Collezione di testi e di studi Filosofia
In memoria di Nancy Hirschberg
Donald Davidson
Azioni ed eventi
Società e...
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Collezione di testi e di studi Filosofia
In memoria di Nancy Hirschberg
Donald Davidson
Azioni ed eventi
Società editrice il Mulino
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: http://www.mulino.it ISBN 88-15-07778-2
Edizione originale: Essays on Actions and Events, New York, O?,ford University Press, 1980. Copyright ©, per l'edizione su .cui è stata condotta la traduzione italiana, Donald Davidson 1980. Copyright © 1992 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Roberto Brigati. Edizione italiana a cura di Eva Picardi.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Finito di stampare nel mese di settembre 2000 presso Legoprint S.p.A. - Lavis (Trento)
Indice
Introduzione all'edizione italiana, di Eva Picardi Introduzione
p.
9 29
PARTE PRIMA: INTENZIONE E AZIONE
1. Azioni, ragioni, cause 2. Com'è possibile la debolezza della volontà? 3. Essere agenti 4. Libertà d'agire 5. Intendere
41 63 89 113 137
PARTE SECONDA: EVENTO E CAUSA
6. 7. 8. 9. lO.
La forma logica degli enunciati d'azione Relazioni causali L'individuazione degli eventi Gli eventi come particolari Eventi eterni versus eventi effimeri
163 215 233 255 265
PARTE TERZA: FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA
Il. 12. 13. 14. 15.
Eventi mentali La psicologia come filosofia La mente materiale Hempel e la spiegazione dell'azione La teoria cognitiva dell'orgoglio in Hume
Bibliografia
285 311 329 347 365
385
Introduzione all' edizione italiana
Introduzione all' edizione italiana
L'assenza di Mr Bingley da Netherfield si protrae inspiegabilmente. All'indomani di una serata che aveva fatto balenare a Jane Bennet la speranza di un imminente fidanza~ mento, egli si reca a Londra, dove viene raggiunto con inspiegabile premura da familiari ed amici: il promesso ritorno a Netherfield si trasforma all'improvviso in una remota possibilità. Questi, all'incirca, i fatti salienti descritti da]ane Austen nei primi capitoli di Orgoglio e pregiudizio. Jane e la sorella Elizabeth cercano di trovare una spiegazione dell'azione di MrBingley: le impressioni sulla condotta e sul carattere di Mr Bingley, formate nel corso·· della sua breve permanenza a Netherfield, insieme .con l'annuncio che le prospettive del suo ritorno sono remote, contenuto in una lettera della sorella di Mr Bingley, sono gli unici dati a loro disposizione. ] ane ed Elizabeth non pensano neppure per \In attimo che l'azione di Mr Bingley sia stata causata da un improvviso squilibrio psicofisico - pur se, com'è noto, cose simili accadono - né si arrendono al pensiero che forse neanche Mr Bingley conosce il perché della sua azione - sebbene talvolta giungiamo a simili conclusioni. Al contrario, sono convinte che spiegare un'azione consista, almeno in parte, nell'identificare le ragioni che hanno indotto Mr Bingley ad agire come ha agito.· Spiegare l'azione di Mr Bingley è, in ultima istanza, spiegare l'uomo Bingley, rendere conto della specificità delle sue credenze, dei suoi desideri, delle sue intenzioni. Per spiegare la condotta di Mr Bingley non basta però escogitare una «razionalizzazione» qualsiasi della sua azione, bensì occorre trovare una descrizione dell'azione che anch'egli sarebbe disposto a fare propria, idealmente una spiegazione da cui emerge la ragione· o le ragioni· che lo hanno guidato nel momento in cui ha agito.
lO
INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
Le spiegazioni avanzate da Elizabeth e Jane non collimano: l'evidenza è in parte la stessa, ma ciascuna sottolinea aspetti differenti del comportamento di Mr Bingley, ciascuna interpreta a sua modo la lettera di Miss Bingley, ciascuna rivela, così facendo,. il suo proprio carattere e le sue proprie disposizioni. Ciascuna vede però anche i meriti della spiegazione dell'altra ed è disposta a modificare la propria alla luce di nuove informazioni o di una migliore intelligenza degli elementi già acquisiti. La disponibilità delle due sorelle all'esercizio di «accomodamento razionale» non origina dal convincimento che la catena delle spiegazioni non ha termine o che la, spiegazione giusta dell'azione di Mr Bingley non esista, bensì dalla consapevolezza delle difficoltà insite in ogni tentativo di interpretazione delle azioni umane. Gli interrogativi che si affollano intorno al quesito principale «Per quale ragione Mr Bingley ha deciso di non tornare a Netherfield?» sono molteplici. Ha agito di propria spontanea volontà o sotto la pressione altrui? Ma se l'affetto di Mr Bingley era sincero e la sua volontà salda come hanno pòtuto i ragionamenti e le pressioni altrui alterarne la condotta, facendolo agire contro il proprio fondato giudizio e contro i propri desideri? Come si spiega la debolezza della volontà, la peculiare acrasia - per dirla con Aristotele - di Mr Bingley? Ma forse è errato individuare in un difetto del carattere di Mr Bingley la causa del suo mancato ritorno a Netherfield: forse il suo interesse per Jane Bennet era soltanto passeggero o, pur se non superficiale, non tale da prevalere su altre considerazioni. Mr Bingley, soppesati i pro e i contro di un matrimonio desiderabile dal punto di vista sentimentale ma imprudente dal punto di vista economico, ha probabilmente optato per la soluzione che, a conti fatti, è la meno indesiderabile. Dunque, lungi dall'essere acratico o «incontinente» egli è un uomo eminentemente saggio, che posto·di fronte a un dilemma ha scelto in modo razionale. Le deliberazioni di Mr Bingley hanno certamente seguito un itinerario tortuoso, e tuttavia non sarebbe inappropriato compendiarle in una sorta di sillQgismo pratico, la cui premessa maggiore dice che le azioni di un dato genere sono desiderabili, quella minore afferma che l'azione in esame ricade fra le azioni desiderabili e la conclusione ingiunge che andrebbe eseguita. Ad uno certo punto delle sue riflessioni e deliberazioni Mr Bingley
INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
Il
deve aver formato l'intenzione incondizionata di non tornare a Netherfield: l'intenzione si è trasformata in una risoluzione ad agire. In questo senso possiamo affermare che le ragioni sono cause razionali e, con le dovute qualificazioni, convenire con Aristotele che la conclusione di un sillogismo pratico è un'azione. Se è ai grandi romanzieri, e, nel caso specifico, allo straordinario talento di Jane Austen, che siamo debitori delle descrizioni non solo letterariamente ma spesso anche filosoficamente più salienti di ciò in cui consiste spiegare un'azione, è ai filosofi che demandiamq il compito più prosaico ma non meno avvincente di esaminare le parole e i concetti usati in questi contesti. Se è dal cap. XXIV di Orgoglio e pregiudizio che abbiamo preso in prestito l'esempio, è dai saggi raccolti in Azioni ed eventi che abbiamo tratto i termini per ridescriverlo. È a Donald Davidson, infatti, che siamo debitori di una delle analisi più raffinate e controverse dei concetti chiave che ricorrono nella filosofia dell'azione; saggi come Azioni, ragioni e cause, La forma logica degli enunciati dJazione, Eventi mentali sono ormai dei classici e costituiscono un punto di riferimento obbligato per chi si accosti con spirito analitico alla filosofia dell'azione. La qualità specifica della filosofia di Davidson, tuttavia, non risiede solo nell'originalità delle singole analisi contenute nei saggi qui tradotti, quanto piuttosto nel progetto più ampio di offrire un quadro sistematico all'interno del quale pensare l'intreccio fra credenze e desideri da un lato e azioni dall'altro. La concezione dell'interpretazione radicale, alla quale Davidson ha lavorato assiduamente negli ultimi vent'anni, è appunto la cornice all'interno della quale formulare una teoria unificata della mente e dell'azione. A questo tema sono dedicati i saggi raccolti nel volume Inquiries into Truth and Interpretation l , che di quelli qui tradotti sono l'indispensabile complemento. Il tema dell'azione, benché tradizionalmente discusso nell'ambito della filosofia morale e dunque nella costellazione concettuale di norme, valori e responsabilità individuale, è di grande rilievo anche per la filosofia della mente e la 1 D. Davidson, Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford, Clarendon Press, 1984, trad. it. in preparazione al Mulino.
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filosofia del linguaggio. Del resto, prima ancora di poter porre l'interrogativo se un'azione sia eticamente reprensibile o lodevole o circa quali e quante siano le conseguenze di un'azione di cui l'agente è responsabile, dobbiamo avere una concezione di che cosa comporti essere agenti e delle specifiche caratteristiche che certi eventi devono soddisfare per. essere classificati come azioni, indipendentemente, dunque, dalla loro qualità etica. Agli occhi del filosofo, pertanto, le azioni che si svolgono nell'Europa delle guerre napoleoniche sono interessanti al pari di quelle dimesse e minute che Jane Austen descrive in Orgoglio e pregiudizio, negli stessi anni di quei grandi sommovimenti. Non possiamo aspirare a offrire una spiegazione adeguata dell'agire senza fare attenzione al modo in cui parli4mo delle azioni, e, in particolare, alla forma logica e linguistica degli enunciati che usiamo per descrivere le azioni. L'analisi semantica degli enunciati d'azione mette in luce la necessità di considerare il genere di entità su cui verte il nostro discorso ed esaminare i modi in cui facciamo riferimento ad esse. L'intuizione fondamentale che percorre i saggi della presente raccolta è che per rendere conto della semantica degli enunciati d'azione dobbiamo assumere una ontologia di eventi
individuali. Un'ontologia di eventi individuali e irripetibili sembra imporsi abbastanza naturalmente quando consideriamo enunciati relativi a stati e cambiamenti nel mondo fisico. Secondo Davidson, è su eventi che si quantifica in enunciati come «TI Vesuvio eruppe nel 79 d.C.» ed è a un evento che il termine singolare «l'eruzione del Vesuvio» fa riferimento in un enunciato come «L'eruzione del Vesuvio nell'agosto del 79 d.C. seppellì la città di Pompei». Anzi, a ben vedere quest'ultimo enunciato, leggermente riformulato, contiene due termini singolari che si riferiscono a eventi - l'eruzione del Vesuvio e il seppellimento di Pompei - e ciò che vi si afferma è che il primo causò il secondo. Sono gli eventi individuali a stare nel rapporto di causa ed effetto, ma sono le descrizioni di questi eventi che, in alcuni casi, se debitamente formulate nellinguaggio di una teoria fisica, sono in grado di offrirci una spiegazione dell'accaduto. Più precisamente, possiamo dire che gli eventi singoli a e b sono correlati come causa ed effetto se hanno descrizioni che sono implicate da premesse
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costituite da leggi scientifiche vere. Combinando in modo originale idee di David Hume e di C. J. Ducasse Davidson conclude che, sebbene spesso ignoriamo quale sia la legge che correla due eventi singoli, tuttavia, per la legittimità di un asserto causale singolare è sufficiente sapere che vi è una legge (Relazioni causali, p. 229). In sintesi, dove c'è causalità ci sono leggi: su questa tesi, che Davidson chiama il «Principio del carattere nomologico della causalità», ci soffermeremo più avanti, parlando del rapporto fra mentale e fisico. Secondo Davidson, mentre un enunciato come «TI Vesuvio eruppe violentemente ed improvvisamente nel 79 d.C.» ha la forma logica di un enunciato quantificato esistenzialmente, che in prosa potremmo rendere dicendo che vi è un qualche evento che è un'eruzione violenta e improvvisa del Vesuvio e che si verificò nel 79 d.C, un enunciato come «L'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. fu violenta e improvvisa» contiene un termine singolare che si riferisce ad un evento singolo specifico. La forma logica dei due enunciati è diversa. La differenza non sta nella presenza degli avverbi, il cui ruolo logico, stando all'analisi di Davidson, è riconducibile a quello di predicati di eventi, bensì nell'implicazione di esistenza e unicità indotta dalla presenza dell'articolo determinativo «il» di fronte a un sostantivo (o ad un infinito sostantivato, come «l'erompere»), la cui portata logica è quella di una descrizione definita nel senso di Russell. Naturalmente, in moltissimi casi è solo il contesto del discorso a chiarire a quale specifico evento individuale si riferisce il termine singolare. Ciò che è rilevante osservare è che per Davidson nessuno degli enunciati menzionati si riferisce, sta per, o denota un evento: è solo il termine singolare presente nel secondo enunciato che si riferisce a un evento singolare. Inoltre, è su eventi singolari, e non su generi di eventi o su esemplificazioni di eventi, che scorre la variabile vincolata dal quantificatore, messa in evidenza dall'opportuna trasposizione in forma logica di «TI Vesuvio eruppe nel 79 d.C.». Quest'enunciato non dice che nel 79 d.C. vi fu un'unica eruzione del Vesuvio, ed è vero se nel 79 d.C. il Vesuvio eruppe almeno una volta. Le ragioni per cui è errato considerare l'enunciato comeri/erentesi a fatti, a situazioni o anche ad eventi singoli, sono schiettamente semantiche e risiedono nel fatto che, una volta accet-
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tate alcune assunzioni proprie della semantica estensionale, come, ad esempio, il principio di sostituibilità salva veritate di espressioni logicamente equivalenti, tutti gli enunciati veri finiscono per vertere su un unico fatto, e ciò conduce a banalizzare la relazione stessa di «stare per un fatto» o «corrispon-dere a un fatto» o «essere aderente ai fatti», che sottende all'idea di una corrispondenza punto per punto fra elementi della realtà ed elementi linguistici. Il concetto di verità, come Davidson lo intende, è assoluto e si applica agli enunciati proferiti in un certo contesto (tempo e luogo) da un certo parlante; la nozione di riferimento, invece, è schiettamente intralinguistica, poiché dipende dalla struttura che una determinata teoria semantica impone o ravvisa negli enunciati di una lingua naturale. Poiché la teoria semantica che sottende all'interpretazione radicale è schiettamente olistica e poiché ci sono molti modi diversi di formulare le condizioni di verità e specificare il riferimento dei termini che figurano in un enunciato, la ricerca di una corrispondenza punto per punto fra parti dell'enunciato e parti della realtà è vana. In ciò Davidson non fa che svolgere e radicalizzare le conseguenze implicite nella tesi di W.V. Quine dell'indeterminatezza della traduzione radicale, esposta nel capitolo II di Word and Object 2 • Non è certo un caso che proprio a Quine, sine quo non, Davidson dedichi il volume Inquiries into Truth and Interpretation. W.V. Quine e A. Tarski, alla cui caratterizzazione del concetto di verità per i linguaggi formalizzati è ispirato il progetto di interpretazione radicale, sono gli autori che maggiormente hanno contribuito a plasmare la concezione di Davidson circa la forma che una teoria del significato dovrebbe avere. Secondo Davidson enunciati d'azione come «Cesare attraversò il Rubicone» o «Sebastian passeggiò per le vie di Bologna alle due di notte» contengono, al pari di «Il Vesuvio eruppe nel 79 d.C.», un elemento di generalità latente, che si rivela quando, strapazzando un po' l'italiano, li parafrasiamo in termini di eventi tali che Sebastian li passeggiò e che hanno luogo per le vie di Bologna e che si sono svolti alle due
2 W.V. Quine, Word and Object, Cambridge, MIT Press, 1960; trad. it. a cura di F. Mondadori, Parola e oggetto, Milano, Il Saggiatore, 1970.
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di notte. Questo elemento di generalità viene messo in mostra quando rendiamo esplicita la presenza del quantificatore esistenziale in essi implicito, riformulando, a titolo d'esempio, il secondo in questi termini: «Vi fu qualcosa che è una passeggiata di Sebastian, che ebbe luogo per le vie di Bologna e che si svolse verso le due di notte». Questo «qualcosa», che ha la proprietà di essere una passeggiata, di aver luogo a Bologna, di essere fatta da Sebastian e di essere alle due di notte, è appunto un evento individuale: ad esso allude la variabile individuale che nella trasposizione in forma logica dell'enunciato italiano fa le veci del pronome "ciò" ed è vincolata dal quantificatore esistenziale. I meriti di questa analisi della forma logica degli enunciati d'azione si rivelano, secondo Davidson, nel fatto che essa permette di rendere conto degli aspetti composizionali del significato, mostrando come trattare formalmente le implicazioni che sussistono fra enunciati, in particolare, fra «Sebastian passeggiò per le vie di Bologna alle due di notte» e «Sebastian passeggiò», «Ciò avvenne alle due di notte», «Ciò avvenne a Bologna»}. Per Davidson, come per Quine, l'attribuzione di una certa forma logica a una classe di enunciati si giustifica in primo luogo su basi semantiche; per Davidson, come per Quine, la quantificazione ha senso se la sostituzione di un termine singolare J Su questo tema vertono molti dei saggi contenuti in Actions and Events. Perspectives on the Philosophy of Donald Davidson, a cura di E. LePore e B.P. McLaughIin, Oxford, Blackwell, 1985 e in Essays on Davidson: Actions and Events, a cura di B. Vermazen e M. Hintikka, Oxford, Clarendon Press, 1985, nonché i primi quattro capitoli del libro di S. Evnine, Donald Davidson, Cambridge, Polity Press, 1991- oltre che, ovviamente, i lavori di R. Chisholm,]. Kim, A. Kenny, E.]. Lemmon, H. Reichenbach, G.H. von Wright, R. Martin, A. Goldman, Z. Vendler,]. Feinberg, I. Thalberg" citati e discussi da Davidson nel presente volume. Una discussione critica delle proposte di analisi semanticadi Davidson si trova in]. Bennett, Events and their Names, Oxford, Oxford University Press, 1988; spunti interessanti si trovano anche in]. Barwise,]. Perry, SituationsandAttitudes, Cambridge (Mass.), MITPress, 1983. Perun'introduzione alla teoria del significato di Davidson si veda B.T. Ramberg, Donald Davidson's Philosophy of Language. An Introduction, Oxford, Blackwell, 1989. In lingua italiana si possono consultare le parti rilevanti del mio articolo Donald Davidson: signIficato e interpretazione, in Introdùzione alla filosofia analitica del linguaggio, a cura di M. Santambrogio, Bari, Laterza 1992, pp. 223-266 e il capitolo VII del mio libro Linguaggio e analisifilosofica. Elementi difilosofia del linguaggio, Bologna, Pàtron, 1992.
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con un altro che denota lo stesso oggetto - lo stesso evento, in questo caso - è legittima, non altera, cioè, il valore di verità degli enunciati interessati. Pertanto, se al posto di «Bologna» sostituiamo la descrizione definita «la sede della più antica università europea», il valore di verità dell'enunciato non cambia, anche se Sebastian può non sapere che sta passeggiando per le strade della città che vanta la più antica università. L'evento che costituisce la passeggiata di Sebastian per Bologna è il medesimo anche se è descritto in modi leggermente diversi. Qualcosa, tuttavia, può cambiare. Riprendendo il parallelo fra azioni ed eventi, possiamo dire che dal momento che un'azione si esplica in un movimento corporeo che, come tale, è passibile di una descrizione fisica, possiamo concepirla come un evento, fermo restando che generalmente i modi in cui identifichiamo le azioni differiscono da quelli in cui identifichiamo gli eventi fisici. Le azioni sono generalmente identificate con riferimento all' agente, e ciò spiega come mai la relazione che intercorre fra l'agente e le sue azioni contenga una ineliminabile componente di intensionalità. Vi sono moltissimi movimenti corporei che non abbiamo esitazione a qualificare come azioni, ad esempio suonare il pianoforte, scrivere una lettera, rispondere al telefono, e ve ne sono altri, come svegliarsi-di soprassalto o inciampare nel tappeto, che non qualificheremmo come azioni, bensì come cose che ci capitano. Che cosa trasforma un nostro movimento corporeo in un'azione? Dire che un movimento corporeo conta come azione solo se è eseguito intenzionalmente non è soddisfacente; infatti, a parte le tante difficoltà insiste nel concetto di intenzione, descritte nel saggio Intendere, è indubbio, come Davidson sottolinea, che trascrivere male un testo o leggere male una scritta sono azioni anche se non sono fatte con l'intenzione di raggiungere il risultato di fatto conseguito, bensì un altro. Secondo Davidson, possiamo dire che un uomo è l'agente di un atto se e solo se c'è una descrizione di quel che compie che rende vero un enunciato che afferma che lo ha fatto intenzionalmente (Essere agenti, p. 92). Quando descriviamo una certa azione come «intenzionale» non stiamo isolando una particolare categoria di azioni, né stiamo alludendo a un particolare quid nella mente dell'agente che si aggiunge a ciò egli fa e lo investe di significato, bensì stiamo alludendo a un particolare
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modo di descrivere le azioni, da cui emerge l'intenzione con la quale l'agente ha operato. Ad Elizabeth Anscombe4 risale l'osservazione, spesso ripetuta nella letteratura successiva e fatta propria anche da Davidson, che un'azione può essere intenzionale in base a una certa descrizione, ma non in base a un'altra. Secondo Anscombe, quando ci interroghiamo sul perché di un'azione ciò di cui andiamo in cerca è una descrizione che metta in rilievo l'intenzione con cui l'agente ha operato. Così, sebbene uccidendo il vecchio insolente incontrato al crocicchio Edipo abbia ucciso il proprio padre, tuttavia, nell'uccidere il vecchio, Edipo non intendeva uccidere il proprio padre. Ciò non toglie che l'omicidio coincida col parricidio: la tragedia di Sofocle ruota intorno all'intollerabilità di questa identità. L'uccisione del padre, pur non essendo intenzionale, è nondimeno un'azione di Edipo, dal momento che vi è almeno una descrizione dell' e~ento - ovvero "l'uccisione del vecchio insolente incontrato al crocicchio" - in base alla quale esso risulta intenzionale per l'agente. Quando invece una brusca frenata dell'autobus mi catapulta fra le braccia di un passeggero non si può parlare di un'azione compiuta da me, poiché non c'è alcuna descrizione in base alla quale il mio essere catapultata fra le braccia di costui risulti intenzionale. Pertanto, benché il criterio per essere agenti è intensionale, in quanto rimanda all'esistenza di una descrizione che specifichi l'intenzione dell'agente, l'espressione dell'azione è puramente estensionale: «La relazione che intercorre fra una persona e un evento, nel caso in cui l'evento sia un'azione compiuta dalla persona, sussiste comunque i termini vengano descritti. Pertanto possiamo parlare senza confusione della classe degli eventi che sono azioni, cosa che non possiamo fare per le azioni intenzionali» (Essere agenti, p. 93 )'.' Come 4 G.E.M. Anscombe, Intention, Oxford, Blackwell, 1957, § 19; su questo tema l'autrice è tornata nel saggio del 1979, Under a Description, ristampato in G.E.M. Anscombe, Metaphysics and tbe Pbilosophy ofMind, Collected Philosophical Papers Volume II, Oxford, Blackwell, 1981, pp. 208-219. .5 Vale la pena notare che un contesto enunciativo può essere intensionaIe o non puramente estensionale per motivi che poco o nulla hanno a che fare con l'intenzionalità. Dunque l'intensionalità e l'intenzionalità vanno tenute distinte.
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agente, una persona fa tutto ciò che fa intenzionalmente sotto una qualche descrizione; non solo, ma, secondo Davidson, un agente causa tutto ciò che la sua azione causa. Se sia responsabile solo di ciò che intenzionalmente sceglie di fare è un'altra faccenda, ancora più complessa delle precedenti.. L'appello al concetto di causa nella descrizione delle azioni umane è irto di difficoltà. Conviene distinguere, come Davidson propone, seguendo un suggerimento di I. Thalberg, fra la causalità dell'agente, che investe il rapporto fra l'agente e la sua azione, e la normale nozione di causalità che si applica agli eventi fisici, di cui le nostre azioni innescano talvolta una reazione a catena del tutto imprevedibile. In quel che segue ci limiteremo solo al secondo genere di causalità, anche perché Davidson ritiene che non vi sia alcuna risposta soddisfacente alla domanda se un agente causi le proprie azioni primitive - quelle che consistono, grosso modo, di movimenti corporei elementari. A parere di Davidson ci sono importanti somiglianze e differenze fra la spiegazione dell'agire e dei fenomeni che ricadono nell'ambito delle scienze fisiche. La tesi centrale di Davidson è che, sebbene non esistano leggi in senSo stretto che governano il rapporto fra credenze e desideri da un lato e azioni dall'altro, la nozione di causali!à trova nondimeno applicazione nell'ambito dell'azione umana. All'applicazione alle azioni umane dello schema di spiegazione nomologico-deduttivo proposto da CarI . Gustav Hempel6 , Davidson obietta che le leggi che dovrebbero fungere da premesse da cui derivare i casi singoli non esistono; abbiamo tutt'al più a che fare con generalizzazioni che non sono applicabili direttamente al caso singolo, che è, dopo tutto, l'unico che ci interessa. A coloro che muovendosi nel solco tracciato negli anni Trenta da Wittgenstein, e, in particolare, basandosi sulle osservazioni çontenute nei Blue andBrown Books7 , hanno teso a evidenziare la scarsa rilevanza del concetto di causalità nella spiegazione del comportamento e dell'azione, Davidson obietta che c'è un senso importan6 C.G.. Hempel, Aspeets 0/ Seienti/ie Explanation, New York, Free Press, 1965. . . ·7 L. Wittgenstein, The Blue and Brown Books, Blackwell, Oxford, 1958, ed. itaI. a cura di A.G. Conte, Libro blu e Libro marrone,Torino, Einaudi, 1983.
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te in cui le ragiopi per cui un'azione è compiuta possono dirsi cause dell'azione e che l'impiego di nozioni teleologiche per descrivere il comportamento non è antitetico o alternativo a quello dei concetti causali. La strategia generale di Davidson è di ammettere la fondatezza di alcune delle obiezioni addotte a suo tempo daJ.L. Austin e G. Ryle8 per mettere in luce le peculiarità e la specificità dei concetti impiègati nel descrivere il comportamento umano rispetto a quelli impiegati per descrivere i fenomeni fisici, ma di insistere che nondimeno da esse non segue la conclusione che la nozione di causalità sia inservibile, che, ad esempio, la libertà d'agire non sia un «potere causale». Così, tornando all'episodio descritto da Jane Austin da cui abbiamo preso le mosse, possiamo dire che all~ base della risoluzione di Mr Bingley di non tornare a Netherfield vi è l'intenzione di non· rivedere Jane: il desiderio di dimenticare Jane, insieme con la credenza che il non rivedere l'oggetto amato sia generalmente un mezzo idoneo per dimenticarlo, «razionalizzano» la sua azione. Il desiderio di Bingley si spiega, a sua volta, come apprendiamo nel corso del romanzo, in base alla credenza che egli nel frattempo si è fatto circa l'indifferenza di Jane nei suoi confronti e il giudizio circa l'inopportunità, in tali condizioni, di rafforzare un legame già poco conveniente dal punto di vista sociale. Quando diciamo che la ragione che ha indotto Mr Bingley a non tornare a Netherfield è che non intendeva rivedere Jane, stiamo facendo uso di una terminologia causale: quel che a Davidson preme sottolineare è che l'uso dei concetti causali nella spiegazione dell'azione è un ingrediente costitutivo del modo in cui concepiamo le azioni dei nostri simili e, in ultima istanza, il rapporto fra mentale e fisico. La tesi che le ragioni, le credenze e i desideri svolgono un ruolo causale nella spiegazione dell'azione, pur se intuitivamente plausibile, nasconde ~.olte insidie. Come Davidson avverte nell'Introduzione, il punto di vista sostenuto in Azio8 Si veda, ad esempio, G. Ryle, The Concept ofMind, London, Penguin Books, 1949, trad. it. Lo spirito come comportamento, a cura di F. Rossi Landi, Torino, Einaudi, 1960 e i saggi di ]. L. Austin, Philosophical Papers, a cura di G]. Urmson e].O. Warnock, Oxford, Oxford University Press, trad. it. Saggi filosofici, a cura di P. Leonardi, Milano, Guerini e Associati, 1990.
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ni, ragioni e cause è diverso da quello che troviamo nei saggi successivi. In uno di essi infatti si legge: «Quel che dispero ormai di poter spiegare esaurientemente è il modo in cui gli atteggiamenti devono causare le azioni affinché si possa dire che le razionalizzano» (Libertà d'agire, p. 133). Un serio problema è costituito dalle catene 'causali devianti, che fanno sì che la ragione per cui si agisce non è quella che è di fatto causalmente efficace. Ad esempio, un alpinista desidera liberarsi del peso e del pericolo dovuti al fatto che con la corda sta reggendo un altro escursionista ed è consapevole che se allentasse la presa potrebbe liberarsi del peso e del pericolo. Ora, Davidson osserva: Questo desiderio e questa credenza potrebbero innervosirlo a tal punto da caus.are un allentamento della presa da parte sua; e tuttavia egli potrebbe non avere mai scelto di allentare la presa, né averlo fatto intenzionalmente. Non serve a nulla, credo, aggiungere che la credenza e il desiderio debbono combinarsi per causare il suo desiderio di allentare la presa, perché rimarranno due domande: in che modo la credenza e il desiderio hanno causato il secondo desiderio, e in che modo ildesiderio d'allentare la presa ha causato l'allentamento della presa da parte sua. (Libertà d'agire, p. 133)
In un caso come questo, dunque, l'allentare la presa non risulta intenzionale in base alla descrizione che chiama in causa le credenze e i desideri dell'alpinista e quindi dovremmo concludere che non abbiamo a che fare con una sua azione - una conclusione, invero, poco appetibile. Se il problema delle catene causali devianti può forse essere aggirato ricercando in altri eventi mentali le cause prossime dell'azione, resta nondimeno il quesito generale circa l'esatta portata del vocabolario causale nel contesto della spiegazione del- . l'azione. Infatti, se, come Davidson sostiene, nel rapporto di causa ed effetto stanno solo eventi fisici, in che senso un evento mentale, come il formare un'intenzione o l'avere desideri e credenze può dirsi la causa di un evento fisico, salvo essere esso stesso un evento fisico? La risposta è che, per l'appunto, non può: nella misura in cui è cau.salmente (fisicamente) efficace un evento mentale deve essere identico a qualche evento fisico. Secondo Davidson, due eventi, uno mentale e uno fisico, stanno nella relazione di causa ed effetto se hanno
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descrizioni che esemplificano una legge fisica.. Se non che, 'parlare di descrizione fisica di un evento mentale è fuorviante: un evento è «fisico» o «mentale» a seconda che sia descritto in un vocabolario essenzialmente fisico o essenzialmente mentalistico. Dunque, posto che qualche evento mentale interagisca causalmente con qualche evento fisico, questa interazione sussiste sòlo fra eventi descritti nel vocabolario fisico. Ciò di cui non disponiamo sono le leggi per passare da un evento descritto nel vocabolario fisico a uno descritto nel vocabolario mentalistico e per passare da un evento descritto nel vocabolario mentalistico ad un altro evento descritto anch'esso nel medesimo vocabolario. Mentre il fisico forma un dominio chiuso, il mentale non è tale, e dunque, a rigore, non esiste un vocabolario puramente mentalistico. La tesi che qualche evento mentale interàgisca causalmente con gli eventi fisici insieme con la tesi, sopra menzionata, del carattere nomologico della causalità, sono sembrate ad alcuni incompatibili con la tesi che afferma che non vi sono leggi deterministiche in base alle quali gli eventi mentali possono essere spiegati e previsti (Eventi mentali, p. 287). Questa tesi si può esprimere anche dicendo che non vi sono leggi psicofisiche che connettono causalmente eventi descritti nel vocabolario mentalistico con eventi descritti nel vocabolario fisico. L'intento di Davidson è di mostrare che è solo l'adesione a una concezione riduzionistica del mentale (ad esempio, quella insita in celte forme di comportamentismo) che ci fa apparire queste tre tesi inconciliabili fra loro. Nella complicata mappa delle teorie della mente in commercio, le preferenze di Davidson vanno a una teoria dell'identità, in forza della quale a un evento mentale singolare corrisponde un determinato evento fisico. A ciascun evento descritto in termini «essenzialmente» mentali ~orrisponde un evento nel cervello descrivibile in termini fisici; tuttavia, non esistendo leggi che correlano il mentale al fisico, l'impiego dei predicati mentali è irrinunciabile e ineliminabile. A questa concezione Davidson dà l'appellativo «monismo anomalo». Questa versione di monismo può essere detta «materialistica» in quanto gli unici eventi capaci di interazione causale sono gli eventi fisici; va distinta dalle così dette teorie dell'identità di tipi, che affermano, all'inèirca, che ogniqualvolta due persone (o la stessa, in tempi diversi) sono in stati mentali dello
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stesso tipo (ad esempio, credono due repliche dello stesso enunciato tipo) sono anche in stati fisici dello stesso tipo. Poiché Davidson formula la sua teoria in termini di eventi singolari, il contrasto fra evento tipo ed evento replica non si pone. Per ragioni simili Davidson respinge la distinzione fra azioni generiche e ripetibili, come comprare il giornale e attraversare la Manica, e azioni uniche e irripetibili come sono la· nascita e la morte nella vita di un individuo. Secondo Davidson la mancanza di leggi non è una lacuna contingente, che sarà colmata prima Q poi dal progresso delle scienze cognitive o dalla neurofisiologia, bensì è una lacuna di principio. Non è che Davidson voglia negare alla psicologia le credenziali di scientificità, che gli ingenti finanziamenti per la ricerca, i fiorenti laboratori e le riviste specializzate sem.brano inoppugnabilmente certificare; egli intende, piuttosto, mettere a nudo le condizioni di possibilità dell'indagine psicologica. Per afferrare le ragioni di questa lacuna conviene riflettere sul principio olistico che impronta l'interpretazione di ciò che i postri simili dicono e fanno: Le credenze e i desideri si manifestano nel comportamento solo in quanto modificati e mediati da altre creden~e, desideri, atteggiamenti, spostamenti d'attenzione, senza limite. E chiaro come questo olismo del regno mentale sia una spia dell'autonomia come pure del carattere anomalo del mentale. (Eventi mentali, p. 297) .
Il monismo anomalo è strettamente legato· al progetto di interpretazione radicale e alla concezione della razionalità ad esso sottesa. Nel riconoscimento del carattere «anomalo» del mentale sta la soluzione che Davidsonprospetta al quesito kantiano di come sia possibile conciliare la libertà della condotta con la necessità che regge gli eventi nel mondo fisico. Molto schematicamente, Davidson si propone di mostrare che il nostro appello alla nozione di causalità nel razionalizzare le azioni non riveste un ruolo empirico, bensì un ruolo costitutivo dell'idea di razionalità che implicitamente guida l'interpretazione della condotta dei nostri simili. L'impiego di concetti causali (disposizionali) nella spiegazione delle azioni è, per quanto paradossale ciò possa a prima vista ~pparire, proprio il contrassegno del carattere irriducibilmente anomalo del mentale:
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Si pensa spesso che le spiegazioni scientifiche siano causali,mentre le spiegazioni delle azioni e degli stati mentali non sono tali. lo penso quasi esattamente il contrario: le spiegazioni ordinarie dell'azione, della percezione, della memoria, del ragionamento, così come l'attribuzione di pensieri, intenzioni e desideri sono intrise di concetti causali, mentre è segno di progresso per una scienza quando espunge i concetti causali. Lo scioglimento di un sale si spiega, fino a un certo punto, col dire che il sale è solubile e che è stato messo nell'acqua; ma uno sarebbe in grado di prevedere lo scioglimento del sale se grazie a una conoscenza assai più ampia ne conoscesse il meccanismo e sapesse quali aspetti della costituzione del sale rendo~ no conto del fatto che si scioglie. Una volt~ noto il meccanismo, la spiegazione può fare a meno del concetto causale di solubilità. (Non voglio dire che le spiegazioni non sono in un certo senso causali o ch~ le leggi della fisica non sono leggi causali: il punto è piuttosto che in una scienza avanzata le spiegazioni e le leggi non impiegano concetti causali.)9
Fin qui abbiamo parlato di eventi mentali come se fosse ovvio e scontato che cosa si debba intendere con questa espressione. Avvertire dolori, provare sensazioni sembrerebbero eventi mentali per eccellenza, eppure sono sprovvisti della caratteristica dell'intenzionalità, la cui presenza, secondo Franz Brentano, contraddistinguerebbe il mentale. Davidson accetta la delimitazione di Brentano e limita la sua considerazione a quel genere di eventi mentali a cui ci riferiamo quando diciamo che Jane spera, crede, desidera, si illude, ecc. che Mr Bingley faccia ritorno a Netherfield. La caratteristica di questi eventi mentali è di avere un contenuto proposizionale, espresso linguisticamente dalla subordinata introdotta da «che». Davidson sottolinea che il modo in cui il linguaggio foggia enunciati come «Jane crede che p» - dove «p» sta per un enunciato dichiarativo qualsiasi -, sembra suggerire che il contenuto di p sia un oggetto astratto di carattere intensionale con cui Jane intrattiene una misteriosa relazione, cioè quella di «credere»; questo quadro, a parere di Davidson, è fuorviante. Infatti, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un modo per identificare il contenuto proposizionale dell'atteggiamento di Jane, così da renderlo trattabile nel•
9 D. Davidson, Representation and Interpretation, in' Modelling the Mina, a cura di K.A. Mohyeldin Said, W.H. Newton-Smith, R. Viale e K.L. Wi1kes, Oxford, Clarendon Press, 1990, pp. 13-26.
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l'ambito di una teoria semantica ed applicare ad" esso le nozioni di verità e di riferiment.o lO. Secondo Davidson, ogniqualvolta Jane si domanda se Mr Bingley farà ritorno a Netherfield, possiamo dire the ha luogo un evento mentale individuale e irripetibile. Tuttavia, come abbiamo visto, quando cercheremo di «localizzare» questo evento mentale quel che troveremo è un evento fisico, alloggiato presumibilmente nel cervello, e questo evento non ci è di alcun aiuto per capire il contenutoproposizionale e l'atteggiamento proposizionale (credenza, speranza, timore) che Jane intrattiene rispetto ad esso. Per cogliere il carattere mentale dell'evento dobbiamo, nelle parole di Davidson, «ricondurre il mentale alla sua fonte di evidenza» e impiegare un altro metodo di localizzazione. Ciò che ci permette di attribuire a Jane atteggiamenti proposizionali, prima ancora di congetturarne il contenuto proposizionale, è il fatto che tacitamente sussumiamo la sua condotta entro uno schema generale di razionalità. Per la verità, non abbiamo scelta, non possiamo fare altrimenti. L'applicazione dei concetti di razionalità non ha carattere descrittivo, bensì normativo: non avremmo ragione di ritenere di avere a che fare con un essere razionale se la sua condotta fosse refrattaria all'applicazione di criteri minimi di razionalità, se non vi rinvenissimo dei tratti di coerenza logica e concettuale. L'applicazione di principi normativi di razionalità, adombrata nel celebre e controverso principio di benevolenza (principle 01 charity) 11, formulato da Quine in Word and Object e sottoscritto e generalizzato da Davidson, di per sé sola non ci dice ancora come sia da rappresentare il contenuto di un evento mentale. La risposta è da ricercare nella teoria dell'interpretazione radicale elaborata da Davidson e lO Cfr. D. Davidson, What is Present lo the Mind?, in "Grazer philosophische Studien", 36 (1989), pp. 3-18. 11 Questo principio, formulato da Quine nel contesto della discussione del tema della traduzione radicale, ingiunge di non attribuire credenze illogiche o' assurde alla comunità di parlanti di cui stiamo cercando di decifrare la lingua; ove ciò accada, lac~lpa è probabilmente della nostra traduzione. Nella versione di Davidson il principio ingiunge di cercare un'interpretazione di ciò che gli altri dicono che tenda a rappresentarli come prevalentemente nel giusto, che attribuisca loro credenze che noi riteniamo vere.
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nel carattere irriducibilmente olistico di ogni spiegazione del significato. Su questo tema vertono i saggi del volume Inquiries into Truth and Interpretation, che, come abbiamo detto, costituiscono la cornice più ampia in cui vanno letti quelli contenuti nel presente volume. Poiché, secondo Davidson, è solo a esseri dotati di linguaggio, e non a un cane, ad esempio, che possiamo in senso pieno attribuire credenze e desideri, un p.asso obbligato per capire che cosa una persona pensa o desidera è interpretare le sue parole, capire la lingua che parla. Nell'interpretare. non applichiamo solo massime schematiche di coerenza, bensì partiamo dal presupposto che fra noi e il nostro interlocutore vi sia un'ampia regione condivisa di credenze vere sul mondo, poiché. è solo sullo sfondo di un massicciò accordo che possiamo diagnosticare gli errori e le divergenze di credenza. Non possiamo afferrare il contenuto di una credenza del nostro interlocutore senza inserirla in un quadro più ampio di credenze, ma non possiamo supporre che questo quadro più ampio sia dato una volta per tutte e che sia accessibile indipendentemente dalle specifiche disposizioni e credenz~, in continua evoluzione, che egli intrattiene. Dobbiamo pertanto essere sempre preparati a rivedere le nostre attribuzioni di atteggiamento e di contenuto alla luce di nuove informazioni o di una migliore comprensione di ciò. che già sappiamo, come fanno, appunto, Jane e Elizabeth Bennet. EVA PICARDI
Donald Davidson
Azioni ed eventi
Introduzione
Tutti i saggi &ontenuti in questo libro sono stati pubblicati altrove, e ognuno di essi era destinato a essere pressoché autonomo. Tuttavia, benché composti nel corso di tredici anni, i saggi sono unitari quanto al tema e alla tesi generale. n tema è il ruolo dei concetti causali nella descrizione e nella spiegazione dell'azione umana. La tesi è che la nozione ordinaria di causa, così come essa ricorre nelle analisi scientifiche o di senso comune delle questioni non-psicologiche, risulta essenziale anche per comprendere che cosa sia agire per una ragione, avere una certa intenzione quando si agisce, essere un agente, agire in modo contrario al proprio miglior giudizio, o agire liberalilent~. La causa è il cemento dell'universo; il concetto di causa è ciò che tiene unita la nostra immagine dell'universo, immagine che altrimenti sarebbe disarticolata nel dittico del mentale e del fisico. All'interno delle tre ampie suddivisioni che ho stabilito fra i saggi, l'ordine di pubblicazione fornisce uno "schema organizzativo ragionevolmente naturale. Una cosa tirava l'altra; le soluzioni di ciascun lavoro sollevavano i problemi del lavoro successivo. Non tutto, però, filava liscio, come sarà evidente anche al lettore più favorevolmente disposto: spesso, problemi.sorti in seguito hanno provocato una rielaborazione abbastanza drastica delle teorie precedenti. In queste pagine, l'unità della tesi generale si presenta con-una considerevole incoerenza diacronica. Non si è fatto alcun tentativo di nascondere le discrepanze fra le opinioni precedenti e successive. Sono stati eliminati alcuni errori o sviste e alcune brutture stilistiche; la ridondanza è stata ridotta. Di ridondanze ne rimangono a profusione, ma di solito i punti su cui ho lavorato di più sono punti che mi hanno dato dei problemi: per cui, spero, quella che può
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sembrare una mera ripetizione (e probabilmente era intesa proprio in tal modo) potrà risultare istruttiva o interessante. Un'altra ragione per lasciare sostanzialmente immodificate le mie prime idee è che esse, nel corso degli anni, hanno attirato critiche e commenti, e sarebbe meschino cercare di spostare il bersaglio fuori tiro dopo che il colpo è stato sparato. Ecco alcune delle connessioni tra i saggi. Saggio 1. Azionz: ragioni, cause era una reazione contro una teoria largamente accettata, secondo la quale la spiegazione di un'azione intenzionale sulla base dei suoi motivi o delle sue ragioni non può porre ragioni e azioni in una relazione di causa e effetto. Uno dei principali argomenti era questo: le relazioni causali sono essenzialmente nomologiche e basate sull'induzione, mentre il fatto di sapere che un agente ha agito per certe ragioni non dipende, di solito, dall'induzione o dalla conoscenza di leggi attendibili. L'argomento ha trovato un'autorevole, ancorché breve, espressione ~ei Blue and Brown Books di Wittgenstein, che ebbero ampia diffusione dalla metà degli anni Trenta in avanti (benché pubblicati solo nel 1958). Nel saggio 1 accetto l'idea che la spiegazione teleologica dell'azione si distingua dalla spiegazione nelle scienze naturali per il fatto che la prima non coinvolge in modo essenziale alcuna legge; ma sostengo che entrambi i tipi di spiegazione possono - e spesso devono - invocare connessioni causali. Saggio 2. La spiegazione di un'aziol)e intenzionale in termini di ragioni si distingue dalla spiegazione nelle scienze naturali in un altro punto cruciale: i contenuti proposizionali degli atteggiamenti e delle credenze che forniscono la spiegazione debbono esibire una determinata relazione logica con la descrizione secondo la quale l'azione viene spiegata; una descrizione che ci fornisce un'intenzione con la quale l'azione è stata compiuta. Ma qual è questa relazione logica? Nel saggio 2, Com'è possibile la debolezza della volontà?, assumo che non si possa accettare .alcuna risposta che impedisca un'analisi coerente del conflitto morale, della debolezza della volontà, o di altre forme d'azione intenzionale ma irrazionale. Nel saggio 2 mi schiero contro l'idea, abbracciata nel saggio 1, che le espressioni proposizionali delle ragioni di un'azione siano correlate deduttivamente con la proposizione che corrisponde all'azione in quanto spiegata da quelle ragioni.
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Le teorie causali dell'azione vengono messe in crisi dalle azioni intenzionali che risultano contrarie al miglior giudizio dell'agente. Infatti, se le ragioni sono cause, è naturale supporre che le ragioni più forti siano le cause più forti. Nel saggio 2 difendo la tesi causale argomentando che la ragione causalmente più forte non deve necessariamente essere quella che secondo l'agente fornisce i motivi più forti (migliori) per agire. Saggio 3. In Essere agenti si domanda quale sia la relazione tra un agente e un evento, tale da rendere quell'evento un'azione. Viene respinto un certo numero di suggerimenti, e si avanzano svariate proposte per ridurre alcuni casi ad altri: si sostiene che azioni che non sono intenzionali diventano intenzionali dal punto di vista di altre descrizioni, e si argomenta che azioni che sembrano contenere conseguenze di azioni sono identiche alle azioni causanti. Ma non si dà risposta alla fondamentale richiesta di un'analisi della proprietà di essere agenti (e quindi, in base all'argomento, dell'azione). Saggio 4. Le teorie causali sono sempre state vulnerabili rispetto alla critica secondo cui esse non riescono a dare un'analisi accettabile dell'azione libera, o dell'esser liberi di compiere un atto. In· questo saggio tento di disinnescare alcuni argomenti che avrebbero dovuto mostrare che la libertà d'agire non può essere un potere causale. Ma critico anche diversi tentativi di analizzare tale potere, e concludo che sebbene la libertà d'agire sia un potere causale, tuttavia essa non può essere analizzata o definita, perlomeno senza far appello alla nozione di intenzione. In forza dell'intima connessione tra libertà d'agire e azione intenzionale, la conclusione di questo saggio contraddice un'osservazione ottimistica in una nota del saggio l, che auspicava, senza fornirla, la fissazione-di condizioni sufficienti per l'azione intenzionale (libera). Saggio 5. Quando scrissi il saggio l credevo che, fra i tre usi principali del concetto di intenzione distinti dalla Anscombe (agire con un'intenzione, agire intenzionalmente, e intendere di agire), il primo fosse quello basilare. Agire intenzionalmente - argomentavo nel saggio 1 - non è altro che agire con un'intenzione. Questo trascurava l'intendere, che in qualche modo pensavo sarebbe stato semplice com-
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prendere sulla base degli altri due concetti. Mi sbagliavo. Quando, finalmente, arrivai a lavorarci sopra, trovai che era il più difficile dei tre. Contrariamente a ciò che pensavo all'inizio, tale nozione finì per apparire come quella basilare, da cui dipendono le altre; e i progressi che feci riguardo ad e~sa inficiavano. in parte un tema fondamentale del saggio 1: cioè che «l'intenzione con cui l'azione è stata compiuta» non si riferisce ad alcuna entità o stato. Saggio 6. La forma logica degli enunciati d azione introduce un gruppo d~ cinque lavori sulla semantica degli enunciati contenenti verbi d'azione o in generale di mutamento, e degli enunciati (strettamente correlati) con sintagmi nominali che sembrano riferirsi a eventi o azioni. Nel saggio 1 parlavo con troppa disinvoltura di azioni secondo una descrizione o di due descrizioni della stessa azione, ma m'imbarazzava il fatto che la maggior parte degli enunciati riguardanti azioni non contenessero descrizioni o altri dispositivi che possano considerarsi come riferiti a un evento o a un'azione. Alcuni filosofi hanno ritenuto che questa digressione in questioni di forma logica fosse estranea alla teoria dell'azione, ma questo atteggiamento è rischioso. Infatti è chiaro, credo, che molte teorie dell'azione apparentemente attraenti rivelano confusioni di fondo quando vengono sottoposte a un attento esame semantico. Quando scrissi il saggio l, non mi era ancora sovvenuto che un enunCIato come «Eva mangiò la mela» non dovrebbe essere inteso come se contenesse un riferimento singolare a un evento: la sua forma logica è distinta da quella di «Ebbe luogo il mangiare la mela da parte di Eva», benché il secondo implichi effettivamente il primo. In appendice al saggio 6 ho inserito repliche dirette a vari suggerimenti e critiche rilevanti rispetto alla tesi che vi è sostenuta. li saggIo 7 applica la lezione del saggio 6 alla causalità. Il saggio 1 dipendeva largamente dal fatto che gli eventi possono essere descritti in modi logicamente indipendenti, così che le r~gioni e le azioni, descritte in modo tale da evidenziare l'intenzione con la quale l'azione è stata compiuta, possono non essere descritte in modo tale da suggerire leggi causali attendibili. Nondimeno, le ragioni e le azioni possono essere causa e effetto. Ma nel saggio 1 non avevo un'idea definita di J
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ciò che intendevo per descrizione d'un evento, e quindi neppure di quale potesse essere la forma logica degli enunciati causali singolari. Saggio 8. Secondo il dettato teorico del saggio 6, certe descrizioni di azioni o d'eventi, ammesso che siano referenziali, debbono riferirsi alla stessa cosa. Così, la maggior parte dei modificatori avverbiali non possono cambiare il riferimento delle espressioni che modificano; e (come ci si potrebbe aspettare: benché ciò venga contestato da certe attuali teorie) la sostituzione di termini singolari co-referenziali nella descrizione di un'azione o evento non può (tranne che in certi contesti) cambiare l'azione o l'evento cui si fa riferimento. Ma questi casi non toccano problemi di maggior interesse riguardo all'individuazione d'eventi in cui la logica di per sé non risulta decisiva. li saggio 8 è in larga misura dedicato a ulteriori criteri d'individuazione. In particolare esso introduce per la prima volta per iscritto (a quanto ne so) un enigma che da allora è stato oggetto di una quantità di discussioni: se A uccide B avvelenandolo, difficilmente si può negare che deve esserci un'uccisione che è identica a un avvelenamento. Ma un'uccisione implica una morte, la quale può aver luogo molto tempo dopo l'atto che l'ha causata. Allora come può l'avvelenamento essere identico all'uccisione?'''. Il-saggio 8 proponeva una risposta che ha ricevuto molte critiche e molte difese. La risposta mi sembra tuttora migliore delle alternative radicali, anche se ora penso che per qualche aspetto possa essere migliorata. I saggi 9 e lO difendono e elaborano l'ontologia dell'evento proposta nel saggio 6. Entrambi sono stati scritti in risposta a testi di Roderick Chisholm. I quattro lavori seguenti esplorano la funzione delle leggi nella spiegazione delle azioni e altri fenomeni psicologici. li saggio Il sostiene che, sebbene i fenomeni p'sicologici e fisici siano causalmente connessi, e sebbene ciò implichi che vi sono leggi rigorose a governare gli eventi in questione, tuttavia non vi sono leggi rigorose a governare eventi o stati descritti in termini psicologici. Nel corso della spiegazione di come ciò sia possibile,~ emerge una versione della teoria dell'identità che ho chiamato monismo anomalo. TI saggio 12 sviluppa ulteriormente gli argomenti contro la possibilità di leggi psicofisiche rigorose, e sottolinea l'im-
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portanza centrale di una concezione normativa della razionalità nell'attribuzione di credenze, intenzioni, desideri e altri atteggiamenti analoghi. Il saggio 13 solleva la questione di quanto si possa sperare di apprendere circa la psicologia del pensiero e dell'azione dai progressi della neurofisiologia, e giunge a conclusioni strettamente collegate a quelle dei saggi Il e 12. TI saggio 14, come il saggio 8, è stato scritto per celebrare le virtù intellettuali (e d'altro genere) di CarI HelI\pel. TI' saggio in questione, Hempel sulla spiegazione dellJazione, lo riconosce come uno dei primi fautori della concezione causale dell'azione, ma entra in discussione con lui sul ruolo delle leggi empiriche nella spiegazione delle azioni. ; Il saggio 15, sulla teoria dell'orgoglio in Hume, ·difehde l'analisi humiana di certe passioni e emozioni; in particol~re difende l'idea humiana secondo cui credere di avere, poniamo, una bella casa è una condizione causale rispetto all'orgoglio di avere una bella casa. Così come nel saggio 1 e nei successivi, argomento che il fatto che un evento o stato, descritto in un certo modo, abbia una certa causa può essere una verità necessaria. Se questo sia coerente o meno con l'analisi humiana della causalità, è un'altra questione; e a mio parere è una questione aperta. In ogni caso, se la concezione da me sostenuta della natura dell'orgoglio «proposizionale» e di altre simili emozioni è esatta, essa mostra che l'orgoglio, così come le azioni per cui può fornire una spiegazione, fa parte della catena causale che serve a spiegare e in qualche misura a giustificare le strutture umane del sentimento, del pensiero e del comportamento~ l
. Ho molte persone da ringraziare, tra cui in particolare Max Black, Michael Bratman, Joel Feinberg, Paul Grice, Stuart Hampshire, Gilbert Harman, CarI Hempel, M~rrill Hintikka, Georg Kreisel, Sue Larson, David Lewis, Harry Lewis, Mary Mothersill, David Nivison, David Pears,. Richard Reiss, Richard Rorty, Allison Ryan, David Sachs, J.J.C. Smart, P.F. Strawson, Patrick Suppes, lrving Thalberg, David Wiggins e Kathleen Wilkes. Akeel Bilgrami ha preparato la bibliografia del volume e ha fatto molto per migliorare il lavoro. Per parecchi dei saggi, il lavoro è stato sostenuto dalla National Science Foundation o dalla Guggenheim Foundation. Due dei saggi sono stati scritti nel corso di un anno presso il Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences a Stanford; uno è stato scritto mentre ero visiting fellow all'All Souls College di Oxford.
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Le Gavin David Young Lectures che ho tenuto .alI'Università di Addaide nd 1968 erano in gran parte basate su bozze di articoli pubblicati qui. Sono grato a molte persone che hanno commentato qudle lezioni, specialmente a Jack Smart, le cui vedute sulla relazione tra mentale e fisico, benché per certi versi diametralmente opposte alle mie, mi hanno alquanto stimolato a pensare. Gli sono grato anche per avermi segnalato un errore astronomico (astronomico nell'argomento, non nelle dimensioni). La maggior parte delle idee di questo libro sono state elaborate e messe alla prova discutendo con coloro ai quali, all'epoca, avrei dovuto far da insegnante. Danid Bennett ha fatto molto per spingermi a lavorare sull'argomento. La sua dissertazione - scritta, in teoria, sotto la mia direzione - mi ha aperto gli occhi su quanto accadeva a Oxford alla metà degli anni Cinquanta; egli ha avuto ancora influenza su di me quando, colleghi all'Università di Stanford, tenemmo un seminario congiunto sulla teoria dell'azione.. . John Wallace e io abbiamo discusso incessantemente su problemi di filosofia del linguaggio, dapprima quando era studente a Stanford, poi durante" un anno passato ad Atene, Corfù e Griindelwald, e infine quando eravamo colleghi alle Università di Princeton e Rockefeller. Le ideechiave dei saggi 6 e 7 sono nate da quelle conversazioni. Nel 1968 Nancy Hirschberg mi invitò a tenere una conferenza al dipartimento di psicologia dell'Università dell'nlinois a Champaign; uno dei risultati fu il saggio Il. Nell'elaborare gli ultimi cinque saggi sono stato guidato dalle sue conoscenze e dai suoi franchi consigli. li suo entusiasmo, la sua allegria e il suo affetto resero il lavoro divertente e il divertimento meraviglioso. n saggio 1, ActionsJ ReasonsJ and Causes, è stato presentato in un dibattito sul tema «Azione» al convegno dell'American Philosophical Association del 1963, e pubblicato in «Journal of Philosophy», 60 (1963 ). Una versione italiana di questo saggio è uscita in La spiegazione storica, a cura di R Simili, Parma, Pratiche, 1984. li saggio 2, How is Weakness 0/ the Will Possible?, è stato pubblicato originariamente in Moral Concepts, a cura di Joel Feinberg, Oxford Readings in Philosophy, 1970. Abbozzi del lavoro furono letti nel 1967 all'Annual Oregon Colloquium in Philosophy, dove ho potuto usufruire dei puntuali commenti di Donald G. Brown, e al Chapel Hill Colloquium in Philosophy, dove ho potuto ascoltare le penetranti critiche di Gilbert Harman. n saggio 3, Agenq, è stato presentato al quarto seminario filosofico tenuto alla University of Western Ontario nel novembre 1968, ed è stato pubblicato in Agent, Action andReason, a cura di Robert Binkley, Richard Bronaugh e Ausonio Marras, University of Toronto Press, 1971. Durante il seminario, James Cornman fece commenti sul lavoro, e la versione a stampa ha tratto profitto dai suoi consigli. n saggio 4, Freedom lo Act, è stato pubblicato originariamente in Essays on Freedom 0/Act;on, a cura di Ted Honderich, London, Routledge and Kegan Paul, 1973 (ristampato in edizione economica nel 1978). n saggio .5, Intending, è stato letto al primo J erusalem Philosophical J
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Encounter nel dicembre 1974, in cui Stuart Hampshire espose una vivace replica. Il mio testo e la sua replica sono stati pubblicati in Philosophy o/History and Action, a cura di Yirmiaku Yovel eD. Reidel, The Hebrew University, The Magnes Press, 1978. Una precedente versione era stata presentata al Chapel Hill Colloquium in Philosophy nell'ottobre 1974, dove ricevette un'approfondita disamina da parte di Pau! Grice. TI saggio 6, The Logical Form 01 Action Sentences, è stato presentato in una conferenza su «La logica della decisione e dell'azione» all'Università di Pittsburgh, nel marzo del 1966. E.J. Lemmon, H.N. Castaneda e R.M. Chisholm commentarono il lavoro, che fu, pubblicato, insieme ai loro commenti e alle mie repliche, in The Logic olDecision and Action, a cura di Nicholas Rescher, University ofPittsburgh Press, 1967. Le fonti dei materiali aggiuntivi alla fine del saggio sono indicate insieme ai materiali stessi. Il saggio 7, CausaI Relations, è stato presentato in un dibattito recante lo stesso titolo al convegno dell'American PhilosophicaI Association, Eastem Division, nel dicembre 1967; Zeno Vendler s'incaricò dei commenti. I nostri due testi furono pubblicati in «JournaI of Philosophy», 64 (1967). TI saggio 8, The Individuation 01 Events, è stato pubblicato in Essays in Honor 01 CarI G. Hempel, a cura di Nicholas Rescher e D. Reidel, Dordrecht, Reidel, 1969, pp. 216-34. David Kaplan aveva commentato una precedente stesura letta in un seminario alla University of California at Irvine nell'aprile 1967. Nella versione a stampa è incorporata una certa dose della sua saggezza. . I saggi 9 e lO, Events as Particulars e EternaI vs. Ephemeral Events furono originati da un dibattito sul tema degli eventi al convegno dell'American Philosophical Association, Western Division, nel maggio 1970. Roderick Chisholm presentò il primo lavoro, Events and Propositions; quest'ultimo e il saggio 9 vennero pubblicati per la prima volta in «Noiìs», 4 (1970), dalla Wayne State University, Detroit, Michigan. Subito dop~, Chisholm mi replicò in States 01 A!fairs Again, in «Noiìs», ; (1971), e io risposi con il saggio lO, sullo stesso numero di «Noiìs». TI saggio Il, Mental Events, è stato presentato in una serie di lezioni tenute da diversi filosofi alI'Università·del Massachusetts nel 1968-69. Le lezioni sono state pubblicate in Experience and Theory, a cura di Lawrence Foster e J.W. Swanson, Duckworth, The University of Massachusetts Press, 1970. . TI saggio 12, Psychology as Philosophy, è stato esposto in un dibattito sulla filosofia della psicologia all'Università del Kent nel 1970. TI lavoro è stato pubblicato, con commenti e repliche, in Philosophy o/Psychology, a cura di S.C. Brown, Macmillan - Bames & Noble, 1974, e viene riprodotto col permesso di The MacmilIan Press, London-Basingstoke e Barnes & Noble Books, New York. TI saggio 13, The Material Mind, è stato scritto in un caffè di Vienna, e presentato alla nona sezione (>.> De~cri vere un evento in base alla sua causa non significa confondere l'evento con la causa; né la spiegazione mediante ridescrizione esclude la spiegazione causale. L'esempio serve anche a confutare la pretesa che non si possa descrivere l'azione senza usare parole che la collegano alla causa supposta. Qui l'azione si deve spiegare attraverso la descrizione «il mio premere l'interruttore», e la causa supposta è «il mio voler accendere la luce». Quale relazione Ibidem, p. .52. Questo argomento si può trovare, in una o più versioni, in Kenny, Hampshire e Melden, come pure in P. Winch, The Idea o/a Social Science, London, Routledge and Kegan Paul, 19.58; e in R.S. Peters, TJ"e Concept o/Motivation, London, Roudedge and Kegan Paul, 19.58. In una delle sue forme, l'argomento è ovviamente ispirato alla trattazione dei motivi di Ryle in The Concept 0/ Mind. 13
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AZIONI, RAGIONI, CAUSE
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logica essenziale dovrebbe sussistere tra questi due sintagmi? Sembra più plausibile affermare un legame logico tra «il mio accendere la luce» e· «il mio voler accendere la luce»;·- ma anche qui, guardando meglio, il legame si rivela grammaticale _ piuttosto che logico. In ogni caso, c'è qualcosa di molto strano nell'idea che le relazioni causali siano empiriche piuttosto che logiche. Che cosa può voler dire? Di certo, non vuoI dire chè ogni asserto causale vero sia empirico. Infatti, supponiamo che , otteniamo: (14) (x) (x consiste nel fatto che S H x consiste nel fatto che
(j(y=y & S)
= j(y=y».
Sia ora «R» un qualunque enunciato materialmente equivalente a > e «j(y=y & R)>> si riferiscono alla stessa cosa. Sostituendo in (14) otteniamo: (15) (x) (x consiste nel fatto che S H x consiste nel fatto che j(y=y & R) = j(y=y»,
che conducè a (16) (x)' (x consiste nel fatto che S H x consiste ~el fatto che R)
una volta notata l'equivalenza logica di . Ricordando che l'unica assunzione è che )) oppure «C'è stato un evento caratterizzato dall'es16 Quanto al problema generale sollevato da Castaneda - se i verbi transitivi implichino i propri corrispettivi intransitivi in ragione della forma logica, e (correlativamente) se la trasposizione passiva sia questione di forma logica - mi schiererei oggi dalla par~e di Castaneda.
GLI ENUNCIATI D'AZIONE
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sere verso (o diretto a) la stella del mattino». Castaneda stesso propone «volare-verso», il che dimostra che capisce quale genere di verbo io abbia in mente. Ma naturalmente «volare-verso» come predicato non-strutturato non mi piace, perché recide il legame con «camminare-verso» e simili. Quanto al mio uso del semplice «verso», Castaneda lamenta la presenza di molti sensi differenti di «verso», a seconda del verbo cui è unito. Assumiamo di capire questa obiezione, con tutta la sua forte dipendenza dal concetto di «stessa relazione». Verrò incontro a Castaneda introducendo una forma speciale di «verso» per significare «moto-diretto-e-terminante-a»; questo è più geperale del suo «volare-verso» e meno generale del mio precedente semplice > alla seconda occorrenza di «Edipo»'A mio avviso, Castaneda ha ragione sia per quanto riguarda la critica, sia per quanto riguarda la correzione. Come egli osserva, c'è un irriducibile elemento dimostrativo nell'analisi completa degli enunciati intorno alle intenzioni, elemento· che era occultato dalla mia proposta. Qui dovrei forse notare che non credo che trasporre gli enunciati intorno all'intenzione nella forma «Fu intenzionale da parte di x che p» risolva il. problema della loro analisi; è ben noto come tali enunciati resistano alla sussunzione sotto una teoria semantica. Considero la trasposizione di tali enunciati in quella forma come un primo passo; così il problema,
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EVENTO E CAUSA
anche dopo la revisione di Castaneda, appare molto simile al problema del!'analisi degli enunciati intorno agli altri atteggiamenti proposizionali.
Risposta a Chisholm sul far accadere. Sono lieto di aver a , disposizione le attente osservazioni di Chisholm sulla parte del mio lavoro che riguardava le sue tesi; egli mi ha fatto capire che non avevo pienamente apprezzato la fine~za della sua analisi. A questo punto non mi è chiaro se vi siano fra noi disaccordi di sorta sui temi discussi dal mio lavoro. Formulerò le questi.oni che mi restano in mente così come le comprendo ora. Assumo che, non avendo egli tentato di analizzare gli enunciati sugli eventi in generale, e poiché il >; e ancora se sostituiamo «x-(x =x & Nerone suonava la cetra) =x(x =x)>> con illogicamente equivalente «Nerone suonava la cetra». Poiché l'unico asp.etto di «c'è stato un incendio» e «Nerone suonava la cetra» rilevante per questa catena argomentativa è la loro equivalenza materiale, sembra che i principi da noi assunti conducano alla conclusione che il connettivo principale di (2) è vero-funzionale, contrariamente a quanto ·avevamo ipotizzato4 • Poiché abbiamo già visto che il connettivo di (2) non può essere vero-funzionale, si ha la tentazione di sfuggire· al dilemma manipolando i principi di sostituzione che l'hanno prodotto. Ma c'è un'altra via d'uscita, secondo me di gran lunga preferibile: possiamo respingere l'ipotesi che (2) esprima la forma logica di (1), e con essa l'idea che il «causò» di (1) sia un connettivo enunciativo più o meno nascosto, e l'idea che le cause vengano espresse appieno solamente da enunciati. II Si considerino questi sei enunciati; È un fatto che Jack è caduto. Jack è caduto e Jack si è rotto la testa. Jack è caduto prima che Jack si rompesse la t~sta. Jack è caduto, il che ha fatto si [caused] che Jack si rompesse la testa. (7) Jones ha dimenticato il fatto che Jack è caduto. (8) Che J ack sia caduto spiega ilfatto che Jack si è rotto la testa. (3) (4) (5) (6)
Sostituendo gli enunciati subordinati con altri equivalen~
.. Questa argomentazione è strettamente collegata a quella formulata da Dagfinn F0llesdal (Quantification into Causai Contexts, in Boston Studies in the Philosophy 0/ Science, 2, a cura di R.S. Cohen e M. Wartofsky, Cambridge (Mass.), Mit Press, 1960, pp. 263-74) per dimostrare che la quantificazione senza restrizioni nei contesti causali conduce a delle difficoltà. La sua argomentazione è a sua volta un adattamento diretto di quella di Quine (Word and Object, Cambridge (Mass.), Mit Press, 1960,
RELAZIONI CAUSALI
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ti, o sostituendo i termini singolari o i predicati in essi con altri coestensivi, non si cambierà il valore di verità di (3) o di (4): qui regna l'estensionalità. In (7) e in (8) regna l'intensionalità, nel senso che un'analoga sostituzione degli enunciati contenuti, o alloro interno, non garantisce la conservazione del valore di verità. (5) e (6) sembrano essere casi intermedi: in essi infatti la sostituzione di termini coestensivi conserva la verità, ma la sostituzione di enunciati equivalenti non la conserva. Quest'ultimo, ad ogni modo, è un terreno malcerto, come abbiamo appena visto nel caso di (2), e quindi di (6). L'argomento di poco fa si può far valere altrettanto bene contro la tesi che il «prima» di (5) sia quel connettivo enunciativo che sembra essere. E naturalmente non interpreteremo «prima» come un connettivo enunciativo, ma piuttosto come una comune relazione a due posti, vera di .coppie ordinate di istanti; questo si ottiene introducendo ·un posto supplementare nei predicati (