IAN RANKIN DIETRO QUEL DELITTO (The Naming Of The Dead, 2006) A tutti quelli che erano a Edimburgo il 2 luglio 2005 «Pos...
57 downloads
1241 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
IAN RANKIN DIETRO QUEL DELITTO (The Naming Of The Dead, 2006) A tutti quelli che erano a Edimburgo il 2 luglio 2005 «Possiamo scegliere di provare tutti i giorni a costruire un mondo nuovo, di dire tutti i giorni quel che sappiamo della verità, di prendere tutti i giorni piccole iniziative.» A.L. Kennedy, sul corteo di Gleneagles «Scriveteci un capitolo di cui andare fieri.» Bono, in un messaggio al G8 LATO A IL COMPITO DEL SANGUE Venerdì 1° luglio 2005 1 Musica, al posto dell'inno conclusivo. Gli Who, Love, Reign o'er Me. Rebus la riconobbe subito, con i tuoni e la pioggia scrosciante a riempire la cappella. Si trovava nella prima fila di panche. Chrissie aveva insistito, anche se lui avrebbe preferito sedersi più indietro, come sempre ai funerali. Il figlio e la figlia di Chrissie sedevano accanto a lei; Lesley cercava di consolare la madre, un braccio che le cingeva le spalle mentre le lacrime scendevano; Kenny guardava fisso davanti a sé, mettendo da parte l'emozione per dopo. Quel mattino, ancora in casa, Rebus gli aveva chiesto quanti anni avesse: ne compiva trenta il mese successivo. Lesley ne aveva due di meno. Fratello e sorella somigliavano alla madre, e Rebus si era ricordato che la gente diceva lo stesso di lui e Michael: «Siete precisi sputati la vostra mamma». Michael... o Mickey, se si preferiva. Suo fratello minore, morto, dentro una cassa dalle maniglie scintillanti all'età di cinquantaquattro anni, le statistiche sulla mortalità in Scozia quelle di una nazione del Terzo mondo. Stile di vita, alimentazione, geni... un mucchio di teorie. Il referto dell'autopsia non era ancora arrivato. Ictus fulminante, gli aveva
detto Chrissie al telefono, assicurandogli che era stata «una fine istantanea»... come se facesse qualche differenza. Istantanea voleva dire che lui non era riuscito a dirgli addio. Che le sue ultime parole a Michael erano state una battuta sui suoi amatissimi Raith Rovers nel corso di una telefonata, tre mesi prima. E una sciarpa dei Raith, bianca e blu, era drappeggiata sulla bara insieme alle corone. Kenny portava una cravatta di suo padre, con sopra il gagliardetto della squadra: una specie di animale che reggeva una fibbia. Rebus ne aveva chiesto il significato, ma il nipote aveva fatto spallucce. Gettò un'occhiata lungo la fila e vide il cerimoniere fare un gesto: tutti si alzarono in piedi. Chrissie si avviò lungo la navata, i figli al fianco. L'uomo guardò Rebus, ma lui rimase dov'era e sedette di nuovo: non era necessario che gli altri lo aspettassero. La canzone, l'ultima di Quadrophenia, era arrivata poco oltre la metà. Era Michael il grande fan degli Who, lui preferiva gli Stones, però doveva ammettere che album come Tommy e Quadrophenia facevano un effetto che gli Stones non avrebbero mai ottenuto. Roger Daltrey sbraitava che aveva voglia di bere, e Rebus non poteva essere più d'accordo con lui, ma doveva pensare al viaggio di ritorno a Edimburgo. Avevano prenotato la sala ricevimenti di un albergo della zona e, come il celebrante aveva rammentato dal pulpito, erano tutti invitati. Whisky e tè da bere, tramezzini da mangiare. Ci sarebbero stati aneddoti e scambi di ricordi, sorrisi, fazzoletti agli occhi, voci smorzate. I camerieri si sarebbero mossi adagio, in segno di rispetto. Rebus stava già cercando di comporre mentalmente frasi di scusa. Devo rientrare, Chrissie. Il lavoro. Avrebbe potuto dire una bugia e dare la colpa al G8. Prima, a casa, Lesley aveva osservato che certo doveva essere molto impegnato per l'evento, e lui avrebbe potuto rispondere: «A quanto pare sono l'unico sbirro di cui non hanno bisogno». In effetti stavano chiamando rinforzi da ogni dove, millecinquecento agenti solo da Londra, eppure l'ispettore dell'Investigativa John Rebus pareva in sovrappiù. Qualcuno doveva rimanere di guardia al forte: queste le esatte parole dell'ispettore capo James Macrae, corredate di sorrisetto compiaciuto da parte del suo onnipresente adepto. L'ispettore Derek Starr si considerava in tutto e per tutto l'erede al trono: un giorno avrebbe diretto lui la stazione di polizia di Gayfield Square. John Rebus non rappresentava assolutamente una minaccia, di certo non a poco più di un anno dal pensionamento. Starr gliel'aveva detto chiaro e tondo: «Nessuno avrebbe niente da obiettare se ti imboscassi un po', John. Alla tua età lo fa-
rebbe chiunque». Poteva anche darsi, ma gli Stones erano più vecchi di lui, e anche Daltrey e Townshend, eppure suonavano ed erano ancora in pista. La canzone era giunta al termine e Rebus si rialzò. Era rimasto solo nella cappella. Gettò un'ultima occhiata alla cortina di velluto viola. Forse la bara era ancora là dietro, forse era già stata spostata in un altro punto del crematorio. Ripensò all'adolescenza, a due fratelli che nella stessa cameretta ascoltavano i 45 giri comprati in High Street a Kirkcaldy. My Generation e Substitute, con Mickey che chiedeva perché Daltrey balbettasse, nel primo, e Rebus che rispondeva di aver letto da qualche parte che c'entrava la droga. L'unica droga che i due fratelli si erano concessi, invece, era l'alcol, sorsi rubati dalle bottiglie in dispensa, una lattina di nauseabonda birra scura scassinata e condivisa dopo l'ora del silenzio. E ancora loro fermi sul lungomare di Kirkcaldy a fissare le onde, con Mickey che cantava I Can See for Miles... vedo a perdita d'occhio. Ma era successo davvero? Quel disco era uscito nel '66 o nel '67, periodo in cui Rebus si trovava già sotto le armi. Doveva essere stato durante una licenza. Sì, Mickey con i capelli lunghi fino alle spalle nel tentativo di assomigliare a Daltrey, e lui con il regolamentare taglio a spazzola a inventarsi storie per far sembrare esaltante la vita militare, l'Irlanda del Nord ancora di là da venire... Allora erano molto legati. Non faceva che spedire lettere e cartoline a casa, e suo padre era fiero di lui, fiero di tutti e due i suoi ragazzi. Precisi sputati la vostra mamma. Uscì, il pacchetto delle sigarette già aperto in mano. Attorno a lui altri fumatori, cenni del capo e piedi strascicati. Le corone e i bigliettini erano stati allineati vicino alla porta e venivano ora letti dai dolenti. Sempre le stesse parole: «condoglianze», «perdita», «sofferenza». La famiglia era sempre «nei nostri pensieri». Michael non veniva mai chiamato per nome: la morte aveva il suo protocollo. I più giovani controllavano gli SMS sul cellulare. Rebus estrasse di tasca il suo e lo accese. Cinque chiamate perse, tutte da uno stesso numero, che conosceva a memoria. Premette i tasti e si portò il telefonino all'orecchio. Il sergente dell'Investigativa Siobhan Clarke rispose subito. «È tutta la mattina che ti cerco», protestò. «Avevo spento.» «Ma dove sei?» «Ancora a Kirkcaldy.» Respiro profondo. «Accidenti, John, me ne ero completamente dimenti-
cata.» «Non ti preoccupare.» Guardò Kenny che apriva lo sportello della macchina a Chrissie. Lesley gli fece segno che si avviavano all'albergo. L'auto era una BMW: Kenny, ingegnere meccanico, se la cavava benino. Non era sposato, ma aveva una ragazza che non era riuscita a venire al funerale. Lesley invece era divorziata e i figli, un maschio e una femmina, in vacanza con il papà. Rebus le rispose con un cenno del capo. «Pensavo fosse la settimana prossima», disse Siobhan. «Allora, hai chiamato per vantarti?» Si incamminò verso la Saab. Siobhan aveva passato gli ultimi due giorni nel Perthshire al seguito di Macrae, in una ricognizione delle misure di sicurezza per il vertice del G8. Lui e il vicecapo aggiunto della polizia del Tayside erano vecchi amici: Macrae voleva solo ficcare un po' il naso in giro e l'amico l'aveva accontentato volentieri. I capi del G8 si sarebbero incontrati all'hotel Gleneagles, poco fuori Auchterarder, in mezzo a ettari di nulla e circondati da un cordone di sicurezza lungo svariati chilometri. I media riportavano un mucchio di illazioni e storie sensazionali: tremila marine americani sbarcati in Scozia per proteggere il loro presidente, complotti anarchici per bloccare strade e ponti con camion dirottati. Bob Geldof auspicava l'arrivo di un milione di dimostranti: all'accoglienza avrebbero provveduto l'ospitalità della gente, i garage e i giardini delle case private. I disobbedienti sarebbero stati prelevati via mare in Francia: gruppi legati ai centri sociali e Black Bloc avrebbero cercato lo scontro, mentre la People's Golfing Association voleva spezzare il cordone per giocare qualche buca sul famoso campo di Gleneagles. «Due giorni in compagnia dell'ispettore capo Macrae», disse Siobhan. «Cosa c'è da vantarsi?» Rebus aprì la macchina e si chinò per infilare la chiave nell'accensione. Poi si raddrizzò, diede un ultimo tiro alla sigaretta e scagliò via il mozzicone. Siobhan aggiunse qualcosa a proposito di una squadra della Scientifica. «Aspetta», la interruppe lui. «Non ho capito.» «Niente, ne hai già abbastanza per conto tuo.» «Senza cosa?» «Ti ricordi Cyril Colliar?» «Malgrado la veneranda età, la mia memoria non ha ancora dato forfait.» «È successa una cosa stranissima.» «Cioè?» «Credo di aver trovato il pezzo mancante.»
«Di che?» «Del giubbotto.» Rebus sedette di sbieco. «Non capisco.» Siobhan fece una risatina nervosa. «Neanch'io.» «Quindi adesso dove sei?» «A Auchterarder.» «E il giubbotto è saltato fuori lì?» «Qualcosa del genere.» Infilò dentro anche le gambe e chiuse la portiera. «Allora vengo a dare un'occhiata. Macrae è con te?» «È andato a Glenrothes, il centro di controllo del G8 è là.» Fece una pausa. «Sicuro di voler venire?» Rebus aveva già messo in moto. «Prima devo porgere le mie scuse, ma posso raggiungerti fra un'ora. Avrò problemi a entrare a Auchterarder?» «È la quiete prima della tempesta. Quando arrivi cerca il cartello che indica il Clootie Well.» «Il cosa?» «È più facile a farsi che a dirsi.» «D'accordo, allora. Ci sarà anche la Scientifica?» «Sì.» «Quindi la cosa si saprà in giro.» «Secondo te, devo dirlo all'ispettore capo?» «Decidi tu.» Rebus si incuneò il telefono tra la guancia e la spalla, affrontando la manovra per uscire dal labirinto del crematorio e raggiungere il cancello. «Non ti sento più», disse Siobhan. Ma mi vedrai presto, pensò lui. Cyril Colliar era stato assassinato un mese e mezzo prima. A vent'anni era finito dentro, con una condanna a dieci per un brutale stupro e, scontata la pena, era uscito malgrado le riserve delle autorità carcerarie, della polizia e dei servizi sociali. Secondo questi costituiva una minaccia grave esattamente come il giorno in cui era entrato, visto che non aveva mai mostrato segni di rimorso e aveva negato la propria colpevolezza anche a dispetto della prova del DNA. Colliar era tornato nella natia Edimburgo e tutto il body-building fatto in prigione si era dimostrato alquanto utile per il suo nuovo impiego come buttafuori di notte e guardaspalle di giorno. In entrambi i casi il suo datore di lavoro era Morris Gerard Cafferty, alias «Big
Ger», un delinquente incallito che ancora una volta era toccato a Rebus affrontare in merito al suo ultimo acquisto. «Cosa vuoi che me ne freghi?» era stata la risposta del boss. «È un individuo pericoloso.» «Be', anche un santo perderebbe la pazienza, visto come gli state alle costole.» Cafferty si dondolava a destra e a sinistra sulla poltrona girevole di pelle, dietro la scrivania alla MGC Lettings, la sua agenzia immobiliare. Per come la vedeva Rebus, probabilmente Colliar entrava in azione se qualcuno tardava con l'affitto settimanale di uno degli appartamenti del capo. Cafferty gestiva anche dei taxi privati, ed era titolare di almeno tre sordidi locali nelle zone più malfamate della città. Un sacco di lavoro per Cyril. Fino alla notte in cui l'avevano trovato morto. Cranio sfondato, colpo inferto da dietro. Secondo l'anatomopatologo, sarebbe bastato a ucciderlo anche solo quello, ma tanto per andare sul sicuro qualcuno ci aveva aggiunto una siringa di eroina purissima. Nessun precedente in quel senso da parte del deceduto, e «deceduto» era la parola usata, seppure di malavoglia, da gran parte degli investigatori che si erano occupati del caso. Nessuno si era certo dato la pena di chiamarlo «vittima». E nessuno riusciva a dire le cose come stavano, e cioè «quel bastardo ha avuto quel che si meritava». Eh no, di quei tempi non stava bene. Il che non impediva loro di pensarlo e condividerlo con occhiate ed eloquenti cenni di assenso. Anche Rebus e Siobhan avevano seguito il caso, ma era solo uno fra tanti. Poche piste e troppi sospettati. Avevano interrogato la vittima dello stupro, come pure i suoi familiari e il fidanzato dell'epoca, e ogni volta che si parlava della fine di Colliar era un unico commento a spuntare: «Gli sta bene». Il corpo l'avevano trovato vicino all'automobile, su una stradina secondaria nei pressi del bar in cui lavorava. Nessun testimone, nessun indizio materiale sul luogo del delitto. Giusto una curiosità: qualcuno gli aveva rimosso con una lama affilata un pezzo del giubbotto, un capo piuttosto riconoscibile, un bomber nero, sintetico, con la scritta CC RIDER ricamata sulla schiena. E proprio quella era stata asportata, a rivelare la fodera bianca all'interno. Le ipotesi scarseggiavano: un goffo tentativo di nascondere l'identità del deceduto, oppure nella fodera era celato qualcosa. Le analisi non avevano però rilevato tracce di stupefacenti, ragion per cui gli investigatori erano rimasti perplessi, con un pugno di mosche in mano. Secondo Rebus si trattava di un omicidio su commissione. Colliar si era
fatto un nemico, oppure qualcuno voleva mandare un messaggio a Cafferty... non che i diversi interrogatori con Big Ger avessero fruttato alcunché. «Dannoso per la mia reputazione», era stata la sua reazione. «Quindi, o il colpevole lo beccate voi...» «Oppure?» Ma Cafferty non aveva avuto bisogno di rispondere. Se al colpevole fosse arrivato per primo lui, se ne sarebbe persa ogni traccia. Nulla di tutto ciò era servito. L'indagine si era arenata, e più o meno nello stesso periodo i preparativi per il G8 avevano dirottato altrove l'attenzione generale, grazie anche ai miraggi di lauti straordinari. E poi erano intervenuti altri casi, altre vittime. Vittime vere. La squadra che indagava sull'omicidio Colliar era stata sciolta. Rebus abbassò il finestrino per godersi la brezza fresca. Non conosceva la strada più breve per Auchterarder, però sapeva che si poteva arrivare a Gleneagles passando per Kinross, quindi si avviò in quella direzione. Un paio di mesi prima aveva comprato un navigatore satellitare, ma non era ancora nemmeno riuscito a leggere le istruzioni: l'aggeggio se ne stava impacchettato sul sedile del passeggero, completamente inutile. Un giorno di quelli avrebbe finito per portarlo nell'officina dove gli avevano installato il lettore CD. Un'ispezione del sedile posteriore, dei tappetini e del bagagliaio non aveva restituito nulla degli Who, perciò adesso Rebus stava ascoltando gli Elbow, una delle passioni di Siobhan. Gli piaceva soprattutto la canzone da cui prendeva il titolo l'album, Leaders of the Free World, e l'aveva messa in modalità «repeat». A quanto pareva il cantante pensava che negli anni '60 qualcosa avesse iniziato ad andare storto. In linea di massima Rebus era d'accordo con lui, anche se era giunto a quella conclusione per strade diverse. Gli Elbow avrebbero forse voluto un cambiamento più netto, un mondo governato da Greenpeace e da quelli del disarmo nucleare, la fine della povertà. Anche lui era andato a qualche corteo negli anni '60, sia prima sia dopo l'arruolamento. Se non altro si rimorchiava, perché di solito dopo da qualche parte c'era una festa. Ora però quel periodo gli appariva più che altro come la fine di qualcosa. Nel 1969 un ragazzo era stato accoltellato a morte a un concerto degli Stones, e a poco a poco gli ideali del decennio si erano spenti. Allora i giovani avevano assaggiato la ribellione: non si fidavano del vecchio ordine costituito e di certo non lo rispettavano. Pensò alle migliaia di manifestanti che di lì a poco sarebbero calate su Gleneagles, alla forte possibilità di scontri, ma in quel paesaggio
di colline e fattorie, fiumi e valli anguste era uno scenario difficile da immaginare. Sapeva bene che proprio l'isolamento di Gleneagles aveva contribuito alla sua scelta come luogo del summit: lì i leader del mondo libero sarebbero stati al sicuro, tranquilli nell'apporre la propria firma a decisioni prese altrove. Dallo stereo, il gruppo invitava a scalare una frana. L'immagine gli rimase in mente per tutta la strada, fino alla periferia di Auchterarder. Era abbastanza certo di non essere mai stato da quelle parti, eppure gli sembrava di conoscere il posto. Tipica cittadina scozzese di provincia: un'unica, ben definita strada principale da cui si dipartivano le vie secondarie, costruita con l'idea che la gente sarebbe andata a fare la spesa a piedi. I negozi erano peraltro indipendenti, piccoli esercizi privati, e Rebus non vedeva possibili micce in grado di infiammare i paladini antiglobalizzazione. Il panettiere vendeva persino tortine dedicate al G8 in edizione limitata. Se non ricordava male, la popolazione di Auchterarder era stata controllata da cima a fondo con la scusa di fornire i pass d'accesso, e tuttavia, come Siobhan aveva sottolineato, sul luogo regnava una tranquillità innaturale. Solo poche persone intente alle compere, e un falegname che prendeva misure per sbarrare le vetrine. Le auto erano 4x4 infangate che, con buona probabilità, avevano percorso più sentieri sterrati che autostrade, e alla guida di una vide una donna in foulard, immagine decisamente d'altri tempi. Nel giro di un paio di minuti si ritrovò all'altro capo della cittadina, diretto già verso la A9. Fece quindi inversione e stavolta cercò di stare più attento ai cartelli. Quello che cercava era nei pressi di un pub e indicava una strada secondaria. Mise la freccia e seguì il nastro d'asfalto oltrepassando siepi e vialetti, poi un nuovo complesso residenziale, finché il paesaggio non gli si spalancò davanti mostrandogli colli lontani. In pochi istanti era di nuovo fuori dell'abitato e accanto gli correvano linde siepi d'arbusti pronte a graffiargli la carrozzeria se solo avesse dovuto accostare per far spazio a un trattore o a un furgoncino. Alla sua sinistra c'era un bosco, e un altro cartello lo informò che quella era la zona del Clootie Well. La parola clootie gli era familiare: ogni tanto sua madre faceva un dolce, una specie di budino appiccicoso che chiamava clootie dumpling. Per sapore e consistenza - scuro, zuccherino e stucchevole - ricordava il pudding di Natale. A quel punto le proteste del suo stomaco gli rammentarono che non mangiava da ore. Alla veglia non si era trattenuto a lungo: poche parole, poi Chrissie lo aveva abbracciato, come già aveva fatto la mattina a ca-
sa. Benché si conoscessero da una vita, tra loro non c'erano mai state molte effusioni. Nei primi tempi lui le aveva addirittura fatto un po' il filo... imbarazzante, date le circostanze. Sembrava che Chrissie se ne fosse accorta. Poi lui aveva fatto da testimone al matrimonio, e durante un ballo lei gli aveva maliziosamente soffiato nell'orecchio. Più avanti, nei pochi periodi di crisi fra lei e Mickey, Rebus aveva preso le parti di suo fratello. Forse avrebbe potuto chiamarla, dire qualcosa, invece no. E quando Mickey si era cacciato in quel guaio ed era finito in prigione, lui non era andato a trovare Chrissie e i ragazzi. Be', in realtà non era andato a trovare spesso nemmeno Mickey, né in galera né dopo. E c'era dell'altro. Quando Rebus e sua moglie si erano separati, Chrissie aveva a propria volta preso le difese della cognata: era sempre andata molto d'accordo con Rhona ed era rimasta in contatto con lei anche dopo il divorzio. Eccola lì, la famiglia: tattica, settarismo, diplomazia. Al confronto la politica era una passeggiata. In albergo Lesley aveva imitato la madre e l'aveva abbracciato. Kenny, invece, aveva avuto un attimo di esitazione, prima che Rebus lo levasse dall'imbarazzo tendendogli la mano da stringere. Si era chiesto se sarebbero emerse vecchie ruggini: ai funerali capitava spesso. Con il dolore arrivavano anche la rabbia e il risentimento. Ragione di più per non fermarsi. Quando si trattava di litigare, John Rebus era un peso massimo, in senso sia letterale sia metaforico. Al lato della strada si apriva uno spiazzo che, cosparso di trucioli di legno, sembrava appena ricavato dal taglio degli alberi. Poteva ospitare quattro macchine, ma ce n'era solo una, e Siobhan Clarke ci stava appoggiata contro a braccia conserte. Rebus tirò il freno a mano e scese. «Bel posticino», disse. «Sono qui ad aspettarti da una vita», lo informò lei. «Non mi sembrava di averci messo tanto.» Siobhan gli regalò solo una smorfia e lo condusse nel bosco, le braccia sempre conserte. Era più elegante del solito: gonna nera al ginocchio e collant dello stesso colore, ma le scarpe erano infangate, avendo già percorso il sentiero in precedenza. «Ho visto il cartello ieri», gli disse. «Quello che porta fuori dalla strada principale. E così ho pensato di venire a dare un'occhiata.» «Be', se la scelta era tra qui e Glenrothes...» «Al parcheggio c'è un cartello con qualche notizia di folclore locale. Nel corso degli anni in zona c'è stata ogni sorta di attività stregonesca.» Stava-
no risalendo un pendio che passava accanto a un'imponente quercia ritorta. «La gente del paese si è messa in testa che qui ci abitassero i folletti, cose così.» «Contadini del posto, più probabilmente», suggerì Rebus. Lei concordò con un cenno del capo. «Ciò nonostante hanno cominciato a lasciare piccoli ex voto, soprattutto pezzi di stoffa. Di lì il nome.» Si voltò a guardarlo. «Tu lo sai che cosa vuol dire clootie, vero, da buon scozzese DOC?» Gli balenò l'immagine di sua madre che toglieva il dolce dallo stampo. E il dolce era avvolto in una... «Pezza», le disse. «Ma anche indumento», aggiunse Siobhan, mentre entravano in una seconda radura. Quando si fermarono, Rebus inspirò a pieni polmoni. Tela umida... tela umida e marcescente: ecco che cosa fiutava già da un po'. L'odore che emanavano gli abiti nella sua vecchia casa, quella in cui era cresciuto, quando non prendevano aria, quando muffa e umidità li aggredivano. Gli alberi intorno a loro erano drappeggiati di stracci e alcuni brandelli erano caduti a terra, dove pian piano si trasformavano in concime. «Secondo la tradizione», spiegò adagio Siobhan, «portava bene lasciarli qui: tieni i folletti al caldo e loro ti proteggono. Pare ci venissero anche i genitori che avevano perso un figlio, in sua memoria.» La voce ebbe un tremito e lei si schiarì la gola. «Non sono così fragile», la rassicurò Rebus. «Usa pure espressioni tipo 'in memoria', giuro che non mi metterò a piangere.» Siobhan assentì di nuovo. Lui fece il giro della radura. Foglie e muschio soffice sotto i piedi, e il suono di un corso d'acqua, giusto un rivolo sottile che si spingeva fuori del terreno. Al limitare del ruscello c'erano monete e candeline. «Non un granché, come pozzo», commentò. Lei si limitò a un'alzata di spalle. «Diciamo che neanch'io sono rimasta particolarmente sconvolta. Ma poi mi è cascato l'occhio su alcuni degli indumenti più recenti.» Anche Rebus li vide. Appesi agli alberi. Uno scialle, una tuta da lavoro, un fazzoletto a pois rossi. Una scarpa da ginnastica quasi nuova, con le stringhe penzoloni. Persino biancheria intima, e quella che sembrava una calzamaglia da bambina. «Cristo, Siobhan», borbottò, non sapendo che altro dire. L'odore sembrò farsi più intenso. Ebbe un altro flash: una bisboccia durata dieci giorni, molti anni prima, da cui era uscito scoprendo che
per tutto quel tempo si era dimenticato in lavatrice un carico di bucato già fatto. All'apertura dello sportello lo aveva colpito il medesimo odore: rilavare tutto non era servito, però, e alla fine aveva dovuto comunque buttare ogni cosa. «E il giubbotto?» Lei si limitò a indicare. Rebus si incamminò lentamente verso l'albero in questione: il brandello di nailon pendeva da un ramo piuttosto corto, e ondeggiava piano nella brezza. Era lacero, ma la scritta ancora chiaramente leggibile. «CC RIDER», mormorò Rebus. Siobhan si stava passando le mani tra i capelli. Di certo aveva delle domande da fargli, chissà quanto ci aveva rimuginato sopra mentre lo aspettava. «Quindi, cosa facciamo?» la incalzò. «Be', tanto per cominciare è una scena del crimine. Da Stirling sta già arrivando la Scientifica. Dobbiamo mettere in sicurezza il perimetro e passare al setaccio l'area in cerca di prove. E ricostituire la squadra originale delle indagini e ricominciare col porta a porta...» «Gleneagles compresa?» la interruppe Rebus. «Sei tu l'esperta, perciò dimmi: il personale dell'hotel quante volte è stato già controllato? E te lo immagini un porta a porta nel bel mezzo di una manifestazione di una settimana? Mettere in sicurezza il perimetro però non sarà un problema, con tutte le squadre dei servizi segreti a cui stiamo per dare il benvenuto...» Naturalmente ci aveva già pensato anche lei, perciò non gli servì concludere. «Ce ne staremo zitti e buoni fino alla fine del summit», disse Siobhan. «Allettante», ammise lui. Lei sorrise. «Anche perché così tu ti ritroverai in vantaggio.» Lui ammise anche quello con una strizzata d'occhio. Siobhan fece un sospiro. «A Macrae però bisogna dirlo. E lui informerà la polizia del Tayside.» «Ma quelli della Scientifica sono di Stirling», aggiunse Rebus, «e Stirling fa parte della Central Region.» «Quindi dovremo mettere al corrente solo tre forze di polizia... tenere il segreto non dovrebbe essere un problema.» Rebus si guardò intorno. «Se riuscissimo almeno a far setacciare e fotografare la scena... a portare il pezzo di stoffa in laboratorio...» «Prima che si scateni il circo?» «Stiamo parlando di mercoledì, giusto?» «Il G8 inizia mercoledì, sì. Ma domani c'è la marcia contro la povertà, e lunedì un'altra.»
«A Edimburgo, però, non a Auchterarder...» Poi capì dove lei voleva andare a parare. Anche con le prove in laboratorio la città sarebbe stata sotto assedio, e andare dalla centrale di Gayfield Square al laboratorio di Howdenhall significava attraversarla tutta... sempre supponendo che i tecnici forzassero a loro volta il blocco e arrivassero al lavoro. «Ma perché lasciarlo qui?» rifletté Siobhan a voce alta, ricominciando a esaminare il brandello. «A mo' di trofeo?» «E perché proprio in questo posto?» «Legami personali o familiari in zona?» «Credo che Colliar fosse un edimburghese verace.» Lei lo guardò. «Mi riferivo alla vittima dello stupro.» Rebus spalancò la bocca. «Non scordiamoci di lei», aggiunse Siobhan. Poi si interruppe. «Cos'è questo rumore?» Rebus si tamburellò lo stomaco. «È un po' che non mangio. L'hotel di Gleneagles è aperto per la merenda?» «Dipende dagli zeri del tuo conto corrente, ma non è l'unico posto in paese. Uno di noi due, però, dovrebbe restare ad aspettare la Scientifica.» «Per carità, rimani tu! Non sia mai che poi mi accusi di rubarti la scena. Anzi, non mancherò di portarti un meritato bicchierino del miglior tè di Auchterarder.» Si voltò per andarsene, ma lei lo fermò. «Perché io? Perché adesso?» Spalancò le braccia. «Perché no?» rispose lui. «Chiamalo destino.» «Non è quello che intendevo...» Lui si girò nuovamente. «Quello che intendevo», continuò sottovoce Siobhan, «è che non so se desidero davvero che li prendano. Che finiscano dentro per causa mia...» «Se li prendono, Shiv, sarà per la cazzata che hanno fatto.» Puntò il dito in direzione del brandello di giubbotto. «E magari per un buon lavoro di squadra...» La Scientifica non aveva reagito benissimo alla notizia che Rebus e Siobhan avevano violato la scena del crimine: per escluderli dai sospetti, avevano preso loro le impronte delle scarpe e alcuni campioni di capelli. «Pianino», li aveva ammoniti Rebus. «Non posso permettermi troppa generosità con questi.» Il tecnico si era scusato. «Devo arrivare alla radice, altrimenti non c'è DNA.» Al terzo tentativo con le pinzette ce l'aveva fatta. Uno dei colleghi
aveva già quasi terminato di filmare la scena, un secondo stava ancora scattando fotografie e un terzo parlava con Siobhan di quanti altri indumenti avrebbero dovuto portare in laboratorio. «Solo i più nuovi», disse lei fissando Rebus. Lui fece un cenno d'assenso. Se anche l'omicidio Colliar era un avvertimento per Cafferty, non significava che lì non ce ne fossero altri, di messaggi. «Su questa maglietta sembra esserci un marchio aziendale», annunciò il tecnico della Scientifica. «Il vostro lavoro non potrebbe essere più semplice», sentenziò Siobhan con un sorriso. «Il mio lavoro è raccogliere indizi. Il resto tocca a voi.» «E a questo proposito», intervenne Rebus, «c'è qualche possibilità che il tutto possa finire a Edimburgo anziché a Stirling?» Il perito si irrigidì. Rebus non lo conosceva personalmente, però aveva presente il tipo: più vicino ai cinquanta che ai quaranta, con un bel po' di esperienza alle spalle. E con tutta la rivalità che già esisteva tra i diversi distretti di polizia regionali... Alzò le mani in una parodia di resa. «Volevo solo dire che è un caso di Edimburgo: non mi sembra sensato che debbano scarpinare fino a Stirling ogni volta che voi dovrete mostrargli qualcosa.» Siobhan sorrise di nuovo, divertita da tanta e inusuale diplomazia verbale. Ma anche lei fece un lieve cenno d'assenso, perché la scusa era davvero convincente. «Specie ora», argomentò Rebus, «con le manifestazioni e tutto il resto.» Alzò lo sguardo verso un elicottero che sorvolava la zona. La sorveglianza di Gleneagles: lassù c'era qualcuno che si interrogava sull'improvvisa comparsa al Clootie Well di due auto e due furgoni bianchi privi di contrassegni. Rebus riportò lo sguardo sul tecnico della Scientifica e capì che l'elicottero gli aveva fatto superare ogni indugio: in un momento simile la cooperazione era fondamentale, l'avevano martellato in testa a tutti, memorandum dopo memorandum, e lo stesso Macrae l'aveva ripetuto a chiare lettere durante le ultime dieci riunioni a Gayfield Square. Siate cordiali. Collaborate. Aiutatevi. Perché in questi giorni gli occhi del mondo intero saranno puntati su di voi. Forse anche il perito aveva partecipato a riunioni simili, perché lentamente annuì, distogliendo poi lo sguardo per proseguire nel lavoro. Rebus e Siobhan si scambiarono un'altra occhiata. Poi lui infilò la mano in tasca per prendere le sigarette.
«Niente contaminazioni, per favore», lo ammonì un secondo tecnico, e così Rebus si allontanò, tornando verso il parcheggio. Si stava accendendo la sigaretta, quando una terza vettura fece il suo ingresso sulla scena. Più siamo più ci divertiamo, pensò tra sé Rebus, mentre l'ispettore capo Macrae balzava giù dal veicolo. Sfoggiava un abito dall'aria nuova, come pure la cravatta e la linda camicia bianca. I capelli erano grigi e radi, la pelle del viso floscia, il naso bulboso e istoriato di venuzze rosse. Ha la mia età, pensò Rebus. Com'è che sembra tanto più vecchio? «Buon pomeriggio, signore», lo salutò. «Lei doveva essere a un funerale, mi sembrava di ricordare.» Il tono era accusatorio, come se Rebus si fosse inventato un lutto in famiglia per dormirsela un po', quel venerdì mattina. «Il sergente Clarke ha interrotto le esequie», spiegò allora. «E io volevo dimostrare la mia buona volontà.» Lo fece suonare come un sacrificio, e funzionò. La mascella rigida di Macrae si ammorbidì un poco. È il mio giorno fortunato, pensò Rebus. Prima quello della Scientifica e adesso il capo. In realtà, Macrae non aveva piantato grane nemmeno per un attimo e alla notizia della morte di Mickey gli aveva subito concesso un giorno libero. Gli aveva detto di andare ad annegarsi nell'alcol e Rebus aveva eseguito: così affrontavano la morte gli scozzesi. Alla fine, però, si era ritrovato in una zona della città che non conosceva, senza neanche sapere come ci era arrivato, e in una farmacia aveva chiesto lumi. Risposta: era a Colinton. Li aveva ringraziati comprandosi dell'aspirina. «Mi scusi, John», disse allora Macrae con un respiro profondo. «Com'è andata?» Voleva apparire premuroso. «È andata», si limitò a rispondere lui. Guardò l'elicottero che effettuava una virata netta per rientrare alla base. «Spero non fossero quelli della tivù», commentò Macrae. «Quand'anche, non c'era molto da vedere. Peccato averla dovuta strappare a Glenrothes, signore. Come va il Sorbo?» Operazione Sorbo: il piano di sicurezza e ordine pubblico per la settimana del G8. A Rebus faceva venire in mente un dolcificante, ma Siobhan l'aveva corretto dicendogli che si trattava di una pianta. «Siamo preparati a qualunque eventualità», dichiarò bruscamente Macrae. «Tranne una, forse», sentì di dover precisare Rebus.
«Questa cosa rimarrà in panchina fino alla settimana prossima, John», borbottò il capo. «Sempre che siano d'accordo anche loro.» Macrae seguì il suo sguardo e vide l'auto che si avvicinava. Era una Mercedes color argento, con i finestrini posteriori fumé. «Significa che l'elicottero non era della tivù, mi sa», aggiunse quindi Rebus, poi infilò una mano nella sua macchina e ne trasse i resti di un panino imbottito: prosciutto e insalata. Il primo boccone era andato giù senza nemmeno sfiorare le pareti dell'esofago. «Che diavolo succede?» chiese l'ispettore capo a denti stretti. La Mercedes si era fermata accanto a uno dei furgoni della Scientifica. La portiera del guidatore si aprì e ne scese un uomo che fece il giro per aprire lo sportello posteriore opposto. Il passeggero impiegò qualche istante a smontare. Alto e dinoccolato, gli occhi nascosti dietro un paio di lenti scure, si allacciò i bottoni della giacca esaminando i due furgoni bianchi e le tre auto civetta della polizia. Infine alzò lo sguardo al cielo, indirizzò un ordine muto all'autista e si allontanò dal veicolo. Ma, anziché raggiungere Rebus e Macrae, andò dritto al cartello turistico, quello che riportava la storia del Clootie Well. L'autista era tornato dietro il volante. Rebus gli mandò un bacetto in punta di dita, deciso a rimanersene li finché il nuovo arrivato non si fosse degnato di presentarsi. Ancora una volta, pensò di conoscere il tipo: freddo e calcolatore, degno rappresentante del vero potere. I servizi di sicurezza, allertati dall'elicottero. A Macrae invece bastarono pochi secondi per cedere. Si avvicinò a grandi passi all'uomo e gli chiese di qualificarsi. «SO12», rispose quello senza fare una piega. Forse lui se le era perse, le riunioni sulla cooperazione amichevole. Accento inglese, notò Rebus. Tornava: SO12 significava reparti speciali, con sede a Londra. Solo un gradino sotto gli spioni veri e propri. «E voi chi cazzo siete? Voglio dire», seguitò l'uomo, l'interesse solo in apparenza ancora concentrato sul cartello, «cosa siete lo so già: polizia investigativa, e quelli sono furgoni della Scientifica, e nella radura qui davanti a noi ci sono dei signori in tuta bianca che effettuano un esame particolareggiato degli alberi e del terreno.» Finalmente si voltò verso Macrae e, senza fretta, si portò una mano al viso per togliersi gli occhiali da sole. «Come sto andando?» Il viso dell'ispettore capo avvampò di rabbia. Per tutto il giorno era stato trattato con la deferenza che gli era dovuta, e ora spuntava fuori quel bellimbusto. «Le spiacerebbe mostrarmi una qualche forma d'identificazio-
ne?» sbottò. L'uomo lo guardò dritto negli occhi, poi fece un sorrisetto ironico. Tutto qui, quel che sai fare? Mentre infilava una mano sotto la giacca, senza darsi il disturbo di sbottonarla, lo sguardo passò da Macrae a Rebus. E il sorriso rimase dov'era, come un invito a quest'ultimo a condividerne il messaggio. Un piccolo portadocumenti di pelle venne aperto perché Macrae lo esaminasse. «Ecco qui», disse quindi l'uomo, richiudendolo di scatto. «Ora sa tutto quel che c'è da sapere su di me.» «Steelforth», annunciò l'ispettore capo, schiarendosi la gola, e Rebus si accorse che il suo boss si era preso una batosta. Poi Macrae si voltò verso di lui. «Comandante Steelforth, capo della sicurezza del G8», spiegò. Ma Rebus l'aveva già indovinato. Macrae si voltò nuovamente verso il nuovo arrivato. «Stamattina mi trovavo a Glenrothes, e ho fatto un giro per gentile concessione del vicecapo aggiunto Finnigan. E ieri a Gleneagles...» La voce gli morì in gola. Steelforth si stava già avvicinando a Rebus. «Non ho interrotto il suo attacco cardiaco, vero?» chiese gettando un'occhiata al panino. Rebus rispose con il rutto che secondo lui la domanda meritava, mentre Steelforth socchiudeva gli occhi. «Non possiamo mica pranzare tutti a carico del contribuente», dichiarò quindi. «A proposito, com'è la cucina a Gleneagles?» «Dubito che avrà la possibilità di scoprirlo, sergente.» «Non male come tentativo, signore, ma la vista la inganna.» «Questo è l'ispettore Rebus», tentò di spiegare Macrae. «E io sono l'ispettore capo Macrae, del Lothian and Borders.» «Stazione?» chiese Steelforth. «Gayfield Square», rispose Macrae. «Di Edimburgo», aggiunse Rebus. «Siete molto lontani da casa, signori.» Steelforth si era avviato lungo il sentiero. «Poco tempo fa c'è stato un omicidio da noi», spiegò Rebus, «e alcuni indumenti della vittima sono ricomparsi qui.» «Come mai?» «Intendo tenere la cosa segreta, comandante», dichiarò Macrae. «Appena la Scientifica avrà finito, di noi non resterà neanche il ricordo.» Si era messo alle calcagna di Steelforth, con Rebus a chiudere in retroguardia. «Non è che per caso qualche presidente o primo ministro vuole venire a lasciare un ricordino al Clootie Well?» chiese quest'ultimo.
Anziché rispondere, Steelforth si addentrò nella radura. Il perito della Scientifica più alto in grado lo bloccò con una mano in pieno petto. «Altre impronte no, porca puttana», ringhiò. Steelforth guardò la mano come se volesse incenerirla. «Lei sa chi sono io?» «Non ne, me frega un cazzo, amico. Se mi incasini la scena del crimine ne risponderai personalmente.» L'uomo dei reparti speciali rifletté un istante, poi mollò il colpo e tornò sui suoi passi fino al limitare della radura, accontentandosi di osservare le operazioni da una certa distanza. Quando gli suonò il cellulare, rispose allontanandosi ancora di più per non farsi sentire. Siobhan fece una faccia perplessa e Rebus le sillabò un silenzioso «più tardi». Poi infilò una mano in tasca e ne estrasse una banconota da dieci sterline. «Prenda», disse offrendola al tecnico della Scientifica. «Perché?» Rebus si limitò a fargli l'occhiolino e ad aggiungere: «Salute». Poi disse a Macrae: «Lascio sempre la mancia quando il servizio supera le aspettative». Questi annui, si cacciò una mano in tasca e trovò un biglietto da cinque per Rebus. «Facciamo a metà», propose. Steelforth stava tornando verso la radura. «Questioni più importanti reclamano la mia presenza. Per quanto ne avrete ancora, qui?» «Una mezz'ora», rispose uno degli agenti della Scientifica. «Forse di più, se serve», aggiunse la sua nemesi. «Una scena del crimine è una scena del crimine, non importa quante attrazioni da baraccone ci sono in giro.» Come Rebus prima di lui, non ci aveva messo molto a intuire la posizione di Steelforth. Il comandante si rivolse a Macrae. «Informerò il vicecapo aggiunto Finnigan, d'accordo? Per fargli sapere che vige il massimo della comprensione e della collaborazione.» «Come desidera, signore.» Il volto di Steelforth si ammorbidì un poco. La mano si posò leggera sul braccio dell'ispettore capo. «Scommetto che non ha visto tutto quel che c'è da vedere. Quando ha finito qui torni a Gleneagles e glielo faccio fare io, un bel giro.» Macrae si sciolse come un bambino la mattina di Natale, ma subito si riprese, drizzando la schiena. «Grazie, comandante.» «David. Diamoci del tu.»
Accoccolato come se stesse raccogliendo indizi a qualche passo dalla schiena di Steelforth, il capo dei tecnici della Scientifica si infilò platealmente un dito in gola. A Edimburgo, ci sarebbero tornati con tre macchine diverse: Rebus rabbrividì al pensiero di cosa ne avrebbero detto gli ecologisti. Macrae si levò di torno per primo, diretto a Gleneagles. Rebus era già passato davanti all'hotel. Arrivando a Auchterarder da Kinross si vedevano l'albergo e il suo parco ben prima di raggiungere il paese. Migliaia di ettari, ma poche tracce di misure di sicurezza. Aveva colto solo uno scorcio di transenne, messo sull'avviso da una struttura temporanea che probabilmente fungeva da torretta di guardia. Si era accodato a Macrae, e il capo lo salutò con un colpo di clacson svoltando nel vialetto dell'hotel. Da parte sua, Siobhan pensava che la strada più breve passasse da Perth, mentre lui aveva deciso di percorrere a ritroso la rotta campagnola e di riprendere la M90. Il cielo era ancora luminoso. Le estati scozzesi erano un prodigio, la ricompensa per il lungo crepuscolo invernale. Rebus abbassò la musica e chiamò Siobhan al cellulare. «Hai l'auricolare, voglio sperare.» «Non fare la saputella.» «Altrimenti dai il cattivo esempio.» «C'è sempre una prima volta. Che te ne pare del nostro amico di Londra?» «A differenza di te, io non sono piena di fobie.» «Quali fobie?» «Verso l'autorità... verso gli inglesi... verso...» Si interruppe. «Devo continuare?» «L'ultima volta che ho controllato ero ancora un tuo superiore.» «E allora?» «E allora potrei citarti per insubordinazione.» «Così i capi si fanno una bella risata?» Il suo silenzio era sinonimo di sconfitta. O lei si era fatta più insolente nel corso degli anni, oppure lui perdeva colpi. O tutt'e due le cose, magari. «Pensi che possiamo convincere i cervelloni del laboratorio a lavorare di sabato?» le chiese. «Dipende.» «Che ne dici di Ray Duff? Se glielo chiedi tu, lo fa di sicuro.» «E in cambio io dovrei 'solo' passare un'intera giornata con lui, dentro il
suo vecchio catorcio puzzolente.» «È un'auto d'epoca.» «Cosa che infatti non si stanca mai di ripetermi.» «L'ha ricostruita pezzo per pezzo...» Lei sospirò rumorosamente. «Ma com'è, con questi della Scientifica? Perché hanno tutti 'sti hobby del cavolo?» «Allora, glielo chiedi?» «Glielo chiedo. Bisboccia, stasera?» «Turno di notte.» «Nello stesso giorno del funerale?» «Qualcuno deve pur farlo.» «Ma scommetto che tu hai insistito.» Lui non rispose, e chiese invece che progetti avesse lei. «Andrò a nanna presto. Voglio alzarmi fresca come una rosa per la marcia.» «Ma che cosa ti hanno costretto a fare?» Lei rise. «Non è per lavoro, John. Ci vado perché voglio.» «Oh, cazzo.» «Dovresti venirci anche tu.» «Certo, come no. Questo sì, che cambierebbe le cose. Preferisco farla da casa, la mia protesta.» «Quale protesta?» «Contro quell'imbecille di Bob Geldof.» Lei gli rise di nuovo nell'orecchio. «Perché se si presentano tutti quelli che vuole lui, si prenderà il merito del successo. E noi non possiamo permetterlo, Siobhan. Pensaci, prima di aderire alla causa.» «Io ci vado, John. Non foss'altro che devo badare a mamma e papà.» «Come?» «Vengono su da Londra... e non perché l'ha detto Geldof.» «Per il corteo?» «Esatto.» «Me li presenti?» «No.» «Perché no?» «Perché tu sei esattamente il tipo di poliziotto che temono io diventi.» A quel punto lui avrebbe dovuto ridere, ma sapeva che non era solo uno scherzo. «E passi», si limitò a dire. «Ti sei levato di torno il capo?» Netto cambio d'argomento.
«L'ho affidato agli addetti al parcheggio.» «Non scherzare, guarda che a Gleneagles ce li hanno davvero. Ti ha suonato il clacson?» «Tu che dici?» «Lo sapevo. Questo bel viaggetto l'ha ringiovanito di dieci anni.» «E l'ha tenuto lontano dalla centrale, pure.» «Così sono tutti contenti.» Siobhan si interruppe. «Pensi di avere buone possibilità di risolvere questa faccenda, vero?» «Che intendi dire?» «Cyril Colliar. La settimana prossima non ci sarà nessuno a tenerti per il guinzaglio.» «Non mi ero reso conto che mi stimassi tanto.» «John, ti manca un anno alla pensione. Lo so che vuoi fare un ultimo tentativo con Cafferty...» «E a quanto pare sono anche trasparente.» «Senti, sto solo cercando di...» «Lo so, e ne sono commosso.» «Pensi davvero che possa essere lui il responsabile?» «Se non lo è, vuol mettere le mani su chiunque sia stato. Senti, se la situazione si fa tesa con i tuoi...» Chi era che stava cambiando argomento, adesso? «... mandami un messaggino che ci beviamo una cosa insieme.» «D'accordo, contaci. Adesso puoi rialzare il volume agli Elbow.» «Bell'orecchio. Ci sentiamo più tardi.» Rebus chiuse la comunicazione e obbedì. 2 Le barricate si stavano alzando. Sul George IV Bridge e lungo tutta Princes Street gli operai erano intenti alla posa delle transenne. Le riparazioni stradali e i cantieri edili erano stati sospesi, e i ponteggi rimossi perché non fossero fatti a pezzi e usati come corpi contundenti. Le cassette della posta erano state sigillate e alcuni negozi sbarrati con assi. Le istituzioni finanziarie erano avvisate: il personale non doveva indossare abiti formali per non trasformarsi in facile bersaglio. Per un venerdì sera, la città era tranquilla. Camionette della polizia percorrevano le vie centrali, i parabrezza protetti da griglie metalliche, mentre altre stazionavano discretamente parcheggiate su strade secondarie poco illuminate. I poliziotti a bordo erano in assetto antisommossa e ridevano tra loro, scambiandosi aned-
doti su missioni precedenti. Qualche veterano aveva assistito agli scontri durante l'ultima ondata di scioperi minerari; altri tentavano di ragguagliare quei ricordi con storie di battaglie allo stadio, di cortei antitasse e proteste contro la tangenziale di Newbury. Giravano voci sulla consistenza numerica del contingente anarchico italiano. «A Genova hanno affilato le armi.» «Proprio come piace a noi, eh, ragazzi?» Spavalderia, nervi tesi e cameratismo. Le chiacchiere che si affievolivano al minimo crepitio delle radio. Gli agenti in uniforme di piantone alla stazione ferroviaria indossavano casacche giallo fosforescente. Anche qui erano sorte transenne per bloccare le uscite e favorire l'accesso e il deflusso da un'unica via. Alcuni agenti avevano con sé fotocamere con cui schedare le facce degli arrivi da Londra: per i manifestanti erano previsti treni speciali, cosa che avrebbe facilitato le procedure di identificazione. Non che ci volesse poi tanto acume: quelli cantavano, portavano zainetti, indossavano magliette, spillette, fasce ai polsi. Reggevano bandiere e striscioni, avevano pantaloni flosci, giacche mimetiche, scarponi. I rapporti dei servizi segreti riferivano che dal Sud dell'Inghilterra erano già partiti a vagonate. Le prime stime parlavano di cinquantamila persone, le ultime avevano già superato le centomila. Il che, in aggiunta ai turisti estivi, avrebbe fatto sensibilmente lievitare la popolazione di Edimburgo. Da qualche parte in centro un comizio avrebbe segnalato l'apertura del G8 Alternativo, con la sua serie di marce e assemblee lunga una settimana. Altra polizia, anche lì, e pure a cavallo, se necessario, nonché molti agenti delle unità cinofile, compresi quattro nell'atrio della Waverley Station. Il piano era semplice: mostrare i muscoli. Che i potenziali agitatori sapessero con chi avevano a che fare. Caschi integrali, manette e sfollagente, cavalli, cani e camionette di pattuglia. La forza dei numeri. I ferri del mestiere. La tattica. All'inizio della sua storia, Edimburgo era andata soggetta a invasioni. Gli abitanti si nascondevano dietro mura e portali, e quando questi cedevano si ritiravano nel dedalo di tunnel sotto il castello e la High Street, lasciando la città vuota e vanificando il senso di vittoria. Un rito che la cittadinanza perpetuava ogni anno al festival d'agosto: man mano che la popolazione ingrossava, gli indigeni si facevano sempre meno riconoscibili,
sempre più confusi sullo sfondo. Una pratica che forse spiegava la fiducia di Edimburgo nelle attività economiche «invisibili», tipo banche e assicurazioni. Fino a poco tempo prima si diceva che St Andrews Square fosse la piazza più ricca d'Europa, vantando le sedi di diverse multinazionali; ma lo spazio in centro adesso scarseggiava, e nuovi cantieri edili spuntavano come funghi sulla Lothian Road e anche più a ovest, verso l'aeroporto. La sede principale della Royal Bank a Gogarburn, completata di recente, era vista come possibile bersaglio, lo stesso gli edifici di proprietà e a uso delle compagnie assicurative Standard Life e Scottish Widows. In macchina per le vie, intenta ad ammazzare il tempo, Siobhan pensò che nei giorni successivi la città sarebbe stata messa alla prova come mai prima di allora. Una camionetta della polizia sterzò per superarla a sirene spiegate. Il sorriso da scolaretto sulla faccia dell'autista era inequivocabile: si divertiva un mondo, con Edimburgo a fargli da pista personale. Dietro di lui viaggiava una Nissan viola, carica di gioventù locale. Siobhan diede loro dieci secondi, poi mise la freccia per immettersi nuovamente nel flusso del traffico. Stava andando a un punto di accoglienza a Niddrie, una delle aree meno raccomandabili di Edimburgo: anziché piantare le tende nei giardini dei privati cittadini, ai manifestanti era stato concesso quello spazio. A Niddrie. Il Comune aveva scelto le distese erbose intorno al Jack Kane Centre. Si erano attrezzati per diecimila visitatori, forse addirittura quindicimila. Erano state fornite docce e bagni chimici, e c'era una società privata incaricata della sicurezza. Probabilmente, non poté fare a meno di pensare Siobhan, più per tenere fuori le bande della zona che per tenere dentro i manifestanti. La battuta corrente era che nelle settimane a venire nei pub sarebbe stata in vendita parecchia attrezzatura da campeggio. Siobhan aveva offerto ospitalità ai genitori nel proprio appartamento: ovvio, l'avevano aiutata a comprarlo. Potevano anche prendersi il suo letto, e lei si sarebbe accontentata del divano. Ma loro erano stati irremovibili: venivano su in pullman e avrebbero campeggiato «con gli altri». Negli anni '60 erano studenti, e non si erano mai del tutto scrollati di dosso quel periodo. Benché suo padre avesse superato da un pezzo la cinquantina - stessa generazione di Rebus portava ancora i capelli legati in una specie di codino, e sua madre indossava quasi solo caffettani. Siobhan ripensò alle parole dette a Rebus poco prima: «Tu sei esattamente il tipo di poliziotto che temono io diventi». Il fatto era che adesso capiva di essere entrata in polizia in parte proprio perché pensava che i suoi non avrebbero approvato. Dopo tutte le cure e l'af-
fetto che avevano riversato su di lei a piene mani, Siobhan aveva sentito il bisogno di ribellarsi e li aveva ripagati in quel modo per tutte le volte che i loro incarichi di insegnamento avevano condotto all'ennesimo trasloco, all'ennesimo cambio di scuola. Aveva agito così perché non aveva saputo fare di meglio. La prima volta che gliel'aveva accennato, le loro espressioni l'avevano quasi indotta a desistere, ma sarebbe stata una prova di debolezza. Naturalmente poi l'avevano appoggiata, pur buttando lì che forse il mestiere di poliziotta non sarebbe stato il più appagante per una ragazza piena di talento come lei. Ed era bastata quello a farle puntare i piedi. Così era diventata una piedipiatti. Non a Londra, dove abitavano i genitori, ma in Scozia, Paese che non aveva mai conosciuto davvero finché non si era iscritta al college. Un'ultima, sentita preghiera da parte di mamma e papà: «Ovunque, ma non a Glasgow». Glasgow: con la sua immagine di covo di duri dalla lama facile e il suo profondo settarismo. E tuttavia, come Siobhan aveva scoperto poi, un gran posto per lo shopping. Una città dove a volte andava ancora con le amiche, per serate tra ragazze che terminavano con un soggiorno in qualche bell'alberghetto, ad assaggiare la vita notturna, tenendosi però alla larga dai locali con buttafuori, un elemento di protocollo etilico sul quale lei e John Rebus si trovavano d'accordo. Mentre Edimburgo, nel frattempo, si era rivelata ben più letale di quanto i suoi genitori avrebbero mai potuto supporre. Non che lei ambisse a comunicarglielo, peraltro. Nelle telefonate domenicali tendeva sempre a liquidare le domande di sua madre e a fare invece le sue. Stavolta si era offerta di andarli a prendere all'autobus, ma loro avevano detto che gli serviva tempo per sistemare la tenda. Ferma al semaforo, l'immagine la fece sorridere. Quasi centovent'anni in due, e ancora lì ad armeggiare coi picchetti. L'anno prima avevano entrambi ottenuto il prepensionamento dalla scuola, ed erano proprietari di una bella casa a Forest Hill, con il mutuo già estinto. Non facevano altro che chiederle se aveva bisogno di soldi. «Allora vi pago io l'albergo», aveva proposto per telefono, ma loro non ne avevano voluto sapere. Ripartendo con il verde, si chiese se non fosse una particolare forma di demenza senile. Parcheggiò sulla Wisp, fregandosene dei coni arancioni, e piazzò sotto il parabrezza un contrassegno FORZE DELL'ORDINE IN SERVIZIO. Sentendola ferma con il motore acceso, una guardia giurata in casacca gialla si avvicinò per controllare e subito scosse la testa. Indicò il contrassegno, poi
si passò il pollice sulla gola e fece un gesto in direzione delle case popolari. Siobhan levò il cartello, ma lasciò la macchina dov'era. «Bande locali», spiegò poi la guardia. «Quella scritta è come un drappo rosso davanti a un toro.» Fece scivolare le mani in tasca, gonfiando il già notevole torace. «Qual buon vento, agente?» Aveva la testa rasata, ma sfoggiava una bella barba nera e un boschetto di sopracciglia. «Una visita di cortesia, in realtà», disse Siobhan mostrando il tesserino. «Una coppia, cognome Clarke. Devo parlare con loro.» «Entri, allora.» La condusse al cancello d'ingresso. In miniatura, era un po' come il dispositivo di sicurezza a Gleneagles: c'era persino una specie di torretta di guardia. Ogni dieci metri circa, lungo la recinzione perimetrale, sostava un piantone. «Prenda, metta questa», le disse il suo nuovo amico porgendole una fascia da polso. «Darà meno nell'occhio. È così che etichettiamo i nostri allegri campeggiatori.» «Letteralmente, direi», commentò Siobhan, accettando l'offerta. «Allora, come sta andando?» «La gioventù locale non apprezza. Hanno tentato di sfondare, ma non sono andati oltre.» L'uomo alzò le spalle. Stavano percorrendo una passerella metallica, da cui scesero un istante per far transitare una ragazzina sui roller, la madre che la guardava seduta per terra a gambe incrociate, fuori dalla tenda. «Quanta gente c'è?» Siobhan non riusciva a farsi un'idea. «Forse un migliaio. Ma domani aumenteranno.» «Non li contate?» «No, e non prendiamo neanche i nomi, perciò non so bene dove troverà i suoi amici. La sola cosa che siamo autorizzati a esigere è la tariffa per la piazzola.» Siobhan si guardò intorno. L'estate era secca e la terra solida sotto le scarpe. Oltre il profilo di case e palazzoni riusciva a distinguere sagome diverse e più antiche: Holyrood Park e l'Arthur's Seat. Udiva una bassa cantilena, qualche chitarra, qualche nota di flauto. Risa di bambini, e un neonato pronto per la prossima poppata. Schiamazzi e battimani, tutti all'improvviso zittiti dal megafono di un tizio con i capelli infilati sotto un berretto di lana troppo grande, pantaloni a toppe mozzati al ginocchio e infradito ai piedi. «Grossa tenda bianca, gente, il posto è quello. Curry vegetariano a quattro sterline, grazie alla moschea della zona. Solo quattro sterline..»
«Forse li troverà lì», disse il cicerone di Siobhan. Lei lo ringraziò e lui si riavviò all'ingresso. La «grossa tenda bianca» era un padiglione per ricevimenti e sembrava fungere da punto d'incontro generale. Qualcun altro gridava che un gruppo sarebbe andato a bere qualcosa in città: ritrovo di lì a cinque minuti sotto la bandiera rossa. Siobhan aveva superato una fila di bagni chimici e alcune cannelle e docce. Restavano da esplorare solo le tende. La coda per il curry era ordinata. Qualcuno cercò di porgerle un cucchiaio di plastica e lei scosse il capo, prima di ricordarsi che era passato un bel pezzo dal suo ultimo pasto. Quindi, con un piatto di plastica bello pieno, decise di fare una lenta passeggiata per il campeggio. C'era anche gente che cucinava da sé su fornellini spartani. Un tipo la indicò. «Ehi, ti ricordi a Glastonbury?» Siobhan si limitò a scuotere la testa. Poi vide i suoi genitori, e non poté trattenere un sorriso. Loro sì che campeggiavano in grande stile: tenda rossa con finestrella e verandina, tavoli e sedie pieghevoli, una bottiglia di vino aperta con accanto bicchieri di vetro. Quando la videro si alzarono a scambiare baci e abbracci, scusandosi per aver portato solo due sedie. «Per terra andrà benone», li rassicurò lei. Poco più in là era già accoccolata un'altra ragazza, che al suo arrivo non si era mossa. «Stavamo proprio parlando di te con Santal», disse sua madre. Eve Clarice non dimostrava i suoi anni, rivelati solo dalle piccole rughe del sorriso. Lo stesso non si poteva invece dire del padre, Teddy: aveva messo su pancia, la pelle del viso aveva perso tono, la fronte era ormai stempiata e la coda di cavallo più grigia e rada che mai. Riempì i bicchieri con brio, senza mai distogliere lo sguardo dalla bottiglia. «Immagino ne fosse rapita», commentò Siobhan accettando un bicchiere. La ragazza accennò un sorriso. Aveva capelli biondo sporco che le sfioravano le spalle, impiastrati di gel o forse solo maltrattati ad arte, tanto che le spuntavano dal cuoio capelluto sotto forma di grumi e treccine. Niente trucco, ma una moltitudine di buchi ai lobi delle orecchie e un piercing al naso. La canottiera verde scuro rivelava tatuaggi celtici su entrambe le spalle e la pancia scoperta ostentava l'ennesimo piercing, questa volta all'ombelico. Dal collo le pendeva parecchia chincaglieria, e più in basso qualcosa che sembrava una videocamera digitale. «Tu sei Siobhan», disse con un accenno di pronuncia blesa. «Temo di sì.» Siobhan alzò il calice: era spuntato dal cestino da picnic,
insieme a una seconda bottiglia di vino. «Ehi, vacci piano, Teddy», disse sua madre. «Santal ha bisogno di un rabbocco», si difese lui, ma il bicchiere della ragazza era ancora quasi pieno. «Avete fatto il viaggio tutti e tre insieme?» si informò Siobhan. «Santal è venuta in autostop da Aylesbury», rispose suo padre. «E, dopo il viaggio in pullman che abbiamo dovuto sopportare, credo che la prossima volta anche noi faremo lo stesso.» Alzò gli occhi al cielo e si dimenò sulla seggiolina, poi aprì la bottiglia. «Vino con tappo a vite, Santal. Non dire che il mondo moderno non ha i suoi vantaggi.» L'interpellata non proferì parola. Siobhan non avrebbe saputo dire per quale motivo quell'estranea le fosse risultata così immediatamente antipatica, se non proprio perché quello era - un'estranea -, mentre lei avrebbe preferito passare un po' di tempo da sola con suo padre e sua madre. «A Santal hanno assegnato la piazzola accanto alla nostra», spiegò Eve. «Noi avevamo bisogno di un po' d'aiuto con la tenda e...» Il marito scoppiò d'improvviso in una risata chiassosa, e intanto si riempì il bicchiere. «È un po' che non campeggiamo», disse. «La tenda sembra nuova», commentò Siobhan. «Ce l'hanno prestata i nostri vicini», sussurrò sua madre. Santal si rialzò in piedi. «Io dovrei andare...» «Non a causa nostra, spero», protestò Teddy. «Amici che mi aspettano per andare al pub.» «Bella, la tua videocamera», disse allora Siobhan. La ragazza gettò uno sguardo all'apparecchio. «Il primo pulotto che mi scatta una foto, voglio la sua in cambio. Quel che è giusto è giusto, no?» Il suo sguardo fermo pretendeva assenso. Siobhan si voltò verso il padre. «Le avete detto che cosa faccio», dichiarò a bassa voce. «Mica ti vergognerai?» fece Santal, quasi sputando fuori le parole. «Tutto il contrario, per essere sincera.» Gli occhi di Siobhan passarono dal padre alla madre. D'un tratto sembravano entrambi presissimi dal vino che avevano davanti. Quando si girò di nuovo verso Santal, vide che la ragazza la stava già inquadrando. «Una sola, per l'album di famiglia», disse. «Te la mando in jpeg.» «Grazie», rispose freddamente lei. «Strano nome Santal, no?» «Significa 'legno di sandalo'», rispose sua madre. «Almeno è comprensibile», aggiunse l'interessata.
Teddy rise. «Stavo giusto spiegandole che ti abbiamo affibbiato un nome che giù al Sud nessuno riusciva a pronunciare.» «E avete condiviso anche altri episodi di vita familiare?» ribatté irritata Siobhan. «Qualche storiella imbarazzante di cui dovrei essere al corrente?» «Suscettibile, eh?» commentò Santal all'indirizzo di Eve. «Sai», ammise questa, «noi non avremmo mai voluto che facesse...» «Mamma, Cristo santo!» sbottò Siobhan. Ma la sua protesta fu interrotta da una serie di rumori provenienti dalla recinzione. Vide alcune guardie che convergevano di corsa verso quel punto: fuori c'erano dei ragazzi che facevano il saluto nazista. Portavano le regolamentari felpe nere con il cappuccio e volevano che le guardie mandassero via «quella feccia hippy». «La rivoluzione comincia qui!» gridò uno. «Contro il muro, segaioli!» «Patetico», esclamò la madre di Siobhan. Ma adesso nel cielo della sera c'erano oggetti che volavano. «State giù», li avvertì Siobhan, e praticamente spinse la madre dentro la tenda, senza sapere che genere di protezione avrebbe offerto contro la salva di sassi e bottiglie. Suo padre si era avvicinato di due passi al luogo dei tafferugli, così lei andò a riprenderlo. Santal invece teneva la posizione, l'obiettivo puntato. «Siete solo un mucchio di turisti!» gridava uno dei provocatori locali. «Tornatevene a casa sui vostri risciò!» Risate, ghigni, gestacci. Se i campeggiatori non venivano fuori, allora volevano le guardie. Ma le guardie non erano così stupide. Al contrario, l'amico di Siobhan stava chiamando rinforzi via radio. Una situazione di quel tipo poteva sgonfiarsi in pochi istanti o divampare in scontro aperto. In un attimo era alle sue spalle. «Non si immischi», disse lui. «Tanto sarà assicurata, no?» Le occorse un secondo per capire. «La mia macchina!» gridò quindi, lanciandosi verso il cancello. A gomitate superò altre due guardie e corse fuori. Il cofano era rigato e intaccato, il lunotto in frantumi. Su una portiera c'era scritto NYT con la vernice spray. Niddrie Young Team: la gioventù di Niddrie. Stavano là in fila e le ridevano in faccia. Uno sollevò il telefonino per scattarle una foto. «Fa' pure tutte le foto che vuoi», disse lei. «Anzi, così ti rintracciamo anche più in fretta.» «Vaffanculo la pula!» esclamò un altro. Stava al centro, un luogotenente dietro ciascuna spalla.
Il capo. «Esatto, la pula», confermò lei. «Dieci minuti alla stazione di Craigmillar e ti conoscerò meglio di tua madre.» Sottolineò le parole puntandogli l'indice contro, ma lui si limitò a ghignare. La faccia era visibile solo per un terzo, ma sarebbe bastato a schedarlo. In quel momento si avvicinò un'auto con tre uomini a bordo. Siobhan ne riconobbe uno: un consigliere comunale. «Via, via!» sbraitò questi, smontando di macchina e sventolando le braccia come per ricacciare le pecore nell'ovile. Il capobanda si finse impressionato, ma poi vide che il resto della sua truppa vacillava davvero. Cinque o sei uomini della sicurezza avevano già superato la recinzione, con la guardia barbuta in testa, e in lontananza si udivano delle sirene. «Forza, levatevi dai piedi!» insistette il consigliere. «Il campeggio è pieno di finocchi e lesbiche», ringhiò allora il capo. «E chi è che paga, eh?» «Dubito fortemente sia tu, figliolo», replicò il consigliere, ora spalleggiato dagli altri due passeggeri dell'auto. Erano belli grossi, e probabilmente non avevano mai detto di no a una rissa in vita loro. Proprio il genere di addetti stampa che servivano a un politico di Niddrie. Il capobanda sputò per terra, poi si voltò e se ne andò. «Grazie», disse Siobhan tendendo la mano al consigliere. «Nessun problema», rispose quello, con l'aria di aver già liquidato l'intero episodio... lei compresa. E andò invece a stringere la mano alla guardia barbuta, che evidentemente conosceva. «Serata tranquilla, a parte questo gruppetto di facinorosi?» gli chiese. La guardia rispose con una risatina. «Possiamo fare qualcosa per lei, signor Tench?» Tench si guardò intorno. «Una semplice visita per far sapere ai nostri ospiti che la mia circoscrizione li appoggia in toto nella lotta contro la povertà e l'ingiustizia nel mondo.» In effetti si era già guadagnato un piccolo pubblico: una cinquantina di campeggiatori fermi sul lato opposto della cinta. «Questa zona di Edimburgo conosce entrambe», gridò stentoreo, «ma non significa che non ci importa di quelli che stanno peggio di noi. Mi piace pensare che abbiamo il cuore grande.» Poi vide Siobhan intenta a esaminare i danni alla macchina. «Naturalmente abbiamo anche qualche testa calda, ma chi è senza peccato...» Sorridendo, Tench spalancò nuovamente le braccia, stavolta con l'aria del predicatore. «Benvenuti a Niddrie!» disse infine alla sua congregazione. «Benvenuti a tutti quanti.»
Rebus era solo negli uffici dell'Investigativa. Ci aveva messo mezz'ora a trovare i documenti relativi all'indagine per omicidio: quattro scatole, una serie di faldoni, floppy disk e un unico CD-ROM. Questi ultimi li aveva lasciati sullo scaffale in archivio e adesso aveva davanti un bel po' di carte sparse. Aveva usato tutte e sei le scrivanie disponibili, levando di torno vaschette e tastiere. Percorrendo la stanza poteva spostarsi tra le diverse fasi dell'indagine: dalla scena del crimine ai primi interrogatori, dal profilo della vittima alle inchieste successive; fedina penale, legami con Cafferty, referti dell'autopsia e dell'esame tossicologico... Il telefono nel cubicolo dell'ispettore aveva suonato un paio di volte, ma Rebus l'aveva ignorato. Lì l'anziano non era lui, bensì Derek Starr, e il viscido bastardello stava sicuramente gozzovigliando da qualche parte, visto che era venerdì sera. Rebus conosceva le sue abitudini perché Starr le raccontava al mondo ogni lunedì mattina: un paio di drink allo Hallion Club, poi magari un salto a casa per doccia e cambio d'abito prima di uscire di nuovo e rifare tappa allo Hallion - se c'era vita - lungo la strada verso l'Opal Lounge, il Candy Bar o il Living Room di George Street. E, se la «botta di culo» stentava ad arrivare, bicchiere della staffa all'Indigo Yard. In Queen Street aprivano un nuovo locale jazz, il cui titolare era Jools Holland: Starr aveva già preso informazioni per diventare socio tesserato. Il telefono squillò di nuovo, e di nuovo Rebus lo ignorò. Se era urgente, avrebbero provato sul cellulare di Starr, e se invece stavano passando la chiamata dal centralino... be', lo sapevano che quella non era la sua scrivania. Perciò avrebbe aspettato che provassero al suo interno. A meno che non lo stessero provocando apposta per indurlo a rispondere e poi scusarsi e dire che cercavano l'ispettore Starr. Rebus conosceva il suo posto nella catena alimentare: sul fondo, dalle parti del plancton, il prezzo di anni di insubordinazione e cattiva condotta. Non importava se lungo la strada c'erano stati anche dei risultati. Per quel che riguardava le Alte Sfere, oggi come oggi stava tutto in come li ottenevi, quei risultati. Questione di efficienza e responsabilità, di pubblica percezione, di regole severe e protocolli. Traduzione di John Rebus: regola numero uno, pararsi il culo. Si fermò davanti a un faldone di fotografie. Alcune le aveva già tolte e sparse su una scrivania, ora passò in rassegna le altre. La storia pubblica di Cyril Colliar: ritagli di giornale, polaroid fornite da familiari e amici, le foto ufficiali dell'arresto e del processo. Qualcuno l'aveva persino immortala-
to in prigione: un'istantanea sgranata in cui guardava la tivù sdraiato in branda, le braccia dietro la testa. Era finita sulle prime pagine dei tabloid: LA DOLCE VITA DELLA BELVA IN GABBIA. Non più. Scrivania accanto: particolari sui familiari della vittima della violenza sessuale. Il nome tenuto nascosto al pubblico. Si trattava di Victoria Jensen, Vicky per gli amici, diciott'anni all'epoca dell'aggressione. Colliar l'aveva seguita all'uscita da una discoteca mentre a piedi raggiungeva la fermata dell'autobus con un paio di amiche. Bus notturno. Lui si era seduto due file dietro le ragazze. Vicky era scesa da sola. A meno di cinquecento metri da casa, l'attacco: mano sulla bocca, trascinata in un vicolo... Alcune immagini di telecamere a circuito chiuso lo mostravano mentre usciva dal locale subito dopo di lei, saliva sull'autobus e andava a prendere posto. A decidere il suo destino era stata la prova del DNA. Alcuni suoi sodali avevano assistito al processo e indirizzato minacce alla famiglia della vittima, ma nessuno aveva sporto denuncia. Il padre di Vicky era veterinario, la madre lavorava per la Standard Life. Rebus in persona aveva comunicato alla famiglia la notizia della morte di Cyril Colliar, nella loro casa di Leith. «Grazie per averci informato», aveva detto il padre. «Lo dirò a Vicky.» «Lei non capisce, signore», aveva risposto lui. «Devo farvi delle domande...» Siete stati voi? Avete pagato qualcuno per farlo? Conoscete qualcuno che potrebbe essersi spinto a tanto? I veterinari potevano procurarsi facilmente medicinali e droghe. Magari non eroina, ma altri farmaci in cambio dei quali ottenerla. I pusher spacciavano chetamina ai frequentatori di locali notturni - era stato lo stesso Starr a sottolinearlo - e i veterinari la usavano sui cavalli. Vicky era stata stuprata in un vicolo, Colliar ucciso in un luogo simile. Thomas Jensen era parso sdegnato dalle illazioni. «Intende dire che davvero non ci ha mai pensato? Che non ha mai meditato una qualche forma di vendetta?» Ma certo che ci aveva pensato: immagini di Colliar che marciva in galera o bruciava all'inferno. «Ma questo non succede, vero, ispettore? Non in questo mondo...» Anche gli amici di Vicky erano stati interrogati, e nessuno aveva ammesso nulla.
Rebus passò alla scrivania successiva: Morris Gerald Cafferty lo guardava da fotografie e trascrizioni di interrogatori. Aveva dovuto discutere molto perché Macrae gli permettesse anche solo di avvicinarlo. Il punto era che si conoscevano fin troppo bene, e da troppo tempo: per qualcuno erano nemici, altri invece rilevavano forti somiglianze e una confidenza davvero eccessiva. Starr aveva esposto ad alta voce le proprie riserve di fronte a lui e all'ispettore capo, e il ringhioso tentativo di Rebus di afferrare il collega per il bavero della camicia era stato in seguito definito da Macrae «l'ennesimo autogol, John». Cafferty era abilissimo: mani in qualsiasi pasta criminosa, dal pizzo alle saune a luci rosse. Stupefacenti, anche, quindi poteva arrivare all'eroina; se non lui personalmente, di certo i colleghi buttafuori di Colliar. Non era insolito che un locale notturno venisse chiuso perché si scopriva che i cosiddetti «portieri» controllavano il flusso di droga all'interno. Uno qualunque di loro avrebbe potuto decidere di disfarsi del «Bestiale Stupratore», e magari per questioni personali: un'osservazione irrispettosa, uno sgarbo a una ragazza. I molti possibili moventi erano stati analizzati in lungo e in largo. Un'indagine con tutti i crismi, dunque; nessuno avrebbe potuto affermare il contrario. Tranne che... Rebus vedeva benissimo che la squadra non ci aveva messo il cuore. Qualche domanda saltata qua e là, piste rimaste inesplorate, rapporti mal scritti, abborracciati. Il tipo di cose che solo una persona molto vicina alle indagini avrebbe potuto notare. Ovunque si era fatto il minimo sforzo, giusto quanto bastava a mostrare cosa pensassero veramente gli inquirenti della loro «vittima». L'autopsia, però, era stata scrupolosa. Il professor Gates l'aveva già dichiarato in altre occasioni: a lui non importava di chi fosse il cadavere sdraiato sul tavolo. Per lui si trattava di esseri umani e basta, di figli o figlie di qualcuno. «Nessuno nasce cattivo, John», aveva borbottato una volta, chino sul bisturi. «Be', ma nemmeno dopo ti obbligano a diventarlo», aveva ribattuto Rebus. «Un dilemma su cui per secoli si sono arrovellate teste ben più sagge delle nostre. Perché mai perseveriamo nel farci gli uni agli altri queste cose terribili?» Nessuno dei due aveva azzardato una risposta, ma mentre ora si spostava verso la scrivania di Siobhan e prendeva una delle foto autoptiche di Colliar, a Rebus tornò in mente un'altra frase dell'anatomopatologo. «Da morti
ridiventiamo tutti innocenti, John...» Ed era vero che il volto di Colliar sembrava in pace, come se nulla l'avesse mai turbato. Nell'ufficio di Starr il telefono riprese a squillare. Ignorandolo, Rebus sollevò invece il ricevitore dell'apparecchio di Siobhan. Su un lato del suo computer era appeso un post-it con una sfilza di nomi e numeri di telefono. Sapeva che non era il caso di tentare in laboratorio, perciò formò il numero di un cellulare. Al quale Ray Duff rispose quasi immediatamente. «Ray? Sono l'ispettore Rebus.» «Che mi invita ad accompagnarlo in un pub tour del venerdì sera?» Il silenzio all'altro capo del filo fu commentato da un sospiro. «Com'è che la cosa non mi meraviglia?» «Io mi meraviglio di te, Ray, che ti sottrai al dovere...» «Guardi che non ci dormo mica, in laboratorio.» «Peccato che tutti e due sappiamo che non è vero.» «D'accordo, qualche volta capita che mi trattenga...» «Ed è questo che mi piace di te, Ray. Siamo entrambi animati da questa passione folle per il mestiere.» «Passione che metto a repentaglio presentandomi al pub la sera dei quiz?» «Non sta a me giudicarti, Ray. Mi chiedevo solo che faccia hanno queste nuove prove nel caso Colliar.» Udì una risatina stanca. «Lei non si arrende mai, vero?» «Non è per me, Ray, io sto solo dando una mano a Siobhan. Potrebbe essere un gran colpo, se riuscirà a mandarlo a segno. È lei che ha trovato il pezzo di storia.» «Il quale è arrivato in laboratorio solo tre ore fa.» «Mai sentito dire che bisogna battere il ferro finché è caldo?» «Ma la birra che ho davanti è fredda, John.» «Per Siobhan sarebbe molto importante. Non vede l'ora che tu vada a riscuotere il premio.» «Quale premio?» «La possibilità di sfoggiare la tua bella macchina. Una giornata fuori, in campagna, solo voi due su quelle stradine tortuose. E chi lo sa, magari addirittura una stanza d'albergo, alla fine, se te la giochi bene.» Rebus si interruppe. «Cos'è questa musica?» «Uno dei quiz.» «Sembrano gli Steely Dan, Reelin' in the Years.»
«Che razza di nome è Steely Dan?» «'Dan il Duro'? Viene da un fallo finto di un romanzo di William Burroughs. Adesso per favore dimmi che te ne andrai in laboratorio subito dopo...» Soddisfatto del risultato, Rebus si concesse una tazza di caffè e una sgranchitina di gambe. La stazione di polizia era immersa nel silenzio, al centralino c'era un sostituto del solito sergente. Non lo conosceva, ma gli rivolse comunque un cenno di saluto. «Stavo cercando di passare una chiamata all'ispettore in servizio», lo informò il giovane passandosi un dito sul colletto della camicia; aveva la pelle butterata dall'acne, o da un qualche eritema. «Sono io», disse Rebus. «Un'emergenza?» «Un problema al castello, signore.» «Hanno anticipato l'inizio delle manifestazioni?» L'agente in uniforme scosse il capo. «Un urlo e un corpo atterrato nei Gardens. Sembra che qualcuno sia precipitato dai bastioni.» «Il castello è chiuso a quest'ora», commentò Rebus aggrottando la fronte. «Era in corso una cena di pezzi grossi...» «E quindi chi è cascato di sotto?» Il poliziotto si limitò a un'alzata di spalle. «Rispondo che non c'è nessuno?» «Non dire scemenze, figliolo», commentò Rebus, e andò a prendere la giacca. Oltre a costituire un'importante attrazione turistica, il castello di Edimburgo era anche una caserma operativa, cosa che il comandante Steelforth non mancò di far notare a Rebus non appena lo intercettò poco oltre il portone. «Lei non sta fermo un attimo», osservò lui per tutta risposta. L'uomo dei reparti speciali era in abito da sera: papillon e fusciacca, smoking e scarpe di vernice. «Voglio dire che si trova com'è giusto sotto l'egida delle forze armate...» «Non so bene cosa significhi 'egida', comandante.» «Significa», sibilò Steelforth spazientito, «che spetta alla polizia militare indagare sul perché e il percome dell'accaduto.» Rebus non si era ancora fermato sul sentiero che si inerpicava tra feroci raffiche di vento. «Com'era la cena, buona?»
«Qui c'è gente importante, ispettore Rebus.» Neanche a farlo apposta, da una specie di galleria davanti a loro sbucò un'auto che si dirigeva verso il cancello e che costrinse entrambi a scansarsi. Rebus colse uno scorcio di viso sul sedile posteriore: un bagliore di montatura metallica, un lungo volto pallido e preoccupato. D'altro canto il ministro degli Esteri aveva spesso l'aria preoccupata, come poi fece notare a Steelforth. L'uomo dei reparti speciali aggrottò la fronte, contrariato per il riconoscimento. «Spero di non doverlo interrogare», aggiunse Rebus. «Senta, ispettore...» Ma lui aveva già ripreso a muoversi. «Le cose stanno così, comandante», disse, rivolto alle proprie spalle. «La vittima potrebbe essere caduta - o aver spiccato il salto, o qualunque altro 'perché' o 'percome' - e non discuto che si trovasse in zona militare quando è successo... ma è atterrata parecchie decine di metri più a sud, nei giardini pubblici di Princes Street.» Sorrise. «E quindi è sotto la mia giurisdizione.» Seguitò a camminare, tentando di ricordare quand'era stata l'ultima volta che era salito al castello. Ovviamente ci aveva portato la figlia, ma si trattava di venti e passa anni prima. La fortezza dominava il profilo di Edimburgo, visibile da Bruntsfield e da Inverleith. Arrivando dall'aeroporto sembrava un minaccioso covo transilvano, e veniva da chiedersi se tutto quel nero non fosse dovuto a un'improvvisa forma di cecità ai colori; da Princes Street, Lothian Road e Johnston Terrace le sue pareti vulcaniche apparivano lisce e inespugnabili, e tali si erano in effetti dimostrate nel corso dei secoli; da Lawnmarket si percorreva invece un dolce pendio, fino a un ingresso che non lasciava minimamente intuire l'imponenza della struttura retrostante. Lungo il tragitto in auto da Gayfield Square, per poco non lo avevano bloccato. Agenti in uniforme volevano impedirgli il transito dal Waverley Bridge, tra un gran sferragliare di transenne che venivano posizionate per il corteo dell'indomani. Rebus si era attaccato al clacson, ignorando i gesti che gli imponevano di cercarsi un'altra strada e, quando uno degli agenti si era avvicinato, aveva abbassato il vetro ed esibito il tesserino. «La strada è chiusa», aveva dichiarato l'uomo. Accento inglese, forse del Lancashire. «Investigativa», aveva ribattuto lui. «E dietro di me ci saranno probabilmente un'ambulanza, un anatomopatologo e un furgone della Scientifica. Gli racconterà la stessa storia?»
«Cos'è successo?» «Qualcuno è appena atterrato nei Gardens», aveva detto, con un cenno in direzione del castello. «'Sti maledetti dimostranti... Poco fa uno è rimasto incastrato fra le rocce, abbiamo dovuto chiamare i pompieri per tirarlo giù.» «Be', senta, io adoro le chiacchiere, però...» Offeso, l'agente aveva spostato la barriera. Solo che adesso Rebus ne aveva davanti un'altra: il comandante David Steelforth. «Questo è un gioco pericoloso, ispettore. Meglio lasciarlo a noi specialisti.» «Mi sta dando del dilettante?» ribatté Rebus socchiudendo gli occhi. Risatina, simile a un latrato. «Assolutamente no.» «Bene.» Rebus lo superò di nuovo. La presenza di una guardia militare che sbirciava da sopra i bastioni gli indicò il punto incriminato. Poco più in là si aggirava un grappolo di uomini anziani e dall'aria distinta, con abiti formali e il sigaro in bocca. «È qui che è caduto?» si informò Rebus. Mostrò alle guardie il tesserino aperto, ma aveva già deciso di non identificarsi come poliziotto civile. «Più o meno», rispose una voce. «Qualcuno ha visto qualcosa?» Tutti scossero la testa. «Poco prima c'era stato un altro incidente», riprese il soldato. «Un cretino rimasto incastrato fra le rocce. Ci avevano avvertiti che magari qualcuno poteva riprovarci...» «E?» «E al soldato semplice Andrews è parso di vedere qualcosa, di là.» «L'ho detto che non ero sicuro», si difese Andrews. «Quindi vi siete precipitati tutti sull'altro lato del castello?» Rebus ebbe un plateale moto di delusione. «Una volta si chiamava 'abbandono della postazione'.» «L'ispettore dell'Investigativa Rebus non ha alcuna giurisdizione qui», annunciò Steelforth al gruppo. «Mentre questo si sarebbe chiamato 'alto tradimento'», lo ammonì lui. «Chi è che manca all'appello?» chiese uno dei tizi anziani. Rebus sentì un'altra auto dirigersi verso il portone. I fanali proiettavano bizzarre ombre sul muro di fronte. «Difficile a dirsi, visto come se la stanno battendo tutti», mormorò. «Non 'se la sta battendo' nessuno», sbottò Steelforth.
«Ah, capisco: impegni pregressi...» ironizzò Rebus. «Sono persone molto, molto impegnate, ispettore. Qui si prendono decisioni che potrebbero cambiare il mondo.» «Ma non cambieranno ciò che è accaduto a quel povero disgraziato laggiù.» Indicò i bastioni con un cenno del capo, poi si voltò verso Steelforth. «Allora, qual era l'evento della serata, comandante?» «Cena e discussione preparatoria alla ratifica degli accordi.» «Ottima notizia per le spie. Ma gli invitati?» «Delegati del G8: ministri degli Esteri, personale della sicurezza, alti funzionari statali.» «Quindi il menu non era pizza e un paio di birre.» «Sono occasioni di incontro preziose, ispettore.» Rebus si sporse oltre il parapetto. Le altezze non gli erano mai piaciute granché, quindi non indugiò a lungo nell'operazione. «Non si vede un tubo», disse. «Però l'abbiamo sentito», commentò un soldato. «Sentito cosa, esattamente?» «L'urlo, mentre cadeva.» Il giovane si guardò attorno, cercando l'appoggio dei commilitoni. Un altro annuì. «È sembrato che urlasse per tutto il volo», aggiunse questi con un brivido. «Mi domando se ciò escluda il suicidio. Lei che ne pensa, comandante?» «Io penso che qui lei non scoprirà altro, ispettore. E trovo strano il modo in cui spunta come un fungo ovunque ci siano cattive notizie.» «Buffo», ribatté Rebus, piantandogli gli occhi addosso, «perché pensavo proprio la stessa cosa di lei...» La ricerca era stata condotta da una squadra di agenti in casacca gialla di turno alle transenne. Dotati di torce, non ci avevano messo molto. Dopo di che i paramedici avevano dichiarato il decesso, sebbene chiunque avrebbe potuto dire che l'uomo era morto. Il collo presentava una torsione alquanto innaturale, una gamba si era letteralmente piegata in due nell'impatto e dal cranio colava sangue. Durante il volo la vittima aveva perso una scarpa e la camicia si era lacerata, forse contro una sporgenza rocciosa. Dalla centrale di polizia avevano potuto mandare un unico perito della Scientifica, che ora stava fotografando il corpo. «Scommettiamo sulla causa di morte?» chiese a Rebus. «Non ci penso neanche, Tarn.» Non perdeva una scommessa di quel tipo
da cinquanta o sessanta casi. «Ti stai domandando se è saltato o l'hanno spinto, vero?» «Mi leggi nel pensiero. Di' un po', vai forte anche con la lettura della mano?» «No, però le fotografo.» E, a riprova dell'affermazione, accostò il viso a un arto della vittima. «Graffi e tagli minuscoli possono rivelarsi molto utili, John. E sai perché?» «Stupiscimi, ti prego.» «Se l'hanno spinto avrà tentato di trovare un appiglio, di aggrapparsi alla roccia.» «Bene. Adesso dimmi qualcosa che non so.» Il tecnico della Scientifica fece partire un altro flash. «Si chiama Ben Webster.» Si voltò per osservare la reazione di Rebus, e il risultato parve soddisfarlo. «Ho riconosciuto la faccia... o quel che ne resta.» «Lo conosci?» «So chi è. Un deputato, di un collegio dalle parti di Dundee.» «Parlamento scozzese?» Tarn scosse il capo. «No, londinese. Ha qualcosa a che fare con la Cooperazione internazionale, o almeno ce l'aveva l'ultima volta che ho controllato.» «Tarn...» Rebus aveva un tono esasperato. «Come diavolo fai a sapere tutte queste cose?» «Bisogna tenersi informati, John, è la politica che manda avanti tutta quanta la baracca. E poi il nostro giovane amico è omonimo del mio sassofonista jazz preferito.» Ma Rebus stava già caracollando giù per il pendio erboso. Il corpo era finito contro uno sperone di roccia, circa quattro metri e mezzo sopra uno degli angusti sentieri che serpeggiavano alla base dell'antico affioramento vulcanico. Sul sentiero c'era Steelforth. Parlava al telefonino, ma al suo avvicinarsi lo richiuse di scatto. «Ricorda che abbiamo visto il ministro degli Esteri andarsene con macchina e autista? Strano che abbia abbandonato il campo senza uno dei suoi uomini», gli disse Rebus. «Ben Webster», dichiarò Steelforth. «Stavo parlando con il castello. A quanto pare è l'unico che manca.» «Cooperazione internazionale.» «Lei è ben informato, ispettore.» Steelforth lo squadrò con un'occhiata teatrale. «Forse ho sbagliato a giudicarla. La Cooperazione internazionale
costituisce però una branca separata dal ministero degli Esteri, e Ben Webster era un sottosegretario.» «In altre parole?» «Il braccio destro del ministro.» «Perdoni la mia ignoranza.» «Non si preoccupi. Rimango comunque colpito.» «È questo il momento in cui farà un'offerta per liberarsi di me che non potrò rifiutare?» Il comandante sorrise. «Di solito non è necessario.» «Magari con me sì.» Steelforth però scosse la testa. «Dubito che lei si lascerebbe comprare così. Ciò detto, sappiamo tutti e due che questo caso le verrà strappato dalle mani nel giro di poche ore, dunque perché affannarsi? I combattenti come lei di solito capiscono quando è il caso di riposare e rimettersi in forze.» «Mi sta invitando nel salone per un sigaro e un bicchiere di porto?» «Le sto offrendo la verità per come la vedo io.» Rebus invece stava osservando l'arrivo di un altro furgone, sulla strada sotto di loro. Di sicuro veniva dall'obitorio per prelevare il corpo. Un altro lavoretto per il professor Gates e i suoi. «Sa che cosa credo le dia veramente fastidio, ispettore?» Steelforth si era avvicinato di un passo. Il cellulare squillò ma lui decise di ignorarlo. «Questa per lei è un'intrusione. Edimburgo è la sua città, e lei vorrebbe che ci levassimo tutti quanti dalle palle, e di corsa. Ci ho preso?» «Abbastanza», fu pronto ad ammettere Rebus. «Qualche giorno e sarà tutto finito, come un brutto sogno dal quale si risveglierà. Ma nel frattempo...» Le sue labbra quasi gli sfiorarono un orecchio. «Si abitui all'idea», sussurrò prima di andarsene. «Gran simpaticone», giunse il commento di Tarn. Rebus si voltò. «Da quanto sei lì?» «Non molto.» «Novità per me?» «È il patologo quello con le risposte.» Rebus annuì lentamente. «Sì, però...» «Tutto sembra indicare che si sia buttato.» «Ma ha urlato per tutta la durata del volo. Secondo te un suicida lo farebbe?» «Io sì. Ma è anche vero che soffro di vertigini.»
Rebus si sfregò una mascella, gli occhi puntati sul castello. «Quindi o è caduto, o si è buttato.» «Oppure lo hanno spinto all'improvviso», aggiunse Tarn. «E non ha avuto neanche il tempo di pensarci, a cercare un appiglio.» «Grazie.» «Può darsi che tra una portata e l'altra ci fossero le cornamuse, il che potrebbe avergli tolto la voglia di vivere.» «Quanto sei snob col tuo jazz, Tarn.» «Ah, per me non esiste altro.» «Nessun biglietto nascosto nella giacca?» Tarn scosse il capo. «Però avevo una mezza idea di darti questo.» Gli tese un piccolo portadocumenti in cartoncino. «A quanto pare alloggiava al Balmoral.» «Te ne sono grato.» Rebus aprì la custodia ed esaminò la chiave a tessera, in plastica. Poi richiuse, lesse il numero della camera e la firma di Ben Webster. «Magari il tuo addio-mondo-crudele lo trovi là», disse Tarn. «C'è un solo modo per scoprirlo.» Rebus si infilò la chiave in tasca. «Grazie, Tarn.» «Sì, ma ricordati che l'hai trovata tu. Io non voglio rotture di scatole.» «Ricevuto.» Rimasero in silenzio per un istante, due vecchi professionisti che sul lavoro le avevano viste tutte. Stavano arrivando gli addetti dell'obitorio, uno aveva con sé un sacco nero. «Bella serata per ammazzarsi», commentò. «Tu sei già a posto, qui, Tarn?» «Il dottore non è ancora arrivato.» L'inserviente controllò l'orologio. «Ci vorrà molto?» Tarn si strinse nelle spalle. «Dipende da chi ha perso al sorteggio.» «La vedo lunga», sbuffò l'uomo. «Lunga», gli fece eco il compagno. «Lo sapete che ci hanno fatto rimuovere dei corpi dall'obitorio?» «Perché?» chiese Rebus. «Caso mai uno di quei comizi o cortei buttasse male.» «Nell'attesa hanno svuotato anche celle e tribunali», aggiunse Tarn. «E tutti i pronto soccorso sono in allerta», concluse l'inserviente. «A sentire voi, sembra Apocalypse Now», disse Rebus. In quel momento gli suonò il cellulare, e si allontanò un po'. Identificativo di chiamata: Siobhan. «Che posso fare per te?»
«Ho bisogno di bere qualcosa», spiegò la voce di lei. «Problemi coi vecchi?» «No. Quei vandali mi hanno distrutto la macchina.» «Li hai beccati in flagrante?» «Per così dire. Allora, Oxford Bar?» «Allettante, ma sto dietro a una cosa. Quasi quasi, però...» «Però...?» «Vediamoci al Balmoral.» «Ehi, ti stai godendo gli straordinari?» «Me lo dirai tu.» «Tra venti minuti?» «Bene.» Chiuse il telefonino con uno scatto. «Diverse tragedie in quella famiglia», rifletteva Tarn. «Come?» Il tecnico della Scientifica fece un cenno in direzione del cadavere. «Sua madre è morta qualche anno fa in seguito a un'aggressione.» Si interruppe. «Secondo te una cosa del genere può tormentare una persona tanto a lungo?» «Be', con l'innesco giusto...» commentò un inserviente. Cribbio, pensò Rebus. Tutti psicologi, oggigiorno. Decise di lasciare lì l'auto e andare a piedi, sempre meglio che rimettersi a litigare con le transenne. In due minuti, ostacoli compresi, era alla Waverley Station. Alcuni sfortunati turisti erano appena arrivati con il treno e non c'era un taxi in vista, perciò se ne stavano dietro le ringhiere, perplessi e abbandonati. Li dribblò allegramente, girò in Princes Street e si trovò davanti all'hotel Balmoral. Alcuni indigeni lo chiamavano ancora North British, nonostante avesse cambiato nome da anni, e il grande orologio illuminato sulla torretta era sempre qualche minuto avanti, perché i viaggiatori non perdessero il treno. Un usciere in uniforme lo condusse all'interno, dove un portiere dall'occhio di falco capì al volo che la sua presenza significava guai. «In cosa posso aiutarla, signore?» Rebus gli mostrò con una mano il tesserino e con l'altra la chiave di plastica. «Devo dare un'occhiata a questa stanza.» «E per quale motivo, ispettore?» «Perché l'ospite se n'è andato prima del previsto.» «Che disdetta.»
«Penso che il conto lo pagherà comunque qualcun altro. Anzi, questa è una cosa che potrebbe controllare per me.» «Devo chiedere l'autorizzazione alla direttrice.» «Bene. Nel frattempo io salgo...» Sventolò la chiave. «Temo sia necessaria l'autorizzazione anche per quello.» Rebus arretrò di un passo, studiando meglio l'avversario. «E quanto ci vorrà?» «Il tempo di rintracciarla... non più di due minuti.» Rebus lo seguì al banco. «Sara, sai dov'è Angela?» «Di sopra, credo. La chiamo sul cercapersone.» «Io controllo in ufficio», disse il portiere, allontanandosi di nuovo. Rebus rimase a osservare l'impiegata della reception che digitava cifre sul telefono, quindi riagganciava. La ragazza alzò lo sguardo e gli sorrise: aveva capito che stava succedendo qualcosa e voleva saperne di più. «Un ospite ci ha appena lasciato la pelle», la accontentò Rebus. Lei spalancò gli occhi. «Ma è terribile.» «Il signor Webster, stanza 214. Alloggiava solo?» Lei si affrettò sulla tastiera. «Camera doppia, ma una sola chiave assegnata. Non credo di ricordarmelo...» «Ha lasciato un recapito?» «Di Londra», disse lei. Un pied-à-terre per i giorni feriali, se tutto andava bene. Si sporse sul banco, chiedendosi quante domande sarebbe riuscito a fare di straforo. «E pagava con carta di credito, Sara?» Lei esaminò lo schermo. «Tutti gli addebiti a...» Accorgendosi che il portiere stava tornando, si interruppe. «Tutti gli addebiti a...?» la incalzò Rebus. «Ispettore», lo chiamò il portiere, subodorando qualcosa. Il telefono di Sara squillò. Lei alzò la cornetta. «Reception», cinguettò. «Oh, salve, Angela. C'è qui un altro poliziotto...» Un altro? «Scendi tu o te lo mando su?» Adesso il portiere si trovava alle sue spalle. «Accompagno io l'ispettore di sopra, Sara.» Un altro poliziotto... di sopra... Rebus aveva un pessimo presentimento. Quando udì il segnale di apertura delle porte dell'ascensore, si girò e vide David Steelforth uscire dalla cabina. Scuotendo lentamente il capo, l'uomo dei reparti speciali accennò un sorriso. Il messaggio non avrebbe potuto
essere più chiaro: tu non ci arrivi neanche vicino, alla stanza 214, amico. Rebus si voltò, afferrò il monitor del computer e lo fece ruotare verso di sé. Il portiere lo agguantò per il braccio e Sara cacciò uno strillo al telefono, privando probabilmente dell'udito la direttrice. Steelforth balzò in avanti per gettarsi nella mischia. «Eh, no, cosi non si fa», sibilò il portiere, la cui stretta era una morsa. In gioventù doveva aver avuto qualche scontro, decise Rebus, e con ciò risolse anche di lasciar perdere. Levò la mano dallo schermo e Sara lo rimise a posto. «Adesso può mollarmi», disse Rebus. Il portiere allentò la stretta. Sara lo guardava sconvolta, il telefono ancora in mano. «Sta per dirmi che non posso vedere la stanza 214», fece quindi, rivolto a Steelforth. «Io? No.» Il sorriso si allargò. «Ma la direttrice sì. È nelle sue prerogative, dopotutto.» Neanche avesse ricevuto un ordine, Sara si riportò il telefono all'orecchio. «Sta arrivando», disse. «E ti credo.» Gli occhi di Rebus erano ancora fissi su Steelforth, ma alle sue spalle intravide un'altra sagoma: quella di Siobhan. «Il bar è ancora aperto, vero?» chiese allora al portiere. Per quanto gli sarebbe piaciuto rispondere di no, la bugia sarebbe stata troppo eclatante, quindi l'uomo annuì leggermente. «Non le chiederò di unirsi a me», disse Rebus a Steelforth. Scansò i due uomini e salì i gradini che portavano al Palm Court, si piazzò al banco e attese che Siobhan lo raggiungesse. Poi, con un respiro profondo, si cercò le sigarette in tasca. «Qualche problemino con la direzione?» chiese lei. «L'hai visto, l'amico dell'SO12?» «Mica male, i benefit dei reparti speciali.» «Non so se alloggi qui, ma di sicuro ci stava un certo Ben Webster.» «Il deputato laburista?» «Lui.» «Ahia.» Siobhan parve afflosciarsi un poco nelle spalle. In effetti anche lei aveva già avuto la sua dose di delizie giornaliere. «Comincia tu, dai», insistette Rebus. Il barman gli aveva messo davanti qualche ciotola di stuzzichini. «Per me un Highland Park. E un vodka tonic per la signora.» Siobhan confermò con un cenno del capo. Quando il barman si voltò, Rebus prese un tovagliolino di carta, estrasse di tasca una penna e ci scarabocchiò sopra qualcosa. Siobhan inclinò la testa per leggere meglio.
«Chi o che cos'è la Pennen Industries?» «Non lo so, ma di sicuro hanno le tasche profonde e un indirizzo londinese.» Con la coda dell'occhio Rebus vide Steelforth che li osservava dall'ingresso. Gli sventolò il tovagliolino, che poi ripiegò e si mise in tasca. «Allora, chi è che se l'è presa con la tua macchina... quelli del disarmo nucleare, Greenpeace o Stop the War?» «Niddrie», affermò Siobhan. «O più precisamente il Niddrie Young Team.» «Credi che potremmo convincere quelli del G8 a inserirli nell'elenco dei gruppi terroristici?» «Qualche migliaio di marine sistemerebbe tutto senza fatica.» «Peccato che a Niddrie non abbiano ancora trovato il petrolio.» Rebus tese una mano verso il bicchiere di puro malto. Un tremito lievissimo, niente di più. Brindò alla sua compagna, al G8 e ai marine, e avrebbe brindato anche a Steelforth... ... Se solo l'ingresso al bar non fosse stato vuoto. Sabato 2 luglio 3 Rebus si svegliò con la luce del giorno e si rese conto che la sera prima non aveva tirato le tende. Il telegiornale del mattino sembrava dedicato soprattutto al concerto di Hyde Park, con servizi e interviste agli organizzatori. Su Edimburgo neanche una parola. Spense la tivù e andò in camera, dove si levò gli abiti del giorno prima e indossò una camicia a maniche corte e pantaloni sportivi. Poi si spruzzò un po' d'acqua in faccia, contemplò il risultato e capì che gli serviva qualcosa di più. Afferrati chiavi e telefonino - la sera l'aveva messo in carica, quindi non poteva essere poi cosi ubriaco -, usci. Due rampe di scale ed era davanti al portone del suo palazzo di Marchmont, enclave di studenti benedetta, proprio per questo, da una certa tranquillità estiva. Verso la fine di giugno aveva assistito alla smobilitazione generale: ragazzi impegnati a caricare le auto, proprie o dei genitori, e a imbottire ogni spazio vuoto con cuscini e piumoni. Naturalmente c'erano stati anche i party per festeggiare la fine degli esami, e per due volte Rebus aveva dovuto togliere coni da parcheggio dal tetto della sua macchina. Adesso si fermò sul marciapiede e inalò quel che restava del fresco della notte, quindi si diresse verso Marchmont Road, dove il chiosco di bi-
bite e giornali aveva appena aperto. Passarono un paio di pullman. Forse si erano persi. Poi ricordò, e infine sentì: martelli pneumatici e l'un-due-treprova di alcuni altoparlanti. Pagò e svitò il tappo della Irn-Bru, che si scolò d'un fiato. Nel sacchetto ne aveva un'altra. Sbucciò una banana e cominciò a mangiarla camminando, diretto non a casa ma verso l'incrocio di Marchmont Road con il parco dei Meadows. Secoli prima i Meadows erano stati quel che diceva il nome: dei prati ai margini della città, la stessa Marchmont poco più che una fattoria circondata dai campi. Adesso invece erano usati da giocatori di calcio e di cricket, da podisti e amanti dei picnic. Non quel giorno, però. Melville Drive era già completamente transennata, l'importante arteria convertita in parcheggio per autobus. Ce n'erano decine, arrivavano fino alla curva e anche più in là, in certi punti allineati in tripla fila. Venivano da Derby, da Macclesfield e da Hull, da Swansea e Ripon, da Carlisle e Epping. Da tutti scendeva gente vestita di bianco. Il bianco: Rebus ricordò che ai manifestanti era stato chiesto di indossare quel colore. Quando si fossero messi a marciare per la città, avrebbero creato un nastro ampio e visibile. Si guardò i vestiti: pantaloni avana, camicia azzurra. Grazie al cielo. Molti passeggeri sembravano anziani, alcuni fragili e gracili, ma tutù esibivano le fasce da polso e le magliette con gli slogan, e molti portavano con sé striscioni fatti in casa. Sembravano felici di essere lì. Più avanti erano stati eretti dei tendoni e c'erano chioschi su ruote pronti a vendere alle masse affamate patatine fritte e hamburger vegetariani; c'erano anche dei palchi già montati, e vicino ad alcune gru faceva bella mostra di sé un enorme puzzle di legno. Rebus ci mise un istante a decifrare la scritta: METTIAMO FINE ALLA POVERTÀ. Nei pressi sostavano agenti di polizia in uniforme, ma lui non ne conosceva nessuno: probabilmente non erano forze locali. Guardò l'orologio: le nove appena passate, ancora tre ore al calcio d'inizio. Non una nuvola in cielo. Una camionetta della polizia che aveva deciso che la strada più breve passava per il marciapiede lo costrinse ad arretrare sull'erba. Scoccò un'occhiataccia all'autista, che gliela restituì e aprì il finestrino. «Problemi, nonno?» Per tutta risposta gli sguainò il dito medio: se si fosse fermato, avrebbero potuto scambiare una simpatica chiacchierata. Ma la camionetta la pensava diversamente e proseguì imperterrita la sua marcia. Terminata la banana, Rebus stava già per gettare a terra la buccia, quando, nel timore di finire in
mano ai Giustizieri del Riciclaggio, si mise in cerca di un cestino. «Prenda», disse una ragazza, porgendogli un sacchetto di plastica. Rebus sbirciò all'interno: un paio di adesivi e una maglietta dell'associazione per l'aiuto alla terza età Help the Aged. «E che me ne faccio?» ringhiò. La ragazza si riprese il sacchetto, sforzandosi non poco per conservare un'ombra del suo sorriso. Rebus si allontanò e aprì la Irn-Bru di riserva. Si sentiva un po' meno rintronato, ma aveva la schiena sudata. Finalmente agguantò un ricordo che tentava di farsi strada: lui e Mickey, le gite parrocchiali sui prati nei dintorni di Burntisland. Ci andavano in pullman, con scie di stelle filanti attaccate ai finestrini, file di pullman che li attendevano per ricondurli a casa dopo la colazione al sacco e le corse sull'erba. Mickey era sempre stato più forte nelle partenze da fermo, perciò alla fine Rebus aveva gettato la spugna, unica arma contro l'energica determinazione del fratello. Il loro pranzo stava dentro scatole bianche di cartone: un tramezzino con la marmellata, torta glassata, magari un uovo sodo. L'uovo non lo mangiavano mai. Fine settimana estivi che sembravano infiniti e immutabili. Negli anni Rebus era arrivato a detestarli per la loro vuotaggine. I lunedì mattina erano la sua vera liberazione, il diversivo rispetto al divano e allo sgabello del bar, al supermercato e al take-away indiano. I colleghi tornavano al lavoro raccontando di grandi spese, partite di pallone, gite in bici con la famiglia; Siobhan era stata a Glasgow o a Dundee, aveva visto le amiche, si era tenuta al passo. Serate al cinema e camminate sulle rive del Leith. A lui invece nessuno chiedeva più come avesse trascorso i giorni di riposo: la sua risposta sarebbe stata solo un'alzata di spalle. Nessuno avrebbe da obiettare se ti imboscassi un po'... Peccato che a lui di imboscarsi non fregasse proprio niente, anzi: senza il lavoro praticamente non esisteva. Motivo per il quale formò un numero sul cellulare e attese. Gli rispose una segreteria telefonica. «Buongiorno, Ray», disse dopo il segnale, «qui è la tua sveglia personalizzata, che ti chiamerà a ogni ora finché non comincerai a darmi notizie. Ci sentiamo.» Terminò la chiamata e subito ne fece un'altra, lasciando lo stesso messaggio sulla segreteria di casa di Ray Duff. Sistemati il telefono fisso e mobile del collega, non gli restava che aspettare. Il Live 8 iniziava verso le due, ma di certo gli Who e i Pink Floyd non sarebbero comparsi prima di sera; aveva un sacco di tempo per ripassare le carte del caso Colliar. Un sacco di tempo per informarsi su Ben Webster. Per spingere avanti
il sabato fino a trasformarlo in domenica. Ancora una volta, sarebbe sopravvissuto. Della Pennen Industries il servizio informazioni abbonati gli fornì soltanto un numero di telefono e un indirizzo del centro di Londra. Provò subito a chiamare, ma una voce registrata lo informò che gli uffici riaprivano il lunedì mattina. Senza perdersi d'animo, fece una telefonata anche al quartier generale dell'operazione Sorbo, a Glenrothes. «Dipartimento investigazioni criminali, divisione B, Edimburgo.» Attraversò il soggiorno e sbirciò fuori dalla finestra: una famigliola, i bimbi con il viso dipinto, scendeva lungo la via verso i Meadows. «Girano voci sulla Clown Army: pare abbiano preso di mira un obiettivo che si chiama... un momento» - pausa drammatica, come se stesse consultando un documento - «... Pennen Industries. Il nome non ci dice niente, ma ci chiedevamo se i vostri cervelloni non potrebbero illuminarci.» «Pennen?» Rebus fece lo spelling. «E lei è...?» «Ispettore Starr... Derek Starr», mentì spudoratamente. Impossibile prevedere che cosa sarebbe giunto all'orecchio di Steelforth. «Mi dia dieci minuti.» Stava per ringraziare, ma la comunicazione era già stata interrotta. Voce maschile, rumori di fondo: un nodo molto trafficato. Si rese conto che l'agente non gli aveva chiesto il suo numero. Di certo però era comparso su un qualche display da cui sarebbe stato possibile rintracciarlo. E identificarlo. «Ops», disse sottovoce, andando in cucina a farsi un caffè. La sera precedente Siobhan era venuta via dal Balmoral dopo due drink; lui ne aveva aggiunto un terzo, prima di attraversare la strada per il bicchiere della staffa al Café Royal. E quella mattina le dita gli puzzavano vagamente di aceto, segno che tornando a casa aveva mangiato patate fritte. Sì: il tassista l'aveva lasciato ai Meadows, da dove lui aveva dichiarato di voler proseguire a piedi. Pensò di chiamare Siobhan per accertarsi che fosse rincasata senza problemi, ma quelle premure non le erano mai andate a genio. E poi probabilmente era già fuori, diretta al corteo con i genitori. Era così impaziente di sentire Eddie Izzard e Gael Garcia Bernal, e tutti quelli che avrebbero tenuto dei discorsi: Bianca Jagger, Sharleen Spiteri. A sentire lei, sarebbe stata una grande festa di piazza. Si augurò che avesse ragione.
Tra l'altro, Siobhan doveva anche portare la macchina in carrozzeria. Rebus conosceva il consigliere Tench: quanto meno, ne aveva sentito parlare. Una specie di predicatore laico che in passato aveva tenuto banco ai piedi del Mound, invocando il pentimento dei compratori del fine settimana. In genere lo incontrava quando decideva di andarsene all'Ox per pranzo. A Niddrie godeva di un'ottima reputazione, aveva ottenuto un sacco di fondi per lo sviluppo della zona da enti locali, organizzazioni benefiche e persino dall'Unione Europea. Rebus aveva fatto il quadro a Siobhan, poi le aveva dato il numero di un carrozziere dalle parti di Buccleuch Street. Era specializzato in Volkswagen, ma gli doveva un favore. Il telefono squillò. Portò il caffè in salotto e rispose. «Lei non si trova in centrale», disse guardinga la stessa voce di prima, da Glenrothes. «No, sono a casa.» Rumore di elicottero fuori della finestra: sorveglianza aerea, oppure i media. O magari era Bono che si paracadutava, pronto a lanciarsi in qualche predicozzo. «La Pennen non ha uffici in Scozia», continuò la voce. «Allora nessun problema», rispose Rebus simulando disinvoltura. «In momenti come questi Radio Ciarla fa gli straordinari, proprio come noi.» Rise, e stava per fare un'altra domanda, quando la voce lo precedette. «Però lavorano per la Difesa, quindi le ciarle potrebbero avere qualche fondamento.» «Per la Difesa?» «La società apparteneva al ministero, è stata privatizzata pochi anni fa.» «Sì, mi sembra di ricordare qualcosa», recitò Rebus. «Sede a Londra, giusto?» «Giusto. Però, ecco... in questo momento l'amministratore delegato si trova qui.» Rebus lasciò partire un fischio. «Potenziale bersaglio.» «Gli abbiamo già attribuito una classificazione di rischio. È stato messo in sicurezza.» In bocca al giovane agente quelle espressioni suonavano strane, forse le aveva appena imparate. Magari da Steelforth. «Non è che per caso alloggia al Balmoral?» gli chiese. «Lei come lo sa?» «Al solito, voci di corridoio. Comunque è protetto?» «Sì.» «Dai suoi o dai nostri?»
Una pausa, dall'altra parte. «Perché vuole saperlo?» «Io cerco solo di fare gli interessi del contribuente.» Rebus rise di nuovo. «Pensa che dovremmo andare a scambiare due chiacchiere con lui?» Gli chiedeva consiglio, come se il capo fosse l'altro. «Posso riferire il messaggio.» «Più resta in città, peggio è...» Rebus si interruppe. «Veramente non so neanche come si chiama», ammise. D'un tratto una terza voce si intromise nella chiamata. «Ispettore Starr? Parlo con l'ispettore dell'Investigativa Starr?» Steelforth... Rebus trattenne il fiato. «Pronto?» ripeté Steelforth. «Cos'è, tutto a un tratto diventa timido?» Imprecando sottovoce, Rebus interruppe la telefonata. Poi compose un altro numero per parlare con il centralino del quotidiano locale. «Servizi speciali, per favore», disse. «Credo che non ci sia nessuno», rispose l'operatrice. «La cronaca?» «Un deserto dei tartari, per ovvie ragioni.» Dal tono anche lei avrebbe voluto trovarsi da un'altra parte, ma tentò comunque di passare la telefonata. Ci volle un po' perché qualcuno rispondesse. «Ispettore Rebus, Investigativa di Gayfield.» «Sempre lieto di parlare con un tutore della legge», disse allegro il cronista, «in via ufficiale e anche ufficiosa...» «Nessuna soffiata, figliolo. Ho solo bisogno di parlare con Mairie Henderson.» «Adesso fa la freelance. E comunque si occupa di speciali, non di cronaca.» «Il che non vi ha impedito di metterla in prima pagina con Big Ger Cafferty, giusto?» «Sa che ci avevo pensato anch'io, anni fa...» Il cronista pareva volersi mettere comodo per una bella chiacchierata. «Non solo Cafferty, però: interviste a tutti i delinquenti della costa est e ovest. Gli esordi, il galateo...» «Mi perdoni, ma per caso ho chiamato un talk show?» «Ehi», protestò il cronista, «stavo solo facendo un po' di conversazione.» «Non mi dica: solo in ufficio? Sono scappati fuori tutti con i portatili a cercare di descrivere il corteo in prosa elegante, giusto? Le cose però stanno così: ieri sera un tizio è precipitato dai bastioni del castello, e stamattina sul vostro giornale non se ne faceva mezza parola.»
«La notizia è arrivata troppo tardi.» Il cronista si interruppe. «Un normale suicidio, però, no?» «Lei che ne pensa?» «Gliel'ho chiesto io per primo.» «Guardi che sono io che gliel'ho chiesto per primo... il numero di Mairie Henderson.» «Perché?» «Lei mi dia il suo numero, e io le dico una cosa che non dirò a Mairie.» Il giornalista ci meditò un istante, poi lo pregò di restare in linea. Tornò mezzo minuto dopo. Nel frattempo Rebus aveva ricevuto un avviso di chiamata: qualcuno che cercava di contattarlo. Lo ignorò e si appuntò il numero che il cronista gli dettava. «Grazie», disse poi. «E ora, il regalino per me?» «Si faccia una domanda: se è stato un normale suicidio, come mai un pezzo di merda dei reparti speciali di nome Steelforth ci si è buttato sopra a pesce?» «Steelforth? Come si scrive...» Ma lui aveva già troncato la comunicazione. Il telefono prese immediatamente a squillare. Rebus non rispose. Immaginava benissimo chi fosse: quelli dell'operazione Sorbo avevano il suo numero e a Steelforth sarebbe bastato un minuto per risalire all'indirizzo. E un altro minuto per chiamare Derek Starr e sentirlo cadere dalle nuvole. Drrr-drrr. Drrr-drrr. Riaccese la tivù e azzerò l'audio con il telecomando. Non c'erano notiziari, solo programmi per bambini e videoclip. L'elicottero stava rifacendo il giro. Si accertò che non stesse sorvegliando proprio il suo palazzo. «Solo perché sei paranoico, John...» borbottò tra sé. Il telefono aveva smesso di squillare e lui chiamò Mairie Henderson. Fino a qualche anno prima erano stati molto amici, si passavano informazioni in cambio di articoli e articoli in cambio di informazioni. Poi lei aveva scritto un libro su Cafferty - con la piena collaborazione del malavitoso - e, quando aveva chiesto un'intervista a Rebus, lui gliel'aveva rifiutata. In seguito era tornata alla carica. «A sentire come parla di te Big Ger», lo aveva blandito, «sarebbe proprio il caso che tu fornissi la tua versione.» Rebus, invece, non avvertiva affatto quell'esigenza. Il che non aveva impedito al libro di riscuotere un successo strepitoso,
non solo in Scozia ma anche negli Stati Uniti, in Canada, in Australia. Traduzioni in sedici lingue. Per un certo periodo non era più riuscito a prendere in mano un giornale senza leggere qualcosa sull'argomento. Un paio di premi, passaggi nei talk-show televisivi per autrice e protagonista. Non bastava che Cafferty avesse trascorso la vita a rovinare la gente e a terrorizzarla, adesso era anche una celebrità. Mairie gli aveva mandato una copia del libro. Lui gliel'aveva restituita a stretto giro di posta. Due settimane dopo, però, era andato a comprarselo, a metà prezzo, in Princes Street. Lo aveva sfogliato, ma non se l'era sentita di leggerlo. Niente gli faceva montare la bile più in fretta dei pentiti. «Pronto?» «Mairie, sono John Rebus.» «Spiacente, ma il solo John Rebus che conosco è morto.» «Così non vale.» «Mi hai rispedito il libro! Dopo che te l'avevo firmato!» «Ma va'?» «Non hai neanche letto la dedica?» «Cosa diceva?» «Diceva: 'Non so che problema hai, però vaffanculo'.» «Mi dispiace, Mairie. Lascia che rimedi.» «E in che modo? Chiedendomi un favore?» «Come hai fatto a indovinare?» Sorrise alla cornetta. «Vai al corteo?» «Ci stavo pensando.» «Potrei offrirti un hamburger di tofu.» Lei fece una risata nasale. «Ne è passato di tempo da quando mi si poteva avere per così poco.» «Va bene, aggiungi anche una tazza di decaffeinato...» «Che diavolo vuoi, John?» Le parole erano fredde, ma la voce si andava sgelando. «Qualche informazione sulla Pennen Industries, una società che in passato apparteneva al ministero della Difesa. Credo che i pezzi grossi siano in città, al momento.» «E perché la cosa dovrebbe interessarmi?» «Non a te: a me...» Si interruppe per accendere una sigaretta e riprese a parlare in mezzo a una sbuffata di fumo. «Hai sentito dell'amichetto di Cafferty?» «Chi?» Ce la metteva veramente tutta per sembrare indifferente. «Cyril Colliar. Abbiamo trovato il pezzo mancante del giubbotto.»
«Con la confessione di Cafferty scritta sopra? Me l'aveva detto che non ti arrendi mai.» «Ho solo pensato di fartelo sapere... Non è che sia di pubblico dominio, eh.» Lei rimase un istante in silenzio. «E la Pennen Industries?» «Tutt'altra cosa. Hai saputo di Ben Webster?» «L'hanno detto al telegiornale.» «La Pennen gli pagava la camera al Balmoral.» «E allora?» «E allora vorrei saperne qualcosa di più.» «L'amministratore delegato si chiama Richard Pennen.» Intuendo la sua confusione, Mairie rise. «Mai sentito parlare di Google?» «Non mi dire che l'hai trovato adesso, mentre parlavamo?» «Ma almeno ce l'hai un computer a casa?» «Mi sono comprato un portatile.» «Quindi hai anche Internet?» «In teoria», confessò lui. «Però sono un vero asso a Campo minato...» Lei rise di nuovo, e Rebus capì che le cose tra loro si sarebbero sistemate. Udì un sibilo in sottofondo, seguito da un tintinnare di tazze. «In che bar sei?» le chiese. «Da Montpeliers. Fuori è pieno di gente vestita di bianco.» Il Montpeliers era a Bruntsfield: cinque minuti di macchina. «Potrei venire a offrirti quel famoso caffè, e tu potresti insegnarmi a usare il portatile.» «Mi dispiace, sto andando via. Vuoi che ci vediamo più tardi ai Meadows?» «Non ci tengo. E se bevessimo una cosa insieme?» «Magari. Vedo cosa riesco a trovare su Pennen, ti richiamo quando ho finito.» «Sei un tesoro, Mairie.» «E vendo fantastilioni di copie.» Pausa. «La parte di Cafferty è andata in beneficenza, lo sapevi?» «Lui può permettersi di fare il generoso. A dopo, Mairie.» Rebus terminò la chiamata e controllò i messaggi, ma ce n'era uno solo. La voce di Steelforth aveva formato giusto una decina di parole quando la rimise a tacere, la minaccia incompiuta che gli riecheggiava in testa mentre si dirigeva allo stereo e riempiva la stanza con i Groundhogs... Non si azzardi a credersi più furbo di me, Rebus, altrimenti...
«... fratture a gran parte delle ossa maggiori», disse il professor Gates con un'alzata di spalle. «Dopo una caduta simile, cosa ti aspettavi?» Era già al lavoro, perché Ben Webster era roba da prima pagina. E doveva anche spicciarsi: tutti volevano vedere il caso chiuso il più presto possibile. «Un bel referto di suicidio», aveva detto poco prima. Insieme a lui, in sala autopsie, c'era il dottor Curt. Le norme scozzesi prevedono sempre la compresenza di due patologi, l'uno a convalida dell'altro, così si evitano problemi in tribunale. Gates era il più corpulento, con il viso venato di rosso e il naso deformato da un vecchio trauma sul campo di rugby (la sua versione) o da un'inopportuna rissa fra studenti. Curt, più giovane di neanche un lustro, era un po' più alto e decisamente più smilzo. Tutti e due titolari di cattedra all'università di Edimburgo, con la fine del semestre avrebbero potuto starsene in panciolle chissà dove, ma Rebus non li aveva mai visti prendersi una vacanza: entrambi l'avrebbero giudicato un segno di debolezza. «E tu non vai al corteo, John?» chiese Curt. Erano radunati attorno al tavolo settorio d'acciaio dell'obitorio di Cowgate. Alle loro spalle un assistente smuoveva strumenti e padelle in un tripudio di stridii e sferragliamenti. «Evento troppo insipido, per me», rispose Rebus. «Andrò lunedì in piazza.» «Con gli altri anarchici tuoi degni compari», concluse Gates, effettuando l'ennesimo taglio. Agli spettatori era riservata un'area apposita, e di norma Rebus si sarebbe fermato proprio là, protetto dal plexiglas, a debita distanza dal rituale. «Trattandosi del fine settimana», aveva però detto Gates, potevano «gestirsela in maniera più informale.» Non era la prima volta che vedeva delle interiora di essere umano, ma decise di distogliere comunque lo sguardo. «Quanti anni aveva?» chiese Gates. «Trentaquattro? Trentacinque?» «Trentaquattro», confermò l'assistente. «Piuttosto in forma, direi, tutto considerato.» «La sorella dice che faceva sport: nuoto, corsa, palestra.» «È lei che ha provveduto al riconoscimento ufficiale?» chiese Rebus, felice di potersi rivolgere all'assistente. «I genitori sono morti.» «L'hanno detto anche i giornali, no?» sottolineò Curt in tono strascicato,
gli occhi puntati sul lavoro del collega. «Quel bisturi è abbastanza affilato, Sandy?» Gates lo ignorò. «La madre è deceduta nel corso di una rapina, una cosa veramente tragica. E il padre da solo non ce l'ha fatta.» «Si è lasciato morire», aggiunse Curt. «Vuoi che prosegua io, Sandy? Non ti do torto se ti senti stanco, con la settimana che abbiamo...» «Piantala di rompere.» Curt si produsse in un sospiro e un'alzata di spalle, entrambi a beneficio di Rebus. «Quindi la sorella è venuta apposta da Dundee?» chiese questi all'assistente. «Lavora a Londra. Fa la poliziotta ed è molto più carina della media degli sbirri.» «Niente biglietto di San Valentino per te, l'anno prossimo.» «Esclusi i presenti, naturalmente.» «Povera ragazza», commentò Curt. «Perdere cosi tutta la famiglia...» «Erano molto uniti?» non poté fare a meno di chiedere Rebus. Gates trovò la domanda strana e alzò gli occhi. Lui lo ignorò. «Non credo si fossero visti spesso, ultimamente», rispose l'assistente. Come me e Michael... «Comunque era piuttosto sconvolta.» «Ed è venuta su da sola?» insistette Rebus. «Al riconoscimento non c'era nessuno con lei», dichiarò l'assistente in tono pratico. «Dopo l'ho lasciata in sala d'attesa, le ho portato un tè.» «Non sarà mica ancora là, eh?» scattò Gates. L'assistente si guardò intorno, non capendo bene quale regola avesse infranto. «Dovevo preparare gli strumenti...» «Questo posto è deserto, a parte noi», esplose il patologo. «Va' subito a vedere se sta bene.» «Nessun problema, ci penso io», intervenne Rebus. Gates si voltò a guardarlo, un groviglio di viscere luccicanti in mano. «Che c'è, John? Non hai più lo stomaco?» La sala d'attesa era deserta. Sul pavimento, accanto a una sedia, una tazza da tè vuota con il gagliardetto dei Rangers di Glasgow. Rebus la sfiorò: ancora tiepida. Si avviò verso l'ingresso principale; l'entrata per il pubblico era in una traversa di Cowgate. Perlustrò la via con lo sguardo, ma non vide nessuno. Appena girato l'angolo con Cowgate, però, notò la figura sedu-
ta sul muretto basso di fronte all'obitorio. Fissava l'asilo dalla parte opposta della strada. La raggiunse e le si fermò davanti. «Ha una sigaretta?» gli chiese la donna. «Ne vuole una?» «Il momento mi pare adatto.» «Mi sorge il sospetto che lei non fumi.» «E quindi?» «E quindi non sarò certo io a traviarla.» Soltanto allora lei sollevò lo sguardo. Aveva corti capelli biondi e un viso tondo con il mento sporgente. La gonna le arrivava al ginocchio, e dagli stivali marroni foderati di pelliccia spuntavano due centimetri di gambe. Accanto a lei sul muretto era appoggiata una grossa borsa da viaggio, con ogni probabilità riempita di fretta e alla rinfusa, prima di dirigersi a nord. «Ispettore Rebus, dell'Investigativa», le disse. «Mi dispiace per suo fratello.» Lei annuì adagio, mentre lo sguardo tornava alla scuola materna. «Funziona?» disse accennando in quella direzione. «Per quanto ne so, sì. Ovviamente oggi è chiusa.» «Comunque è un asilo.» Si voltò verso l'edificio alle sue spalle. «E sta proprio qui di fronte. Corto come viaggio, eh, ispettore?» «Immagino abbia ragione. Mi dispiace di non essere stato presente anch'io all'identificazione.» «Perché? Conosceva Ben?» «No. Pensavo solo... com'è che non c'è nessuno con lei?» «Tipo?» «Del collegio elettorale... del partito.» «Pensa che ai laburisti gliene freghi qualcosa di lui, adesso?» Una breve risata. «Saranno tutti in prima fila a quella cavolo di marcia, pronti per i fotografi. Ben diceva di essere arrivato vicinissimo a quello che definiva 'il potere'. Non gli è servito a molto.» «Attenta», la ammonì Rebus. «Così sembra dichiararsi d'accordo coi dimostranti.» Lei rise di nuovo, sbuffando, ma non replicò. «Si è fatta un'idea del perché...» Si interruppe. «Lo sa che devo chiederglielo, vero?» «Sono una piedipiatti. Proprio come lei.» Lo guardò estrarre il pacchetto. «Una sola», implorò. Come faceva a rifiutare? Rebus ne accese due, poi si appoggiò al muro accanto a lei. «Non vedo in giro macchine.» «La città è blindata», spiegò Rebus. «Trovare un taxi è un'impresa, ma io ho parcheggiato qui vicino.»
«Posso andare a piedi», rispose lei. «E no, non ha lasciato un biglietto, se è questo che voleva sapere. Ieri sera sembrava a posto, molto rilassato, tutto normale. I colleghi non riescono a capacitarsi. Nessun problema sul lavoro.» Fece una pausa, levando gli occhi al cielo. «A parte il fatto che lui aveva sempre problemi sul lavoro.» «Eravate molto uniti, si direbbe.» «Nei giorni feriali stava spesso a Londra. Non ci vedevamo da un mesetto - no, d'accordo, facciamo due - ma c'erano gli SMS, le e-mail...» Diede un tiro alla sigaretta. «Quindi aveva problemi sul lavoro?» la incalzò Rebus. «Ben si occupava di cooperazione internazionale, decideva quale decrepita dittatura africana meritasse di volta in volta il nostro aiuto.» «Il che spiega la sua presenza qui», commentò Rebus quasi tra sé. Lei fece un lento, triste cenno di assenso. «Vicinissimo al potere... Una bella cena al castello di Edimburgo per discutere dei poveri affamati del mondo.» «Lui l'avrebbe notata, l'ironia?» azzardò Rebus. «Oh, sì.» «E la futilità?» Lei gli piantò gli occhi addosso. «Mai», rispose adagio. «Non era nella sua natura.» Ricacciò indietro le lacrime, tirò su col naso, sospirò e gettò via la sigaretta ancora quasi intera. «Ora devo andare.» Prese un portafogli dalla borsa da viaggio e porse a Rebus un biglietto da visita con su nient'altro che il nome - Stacey Webster - e un numero di cellulare. «Da quanto sei in polizia, Stacey? Possiamo darci del tu, vero?» «Certo. Otto anni. Di cui gli ultimi tre passati a Scotland Yard.» Gli piantò di nuovo gli occhi addosso. «So che vorrai farmi delle domande. Ben aveva dei nemici? Problemi di soldi? Un rapporto sentimentale che non funzionava? Più avanti, magari. Lascia passare qualche giorno e poi chiamami.» «D'accordo.» «Non c'è niente che...» Non riuscì a concludere la frase. Prese fiato e ci riprovò. «Qualcosa lascia intendere che non sia stata una semplice caduta?» «Aveva bevuto un paio di bicchieri di vino. Forse era un po' stordito.» «Nessuno ha visto niente?» Rebus rispose con un'alzata di spalle. «Sicura di non volere un passaggio?»
Lei scosse il capo. «Ho bisogno di camminare.» «Un consiglio: tieniti alla larga dal percorso del corteo. Magari ci rivedremo... e, dico sul serio, mi dispiace per Ben.» Stacey lo trafisse con lo sguardo. «Sembri sincero.» Lui fu a un passo dal confidarsi - «Ho lasciato mio fratello in una cassa giusto ieri» - ma poi si limitò a una smorfia. Stacey avrebbe potuto attaccare con le domande: eravate uniti? Come ti senti? Domande alle quali non avrebbe saputo dare risposta. La guardò avviarsi per la lunga e solitaria camminata sulla Cowgate, poi tornò dentro per l'ultimo atto dell'autopsia. 4 Quando Siobhan raggiunse i Meadows, la coda dei manifestanti in attesa lambiva il vecchio ospedale e si snodava fino ai campi da gioco dove sostavano i pullman. Qualcuno avvisava attraverso un megafono che sarebbero potute passare anche due ore prima che gli ultimi della fila cominciassero a muoversi. «Quei porci di sbirri!» commentava qualcun altro. «Ci fanno passare a scaglioni di quaranta o cinquanta.» Siobhan fu lì lì per spezzare una lancia a favore di quella scelta, ma sapeva che così facendo si sarebbe tradita e preferì quindi procedere paziente lungo la coda, pur dubitando parecchio di riuscire a trovare i suoi. C'erano almeno centomila persone, forse il doppio. Non aveva mai visto una folla simile: il festival musicale T in the Park ne aveva radunate solo sessantamila, e in una bella giornata il derby calcistico poteva attirare diciottomila spettatori, mentre per Hogmanay, il San Silvestro scozzese, Princes Street e zone limitrofe arrivavano a ospitarne quasi centomila. Questa cosa era decisamente più grossa. E poi sorridevano tutti. Non si vedeva in giro un'uniforme, né un servizio d'ordine. Intere famigliole si riversavano da Morningside, Tollcross e Newington, e Siobhan si era già imbattuta in almeno cinque o sei tra conoscenti e vicini di casa. Alla testa del corteo c'era il sindaco, e qualcuno diceva che ci fosse anche Gordon Brown. Più tardi avrebbe tenuto un discorso, protetto dalla squadra speciale di polizia, anche se l'operazione Sorbo l'aveva classificato «a basso rischio» per via delle sue aperte prese di posizione in favore degli aiuti allo sviluppo e del commercio equo e solidale. Le avevano mostrato la lista dei VIP attesi in città: Geldof e Bono, naturalmente; forse Ewan
McGregor (che doveva comunque partecipare a un evento a Dunblane); e poi Julie Christie, Claudia Schiffer, George Clooney, Susan Sarandon... Ripercorse la fila a ritroso e si diresse verso il palco principale. Un gruppo suonava e un po' di gente ballava entusiasta, ma la gran parte dei dimostranti stava seduta sull'erba a guardare. La piccola tendopoli locale offriva intrattenimento per i bambini, punti di pronto soccorso, banchetti di petizioni e mostre mercato. Si vendevano oggetti d'artigianato, giravano volantini. Un tabloid aveva distribuito dei poster con lo slogan METTIAMO FINE ALLA POVERTÀ e i destinatari strappavano dalla parte superiore di ciascun manifesto la testata del giornale. Palloncini salivano nel cielo. Una fanfara improvvisata stava facendo il periplo del campo, seguita da una banda di tamburi africani. Altri balli, altri sorrisi. Allora Siobhan capì che sarebbe andato tutto bene. Non ci sarebbero stati scontri. Non quel giorno. Non durante quel corteo. Diede un'occhiata al cellulare: nessun messaggio. Aveva provato due volte a chiamare i suoi ma loro non rispondevano, perciò decise di compiere un altro giro di perlustrazione. Di fronte a un autobus scoperto a due piani era stato eretto un palco più piccolo. Qui c'erano delle telecamere e si facevano interviste. Riconobbe Pete Posdethwaite e Billy Boyd, e colse uno scorcio di Billy Bragg. L'attore che avrebbe proprio voluto vedere era Gael Garcia Bernal, nel caso fosse davvero così bello anche dal vivo. Le code ai chioschi di cibo vegetariano erano più lunghe di quelle per gli hamburger. Anche lei era stata vegetariana, un tempo, ma aveva abbandonato già da qualche anno e dava la colpa a Rebus e ai tramezzini alla pancetta che lui continuava a sventolarle sotto il naso. Pensò di mandargli un SMS e dirgli di raggiungerla: tanto, che altro avrebbe fatto per occupare la giornata? Se ne sarebbe stato stravaccato sul divano, o con le chiappe appoggiate su uno sgabello dell'Oxford Bar. Ma alla fine il messaggino lo mandò ai suoi, e nuovamente si diresse verso le file in attesa. Gli striscioni erano stati issati, si sentivano fischietti e tamburi. C'era così tanta energia nell'aria... Certo, Rebus avrebbe detto che era sprecata perché a livello politico i giochi erano già fatti. E avrebbe avuto ragione: al quartier generale del Sorbo le avevano ripetuto la stessa cosa. Gleneagles serviva per i colloqui privati e i servizi fotografici. I veri accordi erano già stati definiti da figure di profilo più basso, primo fra tutti il ministro dell'Economia, o cancelliere dello Scacchiere che dir si volesse. Tutto in silenzio, con la ratifica di otto firme l'ultimo giorno del G8. «E quanto costa l'intera faccenda?» si era informata lei.
«Sui centocinquanta milioni, sterlina più, sterlina meno.» La risposta aveva lasciato l'ispettore capo Macrae senza fiato. Siobhan si era limitata a serrare le labbra, senza commentare. «Lo so cosa pensate», aveva proseguito il suo informatore. «Che con quei soldi si comprano un sacco di vaccini...» Ogni sentiero dei Meadows, adesso, era gremito di manifestanti in attesa, in fila per quattro. Si era formata una nuova coda che arrivava fino ai campi da tennis e a Buccleuch Street. Siobhan si fece strada tra la calca ancora nessuna traccia dei suoi - fino a cogliere con la coda dell'occhio una macchia di colore. Casacche fosforescenti che correvano giù per Meadow Lane. Le seguì, girando l'angolo di Buccleuch Place. E lì di colpo si fermò. Una sessantina di dimostranti in nero erano stati circondati da circa il doppio di poliziotti. I primi gracchiavano la loro assordante lagnanza con trombe da stadio, i visi camuffati da sciarpe nere e occhiali scuri. Portavano felpe nere con cappuccio, pantaloni mimetici e stivali neri. Qualche bandana. Non avevano striscioni e nessuno sorrideva. A separarli dal cordone di polizia erano solo gli scudi antisommossa, un paio dei quali già decorati a vernice spray con il simbolo degli anarchici. La massa dei disobbedienti premeva, reclamando l'accesso ai Meadows, ma le priorità tattiche della polizia erano altre. Il contenimento prima di tutto: contieni la protesta, controlli la protesta. Siobhan rimase colpita. Evidentemente i colleghi avevano saputo in anticipo dell'arrivo dei disobbedienti, ragion per cui avevano preso velocemente posizione e per nulla al mondo avrebbero permesso alla situazione di degenerare. Divisi tra il fascino dello spettacolo e la necessità di unirsi alla marcia c'erano poi altri astanti. Alcuni avevano già estratto i telefonini con fotocamera. Siobhan si guardò intorno per accertarsi che un nuovo reparto di agenti antisommossa non tentasse di fermare lei. Le voci da dentro il cordone sembravano straniere, forse spagnole o italiane. Sapeva come si chiamavano alcuni di quei gruppi: Ya Basta, Black Bloc. Ma non c'era traccia di quelli più bizzarri, tipo i Wombles o la Rebel Clown Army. La mano corse automaticamente alla tasca e al tesserino. Se gli animi si fossero scaldati, voleva essere pronta a identificarsi. In cielo era sospeso un elicottero, e un agente in uniforme riprendeva la scena dagli scalini di un edificio universitario. Abbracciò con l'obiettivo tutta la strada, indugiando un istante su di lei prima di spostarsi sul resto della folla, ma all'improvviso Siobhan si accorse di un'altra videocamera, che inquadrava
lui. All'interno del cordone c'era Santal, che filmava in digitale. Tenuta scura, zainetto in spalla, più intenta nel suo compito che coinvolta dalle cantilene e dagli slogan dei compagni. I neri volevano le loro riprese per riguardarsele e godersele più tardi, così avrebbero imparato a rispondere alle tattiche della polizia. Senza contare la possibilità - la speranza, forse che a qualcuno scappasse la mano pesante. Sapevano come gestire i media, e tra i loro amici attivisti c'erano degli avvocati. I filmati di Genova erano stati diffusi in tutto il mondo: non c'era motivo perché nuove riprese di violenze da parte della polizia non si rivelassero altrettanto efficaci. Santal l'aveva vista. La videocamera adesso era puntata su di lei, le labbra sotto il display corrucciate, e a Siobhan non parve il momento migliore per avvicinarla e chiederle dove fossero i suoi. In quello stesso momento il telefonino vibrò, comunicandole l'arrivo di una chiamata. Controllò il numero, ma non lo riconobbe. «Siobhan Clarke», scandì, portandosi la sottiletta di metallo all'orecchio. «Shiv? Ray Duff. Mi sa che quella gita fuori porta me la sono proprio guadagnata, cazzarola.» «Quale gita?» «Quella che hai promesso...» Ray si interruppe. «No. Tu non hai promesso niente a Rebus, vero?» Lei sorrise. «Dipende. Sei in laboratorio?» «Già, a farmi un culo così per te.» «Il tessuto del Clootie Well?» «Potrei avere delle novità, anche se non sono certo che ti piaceranno. Quanto ci metti ad arrivare?» «Mezz'ora.» Sotto il tuono improvviso di una tromba da stadio, girò la faccia dall'altra parte. «Chi indovina dove sei non vince niente», disse la voce di Duff. «Sto guardando il canale dei notiziari.» «Parli della marcia o della protesta?» «Della protesta, ovviamente. I manifestanti allegri e rispettosi della legge non fanno notizia neanche quando sono un quarto di milione.» «Duecentocinquantamila?» «Così dicono. Ci vediamo tra mezz'ora.» «Ciao, Ray.» Chiuse il telefonino. Che cifra! Più della metà della popolazione di Edimburgo. Erano come tre milioni in piazza a Londra. E a occupare i notiziari per le due ore seguenti sarebbero stati sessanta figuri in nero.
Perché, dopo, tutti gli occhi si sarebbero spostati sul concerto Live 8 di Londra. No, no, no, pensò, sei troppo cinica, Siobhan. Pensi troppo come quel dannato John Rebus. Nessuno poteva ignorare una catena umana che circondava una città intera, un nastro bianco, tutta quella speranza e quella passione. Meno uno. Se aveva mai davvero pensato di rimanere lì e aggiungere il suo numerino alla statistica, ora non poteva più farlo. In seguito si sarebbe scusata con i suoi, ma adesso se ne andava, si allontanava dai Meadows. La soluzione migliore era passare da St Leonard, la stazione di polizia più vicina, dove forse sarebbe riuscita a scroccare un passaggio su una volante... a dirottarla, se necessario. La sua, di auto, stava nell'officina raccomandata da Rebus. Il carrozziere le aveva detto di chiamare lunedì. Le venne in mente una tizia che aveva portato la sua 4x4 fuori città per tutta la settimana, nel caso gli agitatori l'avessero presa di mira. L'ennesimo atteggiamento allarmistico, aveva pensato allora. Santal non parve accorgersi della sua ritirata. «... Non si può neanche imbucare una lettera», disse Ray Duff. «Hanno chiuso tutte le cassette per scongiurare possibili attentati.» «In Princes Street ci sono vetrine sbarrate con le assi», rincarò Siobhan. «Secondo te da Ann Summers di cosa hanno paura?» «Separatisti baschi?» intervenne Rebus. «E adesso potremmo arrivare al punto, per favore?» Duff sbuffò. «Ha paura di perdersi la grande riunione.» «Quale riunione?» Siobhan guardò Rebus. «Quella dei Pink Floyd», rispose lui. «Ma se assomiglia anche solo vagamente a McCartney o agli U2, mi chiamo fuori.» Si trovavano in uno dei laboratori di Scienze forensi di pertinenza della polizia del Lothian and Borders, in Howdenhall Road. Duff, sui trentacinque anni, con corti capelli castani e una vistosa stempiatura, si stava ripulendo gli occhiali con un angolino di camice. Secondo Rebus il successo di CSI aveva sortito un effetto pernicioso sui cervelloni di Howdenhall. Malgrado le ristrettezze economiche, la mancanza di fascino personale e l'assenza di una colonna sonora, sembravano credersi tutti attori. E il peggio era che certi colleghi dell'Investigativa gli davano corda, chiedendo loro di replicare le tecniche forensi più assurde viste nelle puntate del telefilm. A
quanto pareva Duff aveva deciso che il suo ruolo era quello del genio eccentrico, e di conseguenza aveva gettato alle ortiche le lenti a contatto ed era tornato agli occhiali della mutua con pesante montatura nera, più in tono con la fila di penne colorate nel taschino. Ciliegina sulla torta, a un risvolto del camice aveva attaccato una fila di graffette e fermagli. Al suo arrivo Rebus aveva commentato che sembrava appena uscito da un video dei Devo. Così adesso Ray faceva il prezioso. «Prenditi pure il tuo tempo, mi raccomando», lo pungolò Rebus. Erano davanti a un tavolo cosparso di brandelli di stoffa. Duff aveva piazzato cartellini numerati accanto a ciascuno e altri più piccoli - apparentemente suddivisi per colore - accanto a tutti i difetti o alle macchie dei vari reperti. «Prima finiamo, prima puoi tornare a lucidarti le cromature sulla MG.» «Ora che mi ricordo», disse Siobhan. «Grazie per avermi offerta a Ray, John.» «Oh, avresti dovuto vedere il primo premio», borbottò lui per tutta risposta. «Insomma, che cosa stiamo guardando, prof?» «Soprattutto fango e cacche di uccelli.» Duff si portò una mano al fianco. «Marrone il primo, grigie le seconde.» Indirizzò un cenno del capo ai cartellini colorati. «Quindi l'azzurro e il rosa...» «L'azzurro è per quello che dobbiamo analizzare più a fondo.» «Dimmi che il rosa è rossetto», disse adagio Siobhan. «No, sangue.» «Oh, bene», fece Rebus, guardandola. «Su quanti indumenti?» «Due, finora... contrassegnati con il numero uno e due. Il primo è un paio di pantaloni di velluto marrone. Individuare il sangue su uno sfondo marrone è un macello... si confonde con la ruggine. Il reperto numero due invece è una maglietta sportiva... giallina, come potete vedere.» «Non proprio», disse Rebus chinandosi a osservare meglio. La maglietta era incrostata di sporcizia. «Cos'è quello sul petto, a sinistra? Una specie di distintivo?» «La scritta dice KEOGH'S GARAGE. Ma lo schizzo di sangue è dietro.» «Schizzo?» Duff annuì. «Compatibile con un colpo alla testa. Una cosa tipo un martello, che al contatto spacca la pelle e quando lo ritiri fa volare il sangue in tutte le direzioni.»
«Keogh's Garage?» La domanda di Siobhan era diretta a Rebus, che però si limitò a fare spallucce. Duff, invece, si schiarì la gola. «Non figura sugli elenchi del Perthshire. E neanche di Edimburgo, se è per questo.» «Ehi, sei stato un fulmine, Ray», commentò Siobhan in tono di approvazione. «Dieci punti a favore», aggiunse Rebus, strizzandogli l'occhio. «E il concorrente numero uno?» Duff fece un cenno col capo. «Questo non è uno schizzo. Sono gocce sulla gamba destra, a livello del ginocchio. Se dai una botta in testa a qualcuno, sei tu che ti puoi macchiare in quel modo.» «Mi stai dicendo che abbiamo tre vittime e un solo aggressore?» Duff si strinse nelle spalle. «Impossibile dimostrarlo, naturalmente. Però fatevi una domanda: che possibilità ci sono che tre vittime con tre diversi aggressori finiscano tutte nello stesso posto dimenticato da Dio?» «Non hai torto. Non hai torto, Ray», convenne Rebus. «E noi, invece, abbiamo un serial killer», dichiarò Siobhan nel silenzio generale. «I gruppi sanguigni sono diversi, giusto?» Vide Duff annuire. «Hai una vaga idea dell'ordine in cui sono morti?» «CC RIDER è la macchia più fresca. La maglietta, mi sa, la più vecchia.» «Altri indizi dai pantaloni?» Duff scosse lentamente il capo, poi infilò una mano nella tasca del camice e ne estrasse una busta di plastica trasparente. «A meno di non contare questo.» «Che cos'è?» chiese Siobhan. «Una tessera bancomat», annunciò Duff, godendosi ogni sillaba. «Intestata a Trevor Guest. E adesso non dirmi mai più che non merito le mie piccole ricompense...» Fuori, Rebus si accese una sigaretta. Siobhan faceva avanti e indietro nel parcheggio, le braccia conserte. «Un solo assassino», affermò lei. «Già.» «Due vittime note, poi un meccanico...» «O un venditore di auto», rifletté Rebus. «Oppure una persona che poteva avere una maglietta con la pubblicità di un'officina.» «Molto sagace, grazie per l'aiuto.»
Lui si produsse in un'alzata di spalle. «Se avessimo trovato una sciarpa degli Hibs, andremmo a cercare in prima squadra?» «Okay, messaggio ricevuto.» Siobhan si bloccò sui suoi passi. «Devi tornare all'autopsia?» Lui scosse il capo. «Uno di noi deve dare la notizia a Macrae.» Lei annuì. «Ci penso io.» «E per oggi non rimane molto altro da fare.» «Allora torni al Live 8?» Altra alzata di spalle. «E tu invece ai Meadows?» tirò a indovinare Rebus. Siobhan assentì, ma in realtà aveva la testa da un'altra parte. «Poteva capitare in una settimana peggiore di questa?» «È per questo che ci strapagano», ribatté lui, inalando una boccata di nicotina benefica. Sulla soglia del suo appartamento Rebus trovò ad aspettarlo un grosso pacco. Siobhan si era diretta ai Meadows e lui l'aveva invitata a passare più tardi per bere qualcosa. Si rese conto che in soggiorno c'era puzza di chiuso, perciò aprì a forza una finestra. Sentiva i rumori della marcia: echi di voci amplificate, tamburi e fischietti. Alla televisione trasmettevano il Live 8, ma non conosceva il gruppo. Abbassò il volume e aprì il pacco. Dentro c'era un biglietto di Mairie - NON TE LO MERITI - seguito da pagine e pagine di fotocopie. Articoli di giornale sulla Pennen Industries, Pezzi che risalivano al periodo della separazione dal ministero della Difesa. Trafiletti dalle pagine finanziarie che dettagliavano profitti in ascesa e profili elogiativi di Richard Pennen, accompagnati da sue fotografie. Un uomo di successo dalla testa ai piedi: curatissimo, pettinatissimo, gessatissimo. Capelli sale e pepe, benché fosse solo sui quarantacinque, occhiali con montatura metallica e mascella squadrata sotto una chiostra di denti perfetti. Richard Pennen aveva esordito come impiegato del ministero, una specie di mago dei microchip e della programmazione, e teneva a sottolineare che la sua società non vendeva armi in senso stretto, ma componenti atti ad aumentarne al massimo l'efficienza. «Che mi sembra meglio del contrario, per tutte le persone coinvolte» erano le sue testuali parole. Rebus sfogliò rapidamente interviste e pezzi di colore; nulla che collegasse Pennen a Ben Webster, salvo che entrambi si occupavano di aspetti «commerciali». Non c'era ragione perché l'azienda non dovesse trattare bene i parlamentari ospitandoli a proprie spese in hotel a cinque stelle. Rebus passò al fascicolo
seguente, tenuto insieme da una graffetta, e indirizzò un silenzioso grazie a Mairie: nel pacco aveva incluso anche un po' di materiale su Ben Webster. Non che sulla sua carriera di deputato ci fosse molto, ma cinque anni prima i media avevano mostrato per lui un improvviso interesse a seguito della terribile aggressione in cui era morta sua madre. Lei e il marito si trovavano in vacanza in un cottage di campagna fuori Kelso, nei Borders. Un pomeriggio lui era andato in città per fare la spesa e al ritorno aveva trovato il cottage devastato e la moglie strangolata con il cordone delle veneziane. Era stata percossa, ma non aveva subito violenza sessuale. Dalla sua borsetta mancavano soldi e cellulare. Nient'altro. Solo un po' di contanti e un telefonino. E la vita di una donna. L'indagine si era trascinata per settimane. Rebus guardò le foto del cottage isolato, della vittima, del vedovo in lutto, dei due figli, Ben e Stacey. Estrasse di tasca il biglietto che quest'ultima gli aveva dato e prese a lisciarne meccanicamente i bordi, continuando nella lettura. Ben, deputato dei collegio Dundee North; Stacey, agente della Met, la polizia cittadina di Londra, che i colleghi descrivevano come «affabile e scrupolosa». Il cottage si trovava ai margini di un bosco, tra colline ondulate, senza altre abitazioni in vista. Marito e moglie amavano fare lunghe passeggiate e regolarmente comparivano nei bar e nei ristoranti di Kelso; trascorrevano le vacanze in quei luoghi già da molto tempo. Gli amministratori locali si erano affannati a sottolineare che i Borders restavano «un pacifico rifugio, praticamente incontaminato dalla criminalità». Non vorremo mica spaventare i turisti... L'assassino non era mai stato catturato. Sui giornali la storia era scivolata nelle pagine interne, e poi sempre più in fondo, per riaffiorare ogni tanto in un paio di paragrafi quando si parlava di Ben Webster. C'era un'intervista molto approfondita, rilasciata in occasione della sua nomina a sottosegretario; ma della tragedia non aveva voluto parlare. Delle tragedie, in realtà. Suo padre non era sopravvissuto a lungo all'omicidio della moglie ed era morto per cause naturali... o, come aveva dichiarato un vicino di casa di Broughty Ferry, «aveva semplicemente perso la voglia di vivere. E adesso è di nuovo in pace, con il suo grande amore». Rebus tornò alla foto di Stacey, scattata al funerale della madre. Si era anche presentata in televisione, rivolgendo un appello a chiunque potesse fornire informazioni utili. Più forte del fratello, dunque, che aveva disertato la conferenza stampa. Rebus sperava davvero che la conservasse, quella
forza. Il suicidio sembrava insomma la conclusione più ovvia: il dolore che infine sopraffaceva l'orfano. Non fosse stato che, durante la caduta, Ben Webster aveva urlato. E che le guardie erano state avvisate della possibile presenza di un intruso. E poi, perché proprio quella sera? In quel posto? Con i media di tutto il mondo in città? Un gesto decisamente pubblico. E Steelforth... be', Steelforth voleva mettere tutto a tacere. Nulla doveva distogliere l'attenzione dal vertice. Nulla doveva turbare le varie delegazioni. Rebus riconobbe che stava aggrappato a quel caso quasi solo per rompere le palle all'emissario dei reparti speciali. Si alzò dal tavolo e andò in cucina, preparò un altro caffè e lo portò in soggiorno. Dopo di che fece un po' di zapping, senza beccare neanche un servizio sul corteo. A Hyde Park sembravano spassarsela, benché sotto il palco ci fosse una specie di recinto con dentro uomini della sicurezza, o forse operatori dei media. Stavolta Geldof non chiedeva soldi: il Live 8 doveva servire solo a risvegliare i cuori e le menti dell'umanità. Rebus si domandò in quanti avrebbero risposto alla chiamata trascinandosi per più di seicento chilometri fino in Scozia dopo il concerto. Accese una sigaretta per accompagnare il caffè e sedette in poltrona con lo sguardo fisso sullo schermo. Ripensò al Clootie Well, al rituale che vi aveva luogo Se l'ipotesi di Ray Duff era corretta, a quel punto si ritrovavano con almeno tre vittime e un assassino che aveva eretto una specie di altare. Significava che il colpevole era di quelle parti? Quanto era noto il Clootie Well, fuori da Auchterarder? Se ne faceva menzione in guide e dépliant turistici? E l'omicida l'aveva scelto per la sua prossimità al vertice del G8, consapevole che con tutta quella polizia in giro probabilmente qualcuno avrebbe finito per ritrovare i suoi macabri ricordini? Nel qual caso, la mattanza era finita? Tre vittime... impossibile nasconderlo ai media. CC RIDER... KEOGH'S GARAGE... il bancomat... L'assassino sembrava voler rendere loro la vita facile, voleva che sapessero di lui. Quella concentrazione di giornalisti, senza precedenti in Scozia, gli avrebbe garantito visibilità internazionale, e Macrae sarebbe stato ben lieto di cogliere l'occasione. Sarebbe stato là, in prima linea, a gonfiare il petto mentre rispondeva alle loro domande. Con Derek Starr al suo fianco. Siobhan gli aveva promesso di chiamare il capo dal corteo e di riferirgli le conclusioni del laboratorio. Nel frattempo Ray Duff avrebbe effettuato ulteriori analisi, in cerca dell'impronta del DNA nel sangue o di capelli e
fibre isolabili e identificabili. Rebus tornò con il pensiero a Cyril Colliar. Vittima decisamente atipica: i serial killer tendevano ad aggredire soggetti deboli, emarginati. Un caso forse di posto sbagliato nel momento sbagliato? Viene assassinato a Edimburgo, ma il brandello del giubbotto spunta nei boschi di Auchterarder proprio al varo dell'operazione Sorbo. Il sorbo: un albero... La toppa CC RIDER lasciata in una radura alberata... Se c'era la minima ombra di collegamento con il G8, Rebus sapeva che i servizi avrebbero strappato il caso di mano a Siobhan e anche a lui. Steelforth non si sarebbe accontentato di niente di meno, con l'assassino deciso a provocarli. Che lasciava in giro biglietti da visita. Bussarono. Doveva essere Siobhan. Spense la sigaretta, si alzò e diede un'occhiata alla stanza. Neanche male: niente lattine di birra vuote né cartoni di pizza sparsi sui mobili. Bottiglia di whisky accanto alla poltrona, però; la raccolse e la posò sulla mensola del camino. Poi sintonizzò la tivù su un canale di notizie e si diresse alla porta. La spalancò, riconobbe la faccia e senti un nodo allo stomaco. «Quindi hai la coscienza pulita, eh?» chiese un secondo dopo, ostentando indifferenza. «Bianca come la neve, ispettore. E tu puoi dire lo stesso?» Non era Siobhan. Era Morris Gerald Cafferty, che indossava una candida T-shirt con la scritta METTIAMO FINE ALLA POVERTÀ. Sfilò lentamente le mani dalle tasche dei pantaloni per mostrargli che erano vuote. Testa grossa come una palla da bowling, lucida e perfettamente glabra. Occhi piccoli e incavati, labbra umide, niente collo. Rebus fece per chiudergli la porta in faccia, ma Cafferty la fermò con una mano. «È così che tratti i vecchi amici?» «Va' all'inferno.» «A quanto pare ci sei arrivato prima di me... Quella camicia l'hai rubata a uno spaventapasseri?» «E a te chi ti veste, Trinny e Susannah?» Cafferty si produsse in una risata nasale. «In effetti le ho conosciute, a uno show televisivo del mattino. E dai, non è meglio cosi? Concediamoci una delle nostre belle chiacchieratine.» Rebus aveva ormai rinunciato a chiudere la porta. «Che diavolo ci fai qui, Cafferty?» L'interpellato si scrutò i palmi delle mani, rimuovendo della sporcizia immaginaria. «Quant'è che abiti in questa casa, ispettore? Una trentina
d'anni, no?» «E con questo?» «Mai sentito parlare di mobilità immobiliare?» «Certo, è quella cosa per cui adesso tutti se la menano con 'l'indirizzo giusto'.» «Tu non hai mai cercato di migliorare la tua posizione, è questo che non capisco.» «Magari dovrei scriverci sopra un libro.» Cafferty sogghignò. «Stavo giusto pensando a un seguito, con il resoconto di qualche altro nostro 'diverbio'.» «Sei venuto per questo? Per rinfrescarti la memoria?» Cafferty si fece scuro in volto. «Sono qui per il mio ragazzo, Cyril.» «Vale a dire?» «Ho sentito che c'è stato qualche progresso. Volevo approfondire.» «Chi te l'ha detto?» «Allora è vero.» «Se anche fosse, verrei a parlarne con te?» Con una specie di ringhio, Cafferty spinse bruscamente Rebus nell'ingresso e contro il muro. Poi lo afferrò di nuovo, i denti scoperti in un'espressione rabbiosa, ma stavolta Rebus era pronto e riuscì ad agguantarlo per la maglietta. Si misero a lottare, girando e muovendosi lungo il corridoio fino a ritrovarsi sulla soglia del soggiorno. Nessuno apriva bocca: a comunicare bastavano i gesti e gli sguardi, ma quando Cafferty lanciò un'occhiata nella stanza sembrò rimanere paralizzato. Rebus riuscì a liberarsi della stretta. «Cristo santo...» Cafferty fissava le due scatole sul divano, parte della documentazione sul caso Colliar che Rebus si era portato a casa da Gayfield la sera prima. In cima campeggiava una delle immagini dell'autopsia e subito sotto, appena visibile, spuntava una vecchia foto dello stesso Cafferty. «Che ci fa qui quella roba?» chiese, con il fiato corto. «Non sono cazzi tuoi.» «Stai ancora cercando di addossarlo a me...» «Non nei termini di prima», concesse Rebus. Si avvicinò alla mensola e prese il whisky, poi raccolse il bicchiere dal pavimento e lo riempì. «La faccenda sarà resa pubblica anche troppo presto», disse, interrompendosi per bere. «Pensiamo che Colliar non sia l'unica vittima.» Cafferty socchiuse gli occhi, cercando di digerire l'informazione. «Chi altri?»
Rebus scosse lentamente il capo. «Levati di torno.» «Posso aiutarti», obiettò lui. «Conosco un sacco di gente...» «Ah, davvero? Allora ti dice niente il nome Trevor Guest?» Cafferty ci pensò su un istante, prima di ammettere la sconfitta. «E un'officina che si chiama Keogh's?» Stavolta raddrizzò le spalle. «No, ma ho contatti che arrivano lontano e qualcosa scoprirò, non temere.» «Io temo tutto di te, Cafferty: paura del contagio, credo. Com'è che sei così agitato per Colliar?» Lo sguardo del boss deviò sulla bottiglia. «Non è che hai un altro bicchiere?» chiese. Rebus andò a prenderne uno in cucina. Quando tornò, Cafferty stava leggendo il biglietto di accompagnamento di Mairie. «Vedo che la signora Henderson ti sta dando una mano.» Sorrise, freddo. «Riconosco la calligrafia.» Lui non disse nulla e gli versò una dose striminzita di whisky. «Preferisco il puro malto», protestò Cafferty, annusando il bicchiere. «E come mai ti interessa la Pennen Industries?» Rebus ignorò la domanda. «Dovevi dirmi qualcosa di Cyril Colliar.» Cafferty fece per sedersi. «Rimani dove sei», gli ordinò lui. «Non ti fermerai così a lungo.» Big Ger si scolò il drink e posò il bicchiere sul tavolo. «Non è tanto per Cyril in sé, ma quando succedono certe cose... be', cominciano a girare anche le voci. Voci che qualcuno ce l'ha con me, e la cosa non giova agli affari. Come tu ben sai, in passato ho avuto dei nemici...» «Strano che non ce ne sia più in circolazione neanche uno.» «In compenso ci sono un sacco di sciacalli che vorrebbero spartirsi il bottino... Il mio bottino.» Si puntò l'indice contro il petto. «Stai invecchiando, Cafferty.» «Proprio come te. Ma nel mio lavoro non c'è alcun piano pensionistico.» «E nel frattempo gli sciacalli sono sempre più giovani e voraci, eh?» indovinò Rebus. «E tu devi continuamente dimostrare quanto vali.» «Non mi sono mai arreso, ispettore, e non comincerò certo adesso.» «La verità salterà fuori presto, Cafferty. Se fra te e le altre vittime non esistono collegamenti, nessuno potrà considerarla una vendetta nei tuoi confronti.» «Ma nel frattempo...» «Nel frattempo cosa?»
Cafferty gli fece l'occhiolino. «Il Keogh's Garage e Trevor Guest.» «Meglio che li lasci a noi.» «E, chissà, magari vedo anche cosa riesco a trovarti sulla Pennen Industries.» Si avviò alla porta. «Grazie per il drink e i due minuti di ginnastica. Credo che mi unirò alla coda del corteo. La povertà è sempre stata una mia grande preoccupazione.» Nell'ingresso si fermò e considerò l'ambiente. «Così brutta non l'avevo mai vista, però», aggiunse infilando le scale. 5 L'onorevole membro del parlamento Gordon Brown, cancelliere dello Scacchiere, aveva già cominciato a parlare quando Siobhan arrivò: nella sala delle assemblee in cima al Mound erano radunate novecento persone. L'ultima volta che ci aveva messo piede, l'aula fungeva da sede provvisoria del parlamento scozzese, ora insediato invece in uno splendido palazzo a Holyrood, dirimpetto alla residenza della regina. La Assembly Hall era dunque tornata proprietà esclusiva della Chiesa di Scozia, organizzatrice, insieme all'associazione benefica Christian Aid, dell'evento della serata. Siobhan era lì per incontrarsi con il capo della polizia di Edimburgo, James Corbyn. Corbyn era in carica da poco più di un anno, il successore di Sir David Strathern. La nomina era stata controversa: Corbyn era inglese, un «ragioniere», e «maledettamente giovane». Tuttavia si era dimostrato un poliziotto dotato di grande spirito pratico, uno che faceva regolarmente visita alle prime linee. In quel momento occupava però una delle ultime file, vestito in alta uniforme e con il berretto posato in grembo. Siobhan sapeva di essere attesa, quindi si accontentò di un angolino vicino alle porte, lieta di ascoltare le solenni promesse del ministro dell'Economia. Quando questi annunciò che i trentotto Paesi africani più poveri avrebbero ottenuto la cancellazione del debito estero, si levò spontaneo un applauso; ma, quando l'applauso scemò, Siobhan localizzò una voce dissenziente. Un unico contestatore si era alzato in piedi: portava il kilt, e se lo alzò mostrando una foto ritagliata della faccia di Tony Blair sul davanti delle mutande. Aiutati dagli spettatori più vicini, i membri del servizio d'ordine avvicinarono rapidamente l'uomo e, mentre lo trascinavano verso l'uscita, il nuovo applauso fu per loro. Il cancelliere, concentrato sui suoi appunti, riprese da dove si era interrotto. Quel piccolo incidente fornì comunque a James Corbyn la copertura necessaria per dileguarsi. Siobhan lo seguì fuori della sala e si presentò. Non
c'era già più traccia del contestatore né dei suoi custodi; solo qualche portaborse del ministero che passeggiava avanti e indietro in attesa del capo. Armati di cartellette e cellulari, avevano tutti l'aria esausta. «L'ispettore capo Macrae mi comunica che abbiamo un problema», affermò Corbyn. Niente convenevoli, dritto al punto. Aveva passato da poco i quarant'anni e si pettinava i capelli neri con la riga a destra. Corporatura solida, statura oltre il metro e ottanta e un vistoso neo sulla guancia destra... ma guai a fissarglielo, l'avevano avvisata. «Sostenere il suo sguardo con quell'affare a centrocampo è una vera impresa», le aveva detto Macrae. «Potremmo trovarci davanti a tre vittime», spiegò lei ora. «Una scena del delitto proprio sullo zerbino del G8?» scattò Corbyn. «Non proprio, signore. Non credo che rinverremo corpi, lassù. Solo tracce.» «Entro venerdì se ne andranno tutti da Gleneagles. Meglio sospendere le indagini fino allora.» «D'altro canto», azzardò Siobhan, «i capi di governo non arriveranno prima di mercoledì. Mancano tre giorni interi...» «Quindi lei che cosa propone?» «Di conservare il profilo più basso possibile, e nel frattempo la Scientifica avrà esaminato i reperti. L'unica vittima sicura è di pertinenza di Edimburgo, non c'è nessun bisogno di disturbare i pezzi grossi.» Corbyn la squadrò. «Lei è sergente, giusto?» Siobhan annuì. «Un grado un po' basso per trattare una faccenda del genere.» Non era una critica, ma la constatazione di un dato di fatto. «Lavoro in coppia con un ispettore ed entrambi ci siamo occupati della prima indagine, signore.» «Servono rinforzi?» «Non credo sia facile trovarne, in questo momento.» Corbyn sorrise. «È un frangente delicato, sergente Clarke.» «Lo so.» «Non ho dubbi. E questo suo ispettore... è affidabile?» Siobhan annuì, senza abbassare lo sguardo né battere ciglio. Si limitò a pensare: forse è arrivato da troppo poco per aver già sentito parlare di John Rebus. «Ed è contenta di lavorare anche la domenica?» «Io sì. Non so quelli della Scientifica...»
«Be', magari potrei metterci una buona parola io.» Si fece pensoso. «Il corteo è trascorso senza incidenti, forse avremo vita più facile di quanto non ci aspettassimo.» «Sì, signore.» «Accento inglese», notò Corbyn, tornando a concentrarsi su di lei. «Sì, signore.» «La cosa le ha mai procurato problemi?» «Al massimo qualche frecciata.» Lui annuì lentamente. «D'accordo.» Raddrizzò la schiena. «Vedete cosa riuscite a fare entro mercoledì. In caso di difficoltà, mi faccia un fischio. Ma cercate di non pestare i calli a nessuno.» Lanciò un'occhiata verso i funzionari ministeriali. «C'è un ufficiale dell'SO12 di nome Steelforth, signore, che forse potrebbe opporre una certa resistenza.» Corbyn guardò l'orologio. «Ditegli pure di rivolgersi a me.» Poi si calcò in testa il berretto ornato di cordelline. «Ora devo andare. Spero si renda conto dell'enorme responsabilità che...» «Certo, signore.» «Riferisca anche al suo collega.» «Non mancherò, signore.» Lui le tese la mano. «Bene. D'accordo così, allora, sergente Clarke.» D'accordo così. La stretta suggellò il patto. Il giornale radio trasmetteva un servizio sulla marcia, e in una postilla aggiungeva che la morte del sottosegretario alla Cooperazione internazionale Ben Webster era «considerata un tragico incidente». Ma il pezzo più importante era riservato al concerto di Hyde Park. In effetti, ai Meadows Siobhan aveva sentito parecchie lagnanze, come se i manifestanti prevedessero già di vedersi rubare la scena dalle pop star. «Stare sotto i riflettori e vendere dischi, ecco cos'è che gli importa veramente», aveva detto un tizio. «Stronzi egocentrici...» L'ultima stima dei partecipanti al corteo parlava di duecentoventicinquemila persone. Siobhan non sapeva quante presenze avesse registrato il concerto londinese, ma probabilmente meno della metà. Le strade notturne brulicavano di auto e pedoni, oltre che di pullman diretti alle uscite della città e poi a sud. Superò alcuni negozi e ristoranti che avevano appeso cartelli in vetrina: «Appoggiamo la campagna: Mettiamo fine alla povertà»... «Usiamo solo prodotti del commercio equo e solidale»... «Piccolo detta-
gliante di zona»... «I manifestanti sono i benvenuti»... E c'erano anche scritte sui muri, simboli anarchici e messaggi che esortavano i passanti: «Non state S8, fate il B8!» «Roma non fu saccheggiata in un giorno», ricordava semplicemente un altro graffito. Si augurò che il capo della polizia avesse ragione, ma certo erano solo all'inizio... Fuori dal campeggio di Niddrie erano parcheggiati degli autobus. La tendopoli era cresciuta, ma in servizio c'era la stessa guardia giurata della sera prima. Gli chiese come si chiamava. «Bobby Greig.» «Io sono Siobhan, Bobby. Diamoci del tu. C'è parecchia gente, stasera.» Lui si strinse nelle spalle. «Duemila, forse. Secondo me non aumenteranno di molto.» «Sembri quasi deluso.» «Il Comune ci ha speso un milione di sterline: per la stessa cifra avrebbe potuto mandarli tutti in albergo, invece di farli accampare in mezzo al nulla.» Poi indicò con un cenno del capo la macchina da cui lei era appena scesa. «Vedo che sei riuscita a procurarti un'auto sostitutiva.» «Un prestito del parco vetture di St Leonard. Hai avuto altri problemi con gli indigeni?» «Naa, tutto tranquillo. Però è col buio che gli piace uscire a giocare. Sai dove mi sembra di stare?» Abbracciò il complesso con lo sguardo. «In uno di quei film di zombi...» Siobhan sorrise. «Quindi sei l'ultima speranza del genere umano, Bobby. Dovresti andarne fiero.» «Smonto a mezzanotte!» le gridò dietro lui, mentre lei si avviava verso la tenda dei genitori. Ma non c'era nessuno. Alzò la cerniera e guardò dentro. Seggioline e tavolo erano piegati e riposti, i sacchi a pelo arrotolati. Strappò un foglietto dal taccuino e lasciò un messaggio. Nessun segno di vita nemmeno nelle tende circostanti. Forse erano andati a bere qualcosa con Santal. Santal: ultimo avvistamento alla protesta dei disobbedienti in Buccleuch Place. In altre parole, la ragazza poteva portare guai... o cacciarsi nei guai. Ma senti un po', hai paura che quei vecchi fricchettoni dei tuoi finiscano sulla strada della perdizione! si ammonì da sola. Quindi decise di ammazzare un po' il tempo facendo un giro del campeggio. Dalla sera prima non era cambiato molto. Strimpellamenti di chitarra, un cerchio di cantanti seduti all'indiana, bambini che giocavano scalzi sull'erba, la sbobba distribuita sotto il tendone. I nuovi arrivati, stanchi
per il corteo, prendevano le fasce da polso e si lasciavano condurre alle piazzole assegnate. In cielo la luce morente dava risalto all'inquietante sagoma dell'Arthur's Seat. Magari l'indomani ci avrebbe fatto un salto, prendendosi un'ora tutta per sé. La vista dalla cima era sempre emozionante... ammesso e non concesso che potesse permettersela, un'ora tutta per sé. Sapeva di dover chiamare Rebus per dirgli com'erano andate le cose. Probabilmente era ancora in poltrona, incollato alla tivù. Per le buone notizie c'era tempo. «Bel sabato sera, eh?» disse Bobby Greig. Le era arrivato alle spalle, torcia e ricetrasmittente in mano. «Dovresti essere fuori a divertirti.» «Cosa che a quanto pare stanno facendo i miei amici.» Accennò alla tenda dei genitori. «Quando finisco vado a bere qualcosa anch'io», buttò lì lui in tono allusivo. «Domani devo lavorare.» «Spero ti paghino gli straordinari.» «Grazie della proposta, comunque. Magari un'altra volta.» Lui alzò le spalle in modo molto teatrale. «Cercherò di non sentirmi troppo rifiutato.» In quel momento la ricetrasmittente prese vita con una scarica elettrostatica. «Ripetete, torretta», disse Bobby, portandosela alle labbra. «Stanno tornando», comunicò una voce distorta. Siobhan lanciò un'occhiata alla recinzione, ma non riuscì a distinguere nulla. Seguì allora Bobby Greig verso il cancello. Erano lì: dieci o dodici, i cappucci delle felpe ben tirati sulle teste, gli occhi schermati dai berretti da baseball. Nessuna traccia di armi, a parte la bottiglia da litro di liquore da due soldi che si passavano. Dentro il cancello si era radunato un numero equivalente di guardie, in attesa che Greig desse il segnale. Fuori, la banda faceva gestacci tipo «veniteci a prendere». Greig li fissò, apparentemente annoiato dall'esibizione. «Chiamiamo rinforzi?» chiese un secondo vigilante. «Non vedo armi», rispose Greig. «Possiamo cavarcela da soli.» La banda proseguì la manovra di avvicinamento e Siobhan riconobbe quello nel mezzo come il caporione della sera precedente. Alla fine, per la sua macchina il carrozziere le aveva fatto un preventivo sulle seicento sterline. «Magari l'assicurazione contribuirà un minimo», aveva aggiunto, tanto per consolarla.
Per tutta risposta lei gli aveva chiesto se avesse mai sentito parlare del Keogh's Garage, ma lui aveva scosso la testa. «Le spiacerebbe domandare un po' in giro?» Lui aveva acconsentito e le aveva chiesto una caparra. Cento sterline sparite dal conto in un attimo, più cinquecento da tirare fuori a breve termine. Ed ecco lì i colpevoli, a neanche cinque metri da lei. Quanto avrebbe voluto avere con sé la videocamera di Santal per fare qualche ripresina e vedere se all'Investigativa di Craigmillar riuscivano ad abbinare dei nomi alle facce. Sicuramente, però, in giro c'erano delle telecamere di sorveglianza, quindi poteva... Ma certo che poteva. Però non l'avrebbe fatto. «Forza, sloggiare», ordinò Greig con voce ferma. «Niddrie è nostra», lo rimbeccò il capoccia. «Sei tu che dovresti levarti dai coglioni!» «Mi rendo conto, ma non possiamo.» «Ti senti grande, eh? A fare da baby-sitter a questi zingari di merda.» «Hippy del cazzo», aggiunse un secondo. «Grazie per avere partecipato», si limitò a rispondere Bobby Greig. Il capofila fece una risata che era quasi un ululo, mentre un altro facinoroso sputava in direzione della cinta. Un terzo lo imitò. «Possiamo fermarli, Bobby», disse piano un collega. «Non ce n'è bisogno.» «Ciccione bastardo», lo provocò il capobanda. «Ciccione bastardo e finocchio», aggiunse uno dei luogotenenti. «Pedofilo.» «Succhiacazzi.» «Leccaculo di un pelato di merda...» Gli occhi di Greig erano fissi su Siobhan. Sembrava sul punto di cedere. Lei scosse lentamente la testa. Non dargliela vinta. «Servi leccaculo.» «Barboni.» «Sacchi di merda.» Greig si voltò verso il collega più vicino e fece un cenno del capo. «Al mio tre», sussurrò. «Risparmia il fiato, Bobby.» Il vigilante balzò verso il cancello, seguito a ruota dai colleghi. La banda si disperse immediatamente, ma solo per tornare a ricompattarsi sul lato opposto della strada. «Forza, venite!»
«Quando volete!» «Siamo qui...» Siobhan sapeva che volevano farsi inseguire dagli uomini della sicurezza nel labirinto di vicoli di Niddrie, in una guerriglia stile giungla dove la conoscenza del terreno avrebbe sconfitto la potenza del fuoco. Magari le loro armi - proprie o improprie - li aspettavano là. E dietro le siepi e nel buio delle viuzze poteva nascondersi anche un esercito più numeroso. Senza contare che, nel frattempo, il campeggio sarebbe rimasto privo di sorveglianza... Senza esitare un momento, si attaccò al cellulare. «Agente richiede assistenza.» Brevi indicazioni su dove si trovava. I rinforzi sarebbero arrivati nel giro di due o tre minuti, tanto distava la stazione di Craigmillar. Il capo della banda si era piegato a novanta gradi e mostrava platealmente il deretano a Bobby Greig. Uno degli uomini reagì in sua vece all'insulto scattando verso il provocatore, che fece proprio quanto previsto e arretrò ulteriormente lungo il marciapiede. Gettandosi nel dedalo delle case popolari. «Attenti!» gridò Siobhan, ma nessuno la ascoltava. Quando si girò vide che alcuni campeggiatori stavano osservando la scena. «La polizia sarà qui a minuti», li rassicurò. «Bastardi», sibilò un ospite del campeggio con evidente disprezzo. A passi rapidi Siobhan raggiunse la strada. Adesso la banda si era veramente dispersa, o almeno così sembrava. Si mise sulle tracce di Bobby Greig, lungo il camminamento e imboccando il senso unico. Era una zona di bassi condomini e di strade vecchie e malmesse. Sul marciapiede giaceva lo scheletro di una bicicletta e di traverso sul cordolo la carcassa di un carrello da supermercato. Ombre, scalpiccii, urla. Rumore di vetri infranti. Se si stavano picchiando, lei non riusciva a vederli: i campi di battaglia erano i giardinetti dietro le case e le scale dei palazzi. A qualche finestra si affacciarono dei curiosi, che tornarono subito a ritirarsi lasciando al loro posto solo il freddo bagliore azzurro dei televisori. Siobhan avanzava per i vicoli, controllando a destra e a sinistra. Chissà come avrebbe reagito Greig se non ci fosse stata lì lei a guardare. Accidenti ai maschi e al loro machismo... Fine della strada: ancora niente. Girò a sinistra, poi a destra. Nel giardino di una casa, un'auto parcheggiata su quattro mattoni. Più avanti, un lampione depredato di calotta e fili elettrici. Quel posto era un vero labirinto, e ancora non sentiva le sirene. Anzi, adesso non si sentivano nemmeno
più le urla, a parte un litigio in un appartamento. Un ragazzino in skateboard, dieci o undici anni al massimo, le venne incontro fissandola dritto in faccia finché non la ebbe oltrepassata. Era convinta che svoltando ancora a sinistra si sarebbe ritrovata sulla strada principale, invece finì nell'ennesima via senza uscita e stavolta imprecò sottovoce: nemmeno una riga di marciapiede. Forse il percorso più breve era un giro intorno all'ultima casa e una bella scavalcata di siepe. Un altro isolato, e sarebbe tornata al punto di partenza. Forse. «Abbiamo fatto trenta...» si disse, procedendo sul lastrico crepato. Dietro la fila di case non c'era granché: gramigna ed erbacce alte fino alla caviglia, e i resti contorti di un filo da bucato. La staccionata era rotta, scavalcarla per raggiungere la successiva distesa di giardinetti non sarebbe stato un problema. «Ehi, non calpestare le mie aiuole», protestò una voce falsamente lamentosa. Siobhan si voltò e si scoprì a fissare gli occhi azzurri e lattiginosi del capobanda. «Ma che bel bocconcino», proseguì questi, squadrandola da capo a piedi. «Non credi di essere già abbastanza nei casini?» «E perché mai?» «Ieri ve la siete presa con la mia macchina.» «Non so nemmeno di cosa parli.» Aveva fatto un passo avanti, seguito da altre due ombre alla sua destra e sinistra. «La cosa migliore che potete fare è andarvene.» Risatine in risposta. «Sono dell'Investigativa», annunciò allora, sperando che la voce reggesse. «Se succede qualcosa, la pagherete carissima.» «E allora com'è che te la fai sotto?» Siobhan non si era mossa, né aveva accennato ad arretrare. Lo stronzo le stava proprio davanti al naso, adesso. E con le palle a portata di ginocchio. Sentì riaffiorare un briciolo di sicurezza. «Allontanati», gli ingiunse piano. «E se non ne avessi voglia?» «E se te la facessi venire?» tuonò una voce potente. Siobhan si girò. Il consigliere Tench teneva le mani giunte davanti a sé e le gambe leggermente divaricate, occupando tutta la sua visuale. «Che c'entri tu?» protestò il capobanda, puntandogli il dito contro.
«Io c'entro in tutto quello che succede qui intorno. Chi mi conosce lo sa. Adesso tornate di corsa nelle vostre tane, e per stavolta faremo finta di niente.» «Ti credi un pezzo grosso, eh?» sibilò un altro membro della banda. «Nel mio universo c'è solo un pezzo grosso, figliolo, e sta lassù.» Tench indicò il cielo. «Sei un povero predicatore illuso», ribatté il giovane. Però si voltò e si avviò nell'oscurità densa del vicolo, seguito dai suoi angeli custodi. Tench separò le mani e rilassò le spalle. «Rischiava di mettersi male», disse. «Già», convenne Siobhan. Si presentò, e l'uomo rispose con un cenno del capo. «Giusto ieri sera pensavo: ma guarda, quella bella ragazza mi sembra una piedipiatti...» «Un vero operatore di pace, lei, eh?» commentò Siobhan. Lui fece una smorfia, come a sdrammatizzare. «Di solito qui la sera è tutto tranquillo. Ha solo scelto la settimana peggiore per venire a trovarci.» Si udiva un'unica sirena in avvicinamento. «Questa sarebbe la sua cavalleria?» disse Tench, facendole strada verso la tendopoli. La macchina - quella che aveva preso in prestito a St Leonard -era stata decorata con le lettere NYT. «Be', adesso lo scherzo è durato anche troppo», mormorò Siobhan a denti stretti. Chiese a Tench se poteva farle qualche nome. «No, niente nomi», dichiarò lui. «Ma lei sa chi sono.» «E che differenza fa?» Allora si voltò verso i colleghi in uniforme della stazione di Craigmillar e fornì loro una descrizione del capobanda: occhi, corporatura, abbigliamento. Loro scossero lentamente la testa. «Il campo è intatto», dichiarò uno. «È questo che conta.» Il tono la diceva lunga: erano corsi lì per lei, ma non c'era niente da fare né da vedere. Qualche insulto e qualche - presunto - pugno. Nessuna guardia giurata lamentava ferite. Sembravano esaltati, fratelli in armi: nessuna reale minaccia alla tendopoli e nessun danno da riferire. A parte l'auto di Siobhan. In altre parole: una caccia ai fantasmi. Tench passava di tenda in tenda, si presentava e ripresentava, stringeva mani, accarezzava teste di bambini, accettava tazze di tisana. Bobby Greig
si curava le nocche graffiate, anche se l'unica cosa che aveva colpito, secondo uno della sua squadra, era il telaio di una finestra. «Tanto per vivacizzare un po' la situazione, no?» disse a Siobhan. Lei non rispose. Raggiunse il tendone centrale, dove le versarono una tazza di tè. Era di nuovo all'aperto e ci stava soffiando sopra, quando si accorse che Tench era stato affiancato da qualcuno che aveva in mano un registratore. Riconobbe la giornalista, era un'amica di Rebus... Mairie Henderson, ecco come si chiamava. Si avvicinò e sentì Tench che parlava del quartiere. «Il G8 va benissimo, ma il governo dovrebbe guardarsi anche un po' in casa. Per la gioventù di qui non c'è futuro. Investimenti, infrastrutture, industrie... occorre ricostruire un'intera comunità andata in frantumi. Il degrado urbano è al massimo, ma non irreversibile. Con un'iniezione di aiuti questi ragazzi avrebbero qualcosa di cui andare fieri, di cui occuparsi, diventerebbero produttivi. Come dice lo slogan, è bello pensare globale... ma non scordiamoci di agire locale. Grazie molte.» Ed eccolo di nuovo in marcia, a stringere un'altra mano, ad accarezzare un'altra testolina. La cronista aveva visto Siobhan e le si fece incontro a grandi passi, brandendo il registratore. «Le interessa aggiungere il punto di vista della polizia, sergente Clarke?» «No.» «Ho sentito che è qui per la seconda sera di fila. Come mai?» «Mairie, non è il momento.» Siobhan si interruppe. «Pensa davvero di scrivere un articolo?» «Siamo sotto i riflettori di tutto il mondo.» La reporter spense l'apparecchio. «Dica a John che spero abbia ricevuto il pacco.» «Quale pacco?» «Le informazioni sulla Pennen Industries e su Ben Webster. Anche se non so bene che cosa potrà farsene.» «Qualcosa s'inventerà.» Mairie annuì. «Spero solo che al momento buono si ricordi di me.» Stava esaminando la tazza di Siobhan. «C'è del tè? Sono disidratata.» «Tenda grande», disse lei, indicandogliela. «Un po' moscio, però. Gli dica che lo vuole forte.» «Grazie», disse la giornalista avviandosi. «Di nulla, si figuri», concluse Siobhan tra sé, rovesciando a terra il contenuto della tazza.
Il Live 8 dominava anche nell'ultimo notiziario della sera: non solo l'appuntamento di Londra, ma le edizioni di Philadelphia, dell'Eden Project in Cornovaglia e di chissà dove ancora. Spettatori a centinaia di milioni, e la preoccupazione che se la scaletta avesse sforato le masse sarebbero state costrette a dormire all'addiaccio. «Ecchissene...» commentò Rebus svuotando l'ultima lattina di birra. Adesso sullo schermo c'era la Marcia contro la povertà, e un rumoroso VIP strombazzava al mondo che sentiva proprio il bisogno «di essere qui oggi, a fare la storia, perché la povertà diventi un ricordo del passato». Passò sul quinto canale: Law & Order - Unita vittime speciali. Non aveva mai capito quel sottotitolo: le vittime non erano forse tutte speciali? Ma poi ripensò a Cyril Colliar e si rese conto che la risposta era negativa. Cyril Colliar, scagnozzo di Big Ger Cafferty. Bersaglio in apparenza mirato e specifico, ma alla luce degli ultimi sviluppi quasi certamente no. Solo posto sbagliato al momento sbagliato. Trevor Guest, per ora solo una tesserina di plastica, ma tutti quei numeri criptati avrebbero fruttato un'identità precisa. Rebus aveva setacciato gli elenchi telefonici e trovato quasi venti Guest. Ne aveva chiamati la metà, solo quattro gli avevano risposto e nessuno di loro conosceva un Trevor. Il Keogh's Garage. La guida di Edimburgo riportava una decina di Keogh, ma a quel punto aveva già rinunciato all'idea che tutt'e tre le vittime fossero di lì. Se si tracciava una circonferenza sufficientemente ampia intorno a Auchterarder, Dundee e Stirling rientravano senza problemi nel suo raggio, e anche Glasgow e Aberdeen, volendo forzare un po' le cose. Dunque le vittime potevano venire da qualunque posto, e fino a lunedì era meglio mettersi il cuore in pace: non poteva fare altro. Salvo starsene seduto a rimuginare e a scolarsi birra, naturalmente, e fare una capatina fino al negozio all'angolo per una cena precotta a base di salsicce del Lincolnshire con cipolle stufate e purè al parmigiano. Più altre quattro birre. La gente in fila alla cassa gli aveva sorriso. Indossavano ancora tutti le magliette bianche e parlavano di quel «pomeriggio incredibile». Rebus aveva annuito brevemente. L'autopsia di un deputato. Tre vittime per una sola mano ignota. No. «Incredibile», chissà perché, non bastava. LATO B
DANZA CON IL DIAVOLO Domenica 3 luglio 6 «Allora, com'erano gli Who?» chiese Siobhan. Era domenica mattina tardi e aveva invitato Rebus per il brunch. Il contributo di lui: una confezione di salsicce e quattro panini farinosi. Lei li aveva messi da parte e aveva preparato le uova strapazzate, guarnendo ciascuna porzione con fettine di salmone affumicato e capperi. «Fantastici», rispose Rebus, esiliando con la forchetta i capperi sul bordo del piatto. «Uno almeno dovresti provarlo», lo sgridò lei. Lui arricciò il naso e ignorò il consiglio. «Anche i Floyd», disse invece. «Non hanno nemmeno litigato.» Erano seduti l'uno di fronte all'altra al tavolo pieghevole del soggiorno. Siobhan abitava in un palazzo in una traversa di Broughton Street, a cinque minuti a piedi da Gayfield Square. «E tu?» chiese lui guardandosi intorno. «Nessun segno di bisboccia del sabato sera.» «Magari!» Il sorriso si fece pensoso. Gli raccontò di Niddrie. «Sei stata fortunata a uscirne intera», commentò Rebus. «C'era anche la tua amica Mairie, sta scrivendo un pezzo su Tench, il consigliere. Ha detto qualcosa a proposito di certi fogli che ti ha mandato.» «Richard Pennen e Ben Webster», confermò lui. «Ne hai ricavato qualcosa?» «Come no, Shiv. Ho anche cercato di telefonare a qualche Guest e Keogh... solo buchi nell'acqua. Era meglio se mi mettevo a correre anch'io dietro alle felpe nere.» Svuotato il piatto, capperi a parte, si era rilassato contro lo schienale della sedia. Aveva voglia di una sigaretta, ma sapeva di dover aspettare che anche lei finisse. «Ah, e si dà il caso che anch'io abbia fatto un incontro interessante.» Così le raccontò di Cafferty e, quando ebbe finito, il piatto di lei era vuoto. «Quell'uomo è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno», sentenziò Siobhan alzandosi. Rebus fece il gesto di offrirsi per sparecchiare, ma lei gli indicò la finestra. Allora sorrise e andò ad aprirla. Mentre si chinava per accendere, l'a-
ria fresca si insinuò all'interno. Ebbe cura di dirigere il fumo rigorosamente verso la fessura, e fra un tiro e l'altro tenne la sigaretta fuori dal davanzale. Regole di Siobhan. «Altro caffè?» chiese lei dalla cucina. «Versa, versa.» Lei tornò con una caffettiera appena fatta. «Più tardi c'è un altro corteo. Quelli di Stop the War.» «Un po' tarduccio per fermarla, mi verrebbe da dire.» «E il G8 Alternativo... Parla George Galloway.» Rebus sbuffò col naso e spense la sigaretta. Nel frattempo Siobhan aveva sgombrato il tavolo e preso una delle scatole che gli aveva chiesto di portare. Il caso Cyril Colliar. L'offerta di paga doppia - approvata da James Corbyn - aveva convinto quelli della Scientifica a mettere insieme una squadra, già partita alla volta del Clootie Well. Siobhan li aveva pregati di non dare troppo nell'occhio: «Non fatevi fiutare dall'Investigativa di zona». Dopo aver saputo che quelli di Stirling avevano già lavorato sul sito due giorni prima, uno dei tecnici di Edimburgo si era fatto una risata. «Quindi adesso tocca ai grandi», aveva detto. Siobhan non nutriva molte speranze. Però, se venerdì non avevano fatto altro che raccogliere prove di un solo delitto, adesso tutto indicava che i delitti erano tre, e dunque valeva la pena di ripassare il luogo al setaccio. Cominciò a sfilare dossier e faldoni dalle scatole. «Questa roba l'hai già guardata?» gli domandò. Rebus chiuse la finestra. «Sì, ma ho scoperto solo che Colliar era veramente un bastardo. Facile che avesse più nemici che amici.» «E quante probabilità di cadere vittima di un omicidio casuale?» «Poche, lo sappiamo tutti e due.» «Eppure sembra essere successo proprio questo.» Rebus alzò un dito. «Ehi, forse stiamo dando troppo peso a questa maglietta e a questi pantaloni: non sappiamo nemmeno di chi siano.» «Ho cercato Trevor Guest nel registro degli scomparsi.» «E?» Siobhan scosse il capo. «Niente.» Buttò la scatola vuota sul divano. «È una domenica mattina di luglio, John... non c'è molto che possiamo fare prima di domani.» Lui annuì. «Il bancomat di Guest?»
«È della HSBC. A Edimburgo hanno un'agenzia sola, e comunque poche filiali in tutta la Scozia.» «E questo è un bene o un male?» Lei sospirò. «Sono riuscita a parlare con uno dei centralini. Mi hanno detto di chiamare in agenzia lunedì mattina.» «Non c'è un qualche codice di filiale sulla carta?» «Certo, ma non è il tipo di cosa che ti dicono al telefono.» Rebus sedette al tavolo. «Il Keogh's Garage?» «Il servizio informazioni abbonati ha fatto il possibile, ma neanche sul web c'è niente.» «Nome irlandese.» «Sugli elenchi ne compare una decina.» Lui la guardò e sorrise. «Hai controllato anche tu?» «Subito dopo aver congedato la squadra della Scientifica.» «Complimenti.» Rebus aprì un faldone, ma dentro non c'era nulla che non avesse già visto. «Ray Duff mi ha promesso che oggi andava in laboratorio.» «Be', non vuole perdersi il premio...» Lei gli scoccò un'occhiataccia e cominciò a svuotare l'ultima scatola. Di fronte a quella mole di carte fu presa dallo sconforto. «Giorno di riposo, eh?» ironizzò Rebus. Un cellulare si mise a squillare. «È il tuo», disse Siobhan. Lui raggiunse il divano e recuperò il telefonino dalla tasca interna della giacca. «Rebus», rispose. Rimase in ascolto un istante, rabbuiandosi. «È perché non ci sono...» Di nuovo in ascolto. «No, vengo io. Dov'è che devi andare?» Occhiata all'orologio. «Tre quarti d'ora?» Sguardo a Siobhan. «Ci sarò.» Richiuse il telefono con uno scatto. «Cafferty?» indovinò lei. «Come fai a saperlo?» «Non so, ti fa qualcosa... alla voce e alla faccia. Che voleva?» «È a casa mia. Dice che deve assolutamente mostrarmi una cosa, e qui non lo faccio venire di certo.» «Te ne sono grata.» «Ha in ballo un affare immobiliare, sta andando a vedere un terreno.» «Allora ti accompagno.» Rebus sapeva che era inutile opporsi.
Queen Street... Charlotte Square... Lothian Road. La Saab di Rebus, Siobhan seduta dalla parte del passeggero e aggrappata alla maniglia con la sinistra. Erano stati fermati a diverse barriere, costretti a mostrare i tesserini ai vari agenti in uniforme. In città stavano arrivando rinforzi: la domenica era il giorno previsto per il grande esodo delle forze dell'ordine verso nord. Siobhan lo aveva appreso nei due giorni passati con Macrae e aveva riferito nei dettagli a Rebus. «Splendida materia per uno di quei noiosissimi quiz televisivi, Shiv», aveva ribattuto lui. Mentre in Lothian Road aspettavano il verde a un semaforo, scorsero un assembramento davanti alla Usher Hall. «Il summit alternativo», disse Siobhan. «Quello in cui dovrebbe parlare Bianca Jagger.» Lui levò gli occhi al cielo. Lei ricambiò con un cazzotto sulla coscia. «Ma l'hai almeno vista in tivù, la marcia? Duecentomila persone!» «Sono contento che si siano godute un po' d'aria», commentò lui. «Ma questo non cambia il mondo in cui vivo io.» La guardò. «E a Niddrie, ieri sera? Le vibre positive sono riuscite ad arrivare fin lì?» «Erano solo una decina, John, contro duemila degli altri accampati.» «Comunque io so su chi punterei...» Dopo di che rimasero in silenzio fino a Fountainbridge. Era il vecchio quartiere di fabbriche e distillerie in cui Sean Connery aveva passato l'infanzia, ma ormai stava cambiando. Le industrie erano praticamente scomparse e al loro posto si allungavano i tentacoli del centro direzionale e finanziario cittadino. Nuovi bar di tendenza aprivano, uno degli abbeveratoi preferiti di Rebus era già stato demolito e presto forse sarebbe toccato anche all'adiacente sala bingo, il Palais de Danse. Il canale, un tempo una semplice fogna a cielo aperto, era stato ripulito e adesso ci andavano allegre famigliole in bici a dare il pane ai cigni. Non lontano dalla multisala CineWorld c'erano i cancelli sbarrati di una distilleria inattiva. Rebus si fermò e diede un colpo di clacson. Da dietro un muro sbucò un giovanotto in giacca e cravatta, che aprì il lucchetto e un battente del cancello, giusto quanto bastava per far passare la Saab. «Il signor Rebus?» si informò attraverso il finestrino del conducente. «In persona.» Il giovanotto attese, nel caso volesse presentargli anche Siobhan. Poi fece una risatina nervosa e gli porse un dépliant. Prima di passarlo alla collega, Rebus lo scorse velocemente.
«Lei è un agente immobiliare?» «Lavoro per lo Studio Bishops, signor Rebus. Immobili commerciali. Questo è il mio biglietto...» Si infilò una mano in tasca. «Cafferty dov'è?» Quel tono rese il giovanotto ancora più nervoso. «Ha parcheggiato dietro.» Rebus non aspettò di sentire altro. «Ovviamente pensa che tu sia uno dei suoi», commentò Siobhan. «E dal sudore che gli imperlava il labbro direi che sa perfettamente chi è il nostro.» «Comunque sia, la sua presenza qui è un bene.» «Perché?» Rebus si voltò a guardarla. «Perché significa che è meno probabile che sia una trappola.» L'auto di Cafferty era una Bendey GT blu scuro. Chino sul cofano, il vecchio stirava con una mano una piantina che minacciava di volare via. «Mi tiene un angolo, per favore?» chiese a Siobhan, appena gli fu vicina. Poi le sorrise. «Sergente Clarke, è sempre un piacere vederla. Non mancherà molto alla promozione, no? Se il capo della polizia le ha affidato una patata così bollente...» Siobhan scoccò un'occhiata a Rebus, che scosse la testa a indicare che la talpa non era lui. «L'Investigativa è un colabrodo», fu la spiegazione di Cafferty. «Lo è sempre stata e sempre lo sarà.» «Perché le interessa questo posto?» non riuscì a fare a meno di chiedere Siobhan. Cafferty diede una manata sul riottoso foglio di carta. «Terra, sergente Clarke. Non ci rendiamo conto di quanto sia preziosa, a Edimburgo. A nord c'è il Firth of Forth, a est il mare del Nord, a sud le Pentland Hills. I palazzinari non sanno più dove andare a cercare e fanno pressioni sul consiglio comunale perché liberi la Green Belt, mentre qui c'è un lotto di ottantamila metri quadrati a cinque minuti a piedi dal centro direzionale.» «E lei come pensa di utilizzarlo?» «A parte», li interruppe Rebus, «per seppellirci qualche corpo in una colata di cemento...» Cafferty decise di buttarla sul ridere. «Quel libro mi ha fruttato un po' di soldini, dovrò pur investirli in qualche modo.» «Mairie Henderson crede che la tua parte sia andata in beneficenza», o-
biettò Rebus. Cafferty lo ignorò. «L'ha letto, sergente Clarke?» La sua esitazione fu alquanto eloquente. «E le è piaciuto?» insistette Cafferty. «Non ricordo.» «Stanno pensando di farne un film. Con i primi capitoli, quanto meno.» Sollevò la mappa, la piegò e la buttò sul sedile della Bentley. «Per quanto riguarda questo posto, non so...» Rivolse l'attenzione a Rebus. «Hai parlato di corpi, e anch'io ho una strana sensazione... Tutta la gente che lavorava qui: tutti spariti, e con loro l'industria scozzese. Nella mia famiglia c'erano un sacco di minatori, scommetto che questo non lo sapevi.» Fece una pausa. «E scommetto che, essendo del Fife, anche tu sei cresciuto circondato dal carbone.» Altra pausa. «A proposito, ho sentito di tuo fratello. Mi dispiace.» «Le condoglianze del diavolo», ribatté Rebus. «Mancavano giusto quelle.» «Un assassino dotato di coscienza sociale», aggiunse piano Siobhan. «Non sarei il primo...» La voce di Cafferty si spense. Si passò un dito sotto il naso. «E invece forse per voi sì.» Infilò nuovamente un braccio in macchina, ma stavolta aprì il vano del cruscotto. Ne estrasse dei fogli arrotolati e fece per porgerli a Siobhan. «Prima mi dica cosa sono», fece lei, mani sui fianchi. «Il suo caso, sergente Clarke. La prova che abbiamo a che fare con un bastardo che va a caccia di altri bastardi.» Lei prese i fogli ma non li guardò. «'Abbiamo' a che fare?» L'attenzione di Cafferty virò su Rebus. «Lei non lo sa del patto?» «Non abbiamo fatto nessun patto», ribatté lui. «Che vi piaccia o no, stavolta siamo dalla stessa parte.» Gli occhi di Cafferty tornarono su Siobhan. «Queste carte mi sono costate diversi grossi favori. Se vi aiuteranno a prenderlo, tanto meglio anche per me. Ma parteciperò anch'io alla caccia... con o senza di voi.» «E allora perché aiutarci?» Le labbra del vecchio ebbero un guizzo. «Per rendere la sfida quel tocco più esaltante.» Spinse in avanti il sedile del passeggero. «Dietro c'è un sacco di spazio, fate come se foste a casa vostra.» Rebus e Siobhan si accomodarono sul sedile posteriore, mentre Cafferty prendeva posto davanti. Entrambi erano consapevoli dello sguardo del loro
ospite, quanto mai ansioso di impressionarli. In realtà Rebus stentava a mantenere l'aplomb. Perché non era solo impressionato: era letteralmente sconvolto. Il Keogh's Garage si trovava a Carlisle. Uno dei meccanici, Edward Isley, era stato assassinato tre mesi prima, il cadavere gettato in un terreno incolto appena fuori città. Un colpo alla testa e un'iniezione letale di eroina. Il corpo era nudo dalla cintola in su. Nessun testimone, nessun indizio, nessun sospettato. Siobhan intercettò lo sguardo di Rebus. «Ha un fratello?» chiese lui. «Qualche oscuro riferimento musicale?» tirò a indovinare lei. «Continua a leggere, Macduff», disse Cafferty. Si trattava di semplici note spigolate dai verbali di polizia, e gli stessi verbali riferivano che Isley lavorava lì da poco più di un mese, essendo appena tornato in libertà dopo sei anni di carcere per stupro e atti di libidine violenta. Entrambe le sue vittime erano prostitute: una rimorchiata a Penrith e l'altra più a sud, a Lancaster. Battevano sull'autostrada M6, fornendo i propri servigi ai camionisti. La polizia riteneva potessero essercene altre, restie a farsi avanti e a testimoniare per paura di essere identificate. «Come hai avuto questa roba?» sbottò a un tratto Rebus. La domanda provocò una risatina di Cafferty. «Poter contare sulle conoscenze giuste è una cosa meravigliosa, e tu dovresti saperlo, ispettore.» «Chissà quanti ingranaggi hai oliato, strada facendo.» «Accidenti, John», sibilò Siobhan, «guarda qui.» Rebus tornò a concentrarsi. Trevor Guest. Le note esordivano con le coordinate bancarie e l'indirizzo di casa, di Newcastle. Dopo la galera, Guest era rimasto disoccupato. Aveva scontato una condanna a tre anni per furto con scasso aggravato e aggressione nei confronti di un uomo, fuori da un pub. Nel corso di un'effrazione aveva anche tentato di stuprare una babysitter adolescente. «Una personcina a modo», borbottò Rebus. «Stessa fine degli altri.» Siobhan sottolineò le parti più importanti con la punta del dito: il corpo rinvenuto in riva al mare a Tynemouth, poco fuori Newcastle; il cranio sfondato; la dose letale di eroina. L'omicidio risaliva a due mesi prima. «Era fuori da quindici giorni.»
Edward Isley: tre mesi addietro. Trevor Guest: due. Cyril Colliar: uno e mezzo. «Pare che Guest abbia opposto parecchia resistenza», commentò Siobhan. Già: quattro dita rotte, lacerazioni sul viso e sul petto, ematomi su tutto il corpo. «Quindi l'assassino se la prende solo con altra gentaglia», riassunse Rebus. «E tu stai pensando 'lasciamolo lavorare', eh?» suggerì Cafferty. «Un giustiziere della notte», disse Siobhan, «che fa piazza pulita degli stupratori...» «Il nostro topo d'appartamento non ha violentato nessuno», si sentì in dovere di far notare Rebus. «Ma ci ha provato», ribatté CafTerty. «Mi dica, sergente Clarke, tutto questo le rende il lavoro più facile o più difficile?» Siobhan si limitò a un'alzata di spalle. «Agisce a intervalli più o meno regolari», proseguì, rivolta a Rebus. «Dodici settimane, otto e sei», concordò lui. «Vale a dire che dovremmo già averne trovato un altro.» «Magari non abbiamo guardato bene.» «Perché Auchterarder?» chiese Cafferty. Era una buona domanda. «Certe volte si portano via dei trofei.» «Per appenderli in bella vista?» Big Ger aggrottò la fronte. «Il Clootie Well non è proprio visitatissimo...» Siobhan si fece pensosa, tornò al primo foglio e ricominciò a leggere. Rebus scese dalla macchina: l'odore degli interni in pelle cominciava a dargli fastidio. Cercò di accendersi una sigaretta, ma il vento continuava a spegnergli la fiamma. Sentì la portiera della Bentley aprirsi e chiudersi. «Usa questo», disse Cafferty, porgendogli l'accendisigari cromato. Rebus lo prese, accese la sigaretta e lo restituì con un invisibile cenno della testa. «Io sono un semplice uomo d'affari. Lo sono sempre stato.» «Questa è la leggenda che vi raccontate voi macellai, tutti quanti. Tu dimentichi, Cafferty, che io ho visto che cosa facevi alla gente.» Big Ger si produsse in una lenta alzata di spalle. «Un mondo diverso...» Rebus sbuffò una boccata di fumo. «Comunque pare che tu possa dormire sonni tranquilli, se è vero che il tuo uomo non è stato scelto perché col-
legato a te.» «Chiunque sia l'assassino, cova risentimento.» «Altroché», concesse Rebus. «Ed è bene informato sulle date di rilascio e l'attività delle sue vittime dopo la galera.» Rebus annuì, raspando con il tacco della scarpa l'asfalto pieno di solchi. «Continuerai a dargli la caccia?» chiese Cafferty. «Mi pagano per questo.» «Per te non è mai stata una questione di soldi, ispettore... Non è mai stato solo un lavoro.» «Tu cosa ne sai?» «Quanto basta.» Cafferty annuiva, ora. «Altrimenti sarei riuscito a tentarti e ad averti sul mio libro paga, come decine di tuoi colleghi nel corso degli anni.» Rebus buttò a terra il mozzicone e qualche fiocco di cenere volò fino alla giacca di Cafferty. «Davvero ti compri questo schifo di posto?» gli chiese. «Probabilmente no. Ma potrei, se volessi.» «E la cosa ti dà un brivido?» «Molte cose sono alla nostra portata, solo che temiamo quello che potremmo trovarci una volta compiuto il passo.» Anche Siobhan scese dalla macchina, il dito puntato sul fondo dell'ultima pagina. «Questo cos'è?» chiese, girando intorno alla Bentley per avvicinarsi ai due uomini. Cafferty socchiuse gli occhi. «Un sito web, direi.» «Ovvio che è un sito web», scattò lei. «E infatti è da lì che viene metà di questa roba.» Gli sventolò i fogli sotto il naso. «Nel senso che è un indizio?» insinuò lui, malizioso. Ma lei gli aveva già voltato le spalle e si era avviata verso la Saab di Rebus, a cui faceva segno con il braccio che era ora di andare. «Sta proprio venendo su bene, eh?» commentò sottovoce Cafferty. E non aveva solo l'aria di un complimento: agli occhi di Rebus era come se il delinquente si stesse prendendo almeno una piccola parte del merito. Lungo il tragitto di ritorno intercettarono il notiziario di una radio locale. A Dunblane si teneva un summit alternativo di bambini. «Sentir nominare quel posto mi fa sempre accapponare la pelle», confessò Siobhan. «Ti dirò un segreto: uno dei patologi era il professor Gates.»
«Non ne ha mai fatto parola.» «È una cosa di cui non ama parlare.» Rebus alzò un po' il volume. Bianca Jagger stava arringando il pubblico della Usher Hall: «Sono stati bravissimi a dirottare la nostra campagna per mettere fine alla povertà...» «Si riferisce a Bono e soci», fece Siobhan. Rebus annuì. «Bob Geldof non ha solo ballato col diavolo, è anche andato a letto col nemico...» Quando partì l'applauso, Rebus abbassò il volume. Stando al notiziario, non c'era traccia di grande esodo verso nord da parte del pubblico di Hyde Park. Anzi, molti manifestanti del sabato erano già rientrati da Edimburgo. «Un ballo con il diavolo», rifletté Rebus. «Dance with the Devil era una canzone di Cozy Powell, mi sembra di ricordare.» Di colpo pigiò sul freno: una colonna di mezzi bianchi arrivava a tutta velocità contromano nella loro direzione. Fari lampeggianti, ma niente sirene. Le camionette avevano i parabrezza protetti da una griglia metallica e si erano buttate nella loro corsia per superare un paio di altri veicoli. Attraverso i finestrini laterali intravidero poliziotti in assetto antisommossa, mentre la prima camionetta rientrava di gran carriera, mancando per un soffio il paraurti anteriore della Saab. Le altre la seguirono. «Porca puttana!» esclamò Siobhan. «Benvenuta nello Stato di polizia», rispose Rebus. Il motore si era spento. Rigirò la chiave nell'accensione. «Non male come frenata d'emergenza, però.» «Erano dei nostri?» Siobhan si era girata per seguire con lo sguardo la colonna che spariva in lontananza. «Non ho visto contrassegni.» «Problemi da qualche parte?» Stava pensando a Niddrie. Rebus scosse il capo. «Se vuoi saperlo, secondo me stanno tornando di corsa al Pollock Halls per tè e pasticcini. E hanno fatto questo bel numero solo perché potevano.» «Ne parli come se non stessimo dalla stessa parte.» «Questo è tutto da verificare, Shiv. Senti, ti va un caffè? Io ho bisogno di qualcosa per riprendermi...» All'angolo fra Lothian Road e Bread Street c'era uno Starbucks ma, forse per via della vicinanza alla Usher Hall, trovare un parcheggio era un'impresa. Rebus optò così per la doppia riga gialla e piazzò sul cruscotto un contrassegno con sopra scritto POLIZIA. Una volta dentro, Siobhan chiese al giovane alla cassa se non aveva paura dei dimostranti.
Lui si limitò a un'alzata di spalle. «Noi eseguiamo gli ordini.» Siobhan lasciò cadere una moneta da una sterlina nella cassetta delle mance. Si era portata dietro la borsa a tracolla, e al tavolo ne sfilò il computer portatile. «Cos'è, vuoi darmi lezioni?» chiese Rebus, soffiando sul caffè. Aveva preso un semplice filtrato, argomentando che per il prezzo di una varietà più costosa avrebbe potuto comprarsene un barattolo intero. Siobhan prese una ditata di panna montata dalla sua cioccolata calda. «Lo vedi bene lo schermo?» Rebus annuì. «Allora guarda.» In pochi secondi era connessa e digitava dei nomi in un motore di ricerca. Edward Isley. Trevor Guest. Cyril Colliar. «Un sacco di risultati», commentò facendo scorrere una videata. «Ma solo una pagina che li contenga tutti e tre.» Il cursore tornò alla prima riga. Siobhan diede un colpetto al touchpad e attese. «Ci avremmo pensato anche noi, naturalmente», aggiunse poi. «Naturalmente.» «Be'... qualcuno, almeno. Ma prima avremmo dovuto avere il nome di Isley.» Colse lo sguardo di Rebus. «Cafferty ci ha risparmiato una sfacchinata di un giorno.» «Non entrerò comunque nel suo fan club.» Finalmente apparve la schermata di benvenuto di un sito. Siobhan si mise a leggere, mentre Rebus si avvicinava un po' per vederci meglio. Il nome del sito era BeastWatch, «OsservatorioBestie». C'erano delle fototessere sgranate di cinque o sei uomini, accompagnate da altrettante didascalie sulla destra. «Senti qui», disse Siobhan, sfiorando le parole sul monitor. «'Come genitori della vittima di uno stupro, sentiamo di avere il diritto di conoscere gli spostamenti dell'aggressore dopo la scarcerazione. Scopo di questo sito è permettere a famiglie e amici - nonché alle vittime stesse - di pubblicare le date di rilascio, insieme alle foto e alle descrizioni, per meglio tutelare la società dalle bestie che sono fra noi...'» La voce si affievolì, e le labbra continuarono a muoversi mute mentre leggeva il resto tra sé. C'erano i link a una galleria fotografica battezzata «Bestie in mostra», a una bacheca elettronica e a un gruppo di discussione, oltre a una petizione online. Siobhan spostò il cursore sulla foto di Edward Isley e risfiorò il touchpad. Apparve una pagina corredata di nuovi particolari, tra cui la data presunta
di scarcerazione, il soprannome - «Eddie lo Svelto» - e le zone che con più probabilità sarebbe tornato a frequentare. «Dice 'Presunta data di rilascio'», notò Siobhan. Rebus annui. «Niente di più aggiornato... nessun segno che sapessero dove lavorava.» «Però c'è scritto che era un meccanico... e si parla anche di Carlisle. Informazione fornita da...» Siobhan si mise a cercare le fonti. «La firma dice solo 'Preoccupato'.» Poi provò con Trevor Guest. «Uguale», commentò Rebus. «Informazioni anonime.» Siobhan tornò alla prima pagina e cliccò su Cyril Colliar. «È la stessa foto che abbiamo noi», disse. «Viene da un tabloid», spiegò Rebus, mentre altre immagini si completavano sullo schermo. Siobhan imprecò sottovoce. «Che c'è?» «Ascolta: 'Questo è l'animale che ha fatto passare l'inferno alla nostra amata figlia, e che da allora ci ha rovinato la vita. A breve sarà rilasciato, senza aver mostrato alcun rimorso e senza aver ammesso la propria colpa malgrado le prove. Eravamo così sconvolti all'idea che sarebbe tornato presto a piede libero, che dovevamo assolutamente fare qualcosa: così è nato questo sito. Un grazie a tutti voi per il vostro appoggio. Riteniamo che in Gran Bretagna sia il primo sito del genere, benché altrove ne esistano già di simili. In particolare, i nostri amici negli USA ci hanno aiutato moltissimo in fase di allestimento'.» «Quindi è opera dei genitori di Vicky Jensen», commentò Rebus. «Così sembrerebbe.» «E com'è che noi non ne sapevamo niente?» Siobhan alzò le spalle, concentrata a finire di leggere la pagina. «Lui li sta scegliendo», continuò Rebus. «È questo che fa, giusto?» «Lui o lei», lo corresse Siobhan. «Quindi dobbiamo sapere chi ha visitato il sito.» «Eric Bain, a Fettes, potrebbe aiutarci.» Rebus la guardò. «'Brains'? Ma ti rivolge ancora la parola?» «Non lo vedo da un po'.» «Cioè da quando gli hai dato quel clamoroso due di picche?» Lei gli scoccò un'occhiataccia, e Rebus alzò le mani in segno di resa. «Vale la pena di fare un tentativo, comunque», ammise. «Posso chiederglielo io, se vuoi.»
Siobhan si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia. «Ti rode, eh?» «Cosa?» «Io sono sergente, tu ispettore, però Corbyn l'indagine l'ha affidata a me.» «Ma figurati.» Si sforzò di apparire ferito dall'accusa. «Sicuro? Perché se dobbiamo lavorarci insieme...» «Ti ho solo chiesto se volevi che ci parlassi io, con Brains.» Adesso invece era visibilmente irritato. «Scusa, John», rimediò lei, a capo chino. «Meno male che il caffè l'ho preso io.» «Però una giornata libera non avrebbe guastato», riprese lei con un sorriso. «Be', puoi sempre andare a casa a farti un bel pediluvio.» «Oppure?» «Oppure possiamo andare a parlare con i signori Jensen.» Sventolò una mano in direzione del portatile. «Sentire cos'hanno da dirci sul loro piccolo contributo al World Wide Web.» Siobhan annuì lentamente e prese un'altra ditata di panna. «Allora mi sa che faremo proprio così.» I Jensen abitavano in una villa di quattro piani con vista sul Leith Links. L'appartamento seminterrato era il regno della figlia, Vicky. Aveva il suo ingresso separato, al quale si accedeva da una piccola rampa di gradini di pietra. Il cancello in cima alle scale sfoggiava un lucchetto, e c'erano sbarre alle finestre da ciascun lato della porta, più un adesivo che informava i potenziali intrusi della presenza di un sistema d'allarme. Prima dell'aggressione di Cyril Colliar nulla di tutto ciò era parso necessario. Allora Vicky era una brillante matricola diciottenne del Napier College; ora, a dieci anni di distanza, evidentemente era ancora ben lontana dal volersi separare dai genitori. Sulla soglia Rebus esitò un istante. «La diplomazia non è mai stata il mio forte, lo sai», disse a Siobhan. «Allora lascia parlare me.» Lo scanso e suonò il campanello. Thomas Jensen aprì la porta levandosi contemporaneamente gli occhiali da lettura. Riconobbe Rebus e spalancò gli occhi. «Cos'è successo?» «Nulla di cui preoccuparsi, signor Jensen», lo rassicurò Siobhan, mostrandogli il tesserino. «Solo qualche domanda.» «State ancora cercando di trovare l'assassino?» tirò a indovinare l'uomo.
Di media statura, aveva passato da poco la cinquantina e iniziava a ingrigire sulle tempie. Il maglione rosso con lo scollo a V sembrava nuovo e costoso. Cachemire, probabilmente. «Che cosa le fa pensare che voglia aiutarvi?» «Quel che ci interessa è il suo sito web.» Jensen aggrottò la fronte. «Be', oggi come oggi per un veterinario è normale...» «Non quello dell'ambulatorio», chiarì Rebus. «BeastWatch», aggiunse Siobhan. «Ah.» Jensen abbassò lo sguardo a terra e sospirò. «L'ultima fissa di Dolly.» «Vale a dire sua moglie?» «Dorothy, sì.» «E in questo momento la signora è in casa?» L'uomo scosse il capo, poi scrutò oltre le loro spalle, quasi a cercare traccia della consorte nel vasto mondo là fuori. «Andava alla Usher Hall.» Rebus annuì, come se ciò spiegasse tutto. «Il fatto è che abbiamo un problemino...» «In che senso?» «Collegato al sito web.» Indicò con un cenno l'anticamera. «Se magari potessimo entrare e parlarne con calma...» Jensen parve riluttante, poi le buone maniere prevalsero. Li condusse nel soggiorno, attiguo a una sala da pranzo con il tavolo cosparso di quotidiani. «Passo quasi tutta la domenica a leggerli», spiegò, infilando gli occhiali in tasca e facendo loro cenno di sedersi. Siobhan si accomodò sul divano, mentre lui sedette in poltrona. Rebus invece rimase in piedi accanto alle porte di cristallo della sala da pranzo, sbirciando nell'assortimento di giornali. Niente di sospetto, nessun articolo o passaggio evidenziato. «Il problema è questo, signor Jensen», attaccò Siobhan in tono misurato. «Cyril Colliar è morto, e come lui altri due uomini.» «Non capisco.» «Riteniamo di avere a che fare con un unico criminale.» «Ma...» «Qualcuno che potrebbe avere ricavato i nomi di tutt'e tre le vittime dal vostro sito.» «Tutt'e tre?» «Edward Isley e Trevor Guest», elencò Rebus. «E ce ne sono molti altri, nella vostra galleria della vergogna. Mi chiedo chi sarà il prossimo.»
«Dev'esserci un errore.» Jensen era sbiancato in volto. «Lei conosce Auchterarder?» chiese Rebus. «No... non direi.» «Gleneagles?» «Ci siamo andati una volta, per un congresso di veterinaria.» «E magari era compreso un giro turistico al Clootie Well?» Jensen scosse il capo. «Solo i seminari e una cena danzante.» Sembrava confuso. «Sentite, non credo di potervi aiutare...» «L'idea del sito è stata di sua moglie?» chiese adagio Siobhan. «Era un modo per affrontare... Aveva cercato aiuto online.» «Aiuto?» «Famiglie di altre vittime. Voleva sapere come aiutare Vicky, e strada facendo ha avuto quest'idea.» «Si è fatta aiutare anche a progettare il sito?» «Abbiamo pagato una società di web design.» «E quei siti americani di cui si parla?» «Sì, be', hanno dato una mano con l'impaginazione. Una volta partita...» Jensen si strinse nelle spalle. «Credo che ormai la cosa vada avanti da sola.» «Avete utenti registrati?» Jensen annuì. «Sì, quelli che vogliono la newsletter. Dovrebbe essere trimestrale ma, ancora una volta, non sono certo che Dolly provveda con regolarità.» «Quindi esisterà una lista di nomi», intervenne Rebus. Siobhan lo guardò. «Comunque per vedere il sito non c'è bisogno di registrarsi.» «Da qualche parte ha sicuramente un elenco», stava dicendo Jensen. «Da quanto tempo è attivo il sito?» domandò Siobhan. «Otto o nove mesi. Da quando ha cominciato ad avvicinarsi la data del rilascio... Dolly si faceva sempre più ansiosa.» Si interruppe, lanciò un'occhiata all'orologio. «Per Vicky, voglio dire.» Neanche a farlo apposta, in quel momento la porta d'ingresso si aprì e si richiuse. Dall'anticamera venne una voce ansante ed euforica. «Papà, ce l'ho fatta! Fiume e ritorno!» La figura che si stagliò sulla soglia era rossa in faccia e sovrappeso. Quando si accorse che il padre non era solo, le sfuggì un grido. «Va tutto bene, Vicky...» Ma lei aveva già girato sui tacchi ed era scappata. Un'altra porta si aprì e
si richiuse con forza. Si udirono passi precipitosi che scendevano nel rifugio seminterrato. Thomas Jensen parve accasciarsi su se stesso. «È la distanza che è riuscita a percorrere da sola», spiegò. Rebus annuì. Il lungofiume non distava neanche un chilometro. Capì solo allora perché Jensen era stato tanto nervoso al loro arrivo, e perché aveva scrutato con ansia il mondo alle loro spalle. «Nei giorni feriali paghiamo una persona che stia con lei», continuò l'uomo, le mani in grembo. «Così possiamo continuare a lavorare.» «Avete detto a vostra figlia che Colliar è morto?» chiese Rebus. «Sì.» «Ed è stata interrogata in proposito?» A quella domanda Jensen scosse il capo. «L'agente che è venuto a interrogare noi... si è dimostrato molto comprensivo quando gli abbiamo spiegato di Vicky.» Rebus e Siobhan si scambiarono uno sguardo: hanno fatto finta... non ci hanno nemmeno provato... «Guardate che non l'abbiamo ucciso noi. Se anche me lo fossi trovato davanti...» Lo sguardo dell'uomo perse lucidità. «Non sono certo che sarei mai riuscito ad arrivare a tanto.» «Sono morti tutti per iniezione letale, signor Jensen», affermò Siobhan. Il veterinario chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte, poi sollevò adagio una mano e si massaggiò sotto gli occhi, ai lati del naso. «Se intendete accusarmi di qualcosa, vorrei fosse presente anche il mio avvocato.» «Ci serve unicamente il suo aiuto.» Lui la fissò. «Ed è proprio la cosa che io non voglio darvi.» «Dovremmo parlare anche con sua moglie e sua figlia», prosegui Siobhan, ma Jensen si era già alzato. «Preferirei che ve ne andaste, ora. Devo occuparmi di Vicky.» «Certo», lo assecondò Rebus. «Ma torneremo», soggiunse Siobhan. «Avvocato o non avvocato. E si ricordi, signor Jensen, che per inquinamento delle prove si va in galera.» Si avviò a grandi passi verso la porta, seguita a ruota da Rebus che, appena fuori, si accese una sigaretta. Poco lontano, sul Links, si svolgeva una partita di calcio improvvisata. «Sai quando ho detto che la diplomazia non era il mio forte?» «Allora...?» «Altri cinque minuti là dentro e gli mettevi le mani addosso tu.» «Non dire fesserie.» In realtà Siobhan era paonazza. Emise uno sbuffo esasperato.
«Che cosa intendevi, quando parlavi di inquinamento delle prove?» «I siti web si possono oscurare», spiegò lei. «E le liste di utenti si 'perdono'.» «Quindi, prima parliamo con Brains e meglio è.» Eric Bain stava guardando il Live 8 sul computer... o almeno così sembrò a Rebus, ma l'altro fu lesto a correggerlo. «In realtà sto facendo un po' di editing.» «L'hai scaricato?» azzardò Siobhan. Bain scosse il capo. «L'ho salvato su un DVD-ROM e sto levando quel che non mi interessa.» «Nel mio caso ci vorrebbe parecchio tempo», disse Rebus. «Guarda che è facile, una volta che ti sei impratichito col software.» «Credo», intervenne Siobhan, «che l'ispettore Rebus alluda al fatto che taglierebbe un sacco di roba.» Bain sorrise. Dal loro arrivo non si era ancora alzato, e nemmeno aveva distolto gli occhi dal monitor. Era stata la sua ragazza, Molly, ad aprire la porta, e ancora lei a offrire loro una tazza di tè. Adesso era in cucina a mettere su l'acqua, e in soggiorno Bain non accennava a schiodarsi dal computer. Vivevano in un appartamento all'ultimo piano di un magazzino ristrutturato, in una traversa di Slateford Road. Il dépliant l'aveva con ogni probabilità definito «attico»: dalle piccole finestre si godeva un'ampia vista, soprattutto di comignoli e capannoni fatiscenti. In lontananza s'intravedeva appena la cima di Corstorphine Hill. La stanza era più in ordine di quanto Rebus si sarebbe aspettato: niente rotoli di cavo in giro, niente scatoloni, ferri da saldatore e console per videogiochi. Non la tipica dimora di uno smanettone dichiarato e impenitente. «Da quanto abiti qui, Eric?» gli chiese ora. «Un paio di mesi.» «Avete deciso di convivere?» «All'incirca. Ancora un secondo e ho finito...» Rebus annuì, raggiunse il divano e si mise comodo. Molly, frizzante di energia, entrò con il vassoio del tè. Sfoggiava un paio di sabot, jeans aderenti con orlo al polpaccio e maglietta rossa con la faccia di Che Guevara. Splendida linea e lunghi capelli biondi, tinti ma molto adatti a lei. Rebus era sinceramente colpito. Aveva arrischiato diverse occhiate in direzione di Siobhan, e ogni volta l'aveva beccata a esaminare Molly con uno sguardo
da scienziato di laboratorio. Era chiaro che era della stessa opinione: Bain aveva messo a segno un gran colpo. E Molly aveva lasciato il suo marchio su Brains: il ragazzo era stato infine piegato alla vita domestica. Com'era quel verso di Elton John? Mi bai quasi legato e imbavagliato... Di Bernie Taupin, veramente. Il primo Brown Dirt Cowboy quando Reg faceva Captain Fantastic. «Complimenti per la casa», commentò Rebus mentre Molly gli porgeva la tazza. Ed ecco la ricompensa: le labbra rosa e i denti perfetti che si schiudevano in un sorriso. «Non ho capito come fai di cognome...» «Clark», disse lei. «Come la nostra Siobhan», esclamò lui. Molly la guardò per conferma. «Io con la 'e' in fondo», precisò l'interpellata. «Io senza», ribatté la ragazza. Si era seduta sul divano accanto a Rebus, ma continuava a muovere il sedere come se non riuscisse a mettersi comoda. «Però è un'altra cosa che avete in comune», aggiunse Rebus in tono provocatorio, istantaneamente fulminato da un'occhiata di Siobhan. «E da quant'è che state insieme?» «Tre mesi e mezzo», disse Molly, infervorata. «Non molto, vero? Ma certe volte lo sai dentro.» Rebus concordò con un cenno del capo. «Lo dico sempre alla nostra Siobhan, che dovrebbe sistemarsi. Potrebbe essere la svolta decisiva, no, Molly?» Lei non pareva convintissima, ma rivolse comunque a Siobhan uno sguardo comprensivo. «Certo», disse. Siobhan lanciò un'altra occhiataccia a Rebus e prese la sua tazza. «A dire la verità», continuò lui, «c'è stato un momento in cui sembrava che stesse per mettersi con Eric.» «Eravamo solo amici», lo corresse Siobhan con una risatina forzata. Davanti al monitor Bain sembrava paralizzato, la mano inerte sul mouse. «Non è vero, Eric?» lo coinvolse Rebus. «Ti sta solo prendendo in giro», disse Siobhan per rassicurare Molly. «Non badarci.» Rebus le fece l'occhiolino. «Ottimo tè.» La ragazza non aveva ancora trovato la posizione definitiva. «E ci dispiace disturbarvi proprio di domenica», aggiunse Siobhan. «Se non fosse un'emergenza...» Bain si alzò, facendo scricchiolare la sedia. Rebus si accorse che aveva
perso un po' di peso, forse anche cinque o sei chili. Il volto pallido era ancora paffuto, ma il girovita era calato. «Sempre alla sezione Reati informatici?» gli chiese Siobhan. «Esatto.» Prese un po' di tè e si sedette accanto a Molly. Lei gli passò un braccio protettivo intorno alle spalle, lisciandosi la T-shirt sul seno. Rebus si concentrò di più e meglio su Bain. «Ho avuto piuttosto da fare, con il G8», disse quest'ultimo. «A setacciare i rapporti dei servizi.» «Roba di che tipo?» chiese Rebus, alzandosi con l'aria di volersi sgranchire le gambe. La verità era che con Bain il divano si era fatto un po' troppo affollato. Passeggiò in direzione del computer. «Del tipo segreto», rispose il collega. «Per caso hai conosciuto un certo Steelforth?» «No, dovrei?» «È dell'SO12... pare sia lui il direttore del circo.» Ma Bain si limitò a scuotere lentamente il capo e a chiedergli per quale ragione si trovavano lì. Siobhan gli porse un foglio di carta. «È un sito web», spiegò. «Che rischia di scomparire all'improvviso. Prima che accada, ci serve tutto quello che riesci a trovare: liste di utenti registrati, nomi di gente che l'ha visitato e magari ha scaricato qualcosa...» «È un favore grosso.» «Lo so, Eric.» Il modo in cui lei pronunciò il suo nome parve toccare un nervo scoperto. Bain si alzò e andò alla finestra, forse per nascondere a Molly la vampa di rossore che gli era salita al collo. Rebus aveva preso un foglietto dai pressi del computer. Era una lettera intestata della Axios Systems, firmata da un certo Tasos Symeonides. «Greco?» buttò lì. Eric Bain parve lieto di cambiare argomento. «Sì, ma hanno sede a Edimburgo», spiegò. «Una società di informatica.» Rebus gli sventolò davanti la lettera. «Perdona l'invadenza, Eric, ma...» «È un'offerta di lavoro», spiegò Molly. «Gliene arrivano in continuazione.» Si era alzata anche lei e ora si avvicinò alla finestra per abbracciare il fidanzato. «Ogni giorno mi tocca convincerlo che il suo ruolo in polizia è troppo prezioso.» Rebus rimise la lettera dov'era e tornò ad accomodarsi sul divano. «Potrei averne un'altra tazza?» Mentre Molly provvedeva, Bain colse l'attimo per trafiggere Siobhan con lo sguardo: un silenzio carico di parole non dette.
«Splendido», fece Rebus, accettando anche un goccio di latte. Molly gli si era di nuovo seduta accanto. «Tra quanto tempo potrebbe essere chiuso, questo sito?» domandò Bain. «In realtà non lo sappiamo», confessò Siobhan. «Anche stasera, magari?» «È più probabile domani.» Bain studiò il pezzo di carta. «D'accordo», acconsentì infine. «Fantastico.» Rebus parve rivolgere l'apprezzamento all'intera stanza, ma Molly non ascoltava più. Si era portata di colpo le mani al viso, spalancando la bocca. «Oddio, i biscotti!» Scattò in piedi come un pupazzo a molla. «Come ho fatto a dimenticarmene? E nessuno mi ha detto...» Si voltò verso il compagno. «Almeno tu potevi farmelo notare!» Fuggì dalla stanza con le guance in fiamme. E per la prima volta Rebus si rese conto che l'appartamento non era di un ordine perfetto. Ma di un ordine nevrotico. 7 Siobhan aveva osservato il corteo con i suoi slogan e gli striscioni contro la guerra. Il percorso era fiancheggiato da poliziotti in attesa di disordini. A un tratto percepì l'odore dolciastro dell'hashish, ma difficilmente per quel reato sarebbe finito dentro qualcuno. L'aveva sentito dire chiaro e tondo alle riunioni del Sorbo: «Se proprio si fanno le pere sotto i vostri occhi, allora entrate in azione; altrimenti lasciate perdere...» Chiunque avesse preso di mira il sito BeastWatch era anche in grado di procurarsi eroina di ottima qualità. Ancora una volta pensò a Thomas Jensen, dall'aria così mite. Accesso all'eroina, e un ottimo motivo di rancore. Le due amiche di Vicky, quelle che erano state con lei in discoteca e sull'autobus... forse era il caso di interrogare anche loro. E il colpo alla testa: sempre infetto da dietro, indice che l'aggressore era fisicamente più debole degli aggrediti, e li voleva fuori combattimento prima dell'iniezione. Magari aveva infierito su Trevor Guest perché non si era lasciato atterrare. Oppure l'assassino iniziava a farsi più spavaldo, a provare piacere per il dolore inflitto. Ma Guest era la seconda vittima. La terza, Cyril Colliar, non era stata
trattata così duramente. Significava allora che sulla scena del delitto era arrivato qualcuno e che l'assassino era stato messo in fuga prima di cominciare a divertirsi? Non solo: aveva ucciso ancora? Ed era un lui o una lei? rammentò Siobhan a se stessa. «Bush, Blair, macellai di Stato, oggi quanti bambini avete ammazzato?» La folla raccolse lo slogan. Sciamavano su per Calton Hill, Siobhan in coda. Qualche migliaio, diretti al comizio. Il vento era sferzante, la cima del colle esposta agli elementi. Vista sul Fife e su tutta la città verso ovest. Vista a sud verso Holyrood e il parlamento, piantonato giorno e notte dalla polizia. Le sembrava di ricordare che Galton Hill fosse uno dei vulcani spenti di Edimburgo; il castello sorgeva su un altro e l'Arthur's Seat era il terzo. Sulla vetta dominavano un osservatorio e alcuni monumenti di pubblico interesse. Il migliore era la cosiddetta «Follia»: un unico lato di quella che sarebbe dovuta diventare la replica fedele del Partenone. Il donatore era morto lasciandola incompiuta, e adesso alcuni manifestanti ci si stavano arrampicando sopra. Altri invece si radunavano sotto il palco per i discorsi. Una ragazza persa in un mondo tutto suo ballava e cantava da sola ai margini dell'assembramento. «Non ci aspettavamo di vederti qui, cara.» «Certo, ma io ho pensato che potevo trovarci voi.» Siobhan abbracciò i genitori. «Ieri ai Meadows non sono riuscita a scovarvi.» «È stato fantastico, vero?» Il padre di Siobhan scoppiò a ridere. «Tua madre ha pianto come un vitello dall'inizio alla fine.» «Era così emozionante», confermò la moglie. «Sono venuta a cercarvi anche ieri sera.» «Eravamo fuori a bere una cosa.» «Con Santal?» buttò lì Siobhan con aria disinvolta. Poi si passò una mano sulla testa, come a voler cancellare la voce che dentro protestava: Sono io vostra figlia, cazzo, non lei! «Si è fermata poco... sembrava che il posto non le piacesse.» La folla applaudiva e incitava il primo oratore. «Più tardi ci sarà Billy Bragg», disse suo padre. «Ho pensato che potevamo mangiare qualcosa insieme», replicò Siobhan. «In Waterloo Place c'è un ristorantino...» «Tu hai fame, tesoro?» chiese Eve Clarke al marito. «A dire la verità no.»
«Nemmeno io.» Siobhan fece spallucce. «Magari più tardi?» «Cominciano», sussurrò suo padre, portandosi un dito alle labbra. «A fare che?» chiese Siobhan. «A dire i nomi dei morti.» I nomi dei morti. Sul palco venivano letti ad alta voce i nomi di un migliaio di vittime della guerra in Iraq, prese da tutti i versanti del conflitto. Mille nomi, con gli oratori che si avvicendavano e il pubblico in perfetto silenzio. Persino la ragazza aveva smesso di ballare e si era messa invece a fissare il vuoto. A un certo punto, rendendosi conto di avere il cellulare ancora acceso, Siobhan arretrò di qualche passo: meglio evitare squilli inopportuni, magari da parte di Bain. Lo pescò dalla tasca e lo mise in modalità vibrazione. Poi si allontanò ancora un poco, fino a un punto da cui riusciva ancora a sentire l'appello ma sotto di sé arrivava a scorgere lo stadio dell'Hibernian, ora vuoto per via della stagione. Il mare del Nord era calmo. A est si stagliava la cima del Berwick Law, anch'esso un potenziale vulcano spento. E intanto i nomi si susseguivano, costringendola a un sorriso mesto e segreto. Perché quello era anche il suo compito quotidiano, sul lavoro: dare un nome ai morti. Registrare i particolari dei loro ultimi istanti di vita, cercare di scoprire chi erano stati, perché erano scomparsi. Dare una voce ai perduti e ai dimenticati. Il mondo era pieno di vittime che aspettavano lei e altri investigatori come lei. E come John Rebus, anche, che affrontava ogni caso anima e corpo, talvolta restandone inevitabilmente travolto. Senza mai arrendersi, però, perché quello sarebbe stato l'ultimo insulto a quei nomi. Il telefonino vibrò, e lei se lo portò all'orecchio. «Hanno fatto presto», dichiarò Eric Bain. «Il sito è già scomparso?» «Esatto.» Siobhan imprecò sottovoce. «Ma sei riuscito a trovare qualcosa?» «Solo briciole, purtroppo. Con il software che ho qui a casa non ho potuto combinare più di tanto.» «Lista degli utenti registrati?» «Temo di no.» Al microfono era salito un altro oratore. Il flusso dei nomi proseguiva. «C'è nient'altro che puoi fare?» «Dall'ufficio sì, magari, con un paio di trucchetti.» «Domani, allora?»
«Se i padroni del G8 possono fare a meno di me.» Eric si interruppe. «Mi ha fatto piacere vederti, Siobhan. Mi spiace che tu abbia dovuto incontrare...» «Eric», lo ammonì lei, «no.» «No cosa?» «No, tutto. No e basta, d'accordo?» Seguì un lungo silenzio dall'altro capo. «Ancora amici?» chiese lui alla fine. «Assolutamente. Richiamami domani.» Troncò la chiamata. L'unico modo per non dirgli: Tienti stretto la tua bella nevrotica imbronciata e superdotata... potreste anche avere un futuro, insieme. In effetti, ne aveva viste anche di più strane, di coppie. Osservò i suoi genitori, da dietro. Si tenevano per mano, la madre con la testa posata sulla spalla di lui. Quando sentì che le lacrime minacciavano di montarle agli occhi, le ricacciò indietro con determinazione. Ripensò a Vicky Jensen che scappava dalla stanza, a Molly che faceva lo stesso. Entrambe spaventate dalla vita. Da adolescente anche lei era scappata da un mucchio di stanze... stanze con dentro i suoi. Scenate, capricci, battaglie mentali, giochi di potere. E adesso non avrebbe voluto altro che stare proprio là, là in mezzo, tra loro due. Lo voleva ma non ci riusciva, e così rimaneva quindici metri più indietro a sperare che almeno si girassero. Invece loro ascoltavano i nomi. Nomi di persone che non avevano neanche mai conosciuto. «Lo apprezzo molto», disse Steelforth alzandosi per stringere la mano a Rebus. Aveva atteso nella hall del Balmoral, seduto a gambe accavallate. Rebus l'aveva lasciato friggere per un quarto d'ora, e in quel lasso di tempo era passato davanti all'ingresso dell'albergo diverse volte, lanciando occhiate all'interno per controllare che non ci fossero trappole. Il corteo contro la guerra era già storia vecchia, ma lui ne aveva colto l'ultimo scorcio che si muoveva lentamente su per Waterloo Place. Siobhan gli aveva detto di essere diretta proprio là, in cerca dei suoi. «Non hai avuto molto tempo per stare con loro», aveva commentato Rebus, comprensivo. «E viceversa», aveva borbottato lei. L'ingresso dell'hotel era sorvegliato. Non solo dall'usciere e dal portiere in livrea - diverso da quello di sabato sera - ma anche da quelli che secondo Rebus erano agenti in borghese, probabilmente agli ordini di Steelforth.
L'uomo dei reparti speciali era più elegante che mai, in doppiopetto gessato. Dopo la stretta di mano, fece un cenno verso il Palm Court. «Un bicchierino?» «Dipende da chi paga.» «Lei è mio ospite.» «Nel qual caso», lo avvisò Rebus, «posso anche affrontarne uno di dimensioni normali.» La risata di Steelforth fu senz'altro sonora, ma anche vacua. Trovarono un tavolo d'angolo e dal nulla si materializzò una cameriera, come evocata dal loro stesso arrivo. «Carla», la informò Steelforth, «vorremmo due whisky. Doppi.» Guardò Rebus per conferma. «Laphroaig», completò lui. «Più vecchio è, meglio è.» Carla fece un lievissimo inchino e si allontanò. Steelforth si aggiustò la linea della giacca, aspettando che la ragazza sparisse completamente prima di cominciare a parlare. Rebus decise di batterlo sul tempo. «Allora, ce l'avete fatta a insabbiare la morte del deputato?» chiese ad alta voce. «Cosa ci sarebbe da insabbiare?» «Me lo dica lei.» «Per quanto ne so, ispettore, finora tutta la sua indagine è consistita in un colloquio informale con la sorella del deceduto.» Avendo terminato di giocherellare con la giacca, giunse le mani in grembo. «Colloquio, tra l'altro, deprecabilmente condotto subito dopo che la signora aveva effettuato il riconoscimento ufficiale.» Fece una pausa drammatica. «Senza offesa, ispettore.» «Per così poco, comandante?» «Naturalmente può darsi che lei abbia battuto anche altre strade. So che almeno due cronisti locali si sono già messi a rimestare nel pentolone.» Rebus tentò di apparire sorpreso. Mairie Henderson, più la persona che gli aveva risposto al telefono nella redazione dello Scotsman, chiunque fosse. Adesso doveva un favore a entrambi... «Be'», disse quindi, «visto che non c'è nulla da insabbiare, presumo che la stampa non andrà molto lontano.» Fece una pausa. «L'altro giorno ha detto che mi avrebbero tolto l'indagine... ma a quanto pare non è successo.» Steelforth si strinse nelle spalle. «Perché non c'è niente su cui indagare. Il referto parla di morte accidentale.» All'arrivo dei drink separò le mani. I bicchieri erano accompagnati da una piccola brocca d'acqua e da una cio-
tola stracolma di cubetti di ghiaccio. «Desidera lasciare il conto aperto?» si informò Carla. Steelforth guardò Rebus, poi scosse il capo. «Ci fermiamo qui.» Segnò il numero di camera sullo scontrino. «A carico del contribuente», chiese Rebus, «o dobbiamo ringraziare il signor Pennen?» «Richard Pennen dà lustro a questo Paese», dichiarò Steelforth, aggiungendo troppa acqua al proprio whisky. «L'economia scozzese in particolare sarebbe assai più povera senza di lui.» «Non avevo capito che il Balmoral fosse così caro.» Steelforth socchiuse gli occhi. «Mi riferisco a posti di lavoro nell'ambito della Difesa, come peraltro sa benissimo.» «E se io lo interrogo sulla scomparsa di Ben Webster, lui sposterà di botto il lavoro altrove?» Steelforth si sporse in avanti. «Dobbiamo lisciarlo un po', possibile che non se ne renda conto?» Rebus fiutò l'aroma del whisky di malto, poi si portò il bicchiere alle labbra. «Cin», brindò Steelforth di malavoglia. «Slainte», replicò Rebus. «Mi avevano detto che ha gusti forti», aggiunse l'altro. «Che certa roba le piace parecchio.» «Ha parlato con gente bene informata.» «A me non importa se uno beve... purché la cosa non interferisca con il lavoro. E purtroppo mi hanno detto anche che a lei annebbia un po' la facoltà di giudizio.» «Non la capacità di giudicare le persone, però», precisò Rebus posando il bicchiere. «Sobrio o ubriaco fradicio, l'avrei capito comunque che lei è uno stronzo di prima categoria.» Steelforth levò beffardamente il bicchiere. «E io che volevo farle un'offerta», disse, «per consolarla della delusione.» «Le sembro deluso?» «Suicidio o non suicidio, non arriverà da nessuna parte con Ben Webster.» «Come, tutto a un tratto il suicidio torna a essere un'ipotesi? Allora ha lasciato un biglietto...» Steelforth perse la pazienza. «Non c'è nessun dannato biglietto!» esclamò stizzito. «Anzi, non c'è niente di niente.»
«Il che lo rende un po' bizzarro come suicidio, non trova?» «Morte accidentale.» «Sì, vabbè.» Anche Rebus levò il bicchiere. «Cosa voleva offrirmi?» Prima di rispondere, Steelforth lo squadrò per un istante. «I miei uomini», disse. «Questo vostro caso d'omicidio: ho sentito che ormai siete a quota tre vittime, e immagino siate un po' a corto di risorse. Al momento ci lavorate solo lei e il sergente Clarke, giusto?» «Più o meno.» «Io ho portato parecchi dei miei, ispettore Rebus. Ottimi elementi. Con ogni genere di capacità e specializzazione.» «E vorrebbe prestarceli?» «L'idea era quella.» «Così potremmo concentrarci sugli omicidi e lasciar perdere il deputato?» Rebus fece gran mostra di considerare la proposta, addirittura giunse le mani e poggiò il mento sulla punta delle dita. «Le sentinelle, al castello, hanno parlato di un intruso», disse adagio, come pensando a voce alta. «Non ci sono prove», fu lesto a ribattere Steelforth. «E sul perché Webster si trovasse sui bastioni... nessuno si è mai realmente pronunciato.» «Era uscito a prendere una boccata d'aria.» «Abbandonando la tavolata?» «La cena era alle ultime battute... porto e sigari.» «E ha detto che usciva?» Rebus non gli levava gli occhi di dosso. «Non esplicitamente. Si stavano alzando un po' tutti per sgranchirsi le gambe...» «Lei li ha interrogati? Dal primo all'ultimo?» «La maggior parte», rispose l'uomo dei reparti speciali. «Anche il ministro degli Esteri?» Rebus attese una risposta che però non venne. «Come pensavo. Le delegazioni straniere, allora?» «Alcune sì. Ho fatto, direi, più o meno quel che avrebbe fatto lei, ispettore.» «Lei non lo sa, che cosa avrei fatto io.» Steelforth incassò la risposta con un lieve cenno del capo. Non aveva ancora toccato il suo whisky. «Quindi non ha dubbi?» lo incalzò Rebus. «Nessun interrogativo residuo?» «Nessuno.» «Però non sa perché è successo.» Rebus scosse lentamente il capo. «Lei
non è un granché come sbirro, eh, comandante? Sarà anche fortissimo con le strette di mano e le riunioni informative, ma quando si tratta di investigazioni direi che siamo proprio all'ABC. Lei è un oggetto di scena, nient'altro.» Si rimise in piedi. «Mentre lei che cosa sarebbe, ispettore?» «Io?» Rebus ci rifletté su per un istante. «Io sono il portiere, mi sa... quello che spazza dove lei passa.» Si interruppe, poi trovò la conclusione. «Dietro di lei e anche intorno, se necessario.» Esce dal palco, a destra. Prima di lasciare il Balmoral, Rebus gironzolò fino al ristorante, al piano inferiore, riuscendo a eludere gli sforzi del personale e sgattaiolando dentro dall'anticamera. Il locale era pieno, ma di Richard Pennen nessuna traccia. Rebus uscì in Princes Street e decise che tanto valeva fare un salto al Café Royal. Il pub era sorprendentemente tranquillo. «Uno schifo», gli confidò il direttore. «In questi giorni gli habitué non si fanno vedere neanche in fotografia.» Dopo un paio di bicchieri, Rebus si diresse verso George Street. Gli operai avevano interrotto gli scavi per ordine del Comune, che giusto per aumentare la confusione degli automobilisti aveva introdotto un nuovo sistema di sensi unici. Persino quelli della Stradale la giudicavano un'idiozia, e non si stavano certo impegnando a far rispettare i divieti di accesso. Anche in George Street, comunque, tutto era tranquillo: nessun segno delle armate di Bob Geldof. I buttafuori davanti al Dome gli dissero che il locale era praticamente deserto. In Young Street, angusta viuzza già a senso unico, la direzione di marcia era stata invertita. Rebus spinse la porta dell'Oxford Bar, sorridendo tra sé di una battuta che aveva sentito fare sul nuovo sistema di viabilità: «Sono per un'introduzione dolce e graduale, per un po' potremmo circolare in tutti e due i sensi...» «Una pinta di IPA, Harry», disse cavandosi di tasca le sigarette. «Meno otto», borbottò il barista avviando la spina. «Non me lo dire.» Harry contava i mesi e i giorni che mancavano all'introduzione del divieto generalizzato di fumare anche in Scozia. «Successo qualcosa, là fuori?» chiese uno dei soliti. Rebus scosse il capo. Nel mondo un po' ovattato e ottuso dei bevitori, la notizia di un serial killer non rientrava nella categoria del «successo qualcosa». «C'era mica un corteo?» aggiunse Harry.
«A Calton Hill», confermò un altro avventore. «Peccato che con gli stessi soldi avremmo potuto mandare un cesto natalizio a tutti i bambini dell'Africa.» «Ma così gli occhi del mondo sono puntati sulla Scozia», gli ricordò Harry con un cenno del capo in direzione di Charlotte Square, sede del governo locale. «Il vecchio Jack dice che ne vale la pena, e se lo dice il primo ministro...» «Sì, ma mica lo caccia lui, il portafogli», si lagnò il cliente. «Mia moglie lavora in quel nuovo negozio di scarpe in Frederick Street e dice che tanto varrebbe starsene a casa, questa settimana.» «Domani la Royal Bank non apre», dichiarò Harry. «Già», borbottò l'altro. «Infatti la giornataccia è domani.» «E pensare», protestò Rebus a quel punto, «che ero entrato qui per tirarmi un po' su.» Harry lo guardò fingendo incredulità. «Ormai dovresti avere imparato, John. Pronto per un altro giro?» Forse no, ma annuì lo stesso. Un paio di pinte più tardi, e dopo aver demolito l'ultimo panino in vetrina, decise che poteva dichiarare conclusa la giornata. Aveva letto l'Evening News, guardato una sintesi dell'ultima tappa del Tour e ascoltato ulteriori rimostranze contro il nuovo piano di viabilità stradale. «Se non risistemano tutto com'era prima, da mia moglie possono anche tirare giù la saracinesca. Ve l'ho detto che l'hanno presa in quel nuovo negozio di scarpe in Frederick...» Rebus si avviò alla porta mentre Harry levava gli occhi al cielo. Per strada valutò la possibilità di andare a piedi o di chiamare Gayfield per vedere se qualcuno di pattuglia poteva dargli un passaggio con una volante. Molti tassisti si tenevano alla larga dal centro, ma davanti all'hotel Roxburghe avrebbe potuto tentare la sorte, ammesso di riuscire a darsi un'aria da turista danaroso... Sentì gli sportelli che si aprivano, ma fu lento a voltarsi. Un paio di mani gli afferrarono le braccia, storcendogliele dietro la schiena. «Abbiamo esagerato un po', eh?» latrò una voce. «Una notte in guardina ti farà bene, amico.» «Toglietemi le mani di dosso!» Rebus prese a dimenarsi, ma inutilmente. Senti i lacci di plastica intorno ai polsi, così stretti da bloccargli la circolazione, ma una volta fissati non c'era verso di allentarli: bisognava tagliarli. «Si può sapere che cazzo succede?» sibilò allora. «Sono dell'Inve-
stigativa, accidenti!» «Macché Investigativa», ribatté la voce. «Tu puzzi di birra e sigarette, e sei vestito come un barbone...» Accento inglese, probabilmente di Londra. Rebus vide un'uniforme, poi altre due, i volti in ombra, forse abbronzati ma comunque severi e cesellati. Il furgone era piccolo e privo di contrassegni, gli sportelli posteriori aperti. Lo spinsero dentro. «Ho il tesserino in tasca», disse. Si sedette sulla panca. I vetri erano oscurati e coperti da una griglia esterna di metallo. Dentro ristagnava un vago fetore di vomito. Un'altra griglia separava il retro della camionetta dalla parte anteriore, con un pannello di truciolato a bloccare qualunque tentativo di accesso. «Avete preso una cantonata, vi dico», gridò Rebus. «Raccontaglielo ai marine», gridò una voce di rimando. Il furgone si mosse. Dal finestrino posteriore vide accodarsi un paio di fanali. I conti tornavano: in tre davanti non ci stavano, quindi dietro c'era un altro veicolo. Lo stavano portando a Gayfield Square, West End o St Leonard? In ogni caso, in tutt'e tre le stazioni di polizia era una faccia nota. Non c'era nulla di cui preoccuparsi, a parte le dita gonfie per la circolazione rallentata. Anche le spalle gli facevano male, forzate all'indietro dalle manette. Dovette divaricare le gambe per non ruzzolare di qua e di là a ogni svolta. Stavano viaggiando sugli ottanta, e non si fermavano neanche ai semafori. Udì le proteste di due pedoni mancati per un pelo. Niente sirena, ma lampeggianti accesi sul tetto. La macchina in coda sembrava sprovvista di entrambi. Dunque, non era una volante... e, a ben guardare, neanche quello in cui si trovava lui era un veicolo d'ordinanza. Gli sembrava di stare procedendo in direzione est, quindi verso Gayfield, ma a un certo punto svoltarono bruscamente a sinistra, verso New Town, aggredendo la discesa e facendogli battere la testa contro il soffitto dell'abitacolo. «Ma dove cazzo...?» Se anche prima si era sentito alterato, adesso aveva recuperato tutta la lucidità. L'unica destinazione che gli veniva in mente era Fettes, ma quello era il comando, non certo il posto dove portavano gli ubriachi a smaltire la sbornia. Là stavano i pezzi grossi, James Corbyn e i suoi. E infatti in Ferry Road presero a sinistra, ma non per Fettes... Restava solo la stazione di Drylaw, solitario avamposto nella zona nord della città. Qualcuno lo chiamava «Tredicesimo Distretto», come in quel film di zombi. Una tetra spelonca, e ci si stavano proprio fermando davanti. Rebus fu prelevato di peso e portato dentro, gli occhi feriti dall'improvviso bagliore dei neon. Dietro il banco all'entrata non c'era nessuno: la sta-
zione sembrava deserta. Lo spinsero sul retro, dove attendevano due camere di sicurezza, entrambe con la porta spalancata. Finalmente sentì la pressione allentarsi in una mano, il sangue riprendere a scorrergli nelle dita. Sotto un ultimo spintone entrò barcollando in cella, quindi la porta si richiuse di schianto. «Ehi!» gridò. «Cos'è, un pesce d'aprile?» «E noi sembriamo forse dei pagliacci, amico? Dove credi di essere, su Candid Camera?» Risate da dietro la porta. «Fatti una bella notte di sonno», aggiunse un'altra voce, «e niente casino, altrimenti ci tocca somministrarti uno dei nostri sedativi speciali. Dico bene, Jacko?» Rebus credette di udire un'imprecazione, poi tutto tacque e lui sapeva perché. Avevano commesso un errore. Gli avevano dato un nome. Jacko. Cercò di stamparsi in testa le facce di quegli imbecilli, giusto per non farsi mancare nulla al momento della rivincita, ma gli tornò in mente solo che erano abbronzati, o forse segnati dalle intemperie. In compenso non avrebbe mai dimenticato le loro voci. Nelle uniformi che indossavano non c'era niente di strano, se non che le mostrine sulle spalle erano state rimosse. E, senza mostrine, non sarebbe stato facile identificarli. Mollò un paio di calci alla porta, poi infilò una mano in tasca per prendere il telefonino. E si accorse che non c'era. O gliel'avevano sfilato, oppure gli era caduto. Ritrovò però tesserino, portafogli, sigarette e accendino. Sedette sulla fredda mensola di cemento che fungeva da letto e si guardò i polsi. Aveva ancora il laccio di plastica intorno a quello sinistro, ragion per cui cercò di sfregarsi il braccio, di massaggiarsi il dorso, il palmo e le dita della mano, di smuovere un po' la circolazione. Forse avrebbe potuto provare a fondere la manetta con l'accendino, ma rischiava di ustionarsi. Optò quindi per una sigaretta, sforzandosi di calmare il battito del cuore. Poi tornò alla porta, ci picchiò sopra con il pugno, si voltò e la colpì con un tallone. Quante volte aveva visitato le celle di Gayfield Square e St Leonard e sentito quei calci? Tum-tum-tum-tum-tum. Quante volte ci aveva scherzato sopra con il secondino? Tum-tum-tum-tum-tum. Il suono della speranza contro l'esperienza. Tornò a sedersi. Non c'erano né tazza né lavandino, solo un secchio di metallo in un angolo. Feci antiche striavano il muro lì accanto. Messaggi incisi nell'intonaco di gesso:
«Big Malky è il migliore»; «Wardie Young Team»; «Vi amo, bastardi». Incredibile a dirsi, ma là dentro era stato rinchiuso anche qualcuno che masticava un po' di latino: «Nemo me impune lacessit». Tradotto in scozzese: whau daur meddle wi' me? E in gergo moderno: Provate solo a mettermelo in quel posto. Di colpo si alzò. Aveva capito che cosa stava succedendo. Veramente, avrebbe dovuto capirlo dal primo istante. Steelforth. Facilissimo per lui mettere le mani su qualche uniforme e mandare tre dei suoi in missione... gli stessi che gli aveva offerto poco prima, magari. Probabilmente lo sorvegliavano da quando era uscito dal Balmoral. Lo avevano seguito di pub in pub, aspettando il momento giusto. E la viuzza dell'Oxford Bar era perfetta. «Steelforth!» urlò in direzione della porta. «Vieni qui se hai il coraggio! O sei un cacasotto, oltre che un prepotente?» Premette l'orecchio contro la porta, ma non sentì nulla. Lo spioncino era chiuso. Lo sportello passavivande sbarrato. Fece su e giù per la cella, aprì il pacchetto di sigarette, decise che doveva razionare le scorte, poi cambiò idea e ne accese un'altra. L'accendino tossicchiò: non restava molto gas. Difficile dire che cosa lo avrebbe lasciato a piedi prima. L'orologio segnava le dieci. Una vita, fino al sorgere del sole. Lunedì 4 luglio 8 Lo svegliò il rumore della serratura. La porta si aprì cigolando. Per prima cosa vide un giovane agente in uniforme, la bocca spalancata per lo sbalordimento. E alla sua sinistra l'ispettore capo James Macrae, espressione furibonda e chioma spettinata. Rebus guardò l'orologio: mancava poco alle quattro, il lunedì albeggiava a stento. «Avete una lama?» chiese, con la bocca asciutta. Mostrò loro il polso: era gonfio, palmo e nocche sbiancati. Il poliziotto si cavò di tasca un coltellino. «Come ha fatto a entrare?» gli chiese poi con voce tremante. «Alle dieci di ieri sera... chi c'era di guardia al forte?» «Abbiamo ricevuto una chiamata», rispose l'agente, «ma prima di andare abbiamo chiuso tutto.»
Per quale motivo non avrebbe dovuto credergli? «E la chiamata...?» «Un falso allarme. Sono davvero spiacente... Perché non ha urlato, non si è fatto sentire?» «Scommetto che sul registro non c'è scritto niente.» Il laccio di plastica cadde a terra. Rebus cominciò a muovere le dita. «Niente. E non controlliamo le camere di sicurezza, se sono vuote.» «Per voi lo erano?» «Le abbiamo svuotate apposta nel caso dovessimo alloggiare qualche dimostrante.» Macrae stava esaminando la mano sinistra di Rebus. «Vuole farla vedere a qualcuno?» «No, non serve.» Rebus fece una smorfia. «Come mi ha trovato?» «Un SMS. Avevo lasciato il telefono sotto carica, nello studio, ma alla fine la ripetizione d'avviso ha svegliato mia moglie.» «Posso vederlo?» Macrae gli porse il cellulare. Sul display c'era il numero del mittente, e sotto un messaggio tutto maiuscolo: REBUS IN CELLA A DRYLAW. Rebus selezionò l'opzione RISPONDI, ma una volta collegato si ritrovò solo ad ascoltare una voce registrata secondo cui il numero chiamato era inesistente. Restituì l'apparecchio a Macrae. «Il messaggio risulta inviato a mezzanotte.» Macrae abbassò gli occhi. «Ci abbiamo messo un po' a sentirlo», ammise piano. Poi si ricordò chi era e raddrizzò la schiena. «Le spiacerebbe dirmi che cosa è successo?» «Un paio di ragazzi che hanno voluto farsi due risate, signore», improvvisò Rebus. Continuava a flettere il polso sinistro, cercando di non far trapelare l'entità del dolore. «Nomi?» «Nessun nome, nessuna punizione, signore.» «Quindi se io rispondessi al loro SMS...?» «Il numero è già stato scollegato, signore.» Macrae squadrò Rebus. «Ha alzato un po' il gomito, ieri sera, eh?» «Appena appena.» Si rivolse di nuovo all'agente in uniforme. «Non è che per caso hanno lasciato un cellulare sul banco all'ingresso?» Il giovane scosse il capo. Rebus si chinò verso di lui. «Una cosa del genere si verrà a sapere e... be', a me rideranno un po' alle spalle, ma tu diventerai lo zimbello di tutti. Celle incustodite, stazione sguarnita, porta d'ingresso aperta...»
«No, la porta era chiusa», ribadì il poliziotto. «Comunque sia, non ci faresti una gran figura, giusto?» Macrae diede una pacchetta sulla spalla al ragazzo. «Che resti fra noi, d'accordo? Ora venga, ispettore Rebus, la lascerò a casa prima che si rialzino le barriere.» Prima di aprirgli la portiera della Rover, però, Macrae si fermò un attimo. «Capisco che lei non desidera parlarne troppo in giro, John, ma le assicuro che se troverò i colpevoli gli farò passare un brutto quarto d'ora.» «Sì, signore», accettò Rebus. «Mi dispiace di essere stato io la causa.» «Lei non c'entra, John. Forza, salga.» Si avviarono in silenzio per la città, diretti a sud, il cielo che albeggiava a oriente. Qualche furgoncino e rari pedoni dall'aria insonnolita, ma pochi indizi su cosa avrebbe portato la giornata. Quel giorno si sarebbe scatenato il «Gran Carnevale»... un eufemismo per i disordini, e la polizia lo sapeva. Per il lunedì erano attese le mosse della Clown Army, dei Wombles e dei Black Bloc. Lo sforzo sarebbe stato quello di sigillare la città. Macrae si era sintonizzato su un canale locale, appena in tempo per il notiziario: qualcuno aveva già tentato di mettere i lucchetti alle pompe di un benzinaio di Queensferry Road. «Il fine settimana è stato solo un antipasto», commentò l'ispettore capo, fermandosi in Arden Street. «Quindi spero che lei se lo sia goduto.» «Molto piacevole, signore», disse Rebus aprendo lo sportello. «Grazie per il passaggio.» Diede un colpetto al tetto dell'abitacolo e rimase a osservare l'auto che si allontanava, poi fece le due rampe di scale cercandosi le chiavi in tasca. Non c'erano. Ovvio che no: erano lì che penzolavano dalla sua serratura. Imprecando aprì, poi estrasse le chiavi e le strinse nel pugno destro. Varcò la soglia in punta di piedi. Nessun rumore, nessuna luce. Superò con passo felpato la cucina e la camera da letto. Entrò in soggiorno: naturalmente le carte del caso Colliar non c'erano, perché le aveva portate da Siobhan, ma la documentazione di Mairie Henderson sulla Pennen Industries e sull'onorevole Ben Webster era sparpagliata ovunque. Sul tavolo trovò il suo cellulare: carini a riportarglielo. Si chiese con quanta cura avessero setacciato chiamate, messaggi in segreteria e SMS. Non che la cosa lo preoccupasse più di tanto, visto che a fine giornata cancellava sempre tutto, ma questo non significava che sul microchip non rimanessero tracce... E loro avevano
l'autorità per chiedere i tabulati al suo gestore telefonico. Quando stavi nell'SO12, potevi toglierti un sacco di sfizi. Rebus andò in bagno e aprì il rubinetto del lavandino, per fare scaldare l'acqua. Aveva in programma minimo venti minuti di doccia. Controllò la cucina e le due camere: nulla sembrava fuori posto... ma, di nuovo, non significava niente. Riempì il bollitore elettrico e lo accese. E se gli avevano piazzato in casa delle cimici? Impossibile scoprirlo: ormai svitare la cornetta del telefono per controllare non bastava più. La documentazione sulla Pennen era stata chiaramente frugata, ma non sottratta. Perché? Perché sapevano che per lui sarebbe stato facile riottenere le stesse informazioni. Alla fin fine era roba di pubblico dominio, bastavano due clic con il mouse. Gli avevano lasciato tutto perché quelle carte non contavano niente. Perché lui non ci era andato neanche vicino, a quello che Steelforth stava cercando di coprire. Qualunque cosa fosse. Gli avevano lasciato le chiavi nella toppa e il telefonino in bella vista: il danno e la beffa. Fletté di nuovo la mano sinistra, chiedendosi come si faceva a capire se era partito un embolo. Portò il tè in bagno, chiuse il rubinetto del lavandino, si spogliò e si infilò sotto la doccia. Cercò di cancellare le precedenti settantadue ore dalla mente, e al loro posto iniziò a compilare la lista dei suoi «Dischi da isola deserta». Non riusciva a decidere quale brano di Argus portarsi dietro, e stava ancora vigorosamente dibattendo con se stesso quando uscì e prese ad asciugarsi. Si ritrovò così a canticchiare Throw Down the Sword... getta la spada. «Scordatelo», dichiarò allo specchio. Era deciso a dormire un po'. Cinque agitatissime ore rannicchiato su una lastra di cemento non riposavano un granché, ma prima doveva caricare il telefonino. Lo attaccò alla presa e decise di controllare i messaggi. C'era un SMS: lo stesso mittente sconosciuto di mezzanotte. DICHIARIAMO UNA TREGUA. Inviato meno di un'ora prima. Il che significava due cose: sapevano che lui era tornato a casa, e il numero «inesistente» era chissà come resuscitato a nuova vita. A Rebus vennero in mente almeno dieci diverse risposte possibili, ma alla fine decise solo di spegnere. Un'altra tazza di tè, e si avviò in camera. Panico sulle strade di Edimburgo. Siobhan non aveva mai avvertito tanta tensione in città, nemmeno in oc-
casione del derby calcistico Hibs-Hearts o durante i cortei repubblicani e orangisti. L'aria era carica, come percorsa da una corrente elettrica, e non solo a Edimburgo. A Stirling si era insediato un campeggio pacifista, e si era verificato qualche scontro breve ma intenso. Alla partenza del G8 mancavano ancora due giorni, ma i disobbedienti sapevano che diverse delegazioni erano già arrivate in città. Molti americani erano scesi nel lussuoso Dunblane Hydro, a breve distanza da Gleneagles, mentre alcuni giornalisti stranieri si erano trovati alloggiati ben più lontano, addirittura a Glasgow. I funzionari giapponesi si erano invece impadroniti delle camere dello Sheraton di Edimburgo, di fronte al centro direzionale; istintivamente Siobhan si era diretta in quel parcheggio, ma lo trovò chiuso con una catenella. Mentre abbassava il finestrino le si avvicinò un agente in uniforme. «Desolato, signora», si scusò lui con garbata cadenza inglese, dinanzi al tesserino esibito. «Non si può. Ordini dall'alto. È meglio che faccia inversione.» Indicò un punto sulla Western Approach Road. «La carreggiata è invasa da imbecilli che stiamo tentando di far confluire in Canning Street. Una manica di pagliacci.» Lei obbedì, e finalmente trovò un buco sulla striscia gialla davanti al Lyceum Theatre. Al semaforo attraversò ma, anziché entrare subito nella sede della Standard Life, decise di tirare dritto e infilarsi nel labirinto di cemento del quartiere. Svoltando in Canning Street venne però bloccata da un cordone di polizia, oltre il quale i disobbedienti in tenuta nera si erano mescolati ad altri vestiti da circo: una manica di pagliacci, letteralmente. Per Siobhan era il primo vero avvistamento della Rebel Clown Army: parrucche rosse e viola, facce dipinte di bianco. Alcuni brandivano piumini per la polvere, altri sventolavano garofani; qualcuno aveva disegnato uno smiley su uno scudo antisommossa. Anche i poliziotti erano in nero, protetti da gomitiere e ginocchiere, giubbotti antilama, caschi integrali. Un dimostrante era riuscito chissà come ad arrampicarsi su un muro piuttosto alto e agitava le natiche scoperte in direzione delle forze dell'ordine sottostanti. Dalle finestre lì intorno, gii impiegati sbirciavano dai loro uffici. Molto rumore, ma per il momento solo fumo e poco arrosto. Con il sopraggiungere di altri poliziotti, Siobhan arretrò fino al sovrappasso pedonale sulla Western Approach Road. Di nuovo, i dimostranti erano in forte inferiorità numerica. Uno stava in sedia a rotelle, il leone rampante attaccato allo schienale che ondeggiava nel vento. Il traffico diretto in centro era bloccato. Si udivano note di fischietto ma i cavalli della polizia erano tranquilli, e un drappello di agenti marciava lungo il sovrappasso, gli scudi sol-
levati a proteggersi la testa. La situazione sembrava sotto controllo e tale destinata a restare, perciò Siobhan si avviò verso la meta. La porta girevole che immetteva nella reception della Standard Life era chiusa. Prima di azionare l'apertura elettrica, una guardia giurata la squadrò da capo a piedi. «Posso vedere il suo pass, signorina?» «Non lavoro qui.» Siobhan gli mostrò invece il tesserino. L'uomo lo prese e lo esaminò. Poi glielo restituì e fece un cenno verso il banco. «Problemi?» domandò lei. «Un paio di cretini che hanno tentato di entrare. Uno ha scalato il lato ovest dell'edificio e sembra sia rimasto bloccato al terzo piano.» «Bel divertimento, per voi.» «È un lavoro come un altro, agente.» Nuovo gesto in direzione del banco. «Gina la sistemerà in un attimo.» E infatti Gina la sistemò. Prima le diede un pass - «Lo tenga sempre bene in vista, per favore» - e poi telefonò ai piani alti. La sala d'attesa era tutto uno sfarzo di divani e riviste, caffè e televisore a schermo piatto che irradiava una qualche trasmissione mattutina sul design. Finalmente una donna si avvicinò a Siobhan a grandi passi. «Sergente Clarice? L'accompagno di sopra.» «La signora Jensen?» La donna scosse il capo. «Mi spiace di averla fatta attendere. Come può immaginare, la situazione è un po' tesa...» «Non c'è problema. Ora so tutto sulle lampade a piantana.» La donna sorrise, ma senza capire davvero, e condusse Siobhan verso gli ascensori. Mentre aspettavano, si esaminò i vestiti. «Tutti in borghese, oggi», disse, spiegando i pantaloni sportivi e la camicetta. «Buona idea.» «È buffo vedere i colleghi in jeans e maglietta. Alcuni sono irriconoscibili.» Si interruppe. «È qui per i disordini?» «No.» «È solo che la signora Jensen mi sembrava totalmente all'oscuro...» «Quindi tocca a me fare un po' di luce, no?» rispose Siobhan con un sorriso, mentre l'ascensore si apriva. La targa sulla porta dell'ufficio di Dolly Jensen la identificava per esteso come Dorothy Jensen, ma non faceva menzione della sua carica aziendale.
Che però doveva essere di un certo rilievo, pensò Siobhan. L'assistente aveva bussato, poi si era subito ritirata dietro la scrivania. Il piano ospitava in gran parte uffici open space, e molte facce si levarono dai monitor dei computer per sbirciare la nuova arrivata. Alcuni impiegati stavano davanti alle finestre, con in mano tazze di caffè, intenti a osservare il mondo esterno. «Entri», disse una voce. Siobhan aprì la porta e se la richiuse alle spalle, strinse la mano a Dorothy Jensen e fu invitata ad accomodarsi. «Sa perché sono qui?» chiese poi. La Jensen si appoggiò allo schienale della poltrona. «Tom mi ha detto.» «E da allora ha avuto un bel daffare, giusto?» La donna abbassò lo sguardo sulla scrivania. Era coetanea del marito, spalle larghe e volto mascolino. I folti capelli neri - il grigio sapientemente coperto dalla tinta, immaginò Siobhan - ricadevano in onde ben pettinate fino alle spalle. Un semplice filo di perle intorno al collo. «Non mi riferisco al suo lavoro, signora Jensen», continuò, lasciando infine trapelare tutta l'irritazione. «Intendevo a casa: un bel daffare a cancellare ogni traccia del suo sito web.» «Perché, è forse reato?» «È quel che si chiama 'ostacolare le indagini'. C'è chi finisce in tribunale per questo. A volte riusciamo ad alzare la posta fino al favoreggiamento, se ci mettiamo d'impegno...» La signora prese una penna dalla scrivania e cominciò a svitarne e riavvitarne il cappuccio. Siobhan si placò, certa di aver fatto breccia nell'interlocutrice. «Mi serve tutto quanto, signora Jensen: carte, indirizzi di posta elettronica, nomi. Dobbiamo chiarire la posizione di tutti - compresi lei e suo marito - se vogliamo prendere quest'assassino.» Pausa. «Lo so cosa pensa, suo marito ci ha detto la stessa cosa, e capisco come vi sentite. Ma dovete comprendere che chiunque abbia commesso questi omicidi non si fermerà. Potrebbe avere scaricato informazioni su tutti i soggetti segnalati sul vostro sito, il che rende quegli uomini potenziali vittime. Vittime... non così diverse da Vicky.» Al nome della figlia, Dorothy Jensen puntò due occhi di fuoco in quelli di Siobhan. Ma il fuoco cedette presto il passo alle lacrime, la donna mollò la penna, aprì un cassetto, ne prese un fazzoletto e si soffiò il naso. «Io ci ho provato, sa... a perdonare. Un gesto che dovrebbe avvicinarci a Dio, no?» Si impose una risatina nervosa. «Quella gente va in galera per essere
punita, ma noi speriamo anche che cambino. E quelli che non cambiano... a che servono? Tornano fra noi e ricominciano a fare le stesse cose.» Siobhan conosceva bene la diatriba, avendola affrontata molte volte e dalle due prospettive opposte. Ciò nonostante rimase in silenzio. «Non ha mostrato alcun rimorso, nessuna comprensione. Che razza di persona è uno così? Lo chiamerebbe un essere umano? Al processo la difesa non faceva altro che parlare della famiglia distrutta, delle droghe che prendeva... Dicevano che conduceva uno stile di vita 'caotico'. Ma ha deciso lui di rovinare Vicky, lui ha cercato quella scarica di adrenalina. E in questo, dia retta a me, non c'è proprio niente di 'caotico'.» Le tremava la voce. Fece un respiro profondo, si riassestò nella poltrona, lentamente cominciò a calmarsi. «Io faccio l'assicuratrice. Noi ci occupiamo di rischi e decisioni, sergente: non sono proprio inesperta in materia.» «Documentazione ne ha, signora Jensen?» chiese piano Siobhan. «Qualcosa», ammise la donna. «Non molto, però.» «E-mail? Avrà pure intrattenuto qualche corrispondenza con i visitatori del sito.» La Jensen annuì adagio. «Sì, con i familiari delle vittime. Tutti sospettati anche loro?» «Quando può farmi avere il materiale?» «Crede che dovrei parlarne prima con il mio avvocato?» «Potrebbe essere una buona idea. Nel frattempo vorrei mandare qualcuno a casa sua. Un esperto informatico. Se viene lui da voi, potremo evitare di portarle via il disco fisso.» «D'accordo.» «Si chiama Bain.» Eric Bain, il fidanzato di Barbie... Siobhan si mosse nervosamente sulla sedia e si schiarì la gola. «È un sergente dell'Investigativa, come me. Che ora preferisce, in serata?» «Non hai una bella cera», disse Mairie Henderson, mentre Rebus cercava di stiparsi accanto a lei sulla piccola vettura sportiva. «Nottataccia», rispose lui. Non stette lì ad aggiungere che la sua chiamata, alle dieci, lo aveva svegliato. «Non è che quest'affare si muove un altro po'?» Mairie si chinò, diede una botta a una leva e il sedile di Rebus schizzò all'indietro. Lui si girò per osservare lo spazio rimastogli alle spalle. «Le battute sul pilota della RAF senza gambe le ho già sentite tutte», lo avvisò lei. «Per non parlare di quelle sulle sedie a rotelle.» «Allora mi tappo la bocca», disse Rebus allacciandosi la cintura. «Gra-
zie dell'invito, comunque.» «In tal caso, la consumazione puoi pagarla tu.» «Quale consumazione?» «Quella che ci serve come scusa per andare dove stiamo andando...» Mairie si diresse in fondo a Arden Street. Sinistra, destra, sinistra e si sarebbe trovata in Grange Road, a soli cinque minuti dal Prestonfield House. L'hotel Prestonfield House era un segreto edimburghese gelosamente custodito. Circondato da casette basse degli anni '30, con vista sui palazzoni popolari di Niddrie e Craigmillar, non pareva godere della posizione più favorevole per una splendida residenza baronale, ma il suo enorme parco che includeva un campo da golf - offriva molta discrezione. Per quanto ne sapeva Rebus, l'unica volta che quel posto era finito sui giornali era stato quando un membro del parlamento scozzese aveva tentato di dare fuoco ai tendaggi dopo una festa. «Prima, al telefono, volevo chiederti...» disse a Mairie. «Cosa?» «Come fai a sapere di questa faccenda?» «Contatti, John. Nessun giornalista dovrebbe uscire di casa senza.» «Però una cosa l'hai lasciata, a casa... i freni di questa trappola mortale, accidenti.» «È una macchina da corsa», ribatté lei. «Non mi piace il rumore che fa quando va piano.» Però sollevò di un filo il piede dall'acceleratore. «Grazie», disse Rebus. «Allora, qual è il programma?» «Caffè per iniziare la giornata, poi lui tiene il suo discorsetto, quindi pranzeranno.» «Dove, se non chiedo troppo?» Mairie si strinse nelle spalle. «In una sala riunioni, immagino. Poi magari al ristorante per il pranzo vero e proprio.» Mise la freccia a sinistra per entrare nel vialetto dell'albergo. «E noi...?» «Stiamo cercando un po' di pace in mezzo alla baraonda. Oltre a una teiera per due.» Un cameriere dell'hotel li attendeva all'ingresso. Mairie gli spiegò la situazione. C'era una stanza sulla sinistra che poteva fare al caso loro, oppure un'altra sulla destra, appena oltre una porta chiusa. «Quella è già occupata?» chiese Mairie, indicandola. «Una riunione d'affari», rivelò il cameriere. «Be', se non fanno troppo baccano, credo che qui staremo benissimo.»
Entrò nella sala adiacente. Rebus udì un richiamo di pavoni dal prato. «I signori gradiscono del tè?» si informò il giovanotto. «Caffè, per me», disse Rebus. «Per me invece il tè va bene... alla menta, se possibile. Altrimenti una camomilla.» Il cameriere scomparve, e Mairie premette l'orecchio contro il muro. «Pensavo che ormai si origliasse solo elettronicamente», commentò Rebus. «Potendoselo permettere...» Mairie ritrasse l'orecchio. «Sento solo dei borbottii,» «Tenete ferma la prima pagina.» Lei lo ignorò e portò una sedia vicino alla soglia, accertandosi di poter vedere bene chiunque entrasse o uscisse dalla stanza accanto. «Ci scommetto che pranzeranno alle dodici in punto, in armonia con gli usi e costumi dell'anfitrione.» Controllò l'orologio. «Una volta ho portato qui a cena una signora», rimuginò Rebus. «E dopo abbiamo preso il caffè in biblioteca, di sopra. Le pareti sono di un rosso tipo sangue coagulato. Di cuoio, se non erro.» «Tappezzeria di cuoio? Molto sadomaso», commentò Mairie con un sorriso. «A proposito, non ti ho mai ringraziata per essere corsa da Cafferty a raccontargli di Cyril Colliar...» La trafisse con lo sguardo, e lei fu cosi gentile da ricambiare con un velo di rossore sul collo. «Non c'è di che, John.» «È bello sapere che quando ti passo un'informazione confidenziale vai subito a spifferarla al peggior delinquente della città.» «È successo solo una volta.» «Una volta di troppo.» «L'omicidio Colliar lo tormenta.» «Proprio come piace a me.» Lei fece un sorriso stanco. «Una volta sola», ripeté. «E ti prego di ricordare l'enorme favore che ti sto facendo adesso.» Rebus decise di non rispondere e tornò invece nella hall. Il banco della reception era in fondo, oltre il ristorante. L'ambiente era un po' cambiato dalla sera in cui Rebus si era bruciato mezzo stipendio per quella cena. Tendaggi pesanti, mobilio esotico, nappe decorative ovunque. Un uomo dalla pelle scura, in completo di seta azzurra, lo incrociò rivolgendogli un lieve inchino.
«'Giorno», lo salutò Rebus. «Buongiorno», rispose asciutto l'altro, fermandosi. «La riunione sta già finendo?» «Non saprei.» L'uomo chinò nuovamente il capo. «Le mie scuse. Pensavo che forse...» Ma la frase rimase incompiuta e l'uomo percorse i passi mancanti alla porta, bussando leggermente una sola volta prima di sparire all'interno. Mairie era uscita a vedere. «Non certo un granché, come segnale convenuto», disse Rebus. «Guarda che non sono mica massoni.» Lui invece non ne era tanto sicuro. Cos'era il G8, in fondo, se non una loggia ultraprivata? La porta si aprì nuovamente e ne uscirono due uomini che si diressero verso il vialetto, accendendosi le sigarette. «Ora di pranzo?» azzardò Rebus. Seguì Mairie che tornava all'ingresso della loro stanza, ma nel frattempo ne approfittò per osservare gli uomini che uscivano alla spicciolata dalla sala accanto. Erano circa una ventina. Alcuni africani, altri asiatici o mediorientali, certi agghindati in quelli che immaginò essere costumi nazionali. «Forse Kenya, Sierra Leone, Niger...» sussurrò Mairie. «Significa che in realtà non ne hai la minima idea?» le sussurrò lui di rimando. «Non sono mai stata forte in geografia...» A un tratto si interruppe e gli afferrò il braccio. Mescolato agli altri era comparso un uomo alto e imponente, che stringeva mani scambiando pochissime parole. Rebus lo riconobbe grazie alla rassegna stampa di Mairie. Il viso allungato era abbronzato e solcato di rughe, e una sfumatura bronzea era stata aggiunta anche ai suoi capelli. Sfoggiava un abito gessato con due centimetri di lindo polsino bianco in vista, aveva un sorriso per ognuno e sembrava conoscere tutti personalmente. Mairie era arretrata all'interno della stanza, ma Rebus rimase sulla porta. Richard Pennen era decisamente fotogenico: dal vivo la faccia appariva più smunta, le palpebre più pesanti. Però era in forma strepitosa, come se avesse passato l'ultimo fine settimana su una spiaggia tropicale. Era affiancato da due assistenti, che gli mormoravano informazioni all'orecchio e si adoperavano affinché anche quella porzione di giornata, come la precedente e la seguente, filasse liscia come l'olio. D'improvviso la visuale di Rebus fu bloccata da un cameriere che reggeva un vassoio con tè e caffè. Quando si mosse per farlo passare, notò che
Pennen si era accorto di lui. «Ebbene, è venuto il momento», sentenziò Mairie. Rebus si girò e pagò le consumazioni. «Lei è per caso l'ispettore Rebus, dell'Investigativa?» La voce profonda apparteneva a Richard Pennen. Stava in piedi a pochi passi da lui, sempre affiancato dagli assistenti. Mairie avanzò tendendogli la mano. «Mairie Henderson, signor Pennen. Una vera tragedia, al castello, l'altra sera...» «Una vera tragedia», concordò l'uomo. «Lei era lì, se non sbaglio.» «C'ero, sì.» «Una giornalista, signore», comunicò uno degli assistenti. «Non l'avrei mai detto», rispose Pennen con un sorriso. «Mi chiedevo soltanto», continuò Mairie senza perdere un colpo, «come mai era lei a pagare la stanza d'albergo del signor Webster.» «Non io: la mia azienda.» «E che interessi ha nella cancellazione del debito estero?» Ma Pennen era concentrato su Rebus. «Mi avevano avvisato che avrei potuto incontrarla.» «È bello sapere che ha dalla sua il comandante Steelforth.» Pennen lo squadrò da capo a piedi. «Ma la descrizione che ha fatto non le rende giustizia, ispettore.» «È stato comunque carino a prendersi la briga.» Perché significa che lo rendo nervoso, avrebbe potuto aggiungere. «Naturalmente lei sa che non avrebbe vita facile se denunciassi questa intrusione, vero?» «Stiamo solo bevendo un caffè, signore», ribatté Rebus. «Per come la vedo io, l'intruso è lei.» Pennen sorrise di nuovo. «Ben detto.» Si rivolse a Mairie. «Ben Webster era un ottimo deputato e sottosegretario, signorina Henderson, e molto scrupoloso. Come certo saprà, qualunque omaggio ricevuto dalla mia azienda sarebbe comparso nel registro dei benefici parlamentari.» «Tutto questo non risponde alla mia domanda.» Pennen fece una smorfia, poi un respiro profondo. «La mia azienda conduce gran parte dei propri affari all'estero. Magari se lo faccia spiegare dal suo caporedattore della pagina economica. La Pennen Industries è ormai tra i primissimi esportatori nazionali.»
«Di armi», aggiunse Mairie. «Di tecnologia», ribatté Pennen. «Inoltre, contribuiamo alla crescita finanziaria di Paesi poverissimi, da cui il coinvolgimento di Ben Webster.» Rivolse nuovamente lo sguardo a Rebus. «Nessun insabbiamento, ispettore. David Steelforth cerca solo di fare il suo lavoro. Nei prossimi giorni potrebbero essere firmati molti accordi per l'avvio di progetti enormi. Attraverso il rafforzamento dei contatti si salvano posti di lavoro, ma sono buone notizie che ai nostri mezzi d'informazione non interessano. E adesso, se volete scusarmi...» Si girò per andarsene, e Rebus ebbe la soddisfazione di vedergli un grumo di qualcosa appiccicato al tacco della costosa scarpa stringata e traforata. Non che fosse un esperto, ma sarebbe stato pronto a scommetterci: merda di pavone. Mairie si abbandonò pesantemente su un divano che subito scricchiolò, non avvezzo a simili abusi. «Cazzo», sospirò, versandosi un po' di tè. Rebus inalò il profumo di menta piperita e si servì del caffè dal bricco. «Aiutami a fare mente locale», le disse poi. «Quanto costa l'intera faccenda?» «Intendi il G8?» Mairie attese il suo cenno d'assenso, quindi gonfiò le guance tentando di ricordare. «Sui centocinquanta?» «Parli di milioni?» «Parlo di milioni.» «E cosi gli affaristi come Pennen possono continuare a fare il loro bel mestiere.» «Be', potrebbe non essere tutto lì...» Mairie sorrideva. «Ma per certi versi hai ragione: le decisioni importanti sono già state prese.» «E allora cosa mi rappresenta Gleneagles, a parte qualche bella cena e qualche stretta di mano per le telecamere?» «La Scozia sulla ribalta mondiale?» «Ma andiamo...» Rebus terminò il caffè. «Forse dovremmo fermarci a pranzo anche noi e vedere se riusciamo a scocciare Pennen più di quanto non abbiamo già fatto.» «Sicuro di potertelo permettere?» Rebus si guardò intorno. «Ora che mi ci fai pensare, quella specie di valletto non è tornato a portarmi il resto.» «Quale resto?» Mairie scoppiò a ridere. Capita l'antifona, Rebus decise che avrebbe svuotato il bricco del caffè fino all'ultima goccia. A sentire il telegiornale, il centro di Edimburgo era una zona di guerra.
Le due e mezzo di un lunedì pomeriggio. Di norma Princes Street sarebbe stata piena di gente con sporte e pacchetti, come pure gli adiacenti giardini pubblici, affollati di cittadini intenti a godersi una passeggiata o a riposare su una panchina commemorativa. Ma non quel giorno. Il notiziario passò alle proteste intorno alla base navale di Faslane, dov'erano alla fonda i quattro sottomarini britannici di classe Trident e circa duemila contestatori avevano dichiarato lo stato d'assedio. La polizia del Fife era stata incaricata di controllare il Forth Road Bridge per la prima volta nella storia e le auto dirette a nord venivano fermate e perquisite. Nei dintorni della capitale il traffico era bloccato da un sit-in di protesta, e vicino all'accampamento pacifista di Stirling si erano verificati modesti tafferugli. In Princes Street, invece, stava scoppiando una vera e propria sommossa. Poliziotti armati di sfollagente facevano sentire la propria presenza, protetti da scudi circolari che Siobhan non aveva mai visto prima. Intorno a Canning Street i disordini non erano ancora stati sedati e sulla Western Approach i dimostranti continuavano a impedire il traffico. Le immagini tornarono dallo studio a Princes Street: i disobbedienti sembravano trovarsi in inferiorità numerica non solo rispetto alla polizia, ma anche alle telecamere. Da entrambe le parti volavano sonori spintoni. «Stanno cercando lo scontro», commentò Eric Bain. Era venuto a Gayfield per mostrarle il poco che era riuscito a trovare fino a quel momento. «Potevi risparmiarti un viaggio e venire dopo avere controllato anche dai Jensen», gli aveva detto lei, ma lui si era limitato a fare spallucce. Erano soli nell'ufficio dell'Investigativa. «Vedi come funziona?» disse Bain, indicando lo schermo. «Uno spezza il cordone e arretra. Il poliziotto più vicino solleva il manganello, e ai giornali arriva la foto dello sbirro che picchia un poveraccio, colpevole solo di essere il primo della fila. Nel frattempo il vero provocatore si è nascosto altrove, pronto a ripetere il giochetto.» Siobhan annuì. «Così sembra che abbiamo tutti la mano pesante.» «Che è esattamente quello che i facinorosi vogliono.» Eric incrociò le braccia. «Da Genova in poi qualche trucco l'hanno imparato...» «Anche noi, però», disse Siobhan. «Il contenimento, tanto per dirne una. Il gruppo di Canning Street ormai è imbrigliato da quattro ore.» La linea era tornata allo studio e uno dei conduttori parlava in diretta con Midge Ure, che esortava i contestatori a tornarsene a casa.
«Peccato che nessuno se lo fili», fu il commento di Bain. «E farai anche un discorsetto alla signora Jensen?» lo pungolò Siobhan in tono allusivo. «Sì, capo. Quanta paura devo metterle?» «Le ho già detto che potremmo accusarla di volere ostacolare le indagini. Tu ricordaglielo.» Siobhan scrisse l'indirizzo dei coniugi Jensen su un foglio di blocco, che strappò e porse a Bain. Ma lui era di nuovo concentrato sulla tivù. Altre immagini in diretta da Princes Street. Alcuni dimostranti avevano scalato il monumento a Sir Walter Scott, e qualcuno aveva conquistato la sommità delle cancellate dei Gardens. Pedate contro gli scudi... lanci di zolle di terra. Poi sarebbe toccato alle panchine e ai bidoni dell'immondizia. «La situazione sembra precipitare», borbottò Bain. Lo schermo sfarfallò, ed ecco un'altra ripresa, da Torphichen Place, sede della stazione di polizia del West End. Qui volavano bottiglie e bastoni. «Meno male che non siamo bloccati là dentro.» «No, certo: noi siamo solo bloccati qui.» Lui la guardò. «Perché, preferiresti trovarti in mezzo ai casini?» Lei diede un'alzata di spalle e fissò lo schermo. Qualcuno stava chiamando in studio con il cellulare, una cliente dei British Home Stores intrappolata come molti altri nella filiale di Princes Street. «Noi non c'entriamo niente», strillava la donna. «Vogliamo solo uscire, ma i poliziotti fanno di tutta l'erba un fascio... mamme con bambini... vecchi...» «Sta dicendo che la polizia ha una reazione esagerata?» chiese il giornalista in studio. Siobhan fece un po' di zapping con il telecomando: da una parte Il tenente Colombo, dall'altra Un detective in corsia. E un film su Channel Four. «Ehi, ma quello è Rapita», disse Bain. «Strepitoso.» «Spiacente di deluderti», replicò Siobhan, fermandosi su un altro canale d'informazione. Stessi scontri da angolazioni diverse, e lo stesso dimostrante che aveva visto in Canning Street ancora seduto a dondolare le gambe in cima al suo bel muro. Dalla fessura del passamontagna si intravedevano solo gli occhi; premuto contro l'orecchio aveva un cellulare. «Già, a proposito», fece Bain, «mi ha chiamato Rebus per chiedermi come faceva un numero inesistente a essere attivo.» Siobhan lo guardò. «Ti ha detto perché?» Eric scosse il capo. «E tu cosa gli hai risposto?»
«Che si può clonare la carta SIM o settario per fargli fare chiamate ma non per riceverle.» Alzò le spalle. «Ci sono un sacco di modi.» Siobhan annuì e tornò a incollare lo sguardo allo schermo. Bain si portò distrattamente una mano alla nuca. «Allora, che ne pensi di Molly?» chiese. «Che sei un uomo fortunato, Eric.» Lui fece un gran sorriso. «Più o meno quel che pensavo io.» «Dimmi una cosa, però», riprese Siobhan, odiandosi per essersi lasciata trascinare nel discorso. «È sempre così piena di tic?» Il sorriso di Bain si sciolse come neve al sole. «Scusa, Eric, non avrei dovuto.» «Lei ha detto che sei molto simpatica», confidò lui. «Ha veramente il cuore d'oro.» «È fantastica», concordò Siobhan. Ma l'apprezzamento suonò vacuo persino alle sue orecchie. «Dove l'hai conosciuta?» Per un attimo lui rimase come paralizzato, poi si riprese. «In discoteca.» «Non pensavo ci fosse un ballerino in te, Eric.» Siobhan gli lanciò un'occhiata. «Già, però Molly è bravissima.» «Be', ha il fisico giusto...» Quando il cellulare squillò, fu travolta da un'ondata di sollievo e sperò con tutte le sue forze che le offrisse un pretesto per allontanarsi da lì. Il numero sul display era quello dei suoi. «Pronto?» Sulle prime il rumore che udì le parve una scarica elettrostatica, ma poi si rese conto che erano urla, fischi e versacci. Gli stessi che aveva appena sentito nei servizi da Princes Street. «Mamma?» disse. «Papà?» Poi una voce: suo padre. «Siobhan? Mi senti?» «Papà? Che diavolo ci fai lì?» «La mamma...» «Cosa? Papà, me la passi?» «La mamma è...» «È successo...» «Sanguinava... l'ambulanza...» «Papà, non ti sento più! Dove sei esattamente?» «... chiosco... giardini.» Più niente. Siobhan fissò il piccolo display rettangolare. CHIAMATA INTERROTTA.
«Chiamata interrotta», gli fece eco. «Che succede?» chiese Bain. «Mia madre e mio padre... Sono laggiù.» Fece un cenno con il capo in direzione dello schermo. «Mi dai un passaggio?» «Dove?» «Lì.» Puntò il dito contro lo schermo. «Lì?» «Lì.» 9 Non riuscirono a superare George Street. Siobhan smontò dalla macchina e disse a Bain di non scordarsi dei Jensen. Lui le raccomandò di fare attenzione, ma lei stava già sbattendo la portiera. Anche lì c'erano dimostranti, che si riversavano da Frederick Street. I commessi dei negozi, inorriditi e ipnotizzati al tempo stesso, osservavano da dietro porte e vetrine, mentre i semplici passanti occasionali si appiattivano contro i muri sperando di rendersi invisibili. C'erano detriti sotto i piedi. I contestatori venivano respinti verso Princes Street. Nessuno cercò di fermare Siobhan quando attraversò il cordone di polizia in quella direzione. Entrare era facile: il problema era uscire. Lei conosceva un solo chiosco, poco oltre il monumento a Scott. I cancelli dei Gardens erano stati chiusi, quindi si avviò verso la recinzione. I tafferugli si erano spostati dalla strada all'interno dei giardini pubblici, nell'aria volavano spazzatura, sassi e proiettili vari. Una mano la afferrò per la giacca. «Ferma dove sei.» Siobhan si voltò e si trovò davanti un poliziotto. Sopra la visiera dell'elmetto erano stampate le lettere xs. Per un istante pensò che fosse una sigla per Excess... perfetta. Aveva già in mano il tesserino. «Investigativa», gridò. «Allora dev'essere matta.» L'agente mollò la presa. «Sì, me l'hanno già detto», rispose lei, arrancando oltre le sbarre della recinzione. Guardandosi intorno si accorse che ai ranghi dei disobbedienti si erano uniti quelli che sembravano teppisti locali: ogni scusa era buona per menare le mani. Non capitava tutti i giorni di potere aggredire la pula con buone possibilità di farla franca. Si nascondevano dietro sciarpe di squadre di calcio tirate fin sotto gli occhi e giacche allacciate fino al men-
to. Almeno l'ultima moda imponeva le scarpe da ginnastica, anziché le Doc Martens. Ecco il chiosco: vendeva gelati e bibite fresche, ma era chiuso e circondato di vetri rotti. Mezzo china, Siobhan fece il giro completo. Nessuna traccia di suo padre. Macchie di sangue per terra, e lei le seguì con lo sguardo. Si fermavano proprio davanti ai cancelli. Rifece il giro del chiosco, sferrando un gran pugno sullo sportello passavivande. Poi un altro. Da dentro udì una voce smorzata. «Siobhan?» «Papà? Sei lì?» La porta laterale si aprì di colpo. All'interno c'erano suo padre e la proprietaria del chiosco, terrorizzata. «La mamma dov'è?» chiese Siobhan con voce tremante. «L'hanno portata via con l'ambulanza. Io non ho potuto... non mi hanno lasciato attraversare il cordone.» Non ricordava di avere mai visto suo padre in lacrime, eppure eccolo lì che piangeva. Piangeva, ed era chiaramente sotto shock. «Dovete uscire di qui.» «Io no», disse la sua compagna di sventura scuotendo il capo. «Devo restare di guardia. Ma ho visto cos'è successo... poliziotti bastardi. Lei se ne stava lì e non faceva niente...» «È stato un manganello», aggiunse il padre di Siobhan. «Un colpo in testa.» «Il sangue usciva a fiotti...» Siobhan zittì la donna con un'occhiata. «Come si chiama?» le chiese quindi. «Frances... Frances Neagley.» «Bene, Frances Neagley, io le consiglio di uscire.» Poi, al padre tremante: «Forza, andiamo». «Cosa?» «Dobbiamo andare dalla mamma.» «Ma come...?» «Non ti preoccupare. Vieni e basta.» Lo tirò per un braccio e sentì che lo avrebbe trascinato fuori anche di peso, se necessario. Frances Neagley richiuse la porta alle loro spalle, poi diede un giro di chiave. Un'altra zolla volante. Siobhan sapeva che l'indomani, trattandosi di Edimburgo, le più alte lamentele si sarebbero levate per la distruzione delle famosissime aiuole. I disobbedienti di Frederick Street avevano forzato i
cancelli e un tizio vestito da guerriero veniva ora trascinato per le braccia dietro le linee della polizia. Proprio davanti al cordone una giovane madre stava tranquillamente cambiando il pannolino alla sua piccola vestita di rosa. Qualcuno agitava uno striscione: NÉ DEI NÉ PADRONI. Le lettere X e S di «eccesso»... il bebé in rosa... la scritta sullo striscione... Tutto le appariva incredibilmente nitido, istantanee terse, con un significato che però non riusciva a cogliere sino in fondo. Qui c'è uno schema, un senso preciso... Chiederò a papà, dopo... Quindici anni prima lui aveva tentato di spiegarle un po' di semiotica. In teoria doveva aiutarla con un compito di scuola, ma di fatto era riuscito solo a confonderla di più, e quando poi in classe lei aveva detto «seminotica», il professore era esploso in una risata. Tentò di aggrapparsi a qualche volto conosciuto, senza trovarne. Allora, tesserino bene in vista, trascinò il padre di fronte a un agente che sfoggiava un giubbetto con la scritta MEDICO DI POLIZIA. «Investigativa», disse. «La moglie di quest'uomo è stata portata in ospedale: devo accompagnarcelo.» L'agente annuì e li scortò attraverso il cordone di polizia. «In quale ospedale?» si informò poi. «Lei quale ritiene più probabile?» L'agente la guardò. «Non saprei», disse. «Sono di Aberdeen.» «Il più vicino è il Western General», dichiarò allora Siobhan. «Avete mezzi disponibili?» L'agente accennò in direzione di Frederick Street. «Nella traversa in fondo.» «George Street?» Il medico scosse il capo. «Quella dopo.» «Queen Street?» Cenno di assenso, stavolta. «Grazie», disse Siobhan. «Ora sarà meglio che lei torni al suo posto.» «Immagino di sì», rispose il collega, senza troppo entusiasmo. «Ci stanno andando giù pesanti... non i nostri, eh. Quelli di Londra.» Siobhan si rivolse al padre. «Pensi di poterlo identificare?» «Chi?» «Quello che ha picchiato la mamma.» Lui si sfregò gli occhi con le mani. «No, non credo.» Con uno sbuffo irritato lo condusse su per la salita, verso Queen Street. Lì trovarono una fila di volanti parcheggiate e, incredibilmente, anche
un discreto traffico: auto e camion deviati dall'arteria principale che passavano lenti come in una giornata qualsiasi o diretti a una consegna qualsiasi. Siobhan spiegò la situazione a un autista della polizia e quello, sollevato all'idea di abbandonare la sua postazione, la fece montare dietro con il padre. «Sirena e lampeggianti», gli ordinò quindi lei. Partirono a tutta velocità, superando il traffico già in coda. «Vado bene di qua?» gridò l'autista. «Di dove sei?» «Peterborough.» Un altro di fuori, e per giunta inglese. «Sempre dritto. Ti dico io quando svoltare.» Strinse la mano del padre. «Tu non ti sei fatto male, vero?» Lui scosse la testa, poi la guardò negli occhi. «Che mi dici di te?» «Di me?» «Sei incredibile.» Teddy Clarke fece un sorriso stanco. «Come hai preso in mano la situazione, laggiù...» «Insomma, non ho solo un bel faccino, eh?» «Non mi ero mai reso conto...» Aveva di nuovo gli occhi lucidi. Si morse il labbro inferiore e ricacciò indietro le lacrime. Lei gli strinse la mano ancora più forte. «Non ho mai capito davvero», continuò lui, «quanto potevi essere brava in questo lavoro.» «Ringrazia che non devo portare l'uniforme, altrimenti uno di quei manganelli lo davano in mano a me.» «Ma tu non avresti colpito una donna innocente.» «Al semaforo, dritto», disse Siobhan all'autista, prima di tornare a rivolgersi al padre. «Difficile dirlo, sai? Non sappiamo mai di cosa siamo veramente capaci finché non ci troviamo calati nella situazione.» «Tu non l'avresti fatto», insistette lui, risoluto. «Probabilmente no», concesse lei. «Ma voi che ci facevate, là? Vi ci ha portato Santal?» Lui scosse il capo. «Pensavamo di limitarci a dare un'occhiata, ma la polizia la pensava altrimenti.» «Se trovo quello che...» «Guarda che non l'ho visto in faccia.» «Sì, ma c'erano un sacco di obiettivi. È difficile nascondersi, con un simile spiegamento di media.» «Fotografie, intendi?» Lei annuì. «E le telecamere a circuito chiuso... delle tivù e nostre, ov-
viamente.» Lo guardò in faccia. «La polizia avrà filmato tutto.» «D'accordo, però...» «Però cosa?» «Non penserai di poter controllare veramente ogni singolo dettaglio?» «Ci scommetti?» Lui la squadrò un istante. «No, preferirei di no.» Quasi cento arresti: il martedì i tribunali avrebbero avuto un bel daffare. In serata la controffensiva si spostò dai giardini di Princes Street a Rose Street, dove dalla sede stradale furono divelti blocchi di porfido usati come proiettili. Altri tafferugli scoppiarono sul Waverley Bridge, e in Cockburn e Infirmary Street. Verso le nove e mezzo la situazione cominciò a calmarsi, e gli ultimi problemi si verificarono fuori dal McDonald's in South St Andrew Street. Ormai gli agenti in uniforme erano tornati nella stazione di Gayfield, portandosi dietro sacchetti di hamburger il cui aroma arrivava fino alle stanze dell'Investigativa. Rebus aveva la tivù accesa: un documentario su un mattatoio. Eric Bain aveva appena inoltrato una lista di indirizzi e-mail corrispondenti a frequentatori abituali del sito BeastWatch, e il suo messaggio terminava con le parole: «Shiv, fammi sapere com'è andata!» Lui aveva provato a chiamarla sul cellulare, ma Siobhan non rispondeva. L'e-mail di Bain chiariva tra l'altro che, pur non avendo opposto netto ostruzionismo, i Jensen avevano «collaborato di malavoglia». Rebus aveva una copia dell'Evening News aperta accanto a sé. In prima pagina una foto della marcia di sabato e il titolo: SI VOTA ANCHE CON I PIEDI. Avrebbero potuto riutilizzarlo anche l'indomani, come accompagnamento alla foto di un disobbediente che mollava una pedata a uno scudo antisommossa. La pagina dedicata ai programmi televisivi lo informò invece sul titolo del truce documentario: Mattatoi, il compito del sangue. Si alzò e si avvicinò a una scrivania libera, da cui lo guardavano le carte del caso Colliar. Siobhan si era data da fare: aveva aggiunto verbali della polizia e delle autorità carcerarie su Eddie «lo Svelto» Isley e Trevor Guest. Guest: topo d'appartamento, teppista, predatore sessuale. Isley: stupratore. Colliar: stupratore. Tornò a concentrarsi sulle notizie di BeastWatch. Il sito aveva pubblicato i particolari riguardanti altri ventotto stupratori e molestatori di minorenni. C'era un lungo e furibondo commento scritto da qualcuno che si
firmava «Straziodentro»: una donna, ci avrebbe scommesso. L'estensore inveiva contro il sistema giudiziario e i suoi ferrei verdetti di «atti di libidine» contrapposti alla «violenza carnale». Ottenere una condanna per stupro era comunque difficilissimo, ma gli atti di libidine potevano essere altrettanto orrendi, feroci e degradanti, e le pene erano minori. La o lo scrivente sembrava piuttosto ferrato in materia di diritto, tuttavia era difficile dire se fosse originario di un luogo a nord o a sud del confine con l'Inghilterra. Rebus scorse nuovamente il testo in cerca di occorrenze del termine «furto con scasso», per esempio, visto che in Scozia si diceva «furto con effrazione», ma l'autore - o autrice - parlava solo di aggressioni e aggressori, tenendosi sul vago. A ogni modo meritava una risposta. Effettuò la connessione sul computer di Siobhan ed entrò nel suo account di Hotmail usando la sua password universale: Hibsgirl. Fece scorrere il dito sull'elenco di Bain fino a trovare l'indirizzo di Straziodentro, poi cominciò a scrivere: «Ho appena finito di leggere il suo pezzo su BeastWatch. L'ho trovato molto interessante e vorrei parlarne con lei. Ho delle informazioni che forse troverà degne di nota. La prego di chiamarmi al...» Rifletté per un istante. Non c'era modo di sapere quanto a lungo il cellulare di Siobhan sarebbe rimasto staccato. Digitò quindi il proprio numero di telefono, firmandosi però «Siobhan Clarke». Probabilmente una donna avrebbe risposto più facilmente a un'altra donna. Infine rilesse il messaggio e si rese conto che puzzava di sbirro lontano un miglio. Ci riprovò: «Ho visto cos'hai scritto su BeastWatch. Lo sapevi che hanno chiuso il sito? Mi piacerebbe parlarne con te, magari per telefono». Di nuovo aggiunse il suo numero e il nome di Siobhan, stavolta senza cognome: meno formale. Poi cliccò su INVIA. Quando il cellulare squillò, pochi minuti dopo, pensò che era troppo bello per essere vero. E infatti aveva ragione. «Ciao, Cannuccia», disse una voce strascicata. Cafferty. «Quand'è che la pianterai di chiamarmi così?» L'altro ridacchiò. «Quanto tempo è passato?» Oltre quindici anni... Rebus non ricordava nemmeno più come gliel'avesse appioppato, Cafferty, quel nomignolo. «Qualcosa da segnalare?» riprese Big Ger. «Dovrei forse dirlo a te?» Altra risatina, anche più gelida della precedente. «Supponiamo che lo prendete e la cosa finisce in tribunale: che figura ci faresti se all'improvviso si sapesse che io ti ho aiutato? Dovresti dare un sacco di spiegazioni.
Potrebbero addirittura invalidare il processo.» «Mi era parso di capire che ci tenevi anche tu che lo catturassimo.» Cafferty tacque. «Facciamo progressi», rispose quindi Rebus, soppesando le parole. «Quanti?» «Pochi.» «È normale, con la città nel caos.» Di nuovo quella risata. Forse aveva bevuto. «Oggi avrei potuto mandare a segno un colpo assolutamente clamoroso e voi manco ve ne sareste accorti.» «Perché non l'hai fatto, allora?» «Perché sono cambiato, ispettore. Adesso sto dalla vostra parte, ricordi? Quindi, se posso dare una mano...» «Non al momento, grazie.» «Ma se hai bisogno chiederai, vero?» «L'hai detto tu stesso, Cafferty: più verrai coinvolto, più difficile sarà ottenere un'eventuale condanna.» «Io lo so come si gioca a questo gioco, Cannuccia.» «E allora saprai anche quando è meglio starsene fermi un turno.» Rebus distolse lo sguardo dal televisore. C'era un macchinario che scuoiava un bovino. «Teniamoci in contatto, ispettore.» «Piuttosto...» «Sì?» «Ci sono degli sbirri con cui mi piacerebbe fare due chiacchiere. Sono inglesi, sono qui per il G8.» «E che problema c'è? Parlaci, no?» «Non è così facile. Non portano le mostrine e se ne vanno in giro con un furgone e una macchina privi di contrassegni.» «Perché ti interessano?» «Questo te lo dico un'altra volta.» «Una descrizione?» «Sarei pronto a giurare che sono della Met. Girano in tre. Facce abbronzate...» «Quindi qui spiccheranno non poco», lo interruppe Cafferty. «Il capo si chiama Jacko. E potrebbe essere agli ordini di uno dei reparti speciali, tale David Steelforth.» «Lo conosco, Steelforth.» Rebus dovette appoggiarsi a una scrivania. «Sul serio?»
«Negli ultimi anni ha sbattuto dentro un sacco di miei conoscenti.» Rebus ricordò: Cafferty aveva collegamenti con la mafia londinese, gente della vecchia guardia. «È qui anche lui?» «Alloggia al Balmoral.» Pausa. «E non mi dispiacerebbe sapere chi è che gli paga il conto.» «Proprio quando pensi di averle viste tutte», fu il commento di Cafferty, «ecco che arriva John Rebus e ti chiede di ficcare il naso nel piatto di uno dei reparti speciali. Perché ho la sensazione che questa cosa non c'entri niente con il povero Cyril?» «Te l'ho già detto, ti spiego più avanti.» «Quindi ora che stai facendo?» «Lavoro.» «Ti va di vederci a bere una cosa?» «Non sono così disperato.» «Neanch'io, volevo solo essere gentile.» Rebus ci pensò su un istante, quasi tentato, ma la linea era già caduta. Allora sedette e prese un bloc-notes, su cui elencò i risultati dei suoi sforzi di tutta la serata. Rancore? Poss vittima? Accesso a ero... Auchterarder: legame in zona? Chi sarà il prossimo? Davanti all'ultima riga socchiuse gli occhi. Interessante... Who's Next chi sarà il prossimo, appunto - era il titolo di un album degli Who, un altro dei preferiti di Michael. E conteneva Won't Get Fooled Again, attualmente usata come sigla di una serie di CSI... Improvvisamente lo colse il bisogno di parlare con qualcuno, magari con sua figlia o la sua ex moglie. Il richiamo della famiglia. Pensò a Siobhan e ai suoi genitori, e cercò di non sentirsi ferito all'idea che lei non avesse voluto presentarglieli. Non ne parlava mai, e lui non sapeva esattamente quanti parenti avesse. «In realtà, perché non gliel'hai mai chiesto», si rimproverò sottovoce. In quel momento il cellulare emise un bip per segnalare l'arrivo di un nuovo messaggio. Era proprio di Shiv. Lo lesse. PUOI RAGGIUNGERMI AL WGH? WGH stava per Western General Hospital. Rebus non aveva sentito no-
tizie di poliziotti feriti, e non c'era motivo per cui nel pomeriggio lei avesse dovuto recarsi in Princes Street o nelle immediate vicinanze. FAMMI SAPERE!!! Riprovò a comporre il suo numero mentre si avviava al parcheggio. Occupato. Saltò in macchina e gettò il telefonino sul sedile del passeggero, ma dopo neanche cinquanta metri di strada quello si mise a suonare. Lo afferrò e rispose senza controllare il display. «Siobhan?» «Cosa?» rispose una voce femminile. «Pronto?» Tra i denti, cercando di sterzare con una mano sola. «Parlo con... cercavo... No, lasci stare.» Il cellulare gli morì in mano e lui lo ributtò sul sedile. Dopo un rimbalzo, atterrò sul tappetino. Rebus strinse i pugni intorno al volante e premette forte sull'acceleratore. 10 Sul Forth Road Bridge c'era la fila, ma a loro non importava: avevano un sacco di cose da dirsi, e molte a cui pensare. Siobhan gli aveva raccontato la vicenda per filo e per segno. Ora suo padre non aveva intenzione di abbandonare un attimo il capezzale della moglie, così in ospedale gli avevano addirittura promesso un lettino provvisorio. A lei avrebbero fatto la TAC la mattina seguente, per verificare possibili danni cerebrali. Il manganello l'aveva colpita alla parte superiore del viso: entrambi gli occhi erano gonfi e lividi, uno non si apriva nemmeno, e il naso era tappezzato di garza, benché non rotto. Rebus si era informato sulla possibilità di danni permanenti alla vista, e Siobhan aveva ammesso che potenzialmente sua madre rischiava di non vederci più da un occhio. «Dopo la TAC la manderanno all'Oftalmico. Ma lo sai qual è stata la cosa peggiore?» «Renderti conto che tua madre è un essere umano?» aveva azzardato lui. Siobhan aveva scosso lentamente il capo. «No: il fatto che siano venuti a interrogarla.» «Chi?» «La polizia.» «Be', è già qualcosa.» Lei aveva riso, astiosa. «Mica volevano scoprire chi l'ha colpita. Le hanno solo chiesto che cosa aveva fatto lei...» Ma certo, ovvio, non era forse tra i dimostranti? Non si trovava forse in-
sieme alle teste calde? «Oh, Cristo», aveva borbottato lui. «E tu eri lì?» «Se ci fossi stata, li avrei massacrati.» Quindi, in poco più di un sussurro: «Io ho visto come hanno gestito le cose, John». «Alla tivù sembrava un bel casino.» «La polizia ha esagerato.» Fissandolo dritto negli occhi, sfidandolo a contraddirla. «Sei arrabbiata», si era limitato a rispondere lui, mentre abbassava il finestrino per dare un'occhiata. Nel tragitto fino a Glenrothes le aveva a sua volta raccontato la propria serata, avvisandola che avrebbe potuto ricevere una e-mail da Straziodentro. Ma Siobhan sembrava non ascoltarlo neanche. Alla centrale di polizia del Fife dovettero mostrare i tesserini tre volte, prima di ottenere l'accesso al quartier generale dell'operazione Sorbo. Rebus aveva deciso di omettere la cronaca della nottata in cella: non era cosa che la riguardasse, e finalmente la mano sinistra gli era tornata quasi normale. C'era voluta solo una scatola intera di ibuprofene... La sala controllo non era molto diversa dalle altre: immagini a circuito chiuso, civili con gli auricolari davanti ai terminali, cartine dettagliate della Scozia centrale. Proveniente dalle telecamere piazzate sulle torrette, c'era una ripresa in diretta della cinta perimetrale di Gleneagles. Altre riprese da Edimburgo, da Stirling e dal Forth Bridge, nonché del traffico sulla M9, l'autostrada che sfiorava Auchterarder. Era appena montato il turno di notte, che tradotto significava voci basse e atmosfera smorzata, placida concentrazione, nessuna fretta. Niente pezzi grossi, a quanto aveva modo di vedere, e niente Steelforth. Siobhan conosceva un paio di facce dalla visita della settimana precedente; andò quindi a chiedere il favore che le serviva, lasciando Rebus a passeggiare su e giù per la stanza. Poi anche lui notò qualcuno: Bobby Hogan era stato promosso ispettore capo dopo un conflitto a fuoco risolutivo a South Queensferry, ma con la promozione era arrivato anche il trasferimento nella polizia del Tayside. Rebus non lo vedeva da un annetto buono, ma riconobbe i folti capelli argentei e la testa incassata nelle spalle. «Bobby», disse, tendendogli la mano. Hogan spalancò gli occhi. «Accidenti, John, non dirmi che siamo disperati fino a questo punto!» Gli restituì la stretta. «Non temere, sono qui solo in veste di autista. Allora, come te la passi?» «Non mi lamento. Ma quella laggiù è Siobhan?» Rebus annuì. «E perché
si sta intortando uno dei miei agenti?» «Le servono dei filmati di sorveglianza.» «Ah, di quelli ne abbiamo da vendere. A che scopo?» «Un caso al quale stiamo lavorando, Bobby... un sospettato che potrebbe aver partecipato agli scontri di oggi.» «Un ago in un pagliaio», commentò Hogan aggrottando la fronte. Aveva un paio d'anni meno di Rebus, ma il viso più segnato. «E come ci si sente a fare l'ispettore capo?» chiese Rebus, cercando di sviare l'attenzione dell'amico. «Be', dovresti provarci anche tu, prima o poi.» Scosse la testa. «Per me è troppo tardi, Bobby. Ti trovi bene a Dundee?» «Vedessi che garçonnière mi sono fatto...» «Pensavo che tu e Cora vi foste rimessi insieme.» Il viso di Hogan si rabbuiò ancora di più. Scosse vigorosamente il capo, chiaro segno che quello era un argomento da evitare. «Ragazzi, che po' po' di sala controllo», commentò quindi Rebus. «Centrale di comando», precisò Hogan gonfiando il petto. «Siamo in contatto con Edimburgo, Stirling e Gleneagles.» «E se le cose si mettono male per davvero?» «Il G8 si trasferisce nel nostro vecchio parco giochi... Tulliallan.» Cioè la sede della scuola di polizia scozzese. Rebus annuì per mostrare quanto fosse colpito. «Linea diretta con i reparti speciali, Bobby?» Hogan si limitò a un'alzata di spalle. «Guarda che alla fin fine qui comandiamo noi, John, non loro.» Rebus annuì di nuovo, ma stavolta fingeva. «Però me ne sono trovato qualcuno tra i piedi, di quelli...» «Steelforth?» «Va in giro a fare il galletto per Edimburgo.» «Si, è piuttosto pesante», ammise Hogan. «Io mi esprimerei altrimenti, ma sarà meglio che eviti. Vedi mai che magari è il tuo amichetto del cuore.» Hogan lasciò partire un fischio. «Seee, come no.» «Sai cos'è? Che in realtà non è solo lui.» Rebus abbassò ancora di più la voce. «Ho avuto problemi anche con qualcuno dei suoi ragazzi. Girano in uniforme, ma senza mostrine. Auto civetta, più un furgone con i lampeggianti ma senza sirena.» «E che cos'è successo?» «Io tentavo solo di essere gentile, Bobby...»
«E?» «Diciamo che ho picchiato una gran musata contro il muro.» Hogan lo guardò. «In senso letterale?» «Diciamo pure di sì.» L'altro gli indirizzò un cenno comprensivo. «Vorresti qualche nome da appiccicare alle facce?» «Come identikit non posso offrirti granché», rispose lui, vagamente rammaricato. «Di sicuro recentemente hanno preso il sole, e uno si chiama Jacko. Credo vengano dal Sud-est.» Hogan rifletté per un istante. «Vediamo cosa posso fare.» «Solo se riesci a tenerti sotto la soglia del radar, Bobby, mi raccomando.» «Rilassati pure. Te l'ho detto, qua il radar lo manovro io.» Gli posò una mano rassicurante sul braccio. Rebus lo ringraziò con un cenno del capo, decidendo che non stava a lui infrangere le illusioni del suo amico. Siobhan aveva ristretto il campo. Dopotutto le interessavano solo le immagini dei Gardens, e solo quelle comprese in un lasso di trenta minuti. Detto ciò, si trattava comunque di un migliaio di foto, più i filmati effettuati da oltre dieci punti di ripresa, e questo escludendo le telecamere a circuito chiuso e le foto e i video realizzati da spettatori e dimostranti. «Poi ci sono i media», le avevano detto. BBC News, ITV, il quarto e il quinto canale, più Sky e la CNN. Per non parlare dei fotografi al soldo dei maggiori quotidiani scozzesi. «Partiamo da quello che abbiamo noi», aveva risposto lei. «C'è una cabina vuota.» Aveva ringraziato Rebus per il passaggio e gli aveva detto che era meglio se lui tornava a casa. Per rientrare a Edimburgo, lei ne avrebbe scroccato un altro. «Hai intenzione di fermarti tutta la notte?» «Magari non sarà necessario.» Però entrambi sapevano che era assai probabile. «La mensa è aperta ventiquattr'ore su ventiquattro.» «E i tuoi?» «Tornerò da loro appena avrò finito qui.» Si interruppe. «Se puoi fare a meno di me...» «Be', m'ingegnerò al mio meglio, d'accordo?» «Grazie.» Lo aveva abbracciato, senza sapere bene perché. Magari solo
per sentirsi umana, con la nottata che le si spalancava dinanzi. «Senti, Siobhan, ammesso e non concesso che lo trovi... poi che farai? Lui dirà che stava solo facendo il suo lavoro.» «Ma io avrò le prove che non era così.» «Attenta a non tirare troppo la corda.» Lei aveva annuito, poi gli aveva sorriso e strizzato l'occhio. Gesti imparati da lui, segnali di riconoscimento del rischio imminente. L'occhiolino. Un sorriso. Poi se n'era andata. Qualcuno aveva imbrattato le porte del quartier generale di polizia in Torphichen Place, divisione C, con un grosso simbolo anarchico. L'edificio era vecchio e cadente, estremamente più d'atmosfera rispetto alla stazione di Gayfield. Fuori, i netturbini accumulavano pattume e ore di straordinario. Vetri rotti, sassi e mattoni, incarti di fast food. Il sergente di guardia alla portineria lo fece entrare. Alcuni dimostranti di Canning Street erano stati portati lì per i primi controlli, alloggiati per la notte in celle appositamente liberate. Rebus preferiva non pensare a quanti tossici e rapinatori vagassero ora per le vie di Edimburgo, sfrattati dalle loro gabbie di pertinenza. La sala dell'Investigativa era lunga, stretta e costantemente impregnata del vago aroma di sudore umano, cosa che Rebus attribuiva alla presenza dell'agente Charlie «Rodi-culo» Reynolds. E infatti eccolo stravaccato al suo posto, piedi accavallati sulla scrivania, cravatta slacciata e una lattina di birra in mano. A un'altra scrivania sedeva il suo capo, l'ispettore Shug Davidson, che la cravatta se l'era tolta del tutto... ma almeno lui aveva l'aria di lavorare, intento a martellare la tastiera del computer con due dita, la lattina di birra ancora intatta. Al suo ingresso nella stanza, Reynolds non si prese minimamente la briga di soffocare un rutto. «Oh, ecco il convitato di pietra!» esclamò invece nel riconoscerlo. «Ho sentito che a quelli del G8 stai simpatico all'incirca come la Rebel Clown Army.» Levò comunque la lattina a mo' di brindisi. «Così mi ferisci, Charlie. Vedo che ti ammazzi di lavoro, eh?» «Dovrebbero darci dei bei premi, altroché.» Reynolds gli offrì una lattina chiusa, ma lui scosse il capo. «Sei venuto a goderti un po' di movimento?» aggiunse Davidson. «Devo solo scambiare due parole con Ellen», spiegò Rebus, accennando con la testa in direzione dell'unica altra occupante dell'ufficio. Il sergente Ellen Wylie alzò lo sguardo dal rapporto dietro cui si nascondeva. I capelli biondi erano tagliati corti, con la riga in mezzo, e da quando avevano lavo-
rato insieme a un paio di casi aveva messo su un po' di peso. Le guance erano più piene, adesso, e anche paonazze, cosa che Reynolds non poté esimersi dal sottolineare, sfregandosi le mani e poi tendendole verso di lei come a scaldarsele davanti al fuoco. Ellen si alzò evitando di incrociare il suo sguardo, mentre Davidson faceva notare che forse anche lui, in quanto capo, meritava di essere messo a parte dell'argomento, ma Rebus si limitò a un'alzata di spalle. La Wylie aveva già preso giacca e borsetta dalla spalliera della sedia. «Tanto stavo andando via comunque», annunciò ai presenti. Reynolds fece un fischio e diede una gomitata a Davidson. «Che te ne pare, Shug? È bello quando sboccia l'amore tra colleghi, no?» Le risate la seguirono fuori dalla stanza. In corridoio Ellen si appoggiò al muro e chinò il capo. «Giornataccia?» indovinò Rebus. «Hai mai provato a interrogare un anarcosindacalista tedesco?» «Non di recente.» «Bisognava verbalizzare tutto entro stasera, per consegnare la deposizione in tribunale domani.» «Oggi», la corresse Rebus, picchiettando con un dito sul quadrante dell'orologio. Lei si controllò a sua volta il polso. «È già così tardi?» Sembrava veramente esausta. «Tra sei ore devo essere di nuovo qui.» «Ti offrirei da bere, se solo i pub fossero ancora aperti.» «Non mi andrebbe comunque.» «Un passaggio a casa?» «Ho la macchina qui fuori.» Rifletté per un attimo. «Anzi, no... oggi non l'ho presa.» «Ottima mossa, tutto considerato.» «Ci avevano detto che era meglio di no.» «La lungimiranza è una cosa meravigliosa. E così significa che posso dartelo, questo passaggio a casa.» Rebus attese che lei lo guardasse, poi sorrise. «Non mi hai ancora chiesto che cosa voglio.» «Lo so che cosa vuoi», ribatté allora Ellen inalberandosi un po'. Lui levò una mano in segno di resa. «Tranquilla, tranquilla», le disse. «Non voglio che ti riempia...» «Di che?» Dritto dritto alla battuta finale: «Strazio dentro».
Ellen Wylie viveva con la sorella, divorziata. Una villetta a schiera a Cramond, con il giardino sul retro che terminava a strapiombo sul fiume Almond. La nottata era mite e Rebus aveva urgente bisogno di una sigaretta, perciò si sedettero fuori. Ellen parlava a voce bassa: non voleva che i vicini si lamentassero, e poi la finestra della camera della sorella era aperta. Portò al tavolo due tazze di tè con il latte. «Bel posticino», disse Rebus. «Mi piace questo fatto che si sente l'acqua.» «Poco più giù c'è una chiusa.» Ellen indicò un punto nell'oscurità. «Copre il rumore degli aeroplani.» Rebus annuì. Si trovavano proprio sotto la rotta di atterraggio dell'aeroporto di Turnhouse. A quell'ora di notte da Torphichen Place ci avevano messo poco più di dieci minuti, e strada facendo lei gli aveva raccontato la sua storia. «Così ho scritto una cosa per il sito. Non è mica un reato, no? Ero talmente incazzata con tutto il sistema... Noi sudiamo sette camicie per portare queste bestie davanti al giudice, e poi gli avvocati fanno di tutto per ridurre le sentenze a mere briciole.» «Tutto qui?» Lei si era dimenata un po' sul sedile del passeggero. «Che altro ci dovrebbe essere?» «Quel nick, Straziodentro: sembrava una cosa molto personale.» Lei aveva fissato lo sguardo oltre il parabrezza. «No, John. Ero solo arrabbiata. Troppe ore passate su casi di violenza sessuale, atti di libidine, abusi familiari... ma forse per capire bisogna essere donne.» «Ed è questo il motivo per cui hai chiamato Siobhan? Ho riconosciuto subito la tua voce.» «Sì, è stato particolarmente subdolo da parte tua.» «Subdolo è il mio secondo nome...» Adesso, seduto nel giardino di lei sotto quel vento fresco, Rebus si abbottonò la giacca e le chiese del sito. Come l'aveva trovato? Conosceva i Jensen? Li aveva mai incontrati di persona? «Ricordo il caso», fu tutta la sua risposta. «Vicky Jensen?» Lei annuì piano. «Ci hai lavorato?» Ellen scosse il capo. «Ma sono contenta che lui sia morto. Mostrami la lapide, e ci ballerò sopra.» «Anche Edward Isley e Trevor Guest sono morti.» «Senti, John, io ho solo scritto un commento su un sito. Avevo bisogno
di sfogarmi.» «E adesso tre degli uomini elencati su quel sito sono morti. Una botta in testa e un'overdose di eroina. Tu li conosci gli omicidi, Ellen: che cosa ti suggerisce questo modus operandi?» «Mi parla di qualcuno in grado di procurarsi droghe pesanti.» «E che altro?» Lei rifletté un istante. «Dimmelo tu.» «L'assassino non voleva trovarsi faccia a faccia con le vittime. Forse perché erano più grosse e più forti, chissà. Ma non voleva neanche che soffrissero: un bel KO e poi l'iniezione. A te non sembra opera di una donna?» «Com'è il tè, John?» «Ellen...» Lei sbatté la mano aperta sul tavolo. «Se quelli stavano su BeastWatch, erano feccia di prima categoria: non pretenderai che mi dispiaccia?» «E che mi dici del loro assassino?» «Che cosa dovrei dirti?» «Speri che la faccia franca?» Lei stava di nuovo fissando l'oscurità. Il vento faceva stormire gli alberi vicini. «Sai a che cosa abbiamo assistito oggi, John? A una guerra, fatta e finita. Buoni contro cattivi.» Vallo a raccontare a Siobhan, pensò Rebus. «Ma non è sempre così, giusto?» continuò lei. «A volte il confine è labile, la distinzione sfuma.» Aveva ricominciato a guardarlo. «E tu dovresti saperlo meglio di molti altri, con tutte le scorciatoie che ti ho visto imboccare.» «Io come modello professionale faccio schifo, Ellen.» «Sarà. Però ti riproponi di trovarlo, l'assassino, giusto?» «Trovarlo o trovarla. È per questo che mi serve una tua deposizione.» Lei aprì bocca per protestare, ma lui alzò una mano. «Tu sei l'unica persona che conosco che visitava quel sito. I Jensen l'hanno chiuso, quindi non posso essere sicuro di chi altro ci fosse.» «E vuoi il mio aiuto?» «Sì. La risposta a qualche domanda.» Lei fece una risata aspra e smorzata. «Lo sai che oggi dovrò andare in tribunale?» Rebus si accese un'altra sigaretta. «Perché stai a Cramond?» le chiese poi. Lei parve sorpresa dal cambio d'argomento.
«È come un paese», spiegò. «Un paesino dentro una città. Il meglio di entrambe le cose.» Fece una pausa. «L'interrogatorio è già cominciato? Questo sei tu che cerchi di farmi abbassare la guardia?» Rebus scosse il capo. «Mi chiedevo solo di chi fosse stata l'idea.» «La casa è mia. Denise è venuta a vivere con me dopo che...» Si schiarì la gola. «Scusa, mi è andato di traverso un moscerino. Volevo dire, dopo il divorzio.» Rebus annuì. «Be', è proprio un posticino tranquillo, te lo concedo. È facile, qui, scordarsi completamente del lavoro.» La luce in cucina illuminò il sorriso di lei. «Ho la sensazione che per te non funzionerebbe comunque. Credo che con te non funzionerebbe niente, a parte una mazzata in testa.» «O magari qualcuna di quelle», ribatté lui, indicando con un cenno del capo la fila di bottiglie di vino vuote sul davanzale della finestra. Tornò in centro prendendosela con calma. Adorava la città di notte, i taxi e i pedoni che ciondolavano sui marciapiedi, il bagliore caldo dei lampioni, i negozi oscurati, le tende tirate dietro le finestre dei palazzi. C'erano diversi posti dove poteva andare: una certa panetteria, il bancone di un portiere di notte, un casinò... posti in cui lo conoscevano e dove poteva bere una tazza di tè e fare quattro chiacchiere informali. Anni prima si sarebbe magari fermato a salutare le ragazze al lavoro in Coburg Street, ma quasi tutte avevano cambiato zona o erano passate a miglior vita. Quando anche lui se ne fosse andato, Edimburgo sarebbe rimasta e sul palcoscenico della città si sarebbero recitate sempre le stesse scene, in una commedia dalle repliche infinite: qualche assassino catturato e condannato, altri impuniti e a piede libero, l'eterna coabitazione di vita e malavita. Alla fine della settimana il circo del G8 si sarebbe spostato altrove, Geldof e Bono si sarebbero trovati nuove cause, Richard Pennen sarebbe tornato al suo consiglio di amministrazione e David Steelforth a Scotland Yard. A volte Rebus aveva la sensazione di essere a un pelo dal cogliere il grande meccanismo che collegava ogni cosa. Vicino... ma mai abbastanza. Quando svoltò in Marchmont Road, i Meadows sembravano deserti. Parcheggiò in fondo a Arden Street e a piedi ridiscese verso il suo palazzo. Due o tre volte la settimana si trovava nella buca delle lettere i volantini pubblicitari di agenzie determinate a rappresentarlo qualora avesse voluto vendere il suo appartamento. Quelli sopra di lui avevano incassato duecen-
tomila sterline: se a quei soldi lui avesse aggiunto la pensione di ex ispettore avrebbe potuto darsi alla bella vita, come Siobhan continuava a ricordargli. Il problema era che la cosa non lo interessava. Si chinò a raccogliere la posta da dietro la porta. Tra i vari fogli, il menu di un nuovo takeaway indiano: l'avrebbe appeso in cucina accanto agli altri. Quindi si fece un panino al prosciutto e lo mangiò in piedi in cucina, gli occhi fissi sulla schiera di lattine vuote che affollavano il piano da lavoro. Quante bottiglie c'erano, sulla finestra di Ellen Wylie? Quindici, forse venti. Parecchio vino. In casa aveva notato un cestello vuoto di Tesco: probabilmente riportava i vuoti al supermercato a intervalli regolari, quando faceva la spesa. Ogni due settimane? Venti bottiglie ogni due settimane faceva dieci la settimana. Denise è venuta a vivere con me dopo che... dopo il divorzio. Nel cono di luce della finestra della cucina non aveva visto alcun moscerino notturno. Ellen aveva l'aria spossata: facile dare la colpa alla giornata intensa, ma Rebus sapeva che c'era dell'altro, qualcosa di più profondo. Quelle rughe sotto gli occhi arrossati ci avevano messo settimane ad accumularsi. La linea le si era appesantita già da un po'. Sapeva che una volta Siobhan vedeva in Ellen una rivale, due sergenti che avrebbero dovuto lottare con le unghie e con i denti per la promozione. Ultimamente però aveva smesso di parlare della collega in quei termini. Forse perché Ellen non le sembrava più tanto pericolosa. Si versò un bicchiere d'acqua, lo portò in soggiorno, lo scolò quasi tutto e al dito rimasto sul fondo aggiunse una dose di puro malto. Il calore gli avvolse immediatamente la gola. Si concesse un rabbocco e andò a sistemarsi in poltrona. Troppo tardi per ascoltare un po' di musica. Premette il bicchiere contro la fronte e chiuse gli occhi. Un attimo dopo dormiva. Martedì 5 luglio 11 Il massimo che le avevano offerto a Glenrothes era stato un passaggio fino alla stazione di Markinch. Ora Siobhan sedeva in treno - ancora troppo presto per la ressa dei pendolari - e guardava la campagna che le scorreva davanti. Non che la vedesse davvero: la sua mente non faceva che riproporle i filmati degli scontri, le ore e ore di immagini dalle quali era appena scappata. Rumore e furore,
imprecazioni e cariche, il clangore metallico degli oggetti lanciati in aria e i grugniti di fatica. Non sentiva più il pollice, da tanto aveva premuto il telecomando. Pausa... indietro piano... avanti piano... play. Avanti veloce... riavvolgi... pausa... play. Su alcune foto avevano già cerchiato delle facce, tutta gente che le forze dell'ordine avrebbero interrogato. Sguardi carichi d'odio. Naturalmente, alcuni non erano affatto dimostranti ma cattivi soggetti locali che non vedevano l'ora di scatenarsi, protetti dalle sciarpe Burberry e dai berretti da baseball. Giù al Sud li chiamavano chavs: da qualche parte aveva letto che veniva dalla lingua rom e significava bambini, marmocchi. Ma in Scozia si chiamavano neds, termine con cui a Glasgow indicavano i teddy boy degli anni '50, e questo gliel'aveva detto uno della squadra, portandole un caffè e una barretta al cioccolato e sbirciando le immagini da dietro le sue spalle. «Ma guardalo lì. Neddy, il Ned di Nedtown.» La donna seduta di fronte a lei nella carrozza leggeva il giornale del mattino. Gli scontri erano finiti in prima pagina, ma anche Tony Blair, a Singapore per sostenere la candidatura di Londra quale sede delle Olimpiadi del 2012. Una data lontanissima... così come Singapore. Siobhan non riusciva a credere che il premier sarebbe tornato a Gleneagles in tempo per stringere tutte quelle mani: Bush e Putin, Schroder e Chirac. Il giornale diceva anche che la folla di sabato a Hyde Park non sembrava proprio essersi diretta a nord. «Scusi, è libero?» Siobhan annuì e l'uomo prese posto accanto a lei. «Serata tremenda, ieri, eh?» commentò. Siobhan rispose con un borbottio, ma la sua dirimpettaia disse che era andata a far compere in Rose Street e per un soffio non era rimasta coinvolta nei disordini. Poi i due cominciarono a scambiarsi aneddoti dal fronte, mentre Siobhan riprendeva a guardare fuori dal finestrino. Le scaramucce erano state giusto quello: delle scaramucce. Del resto, le tattiche della polizia non erano cambiate: dateci dentro e fategli capire che la città è nostra, non loro. A giudicare dai filmati la provocazione era innegabile, ma i partecipanti erano stati avvisati: inutile andare a un corteo se poi non si finisce nei notiziari. Gli anarchici non potevano permettersi campagne stampa, e le cariche di manganello erano tutta pubblicità gratuita. Le foto sul giornale lo comprovavano: sbirri che brandivano lo sfollagente digrignando i denti, dimostranti indifesi a terra che venivano trascinati via da uniformi senza volto. Molto orwelliano. E nulla di tutto ciò aveva aiutato
Siobhan a scoprire chi era stato ad aggredire sua madre, o perché. Ma lei non intendeva arrendersi. Ogni volta che socchiudeva le palpebre le bruciavano gli occhi, e dopo qualche battito il mondo cominciò a farsi sfocato. Aveva bisogno di dormire, ma si era riempita di zuccheri e caffeina. «Scusi, si sente bene?» Di nuovo il vicino, che le sfiorava il braccio con la mano. Quando aprì gli occhi, Siobhan sentì un'unica lacrima scorrerle lungo la guancia. La asciugò. «Sì», rispose. «Sono solo un po' stanca.» «Pensavo che magari coi nostri discorsi...» disse la donna dall'altra parte. Siobhan scosse il capo, poi vide che la signora aveva finito di leggere il giornale. «Le spiace se...?» «Ma no, cara, prenda pure.» Siobhan riuscì ad abbozzare un sorriso e aprì il tabloid. Esaminò le foto, cercò il nome del fotografo... A Haymarket si mise in fila per un taxi e al Western General filò subito in reparto. Suo padre stava bevendo un tè nei pressi dell'accettazione. Aveva dormito vestito e non era riuscito a farsi la barba, una peluria grigia e ispida che ora gli copriva il mento e le guance. A Siobhan parve vecchio. Vecchio e improvvisamente mortale. «Come sta?» gli chiese. «Non malissimo. Farà la TAC appena prima di pranzo. E tu?» «Non ho ancora trovato quel bastardo.» «Volevo dire, tu come stai?» «Bene.» «Ma ti sei fatta mezza nottata in piedi, giusto?» «Anche un po' più di mezza», riconobbe lei con un sorriso. Il cellulare emise un bip: non un messaggio, solo l'avviso che la batteria si stava scaricando. Lo spense. «Posso vederla?» «La stanno preparando. Hanno detto che mi avvisavano quando avevano finito. Com'è il mondo, là fuori?» «Pronto ad affrontare un altro giorno.» «Ti va un caffè?» Lei scosse la testa. «No, mi esce dalle orecchie.» «Dovresti riposarti un po', piccola. Vieni a trovarla oggi pomeriggio, dopo le analisi.» «Prima però vado a salutarla.» Accennò alle porte del reparto.
«Poi te ne andrai di corsa a casa?» «Promesso.» Le notizie del mattino: gli arrestati del giorno prima sarebbero stati deferiti al tribunale di contea di Chambers Street, chiuso al pubblico. Davanti al centro di permanenza per immigrati di Dungavel era in atto una protesta e, anche se l'ufficio Immigrazione aveva già trasferito altrove gli stranieri in attesa di rimpatrio, la dimostrazione si sarebbe tenuta comunque, chiarivano gli organizzatori. Problemi al campeggio pacifista di Stirling. I convenuti iniziavano a dirigersi verso Gleneagles e la polizia, forte dei poteri concessi dall'articolo 60 della legge sull'ordine pubblico, era decisa a fermarli e a perquisirli anche in assenza di fondati sospetti. A Edimburgo il repulisti era già ben avviato: era stato sequestrato un camion cisterna con quattrocento litri di olio per friggere perché il carico, opportunamente rovesciato, avrebbe potuto formare una chiazza sulla strada e mandare in tilt il traffico. Il concerto Final Push, previsto per il mercoledì a Murrayfield, era alle ultime battute organizzative: il palco già in piedi, le luci al loro posto. Midge Ure sperava in una «decente giornata estiva scozzese». Artisti e VIP raggiungevano la città: Richard Branson, patron della Virgin, era atterrato a Edimburgo alla guida di uno dei suoi jet, e l'aeroporto di Prestwick si preparava agli arrivi dell'indomani. Le avanguardie diplomatiche erano giunte a destinazione, e il presidente Bush avrebbe portato con sé il suo cane da fiuto personale e la mountain bike, in modo da non interrompere la quotidiana attività fisica. Il conduttore del telegiornale lesse quindi un'e-mail inviata da uno spettatore che osservava come il summit si sarebbe potuto svolgere su una delle tante piattaforme petrolifere dismesse nel mare del Nord, «risparmiando così una bella somma in dispositivi di sicurezza e rendendo molto più interessanti le marce di protesta». Rebus terminò il caffè e abbassò il volume. Il parcheggio della stazione di polizia si stava riempiendo di camionette pronte a trasportare i fermati in tribunale. Ellen Wylie sarebbe arrivata nel giro di un'ora e mezzo per rilasciare la sua deposizione. Lui aveva provato a chiamare Siobhan un paio di volte ma aveva beccato la segreteria, segno che il telefonino era spento, e al quartier generale del Sorbo gli avevano detto che era già tornata a Edimburgo. Tentò anche al Western General, ma apprese soltanto che «la signora Clarke aveva passato bene la notte». Quante volte l'aveva sentita, quella frase. Ha passato bene la notte, vale a dire «è ancora viva, se è que-
sto che la preoccupa». Alzò gli occhi e si accorse che nella sala dell'Investigativa era entrato un uomo. «Cerca qualcosa?» chiese Rebus. Poi riconobbe l'uniforme. «Chiedo scusa, signore.» «Non ci conosciamo», disse il capo della polizia tendendogli la mano. «Sono James Corbyn.» Gli restituì la stretta di mano, trovandola decisamente poco massonica. «Ispettore Rebus», si presentò. «Lei lavora insieme al sergente Clarke sul caso di Auchterarder?» «Esatto, signore.» «Il sergente mi deve un aggiornamento, ma non riesco a trovarla.» «C'è stato qualche sviluppo interessante, signore. Un sito web allestito da una coppia della zona, attraverso il quale l'assassino potrebbe aver scelto le sue vittime.» «Avete i tre nomi?» «Sì, signore. Stesso modus operandi per tutti.» «Potrebbero non essere i soli?» «Impossibile saperlo, purtroppo.» «E l'assassino si fermerà qui?» «Di nuovo, signore, difficile a dirsi.» Il capo della polizia perlustrò la stanza, ispezionando tabelle appese, scrivanie, schermi di computer. «Ho detto al sergente Clarke che le avrei dato tempo fino a domani, poi avremmo congelato il caso fino ad avvenuta archiviazione del G8.» «Non sono certo che sia una buona idea.» «I media non sanno niente. Non vedo perché non dovremmo lasciar raffreddare il tutto per un paio di giorni.» «Il fatto è che anche le piste hanno la tendenza a raffreddarsi, signore. Se concediamo ai sospettati quel minimo di tempo in più per limare la propria versione...» «Perché, avete dei sospettati?» Corbyn si era girato verso di lui. «Non esattamente, signore, però stiamo parlando con delle persone.» «Il G8 ha la massima priorità, ispettore.» «Le dà fastidio se le chiedo per quale motivo, signore?» Corbyn gli scoccò un'occhiataccia. «Perché gli otto uomini più potenti del mondo stanno per arrivare in Scozia e prenderanno alloggio nel più lussuoso albergo del Paese. Questa è la storia che tutti vogliono sentire. Il fatto che un assassino seriale proietti la sua ombra sulla parte più popolosa
del Paese stesso potrebbe essere d'intralcio, non crede?» «A dire la verità, signore, solo una delle vittime è scozzese.» Il capo della polizia si avvicinò sin quasi a sfiorarlo. «Non faccia il saccente con me, ispettore. E non creda che non mi sia già dovuto misurare con quelli come lei.» «E chi sono quelli come me, signore?» «Quelli che pensano di poter dare lezioni a tutti solo perché sono in pista già da un po'. Sa che cosa dicono delle automobili, no? Più alto il numero sul contachilometri, più vicino lo sfasciacarrozze.» «Il fatto, signore, è che io preferisco le auto d'epoca alla robaccia che si vende oggigiorno. Riferirò la sua visita al sergente Clarke. Immagino che lei abbia di meglio da fare, adesso, e che prima o poi andrà anche a Gleneagles, dico bene?» «Questi non sono affari suoi.» «Messaggio ricevuto.» Rebus indirizzò al capo della polizia un gesto che da lontano poteva vagamente ricordare un saluto militare. «Congelate questa faccenda.» Corbyn batté una mano sopra una pila di carte sulla sua scrivania. «E rammenti: l'indagine l'ho affidata al sergente Clarke, non a lei, ispettore.» Socchiuse gli occhi. Poi, rendendosi conto che l'altro non avrebbe risposto, uscì dalla stanza a grandi passi. Rebus attese quasi un intero minuto prima di espirare, poi fece una telefonata. «Mairie? Novità per me?» Rimase in ascolto delle sue scuse. «No, non preoccuparti. In compenso ce l'ho io un numerino jolly da darti, se riesci a cavarti di tasca i soldi per un caffè...» Arrivò a Multrees Walk in meno di dieci minuti a piedi. Era un nuovo centro commerciale nei pressi dei grandi magazzini Harvey Nichols, con alcuni negozi ancora sfitti, ma il Vin Caffè era aperto e offriva snack e caffè all'italiana, e Rebus ordinò un espresso doppio. «Paga lei», aggiunse, non appena Mairie Henderson arrivò. «Indovina chi deve fare il servizio dal tribunale di contea oggi pomeriggio?» La giornalista si infilò nel séparé. «È questa la tua giustificazione per aver battuto la fiacca con Richard Pennen?» Lei lo guardò truce. «Si può sapere che accidenti te ne frega se Pennen ha pagato la camera d'albergo a un deputato? Non c'è modo di provare che si trattasse di soldi-contro-appalti. Se l'ambito di responsabilità di Webster fosse stata la fornitura di armi, forse potrei pensare di scriverci sopra qualcosa.» Emise uno sbuffo esasperato e si strinse teatralmente nelle spalle.
«Comunque non ho ancora gettato la spugna. Fammi parlare di lui con un altro paio di persone.» Rebus si passò una mano sulla faccia. «È solo che lo proteggono in un modo tale... non solo Pennen, in effetti, ma tutti coloro che stavano a quella cena quella sera. Non c'è verso di avvicinarli.» «Tu pensi davvero che a Webster abbiano dato una spinta, su quel muro?» «È possibile. Una delle guardie ha anche creduto di vedere un intruso.» «Be', se fosse vero è ragionevole pensare che non si trattasse di uno degli invitati ufficiali.» Chinò la testa di lato, in cerca di consenso. Ma Rebus tacque e lei si raddrizzò. «Sai che cosa penso? Che ti agiti così tanto perché sotto sotto sei anarchico anche tu. Tu stai dalla loro parte e il fatto che, chissà come, sei finito a lavorare per il 'sistema' ti rompe non poco.» Rebus scoppiò in una risata. «Ma come ti viene in mente?» Mairie rise con lui. «Ci ho preso, giusto? Tu ti sei sempre visto come uno che stava fuori...» All'arrivo delle bevande si interruppe, infilò il cucchiaio nella schiuma del cappuccino e se ne riempì la bocca. «Io rendo di più lavorando ai margini», disse Rebus con aria pensosa. Mairie annuì. «È per questo che andavamo tanto d'accordo.» «Finché tu non hai scelto Cafferty.» Lei si strinse nuovamente nelle spalle. «Vi assomigliate più di quanto non ti piaccia ammettere.» «E io che stavo per farti un favore enorme...» «D'accordo.» Mairie socchiuse gli occhi. «Voi due siete come | il diavolo e l'acqua santa.» «Così va meglio.» Le porse una busta. «Dattiloscritto con le mie manine sante, quindi l'ortografia potrebbe non essere all'altezza di una testata nazionale.» «Che cos'è?» Mairie spiegò il foglio di carta. «Una cosa che tenevamo sotto chiave: ci sono altre due vittime, stesso assassino di Cyril Colliar. Non posso passarti tutto quanto, ma per il momento queste informazioni dovrebbero bastare.» «Oh, Cristo, John...» Lo guardò dritto negli occhi. «Cosa?» «Perché mi stai passando questa roba?» «La mia latente vena anarchica?» finse di indovinare lui. «Questa settimana rischia di non finire in prima pagina.» «E allora?»
«Qualunque altra settimana dell'anno, ma non questa...» «Ma che, stai guardando in bocca al mio caval donato?» «Le informazioni sul sito web...» Stava scorrendo il foglio una seconda volta. «È tutta roba buona, Mairie. Se però a te non serve...» Tese la mano come a riprendersi la busta. «Che cos'è un serial kilter? Uno che non riesce a uscire dal tunnel del kilt?» «Ridammelo.» «Chi è che ti ha fatto incazzare?» chiese allora lei con un sorriso. «Altrimenti non saresti qui...» «Tu ridammelo e non ne parliamo più.» Ma lei rimise il foglio nella busta e intascò il tutto. «Se la situazione si mantiene calma per il resto della giornata, forse riesco a convincere il direttore.» «Cerca di sottolineare il legame con il sito web», si raccomandò Rebus. «Potrebbe aiutare gli altri della lista a essere un po' più cauti.» «Perché, non gliel'avete detto?» «Non c'è stato modo. E se le cose vanno come vuole il capo della polizia, non lo scopriranno fino alla settimana prossima.» «E a quel punto l'assassino potrebbe aver colpito un'altra volta?» Rebus annuì. «Quindi, di fatto, stai facendo tutto questo per salvare la vita a quegli avanzi di galera?» «Proteggere e servire», dichiarò Rebus, azzardando un altro saluto militare. «E non perché hai avuto da ridire con il capo della polizia?» Rebus fece di no con la testa, come se lei l'avesse molto deluso. «Ma pensa, credevo di essere io quello con la vena cinica... Almeno mi prometti di continuare a interessarti di Richard Pennen?» «Per un pochino.» Lei gli sventolò la busta davanti alla faccia. «Questo però dovrò riscriverlo da cima a fondo. Non mi ero resa conto che l'inglese non fosse la tua lingua madre.» Siobhan era andata a casa e aveva riempito la vasca da bagno. Poi si era immersa, aveva chiuso gli occhi e si era risvegliata di soprassalto con il mento che sfiorava la superficie dell'acqua ormai tiepida. Era uscita, si era cambiata, aveva chiamato un taxi ed era andata all'officina dove l'aspettava
la sua macchina. Poi si era recata a Niddrie, sperando che ci fosse un due senza il tre, benché lei fosse riuscita a riportare indietro l'auto presa in prestito dal parco mezzi di St Leonard senza farsi notare. Se qualcuno le avesse chiesto qualcosa, poteva sempre rispondere che era stata vandalizzata lì nel parcheggio. Accanto al marciapiede sostava un bus a un piano solo, col motore al minimo, l'autista sprofondato nella lettura del giornale. Alcuni ospiti della tendopoli la superarono diretti alla fermata, zaini stracolmi in spalla, e nel passare le indirizzarono sorrisi assonnati. Bobby Greig sorvegliava le partenze. Siobhan si diede un'occhiata intorno e vide che altri erano impegnati a smontare le tende. «Sabato sera abbiamo raggiunto il picco», spiegò la guardia. «Dopo ci siamo progressivamente svuotati.» «Quindi non hai dovuto mandare via nessuno?» Greig fece una smorfia. «Campo attrezzato per quindicimila presenze, ma si sono dati la pena giusto in duemila.» Si interruppe. «I tuoi 'amici' non si sono presentati, ieri sera.» Da come lo disse, era chiaro che aveva subodorato qualcosa. «Sono i miei genitori», confermò lei. «E perché non volevi che lo sapessi?» «Non ne sono certa, Bobby. Forse temevo che il padre e la madre di uno sbirro non fossero al sicuro, qui.» «Perciò adesso stanno da te?» Lei scosse il capo. «Un poliziotto dell'antisommossa ha spaccato la faccia a mia madre. Ha passato la notte in ospedale.» «Oh, Dio, mi dispiace. Posso fare qualcosa?» Lei scosse di nuovo la testa. «Hai avuto altri problemi con le bande locali?» «Un piccolo scontro alla pari, ieri sera.» «Ostinati, gli stronzetti, eh?» «Stava passando il consigliere, che ha siglato l'ennesima tregua.» «Tench?» Greig annuì. «Accompagnava un pezzo grosso. Uno che ha a che fare con la rigenerazione del tessuto urbano.» «Be', certo qui ce ne sarebbe bisogno. Ma che tipo di pezzo grosso?» Greig si strinse nelle spalle. «Un funzionario del governo.» Si passò una mano sulla testa calva. «Questo posto morirà prestissimo, e buonanotte al secchio.»
Siobhan non gli chiese se si riferiva al campeggio o a Niddrie nel suo complesso, ma si girò e si avviò verso la tenda dei suoi. Giunta alla piazzola, aprì la cerniera e guardò dentro. Era tutto come prima, con qualche piccola aggiunta: evidentemente quelli che se ne andavano ci tenevano a lasciare in omaggio cibo avanzato, acqua e candele. «Dove sono?» Siobhan riconobbe la voce di Santal. Uscì dalla tenda, raddrizzandosi. Anche la ragazza aveva con sé uno zaino e una bottiglia d'acqua. «In partenza?» chiese Siobhan. «Prendo il bus per Stirling. Volevo salutarli.» «Vai al campeggio pacifista?» Siobhan guardò le sue treccine dondolare mentre faceva di sì con la testa. «Ieri eri a Princes Street?» «È l'ultima volta che ho visto i tuoi. Che gli è successo?» «Hanno picchiato mia madre. È in ospedale.» «Cazzo, ma che schifo. È stato...» A metà frase si interruppe. «Uno dei tuoi?» «Uno dei miei», le fece eco Siobhan. «E voglio che lo prendano. Meno male che sei ancora qui.» «Perché?» «Hai filmato qualcosa? Pensavo che magari poteva tornarmi utile.» Ma Santal scosse la testa. «Non ti preoccupare», la rassicurò allora, «non intendo... Mi interessano solo le uniformi, non i manifestanti.» Ma Santal continuò a negare. «Non ce l'avevo la videocamera.» Una bugia lampante. «Perché non vuoi darmi una mano, Santal?» «C'era un sacco di gente che scattava foto.» Con il braccio teso fece un gesto circolare rivolto all'intera tendopoli. «Chiedi a loro.» «Lo sto chiedendo a te.» «L'autobus parte...» La ragazza riprese a camminare, scansandola. «Vuoi che dica qualcosa a mia madre?» le gridò dietro. «Vuoi che li porti a trovarti al campeggio pacifista?» Ma Santal non rispose. Siobhan imprecò sottovoce. Avrebbe dovuto saperlo: per lei era ancora uno dei «porci», la «feccia», la pula, una piedipiatti, una sbirra. Ancora e sempre il nemico. Si ritrovò accanto a Bobby Greig, mentre l'autobus si riempiva e lo sportello si chiudeva con un sibilo d'aria compressa. Da dentro proveniva un coro. Qualche passeggero salutò Greig con la mano, e lui ricambiò. «Non male, tutto sommato», commentò con Siobhan, offrendole una
gomma da masticare. «Per degli hippy, voglio dire.» Poi fece scivolare le mani in tasca. «Ce l'hai un biglietto per domani sera?» «Ci ho provato senza riuscirci», ammise lei. «Be', si dà il caso che la mia società ci gestirà la sicurezza...» Lei lo fissò. «Dimmi che te ne avanza uno.» «Non esattamente, ma io ci sarò. Il che vuol dire che potresti essere il mio 'più uno'.» «Stai scherzando, vero?» «Guarda che non è un appuntamento galante o cose del genere... se ti va, la proposta è sempre valida.» «Sei molto generoso, Bobby.» «Decidi tu.» Non la guardava in faccia. «Mi dai il tuo numero, così domani te lo faccio sapere?» «Pensi forse che ti possa capitare qualcosa di meglio?» Lei scosse il capo. «Penso che mi possa capitare altro lavoro», lo corresse. «Tutti hanno diritto a una serata libera, sergente Clarke.» «Mi chiamo Siobhan», insistette lei. «Dove sei?» chiese Rebus al cellulare. «Sto andando allo Scotsman.» «Cosa c'è allo Scotsman?» «Altre foto.» «Hai spento il telefono.» «Dovevo ricaricarlo.» «Be', io ho appena verbalizzato la deposizione di Straziodentro.» «Chi?» «Te l'ho detto ieri...» Ma poi si ricordò che lei aveva la testa da un'altra parte, così le rispiegò tutto del commento sul sito, del messaggio che aveva mandato, di Ellen Wylie che aveva richiamato... «Accidenti, aspetta un attimo», esclamò Siobhan. «La nostra Ellen Wylie?» «Ha scritto un pezzo lungo e iroso su BeastWatch.» «Ma perché?» «Perché il sistema ha deluso la sorellanza», rispose Rebus. «Sono le sue esatte parole?» «Registrate. Naturalmente mi manca il beneficio della convalida, perché non c'era nessuno ad assistermi durante l'interrogatorio.»
«Mi dispiace. Quindi Ellen è nella rosa dei sospettati?» «Ascolta la cassetta e poi me lo dirai.» Rebus lanciò un'occhiata alla sala dell'Investigativa. Le finestre avevano bisogno di una lavata, ma a che serviva quando si affacciavano tutte sul parcheggio posteriore? Stessa cosa per le pareti: una mano di pittura le avrebbe rinfrescate un po', ma in men che non si dica sarebbero tornate a coprirsi di foto di scene del crimine e di particolari sulle vittime. «Magari è per via di sua sorella», disse Siobhan. «Cosa?» «La sorella di Ellen, Denise.» «Sì, e poi?» «È andata a stare con Ellen un annetto fa... forse qualcosa meno. Ha lasciato il marito.» «Quindi?» «Il marito violento. Almeno così ho sentito dire. Abitavano a Glasgow. La polizia è dovuta intervenire diverse volte, ma non c'è mai stata un'incriminazione che reggesse. Lei si è dovuta procurare un'ordinanza restrittiva del giudice, credo.» Denise è venuta a vivere con me dopo che... dopo il divorzio. D'improvviso, ecco il «moscerino» che Ellen aveva inghiottito. «Non lo sapevo», disse adagio Rebus. «No, be'...» «Be', cosa?» «È una di quelle confidenze che le donne preferiscono fare ad altre donne.» «Ma agli uomini no, è questo che intendi? E poi i sessisti saremmo noi.» Rebus si passò la mano libera sulla nuca e sentì la pelle che tirava. «Quindi Denise va a vivere con Ellen, e un attimo dopo Ellen si attacca a Internet per cercare siti tipo BeastWatch...» E la sera sta in casa, con la sorella, e mangia troppo, e beve troppo... «Magari potrei parlarci io», suggerì Siobhan. «Non hai già abbastanza da fare? Come sta tua madre, a proposito?» «Oggi le fanno la TAC. Volevo andare a trovarla più tardi.» «Allora vacci. Devo dedurre che a Glenrothes non hai trovato niente?» «Niente, a parte un gran mal di schiena.» «Senti, scusa, ho un'altra chiamata, devo lasciarti. Ci vediamo dopo?» «Certo.» «Sai, è passato il grande capo...»
«Uh, che tono minaccioso.» «Ma può aspettare.» Pigiò il tasto per prendere l'altra chiamata. «Ispettore Rebus.» «Sono in tribunale», disse Mairie Henderson. «Vieni a vedere cos'ho qui per te.» In sottofondo, fischi e applausi. «Ora però devo scappare.» Rebus scese nel parcheggio, dove trovò un passaggio su una volante. Nessuno dei due agenti in uniforme era stato coinvolto negli scontri del giorno prima. «In panchina», dissero tetri. «Siamo rimasti a sedere sull'autobus per quattro ore, ad ascoltare tutto per radio. Deve testimoniare, ispettore?» Rebus non aprì più bocca finché la macchina non lo depositò in Chambers Street. «Lasciatemi qui», ordinò. «Non c'è di che, eh», gli disse l'autista con una specie di ringhio, ma solo dopo che fu sceso. La volante si allontanò con una sonora inversione a U, attirando l'attenzione dei giornalisti davanti al tribunale. Rebus si tenne sul lato opposto della strada e andò ad accendersi una sigaretta nei pressi della scalinata del Royal Scottish Museum, mentre un dimostrante usciva dal tribunale tra le grida di giubilo dei compagni. Il giovane fendeva l'aria con il pugno, mentre gli altri gli mollavano pacche sulle spalle e i fotografi della stampa immortalavano il momento. «Quanti sono?» chiese Rebus quando si ritrovò di fianco Mairie Henderson, taccuino e registratore alla mano. «Finora una ventina. Alcuni sono stati spediti in altri tribunali.» «Frasi celebri a cui dovrei fare attenzione domani?» «Che te ne pare di: 'A pezzi il sistema'?» Diede una scorsa agli appunti. «O di: 'Mostrami un capitalista e io ti mostrerò una sanguisuga'?» «Be', mi sembra uno scambio equo.» «A quanto pare è di Malcolm X.» Mairie richiuse il taccuino con uno scatto. «Emettono ordinanze restrittive per tutti. Non possono avvicinarsi a Gleneagles, Auchterarder, Stirling, il centro di Edimburgo...» Si interruppe. «Un tocco di classe, però: uno ha detto che aveva il biglietto per il T in the Park, questo fine settimana, così il giudice gli ha detto che a Kinross poteva andarci.» «Ci va anche Siobhan», disse Rebus. «Sarebbe bello aver chiuso l'indagine Colliar, per allora.» «Nel qual caso, ciò che sto per dirti potrebbe non essere una bella notizia.»
«Sputa l'osso, forza.» «Il Clootie Well: ho chiesto a un collega di fare qualche ricerca.» «E?» «E ce ne sono altri.» «Quanti?» «Almeno uno in Scozia. Sulla Black Isle.» «A nord di Inverness?» Lei annuì. «Seguimi», disse poi, voltandosi e dirigendosi verso l'ingresso principale del museo. All'interno prese subito a destra. Il Royal Scottish pullulava di famigliole: vacanze scolastiche, ragazzini fin troppo pieni di energia, i più piccoli che strillavano e saltellavano impazienti. «Che ci facciamo qui?» chiese Rebus. Ma Mairie era già agli ascensori. Una volta arrivati fecero ancora qualche rampa di scale. Dalle finestre si godeva un'ottima vista sul tribunale di contea, ma lei lo stava portando verso l'angolo opposto dell'edificio. «Ci sono già venuto», disse Rebus. «L'ala dedicata alle superstizioni e alle credenze popolari», spiegò lei. «Ci sono delle piccole bare con dentro delle bambole...» Infatti fu proprio lì che si fermò Mairie, e Rebus si rese conto che dietro il vetro c'era una vecchia foto in bianco e nero. Una foto del Clootie Well sulla Black Isle... «La gente di li ci attacca pezzetti di stoffa da secoli. Il mio amico sta allargando la ricerca all'Inghilterra e al Galles, nel caso ce ne fossero altri. Che dici, vale la pena di farci un giretto?» «Da qui alla Black Isle sono almeno due ore di macchina», rifletté Rebus senza staccare gli occhi dalla foto. I ritagli di tessuto sembravano quasi dei pipistrelli aggrappati a rami scarni e spogli. Accanto alla foto c'erano bacchette da stregoni, frammenti d'osso che sporgevano da ciottoli svuotati. Morte e credenze... «Anche tre, in questa stagione», disse Mairie. «Con tutti i camper da sorpassare.» Rebus annuì. La A9, oltre Perth, era notoriamente intasata. «Magari dirò ai colleghi del posto di dare un'occhiata. Grazie, Mairie.» «Ho scaricato questa roba da Internet.» Lei gli porse alcuni fogli che spiegavano nei particolari la storia del Clootie Well vicino a Fortrose. C'erano foto - anche una copia di quella esposta nel museo - che lo mostravano identico al suo omonimo di Auchterarder. «Grazie ancora.» Rebus arrotolò i fogli e se li mise nella tasca della giacca. «Il tuo direttore ha abboccato?» Stavano tornando sui loro passi,
verso l'ascensore. «Dipende. Se stasera ci saranno scontri, potremmo trovarci relegati a pagina cinque.» «Vale comunque la pena di tentare.» «C'è nient'altro che puoi dirmi, John?» «Ti ho già regalato uno scoop, cosa vuoi ancora?» «La certezza che non mi stai solo usando.» Mairie premette il pulsante di chiamata. «Farei mai una cosa del genere?» «Cribbio, sì. Altroché.» Poi rimasero in silenzio fino alla gradinata esterna, dove Mairie si fermò a osservare la scena dalla parte opposta della strada: un altro contestatore, un altro saluto a pugno chiuso. «La tenete segreta da venerdì, tutta questa faccenda. Non hai paura che l'assassino possa correre a nascondersi, dopo che avrà letto la notizia sul giornale?» «Nascondersi più di adesso?» Rebus la fissò. «Senza contare che venerdì avevamo solo Cyril Colliar. È stato Cafferty a fornirci il resto.» I lineamenti del viso di Mairie si irrigidirono. «Cafferty?» «Tu gli hai detto che era stata rinvenuta la toppa del giubbotto di Colliar. Lui è venuto a trovarmi. Se n'è andato con gli altri due nomi, ed è tornato a dirmi che erano morti.» «Tu ti sei servito di Cafferty?» Sembrava incredula. «Il tutto, senza che lui venisse a riferire nulla a te, Mairie... è questo che sto tentando di dirti. Prova a cercare lo scambio con lui, e ti renderai conto che funziona a senso unico. Quello che ti ho raccontato su questi delitti lui lo sapeva ben prima di me, ma a te non l'avrebbe detto.» «Tu hai l'aria di pensare, erroneamente peraltro, che io e lui siamo grandi amici.» «Abbastanza perché andassi direttamente da lui con la notizia di Colliar.» «Quella era una promessa che gli avevo fatto tempo fa: in caso di sviluppi, l'avrei informato. E non ho nessuna intenzione di scusarmi con te.» Socchiuse gli occhi e indicò il centro della strada. «Che ci fa qui Gareth Tench?» «Il consigliere?» Rebus seguì la direzione indicata dal dito di Mairie. «Predica ai pagani, forse», azzardò, guardando Tench che arretrava come un gambero, incalzato da una fila di fotografi. «Forse vuole che lo intervisti un'altra volta.» «Come fai a sa...? Ah, te l'ha detto Siobhan.»
«Fra me e Siobhan non ci sono segreti.» Rebus le strizzò l'occhio. «E quindi dov'è adesso?» «Allo Scotsman.» «Allora io ho le traveggole.» Mairie stava di nuovo indicando. Infatti, ecco Siobhan. Tench si era fermato proprio di fronte a lei, e i due si stringevano la mano. «Niente segreti tra voi, eh?» Ma Rebus era già partito. Grazie alla chiusura al traffico di quella parte della via, attraversare fu facile. «Ehilà», esordì. «Cambiato idea di colpo?» Siobhan sorrise appena e lo presentò a Tench. «Ispettore», disse questi con un lieve inchino. «Lei ama il teatro di strada, consigliere Tench?» «Non mi dispiace, in stagione di festival», rispose l'interpellato con una risatina. «Ne faceva un po' anche lei, giusto?» Tench si rivolse a Siobhan. «L'ispettore allude ai miei sermoncini della domenica mattina ai piedi del Mound. Evidentemente dev'essersi fermato un istante, andando a fare la comunione.» «Se non sbaglio però ha smesso», aggiunse Rebus. «Ha perso la fede?» «Al contrario, ispettore. Ma ci sono altri modi per far capire le cose alla gente, oltre alle prediche.» Ricompose i lineamenti in un'espressione più professionale. «Sono qui perché un paio di cittadini della mia zona sono rimasti invischiati nel pasticcio di ieri.» «Innocenti spettatori, senza dubbio», commentò Rebus. Lo sguardo di Tench si posò su di lui, poi tornò a Siobhan. «Dev'essere una gioia lavorare con l'ispettore.» «Risate a più non posso», concordò lei. «Ah! Ma c'è anche il Quarto Potere!» esclamò Tench tendendo la mano a Mairie, che finalmente si era unita al gruppetto. «Quando esce il nostro pezzo? Immagino conosca i nostri due tutori della legge.» Fece un gesto in direzione di Rebus e Siobhan. «Aveva promesso di farmici dare un'occhiatina prima della pubblicazione», le ricordò poi. «Davvero?» Mairie si finse sorpresa, ma Tench non ci cascò. Si rivolse agli investigatori. «Ho bisogno di scambiare due parole in privato, temo...» «Non si preoccupi», disse Rebus, «anche io e Siobhan abbiamo bisogno di un minuto da soli.» «Ah, sì?»
Ma Rebus si era già allontanato, senza lasciarle altra scelta che seguirlo. «Il Sandy Bell's sarà aperto», fece lui, non appena furono fuori portata d'orecchio. Ma Siobhan stava passando in rassegna la folla. «Devo vedere una persona», gli spiegò. «Un fotografo che conosco... in teoria dovrebbe essere qui.» Si alzò in punta di piedi. «Eccolo...» Si fece largo a spintoni tra la calca dei giornalisti. I fotoreporter stavano controllandosi a vicenda i display delle macchine fotografiche per vedere che immagini avevano colto. Rebus attese impaziente che Siobhan parlasse con un tizio asciutto, dai capelli brizzolati e cortissimi. Almeno ora sapeva che cos'era successo: era andata allo Scotsman solo per sentirsi dire che la persona che doveva vedere era lì. Il fotografo non si lasciò convincere facilmente, ma alla fine tornarono entrambi dove Rebus li aspettava a braccia conserte. «Ti presento Mungo», disse Siobhan. «E a Mungo va di bere qualcosa?» chiese Rebus. «Mi andrebbe moltissimo», decise il fotografo, tergendosi un rivolo di sudore dalla fronte. La sua canizie era solo precoce: non sembrava molto più vecchio di Siobhan, ma anche il viso scolpito era segnato dalle intemperie, e l'accento perfettamente coordinato. «Western Isles?» azzardò Rebus. «Lewis», confermò lui, mentre Rebus faceva strada verso il Sandy Bell's. Un altro applauso alle loro spalle, e tutti e tre si voltarono per vedere l'ennesimo giovane che usciva dal portone del tribunale. «Lui, mi sa che lo conosco», disse adagio Siobhan. «È quello che ha fatto casino al campeggio.» «Allora ieri sera avranno respirato», ribatté Rebus. «Con lui in cella, dico.» Parlando si rese conto che con la mano destra si stava sfregando la sinistra. Quando il ragazzo rivolse il suo saluto agli spettatori, ne ricevette molti di rimando dalla folla. Compreso, sotto gli occhi di una perplessa Mairie Henderson, quello del consigliere Gareth Tench. 12 Il Sandy Bell's era aperto giusto da dieci minuti, ma al banco del bar si erano già piazzati due affezionatissimi. «Mezza della migliore», rispose Mungo alla domanda su cosa beveva. Siobhan voleva un succo d'arancia e Rebus decise che poteva affrontare
una pinta intera. Presero posto a un tavolino. L'interno angusto e ombroso del bar odorava di candeggina e lucido per ottone. Siobhan spiegò a Mungo cosa cercava e lui aprì la borsa della macchina fotografica, estraendone una scatolina bianca. «iPod?» indovinò Siobhan. «Utile per immagazzinare le immagini», confermò lui. Le mostrò come usarlo, dopo di che si scusò per non aver immortalato l'intera giornata. «Quindi lì dentro quante foto ci sarebbero?» chiese Rebus mentre Siobhan gli mostrava il piccolo monitor a colori, agendo sulla rotellina per far scorrere le immagini. «Duecento circa», disse Mungo. «Ho già cancellato quelle inutili.» «Ti spiace se le guardo ora?» chiese Siobhan. Il fotografo si produsse in un'alzata di spalle e Rebus gli offrì il pacchetto delle sigarette. «Veramente sarei allergico, grazie», rispose quello di rimando. Così Rebus e la sua dipendenza da nicotina si spostarono all'altro capo del locale, vicino alla finestra. Fermo lì, con lo sguardo fisso su Forrest Road, vide il consigliere Tench avviarsi a piedi in direzione dei Meadows, immerso in fitta conversazione con il ragazzo appena uscito dal tribunale. Il suo elettore si prese anche una rassicurante pacca sulle spalle. In giro, nessuna traccia di Mairie. Quando ebbe terminato la sigaretta, tornò al tavolo. E Siobhan girò l'iPod in modo da fargli vedere il display. «Mia madre», disse. Rebus le prese l'iPod di mano e lo scrutò attentamente. «Quella dietro, in seconda fila?» Siobhan annuì, esaltata. «A quanto pare cercava di tirarsi fuori.» «Esatto.» «Un attimo prima di essere colpita?» Rebus studiava le facce dietro gli scudi antisommossa, i colleghi con le visiere abbassate e i denti scoperti. «Mi spiace di non aver beccato il momento preciso», commentò Mungo. «È evidente che cerca di ritirarsi tra la folla», sottolineò Siobhan. «Voleva andarsene da lì.» «E allora perché darle una manganellata in faccia?» chiese Rebus. «Funzionava così», intervenne Mungo scandendo bene le sillabe. «I facinorosi attaccavano il cordone della polizia e poi arretravano, quindi le conseguenze rischiavano di subirle quelli che restavano davanti. Alla fine le redazioni scelgono sempre che cosa pubblicare.» «E di solito sono gli antisommossa che reagiscono?» ipotizzò Rebus. Allontanò un po' il monitor. «Come fai a identificarli, questi?»
«Non hanno neanche le mostrine sulle spalle», notò Siobhan. «Simpaticamente anonimi, tutti quanti. Non si riesce neanche a capire di che reparto sono. Qualcuno ha delle lettere disegnate sopra la visiera, tipo xs. Dici che potrebbe essere un codice?» Rebus si strinse nelle spalle. Stava ripensando a Jacko e ai suoi compari, anche loro rigorosamente anonimi. Nel rammentare qualcosa, Siobhan lanciò una rapida occhiata all'orologio. «Scusate, devo chiamare l'ospedale...» Abbandonò il tavolo e uscì dal locale. «Un'altra?» chiese Rebus, indicando il bicchiere di Mungo, ma il fotografo scosse il capo. «Che l'aspetta ancora questa settimana?» Mungo sbuffò. «Servizi sparsi qua e là.» «I VIP?» «Se capita.» «Per caso ha lavorato anche venerdì sera?» «A dire la verità, sì.» «La cena al castello?» Mungo annuì. «Il giornale voleva una foto del ministro degli Esteri, ma le mie erano parecchio fiacche... È così quando punti il flash contro un parabrezza.» «Che mi dice di Ben Webster?» L'altro scosse il capo. «Non sapevo neanche chi fosse, purtroppo per me: sarebbe stata la sua ultima foto in assoluto.» «Noi ne abbiamo scattata qualcuna in obitorio, se la cosa la può consolare», dichiarò Rebus. Poi, mentre Mungo sorrideva mesto, aggiunse: «Non mi dispiacerebbe però dare un'occhiata a quelle che ha fatto lei...» «Vedrò di soddisfarla.» «Quindi non le ha memorizzate qui dentro?» Il fotografo fece di no con la testa. «Quelle stanno sul portatile. Più che altro sono vetture che sfrecciano su per Castle Hill, visto che non ci hanno fatto arrivare fino all'Esplanade.» In quel momento lo colpì un pensiero improvviso. «Sa cosa? Avranno sicuramente scattato dei ritratti ufficiali, alla cena. Potrebbe sempre chiedere di vedere quelli, se la cosa le interessa davvero.» «Dubito che me li darebbero, senza un motivo preciso.» Mungo gli strizzò l'occhio. «Lasci fare a me», disse. Poi, mentre lo guardava svuotare il bicchiere, commentò: «Buffo pensare che la settimana prossima torneremo tutti al solito tran tran, eh?»
Rebus sorrise e si pulì la bocca con il pollice. «Lo diceva sempre anche mio padre quando rientravamo dalle vacanze.» «Non credo che a Edimburgo succederà mai più niente del genere.» «Non finché camperò io», ammise Rebus. «Pensa che servirà a qualcosa?» Lui si limitò a scuotere la testa. «La mia ragazza mi ha appena regalato un libro sul '68, la primavera di Praga, gli scontri di Parigi, quel periodo lì.» Io credo che abbiamo mollato il testimone, pensò Rebus tra sé. «Io l'ho vissuto il '68, e all'epoca di fatto non ha significato niente.» Si interruppe. «Neanche dopo, se è per quello.» «Lei non cercava lo sballo come tutti gli altri, alla Timothy Leary?» «Io ero nell'esercito, avevo i capelli corti e me la tiravo.» Siobhan era tornata al tavolo. «Novità?» le chiese. «Non hanno trovato niente. Perciò adesso la trasferiscono all'Oftalmico per farle altri esami, e questo è quanto.» «Nel senso che il Western General la dimette?» Rebus guardò Siobhan che annuiva e riprendeva in mano l'iPod. «C'è un'altra cosa che volevo mostrarti.» Qualche giro della rotellina, poi gli additò il piccolo schermo. «La vedi quella ragazza sulla destra? Quella con le treccine?» Rebus la vedeva. L'obiettivo di Mungo aveva messo a fuoco la fila di scudi antisommossa, ma nel margine superiore della foto aveva catturato alcuni spettatori, gran parte dei quali col viso coperto» dai videofonini. La ragazza con le treccine, invece, aveva qualcosa di simile a una videocamera. «È Santal», dichiarò Siobhan. «Santal chi, per la cronaca?» «Non te ne ho parlato? Stava vicino ai miei alla tendopoli.» «Che razza di nome...» «Significa 'legno di sandalo'», spiegò Siobhan. «Ottimo profumo per le saponette», aggiunse Mungo. Siobhan lo ignorò. «Lo vedi che cosa fa?» chiese a Rebus, avvicinandogli l'iPod. «Quello che fanno tutti.» «Non esattamente.» Siobhan girò lo schermo verso Mungo. «Stanno tutti coi cellulari puntati sulla polizia», rispose lui annuendo. «Tutti tranne Santal.» Siobhan rigirò nuovamente lo schermo verso Rebus e fece scorrere la rotella con il pollice, passando alla foto successiva.
«Vedi?» Rebus vedeva, ma più che altro non capiva. «Soprattutto», aggiunse Mungo, «vogliono foto dei poliziotti... servono per la propaganda.» «Santal invece sta riprendendo i dimostranti.» «Quindi potrebbe avere immortalato anche tua madre», ne dedusse Rebus. «Al campeggio gliel'ho chiesto, infatti, ma lei non ha voluto mostrarmi niente. Non solo: l'ho vista a quella manifestazione, sabato, e anche là faceva riprese.» «Non sono certo di capire», confessò finalmente lui. «Nemmeno io, ma forse un salto a Stirling ci aiuterebbe.» Lo guardò. «Perché?» «Perché è lì che stava andando quand'è partita, stamattina.» Siobhan si interruppe. «Credi che la mia assenza si noterà?» «Tanto il capo vuole comunque tenere il Clootie Well in ghiacciaia.» Rebus si infilò una mano in tasca. «Volevo giusto parlartene...» Le porse i fogli arrotolati. «Ce n'è un altro, sulla Black Isle.» «Lo sapevate che non è veramente un'isola?» esclamò Mungo. «La Black Isle, intendo.» «Ma guarda, e adesso ci dirai che non è neanche nera», lo redarguì Rebus. «La terra dovrebbe essere parecchio scura», concesse l'altro, «ma non tanto da notarsi. Però conosco il punto di cui state parlando: ci siamo andati in vacanza l'estate scorsa. Brandelli di stoffa appesi agli alberi...» Fece una smorfia schifata. Siobhan aveva finito di leggere. «Vuoi andare a controllare?» Rebus fece segno di no con la testa. «Però qualcuno dovrebbe farlo.» «Anche se il caso deve restare congelato per un po'?» «Non fino a domani», disse lui. «Così ha specificato il grande capo. Ma la responsabilità l'ha affidata a te, quindi vedi tu come giocartela.» Si appoggiò allo schienale e il legno scricchiolò in segno di protesta. «L'Oftalmico è a cinque minuti da qui», rifletté Siobhan. «Pensavo di andarci.» «E poi di proseguire fino a Stirling?» «Credi che riuscirò a spacciarmi per una hippy?» «Ne dubito», intervenne Mungo. «Ho un paio di anfibi nell'armadio», ribatté Siobhan. Poi fissò lo sguar-
do su Rebus. «E significa che affido la responsabilità del caso a te, John. Ricorda che, in caso di rimostranze, poi i lividi li porterò io.» «Ricevuto, capo», rispose lui. «E ora, a chi tocca il prossimo giro?» Ma Mungo doveva tornare al lavoro e Siobhan era diretta all'ospedale, ragion per cui Rebus si ritrovò nel pub da solo. «L'ultimo prima di mettermi in moto», borbottò tra sé. In piedi al banco, in attesa che gli versassero da bere, lo sguardo imbambolato su bottiglie e dosatori, ripensò a quella fotografia: la donna con le treccine. Siobhan l'aveva chiamata Santal, ma a lui ricordava qualcuno. Lo schermo era troppo piccolo per vederci bene: avrebbe dovuto chiedere a Mungo una stampa. «Giornata libera?» fece il barista, piazzandogli davanti la pinta. «Già. Un uomo libero e senza pensieri», confermò Rebus, portandosi il bicchiere alle labbra. «Grazie per essere tornata», disse Rebus. «Com'è andata in tribunale?» «Non avevano bisogno di me.» Ellen Wylie posò tracolla e ventiquattrore sul pavimento della sala dell'Investigativa. «Ti preparo un caffè?» «Avete una moka?» «Qui la chiamiamo con il suo vero nome italiano.» «Che sarebbe?» «Bollitore.» «Battuta moscia come sospetto sarà anche il caffè. In cosa posso esserti utile, John?» Ellen si tolse la giacca. Lui era già in maniche di camicia. Era estate, ma in stazione il riscaldamento andava e non c'era verso di regolare i termosifoni. C'era da scommettere che in ottobre sarebbero stati appena tiepidi. Ellen esaminò le carte del caso sparse su tre scrivanie. «Allora, ci sono dentro anch'io?» «Non ancora.» «Ma presto ci finirò...» Prese una delle foto segnaletiche di Colliar reggendola per un angolo, come se temesse il contagio. «Non mi hai mai parlato di Denise», esordì Rebus. «Non mi pare che tu mi abbia mai chiesto niente.» «Il marito la picchiava?» Ellen fece una smorfia. «Era un pezzo di merda.» «Era?» Lei lo fissò. «Voglio solo dire che è uscito dalle nostre vite. Tranquillo, non ne troverai dei pezzetti al Clootie Well.» Al muro era appesa una foto
della radura nel bosco e Ellen la scrutò inclinando la testa. Poi si girò e diede un'occhiata all'intera stanza. «Certo che ne hai, di lavoro», commentò. «Non mi dispiacerebbe che mi dessero una mano.» «Siobhan dov'è?» «Aveva altro da fare.» La fissò intensamente. «E perché mai dovrei aiutarti io?» Si strinse nelle spalle. «Così su due piedi mi viene in mente solo che sei curiosa.» «Proprio come te, vuoi dire?» Lui annuì. «Due omicidi in Inghilterra, uno in Scozia. Faccio un po' fatica a capire come sceglie le sue vittime. Non stavano tutte insieme, sul sito, e non si conoscevano. I crimini commessi erano simili ma non identici. E anche loro sceglievano vittime disparate...» «Sono stati in galera tutti e tre, giusto?» «Però in carceri diverse.» «Le notizie viaggiano comunque. Gli ex galeotti parlano con altri ex galeotti e si passano i nomi dei peggiori. I colpevoli di reati sessuali non sono mai molto amati dagli altri detenuti.» «Buona osservazione.» Rebus finse di valutarla. In realtà non ci trovava niente di utile, ma voleva che Ellen continuasse a pensare. «Con le altre forze di polizia hai già parlato?» chiese lei. «Non ancora. Penso che Siobhan abbia inviato delle richieste scritte.» «Non credi che serva un approccio personale? Vedere cosa possono dirti su Isley e Guest?» «Ho un po' troppo da fare.» I loro sguardi si incontrarono. Era chiaro che ormai la teneva all'amo... per il momento, se non altro. «Sul serio vuoi che ti aiuti?» «Non sei tra i sospettati, Ellen», rispose lui, sforzandosi di apparire sincero. «E su questa faccenda sai più cose di me e Siobhan.» «E lei che cosa penserà, se dovessi aggregarmi?» «Non avrà nessun problema.» «Io non ne sarei tanto sicura.» Rifletté un istante, poi sospirò. «Ho solo postato un messaggio sul sito, John. Non ho mai conosciuto i Jensen.» Lui si limitò a un'alzata di spalle. Nel giro di un minuto, Ellen aveva deciso. «Lo hanno arrestato, sai. Denise, suo...» Ellen si rimangiò la parola: non riusciva a chiamarlo né marito
né uomo. «Ma la cosa è finita in niente.» «Nel senso che non ha fatto un giorno di galera, suppongo?» «Lei è ancora terrorizzata», disse Ellen piano, «e lui gira a piede libero.» Si sbottonò i polsini della camicetta e cominciò a rimboccarsi le maniche. «Va bene, dimmi chi devo chiamare.» Le diede i numeri delle centrali del Tyneside e della Cumbria, poi prese a sua volta in mano il telefono. Sulle prime quelli di Inverness parvero increduli. «Volete che facciamo cosa?» Rebus intuì che dall'altra parte del filo posavano un palmo sul microfono, ma invano. «Edimburgo vuole che scattiamo delle foto al Clootie Well. Ci andavo a fare i picnic da piccolo...» La cornetta passò di mano. «Sergente Johnson. Con chi parlo?» «Ispettore Rebus, divisione B, Edimburgo.» «Pensavo che lì aveste già abbastanza da fare con i nipotini di Trotskij e di Mao.» Risate in sottofondo. «Infatti è così, ma abbiamo anche tre omicidi. E prove di tutti e tre sono state rinvenute nei pressi di Auchterarder, in un posto noto come Clootie Well.» «C'è un solo Clootie Well, ispettore.» «A quanto pare no. E può darsi che pure il vostro, lassù, sia tutto decorato di prove.» Un'esca a cui il sergente non poteva non abboccare. La vita non era proprio piena di emozioni alla Northern Constabulary, la polizia delle Highlands. «Cominciamo con qualche foto del sito», proseguì Rebus. «Parecchi primi piani, e controllate se per caso c'è qualche indumento ancora intatto, tipo jeans, giubbotti... Noi in una tasca abbiamo trovato un bancomat. La cosa migliore è che mi inviate le foto per e-mail. Se non riuscirò ad aprirle io, ci penserà qualcun altro.» Lanciò un'occhiata a Ellen Wylie. Sedeva su un angolo della scrivania, la gonna tesa su una coscia. Giocherellava con una penna e parlava al telefono. «Mi ripete il suo nome?» chiese il sergente Johnson. «Ispettore Rebus. Di Gayfield Square.» Lasciò numero di telefono e indirizzo e-mail. Riusciva a sentire Johnson che prendeva nota di tutto. «E se poi troviamo effettivamente qualcosa?» «Significa che il nostro uomo si è dato da fare.» «Le dispiace se faccio un controllino? Voglio solo essere sicuro che non mi stia prendendo in giro.»
«Ma le pare? Il mio capo si chiama James Corbyn ed è perfettamente al corrente della cosa. Però non sprechi più tempo del necessario.» «Uno dei nostri, qui... suo padre fa ritratti e servizi alle lauree.» «Non significa che il vostro agente sia capace di distinguere il davanti dal di dietro di una macchina fotografica.» «Non pensavo a lui, infatti, ma al padre.» «Come crede meglio», approvò Rebus, riagganciando proprio mentre Ellen Wylie faceva lo stesso. «Com'è andata?» gli chiese. «Manderanno un fotografo in loco, se non è troppo preso con un matrimonio o il compleanno di un dodicenne. E tu?» «Con l'agente incaricato dell'indagine Guest non sono riuscita a parlare, ma un collega mi ha ragguagliata. Ci manderanno altre carte. Leggendo tra le righe, non si stavano proprio facendo il mazzo per risolvere il caso.» «È quello che insegnano anche in addestramento, no? Il delitto è perfetto quando nessuno cerca la vittima.» Ellen annuì. «Oppure, per quanto ci riguarda, quando nessuno la piange. Magari qui hanno pensato a una storia di droga finita male.» «Ma che ipotesi originale! Per caso ci sono riscontri che Guest ne facesse uso?» «A quanto pare sì. Forse spacciava anche, doveva dei soldi per un carico e non era riuscito...» Colse l'espressione sul volto di Rebus. «Scarsa concentrazione, Ellen. Fenomeno che spiegherebbe anche perché nessuno ha pensato di collegare i tre omicidi.» «In parole povere, nessuno si stava applicando seriamente?» azzardò lei. Rebus annuì adagio. «Be'», disse Ellen, «puoi sempre chiedere direttamente al responsabile.» «In che senso?» «La ragione per cui non ho potuto parlare in prima persona con lui è che si trova qui.» «Qui?» «Distaccato presso l'Investigativa del Lothian and Borders.» Diede un'occhiata agli appunti. «Un certo sergente Stan Hackman.» «E dove posso trovarlo?» «Il collega parlava della residenza studentesca.» «Pollock Halls?» Lei fece spallucce, poi prese il taccuino e lo girò verso di lui. «Ho il numero di cellulare, se serve.» Mentre Rebus si alzava di scatto, lei strappò la
pagina e gliela tese. «Cerca di contattare quello che ha seguito l'indagine Isley», le disse, dopo avergliela presa di mano. «Vedi cosa riesci a cavarne. Intanto io vado a fare due chiacchiere con questo Hackman.» «Ti sei scordato di dirmi grazie.» Poi, guardandolo mentre infilava le braccia nelle maniche della giacca, disse: «Ricordi Brian Holmes?» «Lavoravamo insieme.» Lei annuì. «Una volta mi ha detto che gli avevi dato un soprannome. Lo chiamavi 'Suola di scarpe' perché faticava come un mulo.» «Ma i muli non portano le scarpe, giusto?» «Hai capito benissimo quel che voglio dire, John. Ora tu te ne vai e mi lasci qui... e questo non è nemmeno il mio ufficio! A me, che soprannome mi tocca?» Aveva sollevato la cornetta del telefono e parlando la sventolava di qua e di là. «Mah, non saprei... 'Miss Centralino'?» finse di indovinare, diretto all'uscita. 13 Siobhan non volle sentire ragioni. «Secondo me», insistette Teddy Clarke con la moglie, «stavolta dovremmo darle retta.» La madre di Siobhan aveva un occhio completamente bendato. L'altro era contuso, e di fianco al naso si vedeva un bel taglio. Gli analgesici sembravano avere intaccato la sua determinazione, perché alla fine si limitò ad annuire. «E per i vestiti?» disse il padre, montando in taxi. «Più tardi puoi tornare al campeggio», rispose Siobhan, «e prendere quello che vi serve.» «Avevamo già comprato i biglietti dell'autobus per domani», rifletté lui, mentre la figlia dava all'autista le indicazioni per arrivare a casa sua. L'autobus era uno della colonna diretta al G8 per la protesta. Eve Clarke mormorò qualcosa che il marito non capì. Si chinò verso la moglie e le strinse la mano, mentre lei ripeteva. «Ci andremo comunque.» Teddy parve esitare. «Il dottore dice che non ci sono problemi», continuò Eve, in modo da farsi sentire anche dalla figlia. «Potrete decidere domattina», rispose Siobhan. «Per adesso concentria-
moci su cosa fare oggi, d'accordo?» Teddy Clarke sorrise alla moglie. «Te l'avevo detto che era cambiata.» Giunti a destinazione, Siobhan pagò il tassista, liquidando con un gesto l'offerta paterna, poi precedette i genitori in casa, andando a controllare il soggiorno e la camera da letto: niente mutandine per terra e bottiglie vuote di Smirnoff sparse in giro. «Eccoci qua», disse infine. «Io accendo il bollitore, intanto voi mettetevi comodi.» «Saranno dieci anni che non venivamo», commentò suo padre facendo un giretto in soggiorno. «Senza il vostro aiuto non mi sarei mai potuta permettere questa casa», gridò lei dalla cucina. Sapeva che cosa avrebbe cercato subito sua madre: i segni di una presenza maschile. Il denaro regalatole per versare la caparra aveva avuto un unico scopo: aiutarla a «sistemarsi»... quel terribile eufemismo. Fidanzato fisso, poi matrimonio e figli, strada su cui Siobhan non aveva mai mosso un solo passo. Tornò in soggiorno con la teiera e le tazze e suo padre si alzò per aiutarla. «Versa tu», disse lei. «Io vado un attimo in camera...» Aprì il guardaroba e tirò fuori la sacca da viaggio. Spalancò i cassetti, pensando a che cosa poteva servirle. Con un po' di fortuna niente, ma era meglio andare sul sicuro. Un cambio d'abiti, spazzolino da denti, shampoo... Infilò le mani nei meandri degli ultimi cassetti, in cerca degli indumenti più sciatti, meno stirati. Una salopette che aveva usato per imbiancare l'anticamera, con una spallina fermata da una spilla da balia, e una camicia a quadri rimastale dopo una storia durata tre giorni. «Ti stiamo cacciando di casa», commentò suo padre. Stava sulla soglia e le tendeva una tazza di tè. «Devo andare in un posto, non c'entra niente col fatto che voi siete qui. Potrei anche non tornare fino a domani.» «A quel punto noi potremmo essere partiti per Gleneagles.» «C'è il caso che ci si veda là», rispose lei con una strizzata d'occhio. «Voi siete a posto per stasera? Ci sono un sacco di negozi e di locali in cui mangiare, da queste parti. Vi lascio una chiave...» «Siamo a posto.» Suo padre fece una pausa. «Questo viaggio che devi fare, c'entra con quello che è successo a tua madre?» «Può darsi.» «No, perché pensavo...» «Cosa?» Siobhan alzò gli occhi dai bagagli.
«Sei un poliziotto anche tu, Siobhan. Se insisti su questo punto, ti farai solo dei nemici.» «Non è una gara di simpatia, papà.» «Sì, però...» Lei chiuse la cerniera della borsa, la lasciò sul letto e prese la tazza. «Voglio solo sentirgli dire che ha sbagliato.» Bevve un sorso di tè ormai tiepido. «Pensi che lo farà?» Lei alzò le spalle. «Forse.» Suo padre si era seduto su un angolo del letto. «È proprio decisa ad andare a Gleneagles, sai?» Siobhan annuì. «Ti accompagno al campeggio, così portiamo qui le vostre cose prima che me ne vada.» Si accovacciò di fronte a lui, premendogli la mano libera sul ginocchio. «Sicuri che siete a posto?» «Tranquilla. E tu?» «A me non succederà niente, papà. Sono circondata da un campo di forza, non te n'eri accorto?» «In Princes Street mi sa che ho colto un bagliore.» Posò la mano su quella di lei. «Tu però sta' attenta lo stesso.» Lei sorrise, si alzò, vide sua madre che li guardava dal corridoio e divise quel sorriso anche con lei. Rebus era già passato dalla mensa di Pollock Halls. Durante l'anno accademico era gremita di studenti, molti dei quali semplici matricole con espressioni che spaziavano dal timoroso al terrorizzato. Qualche anno prima un laureando si era messo a spacciare e lui l'aveva arrestato proprio a colazione. Gli studenti che frequentavano la caffetteria avevano con sé computer portatili e iPod, perciò il locale era silenzioso anche quando era pieno, a parte il continuo trillo dei cellulari. Oggi però risuonava di voci concitate e nell'aria era palpabile il crepitio del testosterone. Due tavoli erano stati uniti a formare un bancone provvisorio, dove vendevano bottigliette di birra francese. Tutti i divieti di fumare erano palesemente disattesi dagli agenti in uniforme, che si scambiavano pacche sulle spalle e goffe imitazioni del «cinque» all'americana. I giubbotti antilama erano allineati contro una parete e le cameriere impegnate a servire piatti di cibo fritto erano rosse in viso, un po' per lo sforzo e un po' per gli esagerati complimenti degli ospiti.
Rebus cercava indizi visivi, una qualche insegna di Newcastle. In portineria gli avevano indicato un vecchio edificio dall'aria baronale, dove un'impiegata civile aveva trovato il numero di stanza di Hackman. Ma Rebus aveva bussato senza ottenere risposta, perciò era venuto lì, il secondo suggerimento dell'impiegata. «Naturalmente potrebbe ancora essere sul campo», lo aveva ammonito lei, approfittando dell'occasione per usare un po' di gergo. «Messaggio ricevuto», aveva replicato Rebus, contribuendo a rendere la giornata della signora ancora più memorabile. Nella caffetteria non si sentiva neanche un accento scozzese. Rebus vide uniformi della Met e della London Transport Police, del South Wales e dello Yorkshire. Decise di bere una tazza di tè solo per sentirsi dire che era gratis; quindi ci aggiunse un panino con salsiccia e una barretta di Mars. A un tavolo chiese se poteva sedersi, e gli occupanti si spostarono per fargli posto. «Investigativa?» indovinò uno. Aveva i capelli appiccicaticci per il sudore e il volto arrossato. Lui annuì, rendendosi conto di essere l'unico in tutta la sala a non sfoggiare una camicia bianca aperta sul petto. C'era anche una spruzzata di uniformi femminili, ma le donne erano sedute tutte insieme e ignoravano i frizzi lanciati nella loro direzione. «Sto cercando uno della mia specie», attaccò Rebus. «Un sergente di nome Hackman.» «Quindi tu sei di queste parti?» chiese una delle uniformi, riconoscendo l'accento locale. «Cazzo, che bella città. Peccato che ci abbiamo portato un po' di casino, eh?» Scoppiò a ridere, imitato dai colleghi. «Però non conosco nessun Hackman, no.» «È un Geordie, viene dal Nord, da Newcastle», aggiunse Rebus. «Quelli là sono tutti Geordie.» L'agente indicava un tavolo più spostato verso la finestra. «No, quelli sono Scouser, di Liverpool», lo corresse il vicino. «Ma che ne so, a me sembrano tutti uguali.» Altre risate. «E voi di dove siete?» chiese Rebus. «Nottingham», rispose il primo. «Gli sceriffi della situazione. Il rancio però fa cagare, eh?» Con un cenno al panino di Rebus. «Ne ho assaggiati di peggio, e almeno questo è gratis.» «Sissignori, questo qua è proprio scozzese.» L'uomo rise un'altra volta. «Mi spiace che non possiamo aiutarti a trovare il tuo amico.»
Rebus si limitò a una scrollata di spalle. «Eravate a Princes Street, ieri?» riprese poi, come se volesse solo fare un po' di conversazione. «Mezza giornata, cazzo.» «Un bel pacchettino di straordinari», aggiunse il vicino. «Noi ci siamo passati anche qualche anno fa», disse Rebus. «Per il summit dei capi di governo del Commonwealth. Per gli amici, 'Suca'. Certi miei colleghi si sono pagati il mutuo con quella settimana.» «Io me li spendo in un viaggio», dichiarò il suo interlocutore. «La mia signora vuole andare a Barcellona.» «E mentre la signora è a Barcellona», ribatté il collega accanto, «la tua ragazza dove la porti?» Altre risate, e gomitate nelle costole. «Però ieri ve li siete guadagnati per davvero», riattaccò Rebus, tornando a bomba sull'argomento che gli interessava. «Eh, qualcuno sì», fu la risposta. «Ma per la maggior parte siamo rimasti seduti in panchina ad aspettare che succedesse veramente qualcosa.» Il vicino annuì. «Se penso alla testa che ci avevano fatto, è stata una passeggiata.» «Dalle foto sui giornali di oggi, però, qualcuno ci è anche andato giù duro.» «I ragazzi della Met, probabilmente. Quelli si addestrano contro gli ultra del Millwall, per loro ieri era ordinaria amministrazione.» «Vi posso fare un altro nome, già che ci sono?» chiese Rebus. «Un tizio chiamato Jacko: lui sì, potrebbe essere della Met.» Dinanzi allo scuotere di teste generale, Rebus capì che non avrebbe cavato un ragno dal buco, si mise in tasca il Mars e si alzò. Raccomandò ai colleghi di non abbassare la guardia e andò a farsi un giro. Anche fuori bighellonavano parecchie uniformi: se non avesse minacciato pioggia, forse sarebbero andate a sdraiarsi sul prato. Ancora però non udì nulla di simile all'accento di Newcastle né eventuali commenti sulla bella lezione inferta a innocenti contestatori. Tentò di chiamare Hackman sul cellulare, ma era sempre spento. Stava quasi per arrendersi, quando decise di fare un altro tentativo in camera. E la porta si aprì. «Sergente Hackman?» «Chi è che vuole saperlo?» «Ispettore Rebus.» Gli mostrò il tesserino. «Le spiace se scambiamo due parole?» «Qui no, non c'è neanche posto per tirare fuori la lingua. E occorrerebbe
una bella disinfestazione. Aspetti un secondo...» Mentre Hackman si ritirava all'interno della stanza, Rebus effettuò una rapida ispezione: indumenti sparsi ovunque, pacchetti di sigarette vuoti, rivistine spinte, lettore CD portatile, una lattina di sidro posata accanto al letto. Dalla tivù un sottofondo di corse ippiche. Hackman scovò cellulare e accendino, si tastò le tasche fino a trovare la chiave e uscì nuovamente in corridoio. «Fuori, okay?» disse facendo strada, che a Rebus piacesse o no. Era un tipo corpulento: collo taurino e capelli biondi tagliati cortissimi. La trentina superata da poco, il viso butterato, il naso storto e schiacciato. La maglietta bianca aveva patito troppi lavaggi e si arricciava sulla schiena, scoprendo l'elastico delle mutande. Indossava jeans e scarpe da ginnastica. «Stava lavorando?» chiese Rebus. «Appena tornato.» «In incognito?» Hackman annuì. «L'uomo della strada.» «Problemi a immedesimarsi nella parte?» Hackman si esibì in una smorfia. «Polizia locale?» «Esatto.» «Be', potrei anche approfittarne per un consiglio.» Hackman si voltò a guardarlo. «I bar con lap dance sono in Lothian Road, giusto?» «Lì e nei dintorni.» «E in quale dovrei lasciare i miei sudati denari?» «Non sono un esperto.» Hackman lo squadrò dall'alto in basso. «Sicuro?» chiese. Erano usciti, ora. L'inglese offrì a Rebus una sigaretta, che lui accettò di buon grado, e fece scattare l'accendino. «Anche Leith ha il suo bell'assortimento di localini giusti, vero?» «Vero.» «Ma qui sono legali?» «Diciamo che chiudiamo un occhio, finché la cosa resta fra quattro mura.» Rebus si interruppe per fare un tiro. «Sono lieto che non sia solo dovere, ma anche piacere...» Hackman sbottò in una risata aspra. «Comunque da noi le donne sono meglio, su questo non c'è dubbio.» «Lei però non ha un accento del Nord.»
«Sono cresciuto vicino a Brighton. Sto nel Nord-est da otto anni.» «Com'è andata ieri?» Rebus fingeva di essere intento a esaminare lo spettacolo che gli si parava davanti: l'Arthur's Seat stagliato contro il cielo. «Ehi, sono a rapporto?» «Semplice curiosità.» Hackman socchiuse gli occhi. «Cosa posso fare per lei, ispettore Rebus?» «Lei ha seguito l'omicidio di Trevor Guest.» «È stato due mesi fa. Hai voglia quanta roba mi è capitata da allora...» «Ma a me interessa Guest. Vicino a Gleneagles sono saltati fuori i suoi pantaloni, completi di tessera bancomat in tasca.» L'altro spalancò gli occhi. «Non li aveva quando l'abbiamo rinvenuto.» «Adesso sa perché: l'assassino si porta via dei trofei.» Hackman non era tonto. «Quante vittime?» «Finora tre. Due settimane dopo Guest, ha colpito ancora. Identico modus operandi, e un ricordino lasciato nello stesso posto.» «Porca puttana...» Hackman diede un gran tiro alla sigaretta. «Noi pensavamo che... Be', certo i fetenti come Guest si fanno un sacco di nemici. E poi era anche un tossico, perciò l'eroina... poteva essere un messaggio.» «E così è finito sotto tutte le altre pratiche.» Rebus guardò quel pezzo di ragazzo che si stringeva nelle spalle. «Piste? Niente di niente?» «Abbiamo interrogato quelli che hanno ammesso di conoscerlo e ricostruito i movimenti della sua ultima notte in terra, ma non siamo arrivati a conclusioni brillanti. Se vuole posso farle avere la documentazione...» «Già chiesta.» «Guest è stato ucciso due mesi fa, e lei mi dice che il killer è tornato a colpire due settimane dopo.» Hackman osservò il cenno di assenso di Rebus. «E l'altro?» «Tre mesi fa.» Il sergente rifletté. «Dodici settimane, otto, poi sei. Esattamente com'è prevedibile: ci prendono gusto e bruciano le tappe. Ogni botta li soddisfa un po' meno di quella prima. Quindi cos'è successo tra allora e oggi? Sei settimane standosene fermo e buono?» «Improbabile, direi», concordò Rebus. «A meno che non l'abbiamo beccato per qualcos'altro, o che abbia trasferito la sua base altrove.» «Mi piace il suo modo di ragionare», confessò Rebus. Hackman lo guardò. «Lei ha già pensato a tutto quello che sto dicendo,
giusto?» «Per questo mi piace il suo modo di ragionare.» Hackman si diede una bella grattata all'inguine. «Sono due giorni che penso solo alla passera, e adesso arriva lei con questa mazzata.» «Desolato.» Rebus gettò il mozzicone. «Volevo chiederle se poteva dirmi qualcos'altro su Trevor Guest... qualunque cosa possa esserle rimasta in testa.» «Con una birra ghiacciata riuscirà ad aprirmi la testa come un'ostrica.» Ma nelle ostriche, rifletté Rebus mentre si avviavano verso la caffetteria, era più facile trovare una cucchiaiata di sabbia che una perla. Il locale si era un po' calmato e i due trovarono un tavolo al quale sedersi da soli. Ma non prima che Hackman si fosse preso la briga di presentarsi, mano formalmente tesa, a tutte le poliziotte presenti. «Adorabili», dichiarò tornando al tavolo. Batté le mani e continuò a sfregarsele prendendo posto. «Ai culi sodi», disse poi, alzando la bottiglia. E con una risatina per soprammercato. «Potrebbe essere il nome di un locale di lap...» Rebus evitò di dirgli che esisteva già. Invece ripeté il nome di Trevor Guest. Hackman si scolò mezza birra d'un fiato. «Come dicevo, un fetente. Non faceva che entrare e uscire di galera. Furti in appartamenti, ricettazione, altre cosette minori e un episodio di lesioni dolose. Qualche anno fa è stato qui per un po', ma si è tenuto fuori dai guai. Almeno per quanto ne sappiamo noi.» «Quando dice 'qui', intende Edimburgo?» Hackman soffocò un rutto. «Intendo Tirchiolandia in generale... senza offesa.» «Non si preoccupi», mentì Rebus. «Mi chiedo allora se possa avere conosciuto la terza vittima, un buttafuori di nome Cyril Colliar, uscito di prigione tre mesi fa.» «Il nome non mi dice niente. Un'altra?» «Vado io.» Era già praticamente in piedi, ma Hackman lo fermò con un gesto del braccio. Rebus lo vide così transitare prima dal tavolo delle donne per informarsi se erano a posto con le bevande. Riuscì anche a farne ridere una, cosa che probabilmente avrebbe segnato nel quadernetto dei suoi successi personali. Poi lo osservò tornare verso di lui con quattro bottiglie. «In un bicchiere ce ne sta di più», commentò, facendone scivolare due davanti a Rebus. «E poi uno se lo deve pur spendere il bottino, no?»
«Ho notato che nessuno paga vitto e alloggio.» «Nessuno, a parte i contribuenti locali.» Hackman spalancò gli occhi. «Dunque lei, immagino. Perciò, molte grazie.» Brindò alla sua salute con una bottiglia appena aperta. «Presumo che stasera non sia libero per farmi da cicerone, eh?» «Spiacente.» Rebus scosse il capo. «Pago io... difficile rifiutare, per un nativo di Tirchiolandia.» «Ma io rifiuto lo stesso.» «Come vuole», si arrese Hackman con un'alzata di spalle. «Quest'assassino che cercate... piste?» «Prende di mira la feccia, e forse li sceglie su un sito web di aiuto alle vittime.» «Un giustiziere della notte, eh? Quindi uno che ha un conto aperto.» «L'idea è un po' quella.» «Se dovessi scommetterci sopra, direi che il collegamento è la prima vittima. Doveva essere la prima e ultima, ma poi ci ha preso gusto.» Rebus annuì lentamente, avendo già fatto la medesima considerazione. Eddie lo Svelto Isley, aggressore di prostitute. L'assassino, forse un pappa o un fidanzato, lo aveva rintracciato tramite BeastWatch e poi si era detto: perché fermarsi qui? «Ma lei ci tiene veramente a trovarlo?» domandò Hackman. «Perché per me sarebbe un dilemma... A quanto pare, questo sta dalla nostra parte.» «Lei non crede che la gente possa cambiare? Tutt'e tre le vittime avevano scontato la loro condanna, e non risulta che avessero commesso nuovi reati.» «Ah, ho capito, sta parlando di rieducazione.» Hackman mimò uno sputo a terra. «Mai fregato niente di tutte quelle ipocrite cazzate.» Si interruppe. «Perché sorride?» «Perché 'ipocrite cazzate' sta in una canzone dei Pink Floyd.» «Davvero? Mai fregato molto neanche di loro. Qualche disco Stax o Tamia, musica buona per le pollastre. Il nostro Trev era un discreto donnaiolo.» «Trevor Guest?» «E gli piacevano giovani, anche, a giudicare dalle ex che abbiamo scovato», aggiunse Hackman con uno sbuffo. «Mi creda, avessero avuto due anni meno dovevamo interrogarle al nido, anziché in stazione.» La battuta gli piacque così tanto che ebbe difficoltà con il sorso successivo. «A me, la carne mi garba un filo più frollata», disse infine schioccando le labbra,
quasi perso nei suoi pensieri. «Sull'ultima pagina del vostro quotidiano è pieno di annunci di signore che si definiscono 'mature'. Secondo lei quanti anni hanno? Voglio dire, non è che abbia gusti proprio geriatria...» «Guest aveva aggredito una baby-sitter, dico bene?» lo contenne Rebus. «Penetrò in un'abitazione e la trovò per caso sul divano. Se ben ricordo voleva solo un pompino, ma lei si mise a urlare e lui scappò.» Alzata di spalle. Rebus si rimise in piedi, facendo grattare la sedia sul pavimento. «Bisogna che vada», disse. «Finisca almeno di bere.» «Devo guidare.» «Qualcosa mi dice che questa settimana su un peccatuccio o due chiuderanno un occhio. Comunque, accantoniamo per il futuro.» Hackman trasse a sé la bottiglia ancora intatta. «Che ne dice di una pinta più tardi? Avrò bisogno di uno sherpa che mi indichi la strada...» Rebus lo ignorò, allontanandosi. Tornato all'aperto, però, si arrischiò a guardare dentro dalla finestra: Hackman si dirigeva verso le colleghe improvvisando un balletto. 14 Il cosiddetto campeggio Horizon alla periferia di Stirling, schiacciato tra un campo di pallone e una zona industriale, ricordava a Siobhan certi bivacchi provvisori che aveva visto intorno alla base aerea di Greenham Common nei primi anni '80, quando da ragazzina ci era andata in autostop per protestare contro i missili a testata atomica. Con la differenza che qui non c'erano solo canadesi, ma anche elaborate tende indiane e strutture in vimini che sembravano igloo di salici. Tra gli alberi erano stati drappeggiati dei teli, decorati con l'arcobaleno e il simbolo della pace. Dai fuochi da campo si levava fumo, e l'aria era satura dell'aroma pungente della marijuana. Pannelli solari e una piccola turbina a vento generavano elettricità per lunghe file di lampadine colorate. Un caravan fisso forniva consigli legali e preservativi gratuiti, mentre volantini sparsi ovunque offrivano informazioni sugli argomenti più disparati, dall'HIV al debito del Terzo mondo. Lungo il tragitto da Edimburgo era stata fermata a cinque diversi posti di blocco. Malgrado il tesserino, un addetto alla sicurezza aveva addirittura insistito per farle aprire il bagagliaio della macchina.
«Lei non ha idea, ma questi qui hanno simpatizzanti dappertutto», aveva spiegato. «E stanno per guadagnarsene un'altra», aveva borbottato lei per tutta risposta. Gli ospiti del campeggio parevano suddivisi in tribù circoscritte, con il contingente antipovertà che si teneva ben lontano dagli anarchici duri e puri. A mo' di confine tra i due schieramenti erano state erette delle bandiere rosse. Gli hippy di lungo corso formavano un altro sottogruppo, con uno dei wigwam al centro. Qualcuno cucinava fagioli su un fornelletto, mentre un cartello di fortuna annunciava trattamenti Reiki e olistici tra le cinque e le otto, con «tariffe speciali per studenti e disoccupati». Siobhan aveva chiesto di Santal a uno del servizio d'ordine all'ingresso, ma l'uomo aveva scosso il capo. «Nessun nome, nessun punito.» Poi l'aveva squadrata da capo a piedi. «Ti offendi se ti dico una cosa?» «Tipo?» «Sembri uno sbirro in borghese.» Lei aveva seguito la traiettoria del suo sguardo. «È la salopette?» Lui aveva scosso di nuovo la testa. «I capelli puliti.» Così se li era arruffati un po', senza comunque riuscire a essere troppo convincente. «Ce ne sono altri, là dentro?» «Come no», aveva detto l'uomo con un sorriso. «Ma non è che mi metto a distinguere i buoni dai cattivi, giusto?» Siobhan aveva parcheggiato nel centro del paese; se le cose si fossero messe male, avrebbe dormito in macchina anziché sotto le stelle. L'area destinata all'accampamento era molto più grande di quella di Edimburgo e le tende più fitte. Man mano che si faceva buio, doveva prestare sempre maggiore attenzione a tiranti e picchetti. Per due volte incrociò un giovanotto dalla barba cespugliosa che decantava il suo metodo di «rilassamento erboristico». Al terzo incontro, i loro sguardi si sfiorarono. «Cerchi qualcuno?» chiese lui. «Un'amica. Si chiama Santal.» Lui scosse il capo. «Non vado forte coi nomi.» Siobhan gli fece una breve descrizione. Altro cenno negativo. «Se ti siedi e ti calmi, magari verrà lei da te.» Le tese una canna già rollata. «Offre la casa.» «Solo per i clienti nuovi?» azzardò lei. «Anche le forze dell'ordine devono rilassarsi, a fine giornata.» Lei lo fissò un istante. «Complimenti. È per via dei capelli?»
«No, la borsa», fece lui. «Ti servirebbe uno zainetto un po' infangato, mentre quella... cosa» - indicò l'accessorio colpevole - «dà l'idea che stai per andare in palestra.» «Grazie per il consiglio. Non hai avuto paura che volessi pizzicarti?» Lui si strinse nelle spalle. «Se vuoi la rissa, accomodati.» Lei accennò un sorriso. «Magari un'altra volta.» «Questa tua 'amica' potrebbe essere nell'avanguardia?» «Dipende da cosa intendi.» Lui si era fermato per accendersi la canna, aveva inspirato a fondo ed espirato senza smettere di parlare. «I blocchi partiranno alle prime luci dell'alba, probabilmente, e i tuoi cercheranno di impedire l'avvicinamento all'albergo.» Le offrì un tiro, ma lei declinò. «Chi non risica non rosica», la stuzzicò lui. «Che tu ci creda o no, ho avuto sedici anni anch'io... Quindi l'avanguardia è partita da qui in anticipo?» «Carte militari alla mano. Solo le Ochil Hills, tra noi e la vittoria.» «Corsa campestre al buio? Non è un po' rischioso?» Lui fece spallucce, poi diede un altro tiro alla canna. Nei pressi si aggirava una ragazza. «Serve qualcosa?» chiese lui. La transazione durò trenta secondi in tutto: un pacchettino di pellicola trasparente per tre banconote da dieci sterline. «Alla tua», disse la ragazza. E poi a Siobhan: «Buonasera, agente». Li lasciò ridacchiando. Il pusher lanciò un'occhiata alla salopette di Siobhan. «Mi dichiaro sconfitta», ammise lei. «Bene, allora segui davvero il mio consiglio: siediti e calmati. Potresti trovare qualcosa che non sapevi neanche di stare cercando.» Parlando si accarezzò la barba. «Che pensiero... profondo», rispose Siobhan, in un tono che significava inequivocabilmente il contrario. «Vedrai», ribatté lui, superandola nella penombra. Lei tornò verso i margini del campo e decise di telefonare a Rebus. Non ricevendo risposta, gli lasciò un messaggio. «Ciao, sono io. Sono a Stirling, però non c'è traccia di Santal. Ci vediamo domani, ma se nel frattempo hai bisogno di me chiama pure.» Un gruppo di persone dall'aria stanca ma esaltata stava varcando l'ingresso del campo. Siobhan richiuse il telefonino con uno scatto e si avvicinò abbastanza da sentirli parlare mentre venivano accolti da alcuni compa-
gni. «Radar termosensibili... cani...» «Oh, armati fino ai denti...» «Accento americano... secondo me marine... niente contrassegni...» «Elicotteri... fotoelettriche...» «Ci tenevano nel mirino...» «Ci hanno seguito fin quasi al campeggio...» Poi iniziarono le domande. Quanto si erano avvicinati? Il dispositivo di sicurezza aveva punti deboli? Erano arrivati al confine? C'era ancora qualcuno laggiù? «Ci siamo separati...» «Mitragliette automatiche, direi...» «Mica rischiavamo...» «Ci siamo divisi in dieci gruppi da tre... più facile non farsi notare...» «Stato dell'arte...» Seguì un nuovo fiume di domande. Siobhan cominciò a contarli e si fermò a quindici. Significava che altri quindici erano ancora fuori, in qualche punto delle Ochil. Nella confusione generale, lanciò pure lei la sua domanda. «Santal?» Cenno di diniego. «Non l'ho più vista dopo che ci siamo separati.» Uno aprì una cartina per mostrare fino a dove erano arrivati. Aveva una torcia fissata alla fronte e ripercorreva il tragitto con un dito infangato. Siobhan si avvicinò. «È una zona a esclusione totale...» «Un punto debole dev'esserci...» «Noi possiamo solo contare sui numeri...» «Domattina saremo diecimila.» «Sigarette d'erboristeria per i nostri coraggiosi militi!» Mentre il pusher cominciava a distribuire e la tensione si scioglieva, il gruppo proruppe in qualche risata. Siobhan arretrò, sfilandosi dalla calca, ma a un tratto una mano le afferrò il braccio: era la ragazza che aveva comprato il fumo prima. «Meglio che i porci mettano le ali», sibilò. Siobhan la fulminò con lo sguardo. «Altrimenti?» La ragazza rispose con un sorriso malevolo. «Altrimenti mi metto a strillare.» Siobhan non disse nulla. Semplicemente, rimise la borsa in spalla e se ne
andò. La ragazza la salutò con la mano. Al cancello c'era la stessa guardia di prima. «Il travestimento ha retto?» le chiese con un vago sorriso. Per tutto il tragitto di ritorno verso la macchina, Siobhan cercò di farsi venire in mente una risposta. Rebus aveva voluto fare il gentiluomo ed era tornato a Gayfield Square con spaghetti cinesi disidratati e tortilla arrotolate al pollo tikka. «Tu mi vizi», disse Ellen accendendo il bollitore elettrico. «Puoi anche scegliere per prima: tacchino e funghi, o manzo al curry?» «Tacchino.» Lo guardò aprire i due contenitori di plastica. «Allora, com'è andata?» «Ho trovato Hackman.» «E?» «Voleva che lo accompagnassi a fare il 'puttan tour'.» «Bleah.» «Gli ho detto che non potevo esaudire la richiesta, e in cambio lui mi ha raccontato molto poco che già non sapessimo.» «O che non avremmo indovinato da soli.» Si era avvicinata a Rebus, accanto al bollitore. Prese in mano una tortilla arrotolata ed esaminò la data di scadenza: 5 luglio. «Metà prezzo», commentò. «Sapevo che avrei fatto la mia bella figura. E non è tutto.» Estrasse di tasca il Mars e glielo porse. «Allora, che notizie di Edward Isley?» «Di nuovo, altri incartamenti che stanno viaggiando verso nord», disse lei, «ma l'ispettore con cui ho parlato era brillantissimo. Mi ha snocciolato tutto praticamente a memoria.» «Fammi indovinare: un sacco di nemici... possibile conto aperto... non trascurano nessuna ipotesi... niente progressi finora?» «Riassuntino efficace», riconobbe Ellen. «Ho l'impressione che abbiano lasciato molto d'intentato.» «Niente che colleghi Eddie lo Svelto al signor Guest?» Lei scosse il capo. «Carceri diverse, nessuna traccia di complici comuni. Isley non era di casa a Newcastle, e Guest non frequentava né Carlisle né la M6.» «E Cyril Colliar, probabilmente, non conosceva nessuno dei due.» «Il che ci riporta alla loro comune apparizione su BeastWatch.» Lo osservò versare l'acqua bollente sugli spaghetti. Quando le porse un cucchiaio, ciascuno si mise a rigirare la propria zuppa precotta.
«Hai parlato con qualcuno di Torphichen?» chiese Rebus. «Gli ho detto che tu eri rimasto solo.» «Rodi-culo ha certamente fatto la sua battutina sul nostro pomeriggio caldo insieme.» «Tu sì che lo conosci, l'agente Reynolds», commentò lei con un sorriso. «A proposito, sono arrivate le immagini jpeg da Inverness.» «Però, rapidi.» La guardò accendere il computer. Nell'anteprima le foto comparivano in formato ridotto, ma Ellen le ingrandì una per una. «È proprio uguale a Auchterarder», osservò Rebus. «Il fotografo ha scattato anche dei primi piani», disse la collega, e li visualizzò a schermo pieno. Resti laceri di vestiti, ma nulla di veramente recente. «Che ne pensi?» gli chiese. «Non mi sembra ci sia nulla di utile per noi, e a te?» «Neanche», concordò lei. Uno dei telefoni prese a squillare. Ellen sollevò la cornetta e si mise in ascolto. «Fallo salire», disse e riagganciò. «Un certo Mungo», riferì. «Sostiene di avere un appuntamento.» «Più che altro un invito aperto», disse Rebus, fiutando il contenuto della tortilla appena scartata. «Chissà se il pollo tikka gli piace...» Gli piaceva, altroché: Mungo demolì l'omaggio in due soli morsi, mentre Rebus e la Wylie esaminavano le fotografie. «Velocissimo», disse Rebus a mo' di ringraziamento. «Cosa stiamo guardando?» chiese Ellen. «Venerdì sera», spiegò Rebus. «La cena al castello.» «Il suicidio di Ben Webster?» Rebus annuì. «Questo è lui», disse tamburellando su una delle facce. Mungo era stato di parola: non solo aveva portato i suoi scatti rubati del corteo di auto e relativi passeggeri, ma anche le copie dei ritratti ufficiali. Un mucchio di signori ben vestiti e sorridenti che stringevano la mano ad altri signori ben vestiti e sorridenti. Rebus ne riconobbe solo alcuni: il ministro degli Esteri, quello della Difesa, Ben Webster, Richard Pennen... «Come se le è procurate?» gli chiese Rebus. «Sono a disposizione di tutte le testate. Questione di pubbliche relazioni, occasioni che i politici apprezzano sempre.» «E lei sa abbinare i nomi a tutte le facce?» «Questo è un lavoro da redattori», disse il fotografo, mandando giù l'ultimo boccone di tortilla. «Ma ho fatto del mio meglio.» Infilò la mano in tasca e ne estrasse dei fogli.
«Grazie, ma io probabilmente li ho già visti...» «Io invece no», esclamò Ellen, prendendo i fogli da Mungo. Rebus era decisamente più interessato alle foto della cena. «Non sapevo che ci fosse anche Corbyn», rifletté. «Sarebbe a dire...?» chiese Mungo. «Il nostro stimato capo della polizia.» Il fotografo guardò nella direzione indicata da Rebus. «Non si è trattenuto a lungo, vedo», disse, passando in rassegna le sue stampe. «Eccolo qui che se ne va. Io stavo mettendo via la roba...» «Stiamo parlando di quando?» «Neanche mezz'ora dall'inizio della cena. Avevo aspettato un po', caso mai ci fossero dei ritardatari.» Richard Pennen non compariva in alcun ritratto ufficiale, ma Mungo aveva immortalato la sua macchina che entrava nel castello e lui colto di sorpresa, con la bocca spalancata. «Qui dice», intervenne Ellen Wylie, «che Ben Webster aveva contribuito a negoziare una tregua in Sierra Leone, e che era stato anche in Iraq, in Afghanistan e a Timor Est.» «Avrà messo insieme un bel po' di miglia omaggio», commentò Mungo. «Di sicuro gli piaceva la vita movimentata», aggiunse lei, voltando pagina. «Ehi, non sapevo che sua sorella fa la poliziotta.» Rebus annuì. «L'ho conosciuta qualche giorno fa.» Si interruppe un istante. «Il funerale è domani, credo. Dovevo chiamarla...» Poi tornò con lo sguardo alle foto ufficiali. Erano tutti scatti in posa, quindi c'era poco da spigolare: nessun tête-à-tête sullo sfondo, niente che quegli uomini di potere fossero ansiosi di nascondere al mondo. Come aveva detto Mungo, un esercizio di pubbliche relazioni. Rebus prese il telefono e chiamò Mairie sul cellulare. «Non è che riesci a fare un salto a Gayfield?» le disse. Sentiva il ticchettio della tastiera in sottofondo. «Prima devo finire qui.» «Tra mezz'ora?» «Vedo cosa posso fare.» «Se vieni ti aspetta un Mars.» Ellen non nascose la propria contrarietà. Mentre terminava la chiamata, Rebus la vide scartare e addentare con aria volitiva la barretta di cioccolato. «Ecco che se ne va la mia tangente.» «Queste ve le lascio», disse Mungo, spolverandosi via la farina dalle dita. «Tanto potete tenervele, basta che non le pubblichiate.» «Solo per i nostri occhi», lo rassicurò Rebus. Sparse dinanzi a sé le im-
magini dei vari occupanti dei sedili posteriori. Erano per lo più sfocate, poiché gli autisti si rifiutavano di rallentare per i fotografi. Alcuni dignitari stranieri però sorridevano, lieti forse di essere notati. «Potrebbe dare queste a Siobhan?» aggiunse Mungo, porgendogli una grossa busta. Rebus annuì e chiese cosa fosse. «La manifestazione in Princes Street. Le interessava la donna ai margini dell'assembramento. Sono riuscito a ingrandirgliela un po'.» Rebus aprì la busta. La ragazza con le treccine teneva la videocamera sollevata davanti al viso. Santal, non era così che si chiamava? E significava «legno di sandalo». Si chiese se Siobhan avesse fatto controllare il nome da quelli del Sorbo: la faccia era di chi sta facendo il suo lavoro, la bocca una sottile linea di concentrazione. Impegnata: una professionista, forse. In altri scatti la videocamera era lontana dal viso e la ragazza guardava a destra e a sinistra. Come se volesse controllare qualcosa. Totale disinteresse per lo schieramento antisommossa, nessun timore dei corpi contundenti vaganti. Nessuna esaltazione, nessuna soggezione. Stava solo facendo il suo lavoro. «Gliele consegnerò senz'altro», disse Rebus a Mungo, mentre questi finiva di chiudere la borsa. «E grazie per le altre. Sono in debito di un favore.» Il fotografo annuì lentamente. «Magari la prossima volta che arriva per primo su una scena del delitto mi avverte...» «Succede di rado, figliolo. Ma terrò presente.» Mungo strinse la mano a entrambi gli investigatori. La Wylie lo guardò andare via, poi fece eco: «Lo terrai presente?» «Il problema, Ellen, è che alla mia età la memoria non è più quella di una volta.» Rebus allungò la mano verso gli spaghetti, solo per scoprire che si erano raffreddati. Sempre di parola, Mairie Henderson spuntò allo scoccare della mezz'ora esatta, ma quando vide l'incarto vuoto del Mars sulla scrivania si rabbuiò. «Io non c'entro», si scusò Rebus alzando le mani. «Pensavo ti facesse piacere vedere questa», disse allora lei, svolgendo una copia fresca di stampa della prima pagina del mattino dopo. «Abbiamo avuto fortuna: niente storie sensazionali.» LA POLIZIA INDAGA SULL'OMICIDIO DEL G8. Con foto del Clootie Well e dell'hotel Gleneagles. Rebus non stette nemmeno a leggere l'articolo. «Cos'è che hai appena detto a Mungo?» lo provocò Ellen.
Lui la ignorò, concentrandosi invece sui dignitari immortalati. «Ti spiace illuminarmi?» chiese a Mairie. Lei fece un bel respiro e cominciò a snocciolare nomi. Ministri di governo dei Paesi più disparati, dal Sudafrica, alla Cina e al Messico. Quasi tutti si occupavano di dicasteri commerciali o economici e, dove Mairie non era certa, una telefonata al giornale bastò per colmare la lacuna. «Quindi possiamo ipotizzare che abbiano discusso di scambi o di aiuti?» chiese Rebus. «Nel qual caso, che ci faceva lì Richard Pennen? Per non parlare del nostro ministro della Difesa.» «Si possono commerciare anche le armi», gli ricordò Mairie. «E il capo della polizia?» Lei diede un'alzata di spalle. «Forse invitato per pura cortesia. Mentre questo qui...» Picchiettò con un dito su uno dei ritratti. «Questo è Mister Modificazioni Genetiche. L'ho visto in televisione, che discuteva con gli ambientalisti.» «Ma noi vendiamo genetica al Messico?» obiettò Rebus. Mairie si strinse un'altra volta nelle spalle. «Pensi davvero che stiano coprendo qualcosa?» «E perché dovrebbero?» replicò lui, come sorpreso dalla domanda. «Magari perché possono?» suggerì Ellen Wylie. «Questi signori sono molto più furbi di quanto pensiate. Pennen non è l'unico uomo d'affari, qui.» Mairie indicò altre due facce. «Banche e linee aeree.» «I VIP li hanno portati via in tutta fretta», disse Rebus, «una volta scoperto il corpo di Webster.» «Normale procedura, no?» ribatté Mairie. Rebus si stravaccò sulla poltrona più vicina. «Pennen non vuole che ci mettiamo il naso e Steelforth è persino ricorso alle maniere forti. Tu che ne dici?» «Che qualunque pubblicità è cattiva pubblicità... quando cerchi di fare affari con certi governi.» «A me questo qui sta simpatico», dichiarò Ellen, che aveva finito di leggere la rassegna stampa su Ben Webster. «Mi spiace che sia morto.» Guardò Rebus. «Tu ci vai al funerale?» «Ci stavo pensando.» «Un'altra occasione per pestare i calli a Pennen e ai reparti speciali?» indovinò Mairie. «Vado a porgere l'estremo saluto», ribatté Rebus, «e a dire a sua sorella
che non stiamo approdando da nessuna parte.» Prese uno dei primi piani scattati da Mungo nei giardini di Princes Street. Anche Mairie li stava studiando. «A quanto ho sentito», disse la giornalista, «ci siete andati giù un po' pesanti.» «Ah, noi eh?» ribatté la Wylie in tono piccato. «Qualche decina di teste calde contro qualche centinaio di agenti antisommossa.» «E chi è che gli fornisce l'ossigeno della pubblicità?» Ellen sembrava pronta alla rissa. «Voi e i vostri manganelli», replicò Mairie. «Se non ci fosse niente da riferire, noi non lo riferiremmo.» «Ma con tutti i modi che ci sono per travisare la verità...» In quel momento Ellen si rese conto di avere perso Rebus per strada: stava fissando intensamente una foto, gli occhi socchiusi. «John?» lo chiamò. Non ottenendo reazioni, gli diede una gomitata. «Ti spiacerebbe darmi man forte?» «Sono certo che sei in grado di combattere le tue battaglie da sola, Ellen.» «Ehi, che c'è che non va?» chiese Mairie, sbirciando l'immagine da sopra la sua spalla. «Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma.» «In un certo senso», rispose lui. Prese in mano il telefono, poi ci ripensò e lasciò ricadere la cornetta al suo posto. «Tanto», disse, «domani è un altro giorno.» «Non è solo 'un altro' giorno, John», gli ricordò Mairie. «È quando comincia tutto, finalmente.» «Speriamo che non facciano le Olimpiadi a Londra», aggiunse la Wylie. «O non ne usciremo più, nei secoli dei secoli.» Rebus si era alzato, ancora in preda a una specie di distrazione. «È l'ora della birra», affermò. «Il primo giro lo offro io.» «Temevo non l'avresti mai detto», sospirò Mairie. Ellen andò a prendere giacca e borsa. Lui fece strada. «Quella non la lasci qui?» chiese Mairie, indicando la foto che ancora stringeva in mano. Rebus la guardò, poi la piegò e se la mise in tasca. E, prima di posare una mano sulla spalla di Mairie, si palpò anche le altre tasche. «Perdona, si dà il caso che sia un po' a corto. Non è che mi faresti un piccolo prestito?» Più tardi, quella sera, Mairie Henderson tornò nella sua casa di Murra-
yfield. Era proprietaria degli ultimi due piani di un palazzo vittoriano, di cui divideva il mutuo con il fidanzato Allan. Lui era un cameraman televisivo e, anche nella migliore delle ipotesi, si vedevano pochissimo; quell'ultima settimana, poi, era stata addirittura disastrosa. In una delle camere avevano allestito uno studio e lì Mairie si diresse immediatamente, mollando la giacca sullo schienale di una sedia. Sul tavolinetto da caffè non restava posto neanche per uno spillo, coperto com'era di pile di carta stampata. Il suo archivio di ritagli occupava da solo una parete intera, e i preziosi attestati dei suoi premi giornalistici erano incorniciati sopra il computer. Mairie sedette alla scrivania, domandandosi che cosa la facesse sentire tanto a proprio agio in quella stanzetta angusta e mal ventilata. La cucina era molto più ariosa, ma lei ci passava pochissimo tempo; il soggiorno invece era stato completamente invaso dal televisore con Dolby surround e dallo stereo ad altissima fedeltà di Allan. Quella stanza, il suo ufficio, era insomma tutta per lei. Guardò le file di nastri registrati: le sue interviste al completo. Ciascuna racchiudeva una vita. La storia di Cafferty, per esempio, aveva richiesto oltre quaranta ore di conversazione e le trascrizioni occupavano più di mille pagine. L'esito era stato il libro che lei sapeva di aver compilato con la massima cura, e che avrebbe meritato una medaglia al valore... ma non gliel'avevano offerta. E il fatto che il libro avesse venduto cannonate di copie non aveva minimamente alterato il forfait che lei aveva accettato per contratto. Adesso però era Cafferty che andava in televisione, Cafferty che firmava frontespizi alle presentazioni, ai festival, alle feste VIP di Londra. Alla terza ristampa, l'editore aveva persino cambiato la sovraccoperta del libro, evidenziando il nome di Cafferty e riducendo il suo. Che faccia tosta. Ultimamente, poi, quando le capitava di incontrarlo, Big Ger non faceva altro che stuzzicarla con il miraggio di una seconda puntata, lasciando intendere che stavolta si sarebbe comunque trovato «un altro negro», perché sapeva benissimo che lei non si sarebbe fatta infinocchiare due volte. Com'era quel detto? Errare è umano, perseverare è diabolico. Bastardo. Controllò la posta elettronica, ripensando alle birre appena consumate in compagnia di Rebus. Era ancora arrabbiata con lui per la mancata intervista da inserire nel libro su Cafferty: senza di lui, in merito a moltissimi episodi le era rimasta solo la parola di Big Ger... E quindi sì, era ancora arrabbiata.
Era arrabbiata perché sapeva che Rebus aveva fatto bene a dire di no. I suoi colleghi giornalisti pensavano che con quel libro lei avesse finalmente svoltato, e alcuni avevano smesso di parlarle e di rispondere alle sue telefonate. L'invidia c'entrava, certo, ma forse pensavano anche di non avere più nulla di abbastanza buono da proporle, e così le offerte di lavoro si erano prosciugate. Si era ritrovata a spigolare qua e là, a scrivere pezzi su consiglieri comunali e direttori di opere pie: storie di «interesse umano» che non interessavano a nessuno. I direttori dei giornali sembravano quasi sorpresi che avesse ancora bisogno di lavorare... Credevo ti fossi sistemata, con Cafferty... Ovviamente non poteva dire la verità, perciò raccontava balle, spiegava che voleva solo rimanere nel giro. Sistemata... Le poche copie rimaste del libro erano impilate sotto il tavolino. Aveva smesso di regalarle a familiari e amici. Aveva smesso dopo avere visto Cafferty fare l'istrione in un talk show pomeridiano e il pubblico pendere dalle sue labbra. Si era sentita peggio che mai. Ma quando pensava a Morris Gerald Cafferty, Mairie non riusciva a non rivedere anche Richard Pennen... che salutava falso e cortese al Prestonfield House, tirato a lucido e vezzeggiato dai suoi lacchè. Rebus non aveva torto sulla cena nel castello di Edimburgo: il punto non era tanto che a capotavola fosse stato seduto un commerciante d'armi, evento comunque sui generis, bensì che nessuno lo avesse notato. Pennen aveva detto che qualunque cosa avesse regalato a Ben Webster sarebbe comparsa nel registro dei benefici parlamentari. In effetti lei aveva controllato, e a quanto pareva il deputato era stato scrupoloso; solo adesso, però, la colpì il pensiero che Pennen contasse sulla sua mossa. In altre parole, voleva che indagasse sugli affari di Webster. Ma perché? Perché sapeva che non avrebbe trovato nulla... o perché voleva infangare il nome di un morto? «A me questo qui è simpatico», aveva detto Ellen Wylie. Sì, e l'aveva trovato simpatico anche lei, già dopo le prime chiacchiere con persone dell'ambiente di Westminster. Il che la portava a diffidare ancora di più di Richard Pennen. Riempì un bicchiere d'acqua del rubinetto e tornò al computer. Decise di ricominciare da zero. Inserì il nome di Richard Pennen in uno dei suoi numerosi motori di ricerca preferiti.
15 Dal portone di casa lo separavano solo tre passi quando Rebus si sentì chiamare. Dentro le tasche del soprabito le mani si chiusero a pugno. Si voltò e vide Cafferty. «Che vuoi ancora?» Big Ger si sventolò una mano davanti al naso. «Sento puzza di alcol fin da qui.» «Bevo per dimenticare quelli come te.» «Allora stasera hai buttato i tuoi soldi.» La testa di Cafferty si mosse appena. «Voglio mostrarti una cosa.» Un attimo di resistenza, poi la curiosità ebbe la meglio su Rebus. La vecchia canaglia aprì la portiera della Bentley e lo invitò a salire. Lui aprì dalla parte del passeggero e infilò la testa nell'abitacolo. «Dove mi porti?» «Non in un luogo deserto, se è questo che ti preoccupa. Anzi, in un posto pieno come un uovo.» Il motore prese vita con un ruggito. Con due birre e due whisky già nello stomaco, Rebus sapeva di non essere perfettamente padrone di sé. Ma montò lo stesso. Cafferty gli offrì un pacchetto di gomme da masticare e lui ne prese una. «Allora, come procede il mio caso?» chiese quindi il boss della mala edimburghese. «Piuttosto bene anche senza il tuo aiuto.» «Basta che non dimentichi chi è stato a metterti sulla pista giusta.» Cafferty fece un sorrisetto. Attraversarono Marchmont, diretti a est. «E la nostra Siobhan come se la cava?» «Benone.» «Non ti ha lasciato nelle peste, quindi?» Rebus squadrò il profilo di Cafferty. «Che vuoi dire?» «Niente, solo gira voce che ultimamente sia sempre più impegnata.» «Ci fai spiare?» Cafferty si limitò a sorridere di nuovo. Rebus si accorse di avere ancora i pugni serrati, premuti sulle cosce. Un colpo al volante e avrebbe potuto mandare la Bentley a sbattere da qualche parte. O gli sarebbe bastato far scivolare le mani intorno al grasso collo di Cafferty e stringere, stringere... «Non starai covando brutti pensieri, eh, ispettore?» indovinò Cafferty. «Io sono un contribuente, ricordalo, e pure della fascia più alta. Quindi tu
lavori per me.» «Cerca di andarne fiero, allora.» «Infatti. Quel tipo che è saltato giù dai bastioni... progressi?» «A te, che ti frega?» «Niente.» Cafferty fece una breve pausa. «È solo che conosco Richard Pennen.» Si voltò verso il suo passeggero, soddisfatto del visibilissimo effetto che aveva appena sortito su di lui. «L'ho incontrato un paio di volte», continuò. «Ti prego, dimmi che cercava di rifilarti un carico illegale di armi.» Cafferty rise. «Ha una compartecipazione nella casa editrice che ha pubblicato il mio libro. Quindi era alla festa di lancio. A proposito, mi spiace che tu non sia potuto venire.» «L'invito mi è tornato utile quando ho finito la carta igienica.» «Poi l'ho rivisto il giorno in cui il libro ha toccato le cinquantamila copie. In una saletta privata all'Ivy...» Gli gettò un'altra occhiata. «Cioè a Londra. Ci ho pensato a trasferirmi là, sai? Avevo un sacco di amici, giù al Sud. Conoscenze di lavoro.» «Gli stessi che Steelforth ha sbattuto dentro?» Rebus rifletté per un istante. «Perché non mi hai detto che conoscevi anche Richard Pennen?» «Dobbiamo pur avere qualche segreto, tu e io», dichiarò il boss con l'ennesimo sorriso. «Tra l'altro, ho fatto fare un controllino sul tuo amico Jacko... ma non sono approdato a niente. Sicuro che è uno sbirro?» Rebus rispose con un'altra domanda. «Che mi dici del conto di Steelforth al Balmoral?» «Paga la polizia del Lothian and Borders.» «Caspita, generosi!» «Tu non ti arrendi mai, vero, ispettore?» «Perché dovrei?» «Perché certe volte le cose devi lasciarle stare. Il passato è terra straniera: me l'ha detto Mairie quando lavoravamo al libro.» «Ho appena bevuto una cosa con lei.» «E non era Fanta, dall'odore.» «È una brava ragazza. Peccato porti ancora i segni delle tue grinfie sulla schiena.» Dopo avere percorso in velocità Dalkeith Road, Cafferty mise la freccia a sinistra. O andavano a Craigmillar, forse Niddrie, oppure stavano puntando verso la Al in direzione sud, per uscire dalla città. «Dove stiamo andando?» chiese per la seconda volta.
«Non manca molto. E Mairie è perfettamente in grado di badare a se stessa.» «Ma ti fa sempre rapporto?» «No. Il che non mi impedisce di chiedere. Vedi, quel che le servirebbe adesso sarebbe un altro best seller, ma stavolta dovrebbe premere per una percentuale, anziché accontentarsi di un forfait. Io continuo a tentarla con le storie che non sono entrate nel primo libro... e per tenermi buono deve lisciarmi il pelo.» «Stupida lei.» «Buffo», seguitò Cafferty, «ma parlando di Richard Pennen mi viene in mente qualche storia anche su di lui. Certo a te non interesseranno, vero?» Riprese a ridacchiare, la luce del cruscotto che gli illuminava il viso dal basso. Con quelle chiazze e ombre sembrava uno schizzo preparatorio per una gargolla sogghignante. Sono all'inferno, pensò Rebus. Ecco cosa ti succede quando muori e vai laggiù. Ti ritrovi in compagnia del tuo diavolo personale. «La salvezza ci attende!» esclamò all'improvviso Cafferty, sterzando con tale violenza da varcare un cancello quasi in testacoda, tra mille schizzi di ghiaia. Si fermarono davanti a una struttura annessa a una chiesa, un ampio salone per convegni in cui brillava una moltitudine di luci. «Tempo di rinunciare alla tentazione della bottiglia», lo stuzzicò quindi, spegnendo il motore e aprendo la portiera. Ma un cartello accanto all'ingresso informò Rebus che si trattava di un'assemblea pubblica afferente al G8 Alternativo. «Comunità in azione: evitare la crisi futura», recitava il titolo. Ingresso libero per studenti e senza lavoro. «Ma soprattutto senz'acqua e sapone», borbottò Cafferty alla vista del tizio barbuto che reggeva il barattolo di plastica per le offerte. L'uomo aveva lunghi capelli ricci e portava occhialacci dalla pesante montatura nera. Al loro arrivo scosse il barattolo: dentro c'erano delle monete, ma non molte. Cafferty aprì con gesto ostentato il portafogli ed estrasse una banconota da cinquanta sterline. «Meglio che siano per una buona causa», comunicò in tono d'avvertimento all'esattore. Rebus lo seguì dentro la sala, facendo segno al barbuto che il contributo del suo accompagnatore copriva anche la sua parte. Ignorando le tre o quattro file di sedie vuote, Big Ger decise di rimanere in piedi, a braccia conserte e gambe divaricate. La sala era piuttosto piena,
ma il pubblico si annoiava. O forse era solo in estatica contemplazione. Sul palco, quattro uomini e due donne stavano pigiati dietro un tavolo a cavalletti, dividendo un unico microfono affetto da gravi problemi di distorsione. Alle loro spalle spiccavano degli striscioni: CRAIGMILLAR ACCOGLIE I CONTESTATORI DEL G8 e LA NOSTRA COMUNITÀ È FORTE QUANDO PARLIAMO CON UNA VOCE SOLA. La voce sola che parlava in quel preciso momento, peraltro, era quella del consigliere Gareth Tench. «Va benissimo», tuonò, «dire: 'Dateci gli strumenti e noi faremo il lavoro'. Ma bisogna che il lavoro ci sia! Ci servono proposte concrete di miglioramento delle nostre comunità, e nel mio piccolo è proprio per questo che cerco di battermi.» Peccato che nel modo di fare del consigliere di piccolo non ci fosse niente. In una sala di quelle dimensioni uno come Tench non avrebbe neanche avuto bisogno del microfono. «È innamorato della sua voce», commentò Cafferty. E Rebus sapeva che aveva ragione. Aveva pensato la stessa cosa quando si era fermato ad ascoltare brandelli dei suoi sermoni dal Mound. Tench non gridava per farsi sentire: gridava perché il baccano gli dava conferma della sua importanza nel mondo. «Tuttavia, amici e compagni», proseguì il consigliere senza quasi riprendere fiato, «è fatale che nell'enorme macchina politica noi tutti ci vediamo come semplici ingranaggi. Come farci sentire, dunque? Come fare noi la differenza? Ebbene, pensate un momento alle auto e ai mezzi che avete preso per venire qui stasera: se si toglie anche solo un ingranaggio dal motore, l'intera macchina si ferma. Perché ogni singola parte in movimento ha lo stesso valore, la stessa importanza, e questo vale tanto per la vita umana quanto per il motore a congestione inferma.» Si interruppe quanto bastava per ridere della propria battuta. «Che gran testolina di cazzo», borbottò Cafferty rivolgendosi a Rebus. «Non potrebbe essere più pieno di sé neanche se fosse un contorsionista e riuscisse a farsi un pompino da solo.» Stavolta Rebus non riuscì a soffocare una risata sonora. Cercò di camuffarla da accesso di tosse, ma invano. Tra il pubblico qualcuno si voltò per capire da dove arrivasse quel disturbo, e persino Tench tacque. Ciò che vide dal palco fu Morris Gerald Cafferty che dava una pacca sulla spalla all'ispettore dell'Investigativa John Rebus. Il quale, malgrado la mano premuta su naso e bocca, seppe subito di essere stato riconosciuto. Spiaz-
zato, Tench fece di tutto per recuperare il climax del discorso, ma una parte dell'incisività di poco prima era ormai evaporata nella notte. Porse dunque il microfono alla donna che gli sedeva accanto, che riemerse da una specie di trance e in tono assolutamente piatto prese a recitare cifre e dati riportati sui suoi appunti. A quel punto Cafferty uscì dalla sala. Rebus lo seguì dopo un istante, e lo trovò che passeggiava su e giù per il parcheggio. Si accese una sigaretta e aspettò tranquillamente che la sua nemesi gli si parasse davanti. «Continuo a non capire», confessò quindi, scuotendo via la cenere. Cafferty si strinse nelle spalle. «E tu saresti l'investigatore?» «Un paio d'indizi aiuterebbero.» L'altro tese le braccia. «Questo è il suo territorio, il suo piccolo feudo personale. Ma il nostro uomo comincia ad avere dei pruriti, mi segui? Vorrebbe espandersi.» «Parli di Tench?» Rebus socchiuse gli occhi. «Mi stai dicendo che è lui a infastidirti nel tuo territorio?» «Mister Fuoco dell'Inferno in persona.» Cafferty riabbassò le braccia fino a piazzarsi sonoramente le mani sulle cosce, a mo' di punto fermo retorico. «Ma io ancora non capisco.» Big Ger lo guardò truce. «Il fatto è che lui non ci vede niente di sbagliato nel darmi una spallata, perché ha dalla sua la rettitudine. Controllando l'illecito, lo trasforma in una forza al servizio del bene.» Sospirò. «A volte penso che metà del mondo funzioni così. Non è la malavita che dovreste sorvegliare, ma le vite esemplari: Tench e quelli come lui.» «È un consigliere comunale», osservò Rebus. «Voglio dire, prenderà anche una bustarella ogni tanto, ma...» Cafferty scosse il capo. «Questo vuole il potere, John: il controllo. Lo vedi quanto gli piace fare i suoi discorsetti? Più diventa forte, più discorsi può fare... e più gente lo ascolta.» «Mettigli dietro qualcuno dei tuoi scagnozzi e fa' in modo che riceva il messaggio.» Cafferty lo fulminò con lo sguardo. «Tutto qui, quel che hai da dirmi?» Rebus si strinse nelle spalle. «Questa è una cosa fra te e lui.» «Ma tu mi devi un favore.» «Io, a te, ti devo la radice quadrata di un cazzo. Tanto di cappello a lui, se ti taglierà le gambe.» Gettò il mozzicone per terra e lo schiacciò sotto il tallone.
«Sicuro?» chiese adagio Cafferty. «Sei proprio sicuro che preferiresti fosse lui il capocomico? Un uomo del popolo, un uomo con una credibilità politica? Pensi che tenere d'occhio lui sarà più facile? Be', d'altro canto ti manca poco alla pensione, quindi forse dovrei rivolgermi a Siobhan. Com'è che si dice?» Levò il mento al cielo, come se le parole che doveva pronunciare si trovassero lassù da qualche parte. «'Chi lascia la via vecchia per la nuova...'» Rebus incrociò le braccia. «Tu non mi hai portato qui per farmi vedere Gareth Tench», affermò. «Quello che volevi era mostrare me a lui, noi due fianco a fianco, tu che mi davi una pacca sulla spalla... Chissà che bel quadretto formavamo, là dentro. Volevi fargli credere che sto sul tuo libro paga, e con me tutta l'Investigativa.» Cafferty inalberò un'aria offesa. «Tu mi sopravvaluti, ispettore.» «Ne dubito. Avresti potuto raccontarmi comodamente l'intera storia in Arden Street.» «Ma ti saresti perso lo spettacolo.» «Già, e lo stesso il consigliere Tench. Dimmi, in quale modo finanzierà il suo colpo di mano? E dove sono i soldati che dovrebbero appoggiarlo?» Cafferty spalancò di nuovo le braccia, descrivendo stavolta un'intera circonferenza. «Questo quartiere è tutto suo... nel bene e nel male.» «E i soldi?» «A forza di chiacchiere otterrà anche quelli. Chiacchierare: ecco la cosa che sa fare meglio.» «In effetti la parlantina non mi manca.» Entrambi si voltarono e videro la sagoma scura di Gareth Tench ferma sulla soglia, incorniciata dalle luci interne. «E non mi lascio intimorire facilmente, Cafferty: né da te né dai tuoi soci.» Rebus fece per protestare, ma il consigliere non aveva ancora finito. «Io lo sto ripulendo, il quartiere, e non c'è ragione perché non possa fare lo stesso in un'altra parte della città. Se non saranno i tuoi amici delle forze dell'ordine a toglierti di mezzo, allora dovrà pensarci la comunità.» In quel momento Rebus notò due uomini corpulenti fermi poco oltre l'ingresso della sala, ai due lati di Tench. «Andiamocene», suggerì a Cafferty. L'ultima cosa che voleva al mondo era finire tra lui e un pestaggio. Ciò malgrado, sapeva di dover intervenire. Posò la mano sul braccio di Big Ger, che subito se lo scrollò di dosso. «Ho vinto tutte le battaglie che ho combattuto», sibilò all'indirizzo del consigliere. «Riflettici a fondo, prima di buttarti.» «Io non devo fare proprio niente», ribatté Tench. «Il tuo piccolo impero
ormai è in rovina, e sarebbe ora che ti arrendessi all'evidenza. Hai problemi a reclutare buttafuori per i tuoi pub? Non riesci a trovare inquilini per quelle topaie dei tuoi appartamenti? La tua agenzia di taxi è a corto di qualche autista?» Sul viso di Tench si allargò un sorriso. «Il sole sta tramontando su di te. Apri gli occhi, e guarda la fossa già scavata ai tuoi piedi.» Cafferty ebbe uno scatto improvviso e Rebus lo afferrò mentre gli uomini di Tench partivano al contrattacco. Lo fece ruotare fino a trovarsi con le spalle all'ingresso, quindi gli assestò uno spintone verso la Bentley. «Sali e metti in moto.» «Mai perso una battaglia!» ribadì Cafferty, pallidissimo. Ciò nonostante diede uno strattone alla portiera e si buttò dietro il volante. Mentre faceva il giro della macchina, Rebus lanciò un'occhiata verso la porta della sala: Tench li salutava con la mano, gongolante. Avrebbe voluto dire qualcosa, se non altro per mettere in chiaro che lui non era un uomo di Caffèrty, ma il consigliere si era già voltato e aveva lasciato i suoi tirapiedi a controllare la situazione. «Gli strapperò le palle degli occhi e gliele farò ingoiare!» ringhiò ancora Cafferty, decorando il parabrezza di schizzi di saliva. «Vuole il lavoro, eh? E io glielo do: gli faccio mescolare malta e cemento, prima di sbattercelo dentro! Così vedi come migliora la comunità!» Poi tacque e fece manovra per uscire dal parcheggio, il respiro sempre rapido e affannoso. Alla fine si voltò verso il passeggero. «Giuro su Dio che quando metto le mani addosso a quel coglione...» Le nocche lattee stringevano il volante. «E se dirà qualcosa», intonò teatralmente Rebus, «che possa essere usato contro di lei dinanzi a una corte di giustizia...» «Non mi condannerebbero mai», ruggì Cafferty con una risata da pazzo. «Quelli della Scientifica raccoglierebbero i suoi resti col cucchiaino!» «E se dirà qualcosa...» reiterò Rebus. «È cominciata tre anni fa», cedette a quel punto Cafferty, facendo uno sforzo per controllare il respiro. «Licenze per il gioco d'azzardo respinte, licenze per i bar respinte... volevo anche aprire un servizio taxi proprio qui, a casa sua, togliere qualche disoccupato dalle spalle dei contribuenti. Ma grazie a lui ogni volta il consiglio comunale mi ha liquidato.» «Non sarà che finalmente hai incontrato uno che ha il coraggio di tenerti testa?» Cafferty gli lanciò un'occhiata. «Pensavo che quello fosse il lavoro tuo.»
«Chissà.» Fu di nuovo Big Ger a rompere il silenzio che improvvisamente era calato. «Devo bere qualcosa», annunciò leccandosi le labbra. Agli angoli della bocca erano annidati grumi bianchi. «Buona idea. Come me, magari anche tu berrai per dimenticare...» Per tutto il tragitto di ritorno in città Rebus continuò a osservarlo in silenzio. Quell'uomo aveva ucciso e l'aveva fatta franca... probabilmente anche più volte di quante lui immaginasse. Aveva dato vittime in pasto ai maiali voraci di una fattoria nei Borders. Aveva rovinato una miriade di vite, scontato quattro condanne. Selvaggio fin dalla prima adolescenza, era andato a bottega dalla mafia londinese. Quindi perché accidenti si dispiaceva per lui? «A casa ho un puro malto di trent'anni», disse Cafferty. «Erica, caramello, burro fuso...» «Io scendo a Marchmont.» «E la bevuta?» Ma Rebus scosse il capo. «Tempo di rinunciare, ricordi?» Cafferty sbuffò, tuttavia non disse nulla. Era chiaro che avrebbe voluto fargli cambiare idea, che gli sarebbe piaciuto condividere quella bevuta con lui, seduti l'uno di fronte all'altro mentre la notte li accerchiava in punta di piedi. Ma Cafferty non avrebbe insistito. Insistere sarebbe stato come supplicare. E lui non era uno che supplicava. Non ancora. Rebus capì in quell'istante che la paura di Big Ger era perdere il potere. Politici e tiranni hanno lo stesso terrore, che governino vita o malavita. Prima o poi arriva sempre il giorno in cui nessuno più li ascolta e i loro ordini restano ignorati, la loro reputazione sminuita. Nuove sfide, nuovi rivali e predatori si fanno largo. Molto probabilmente Cafferty aveva da parte milioni di sterline, ma un parco macchine di lusso non avrebbe mai sostituito la gratificazione derivante dalla posizione e dal rispetto. Edimburgo era una piccola città: facile, per un uomo solo, controllarne la maggior parte. Tench o Cafferty? Cafferty o Tench? Rebus si domandò se presto o tardi sarebbe stato costretto a scegliere. La vita. Tutti, dai capi del G8 a Pennen e a Steelforth. Tutti animati dalla volontà
di potere. Una catena di comando che influenzava ogni abitante del pianeta: Rebus ci stava ancora pensando mentre guardava la Bentley allontanarsi, ma poi si accorse di una silhouette nell'ombra accanto al portone. Serrò i pugni e lanciò un'occhiata intorno, nell'eventualità che Jacko non fosse venuto solo. Ma a fare un passo avanti non fu Jacko, bensì Hackman. «Felice serata!» «Per un pelo non le saltavo addosso», rispose Rebus, rilassandosi. «Come ha fatto a trovarmi?» «Sono bastate un paio di telefonate. Molto servizievoli, gli sbirri locali. Per quanto devo ammettere che non pensavo fosse il suo tipo di via.» «Dove dovrei abitare, quindi?» «In un bel loft sul lungofiume», affermò Hackman. «Ma non mi dica.» «Con una gran gnocca che le prepara la colazione nel fine settimana.» «E solo nel fine settimana, giusto?» Rebus non poté reprimere un sorriso. «Non potrebbe mai dedicarle più tempo di così. Una bella scaricata di condutture, e poi di nuovo in trincea.» «Lei se la racconta e se la ride, ma ancora non mi spiego che cosa ci fa qui a quest'ora di notte.» «Mi sono ricordato un paio di cosette su Trevor Guest.» «E me le dirà al prezzo di una bevuta, giusto?» azzardò Rebus. Hackman annuì. «A patto che ci sia anche lo spettacolino.» «Lo spettacolino?» «Ragazze!» «Lei scherza...» Ma, dalla sua espressione, Rebus capì che Hackman era serissimo. Presero un taxi in Marchmont Road e si diressero verso Bread Street. L'autista rivolse un sorrisetto allo specchio retrovisore: due signori di mezza età, con qualche bicchierino già in corpo, in cerca di carne fresca. «Su, forza», disse Rebus. «Cosa?» chiese Hackman. «Le informazioni su Trevor Guest.» Ma Hackman gli sventolò un dito davanti alla faccia. «Se te lo dico adesso, cosa mi assicura che non scapperai?» «La mia parola di galantuomo?» tentò Rebus. Per quella sera ne aveva già abbastanza e non si sarebbe imbarcato in un giro dei locali di spoglia-
relli di Lothian Road manco morto. Si sarebbe fatto dare le informazioni, poi avrebbe mollato Hackman sul marciapiede con tutte le istruzioni necessarie. «Gli hippy domani se ne vanno», disse invece l'inglese. «Tutti a Gleneagles. A vagonate.» «E tu?» Hackman alzò le spalle. «Io faccio quello che mi dicono di fare.» «Bene, allora adesso io ti dico di vuotare il sacco su Guest.» «Va bene, va bene... se prometti di non fare il fugone appena il taxi si ferma.» «Parola di boy-scout.» Hackman si appoggiò al sedile. «Trevor Guest aveva un caratteraccio e si era fatto un sacco di nemici. A un certo punto era andato fino a Londra, ma non aveva funzionato. Qualche troia l'aveva fregato... e dopo, a quanto pare, ha cominciato a prendersela col sesso debole. Hai detto che era finito su un sito?» «BeastWatch.» «E hai idea di chi abbia postato i particolari?» «Anonimi.» «Però Trev era soprattutto un topo d'appartamento, un ladro con un carattere di merda. Per questo finì dentro.» «E quindi?» «E quindi... chi l'ha messo su quel sito, e perché?» «Dimmelo tu.» Hackman si strinse nuovamente nelle spalle, aggrappandosi alla maniglia mentre il taxi svoltava bruscamente. «Te ne racconto un'altra», disse verificando che l'attenzione di Rebus fosse ancora desta. «Quando Trev se ne andò a Londra, girò voce che con lui se ne fosse andata anche una partita di roba piuttosto buona... forse addirittura eroina.» «Lui si faceva?» «Solo occasionalmente, non era un tossico e non credo si bucasse. Non fino alla sera in cui è morto, voglio dire.» «Aveva fregato qualcuno?» «Può darsi. Ma è che... be', mi chiedo se per caso non ci sia un collegamento che non vedi.» «E quale sarebbe questo collegamento?» «Delinquenti di piccolo calibro che magari si sono montati la testa o hanno fregato qualcuno che non dovevano fregare.»
Rebus ci pensò su. «La vittima di Edimburgo lavorava per un malavitoso locale.» Hackman batté le mani. «Eccolo lì.» «E forse anche Eddie Isley potrebbe avere...» Ma si interruppe, poco convinto. Il taxi si stava fermando e l'autista disse che facevano cinque sterline. Rebus si rese conto che erano davanti al Nook, uno dei locali di lap dance più rispettabili della città. Hackman era balzato fuori e stava già pagando il tassista attraverso il finestrino del lato del passeggero, segno inequivocabile che era forestiero, perché gli edimburghesi pagavano sempre dal sedile posteriore. Rebus considerò le diverse possibilità: rimanere in auto, oppure smontare e annunciare a Hackman che per lui la serata era conclusa. Attraverso la portiera aperta vide l'inglese gesticolare impaziente nella sua direzione. Allora scese, e proprio in quel momento la porta del Nook si spalancò e dal buio del locale uscì barcollando un uomo seguito da due buttafuori. «Io non l'ho toccata, vi dico», protestava l'uomo. Era alto, ben vestito e di carnagione scura. A Rebus parve di riconoscere il completo azzurro... «Va' a raccontarla a qualcun altro», ribatté uno dei buttafuori, puntandogli contro un dito. «È lei che ha rapinato me», insistette Completo Azzurro. «La sua mano ha cercato di prendere il mio portafogli dalla giacca, e quando io l'ho fermata lei ha cominciato a protestare...» «Palle, palle, tutte palle!» esclamò lo stesso buttafuori di prima. Hackman tirò una gomitata nelle costole a Rebus. «Caspita che posticini di classe che frequenti, John.» In realtà sembrava più che soddisfatto. L'altro buttafuori parlava nel microfono da polso. «Lei voleva prendere il mio portafogli», continuò Completo Azzurro. «Allora non ti ha rapinato?» «Se ne avesse avuto la possibilità, certamente avrebbe...» «Ti ha rapinato o no? Un minuto fa giuravi di sì. E ho dei testimoni.» Il buttafuori fece un rapido cenno all'indirizzo di Rebus e Hackman. Il cliente si girò verso di loro e riconobbe immediatamente il primo. «Amico mio, vede in che situazione sono?» «Abbastanza», fu costretto ad ammettere Rebus. Completo Azzurro gli strinse la mano. «Ci siamo incontrati all'hotel, vero? A quel pranzo squisito offerto dal mio buon amico Richard Pennen.» «Io al pranzo non c'ero», gli ricordò Rebus. «Abbiamo parlato nel corri-
doio.» «Ehi, John», ridacchiò Hackman, con un altro colpo nelle costole. «Certo che tu vedi gente, fai cose...» «Questa è una situazione seria e molto molto incresciosa», disse Completo Azzurro. «Io mi sentivo assetato, perciò sono entrato in questa che mi sembrava una specie di taverna...» I due buttafuori emisero uno sbuffo all'unisono. «Come no», disse il più incazzato dei due, «dopo che ti avevamo anche detto il prezzo dell'ingresso...» Persino Hackman rise, a quel punto, subito interrotto dalla porta che si riapriva. Stavolta ne uscì una donna, chiaramente una delle ballerine, in reggiseno, perizoma e tacchi alti. Aveva i capelli raccolti al centro della testa e il viso troppo truccato. «Ah, dice che l'ho rapinato, eh?» attaccò. Hackman sembrava uno che aveva vinto alla lotteria senza nemmeno comprare il biglietto. «Ci pensiamo noi», disse il buttafuori incazzato, mollando nel contempo un'occhiataccia al compagno che evidentemente si era lasciato sfuggire l'accusa. «Me ne deve cinquanta per i balletti!» gridò la ragazza. Aveva la mano tesa, pronta a riscuotere il dovuto. «E poi mi mette le mani addosso! Cazzo, non esiste! Non esiste proprio...» In quel momento passò una volante della polizia, gli occupanti che guardavano fuori. Rebus vide accendersi le luci degli stop e capì che l'auto avrebbe fatto inversione. «Io sono un diplomatico», dichiarò Completo Azzurro. «Ho diritto di essere protetto da accuse non suffragate.» «Quello s'è mangiato il dizionario», commentò Hackman, divertito. «Godo dell'immunità diplomatica», continuò Completo Azzurro, «come membro della delegazione keniota...» La volante si era fermata e i due agenti smontarono sistemandosi i berretti in testa. «Problemi?» chiese l'autista. «Stiamo solo accompagnando il signore fuori dal locale», disse il buttafuori non-più-incazzato. «Mi hanno cacciato con la forza!» protestò il keniota. «E mi hanno quasi rubato il portafogli!» «Si calmi, signore. Vediamo di risolvere la questione.» Cogliendo un
movimento con la coda dell'occhio, l'agente in uniforme si era voltato verso Rebus. Che ora gli piazzò il tesserino sotto il naso. «Portateli nella stazione più vicina, tutti e due», ordinò. «Ma no, perché?» cominciò a dire il buttafuori. «Vuoi andare con loro, amico?» ribatté prontamente Rebus, facendolo ammutolire. «Qual è la stazione più vicina?» chiese l'agente in uniforme. Rebus lo guardò in faccia. «Ma di dove sei?» «Hull.» «Nel West End», disse Rebus esasperato. «Torphichen Place.» L'agente annuì. «Vicino a Haymarket, giusto?» «Esatto», confermò Rebus. «Ho l'immunità diplomatica», seguitava il keniota. Rebus si voltò verso di lui. «Dobbiamo espletare certe formule procedurali», spiegò, cercando di trovare parole adatte all'ospite. «Ehi, non vorrai che ci vada così», protestò la donna, indicandosi i seni prorompenti. Rebus non osò guardare Hackman per paura di vederlo sbavare. «Temo proprio di sì, invece», le rispose, rivolgendo al contempo un cenno ai due in uniforme. Cliente e ballerina furono scortati verso la volante. «Uno davanti e uno dietro», disse l'autista al compagno. In un clic-clac di tacchi a spillo, la ragazza scoccò un'occhiata a Rebus. «Aspetta un secondo», le disse lui, togliendosi la giacca e facendogliela scivolare sulle spalle. Poi si voltò verso Hackman. «Devo sistemare questa cosa», spiegò. «Vedere come butta, eh?» gli fece di rimando l'inglese, con aria lasciva. «Evitare un incidente diplomatico», lo corresse Rebus. «Tu pensi di farcela da solo?» «Mai sentito meglio», confermò Hackman, con una pacca sulla schiena. «Sono certo che i nostri due amici» - si accertò che i buttafuori lo sentissero - «saranno lieti di offrire l'ingresso a un tutore della legge.» «Solo una cosa, Stan», lo ammonì Rebus. «Dimmi.» «Tieni le mani a posto...» I locali dell'Investigativa erano deserti, senza traccia di Rodi-culo Reynolds o Shug Davidson. Facile trovare due stanze per gli interrogatori, e
ancor più facile ordinare a due agenti in uniforme di fare gli straordinari come baby-sitter. «Meglio che girarsi i pollici», commentò uno. Prima, la ballerina. Rebus le portò un tè in una tazza di plastica. «Ricordo addirittura come lo prendi», le disse. Molly Clark sedeva a braccia conserte, con addosso la sua giacca e poco altro. Strusciava i piedi sul pavimento e aveva la faccia disturbata da tic nervosi. «Potevi anche darmi il tempo di cambiarmi», si lagnò, tirando rumorosamente su col naso. «Hai paura di prendere il raffreddore? Tranquilla, fra cinque minuti ti faccio riportare indietro in macchina.» Lei lo guardò, gli occhi bistrati di nero, le guance troppo rosse. «Nessuna accusa?» «Accusa? Il nostro amico non sporgerà denuncia, fidati.» «Sono io che dovrei denunciare lui!» «Come ti pare, Molly.» Rebus le offrì una sigaretta. «Là c'è scritto VIETATO FUMARE», gli ricordò lei. «Vero», disse lui, accendendo la propria. Lei esitò ancora un istante. «E va bene...» Prese la sigaretta e si sporse sul tavolo. Rebus sapeva che il suo profumo gli sarebbe rimasto sulla giacca per settimane. Lei aspirò e trattenne il fumo a lungo. «Quando siamo venuti a trovarvi, domenica», attaccò Rebus, «Eric non ha spiegato bene come vi siete conosciuti. Adesso credo di saperlo.» «Ma bravo.» Lei osservava la brace della sigaretta oscillando piano, mentre sollevava e abbassava ritmicamente un ginocchio. «Quindi lui lo sa che lavoro fai?» «Per caso sono fatti tuoi?» «No, veramente no.» «Be', allora...» Altro tiro di sigaretta, come se ne traesse nutrimento. Volute di fumo in faccia a Rebus. «Tra me e Eric non ci sono segreti.» «Tanto meglio.» Finalmente lei lo guardò negli occhi. «Quello mi stava palpando. E per quanto riguarda quella balla che ho cercato di rubargli il portafogli...» Sbuffò. «Cultura diversa, stessa merda.» Si calmò un po'. «È per questo che Eric per me significa molto.» Rebus le rivolse un cenno comprensivo della testa. «È il nostro amico del Kenya a essere nei guai, non tu», la rassicurò. «Davvero?» Fu allora che gli fece di nuovo quel suo sorriso grande, co-
me domenica, e per un attimo la stanzetta parve illuminarsi. «Eric è un uomo fortunato.» «Lei è un uomo fortunato», disse Rebus al keniota. Stanza Interrogatori 2, dieci minuti dopo. Quelli del Nook mandavano un'auto per Molly... un'auto e un paio di indumenti. Aveva promesso di lasciare la giacca di Rebus al banco d'ingresso della stazione. «Mi chiamo Joseph Kamweze e godo dell'immunità diplomatica.» «Allora non le dispiacerà mostrarmi il passaporto, Joseph.» Rebus tese la mano. «Se lei è un diplomatico, ci sarà scritto.» «Non ce l'ho con me.» «Dove alloggia?» «Al Balmoral.» «Ma guarda che sorpresa. E paga Richard Pennen?» «Il signor Richard Pennen è un buon amico del mio Paese.» Rebus si appoggiò allo schienale della sedia. «E come mai?» «Per ragioni di commercio e aiuti umanitari.» «Quello mette microchip dentro le armi, lo sa?» «Non capisco dove lei voglia arrivare.» «Che cosa ci fa a Edimburgo, Joseph?» «Sono qui con la missione commerciale del mio Paese.» «E quale parte del suo mandato l'ha condotta al Nook, stasera?» «Mi sentivo assetato, ispettore.» «E magari anche un filo arrapato, eh?» «Non so che cosa sta cercando di insinuare. Le ho già detto che godo dell'immunità diplomatica...» «E io non potrei essere più felice per lei. Mi dica, per caso conosce un politico inglese di nome Ben Webster?» Kamweze annuì. «L'ho incontrato una volta a Nairobi, presso l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite.» «E nel corso di questo viaggio non l'ha visto?» «Sfortunatamente non ho avuto la possibilità di parlare con lui la notte in cui la sua vita è terminata.» Rebus lo fissò. «Lei si trovava al castello?» «Ma certo, sì.» «E ha visto il signor Webster?» Il keniota annuì nuovamente. «Allora non ho creduto necessario parlare con lui, perché doveva pranzare con noi al Prestonfield House.» Kamweze
assunse un'espressione rattristata. «Ma poi sotto i nostri occhi è successa quella tragedia.» Rebus drizzò le antenne. «In che senso?» «La prego di non fraintendermi. Solo che la sua scomparsa è una grande perdita per la comunità internazionale, ecco tutto.» «Lei non ha visto che cosa è successo?» «Nessuno ha visto. Ma forse le telecamere sono di qualche aiuto?» «Il sistema a circuito chiuso?» Rebus si sarebbe dato un pugno in testa. Il castello era una caserma dell'esercito, ovvio che avevano telecamere a circuito chiuso! «Ci hanno fatto visitare la stanza di controllo. Tecnologia avanzata, ma d'altronde il terrorismo è una minaccia quotidiana, giusto, ispettore?» Per un istante Rebus non rispose. «E gli altri cosa dicono?» chiese alla fine. «Non sono certo di capire...» Kamweze aveva aggrottato la fronte. «Le altre missioni... quella specie di mini Società delle Nazioni con cui l'ho vista al Prestonfield: gira qualche voce sul signor Webster?» Il keniota scosse il capo. «E, mi dica, nei confronti di Richard Pennen provano tutti i suoi stessi calorosi sentimenti?» «Ripeto, ispettore, io non credo di...» Kamweze si interruppe e si alzò frettolosamente in piedi, rovesciando la sedia alle proprie spalle. «Io vorrei andarmene, ora.» «Qualcosa da nascondere, Joseph?» «Ho l'impressione che lei mi abbia portato qui con un falso pretesto.» «Possiamo anche tornare a quello vero e cominciare a parlare della sua singola delegazione e del suo giro ispettivo nei locali di lap dance edimburghesi.» Rebus si chinò in avanti, posando le braccia sul tavolo. «Ci sono telecamere a circuito chiuso anche in quei posti, Joseph. L'avranno certamente ripresa.» «L'immunità...» «Non sto parlando di lavoro, Joseph. Sto parlando di quelli che la aspettano a casa. Immagino che a Nairobi lei abbia famiglia. Mamma e papà, e magari moglie e figli?» «Io me ne voglio andare!» Kamweze sferrò un pugno sulla scrivania. «Tranquillo», disse Rebus alzando le mani. «Pensavo che ci stessimo facendo una chiacchierata.» «Lei vuole provocare un incidente diplomatico, ispettore?»
«Non saprei.» Rebus parve considerare l'idea. «E lei?» «Io mi sento oltraggiato!» Un altro pugno sul tavolo e il keniota si diresse verso la porta. Rebus non fece nulla per fermarlo. Si accese invece una sigaretta e appoggiò i piedi sul tavolo, accavallando le caviglie. Poi si stirò all'indietro e guardò il soffitto. Ovviamente Steelforth non aveva fatto parola del circuito chiuso, e Rebus sapeva che avrebbe dovuto sudare sette camicie per convincere chiunque a passargli quei filmati. Il sistema di sorveglianza era di proprietà del presidio militare e posto all'interno del presidio stesso: fuori della sua giurisdizione, dunque, in tutto e per tutto. Il che non gli avrebbe impedito di sollevare il problema. Passò un minuto, poi sentì bussare alla porta e un agente semplice fece capolino. «Il nostro amico africano dice che vuole una macchina per tornare al Balmoral.» «Digli che una passeggiatina gli farà bene», ordinò Rebus. «E digli anche di non farsi venire sete un'altra volta.» «Signore?» «Tu digli così e basta.» «Sì, signore. Oh, e un'altra cosa...» «Che?» «Qui non si può fumare.» Rebus si voltò e cacciò il giovane agente con un'occhiata. Quando la porta si fu richiusa, si cercò in tasca il cellulare. Digitò il numero e attese che rispondessero. «Mairie?» disse infine. «Ho qualche informazione che forse potresti trovare utile...» LATO C NÉ DEI NÉ PADRONI Mercoledì 6 luglio 16 I capi di Stato e di governo del G8 atterravano per la maggior parte all'aeroporto di Prestwick, a sud-ovest di Glasgow; in totale, in un giorno avrebbero toccato terra ben centocinquanta velivoli. I leader mondiali, le consorti e i più stretti collaboratori al seguito sarebbero poi stati trasferiti in elicottero a Gleneagles, mentre flotte di berline con autista avrebbero
portato a destinazione gli altri membri delle varie delegazioni. C'era un'auto riservata al cane da fiuto di George Bush, e proprio quel giorno il presidente americano festeggiava il suo cinquantanovesimo compleanno. Jack McConnell, primo ministro del parlamento scozzese, si trovava sulla pista ad accogliere i grandi del mondo, senza interferenze o proteste degne di nota. A Prestwick. A Stirling, invece, i notiziari televisivi del mattino mostravano contestatori mascherati che colpivano auto e furgoni, sfondavano le vetrine di un Burger King, bloccavano la A9, attaccavano le stazioni di servizio. A Edimburgo i dimostranti avevano fermato il traffico di Queensferry Road, mentre Lothian Road era fiancheggiata da una colonna di camionette della polizia, con una catena di agenti in uniforme a piantonare l'hotel Sheraton per proteggere le centinaia di delegati che vi alloggiavano. La polizia a cavallo sfilava lungo strade normalmente paralizzate dal traffico dell'ora di punta, ma quel giorno innaturalmente vuote. Waterloo Place era occupata da una processione di pullman pronti a trasportare i manifestanti a Auchterarder, ma giravano voci contrastanti e nessuno sapeva se fosse stato tracciato un percorso ufficiale. La marcia era sicura, poi improvvisamente saltava, poi si faceva di nuovo... In ogni caso la polizia aveva ordinato agli autisti di non spostare i veicoli finché la situazione non si fosse definitivamente chiarita. E pioveva. Il concerto Final Push previsto per la serata rischiava di essere un fiasco totale. VIP e musicisti si trovavano allo stadio di Murrayfield, presi con le prove e i soundcheck. Bob Geldof stava al Balmoral, ma si preparava a visitare Gleneagles con l'amico Bono, ammesso e non concesso che le varie manifestazioni li lasciassero passare. Anche la regina era in viaggio verso nord, e avrebbe dato una cena per i delegati. I giornalisti televisivi avevano l'aria affannata e sembravano carburare solo a caffeina. Siobhan aveva trascorso la notte in macchina e cercava di riprendersi con il filtrato acquoso di una panetteria di zona, dove il resto della clientela teneva gli occhi incollati allo schermo del televisore a parete dietro il bancone. «Quella è Bannockburn», disse una signora. «E quella invece è Springkerse. Sono dappertutto...» «Accerchiamo i visi pallidi!» ironizzò l'amica che la accompagnava, strappando qualche sorriso all'intorno. I dimostranti erano partiti dal campeggio Horizon alle due del mattino, lasciando letteralmente la polizia nel
buio. «Maledetti politicanti, come fanno a sostenere che tutta 'sta baraonda è un bene per la Scozia?» borbottò un tizio in tuta da imbianchino, in attesa del suo sandwich al bacon. «Io oggi ho dei lavori a Dunblane e a Crieff: come diavolo ci arrivo?» Rimontata in auto, Siobhan si riscaldò in fretta, pur continuando a sentirsi il collo bloccato e la schiena che scrocchiava. Era rimasta a Stirling perché rincasare avrebbe significato dover tornare lì in mattinata e ripercorrere l'intera via crucis dei controlli di sicurezza, magari anche più severi del giorno precedente. Buttò giù due aspirine e si diresse verso la A9, ma dopo poche centinaia di metri le luci di stazionamento della macchina che la precedeva le comunicarono che il traffico era fermo su entrambe le corsie. I conducenti erano già scesi per inveire contro gli uomini e le donne che, travestiti da pagliacci, si erano sdraiati sulla carreggiata o incatenati allo spartitraffico centrale, mentre la polizia inseguiva altre pittoresche figure nei campi circostanti. Siobhan parcheggiò in corsia d'emergenza e si avviò verso la testa della fila, dove mostrò il tesserino all'agente in servizio. «Devo raggiungere Auchterarder», gli disse. Lui sventolò il corto manganello nero verso un collega in motocicletta. «Se Archie ha un casco da prestarle, la porterà in paese in due minuti.» Il casco c'era. «Però si beccherà un gran freddo alla schiena», la avvertì. «Vorrà dire che mi terrò ben stretta.» Ma una volta in sella Siobhan capì che il termine «stretta» era troppo blando, e gli si ritrovò avvinta come l'edera a temere per la propria vita. Il casco era dotato di auricolare che trasmetteva i messaggi dell'operazione Sorbo: circa cinquemila disobbedienti stavano calando su Auchterarder e si preparavano a sfilare davanti ai cancelli dell'hotel Gleneagles. Mossa inane, lo sapeva: sarebbero comunque stati a centinaia di metri dall'edificio principale, i loro slogan destinati a perdersi nel vento. Dentro l'albergo i dignitari non avrebbero avuto nemmeno il vago sentore della protesta, del dissenso pur così vasto. I dimostranti percorrevano la campagna in tutte le direzioni, ma gli agenti dall'altro lato del cordone erano preparati. Nel lasciare Stirling, Siobhan aveva notato un graffito nuovo di zecca sul muro di un fast food: DIECIMILA FARAONI, SEI MILIARDI DI SCHIAVI. Ma stava ancora cercando di capire chi era chi... Archie frenò all'improvviso, catapultandola in avanti e richiamando così la sua attenzione sulla scena che le si spalancava dinanzi.
Scudi antisommossa, agenti con i cani, polizia a cavallo. Un elicottero bimotore Chinook fendeva l'aria sopra le loro teste. Fiamme che si alzavano da una bandiera americana. Un sit-in di protesta bloccava la superstrada, ma non appena gli agenti fecero breccia Archie ne approfittò per passare. Se solo non avesse avuto le nocche rigide e intorpidite dal freddo, Siobhan avrebbe mollato un secondo la presa per dargli una pacca sulla spalla. L'auricolare le disse che lo scalo ferroviario di Stirling poteva essere riaperto a breve, ma che gli anarchici avrebbero potuto usare la linea come scorciatoia per Gleneagles. Si ricordò allora che l'hotel possedeva una stazione tutta sua, ma difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a utilizzarla quel giorno. Migliori invece le notizie da Edimburgo, dove la pioggia torrenziale aveva raffreddato i bollori dei manifestanti. In quel momento il centauro si voltò e le gridò: «Il clima scozzese! Come faremmo senza?» Il Forth Road Bridge funzionava «con disagi minimi», e i blocchi stradali dell'alba in Quality Street e Corstorphine Road erano già risolti. Archie rallentò per affrontare l'ennesima interruzione e Siobhan ne approfittò per ripulirsi con la manica del giubbotto la visiera dall'acquerugiola. Misero la freccia e uscirono dalla superstrada, mentre un elicottero più piccolo pareva seguire il loro percorso. Poi Archie si fermò. «Capolinea», disse. Non erano ancora entrati in città, ma Siobhan si rese conto che aveva ragione: davanti a loro, oltre il cordone di polizia, rumoreggiava un mare di striscioni e bandiere. Cantilene, fischietti, urla di scherno. «Bush, Blair, macellai di Stato, oggi quanti bambini avete ammazzato?» Lo stesso slogan di Calton Hill, quando avevano letto i nomi dei morti. «Bush è uguale al paparino, pure lui è un assassino.» Okay, questo invece era nuovo. Siobhan smontò di sella, restituì il casco a Archie e lo ringraziò. Lui sorrise. «Non saranno molte le giornate emozionanti come questa», commentò, facendo inversione. Poi ripartì a tutta velocità, rivolgendole un saluto con la mano. Mentre Siobhan lo salutava a sua volta, ricominciando finalmente a sentirsi le dita, un ufficiale rosso in volto le si avvicinò a grandi passi. Ma lei aveva già il tesserino aperto. «Allora è anche più stupida di quel che pensavo», sbraitò lui. «Sembra una di loro.» Puntò il dito verso il corteo fermo. «Se la vedono dietro le
nostre linee vorranno raggiungerla, quindi sparisca oppure si attrezzi come si conviene!» «Lei dimentica», rispose Siobhan, «che esiste una terza via.» E con un sorriso raggiunse il fronte del cordone, si infilò tra due agenti intabarrati di nero, passò sotto gli scudi e si ritrovò in prima linea fra i contestatori. L'ufficiale si fece addirittura paonazzo. «Mostrateci i tesserini!» gridava un dimostrante ai ranghi delle forze dell'ordine. Siobhan fissò il poliziotto che le stava di fronte: indossava quella che sembrava una tuta da lavoro, e sopra la visiera del casco aveva dipinte in bianco le lettere ZH. Cercò di ricordare se aveva visto le medesime insegne su qualche componente delle squadre ai giardini di Princes Street, ma le tornava in mente solo la sigla XS. XS: Excess. Polizia in eccesso. L'agente aveva il volto madido di sudore, ma sembrava padrone di sé. Lungo tutta la linea rimbalzavano ordini e motti d'incoraggiamento. «State serrati!» «Non reagite, ragazzi.» «Indietro!» Da entrambe le parti, spinte e controspinte parevano il risultato di un'orchestrazione concordata. Il portavoce dei dimostranti gridava che il corteo era ormai ufficiale, che la polizia aveva violato tutti i patti, che lui non si assumeva la responsabilità delle conseguenze: il tutto con il telefonino saldamente incollato all'orecchio, mentre i fotoreporter sollevavano gli obiettivi per immortalare la scena. Siobhan cominciò ad arretrare, poi a muoversi di sbieco fino a trovarsi ai margini della ressa, e da lì prese a scandagliare la folla in cerca di Santal. Accanto aveva un ragazzo coi denti cariati e la testa rasata; quando anche lui si mise a urlare insulti, riconobbe l'accento locale. Poi le falde del giubbotto si aprirono, e Siobhan colse il bagliore di un oggetto infilato nella cintola. Un oggetto molto simile a un coltello. Anche il ragazzo stringeva un cellulare ma lo usava per girare brevi filmati, probabilmente da inviare agli amici. Siobhan si guardò intorno: impossibile avvisare i colleghi, e se avessero caricato per arrestarlo si sarebbe scatenato l'inferno. Decise quindi di piazzarsi alle sue spalle, in attesa del momento opportuno. Al primo slogan in cui tutte le mani si levarono in aria, colse l'attimo: gli afferrò un braccio e glielo storse dietro la schiena,
spingendo contemporaneamente il ragazzo in avanti fino a costringerlo a inginocchiarsi; poi allungò la mano libera verso la cintola dei jeans, gli strappò il coltello e lo atterrò con un altro spintone. Quindi indietreggiò rapidamente tra la folla e gettò il coltello tra i cespugli, oltre un muretto, e infine si inabissò in quel mare di corpi levando a sua volta le mani e applaudendo insieme agli altri. Livido di rabbia, il ragazzo prese a sgomitare tra la calca in cerca del suo aggressore. Che non avrebbe trovato. Siobhan fu tentata di concedersi un sorriso, ma sapeva che la sua personale ricerca poteva rivelarsi non meno infruttuosa. Senza contare che nel frattempo si trovava nel bel mezzo di una manifestazione che da un momento all'altro rischiava di trasformarsi in tafferuglio. Sarei pronta a uccidere per un latte macchiato di Starbucks, pensò. Ma il posto era sbagliato, e il momento anche di più... Mairie sedeva nella hall dell'hotel Balmoral. La porta dell'ascensore si aprì e lei vide uscire l'uomo in completo di seta azzurra. Subito si alzò dalla poltroncina, mentre lui le veniva incontro con la mano tesa. «Il signor Kamweze?» L'uomo confermò con un inchino e lei gli restituì la stretta di mano. «Grazie per avermi ricevuta con così poco preavviso», disse Mairie sforzandosi di non suonare troppo affettata. La telefonata era stata un trionfo di smancerie: la cronista di primo pelo, intimidita all'idea di parlare con una figura di tale rilievo nella politica africana... davvero poteva dedicarle cinque minuti per contribuire al profilo che stava scrivendo? La posa non serviva più, lui era lì, ma lei non voleva comunque lasciarselo scappare troppo in fretta. «Un tè?» propose l'uomo, facendo strada verso il Palm Court. «Che abito splendido», rispose Mairie, mentre lui le scostava la sedia dal tavolo. Nell'accomodarsi si stirò la gonna sulle cosce, e Joseph Kamweze parve apprezzare la vista. «Grazie», le disse poi, scivolando nel séparé. «Firmato?» «Acquistato a Singapore, di ritorno da una missione a Canberra. Piuttosto economico, in verità...» Si sporse sul tavolo con aria complice. «Ma questo deve restare fra noi.» Dopo di che le rivolse un sorriso a trentadue denti, uno dei quali d'oro. «Be', innanzitutto vorrei ringraziarla di nuovo per avermi ricevuta.»
Mairie infilò una mano in borsa per prendere penna e bloc-notes. Aveva anche un piccolo registratore digitale, ma gli chiese se la cosa lo infastidiva. «Questo dipende dalle sue domande», fece lui con un altro sorriso, e all'arrivo della cameriera ordinò un Lapsang Souchong per entrambi. Una varietà di tè che Mairie detestava, ma naturalmente non si azzardò a contraddirlo. «Offro io, la prego», disse invece. Lui liquidò l'uscita con un gesto della mano. «Per così poco.» Mairie inarcò un sopracciglio e gli pose la domanda successiva, continuando ad armeggiare con i ferri del mestiere. «Le sue spese di viaggio sono a carico della Pennen Industries?» Il sorriso scomparve e l'espressione si indurì. «Come dice?» Lei ostentò massima innocenza. «Nulla, mi chiedevo soltanto chi fosse a pagare il suo soggiorno qui.» «Che cosa vuole da me?» Il tono diventò improvvisamente gelido. Le sue mani sfiorarono il bordo del tavolo, tamburellando con le punte delle dita. Mairie finse di consultare gli appunti. «Signor Kamweze, lei fa parte della delegazione commerciale keniota. Che cosa si aspetta, esattamente, dal G8?» Controllò il funzionamento del registratore e lo piazzò sul tavolo. Joseph Kamweze parve sconcertato dalla banalità della domanda. «La cancellazione del debito è cruciale per la rinascita africana», dichiarò. «Il ministro Brown afferma che alcuni Stati confinanti con il Kenya...» Si interruppe, incapace di continuare. «Perché è venuta da me? E magari Henderson non è neanche il suo vero nome... Stupido io a non chiedere una prova della sua identità.» «Posso fornirgliela subito.» Mairie fece il gesto di riaprire la borsa. «Perché ha nominato Richard Pennen?» la interruppe Kamweze. Lei spalancò gli occhi. «Non l'ho nominato.» «Bugiarda.» «Ho nominato la Pennen Industries, ma quella è un'azienda, non una persona.» «Lei era insieme a quel poliziotto, al Prestonfield House...» Il tono era affermativo, non interrogativo, anche se magari lui stava solo tirando a indovinare. Mairie, comunque, non negò. «Sarà meglio che vada», aggiunse Kamweze.
«Crede davvero?» A quel punto anche Mairie abbandonò ogni falsa morbidezza e lo fissò dritto negli occhi. «Perché se lei ora se ne va, io sbatto la sua foto in prima pagina.» «Non dica sciocchezze.» «In effetti è un po' sgranata, quindi ingrandendola si sfocherà anche. Ma mostrerà una spogliarellista che si dimena davanti al suo naso, signor Kamweze. Lei avrà le mani posate sulle ginocchia e un gran sorriso in faccia, mentre le divora il seno nudo con gli occhi. La signorina in questione si chiama Molly e lavora al Nook, in Bread Street. Ho avuto i nastri del circuito chiuso giusto stamattina.» Una bugia dopo l'altra, ma l'effetto fu strepitoso. Kamweze aveva infilato le unghie nel piano del tavolo, i capelli cortissimi velati di sudore. «Inoltre, visto che è stato interrogato presso una stazione di polizia, sarei pronta a giurare che esistono riprese anche di quel breve interludio.» «Che cosa vuole da me?» ripeté lui in un sibilo, costretto però a ricomporsi all'arrivo della cameriera con il vassoio del tè e dei biscottini al burro. Mairie ne addentò subito uno: non aveva fatto colazione. L'infuso odorava di alghe affumicate, ragion per cui quando la cameriera lo ebbe versato lei allontanò la tazza senza tanti complimenti. Lo stesso fece il keniota. «Ah, oggi non ha sete?» commentò lei, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Ha parlato con quell'investigatore.» Kamweze aveva già fatto due più due. «Anche lui mi ha minacciato.» «Il fatto è che lui non può dare seguito, mentre io... Be', a meno che lei non mi fornisca una buona ragione per rinunciare a un'esclusiva da prima pagina, naturalmente...» Era chiaro che lui non aveva ancora abboccato. «Una prima pagina che farà il giro del mondo. Quanto ci metterà la stampa del suo Paese ad apprendere e diffondere la notizia? Quanto ci vorrà prima che i suoi padroni, quelli al governo, vengano a saperlo? E i suoi vicini, gli amici...» «Basta così», ringhiò Kamweze. Teneva gli occhi fissi sul tavolo lucidissimo, che gli restituiva il suo riflesso. «Basta», ripeté, nel tono di chi si riconosce sconfitto. Mairie addentò un altro biscotto. «Che cosa vuole?» «Non molto, in realtà», lo rassicurò. «Solo che mi dica tutto quel che sa su Richard Pennen.» «Dovrei essere la sua gola profonda, signorina Henderson?»
«Se il pensiero la eccita», ribatté lei. Ma intanto pensava: sei solo l'ennesimo imbecille che si è fatto beccare in flagrante, l'ennesimo funzionario men che integerrimo... L'ennesimo delatore... Il secondo funerale nel giro di una settimana. Era uscito di città a passo d'uomo, per l'effetto domino dei blocchi precedenti. Al Forth Bridge la polizia del Fife fermava camion e furgoni per evitare che venissero usati come barricate, ma una volta superato il ponte il traffico scorreva, quindi alla fine arrivò in anticipo. Raggiunse in macchina il centro di Dundee, parcheggiò sul lungofiume e fumò una sigaretta ascoltando le ultime notizie alla radio. Buffo come le stazioni inglesi non la piantassero con la candidatura olimpica di Londra, mentre su Edimburgo non sprecavano mezza parola. Tony Blair stava rientrando da Singapore. Rebus si domandò se anche lui faceva la raccolta delle miglia... I media scozzesi, invece, avevano ripreso l'articolo di Mairie e ora «l'assassino del G8» era sulla bocca di tutti. Il capo della polizia James Corbyn non rilasciava dichiarazioni in merito, mentre i servizi di intelligence sottolineavano che i capi di Stato e di governo riuniti a Gleneagles non correvano alcun pericolo. Due funerali in sette giorni. Rebus sospettava di lavorare così tanto anche per non pensare a Mickey. Si era portato dietro il CD di Quadrophenia e ne aveva ascoltata una parte lungo il tragitto verso nord, con Roger Daltrey che insisteva roco «Can you see the real me»: mi vedi per quello che sono? Sul sedile del passeggero c'erano le fotografie: il castello di Edimburgo, gli smoking e i cravattini a farfalla. A Ben Webster rimanevano solo due ore di vita e non appariva in nulla diverso dagli altri; era vero, però, che i suicidi non andavano in giro con i manifesti, e neanche i serial killer, i malviventi, i politici corrotti. Sotto i ritratti ufficiali c'era invece il primo piano di Santal e della sua videocamera, quello scattato da Mungo. Rebus lo esaminò un istante prima di posarlo in cima al mucchio. Poi riavviò la macchina e si diresse al crematorio. Trovò una folla di familiari e amici, oltre ai rappresentanti di tutti i partiti politici e persino alcuni deputati laburisti del parlamento scozzese. La stampa si teneva a rispettosa distanza, i cronisti accalcati all'ingresso... forse gli ultimi schiavetti di redazione, acidi nella consapevolezza che gli anziani alle prese con il vertice avrebbero catturato i titoli e le prime pagine del giorno successivo. Rebus si tenne in disparte, mentre i veri invitati ve-
nivano scortati all'interno. Alcuni lo guardavano perplessi, domandandosi che razza di legame potesse avere con l'onorevole scomparso e scambiandolo forse per un avvoltoio venuto a cibarsi del dolore altrui. Magari non avevano nemmeno torto. La veglia successiva si sarebbe tenuta in un albergo di Broughty Ferry. «La famiglia», disse il reverendo ai dolenti riuniti, «mi ha pregato di riferire che sarete tutti quanti benvenuti.» Ma l'espressione negli occhi diceva un'altra cosa: solo parenti e amici intimi, per favore. E aveva ragione: nessun albergo di Broughty Ferry avrebbe mai potuto accogliere una ressa di quelle proporzioni. Sedette in ultima fila. Il reverendo aveva chiesto a un collega di Webster di pronunciare un breve discorso dall'altare e a Rebus parve di sentire l'elogio funebre di Mickey: un brav'uomo... mancherà moltissimo a quanti lo conoscevano, e non erano pochi... devoto alla famiglia... rispettato dalla comunità. Decise che ne aveva abbastanza. Di Stacey neanche l'ombra. In realtà, non aveva pensato molto a lei, da quel primo incontro davanti all'obitorio. Doveva essere tornata a Londra, o forse stava svuotando e chiudendo la casa del fratello, liquidando i rapporti con le banche, le assicurazioni e affini. Certo, perdersi il funerale... Tra la morte di Mickey e la sua cremazione era passata oltre una settimana. E per Ben Webster? Meno di cinque giorni. Una fretta che rischiava di essere giudicata indecorosa. Volontà di Stacey o di qualcun altro? Fuori, nel parcheggio, Rebus si accese un'altra sigaretta e si concesse altri cinque minuti di pausa. Poi aprì la portiera e si rimise al volante. Mi vedi per quello che sono? «Ci puoi giurare», disse adagio, girando la chiave nell'accensione. Auchterarder era nel caos. Si era sparsa la voce che stesse arrivando Bush. Siobhan aveva controllato l'orologio, sapendo che l'atterraggio a Prestwick non era previsto prima di metà pomeriggio, ma la folla fischiava e ululava al passaggio di qualunque elicottero. I manifestanti si erano sparpagliati per campi e stradine, scavalcando muretti per entrare nei giardini privati, e tutto per un unico scopo: raggiungere il cordone e superarlo. Quella sì che sarebbe stata una vittoria. Non importava se erano quasi a un chilometro dall'hotel: comunque si sarebbero trovati all'interno della proprietà e in quel modo avrebbero battuto la polizia. Scorse alcuni membri della Clown Army, e due
dimostranti con calzoni quadrettati alla zuava e sacche da golf: la People's Golfing Association, la cui missione era giocarsi una buca sul sacro green da campionato. Siobhan aveva sentito accenti americani, spagnoli, tedeschi, e osservato un capannello di anarchici in nero integrale progettare a volto coperto la mossa successiva, l'intero teatro della protesta sorvegliato dal cielo. Ma Santal non c'era. Tornata sulla via principale di Auchterarder udì la notizia che al contingente di Edimburgo era stato impedito di lasciare la città. «Quindi sfileranno là», esclamò qualcuno in tono esultante. «E gli stronzi si ritroveranno così sotto pressione che scoppieranno.» Siobhan ne dubitava, ma diede lo stesso un colpo di telefono ai suoi. Le rispose suo padre, confermandole che lui e Eve erano ormai seduti in autobus da ore e non si erano mai mossi. «Promettetemi che non vi unirete a eventuali cortei», lo implorò lei. «Promesso», rispose Teddy Clarke. Poi le passò la madre, perché anche lei si impegnasse in quel senso. Nel terminare la chiamata, però, all'improvviso sì sentì una perfetta idiota: che stava facendo lì, quando avrebbe potuto essere a Edimburgo con loro? Un nuovo corteo significava poliziotti antisommossa: magari sua madre avrebbe riconosciuto il suo aggressore, o qualcosa l'avrebbe aiutata a far riaffiorare il ricordo. Si maledisse in silenzio, poi si voltò e si trovò faccia a faccia con la sua preda. «Santal», disse. La ragazza abbassò la videocamera. «Che ci fai qui?» «Sorpresa?» «Un po' sì. I tuoi?» «Bloccati a Edimburgo. La tua pronuncia blesa è migliorata, mi pare.» «Eh?» «Lunedì, ai Gardens», continuò imperterrita Siobhan, «eri tutta presa con il tuo aggeggio, solo che non lo tenevi puntato sugli sbirri. Come mai?» «Non capisco dove vuoi andare a parare.» La ragazza lanciò un'occhiata a destra e a sinistra, come timorosa che qualcuno le sentisse. «Il motivo per cui non volevi mostrarmi le tue foto è che mi avrebbero rivelato qualcosa.» «Tipo?» Il tono non era cauto né spaventato, solo autenticamente curioso. «Tipo che eri molto più interessata ai tuoi amichetti facinorosi che alle
forze dell'ordine.» «E allora?» «E allora ho cominciato a chiedermi come mai, e ci sarei dovuta arrivare prima. Accidenti, al campeggio di Niddrie e anche a Stirling lo dicevano tutti...» Le due donne si trovavano a un palmo di distanza. Siobhan aveva fatto un passo avanti e ora si chinò verso l'orecchio di Santa!. «Sei un'infiltrata», sussurrò. Poi arretrò il minimo indispensabile per ammirare il suo travestimento. «Orecchini e piercing... quasi tutti falsi, immagino», azzardò. «Tatuaggi lavabili, e...» Lo sguardo si posò sulla chioma aggrovigliata. «Una gran bella parrucca. Perché ti sei messa anche a parlare con quella pronuncia blesa proprio non lo so... forse per mantenere un filo di identità?» Si interruppe. «Ehi, come sto andando?» Santal si limitò ad alzare gli occhi al cielo. In quel momento si udì uno squillo. La ragazza si frugò in tasca e ne estrasse due telefonini, uno dei quali aveva il display illuminato. Lesse, poi puntò lo sguardo oltre la spalla destra di Siobhan. «Arrivano i nostri», disse. Siobhan non capì che cosa volesse dire, e certo era un trucco vecchio come il mondo, ma si voltò comunque. John Rebus se ne stava fermo con il cellulare in una mano e qualcosa di simile a un biglietto da visita nell'altra. «Non so bene come funziona, da queste parti», commentò avvicinandosi. «Se mi accendo una sigaretta di tabacco al cento per cento, divento automaticamente uno schiavo dell'impero del male?» Poi si strinse nelle spalle e tirò fuori il pacchetto. «La nostra Santal è fasulla», spiegò Siobhan. «Sì, ma forse non è il caso di mettersi a fare pubblici annunci proprio qui», sibilò l'interessata. «Allora dimmi qualcosa che non so», ribatté Siobhan. «Quello posso farlo io, credo», si intromise Rebus. Ma aveva gli occhi fissi su Santal. «Forse è stato un po' eccessivo da parte tua», continuò rivolto alla ragazza, «evitare anche il funerale di tuo fratello.» Lei lo guardò con aria cupa. «Tu ci sei andato?» Rebus annuì. «Ma ammetto di aver dovuto studiare la foto di Santal per ore, perché mi sorgesse un barlume di consapevolezza.» «Lo prenderò come un complimento.» «Infatti lo è.» «Guarda che io volevo andarci.» «E che scusa ti sei inventata?» Finalmente Siobhan ritrovò la parola. «Tu sei la sorella di Ben Web-
ster?» «Alla buon'ora, Shiv», fu il commento di Rebus. «Sergente Clarke, le presento Stacey Webster.» Teneva ancora gli occhi fissi su quest'ultima. «Ma mi sa che dobbiamo continuare a chiamarti Santal, eh?» «Un po' tardi», replicò l'interessata. E, neanche l'avessero chiamato, un giovanotto in bandana rossa si avvicinò al gruppo. «Tutto a posto, qui?» «Stavamo facendo due chiacchiere con una vecchia amica», rispose Rebus. «A me invece sembrate dei porci vigliacchi.» Lo sguardo corse da Rebus a Siobhan. «Ehi, me la sbrigo da sola.» Santal era rientrata nel personaggio: la donna forte, capace di combattere autonomamente le proprie battaglie. Un'occhiata bastò a fargli abbassare la cresta. «Se ci tieni...» Il giovane stava già arretrando. Quando lei tornò a voltarsi verso Rebus e Siobhan, era di nuovo Stacey. «Non potete restare qui», dichiarò. «Tra un'ora mi danno il cambio, poi potremo parlare.» «Dove?» Lei rifletté un istante. «Restiamo nel perimetro. Dietro l'hotel c'è un campo dove sostano gli autisti. Aspettatemi là.» Siobhan lanciò un'occhiata alla folla che li circondava. «E secondo te come ci arriviamo, là?» Stacey si produsse in un sorrisetto acido. «Un po' di spirito d'iniziativa, su.» «Credo», spiegò Rebus, «che la signora stia suggerendo di farci arrestare.» 17 Per portarsi in testa all'assembramento gli occorsero dieci minuti e molti spintoni, con Siobhan che lo seguiva a ruota. Poi, con il corpo premuto contro uno scudo graffiato e tappezzato di scarabocchi, Rebus spalancò il tesserino appoggiandolo all'inserto di plastica trasparente rinforzata all'altezza degli occhi del poliziotto. «Facci uscire da qui», mimò con le labbra, ma quello non abboccò e demandò invece la decisione al suo superiore, l'ufficiale rubizzo di poco prima. Il quale riconobbe Siobhan immediatamente, costringendola a inal-
berare un'aria contrita. Poi fece una smorfia e impartì un ordine. Nel cordone di scudi si aprì uno spiraglio, e diverse mani li afferrarono. Dalla parte opposta della linea il livello del rumore era decisamente più alto. «Mostrate i tesserini», ordinò il capo. Rebus e Siobhan furono lieti di obbedire. L'uomo, che reggeva un megafono, informò quindi la folla che non era stato compiuto alcun arresto, e quando riferì che si trattava di due investigatori si levò un boato di scherno. La tensione parve comunque allentarsi un po'. «Un'autentica bravata... dovrei farle rapporto», disse poi a Siobhan. «Squadra Omicidi», mentì Rebus in scioltezza. «Dovevamo parlare con una persona: avevamo altre possibilità?» L'ufficiale lo guardò dritto negli occhi, ma di li a un attimo si ritrovò con uno dei suoi a terra e i dimostranti che tentavano di sfruttare il residuo di breccia aperto nella barricata. Riprese così a sbraitare ordini al megafono, e con un cenno Rebus comunicò a Siobhan che forse dovevano approfittarne per abbandonare la scena. Intorno a loro si spalancavano portelli di camionette, da cui altri poliziotti sciamavano per dare man forte ai colleghi in prima linea. Un agente medico chiese a Siobhan se stava bene. «Tutto a posto», disse lei. Sulla via era atterrato un piccolo elicottero, le pale che giravano ancora. Chino nella tormenta, Rebus andò a confabulare con il pilota, quindi fece segno a Siobhan di avvicinarsi. «Può portarci al campo.» Dietro gli occhiali a specchio l'uomo annuì. «Non c'è problema», gridò con accento americano. Trenta secondi dopo erano a bordo e l'apparecchio riprendeva il volo, sollevando una nuvola di polvere e rifiuti. Rebus fischiettò due battute di Wagner di apocalypsiana memoria, ma Siobhan lo ignorò. Nonostante il rumore di fondo, gli chiese invece che storia si fosse inventato con il pilota. Gli lesse la risposta sulle labbra: squadra Omicidi. L'albergo distava un paio di chilometri in direzione sud. Dall'alto era facile distinguere la cinta di sicurezza e le torrette di guardia: migliaia di ettari di colline deserte, poi improvvise sacche di dimostranti contenute da cordoni di uniformi nere. «Non posso avvicinarmi troppo all'albergo», gridò in tono serio il pilota. «Se lo faccio ci abbattono con un missile.» Descrisse così un vasto arco attorno al perimetro dell'hotel. A terra erano
visibili diverse strutture temporanee, probabilmente destinate alla stampa di tutto il mondo, e parabole satellitari montate su furgoni dall'aria anonima: le televisioni, o forse i servizi segreti. Rebus riuscì a distinguere un sentiero che da un'ampia tenda bianca conduceva verso il perimetro blindato. Il campo era una distesa di stoppie su cui qualcuno aveva tracciato a spray una gigantesca «H» per segnalare il punto di atterraggio agli elicotteristi. In tutto, il volo era durato due minuti. Rebus strinse la mano al pilota e balzò a terra, seguito da Siobhan. «Ehi, oggi viaggio alla grande», commentò lei. «La A9 me la sono fatta in moto.» «Mentalità da assedio», spiegò Rebus. «Per quegli assatanati questa settimana siamo noi contro loro, nient'altro.» Un soldato si avvicinò, tuta da combattimento e mitraglietta automatica alla mano. Non sembrava esattamente lieto del loro arrivo. Esibirono entrambi il tesserino, ma neanche quello parve bastare e, mentre lui insisteva perché gli consegnassero i documenti, Rebus notò che sulla sua uniforme non comparivano mostrine, né segni rivelatori della nazionalità o della sezione di appartenenza alle forze armate. «Aspettate lì», ordinò il militare, indicando il punto in cui si erano fermati. Quando si voltò, Rebus accennò un passo di tip tap e fece l'occhiolino a Siobhan. Il soldato era stato inghiottito da un enorme caravan piantonato da un'altra guardia armata. «Mi sa che non siamo più nel Kansas», disse quindi, passando al Mago di Oz. «Nel senso che tu saresti Judy Garland e io il cagnolino?» «Andiamo a dare una sbirciata», fece Rebus per tutta risposta, dirigendosi verso un tendone. Il tetto era costituito da una struttura modulare in plastica sorretta da una serie di pali, sotto cui erano parcheggiate file di limousine. Gli autisti in livrea si scambiavano aneddoti e sigarette, mentre visione alquanto bizzarra - uno chef in giacca bianca, pantaloni a scacchi e cappello da cuoco appollaiato in testa cucinava omelette dietro una sorta d'incastellatura, accanto a una grossa bombola di gas da campo. Il cibo veniva poi distribuito su piatti veri, con vere posate d'argento, a tavoli a cui gli autisti potevano accomodarsi. «Ne ho sentito parlare quando sono venuta qui con Macrae», spiegò Siobhan. «Per entrare i dipendenti dell'hotel usano un passaggio sul retro e lasciano le macchine in un campo qui vicino.» «Immagino siano stati già tutti controllati e schedati», rispose Rebus,
«cosa che ora stanno facendo con noi.» Lanciò un'occhiata al caravan, poi rivolse un cenno di saluto a un gruppetto di autisti. «Come sono le omelette, ragazzi?» chiese, ricevendo cenni di approvazione. Il cuoco attendeva nuovi ordini. «Una con dentro tutto», gli disse Rebus. Poi si voltò verso Siobhan. «Lo stesso per me», fece lei. Lo chef si mise al lavoro, con le sue ciotole di dadi di prosciutto, funghi affettati, tranci di peperoni. Nell'attesa, Rebus prese forchetta e coltello. «Situazione un po' insolita, eh?» commentò poi con il cuoco, che si limitò a sorridere. «Con tutte le comodità, però, naturalmente», continuò in tono ammirato. «Bagni chimici, cibo caldo, un tetto sulla testa quando piove...» «E metà delle macchine hanno la televisione», lo informò un autista. «Anche se il segnale non è un granché.» «Eh, proprio una vitaccia», lo commiserò Rebus. «E nei caravan non vi fanno entrare?» Gli autisti scossero il capo. «Sono pieni di aggeggi elettronici», spiegò uno. «Io ho dato una sbirciata. Computer e roba del genere.» «Allora quell'antenna sul tetto non serve per captare Febbre d'amore», esclamò Rebus, strappando qualche risata proprio mentre la porta del caravan in questione si riapriva. Il soldato che ne uscì parve perplesso di non ritrovare Rebus e Siobhan dove li aveva lasciati; mentre si avviava risolutamente verso di loro, Rebus prese il piatto dalle mani del cuoco e si ficcò in bocca una forchettata di omelette. Quando il giovane gli si fermò di fronte, ne stava cantando le lodi. «Gradisce?» offrì Rebus, la forchetta già tesa. «Vedrete come gradirete voi fra un po'», ribatté in tono secco il militare. Rebus si voltò verso Siobhan. «Risposta pronta», disse lei, prendendo a sua volta un piatto dalle mani dello chef. «E il sergente Clarke è un'esperta in materia, mi creda», aggiunse Rebus. «Be', il tempo di finire lo spuntino e ci mettiamo buoni buoni in una Mercedes a guardare Il tenente Colombo...» «Intanto i vostri tesserini li tengo io», dichiarò il soldato. «Per verifiche.» «Allora siamo proprio bloccati qui.» «Su che canale danno Colombo?» chiese uno degli autisti. «Piace anche
a me.» «Controlla la guida tivù», gli rispose un collega. Il soldato alzò di scatto la testa, il mento teso a guardare un elicottero che si avvicinava basso e assordante. Uscì da sotto il tendone per vedere meglio. «Non posso crederci», sbottò Rebus, mentre l'uomo rivolgeva un rigido saluto militare alla pancia dell'apparecchio. «Lo fa tutte le volte», gridò uno degli autisti. Un altro chiese se stava arrivando Bush e qualcuno controllò l'orologio. Il cuoco si affannava a coprire le ciotole perché non si riempissero di polvere sollevata dalle pale. «Dovrebbe essere qui a momenti», disse una voce. «Io ho portato qui Boki da Prestwick», fece un altro, aggiungendo che si trattava del cane da fiuto del presidente. L'elicottero era scomparso dietro una fila di alberi. Lo udirono atterrare. «E le mogli cosa fanno», chiese Siobhan, «mentre i mariti si sfidano a braccio di ferro?» «Be', le portiamo noi a fare un giro turistico...» «O a fare shopping.» «O per musei e gallerie.» «Quello che vogliono ottengono, anche se significa chiudere strade o cacciare la clientela normale da un negozio. Però hanno anche portato qui degli artisti da strapazzo da Edimburgo, per allietare il loro soggiorno. Gente che scrive e dipinge.» «E poi c'è Bono, ovviamente», soggiunse un altro autista. «Oggi vengono anche lui e Geldof a farsi il giretto di rappresentanza.» «Già, a proposito...» Siobhan lanciò un'occhiata all'orologio sul display del telefonino. «Mi hanno invitato al Final Push, stasera.» «Chi?» chiese Rebus, sapendo che la collega non aveva avuto fortuna al pubblico sorteggio dei biglietti. «Una guardia giurata di Niddrie. Pensi che torneremo in tempo?» Lui si limitò a un'alzata di spalle. «Ah», disse poi, «anch'io volevo dirti una cosa...» «Cioè?» «Ho cooptato Ellen Wylie.» Lo sguardo di Siobhan si inferocì all'istante. «Sa più cose su BeastWatch di quante ne sappiamo noi», insistette Rebus, evitando di guardarla negli occhi. «Sì», ribatté Siobhan, «decisamente troppe.»
«Che vuoi dire?» «Voglio dire che è troppo coinvolta, John. Pensa a che cosa le farebbe un avvocato difensore in tribunale!» Non riusciva a controllare la voce. «Non ti è neanche venuto in mente di chiedere il mio parere? Se questa cosa va in fumo, la testa che salta è la mia!» «Si occuperà solo della burocrazia», tentò di rabbonirla lui, pur consapevole della debolezza dell'argomento. A salvarlo fu il militare che tornava a grandi passi verso di loro. «Devo sapere a cosa state lavorando», annunciò seccamente. «Be', io mi occupo di investigazioni criminali», rispose Rebus, «e la mia collega anche. Dobbiamo vedere una persona... e dobbiamo vederla qui.» «Che persona? Per ordine di chi?» Rebus ammiccò con aria cospiratrice. «Sst», disse poi sottovoce. Gli autisti avevano ripreso le rispettive conversazioni e dibattevano su quali VIP avrebbero accompagnato sabato allo Scottish Open di golf. «Io sono fuori», si vantò uno. «La mia tratta è Glasgow - T in the Park...» «Lei è di stanza a Edimburgo, ispettore», disse in quel momento il soldato. «Si trova molto lontano dalla sua giurisdizione.» «Stiamo indagando su un omicidio», ribatté Rebus. «Tre omicidi, per la precisione», lo corresse Siobhan. «Niente confini, spiacente», concluse Rebus. «Se non fosse», riprese il soldato ergendosi in tutta la sua statura, «che vi è stato ordinato di congelare l'inchiesta.» Poi tacque, soddisfatto dell'effetto che le sue parole avevano sortito, in particolare su Siobhan. «Bravo, vedo che sa usare il telefono», commentò invece Rebus, deciso a non lasciarsi impressionare. «Il vostro capo non era molto contento.» Al soldato sorridevano gli occhi. «E nemmeno...» Rebus seguì la direzione del suo sguardo. Una Land Rover si avvicinava tra sobbalzi e scossoni e dal finestrino aperto del passeggero la testa di Steelforth spuntava come legata a un guinzaglio troppo teso. «Oh, merda», farfugliò Siobhan. «Spalle dritte», la riprese Rebus, «e petto in fuori.» Fu ricompensato da un'altra occhiata al fulmicotone. L'auto si era fermata e Steelforth era già smontato. «Vi rendete conto», esordì, «quanti mesi di addestramento e preparazione, quante settimane di sorveglianza in incognito avete appena vanificato?»
«Non sono certo di seguirla», rispose gaio Rebus, restituendo il piatto vuoto allo chef. «Credo si riferisca a Santal», fece Siobhan. Steelforth le scoccò un'occhiata. «Naturale!» «Ah, è una dei suoi?» chiese Rebus, poi annuì tra sé. «Certo tutto torna. Mandiamola a Niddrie, facciamole scattare foto ai dimostranti, compiliamo un bel dossier a futura memoria... Una missione così importante, che non le ha concesso nemmeno di andare al funerale del fratello.» «Questo l'ha deciso lei», scattò Steelforth. «Colombo cominciava alle due», disse un autista. Steelforth non si lasciò distrarre. «A volte operazioni di sorveglianza come quella non fanno in tempo a partire che la copertura è già saltata. E lei erano mesi che ci lavorava!» A Rebus non sfuggì l'uso dell'imperfetto, e Steelforth confermò con un cenno. «Provi un po' a dire quanta gente l'ha vista con voi, oggi? E quanti hanno capito che siete dell'Investigativa? O smettono di fidarsi di lei, oppure le racconteranno cazzate sperando che noi ci caschiamo.» «Se si fosse fidata per prima lei di noi...» Siobhan fu interrotta dalla risata aspra di Steelforth. «Fidarsi di voi?» Altra risata, stavolta artificiosa. «Oddio, questa è buona.» «Peccato si sia perso le rispostine del nostro amico in divisa», fece Siobhan. «Erano molto meglio, sa?» «A proposito», riattaccò Rebus, «volevo ringraziarla per la notte in cella.» «Purtroppo non posso farci niente se i miei uomini decidono di agire di loro iniziativa... o se il suo capo non risponde al telefono.» «Quindi mi sta dicendo che erano poliziotti veri?» Steelforth si portò le mani ai fianchi, i gomiti aguzzi all'infuori. Puntò lo sguardo a terra, poi lo risollevò verso di loro. «Inutile dire che sarete sospesi.» «Noi non lavoriamo per lei.» «Questa settimana tutti lavorano per me.» Rivolse l'attenzione a Siobhan. «E non vedrete mai più il sergente Webster.» «Ha con sé delle prove...» «Prove di cosa? Che sua madre è stata colpita da un manganello durante uno scontro? Deciderà la signora se vuole sporgere denuncia. Gliel'ha
chiesto, almeno?» «Io...» Siobhan esitò. «No, è semplicemente partita lancia in resta per la sua crociata personale! Il sergente Webster torna a casa e la colpa è vostra, non mia.» «Parlando di prove», ne approfittò Rebus, «che è successo ai nastri del circuito chiuso?» Steelforth aggrottò la fronte. «Nastri?» «Quelli della sala controllo del castello di Edimburgo... Le telecamere puntate sui bastioni, capisce...» «Credevo ne avessimo già parlato abbastanza», ringhiò l'inglese. «Nessuno ha visto niente.» «Bene. Allora non c'è problema se li guardo, giusto?» «Se li trova, si accomodi pure.» «Li hanno cancellati?» Steelforth non si prese neanche la briga di rispondere. «Quando ha detto che siamo sospesi», continuò allora Rebus, «ha dimenticato di aggiungere 'in attesa di inchiesta'. Immagino sia perché l'inchiesta non ci sarà, giusto?» Steelforth fece spallucce. «Decidete voi.» «Cioè dipende dalla nostra condotta? Tipo, non rompere le scatole con i nastri del circuito chiuso?» Steelforth si strinse nuovamente nelle spalle. «Potete uscirne per il rotto della cuffia, come eroi o come i cattivi della situazione...» La radio agganciata alla sua cintura prese vita con un crepitio: da una delle torrette di osservazione riferivano che il perimetro di sicurezza era stato violato. Steelforth si portò la ricetrasmittente alla bocca e ordinò un Chinook di rinforzo, poi si riavviò a larghe falcate verso la Land Rover. Strada facendo fu intercettato da uno degli autisti. «Volevo solo presentarmi, comandante. Mi chiamo Steve e la accompagnerò all'Open...» Steelforth ruggì un'imprecazione che lasciò il povero Steve quasi tramortito. Subito i colleghi cominciarono a sbeffeggiarlo: quel fine settimana non gli sarebbe toccata una gran mancia. Nel frattempo, la macchina di Steelforth aveva già il motore acceso. «Va via così, senza neanche un bacino?» gridò Rebus sventolando la mano. Siobhan lo fissò. «Tu aspetti solo la pensione, John, ma alcuni di noi speravano ancora in una carriera.» «Ma non lo vedi com'è fatto, Shiv? Appena sarà tutto finito, per lui non
esisteremo più.» Rebus continuò a salutare l'auto che si allontanava rombando. Di fronte a loro, il soldato sventolava i tesserini. «E adesso sparite», ordinò. «Dove dovremmo andare, esattamente?» gli chiese Siobhan. «O, domanda più pertinente, come?» rincarò Rebus. Un autista si schiarì la gola e tese un braccio, indicando la schiera di lussuose vetture. «Ho appena ricevuto un SMS, un pezzo grosso che deve rientrare a Glasgow. Se volete vi do uno strappo da qualche parte...» Rebus e Siobhan si guardarono. Poi lei sorrise e indicò le auto con un cenno. «Possiamo scegliere?» Finirono sul sedile posteriore di un'Audi A8, seimila di cilindrata e seicento chilometri percorsi, per la maggior parte dalle prime ore della giornata. Aroma pungente di pelle nuovissima e scintillanti bagliori di cromature. Siobhan chiese se la tivù funzionava. Rebus le lanciò un'occhiata. «Mi chiedevo solo se avevano deciso per la sede delle Olimpiadi», spiegò. Tra il campo di sosta e il parco dell'albergo i loro tesserini vennero esaminati a tre diversi posti di blocco. «Non possiamo arrivare fino all'hotel», annunciò l'autista. «Raccatto il mio uomo al punto di ritrovo vicino al centro dei media.» Erano entrambi nei pressi del parcheggio principale dell'albergo. Il campo da golf era deserto, e vuoti erano anche i prati per il pitch-and-putt e il croquet, a parte gli uomini della sicurezza che vi passeggiavano lenti e azzimati. «Difficile credere che là dentro stia succedendo qualcosa», commentò Siobhan in poco più di un sussurro... l'effetto del posto. Anche Rebus lo avvertiva, sotto forma di desiderio di non attirare l'attenzione. «Ci metto un secondo», disse l'autista fermando la macchina. Si calcò in testa il berretto rigido e scese. Anche Rebus decise di sgranchirsi le gambe: non riusciva a vedere cecchini appostati là in alto, ma in realtà sapeva che non potevano essere lontani. L'A8 si era fermata di fianco al corpo di fabbrica principale, vicino a una grande serra che probabilmente alloggiava il ristorante. «Un fine settimana qui mi rimetterebbe al mondo», confidò a Siobhan, che a sua volta emergeva dalla portiera posteriore. «E ti manderebbe sul lastrico», ribatté lei. All'interno del centro media - un tendone dalle pareti pesanti - si coglie-
vano scorci di giornalisti intenti a pestare sulle tastiere dei portatili. Rebus si era acceso una sigaretta. Sentendo un rumore si girò. Una bicicletta svoltò l'angolo dell'hotel, il ciclista chino in avanti nel tentativo di guadagnare velocità, seguito a ruota da una seconda bici. A una decina di metri di distanza si accorse di loro e li salutò con la mano, ricambiato dal balletto di risposta della sigaretta di Rebus. Quel gesto però lo aveva sbilanciato, e in un attimo l'uomo si ritrovò a sbandare e a slittare sulla ghiaia. Alle sue spalle l'inseguitore tentò di evitarlo, con l'unico risultato di fare anche lui un gran volo. Immediatamente dal nulla spuntarono uomini in abito scuro che accerchiarono le due figure a terra. «Ma siamo stati noi?» chiese piano Siobhan. Rebus non disse nulla, semplicemente gettò la sigaretta e si riaccomodò in auto. Lei seguì il suo esempio, ed entrambi osservarono attraverso il parabrezza il primo ciclista che veniva aiutato a rialzarsi e si sfregava le nocche graffiate. L'altro era ancora sdraiato immobile sulla ghiaia, ma a lui nessuno prestava eccessiva attenzione. Questioni di protocollo, pensò Rebus. Il presidente George W. Bush veniva sempre per primo. «Siamo stati noi?» ripeté Siobhan, con un lieve tremito nella voce. L'autista dell'Audi stava tornando dal punto di ritrovo, seguito da un tizio in completo grigio che reggeva due valigette gonfie e che, come lui, si era fermato un istante a osservare il trambusto. Poi lo chauffeur spalancò lo sportello e il funzionario salì in auto senza nemmeno indirizzare un cenno al sedile posteriore. Quando l'autista riprese posto al volante, il berretto che sfiorava il tetto dell'abitacolo, chiese cosa stesse succedendo. «Quando ti mancano le rotelle...» rispose Rebus. Finalmente il funzionario statale prese atto - forse con un certo rammarico - di non essere l'unico passeggero della macchina. «Dobbs», disse. «Dell'FCO.» In altre parole, il Foreign and Commonwealth Office. Il ministero degli Esteri, insomma. Rebus gli tese la mano. «Mi chiami pure John», lo invitò cordialmente. «Sono un amico di Richard Pennen.» Siobhan sembrò non registrare nemmeno il commento. L'auto si allontanava, ma la sua attenzione era rimasta incollata alla scena alle loro spalle. La guardia personale stava ora cercando di impedire ai due paramedici in uniforme verde di avvicinarsi al presidente degli Stati Uniti, sotto lo sguardo di alcuni dipendenti dell'albergo e di un paio di cronisti del centro
media. «Buon compleanno, signor presidente», mormorò Siobhan, con voce roca come Marilyn. «Piacere di conoscerla», disse Dobbs a Rebus. «Richard si è già fatto vedere?» chiese disinvolto quest'ultimo. Il funzionario aggrottò la fronte. «Non so se è sulla lista degli invitati.» Sembrava preoccupato dalla possibilità che l'avessero escluso dal giro. «A me aveva detto di si», mentì spudoratamente Rebus. «Pensava che il ministro potesse affidargli un incarico...» «È molto probabile», confermò Dobbs, cercando di apparire più sicuro di quanto non fosse. «George Bush è appena caduto dalla bici», annunciò Siobhan. Per riuscire a crederci doveva dirlo ad alta voce. «Ah, sì?» fece Dobbs, senza ascoltare veramente. Aveva aperto una delle valigette ed era pronto a immergersi in una qualche lettura. Rebus comprese così che il funzionario aveva sopportato anche troppi convenevoli, preso com'era da interessi ben più alti: statistiche, bilanci, fatturati commerciali. Fece un ultimo tentativo. «Lei c'era, al castello?» «No», strascicò Dobbs. «Lei sì?» «Sì. Ben Webster: una vera tragedia, non crede?» «Terribile. Il miglior sottosegretario che abbiamo mai avuto.» Soltanto allora Siobhan parve rendersi conto di quanto stava succedendo. Rebus le fece l'occhiolino. «Richard non è poi così sicuro che si sia buttato», azzardò. «Un incidente, vuol dire?» replicò Dobbs. «Una spinta», lo corresse Rebus. Il funzionario mollò i suoi incartamenti e si girò verso il sedile posteriore. «Una spinta?» Osservò il lento cenno d'assenso di Rebus. «E chi avrebbe potuto volere una cosa simile?» «Magari si era fatto dei nemici. Ai politici capita.» «Già, ma capita anche a quelli come il suo amichetto Pennen.» «Che vuol dire, scusi?» Rebus ostentò uno sdegno di circostanza. «Che la 'sua' azienda una volta apparteneva ai contribuenti, e che oggi sta facendo i milioni con la ricerca e lo sviluppo pagati da noi.» «Ci sta bene, così impariamo a privatizzare», fu il commento di Siobhan. «Forse il governo è stato mal consigliato», obiettò Rebus, in tono provocatorio.
«Balle, il governo sapeva benissimo che cosa stava facendo.» «E allora perché vendere a Pennen?» chiese Siobhan, che a quel punto era davvero curiosa. Dobbs riprese a frugare tra le sue carte, mentre al telefono l'autista chiedeva a qualcuno quali erano le strade aperte. «I reparti di Ricerca e sviluppo costano», rispose il funzionario. «Quando il ministero della Difesa deve operare dei tagli, non gli conviene mai farli ricadere sui reggimenti. Se invece si libera di qualche cervellone, la stampa non batte neanche ciglio.» «Non sono ancora certa di avere capito», confessò Siobhan. «Il fatto è», continuò Dobbs, «che le aziende privatizzate possono vendere i loro prodotti a chi vogliono. Hanno molto meno restrizioni rispetto alla Difesa, al ministero degli Esteri o a quello dell'Industria. Risultato: profitti più rapidi.» «E», aggiunse Rebus, «realizzati vendendo a dittatori privi di scrupoli e a nazioni già indebitate fino al collo che non hanno neanche gli occhi per piangere.» «Ma Pennen non era un suo...?» Improvvisamente consapevole di non essere proprio fra amici, Dobbs ebbe un sussulto. «Scusi, le spiacerebbe ricordarmi chi è lei?» «John», rispose Rebus. «E questa è una mia collega.» «Ma non lavorate per la Pennen Industries?» «Io? Mai detta una cosa del genere. Siamo della polizia del Lothian and Borders, signor Dobbs. E vorrei ringraziarla per le sue franche risposte alle nostre domande.» Abbassò lo sguardo sulle ginocchia del funzionario. «Sta accartocciando tutte le sue belle carte: è per risparmiare sul tritadocumenti?» A Gayfield Square, Ellen Wylie era occupatissima con i telefoni. Siobhan aveva chiamato i suoi, scoprendo che avevano rinunciato alla gita a Auchterarder e che si erano tenuti alla larga dalla furibonda manifestazione in Princes Street. Dal Mound fino a Old Town c'erano stati tafferugli: i contestatori, delusi per non aver potuto lasciare la città, si erano scontrati con gli agenti antisommossa. Quando Rebus e Siobhan entrarono nei locali dell'Investigativa, Ellen li accolse dunque con un'occhiataccia. Rebus pensò stesse per partire anche lei con una protesta, dopo essere stata lasciata tutto il giorno da sola in ufficio; ma poi dalla stanza di Derek Starr emerse qualcuno. Non lo stesso Starr, bensì il capo della polizia James Corbyn, le mani intrecciate dietro la schiena, il ritratto vivente dell'impazienza. Rebus
fissò Ellen, che con un'alzata di spalle gli comunicò che Corbyn le aveva impedito di avvisarlo tramite SMS. «Voi due: dentro», scattò quest'ultimo, tornando nella soffocante tana di Starr. «E chiudete la porta», aggiunse. Preso posto e, visto che nella stanza non c'erano altre sedie, Rebus e Siobhan rimasero in piedi. «Lieto che abbia trovato il tempo di farci visita, signore», esordì Rebus, attaccando per primo. «Avevo proprio intenzione di chiederle della notte in cui Ben Webster è morto.» Corbyn era chiaramente spiazzato. «Che cosa?» «Lei era presente alla cena, signore... particolare che forse avrebbe dovuto chiarire fin dall'inizio.» «Non siamo qui per parlare di me, ispettore Rebus. Siamo qui perché io sospendo voi dal servizio attivo con effetto immediato.» Rebus annuì lentamente, come se fosse già storia vecchia. «Ciò detto, signore, visto che però lei c'è, tanto vale raccogliere la sua deposizione. Altrimenti sembra che vogliamo nascondere qualcosa, no? I giornali ci stanno addosso come avvoltoi e il capo della polizia non ne esce certo a testa alta se...» Corbyn scattò in piedi. «Forse non mi ha sentito bene, ispettore. Lei non si occupa più di nessuna indagine. Voglio che lasciate l'edificio entro cinque minuti. Poi voglio che andiate a casa e vi sediate accanto al telefono ad attendere gli esiti della mia inchiesta sulla vostra condotta. Sono stato chiaro?» «Mi serve qualche minuto per aggiornare i miei appunti, signore: devo verbalizzare questa conversazione.» Corbyn fendette l'aria con il dito puntato. «So tutto di lei, Rebus.» Spostò lo sguardo su Siobhan. «Ecco perché era così riluttante a fare il nome del suo collega, quando le ho affidato l'indagine.» «Con rispetto parlando, signore, lei non mi ha mai chiesto niente», ribatté Siobhan. «Ciò nonostante sapeva benissimo che i guai non erano lontani.» Riportò l'attenzione su Rebus. «Non con l'ispettore nei paraggi.» «Con tutto il rispetto, signore...» riprese Siobhan. Corbyn pestò un pugno sulla scrivania. «Vi avevo detto di congelare le indagini! E invece la faccenda finisce in prima pagina, e voi vi presentate a Gleneagles! Vi tolgo il caso, e non aggiungerò altro. Game over. Schluss. Sayonara.» «Ne ha imparate di parole a quella cena, eh, signore?» rispose Rebus con
un ammicco. A Corbyn schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. Con la fortuna che avevano, rischiavano di vederselo stramazzare davanti stroncato da un colpo apoplettico. Invece il capo della polizia uscì a grandi passi dalla stanza, quasi travolgendo Siobhan e uno scaffale. Rebus espirò rumorosamente, si passò una mano tra i capelli e si grattò il naso. «Quindi adesso cosa intendi fare?» chiese. Siobhan lo guardò. «Mah, non saprei. I bagagli?» «Ah, i bagagli li facciamo sì», rispose lui. «Imballiamo tutte le carte che ci servono, le portiamo a casa mia e mettiamo base lì.» «John...» «No, hai ragione», disse lui fraintendendo apposta il tono di lei. «Se spariscono tutte di colpo se ne accorgono. Meglio fotocopiarle.» Stavolta ottenne un sorriso. «Ci penso io, se vuoi», aggiunse. «Lo so che tu hai un appuntamento caldo caldo.» «Già, sotto l'acqua a catinelle.» «Che vuoi di più? Cantando sotto la pioggia!» Rebus uscì dall'ufficio. «Sentito qualcosa, Ellen?» La Wylie stava riagganciando in quel momento. «Non ho potuto avvertirvi», attaccò. «Non devi scusarti. Immagino che adesso Corbyn sappia chi sei...» Si appollaiò sull'angolo della sua scrivania. «Veramente non mi è parso molto interessato. Si è fatto dire nome e grado, ma non mi ha neanche chiesto se lavoravo qui.» «Perfetto», disse Rebus. «Quindi puoi continuare a farci da occhi e orecchie.» «Aspetta un secondo», lo interruppe Siobhan. «Questo non lo decidi tu.» «Agli ordini, madame.» Lei lo ignorò, concentrandosi sulla collega. «Questa indagine è mia, Ellen. Chiaro?» «Non temere, Siobhan, capisco quando sono indesiderata.» «Non sto dicendo che sei indesiderata: voglio solo essere certa che sei dalla nostra parte.» La Wylie si inalberò. «Perché, da che parte dovrei essere, invece?» «Signore, signore», disse Rebus, frapponendosi con modi da arbitro di boxe dei tempi andati. Puntò lo sguardo su Siobhan. «Altre due braccia ci servirebbero, capo, questo devi ammetterlo.»
Finalmente lei sorrise... la parolina magica aveva funzionato. Tuttavia continuò a fissare Ellen Wylie. «Anche cosi», disse, «non possiamo chiederti di spiare per noi. Una cosa è che ci mettiamo nei guai John e io, un'altra che ci trasciniamo anche te.» «No, io ci sto», ribatté Ellen. «A proposito, bella salopette.» Siobhan sorrise di nuovo. «Sarà il caso che mi cambi, prima dello spettacolo.» Rebus emise un altro sonoro respiro. Focolaio estinto. «Allora, qui cos'è successo?» chiese a Ellen. «Ho cercato di contattare i pregiudicati sulla lista di BeastWatch e ho chiesto alle forze dell'ordine locali di avvertirli che tengano gli occhi aperti.» «E loro sono stati lieti di collaborare?» «Non proprio. Tra una chiamata e l'altra ho parlato anche con qualche decina di cronisti che volevano dar seguito alla prima pagina di oggi.» Il giornale era sulla scrivania e lei tamburellò con le dita sul titolo di Mairie. «Non so dove trovi il tempo...» commentò. «In che senso, scusa?» chiese Rebus. Ellen aprì su un paginone doppio. Firma: ancora Mairie Henderson, in un'intervista con Gareth Tench. Grande foto del consigliere al centro della tendopoli di Niddrie. «Ero lì, quando gliel'hanno scattata», dichiarò Siobhan. «Io lo conosco.» Ellen non era riuscita a trattenersi, e Rebus la trafisse con lo sguardo. «Cioè?» Lei fece spallucce, intimorita dal suo improvviso interesse. «Lo conosco e basta.» «Ellen», fece lui scandendo bene le due sillabe. Lei sospirò. «Frequenta Denise.» «Tua sorella Denise?» chiese Siobhan. Ellen annuì. «E più o meno sono stata io a creare l'aggancio.» «Stanno insieme?» Rebus si abbracciava da solo come una camicia di forza. «Sono usciti insieme qualche volta. Lui...» Cercò le parole giuste. «Le è servito, l'ha aiutata a distrarsi.» «Con un goccio di vino, magari? E tu come l'hai conosciuto?» «BeastWatch», disse piano lei, senza incontrare il suo sguardo. «Ti spiacerebbe ripetere?»
«Ha visto quel pezzo che avevo scritto e mi ha mandato una e-mail di elogio.» Rebus era balzato in piedi e ora spalancava le braccia, perlustrando la scrivania in cerca di un pezzo di carta: la lista di Bain con gli utenti registrati nel sito. «Qual è?» chiese perentorio, porgendo a Ellen i nomi. «Questo qui.» «Ozyman?» Rebus puntò un dito e la vide annuire. «Ma che cazzo di nome è? Non sarà mica un fan di Ozzy Osbourne?» «Forse allude a 'Ozymandias', come nella poesia», suggerì Siobhan. «Be', io mi intendo più di rock», ammise Rebus. Siobhan si chinò su una tastiera e digitò il nome in un motore di ricerca. Due colpetti di mouse ed ecco apparire una biografia. «Re dei re», spiegò. «Che fece erigere un'enorme statua di se stesso.» Altri due clic e Rebus si trovò di fronte il poemetto di Shelley. «'Guardate alle mie opere, o Potenti'», recitò, «'e disperate!'» Si voltò verso la Wylie. «Certo la modestia è un problema che non lo affligge...» «Non posso darti torto», concesse lei. «Ho detto solo che a Denise in qualche modo è servito.» «Dobbiamo parlargli», disse Rebus, facendo scorrere lo sguardo sulla lista di nomi e chiedendosi quanti altri vivessero a Edimburgo. «E tu, Ellen, avresti dovuto dircelo prima.» «Non sapevo che aveste una lista», replicò lei, sulla difensiva. «È arrivato a te tramite il sito... volerlo interrogare è il minimo. Dio solo sa se le piste non scarseggiano.» «O forse sono anche troppe», ribatté Siobhan. «Vittime in tre regioni diverse, indizi lasciati in una quarta... È tutto così sparpagliato.» «Ma tu non dovevi andare a casa a prepararti?» Siobhan annuì, poi diede un'occhiata all'ufficio. «Davvero vuoi portare via tutto?» «Perché no? Le carte le posso fotocopiare, e alla nostra Ellen non dispiacerà trattenersi per aiutarmi.» La guardò in modo eloquente. «Dico bene, Ellen?» «È la mia punizione, giusto?» «Posso capire che volessi tenere Denise fuori da questa storia», rispose Rebus, «ma di Tench avresti dovuto parlarci, davvero.» «Tu però, John», lo interruppe Siobhan, «ricorda che il consigliere Tench mi ha salvato da un pestaggio, quella sera a Niddrie.» Lui annuì. Avrebbe potuto aggiungere che aveva visto anche un altro la-
to di Gareth Tench, ma lasciò perdere. «Goditi il concerto», disse invece. Siobhan riportò l'attenzione sulla collega. «Ora sei nella mia squadra, Ellen. Se solo mi sorge il sospetto che nascondi altri...» «Messaggio ricevuto.» Siobhan prese ad annuire piano, poi le venne in mente una cosa. «Gli utenti di BeastWatch organizzavano mai raduni?» «Non che io sappia.» «Però possono contattarsi a vicenda.» «Ovvio.» «Tu sapevi chi era Gareth Tench, prima di incontrarlo?» «La prima e-mail che mi ha mandato l'ha firmata con il suo vero nome, e mi ha scritto che stava a Edimburgo.» «E tu gliel'hai detto che eri dell'Investigativa?» Ellen annuì. «A che cosa stai pensando?» chiese Rebus. «Ancora non lo so.» Siobhan cominciò a radunare le sue cose, sotto lo sguardo dei due colleghi. Poi sventolò una mano in segno di saluto e sparì. Ellen richiuse il giornale e lo sbatté nel cestino. Rebus aveva riempito il bollitore e l'aveva acceso. «Te lo posso dire io, con precisione, a che cosa stava pensando», fece lei. «Allora sei più in gamba di me.» «Sa che gli assassini non agiscono sempre da soli. E sa anche che certe volte hanno bisogno di conferme.» «Non ti seguo, Ellen.» «Io invece credo di sì, John. E, se ti conosco solo un po', stai pensando anche tu più o meno la stessa cosa. Uno che decide di mettersi ad ammazzare pervertiti potrebbe volerlo dire a qualcuno: o prima, come a chiedere il permesso, oppure dopo, per levarsi il peso.» «Capito», disse Rebus, impegnato con le tazze. «Certo è difficile lavorare in squadra, se sei fra i sospettati...» «Ellen, io apprezzo davvero il tuo aiuto», disse lui, facendo una pausa prima di aggiungere: «Se questo è il tuo unico fine». Lei schizzò dalla sedia e si piazzò minacciosamente le mani sui fianchi, gomiti larghi. Rebus aveva sentito dire che un tempo gli umani facevano così per sembrare più grossi, più spaventosi, meno vulnerabili... «Tu pensi», attaccò lei, «che io sia stata qui mezza giornata solo per proteggere Denise?»
«No. Però penso che la gente è disposta a fare un sacco di cose per il bene della famiglia.» «Come Siobhan con sua madre, per esempio?» «Non raccontiamoci che al posto suo noi non faremmo lo stesso.» «John... sono qui perché me l'hai chiesto tu.» «E io ti ho detto che ti sono grato, ma c'è un problema, Ellen: Siobhan e io abbiamo appena preso un gran calcio nel sedere, e abbiamo bisogno di qualcuno che protegga noi. Qualcuno di cui possiamo fidarci.» Mise del caffè nelle due tazze sbreccate, poi annusò il latte e decise che poteva andare. Le stava dando tempo per riflettere. «Va bene», dichiarò infine Ellen. «Niente più segreti?» disse lui. Lei scosse il capo. «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?» Nuovo diniego. «Vuoi esserci anche tu, quando interrogherò Tench?» Lei inarcò appena le sopracciglia. «E come intendi procedere, esattamente? Sei sospeso, ricordi?» Rebus fece una smorfia e si diede una botta in testa. «Perdita di memoria a breve termine. Incerti del mestiere.» Dopo il caffè si misero al lavoro: Rebus piazzò una risma di fogli bianchi nella fotocopiatrice, Ellen gli chiese quali stampe voleva dai diversi database computerizzati. Il telefono squillò cinque o sei volte, ma lo ignorarono. «Per inciso», riprese lei a un certo punto, «hai sentito? Londra ha ottenuto le Olimpiadi.» «Urrà urrà.» «Invece è stato bellissimo, con un sacco di gente che ballava a Trafalgar Square. E poi significa che Parigi ha perso.» «Mi chiedo come l'abbia presa Chirac.» Rebus guardò l'orologio. «A quest'ora sarà a cena con la regina.» «E con il nostro Tony che fa l'imitazione del gatto del Cheshire, senza dubbio.» Rebus sorrise. Sì, e l'hotel Gleneagles che serviva al presidente francese le migliori ricette della Caledonia. Ripensò al pomeriggio trascorso. Trovarsi a poche centinaia di metri da quegli uomini potentissimi... Bush che cascava dalla bicicletta, a doloroso memento che anche loro erano fallibili come chiunque altro. «Che significa la G?» chiese all'improvviso. Ellen lo guardò. «In G8», aggiunse lui. «Governi, direi», ipotizzò lei con un'alzata di spalle.
Qualcuno bussò sulla porta aperta: uno degli agenti in divisa, di servizio all'ingresso. «Una visita per lei di sotto, signore.» Occhiata pregnante al telefono più vicino. «Non potevamo rispondere», spiegò Rebus. «Chi è?» «Una certa signora Webster... Sperava di trovare il sergente Clarke, ma dice che si accontenterà di lei.» 18 Backstage al Final Push. Girava voce che dai binari della vicina ferrovia fosse partito un razzo che aveva mancato di poco il bersaglio. «Pieno di vernice rossa», aveva detto Bobby Greig a Siobhan. Era in abiti borghesi: jeans scoloriti e giubbotto malconcio dello stesso tessuto. Era bagnato ma, anche sotto la pioggia, sembrava contentissimo. Siobhan aveva optato per un paio di pantaloni neri di velluto a coste, una maglietta verdina e chiodo di seconda mano preso in un negozio della Oxfam. Greig le aveva sorriso. «Com'è», aveva detto poi, «che qualunque cosa ti metti addosso sembri sempre uno sbirro?» Lei non si era nemmeno presa la briga di rispondere e continuava a rigirarsi tra le dita il pass plastificato che portava appeso al collo; sopra c'erano un profilo dell'Africa e la scritta ACCESSO AL BACKSTAGE. Lì per lì le era sembrato fantastico, ma Greig le aveva illustrato l'intera gerarchia: lui aveva un permesso di accesso a TUTTE LE AREE, ma c'erano anche i pass VIP e VVIP. Siobhan aveva già visto Midge Ure e Claudia Schiffer, due tra le very, very important persons, mentre lui le aveva presentato gli organizzatori del concerto, Steve Daws e Emma Diprose, entrambi in gran tiro malgrado il tempo infame. «Che scaletta pazzesca», aveva detto Siobhan. «Grazie», era stata la risposta di Daws. Poi la Diprose le aveva chiesto se aveva un artista preferito, ma lei aveva fatto segno di no. Nel corso dello scambio Greig non aveva nemmeno tentato di precisare che lei era una poliziotta. Fuori dallo stadio di Murrayfield c'erano i fan a implorare per avere un biglietto, e i bagarini con prezzi proibitivi per chiunque, salvo i più ricchi e disperati. Con il suo pass Siobhan aveva potuto gironzolare liberamente sotto il palco e sul campo da gioco, insieme ad altri sessantamila spettatori altrettanto zuppi. Ma le occhiate fameliche rivolte al suo rettangolino di
plastica l'avevano messa a disagio, e presto si era ritirata dietro le transenne della sicurezza. Greig si stava ingozzando al buffet gratuito, con in mano una bottiglia mezzo vuota di birra continentale. I Proclaimers avevano aperto con una versione corale di 500 Miles, e girava voce che Eddie Izzard avrebbe suonato il piano su Vienna di Midge Ure. I Texas, gli Snow Patrol e i Travis si sarebbero esibiti più tardi, mentre Bono avrebbe dato una mano ai Corrs e la chiusura sarebbe toccata a James Brown. In mezzo alla frenetica attività dietro le quinte, però, Siobhan si sentiva già vecchia. Metà degli artisti in programma non li conosceva. Tutti si davano un sacco di arie e sfilavano avanti e indietro con i loro codazzi, ma le facce non le dicevano niente. A un certo punto le venne in mente che forse i suoi sarebbero ripartiti venerdì, e che quindi le restava solo un giorno da passare con loro. Poco prima li aveva chiamati: erano tornati a casa da lei, dopo avere fatto un po' di spesa, e probabilmente sarebbero usciti a cena. Loro due soli, aveva detto suo padre, e dal tono sembrava averne una gran voglia. O magari era solo per non farla sentire in colpa. Tentò di rilassarsi, di farsi catturare dall'atmosfera, ma il lavoro continuava a interferire. Rebus, lo sapeva, stava ancora dandoci dentro a testa bassa: non avrebbe avuto pace finché non avesse placato i suoi demoni. Tuttavia ogni vittoria era effimera, e ogni combattimento lo lasciava un po' più esausto. Stava calando la sera e lo stadio era punteggiato dai flash dei videofonini e dalle virgole ondeggianti delle bacchette fosforescenti. Greig aveva recuperato chissà dove un ombrello e quando la pioggia rinforzò glielo porse. «Hai più avuto problemi a Niddrie?» gli chiese. Lui scosse il capo. «Ormai hanno detto quel che volevano dire», rispose. «E se tutto va bene pensano che in centro ci siano più occasioni di menare le mani.» Gettò la bottiglietta vuota nell'apposito bidone. «Hai visto, oggi?» «C'ero, a Auchterarder», disse lei. Lui parve impressionato. «Dal poco che ho visto in tivù sembrava una zona di guerra.» «Be', non era poi così tremendo. E qui?» «Un po' di casino quando non hanno lasciato partire gli autobus. Niente di paragonabile a lunedì, però.» Puntò un dito. «Annie Lennox», disse. E infatti era lei, a neanche tre metri, e dirigendosi in camerino rivolse loro un sorriso. «Sei stata grandissima a Hyde Park!» le gridò lui. Lei continuò a
sorridere, concentrata sull'imminente esibizione. Greig andò a prendere altre birre. Gran parte della gente intorno a Siobhan aveva l'aria di bighellonare annoiata e basta: squadre di tecnici che non avrebbero avuto niente da fare finché non fosse stato il momento di riporre tutto e smantellare il palco, assistenti e rappresentanti di case discografiche, questi ultimi praticamente in uniforme a base di completo nero, sottogiacca con scollo a V, occhiali da sole e cellulare incollato all'orecchio. E poi addetti ai rinfreschi, organizzatori e nullafacenti di ogni genere. Siobhan sapeva di essere annoverata tra questi ultimi. Nessuno le aveva chiesto che ruolo avesse lì, perché nessuno le attribuiva un ruolo. Gli spalti: quello è il mio posto, pensò. Lì, oppure gli uffici dell'Investigativa. Si sentiva così diversa dalla ragazzina che era andata in autostop a Greenham Common, a cantare We Shall Overcome tenendosi per mano con le altre donne che avevano circondato la base. Già la marcia di sabato, quella contro la povertà, le sembrava storia antica. Eppure Bono e Geldof erano riusciti a violare il dispositivo di sicurezza del G8 e ad andare a perorare la propria causa dinanzi ai capi del mondo: avevano fatto in modo che quei signori comprendessero qual era la posta in gioco, e che milioni di persone si aspettavano da loro grandi cose. Il giorno seguente sarebbe stato quello delle decisioni. Il giorno cruciale. Aveva il telefonino in mano ed era sul punto di chiamare Rebus, ma sapeva già che lui avrebbe riso e le avrebbe detto di spegnerlo e di tornare a divertirsi. D'un tratto pensò che forse non sarebbe andata al T in the Park, malgrado il biglietto già attaccato allo sportello del frigo con una calamita. Dubitava che gli omicidi avrebbero trovato una soluzione entro allora, tanto meno adesso che le avevano ufficialmente tolto il caso. Il suo caso. Anche se Rebus aveva coinvolto Ellen Wylie... Ancora le bruciava che non gli fosse neanche venuto in mente di chiedere il suo parere. E le bruciava pure che lui avesse ragione: avevano bisogno di aiuto. Per giunta saltava fuori che Ellen conosceva Gareth Tench, e che Tench usciva con sua sorella. Bobby Greig tornò porgendole una birra. «Allora, che ne pensi?» chiese. «Che sono tutte delle mezze calzette», fu la risposta. Lui concordò con un cenno del capo. «Secondo me», disse, «i cantanti pop erano delle mezze calzette anche a scuola, e diventare famosi è la loro unica rivincita. Girano certe teste gasate...» Ma Siobhan non lo ascoltava più. «Lui che ci fa qui?» gli stava chieden-
do invece. Riconoscendolo, Greig sventolò un braccio in segno di saluto e il consigliere Gareth Tench ricambiò: stava parlando con Daws e la Diprose, ma interruppe la conversazione - una pacca sulla spalla del primo e un bacetto sulle guance della seconda - per venire verso di loro. «È assessore alla Cultura, al Comune», spiegò Greig. Poi gli tese la mano. «Ehilà, come va?» chiese Tench. «Benissimo, grazie.» «E lei? Si tiene fuori dai guai?» L'ultima domanda era diretta a Siobhan, che accettò la mano tesa e restituì la stretta ferrea. «Ci provo.» Tench si rivolse nuovamente a Greig. «Aiutami a ricordare, dov'è che ci siamo conosciuti?» «Il campeggio. Mi chiamo Bobby Greig.» Dinanzi alla propria smemoratezza, il consigliere scosse il capo. «Ma certo, che sciocco. Be', non è fantastico?» Batté le mani e si guardò intorno. «Tutto il mondo con gli occhi puntati su Edimburgo, accidenti.» «Sul concerto, più che altro», non poté esimersi dal puntualizzare Siobhan. Tench levò gli occhi al cielo. «Certa gente non è mai contenta. Mi dica, il nostro Bobby l'ha fatta entrare gratis?» Siobhan fu costretta a confermare. «E ancora si lamenta?» Tench ridacchiò. «Si ricordi di fare una donazione prima di andare via, piuttosto, altrimenti potrebbe dare l'idea di aver preso una mazzetta.» «Be', non esageriamo», cominciò a protestare Greig, ma il consigliere liquidò la sua lagnanza con un gesto. «E quel suo collega, come sta?» chiese a Siobhan. «L'ispettore Rebus?» «Proprio lui. A me sembra un po' troppo in confidenza con certi criminali, se devo essere sincero.» «In che senso, scusi?» «Be', lavorate insieme... sono certo che con lei si confida. L'altra sera, no?» Come se volesse farle fare mente locale. «Nella sala convegni parrocchiale di Craigmillar... stavo tenendo un discorso, e il suo collega si è presentato insieme a un mostro di nome Cafferty.» Tench si interruppe. «Che lei ben conosce, immagino.»
«Lo conosco», confermò Siobhan. «Trovo strano che le forze dell'ordine...» - parve cercare la parola giusta - «fraternizzino con certi individui.» Poi si interruppe e trafisse Siobhan con lo sguardo. «Naturalmente do per scontato che l'ispettore Rebus non le abbia nascosto nulla di tutto questo... Voglio dire, non le sto raccontando nulla che lei già non sappia, vero?» Siobhan si sentiva come un pesce torturato da un amo insistente. «Abbiamo tutti una vita privata, signor Tench», fu la sola risposta che riuscì a improvvisare. Tench parve deluso. «E di lei che cosa mi dice? Spera di convincere qualche gruppo a suonare al Jack Kane Centre?» Lui si fregò le mani. «Se si presenta l'opportunità...» La sua voce si spense quando vide un volto conosciuto. Anche Siobhan lo riconobbe: Marti Pellow dei Wet Wet Wet. Il nome del gruppo, «bagnatissimi», le ricordò che era meglio aprire l'ombrello. Mentre Tench si avvicinava al nuovo bersaglio, la pioggia cominciò a tamburellare sulla tela. «Ma di che blaterava, quello?» chiese Greig. «E come mai ho la netta sensazione che preferiresti trovarti da un'altra parte?» «Scusa», disse lei. Greig osservò Tench alle prese con il cantante. «Un vero fulmine, eh? E niente affatto timido... Credo sia per quello che la gente lo ascolta. L'hai mai sentito quando tiene i suoi discorsi? Fa venire la pelle d'oca, altroché.» Siobhan annuì lentamente. Stava pensando a Rebus e Cafferty, ma non la sorprendeva affatto che il collega non le avesse riferito l'episodio. Guardò nuovamente il cellulare: adesso aveva una scusa per chiamarlo, ma di nuovo si trattenne. Mi merito una vita privata, una serata libera. Altrimenti sarebbe diventata proprio come lui, Rebus, ossessionata e dimenticata in panchina, testarda e indegna di fiducia. Lui era inchiodato al grado di ispettore da quasi vent'anni, ma lei voleva di più. Voleva fare bene il suo mestiere, ma anche staccare di tanto in tanto. Voleva una vita anche fuori dal lavoro, più che un lavoro che diventasse la sua vita. Rebus aveva perso famiglia e amici, li aveva accantonati a favore di cadaveri e truffatori, ladri e assassini, stupratori, giovani delinquenti, estorsori e razzisti. Al pub ci andava da solo, piazzandosi silenzioso al banco, davanti alla fila di bottiglie rovesciate. Non aveva hobby, non praticava sport, non si regalava mai una vacanza, e se si prendeva un paio di settimane di ferie finiva per trascorrerle all'Oxford Bar, fingendo di leggere il giornale in un angolo o fissando vacuo i programmi televisivi del pomeriggio.
Lei no. Lei voleva di più. Stavolta la telefonata la fece. Dall'altra parte risposero e lei sorrise. «Papà?» disse. «Siete ancora al ristorante? Digli di aggiungere un posto a tavola per il dolce...» Stacey Webster era tornata se stessa. Vestita più o meno come quando Rebus l'aveva incontrata fuori dell'obitorio, ma con una maglia a maniche lunghe. «Per nascondere i tatuaggi?» le chiese. «Sono finti», rispose lei. «Col tempo andranno via.» «Come molte altre cose.» Vide la valigia. Era appoggiata sul lato corto, con la maniglia ritratta. «Torni a Londra?» «Col treno della notte», confermò Stacey. «Senti, mi spiace se noi...» Rebus si guardò intorno, restio a incontrare il suo sguardo. «Succede», disse lei. «Forse la. copertura non era proprio saltata, ma al comandante Steelforth non piace mettere a rischio i suoi.» Sembrava incerta, a disagio, bloccata in una terra di nessuno tra due identità molto diverse. «Hai tempo di bere qualcosa?» «Ero venuta per vedere Siobhan.» Stacey fece scivolare una mano in tasca. «La madre sta bene?» «Si sta rimettendo», rispose Rebus. «Ora sono a casa sua.» «Santal non è riuscita a salutarli.» Aveva teso la mano verso di lui. Stringeva una bustina di plastica trasparente con un dischetto argenteo. «È un CD-ROM», disse. «Con le mie riprese di quel giorno a Princes Street.» Rebus annuì. «Glielo farò avere.» «Il comandante mi ammazza, se sa che...» «Rimarrà fra noi», la rassicurò lui, occultando il disco nella tasca interna della giacca. «E adesso ti offro da bere, dai.» Tra i pub di Leith Walk c'era solo l'imbarazzo della scelta, ma il primo che videro sembrava troppo pieno e la tivù sparava a tutto volume il concerto di Murrayfield. Trovarono più giù quel che cercavano: un locale tradizionale e tranquillo, con il juke-box e la slot-machine. Stacey aveva lasciato la valigia dietro il bancone di Gayfield Square. Ora disse che voleva liberarsi di un po' di soldi scozzesi: signorile pretesto per pagare lei. Sedettero a un tavolo d'angolo. «L'hai già preso, il treno notturno?» le chiese Rebus.
«Per questo mi faccio un vodka tonic: è l'unico modo per chiudere occhio in quelle orride cuccette.» «Santal è sparita per sempre?» «Dipende.» «Steelforth ha detto che eri in incognito da mesi.» «Mesi, sì», confermò lei. «A Londra non dev'essere stato facile, sempre con il pericolo che qualcuno potesse riconoscerti.» «Una volta sono passata davanti a Ben.» «Travestita da Santal?» «Non se n'è accorto.» Si appoggiò allo schienale. «È per questo che ho permesso a Santal di avvicinarsi a Siobhan. I suoi mi avevano detto che era dell'Investigativa.» «Volevi verificare se la copertura reggeva?» Rebus la vide annuire e pensò che ora capiva meglio. Stacey era affranta per la morte del fratello, ma a Santal sarebbe importato poco o nulla. Tutto il dolore era ancora intrappolato dentro di lei... esperienza che lui conosceva bene. «Comunque non lavoravo molto a Londra», proseguì Stacey. «Tanti gruppi no global si sono spostati proprio perché tenerli sotto controllo nella capitale era troppo facile. Più che altro sono stata a Manchester, Bradford, Leeds.» «Credi che sia servito a qualcosa?» Lei ci pensò su un attimo. «Lo speriamo tutti, no?» Lui ne convenne con un cenno del capo, sorseggiò la birra, poi tornò a posare il bicchiere. «Sto ancora indagando sulla morte di Ben.» «Lo so.» «Te l'ha detto il comandante?» Cenno d'assenso. «Non ha fatto che mettermi i bastoni fra le ruote.» «Probabilmente pensa che sia suo dovere. Non è un fatto personale.» «Se non fossi uno che sta attento a come parla, direi che sta cercando di proteggere un certo signore di nome Richard Pennen.» «Quello della Pennen Industries?» Stavolta fu il suo turno di confermare. «Pagavano loro il conto dell'albergo di tuo fratello.» «Strano», disse Stacey. «Non è che si amassero molto.» «Cioè?» Lei lo fissò. «Ben aveva visitato molte zone di guerra. Aveva visto con i
suoi occhi gli orrori provocati dal commercio di armi.» «A me ripetono tutti che Pennen vende tecnologia, non armi.» Stacey sbuffò. «È solo questione di tempo. Ben si adoperava in tutti i modi per rendergli la vita difficile. Se vai a vedere la raccolta degli interventi parlamentari, i discorsi che ha tenuto alla Camera... faceva un mucchio di domande scomode.» «Però Pennen gli pagava la stanza...» «E Ben ci godeva di sicuro. Si faceva pagare gli alberghi dai peggiori dittatori e poi trascorreva tutto il viaggio a criticarli ferocemente.» Si interruppe, fece vorticare il liquido nel bicchiere, poi guardò nuovamente Rebus negli occhi. «Pensavi che fosse corruzione, vero? Pennen che si comprava Ben?» Il suo silenzio fu una risposta sufficiente. «Mio fratello era una brava persona, ispettore.» Finalmente gli occhi le si riempirono di lacrime. «E io non sono neanche potuta andare al suo funerale, cazzo.» «Lui avrebbe capito», la confortò Rebus. «Anche mio...» Dovette fermarsi e schiarirsi la gola. «Anche mio fratello è morto la settimana scorsa. Lo abbiamo cremato venerdì.» «Mi dispiace.» Lui si portò il bicchiere alle labbra. «Aveva poco più di cinquant'anni. I dottori dicono che è stato un ictus.» «Eravate molto uniti?» «Telefonicamente, più che altro.» Si interruppe di nuovo. «Una volta l'ho anche messo dentro per spaccio.» La osservò per valutarne la reazione. «Ed è quello che ti tormenta?» «Cosa?» «Che non gli hai mai detto...» Anche lei lottò per trovare le parole, una smorfia sul viso mentre le lacrime cominciavano a scendere. «... mai detto che ti dispiaceva.» Si alzò dal tavolo e scappò alla toilette: adesso era Stacey Webster al cento per cento. Per un attimo Rebus pensò di seguirla, o almeno di mandarle dietro la barista; invece rimase dov'era, a far roteare il bicchiere finché sulla superficie della birra non ricomparve un po' di schiuma, e a pensare alle famiglie, a Ellen Wylie e a sua sorella, ai Jensen e alla loro Vicky, a Stacey Webster e a suo fratello Ben... «Mickey», proferì in un sussurro. Pronunciare i nomi dei morti era necessario per far sapere loro che non erano stati dimenticati. Ben Webster. Cyril Colliar.
Edward Isley. Trevor Guest. «Michael Rebus», disse ad alta voce, levando il bicchiere in un sommesso brindisi. Poi si alzò e andò a ritirare il secondo giro: IPA e vodka tonic. Rimase davanti al bancone ad aspettare il resto, mentre due habitué dibattevano le possibilità di vittoria della squadra olimpica inglese ai Giochi del 2012. «Com'è che Londra si becca sempre tutto?» si lagnava uno. «Strano però, il G8 non l'hanno voluto», commentò l'altro. «Perché lo sapevano, cazzo.» Rebus dovette fare mente locale. Era mercoledì, e venerdì tutto sarebbe finito. Un altro giorno, poi la città avrebbe potuto lentamente rifluire nella normalità. Steelforth, Pennen e tutti gli altri invasori sarebbero tornati a sud. Non è che si amassero molto... Suo fratello e Richard Pennen, intendeva Stacey. Il deputato che tentava di ostacolare i piani espansionistici del commerciante d'armi. Rebus non aveva capito niente di Ben Webster: semplicemente, l'aveva preso per un lacchè. E Steelforth non l'aveva nemmeno lasciato avvicinare alla sua camera d'albergo, ma non per evitare il polverone e impedire che i pezzi grossi venissero disturbati con domande e ipotesi: per proteggere Richard Pennen. Non è che si amassero molto... Il che faceva di Pennen un sospettato, o per lo meno gli forniva un movente. Una qualunque delle guardie al castello avrebbe potuto spingere l'onorevole giù dai bastioni. Mescolati agli ospiti c'erano i gorilla, e anche gli uomini dei servizi segreti, almeno una coppia a testa, a protezione dei ministri degli Esteri e della Difesa. Steelforth era dell'SO12, cioè giusto un gradino sotto i veri e propri spioni dell'MI5 e MI6. Tuttavia, se volevi liberarti di qualcuno, perché scegliere quel metodo? Cosi pubblico, così appariscente. Rebus lo sapeva per esperienza: gli omicidi riusciti erano quelli in cui non c'era nessun omicidio. Stordiscili nel sonno, drogali e poi lasciali dentro un veicolo in moto, oppure falli sparire per sempre. «Cristo, John», si rimproverò. «Ancora un po' e darai la colpa agli omini verdi.» Ma forse erano le circostanze: facile, nella settimana del G8, immaginare ogni sorta di macchinazioni. Posò i drink sul tavolo, a questo punto un po' preoccupato che Stacey non fosse ancora tornata dal bagno; poi gli venne in mente che, finché era rimasto al bar, le aveva dato le spal-
le. Attese altri cinque minuti, quindi chiese alla barista di controllare. La donna uscì dalla toilette delle signore scuotendo il capo. «Tre sterline buttate», gli disse poi, indicando il cocktail di Stacey. «E comunque un po' troppo giovane per lei, con rispetto parlando.» A Gayfield Square si era ripresa la valigia e gli aveva lasciato un biglietto: «In bocca al lupo, ma ricorda che Ben era mio fratello, non il tuo. Cerca di piangere anche i tuoi, di morti». Mancavano ore alla partenza del treno notturno. Sarebbe potuto andare alla stazione, ma decise che era meglio di no. Non era certo che avessero molto altro da dirsi. E forse lei aveva ragione: indagare sulla morte di Ben significava restare aggrappato alla memoria di Mickey. D'un tratto pensò a una domanda che avrebbe voluto farle: «Tu cosa credi sia successo a tuo fratello?» Be', da qualche parte aveva il suo biglietto da visita, quello che gli aveva consegnato fuori dell'obitorio. Magari l'indomani l'avrebbe chiamata, per sapere se era riuscita a chiudere occhio. Le aveva detto che stava ancora investigando sulla morte del fratello, e lei aveva risposto solamente: «Lo so». Nessuna domanda, nessuna ipotesi personale. L'aveva imbeccata Steelforth? Un bravo soldato obbediva sempre agli ordini. Di certo però doveva averci pensato, doveva avere soppesato le diverse possibilità. Una caduta. Un salto. Una spinta. «Domani», si disse tornando nella saletta dell'Investigativa, con davanti una lunga notte di fotocopie clandestine. Giovedì 7 luglio 19 Lo svegliò il citofono. Attraversò barcollando l'anticamera e rispose. «Che c'è?» chiese Rebus con voce roca. «Lavoro qui, mi pare.» Metallica e distorta, ma pur sempre riconoscibile: quella di Siobhan. «Che ore sono?» tossicchiò Rebus. «Le otto.» «Le otto?»
«L'inizio di una nuova giornata di fatiche.» «Ci hanno sospesi, ricordi?» «Non sarai ancora in pigiama, per caso?» «Non lo porto.» «Quindi devo aspettare di sotto?» «Ti apro.» Premette il pulsante di apertura, raccolse gli abiti dalla poltrona accanto al letto e si chiuse in bagno. Un attimo dopo la senti bussare piano sulla porta d'ingresso e poi spingerla. «Due minuti!» gridò infilandosi nella vasca, sotto il getto della doccia. Quando uscì, lei era seduta al tavolo da pranzo e rovistava tra le fotocopie della sera precedente. «Non metterti troppo comoda», le disse. Aveva quasi finito di annodarsi la cravatta quando si ricordò che non sarebbe andato in ufficio, perciò se la strappò dal collo e la buttò sul divano. «Ci servono provviste.» «E io ho bisogno di un favore.» «Tipo?» «Un paio d'ore di permesso a pranzo... voglio portare fuori i miei.» Permesso accordato con un cenno. «Tua madre come sta?» «Non male, direi. Hanno deciso di lasciar perdere Gleneagles, anche se oggi si parla di cambiamenti climatici.» «E domani tornano a casa?» «Probabile.» «Com'era il concerto, ieri?» Lei non rispose subito. «Ho visto l'ultimo pezzo in tivù... mi è sembrato di vederti pogare sotto il palco.» «A quell'ora me ne ero già andata.» «Ma va?» Lei si limitò a un'alzata di spalle. «Allora, le provviste?» «Sono per la colazione.» «Io l'ho già fatta.» «Allora puoi guardarmi demolire un panino al bacon. C'è un caffè in Marchmont Road e, mentre io mi rifocillo, tu potresti chiamare il consigliere Tench e fissare un appuntamento.» «L'ho incontrato ieri sera al concerto.» Rebus la guardò. «Un uomo di mondo, eh?» Lei si era spostata verso lo stereo e aveva preso uno degli LP dallo scaffale. «Quello l'hanno inciso prima che tu nascessi», disse Rebus. Leonard
Cohen, Songs of Love and Hate. «Senti qui», fece lei, leggendo il retro della copertina. «'Hanno rinchiuso uno che voleva governare il mondo. Pazzi, hanno rinchiuso quello sbagliato.' Secondo te, che significa?» «Scambio di persona?» azzardò lui. «Credo riguardi più l'ambizione», ribatté lei. «Gareth Tench mi ha detto di averti visto...» «Vero.» «Con Cafferty.» «Vero anche questo. Big Ger dice che il consigliere è deciso a metterlo fuori gioco.» Lei rimise a posto il disco e si voltò a fissarlo. «Una buona notizia, mi pare, no?» «Dipende da quello che ci toccherà dopo. Secondo Cafferty, Tench assumerebbe il potere in prima persona.» «E tu gli credi?» Rebus parve rifletterci sopra. «Sai cosa mi serve, per rispondere a questa domanda?» «Prove?» buttò lì lei. Lui scosse il capo. «Caffè.» Nove meno un quarto. Rebus era alla seconda tazza e l'unica traccia residua del suo panino al bacon rigorosamente fritto era un piattino unto. In caffetteria era allineato un bell'assortimento di quotidiani, così Siobhan si mise a leggere i resoconti sul Final Push e Rebus le mostrò le foto dei disordini del giorno precedente a Gleneagles. «Quel ragazzino», disse indicandolo, «non l'abbiamo già visto?» Lei annuì. «Però non gli usciva il sangue dalla testa.» Rebus ruotò il giornale verso di sé. «Guarda che loro sono contenti, eh. Un po' di sangue piace sempre, ai media.» «E fa di noi i cattivi della situazione?» «A proposito...» Estrasse il CD-ROM dalla tasca della giacca. «Un regalo d'addio da parte di Stacey Webster. O da Santal, se preferisci.» Siobhan prese il disco e lo tenne fra le dita mentre lui le spiegava le circostanze. Quando ebbe finito, si tolse dal portafogli il biglietto da visita di Stacey e provò a chiamarla, ma senza ottenere risposta. Nel riporre il cellulare percepì una vaghissima traccia del profumo di Molly Clark; incerto su
come lei avrebbe reagito, aveva deciso che non era il caso di raccontare anche quello a Siobhan. Ci stava ancora pensando, quando nel locale entrò Gareth Tench. Il consigliere strinse la mano a entrambi e, dopo averlo ringraziato, Rebus gli fece segno di accomodarsi. «Cosa posso offrirle?» Tench scosse il capo. Dalla finestra Rebus vide un'auto parcheggiata in strada, e accanto i due badanti del consigliere. «Buona idea», disse a Tench, con un cenno in direzione della vetrina. «Non so perché i residenti di Marchmont non usino tutti le guardie del corpo.» Tench si limitò a un sorriso. «Niente ufficio, oggi?» «Situazione un filo più informale», spiegò Rebus. «Non possiamo certo imporre ai rappresentanti eletti dal popolo il degrado delle nostre stazioni di polizia.» «Apprezzo la delicatezza.» Tench si era messo comodo, ma non accennava a togliersi il soprabito tre quarti. «Dunque, in cosa posso esserle utile, ispettore?» Fu Siobhan a prendere la parola. «Come sa, signor Tench, stiamo indagando su una serie di omicidi. Alcuni indizi sono stati lasciati in un luogo nei pressi di Auchterarder.» Tench socchiuse gli occhi. Era ancora concentrato su Rebus, ma evidentemente si era immaginato un altro argomento di conversazione... Cafferty, magari, o Niddrie. «Non vedo...» attaccò. «Tutt'e tre le vittime», continuò Siobhan, «erano apparse su un sito web, BeastWatch.» Pausa. «Che lei ben conosce, ovviamente.» «Ah, si?» «Così ci risulta.» Aprì un foglio e glielo mostrò. «Ozyman... è lei, no?» L'uomo rifletté un istante prima di rispondere. Siobhan ripiegò il foglio e se lo rimise in tasca, mentre Rebus strizzava l'occhio a Tench, lanciandogli un messaggio semplicissimo: È brava. Quindi non cercare di fare lo stronzo... «Sono io», concesse infine Tench. «E allora?» Siobhan si strinse nelle spalle. «Perché le interessa BeastWatch, signor Tench?» «Sta dicendo che sono un sospettato?» Rebus fece una risatina gelida. «Quale salto logico, signore.» Tench lo guardò truce. «Chi può dire cosa potrebbe tentare di tramare Cafferty... con un po' d'aiuto da parte degli amici?»
«Stiamo già divagando», intervenne Siobhan. «Il fatto è che dobbiamo interrogare tutti i visitatori del sito. Normale procedura, nient'altro.» «Continuo a non capire come avete fatto a collegare questo pseudonimo a me.» «Lei dimentica, signor Tench», annunciò Rebus tutto allegro, «che questa settimana abbiamo a disposizione i migliori funzionari dell'intelligence nazionale. Difficile che non riescano in qualcosa, quelli.» Tench parve sul punto di ribattere, ma Rebus non gliene lasciò il tempo. «Scelta interessante: Ozymandias. Una poesia di Shelley, giusto? Su un re che si monta un po' la testa e si fa costruire una statua enorme. La quale però col tempo si sgretola, là in mezzo al deserto.» Fece una pausa. «Come dicevo, scelta interessante.» «In che senso?» Rebus incrociò le braccia. «Be', questo re doveva avere un bell'ego... è di questo che parla la poesia. Ma, per quanto uno arrivi in alto, nulla dura in eterno. E, se sei un tiranno, quando cadi è anche peggio.» Si sporse un poco sul tavolo. «La persona che ha scelto quel nome non era stupida... doveva sapere che non si trattava del potere in quanto tale...» «... ma della sua influenza corruttrice?» Tench sorrise e annuì lentamente. «L'ispettore Rebus impara in fretta», aggiunse Siobhan. «Ieri si chiedeva se la scelta del nickname non fosse un omaggio a Ozzy Osbourne.» Il sorriso di Tench si allargò, ma gli occhi rimasero fissi su Rebus. «Ho studiato quella poesia a scuola», disse. «Avevo un insegnante d'inglese animato da vera passione. Ce la fece imparare a memoria.» Si produsse in un'alzata di spalle. «Quel nome mi piace e basta, ispettore, non lo carichi di troppi significati.» Spostò lo sguardo su Siobhan, poi tornò indietro. «Anche se immagino sia una deformazione professionale... andare sempre in cerca di moventi. Ditemi, qual è il movente del vostro assassino? Ci avete pensato?» «Riteniamo possa essere un giustiziere della notte», affermò Siobhan. «E sceglie le sue vittime a una a una sul sito?» Tench non sembrava convinto. «Intanto lei deve ancora dirci il suo», disse adagio Rebus. «Di movente. Per essere tanto interessato a BeastWatch...» Sciolse le braccia e posò i palmi delle mani sul tavolo, ai due lati della tazza. «La mia circoscrizione è una specie di discarica, ispettore, non mi dica che non se n'era accorto. I servizi sociali ci mandano i casi che non riesco-
no a sistemare altrove, pusher e reietti, stupratori, tossici, feccia di ogni genere, e i siti come BeastWatch mi offrono la possibilità di contrattaccare, mi offrono strumenti per argomentare quando qualcuno cerca di sbolognarmi sull'uscio di casa l'ennesima grana.» «Il che è già successo?» volle sapere Siobhan. «Tre mesi fa hanno scarcerato un balordo... un maniaco sessuale. Ho fatto in modo che girasse alla larga.» «Trasformandolo in un problema per qualcun altro», commentò lei. «Questa è la mia filosofia. E se arriva uno come Cafferty, mi comporto esattamente nello stesso modo.» «Cafferty è in circolazione da una vita», sottolineò Rebus. «Malgrado voi, intende dire? O grazie a voi?» Rebus evitò di rispondere e il sorriso di Tench divenne un ghigno. «Non sarebbe mai potuto durare tanto a lungo se qualcuno non gli avesse dato una mano.» Si appoggiò allo schienale e rilassò le spalle. «Abbiamo finito?» «Conosce bene i Jensen?» riprese Siobhan. «Chi?» «La coppia che gestisce il sito.» «Mai incontrati», dichiarò Tench. «Davvero?» Il tono di Siobhan rivelava sorpresa. «Abitano qui, a Edimburgo.» «Sì, come cinquecentomila altre persone. Io cerco di stare in mezzo alla gente ma non ho il dono dell'ubiquità, sergente Clarke.» «E su quali doni può contare, invece, consigliere?» chiese Rebus. «Rabbia», rispose Tench, «determinazione, sete di giustizia.» Fece un respiro profondo ed espirò sonoramente. «Be', mi pare che rischiamo di stare qui tutto il giorno...» Si scusò con un altro sorriso, poi si alzò in piedi. «Bobby era tristissimo quando se n'è andata, sergente. Stia attenta: la passione è una bestia pericolosa, in certi uomini.» Un lieve inchino e si diresse alla porta. «Ci rivedremo», gli gridò dietro lei. Attraverso la vetrina Rebus vide uno dei gorilla spalancare la portiera e Tench incastrare la propria figura corpulenta in macchina. «I consiglieri comunali hanno spesso l'aria ben pasciuta», commentò. «L'avevi mai notato?» Siobhan si stava sfregando la fronte con la mano. «Potevamo far meglio.» «Te la sei svignata dal Final Push?»
«Diciamo che non mi ha travolta.» «Niente a che spartire con il nostro stimato consigliere?» Lei scosse il capo. «'Distruttore e protettore'», borbottò Rebus tra sé. «Cosa?» «Un altro verso di Shelley.» «E quale dei due sarebbe Gareth Tench?» L'auto si allontanò dal marciapiede. «Forse entrambi», rispose Rebus. Poi fece uno sbadiglio gigantesco. «C'è qualche possibilità di una piccola tregua, oggi?» Lei lo guardò. «Potresti fare pausa a pranzo e venire a conoscere i miei.» «Ah, non sono più un paria?» azzardò lui, levando un sopracciglio. «John...» «Non li vuoi tutti per te?» Lei fece spallucce. «Forse sono stata un po' ingorda.» Rebus aveva tolto un paio di quadri dalla parete del soggiorno, e al loro posto adesso stavano appiccicati i dettagli sulle tre vittime. Era seduto al tavolo da pranzo, Siobhan allungata sul divano, entrambi intenti a leggere e inclini a scambiare solo ipotesi o domande occasionali. «Per caso hai avuto modo di ascoltare quel nastro di Ellen Wylie?» le chiese lui a un certo punto. «Non che sia così importante, ma...» «Ci sono molti altri visitatori del sito coi quali potremmo parlare.» «Prima però bisognerebbe sapere chi sono: credi che Brains potrebbe arrivarci senza che Corbyn o Steelforth fiutino la mossa?» «Tench ha parlato di moventi... e se ci sfuggisse qualcosa?» «Un collegamento fra tutti e tre, dici?» «A questo proposito: perché l'assassino si è fermato a tre?» «Le solite spiegazioni: si è trasferito altrove, oppure lo abbiamo arrestato per qualcos'altro, oppure sa che gli stiamo addosso.» «Ma noi non gli stiamo addosso.» «I media dicono di sì, però.» «E poi, perché il Clootie Well? Come sapeva che ci saremmo finiti?» «Be', non puoi escludere un legame in zona.» «E se BeastWatch non c'entrasse affatto?» «In quel caso staremmo sprecando un mucchio di tempo prezioso.» «Se stesse solo cercando di mandare un messaggio al G8? Magari in questo momento è proprio qui, a reggere uno striscione da qualche parte.» «Su quel CD-ROM potrebbe esserci una sua foto...»
«E noi non lo sapremmo mai.» «Se ha lasciato quegli indizi per provocarci, perché non ha dato seguito alla cosa? Non dovrebbe venirgli voglia di giocare ancora un po'?» «Magari non ne ha bisogno.» «Spiegati meglio.» «Magari è più vicino di quanto pensiamo...» «Tante grazie.» «Una tazza di tè?» «Vai.» «Guarda che è il tuo turno... io ho pagato i caffè.» «Uno schema ci deve pur essere. Ci sfugge sicuramente qualcosa.» Il cellulare di Siobhan emise un bip: SMS in arrivo. «Accendi la tivù», disse dopo avere letto. «È l'ora del tuo telefilm preferito?» Ma Siobhan aveva già tirato giù le gambe dal divano e provveduto da sola. Trovato il telecomando, cambiò canale. ULTIM'ORA in sovrimpressione sullo schermo. ESPLOSIONI A LONDRA. «Il messaggio era di Eric», disse adagio. Rebus le sedette accanto, ma a quanto pareva non c'erano ancora molte informazioni. Una serie di boati, o di esplosioni... la metropolitana londinese... diverse decine di feriti. «Si sospetta un problema di sovratensione elettrica», diceva il giornalista. Ma non sembrava molto convinto. «Sovratensione un paio di palle», ringhiò Rebus. Importanti stazioni del metrò chiuse. Ospedali in allerta. Pubblici avvisi di non tentare l'ingresso in città. Siobhan incurvò le spalle, i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa fra le mani. «Effetto sorpresa», disse piano. «E potrebbe non essere solo Londra», rispose Rebus, pur sapendo che con ogni probabilità invece lo era. Mattino, ora di punta, migliaia di pendolari e il personale della London Transport Police distaccato in massa in Scozia per il G8. Per non parlare degli agenti della Met. Serrò forte gli occhi, pensando: meno male che non è successo ieri, con tutta quella gente a Trafalgar Square a festeggiare per l'assegnazione delle Olimpiadi; o sabato sera a Hyde Park... erano in duecentomila. L'ente nazionale per l'energia elettrica aveva appena confermato che sulla rete non c'erano problemi. Aldgate. King's Cross.
Edgware Road. Poi l'aggiornamento su un «incidente» che vedeva coinvolto un autobus. Lo speaker era pallido in volto, e in sovrimpressione scorreva il numero telefonico dell'unità di crisi. «Che facciamo?» chiese Siobhan, mentre la tivù mostrava immagini in diretta da uno dei luoghi del disastro: medici che correvano disordinatamente qua e là, volute di fumo, feriti seduti sul marciapiede. Vetri rotti e sirene, e gli allarmi delle macchine parcheggiate e degli uffici contigui. «Che facciamo?» ripeté Rebus. Fu lo squillo del cellulare di Siobhan a giungergli in soccorso. Lei se lo portò all'orecchio. «Mamma», disse. «Sì, stiamo guardando.» Si interruppe, in ascolto. «Sono certa che stanno bene... sì, chiama pure quel numero. Ma forse ci vorrà un po' per prendere la linea.» Altra pausa. «Come? Oggi? Potrebbero aver chiuso la stazione, a King's Cross...» Aveva distolto lo sguardo da Rebus e lui decise di uscire dalla stanza, di lasciarla libera di parlare con i suoi. In cucina aprì il rubinetto e riempì il bollitore, ascoltando l'acqua che scorreva: un suono talmente familiare, che in pratica non lo sentiva neanche. C'era e basta. Normale. Quotidiano. Quando chiuse il rubinetto udì un vago gorgoglio: strano, quello non ricordava di averlo mai notato prima di allora. Nel voltarsi trovò Siobhan sulla porta. «Mia madre vuole andare a casa per accertarsi che i vicini stiano bene.» «Non so nemmeno dove abitano, i tuoi.» «Forest Hill», disse lei. «A sud del Tamigi.» «Niente pranzo, quindi?» Scosse il capo. Lui le diede un pezzo di carta da cucina e Siobhan si soffiò il naso. «Una cosa così ti fa rimettere le cose in prospettiva», disse poi lei. «Non saprei. Era nell'aria da una settimana. In certi momenti quasi ne sentivo il sapore», ribatté Rebus. «Quelle sono tre bustine», disse Siobhan. «Cosa?» «Ci hai appena messo tre bustine di tè, in quella tazza.» Gli porse la teiera. «Forse volevi questa?» «Forse», ammise lui. Nella mente vedeva una statua nel deserto, una statua in frantumi...
Siobhan era tornata a casa. Avrebbe dato una mano ai suoi e magari li avrebbe accompagnati in stazione, se davvero intendevano partire. Rebus invece era ancora inchiodato davanti alla tivù, a guardare un autobus rosso a due piani sventrato, il tetto sulla strada davanti al resto della carcassa. Però c'erano dei sopravvissuti, e a lui sembrava un miracolo. D'istinto avrebbe aperto una bottiglia e si sarebbe versato da bere, ma finora aveva resistito. I primi testimoni oculari raccontavano le loro storie e il premier era già partito per la capitale, lasciando il G8 alle cure del ministro degli Esteri. Prima della partenza, Blair aveva rilasciato una dichiarazione, affiancato dai suoi omologhi stranieri; sulle nocche del presidente Bush i cerotti si vedevano appena. Poi di nuovo la cronaca, e la gente che raccontava di aver dovuto strisciare su pezzi di corpi per uscire dai treni della metropolitana. Tra il fumo e il sangue. Qualcuno aveva catturato l'orrore con il videofonino, e Rebus si chiese quale istinto li avesse spinti a trasformarsi in inviati di guerra. La bottiglia lo guardava dalla mensola del camino. Il tè gli si era raffreddato in mano. Tre brutti individui erano stati scelti per morire da uno o più ignoti. Ben Webster era caduto incontro al suo destino. Big Ger Cafferty e Gareth Tench si preparavano a una violenta battaglia. Ti fa rimettere le cose in prospettiva, questo aveva detto Siobhan... solo che lui non ne era così certo. Perché adesso più che mai voleva risposte alle domande, voleva facce e nomi. Per Londra o per gli attentatori suicidi, per la cieca carneficina che aveva davanti non poteva fare nulla. Poteva solo sbattere dentro qualche brutto ceffo di tanto in tanto. Risultati che non cambiavano il quadro generale. Un'altra immagine nella sua mente: Mickey bambino, forse sulla spiaggia di Kirkcaldy o durante una vacanza a St Andrews o a Blackpool, che radunava bracciate di sabbia umida per formare una barriera contro l'avanzata della marea, frenetico come se ne andasse della sua stessa vita. E suo fratello grande John che impilava altra sabbia con la paletta di plastica, mentre lui la picchiettava per bene. Cinque o sei metri, forse nove di lunghezza, e forse quindici centimetri di altezza, ma alla fine i fiocchi di spuma arrivavano sempre prima di loro, e insieme restavano a guardare la costruzione che si scioglieva per rifondersi con l'ambiente circostante. Allora strillavano sconfitti, battevano i piedi e agitavano i pugni contro l'acqua sciabordante, la riva infida, il cielo immoto. Contro Dio. Soprattutto contro Dio.
La bottiglia sembrava essersi ingrandita, o forse era lui che rimpiccioliva. Ripensò ad alcuni versi di un pezzo di Jackie Leven: «Ma la mia barca è così piccola, e il tuo mare così immenso». Immenso va bene, ma perché doveva anche essere pieno di squali assetati di sangue? Quando il telefono suonò, per un attimo pensò di non rispondere. Per un attimo, appunto. Era Ellen Wylie. «Novità?» le chiese. Poi scoppiò in una breve e amara risata, pizzicandosi la radice del naso. «A parte l'ovvio, intendo.» «Qui sono tutti sotto shock», rispose lei. «Non si accorgeranno neanche che hai fotocopiato quella roba e te la sei portata a casa. Dubito che chiunque riprenda in mano alcunché prima della fine della settimana. Io pensavo di tornare a Torphichen per vedere come se la cavano i miei.» «Buona idea.» «Il contingente londinese sta rientrando a spron battuto, può darsi che avremo bisogno di ogni paio di braccia disponibili.» «Be', io non starò certo col fiato sospeso.» «A dire la verità, sembrano sconvolti anche gli anarchici. Da Gleneagles dicono che si è calmato tutto, e che molti di loro vogliono solo rientrare.» Rebus si era alzato dalla poltrona e si era fermato davanti alla mensola. «In questi momenti uno vuole stare solo con le persone care.» «Ti senti bene, John?» «Benissimo, Ellen.» Sfiorò la bottiglia con un dito. Era un Dewar's, color oro pallido. «Vattene a Torphichen, che aspetti?» «Vuoi che ripassi, dopo?» «Non credo che avremo combinato molto.» «Domani, allora?» «D'accordo. Ci sentiamo.» Chiuse la comunicazione e posò entrambe le mani sul bordo della mensola. Avrebbe giurato che la bottiglia lo stesse fissando negli occhi. 20 C'erano dei pullman che andavano a sud e i genitori di Siobhan avevano deciso di prenderne uno. «Tanto saremmo comunque partiti domani», le aveva detto suo padre abbracciandola. «Però a Gleneagles non ci siete andati», gli aveva risposto lei. Lui le aveva dato un buffetto sulla guancia, proprio sulla linea dello zigomo, e per
qualche secondo era tornata bambina: il buffetto arrivava sempre nello stesso punto, che fosse Natale o il suo compleanno, per un bel voto a scuola o soltanto perché suo padre era felice. Poi un altro abbraccio dalla madre, e un sussurro: «Non importa». Il danno al viso, cioè; e la ricerca del colpevole. Quindi, sciogliendosi dall'abbraccio ma trattenendola con la mano tesa: «Vieni a trovarci presto». «Promesso», aveva risposto Siobhan. Senza di loro l'appartamento sembrava vuoto. Per la gran parte del tempo lì dentro lei ci viveva in silenzio. Be', magari non proprio silenzio: c'era sempre la musica, o la radio, oppure la tivù. Però non c'erano quasi mai ospiti, nessuno che fischiettasse entrando in anticamera o che canticchiasse lavando i piatti. Nessuno, a parte lei. Aveva provato a chiamare Rebus, ma lui non rispondeva. Il televisore era acceso e non riusciva a indursi a spegnerlo. Trenta morti... quaranta morti... forse cinquanta. Il sindaco di Londra aveva fatto un bel discorso. Al-Qaida aveva rivendicato gli attentati, la regina era «profondamente turbata» e i pendolari londinesi si apprestavano alla lunga marcia di ritorno a casa. I commentatori chiedevano perché la soglia di allarme fosse scesa dal quarto grado, «grave e generalizzato», al terzo, «concreto». E lei avrebbe voluto chiedere a loro che differenza poteva mai fare. Aprì il frigorifero. Nei negozi sotto casa, sua madre si era sbizzarrita: filetti di petto d'anatra, braciole d'agnello, una bella fetta di formaggio, succo di frutta biologico. Siobhan passò al freezer, dove riuscì a disincagliare una confezione di gelato alla vaniglia completamente brinata; poi prese un cucchiaio, tornò in soggiorno e, non sapendo che altro fare, accese il computer. Cinquantatré e-mail, ma una rapida occhiata le confermò che poteva cancellarne la maggioranza. D'un tratto le tornò in mente una cosa, e si frugò in tasca. Il CD-ROM. Lo inserì nel lettore e dopo pochi clic del mouse si ritrovò a esaminare un'intera schermata di anteprime di foto. Stacey Webster aveva scattato parecchie immagini della giovane madre con il bebè in rosa, e Siobhan non poté fare a meno di sorridere. La donna stava chiaramente usando la piccola come un oggetto di scena: riproponeva continuamente il cambio del pannolino in luoghi diversi, e sempre di fronte alla prima linea dei poliziotti. Uno splendido servizio fotografico gratuito, e un possibile focolaio di disordini. C'era persino un'immagine dei vari fotoreporter di giornali e tivù, Mungo compreso. Ma per lo più Stacey si era
concentrata sui dimostranti, mettendo insieme un bel portfolio per i suoi capi dell'SO12. Alcuni poliziotti ritratti erano certamente della Met e adesso stavano tornando a sud, per dare una mano nel dopo tragedia, per accertarsi che i loro cari stessero bene, magari anche per partecipare ai funerali dei colleghi. Se avesse scoperto che l'aggressore di sua madre era di Londra... be', non sapeva che cosa avrebbe fatto. Le parole di lei: «Non importa». Siobhan allontanò il pensiero. Prima di vedere i suoi dovette passare in rassegna una sessantina di foto: Teddy Clarke che cercava di trascinare via la moglie dalla prima linea, intorno a loro una bolgia di manganelli alzati, di bocche spalancate in un insulto o in una smorfia, di bidoni dell'immondizia scagliati in aria, di zolle di terra e fiori sradicati. Poi un bastone, a contatto con il viso di sua madre. Siobhan trasalì ma si impose di guardare: il bastone aveva l'aria di essere stato raccolto da terra, non era uno sfollagente e veniva dal lato dei dimostranti. La persona che lo reggeva si era ritirata in fretta, e all'improvviso Siobhan capì. Era proprio come le aveva detto Mungo, il fotografo: prima l'attacco, poi la fuga, e alla reazione della polizia a prenderle restavano solo degli innocenti. Far apparire i poliziotti come criminali era il massimo della pubblicità. Nella foto sua madre barcollava sotto il colpo, il viso era sfocato perché in movimento, ma il dolore evidentissimo. Siobhan sfiorò il monitor con il pollice, come per lenire la sua sofferenza. Poi risalì dal bastone al braccio nudo del proprietario: la spalla era inquadrata, ma la testa no. Tornò indietro di qualche scatto, poi avanzò oltre la foto del colpo. Eccolo. Si era messo una mano dietro la schiena, a nascondere l'arma che però era ancora lì, e Stacey l'aveva immortalato in pieno, cogliendo la gioia maligna nei suoi occhi, il suo ghigno distorto. Qualche altro scatto ed eccolo sulle punte dei piedi, a gridare slogan insieme agli altri. Berretto da baseball calato sulla fronte, ma pur sempre inconfondibile. Il ragazzo di Niddrie, il capobranco. Che si era diretto a Princes Street come molti altri suoi degni compari: così, tanto per andarci. Siobhan l'aveva visto l'ultima volta all'uscita dal tribunale di contea, mentre il consigliere Gareth Tench dichiarava che «un paio di cittadini del mio collegio sono rimasti invischiati nei tafferugli di ieri», e intanto restituiva il saluto al colpevole, rilasciato dopo la comparizione in aula. Ora, mentre riprovava a chiamare Rebus, sentì un leggero tremito alla mano. Ancora nessuna risposta. Siobhan si alzò e cominciò a vagare per casa, en-
trando e uscendo da ogni stanza. Gli asciugamani del bagno erano stati ripiegati con cura e lasciati l'uno sopra l'altro, e nella pattumiera di cucina c'era solo il vuoto di una confezione di zuppa, sciacquato perché non emanasse cattivo odore. Tutti piccoli tocchi di sua madre. Davanti allo specchio della camera si fermò, cercando di rintracciare una somiglianza; aveva sempre pensato di essere più simile a suo padre. I suoi stavano viaggiando sulla Al, adesso, procedendo tranquillamente verso sud; non aveva detto loro la verità su Santal, e probabilmente non l'avrebbe mai fatto. Tornò al computer, passò in rassegna il resto delle foto e poi ricominciò, stavolta cercando una sola figura, un unico smilzo attaccabrighe con il berretto da baseball, la maglietta, i jeans e le scarpe da ginnastica. Cercò di stampare qualche immagine, ma una finestrella la avvisò che c'era poco inchiostro nella stampante. In Leith Walk c'era un negozio di materiale informatico. Siobhan afferrò chiavi e portafogli. La bottiglia di whisky era vuota e in casa non ne aveva altre. In freezer aveva scovato una mezza di vodka polacca, ma il contenuto si era ormai ridotto a un solo bicchierino. Di scendere ai negozi non aveva voglia, perciò si preparò una tazza di tè e sedette al tavolo da pranzo facendo scorrere gli appunti del caso. Ellen Wylie era rimasta colpita dal curriculum di Ben Webster, e lui anche. Lo rilesse. I punti caldi del mondo: qualcuno - avventurieri, cronisti, mercenari - ne era sempre fatalmente attratto. Rebus aveva saputo qualche tempo addietro che il fidanzato di Mairie Henderson faceva il cineoperatore ed era stato in Sierra Leone, in Afghanistan, in Iraq, però aveva la sensazione che Ben Webster non fosse andato in quei posti perché cercava una scarica di adrenalina, e nemmeno perché riteneva si trattasse di cause particolarmente «degne». Ci era andato perché quello era il suo lavoro. «Come esseri umani è un nostro imprescindibile dovere», aveva detto in uno dei suoi discorsi in parlamento, «contribuire allo sviluppo sostenibile nelle più aspre e povere regioni del mondo ogni qual volta sia possibile.» Concetto che aveva ribadito anche altrove: dinanzi a commissioni, durante pubblici comizi e in interviste rilasciate a stampa e televisione. Mio fratello era una brava persona... Rebus non aveva alcun dubbio in merito. Né riusciva a immaginare una ragione per cui qualcuno avrebbe voluto scaraventarlo giù dai bastioni sulle rocce sottostanti. Per quanto si impegnasse, Ben Webster non costituiva ancora una reale minaccia per la Pennen Industries, e Rebus ricominciava
a considerare l'ipotesi del suicidio. Forse dinanzi a tutti quei conflitti, carestie, disastri naturali si era ammalato di depressione; forse sapeva fin dall'inizio che al G8 non sarebbe successo niente di sostanziale, che ancora una volta le sue speranze per un mondo migliore si sarebbero impantanate. Il suo salto nel vuoto doveva servire a catalizzare l'attenzione su quei problemi? No, non ci credeva granché. Webster si era seduto a cena con uomini potenti, influenti, diplomatici e politici di diverse nazioni. Perché non esporre a loro le sue preoccupazioni? Perché non fare un po' di casino, piantare una bella cagnara? Mettersi a urlare... Quell'urlo volato nel cielo notturno mentre lui precipitava nel buio. «No», si ripeté Rebus, scuotendo il capo. Aveva la sensazione che il puzzle fosse stato ricomposto abbastanza per mostrare un'immagine, ma con qualche tessera al posto sbagliato. «No», disse ancora, rimettendosi a leggere. Una brava persona... Dopo altri venti minuti si imbatté in un'intervista rilasciata circa un anno prima al supplemento domenicale di un quotidiano. Webster veniva interrogato sui suoi esordi come parlamentare e sul suo cosiddetto mentore dell'epoca, un deputato scozzese e astro del Partito laburista di nome Colin Anderson. Quello eletto nel collegio di Rebus. «Non ti ho visto ai funerali, Colin», mormorò, sottolineando un paio di frasi. Webster non lesina i ringraziamenti a Anderson per la vicinanza e i consigli forniti al tempo in cui era ancora un novellino: «Mi ha impedito di compiere gli errori tipici di quando si è inesperti, cosa per cui non lo ringrazierò mai abbastanza». Ma il giovane parlamentare, di norma molto sicuro di sé, è assai più reticente quando gli chiediamo il suo parere sulle voci secondo le quali è stato proprio Anderson a lanciarlo verso il suo attuale incarico di sottosegretario, piazzandolo là dove certamente sarebbe stato d'aiuto al ministro del Commercio nell'eventualità di un conflitto al vertice... «Ma bene», disse Rebus soffiando sulla superficie della tazza, malgrado il liquido fosse ormai tiepido.
«Mi ero completamente dimenticato», disse trascinando un'altra sedia verso il tavolo, «che il deputato eletto nel mio collegio era ministro del Commercio. So che ha molto da fare, quindi cercherò di essere breve.» Rebus si trovava in un ristorante della zona sud di Edimburgo. La serata era appena all'inizio, ma il locale già pieno. I camerieri si precipitarono ad apparecchiargli un coperto e gli allungarono un menu. L'onorevole deputato alla Camera dei Comuni Colin Anderson sedeva di fronte alla moglie a un tavolo per due. «E lei chi sarebbe?» domandò. Rebus restituì il menu al cameriere. «Io non mangio», spiegò. Poi, rivolto al parlamentare: «Mi chiamo John Rebus e sono un ispettore dell'Investigativa. La sua segretaria non gliel'ha detto?» «Posso vedere il tesserino?» chiese Anderson. «Non è colpa sua, poveretta», continuò Rebus. «Ho esagerato un po', le ho detto che si trattava di un'emergenza.» Aveva aperto il tesserino per mostrarlo a Anderson, e mentre lui lo esaminava sorrise alla moglie. «Non è meglio se io...?» La signora accennò ad alzarsi da tavola. «Nulla di segretissimo», la rassicurò Rebus. Anderson gli restituì il tesserino. «Mi duole dirglielo, ispettore, ma questa visita è piuttosto inopportuna.» «Pensavo che la sua segretaria l'avesse avvertita.» Il deputato sollevò il telefonino dal tavolo. «Qui dentro non c'è campo», dichiarò. «E infatti bisognerebbe provvedere», commentò Rebus. «Mezza città è ancora in queste condizioni...» «Ha bevuto, ispettore?» «Bevo solo fuori servizio, signore.» Rebus si frugò in tasca fino a trovare le sigarette. «Vietato fumare», lo ammonì l'altro. Rebus guardò il pacchetto come se gli si fosse insinuato in mano contro la sua volontà, si scusò e lo ripose. «Il fatto è che non l'ho vista ai funerali», disse poi al deputato. «Quali funerali?» «Di Ben Webster. Eravate buoni amici, quando lui era agli inizi.» «Impegni pregressi.» L'onorevole fece gran mostra di consultare l'orologio. «La sorella di Webster l'aveva detto che, una volta morto, i laburisti si sarebbero presto scordati di lui.»
«Questo mi pare ingiusto, ispettore. Ben era mio amico e io volevo partecipare alle esequie...» «Ma era troppo occupato», finì Rebus per lui, in tono comprensivo. «Mentre adesso è qui per una cenetta intima e tranquilla con la sua signora, ed ecco che arrivo io con la grazia di un rinoceronte.» «Si dà il caso che mia moglie compia gli anni e che siamo riusciti, Dio solo sa come, a ritagliarci questo piccolo spazio per noi.» «E io gliel'ho insozzato tutto.» Rebus si voltò verso la signora Anderson. «Cento di questi giorni.» Il cameriere gli aveva posato davanti un bicchiere di vino. «Forse un po' d'acqua è meglio?» suggerì Anderson. Rebus annuì. «Ha avuto molto da fare con il G8?» chiese la moglie del deputato, sporgendosi un poco. «Ho avuto da fare malgrado il G8», la corresse lui. Vide i due scambiarsi uno sguardo e capì cosa stavano pensando: un poliziotto in preda ai postumi della sbornia, ancora agitato per le manifestazioni e il caos, e adesso pure gli attentati. Una mina vagante, da maneggiare con cautela. «Sicuro che la nostra conversazione non possa attendere fino a domani, ispettore?» chiese Anderson a bassa voce. «Sto indagando sulla morte di Ben Webster», spiegò Rebus, consapevole di avere la voce nasale e la visione periferica un po' annebbiata. «Il fatto è che non riesco a trovare una ragione per la quale possa avere avuto il desiderio di togliersi la vita.» «Di certo è più probabile che sia stato un incidente», azzardò la moglie dell'onorevole. «O che qualcuno gli abbia dato una spinta», affermò Rebus. «Come?» Anderson smise di giocherellare con le posate che aveva davanti. «Richard Pennen vuole combinare gli aiuti esteri alla vendita di armi, vero? E come pensa di organizzarsi? Con una bella donazione in cambio di controlli più blandi?» «Non dica assurdità.» Il deputato lasciò trasparire tutta la sua irritazione. «Lei era al castello, quella sera?» «Avevo da fare a Westminster.» «È possibile che Webster abbia avuto una discussione con Pennen? Magari dietro suo ordine?» «Che genere di discussione?» «Dare un taglio al commercio di armi... trasformare i fucili in aratri.»
«Senta, lei non può andarsene in giro a diffamare Richard Pennen in questo modo. Se ci sono delle prove, vorrei vederle.» «Io pure», concordò Rebus. «Quindi deduco che non ne ha, ispettore. E allora su cosa si basa esattamente questa caccia alle streghe?» «Sul fatto che i reparti speciali volevano che stessi fuori dalla faccenda, o almeno che restassi ligio alla versione ufficiale.» «Mentre lei preferisce procedere di testa sua?» «È l'unico modo per arrivare da qualche parte.» «Ben Webster era un deputato eccezionale, e una stella nascente del partito...» «E l'avrebbe appoggiata fino in fondo in qualunque conflitto interno», non poté evitare di aggiungere Rebus. «Siamo alle calunnie!» ringhiò Anderson. «Webster era il tipo da pestare i calli ai grandi affaristi?» insistette Rebus. «Il tipo che non si poteva comprare con le bustarelle?» Si sentiva la testa sempre più confusa. «Lei ha un'aria esausta, ispettore», intervenne in tono comprensivo la moglie del parlamentare. «È certo che tutto questo non possa aspettare?» Rebus scosse il capo, che gli sembrava enorme. Aveva la sensazione di essere diventato così pesante da rischiare di sfondare il pavimento. «Tesoro», disse quindi la signora Anderson al marito, «arriva Rosie.» Una ragazza dall'aria affannata si stava facendo largo fra i tavoli. I camerieri cominciarono a temere di dover sistemare quattro persone a un tavolo per due. «Le ho mandato una miriade di messaggi», disse la giovane, «ma poi ho pensato che forse non li aveva letti.» «Niente campo», borbottò Anderson, tamburellando sul cellulare. «Le presento l'ispettore Rebus.» Che si era già alzato, per offrire la propria sedia alla segretaria. Lei fece segno di no, senza guardarlo negli occhi. «L'ispettore», disse invece al suo capo, «attualmente è sospeso dal servizio, in attesa dei risultati di un'inchiesta per insubordinazione.» Ora cercò lo sguardo di Rebus. «Ho fatto un paio di telefonate.» Anderson aggrottò un irsuto sopracciglio. «Gliel'ho detto che ero fuori servizio», gli ricordò Rebus. «Non con tanta chiarezza, temo. Ah, ecco i nostri antipasti.» Due camerieri esitavano nei pressi del gruppo: uno con del salmone affumicato, l'al-
tro con una zuppa arancione. «Ora lei se ne va, ispettore.» Era un'affermazione, non una richiesta. «Ben Webster si merita un po' di considerazione, non crede?» L'onorevole lo ignorò, intento a dispiegare il tovagliolo. Ma la sua segretaria aveva molto meno remore. «Fuori di qui!» gli ordinò. Rebus annuì lentamente e fece per andarsene, ma poi gli venne in mente una cosa. «I marciapiedi sono in uno stato pietoso, dalle mie parti», disse al suo deputato. «Magari ogni tanto dovrebbe farsi un giretto per il suo collegio...» «Salta su», disse una voce. Rebus si voltò e vide l'auto di Siobhan parcheggiata proprio davanti al suo palazzo. «Ma che bella cera la tua macchina», si congratulò. «E meno male, coi soldi che ha voluto quel tuo 'amico'.» «Veramente stavo salendo...» «Cambio di programma. Devi venire con me.» Si interruppe. «Ma stai bene?» «Ho bevuto un po'. E ho fatto una cosa che probabilmente non dovevo fare.» «Sai che novità.» Quando lui le raccontò della sortita al ristorante, però, Siobhan assunse un'espressione inorridita. «Mi beccherò un altro cazziatone», concluse Rebus. «Nuova anche questa.» Siobhan richiuse la portiera mentre lui le si sedeva accanto. «E tu?» le chiese finalmente. Gli raccontò dei suoi e delle foto di Stacey Webster, poi allungò un braccio sul sedile posteriore e gli porse le stampe. «Quindi adesso andiamo a parlare con Tench?» azzardò Rebus. «L'idea era quella. Perché sorridi?» Lui finse di esaminare le foto. «Tua madre dice che non importa chi l'ha malmenata, e a nessuno frega niente della morte di Ben Webster, eppure eccoci qui, tutti e due.» Alzò gli occhi verso di lei e le rivolse un sorriso stanco. «È il nostro mestiere», rispose adagio Siobhan. «Per l'appunto. Indipendentemente da quel che pensano o dicono gli altri. Mi spiace soltanto che tu abbia imparato le lezioni sbagliate, e proprio da me.»
«Fammi credito di un po' di buonsenso», lo rimproverò lei ingranando la marcia. Il consigliere comunale Gareth Tench abitava in una bella villa in stile vittoriano lungo Duddingston Park. Che era una grossa arteria, sì, ma le case sorgevano abbastanza discoste dalla strada da godere di una certa privacy. A meno di cinque minuti di macchina da Niddrie, il quartiere era tutt'altro mondo: zona silenziosa, rispettabile, borghese. Alle spalle delle case si stendeva un campo da golf, e la spiaggia di Portobello era a un tiro di schioppo. Siobhan era passata da Niddrie Mains Road, dove avevano constatato che la tendopoli era in rapido smantellamento. «Vuoi fare un salutino al tuo ragazzo?» l'aveva stuzzicata Rebus. «Forse tu dovresti restare in macchina», aveva ribattuto lei, «e lasciarmi parlare da sola con Tench.» «Sono sobrio come un magistrato», era stata la risposta di Rebus. «O comunque... sulla buona strada.» Si erano fermati da un benzinaio su Ratcliffe Terrace, perché lui potesse comprarsi una Irn-Bru e dell'aspirina. «Dovrebbero dargli il Nobel, a quello che l'ha inventata», aveva commentato rimontando, senza specificare a quale delle due si riferisse. Nel cortiletto di casa Tench erano parcheggiate due auto e tutto il giardino anteriore era stato pavimentato per ospitarle. In soggiorno le luci erano accese. «Giochiamo al poliziotto buono e a quello cattivo?» propose lui, mentre Siobhan suonava il campanello. Lei lo ricompensò con un barlume di sorriso. Fu una donna ad aprire la porta. «La signora Tench?» chiese Siobhan, esibendo il tesserino. «È possibile parlare un momento con suo marito?» Poi da dentro casa giunse la voce del consigliere: «Chi è, Louisa?» «Polizia, Gareth», gridò lei di rimando, arretrando leggermente a mo' di invito. Loro non se lo fecero ripetere due volte e, quando Tench scese ciabattando dal piano di sopra, erano già in soggiorno. L'arredamento non incontrava il gusto di Rebus: tendoni di velluto completi di cordone, lampade d'ottone a muro su entrambi i lati del camino, due divani smisurati che occupavano troppo spazio. Ottonata e smisurata sembrava una buona descrizione anche per Louisa Tench: orecchini a pendente e un gran clangore di braccialetti ai polsi, sfoggiava un'abbronzatura da flacone o salone di bellezza, cosa che valeva anche per il ramato dei capelli cotonatissimi, e
aveva ecceduto un po' con l'ombretto azzurro e il rossetto rosa. Rebus contò cinque orologi d'antiquariato e si convinse che nulla, in quella stanza, era stato scelto dal consigliere. «Buonasera», disse Siobhan, all'ingresso di Tench nella stanza. Per tutta risposta lui alzò gli occhi al cielo. «Dio, ma non la smettono proprio mai? Devo denunciarli per molestie?» «Prima, signor Tench», proseguì calma Siobhan, «forse vorrà dare un'occhiata a queste foto.» Gliele porse. «Naturalmente riconosce il cittadino del suo collegio, vero?» «È lo stesso che lei è andato ad aspettare fuori dal tribunale», aggiunse sollecito Rebus. «A proposito... saluti da Denise.» Tench scoccò un'occhiata timorosa in direzione della moglie. La quale si era rimessa in poltrona e fissava la tivù con l'audio spento. «Allora, queste foto?» disse poi, un po' più forte del necessario. «Noterà che il soggetto sta aggredendo una donna con un bastone di legno», continuò Siobhan. Rebus osservava e ascoltava con attenzione. «Mentre in quest'altra foto cerca di nascondersi tra la folla. Ma concorderà con me che ha appena assalito una spettatrice innocente.» Tench aveva l'aria scettica, gli occhi che saltavano da un'immagine all'altra. «Roba digitale, giusto?» sottolineò. «Facilissima da manipolare.» «Non sono le fotografie a essere manipolate, qui, signor Tench», si sentì in dovere di precisare Rebus. «Questo che significa?» «Vogliamo il nome», disse Siobhan. «Possiamo farcelo dare domattina dal tribunale, ma preferiremmo sentirlo dire da lei.» L'uomo socchiuse gli occhi. «E perché mai?» «Perché noi...» Siobhan si interruppe. «Perché io vorrei sapere che cosa la collega a questa persona. Due volte, al campeggio, si è trovato a passare e a disinnescare un disordine causato...» - puntò il dito su una stampa - «da lui. Un attimo dopo, quando viene rilasciato dalla custodia della polizia, lei è lì che lo aspetta. E adesso, questo.» «È solo l'ennesimo ragazzo cresciuto nella parte sbagliata della città», disse Tench, mantenendo la voce bassa ma scandendo ogni parola. «Genitori sbagliati, scuola sbagliata, scelte sbagliate a ogni bivio della vita. Però abita sul mio territorio, e questo significa che io me ne faccio carico, esattamente come farei per ogni altro disgraziato al posto suo. E se questo è un reato, sergente Clarke, allora sono pronto ad andare alla sbarra e a difendermi.» Uno schizzo di saliva gli sfuggì dalla bocca, atterrando sulla guan-
cia di Siobhan. Lei si ripulì con la punta del dito. «Il nome», ripeté. «Questo ragazzo è già stato incriminato.» Louisa Tench sedeva immobile in poltrona, le gambe accavallate, gli occhi sullo schermo muto. «Gareth», disse, «comincia Emmerdale.» «Non vorrà che sua moglie si perda la sua soap preferita, eh, signor Tench?» lo pungolò Rebus. I titoli di testa scorrevano già e la signora teneva in mano il telecomando, il dito pronto sul tasto del volume. Tre paia d'occhi trapanavano Gareth Tench. Rebus articolò ancora una volta silenziosamente il nome «Denise». «Carberry», disse il consigliere. «Keith Carberry.» Dalla tivù eruppe un'esplosione musicale. Gareth Tench si cacciò le mani in tasca e uscì a grandi passi dal soggiorno. Rebus e Siobhan attesero qualche istante, poi salutarono la donna che stava rannicchiando le gambe in poltrona ma che li ignorò, persa in un mondo tutto suo. La porta d'ingresso era socchiusa e Tench li aspettava fuori a braccia conserte e gambe divaricate. «Una campagna denigratoria non gioverà a nessuno», dichiarò. «Stiamo solo facendo il nostro lavoro, signore.» «Io sono cresciuto vicino a una fattoria, sergente Clarke», replicò lui. «Letame dappertutto, e quando sento l'odore delle stronzate lo riconosco.» Siobhan lo squadrò da capo a piedi. «E io riconosco un pagliaccio quando lo vedo, anche senza costume.» Si avviò verso il marciapiede, mentre Rebus gli si fermò davanti e si chinò a sussurrargli qualcosa all'orecchio. «La donna che il suo ragazzo ha menato è la madre della mia collega, quindi la cosa non finisce qui, comprende? Non finché non avremo ottenuto un risultato che soddisfi entrambi.» Poi arretrò e annuì a rinforzo del messaggio. «Sua moglie non lo sa di Denise, vero?» aggiunse. «È così che mi avete collegato a Ozyman», indovinò Tench. «Ve l'ha detto Ellen Wylie.» «Per niente furbo da parte sua, consigliere, fare questi giochetti. Edimburgo è solo un grande paese, prima o poi le cose...» «Cristo santo, ispettore, non è andata così!» sibilò Tench. «Ma io non posso saperlo.» «Quindi adesso andrà a dirlo ai suoi capi? E va bene, facciano pure quel che vogliono, io non mi piegherò di certo davanti a gente come loro... o come voi.» Tench gli rivolse uno sguardo di sfida.
Rebus tenne posizione ancora un istante, poi sorrise e raggiunse Siobhan in macchina. «Dispensa speciale?» le chiese quando si fu allacciato la cintura. Lei lo guardò e vide che sventolava il pacchetto delle sigarette. «Finestrino abbassato», ordinò. Rebus accese e soffiò una boccata di fumo contro il cielo della sera. Dopo neanche trenta metri, una vettura partì dal ciglio della strada davanti a loro e subito frenò, bloccando mezza carreggiata. «E adesso che cazzo c'è?» sbottò lui. «Bentley», disse Siobhan. Infatti, non appena la luce degli stop si affievolì, dal lato di guida emerse Big Ger Cafferty, che a passo deciso venne verso di loro e si chinò fino a inquadrare la testa nel finestrino aperto di Rebus. «Sei molto lontano da casa», lo ammonì quest'ultimo. «Tu pure. Una visitina a Gareth Tench, eh? Spero non stia cercando di comprarvi.» «Pensa che tu ci dia cinquecento svanziche la settimana», biascicò Rebus. «E ha fatto una controfferta di duemila.» Stavolta soffiò il fumo in faccia a Cafferty. «Ho appena comprato un pub a Portobello», disse Big Ger, sventolandosi una mano davanti al naso. «Vi offro qualcosa di forte.» «L'ultima cosa di cui ho bisogno», dichiarò Rebus. «Un analcolico, allora.» «Che cosa vuole?» chiese Siobhan, le mani ancora aggrappate al volante. «Ma sono io», fece Cafferty, «o sta proprio diventando una dura?» Poi, con un gesto repentino, infilò una mano nell'abitacolo, prese una foto dal grembo di Rebus e fece due passi indietro sulla carreggiata, portandosela davanti al viso. In un attimo Siobhan era fuori e marciava verso di lui. «Cafferty, non sono dell'umore adatto.» «Ah, avevo sentito qualcosa a proposito di sua madre... e io lo conosco, questo bastardello.» Siobhan si bloccò, il braccio teso a mezz'aria. «Si chiama Kevin, Keith... una cosa del genere», continuò Cafferty. «Keith Carberry», disse lei. Adesso anche Rebus era sceso e si era accorto che Big Ger l'aveva presa all'amo. «Questi non sono affari tuoi», lo avvertì. «Ovvio che no», convenne Cafferty. «Mi rendo conto che è una cosa
personale. Mi chiedevo solo se potevo essere utile, tutto qui.» «Utile in che senso?» volle sapere Siobhan. «Non dargli retta», la ammonì Rebus. Ma lei era ipnotizzata dallo sguardo di Cafferty. «Utile come posso», disse adagio quest'ultimo. «Keith lavora per Tench, no? Non sarebbe meglio rovinarli tutti e due, anziché solo il tirapiedi?» «Tench non era nei giardini di Princes Street.» «E il giovane Keith non ha un grammo di buonsenso», ribatté Cafferty. «Il che rende i ragazzi come lui un po' suggestionabili.» «Cristo, Siobhan», implorò Rebus afferrandola per un braccio. «Questo qui vuole solo la fine di Tench, non gli importa un fico di come ottenerla.» Sventolò un dito in faccia a Big Ger. «Lei, lasciala fuori.» «Mi stavo solo offrendo di...» Cafferty alzò le mani in segno di resa. «E, comunque, dopo che l'avrai beccato? Giri con una mazza da baseball e una vanga nel bagagliaio della Bendey?» Cafferty lo ignorò e restituì la foto a Siobhan. «Ci scommetto quanto vuole che Keith adesso sta giocando a biliardo a Restalrig. E c'è un solo modo per scoprire se ho ragione...» Lei stava fissando la foto, e quando Cafferty la chiamò per nome batté le palpebre un paio di volte per metterlo a fuoco. Ma scosse il capo. «Un'altra volta», disse. Lui si strinse nelle spalle. «Quando vuole.» «E senza di lei.» Big Ger si finse offeso. «Non è mica giusto, dopo tutto quello che vi ho detto.» «Senza di lei», ripeté Siobhan. Cafferty rivolse allora la propria attenzione a Rebus. «Ho detto che stava diventando una dura? Be', mi sa che l'ho sottovalutata.» «Mi sa anche a me», concordò Rebus. 21 Il citofono suonò che lui era nella vasca, in ammollo da venti minuti. Decise di ignorarlo, ma poi anche il telefonino si mise a squillare. Chi lo cercava aveva lasciato un messaggio in segreteria, quindi di lì a poco udì il bip di segnalazione. Quando Siobhan l'aveva riportato a Marchmont, Rebus si era raccomandato che anche lei tornasse a casa a riposare un po'. «Merda», disse ora, temendo che fosse lei nei guai. Uscì dalla vasca e si
avvolse in un asciugamano, stampando impronte bagnate per tutto il tragitto fino in soggiorno. Ma il messaggio non era di Siobhan, bensì di Ellen Wylie, ferma in macchina davanti al suo portone. «Mai avuto tanto successo con le donne», borbottò Rebus fra sé premendo il tasto di richiamata. «Dammi cinque minuti», le disse, poi andò a rimettersi i vestiti. Il citofono suonò di nuovo. Lui aprì e restò in ascolto dei passi che salivano le due rampe di ruvidi scalini di pietra. «È sempre un piacere, Ellen», furono le parole con cui la accolse. «Mi spiace, John... Eravamo tutti giù al pub, ma io non riuscivo a smettere di pensarci.» «Agli attentati?» «No, al tuo caso.» Adesso erano in soggiorno e lei andò dritta ai documenti. Poi notò la parete e si avvicinò, passando in rassegna le foto appese. «Ho trascorso mezza giornata a leggere tutto su questi mostri... a leggere che cosa pensano di loro le famiglie delle vittime, e poi a dover avvisare quegli stessi bastardi che qualcuno potrebbe cercarli per vendicarsi.» «Hai fatto solo il tuo dovere, Ellen. In momenti come questi, dobbiamo pur avere la sensazione di concludere qualcosa.» «Metti che fossero dinamitardi anziché stupratori...» «E a che servirebbe?» chiese lui, per poi ricevere un'alzata di spalle a mo' di risposta. «Qualcosa da bere?» «Magari un tè...» Ruotò di centottanta gradi verso di lui. «Non ti ho mica disturbato, vero? Anche arrivando così, senza preavviso?» «No, sono contento di vederti», mentì lui, diretto in cucina. Quando tornò con le due tazze, lei si era già seduta al tavolo da pranzo, china sulla prima pila di carte. «Come sta Denise?» «Bene.» «Dimmi, Ellen...» Tacque finché non fu certo che lei lo ascoltasse. «Lo sapevi che Tench è sposato?» «Separato», lo corresse lei. Rebus serrò le labbra. «Non molto», aggiunse allora. «Vivono nella stessa casa.» Lei non batté ciglio. «Perché gli uomini sono tutti bastardi, John? Esclusi i presenti, naturalmente.» «Vedi, mi sono sorti dei dubbi», continuò lui. «Come mai è tanto interessato a Denise?»
«Guarda che mia sorella non è così male.» Rebus accettò la replica con una lieve smorfia. «Ciò nonostante, sospetto che il nostro consigliere sia in generale attratto dalla tipologia della vittima. Ci sono persone così, no?» «Dove vuoi andare a parare?» «In realtà non lo so... sto solo cercando di capire com'è fatto.» «Perché?» «Altra bella domanda, accidenti.» «Lo metteresti fra i sospettati?» «Non è che ci sia l'imbarazzo della scelta.» Lei si strinse nelle spalle. «Eric Bain è riuscito a tirare fuori qualche nome e qualche informazione dalla lista degli utenti registrati. Secondo me scopriremo che sono parenti delle vittime o professionisti del settore.» «E Tench a quale categoria appartiene?» «Nessuna delle due. È questo a renderlo sospetto?» Rebus era in piedi accanto a lei, gli occhi sugli appunti. «Ci serve un profilo dell'assassino. Per ora sappiamo solo che non affronta le vittime a viso aperto.» «Però ha lasciato Trevor Guest in uno stato pietoso... tagli, graffi, lividi. E ci ha anche regalato il suo bancomat, dandoci subito un nome.» «Secondo te è un'anomalia?» Lei annuì. «D'altro canto, si potrebbe anche dire che l'anomalia è Cyril Colliar, visto che è l'unico scozzese.» Rebus fissò la foto di Trevor Guest. «Guest è stato in Scozia per qualche tempo», commentò. «Me l'ha detto Hackman.» «Ti ha detto anche dove?» Lui scosse lentamente il capo. «Dev'essere scritto nel dossier.» «Qualche possibilità che anche la terza vittima fosse collegata alla Scozia?» «Immagino di si.» «Magari la chiave sta lì. Anziché concentrarci su BeastWatch, dovremmo esaminare più a fondo le vittime.» «A sentirti, sembri pronta a lanciarti.» Ellen lo guardò. «Sono troppo agitata per dormire. E tu? Magari potrei portarmi via un po' di materiale.» Rebus scosse nuovamente la testa. «Va bene così.» Raccolse una manciata di verbali e andò a sedersi in poltrona, dopo avere acceso la lampada a stelo. «Denise non si preoccuperà, non sapendo dove sei?»
«Le mando un messaggino, le dico che devo lavorare fino a tardi.» «Meglio che non le dici dove, però... non diamo adito a pettegolezzi.» Lei sorrise. «No, no, ci mancherebbe. A questo proposito, però, non dovremmo informare Siobhan?» «Informarla di cosa?» «La responsabile è lei, no?» «Continuo a scordarmelo», rispose lui disinvolto, e riprese a leggere. Si svegliò che era quasi mezzanotte. Ellen tornava dalla cucina in punta di piedi, con una tazza di tè appena fatto. «Mi spiace», si scusò. «Mi sono appisolato», disse lui. «Più di un'ora fa.» Soffiava sulla superficie del liquido. «Mi sono perso qualcosa?» «Niente da segnalare. Perché non vai a Ietto?» «E ti lascio qui a sgobbare da sola?» Si stirò e sentì scricchio lare la schiena. «Dai, sto bene.» «Sembri esausto.» «Me lo dicono tutti.» Si era alzato e si avvicinava al tavolo. «Fin dove sei arrivata?» «Non riesco a stabilire un collegamento tra Edward Isley e la Scozia... Nessun parente, nessuna esperienza lavorativa, neanche una vacanza. Cominciavo a chiedermi se non stiamo andando nella direzione sbagliata.» «Cioè?» «Magari era Colliar ad avere dei legami con il Nord dell'Inghilterra.» «Ben detto.» «Ma anche lì mi pare che non ci sia niente.» «Forse devi fare una pausa.» Lei sollevò la tazza. «E questa cosa ti sembra?» «Pensavo a qualcosa di più sostanzioso.» Lei si sgranchì le spalle. «Non è che hai sottomano una vasca idromassaggio o un fisioterapista, per caso?» Osservò l'espressione sul volto di lui. «Stavo solo scherzando», lo rassicurò. «Qualcosa mi dice che non sei esperto di massaggi alla schiena. E inoltre...» Ma si interruppe, portandosi il tè alle labbra. «Inoltre cosa?» domandò lui. Ellen riabbassò la tazza. «Be', tu e Siobhan...» «... siamo colleghi», concluse lui. «Colleghi e amici. Niente più di quel-
lo, malgrado quel che dice Radio Serva.» «In effetti la gente mormora», ammise lei. «Parole, parole, parole. Cioè, invenzioni.» «Però non sarebbe la prima volta, no? Voglio dire, tu e la sovrintendente capo Templer...» «Gill Templer è una storia vecchia di anni, Ellen.» «E chi ha detto il contrario?» Sguardo perso nel vuoto. «Col lavoro che facciamo, quanti riescono a tenere in piedi un rapporto?» «Qualcuno ce la fa. Shug Davidson è sposato da vent'anni.» Lei dovette convenirne. «Però tu, io, Siobhan, e potrei farti decine di altri nomi...» «Sono gli inconvenienti del mestiere, Ellen.» «Con tutte le vite che ci tocca conoscere...» Sventolò una mano verso le carte dell'indagine. «Poi a costruircene una nostra facciamo schifo.» Lo guardò. «Davvero non c'è niente fra te e Siobhan?» Lui scosse il capo. «Quindi non credere di poter causare screzi.» Avrebbe voluto mostrarsi oltraggiata dall'illazione, ma non trovò le parole. «Tu stai flirtando con me», continuò lui. «Forse così pensi di fare le scarpe a Siobhan. Del resto, non vedo altro motivo.» «Accidenti, John!» Ellen sbatté la tazza sul tavolo, facendo schizzare il tè sui fogli sottostanti. «Sei solo uno stupido, arrogante, insolente...» Si era alzata dalla sedia. «Senti, se mi sono sbagliato mi scuso. È notte fonda, e magari abbiamo tutti e due bisogno di dormire un po'...» «Magari ci starebbe anche un grazie», disse lei perentoria. «Per cosa?» «Per avere sgobbato mentre tu te ne stavi lì a russare! Per averti aiutato rischiando un cazziatone! Per tutto!» Rebus rimase imbambolato un attimo, prima di aprire bocca e proferire la parola che lei voleva sentire: «Grazie». «Vaffanculo», ribatté però a quel punto Ellen, prendendo giacca e borsa. Lui si scansò per farla passare, poi restò ad ascoltare la porta che sbatteva alle sue spalle. Si cavò di tasca un fazzoletto e tamponò le carte macchiate di tè. «Non è successo niente», si disse. «Non è successo niente...» «Grazie», disse Morris Gerald Cafferty, tenendo aperta la portiera dal la-
to del passeggero. Siobhan attese un istante, poi decise di salire. «Parliamo e basta», lo avvertì. «Ma certo.» Lui richiuse dolcemente lo sportello e fece il giro della macchina. «Giornataccia, eh? Con l'allarme bomba a Princes Street...» «E non ci muoviamo da qui», decretò lei, ignorandolo. Lui chiuse la portiera dalla sua parte e si girò per guardarla. «Avremmo potuto parlare anche in casa.» Lei scosse il capo. «Se lo scordi, là dentro lei non ci mette piede.» Cafferty incassò, poi lanciò un'occhiata al palazzo. «Pensavo vivesse in un posto migliore, ormai.» «Qui va benissimo», scattò lei. «Anche se non mi dispiacerebbe sapere come ha fatto a trovarmi.» Big Ger le rivolse un sorriso radioso. «Ho un sacco di amici», disse. «Mi è bastata una telefonata.» «Com'è che non riesce a fare lo stesso con Gareth Tench? Una telefonata a un professionista, e nessuno ne sentirebbe più parlare...» «Mica lo voglio morto.» Cafferty cercò le parole. «Voglio solo che abbassi la cresta.» «Cioè umiliarlo? Intimorirlo, spaventarlo?» «Credo sia ora che la gente lo veda per quello che è.» Si sporse un poco verso di lei. «Adesso lei lo sa, che cos'è. Ma se si concentra solo su Keith Carberry, si perde un'ottima palla gol.» Le sorrise di nuovo. «Parlo da tifoso a tifosa, anche se stiamo su sponde opposte.» «Stiamo su sponde opposte in tutto, Cafferty, non si illuda mai del contrario.» Cafferty chinò leggermente il capo. «Sembra proprio di sentire lui.» «Lui chi?» «Rebus, naturalmente. Avete lo stesso atteggiamento. Pensate sempre di saperla più lunga di tutti, vi credete migliori di tutti.» «Ma che meraviglia, una seduta di psicoterapia gratis.» «Visto? Ecco qui. Sembra quasi che sia lui a tirarle i fili.» Big Ger ridacchiò. «Sarebbe ora che cominciasse a fare di testa sua, Siobhan. E prima che a Rebus regalino l'orologio d'oro, anche. Quindi presto.» Si interruppe. «Forza, colga l'attimo.» «I suoi consigli sono l'ultima cosa di cui ho bisogno.» «Non le sto offrendo dei consigli... le sto offrendo il mio aiuto. Insieme possiamo fare abbassare la cresta a Tench.»
«Ha fatto la stessa proposta anche a John, vero? Quella sera, nella sala parrocchiale? E scommetto che lui ha risposto di no.» «Avrebbe voluto dire di sì.» «Ma non l'ha fatto.» «Rebus e io siamo stati nemici per troppo tempo, Siobhan. E ci siamo quasi dimenticati perché. Ma lei e io non abbiamo tanti trascorsi alle spalle.» «Lei è un delinquente, Cafferty. Se accetto aiuto da lei, succede che divento uguale a lei.» «No», disse lui scuotendo il capo. «Succede che sbatte dentro i responsabili dell'aggressione a sua madre. Se l'unica prova che ha in mano è quella foto, non arriverà più in là di Keith Carberry.» «Mentre lei offre tanto di più? Come un imbonitore da televendita?» «Ma che cattiva», la rimproverò lui. «Dico solo le cose come stanno», lo corresse Siobhan. Teneva lo sguardo puntato oltre il parabrezza. Un taxi stava lasciando una coppia dall'aria ubriaca davanti al portone, e mentre l'auto si allontanava i due si abbracciarono e baciarono in equilibrio precario, rischiando di finire lunghi distesi sul marciapiede. «Che ne direbbe di uno scandalo?» suggerì. «Uno scandalo che sbatta Tench sulle prime pagine dei giornali scandalistici?» «Ha già in mente qualcosa?» «Il consigliere è un donnaiolo», disse lei. «La moglie sta a casa a guardare la tivù mentre lui esce con le sue amichette.» «E come lo sa?» «Ho una collega, Ellen Wylie, sua sorella è...» Ma se la cosa si fosse risaputa, sulle prime pagine non ci sarebbe finito solo Tench. Ci si sarebbe ritrovata anche Denise. «No», disse, scuotendo il capo. «Lasci perdere.» Cretina, cretina, cretina... «Perché?» «Perché faremmo del male anche a una donna che non ha affatto la pelle dura.» «Bene, faccia conto di non avermi detto niente.» Lei si voltò a guardarlo. «Allora mi dica, lei che farebbe al posto mio? Come farebbe per colpire Gareth Tench?» «Mi servirei del giovane Keith, naturalmente», disse lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Mairie si stava proprio godendo la sfida.
Qui non si trattava di «servizi speciali», di peana a qualche amico del direttore, di interviste a puro scopo promozionale per film o libri già anche troppo strillati. Qui si trattava di un'inchiesta: la ragione stessa per cui aveva deciso di fare la giornalista. Persino i vicoli ciechi erano esaltanti, e fin lì ne aveva imboccati parecchi... Ma ora le avevano passato le coordinate di un collega di Londra, anche lui freelance. Nel corso della prima conversazione telefonica si erano un po' volteggiati intorno a vicenda; il londinese era coinvolto in un progetto televisivo, un documentario sull'Iraq, che si sarebbe intitolato My Baghdad Launderette, e all'inizio non aveva neanche voluto spiegarle perché. Ma poi lei aveva lasciato cadere il nome del suo contatto keniota, e lui si era un po' smollato. E Mairie si era concessa un sorriso: se c'era da volteggiare ancora, adesso avrebbe guidato lei. Il documentario si chiamava così per via di tutti i soldi che venivano ripuliti in Iraq in generale, e nella sua capitale in particolare. La ricostruzione si era mangiata miliardi di dollari americani, forse decine, e di molti non si sapeva più nulla. Funzionari locali corrotti a suon di valigette di contante, ingranaggi unti per indire elezioni politiche a qualunque costo, aziende statunitensi che entravano nel mercato emergente «con gravi pregiudiziali», come aveva spiegato il suo nuovo amico. Soldi che arrivavano ovunque, perché tutte le fazioni in conflitto avevano bisogno di cautelarsi rispetto all'incerto futuro. E quindi di armarsi. Sciiti, sunniti e curdi. Sì, acqua potabile ed energia elettrica erano importanti, ma anche fucili e lanciarazzi efficienti. A puro scopo difensivo, ovviamente, perché la ricostruzione si sarebbe potuta avviare solo quando la gente si fosse sentita sicura. «Pensavo che le armi fossero uscite di scena», aveva commentato Mairie. «Solo per rientrarci non appena qualcuno si volta dall'altra parte.» «E tu stai collegando Pennen a questo giro?» gli aveva chiesto alla fine, prendendo appunti a ritmo furibondo, la cornetta incastrata fra la guancia e la spalla. «Con un pezzettino, sì. Non è che una nota a piè pagina, un minuscolo poscritto in calce alla missiva. E poi non si tratta di lui come persona, ma della compagnia che dirige.» «E delle compagnie che frequenta», non aveva potuto trattenersi lei. «In
Kenya è riuscito a dare un colpo al cerchio e uno alla botte.» «Cioè ha finanziato governo e opposizione? Sì, l'avevo sentito. Ma a quanto ne so lo fanno tutti.» Però Kamweze, il diplomatico, le aveva detto qualcosa di più. Automobili per i ministri di governo, grandi opere stradali in aree governate dai leader dell'opposizione e nuove case per i capi tribali più importanti. Il tutto sotto l'etichetta di «aiuti esteri», mentre le armi a tecnologia Pennen andavano ad aggravare il debito pubblico. «In Iraq», aveva continuato il giornalista londinese, «sembra che la Pennen Industries finanzi una zona piuttosto grigia della ricostruzione, vale a dire le società di sicurezza private. Pennen le arma e le sovvenziona, insomma, quindi potrebbe essere la prima guerra della storia gestita in larga maggioranza dal settore privato.» «Sì, ma cosa fanno queste società di sicurezza?» «Forniscono guardie del corpo a quanti entrano nel Paese per ragioni d'affari. In aggiunta, sorvegliano le barricate, proteggono la Zona Verde, si assicurano che i dignitari locali possano girare la chiave nell'accensione senza temere una replica del Padrino...» «Ho capito. Stiamo parlando di mercenari, giusto?» «Neanche per idea. È tutto assolutamente legale.» «Ma sovvenzionato con i soldi di Pennen?» «In una certa qual misura...» La telefonata si era conclusa con la reciproca promessa di tenersi in contatto, e il londinese aveva sottolineato il fatto che, se lei si disinteressava della sua inchiesta irachena, potevano darsi una mano a vicenda. Mairie aveva battuto gli appunti al computer finché erano ancora freschi, poi era entrata a passo di danza in soggiorno, dove Allan se ne stava stravaccato a guardare Die Hard III. Adesso che poteva giocare con l'home cinema, stava rivedendo tutti i suoi film preferiti. Lo aveva abbracciato e aveva stappato una bottiglia di vino. «Che cosa si festeggia?» aveva chiesto lui, ricambiando con un bacetto sulla guancia. «Allan, tu in Iraq ci sei stato... Raccontami.» Più tardi, quella stessa sera, sentendo il bip di un SMS era sgusciata fuori dal letto. Veniva dal corrispondente dell'Herald da Westminster; due anni prima si erano ritrovati seduti vicini a una cena di premiazione, e avevano passato la serata a bere Mouton Cadet e a ridere dei finalisti di tutte le categorie. Mairie aveva tenuto vivo il contatto, anzi, a dire il vero il signo-
re in questione le piaceva parecchio, malgrado fosse sposato e pure felicemente, come si mormorava... Si era seduta a leggere il messaggio sulla scala moquettata, T-shirt addosso e mento appoggiato alle ginocchia. PERKÉ NON MI HAI DETTO KE TI INTERESSAVA PENNEN? KIAMAMI! E lei aveva fatto ben più che chiamarlo: aveva preso la macchina e nel cuore della notte si era fiondata a Glasgow, dandogli appuntamento in una caffetteria aperta ventiquattr'ore su ventiquattro e piena di studenti ubriachi, più annebbiati che chiassosi. Il collega si chiamava Cameron Bruce e insieme scherzavano sempre su quel nome che «funzionava in tutti e due i sensi». Era arrivato in felpa e pantaloni della tuta, tutto scarmigliato. «Buongiorno», le disse, lanciando un'occhiata eloquente all'orologio. «Chi è causa del suo mal pianga se stesso», lo rimproverò lei. «Così impari a stuzzicare le ragazze all'alba di mezzanotte.» «È vero, faccio sempre così», rispose lui, e il lampo malandrino nei suoi occhi la convinse che avrebbe fatto meglio a controllare il livello di felicità di quel decantato matrimonio; poi ringraziò il cielo di non avergli proposto l'incontro in un albergo. «Forza, sputa», lo incalzò. «Ma no, il caffè non è poi così orrendo», rispose lui sollevando la tazza. «Cammy, non mi sono fatta mezza Scozia a mille all'ora per sentire battutine mediocri.» «Per quale motivo, dunque?» Così lei si mise comoda e gli raccontò perché le interessava Richard Pennen... naturalmente tralasciando qualche particolare. Benché fosse un amico, tutto sommato Cammy rappresentava la concorrenza, e comunque fu abbastanza scaltro da intuire che nella sua storia c'era qualche buco: ogni volta che lei si interrompeva o sembrava cambiare idea su qualcosa, le rivolgeva un sorrisetto comprensivo. A un certo punto Mairie dovette sospendere del tutto il discorso, mentre il personale del bar si liberava di un avventore un po' troppo turbolento. Fu un intervento rapido e professionale, e nel giro di poco l'uomo si ritrovò di nuovo sul marciapiede. Dopo qualche pedata alla porta e una scarica di pugni sulla finestra, finalmente si allontanò barcollando. Ordinarono altro caffè e qualche fetta di pane tostato e imburrato. Alla fine Cameron Bruce le raccontò quel che sapeva. O meglio quel che sospettava, in base a voci che giravano. «Quindi, da prendersi cum grano salis.»
Lei annuì: capiva la situazione. «Finanziamento ai partiti», dichiarò lui. Per tutta risposta, Mairie simulò un enorme sbadiglio. Bruce rise e le disse che invece la cosa era molto interessante. «Ma davvero?» A quanto pareva Richard Pennen era un benemerito sostenitore del Partito laburista. Nella qual cosa non c'era niente di sbagliato, nemmeno se la sua azienda avesse beneficiato di appalti statali. «Succede con la Capita», commentò Bruce, «e con molte altre società.» «Perciò mi hai fatto venire fin qui per raccontarmi che Pennen è coinvolto in attività del tutto legali, persino encomiabili?» Mairie non sembrava molto impressionata. «Non ne sono così sicuro. Vedi, il signor Pennen tiene il piede in due scarpe.» «Cioè regala soldi anche ai conservatori?» «In un certo senso sì. La Pennen Industries ha sponsorizzato parecchi eventi e alti papaveri con targa Tory.» «Ma se si tratta dell'azienda e non di Pennen in persona, è probabile che lui non infranga nessuna legge.» Bruce si limitò a sorridere. «Mairie, in politica non è necessario infrangere la legge per mettersi nei guai.» Lei lo guardò cupa. «Quindi c'è dell'altro, giusto?» «È alquanto probabile», rispose lui, addentando un'altra mezza fetta di pane. LATO D FINAL PUSH: LO SPINTONE FINALE Venerdì 8 luglio 22 Le prime pagine dei quotidiani erano una carneficina: grandi foto a colori dell'autobus sventrato, sopravvissuti macchiati di sangue e fuliggine, occhi vacui, una donna con un'enorme compressa di garza premuta contro il viso. A Edimburgo si respirava un'atmosfera da post-trauma: l'autobus in Princes Street, quello con a bordo il pacco sospetto, era stato allontanato dopo che gli artificieri avevano effettuato l'esplosione controllata; stessa
procedura con una busta della spesa lasciata in un negozio dei paraggi. Frammenti di vetro per strada e qualche aiuola ancora dissestata per i tumulti di mercoledì, ma tutto sembrava già lontanissimo. La gente era tornata al lavoro, le assi di protezione alle finestre erano state rimosse, le transenne sgombrate e caricate sui pianali dei camion. I contestatori se ne andavano alla spicciolata anche da Gleneagles, e Tony Blair era riuscito a tornare da Londra in tempo per la cerimonia di chiusura del vertice. Ci sarebbero stati discorsi e firme, ma sembrava che i delegati non sapessero più che atteggiamento tenere. Gli ordigni londinesi avevano rappresentato un ottimo pretesto per dare un taglio ai negoziati commerciali; sarebbero stati stanziati maggiori aiuti all'Africa, benché non nella misura auspicata dagli attivisti, ma prima di affrontare il problema della povertà i politici dovevano combattere una guerra molto più immediata. Rebus chiuse il giornale e lo gettò sul tavolino accanto alla poltrona. Si trovava in un corridoio all'ultimo piano del quartier generale di polizia del Lothian and Borders, a Fettes Avenue: la convocazione era giunta proprio mentre si alzava dal letto. Quando lui aveva cercato di trattare sull'orario, la segretaria del grande capo era stata perentoria. «Subito», aveva detto. Ragion per cui si era concesso giusto il tempo per caffè, dolcetto e giornale, e aveva ancora in mano l'ultimo pezzo di ciambella fritta quando la porta di James Corbyn si aprì. Si alzò, convinto di entrare, ma il capo della polizia sembrava avere deciso che il corridoio era un luogo perfetto per la loro conversazione. «Pensavo di essermi espresso chiaramente, ispettore Rebus: le avevo tolto il caso.» «Sì, signore», riconobbe lui. «E allora?» «Be', signore, sapendo di non poter più seguire la faccenda di Auchterarder, ho pensato di darmi un po' da fare con Ben Webster.» «Lei era sospeso dal servizio.» Rebus inalberò un'espressione sbalordita. «Ah, non solo da quel caso?» «Sa benissimo che cosa significa sospensione!» «Dolente, signore... la vecchiaia che avanza.» «Può dirlo forte», sibilò Corbyn. «Lei ha già raggiunto la pensione massima, e mi chiedo perché sia ancora qui.» «Non ho niente di meglio da fare, signore.» Rebus si interruppe. «Per inciso, un elettore che fa una domanda al deputato del suo collegio com-
mette reato?» «Quello è il ministro del Commercio, ispettore. In altre parole, è in contatto diretto col premier. Il G8 termina oggi, e non vorremmo una nota di demerito proprio a questo punto.» «Be', io non ho motivo di disturbarlo nuovamente.» «E ci può scommettere, perdio... Né lei, né nessun altro. Questa è la sua ultima possibilità: può ancora evitare una reprimenda scritta, ma se vedo ricomparire il suo nome sulla mia scrivania...» Corbyn levò un dito per aggiungere enfasi alle parole. «Messaggio ricevuto, signore.» In quella il suo cellulare si mise a squillare. Lo estrasse di tasca e controllò il numero: sconosciuto. Si portò l'apparecchio all'orecchio. «Pronto?» «John? Stan Hackman. Volevo chiamarti ieri, ma con tutto quello che è successo...» Rebus si sentiva gli occhi di Corbyn addosso. «Tesoro», disse, facendo le fusa, «giuro che ti richiamo io.» Scoccò un bacino al telefono e troncò la chiamata. «La mia ragazza», disse al capo. «Donna coraggiosa», commentò quello, aprendo la porta dell'ufficio. Colloquio terminato. «Keith?» Siobhan era seduta in auto con il finestrino abbassato. Keith Carberry si stava dirigendo a piedi alla sala biliardi. Il locale apriva alle otto ma, tanto per andare sul sicuro, lei era arrivata alle sette e tre quarti ed era rimasta a osservare il flusso indolente degli operai verso la fermata dell'autobus. Gli fece cenno di avvicinarsi. Lui guardò a destra e a sinistra, temendo un'imboscata; sotto il braccio stringeva una sottile custodia nera contenente la sua stecca personale. Un'ottima arma di difesa in caso di necessità, pensò Siobhan. «Be'?» disse lui. «Ti ricordi di me?» «La puzza di porcile si sente anche da lontano.» Il cappuccio della felpa blu era tirato sopra il berretto da baseball. Il ragazzo era vestito esattamente come nelle foto. «Lo sapevo che ti avrei rivisto. L'altra sera sbavavi già dalla voglia.» Sottolineò il messaggio dandosi una bella sistemata al pacco. «Com'è stato il tuo giorno in pretura?» «Delizioso.» «Incriminato per turbamento dell'ordine pubblico», recitò lei. «Rilascia-
to dietro cauzione, con divieto di avvicinarti a Princes Street e obbligo di firma giornaliero presso la stazione di Craigmillar.» «Ehi, mi segui addirittura? L'avevo sentito dire che a certe donne viene l'ossessione.» Rise e raddrizzò la schiena. «Finito?» «No, abbiamo appena cominciato.» «Bene.» Distolse lo sguardo. «Allora ci vediamo dentro.» Lei lo chiamò un'altra volta, ma lui la ignorò, spalancò la porta ed entrò nel locale. Siobhan richiuse il finestrino, scese dall'auto e lo seguì nell'Accademia del biliardo di Lonnie: «I migliori tavoli di Restalrig». La sala era fiocamente illuminata e odorava di stantio, come se al termine della giornata non venisse mai pulita a dovere. Due tavoli erano già occupati e Carberry stava infilando monete in una macchinetta per prendersi una lattina di Coca. Siobhan non riuscì a individuare i membri del personale, dunque con ogni probabilità stavano giocando anche loro. Le palle cozzavano sonore l'una contro l'altra e sparivano nelle buche, e dopo ciascun tiro sembrava vigere l'obbligo di imprecare. «Culo rotto!» «Ma va' a cagare. La sei nell'angolo in alto e tu stai a guardare, pivello.» «Attenzione, topa in avvicinamento.» Quattro paia d'occhi si alzarono verso Siobhan. Solo Carberry continuò a ignorarla, tutto preso dalla sua lattina. In sottofondo si sentiva una radio, il segnale parecchio distorto. «Bisogno d'aiuto, cocca?» chiese uno dei giocatori. «Volevo farmi una partitella», rispose lei, porgendogli una banconota da cinque sterline. «Hai da cambiare?» Il ragazzo che le aveva rivolto la parola non arrivava a vent'anni, ma in tutta evidenza gestiva il primo turno. Prese i soldi, aprì la cassa dietro il bancone degli snack e le consegnò dieci pezzi da cinquanta pence. «Tavoli a buon mercato», commentò lei. «Tavoli di merda», la corresse un altro giocatore. «Chiudi quella cazzo di bocca, Jimmy», disse il giovane. Ma Jimmy aveva appena cominciato a scaldarsi. «Ehi, bella, l'hai visto quel film, Sotto accusa? Se ti va di imitare Jodie Foster dimmelo, che facciamo chiudere bene la porta.» «Tu provaci, e dietro una porta ci finisci tu: ma una di quelle con le sbarre», ribatté lei. «Lascialo perdere», le disse il primo ragazzo. «Puoi giocare con me, se vuoi.»
«No, questa vuole giocare con me», annunciò Keith Carberry ad alta voce, soffocando un rutto mentre schiacciava la lattina vuota nel pugno chiuso. «Magari dopo», disse Siobhan all'altro ragazzo, avviandosi verso il tavolo di Carberry. Si chinò per infilare la moneta nella fessura. «Piazzale», disse poi. Keith si diede da fare con il triangolo, mentre lei sceglieva una stecca; le punte erano tutte logore e non c'era traccia di gessetti. Carberry aveva aperto la custodia e avvitato i due pezzi della sua, dopo di che si cavò di tasca un bel cubetto azzurro e si mise al lavoro sulla punta. Poi il gessetto tornò nella tasca, e lui le fece l'occhiolino. «Se ne vuoi un po' anche tu devi venire a prendertelo. Come prima mossa hai intenzione di perquisirmi?» Coro di risatacce, ma Siobhan era già china sulla bilia battente. Nonostante gli strappi del panno color ruggine, riuscì comunque a fare un buon tiro d'inizio, a sparpagliare le bilie e a mandarne una nella buca centrale. Poi ne elimino altre due, ma sbagliò una buca d'angolo. «È più brava di te, Keith», intervenne uno degli spettatori. Carberry lo ignorò e infilò tre bilie di seguito. Alla quarta tentò un colpo di rimbalzo sulla sponda lunga e sbagliò di un solo centimetro. Siobhan curò solo la difesa, e lui decise di rischiare un tre sponde. Colpo mancato. «Ora ho due tiri», gli ricordò lei. E le servirono tutti e due per mandare in buca la bilia successiva; dopo di che eseguì a sua volta, con successo, un tiro di sponda che suscitò un grido di entusiasmo da un tavolo vicino. Le altre partite si erano interrotte e tutti li stavano guardando. Le ultime due buche furono semplici, e sul tappeto rimase solo la bilia nera. Siobhan la spinse lungo la sponda di fondo, ma la palla si fermò sull'orlo della buca e Carberry ripulì il tavolo. «Ti va di prendere un'altra batosta?» le chiese poi con un sorrisetto. «Prima bevo qualcosa.» Siobhan si avviò verso la macchinetta e selezionò una Fanta. Carberry la seguì, mentre le partite agli altri tavoli riprendevano. Siobhan aveva l'impressione di essere stata vagamente accolta. «Non gli hai detto chi sono», affermò sottovoce. «Grazie.» «Che cosa vuoi?» «Voglio te, Keith.» Gli porse un pezzo di carta ripiegato: una copia della foto scattata nei giardini di Princes Street. Lui la prese e la esaminò, poi tentò di restituirgliela. «Allora?» «La donna che hai colpito... riguardala bene.» Bevve un sorso di arancia-
ta. «Non noti una certa somiglianza?» Lui la fissò. «Stai scherzando.» Lei scosse il capo. «Hai mandato mia madre all'ospedale, Keith. Non te ne fregava niente di chi erano né di quanto male gli facevi. Sei andato là per menare le mani e hai avuto quello che volevi.» «Ma poi sono finito in tribunale.» «Io li ho visti i verbali, Keith. L'accusa non ne sa niente, di questa cosa», disse Siobhan tamburellando con un dito sulla foto. «Contro di te hanno solo la testimonianza del poliziotto che ti ha tirato fuori dalla mischia, perché ti aveva visto buttare via il bastone. Quanto ti daranno, secondo te? Una multa di cinquanta sterline?» «Pagabile una sterlina alla settimana, presa dal sussidio di disoccupazione.» «Ma se io consegno questa, con tutte le altre che ho, di colpo ecco che rischi la galera, giusto?» «Posso cavarmela», disse lui, sicuro di sé. Lei annuì. «Perché ci sei già stato più di una volta. Ma ci sono condanne», fece una pausa, «e condanne.» «Cioè?» «Cioè io dico una parolina a qualcuno, e all'improvviso le guardie non sono più così amichevoli. Possono sbatterti in un braccio insieme ai cattivi con la C maiuscola: maniaci sessuali, psicopatici, ergastolani che non hanno niente da perdere. Secondo la tua fedina hai scontato solo condanne da minorenne, in carceri aperte dove di giorno si può uscire... Ti garantisco che dici di potertela cavare solo perché non hai ancora dovuto provarci davvero.» «E questo solo perché tua madre si è trovata in mezzo?» «Questo», lo corresse lei, «solo perché io posso. Sappi una cosa, però: il tuo amico Tench è stato informato ieri sera, ma stranamente non ha pensato di avvisarti.» Il ragazzo che gestiva la sala ricevette un SMS e si rivolse a loro gridando: «Ehi, piccioncini... il capo vuole fare due chiacchiere con voi». Carberry distolse bruscamente lo sguardo da Siobhan. «Cosa?» «Il capo.» Il giovane indicò una porta con sopra scritto PRIVATO. E sopra la porta, avvitata al muro, c'era una telecamera a circuito chiuso. «Io penso che sia meglio andare», disse Siobhan. «Tu no?» Lo condusse verso la porta e la aprì con uno spintone. Dietro c'erano un corridoio e una scala che saliva. La soffitta era un ufficio: scrivania, poltroncine, scheda-
rio. Stecche rotte e un raffreddatore di acqua potabile vuoto. La luce entrava da due polverose Velux a soffitto. E Big Ger Cafferty li aspettava. «Tu devi essere Keith», disse tendendo la mano. Carberry la strinse, gli occhi che correvano da lui a Siobhan. «E io lo sai già chi sono?» Carberry esitò, poi annuì. «Ma certo che lo sai.» Fece cenno al ragazzo di sedersi, mentre Siobhan rimaneva in piedi. «Questo posto è suo?» chiese Carberry con un lieve tremito. «Da anni.» «E Lonnie?» «Morto prima che tu nascessi, figliolo.» Cafferty si spolverò una gamba dei pantaloni come se vi avesse appena notato uno sbaffo di gesso. «Ora, Keith... mi hanno parlato bene di te, ma a quanto pare hai un po' perso la bussola ed è ora che tu rimetta la testa a posto, prima che sia troppo tardi. Tua madre è preoccupata per te, tuo padre non ci capisce più niente da quando ha cominciato a beccarne indietro il doppio se ti metteva le mani addosso, e tuo fratello grande è già in galera a Shotts per furto d'auto.» Big Ger scosse lentamente il capo. «Sembra che la tua vita sia già tutta decisa e tu non possa far altro che seguire i binari.» Si interruppe. «Ma noi possiamo aiutarti a svoltare, Keith, se solo accetti di farti dare una mano.» Carberry aveva un'espressione confusa. «Insomma, mi becco le mazzate o no?» Cafferty si strinse nelle spalle. «Se vuoi possiamo organizzarci, naturalmente... il nostro sergente Clarke non chiede di meglio che vederti frignare come un bebè. E ha ragione, se pensi a cos'hai fatto a sua madre.» Altra pausa. «Ma ti stiamo offrendo un'alternativa.» Siobhan si mosse, a disagio. Una parte di lei avrebbe voluto portare di peso Carberry fuori di lì e sottrarre entrambi all'influenza ipnotica della voce di Cafferty. Che naturalmente parve subito accorgersene, e per un attimo spostò lo sguardo proprio su di lei, in attesa che prendesse la sua decisione. «Quale alternativa?» chiese infine Keith. Cafferty non rispose: aveva ancora gli occhi fissi su Siobhan. «Gareth Tench», chiarì lei a quel punto. «Quello che vogliamo è lui.» «E tu, Keith», aggiunse Cafferty, «ce lo consegnerai.» «Consegnarvelo?» Al ragazzo cominciarono a tremare le gambe: Cafferty lo terrorizzava, e molto probabilmente anche lei gli incuteva una certa paura.
Te lo sei voluto tu, pensò Siobhan. «Tench ti sta usando, Keith», disse Cafferty con voce suadente come una ninnananna. «Non è tuo amico e non lo è mai stato.» «Mai detto che lo fosse», si sentì in obbligo di ribattere il giovane. «Bravo ragazzo.» Cafferty si alzò adagio, largo quasi quanto la scrivania che aveva davanti. «Continua a ripetertelo, e le cose saranno molto più facili quando verrà il momento.» «Il momento?» «Di darlo a noi.» «Spiacente per prima», disse Rebus a Stan Hackman. «Che cosa ho interrotto?» «Un cazziatone dal grande capo.» L'inglese scoppiò in una risata. «Ah, Johnny, tu sei proprio il mio tipo. Ma perché hai finto che fossi la tua ragazza?» Levò una mano. «No, lasciami indovinare: non volevi fargli sapere che era una questione di lavoro perché in teoria non dovresti avere nessun lavoro, giusto?» «Sono stato sospeso», confermò Rebus. Hackman batté le mani e si fece un'altra risata. Si trovavano al Crags, gli unici clienti così a ridosso dell'ora di apertura. Era l'abbeveratoio più vicino al Pollock Halls, un posto frequentato soprattutto da studenti: videogame, giochi da tavolo, stereo e hamburger a poco prezzo. «Lieto che la mia vita ti diverta tanto», borbottò Rebus. «Allora, quanti anarchici hai mazzolato?» Lui scosse la testa. «No, è che ho continuato a ficcare il naso dove non dovevo.» «Come dicevo, John: proprio il mio tipo. Tra l'altro non ti ho ancora ringraziato come si deve per avermi fatto conoscere il Nook.» «Felice di esserti stato d'aiuto.» «Te la sei poi fatta, quella ballerina?» «No.» «Ti dirò, era la migliore di un gruppetto decisamente mediocre. Nel prive dei VIP non ci sono neanche entrato, guarda.» Gli occhi gli si velarono per un istante, lo sguardo perso nei ricordi, poi Hackman batté le palpebre e si riscosse, tornando al presente. «Quindi, ora che ti sei beccato il cartellino rosso, io cosa faccio? Ti passo le informazioni che ho raccolto, oppure le metto nel mucchio dei sospesi?» Rebus bevve una sorsata della sua spremuta d'arancia, mentre Hackman
si era già scolato mezza birra. «Noi siamo solo due combattenti che si fanno una bella chiacchierata», rispose. «Puoi dirlo forte.» L'inglese annuì, riflessivo. «E un'ultima bevuta prima della partenza.» «Te ne vai?» «In giornata», confermò lui. «Ma non mi lamento del soggiorno.» «Tu torna», propose Rebus, «e io ti mostrerò il resto dei monumenti.» «Non mi farò certo pregare.» Hackman si sporse leggermente in avanti. «Ricordi che ti ho detto che per un po' Trevor Guest era stato da queste parti? Be', ho chiesto a uno dei ragazzi alla base di dare una spolverata in archivio.» Si cavò di tasca un bloc-notes e lo aprì a una pagina coperta di scarabocchi. «Per qualche tempo aveva girato nei Borders, ma soprattutto si è fermato a Edimburgo.» Puntò un dito sul piano del tavolo. «Aveva una stanza a Craigmillar e dava una mano in un centro di assistenza... Di sicuro all'epoca non controllavano i carichi pendenti, in quei posti.» «Un centro per...?» «Anziani. Spingeva le carrozzelle dai cessi al refettorio, o almeno è quel che disse a noi.» «E aveva già la fedina sporca?» «Un paio di furti in appartamento, detenzione di stupefacenti, roba pesante... e aveva malmenato la ragazza, anche se lei non aveva voluto sporgere denuncia. Insomma, due delle vostre vittime avevano avuto a che fare con questa zona.» «Già», convenne Rebus. «Di che periodo stiamo parlando, esattamente?» «Quattro, cinque anni fa.» «Ti spiace darmi un minuto, Stan?» Si alzò, uscì nel parcheggio e chiamò Mairie Henderson. «John», disse. «Accidenti, era ora. Com'è che di colpo il caso del Clootie Well si è raffreddato? Il direttore mi sta dando il tormento.» «Ho appena scoperto che la seconda vittima ha trascorso un periodo a Edimburgo e ha lavorato in un centro per anziani di Craigmillar. Mi chiedevo se mentre era qui non si era messo magari in qualche casino...» «Ma la polizia non ha un database con queste informazioni?» «Sai che preferisco sempre il buon vecchio metodo del contatto personale.» «Be', posso cercare nei nostri... e magari chiedere a Cowrie se ne sa qualcosa. È il cronista di giudiziaria, batte i tribunali da una vita e si ricor-
da ogni singolo caso, mannaggia a lui.» «Tanto meglio, visto che stiamo parlando di quattro, cinque anni fa. Chiamami, se trovi qualcosa.» «Quindi secondo te l'assassino ce l'abbiamo sotto il naso?» «Possibile, ma per il momento non ne farei parola al direttore, col rischio di dovergli far crollare tutte le speranze più avanti.» Terminò la chiamata e rientrò nel locale, dove Hackman, in compagnia di un'altra pinta, indirizzò un cenno al suo bicchiere. «Non vorrei insultarti offrendoti un altro giro di quella roba.» «Va benissimo così», lo rassicurò Rebus. «Grazie per esserti dato da fare, invece.» Tamburellò sul notes aperto. «Per un collega questo e altro, nei momento del bisogno.» Hackman levò la birra in un brindisi. «A proposito, che aria tira al Pollock?» L'espressione di Hackman si indurì. «Ieri sera, brutta. Un mucchio di ragazzi della Met hanno passato la serata incollati al telefono e altri sono partiti immediatamente. Lo so che la detestiamo tutti, la capitale, ma quando ho visto alla tele quella gente così decisa ad andare avanti, a qualunque costo...» Rebus concordò con un cenno del capo. «Un po' come te, John, eh?» Hackman rise. «Te lo leggo in faccia: non ti arrenderai certo solo perché loro vogliono inchiodarti.» Rebus si prese un istante per decidere cosa rispondere, poi gli chiese se per caso non aveva l'indirizzo di quel centro di assistenza per anziani di Craigmillar... Dal Crags non ci vollero più di cinque minuti di macchina. Lungo il tragitto ricevette una chiamata di Mairie, che non riusciva a venire a capo di niente sul periodo trascorso da Guest a Edimburgo. Cowrie non se lo ricordava e questo voleva dire che in tribunale non ci era finito. Rebus la ringraziò comunque e le confermò che lei manteneva un diritto di prelazione su qualunque cosa avesse scoperto. Hackman era tornato al Pollock Halls per fare i bagagli. Si erano lasciati con una stretta di mano e un promemoria, da parte dell'inglese, della promessa di Rebus di portarlo, la volta successiva, a fare un giro di bagordi «ben oltre il Nook». «Hai la mia parola», gli aveva detto Rebus, benché nessuno dei due ci credesse veramente. Il centro per anziani si trovava ai margini di una zona industriale. Fra le
strida dei gabbiani intenti alle loro razzie, Rebus fiutò nell'aria odore di gasolio e di qualcosa che sembrava gomma bruciata. Il centro vero e proprio era un ampio bungalow con terrazza annessa, orientata in modo da godere del poco sole scozzese. Dalle finestre intravide un gruppetto di anziani che ascoltava musica per fisarmonica. «Quello sei tu fra dieci anni», borbottò tra sé. «Se ti va di culo...» L'efficientissima segretaria si presentò come signora Eadie, glissando sul nome di battesimo: benché Trevor avesse lavorato lì solo un paio d'ore la settimana, e per non più di un mese, conservava ancora la sua documentazione nello schedario. No, non poteva mostrargliela, legge sulla privacy e compagnia bella, ma naturalmente se lui si fosse presentato con un mandato sarebbe stato tutto un altro paio di maniche... Rebus le rivolse un cenno comprensivo. Il termostato doveva essere regolato in posizione «raggio della morte» e lui aveva la schiena madida di sudore; l'ufficio era angusto e mal ventilato, con un nauseabondo retrogusto di borotalco. «Questo tizio», disse alla signora Eadie, «aveva avuto dei guai con la giustizia. Com'è che non lo sapevate, all'epoca della collaborazione?» «Sì che lo sapevamo, ispettore. Gareth ce l'aveva detto.» Rebus la fissò. «Il consigliere Gareth Tench? È stato lui a portare qui Trevor Guest?» «Convincere ragazzi giovani e forti a lavorare qui non è mai facile», spiegò la signora Eadie. «Il consigliere è sempre stato un buon amico del centro.» «Cioè mi sta dicendo che vi procura i volontari?» Lei annuì. «Abbiamo un debito di gratitudine nei suoi confronti.» «Sono certo che passerà a riscuoterlo, uno di questi giorni.» Cinque minuti dopo, tornato all'aria aperta, Rebus si accorse che la musica per fisarmonica era stata sostituita da un disco di Moira Anderson... seduta stante fece voto di ammazzarsi con le sue stesse mani, piuttosto che ritrovarsi seduto con un plaid sulle ginocchia a farsi imboccare un uovo alla coque sulle note di Charlie Is My Darling. Siobhan era seduta in macchina davanti al portone di Marchmont. Aveva già provato a salire, ma lui non era in casa. Probabilmente era meglio così: stava ancora tremando, si sentiva alquanto scossa e francamente non poteva dare la colpa alla caffeina. Guardandosi nello specchietto retrovisore notò che sembrava più pallida del solito, perciò prese a pizzicarsi le guance
nel tentativo di acquistare un po' di falso colore. Aveva la radio accesa, ma alle stazioni di informazione aveva rinunciato: non c'era voce che non suonasse tesa e incalzante, o sciropposa e allusiva, quindi aveva optato per Classic FM. Ora riconobbe la canzone ma non ne ricordava il titolo, e tutto sommato non gliene importava granché. Keith Carberry era uscito dall'Accademia del biliardo di Lonnie con l'aria di uno a cui gli avvocati hanno appena comunicato il rilascio dal braccio della morte: se intorno c'era tutto un mondo, lui voleva assaporarlo, al punto che in sala il responsabile aveva dovuto ricordargli di prendersi la stecca, prima di andare via. Siobhan aveva assistito alla scena sullo schermo unticcio del circuito chiuso, le sagome sfocate. Cafferty aveva disseminato il locale di cimici audio; le voci crepitavano da un altoparlante malridotto piazzato a una manciata di centimetri dal monitor. «Che t'è successo, Keith?» «Lasciami perdere, Jim-Bob.» «E la tua spada laser?» Carberry si era fermato giusto il tempo per rimettere la stecca nella custodia. «Credo di poter dire», aveva osservato piano Cafferty, «che lo teniamo in pugno.» «Per quel che vale», aveva aggiunto lei. «Bisogna avere pazienza», l'aveva ammonita allora Big Ger. «Una lezione preziosa, sergente Clarke, mi creda.» Adesso, chiusa in macchina, valutò le diverse possibilità. La cosa più semplice sarebbe stata consegnare le prove all'ufficio del pubblico ministero e far tornare Keith Carberry in tribunale con accuse più gravi. Certo, in quel modo Tench non rischiava niente, e allora? Anche supponendo che fosse stato lui a ordinare gli attacchi contro la tendopoli di Niddrie, in quei giardini dietro i palazzi del quartiere l'aveva veramente tolta dai guai, e in quell'occasione Carberry non stava affatto giocando, anzi, gli bolliva il sangue ed era pieno di adrenalina. La minaccia era stata reale. Il ragazzo voleva godersi la sua paura, vederla in preda al panico. Circostanze simili non erano sempre controllabili, e Tench l'aveva salvata in corner. Questo doveva riconoscerlo. D'altro canto, però, Carberry contro sua madre non le sembrava uno scambio equo, non aveva sapore di giustizia. Lei voleva di più: più di una
scusa e di una dimostrazione di rammarico, più di una condanna a qualche settimana o qualche mese di carcere. Quando il cellulare suonò, fece fatica a staccare le dita dal volante; sul display lampeggiava il nome di Eric Bain. Rispose dopo avere sibilato un'imprecazione. «Che posso fare per te, Eric?» gli chiese in tono fin troppo gaio. «Come vanno le cose, Siobhan?» «A rilento», ammise lei con una risata, pizzicandosi la radice dei naso. Su, non fare l'isterica, si disse intanto. «Be', senti, non sono sicuro, però forse c'è una persona con cui dovresti parlare.» «Davvero?» «Lavora in università. Mesi fa le ho dato una mano con una simulazione computerizzata e...» «Buon per te.» Un attimo di silenzio nella conversazione. «Sicura che vada tutto bene?» «È tutto a posto, Eric, scusa. E tu? Come sta Molly?» «Alla grande, alla grande... Allora, insomma, ti dicevo di questa docente.» «Sì, certo. Dicevi che dovrei andare a trovarla.» «Be', magari prima chiamala. Voglio dire, potrebbe anche essere un vicolo cieco.» «Come al solito, Eric.» «Be', tante grazie.» Siobhan chiuse gli occhi e fece un gran sospiro. «Scusami di nuovo, Eric, chiedo venia, non dovrei prendermela con te.» «Prendertela per cosa?» «Per una settimana di merda.» Lui rise. «Scuse accettate. Ti richiamo più tardi, così hai il tempo di...» «No, no, aspetta un momento.» Allungò un braccio verso il sedile del passeggero e prese un taccuino dalla borsa. «Dammi il numero che la chiamo.» Annotò il numero e accanto aggiunse il nome alla bell'e meglio, perché nessuno dei due era sicuro di come si scrivesse effettivamente. «Insomma, cosa pensi che potrebbe raccontarmi?» chiese Siobhan. «Un paio di eccentriche teorie.» «Ma che meraviglia.» «Ascoltare non fa danno», si difese Eric Bain.
Ma ormai Siobhan sapeva che non era così. Sapeva che ascoltare ne faceva sì, di danni. Altroché. Da un bel pezzo Rebus non passava dalle City Chambers, sede del consiglio comunale. L'edificio si trovava in High Street, di fronte alla cattedrale di St Giles, e teoricamente fra le due il traffico era interdetto alle auto, ma lui ignorò i cartelli esattamente come facevano tutti e parcheggiò lungo il marciapiede. Ricordò di aver sentito dire che la sede consiliare era stata in origine concepita come una sorta di loggia del commercio; i mercanti di zona però se ne erano tenuti alla larga, continuando a incontrarsi dove si erano sempre incontrati, e piuttosto che ammettere la sconfitta i politici avevano finito con l'appropriarsene. In ogni caso, prima o poi avrebbero traslocato di nuovo: era stata approvata una concessione edilizia su un'area adibita a parcheggio nei pressi della stazione di Waverley, ma nessuno aveva idea di quanto sarebbe sforato il budget. Di sicuro, se andava come per il parlamento scozzese, gli avventori dei bar di Edimburgo avrebbero avuto di che alimentare sdegno e chiacchiere. Le Chambers erano state costruite in cima a una strada medievale spopolata dalla peste, chiamata Mary King's Close. Anni prima Rebus aveva indagato su un omicidio proprio in quell'umido labirinto sotterraneo, e la vittima era il figlio di Morris Gerald Cafferty. Ora però il luogo era stato tirato a lucido e d'estate costituiva un'affollata meta turistica. Sul marciapiede c'era una ragazza in cuffietta da cameriera e sottogonne assortite impegnata a distribuire volantini: cercò di affibbiargli un buono sconto, ma lui fece di no con la testa. I giornali dicevano che le attrazioni locali stavano pagando le conseguenze del G8 e che per tutta la settimana i turisti si erano tenuti alla larga dalla città. «'Hi-ho, silver lining'», borbottò Rebus, fischiettando il primo verso del pezzo di Jeff Beck; le cose cambiano, insomma. La ragazza alla reception gli chiese se era l'ultimo disco di Kylie Minogue, ma poi sorrise per fargli capire che lo stava solo prendendo in giro. «Gareth Tench, per favore», disse Rebus. «Dubito che ci sia», lo avvertì lei. «Sa com'è, è venerdì. Molti consiglieri di venerdì lavorano in circoscrizione.» «Ottima scusa per staccare presto, eh?» arrischiò Rebus. «Non capisco cosa stia cercando di insinuare.» Ma il sorriso era di nuovo lì, a testimoniare che aveva capito benissimo.
Rebus la trovava decisamente simpatica; gettò un'occhiata all'anulare sinistro, vide la fede nuziale e istantaneamente cambiò canzone. Another One Bites the Dust... e chi aveva orecchie per intendere... La ragazza stava controllando una lista. «Be', invece a quanto pare lei è fortunato», annunciò. «Sottocommissione per il miglioramento urbano...» Gettò un'occhiata all'orologio a parete. «La riunione dovrebbe terminare fra cinque minuti. Dirò alla segretaria che è qui, signor...?» «Ispettore Rebus, Investigativa.» Stavolta fu lui a sorridere. «O John, se preferisce.» «Si sieda, John.» La ringraziò con un lieve inchino. L'altra collega della reception se la stava cavando molto peggio, nel tentativo di contenere una coppia di anziani che voleva assolutamente parlare con qualcuno a proposito dei cassonetti sulla loro via. «Vengono a scaricarci rifiuti ingombranti, ma non si può!» «Noi abbiamo anche preso le targhe, ma se poi mancano i controlli...» Rebus si sedette e decise di lasciar perdere le proposte di lettura: propaganda comunale camuffata da informazione, tutta roba che già riceveva per posta e che gli serviva solo a riempire il bidone della carta riciclata. Al primo squillo del cellulare, rispose. Era Mairie Henderson. «Che posso fare per te, cara?» «Stamattina mi sono dimenticata di dirti una cosa. Sto seguendo una buona pista su Richard Pennen.» «Dimmi di più.» Uscì di nuovo sullo spiazzo quadrangolare. Davanti alle vetrate era parcheggiata la Rover della sindaca. Si fermò proprio accanto alla macchina e accese una sigaretta. «Il corrispondente economico di un quotidiano di Londra mi ha messo in contatto con un freelance che vende pezzi a riviste tipo Private Eye, il quale a sua volta mi ha passato il numero di un produttore televisivo che tiene d'occhio Pennen da quando la società si è separata dal ministero della Difesa.» «Fantastico, direi che questa settimana ti sei guadagnata i tuoi dobloni.» «Be', allora vado a spendermeli subito da Harvey Nichols.» «Capito: sto zitto.» «Pennen ha dei collegamenti con una società americana, una certa TriMerino, attualmente impegnata in Iraq. Durante la guerra molte attrezzature sono state danneggiate, armamenti compresi. La TriMerino si occupa di riarmare i buoni...»
«Chiunque siano.» «... in altre parole, cerca di assicurarsi che la polizia irachena e le nuove forze armate riescano a mantenere la posizione. E - reggiti forte - la considerano una missione umanitaria.» «Cioè vanno in giro a piatire sovvenzioni allo sviluppo?» «Sull'Iraq si stanno riversando miliardi... e già ne sono scomparsi parecchi, ma questa è un'altra storia. Il torbido mondo della cooperazione internazionale, ecco su cosa lavora il mio produttore televisivo.» «E sta prendendo al lazo Richard Pennen?» «Ci spera.» «E tutto ciò come si collega al mio parlamentare morto? Ci sono riscontri che Ben Webster controllasse gli aiuti diretti in Iraq?» «Ancora no», ammise lei. Rebus notò che gli era caduta un po' di cenere sul cofano scintillante della Rover. «Ho la sensazione che tu non mi stia raccontando tutto.» «Niente a che vedere con il tuo onorevole deceduto.» «E non vuoi dirlo allo zietto John?» «Potrebbe risolversi in niente.» Si interruppe. «Però posso costruirci sopra un pezzo. Sono la prima giornalista della carta stampata con cui il mio informatore si è sbottonato.» «Buon per te.» «Ritenta, John, magari mettendoci un po' più d'entusiasmo.» «Scusa, Mairie, è che ho altre cose per la testa. Se riesci a stringere un po' la morsa intorno a Pennen, tanto meglio.» «Però la cosa non ti è di grande aiuto, eh?» «Mi hai già fatto un mucchio di favori... mi sembra giusto che ne ricavi qualcosa anche tu.» «Proprio quel che pensavo io.» Un'altra pausa. «E tu fai progressi? Scommetto che sei andato al centro di assistenza dove lavorava Trevor Guest.» «Senza ricavarci granché.» «Vuoi dirmi qualcosa?» «Non ancora.» «Uh, che tono evasivo.» Rebus si fece da parte, mentre dalle Chambers uscivano un autista in livrea, un altro tizio in uniforme che portava con sé una valigetta e, dietro di loro, la sindaca in persona. Notando i fiocchi di cenere sulla macchina, quest'ultima scoccò a Rebus un'occhiataccia, per poi inabissarsi sul sedile
posteriore. I due uomini presero posto davanti, e Rebus immaginò che la valigetta contenesse la catena d'ufficio, insegna formale della carica di primo cittadino. «Grazie per avermi raccontato di Pennen», disse quindi a Mairie. «Fatti viva.» «Guarda che alla prossima devi chiamarmi tu», gli ricordò lei. «Adesso che abbiamo ricominciato a parlarci, non vorrei che la comunicazione fosse a senso unico.» Lui terminò la chiamata, spense la sigaretta e tornò dentro, dove la sua receptionist si era inserita nel dibattito sui cassonetti. «Dovete parlare con l'ufficio d'igiene ambientale», cercava di dire. «Non serve mica, quelli non ascoltano.» «Bisogna fare qualcosa!» gridò la donna. «Siamo stufi di essere trattati come dei numeri!» «Va bene», disse la prima receptionist, arrendendosi con un sospiro. «Vedo se c'è qualcuno che può ricevervi. Prendete un biglietto, là.» Indicò con un cenno del capo la macchinetta. L'uomo staccò un talloncino di carta e lo fissò. Un numero. La receptionist simpatica fece segno a Rebus di avvicinarsi e si sporse per sussurrargli che il consigliere stava scendendo; poi rivolse un'occhiata alla coppia, facendogli capire che la cosa doveva rimanere tra loro. «È una questione ufficiale, immagino», gli chiese poi, in cerca di informazioni riservate. Rebus si sporse ancora di più verso di lei, inalando il profumo che si levava dalla sua nuca. «Voglio farmi ripulire gli scarichi», confidò. Per un istante la ragazza fece una faccia scioccata, poi gli regalò un sorriso obliquo, sperando che scherzasse. Qualche istante dopo nell'atrio comparve Tench in persona. Aveva l'aria cupa e si stringeva al petto la ventiquattrore a mo' di scudo protettivo. «Qui rasentiamo le molestie, a norma di codice penale», gli sibilò. Rebus annuì come se concordasse, poi tese un braccio in direzione della coppia in attesa. «Questo è il consigliere Tench», li informò, «sempre pronto ad aiutare la cittadinanza.» I due scattarono in piedi e si avvicinarono al consigliere dallo sguardo ormai feroce. «Faccia con comodo, io l'aspetto fuori», gli disse Rebus. Quando Tench riapparve, Rebus si era fumato un'altra sigaretta. Dalla
finestra vide che i due coniugi erano tornati a sedersi, apparentemente soddisfatti come se avessero ottenuto un ulteriore appuntamento. «Lei è un vero bastardo, ispettore», ringhiò il consigliere. «Almeno mi allunghi una paglia, cribbio.» «Non sapevo che anche lei avesse il vizio.» Tench prese una sigaretta dal pacchetto. «Solo quando sono stressato... ma visto che all'orizzonte incombe il divieto totale, tanto vale che mi goda la mia quota finché posso.» Accese la sigaretta e inspirò a fondo, lasciando uscire il fumo dalle narici. «Per certa gente è l'unico vero piacere, sa? Ricorda John Reid, quando parlava delle madri single dei quartieri degradati?» Rebus se lo ricordava bene, ma Reid, il ministro della Difesa, aveva smesso di fumare e non era più un paladino delle bionde. «Mi dispiace», disse poi, indicando con un cenno l'anziana coppia. «Hanno ragione», ammise Tench. «Qualcuno andrà a parlarci... anche se il mio collega non era particolarmente felice all'idea. Credo avesse già infilato i ferri nella sacca...» Sorrise, e Rebus con lui. Per un istante fumarono in silenzio e l'atmosfera si sarebbe quasi potuta definire amichevole. Ma poi Tench riuscì a rovinare tutto. «Perché sta dalla parte di Cafferty? Quello è un pezzo di merda ben più grosso di quanto io possa aspirare a diventare.» «Ah, non lo discuto.» «E allora?» «Non sto dalla sua parte», dichiarò lui. «Be', a vedervi sembra di sì.» «Evidentemente non guarda il quadro generale.» «Io lo faccio bene il mio lavoro, Rebus. Se non crede a me, vada a parlare con i miei elettori.» «Sono certo che lei sia bravissimo nel suo lavoro, signor Tench. E la sua presenza nella commissione per il miglioramento urbano di certo fa piovere un bel po' di contante sulla sua circoscrizione, il che rende i suoi elettori allegri, sani e beneducati.» «Al posto dei ghetti ci sono case nuove, le industrie della zona hanno ottenuto incentivi per non spostarsi...» «E gli ospizi si sono rifatti il trucco?» «Certo che sì.» «Senza contare che al personale pensano le sue raccomandazioni...
Trevor Guest, per esempio.» «Chi?» «Uno che ha piazzato in un centro per anziani un po' di tempo fa. Originario di Newcastle.» Lentamente Tench annuì. «Aveva avuto qualche problema di droga e di alcol. Come capita a molti di noi, del resto, vero ispettore?» Il consigliere gli rivolse un'occhiata pregnante. «Speravo di integrarlo nella comunità.» «Ma non ha funzionato. Ed è tornato a sud per farsi ammazzare.» «Ammazzare?» «Uno dei tre di cui abbiamo trovato effetti personali a Auchterarder. Un altro era Cyril Colliar e, pensi un po' che strano, lui lavorava per Big Ger Cafferty.» «Lei non la smette proprio mai di accusarmi di qualcosa, eh?» Tench fendette l'aria con la sigaretta. «In realtà volevo solo chiederle della vittima. Come l'ha conosciuto, perché ha sentito il bisogno di aiutarlo...» «È quello che faccio sempre, ispettore, continuo a ripeterglielo.» «Cafferty pensa che lei si stia imponendo sul territorio con la forza.» Tench alzò gli occhi al cielo. «Oddio, ne abbiamo già parlato. Non vedo l'ora che finisca in una discarica.» «E se non riusciamo noi a levarlo di mezzo, ci penserà lei?» «Ci proverò in tutti i modi, gliel'ho già detto.» Si sfregò il viso con le mani aperte. «Ma non ha ancora capito? Sempre ammettendo che lei non sia sul suo libro paga, non l'ha neanche sfiorata l'idea che in questo momento Cafferty magari la sta usando per far fuori me? Nella mia circoscrizione il problema droga è enorme e io ho giurato di tenerlo sotto controllo. Se uscirò di scena, Cafferty avrà mano libera.» «Lei è il capo delle bande di quartiere.» «Assolutamente no!» «Guardi che ho visto come funziona, sa? Quel suo nanerottolo col cappuccio fa un po' di casino, e lei ha una scusa per chiedere sempre più fondi alla municipalità. Il disordine è la sua gallina dalle uova d'oro.» Tench lo fissò, poi espirò rumorosamente, quindi si guardò bene intorno. «Rimane tra noi?» Ma Rebus non aveva alcuna intenzione di confermare. «D'accordo, magari in quel che dice c'è un pizzico di verità. I fondi per la rigenerazione del tessuto urbano: ecco, questo mi importa. E sarò felice di mostrarle i registri, così vedrà che è tutto contabilizzato, fino all'ultimo centesimo.»
«E Carberry sotto che voce sta nei suoi registri?» «Uno come Keith Carberry non si controlla. Semmai si tenta di incanalarlo un po'...» Tench si strinse nelle spalle. «Quello che è successo in Princes Street non ha niente a che vedere con me.» La sigaretta di Rebus era al filtro. Gettò via il mozzicone. «E Trevor Guest?» «Guest era un uomo in crisi che mi ha chiesto aiuto. Diceva che voleva restituire qualcosa alla comunità.» «Per quale motivo?» Tench scosse lentamente il capo, schiacciò la sigaretta sotto un tacco e assunse un'espressione meditabonda. «Ebbi la sensazione che gli fosse successo qualcosa... qualcosa che gli aveva instillato un timor panico.» «Che genere di cosa?» Altra alzata di spalle. «Esperienze con la droga, forse, la notte oscura dell'anima. Aveva avuto guai con le forze dell'ordine, ma a me sembrava che ci fosse dell'altro.» «Alla fine però è andato in galera. Furto con scasso aggravato, lesioni, tentati atti di libidine. La sua recita nei panni del buon samaritano non l'ha esattamente conquistato.» «Non è mai stata una recita, ispettore», disse adagio Tench, lo sguardo fisso sull'asfalto sotto i suoi piedi. «Ma se sta recitando anche adesso», ribatté Rebus. «In fondo le riesce bene, ecco perché insiste. È persino riuscito a indurre la sorella di Ellen Wylie a calarsi le mutande: un po' di vino e simpatia, senza una parola sulla moglie che aspettava a casa, davanti alla televisione.» Tench assunse un'espressione addolorata, ma Rebus lo ricambiò solo con una risatina fredda. «Sono curioso», insistette. «Lei va sul sito di BeastWatch... è così che intrappola Ellen e sua sorella, no? Quindi di sicuro vede anche la foto del suo vecchio amico Trevor. Però non ne fa parola.» «A che pro? Per aiutarvi a incastrarmi meglio?» Tench scosse lentamente il capo. «Mi serve la sua testimonianza su Trevor Guest: tutto quel che mi ha già detto, più tutto quel che riesce ad aggiungere. Può lasciarmi una busta a Gayfield Square, oggi pomeriggio andrà bene. E spero di non rubare troppo tempo alla sua partita di golf.» Tench lo guardò. «Come fa a sapere che gioco?» «Dal tono complice con cui ha parlato prima del suo collega...» Rebus si
chinò verso di lui. «Guardi che lei non è così difficile da capire, consigliere. In confronto a certa gente che ho conosciuto, qui siamo a livello del sussidiario di quinta elementare.» La chiosa bastava e avanzava, e Rebus non aggiunse altro. Tornato alla macchina trovò un vigile in azione, perciò gli indicò il cartello sul cruscotto con la scritta POLIZIA. «A discrezione nostra», gli rammentò l'altro. Allora gli soffiò un bacio con la mano e sedette al volante. Mentre partiva lanciò un'occhiata nello specchietto retrovisore e si accorse che dall'ingresso della cattedrale qualcuno lo osservava. La tenuta era la stessa del giorno in tribunale: Keith Carberry. Rallentò l'andatura e quando Carberry distolse lo sguardo si fermò, sempre tenendo d'occhio lo specchietto. Pensava che Keith avrebbe attraversato la strada per andare a scambiare due parole con il suo datore di lavoro, invece rimase dov'era, le mani affondate nelle tasche della felpa con il cappuccio d'ordinanza e una non meglio identificata custodia nera sotto il braccio, un ragazzo qualsiasi in mezzo a pochi turisti. Ai quali non prestava la minima attenzione. Gli occhi fissi dall'altra parte della strada. Sul palazzo del consiglio comunale. Sulle Chambers... e su Gareth Tench. 23 «Allora, che hai combinato?» chiese Rebus. Siobhan lo aveva aspettato in Arden Street. Come lui stesso aveva detto, forse a quel punto era il caso che le desse una chiave, se dovevano continuare a usare casa sua come ufficio. «Non molto», rispose lei ora, togliendosi la giacca. «E tu?» Passarono in cucina e lui mise su il bollitore, raccontandole di Trevor Guest e del consigliere Tench; poi, mentre versava il caffè solubile nelle tazze, Siobhan gli fece qualche domanda. «Il collegamento con Edimburgo c'è, insomma?» «Più o meno.» «Sembri dubbioso.» Rebus scosse il capo. «Lo dicevi anche tu - e pure Ellen - che Trevor Guest potrebbe essere la chiave di tutto. È apparso diverso dagli altri fin dall'inizio, con quelle ferite...» Si interruppe.
«Che c'è?» Altro cenno di diniego. Rebus girò il cucchiaino nella tazza. «Tench è convinto che gli sia successo qualcosa. Guest si faceva di roba pesante, e beveva parecchio... Poi se ne scappa al Nord e finisce a Craigmillar, conosce il consigliere, lavora qualche settimana con gli anziani...» «Stando al dossier non aveva mai fatto niente del genere, né prima né dopo.» «Appunto, strano lavoro per un ladro che aveva bisogno di contanti.» «A meno che non progettasse di truffarli in qualche modo. Al centro ti hanno detto se sono mai spariti dei soldi?» Rebus scosse la testa, ma prese il cellulare e chiamò la signora Eadie per verificare. Quando giunse la sua risposta negativa, Siobhan era già seduta al tavolo da pranzo in soggiorno, immersa nella lettura della documentazione. «Che altro sappiamo del suo periodo a Edimburgo?» chiese. «Ho chiesto a Mairie di controllare.» Lei sollevò lo sguardo. «Non volevo che si venisse a sapere che ci stiamo ancora lavorando su.» «E lei che cosa ha detto?» «Ancora niente di preciso.» «Non sarà il caso di chiamare Ellen?» Fece lui la telefonata, ma raccomandò alla collega di stare attenta. «Se ti metti a cercare nel computer, sarà come lasciarci la firma.» «Sono abbastanza grande per saperlo, John.» «Può darsi, ma ricordati che il grande capo ci tiene d'occhio.» «Non preoccuparti.» Le augurò buona fortuna e rimise in tasca il telefonino. «Stai bene?» chiese poi a Siobhan. «Perché?» «Non so, mi sembri un po' assente. Hai parlato con i tuoi?» «Da quando sono partiti, no.» «La cosa migliore che puoi fare è consegnare quelle foto al pubblico ministero e cercare di ottenere una condanna.» Lei annuì, ma senza troppa convinzione. «Tu faresti così, giusto?» gli domandò. «Se qualcuno si fosse sfogato contro uno dei tuoi cari, voglio dire.» «Sull'orlo del precipizio non c'è molto posto, Shiv.» Lei lo fissò. «Quale precipizio?» «Quello su cui sto eternamente appollaiato, a quanto pare. Meglio che
non ti avvicini troppo, e lo sai.» «Ti spiacerebbe tradurre?» «Consegna le foto e lascia il resto al giudice e alla giuria.» Lei lo stava ancora fissando. «Probabilmente hai ragione.» «Non ci sono alternative», aggiunse lui. «Quanto meno, nessuna che tu possa prendere in considerazione.» «Vero.» «A parte chiedermi di darle di santa ragione a Mister Berretto-dabaseball.» «Non sei un po' troppo stagionato per certe attività fisiche?» ribatté lei con l'ombra di un sorriso. «Probabile. Il che non mi impedirebbe di provarci, comunque.» «Be', non ce n'è bisogno. Volevo solo sapere la verità.» Siobhan rifletté un istante. «Sai, quando pensavo che potesse essere stato uno dei nostri...» «Per com'è andata questa settimana, non era un'ipotesi così raminga», disse lui piano, prendendo una sedia e piazzandosi di fronte a lei. «Ma non l'avrei sopportato, John. Questo cercavo di dire.» A grandi gesti si tirò vicino un fascio di carte. «Avresti gettato la spugna?» «Ho preso in considerazione l'idea.» «Adesso però è tutto rientrato, no?» Era in cerca di rassicurazioni. Lei annuì lentamente, poi prese a sua volta una pila di fogli. «Perché non è tornato a colpire?» Il cervello di Rebus ci mise qualche secondo a cambiare marcia. Stava per dirle che aveva visto Keith Carberry davanti alle City Chambers. «Non so immaginarlo», confessò infine. «Cioè, di solito dopo i primi attacchi accelerano, no?» «In teoria è così.» «Comunque non si fermano di punto in bianco.» «Magari qualcuno sì. Qualunque cosa sia quel che gli si muove dentro, magari torna sul fondo. Chi lo sa.» Si strinse nelle spalle. «Non sono mai stato un esperto.» «Io nemmeno. Perciò andiamo a trovare una che invece lo è.» «Come?» Siobhan diede un'occhiata all'orologio. «Tra un'ora. Quindi abbiamo giusto il tempo di decidere che domande farle...» Il dipartimento di Psicologia dell'università di Edimburgo aveva sede in
George Square. Due fiancate dell'originaria costruzione georgiana erano state abbattute e rimpiazzate da una serie di cubi di cemento, ma Psicologia si trovava ancora in un antico edificio schiacciato fra due palazzi nuovi, e la dottoressa Roisin Gilreagh aveva un ufficio all'ultimo piano con vista sui giardini. «Bello. E anche tranquillo, in questa stagione», commentò Siobhan. «Con gli studenti in vacanza, intendo.» «A parte la miriade di spettacoli teatrali d'avanguardia...» ribatté la dottoressa. «Be', è un altro bel laboratorio umano, no?» osservò Rebus. L'ambiente era piccolo ma inondato di sole e la dottoressa Gilreagh sui trentacinque anni, con folti ricci biondi che le scendevano oltre le spalle e zigomi appuntiti che, secondo lui, malgrado il forte accento locale, testimoniavano le sue radici irlandesi. Quando sorrise alla battuta, naso e mento parvero farsi ancora più affilati. «Venendo qui», riprese Siobhan, «dicevo all'ispettore Rebus che lei è considerata una vera esperta nel settore.» «Be', esperta è una parola grossa», si schermì educatamente la studiosa. «Ma nel campo dei profili criminologici l'orizzonte è luminoso: stanno trasformando l'autosilo di Crichton Street in un centro di Informatica a nostra disposizione, e parte dei locali sarà dedicata all'analisi comportamentale. Se aggiunge la Psichiatria e le Neuroscienze, vede bene che il potenziale è ampio.» Rivolse a entrambi gli ospiti un sorriso a trentadue denti. «Lei però non lavora per nessuno di questi dipartimenti», non poté esimersi dal notare Rebus. «Vero, vero», ammise lei senza problemi. Continuava ad agitarsi sulla sedia, come se le fosse proibito stare ferma, e il pulviscolo volteggiava nel sole dinanzi al suo viso. «Non si potrebbe fare un po' di penombra?» suggerì lui, socchiudendo eloquentemente le palpebre. La donna saltò in piedi mormorando delle scuse e si affrettò ad abbassare la veneziana, che essendo color giallo chiaro e di tela grezza non attenuò comunque molto il bagliore nella stanza. Rebus scoccò a Siobhan un'occhiata significativa: forse la dottoressa era stata esiliata in soffitta per qualche buon motivo... «Perché non illustra l'oggetto delle sue ricerche all'ispettore?» la incoraggiò lei. «Dunque...» La studiosa giunse le mani, raddrizzò la schiena, si dimenò
un altro poco e fece un respiro profondo. «Lo studio degli schemi comportamentali dei rei è ormai storia antica, ma il mio campo di specializzazione sono le vittime. È immergendoci nel modo di agire di queste ultime che possiamo intuire perché i loro carnefici, i perpetratori, fanno quello che fanno, sia che agiscano d'impulso, sia che seguano una modalità più deterministica.» «Va da sé, direi», commentò Rebus con un sorriso. «Con la chiusura del semestre posso dedicare un po' di tempo a qualche progetto personale, e sono rimasta affascinata dal piccolo 'reliquiario' - direi che il termine si presta - di Auchterarder. Le cronache giornalistiche erano piuttosto scarne, ma io ho deciso di andare comunque a dare un'occhiata... e poi, neanche fosse un segno del destino, il sergente Clarke mi ha chiesto un appuntamento.» Fece un altro respiro profondo. «Cioè, in realtà i miei rilievi non sono ancora... voglio dire, è tutto appena abbozzato, per il momento.» «Possiamo farle avere i verbali del caso», la rassicurò Siobhan, «se lei ritiene. Ma nel frattempo le saremmo grati se ci riferisse le sue prime impressioni.» La dottoressa Gilreagh batté le mani, rimescolando la polvere nell'aria. «Be'», esordì, «dato il mio interesse per la vittimologia...» - Rebus cercò lo sguardo di Siobhan, ma lei finse di non accorgersene - «... devo ammettere che il luogo ha destato la mia curiosità. È quasi una sorta di asserzione, non vi pare? Immagino abbiate considerato la possibilità che l'assassino viva da quelle parti, o che conosca bene, e da tempo, la zona di cui parliamo.» Attese un cenno di assenso da Siobhan. «E certo avrete anche ipotizzato che il perpetratore sappia del Clootie Well perché la sua esistenza è menzionata in diverse guide turistiche e sul World Wide Web.» Siobhan lanciò un'occhiatina a Rebus. «In realtà questa seconda pista non l'abbiamo esattamente approfondita», ammise. «Se ne parla in diversi siti», confermò la dottoressa. «Portali pagani e new age... miti e leggende... i misteri del cosmo. Inoltre, chiunque conoscesse l'altra località sulla Black Isle potrebbe avere avuto notizia di quella nel Perthshire.» «Direi che fin qui ci siamo arrivati anche noi», fece Rebus. Siobhan lo guardò di nuovo, poi chiese: «E se quelli che hanno visitato il sito di BeastWatch avessero navigato anche tra le pagine che parlano del Clootie Well?» «Come potremmo saperlo, scusa?»
«La domanda dell'ispettore non è peregrina», riconobbe la dottoressa Gilreagh, «anche se ovviamente avrete anche voi i vostri esperti informatici... Ma nel frattempo bisogna accettare l'idea che il luogo rivesta un qualche particolare significato per l'assassino.» Stavolta attese l'assenso di Rebus. «Nel qual caso dobbiamo domandarci se non potrebbe aver rappresentato qualcosa anche per le vittime.» «In che senso?» chiese Rebus, socchiudendo gli occhi. «Campagna... boschi fitti ma vicini a insediamenti umani... anche le vittime abitavano in territori tipologicamente analoghi?» Rebus sbuffò. «Non direi proprio. Cyril Colliar era un buttafuori edimburghese appena uscito di galera. Non me lo vedo, con lo zaino in spalla e le barrette energetiche in tasca.» «Però Edward Isley batteva la M6», obiettò Siobhan, «e stiamo parlando della zona dei laghi, no? Inoltre, Trevor Guest ha trascorso un periodo nei Borders...» «... ma anche a Newcastle e a Edimburgo.» Rebus si rivolse alla psicologa. «Sono stati dentro tutti e tre... eccolo, il collegamento che lei cerca.» «Questo non significa che non ce ne siano altri», protestò Siobhan. «O che non vi stiano depistando», disse la studiosa con un sorriso garbato. «Depistando?» le fece eco Siobhan. «Con schemi che in realtà non esistono o che il perpetratore vi mette sotto il naso a bella posta.» «Per prenderci in giro? Per gioco?» «Non è impossibile. In effetti c'è questo grande senso di... ludicita.» Si interruppe, accigliandosi. «Dovete perdonarmi se vi sembro frivola, ma non mi viene in mente un'altra parola. Siamo di fronte a un assassino che vuole assolutamente farsi notare, come dimostra l'esposizione al Clootie Well. Tuttavia, non appena la sua opera viene scoperta lui si ritrae, magari dietro una cortina fumogena.» Rebus si sporse in avanti, puntando i gomiti sulle ginocchia. «Sta dicendo che le tre vittime sono una cortina fumogena?» Lei dimenò un poco le clavicole, cosa che Rebus interpretò come un'alzata di spalle. «Una cortina per coprire cosa?» insistette lui. Un altro contorcimento, e Rebus guardò Siobhan con aria esasperata. «L'esposizione», disse infine la psicologa, «ha qualcosa di... sbagliato. Uno scampolo di giubbotto, una maglietta sportiva, un paio di pantaloni di
velluto: pezzi incoerenti, mi spiego? Di norma i trofei di un serial killer sono simili tra loro: solo magliette o solo scampoli. Questa collezione invece è disordinata, e alla fin fine non convince.» «Ciò che dice è estremamente interessante, dottoressa», commentò piano Siobhan. «Ma come dobbiamo interpretarlo?» «Io non faccio l'investigatrice», sottolineò la studiosa. «Tornando alla cornice agreste e al tipo di oggetti esposti, che potrebbe essere un classico trucco da prestigiatore... be', ecco, io mi chiederei nuovamente perché sono state scelte proprio quelle tre vittime.» Prese ad annuire tra sé. «Vedete, talvolta le vittime si scelgono quasi da sole, nel senso che rispondono alle esigenze primarie dell'aggressore. In certi casi può trattarsi magari di una donna sola in una condizione vulnerabile, ma in altri casi entrano in gioco considerazioni più complesse.» Concentrò l'attenzione su Siobhan. «Quando ci siamo sentite per telefono, sergente Clarke, lei ha parlato di anomalie, e queste potrebbero già essere significative di per sé.» Fece una pausa pregnante. «Tuttavia, un esame dei dati in vostro possesso potrebbe aiutarmi a trarre conclusioni più precise.» Adesso guardava Rebus. «Non la biasimo certo per il suo scetticismo, ispettore, ma, contrariamente a quanto l'evidenza lascerebbe supporre, non sono matta. Neanche un po'.» «Ne sono certo, dottoressa Gilreagh.» Lei batté di nuovo le mani, e stavolta si alzò a indicare che il tempo a loro disposizione era scaduto. «Intanto», aggiunse, «ruralità e anomalie. Ruralità e anomalie.» Levò due dita a sottolineare i due punti, poi concluse con un terzo: «E, forse e soprattutto, la volontà di farvi vedere cose che in realtà non esistono». «Ma si può dire 'ruralità'?» domandò Rebus. Siobhan girò la chiave nell'accensione. «A quanto pare sì.» «E pensi davvero di fornirle la nostra documentazione?» «Vale la pena di tentare.» «Siamo disperati fino a questo punto?» «A meno che tu non abbia un'idea migliore.» Ma lui non rispose e, mentre superavano il vecchio autosilo, abbassò il finestrino per fumare. «Informatica», borbottò. Siobhan mise la freccia a destra e si diresse verso i Meadows e Arden Street. «L'anomalia è Trevor Guest», arrischiò poi, dopo l'ennesima pausa. «Lo diciamo dall'inizio, no?» «Quindi?»
«Quindi sappiamo che ha passato del tempo nei Borders, e non c'è posto più rurale di quello.» «Però è lontanissimo sia da Auchterarder sia dalla Black Isle», affermò Rebus. «Ma nei Borders gli è successo qualcosa.» «Su questo punto abbiamo soltanto l'opinione personale di Tench.» «Vero», riconobbe lei. Ciò malgrado, Rebus scovò il numero di Hackman e gli diede un colpo di telefono. «Pronto per la tradotta?» «Ehi, ti manco già?» rispose l'altro, riconoscendolo. «Senti, volevo chiederti una cosa. Dov'è stato esattamente Trevor Guest, quando era nei Borders?» «Oh-oh, mi è sembrato di sentire un naufrago aggrappato a un filo d'erba...» «In effetti», confessò Rebus. «Be', in questo momento non so se posso farti da scialuppa di salvataggio. Mi pare che Guest avesse menzionato i Borders durante un interrogatorio.» «Guarda che noi i verbali non li abbiamo ancora visti», gli rammentò Rebus. «Eh, la rinomata efficienza degli amici di Newcastle... Ce l'hai un indirizzo e-mail?» Rebus glielo dettò. «Allora controlla la posta tra un'ora. Però ricorda che è venerdì, e quindi la mia saletta investigativa potrebbe essere un tantino desolata.» «Ti siamo grati per qualunque cosa riuscirai a trovarci, Stan. Buon rientro.» Rebus chiuse il telefonino. «Oggi è venerdì», disse a Siobhan. «Grazie a Dio», cantilenò lei. «A questo proposito, sei sempre intenzionata ad andare al T in the Park, domani?» «Non lo so.» «Con quel che hai patito per il biglietto...» «Magari posso aspettare la serata e guardarmi comunque i New Order.» «Dopo un duro sabato di lavoro?» «Pensavi a una passeggiata sul lungomare di Portobello?» «Dipende da cosa arriva da Newcastle. È un pezzo che non faccio una scampagnata nei Borders...» Siobhan parcheggiò in doppia fila e salì le due rampe di scale con lui. L'idea era rivedere velocemente le carte del caso, decidere che cosa sarebbe potuto servire alla dottoressa Gilreagh e poi andare in copisteria con
quello. Alla fine si ritrovarono con una risma di un paio di centinaia di fogli. «Buona fortuna», fece Rebus, accompagnandola alla porta. Dalla strada giunsero insistenti colpi di clacson: Siobhan era riuscita a bloccare l'auto di qualcuno. Rebus aprì la finestra per far entrare un po' d'aria, poi si accasciò in poltrona. Era stanco morto, gli bruciavano gli occhi e gli facevano male il collo e le spalle. Ripensò al massaggio che Ellen Wylie aveva cercato di strappargli. Faceva sul serio? Non importava, adesso era comunque sollevato all'idea che non fosse successo niente. Si sentiva la pancia strizzata nella cintola. Sciolse il nodo della cravatta, slacciò i primi due bottoni della camicia e il sollievo fu immediato, così allentò anche la cintura. «Quel che ti serve è una bella tuta, ciccione», si rimproverò da solo. Tuta, ciabatte e magari anche una badante; l'intero l'armamentario da vecchi, a parte Charlie Is My Darling. «Già, e un altro po' di autocommiserazione.» Con la mano si sfregò un ginocchio; spesso la notte si svegliava con una trafittura proprio in quel punto. Reumatismi, artrite, usura generale... Inutile disturbare il medico, l'aveva già fatto per la pressione e il responso era stato meno sale, meno zucchero, meno grassi e più attività fisica. E, già che ci siamo, smettiamola anche di bere e di fumare. Rebus aveva reagito con una domanda: «Non ha mai pensato che potrebbe semplicemente scrivere queste cose su una lavagnetta, piazzarla sulla sedia e prendersi il pomeriggio libero, dottore?» In cambio aveva ottenuto uno dei sorrisi più stanchi che avesse mai visto sul viso di un uomo tanto giovane. Il telefono suonò e lui lo mandò a quel paese. Se proprio volevano parlargli, potevano provare sul cellulare... che infatti suono trenta secondi dopo. Temporeggiò qualche secondo prima di rispondere: era Ellen Wylie. «Sì?» disse. Non gli parve il caso di confessarle che aveva appena finito di pensare a lei. «Un problemino ce l'ha avuto, Trevor Guest, quando è stato ospite della nostra bella città.» «Illuminami.» Posò la testa sullo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. «È rimasto coinvolto in una rissa a Ratcliffe Terrace. Hai presente?» «È dove vanno i tassisti a fare benzina. Ci sono passato ieri sera.» «Dall'altra parte della strada c'è un pub, si chiama Swany's.»
«Ci sono stato qualche volta.» «Ma non mi dire! Comunque, una volta almeno c'è stato anche Guest. A quanto pare un cliente l'ha preso in antipatia e sono andati a risolvere la cosa fuori. Si dà il caso che nel cortile dell'officina ci fosse una macchina nostra... senza dubbio erano andati a fare rifornimento. Insomma, i due contendenti hanno passato la notte in camera di sicurezza.» «Ed è finita lì?» «Non arrivarono in tribunale, ma alcuni testimoni videro l'altro cliente sferrare il primo pugno e i nostri chiesero a Guest se voleva sporgere denuncia, ma lui declinò.» «Perché avevano litigato non lo sai, giusto?» «Potrei chiederlo agli agenti che lo fermarono.» «Non credo importi più di tanto. Come si chiamava l'altro tizio?» «Duncan Barclay.» Ellen fece una pausa. «Però non era di qui. L'indirizzo che diede era di Coldstream. Nelle Highlands?» «No, Ellen, dalla parte opposta.» Rebus aveva riaperto gli occhi e ora raddrizzò la schiena. «Sta proprio nel cuore dei Borders.» Le chiese di aspettare mentre si procurava carta e penna, poi riprese in mano il telefono. «Allora, ripetimi da capo.» 24 Benché non fosse tardi, il campo pratica era illuminato a giorno da luci tanto abbaglianti che sembrava un set cinematografico. Mairie aveva preso un legno tre e un cestino con cinquanta palle. I primi due box erano occupati, ma superati quelli c'erano diverse postazioni libere e tutte dotate di tee automatici, dove ti risparmiavano il disturbo di chinarti per rimettere a posto la palla dopo ogni colpo. Il campo era diviso in sei sezioni da quaranta metri, ma i giocatori presenti erano ben lungi dal raggiungere i duecentoquaranta con i loro tiri. Sull'erba girava una macchinetta simile a una mietitrebbia in miniatura, il conducente protetto da uno schermo di rete metallica. Mairie notò che anche l'ultimo box della fda era occupato: all'interno c'era un golfista che prendeva lezione. L'uomo si girò a guardare il tee, colpì e rimase a osservare la palla che atterrava una sessantina di metri più in là. «Meglio», mentì il maestro. «Ma cerchiamo di concentrarci e di non piegare il ginocchio.» «L'ho scucchiaiata un'altra volta, vero?» indovinò l'allievo.
Mairie posò il contenitore metallico nel box adiacente e decise di provare qualche swing di riscaldamento, giusto per sciogliersi le spalle. Maestro e allievo parvero subito infastiditi dalla sua presenza. «Scusi?» la chiamò il primo. Mairie lo guardò: le sorrideva da sopra il divisorio. «Quella postazione l'abbiamo prenotata noi.» «Ma non la state usando», ribatté lei. «Però l'abbiamo pagata.» «Questione di privacy», intervenne l'altro, decisamente irritato. Poi riconobbe Mairie. «Oh, no...» Il maestro si voltò verso di lui. «La conosce, signor Pennen?» «È una giornalista, cazzo», sbottò Richard Pennen. Poi, a lei: «Qualunque cosa voglia, non ho niente da dirle». «Non c'è problema», rispose Mairie, pronta per il primo colpo. La palla schizzò in aria, descrivendo una traiettoria assolutamente pulita fino alla bandiera dei duecento metri. «Bel colpo», si complimentò il maestro. «Mi ha insegnato mio padre. Lei è un professionista, vero?» gli chiese poi. «Mi pare di averla vista a qualche torneo,» Lui rispose con un cenno di assenso. «Non era l'Open?» «Non mi sono qualificato», dichiarò l'uomo, arrossendo. «Se avete finito...» li interruppe Richard Pennen. Lei si limitò a un'alzata di spalle e si preparò per un altro colpo. Pennen parve intenzionato a fare la stessa cosa, ma poi ci rinunciò. «Senta», disse, «che accidenti vuole?» Mairie tacque finché non ebbe visto la pallina compiere il suo volo e atterrare di nuovo a breve distanza dalla linea dei duecento, leggermente sulla sinistra. «Ho bisogno di una messa a punto», si disse. Quindi, rivolta a Pennen: «Pensavo solo che fosse giusto avvisarla». «Avvisarmi di che?» «Probabilmente la cosa non finirà sul giornale fino a lunedì», rifletté lei. «Così avrà tempo di preparare una risposta.» «Mi sta prendendo in giro, signora...?» «Henderson», disse lei. «Mairie Henderson. Questa è la firma che vedrà lunedì.» «E il titolo cosa dirà? 'Pennen Industries al G8, nuovi posti di lavoro per la Scozia'?»
«Quello potrebbe finire sulle pagine economiche», rispose Mairie. «Il mio pezzo invece sarà in prima. Poi per il titolo deciderà il direttore.» Finse di pensarci. «'Finanziamento ai partiti, scandalo per governo e opposizione', magari.» Pennen fece una risata aspra, dondolando il ferro con una mano sola. «Tutto qui, il suo scoop?» «Direi che nel bucato ci sono un sacco di altri panni sporchi: le sue manovre in Iraq, le bustarelle in Kenya e altrove... Ma per il momento credo che mi soffermerò su questi finanziamenti. Sa, mi ha detto un uccellino che lei ha foraggiato sia i laburisti sia i conservatori. Le donazioni vengono registrate, ma i prestiti possono rimanere del tutto confidenziali. Il fatto è che dubito fortemente che ciascun partito sappia che lei ha sovvenzionato l'altro, e la cosa torna: Pennen si separa dal ministero della Difesa a causa di una decisione presa dall'ultimo governo Tory, ma i laburisti stabiliscono che nulla osta alla privatizzazione... e lei deve favori da una parte e dall'altra.» «Non c'è niente di illegale nei prestiti commerciali, signorina Henderson, segreti o no che siano.» Pennen stava ancora facendo oscillare il ferro. «Sarà comunque uno scandalo, quando la stampa verrà a saperlo», ribatté Mairie. «E, come ho già detto, chissà che altro affiorerà...» A quel punto Pennen batté violentemente la mazza sul divisorio. «Lo sa quanto ho faticato io, questa settimana, per assicurare contratti da decine di milioni di sterline all'industria britannica? Mentre lei che cosa ha fatto, a parte rovistare inutilmente nella spazzatura?» «A ciascuno il suo, signor Pennen.» Mairie sorrise. «Ma non rimarrà un 'signore' a lungo, vero? Con i soldi che si è cavato di tasca, il titolo di baronetto non dev'essere molto lontano. Certo, quando Blair scoprirà che lei ha coperto d'oro i suoi avversari...» «Problemi, signore?» Mairie si voltò e vide tre poliziotti in uniforme. Quello che aveva parlato stava fissando Pennen, ma gli altri due avevano occhi solo per lei. E sguardi per niente amichevoli. «Credo che la signora stesse per andarsene», borbottò l'uomo d'affari. Mairie fece finta di sbirciare oltre il divisorio. «Ma che cos'ha lì, la lampada di Aladino? Tutte le volte che li ho chiamati io, gli sbirri, ci hanno messo almeno mezz'ora.» «Controllo di routine», disse il capopattuglia. Mairie lo osservò attentamente: niente mostrine sull'uniforme. Viso ab-
bronzato, capelli a spazzola, mascella quadrata. «Avrei una domanda», disse allora. «Siete al corrente delle sanzioni penali in cui incorre chi si spaccia per agente di polizia?» Il capo corrugò la fronte e fece per afferrarla, ma Mairie si divincolò, uscì di corsa dalla zona di pratica e attraversò il campo fuggendo verso l'uscita e scansando al contempo i colpi provenienti dai primi due box, tra le urla irose dei giocatori. Raggiunse la porta un attimo prima dei suoi inseguitori. La cassiera le chiese dove fosse il legno tre, ma lei non rispose neanche. Spinse un'altra porta, si ritrovò nel parcheggio e si lanciò verso la macchina, premendo convulsamente sul telecomando. Non c'era tempo per guardarsi intorno. Sedette al volante e chiuse tutt'e quattro le portiere. Chiave nell'accensione, pugni che percuotevano i finestrini, il capo in divisa che tentava di far scattare la maniglia e poi faceva il giro della macchina. Mairie gli fece capire con lo sguardo che non avrebbe avuto riguardi, poi pigiò sull'acceleratore. «Attento, Jacko! Questa zoccola è fuori di testa!» Per non lasciarci la pelle, Jacko dovette tuffarsi di lato. Nello specchietto Mairie lo vide rialzarsi mentre un'auto, anche quella priva di contrassegni, gli si accostava. Davanti a lei il bivio: a sinistra l'aeroporto, a destra la città... ma tornando verso Edimburgo avrebbe avuto più possibilità di seminarli. Jacko: quel nome non se lo sarebbe certo scordato. E uno l'aveva chiamata «zoccola», tipica parola da militari, da soldati che si erano abbronzati sotto il sole di altri lidi. In Iraq, per esempio. Guardie private, travestite da poliziotti. Controllò lo specchietto: nessun segno dei suoi inseguitori, ma ciò non significava che non le stessero dietro. Percorse la A8 fino allo svincolo, superando alla grande i limiti di velocità e lampeggiando in corsia di sorpasso per farsi liberare la strada dagli altri automobilisti... Ma poi? Scovare il suo indirizzo non sarebbe stato certo un problema per quelli: un autentico giochetto per uno come Pennen. Allan era via per lavoro e non sarebbe tornato fino a lunedì, perciò nulla le impediva di andare dritta allo Scotsman e mettersi a lavorare al suo articolo. Aveva il portatile nel bagagliaio, con dentro tutte le informazioni che le servivano: note, dichiarazioni virgolettate, prime bozze. Se necessario avrebbe potuto fermarsi in ufficio anche tutta la notte, sostentandosi a caffè e snack, protetta dagli attacchi del mondo esterno.
A firmare la condanna di Richard Pennen. Fu Ellen Wylie a dare la notizia a Rebus, il quale a sua volta chiamò Siobhan, che passò a prenderlo venti minuti più tardi e poi, nel silenzio del crepuscolo, diresse l'auto verso Niddrie. Il campo di accoglienza del Jack Kane Centre era stato definitivamente smantellato: niente più tendoni, né docce, né bagni chimici, metà della recinzione era stata rimossa ed erano sparite anche le guardie giurate, sostituite per il momento da agenti in uniforme, paramedici, e dagli stessi due inservienti d'obitorio che avevano traslato i miseri resti di Ben Webster dalle pendici del castello. Siobhan si fermò accanto alla fila di veicoli già parcheggiati e Rebus riconobbe subito qualche collega delle stazioni di St Leonard e Craigmillar. I nuovi arrivati furono accolti da cenni di saluto. «Non è la vostra zona, però», commentò un investigatore. «Diciamo solo che abbiamo dei motivi d'interesse nei confronti del deceduto», rispose Rebus. Siobhan lo raggiunse e si chinò verso di lui per non farsi sentire. «A quanto pare in giro non sanno ancora che siamo sospesi.» Lui si limitò ad annuire, procedendo verso un cerchio di tecnici della Scientifica inginocchiati a terra. Il medico legale di turno aveva dichiarato il decesso e stava apponendo la propria firma in calce ai moduli ufficiali, tra i flash delle macchine fotografiche e i lampi delle torce che setacciavano il terreno in cerca di indizi, mentre una decina di agenti teneva i curiosi a debita distanza per permettere ad altri di delimitare la zona. Pubblico di ragazzini in bicicletta e mamme con i piccoli nei passeggini: le scene del crimine attiravano sempre una grande e variegata folla. Siobhan cominciava a orientarsi. «Più o meno è dove avevano piantato la tenda i miei», disse a Rebus. «Immagino che non siano stati loro a lasciare in giro questo schifo, però.» Mollò una pedata a una bottiglia di plastica vuota, nel parco disseminato di rifiuti: striscioni e volantini, incarti di fast food, una sciarpa e un guanto, un sonaglio da bebè, un pannolino arrotolato... Qualcosa prendevano e mettevano da parte anche quelli della Scientifica, per verificare impronte digitali e tracce di sangue. «Non so cosa darei per vedergli estrarre il DNA da lì», disse Rebus, indicando un preservativo usato. «Non è che la tua mamma e il tuo papà...?» Siobhan gli rivolse un'occhiataccia. «Io mi fermo qui.» Lui si strinse nelle spalle e la lasciò dov'era. A terra, il cadavere del con-
sigliere Gareth Tench si andava raffreddando. Giaceva prono, le gambe piegate come se fosse caduto di schianto. La testa era ruotata di lato, gli occhi semiaperti. Sul dorso della giacca una macchia scura. «Accoltellato, giusto?» chiese Rebus al patologo. «Tre volte», confermò l'altro. «Alla schiena. Le ferite non sembrano molto profonde.» «Del resto basta poco. Ha un'idea del tipo di lama?» «Difficile da dire adesso.» Il dottore sbirciò oltre le lenti da presbite. «Larga un paio di centimetri, forse anche meno.» «Manca niente?» «Ha ancora addosso dei contanti, carte di credito, le solite cose. Ci ha facilitato l'identificazione.» L'uomo fece un sorriso stanco e gli tese il portablocco. «Se potesse controfirmare qui, ispettore...» Ma lui alzò le mani. «Non è un caso mio, dottore.» Il medico guardò Siobhan, ma Rebus scosse lentamente il capo e si riavviò verso di lei. «Tre ferite di arma da taglio», la informò. Lei fissava il viso di Tench, in preda a una specie di tremito. «Hai freddo?» «È proprio lui», disse piano Siobhan. «Perché, lo credevi invulnerabile?» «No, per niente.» Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. «Mi sa che dovremmo dirlo a qualcuno.» Si guardò intorno in cerca di un candidato papabile. «Dire cosa?» «Che ultimamente l'avevamo scocciato parecchio, Tench. Tanto prima o poi salterà fuori...» Ma Siobhan gli aveva afferrato la mano e lo trascinava già verso il muro di cemento del centro sportivo. «Mi dici cosa ti prende?» Lei però non aveva intenzione di rispondergli finché non fossero stati abbastanza lontani dalla scena, e anche allora gli si avvicinò tanto che sarebbero potuti partire con un giro di valzer. La faccia era in ombra. «Siobhan, perdio», la incalzò lui. «Devo dirti chi è stato.» «Chi è stato? Cioè?» «Keith Carberry», sibilò lei. Poi, dinanzi al suo silenzio, sollevò il viso al cielo e serrò gli occhi. Aveva i pugni chiusi, era tesa come una corda di violino.
«Che è successo?» le domandò piano. «Siobhan, che cazzo hai combinato?» Finalmente lei riapri gli occhi, ricacciò indietro le lacrime e tentò di respirare normalmente. «Stamattina ho visto Carberry. Gli abbiamo detto...» Si interruppe. «Gli ho detto che volevo Garetti Tench.» Gettò un'altra occhiata al cadavere. «E lui deve aver pensato che lo volevo morto...» Rebus attese che lei incontrasse il suo sguardo. «Io l'ho visto oggi pomeriggio», disse. «Sorvegliava Tench, davanti alle City Chambers.» Fece scivolare le mani in tasca. «Siobhan, hai detto 'abbiamo'...» «Davvero?» «Dove l'hai visto?» «Nella sala biliardi.» «La stessa che diceva Cafferty?» Lei annuì. «E c'era anche lui, giusto?» Lo sguardo di lei fu una risposta inequivocabile. Rebus si tolse le mani di tasca e mollò una botta al muro. «Ma Cristo santo! Tu e Cafferty?» Altro cenno di assenso. «Guarda che se quello ti pianta le grinfie nella schiena non te ne liberi più. Sono anni che mi conosci, Shiv, te ne sarai pure accorta!» «E adesso cosa faccio?» Lui ci pensò su un momento. «Tieni la bocca chiusa, e Cafferty saprà di averti in pugno.» «Ma se dico tutto...» «Non lo so», confessò lui. «Forse ti rimetteranno in servizio di pattuglia.» «Tanto vale che cominci a scrivere la lettera di dimissioni, allora.» «Che cosa ha detto Big Ger a Carberry?» «Solo che doveva consegnare Gareth Tench a noi.» «E chi sarebbero questi 'noi', Cafferty o le forze dell'ordine?» Lei fece spallucce. «E come doveva farla, questa consegna?» «Cazzo, John, non lo so. Lo hai appena detto anche tu, che lo stava marcando stretto.» Rebus volse lo sguardo alla scena del delitto. «Un bel salto, tra sorvegliarlo e pugnalarlo tre volte alla schiena.» «Magari Keith Carberry non la pensava così.» Rebus rifletté un altro istante. «Per adesso stiamo zitti», decise. «Ti ha vista qualcun altro con Cafferty?» «No, solo Carberry. Nella sala c'era altra gente, ma nell'ufficio di sopra
eravamo solo noi tre.» «E tu lo sapevi che Cafferty sarebbe stato lì?» La vide annuire. «Perché avevi organizzato la cosa insieme a lui, giusto?» Ancora sì. «E non ti è neanche passato per la testa di dirmelo.» Faticava a non lasciar trapelare la rabbia. «Cafferty è venuto a casa mia, ieri sera», confessò lei. «Oh, Cristo...» «La sala biliardi è sua, per questo sapeva che Carberry la frequenta.» «Devi stare lontana da lui, Shiv.» «Lo so.» «Ormai il danno è fatto, ma possiamo tentare di metterci una pezza.» «Dici sul serio?» Lui la squadrò. «Ho detto 'possiamo', ma intendevo io.» «Perché non c'è niente che John Rebus non possa sistemare?» Le si erano irrigiditi un po' i lineamenti. «La medicina è amara ma la prendo da sola, John. Non è che puoi sempre venire a salvarmi in sella al tuo cavallo bianco.» Lui si portò le mani ai fianchi. «Finito con la macedonia di metafore?» «Lo sai perché ho dato retta a Cafferty? Perché sono andata in quella sala biliardi pur sapendo che ci sarebbe stato anche lui?» La voce le tremava per l'emozione. «Perché mi offriva qualcosa che la legge non poteva darmi. L'hai visto da te, questa settimana: i ricchi e potenti fanno quello che vogliono e se la cavano sempre, in qualunque situazione. L'altro giorno Keith Carberry è andato in Princes Street perché pensava che così volesse il suo capo: era convinto di poter fare tutto il casino che voleva con la benedizione di Gareth Tench.» Rebus attese che avesse finito, poi le sfiorò le spalle. «Cafferty», disse adagio, «voleva solo far chiudere bottega a Tench, e non ha esitato a servirsi di te per arrivare al suo scopo.» «Mi ha detto che non lo voleva morto.» «E invece a me sì. Gli ho sentito fare una tirata piuttosto eloquente al riguardo.» «Noi non abbiamo chiesto a Keith Carberry di ammazzarlo», affermò lei. «Shiv, Shiv, hai appena finito di dirlo tu stessa: Keith fa quello che ritiene gli sia stato chiesto di fare. Dai potenti, da quelli che in qualche modo possono controllarlo. Gente come Tench... come Cafferty... e come te.» Le puntò un dito contro.
«Quindi la colpa è mia?» disse lei, socchiudendo gli occhi. «Tutti sbagliamo prima o poi, Siobhan.» «Be', grazie mille.» Girò sui tacchi e a grandi passi attraversò il campo giochi. Rebus si guardò i piedi, emise un sospiro e poi si cercò le sigarette in tasca. L'accendino era scarico. Lo scosse, lo capovolse, ci soffiò sopra, lo sfregò per scaramanzia... nemmeno una scintilla. Tornò verso la fila di auto della polizia e chiese a un agente se aveva da accendere. Quando gli rispose di sì, pensò che tanto valeva domandargli un altro favore. «Avrei bisogno di un passaggio», disse, osservando i fanalini di coda dell'auto di Siobhan allontanarsi nella notte. Non riusciva a credere che Cafferty avesse allungato le zampe anche su di lei. Anzi, no, ci credeva eccome. Siobhan aveva voluto dimostrare qualcosa ai suoi genitori: non solo che era brava nel suo lavoro, ma anche che nel grande schema delle cose questo faceva una differenza. Aveva voluto provare loro che una risposta, una soluzione, c'era sempre. E Cafferty le aveva promesso entrambe le cose. Ma il prezzo lo aveva stabilito lui. Siobhan aveva smesso di ragionare da poliziotto e ricominciato a fare la figlia. Pensò a come lui era riuscito ad alienarsi i suoi, di familiari: prima la moglie e la figlia, poi suo fratello, allontanati perché sembrava che il lavoro lo richiedesse, che pretendesse la sua incondizionata dedizione, senza lasciare spazio a nessun altro. Be', adesso era troppo tardi. Per lui, ma non per Siobhan. «Lo vuole ancora, quel passaggio?» chiese l'agente. Rebus annuì e montò in macchina. Prima fermata: la stazione di polizia di Craigmillar. In attesa che la squadra si riunisse, andò a prendersi una tazza di caffè. La cosa più sensata era che attrezzassero lì la sala Omicidi, e infatti nel giro di poco le auto cominciarono a convergere in loco. Rebus non conosceva nessuno ma si presentò, e l'investigatore di servizio lo squadrò inclinando la testa. «Deve parlare con il sergente McManus.» Il quale varcava la soglia proprio in quel momento. Era persino più giovane di Siobhan, forse non arrivava ai trenta: aveva un viso da adolescente, era alto e smilzo, e Rebus ne ricavò l'impressione che fosse un ragazzo del posto. Gli tese la mano e ripeté le presentazioni. «Cominciavo quasi a pensare che lei fosse un essere mitologico», rispo-
se l'altro con un sorriso. «Ho sentito che tempo fa ha lavorato anche qui.» «Vero.» «Con Bain e Maclay.» «Dovevo espiare i miei peccati.» «Be', non ci sono più da tempo, quindi non deve preoccuparsi.» Si erano avviati per il lungo corridoio oltre il bancone d'ingresso. «Che cosa posso fare per lei, ispettore?» «Niente, ma c'è qualcosa che penso dovrebbe sapere.» «Del tipo?» «Recentemente avevo avuto qualche scontro con il deceduto.» McManus lo guardò. «Ah, sì?» «Stavo seguendo il caso Cyril Colliar.» «Sempre fermo ad altre due vittime?» Rebus annuì. «Fra queste e Tench c'era un collegamento. Uno era un tizio che aveva lavorato in un centro anziani non lontano da qui: il posto gliel'aveva procurato lui.» «Capisco.» «Inoltre dovrete interrogare la vedova, che probabilmente vi riferirà di una visita dell'Investigativa.» «Cioè sua?» «Mia e di una collega, sì.» Dopo una svolta a sinistra in un altro corridoio, Rebus aveva seguito McManus nei locali dell'Investigativa, dove la squadra si stava radunando. «C'è altro che dovrei sapere?» Rebus cercò di fare la faccia di uno che si lambicca il cervello, poi scosse il capo. «No, direi che è tutto.» «Tench era tra i sospettati?» «Non proprio.» Qui fece una pausa. «Però eravamo vagamente preoccupati dal suo rapporto con un delinquentello di zona un certo Carberry.» «Keith, lo conosco», disse McManus. «È finito in tribunale per tafferugli in Princes Street. All'uscita il consigliere era li ad aspettarlo, e mi sono sembrati abbastanza culo e camicia. Poi dalle telecamere di sorveglianza è saltato fuori che Carberry aveva pestato un'innocente al corteo, ed è parso che fosse in guai più seri rispetto all'inizio. Si dà il caso che oggi mi trovassi alle Chambers, intorno all'ora di pranzo, a parlare proprio con Tench, e che quando me ne sono andato abbia visto Carberry che lo spiava dall'altra parte della strada...» Rebus terminò con un'alzata di spalle, come se non avesse la minima idea di cosa
tutto ciò potesse significare. Intanto McManus osservava lui. «Carberry vi ha visti insieme?» Rebus annuì. «Intorno all'ora di pranzo, ha detto?» «Ho avuto la netta sensazione che sorvegliasse il consigliere.» «Ma non gliel'ha chiesto?» «Purtroppo ero già in macchina. L'ho notato per caso, guardando nello specchietto.» McManus si mordicchiò il labbro inferiore. «Questa faccenda va risolta in fretta», disse quasi tra sé. «In zona Tench era un idolo, ha fatto solo del bene, e ci sarà un sacco di gente molto arrabbiata.» «Non c'è dubbio», confermò Rebus. «Lei lo conosceva?» «Era amico di mio zio... dai tempi della scuola.» «Lei è di qui», dichiarò allora Rebus. «Cresciuto all'ombra del castello di Craigmillar.» «Quindi conosceva Gareth Tench da un pezzo.» «Anni.» Rebus tentò di darsi un tono disinvolto. «Mai sentito girare voci su di lui?» «Per esempio?» «Non saprei... Le solite cose: relazioni extraconiugali, soldi pubblici volatilizzati...» «Il cadavere è ancora caldo», fece barriera McManus. «Chiedevo soltanto», si scusò Rebus. «Non stavo insinuando nulla.» Il giovane sergente si rivolse alla squadra: sette agenti, tra cui due donne, impegnatissimi a fingersi in altre faccende affaccendati. McManus lasciò Rebus per piazzarsi di fronte a loro. «Andremo a casa di Tench e informeremo la famiglia. Serve qualcuno che faccia il riconoscimento ufficiale.» Si voltò a metà verso Rebus. «Dopo di che, porteremo qui Keith Carberry per fargli qualche domanda.» «Tipo: 'Dove hai messo il coltello, Keith?'» ribatté un membro della squadra. Il capo gliela abbuonò. «Lo so che questa settimana abbiamo avuto qui Bush, Blair e Bono, ma a Craigmillar Gareth Tench valeva quanto una testa coronata, perciò dobbiamo darci da fare: più punti mandiamo a segno entro stasera, più sono contento.» Qualcuno azzardò una lamentela, ma senza troppa convinzione. Rebus ebbe l'impressione che tutto sommato McManus stesse simpatico ai suoi uomini, disposti anche a lavorare volentieri un'oretta in più per lui.
«Lo segniamo lo straordinario?» chiese uno. «Il G8 non ti è bastato, Ben?» ribatté il sergente. Rebus si trattenne ancora un istante, pronto a dire qualcosa tipo «grazie», o «in bocca al lupo», ma l'attenzione di McManus era ormai tutta rivolta al nuovo caso e aveva cominciato a distribuire i compiti. «Ray, Barbara: controllate se ci sono filmati del circuito chiuso intorno al centro sportivo. Billy, Tom: cercate di mettere un po' di pepe al culo dei nostri stimati patologi, e lo stesso vale per quei fannulloni della Scientifica. Jimmy, tu e Kate andate a prelevare Keith Carberry e sbattetelo a fare la sauna in camera di sicurezza finché non torno io. Ben, tu vieni con me: andremo noi a casa di Tench. Domande?» Nessuna. Tornando indietro Rebus si augurò che Siobhan potesse veramente restarne fuori, ma chi poteva dirlo? McManus non gli doveva alcun favore e Carberry avrebbe potuto spifferare tutto, cosa del resto imbarazzante ma non ingestibile. Cominciò a prepararsi mentalmente il discorsetto. «Il sergente Clarke era stata informata che Keith giocava a biliardo a Restalrig, e quando si è presentata nel locale si dà il caso che fosse presente anche il titolare, Morris Gerald Cafferty...» Certo era difficile che McManus se la bevesse. Avrebbero sempre potuto negare che l'incontro fosse avvenuto, ma c'erano dei testimoni, e quella strategia avrebbe funzionato solo se Cafferty avesse retto loro il gioco, cosa che Big Ger avrebbe accettato unicamente a patto di poter stringere meglio il cappio intorno al collo di Siobhan. A quel punto, tutto il suo futuro sarebbe stato nelle mani di Cafferty, e così quello di Rebus. Ragion per cui, raggiunto l'ingresso, chiese un altro passaggio, stavolta per Merchiston. Era una pattuglia di agenti piuttosto allegri e ciarlieri, che però si astennero dal commentare la destinazione: forse credevano davvero che gli ispettori dell'Investigativa potessero permettersi di abitare in quel quartiere tranquillo e alberato, dove le pregiate case vittoriane si ergevano dietro siepi e muri altissimi. Anche l'illuminazione stradale sembrava smorzata apposta per non tenere svegli i residenti, e le strade ampie erano quasi vuote: qui non c'erano problemi di parcheggio, ogni casa vantava un vialetto che poteva comodamente ospitare cinque o sei vetture. Rebus fece fermare la volante su Ettrick Road, giusto per evitare gli indizi troppo ovvi, e quando gli agenti si dimostrarono inclini ad aspettare di vedere in quale casa entrava lui li liquidò con un gesto della mano e si accese una sigaretta con un
fiammifero che gli avevano appena offerto. Lo sfregò contro il muro e guardò la volante inserire la freccia a destra, in fondo alla via. Poi anche lui li imitò, ma all'incrocio l'auto di pattuglia non si vedeva più ed era chiaro che non poteva essersi nascosta nei paraggi. Nessun altro segno di vita, niente traffico né pedoni, nessun rumore da dietro le spesse cinte di pietra. Enormi finestre temperate da persiane di legno, campetti da bocce e da tennis deserti. Prese di nuovo a destra e percorse metà della strada, fino alla siepe d'agrifoglio davanti a una casa tutta illuminata, con la veranda sorretta da colonne di pietra. Spinse il cancello e diede uno strattone al cordone del campanello, poi si chiese se non avrebbe fatto meglio a passare da dietro: l'ultima volta che era stato lì ci aveva trovato una piscina d'acqua calda. Ma poi il pesante portoncino di legno venne aperto e fece capolino un giovane con il torace scolpito in palestra ed evidenziato dalla maglietta nera e attillatissima. «Vacci piano con quegli anabolizzanti», lo ammonì Rebus. «Il tuo signore e padrone è in casa?» «E secondo te vuole comprare quello che hai da vendere?» «Io vendo la salvezza, figliolo... e tutti ne hanno bisogno, perfino tu.» Oltre le spalle dell'uomo intravide un paio di gambe femminili che scendevano la scala; piedi nudi, polpacci snelli e abbronzati e il lembo di un candido accappatoio di spugna. La proprietaria si chinò per vedere chi c'era alla porta e Rebus le indirizzò un cenno di saluto. Educata, la ragazza salutò a sua volta, pur non avendo idea di chi fosse il nuovo arrivato. Poi si girò e tornò di sopra con passo felpato. «Il mandato dov'è?» chiese la guardia del corpo. «Oh, finalmente abbiamo capito, vedo», esclamò Rebus. «Ma il tuo capo e io ci conosciamo da una vita.» Puntò un dito verso una delle tante porte dell'anticamera. «Quello è il soggiorno, e io lo aspetto lì.» Fece per oltrepassare il giovane, ma quello gli piazzò una mano aperta sul torace e disse: «Adesso è occupato». «Sì, a farsi una scopata a pagamento», concordò Rebus. «Quindi dovrò aspettarlo per due interi minuti, sperando che non gli venga un colpo prima.» Fissò la mano che gli era calata sul petto pesante come piombo. «Sicuro di volere insistere? Ogni volta che ci vedremo, d'ora in poi», continuò adagio, «io ricorderò questo gesto... e credimi, figliolo, non importa cosa ti racconteranno a proposito delle mie inadeguatezze: quando si tratta di serbare rancore, sono un primatista mondiale.» «Per non parlare delle medaglie d'oro in rottura di coglioni», tuonò una
voce in cima alle scale. Rebus osservò la discesa di Big Ger Cafferty in persona, anche lui avvolto in un voluminoso accappatoio, i pochi capelli dritti in testa e il volto paonazzo per lo sforzo. «Che cazzo sei venuto a fare qui?» ringhiò. «Come alibi è un filino patetico», commentò Rebus. «Gorilla e 'fidanzata' che probabilmente paghi un tanto all'ora...» «E perché mi servirebbe un alibi?» «Lo sai benissimo perché. I vestiti dove li hai nascosti, in lavatrice? Il sangue è tremendo, non viene via.» «Non so di cosa stai parlando.» Ma Rebus sapeva di averlo preso all'amo, perciò decise di tirarlo su. «Gareth Tench è morto», dichiarò. «Pugnalato alla schiena, che è proprio il tuo stile. Vuoi che ne parliamo davanti a questo Schwarzenegger dei poveri o passiamo in salotto?» Cafferty rimase perfettamente impassibile. Gli occhi erano due forellini neri, la bocca una sottile linea diritta. Infilò le mani nelle tasche dell'accappatoio e accennò appena un gesto con il capo, segnale che la guardia del corpo intese all'istante, perché subito tolse la mano e Rebus si ritrovò libero di seguire Big Ger in soggiorno. Dal soffitto pendeva un lampadario a bracci, un pianoforte a coda occupava lo spazio davanti al bovindo e ai due lati di esso troneggiavano gli enormi altoparlanti di uno stereo di ultimissima generazione, posizionato su uno scaffale a muro. I quadri erano moderni e sgargianti, macchie di colori violenti, e sopra la mensola del camino faceva bella mostra di sé la copertina incorniciata del libro di Cafferty, attualmente indaffarato al mobile bar e di spalle a Rebus. «Whisky?» chiese Big Ger. «Perché no», rispose Rebus. «Accoltellato, dicevi?» «Tre volte. Fuori dal Jack Kane Centre.» «Proprio in casa», commentò Cafferty. «Una rapina finita male?» «Puoi fare di meglio.» Cafferty si voltò e gli porse un bicchiere: roba di prima qualità, scura e torbosa. L'ospite non si diede la pena di proporre un brindisi, ma prima di buttare giù una sorsata se la fece girare in bocca. «Tu lo volevi morto», continuò Rebus, guardando il padrone di casa sorbire a sua volta un minuscolo goccio di whisky. «Ti ho sentito quando farneticavi sull'argomento.» «Ero in preda all'emozione», ammise Big Ger.
«E quando sei in quello stato sei capace di tutto.» Il vecchio fissava uno dei suoi quadri, grossi grumi di bianco a olio che si scioglievano in rivoli di grigio e rosso. «Mentirei se dicessi che mi dispiace, Rebus: in realtà la cosa mi semplifica un po' la vita. Ma non l'ho fatto ammazzare io.» «Invece credo di sì.» Cafferty inarcò leggermente un sopracciglio. «E Siobhan che cosa ne pensa?» «È per lei che sono qui.» Adesso Big Ger sorrideva. «Ah, ecco», disse. «Ti ha raccontato della nostra chiacchieratina con Keith Carberry?» «Dopo la quale, si dà il caso che io l'abbia beccato a seguire Tench.» «Padronissimo.» «Cioè non gliel'hai ordinato tu?» «Chiedilo a Siobhan: c'era anche lei.» «Per te è il sergente Clarke, Cafferty, e lei non ti conosce come ti conosco io.» «Avete arrestato Carberry?» Big Ger distolse l'attenzione dal quadro. Rebus annuì lentamente. «E secondo me canterà, quindi se gli hai dato anche solo un'imbeccata...» «Non gli ho dato un accidente di niente, e se lui dice di sì vi piglia per il culo. Ho un sergente dell'Investigativa come testimone.» «Lasciala fuori, Cafferty», lo avvertì Rebus. «Altrimenti?» Lui si limitò a scuotere il capo. «Lasciala fuori», ripeté. «Mi è simpatica, ispettore. Quando finalmente ti trascineranno a forza in un qualche ospizio, credo che la lascerai in buone mani.» «Non avvicinarla mai più. Non rivolgerle mai più la parola.» La voce di Rebus era diventata un sussurro. Cafferty fece un gran sorriso e svuotò il bicchierino di cristallo, poi schioccò le labbra ed espirò rumorosamente. «È del ragazzo che dovresti preoccuparti, invece. Tu pensi che parlerà, e se lo fa potrebbe benissimo metterla in mezzo lui, il sergente Clarke.» Ora godeva di tutta l'attenzione di Rebus. «Naturalmente potremmo anche fare in modo che non abbia la possibilità di parlare...» «Come vorrei che Tench fosse ancora vivo», sospirò Rebus. «Perché ora so che lo aiuterei a rovinarti.» «Alla faccia della volubilità, Cannuccia, tu sei peggio di una giornata e-
stiva a Edimburgo. Tempo una settimana, e sarai di nuovo tutto bacini e bacetti con me.» A completamento del quadro, sporse la boccuccia. «Sei già sospeso dal servizio: sicuro di poterti permettere un altro nemico? Da quanto tempo conti più nemici che amici, eh?» Rebus si guardò intorno. «Sinceramente non vedo grandi feste neanche qui.» «Perché non ti invito mai, lancio del libro a parte.» Cafferty indicò il caminetto con un cenno del capo, e Rebus osservò di nuovo la copertina incorniciata. Lo chiamavano «Mister Big»: vita vagabonda di un figlio cambiato. «Non ho mai sentito nessuno chiamarti 'Mister Big'», commentò poi. Cafferty si strinse nelle spalle. «Un'idea di Mairie, non mia. Anzi, dovrei telefonarle... Non so perché, ma ho l'impressione che mi stia evitando. Tu c'entri qualcosa, per caso?» Rebus lo ignorò. «Con Tench fuori dalle scatole, ti allargherai fino a Niddrie e Craigmillar.» «Ah, sì?» «E Carberry e quelli come lui diventeranno i tuoi nuovi tirapiedi.» Big Ger ridacchiò. «Ti spiace se prendo appunti? Non vorrei scordarmi nulla.» «Quando hai parlato con Keith, stamattina, gli hai fatto capire a cosa puntavi... qual era l'unico risultato che gli avrebbe salvato la pelle.» «Tu dai per scontato che il giovane Carberry sia l'unica persona con cui ho parlato.» Cafferty si stava mescendo un altro whisky. «E gli altri chi sarebbero?» «Magari è stata proprio Siobhan a perdere la testa... immagino che la squadra Omicidi vorrà sentirla, giusto?» La punta della lingua gli sporgeva dalle labbra. «Con chi altri hai parlato di Gareth Tench?» Cafferty fece roteare il liquido nel bicchiere. «Sei tu l'investigatore. Non posso mica combattere tutte le battaglie al posto tuo.» «Il giorno del giudizio è vicino, Cafferty. Per te e anche per me.» Rebus si interruppe. «Lo sai, vero?» Il gangster scosse lentamente la testa. «Già ci vedo, allungati su due sedie a sdraio in un qualche posticino caldo, con in mano drink ghiacciati, a ricordare le scaramucce dei bei vecchi tempi, quando i buoni erano ancora convinti di sapere chi erano i cattivi. Questa settimana dovrebbe averci insegnato almeno questo, e a tutti quanti: le cose ci mettono un attimo a
cambiare. Le proteste finiscono in niente, la povertà torna sullo sfondo, alcune alleanze si rafforzano e altre si indeboliscono. Ogni miccia disinnescata, ogni voce messa a tacere, e tutto nel giro di uno schiocco di dita.» Fece anche il gesto, a sottolineare le parole. «Il tuo duro lavoro non ti sembra di colpo frivolo e insignificante? E Gareth Tench... pensi che qualcuno se ne ricorderà ancora, tra un anno?» Svuotò anche il secondo bicchiere. «Ora devo proprio tornare di sopra, Cannuccia. Tu sai che adoro le nostre piccole rimpatriate, ma capisci che...» Posò il bicchiere vuoto sul tavolino e con un gesto invitò Rebus a fare lo stesso. Poi, mentre uscivano dalla stanza, spense le luci e disse qualcosa a proposito del fatto che anche lui si preoccupava di difendere l'ambiente. La guardia del corpo era ferma all'ingresso, mani giunte sul ventre. «Mai fatto il buttafuori?» gli chiese Rebus. «Uno dei tuoi colleghi, un tale Colliar, è finito all'obitorio. Cose che succedono, se sei alle dipendenze di certi datori di lavoro.» Cafferty si era già riavviato per le scale, e Rebus provò una qualche soddisfazione nel vederlo costretto ad appoggiarsi al corrimano a ogni gradino. D'altro canto ormai lui faceva esattamente lo stesso per salire a casa sua. Il gorilla gli aprì la porta e Rebus gli passò davanti con poco garbo, senza che tuttavia il giovane si scomponesse; dopo di che la porta sbatté alle sue spalle. Rimase un momento sul vialetto, poi tornò al cancello e lasciò che questo si richiudesse sferragliando. Sfregò un altro fiammifero, si accese una sigaretta e si incamminò per la via, per poi fermarsi di lì a poco sotto uno dei fiochi lampioni per estrarre il cellulare e chiamare Siobhan. Nessuna risposta. Arrivò in cima alla strada, quindi tornò indietro, e mentre era lì fermo una volpe emaciata trotterellò fuori da un vialetto e si infilò su per quello della casa accanto. Aveva cominciato a vederne parecchie, in città: non sembravano né timide né impaurite e riservavano ai vicini umani uno sguardo prossimo al disprezzo e alla delusione. In campagna la caccia era vietata e in città la gente lasciava loro gli avanzi fuori dalle case; difficile considerarle dei predatori, eppure era quella la loro natura. Predatori trattati come animali da compagnia. Vite vagabonde. Ci volle un'altra mezz'ora prima di sentire il taxi che si avvicinava, il motore diesel affaticato ma inequivocabile come il canto di un uccello. Rebus montò sul sedile posteriore e chiuse la portiera, ma disse all'autista che aspettavano un'altra persona.
«Non ricordo», aggiunse. «Corsa in contanti o a contratto?» «Contratto.» «La MCG Holdings, giusto?» «Il Nook», lo corresse l'autista. «Con destinazione...?» A quel punto l'uomo si girò. «A che gioco stai giocando, amico?» «A nessuno.» «Sul tagliando di chiamata c'era il nome di una donna, e se tu lì sotto hai una passera dovresti andare in tivù a Prima e dopo la cura.» «Grazie del consiglio.» Rebus si rintanò nell'angolino più buio del taxi, mentre l'uscio di casa Cafferty si apriva e richiudeva. Tacchi sul selciato del vialetto, poi la portiera si spalancò e l'auto si riempì di profumo. «Dentro», disse Rebus, prima che la donna potesse reclamare. «Ho solo bisogno di un passaggio fino a casa.» Lei esitò, ma alla fine salì in macchina e si sistemò il più lontano possibile da lui. Il pulsante rosso era acceso, segno che l'autista poteva sentire tutto. Rebus trovò l'interruttore e lo fece scattare. «Lavori al Nook?» chiese quindi a bassa voce. «Non sapevo che Cafferty avesse messo le mani anche su quello.» «A te che ti frega?» ribatté la ragazza. «Facevo solo un po' di conversazione. Sei amica di Molly?» «Mai sentita nominare.» «Volevo solo sapere come stava. Sono io che le ho levato di dosso il diplomatico, l'altra sera.» La donna lo studiò. «Molly sta bene», disse infine. Poi: «Come facevi a sapere che non avresti aspettato fino all'alba?» «Psicologia», sentenziò lui con un'alzata di spalle. «Cafferty non mi è mai sembrato il tipo che passa tutta la notte con una donna.» «Acuto.» Un'ombra di sorriso, ma era arduo distinguere dei lineamenti nella penombra del taxi. Capelli puliti, un bagliore di rossetto, acqua di colonia, gioielli, tacchi alti e un cappotto tre quarti, aperto a mostrare un abitino ben più corto, sotto. Moltissimo mascara, ciglia esagerate. Rebus fece un altro tentativo. «Allora Molly sta bene?» «A quanto ne so.» «Com'è lavorare per Cafferty?» «A posto.» Si voltò per guardare la strada che scivolava loro accanto, coi lampioni a illuminarle metà del viso. «Mi ha parlato di te...» «Sono dell'Investigativa.»
Lei annui. «Quando ha sentito la tua voce, di sotto, è stato come se gli avessero cambiato le batterie.» «Sì, è l'effetto che faccio alla gente. Stiamo andando al Nook?» «Io abito a Grassmarket.» «Comodo per il lavoro», commentò lui. «Che cosa vuoi?» «A parte scroccare un passaggio a Cafferty, intendi?» Rebus fece spallucce. «Magari solo capire perché certa gente accetta di stargli vicino... Sai, comincio a pensare che abbia un virus, perché tutti quelli che lo toccano finiscono col farsi male.» «Tu lo conosci da molto più tempo di me», rispose la ragazza. «Vero.» «Quindi cos'è, ti sei immunizzato?» Lui scosse il capo. «No, quello no.» «A me non ha ancora fatto del male.» «Meglio così. Ma i danni non sono sempre immediati.» Stavano imboccando Lady Lawson Street. Il tassista mise la freccia a destra, nel giro di un minuto sarebbero arrivati a Grassmarket. «Finito di giocare al buon samaritano?» chiese lei. «Oh, sai, è la tua vita...» «Infatti.» La ragazza si sporse verso il divisorio. «Accosti dopo il semaforo.» L'uomo eseguì e subito si diede a compilare regolare ricevuta, ma Rebus gli comunicò che doveva portarlo a un altro indirizzo. La ragazza stava smontando. Rebus si aspettava che dicesse qualcosa, invece lei sbatté la portiera, attraversò la strada e si avviò giù per una viuzza buia. A quel punto il tassista attese che un raggio di luce confermasse l'avvenuta apertura del portone. «Preferisco dare sempre un'occhiata», spiegò poi. «Oggi come oggi non si sa mai. Allora, dove andiamo, capo?» «Rapida inversione», rispose lui. «Lasciami al Nook.» Una corsa da due minuti, al termine della quale ordinò all'autista di aggiungere venti sterline di mancia alla ricevuta, che firmò e gli restituì. «Sicuro, capo?» chiese l'uomo. «È facile, coi soldi di un altro», rispose Rebus, scendendo dalla macchina. Gli uscieri del Nook lo riconobbero immediatamente, ma non per questo furono contenti di rivederlo.
«Molto traffico, ragazzi?» «Come sempre nei giorni di paga, ma con gli straordinari la settimana è stata anche migliore.» Non appena fu entrato, Rebus capì cosa intendeva il buttafuori: un folto gruppo di poliziotti ubriachi sembrava avere monopolizzato tre ballerine, e il loro tavolo gemeva sotto il peso di calici di champagne e boccali di birra. Ma non erano i soli: all'altro lato del locale i partecipanti a un addio al celibato alimentavano la competizione. Rebus non conosceva i poliziotti, ma gli accenti erano scozzesi. I ragazzacci si concedevano un'ultima serata in città prima di tornare da mogli e fidanzate a Glasgow, Inverness, Aberdeen... Sul piccolo palco centrale volteggiavano due donne, e una terza sfilava in cima al bancone del bar a beneficio dei bevitori solitari. In quel momento si accosciò per lasciarsi infilare nel perizoma una banconota da cinque, che procurò al donatore un buffetto sulla guancia butterata. Rebus prese posto sull'ultimo sgabello libero e di lì a poco altre due ballerine apparvero da dietro una tenda, rimettendosi all'opera. Difficile dire se fossero uscite dal privé o se fossero andate solo a fumarsi una sigaretta. Una gli si avvicinò, ma il sorriso evaporò non appena lui segnalò di no con la testa. Il barman gli chiese che cosa desiderava bere. «Niente», rispose Rebus. «Ma se potesse prestarmi l'accendino...» Davanti a lui si era fermato un paio di tacchi alti, e la proprietaria si chinò fino a incontrare il suo sguardo. Rebus interruppe l'accensione della sigaretta quanto bastava a informarla che voleva scambiare due parole. «Faccio pausa tra cinque minuti», disse Molly Clark, poi si voltò verso il barista: «Ronnie, servi qualcosa da bere al mio amico». «D'accordo», rispose Ronnie, «ma te lo trattengo dalla paga.» Ignorandolo, Molly si raddrizzò e a passo lento si diresse verso l'estremità opposta del bar. «Whisky, Ronnie, grazie», disse Rebus, infilandosi con nonchalance in tasca l'accendino. «E l'acqua preferisco mettercela da solo.» Ma, anche così, avrebbe giurato che la roba uscita dalla bottiglia avesse già subito una bella aggiunta. Sventolò un dito di riprovazione al barista. «Se vuoi andare a raccontare all'Antisofisticazione che sei stato qui, fa' pure», ribatté quello. Rebus allontanò il bicchiere e si voltò come per guardare meglio le ballerine, ma in realtà a interessargli era la combriccola di poliziotti. Che cos'era a distinguerli dagli altri? Qualcuno portava i baffi, tutti avevano i
capelli tagliati corti e gran parte indossava ancora la cravatta, benché le giacche fossero appese alle spalliere delle sedie. Età e corporature diverse, eppure sentiva chiaramente che avevano qualcosa di... uniforme, eh già. Si comportavano come una piccola tribù, vagamente eccentrici rispetto al resto del mondo, e come se non bastasse avevano retto la capitale sulle spalle per tutta la settimana. In quel momento, dunque, si consideravano come potentissimi, invincibili conquistatori. Guardate alle mie opere... Un po' come Gareth Tench? No, la questione doveva essere più complessa. Tench sapeva che avrebbe fallito, ma era deciso a provarci comunque. In effetti Rebus aveva considerato la remota possibilità che il consigliere fosse l'assassino cui davano la caccia, che la piccola galleria degli orrori di Auchterarder fosse una delle «sue opere» e che Tench fosse determinato a liberare il mondo da quei mostri, Cafferty compreso. L'omicidio di Cyril Colliar, per un attimo, aveva portato Big Ger al centro delle indagini, e un'inchiesta lenta e pigra avrebbe potuto benissimo concludersi lì, con Cafferty come principale sospettato. Inoltre, Tench aveva conosciuto Trevor Guest: lo aveva aiutato, ma quando sul sito web aveva scoperto i particolari che lo riguardavano si era indignato e si era sentito tradito. Dalla cornice restava però escluso Eddie Isley, lo Svelto, privo di qualsivoglia legame con il consigliere comunale; eppure lui era stato la prima vittima, la locomotiva di quel piccolo trenino. E adesso Gareth Tench era morto, e la colpa l'avrebbero addossata a Keith Carberry. Con chi altri hai parlato di Gareth Tench? Sei tu l'investigatore... O una sua pallida imitazione. Rebus allungò nuovamente la mano verso il bicchiere, tanto per tenersi occupato. Le ballerine sul palco avevano l'aria annoiata. Certo avrebbero preferito stare giù in pista, dove le banconote uscivano dalle buste paga per infilarsi direttamente nei reggiseni vedonon-vedo e nei tanga sottili come filo interdentale, anche se non dubitava che vigesse un sistema di turni e che prima o poi sarebbe toccato a tutte. Arrivarono altri clienti, uomini con l'aria da dirigenti d'azienda, uno dei quali prese a vorticare sul sottofondo musicale. Aveva addosso sei o sette chili di troppo e le mossette disco non gli si addicevano, ma nessuno l'avrebbe preso in giro. In posti come il Nook si andava proprio per quello, per liberarsi da ogni inibizione. Rebus non poté fare a meno di ripensare agli anni '70, quando in moltissimi bar di Edimburgo c'era lo striptease anche a mezzogiorno. Quando la ballerina guardava nella loro direzione gli
avventori si nascondevano dietro le pinte, ma tutta la ritrosia si era dissolta nei decenni a seguire, e i dirigenti ululavano ora aperte frasi d'incoraggiamento mentre una delle ragazze al tavolo dei poliziotti si esibiva in una vera lap dance: la vittima prescelta seduta a gambe larghe, le mani sulle ginocchia, un sorriso beota in volto e la fronte madida di sudore. Poi Rebus si ritrovò accanto Molly. Non si era accorto che avesse già finito il suo numero. «Dammi due minuti per mettermi un soprabito e ci vediamo fuori.» Lui annuì, distratto. «Un penny per i tuoi pensieri», disse lei, improvvisamente curiosa. «Niente. Pensavo a com'è cambiato il sesso, col tempo. Eravamo tutti quanti così timidi da queste parti.» «E adesso?» La ballerina faceva roteare i fianchi a cinque centimetri dal naso del prescelto. «Adesso», rifletté Rebus, «è tutto... be'...» «Sfacciatissimo?» lo aiutò lei. Cenno affermativo del capo, e il bicchiere tornò sul bancone. Molly gli offrì una sigaretta delle sue. Si era avvolta in un lungo soprabito di lanetta nera e stava appoggiata contro il muro del Nook, lontana dai buttafuori quanto bastava per impedirgli di origliare. «A casa non fumi.» «Eric è allergico.» «Proprio di lui volevo parlarti.» Rebus ostentò un enorme interesse per la brace ardente della propria sigaretta. «A che proposito?» Molly strisciò i piedi sul selciato e lui notò che al posto dei tacchi a spillo si era messa le scarpe da ginnastica. «Quando ne abbiamo parlato, mi hai detto che sapeva come ti guadagni da vivere.» «E allora?» Si strinse nelle spalle. «Non voglio che finisca per starci male, quindi penso che dovresti lasciarlo.» «Lasciarlo?» «Cosi non sarò costretto a dirgli che gli hai estorto informazioni riservate e che le hai passate al tuo capo. Vedi, ho appena parlato con Cafferty e all'improvviso ho capito tutto: è sempre al corrente di cose che non dovrebbe, roba interna... E chi ne sa più di Brains?»
Lei sbuffò. «Visto che lo chiami Brains, sarebbe ora di cominciare a fargli credito di un po' di cervello, per l'appunto.» «Nel senso...?» «Secondo te io sono solo una puttana stronza che spreme un pollo candido e ignaro.» Si passò un dito sul labbro superiore. «Io direi anche di più, in realtà: secondo me vivi con lui solo perché te l'ha ordinato Cafferty, che probabilmente ti paga la coca necessaria a reggere la situazione. Quando ci siamo conosciuti pensavo fossero solo nervi.» Lei non si prese il disturbo di negare. «E non appena Eric diventerà inservibile», continuò lui, «lo mollerai come un calzino sporco, quindi il mio consiglio sarebbe di farlo subito.» «Come dicevo, ispettore Rebus, Eric non è un cretino, e ha sempre saputo come stanno le cose.» Rebus socchiuse gli occhi. «A casa hai detto che gli impedivi di accettare altre offerte di lavoro: cosa penserà, quando verrà a sapere che lo facevi perché nel settore privato non sarebbe più stato utile al tuo capo?» «Lui mi dice le cose perché vuole», seguitò lei, «e sa benissimo dove vanno a finire.» «La mosca sul miele: un classico», borbottò Rebus. «Sai, lo assaggi una volta...» disse lei in tono provocante. «Comunque sia, lascialo perdere», ribadì lui, perentorio. «Altrimenti?» Lo trafisse con lo sguardo. «Vai a raccontargli cose che già sa?» «Prima o poi Cafferty colerà a picco... vuoi proprio andarci insieme a lui?» «Io so nuotare.» «Il fatto è che non finirai in acqua, Molly, ma in galera, ambiente che rovina irrimediabilmente anche le facce più graziose. Credimi sulla parola: passare informazioni riservate a un criminale è una cosa seria.» «Se mi denunci, denunci anche Eric, e non mi sembra un gran modo di proteggerlo.» «Tutto ha un prezzo.» Rebus gettò via il mozzicone. «Domattina vado a parlare con lui, e sarà meglio che tu abbia già fatto i bagagli.» «E se il signor Cafferty non è d'accordo?» «Lo sarà. Tanto, una volta saltata la copertura, l'Investigativa ti passerebbe solo letame travestito da caviale, tu non lo sapresti mai, e appena Cafferty ne piglia una cucchiaiata noi pigliamo lui.»
Lei gli teneva ancora gli occhi puntati addosso. «E allora perché non fai così?» «Una stangata di questo tipo bisogna farsela autorizzare dai pezzi grossi, e allora sì che la carriera di Eric sarebbe finita. Se invece lo molli adesso, posso recuperarlo. Il tuo capo ha rovinato anche troppe vite, Molly, e io vorrei provare a salvarne almeno qualcuna.» Infilò la mano in tasca cercando le sigarette, aprì il pacchetto e stavolta offrì lui. «Allora, che mi dici?» «Tempo scaduto», intervenne un buttafuori, un dito premuto sull'auricolare. «I clienti sono in fila per tre, là sotto...» Lei guardò Rebus. «Tempo scaduto», ripeté, voltandosi verso la porta di servizio. La guardò andare via, si accese un'altra sigaretta e decise che la passeggiata fino a casa attraverso i Meadows gli avrebbe fatto bene. Quando aprì la porta, il telefono suonava. Rispose al portatile dalla poltrona. «Rebus.» «Sono io», disse Ellen Wylie. «Che diavolo è successo?» «Scusa?» «Mi ha chiamato Siobhan. Non so che cosa le hai detto, ma era fuori di sé.» «Pensa che la morte di Gareth Tench sia anche un po' colpa sua.» «Ho provato a dirle che è matta.» «Il che sarà stato di grande aiuto.» Cominciò ad accendere le luci, e voleva accenderle tutte: non solo in soggiorno, ma anche in anticamera, in cucina, in bagno e in camera. «Sembrava parecchio incazzata con te.» «Tu però dovresti nascondere un po' meglio la soddisfazione.» «Ho passato venti minuti a cercare di calmarla!» strepitò Ellen. «Non ti permettere di dirmi che mi sto godendo la situazione!» «Ti chiedo scusa.» Ed era serio. Sedette sul bordo della vasca con le spalle flosce e il telefono incastrato sotto il mento. «Siamo tutti stanchi, John, ecco il problema.» «Io credo di averne anche qualcuno in più, Ellen.» «E allora prenditi a sberle da solo, tanto non sarebbe la prima volta.» Lui sbuffò. «Insomma, come sta Siobhan?» «Dalle un giorno per calmarsi. Le ho detto che dovrebbe andarsene al T in the Park a sbollire un po' la rabbia.» «Buona idea.» Peccato che per il fine settimana avesse programmato
quella gita nei Borders. A quanto pareva era destinato ad andarci da solo. Ellen non poteva invitarla di certo, perché non voleva che Siobhan venisse a scoprirlo. «Almeno possiamo escludere Tench dalla rosa dei sospettati», dichiarò lei. «Forse.» «Siobhan mi ha detto che dovevate arrestare un ragazzo di Niddrie.» «Probabilmente è già in stato di fermo.» «Quindi il Clootie Well e BeastWatch non c'entrano niente?» «No, è solo una coincidenza.» «E adesso cosa succede?» «Quello che dici tu: ci prendiamo una pausa per il fine settimana e lunedì, quando tutti tornano al lavoro, metteremo in piedi un'inchiesta per omicidio come Dio comanda.» «Allora non avrai più bisogno di me?» «Per te c'è sempre posto, Ellen, se lo vuoi. Hai ben quarantott'ore per pensarci su.» «Grazie, John.» «Fammi un favore, però: domani da' un colpo di telefono a Siobhan. Dille che mi preoccupo per lei.» «Che ti preoccupi e che ti dispiace?» «Insomma, mettila come vuoi. 'Notte.» Terminò la telefonata e si esaminò allo specchio, sorpreso di non vedere graffi e carne viva, ma più o meno la solita faccia di sempre: giallastra, bisognosa di una rasatura, con i capelli scarmigliati e le borse sotto gli occhi. Si diede un paio di schiaffetti sulle guance e passò in cucina, dove preparò una tazza di caffè solubile - nero, perché il latte era andato a male - e poi si ritrovò seduto al tavolo da pranzo. Anche dalle pareti lo guardavano sempre le stesse facce: Cyril Colliar. Trevor Guest. Edward Isley. Sapeva che gli attentati londinesi avrebbero monopolizzato ancora i notiziari televisivi, con gli esperti a dibattere Quel Che Si Sarebbe Potuto Fare e Quel Che Si Doveva Fare Ora e tutte le altre notizie nel dimenticatoio, mentre lui aveva ancora i suoi tre omicidi irrisolti... che tra l'altro, a ben pensarci, erano di Siobhan. Il capo della polizia li aveva affidati a lei. E c'era anche il povero Ben Webster, che a ogni telegiornale retrocedeva
sempre di più in classifica. Nessuno avrebbe niente da obiettare se ti imboscassi un po'... Nessuno, a parte i morti. Posò la testa sulle braccia incrociate e rivide il florido Cafferty che scendeva la sua scalinata da un milione di sterline. Vide Siobhan che cadeva nelle sue trappole, Cyril Colliar che faceva il suo sporco lavoro, Keith Carberry che faceva il suo sporco lavoro e Molly e Eric Bain che facevano sempre e ancora il suo sporco lavoro, e lui che veniva giù da quelle scale, fresco di doccia e più profumato di un mazzolin di fiori. Cafferty, il mafioso che conosceva il nome di Steelforth. Cafferty, l'autore che aveva brindato con Richard Pennen. Con chi altri...? Con chi altri hai parlato...? Cafferty, con la sua lingua biforcuta. Magari è stata proprio Siobhan... No, Siobhan no. Rebus l'aveva vista sulla scena del delitto: lei non sapeva niente di niente. Anche se non significava che non avesse desiderato quel che era successo, che fugacemente non avesse voluto provocarlo, lasciando che lo sguardo di Cafferty incontrasse il suo per un secondo di troppo. Rebus sentì un aeroplano che verso ovest si arrampicava nel cielo. Da Edimburgo non partivano molti voli notturni, ma forse era Tony Blair, o qualcuno dei suoi portaborse. Grazie Scozia, e buonanotte. Al vertice si erano goduti tutto il meglio: paesaggio, whisky, atmosfera, cibo... bocconcini andati in cenere nell'esplosione di quell'autobus rosso a Londra. E nel frattempo tre brutti ceffi erano morti, ed era morta anche una brava persona, Ben Webster... e un'altra ancora, su cui Rebus non aveva ancora un'idea certa. Magari Gareth Tench agiva con le migliori intenzioni del mondo, ma di sicuro nel tumulto delle circostanze aveva anche messo a tacere la propria coscienza. O magari era stato davvero sul punto di strappare a Cafferty la sua opaca corona. Dubbio, quello, che molto probabilmente gli sarebbe sempre rimasto. Fissò il cellulare posato davanti a lui sul tavolo. Sarebbero bastate sette cifre per stabilire un collegamento con la casa di Siobhan, sette minuscole pressioni sulla tastiera. Allora perché era così difficile? «Cosa ti fa pensare che lei non stia meglio senza di te?» si sorprese a chiedere al telefono, che prontamente gli rispose con un bip. Alzò la testa di scatto e lo afferrò, ma il succo del messaggio era solo
che la batteria era quasi scarica. «Non più della mia», gli borbottò, andando a cercare il caricatore. Lo aveva appena infilato nella presa, che l'apparecchio si mise a suonare davvero: Mairie Henderson. «Buonasera, Mairie.» «John, dove sei?» «A casa. Qual è il problema?» «Posso mandarti una cosa per e-mail? L'articolo che sto scrivendo su Richard Pennen.» «Ti serve una revisione di alto livello?» «Volevo solo...» «Cos'è successo, Mairie?» «Ho avuto uno scontro con tre scagnozzi di Pennen, in uniforme ma poliziotti quanto me.» Rebus si lasciò scivolare sul bracciolo della poltrona. «Per caso uno si chiamava Jacko?» «Come fai a saperlo?» «Ho avuto anch'io il dispiacere. Racconta, dai.» E così lei fece, compreso il suo sospetto che i tre avessero trascorso del tempo in Iraq. «E adesso hai paura, giusto?» indovinò Rebus. «Per quello vuoi far girare il tuo pezzo?» «Per quanto posso, sì.» «Senza mandarlo ad altri giornalisti, però?» «Preferirei non indurli in tentazione.» «Certo, sugli scandali non c'è diritto d'autore», convenne lui. «E vuoi procedere con la faccenda?» «In che senso?» «Spacciarsi per poliziotti è veramente reato.» «Una volta fatte circolare le copie, mi sento già a posto.» «Sicura?» «Sicura, ma grazie per avermelo chiesto.» «Se hai bisogno di me, Mairie, il numero ce l'hai.» «Grazie, John. Buonanotte.» Terminò la chiamata, e lui rimase lì a guardare il telefono, le tacche della carica in corso illuminate e la batteria che adagio sorbiva i suoi piccoli sorsi di energia. Poi si diresse al tavolo, accese il portatile, infilò il cavo nella presa e riuscì a connettersi a Internet: non finiva mai di meravigliarsi,
quando tutto funzionava a dovere. L'e-mail di Mairie era lì che aspettava. Cliccò su «Salva allegati» e spostò l'articolo in una cartella, sperando di riuscire a ritrovarlo in seguito, dopo di che aprì un'altra e-mail, stavolta di Stan Hackman. «Meglio tardi che mai», diceva. «Rieccomi a casina, pronto per rimettere il naso in qualche bel locale, con giusto il tempo di farti sapere qualcosa sul nostro Trev. Secondo il verbale dell'interrogatorio, si era trasferito a Coldstream per un po', ma non so né perché né per quanto tempo. Spero che serva. Il tuo socio, Stan.» Coldstream: dove abitava anche il tizio con cui Guest aveva fatto a botte fuori da Swany's, in Ratcliffe Terrace. «Voilà», disse a voce alta, decidendo che si meritava un drink. Sabato 9 luglio 25 Da quando aveva percorso i Meadows e visto tutta quella gente vestita di bianco era passata solo una settimana. In politica un tempo lunghissimo, o così diceva il proverbio. In ogni istante di ogni giorno la vita continuava, e le schiere in pellegrinaggio verso nord erano oggi dirette fuori Kinross per il T in the Park, mentre gli sportivi si sarebbero avventurati più lontano, verso il Loch Lomond e le ultime giornate dello Scottish Open, il torneo di golf. Rebus calcolò che per percorrere il suo tragitto verso sud avrebbe impiegato circa due ore, ma prima doveva fare un paio di deviazioni. Slateford Road, tanto per cominciare. Seduto in macchina, il motore in folle, osservava le finestre del capannone riconvertito e gli sembrava di avere individuato quelle dell'appartamento di Eric Bain. Le tende erano aperte. In sottofondo ascoltava il CD degli Elbow, con la voce solista che paragonava i capi del mondo libero a ragazzini che lanciavano sassi. Stava per scendere dall'auto, quando vide proprio Bain rientrare dal negozio all'angolo. Barba sfatta, spettinato, aveva la camicia fuori dai pantaloni, reggeva una bottiglia di latte e aveva un'espressione stordita che, se si fosse trattato di un altro, Rebus avrebbe attribuito alla stanchezza. Abbassò il finestrino e suonò il clacson. Bain ci mise un paio di secondi a riconoscerlo, poi attraversò la strada. «Mi sembrava che fossi tu», disse Rebus. L'altro tacque e si limitò ad annuire, la testa altrove. «E così ti ha lasciato?» Quelle parole sembrarono
catturare l'attenzione di Bain. «Mi ha scritto un messaggio in cui diceva che sarebbe passato qualcuno a prendere la sua roba.» Rebus assentì. «Monta, Eric. Dobbiamo parlare un momento, tu e io.» Ma Bain gli tenne testa. «Come facevi a saperlo?» «Chiedilo a chi vuoi, Eric: sono l'ultimo a cui rivolgersi quando si tratta di consigli sentimentali.» Pausa. «D'altro canto, non potevamo permettere che tu continuassi a passare informazioni riservate a Big Ger Cafferty.» Bain lo fissò. «Tu...?» «Ho fatto una chiacchieratina con Molly, ieri sera. Se è scappata di corsa, significa che le piace di più lavorare al Nook che vivere con te.» «Io... io non capisco...» Di colpo Eric Bain sgranò gli occhi, fulminato dalla rivelazione. Lasciò cadere il latte, infilò le mani nel finestrino e afferrò Rebus per la gola, digrignando i denti nello sforzo. Lui si allungò verso il sedile del passeggero, tentando con una mano di allentare la sua morsa e con l'altra di far scattare l'alzacristalli. Il finestrino prese a salire e intrappolò l'aggressore, mentre Rebus cambiava posto e scendeva per fare il giro della macchina e tornare là dove Bain stava tentando di liberare le braccia dalla trappola. Quando infine si girò, Rebus gli sferrò un colpo all'inguine, mandandolo ginocchioni nella pozza di latte che si allargava sotto di lui. Poi gli assestò un cazzotto sul mento, stendendolo definitivamente, e gli si piazzò a cavalcioni tenendolo per il colletto della camicia. «La colpa è tua, Eric, non mia. Un'annusata alla topa e cominci a spifferare tutto, e secondo la tua 'ragazza' lo facevi molto volentieri, anche dopo avere scoperto che lei non era semplicemente curiosa. Ti sentivi importante, eh? Di solito è per questo che i delatori cominciano a parlare.» Bain non opponeva più alcuna resistenza, a parte un tremito nelle spalle che proprio non si poteva definire tale. In realtà stava singhiozzando, il viso macchiato di latte, un bambinone che ha appena perso il suo giocattolo preferito. Rebus si alzò, rassettandosi gli abiti. «Tirati su», gli ordinò quindi, ma Bain sembrava più contento di rimanere dov'era, perciò finì col sollevarlo di peso. «Guardami, Eric», disse cavandosi di tasca un fazzoletto e passandoglielo. «E pulisciti un po' la faccia.» Bain eseguì, una candela di moccio che gli si gonfiava in una narice. «Adesso ascolta», ordinò nuovamente Rebus. «Con lei ero d'accordo che se se ne andava lasciavamo tutto com'era, cioè che non sarei andato a raccontare niente a Fettes e tu ti saresti tenuto il lavoro.» Inclinò la faccia fin-
ché Bain non incontrò il suo sguardo. «Hai capito?» «Se è per quello, ci sono un sacco di altri lavori.» «Nel settore informatico? Ma certo, e le aziende sono tutte in cerca di dipendenti incapaci di tenere la bocca chiusa con una spogliarellista...» «Io le volevo bene, John.» «Non ne dubito, ma lei ti faceva cantare come neanche Clapton con la sua sei corde... Cosa c'è da ridere?» «Sono stato battezzato proprio in suo onore... mio padre è un suo fan.» «Giura.» Bain volse lo sguardo al cielo, il respiro che adagio adagio si normalizzava. «Pensavo davvero che lei...» «Cafferty ti stava usando, Eric, fine della storia. Ma c'è dell'altro...» Rebus lo fissò dritto negli occhi. «Non tentare di avvicinarla, non andare a piangerle dietro al Nook. Lei manderà qualcuno a prendere la sua roba perché sa che deve finire così.» Sottolineò le parole con un fendente di karatè in aria. «Ma tu l'hai vista, quel giorno a casa mia... Un po' le piacevo, no?» «Continua a pensarla cosi, se preferisci, ma non andare a chiederlo a lei. Se vengo a sapere che hai provato a ricontattarla, vado dritto filato da Corbyn.» Bain borbottò qualcosa che Rebus non capì, perciò gli chiese di ripeterlo. Eric gli piantò gli occhi addosso. «All'inizio Cafferty non c'entrava.» «Come vuoi. Ma dopo c'è entrato eccome, fidati.» Bain tacque per qualche istante, poi guardò il marciapiede. «Mi serve un altro litro di latte.» «Prima sarà meglio che ti dia una lavata. Senti, io devo andare fuori città e tu passerai il resto della giornata a rimuginare su questa cosa. Facciamo che domani ti do un colpo di telefono e tu mi dici come stai?» Il giovane annuì lentamente e fece per restituirgli il fazzoletto. «Tienilo», fu la risposta. «Piuttosto, ce l'hai un amico con cui parlare?» «Su Internet», disse Bain. «Contento tu.» Pacca sulla spalla. «Ora va meglio? Io devo proprio andare.» «Me la caverò.» «Bravo.» Rebus tirò un respiro profondo. «Non ho intenzione di scusarmi per quello che ho fatto, Eric, ma mi dispiace che tu soffra per questa storia.» Bain assentì di nuovo. «Sono io che dovrei...»
Rebus lo zittì con un cenno del capo. «Acqua passata. Cerca di rimettere insieme i pezzi e di guardare avanti, adesso.» «Senza piangere sul latte versato?» commentò Bain con un tentativo di sorriso. «Sono dieci minuti che faccio di tutto per non dirlo, maledizione», ammise lui. «Forza, vai a farti una doccia, sciacquati 'sta roba di dosso.» «Potrebbe non essere così facile», disse piano Eric Bain. «Sarà comunque un inizio.» Siobhan era a mollo nella vasca da più di mezz'ora: di norma aveva tempo solo per una doccia, la mattina, ma quel giorno era decisa a coccolarsi fino in fondo, quindi mezzo flacone di bagnoschiuma, un bel bicchiere di spremuta fresca, radiolina digitale sintonizzata sulla musica di BBC 6 e telefonino spento. Il biglietto per il T in the Park era sul divano in soggiorno, insieme a una specie di lista di cose che le sarebbero servite, tipo acqua e spuntini, mantellina con cappuccio e latte solare (meglio prevederle tutte). La sera prima era stata sul punto di chiamare Bobby Greig e cedergli il biglietto, ma perché avrebbe dovuto? Se non ci andava, si sarebbe ritrovata afflosciata sul divano a guardare la tivù. Ellen Wylie aveva telefonato di buon'ora, per dirle che aveva parlato con Rebus. «Gli dispiace», aveva riferito. «Per cosa?» «Un po' per tutto, direi.» «Carino a dirlo a te, anziché a me.» «È colpa mia», aveva confessato Ellen. «Gli ho suggerito di lasciarti tranquilla per un giorno o due.» «Grazie. Denise come sta?» «È ancora a letto. Allora che fai, oggi? Vai a scatenarti a Kinross o preferisci che ci troviamo da qualche parte per annegare insieme le nostre pene?» «Terrò presente la proposta, ma credo che Kinross sia proprio quel che mi ci vuole.» Comunque non si sarebbe trattenuta anche la notte: il suo biglietto era valido per entrambe le giornate, ma di vita all'aria aperta non ne poteva più. Si chiese se avrebbe ritrovato il pusher di Stirling intento a esercitare il suo commercio, e magari stavolta ne avrebbe pure approfittato, concedendosi anche quell'infrazione alle regole. Conosceva un sacco di colleghi che una canna ogni tanto se la facevano, e aveva persino sentito di qualcu-
no che nel fine settimana tirava coca. Tutti modi per scaricarsi un po'. Poi valutò altre possibilità e decise di portarsi dietro anche un paio di preservativi, nel caso remoto che fosse finita in tenda con qualcuno. Era in contatto con un paio di colleghe che andavano a loro volta al festival e speravano di trovarsi con lei via SMS: un duo parecchio vivace, con una cotta per il cantante dei Killers e dei Keane rispettivamente, ed erano già a Kinross per assicurarsi i posti sotto il palco. «Messaggiaci appena arrivi», le avevano detto. «Se aspetti troppo, potresti trovarci in uno stato pietoso.» Gli dispiace... Un po' per tutto. Ma che aveva da dispiacersi? C'era forse lui nella Bendey GT a sentire il piano di Cafferty? Era stato forse lui a salire quelle scale con Keith Carberry, e ad appoggiare Big Ger nel suo discorso? Serrò forte gli occhi e infilò la testa sott'acqua. È stata colpa mia, pensò, e le parole presero a rimbalzarle nel cranio. Gareth Tench, così vivo e vivido nel ricordo, con quella voce tonante, carismatico come i migliori uomini di spettacolo... Gareth Tench che si «trovava a passare» e metteva in fuga Carberry e i suoi per dimostrare al mondo intero che quel lavoro poteva farlo lui e soltanto lui. Un numero da virtuoso dell'inganno... quale finezza, per assicurarsi fondi pubblici per i suoi elettori. Una personalità esuberante e in apparenza infaticabile, ma adesso giaceva nudo e rigido in una nicchia refrigerata dell'obitorio cittadino, trasformato in statistiche e incisioni. Una volta qualcuno le aveva detto che bastava veramente una lama larga due centimetri: due sottili centimetri d'acciaio temprato per far deragliare il mondo intero. Siobhan riaffiorò alla luce del giorno, sputacchiando e levandosi capelli e schiuma dalla faccia. Le sembrò di sentire lo squillo di un telefono, invece no, era solo un'asse che scricchiolava nell'impiantito dell'appartamento sopra il suo. Rebus le aveva detto di girare alla larga da Cafferty, e aveva ragione. Se aveva perso la testa così davanti a quel poco di buono, la sfigata era solo lei. D'altro canto lo era sempre stata, no? «Però sono simpaticissima», borbottò tra sé, alzandosi e allungando un braccio verso l'asciugamano più vicino. A fare i bagagli non ci mise molto. La borsa era la stessa con cui era partita per Stirling, e benché progettasse di rincasare buttò dentro anche spaz-
zolino e dentifricio; magari una volta in macchina le sarebbe venuta voglia di continuare a guidare, e quando la terra fosse finita avrebbe preso il traghetto per le Orcadi. Le auto avevano questo di bello, che davano l'illusione della libertà. Non per niente gli spot pubblicitari giocavano sempre sul senso di scoperta e avventura, anche se nel suo caso sarebbe stato forse più corretto parlare di fuga. «E invece no», dichiarò allo specchio del bagno, spazzola alla mano. L'aveva detto anche a Rebus che era in grado di prendere la medicina da sola. Sebbene Cafferty, più che una medicina, fosse un veleno. Sapeva che cosa avrebbe dovuto fare: andare da James Corbyn e raccontargli il casino che aveva combinato, con il rischio di trovarsi nuovamente a pattugliare le strade. «Sono una brava poliziotta», disse allo specchio, sforzandosi di immaginare come avrebbe spiegato tutto a suo padre, a quel padre così fiero di lei, e a una madre a cui «non importava». Non importava chi era stato a ferirla. E allora perché lei ne aveva fatto una simile malattia? Non certo perché era arrabbiata all'idea che potesse essere stato un collega, ma perché così avrebbe dimostrato la propria bravura sul lavoro. «Una brava poliziotta», ripeté adagio. Quindi, ripulendo lo specchio appannato: «Malgrado tutto sembri affermare il contrario». Seconda e ultima deviazione: la stazione di polizia di Craigmillar, dove McManus era già al lavoro. «Coscienzioso», disse Rebus entrando. I locali dell'Investigativa erano deserti, a parte il sergente che sedeva in jeans e maglietta sportiva. «E lei cos'è, allora?» ribatté lui, umettandosi un dito per girare la pagina del rapporto che stava leggendo. «Il referto dell'autopsia?» azzardò Rebus. McManus annui. «Torno adesso dall'obitorio.» «Alla faccia del déjà-vu», commentò Rebus. «Io ero al suo posto sabato scorso: Ben Webster.» «Ecco perché il professor Gates era così seccato. Due sabati di fila.» Rebus si era piazzato accanto alla scrivania. «Conclusioni?» «Lama seghettata, ventidue millimetri di larghezza e quindi, secondo Gates, un comune coltello da cucina.» «Vero. Keith Carberry è ancora qui?»
«Lo sa meglio di me, ispettore: dopo sei ore di fermo, o li incriminiamo o li rimandiamo a casa.» «Allora non l'avete incriminato?» McManus alzò lo sguardo dal referto. «Nega qualsiasi coinvolgimento e ha persino un alibi: all'ora del delitto stava giocando a biliardo, con sei o sette testimoni.» «Senza dubbio tutti amici...» McManus si strinse nelle spalle. «La cucina della madre è piena di coltelli, ma pare non ne manchi nessuno. Li abbiamo portati tutti in laboratorio.» «E gli abiti di Carberry?» «Passati al setaccio: nessuna traccia di sangue.» «Quindi li ha buttati via, come ha fatto con il coltello.» McManus si appoggiò allo schienale della sedia. «Di chi è quest'indagine, ispettore?» Lui alzò le mani in segno di resa. «Stavo solo pensando ad alta voce. Chi è stato a interrogare Carberry?» «Io, personalmente.» «E lo ritiene colpevole?» «Quando gli abbiamo detto di Tench mi è parso sinceramente turbato, ma in quei suoi sgradevoli occhi azzurri potrei aver visto anche qualcos'altro.» «Tipo?» «Paura.» «Perché era stato beccato?» Il giovane sergente scosse il capo. «Paura di parlare, in generale.» Rebus distolse lo sguardo per evitare che McManus leggesse qualcosa anche nei suoi, di occhi. E se non fosse stato Carberry? Si tornava direttamente a Cafferty in persona? Il ragazzo, spaventato perché pensava la stessa cosa... e se era stato Cafferty in persona a far fuori Tench, il prossimo sarebbe stato proprio lui, Keith? «Gli ha chiesto se stava alle calcagna del consigliere?» «Ha ammesso di averlo aspettato. Voleva ringraziarlo, dice.» «Per cosa?» Rebus tornò a guardare McManus. «Sostegno morale dopo che l'avevano rilasciato... quei tafferugli, ricorda?» Rebus fece una risata nasale. «E lei ci crede?» «Magari no, ma non c'erano appigli per trattenerlo indefinitamente.»
McManus si interruppe. «Il fatto è che quando gli abbiamo detto che era libero di andarsene mi è sembrato addirittura riluttante. Ha cercato di dissimulare, ma era così. Uscendo dalla porta ha guardato dappertutto, come se si aspettasse qualcosa, e poi è scappato come una lepre.» Il sergente tacque di nuovo. «Capisce cosa voglio dire, Rebus?» Lui annuì. «Come una lepre, non come una volpe.» «Già, infatti... e mi domando se non ci sia sotto qualcosa che lei non mi ha detto.» «Io lo lascerei comunque tra i sospettati.» «Ovvio.» McManus si alzò e gli piantò gli occhi in faccia. «Ma è veramente l'unico che dovremmo interrogare?» «I consiglieri comunali si fanno dei nemici», rispose Rebus. «Secondo la vedova Tench, tra questi c'era anche lei.» «La signora si sbaglia.» McManus ignorò il commento e incrociò invece ostentatamente le braccia. «Inoltre è convinta che la loro abitazione fosse sorvegliata, ma non da Keith Carberry. Ha fornito la descrizione di un uomo canuto con un macchinone di lusso. Secondo lei potrebbe trattarsi di Big Ger Cafferty?» Rebus rispose con un'alzata di spalle. «Un'altra storiella che ho sentito» - McManus gli si fece sotto - «riguarda lei e un signore rispondente alla medesima descrizione, visti insieme a un'assemblea in una sala parrocchiale solo pochi giorni fa. Il consigliere ebbe da ridire con questo terzo uomo. Le spiacerebbe illuminarmi?» Ormai era così vicino che Rebus ne sentì l'alito sulla guancia. «Con un caso simile», osservò, «impossibile che non circolino storie di ogni genere.» Il sergente sorrise. «Io non ho mai avuto un caso simile, ispettore. Gareth Tench era amato e ammirato, e aveva un sacco di amici ora arrabbiati per la sua perdita e decisi a ottenere risposte. Alcuni dei quali, mi consenta di dire, dotati di una grandissima influenza... che sono disposti a condividere con me.» «Buon per lei.» «Un'offerta molto difficile da rifiutare», continuò McManus. «In altre parole, potrebbe essere l'unica possibilità che sono in grado di darle.» Fece un passo indietro. «Quindi, ispettore Rebus, ora che l'ho messa al corrente della situazione... c'è niente di cui voglia parlarmi?» Tirare in ballo Cafferty senza inguaiare Siobhan era impossibile. Prima di qualunque altra cosa, doveva mettere al sicuro lei. «No, non credo», dis-
se dunque, incrociando a sua volta le braccia. McManus accennò col capo a quel gesto. «Segno inequivocabile che ha qualcosa da nascondere.» «Davvero?» Rebus si mise le mani in tasca. «E lei, allora?» Si voltò e si avviò verso la porta, lasciando McManus a chiedersi quando le avesse incrociate lui, esattamente, le braccia... Bella giornata per un giro in auto, anche se fece metà del tragitto dietro un camion. Aveva preso a sud per Dalkeith, e da là aveva continuato verso Coldstream. A Dun Law superò una centrale eolica, con turbine ai due lati della striscia d'asfalto: così da vicino non ne aveva mai viste. Ovini e bovini al pascolo, e sulla strada un mucchio di vittime innocenti, soprattutto lepri e fagiani; i rapaci volteggiavano in cielo o se ne stavano appollaiati a scrutare con occhio attento dai pali delle recinzioni. Dopo un'ottantina di chilometri raggiunse Coldstream, attraversò il centro, superò un ponte e di colpo si ritrovò in Inghilterra: un cartello gli disse che era a meno di cento chilometri da Newcastle. Nel parcheggio di un albergo fece inversione e riprese a dirigersi verso il confine, dove parcheggiò sul ciglio della strada. Poco più in là c'era una stazione di polizia, per quanto furbescamente travestita da villino con portoncino azzurro e tetto spiovente; la targa a muro diceva che era aperta solo nei giorni feriali, dalle nove a mezzogiorno. La via principale di Coldstream era piena di bar e negozietti, e i marciapiedi angusti erano occupati per lo più da gitanti del sabato: un bus a un solo piano, proveniente da Lesmahagow, si stava sgravando dell'allegro carico davanti a un pub di nome Ram's Head. Rebus li batté sul tempo, entrò e ordinò mezza pinta della migliore, poi si guardò intorno e si accorse che i tavoli erano già tutti prenotati per il pranzo. Il bancone sfoggiava panini imbottiti, però, e lui prese un sandwich con formaggio e sottaceti. «C'è anche la zuppa», lo informò la barista. «Patate e porri.» «In lattina?» «Suvvia», rispose lei. «Ma cosa pensa, che voglio avvelenare i clienti?» «Andata», disse lui con un sorriso. La ragazza passò l'ordine in cucina e lui si diede una bella stirata, sgranchendosi collo e spalle. «Dov'è diretto?» chiese la barista al suo ritorno. «Veramente sono già arrivato», rispose lui ma, prima che la conversazione potesse realmente sbocciare, l'orda del pullman fece ingresso nel locale. La ragazza rivolse un altro grido alla cucina ed ecco apparire una cameriera, blocchetto alla mano.
Fu il cuoco in persona, tondo e rubizzo, a servirgli la zuppa, e mentre calcolava l'età media dei nuovi arrivati alzò gli occhi al cielo. «Secondo lei quanti vorranno il pasticcio di carne?» chiese poi. «Tutti», decise Rebus. «E le sfogliatine al formaggio di capra per antipasto?» «Non c'è speranza», confermò lui, svolgendo il cucchiaio dal tovagliolo di carta. La tivù era sintonizzata sul golf. A Loch Lomond sembrava tirare parecchio vento. Rebus cercò invano sale e pepe, ma scoprì che la zuppa non aveva bisogno né dell'uno né dell'altro; poi si ritrovò accanto un signore in maniche di camicia che si detergeva il sudore dal viso con un metro quadro di fazzoletto. I pochi capelli in testa erano pettinati all'indietro. «Caldo», disse. «Sono nelle sue mani, quelli?» chiese Rebus, indicando la ressa ai tavoli. «Io nelle loro, più che altro», rispose l'uomo. «Mai visto tanti esperti di guida in autostrada...» Scosse il capo e implorò la barista di servirgli una pinta di succo d'arancia e limone con tanto ghiaccio, cosa che lei fece con una strizzata d'occhio. E Rebus sapeva anche cosa significava: che l'autista portava lì le sue vagonate di gitanti e in cambio beveva gratis. L'uomo parve leggergli nel pensiero. «Così va il mondo», confessò. Lui si limitò ad annuire. Del resto, il G8 non funzionava alla stessa maniera? Chiese all'autista che tipo di posto fosse Lesmahagow. «Il tipo che fa sembrare allettante la prospettiva di una gita a Coldstream.» Arrischiò un'occhiata in direzione del gruppo: a quanto pareva era in atto una disputa sui posti a sedere. «Giuro su Dio che questi darebbero del filo da torcere anche all'ONU.» Buttò giù il suo beverone. «Non era mica a Edimburgo la settimana scorsa, per caso?» «Ci lavoro.» L'autista ostentò una smorfia. «Avevo ventisette turisti cinesi che dovevano arrivare in treno da Londra sabato mattina. Sono forse riuscito ad avvicinarmi alla stazione per prelevarli? Col cazzo! E indovini un po' dov'erano alloggiati? Allo Sheraton in Lothian Road, più sorvegliato di Barlinnie che è piena di ergastolani. Il martedì eravamo quasi alla Rosslyn Chapel, quando mi sono reso conto che per sbaglio avevamo raccattato anche un diplomatico giapponese.» L'uomo scoppiò a ridere e Rebus lo imitò. Accidenti, che bella sensazio-
ne. «Quindi è qui solo per oggi?» chiese poi l'autista. Rebus annuì. «Be', se uno ha voglia ci sono delle belle passeggiate da fare... ma lei non mi sembra il tipo, però.» «Occhio lungo, eh?» «Deformazione professionale.» Inclinò un poco il capo. «Li vede, quelli? Potrei già dirle quali mi lasceranno una mancia a fine giornata, e di quanto.» Rebus fece la faccia impressionata. «Altro giro?» Il bicchiere del suo nuovo amico era vuoto. «Meglio di no. A metà pomeriggio dovrò fare una sosta ai box, la maggior parte vorrà scendere e poi mi ci vorrà mezz'ora per farli rimontare tutti.» L'autista gli tese la mano. «Ma grazie per la chiacchierata.» «Grazie a lei», disse Rebus restituendo la stretta possente. Poi lo osservò dirigersi verso la porta. Un paio di vecchiette lo salutarono tubando, ma lui finse di non accorgersene. Rebus decise che ci voleva un'altra mezza pinta: quell'incontro casuale l'aveva tirato su perché aveva il sapore di un'altra vita, di un mondo che quasi viaggiava parallelo al suo. L'ordinario, il quotidiano, la conversazione per il solo piacere di farla, senza la ricerca obbligata di moventi e segreti. La normalità. La barista gli mise davanti il bicchiere. «Sta un po' meglio, vedo», affermò. «Quando è entrato non sapevo che pensare. Avrebbe potuto darmi un pugno, così come un bacio.» «La cura funziona», spiegò lui, levando in aria il bicchiere. L'altra cameriera era finalmente riuscita a segnare le ordinazioni di tutti e stava fuggendo in cucina prima che qualcuno potesse cambiare idea. «Allora, cosa la porta a Coldstream?» riprese la ragazza dietro il bancone. «Investigativa del Lothian and Borders. Sto indagando sulla vittima di un omicidio, di nome Trevor Guest. Veniva dal Nord dell'Inghilterra, ma qualche anno fa ha abitato da queste parti.» «Il nome non mi dice niente.» «Forse ne usava un altro.» Rebus le mostrò una foto di Guest scattata all'epoca del processo. Lei avvicinò il naso per guardarla: avrebbe dovuto mettersi gli occhiali, ma l'idea non le andava. Scosse il capo. «Mi dispiace», si scusò. «Non è che potrei mostrarla a qualcun altro? Il cuoco, magari...?»
Lei gli prese la foto di mano e scomparve dietro il divisorio, verso il clangore di pentole e scodelle, ma neanche un minuto dopo era di ritorno e gliela stava restituendo. «A essere sinceri», disse, «Rab lavora da noi solo dall'autunno scorso. Questo tizio era inglese, ha detto. E perché sarebbe venuto qui?» «Forse a Newcastle cominciava a scottargli la terra sotto i piedi», spiegò Rebus. «Aveva avuto qualche guaio con la giustizia.» Nel dirlo, d'un tratto gli sembrò assolutamente ovvio: qualunque cosa avesse cambiato Guest, era molto più probabile che gli fosse accaduta a Newcastle, e se stavi scappando era meglio mollare l'autostrada il prima possibile, pena il rischio di essere notati. Meglio uscire a Morpeth e imboccare la statale che portava direttamente lì. «Immagino sia troppo», disse, «chiederti di fare mente locale a quattro, cinque anni fa, ma... non è che di colpo non ci sono stati più furti nelle case?» Lei scosse il capo, mentre una delegazione del gruppo si avvicinava al banco con una lista di ordinazioni. «Tre mezze di chiara, una chiara con lime... Arthur, chiedi se è mezza o intera... un ginger ale, un advocaat con limonata... Arthur, senti se ci vuole del ghiaccio! No, aspetti, sono due mezze di chiara e una chiara con la gazzosa...» Rebus terminò la sua birra e silenziosamente comunicò alla barista che sarebbe tornato. Diceva sul serio: se non nel corso di quella visita, un'altra volta di sicuro. Era stato Trevor Guest a condurlo lì, ma ci sarebbe tornato da solo per il Ram's Head. Poi, una volta fuori, si rese conto che non aveva chiesto niente su Duncan Barclay. Superò un paio di negozi e si fermò all'edicola, entrò e mostrò al titolare la foto di Trevor Guest: l'uomo scosse il capo e aggiunse che abitava lì da quando era nato. Dopo di che Rebus tentò con il nome di Barclay, e stavolta ottenne un cenno d'assenso. «Però qualche anno fa si è trasferito, come parecchi altri giovani.» «Ha idea di dove sia andato?» Nuovo cenno di diniego. Rebus lo ringraziò e proseguì nella ricerca. Dal droghiere fece un buco nell'acqua, perché la giovane commessa ci lavorava solo il sabato e gli disse che avrebbe avuto più fortuna il lunedì mattina; quindi ottenne il medesimo risultato sull'intero lato della strada: dall'antiquario, dalla parrucchiera, in sala da tè, al negozio di abiti usati. Trovò solo un'altra persona che conosceva Duncan Barclay. «Lo vedo ancora in giro, ogni tanto.» «Perciò non si è trasferito molto lontano?» domandò Rebus.
«A Kelso, credo...» Un paese più in là. Indugiò qualche istante, nel sole del pomeriggio, chiedendosi per quale motivo il sangue gli scorresse così fluido nelle vene. Risposta: perché stava lavorando, e perché si trattava del vecchio, accanito lavoro poliziesco che a lui faceva bene quanto una vacanza. Subito dopo però si accorse che la destinazione successiva era un altro pub, assai meno accogliente del Ram's Head. Il locale era di per sé deprimente: pavimento sbiadito di linoleum rosso butterato da bruciature di sigaretta, un logoro bersaglio da freccette con davanti due avventori ugualmente logori, tre pensionati in coppola che giocavano a domino a un tavolo d'angolo, il tutto avvolto in una coltre di fumo stantio. Persino i colori del televisore sembravano sbiaditi, e anche da quella distanza Rebus era certo che, dietro la porta del bagno, gli orinatoi avessero bisogno di una bella ripulita. Un posto ben più in linea con il personaggio di Trevor Guest, insomma, ma per quello stesso fatto era improbabile che le sue ricerche incontrassero sorrisi amichevoli, là dentro. Il naso del barman ricordava un pomodoro masticato al centro di una faccia da vero alcolista, solcata da buchi e cicatrici, ciascuna delle quali nascondeva una storia da raccontare a tarda sera. Ma Rebus sapeva che anche sul suo volto erano incisi diversi ed espliciti capitoli. Irrigidendosi leggermente, si avvicinò al bancone. «Una pinta di scura.» In un posto cosi, ordinarne una mezza era inconcepibile. Aveva anche già tirato fuori le sigarette. «Duncan è passato di qua, ultimamente?» chiese poi al barista. «Chi?» «Duncan Barclay.» «Il nome non mi dice niente. È nei guai?» «No, non direi.» Aveva appena aperto bocca e già l'avevano sgamato. «Sono un ispettore dell'Investigativa», chiari. «Ma pensa un po'.» «Devo solo fargli un paio di domande.» «Non abita qui.» «Ora sta a Kelso, giusto?» L'uomo si limitò a un'alzata di spalle. «Allora, dov'è che si abbevera di questi tempi?» L'altro non l'aveva ancora degnato di uno sguardo. «Guardami un po'», insistette Rebus, «e dimmi se ti pare il caso di fare lo stronzo con me» Alle sue spalle, un rumore di sedie che strusciavano sul pavimento. Mentre i tre vecchietti si alzavano, Rebus si girò per metà verso di loro.
«Sempre in gamba, eh?» disse con un sorriso. «Io però sto indagando su tre omicidi.» Il sorriso scomparve mentre lui sollevava tre dita. «Se qualcuno di voi ci tiene particolarmente a entrare nell'inchiesta, rimanga pure in piedi...» Si interruppe quanto bastava perché i tre tornassero a sedere. «Bravi», approvò quindi. Poi, al barista: «Allora, dove lo trovo, a Kelso?» «Chieda a Debbie», borbottò l'uomo. «Ha sempre avuto una cottarella per lui.» «E dove la trovo, questa Debbie?» «Il sabato lavora dal droghiere.» Rebus fece finta di nulla, poi si cavò di tasca la foto sgualcita e piena di ditate di Trevor Guest. «Sono passati anni», ammise il barista. «Ho sentito che era andato a sud.» «Be', avevi sentito male, perché invece è andato a Edimburgo. Lo sai come si chiamava?» «Voleva essere chiamato 'Clever Trevor', anche se non ho mai capito perché.» Trevor il furbo... il titolo di un pezzo di Ian Dury, pensò Rebus. «Veniva qui a bere?» «Non è durato molto: dopo che fece a botte glielo vietai.» «Abitava in paese, però?» L'uomo scosse lentamente il capo. «No, a Kelso, credo.» Poi prese ad annuire. «Sì, a Kelso, sono sicuro.» Quindi ai colleghi di Newcastle Guest aveva mentito, e Rebus cominciava ad avere un brutto presentimento. Uscì dal pub senza neanche prendersi il disturbo di pagare. Pensava di essersi giocato bene le sue carte, ma fuori dovette fermarsi qualche minuto per lasciar calare la tensione. Dopo di che tornò sui suoi passi, verso il droghiere e la commessa del sabato, Debbie, la quale capì all'istante che lui sapeva e aprì la bocca per tentare con una versione diversa. Lui la zittì con un gesto, poi si chinò sul banco, premendoci sopra le nocche. «Allora, cosa puoi raccontarmi su Duncan Barclay?» le chiese. «Possiamo fare come preferisci: parlarne qui, oppure in stazione di polizia a Edimburgo. Vedi un po' tu.» La ragazza ebbe la decenza di avvampare; anzi, diventò cosi rossa da fargli temere che potesse scoppiare come un palloncino. «Abita in un cottage in Carlingnose Lane.» «A Kelso?»
Il cenno di assenso giunse lento e faticoso; poi la ragazza si portò una mano alla fronte, come se avesse il capogiro. «Ma, finché fa luce, di solito è fuori, nei boschi.» «Nei boschi?» «Dietro casa.» Boschi... Cos'aveva detto la psicologa? I boschi potevano essere importanti. «Da quanto tempo lo conosci, Debbie?» «Tre anni, forse quattro.» «È più grande di te?» «Ne ha ventidue», confermò lei. «E tu quanti, diciassette?» «Vado per i diciannove.» «Quindi voi due state insieme?» Domanda sbagliata, perché lei arrossì ancora di più. Rebus aveva visto mirtilli assai più pallidi. «Siamo solo amici... non lo vedo neppure un granché ultimamente.» «Sai cosa fa?» «Scolpisce il legno... fruttiere, cose così, e le vende ad alcune gallerie di Edimburgo.» «Ah, è una specie di artista, quindi, giusto? Ci sa fare con le mani.» «Molto.» «E ha utensili bene affilati?» Lei fece per rispondere, ma poi si trattenne. «Non ha fatto niente di male!» esclamò. «Perché, io ho detto di sì?» Rebus inalberò un'aria falsamente infastidita. «Che cosa te lo fa pensare?» «Lui non si fida di lei!» «Di me?» Ora pareva confuso. «Di tutti voi!» «Ha già avuto i suoi guai, eh?» Debbie scosse lentamente il capo. «Lei non capisce», mormorò, gli occhi lucidi. «L'aveva detto, che non capivate...» «A cosa ti riferisci, Debbie?» La ragazza scoppiò a piangere. Fece scattare la ribaltina e uscì da dietro il banco, le braccia tese. Rebus la imitò. Solo che gli schizzò sotto, e nel tempo che lui ci mise a voltarsi stava già spalancando la porta tra le chiassose proteste del sonaglio all'ingresso.
«Debbie!» le gridò, ma quando raggiunse il marciapiede lei aveva ormai percorso mezza via. Imprecò e nello stesso istante si accorse di una signora ferma accanto a lui, un cestino di vimini vuoto al braccio. Allora infilò una mano dietro la porta e rigirò il cartello da APERTO a CHIUSO. «Il sabato facciamo mezza giornata», annunciò. «E da quando?» ribatté la donna in tono oltraggiato. «Va bene, allora diciamo che può servirsi da sola... Lasci i soldi sul banco.» La scansò e a passo spedito tornò verso la macchina. Siobhan si sentiva come il convitato di pietra: una calca pazzesca che la spintonava saltellando su e giù e accompagnando stonata le canzoni, bandiere di tutti i Paesi a impedirle la visuale, neds e relative compagne che, sudati e smoccolanti, ballavano danze tradizionali con omologhi più regolari, tipo studenti universitari, birra e sidro da pochi soldi che schiumavano da lattine passate di mano in mano, scivolose croste di pizza sotto i piedi... e le band sul palco quattrocento metri più in là. Senza contare la fila eterna davanti ai bagni. Si concesse un sorrisetto al ricordo del pass per il backstage al Final Push. Aveva inviato un SMS alle colleghe, come richiesto, ma finora non aveva ricevuto risposta. Tutti sembravano allegri e chiassosi, e lei non sentiva niente. Riusciva solo a pensare a: Cafferty... Gareth Tench... Keith Carberry... Cyril Colliar... Trevor Guest... Edward Isley. Il capo della polizia le aveva affidato un caso molto importante: risolverlo avrebbe potuto comportare una promozione, ma lei si era lasciata sviare dall'aggressione contro sua madre. La ricerca del colpevole si era fatta spasmodica e l'aveva portata troppo, troppo vicino a Cafferty. Doveva concentrarsi, lo sapeva, doveva recuperare il giusto coinvolgimento. Lunedì mattina le indagini vere e proprie sarebbero ripartite, probabilmente al comando dell'ispettore capo Macrae e dell'ispettore Derek Starr, e si sarebbe radunata una nuova squadra che avrebbe avuto bisogno di tutta la manodopera disponibile. E lei era stata sospesa. L'unica mossa appropriata era andare da Corbyn, fare ammenda e convincerlo a lasciarla rientrare. In cambio lui avrebbe preteso che gli giurasse di tenere alla larga Rebus, di recidere qualsiasi le-
game con lui, e quel pensiero la costrinse a riflettere. Sessanta contro quaranta che avrebbe acconsentito, se lui glielo avesse chiesto. Sul palco principale era salito un nuovo gruppo e qualcuno aveva alzato il volume. Siobhan controllò i messaggi sul telefonino. Una chiamata persa. Il numero di Eric Bain. «Merda, l'ultima cosa che mi serve», si disse. Le aveva lasciato un messaggio in segreteria, tuttavia non era affatto intenzionata ad ascoltarlo, quindi ricacciò il telefono in tasca e tirò fuori una bottiglietta d'acqua dalla borsa. In quel momento percepì un aroma dolciastro di hashish, ma del pusher del campeggio Horizon neanche l'ombra. Sul palco la band si dava da fare, ma nel suono c'erano troppi acuti e Siobhan si allontanò ancora di più. Il campo era disseminato di coppie che pomiciavano o fissavano il cielo con aria trasognata. Ben presto si rese conto che continuava a camminare, che non aveva alcuna voglia di fermarsi e che stava dirigendosi verso il punto in cui aveva parcheggiato; mancavano ore all'esibizione dei New Order, ma non sarebbe tornata indietro per sentirli. Che cosa la aspettava a Edimburgo? Magari avrebbe chiamato Rebus e gli avrebbe detto che cominciava a sentirsi incline al perdono, o magari si sarebbe cercata una bella enoteca, una bottiglia ghiacciata di Chardonnay e un posto dove sedersi con carta e penna e provare il discorso che lunedì mattina avrebbe fatto al capo della polizia. Se la lascio rientrare in squadra, non ci sarà posto per il suo compagno di merende... mi ha capito bene, sergente Clarke? Ho capito, signore. Apprezzo la sua offerta. E accetta le condizioni? Allora, sergente Clarke? Un semplice sì basta e avanza. Peccato che di semplice non ci fosse proprio niente, invece. Di nuovo sulla M90, ma stavolta diretta a sud. Venti minuti ed era già sul Forth Road Bridge, senza più perquisizioni ai veicoli: tutto come prima del G8. Alla periferia di Edimburgo pensò che in fondo era vicina a Cramond e poteva fare un salto a trovare Ellen Wylie, per ringraziarla personalmente di avere ascoltato il suo sfogo della sera prima. Svoltò a sinistra in Whitehouse Road, parcheggiò davanti alla casa, ma nessuno aprì alla porta, perciò la chiamò sul cellulare. «Sono Shiv», disse quando la collega rispose. «Volevo scroccarti un caffè.»
«Siamo fuori a fare una passeggiata.» «Sento il rumore dell'acqua... siete dietro casa?» Silenzio all'altro capo. Poi: «Magari più tardi sarebbe meglio». «Il fatto è che sono già qui.» «Sarebbe carino bere qualcosa in centro... solo tu e io.» «Va bene.» Ma Siobhan aveva aggrottato la fronte e Ellen sembrò percepirlo. «D'accordo», disse allora, «anche solo per un caffè rapido. Ma dammi cinque minuti...» Anziché aspettare, Siobhan arrivò al termine della schiera di case e prese il sentiero che portava al fiume. Ellen e Denise erano arrivate fino al rudere del mulino e ora stavano tornando indietro. La prima salutò con la mano, ma la seconda non fu altrettanto cordiale e continuò a restare saldamente aggrappata al braccio della sorella. Solo tu e io... Denise Wylie era più bassa e magra di Ellen. Le paure adolescenziali riguardo al peso le avevano lasciato un aspetto emaciato, la carnagione era grigiastra e i capelli opachi e color topo. Evitò lo sguardo di Siobhan. «Ciao, Denise», la salutò lei comunque, ottenendo per tutta risposta un borbottio. Ellen invece pareva animata da un brio quasi innaturale e, mentre tutte insieme si riavviavano verso casa, si mise a parlare a raffica. «Passa dal giardino», insistette, «che intanto metto su l'acqua... o preferisci un grog? Però devi guidare, giusto? Allora il concerto non era niente di che, tutto sommato, oppure alla fine hai deciso di non andarci proprio? Io non ho più l'età per andare a sentire i gruppi pop, oddio, magari per i Coldplay farei un'eccezione, ma solo coi posti numerati, perché stare in piedi tutto il giorno in un campo, cara mia, è roba per spaventapasseri e raccoglitori di patate. Tu vai su, Denise? Ti porto una tazza in camera?» Uscì dalla cucina per mettere in tavola un piatto di biscotti al burro. «Tutto bene, Shiv? L'acqua bolle ma non ricordo come lo prendi...» «Latte e basta.» Siobhan lanciò un'occhiata in alto, alla finestra della camera. «E Denise come sta?» Proprio in quel momento la sorella comparve dietro il vetro e, quando si accorse che Siobhan la guardava, spalancò gli occhi e tirò la tenda. Anche la finestra era chiusa, malgrado la giornata afosa. «Si riprenderà», disse Ellen, liquidando la domanda con un gesto della mano. «Che mi dici di te?» La Wylie fece una risatina frivola. «Che ti dico di me?»
«A guardarvi, sembra che abbiate rapinato una farmacia ma abbiate preso pasticche diverse.» Un'altra breve risatina amara e Ellen ripiegò in cucina. Siobhan si alzò piano dalla poltrona da giardino e la seguì, fermandosi sulla soglia. «Gliel'hai detto?» chiese sottovoce. «Cosa?» Ellen aprì il frigorifero, trovò il latte e si mise a cercare un bricco. «Gareth Tench... lo sa che è morto?» Le parole quasi le si impigliarono in gola. Il consigliere è un donnaiolo... Ho una collega, Ellen Wylie, sua sorella è... Non ha affatto la pelle dura... «Oh, Cristo, Ellen», disse a quel punto, aggrappandosi allo stipite con una mano. «Che succede?» «Tu lo sai, vero?» La voce di Siobhan era poco più di un sussurro. «Non ti capisco», fece la Wylie tutta presa da vassoio e piattini. «Guardami negli occhi e dimmi che non hai idea di cosa sto parlando.» «Non ho la più pallida idea di cosa...» «Ho detto guardami negli occhi.» Ellen eseguì, la bocca una linea dritta, risoluta. «Al telefono eri stranissima», disse Siobhan. «E adesso tutte queste chiacchiere, con Denise che invece schizza di sopra.» «Credo sia meglio se te ne vai.» «Ripensaci, Ellen. Ma prima voglio chiederti scusa.» «Chiedermi scusa?» Siobhan annuì, gli occhi fissi sulla collega. «Sono stata io a dirlo a Cafferty, e per lui non dev'essere stato difficile trovare l'indirizzo. Tu c'eri?» Guardò Ellen che chinava il capo. «È venuto qui, vero?» insistette. «È venuto qui e ha detto a Denise che Tench era ancora sposato. E lei ci usciva ancora?» Ellen scosse lentamente il capo. Dalle sue guance, le lacrime finirono sulle piastrelle del pavimento. «Oh, Dio... mi dispiace così tanto.» Eccolo là, sul piano di lavoro accanto al lavello: un ceppo di coltelli con una fessura libera. La cucina era linda, non c'era una stoviglia sporca da nessuna parte. «Non puoi portarla via», singhiozzò Ellen Wylie, e ancora scuoteva la testa.
«L'hai scoperto stamattina? Dopo che si è alzata? Prima o poi verrà fuori, Ellen», continuò Siobhan. «Se continui a negare, sarà la rovina per tutt'e due.» Le tornarono in mente proprio le parole di Tench: «la passione è una bestia pericolosa, in certi uomini». Sì, ma anche in certe donne... «Non puoi portarla via», ripeté Ellen, ma adesso le sue parole avevano un suono rassegnato, quasi esanime. «La aiuteranno.» Siobhan era avanzata di due passi nella stanza e le posò una mano sul braccio. «Parlale, dille che andrà tutto bene, che tu le starai vicino.» La Wylie si passò l'avambraccio sul viso, striandoselo di lacrime. «Non avete nessuna prova», farfugliò. Le battute che si era imposta, nell'eventualità di dovere negare tutto. «Credi che ci servano davvero?» domandò Siobhan. «Magari dovrei chiederlo a Denise...» «No, ti prego.» Fece di nuovo segno di no, guardandola fissa. «Che possibilità ci sono che nessuno l'abbia vista, Ellen? Pensi che le telecamere a circuito chiuso non l'abbiano ripresa? Che i suoi vestiti non salteranno fuori? O il coltello che ha buttato? Fosse un caso mio, manderei subito due sommozzatori in riva al fiume. Magari ci siete andate apposta, per ripescare il tutto e disfarvene un po' meglio...» «Oh, Dio», disse la Wylie con voce rotta. Siobhan l'abbracciò, il corpo dell'amica che cominciava a tremare in preda allo shock differito. «Devi essere forte per lei, Ellen. Devi resistere ancora un po'...» I pensieri le turbinavano in testa, mentre le accarezzava la schiena. Se Denise era stata capace di ammazzare Gareth Tench, che altro poteva avere fatto? Sentì Ellen irrigidirsi e allontanarsi da lei. Si guardarono negli occhi. «Lo so che cosa stai pensando», disse adagio la Wylie. «Davvero?» «Ma Denise non l'ha neanche mai visitato, il sito di Beast-Watch. Ero io quella interessata, non lei.» «Sei anche quella che tenta di coprire l'assassina di Gareth Tench, Ellen. Magari dovremmo concentrarci di più su di te, eh?» La voce di Siobhan si era indurita, e cosi il viso di Ellen Wylie. Che, dopo un istante, si apri in un sorriso amaro. «È questo il meglio che riesci a fare, Siobhan? Magari non sei poi così brava come tutti credono. Il capo della polizia ti avrà anche affidato l'indagine, ma lo sappiamo tutti che il vero attore è John Rebus... anche se immagino che nulla ti impedirà di prenderti il merito, ammesso e non conces-
so che riusciate a ottenere qualcosa. Quindi forza, avanti, accusa pure me, se vuoi.» Mostrò i polsi, come se attendesse le manette. Poi, di fronte a Siobhan che evitava di reagire, si aprì in una lenta risata priva di allegria. «No, non sei poi così brava come pensano tutti», ripeté. Non sei poi così brava come pensano tutti... 26 Rebus non indugiò sulla strada per Kelso, che distava solo dodici chilometri. Nessuna traccia di Debbie sulle auto che incontrò lungo il tragitto, ma ciò non significava che non avesse già avvertito Barclay per telefono. La campagna era veramente splendida, se solo lui ci avesse fatto caso, invece oltrepassò come un razzo il cartello che dava il benvenuto in città agli autisti prudenti e pigiò forte sul freno quando vide la prima passante, in completo di tweed e con un cagnolino con gli occhi sbuzzati al guinzaglio. Sembrava diretta al vicino Lidl. «Carlingnose Lane», recitò Rebus. «Sa dirmi dov'è?» «Temo di no...» Ripartì che la signora si stava ancora scusando e ci riprovò, in centro, solo per ottenere cinque o sei risposte differenti dalle prime tre persone a cui chiese. Dalle parti del Floors Castle... su verso il Campetto da rugby... il campo da golf... la strada per Edimburgo. Alla fine scoprì che il Floors Castle si trovava sulla strada per Edimburgo, e che le alte mura perimetrali sembravano estendersi per centinaia di metri. Poi vide alcuni cartelli che indicavano il campo da golf e notò un parco con due porte da rugby, ma gli edifici lì intorno gli sembravano tutti troppo recenti, finché un paio di scolarette a loro volta corredate di cane lo misero sulla strada giusta. Dietro le case nuove. Ingranò nuovamente la prima, con una furia che la Saab non prese bene; il motore faceva un rumorino strano, che fino a quel momento non aveva notato. Carlingnose Lane era un'unica fila di cottage diroccati. I primi due erano stati parzialmente ammodernati e ridipinti, e la stradina terminava con un'ultima casetta dall'intonaco ingiallito. Un cartello fatto a mano diceva ARTIGIANATO LOCALE IN VENDITA QUI e il giardinetto anteriore appariva disseminato di blocchi di legno. Rebus fermò la macchina davanti a un piccolo cancello, oltre il quale un sentiero conduceva attraverso un prato per poi addentrarsi nel bosco. Provò ad aprire la porta di casa,
poi sbirciò dalla finestrella laterale. Soggiorno con angolo cottura, parecchio in disordine, e una parete posteriore in parte demolita per far posto a una portafinestra, attraverso cui constatò che il giardino sul retro era deserto e trascurato come quello davanti. Alzò gli occhi e vide un cavo elettrico dipartirsi da un pilone e terminare in casa, ma fuori non c'era un'antenna, né un televisore dentro. E niente linea telefonica. La casa accanto invece l'aveva, e il filo disegnava un arco staccandosi da un palo del telegrafo di legno in mezzo al prato. «Non vuol dire che non abbia un cellulare», borbottò Rebus tra sé. Anzi, forse l'assenza del fisso lo rendeva anche più probabile. Barclay doveva pur tenere i contatti con le gallerie di Edimburgo, in qualche modo. A un lato del cottage era parcheggiata una vetusta Land Rover dall'aria poco utilizzata. Al tatto, il cofano risultò freddo. La chiave però era infilata nell'accensione, e questo significava due cose: o il proprietario non aveva paura dei ladri, o si teneva pronto a una rapida fuga, perciò Rebus aprì dalla parte del conducente ed estrasse la chiave, poi si fermò sul prato e si accese una sigaretta. Se Debbie era riuscita ad avvisarlo, Barclay doveva essere scappato a piedi, oppure aveva a disposizione un altro mezzo... oppure stava tornando. Prese il suo cellulare: una tacca di campo. Inclinò un po' l'apparecchio, e apparve la scritta SOLO EMERGENZA. Superò il cancello e riprovò: SOLO EMERGENZA anche lì. Decise che valeva la pena di impiegare quel che restava del pomeriggio in una passeggiata per i boschi. L'aria era tiepida; canti di uccelli e traffico in lontananza, sopra la testa un aeroplano dalla pancia scintillante. Sono senza un telefono degno di questo nome, pensò Rebus, e sto per incontrare un uomo nel bel mezzo del nulla, uno che ha alle spalle almeno una rissa, che sa che sta arrivando la pula e che non la apprezza... «Fantastico, John», disse ad alta voce, il respiro un po' affannoso mentre si inerpicava verso il limitare degli alberi. Chissà cos'erano: marroni e con le foglie, quindi non conifere, ma la sua competenza si fermava lì. Avrebbe tanto voluto sentire un rumore d'accetta, o magari di sega elettrica... No, un attimo, meglio che Barclay non avesse con sé utensili affilati. Allora si chiese se non fosse meglio lanciare un grido, si schiarì la gola... ma poi lasciò perdere. Adesso che era più in alto, magari il telefonino... Niente campo. Bella vista, però. Si fermò a riprendere fiato, sperando ardentemente di
sopravvivere per poterla ricordare. Perché Duncan Barclay era così nervoso all'idea di vedere la polizia? Se l'avesse trovato, gliel'avrebbe chiesto senz'altro. Si era addentrato nel folto del bosco. Il terreno, uno spesso tappeto di pacciame, era cedevole sotto i piedi, e Rebus aveva la sensazione di trovarsi su una specie di sentiero, invisibile all'occhio inesperto ma nondimeno presente, un camminamento che tra arboscelli e tronchi recisi evitava le sterpaglie più basse. Quel posto gli ricordava molto il Clootie Well, e lui continuava a gettare occhiate a destra e a sinistra, fermandosi spesso per mettersi in ascolto. Completamente solo. Di colpo apparve un'altra pista, larga abbastanza da consentire il passaggio a un veicolo. Si accovacciò a terra: la traccia di pneumatici era velata da una crosta, quindi vecchia di qualche giorno. Sbuffò leggermente. «Mica scemo, questo», borbottò, raddrizzandosi e levandosi il fango secco dalle dita. «Mica scemo», gli fece eco una voce maschile. Rebus si guardò intorno e finalmente localizzò la fonte: l'uomo sedeva a gambe accavallate su un tronco d'albero caduto, a pochi metri dal sentiero, e sfoggiava abiti sportivi verde oliva. «Ottimo camuffamento», commentò. «Tu sei Duncan?» Duncan Barclay chinò lievemente il capo e Rebus si avvicinò, registrando i capelli biondo rossicci e il volto lentigginoso. Non più di un metro e ottanta, ma muscoloso, e con gli occhi dello stesso colore della giacca. «E lei è un poliziotto», dichiarò il giovane. Rebus non intendeva certo negare. «Ti ha avvertito Debbie?» Barclay allargò le braccia. «E come? Sono un luddista, con il telefono come in molte altre cose.» Rebus annui. «Ho visto, giù al cottage: niente televisione, niente fili...» «E neanche più cottage, fra non molto. Un imprenditore edile ci ha messo gli occhi sopra. E dopo toccherà al prato, e dopo ancora al bosco... Semplicemente lo immaginavo, che sarebbe venuto.» Allo sguardo di Rebus si interruppe. «Non lei personalmente, voglio dire, ma qualcuno come lei.» «Perché?» «Trevor Guest», disse il giovane. «Non sapevo che fosse morto finché non l'ho letto sul giornale, ma quando hanno detto che era Edimburgo a seguire il caso, ho pensato che negli schedari poteva esserci ancora qualco-
sa su di me.» Rebus annui e tirò fuori le sigarette. «Ti dispiace se...?» «Preferirei di no, e anche gli alberi.» «Che sono i tuoi amici?» chiese Rebus rimettendo il pacchetto dove stava. Poi: «Quindi hai saputo di Trevor Guest solo...?» «Solo dai giornali.» Barclay si fermò a riflettere. «È stato mercoledì? Cioè, non è che lo compri, il giornale, lei capisce, non ho tempo, però ho visto il titolo sulla prima dello Scotsman. Si è fatto ammazzare da una specie di serial killer.» «Una specie, sì.» Rebus arretrò di un passo quando il giovane, all'improvviso, saltò in piedi, ma Barclay si limitò a fargli un gesto con la mano e si mise a camminare. «Venga che le faccio vedere», disse. «Mi fai vedere cosa?» «Il motivo per cui lei è qui.» Rebus rimase qualche passo indietro, ma dopo un po' si sciolse e lo raggiunse. «È lontano, Duncan?» chiese. Il giovane scosse il capo. Camminava a lunghe falcate risolute. «Ci stai parecchio, nel bosco?» «Tutto il tempo che posso.» «Anche altrove? In altri boschi, voglio dire.» «Trovo i miei rimasugli dappertutto.» «Rimasugli?» «Rami, tronchi sradicati...» «E il Clootie Well?» Barclay si voltò a guardarlo. «In che senso?» «Ci sei mai stato?» «Non credo.» Duncan si bloccò così all'improvviso, che Rebus quasi gli cascò addosso. Il giovane aveva spalancato gli occhi e si era dato una pacca sulla fronte. Rebus vide le sue unghie ammaccate e le cicatrici, testimonianze della sua vita di artigiano. «Cristo santo!» boccheggiò il ragazzo. «Adesso ho capito cosa pensa!» «E sarebbe, Duncan?» «Pensa che magari sono stato io! Io!» «Davvero?» «Madonna santissima...» Barclay scosse il capo e riprese a camminare, quasi più velocemente di prima, al punto che Rebus faticava a stargli dietro.
«Mi chiedevo solo perché tu e Trevor Guest foste venuti alle mani», esalò tra un ansito e l'altro. «Cercavo informazioni supplementari, per questo sono qui.» «Ma lei lo pensa, che sono stato io!» «D'accordo, sei stato tu?» «No.» «Allora non hai niente da temere.» Rebus si guardò intorno, vagamente disorientato. Continuava a scorgere il sentiero carrabile, ma avrebbe saputo dove svoltare per tornare al prato e alla civiltà? «Non posso credere che lei pensi una cosa del genere.» Barclay scosse nuovamente il capo. «Io restituisco vita al legno morto... La natura viva è tutto per me.» «Sì, ma puoi star certo che Trevor Guest non tornerà sotto forma di fruttiera.» «Trevor Guest era un animale.» Altra battuta d'arresto, repentina come la prima. «E gli animali non fanno parte della natura viva?» chiese Rebus, ormai sfiatato. «Lo sa benissimo, che cosa intendo.» Stava setacciando la zona con gli occhi. «Lo dicevano anche sullo Scotsman... Era stato dentro per furto, per stupro...» «Atti di libidine, a dire il vero.» «L'hanno messo dentro perché finalmente l'avevano beccato», proseguì imperterrito Barclay, «perché la verità era saltata fuori. Ma era un animale da un sacco di tempo.» Si stava di nuovo addentrando nel folto, con Rebus alle calcagna che cercava di scacciare dalla mente le immagini di The Blair Witch Project. Il paesaggio digradava, facendosi più ripido. All'improvviso si rese conto che erano all'altro capo del sentiero rispetto alla civiltà. Cominciò a guardarsi intorno in cerca di un'arma, un'arma qualsiasi. Si chinò, raccolse un ramo, lo scosse appena e quello gli si disintegrò in mano, marcio all'interno. «Cos'è che vuoi farmi vedere, Duncan?» chiese. «Ancora un minuto.» Per maggiore enfasi, il ragazzo levò un dito. «A proposito, non so neanche chi è lei...» «Mi chiamo Rebus. Sono un ispettore dell'Investigativa.» «Ci ho già parlato con voi, sa, quando è successo tutto. Ho provato a dirvi che bisognava stargli dietro, a Trevor Guest, ma non mi avete dato retta. Ero un ragazzino, anche se mi portavo già addosso il marchio dello
strambo. Coldstream è una tribù, ispettore, e quando esci dagli schemi è inutile fingere di essere integrato.» «Sono certo che hai ragione.» Un commento, al posto della domanda che avrebbe veramente voluto fargli: di che cazzo stai parlando? «Adesso va meglio, perché la gente vede le cose che faccio e si rende conto che una scintilla di talento c'è.» «Quand'è che ti sei trasferito a Kelso?» «Fanno tre anni adesso.» «Allora ti piace.» Duncan lo guardò, poi accennò un sorriso. «Fa conversazione, eh? Perché è nervoso?» «Non mi piacciono i giochetti», ammise lui. «A qualcun altro sì, però. Per esempio, a quello che ha lasciato quei trofei al Clootie Well.» «Su questo siamo d'accordo.» Poi perse l'equilibrio e, quando riappoggiò la caviglia a terra, sentì uno strappo. «Attento», fece Barclay senza fermarsi. «Grazie», rispose Rebus, zoppicandogli dietro. Ma il giovane si arrestò quasi subito dopo: davanti a loro c'era una rete metallica e più giù, sulla collina, un bungalow in stile moderno. «Vista stupenda», disse Barclay. «Qui si sta tranquilli e beati, mi creda. Per raggiungere la strada maestra» - tracciò il percorso con un dito - «bisogna farsi tutta quella pista laggiù in macchina.» Si voltò verso Rebus. «Lei è morta qui. L'avevo vista, in paese, ci avevo parlato, e siamo rimasti tutti scioccati quando è successo.» L'espressione si fece più intensa quando si rese conto che Rebus non aveva ancora capito. «Il signore e la signora Webster», sussurrò. «Voglio dire, lui è morto dopo, ma sua moglie è stata assassinata qui.» Fendette l'aria indicando il bungalow con un dito. «Là dentro.» A Rebus si era seccata la bocca. «La madre di Ben Webster?» Ma sì, certo, la casa di vacanza nei Borders. Gli tornarono in mente le foto nel dossier che gli aveva inviato Mairie. «Mi stai dicendo che l'ha ammazzata Trevor Guest?» «Si era trasferito qui pochi mesi prima, e subito dopo se n'è andato, in tutta fretta. Qualcuno dei suoi compagni di bevute disse che era per via di vecchi guai con la polizia di Newcastle. Per strada mi tampinava, mi diceva che siccome ero un ragazzino coi capelli lunghi di certo sapevo dove trovare la roba.» Fece una pausa. «Poi quella sera ero a Edimburgo a bere
una cosa con un amico e l'ho visto. Agli sbirri l'avevo già detto che secondo me era stato lui... Mi sembrava che il caso fosse stato gestito male.» Fissò Rebus dritto negli occhi. «E infatti non avete fatto niente!» «Quindi l'hai visto al pub?» Gli girava la testa, il sangue gli martellava nelle orecchie. «E gli sono saltato addosso, lo ammetto. Dopo mi sono sentito benissimo, cazzo. E poi, quando ho visto che lo avevano ammazzato... be', mi sono sentito pure meglio, e anche vendicato, se vuole. Così c'era scritto sul giornale, che era stato dentro per furto con scasso e violenza sessuale.» «Atti di libidine», precisò debolmente Rebus. L'anomalia... una fra tante. «E proprio questo aveva fatto qui: era entrato con la forza, aveva ucciso la signora Webster e aveva distrutto la casa.» Dopo di che era fuggito a Edimburgo, d'improvviso contrito e deciso ad aiutare quelli più vecchi e più deboli di lui. Gareth Tench ci aveva visto giusto: a Trevor Guest era successo qualcosa... una cosa che gli aveva cambiato la vita. Se doveva credere alla storia di Duncan Barclay. «Con lei non l'ha fatto», ribatté Rebus. «Come?» Rebus si schiarì la gola e sputò un grumo di saliva collosa. «La signora Webster non fu violentata né aggredita sessualmente.» «No, perché era troppo anziana: a Newcastle però ci aveva provato con un'adolescente.» Sì, e Hackman gliel'aveva confermato: «gli piacevano giovani, anche». «Ci hai riflettuto su parecchio», parve ammettere infine. «Ma voi non mi avete creduto!» «Be', mi dispiace.» Rebus si appoggiò a un albero e si passò una mano tra i capelli, ritirandola madida di sudore. «E non potete sospettare di me», proseguì Barclay, «perché non conoscevo gli altri due. Ci sono stati tre omicidi», sottolineò, «non uno solo.» «Giusto. Non uno solo.» Un assassino che ama i giochetti. Rebus ripensò alla dottoressa Gilreagh: «ruralità e anomalie». «Ho capito che portava guai», aggiunse Barclay, «la prima volta che gli ho messo gli occhi addosso a Coldstream.» Coldstream... fresco ruscello... «Ci vorrebbe proprio, ora», lo interruppe Rebus. Un bel rivolo d'acqua fresca, per infilarci dentro la testa. Trevor Guest uccide la madre di Ben Webster. Muore anche il padre, di crepacuore, quindi Guest ha distrutto la fami-
glia intera. Finisce in galera per un altro reato, ma quando esce... L'onorevole Ben Webster si butta di testa dal parapetto del castello di Edimburgo. Ben Webster? «Duncan!» Un grido in lontananza, a monte. «Debbie?» gridò Barclay di rimando. «Siamo qui sotto!» Cominciò a scarpinare su per la salita, con Rebus che gli arrancava dietro. Quando raggiunse la pista, lui aveva già preso Debbie tra le braccia. «Volevo dirtelo», stava spiegando lei, la voce soffocata dalla giacca del ragazzo, «ma non sono riuscita a trovare un passaggio, lo sapevo che mi sarebbe venuto a cercare e sono arrivata appena...» Accorgendosi di Rebus, cacciò uno strillo e fece un passo indietro. «Va tutto bene», la rassicurò Duncan. «L'ispettore e io ci siamo fatti una chiacchierata, nient'altro.» Poi si voltò verso di lui. «E penso addirittura che mi abbia ascoltato.» Rebus annui in segno di conferma, infilandosi le mani in tasca. «Ma avrò comunque bisogno che tu venga a Edimburgo», dichiarò. «È meglio se mettiamo a verbale quello che mi hai raccontato, non credi?» Barclay fece un sorriso stanco. «Dopo tutto questo tempo, sarà un piacere.» Debbie si mise a saltellare e cinse la vita del ragazzo con un braccio. «Voglio venire anch'io, non lasciarmi qui, ti prego.» «Il punto è», ribatté lui con un'occhiata scaltra a Rebus, «che il nostro ispettore mi ha messo nella lista dei sospettati... il che farebbe di te una complice.» Lei parve sconvolta. «Duncan non farebbe del male a una mosca!» gridò, stringendolo più forte che poteva. «O a un tarlo», la corresse Rebus. «Questi boschi si sono presi cura di me», disse adagio Barclay, fissandolo. «Perciò il bastone che lei aveva raccolto le si è sfasciato in mano.» Lo sguardo severo si sciolse in un'eloquente strizzata d'occhio. Poi, a Debbie: «Sei sicura? Di scegliere una stazione di polizia di Edimburgo per il nostro primo appuntamento?» Lei si alzò sulla punta dei piedi e gli diede un bacio sulle labbra. Gli alberi presero a stormire sotto un'improvvisa brezza. «E adesso in macchina, ragazzi», ordinò Rebus. Aveva già fatto sei, sette passi incerti lungo il sentiero, quando Barclay gli fece notare che aveva sbagliato direzione. Completamente.
Siobhan si rese conto di avere sbagliato direzione, completamente. O, meglio, in realtà dipendeva da dove voleva andare, e proprio quello era il problema: non riusciva a farsi venire in mente una destinazione. A casa, forse, ma poi che avrebbe fatto? Trovandosi già in Silverknowes Road proseguì fino a Marine Drive, poi accostò al ciglio, dove già stazionavano altre macchine. Durante i fine settimana era una meta molto frequentata, con belle vedute sul Firth of Forth e spazi adatti a far fare un po' di moto ai cani e a consumare piacevolmente dei panini. Un elicottero si sollevò con frastuono per condurre i suoi passeggeri in uno dei tradizionali giri turistici della zona, e a Siobhan tornò alla mente quello di Gleneagles. Una volta, per il suo compleanno, aveva regalato a Rebus un buono per un giro, ma a quanto ne sapeva non l'aveva mai utilizzato. Doveva raccontargli di Denise e Gareth Tench, naturalmente. Ellen Wylie aveva promesso di telefonare a Craigmillar per far venire qualcuno a prendere una deposizione, il che non aveva impedito a lei di anticipare la stessa identica richiesta appena uscita dalla casa delle due sorelle. Anzi, era persino arrivata ad accarezzare l'idea di chiedere ai colleghi di fermarle entrambe, perché la risata di Ellen continuava a suonarle un po' troppo isterica. Magari era normale, date le circostanze, ma se fidarsi era bene, non fidarsi era anche meglio. Prese in mano il telefonino, fece un respiro profondo e compose il numero di Rebus. La donna che rispose era solo un nastro registrato: «L'utente desiderato non è al momento raggiungibile, si prega di richiamare più tardi». Rimase a fissare il display a cristalli liquidi, e in quel momento si ricordò che Eric Bain le aveva lasciato un messaggio. «Hai fatto trenta...» borbottò tra sé, pigiando altri tasti. «Siobhan, Eric.» La voce era un farfuglio. «Molly mi ha lasciato e... Cristo, non so neanche perché sto...» Un colpo di tosse. «Volevo solo che tu... insomma, cosa sto cercando di dirti?» Altra tosse secca, come se stesse per vomitare. Siobhan fissava il paesaggio senza vederlo. «Oh cazzo, e... preso troppe...» Lei imprecò sottovoce, girò la chiave per mettere in moto e ingranò la marcia, poi accese gli abbaglianti e a ogni semaforo rosso tenne la mano premuta sul clacson, riuscendo contemporaneamente a sterzare e persino a chiamare un'ambulanza, che comunque avrebbe battuto sul tempo. Dodici minuti dopo si fermava davanti al palazzo di Eric, senza altri danni che una strisciata sulla carrozzeria e una botta a uno specchietto. All'orizzonte si
profilava già un altro pellegrinaggio dall'amico carrozziere di Rebus. Non dovette neanche fermarsi a bussare, perché la porta dell'appartamento di Bain era socchiusa. Si precipitò dentro e lo trovò accasciato sul pavimento del soggiorno, la testa contro una poltrona e accanto una bottiglia vuota di Smirnoff e un flacone di paracetamolo, anch'esso vuoto. Il polso che gli afferrò era caldo, e il respiro regolare anche se corto. Un velo di sudore gli copriva il viso e in corrispondenza dell'inguine, dove si era bagnato, i pantaloni erano macchiati. Gridò il suo nome diverse volte, lo prese a schiaffi, lo costrinse ad aprire gli occhi. «Forza, Eric, sveglia!» Lo scosse. «Tirati su, Eric! Forza, razza di pigrone!» Ma era troppo pesante per lei, non sarebbe mai riuscita a rimetterlo in piedi da sola. Controllò che la bocca fosse vuota e che niente gli ostruisse le vie aeree, poi lo scosse di nuovo. «Quante ne hai prese, Eric? Quante pasticche hai preso?» La porta socchiusa era un buon segno, significava che voleva essere trovato, e poi l'aveva chiamata... aveva chiamato lei. «Dio, quanto ti piacciono i drammi, Eric», sospirò, scostandogli i capelli umidi dalla fronte. La stanza era in disordine. «E se Molly torna e trova questo casino? Devi alzarti, subito.» Lui batté le palpebre, mentre dalla pancia gli montava un gemito. Di colpo senti dei rumori alla porta e comparvero due paramedici in divisa verde, uno dei quali reggeva un defibrillatore. «Cos'ha preso?» «Paracetamolo.» «Quanto tempo fa?» «Un paio d'ore.» «Come si chiama?» «Eric Bain.» Siobhan si alzò e arretrò per lasciare spazio ai due, che subito gli controllarono le pupille e approntarono gli strumenti necessari. «Mi senti, Eric?» gli chiese uno. «Puoi fare di sì con la testa, ci riesci? O muovere le dita, eh, Eric? Io sono Colin e mi prenderò cura di te, Eric. Fa' sì con la testa se riesci a sentirmi. Eric...?» Siobhan rimase lì ferma a braccia incrociate. Quando Eric ebbe uno spasmo e cominciò a vomitare, uno dei paramedici le chiese di fare un giro dell'appartamento: «Controlli cos'altro potrebbe avere ingerito». Mentre usciva dalla stanza si chiese se l'uomo non avesse voluto solo risparmiarle la scena. In cucina non c'era niente: linda e pulita, a parte un li-
tro di latte che aspettava di essere messo in frigo... e poco più in là il tappo a vite della vodka. Passò in bagno: lo sportello dell'armadietto delle medicine era aperto e alcune bustine di un antinfluenzale erano finite nel lavandino. Rimettendole a posto notò un flacone di aspirina sigillato... quello del paracetamolo allora forse era già aperto, e Eric non aveva preso tutte le compresse che pensava lei. In camera da letto c'erano ancora le cose di Molly, ma erano sparse sul pavimento, come se lui stesse progettando un qualche genere di vendetta. Da una cornice aveva tolto una foto di loro due insieme, ma evidentemente non era riuscito ad andare oltre. Riferì tutto ai paramedici. Nel frattempo Eric aveva smesso di vomitare, ma il soggiorno puzzava. «Allora, qui abbiamo settanta centilitri di vodka liscia», annunciò Colin, «e una trentina di compresse, tanto per gradire.» «Gran parte delle quali già tornate alla luce del sole», aggiunse il collega. «Quindi si riprenderà?» chiese Siobhan. «Dipende dai danni interni. Ha detto due ore?» «Due... no, quasi tre ore fa mi ha lasciato il messaggio.» I due la guardarono. «Non l'ho sentito fino a... be', fino a qualche secondo prima di chiamare voi.» «Ed era molto ubriaco quando ha telefonato?» «Strascicava le parole.» «La cosa è seria.» Colin cercò lo sguardo del collega. «Come facciamo a portarlo giù?» «Lo leghiamo alla barella.» «E le scale a gomito?» «Allora cosa proponi?» «Chiamo rinforzi», disse Colin, alzandosi. «Potrei prenderlo io per i piedi», fece Siobhan. «Le curve non saranno cosi strette, se non dobbiamo farci passare la barella rigida.» «Giusto.» I paramedici si guardarono un'altra volta, mentre il telefonino di Siobhan prendeva a squillare. Lei fece per spegnerlo, ma la sigla che lampeggiava sul display era JR. Uscì sul pianerottolo e rispose. «Non ci crederai mai», attaccò senza nemmeno salutarlo, e mentre pronunciava quelle parole si rese conto che Rebus le stava dicendo esattamente la stessa cosa.
27 Aveva optato per St Leonard pensando di ridurre così il rischio di essere notato, e infatti al banco d'ingresso nessuno sembrava sapere che era stato sospeso e nessuno gli aveva chiesto perché voleva una stanza interrogatori, anzi, gli avevano persino assegnato un agente che facesse da testimone alla deposizione. Duncan Barclay e Debbie Glenister rimasero seduti l'uno accanto all'altra per tutto il tempo, in compagnia di lattine di Coca e cioccolata delle macchinette. Rebus aveva aperto un pacchetto intonso di cassette audio, e quando ne aveva inserite due nel registratore Barclay gli aveva chiesto perché. «Una per noi e una per te», aveva risposto lui. L'interrogatorio era filato liscio come l'olio, anche se l'agente non ci aveva capito niente, perché Rebus non gli aveva fornito il minimo contesto. In compenso, al termine lo aveva pregato di organizzare il rientro dei visitatori. «Fino a Kelso?» aveva chiesto timidamente il giovane collega. Ma Debbie aveva stretto il braccio di Barclay e azzardato che forse potevano lasciarli in Princes Street. Dopo una breve esitazione Duncan aveva ceduto, e mentre si preparavano a partire Rebus gli aveva messo in mano di soppiatto quaranta sterline. «Bere costa un po' di più, qui», gli aveva spiegato. «E non è un regalo, ma un prestito: la prossima volta che vieni in città voglio una delle tue fruttiere più belle.» Perciò Barclay aveva annuito e accettato le banconote. «Tutte queste domande, ispettore...» aveva aggiunto poi. «Le sono state veramente d'aiuto?» «Più di quanto tu creda, caro il mio Duncan», aveva risposto lui stringendogli la mano, per poi ritirarsi in uno degli uffici vuoti al piano di sopra. Quella era stata la sua stazione di polizia prima del rapido e silenzioso trasloco a Gayfield Square: otto anni di delitti risolti e archiviati. Si sorprese di non aver lasciato alcun segno: là dentro non c'era traccia di lui né di tutti quei complicatissimi casi, quelli che ricordava meglio in assoluto. Le pareti erano spoglie, gran parte delle scrivanie inutilizzate e addirittura prive di sedie sulle quali accomodarsi. Prima di St Leonard aveva lavorato alla stazione di Great London Road, e prima ancora in High Street. Trent'anni da sbirro, e pensava di averle viste tutte. Fino a quel giorno.
Su una parete c'era una grande lavagna bianca. La ripulì con un paio di salviette di carta prelevate dal bagno degli uomini, faticando un po' sulle tracce indurite di pennarello, che quindi erano li da settimane: informazioni sull'operazione Sorbo. Immaginò i colleghi appollaiati sulle scrivanie a ingollare caffè, mentre il capo illustrava loro lo scenario a venire. E ora, fortunatamente, era tutto finito. Rebus perlustrò i cassetti delle scrivanie più vicine fino a trovare un pennarello, poi cominciò a scrivere sulla lavagna, partendo dall'alto e procedendo verso il basso, inserendo diramazioni laterali e sottolineando due volte alcune parole, cerchiandone altre, appiccicando festoni di punti interrogativi ad altre ancora. Quando ebbe finito arretrò e riesaminò la mappa degli omicidi del Clootie Well. Era stata Siobhan a insegnargli quel metodo di procedere. Nei suoi casi lei compilava sempre delle mappe, benché di norma le tenesse occultate in borsa o nel cassetto, per tirarle fuori quando voleva fare mente locale su qualche pista ancora inesplorata o qualche collegamento da approfondire. Ci aveva messo un po' a confessargli la loro esistenza. Perché? Perché pensava che lui l'avrebbe presa in giro. Ma in un caso apparentemente tanto complesso la mappa era proprio quello che ci voleva, perché solo cosi la complessità spariva e il nucleo centrale saltava all'occhio. Trevor Guest. L'anomalia, la vittima aggredita con ferocia inusitata. La dottoressa Gilreagh aveva consigliato loro di fare attenzione ai depistaggi e aveva avuto ragione, perché quel caso sembrava fatto solo di trucchi e inganni. Anche Rebus si appollaiò su una scrivania, cavandone un lieve scricchiolio di protesta; lasciò dondolare le gambe al di sopra del pavimento, premette i palmi delle mani sul piano del tavolo ai due lati delle cosce, poi si chinò leggermente in avanti, gli occhi fissi sulla lavagna coperta di scritte, frecce, sottolineature e punti di domanda. Cominciò così a intravedere possibili risposte, a scorgere il quadro generale, quello che l'assassino stava tentando di nascondere. Alla fine uscì dall'ufficio e dalla stazione di polizia. Attraversò la strada ed entrò nel negozio più vicino, dove però si rese conto che in realtà non voleva niente, quindi comprò un pacchetto di sigarette, un accendino e delle gomme da masticare, e già che c'era l'edizione pomeridiana dell'Evening News. Poi decise di chiamare Siobhan in ospedale e di chiederle per quanto ne avesse ancora. «Io sono qui», disse lei. Cioè a St Leonard. «Tu piuttosto, dove accidenti
sei?» «Non ci siamo incrociati.» Aprì la porta per uscire, ma il negoziante lo richiamò all'ordine: lui fece una smorfia di scusa e si infilò le mani in tasca. Ma dove diavolo aveva messo i...? Doveva aver dato a Barclay le ultime due banconote da venti, ragion per cui tirò fuori tutti gli spiccioli sparsi e li rovesciò sul banco. «Per le sigarette non bastano», si lagnò l'anziano orientale. Rebus fece spallucce e gliele restituì. «Ma dove sei?» Ancora Siobhan all'orecchio. «Sto comprando le gomme.» E un accendino, avrebbe potuto aggiungere. Ma niente sigarette. Si sedettero con due tazze di caffè solubile, muti per il primo minuto o giù di lì, poi a Rebus venne in mente di chiederle come stava Bain. «Se pensi che, con la quantità di antidolorifici che ha buttato giù, la prima cosa di cui si è lamentato svegliandosi era un'emicrania martellante», rispose lei, «c'è quasi da ridere.» «In un certo senso è colpa mia», confessò lui, e le riferì prima la conversazione mattutina con Bain, poi la chiacchierata con Molly della sera precedente. «Quindi, fammi capire», disse Siobhan, «noi due litighiamo sul cadavere di Tench e tu te ne vai dritto dritto in un locale di lap dance?» Rebus si strinse nelle spalle e decise che aveva fatto decisamente bene a omettere la visita a casa di Cafferty. «Be'», proseguì lei con un sospiro, «visto che stiamo giocando a è-statamia-la-colpa...» E a sua volta gli raccontò di Bain, del T in the Park e di Denise Wylie, per poi concludere con un altro lungo silenzio. Rebus era alla quinta gomma da masticare: non che si accordassero molto col caffè, ma aveva bisogno di scaricare in qualche modo la tensione che aveva addosso. «Pensi davvero che Ellen abbia denunciato la sorella?» le chiese infine. «Che altro poteva fare?» Lui si strinse nelle spalle, poi la guardò tirare su il telefono e chiamare Craigmillar. «Chiedi del sergente McManus», le disse. Lei lo squadrò come a dire: e tu come fai a saperlo? Era giunto il momento di alzarsi e cercare un cestino in cui depositare il gigantesco e insipido bolo di gomma da masticare. Fat-
ta la telefonata, Siobhan si unì a lui nella contemplazione della lavagna scritta. «Sono ancora lì, e McManus sta usando la mano leggera con Denise. Potrebbe giocarsi la carta della violenza psicologica, dice.» Si interruppe. «Tu quand'è che hai parlato con lui, esattamente?» Rebus eluse la domanda indicando la lavagna. «Visto che ho fatto qui, Shiv? Ho strappato una pagina dal tuo quaderno, per così dire.» Tamburellò sulla lavagna con le nocche. «E tutto si riduce a Trevor Guest.» «In teoria», puntualizzò lei. «Le prove, dopo.» Con la punta del dito iniziò a percorrere la cronologia degli omicidi. «Poniamo che il nostro Trev abbia veramente ammazzato la madre di Ben Webster... In realtà non è fondamentale ipotizzarlo, bastava che il killer lo credesse il vero assassino. Insomma, questi digita il nome di Guest in un motore di ricerca e trova il sito BeastWatch, così gli viene l'idea di inscenare l'opera di un assassino seriale. Il risultato è che noi sbirri diventiamo matti a cercare ovunque moventi che non esistono e lui, l'assassino, che sa del G8, decide di lasciarci un po' di indizi sotto il naso sapendo benissimo che puntualmente li troveremo. Lui non si è mai registrato a BeastWatch, quindi non ha niente da temere, noi invece impazziremo a controllare quelli che l'hanno fatto e ad allertare gli altri pregiudicati per reati sessuali... Col G8 e tutto il resto, c'è un'altissima probabilità che l'indagine si trasformi in un groviglio inestricabile. Ricordi cos'ha detto la Gilreagh, che l'esposizione era sbagliata, non tornava? Aveva ragione, perché l'assassino voleva solo Guest... solo e soltanto lui.» Tamburellò di nuovo sul nome. «L'uomo che aveva distrutto la famiglia Webster. Ruralità e anomalie, Siobhan... e la capacità di ingannare.» «Ma come faceva a saperlo, l'assassino?» si sentì obbligata a chiedere Siobhan. «Poteva accedere alla prima inchiesta, e magari l'ha setacciata a fondo. Se n'è andato nei Borders ad annusare l'aria, ha sentito le voci che giravano.» Lei gli stava accanto e fissava la lavagna insieme a lui. «Stai dicendo che Cyril Colliar e Eddie Isley erano semplici diversivi?» «Sì, e lo stratagemma ha funzionato. Se anche avessimo fatto un'indagine in grande stile, avremmo comunque potuto mancare il collegamento con Kelso.» Rebus si abbandonò a una breve risata aspra. «Se non ricordo male, sono stato io il primo ad alzare gli occhi al cielo quando la Gilreagh ha iniziato a parlare di campagna e boschi nei pressi di insediamenti uma-
ni.» Anche le vittime abitavano in territori tipologicamente analoghi? «Tombola, dottoressa», disse sottovoce. Siobhan evidenziò il nome di Ben Webster con un dito. «E allora perché si è ucciso?» «Che vuoi dire?» «Non so, pensi che il senso di colpa lo abbia sopraffatto? Ha ammazzato tre persone quando gliene bastava una sola, è sotto pressione per via del G8, noi abbiamo appena identificato il brandello della giacca di Colliar... Va nel panico, comincia a pensare che lo prenderemo: è questo che pensi?» «Non so neanche se lo sapeva, della giacca», disse Rebus. «E poi, come avrebbe fatto a procurarsi l'eroina per le iniezioni letali?» «Perché lo chiedi a me?» replicò Siobhan. «Perché sei tu quella che accusa un uomo innocente. Uno che non aveva modo di ottenere droghe pesanti, né di accedere ai verbali della polizia.» Continuò il percorso da Ben Webster alla sorella. «Mentre Stacey...» «Stacey?» «È una poliziotta sotto copertura, e questo significa che qualche pusher lo conosce. Ha passato gli ultimi mesi a infiltrarsi in gruppi anarchici, e mi ha detto personalmente che di questi tempi tendono a fare base fuori Londra: Leeds, Manchester, Bradford. Guest è morto a Newcastle, Isley a Carlisle, entrambe facilmente raggiungibili dalle Midlands. E in qualità di sbirro poteva vedere tutti i verbali che voleva.» «Dunque l'assassino è Stacey?» «Secondo il tuo grandioso metodo», Rebus diede un altro colpetto alla lavagna, «la conclusione è ovvia.» Siobhan scosse lentamente il capo. «Ma era... voglio dire, noi le abbiamo parlato.» «È brava», ammise Rebus. «È molto brava. Ed è tornata a Londra.» «Ma non abbiamo uno straccio di prova, niente di niente.» «Vero, entro certi limiti. Ma se ascolti il nastro dell'interrogatorio di Duncan Barclay, scoprirai che l'anno scorso è stata a Kelso e faceva domande in giro. Ha parlato anche con lui, e lui ha fatto il nome di Trevor Guest. Trevor, con le sue credenziali di scassinatore. Trevor che stava da quelle parti proprio quando la signora Webster è stata uccisa.» Rebus si strinse nelle spalle in modo eloquente: per lui il ragionamento non faceva una grinza. «Sono stati aggrediti alle spalle, Siobhan, tutti e tre, e colpiti con forza tale da non poter reagire, proprio come fanno le donne.» Si inter-
ruppe. «E poi c'è il nome. La Gilreagh ha parlato di un possibile legame significativo con gli alberi.» «Ma Stacey non è il nome di una pianta.» Lui scosse il capo. «Santal sì, però. Significa 'legno di sandalo'. Ho sempre pensato che il sandalo fosse solo un profumo, ma guarda caso è un albero...» Si meravigliò lui stesso dell'intricata costruzione di Stacey Webster. «E ci ha lasciato il bancomat di Guest», concluse, «perché voleva essere sicura che noi scoprissimo il nome... per prenderci meglio per il naso. Una cortina fumogena, cazzo, proprio come ha detto la Gilreagh.» Siobhan aveva di nuovo gli occhi sulla lavagna, e andava in cerca di punti deboli. «Allora cos'è successo a Ben Webster?» chiese infine. «Se vuoi, posso dirti che cosa penso io...» «Vai.» Incrociò le braccia. «Le guardie, al castello, pensavano ci fosse un intruso, e secondo me era lei. Sapeva che suo fratello era lì e scoppiava dalla voglia di dirglielo: noi avevamo trovato il pezzo di giacca, Stacey probabilmente l'aveva saputo da Steelforth e ha pensato che fosse ora di raccontare la sua bravata al fratello. Per quanto la riguardava, la morte di Guest chiudeva la faccenda e, mutilandone il corpo, ha fatto in modo che pagasse fino in fondo per i suoi delitti. Adesso introdursi di soppiatto al castello è una sfida. Magari ha mandato a Ben un SMS, perciò lui esce per incontrarla. Lei gli dice tutto...» «E lui si ammazza?» Rebus si grattò la nuca. «Questo potrà confermarcelo solo lei, credo. Anzi, se ce la giochiamo bene, la figura di Ben sarà cruciale per ottenere la piena confessione. Pensa all'inferno che Stacey sta passando adesso: ha perso tutta la famiglia, e proprio ciò che credeva l'avrebbe unita ancora di più al fratello l'ha distrutto, invece. Ed è tutta colpa sua.» «Be', è incredibile come sia riuscita a nasconderlo.» «Dietro tutte le maschere che indossa... Pensa a quanti lati ha la sua personalità, e in conflitto tra loro.» «Pianino», lo ammonì Siobhan. «Mi sembra di sentire la dottoressa Gilreagh.» Lui scoppiò a ridere, ma con la stessa repentinità smise e si grattò di nuovo la nuca, per poi passarsi una mano fra i capelli. «Secondo te regge?» Siobhan emise uno sbuffò sonoro. «Devo rifletterci ancora un po'», confessò. «Voglio dire... scarabocchiato così sulla lavagna funziona, certo, so-
lo che non so come faremo a provarlo.» «Partiremo da quel che è successo a Ben.» «Sì, ma se lei nega restiamo con un pugno di mosche in mano. L'hai appena detto tu che ha un sacco di maschere a disposizione, e niente le impedirà di mettersene una appena cominceremo a chiederle di suo fratello.» «C'è un solo modo per scoprirlo», rispose lui sventolando il biglietto da visita, quello con il numero di cellulare di Stacey Webster. «No, aspetta», lo trattenne Siobhan. «Chiamarla significa metterla in allerta.» «Allora andiamo a Londra.» «Sperando che Steelforth ci lasci parlare con lei?» Rebus ci pensò un istante. «Già», disse poi, sottovoce, «Steelforth... Buffo come ha fatto presto a rispedirla a casa, eh? Come se sapesse che ci stavamo avvicinando...» «Secondo te, lui sa?» «Al castello hanno un sistema a circuito chiuso. L'altro giorno mi ha detto che non c'era niente da vedere, ma comincio a dubitarne.» «Secondo me non ci lascerà mai parlare con la stampa», ragionò Siobhan. «Se salta fuori che uno dei suoi agenti è un'omicida e che potrebbe avere assassinato il suo stesso fratello... be', non è esattamente il genere di pubblicità che lui va cercando.» «Ragion per cui potrebbe essere disposto a scendere a patti.» «E tu cos'avresti da offrirgli, in cambio?» «Il controllo», dichiarò Rebus. «Noi ci tiriamo indietro e lasciamo che faccia a modo suo. Se ci manda a quel paese, allora andiamo da Mairie Henderson.» Siobhan si prese una bella manciata di secondi per considerare le diverse possibilità, poi vide Rebus spalancare gli occhi. «E non dobbiamo neanche andare a Londra», disse lui. «Perché no?» «Perché Steelforth non è a Londra.» «E dove, allora?» «Proprio sotto il nostro naso, accidenti», esclamò, iniziando a ripulire la lavagna. Con ciò intendeva: a un'ora di macchina in direzione ovest. Discussero la sua ipotesi per tutto il tragitto. Trevor Guest che abbandona Newcastle in fretta e furia, forse perché deve soldi a qualcuno per una
storia di droga, e si rifugia comodamente nell'anonima provincia di confine. Gratta, gratta ma non riesce a trovare la roba ed è senza soldi, e l'unica cosa che sa fare è rubare nelle case. Solo che quel giorno la signora Webster non è uscita, e lui finisce con l'ammazzarla. Poi si fa prendere dal panico e scappa a Edimburgo, dove placa il senso di colpa lavorando con altri anziani, persone simili alla donna che ha assassinato... ma non stuprato, perché a lui la carne piace molto più fresca. Nel frattempo Stacey Webster è distrutta dall'omicidio di sua madre e rimane annichilita quando la morte si porta via anche suo padre; allora usa tutta la sua abilità di investigatrice per trovare un possibile colpevole, solo che lui è già dietro le sbarre. Uscirà di lì a non molto, dandole il tempo di progettare la vendetta. Lo ha trovato su BeastWatch, insieme ad altri come lui, e ha scelto i suoi obiettivi con un criterio geografico, la vicinanza ai luoghi in cui presta servizio in incognito. Inoltre, proprio la sua doppia vita all'interno della controcultura le consente di arrivare all'eroina. Costringe Guest a confessare, prima di ucciderlo? È ininfluente, perché a quel punto ha già ucciso Eddie Isley; aggiunge un'altra vittima al conto per rafforzare l'idea del serial killer, poi smette. Sazia, con l'animo in pace: per quanto la riguarda, ha liberato le strade da un po' di feccia. I preparativi per il G8 all'interno dell'SO12 l'hanno condotta al Clootie Well e sa che il posto è assolutamente perfetto, perché qualcuno ci capiterà di sicuro e noterà gli indizi; tanto per non sbagliare, fa in modo che un nome venga accertato subito, ed è anche l'unico che importa. Impossibile risalire fino a lei. Delitto perfetto. O quasi. «Devo ammettere», disse Siobhan, «che mi sembra plausibile.» «Perché è cosi che è andata. È il bello della verità: torna, ha senso, sempre o quasi sempre.» Percorsero senza intoppi la M8, e di lì passarono sulla A82. Il paesino di Luss era appena fuori della strada principale, sulla riva occidentale del Loch Lomond. «Qui ci giravano quella soap, Take the High Road», la informò Rebus. «Una delle poche che non ho mai seguito.» Sulla carreggiata opposta, una lenta fila di auto. «A quanto pare per oggi hanno finito di giocare», commentò Siobhan. «Forse dovremo tornare domani.» Ma Rebus non intendeva dichiararsi sconfitto. Il Loch Lomond Golf
Club consentiva l'accesso ai soli membri, e l'arrivo dell'Open aveva portato con sé misure di sicurezza eccezionali. Al cancello principale le guardie controllarono attentamente i loro tesserini e fecero una telefonata di verifica, mentre altri colleghi infilavano sotto l'auto uno specchio fissato a una lunga asta per ispezionare il telaio. «Dopo giovedì non intendiamo correre nuovi rischi», spiegò la guardia restituendo loro i tesserini. «Chiedete del comandante Steelforth al circolo.» «Grazie», disse Rebus. «A proposito... chi vince?» «Per il momento è parità fra Tim Clark e Maarten Lafeber, quindici sotto il par. Oggi Tim ha fatto sei colpi sotto, ma Monty si è piazzato meglio: dieci sotto. Domani sarà una giornata formidabile.» Rebus ringraziò nuovamente e ingranò la marcia. «Ci hai capito qualcosa?» chiese poi a Siobhan. «So solo che 'Monty' è Colin Montgomerie...» «E allora ne sai quanto me, sul regale e antico gioco del golf.» «Mai provato?» Lui scosse il capo. «Sono quei maglioncini pastello... non mi ci vedo proprio.» Mentre parcheggiavano e scendevano, furono oltrepassati da un gruppetto di spettatori presi a discutere gli eventi della giornata; uno sfoggiava un maglione rosa con scollo a V, gli altri erano in giallino, pesca e celeste. «Capito cosa intendo?» disse Rebus. Siobhan annuì. Il circolo era un edificio in stile baronale scozzese rispondente al nome di Rossdhu House; davanti all'ingresso sostava una Mercedes color argento, con l'autista appisolato sul sedile anteriore. Rebus lo riconobbe dal precedente incontro a Gleneagles: era lo chauffeur assegnato a Steelforth. «Ciao, omaccione», disse levando gli occhi al cielo. Un tizio basso e occhialuto, ma dotato di folti baffi e tutto pieno di sé, uscì dalla costruzione per dirigersi a grandi falcate verso di loro. Tra un tintinnio di catenelle, dal collo gli penzolava ogni sorta di tessere identificative e lasciapassare plastificati. Pronunciò energicamente una parola che sembrava «seaio» e che Rebus scelse di tradurre come «segretario», e la mano ossuta che strinse la sua esercitò un po' troppa forza. Almeno lui ebbe una stretta di mano: Siobhan, invece, avrebbe potuto essere invisibile. «Dobbiamo parlare con il comandante David Steelforth», spiegò Rebus. «Ma la avverto, è uno a cui non piacciono i plebei.» «Steelforth?» Il segretario si tolse gli occhiali e se li ripulì sulla manica
del maglione violetto. «È qui in veste aziendale?» «Quello è il suo autista», disse Rebus con un cenno del capo verso la Mercedes. Intervenne Siobhan: «Pennen Industries?» L'ometto tornò a inforcare gli occhiali e rispose sempre guardando Rebus. «Oh, sì, il signor Pennen dispone di un padiglione per gli ospiti.» Occhiata all'orologio. «Ammesso che non siano già andati tutti.» «Le spiace se controlliamo?» Il segretario fece una smorfia e disse loro di aspettare, quindi sparì nuovamente all'interno dell'edificio. Rebus fissò Siobhan in attesa di un commento. «Zelantissimo idiota», lo esaudì lei. «E se un giorno ti servisse un modulo per iscriverti al club?» «Per caso hai visto in giro una donna che sia una?» Rebus si guardò intorno prima di ammettere che aveva ragione lei, poi si voltò al rumore di un motore elettrico: un cart che sbucava da dietro Rossdhu House, con il segretario alla guida. «Saltate su», disse. «Non possiamo andare a piedi?» chiese Rebus. L'altro scosse il capo e ripeté l'ordine. La parte posteriore del veicolo alloggiava due sedili imbottiti rivolti verso l'esterno. «È una fortuna che tu sia così minuta», disse Rebus a Siobhan, mentre il segretario ordinava loro di reggersi forte. La macchina si mise in moto, a una velocità appena superiore al passo d'uomo. «Va-va-vuuum», trillò Siobhan con aria deliberatamente depressa. «Secondo te il capo della polizia è un tifoso di golf?» «Probabile.» «Con la fortuna che abbiamo questa settimana, tra un secondo lo incontriamo.» Ma così non fu. Il campo vero e proprio ospitava ormai solo gli ultimi ritardatari. Le tribune erano vuote e il sole calava. «Accipicchia, che panorama», fu costretta ad ammettere Siobhan, scrutando i monti oltre il lago. «Mi riporta alla mia gioventù», commentò Rebus. «Venivi qui in vacanza?» Lui scosse il capo. «Però i nostri vicini sì, e ci scrivevano sempre una cartolina.» Girandosi come meglio poteva vide che si avvicinavano a un villaggio di tendoni, a sua volta dotato di cordone di sicurezza e guardie.
Padiglioni bianchi, musica di sottofondo e un chiacchiericcio gaio. Il segretario rallentò sino a fermarsi e indicò con un cenno della testa una delle tende più grandi, con finestrelle di plastica trasparente e camerieri in livrea. Lo champagne scorreva a fiumi e i vassoi argentati erano carichi di ostriche. «Grazie per il passaggio», disse Rebus. «Vi aspetto?» Cenno negativo. «Troveremo la strada. Grazie ancora.» Poi, alle guardie: «Lothian and Borders», mostrando il tesserino. «Nel tendone dello champagne c'è il vostro capo», rispose sollecito un vigilante, e Rebus lanciò un'occhiata a Siobhan. Sì, era quel genere di settimana... Prese un bicchiere e si fece strada fra la calca. Gli sembrava di riconoscere qualche faccia dell'hotel Prestonfield, delegati del G8, gente a cui Richard Pennen mirava per affari. Il diplomatico keniota Joseph Kamweze incontrò il suo sguardo ma distolse immediatamente gli occhi, eclissandosi tra la folla. «Sembra di stare alle Nazioni Unite», commentò Siobhan che, data la scarsità di presenze femminili, aveva tutti gli occhi addosso. In compenso le donne che c'erano facevano di tutto per mettersi in mostra: chiome fluenti, tubini cortissimi e attillati, sorrisi ingessati. Si presentavano come «modelle» o «accompagnatrici», erano in affitto giornaliero per conferire un po' di glamour e abbronzatura da lampada agli avvenimenti. «Dovevi darti una restauratina», la sgridò Rebus. «Un po' di trucco non è mai sprecato.» «Ha parlato Karl Lagerfeld», ribatté lei. Rebus le diede un colpetto su una spalla. «Il nostro anfitrione», disse con un cenno del capo in direzione di Richard Pennen. Chioma impeccabile come sempre, gemelli scintillanti, vistoso orologio d'oro, ma qualcosa era cambiato: il viso sembrava meno abbronzato, l'atteggiamento meno sicuro di sé e, quando rise per qualcosa che aveva detto il suo interlocutore, gettò la testa un po' troppo indietro, aprì un po' troppo la bocca. Falso come Giuda. Anche l'interlocutore parve avere la stessa sensazione, e da come guardò Pennen sembrò chiedersi cosa pensare di lui. Gli stessi scagnozzi regolamentari - uno per lato come a Prestonfield sembravano innervositi dall'apparente incapacità del capo di dominare la scena come una volta. Rebus fu sul punto di avvicinarlo e chiedergli come andavano le cose, solo per il gusto di osservarne la reazione, ma Siobhan gli posò una mano
su un braccio per attirare la sua attenzione altrove. Nella fattispecie, su David Steelforth, che usciva da sotto il tendone conversando fittamente con il capo della polizia James Corbyn. «'Fanculo», disse Rebus. E poi, dopo un respiro profondo, aggiunse: «Abbiamo fatto trenta...» Sentì che Siobhan esitava, cosi si voltò verso di lei. «Magari è meglio se ti fai un giretto, tu.» Ma Siobhan aveva già deciso, e fu la prima ad accostare i due uomini. «Desolata per l'interruzione», stava dicendo quando Rebus la raggiunse. «Che cosa ci fate qui voi due?» sbottò Corbyn. «Mai scansato le bollicine gratis», spiegò Rebus, levando il calice. «E secondo me non lo fa neanche lei, signore.» Corbyn era avvampato in viso. «Io sono stato invitato.» «Noi pure, signore», disse Siobhan. «In un certo senso.» «Che significa?» chiese Steelforth con l'aria divertita. «Un'indagine per omicidio, signore», disse Rebus, «ti trasforma subito in un VIP.» «Anzi, in un vippissimo», lo corresse Siobhan. «Sta dicendo che Ben Webster è stato ammazzato?» ribatté Steelforth con gli occhi piantati addosso a Rebus. «Non proprio», rispose quest'ultimo. «Ma adesso abbiamo una vaga idea del perché sia morto, e a quanto pare esiste un legame con il Clootie Well.» Spostò lo sguardo su Corbyn. «Più avanti la aggiorneremo su tutto, signore, ma adesso dovremmo parlare con il comandante Steelforth.» «Sono certo che potete aspettare», scattò Corbyn. Rebus si voltò di nuovo verso Steelforth, che sorrise, ma stavolta a beneficio di Corbyn. «Credo sia meglio che io ascolti ciò che l'ispettore e la sua collega hanno da dirmi.» «Benissimo», cedette il capo della polizia. «Forza, cominciate.» Rebus tacque, scambiando un'occhiata con Siobhan; Steelforth comprese e fu lesto a porgere a Corbyn il proprio bicchiere, intatto. «Torno subito. Sono certo che a tempo debito i suoi agenti le spiegheranno ogni cosa.» «Sarà meglio», esclamò Corbyn, trafiggendo Siobhan con lo sguardo. Steelforth gli diede una rassicurante pacca sul braccio e si allontanò, seguito dai suoi inquisitori. Raggiunta la bassa staccionata perimetrale, si fermarono. Steelforth rivolse le spalle alla folla e il viso al campo, dove gli inser-
vienti erano indaffarati a sistemare zolle di terra smossa e ostacoli artificiali, poi si infilò le mani in tasca. «Cosa pensate di aver scoperto?» chiese disinvolto. «Io credo che lei lo sappia», rispose Rebus. «Quando ho detto che c'era un legame tra Webster e il Clootie Well non ha battuto ciglio, il che mi fa pensare che nutrisse già dei sospetti. Dopotutto Stacey Webster è dei suoi, e probabilmente la teneva abbastanza sotto controllo. Chissà, magari aveva cominciato a chiedersi perché facesse frequenti sortite a nord, in posti come Newcastle e Carlisle. Inoltre mi domando che cosa ha visto sui nastri del circuito chiuso di quella sera, su al castello.» «Sputi il rospo», sibilò Steelforth. Siobhan prese la parola. «Pensiamo che Stacey Webster sia il nostro serial killer. Voleva Trevor Guest morto, e per nascondere il delitto non ha esitato a uccidere altri due uomini.» «E quando è andata a raccontarlo a suo fratello», continuò Rebus, «be', lui non l'ha presa bene. Forse si è buttato. O forse ha minacciato di denunciarla e lei ha deciso di metterlo a tacere per sempre.» Concluse con un'alzata di spalle. «Molto fantasioso», commentò Steelforth, senza guardare in faccia né l'uno né l'altra. «Ed essendo bravi investigatori avrete prove schiaccianti di quanto andate sostenendo, giusto?» «Non dovrebbe essere difficile trovarle, ora che sappiamo cosa cercare», gli rispose Rebus. «Naturalmente l'SO12 ne ricaverà un danno...» Steelforth fece una smorfia e poi una giravolta di centottanta gradi in direzione del banchetto. «Fino a circa un'ora fa», disse strascicando le parole, «vi avrei mandati a fare in culo tutti e due, e sapete perché?» «Perché Pennen le aveva offerto un lavoro», rispose Rebus. L'altro aggrottò la fronte. «Ho solo tirato a indovinare. È lui che ha protetto per tutto questo tempo, e un motivo doveva pur esserci.» Steelforth annuì lentamente. «Si dà il caso che lei abbia ragione.» «Ma ha cambiato idea?» aggiunse Siobhan. «Basta guardarlo. Sta crollando, no?» «Come una statua nel deserto», commentò lei, con un'occhiata a Rebus. «Lunedì ero sul punto di rassegnare le dimissioni», disse Steelforth in tono mesto. «Per quanto mi riguardava, i reparti speciali potevano andare al diavolo.» «Qualcuno potrebbe obiettare che di fatto è già successo», affermò Rebus, «quando si consente a uno dei loro agenti di massacrare a destra e a
sinistra...» Steelforth stava ancora fissando Richard Pennen. «Buffo come vanno le cose, a volte... una crepa infinitesimale, e l'intera struttura va in pezzi.» «È successo anche ad Al Capone», intervenne Siobhan. «Alla fine lo hanno inchiodato per evasione fiscale, no?» Steelforth la ignorò, concentrandosi invece su Rebus. «Il filmato delle telecamere a circuito chiuso lasciava adito a dubbi», ammise. «Si vede Ben Webster che incontra qualcuno?» «Dieci minuti dopo avere risposto a una chiamata sul cellulare.» «Dobbiamo controllare i tabulati del gestore o diamo per scontato che si trattasse di Stacey?» «Come ho detto, le riprese lasciavano adito a dubbi.» «D'accordo, ma cosa si vede?» Steelforth diede un'alzata di spalle. «Due persone che parlano... braccia che si agitano in modo concitato... la discussione è evidente e animata. Alla fine una delle due persone afferra l'altra, ma non si vede granché, perché è molto buio...» «E?» «E poi ne rimane una sola.» Steelforth guardò Rebus dritto negli occhi. «In quel preciso istante, credo che lui desiderasse quel che poi è successo.» Un attimo di silenzio, rotto da Siobhan. «E lei avrebbe messo tutto a tacere solo per non alzare un polverone... così come ha spedito Stacey Webster di gran carriera a Londra.» «Be', sì. Nel caso vogliate discutere di tutto questo con lei, buona fortuna.» «Che intende dire?» Steelforth si girò verso di lei. «Che da mercoledì non abbiamo più notizie del sergente. Pare fosse a bordo del treno notturno diretto a Euston Station.» Siobhan socchiuse gli occhi. «Gli attentati di Londra?» «Sarebbe un miracolo riuscire a identificare tutte le vittime.» «Stronzate», sbottò Rebus, la faccia a un palmo da quella di Steelforth. «Lei la sta coprendo!» L'altro rise. «Lei vede complotti dappertutto, eh, ispettore?» «Sapeva che cosa aveva fatto, e le bombe sono una scusa perfetta!» I lineamenti di Steelforth si indurirono. «Ispettore Rebus, Stacey è sparita», dichiarò. «Quindi forza, raccolga tutte le prove che riesce a trovare, ma dubito che ne ricaverà alcunché.»
«Ne ricaverò un container di letame da scaricarle in testa», lo avvertì lui. «Ma davvero?» Steelforth sporse il mento con aria provocatoria. «Giova al terreno, però, una palata di concime ogni tanto. E ora, se volete scusarmi, ho intenzione di ubriacarmi come si deve a spese di Richard Pennen.» Si allontanò ad ampie falcate, togliendosi le mani di tasca solo per riprendere il bicchiere che aveva affidato a Corbyn. Questi gli disse qualcosa, indirizzando nel contempo un gesto alla volta dei due investigatori del Lothian and Borders. Steelforth scosse la testa, quindi si chinò appena verso il suo interlocutore pronunciando qualche parola. Il capo della polizia gettò la nuca all'indietro e scoppiò in una risata sguaiata e genuina. 28 «Ma che razza di conclusione è?» esclamò Siobhan, e non per la prima volta. Erano tornati a Edimburgo e sedevano in un bar di Broughton Street, a due passi da casa sua. «Consegna le foto scattate ai giardini di Princes Street», disse Rebus, «e magari il tuo amichetto naziskin si becca la pena che merita.» Lei lo guardò e rispose con una risata feroce e priva di allegria. «Tutto qui? Quattro morti a causa di Stacey Webster, e a noi rimane solo questo?» «Abbiamo la salute», le ricordò Rebus. «E tutto il bar che ascolta la nostra conversazione.» Con uno sguardo Siobhan incenerì la clientela circostante. Infilata in quel séparé si era già scolata quattro gin tonic, contro la pinta e i tre Laphroaig di Rebus. Il locale era pieno ed era stato anche relativamente chiassoso finché lei non aveva cominciato a parlare di omicidi multipli, morti sospette, accoltellamenti, maniaci sessuali, nonché di George Bush, dei reparti speciali, degli scontri di Princes Street e di Bianca Jagger. «Dobbiamo comunque mettere in piedi l'istruttoria», le ricordò Rebus. Lei gli rispose con una pernacchia. «E a che pro?» domandò in tono afflitto. «Non siamo in grado di dimostrare niente.» «Ma abbiamo un sacco di prove indiziarie.» Stavolta Siobhan si limitò a sbuffare e a contare sulle dita. «Richard Pennen, l'SO12, il governo, Cafferty, Gareth Tench, un serial killer, il G8... per un attimo tutto è sembrato collegato. Ed è così, se ci pensi bene!» Gli teneva le sette dita davanti alla faccia, ma poiché lui non reagiva le abbassò e prese a scrutarlo. «Mi spieghi come fai a rimanere così calmo?» «Chi l'ha detto che sono calmo?»
«Allora reprimi la rabbia.» «Ci sono abituato.» «Io no, invece.» Scosse il capo con fare teatrale. «Quando mi succede una cosa così, mi viene voglia di mettermi a gridare.» «Direi che sei già sulla buona strada.» Siobhan fissò il bicchiere mezzo pieno. «Quindi la morte di Ben Webster non ha niente a che spartire con Richard Pennen?» «Niente», dichiarò Rebus. «Però ha distrutto anche lui, no?» Rebus si limitò ad annuire. Poi Siobhan borbottò qualcosa di incomprensibile, le chiese di ripetere e lei lo fece. «Né dei né padroni. Ci sto rimuginando su da lunedì. Voglio dire: se fosse vero... da chi ci facciamo guidare? Chi è il responsabile?» «Non credo di poterti dare una risposta, Siobhan.» Lei fece una smorfia, come se Rebus le avesse appena confermato un sospetto, e in quel momento il suo telefonino emise il bip di un nuovo messaggio. Gettò uno sguardo al display, ma non mosse un dito. «Richiestissima, stasera», notò Rebus. Siobhan rispose scuotendo la testa. «Dovessi indovinare, direi che è Cafferty.» Allora lei lo guardò con aria truce. «E se anche fosse?» «Magari è ora di cambiare numero.» Siobhan convenne con un cenno del capo. «Prima però gli mando un bel messaggino lungo per dirgli esattamente cosa penso di lui.» Lanciò un'occhiata al tavolo. «Tocca a me?» «Pensavo che magari potevamo anche mettere qualcosa sotto i denti...» «Le ostriche di Pennen non ti sono bastate?» «Quelle non nutrono.» «Più avanti c'è un ristorante indiano.» «Lo so.» «Ovvio, hai vissuto qui tutta la vita.» «Gran parte», concesse lui. «Mai vista una settimana come questa, però», lo sfidò lei. «Mai», concordò Rebus. «Adesso finisci e andiamo a farci un curry.» Lei annuì, stringendo il bicchiere come in una morsa. «Mia madre e mio padre hanno cenato lì mercoledì sera. Io ho fatto appena in tempo per il caffè...» «Puoi sempre andare a trovarli a Londra.» «Mi chiedevo solo quanto resisteranno ancora.» Le si inumidirono gli
occhi. «Questo significa essere scozzesi, John? Un paio di drink e ti fai subito prendere dalla malinconia?» «In effetti», ammise lui, «pare che siamo condannati a guardare sempre indietro.» «E poi, tanto per peggiorare le cose, ti arruoli in polizia. La gente muore e tu guardi indietro anche alla loro, di vita, senza peraltro poter cambiare una virgola.» Fece per sollevare il bicchiere, ma gliene mancò la forza. «Potremmo andare a prendere a calci Keith Carberry», propose Rebus. Lei annuì piano. «O Big Ger Cafferty, ora che ci penso... o chi ci pare. Siamo in due.» Si sporse leggermente in avanti, cercando di guardarla negli occhi. «Due contro natura.» Lei lo fissò con aria smaliziata. «Il verso di una canzone, ci scommetto.» «Steely Dan, Two Against Nature, dall'album omonimo.» «Sai che mi sono sempre chiesta», disse allora lei, stravaccandosi contro lo schienale della panca, «da dove avevano preso il nome?» «Te lo dico appena torni sobria», rispose Rebus svuotando il bicchiere. Mentre lui la aiutava ad alzarsi e a uscire dal bar, Siobhan si sentì diverse paia d'occhi addosso. Ad accoglierli fuori c'erano un vento pungente e un'acquerugiola leggera ma fitta. «Magari è meglio se saliamo da te», suggerì Rebus. «Possiamo anche ordinarla, la cena.» «Non sono così ubriaca!» «Come vuoi, allora.» Si avviarono fianco a fianco per la rapida salita, senza parlare. Edimburgo era tornata alla normalità del sabato sera: ragazzi gasati su auto truccate, soldi che cercavano un posto per farsi spendere, il borbottio dei taxi diesel che facevano su e giù per le vie. A un certo punto Siobhan gli porse il braccio e disse qualcosa che lui non capì bene. «Non basta, vero?» ripeté. «Ha un valore solo simbolico... li dici perché non ti resta nient'altro da fare.» «Che cosa?» domandò lui con un sorriso. «I nomi dei morti», rispose lei, posandogli la testa sulla spalla. EPILOGO 29 Lunedì mattina Rebus era sul primo treno diretto a sud, quello che partiva da Waverley alle sei e arrivava a King's Cross poco dopo le dieci. Alle
otto telefonò a Gayfield Square dandosi malato, cosa non poi tanto lontana dalla verità, ma se gli avessero chiesto qual era la causa del malessere, qualche problema l'avrebbe avuto. «Si è speso gli straordinari», si era limitato a commentare il sergente di turno. Andò in carrozza ristorante e fece una bella colazione; quindi, tornato al suo posto, si mise a leggere il giornale e tentò di evitare qualunque contatto con i compagni di viaggio. Di fronte a lui, dalla parte opposta del tavolino, c'era un ragazzotto scontroso che dondolava il capo a tempo con i riff di chitarra provenienti dalle cuffiette, e accanto a lui una donna in carriera irritata perché non aveva abbastanza spazio per spargere dinanzi a sé il contenuto del proprio ufficio. Sul sedile di fianco a lui, invece, non c'era nessuno, o così fu fino a York. Erano anni che non prendeva il treno, colmo di turisti con valigie e bambini urlanti, vacanzieri che rincasavano e impiegati che tornavano alle rispettive scrivanie di Londra. Dopo York venivano Doncaster e Peterborough. L'ometto basso e tondo che si era sistemato nel posto prenotato accanto a Rebus si era già assopito, non senza avere fatto prima notare che in realtà gli spettava il posto vicino al finestrino, ma che se Rebus non voleva fare cambio il corridoio non gli dispiaceva. «Bene», aveva risposto lui. L'edicola della Waverley Station apriva pochi minuti prima della partenza del treno e aveva fatto appena in tempo a comprare lo Scotsman: il pezzo di Mairie stava in prima pagina. Non era il più importante e pullulava di «presunti», «probabili» e «potenziali», ma il titolo gli scaldò comunque il cuore: IL SIGNORE DELLE ARMI COINVOLTO NEL GIALLO DEI FINANZIAMENTI ILLECITI. Rebus era in grado di riconoscere una salva d'apertura, ma era certo che Mairie avesse in serbo molte altre munizioni per il futuro. Viaggiava privo di bagaglio, essendo fermamente deciso a prendere l'ultimo treno della sera in direzione contraria. C'era anche la possibilità di passare a una cuccetta, e forse l'avrebbe fatto, approfittandone per rivolgere qualche domanda all'equipaggio e vedere se qualcuno era di turno sul convoglio della notte di mercoledì da Edimburgo. A quanto pareva, era stato proprio lui l'ultimo a incontrare Stacey Webster, a meno che il personale della Great North Eastern Railway non riferisse altrimenti. Se quella sera l'avesse seguita fino in stazione, adesso sarebbe stato sicuro che aveva preso il treno, ma per come erano andate le cose lei poteva essere ovunque,
quindi anche ben nascosta in un luogo sicuro, in attesa che Steelforth le procurasse una nuova identità. La sera prima gli era venuto in mente che Stacey non avrebbe avuto alcuna difficoltà a rifarsi una vita, con le sue personalità multiple: sbirro, Santal, sorella, assassina... proprio quadrofenica, accidenti, come diceva il disco degli Who. Domenica Kenny, il figlio di Mickey, era venuto a trovarlo con la sua BMW e gli aveva detto che sul sedile posteriore c'era qualcosa per lui. Rebus era andato a guardare. Album, cassette, CD, persino dei 45 giri: l'intera collezione del fratello. «Lo diceva nel testamento», gli aveva spiegato il nipote. «Papà voleva che li tenessi tu.» Avevano portato su quel tesoro per due rampe di scale e Kenny si era fermato il tempo di un bicchiere d'acqua. Poi Rebus lo aveva salutato, aveva lanciato un'occhiata al lascito e si era seduto sul pavimento accanto alle scatole, cominciando a svuotarle: una versione mono di Sergeant Peppers, Let It Bleed con il poster di Ned Kelly, un sacco di roba dei Kinks, dei Taste, dei Free, qualcosa dei Van der Graaf Generator e di Steve Hillage. C'erano persino un paio di Stereo8, Killer di Alice Cooper e un album dei Beach Boys... un vero forziere della memoria. Rebus si era piazzato le copertine sotto il naso, e proprio l'odore lo aveva riportato indietro nel tempo. Singoli degli Hollies tutti deformati per essere stati lasciati sul piatto troppo a lungo dopo una festa, una copia di Silver Machine con la calligrafia di Mickey: «Proprietà di Michael Rebus: giù le zampe!» E naturalmente Quadrophenia, con gli angoli piegati e il vinile rigato, ma ancora ascoltabile. Seduto in treno, Rebus si rammentò delle ultime parole di Stacey: «Non gli hai mai detto che ti dispiaceva...» Un attimo dopo era fuggita nel bagno delle signore. Allora aveva pensato che si riferisse a Mickey, ma adesso capiva che si era trattato anche di lei e Ben. Le dispiaceva di aver ucciso tre uomini? Le dispiaceva di essere andata a raccontarlo al fratello? E Ben, che si rendeva conto di essere obbligato a denunciarla e tastava lo spesso bastione di pietra alle sue spalle, percependo il vuoto retrostante... Rebus ripensò alle memorie di Cafferty, il «figlio cambiato», un titolo che poteva adattarsi all'autobiografia di un sacco di persone. Chiunque in superficie poteva apparire sempre uguale, a parte qualche capello grigio o l'occhiale più spesso, ma in realtà non sapevi mai che cosa gli passasse veramente per la testa. Erano a Doncaster quando il cellulare squillò, svegliando il vicino che
russava debolmente. Il numero era quello di Siobhan ma lui ignorò la chiamata, così lei gli mandò un SMS e questo - il giornale ormai esaurito e il paesaggio noioso - decise di leggerlo. DOVE SEI? CORBYN VUOLE PARLARCI. DEVO DIRGLI QUALCOSA. CHIAMAMI. Dal treno non poteva, perché lei avrebbe capito dov'era diretto. Per ritardare l'inevitabile attese mezz'ora, poi le rispose. A LETTO NON STO BENE CI SENTIAMO POI. A mettere la punteggiatura non aveva mai imparato. Lei si rifece immediatamente sentire: DOPOSBORNIA? OSTRICHE DI LAGO, replicò lui. Spense il telefono per risparmiare la batteria, poi chiuse gli occhi proprio mentre il capotreno annunciava che la stazione londinese di King's Cross sarebbe stata la loro «prossima e ultima fermata». «Prossima e ultima», ripeté l'altoparlante. Poco prima avevano diffuso un annuncio sulle stazioni della metropolitana chiuse. Severissima, la donna in carriera aveva esaminato una mappa della London Underground tenendosela stretta per non condividere le informazioni. Al passaggio del treno per la periferia di Londra, Rebus riconobbe alcune stazioni locali, mentre gli habitué della linea cominciavano a riporre le proprie cose e ad alzarsi. Il PC portatile della signora tornò nella tracolla, insieme a fogli e cartellette, agenda e cartina, e il tizio accanto a lui si alzò con un lieve inchino, come se fino a quel momento avessero condiviso una lunga e cordiale conversazione. Rebus, che non aveva fretta, fu tra gli ultimi a lasciare il convoglio, e per scendere dovette sgusciare fra gli addetti alle pulizie. Londra era molto più calda e appiccicosa di Edimburgo, e lui aveva una giacca troppo pesante. Usci dalla stazione a piedi, non avendo bisogno di taxi né di metrò. Si accese una sigaretta e, esalando un anello di fumo, si lasciò avvolgere dal rumore e dai miasmi del traffico. Poi dalla tasca estrasse un foglio di carta: una piantina presa da una guida con stradario, fornitagli dal comandante David Steelforth. Rebus lo aveva chiamato domenica pomeriggio, comunicandogli che con gli omicidi del Clootie Well se la sarebbero presa comoda e che, se mai fossero giunti a quel punto, prima di consegnare l'istruttoria all'ufficio del pubblico ministero lo avrebbero consultato su tutti i riscontri. «D'accordo», aveva acconsentito in tono prudente Steelforth. Rumore di
fondo: l'aeroporto di Edimburgo, il comandante che tornava a casa. Dall'altra parte del filo Rebus, che gli aveva appena raccontato un mare di cazzate e adesso gli chiedeva un favore. Risultato: un nome, un indirizzo e una piantina. Il comandante si era addirittura scusato per gli scagnozzi di Pennen; avevano solo ordine di sorvegliarlo, non di molestarlo. «Solo dopo ho scoperto», gli aveva detto. «Uno crede di poterli controllare, uomini così...» Controllare... Rebus aveva ripensato al consigliere Tench, che voleva gestire un'intera comunità e non era stato capace di decidere nemmeno del proprio destino. Meno di un'ora a piedi, stimò, e non era una brutta giornata per camminare. Un ordigno era esploso su un convoglio della metropolitana fra King's Cross e Russell Square, un altro su un autobus diretto in quest'ultima piazza da Euston Station: tutti e tre i luoghi erano compresi nella cartina che ora stringeva in mano. E il treno della notte era arrivato a Euston intorno alle sette del mattino. 8.50: la bomba nel metrò. 9.47: la bomba sull'autobus. Rebus era convinto che Stacey Webster non si fosse trovata sui luoghi delle esplosioni, né in un caso né nell'altro. Il capotreno aveva avvisato i passeggeri che erano stati fortunati, perché nei tre giorni precedenti la corsa era terminata a Finsbury Park: peccato che a Rebus Finsbury Park avrebbe fatto più comodo... Cafferty se ne stava tutto solo nella sala biliardi e all'ingresso di Siobhan non alzò nemmeno gli occhi, ma aspettò di avere fatto il suo tiro. Tentava un colpo di sponda. E lo sbagliò. Allora girò intorno al tavolo, ingessando la punta della stecca. Poi soffiò via la polverina in eccesso. «Le mosse le conosce tutte», commentò Siobhan. Lui rispose con un grugnito e tornò a piegarsi sulla stecca. Sbagliando di nuovo. «Però fa schifo comunque», terminò lei. «Il che vale anche in generale.» «Buongiorno, sergente Clarke: una visita di cortesia?» «Lei che ne pensa?» Finalmente Cafferty sollevò lo sguardo. «Non risponde ai miei messaggini.»
«Se ne faccia una ragione.» «Questo non cambia quel che è successo.» «Perché, cos'è successo?» Lui parve riflettere un istante sulla domanda. «Non so... che tutti e due abbiamo ottenuto quel che volevamo?» finse di indovinare. «Solo che adesso lei si sente in colpa.» Puntò la stecca sul pavimento. «Tutti e due abbiamo ottenuto ciò che volevamo», ripeté. «Io non volevo la morte di Gareth Tench.» «Ma una bella punizione sì.» Lei si avvicinò di due passi. «Non cerchi di dire che l'ha fatto per me.» Cafferty schioccò le labbra, deluso. «Deve imparare a godersele, queste piccole vittorie, Siobhan. La vita non ne regala molte, stando alla mia esperienza.» «Io ho sbagliato, Cafferty, ma imparo in fretta. In tutti questi anni lei si è divertito con John Rebus, ma d'ora in avanti avrà un altro nemico ad alitarle sul collo.» Big Ger ridacchiò. «E sarebbe lei, giusto?» Si appoggiò alla stecca. «Però deve ammettere che eravamo una bella squadra. Pensi a come potremmo dominare la città, noi due insieme: scambi di informazioni, soffiate, traffici... Io che seguo i miei affari e lei che passa di promozione in promozione. Non è quello che vogliamo, alla fin fine?» «Quel che voglio io», disse Siobhan a voce bassa, «è non avere più nulla a che fare con lei finché non sarò seduta al banco dei testimoni e lei alla sbarra.» «In bocca al lupo, allora», disse Cafferty con un'altra risatina, per poi rivolgere nuovamente l'attenzione al tavolo. «Nel frattempo, le andrebbe di massacrarmi a biliardo? Che razza di gioco, mai stato capace...» Quando si voltò, lei si stava già dirigendo verso la porta. «Siobhan», la chiamò. «Si ricorda, noi due insieme nell'ufficio di sopra? Con quel pezzente di Carberry che se la faceva sotto per la paura? Gliel'ho letto negli occhi...» Lei aveva aperto, ma non resistette alla tentazione. «Letto cosa, Cafferty?» «Che cominciava a piacerle.» Si passò la lingua sulle labbra. «Direi che cominciava proprio a piacerle.» La risata la seguì anche fuori, alla luce del sole. Pentonville Road e poi Upper Street... più lontano di quanto avesse sti-
mato. Si fermò in un caffè di fronte alla stazione del metrò di Highbury & Islington, mangiò un tramezzino e sfogliò la prima edizione dell'Evening Standard. Nel locale nessuno parlava inglese e, al momento di ordinare, con il suo accento aveva decisamente faticato a farsi capire. Il tramezzino però era ottimo. Quando tornò all'aria aperta, sentì che i piedi gli si stavano già riempiendo di vesciche. Da St Paul's Road svoltò in Highbury Grove, e di fronte ad alcuni campi da tennis trovò la via che cercava, poi anche il palazzo, il numero dell'appartamento e il relativo citofono. Non era indicato alcun nome, ma lui suonò lo stesso. Nessuna risposta. Controllò l'orologio, poi premette tutti gli altri pulsanti fino a ottenere una reazione. «Sì?» crepitò una voce dal citofono. «Pacchetto per il numero nove», disse Rebus. «Questo è il sedici.» «Pensavo che magari potevo lasciarlo a lei.» «E invece no.» «Fuori dalla porta, allora?» La voce imprecò, ma la serratura fece clic e Rebus entrò nel palazzo. Salì le scale fino alla porta dell'interno nove, dotata anche di spioncino, e premette l'orecchio contro il battente di legno. Poi fece un passo indietro ed esaminò l'infisso: roba solida, con tre o quattro serrature e una piastra d'acciaio lungo il bordo. «Ma chi è che vive in un posto del genere?» si chiese sottovoce. Il fatto era che lo sapeva benissimo, chi ci viveva: informazione estorta a David Steelforth. Bussò senza troppa convinzione, quindi tornò dabbasso, strappò il coperchio al pacchetto di sigarette, lo incuneò nel telaio del portone perché non si richiudesse, uscì e si mise ad aspettare. Era bravo ad aspettare. C'erano dodici posti auto riservati ai residenti, ciascuno protetto da un paletto di ferro verticale. La Porsche Cayenne color argento si fermò e il proprietario scese per sganciare il lucchetto e abbassare l'asta della piazzola. Completata la manovra di parcheggio, l'uomo si mise a fischiettare soddisfatto, girò intorno all'auto, mollò una pedata alle gomme perché i tipi tosti facevano così, eliminò una macchiolina dalla carrozzeria sfregandoci sopra una manica, gettò in aria le chiavi, le riprese al volo e se le infilò in
tasca. Ecco quindi apparire un altro mazzo di chiavi. Il tizio selezionò quella del portone e, quando si accorse che non era del tutto chiuso, rimase perplesso. Portone contro cui un attimo dopo si schiantò la faccia, sospinto da dietro oltre la soglia e sulle scale. Rebus non gli lasciò alcuna possibilità: afferratolo per i capelli, gli sbatté ripetutamente la testa contro il muro di cemento grigio, sporcandolo di sangue. Una ginocchiata nella schiena e Jacko era a terra, stordito e semincosciente. Un colpo di taglio al collo e un altro cazzotto alla mascella: il primo per me, pensò Rebus, il secondo per Mairie Henderson. Osservò attentamente il viso dell'uomo. Aveva qualche cicatrice, ma era ben messo... congedato da poco dall'esercito e ingrassato a cura del settore privato. Gli occhi si annebbiarono e poi, lentamente, si chiusero. Rebus attese qualche secondo, nel caso fosse solo un trucco, ma il corpo di Jacko si era afflosciato completamente. Accertò allora che il polso battesse ancora e che le vie aeree non fossero ostruite, poi gli torse le braccia dietro la schiena e le immobilizzò con i lacci di plastica che aveva comprato. Belli stretti. Si rialzò, prese le chiavi della macchina e di nuovo uscì, controllando che non ci fosse nessuno a guardarlo. Quando fu accanto alla Porsche, tirò una bella riga sulla fiancata con la chiave, poi aprì la portiera dal lato del conducente, infilò la chiave nell'accensione e lasciò lo sportello maliziosamente aperto. Riprese fiato, poi si riavviò verso la strada principale. Sarebbe montato sul primo taxi o autobus che passava, e se riusciva a beccare il treno delle cinque da King's Cross si sarebbe ritrovato a Edimburgo prima della chiusura dei pub. Il biglietto di ritorno era aperto: gli era costato più di un volo per Ibiza, ma almeno poteva rientrare quando voleva. Gli erano rimaste delle cose da fare anche a casa. La fortuna lo aspettava sotto forma di un taxi nero con la luce accesa, e dunque libero. Sul sedile posteriore si infilò una mano in tasca. Al tassista aveva detto di portarlo a Euston, sapendo che era a due passi da King's Cross. Ora tirò fuori un foglio di carta e un rotolo di nastro adesivo. Dispiegò il foglio e lo esaminò: rozzo ma efficace. Due foto di Santal-Stacey: una scattata dall'amico di Siobhan, l'altra presa da un vecchio giornale. Sopra, in pennarello nero, solo la parola SCOMPARSA sottolineata due volte; sotto, il suo sesto e ultimo tentativo di messaggio credibile: «Le mie due amiche Santal e Stacey, scomparse dal giorno degli attentati. Arrivate a Euston quella mattina con il treno della notte da Edimburgo. Se le avete viste o avete loro notizie, per favore chiamatemi. Ho bisogno di sapere che
stanno bene». Nessuna firma, solo il suo numero di cellulare. E una decina di copie nell'altra tasca. L'aveva già inserita come persona scomparsa nel database nazionale della polizia, con statura, età, colore degli occhi e qualche informazione di contorno relativa a entrambe le identità. La settimana seguente la descrizione avrebbe raggiunto gli enti benefici che si occupavano di senzatetto e i distributori di Big Issue, il giornale di strada. Una volta che Eric Bain fosse uscito dall'ospedale, gli avrebbe chiesto qualche dritta per le ricerche via Internet, e magari avrebbero anche potuto allestire un sito apposito. Se lei era viva, era rintracciabile, e Rebus non avrebbe smesso di darle la caccia. Ancora per un bel pezzo. RINGRAZIAMENTI A Auchterarder non c'è nessun Clootie Well; però quello sulla Black Isle vale una visita, se vi piacciono le attrazioni turistiche che danno la pelle d'oca. E a Coldstream non c'è nessun pub di nome Ram's Head, anche se al Besom servono un discreto pasticcio di carne. Un grazie a Dave Henderson, che mi ha concesso di utilizzare il suo vasto archivio fotografico, e a Jonathan Emmans, che ha fatto le presentazioni. FINE