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PATRICIA CORNWELL A RISCHIO (At Risk, 2006) Al Dottor Joel J Kassimir, un vero artista 1 È tutto il giorno che su Cambridge infuriano temporali autunnali, e in serata è previsto un peggioramento. Sotto pioggia, tuoni e lampi, Winston Garano (detto “Win”, o anche “Geronimo”) cammina a passo svelto lungo il lato est dello Harvard Yard. È senza ombrello e senza impermeabile, ha il completo Hugo Boss e i capelli fradici, e se li sente appiccicati addosso. Le scarpe di Prada sono zuppe e infangate, perché scendendo dal taxi ha messo i piedi in una pozzanghera. Oltre a questo, il tassista lo ha lasciato nel posto sbagliato: non al 20 di Quincy Street, di fronte allo Harvard Faculty Club, ma davanti al Fogg Art Museum. In realtà, l’errore è stato di Win. Quando è salito sul taxi al Logan International Airport, ha chiesto all’autista di portarlo allo “Harvard Faculty Club, vicino al Fogg”, pensando così di passare per uno studioso di arte e non per quello che è, ovvero un investigatore della polizia di Stato del Massachusetts che diciassette anni prima ha provato a iscriversi a Harvard ma non è stato ammesso. Grosse gocce gli tamburellano sulla testa come dita nervose quando si ferma sulla vecchia strada di mattoni del campus e guarda ansioso Quincy Street. Passano auto, biciclette, pedoni chini sotto l’ombrello. Sono privilegiati che si muovono disinvolti anche sotto la pioggia e nella nebbia, orientandosi alla perfezione. «Mi scusi» chiede Win a un ragazzo in giacca a vento nera e jeans sformati e scoloriti. «Posso farle un test di intelligenza?» «Eh?» fa il giovane imbronciato. Ha appena attraversato la strada e ha sulle spalle uno zainetto fradicio. «Dov’è il Faculty Club?» «Davanti a lei» risponde il ragazzo con inutile supponenza, dando per scontato che Win non sia nessuno perché, se fosse un docente o comunque
una persona importante, saprebbe dove si trova il Faculty Club. Win si dirige verso un elegante edificio in stile georgiano con il tetto di ardesia e una terrazza piena di ombrelloni bianchi zuppi di pioggia. È quasi buio e le finestre sono illuminate. Il rumore delle fontane si mescola a quello dell’acquazzone. Win si avvicina alla porta e si ravvia i capelli bagnati. Appena entrato, si guarda intorno come se si trovasse sul luogo di un delitto, prendendo mentalmente nota di tutto. Osserva quello che un secolo fa doveva essere il salotto di un ricco aristocratico, i rivestimenti di mogano alle pareti, i tappeti persiani, le lampade di ottone, le antiche locandine di spettacoli teatrali, i dipinti a olio e la scala di marmo che porta a stanze in cui lui probabilmente non verrà mai ammesso. Si siede su un rigido divano antico e guarda l’ora sull’orologio a pendolo: è in perfetto orario. Il procuratore distrettuale Monique Lamont, detta “Money Lamont”, la donna che decide della sua vita professionale, non è ancora arrivata. Nel Massachusetts la procura distrettuale ha giurisdizione su tutti gli omicidi e dispone di una sua squadra di investigatori, messi a disposizione dalla polizia di Stato. Monique Lamont sceglie i suoi detective personalmente. E li manda via come e quando vuole. Tratta Win come se le appartenesse. E i suoi comportamenti sono lì a ricordarglielo. Questa è l’ultima delle sue manovre politiche, la peggiore, dettata - secondo Win - dalle sue manie di grandezza, da un bisogno di controllo irrefrenabile, da un’ambizione smisurata. Lo ha spedito di punto in bianco nel Tennessee, a Knoxville, perché frequentasse un corso alla National Forensic Academy. Il motivo ufficiale è l’aggiornamento: Monique ritiene indispensabile che la propria squadra di investigatori sia al corrente degli ultimi sviluppi nelle scienze forensi e delle nuove tecniche di repertamento. “Sarebbe un peccato compromettere le indagini contaminando le prove o trascurare analisi risolutive ma poco note” gli ha detto. Win non ha capito perché Monique Lamont abbia insistito per mandare proprio lui alla National Forensic Academy, invece di un criminologo della Scientifica. Ma è inutile opporsi al volere del procuratore distrettuale. Quando ha preso una decisione, Monique Lamont non dà ascolto a niente e nessuno. Win si guarda le scarpe bagnate, pagate ventidue dollari in un negozio di abiti usati che si chiama Hand Me Ups. Nota che la pioggia gli ha macchiato il completo grigio costatogli centoventi dollari sempre nello stesso negozio, dove effettua i suoi acquisti perché vende roba firmata a prezzi stracciati. E in
ottime condizioni: abiti indossati una volta o due da ricchi viziati e volubili, o da persone che si sono improvvisamente ammalate e sono morte. Mentre aspetta, Win si domanda per l’ennesima volta che cosa sia successo di tanto importante perché Monique Lamont lo abbia mandato a chiamare da Knoxville. Stamattina, durante una lezione, gli ha telefonato il suo segretario, Roy, un uomo insulso e arrogante, e gli ha ordinato di prendere il primo volo per Boston. “Perché?” ha chiesto Win. “Perché così vuole il procuratore” ha replicato lui. Monique Lamont esce dal bagno privato annesso al suo ufficio nella sede della procura distrettuale di Cambridge. A differenza di molti suoi colleghi non colleziona mostrine e distintivi dei corpi di polizia di tutto il mondo, e non appende ai muri armi d’epoca e foto dei suoi più celebri predecessori. Chi prova a farle un regalo del genere capisce subito di aver sbagliato, perché Monique Lamont non si fa scrupolo di manifestare il proprio disappunto. E di rendere noto a tutti l’amore per vetri e cristalli. Colorati, smerigliati, di Murano, di Boemia, antichi, moderni. Quando c’è il sole, il suo ufficio riflette ovunque iridi, che occhieggiano e brillano sulle pareti, ipnotiche. Si dice che i suoi ignari visitatori prima vedano l’arcobaleno e dopo vengano investiti dalla tempesta. «Non sono d’accordo.» Monique Lamont riprende il discorso dove l’aveva interrotto e si risiede all’imponente scrivania con il piano di cristallo. Nonostante la trasparenza, non rinuncia alle gonne corte. «Non voglio altri stupidi video sulla pericolosità del mettersi alla guida ubriachi. Non riusciamo a trovare idee un po’ più originali?» «La settimana scorsa, a Tewksbury, tre ragazzini sono rimasti orfani per colpa di un ubriaco al volante che ha investito i loro genitori» le fa notare Roy, mentre le guarda le gambe senza farsi accorgere. «Mi sembra un tema leggermente più sentito, rispetto a un omicidio avvenuto un sacco di tempo fa in una sperduta cittadina del Sud...» «Roy!» Monique Lamont accavalla le gambe e gli lancia un’occhiataccia. «Avrebbe potuto essere tua madre...» «La prego, Monique.» «Diresti così, se fosse stata tua madre?» Il procuratore si alza in piedi e comincia a passeggiare per la stanza, sperando che smetta di piovere. Detesta
la pioggia. «Come ti sentiresti se la tua povera mamma fosse stata picchiata selvaggiamente e lasciata a morire nella propria casa?...» «Per favore, Monique! Non è questo il punto. Secondo me, piuttosto, dovremmo scegliere un caso avvenuto qui nel Massachusetts. Ne abbiamo già parlato...» «Non capisci, Roy. Se grazie a uno dei nostri detective riusciamo a risolvere un vecchio caso di...» «Sì, lo so: l’iniziativa avrà risonanza nazionale.» «Potremo proporci come gli unici in grado di aiutare i meno fortunati, i meno... insomma, i meno tutto. Prendiamo vecchi reperti, li sottoponiamo a nuove analisi e...» «... e facciamo fare una splendida figura al nostro amico Huber. Saranno lui e il governatore ad avere il maggior ritorno di immagine, Monique. Sbaglia, se pensa di averlo lei.» «Non credo proprio. Anche perché tu, Roy, mi darai una mano.» Si interrompe, e in quel momento - forse per caso o forse no - la porta del suo ufficio si apre. Entra il suo assistente, senza bussare. È il figlio di Huber, Toby. Monique si chiede per un attimo se stesse origliando, poi decide che la porta è spessa e non lascia passare alcun suono. «Toby!» lo riprende. «Non ti ho sentito bussare neanche stavolta. Che stia diventando sorda?» «Mi scusi, procuratore. Ero soprappensiero.» Tira su con il naso e scuote la testa completamente rasata. Sembra un po’ alterato. «Volevo solo dirle che me ne sto andando.» Ecco, bravo. Non tornare. «Lo so.» «Ci vediamo lunedì, allora. Se ha bisogno di me, sono a Martha’s Vineyard. Mio padre sa dove rintracciarmi.» «Hai finito quello che dovevi fare?» Toby tira di nuovo su con il naso. Monique sospetta che si faccia di coca. «Tipo?» «Tipo sbrigare le pratiche che avevi sulla scrivania» risponde stizzita, tamburellando con la penna d’oro sul blocnotes. «Ah, sì, certo. La mia scrivania è bella sgombra. Ci ho passato persino lo strofinaccio.» Fa una smorfia, lasciando trasparire l’antipatia che prova per lei, saluta e chiude la porta.
«Assumendo quel deficiente ho commesso un grave errore» dice Monique con un sospiro. «Mai fare favori a un collega.» «Mi sembra che comunque lei abbia già deciso» riprende Roy. «E le ripeto che secondo me è un grosso sbaglio. Un errore potenzialmente fatale.» «Smettila, Roy. Piuttosto, avrei proprio voglia di un caffè.» Il governatore Miles Crawley è seduto sul sedile posteriore della sua limousine nera, senza guardie del corpo che possano sentire quello che dice al telefono. «Chi è troppo sicuro di sé rischia di commettere dei passi falsi» protesta, guardandosi i calzoni del gessato e le scarpe nere perfettamente lucidate. «E se qualcuno parlasse? In ogni caso, non dovremmo discutere di questi argomenti...» «Il qualcuno in oggetto non aprirà bocca, questo è certo. E io non commetto passi falsi.» «Di certo a questo mondo ci sono solo la morte e le tasse» replica il governatore, criptico. «In questo caso la sicurezza è assoluta, glielo garantisco. Chi sa dov’è? Chi l’ha perso? Chi l’ha nascosto? E comunque, chi fa la brutta figura?» Il governatore guarda dal finestrino le luci di Cambridge che brillano nel buio. È perplesso, pensa che forse avrebbe fatto meglio a non lasciarsi coinvolgere. Poi dice: «Ora che la stampa è al corrente, non si può più tornare indietro. Spero per lei che vada tutto bene. Perché in caso contrario sarà con lei che me la prenderò. È stata un’idea sua». «Mi creda, sarà la sua fortuna.» Il governatore avrebbe proprio bisogno di un po’ di fortuna. Non va d’accordo con sua moglie, ha mal di pancia e sta andando all’ennesima cena. Una cena di gala al Fogg Art Museum, dove avrà modo di ammirare alcuni Degas e fare un paio di commenti sul grande pittore, per ricordare a filantropi e appassionati di storia dell’arte che anche lui è un uomo di cultura. «Preferisco chiudere qui il discorso» dice. «Mi ascolti, Miles...» Il governatore detesta essere chiamato per nome, anche da chi conosce da molto tempo. Preferisce essere chiamato “governatore”. Un domani, forse, “senatore”. «Le assicuro che alla fine mi ringrazierà...»
«Basta così!» taglia corto Crawley in tono severo. «Le ho detto che preferisco non parlarne più.» Chiude la comunicazione e si rimette il cellulare nella tasca della giacca. La limousine si ferma davanti al museo e Crawley aspetta che la sua scorta si posizioni, prima di scendere e dare il via alla performance politica della serata. Sua moglie non l’ha accompagnato, maledetta lei e i suoi mal di testa. Per fortuna si è fatto raccontare qualcosa su Degas un’ora prima, almeno sa che è francese e sa pronunciarne correttamente il nome. Monique si ferma davanti alla finestra a guardare la pioggia, sorseggiando il caffè che sa di bruciato. «I giornalisti hanno già cominciato a chiacchierare» dice Roy, in tono di avvertimento. «Era quello che volevamo, no?» replica Monique. «Dobbiamo mettere a punto una strategia per contenere i danni...» «Ti prego, Roy, non ne posso più di questi discorsi!» “Che vigliacco! È proprio un uomo senza palle” si dice, dandogli le spalle. «Mi scusi, ma come può pensare che un’idea di Crawley possa mettere in buona luce lei?» «Se vogliamo cinquanta milioni di dollari per un nuovo laboratorio forense, dobbiamo spiegare ai cittadini a che cosa ci servono nuove tecnologie, ricercatori preparati, attrezzature sofisticate, il più grosso database del DNA di tutti gli Stati Uniti e forse del mondo. Risolviamo un caso che nel vecchio Sud è rimasto aperto vent’anni e diventiamo degli eroi. Meritevoli di ingenti finanziamenti.» «Non si lasci influenzare da Huber, come direttore del laboratorio forense ha tutto l’interesse a convincerla a esporsi in questo modo. Lui non ci rimette niente. È lei a correre dei rischi, Monique.» «Non capisci la grandezza dell’idea. Perché?» ribatte Monique frustrata, guardando la pioggia che cade incessantemente da quella mattina. «Perché il governatore Crawley la odia» insiste Roy tranquillo. «Non le sembra strano che voglia mandare avanti lei?» «No. Sono il procuratore distrettuale più noto del Commonwealth, sono una donna e lui ha bisogno di nascondere il suo animo bigotto e maschilista.» «Lei è in lizza per la sua poltrona, Monique. Se il progetto dovesse andare male, sarà lei a farne le spese. Farà la fine del generale Robert E. Lee e sarà
costretta alla resa.» «Crawley non è Ulysses S. Grani Win è in gamba, andrà tutto bene.» «Io non ne sarei tanto sicuro.» Monique smette di passeggiare per la stanza e osserva Roy mentre sfoglia un taccuino. «Lo conosce bene?» chiede lui. «So che è il miglior investigatore della squadra. Sotto il profilo politico, è un’ottima scelta.» «È un uomo vanitoso, ha la mania dei vestiti firmati» dice Roy, leggendo i propri appunti. «Gira in Hummer e Harley: non si sa come faccia a permettersele. Ha persino un Rolex.» «Un Breitling, in titanio. Probabilmente l’avrà preso usato, come tutti i suoi abiti griffati.» Roy alza gli occhi stupito. «Come fa a sapere che compra nei mercati dell’usato?» «Ho occhio per le cose belle. Una mattina gli ho chiesto come faceva a permettersi cravatte di Hermes come quella che portava quel giorno e lui mi ha confessato che acquista tutto di seconda mano.» «È un ritardatario cronico.» «Chi lo dice?» Roy sfoglia il blocco e scorre una pagina con il dito, muovendo le labbra mentre legge. Monique lo osserva e pensa che il mondo è pieno di imbecilli. «Etero» continua Roy. «Almeno, questo è un lato positivo.» «In realtà, per la nostra immagine non sarebbe male se il nostro uomo di punta fosse omosessuale. Che cosa beve di solito?» «Be’, non è gay» ribadisce Roy. «Anzi, è uno sciupafemmine.» «Chi lo dice? Ti ho chiesto qual è il suo drink preferito.» «Roy si interrompe, confuso. «Non ha problemi di alcol, se è questo che intende.» «Non è questo che intendo. Voglio sapere se preferisce vodka, gin, birra...» Monique sta per perdere la pazienza. «Non ne ho la più pallida idea.» «Be’, allora telefona al suo amico Huber e chiediglielo, prima che io vada al Faculty Club.» «Certe volte non la capisco proprio, Monique.» Roy ritorna ai suoi appunti. «Narcisista.»
«Se fossi bello come lui, saresti narcisista pure tu» replica lei sorridendo. «Egocentrico, immaturo. Sentisse come ne parlano i suoi colleghi!» «Sento come ne parli tu.» Monique pensa a Win, che ha un fisico scultoreo, la pelle scura, i capelli neri e mossi e uno sguardo straordinariamente penetrante. Ha spesso la sensazione che quell’uomo le sappia leggere nel pensiero, che intuisca cose che nemmeno lei conosce di se stessa. Ed è anche fotogenico come un attore. «Probabilmente i suoi unici lati positivi sono che ha un bell’aspetto e che rappresenta una minoranza etnica» continua Roy, a disagio. «Mulatto, mezzosangue.» «Che cosa hai detto?» Monique lo guarda male. «Farò finta di non aver sentito.» «Come lo definirebbe lei, mi scusi? Non è né nero né bianco.» «Non lo definirei. Punto e basta.» «Afroitaliano» si risponde da solo Roy, continuando a sfogliare il notes. «Padre nero, madre italiana, morti quando lui era piccolo. Intossicazione da monossido di carbonio. Stufa difettosa: vivevano in una catapecchia. Ha preso il cognome della madre, Garano. Possiamo immaginare il perché.» Monique prende l’impermeabile dall’attaccapanni dietro la porta. «Non so con chi sia cresciuto, a chi fu affidato. Parenti prossimi ignoti: la persona da contattare in caso di emergenze è un certo Farouk. Pare sia il suo padrone di casa.» Monique prende le chiavi della macchina dalla borsetta. «Meno si sa di lui, più si parlerà di me» commenta. «La sua storia non interessa a nessuno, la mia sì. Ho fatto parecchie cose nella vita, ho raggiunto ottimi risultati. Ho preso posizioni precise in fatto di criminalità. In passato e per il futuro.» Esce «Contro il crimine: passato, presente e futuro.» «Già» dice Roy seguendola. «Sarebbe un ottimo slogan.» 2 Monique Lamont chiude l’ombrello e si sbottona il lungo impermeabile nero. Vede Winston Garano seduto su un divano antico duro come un’asse di legno. «Spero di non averla fatta attendere molto» si scusa.
In realtà non gliene importa niente: se non avesse voluto disturbarlo non lo avrebbe mandato a chiamare con urgenza dalla National Forensic Academy, non gli avrebbe sconvolto l’esistenza, come invece fa d’abitudine. Ha un sacchetto di plastica con il logo di un’enoteca. «Ho finito tardi una riunione e il traffico era incredibile.» Giustifica così i suoi quarantacinque minuti di ritardo. «Non si preoccupi, sono appena arrivato.» Win si alza. Le gocce di pioggia sulla sua giacca si stanno asciugando, a dimostrazione che quello che ha detto è una bugia. Monique si toglie l’impermeabile. È difficile non notare che cosa c’è sotto. I suoi tailleur sono sempre squisitamente femminili e attillati. È un peccato che madre natura abbia donato tanta bellezza proprio a lei. Sembra francese, come il nome che porta, è mora e pericolosamente sensuale. In condizioni diverse, se Win si fosse laureato a Harvard e Monique fosse stata meno egoista e spietata, probabilmente sarebbero già finiti a letto. Lei guarda la sacca da ginnastica di Win e aggrotta le sopracciglia: «La sua è una mania, vedo. È riuscito ad andare in palestra nonostante il viaggio?». «No, è il mio bagaglio.» Sposta la sacca nell’altra mano, attento a non far tintinnare i fragili oggetti che contiene, che un duro come lui non dovrebbe portarsi appresso, specie a un incontro con una donna tosta come Monique Lamont. «Vuole lasciarlo al guardaroba? È laggiù. Dentro non ci sono pistole, vero?» «No, solo una mitraglietta uzi. È l’unica arma da fuoco consentita a bordo degli aerei, ormai.» «Me lo appende, già che va?» Gli porge l’impermeabile. «Questa è per lei.» Win prende il sacchetto, ci guarda dentro e vede una bottiglia di Booker’s in una scatola di legno. È un bourbon costoso, il suo preferito. «Come faceva a sapere che?...» «Ci tengo, a essere informata sulle abitudini del mio staff. Lo trovo importante.» A Win dà fastidio essere definito “il mio staff” «Grazie» mormora. Posiziona con cura la sacca su una delle mensole più alte del guardaroba e segue Monique nella sala da pranzo. I tavoli hanno la tovaglia immacolata e una candela accesa, i camerieri indossano la giacca bianca. Mentre si acco-
moda con Monique a un tavolo appartato, Win cerca di non pensare agli aloni che la pioggia gli ha lasciato sul completo e alle scarpe infangate. Fuori è buio e i lampioni lungo Quincy Street occhieggiano tra la nebbia e la pioggia. Le altre persone nel locale sono impeccabili, disinvolte: probabilmente hanno studiato lì, insegnano lì, appartengono ai circoli che Monique frequenta abitualmente. «”A Rischio”» esordisce il procuratore distrettuale. «La nuova iniziativa del nostro governatore, che mi coinvolge in prima persona.» Prende il tovagliolo e se lo sistema in grembo. Quando si avvicina il cameriere, ordina: «Un bicchiere di sauvignon blanc. Quello sudafricano, che ho preso anche la volta scorsa. E una bottiglia di acqua minerale frizzante». «Per me un tè freddo, grazie» dice Win. «Che tipo di iniziativa?» «Sicuro di volere solo un tè? Non faccia complimenti» lo invita Monique con un sorriso. «Non è il caso, stasera.» «Okay. Allora un Booker’s.» Rivolto al cameriere, specifica: «Con ghiaccio». «Il DNA è vecchio come il mondo» comincia Monique. «E attraverso il DNA ancestrale possiamo identificare assassini a cui in passato non si è riusciti a dare un nome. Lei è al corrente della ricerca che stanno svolgendo certi laboratori?» «Si riferisce al DNA Print Genomics di Sarasota? Ho letto che sono riusciti a identificare qualche serial killer del passato...» Lei lo interrompe. «Attraverso campioni biologici senza alcuna corrispondenza nei database. Grazie alle nuove tecnologie, adesso siamo in grado di scoprire molto da essi. Per esempio, che appartengono a un individuo di sesso maschile, europeo all’ottantadue per cento e pellerossa al diciotto, che pertanto avrà un certo colore di pelle, occhi e capelli...» «”A Rischio”? Non capisco il significato di questo nome.» «A me sembra chiarissimo. Se abbiamo a disposizione più strumenti per catturare gli assassini, la nostra società è meno a rischio. Ho pensato io al nome, sono io la responsabile. Oltre che del nome, anche del progetto. Al quale intendo dedicarmi con impegno.» «Con tutto il rispetto, Monique, non poteva semplicemente scrivermi un’email? Doveva per forza farmi venire fin qui dal Tennessee per parlarmi di un’iniziativa del govern...» «Sarò sincera, al limite della brutalità» lo interrompe lei.
«Lei è sempre brutale» ribatte Win con un sorriso. Arriva il cameriere e serve Monique come se fosse una regina. «Lei è un uomo intelligente, Win. E ha delle potenzialità dal punto di vista mediatico.» Non è la prima volta che a Win viene voglia di dimettersi dalla polizia del Massachusetts. Assaggia il bourbon e rimpiange di non averlo ordinato doppio. «Si tratta di un omicidio commesso vent’anni fa a Knoxville...» «A Knoxville?» Il cameriere vuole sapere che cosa desiderano mangiare. Win non ha nemmeno aperto il menu. «Io prendo la bisque» dice Monique. «E poi del salmone. Mi porti un altro bicchiere di sauvignon, per cortesia. Al signore, invece, porti quel delicato pinot dell’Oregon.» «Per me una bistecca al sangue» ordina Win. «E un’insalata con aceto balsamico. Niente patate, grazie. Mi faccia capire, Monique: prima mi manda a Knoxville a seguire un corso e casualmente, poco dopo, decide di risolvere il caso di un omicidio commesso vent’anni fa proprio lì?» «Una donna anziana, ammazzata di botte, presumibilmente da un ladro sorpreso a rubare» continua Monique. «O nel corso di uno stupro, visto che era mezza nuda.» «Liquido seminale?» Si morde la lingua, ma è inevitabile: manovra politica o meno, i casi irrisolti lo incuriosiscono comunque. «Non conosco i particolari.» Monique prende dalla borsa una busta e la porge a Win. «Perché proprio a Knoxville?» Per Win è importante avere una risposta. Si sta facendo prendere dalla paranoia. «Avevo bisogno di un omicidio e di una persona in gamba a cui affidare le indagini. Visto che lei è a Knoxville, ho controllato se lì si erano verificati casi interessanti. Così ho trovato questo, che all’epoca pare abbia destato scalpore ma che poi è stato quasi completamente dimenticato.» «Ci sono un sacco di casi irrisolti anche nel Massachusetts» ribatte Win. La guarda, la scruta, cerca di capire. «Questo dovrebbe essere un caso facile.» «Non credo, visto che è ancora aperto.» «Presenta tutta una serie di vantaggi. Primo fra tutti che un eventuale falli-
mento sarebbe meno devastante là che qua» risponde Monique. «L’idea è questa: lei è a Knoxville a frequentare un corso della National Forensic Academy, sente parlare di questo caso e ci propone di dare una mano alla polizia del Tennessee, visto che abbiamo la possibilità di fare questa nuova prova del DNA. Noi accettiamo e...» «Mi sta chiedendo di mentire, Monique?» «No, solo di essere un po’ più diplomatico» replica lei. Win apre la busta e fa scivolare sul tavolo fotocopie di articoli di giornale, referti dell’autopsia e degli esami di laboratorio. Sono di pessima qualità, probabilmente fotocopiati da microfilm. «La scienza. Se è vero che esiste “il gene di Dio”, forse esiste anche quello del diavolo» aggiunge Monique, che ama essere ironicamente provocatoria. E parlare per enigmi. «Io cerco il diavolo che riuscì a non farsi prendere, lo voglio identificare attraverso il DNA ancestrale.» «Non capisco perché non si rivolga direttamente al laboratorio di Sarasota, visto che ha già una certa esperienza in questo genere di cose.» Win legge velocemente la fotocopia del referto autoptico. «Vivian Finlay, residente a Sequoyah Hills. Bel quartiere: le case sul lungofiume appartengono alle famiglie più ricche della città. Vanno dal milione di dollari in su. Come l’hanno ridotta, poveraccia!» Nella busta che gli ha dato Monique non ci sono fotografie, ma da un referto si possono capire molte cose. Per esempio che la morte di Vivian Finlay non fu istantanea, perché c’era risposta tessutale. La vittima presentava ferite lacerocontuse soprattutto al volto, con tumefazione degli occhi. Il cuoio capelluto risultava lacerato in più punti, il cranio sfondato con un corpo contundente che aveva almeno una superficie arrotondata. «Se vuole risolvere il caso con la prova del DNA, immagino che i reperti siano stati conservati. Dove?» domanda Win. «So soltanto che all’epoca li esaminò l'FBI.» «L’FBI? Perché?» «No, forse mi confondo con il TBI.» «Il Tennessee Bureau of Investigation?» «Precisamente. Non penso che si facesse la prova del DNA, allora.» «No, infatti. Erano i tempi bui in cui si usavano sierologia e tipizzazione AB0. Dove sono conservati i reperti e in che cosa consistono?» riprova Win.
«Indumenti macchiati di sangue. A quanto ho capito, sono stati nei depositi della polizia di Knoxville fino a poche settimane fa, quando sono stati inviati al laboratorio californiano.» «Quale laboratorio californiano?» «Se ne è occupato Huber.» Win indica le fotocopie sul tavolo e domanda: «La documentazione è tutta qui?». «Pare che nel frattempo l’Istituto di medicina legale di Knoxville si sia trasferito e i vecchi archivi siano stati spostati chissà dove. Questo è tutto ciò che Toby è riuscito a recuperare.» «Che è riuscito a fotocopiare dai microfilm dell’Istituto di medicina legale, vuole dire. Non mi pare si sia dato molto da fare...» commenta Win sarcastico. «Non so perché si sia presa come assistente quell’incapace.» «Lo sa benissimo, invece.» «Huber è intelligente, mi chiedo come abbia fatto a mettere al mondo un figlio così stupido. Stia attenta a fare certi favori al direttore del laboratorio forense, comunque: potrebbero essere male interpretati.» «Non ho bisogno dei suoi consigli, grazie» gli risponde Monique irritata. «Huber le deve molto, ora che lei ha assunto suo figlio.» «E va bene, lo ammetto» dice Monique guardandolo negli occhi. «Toby è un disastro. Ho fatto male a farlo venire a lavorare in procura.» «Mi serve il verbale della polizia. Non è che nel corso delle sue ardue ricerche quel disastro di Toby se ne è procurato una copia?» «Ci pensi lei, per favore, quando torna a Knoxville. Toby è in ferie.» «Povero ragazzo... con tutto il lavoro che fa, avrà certo bisogno di un po’ di riposo.» Monique osserva il cameriere che arriva con un vassoio d’argento e i due bicchieri di vino e dice: «Sono sicura che il pinot le piacerà». Win lo fa roteare nel bicchiere, ne annusa il profumo e lo assaggia. «Mi ha mandato lei a seguire questo corso della National Forensic Academy. La Harvard delle scienze forensi, come l’ha definita. Ho ancora un mese di lezioni, se ne è dimenticata?» «Nessuno le ha detto di piantare lì. Anzi, così farà fare una bella figura anche all’NFA.» «Capisco. Vuole che lavori di notte.» Beve un sorso di vino. «Lei sta usando la National Forensic Academy, il dipartimento di polizia di Knoxville e
me per i suoi scopi politici. Mi dica, Monique» aggiunge poi, sapendo di osare un po’ troppo «le importa qualcosa di quella vecchietta massacrata di botte?» «I giornali ne parleranno: “Capace investigatore della polizia del Massachusetts aiuta i colleghi di Knoxville a risolvere un caso di vent’anni fa. Ha finalmente un nome l’assassino dell’anziana donna massacrata nella propria villa per un pugno di monete”.» «Un pugno di monete?» «È su uno degli articoli che le ho fotocopiato, Win» dice Monique. «La signora Finlay collezionava monete d’argento. Le teneva in una piccola cassaforte in camera da letto. È l’unica cosa che mancava dalla casa.» Quando escono dal Faculty Club piove ancora. Percorrono il vialetto di mattoni fino in Quincy Street. «Dove andiamo, adesso?» chiede Monique, riparandosi sotto un grosso ombrello nero. Win nota le dita affusolate che stringono il manico di legno dell’ombrello, le unghie squadrate e senza smalto, il grosso Breguet d’oro bianco con il cinturino nero di coccodrillo e l’anello di Harvard. Monique Lamont è procuratore distrettuale e occasionalmente tiene dei corsi alla facoltà di giurisprudenza, ma è anche ricca di famiglia. Molto ricca. A quanto Win ha sentito, abita in un’antica villa vicino a Harvard Square. La sua Range Rover verde è parcheggiata sul lato opposto del marciapiede. «Grazie, vado a piedi fino alla piazza e poi prendo un taxi» risponde Win, come se lei gli avesse offerto un passaggio. «Magari faccio un giro lungo il Charles River, vedo se al Regattabar stasera fanno jazz. Le piace Coco Montoya?» «Stasera proprio no.» «Non so nemmeno se suona, stasera.» Win non la stava invitando. Monique si infila le mani in tasca, spazientita, alla ricerca di qualcosa. Dice: «Mi tenga aggiornata, Win. Mi raccomando». «Farò tutto quello che i reperti mi consentiranno. E mi fermerò quando questi non mi consentiranno di andare oltre.» Monique fruga nella borsa con aria esasperata. «Non vorrei dire» aggiunge Win sotto la pioggia che gli bagna i capelli e
gli entra nel collo «ma non vedo a cosa servirà questa iniziativa “A Rischio”, se non riusciremo a risolvere il caso.» «Nella peggiore delle ipotesi, otterremo un profilo del DNA ancestrale e dichiareremo che il caso è stato riaperto grazie a esso. Mi sembra comunque una notizia da prima pagina. Non ammetteremo mai di non essere riusciti a risolvere il caso, al massimo diremo che stiamo continuando a indagare. Finito il corso, lei tornerà al suo lavoro e nel giro di un po’ di tempo tutti si dimenticheranno di nuovo della povera vecchietta...» «E lei verrà eletta governatore» la interrompe Win. «Non sia così cinico. Non sono la fredda calcolatrice che lei immagina. Uffa, ma dove ho messo le chiavi?» «Le ha in mano.» «No, quelle di casa.» «Vuole che l’accompagni, per sicurezza?» «Ne ho un mazzo di riserva in una cassetta blindata vicino alla porta di servizio» dice lei. E si allontana sotto la pioggia. 3 Win guarda la strada, la gente che cammina sui marciapiedi, le auto che passano schizzando acqua dalle pozzanghere, Monique Lamont che si immette nel traffico. Va verso la piazza, dove bar e caffè sono affollatissimi, nonostante il tempaccio. Entra da Peet’s e si fa largo tra la calca, composta soprattutto da studenti, privilegiati, pieni di sé. Ordina un latte macchiato da portare via. La cameriera lo guarda sfacciatamente, poi arrossisce. Capita spesso che le donne lo guardino così, e in genere a Win piace, lo lusinga. Ma stasera no. Stasera non riesce a smettere di pensare a Monique Lamont e a come lei lo fa sentire. Esce in Harvard Square, dove passa il treno della Red Line. La maggior parte dei passeggeri è costituita da turisti, ignari che Harvard è qualcosa di più di un college. Passeggia per John F. Kennedy Street abbagliato dai fari delle macchine, e la pioggia che attraversa i loro aloni di luce gli ricorda i disegni della pioggia dei bambini, lunghi tratti di matita nera. Ripensa ai suoi disegni di bambino e si rammarica di ritrarre ormai soltanto scene di crimini. «Mi porti in Tremont Street all’altezza di Broadway, per favore» dice al tassista salendo sul sedile posteriore e sistemando con attenzione la sua sacca
da ginnastica. Il tassista è una testa che parla senza voltarsi, con un marcato accento mediorientale. «Tray-mond Street? Dov’è?» «Tre-mont Street, all’altezza di Broadway. Se non sa la strada accosti pure che scendo.» «Tray-mont, ha detto. Da che parte è?» «Vicino a Inman Square» risponde Win alzando la voce. «Intanto mi porti lì. Se poi non trova Tremont Street, ci vado a piedi e non le pago la corsa.» Il tassista inchioda, si volta e lo guarda male. «Se non vuole pagare, scenda.» «Lo vede questo?» risponde Win tirando fuori il distintivo della polizia del Massachusetts e sbattendolo sulla faccia dell’autista. «Vuole prendere multe per i prossimi cinque anni? Ho visto che ha il bollo scaduto e una delle luci posteriori è bruciata. Lo sapeva? Mi porti a Broadway. Dov’è il City Hall Annex lo sa, almeno? Da là le do indicazioni io.» Il tassista riparte. Non parlano. Win tiene le mani strette in grembo perché ha appena cenato con Monique Lamont, che ambisce a diventare governatore, ma vuole che lui faccia fare bella figura all’attuale governatore Crawley, il quale intende ricandidarsi alle elezioni, per fare bella figura lei. Cristo, la politica... A Crawley e a Monique Lamont non frega assolutamente niente di quella poveretta massacrata di botte nel Tennessee. Vogliono solo fare bella figura, tutti e due. Più pensa a queste cose, più si arrabbia. Ci mancava solo un tassista che non sa la strada. «Ecco, alla prossima svolti a destra» dice Win. «Questa è Tremont Street. Okay, adesso a sinistra. Va bene, mi lasci pure qui.» Ogni volta che vede quella casa, Win sta male. È a due piani, di legno, coperta di edera, malconcia. Sembra invecchiare a vista d’occhio, come la donna che ci abita. Win scende dal taxi e sente tintinnare le campane a vento sul retro della casa. Posa il bicchiere con il resto del latte macchiato sul tetto della macchina, prende dalla tasca un biglietto da dieci dollari stropicciato e lo passa all’autista dal finestrino. «Ehi! Fa dodici dollari!» «Senta, si prenda un GPS e poi ne riparliamo» ribatte Win ascoltando il magico tintinnio delle campane a vento. Il taxi riparte sgommando e il bicchiere con il latte macchiato cade, lasciando una macchia chiara sull’asfalto
bagnato. Le campane a vento sembrano tintinnare a festa, quasi a celebrare il suo arrivo, nell’aria spessa e dolciastra. Scampanellano nell’ombra, appese ai rami e a porte e finestre che Win non vede. Sono dappertutto, perché sua nonna crede che tengano lontano gli spiriti maligni e la iella. Win non le ha mai detto: “Come mai, allora, ci è capitato tutto quel che ci è capitato?”. Prende la chiave dalla tasca e apre la porta. «Nana? Sono io» dice. Nell’ingresso ci sono foto di famiglia, quadri di Gesù e crocifissi dappertutto, impolverati. Win chiude la porta e posa la chiave sul tavolino di rovere che conosce da quando era piccolo. «Nana?» In salotto il televisore è acceso, con il volume alto. Si sente un rumore di sirene: Nana ama i polizieschi. A Win sembra che il volume sia più alto, dall’ultima volta che è stato a trovarla, ma forse perché ormai si è abituato al silenzio. In ansia, segue le voci degli attori nel salotto, che è lo stesso di quando lui era bambino, con i cristalli, le pietre, le statuette di draghi, di gatti e dell’arcangelo Michele, le coronane e le ghirlande scaramantiche di erbe e i bastoncini di incenso che Nana continua ad accumulare. «Oh!» esclama, quando i rumori prodotti da Win la riscuotono dal suo vecchio telefilm. «Non volevo spaventarti» si scusa Win. Le sorride e la bacia sulla guancia. «Tesoro mio!» Nana gli stringe entrambe le mani. Win prende il telecomando dal tavolino ingombro di cristalli e amuleti, con l’immancabile mazzo di tarocchi, spegne il televisore e squadra la nonna da capo a piedi. Nana ha un bell’aspetto, gli occhi scuri sono vivaci, la pelle straordinariamente liscia per la sua età, il viso un tempo bellissimo sereno, i lunghi capelli bianchi raccolti sulla testa. È piena di gioielli d’argento, come al solito: bracciali quasi fino al gomito, anelli e collane. Indossa la felpa arancione della ut che le ha mandato lui qualche settimana fa. Mette sempre qualcosa che lui le ha regalato, quando sa che si vedranno. E lo sa quasi sempre, anche se lui non l’avverte: se lo sente. «Come mai hai l’allarme disinserito?» le chiede Win. Apre la sacca da ginnastica e tira fuori barattoli di miele, di salse e di sottaceti. «Ho le mie campane a vento, tesoro.» Win si accorge di aver lasciato la bottiglia di bourbon nel guardaroba del Faculty Club. Se l’è dimenticata, e Monique non gliel’ha ricordata. Proba-
bilmente non si è nemmeno accorta che lui non l’aveva presa, quando sono usciti. «Che cosa mi hai portato?» gli sta chiedendo Nana. «Ti ho fatto installare un impianto di allarme e tu usi le campane a vento? Prodotti tipici del Tennessee. Se preferisci i distillati fatti in casa, la prossima volta ti porto quelli» scherza. Si siede su una vecchia poltrona coperta con un plaid fatto all’uncinetto da una cliente di Nana. La donna prende in mano le carte e gli chiede: «Hai problemi di soldi?». «Soldi?» Win si acciglia. «Risparmiami i tuoi riti magici, per favore.» «È una questione di soldi. Hai appena fatto qualcosa che ha a che fare con i soldi.» Win pensa a Monique - Money - Lamont. «La tua capa, immagino.» Nana mescola lentamente i tarocchi. Lo fa sempre, quando parla. Posa una carta con una luna accanto a sé, sul divano. «Stai attento a quella donna. Illusione e follia o intuizione e poesia? Devi scegliere.» «Come stai, Nana? Mangi qualcosa, a parte quello che ti porta la gente?» Le clienti di Nana pagano in natura, le portano cibo. Nana posa un’altra carta sul divano. Raffigura un uomo con un mantello e una lanterna in mano. Piove più forte, adesso, e la pioggia picchietta sui vetri come un rullo di tamburo, i rami sbattono contro le finestre e le campane a vento tintinnano furiosamente. «Che cosa vuole da te?» domanda Nana. «La donna con cui eri stasera.» «Non ti preoccupare, niente di importante. Almeno sono riuscito a fare un salto a trovarti.» «Ha molti segreti nascosti, segreti preoccupanti, questa papessa nella tua vita.» Gira un’altra carta, con un uomo appeso a un albero per una caviglia, dalle cui tasche cadono monetine. «È un procuratore, un politico, non una papessa. E non fa parte della mia vita.» «Oh, sì, invece!» ribadisce sua nonna, guardandolo negli occhi. «C’è qualcun altro. Un uomo, un uomo dalle vesti scarlatte. Accipicchia, questo è da mettere subito nel freezer!» Per difendersi dalle persone malvagie, Nana scrive i loro nomi su foglietti e li mette nel freezer. I clienti la pagano, perché lei releghi i loro nemici nel suo
vecchio frigidaire. L’ultima volta che Win l’ha aperto, sembrava un cestino della carta straccia, più che un frigorifero. Il cellulare gli vibra nella tasca della giacca. Win lo tira fuori e guarda il display: numero riservato. «Scusa un attimo» dice a Nana, alzandosi in piedi e avvicinandosi a una finestra. La pioggia batte sui vetri. «Parlo con Winston Garano?» chiede una voce maschile chiaramente contraffatta, con un accento che vorrebbe sembrare inglese. «Con chi parlo?» «Venga a prendere un caffè con me, signor Garano. L’aspetto al Diesel Café di Davis Square. Quello pieno di finocchi e fricchettoni, ha presente? È aperto fino a tardi.» «Mi dica chi è lei, prima.» Guarda sua nonna che rimescola le carte e ne gira alcune sul tavolo. «Non per telefono» risponde l’uomo. A Win viene in mente la vecchia assassinata. Immagina il suo volto tumefatto, i capelli incrostati di sangue, il cranio sfondato. Immagina il suo corpo brutalizzato su un gelido tavolo di acciaio, in attesa dell’autopsia. Non sa perché gli sia venuto in mente proprio adesso, cerca di non pensarci. «Non prendo il caffè con chi non conosco, non si presenta e non mi dice che cosa vuole da me» dichiara. «Le fa venire in mente niente il nome Vivian Finlay? Ecco, adesso sono sicuro che vorrà parlare con me.» «Non ne vedo il motivo» risponde Win, mentre sua nonna, seduta sul divano, gira una carta rossa e bianca, con una moneta e una spada. «A mezzanotte. Non manchi all’appuntamento.» La telefonata si chiude così. «Nana, devo uscire» dice Win infilandosi il cellulare in tasca, in piedi davanti alla finestra bagnata di pioggia. Sente il tintinnio delle campane a vento, in preda a una strana sensazione. «Stai attento a quell’uomo» lo avverte Nana, voltando un’altra carta. «La tua macchina va?» A volte Nana si scorda di fare benzina e nemmeno l’intervento degli spiriti più benevoli riesce a farla partire. «L’ultima volta che l’ho usata andava. Chi è l’uomo dalle vesti scarlatte? Appena lo scopri, dimmelo. E fa’ attenzione ai numeri.» «Quali numeri?»
«Quelli che incontrerai sul tuo cammino.» «Chiudi la porta a chiave, Nana» si raccomanda Win. La Buick del 1989 con i sedili scorticati, l’adesivo dell’arcobaleno sul cofano e alcune perline che dondolano dallo specchietto retrovisore è posteggiata dietro la casa, sotto il canestro da basket di quando lui era bambino, ormai arrugginito. Il motore fa degli strani rumori, ma alla fine parte. Win esce in retromarcia perché non c’è spazio per fare manovra. Davanti ai suoi fari appare il muso di un cane che cammina lungo la strada. «Cristo santo!» esclama Win a voce alta. Si ferma e scende dalla macchina. «Miss Dog, cosa ci fai in giro a quest’ora?» dice al povero cane bagnato. «Non mi riconosci? Sono io. Su, su, brava.» Miss Dog, per metà beagle e per metà pastore tedesco, mezza sorda e mezza cieca, con un nome stupido come la sua padrona, si avvicina lentamente e gli fiuta la mano. Lo riconosce e scodinzola. Win le accarezza il pelo arruffato e fradicio, la prende in braccio e la appoggia sul sedile davanti accarezzandola in mezzo alle orecchie. Si ferma a due isolati di distanza, davanti a una catapecchia. Prende di nuovo in braccio il cane e va a bussare alla porta. Dopo un po’, una voce di donna urla: «Chi è?». «Le ho riportato Miss Dog» risponde Win. La porta si apre. La donna è brutta e grassa, senza denti; indossa un’informe vestaglia rosa e puzza di fumo. Accende la luce esterna, sbatte le palpebre, guarda confusa la Buick di Nana ferma davanti alla casa e poi Win. Non lo riconosce mai. Appena Win la posa, Miss Dog corre dentro casa, allontanandosi dall’ingrata padrona. «Gliel’ho già detto, prima o poi quel cane finisce sotto una macchina» la avverte Win. «Perché la fa uscire da sola? Quante volte gliel’ho già dovuta riportare?» «Cosa vuole, per fare i suoi bisogni deve ben uscire... Io le apro la porta e poi lei non ritorna. Per giunta stasera è venuto quel bastardo, che lascia sempre la porta aperta. Eppure qui non ci potrebbe venire, a rigore. Se la prenda con lui, che la piglia a calci, povera cagnetta, e le lascia la porta aperta apposta così quella esce e finisce sotto una macchina. Solo per farmi dispetto, perché sa che, se morisse quel cane, io...» «Di chi sta parlando?» «Di mio genero. Lo sa quante volte l’hanno già arrestato?» Win forse sa chi è il genero della donna, l’ha visto in giro per il quartiere
su un pick-up bianco. «Perché lo fa entrare in casa sua?» domanda Win severo. «Ci provi lei a impedirglielo. Quello non ha paura di niente e di nessuno. E pensare che gli hanno fatto un’ingiunzione.» «Chiami la polizia, allora.» «Sì, per farmi ridere in faccia...» Win vede Miss Dog accucciata per terra, sotto una sedia. Sembra spaventata. «Mi venderebbe il suo cane, signora?» dice Win. «Non la venderei per tutto l’oro del mondo» ribatte lei. «Le voglio troppo bene.» «Cinquanta dollari?» «Certe cose non hanno prezzo» risponde lei, esitante. «Sessanta» rilancia Win. È tutto quello che ha, avendo lasciato il libretto degli assegni a Knoxville. «No, mi scusi» replica la donna dopo un attimo di riflessione. «Non posso separarmi dal mio cane per quella cifra.» 4 Due studenti della Tufts University giocano a biliardo vicino al tavolo di Win. Hanno i capelli tinti di verde e le braccia piene di tatuaggi. Win li guarda sprezzante. Non sarà di famiglia ricca, non sarà riuscito a ottenere un punteggio adeguato agli esami di qualificazione, non avrà mai composto sinfonie né costruito robot, ma perlomeno quando ha fatto domanda di ammissione al college dei suoi sogni ha avuto la premura di comprarsi un completo beige (in saldo), un paio di scarpe nuove (anch’esse in saldo) e di andare dal barbiere (usando un buono sconto da cinque dollari), caso mai l’avessero invitato a fare un giro del campus chiedendogli che ambizioni aveva nella vita, se voleva diventare un poeta come suo padre o un avvocato. In realtà, poi nessuno l’aveva invitato a fare un giro del campus né si era informato sulle sue aspirazioni future. Si erano limitati a mandargli una lettera in cui gli comunicavano che non era stato ammesso. Win si guarda intorno, nel Diesel Caie, alla ricerca dell’uomo che gli vuole parlare di un omicidio avvenuto nel Tennessee vent’anni fa. È quasi mezza-
notte e piove. Win beve un cappuccino tenendo d’occhio la porta, fra studenti dalle capigliature improbabili, vestiti come barboni, con il portatile aperto sul tavolo e la tazza di caffè vicino. Il suo umore sta peggiorando. A mezzanotte e un quarto si alza rabbioso dal tavolo, mentre un cretino che si atteggia ad Einstein in versione punk manda una palla in buca continuando a parlare con la sua ragazza. Sono tutti e due agitati e sopra le righe: forse sono impasticcati. «No, non credo che esista il termine “sodomitico”» dice lei. «Il dipinto di Dorian Gray è stato definito così» ribatte lui. «Perlomeno sulle riviste del tempo» E manda in buca un’altra palla. «Ritratto, non dipinto.» Win corregge il punk pieno di piercing che si dà tante arie ma è un ignorante. «E fu definito “sodomitico” al processo contro Oscar Wilde, non sulle riviste del tempo.» «Be’, sì, fa lo stesso.» Mentre Win si allontana lo sente bisbigliare: «Cazzo di finocchio mulatto». Torna indietro e gli strappa di mano la stecca. «Come hai detto, scusa?» Si appoggia la stecca sul ginocchio e la spezza in due. «Io non ho detto niente» protesta il punk, sgranando gli occhi. Win getta la stecca spezzata sul tavolo e se ne va, ignorando la cameriera dietro il bancone, che non la smette di fissarlo da quando è entrato. Sta facendo un caffè, ma lo chiama: «Mi scusi?». Win si sta dirigendo verso la porta. «Signore?» gli urla lei. Win si avvicina al bancone e le dice: «Non si preoccupi, gliela pago». Tira fuori dal portafoglio le poche banconote che gli restano. La ragazza non sembra interessata alla stecca rotta. Gli chiede: «Lei è il detective Geronimo?». «Come fa a saperlo?» «Immagino che questo equivalga a un sì» replica la cameriera, chinandosi a prendere qualcosa sotto il bancone. «Non potevo lasciare la cassa e non volevo urlare da una parte all’altra del locale» gli spiega, porgendogli una busta. «Prima è venuto uno che mi ha chiesto di consegnargliela.» «Prima quando?» Win prende la busta e se la infila in tasca, attento a non dare nell’occhio. «Mah, sarà stato due ore fa.» Quindi l’uomo con la voce contraffatta gli ha telefonato dopo avergli recapitato la busta. Non aveva alcuna intenzione di incontrarlo di persona.
«Com’era fatto?» chiede alla cameriera. «Normale, sul vecchiotto. Occhiali scuri, impermeabile. E una sciarpa.» «Una sciarpa?» «Sì, di seta. Rosso fuoco.» «Capisco.» L’uomo con le vesti scarlatte di Nana. Win esce sotto la pioggia, sentendosi stanco e appiccicaticcio. La macchina di Nana è una sagoma scura in Summer Street, davanti al Rosebud Diner. Win cammina sul marciapiede guardandosi intorno, chiedendosi dove sia l’uomo con la sciarpa scarlatta, se sia lì a spiarlo. Apre la macchina, prende la torcia dal cassetto portaoggetti e un mazzetto di tovagliolini di carta del Dunkin’ Donuts, se li avvolge intorno alle dita e apre la busta usando una chiave come tagliacarte. Tira fuori un foglio a righe, lo apre e legge le parole scritte con l’inchiostro nero. Sei A RISCHIO, mezzosangue Compone il numero di Monique Lamont, che non risponde. Prova sul cellulare. Nessuna risposta. Chiude la comunicazione senza lasciare messaggi, poi ci ripensa e riprova. Stavolta Monique risponde. «Pronto?» Ha una voce strana, meno autoritaria del solito. «Mi spiega che cosa diavolo sta succedendo?» Mette in moto. «Non c’è bisogno di prendersela con me» risponde lei con un tono indecifrabile, molto diverso dal normale. «Un bastardo con un accento inglese del cazzo mi ha chiamato sul telefonino per parlarmi di Vivian Finlay. Che coincidenza, eh? Questo tizio aveva casualmente il mio numero di cellulare, mi ha casualmente dato un appuntamento a cui casualmente non si è presentato, lasciandomi però una lettera minatoria. A chi ha parlato dell’iniziativa, Monique? Ha rilasciato un comunicato stampa, ha detto a qualcuno che...» «Stamattina» risponde lei. Una voce maschile in sottofondo dice qualcosa che Win non capisce. «Stamattina? Prima che io arrivassi? E non mi ha detto niente?» È stupefatto. «Va bene» dice Monique, come se fosse una risposta. «No, non va bene per niente!» L’uomo che è con Monique - ed è quasi l’una di notte - sussurra qualcosa.
La telefonata si chiude bruscamente. Win resta un attimo lì seduto sulla Buick di sua nonna a guardare il foglio di carta a righe che ha in grembo, con il battito a mille. Monique Lamont ha parlato con la stampa di un caso affidato a lui senza chiedergli il permesso, senza nemmeno dirglielo. “Sa dove se lo può mettere, il suo progetto ‘A Rischio’?” “Basta, io me ne vado.” Chissà che faccia farà il procuratore, sentendosi mandare a quel paese. “Basta, me ne vado!” Win non sa dove cercarla. Non ha risposto al telefono fisso, solo al cellulare. Quindi probabilmente non è in casa. Decide di farci un salto comunque, caso mai invece fosse lì con qualcuno. Win si chiede se Monique Lamont ha un compagno, se è una donna frigida o una bomba del sesso. Una mantide, che uccide tutti i maschi con cui si accoppia. Parte sgommando e slitta sull’asfalto bagnato. Il tergicristallo fa un rumore infernale, innervosendolo. E dire che è già abbastanza nervoso. È furioso con se stesso per essersi infilato in quel pasticcio. Non sarebbe dovuto nemmeno partire: sarebbe dovuto rimanere nel Tennessee. È troppo tardi, per chiamare Delma. Però... Win le telefona spesso a ore inconsulte e lei glielo lascia fare. Forse non le dispiace. Win compone il numero, ricordandosi che è martedì e che di solito, il martedì sera, loro due si mettono eleganti e vanno ad ascoltare il jazz al FortySixTwenty, bevono martini con succo di frutta e chiacchierano. «Ciao, bella» dice la voce di Win. «Non mi uccidere.» «Per una volta che dormivo...» risponde Delma, agente del Tennessee Bureau of Investigation, che soffre di insonnia e in questi giorni ha gli ormoni in subbuglio. Si tira su a sedere sul letto, senza accendere l’abatjour. Nell’ultimo mese e mezzo parla spesso al telefono con Win la sera, a letto, chiedendosi come sarebbe chiacchierare stando sdraiata al suo fianco. Cerca di capire se la vicina di stanza dorme, preoccupata di non disturbarla. Nemmeno a farlo apposta, stamattina, quando ha accompagnato Win all’aeroporto di Knoxville, gli ha detto: “Be’, per una volta i nostri vicini di stanza dormiranno tranquilli”. Da quando frequentano insieme il corso alla National Forensic Academy, parlano spesso per ore, di notte. Dal momento che le stanze riservate agli studenti
hanno le pareti sottili, inevitabilmente disturbano i loro vicini di camera. «Ti manco, vedo» dice Delma in tono scherzoso, ma sperando che sia vero. «Ho bisogno di un favore.» «Va tutto bene?» Delma accende l’abatjour. «Sì, sì. Sto bene.» «Hai una voce strana. Cosa succede?» Scende dal letto, si alza e si vede nello specchio. «Senti, vent’anni fa a Knoxville fu ammazzata una vecchia signora, una certa Vivian Finlay. Di Sequoyah Hills.» «Perché questo improvviso interesse?» «È una strana storia. Tu all’epoca abitavi nel Tennessee, no? Te lo ricordi?» Sì, all’epoca lei abitava nel Tennessee. Win vuole forse ricordarle la sua età? Si guarda allo specchio. Ha i capelli biondi scompigliati. “Sembri Amadeus” le ha detto una volta Win. “Quello del film.” Delma non l’aveva mai visto. «Vagamente» risponde. «Una ricca vedova. Si parlò di rapina, ma a Sequoyah Hills, in pieno giorno, sembra improbabile.» Lo specchio è particolarmente impietoso, a quell’ora. Delma ha gli occhi gonfi, forse ha bevuto troppa birra. Non capisce come fa a piacere a Win; si rammarica di non averlo conosciuto a vent’anni, quando aveva la pelle liscia, due grandi occhi azzurri, il sedere sodo e due belle tette. Il suo corpo aveva retto la sfida contro la forza di gravità fino ai quaranta: dopo non aveva potuto fare altro che cedere. «Mi serve il verbale della polizia» le sta dicendo Win. «Hai il numero della pratica?» gli chiede. «No, ho il numero dell’autopsia. Solo una fotocopia da microfilm: niente foto, niente verbale, niente di niente. Devo trovare quel fascicolo, fosse anche sparito nel triangolo delle Bermuda. Pare che nel frattempo l’Istituto di medicina legale si sia trasferito e che i vecchi archivi siano finiti chissà dove. Così mi ha detto Monique Lamont.» Monique Lamont. Di nuovo! «Che l’istituto si è trasferito è vero. Una cosa alla volta, però.» Delma si sta irritando. «Prima di tutto, vuoi il verbale.» «Esatto.» «Okay, te lo vado a cercare domani mattina.» «Non puoi andarci subito? Qualunque cosa trovi, mandamela con la posta
elettronica, per favore.» «A quest’ora? Chi pensi che mi aiuterà?» Ma sta già aprendo l’anta dell’armadio per prendere un paio di calzoni blu. «La National Forensic Academy» risponde Win. «Chiedi a Tom.» Win corre verso il Mount Auburn Hospital e svolta in Brattle Street, diretto alla casa di Monique Lamont. Deve parlarle urgentemente. “Basta, io me ne vado.” Win può entrare nell’FBI, nel TBI, ovunque. “Bye-bye, Monique. Non mi lascio prendere per i fondelli in questo modo.” “Me ne vado.” “Ma allora perché hai spedito Delma a cercare quel fascicolo nel cuore della notte?” Se lo chiede fugacemente. Mandare a quel paese Monique Lamont non significa necessariamente smettere di indagare sulla morte di Vivian Finlay. È una questione personale, ormai, dopo lo scherzetto dell’uomo con la sciarpa scarlatta. Win attraversa un incrocio senza nemmeno rallentare allo stop, gira a sinistra vicino alla sede dei vigili del fuoco e imbocca la strada che porta alla villa ottocentesca di Monique Lamont, vistosa e fuori del comune come la sua proprietaria. È circondata da un ampio parco: mirti, querce e betulle dondolano nel vento grondando pioggia. Win ferma la macchina davanti alla casa. Le luci esterne sono spente. È tutto buio, a parte una finestra del primo piano, quella a sinistra del portone. Win ha un brutto presentimento. La Range Rover di Monique è sul vialetto lastricato. Il brutto presentimento diventa sempre più forte. Se Monique non è in casa, vuol dire che qualcuno è venuto a prenderla in macchina. Fin qui, nulla di strano: Monique Lamont può avere tutti gli uomini che vuole. Sarà uscita con quello di turno, sarà andata a casa sua. Va bene. Ma il brutto presentimento persiste. L’uomo di turno potrebbe essere lì da lei e, in quel caso, dove ha lasciato la macchina? Win prova a chiamare il numero di casa di Monique, ma c’è la segreteria. Prova al cellulare, invano. Prova una seconda volta. Nessuna risposta. Uno sconosciuto con la sciarpa rossa lo ha preso in giro, minacciato, provocato. Chi è? Chissà che cosa scriveranno i giornali. Magari Monique Lamont ha rilasciato un comunicato stampa, magari la notizia sta già circolando su Internet. Magari è proprio da Internet che lo sconosciuto con la sciarpa rossa ha saputo del progetto “A Rischio”, e di Win. No, non ha senso. Che lui sappia, Vivian Finlay non era del New England: perché uno del New England
avrebbe dovuto telefonare a Win e dargli appuntamento per parlare di quel caso? Continua a guardare la villa di Monique, il parco, la strada. Non sa nemmeno lui perché. Prende la torcia e scende dalla vecchissima auto di sua nonna, drizzando le antenne. C’è qualcosa che non va, lo sente. Forse è solo autosuggestione e in realtà è tutto a posto. Forse sta esagerando, come quando da bambino si immaginava mostri cattivi, tragedie spaventose, catastrofi terribili. Sua nonna, però, dice che Win possiede poteri paranormali, che sente le cose. Non ha la pistola con sé. Segue il vialetto fino al portone, sale la scala, si guarda intorno con le orecchie tese, pensa a cos’è che lo turba in modo particolare. Monique Lamont si arrabbierà. Soprattutto se non è sola. Win suona il campanello e quando alza gli occhi verso la finestra vede un’ombra dietro le tende. Resta a guardare, in attesa. Punta la torcia verso la cassetta delle lettere a sinistra del portone, alza il coperchio. La posta è ancora lì, Monique non l’ha ritirata entrando in casa. Gli viene in mente che gli ha parlato di una chiave di riserva, di una cassetta blindata. Non ne vede in giro. Dagli alberi cadono grosse gocce fredde che gli arrivano sulla testa. Win gira intorno all’edificio, va sul retro buio e pieno di alberi e trova la cassetta vicino all’ingresso di servizio. La porta è socchiusa, la chiave ancora nella serratura. Win ha un attimo di esitazione, si guarda intorno, sente la pioggia gocciolare dai rami, punta la torcia verso le fronde, fra i tronchi, lungo i cespugli e vede qualcosa di scuro in mezzo a due siepi di bosso. È una tanica di benzina con degli stracci sopra, bagnati di pioggia. Gli viene il batticuore. Sale i gradini, entra in cucina. Sente la voce di Monique, poi quella di un uomo, rabbiosa. Provengono dal primo piano, dalla stanza con la finestra illuminata. Win sale di corsa i gradini di legno che cigolano, tre alla volta, attraversa un corridoio, facendo scricchiolare le assi. Dalla porta aperta vede Monique legata al letto, nuda, e un uomo in jeans e maglietta, seduto ai piedi del letto, che la sta minacciando con una pistola. «Dillo: sono una puttana.» «Sono una puttana» ripete Monique con voce tremante. «Ti prego, smettila.» A sinistra del letto c’è la finestra con le tende tirate. Sparpagliati a terra ci sono i vestiti di Monique, il tailleur che indossava al Faculty Club. «Sono solo una lurida puttana. Dillo!»
Win lancia la torcia contro il grosso lampadario di cristallo a fiori azzurri, rossi e verdi, che va in mille pezzi. L’uomo salta su e si volta, Win lo afferra per un polso, cercando di disarmarlo, e sente il suo alito puzzolente di aglio sulla faccia. Parte un colpo, che sfiora la testa di Win e si pianta nel soffitto. «Molla la pistola! Mollala!» Segue una colluttazione, parte un colpo, poi un altro e improvvisamente l’uomo diventa inerte. Win gli strappa di mano la pistola e lo spinge per terra. Dietro la nuca gli si allarga una macchia di sangue. Sembra un sudamericano ed è giovanissimo. Deve avere meno di vent’anni. Win copre Monique con la trapunta e le libera polsi e caviglie dal filo elettrico con cui è legata mentre la rassicura: «Tranquilla. Va tutto bene. È tutto a posto, adesso». Chiama il 911 con il suo cellulare. Monique si tira su a sedere e si avvolge nella trapunta. Ansima, trema e ha gli occhi sbarrati. «Oddio!» dice. «Oddio!» strilla. «Va tutto bene. Stia tranquilla.» Win, in piedi vicino a lei, si guarda intorno, osserva l’uomo riverso in un lago di sangue, fra cocci di cristallo colorato. «C’era solo lui?» chiede a Monique a voce alta, con il cuore che batte all’impazzata, guardandosi intorno con la pistola in pugno. «Era con qualcun altro?» urla. Monique Lamont scuote la testa, respirando affannosamente. È bianca come un cencio e ha lo sguardo vacuo, come se stesse per svenire. «Respiri piano, a fondo» le dice Win. Si toglie la giacca, gliela fa prendere in mano e avvicinare alla faccia. «Su, stia tranquilla. Respiri nella giacca come se fosse un sacchetto. Ecco, così. Brava. Così. Respiri lunghi e profondi. Nessuno le farà più del male, ora.» 5 Monique Lamont è in una sala visite del Mount Auburn Hospital, vicino a dove abita, con un camice addosso. È una stanza anonima, bianca, con un lettino, un tavolo, un lavabo, una lampada, un armadietto per medicinali e strumenti di medicazione. Un’infermiera specializzata ha appena finito di effettuare una visita molto intima su Monique, facendole dei tamponi alla ricerca di tracce di saliva e di liquido seminale, prelevando peli e campioni sotto le unghie, controllando le-
sioni e lividi e scattando foto. Monique ha reagito incredibilmente bene ed è stata presente a se stessa in maniera straordinaria, quasi professionale. Adesso è seduta su una seggiola di plastica bianca vicino al lettino, di fronte a Win che si è accomodato su uno sgabello e a un altro investigatore della polizia del Massachusetts, Sammy, che è in piedi vicino alla porta chiusa. Avrebbe avuto la possibilità di farsi interrogare in un luogo più consono, magari a casa sua, ma ha freddamente espresso il desiderio di restare lì, per tenere il più possibile separate le cose. In realtà Win ha la sensazione che non voglia rimettere piede nella propria camera da letto. Non rimarrebbe sorpreso, se decidesse di vendere la casa. «Sappiamo qualcosa di quest’uomo?» domanda di nuovo Monique impassibile, come se non provasse nulla. Il suo aggressore è in condizioni critiche. Win sta attento a cosa dire. La situazione è a dir poco insolita. Monique Lamont è abituata a ottenere dalla polizia tutte le informazioni che le servono: è un procuratore distrettuale, è in una posizione da cui può fare tutte le domande che vuole e pretendere risposte. «Sappiamo che era armato» risponde Sammy rispettoso. «Win ha fatto quello che doveva: è andata com’è andata.» Ma Monique Lamont ha fatto un’altra domanda. Guarda Win con notevole fermezza, tenuto conto del fatto che lui l’ha appena vista nuda, legata al suo letto. «Che cosa sappiamo di quest’uomo.» Insiste, come se fosse un ordine e non più una domanda. «Soltanto che è stato processato dal tribunale dei minori due mesi fa» replica Win. «Per ordine della procura distrettuale.» «Con quali capi di imputazione?» «Possesso di marijuana e crack. Nessuna condanna: solo una ramanzina del giudice Lane.» «Non mi sono occupata io del caso. Non l’avevo mai visto prima. Nient’altro?» «Senta, adesso ci lasci fare il nostro lavoro» la prega Win. «Appena posso dirle qualcosa, la aggiorno.» «Non voglio sapere quello che lei può dirmi. Voglio sapere tutto.» «Per il momento, no...» Comincia Win. «Tutto» ribadisce Monique.
«Avrei una domanda» interviene Sammy, sempre in piedi appoggiato al muro. «Com’è tornata a casa ieri sera? E quando?» Ha la faccia tetra, uno sguardo strano. Forse è in imbarazzo. Probabilmente il fatto di parlare a un procuratore che ha appena subito violenza lo fa sentire un po’ voyeur. Monique lo ignora, ignora la sua domanda. «Ho cenato con lei» dice a Win. «Poi ho preso la macchina, ho fatto un salto in ufficio per sbrigare alcune cose e sono tornata a casa. Siccome non trovavo le chiavi, sono passata dal retro, ho inserito il codice della cassetta blindata e ho preso le chiavi di riserva. Appena ho aperto la porta, mi sono sentita tappare la bocca e dire nell’orecchio: “Una parola e sei morta”. Poi mi ha spinto dentro.» Monique è brava a ricostruire i fatti. Il suo aggressore, che è stato identificato come Roger Baptista, residente nella zona orientale di Cambridge, non distante dal tribunale, l’ha spinta nella camera da letto e ha cominciato a strappare i fili elettrici dagli abatjour e dalla radiosveglia. A quel punto è squillato il telefono. Lei non ha risposto. Poi le è squillato il cellulare e di nuovo lei non ha risposto. Era Win. Quando le è squillato di nuovo il cellulare, ha tirato fuori una scusa e ha detto a Baptista che era il suo compagno, che se si fosse messo in agitazione sarebbe certamente passato di lì, che era meglio rispondere. Baptista allora le ha concesso di accettare la chiamata, ma di stare attenta a quello che diceva perché lui le avrebbe sparato e avrebbe sparato anche al suo compagno e a tutti quelli che si fossero presentati. Monique ha risposto e ha parlato con Win. Appena finita quella telefonata incongruente, Baptista l’ha costretta a spogliarsi, l’ha legata al letto, l’ha violentata e poi si è rivestito. «Lei non ha opposto resistenza?» le chiede Sammy il più delicatamente possibile. «Aveva una pistola.» Monique guarda Win. «Ero sicura che, se avessi opposto resistenza, mi avrebbe sparato davvero. In realtà temevo che mi avrebbe sparato comunque, alla fine. E ho cercato di mantenere il controllo della situazione.» «Come?» domanda Win. Monique ha un attimo di esitazione, abbassa gli occhi, e risponde: «Gli ho lasciato fare quello che voleva, ho finto di non aver paura, di non provare ribrezzo. Ho fatto tutto ciò che mi ha chiesto di fare, ho detto quello che mi ha
ordinato di dire...». Altro attimo di esitazione. «Sono stata passiva, ho mantenuto la calma, per quanto possibile. Gli ho detto che non era il caso che mi legasse, che capivo. Che avevo spesso a che fare con casi del genere, nel mio lavoro, e comprendevo le ragioni per cui...» Nella stanza cade il silenzio. È la prima volta che Win vede arrossire Monique Lamont. Sospetta di sapere esattamente che cosa ha fatto il procuratore per tenere la situazione sotto controllo, per placare Baptista, per blandirlo nella speranza di uscire viva da quella situazione. «Ha finto anche che le piacesse, un po’?» dice Sammy. «Le vittime di stupro lo fanno spesso. Fingono di starci, simulano addirittura l’orgasmo. A volte chiedono persino al violentatore di tornare, pur di...» «Se ne vada» ordina Monique, puntando il dito verso la porta. «Immediatamente.» «Ascolti, non...» «Mi ha sentito?» Sammy esce, la lascia sola con Win. Non è una cosa buona, tenuto conto che lui ha ferito gravemente il suo aggressore. Sarebbe preferibile e più prudente che all’interrogatorio fosse presente un testimone. «Chi è quell’animale?» chiede indignata Monique. «Voglio sapere chi è. Il fatto che si sia presentato a casa mia proprio la sera in cui io avevo perso le chiavi non può essere una coincidenza. Voglio sapere chi è.» «Si chiama Roger Baptista...» «Non mi interessa come si chiama.» «Quando ha perso le chiavi? Quando le ha prese in mano l’ultima volta?» domanda Win. «Ha chiuso il portone, quando è uscita per andare a lavorare stamattina? Cioè, ieri mattina?» «No.» «No?» Monique sta zitta un attimo, poi spiega: «Non ho dormito a casa, l’altra notte». «E dove ha dormito?» «Da un amico. Sono andata a lavorare direttamente da casa sua. Poi sono venuta a cena con lei e dopo ho fatto un salto in ufficio. I miei movimenti sono stati questi.» «Può dirmi come si chiama l’amico con cui ha passato la notte?»
«No.» «È solo per...» «Non sono io l’indagata.» Lo guarda con freddezza. «L’allarme era inserito quando ha aperto la porta sul retro con la chiave di riserva, ieri sera?» chiede Win. «Ha detto che Baptista le ha messo una mano davanti alla bocca appena lei ha aperto la porta. Chi ha disinserito l’allarme?» «Io. Mi ha detto che, se non l’avessi fatto, mi avrebbe ammazzato.» «Non ha un codice di emergenza per allertare direttamente la polizia?» «Per l’amor di Dio! Non mi è venuto in mente... Non è che quando si viene aggreditisi ha la lucidità per pensare...» «Sa niente di una tanica di benzina con degli stracci sopra, nascosta fra i cespugli vicino alla porta sul retro di casa sua?» «Senta, io e lei dobbiamo parlare seriamente» gli dice Monique. Delma attraversa il centro storico di Knoxville a bordo della sua Golf azzurra del ‘79. Passa davanti ad alcuni locali bui e deserti e a un cantiere dove giorni fa, a seguito del ritrovamento di alcune ossa, sono stati sospesi i lavori, ripresi ieri dopo che è stato accertato che appartenevano a un manzo, perché un tempo lì c’era il macello. Delma è inquieta, nervosa, sempre più in ansia a mano a mano che si avvicina alla meta. Spera solo che il motivo per cui Win le ha chiesto di recuperare il fascicolo del caso Finlay immediatamente fosse abbastanza valido da svegliare il direttore della National Forensic Academy, il capo del Dipartimento di polizia di Knoxville, e poi alcune persone della squadra investigativa e dell’archivio. Il fascicolo non si è trovato, ma alla fine hanno scoperto almeno il numero: KPD893-85. Ha dovuto svegliare anche la vedova del detective Barber, che sembrava ubriaca, per chiederle che fine potessero aver fatto le pratiche, le documentazioni e tutto il resto che suo marito si era portato a casa quando era andato in pensione. “Le scartoffie di Jimmy sono in cantina. Cosa credete che ci sia nascosto in quelle scatole, Jimmy Hoffa? Il santo Graal?” “Mi scusi tanto, signora. Il problema è che stiamo cercando alcuni vecchi documenti.” Delma è stata attenta a non esporsi troppo. “Adesso? Cos’è, vi hanno messo il pepe al culo?» ha protestato la signora Barber al telefono, antipatica, scostante. “Sono le tre del mattino!”
In quella che la gente del posto chiama Shortwest Knoxville, la città comincia a disgregarsi. Poi a due, tre chilometri dal centro, migliora un po’, ma non molto. Delma parcheggia davanti a una casa piccola con un giardinetto pieno di erbacce. È l’unica ad avere i bidoni della spazzatura davanti, forse perché la signora Barber è troppo pigra per riportarli sul retro. La strada è male illuminata e piena di vecchie macchine riverniciate: alcune Cadillac, una Lincoln viola, una Corvette con degli stupidi coprimozzi. Carriole da poveracci, piccoli spacciatori, giovani senza un soldo. Delma controlla di avere la Glock .40 nella fondina ascellare sotto la giacca e suona il campanello. La luce esterna si accende. «Chi è?» domanda una voce da dentro. «Agente Sykes, del Tennessee Bureau of Investigation.» Si sente un rumore di chiavistello, poi la porta si apre e appare una donna volgare, con i capelli ossigenati e il trucco sbavato intorno agli occhi. Delma entra e dice: «Signora Barber, scusi per il disturbo...». «Lasci perdere. Non capisco cosa ci sia di tanto urgente, ma pazienza.» Ha il cardigan abbottonato male, gli occhi rossi e puzza di alcol. «Lì sotto.» Le indica la cantina e richiude la porta. Parla con voce alta e nasale. «Frughi quanto vuole. Per quel che me ne importa, può pure pigliarsi tutto.» «Mi interessa solo una pratica» dice Delma. «Faccia con comodo. Io me ne torno a letto» si congeda la Barber. Monique Lamont sembra essersi dimenticata di dov’è. A Win viene il dubbio che pensi di essere nel proprio ufficio, dietro la sua scrivania, circondata da tutti i suoi vetri e cristalli, magari con indosso uno dei suoi tailleur firmati. Ha la sensazione che non si renda conto di essere seduta su una seggiola di plastica, con un camice, nella sala visite di un ospedale. Si comporta come se lei e Win si stessero occupando di ordinaria amministrazione, come se avessero per le mani un caso difficile, delicato, con diversi aspetti da gestire. «Non so se mi ha capito» dice a Win. In quel momento, si sente bussare alla porta. «Un attimo» dice Win, e va ad aprire. È Sammy, che fa capolino nella stanza. «Scusate» dice a voce bassa. Win esce in corridoio e chiude la porta. Sammy gli porge una copia del “Boston Globe” di quella mattina. Il titolo di testa recita: Nuove tecnologie
per la procura distrettuale - Troveremo i colpevoli di tutti i crimini: passati, presenti e futuri. «Devi sapere quattro cose» dice Sammy. «La prima: da tutte le parti si parla di te come di colui che risolverà un vecchio caso di omicidio per Crawley. Anzi, per lei» rettifica guardando verso la porta chiusa. «Visto che il governatore ha delegato il procuratore Lamont. Ti auguro che l’assassino sia già morto, oppure che non legga i giornali. La seconda cosa non è molto bella.» «Dimmela lo stesso.» «Baptista è morto. Così, ovviamente, non dirà nulla. La terza è che gli ho controllato i vestiti e gli ho trovato mille dollari in banconote da cento nella tasca posteriore dei pantaloni.» «Sciolti, a mazzette o come?» «In una busta bianca, senza niente scritto sopra. La banconote sono nuove, lisce. Mai piegate, sembra. Ho chiamato Huber a casa. I laboratori le controlleranno per la ricerca delle impronte.» «La quarta cosa?» «I media hanno scoperto tutto...» Indica di nuovo con la testa la porta chiusa. «Qui fuori ci sono già televisioni e reporter. E non è ancora giorno.» Win rientra nella sala visite e chiude la porta. Monique Lamont è ancora seduta sulla sua seggiola di plastica, con il camice. Non ha niente da mettersi, a meno che non voglia infilarsi di nuovo la tuta con cui è arrivata in ospedale. Non ha fatto la doccia e non lo ha nemmeno chiesto: conosce la procedura. Quindi, dall’aggressione non si è più lavata. Win non ha nessuna intenzione di parlare di questo, però. «I giornalisti hanno saputo» le annuncia sedendosi sullo sgabello. «Uscendo, dovrà cercare di evitarli. Immagino che lei si renda conto che non può tornare a casa sua.» «Voleva bruciarla» dice lei. La tanica di benzina era piena. Non l’aveva certo lasciata lì il giardiniere. «Voleva uccidermi e poi dare fuoco alla casa.» Parla con tono fermo, da procuratore, come se si riferisse a qualcun altro. «Per far passare la mia morte come un incidente. Bruciata viva in un rogo accidentale? Quell’uomo è un inetto, un dilettante.» «Dipende» le fa notare Win. «Sarà stata un’idea sua o glielo avrà suggerito qualcuno? In ogni caso, è difficile far passare un assassinio per un incidente dando fuoco al cadavere. Nell’autopsia si possono scoprire eventuali ferite
d’arma da fuoco e magari si ritrova addirittura il proiettile. I corpi non bruciano completamente, nell’incendio di una casa.» Win pensa al denaro nella tasca dei pantaloni di Baptista e ha la sensazione che sia meglio tacere quel particolare a Monique Lamont, almeno per il momento. «Voglio che lei resti qui, Win» dice il procuratore, stringendosi una coperta sulle spalle. «Lasci perdere la donna uccisa nel Tennessee, come si chiama. Voglio che scopra chi c’è dietro a questa storia. Non può essere stato solo quel pezzo di... Ci dev’essere un mandante.» «Huber ha già mobilitato i tecnici del laboratorio.» «Chi glielo ha detto?» sbotta lei. «Io non gli ho più parlato da...» Si interrompe, sgrana gli occhi. «Me la pagherà...» aggiunge poi, pensando a Baptista. «Non voglio assolutamente che... Se ne deve occupare lei, Win. Lo faremo a pezzi.» «È morto.» Monique non batte ciglio. «L’ho ucciso io. Che lo abbia fatto per validi motivi, per legittima difesa, poco importa, adesso. Lei lo sa benissimo, Monique. Se ne dovrà occupare un’altra procura, la squadra Omicidi di Boston, la commissione interna aprirà un’inchiesta. Anche l’autopsia e gli esami di laboratorio verranno svolti altrove. Sarò sospeso dal servizio, almeno temporaneamente.» «Voglio che indaghi lei, Win. Da subito.» «Non vuole concedermi neppure un giorno di riposo, di malattia? Molto gentile da parte sua.» «Vada a farsi un paio di birre all’unità di sostegno psicologico. Non mi venga a raccontare che è sotto choc.» È livida dalla rabbia, ha gli occhi di fuoco e gli parla come se fosse stato lui ad aggredirla. «Io non prenderò neanche un giorno di malattia, quindi non lo prenderà neppure lei.» Il suo atteggiamento è assolutamente indisponente. «Lei forse non si rende conto della gravità di quello che è successo» dice Win. «Probabilmente la sua è una forma di difesa, tipica delle vittime di...» «Non sono una vittima!» lo interrompe lei. E di colpo si trasforma di nuovo nel procuratore distrettuale, abile stratega, politico. «Dobbiamo gestire la cosa con la massima competenza. Non voglio che si parli di me come di quella “che voleva candidarsi alla carica di governatore ma poi è stata violentata”.» Win tace.
«Dobbiamo risolvere tutti i crimini passati, presenti e futuri? Cominciamo dal mio, grazie.» 6 Monique Lamont è al centro della sala visite con una coperta bianca sulle spalle. «Andiamocene da qui» dice. «Io non posso venire via con lei» risponde Win. «È meglio che non...» «Ho detto che la voglio a capo delle indagini» ribadisce Monique calma, impassibile. «Mi faccia uscire da qui e mi resti vicino finché non sarò al sicuro. Non sappiamo chi c’è dietro a questa storia. Non posso correre rischi.» «Non ne correrà. Ma io non posso farle da scorta.» Monique Lamont lo guarda male. «E devo rimanere fuori dalle indagini. Ho sparato io a quell’uomo, Monique. Non possiamo fare finta che non sia successo niente.» «Voglio lei, Win. Non me lo faccia ripetere.» «Non posso farle da guardia del corpo...» «Le piacerebbe, vero?» ribatte lei. Lo fissa e Win le vede negli occhi qualcosa che non ha mai visto prima. In Monique Lamont, perlomeno. «Mi faccia uscire da qui. Dall’uscita di servizio, da quella di emergenza, non mi interessa. Non c’è un eliporto, in questo ospedale?» Win chiama Sammy sul cellulare. «Fai venire un elicottero, così se ne va da qui.» «E dove va?» domanda Sammy. Win si rivolge a Monique. «Ha un posto sicuro dove andare?» Dopo un attimo di esitazione, lei risponde: «Sì, a Boston». «Dove? Sia più precisa.» «Ho un appartamento.» «Ha un appartamento a Boston?» Win non lo sapeva. Perché Monique Lamont ha un appartamento a pochi chilometri da casa sua? Monique non risponde, non vuole dargli ulteriori spiegazioni sulla propria vita privata. Win dice a Sammy: «Falla venire a prendere da un agente, che l’accompagni fino in casa». Chiude la comunicazione e la guarda, in preda a un brutto presentimento.
«Le parole non sono abbastanza, Monique, ma voglio dirle ugualmente che mi dispiace davvero per...» «Ha ragione, Win, le parole non sono abbastanza.» E gli lancia un’occhiata sconcertante. «Mi chiamerò fuori per qualche giorno» le dice. «È meglio.» Monique, in piedi in mezzo alla stanza, avvolta nella coperta dell’ospedale, lo fissa. «È meglio per chi? Non pensa che dovrei essere io a decidere che cosa è meglio per me?» «Non esiste solo lei, con tutto il rispetto.» Monique gli lancia un’occhiataccia. «Ho bisogno di un paio di giorni per mettere a posto le cose» insiste Win. «In questo momento il suo dovere è occuparsi di me. Dobbiamo minimizzare i danni, per trasformare questa tragedia in qualcosa di positivo. Peraltro, anche lei ha bisogno di me.» Immobile, continua a fissarlo con rancore, con rabbia. «In fondo, sono l’unica che può testimoniare che le cose sono andate veramente così» dice con la massima calma. «Significa che, se non farò come vuole, lei darà una versione distorta dei fatti?» «Io non mento mai. Lo sanno tutti.» «Mi sta minacciando?» Win ha cambiato tono, ora non è più l’uomo che le ha salvato la vita a parlare, ma il poliziotto. «Guardi che esistono testimoni ben più importanti di lei. La scienza forense, per esempio. Certo, può sempre dichiarare che si è trattato di un rapporto consensuale. E questo spiegherebbe la presenza di saliva e sperma sul suo corpo. Vuole forse affermare che ho interrotto una seratina un po’ piccante? Che Baptista mi ha aggredito per proteggere lei? Vuole far passare me per l’intruso, anziché il contrario? Sarebbe questa la sua versione dei fatti, Monique?» «Come osa?» «Ho parecchia fantasia. Vuole che te prospetti un altro scenario?» «Come osa?» «No, come osa lei. Io le ho salvato la vita Monique.» «Maschilista, anche lei, come tutti gli altri. Siete tutti uguali, voi uomini. Credete che vi troviamo irresistibili.» «La smetta.»
«Che nelle nostre fantasie segrete vogliamo tutte...» «La pianti, Monique!» Poi Win abbassa la voce. «L’aiuterò, per quello che posso. Si ricordi che io non le ho fatto niente. Sa benissimo come sono andate le cose. Baptista è morto, ha avuto quello che meritava. Da un certo punto di vista, ha vinto lei, ha avuto la sua vendetta. Per il resto, cerchiamo di rimediare, di minimizzare i danni, come dice lei.» Monique cambia faccia. Sta riflettendo. «Ho bisogno di un paio di giorni» ripete Win. «E non voglio che lei se la prenda con me. Altrimenti, non avrò scelta e dovrò...» «I fatti» lo interrompe lei. «Impronte digitali sulla tanica di benzina, DNA. La pistola, se è stata rubata o era di proprietà. Le mie chiavi sparite, controllare se è una coincidenza o se ce l’aveva lui addosso, o a casa. In questo caso, scoprire come mai non mi ha aspettato dentro.» «L’allarme.» «Giusto.» Monique passeggia avanti e indietro avvolta nella coperta bianca, come un capo indiano. «Capire come ha fatto ad arrivare a casa mia, se è venuto in macchina, se lo ha accompagnato qualcuno. Rintracciare i suoi parenti, le persone che frequentava.» Monique usa il passato. Il suo aggressore è appena morto e lei ne parla già al passato. Anche se fino a un’ora prima era vivo. Win guarda l’ora e chiama Sammy: l’elicottero ha nove minuti di ritardo. Il Bell 430 si alza in volo dall’eliporto sul tetto del Mount Auburn Hospital e vira, dirigendosi verso Boston. È un gioiellino da sette milioni di dollari. Monique ha mosso mari e monti perché la polizia del Massachusetts ne avesse ben tre. In questo momento non ne va particolarmente fiera, ha altro per la testa. E si sente tutto fuorché fiera: è stanca, confusa. Vede i giornalisti accalcati a terra che puntano le telecamere verso il cielo. Chiude gli occhi e cerca di non pensare a quanto vorrebbe lavarsi e cambiarsi i vestiti. Cerca anche di non pensare alle parti del proprio corpo che sono state violate, alla possibilità di essere rimasta incinta, di essersi beccata qualche brutta malattia. Cerca piuttosto di focalizzarsi su chi è e sul proprio ruolo, di mettere da parte quello che le è successo. Respira profondamente e guarda i tetti sotto di lei, mentre l’elicottero si dirige verso il Massachusetts General Hospital, dove i piloti hanno previsto
l’atterraggio e dove l’aspetterà un agente che l’accompagnerà fin dentro il suo appartamento, un appartamento di cui nessuno dovrebbe sapere nulla. Sarebbe stato meglio non renderlo noto, ma Monique non sapeva dove altro andare. «Tutto bene?» le chiede nelle cuffie la voce del pilota. «Sì, grazie.» «Atterreremo fra quattro minuti.» Monique si sente male. Guarda fisso il divisorio che li separa dai piloti e si sente pesante, distrutta. Una volta, quando ancora studiava a Harvard, a una festa si è ubriacata. Mentre era stesa sul divano in stato confusionale, un ragazzo - o forse più di uno - ha approfittato di lei. Monique non l’ha mai detto a nessuno. Quando si è svegliata la mattina dopo, con il sole già alto e gli uccellini che cinguettavano fuori della finestra, e si è resa conto di che cosa era successo, ha deciso di non sporgere denuncia (benché un’idea di chi poteva essere stato ce l’avesse) e non è andata a farsi visitare. Ricorda benissimo come si è sentita quel giorno: contaminata, stordita. Di più: morta. Anche adesso si sente così: morta dentro. La morte può essere una liberazione. Quando si muore, tutte le preoccupazioni cessano di colpo. E con esse anche il dolore, la sofferenza. «Signora Lamont?» la chiama la voce del pilota nelle cuffie. «Per favore, dopo l’atterraggio rimanga seduta finché non apriremo il portellone per farla scendere.» Monique pensa al governatore Crawley. Immagina la sua faccia brutta e antipatica, l’espressione che farà nel sapere che cosa le è successo. Forse l’ha già saputo. Sì, certo che l’ha già saputo. Si dimostrerà comprensivo, compassionevole, la umilierà e distruggerà la sua credibilità. «E poi?» chiede, avvicinandosi il microfono alla bocca. «L’agente che la scorterà le spiegherà tutto...» risponde uno dei piloti. «Fate parte anche voi della polizia di Stato» replica Monique. «Sarete al corrente dei piani, no? Ci sono giornalisti?» «Le diranno tutto appena scenderà dall’elicottero.» Stanno volando a punto fisso sopra il tetto dell’ospedale e Monique vede una manica a vento arancione che sbatte nella corrente e una donna in divisa blu china controvento ad aspettarla, con i capelli scompigliati. L’elicottero si posa e Monique resta seduta a guardare la poliziotta, che non conosce e che probabilmente è l’ultima ruota del carro, una qualunque con il compito di ac-
compagnarla in un luogo sicuro. Una guardia del corpo, una scorta, una donna a ricordarle che è una donna, una femmina che è stata appena violentata da un uomo e che quindi preferisce non avere uomini vicino. Una vittima. Una povera vittima traumatizzata. Pensa di nuovo a Crawley, a quello che dirà, a quello che sta dicendo e che sta pensando. I motori si zittiscono e l’elica lentamente si ferma. Monique si toglie le cuffie e le cinture, pensando alla faccia compunta che farà quell’odioso di Crawley davanti alle telecamere, esortando i cittadini del Massachusetts a provare pietà per Monique Lamont, povera vittima. Monique Lamont, recentemente vittima di violenza carnale, si candida alla carica di governatore. Il procuratore che dice di essere in grado di risolvere tutti i crimini, passati, presenti e futuri, saprà risolvere il mistero di ciò che le è accaduto? Monique apre da sola il portellone, precedendo l’agente, e scende senza farsi aiutare. Tutti i crimini: passati, presenti e futuri. Monique Lamont. «Mi trovi Win Garano. Al più presto» ordina alla poliziotta. «Gli dica di mollare tutto e di richiamarmi subito.» «Sì, certo. Piacere, sergente Small.» La donna in divisa blu le tende la mano, ma Monique la ignora. «Che brutto cognome. Chissà quanto la prendono in giro» commenta, dirigendosi verso una porta che presume conduca nell’ospedale. «Intende il detective Garano, vero? Quello che chiamano Geronimo?» Il sergente Small la raggiunge. «Sì, mi prendono in giro parecchio. Fortuna che sono magra.» Prende la radio e apre la porta. «La mia auto è di sotto, fuori vista. Se la sente di fare le scale? Mi dica, dove l’accompagno?» «Alla redazione del “Boston Globe”» risponde Monique. La cantina di Jimmy Barber è piena di muffa e di polvere, con una lampadina che pende dal soffitto a illuminare un centinaio di scatoloni accatastati uno sopra l’altro in pile che arrivano al soffitto. Alcuni hanno un’etichetta, altri no. Sono quattro ore che Delma sposta scatole di cartone piene di roba tipo vecchi registratori, audiocassette, vasi di terracotta, lenze e canne da pesca, berretti da baseball, un vecchio giubbotto antiproiettile, trofei di softball, migliaia di fotografie, lettere e riviste, classificatori pieni di carte, quaderni
scritti con una grafia orribile. Roba inutile, cianfrusaglie. Evidentemente Barber conservava tutto, ma era troppo pigro per mettere in ordine le proprie cose e le gettava alla rinfusa dentro scatole di cartone. Delma ha già controllato un sacco di fascicoli, probabilmente relativi a casi che l’ex investigatore riteneva particolarmente interessanti. Quello di un evaso rimasto incastrato in un camino, un tentato omicidio con un birillo da bowling, un uomo colpito da un fulmine in un letto di ferro, una donna che era stata investita dalla sua stessa auto perché, ubriaca, era scesa a urinare e si era dimenticata di tirare il freno a mano. Tantissimi fascicoli, che Barber non aveva alcun diritto di portarsi a casa quando è andato in pensione. Ma il numero KPD893-85 non le è ancora capitato fra le mani, non era neppure in una scatola piena di pratiche, lettere e scartoffie del 1985. Chiama Win al cellulare per la terza volta e gli lascia l’ennesimo messaggio. Sa che ha da fare, ma il fatto che non risponda le dà fastidio lo stesso. Le viene istintivo pensare che, se lei fosse più importante, se si fosse laureata a Harvard, se fosse come quel procuratore distrettuale di cui lui si lamenta sempre, la richiamerebbe subito. Invece Delma è andata a un college di religiosi a Bristol, nel Tennessee, e ha smesso dopo il secondo anno. Non le piaceva studiare, non capiva perché bisognasse imparare il francese e la matematica e andare in chiesa due volte alla settimana. Lei non è del livello di Win, di quel procuratore distrettuale di Cambridge e della gente che lui frequenta. Inoltre, è abbastanza vecchia per essere sua madre. Si siede su un grosso barattolo di plastica e osserva le pile di scatole di cartone, con la gola secca e gli occhi che le bruciano. Ha anche mal di schiena e per un attimo ha la sensazione di non poterne più. Non solo di quella ricerca, ma anche di tutto il resto. È la stessa sensazione che ha provato il secondo giorno alla National Forensic Academy, quando sono andati a vedere la rinomata Fabbrica dei Corpi e i suoi cadaveri puzzolenti, a rutti i gradi di decomposizione possibili e immaginabili, dove i cadaveri donati alla ricerca vengono fatti marcire per terra o sotto lastre di cemento, nei bagagliai delle auto o in sacchi di plastica, vestiti, nudi, circondati da esperti che prendono nota di tutto. “Ma come si fa? Che razza di persona può decidere autonomamente di lavorare in un posto del genere?” ha chiesto a Win mentre osservavano i vermi che brulicavano su un cadavere parzialmente scheletrizzato, i cui capelli erano scivolati via dal cranio e sembravano la pelliccia di un animale schiacciato
da un’automobile. “Meglio che ti ci abitui” le ha risposto lui, imperturbabile nonostante il tanfo e gli insetti. “I morti non sono collaborativi e non dicono mai grazie. I vermi sono molto utili, invece. Guarda qui.” E ne aveva preso in mano uno, simile a un granello di riso. “Ci dicono molte cose. Anche l’ora del decesso.” “A me fanno schifo lo stesso” ha ribattuto Delma. “E non trattarmi come se fossi un’imbecille.” Si alza, si guarda intorno e cerca di decidere in quali scatoloni potrebbero essere i fascicoli che Barber si è portato via dall’ufficio, come se i suoi casi potessero andare in pensione con lui, deficiente, egoista e scriteriato. Delma solleva una scatola in alto, valutandone il peso e stando attenta a non far cadere quello che c’è dentro. La maggior parte delle scatole sono aperte, probabilmente perché Barber era troppo pigro anche per sigillarle con un po’ di scotch. Comincia a frugare tra vecchi estratti conto e bollette degli anni Ottanta. Non è quello che cerca, ma conti e ricevute l’hanno sempre interessata: spesso sono più rivelatori di deposizioni e confessioni. Pensa all’8 agosto di vent’anni fa, al giorno in cui fu assassinata Vivian Finlay. Immagina il detective Barber che va a lavorare tranquillamente e viene chiamato con urgenza nell’elegante villa di Sequoyah Hills. Dov’era lei l’8 agosto di vent’anni prima? Stava divorziando, in quel periodo. Faceva il fattorino nel dipartimento di polizia di Nashville e suo marito lavorava in uno studio di registrazione, dove incontrava troppe cantanti e faceva la loro conoscenza in modi che lei trovava inaccettabili. Tira fuori delle cartelline etichettate mese per mese e si risiede sul barattolo di plastica a controllare ricevute e bollette del telefono. Le buste hanno l’indirizzo di quella casa. Mentre guarda gli estratti conto della carta di credito di Barber, Delma intuisce che all’epoca il detective viveva solo, visto che spendeva gran parte dei suoi soldi in posti come Home Depot, Wal Mart, enoteche e bar. Nota che nella prima metà del 1985 le sue telefonate interurbane sono pochissime, due o tre nell’arco di sei mesi. Ma da agosto in poi diventano molte di più. Punta la torcia sulla bolletta, le viene in mente che vent’anni fa i cellulari erano ingombranti e complicati come contatori geiger e non li usava quasi nessuno, meno che mai i poliziotti. Se erano fuori ufficio usavano radio e cercapersone. Se dovevano comunicare informazioni riservate, tornavano al quartier generale o chiamavano da un telefono fisso e poi chiedevano il rim-
borso della telefonata al dipartimento, usando appositi moduli. Di certo non chiamavano da casa per lavoro. Invece, a partire dalla sera di quell’8 agosto, quando Vivian Finlay era già in una cella frigorifera dell’obitorio, Barber aveva fatto un sacco di telefonate dal suo telefono di casa. Sette, dalle cinque del pomeriggio a mezzanotte. 7 Win abita al terzo piano di un edificio di mattoni che a metà dell’Ottocento era una scuola. Trova strano vivere lì, per uno che con la scuola ha avuto qualche problema. Non era stata una scelta premeditata. Quando era entrato nella polizia di Stato del Massachusetts, a ventidue anni, non possedeva nulla a parte una vecchia Jeep, un guardaroba di abiti usati e cinquecento dollari che Nana aveva messo da parte per il suo regalo di laurea. Trovare casa a Cambridge gli sembrava un’impresa impossibile. Poi, però, era venuto a sapere di quella vecchia scuola in Orchard Street, abbandonata da decenni, che stava per essere riconvertita in miniappartamenti. Il palazzo non era ancora abitabile, ma Win si era messo d’accordo con Farouk, il padrone di casa, e in cambio di un affitto basso con la promessa di non aumentarlo di più del tre per cento l’anno gli aveva offerto di starci anche durante i lavori di ristrutturazione, facendo un po’ da custode e un po’ da supervisore. In realtà, non deve supervisionare niente e a garantire che vandali e ladri stiano alla larga basta il fatto che lui è un poliziotto. Farouk gli lascia posteggiare la Hummer H2 (sequestrata a un trafficante di droga e messa all’asta a un prezzo stracciatissimo), la Harley Davidson Road King (anch’essa di seconda mano) e la macchina di servizio nello spiazzo asfaltato dietro il palazzo. Nessun altro ha diritto a parcheggiare lì: i condomini devono lasciare l’auto in strada, dove se la trovano spesso graffiata e ammaccata. Win entra dalla porta sul retro, fa tre piani di scale e percorre il lungo corridoio su cui un tempo si affacciavano le aule. Vive nell’appartamento proprio in fondo al corridoio, il numero 31. Apre il portone di rovere ed entra nell’ex aula con la lavagna ancora fissata alla parete di mattoni, il pavimento di legno e il soffitto a volta. L’arredamento che ha scelto è moderno: divano di pelle scura Ralph Lauren (comprato usato), una poltroncina e un tappeto orientale (e-Bay), tavolo basso Thomas Moser
(campionario). Si guarda intorno e tende le orecchie, all’erta. La casa odora di chiuso e di solitudine. Win prende una torcia da un cassetto e la punta sul parquet, sui mobili, sulle finestre, alla ricerca di impronte nella polvere o sulle superfici lucide. Non ha un impianto di allarme, se ne poteva permettere soltanto uno e l’ha fatto installare a casa di sua nonna. A lui non serve, comunque: sa difendersi da solo. Vicino alla porta d’ingresso c’è un armadio. Lo apre, cerca la cassaforte nascosta nel muro e prende la Smith «Se Wesson .357 modello 340 automatica in lega di titanio e alluminio, così leggera che sembra un giocattolo. Se la infila in una tasca e va in cucina, prepara il caffè e controlla la posta che Farouk gli ha lasciato sul tavolo, perlopiù riviste. Sfoglia “Forbes” mentre aspetta che il caffè sia pronto. Legge un articolo sulle auto più veloci, la nuova Porsche 911, la nuova Mercedes SLK 55, la Maserati Spyder. Entra in camera da letto, che ha le pareti di mattoni e una vecchia lavagna. “Per tenere il conto” dice alle sue donne, facendo loro l’occhiolino. Si siede sul letto e beve il caffè, riflettendo. Gli si chiudono gli occhi. Delma rimpiange di non essersi portata qualcosa da mangiare e una bottiglietta di acqua. Ha la bocca secca, un sapore di polvere sul palato. E sta avendo un calo di zuccheri. Le è venuta la tentazione di chiedere alla signora Barber qualcosa da bere o da mangiare, ma quando è salita di sopra per andare in bagno, l’ha trovata in cucina che trangugiava vodka. È stata tutt’altro che gentile, e lei ha pensato bene di non chiederle niente. «È in fondo al corridoio» le ha detto, indicandole il bagno con un cenno del capo. «Poi se ne scenda di sotto e mi lasci in pace, per favore. Ne ho fin sopra i capelli, se proprio lo vuole sapere. Come se non ne avessi già passate abbastanza...» Sola e sconsolata nella cantina di casa Barber, Delma continua a controllare le strane bollette del telefono dell’investigatore, cercando di capire perché mai facesse tante chiamate da casa. Cinque a un numero con il prefisso 919, sempre lo stesso. Delma prova. Le risponde qualcuno al centralino dell’Istituto di medicina legale del North Carolina. «Mi scusi, ho sbagliato numero» gli dice. E chiude la comunicazione. Nota almeno altre dieci telefonate che Barber fece da casa intorno alla metà di quell’agosto del 1985, a un numero con prefisso 704, quello che si usava
un tempo per la zona occidentale del North Carolina. Prova anche quello, sostituendo al prefisso 7041’828. «Pronto?» risponde una voce maschile, assonnata. Delma controlla l’ora. Sono quasi le sette del mattino. «Mi scusi se la disturbo così presto. Potrebbe dirmi da quando ha questo numero di telefono?» L’uomo butta giù. Forse non è stato l’approccio migliore. Riprova e dice subito: «Senta, non è uno scherzo telefonico. Sono un agente del Tennessee Bureau of Investigation. Ho trovato il suo numero nel fascicolo relativo a un caso». «Sta scherzando, spero.» «No, sono serissima. Un omicidio avvenuto nel 1985.» «Oh, mio Dio. Mia zia?» «Come si chiamava sua zia?» «Vivian Finlay» risponde l’uomo. «Questo telefono era intestato a lei. Il numero non è mai cambiato.» «Dunque sua zia aveva un’altra casa, oltre a quella di Knoxville in cui era residente.» «Esatto. Questa qui, a Flat Rock.» Con calma, Delma chiede: «Lei ricorda Jimmy Barber, il detective che indagò sulla morte di sua zia?». Sente una voce di donna che chiede: «Chi è, George?». «Sta’ tranquilla, tesoro.» Poi l’uomo si rivolge di nuovo a Delma: «Mi scusi, mia moglie voleva sapere con chi parlavo». Di nuovo alla moglie: «Un attimo». Poi ancora a Delma: «Si diede un gran daffare. Fin troppo. Delegava poco, voleva tenere tutto in mano lui. È colpa sua, credo, se non si trovò mai il colpevole. Non diceva mai niente a nessuno, lavorava in segreto. Immagino che succeda abbastanza di frequente...». «Ho paura di sì.» «Se ben ricordo, a un certo punto si convinse di essere sulla pista giusta, di essere vicino alla soluzione, ma non volle dire a nessuno che cosa aveva scoperto. Probabilmente fu per questo che l’assassino non è mai stato identificato. Io ne sono convinto.» Delma pensa alle telefonate che Barber faceva da casa. Forse la spiegazione era quella: voleva tenere segreti gli sviluppi delle indagini. Voleva risolvere il caso da solo, non dividere onori e gloria con i colleghi. Purtroppo, sono tanti a lavorare così.
«Tesoro, perché non vai a fare il caffè?» George Finlay sta di nuovo parlando con la moglie. Evidentemente si è agitata e lui cerca di rassicurarla. «Va tutto bene.» Poi riprende a parlare con Delma: «Mia moglie la prese molto male. Per lei, mia zia era come una madre. Non ci voleva, sa? Rivangare il passato, dopo tanto tempo...». Sospira. Delma gli fa un altro paio di domande. George Finlay aveva poco più di quarant’anni, all’epoca dell’omicidio. È figlio del fratello di Vivian, Edmund Finlay. Sua zia aveva voluto mantenere il suo cognome anche da sposata perché ne andava molto fiera. Figlio unico, abita con la moglie Kim a Flat Rock, dove si è trasferito dopo la tragedia, e ha due figli che vivono nell’Ovest. Lui e la moglie non ce la facevano più a stare nel Tennessee, dice a Delma, Knoxville era troppo piena di ricordi. Kim ebbe addirittura un brutto esaurimento nervoso. Delma avverte George che verrà ricontattato, da lei o dal detective Winston Garano. L’uomo non sembra molto contento della notizia. «Riaprire le vecchie ferite è sempre doloroso» spiega. «È proprio necessario, dopo tutti questi anni?» «Stiamo soltanto verificando alcuni dettagli. Le sono molto grata della collaborazione.» «Ma certo. Per quel che posso.» Delma pensa che George Finlay preferirebbe mangiare una manciata di terra, piuttosto che parlare di nuovo con la polizia. Passato il primo momento di rabbia e indignazione, molti preferiscono dimenticare, invece che ottenere giustizia. “Mi dispiace per te” dice Delma alla cantina buia. “Ma guarda che neanch’io mi diverto.” Riflette, seduta sul barattolo di plastica in una posa simile al Pensatore di Rodin, sfoglia ancora bollette e ricevute, trova un estratto conto della carta di credito di Barber relativo al mese di settembre 1985, tira fuori una cartellina da una busta e trova qualcosa di veramente strano. “Ma che diavolo...” La cartellina contiene un referto autoptico, un documento con un altro numero e un verbale con un altro numero ancora, scribacchiato a matita: KPD893-85. C’è anche un elenco degli effetti personali di Vivian Finlay firmato dal medico legale, pinzato alla Polaroid di un cadavere smembrato: monconi di gambe e braccia, un torso sanguinolento e una testa mozza allineati su un ta-
volo di acciaio coperto da un telo verde. Il numero di riferimento indica che il decesso era avvenuto nel 1983 nel North Carolina. Win si sveglia di soprassalto e per un attimo non si orienta. Poi si rende conto di aver dormito più di due ore. È ancora vestito, ha il torcicollo e una tazza di caffè ormai freddo posata sul comodino. Controlla se ha ricevuto messaggi, saltando quelli che gli ha lasciato Delma ore prima, quando lui era troppo occupato con Monique Lamont per dedicarsi al caso Finlay. Ma Delma gli ha lasciato un messaggio anche dopo, dicendo di avergli inviato una serie di file con la posta elettronica e chiedendogli di richiamarla. Win va a sedersi alla sua scrivania (Stickley, comprata usata) e chiama Delma. «Santo cielo!» esclama lei. «Ho appena saputo...» «Già» replica lui. «Sei vicina a un telefono fisso?» Lei gli detta un numero, che Win riconosce come un interno della National Forensic Academy. La richiama. «Che roba!» continua lei. «È su tutti i giornali. Cristo santo, Win! Com’è successo?» «Possiamo parlarne in un altro momento, Delma?» «In un altro momento? Gli hai sparato, per la miseria! E l’hai pure ammazzato. Dio santissimo, e lei? Cosa farà adesso? Non si parla d’altro, qui.» «Possiamo cambiare argomento?» «Quello che non capisco è come mai eri a casa sua. Ti aveva invitato?» Non c’è bisogno di essere un detective per capire che Delma è gelosa della bella e potente Monique Lamont. Probabilmente la idealizza, non avendola mai incontrata. Forse immagina che adesso lei gli sarà per sempre grata, vorrà mollare tutto e scappare con lui, il suo salvatore, sposarlo, dargli dei figli e immolarsi sulla sua pira funeraria. «Delma, mi dici che cosa hai trovato? Hai recuperato il fascicolo?» «Ho passato tutta la notte nella cantina di Barber, ma non c’era.» Win beve il caffè, apre la posta elettronica, vede i file che Delma gli ha mandato e li apre, ascoltandola mentre lei gli racconta della carta di credito di Barber, delle telefonate che faceva da casa, del fatto che si occupava lui di tutto, senza delegare niente a nessuno, e del colloquio con George Finlay. Poi gli parla di un uomo finito sotto un treno a Charlotte due anni prima dell’omicidio. «Aspetta un attimo» la ferma Win, leggendo un documento sullo schermo.
«Cosa c’entra l’uomo finito sotto il treno?» «Vorrei saperlo anch’io. Hai visto la foto?» «La sto guardando in questo momento.» Win osserva la foto sullo schermo, che è di pessima qualità, una Polaroid. Guarda i monconi sanguinolenti, la testa mozza sporca di grasso e di terra. La vittima era un uomo, bianco, con i capelli scuri. Piuttosto giovane, a occhio. «Hai controllato all’Istituto di medicina legale?» «Non sapevo che le indagini fossero affidate a me» risponde lei sarcastica. Il cellulare di Win si mette a suonare, ma lui rifiuta nervosamente la chiamata. «Sei arrabbiata con me?» chiede a Delma. «No, figurati» risponde lei sarcastica. «Meno male. Perché c’è già fin troppa gente arrabbiata con me.» «Tipo?» «Tipo Monique Lamont, per cominciare.» «Cioè, dopo quello che hai fatto, lei...» «Esattamente. Te l’ho detto, è psicopatica. Una Bonnie senza Clyde, una che crede di non aver alcun bisogno di Clyde e pensa che gli uomini siano tutti come Clyde. E li odia, dal primo all’ultimo.» «Mi stai dicendo che a Monique Lamont non piacciono gli uomini?» «Se è per questo, non le piace nessuno.» «Be’, potresti almeno ringraziarmi.» Delma cambia discorso, immusonita. «Non ho chiuso occhio per cercarti quella roba. Ho lezione fra cinque minuti e sono ancora qui a spedirti file, a cercare contatti utili, a farmi mandare a quel paese da una persona su due. Adesso devo andare, però. Riguarderò tutto dopo, quando prendo l’aereo per Raleigh. L’Istituto di medicina legale è a Chapel Hill.» «Chi è che ti ha mandato a quel paese?» chiede Win, sorridendo. Quando Delma si arrabbia, parla come una bambina di sei anni. E il suo accento del Sud diventa più marcato. «I colleghi di Charlotte, per esempio. A proposito, il biglietto aereo me lo rimborsi tu, poi?» «Certo. Segna tutte le spese» le dice, mentre apre un altro file. Legge l’elenco degli effetti personali di Vivian Finlay e rimane perplesso. «Oltre a mandarti a quel paese, i colleghi di Charlotte ti hanno raccontato qualcosa riguardo all’uomo finito sotto il treno?»
“Calzoncini da tennis, di cotone, azzurri, con tasche” legge dall’elenco. “Gonnellina da tennis bianca marca Izod con maglietta coordinata. Macchiate di sangue...” Il suo cellulare squilla di nuovo. E di nuovo, Win lo ignora. «L’ultimo con cui ho parlato era uno stronzo» continua Delma. «Da allora ha fatto carriera, è diventato capo del dipartimento. Hai presente il tipo?» Win zuma sul numero scritto a matita in alto a destra sul foglio dove sono elencati gli effetti personali della vittima. KPD893-85. «Delma?» «Sembra che per avere copia dei documenti io debba fare richiesta per iscritto. Probabilmente, dopo tutti questi anni sarà su microfilm...» sta dicendo Delma. «Ma il bello è che non capiva come mai mi interessasse tanto, diceva che non c’era niente di...» «Delma? KPD893-85. Vivian Finlay era in tenuta da tennis quando fu ammazzata?» «Niente da fare. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.» «Appunto. Delma, questo è l’elenco degli effetti personali di Vivian Finlay? Quelli che arrivarono all’Istituto di medicina legale insieme al cadavere?» «Sì. Ma l’aspetto più strano è che l’unica cosa che sono riuscita a trovare. Il resto del fascicolo è scomparso.» «E questo completo da tennis sporco di sangue è il reperto che è stato conservato per vent’anni dalla polizia di Knoxville e che adesso verrà sottoposto alla prova del DNA?» Dalle fotocopie che gli ha dato Monique Lamont, Win aveva capito che Vivian Finlay fosse una donna di settantatré anni. «Sei sicura che questo elenco di effetti personali faccia veramente parte del fascicolo Finlay?» «Il numero corrisponde. Ho controllato tutte quelle dannate scatole nella cantina di Barber, con la vedova di sopra che ciabattava in cucina sbattendo le porte per farmi capire che non ero un’ospite gradita, lì assicuro che non c’era altro.» Win rilegge l’elenco e nota una cosa che avrebbe dovuto vedere prima. «Il nipote è disposto a collaborare» lo informa Delma. «Non ne ha alcuna voglia, ma lo farà.»
«Il completo da tennis era taglia quarantaquattro» dice Win. Sente bussare alla porta. «Quarantaquattro, hai capito? Una donna alta un metro e cinquantadue, che pesava quarantun chili, non poteva avere quella taglia. Cosa c’è?» sbuffa, visto che continuano a bussare. «Scusa, devo andare» dice a Delma. Si alza e va alla porta. Guarda dallo spioncino e vede la faccia truce di Sammy. È paonazzo. Win gli apre. «È un’ora che ti cerco» sbotta il suo collega. «Come facevi a sapere che ero qui?» domanda Win confuso, pensando a dieci cose contemporaneamente. «Sono un detective! Hai il telefono occupato, dove potrai mai essere? Senti, mi ha appena detto di tutto.» «Chi?» «Indovina. Devi venire con me. Ti aspetta alla sede del “Boston Globe”.» «Non ci penso nemmeno» ribatte Win. 8 Stuart Hamilton, direttore del “Boston Globe”, è seduto, contegnoso, nel proprio ufficio con Monique Lamont, un giornalista e un fotografo. In quell’ufficio tutto vetri si sta svolgendo un’intervista senza precedenti, su uno dei fatti più sconvolgenti per la città dopo la vittoria dei Red Sox. I circa cento dipendenti oltre la vetrata dell’ufficio possono tranquillamente vedere il procuratore distrettuale Lamont in tuta da ginnastica, stravolta e senza trucco, seduta nell’ufficio del direttore, che l’ascolta con espressione grave. Stanno attenti a non farsi sorprendere a curiosare, ma Monique si sente comunque osservata. Sa che parlano di lei, si scambiano occhiate e e-mail. È quello che vuole. L’intervista apparirà in prima pagina, viaggerà nel cyberspazio e arriverà a giornali e siti Internet di tutto il mondo. Ne parleranno televisioni e radio. Crawley può andare a farsi benedire. «Perché non ho scelta» dice, accoccolata sul divano, senza scarpe, come se stesse prendendo il caffè con un’amica. «Lo devo alle donne di tutto il mondo.» Si corregge: «Agli uomini, alle donne, ai bambini, a tutte le persone quotidianamente vittime di abusi». Attenta! Non lasciar intendere che gli abusi sessuali siano un problema li-
mitato alle donne. E non parlare di te come di una vittima. «Se vogliamo risolvere il problema della violenza sessuale, della pedofilia, dello stupro, dobbiamo cominciare con il parlarne apertamente» continua. «Come di un problema legato alla violenza e non limitato al sesso.» «Dunque lei vuole togliere allo stupro il marchio di infamia, minimizzandone la valenza sessuale» dice il giornalista, che si chiama Pascal Plasser qualcosa, un nome che Monique non riesce mai a ricordare. L’ultima volta che l’ha intervistata si è dimostrato ragionevolmente corretto e non particolarmente acuto, motivo per cui ha scelto lui, quando si è presentata in redazione senza appuntamento e ha proposto a Hamilton di rilasciare un’intervista al suo giornale, purché lui le assicurasse la diffusione che una simile esclusiva meritava. «No, Pascal» ribatte. «Non è questo che voglio.» Si chiede dove sia Win e le monta di nuovo la collera, la paura le stringe lo stomaco. Dice: «Minimizzare la valenza sessuale di quello che è successo a me è impossibile. Quella che ho subito è stata una violenza sessuale. Che ha messo a serio rischio la mia vita». «Il suo è un atto di grande coraggio, procuratore» dice Hamilton, grave e compunto come un impresario di pompe funebri. «Non teme però che i suoi detrattori possano interpretarlo come un’abile manovra politica? Il governatore Crawley, per esempio...» «Un’abile manovra politica?» Monique si tende in avanti e guarda il direttore negli occhi. «Vengo aggredita, legata e costretta a subire un rapporto sessuale, rischio di morire, di farmi bruciare la casa... Chi può pensare a una manovra politica?» «Il fatto che lei ne parli pubblicamente, tuttavia...» «Voglio dirle una cosa, Stuart» lo interrompe lei con notevole autocontrollo. «Che qualcuno ci provi, a definirla una manovra politica. Voglio proprio vedere che cosa succederà. Anzi, le dirò: non vedo l’ora.» Non sa neppure lei come fa a restare così controllata e ha il dubbio che non sia normale. Si chiede se non sia la quiete prima di una terribile tempesta, l’ultimo momento di lucidità prima della follia o del suicidio. «Perché dice di non vedere l’ora che succeda?» chiede Pascal Qualcosa prendendo appunti su un notes. «Chiunque oserà definire l’incubo che sto vivendo una manovra politica, si
rivelerà un essere davvero abietto. E avrà quello che si merita. Che ci provi.» Guarda oltre la vetrata l’open space con i suoi divisori, i giornalisti che ci lavorano, avvoltoi pronti ad approfittare delle tragedie altrui. Cerca Win, controlla se la sua straordinaria presenza brilla da qualche parte nella redazione. Ma non c’è traccia di lui e le sue speranze cominciano a scemare. È furibonda. Win Garano non ha seguito le sue direttive. L’ha messa in una situazione imbarazzante, umiliante, le ha dimostrato tutto il suo misogino disprezzo. «Lo slogan della sua nuova iniziativa, di cui parlano oggi i giornali, è Contro il crimine: passato, presente e futuro» dice Hamilton. «Cambierebbe qualcosa, alla luce dei fatti che l’hanno colpita?» «”A Rischio” e le indagini sul vecchio caso di omicidio avvenuto nel Tennessee resteranno la priorità anche adesso...» Win non c’è, non è venuto. Gliela pagherà, per questo. «Se mai, sono ancora più motivata e determinata a perseguire i colpevoli di reati di violenza, indipendentemente da quando sono stati commessi» risponde Monique. «Ho messo a capo dell’iniziativa il detective Garano, anche perché attualmente impossibilitato a svolgere le sue normali mansioni.» «Significa che Garano è stato sospeso dal servizio? Non è stata legittima difesa?» Pascal si è fatto di colpo attentissimo, come non è mai stato nel resto della difficile intervista. «Quando una persona muore in uno scontro a fuoco è nostro dovere aprire un’inchiesta, anche se tutto fa pensare alla legittima difesa» risponde Monique Lamont. «Sta dicendo che la reazione di Garano potrebbe essere stata eccessiva?» «Preferisco non fare ulteriori commenti al riguardo» replica lei. Win si sente leggermente in colpa, entrando nel laboratorio della polizia di Stato con la sua busta chiusa, perché non gli sembra giusto sconvolgere programmi e aggirare regolamenti per farsi analizzare dei reperti con la massima urgenza. Non si sente per niente in colpa, invece, di non essere andato al “Boston Globe” a dare corda a Monique Lamont, la quale a suo parere si sta comportando in una maniera inopportuna e scandalosa, che oltretutto alla lunga si rivelerà controproducente. Sammy dice che la sua intervista è già stata annunciata su Internet, in tv e alla radio, per invogliare chissà quante persone a leg-
gere le dichiarazioni pruriginose e commoventi del procuratore riguardo a fatti che sarebbero dovuti restare privati. Win trova che Monique Lamont sia irragionevole e incosciente. E che ciò sia oltremodo preoccupante, visto che lei è il suo capo. L’edificio è moderno, di mattoni a vista, con un massiccio portone di acciaio. Per Win è una sorta di rifugio in cui riparare nei momenti più bui e confidare a Jessie Huber problemi e ansie, ascoltare i suoi consigli e chiedergli qualche favore ogni tanto. Attraversa l’atrio verde e azzurro e imbocca il corridoio che porta all’ufficio del suo mentore e amico. Huber è sempre vestito di scuro, con camicia bianca e cravatta di seta grigia, cellulare perennemente attaccato all’orecchio. Alto, magro e completamente calvo, piace alle donne, forse perché è molto intelligente e sa ascoltare. Fino a tre anni prima dirigeva la squadra di Win, poi ha fatto carriera e adesso è responsabile del laboratorio forense. «Ciao, Win! Che roba!» lo accoglie Huber alzandosi dalla scrivania per andargli incontro. Lo abbraccia e gli dà una pacca sulla spalla. «Siediti. Non ci posso credere. Dimmi, come stai?» Gli avvicina una sedia. «Ti ho mandato nel Tennessee a seguire un corso di formazione forense fra i migliori del mondo. Come mai sei qui? Che cos’hai combinato?» «Mi ci hai mandato tu?» Win si siede, confuso. «Credevo che fosse stata Monique Lamont... Credevo che fosse una delle sue brillanti idee quella di iscrivermi alla National Forensic Academy, in maniera che poi fossi comodamente sul posto per indagare su un vecchio omicidio e farle fare bella figura.» Huber resta un attimo zitto, forse riflettendo su cosa dire. «Hai appena ucciso un uomo, Win. Non parliamo di politica.» «Ho appena ucciso un uomo per una questione politica, Jessie. È per la sua maledetta politica che Monique mi ha fatto tornare qui e mi ha invitato a cena.» «Ti capisco.» «Meno male. Almeno tu.» «Sei pieno di rabbia.» «Mi sento strumentalizzato. Non mi ha dato gli elementi su cui lavorare. Nemmeno il fascicolo della polizia...» «Vedo che la pensiamo allo stesso modo, riguardo all’iniziativa di Monique - “A Rischio” - e ai problemi che ha scatenato» dice Huber.
«Credevo che fosse un’iniziativa di Crawley e che Monique fosse solo il braccio esecutivo. A me l’ha spiegata in questi termini...» «Be’, in parte è così. E in parte no» replica Huber, protendendosi verso Win e abbassando la voce. «In realtà l’idea è stata di Monique, che l’ha proposta a Crawley sostenendo che era una grossa opportunità per il Commonwealth e l’avrebbe messo in buona luce. Lei sarà anche quella che risolve i casi, ma alla fine il boss è lui, no? Convincerlo non dev’essere stato difficile: fare bella figura è importante per tutti i governatori, ma per Crawley in maniera particolare. Perché dici che non hai il fascicolo della polizia?» «Perché non ce l’ho. Pare che tutto il dossier Finlay sia scomparso nel nulla.» Huber fa una faccia disgustata e alza gli occhi al cielo. «Non pensi che Monique se lo sia fatto mandare prima di decidere che si sarebbe occupata proprio di questo caso?» borbotta. Prende il telefono, fa un numero e guarda Win. «A me ha detto che...» comincia Win. «Pronto» dice Huber al telefono. «Senti, sono qui con Win Garano. Tu hai mai visto il dossier Finlay?» Pausa. Huber continua a guardare Win. «Sì, ho capito. Grazie.» Chiude la comunicazione. «Allora?» chiede Win, che all’improvviso ha una brutta sensazione. «Toby dice che lui l’ha visto, che in procura è arrivato qualche settimana fa. L’ha messo lui sulla scrivania di Monique.» «Lei mi ha detto che non l’aveva mai visto. E anche al Dipartimento di polizia di Knoxville mi hanno confermato che non c’era. Senti, mi dai il numero di Toby?» Dunque Monique Lamont gli ha mentito? Ha forse perso il dossier? Oppure qualcuno glielo ha sottratto prima che lei lo vedesse? «La politica è una cosa sporca» decreta Huber con espressione tetra. Scrive un numero su un foglietto e glielo porge. «La prima volta che mi ha parlato di “A Rischio”, le ho detto che aveva sbagliato a convincere Crawley, e che le conveniva lasciar perdere tutto. Come si fa a promettere di risolvere tutti i crimini passati presenti e futuri? Facciamo la prova del DNA a tutti i casi irrisolti dal Diluvio universale ai giorni nostri? A scapito dei cinquecento e passa casi di cui ci occupiamo normalmente, crimini attuali, commessi da individui ancora vivi, e a piede libero?» «Non ho ancora capito perché mi hai voluto mandare a Knoxville.» Win
non riesce a farsene una ragione. È scosso, agitato. «Credevo di farti un favore. Il posto è bello e avresti migliorato il tuo curriculum...» «So che hai sempre avuto un occhio di riguardo per me. È strano, però, che proprio mentre io faccio un corso nel Tennessee...» «Be’, è strano fino a un certo punto» lo interrompe Huber. «Monique voleva un caso che non fosse di qui. E voleva che te ne occupassi tu. Tu eri nel Tennessee, e quindi...» «E se io non fossi stato nel Tennessee?» «Magari avrebbe scelto un altro omicidio, sempre vecchio, sempre commesso in qualche luogo sperduto, e ti avrebbe affidato quello. Voglio dire, l’importante era che il New England risultasse il salvatore del piccolo dipartimento di polizia di provincia» aggiunge sarcastico. «Arrivano i nostri, insomma. Siamo o non siamo la terra del MIT e di Harvard? E, comunque, non doveva essere un caso locale anche per un altro motivo. Se non fossimo riusciti a risolverlo, da qui alle elezioni se ne sarebbero dimenticati tutti molto più facilmente. Diverso sarebbe stato se si fosse trattato di un omicidio commesso nel Massachusetts e molto più noto all’elettorato. Non ti pare?» «Sì, probabilmente hai ragione.» Huber si appoggia di nuovo allo schienale e cambia discorso. «Ho saputo che sei una specie di star, alla National Forensic Academy.» Win non risponde, perso in una serie di considerazioni. Ha i sudori freddi. «Devi pensare al futuro, Win. Non vorrai lavorare per Monique Lamont per il resto della tua vita, vero? Ti sbatti giorno e notte per risolvere casi di relativa importanza, deficienti che ammazzano altri deficienti, e guadagni una miseria. Sono sicuro che prima o poi ti stuferai. Un corso così qualificante è un fiore all’occhiello... Insomma, Win, tu sei un uomo in gamba. Potresti prendere il mio posto, quando andrò in pensione. Ti piacerebbe dirigere il laboratorio forense? Io conto di andarmene abbastanza presto. Certo, dipende da come vanno le cose, da chi sarà il prossimo governatore...» Fa la faccia di chi la sa lunga. «Tu mi capisci, vero?» Win lo segue a malapena, per la verità. Resta zitto. Ha un brutto presentimento riguardo a Huber. Non gli è mai capitato prima. «Ti fidi di me?» «Mi sono sempre fidato di te» risponde Win. «E continui anche adesso?» insiste Huber, serissimo.
Win aggira la domanda. «Mi fido abbastanza da decidere di venire da te a parlare del fatto che ho ucciso un uomo. Non mi sembra poco.» «Non faccio più parte dell’unità di sostegno psicologico. Non lo sapevi?» «Non ha importanza, lo sai benissimo. Sei il consulente a cui ho scelto ufficialmente di rivolgermi. Perciò, rispettiamo le formalità: informati sulla mia salute mentale.» «Come stai?» Huber è serio, grave. «Mi dispiace aver dovuto ricorrere all’uso della forza» risponde Win meccanicamente. «Sono sotto shock, non riesco a dormire. Ho fatto il possibile per evitare di sparargli, ma non mi ha lasciato alternativa. Una tragedia. Era un ragazzo, avrebbe potuto cambiare vita, reinserirsi nella società.» Huber lo guarda a lungo, poi dice: «Mi viene da vomitare». «Okay, allora. Sono contento che quel pezzo di merda non abbia ammazzato né Monique né me, e arrabbiato per quello che le ha fatto. Non solo a lei, ma anche a me. E non mi dispiace neanche che sia morto, così non mi può fare causa. Senti, mi presti Rake per un po’?» Gli fa vedere la busta sigillata con il nastro giallo e la sua sigla. «Posso approfittare della sua scatola magica e dei suoi sofisticatissimi software per esaminare questa lettera? A proposito, avete trovato impronte sulle banconote che aveva in tasca Baptista?» «Sì, ma non abbiamo trovato corrispondenze nel database dello Iahs.» Huber si alza in piedi, torna dietro la scrivania e si siede sulla poltroncina girevole. «Secondo te, cos’è successo?» chiede Win. «Pensi che Baptista fosse andato lì per rubare e lei l’abbia sorpreso, o che cosa?» Dopo un attimo di esitazione, Huber risponde: «Be’, Monique ha un sacco di nemici. Penso che tu sia in grado di vedere le cose in maniera obiettiva, Win, per quanto spaventose siano. Insomma, ti consiglio di stare attento a quello che le dici e che le chiedi. Molto attento. È un peccato, mi dispiace. Perché all’inizio Monique non era così. Era in gamba, faceva bene il suo lavoro, la stimavo moltissimo. Poi, non so come dire... ha dimenticato il significato della parola etica». «Credevo che tu e Monique foste amici. Ha sistemato tuo figlio, no?» «Amici è una parola grossa...» Huber sorride tristemente. «In questo lavoro, conviene non far capire a nessuno che cosa pensi veramente. Monique non ha idea dell’opinione che Toby ha di lei.» «E di quella che hai tu?»
«Guarda, tutte le volte che capita un pasticcio Monique dà la colpa agli altri. A Toby, soprattutto. Ti dico una cosa. Che resti fra me e te, mi raccomando. Monique rischia grosso» sussurra Huber. «Peccato.» 9 Il patologo forense che effettuò l’autopsia dell’uomo investito dal treno morì una settimana dopo. Era appassionato di paracadutismo e una domenica pomeriggio non gli si aprì il paracadute. Se Delma non avesse avuto il fascicolo sotto gli occhi, non ci avrebbe creduto. “Karma negativo” pensa. Da piccola amava l’archeologia, probabilmente perché a scuola non la insegnavano. Aveva perso ogni interesse dopo aver letto della maledizione di Tutankhamon, che aveva misteriosamente colpito tutti quelli che erano entrati nella sua tomba. «Vivian Finlay fu uccisa vent’anni fa» sta dicendo al telefono a Win. «Due anni prima venne investito dal treno l’uomo della foto e il medico che effettuò la sua autopsia si sfracellò per la mancata apertura del paracadute. Inquietante, non trovi?» «Potrebbe essere una coincidenza» le fa notare lui. «Come spieghi la foto pinzata all’elenco degli effetti personali della Finlay, allora?» «Senti, non parliamone adesso» dice Win, che non ama i cellulari e teme che sia imprudente fare certi discorsi al telefono. Delma è sola nel piccolo ufficio del reparto di anatomia patologica all’undicesimo piano di un edificio dietro la clinica universitaria della University of North Carolina a Chapel Hill. È confusa, le pare che il caso Finlay diventi sempre più strano via via che va a fondo. Prima di tutto, il dossier è scomparso. Resta soltanto un elenco di effetti personali della vittima, dove però compaiono indumenti chiaramente non della sua taglia. Poi è saltata fuori la foto di un uomo investito da un treno, apparentemente senza alcun legame con l’omicidio dell’anziana donna. E adesso si scopre che il medico che effettuò l’autopsia dell’uomo finito sotto il treno morì pochi giorni dopo. «Chiariscimi un paio di cose» aggiunge Win. «Senza entrare nei particolari. Come è morto?» «Non gli si è aperto il paracadute.» «Lo hanno esaminato? Il paracadute, intendo.»
«Tì mando tutto via e-mail» dice Delma. «Così te lo leggi con calma. Quando torni?» Si sente sola, abbandonata. Win è con il procuratore distrettuale Monique Lamont, di cui parlano tutti i giornali. A quanto ha capito, l’ha salvata sparando al suo aggressore. Perché continua a stare là? Perché non torna a Knoxville a darle una mano? Il caso Finlay è suo, ma sta facendo fare tutto a lei. Ufficialmente, è stato affidato a lui. E comunque, dopo l’aggressione al procuratore distrettuale, della vecchia uccisa vent’anni fa a Knoxville se ne fregano tutti. Che senso ha? «Appena posso» risponde Win. «So che sei incasinato» replica lei, cercando di essere ragionevole. «Ma questo caso è stato affidato a te, Win. Io devo riprendere le lezioni all’Academy, altrimenti i miei capi mi fucilano.» «Non ti preoccupare: sistemo tutto io» le promette Win. Glielo dice sempre, ma finora non è stato propriamente di parola. Delma sta perdendo un sacco di tempo appresso a lui, non sta studiando, non vede gli altri studenti e quindi non riesce né a farsi dare gli appunti, né a farsi spiegare che cosa hanno fatto. Rimane indietro, si sente emarginata. Se ne lamenta e lui le risponde di nuovo di non preoccuparsi, che ci penserà lui, che l’aiuterà a rimettersi in pari. Delma si rimprovera di dedicare troppo tempo e troppe energie a un uomo che potrebbe essere suo figlio. Win sostiene che l’età non ha importanza, ma guarda le ragazze e parla sempre di quel procuratore distrettuale, Monique Lamont, bella e anche elegante. Forse, però, dopo quello che è successo non gli piace più. È brutto pensarlo, ma gli uomini tendono a perdere interesse per le donne che sono state stuprate. Delma sfoglia la pratica relativa alla morte dell'anatomopatologo. Si chiamava Hurt. Che nome! Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Dopo un volo di millecinquecento metri, subì un trauma cranico con fuoriuscita di materia cerebrale, la lussazione di entrambi i femori, lesioni e fratture multiple ovunque. L’unica descrizione del paracadute è di uno dei poliziotti intervenuti sulla scena, il quale sostiene che non era stato approntato bene. Stando alle deposizioni di alcuni testimoni, era stato lo stesso Hurt a prepararlo, tanto che si parlò addirittura di suicidio. Colleghi e parenti confermarono che Hurt stava attraversando un momento difficile, perché aveva contratto forti debiti e stava divorziando, ma sottolinearono anche che non appariva depresso e non aveva comportamenti strani.
Anzi, sembrava che stesse prendendo tutto piuttosto bene. Delma sa quanto sia frequente, quando una persona si toglie la vita, che amici e parenti cadano dalle nuvole. È comprensibile: se ammettessero qualche motivo di preoccupazione, dovrebbero sentirsi in colpa per averla trascurata. Delma sente bussare alla porta e alza la testa. È la direttrice del reparto, una donna fra i cinquanta e i sessant'anni con la faccia a punta e occhiali da vecchietta, il camice bianco e lo stetoscopio intorno al collo. «A cosa le serve?» chiede Delma indicandolo. «Ad accertarsi che la gente sia morta veramente, prima di cominciare a sezionarla?» La dottoressa sorride. «La mia segretaria ha una brutta tosse e mi ha chiesto di auscultarla. Le sta venendo la bronchite. Sono venuta a vedere se aveva bisogno di qualcosa.» E non solo per questo. «Lei lavorava già qui, quando morì il dottor Hurt?» le domanda Delma. «No. Anzi ho preso proprio il suo posto. Ma posso chiederle perché di punto in bianco tanto interesse?» Guarda i due fascicoli sul tavolo. Delma non vuole darle spiegazioni. Risponde: «Sembra che alcune morti, apparentemente slegate fra loro, abbiano invece un qualche collegamento. Sa com’è, in questi casi bisogna controllare tutto». «Pensavo che il suicidio fosse stato accertato. Come mai a indagare è il TBI?» «Non è il TBI, veramente.» «Scusi, non se ne occupa lei?» domanda stupita la dottoressa. «Non in prima persona. Sto dando una mano a un collega.» Lo dice a se stessa, più che a lei. «Il mio è un semplice controllo, come le ripeto.» «Se ha bisogno di me, sono nella sala settica» dice la dottoressa. E se ne và. Delma pensa al dottor Hurt, si chiede che tipo di uomo era, se sapeva fare il suo mestiere e quanto impegno ci metteva, visto che era depresso e meditava di togliersi la vita. Pensa che lei, una settimana prima di suicidarsi, sarebbe molto più approssimativa nel suo lavoro: chissà quanti particolari si lascerebbe sfuggire... Non le importerebbe più di niente, farebbe il minimo indispensabile. Intanto, rilegge la ricostruzione dell’incidente ferroviario, occorso al passaggio a livello di una strada di campagna a due corsie. Il macchinista del treno merci dichiarava di aver visto un uomo disteso a faccia in giù sui binari uscendo da una curva piuttosto stretta intorno alle otto e quindici del
mattino e di aver immediatamente frenato senza però riuscire a evitarlo. La vittima si chiamava Mark Holland, aveva trentanove anni e faceva l’agente investigativo nel Dipartimento di polizia di Asheville. La moglie, Kimberley, dichiarava che Holland la sera prima era uscito di casa presto per andare a Charlotte, dove aveva “un appuntamento di lavoro”, non sapeva con chi. A suo dire, non era depresso e non aveva motivo di suicidarsi. Si diceva sicurissima che non si fosse tolto volontariamente la vita, soprattutto visto che aveva appena ricevuto una promozione e che loro due stavano cercando di avere un bambino. Il referto dell’autopsia parla di ferite alla testa e fratture del cranio “compatibili con una caduta”. Il dottor Hurt non era soltanto depresso, pensa Delma, era proprio andato. Ipotizzava infatti che Holland fosse inciampato attraversando i binari a piedi e fosse caduto malamente, battendo la testa e perdendo conoscenza. Privo di sensi, era stato poi investito dal treno: morte accidentale. Il tecnico della Scientìfica Rachel, o “Rake”, come la chiama Win, posa la lettera su una piastra di metallo poroso e la accende. Win l’ha già vista all’opera con quel sistema di imaging elettrostatico. A volte gli esiti sono strabilianti, come nel recente caso del sequestratore che aveva scritto la richiesta di riscatto ai familiari del rapito su un foglio strappato da un notes su cui era stato precedentemente annotato un numero di telefono. Rake aveva notato i segni in rilievo sul foglio e, individuato il numero di telefono, era risalita al nome del locale a cui il rapitore aveva ordinato una pizza imprudentemente pagata con la carta di credito. Rake indossa un paio di guanti bianchi di cotone ed esprime soddisfazione quando Win la informa di non aver toccato il foglio con le mani. Dopo la ricerca di eventuali segni impressi sul foglio, la lettera lasciata al Diesel Café da un uomo con la sciarpa rossa potrà essere esaminata con la ninidrina o altri reagenti nel laboratorio di dattiloscopia. «Come si sta a Knoxville?» gli chiede. Rake è una brunetta molto carina che prima lavorava a Quantico, ma a un certo punto si è licenziata perché non ne poteva più dell’FBI. «Non avrai preso quell’orribile cadenza cantilenante, vero?» «No, ad avere la cadenza che dici tu sono quelli del Nord della Georgia.» «Dimmi, cosa si fa da quelle partì? Si va a caccia?» «No, si guarda il football.»
Rake copre la lettera con una pellicola trasparente simile a quella che si usa in cucina. «Win?» Gli parla senza alzare la testa. «Mi spiace per quello che ti è successo, e non lo dico tanto per dire.» «Grazie, Rake.» Passa un dispositivo sopra la superficie del foglio, sottoponendolo a una carica elettrostatica. Win sente un odore strano, che gli fa venire in mente l’inizio di un temporale. «Dicano pure quello che vogliono. Secondo me, hai fatto la cosa giusta» continua Rake. «E non capisco come facciano a contestartelo.» «Perché dovrebbero?» chiede Win, in preda a uno dei suoi presentimenti. Rake sparge del toner sul documento coperto dalla pellicola e dice: «Ho sentito che ne parlavano alla radio, quando sono andata a prendere il caffè». La carica elettrostatica in condizioni di vuoto spinge il toner dentro eventuali segni impressi nella carta, invisibili all’occhio umano. «Che cosa dicevano?» le chiede Win. Ma ha già capito di essere nei guai. «Pare che Monique Lamont abbia dichiarato che è stata aperta un’inchiesta. Vogliono accertare che la tua non sia una reazione eccessiva. Domani ne parleranno tutti i giornali.» Lo guarda e aggiunge: «Bella gratitudine!». «Avrei dovuto aspettarmelo» replica lui, osservando le lettere nerastre che prendono confusamente forma sul foglio. Rake non sembra molto soddisfatta. Indica la lettera minatoria che l’uomo con la sciarpa rossa ha lasciato a Win e dichiara: «Conviene provare con il 3D». Toby Huber ha freddo, sul terrazzo del Winnetu Inn di South Beach, a Edgartown. Sta fumando uno spinello e guarda il mare e la gente in pantaloni lunghi e giacca che passeggia lungo la spiaggia. «Sono sicuro che non c’è più. Solo che non mi ricordo esattamente dove l’ho messo» dice al cellulare, irritato ma già sotto il piacevole effetto dell’hashish. «Mi spiace. Comunque, a questo punto, non ha più importanza.» «Non sta a te deciderlo. Non riesci a ricordartelo? Sforzati un po’, per una volta.» «Te l’ho già detto, okay? Non lo so, potrei aver buttato tutto nella spazza-
tura. E quando dico tutto, intendo tutto quanto, anche la roba che c’era nel frigo, birra, roba così. L’ho buttato in un cassonetto a sei o sette chilometri di distanza, dietro un ristorante, non mi ricordo il nome. Cazzo, si gela, qui! Comunque, ho guardato e riguardato: non c’è. Senti, datti una calmata, se non vuoi che ti venga un infarto...» Bussano e, subito dopo, la porta si apre. La cameriera è sorpresa quando Toby, che rientra dalla terrazza, la guarda male. «Non ha visto il cartello “Non disturbare”?» le urla. «Non c’è nessun cartello, signore. Mi dispiace» risponde imbarazzata la donna. E sparisce. Toby torna sul terrazzo, tira una boccata allo spinello e grida al telefono: «Io me ne vado, ti avverto. Vado in un posto più caldo. Qui è un mortorio. Ho già fatto abbastanza. Spero solo che ne sia valsa la pena». «Non ancora. Se all’improvviso prendi un aereo per Los Angeles, potrebbero insospettirsi. Stai lì ancora qualche giorno. Dobbiamo essere certi che non sia in un posto dove qualcuno lo possa trovare, perché altrimenti scoppia un casino. Concentrati, Toby.» «Se non l’ho buttato, è ancora dentro l’appartamento. Non so proprio...» Gli viene in mente che forse sotto il letto non ha controllato. Lo dice, poi aggiunge: «Potrei avercelo messo dopo averlo sfogliato. Perché non vai a guardarci?». «Ci ho già guardato.» «Se per te è così importante, guardaci di nuovo.» «Per favore, Toby! Cerca di ricordare l’ultima volta che l’hai avuto per le mani. Sei sicuro di non averlo lasciato in ufficio?» «Te l’ho già detto. Me lo sono preso per leggerlo. Lo so per certo, visto che l’ho letto.» «Non ti ho chiesto di prenderlo per leggerlo!» «Ho capito. Me l’hai già ripetuto cento volte. Adesso piantala.» «L’avevi in macchina? Dove sei andato? L’hai sfogliato a letto? Cosa te ne fregava, volevi guardare le foto? Tu sei malato, te lo dico io. Cerca di fare mente locale, Cristo santo!» «Ti ho detto di smetterla! Sembri una vecchia isterica. Sai benissimo che non posso andarlo a cercare, ora. Perciò fallo tu, fruga dappertutto. Magari l’ho perso, non lo so. L’ho messo in un sacco di posti diversi, quando ero lì. In un cassetto, fra i vestiti, sotto il cuscino... Persino nel cesto della bianche-
ria sporca. E nell’asciugatrice.» «Sei sicuro di non essertelo portato a Martha’s Vineyard?» «Quante volte me lo vuoi chiedere? Chi se ne frega, comunque. Tanto è andato tutto storto. Se anche si è perso...» «Non siamo sicuri che sia andato perso. Il problema è proprio questo. E non è un problema da poco. Supponi che qualcuno lo trovi. Era l’ultima cosa che dovevi fare prima di partire e non l’hai fatta. Mi ero raccomandato, ma tu te ne sei fregato.» «Senti, probabilmente è finito nella spazzatura, okay? Devo averlo buttato insieme a tutto il resto.» Aspira un’altra boccata dallo spinello. «Cioè, sai benissimo quanti pensieri avevo, no? Quello voleva i soldi, e li voleva in anticipo. Ma tu ci hai messo un sacco di tempo a procurarmeli...» «Sei una iattura, Toby. Non so come ho fatto a ritrovarmi con uno come te.» Toby trattiene il fumo nei polmoni. «Ti è andata bene, te lo dico io. Finora. Perché le cose possono anche cambiare, credimi.» Rake è persa nel suo mondo di pixel, Z range e istogrammi, esegue panoramiche, zumate, rotazioni, regolazioni luminose; modifica riflessi superficiali ed evidenzia i contorni, mentre Win osserva sullo schermo una serie di sagome grigie, ingrandite e in visione tridimensionale. Gli sembra di veder apparire una parola, forse un numero. «Una “e”, una “v” e una “r” minuscole?» dice. «Un tre, un nove e un sei?» Non solo. Rake continua a concentrarsi e sullo schermo si materializzano lettere e numeri. Strani, come sovrapposti. «Scritte diverse, su più di un foglio sopra a questo» ipotizza Win. «Sì, lo penso anch’io» replica Rake. «Potrebbero essere tracce lasciate sulla carta da scritture successive su diversi fogli di uno stesso blocnotes. Cioè, scrivi una cosa su un foglio, poi su quello successivo ne scrivi un’altra e la pressione della penna o della matita è abbastanza forte da lasciare il segno su un certo numero di fogli.» Dopo un po’, riescono a identificare le parole “market exclusivity tre anni”, “OK” e, parzialmente sovrapposti a indicare scritte diverse su fogli diversi, “$8,96” con (forse) “da $6,11 preventivati”. 10
Monique Lamont è seduta nella cucina di marmo e ciliegio della casa di Mount Vernon Street a Beacon Hill, uno dei quartieri più esclusivi di Boston. Sta bevendo il primo martini cocktail della serata, con Gray Goose, oliva verde farcita e bicchiere freddo di freezer. Indossa un paio di jeans e una camicia larga, anch’essa di jeans. La tuta che portava fino a poco fa è finita in un cassonetto dietro la casa, una casa di cui nessuno sapeva niente fino a quella mattina, quando Sammy ha deciso di rendere noto l’indirizzo ai suoi uomini, sostenendo che bisognava sorvegliarla. Non l’ha autorizzata a tornare nella casa di Cambridge, e comunque lei non se la sarebbe sentita. Continua a rivedersi davanti alla porta sul retro, mentre fa per prendere la chiave di riserva. Continua a ripensare alla tanica di benzina. Non potrà più entrare nella sua camera da letto senza rivedersi davanti Baptista con la pistola puntata, senza rivivere quello che le ha fatto, senza sentirsi di nuovo la creatura piccola e impotente cui quel mostro l’ha ridotta. Una nullità. «Mi dispiace solo di non averlo ammazzato io con le mie mani» dice. Huber è seduto di fronte a lei con una birra sul tavolo, la seconda. Fa fatica a guardarla: sembra che i suoi occhi si rifiutino di incrociare lo sguardo di lei. «Devi cercare di dimenticare, Monique. So che è più facile a dirsi che a farsi, ma tieni presente che non stai pensando lucidamente. Non è possibile, in queste condizioni.» «Ma sta’ zitto! Se una cosa del genere fosse successa a te, saresti da ricovero. Ti farebbe bene, guarda: magari impareresti a essere un po’ più empatico.» «Ti sembra sensato essere così distruttiva? Pensaci. Non avresti dovuto parlare di questa casa.» «Cosa avrei dovuto fare, rifiutare la protezione della polizia senza sapere chi c’è dietro, chi l’ha assoldato?» «Non sappiamo nemmeno se l’ha assoldato qualcuno.» «Volevi che andassi in un albergo? In balia di giornalisti pronti a farmi a pezzi?» «Ti ricordo che dai giornalisti ci sei andata da sola» le fa notare Huber grave, distogliendo lo sguardo con atteggiamento freddo, calcolatore. «Adesso l’unica è fare buon viso a cattivo gioco.» Monique Lamont lo detesta, quando parla per luoghi comuni. Ribatte:
«Perché gli hai detto di sì? Avresti potuto raccontargli che il laboratorio era chiuso, che Rachel non c’era, che aveva da fare. Qualsiasi cosa. Sei un cretino, Jessie». «Win ha sempre avuto una corsia preferenziale, in laboratorio. Se gli avessi detto di no, si sarebbe insospettito. È troppo in gamba. E poi si fida di me. Mi considera un po’ come un padre.» «Allora non è in gamba come dici.» Monique finisce il cocktail e mangia l’oliva. «Il problema è che sei una snob.» Huber si alza, apre il freezer, prende la bottiglia di Gray Goose, un bicchiere freddo e le prepara un altro cocktail, dimenticando l’oliva. Monique fissa il bicchiere finché Jessie non capisce che non lo assaggerà nemmeno, se lui non ci metterà anche l’oliva. «Sai quanto è il suo quoziente di intelligenza?» dice Huber cercando nel frigo. «È più alto del tuo e del mio messi insieme.» Monique rivede Win che entra in camera sua, la guarda, le porge la giacca e le raccomanda di fare respiri profondi. L’ha vista nuda, impotente, degradata. «È solo che agli esami, ai test, non rende» continua Huber, stappandosi un’altra birra. «Si è diplomato con il massimo dei voti, era il più bravo della classe, il più bello, il più promettente. Purtroppo, non ha ottenuto un punteggio sufficiente ai test di ammissione a Harvard. Come dicevo, non rende, va nel pallone, non so.» Win non si è fatto vedere, al “Globe”. Ha osato disubbidirle. Non la rispetta più, dopo che... «Non è l’unico» prosegue Huber risedendosi. «Il mondo è pieno di persone brillanti che rendono poco ai test.» «Non mi interessa» lo interrompe Monique. «Dimmi piuttosto che cosa ha scoperto in laboratorio.» La vodka le ha appesantito la lingua, l’ha resa confusa. «O che cosa ha creduto di scoprire.» «Con ogni probabilità, non ha capito niente. E comunque niente di probante.» «Io ti ho fatto un’altra domanda.» «Appunti di una conversazione telefonica con il mio broker.» «Oddio!» «Non ti preoccupare. Su quel foglio non ci sono né impronte digitali né al-
tro da cui si possa risalire a me. Modestamente, di queste cose me ne intendo.» Sorride. «È probabile che Win sospetti di te. Forse pensa che ci sia tu, dietro. Oppure Roy, che gli ha dato del mezzosangue.» Scoppia a ridere. «Se c’è una cosa che lo fa arrabbiare, è proprio questa.» «Tu e le tue decisioni avventate.» Huber non l’ha nemmeno interpellata, ha agito senza consultarla. Dopo, però, l’ha informata, per comprometterla. È la sua strategia, lo è stata fin dall’inizio. «Alla fine, l’effetto è stato esattamente quello desiderato.» Huber beve un sorso di birra. «Win è fatto così: più lo minacci, più lo insulti, più cerchi di spaventarlo, e più lui si incaponisce. È uno che non molla.» Monique non risponde e beve un sorso del suo cocktail. Si sente in trappola. «Non era necessario. Non avrebbe mollato comunque» replica. «La colpa è tua che gli hai voluto parlare di persona, che non ti sei accontentata di farlo per telefono. Avresti dovuto lasciarlo stare a Knoxville.» Si interrompe, fa una smorfia. «Hai colto la palla al balzo per invitarlo a cena, ecco che cos’hai fatto.» «Ma per favore...» «Alla fine, però, è stato meglio così. La divina provvidenza, il tuo angelo custode, o forse avevi ben seminato, non lo so...» continua Huber indelicato, indifferente. «Fatto sta che si è incazzato ed è venuto a casa tua. In fondo, la mia strategia è risultata vincente per tutti. Sei ancora viva, Monique.» «Sembra quasi che ti dispiaccia.» «Monique...» «Non sto scherzando.» Lo guarda negli occhi, imperturbabile, e si rende conto di odiarlo, di volergli male. Poi: «Ti avverto che non voglio più Toby fra i piedi. Non vale nulla. Basta fare favori alla gente, sono stufa». «Neanche lui è contento di lavorare con te.» «E sono stufa anche di te, Jessie. È un pezzo che non ne posso più.» La vodka la rende più disinibita. Jessie Huber può andare a quel paese. «Basta, non ci sto più. Seriamente. Non ne vale la pena.» «Sbagli. Hai avuto quello che volevi, Monique. Quello che meriti» le dice. E ciò che intende è inequivocabile. Monique lo guarda scioccata. «Quello che merito?» Jessie regge il suo sguardo senza rispondere.
«Merito questo, secondo te? Merito questo? Sei un bastardo!» «Nel senso che, dopo tutto quello che hai seminato, è giusto che adesso raccolga i frutti del tuo lavoro.» Huber non abbassa gli occhi e continua a guardarla, impassibile. Monique si mette a piangere. È buio, notte di luna nuova. Win apre la portiera della vecchia Buick di Nana e osserva Miss Dog, di nuovo in mezzo alla strada, abbagliata dalla luce dei fari, irrequieta. «Basta! Questa è l’ultima volta!» È furibondo. «Vieni qui, bella.» Cerca di blandire il cane. «Dai, su. Cosa ci fai ancora per la strada? Quella stupida ha lasciato la porta aperta un’altra volta? Ti ha fatto uscire e poi si è dimenticata della tua esistenza? O quel deficiente di suo genero ti ha di nuovo preso a calci?» Miss Dog abbassa la coda e la testa, poi si appiattisce sull’asfalto con aria colpevole. Win la prende in braccio, parlandole con dolcezza, chiedendosi se capisce. La posa in macchina e riparte, spiegandole che cosa sta facendo e dove la vuole portare. Forse il cane capisce, forse no. Gli lecca una mano. Win parcheggia sul retro della casa di Nana, dove le campane a vento tintinnano appena nella notte serena e senza vento, come spargendo segreti. Apre la porta di servizio tenendosi Miss Dog sulle spalle, come un sacco di patate. «Nana?» Win segue il suono della televisione. «Nana? Guarda chi ti ho portato.» Delma Sykes è al telefono da un’ora, alla ricerca della persona giusta con cui parlare. Ventitré anni sono tanti, tantissimi: sembra che ormai nessuno del Dipartimento di polizia di Asheville si ricordi più il detective Mark Holland. Mentre guida, diretta a Knoxville, Delma prova un altro numero. I fari dei veicoli che viaggiano sulla corsia opposta le danno fastidio. Un tempo non era così: la vista le è notevolmente peggiorata, non riesce a leggere un menu senza occhiali e al buio vede sempre meno. Maledetti aerei, maledetti ritardi e cancellazioni... E l’ultima macchina all’autonoleggio doveva proprio essere una quattro cilindri? «Cerco il detective Jones» dice all’uomo che risponde al telefono. «È parecchio che non mi sento più chiamare così» risponde una voce affa-
bile. «Chi parla?» Delma si presenta e dice: «Mi risulta che lei fosse nella squadra investigativa di Asheville negli anni Ottanta. Mi chiedevo se per caso conosceva Mark Holland». «Non molto bene. Ero nella squadra solo da due o tre mesi, quando morì.» «Che cosa ricorda della sua morte?» «So che era andato a Charlotte per interrogare alcuni testimoni di una rapina. Le dirò che io non ho mai creduto alla storia dell’incidente. Secondo me, voleva togliersi la vita in un posto in cui non toccasse ai suoi colleghi indagare sulla sua morte.» «E perché avrebbe voluto togliersi la vita?» «A quanto ne so io, la moglie gli metteva le corna» risponde Jones. Nana si è addormentata sul divano, con la sua lunga vestaglia nera e i capelli bianchi sciolti e sparpagliati sul cuscino. Sullo schermo c’è Clint Eastwood con la sua fida pistola. Win posa per terra Miss Dog, che va subito ad annusare Nana e le appoggia il muso in grembo. Gli animali si comportano sempre così, con lei. Nana apre gli occhi, vede Win e gli tende la mano. «Tesoro mio» gli dice. Lo bacia sulla guancia. «L’allarme era di nuovo disinserito, perciò ho deciso di procurarti un cane da guardia: Miss Dog.» «Benvenuta, Miss Dog.» Nana accarezza l’animale fra le orecchie. «Non ti preoccupare, bella, qui sei al sicuro. Vedrai che quella donnaccia non ti troverà. Perché non si mette la dentiera, mi chiedo.» Continua ad accarezzare il cane, dicendo: «Buona, buona, ora sei al sicuro». Poi, indignata, aggiunge: «Li sistemo io, adesso». Nana non sopporta chi maltratta gli animali. È capace di uscire nottetempo a lanciare nel loro giardino novecentonovantanove monetine da un penny: tributo a Ecate, la dea vendicatrice della mitologia greca. Miss Dog si è addormentata in grembo a Nana. «Ha l’artrite, poverina. E problemi alle gengive» dice Nana. «E poi è depressa. Quella donnaccia le grida sempre di tutto, perché è infelice pure lei. Ma è anche cattiva, tratta male se stessa e gli altri. È terribile, povera cagnetta.» L’accarezza. «So tutto» dice poi a Win. «L’ho sentito alla tv. Ma tu stai bene.» Gli prende la mano. «Ti ricordi di quando tuo padre picchiò il nostro
vicino, quello che abitava tre strade più in là?» Fa un cenno. «Non poteva comportarsi diversamente.» Win non sa di che cosa stia parlando, ma gli succede di frequente con sua nonna, che spesso dice cose che non sono né ovvie né logiche. «Tu avevi quattro anni e il figlio di quell’uomo, che ne aveva otto, ti aveva buttato a terra e preso a calci, dandoti dello sporco negro o qualcosa del genere, e insultando tuo padre. Quando lui lo venne a sapere, andò a casa loro. E finì a botte.» «Fu mio padre a iniziare?» «No di certo. Ma fu lui ad avere l’ultima parola. A volte la violenza è inevitabile. L’importante è che tu stia bene. Se torni a guardare, vedrai che trovi un coltello.» «No, Nana. Aveva la pistola.» «Ti dico che c’è anche un coltello. Di quelli con il manico strano, così.» Disegna qualcosa nell’aria, una sorta di pugnale. «Va’ a vedere. L’uomo che hai ammazzato, e non per colpa tua, era molto cattivo. Ma non era solo, e l’altro è ancora più cattivo. Diabolico. Ho assaggiato il miele, stamattina. Il Tennessee è un luogo puro, dove abitano tante persone perbene. Sarà anche male amministrato, ma c’è brava gente. E siccome le api della politica se ne fregano, nel Tennessee stanno meravigliosamente e fanno il miele con gioia.» Win scoppia a ridere e si alza. «Devo andare nel North Carolina, Nana.» «Non ancora. Prima devi finire una cosa qui.» «Per favore, inserisci l’allarme.» «Ho le mie campane a vento. E adesso ho anche Miss Dog» dice Nana. «Stasera la luna è allineata con Venere ed entra nello Scorpione. Le tue percezioni sono velate, ma non lo saranno ancora per molto. Torna a casa di quella donna e troverai quello che ti ho detto, e anche qualcos’altro.» Con lo sguardo perso nel vuoto, prosegue: «Perché vedo una stanza piccola, con le travi a vista, e una scala stretta, forse di legno?». «Forse perché non ti ho ancora sistemato la soffitta, come mi avevi chiesto di fare» replica Win. 11 La mattina dopo, Delma e il direttore dell’NFA, Tom, sono accucciati nell’erba a cercare bossoli.
Al Dipartimento di polizia di Knoxville è preciso dovere di ognuno raccogliere i propri bossoli al poligono di tiro e frequentare i corsi dell’Academy, quando si ha il privilegio di poterlo fare. Delma, stanca e depressa, osserva i propri compagni di corso. Sono quindici, fra uomini e donne, in pantaloni, polo e berretto blu. Stanno riportando a posto armi e munizioni al termine di una lezione in cui hanno analizzato traiettorie di tiro, angolazioni e posizione dei bossoli espulsi usando bandierine arancioni e macchina fotografica, come si fa su una scena del crimine. Delma si sente umiliata e rifiutata, ha la sensazione che i suoi compagni la guardino dall’alto in basso e abbiano scarsa stima di lei. Probabilmente pensano che vada solo alle lezioni che le interessano, che si degni di partecipare solo quando si fa qualcosa di divertente, tipo sparare a sagome di cartone a grandezza naturale con AK-47, Glock e armi pesanti. A Delma piace crivellare di colpi quelle sagome a forma di uomo armato, molto più che cercare di fare centro su normali bersagli rotondi. Butta i bossoli nel secchio di plastica che lei e Tom hanno in comune e intanto osserva le Smoky Mountains in lontananza, avvolte dalla nebbia. L’aria è umida, pesante. «La polizia di Knoxville non sta facendo una bella figura» spiega a Tom, con la fronte sudata. «Ieri abbiamo parlato di corpi contundenti e relative lesioni» dice Tom, lanciando un bossolo nel secchio. «Che coincidenza» replica Delma, guardando nell’erba. «Anche Vivian Finlay fu uccisa con un corpo contundente. Le sfondarono il cranio in più punti, forse con un martello. Vedi, anche se ieri non sono venuta, studio lo stesso...» «Ti sei persa la lezione su overdose, sindrome della morte in culla e abusi sui minori, però» le fa notare Tom, mentre avanza nell’erba. «Mi farò passare gli appunti da qualcuno» dice Delma, che non è affatto sicura di riuscirci. Se almeno Win non fosse via. «Sì, forse è meglio.» Tom si alza in piedi e si stira. Ha un’espressione severa. Forse anche più del necessario. È giovane, e spesso sembra più duro di quello che è. Delma lo sa, l’ha visto con i figli. «Dicevi che il dipartimento sta facendo una brutta figura?» le domanda a un certo punto. Delma gli spiega di Jimmy Barber e dei dossier che si è portato a casa, del
fascicolo scomparso, delle inammissibili lacune nelle indagini su un omicidio particolarmente efferato. Usa toni drammatici per sottolineare che, se salta le lezioni, è perché sta facendo una cosa importante. «Non voglio che il dipartimento perda credibilità» aggiunge poi. «Se mollassi... Voglio dire, se io e Win smettessimo di...» «Tu pensa per te e lascia perdere Win. Mi darà lui delle spiegazioni, quando e se tornerà. Comunque il caso è suo, Delma. È stato affidato a lui.» Delma lo sa benissimo, benché abbia la sensazione di aver fatto tutto lei. «E la credibilità del dipartimento non è in pericolo. È passato un sacco di tempo, in vent’anni sono cambiate molte cose. I mezzi di cui si disponeva a quel tempo erano di gran lunga meno raffinati rispetto a quelli che abbiamo adesso.» Si guarda in giro. «In ogni caso, non me la sento di mollare tutto» ribadisce Delma. «Capisco. Gli studenti dell’NFA sono sempre tenaci e determinati» dice Tom, quasi con dolcezza. «Senti, domani parleremo di ferite d’arma da fuoco e faremo qualche esercitazione sulla gelatina balistica.» «Bene.» Le piace sparare alle sagome di gelatina, ancor più che ai bersagli di cartone. «Diremo cose che probabilmente sai già, quindi potresti anche saltare. Caso mai ti faccio un breve ripasso in seguito. Ma la settimana prossima verrà Henry Lee a parlarci della conformazione delle macchie ematiche in relazione alle diverse ferite. Non ti conviene perderlo.» Delma si toglie il berretto e si asciuga la fronte, osservando i suoi compagni che si incamminano verso la costruzione e il parcheggio, che vanno dritti verso il loro futuro. «Ti do fino a lunedì» conclude Tom. «Niente» annuncia Win scendendo la scala di legno e ricordando quanto cigolasse la notte di qualche giorno prima, quella che gli ha cambiato la vita. «Te l’avevo detto. Siamo stati attenti a non lasciarci sfuggire nulla, abbiamo controllato ovunque» dice Sammy, che si è seduto vicino al caminetto. «Nel resto della casa non sono proprio andati, come ha detto anche lei. L’ha aggredita di sotto, l’ha portata in camera da letto e non si è mosso da lì finché per fortuna non sei arrivato tu ed è finito tutto.» «Non è finito tutto, purtroppo.» Win si guarda intorno. La mania di Monique Lamont per vetri e cristalli non si limita al suo uffi-
cio. Win non ha mai visto niente del genere. Dappertutto ci sono lampade come quella che lui ha mandato in frantumi la sera dell’aggressione, una mezzaluna coloratissima appesa a una catena di ferro battuto firmata Ulla Darni, statuette di vetro soffiato, specchi, vasi e soprammobili. Anche il tavolo da pranzo è di cristallo. «Hai capito in che senso lo dicevo.» Sammy si alza lentamente e sospira, come se fosse stanchissimo. «Ahi, ahi, la mia schiena. Okay, sei soddisfatto adesso? Possiamo andare?» «C’è ancora il garage» dice Win. «Ci siamo già stati. Non c’è niente.» «Io non ci sono mai entrato.» «Come vuoi, accomodati» replica Sammy con un’alzata di spalle. Escono. È ricavato in quella che alla fine dell’Ottocento era la rimessa delle carrozze, una costruzione di mattoni con il tetto di ardesia, seminascosta sotto le fronde di una vecchia quercia. Sammy cerca la chiave, ma poi si accorge che la serratura è rotta. È stata forzata. «Quando ho controllato io, era a posto. Sono sicurissimo» dice. Ed estrae la pistola. Win ha già la sua in pugno. Sammy apre la porta con una spallata, facendola sbattere contro il muro. Poi rimette la pistola nella fondina. Win abbassa la .357 e si guarda intorno, sulla soglia. Nota alcune macchie di olio sul cemento, tracce di pneumatici, le cose che si aspettava di trovare in un garage. Ci sono attrezzi da giardino appesi ad alcuni ganci nel muro e, in un angolo, una falciatrice, un carretto e una tanica di benzina da cinque litri, piena a metà. «La tanica non veniva da qui» osserva Sammy. «Lo so» replica Win. «Se vuoi appiccare un incendio, in genere la benzina te la porti da casa.» «A meno che non dai fuoco alla casa nel corso di una lite furiosa. Una volta mi è capitato un caso del genere.» «Sì, ma questa è una faccenda diversa. Come ti spieghi Roger Baptista, altrimenti?» dice Win, osservando una fune che pende da una trave nel soffitto e che serve ad abbassare una scala retrattile. «Hai dato un’occhiata di sopra?» domanda a Sammy. Sammy guarda dove Win gli indica. «No.» Le finestre della casa in stile Tudor brillano nel sole davanti al Tennessee
River, che scorre piegando dolcemente all’orizzonte. Delma scende dalla sua vecchia Golf e immagina di sembrare un’innocua agente immobiliare di mezza età, con il suo tailleur pantalone di jeans. L’uomo d’affari che ha acquistato la villa in cui è stata uccisa Vivian Finlay non c’è: Delma ha già controllato. Si chiede se lui sia al corrente del fatto che vent’anni fa in casa sua è stato commesso un omicidio. Se sì, evidentemente non gli importa. Strano. Delma non andrebbe mai ad abitare in una casa in cui è stato ucciso qualcuno, nemmeno se gliela regalassero. Si incammina, chiedendosi come avesse fatto l’assassino a entrare. Al piano terra ci sono una porta d’ingresso e molte finestre, ma tutte piuttosto piccole. E poi passare dalla finestra in pieno giorno, in un quartiere così, non è molto facile. Sul retro della villa c’è una porta che forse conduce nello scantinato, e sul lato che dà sul fiume ce n’è un’altra, affiancata da due finestre. Delma si avvicina a quest’ultima e vede una cucina moderna, molto bella, con batterie di pentole in acciaio inossidabile, piani di granito ed eleganti piastrelle. Osserva gli alberi e i fiori sul retro, il muretto basso di pietra, il molo e il fiume. Vede passare un motoscafo con un ragazzo che fa sci d’acqua e chiama un numero che ha inserito nella rubrica del cellulare durante il viaggio, dopo quella che forse sarà la sua ultima lezione alla National Forensic Academy. «Sequoyah Hills Country Club» le risponde una voce educata. «Posso parlare con la segreteria, per favore?» chiede Delma. Le passano una signora. «Pronto, Missy? Buongiorno, sono di nuovo l’agente speciale Delma Sykes.» «Buongiorno. Senta, posso dirle solo questo» risponde la donna. «Vivian Finlay è stata un membro del nostro club dall’aprile del 1972 all’ottobre del 1985.» «Ottobre? Non morì in agosto?» la interrompe Delma. «Probabilmente i familiari non cancellarono subito l’iscrizione. Sa, lì per lì a certe cose non si pensa.» Delma si sente una perfetta imbecille: cosa ne sa lei di come funzionano le iscrizioni in certi club? «Aveva accesso sia al tennis sia al golf» continua Missy. «Che cos’altro mi sa dire?» domanda Delma, seduta sul muretto e rimpiangendo di non abitare in riva a un fiume. Le piacerebbe avere abbastanza soldi
da poter uscire di casa e tuffarsi in acqua. «Nient’altro, mi spiace...» «Neanche se faceva acquisti nella boutique del club, per esempio, o se pranzava lì?» «Dovrei guardare le fatture, che però sono in un altro archivio, non qui in ufficio.» «Mi servirebbero tutte le fatture emesse a nome della signora Finlay nel 1985.» «Parliamo di vent’anni fa! Non so se saremo in grado e quanto tempo ci vorrà...» Sospira. «Le do una mano, se crede» si offre Delma. Il piano superiore del garage di Monique Lamont è stato convertito in un miniappartamento che pare inutilizzato. Sulla moquette marrone scuro, però, ci sono delle impronte. Lasciate da scarpe piuttosto grandi, pensa Win. Di due tipi diversi. Le pareti sono beige. Vi sono appese stampe di paesaggi marini e barche a vela, firmate. Ci sono un letto singolo con un copriletto marrone, un comodino, un piccolo comò, una scrivania e una poltroncina girevole. Sulla scrivania ci sono un sottomano, una lampada da tavolo e un tagliacarte di ottone che sembra un pugnale. I mobili sono di legno da poco prezzo. Il bagno, piccolo, è pulito e in ordine. Anche lì, sembra che non sia entrato nessuno da un pezzo. A parte le impronte sulla moquette. «Trovato qualcosa?» chiede Sammy, ai piedi della scala. «Vuoi che salga?» «Non ce n’è bisogno. Non ci sarebbe neppure lo spazio» risponde Win guardando dall’apertura la testa di Sammy, che sta ingrigendo. «Direi che non ci abita nessuno, almeno da un po’ di tempo a questa parte. Oppure se n’è andato e ha ripulito tutto molto bene. A occhio, però, qualcuno ci è salito recentemente.» Prende un paio di guanti di lattice da una tasca e se li infila. Poi apre tutti i cassetti, si china a quattro zampe, controlla sotto il comò e sotto il letto. Ha la sensazione di dover controllare dappertutto, anche se non sa perché. È chiaro che qualcuno è andato e venuto da quella mansarda dopo che è stata pulita l’ultima volta. Ma per quale motivo? Chi ha forzato la serratura del garage? Qualcuno è salito lì sopra dopo l’aggressione di Monique Lamont? Cercava
qualcosa? Win apre uno sportello, controlla dentro gli armadietti nel cucinino e nel bagno, si ferma, si guarda in giro e gli cade l’occhio sul forno. Vi si avvicina e lo apre. Sul fondo c’è una grossa busta marrone con l’indirizzo della procura distrettuale scritto a mano, spedita da Knox ville, con un sacco di timbri e francobolli. Molti più del necessario. «Gesù» dice. La busta è strappata. Win guarda il tagliacarte sulla scrivania, a forma di pugnale. Poi estrae dalla busta uno spesso fascicolo, tenuto insieme con alcuni elastici. «È pazzesco!» esclama. Sammy inizia a salire. «Il dossier è qui. Ce l’aveva lei. Lo teneva nascosto.» «Che cosa?» Compare Sammy, con la faccia perplessa. «Monique aveva il dossier Finlay.» Sammy si regge ai corrimano di corda della scala e si ferma. Ripete: «Che cosa?». Win gli mostra il fascicolo e dice: «Lo aveva qui da tre mesi. Da prima che io iniziassi il corso alla National Forensic Academy, da prima che lei mi mandasse a Knoxville. Cristo». «Non ha senso. Se glielo hanno spedito dal Dipartimento di polizia di Knoxville, te l’avrebbero detto, quando sei andato a cercarlo.» «Il nome del mittente non c’è. C’è solo un indirizzo, che non conosco. Western Avenue, codice postale 37921. Dovrebbe essere a Middlebrook, o da quelle parti. Aspetta.» Chiama Delma, che gli risponde. Si sta calmando, come sempre gli succede quando le cose cominciano a chiarirsi. L’indirizzo del mittente dev’essere quello di Jimmy Barber. «Pare che la signora Barber sia andata a curiosare fra le scartoffie del marito prima di te» dice a Delma. «E che abbia mandato qui il fascicolo del caso Finlay. L’ho appena trovato in un forno.» «Che cosa? Allora quella troia mi ha mentito!» «Non è detto: tu le hai spiegato esattamente quello che cercavi?» le domanda Win. Silenzio. «Delma? Ci sei? Le hai specificato che cosa stavi cercando?»
«No» risponde. Alle due e mezzo, Win parcheggia la vecchia Buick di Nana dietro la casa e osserva le campane a vento che tintinnano. Sono appese ai rami degli alberi e alle travi esterne. Di giorno il loro suono non è magico come di notte. Sotto il canestro da basket, rasente alla siepe, è posteggiata un’altra auto. È una Miata rossa, vecchiotta. Win ha bisogno di un telefono fisso e andare a casa sua in quel momento gli sembra imprudente. Non sa bene perché, la sua è solo una sensazione, ma ha deciso di assecondarla: in fondo non ci sarebbe da sorprendersi se la polizia o la persona che ha forzato la serratura del garage di Monique Lamont avessero deciso di tenerlo d’occhio. Bussa alla porta ed entra in cucina, dove Nana è seduta di fronte a una ragazza con l’aria afflitta. Le sta leggendo le carte. Ha preparato il tè, il suo infuso speciale con la cannella e la scorza di limone. Vicino alla teiera c’è il barattolo di miele che le ha portato lui, CORTM cucchiaino accanto. «Abbiamo assaggiato il tuo miele speciale, sai?» gli dice Nana voltando una carta. «È proprio una bontà. Lei è Suzy. Stiamo vedendo cosa fare con suo marito, che se ne frega delle ingiunzioni restrittive.» «È già stato arrestato?» chiede Win a Suzy, che deve avere poco più di vent’anni e ha gli occhi gonfi e la faccia di chi ha pianto. «Win il detective» spiega Nana orgogliosa, bevendo un sorso di tè. Entra Miss Dog e Win si accuccia ad accarezzarla. La cagnetta si gira sulla schiena per farsi grattare e Suzy risponde: «Sì, due volte. Ma non serve a niente. Matt paga la cauzione, esce e mi fa la posta a casa di mia madre. Come l’altra sera: si è nascosto e, appena sono scesa dalla macchina, mi è saltato addosso. Un giorno o l’altro mi ammazza, me lo sento. Però non mi crede nessuno...». «Vedrai che troveremo una soluzione» promette Nana. Win chiede a Suzy dove abita sua madre e nota che Miss Dog sembra più in forma. Ha lo sguardo più vivace, sembra quasi contenta. «Qui vicino» risponde Suzy perplessa, guardando Miss Dog. «Credevo lo sapesse.» Win capisce: Suzy è la figlia della padrona di Miss Dog. «Il cane resta qui» afferma in tono perentorio. «Stia tranquillo, non dirò una parola. Mia madre ha sempre trattato malissimo quel povero animale e Matt anche peggio. Sapesse quante volte gliel’ho
ripetuto, che prima o poi sarebbe finito sotto una macchina.» «Miss Dog adesso sta bene» dice Nana. «Ieri sera è venuta a dormire sul mio letto insieme ai gatti.» «Dunque, sua madre non riesce a proteggerla da suo marito.» Win si alza in piedi. «E come potrebbe? Matt passa continuamente davanti a casa. In macchina, a piedi, come gli gira. Cosa può fare lei, poveretta?» Win va nel salotto per fare la sua telefonata. Si siede fra i cristalli e gli amuleti di sua nonna e chiama il dottor Reid, genetista del laboratorio della California che sta sottoponendo gli indumenti di Vivian Finlay alle nuove prove del DNA. Gli rispondono che è in teleconferenza e ne avrà per una mezz’ora. Win esce e si incammina verso la casa di Miss Dog. L’ex casa di Miss Dog. È abbastanza sicuro di sapere chi è Matt: un tipo basso, grasso, pieno di tatuaggi. Il classico bullo. Gli suona il cellulare. È Delma. «Sto per essere coinvolto in una rissa» le dice. «Okay, sarò breve.» «Ti trovo meno spiritosa del solito, Delma.» «Se lunedì non riprendiamo il corso, l’Academy ci sbatte fuori. Mi dispiace dirtelo, ma...» Interrompere il corso, per lei, sarebbe peggio che per lui. La polizia del Massachusetts ha già i suoi esperti, non ha bisogno che Win impari le nuove tecniche di repertamento. E comunque lui in questo momento non pensa al proprio futuro, non lo alletta neppure l’idea di diventare il direttore del laboratorio forense. Forse ha perso l’entusiasmo perché ha capito di essere stato mandato a quel corso soltanto perché era in programma che dovesse indagare sull’omicidio di Vivian Finlay, e si sente strumentalizzato, usato. Senza neppure sapere da chi e per cosa. «Win?» La casa è a un isolato di distanza, ormai, sulla sinistra. Davanti è parcheggiato un camioncino bianco Chevy. «Non ti preoccupare» le dice Win. «Sistemo tutto io.» «Ma cosa vuoi sistemare? Io rischio che il TBI mi faccia un sacco di grane, o addirittura che mi mandi a spasso! Smettila di promettermi che sistemerai tutto, visto che non hai la possibilità di farlo.» «Ti ho detto di non preoccuparti» insiste lui, allungando il passo. Ha visto
Matt uscire dalla porta di servizio e dirigersi verso il pick-up. «C’è un’altra cosa: ho parlato con la signora Barber. Avevi ragione tu.» Delma ha un tono sconsolato. «In che senso?» Win comincia a correre. «Ha spedito il fascicolo alla procura circa due mesi fa. Pare che le abbia telefonato uno, un po’ brusco, che dalla voce sembrava abbastanza giovane, chiedendole di cercarlo e di mandarlo lì. Non me lo ha detto prima perché non gliel’ho chiesto: sembra che parecchia gente la chiami a proposito del materiale custodito nella sua cantina. Mi dispiace.» «Ti devo salutare» dice Win, accelerando. Afferra la portiera del pick-up prima che si chiuda. Il bullo lo guarda scioccato. Poi assume un’espressione furibonda. «Togli le mani dalla portiera!» È stupido, rozzo, puzza di birra e di fumo, e ha un alito pestilenziale. Win lo guarda negli occhi, che hanno una luce maligna, e pensa che probabilmente era lì ad aspettare Suzy per spaventarla. «Chi sei? Che cazzo vuoi?» urla Matt. Win non gli risponde, si limita a fissarlo. Ha imparato quella tecnica da bambino, a scuola, stufo di farsi bistrattare dai compagni più grandi e prepotenti. Fissare uno negli occhi senza dire niente, a lungo, mette paura. E infatti Matt si impaurisce. I suoi occhi sembrano rimpicciolire, nascondersi come molluschi nella sabbia. Perde un po’ della sua tracotanza. Win resta lì, immobile, trattenendo la portiera con la mano, e continua a fissarlo. «Tu sei pazzo furioso» dice Matt a un certo punto, cominciando a farsi prendere dal panico. Silenzio. «Ora levati dai piedi. Non ho fatto niente a nessuno» dice sputacchiando, sempre più spaventato. Silenzio. Poi Win dice: «Ho sentito che prendi a calci i cane e molesti la tua ex moglie». «Non è vero!» Silenzio. «Chi te l’ha detto? Non è assolutamente vero.» Silenzio. «Guardami bene» dice poi Win a voce bassa, impassibile, minaccioso.
«Perché la prossima volta che dai fastidio a tua moglie o che maltratti il cane, la mia sarà l’ultima faccia che vedrai.» 12 Win riceve l’amara notizia che la prova del DNA non è stata ancora completata. Spiega che è urgente, chiede al dottor Reid quanto tempo ci vorrà per avere i risultati. Un giorno o due? E che cosa saranno in grado di dirgli sul donatore, esattamente? «La sua storia genealogica» gli risponde questi per telefono. «In base a quattro gruppi ancestrali principali: africano subsahariano, indoeuropeo, asiatico orientale, nativo americano e relative mescolanze.» Win è seduto sulla sedia a dondolo di Nana davanti alla finestra aperta e sente le campane a vento che tintinnano dolcemente. «... tecnologia SNP» sta spiegando il dottor Reid. «Polimorfismi dei singoli nucleotidi. È una prova diversa dal normale esame del DNA, che analizza milioni di sequenze di coppie di geni alla ricerca di modelli spesso irrilevanti. Fondamentalmente, a noi interessano i circa duemila marcatori dei geni ancestrali...» Win ascolta il ricercatore che, con l’eccesso di dettagli tipico dello scienziato, gli spiega la versione beta di una macchina in grado di garantire un’accuratezza del 99,99 per cento, di test grazie ai quali è possibile determinare il colore degli occhi con un margine di errore del cinque per cento, della clinica universitaria di Harvard e dell’autorizzazione che i suoi laboratori hanno appena ottenuto per sperimentare un farmaco contro l’anemia. «Un farmaco?» lo interrompe Win. «Che cosa c’entra il DNA con la sperimentazione dei farmaci?» «Si chiama farmacogenetica. La ricerca sui profili ancestrali non è nata per aiutare la polizia, bensì le case farmaceutiche. L’obiettivo era valutare in quale misura la genetica poteva rivelarsi utile nella messa a punto di nuovi farmaci.» «Voi collaborate con la clinica universitaria di Harvard?» Win ha un brutto presentimento. «Ha mai sentito parlare del Prohemogen? Per la cura dell’anemia associata a insufficienza renale, chemioterapia, trattamento dell’aids con zidovudina. Riduce notevolmente la necessità di trasfusioni.»
Fuori della finestra una folata di vento fa frusciare gli alberi e tintinnare le campane. «Dottor Reid, le spiace dirmi quanto tempo fa le sono stati mandati i campioni relativi al caso Finlay?» domanda Win. «Credo un paio di mesi fa.» «Ci vuole così tanto tempo?» «In teoria basterebbero cinque giorni, una settimana. Ma è una questione di priorità. In questo momento stiamo analizzando circa cento altri campioni, relativi a casi più recenti e quindi più urgenti.» «Capisco. Essendo passati vent’anni, non c’è più tanta fretta: si dà per scontato che il nostro uomo nel frattempo abbia smesso di uccidere.» «Non si tratta di un uomo, questo glielo posso già dire. Prima di tutto analizziamo i polimorfismi STR, da cui individuiamo il sesso. In entrambe le fonti, il DNA è femminile.» «In entrambe le fonti? Quali?» «Dai campioni prelevati dagli indumenti in corrispondenza di collo, ascelle e pube, dove è più frequente trovare cellule da sudore o cute, abbiamo ricavato un profilo diverso da quello che ricavato dalle macchie di sangue. Il sangue appartiene alla vittima, come si è sempre pensato. E poi c’è un altro profilo, anch’esso di donna» dice. L’archivio in cui il country club conserva le vecchie fatture fa parte di un complesso di edifici sparsi su una superficie di ottomila metri quadri, collegati fra loro da un trenino. Ha un impianto di condizionamento, ma non di illuminazione, per cui Delma punta la torcia sulle varie scatole bianche di cartone, mentre Missy controlla nel suo inventario che cosa contengono. «E-3» dice Delma. «Novembre 1985» risponde Missy. «Ci siamo quasi.» Continuano. L’aria è pesante, c’è polvere dappertutto. Delma è stufa di frugare tra vecchie scartoffie in ambienti chiusi e asfittici per Win, che nel frattempo se ne sta nel New England a fare chissà cosa. «E-8» legge. «Giugno 1985. Evidentemente, sono in disordine.» «Sa una cosa, Missy?» dice a un certo punto Delma, tirando giù un altro pesante scatolone dagli scaffali di metallo. «Prendiamo tutto l’85.»
Il portiere dell’elegante palazzo di Beacon Hill non è d’accordo sul fatto che Win salga a casa di Monique Lamont senza essere annunciato. «Mi spiace, devo avvisare la signora, prima di lasciarla salire» dice annoiato. Indossa una divisa grigia e passa le giornate dietro una scrivania a leggere giornali, a giudicare dalla pila di quotidiani sotto la sua seggiola. «Mi dice il suo nome, per favore?» “Bene, così adesso so che la signora è a casa” pensa Win. «Okay. Non mi lascia scelta...» Sospira e prende dalla tasca il portafogli con le credenziali. «Sto svolgendo indagini estremamente delicate. Non voglio che avverta nessuno.» Il portiere esamina con attenzione i documenti di Win, poi lo guarda con aria incerta. O forse è emozionato. «Lei è quello che?... Ho visto la sua foto sui giornali. Ora la riconosco.» «No comment» replica Win. «Se posso dire la mia, ha fatto quello che doveva. È stato giusto così. Con certa gente non c’è alternativa.» «La prego, non posso parlarne» replica Win. In quel momento entra una signora sulla cinquantina in tailleur giallo. Una “chaneliana”, come Win chiama quelle ricche signore che si pavoneggiano sfoggiando le due grosse “C” intrecciate. «Buongiorno.» Il portiere la saluta con deferenza, quasi inchinandosi. Lì per lì la donna non degna neppure di uno sguardo Win, ma dopo un attimo si volta, lo fissa apertamente e gli sorride con aria civettuola. Anche Win le sorride, e la guarda andare verso l’ascensore. «Salgo con lei» dice poi rivolto al portiere senza dargli la possibilità di opporsi. Raggiunge la signora in giallo appena prima che le porte si aprano ed entra con lei nell’elegante ascensore di legno che lo porterà a casa di Monique Lamont, la quale con ogni probabilità non gradirà per nulla la sua visita e gliela farà pagare. «Dovrebbero sostituirlo, questo trabiccolo. Sa quante volte l’ho già detto? Come se non potessimo permetterci un ascensore nuovo...» si lamenta la signora in giallo. Preme il pulsante dell’ottavo piano e osserva Win come potrebbe osservare un oggetto di antiquariato, meditando se acquistarlo o meno. L’ascensore produce scricchiolii più sinistri di quelli del Titanic. Win sa
che Monique Lamont sta in quel palazzo, ma non a quale interno. E il suo nome non è su nessuna targhetta. «Abita qui?» gli chiede la signora in giallo. «Non mi pare di averla mai vista.» «No, sto andando da una persona» risponde Win. Fa la faccia confusa e guarda la pulsantiera. «Fra l’altro, mi ha parlato di un attico, ma vedo che all’ultimo piano gli appartamenti sono due. Speriamo di avere ancora...» Si fruga nelle tasche, come alla ricerca di un appunto. L’ascensore si ferma, le porte si aprono lentamente. La signora in giallo non si muove. Assume un’aria pensierosa. «Se mi dice da chi deve andare, forse posso aiutarla.» Win si schiarisce la voce e si avvicina alla signora, che emana un profumo molto penetrante. «Monique Lamont. Le chiedo la massima riservatezza, però» le sussurra. La donna annuisce, con gli occhi che le brillano. «Decimo piano, sul lato sud. Ma non è la sua abitazione. Passa abbastanza spesso, però. Probabilmente è un problema di riservatezza. In fondo abbiamo tutti diritto a una vita privata.» Guarda Win negli occhi. «Lei mi capisce.» «La conosce bene?» le chiede Win. «No, solo di vista. È una donna che non passa inosservata. E poi la gente mormora. Comunque, anche lei ha un viso noto.» Win allunga la mano per evitare che le porte si richiudano. «Me lo dicono in tanti. Ci deve essere un mio sosia in giro. Grazie, buon resto di giornata.» La signora in giallo evidentemente non è abituata a essere congedata in maniera così sbrigativa, perché esce dall’ascensore con aria irritata. Win prende il cellulare e chiama Sammy. «Fammi un favore. L’appartamento della Lamont.» Gli dà l’indirizzo. «Controlla chi è il proprietario, a chi è affittato... tutto quello che riesci a scoprire.» Scende dall’ascensore al decimo piano, su un pianerottolo di marmo nel quale si aprono due porte. Suona al 10SC. Suona tre volte, prima che la voce di Monique Lamont si faccia sentire dall’altra parte. «Chi è?» «Sono Win» risponde lui. «Mi apra, per favore.» Rumore di chiavistelli, poi la porta si apre. Monique Lamont è scarmigliata, sembra appena uscita dalla doccia.
«Che cosa vuole? Non aveva alcun diritto di venire» gli dice furibonda, ravviandosi i capelli bagnati. «Come ha fatto ad arrivare fin qui?» Win entra, si piazza sotto un lampadario «di Baccarat e osserva l’atrio lussuoso. «Bella casa, complimenti. Quanto vale? Un paio di milioni? Magari anche quattro o cinque» dice. Delma è seduta nell’ufficio di un club di cui lei non potrebbe mai essere membro e si chiede se Vivian Finlay era una che si dava un sacco di arie e se l’avrebbe guardata dall’alto in basso ritenendola una stupida paesana che non sapeva quale forchetta usare per l’insalata. In effetti, tante vittime di omicidio si rivelano persone spiacevoli. Sta controllando le fatture emesse a nome di Vivian Finlay nel maggio del 1985. Finora ha scoperto che era una signora molto arzilla, che giocava a tennis anche tre volte alla settimana e dopo si fermava a pranzo al club. A giudicare dai conti, era quasi sempre in compagnia e pagava lei. Cenava al club una o due volte alla settimana e spesso partecipava al brunch domenicale. I conti erano sostanziosi, a indicare che anche a cena probabilmente non era da sola. Insomma, era molto generosa. Delma riflette che forse, dietro a tanta prodigalità, c’era il desiderio di condividere la propria fortuna: se frequentavano quel club, le persone che invitava al ristorante non dovevano certo avere problemi finanziari. Forse Vivian Finlay pagava il conto per darsi importanza, per avere il controllo della situazione, per esercitare il potere sugli altri. Doveva essere una di quelle persone che a Delma ispirano un senso di inferiorità. È stata con alcuni uomini così, che la facevano sentire inferiore. Win, però, è diverso. Win è diverso da tutti gli altri uomini che ha conosciuto. L’altra sera al Tennessee Grill, quando hanno guardato il sole tramontare sul fiume mangiando hamburger e bevendo birra, è stato bellissimo. Delma sperava che anche lui provasse la stessa attrazione che provava lei. E che prova tuttora, non può negarlo. Spera che le passi, però. Gli ha offerto la cena, quella sera, perché l’ultima volta aveva pagato lui. Win, al contrario di molti altri uomini, non si scoccia se è la donna a pagare il conto. Eppure non è uno scroccone: anzi, è molto generoso. Ma ha un senso della giustizia che gli permette di concedere anche agli altri “il piacere di dare”, come lo definisce. Al poligono di tiro, quando escono la sera o vanno a cena fuori, ha sem-
pre un atteggiamento molto paritario. Delma inizia a controllare i conti del mese di luglio e prova un brivido di emozione nel notare che, oltre alle fatture per i pranzi e le partite di tennis della signora Finlay, ci sono anche spese che le ha messo in conto un’altra persona, o forse più di una. Ammontano a quasi duemila dollari e sono state effettuate nella boutique del club nell’arco di due settimane. Delma comincia a guardare le fatture di agosto. Il giorno 8, quello della sua morte, sul conto di Vivian Finlay risulta addebitata una partita di tennis che probabilmente fu giocata da qualcun altro, perché comprende il noleggio di una macchina lanciapalle, che lei non aveva mai usato prima. Lo stesso giorno la boutique del club emise una fattura a suo nome per quasi mille dollari. Fra Monique Lamont e Win non c’è nulla, a parte un tavolo antico e la vestaglia di seta rossa di lei. Sono quasi le sette e il sole è di un arancione infuocato. Sull’orizzonte si sta allargando una striscia rosata e l’aria che entra dalla finestra aperta è tiepida. «Non vuole andare a vestirsi?» le chiede Win per la terza volta. «Glielo chiedo per favore. Siamo qui per lavorare.» «Lei non è venuto qui per motivi di lavoro, Win. E comunque questa è casa mia e sto come mi pare.» «Veramente non mi risulta che questa sia casa sua» rettifica lui. «Sammy ha fatto un piccolo accertamento. Pare che il direttore del laboratorio forense se la passi piuttosto bene.» Monique non risponde. «Dove li prende Huber tutti questi soldi?» «Lo chieda a lui.» «Perché lei è venuta nel suo appartamento? Avete una relazione?» «Sono qui perché a casa mia non posso stare. Mi risparmi le sue illazioni, per favore.» «Va bene, torneremo dopo su questo punto.» Win si protende in avanti, posando i gomiti sul tavolo. «Vuole che parli io o prima vuole dirmi lei la verità?» «Se è qui in veste di rappresentante delle forze dell’ordine e ritiene che io sia colpevole di qualche reato, prima di tutto dovrebbe leggermi i miei dirit-
ti.» Monique lo guarda fisso. «Voglio la verità» ripete Win. «Non posso aiutarla, se non mi dice la verità.» «Non so di che cosa parla.» «L’appartamentino sopra il suo garage» dice lui. «Chi lo usa?» «Aveva un mandato di perquisizione? Chi l’ha autorizzata a entrarci?» «Le ricordo che casa sua è sotto sequestro. Vi è stato commesso un reato.» Monique prende un pacchetto di sigarette e ne tira fuori una con mano tremante. Win non l’ha mai vista fumare. «Quando è stata l’ultima volta che è andata nell’appartamentino sopra il garage?» le chiede Win. Monique si accende la sigaretta e aspira una lunga boccata di fumo, che ha la gentilezza di non soffiargli in faccia. «Per quale reato sarei indagata?» «La smetta, Monique. Non ce l’ho con lei.» «Sembra proprio di sì, invece.» Si avvicina il portacenere. «Okay, adesso le spiego com’è andata.» Win prova a cambiare tattica. «Entro nel suo garage dalla porta laterale. Fra parentesi, la informo che la serratura è stata forzata.» Monique butta fuori il fumo e posa la sigaretta sul portacenere. Nei suoi occhi appare un guizzo di paura, che si trasforma subito in collera. «Vedo tracce lasciate dai pneumatici, probabilmente l’ultima volta che è piovuto. Ovvero la notte in cui lei è stata aggredita.» Monique ascolta in silenzio, fumando. «Trovo la scala retrattile e salgo di sopra, dove c’è un miniappartamento che sembra disabitato, ma con alcune impronte sulla moquette.» «E, naturalmente, fruga dappertutto» dice lei appoggiandosi allo schienale, quasi invitandolo a guardarla in un modo diverso. «Okay, supponiamo che l’abbia fatto. Che cosa avrei trovato, secondo lei?» «Non ne ho la più pallida idea» risponde Monique. 13 Monique Lamont fa cadere la cenere, soffia fuori il fumo e continua a guardare Win. La vestaglia di seta, morbidamente allacciata in vita, lascia intravedere il
seno. «Mi parli dei laboratori della California con cui è in contatto» dice Win. «Biotecnologie, farmacologia... Sono ambienti dove girano un sacco di soldi e c’è parecchia corruzione. La corruzione è una malattia contagiosa: ci sono persone oneste che a furia di stare con le mele marce si guastano anche loro.» Monique lo ascolta, fissandolo con una luce strana negli occhi. Win si irrita. «Monique, mi sta a sentire?» «Fa il poliziotto cattivo, adesso? Guardi che con me non attacca. Le conosco bene certe tecniche.» «Non pensi di potermi trattare a questo modo» ribatte lui. «Mi manda nel Tennessee, mi fa tornare per lanciare la sua iniziativa... Prima ricevo una lettera minatoria, poi lei mi accusa di aver ecceduto nell’uso della forza... Come ha potuto, Monique? Come ha potuto farmi una cosa del genere?» «Mi sono limitata a suggerire che venisse aperta un’inchiesta. Come è giusto che faccia un procuratore distrettuale onesto, che non cambia le regole del gioco solo perché è implicato in prima persona.» Continua a guardarlo. «Ho fatto quello che era giusto.» «Sì, certo! Lei e le sue regole del gioco, lei e le sue macchinazioni politiche... Il dossier dell’omicidio Finlay, ha presente? Quello che non si trovava più. Indovini un po’ dove è spuntato fuori. Nel miniappartamento sopra il suo garage. Mi dica, Monique: è impazzita?» «Che cosa?» È stupefatta, incredula. «Mi ha sentito.» «Il dossier dell’omicidio Finlay era nel mio garage? Io non sapevo nemmeno che fosse sparito, o che fosse mai arrivato in procura... E dov’era?» «Me lo dica lei» risponde Win, alterato. «Non lo so proprio.» «Davvero? Davvero non lo sa?» «Mi prende in giro, Win?» «Niente affatto. Il fascicolo del caso Finlay era nel forno del miniappartamento sopra il suo garage.» Monique assume un’espressione sprezzante, diffidente. «Solo un idiota può fare una cosa del genere» borbotta. «Uno con il cervello fai pappa. Per mettermi dalla parte del torto.» «È stata lei a nascondercelo, Monique?» «Non sono mica cretina!» risponde, spegnendo con vigore la sigaretta nel
portacenere. «Grazie, Win. Mi ha dato un’informazione molto utile.» Si sporge verso di lui e posa le mani sul tavolo, offrendogli una vista del suo seno, lanciandogli uno sguardo seducente. «La smetta, Monique» le dice. Monique resta ferma dov’è e gli occhi di Win si spostano istintivamente su ciò che lei sta mettendo in mostra. Non è la prima volta che Win pensa a come sarebbe farlo con Monique Lamont... «Per favore!» Trae un respiro profondo e si volta dall’altra parte. «Capisco come si deve sentire. Non è la prima volta che ho a che fare con vittime di abusi sessuali e...» «Non sono una vittima! E lei non capisce proprio niente.» «Senta, non voglio essere una vittima neanch’io» ribatte Win. «Non mi lascerò usare solo perché lei ha bisogno di dimostrare a se stessa che è ancora desiderabile. Si faccia aiutare da un terapeuta.» «Lei non mi deve confermare proprio niente» risponde Monique chiudendosi la vestaglia sul petto. «È il contrario, se mai.» Si raddrizza e abbassa gli occhi, cercando di non mettersi a piangere. Sta a lungo in silenzio, sforzandosi di ritrovare il controllo, poi mormora: «Mi perdoni». Si asciuga gli occhi. «Non volevo, mi scusi.» «Monique, mi racconti tutto quello che sa.» Il tono è piatto. «Se avesse fatto meglio il suo lavoro, avrebbe scoperto che io non uso quel garage» dice Monique acida, per darsi un contegno. «Non ci metto la macchina da mesi. Non ci entro neppure. Lo usa un’altra persona.» «Chi?» «Toby.» «Toby?» dice Win furioso. «Ha lasciato che quel deficiente si piazzasse a casa sua? Gesù!» «È geloso, Win?» Monique sorride, fumando di nuovo. «Che cosa deve a Huber, per fargli tutti questi favori?» È confuso, agitato. «Lasciamo perdere.» «No, non lasciamo perdere!» «Mi ha chiesto se Toby poteva venire a stare a casa mia, quando l’ho assunto. Voleva toglierselo dai piedi.» Win pensa alle banconote da cento dollari nella tasca di Baptista, alla tanica di benzina, agli stracci. Pensa che Monique era senza chiavi e quindi doveva per forza andare sul retro a prendere quelle di riserva. Pensa al fatto che
Toby fa uso di sostanze, ai precedenti per spaccio di Baptista. «Senta una cosa» dice a Monique. «Huber potrebbe avere un motivo per volerla morta?» Monique Lamont si accende un’altra sigaretta. Le si sta arrochendo la voce per il fumo. Ha smesso di bere martini cocktail e si è versata un bicchiere di vino bianco. Lo osserva, lo squadra, valuta il suo sguardo, aspetta che si posi su di lei. È l’uomo più bello che abbia mai incontrato. Pantaloni neri con le pince, camicia bianca di cotone senza cravatta, pelle scura e liscia, capelli corvini e occhi che cambiano colore a seconda del tempo. È un po’ brilla e si chiede come sarebbe farlo con lui... Ma poi riacquista il controllo, e scaccia quel pensiero. Win sta zitto. Monique non sa a cosa stia pensando. «Lei non mi rispetta più, lo so» gli dice, fumando. «Provo pena per lei» replica Win. «Pena?» esclama Monique, travolta dall’odio. «Gli uomini ci prendono, ci usano e poi ci buttano via come spazzatura. Provi pena per la poveretta che si sta sbattendo in questo periodo, non per me. Grazie.» «Mi fa pena perché è una persona vuota.» Monique scoppia in una risata amara. Una persona vuota. Le viene di nuovo da piangere, e non capisce perché. Sta perdendo il controllo. «È alla costante ricerca di qualcosa che riempia il suo vuoto. Potere. Fama. Ancora più potere. Bellezza. Uomini. Tutto estremamente fragile, come i suoi vetri, i suoi cristalli. Basta un niente e va tutto in pezzi.» Monique si volta dall’altra parte, evita il suo sguardo. «Glielo chiedo un’altra volta: che cos’ha fatto lei perché il dossier Finlay finisse in casa sua, nel miniappartamento che usava Toby?» «Niente! Perché avrei dovuto nasconderlo, per non lasciarglielo leggere?» urla lei, tremante. «No, gliel'ho già detto: non ho mai visto quel dossier. Credevo che fosse ancora nel Tennessee.» «Quindi, non sa che era stato spedito in procura? Toby sostiene di averglielo messo sulla scrivania.» «Toby racconta un sacco di balle. No, non sapevo che fosse stato spedito in procura. Deve aver fatto tutto lui.» «Allora lei pensa che sia stato Toby a portare quel dossier nel suo garage e
a metterlo nel forno. Forse voleva nasconderlo e poi se lo è dimenticato... Chissà.» «Io non ho più messo piede in quell’appartamento, da quando è venuto a starci lui. Lo uso per gli ospiti. Cioè molto di rado.» «Anche Toby sembra averlo usato poco o niente. Lo vedeva andare e venire?» «Non ci ho mai fatto caso.» «E la sua macchina? La vedeva?» «Qualche volta la sentivo, in genere la sera tardi. Ma mi facevo gli affari miei. A essere sincera, non mi interessa come Toby Huber passa il suo tempo. Probabilmente fa tardi tirando coca con i suoi amici.» «Tra cui forse anche un certo Roger Baptista. Ho l’impressione che Toby non abbia alcuna intenzione di tornare in procura o in quel miniappartamento, dopo la sua vacanza a Martha’s Vineyard.» Monique riflette, con espressione incattivita, spaventata. «Perché Toby dovrebbe aver intercettato quel fascicolo?» domanda Win. «Perché si è bruciato il cervello a furia di tirare coca, per esempio.» «Oppure?» «Oppure perché glielo ha chiesto qualcuno. Per farmi passare per un’incompetente corrotta. Lei senza quel dossier non può fare il suo lavoro, giusto? Se viene fuori che è a casa mia, per me è un disastro.» Win si limita ad ascoltare. «Sì, deve averglielo ordinato qualcuno, di portare via quel fascicolo. E quel cervello bacato l’ha fatto.» Dopo un attimo di silenzio, Monique aggiunge: «Nella malaugurata ipotesi che fossi uscita viva dall’aggressione, almeno sarei passata come una stupida incompetente. E Crawley avrebbe vinto comunque le elezioni». «Pensa che sia stato Crawley?» «Be’... Per Toby è stata indubbiamente una gran fortuna non essere in città, quella notte. Molto meglio non esserci al suo arrivo, Win. Le pare? Molto meglio essere a Martha’s Vineyard. Niente testimoni. Potrebbe addirittura averle lasciato la lettera al Diesel Café proprio per evitare che lei venisse da me a rompere le uova nel paniere di quel bastardo.» «Dunque lei lo sapeva...» dichiara Win. «Vediamo... Huber e le sue sciarpe di seta. Quella sera ne portava una scarlatta, per caso?» «L’ho saputo dopo. Può darsi che l’abbia fatto per motivi diversi, non dico.
In ogni caso, era un modo per tenerla occupata, no? Se era al Diesel Café, non poteva contemporaneamente essere a casa mia...» «Perché Huber avrebbe dovuto temere che io venissi a casa sua, Monique?» «Perché è geloso. In maniera patologica. Pensa che tutti gli uomini mi desiderino. E che tutte le donne desiderino lei. Probabilmente è stato Toby a reclutarlo, lei ha ragione.» Si riferisce a Baptista. «Magari era il suo pusher. O forse l’ha conosciuto in tribunale. Crede che l’abbia pagato?» «Di chi parla, Monique?» chiede Win, abbastanza sicuro di conoscere la risposta. Lei gli lancia una lunga occhiata, poi risponde: «Sa benissimo di chi parlo». «Huber?» dice Win, pensando che non sarà facile interrogarlo, quando sarà il momento. «Probabilmente è stato lui a forzare la serratura...» «Per quale motivo? Per cercare il dossier?» «Sì, per assicurarsi che venisse fuori che era lì. Non lo so, non lo so. So solo che voleva danneggiarmi, rovinarmi la reputazione. Da morta o da viva. Comunque...» Le si incrina la voce, ha gli occhi pieni di lacrime rabbiose. Win la guarda e aspetta. «Mi dica, Win» mormora con un filo di voce. «L’avrà pagato anche per violentarmi?» Le lacrime le scendono sulle guance. Win non sa che cosa dire. «O solo per uccidermi e bruciarmi la casa, e lo stupro è stata un’iniziativa personale di Baptista? Ma sì, certo: già che c’era... L’occasione fa l’uomo ladro, no?» «Perché?» domanda pacato Win. «Perché farle tanto...» «Perché farmi tanto male?» lo interrompe Monique con una risata amara. «In che mondo vive, Win? Non vede che è pieno di odio, invidia, disprezzo, collera, sopraffazione... vendetta. Ci si fa del male in mille modi, ripetutamente, per il solo gusto di degradare, umiliare, distruggere il prossimo.» Win ricorda quella sera, Monique nuda sul letto... Scaccia quei pensieri. «Comunque, se voleva farmi del male, ci è riuscito» conclude lei. «Quanto?» Win ha capito che cosa gli sta chiedendo Monique. E non risponde.
«Quanto l’ha pagato?» Dopo un attimo di esitazione, Win risponde: «Mille dollari». «Dunque, è questo che valgo.» «Non deve metterla su questo piano. Non è così che...» «Lasci perdere» lo interrompe lei. 14 L’armeria Rex’s Guns & Ammo è in Upward Road, a East Flat Rock. È un buon posto dove darsi appuntamento perché la domenica è chiuso. Gli abitanti del North Carolina credono nelle armi ma si ricordano di santificare le feste. Delma e Win sono seduti su due sedie pieghevoli fra espositori di fucili e arnesi da pesca, sotto a un branzino di tre chili e mezzo impagliato e appeso al muro. Appoggiato a un armadietto di vetro c’è lo sceriffo della contea di Henderson, Rutherford, che è amico del proprietario dell’armeria e si è fatto dare la chiave per parlare con Win e Delma del caso Finlay in tutta tranquillità. È un uomo che potrebbe chiamarsi solo Rutherford, pensa Delma, che ha spesso l’impressione che esista un legame fra le persone e i nomi che portano. È un uomo grande e grosso, con un vocione che sembra lo sferragliare di un treno, molto determinato. Già più di una volta ha ricordato a Win e Delma che Flat Rock è nella sua giurisdizione e ha messo subito in chiaro che, se qualcuno arresterà George e Kimberly Finlay, detta “Kim”, questo sarà lui. E, prima di farlo, vuole sapere perché, che cosa hanno fatto. Così adesso Win e Delma gli stanno spiegando le circostanze della morte di Vivian Finlay e gli elementi attraverso cui hanno ricostruito i fatti ieri sera, durante il viaggio in macchina da Knoxville. A un certo punto sono andati in un motel e hanno analizzato e messo insieme tutte le informazioni, quelle che avrebbero dovuto avere sin dall’inizio: pagine e pagine di verbali, deposizioni, macabre fotografie. E il mistero della morte della vecchia signora si è pian piano chiarito. Era stata Kim Finlay a scoprire il corpo ormai senza vita della vittima e a chiamare il 911, alle 14.14 dell’8 agosto 1985. Stando alla sua dichiarazione, la donna si era recata dalla zia con la Mercedes bianca del marito George, avendo deciso di passare un momento a trovarla mentre era in giro per commissioni. Tuttavia, alcune ore prima - e cioè fra le dieci e mezzo e le undici di
quella mattina - era stata vista da un pensionato di Sequoyah Hills nei pressi della villa della vittima a bordo della sua Mercedes rossa decappottabile. Kim Finlay aveva ammesso di essere passata da quelle parti e di essere scesa brevemente in Cherokee Boulevard per far fare due passi al suo maltese, ZsaZsa. Era una spiegazione credibile, perché Cherokee Boulevard era - ed è tuttora - un posto in cui molti portano il cane pur abitando altrove. La stessa Kim, che non abitava a Sequoyah Hills, era stata spesso vista lungo il viale con Zsa-Zsa, specie se il tempo era bello. E l’8 agosto 1985 il tempo era bellissimo. La deposizione di Kim Finlay era verosimile: spiegava di essere tornata a casa verso mezzogiorno per lasciare Zsa-Zsa a George, “che era a letto con l’influenza”, e di essere poi uscita di nuovo con la Mercedes di lui, perché la sua decappottabile “era in riserva e faceva uno strano rumore”. Passando in tintoria, aveva deciso di fare un salto a trovare la zia del marito. Siccome questa non rispondeva, aveva aperto la porta e aveva visto “lo spettacolo più raccapricciante” della sua vita. Fra le lacrime, disse a Barber di aver sempre temuto che prima o poi alla zia sarebbe successo qualcosa, perché Vivian Finlay era una donna che “ostentava la propria ricchezza, era troppo ingenua e si fidava troppo del prossimo”. Riferì inoltre che qualche giorno prima, quando lei e George erano andati a pranzo da Vivian, avevano notato “un nero che gironzolava nei pressi della casa”, “un losco individuo” che si era allontanato appena li aveva visti entrare nel vialetto. George confermò. E fece una serie di sue considerazioni, naturalmente. Per esempio, disse che sua zia aveva notato il losco figuro aggirarsi nei pressi della villa in diverse circostanze nei giorni precedenti. Aggiunse inoltre di essere “abbastanza certo” di aver appeso un quadro in camera da letto di sua zia e di aver lasciato il martello sul davanzale della finestra. Non ricordava esattamente quando, “probabilmente qualche giorno prima del fattaccio”. Ne era emersa una teoria plausibile: Vivian Finlay era tornata a casa dal country club e aveva sorpreso il suo aggressore, che era riuscito a portare via soltanto una cassaforte piena di monete d’argento, apparentemente “in piena vista sul comò nella camera da letto”. Dal verbale risultava che all’arrivo della polizia la vasca da bagno era piena di acqua e sul bordo era posato un asciugamano; un altro asciugamano, più grande e bagnato, era invece per terra, non lontano dal cadavere. Secondo la ricostruzione di Barber, presumibilmente l’assassino aveva sentito arrivare
una macchina e “si era nascosto” nel bagno, dove aveva visto la vittima che si spogliava prima di immergersi nella vasca, “si era eccitato” e l’aveva abbordata. Poi, siccome la donna si era messa a gridare, lui l’aveva colpita con il martello che aveva notato sul davanzale. Barber tuttavia non prese in considerazione, almeno per iscritto, la possibilità che la vittima fosse stata aggredita mentre era immersa nella vasca, da una persona che conosceva talmente bene da lasciarla entrare nel bagno con lei. Non gli venne il dubbio che il suo assassino potesse essere una persona conosciuta, e che la violenza sessuale e la rapina fossero una messinscena. Secondo la deposizione di una conoscente della vittima, la signora Finlay e Kim erano in pessimi rapporti, quell’estate, e Vivian parlava male di Kim, diceva che “sarebbe dovuta andare a lavorare in una lavanderia come tutti i cinesi, invece di fare la bella vita alle spalle di suo nipote”. Di fronte a una dichiarazione del genere, al posto di Barber, Delma si sarebbe messa sul chi vive, avrebbe approfondito la cosa e cercato conferme; trovandone, avrebbe dedotto che Kim e Vivian Finlay forse quel giorno avevano litigato, magari perché Kim era stata di nuovo a giocare a tennis e a fare acquisti a spese della vittima. E forse la lite era stata troppo violenta, ed era finita in tragedia. «Le vostre sono tutte supposizioni, o sbaglio?» interviene lo sceriffo Rutherford, sempre appoggiato all’espositore dell’armeria. «Abbiamo la prova del DNA» risponde Win, continuando a guardare Delma come per ricordare allo sceriffo che c’è anche lei, che loro due lavorano insieme. «Non capisco perché non fecero l’esame del DNA già ai tempi. Adesso come possiamo essere sicuri che nel frattempo i reperti non si siano deteriorati?» «L’esame del DNA all’epoca non esisteva: si usavano sierologia e tipizzazione AB0» replica Win guardando Delma, che annuisce. «Infatti venne accertato che il sangue sul completo da tennis era della vittima. Ma vent’anni fa non si cercavano informazioni biologiche in quelle aree di tessuto che adesso sappiamo possono contenerne.» «Quali aree di tessuto?» chiede Rutherford irritato. «Quelle dove la stoffa sfrega contro l’epidermide, dove possono esserci sudore, saliva o altri fluidi corporei: l’interno dei colletti, sotto le ascelle, le tese dei cappelli, le calze, l’interno delle scarpe... Il DNA si ricava anche da gomme da masticare e mozziconi di sigaretta, naturalmente. L’analisi richie-
de tecnologie sofisticate, PCR, STR. Per rispondere alla sua domanda di prima: in caso di DNA contaminato o deteriorato, non si ottengono falsi positivi.» Rutherford non intende approfondire. Dice invece: «Be’, George e Kim non vi creeranno problemi. Come vi ho detto, sono a casa. Li ho fatti chiamare dalla mia segretaria, che si è spacciata per una che raccoglieva fondi per le vittime dell’uragano. Avete visto, a proposito? Mi sa che abbiamo fatto infuriare il Padreterno, ecco perché succedono tante catastrofi». «Ha di che essere infuriato» conferma Delma. «Ambizione sfrenata, avidità e odio regnano incontrastati. Gli stessi che portarono alla morte la signora Finlay.» Lo sceriffo Rutherford non commenta, non la guarda neanche. Parla soltanto con Win, da uomo a uomo. Forse pensa che, se Dio manda tante sciagure sulla Terra, è anche per punire le donne che non vogliono più starsene a casa e ubbidire a padri e mariti. «Prima, però, vorrei capire la storia dell’uomo finito sotto il treno» dice a Win lo sceriffo scuotendo lentamente la testa. «Continuo a sospettare che l’abbiano fatto fuori. Magari la Dixie Mafia, la criminalità organizzata. Nel qual caso, converrebbe che avvertissimo l’FBI.» «Non credo proprio che sia stato un omicidio» replica Delma sicura. «Tutto quello che ho scoperto sul conto del detective Mark Holland fa pensare che si sia suicidato.» «Per esempio?» chiede lo sceriffo a Win, come se fosse stato lui a rispondergli. «Per esempio, il fatto che sua moglie Kim lo tradisse con il suo migliore amico, anche lui nella polizia» continua Delma. «E che gli avesse praticamente prosciugato il conto corrente. Insomma, Holland aveva mille motivi per essere depresso e arrabbiato.» Guarda lo sceriffo negli occhi. «Forse Barber non aveva abbastanza elementi» osserva Win. «Ma secondo noi avrebbe dovuto comunque indagare un po’ più a fondo su Kim Finlay. Sicuramente qualche sospetto lo aveva, visto che contattò l’Istituto di medicina legale di Chapel Hill e pinzò quella Polaroid all’elenco degli effetti personali di Vivian Finlay.» «L’elenco con il completo da tennis della taglia sbagliata? Ma quale collegamento poteva aver intuito fra un completo taglia trentotto e l’uomo finito sotto il treno?» Rutherford apre un pacchetto di gomme alla menta, fa
l’occhiolino a Win e dice: «Adesso su questa lascio il mio DNA, eh?». Poi comincia a masticare e aggiunge: «Okay. Dimostratemi il nesso fra la morte di Holland e quella della Finlay. Se ci riuscite». «Taglia quarantaquattro. Il completo da tennis era taglia quarantaquattro» dice Delma. «Non sono esperto di abbigliamento femminile, ma continuo a non vedere un collegamento fra la morte di un poliziotto investito da un treno e il completo da tennis di una vecchia signora. Secondo voi Barber pensava che fosse di una taglia troppo grande per la signora Finlay?» chiede, rivolto a Win. «No, secondo me, Barber non si accorse che la taglia era sbagliata» risponde Delma. «Neanch’io me ne sarei accorto, penso» dice lo sceriffo a Win. «E lei?» Gli fa di nuovo l’occhiolino, masticando la gomma. «È stato proprio il detective Garano a notare l’incongruenza» ribatte Delma. «Forse Barber mandò il completo da tennis insanguinato e gli altri effetti personali al laboratorio del TBI per farli esaminare» risponde Win. «Poi pinzò il foglio alla Polaroid e infilò il tutto nell’estratto conto di settembre della sua carta di credito... Chissà, magari teneva semplicemente il conto delle spese sostenute per andare a Chapel Hill. Non esiste per forza un senso logico nelle cose che si fanno.» «Questo è certo» dice Delma, che pensa alla stupidità di Toby Huber che ha nascosto il dossier nel forno. «Di rado tutti i dettagli trovano una spiegazione» continua Win. «La ricostruzione dei fatti è inevitabilmente approssimativa, restano sempre un sacco di lacune. Chi può dire che cosa succede in quei minuti, in quelle frazioni di secondo in cui la collera trascende e si consuma un delitto?» «Vedo che lei è un filosofo...» Rutherford socchiude gli occhi, continuando a masticare. Win si alza, guarda Delma e le dà il segnale. «Ci serve un po’ di tempo per dargli la bella notizia, dopodiché può passare a prenderli» dice allo sceriffo. “Meno male che ha usato il plurale” pensa Delma. Il caso Finlay è stato affidato a Win, d’accordo, ma in fondo quella che ci ha lavorato è stata lei. Questo la deprime, la irrita. In quanti scatoloni pieni di polvere ha frugato, quante telefonate ha fatto, quante lezioni ha perso? È ovvio che senta il caso
come suo. E che abbia voglia di andare da Kim e George Finlay a dirgli che non l’hanno fatta franca, che il loro non è stato il delitto perfetto, che stanno per essere ammanettati e sbattuti dentro. Dovranno trasferirsi un’altra volta, in una residenza ancora più grande, ma molto diversa da quella a cui sono abituati, e circondata dal filo spinato. «Sono brave persone» ribadisce Rutherford mentre escono nel parcheggio. Si ferma a osservare schifato la vecchia Golf di Delma, che aveva già guardato male al loro arrivo. «Okay, allora mi chiamate quando siete pronti» dice a Win. «Mi dispiace che finiscano in galera.» Continua a masticare la gomma. «A noi non hanno mai creato problemi.» «E continueranno a non crearvene, vedrà» conclude Delma. Little River Road, dove sorgono le ville più eleganti di Flat Rock, principalmente seconde case di gente che vive a New York, Los Angeles, Boston e Chicago, è a pochi chilometri di distanza. Delma imbocca il lungo sterrato e ferma la macchina su un lato, fra i cespugli, per sfruttare l’elemento sorpresa. Si incammina con Win verso la bella casa che George e sua moglie Kim, al novantatré per cento asiatica, hanno ereditato alla morte di Vivian Finlay. I due sono sposati da ventidue anni, essendo convolati a nozze sei mesi dopo la morte del primo marito di Kim, il detective Mark Holland, che si tolse la vita su un binario del North Carolina. «A me il dubbio sarebbe venuto» risponde Delma a Win, proseguendo il discorso che stavano facendo in macchina. «Del senno di poi...» sentenzia Win. «Chissà se, vent’anni fa...» «Mi stai dicendo che tu non avresti controllato le prenotazioni dei campi da tennis?» gli chiede Delma incredula, mentre vanno verso l’elegante residenza di George e Kim Finlay. «Che non l'avresti fatto le verifiche che ho fatto io?» Vuole ricordargli che si è dedicata anima e corpo a quel caso, che ha svolto indagini straordinariamente accurate e intelligenti. «Se Barber fosse stato un po’ più furbo, avrebbe capito che non era stata Vivian Finlay a usare la macchina lanciapalle quel giorno» continua Delma, che ha già sottolineato quel fatto almeno quattro volte. «Visto che risultava noleggiata a un ospite. Bastava chiedere.» «Forse si sentiva in imbarazzo, come me» le dice Win. «A disagio in un club di cui non avrebbe mai potuto essere membro.» Delma gli cammina a fianco. Win le mette una mano sulla spalla.
«Finirà in prigione, secondo te?» Win capisce che non è di Kim Finlay che Delma sta parlando, ma di Monique Lamont. «Personalmente, penso che abbia già ricevuto una punizione abbastanza pesante» risponde. «Non è ancora finita, comunque.» Proseguono per un po’ in silenzio, fra gli alberi ai lati del lungo sterrato che conduce alla villa, nel sole. Win percepisce la stanchezza di Delma, la sua delusione, il suo scoramento. «Devi tornare là, comunque» gli dice. «Immagino che partirai appena finito con quei due.» Indica la casa. «La polizia del Massachusetts ha bisogno di tecnici in gamba» dice lui. Delma lo prende sottobraccio. «Pensi che la cassaforte con le monete d’argento esistesse veramente?» gli domanda, forse solo per cambiare discorso, per non pensare a dove vive e lavora Win, alla sua vita così distante dalla sua e così vicina a quella di Monique Lamont. «Probabilmente, sì» risponde Win. «Secondo me, Kim la prese con sé prima di uscire, cercando di far passare quello che al novanta per cento fu un raptus omicida per una rapina, o una violenza sessuale. E di dare la colpa a un nero dall’aria sospetta. Funzionava, all’epoca. Sapessi quante volte mio padre ha avuto delle grane! La gente lo vedeva girare per il nostro giardino e chiamava la polizia.» Il sole è caldo, l’aria frizzante. Oltre gli alberi si comincia a vedere il tetto della casa dei Finlay. Delma e Win si staccano e camminano fianco a fianco, come due normali colleghi. Riprendono a parlare del caso. Delma non riesce a capacitarsi che Jimmy Barber abbia mancato di chiedersi che fine avessero fatto le calze e le scarpe della vittima. Si domanda che cosa si fosse messa addosso Kim Finlay, dopo essersi tolta il completo da tennis sporco di sangue. Ma sono tante le cose ancora da chiarire. Sono arrivati di fronte alla casa. George e Kim Finlay, entrambi ormai oltre i sessanta, sono seduti in veranda a pranzare. Delma e Win li guardano. I due li fissano stupiti. «Prego» dice Win. Delma lo guarda. «Sei sicuro di volere che ci parli io?» «Hai risolto tu il caso, no?» Si avviano verso la scala di legno che porta alla veranda. George e Kim Finlay hanno smesso di mangiare. Kim si alza in piedi. È tarchiata, grassoc-
cia, capelli grigi raccolti, occhiali scuri, volto segnato. «Vi siete persi?» domanda ad alta voce. «No» risponde Delma decisa, raggiungendoli. «Sono l’agente speciale Delma Sykes, del Tennessee Bureau of Investigation. Lui è Winston Garano, della polizia del Massachusetts. Ci siamo parlati per telefono l’altro giorno, ricorda?» dice rivolta a George. «Ah, sì.» George si schiarisce la voce. È tarchiato anche lui, capelli bianchi ed espressione confusa. Posa il tovagliolo sulla tavola, indeciso se alzarsi in piedi o restare seduto. «Il caso Finlay è stato riaperto a seguito del ritrovamento di nuove prove» annuncia Delma. «Nuove prove? Dopo tutti questi anni?» Kim si finge rattristata al ricordo della tragedia. «Sì, signora. Il suo DNA» replica Delma. 15 Win e Nana, un’altra delle loro missioni segrete, una notte di metà ottobre fresca e senza luna. Di corsa in macchina alla volta di uno scantinato dove Nana aveva saputo da una cliente che si organizzavano combattimenti tra cani. Combattimenti terribili, all’ultimo sangue, fra terrier, bulldog e pitbull fatti digiunare per giorni, maltrattati e mandati al macello per venti dollari il biglietto. Win ricorda ancora la faccia di Nana quando bussò alla porta e l’espressione dell’uomo che aprì nel momento in cui la vide piombare nella sua squallida casa senza un saluto. “Ti tengo fra le dita” gli disse Nana, avvicinando la punta di due polpastrelli. “Stretto fra le mie dita. Dove sono i cani? Sappi che adesso li portiamo via.” Gli mise la mano sotto il naso, i polpastrelli stretti uno all’altro. “Ma sei pazza?” le gridò quello. “Hai visto le monetine che sono sparse nel tuo giardino?” chiese Nana, e appena l’uomo andò verso la finestra a guardare, arrivò una folata di vento improvvisa e un ramo batté contro il vetro, mandandolo in frantumi. Forse non andò proprio così, ma a Win piace ricordarlo a quel modo. Nana e Win andarono via con la macchina piena di cani smunti, in condizioni pietose, e Win era in preda a un pianto irrefrenabile, cercava di accarez-
zarli, di calmarli, di lenire la loro pena. Li lasciarono all’ospedale veterinario e tornarono a casa. Faceva un freddo terribile, in casa era stato acceso il riscaldamento. I genitori di Win erano morti, e anche Pendi era morto. «Pencil?» chiede Monique Lamont dalla sua scrivania di cristallo. «Il nostro cane. Un bastardino, chiaro. Chiamato così perché da cucciolo si mangiava le mie matite.» «Intossicazione da monossido di carbonio.» «Già.» «Che cosa terribile...» Le parole di Monique suonano vuote. «Mi sembrava che fosse colpa mia» dice Win. «Come lei adesso forse si sta dando la colpa di quello che è successo. È tipico di chi ha subito una violenza sentirsi in colpa. Lei lo sa: nel suo lavoro ha conosciuto molte vittime di...» «Non sono una vittima.» «È stata stuprata, Monique, ha rischiato di morire. Ma ha ragione, non è una vittima. Lo è stata.» «Anche lei lo è stato.» «In maniera diversa, però sì.» «Quanti anni aveva?» gli domanda lei. «Sette.» «È per questo che la chiamano Geronimo, come il grande guerriero apache?» chiede Monique. «Per il coraggio? La determinazione? La voglia di vendicare la morte dei suoi genitori?» È di nuovo lei. Tailleur nero, a suo agio nel suo ufficio tutto vetri e iridi. Win si sente come in trappola. Ma se Monique dirà la verità - tutta la verità ci sarà ancora speranza. «Doveva fare l’eroe, Win?» gli chiede, cercando di mostrarsi comprensiva e nascondere la paura. «Perché era l’unico sopravvissuto?» «Perché mi sentivo inutile» la corregge Win. «Mi rifiutavo di fare sport, di competere, di giocare in una squadra; non volevo che gli altri si accorgessero di quanto fossi inutile. Stavo molto da solo; leggevo, disegnavo, giocavo per conto mio. Fu mia nonna a cominciare a chiamarmi Geronimo.» «Per via di questa sua sensazione di inutilità?» Monique prende l’acqua minerale, il bel volto imperturbabile. Nana gli ripeteva sempre: “Tu sei Geronimo, tesoro. Non te lo scordare mai”.
Win spiega a Monique: «Geronimo amava ricordare che l’uomo non può essere inutile, visto che è stato Dio a crearlo. E che il sole, l’oscurità e i venti ascoltano ciò che l’uomo ha da dire. Ecco, le ho parlato di me, Monique. Adesso tocca a lei. Mi racconti la verità. La ascolto». Monique beve un sorso di acqua, meditando. Poi dice: «Perché le importa tanto, Win? Davvero, perché?». «Per amore di giustizia. Le cose peggiori non sono successe per colpa sua, Monique.» «Che cosa le importa se finisco in galera?» «Non credo che lei dovrebbe andare in galera. Non sarebbe giusto nei confronti degli altri detenuti.» Sorpresa, Monique ride. Ma la sua allegria dura poco. Beve un altro sorso d’acqua. Le sue mani si muovono nervose. Win dice: «Monique, qui non c’entra solo la sua carriera politica». «Forse no» replica lei, guardandolo. «Anzi, no di certo. I motivi sono due. Perdere quel fascicolo perché poi venisse ritrovato a casa mia avrebbe trasformato l’iniziativa “A Rischio” in una farsa, avrebbe reso me e la procura una cosa sola, e unito Huber al governatore, dalla parte della ragione. Che uscissi da quella storia viva o morta, poco cambiava. Nessuno avrebbe detto cose carine, al mio funerale. Sono diventata inutile, Geronimo. Anch’io so che cosa significa.» Resta un momento in silenzio, sempre guardandolo. «Inutile e stupida.» «Pensa che il governatore la volesse morta?» Monique fa cenno di no con la testa. «Non credo. Semplicemente non voleva che io vincessi le elezioni. E Jessie voleva ingraziarselo. Come crede che abbia fatto carriera? Favori, manipolazioni... Era lui a volermi morta. Certo, se fossi andata all’altro mondo la vita per Crawley sarebbe stata più facile. Ma no, il nostro governatore non ha abbastanza pelo sullo stomaco per fare una cosa del genere. Jessie, invece, vuole il meglio di tutto. Vuole i soldi.» «Insider trading, Monique? Ha acquistato azioni di un laboratorio supertecnologico che si occupa di DNA e sta per diventare famoso?» Monique prende la bottiglietta dell’acqua, si accorge che non ce n’è più e la butta nel cestino della carta straccia. «Prohemogen» dice Win. «Tecnologia genetica capace di trovare il farmaco giusto a seconda del DNA. Il suo laboratorio californiano effettuerà anche test del DNA per la procura, ma non è con questi che fa i quattrini.»
Monique lo ascolta. Ha la tipica espressione di quando pensa. «I quattrini quel laboratorio li fa usando la genetica a scopo farmacologico. E ne fa tanti» dice ancora Win. Monique non risponde, continua ad ascoltare. «Si rende conto di quanta pubblicità gli farete lei, Crawley e la riapertura del caso Finlay?» continua Win. «Un bel ritorno di immagine, non c’è dubbio. Tutti i riflettori puntati sul laboratorio e sulle sue lucrose biotecnologie... Una pubblicità enorme. E quale sarà l’effetto? Un fortissimo rialzo delle quotazioni. Quante azioni possiede di quel laboratorio, Monique?» «Almeno una cosa adesso è chiara» replica lei. «Volevano farmi passare come quella che si era portata a casa un dossier e lo nascondeva. Volevano che venisse ritrovato a tutti i costi.» Win la guarda a lungo. «Un piano diabolico. Lei è rovinata, ma tutto il resto no. Il dossier viene ritrovato, il caso può essere risolto... tutta pubblicità. Anche se il caso non fosse stato risolto, la pubblicità era comunque assicurata.» «Il caso è stato risolto, però.» «Il laboratorio non ha fatto niente di scorretto. Anzi, ha contribuito alla risoluzione del caso.» Monique annuisce, distratta. «La triste verità è che di quella povera vecchia assassinata non importava niente a nessuno» dichiara Win. «Era solo una questione di potere.» Monique riflette, forse cercando di rigirare la situazione a proprio favore. Poi dice: «So che probabilmente non mi crederà, Win, ma a me importava. Volevo sinceramente che si trovasse il colpevole». «Quante azioni possiede di quel laboratorio?» chiede Win. «Nemmeno una.» «Sicura?» «L’idea non mi è passata neppure per l’anticamera del cervello. Non sapevo niente di quel laboratorio. È Jessie l’esperto: nella sua posizione, conosce tutte le aziende che si occupano di biotecnologie, in tutto il mondo. Io non ne sapevo nulla: né del laboratorio né di quello che faceva. L’ho contattato solo perché volevo risolvere un caso di vent'anni fa nell’ambito di un’iniziativa chiamata “A Rischio”. Sul serio.» «Ha trascorso da Huber la notte prima dell’aggressione? È allora che ha perso le chiavi? Ha detto che non ha dormito a casa e che è andata diretta-
mente al lavoro da lì.» C’è un registratore posato sul tavolo di cristallo di Monique. E lui sta prendendo appunti. «Abbiamo cenato insieme, sì. Senta, posso capire che lui...» «Il movente.» Win vuole una risposta. Monique prende tempo, poi dice: «Jessie è mio amico. Come è amico suo, peraltro». «Dubito che sia la stessa cosa.» «Qualche mese fa mi ha consigliato delle azioni da comprare.» Monique si schiarisce la voce, cerca di avere un tono deciso. «Ho guadagnato parecchio. Poi, una settimana dopo, ho capito tutto: ho letto sul giornale che era stata autorizzata la vendita di un certo farmaco, messo a punto da un certo laboratorio. Non quello del caso Finlay, un altro.» «È questo il movente? Per questo Huber la voleva morta?» «In cambio dell’appalto per migliaia di analisi di DNA da effettuare per il database nostro e di altri Stati, Jessie riceve consigli speciali su come giocare in Borsa. Strumentazione per i laboratori, raccomandazioni da altri laboratori. Và avanti da anni.» «Glielo ha detto lui?» «Dopo quel suggerimento tanto azzeccato, ho cominciato a insospettirmi.» Monique guarda il registratore. «Più cose mi raccontava, più ero coinvolta. Sono rea di insider trading, ma anche di associazione per delinquere, visto che sono al corrente degli illeciti commessi dal direttore del laboratorio forense e non dico nulla. Per non parlare di...» «Giusto. Della vostra relazione non del tutto professionale.» «Lui mi ama.» Lo dice senza il minimo sentimento, fissando il registratore. «Strano modo di dimostrarlo.» «È finita qualche mese fa, dopo il suo consiglio per giocare in Borsa. Quando mi sono resa conto di che cosa faceva e in che cosa mi aveva coinvolto, ho rotto. Gli ho detto che non lo amavo più...» «L’ha minacciato?» «Gli ho fatto sapere che non volevo più essere coinvolta nelle sue attività illecite, che doveva smetterla. In caso contrario, avrei preso provvedimenti.» «Quando è successo?» «La primavera scorsa. Ho sbagliato a dirglielo, probabilmente» mormora Monique, sempre fissando il registratore.
«Avrebbe potuto farsi assistere da un avvocato» le ricorda Win. «Ha parlato di sua spontanea volontà. Non l’ho costretta.» «Bell’abito, complimenti.» Indica la giacca grigia di Win, cerca di sorridere. «Emporio Armani. Di tre stagioni fa, credo, settanta dollari. Non l’ho costretta» ripete. «No, Win, non mi ha costretta» conferma Monique. «Mi assumerò le mie responsabilità.» «Testimonierà contro Huber?» «Sarà un piacere.» Win ferma il registratore, estrae il dischetto e dice: «Le è mai venuto in mente che con tutti questi vetri il suo ufficio potrebbe incendiarsi?». Prende un fermacarte di cristallo, lo solleva verso il sole che entra dalla finestra e fa convergere i raggi sul dischetto sopra il tavolo. Monique guarda stupefatta il filo di fumo che comincia a salire. «Che cosa sta facendo?» domanda. «Lei vive in un mondo molto fragile, Monique. Un mondo che può andare in fumo da un momento all’altro. Forse dovrebbe stare più attenta, dirigere il calore altrove. Concentrarlo dove è giusto.» Le porge il disco ormai rovinato. Le loro dita si sfiorano. Win prosegue: «Se le viene paura, si ricordi di questo. E di quello che le ho detto». Monique annuisce e si mette il disco inutilizzabile in tasca. «Un altro consiglio. Se qualcuno, per esempio il gran giurì, dovesse mai interrogarla, le suggerisco di omettere i dettagli meno significativi. Secondo me, la maggior parte delle persone penserà che Huber l’ha imbrogliata d’accordo con il governatore. Lo giudicherà un uomo geloso, avido, che voleva vendicarsi del suo rifiuto. E così via. Ho annotato le cose più importanti.» Solleva il blocco per appunti. «E omesso le informazioni che potrebbero dare adito ad ambiguità. Lei sa quali. Eventuali azioni che Huber potrebbe aver raccomandato, eventuali illeciti che potrebbe averle confidato e che lei non ha mai rivelato a nessuno. Non ci sono prove. Lei potrebbe anche aver azzeccato un investimento. Non è mica detto che ci sia stato insider trading, giusto? È la sua parola contro quella di Huber.» Monique lo guarda, lo squadra. Win preme un pulsante sul suo cellulare. «Sammy? Voglio interrogare Jessie Huber. È arrivato il momento. Procurati un mandato di perquisizione per tutte le sue proprietà. E rintraccia suo fi-
glio Toby. Ho intenzione di interrogare anche lui.» «Con molto piacere» dice Sammy. «Per cosa sono indagati?» «Tentato omicidio, tentato incendio doloso, associazione per delinquere. Cos’altro?» Osserva Monique, che ha lo sguardo gelido. «Sono sicuro che ai federali farà piacere sapere che le normative della Commissione di controllo sulla Borsa sono state violate.» «E adesso?» chiede Monique a Win appena chiude la telefonata. «Che cosa ne sarà di me?» «È proprio vero che le persone non cambiano» dice lui alzandosi in piedi. «Lei è interessata solo a se stessa, Monique.» FINE