto. Affondò la testa nel guanciale e pensò: "Al diavolo! Domani mattina scoprirò dove sono. Cosa me ne importa di saperlo adesso?". E poi sentì una mano posarglisi su un fianco.
"Dio!" pensò. "Lei è qui a letto con me!" Si scostò. Un braccio lo strinse alla vita, attirandolo contro un morbido corpo femminile. «Vieni qui» disse la donna. La voce era languida di sonno e di desiderio. «Vieni qui...» Cercò ancora di allontanarsi, ma il braccio lo teneva stretto. «Vieni più vicino...» «No» mormorò. «No, lasciami andare.» «Cosa? Cos'hai detto?» «Hai sentito, no? Su, torna a dormire.» «Credi di essere spiritoso?» «Lasciami andare e stai dalla tua parte, tu.» «Stai parlando con me?» Il tono era incredulo. «Si può sapere che cosa ti prende? Ma... perché sei vestito?» Bill corrugò la fronte. O la voce di Loretta era cambiata, o lui era talmente ubriaco da non riconoscerla più. O forse era qualcun altro. Mosse la testa, adagio, e la sollevò dal guanciale, piano, per vedere la faccia della donna. Vide le pareti scure, il soffitto illuminato dal riflesso della luna, e la finestra aperta. Là fuori la luna era come un enorme faro puntato su lui e la sua compagna. La guardò. Era Lola, la sua matrigna. Si fissarono entrambi, a occhi spalancati, le facce a pochi centimetri, non credendo, entrambi, a ciò che vedevano. Lola aveva la bocca spalancata. Kerrigan si rammaricò seriamente di non conoscere nessun mezzo per diventare invisibile. Per un momento lunghissimo, rimasero immobili, a fissarsi. Poi, di colpo, Lola gli diede uno spintone che lo mandò a finire oltre l'orlo del letto, sul pavimento, dove Bill cadde con un tonfo. E lì decise di restare, almeno per un po', per motivi puramente pratici. Sentì le molle del letto cigolare mentre Lola spostava i suoi settanta chili sul materasso, e fruscii frenetici quando la donna, alzatasi, prese a cercare al buio qualcosa da mettersi addosso. Lui restò seduto sul pavimento, a gemere e sospirare, con le mani premute sulla fronte. Udì il rumore dell'armadio che veniva aperto e di un attaccapanni staccato dall'asta metallica. Bill aveva riacquistato quasi completamente la lucidità, ora, e cominciò a studiare un sistema che gli assicu-
rasse una rapida fuga dalla camera, ma prima che potesse studiare un piano, Lola accese la luce. Lui sbatté più volte le palpebre, poi alzò gli occhi e vide Lola in piedi davanti a lui, in vestaglia, con le mani piantate sui fianchi e gli occhi che parevano tizzoni ardenti. «Cos'è questa storia?» disse la donna. «Cosa fai qui, tu?» Bill tossì, deglutì, tossì ancora, poi buttò fuori: «Niente, mi sono sbagliato». Mentre parlava, si accorse di quanto era stupida la scusa. Sbatté le palpebre, fissando istupidito la matrigna. Ma già lei non lo guardava più. Guardava invece il letto, dove avrebbe dovuto esserci suo marito e dove invece c'era soltanto l'impronta inspiegabile del corpo di Bill. «Dov'è Tom?» domandò Lola. «Dov'è tuo padre?» Kerrigan si alzò dal pavimento e sedette sul letto, con la testa fra le mani. Una vaga idea di dove fosse suo padre in quel momento lui l'aveva, ma non poteva dire a Lola di andare a cercarlo in casa di Rita Montanez. «Ha detto che andava un momento in bagno» disse Lola. «Vado a vedere» aggiunse fra i denti «e sarà meglio per lui che ce lo trovi!» La donna uscì dalla stanza, e Kerrigan, cercando di vincere lo stordimento dell'alcool, si disse che sarebbe stato opportuno fare un salto da Rita e trascinare via di là Tom prima che ci arrivasse Lola. Ma quando si alzò, il pavimento della stanza prese a oscillare paurosamente e lui fece fatica a reggersi in piedi. Con uno sforzo si avviò, ma il whisky gli giocò lo scherzo di fargli vedere più d'una porta, così che Lola fece in tempo a rientrare prima che lui avesse trovato quella giusta. «In bagno non c'è» annunciò Lola, poi fissando Kerrigan con aria accusatrice domandò: «Si può sapere cosa state combinando, tu e tuo padre?». Cautamente, lentamente, Bill sedette su una poltrona che non c'era e si ritrovò sul pavimento, chiedendosi dove fosse svanita la poltrona. La donna l'osservò attenta per qualche secondo. «Quanti ne hai bevuti?» gli chiese. «Mica molti» rispose lui scuotendo le spalle, mortificato. «Forse non lo reggo, il whisky.» «Da quanti litri in avanti? A guardarti, si direbbe che ne hai bevuto una damigiana.» Lo afferrò per un polso, lo tirò su in piedi, e lo ficcò sulla poltrona che prima era sfuggita alle sue ricerche. «E adesso» disse Lola «voglio la verità. Dov'è Tom?»
Kerrigan fissò stupidamente la moglie di suo padre. «Forse è andato a fare quattro passi» biascicò. «A quest'ora? E dove sarebbe andato, a passeggiare, secondo te?» La nebbia che sapeva di whisky tornò ad avvolgerlo. «Magari si è perso» borbottò, guardando il letto e pensando che sarebbe stato bello potercisi stendere. Lola, finalmente, capì che non era possibile ottenere risposte sensate, e gli voltò le spalle, disgustata. Poi la donna fece schioccare le dita. «È uscito!» gridò. «I suoi vestiti non ci sono!» Nonostante la sbronza, Bill capì che la matrigna era molto prossima a perdere le staffe. «Non vale la pena che ti arrabbi» le disse. «Forse aveva caldo ed è andato a bere una birra per rinfrescarsi.» «Lo rinfrescherò io, quando torna» ribatté Lola, furibonda. «Vedrai come lo rinfrescherò bene!» E prese a girare per la stanza, evidentemente alla ricerca di un'arma adatta a tradurre in realtà la sua minaccia. Kerrigan trasalì quando la vide soppesare un pesante portacenere. Ma a quanto pareva non era pesante abbastanza, perché Lola lo rimise giù, andò a prendere una spazzola ovale dalla lunga impugnatura, l'afferrò salda con entrambe le mani e la provò nell'aria. La donna stava guardandosi attorno, forse non abbastanza soddisfatta, quando nel corridoio si sentirono dei passi pesanti. Kerrigan pensò che tra pochi istanti lì dentro avrebbe fatto molto caldo. Poi la porta si aprì ed entrò Tom. Un attimo dopo si udì un tonfo, e Tom gridò. Seguirono altri tonfi e altre grida. Tom prese a girare per la stanza come una trottola, nel tentativo di sfuggire alla grandinata di colpi. «Per l'amor di Dio, falla smettere!» urlò al figlio, quando si accorse della sua presenza. Ma Bill si strinse nelle spalle. Era una parola, far smettere Lola quando si era scatenata! Sorridendo stupidamente, si alzò deciso a uscire dalla stanza. Ma le porte erano ancora più d'una, e mentre lui le provava tutte, il pavimento prese il posto del soffitto, e viceversa. Lui continuava a sorridere, e alle sue spalle il fracasso non smetteva, ma non gli dava fastidio, anzi, ovattato dal cotone che gli imbottiva il cervello, pareva quasi una ninna-nanna dolcissima che lo invitava a dormire... a dormire... Il buio lo avvolse e lui sorrideva ancora, perché era stato lontano da casa ma adesso ci era tornato e ci si trovava bene, a casa. XIII
Nel sonno, nuotava in un canale dalle rive di vetro, tappezzate con etichette di whisky. Etichette colorate, con troppi colori, che gli ferivano gli occhi. Doveva smettere di guardarle, se no gli sarebbe venuto il mal di testa. Poi il vetro diventò legno, e il canale si trasformò in un vicolo scuro con un raggio di luna che traeva dall'ombra le baracche malandate. Lui seguì il raggio che segnava un rettangolo di luce sui sassi, e vide le macchie di sangue. Si svegliò. Aveva un guanciale sotto la testa, e qualcuno respirava accanto a lui. Prima di guardare chi fosse, si mise a sedere, reggendosi la testa con le mani e desiderando un catino di acqua gelata per immergervela. Sbatté le palpebre, poi spalancò gli occhi di colpo. Era nella stanza di Bella. Girò la testa lentamente. Era Bella che respirava lì vicino. Dormiva girata su un fianco. Faceva caldo, e lei non aveva addosso niente. Dalla finestra entrava la luce grigia del primissimo mattino. Sul tavolino accanto al letto c'era una sveglia. Segnava le cinque meno un quarto. Doveva alzarsi e andare nella sua stanza, ma chissà dove erano i suoi vestiti. Si guardò attorno, e distinse la giacca, i pantaloni e la camicia, piegati sulla spalliera di una sedia. Si mosse adagio, attento a non fare rumore, scese dal letto e si accostò alla sedia. Gli pareva di avere una montagna premuta sulla testa. Allungò un braccio, inciampò nella sedia, la rovesciò e le andò dietro. Imprecò fra sé, rialzandosi. Poi, le scarpe in una mano, la camicia nell'altra, la giacca e i pantaloni su un braccio, si avviò alla porta in punta di piedi. Ne era a un passo, quando sentì la voce di Bella. «Be', dove credi di andare?» «In camera mia.» «Ah, sì?» «Sì.» Appoggiò una mano sulla maniglia. «Un momento» disse Bella. Sgusciò dal letto e gli fu accanto. La occhiata che gli diede lo convinse ad allontanarsi dalla porta. «Torna a letto» ordinò la donna. «Lo dici a me?» Bella si mise tra lui e la porta, bloccandogli la strada. «Mettiti pure comodo. Dobbiamo fare quattro chiacchiere, noi due.» «Non adesso» protestò Bill. «Adesso, invece.» «Maledizione! Ma guarda che ora è» disse lui, indicando la sveglia. «Ho
bisogno di dormire un po' per farmi passare la sbronza.» «È proprio questo che voglio sapere. Perché ti sei ubriacato?» Bill non rispose. Lasciò cadere le scarpe sul pavimento, buttò i vestiti sulla sedia e andò a sedere sull'orlo del letto. Meno di prima, ma si sentiva ancora stordito. Bella andò a piantarglisi di fronte. «Non sei un ubriacone» esclamò. «Se hai bevuto, devi aver avuto un motivo. Andiamo, dimmelo. Cos'è successo, ieri sera?» «Niente.» «Ci credo subito. Ti ho trovato nel corridoio, davanti alla porta di Lola. Eri più di là che di qua.» «E allora?» «E allora voglio sapere perché. Non sei tipo da ridurti in quello stato senza un motivo valido. Quando bevi è perché ti capita qualcosa da cui non riesci a liberarti.» La guardò. «Come ti è venuta, questa idea?» «So che è così. Ti conosco.» «Credi di conoscermi» borbottò lui, senza guardarla. Lei lo fissava, studiandone l'espressione. «Mi sono presa il disturbo di raccattarti dal pavimento, di trascinarti qui, di toglierti i vestiti e di ficcarti a letto...» «Ti ringrazio» disse Bill, secco. «Non l'ho fatto per essere ringraziata. L'ho fatto per averti a portata di mano quando ti fossi svegliato. Voglio sapere cosa c'è sotto. Ne ho il diritto.» Lui aggrottò la fronte. «Ti prendi un sacco di fastidi per niente. Non te l'ho chiesto io, di portarmi nella tua stanza.» «Non è la prima volta che ci dormi. Ci sei venuto un sacco di volte, no? E non sono mai stata io a trascinarti su quel letto. Ci sei sempre venuto tu, spontaneamente, camminando sui tuoi piedi!» Bill sospirò. Fece per alzarsi, ma con una spinta, Bella lo ributtò a sedere. L'urto fu così forte che lui cadde lungo disteso, e la testa sbatté contro il guanciale. Gli parve di aver battuto contro un sasso. Voleva chiudere gli occhi e dormire. Dormire e dimenticare tutto. Ma Bella era già china su di lui e lo scuoteva per le spalle. «Avanti, svegliati, Tirati su. Dobbiamo parlare.» «Maledizione, vuoi lasciarmi in pace?» Serrò forte gli occhi e tentò di sottrarsi a Bella, ma lei non lo lasciò an-
dare. Imprecando, mosse le braccia per allontanare la ragazza, e quando le mani toccarono il corpo di lei, si sentì percorrere da una scossa. Per un istante brevissimo, desiderò di attirarla a sé, di stringerla forte, di baciarla. "No" gli disse una voce nel cervello. Fu come una frustata che gli raggelò i sensi e dissipò gli ultimi effetti della sbronza. Rotolò su un fianco, poi si tirò su a sedere, rigido. «Stammi lontana» disse. «E mettiti addosso qualcosa!» Seduta sulla sponda del letto, lei lo guardò sorridendo. Non si mosse. «Ti dà fastidio, vedermi così?» Bill serrò le labbra e voltò la testa, per non vederla. «Ti eccita, vedermi? E non vuoi che ti faccia questo effetto, vero?» «Senti, Bella...» «Sì?» Ma lui non riusciva a dirlo. «Avanti, parla. Ti ascolto» sollecitò la ragazza. Be', prima o poi doveva ben dirglielo. Tanto valeva parlare subito e non pensarci più. Cercò le parole adatte, poi, gli occhi fissi sulla parete di fronte, disse: «È finito tutto, tra noi. Inutile insistere». Aspettò che lei dicesse qualcosa, ma Bella non parlò. Lui continuò a tenere gli occhi sul muro, e infine aggiunse: «Ieri sera mi sono sposato». «Tu... Cos'hai detto?» «Mi sono sposato.» «Stai scherzando?» «No.» Una lunga pausa, prima che Bella domandasse con voce calma ma soffocata: «E dove hai celebrato il matrimonio?». «Dal greco» rispose. «Ci siamo fatti dare l'atto di matrimonio. Lei l'ha firmato, poi ho firmato io, e le ho dato l'anello.» «È quella ragazza dell'altra sera? Quella smorfiosa dei quartieri alti?» «Sì.» Sospirò. Era fatta, adesso non c'era più niente da dire. «Dimmi com'è successo» disse Bella. «È successo, e basta. Cosa c'è da dire?» «Ti rendi conto di quello che hai fatto?» Fece segno di sì, con la testa. «Forse sto impazzendo e mi immagino cose che non sono vere» disse Bella. Si alzò. Risedette. Tornò ad alzarsi e prese a camminare avanti e indietro lungo il letto. Infine si fermò, aggrappandosi alla testata, chiuse gli
occhi, e si lasciò sfuggire un gemito, come se stesse provando un fortissimo dolore fisico. Bill si fregò gli occhi con i pugni, domandandosi perché continuava a restare in quella stanza invece di andarsene. «Non ci posso credere» disse Bella, più a se stessa che a lui. «Non è possibile. Non può essere successo.» Poi, in tono supplichevole: «Dimmi che non sapevi cosa stavi facendo. Non lo sapevi... eri ubriaco...». «No» rispose «mi sono ubriacato dopo.» «Con lei?» «Sì. Abbiamo voluto festeggiare.» «Dove siete andati a bere?» Le mani di Bella serrarono forte la sponda del letto. «Che importanza ha, dove?» «Ti ho fatto una domanda. Dove siete andati a festeggiare? In una stanza d'albergo?» Bill scosse la testa. «Da Dugan» disse. «E poi? Dove siete andati, dopo?» La faccia di Bill si indurì. «Lascia perdere.» «No! Rispondimi. Dove siete andati, dopo essere usciti da Dugan?» La guardò, accigliato. «A cosa vuoi arrivare?» Lei non lo guardava. «Lo sai, dove voglio arrivare» mormorò. «Mi hai detto del greco, e dell'anello, e della festa. Adesso voglio sapere anche il resto. Voglio sapere tutto della prima notte di matrimonio.» Bill distolse lo sguardo dalla ragazza e fissò il pavimento. «Non abbiamo fatto niente, se è questo che vuoi sapere.» Bella lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e respirò pesantemente, di sollievo. Le labbra della ragazza si aprirono accennando un sorriso. «Siamo usciti dal locale di Dugan» riprese lui. «La sua macchina era lì davanti, e ci siamo saliti. Mi ha accompagnato qui e mi ha aiutato a entrare in casa, poi si è seduta sul divano del salotto mentre io... Non so cosa stavo facendo, io. Devo essere uscito in corridoio e ho sbagliato stanza.» «Non eri poi tanto ubriaco» disse Bella. Ora le ridevano gli occhi. «Ti sei diretto alla stanza giusta. Non ci sei arrivato da solo, ma la strada era quella. E adesso ci sei, nella stanza.» La ragazza si mosse lentamente, girò attorno al letto e venne verso di lui. Bill voleva andarsene, ma non riusciva a farsi ubbidire dalle gambe. Bella avanzava verso di lui ed era come se tutta la parete si muovesse, costringendolo dove stava.
«Non capisci?» disse Bella, continuando ad avvicinarsi. «È stato solo un gioco, non c'è niente di vero in quello che hai fatto, e tu lo sai benissimo. E qualunque sia stato il motivo che ti ha spinto a farlo, non ha nessuna importanza. Una sola cosa importa: che tu ora sei qui con me.» «No» disse lui. «No.» «Vuoi dire sì. Lo so che vuoi dire sì.» «No, aspetta!» Alzò le mani per costringerla a fermarsi, a stare lontana. Bella non si fermò. Le sue braccia lo circondarono, lei premette con tutto il suo corpo contro di lui, e Bill la strinse forte, trovò la bocca socchiusa e la baciò. E fu tutto un fuoco. E fu tutta una girandola di fiamme che gli percorrevano le membra mentre la serrava a sé e il cuore gli batteva, impazzito. Ma poi risentì nel cervello la voce muta. "Maledetto stupido, stai cadendo in una trappola. Liberatene! Scappa!" Tentò di respingerla. Inutile. Allora annaspò con le mani dietro la schiena a cercarle i polsi, li afferrò saldi, e con uno strattone violento la fece cadere sull'impiantito. Poi si alzò, raccolse in fretta le scarpe e la camicia, e la giacca e i pantaloni, e si avviò alla porta. Ma si fermò di colpo prima di averla raggiunta, si voltò, e disse: «Dovrei prenderti a schiaffi per aver tentato un trucco simile». «Be', ho tentato. Era mio diritto» rispose Bella, senza guardarlo. «Hai tentato e hai visto adesso cos'hai ottenuto. Ridenti fortunata che non ti ho buttato giù i denti.» «Se hai voglia di picchiarmi» mormorò lei «sono qui.» «Non ne vale la pena» rispose Bill, e subito si irrigidì, aspettandosi che la ragazza gli si buttasse addosso, a graffiarlo. Per qualche secondo Bella non si mosse. Infine si alzò da terra, attraversò la stanza, prese il vestito da una sedia e lo indossò. Bill la vide infilare una mano in tasca e toglierne un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi. «Ne vuoi una?» domandò lei, in tono normale. Scosse la testa. Era perplesso. Bella accese la sigaretta, e domandò: «Non la vuoi proprio?». «Da te voglio una sola cosa» disse lui, col respiro affannoso. «Che d'ora in avanti mi lasci in pace! Mettiti bene in testa che ormai sono sposato.» «A proposito, tua moglie dov'è?» chiese la ragazza. Lui non rispose. Bella aspirò un paio di boccate, aspettando. «Be'?» riprese. «Avanti, dimmi. Dov'è la sposina?»
Bill aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. «Te lo dirò io, dov'è» continuò la ragazza. «Sta dormendo in un bel letto pulito, in una bella casa pulita, in un bel quartiere rispettabile.» Bill la guardava, sbatteva le palpebre, e non riusciva a parlare. «Logico che non sia qui, lei» disse Bella. «Sarebbe stata stupida a passare la notte in questa baracca fetida.» «Adesso basta» brontolò lui. Bella guardò la punta rossa della sigaretta e parlò rivolta alla brace. «La sposa si è presa una libera uscita. E chi se la sente di rimproverarla? Lo sposo l'ha portata in una casa dove la tappezzeria cade a pezzi, e i mobili non stanno più insieme, e sul pavimento, invece dei tappeti, sono sparse le bottiglie di birra. È già tanto che si sia seduta sul divano. Ma oggi porterà il vestito in tintoria, ci puoi scommettere. E farà anche un'altra cosa: andrà da un parrucchiere a farsi lavare i capelli con qualche prodotto speciale, così, per non correre rischi. Non si sa mai cosa ti si può appiccicare addosso in queste topaie di Vernon Street. Forse si darà una bella spruzzata di DDT.» «Piantala» disse Bill. «Stai zitta.» Bella si strinse nelle spalle. «Va bene. Ma il fatto che lei in questo momento stia respirando la bella aria pulita del suo quartiere, non cambia.» «Non è questo che conta» disse lui. «Se n'è andata dalla casa, non da me.» «Non hai capito cosa volevo dire» ribatté Bella. Il tono di voce era calmo, ma la sigaretta le tremava fra le dita. «Non capisci? Per quanto ti desideri, non riuscirà mai a staccarsi dal suo mondo. E tu non puoi andartene dal tuo.» «No, dici?» I suoi occhi guardavano oltre le pareti della casa, oltre i tetti e il cielo di Vernon Street. «Basta prendere l'autobus. Con quindici centesimi me la cavo.» La sigaretta cadde sul pavimento, e Bella la spense col tacco, restando a guardare la cenere sparsa. «Non buttar via i quattrini» mormorò. «Sarebbero quindici centesimi sprecati. E dovresti spenderne altrettanti, dopo.» «No, ti sbagli» disse Bill, e come se Bella non ci fosse li nella stanza, a sentire, aggiunse: «Lei è là che mi aspetta». «Pazzo» singhiozzò Bella, senza lacrime. «Sei un povero pazzo.» «Me ne andrò questa sera stessa, appena tornerò dal lavoro» riprese lui. «Di' a Lola che non prepari nulla da mangiare per me.» Bella scosse la testa. «Va bene. Le dirò di non preparare per te» disse,
fissando la finestra, con occhi spentì. Lui si volse, e uscì. Nella sua camera, mentre si vestiva, pensava. Domani mattina si sarebbe svegliato in una stanza diversa, in un'altra casa, in una strada lontana. Tutto sarebbe stato diverso, e migliore. Gustava in sé il piacere di dire addio a Vernon Street e alla gente di Vernon Street. Frank si mosse sul suo letto, girandosi verso la finestra. La luce grigia del giorno lo colpì in faccia e lui aprì gli occhi. Vide il fratello, seduto su una sedia accanto alla finestra, finire di allacciarsi una scarpa e raddrizzarsi. Frank aveva gli occhi lucidi, come se fosse stato febbricitante. Si tirò su, puntellandosi su un gomito. «Mi stai guardando» disse. «Torna a dormire» brontolò Bill, con un gesto di noia. «Perché continui a guardarmi?» «E piantala, con questa storia!» scattò Bill. «Non posso. Perché non mi lasci in pace?» Kerrigan si strinse nelle spalle. Non c'era senso a continuare la discussione. «Ti ho già avvertito» riprese Frank. «Voglio che tu smetta di tormentarmi o sarà peggio per te.» Bill si costrinse a restare calmo. «Va bene» disse. «Ma non stavo pensando a te. Ho altre cose, per la mente.» «Che cosa?» «Finalmente mi sono deciso» rispose Bill. «Ho preso moglie.» Frank sbatté gli occhi. «Dici sul serio?» «Più serio di così! Atto matrimoniale, anello, eccetera. Mi sono sposato ieri sera, dal greco.» Frank si mise a sedere sulla sponda del letto. «Chi è lei?» domandò con voce fredda, metallica. «Non la conosci.» «E forse, invece, sì. Come si chiama?» «Loretta.» «La bionda?» Kerrigan si irrigidì. «La bionda con gli occhi verdi?» domandò Frank. «Quella del bel mondo?» A Bill parve di essere incatenato alla sedia. Fissava il fratello e non riusciva a rispondere.
«Certo che la conosco» disse Frank. «Come fai a conoscerla?» riuscì a dire Bill. Frank sorrise: una brutta smorfia che gli scoprì i denti gialli e piegò in giù gli angoli della bocca. Sorrìse e non rispose. Kerrigan voleva alzarsi, ma non poteva muoversi. «Avanti, parla. Qualunque cosa sia, parla.» Il brutto sorriso sembrava scolpito sulla faccia di Frank. «L'ho vista da Dugan. Un sacco di volte, l'ho vista. Una sera mi ha pagato da bere. Abbiamo parlato un po'. Eravamo al banco, tutti e due, a bere e a parlare.» «Di cosa avete parlato?» «Non ricordo» rispose Frank. La smorfia si allargò. «Ricordo solo che la guardavo e pensavo che mi faceva venire in mente qualcuno.» «Chi?» Fu quasi un urlo. Ma Frank parve non aver sentito. «Non per la faccia, o il corpo. E non erano nemmeno gli occhi» disse. «Era come quando entri in una stanza che non conosci eppure hai la sensazione di esserci già stato. Non sai dire il perché, ma sai che è così. Di lei mi ricordo questa sensazione che mi ha fatto correre i brividi per la schiena. Ma questo non ha importanza. Mi piacciono i brividi. Mi sento bene, quando comincio a rabbrividire. Eravamo là al bar, e io sentivo quel gelo che mi faceva star bene. Poi, quando lei è uscita, ho aspettato un momento e dopo le sono andato dietro.» «L'hai seguita? Tu?» «L'ho seguita» ripeté Frank, gli occhi fissi sulla parete. «Era sola?» La testa di Frank si mosse su e giù, come quella di un burattino. «Era venuta da Dugan a prendere suo fratello, ma lui non aveva voluto andarsene, e le aveva detto di tornare a casa. L'ho vista andare verso quella piccola macchina bassa con la quale gira sempre, quella specie di giocattolo con le ruote a raggi. Era parcheggiata sull'altro lato di Vernon Street, molto lontano dal "Dugan's Den". C'erano tanti camion fermi, perciò aveva dovuto metterla lontano. E così ho potuto seguirla per un pezzo. Avevo sempre i brividi, e mi sentivo proprio bene. Lei era così minuta, e pulita, e in ordine. Pareva un sogno. Ecco, un sogno. Io c'ero dentro, in quel sogno. Non era la prima volta che lo facevo. C'era la stessa luna, e la stessa strada. Tutto uguale, tranne il nome. Non si chiamava Loretta.» Kerrigan ebbe l'impressione che le pareti attorno si stessero sciogliendo
per colargli addosso. Voleva scappare dalla stanza, ma era come paralizzato, lì, sulla sedia. «Va bene. L'hai vista camminare verso la macchina, e poi?» domandò. «Poi, niente» rispose Frank. «Lei è salita in macchina e se n'è andata.» «Ma tu l'avevi già fatto di seguire donne per la strada? Ne avevi già seguite altre?» Frank non rispose. «Parla!» Senza rendersene conto scattò in piedi e andò verso il letto. Afferrò Frank per le spalle. «Rispondimi!» «Cosa devo dirti?» Frank rise istericamente. «Cosa devo dirti, se lo sai già?» Kerrigan lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e indietreggiò. Fissava a occhi spalancati la faccia di suo fratello, ma non la vedeva. Vedeva invece un vicolo buio, un raggio di luna, e delle macchie di sangue essiccato. XIV Voltò le spalle a Frank e uscì di corsa, dalla stanza e dalla casa. Non voleva pensare al fratello. Avrebbo voluto potersi ficcare le unghie nella mente e strapparne via l'immagine di Frank. Mentre percorreva Vernon Street, diretto al porto, vide le catapecchie degli isolati fra la Terza e la Quarta Strada, e pensò: "Forse è stato Mooney, nonostante tutto. O Nick Andros". Affrettò il passo, ma la sfilata di baracche e topaie continuava. Erano tanti i farabutti che vivevano in quelle case, tanti i teppisti, e gli ubriaconi, i tarati, e gli anormali di tutti i generi. Poteva essere stato uno qualunque di loro, e lui forse non sarebbe mai riuscito a scoprire chi. La cosa migliore da fare era non pensarci più e lasciare le cose come stavano. Ne era convinto, ma continuava a pensare a Frank. Quella mattina non sentì il peso delle casse che gli premevano sulla schiena e gli stroncavano le braccia. L'unica cosa che gli pesava era il pensiero di Frank. Alle quattro del pomeriggio, il cielo si rannuvolò e il fiume prese il colore dell'acciaio. Grosse nubi nere si abbassarono sui moli e sui lunghi capannoni delle merci e le strade attorno al porto. Qualche minuto dopo le cinque, mentre i primi scaricatori lasciavano le banchine per tornare a casa, l'aria vibrò sotto i primi tuoni. I capisquadra gridarono alcuni ordini concitati, poi il cielo si aprì, e cadde una valanga d'acqua. In un attimo, sui moli non ci fu più nessuno. Le strade e le banchine ri-
masero deserte sotto la furia del diluvio. Il fiume increstato di spuma batteva rabbioso contro i piloni dei moli. Imprecando, bagnato fino alle ossa, Kerrigan si rifugiò sotto una piattaforma di carico. Girò la maniglia della porta del capannone, ma era chiusa. Se non voleva bagnarsi di più doveva restare lì, premuto il più possibile contro la facciata del magazzino, per evitare i ruscelli d'acqua che cadevano dalle assi sconnesse della piattaforma. Oltre il sipario di pioggia vide la nebbia salire dal fiume e cancellare l'orlo del molo trasformato in torrente. Imprecando fra i denti, Kerrigan si disse che quello non era un semplice temporale, ma una vera e propria tempesta, e che sarebbe durato ore e ore. Forse gli conveniva farsi coraggio e tentare una corsa fino a casa. Stava già dirigendosi, quando sentì uno scatto, alle sue spalle. Qualcuno aveva girato la chiave all'interno del magazzino, aprendo la porta. Magari l'avevano visto dalla finestra, e impietosito, qualche magazziniere di buon cuore lo invitava in quel modo a ripararsi all'interno. Abbassò la maniglia, e la porta girò lentamente sui cardini. Non c'era luce all'interno, e Kerrigan lasciò la porta aperta per vedere dove metteva i piedi. Strano, però, che non fosse accesa la lampada. «C'è nessuno, qui?» gridò, avanzando nel buio. Aggrottò la fronte, aspettando una risposta che non venne, e avanzò ancora di qualche passo. Inciampò in un attrezzo, aggirò l'ostacolo, e continuò a camminare fra casse e carrelli. A quanto pareva, non c'era nessuno. Pensò che la porta fosse stata aperta da qualche scaricatore ubriaco emerso dallo stupore alcoolico in tempo per fare un'opera buona, e ripiombato poi nei suoi sogni. Le mani, tese in avanti, incontrarono gli orli di una voluminosa cassa, e Bill sedette, pensando che lì, almeno, non pioveva. Si voltò, cercando la striscia di luce grigia della porta. L'aveva lasciata aperta, ne era sicuro, ma adesso era chiusa. "Chiunque sia stato a lasciarmi entrare, vuol essere sicuro che non me ne possa andare facilmente" pensò, e la bocca gli si indurì in una linea sottile. In quello stesso momento sentì i passi. Il rumore veniva da dietro, e se si fosse voltato Bill avrebbe certo visto di chi si trattava, ora che gli occhi si erano abituati all'oscurità del magazzino, ma l'istinto gli consigliò di chinarsi per sfuggire al pericolo imminente. Si buttò a terra, di lato, dietro la protezione della cassa. Appena in tempo: l'aria sibilò e subito dopo Bill sentì l'urto di un corpo solido sul legno
della cassa, nel punto in cui era stato seduto fino a un attimo prima. In ginocchio, la testa insaccata tra le spalle, i sensi all'erta, cercò di cogliere qualche rumore che gli indicasse la posizione dell'assalitore. Poi la curiosità vinse la prudenza, e Kerrigan sollevò di qualche centimetro la testa, in modo da vedere sopra l'orlo della cassa. Erano in due. E da come era stato congegnato l'attacco, dovevano essere dei professionisti. Aveva a che fare con un paio di quegli sciacalli del porto pronti ad accettare l'incarico di fracassare le mascelle o la testa di un uomo per una manciata di dollari, e disposti, per un prezzo più alto, a far sparire chiunque nelle acque del fiume, a seconda delle pretese del cliente. Gente a cui ci si poteva rivolgere con la certezza di vedere assolto l'incarico, qualunque fosse. Kerrigan non poté distinguere le facce, ma vide le spalle ampie, le braccia muscolose, i polsi solidi. Erano armati di pugno di ferro e di pensanti randelli, corti e grossi. Stavano immobili, dall'altra parte della cassa. Aspettavano. Tempo ne avevano. Bill si addentò il labbro inferiore, chiedendosi cosa doveva fare. Lanciò una rapida occhiata sul pavimento attorno, ma non trovò niente di utile. Imprecò fra sé. Non sapeva quali fossero esattamente le intenzioni dei due uomini, ma certo avevano progettato tutto con cura. Dovevano averlo seguito dal molo 17, poi la tempesta aveva dato loro una mano, costringendolo a rifugiarsi sotto la piattaforma. I due ne avevano approfittato, ed entrati nel magazzino dalla porta posteriore, erano andati ad aprire l'altra, sicuri che lui non avrebbe resistito al tacito invito di quel rifugio insperato. Kerrigan si riservò di ringraziarli per la cortesia. Saggiò con le dita la solidità della cassa, alta un metro e mezzo, che lo separava dai pugni di ferro e dai randelli. Uno dei due uomini guardava sorridendo nella sua direzione. L'altro, più piccolo e più robusto, disse: «Chissà se è pronto?». «Io credo di sì» disse quello più alto. Avevano parlato a voce alta e chiara. Nella penombra, Bill Kerrigan vedeva gli occhi spiccare nell'ovale delle facce, e la traccia scura dei pugni di ferro interrompere la chiazza chiara delle mani. Poi il suo sguardo colse qualcos'altro: il debole luccichio di una maniglia d'ottone attaccata alla cassa. «Vediamo se è proprio pronto» disse il più piccolo. «D'accordo» rispose l'altro. Kerrigan afferrò la maniglia con entrambe le mani e, gonfiando i muscoli, spinse in su e in avanti contemporaneamente. Il pesante cubo di le-
gno obbedì alla forza del suo corpo e Bill sentì il tonfo quando la cassa piombò addosso ai due uomini. Un gemito e un secondo tonfo gli fece capire che uno dei due era caduto, restando intrappolato sotto il peso. Bill era già balzato indietro, mentre il più piccolo degli assalitori esitava tra il dovere da compiere e il desiderio di aiutare il compagno che gridava e si dibatteva inutilmente per liberarsi della cassa che gli premeva addosso, schiacciandolo contro il pavimento. Non fece in tempo a decidersi perché Kerrigan gli si buttò contro e, con una presa delle ginocchia, lo fece cadere. Mentre rotolavano al suolo, l'uomo colpì Bill alle costole con un pugno che strappò al giovane un urlo. Un secondo colpo gli diede la sensazione di avere il corpo in fiamme. Rotolò su se stesso, evitando un pugno alla testa, ma l'altro gli fu subito sopra con il randello levato. Mentre il bastone calava sulla sua faccia, Kerrigan sollevò di scatto le gambe, parando il colpo. Poi, approfittando di un attimo di esitazione del suo avversario, si alzò in piedi. Una randellata lo prese a un braccio, ma lui non sentiva più il dolore. Scartò di lato, fece una finta di sinistro e quando il randello calò, Bill balzò indietro per ributtarsi immediatamente in avanti a colpire l'altro con un poderoso destro alla mascella. L'uomo barcollò all'indietro e lasciò cadere il randello. Bill lo incalzò da vicino e dopo un paio di sinistri alla testa lo sollevò da terra con un uncino allo stomaco, mandandolo a finire al suolo, piatto sulla schiena. Mentre l'uomo cercava di rialzarsi, Kerrigan lo colpì con un calcio in piena faccia, ributtandolo giù, poi si chinò, lo afferrò per la giacca, sollevandolo sulle ginocchia, e gli sferrò un pugno sulla bocca. L'uomo urlò, e con un guizzo disperato sfuggì alla stretta. Corse verso la porta, riuscì ad aprirla e ad uscire, ma era ancora sotto la piattaforma quando Kerrigan lo riagguantò. Voleva costringerlo a parlare, dopo averlo lavorato ben bene. Passò un braccio intorno al collo dell'uomo e con l'altra mano lo colpì alla schiena con tutta la sua forza. Il colpo fu tanto forte che entrambi vennero proiettati in avanti. Caddero, e l'uomo vibrò una gomitata nello stomaco di Kerrigan, che gemette e lasciò la presa. In ginocchio sul molo, sotto la cascata d'acqua, Bill vide l'altro scappare a balzi verso la scia di cemento che bordava la banchina. Rimase a guardare l'uomo che correva sul nastro di cemento reso viscido dalla pioggia e dagli spruzzi oleosi del fiume, sfumato dalla nebbia che saliva dall'acqua, fatto infido dalle ondate che lo spazzavano ininterrottamente. Lo vide scivolare, e scattò in avanti per afferrarlo prima che cadesse, ma non arrivò in tempo. L'uomo piombò nel fiume e la corrente lo travol-
se, trascinandolo via. Kerrigan rientrò nel magazzino, premendosi le mani sulle costole indolenzite e tornò lentamente accanto all'altro uomo che gemeva e si torceva sotto la cassa. «Spicciatevi a togliermi questa maledetta roba di dosso» ansimò l'uomo, a denti stretti. «Che premura c'è?» disse Kerrigan. «Mi sta sfondando lo stomaco... Non riesco a respirare...» «Mi pare che respiriate benissimo» ribatté Kerrigan. «E riuscirete anche a parlare. A me non occorre di più.» L'uomo sollevò il braccio libero e si asciugò il sudore dalla fronte. Kerrigan si inginocchiò accanto a lui, chinandosi a guardarlo in faccia. Era pallidissimo, aveva gli occhi velati e gli tremavano le labbra. Forse aveva le costole rotte, e forse sarebbe morto, ma Kerrigan non ne provò pena. «Chi vi ha pagato?» chiese. L'uomo rispose con un gemito. «Resterete sotto quella cassa finché non parlerete» disse Kerrigan, e alzatosi, si allontanò, andando a guardare dalla porta aperta il diluvio che inondava la terra. Il rumore della tempesta si mescolò al frastuono del ciclone che gli era esploso nel cervello. Alle sue spalle l'uomo disse: «È stata una donna». Parve che il fragore di un attimo prima fosse cessato di colpo e che il mondo si fosse fermato. Bill si volse lentamente a guardare l'uomo. «Una donna» ripeté l'uomo. Gemette e tossì. «Abita in Vernon Street» aggiunse con un filo di voce. «Mi pare che si chiami Bella.» «Bella» disse Kerrigan a voce alta. «Bella...» Poi si chinò e sollevò la cassa, liberando l'uomo. Sentì il lungo respiro di sollievo e il suono rauco dell'aria che affluiva ai polmoni tormentati. Lo sconosciuto si sollevò in ginocchio, scosse la testa e disse: «Sono conciato male! Se chiamate la polizia, mi porteranno all'ospedale». «Non avete bisogno dell'ospedale» rispose Kerrigan. Lo prese sotto le ascelle e lo tirò su, in piedi. L'uomo si appoggiò a lui per sostenersi. «Dov'è il mio compagno?» domandò. «Nel fiume» rispose Kerrigan. L'uomo dimenticò di colpo i suoi guai. Si scostò da Kerrigan, poi scosse la testa e disse: «Non vale la pena fare questo lavoro. Io sono tutto pesto, e lui è in pasto ai pesci. E tutto per venti miserabili dollari».
«Era questa, la tariffa?» domandò Kerrigan. «Sì» mormorò l'uomo. «Vi ha pagato in anticipo?» «Sì...» L'uomo infilò la destra nella tasca dei calzoni. «Date qua» disse Kerrigan. Erano due banconote da cinque dollari, e una da dieci. L'uomo gliele diede e lui le piegò con cura. «Siete sicuro che non vi abbia dato di più?» chiese. L'uomo cercò di sorridere. «Se avesse voluto togliervi di mezzo, le sarebbe costato cento dollari» disse. «Ma per mettere un uomo fuori combattimento per un po' non chiediamo mai più di venti dollari.» «Un prezzo conveniente» brontolò Kerrigan. Un breve silenzio, poi l'uomo disse: «Sentite, io sono già schedato, e sono fuori in libertà vigilata. Non vorrete rovinarmi, vero?». Kerrigan lo guardò un attimo. «Va bene» disse, e gli indicò la porta. «Grazie» disse l'uomo. «Grazie, signore.» Kerrigan lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava zoppicando, piegato in due. Lo vide fermarsi un attimo sulla soglia, voltarsi per ringraziare ancora una volta con un gesto della mano, e poi scomparire sotto l'acquazzone. Bill abbassò gli occhi sui venti dollari. XV Nonostante il desiderio di una spiegazione con Bella, Bill ritardò di proposito il ritorno a casa. Anzitutto preferiva calmarsi, prima di affrontare la ragazza. E poi non voleva testimoni alla loro discussione. Entrò in una bettola di Wharf Street e ordinò una bistecca; ma dopo pochi bocconi respinse il piatto, e bevve invece diverse tazze di caffè, fumando in continuazione. Poi si avviò sotto l'acqua e, trovato un cinema da trenta centesimi, entrò. Era mezzanotte passata, quando uscì dal cinema. La tempesta si era calmata, ma pioveva ancora. Nonostante l'acqua, Bill camminava adagio, incurante di bagnarsi. Solo quando imboccò Vernon Street, affrettò il passo. Entrato in casa, controllò rapidamente tutte le stanze. Tom e Lola dormivano, Frank non c'era, e la stanza di Bella era vuota. Bill andò a sedersi in salotto vicino alla finestra, al buio, ad aspettare che la ragazza rincasasse. Qualche volta Bella rientrava molto tardi. Ma forse quella notte non sarebbe rincasata affatto. Forse era già su un autobus o un treno. Era probabi-
le che, conosciuto l'esito della sua bravata, avesse ritenuto opportuno scomparire dalla città. Mentre stava formulando questo pensiero, però, Bill la vide attraversare la strada. Camminava incerta. Non che fosse proprio ubriaca, ma doveva aver bevuto. Bill si allontanò dalla finestra. Un attimo dopo, la porta si aprì. Senza accendere la luce, Bella andò a buttarsi sul divano. Al riflesso che entrava dalla finestra, lui la vide aprire la borsetta, prendere una sigaretta e poi cercare i fiammiferi. «Salve, Bella» disse Bill. La ragazza trasalì e soffocò un grido. «Niente paura, sono solo io» disse Bill, accendendo la luce. Bella stava seduta rigida, trattenendo il respiro, e lo fissava a occhi sbarrati. Kerrigan le andò vicino, accese un fiammifero e accostò la fiamma alla sigaretta che lei teneva fra le labbra. Ma Bella non aspirò. Poi, quando già il fiammifero stava per spegnersi, tirò una boccata. Bill soffiò sul fiammifero, e lo lasciò cadere in un portacenere, quindi, come se stesse compiendo i gesti di una cerimonia accuratamente provata in precedenza, si frugò nella tasca dei pantaloni, ne tolse le banconote piegate, i due biglietti da cinque e quello da dieci, li spiegò, li lisciò tra le dita, infine allungò il braccio sollevando i tre biglietti all'altezza degli occhi di Bella, e li tenne così. La ragazza cercava di guardare qualcos'altro, una sedia, il pavimento, una parete, la porta, ma non il denaro, ma per quanto muovesse la testa i suoi occhi parevano calamitati dai tre biglietti. «Prendili. Sono soldi tuoi.» E aspettò che Bella li prendesse. Lei aveva le mani giù aggrappate all'orlo del divano, le spalle inarcate, la testa protesa in avanti, come se non riuscisse a ingoiare un boccone troppo grosso per la sua gola. Poi, di colpo, si afflosciò. Abbassò la testa e mormorò: «Oh, mio Dio... Mio Dio!». Kerrigan infilò le banconote nella borsetta aperta. «Non prendertela tanto» disse. «In fondo, i soldi li hai riavuti.» Lei lo guardò. «Perché non lo fai?» chiese. «Fare, cosa?» «Buttarmi i denti in gola. Rompermi il collo.» Lui scosse la testa. «Sei già abbastanza bastonata» disse. Bella fumò nervosamente per un poco, in silenzio. «Come hai avuto quei soldi?» gli domandò poi. Bill si strinse nelle spalle. «Li ho chiesti» rispose.
La ragazza si appoggiò pesantemente ai cuscini, chiuse gli occhi e disse: «Raccontami cos'è successo». «Non c'è molto da raccontare. Quei due ce l'hanno messa tutta, comunque, e solo per un pelo non si sono guadagnati il loro compenso.» Lei si guardò le mani, scosse lentamente la testa, e mormorò: «Deve essere stata una bella riunione». «Già, ci siamo divertiti un mondo» ribatté lui, secco. «Si sono dati molto da fare?» «Abbastanza da meritarsi una brutta fine» disse. «Uno ne avrà almeno per un mese, e l'altro è eliminato per sempre.» Bella aspirò un paio di boccate, senza parlare. «La prossima volta che assumi qualcuno per un lavoro del genere» disse Bill «non pagare in anticipo.» Il fumo usciva lento dalle labbra della ragazza, che ne seguì con lo sguardo i leggeri riccioli grigi. «Non li ho pagati io» disse. «E non è stata mia nemmeno l'idea di assoldarli.» Bill trattenne il fiato. «Chi è stato, allora?» Bella scosse la testa. «Non mi incanti» disse lui. «Hai già detto troppo, adesso devi dire anche il resto.» «Non posso.» «Ma lo farai lo stesso.» Le serrò le spalle in una morsa. «L'avevo pensato subito che l'idea non fosse partita da te. Ci ho pensato e ripensato, e sono venuto a una conclusione. Qui nel quartiere c'è qualcuno al quale non piacerebbe che arrivassi a mettergli le mani addosso. Sa che lo sto cercando e sa cosa gli capiterebbe se lo identificassi. Capisci di cosa sto parlando?» Bella sbatté le palpebre, aprì la bocca, ma non disse niente. «Sto parlando di mia sorella» riprese Bill. «Catherine si è uccisa perché qualcuno l'ha rovinata. Chiunque sia, sa che non smetterò mai di cercarlo, e ha pensato di togliermi di circolazione. Hai capito?» Bella lo fissava a occhi sbarrati. «Quell'uomo ha paura, e vorrebbe vedermi in una bara. Si è accontentato di meno, però, si è accontentato di farmi dare una lezione da venti dollari, giusto per mettermi fuori combattimento per un po', in modo da sentirsi al sicuro per qualche tempo. E ha fatto intervenire te.» Bella chiuse gli occhi, serrandoli forte. «Si è servito di te» riprese Bill. «Sapeva dei nostri rapporti e sapeva che
tu avevi motivo per avercela con me. Ti ha fatto la parte del consigliere amichevole, ti ha detto che c'era un sistema per vendicarsi, e prima ancora di rendertene conto gli hai dato i venti dollari. Vero?» Bella fece segno di sì con la testa. «Lui ha dato il danaro a quei due, dicendo che la cliente eri tu, così il suo nome è rimasto fuori da questa storia» continuò Bill. «Ma tu sai chi è e me lo dirai.» «No» ansimò Bella, «non farmi parlare!» «Sto aspettando» disse Bill, e le sue dita affondarono nella carne della ragazza. Bella si irrigidì. Tremava, e i suoi occhi esprimevano dolore e paura. Ma non era solo dolore fisico, e la paura sembrava più per Bill che per se stessa. Poi lo sguardo della ragazza perse ogni espressione. «È stato Frank» disse, con voce atona. A Bill parve che la stanza si muovesse, girando vorticosamente su ruote immense che la portavano verso la fine del mondo. Staccò le mani dalle spalle di Bella, si allontanò di qualche passo e disse a se stesso, a voce alta: «Lo sapevo già. L'unica cosa di cui aveva bisogno erano i venti dollari. Lui non ha mai un centesimo in tasca». Bella abbassò la testa. La sua voce era appena un sussurro: «Avrei dovuto capire cos'aveva in mente, ma non riuscivo a connettere. Ero come pazza. E volevo farti del male». «Lui lo sapeva» disse Kerrigan. «Sapeva che non avrebbe fatto fatica a venderti venti dollari di vendetta.» A voce ancora più bassa, Bella mormorò: «Sono stata sul punto di pagare molto più di venti dollari». «Quanti te ne ha chiesti?» «Ne voleva cento.» Si voltò a guardarla. «Perché non glieli hai dati?» «Non li avevo» rispose Bella, gli occhi fissi sul pavimento. «Ti ha spiegato cosa ti avrebbero dato quei due, per cento dollari?» «Mi ha detto che saresti finito in una tomba.» "Questo è peggio che essere in una tomba. Peggio che essere all'inferno" pensò Kerrigan. A poco a poco i lineamenti gli si indurirono, le mani si strinsero a pugno. «Dov'è?» domandò. Bella alzò la testa, lo guardò, e l'espressione di Bill le gelò il sangue.
«Lascia perdere» disse lui. «Lo troverò da me.» Mosse verso la porta. Aveva già la mano sulla maniglia quando Bella si alzò di scatto dal divano, gli corse dietro, e lo afferrò per le braccia. «No!» ansimò. «No, non farlo!» «Lasciami andare.» «Ti supplico! Aspetta... pensaci...» «Ti ho detto di lasciarmi andare.» Con tutta la sua forza, la ragazza tentava di trascinarlo via dalla porta. «Non ti lascio, invece» disse. «Non voglio che tu faccia qualcosa di cui ti pentiresti.» Le braccia di Bella sembravano un cerchio di ferro attorno al suo corpo. Bill quasi non riusciva a respirare. «Maledizione! Lasciami!» «No. Devi ascoltarmi.» «Ho ascoltato abbastanza. Non ho bisogno di sapere altro.» «Ti rendi conto di quel che accadrà, se esci da questa porta?» Invece di rispondere Bill le diede una violenta gomitata, che le strappò un gemito, ma Bella non mollò la stretta. Un secondo colpo la fece piegare sulle ginocchia, ma invece di lasciarlo libero, lei serrò più forte le braccia. «Se non mi lasci, finirò per farti male davvero» sibilò lui. «Avanti, forza, picchia! Hai le braccia libere, perché non picchi?» «Stai cercando guai, Bella!» «Voglio solo che tu ascolti» ribatté lei, la voce rotta da singhiozzi senza lacrime. «Devi ascoltarmi! Vai nella tua stanza, Bill, e butta in una valigia la tua roba, e poi esci da questa casa e prendi il tuo autobus che ti porterà su tra la gente per bene. Vai là e restaci. Vai da lei!» Bill guardava la porta. Non rispose. «Ti prego, vattene» riprese Bella. «Vai a stare con lei e non tornare più indietro. Dimentica di essere vissuto qui fino ad oggi.» «Lo dici come se fosse facile.» «Certo che è facile. L'hai detto anche tu. Basta solo prendere l'autobus, l'hai detto tu.» La voce le si ruppe in un singhiozzo. «Bastano quindici centesimi, Bill.» «Credo che costi di più, rompere col passato» disse lui. Poi, con un gesto lento, quasi sottile, le prese i polsi e allontanò le braccia che lo stringevano alla vita. Lei non si ribellò, questa volta. A testa bassa, si scostò dalla porta per lasciarlo passare. Ma quando sentì il rumore della porta di strada che si richiudeva, cadde in ginocchio e appellandosi all'unica forza che ormai poteva fermarlo, singhiozzò: «Dio mio, non permetterglielo. Dio!».
Continuando a piangere, restando lì in ginocchio, lo vide dalla finestra scendere i pochi gradini dell'ingresso. La sua faccia, bianca contro il buio della strada, pareva scolpita nella roccia. Lo vide attraversare Vernon Street in diagonale, diretto alla lontana luce polverosa che filtrava dalle finestre del Dugan's Den. XVI Sentì le voci e vide le facce della gente, nel locale di Dugan, ma erano voci e facce che non significavano niente, per lui. I suoi occhi cercavano Frank, ma Frank non c'era. Decise di stare lì vicino alla porta, ad aspettarlo, poi si sentì chiamare. «Vieni a unirti alla compagnia!» Era la voce di Dora, la prostituta tutta ossa. La donna sedeva con un gruppo di persone a due tavoli accostati. A quanto sembrava, là stavano festeggiando qualcosa. Kerrigan osservò i compagni di Dora. La prostituta sedeva tra Mooney e Nick Andros. Altre due sedie erano occupate dallo storpio e da Newton Channing. Vicino a Channing c'era una sedia vuota, ma in compenso, per terra, con la faccia in giù, c'era una donna. Kerrigan guardò meglio. I capelli color carota e la figura senza forma gli fecero capire che si trattava dell'amica di Dora, Frieda. La donna aveva un braccio proteso in fuori e Kerrigan notò qualcosa all'anulare della sinistra. Era una grossa pietra verde e non ci voleva molto per capire che era un pezzo di vetro colorato. «Costa una fortuna, quell'anello» disse Dora, e protendendosi verso Channing scosse il giovane per un braccio. «Avanti, digli quanto costa.» «Tremilanovecentocinque» disse Channing. «Hai sentito?» gridò Dora, a Kerrigan. Poi scrollò ancora il braccio di Channing. «E adesso digli cosa significa quell'anello. Digli che cosa stiamo festeggiando.» «Con piacere» disse Channing. Si alzò. Indossava una camicia candida e un completo di lino. Si inchinò alla donna addormentata sul pavimento, si inchinò a Kerrigan, e disse: «Benvenuto alla nostra piccola festa. Stiamo celebrando un fidanzamento». «Dio, come l'hai detto bene!» gridò Dora. Tuffando una mano tra le bottiglie e i bicchieri ne trovò uno di gin, lo prese, tentò di alzarsi per fare un brindisi, ma ebbe qualche difficoltà con le gambe e piombò addosso a Mooney, rovesciandogli un po' di gin sulla spalla.
Non per questo rinunciò al brindisi. «La luna gialla può baciare il cielo» declamò con tono di voce altissimo, «e può baciare il fiore la farfalla, e l'erba, la rugiada del mattino. E voi, o amici miei...» «Piantala» disse Nick Andros, e indicando la sedia vuota aggiunse, rivolto a Kerrigan: «Mettiti lì e bevi un bicchiere con noi». Kerrigan non si mosse: «Sto cercando mio fratello» disse. «Qualcuno di voi l'ha visto?» «Al diavolo, tuo fratello» gridò Nick. «Al diavolo tutti» fece eco Dora. «La luna gialla può baciare...» «Vuoi piantarla?» ripeté Nick Andros, continuando a far segno a Kerrigan di sedersi. Kerrigan guardò Mooney. «Hai visto Frank?» Mooney scosse la testa. Aveva gli occhi semichiusi e pareva ubriaco, ma stava osservando Bill Kerrigan, e a poco a poco si tirò dritto sulla sedia, la bocca aperta e gli occhi spalancati. Fece uno sforzo per non dimostrare altro, ma senza che se ne rendesse conto, le sue mani si alzarono e poi ricaddero, chiuse a pugno, sul tavolo, e una bottiglia, troppo vicina all'orlo, cadde e si ruppe sul pavimento. Al tavolo, tutti ammutolirono. Nell'improvviso silenzio rimase, unico suono, il canticchiare sommesso che veniva dal banco del bar. Kerrigan si volse a guardare in quella direzione. Dugan, le braccia conserte, gli occhi chiusi, modulava sottovoce la canzone che lo aiutava ad evadere da Vernon Street. «Ehi, Dugan» chiamò Kerrigan, muovendosi verso il bar. Dugan aprì gli occhi, e il canto si abbassò di un tono. «Mio fratello è stato qui?» domandò Kerrigan. Dugan scosse la testa, richiuse gli occhi, e continuò a cantare. Una mano si posò sulla spalla di Kerrigan. Lui si voltò e vide la faccia inespressiva di Mooney. «È proprio come penso?» domandò Mooney. «Torna al tavolo» disse Kerrigan. Mooney non si mosse. «Perché non vuoi dirmelo?» «Non ti riguarda» rispose Kerrigan. Poi ricordò il ritratto appeso nella stanza del verniciatore, e senza guardare l'amico aggiunse: «Be', forse hai diritto di sapere. Ho sommato un paio di fatti e finalmente ho trovato la soluzione». Mooney aspettò il seguito. Kerrigan chiuse gli occhi per un attimo, e come in una nebbia sentì la
propria voce. «Il farabutto che ha violentato Catherine è stato mio fratello.» «No» disse Mooney. «Non può essere. Non puoi dirmi una cosa simile.» «Invece lo dico.» «Sei sicuro?» La voce di Mooney tremò un poco. «Ne sei assolutamente sicuro?» «Ho tirato le somme» disse Kerrigan «e il risultato può essere uno solo.» «Hai le prove?» «Quello che so è abbastanza.» «È meglio cercare le prove. Senti, ti offro da bere... « «No» disse Kerrigan. «Non ne ho voglia. Voglio soltanto entrare qui.» Si guardò le mani, erano irrigidite, con le dita curve come artigli. «Senti, Bill...» Ma Kerrigan non stava ascoltando, e non sentiva la stretta di Mooney sul braccio. «Lo aspetto qui» mormorò con voce rauca, soffocata. «Verrà, lo so. E allora...» «Bill, per l'amor del cielo...» «Lo farò finire dove è finita lei. Lo voglio vedere in una fossa.» Tutto tornò a velarsi davanti ai suoi occhi e attorno a lui. Sentì, senza ascoltarle, le voci chiassose della tavolata di Newton Channing. Nick Andros urlava a Dora di piantarla, e Channing rideva forte a un commento dello storpio. Da dietro il banco del bar veniva la nenia di Dugan a fare da sottofondo al tintinnio dei bicchieri e alle voci dei bevitori. Continuò così per un po', con Mooney che insisteva perché lui andasse al tavolo a bere un doppio whisky e lui che diceva a Mooney di lasciarlo in pace. Poi sentì un rumore che non era quello di un bicchiere contro un altro bicchiere o di una bottiglia buttata sul tavolo, o di parole dette. Era il rumore della porta che si apriva. Si voltò e vide suo fratello. Poi tutto tacque, anche Dugan. Il silenzio immobile del Dugan's Den durò il tempo di tirare un elastico oltre il limite massimo di resistenza fino a spezzarlo. In quel momento Kerrigan si mosse, e mentre si muoveva sentì le mani di Mooney che cercavano di trattenerlo. Allora ruotò un braccio all'indietro, con violenza, e colpì il verniciatore alle costole. Mooney volò da una parte, urtò con le reni contro un tavolo e cadde, trascinando con sé una sedia. Il verniciatore tentò di rialzarsi, ma non poté, e rimase a terra, su un fianco, col fiato mozzo, e da lì vide Kerrigan piombare addosso a Frank, vide le mani di
Kerrigan afferrare Frank alla gola. «Non posso permetterti di vivere» disse Kerrigan. «Non posso.» Frank strabuzzò gli occhi. La faccia gli era diventata bluastra. «Tua sorella!» disse Kerrigan. «Hai rovinato tua sorella. Come posso lasciarti vivere?» Strinse più forte, e sentì un rantolo. Ma non proveniva dalla gola di Frank. Era lui a rantolare, come se le sue dita affondassero nella sua stessa carne, interrompessero il flusso di sangue nel suo stesso corpo. Voleva chiudere gli occhi. Non voleva vedere ciò che stava facendo. Ma gli occhi restarono fissi sulla faccia cianotica di Frank e videro il movimento convulso delle labbra che tentavano di dire qualcosa. Frank tentava di dirgli qualcosa. Kerrigan allentò la stretta, e Frank balbettò: «Non sono stato io». Kerrigan lo lasciò andare, di colpo, e Frank scivolò sulle ginocchia. Tossiva convulso e tentava di parlare e respirare insieme. «Parla» disse Kerrigan. «Parla!» «Non sono stato io» ripeté Frank. «Giuro che non sono stato io.» Fu come se nella sala fosse passato un uragano. Kerrigan indietreggiò. Frank si rialzò lentamente, barcollò e si appoggiò con la schiena al banco del bar, con gli occhi chiusi e i pugni premuti contro le tempie. «Vuoi parlare?» disse Kerrigan. Ma Frank non lo sentì. Era solo. Solo con se stesso. Infine riaprì lentamente gli occhi, abbassò le mani e rimase con le braccia ciondoloni. Guardava in alto, il soffitto, e parlò a qualcosa che lui solo vedeva, lassù in alto, sul soffitto. «È chiaro» bisbigliò. «Finalmente è tutto chiaro.» Kerrigan guardava il fratello, a bocca aperta, tentando di dare un ordine logico ai suoi pensieri, nei quali non trovava più alcuna logica. E finalmente sentì la voce di Frank dire: «Ricordo. Ricordo tutto, adesso. Tutto...». «Parla. Voglio sapere.» La voce di Frank si fece calma e sicura. «La notte in cui è successo io ero ubriaco. Non riuscivo a ricordare dove ero andato e cos'avevo fatto. In tutti questi mesi ne sono stato tanto ossessionato che mi sono convinto di essere stato io. Lo credevo davvero, di essere stato io.» «E sei sicuro di non essere stato tu?» domandò Kerrigan, filtrando le parole tra le labbra intorpidite. «Ne sei assolutamente certo?» «Non posso essere stato io» rispose Frank. Poi: «Ora lo so cos'ho fatto,
quella notte. Ero in un bordello della Seconda Strada. Ci sono entrato che era ancora giorno e ne sono uscito il pomeriggio dopo». Kerrigan osservava attentamente la faccia del fratello. «Per tutti questi mesi ho continuato a tormentarmi con il dubbio. Era come una spina nel cervello. Non potevo dormire, non riuscivo a mangiare...» Kerrigan lo guardava e gli vedeva la verità negli occhi. «Una spina nel cervello, era. E ogni volta che tu mi guardavi, quella spina entrava più in fondo perché mi pareva di sentirti dire quello che mi dicevo io stesso. E sono arrivato al punto da non farcela più.» «È per questo che ti sei rivolto a quei due gorilla?» Frank fece segno di sì. «Mi sono detto che l'unico modo di liberarmi di quella spina era liberarmi di te.» Kerrigan respirò a fondo: il sospiro di sollievo di chi si è liberato di un peso enorme. «Devo ringraziarti per poco fa» disse Frank. «Mi hai strizzato tanto forte da far schizzare fuori la spina! Così adesso è tutto finito.» Kerrigan sorrise, e posò le mani sulle spalle del fratello. Anche Frank sorrise. Nessun tic gli torceva più le labbra e gli occhi non erano più annebbiati. «Sto bene, adesso» disse. «Lo capisci anche tu, no? Adesso sto veramente bene.» Kerrigan fece segno di sì. Si guardò attorno, e il sorriso si spense, mentre lui pensava a Catherine. "E ancora non sai chi è stato" pensò. Poi di colpo, trovò la risposta. XVII Aveva trovato la risposta. E non era un nome d'uomo. Non era la faccia di nessun uomo. Teneva gli occhi fissi sulla vetrina che si apriva su Vernon Street, e attraverso il vetro polveroso vedeva la luce della luna battere sul lastricato. Era come un nastro giallo steso per tutta la strada a formare pozze di luce nel rigagnolo del marciapiede. Lo seguì con lo sguardo: svoltava nei cento vicoli dove tutte le creature della notte giocavano a nascondersi e a snidarsi. Non importava il luogo in cui le più deboli andavano a nascondersi. Dovunque fosse, quel luogo restava intrappolato nella luna e nella strada, e prima o poi, le altre, le più forti, le avrebbero trovate, snidate, abbattute.
Vernon Street non era posto per le anime timide o per i corpi delicati. Prima o poi sarebbero stati sacrificati al mostro perennemente affamato, la strada più marcia del quartiere che aveva per denti i vicoli e per bava i rigagnoli. Guardava la strada gialla di luna e pensava: "Sei stata tu a uccidere Catherine. Tu". Gli parve di sentire la risposta di Vernon Street. "E con ciò? Cosa credi di poterci fare?" Niente. Lui non poteva farci niente. "Tua sorella non ha saputo resistere" continuò la voce roca della strada. "Ed è lo stesso per te." Poi la strada aprì la porta del Dugan's Den e gli mostrò i capelli dorati della ragazza del sogno. Mentre guardava Loretta, sentì la strada dire: "Eccola qui. È venuta a prenderti per mano, e strapparti ai rigagnoli". Loretta gli andò accanto. "Mi ricorda qualcuno" pensò Kerrigan. Gli ricordava le speranze che aveva nutrito per Catherine e per se stesso, le speranze perse in un vicolo buio e che aveva desiderato di ritrovare. I rumori della sala interferirono coi suoi pensieri. Due monete da dieci centesimi tintinnarono sul banco, mentre Dugan riempiva un bicchiere per Frank. Al tavolo, Nick Andros versava un bicchiere di gin per Dora. Frieda si stava rialzando dal pavimento, e lo stesso faceva Mooney. Per poco i due non batterono l'uno contro la testa dell'altro, nel rimettersi in piedi. Poi Frieda barcollò all'indietro e fece cadere lo storpio dalla sedia. Channing afferrò la donna, cercando di aiutarla a reggersi in piedi, e lei disse: «Lasciami andare, maledizione. Ho due gambe anch'io, no?». Dora approvò con un urlo, e Frieda si sentì in dovere di aggiungere: «Non mettermi addosso le mani se non te ne do io il permesso». Channing si strinse nelle spalle, ma Nick Andros volle esprimere il suo punto di vista, forse spinto da solidarietà maschile. «Hai al dito il suo anello di fidanzamento» disse. «Lui è il tuo fidanzato, e può fare quello che vuole.» Frieda sbatté le palpebre, si guardò le mani, e poi, con un gesto deciso, si tolse l'anello. Per qualche istante parve riluttante a separarsi dalla pietra verde. Infine, di scatto, posò l'anello sul tavolo, davanti a Channing. «Riportalo dove l'hai preso» disse. «Quella trappola mortifica la mia personalità.» Channing rimase un poco immobile, con aria pensosa, poi, scrollate le spalle, prese l'anello e lo infilò in tasca, quindi domandò a Frieda: «Be-
viamo qualcosa?». Frieda accettò con entusiasmo, e sedette accanto a lui, osservandolo mentre le riempiva un bicchiere di gin. La prostituta sollevò il bicchiere e dichiarò: «Questo è tutto ciò che voglio dagli uomini, anche se portano la camicia pulita». Ma subito dopo accarezzò la testa di Channing e aggiunse: «Non te la prendere, tesoro. Sei proprio un tipo come si deve, e a me piace star qui seduta con te a bere. Ma è il massimo a cui posso arrivare. Non te la prendere. Sai, qui da noi, ogni gatto ha il suo vicolo». "Frieda ha ragione" pensò Kerrigan. Guardò Loretta. La ragazza aspettava che lui dicesse qualcosa. Bill abbassò gli occhi a fissare l'anello che lei portava al dito, il cerchio nichelato del greco. Il cervello gli disse: "Se lo toglierà". E il cuore gli fece male. La guardò in faccia. E la faccia di Loretta gli disse che lei aveva capito ciò che lui pensava e che anche il suo cuore doleva. «Parlerò col greco» disse Kerrigan. «Ci penserà lui ad annullare la licenza. Basterà che ci accenda sotto un fiammifero.» Loretta non disse niente. Guardò il cerchietto. Fece per toglierlo, ma sembrava saldato alla carne. «Basta girarlo e forzarlo un po'» disse lui. La ragazza aveva gli occhi umidi. «Se solo potessimo...» «Ma non possiamo» interruppe lui. «Non lo capisci? Non possiamo percorrere la stessa strada. Io non potrei vivere la tua vita, e tu non potresti vivere la mia. Non è colpa di nessuno. È solo che le carte sono state distribuite così e non si può cambiarle.» Lei scosse la testa, lentamente. E proprio allora l'anello venne via. Le sfuggì dalle dita umide, rotolò sul pavimento e si infilò sotto il banco del bar, finendo nel buio come tutti i sogni perduti. Kerrigan sentì l'ultimo tintinnio del cerchietto metallico, un suono lieve, lamentoso, unito alla voce di lei che gli diceva addio. Camminava pesantemente, e ogni suo passo diceva alle pietre di Vernon Street che erano fatte per essere calpestate, e che lui sapeva come camminare per quella strada, come trattare ogni sasso, ogni buco, ogni crepa, perché li conosceva tutti. Batté col tacco nel rigagnolo, attraversò il marciapiede e salì i gradini nella casa dei Kerrigan. Mentre apriva la porta si accorse di essere affamato. Nel salotto, Bella era sdraiata a faccia in giù sul divano. Le diede una pacca sul sedere. «Alzati» disse. «E preparami qualcosa da mangiare.»
FINE