WILLIAM KATZ DENTRO LE TENEBRE (After Dark, 1988) Prologo Lui lo conosceva. Perlomeno, conosceva la faccia. Ne aveva vis...
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WILLIAM KATZ DENTRO LE TENEBRE (After Dark, 1988) Prologo Lui lo conosceva. Perlomeno, conosceva la faccia. Ne aveva viste sfilare di facce simili durante gli anni al Tribunale dei minori... adolescenti amareggiati, pieni di paura eppure spavaldi, miti eppure capaci dei più orrendi delitti. Era stato uno di loro? Per forza. Altrimenti perché si avvicinava così rapidamente con quel lampo sinistro negli occhi? Che cosa voleva? Che cosa cercava di prendere? Perché portava quella grande borsa di plastica appesa al braccio sinistro? Sì, era uno di loro. Ora lo ricordava. Era il ragazzo che... I suoi pensieri furono interrotti dallo scoppio devastante di un proiettile. Nell'attimo estremo sentì solo un colpo in testa, come se qualcuno gli avesse mollato un pugno. E mentre cadeva guardò su e vide il sogghigno che aveva giurato di non dimenticare mai. Anche l'uomo che sogghignava aveva giurato di non dimenticare. Il mondo si oscurò. Il sogghigno divenne più largo. 1 New Rochelle, New York «Voglio dormire.» Anne parlava da sola, non c'era nessuno a sentirla. Da tre mesi borbottava le stesse cose ogni notte. Tanto non sarebbe riuscita ugualmente a dormire. Insonnia cronica. Una vera maledizione, aveva confidato al suo medico. Una condizione clinica, aveva ribattuto il dottore. Forse fisica, probabilmente psichica. E le aveva fatto un'infinità di test. Erano le tre di una notte di primavera. Anne aprì l'occhio sinistro in ora-
rio perfetto e istintivamente provò un bruciore ai muscoli irrigiditi. Aveva anche un po' di nausea. Non era giusto. L'insonnia la stava distruggendo. Aprì anche l'occhio destro e ordinò a se stessa di dormire, di reagire con tutte le sue forze. Niente. Era già successo innumerevoli volte. A trentatré anni Anne Seibert temeva di apparire vecchia. Svolgeva la sua attività di redattrice pubblicitaria indipendente a New York e capiva che l'insonnia cominciava a influire sul lavoro. Le capitava di sbagliare le parole, di scrivere frasi confuse; perdeva la memoria. Qualcuno aveva insinuato che probabilmente beveva. Una calunnia che l'uccideva quasi quanto l'insonnia. Ora, distesa nel letto con una lama di luna che filtrava dalla finestra attaccò la solita routine nel tentativo di riprendere sonno. Respiro profondo. Pensare alle onde che si infrangevano sulla riva. Contare le pecore. Quattrocento ogni notte. Ma non prendeva le pillole. C'era il pericolo di assuefazione, aveva detto il medico. Perciò lei soffriva. New Rochelle, New York Mark Chaney vide l'uscita di New Rochelle e si portò sulla corsia di destra dell'Hutchinson River Parkway, Hutch per gli abitanti di New York. Mentre sterzava sentì il tonfo familiare nel baule. Doveva metterci qualche coperta o dei pneumatici, concluse. Non voleva che si sciupasse. Doveva far cessare quel continuo rullio. Gli dava fastidio, specialmente alle tre del mattino, quando i rumori della strada erano scarsi e attutiti. Uscì dall'Hutch al casello di New Rochelle e si diresse immediatamente verso una stazione di servizio deserta. Non era la prima volta che vi si fermava a tarda notte perché disponeva di un telefono pubblico che funzionava. Fermò la Jaguar dietro la stazione dove non era possibile vederla dalla strada, infilò un paio di guanti, scese ed entrò nella cabina. Compose un numero. Uno squillo e qualcuno sollevò la cornetta all'altro capo del filo. «Pronto. Sei tu Mark?» «Sì, Emil, sono io.» «Tutto sistemato?» «Sicuro», rispose Chaney. «Finito.» «Sapessi che cosa significa per me!» «Per tutti e due. Ti senti meglio ora, Emil?» «Altro che! Adesso mi alzo e mi preparo una buona cioccolata.»
«Allora ti senti bene.» «Vorrei festeggiare subito», disse Emil. «Sono anni che aspettiamo questo momento. Sta' a sentire: magari facciamo una festa solo noi due fra un paio di settimane.» «Perché no?» replicò Chaney. «Ce lo meritiamo. L'abbiamo fatto in modo perfetto e quando si fanno le cose alla perfezione bisogna festeggiare.»» Chiacchierarono ancora per qualche minuto, poi tolsero la comunicazione. Chaney uscì dalla cabina telefonica e risalì nella Jaguar. Gli piaceva l'odore della pelle dei sedili dell'auto, il simbolo del successo che quelle persone mai avevano creduto fosse capace di raggiungere, un successo che lui era in grado di assaporare anche in una notte come quella. Avviò il motore e uscì dalla stazione di servizio. Di nuovo quel tonfo nel baule. La prossima volta ci vorranno le coperte, pensò. Mark Chaney aveva trentasei anni, era alto, robusto, impeccabile nel completo Dunhill, con un Rolex d'oro e acciaio al polso. Una volta, su una rivista femminile, lo avevano definito «lo scapolo ideale». Ma per qualsiasi poliziotto di pattuglia Chaney era un distinto e arrivato uomo d'affari che tornava a casa tardi dopo riunioni e incontri. Aveva coltivato quell'immagine per anni, spesso trattenendosi in riunione con i suoi colleghi per un'intera notte solo per rafforzare la sua credibilità e per apparire un uomo capace di lavorare ventiquattr'ore filate, se l'azienda lo richiedeva. Imboccò uno dei più eleganti quartieri residenziali di New Rochelle, passò davanti ad alcune palazzine con il cartello: VENDESI. Il tonfo nel baule era cessato ora, grazie alla velocità ridotta e alle strade più scorrevoli. Sopra il ronzio del motore Chaney sentiva soltanto il fruscio degli alberi che si agitavano al vento di primavera. Avvicinandosi al suo quartiere si chiese se l'avrebbe rivista. La luce nella casa di fronte. L'aveva notata tre o quattro volte e cominciava a infastidirlo come il tonfo nel baule. Aveva incontrato la giovane donna che abitava in quella casa, Anne Seibert, solo poche volte. In una occasione l'aveva aiutata a mettere in moto la sua vecchia Oldsmobile color limone. Lei si era trasferita lì tre mesi prima e la luce aveva cominciato ad accendersi circa sei settimane dopo il suo arrivo. Chaney sapeva, da quanto gli aveva detto un vicino, che era una redattrice di pubblicità, che aveva appena divorziato e che aveva ottenuto la casa in affitto. Era tutto ciò che sapeva di lei... tranne che accendeva la luce ogni notte. Perché?
Che cosa trovava di tanto interessante a quell'ora? Perché era andata ad abitare dall'altra parte della strada, proprio di fronte a casa sua? Mark Chaney era un tipo ansioso per natura, ma era giusto così. C'erano nemici dappertutto, c'erano sempre stati. Persone che lo sorvegliavano. Pronti a colpirlo. La notte spaventava Anne. Soprattutto i suoni. Rumori che di giorno passavano inosservati di notte diventavano incubi, deformavano e ingigantivano le immagini. Un rametto spezzato di giorno produceva un suono normale, di notte faceva pensare a qualche predatore. Il motore di un'auto alle tre del pomeriggio ricordava semplicemente una madre che rientrava dopo esser stata a riprendere suo figlio a scuola. Alle tre di notte poteva essere qualcuno che si muoveva furtivo nel quartiere. Il suono di una voce a mezzogiorno era un bambino che rideva o un vicino che brontolava; nell'oscurità diventava il grido di una persona che si sentiva male, o che aveva paura. L'abbaiare di un cocker in piena notte diventava l'ululato di un lupo. Il malato d'insonnia si muove in un mondo pauroso, avvolto in una cortina di oscurità in cui il silenzio è normale e qualsiasi deviazione anormale. Per Anne, appena calato il buio, si apriva un mondo di incubi. Succedeva così da due anni. Chi avrebbe immaginato che l'uomo conosciuto quando lei aveva solo quindici anni e che aveva aiutato a studiare, sarebbe diventato un violento che la minacciava ogni giorno e che una volta era arrivato anche a colpirla con una bottiglia? Ora lui era «sotto terapia», un cortese eufemismo, ma Anne temeva sempre che qualche notte riapparisse con la faccia livida e distorta dalla follia. Scese dal letto, come ogni notte a quell'ora, e gettò indietro i lunghi capelli castani. S'infilò la vestaglia azzurra, uno dei primi regali di suo marito nei loro sette anni di matrimonio, e si diresse verso il soggiorno. Sapeva che l'attacco d'insonnia sarebbe durato almeno due ore, lasciandola stanca e distrutta ancor prima che cominciasse la giornata. E aveva un mal di testa atroce. Accese la luce in soggiorno e sedette con una copia di Newsweek. Doveva leggere. Naturalmente scelse un articolo sul matrimonio. Ebbe soltanto il potere di ricordarle quanto si sentiva sola nel cuore della notte. Lei era pronta per
una nuova esperienza sentimentale, qualcosa che portasse calore e gioia nella sua vita, qualcuno che prendesse il posto del mostro che un tempo viveva con lei. Sarebbe stata anche un'ottima cura contro questa maledetta insonnia. Sentì il rumore di un motore in lontananza e si rannicchiò sul divano. Paura. Mark Chaney svoltò nel suo isolato e proseguì lentamente augurandosi che il rumore del motore non svegliasse i vicini. Arrivò davanti alla sua casa con il garage sul retro. Sollevò il piede dall'acceleratore e avanzò in folle verso il vialetto. Fu allora che la vide. Lei aveva di nuovo la luce accesa. E nel soggiorno si scorgeva la sua silhouette. Leggeva o, più probabilmente, fingeva di leggere. Ecco, si era alzata e sbirciava attraverso la veneziana. Una mossa calcolata oppure si era incuriosita sentendo il rumore del motore? D'accordo, uno poteva anche incuriosirsi alle tre del mattino, ma ormai succedeva tutte le notti. Lui lanciò uno sguardo verso la finestra e tornò a girarsi per non farle capire che l'aveva vista. Perché metterla in guardia? Chaney imboccò il vialetto di ghiaia decisamente preoccupato. Lei lo sorvegliava. O forse no. Forse si trattava solo di una coincidenza. Ma sempre di notte e sempre a quell'ora? Lei non poteva sapere di quelle sue corse notturne. Nessuno sapeva. E allora perché lo sorvegliava? Che cosa sapeva la donna, o le persone per cui lavorava? Qualcosa aveva interferito con il piano perfetto suo e di Emil? Portò l'auto dietro la casa dove alberi e cespugli offrivano protezione sicura dall'indiscrezione dei vicini, ma preferì parcheggiarla nel garage. Scese, chiuse la portiera senza far rumore e corse in casa passando dall'ingresso posteriore. Appena dentro si mise in ginocchio e nell'ombra sbirciò verso la casa di fronte. Lei era ancora là che guardava attraverso la tenda. La odiava. Anche se l'aveva incontrata solo poche volte cominciava a detestarla. Perché non lo lasciava in pace? Chissà dove va, annotò Anne nel piccolo diario rilegato in pelle rossa che aveva cominciato a scrivere per passare il tempo durante gli attacchi d'insonnia. Spesso rientra alle tre del mattino. Lavora forse per il gover-
no? Ha una ragazza? È bello e distinto, il tipo dell'uomo d'affari di successo. Vorrei conoscerlo meglio. Mi piacerebbe davvero. Ma perché questi viaggi a notte fonda? Guardò attraverso la tenda senza accorgersi che Mark Chaney faceva altrettanto. Lui era in una stanza buia e non poteva essere visto. Strano. Un uomo entra in casa sua e non accende la luce. Forse era entrato dal garage dietro la casa. Oppure aveva la camera da letto proprio vicino alla porta. Che importa? si chiese Anne. Ma l'andirivieni di quel viaggiatore della notte era affascinante, specialmente per una che soffriva d'insonnia. Anne riprese a leggere Newsweek. Era distrutta dalla stanchezza e domani sarebbe stata un'altra giornata infernale nel tentativo di lavorare e di tenere gli occhi aperti. Qualche volta desiderava morire. Chaney tornò alla macchina e aprì il baule. Guardò il sacco di plastica verde che si era incastrato sotto il divisorio fra il portabagagli e il sedile posteriore. Spostandosi il sacco aveva rovesciato una bottiglia d'acqua di scorta e il liquido aveva macchiato il tappeto del baule. Accidenti, con quello che costavano gli accessori della Jaguar! Respirò profondamente, afferrò il sacco e lo tirò verso di sé. Lo estrasse dal portabagagli e se lo caricò in spalla, badando che non grattasse contro la serratura del baule. Avverti la graduale rigidità del contenuto e provò un brivido di piacere. Questo era il vero significato del termine soddisfazione. Chaney barcollò leggermente sotto il peso, riacquistò l'equilibrio e si avviò verso la porta di servizio. Portò il sacco in casa e lo depose sul pavimento accanto alla porta dello scantinato. L'uscio si apriva con una doppia combinazione. Chaney girò il disco della combinazione di ciascuna serratura e la porta si aprì. Poi accese la luce nello scantinato. Nessuno l'avrebbe notata perché le finestre del seminterrato erano coperte da pannelli di legno. Risollevò il sacco di plastica, lo portò piano piano giù per le scale e lo depose accanto a un gigantesco frigorifero. Aprì lo sportello in cima e con un sorrisetto borbottò: «Ehi, salve», rivolgendosi a un sacco identico a quello che aveva appena trasportato. Sollevò quest'ultimo e lo sistemò nell'interno del freezer. «Sogni d'oro!» augurò, chiudendo lo sportello. Fece per dirigersi verso la scala, ma cambiò idea e proseguì verso una porta che dava in un'altra stanza. Anche questa porta aveva una doppia combinazione; di nuovo Chaney compì l'operazione di azionare i due di-
schi della serratura. Aprì l'uscio. La stanza era buia tranne la lama di luce che filtrava dallo scantinato. Lui riusciva a distinguere appena il tettino d'ospedale, la camicia di forza che giaceva su una sedia vicina. Vedeva anche i contorni del seggio del giudice con sopra il martelletto. «Maledetta notte», bisbigliò e chiuse la porta. Salì la scala, chiuse anche la porta dello scantinato e tornò alla Jaguar per riprendere la pistola Heckler and Koch calibro 9. Notò che l'arma doveva essere pulita, perciò la portò in casa e la mise in un cassetto del mobile in cucina. Finalmente andò nella sua camera e accese la luce. Si è accesa la luce, pensò Anne. Strano, però. Uno entra in casa, rimane al buio per più di un quarto d'ora e dopo accende la luce. Ma lei aveva cose più urgenti a cui pensare. Tornò a coricarsi e cercò di dormire. Con l'aiuto di una tazza di latte caldo. Qualche volta, in passato, aveva funzionato. Anche i medici affermavano che il latte concilia il sonno. Bisogna dormire, seguitò a ripetersi rigirandosi nel letto. Niente. Gli occhi le bruciavano, ma continuò a tenerli sbarrati. Chaney si preparò ad andare a letto. Ma prima volle dare un'altra occhiata alla casa di fronte. Lei era ancora là, sbirciava fuori dalla finestra del soggiorno. Per la precisione, guardava attraverso una fessura della veneziana. Lui si tirò indietro. Quella donna cominciava a diventare una vera ossessione e Mark Chaney non aveva bisogno di essere distratto, aveva già una sua ossessione. Che cosa poteva fare? Non poteva certo andare alla polizia a dire che una spiona lo perseguitava, e neppure poteva minacciare la donna con lettere anonime che avrebbero destato dei sospetti. Ma forse c'era un modo per incastrarla. Coglierla di sorpresa e costringerla a rivelare perché sorvegliava la sua casa durante la notte. Chaney guardò il telefono. Era abbastanza logico, un vicino che telefonava per informarsi... Non conosceva il numero di Anne, ma sapeva il suo cognome. Cercò nell'elenco telefonico sfogliando le pagine fino alla lettera S. Trovò il numero e lo compose.
Anne sobbalzò al trillo del telefono. Dovevano aver sbagliato numero... oppure qualcuno che stava male e cercava aiuto. Forse c'era stato un delitto. Allungò il braccio e afferrò la cornetta. Non rispondere, si disse. Magari è solo una telefonata oscena. Eppure doveva rispondere se era qualcuno che stava male. «Pronto?» «Anne?» Lei esitò. Non riconosceva la voce. «Sì.» «Sono il suo vicino, Mark Chaney. Abito nella casa di fronte.» Era lui. Incredibile, ma era proprio lui. Con una voce calda e affascinante, la voce che avrebbe voluto ascoltare a quell'ora della notte. Ma perché chiamava? Era arrabbiato? Quasi quasi Anne si sentiva mortificata come un'adolescente. «Salve», rispose sorpresa. «Ero ancora in piedi e ho visto la luce. Qualcosa non va?» «Oh no», si affrettò a rispondere Anne. «Stavo lavorando.» «A quest'ora?» «Qualche volta capita.» Lei non voleva confessare che soffriva d'insonnia. La gente pensava subito a crisi depressive, o magari alla droga. «È una brutta abitudine», ammise. «Capisco che può sembrare assurdo.» «Be', anch'io lavoro spesso di notte, vado e vengo a tutte le ore. Comunque, se ha bisogno di qualcosa mi chiami. Dico sul serio.» «Grazie. Molto gentile.» Che uomo! pensò Anne. Certo, veniva e andava a tutte le ore, eppure aveva trovato il tempo di telefonarle. Sembrava sinceramente preoccupato. La conversazione finì e per la prima volta dopo giorni e giorni un sorriso illuminò il viso di Anne. Conosceva appena Mark Chaney eppure lui si era mostrato così premuroso. Evidentemente provava simpatia per lei. Non se n'era resa conto. Che notte! Prima l'insonnia, poi il continuo rimuginare riguardo l'uomo che abitava di fronte, e infine la telefonata. Forse era il destino, concluse Anne. Forse era destino che lei si fosse alzata per andare alla finestra attirando l'attenzione di Mark Chaney. Tutto sommato era contenta. Chaney sbatté giù la cornetta. Furibondo. Davvero quella scema pensava che lui le credesse? Chi lavora alle quattro di notte, quando deve alzarsi presto la mattina dopo? Voleva incantarlo,
agganciarlo. Detestava le persone che si comportavano a quel modo. Gente pronta a fregarti alla prima occasione. Lei mentiva... era evidente. Lo sorvegliava e Mark Chaney era deciso a scoprire perché. E a farla smettere. Lui era un esperto nel troncare le cose. 2 Poiché era comproprietario della sua ditta Mark Chaney aveva il privilegio di andare tardi in ufficio dopo una notte di lavoro. Era ancora a letto alle otto quando Anne uscì di casa sbattendo forte la porta d'ingresso. Al tonfo Chaney si alzò per andare alla finestra e guardò fuori, chiedendosi che aspetto poteva avere Anne Seibert dopo averlo spiato per tutta la notte. La vide camminare lentamente verso la sua Olds Omega dell'82 parcheggiata nel viale. Non sembrava animata dall'entusiasmo della maggior parte delle giovani donne che vanno a lavorare. Anche da quella distanza si vedeva benissimo che era stanca. Era tutto così strano. Non poteva aver detto la verità, e cioè che era rimasta alzata a lavorare? Certo, alcune persone qualche volta lavorano fino a tardi, in caso di straordinari o di problemi urgenti; ma quella era sempre alzata tutte le volte che lui arrivava a casa nel pieno della notte. Non era una cosa normale. Mentre Anne usciva dal viale, Chaney tornò a letto. Doveva segnare il suo nome sull'agenda appena fosse arrivato in ufficio perché lei era pericolosa. E bisognava avvertire Emil. L'aspettava un'altra mattina infernale. Anne si tuffò nel traffico di Manhattan cercando di ottenere un suono decente dalla sua radio. Sempre disturbata, non si sentiva quasi niente. Aveva paura a guidare, temeva di addormentarsi al volante e di andare a sbattere contro qualche veicolo. Perciò alzò la radio a tutto volume sperando di restar sveglia. Che ridere: adesso voleva restare sveglia. Uno scherzo crudele che la biologia gioca a chi soffre d'insonnia. Avrebbe potuto adottare un orario più flessibile e dormire di più, ma in tal caso avrebbe dovuto rinunciare a incarichi redditizi. Attualmente guadagnava ventottomila dollari l'anno, e lei aveva bisogno di quella somma fino all'ultimo centesimo. Nonostante il gracchiare dello speaker alla radio pensò a Mark Chaney. Quando era uscita la sua casa non dava segni di vita e lei aveva concluso
che sarebbe andato al lavoro molto più tardi. Che mestiere faceva per avere il privilegio di fare i propri comodi? Si sentiva affascinata da quell'individuo e moriva dalla voglia di conoscerlo. Bisogna trovare il modo di avvicinarlo. Non fece caso allo speaker del giornale radio che annunciava la scomparsa di un giudice del Tribunale dei minori dalla sua casa isolata a Scarsdale. Era troppo occupata a combattere la stanchezza e a guidare nel traffico. Non sentì neppure riferire che erano state trovate macchie di sangue davanti alla casa del giudice. Pagò i due dollari di pedaggio al Ponte Triborough e per poco non si fece tamponare dall'auto dietro. Il conducente le gridò una parolaccia accompagnata da un gesto osceno. Era mattina a New York. Per quel giorno e per alcune settimane Anne avrebbe lavorato alla Stellar Motors, una ditta che importava nuove automobili FSR dalla Germania Federale. Lei si sentiva maledettamente a disagio per la sua vecchia Olds arrugginita e aveva accettato l'imposizione dei proprietari di parcheggiare il suo macinino sgangherato in un garage a dieci isolati dalla Stellar. Caso mai qualche probabile cliente vedesse quell'orrore. Anne parcheggiò al posto indicato e percorse a piedi i dieci isolati che la separavano dagli uffici della Stellar in una torre di vetro sulla Terza Avenue. Mangiò una frittella, bevve una tazza di caffè al bar nel corridoio principale e si affrettò verso la sua scrivania. Una delle sue migliori amiche lavorava alla Stellar Motors e Anne non vedeva l'ora di parlarle di quel tipo affascinante che era il suo vicino e che abitava nella casa di fronte alla sua. Mark Chaney si alzò alle nove e scese subito nello scantinato per assicurarsi che il frigorifero funzionasse adeguatamente. Guardò i suoi ospiti tuttora avvolti nei sacchi di plastica verde e concluse che per il prossimo weekend lui ed Emil avrebbero avuto parecchio lavoro da sbrigare. Non gli andava l'idea che ci fossero due corpi, il lavoro era già difficile con uno. Si vestì e si preparò a uscire, ma era ancora curioso sul conto di Anne Seibert e sul perché lo sorvegliava. Decise perciò di andare a curiosare per vedere se scopriva qualche indizio mentre la donna era fuori. Prese una zuccheriera e uscì per attraversare lentamente la strada fino alla casa di Anne. Se lo vedeva qualcuno poteva pensare che andasse a chiedere un po' di zucchero a una vicina. Salì gli scalini e suonò il campanello. Naturalmente nessuno venne ad aprire. Ma fingendo di aspettare lui colse
l'occasione per guardar dentro dalle finestre. Chissà che lei non avesse lasciato in casa qualcosa che gli fornisse un indizio sul motivo che la spingeva a spiare la gente di notte. La casa sembrava abbastanza tranquilla. Chaney riuscì a sbirciare nel soggiorno e in una camera da letto, ma non vide nulla di anormale. In soggiorno c'era una copia spiegazzata di Newsweek, insieme con altre riviste e un libro. La camera da letto, che doveva essere quella degli ospiti, dava l'impressione di non essere occupata. Dopo aver suonato il campanello quattro o cinque volte, a beneficio di eventuali osservatori, Chaney girò intorno alla villetta fino alla porta di servizio. Anche lì c'era un campanello. Lui suonò e mentre fingeva di aspettare che venissero ad aprire diede un'occhiata anche dalle finestre sul retro. Non c'era proprio niente. Poi qualcosa attirò la sua attenzione. Sul tavolo in cucina era appoggiata una macchina fotografica Nikon munita di teleobiettivo. Che cosa ci faceva la sua vicina con un apparecchio simile, che tra l'altro non le aveva mai visto fra le mani quando era fuori casa? Nessuno aveva parlato di una sua passione per la fotografia e alle pareti non erano appese foto di paesaggi o altro. Allora fotografava lui dalla finestra? Il suo primo pensiero fu che quelle foto potevano finire alla polizia. Doveva scoprire che cosa c'era sotto e lo avrebbe scoperto. Chaney rientrò in casa sua e si preparò a partire. Aprì la ventiquattrore e vi mise una cartelletta che teneva in camera da letto. Nella cartelletta erano raccolte informazioni che riguardavano un preside di una scuola superiore di Filadelfia: foto della sua abitazione, gli orari della giornata, una mappa del vicinato, la storia completa della sua famiglia. Erano informazioni importanti. Anche perché costituivano l'argomento della discussione d'affari che avrebbe avuto luogo fra tre ore con Emil Welder. Chaney chiuse la valigetta, la portò sulla Jaguar e la sistemò sotto la ruota di scorta nel baule. Non voleva correre il rischio che qualcuno gliela rubasse. «Dunque, me ne stavo in soggiorno a leggere un articolo deprimente su Newsweek quando a un tratto squilla il telefono.» «Alle quattro del mattino?» «Sicuro, alle quattro del mattino. Mi sono spaventata, credimi», aggiunse Anne lottando contro la stanchezza che non l'abbandonava un momento. Stava chiacchierando con la sua amica Carol Trager, una disegnatrice che
si occupava degli opuscoli della Stellar Motors. Bevevano il caffè nel piccolo ufficio di Anne, in mezzo a ritagli di giornali, bollettini zeppi di appunti e con le pareti tappezzate di fotografie delle nuove auto FSR importate direttamente dalla Baviera. Il fiore all'occhiello della Stellar. Fuori c'era uno stanzone con una fila di scrivanie occupate da venditori, copywriter e tecnici della ditta, tutti impegnati nel lancio della FSR in America. «Che cosa voleva?» s'informò Carol. «Voleva sapere se mi era capitato qualcosa. Era rientrato tardi e aveva visto la luce accesa.» «Un dono di Dio!» esclamò Carol spalancando i grandi occhi azzurri. «Anche di fronte a casa mia abita uno scapolo, un medico che sarebbe capace di scavalcare il mio cadavere, se fossi morta. Sei fortunata. Che tipo è lui?» «L'ho incontrato solo un paio di volte. Ha un bell'aspetto ed è gentile. Il tipo con cui si parlerebbe per delle ore. Mi domando perché rientra così tardi, però.» Carol lasciò cadere la brioche sulla scrivania. «Sta a sentire: al tuo posto non mi farei tante domande. Lui è una persona a modo e tu gli interessi. E poi non ha mica tentato di piombare a casa tua alle quattro del mattino, no?» «Oh, no.» «E non dà l'impressione di essere un maniaco sessuale, vero?» «Finora no.» «Perciò ti consiglio di non mollarlo.» Osservazione tipica di Carol Trager, una graziosa brunetta con una massa di capelli che le spiovevano sul viso. Trent'anni, nubile senza nessuna prospettiva di un buon matrimonio, Carol aveva un modo di comportarsi che alcuni trovavano divertente, altri spudorato. Era amica di tutti, ma nessuno si sarebbe fidato ad assegnarle un incarico diplomatico. «Lui è entrato in casa», continuò Anne, «ma per un quarto d'ora non ha acceso la luce. Strano.» Carol abbassò la testa sulla scrivania dell'amica e la massa di capelli neri si sparse sul ripiano. La ragazza si coprì le orecchie con le mani. «Non voglio sentire», dichiarò. «Questo è il tuo problema. Sei troppo ansiosa, diffidente. Ecco perché non riesci a dormire. Non ha acceso la luce. E con questo? Perché ti preoccupi tanto? Forse è andato in bagno, oppure si è seduto sul divano per qualche minuto. Vuoi assumere un detective privato per scoprire il mistero? Ho un amico che lavora nella CIA. Ti do il suo
numero di telefono, se vuoi.» «No», rispose Anne con una risatina nervosa e con evidente imbarazzo. Naturalmente lei sapeva perché si preoccupava tanto. Era già stata scottata una volta con il suo matrimonio, tradita da un uomo che credeva di conoscere. L'insonnia, poi, aumentava le sue ansie, rendendola più debole e vulnerabile. «Voglio conoscerlo meglio», disse. «Chissà, magari mi richiama.» «O lo chiami tu», suggerì Carol. «Svegliati, per favore, con comportarti come una ingenua ragazzina degli anni Cinquanta!» Entrò un fattorino per lasciar cadere un plico sulla scrivania. «Herr Schultz vuole questa roba scritta per mezzogiorno», annunciò prima di andarsene. «Magnifico!» borbottò Anne. «Riesco appena a tener su la testa e devo consegnare questa roba per mezzogiorno! Devo decantare i pregi di un'auto da diecimila dollari che loro venderanno per quaranta.» «Be', lo sai a chi serve la FSR, no?» ribatté Carol stringendosi nelle spalle. «No, non lo so», replicò Anne. «Ai ricchi imbecilli.» Risero tutte due e Anne si accinse a riprendere il lavoro. «Meglio non perder tempo.» «Ehi, che mestiere fa il tuo affascinante vicino?» volle sapere Carol. «Per vivere?» «Naturale. Per che altro?» «Non gliel'ho chiesto.» «Allora non chiederglielo. Se può permettersi una casa a New Rochelle non sarà di certo un poeta part-time.» «Con un pretesto glielo domanderò», decise Anne. «Certo, certo. Del resto è logico: ti sei appena trasferita nel quartiere ed è naturale che tu voglia conoscere i tuoi vicini. Prima o poi te lo dirà lui, vedrai.» Anne sorrise sebbene le si chiudessero gli occhi arrossati e fu una delle rare volte in cui l'amica la vide sorridere con tanto entusiasmo. Sicuro, doveva approfondire la conoscenza con Mark Chaney. Ripensò alla telefonata della notte precedente e cominciò a immaginare che l'uomo sembrava più interessato di quanto fosse in realtà. Lasciamo fare al destino. Anne non aspettava altro che un prossimo incontro con Mark Chaney.
E lui pure. 3 Mark svoltò nel parcheggio sulla Westchester Avenue in White Plains con la sicurezza di un distinto funzionario quale era. Buffo, ma guidando tese meccanicamente le orecchie aspettandosi il tonfo nel baule che aveva sentito la sera prima. E si fece un appunto mentale di procurarsi delle coperte per evitare di risentire in futuro quel rumore fastidioso. Girò intorno al parcheggio circondato da prati e s'infilò nello spazio numero uno, con il suo nome dipinto sul marciapiede. Accanto, al numero due, c'era la Mercedes 450SL di Emil Welder. Emil non faceva caso alla distinzione, tanto esisteva un'innegabile affinità fra i due uomini nata da un passato bruciante. Mark scese dalla Jaguar, prese la valigetta e s'incamminò. Il suo ufficio era in una costruzione di vetro, una delle sei che formavano un moderno complesso. Il «Campus» come molti lo definivano, ricordava al visitatore un college. Tranquillo e discreto, con un panorama riposante nello sfondo delle colline. Chaney preferiva quel posticino isolato al frastuono e al caos di New York. Lì si sentiva sereno e calmo forse per la prima volta nella sua vita confusa e movimentata. Salì con l'ascensore al terzo piano interamente occupato dalla M.E. Inc., che stava per Mark ed Emil, ma che simboleggiava anche l'etica prevalente del decennio. La M.E. Inc. era una finanziaria che offriva a chiunque la prospettiva di arricchirsi attraverso investimenti nella tecnologia avanzata, miniere di carbone, manufatti. Mark ed Emil avevano fondato la ditta nel 1974 ed erano diventati esperti nel dare consigli sul modo di impiegare denaro in operazioni ad alto profitto. Erano stati abbastanza avveduti da uscire indenni dalla crisi che aveva investito la Borsa nell'ottobre 1987. Mark uscì dall'ascensore nell'anticamera con il pavimento coperto da un folto tappeto, salutò con un rapido sorriso la segretaria al banco della reception e proseguì lungo il corridoio a pannelli fino all'ufficio di Emil Welder, elegante e discreto come il resto, con una massiccia scrivania di quercia, tappeto rosso, pareti tappezzate di dipinti d'arte contemporanea. Welder sedeva alla scrivania. Enorme, asmatico, quasi completamente calvo, dimostrava quindici anni più di Mark, sebbene ne avesse solo trentasei come il suo socio. Welder alzò la testa e sorrise facendo tremolare il triplo mento. «Buon
lavoro, ragazzo», disse con una voce arrochita dalle sigarette. «Grazie», rispose Mark. «Sono rimasto alzato per due ore, dopo che hai telefonato», osservò Welder guardando il suo orologio d'oro. «Non credo di essermi mai sentito più felice. Gesù, se sono felice! Dimmi, che aspetto aveva?» «Pressappoco lo stesso di quando frequentavamo la scuola, con qualche ruga in più, forse, ma con il solito sguardo cattivo.» «Cattivo lo è sempre stato», fu il commento di Welder. «Mi ha guardato e non mi ha salutato. Ci credi? Neppure un accenno di saluto.» Emil Welder scosse la testa disgustato. «Tipico», sentenziò. «Quell'individuo non ha calore, non ha umanità. Mi chiedo come abbia fatto ad arrivare dov'è arrivato.» Lui e Mark s'intendevano a meraviglia, entrambi vivevano in un mondo di sogni e di risentimenti, un mondo che avevano costruito insieme e che volevano distruggere. «Ha capito che cosa lo aspettava?» s'informò Welder. «A un certo punto credo di sì.» «Racconta. Con tutti i dettagli. Ha detto qualcosa?» «Neanche una parola.» «No?! Lui che sbraitava sempre! Non ti sembra fantastico, Mark? Era spaventato?» «All'ultimo secondo, credo, quando ha capito che cosa stava per accadere», rispose Mark, sedendosi nella poltrona di pelle davanti alla scrivania. «Forse era solo sorpreso. Ma quando ha visto che cosa avevo... Be' sì, era spaventato.» «Spero solo che abbia capito che cosa gli stava per capitare», disse Welder mentre la collera affiorava nella voce rauca e l'asma gli comprimeva i polmoni. «Spero che ti abbia riconosciuto e che si sia ricordato di tutto ciò che ha fatto.» «Lo spero anch'io», gli fece eco Chaney. «Adesso è a casa tua?» «Sì, e credo che ci starà benone. Non ci sono troppi danni. Credo proprio che possiamo sistemarlo.» «Hai letto i giornali?» s'informò Welder con il faccione raggiante d'orgoglio. «No. È già sui giornali?» «Sicuro! Pagina sei del New York Times. 'Giudice del Tribunale dei minori in pensione scompare. Macchie di sangue davanti alla sua casa.' Non è
eccitante, Mark?» «È fantastico.» «C'è perfino una foto della povera vedova in lacrime. E si chiedono... questo è il bello... se ci sarà una richiesta di riscatto. Pensa un po'! E chi vuoi che paghi il riscatto per un individuo simile?» «Tutto da ridere», convenne Mark. Welder corrugò improvvisamente la fronte, le folte sopracciglia formavano un'unica linea sopra gli occhietti acquosi. «E il martelletto?» «Mi sono informato. Il Tribunale consegna al giudice il suo martelletto quando va in pensione. Dev'essere nella casa, ma non so se vale la pena di andare a prenderlo.» «Mi piacerebbe tanto averlo», sospirò Welder. «Ti ricordi come lo batteva quando ci interrogava? Vorrei proprio avere quel martelletto.» «Sta' a sentire, Emil», risprese Chaney. «Io pure vorrei il martelletto, ma non so dove lo teneva. Potrebbe essere in una cassatone, oppure può averlo regalato ai suoi nipotini. Chi lo sa? Però non ne vale la pena, credimi.» Emil Welder appoggiò i suoi cento e passa chili allo schienale e guardò fuori della finestra, riflettendo sulle conclusioni del socio. «Hai ragione», convenne alla fine. «Sei tu quello che corre sempre i rischi. Vorrei aiutarti, ma mi manca il fiato solo a sbadigliare!» «Ci penso io per tutti e due», lo rassicurò Mark. «E non dimenticare che sei tu a ideare i piani. Formiamo una bella squadra, no?» «Loro non hanno mai capito quanto siamo brillanti, eh?» «No, infatti», replicò l'altro. «E sai perché? Perché siamo dei geni. Gli altri, come il giudice, erano soltanto persone mediocri. Il mediocre non capirà mai il genio. Per questo lo perseguita. Le persone meschine mettono il genio in galera o lo scherniscono, lo provocano. È capitato anche a noi.» «Già, anche a noi», ripeté Emil guardando fuori della finestra. «Ma il genio vince sempre. Tutte queste persone a scuola, nei tribunali, nei posti di lavoro che ci hanno rubato la nostra gioventù, che ci hanno mandato in quell'istituto, ora pagheranno. Anche se non capiranno mai.» «Nessuno capiva nemmeno Leopold e Loeb», osservò Mark. «Noi siamo come loro, non è così?» «Certo», rispose Chaney. «E come loro uccideremo insieme, o affonderemo insieme.» «Come loro», ribadì Welder. I due amici si sorrisero guardandosi negli occhi, come se le loro menti fossero una sola, un'associazione psicopatica per la fabbricazione della
morte. «A quando il prossimo capitolo?» volle sapere Emil. «Fra qualche giorno. Ho ottenuto tutte le informazioni che mi occorrevano. La settimana scorsa sono andato a Filadelfia e ho inquadrato di nuovo la casa. Sarà facilissimo.» Emil guardò in faccia l'amico e solo allora si accorse che Mark era teso e preoccupato. Di solito, quando discutevano di un nuovo «progetto» Chaney s'infervorava, si animava e apriva la valigetta per consultare i suoi appunti. Ora invece se ne stava seduto in poltrona come se un pensiero fastidioso lo tormentasse. «Mark, qualcosa non va?» domandò Welder. «Non ne sono sicuro, ma può darsi che sia sorto un problema», rispose Chaney. «Che genere di problema?» «Be', non sono sicuro, ripeto. C'è una donna che abita dall'altra parte della strada...» «Mark, non vorrai impegolarti con una donna! Hai promesso di non farlo finché non avremo finito!» «No, non ha niente a che vedere con questo. Si tratta di una donna che è arrivata tre mesi fa e ha affittato la casa dì fronte alla mia. Lavora in pubblicità e ha divorziato da poco. Insomma, quando torno a casa di notte dopo un progetto, lei è sempre là a guardare fuori dalla finestra.» Il triplo mento di Welder tremolò, il faccione divenne pallidissimo. «Sei sicuro che guardi te?» «E chi altri, a quell'ora?» «Forse è una nottambula.» «No, la mattina la vedo uscire presto di casa per recarsi al lavoro. Non so con precisione che mestiere faccia, e la pubblicità può essere una copertura. Sai a che cosa alludo.» «Lo so. Lei si è accorta che l'hai scoperta?» «Non credo, penso che non possa accorgersi che la osservo da casa mia. Però la cosa mi preoccupa. La casa in affitto: ecco un altro motivo di preoccupazione. Di solito la polizia affitta una casa per effettuare una sorveglianza, non la compra mai.» «Giusto, hai ragione.» «L'avessi vista una volta o due la cosa non mi avrebbe impensierito più di tanto, ma lei è sempre alzata. Due volte questa settimana, quando non avevamo niente in programma. Ho messo la sveglia alle quattro per alzarmi a controllare. C'era la luce accesa.»
«E lei guardava?» «Di tanto in tanto. Io me ne stavo al buio, però. Non c'era niente da vedere.» «E la luce è rimasta sempre accesa?» insisté Emil. «Sì.» Il grassone si strinse nelle spalle. «Non ti sembra strano?» «Non capisco. Perché dovrebbe essere strano?» «Se ti sorvegliava l'avrebbe fatto stando al buio, no? Perché attirare l'attenzione accendendo la luce?» «Ci ho pensato», ammise Mark. «Forse fa parte della copertura. A luce spenta l'avrei notata mentre guardava attraverso la veneziana, magari al riflesso della luna... e avrei avuto motivo d'insospettirmi. Con la luce accesa, invece, potevo pensare che non riuscisse a dormire.» «Sì, può darsi.» «Mi sono avvicinato alla sua casa e ho sbirciato dalle finestre. Ho visto una macchina fotografica con il teleobiettivo. L'apparecchio di un professionista... ma non c'erano foto appese alle pareti. Capisci?» «Senti», mormorò Emil serio. «Credi che abbiamo commesso qualche errore?» Chaney si alzò e prese a passeggiare nervosamente. «No», rispose dopo una breve pausa. «Non abbiamo commesso errori, ma forse qualcuno ci ha scoperto.» «Chi?» «La polizia. Oppure un privato cittadino. Lei potrebbe essere un investigatore. Non può essere una coincidenza. Quella casa proprio di fronte alla mia, una giovane donna la prende in affitto tre mesi dopo che abbiamo cominciato i nostri progetti, una macchina fotografica. E la signora sempre alzata quando rientro la notte.» «Nessun segno che si sia introdotta in casa tua?» «No. E poi tutto è chiuso a chiave. Mi sarei accorto se qualcuno avesse toccato le serrature.» «È possibile che sia solo una ficcanaso?» suggerì Emil. «Può darsi che fosse alzata quando ti ha visto rientrare e si sia chiesta chi eri e che mestiere fai. Forse le piaci.» «E con questo?» ribatté Mark. «Prima o poi le sembrerà strano vedermi rientrare a tarda notte. Che scuse invento? Viaggi d'affari? Un party? Emil, non mi convince. Quella mi sorveglia.» «Vuoi rinunciare al nostro piano?»
«Questo mai. Andremo avanti finché avremo concluso ciò che abbiamo cominciato. Ma devo sistemare questa faccenda.» «Qualche idea, Mark?» sorrise Emil. Chaney conosceva quel sorriso, sapeva che cosa voleva dire. Lo aveva notato quando avevano discusso del loro primo progetto. «So a che cosa stai pensando», disse alla fine. «Lei ci starebbe benissimo nel mio frigorifero. Un lavoretto rapido e facile. Potrei attirarla in casa prima che rientri e liquidare la questione nel giro di pochi minuti. Ma non serve.» «Perché?» «Richiamerebbe l'attenzione del vicinato. Se lei sparisse, verrei interrogato dalla polizia solo perché abito vicino. Ha visto qualcuno? Ha sentito qualche discussione? Ha notato qualcosa di sospetto? Non voglio attirare l'attenzione.» «Giusto.» «E se davvero lei lavora per la polizia sarebbe la fine perché loro giungerebbero alla conclusione che sono sicuramente stato io.» «Logico», convenne Emil. «Analisi e soluzione?» Era una domanda tipica di Welder, anzi di tutti e due. Dopo tutto erano i titolari di una finanziaria e si vantavano di saper risolvere questioni d'affari di ogni genere. «Non fare niente», riprese Chaney. «È sempre la prima possibilità in una crisi d'affari. La sorveglierò come lei sorveglia me. Cercherò di avvicinarla, magari di avviare una relazione. Prima o poi lei commetterà uno sbaglio e si tradirà. Così scoprirò le sue intenzioni.» «Non so», commentò Emil. «Dubiti di me?» incalzò Mark incollerito. Uno dei rari momenti di collera fra i due soci. «Non dubito di nessuno», replicò Emil, «ma tu mi hai convinto che quella donna ti spia. Ti sorveglia. E tu che cosa fai? Hai deciso di invitarla fuori, di darle degli appuntamenti!!!» «Fidati di me», ribatté Mark. «Con le donne ci so fare, lo sai. Ma se decido che quella deve morire, morirà, sta' tranquillo. Ci sono diversi modi. Niente ci fermerà. Fidati.» Anne approfittò dell'intervallo di pranzo per recarsi alla Bradshaw Sleep Clinic sulla Trentunesima Strada Est vicino al Bellevue Hospital. La clinica era situata sui due piani inferiori di un edificio di pietra; il dottor Bradshaw, la moglie e il figlio di quattro anni occupavano i due piani superiori. La casa di cura si era guadagnata una fama nazionale nella soluzione di
problemi dj origine nervosa, in particolare l'insonnia. Anne aveva sempre guardato divertita la fotografia appesa all'interno della porta principale: il presidente Reagan che sonnecchiava mentre Papa Giovanni Paolo II teneva un discorso. Sotto il ritratto una didascalia: Il sonno vince tutto. Cecil Bradshaw aveva trentasei anni, era di media statura con la barba e gli occhiali con la montatura di corno che gli davano un aspetto da studioso. Si era laureato ad Harvard e insegnava come libero docente all'Università di New York. I suoi studenti lo temevano, ma nella clinica aveva un modo di fare affabile e cortese. Parlava sempre bisbigliando, come se volesse addormentare i suoi pazienti. Ricevette Anne nel suo studio sul retro della casa, dove una finestrella si affacciava su un giardino. Sulla massiccia scrivania erano sparsi numerosi diagrammi che registravano gli impulsi del cervello, i movimenti dell'occhio, le contrazioni dei muscoli dei pazienti ricoverati nella clinica e che erano in osservazione. Sulle pareti le foto di alcuni personaggi. «Ha portato il suo diario?» chiese Bradshaw con voce appena percettibile. «Sì», rispose Anne consegnandogli l'agenda che conteneva il resoconto accurato delle ore di veglia e di sonno dell'ultima settimana. Vi era segnato anche il numero di caffè che lei aveva consumato durante lo stesso periodo. Bradshaw diede una rapida scorsa al diario. «La solita vecchia storia», fu il suo commento. «Un'altra brutta settimana.» «Spaventosa», precisò Anne. «Vedo, però, che non ha preso pillole per dormire. Brava.» «Sto cercando di fare come lei mi ha consigliato.» «È successo qualcosa che ha peggiorato la situazione, durante la settimana?» s'informò il medico. «Eccessivo stress sul lavoro?» «Sono sempre stressata per il lavoro», spiegò Anne, «ma la causa è dovuta alla stanchezza. Il lavoro si ammucchia perché sono troppo stanca.» «Ha discusso di questo problema con la direzione?» «Io sono una collaboratrice indipendente. Non si discutono problemi del genere nella mia posizione.» «Capisco. Okay, ha preso qualche medicinale?» «No, tranne due aspirine per il mal di testa.» «Niente altro?» «No.» «Ha avuto qualche sintomo oltre l'insonnia? Febbre? Mal di gola?»
«No», rispose Anne. «Sono il ritratto della salute.» Bradshaw sorrise all'osservazione. «Si sono verificati avvenimenti insoliti? Il suo ex marito si è fatto vivo? Qualche decesso in famiglia? Problemi sociali?» «Niente di simile.» «Okay», concluse il medico. «Dunque non è successo niente. Senta, ho gli esiti dei test neurologici e sono negativi, come mi aspettavo. Quando ha dormito qui in clinica abbiamo tracciato un poligrafo del suo sonno notturno. È un diagramma lunghissimo e l'ho sottoposto a parecchi colleghi. Niente rivela l'origine della sua insonnia. Anche i test di laboratorio sono negativi. In un primo tempo ho pensato che quel senso di stanchezza fosse dovuto alla tiroide o alla pressione bassa. Abbiamo controllato, non risulta nulla. Secondo me non si tratta di un male fisico; sono convinto che stia passando un periodo di depressione causata esclusivamente dal suo divorzio.» «Bene, ma non posso annullare il divorzio», gli fece notare Anne. «No, ma può superarlo. Magari con l'aiuto di uno psicologo. Decida lei.» «Non è che una terapia del genere mi attiri eccessivamente. Spero che con il tempo tutto passerà.» «La mancanza di sonno può causare danni fisici prima che il tempo provveda, Anne. Ci ripensi. Ma se ha paura di uno psicologo, perché non si prende una vacanza? Giusto per cambiare ambiente. Oppure un...» Il medico s'interruppe sorridendo, ma lei intuì che cosa voleva dire. «Un uomo?» «Non è un'imposizione, per carità!» «Ha ragione. Una nuova relazione mi potrebbe aiutare. Sicuro, è un'idea!» Anne rivolse al medico un largo sorriso. «Davvero? Mi dica...» «C'è un tale che abita vicino a me. Sto per conoscerlo meglio. Lui è... attraente... alla vecchia maniera. Credo s'interessi a me. Per esempio mi ha aiutata a mettere in moto l'auto che non voleva partire e ieri notte mi ha telefonato perché ha visto la luce accesa. Era molto preoccupato.» «Ma è fantastico! Come mai lui era ancora alzato?» volle sapere Bradshaw. «Affari, credo. Rientra tardi dai suoi viaggi.» «Anne, non lo molli», ordinò il medico. «Sembrerebbe una persona perbene. Uno che chiama a quell'ora per sapere se ha bisogno di qualche cosa... Be', non ce ne sono molti di tipi simili. Ho l'impressione che qualcosa
nascerà.» Anche Anne aveva la stessa impressione. E all'improvviso si sentì animata da nuova energia, da uno spirito rinnovato. Bradshaw la incoraggiava, come Carol poco prima. Lei continuava a sentire la voce morbida e pacata di Mark Chaney. Una nuova vita stava per iniziare. 4 Il telefono squillò alle otto e cinque di sera. «Salve», disse un uomo all'altro capo del filo. Dapprima Anne, colta di sorpresa, non riconobbe la voce. «Salve...» rispose. «Sono Mark Chaney», disse l'uomo. «Si ricorda di me?» Se si ricordava? Come poteva dimenticare? «Mark!» esclamò Anne. «Mi scusi se non ho riconosciuto subito la voce...» «Le voci cambiano di notte», replicò Chaney, e si pentì subito delle sue parole. Perché parlare della notte? «Immagino che sia così.» «L'ho chiamata perché... Be', siamo vicini di casa e ho pensato di invitarla a fare uno spuntino, o a bere qualcosa... giusto per scambiare due parole.» Anne non riusciva a credere alle sue orecchie. Era veramente un aiuto divino! «Con piacere», rispose. «E poi noi due abbiamo qualcosa in comune.» «Sì? Che cosa?» «A tutti e due piace stare alzati la notte.» Seguì un pesante silenzio mentre Chaney pensava che cosa rispondere. «Responsabilità professionale», rise alla fine. «Allora ci vediamo fra un'ora?» «D'accordo.» Anne si accorse che il cuore le batteva come impazzito. Lottava disperatamente contro la stanchezza, le bruciavano gli occhi e aveva le spalle indolenzite. Sapeva di avere la faccia distrutta, ma ora aveva un motivo per reagire, per uscire. Indossò un abito semplice ma elegante e si truccò il viso come meglio poté. Prima di uscire si chiese se non era il caso di portare qualcosa a Chaney, della frutta, un gelato. Ma lo conosceva appena. Sta' calma, si disse. È troppo presto.
Anche Mark Chaney si stava preparando. Prima di tutto si assicurò che non ci fossero tracce dei «progetti» che lui ed Emil stavano portando avanti. Se Anne lo sorvegliava era probabile che osservasse attentamente ogni angolo della casa; e se per caso lui avesse dovuto rispondere al telefono, di certo ne avrebbe approfittato per frugare nei cassetti. Mise gli appunti per il prossimo «Progetto Filadelfia» nella cassaforte a muro, controllò le serrature sulla porta che dava nello scantinato. Tolse uno dei due lucchetti perché la cosa poteva apparire strana e ripassò mentalmente la storiella che aveva preparato nel caso Anne gli chiedesse come mai chiudeva a chiave la porta. Nello scantinato teneva documenti importanti, le avrebbe spiegato. Chaney si rase e si cambiò. Se doveva avviare una relazione con la giovane donna era bene che si comportasse come un uomo qualsiasi, senza destare sospetti. Poi accese il registratore nascosto dietro la libreria. Lui voleva risentire e studiare ogni parola che Anne pronunciava, e magari riascoltare il nastro con Emil. Aspettarono tutti e due. Qualche minuto prima dell'ora stabilita Chaney guardò fuori della finestra e vide Anne in soggiorno mentre controllava l'orologio al polso. Finalmente lei si alzò, andò alla porta e l'aprì. Chaney si ritrasse dalla finestra, non senza aver prima notato che Anne, come al solito, aveva lasciato la sua Oldsmobile nel viale. Chaney sapeva tutto sulle macchine e sul modo di provocare un incidente. Perciò prese mentalmente un appunto sull'auto della giovane donna. Nessuno si sarebbe messo sulla sua strada, non senza pagare il prezzo che lui ed Emil avrebbero dovuto riscuotere anni prima. Anne attraversò la strada e suonò il campanello. Chaney andò rapidamente alla porta e l'aprì con un largo sorriso. «Benvenuta», salutò. «Avremmo dovuto pensarci prima a incontrarci.» «E avrei dovuto essere io a invitarla», aggiunse Anne. «Che bella casa!» «Grazie. Lei l'ha vista solo da fuori. Il merito dell'arredamento va tutto a una mia cugina che possiede molto buon gusto.» «Dovrà darmi l'indirizzo», suggerì Anne. «Si accomodi, la prego. Sono proprio contento di avere la serata libera. Di solito gli affari...» «Di che cosa si occupa?» s'informò lei, e subito si morse la lingua.
Troppo precipitosa. «Mi scusi, forse non dovrei chiederlo.» «Perché? Non è un segreto. Mi occupo di investimenti finanziari.» Lui cercò di darle l'impressione di essere felicissimo che gliel'avesse domandato. «Ho un vecchio amico con cui ho fondato la ditta qualche anno fa. Solitamente facciamo investimenti e trattiamo operazioni per conto dei nostri clienti. È un lavoro molto stimolante, ma qualche volta corriamo dei rischi, specialmente quando i nostri consigli ottengono risultati negativi. Per questo molto spesso rientro tardi la notte, perché devo partecipare a riunioni interminabili con i clienti. Ultimamente ho dovuto lavorare parecchio, lo avrà notato che tornavo a casa a ore impossibili. Ehmm... Beve qualcosa?» «Un analcolico, se non le dispiace.» «Non mi dispiace affatto, io pure bevo leggero.» Chaney doveva assolutamente conservare la mente lucida per quella sera. Si avvicinò a un piccolo mobile bar in fondo al soggiorno e preparò le bibite osservando Anne con la coda dell'occhio. Ecco, lei si guardava attorno... con grande attenzione. Certo, poteva essere semplicemente la curiosità di una vicina, ma intanto guardava. «Ho dimenticato il ghiaccio», annunciò lui con una risatina imbarazzata. Tutto calcolato. Mark andò in cucina tendendo le orecchie per sentire se la giovane donna si muoveva. Silenzio. Anne sedeva dove l'aveva lasciata. Ma questo non significava un accidente. Lei era furba e forse non voleva che al padrone di casa giungessero rumori sospetti. Mark tornò con il ghiaccio. «Non mi ha ancora detto che professione fa lei», sorrise. «Sono redattrice pubblicitaria», rispose pronta Anne, vagamente nervosa perché le sembrava di trovarsi sotto interrogatorio. «Pubbliche relazioni.» «Un lavoro molto interessante», approvò lui sedendosi di fronte alla ragazza. «Un tempo ho pensato anch'io di lavorare nel campo della pubblicità. Lavora per uno studio?» «No, sono indipendente.» Chaney rimuginò sulla risposta. Non gli piaceva. Una redattrice indipendente non aveva legami con nessuna azienda. Poteva essere un'ottima copertura per un'indagine della polizia o di un investigatore privato. «In altre parole lavora in proprio», concluse. «Sì. Ecco perché qualche volta mi vede alzata a tarda notte. In questo periodo sto svolgendo un incarico per una ditta che importa le nuove auto FSR. È un lavoro che mi piace.» «Be', allora siamo tutti e due liberi professionisti. So quanto sia difficile.
Non intendo interferire, ma se ha bisogno di un consiglio di natura finanziaria, non faccia complimenti.» «Molto gentile.» «Si figuri! Qualche volta anche i capitani d'industria hanno bisogno di una spalla su cui piangere.» Commovente, pensò Anne. Così candido e generoso. Lui era un tipo protettivo, con quel sorriso aperto e gli occhi gentili. «Da quanto tempo si occupa di pubblicità?» «Solo da tre anni. Prima avevo un impiego a tempo pieno. Ah, fra l'altro, ero sposata.» Di nuovo Anne si prese mentalmente a calci. Che bisogno c'era di dirglielo? Perché si sentiva obbligata a raccontargli il suo passato, a confidargli la sua triste esperienza? «Suo marito lavorava nello stesso campo?» volle sapere Chaney. «No», rispose lei e non aggiunse altro. «Ma mi parli del suo lavoro, m'interessa», buttò là. Ecco che cambia discorso, pensò Chaney. Non gradisce troppe domande. Non vuole che le si chieda che cosa fa adesso. Lui provò la netta impressione che i suoi sospetti fossero fondati. «È un lavoro eccitante», rispose a voce alta. «Ci credo.» «Il mio socio e io lanciamo nuove aziende promettenti, qualche volta le finanziamo con il denaro dei nostri clienti, e in parte con il nostro, ma dobbiamo stare molto attenti, specialmente con gli alti e bassi nell'economia.» «Ora capisco perché rientra a tutte le ore. Dev'essere un lavoro faticoso.» «Eh, sì, molto faticoso. Spesso devo recarmi in altre città.» «Perché non si trattiene per la notte quando va lontano?» Chaney non si aspettava la domanda. Non ci aveva pensato. Ma era chiaro che lei tastava il terreno. «Perché credo di essere un abitudinario amante della propria casa», replicò alla fine. «Non mi sono mai piaciuti gli alberghi.» «Ma il giorno dopo aver viaggiato sarà stanco morto!» «Be' sa, quando si è il padrone della propria azienda si va in ufficio quando si vuole. Se faccio tardi la notte, la mattina dopo dormo finché mi pare. Ancora una bibita?» «No, grazie, basta così.» Anne si chiese se non si stava mostrando troppo curiosa, ma aveva sempre provato il desiderio di sapere tutto di un uo-
mo prima di iniziare una relazione seria. E poi era ossessionata dalla bruciante esperienza del suo precedente matrimonio con successivo divorzio, e non voleva riviverla. «E lei che cosa fa di notte?» chiese Chaney. «Quando rimane alzata fin tardi, come si sente la mattina dopo?» «Da cani», confessò Anne. «Noi esterni non possiamo arrivare in ritardo in ufficio, perché se accettiamo un incarico da una ditta è come se fossimo dipendenti per il periodo stabilito. Come mi sento? Stanca. Stanchissima.» «Non può riesaminare il suo programma di lavoro?» «Un giorno o l'altro lo farò», rispose Anne che sentiva crescere la tensione dentro di sé. Non voleva confessare che soffriva d'insonnia. Sapeva che il suo male era causato da una forma di depressione e non voleva cominciare una relazione in quello stato. Era ancora troppo presto per confidarsi con Mark. «Guardi che ci rimette la salute», stava dicendo Chaney che si era alzato per versarsi un po' di Coca-Cola. «Non può finire il lavoro la sera?» «Ci provo, ma non sempre ci riesco.» «Ambiziosa, eh? Non vuole rinunciare al successo.» Mark seguitava a insistere perché i pretesti che Anne adduceva non lo convincevano. Inoltre si chiedeva perché una donna che era costretta a lavorare anche di notte perdesse tanto tempo a guardare fuori della finestra. «Seguirò il suo consiglio, cercherò di finire prima di notte», stava dicendo Anne. «E adesso non mi fa vedere la sua casa?» «La casa?» «Ma sì», confermò lei. «Mi piacciono le case.» «Ah... be', naturalmente.» Chaney sembrava fulminato. Okay, forse era solo un complimento. La gente chiedeva spesso di visitare la casa di un vicino. Ma forse a lei interessavano altre cose, piuttosto che l'architettura. «La trovo molto accogliente, sa», continuò Anne. «Grazie.» Non c'è problema, stava pensando Chaney. Tranne che per il sotterraneo. «Allora, vogliamo cominciare dalla cucina?» «Perfetto.» Anne prese il suo bicchiere e seguì Mark in cucina, osservando ogni particolare, specialmente un quadretto che riproduceva un giardino giapponese. «Bello!» esclamò. «Le piace?» «Molto.»
«Lo ha dipinto il mio socio. Adora la pittura. Quel giardino si trova davanti a una ditta in Giappone. L'abbiamo finanziata noi.» «L'arte che si mescola al commercio.» «Esatto.» Il giro della casa non richiese molto, anche perché la villetta disponeva solo di tre camere da letto, soggiorno, cucina e bagno. Era arredata con gusto, ma non aveva niente di eccezionale. Anne ne ricavò l'impressione che si aspettava: era l'abitazione di uno scapolo che non desiderava una casa più grande sia per comodità sia perché vi trascorreva solo il tempo strettamente necessario. Dopo dieci minuti tornarono in soggiorno. «Accogliente», decretò la giovane donna. «Ma non mi ha fatto vedere lo scantinato.» Chaney rise. «Perché vuol vedere lo scantinato?» «Fa parte della casa, no?» «Strano, io l'ho sempre considerato un magazzino, un luogo dove si tiene il bruciatore, roba vecchia o cadaveri...» Lui rise di nuovo, studiando la reazione della sua ospite. «Il mio scantinato è stato ristrutturato e mi è molto utile. Allora, posso vedere il suo?» Chaney aveva lo stomaco stretto in una morsa. Di certo lei sapeva che cosa c'era giù in cantina. Altrimenti perché avrebbe voluto visitarla? «Se proprio ci tiene a vedere il mio favoloso sotterraneo, sarò lieto di mostrarglielo», disse con forzata disinvoltura. La sua mente lavorava turbinosamente vagliando diverse strategie, poi scartandole, comunque doveva sbrigarsi. Anne colse il suo disagio. Forse lui si era scocciato per la sua insistenza, forse avrebbe dovuto cambiar discorso per rimediare alla sua invadenza. Ma Chaney si stava avviando verso la porta. «Da questa parte», disse precedendola. Lei guardò il lucchetto sulla porta e parve sorpresa. «Che cosa nasconde giù, la Monna Lisa? domandò in tono scherzoso. Chaney tentò una risatina. «Nello scantinato tengo dei documenti molto importanti. Con i furti e le rapine che si verificano nel quartiere...» «Ha ragione.» Saltato l'ostacolo, Mark si accinse ad aprire la serratura. Con calma, mentre la sua mente cercava ispirazione per evitare guai peggiori. Finalmente la serratura scattò. «Ci siamo», disse. «Benvenuta nel regno delle meraviglie!» Aprì la porta e accese la luce nello scantinato. Improvvisa-
mente si sentì attanagliare dalla paura. Lei avrebbe sentito l'odore? Che stupido, si era scordato che la merce poteva puzzare. Cominciarono a scendere le scale. No, non si sentiva nessun odore, concluse Chaney. In fondo alle scale si guardò attorno. «È solo una cantina, vede? Là c'è il bruciatore, la lavatrice, anche se non la uso.» «E quel gigantesco frigorifero», aggiunse Anne. «Adoro le bistecche.» Cretino, pensò Chaney. Non si era mai curato di mettere un lucchetto al frigorifero. Una serratura da due dollari valeva un milione in quel momento. «Soddisfatta?» Anne non rispose e si diresse verso il frigo. Oh, Dio, adesso lo apre! pensò Chaney. Avrebbe scoperto i sacchi verdi... avrebbe capito tutto! Ma Anne si stava allontanando dal frigorifero. La donna si diresse verso l'altra porta chiusa. «Lì che cosa c'è, uno studio?» chiese indicando l'uscio con il lucchetto. «Oh, no», replicò pronto Chaney. «È una specie di magazzino, una dispensa. Ecco perché è chiuso anche quello.» «Be', allora non voglio più farle aprire altri lucchetti», concluse lei e si girò verso la scala. Risalirono e il cuore di Chaney riprese a battere quasi normalmente. O lei non sapeva che cosa succedeva nello scantinato, oppure non le importava niente, concluse Mark. Ancora non riusciva a capire quella donna. Se era una professionista che lavorava per la polizia era molto in gamba. Rientrarono nel soggiorno dopo che Chaney ebbe richiuso la porta dello scantinato. Nuove idee cominciavano a prender forma nella sua testa, pensieri che lo avrebbero aiutato a scoprire i motivi per cui la sua vicina lo spiava ogni volta che tornava a casa tardi la sera. «Lei viaggia spesso?» le chiese versandosi un'altra bibita. «Qualche volta», rispose Anne. «Non sono una patita dei viaggi, ma talvolta gli affari lo esigono. In questo momento, per esempio, sono indecisa se fare un viaggio fra un paio di settimane.» «Davvero?» «La ditta per cui lavoro presenta uno dei nuovi modelli FSR a Detroit... proprio nel cuore dell'industria automobilistica, evidentemente per mostrare il contrasto.» «Una mossa intelligente», fu il commento di Chaney. «Mi hanno invitata ad accompagnare alcuni funzionari per dare una ma-
no alla redazione della pubblicità.» «Ci vada.» «Dice che dovrei andarci?» «Perché no? È sempre un'esperienza. Se rifiuta, qualcun altro potrebbe prendere il suo posto. Capita spesso, sa.» «Forse accetterò. Ma ho un gatto, non mi va di mandarlo in uno di quei centri per animali.» «Glielo tengo io», si offrì Chaney. «Davvero?» Lui sorrise, un sorriso strappalacrime. «Per lei, qualunque cosa», replicò guardandola negli occhi. Anne era commossa. Il suo ex marito non le aveva mai detto niente di simile. «Grazie», mormorò. «È molto gentile. Di solito la gente non capisce perché una persona si affezioni tanto a una bestiola.» Ma Chaney stava pensando ad altro. Che cos'era questa storia? Lei aveva realmente deciso di partire? «Mi avverta un giorno prima», riprese lui. «Sarebbe fantastico!» «E darò un'occhiata anche alla sua casa», promise Chaney. Nella sua mente già stava prendendo forma un piano. «Si assicuri di lasciare accesa qualche lampadina e di chiudere tutto a chiave. Ha un impianto d'allarme?» «No, non ci ho mai pensato.» «Be', potrebbe essere un'idea; comunque può aspettare dopo il suo ritorno. Questo isolato è abbastanza allettante per i ladri. Ah, lasci fuori la macchina, così crederanno che in casa ci sia qualcuno.» «Chissà che paura!» osservò Anne. Scoppiarono a ridere tutti e due. A lei sembrava quasi di palpare la crescente intimità che si era stabilita fra loro dopo appena un'ora trascorsa insieme. Gli piaceva, ne era sicura. Chaney capiva che lei cercava di coinvolgerlo, di sbilanciarlo. Intuì il pericolo e vi resistette. Avrebbe perseguitato spietatamente quella donna, a costo di trascinarla nella sua orbita sentimentale. Ma la parola romanticismo non figurava nella sua agenda. Nella sua agenda aveva scritto un'altra parola: omicidio. 5
«È inutile», disse Chaney passeggiando su e giù nell'ufficio di Welder in maniche di camicia, con il sole del mattino che si rifletteva sui gemelli dorati. «Primo: la casa in affitto. Ho l'impressione che non navighi nell'oro. Come può permettersi una casa come quella? Costerà come minimo milleottocento dollari al mese!» «Che sia ricca di famiglia?» suggerì Welder. «Può darsi, ma non credo.» «Forse il marito le passa gli alimenti. Potrebbero aver deciso in questo senso nella causa di divorzio.» «Comunque non mi piace», dichiarò Chaney. «Una casa in affitto ti fa pensare subito a un periodo transitorio. Non mi piacciono le cose che passano. E poi mi ha detto che lavora come indipendente. Un'altra copertura. Nessun rapporto a lungo termine. Senza contare che la compagnia per cui lavora è europea.» «E con questo?» chiese Welder. «Le compagnie straniere posso ricevere pressioni dalle autorità americane. Può darsi che la polizia abbia imposto alla ditta di metterla sul libro paga e quelli abbiano acconsentito perché non vogliono grane. Sono convinto che lei mi sorveglia, Emil. È la solita storia... c'è sempre qualcuno che ci perseguita! Non ci lasciano in pace.» «Non vorrai ritirarti, vero?» chiese Welder cercando di alzarsi per dare maggior enfasi alla domanda e ricadendo ansante sulla sedia. Chaney si limitò a fissare l'amico quasi offeso per l'allusione, ma con aria di sfida. «Ti ho già detto che non mi fermerò finché non avrò concluso il nostro lavoro», replicò fermamente. «Finché tutti saranno nella mia cantina. Ma dovrò sorvegliare quella là, sapere tutto di lei. È strano, si comporta come se provasse interesse per me.» «Sta attento!» abbaiò Welder, quasi temesse che l'amico si sentisse lusingato. «È così che le donne ti sbilanciano!» «Questa non mi fa nessun effetto», ribatté Mark, come per ottenere l'approvazione di Emil. «Ah, fra l'altro, parte.» «E allora?» «Lei ci offre un'occasione», sorrise Mark. «Tanto più che mi ha pregato di guardarle la casa. Quante cose rivela una casa, Emil!» «Ti seguo», approvò Welder. I due uomini diedero libero corso alla fantasia, convinti di essere sulla pista giusta. Troppe cose riguardo Anne destavano i loro sospetti: lei che stava alzata di notte a spiare, il lavoro come indipendente, la casa in affitto,
la macchina fotografica in cucina e infine l'entusiasmo con cui aveva accettato l'invito di Mark. E poi tutte quelle domande curiose e insistenti. Per due come Mark Chaney ed Emil Welder che vedevano nemici ad ogni angolo il quadro era completo. «E se lei rappresenta un grosso guaio?» chiese finalmente Welder accendendo una sigaretta. Soffiò il fumo e per alcuni secondi rimase nascosto in una nuvoletta. Prese a tossire come un disperato e dovette asciugarsi la fronte imperlata di sudore prima di essere in grado di riprendere a parlare. «Voglio dire, che cosa succede se scopri che lei può realmente danneggiarci?» «Allora bisognerà provvedere.» «Provvedere fino a che punto?» «In maniera drastica... anche se la polizia comincerà a fare un sacco di domande, qualora venisse a sapere che è scomparsa. Non vorrei arrivare a tanto, te l'ho detto... ma può darsi che sia necessario. Ehi... aspetta un secondo!» «Sì?» «C'è un altro modo. Lei ha appena divorziato, me l'hanno detto i vicini. Ieri sera non ne ha parlato molto, ma le persone appena uscite da un divorzio passano dei brutti periodi. Depressione, collera. Qualche volta... non riescono a superare il trauma.» «E pensano al suicidio», concluse Welder mentre il triplo mento e le guance paffute tremolavano in un largo sorriso. «Perché no? 'Era confusa', direi alla polizia. 'Ho cercato di farla parlare, di distrarla, ma lei parlava solo del suo divorzio. Eravamo usciti per andare al parco sulla cima delle Jersey Palisades... Mentre guardavo altrove lei... È stato terribile.'» Mark scoppiò in una risata fragorosa e Welder ne fu deliziato. Gli si allargava il cuore ogni volta che sentiva ridere l'amico, perché significava che stava risolvendo un problema. «Magnifico», tubò il grassone. «Ma il trucco potrebbe funzionare solo se lei fosse un lupo solitario, una ficcanaso che agisce in proprio. Se invece lavora per la polizia o per un'agenzia privata, avrà già fatto rapporto ai suoi superiori. Che non crederanno mai alla teoria del suicidio.» «Non è detto», ribatté Chaney. «Anche i rappresentanti della legge soffrono di disturbi mentali. Non ti ricordi che il nostro avvocato ha cercato di dimostrare che l'agente Forsyth era giù di corda quando ci ha arrestato? Anche se lei è un poliziotto, il divorzio c'è stato.» «Questo è vero.»
«In settimana andrò a cercare la località. Dopo Filadelfia.» «Località?» ripeté Welder. «Una località adatta per un suicidio, dove una donna come Anne Seibert decida di togliersi la vita. La sistemeremo, Emil. Nessuno può sfuggirci. Giusto?» «Giusto come sempre.» «Stanotte parto per Filadelfia», annunciò Chaney. «Sei sicuro di essere pronto?» «Sicurissimo. Anche il tempo mi darà una mano; ci sarà il temporale con lampi e tuoni. Tutto perfetto.» «Stai parlando di un principe», decretò Carol Trager dopo aver ascoltato Anne che le riferiva quanto era successo la sera prima. «Un vero signore, anche se vive a New Rochelle. Un principe straniero. Bacio la mano alla principessa.» «Pensi davvero che abbia fatto centro?» chiese Anne. Stavano consumando una rapida colazione a base di caffè e brioche nell'angusto ufficio di Carol mentre il personale della Stellar Motors entrava in ditta per iniziare la giornata di lavoro, che comprendeva i diversi tentativi di vendere un'auto a qualche riccone idiota. «Ne sono sicura», rispose Carol alla domanda. «Voglio dire: ti invita, ti fa vedere la casa, si offre di tenerti il gatto mentre sarai a Detroit! Ma chi è, un prete spretato? «Quasi», sorrise Anne. «Devo convenire che rappresenta l'ideale dei sogni di una ragazza non più giovane.» «Naturalmente tu gli troverai qualche difetto, no? Per esempio: porta la scriminatura dei capelli sul lato sbagliato. Deve trattarsi di un problema psicologico. Esatto?» «Sbagliato», rispose Anne trattenendo a stento una risata. «Non ho dubbi sul suo conto: è un uomo perfettamente normale, molto gentile e controllato.» «Che cosa significa? Spiegati.» Carol ingollò il suo caffè e si guardò attorno per assicurarsi che nessuno dei capi fosse nelle vicinanze. «Ecco, dopo il mio ex marito, non voglio più aver a che fare con dei pazzi. Tu non sai che cosa vuol dire vivere con un violento, guardarlo negli occhi quando gli si accende la luce della follia e sapere che cosa potrebbe fare. Questo... Mark sembra così calmo. Eppure è uno che lavora sodo, sempre sotto pressione, ma non si porta a casa le sue ansie.»
«Non ce ne sono tanti di uomini così», convenne Carol. «Lui non scatta mai, non è sempre sulla difensiva; di qualsiasi argomento si parli risponde sereno. Deve aver avuto un'infanzia felice.» «Incredibile. Guarda che mi prenoto fin da ora come damigella d'onore.» «Una sola cosa ho trovato strana...» confessò Anne perplessa. «Mi pareva!» «Sono sicura che è una sciocchezza. Parlando, Mark mi ha detto che lavora fino a tardi, che i suoi clienti si rivolgono a lui a tutte le ore anche a casa per chiedergli consigli sui loro investimenti... Ma mentre ero là il telefono non ha mai squillato...» Carol rise, affondando la testa fra le mani per non farsi sentire dagli altri impiegati. «Mi aspettavo di sentirti dire che porta una minigonna a pois!» ridacchiò. «Cara, non ti è passato per la mente che forse il suo numero di telefono non figura nell'elenco?» «Sì che c'è.» «Okay, allora non hai pensato che poteva aver staccato la suoneria prima che tu arrivassi? Se sperava in un... approccio sentimentale è logico che non volesse essere interrotto.» «Be', forse è così», ammise Anne. «Vedi come ti sistemo i tuoi timori? Dovrei farmi pagare. Senti: quando sei rientrata, ieri sera... hai dormito?» «Come un angioletto.» «Allora è questo, ragazza mia. Un uomo capace di farti dormire è sicuramente la scoperta della tua vita.» «Spero solo di non rovinare tutto», mormorò Anne. «Non succederà, sta' tranquilla.» «Io, invece, mi preoccupo», ribatté Anne. In quello stesso istante squillò il telefono nel suo ufficio accanto a quello di Carol. «Grane in vista», borbottò aspettandosi una telefonata d'affari. Andò a rispondere e l'amica la seguì reggendo in mano la tazza del caffè. Anne sollevò la cornetta. «Parla Anne Seibert, pubblicità.» «Salve, Anne.» «Ehi... Salve!» rispose lei facendo capire a Carol che era Chaney all'altro capo del filo. «A che cosa devo il piacere?» «Volevo solo sapere come va.» «Sono contenta che abbia chiamato», disse Anne. Non sarebbe stata tanto contenta se avesse saputo la vera ragione di
quella telefonata. Chaney stava compiendo un'indagine personale e dettagliata per scoprire che cosa avesse in mente la sua vicina. «Ha dimenticato il suo rossetto nel mio soggiorno», spiegò lui. «Glielo lascio nella cassetta della posta.» «Oh, mi dispiace! Grazie.» «Immagino che la notte passata non abbia avuto troppo da lavorare...» «Come?» «Ho guardato fuori e ho visto che a casa sua c'era la luce spenta.» Anne esitò un momento. Lui cominciava a dubitare che soffrisse d'insonnia? Oppure la sua era una domanda innocente? «Ieri è stata una giornata tranquilla e oggi mi sento benissimo.» «Perfetto. Senta... mi farebbe piacere rivederla, trascorrere un po' di tempo insieme», riprese Chaney. «Magari qualcosa di più eccitante, la prossima volta. Che ne dice?» «Con piacere», rispose Anne gesticolando freneticamente in direzione di Carol. «Oggi sono fuori città per tutta la giornata e rientrerò tardi. Facciamo domenica?» «Magnifico. Domenica, intesi.» «La richiamerò per accordarci sull'ora.» «Grazie», mormorò Anne. «Ah, dove va stasera?» «Ad Albany», rispose Chaney. «Ho dei clienti laggiù.» «È lontano. Perché non si ferma per la notte?» «Un uomo fa quel che deve fare. Probabilmente mi sentirà tornare a un'ora impossibile. Oh, mi scusi... chiamano sull'altra linea. Ci sentiamo prima di domenica. Arrivederci, Anne.» «Bene. Arrivederci... Mark.» La comunicazione s'interruppe. Anne fluttuava in un altro mondo. «Tu non ci crederai!» farfugliò a Carol. «Proprio non ci crederai!» Di solito Chaney si rivolgeva a investigatori privati per avere informazioni sulla direzione delle società, sui finanziamenti e qualche volta anche su potenziali impiegati da assumere alla M.E. Inc. Si era già rivolto a uno dei suoi investigatori per avere informazioni sul conto di Anne Seibert, spiegando che si prospettava l'eventualità di assumerla per il settore pubblicità. Desiderava un resoconto sul passato della ragazza, con particolare attenzione a qualsiasi attività personale che potesse in qualche modo creare dei disagi alla Chaney-Welder.
Il rapporto si trovava già sulla sua scrivania quando aveva parlato con Anne al telefono. Ora lo esaminò accuratamente cercando qualche indicazione che potesse essergli sfuggita. CLIENTE: M.E. InC. SOGGETTO: Seibert Anne. INVESTIGATORE: Lisa. È stata compiuta un'indagine in base a documenti pubblici, fedine penali e documenti ufficiali sulla persona in questione. L'indagine conferma che il soggetto presta attività come redattrice pubblicitaria indipendente e che ha lavorato in numerose altre ditte. La persona è stata sposata e divorziata una volta. L'ex marito era stato giudicato dalle autorità sanitarie mentalmente instabile e occasionalmente violento. Il soggetto in questione durante la sua testimonianza in tribunale ha dichiarato di avere paura del marito. Paura degli uomini violenti, ripeté fra sé Chaney. Dapprima pensò che era quasi umoristico. Lui stava abbordando una donna che temeva gli uomini violenti! Che ridere! Il soggetto ha sporto denuncia due volte contro il marito per comportamento brutale. A sua volta il marito l'ha accusata di adulterio e di crudeltà mentale. Le accuse contro la donna non sono state tenute in considerazione dalla Corte. Alcuni amici e colleghi di lavoro interrogati sulle condizioni di salute del soggetto hanno dichiarato che dopo il divorzio ha sofferto di crisi di depressione. È tuttora in cura, ma non siamo riusciti a determinare di quale natura sia il trattamento. È matta? si chiese Chaney. Anne aveva un passato più movimentato di quanto avesse immaginato. In un certo senso simpatizzava con lei. Anche lui ed Emil erano delle vittime, no? Ma la simpatia svanì quando lesse il seguito del rapporto. Il soggetto lavora saltuariamente come volontaria per un gruppo che assiste le mogli maltrattate. Ha scritto alcuni articoli sugli uomini violenti per il suddetto gruppo. Vero, lei aveva vissuto con un violento e perciò sembrava logico che si fosse aggregata a un gruppo del genere; ma era anche possibile che Anne
fosse virtualmente diffidente verso tutti gli uomini, lui compreso. Forse intuiva che c'era qualcosa di poco chiaro in Mark Chaney. Oppure sapeva qualcosa del suo passato. Inoltre lei era una giornalista. Stava forse raccogliendo notizie per una specie di articolo-denuncia? Ci mancava anche questa! Il rapporto riferiva dell'altro: Il soggetto è stato ricoverato alla Clinica Psichiatrica del New York Hospital durante le pratiche di divorzio per disturbi mentali. Ma chi era questa donna? Chaney doveva scoprirlo. Seduto nel suo elegante ufficio decorato con tappeti persiani e statue originali di noti scultori, sbatté il rapporto sulla scrivania, allungò la mano verso il telefono dorato e compose il numero di casa di Lisa, l'investigatore che aveva stilato il rapporto su Anne Seibert. L'occhio di lince in gonnella aveva l'abitudine di dormire fino a mezzogiorno e Chaney la svegliava regolarmente durante la mattinata per tempestarla di domande. Il telefono mandò dodici squilli prima che qualcuno si decidesse a sollevare la cornetta. «Qui Lisa», disse una voce. Il detective preferiva farsi chiamare con il solo nome di battesimo. Chaney non aveva mai saputo il suo cognome; intestava gli assegni semplicemente a Lisa. Era una donna sulla cinquantina, piccola e minuta con l'aspetto di una bibliotecaria più che di un detective; ma portava un mitra nel baule della sua Subaru. «Sono Mark Chaney. Ti ho svegliata?» «Sì», rispose Lisa. «Bel villano. Che cosa vuoi, Mark?» «Sto leggendo il tuo rapporto su Anne Seibert», spiegò Chaney. «Molto interessante.» «Ne ho visti di più interessanti», replicò Lisa rannicchiandosi sotto le lenzuola di seta rosa. «Non voglio un romanzo», continuò Mark. «Dimmi solo se pensi che dovrei assumerla... e perché.» «Come faccio a saperlo? Ha la reputazione di una tipa competente. Precisa e seria. Anzi, pignola. Hai già letto quella parte del rapporto?» «No.» «Allora te lo riassumo. Finisce sempre il suo lavoro, costi quel che costi. Ha frequentato la scuola di giornalismo a Northwestern. Tutti ne parlavano
bene.» «Ha avuto precedenti penali, oppure sta dalla parte giusta della legge? Per noi è importante, qui nel campo economico.» Lisa rise. «Già, so bene quanto importante sia la legge per voi dell'alta finanza!» La donna rise di nuovo. «Sì, sta dalla parte giusta, anzi ha scritto degli articoli sui poliziotti di famiglia... sai, quelli che compongono le liti domestiche.» «Dunque è in contatto con la polizia.» «Se vuoi definirlo contatto. Ma credo che abbia scritto quegli articoli a Chicago, non qui.» «Va bene, ci penserò se assumerla o meno. Ah, può darsi che abbia ancora bisogno di te.» «Tu firma gli assegni e io ti porto i fatti», replicò Lisa e riattaccò senza aggiungere una parola. Chaney posò la cornetta. Anne Seibert diventava ogni giorno più affascinante. Lui aveva sempre scartato l'idea di immaginarsi le cose. Come molte persone alterate sapeva di avere dei problemi, ma com'era possibile che si trattasse solo d'immaginazione? Lei lo spiava. Questo era un fatto. Si alzò e prese a misurare la stanza a lunghi passi, dopo aver chiuso la porta perché nessuno lo disturbasse. Guardò fuori dalla finestra verso New York e perciò verso Anne, la mente in tumulto per le domande senza risposta e per una ansietà crescente. Qualcuno stava per scoprire il piccolo segreto suo e di Emil? Anne era una spia della polizia? Una innocente ficcanaso? Una psicopatica che stava in piedi la notte? Doveva essere per forza una di queste tre cose, e lui avrebbe scoperto quale. Dopo Filadelfia. Dopo la tempesta. 6 Filadelfia Chaney non andava a Filadelfia per un atto di amor fraterno. Ci andava, dopo una dozzina di viaggi precedenti lungo il corso di un anno, per compiere un gesto di vendetta e portare a casa un premio. Percorse la New Jersey Turnpike sotto una pioggia scrosciante accompagnata dal ritmo del tergicristallo e dal fruscio dei pneumatici. La sua mente riandò all'origine di questa missione, a una scuola di periferia a New York e a Peter Riley, il
preside. Peter Riley. Solo il nome suscitava vampate di odio in Mark Chaney. Ricordava ogni parola che Riley aveva pronunciato mentre lui ed Emil stavano impalati davanti alla sua massiccia scrivania con il piano di vetro e la bandiera americana su un'asta alle sue spalle. «Siete dei rifiuti!» aveva detto Riley. «Ma io vi sbatto fuori a calci da questa scuola e vi consegno alla polizia. Ci penseranno loro a mandarvi lontano. Forse morirete, forse vi ammazzeranno... qualsiasi cosa pur di liberarci di voi due!» Gli altri ragazzi avevano ascoltato la sfuriata di Riley nel corridoio. E quando loro erano stati espulsi il preside aveva dato la notizia pubblicamente, con evidente soddisfazione; quei due sarebbero stati spediti in un carcere per minorenni. Mark ricordava la bruciante umiliazione. Ricordava i suoi genitori che piangevano, i vicini che li schivavano, finché erano stati costretti a vendere la casa e a lasciare la città. E tutto per un paio di furti nei corridoi della scuola, per aver picchiato un insegnante e per aver sparato un colpo di fucile dalla finestra durante una lezione. Peter Riley non aveva mai capito i giovani e adesso avrebbe pagato. L'ultima risata, si disse Chaney. Lui guidava una Jaguar XJ6 con gli interni in pelle; Riley aveva ancora la sua vecchia Datsun. Diede tutto gas per superare un'altra auto e sentì crescere la propria superiorità sul preside che aveva procurato tanti guai a lui e a Emil. «Ragazzi, credete forse di cavarvela?» aveva tuonato con la sua voce pedante. «Credete di poter dirigere la scuola? Bene, non potete. Conosco la vostra razza, siete due teppisti.» Chaney uscì dall'autostrada e si diresse verso Filadelfia. Si fermò a una stazione di servizio a far rifornimento, e scelse un distributore con l'addetto alle pompe. Niente self-service per non lasciare impronte. «Qual è la strada per New Hope?» chiese all'uomo del distributore senza togliersi gli occhiali scuri. L'altro si strinse nelle spalle. Non aveva mai sentito nominare New Hope, ma Chaney se ne infischiava altamente. Gli aveva chiesto di proposito la direzione per una località che non esisteva. Sperava che l'uomo si ricordasse la domanda. Se per caso gli avessero chiesto, più tardi, se aveva visto una Jaguar marrone, l'addetto al distributore avrebbe risposto che la macchina in questione non era diretta a Filadelfia... dove viveva Peter Ri-
ley. Di nuovo in marcia. Conosceva le abitudini di Riley. Il vecchio viveva solo, sua moglie era morta quattro anni prima. Usciva ogni sera verso le otto per andare a mangiare un sandwich in un ristorante vicino a casa. Doveva essere l'unico diversivo di una vita monotona, concluse Chaney. Di lì a poco Peter Riley avrebbe incontrato uno dei suoi vecchi allievi. Anne la sentiva arrivare. Riusciva quasi a prevedere quando l'insonnia avrebbe colpito e quella sera sapeva che sarebbe successo. Quando giunse a casa cercò di fare un sonnellino, ma non riuscì neppure a chiudere gli occhi. Aveva sperato che l'eccitazione per la nuova amicizia con Mark Chaney sconfiggesse l'insonnia per sempre, ma ora capiva che era inutile. Guardò la casa di Mark tutta buia e desiderò che tornasse presto. Vide passare un'auto della polizia. I due agenti di pattuglia sembravano sorvegliare la casa di Mark. Forse lui li aveva avvertiti che si sarebbe assentato e aveva chiesto che sorvegliassero la villetta. Mark era un uomo preciso e metodico. Anne aveva il numero privato del dottor Bradshaw; decise di chiamarlo a casa. Forse il medico poteva darle qualche consiglio. Bradshaw rispose al primo squillo. Lei si accorse che bisbigliava anche al telefono, una voce pacata e sommessa come quando parlava nel suo studio. «Qui Bradshaw.» «Sono Anne Seibert, dottore. Mi scusi se la disturbo a casa, ma sento il bisogno di parlare.» «Nessun disturbo. Sono contento che abbia chiamato. Qualcosa non va?» «Sì e no», rispose Anne. «Senta, è sicuro che non sia un'ora indecente per chiacchierare?» «Stia tranquilla. Mi dica qual è il problema.» «Ecco...» esitò Anne. «Si tratta di quell'uomo che ho conosciuto. Mi pare di avergliene parlato.» «Sì, mi ricordo.» «La prima notte che l'ho conosciuto, quando sono rientrata ho dormito come un sasso...» «Lo avevo previsto.» «Un secondo, dottore. Stasera è via e io credo che l'insonnia stia tornan-
do. Sarà così ogni volta che si assenterà?» «Difficile dirlo, Anne. Non conosciamo a fondo gli aspetti psichici dell'insonnia. Può darsi che sia solo apprensione, forse lei si preoccupa della sua incolumità... oppure pensa che sia partito in compagnia.» Lei si rese subito conto che Bradshaw aveva toccato il punto debole. Non esisteva ancora una relazione vera e propria, ma Anne aveva lasciato correre la fantasia. Ridicolo. Doveva tornare con i piedi per terra. «Credo di essere un po' preoccupata», confessò al medico. «Fino a che punto è seria questa relazione?» volle sapere Bradshaw. «Ha parlato della prima volta che è stata con lui...» Anne sospirò. Non voleva ammettere che si trattava solo di una semplice conoscenza. «È successo ieri sera.» Seguì un attimo di silenzio. Da professionista serio quale era, Bradshaw non avrebbe mai riso di una paziente. E poi non era il primo caso che gli capitava di una donna in cerca di un nuovo amore. Lui capiva. «Ora cerchi di rilassarsi, ma non prenda nessuna pillola per dormire. Sarebbe controproducente. Pensi solo che presto tornerà. Resterà via per molto?» «Oh, no, è andato ad Albany. Sarà qui prima che faccia chiaro. Rientra sempre tardi.» «Bene», disse il dottore. «Se potessi leggere nel suo subcosciente, direi che ha in mente di restare alzata finché lui torna a casa, e non vedo nessun rimedio per questa decisione.» Anne rise. Era sempre rimasta sorpresa del modo incisivo con cui Bradshaw affrontava una situazione. «Farò del mio meglio», replicò. «E... ha ragione. Probabilmente aspetterò di vederlo rientrare.» «Auguri», sussurrò Bradshaw e riappese. Lei si sentiva piuttosto sciocca ad aver chiamato. Il medico avrà pensato che era una povera scema illusa. Le tornò in mente la velata insinuazione di lui: un'altra donna. Esisteva? Che tipo era? Bella, intelligente? Allora Mark si prendeva gioco di lei? Chaney proseguì a velocità moderata fino al quartiere dove abitava Peter Riley. Guidava con la sicurezza di chi abitava in quel rione. Aveva pensato di noleggiare un'auto per occasioni come questa, ma aveva scartato l'idea. Tornare a casa con una macchina a noleggio avrebbe indubbiamente attirato l'attenzione dei vicini, senza contare che avrebbe dovuto portare la vettura a casa sua per trasferire il carico nel frigorifero. E poi quelle auto si noleggiavano in qualche agenzia dove chiedevano sempre la patente di
guida e le carte di credito. Lui era un professionista e non attirava mai l'attenzione di nessuno. Meglio usare la sua auto, anche perché nessuno avrebbe avuto motivo di ricordarsela. La pioggia scrosciava, nel cielo in tempesta si accendevano i lampi che rischiaravano le villette e i prati ben tenuti della zona residenziale. I tuoni esplodevano in rapida successione. Chaney amava le notti simili a questa per i suoi «progetti». Sapeva che esisteva il rischio che Riley non uscisse con un tempaccio simile, ma era un'eventualità che era preparato ad affrontare. Scivolò davanti alla casa di mattoni a due piani di Riley e vide la luce accesa. Il vecchio era dentro, la sua Datsun nel viale. Chaney proseguì fino al ristorantino dove Riley si recava ogni sera. Parcheggiò a un isolato dal locale, davanti a una fila di negozi che avevano chiuso da qualche ora. E aspettò. Se tutto procedeva secondo i piani Peter Riley sarebbe dovuto apparire fra dieci minuti, venti al massimo. Mark controllò i cartelli stradali per assicurarsi di non essere in sosta vietata, onde evitare l'attenzione di qualche agente addetto al traffico. In perfetto orario, quattordici minuti più tardi la Datsun di Riley apparve in fondo all'isolato avanzando lentamente nella pioggia. Riley parcheggiò davanti al ristorante, chiuse a chiave le portiere ed entrò nel locale. Era leggermente curvo per tutti quegli anni di studio e di letture e indossava un impermeabile nero di gomma, con un cappello da pioggia. Sotto il braccio, avvolto in un sacchetto di plastica, una copia del Philadelphia Inquirer. Chaney notò che salutava alcuni clienti e che prendeva posto a un tavolo d'angolo. Si preparò all'attesa, che calcolò in ragione di quaranta minuti circa, a meno che qualche amico non trattenesse Riley nel ristorante. Sintonizzò la radio sulla stazione che trasmetteva il notiziario e sentì che alcuni agenti di cambio di Filadelfia erano stati arrestati per truffa. Lui conosceva i nomi e credeva di avere avuto contatti con qualcuno personalmente. Riley stava consumando la sua solita cena: un hamburger con piselli e una tazza di caffè. Non variava mai. Sempre la stessa pietanza anche nel bar della scuola quando Riley mangiava con gli studenti. Un altro espediente per incrementare le pubbliche relazioni, pensò Chaney. Di tanto in tanto il vecchio preside guardava fuori nella pioggia, la faccia ormai avvizzita, gli occhi socchiusi. Chaney sperava che quegli occhi fossero ancora buoni per vedere nitidamente che cosa stava per accadergli.
Anne cercò di passare il tempo leggendo, ma la tensione le impediva di concentrarsi. Era ancora presto, ma lei cominciò a guardare fuori della finestra sperando che Mark rientrasse prima del previsto. Osservando la sua casa ripensò alle ore piacevoli che vi aveva trascorso e si chiese come sarebbe stata la vita accanto a lui. Con aria sognante prese la macchina fotografica e scattò alcune foto della casa di Mark. Rischiarata solo dalla luce dei lampioni la villetta sembrava stranamente quieta sotto la pioggia, quasi un edificio in una storia dell'orrore. Guardò l'orologio: le otto e cinque minuti. Dopo quarantasette minuti Peter Riley uscì dal ristorante e Chaney si sentì gelare... perché l'uomo era in compagnia di un amico. La presenza di un'altra persona avrebbe reso impossibile il lavoro e Chaney avrebbe dovuto far ritorno a New Rochelle a mani vuote. Ma dopo aver scambiato qualche parola l'amico si allontanò e Riley salì nella sua auto. Bene, ci siamo, pensò Chaney. Era possibile. Si poteva fare. Riley accese il motore e si avviò lungo la via. Chaney lo seguì prudente, cercando di passare inosservato. Il preside svoltò l'angolo, lui si fece più vicino. In quella zona c'era poco traffico nelle serate serene, quasi niente con quel tempaccio. Chaney riusciva a vedere attraverso il parabrezza di Riley fino al tratto deserto più avanti, lo spiazzo dove avrebbe compiuto la mossa stabilita e agognata. Era una zona buia, la strada fiancheggiata da parecchi terreni da costruzione. Accelerò e si mise in coda alla Datsun, poi sterzò a sinistra per affiancarlo. Abbassò il finestrino dalla parte opposta e fece un cenno a Riley. L'altro abbassò il vetro a sua volta. Le due auto si fermarono. «Desidera?» chiese Riley. «Mi sono perso», rispose Chaney, e prima che Riley avesse il tempo di dire una parola scese dalla Jaguar e si avvicinò con un foglio di carta e una matita, come se volesse chiedere indicazioni. Riley parve seccato di esser stato fermato a quel modo, ma aspettò. Chaney alzò il foglietto. «Mi scusi tanto, ma non riesco a trovare una via. Saprebbe dirmi dov'è Deane Street?»
«Certo», rispose Riley. Il solito solerte cittadino, pensò Chaney. Sempre pronto ad aiutare il prossimo, proprio come faceva a scuola. «Deane Street è a circa tre isolati più avanti, dopo il secondo semaforo. Deve...» A questo punto Chaney prese una pistola dalla tasca e la puntò alla testa di Riley. «Zitto!» ringhiò. «Fa' esattamente come ti dico e non ti succederà niente. Questa è una rapina, niente di più... a meno che tu non voglia complicare le cose. Accosta al marciapiede... lentamente. Se cerchi di accelerare e di filare ti seppellisco nella tua macchina.» Riley, pallido dal terrore, fece esattamente ciò che gli veniva ordinato. Accostò la Datsun al ciglio della strada e Chaney gli ordinò di spegnere il motore. «Sali nella mia auto», disse Chaney. Riley, troppo spaventato per spiccicare parola, si affrettò a scendere dalla Datsun e salì nella Jaguar. Tremava di paura. Chaney si mise al volante e chiuse tutte e quattro le portiere. Il vecchio preside fissava la pistola. «Che cosa intende fare di me?» balbettò. «Rapinarti», rispose Chaney con un sorriso. «Ho i miei metodi, non ci metteremo molto.» «Non mi faccia del male!» implorò l'altro. «Si prenda tutto ciò che ho, ma non mi faccia del male. Ho dei nipotini...» Chaney accese il motore, il suo sguardo si spostava rapidamente dalla strada a Riley. Il vecchio capiva che qualsiasi mossa gli sarebbe stata fatale. A un certo punto abbassò gli occhi sul sedile e vide che era coperto di un telo di plastica verde. Perché? Non riusciva a capire. Forse il telo serviva a ripararsi dalla pioggia. Anche i rapinatori ci tenevano alla propria auto. Chaney proseguì fino a una zona industriale e si fermò in mezzo ad alcuni capannoni chiusi per la notte. Accese la luce nella macchina e si girò minacciosamente verso la sua vittima. «Vuole il mio orologio?» offrì il preside. «È d'oro. Un regalo della mia scuola. Vale parecchio.» Chaney non rispose, seguitava a guardar fisso negli occhiali di Riley. «Senta, ho anche del denaro», riprese Riley. «Le do le carte di credito, può usarle...» Ma Chaney continuava a fissarlo. «Ti sembro una faccia nota?» domandò alla fine. Riley fu sorpreso dalla domanda. Che cosa c'entrava con la rapina? «No», rispose. «Non mi sembra.»
«Guarda meglio... dottor Riley.» «Come sa il mio nome?» balbettò l'altro. «Su, guarda meglio.» Lui guardò, ma non disse nulla. E allora Chaney incominciò a cantare. «Hail Millwood High, we'll everlastingly be true...» Riley si dimenò sul sedile: aveva capito che quello doveva essere un ex allievo. E ora la faccia cominciava ad apparirgli familiare. Paurosamente familiare. Come mai non l'aveva capito subito? Quel ragazzo non doveva essere in galera? Non lo avevano condannato per tentato omicidio? Lui e il suo amico. Dovevano essere in un manicomio criminale e lo psichiatra aveva raccomandato di gettar via la chiave della cella. «Che cosa vuoi, Mark?» chiese finalmente. «Sono lusingato, signore», replicò Chaney. «Vedo che ti ricordi.» «Sì, temo di sì. Perché non metti via la pistola?» «Qui non siamo a scuola, dottor Riley», ribatté Chaney. «Non puoi dirmi che cosa devo fare.» «Mark, non te la caverai. Tu...» «Chi diavolo credi di essere per parlarmi così?» sbottò Mark indignato. «Dottor Riley, la vedi questa macchina? E il mio Rolex? Lo vedi il mio vestito? Me li sono guadagnati. E sai perché? Perché sono furbo.» «Non lo metto in dubbio.» «Mai più avresti immaginato che avrei fatto carriera, eh? Tu pensavi che io ed Emil saremmo rimasti a marcire in quel manicomio? Bene, ci hanno dimesso. Siamo riusciti a ingannarli. Non è stato troppo difficile, caro Riley. Ma abbiamo sofferto per causa tua e delle persone come te.» «Io non ho mai voluto farvi soffrire.» «Ci hai denunciato alla polizia.» «Era mio dovere!» «Avresti potuto parlare prima con noi.» «Impossibile. Voi due avevate aggredito un insegnante, avevate picchiato i compagni. Non potevo fare...» «Ci hai sputtanato pubblicamente. Ancor oggi non possiamo partecipare alle riunioni degli ex allievi.» «Ascolta, Mark. Capisco quello che provi, ma è passato tanto tempo. Ora sei cambiato. È un piacere vedere che...» «Piacere? E dovrei crederti? Ci hai sempre mentito, me l'ha detto Emil.
Hai sempre creduto di dominarci. E non hai mai pagato.» Riley si ritrasse sul sedile spostandosi contro la portiera. «Che cosa intendi dire per pagato?» Mark Chaney non rispose. Si limitò a fissare la faccia del vecchio rischiarata dai lampi. Riley intuì che cosa aveva in mente. Si buttò contro la portiera e cercò di aprirla, ma il congegno elettronico aveva bloccato la maniglia. «Piantala!» ordinò Chaney. Riley voltò la testa. «Le persone devono pagare per le cose sbagliate», decretò Chaney. «Ce l'hai insegnato tu stesso, no? Ci tenevi sempre delle conferenze interminabili sulle responsabilità sociali: non sporcare i corridoi, non bere alcolici, non superare i limiti di velocità. Se infrangete queste regole, dovete pagare, dicevi. Perciò, se noi dovevamo pagare, perché non dovresti farlo anche tu?» «Perché io non ho mai fatto niente di male.» «Ma guarda! Arrogante fino all'ultimo, eh?» «Che cosa vuoi fare, Mark?» Anche stavolta Chaney non rispose. «Come pensi di cavartela, Mark? Sai come finirà, se ti prendono? Lo sai dove ti manderanno? Stavolta non sarà più il manicomio, sarà molto peggio.» «Bravo!» sbuffò Mark. «Un'altra conferenza sulle responsabilità sociali. Voialtri presidi non cambiate mai, eh?» A un tratto guizzò un lampo accecante. Chaney aspettò il tuono che sarebbe seguito dopo qualche secondo. Quando venne, premette lentamente il grilletto. Nessuno sentì. Il telo di plastica impedì al sedile di sporcarsi. 7 Stavolta c'erano le coperte nel portabagagli perciò la corsa di ritorno a New Rochelle si svolse abbastanza tranquillamente. Chaney provava la serenità e la soddisfazione che derivano da un lavoro svolto a dovere. Assaporava la gioia di questo «progetto» più di quanto ne ricavasse dal suo successo economico, che già ammontava a un milione di dollari. La carriera gli offriva la sicurezza, il benessere; questo, invece, era la sua vendet-
ta. La missione gli aveva regalato un premio speciale perché aveva potuto parlare con Riley e ora Chaney, spensierato e contento, cantava a gola spiegata, anche per restare sveglio. Sapeva che ci sarebbero state altre quattro o cinque notti come questa prima che il progetto venisse completato, e non vedeva l'ora di affrontarle. Il viaggio in autostrada attraverso il New Jersey si svolse senza incidenti. Aveva cessato di piovere ed era più facile guidare. Chaney accese la radio e ascoltò Larry King che intervistava un paio di reporter sugli scandali del governo. Per qualche minuto si dimenticò quanto fosse importante quella notte e l'eccitazione che gli procurava il carico nel baule. Avvicinandosi a New York tutto cambiò. Un incidente che lui non aveva previsto. La polizia dello Stato del New Jersey aveva istituito dei posti di blocco. Cercavano droga. Chaney aveva letto qualcosa in proposito sul giornale, ma non ci aveva fatto caso. Ora si dava dell'imbecille per esser stato così sbadato, per non aver previsto ogni eventualità anche nei minimi dettagli, come avrebbe dovuto fare un killer che si rispetti. C'era sempre qualche intoppo. Qualcuno pronto ad acciuffare lui ed Emil. Avrebbe dovuto immaginarselo. Nonostante fosse notte fonda c'era una lunga fila di auto, una su tre veniva ispezionata minuziosamente, i passeggeri perquisiti, i portabagagli e il motore esaminati. Dappertutto cani addestrati che fiutavano nelle parti più nascoste delle macchine. Chaney calcolò che avrebbe perso una buona mezz'ora, ma il tempo non costituiva la sua preoccupazione maggiore. Se toccava a lui doveva tenersi pronto. Ma come cavarsela con quel sacco nel baule? Non farti prendere dal panico, si disse. Qualsiasi cosa accadesse, bisognava star calmi. Non poteva uscire dalla fila perché era circondato da veicoli. Avanzò verso il posto di blocco aspirando le esalazioni della Buick che gli stava davanti. Cercò di allungare il collo per contare le macchine, per vedere se la Jaguar sarebbe stata fermata per la perquisizione, ma una Ford gli bloccava la vista. Incominciò a sudare. Nonostante il freddo della notte accese il condizionatore. Non doveva assolutamente far vedere che sudava. Mai tradire paura. Era la regola numero uno. Le auto avanzarono, si fermarono aspettando l'ispezione; gli automobilisti cacciavano la testa fuori dal finestrino chiedendo spiegazioni con l'ira
nella voce. Finalmente la Ford passò senza essere fermata e Chaney calcolò che toccava a lui. La sua era la terza auto, perciò avrebbero aperto il baule. La sua mente galoppava. Poteva uscire dalla fila, ma avrebbe attirato l'attenzione e lo avrebbero perquisito solo per questa mossa. Poteva protestare che una perquisizione in piena notte non rientrava nella legalità, ma si ricordò che un tribunale federale di chissà quale Stato aveva dichiarato che la polizia esercitava poteri anche straordinari. Non c'era modo di sfuggire alla perquisizione. Continuò ad andare avanti. Finalmente si trovò di fronte al sergente Keenan Donald, come risultava dal distintivo sopra il taschino, in divisa scura, con un paio di occhialoni da aviatore. Donald era un tipo sulla quarantina, alto, robusto e dall'aria decisa. «Scenda, per favore», ordinò a Chaney con un tono di voce che era cortese e minaccioso allo stesso tempo. «Certo.» Chaney scese. «Per favore, si metta vicino al parafango sinistro», continuò il poliziotto e Chaney obbedì. Donald allungò il braccio nell'interno dell'auto, spense il motore e sfilò la chiave. Poi cominciò un controllo accurato dentro e sotto il cruscotto. «Trasporta merci?» «No», rispose Chaney. Ora l'aria gli sembrava più fresca e aveva ricominciato a piovere. «Dov'è diretto?» «A Westchester», rispose Chaney. «Sono stato a Filadelfia per affari.» Donald premette il tasto per aprire il cofano. Si portò davanti alla Jaguar e sollevò il cofano spolverando l'interno con il fascio di luce della lampadina tascabile. «Mai stato arrestato?» s'informò esaminando attentamente il motore. «No», mentì Chaney, dimenticando il lungo elenco degli arresti della sua adolescenza. «Sembra tutto regolare», borbottò Donald chiudendo il cofano. Poi prese a girare intorno alla macchina proiettando il fascio di luce sul telaio come se cercasse un nascondiglio. Compiuta l'operazione si rialzò per annunciare: «Pulito. La polizia del New Jersey si scusa per il disturbo, signore. Vede, abbiamo un grosso problema di droga». «Capisco», mormorò Chaney. «Certo che di questi tempi...» Mio Dio, il sergente s'era scordato di ispezionare il baule! Oppure si era convinto che
Chaney non aveva l'aria di un trafficante di droga. Incredibile. Un vero miracolo. Con fare indifferente lui si avvicinò alla portiera, l'aprì e salì al posto di guida. Fece per girare la chiavetta dell'accensione, ma non c'era. L'aveva presa Donald. Doveva farsela ridare, ma se gliela chiedeva l'altro poteva accorgersi di non aver aperto il baule. Chaney rimase impietrito. «Può andare», disse Donald. Lui non si mosse. «Ho detto che può andare», ripeté il poliziotto vagamente seccato. «Ha qualche problema, signore?» «La chiave», masticò Chaney. «Ah già! Eccola», rise Donald e gli ridiede la chiave attraverso il finestrino abbassato. «Mi scusi», aggiunse. Chaney avviò il motore e proseguì lentamente. Al pedaggio di confine pagò e si rimise in marcia con un gran sospiro di sollievo. Fu allora che Donald si accorse della svista. Afferrò il fischietto che teneva appeso al collo. «Che stupido!» borbottò. «Mi sono dimenticato di controllare...» Ma poi si guardò attorno e scorse alcuni ufficiali superiori. Sarebbe stato imbarazzante. Mollò il fischietto. E comunque un rispettabile uomo d'affari di Westchester non contrabbandava droga. Anne tirò fuori dal cassetto il suo diario. Che non era molto intimo. Il suo timore era che morendo all'improvviso qualche avvocato o qualche giudice leggesse dei passaggi che non avrebbe dovuto leggere. Perciò più che un diario si trattava semplicemente di impressioni. Lei vi annotava qualche frase a intervalli, qualche volta saltava dei giorni, perfino settimane. Una volta non aveva scritto una riga per tutta l'estate. Mentre aspettava il ritorno di Mark, guardando continuamente fuori della finestra, decise di metter giù alcuni pensieri. È fuori anche stanotte. Vorrei convincerlo a cambiar vita. Forse ci riesco. Bradshaw ha detto che sono sulla buona strada, e finora non si è mai sbagliato nei suoi giudizi. Adesso ho un gran sonno, ma so che non posso dormire finché Mark non rientra. Non dovrei pronunciare giudizi avventati, ma lui è un tipo alla vecchia maniera.
Anne si chiese se ciò che aveva scritto non fosse un po' troppo intimo, ma decise di non cancellare. Continuò per qualche minuto, poi mise il diario su un tavolino accanto alla macchina fotografica e incominciò a leggere un libro sull'industria automobilistica tedesca. Lettura imposta dalla Stellar Motors. Sbirciò fuori della finestra per l'ennesima volta e vide un'auto di pattuglia uguale a quella che era passata davanti alla casa di Mark qualche ora prima. La macchina si fermò e gli agenti osservarono la villetta. Anne non vi trovò nulla di strano. Rientrava nei compiti della polizia sorvegliare una casa deserta, tanto più se il proprietario aveva avvertito che si sarebbe assentato. Era l'una e venti del mattino. Chaney entrò nello Stato di New York dal Ponte George Washington e imboccò la Henry Hudson Parkway in direzione della Contea di Westchester. Ma sulla strada deviò verso Yonkers per fermarsi a mangiare un boccone. Ormai si sentiva al sicuro, lontano dai posti di blocco e dalle autostrade pattugliate dalla polizia. Aveva fame e voleva rilassarsi. La Jaguar era dotata di un sistema antifurto a prova di bomba; impossibile per un ladro accendere il motore, a meno che prima non trafficasse una ventina di minuti per capire come funzionava l'antifurto. Questo eliminava uno dei timori di Chaney, e cioè che gli rubassero la macchina con il suo prezioso carico. Inserì l'antifurto ed entrò in un ristorante aperto tutta la notte. Ordinò un toast con prosciutto e pomodoro, frittura di pesce e una fetta di torta al cioccolato. Un pasto ricco di calorie, ma Chaney concluse che si meritava un premio dopo un lavoro concluso così brillantemente. Mangiò lentamente mentre leggeva la prima edizione del New York Times che era appena arrivato, con particolare attenzione alla pagina finanziaria che elencava i prezzi per i Fondi Comuni e le merci più richieste, prendendo un appunto mentale su ogni cosa da comunicare ai suoi clienti. Era essenziale che il progetto suo e di Emil non interferisse con gli affari. Finì di mangiare, pagò il conto e uscì. Risalì in macchina e percorse a velocità moderata la Cross County Expressway che lo portò a New Rochelle. Come al solito si fermò alla stazione di servizio chiusa per fare la rituale telefonata a Emil Welder che aspettava il resoconto del suo viaggio. Entrò nella cabina e compose il numero.
Un solo squillo. Welder sollevò immediatamente la cornetta. «Sì?» «Sono Mark.» «Finito?» «Naturale. Un lavoretto superbo, da quattro stelle. Abbiamo avuto perfino una breve conversazione. Lui ha capito, sai? Dovresti essere soddisfatto.» «Incredibile», fu il commento di Welder, che ansimava. «Non hai avuto nessun problema?» «No, solo un posto di blocco al ritorno, ma non è successo niente.» «Sai che cosa aspetto di vedere?» ridacchiò Welder. «No, che cosa?» «Il bollettino degli ex alunni. Dovranno pur dire qualcosa. Mi pare già di sentire le lodi sperticate... Forse scriverò anch'io un bel necrologio», concluse Emil con una risata e a Mark parve di vedere la mole gigantesca dell'amico che sussultava. «Potremmo istituire una borsa di studio in suo onore», suggerì Mark, «da offrire al miglior studente colpevole di un crimine violento.» «Omicidio», precisò Welder ridendo come un matto. Continuarono a ridere tutte e due per alcuni secondi; era un rimedio miracoloso per smaltire la tensione. «Adesso sarà meglio che vada», disse Chaney. «Dormi bene», augurò Emil. Chaney riappese e tornò alla Jaguar. Percorse la breve distanza che lo separava dal suo quartiere e svoltò nella via di casa. Lei era là dietro la tenda? Avanzò lentamente sperando di poter osservare con tranquillità la casa di Anne mentre imboccava il viale. Era a metà isolato quando ebbe la risposta: la luce del soggiorno era accesa come le notti precedenti. Quando svoltò nel vialetto gettò una rapida occhiata alla finestra di Anne. E la vide. Lei guardava fuori attraverso la veneziana. Disgustoso. Per un momento pensò di farle capire che l'aveva vista, magari agitando la mano in un saluto, ma poi scartò l'idea. Proseguì sul viale fin dietro la villetta. Era eccitato e contento di essere di nuovo a casa, ma stavolta non era un rientro perfetto. D'accordo, Anne non poteva vedere il retro dalla sua finestra, ma lei era là che osservava.
Anne continuò a scrutare nella speranza di vederlo mentre entrava in casa. Lo aveva sentito portare l'auto sul retro, spegnere il motore, sbattere la portiera dopo essere sceso. Nel cuore della notte i suoni si ingigantivano. Era sicura di aver sentito anche la porta di servizio cigolare quando lui l'aveva aperta. Ma poi sentì aprire e chiudere qualcosa della macchina. Non era il rumore secco di una portiera, era un tonfo attutito. Forse il baule. Anne non capiva. Se aveva qualcosa nel baule perché aveva aperto prima la porta di casa? Comunque non importava. Forse si trattava di qualche oggetto pesante che poteva aver comperato per strada. Finalmente sentì sbattere la porta di servizio. E allora decise di fare ciò che aveva desiderato di fare per tutta la serata. Si diresse al telefono. Chaney si piegava in due sotto il peso di Riley. Si avvicinò piano piano alla porta dello scantinato con le ginocchia malferme. Quei sacchi diventavano sempre più pesanti; oppure era lui che invecchiava e si sentiva stanco? Era quasi arrivato. Cominciò a ripassare mentalmente la combinazione delle due serrature. E poi, a due passi dalla porta, suonò il telefono. Dovevano aver sbagliato numero. Nessuno chiamava a quell'ora. Ma no, forse era Emil. Gli era venuto in mente qualcosa oppure aveva sentito alla radio la notizia della sparizione di un preside in pensione. Chaney depose con cura il suo carico, il telo di plastica verde frusciava a ogni mossa. Si precipitò al telefono. «Pronto!» «Mark?» «Anne! Sapevo che era ancora in piedi. Tanto lavoro?» «Proprio così. Mi fanno sgobbare, ma anche lei ha avuto una giornata pesante, non è vero?» «Sicuro, però è stata una sera soddisfacente.» «Mi fa piacere. Senta... una volta mi ha detto che le piace il cacao caldo con i cracker. Ne vuole un po'?» Chaney rovesciò gli occhi al cielo. Era proprio il momento per le merendine! «Magnifico!» disse. «Mi do una ripulita e vengo subito.» «Ma no, glielo porto.» «Anne, non deve uscire di notte. Non mi...» «Va benissimo», lo interruppe lei. «Fra tre minuti arrivo.»
«Lei è una donna meravigliosa. Sono proprio fortunato ad avere una vicina così gentile e premurosa.» Anne era felice. Altri uomini avrebbero accettato la sua offerta con il proposito di ottenere in cambio qualcosa, lui no. Lui aveva stile. Come Cary Grant. Appena posò la cornetta Chaney dovette compiere uno sforzo per controllare la rabbia. Non poteva rifiutare, lei si sarebbe insospettita. Adesso gli restavano soltanto pochi minuti per mettere a nanna il dottor Riley. Si affrettò a far scattare la prima combinazione della porta che dava nello scantinato. Attaccò la seconda, con le mani che gli tremavano per il nervosismo e l'ansia. Due giri a sinistra fino al 23, a destra fino al 41, a sinistra dal 23 al... Maledizione, che numero era? Il 18 oppure l'8? Era il 18. Girò il disco e si preparò ad aprire la porta. Che non si aprì. Provò con l'8. Stesso risultato. Si era dimenticato l'ultimo numero. Colpa dei nervi. Sentì l'orologio del soggiorno che scandiva inesorabile il suo tic tac e corse alla scrivania in camera da letto. I numeri delle combinazioni dovevano essere da qualche parte. Mentre Mark apriva il primo cassetto della scrivania, Anne sistemò lo spuntino su un vassoio e si preparò a uscire, «Ciao, Freddie», salutò il suo gatto siamese e spense la luce in soggiorno. Chaney frugò freneticamente nella scrivania tirando fuori carte, lettere, circolari, due vecchie copie dell'annuario scolastico del liceo. Non riusciva a trovare il foglietto giallo. Si precipitò alla finestra. Eccola che stava per attraversare la strada. Quanto tempo gli restava? E fin quando poteva trattenerla fuori, una volta suonato il campanello? Tornò presso la scrivania, rovesciò i cassetti uno dopo l'altro. Finalmente trovò il foglietto. Il numero era 12. Sfrecciò indietro fino alla porta dello scantinato. Due scatti fino al 23, poi... Il campanello della porta mandò un trillo. 8 Chaney fece scattare la seconda serratura.
Poi si chinò per sollevare il voluminoso sacco verde. Il campanello suonò di nuovo. Non aveva il tempo di portare giù Riley senza destare i sospetti di Anne. Perciò richiuse le serrature. Si guardò attorno freneticamente e decise di trascinare il cadavere nel piccolo bagno vicino alla cucina. Depose Riley nella vasca e tirò la tenda. Il campanello suonò per la terza volta. «Mark?» la sentì chiamare. Ecco, fra le altre cose era un tipo impaziente, una di quelle che volevano tutto e subito. «Vengo!» rispose lui. Si guardò nello specchio del bagno e vide che era presentabile. Andò ad aprire e con un sorriso sulla faccia tirata la salutò: «Salve, Anne». Lei fissò quegli occhi così vivi e ardenti e ne fu turbata. Entrò cercando di vincere la stanchezza e di mostrarsi carina. «Lo so che può sembrare ridicolo, ma dal momento che siamo ancora alzati tutti e due...» «Chi ha detto che è ridicolo?» ribatté Chaney. «Qua, mi dia il vassoio. Le assicuro che lei è molto più affascinante degli uomini con cui sono stato per tutta la notte.» «Grazie.» Anne avanzò nel soggiorno e Mark posò il vassoio sul tavolo. «Mi racconta com'è andata ad Albany prima o dopo il nostro spuntino?» Gesù, pensò Chaney, ha intenzione di fermarsi! Ma perché? Aveva notato qualcosa quando lui era tornato a casa? Aveva sentito qualcosa? Oppure ci teneva realmente a sapere che cosa aveva fatto ad Albany? Chaney decise di stare al gioco. «Se devo essere sincero non è stato affatto divertente», dichiarò. «Ho parlato con alcuni clienti che vogliono investire nella ricerca biotecnologica, fusione del gene e roba simile. C'è un'azienda in California che vende materiale di espansione. Ho fornito la mia consueta consulenza spiegando i rischi e i profitti.» «Devono esserci dei rischi incredibili in un'operazione del genere», commentò Anne. «Naturale. Se non effettuano accurate ricerche o se qualcuno salta fuori prima di loro con una nuova scoperta, possono mettersi il cuore il pace. Se però ci azzeccano, diventano milionari.» «I suoi clienti hanno intenzione di acquistare?» s'informò lei. Chaney sedette allacciando le mani dietro la nuca e fissò il soffitto fingendo di rilassarsi. «Non lo so», rispose. «Quei ricconi non prendono mai una decisione rapida. Rifletteranno a lungo su ciò che ho detto loro, consulteranno i soci, gli avvocati, gli amici. Può darsi che se ne discuta per
settimane, mesi.» «Non capisco perché si sposta in auto per i suoi viaggi», disse Anne. «Non sarebbe più comodo prendere l'aereo o il treno? Potrebbe dormire, riposarsi.» «Ma non potrei fare un programma mio. Amo la mia indipendenza, capisce?» «E con una Jaguar si sente a suo agio», concluse lei. «Be', con quello che costa mi piace sfruttarla. Un giorno o l'altro le offrirò un passaggio.» «Con piacere», accettò Anne. Mark aveva deciso di mostrarsi galante. Se lei aveva dei sospetti meglio depistarla con i bei modi. Valeva la pena di trasformare in un'arma il suo fascino con le donne. «Vado a preparare lo spuntino», annunciò Anne. Prese il vassoio e si avviò verso la cucina. Mark la seguì. «Si sieda», suggerì lei. «Ha guidato tutta la notte, sarà stanco.» «Non tanto», replicò lui. «Sono sempre rimasto seduto; preferisco muovermi.» Anne gli sorrise, contenta della sua compagnia che trovava piacevolissima. Cominciò a far bollire l'acqua per il cacao e prese alcuni cracker dalla scatola. «Che cosa preferisce sui cracker?» chiese. «Un po' di margarina», rispose Chaney. Andò a prendere dal frigorifero un panetto di margarina e aiutò Anne a spalmarla sui cracker. «Che lavoro ha fatto ieri?» «Ho scritto un articoletto su un nuovo sistema a iniezione del carburante. Molto interessante. Non avevo idea di che cosa fosse un impianto a iniezione.» «È molto più efficace di un carburatore», spiegò Chaney. «Sì, me lo ha detto anche uno dei nostri meccanici. Domani scriverò qualcosa sulla nuova decappottabile che stanno per lanciare sul mercato.» «Mi faccia leggere il pezzo», si raccomandò lui. «Mi piacciono le auto decappottabili, potrei comperarne una da voi.» «Davvero?» «Sì, così le daranno la provvigione.» «Questa ditta? Non c'è pericolo. Mi pare che l'acqua sia pronta.» Anne versò l'acqua bollente in due tazze, vi aggiunse il cacao zuccherato, mescolò e fece per portare tutto in soggiorno. «Manca qualcosa?» «No», la rassicurò Chaney. Tornarono tutti e due in soggiorno e lei posò
il vassoio su un tavolino. «Mi scusi», disse improvvisamente. «Ho le mani sporche di margarina. Posso andare in bagno?» «La porta vicino alla camera da letto», si affrettò a indicare Chaney. «Là, in fondo al corridoio.» «Ma mi pare che ci sia un bagno vicino alla cucina...» «Ah sì, quello di servizio.» Lui si accorse che la giovane donna lo guardava stupita, come se avesse detto chissà che cosa. Recitava? Lei si diresse verso il bagno accanto alla cucina e Mark spostò lo sguardo in direzione di un armadietto dove, dietro alcuni libri, era nascosta una pistola calibro 38 munita di silenziatore. Anne uscì dal bagno quasi subito. «Mark, lo sa che c'è cattivo odore là dentro?» «Sì, è il tubo di scarico. Dovrò chiamare l'idraulico.» «Se lo ricordi, prima che l'odore impesti tutta la casa.» «Va bene, va bene. Domani chiamo l'idraulico.» Anne non aveva guardato dietro la tenda della vasca, e Chaney provò un senso di sollievo. Chiacchierarono per quasi un'ora. Lei si sentiva a suo agio con Mark. A un certo punto fu tentata di rivelargli che soffriva d'insonnia, ma poi ci ripensò. Magari lui si scocciava e non si faceva più vedere. Valli a capire gli uomini! Perché compromettere una relazione che sembrava così bene avviata? Anche la parola relazione le suonava strana mentre seguitava a ripeterla mentalmente. Era stata due volte in casa di Mark, lui non le aveva mai fatto visita e in realtà non erano mai usciti insieme, eppure lei aveva l'impressione che stesse diventando una relazione. Si sforzò di restare con i piedi per terra, sapeva che le donne sono inclini a fantasticare. Però... gli piaceva. Era evidente, altrimenti avrebbe inventato un pretesto per non vederla. «Quando parte?» stava chiedendo Mark. «Fra una settimana circa.» «Allora si ricordi che le terrò il gatto e che darò un'occhiata alla sua casa.» «Me lo ricordo. Anzi, gliel'ho già detto, al mio gatto.» «Come si chiama?» «Fred. Non è un nome originale, ma a me piace.» «Diventeremo amici», la rassicurò Chaney. «Gli preparerò un lettino nella mia camera.» «Oh, non si preoccupi. Lui ama gironzolare, la notte. Soprattutto nelle
cantine. Perciò sarà meglio preparargli un giaciglio nello scantinato.» «Ma è umido giù», obiettò lui. A che cosa mirava questa qui? Per caso voleva scendere di nuovo in cantina? Chaney si sentì terribilmente a disagio. Eccola lì che dopo essersi invitata da sola in piena notte, tornava alla carica a parlare dello scantinato. Ma era possibile che una della polizia si comportasse a quel modo? Forse sì, giusto per apparire un po' eccentrica e non destare sospetti. Una mossa intelligente. Ma perché porsi tanti interrogativi? Bastava liberarsi di lei con un colpo di pistola. E scaricare il corpo da qualche parte. Lei sarebbe diventata una persona scomparsa come tante altre. Certo, la polizia lo avrebbe interrogato perché abitava di fronte a casa sua, ma lui avrebbe saputo cavarsela. Perché, dunque, continuare a preoccuparsi? Però... non era razionale, un killer perfetto non avrebbe agito così. Probabilmente Emil non avrebbe approvato un gesto tanto precipitoso. Doveva prendere una decisione anche perché la situazione lo innervosiva. Quel pensiero fisso poteva alterare la sua mente già distorta, poteva bruciargli ogni energia, e lui non doveva lasciarsi distrarre dal suo progetto. Chaney si alzò e fece per avvicinarsi all'armadietto dove teneva la pistola. Voltava la schiena ad Anne, la sua alta figura bloccava la vista alla giovane donna. Di nuovo affiorò il dubbio. Non era per caso la stanchezza a giocargli un brutto scherzo? «Che cosa fa?» volle sapere lei. «Oh, cerco qualcosa», rispose Chaney. Prese la pistola dall'armadietto e se la fece scivolare nella tasca dei pantaloni. «Sa, mi è venuta una gran fame. Mi accompagni in cucina. Voglio prepararmi un sandwich.» «Vengo.» Se era deciso ad ammazzarla, doveva farlo in cucina. Non poteva sporcare di sangue il tappeto del soggiorno, mentre la cucina aveva il pavimento di linoleum. Più facile da pulire. E nella dispensa teneva altri sacchi di plastica verde. «Vuole che glielo prepari io il panino?» si offrì Anne. «Molto gentile. Burro e marmellata.» Lei si mise al lavoro e Chaney si piantò al centro della cucina, la mano sulla pistola nella tasca. Piano piano fece scattare la sicura e cominciò a tirar fuori l'arma. Lei era occupata a spalmare il burro sul pane. La pistola era quasi fuori. Ma... Aspetta.
Non aveva pensato a una cosa: se lei lavorava realmente per la polizia di certo aveva avvertito che sarebbe andata a casa sua per un nuovo sopralluogo, e i piedipiatti sapevano che si trovava lì. Rimise la sicura e levò la mano dalla tasca. Si mise a mangiare il sandwich e si accorse di avere realmente fame. Lui e Anne fissarono il loro primo appuntamento vero per la domenica successiva. Mark aveva qualche idea... qualche idea molto personale. Più tardi accompagnò Anne fino alla porta di casa sua. «Voglio assicurarmi che non le capiti niente di spiacevole», spiegò con un sorriso. 9 Finalmente Chaney depose il dottor Riley in frigorifero al posto di un altro ospite che era stato spostato. Poi da una stanza al buio rimase a guardare le luci in casa di Anne che si spegnevano l'una dopo l'altra. E di nuovo provò quel profondo senso di disagio. Perché a un tratto lei spegneva tutte le luci? Probabilmente stava lavorando prima che lui tornasse a casa. Il lavoro era finito con il suo arrivo? Oppure Anne era troppo stanca per restare alzata, data l'ora tarda? Ma se davvero stava lavorando, perché allora si era interrotta per portargli lo spuntino? Non era il comportamento di una persona responsabile. Troppe cose sembravano confermare i sospetti di Chaney. Era ansioso di rivedere la giovane donna, doveva scoprire tutto di lei. Anche Mark impiegò un bel po' ad addormentarsi. Aveva tante cose, troppi pensieri per la testa. Anne dormì meravigliosamente bene. Non esisteva cura migliore per l'insonnia che poche ore con Mark e la prospettiva del prossimo appuntamento. Ma prima di addormentarsi capì che non ce l'avrebbe fatta a presentarsi in ufficio in orario, la mattina dopo. Era troppo esausta. Alle nove, quando la sveglia suonò, prese la cornetta del telefono sul comodino e compose il numero della Stellar Motors. «Vorrei parlare con Carol Trager, per favore», disse alla centralinista. Dopo una serie di scatti sentì sollevare il ricevitore. «Carol Trager.» «Mi sento una frana.» «Ehi, Annie! Che cosa ti prende?»
«Ieri sera sono stata con Mark fino a tarda notte.» «Così non hai lasciato dormire neppure lui.» «Esatto. Chiederò mezza giornata di permesso per malattia.» Carol incominciò a ridere. «L'avevo previsto, ma non pensavo che avvenisse così presto. Ti stai prendendo una cotta, eh?» «Può darsi.» «Quando ti porta a conoscere la sua famiglia?» «Oh, piantala!» «Dico sul serio.» Anne non parlò. «Ci sei?» chiese Carol. «Ci sono», rispose l'altra. «È strano, sai. Stanotte abbiamo parlato di tutto, ma lui non ha mai nominato la sua famiglia.» «Perché te la prendi? Può darsi che i suoi genitori siano morti.» «Può darsi. La prossima volta, se mi capita l'occasione, glielo chiedo.» «Annie, torna a dormire», suggerì Carol. «Non pensare all'ufficio, pensa a riposarti. E sogna il tuo Mark. Ci vediamo più tardi.» «Grazie, Carol. Sei un tesoro.» Carol era sempre così rassicurante, bastava la sua voce a tranquillizzarla. Posò la cornetta giusto in tempo per sentire il rombo della Jaguar di Mark, dall'altra parte della strada. Scese dal letto e si precipitò alla finestra per guardar fuori. Pensò di salutarlo con un gesto della mano, ma si trattenne. Poteva apparire troppo confidenziale. E poi lei avrebbe dovuto essere in ufficio. Tornò a letto e si tirò le coperte fin sopra gli occhi. Carol non era la sola a pensare ad Anne, quel mattino. Mark Chaney aveva la mente perennemente concentrata sulla minaccia che abitava di fronte casa sua. E c'erano anche i due uomini nella Ford nera parcheggiata due isolati più avanti che pensavano ad Anne. Aspettavano che uscisse. Controllavano continuamente l'orologio chiedendosi perché mai non si facesse vedere, perché non rispettasse gli orari. Forse era ammalata. Forse Mark le aveva dato qualcosa da fare a casa. Oppure le era capitato qualcosa. Sicuro. Doveva esserle capitato qualcosa. Era quanto ci si poteva aspettare se uno s'impegolava con Mark Chaney. I due uomini stavano allungati sul sedile anteriore, guardavano l'orologio a intervalli regolari e annotavano: Nessuna attività sui rispettivi taccuini che tenevano sulle ginocchia. L'agente Seymour Castle del dipartimento di polizia di New Rochelle e il sergente Larry O'Grady, dello stesso diparti-
mento, non erano eccessivamente entusiasti del servizio di sorveglianza; era noioso, raramente dava risultati positivi e serviva ben poco alla carriera. Castle, quarantadue anni, da venti nelle forze dell'ordine, era un tipo mingherlino con due baffi che quasi gli coprivano la faccia scarna e che si piegavano al vento. O'Grady, ventinove anni, ex giocatore di baseball, aveva seguito il padre nella polizia. Rosso di capelli, portava sempre un paio di occhialoni scuri e fumava minuscoli sigari. Era convinto che gli accessori migliorassero l'immagine. «Comincio a preoccuparmi», disse Castle con la sua voce monotona. «Forse uno dei nostri dovrebbe suonare il campanello della ragazza, magari facendosi passare per un piazzista.» «Aspettiamo ancora un momento», suggerì O'Grady. «È rimasta in piedi fino a tardi, forse dorme.» «Siamo sicuri che è stata da lui?» «Buck l'ha vista attraversare la strada e andare nella casa di fronte in piena notte.» «Con un vassoio, mi pare che abbia detto», aggiunse Castle. «Mi chiedo come ci sia cascata.» Il collega si strinse nelle spalle e rimosse gli occhiali; vi soffiò sopra e li pulì con la manica. «È solo questione di soldi», continuò Castle rispondendo alla propria domanda e facendo vibrare i baffi. «Che altro, se no? Scommetto che lui la sfrutta.» «Probabile. Anche mia madre si è lasciata coinvolgere in una faccenda del genere, e ha perso cinquecento bigliettoni. A proposito di questa ragazza: è arrivata da poco nel quartiere, lui deve averla vista per la strada e l'ha abbordata. Fanno sempre così.» «Già», convenne Castle. «Conosco il tipo. Fra due settimane lui sparirà.» In quello stesso istante i due poliziotti videro la porta di Anne aprirsi lentamente. «Meno male!» commentò Castle. «È ancora viva.» Osservarono la giovane donna mentre si avviava verso la Oldsmobile. Dopo cinque tentativi il motore si accese e l'auto uscì dal viale. «Okay, andiamo», disse Castle. O'Grady, che era al volante, avviò la Ford. Seguirono Anne a distanza senza perderla di vista, ma poiché per regolamento potevano tallonarla solo fino al confine di New Rochelle, si fermarono per vederla proseguire in
direzione di New York. I due agenti sapevano che il suo legame con Mark Chaney continuava; ciò che non sapevano, e che invece i loro superiori dovevano sapere, era che aveva una relazione con il suo affascinante vicino. Chaney si tuffò in una riunione d'affari con due ricchi imprenditori di Toronto che si interessavano di elettronica. Elegantissimo nel suo completo grigio, sedeva accanto a Emil Welder il quale, nonostante i suoi sforzi, sembrava sul punto di scoppiar fuori da un momento all'altro dalla giacca blu. Era stata una mattinata intensa e Chaney non aveva avuto l'occasione di parlare con il suo socio in privato. Doveva fare bella figura con gli imprenditori; ma la sua mente riandava di continuo ad Anne Seibert. I quattro uomini sedevano attorno al tavolo di tek in una sala della M.E. Inc., un domestico serviva il caffè, badando a tener colme le tazzine a mano a mano che si svuotavano. «Credo che sia una società seria», stava dicendo Chaney ai due ricconi dalla faccia arcigna, che non fecero commenti. «Produce una nuova autoradio tre volte più potente di qualsiasi altra sul mercato. Noi vediamo una possibilità di espansione per prodotti simili.» «E le azioni costano poco», aggiunse Welder respirando pesantemente ad ogni parola. Non rappresentava certo una figura attraente in queste riunioni, ma gli imprenditori rispettavano la sua intelligenza. «Inoltre sono in fase di sviluppo», continuò Chaney. «Fra non molto lanceranno un televisore per auto e un computer.» Ora non poteva più aspettare. Prese a scrivere brevi appunti e li passò a Welder, mentre cercava di vendere i suoi articoli. I due di Toronto credevano che buttasse già qualche idea da discutere insieme. «La notte scorsa è venuta da me», scrisse Mark mentre Emil osservava attento. «Ha fatto un sacco di domande. Non credo che sia rimasta alzata a lavorare.» «La vedrai domenica?», rispose Welder con un appunto, mentre Chaney spiegava ai due di Toronto come la società veniva finanziata. «Sì, voglio che la vedano in certi luoghi... dove ogni tanto qualcuno decide di farla finita.» «Bene. Ho dei suggerimenti», scrisse di rimando Welder. «C'è dell'altro», scrisse Mark. «Oggi, uscendo, ho visto un'auto parcheggiata nella via. Sono sicuro che l'uomo al volante era un piedipiatti; l'ho riconosciuto perché l'ho visto una volta al commissariato quando ho denunciato lo smarrimento del mio orologio.»
«Pensi che lei sia d'accordo?» incalzò Emil. «Non so. Può darsi che la polizia non fosse là per me. Comunque con lei non mi sono sbottonato. Non le ho detto niente.» Chaney si schiarì la gola. «Vedete dunque, signori, che conviene trasferire i vostri investimenti dai prodotti chimici a questa società. È una buona iniziativa. Non sicura, non lo è mai, ma buona.» Welder seguitò a scrivere. «Sei pronto per miss Burnette?» «Certo. Fra una settimana circa», rispose Chaney. «È tornata a Washington. Sarà un lungo viaggio, ma lo farò.» «La odiavo. Ci rimproverava sempre», scarabocchiò Welder. «Tutti ci rimproveravano», replicò Chaney per iscritto, mentre spiegava ai clienti che l'investimento come minimo doveva essere di tre milioni di dollari. I due canadesi fecero ancora qualche domanda, la riunione finì, nessuno fece commenti. Neppure Chaney e Welder avevano molto da dire, visto che i punti essenziali li avevano trattati per iscritto. Ciascuno tornò nel proprio ufficio. Chaney incominciò a programmare il suo primo appuntamento con Anne. Che poteva essere anche l'ultimo. Chaney pregò la sua segretaria di portargli alcuni depliant della zona di New York, spiegando che un cliente desiderava trasferirsi in città con la famiglia. In realtà usò gli opuscoli per svolgere qualche ricerca preliminare. Era giunto alla conclusione che se doveva uccidere Anne e farlo passare per un suicidio, un volo da un punto alto offriva maggiori garanzie, come del resto aveva suggerito Emil. I depliant, con la vista esotica di alcuni luoghi della regione, gli diedero qualche indicazione sui punti meno frequentati. Mark ne segnò alcuni che gli sembravano adatti: piccoli ponti, costruzioni con finestre non chiuse ermeticamente, scogliere lungo il fiume Hudson. In particolare gli piacquero le scogliere perché spesso erano nascoste alla vista da alberi e cespugli. Controllò il percorso verso ciascuna potenziale località sperando di trovarne una che non richiedesse un lungo giro tortuoso nel traffico. Altrimenti la vittima si sarebbe insospettita. Un'accurata ricerca, diceva Chaney ai suoi impiegati, elimina il novanta per cento dei problemi prima che sorgano. E lui metteva sempre in pratica ciò che predicava. Un'ora dopo Chaney entrò nell'ufficio di Welder e trovò l'amico alla scrivania che leggeva un giornale. Il suo faccione era raggiante, il triplo
mento gli tremolava più che mai. «Che cosa c'è?» chiese Chaney chiudendo la porta. «Adoro questo giornalaccio», rispose Welder. «È il giornale che fa al caso nostro.» Gettò il quotidiano sulla scrivania per mostrarlo all'amico. In terza pagina c'era una foto del dottor Riley di qualche anno prima, quando era preside in una scuola superiore di Long Island. Il titolo recitava: STIMATISSIMO E AMATO PRESIDE SCOMPARSO. «Amato!» masticò Chaney. «Caro, gentile dottor Riley! Tanto amato.» «I deficienti lo amavano», puntualizzò Welder con una risata fragorosa che rimbombò nella stanza. «Lo chiamavano Mr. R. e gli sorridevano quando lo incontravano nei corridoi. Gli imbecilli come Riley trovano sempre altri imbecilli che li amano.» Chaney cominciò a leggere l'articolo. Ieri sera è stata denunciata alla polizia di Filadelfia la scomparsa di un ex preside di scuola superiore, amato e stimato dai suoi studenti, che si era trasferito in quella città dopo essere andato in pensione. La sua auto abbandonata è stata trovata a pochi isolati dalla sua abitazione. Ottimo educatore, il dottor... «Abbiamo compiuto una missione», disse Chaney parlando al plurale per assicurarsi che Welder si sentisse parte dell'operazione. «La polizia può cercare quel che vuole, non indagherà mai fuori Filadelfia.» «Mi chiedo se saremo capaci di ammazzarli tutti», borbottò Welder. «Finora siano stati fortunati; se c'è un Dio è dalla nostra parte.» «E continuerà a proteggerci, Emil. Lui sa dov'è il male. Sì, li prenderemo tutti. Non commetterò errori. Dio protegge coloro che sono perfetti.» «Lo credo anch'io», convenne Welder guardando il giornale con un largo sorriso. «Nella prossima edizione pubblicheranno la foto del parente più stretto di Riley con un suo ritratto in mano.» «E lui dichiarerà che il suo caro, vecchio zio non avrebbe fatto male a una mosca», aggiunse Chaney. «L'uomo più bravo e rispettabile che si possa immaginare, uno che aiutava i senzatetto e i poveri.» «Stai già lavorando per la Burnette?» s'informò Welder. «Non ancora, in questo momento sto lavorando per domenica. Ho un appuntamento con quella ficcanaso. È chiaro che abbiamo un problema, Emil. Troppe cose coincidono. Senza contare quei piedipiatti davanti a casa, stamattina.»
«Ma hai detto che potevano essere là per qualcun altro.» «Sì, ma se non fosse?» Chaney tacque alcuni secondi, indeciso se affrontare l'argomento che lo tormentava; ma era sempre stato leale con Welder, doveva dirglielo. «Ieri notte per poco non l'ho uccisa.» «Che cosa?!» «Quasi l'ammazzavo con la pistola. Poi ho pensato che era prematuro.» «Meno male. Sta' a sentire, Mark: non lasciarti prendere dalla fretta.» «No, infatti. È stato un momento di debolezza. Ma quella donna costituisce una distrazione, mi prosciuga ogni energia. Ah, dimenticavo di dirtelo: domenica la porto alle Jersey Palisades, esattamente come avevamo pensato. È il luogo adatto.» «Hai deciso di farlo?» «Deciso non proprio, ma continuo a pensarci. Da come stanno le cose non è assolutamente necessario eliminarla subito, a meno che non sia indispensabile. Lei ha in mente qualcosa, ma non so con esattezza per che cosa o per chi lavora. Si comporta come una svitata, mi porta gli spuntini in piena notte. Non capisco. O è una brillante operatrice oppure è completamente scema. Voglio conoscerla meglio, sapere tutto il possibile di lei, capire che cosa cerca. Così sarà più facile scoprire chi c'è alle sue spalle... se c'è veramente qualcuno.» «Perché le Palisades?» chiese Welder. «Voglio andarci qualche volta con lei. Così lo racconta ai suoi amici e si fa vedere in mia compagnia. Al momento giusto sarà anche il posto più logico da dove spiccare un volo. La gente penserà: 'Ci andava spesso, le piaceva. Si vede che aveva in mente di suicidarsi. Aveva avuto dei problemi dopo il divorzio'. Sei d'accordo?» «Mark, quando si tratta di uccidere sono sempre d'accordo!» lo assicurò Emil. Continuarono a parlare con quel tono freddo e distaccato, pur essendo consapevoli che la nuvola che incombeva su di loro si faceva sempre più densa. Anne li distraeva, eppure quella donna poteva essere assai più di una semplice distrazione. Se solo avessero potuto sapere la verità! E di conseguenza togliersela dai piedi. 10 Domenica era una giornata calda e limpida, l'ideale per un'escursione
fuori città, perfetta per Mark Chaney che doveva ispezionare possibili luoghi di esecuzioni. Anne si rimirò eccitata allo specchio della sua camera e intanto sbirciava attraverso la veneziana leggermente aperta verso la casa di Mark. Certo che era stato qualche angelo protettore a suggerirle di venire ad abitare lì, a pochi passi da quell'uomo meraviglioso che era Mark Chaney! Aveva dovuto fare tutto di fretta, quel weekend. Si stava preparando per il viaggio a Detroit, e doveva finire di scrivere i comunicati per la stampa, rivedere certi opuscoli, cominciare a preparare i bagagli. Ma Mark aveva la precedenza su ogni cosa. Lei non vedeva l'ora di essere in sua compagnia, di sapere qualcosa di più sul suo conto. C'era sempre il timore ricorrente di commettere un altro errore dopo l'esperienza con il suo ex marito, ma lui era un violento, lo aveva dimostrato dal primo momento che lo aveva incontrato, quando aveva preso a pugni un cameriere e il custode di un garage. Mark era l'opposto. Calmo, fin troppo compassato, sempre gentile e premuroso. Anne si sentiva sicura con lui. Dopo qualche minuto le giunse il suono del clacson, il segnale convenuto. Lei aspettò pochi secondi e uscì. Indossava un abito rosa con un golf bianco e si sentiva un'adolescente quando salì nella Jaguar. «Puntualissimo», commentò, detestandosi per la banalità dell'esordio. «Sono abituato a rispettare gli orari», replicò Mark. Era la prima volta che Anne lo vedeva in abiti sportivi: pantaloni kaki, camicia aperta sul collo, giubbotto di pelle. Con quel fisico poteva fare l'indossatore, concluse fra sé. «Fantastica questa auto», riprese lei. «Anche se non dovrei dirlo, visto che lavoro per la concorrenza.» «Non ci avevo pensato», rise Chaney. «Un giorno o l'altro dovrà farmi vedere uno di quei bolidi che importate. Chissà che non mi venga voglia di cambiare.» Mark attraversò rapidamente New Rochelle evitando gli automobilisti della domenica e i ciclisti, e si diresse verso la superstrada. «Sono contenta di andare alle Palisades», dichiarò Anne. «Non ci sono mai stata. O meglio, ci sono passata in macchina e una volta sono andata al parco dei divertimenti, ma non sono mai salita in cima a piedi.» «È una zona splendida», replicò Mark. «La vista dell'Hudson è spettacolare. Io ci andavo quando frequentavo il liceo.» «Oh, è nato da queste parti? Non lo sapevo.»
«A Bell Grove, Long Island», precisò lui mentre imboccavano l'autostrada Bronx River in direzione sud. «Bell Grove», ripeté Anne. «Il nome non mi è nuovo.» «È una cittadina», spiegò lui. «Gli abitanti lavorano per la maggior parte alla Grumman, la società che costruisce aerei.» «Bell Grove...», tornò a ripetere Anne. Poi si girò a guardarlo con un'espressione strana sul viso. «Lei ha frequentato la scuola superiore laggiù?» «Sì.» «E non è... turbato?» «Turbato?» «Quel preside che è scomparso a Filadelfia non veniva da Bell Grove?» Mark le scoccò una rapida occhiata. Lei era bravissima a pilotare la conversazione. Bene, un altro chiodo per la sua bara. «Sì, era il mio preside», rispose alla fine. «Certo che sono turbato, ma è stato anni fa. Non penso molto a quel periodo. Comunque, sono rimasto colpito quando ho saputo la notizia.» «Gli ha mai parlato?» «Al dottor Riley? Certo. Era simpatico e aveva un profondo senso dell'umorismo. È una disgrazia terribile. Francamente sono rimasto sorpreso di sapere che era ancora vivo. Chiunque sia il colpevole dovrebbero metterlo in galera.» «O fucilarlo.» «Io sono contrario alla pena di morte», ribatté Mark. «Nessuno ha il diritto di troncare una vita. L'ergastolo è la soluzione migliore.» Anne fu soddisfatta della risposta. Nonostante le sue parole anche lei era sempre stata contraria alla pena capitale, a differenza del suo primo marito che approvava i plotoni d'esecuzione. Il commento di Mark glielo rendeva ancor più degno di rispetto. «Giusto, l'ergastolo», convenne. Poi le affiorò spontanea una domanda. «Mark, perché pensa che qualcuno lo abbia ucciso?» «Come?» «Il preside. Il giornale diceva solo che era scomparso, volatilizzato. Non hanno trovato sangue e nessun segno di collutazione. Come mai pensa che...» «Se no perché sarebbe sparito dalla faccia della terra?» la interruppe lui, fingendo di cadere dalle nuvole. «Forse ha deciso di partire», replicò Anne. «Non è la prima volta che una persona sparisce perché ha deciso di sparire.»
«Il preside Riley non era il tipo», riprese Mark. «E poi perché parcheggiare l'auto a due isolati da casa? Se uno vuol partire va alla stazione e prende il treno.» «Probabilmente ha ragione», ammise lei. «Una volta un mio cliente è scomparso», continuò Mark disinvolto. «Era uno di quelli che vogliono disfarsi di tutti i problemi; ma prima di andarsene ha ritirato un mucchio di soldi dalla banca. Il giornale non dice che il dottor Riley abbia chiuso il suo conto in banca. Io credo che sia stata una rapina mal riuscita. Peccato, era una brava persona!» Tacquero per un po' e Anne capì che era stata una sciocca a tirare in ballo quell'episodio. Ora Mark non sembrava più allegro come prima. Che razza di pettegola! Sempre a fare osservazioni sbagliate. Si propose di parlare solo di cose piacevoli e allegre. Arrivarono in un posticino tranquillo vicino alle Jersey Palisades, a nord del Ponte George Washington. Parcheggiarono vicino ad altre auto e si prepararono a scendere dalla Jaguar; ma prima Mark prese una custodia di pelle dal sedile posteriore e tirò fuori una Polaroid, mettendosela a tracolla. «Ha portato la macchina fotografica!» esclamò Anne. «Magnifico!» Era sicura che fosse un altro segnale che Mark si interessava a lei. «Be', mi piacciono i ricordi», sorrise Mark. In effetti ci teneva ad avere dei ricordi, più precisamente di certi punti della zona per esaminarli più tardi, nel caso avesse deciso di portare a termine il «suicidio» di Anne. Gli capitava spesso di usare la Polaroid per il «progetto», scattava foto di tutti i luoghi dove intendeva incontrare le sue vittime. Aveva più di dieci istantanee dell'auto del dottor Riley, che teneva in un album chiuso nella cassaforte. Di tanto in tanto lui ed Emil sfogliavano l'album come i genitori guardano le foto dei figli quando erano piccoli. Anne e Mark s'incamminarono verso la scogliera. C'era tanta gente e un esercito di venditori ambulanti di gelati e di giornali. Lui compì una deviazione non appena scorse nella prima pagina di un quotidiano un articolo che si riferiva al dottor Riley. Non valeva la pena parlarne ancora. «Ha l'abitudine di scattare spesso foto?» s'informò Anne. «No, solo qualche volta. Certo che se fossi sposato con dei figli mi divertirei a ritrarli.» «Ci scommetto», sorrise Anne, domandandosi se quella era una vaga allusione.
«E a lei piace scattare fotografie?» volle sapere Mark. «Be', ho una macchina fotografica, ma la uso raramente. È un regalo. Oh, guardi che vista!» Avevano raggiunto un punto vicino alla scogliera da cui si poteva ammirare la città di New York attraverso i cavi del Ponte George Washington. «Vede la Statua della Libertà?» indicò Mark. «Sì, certo. Le confesso che pur essendo di New York non ci sono mai stata», disse lei. «Nemmeno io. Be', sarà per la prossima gita.» «Con piacere», replicò Anne. «Si sposti un po' a sinistra che le scatto una foto.» Anne acconsenti di buon grado. Era tutto così meraviglioso che quasi non ci credeva. Naturalmente lei ignorava che Mark scattava le foto per avere una chiara visuale dei luoghi che li circondavano. Lui scattò alcune istantanee in posizioni diverse e intanto con gli occhi frugava ogni minimo particolare. La scogliera più vicina offriva un volo di parecchi metri sulle rocce sottostanti. Bel posticino. Ma Mark notò che la zona era troppo aperta e che qualcuno poteva vederlo mentre spingeva la ragazza. Comunque scattò parecchie foto di quel tratto, spiegando ad Anne che gli interessava la forma degli alberi e delle rocce. Proseguirono e raggiunsero una scogliera più scoscesa. Questa era più isolata e sembrava il luogo ideale per mettere in atto i propositi di Chaney. Scattò alcune foto di Anne e continuò a immortalare la scogliera da diverse angolazioni. «Avrà un album intero di questo posto!» esclamò lei affascinata dalla velocità con cui Chaney bruciava la pellicola. «Sono un po' pazzo, è vero», ammise Mark. «Non vedo l'ora di finire il rullino per sviluppare le foto.» Un po' pazzo, pensò Anne. Se soltanto lui avesse saputo che cosa voleva dire pazzia! Lei sì che lo sapeva, dopo aver vissuto con un uomo che era veramente pazzo. Mark, invece, era solo un po' infantile mentre scattava foto di uno scenario che non aveva niente di allettante. Come un bambino. «Attento!» gridò improvvisamente Anne quando lo vide avvicinarsi alla balaustra in cima. Un paletto era piegato, probabilmente divelto. «Grazie», rispose lui allontanandosi dal bordo. Poi tornò ad avvicinarsi alla balaustra e scosse il paletto. Era divelto e se si fosse appoggiato sarebbe volato giù. «Gesù!» esclamò. «Potevo ammaz-
zarmi! Anne, lei mi ha salvato la vita!» Tornò di corsa verso la donna e la baciò. «Sono contenta di aver visto quel paletto», disse lei profondamente turbata. «La prego, sia prudente, Mark.» E concluse fra sé che lo scampato pericolo costituiva un nuovo legame fra loro. «Certo, certo.» Chaney infilò la mano in tasca, prese un taccuino, strappò una pagina e vi scarabocchiò un avvertimento per eventuali visitatori. Poi attaccò il foglio sul paletto. «Speriamo che lo aggiustino presto», borbottò. «Avvertirò i guardiani del parco.» Ma quello era un punto favoloso, aggiunse mentalmente. Nel periodo in cui lui e Anne erano rimasti lassù non si era visto nessuno. E il tratto ai piedi della scogliera era irto di cespugli. Un corpo poteva giacere laggiù per un bel pezzo prima di essere scoperto. Chaney si voltò a guardare la giovane donna. Lei sembrava assorta in profondi pensieri. «Qualcosa non va?» le chiese mentre riprendevano a camminare. «Stavo pensando...» rispose Anne. «Tu sei così diverso da mio marito. Hai pensato perfino a mettere quel foglietto perché altri non si facessero male; lui avrebbe scaraventato il paletto giù nel burrone.» «Era così cattivo?» «Sì, era cattivo.» «Be', io cerco sempre di restare calmo», confessò Chaney. «La calma è indispensabile nel mio lavoro. Per me la prima regola per non perdere il controllo è... mai considerare le cose da un punto di vista personale.» «Non so se io ne sarei capace.» «Ma sì. Per la maggior parte le persone sono buone, di solito non intendono fare del male. I peggiori sono quelli che tengono il broncio per tutta la vita. Invece bisogna sorridere, anche se uno ci è antipatico.» «Tu non tieni mai il broncio?» volle sapere Anne. «No, mai.» Lei gli credette. Era proprio quel tipo di uomo. Tornarono verso casa lentamente, e si fermarono nel centro di Westchester per mangiare in un piccolo ristorante cinese che Chaney conosceva. Dopo la cena a base di pesce, entrarono in un supermarket pochi metri più avanti a far compere. Anne si sentiva molto casalinga. Poi proseguirono direttamente fino alla casa di lei per bere il caffè.
Fu lì che Chaney conobbe finalmente Fred, il gattone siamese bianco e nero di Anne che avrebbe tenuto in custodia durante il viaggio della ragazza a Detroit. Mark fece un sacco di domande sulle abitudini di Fred: volle sapere perfino il nome del veterinario e qual era il suo cibo preferito. Finse di mostrare un grande interesse per la bestiola sebbene non avesse mai amato gli animali; anzi, qualcuno gli dava terribilmente sui nervi. Anche il dottor Riley aveva un gatto quando Chaney frequentava il liceo, e Fred gli riportò alla memoria quel brutto ricordo. Lui detestava i brutti ricordi. Perciò non si sentiva eccessivamente ben disposto verso Fred. «Senti, c'è qualche particolare relativo alla tua casa che dovrei forse conoscere prima che tu parta?» domandò ad Anne. «Per esempio?» «Be', aspetti dei pacchi, qualche lettera? In questo caso porto posta e consegne a casa mia e te li tengo fino al tuo ritorno», si offrì lui. «No, non ho ordinato niente», rispose lei. «Dovresti tenere una segreteria telefonica», suggerì Mark. «Ce l'ho. Ah, vuoi una chiave? Così se succede qualcosa potrai entrare liberamente.» «Preferisco di no, mi sentirei... strano a tenere la chiave della tua casa. Piuttosto, lasciami il nome del padrone di casa. Se ce ne sarà bisogno, mi rivolgerò a lui.» «Grazie», disse Anne. «Ora mi sento più tranquilla.» «Una volta mi hai detto che non c'è un impianto d'allarme. Sei ancora senza?» «Sì, ma potrei farne installare uno, magari domani stesso.» «Non occorre, assicurati solo che le serrature siano in buono stato.» «Sono serrature Morgan, le migliori.» «Bene. Anche sulla porta di servizio c'è una serratura identica?» s'informò lui. «Si, su tutte e due le porte.» Fu una chiacchierata interessante e Chaney rimase sorpreso nel vedere che la ragazza rispondeva a tutte le sue domande. In realtà gli aveva spifferato tutto ciò che lui voleva sapere. Mark era convinto che il viaggio a Detroit fosse soltanto una copertura, un trucco per dare un'impressione di legalità. Ma lui era pronto a capovolgere la situazione e il gatto lo avrebbe aiutato. «Qui, Fred!» chiamò mentre la bestiola attraversava il soggiorno. «Lo considero già un amico», spiegò ad Anne con un sorriso.
E Fred era il migliore degli amici... era di quelli che non parlano. 11 Anne parti dall'aeroporto Kennedy il martedì mattina con un volo United per Detroit. Carol sedeva accanto a lei ed era in uno stato pietoso: le tremavano le mani, muoveva le labbra in una silenziosa preghiera e teneva gli occhi sbarrati. Anne era distrutta dopo una notte d'insonnia, ma non aveva il tempo di riposare; doveva calmare l'amica, spiegarle che dalle statistiche il numero degli incidenti aerei risultava assai ridotto. In volo, benché fosse preoccupata per le condizioni di Carol, cominciò a sentire terribilmente la mancanza di Mark. Quel mattino presto gli aveva consegnato Fred ed era sicura che il gatto si trovava in buone mani. Ma lei avrebbe desiderato essere là a New York, nella casa di fronte a quella di lui. Mark cominciava a far parte della sua vita, era l'unica cosa a cui tenesse realmente. Erano rimasti d'accordo di non telefonarsi durante l'assenza di Anne a meno che non si verificasse qualche incidente a Fred, ma lei decise che la sera lo avrebbe chiamato. Le aveva detto che sarebbe stato a casa dopo le undici. Chissà, una telefonata gli avrebbe fatto piacere. Il volo si svolse regolarmente e, nonostante le paure di Carol, si concluse in breve tempo. Poco prima dell'arrivo l'altoparlante gracchiò. «Signore e signori», annunciò la hostess, «Stiamo per atterrare a Detroit, la città dei motori.» La folta rappresentanza della Stellar Motors a bordo scoppiò in una allegra risata. Per loro Detroit era un avversario temibile, una minaccia per le importazioni facili. Dopo di che tutti si allacciarono le cinture e si prepararono a scendere nella patria delle automobili. Quel giorno Chaney non andò a lavorare. Aveva troppe cose da programmare, troppi arnesi da preparare. Uscì a ritirare il New York Times che il ragazzo dei giornali gli aveva lasciato sulla porta e notò nella via gli stessi poliziotti che aveva visto prima. Una scocciatura, ma non aveva ancora prove concrete che fossero lì per lui. Era sicuro, però, che non sapevano niente della sua ricca collezione in cantina. Se avessero saputo che era un pluriomicida e che poteva uccidere di nuovo, di certo sarebbero intervenuti per evitare un'altra eliminazione. Doveva esaminare un mucchio di fotografie scattate con molta discrezione a più riprese. Una riproduceva il vicinato, in particolare le case che
circondavano quella di Anne. Chaney voleva assicurarsi se da qualche abitazione vicina si poteva vedere la porta di servizio di Anne. Sì, era possibile. E questo era un rischio di cui doveva tener conto. Disponeva inoltre di una varietà di chiavi per serrature Morgan che aveva comperato il giorno prima in negozi differenti. Aveva esaminato con cura ciascuna chiave perfezionando la tecnica che aveva imparato nel corso del «progetto» in cui erano impegnati lui ed Emil. Sarebbe stato tutto più facile sapendo quale modello apriva la porta sul retro della casa di Anne. Una cosa lo preoccupava: Fred. Il gatto era abbastanza tranquillo, ma continuava a grattare la porta dello scantinato. Chiaro che il suo fiuto sensibilissimo percepiva un odore che stuzzicava un animale. A metà pomeriggio Fred aveva già grattato via la vernice in fondo alla porta, e Chaney decise di rinchiudere la bestiola in una camera da letto. Prese un appunto mentale di provvedere in fretta a riverniciare l'uscio. Certo che quel gatto, come ogni cosa di Anne, interferiva con i suoi piani. Chaney grattò un po' di polvere da sparo dall'interno di una pistola e la fece annusare a Fred; poi mescolò la polvere a un po' di cibo. Ripeté l'operazione per una dozzina di volte allo scopo di inculcare nell'animale l'idea che la polvere da sparo lo conduceva al cibo. Non sapeva se l'espediente avrebbe funzionato, ma lui si vantava di sperimentare tutte le novità possibili. Prese un paio di guanti da chirurgo e controllò tutti i bottoni del vestito che avrebbe indossato la sera, togliendo dalle tasche tutto ciò che gli sembrava superfluo. Non doveva lasciare nulla al caso. Leopold e Loeb erano rimasti fregati perché avevano perso un paio di occhiali. Una svista imperdonabile, il fallimento di un delitto perfetto. Mark Chaney non avrebbe lasciato indietro niente. Finiti i preparativi si sdraiò per schiacciare un pisolino. Non vedeva l'ora che si facesse notte. Lui amava la notte, perché con il buio svolgeva il lavoro più importante della sua vita. Con il calar della sera a Detroit, Anne cominciò a prepararsi per il party offerto dalla Stellar Motors. Sarebbero intervenuti i rappresentanti della stampa, un gruppo di piloti da corsa e personalità dell'industria automobilistica. Suo compito sarebbe stato quello di rispondere alle domande dei giornalisti sulle caratteristiche delle macchine. Le era stato assegnato un posto vicino a una delle vetture rosse, che sarebbe stata in mostra al centro
del salone delle feste dell'albergo. Anne divideva la camera con Carol; la Stellar non poteva permettersi di offrire ai suoi dipendenti camere singole. Le due ragazze, in abito da sera, controllarono il proprio abbigliamento davanti allo specchio. Carol cercava di ripetere mentalmente il discorsetto che le avevano affidato i dirigenti, Anne era lontana centinaia di chilometri con il pensiero. «Chissà che cosa starà facendo...» mormorò. «Ehi, piantala di fantasticare!» la rimproverò Carol. «Probabilmente sarà in compagnia di qualche cliente ricco sfondato e cercherà di imbrogliarlo per convincerlo a comperare delle azioni.» «Lui non è un imbroglione.» «Scusami. Hai ragione. Gli telefonerai?» «Non così presto. A quest'ora non è in casa,» «Chi nutre la tua tigre?» «Fred? Gli ho dato da mangiare stamattina; Mark gli darà qualcosa quando tornerà a casa.» Anne guardò l'orologio. «Sono le otto. Sarà bene che chiami la mia segreteria telefonica.» «Mai controllare la segreteria telefonica la sera presto, tesoro. Di solito gli amici chiamano più tardi. Aspetta a telefonare. Dopo il party.» «Hai ragione», convenne Anne. Fuori nei corridoi si sentiva già il brusio degli invitati che cercavano il salone. Non era la prima volta che Anne partecipava a un lancio commerciale e detestava i ricevimenti di questo genere. I sorrisi forzati. Il frastuono. Gli sfaccendati che si presentavano solo per abbuffarsi. Se pensava all'ambiente pulito e tranquillo di New Rochelle sentiva più che mai la mancanza di Mark. Lo rivedeva che tornava con la Jaguar dopo una giornata di lavoro stressante, oppure mentre si preparava a portar fuori a cena qualche cliente importante. Sperava che anche Mark pensasse a lei, che desiderasse rivederla presto. Doveva portargli un regalo da Detroit. Chaney giaceva sul letto fissando il soffitto e pensava ad Anne. Odiava le donne che tentavano di imbrogliarlo. Desiderava fortemente che le capitasse qualcosa durante il viaggio a Detroit, così si sarebbe risparmiato di correre dei rischi per colpa sua. E intanto seguitava a ripetersi che forse Anne era semplicemente una ragazza curiosa, solo una ficcanaso. Ma poi il dubbio riaffiorava e lui aspettava con ansia che le ore scivolassero via per scoprire finalmente la verità.
Non riusciva a togliersela dalla mente, gli pareva di vederla alla finestra che lo spiava, lo studiava... era l'unica visione di lei che ricordava. Ogni momento trascorso con Anne costituiva uno sforzo immane, eppure doveva rassegnarsi alla sua compagnia per salvaguardare se stesso. Chaney scese dal letto e respirò profondamente per schiarirsi le idee. Mentre Anne Seibert mostrava agli interessati il funzionamento del tergiscristallo delle nuove FSR a Detroit, Mark Chaney continuava a sbirciare verso la sua casa da dietro la tenda della camera da letto. Lei aveva lasciato accesa qualche lampada per maggior sicurezza e la vecchia Oldsmobile era parcheggiata nel viale. Mark aveva imparato tutte le mosse a memoria. La donna gli aveva lasciato il gatto in una borsa da viaggio, e questo era un vantaggio insperato. Chaney andò in cucina a mangiare un sandwich. Avrebbe aspettato che i vicini si fossero addormentati. Poi si sarebbe mosso. Sia a Detroit sia a New Rochelle il tempo passava lentamente. Gli invitati si attardavano al party della Stellar Motors, impigriti dalle abbondanti libagioni e dalle delicatezze del buffet, muovendosi senza fretta nel salone illuminato dai lampadari di cristallo. Anne si era seduta e cercava di riposarsi dalle conversazioni inutili e noiose con i commercianti d'auto e i piloti. Erano quasi le dieci a Detroit, le undici a New Rochelle. Fra poco avrebbe telefonato. Pur essendo stanchissima sperava di poter chiacchierare con Mark almeno per un'ora. Il quartiere era silenzioso. L'auto con i due poliziotti non c'era più. Mark Chaney spense la luce perché nessuno lo vedesse uscire e aprì la porta principale senza far rumore. In una mano reggeva una piccola borsa per gli attrezzi, nell'altra la sacca da viaggio con dentro Fred. Agganciato alla cintura un telefono senza cavo con un raggio di ricezione di tre chilometri. Si guardò rapidamente attorno e attraversò la strada fino alla casa di Anne, tenendosi al riparo della Oldsmobile e tendendo le orecchie ai rumori nelle immediate vicinanze. Non senti nulla tranne il fruscio degli alberi e il verso di qualche uccello in cerca di cibo. Proseguì lungo la siepe fino al retro della villetta. Fred miagolò con energia, ma Chaney concluse che i vicini dovevano essere abituati ai miagolii notturni. La porta posteriore si affacciava su un terrazzino rischiarato da una lampadina di sicurezza. Chaney, munito di guanti da chirurgo, svitò la
lampadina e la casa ripiombò nel buio assoluto. Niente si muoveva nelle abitazioni vicine. La gente che lavora andava a letto presto. Posò la sacca con Fred sul terrazzino e cominciò a trafficare con la serratura. Gli ci vollero solo pochi minuti per aprirla. Chaney girò lentamente la maniglia, pochi centimetri per volta. Bastava un cigolio o un suono metallico per mettere in allarme qualche vicino. Spinse dolcemente la porta. Che si aprì di cinque centimetri, non di più. Bloccata. Anne non gli aveva parlato della catenella all'uscio. Quando era partita per Detroit era uscita dalla porta principale e aveva chiuso con la catena quella sul retro. Chaney imprecò silenziosamente. Perché non aveva notato la catena la prima volta che era venuto a curiosare? E perché non si era preoccupato di esaminare la porta di servizio? Idiota. Imperdonabile, come tutti gli errori. D'accordo, staccare la catena non era un problema, bastava tagliarla; ma dopo avrebbe dovuto ricomprarne un'altra e tornare la notte successiva a sostituirla perché Anne non si accorgesse che qualcuno si era introdotto in casa sua. Un rischio supplementare, ma ormai non aveva scelta. Esaminò la catenella al riflesso della luna e vide che era un modello comune. Meno male. Prese dalla borsa un seghetto da gioielliere e cominciò a tagliare la catena. Era di metallo tenero, qualsiasi ladro avrebbe saputo staccarla in un momento e cedette in meno di due minuti. Chaney aprì la porta ed entrò, poi allungò un braccio per prendere il gatto. Stava per chiudere l'uscio quando il telefono portatile squillò. Lui sapeva perfettamente chi era. Aveva portato con sé l'apparecchio portatile per prendere la telefonata nel caso avesse dovuto fermarsi nella casa più del previsto. Sapeva che Anne poteva insospettirsi se avesse chiamato tardi e non lo avesse trovato. Ma non era così tardi e lui aveva parecchio da fare. Decise di non rispondere. Tanto era certo che lei avrebbe richiamato. Anne stava pigiata in una torrida cabina telefonica, una delle sei allineate fuori del salone dell'albergo. In coda aspettavano pazientemente di tele-
fonare due funzionari dell'industria automobilistica, piuttosto brilli, che volevano rassicurare le rispettive mogli sulla loro salute e fedeltà. Entrambi avevano una ragazza che li aspettava in macchina. Finalmente dopo otto squilli Anne si decise a riappendere e a ritornare nella sala dov'erano rimasti pochi invitati. «Non è in casa», riferì a Carol, che intratteneva un pezzo grosso della pubblicità, divorziato di recente e perciò interessante. «È presto», le fece notare l'amica. «Non starai in ansia, spero!» «Aveva detto che sarebbe tornato a casa.» «Può darsi che abbia bucato una gomma.» «O che si trovi in compagnia di un'altra donna.» Carol rovesciò gli occhi truccati alla perfezione. «Oppure una navicella spaziale è atterrata a New Rochelle per portarselo su Marte.» «Carol, adesso mi metti ancor più in ansia!» «Balle. Sei tu che sei matta.» «È una piacevole forma di follia», replicò Anne sottovoce. Guardò verso le cabine telefoniche, tutte occupate, e si incamminò in quella direzione. Avrebbe richiamato fra un quarto d'ora. E intanto le sembrava di vedere Mark che tornava a New Rochelle ad aspettare la sua telefonata perché aveva un sacco di cose da raccontarle... Mark era aiutato dal fatto che Anne avesse lasciato qualche lampadina accesa. Non poteva accenderne altre però, per via dei vicini, e per questo motivo aveva portato una piccola torcia elettrica a lente rossa, che gli permetteva di vedere nelle stanze al buio. Aveva anche un aspirapolvere formato ridotto che gli servì per raccogliere la polvere caduta in seguito all'operazione catena della porta. Dopo aver ripulito si preparò a fare ciò per cui era venuto in quella casa. Con le mani protette dai guanti strisciò verso l'apparecchio telefonico che Anne aveva in cucina. Si tenne rasente al pavimento per non far notare la sua sagoma alla finestra. In cucina sollevò la cornetta del telefono e compose il numero di Emil. Non poteva chiamare l'amico con l'apparecchio portatile perché chiunque nelle vicinanze avrebbe potuto intercettare la telefonata. Emil rispose al primo squillo. «Sì?» «Qui Mark. Sono entrato.» «Problemi?»
«Uno solo. Ho dovuto tagliare la catenella di una porta. Dovrò tornare a sostituirla.» «Ce la farai?» «Sì, domani notte. Lei non tornerà.» «Bene. Sei pronto?» «Prontissimo.» «Rimasero d'accordo che Chaney avrebbe riferito a Emil via telefono qualora avesse trovato qualcosa di sospetto. In questo modo lui evitava di perder tempo a prendere appunti. «Ti richiamerò», annunciò Mark. Riappese la cornetta e cominciò a perquisire la cucina. La prima cosa che notò fu la macchina fotografica 35mm. Anne entrò di nuovo nella cabina telefonica. Il quarto d'ora non era passato, ma lei voleva assicurarsi di poter raggiungere un telefono. Inoltre doveva fare anche un'altra telefonata. Inserì la scheda e compose il numero di casa sua. Sentì i consueti scatti e ronzii delle chiamate interurbane, poi qualche attimo di silenzio. E infine il segnale di occupato. Non capiva. Come poteva esserci un segnale di occupato in una casa deserta? Forse aveva sbagliato numero. Ricompose il numero. Di nuovo occupato. Aveva lasciato il telefono staccato, per caso? No, era sicura di aver controllato prima di uscire di casa. Un guasto? Era possibile sebbene lei non avesse mai avuto problemi con il telefono da quando abitava a New Rochelle. A questo punto la colpì un pensiero: forse qualcuno stava chiamando per lasciare un messaggio e la segreteria telefonica lo registrava. Ma certo! Qualcuno che poteva essere Mark, che probabilmente era rientrato tardi e aveva deciso di chiamare la segreteria telefonica per farle pervenire il messaggio. Era la spiegazione a cui Anne voleva credere. Lui la pensava, si ricordava di lei. Di questo era sicura. «È una Nikon», riferì Chaney all'amico. «Con un teleobiettivo. La stessa macchina fotografica che ho visto dalla finestra.» «È carica?» s'informò Welder con il suo respiro asmatico che gracchiava
nell'apparecchio. Chaney controllò. «Sì, è sul numero 14.» «Scarica l'apparecchio. Sai che ho una camera oscura, posso sviluppare la pellicola stasera stessa. Quando torni lì per sostituire la catena, rimetti nella macchina fotografica un nuovo rullino e arrotoli il film fino al numero 14.» «È un'idea fantastica, ma la nuova pellicola sarà intatta...» gli fece notare Chaney. «Cerca di manomettere l'apparecchio», suggerì l'amico. «Lei penserà a un guasto.» Chaney era soddisfatto. Lui ed Emil avevano sempre lavorato bene insieme. Aprì la macchina fotografica, tirò fuori il rullino Kodak Tri-X e se lo cacciò in tasca. Ora poteva proseguire il suo lavoro. Strisciò da una stanza all'altra, ma non trovò niente di speciale. Sentì Fred miagolare in cucina e si ricordò che più tardi il gatto avrebbe dovuto dargli una mano nella sua missione. Finalmente raggiunse la camera da letto di Anne e con l'aiuto della lampadina tascabile cominciò a esaminare i cassetti. Trovò appunti di lavoro, note della spesa e alcune lettere di amici. E poi ebbe la sorpresa. Sollevò la cornetta del telefono interno vicino al letto. «Emil», riferì, «qui c'è un'agendina con i nomi e i numeri di telefono di poliziotti di New Rochelle. C'è anche il biglietto da visita di un investigatore privato.» «Di solito la gente normale non tiene roba del genere», osservò Emil. «No, infatti. Sembrerebbe che qualcuno ci soffi sul collo, Emil. Questi qui potrebbero essere i suoi contatti. E anche il detective privato lavora per lei.» «Spazzatura», tagliò corto Welder con voce sprezzante. A nessuno dei due passò per la testa che i nominativi potevano appartenere a persone a cui rivolgersi in caso di emergenza, qualora il marito di Anne si fosse fatto vivo, come aveva minacciato in passato. La donna non conosceva neppure gli uomini che figuravano sull'agenda. Né voleva conoscerli. Anne chiamò di nuovo la sua segreteria telefonica ma il numero dava ancora occupato. O si trattava di un messaggio chilometrico, rifletté, oppure qualcosa non funzionava. Pensò di chiamare l'operatore del centralino perché controllasse, ma fuori della cabina era in attesa un reporter furibondo, perciò decise di lasciar perdere. Era stanchissima. Salì in camera sua
decisa a telefonare da lì. Mark perquisì il resto della casa, ma non trovò niente di interessante. Lesse alcune lettere di una parente di Chicago, ma erano vecchie di mesi e non parlavano di lui. Trovò l'agenda degli appuntamenti e vide che Anne aveva segnato il giorno della gita alle Palisades. Il resto era lavoro. Non trovò il diario perché lei lo aveva portato con sé. Dopo aver completato una prima perquisizione Mark Chaney si preparò all'esperimento con Fred. Lasciò uscire il gatto dalla sacca e lo fece gironzolare di stanza in stanza. Sperava che la bestiola fiutasse polvere da sparo pensando che si trattasse di cibo. Era un modo per trovare qualche arma nascosta, nel caso Anne ne avesse una. Quella sera Mark non aveva dato da mangiare al gatto proprio per renderlo più sensibile agli odori. Fred annusò ripetutamente, ma si rivelò un felino piuttosto docile. Sembrava assolutamente indifferente a quanto stava succedendo. Mark si chiese se l'«addestramento» a cui lo aveva sottoposto per un giorno intero fosse sufficiente per dare dei risultati. Comunque continuò. Mai arrendersi. Era un'altra regola dei due soci Mark ed Emil. Quando entrò nella camera di Anne il gatto si mise seduto. Che cosa voleva dire? Era forse un'abitudine? Emetteva anche dei versi strani, ma Chaney non seppe interpretarli. Fred si mosse lentamente attorno alla stanza, poi improvvisamente balzò sul letto. E subito dopo sul comodino. Continuava ad annusare come se volesse qualcosa nel cassetto. Ma Mark aveva già perquisito il cassetto del comodino. Per maggior sicurezza controllò di nuovo. Niente. Il gatto non voleva spostarsi e seguitava a fiutare. Era possibile che gli fosse sfuggito qualcosa? fu la domanda silenziosa di Chaney. Tirò di nuovo il cassetto e fece ciò che non aveva fatto prima: esaminò lo spazio in fondo. Naturale. Evidente. C'era uno spazio extra sul fondo. E in quello spazio... Mark si precipitò al telefono. «Ha una pistola!» annunciò. «Questo taglia la testa al toro», replicò Emil. «È una pistola d'ordinanza della polizia?» «Che ne so? Le pistole dei poliziotti sono tutte uguali.»
«Già, hai ragione», convenne Emil con un sospiro. «Vorrei che non fosse accaduto. Perché non ci lasciano lavorare in pace?» «Be', ora lo sappiamo», replicò Mark. «Ho finito. Vengo subito a portarti la pellicola.» Riappese, poi strisciò in cucina. Era decisamente soddisfatto, la sua missione si era conclusa con un successo insperato. La pistola confermava che Anne era in contatto con le autorità. Chaney rimise Fred nella sua sacca e rimase sdraiato sul tappeto del soggiorno a riprender fiato per qualche minuto prima di sgusciar fuori e attraversare la strada. Si riposò soltanto un minuto, perché suonò il telefono di Anne. Aspettò che la persona in linea lasciasse il messaggio sulla segreteria telefonica. La giovane donna rimase in ascolto di eventuali messaggi e dopo pochi secondi Mark la sentì riappendere, poiché la segreteria non aveva comunicazioni da fare. Anche questo non era tanto chiaro, si disse Chaney. Una ragazza attiva come Anne... e nessuno le telefonava. Non aveva amici? Non riceveva neppure telefonate d'affari? Forse non era vero che lavorava come collaboratrice esterna. Forse fin dal principio non aveva fatto che raccontare frottole. Ma lui era furbo, l'aveva capito subito. Mark chiuse gli occhi cercando di rilassarsi per qualche minuto. E di nuovo fu interrotto da uno squillo. Stavolta si trattava del telefono portatile. Allungò l'antenna e rimase lungo disteso sul tappeto, con Fred nella sacca a pochi passi da lui. «Pronto?» «Aspettavi la mia telefonata?» Era Anne. «Anne? Come stai? Com'è Detroit?» «Così così. Ero preoccupata, ti avevo chiamato prima.» «Sono rientrato più tardi del previsto. Come al solito, sai. Ma sono contento che tu mi abbia chiamato; è un modo meraviglioso di finire la serata.» «Anche per me», disse Anne. «Come sta Fred?» «È qui, mi pare che stia benone. Si arrampica sul divano, guarda le auto che passano nella via. Non so ancora se gli piace la TV, ma vedremo più tardi.» «Spero che non ti dia troppo disturbo.» «Nessun disturbo.»
«Mark, ti sento un po' strano... Lontanissimo...» «Sto parlando dal telefono portatile. Com'è andata la prima sera?» «Ho spiegato tutto quello che c'era da spiegare sulle automobili FSR», rispose Anne, distesa sul letto nella sua camera d'albergo. «C'era un sacco di gente importante, tutti prendevano appunti e facevano commenti.» «E qual è il verdetto sulle famose FSR?» Anne rise. «L'opinione generale è che sono macchine... per ricconi stupidi.» Chaney si costrinse a ridere pure lui. «Si può dire la stessa cosa di altri modelli, ma io...» Mark s'interruppe di colpo. Aveva sentito qualcosa. Un suono improvviso. Poi... un rintocco. Si girò di scatto e lo vide al pallido riflesso della sua torcia. Poi... Cucù, cucù. L'orologio a cucù di Anne batté mezzanotte. Un vero disastro. «Che cos'è?» domandò Anne. «Sembra il mio orologio a cucù.» Silenzio. La mente di Mark galoppava furiosamente. «Mark?» «Devo proprio dare un po' d'olio a quell'aggeggio», masticò lui mentre l'orologio seguitava a battere allegramente i suoi rintocchi. «Che cosa? Mark? Ho detto che sembra il mio orologio.» «Il tuo orologio? Come fa ad essere in casa mia? Non hai visto il mio cucù nello studio?» «No... mi pare di no», balbettò Anne. «Santo cielo, ha un suono identico al mio!» «Si vede che hanno lo stesso meccanismo», ribatté Chaney con voce indifferente, congratulandosi con se stesso per come riusciva sempre a cavarsela. Parlarono ancora per qualche minuto, ma lui ascoltava appena. La faccenda dell'orologio lo aveva turbato. Finalmente la conversazione finì con la promessa che sarebbero usciti insieme non appena lei fosse tornata dal suo viaggio. Mark le mandò un bacio per telefono e si preparò a uscire dalla casa. 12 Anne si allungò comodamente. Era in stato di grazia dopo la conversa-
zione con Mark. Aveva la camera tutta per sé poiché Carol era uscita in compagnia. Mancavano due giorni al ritorno a New Rochelle e cominciava a contare le ore. Chissà che non si presentasse l'occasione di fare un viaggetto con Mark. Magari in Europa. Comunque l'importante era stare con lui. Era stata una serata lunga e faticosa. Lei ancora non riusciva a capire che cosa diavolo avesse il suo telefono, a casa. Sulla segreteria telefonica non c'erano messaggi, eppure quando aveva chiamato dava il segnale di occupato. Un guasto momentaneo, probabilmente. Strano, però. Si era sempre vantata di essere un'acuta osservatrice e di ricordarsi i dettagli, eppure non si ricordava di aver sentito o visto un orologio a cucù, quando era stata a casa di Mark. Forse in quella occasione c'era la batteria scarica, o Mark aveva fermato la soneria. Sicuro, doveva essere così. Lui aveva chiuso il cucù per non essere disturbato mentre era in sua compagnia. Un altro segno del suo interesse per lei. Chaney riattraversò la strada senza inconvenienti. Depositò Fred in casa e lo chiuse a chiave nella camera da letto prima che si rimettesse a grattare la vernice della porta dello scantinato. Poi si preparò a uscire per recarsi da Emil con la pellicola estratta dalla macchina fotografica di Anne. Nella mente ripassò rapidamente l'elenco di cose che doveva fare. Prima di tutto comperare un rullino da rimettere nella macchina fotografica quando sarebbe tornato la sera dopo. Secondo sostituire la catenella della porta. E infine doveva comperare un orologio a cucù uguale a quello di Anne e sistemarlo nello studio. Voleva essere sicuro che lo vedesse, la prossima volta che veniva a fargli visita. Ricordarsi inoltre di dirle che aveva chiuso la soneria quando era venuta a casa sua. Mark uscì all'una di notte. I vicini sapevano che andava e veniva a tutte le ore, perciò non c'era da preoccuparsi. Salì nella Jaguar, avviò il motore e attraversò New Rochelle a velocità moderata dirigendosi verso la superstrada che lo avrebbe portato a Manhattan, dove abitava Emil. Durante il percorso incontrò qualche auto della polizia, alcune in giro d'ispezione, altre ferme sul ciglio della strada. La sua mente riandò all'operazione in casa di Anne. Lui era perfettamente sicuro della propria professionalità criminale, eppure temeva di aver commesso qualche errore. Chis-
sà, per esempio, se strisciando da una stanza all'altra non aveva lasciato dei segni... O magari aveva perso un bottone, oppure aveva spostato qualcosa e poi non l'aveva rimessa a posto. Senza contare che non poteva escludere di esser stato visto da qualche vicino. Ma in questo caso avrebbero chiamato la polizia e lo avrebbero già arrestato. Accese la radio per ascoltare il notiziario, ma non vi erano stati ulteriori sviluppi nell'indagine del caso Riley. Finalmente raggiunse Manhattan e la Novantunesima Est dove Emil Welder aveva rimediato un appartamento di sei locali a novecento dollari d'affitto al mese, circa un quarto del suo valore di mercato. Era un edificio signorile con un portiere anche di notte, ma Chaney non si preoccupava di arrivare a un'ora così tarda. Il custode lo conosceva, sapeva che lui e Welder erano soci d'affari e che spesso lavoravano nelle ore più strane. Dopo aver parcheggiato la Jaguar entrò disinvolto e prese l'ascensore fino al quinto piano. Aveva la chiave dell'appartamento, perciò entrò senza suonare il campanello. Come sempre c'era odore di fumo di sigaretta. Il soggiorno era illuminato dalle luci del grande acquario di pesci tropicali che occupava un'intera parete. Anche al liceo Welder era affascinato dai pesci e tre vasche risalivano a quel periodo. I depuratori nelle vasche mandavano un costante gorgoglio che Chaney trovava maledettamente fastidioso e che Welder trovava musicale. «Emil!» chiamò Mark in un bisbiglio. Ma sapeva già dove trovare l'amico. Proseguì verso un piccolo studio e lo vide addormentato nella grande poltrona di pelle. Emil, tuttavia, si era già preparato alla visita. Sulla scrivania stavano allineate boccette di acidi e l'occorrente per sviluppare un rullino fotografico. Chaney posò la mano sulla spalla massiccia del socio e lo scosse dolcemente. «Emil, svegliati.» L'altro respirò pesantemente e mugugnò. Finalmente, sentendosi scuotere, aprì un occhio. «Sono contento di vederti», borbottò imbarazzato per la propria condizione fisica che lo faceva dormire mentre l'amico correva tutti i rischi. Cercò di drizzarsi e lo sforzo gli fece diventare il faccione paonazzo. «Ho già preparato l'occorrente», disse indicando la scrivania. «Vediamo la pellicola.» Mark gli consegnò il rullino che aveva preso dalla macchina fotografica. «Tri-X 36», osservò Welder. «Sviluppo in sei minuti.» Prese il materiale
che aveva preparato e lo portò in un piccolo bagno trasformato in una camera oscura con le tende nere alle finestre. «Hai bisogno d'aiuto?» si offrì Chaney. Welder rise. «Non vedo come potresti aiutarmi», borbottò e chiuse la porta. Al buio incominciò a lavorare. Immerse la pellicola in una vaschetta dove aveva lasciato cadere qualche goccia di acido e dopo qualche minuto riaprì la porta. «Vieni», disse a Mark. «Ora puoi aiutarmi. Controlla i secondi, per favore.» Chaney eseguì e ogni trenta secondi Emil agitava la pellicola nella vaschetta. Strano, pensava Mark, nonostante ciò che aveva fatto, come introdursi di soppiatto in casa di Anne, le bugie, il rischio, la telefonata, lui si sentiva vagamente colpevole a sviluppare le foto di un'altra persona. Era come rubare i segreti più intimi di Anne. Forse quelle foto erano personali, forse nessuno doveva vederle tranne lei. O forse avrebbero rivelato ciò che lui temeva, qualcosa che avrebbe denunciato Anne per quella che era. I sei minuti parvero un'ora. Ma quando furono trascorsi Welder rimase soddisfatto della propria abilità. «Ecco le foto», annunciò. Chaney le esaminò. «La mia casa», osservò quietamente. «Sei sicuro? Qualche volta sui negativi le cose appaiono...» «È la mia casa», ripeté Chaney. Tornò in soggiorno e si lasciò cadere su una sedia. «Ora è tutto chiaro. Mi sorveglia. L'unico interrogativo è: perché? E chi è Anne Seibert?» «C'è un'altra domanda», incalzò Welder. «Quale?» «Fra quanto tempo Anne Seibert vorrà vedere il tuo frigorifero?» 13 Il capitano Angelo Garibaldi del Nucleo Investigativo del dipartimento di polizia di New Rochelle studiò attentamente l'ultimo rapporto che i suoi uomini avevano redatto sul conto di Mark Chaney. Da settimane leggeva questi rapporti che riguardavano i movimenti di Mark Chaney, ma ora c'era un fatto nuovo. «Chi è questa Anne Seibert?» chiese al tenente Christine O'Neill che coordinava la sorveglianza.
«Non lo sappiamo con precisione», rispose la O'Neill «ma pensiamo che lavori con lui.» «Perché?» volle sapere il capitano senza distogliere gli occhi dal rapporto. «Sappiamo che lei è andata a trovarlo in piena notte. Per una donna che lavora tutti i giorni dalla mattina presto a sera non è tanto normale. E di certo non poteva trattarsi di una visita di cortesia.» «No, infatti.» «Inoltre attualmente lei è assente e abbiamo la certezza che lui è entrato in casa sua la notte passata. Uno dei nostri agenti era a mezzo isolato di distanza in un parcheggio vuoto. Ha visto Chaney attraversare la strada, ma non è riuscito a vederlo entrare perché si è introdotto dalla porta di servizio. Ne abbiamo dedotto che avesse una chiave.» «Che lavoro fa la ragazza?» «Ecco un'altra coincidenza», riferì la O'Neill. «Lei lavora come indipendente presso una ditta che importa automobili. Sappiamo dall'FBI che Chaney tratta affari anche nell'industria automobilistica.» «Allora può darsi davvero che la ragazza lavori con lui.» «Infatti. Noi continuiamo la sorveglianza.» Garibaldi si appoggiò allo schienale della poltroncina con l'imbottitura lisa e si sfregò gli occhi. Il capitano aveva cinquantun anni, la faccia ossuta e scavata. Alle sue spalle, su un tavolo, c'erano le fotografie della moglie e dei suoi otto figli, una bandiera americana e una piccola Bibbia. Tutti lo definivano un uomo perfetto. Conservatore, dedito alla famiglia, lavorava in quel dipartimento da ventinove anni; suo padre era stato poliziotto a New York e suo fratello era pompiere a Newark. L'iniziativa privata non aveva mai allettato la famiglia Garibaldi. In una cosa sola si allontanava dalla tradizione conservatrice: era convinto che le donne dovessero lavorare, anche come ufficiali di polizia. Sua madre era stata la segretaria di un senatore, sua moglie era impiegata al Ministero della Pubblica Istruzione. Perciò non aveva problemi con il tenente O'Neill, trentenne, diplomata al college. Anche la figlia di Garibaldi aveva frequentato il college per diventare infermiera. «Ho intenzione di allargare la sorveglianza», osservò il capitano mettendo giù il rapporto. «Andrò da mio cognato, il giudice e mi farò dare un'autorizzazione del tribunale per intercettare l'apparecchio telefonico di Anne Seibert.» «Non può occuparsene l'FBI?» suggerì il tenente O'Neill.
«I federali!» grugnì Garibaldi. «Sono troppo occupati a Manhattan dove c'è la TV. Noi siamo molto più in gamba dei federali, Christine. Faccio questo mestiere da ventinove anni, conosco tutti i trucchi, ormai.» «Non lo metto in dubbio, signore», disse la O'Neill. Il tenente era una brunetta tutto pepe che aveva rinunciato alla facoltà di Legge per diventare poliziotto. Era entusiasta del suo lavoro e nutriva una commovente reverenza per gli agenti addetti al traffico che, come Garibaldi, erano riusciti a farsi strada a furia di ronde e di grossi sacrifici. «So che è stata incaricata del caso da poco tempo», riprese Garibaldi. «Non ho ancora avuto il tempo di informarla. Conosce la storia?» «Probabilmente no», ammise il tenente O'Neill. In realtà la conosceva. Aveva letto parecchie cose sul conto di Mark Chaney ed Emil Welder ed era in grado di recitare a memoria la storia delle loro vite. Ma voleva che fosse il capitano a parlargliene. «Allora lasci che le spieghi i retroscena», attaccò Garibaldi. «Questo Chaney ha avuto un passato burrascoso; i federali non sono scesi nei particolari, ma ci hanno chiesto di sorvegliarlo.» «A causa del passato burrascoso?» «No, non esattamente. Quello è soltanto uno degli elementi. Il nostro uomo ha fondato una finanziaria con un socio. I federali pensano che si tratti di affari illeciti, come spesso capita a Wall Street. Ecco perché l'FBI ci fornisce le informazioni. Loro si occupano del lato tecnico della questione. Ci hanno pregato semplicemente di tener d'occhio Chaney qui a New Rochelle. Potremmo anche scoprire qualcosa, purché non sconfiniamo dalla nostra giurisdizione.» «L'FBI ha piazzato un microfono nel telefono del sospetto?» s'informò Christine O'Neill. «No. Ci hanno provato una volta nel suo ufficio, ma lui li ha fregati con alcuni congegni anti-intercettazione.» «Allora si tratta solo di truffe e roba simile.» «Delusa? So che lei sperava in qualcosa di più eccitante come un omicidio, ma non è così. Solo carta e inchiostro. Tuttavia mi preoccupa questa Anne.» «Come mai?» «È una donna sola. Le donne sole si cacciano sempre in qualche guaio. Lui probabilmente l'ha coinvolta nelle sue truffe. Il rapporto dice che è divorziata.» «Sì.»
«Ai miei tempi non c'erano tanti divorzi. La ragazza probabilmente è a corto di denaro e per questo dev'essersi lasciata coinvolgere. Io ho sposato la mia Mary Lou ventitré anni fa e non abbiamo mai pensato di divorziare. Oggi le cose vanno diversamente.» «Suppongo di sì», convenne la O'Neill. «Mi piacerebbe far pedinare questo Chaney fuori New Rochelle, ma la legge ce lo impedisce. I federali dovrebbero seguirlo, ma dicono che per il momento non ne hanno motivo.» Il capitano guardò il suo vecchio orologio. «Mi conviene chiamare mio cognato, il giudice. Voglio che quel telefono sia intercettato. Non mi va di vedere una ragazza giovane cacciarsi nei guai. Proprio non mi va.» Chaney non andò in ufficio il giorno seguente e spiegò alla sua segretaria che doveva visitare dei clienti. Con la Jaguar si recò nella parte bassa di Manhattan, dove si spingeva raramente, a cercare un orologio a cucù che avesse un suono identico a quello di Anne. Lo trovò in un negozio di antichità e pagò in contanti senza lasciare il suo nome. Dopo di che andò da un ferramenta e acquistò una nuova catena per la porta. Finalmente tornò a New Rochelle. Sistemò l'orologio nel suo studio in un punto oscuro in modo che Anne si convincesse che non lo aveva notato perché era quasi nascosto e quasi subito uscì in giardino dove sfregò la catena con un po' di terriccio perché non si vedesse che era nuova. Aveva già il rullino da mettere nella macchina fotografica di Anne. Per gentile concessione di Emil Welder. Quella sera, mentre la giovane donna partecipava a un altro ricevimento offerto dalla Stellar Motors, Mark sgusciò di nuovo in casa sua e rimise il rullino nella macchina fotografica arrotolandolo fino al numero 14; sostituì anche la catenella e ripulì il tratto vicino alla porta con il minuscolo aspirapolvere. Finalmente si preparò a uscire, Non poteva usare la porta di servizio perché aveva agganciato la catena, perciò sgusciò fuori dall'entrata principale e attraversò la strada inosservato. Nessuna auto della polizia, quella sera. Probabilmente gli agenti erano impegnati altrove, in qualche luogo più importante di New Rochelle. La mattina dopo Anne si svegliò presto. Di nuovo aveva la camera tutta per sé, poiché Carol si era trasferita, ospite di un giovane ingegnere. Anne si rese conto di come fosse riposata e serena. Si sentiva in pace con il mondo intero. Possibile che l'insonnia che aveva devastato la sua vita si fosse dissolta nel suo passato tormentato? Il dottor Bradshaw aveva
detto che poteva accadere, che sconfiggendo la depressione si poteva curare l'insonnia. Se era così lei doveva solo ringraziare Mark Chaney. Mark significava felicità. Mark significava la vita. Sembrava che andassero perfettamente d'accordo. Anne rise fra sé ricordando che avevano perfino gli stessi gusti per gli orologi a cucù. Si alzò per andare a cercare un regalo da portargli. Non sapeva molto di lui, specialmente che genere di regali gli piacesse, ma era decisa a portargli un ricordo da Detroit, qualcosa di speciale. Era da un po' di tempo che non comperava un regalo per un uomo, ma non voleva cadere nel banale come una camicia o una cravatta. Nella hall dell'albergo c'era un negozio di articoli da regalo, ma vi si trovavano le solite cose: orologi costosi, giacche con etichette di sartorie famose. La boutique era piena di gente che alloggiava nell'albergo. Anne decise di evitare la ressa e di fare una passeggiata nel quartiere commerciale. Passò davanti a parecchi negozi prima che uno attirasse la sua attenzione. Si chiamava Spark Plug e vendeva accessori per auto. Logico, visto che Detroit era la capitale dell'automobile, pensò Anne. Logico anche per lei, considerando il suo impiego attuale. E infine logico per Mark che sembrava innamorato della sua Jaguar. Entrò nel negozio di autoaccessori. Sui banchi erano esposti coprisedili di cashmere, volanti di quercia, leve del cambio placcate oro e altre finezze per i fanatici dell'automobile. Al banco principale c'era un tale sulla quarantina con un paio di baffi enormi, in giacca di pelle nera con un distintivo della Mercedes. Anne si guardò bene dal dirgli che era della Stellar Motors. «Desidera?» chiese il venditore in giacca di pelle. «Sto cercando un regalo per una persona che ha una Jaguar X16.» «Okay», ridacchiò l'altro. «Scusi, perché ride?» gli chiese seccamente Anne. «Oh, niente. Solo una convinzione personale nei confronti di quella macchina... per esempio il motore, la trasmissione. So che a molta gente piace, a me no.» «Oh. Be', a lui piace», replicò Anne. «Ed è questo che conta. Allora, che genere le interessa?» «Non saprei proprio, non sono molto pratica di queste cose.» «Scommetto che cerca qualcosa fuori del comune...» «Avete accessori per la Jaguar?»
«Abbiamo dei bellissimi tappetini, fabbricati espressamente per quel modello.» «I suoi sono in buone condizioni», ricordò Anne. «Cinture di sicurezza?» «No.» «Usa spesso la macchina?» incalzò il commesso, osservandola intensamente come se si trattasse di risolvere un problema d'ingegneria meccanica. «Viaggia spesso. Lunghi viaggi.» I baffi si sollevarono in un sorriso radioso. «L'equipaggiamento da viaggio per la Jaguar!» esclamò trionfante. «Magnifico.» «Tutto nel nostro negozio è magnifico.» Il commesso la guidò verso una vetrina in fondo. «Gli accessori sono stati disegnati espressamente per la X16», spiegò. «Primo, una bussola che si può montare sul cruscotto. Secondo, un porta-tazzina. Se osserva bene vedrà che il sostegno si adatta meravigliosamente al cruscotto della Jaguar.» «Se lo dice lei...» «Sicuro, lo dico io. E infine questo magnifico tappeto per il baule.» «Mi scusi?» «Per le persone con bagagli di lusso. È un tappeto di pelo, assorbe i colpi e impedisce ai bagagli di sporcarsi. Serve soprattutto a gente che tiene roba di valore nel baule.» «Sono sicura che lui mette oggetti di pregio nel portabagagli», convenne Anne, osservando il tappeto color avorio. Mai più Mark si aspettava che gli regalasse un oggetto simile. Era l'ideale. Anne lo acquistò. Già le pareva di vedersi mentre aiutava Mark a sistemare il tappeto nel portabagagli. Lui si sarebbe ricordato di lei ogni volta che avesse aperto il baule. Un regalo perfetto. Anne tornò a New York quello stesso pomeriggio, inconsapevole che due uomini nutrivano un profondo interesse per lei: uno aveva in mente di intercettare le sue telefonate, l'altro l'idea fissa di ucciderla. Mark si era offerto di andare a prenderla all'aeroporto, ma lei aveva rifiutato. Non voleva apparirgli invadente, pronta ad accettare favori. Prese un taxi all'aeroporto e si fece condurre a New Rochelle. Quando arrivò a casa salì gli scalini fino alla porta principale e posò le due valige sul pianerottolo. I suoi occhi si soffermarono su un punto.
Capì subito che qualcosa non andava. Aprì la porta e la spalancò. Corse dentro, passò rapidamente da una stanza all'altra facendo un velocissimo inventario. L'argenteria era al suo posto. Così pure il denaro contante che aveva lasciato in un cassetto. C'era anche la Nikon. Insomma ogni oggetto era come lo aveva lasciato. Eppure qualcosa non andava. Sollevò la cornetta del telefono e fece per comporre il numero della polizia. Poi si fermò di botto. Che cosa avrebbe detto alla polizia? Come spiegare una semplice sensazione? Quelli si sarebbero messi a ridere. Aveva bisogno di un consiglio, e c'era una sola persona a cui poteva rivolgersi con assoluta fiducia. Compose il numero della ditta di Mark. Si fece riconoscere dalla centralinista come vicina di casa del signor Chaney e l'altra le passò immediatamente la comunicazione. «Anne. Bentornata!» «Mark, c'è qualcosa che non va.» «Che cosa? Dove sei?» «A casa.» «Che cosa è successo?» «Mentre ero via... qualcuno è stato qui.» Chaney spalancò la bocca. Aveva combinato un pasticcio? «Come?» chiese eccitato. «C'è stato un furto?» «No, e non riesco a capire. Non manca nulla.» «La casa è sottosopra?» «No, ogni cosa è...» «Allora... Anne, di che cosa stai parlando?» Lei sospirò, temendo di apparirgli pazza e idiota. Ma doveva dire la verità a Mark. «Si tratta di un piccolo trucco che mi ha insegnato mia madre. Quando mi assento prendo un po' di filo e lo incollo alla porta principale, di traverso. Bene, il filo è spezzato. Può essere accaduto solo se qualcuno ha aperto la porta.» Chaney cercò di pensare rapidamente, ma che cosa poteva dire? Aveva commesso un errore. Ce n'erano altri? Capiva che la cosa più importante in quel momento era prender tempo e impedire alla ragazza di rivolgersi alle autorità. «Anne, non chiamare la polizia.» «Perché?»
«Perché è tutto così strano. Non manca niente, vero? Conosco i poliziotti. Si metteranno a ridere, diranno che il filo può averlo spezzato il vento o un cane che ha fatto pipì sulla porta. E forse è andata proprio così. Ma non lanciare un falso allarme. Se un domani avessi realmente bisogno dell'intervento della polizia quelli si ricorderebbero della chiamata a vuoto e non verrebbero.» Anne era sicura che il pezzo di filo aveva un preciso significato, ma dovette ammettere che Mark non aveva tutti i torti. «Va bene», si arrese. «Adesso controllo di nuovo la casa e se non c'è niente fuori posto... non ne parleremo più.» «Brava», approvò Chaney. «Senti... se hai paura vengo a guardare con te. Voglio dire, se non te la senti di scendere nello scantinato da sola.» «Già, gli scantinati mi fanno venire in mente i fantasmi!» rise Anne. «Se arrivi presto...» «Vengo subito.» «Allora non mi muovo finché non sarai qui», decise lei. Anne si sentiva vagamente sciocca e ridicola per aver rivelato la sua paura per le cantine, ma tutto sommato era andata bene, perché avrebbe rivisto Mark prima di quanto si aspettasse. Un'ottima occasione per dargli il suo regalo. Mark fermò l'auto davanti alla casa di Anne alle cinque del pomeriggio. Si precipitò dentro e per la prima volta nella loro strana relazione le gettò le braccia al collo. «Mi sei mancata», le sussurrò mentre lei ricambiava l'abbraccio con evidente entusiasmo. «Sei splendida... anche con la fifa che ci siano stati i ladri.» Erano ancora abbracciati, ma gli occhi di Mark stavano appuntati sulla Nikon, le cui foto gli erano rimaste stampate nella mente. Lei mi sorveglia, seguitava a ripetersi tenendola stretta a sé. Questa piccola vipera mi spia. «Voglio sapere tutto di Detroit», dichiarò a voce alta. «Prima, però, diamo un'occhiata alla casa così ti tranquillizzi.» «Non sono ancora scesa in cantina», confessò Anne. «Te l'ho detto... ho paura dei fantasmi!» «Scendiamo insieme.» Lui la guidò verso la porta dello scantinato e accese la luce. «La gente ha paura delle cantine perché sono umide e sotto il livello del suolo, come un cimitero. Si pensa di trovare le cose più strane. L'unica cosa paurosa che ho visto in uno scantinato è il bruciatore che fa un fracasso infernale.»
«Io una volta ho trovato uno scoiattolo nella cantina dei miei genitori», disse Anne seguendolo giù per le scale. Mark si guardò attorno, controllò l'essiccatoio, la lavatrice e il boiler. «A me sembra tutto in ordine», dichiarò dopo aver dato un'occhiata distratta anche sotto il pozzo delle scale. In realtà lo scantinato era praticamente vuoto, tranne alcuni vecchi scatoloni di cartone. «Non capisco», mormorò Anne. «Eppure il filo sulla porta era incollato.» «Ha piovuto mentre eri via», replicò Mark avviandosi verso la scala. «Probabilmente la pioggia ha staccato il filo.» «Uso colla impermeabile.» «Allora può darsi che il padrone di casa volesse ispezionare la villetta.» «È via, ne sono sicura.» «Be', forse ha lasciato la chiave a una persona di fiducia. Questo avrà suonato il campanello per ispezionare qualcosa e dopo ha capito che non eri in casa. Perché preoccuparsi tanto, cara? Non manca niente, no? A ogni modo, per rassicurarti del tutto, facciamo ancora un giro nella casa.» «Perché?» «Perché tu ti convinca che non c'è nascosto nessuno. E un'altra cosa: domattina fa' cambiare le serrature. Non è necessario, ma vale la pena di farlo per maggior tranquillità.» Tutto ciò che Mark diceva convinceva sempre più Anne che lui fosse l'uomo adatto. Aveva buonsenso da vendere ed era sempre cortese e disponibile con tutti. Un uomo adorabile, al punto da perquisire la sua casa per rassicurarla. Mark l'accompagnò in giro per le stanze e stavolta si sentì immensamente sollevato di poter camminare invece di strisciare come un verme per non farsi vedere alla finestra. Lasciò che lei lo precedesse per non darle l'impressione di essere già stato lì. In camera da letto i suoi occhi andarono immediatamente al comodino dove aveva trovato la pistola. Poi il suo sguardo si spostò sull'orologio a cucii. In quel preciso momento l'orologio batté le sei. «Suona come il mio», osservò Mark disinvolto. «Avevi ragione. Si vede che sono stati fabbricati dalla stessa ditta.» Anne lo precedette in soggiorno e si offrì di preparare una rapida cenetta. Mark accettò. Perché no? Qualche pasto gratis prima che lei finisca nel
frigorifero. Poco prima di cena Anne annunciò la sorpresa. «Ti ho portato una cosa.» «A me?» «Certo. Mi piace portar regali da altre città.» «Fantastico! Non ricevo molti regali, probabilmente noi uomini d'affari non sappiamo conquistarci l'affetto dei clienti.» «Be', non saprei.» «O forse la gente pensa che abbiamo tutto. Non è così, credimi», dichiarò Mark con un sorriso. «Questo non ce l'hai», dichiarò Anne sicura. Si avvicinò a un armadio a muro, tirò fuori il pacco e glielo consegnò: «Tieni. Per festeggiare una giornata meravigliosa alle Jersey Palisades.» Per poco Mark non si strozzò. D'accordo, in un certo senso era stata una giornata meravigliosa; lui aveva trovato il luogo adatto e l'aveva perfino fotografato. Quanti killer erano cosi fortunati? «Devo indovinare che cos'è?» chiese tastando il pacco. «Scommetto che non ci riesci.» «Lo credo anch'io. Non è una camicia e neppure una cravatta. Non mi aiuti?» «Vediamo un po'...» disse lei. «È una notte buia e tempestosa, okay?» «Okay.» «Stai tornando a casa da uno dei tuoi viaggi misteriosi. Giusto?» «Finora sì», rispose Mark. «Entri nel viale, scendi dalla Jaguar. E apri il baule.» Mark non commentò. Che accidenti stava dicendo? «Apri il baule. L'ultima volta ho sentito il tonfo. Doveva esserci dentro qualcosa.» Gesù! pensò lui. Dove voleva arrivare? Sapeva qualcosa? Rimase seduto a fissarla come un idiota. «Mark, svegliati! Devi proprio essere stanco.» «È vero, sono stanco», ammise lui, che l'ascoltava appena. «Dicevi? Ah sì, apro il baule della mia auto. E con questo?» «C'è dentro qualcosa di molto importante... ma è ben riparato.» «Che cosa!» «Riparato con... questo.» Lei indicò il pacco che Chaney si affrettò ad aprire. Il tappeto di pelo gli si afflosciò sulle ginocchia. «È un tappeto per il baule», annunciò Anne. «Così tratterai i tuoi bagagli
con i guanti.» 14 Mark sistemò il tappeto nel baule in tempo per il suo viaggio a Washington e il suo incontro con Frances Burnette. Il tappeto era molto meglio di tutte quelle coperte che aveva usato per attutire i colpi dei suoi ospiti nel portabagagli. «Devo vedere una persona al SEC», annunciò ad Anne per telefono la mattina che partì. «Dovrei rientrare molto tardi.» «Quanto tardi?» «Be', forse all'alba. Mi conosci no?» Anne era nel suo ufficio alla Stellar Motors. Dapprima rimase turbata che Mark le parlasse del viaggio solo pochi minuti prima di partire, ma lui le spiegò che si trattava di un caso di emergenza, un contrattempo improvviso. «Perché non prendi il treno?» suggerì lei con voce affettuosa. «Io viaggio sempre in treno e mi trovo benissimo.» «Lo so, lo so, ma io adoro la mia macchina e il mio tappeto nuovo. Non posso fare a meno di loro.» Aveva detto la cosa giusta. Mark Chaney diceva sempre la cosa giusta. «Mi raccomando, sii prudente», lo pregò lei. «Per forza! Fra tre settimane ho una riunione di famiglia.» «Una riunione di famiglia?» ripeté Anne. «Non potrei...» Si interruppe di botto, ma ormai era troppo tardi. Era mortificata. «Ma certo che puoi venire», rispose Mark con calore. «Anzi, sono stato un maleducato a non invitarti.» Che classe, pensò Anne. Un uomo di gran classe. «Non correre!» gli raccomandò di nuovo. «Non andrò a più di sessanta all'ora», promise lui. Il viaggio a Washington era roba di ordinaria amministrazione. Mark aveva coperto quel percorso venti o trenta volte per viaggi d'affari legali. Per questo, tuttavia, fece alcune deviazioni. Uscì più volte dall'autostrada del New Jersey, si fermò in alcuni parcheggi di ristoranti, una volta fece perfino lavare la macchina. Doveva assicurarsi di non essere seguito. Miss Burnette. Il nome, la faccia minuscola e ossuta, tutto era stampato nel suo cervello. Si ricordava perfino quando lui fissava quegli occhiali da
miope attaccati a una catenella d'oro che la psicologa portava al collo. «Hai bisogno di un ambiente diverso», gli diceva con quella voce chioccia con cui parlano solitamente le persone di bassa statura. Lui l'aveva sempre saputo che era una bugiarda, una di quelle che avevano sorriso prima di spedire Mark ed Emil in quel riformatorio per ragazzi difficili. La Burnette era stata psicologa del Ministero della Pubblica Istruzione, un fiore all'occhiello per la comunità. Le autorità scolastiche, Chaney ricordò, andavano orgogliose di quel fenomeno che sapeva parlare con i ragazzi e le loro famiglie, talvolta costringendoli a confessare le proprie colpe. «Qui non sei compreso», soleva dire a Mark. «Tu hai talenti particolari che richiedono un'altra atmosfera.» Era stato facile leggerle nella mente, ricordava ora Mark stringendo i denti e premendo l'acceleratore. Ora viaggiava a velocità sostenuta. «So che c'è un lato positivo del tuo carattere che aspetta di venir fuori», aveva detto miss Burnette. «Un breve periodo lontano da qui... sarà meraviglioso per te.» Non era stato un breve periodo. Mark ed Emil erano rimasti insieme quattro anni in quella «casa» di New York in compagnia di ragazzi che avevano ammazzato i genitori e rapinato chiese. «Scrivetemi, ragazzi», aveva raccomandato la Burnette firmando le carte per strapparli dalle loro case e spedirli al riformatorio psichiatrico. Chaney si accorse di aver accelerato a causa della tensione e della collera repressa. Sollevò il piede dall'acceleratore mentre superava una Mercedes e rallentò. Inutile andare in cerca di guai. Raggiunse Washington nel tardo pomeriggio, ma non era ancora l'ora di punta, con gli impiegati del governo che rientravano a casa. Si accorse di sorridere mentre imboccava New York Avenue, verso il centro della città. Si chiese se miss Burnette avesse mai pensato a lui, se avesse scritto qualcosa sul suo conto in uno dei giornali con i quali collaborava. Sapeva che qualche volta teneva delle conferenze sulla storia della psichiatria americana e che aveva parlato allo Smithsonian. Forse il suo caso, ragionò Chaney, figurava negli Archivi Nazionali per gentile concessione di miss Burnette. Raggiunse il centro della città, passò davanti al Campidoglio e al Museo Spaziale. Per la precisione miss Burnette non abitava proprio a Washington, ma nella Virginia settentrionale, dove c'erano il quartier generale del Pentago-
no e la CIA. Chaney guardava sempre dall'altra parte quando vedeva il Pentagono. L'Esercito lo aveva scartato per motivi di salute privandolo, ne era convinto, della sua virilità. Se potessero vedermi ora, sorrise fra sé; un killer che sapeva maneggiare la pistola meglio di un soldato di professione. Chaney proseguì fino a Georgetown, svoltando l'angolo fra Wisconsin Avenue e M Street, che cominciava a riempirsi della folla serale. Lasciò la Jaguar in un parcheggio e si diresse a piedi verso un ristorante cinese che conosceva dalle sue visite precedenti. Era presto, aveva un sacco di tempo per uccidere. Dopo aver mangiato si attardò a Georgetown, entrò in alcuni negozi e lesse il giornale in un parco. Risalì in macchina prima delle dieci. Arrivò a Langley, in Virginia, in meno di mezz'ora. Il suo piano era molto semplice. Ricordava che miss Burnette generalmente si fidava ad aprire la porta. Bastava entrare nel viale e suonare il campanello, con la scusa di essersi perso e di voler chiedere qualche informazione. Se lei apriva, bene; se no, poteva sempre entrare da una finestra. Aveva controllato il posto durante le sue visite precedenti. La psicologa abitava in una via tranquilla, scarsamente illuminata. La sua casa era una costruzione a due piani, con un garage e un pezzo di giardino. Passando Chaney vide la luce accesa alla finestra di una camera al piano superiore e gli parve di scorgere il tremulo riflesso di un televisore. Bianco e nero, ma non era una sorpresa. Miss Burnette era sempre stata un po' fuori moda. Chaney entrò nel viale lentamente e andò a fermarsi vicino al garage. Scese reggendo una borsa con l'occorrente e lasciò la portiera dell'auto appena accostata perché la donna non la sentisse sbattere. Avanzò fino alla porta d'ingresso e suonò il campanello. Rimase in ascolto. Dopo un po' sentì qualcuno muoversi al piano superiore. Lui si aspettava di sentirla scendere le scale, ma lei rimase di sopra. Dov'era? Che cosa faceva? Finalmente si aprì una finestra al primo piano. Chaney guardò su e vide la donna cacciar fuori la testa. Naturale. Una precauzione logica. «Sì?» chiese miss Burnette. «Mi scusi, signora», disse Chaney. «Mi sono perso e avrei bisogno di qualche indicazione. Se crede le posso mostrare la mia carta d'identità...» La donna sorrise, e la cosa sconcertò Chaney. Perché sorrideva? «Scendo subito», rispose lei.
La sentì scendere le scale lentamente muovendosi con attenzione. Poi lei aprì la porta. «Dov'era diretto?» gli chiese. Chaney tirò fuori alcune carte dalla tasca. «Ehmm... Dovevo andare qui...» spiegò indicando un punto sul foglietto. «Non ci si vede molto, la luce è scarsa.» «Allora entri», lo invitò lei con un altro sorriso. Perfetto. Stava facendo tutto ciò che Chaney voleva che facesse. «Mi faccia vedere.» «Ero diretto qui», riprese Chaney chiudendo la porta con il gomito per non lasciare impronte. Parlando aveva infilato la mano nella borsa per prendere una corda da pianoforte. «Ho svoltato a sinistra in questo punto e...» «Capisco.» La donna indossava una vestaglia da casa, ma i suoi capelli grigi erano pettinati e il suo viso truccato. «Per forza si è perso!» «Infatti.» Inaspettatamente miss Burnette scoppiò a ridere. Proprio mentre Chaney stava per estrarre dalla borsa la corda da pianoforte. «E ti aspetti che ti creda?» gli domandò in tono quasi allegro. «Pardon?» balbettò Mark. «Non penserai che creda alla tua storiella! Tu più di ogni altro sai benissimo che non mi si può ingannare... Mark Chaney!» Per un momento Chaney rimase paralizzato. Lasciò ricadere la corda nella borsa. «Be', io... Che cosa le fa pensare...» Quasi non riusciva a parlare. «Che nome ha detto, signora?» «Oh, smettila, Mark! Conosco i tuoi giochetti fin da quando eri ragazzo. Sei venuto a trovare una tua vecchia insegnante. Veramente è un po' tardi, ma sono sinceramente lusingata. Hai approfittato di un viaggio a Washington?» «Ehmm... Guardi che si sbaglia.» «Come sta Emil?» insisté la psicologa. «Davvero lei...» «Sapevo che saresti riapparso un giorno o l'altro. Avevamo un ottimo rapporto, noi due. Hai fatto carriera, vero? Si vede dalla Jaguar. Un breve periodo in quella casa di cura è capace di trasformarvi, voi adolescenti.» Miss Burnette gli prese la mano. «Vieni, siediti sul divano e raccontami tutto di te. Sei sposato? Hai dei figli?» Chaney rimase impalato come un cretino. In un certo senso quell'accoglienza gli faceva piacere. Lei era così gentile, sollecita. Mark non avrebbe
mai immaginato di essere riconosciuto subito. Si era preparato a qualificarsi solo prima di tenere un discorsetto sulla giustizia e sul motivo per cui la vecchia signorina doveva morire. E adesso quella lo voleva far sedere sul divano e fargli raccontare la sua autobiografia! «Non fare complimenti, Mark. Accomodati. Ti preparo un caffè. È davvero una bellissima sorpresa, sai. Una volta o l'altra dovrai fermarti come mio ospite per qualche giorno. Ma non hai risposto alla mia domanda: come sta Emil?» «Uhh... sta bene», disse Mark, che non si era ancora ripreso. «Torno subito. Ti piace il caffè decaffeinato? A quest'ora è meglio del caffè puro.» «Ehmm, sì... certo.» «Ti ho sempre voluto bene, Mark. Litigavo con il dottor Riley per causa tua. Lui non era dalla tua parte... ora te lo posso dire, ma io sì.» «Mi fa piacere saperlo.» Mark si accorse che la tensione diminuiva mentre la donna andava in cucina. Si era sbagliato? Davvero lei stava dalla sua parte? Era sinceramente contenta di vederlo? Oppure intuiva che stava per accadere qualcosa? Cercava di incastrarlo? Perché era andata in cucina? Per chiamare la polizia? Mark balzò in piedi e seguì la donna. Lei stava realmente preparando il caffè. Quando entrò si voltò con un cordiale sorriso. «Bravo, fammi compagnia.» Lui prese una sedia e l'avvicinò al tavolo sentendosi a proprio agio come se fosse a casa sua. Aspetta un minuto. Tutto questo è pazzesco! Questa donna lo aveva mandato in una camera di tortura e sapeva quello che faceva. Gli aveva regalato gli anni peggiori della sua vita e adesso cercava di dargli a intendere che gli aveva fatto un favore. Non l'aveva mai vista sorridere ed ora doveva lottare con se stesso per resisterle. Ma non osava tornare da Emil senza di lei. Era tutto un trucco. Lei lo aveva già imbrogliato a scuola e adesso credeva di imbrogliarlo con quei sorrisi al miele. «Devi venire alla prossima riunione di corso, Mark», stava dicendo miss Burnette. «So che non ci sei mai andato, ma lascerò il tuo indirizzo in segreteria così ti manderanno l'invito.» «Ne sarei felice.» Lei seguitò a sorridere. «Ora, però, immagino che lo scherzo sia finito, non è così? Non hai negato. Non ho mai apprezzato gli scherzi, Mark.»
«Questo non è uno scherzo.» Con un gesto fulmineo le passò la corda da pianoforte intorno al collo. Lei non riuscì a emettere un suono. Solo un debole tentativo di resistenza. Perse i sensi, il respiro si fermò. Chaney l'abbassò dolcemente sul pavimento. Poi s'inginocchiò e allentò il filo di metallo. Era penetrato nella carne. «Io non mi lascio ingannare», bisbigliò. «Nessuno di voi l'aveva capito. Tu e il dottor Riley sempre a complottare contro di me ed Emil. Adesso non puoi più farci nessun male.» Chaney uscì per andare a prendere uno dei grandi sacchi di plastica nella Jaguar e lo portò in casa. Vi mise dentro miss Burnette e mentre compiva l'operazione si chiese se la scomparsa della donna avrebbe fatto notizia sui giornali, com'era avvenuto per Riley. Era possibile che qualcuno collegasse i delitti? Non poteva sembrare una strana coincidenza che due persone della stessa scuola, che attualmente vivevano lontano l'una dall'altra, sparissero all'improvviso? Le autorità e la stampa non potevano collegare la scomparsa dei due con quella del giudice? Erano tutte persone che abitavano a New York anni prima. E comunque nessuno sarebbe stato in grado di risalire all'assassino. Chaney sbirciò fuori della finestra per vedere se qualcuno nella strada poteva vedere il baule della Jaguar. Nessuno. C'era una casa vicino alla villetta della Burnette, ma tutte le luci erano spente. Chaney fissò per un attimo la costruzione per vedere se notava qualche movimento nell'ombra, ma nulla si muoveva. Ad ogni modo aspettò per un'altra mezz'ora. Finalmente portò il suo sacco fino alla macchina e lo sistemò nel baule, adagiandolo sul bel tappeto che Anne gli aveva provvidenzialmente fornito. Gli venne da sorridere. Se soltanto lei avesse saputo a che cosa serviva il suo tappeto! Mark avviò il motore e ingranò la retromarcia sul viale a fari spenti. Al buio nessuno poteva identificare l'auto, tanto meno leggere il numero di targa. Accese i fari soltanto quando fu mezzo isolato più avanti. Poi riprese il viaggio di ritorno attraverso il Potomac fino a Washington, quindi l'autostrada per New York e New Rochelle. Il viaggio di ritorno si svolse senza inconvenienti. A un certo punto Chaney si fermò a una tavola calda aperta tutta la notte per mangiare un panino e un gelato, dopo aver lasciato la macchina e il suo carico nel par-
cheggio davanti al locale. Provava un'eccitazione particolare quella sera, tanto che decise di chiamare Emil da lì, invece di aspettare a telefonare dalla solita cabina di New Rochelle. Usò un normale telefono a gettoni alla presenza di tutti. Ma non aveva importanza, lui sapeva quali parole pronunciare. «Emil?» «Sì. Sei tu, Mark?» «Sì. Sono nel Maryland e parlo da un posto pubblico.» «Com'è andata?» «Le condizioni del contratto sono state rispettate con soddisfazione gratificante.» La voce di Emil divenne un bisbiglio. «Muoio dal desiderio di vederla!» «Non resterai deluso. Aspetto con impazienza la riunione. Sono felice quando posso riunire dei vecchi amici.» «Dovrebbero divertirsi, insieme», osservò Emil. «Tranquillamente», replicò Mark. «Molto tranquillamente.» La conversazione finì. Mark tornò al suo tavolo e lasciò una mancia particolarmente generosa: il quindici per cento per sé, l'altro quindici per cento per miss Burnette. Dopo tutto anche lei usava il parcheggio. 15 Anne era distesa sul divano, la cornetta del telefono incollata all'orecchio. «Ci sono rimasta male», stava dicendo. «Mi è uscito così... Ma credo che andrò con lui alla festa di famiglia.» «Ehi, ragazza, non sentirti mortificata», replicò Carol che se ne stava allungata sul tappeto in casa del suo fidanzato. «Gli hai dato solo una spintarella e hai ottenuto ciò che volevi, no?» «Be'... sì.» «Lui non ha riappeso?» «No.» «Allora su con la vita! Con gli uomini qualche volta bisogna chiedere. Loro ci domandano un sacco di cose, ricordatelo!» Carol e Anne chiacchieravano spesso al telefono anche a tarda notte, magari per parlare del lavoro del giorno dopo alla Stellar Motors. Quella sera avevano parlato di tutto, anche perché Anne doveva far passare il tempo in attesa del ritorno di Mark.
«Il mio regalo gli è piaciuto, sai», disse Anne. «Visto? Hai centrato i suoi gusti. A me non è mai riuscito con nessun uomo. Ma tu hai del talento, Anne.» Carol s'interruppe per guardare l'orologio alla parete. «È tardi, vado a dormire. Anche tu dovresti riposare.» «Ci proverò.» «Come va il tuo problema?» «L'insonnia? Credo di averla sconfitta. Dormo, mi sveglio in orario. Merito di Mark.» «Gli uomini fanno miracoli. Lo vedrai domani?» «Prima.» «Prima? E come?» «Lui rientrerà da Washington verso l'alba. Capisco che è ridicolo, ma Mark ha un modo tutto suo di viaggiare. Lo aspetterò alzata.» «Ma è pazzesco!» sbottò Carol in tono severo. «Devi dormire!» «Oh, dormo, dormo, ma metterò la sveglia alle quattro. Voglio aspettarlo, lui sarà contento. Gli preparerò uno spuntino caldo.» «Cose da pazzi! Comunque, se lo desideri... Fra l'altro, mi sono scordata il suo nome. Si chiama Mark e poi?» «Chaney. Mark Chaney.» Carol esitò. «Chaney... Chaney... Il nome non mi è nuovo.» «È un nome piuttosto comune.» «No, non è questo. Forse ho conosciuto qualcuno che si chiamava così. Be', non è importante. Buonanotte, Anne e tieniti in forma per mister Perfezione.» Anne Seibert mise la sveglia sulle quattro e andò a coricarsi. Forse, pensava, si sarebbe svegliata proprio quando sarebbe arrivato Mark. Così poteva aiutarlo a scaricare il baule e vedere con i suoi occhi se il suo regalo gli era utile. Si addormentò di colpo. Serena e contenta. Erano le quattro e quarantotto quando Mark Chaney svoltò l'angolo del suo isolato. Il cielo era ancora buio, ma già si intravvedeva il primo annuncio dell'alba. Proseguì lentamente nella via e d'istinto guardò verso la finestra del soggiorno di Anne. Lei era alzata. Che donna ambigua, bugiarda. E gli comperava regali, gli dimostrava un sacco di premure. In realtà lo spiava e lui aveva quelle foto che costituivano una prova inequivocabile. Ma era possibile che sapesse? Non aveva a-
vuto modo di mettere gli occhi sugli ospiti della sua cantina, e non ci sarebbe mai riuscita. Agitò il braccio in direzione della finestra e svoltò nel suo viale per raggiungere il retro della casa. Spense il motore e si preparò al solito rituale. Scese dalla Jaguar, salì gli scalini fino alla porta di servizio e l'aprì. Ma poi gli tornò in mente il commento di Anne... e cioè che si ricordava il rumore del baule che si apriva e si chiudeva. Allora cambiò idea. Lasciamo riposare miss Burnette nel baule. La portiamo nel frigorifero dopo che Anne sarà uscita per recarsi al lavoro. Entrò in casa e in quello stesso istante il telefono squillò. Senza dubbio era lei. «Ciao, Anne», salutò ancor prima di portarsi la cornetta all'orecchio. Anne non si sorprese che la riconoscesse senza neppure sentire la sua voce. Se l'aspettava. «Bentornato», disse. «Hai fatto buon viaggio?» «Perfetto.» «Tutto bene?» «Sì. Ti racconterò.» Mark parlava disinvolto, come se volesse farle capire che ci teneva a mostrarle che cosa stava facendo. «Che ne dici di vederci subito?» Anne si sentì al settimo cielo. Non si era aspettata l'invito. «Volentieri», rispose. «Dobbiamo dirci un sacco di cose.» Riappesero contemporaneamente. Anne non sapeva che questa era la sua prima conversazione telefonica registrata dalla polizia di New Rochelle. Angelo Garibaldi avrebbe trovato sulla sua scrivania la trascrizione e avrebbe tratto le sue conclusioni. Qualche minuto più tardi Anne attraversò la strada con un vassoio di dolci per Mark e suonò il campanello. Lui la fece entrare subito. «Ehi, ma è fantastico!» esclamò guardando il vassoio. «Però non dovevi disturbarti.» «Nessun disturbo», lo rassicurò lei. «Grazie. Grazie infinite!» disse Mark con calore e lei si sentì prendere dalla commozione. Mark la guidò in soggiorno. Si era già levato la giacca e aveva allentato il nodo della cravatta. Appariva distrutto dalla stanchezza. «Qualche volta penso che Washington sia più terribile di New York», dichiarò, lasciandosi cadere in poltrona. «Come mai?» s'informò Anne mentre serviva il cacao e i dolci. «A Washington non è il denaro che conta, è il potere. Alcune persone
con cui trattiamo hanno parecchia influenza nel governo. Loro pensano che tutto gli è permesso. Devo sempre avvertirli di non infrangere la legge.» «E loro lo fanno?» «Se infrangono la legge, vuoi dire?» «Sì.» «Non i miei clienti. Altrimenti li mollo. Io e il mio socio abbiamo una reputazione immacolata e intendiamo mantenerla.» «È l'unico modo», decretò lei, ricordando gli scandali di Wall Street. «Ma scommetto che tu sai dove sono sepolti certi cadaveri.» Chaney impallidì, poi riacquistò il controllo. «Come dici?» «Voglio dire che devi sapere tutto sugli affari sporchi nel mondo dell'alta finanza.» «Certo, certo. Ho visto cose che non vorrei neppure sfiorare, e ho conosciuto persone che sono finite in galera. Stupidi!» Anne notò le chiavi della Jaguar sul tavolo. «Lo adoperi già il tappeto per il baule?» volle sapere. «Sicuro, è semplicemente favoloso. Adesso non si sentono più colpi, niente rimbalza dentro. Potrei metterci delle tazzine di porcellana e non si romperebbero.» Con un gesto naturale lei prese le chiavi e fece per dirigersi verso la porta del retro. «Andiamo», lo invitò. «Voglio vedere che effetto fa.» Mark allungò il braccio e le afferrò gentilmente il polso. «Non stanotte. Sono terribilmente stanco. Un'altra volta, ti dispiace?» Anne esitò. Sapeva che doveva ancora scaricare il portabagagli e voleva aiutarlo. «Vado da sola», decise. «No!» gridò Mark. «Quante storie, caro! Non ho bisogno di una scorta!» «Ho detto di no.» «Ma che cosa ti prende?» «Non sai qual è la chiave del baule. E poi la serratura è difettosa... se non si sta attenti si blocca. Ho dentro della merce di valore...» «Okay», si arrese Anne esitante. «Sarà per un'altra volta.» E rimise giù le chiavi. «Grazie», borbottò Mark, ma mentre guardava le chiavi sul tavolo provò l'impulso di ucciderla. Ammazzarla subito, lì in soggiorno. E dopo scaraventarla giù nello scantinato insieme con gli altri ospiti. La odiava per tutto ciò che stava facendo, per le interferenze continue nel suo progetto. E soprattutto la detestava perché gli metteva addosso un'ansia tremenda. Soffo-
cò l'impulso di alzarsi, di prendere la pistola. Un colpo solo. Che provasse a toccare di nuovo quelle chiavi, o qualche altro oggetto che non le apparteneva... Rimase a guardarla mentre lei versava dell'altro cacao. E dovette fare uno sforzo per trattenersi. La mattina dopo Chaney aspettò che Anne fosse uscita per andare al lavoro prima di scortare miss Burnette fuori dalla Jaguar, Per fortuna l'aria fresca della notte aveva impedito che il corpo si deteriorasse. Sistemò il cadavere della psicologa nel frigorifero e si assicurò che stesse comoda prima di chiudere a chiave la porta dello scantinato e di prepararsi a un'altra giornata di lavoro alla M.E. Inc. Ma non sarebbe stata una giornata qualsiasi. Mark Chaney prese la sua decisione: doveva svolgere ulteriori indagini sul conto di Anne, scavare ogni dettaglio possibile su di lei, assicurarsi che niente fosse trascurato. Chiamò Lisa, l'investigatore privato che già aveva effettuato le prime indagini sulla giovane donna. Erano solo le otto e mezzo e Chaney sapeva di trovarla ancora a letto. Compose il numero. Lei sollevò la cornetta al settimo squillo. «Qui Lisa», brontolò la voce familiare che sembrava quella di una diciottenne. «Lisa, sono Mark Chaney.» «Ciao, Mark. Mi svegli sempre. Dovrò pensarci se mi conviene tenerti come cliente.» Mark era abituato a quel discorsetto iniziale. «Sta' a sentire, Lisa», continuò. «Ti ricordi il caso che ti ho affidato ultimamente... Una certa Anne Seibert?» «Sì. Non è stato molto eccitante.» «Questo lascialo giudicare a me. Voglio altre informazioni sul conto di quella ragazza; in poche parole devi occupartene a tempo pieno. Ce la fai?» «Ho degli altri casi», rispose Lisa rannicchiandosi sotto le lenzuola rosa, «ma se le tue condizioni sono buone, le indagini matrimoniali possono aspettare.» «Le mie condizioni sono buone.» «Allora avrai la mia completa attenzione.» «A cominciare dalla mattina presto?»
«Quanto presto?» volle sapere Lisa. «Otto e mezzo.» «Ma a quell'ora è notte! Dovrò farti pagare una tariffa speciale.» «Ti pagherò gli straordinari», promise Chaney. «Così va bene. E adesso dimmi: com'è questa signora che ti affascina tanto?» «Ehmm... Da un punto di vista professionale...» «Mark, Mark!» sospirò Lisa. «Da quanto tempo ci conosciamo? Da quanto lavoriamo insieme? Sai benissimo che non devi mentire con me. Credi che non abbia capito che si tratta di una faccenda personale?» Mark emise una risatina cercando di apparire rilassato e calmo. «E va bene, hai vinto», ammise. «Sì, è una questione personale, anche se non so come tu abbia fatto a capirlo.» «Quando un uomo mi assume per un incarico a tempo pieno si tratta sempre di una faccenda personale... a meno che non ci sia di mezzo un delitto. Ma in questo caso me lo avresti detto subito.» «Sì, è così», concesse Mark. «Sai, Lisa, te li meriti gli onorari che chiedi.» «Lo so. E adesso raccontami perché questa signora è così affascinante.» «Ecco, io vivo una vita normale, e mi spaventano le donne che... si avvicinano troppo. Sai, quando uno ha del denaro...» «Non dire altro. Stai pensando a una cacciatrice di quattrini.» «In parte.» «E vuoi che io scopra tutto ciò che fa, come spende il suo denaro e se... sta alle costole di qualche altro scapolo ricco.» «Precisamente. Se mi vedi con lei non avvicinarti, mi raccomando», ricordò Mark al detective. «Ti pare che andrei a spiare un mio cliente, il mio pane quotidiano?» «Se è per questo credo che arriveresti a spiare tua madre, Lisa.» «Con te è diverso, Mark. Ti prometto che sarò molto discreta e che ti fornirò un ritratto di questa ragazza così perfetto che una foto 3-D sembrerà un'istantanea al confronto.» Mentre metteva giù la cornetta Mark sapeva che Lisa avrebbe lavorato esattamente come aveva promesso. In un modo o nell'altro Anne doveva pur commettere una svista, fare un passo falso che l'avrebbe tradita. E anche se lui aveva deciso di eliminarla doveva sapere che cosa aveva scoperto e chi altri poteva essere coinvolto.
Anne era esausta quando arrivò in ufficio. Con uno sbadiglio si disse che non doveva compromettere il suo lavoro per un'avventura sentimentale, ma lei sapeva che avrebbe rifatto le stesse cose, perché Mark Chaney era diventato il centro dell'universo e aveva la precedenza su tutto. Lei e Carol fecero colazione insieme come al solito, ma Anne si accorse subito che qualcosa non andava. L'amica, sempre così allegra e scherzosa, sembrava riservata, quasi timida. Anne ne dedusse che doveva aver litigato con qualche uomo, il motivo per cui solitamente Carol diventava infelice. Dopo un po', tuttavia, si accorse che Carol le faceva un sacco di domande sul conto di Mark, cosa mai successa prima. Era diventata improvvisamente gelosa? Cercava di portarglielo via? «Lui non ti parla mai dei suoi affari?» s'informò Carol imburrando una fetta di pane, senza alzare gli occhi. «Pochissimo», rispose Anne. «Si lamenta solo di alcuni clienti e scherza sulla puntualità. Ma non si porta mai a casa i suoi problemi.» «Si confida con te?» insisté Carol. «In che modo?» «Non parla mai di sé, non ti dice che desidera che tu sappia tutto di lui?» «Be'... no. Non l'ha mai detto. Del resto non è molto che ci conosciamo.» «Non hai notato niente di anormale in lui?» incalzò Carol. La domanda mise Anne a disagio. Dov'era finita l'allegra e spregiudicata Carol, la stessa con cui aveva parlato la sera prima? Quella che si rallegrava per questa nuova relazione dell'amica dopo la batosta del divorzio. «Che cosa intendi per anormale?» replicò posando la tazzina del caffè. Ormai Anne non aveva più fame. «Non so», rispose Carol. «È uno che va subito al sodo?» «Perché mi chiedi queste cose, Carol?» «Mah, non lo so. Solo per fare conversazione. Gli uomini m'interessano e una povera ragazza non sa mai quando può fidarsi di loro. Tutto qui.» «Hai qualche problema con un uomo?» «No, e spero che non ne abbia neppure tu», fu la secca replica di Carol. Anne rimase turbata dall'osservazione. «Perché dovrei?» «Senti, devo scappare», tagliò corto Carol. «Ho un sacco di lavoro che mi aspetta.» Si alzò di scatto e uscì dall'ufficio di Anne senza aggiungere una parola. Anne rimase a guardarla mentre si allontanava, ma l'altra non si voltò indietro come faceva di solito. Lei si sforzò di non prendersela, ma era preoccupata. Non erano soltanto
le parole di Carol, ma il suo tono di voce... non ostile, ma indagatore. Era come se avesse saputo qualcosa che cambiava la sua opinione su Mark Chaney. Era così preoccupata che non riuscì a lavorare. Dalla sua scrivania poteva vedere Carol nel proprio ufficio; a un certo punto notò che l'amica componeva freneticamente un numero di telefono, parlava per qualche minuto, e poi componeva un altro numero. Carol guardava nella sua direzione. Sentendosi osservata Anne andò a chiudere la porta. Stava succedendo qualcosa e lei aveva paura. Passò un'ora a chiedersi se dovesse affrontare Carol e si era quasi decisa quando l'amica entrò di nuovo nel suo ufficio. In mano aveva un foglio zeppo di appunti. «Hai un minuto?» chiese Carol chiudendosi l'uscio alle spalle. «Certo», rispose Anne. Osservò attentamente l'amica: era chiaro che Carol evitava di guardarla in faccia. «Volevo parlarti di una certa cosa», attaccò Carol sedendosi. «Senti, sorella, non mi va di interferire...» «Okay», la interruppe Anne. «So che è successo qualcosa. Parla pure, sono abituata alle cattive notizie.» «D'accordo», riprese Carol. «Se mi odierai per avertelo detto capirò, ma se non te lo dicessi odierei me stessa. Si tratta di quel tipo che frequenti, Mark Chaney. Il suo nome mi ha colpito. Voglio dire, l'avevo già sentito.» «Chaney è un cognome piuttosto comune, te l'ho detto.» «Cara, voglio dire che l'ho sentito in una particolare occasione», precisò Carol. Anne sentì crescere la tensione, il presentimento che si trattasse di una cosa più grave del previsto. «Che cosa hai saputo?» domandò decisa. «Un tempo lavoravo nei tribunali, tenevo le relazioni pubbliche per qualche giudice che voleva diventare governatore. Mi pare di avertelo detto.» «Sì, me l'hai detto.» «Lavorando in tribunale ti passano sotto gli occhi centinaia di casi. Mi sono ricordata del nome collegandolo a uno di questi. Perciò ho fatto un paio di telefonate. Questo Chaney ha una ditta, la M.E. Inc.?» «Esatto.» «Peccato.» «Perché peccato?» «Be', se è lo stesso individuo, e pare che sia proprio lui, tre anni fa lo hanno condannato per truffa.»
«Oh, no!» «Si è fatto sei mesi di galera. Ha un socio, certo Emil Welder. Che ha trascorso quella 'vacanza' con lui. Poi il tuo amico Chaney è stato accusato di evasione fiscale. Altri quattro mesi di galera. D'accordo, è successo in passato, ma ho sentito il dovere di dirtelo.» «Sei sicura? Qualche volta la gente sbaglia con i nomi.» «Stesso cognome, stessa ditta. Scommettiamo?» Anne sospirò, sul suo viso si disegnò un'espressione di dolore e di rassegnazione insieme. «Okay, evidentemente è il mio destino. Non ne avevo idea, non me l'immaginavo proprio. Ma sono contenta che tu me l'abbia detto. Non mi piace ciò che mi hai rivelato, ma sono contenta che tu l'abbia fatto.» «Mi dispiace, Anne. Sono desolata per aver infranto il tuo sogno.» «Non devi dispiacerti. Almeno Mark non è violento. Voglio dire che forse vuole soltanto gli ottocento dollari che ho in banca. Nessuno lo accusa di essere lo strangolatore di Boston, no?» «No. Ha commesso solo reati pecuniari. Niente altro. Ma non so se è capace di ferire una donna... dentro. Sei sempre decisa a frequentarlo, Anne?» Lei si alzò lentamente e prese a camminare su e giù nei confini ristretti del piccolo ufficio. Non rispose subito alla domanda di Carol e l'amica non insisté. Ma Anne conosceva il proprio istinto. «Voglio continuare a vederlo», dichiarò alla fine. «Certo, avrei fatto volentieri a meno di queste cattive notizie e non mi sento orgogliosa dei pasticci che ha combinato, ma...» «Non cerco di minimizzare», la interruppe Carol. «Non trascuriamo il fatto che gli hanno permesso di riprendere la sua attività commerciale, e questo è piuttosto insolito. Chaney aveva parecchi testimoni a suo favore. Con tanta gente che viene ammazzata ogni giorno evidentemente i giudici hanno tenuto conto della scarsa gravità dell'accusa. Ha pagato e ha imparato a sue spese.» «Sono sicura che ha imparato», confermò Anne decisa. «Se gli hanno permesso di riprendere i suoi affari vuol dire che si sono fidati di lui. Certo, ha commesso un errore, capita a chiunque. Forse è colpa del suo socio. Chissà che cosa è successo realmente!» Anne non riusciva a nascondere il turbamento che le aveva procurato la notizia, ma era decisa a continuare la sua relazione con Mark. La gente cambia. Forse la prigione era stata un'esperienza positiva per lui. Lei non si era accorta di nulla che facesse pensare a un'attività criminosa, perciò era
roba passata. «Hai una fiducia incrollabile, sorella», commentò Carol. «In Mark... sì», replicò Anne. «Gliene parlerai di questa storia?» volle sapere l'amica. Anne si voltò. Nei suoi occhi si leggeva una determinazione ferrea. «No», disse. Ma nonostante la determinazione i dubbi cominciarono a strisciare nella mente di Anne. Non riuscì a concentrarsi sul lavoro, non ebbe il coraggio di guardare Carol negli occhi. Aveva l'impressione che gli altri impiegati della Stellar Motors la osservassero. Era già successo in passato che la gente la guardasse con diffidenza. Fra i milioni di uomini in America lei aveva pescato un tipo con una fedina penale che non si poteva leggere in pubblico. Okay, che effetto poteva fare essere la signora Chaney? Anne era stata sposata all'uomo più bello che avesse mai conosciuto, ma che aveva un elenco di reati lungo un chilometro, un uomo che la gente perbene segnava a dito. Stavolta non era così brutta, concluse. Erano reati da colletti bianchi. Probabilmente reati di carattere tecnico. Magari lui non sapeva neppure che quanto aveva fatto era illegale. Mentre si avvicinava il momento di tornare a New Rochelle Anne continuava a guardare il telefono. Bastava una telefonata. Aveva detto a Carol che non avrebbe affrontato Mark, ma forse era proprio il modo migliore per chiarire la faccenda. Bastava domandarglielo, dirgli la verità, e cioè che un'amica conosceva il suo nome. Sollevò la cornetta e compose il numero. La segretaria di Mark le passò immediatamente la comunicazione. «Anne?» disse la voce calda e cordiale all'altro capo del filo. «Sì.» «Mi chiami per salutarmi?» «Ehmm... È così.» «Magnifico! Mi rischiari la giornata, Anne. Come sempre, del resto.» «Spero che non sia stata una giornata troppo faticosa», mormorò Anne cercando di guadagnar tempo prima di venire al punto. «Normale», stava dicendo Mark. «Né meglio né peggio delle altre.» «Anche per me. Senti, Mark, io...» «Sì?» «Vorrei chiederti qualcosa.»
Mark colse il nervosismo nella sua voce e la cosa lo stupì. Era lei che lo sorvegliava, che motivo aveva di essere nervosa? «Di' pure», la invitò. «Oggi parlavo con un'amica che conosco da parecchi anni. Ecco, lei aveva certe informazioni.» «Che genere d'informazioni?» «Scottanti.» «Oh?» Anne quasi tratteneva il fiato. Si detestava per ciò che stava per dire. Come avrebbe reagito Mark? Come si sarebbe giustificato? «Anne, ci sei?» «Si trattava di...» «Anne? Di che cosa si trattava?» «Di certe azioni. Volevo solo il tuo consiglio.» 16 Il capitano Angelo Garibaldi lesse le trascrizioni delle intercettazioni rilevate ogni giorno sul telefono di Anne. Secondo lui non avevano senso. «Sono dei tipi strani, quei due», spiegò al tenente Christine O'Neill, misurando a grandi passi il suo modesto ufficio. «O forse uno dei due è un tipo strambo. Non lo so, ma non ho mai visto intercettazioni come queste. Prendiamo la telefonata alle quattro del mattino, quando lei dice che vuole andare da lui. Tutto fa supporre che siano compiici.» «Ma poi ci sono le ultime chiamate. Lei fa un sacco di telefonate a Washington, all'Ufficio Titoli e Borsa. Vuole sapere di truffe e di frodi ai danni dello Stato. E dopo chiama i tribunali di New York per conoscere tutti i particolari su questo Chaney. Ma come, non lo conosce? Sta forse cercando di incastrarlo?» «Vuole sapere che cosa ne penso?» azzardò la O'Neill. «Che cosa?» replicò Garibaldi piuttosto scettico sul parere di un poliziotto in gonnella che era vent'anni più giovane di lui. «Io penso che lavora con lui, ma che non si fida. Forse ha il sospetto che Chaney tenti di imbrogliarla. È normale, no? Gente come questa non si fida mai l'uno dell'altro.» «Sì, sì, ho pensato anch'io la stessa cosa. Non esiste onore fra i ladri. Un tempo c'erano anche dei ladri di tutto rispetto, ma ora non più. Un truffatore resta un truffatore.» «Specialmente nell'ambiente della finanza», aggiunse il tenente O'Neill.
«Ma c'è dell'altro, cara Christy», riprese il capitano Garibaldi. «Prenda questa conversazione che la ragazza ha avuto al telefono con un'amica un paio d'ore fa. Dice che le dispiace per questo Chaney, ma che ha scoperto brutte cose sul suo conto. E chiede un consiglio. Da come la penso io la ragazza deve aver sempre saputo che Chaney aveva un passato oscuro, altrimenti non si sarebbe messa a lavorare con lui. Allora perché tutte queste telefonate? E perché lei dovrebbe preoccuparsi tanto di qualcosa che lui ha fatto in passato? È dispiaciuta per lui, dice. Ma come, parla così di un socio in affari?» «Non so», fu il commento di Christine O'Neill. «Si direbbe che la donna spinga eccessivamente questa faccenda.» «Brava», approvò Garibaldi. «A mio avviso potrebbe recitare a beneficio degli amici. Oppure è stata un'idea di Chaney. La ragazza lavora con lui, ma poi finge con le amiche che si tratti di un'avventura romantica. Però si preoccupa del passato dell'individuo. Una buona copertura, un trucco. Secondo me lei è al corrente dei suoi affari; i federali mi hanno detto che lui continua a truffare il prossimo. Ecco perché lo sorvegliamo. Naturalmente la mia è soltanto una sensazione, una specie di presentimento.» «I suoi presentimenti si avverano quasi sempre», concluse la O'Neill. Eppure capivano tutti e due di essere a un punto morto. Le intercettazioni non servivano a niente, anzi, confondevano le idee. Inoltre non potevano sapere che cosa facesse Chaney oltre il confine di New Rochelle perché là finiva la loro giurisdizione. «Ho informato i federali di queste intercettazioni», riprese Garibaldi. «Ho detto loro che sarebbe bene mettere un paio di uomini alle costole di questo Chaney anche quando va fuori della nostra città. E sa che cosa mi hanno risposto?» «Che cosa?» «Hanno detto che non era il caso, che avevano pesci più grossi a Wall Street. La solita storia. Lui non ha ucciso nessuno.» «Be', non posso biasimarli», disse la O'Neill. «Io, invece, li biasimo sempre i federali.» Nei giorni che seguirono la rivelazione di Carol a proposito di Mark, aumentò il tormento di Anne. Lei continuò a fare controlli presso tribunali e agenzie del governo raccogliendo tutte le informazioni possibili sulle condanne di Mark, ma non scoprì nulla oltre ciò che le aveva detto Carol. Lui era andato in prigione per reati da colletti bianchi.
Continuò a vedere Mark sentendosi sentimentalmente sempre più vicina a lui. Anche se capiva che quel lato negativo del suo passato poteva rivelare qualcosa del suo carattere. Anne si accorgeva di scivolare di nuovo nella depressione. Il dottor Bradshaw non poteva aiutarla. Fu solo in grado di definire il problema dopo che Anne gli riferì la devastante conversazione con Carol. Naturalmente era riapparsa la depressione, aveva dichiarato Bradshaw. «Ce l'aveva prima, ce l'ha di nuovo.» Questo il commento del dottore. Nemmeno Carol poteva aiutarla, anzi, non ci provò neppure. Era una questione che Anne doveva sbrogliare da sola. Nessuno di loro sospettava vagamente ciò che in realtà stavano facendo Mark ed Emil. Mark appariva sereno, gentile come non mai. Tre sere dopo il colloquio con Carol, Anne si coricò alle otto, sapendo che un po' di riposo le avrebbe fatto bene. Si alzò un'ora dopo. Era tornata l'insonnia, la maledizione da cui erano nati i sospetti di Mark Chaney fin dal primo momento che l'aveva vista in piedi di notte. Nell'agonia di quelle ore in cui non poteva chiudere occhio lei aveva tirato fuori la pistola, l'arma che doveva proteggerla dal suo ex marito. Poteva metter fine a ogni cosa, in modo rapido e indolore. Fine della depressione, dell'insonnia, dei dubbi. Ma c'erano tante cose per cui valeva la pena di vivere. E lei continuava a volere Mark. Lo conosceva, ormai, sapeva che era un uomo eccezionale. Il passato è passato, seguitava a ripetersi. Cercò di convincersi che il sentimento era più forte dell'ansia. Ottenne un limitato successo. Nei rapporti di sorveglianza che Lisa forniva regolarmente a Mark Chaney non comparve mai alcuna allusione al tormento che distruggeva Anne. Il detective in gonnella non metteva niente per iscritto, né si recava personalmente nell'ufficio di Mark. Gli telefonava ogni giorno a mezzogiorno. Mark aspettava la telefonata seduto alla sua scrivania, ansioso di ricevere le informazioni che avrebbero completato il mosaico e rivelato con precisione chi era e a che cosa mirava Anne Seibert. «Qui Lisa», si annunciò un giorno il detective. «Sì. Che cosa hai scoperto?» «Be', ti avevo promesso un giardino di rose, ma finora sono solo spine», rispose Lisa. «La tua signora è una noia, Mark. Noiosa o terribilmente fedele al mio cliente preferito. Va a lavorare, torna a casa dal lavoro. Niente
altro. Non ti tradisce, se è questo che ti preoccupa. E non credo che le importi molto del denaro.» «Come lo sai?» «Non l'ho mai vista davanti alla vetrina di una gioielleria o di boutique di lusso. Di solito le donne che vanno a caccia di soldi fanno un po' di pratica prima del colpo finale. Questa è miss Semplicità in persona. Mark, tesoro, è un incarico veramente noioso.» «Lei non si è mai incontrata con qualcuno...?» «Mai.» «Continua la sorveglianza», ordinò Chaney. «Ho il presentimento che salterà fuori qualcosa di grosso.» «Me lo auguro», ribatté Lisa. «Ci vuol altro per la mia autobiografia.» La conversazione si concluse. Mark provava la netta sensazione che Anne poteva diventare una ossessione. Forse era una di quelle donne che vogliono sapere tutto di un uomo, non importa con quale mezzo. Ma se era così lei poteva diventare pericolosa quanto un poliziotto. Perché una donna curiosa e ficcanaso qualche volta era più determinata, più cocciuta e infida. Anne e Mark tornarono alle Jersey Palisades una domenica fredda e nuvolosa. Lei pensava che il tempo così grigio e cupo rispecchiava il suo umore e le ombre che si addensavano su una relazione un tempo gaia e serena. Imprecò silenziosamente con se stessa per aver tenuto le rivelazioni di Carol stampate nella mente come francobolli. D'altra parte il suo carattere non le permetteva di prendere niente alla leggera. Le Palisades ricordavano ad Anne il primo appuntamento con Mark e le suggerivano la vita idilliaca che aveva sempre sognato. Per Mark, invece, la gita rappresentava un'occasione per esplorare di nuovo le scogliere che avrebbero reso così facile l'eliminazione della giovane donna, la soluzione di un problema tanto fastidioso. Passeggiarono a braccetto lungo i sentieri attraverso i boschi. Nessuno che li avesse osservati avrebbe immaginato com'erano diversi i pensieri che si affollavano nella mente di ciascuno. Sembravano una coppia comune, come ce ne sono tante e Mark Chaney era deciso a continuare su quella via. Passarono vicino alla scogliera che lui aveva scelto. Così isolata, così perfetta. Eppure Mark decise di concedere ancora un po' di tempo ad Anne, almeno finché Lisa non avesse completato il periodo di sorveglianza, fornendogli una risposta concreta ai numerosi interrogativi che lo tormen-
tavano. Anche Anne guardò la scogliera. In un momento di sconforto aveva già impugnato la pistola chiedendosi perché doveva rimanere su questa terra. Se le cose andavano male, se la sua relazione con Mark finiva, se altre rivelazioni sul suo conto l'avessero distrutta... allora con un salto dalla scogliera avrebbe posto fine alle sue angosce. Era un pensiero assurdo, lo sapeva, così lontano dal suo modo di ragionare e così improbabile per una donna come lei capace di affrontare e risolvere i suoi problemi. Il dottor Bradshaw le aveva detto che certe idee erano perfettamente normali, che molte persone pensavano di farla finita. Mentre si avvicinavano alla scogliera Anne continuò a fissarla quasi fosse un'ancora di salvezza. Poi in un lampo si rese conto che non poteva più tacere. Forse fu la vista della scogliera e i pensieri spaventosi che le suscitava. Oppure l'improvvisa consapevolezza che solo affrontando Mark la nuvola nera poteva dissolversi. Oppure più semplicemente per colpa dell'insonnia. «Mark», disse fermandosi all'improvviso e liberando il braccio. «Devo chiederti una cosa.» «Che cosa c'è?» volle sapere lui. «Sembri sconvolta. È successo qualcosa?» «No, desidero soltanto farti una domanda... riguardo certe cose che hai fatto.» «Cose che ho fatto?» ripeté Mark guardando verso la scogliera. Sentiva che stava per giungere il momento. Sicuro, lei era una spia e doveva sapere qualcosa. «Be', parla», la invitò. «Vorrei... vorrei sapere di certe tue attività.» Era così difficile. «Ancora?» Chaney si guardò attorno. Poteva farlo subito? Qualcuno lo avrebbe visto? «Mark, tu mi piaci, l'avrai capito. Mi piaci moltissimo.» «E tu sai che cosa provo per te, Anne», replicò lui. «Mi hai portato una felicità immensa. Credo proprio che noi due formiamo una coppia perfetta. Ma che cosa...» «Ci sto arrivando. Senti, ho parlato con una mia amica. Lei mi ha detto che aveva già sentito il tuo nome quando lavorava con un giudice. Ha controllato e mi ha spiegato ogni cosa. Mark... sei stato in prigione?» Lui provò un immenso sollievo. Tutto qui quello che sapeva? Allora le sue preoccupazioni, i suoi timori si basavano soltanto su quelle ridicole accuse federali? Per un momento distolse lo sguardo fingendosi compunto e imbarazzato.
«Sì», confessò alla fine. «Devo ammetterlo: sono stato in prigione. Te l'avrei detto, un giorno o l'altro. Anzi, volevo invitarti nel mio ufficio per raccontarti tutto, nomi e date. Okay, ho commesso un errore. Qualcosa che si riferiva ai miei affari. Ho sbagliato, ma non si ripeterà.» «Tutto finito?» chiese Anne. «Sì. E sono contento che tu lo sappia. Vedi... mi sono lasciato influenzare dal mio socio. Dovrei essere arrabbiato con lui, ma non lo sono. Siamo amici dai tempi del liceo e io non mollo gli amici.» Chaney tornò ad avvicinarsi alla giovane donna e le strinse le braccia. Lei non si ritrasse. «Mi sento meglio, sai», disse lui. «Avrei dovuto parlartene prima. È la macchia nera della mia vita e ci penso sempre. Cara, se hai deciso di non vedermi più...» «No! Io voglio continuare a vederti, voglio stare con te. Sono terribilmente mortificata. Non dovevo parlartene, dovevo tenermi dentro questa cosa!» Erano vicinissimi ora. «Capisco», disse lui. «Ma forse non sai che il mio nome è apparso sui giornali.» «Lo so, lo so», rispose pronta Anne. «Ma tu non hai ucciso nessuno!» «No, naturalmente.» Anne concluse che si era comportato da vero uomo, senza isterismi né scatti di collera. Mark era una persona che aveva compreso il suo sbaglio e aveva tratto un insegnamento positivo dalla sua brutta esperienza. «Anche se avessi ucciso qualcuno, probabilmente ti perdonerei», mormorò Anne affondando la testa sul petto di Chaney. Lui sorrise e ancora una volta guardò giù dalla scogliera calcolando mentalmente la distanza. «Ti prometto che non avrai mai occasione di perdonarmi», la rassicurò. La crisi era passata così rapidamente e Anne capì di essere stata una sciocca a non discutere prima della faccenda con Mark. Il resto della giornata trascorse fra risate, scherzi, passeggiate sui sentieri delle Palisades e si concluse con una cenetta in un ristorante italiano di Manhattan. Il dottor Bradshaw le aveva sempre consigliato di parlare dei suoi timori con le persone che le erano più vicine. Il consiglio aveva funzionato. La sua relazione con Mark, che lei aveva sempre sperato di continuare, ne era uscita rafforzata. Il giorno dopo Anne aveva un appuntamento con il dottor Bradshaw. Era
indecisa se annullare la seduta, perché era sicura che il colloquio chiarificatore con Mark avrebbe posto fine alla sua ansia e all'insonnia, ma aveva profonda stima del dottor Bradshaw e le piaceva parlare con lui. L'infermiera l'introdusse nello studio del giovane medico che era seduto alla scrivania letteralmente coperta di carte. «Venga, venga», l'invitò lui con la sua voce sommessa che era poco più di un bisbiglio. Indossava ancora il camice bianco perché era appena rientrato dal laboratorio dove aveva esaminato alcuni prodotti per l'insonnia nei bambini. «Un minuto e sono da lei.» «Faccia pure», disse Anne e sedette sulla poltrona. Aspettò che Bradshaw finisse di prendere alcuni appunti prima di concederle la sua attenzione. «Durante la sua ultima visita» attaccò il dottore dopo aver finito di ammucchiare le sue carte, «mi ha detto che quest'uomo che ha conosciuto ha avuto dei problemi.» «Ha avuto qualche guaio a causa dei suoi affari», precisò Anne. «Ah. E siccome lei era preoccupata, l'insonnia si è fatta risentire.» «È così.» «Allora siamo alle solite.» «Ma ora sto di nuovo bene», lo rassicurò Anne con un sorriso. «Abbiamo parlato a lungo e lui mi ha spiegato che cosa è successo. Risultato: stanotte ho dormito.» «Magnifico. Ma vorrei che lei continuasse a tenere il suo diario.» «Lo farò. Guardi, l'ho portato con me.» «Lei ha l'impressione di essere vicina a una completa guarigione?» insisté il dottor Bradshaw. «Credo proprio di sì.» «Una volta mi ha detto che spesso vedeva quest'uomo a notte inoltrata, durante i suoi momenti d'insonnia», riprese il medico, e la sua voce si percepiva appena. «Sì, e qualche volta metto la sveglia quando so che rientra molto tardi... per stare un po' insieme.» «Mette la sveglia?» «Sì. Sbaglio?» chiese Anne. «Be', per una donna che ha difficoltà a dormire, non mi pare la cosa più salutare.» «Ma è romantico», ribatté Anne. «Forse sì», sussurrò Bradshaw con un leggero sorriso. «Fra l'altro, lui è
uno che lavora di notte?» «Oh, no. Viaggia spesso per affari e rientra tardi.» «Per esempio?» «Alle quattro del mattino.» «Spesso?» «Sì.» Bradshaw si strinse nelle spalle e parve scuotere la testa, come se gli venisse alla mente un pensiero che non aveva preso in considerazione prima. «Che cosa c'è?» volle sapere Anne. «Non lo so con precisione. Forse niente.» Il medico si sporse sulla scrivania e allacciò le mani. Anne non lo aveva mai visto così serio. «Anne», chiese ancora, «lo conosce bene questo individuo?» «Certo, lo conosco benissimo. O meglio, abbastanza bene. Voglio dire che ci frequentiamo da settimane, non da mesi. Ma sento di conoscerlo.» «Capisco.» «Perché?» Anne si accorse che l'apprensione aumentava. Capiva che Bradshaw le nascondeva qualcosa. «Le parla mai di questi viaggi d'affari?» incalzò il medico. «Qualche volta.» «In dettaglio?» «No, in generale. Ma non parliamo molto di affari. Dottore, lei ha in mente qualcosa.» Bradshaw si alzò, girò intorno alla scrivania e sedette sul bordo davanti. «Anne», riprese, «lei desiderava una nuova relazione sentimentale, non è così?» «Sì.» «E sa, come tutte le persone adulte sanno, che qualche volta, quando intervengono l'emozione e la stanchezza dovuta all'insonnia, certe cose sfuggono o appaiono deformate.» «Certo. Una reazione emotiva. L'ho vista milioni di volte. Ma in questo caso non succederà perché...» «C'è una tendenza ad accettare tutto ciò che dice la gente, a ignorare le cattive notizie.» «Non è il mio caso. Io sono abituata alle cattive notizie, ci sguazzo. L'ha visto, no?» «I viaggi che quest'uomo intraprende così spesso non mi sembrano normali. Uno o due va bene; ma le persone comuni non guidano un'auto per intere nottate, a meno che non esista un motivo irresistibile.»
Anne si appoggiò all'indietro e guardò il medico negli occhi. Sul viso di lei apparve un'espressione ansiosa e interrogativa insieme mentre si rendeva conto che la seduta non si svolgeva nel solito modo e che Bradshaw parlava con voce insolitamente alta. «Che cosa cerca di farmi capire?» chiese. «È sicura che lui non esca con altre donne?» La domanda fu come una lama che si conficcò nel cuore di Anne. Qualcuno aveva già alluso a una'altra donna, ma lei non aveva preso la cosa seriamente. «Non riesco a immaginarlo», replicò decisa. «Non parlo d'immaginazione. Mi dispiace immensamente ferire i suoi sentimenti, ma il mio istinto di maschio mi suggerisce che c'è sotto qualcosa.» «Lei non può saperlo!» ribatté Anne improvvisamente diffidente e incollerita. «Lui mi ha detto che gli piace guidare, che preferisce percorrere le lunghe distanze in macchina. Per me ha senso.» «Be', per me no. Lui è il proprietario della sua ditta?» «Sì, con un socio.» «Perciò può andare in ufficio quando gli pare.» «Suppongo di sì.» «Bene. Allora perché non passa la notte dove si trova e rientra la mattina dopo? Sarebbe più logico. È quanto farebbe una persona normale.» «Oh, che cosa è normale?» replicò Anne. «Tutti abbiamo le nostre piccole manie. La mia è il filo sulla porta.» «Mi scusi?» «Niente.» «Inoltre c'è il suo passato che parla. Lui ha già sbagliato una volta. Deve stare molto attenta.» La raccomandazione andò a segno. Bradshaw aveva risvegliato i sospetti che la giovane donna credeva di essersi lasciata alle spalle sulla scogliera delle Palisades. Sì, certo, Mark aveva avuto dei problemi in passato. E se non avesse perso il vizio? Lui era stato molto franco quando aveva ammesso di essere finito in prigione; ma non poteva essere altrettanto sincero se davvero frequentava un'altra... o altre donne. «Mi pare di esser stata abbastanza prudente», riprese Anne. «L'ho affrontato, gli ho chiesto del suo passato. Non basta?» «No, non basta. Gli chieda di accompagnarlo in uno dei suoi viaggi.» «Non siamo così intimi.» «Ci provi ugualmente. Ma il consiglio che le do è quello di parlar chiaro
una volta per tutte. Io non credo che quest'uomo faccia tanti viaggi d'affari.» Lei rimase silenziosa. Dopo qualche minuto si congedò. Il dottor Bradshaw le raccomandò di nuovo di comportarsi assennatamente con Mark e Anne uscì dallo studio. Nel suo intimo era furibonda con il medico per esser stato così brusco e per aver rimesso in discussione i dubbi che lei aveva cercato di soffocare. Eppure, in un certo senso gli era grata. Cera davvero qualcosa di strano nei viaggi notturni di Mark. Lui godeva di un certo benessere, aveva una macchina di lusso. Perché ci teneva tanto a viaggiare di notte mentre poteva occuparsi dei suoi affari durante il giorno? Anne si sentiva di nuovo terribilmente depressa. Prima di entrare nello studio di Bradshaw aveva l'impressione di vivere in cima a una collina e adesso, mentre tornava a New Rochelle con la sua vecchia Oldsmobile, si sentiva sprofondare nuovamente nell'abisso. Ripensò ai commenti del dottore e rifletté sul suo suggerimento. Poteva chiedere a Mark di portarla con sé in uno dei suoi viaggi? Erano abbastanza intimi per rivolgergli una richiesta del genere? Perché no? Che cosa aveva da perdere, tutto sommato? «Volevo sapere se era mai capitato anche a te», stava dicendo Anne a Mark al telefono quello stesso giorno, più tardi. Lei era nel suo ufficio, lui in ditta. «Fammi capire», rispose Mark osservando una cartina di Amherst nel Massachusetts mentre parlava. «Ti sei fermata a un semaforo, hai sollevato il piede dall'acceleratore e hai frenato. Poi, quando hai premuto nuovamente l'acceleratore l'auto ha cominciato a sobbalzare finché il motore si è spento.» «Esatto.» «I fanalini di coda si accendono?» «Sì.» «Allora senti: porta l'auto dal meccanico e digli di regolare il minimo. Probabilmente funziona troppo lentamente. E fagli controllare la dinamo. Può darsi che sia una delle due cose. Ci penserà il meccanico.» «Okay.» «Fammi sapere se l'ha riparata.»
«Sta' tranquillo. Ah, intanto che ci siamo, hai intenzione di partire presto?» «Sì. Perché?» «Perché so già che mi mancherai. Quando parti?» «Devo andare ad Amherst nel Massachusetts martedì prossimo. Mi aspettano certi clienti a cui voglio sottoporre l'offerta di una società di biotecnica di Chicago. Pare che siano interessati.» «È un posto magnifico, Amherst», osservò Anne. «Sì, anche a me piace... con tutti quei college.» «Ti invidio.» «Non è il caso. È solo un viaggio d'affari, non avrò il tempo di ammirare il panorama.» «Be', dipende dalla compagnia», replicò Anne vagamente ironica. «Può darsi», convenne Mark tracciando alcune linee sulla mappa che indicavano il punto esatto in cui si trovava il suo prossimo bersaglio. «Avrei da farti una proposta», stava dicendo la donna. «Una discreta proposta, credo.» «Sentiamo.» «Portami con te.» Seguì uno strano silenzio. Mark sbatté la matita sulla scrivania. Che cosa le saltava in mente, adesso? Cercava di cacciare il naso nei suoi affari? Aveva scoperto il bizzarro complotto suo e di Emil e cercava di boicottare il prossimo omicidio? «Hai detto che vorresti venire con me?» chiese cercando di guadagnar tempo. «Perché no?» «Be', per cominciare io sarò occupatissimo.» «Mi arrangerò a trovare qualcosa da fare.» «In secondo luogo non mi sembra molto professionale.» «Posso sempre nascondermi da qualche parte, così i tuoi illustri clienti non sapranno nemmeno che ti ho accompagnato.» «E infine perderesti il lavoro», concluse Mark. «Mi restano otto giorni di ferie. Altre scuse?» Anne cercò di parlare in tono scherzoso, ma era mortalmente seria. «Ecco... no», tagliò corto Mark. «Mi piacerebbe averti con me, ne sarei felicissimo. Ma correrei il pericolo di distrarmi. Io... io lavoro a modo mio.» «Devo supplicarti?» «Neppure se ti metti in ginocchio.»
«Dunque è un no definitivo», osservò bruscamente Anne e un brivido improvviso le serpeggiò nella schiena. «Mi dispiace, ma non amo mescolare gli affari al piacere.» «Però non puoi impedire a una povera ragazza di tentare, no?» «Andremo da qualche altra parte», cercò di consolarla Mark con calore forzato. «Passeremo insieme un weekend. Scegli tu il luogo dove vuoi andare.» «Va bene», si arrese Anne. Ma non andava affatto bene. Lei sperava di accompagnarlo durante un viaggio notturno, di restare con lui nella compiacente oscurità. Mark Chaney l'aveva scaricata. Mentre posava la cornetta sulla forcella continuò a domandarsi quale poteva essere il motivo reale per cui Mark aveva rifiutato la sua proposta. Se davvero provava un interesse sincero per lei, quale occasione migliore di stare insieme per tutto il viaggio? A meno che lui non preferisse avere al suo fianco qualcun altro nella corsa fino ad Amherst. Quella sera Anne rientrò a casa sotto una pioggia torrenziale e la sua delusione si trasformò ben presto in una disperazione crescente. Forse si era illusa e Mark frequentava altre donne. Oppure... Mio Dio, non ci aveva mai pensato: forse lui era sposato! Che cosa faceva durante quei viaggi che duravano notti intere? Anne doveva scoprirlo. Aveva il nominativo di un investigatore privato... lo stesso che Mark aveva scoperto quando si era introdotto nella casa. Appena rientrata frugò nel cassetto finché trovò il foglietto con il nome scarabocchiato sopra. Si ricordò che aveva svolto le indagini durante la sua causa di divorzio. Ma si ricordò anche le tariffe. Lei non era ricca e sapeva che questi incarichi potevano costare anche migliaia di dollari. Doveva esserci un altro sistema. Ma, cosa più importante, doveva porre fine ai suoi dubbi. Per quando Mark Chaney fosse arrivato ad Amherst, lei doveva conoscere la verità. 17 «Patente di guida e carta di credito, signora.» «Ehmm... Subito», rispose Anne cercando nervosamente il portafoglio
nella grande borsa di pelle. «Faccia pure con comodo», aggiunse l'impiegato al banco. «Ecco, li ho qui.» «Perché è così nervosa? Sta semplicemente noleggiando un'auto.» Anne emise una risatina forzata. Intorno c'erano parecchi clienti della Fast Track Car Rental di New Rochelle e non voleva attirare l'attenzione. «Le scartoffie mi fanno impazzire», borbottò a mezza voce. Sicuro, pensò l'impiegato, le carte. Sempre cosi, le solite scuse. Ma lui sapeva che la giovane donna doveva essere un'altra moglie, senza fede al dito, che noleggiava una macchina per correre a mettere le corna al marito. Anche il comportamento era tipico; occhiali neri, carta di credito a suo nome così il marito non avrebbe mai visto la fattura. Capitava quattro o cinque volte al giorno. Provinciali stufe del marito avvocato o banchiere che si concedevano un'evasione. Espletate le pratiche in cinque minuti, Anne scivolò al volante di una Buick Century nuova di zecca. Raramente noleggiava un'auto, ma questa volta le occorreva una vettura che Mark non avrebbe riconosciuto. Mentre usciva dal parcheggio dell'agenzia, l'impiegato al banco fece un cenno d'intesa al meccanico e tutti e due scoppiarono a ridere. Era la solita storia. Alle dieci e mezzo del mattino Anne imboccò il parcheggio vicino all'ufficio di Mark e aspettò. Sapeva che lui sarebbe uscito di lì a poco. Era il giorno del viaggio ad Amherst; perlomeno, così aveva dichiarato. Ed era quasi l'ora in cui aveva annunciato che sarebbe partito. Altre auto andavano e venivano, ma Anne le notava appena. I suoi occhi erano appuntati sulla porta dell'edificio di Mark, a circa mezzo isolato. Un'auto, una Mercedes blu 190 con l'antenna del telfono venne a fermarsi nello spazio vicino. Al volante c'era una donna sulla cinquantina con un ampio cappello. La donna scrutò rapidamente Anne e poi girò la testa per non farsi vedere; guardò di nuovo e prese la cornetta dell'autotelefono per comporre il numero privato di Mark Chaney. «Parla Mark», disse la voce all'altro capo del filo. «Sono Lisa.» «Novità?» «Una graziosa signora di nome Anne è in una Buick Century a noleggio parcheggiata proprio davanti al portone del tuo ufficio, signor Mark.» «Ripeti.» «Hai capito benissimo. Lei ti aspetta. Sono sicura che ha preso una mac-
china a noleggio per non farsi notare. Caro Mark, non sapevo che ti piacessero donne così aggressive.» «Un secondo», disse Mark. «Di che colore è l'auto?» «Di un bel verde.» Mark andò alla finestra e guardò fuori, poi ritornò rapidamente al telefono. «L'ho vista. E adesso ti spiego che cosa devi fare. Seguila e tienimi informato di tutti i suoi movimenti. Devo sapere che cos'è questa storia.» «Tu ci raggiungi presto?» s'informò Lisa. «Sì. Anticipo la partenza, me ne vado fra tre minuti.» «Ti aspettiamo.» Chaney riappese e partì a razzo verso l'ufficio di Emil Welder, ma poi esitò. Il suo amico godeva di una salute precaria; perché turbarlo con la notizia prima che i fatti si svolgessero fino alla loro conclusione? Tornò nel proprio ufficio, prese la giacca e la cartella, annunciò alla sua segretaria che partiva e sgusciò fuori da un'uscita privata. Dopo un minuto riapparve alle porte girevoli dell'atrio. Attraversò lo spiazzo con la massima indifferenza immaginando che Anne lo stesse osservando. C'erano parecchie alternative per arrivare alla Jaguar, ma lui scelse la strada che lo avrebbe portato il più lontano da lei. Perché renderle facile la vita? E a un tratto lo colpì un pensiero terribile. Era pazza quella là? Era venuta per ammazzarlo perché non l'aveva invitata ad accompagnarlo nel viaggio? Sapeva che Anne teneva in casa una pistola, l'aveva vista. L'aveva con sé, ora? Ma quasi subito respinse l'idea. Lei non sembrava pazza, di solito i pazzi si tradiscono. No, era sana come lui o Emil. Raggiunse la Jaguar e salì. Avviò il motore, uscì dal parcheggio e si diresse verso la Statale 287 che lo avrebbe condotto all'autostrada per il New England. Guardò nello specchietto retrovisore; c'erano parecchie auto dietro di lui, ma non riusciva a vedere i guidatori. Era uscito dal parcheggio da non più di tre minuti quando suonò l'autotelefono. «Ti sta tallonando», annunciò Lisa. «Grazie», rispose Mark. Dunque era così. Le intenzioni di lei erano chiare. Mark Chaney non poteva più sopportare una cosa simile. Ormai aveva le
prove che Anne non solo lo sorvegliava, ma non gli dava respiro, a costo di farsi notare. Inoltre sapeva per certo che la giovane donna non lavorava per la polizia. I piedipiatti non avrebbero mai affidato una sorveglianza a qualcuno facilmente riconoscibile. Prese la cornetta del telefono. «Rientro», annunciò a Lisa. «Non mi piace essere tallonato.» Poi fece un'altra telefonata, stavolta sulla linea privata di Emil Welder. Il grassone rispose con la solita voce arrochita dal fumo. «Qui Emil.» «Sono sulla 287. Torno indietro.» «Torni indietro? Perché? Questo è il nostro sogno, sono settimane che stiamo programmandolo. È il nostro gran finale!» «Sì, ma indovina chi c'è alle mie spalle.» «Non saprei.» «Lei. In un'auto a noleggio, con un paio di occhialoni scuri. Come in un primo piano alla TV. Devo rientrare. Il gran finale può attendere.» Anne rimase sorpresa di vedere che Mark usciva improvvisamente dalla Statale. Una deviazione? Forse andava a far benzina. Oppure aveva deciso di cambiar strada? Lei aveva creduto che sarebbe stato facile pedinarlo, ma si sbagliava. Dopo pochi minuti ecco la risposta. La Jaguar di Mark tornò nel parcheggio del suo ufficio. Lui scese, rientrò nell'edificio e non ne uscì più. Perché? Forse aveva semplicemente deciso di annullare il suo viaggio. O forse aveva ricevuto una telefonata dall'altra donna che era ammalata e perciò non poteva accompagnarlo. Sta' calma, seguitò a ripetersi Anne. Non immaginare cose strane, altrimenti peggiori la situazione. Ma era profondamente delusa mentre aspettava invano nel parcheggio. Finalmente si decise a tornare a casa. L'ufficio di Welder era pieno di fumo. Come al solito Emil sedeva alla scrivania e il suo grosso corpo straripava dalla sedia. E come al solito Mark passeggiava su e giù, sbirciando fuori della finestra. Vide l'auto di Anne allontanarsi, seguita dalla Mercedes di Lisa a distanza discreta. «Sono pronto a scommettere che lei è un lupo solitario», disse Mark. «Tutto quadra. Non è della polizia.» «A meno che invece non lo sia davvero e agisce così per confonderti»,
ribatté Welder. «Ne dubito, ma non riesco a trovare altra spiegazione.» Emil, tuttavia, non era tipo da rimuginare troppo. «Allora quando risolverai il problema?» «Domenica prossima alle Jersey Palisades. Ci fermeremo sulla scogliera finché si presenterà l'occasione.» «E dopo?» «Sarà un suicidio, proprio come avevamo stabilito.» Emil espresse la sua approvazione con un cenno del testone, ma all'improvviso cambiò espressione. «Aspetta un secondo», ansimò. «Il tuo piano si basa sull'idea che lei si sente molto depressa, ma i suoi amici potrebbero affermare che lei era felice con te. Perché suicidarsi, se aveva questa nuova relazione?» «Potrei sempre recitare il mea culpa», replicò Mark. «Direi che la nostra non era affatto una relazione sentimentale, che lei s'immaginava le cose, e che a un certo punto sono stato costretto a dirle che si era illusa.» «Sì, l'idea mi sembra buona», approvò Welder. «Ma farò di più. Comprerò dei libri sulla depressione e sul suicidio e li seminerò in casa sua dopo averla scaraventata giù dalla scogliera. La polizia li troverà e il caso sarà chiuso.» «A sentirti parlare si direbbe tutto facile», commentò Emil facendo tremolare il triplo mento in un sorriso osceno. «Mi sono allenato», tagliò corto Mark. 18 «Capitano tutte a me!» disse Mark chiamando Anne dal telefono della Jaguar mentre rientrava quella stessa sera. Lei era già a casa da un po' di tempo. «Ero appena partito per Amherst quando ho ricevuto una telefonata in macchina: mi avvertivano che i miei clienti mi avevano cercato in ufficio. L'appuntamento era stato annullato. Loro vogliono riconsiderare le future iniziative in campo finanziario. Mai successa una cosa simile!» «Allora perderai quei clienti?» volle sapere Anne. «Probabilmente no. Credo che stiano ancora pensandoci, sono indecisi insomma.» Anne doveva ammettere che la spiegazione di Mark era logica. Dopo tutto lui aveva realmente lasciato l'ufficio e si era messo in viaggio. Poi era tornato indietro. Forse diceva la verità. Forse non esisteva un'altra donna.
E Bradshaw si allarmava per niente. Naturalmente lei non poteva sapere che Mark le raccontava una frottola che quadrava con ciò che Anne aveva visto. Rimasero d'accordo di vedersi la domenica successiva. Lei fu sorpresa, però, che Chaney volesse condurla di nuovo alle Palisades. Francamente cominciava a stancarsi del posto, ma non era quello il momento più adatto per rivolgergli delle domande o per proporgli un cambiamento. Bisognava lasciare le cose come stavano per guadagnar tempo e scoprire altre notizie sul conto di Mark prima di saltare a conclusioni avventate. Con il pericolo di perderlo per sempre. Accettò l'invito. Ma quella notte incominciò a torturarsi di nuovo e i pensieri tristi riaffiorarono. C'era un'altra donna nella vita di Mark? Dov'era? L'avrebbe mai saputo, lei? L'insonnia ricomparve. Domenica era una giornata calda e soleggiata, l'ideale per una scampagnata. Il fogliame alle Palisades era così fitto che bloccava la visuale, offrendo in cambio una certa intimità. Era quanto desiderava Mark Chaney, che, di nuovo, aveva scelto il punto giusto per una morte istantanea. Le altre volte erano andati a passeggiare in quella zona durante il pomeriggio, quando si poteva ammirare Manhattan con il sole alle spalle. Per quella domenica particolare lui propose una corsa alle Palisades in mattinata. Come mai? Perché, spiegò ad Anne, non c'erano mai stati di mattina, quando i colori erano meravigliosi. Dopo potevano fare una passeggiata da qualche altra parte, oppure andare a pranzo a Manhattan. Salirono la collina alle nove. Era dura per Anne dopo una notte insonne, ma lei era decisa a offrire a Mark una giornata piacevole, a chiacchierare con lui per sapere la verità. «È magnifico qui, la mattina», disse ammirando le foglie degli alberi che ai primi riflessi del sole sembravano verdearancio. «Mio padre mi diceva sempre che bisogna passeggiare di mattina», spiegò Mark. «Faremo altre escursioni, la prossima volta nel Connecticut, magari.» «Oh, mi piacerebbe infinitamente!» esclamò Anne. «A me piace qualsiasi luogo purché sia con te», replicò Mark con un sorriso. Lei sentì riaffiorare l'antico calore. Quest'uomo non sembrava un impostore. Forse i suoi erano timori ridicoli, uno strascico della disastrosa
esperienza del suo primo matrimonio. Mark si guardò attorno facendo i suoi calcoli, soddisfatto di vedere pochissime persone sulla scogliera. Chiaro che quella era la ragione principale per cui aveva voluto venire lì di mattina. Le possibilità di essere notato a quell'ora del giorno erano scarse. Inoltre il sole a est, dall'altra parte dello Hudson, impediva di vedere lui e la donna a chiunque si godesse il panorama da un'altra scogliera. Chaney allacciò un braccio intorno alla vita di Anne, e ficcò l'altra mano in tasca per toccare il sacchetto catramato che aveva portato con sé. Sarebbe stato meglio sferrare un colpo alla ragazza per farle perdere i sensi prima di scaraventarla giù dalla scogliera, e impedirle così di gridare. Una suicida non si mette a strillare. La botta in testa sarebbe apparsa una ferita dovuta al volo. Due persone stavano scendendo dalla direzione opposta. Mentre si avvicinavano Mark mise in atto un'altra parte del suo piano. «Hai fatto riparare il guasto della tua auto?» chiese. «L'ho portata dal meccanico», rispose lei. «Hanno fatto la solita revisione; ora non so che cosa ne farò.» «Non è poi la fine del mondo!» esclamò lui parlando improvvisamente a voce alta. «Non devi disperarti per un'auto. Cerca di non lasciarti abbattere, non prendertela.» Anne rimase un po' stupita da questa improvvisa conferenza filosofica per un guasto della sua Oldsmobile. Ma lui sapeva che i due passanti lo avevano sentito. Se mai si fossero presentati a testimoniare dopo la morte di Anne avrebbero dichiarato di aver sentito l'uomo in compagnia della ragazza che cercava di convincerla a non lasciarsi abbattere, a non disperarsi o qualcosa di simile. Finora tutto procedeva perfettamente. Guidò Anne lungo i sentieri ormai familiari verso la scogliera che aveva scelto. Era calmo, la voce pacata, eppure il suo cuore batteva forte mentre pensava a ciò che stava per accadere. Quella donna non apparteneva al suo passato, non gli aveva fatto del male come le altre. Lei non conosceva neppure Emil Welder, il suo fratello di sangue. Eppure Anne doveva morire perché era diventata una minaccia, due occhi che lo seguivano dappertutto a qualsiasi ora del giorno e della notte. «Sai, quello è il mio posto preferito», disse indicando la scogliera. «Perché?» volle sapere Anne. «Perché mi ricorda te.»
«Sei gentile. Pensi così perché siamo stati qui insieme?» «Per questo e per altri motivi. Che forse non capiresti.» Lei capiva a che cosa alludeva, solo che non sapeva esprimersi. Lui si era affezionato ma, come molti uomini, un certo pudore gli impediva di esprimere i suoi sentimenti a parole. Mark la guidò verso la cima della scogliera. I visitatori erano riparati dallo strapiombo soltanto da un recinto di filo metallico e da alcuni cartelli. «Spero che lascino sempre questo tratto così», osservò Anne. «Niente edifici, nessuno sviluppo urbanistico.» «Sono d'accordo», replicò Mark. «Perfino un capitalista come il sottoscritto pensa che gli imprenditori dovrebbero star lontano da certi luoghi così belli.» Anne rise e si guardò attorno. Poi sentì che lui la spingeva con il braccio sempre più vicino al recinto. «Ehi, aspetta!» protestò. «Non così vicino.» «Ti tengo io», la rassicurò Mark. Leggermente imbarazzata per quell'improvvisa manifestazione di paura Anne si avvicinò al recinto. Lui si spostò leggermente più indietro. Era soltanto questione di secondi. Soffiava un vento leggero, l'aria era impregnata dal profumo delle tenere foglie degli alberi. La vista dell'Hudson, anche con il sole negli occhi, era uno spettacolo. «La prossima volta ci porteremo un registratore», suggerì Anne. «Così ce ne staremo seduti qui ad ascoltare la musica.» «Magnifico», approvò Mark. «Che genere di musica ti piace?» «Oh, soft rock, musica leggera, i Beatles. Adoro i Beatles. Ogni volta che penso à John Lennon ucciso a quel modo all'apice della carriera...» «Tu, invece, diventerai una vecchia signora.» Mark le strinse affettuosamente la vita con il braccio e si guardò alle spalle. Era il momento. La tenne stretta più saldamente. E ...poi vide una motobarca passare sotto nel fiume e virare a sinistra. Era lontana, ma le persone a bordo di una barca a motore spesso ammirano il panorama con un binocolo. Fece un passo indietro. Non voleva rischiare che qualcuno andasse a riferire di aver visto un uomo vicino a una donna in cima alla scogliera. La barca passò rapidamente e Mark avanzò di nuovo. Piano piano cominciò a estrarre il sacchetto dalla tasca.
«Ti piace andare in barca?» gli domandò Anne. «Certo. Ero in Marina.» «Mio padre aveva una piccola barca», continuò lei. «Sai, una barca a remi, ma qualche volta la caricava sul tetto dell'auto e andavamo al lago. Io mi divertivo un mondo.» «Allora, dovremo programmare un sacco di cose, fra cui una gita in barca. Abbiamo il futuro davanti a noi.» Mark si fece più vicino alla ragazza di qualche centimetro. Con la destra teneva il sacchetto. Nel palmo della mano. Cominciò a sollevarlo. Raccolse forza nel braccio mentre una smorfia gli storceva la faccia. E poi... Dai cespugli vicino a lui si sentì un fruscio. Abiti colorati emersero dal fogliame. Le voci. «Non muovetevi!» gridò un ragazzotto e la sua voce risuonò più minacciosa della faccia di Mark. Anne si voltò di scatto, Mark barcollò contro la giovane donna e gettò il sacchetto giù dalla scogliera. Assurdo. Umiliante per un killer che aveva ideato un piano perfetto. Eppure logico. Questo era quanto accadeva nei luoghi isolati. Due ragazzi in jeans e camicie sbiaditi avanzarono verso la coppia; uno teneva una mano in tasca accarezzando un'arma. «Non dite niente», ordinò il più alto. I capelli biondi gli ricadevano sulla fronte. «Prendete tutto ciò che volete» offrì Mark con voce ferma. «Basta che non facciate del male alla ragazza.» Anne si strinse a lui tremando. «Non aver paura», le sussurrò Mark. «Cerca di stare calma.» «Giusto, sta' calma», ripeté il biondo, mentre il suo compagno squadrava Anne dall'alto in basso. «State calmi tutti e due e non vi succederà niente.» Fece un gesto all'altro che non poteva avere più di quattordici anni e che evidentemente era solo un apprendista. Il ragazzo si avvicinò ai due malcapitati. «Ecco, tieni l'orologio», gli disse Mark consegnandogli il suo Rolex. «Bello», commentò il teppista. «Dammi anche i soldi.»
«Tutti», aggiunse il ragazzotto più vecchio con una voce più che convincente. Mark infilò la mano in tasca e tirò fuori un fascio di banconote. Istintivamente anche Anne prese il suo portafoglio. Il ragazzo più giovane lo afferrò. Poi versò il contenuto a terra. «Non era necessario!» esplose Mark perdendo per un attimo la calma. «Decido io che cosa è necessario», ringhiò il ragazzo, e poi guardò il suo capo per avere un cenno d'approvazione. Prese prima il denaro di Mark, poi le carte di credito con qualche banconota di Anne. Finalmente i due si allontanarono di corsa, senza badare all'orologio d'oro e al ciondolo che la donna portava al collo. Uno lasciò cadere una banconota da dieci dollari mentre si tuffava nei cespugli. Erano proprio dei dilettanti! Anne e Mark non si mossero, entrambi erano sconvolti. Lui capiva solo ora quanto fosse terrorizzato. Quei due mascalzoncelli potevano ferirlo, perfino ucciderlo. Naturalmente avrebbero potuto uccidere Anne e questo sarebbe stato il massimo. Uccisa durante una rapina. Un alibi perfetto per Mark Chaney. Invece anche stavolta il mondo gli si metteva contro. Quei due tipi non gli avrebbero offerto una simile occasione. Fra tanti rapinatori dovevano capitargli due non violenti! «Sono qui con te», sussurrò ad Anne che gli stava aggrappata al collo. «È passato. Tutto passato.» «Ho avuto una paura!» mormorò lei con voce tremula. «Non riuscivo nemmeno a parlare. Mi era già capitato una volta a Manhattan di essere rapinata, ma non credevo che sarebbe successo di nuovo.» «Questi teppisti, questi pazzi si trovano dovunque. Credono di ottenere tutto ciò che vogliono. Ma noi siamo salvi, ed è questo che conta.» «Devo denunciare il furto delle mie carte di credito», disse Anne con una risatina nervosa. «È il colmo, devo denunciare le carte di credito!» «Me ne occuperò io.» «Mark, credevo che fosse la fine. Davvero pensavo...» «Andiamo, andiamo, non può capitarti niente finché siamo insieme», la rincuorò lui accarezzandole i capelli. Spaventoso, pensava Chaney. Erano lì di nuovo soli, nelle condizioni ideali, non c'erano barche nel fiume sottostante, eppure non poteva ucciderla. Tutto per colpa di quei due delinquenti che li avevano visti insieme sul-
la scogliera. Che cosa sarebbe successo se la scaraventava giù? Quelli potevano leggere la notizia sul giornale e testimoniare in cambio di un favore della polizia. Le informazioni erano valuta pregiata per ottenere dei favori. Avrebbe dovuto aspettare un'altra occasione. Maledetti ladruncoli, imprecò Mark fra sé. Furfanti d'infimo ordine, certamente non all'altezza da uccidere psicologhe e caricarle in una Jaguar. Lo avevano fregato due ladruncoli alle prime armi! Che vergogna. «Cerchiamo un poliziotto», suggerì Anne. «Perché?» «Come perché? Non vuoi denunciare il fatto?» Mark le batté affettuosamente la mano sulla schiena. «No», disse. «Gli agenti non li prenderanno mai, questi ragazzi. È solo una perdita di tempo.» «Io credo che dovremmo denunciarli.» «Anne, ti prego, lascia perdere. Ci sono io a prendermi cura di te.» «Che cosa? Io voglio prendermi cura di loro! Non gli permetterò di farla franca.» Mark si accorse che la paura di poco prima si stava trasformando in una vera e propria furia. «È il dovere di un cittadino», continuò Anne. «Se non aiutiamo la polizia ad acciuffarli, quelli ci riproveranno con altre persone.» Chaney non era preparato a questo ragionamento. Che fare? Non voleva provocare la ragazza, d'altra parte era deciso a star lontano dalla polizia. E soprattutto non voleva che qualche sergente ottuso del più vicino commissariato annotasse il suo nome con quello di Anne, vedendoli insieme. Il sergente si sarebbe ricordato di questo particolare quando in seguito avessero ritrovato il cadavere di Anne. «Okay», finse di arrendersi Mark, cercando di guadagnar tempo per schiarirsi le idee. «Ma non desidero che tu ti faccia torturare dalla polizia, ci andrò io.» «No.» «Perché?» «Perché io sono una vittima come te di questo atto teppistico e perciò vado a denunciarlo alle autorità. Potrei essere utile per l'identificazione.» «Perché, io non ho gli occhi?» ribatté Mark. «Quattro occhi vedono meglio.» «Insomma, non vuoi proprio rinunciare?»
«No. Sono troppo furibonda con quei due.» All'improvviso Mark si fece indietro di un passo, deciso ad adottare un atteggiamento più determinato. «Non ci vengo alla polizia», dichiarò. «E non lascio andare neppure te. Punto e basta.» «Che cosa? Mark, smettiamola!» «Non voglio andare alla polizia. Detesto i commissariati, non mi piace ciò che avviene là dentro. Non mi piace nemmeno la vernice che mettono sulle pareti!» Lui non se ne accorse, ma i suoi occhi avevano uno sguardo di disperazione. Anne era stupita e furiosa. Che cosa aveva quell'uomo che non andava? Era così vigliacco? Oppure era sposato! Naturale. Nessun uomo sposato si sarebbe presentato alla polizia. Poi ebbe un lampo d'intuizione. Avrebbe dovuto capirlo prima. Mark non voleva aver niente a che fare con la polizia perché aveva una fedina penale poco pulita. Vero che aveva commesso soltanto reati finanziari, ma era naturale che un uomo nella sua posizione temesse la polizia. Perché insistere, allora? Perché sottoporlo a una specie di tortura mentale? Sarebbe stato davvero il modo per perderlo. «Okay», disse finalmente Anne sottovoce. «Se proprio non ti va lasciamo perdere. E poi probabilmente hai ragione: tanto non succederebbe niente. Loro hanno cose più importanti da fare.» «Questo è certo», approvò Mark. «Ci sono in giro centinaia di killer impuniti.» A braccetto tornarono lentamente verso l'auto di Mark e ripartirono. Tutti e due gettarono un'occhiata alle Palisades ricordando i brevi attimi di terrore che avevano conosciuto in una splendida mattinata domenicale. Ci sarebbero tornati, Anne lo sapeva. E la prossima volta sarebbe andata meglio. Ci sarebbero ritornati, Mark lo sapeva. Ma la prossima volta lui sarebbe rientrato solo. 19 Anne si stava convincendo sempre più che Mark era sincero, che i suoi sentimenti per lei erano profondi e che i suoi sospetti a proposito di un'altra donna erano semplici fantasie. Ma le occorreva la certezza assoluta. I dubbi affioravano spesso alla sua mente, in particolare quando tentava di
dormire. Aveva già provato a seguire Mark una volta, ma tutto era finito dopo pochi chilometri. Lei, però, non aveva intenzione di arrendersi: si sarebbe messa il cuore in pace solo se lo avesse colto sul fatto. E questo significava seguirlo costantemente, magari tutti i giorni, forse settimane. Per centinaia di chilometri anche fuori città, dovunque si recasse. Solo così i dubbi si sarebbero dissolti per sempre. Cambiò il suo programma di lavoro con la manifesta disapprovazione dei suoi superiori alla Stellar Motors, una cosa che non avrebbe mai fatto se al suo orizzonte non fosse apparso Mark. E aprì dei conti correnti in diverse agenzie di noleggio. Doveva evitare di farsi vedere sempre nella stessa. Si sarebbero insospettiti, avrebbero pensato che era una moglie infedele. «È tornata», riferì Lisa un giorno mentre spiava Anne dal parcheggio davanti all'ufficio di Chaney. «Che macchina ha oggi?» s'informò Mark. «Si direbbe una Ford Taunus, grigio metallizzato, interni rossi. Una berlina a quattro porte. Carina. Vuoi comprare un'auto usata, signor Mark?» «Non da Anne Seibert o dalla sua agenzia di noleggio. Mi piacerebbe sapere chi paga.» «I miei galoppini dicono che paga lei.» «Può darsi», borbottò Mark. «Oppure ha trovato qualcuno.» «Ahi, ahi! Siamo gelosi», ridacchiò Lisa. «Nemmeno per sogno. Senti, sta facendo qualcosa d'insolito?» «No. È venuta qui... e aspetta.» «Niente macchina fotografica?» «Niente macchina fotografica e niente telefono sulla macchina. Solo lei e i suoi occhi.» Il rituale di Anne che aspettava davanti all'ufficio di Mark continuò giorno dopo giorno. Lui usciva dall'ufficio, evitando di guardare in direzione della giovane donna, saliva nella Jaguar e tornava a casa lentamente. Anne lo seguiva lasciando che tre o quattro veicoli si immettessero fra sé e l'auto di Mark, e procedeva su una corsia diversa per osservarlo di sbieco. Si allontanava solo quando entravano a New Rochelle. Allora entrava in una cabina telefonica e lo chiamava a casa per assicurarsi che fosse arrivato. Un pomeriggio, dopo che Anne aveva chiamato, Mark si stava rilassando in soggiorno quando lo colpì un pensiero bizzarro. Era un'idea che non
aveva mai considerato prima e la svista lo imbarazzava non poco. Anzi, era furibondo con se stesso per il proprio errore. Ripensò alla notte in cui si era introdotto in casa della giovane donna e aveva trovato la pistola. Perché Anne teneva una pistola? Al momento non ci aveva fatto caso, poi se n'era dimenticato. Ora, scartata l'ipotesi che lei lavorasse per la polizia, la domanda era questa: che cosa se ne faceva di una pistola? Altre persone tenevano armi. Un altro genere di persone. Andò al telefono per chiamare Emil Welder, che era ancora nel suo ufficio alla M.E. Inc. Emil, immerso in una nuvola di fumo, vide accendersi la luce sulla linea privata e rispose immediatamente. «Pronto, qui Emil.» «Forse ho scoperto qualcosa», annunciò Mark. «Sei solo?» «Sì.» «Mi è venuto un pensiero terribile. Ma proprio terribile.» «Sentiamo.» «Forse questa Anne Seibert è una come noi.» Welder non poté trattenere una smorfia, il triplo mento tremolò furiosamente. «Che cosa vuol dire una come noi? Una come chi?» «Una che è coinvolta in qualche cosa. Come noi con il nostro progetto.» Emil Welder sapeva esattamente a che cosa si riferiva l'amico. «Strano, con la nostra mente brillante avremmo dovuto pensarci prima.» «Sicuro, molto prima. Ma tutto quadra. Può darsi che anche noi siamo dei bersagli. Forse c'è di mezzo un concorrente, una banda. Può darsi che vogliano accaparrarsi la nostra azienda e perciò intendono eliminarci. Mai più noi avremmo sospettato di una vicina.» «Come facciamo a sapere se è vero quello che dici?» s'informò Welder. «Non possiamo. L'ho fatta seguire, ma all'apparenza è pulita. Se riferisce a qualcuno lo fa al lavoro o per posta. Lisa non può coprire la sorveglianza ventiquattr'ore su ventiquattro. Senti: potrei sbagliarmi, come potrei aver visto giusto. La signora tiene in casa una pistola. Non so come intenda usarla.» «Sono sconvolto da queste idee», disse Emil. «Starò attento», lo rassicurò Mark. «Ho già provato a liquidarla una volta, ma non ha funzionato. Ci riproverò fra qualche giorno.» «Stesso posto?» «Sì. L'ho invitata quando mi ha chiamato, poco fa. Lei aveva qualche
dubbio a tornare lassù dove siamo stati rapinati, ma le ho spiegato che proprio per questo avremmo dovuto tornarci.» «Come rimontare un cavallo che ti ha appena sbalzato di sella», fu il grave commento di Welder. «Sì, così.» «Sento che stavolta funzionerà», previde Emil. «E... Mark... sei pronto per domani sera?» «Quasi», rispose Chaney. «Uscirò dall'ufficio alle tre del pomeriggio e partirò subito per Amherst.» «Ma lei ti seguirà.» «Ci sto pensando. Se lei ha successo, vorrà dire che per me sarà un altro fiasco. Ma non ci riuscirà.» «Le hai detto che parti?» «No, glielo dirò più tardi. Non voglio darle troppo tempo per pensarci.» In quel momento qualcuno aprì la porta dell'ufficio di Emil e si precipitò nella stanza con un bollettino della Borsa. «Ci sentiamo più tardi», disse Emil all'amico. La comunicazione s'interruppe bruscamente. Mark si riadagiò sul divano e considerò la sua ultima teoria. Più ci pensava, più si spaventava all'idea che fosse fondata. Era già una scocciatura essere osservato, spiato, avere sempre quegli occhi addosso, talvolta anche in piena notte. Ma essere spiato da qualcuno che poteva far parte di una banda criminale era un colpo basso per qualcuno che ammazzava la gente regolarmente e con superba abilità. Che coraggio. Che arroganza. La doppiezza di quella donna. Era ingiusto. Lui aveva ucciso quelli che gli avevano fatto del male, persone che meritavano di morire anni prima. Ma quel era il motivo di Anne? Denaro per qualche gruppo? Potere? Mark s'impose di non pensare più alla donna. Se si lasciava prendere dall'immaginazione era finita. Dopo tutto la sua era soltanto un'ipotesi. Doveva annunciare ad Anne il suo viaggio ad Amherst. Sollevò la cornetta del telefono. Anne indossava una vestaglia rosso acceso poiché era appena uscita dalla doccia. Lasciò squillare il telefono due volte, come d'abitudine, e rispose. «Pronto?» «Salve.»
«Oh, Mark! Non mi aspettavo di sentirti. Ci siamo parlati solo un'ora fa.» «Mi sono scordato di dirti una cosa», rispose Mark. «Se devo essere sincero, ho fatto di tutto per non pensarci.» «Che cosa è successo?» «Ecco, si tratta di una buona e di una cattiva notizia contemporaneamente. Quella buona è che i miei clienti di Amherst si sono finalmente decisi a concludere l'affare; la cattiva notizia è che domani devo recarmi laggiù.» «Ma domani sera avevamo deciso di stare insieme...», gli ricordò Anne con aperto disappunto. «Sì, lo so. Ho cercato di rimandare, ma non mi è stato possibile. Mi mancherai, Anne.» «Ti aspetterò alzata.» «No, ti prego!» «E invece sì.» «Insomma, Anne, devi smetterla con quell'abitudine. Ti rovini la salute. Ti chiamerò la mattina dopo.» «Vedremo», lo stuzzicò lei. Ma era solo un modo per nascondere l'ansia che l'assaliva. Lui partiva di nuovo. Per dove? Andava dall'altra donna? La settimana prima si era messo in viaggio per Amherst ed era tornato indietro. Qual era la verità? «A che ora parti?» s'informò. «Nel pomeriggio, verso le tre.» «Hai bisogno di qualche cosa?» «Sei gentile», rispose Mark, «ma ho già preparato tutto. Lo sai, sono sempre pronto a mettermi in viaggio. Ho già portato la valigetta in ufficio.» «Ricordati che mi hai promesso di portarmi con te in uno dei tuoi viaggi», disse Anne. «Manterrò la promessa», la rassicurò lui. Come no? Anne lo avrebbe accompagnato alle Jersey Palisades proprio quel weekend. «Mi telefoni da Amherst?» insisté Anne, poi si accorse di aver fatto un passo falso. Lei non sarebbe stata in casa. Era decisa a seguirlo. «D'accordo», stava dicendo Mark. «Ti va bene verso le sette?» «Perfetto. Se devo trattenermi in ufficio lascerò un messaggio sulla segreteria telefonica.» Mark riappese. Anne si affrettò a chiamare un'agenzia di noleggio a White Plains. Le occorreva un'auto per il giorno dopo, una macchina con
larga autonomia. Non voleva fermarsi per strada a far benzina, se doveva seguire Mark fino ad Amherst. Nel suo intimo sentiva che quel viaggio le avrebbe rivelato ogni cosa. La verità sarebbe saltata fuori nel Massachusetts. 20 Il giorno del viaggio ad Amherst fu oscurato da forti temporali, esattamente come Mark Chaney auspicava. La mattina chiamò l'ufficio meteorologico del Massachusetts e seppe che le perturbazioni si estendevano fino alla zona di Amherst. Dio si schierava dalla parte sua e di Emil, come aveva sempre immaginato. Si presentavano le condizioni ideali per l'ultimo atto del progetto, la doppia punizione per le due persone che lui odiava più di ogni altra. Mark sistemò una pistola munita di silenziatore sotto la ruota di scorta della Jaguar e una corda per pianoforte arrotolata nel cassetto del cruscotto. Mise le munizioni in una scatola mescolata alle altre sul sedile anteriore. Erano tutte scatole impermeabili per non correre il rischio di un'esplosione in caso di incidenti. E infine rimosse dal baule la borsa degli attrezzi per far posto ai due ospiti che contava di trasportare durante il viaggio di ritorno. Uscì di casa per andare in ufficio alla una del pomeriggio. Inutile muoversi prima, anche perché la sua mente non era di certo concentrata sulla M.E. Inc. Allontanandosi da New Rochelle sotto la pioggia lo prese un senso di esaltazione come non gli capitava da quando aveva assassinato il suo ex insegnante di musica, quasi un anno prima. Quella notte la sua esistenza avrebbe raggiunto il punto culminante. Anne lo vide andar via dalla finestra della sua camera da letto. Aveva preso un giorno di permesso dall'ufficio e appena Mark si fu allontanato chiamò l'agenzia di noleggio. «Sono Anne Seibert», disse. «È pronta la mia auto?» «Sì, signora.» «È la Ford Tempo?» «Sì, come ha ordinato, signora.» «Sarò lì fra dieci minuti.» Bene. La Ford Tempo fa parecchi chilometri. Anne chiamò un taxi per andare all'agenzia. Aveva già preparato una
borsa con l'occorrente per il viaggio, compresa la macchina fotografica e il teleobiettivo. Inoltre inforcava un enorme paio di occhiali da sole che praticamente le nascondevano la faccia. Arrivò il taxi e Anne partì. Lisa, che stava in osservazione un isolato più indietro, si mise all'inseguimento del taxi. Anche lei viaggiava con auto a noleggio, naturalmente a spese di Mark, per timore che Anne notasse la stessa Mercedes. Quel giorno Lisa guidava una BMW con bar e telefono a bordo. Lisa faceva sempre le cose in grande. «Rieccola», riferì l'investigatore in gonnella poco dopo che Anne era entrata nel parcheggio di Mark. «Una Ford Tempo marrone con l'interno giallo. Lei indossa un abito grigio e porta grandi occhiali da sole. Fa molto CIA.» «Capito», replicò Mark e guardando fuori dalla finestra del suo ufficio notò subito la macchina di Anne. Non riusciva a vedere la donna dietro il parabrezza a causa della pioggia battente, e un tuono quasi soffocò le ultime parole di Lisa. Ma ormai aveva visto abbastanza ed era pronto alla caccia che avrebbe avuto inizio alle tre. «Puoi andare a casa», disse a Lisa. «Da questo momento mi arrangio da solo.» Guardò l'orologio e studiò una mappa di White Plains, assicurandosi di avere stampate nella mente le direzioni giuste e i nomi delle strade. Poi, quando mancavano cinque minuti alle tre entrò lentamente nell'ufficio di Emil e chiuse la porta. «Sono venuto a salutarti», annunciò. Emil stava rannicchiato nella sua poltrona alla scrivania. Fissò per un momento il suo socio e si alzò a fatica. Veleggiò verso Mark e senza dire una parola lo abbracciò. Non l'aveva mai fatto prima, ma Chaney comprese ciò che provava l'amico in quel momento. Condivideva le stesse emozioni, l'ebbrezza della prossima vittoria. «Buona fortuna», ansimò Emil. «Aspetto con ansia la tua telefonata.» «Chiamerò il più presto possibile», lo rassicurò Mark. «Emil, siamo quasi alla fine. Le persone che ci hanno umiliato, ferito, che ci hanno portato via gli anni della nostra giovinezza, saranno...» «E abbiamo fatto tutto da soli», aggiunse Emil. Si riabbracciarono, poi Welder infilò la mano in tasca per prendere un ritaglio di giornale che mise in mano a Mark. Lui lo guardò. Era un articoletto ritagliato dal giornale della scuola. Il titolo citava: DUE STUDENTI ACCUSATI.
«L'hai tenuto per tutti questi anni!» commentò Mark. «Sì. Lo guardo sempre, giusto per ricordarmi. Per tener viva la rabbia.» «Che cosa devo farne?» «Portatelo ad Amherst. Mostralo a quei due. Vorrei che fosse l'ultima cosa che vedono.» Mark sorrise e mise l'articolo nella tasca della giacca. Tornò nel suo ufficio, prese una borsa e un ombrello nero e finalmente lasciò la sede della M.E. Inc. Scese al pianterreno con l'ascensore e uscì dall'edificio dopo qualche minuto. Appena fuori aprì l'ombrello. Con la coda dell'occhio poteva vedere Anne abbassata sul sedile, che l'osservava attraverso gli enormi occhiali da sole. Evitò di guardare dalla sua parte e si avviò a passo rapido verso la Jaguar lucida di pioggia. Raggiunse la sua auto e istintivamente guardò se c'erano segni di effrazione. Poi salì al volante e avviò il motore. A una cinquantina di metri sentì accendersi il motore della Ford di Anne. Lui aggiustò lo specchietto retrovisore piegandolo a sinistra per avere una visuale migliore della Ford e della donna alla guida. Uscì dal parcheggio accompagnato dal fruscio del tergicristallo e puntò verso White Plains. Anne lo seguì, stupita dalla direzione che Mark stava prendendo. Quella non era la solita strada per il Massachusetts. Una deviazione? Oppure Mark doveva passare a prendere qualcosa a White Plains prima di proseguire per Amherst? L'aveva vista? Era solo una manovra per seminarla? Mark entrò a White Plains percorrendo a velocità moderata la Statale 22, passò davanti ai grandi magazzini Alexander, superò Harvey Sound e poi svoltò in Mamaroneck Avenue, una delle vie commerciali più affollate della città. C'era parecchio traffico, ma a un tratto Mark accelerò, scansò alcune auto, passò con il rosso e imboccò una via in senso vietato. Anne faticava a stargli dietro. Per un momento lo perse di vista a causa del riflesso della pioggia. Poi lo rivide, lo perse un'altra volta, lo vide di nuovo. Sentiva il coro dei clacson degli altri automobilisti inferociti e non capiva il comportamento di Mark. Lo seguì quando svoltò un angolo, in una strada laterale, e ancora dietro un altro angolo. Poi Mark imboccò un vicolo. Sembrava che conoscesse la strada, ma lei non vi era mai stata. Lo vide zigzagare nello stretto passaggio, attraversare un parcheggio dietro alcuni negozi. Cercò di seguirlo, ma in quel momento sopraggiunse un veicolo nella direzione opposta e Anne dovette ingranare
la retromarcia per lasciarlo passare. Finalmente accelerò di nuovo. Sfrecciò nel parcheggio attirandosi un'occhiata furibonda dal guardiano. Frugò con gli occhi l'intero spiazzo. Nessuna traccia di Mark. Né della Jaguar. Anne guardò verso le uscite. Ce ne saranno state almeno cinque, che sbucavano in tre strade diverse. Abbassò il finestrino e agitò freneticamente la mano in direzione del guardiano del parcheggio, un ragazzo sui diciotto anni con i capelli rossi e gli occhi feroci. «Ehi!» gli gridò Anne. «Ha visto passare una Jaguar rossa?» «Sì», rispose l'altro con la massima indifferenza. «Un minuto fa?» «Sì.» «Dov'è andata?» «Come faccio a saperlo? Non si è fermata. Mi spiego?» Anne dovette compiere uno sforzo per mantenersi calma e non insultarlo. «Che uscita ha preso? Che strada ha imboccato?» «A quale delle due domande devo rispondere?» volle sapere il ragazzo. «A tutte e due!» «Non guardavo.» «Grazie», sibilò Anne rialzando il finestrino. «Prego.» Si fermò ancora qualche secondo nel parcheggio frugando ogni angolo con lo sguardo. Nemmeno l'ombra di una Jaguar rossa. Mark l'aveva seminata, intenzionalmente o no. Non le restava che immaginare quale strada avesse preso. Uscì dal parcheggio e sbucò in Main Street. Era logico dedurre che Mark avesse seguito una direzione a nord per poi prendere una strada che lo portasse ad Amherst. Ma non riuscì a trovarlo. Dopo averlo cercato per un'ora accostò al marciapiede. Per riflettere. Poteva rinunciare o proseguire fino ad Amherst sperando di trovarlo laggiù. Alla fine decise di rinunciare, almeno per questo viaggio. Gettarsi in un'impresa disperata era ridicolo. Tanto più se non avesse trovato Mark ad Amherst. Si sarebbero presentate altre occasioni per seguirlo e scoprire la verità. Delusa ed esausta Anne avviò di nuovo il motore, si tuffò nel traffi-
co e tornò all'agenzia di autonoleggio. Il cartello annunciava: Hartford 20 miglia. Mark aveva percorso il tragitto con un occhio alla strada e l'altro allo specchietto retrovisore. Ora, mentre proseguiva nel Connecticut, era sicuro di aver seminato Anne. Si rilassò e sbirciò la scatola di munizioni sul sedile anteriore. Era pienamente soddisfatto. Tolta di mezzo la ragazza poteva svolgere il suo lavoro senza altri ostacoli. Gli occorreva un'ultima prova, perciò prese il telefono e compose il numero di Anne. Due squilli e lei sollevò il ricevitore. «Pronto!» disse Anne. Mark riappese. Si sentiva come un ragazzino che si diverte a fare scherzi al telefono. Angelo Garibaldi non si era accontentato di leggere le trascrizioni delle telefonate giornaliere di Anne, aveva fatto di più. Ora le ascoltava direttamente grazie a un collegamento radio con il suo ufficio. Un agente lo avvertiva appena Anne sollevava la cornetta e allora lui metteva in azione il suo equipaggiamento. In pochi secondi i congegni d'ascolto gli dicevano da dove proveniva la chiamata. «Senta qui», disse a Christine O'Neill che entrava in ufficio proprio mentre era in corso una conversazione telefonica. «Sta parlando con un'amica.» Anne parlava con Carol Trager e sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Non so se l'abbia fatto apposta», stava dicendo a Carol mentre il capitano e il tenente ascoltavano attenti. «È schizzato in quel vicolo ed è uscito dall'altra parte del parcheggio. Forse mi ha visto, non lo so. Ma non si era mai comportato a quel modo da quando lo sorveglio.» «Cara, smettila di sorvegliarlo!» esclamò Carol. «Lascialo perdere. Quell'individuo ti fa diventar matta.» «Non parlavi così qualche tempo fa.» «Vero. Ma dopo quanto mi hai detto ho l'impressione che lui ti abbia visto e che ti abbia seminato di proposito.» «Perché?» «Perché? Non è diffìcile immaginarlo. Secondo me ha un esercito di donne, e non credo che siano tutte nel Massachusetts.» «Non posso fare a meno di continuare a vederlo se prima non lo so con
certezza», replicò Anne. «Mi odierei. Non mi capitano spesso occasioni simili e...» «Allora continua a vederlo», la interruppe Carol. «A un certo punto, però, fatti più furba. Digli che il prossimo viaggio lo accompagni, senza pregarlo.» «Mi era venuta un'idea», continuò Anne seduta su una sedia in cucina. «Potrei chiamare il suo ufficio e dire che devo assolutamente parlargli. Potrei farmi dare il numero di telefono di Amherst. Almeno saprei se è davvero là.» «Anne, tu stai dando i numeri, credimi. Anche questo pedinamento... non ne vale la pena. Nessun uomo merita tanto.» «Allora chiamerò il mio medico», decise Anne. «E lui che cosa ti dirà? Di prendere due pillole per dormire e di richiamarlo domattina. Senti, non ti riconosco. Hai superato il periodo terribile del divorzio, ma sei sempre stata una donna forte, indipendente e coraggiosa. Non mi piace vederti così.» «Nemmeno a me.» «Prendi una decisione. Mettilo con le spalle al muro e digli che non hai mai conosciuto nessun uomo che faccia viaggi lunghissimi in macchina e che ritorni immancabilmente a notte fonda. Digli che sei un po' perplessa. E avvertilo che la prossima volta partirai con lui. Se vedi che tentenna, piantalo. Punto e basta.» «Forse hai ragione.» Garibaldi e la O'Neill ascoltavano stupiti. «Potrebbe essere una specie di copertura», ragionò il capitano. «Voglio dire che può essere una messinscena. Non abbiamo ancora un'idea concreta di che cosa facciano quei due insieme.» «Forse è tutto vero», suggerì la O'Neill. «Ci ho pensato anch'io», convenne Garibaldi. «È solo un presentimento, niente di più. Vorrei tanto che se ne occupassero i federali. Ah, fra l'altro mi hanno detto che il Procuratore Generale ha citato in giudizio Chaney per truffa.» «La donna è coinvolta?» «I federali non lo sanno. Ma se Chaney compare in giudizio lei vedrà il suo nome in prima pagina. Coinvolta o no, avrà dei problemi.» «Quando interviene il Procuratore Generale?» volle sapere Christine O'Neill. «Domani. Ha citato Chaney per interrogarlo.»
Sdraiata sul divano mentre rifletteva sui consigli di Carol, Anne sentiva lo stomaco stretto in una morsa, un sintomo che spesso accompagnava la depressione e l'insonnia. Sapeva che non avrebbe potuto dormire. E che non sarebbe neppure stata capace di concentrarsi sul lavoro che aveva portato a casa dall'ufficio. Era capace solo di fissare il soffitto e pensare a Mark. A tutto ciò che riguardava Mark. Sembrava che nella vita non ci fosse altro. Facile per Carol dare consigli. Carol era diversa, non poteva capire quanto fosse meraviglioso stare con Mark. Ma forse la sua amica aveva ragione in una cosa: era giunto il momento di affrontare Mark e di insistere perché la portasse con sé nel suo prossimo viaggio. Lui sarebbe rientrato alle prime ore del mattino e quello era il momento giusto per portare avanti il discorso. Lo avrebbe aspettato alzata, e Mark avrebbe compreso la sua ansia. Chissà che non le rivelasse subito il motivo di quei viaggi. Lei non poteva più andare avanti così, quella storia stava diventando un'ossessione. Ma avrebbe avuto il coraggio di affrontare Mark quella stessa notte, al suo ritorno? In realtà Anne non voleva. Sapeva che la loro relazione poteva precipitare bruscamente. Doveva agire. Rimase sdraiata e prese la sua decisione. 21 Chaney viaggiava a velocità moderata. Sapeva che se poteva evitare ingorghi del traffico, avrebbe impiegato meno di tre ore a raggiungere Amherst. E intanto si chiedeva che cosa pensassero quei due. Avevano idea che quella era la loro ultima giornata terrena? Si erano preparati? Avevano fatto testamento, una polizza d'assicurazione sulla vita per i figli? Avevano mai parlato di morte fra loro, oppure erano di quelli che non amavano discutere di argomenti sgradevoli? Chaney ricordava vagamente che erano due individui pienamente responsabili, due cittadini modello. Il sole apparve improvvisamente fra le nuvole nere, mandando un riflesso accecante soprattutto quando la strada girava a sinistra. Chaney abbassò
il parasole della Jaguar, ma notò che alcune auto cominciavano a sbandare a causa del sole. A un tratto vide una Buick metallizzata del 1985 uscire dalla corsia. Era così vicina a una Nissan che il conducente di quest'ultima sterzò bruscamente per evitare di urtarla. La Nissan uscì di strada. Il guidatore cercò disperatamente di rientrare sulla corsia asfaltata, ma appena gli riuscì perse il controllo dell'auto. Che andò a sbattere contro una giardinetta. Le due vetture si schiantarono l'una contro l'altra. A meno di sessanta all'ora. La giardinetta si capovolse e s'incendiò. Chaney sterzò per evitare i rottami, ma la Nissan sbatté contro il fianco della Jaguar. Per un momento lui perse il controllo della macchina, ma lo riacquistò quasi subito. Si affrettò ad accostare al ciglio della strada e si fermò. Guardò indietro. La giardinetta era in fiamme, ma il guidatore era riuscito a uscire dall'abitacolo. La Nissan si era bloccata con il guidatore e un passeggero intrappolati dentro. Già stava arrivando un'auto di pattuglia con i fari rossi che lampeggiavano mentre si avvicinava al luogo dell'incidente. Le altre macchine rallentavano costeggiando la vettura in fiamme, alcuni si fermarono per prestare soccorso ai feriti. Il traffico cominciò a congestionarsi, i soliti furbastri presero a suonare rabbiosamente il clacson, non sapendo che cosa era successo. Chaney pensò di proseguire. Lui aveva un lavoro importante da svolgere, molto più importante di quell'ammasso di metallo fumante. Ma sapeva che qualcuno poteva averlo visto, magari aver preso il suo numero di targa. Qualcuno poteva testimoniare di averlo visto scappare dal luogo dell'incidente, così la polizia si sarebbe presentata a casa sua con una comunicazione giudiziaria, o magari con un mandato di comparizione. Bastava controllare al computer per sapere che Mark Chaney aveva una fedina penale non proprio candida. No, doveva rimanere. Stare al gioco. Doveva perfino riempire e firmare i moduli della dichiarazione. Fare in modo di non inimicarsi la polizia. Il danno alla Jaguar non era granché: un graffio quasi invisibile sul fianco sinistro del parafango davanti alla portiera posteriore. Niente che potesse interferire con il viaggio ad Amherst.
Chaney tornò indietro. Nessuno poteva avvicinarsi all'auto in fiamme, ma tutti si muovevano ugualmente. I passeggeri della Nissan, un giovanotto e una ragazza, si dibattevano senza successo per uscire. Erano pieni di tagli e di lividi, ma non sembravano feriti gravemente, nonostante le condizioni della loro auto. Chaney avvertì gli uomini di pattuglia che i due disgraziati automobilisti erano rimasti incastrati nella macchina. Ben presto giunsero un'ambulanza e un carro attrezzi. Dopo dieci minuti riuscirono a liberare i due passeggeri che vennero caricati sulle barelle e inviati all'ospedale. Un miracolo, commentava la gente. Per fortuna nessuno era rimasto ucciso. Colpa delle cinture di sicurezza, intervenne qualcuno. I due nella Nissan erano rimasti intrappolati dalle cinture. Alcuni fra i presenti commentavano l'accaduto e chiesero a Chaney se fosse ferito. Un agente della polizia del Connecticut, un gigante dalla faccia rubiconda con gli occhiali da sole, gli si avvicinò. «Mi dicono che lei ha assistito all'incidente», esordì il poliziotto con una vocina in contrasto con la mole. «Infatti», rispose Chaney con un atteggiamento da perfetto boyscout. «La mia auto è stata danneggiata leggermente.» «Vuole farsi visitare da un medico?» «No grazie, sto bene.» «Sicuro? Non ha sbattuto la testa?» «No, agente. Solo un graffio sul fianco della macchina.» «Guardi che le botte in testa si sentono dopo», lo ammonì l'agente. «Se ha sbattuto la testa deve dirmelo. Non voglio che il mio capo se la prenda con me, se lei muore.» Che sollievo parlare con uno così! pensò Chaney. «Non ho niente alla testa», ripeté. «Sono solo un po' intontito.» «Allora dovrei portarla in ospedale», decretò l'altro. «Si distenda in macchina.» «No, aspetti! Sto benissimo. Se crede le firmerò una dichiarazione.» Il poliziotto lo squadrò dalla testa ai piedi come se cercasse qualche macchia di sangue o qualche ferita. «Va bene, mi rilasci la dichiarazione. In triplice copia. E adesso mi dica: è vero che a provocare l'incidente è stata un'altra auto?» «Esatto. Una Buick metallizzata. Ultimo modello.» «Ha visto la targa?»
«No, mi dispiace; ma è stato il guidatore a causare l'incidente, e poi è scappato.» «Trasmetterò la descrizione per radio e prima o poi lo fermeranno. Ha notato per caso se l'auto aveva qualche scritta? Studenti di un college, l'etichetta di qualche ditta?» «No, che io ricordi.» «Ha dato un'occhiata agli occupanti?» «Ho visto solo il conducente. Un uomo sulla quarantina.» «Lo riconoscerebbe se lo rivedesse?» Chaney esitò fingendo di riflettere sulla domanda. In realtà cercava soltanto un pretesto per andarsene. «No, è successo tutto così in fretta...» rispose alla fine. «Quella è la sua auto?» volle sapere l'agente indicando la Jaguar. «Sì.» «Una Jaguar. L'ha comperata nuova?» «Ehmm... sì.» «Anche mio fratello ha preso una Jag», continuò il poliziotto. «L'ha pagata tanto.» «Già, sono macchine molto costose.» «Per quel che mi riguarda non valgono tanti soldi. Voglio dire: quattro ruote sono sempre quattro ruote. E una Chevy ha la stessa velocità.» «Certo.» «Quel danno alla fiancata le costerà parecchi bigliettoni. A lei o alla sua compagnia d'assicurazione. Le autofficine ci vogliono guadagnare.» «Ho già avuto modo di accorgermene», convenne Chaney. Non vedeva l'ora di filarsela. Era disposto a firmare qualsiasi cosa, pur di andar via. Invece, senza dire una parola, l'agente prese a camminare verso la Jaguar, con la divisa scura che svolazzava al vento. «Devo scrivere nel mio rapporto che ha subito un danno.» Chaney lo seguì; era sempre sulle spine quando un poliziotto si avvicinava alla sua auto. Dopo tutto era un arsenale ambulante e la scatola delle munizioni era proprio in bella vista sul sedile. «Danni anche all'interno?» s'informò l'agente. «No.» «Nessuna perdita di benzina? Il baule è stato danneggiato?» «No.» «Come lo sa? Ha guardato nel baule?» «Sì, ho guardato. Senta, agente, sono pronto a collaborare in ogni modo
possibile, ma ora devo proseguire. Si tratta di un viaggio importante.» «Era importante anche per quei due nell'ambulanza», replicò il poliziotto. «Sì, lo so. Mi dispiace per loro, ma...» «Noleggi un'auto.» «Ma questa è la mia macchina!» «Lo scrivo nel rapporto, vada pure. Se ha tanta fretta, la Hertz si trova proprio all'uscita del casello dell'autostrada.» A Chaney non restava che aspettare. E il poliziotto, provocato e offeso per la sua mancanza di rispetto per i feriti e le altre auto distrutte, se la prese comoda. Aveva ricominciato a piovere. L'agente non si scompose, si limitò a ripararsi la testa con i suoi fogli. Chaney era ormai inzuppato, ma non si sognò neppure di chiedere il permesso di sedersi nella sua auto. Quel piedipiatti era matto. Conosceva il tipo. «Numero di registrazione, numero di targa, polizza d'assicurazione», ordinò l'agente. Chaney aveva sempre creduto che quelli fossero i primi documenti da esibire, ma quel tutore della legge evidentemente aveva le sue regole personali. Chaney gli diede i documenti. «Okay, adesso può andare», decise finalmente il poliziotto dopo aver scritto interi capitoli di annotazioni che si sarebbero perse negli schedari della stazione di polizia. «Grazie, agente», disse Chaney. «E faccia i miei auguri ai due feriti.» «Probabilmente erano ubriachi.» Senza commentare l'ultima osservazione, Chaney salì in macchina e ripartì. Si accorse che il parafango sinistro grattava, doveva essere fuori squadra. Ma non era importante. Molto più importante era il fatto che si stava avvicinando alla conclusione del suo progetto. Che per poco non andava all'aria. Fosse rimasto ferito lo avrebbero portato in ospedale e la sua auto sarebbe stata perquisita dalla polizia. Avrebbero trovato la pistola, le munizioni e la corda da pianoforte. E alcuni appunti che teneva nel portafoglio e che si riferivano alle sue prossime vittime. Strano, rifletté Chaney, lui non aveva mai preso sul serio le varie campagne per una guida sicura. Non usava quasi mai le cinture di sicurezza, e non si era mai curato di controllare la pressione delle gomme. Ora allacciò la cintura di sicurezza. Era buio quando stava per raggiungere Amherst, nel Massachusetts. Era
già stato nella regione otto volte per osservare le sue vittime, le loro abitudini. Aveva imparato a memoria tutte le strade principali, studiato le eventuali vie di fuga, aveva preso perfino i numeri dei posteggi dei taxi. Caso mai si fosse rotta la Jaguar, il taxi era l'unico mezzo per arrivare all'aeroporto o alla stazione dei pullman. Amherst era una grande città universitaria, un centro culturale di antico prestigio formato dall'Amherst College, dallo Smith e Mount Holyoke, dalle università del Massachusetts e dell'Hampshire. L'unica scuola che Chaney conosceva realmente era il College di Amherst perché era situato in città. Pioveva a dirotto, lampi e tuoni si rincorrevano e lui era affascinato dallo spettacolo delle colline del Massachusetts battute dal vento e dalla pioggia sferzante. Proseguì fino alla periferia di Amherst dove c'era un ristorante vicino al motel Howard Johnson. Entrò nel locale e sedette per consumare una cena leggera. Si era sempre sentito al sicuro nei ristoranti dei motel, il personale non ricordava mai una faccia con tutto il movimento che c'era in un posto del genere. «Un toast farcito», ordinò alla cameriera che sembrava più preoccupata di non veder arrivare il suo ragazzo nel parcheggio che del cliente appena entrato. «Con maionese?» chiese la ragazza. «No. E mi porti anche una Diet Coke.» «Bene. Vuole un giornale?» Una domanda insolita per un luogo come un ristorante. «Perché dovrei volere un giornale?» s'informò Chaney. «Per leggere dell'omicidio.» «Quale omicidio?» «L'altra notte è stata assassinata una vecchia signora. Abitava dalle parti di Mount Holyoke. L'assassino è ancora libero. Non capita spesso qui da noi che ammazzino la gente.» «Sì, mi porti il giornale.» La cameriera gli portò una copia del Globe di Boston, che pubblicava le notizie più importanti della zona di Amherst. Chaney sfogliò rapidamente le pagine finché trovò l'articolo sull'omicidio. «Una vera tragedia», fu il commento della ragazza. «Una mia amica conosceva quell'anziana signora. Si serviva in uno dei negozi dove lavorava la mia collega. Ammazzata così, senza una ragione!»
«Terribile», commentò Chaney. «Ci sono in giro certi delinquenti!» continuò la cameriera. «Pensi che quel tale ha colpito la poveretta con un tubo o qualcosa di simile.» «Allora si assicuri di chiudere sempre a chiave la porta di casa.» «Oh, stia tranquillo. Ma io mi sento abbastanza al sicuro, sa? Voglio dire che sono sempre a contatto con il pubblico. Vedo un sacco di gente e credo che saprei riconoscere un assassino. O meglio, saprei dire se c'è qualcosa che non va in una persona.» «Immagino. Con il suo lavoro ne vedrà di tutti i tipi, suppongo.» «E così. Appena un cliente si siede al tavolo capisco subito che persona è dal modo in cui mi tratta. E dalla mancia che lascia. Oh, mi scusi, non avrei dovuto dirlo!» «Non si preoccupi.» «Lei, per esempio, dev'essere un professionista, un uomo d'affari. Se bussasse alla mia porta, la lascerei entrare.» «Sono davvero lusingato», disse Chaney. La cameriera si allontanò per prendere le ordinazioni di altri clienti. Chaney lesse attentamente i dettagli dell'omicidio di Amherst: classico esempio di rapina in casa di una signora anziana che viveva sola. Consumato rapidamente il suo pasto pagò il conto lasciando una generosa mancia alla cameriera. Facciamola felice. Le cameriere malcontente si ricordavano più facilmente le facce dei clienti. Quando uscì dal ristorante pioveva ancora a dirotto e lui fece una corsa fino alla Jaguar. Gli restava ancora tempo prima di affrontare le sue vittime. Sapeva, dalle sue visite d'esplorazione precedenti, che i figli la sera andavano a dormire prima delle nove e mezzo e che i genitori li seguivano verso le undici. Chaney aveva deciso di fare la sua apparizione dopo le dieci e mezzo, quando i bersagli sarebbero stati ancora alzati, i bambini addormentati e i vicini pronti a ritirarsi per la notte. Sapeva perfettamente che il suo piano poteva anche andare a monte, naturalmente. Poteva capitare che i suoi bersagli non fossero in casa, o che uno dei due fosse uscito, o che avessero visite. Dei nove omicidi che aveva commesso, quattro avevano dovuto attendere un secondo o un terzo tentativo. Il prezzo da mettere in conto. Chaney guardò l'orologio. Erano le otto e mezzo. Queste erano le ore che odiava di più... l'interminabile attesa. Eppure lui faceva sempre in modo di trovarsi sul luogo del delitto parecchie ore prima. Un'altra forma di scaramanzia dovuta al timore di restare bloccato dal traffico, da una strada
chiusa o da qualche altro contrattempo che poteva far naufragare il suo piano. Decise di passare davanti alla casa per vedere se c'era qualcosa d'insolito. Era una costruzione a due piani con nove stanze, che distava un chilometro e mezzo circa dal campus di Amherst, in una via tranquilla e alberata. C'erano soltanto altre quattro case nell'isolato. Chaney passò lentamente osservando il cartello, sul prato con scritto Taylor. In ogni stanza era accesa la luce, perciò i ragazzini dovevano essere ancora alzati. Non gli andava troppo l'idea di privare dei genitori un bambino di otto anni e una bambina di sei, ma alla fine quei ragazzini avrebbero imparato che c'erano valori assai più validi di un'agiata famiglia del Massachusetts, e che i loro genitori erano stati comunque persone mediocri. Chaney vide una sola auto, una Chrysler nel viale. Poiché l'aveva notata in tre viaggi precedenti, sapeva che apparteneva alla famiglia. Era l'unica macchina parcheggiata fuori, dunque i Taylor erano in casa soli, a meno che non avessero qualche vicino in visita. Comunque anche i vicini se ne sarebbero tornati a casa loro al momento dell'omicidio. Si allontanò dalla via. Aveva ancora un'ora e quarantacinque minuti da far passare. C'era un cinematografo che proiettava vecchi film. Perché no? Chaney lasciò la Jaguar nel parcheggio del cinema ed entrò. Il titolo del film era: Meet Me in St. Louis, con Judy Garland. Lui si accorse appena di ciò che avveniva sullo schermo. Uscì dal cinema alle dieci meno un quarto. Ai Taylor restavano ancora pochi minuti da vivere. 22 Il piano era semplice. Chaney avanzò con la Jaguar sotto la pioggia fino a un isolato dalla casa dei Taylor. Scese e reggendo una borsa di pelle con dentro la pistola e la corda da pianoforte sgusciò attraverso un boschetto dietro la casa. Piegato in due girò attorno alla villetta fino alla porta principale. Avvolse il dito in un fazzoletto per evitare di lasciare impronte e suonò il campanello. Lui voleva farsi riconoscere in fretta, voleva che i Taylor sapessero chi era. Faceva parte del fascino... osservare i loro volti, vederli contrarsi e impallidire mentre ricordavano ciò che avevano fatto. Sentì un certo movimento nella casa. «Apri tu?» chiese una voce ma-
schile. «No, vai tu», replicò una voce di donna. «E va bene, ma sono settimane che non vai ad aprire la porta!» borbottò la prima voce. «Non sapevo che tenessi il conto», fu la secca replica della donna. Ah, bene. Chaney fu contento di sapere che i due litigavano, che il loro matrimonio aveva le sue tensioni. Finalmente, sotto un lampo accecante, sentì un rumore di passi avvicinarsi alla porta. «Chi è?» «Simon Law», rispose Chaney. «Chi?» «Law. Sono uno studente del suo corso di biologia.» «Oh! Che cosa vuoi, Simon?» «Volevo farle una domanda, signore.» Era così facile, pensò Chaney. Era bastato chiedere il nome di uno degli studenti di Taylor alla vicina università del Massachusetts. Taylor insegnava a duecentosessanta matricole, perciò era improbabile che riconoscesse la voce di un particolare allievo. «Chi ti ha autorizzato a venire a cercarmi a casa?» chiese Taylor. Chaney non si era aspettato resistenza. «Mi scusi, signore, seguo con entusiasmo il suo corso, ma sono giunto a un punto del libro che mi fa diventar matto perché non ci capisco niente.» «Posso concederti solo un minuto», lo avvertì Taylor, e aprì la porta. I due rimasero a guardarsi per un attimo, Chaney con un sorriso accattivante. Ralph Taylor era un bell'uomo, alto e snello, con i capelli neri e i lineamenti regolari. Non sorrideva. Per un attimo, Chaney credette che il professore l'avesse riconosciuto. «Ah, sei un anziano», osservò il professore. «Mi pare di conoscerti. Scusa se non ti ho fatto entrare subito con questo tempo, ma vieni, accomodati.» Chaney entrò, la borsa appesa alla spalla destra, gli abiti gocciolanti di pioggia. «Siediti», lo invitò Taylor. «Hai portato il libro?» Chaney non sedette, si limitò a fissare l'altro. «Siediti», ripeté Taylor. «Ti ho chiesto se hai portato il libro.» «Sono Mark Chaney.» Per un momento Taylor non parlò. Poi s'irrigidì come se si preparasse a una battaglia. «Ah, ecco», disse senza perdere la calma. «Mi pareva un viso familiare. È passato molto tempo.» «Troppo.»
«Che cosa vuoi?» In quel momento Linda Taylor entrò nella stanza. Era una di quelle donne che si mantengono immutate nonostante il passar degli anni. Aveva ancora una figura snella, la carnagione rosea e i riccioli biondi di una ragazzina. Naturalmente era sempre con Ralph, il suo boyfriend dai tempi del liceo. «Ralph», disse la giovane donna mentre usciva dalla cucina. «Chi era alla...» Si fermò di botto. Lei e Chaney si fissarono. Conosceva quell'uomo, ma non riusciva a inquadrarlo. «Linda, ti ricordi Mark Chaney, un compagno di liceo, vero?» Lei spalancò la bocca. «Sì, mi ricordo», borbottò senza sorridere. «Mi ricordo perfettamente di te, Mark, ma non mi aspettavo di vederti qui.» «Ti capisco, Linda.» «Ti ho chiesto che cosa vuoi», ripeté Taylor. «Avevo un po' di nostalgia», rispose Chaney. «Mi trovavo nella zona, sapevo che abitavate da queste parti e ho pensato di venire a riparlare dei vecchi tempi. Ti ricordi dei vecchi tempi, vero?» «Sta' a sentire, Chaney», replicò Taylor. «Sappiamo tutti che cosa è successo allora. Mi dispiace se ti abbiamo ferito...» «Ferito io? Non mi pare. Strano, ma non mi ricordo. Perché non mi rinfreschi la memoria?» «Fuori!» tuonò Ralph. «È così che tratti un ospite?» «Tu non sei nostro ospite. Sei piombato qui senza essere invitato. Mark, se è uno scherzo...» «Non sono mai stato un tipo scherzoso, non ci so fare.» Ralph intuì che qualcosa non andava. Non osava pensare al peggio, ma ricordava perfettamente Chaney e sapeva di che cosa era capace. «Linda, chiama la polizia», disse alla moglie. «Mark, ti prego di andartene, altrimenti ti denuncio per violazione di domicilio. Non so perché sei venuto, ma non m'interessa la tua nostalgia dei vecchi tempi.» Linda non si mosse, era troppo spaventata, anche perché coglieva la crescente tensione fra Ralph e Mark. «Sono venuto per saldare un debito», spiegò Chaney. «Siete stati voi due a cominciare, no? Mi avete denunciato al preside perché io e il mio amico avevamo violentato quella ragazza del secondo anno. Non mi ricordo neppure il nome, figuratevi! Ma voi dovevate aprire la vostra boccaccia pettegola e cacciare noi due nei guai, giusto per dimostrare che eravate studenti modello. Dovevate ottenere l'approvazione e la stima delle persone che di-
rigevano la scuola, no? E da quel giorno noi siamo stati i bersagli preferiti. Emil Welder e Mark Chaney, quelli con le menti malate. Gli strambi, i pazzi.» «Linda, chiama la polizia!» La donna si voltò per correre in cucina. «Ferma!» gridò Chaney prendendo la pistola dalla borsa. «Mio Dio!» gemette Ralph, mentre Linda fissava inebetita la canna della pistola. «Ascolta, Mark», balbettò Taylor con le mani davanti a sé come se volesse fermare il proiettile. «Non compiere gesti inconsulti. Se vuoi del denaro, te lo darò. Sono pronto a darti qualsiasi cosa.» «Tu non capisci proprio niente, eh?» sogghignò Chaney. «Come in passato. Un secchione e basta. Tutti e due. Sempre i primi della classe, ma cervello... pochino pochino!» «Mark, metti via quell'arma», intervenne Linda. «Forse siamo stati ingiusti con te, ma sono passati tanti anni. Abbiamo dei figli... E adesso non siamo più contro di te.» «Adesso? E chi se ne frega di adesso?» «Mark, che cosa vuoi da noi?» insisté la donna. «Voglio qualcosa che non potete darmi», rispose Chaney. «Voglio indietro gli anni che io ed Emil abbiamo passato in quell'inferno.» «Non possiamo restituirteli.» «Allora mi accontenterò di una cosa che potete darmi. La vendetta.» Nella stanza calò un silenzio di piombo, punteggiato solo dal rumore della pioggia e di un tuono in lontananza. «Che cosa intendi per vendetta?» chiese Ralph cercando di guadagnar tempo. «Forse vuole che ammettiamo di aver sbagliato», suggerì di nuovo Linda. «Può darsi che abbiamo sbagliato, Mark.» «Sicuro», aggiunse Ralph cogliendo l'imbeccata della moglie. «Ci ho pensato qualche volta, sai. Se abbiamo sbagliato ti chiediamo perdono, e se ci tieni possiamo perfino firmare una dichiarazione. Decidi tu.» Mark non disse nulla. Gli altri due non capivano il significato del suo silenzio. Lui sì, perché sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco. «Ralph parla sul serio», riprese Linda fissando la pistola. «Ti aiuteremo, Mark.» In quel preciso istante un lampo guizzò vicinissimo. Questione di pochi secondi.
«Che ne dici?» insisté Ralph. Esplose il tuono. Mark premette il grilletto. Sul viso di Ralph apparve un'espressione attonita. Prima che Linda potesse reagire Mark le saltò addosso dopo aver estratto dalla borsa la corda da pianoforte, gliela strinse intorno alla gola. La faccia della donna divenne violacea, ma lei non riuscì a emettere un suono. Chaney strinse con forza la corda anche quando la sua vittima crollò a terra. Giacevano immobili tutti e due sul pavimento. La realizzazione di un piano che Mark Chaney ed Emil Welder avevano covato fin dall'adolescenza. Gli ultimi del gruppo che aveva distrutto la loro giovinezza. Chaney aveva ottenuto la sua vendetta. Non voleva portare la Jaguar davanti alla casa dei Taylor per caricare; non poteva essere assolutamente certo che i vicini dormissero e il rombo di un motore potente in quella via così tranquilla poteva attirare la loro attenzione. Trascinò i due corpi nel boschetto dietro la villetta. Ralph lasciò una traccia di sangue, ma Chaney non se ne curò; era sicuro che nessuno avrebbe poturo risalire all'autore del delitto e le chiazze rossastre gli procuravano una certa euforia. Dopo aver depositato i cadaveri sul terreno corse alla Jaguar, che era parcheggiata al margine del bosco, prese i sacchi, tornò dai suoi ospiti e li avvolse nei teli di plastica. Dopo qualche minuto Ralph e Linda erano al sicuro nel baule, pronti a partire per New Rochelle. Chaney stava per accendere il motore quando sentì la voce di un bambino nella casa. «Mamma! Papà!» non provò nessuna emozione. Riattraversò la città di Amherst noncurante degli sguardi curiosi di qualche passante che aveva notato i graffi sul fianco dell'auto. Aveva ancora paura che qualche danno prodotto dall'incidente gli impedisse di tornare a casa, ma cercò di scacciare quel pensiero. Doveva proseguire senza fermarsi. E invece si fermò appena vide una cabina telefonica. Scese dalla Jaguar, entrò nella cabina e chiamò Emil. «Mark?» rispose subito Welder immaginando chi era all'altro capo del filo. «Sì», rispose Mark. «Finito?»
«Completamente.» «Tutti e due?» «Il signor Ralph Taylor e signora.» «Com'erano?» «Oh, come al liceo. Suadenti, ambigui. Hanno tentato di rabbonirmi. Con le belle maniere.» «Certo, certo», ansimò Welder. «Anime candide!» «Ma io ho capito l'antifona», continuò Chaney. «Li ho lasciati parlare, supplicare... e poi è finita.» «I bambini?» «Peccato. D'altra parte uno non può scegliersi i genitori.» «Mi raccomando, prudenza durante il viaggio.» «Sta' tranquillo.» Mark uscì dalla cabina e notò un poliziotto di quartiere che controllava i negozi. Aspettò che proseguisse prima di risalire in macchina e ripartire. Chaney viaggiò a velocità moderata sulla Statale 91 senza incontrare praticamente traffico. Attraversò New Haven nel Connecticut e svoltò a sinistra nello Stato di New York. Ora poteva concentrarsi sull'altro progetto minore che aveva in programma: l'eliminazione di Anne Seibert. Anne non ci pensava nemmeno a dormire. Non aveva nulla in mente tranne Mark e il confronto che doveva assolutamente aver luogo. Era diventata una vera ossessione poiché lui occupava ormai un posto decisamente importante nella sua vita. Si guardò allo specchio fissando la propria immagine e cercò di ripassare le parole che gli avrebbe detto quando fosse rientrato quella stessa notte. No, non avrebbe assunto un atteggiamento ostile, non era il caso. Lei non aveva le prove che Mark frequentasse un'altra donna, perciò perché guastare la loro relazione basandosi su una semplice ipotesi? Ma non si sarebbe mostrata eccessivamente sollecita. «Mark», attaccò guardando lo specchio. «Devo parlarti di una cosa che ho in mente da un po' di tempo. Sono preoccupata per i tuoi viaggi. Vorrei sapere se mi nascondi qualcosa che potrebbe sciupare la nostra relazione...» Troppo brusco e troppo studiato. Lui avrebbe capito che aveva preparato il discorsetto. «Mark, c'è qualcosa che mi tormenta. Si tratta dei tuoi viaggi. Li trovo strani, misteriosi. Parliamoci chiaro: che cosa fai?»
Nemmeno così andava bene. Troppo fiacco. Anne continuò a fare le prove allo specchio, ma le parole che pronunciava di volta in volta non erano quelle che avrebbe voluto dire. «Mark, ti prego, non offenderti, ma vorrei che tu rispondessi a una domanda. Mi chiedo se c'è qualcun altro che potrebbe guastare il nostro rapporto, qualcuno che tu vedi durante i tuoi viaggi.» Be', così andava meglio. Franca e dignitosa. Non era certo una domanda da rivolgere a un uomo alle quattro del mattino, ma non era neppure una scenata isterica. Anne la ripeté più volte, cambiando intonazione ogni volta. Non fece la scelta definitiva, ma seguitò a pensare e a progettare il momento decisivo. Chaney marciò in perfetto orario, con il solo fastidio di sentire il tonfo costante dei Taylor che rotolavano l'uno contro l'altra. Neppure il tappeto di Anne serviva ad attutire il rumore. In realtà lui non aveva considerato il problema di trasportare due persone e si sentiva mortificato per non aver preso le dovute precauzioni ed evitare così quel particolare fastidioso. Ma il rammarico svanì rapidamente quando ricordò a se stesso che quella era l'ultima volta. Svoltò nella sua via a New Rochelle e come sempre rallentò. Naturalmente la luce alla finestra di Anne brillava. Lei era ancora alzata, lo avrebbe chiamato qualche minuto dopo che era entrato nel viale. Sapeva che cosa doveva fare. Imboccò il viale. Anne lo vide. Era giunto il momento del confronto. 23 Mark fermò la Jaguar dietro la casa. Doveva sbrigarsi prima della telefonata di Anne. Balzò dalla macchina, aprì la porta di servizio, tornò indietro di corsa. Poi aprì il baule. Si caricò in spalla il più voluminoso dei due sacchi sentendo la fredda rigidità di Ralph Taylor il quale, essendo un biologo, avrebbe senza dubbio trovato un impiego più utile per un cadavere. Portò Ralph in casa, aprì le due serrature della porta dello scantinato e spinse il professore nella gelida ospitalità dell'immenso frigorifero. Risalì le scale di corsa sentendo i muscoli indolenziti per essere rimasto
seduto in macchina tre ore. Scaricò Linda dalla Jaguar, un po' meno rigida del marito per qualche ragione che Chaney non seppe spiegarsi. Si vede che le donne si raffreddano più lentamente, concluse. Portò in casa anche Linda. Gli tornò in mente che ai tempi del liceo l'aveva corteggiata, prima che lei si mettesse con Ralph Taylor. Lei lo aveva respinto e adesso Mark provava una soddisfazione inspiegabile nel portarla nella sua casa. Si avvicinò alla porta dello scantinato e fece per rimettersi in spalla il corpo di Linda e scendere le scale senza il pericolo di cadere. Poi sentì il rigonfiamento di un ginocchio. Linda oscillò sulla sua spalla. E a un tratto la sentì scivolare. Il sacco di plastica si era rotto, la testa spuntava fuori. Il corpo cadde sul pavimento dietro Chaney. Lui si aggrappò all'uscio per evitare di rotolare giù per le scale. Provò un attimo di panico rendendosi conto che Anne poteva telefonare da un minuto all'altro. Lui aveva un cadavere sul pavimento del soggiorno e un sacco di plastica rotto sulla spalla. Ma Chaney ci teneva che i suoi ospiti fossero ben impacchettati prima di essere depositati nel frigorifero, altrimenti c'era il pericolo che si graffiassero contro le pareti ghiacciate. Perciò prese Linda per le braccia e la trascinò in soggiorno per adagiarla sul divano a faccia in giù. Poi andò in cucina a cercare un altro sacco. Non si ricordava se ne era rimasto qualcuno. Frugò negli armadietti, ma trovò sacchetti troppo piccoli. Il telefono non squillava, forse Anne non si sarebbe fatta vedere per quella sera. Forse si era addormentata. O forse quella era la notte in cui la buona sorte assisteva Chaney fino all'ultimo. Anne sbirciò fuori della finestra e vide la luce accesa in casa di Mark. Lei era pronta a compiere la sua mossa. Stavolta non avrebbe telefonato, avrebbe attraversato la strada, percorso il vialetto fino alla porta di servizio e si sarebbe presentata a lui senza essere invitata. Doveva pur mostrare il suo coraggio. Uscì di casa. In meno di trenta secondi era sul vialetto di Mark e si dirigeva a passo rapido verso il retro. In cucina Mark apriva e chiudeva armadietti e mensole alla ricerca di un
sacco di plastica verde, grande come quello che si era rotto. Anne si avvicinò alla porta di servizio e si fermò. Il confronto con Mark stava per avere inizio e lei aveva l'impressione che il cuore le balzasse fuori. Per un attimo pensò di tornare indietro. Era troppo penoso, troppo imbarazzante. Sapeva in partenza che avrebbe pronunciato le parole sbagliate. Ecco la porta. Di colpo i dubbi svanirono, la giovane donna riprese coraggio. Afferrò la maniglia dell'uscio e l'abbassò. Pochi attimi e fu dentro. Richiuse la porta senza far rumore. «Chi è?» chiese bruscamente Mark con una punta di panico nella voce. Anne entrò in cucina. «Ciao», salutò. Lui la fissò a bocca aperta, la mente rivolta a Linda sul divano. Si sforzò di mettere insieme un sorriso. «Anne!» esclamò con voce incerta. «Che magnifica sorpresa!» Sta' calmo, aggiunse mentalmente. Ci sarà pure un modo di cavarsela. Non poteva essere la fine proprio durante la notte più importante per lui e per Emil. «Scusami se non ho telefonato», stava dicendo Anne. «Avevo voglia di vederti subito.» «Ma non c'è bisogno di telefonare, lo sai.» «Hai fatto buon viaggio?» «Sicuro. Sì, tutto bene.» «Che cosa stai cercando?» «Oh, niente d'importante», masticò Mark. Anne era pronta a fare il suo discorsetto, non voleva perdere tempo in preliminari. «Andiamo a parlare», disse e fece per andare in soggiorno. «No!» gridò Mark. «Che cosa ti prende?» «Ehmm... Perché non restiamo qui?» suggerì lui. «In cucina? Ma no, andiamo a sederci», replicò Anne e ignorando la protesta di lui entrò nel soggiorno. «Ho saputo che c'è stato un tempo spaventoso nel Massachusetts», osservò mentre Mark la seguiva allibito, temendo il momento fatale. «C'è stata perfino un'alluvione a...» Fu allora che vide il corpo. E rimase impietrita. Sentì le gambe piegarsi, il cuore si arrestò. Era peggio di quanto avesse immaginato, la conferma dei suoi dubbi più tremendi. «Oh!» bisbigliò senza guardare Mark. Lui non parlò. Che cosa c'era da dire? «Allora è vero», mormorò Anne. «I viaggi erano un pretesto per vedere
altre donne. Ma non pensavo che arrivassi al punto di portartele a casa... ubriache!» «Anne, lascia che ti spieghi», disse Mark rendendosi conto all'improvviso che lei non aveva capito che Linda era morta. «Vedi, io...» «Non c'è niente da spiegare. Lei spiega tutto. È tutto chiaro. L'avresti fatta rinvenire con una doccia fredda e un po' di caffè bollente e poi l'avresti riportata via, magari nascosta sul pavimento dell'auto per non farmela vedere mentre passavi davanti a casa mia.» «Anne, non puoi capire. Stavo solo...» «A faccia in giù», continuò lei come se non lo avesse sentito. «Chissà perché crollano in casa di un uomo sul divano e a faccia in giù. Troppo sbronze per rendersi conto di quello che fanno. Su, vediamo che tipo è questa signorina.» Anne marciò verso il divano. «Non farlo!» gridò Mark. «Faccio quello che mi pare», lo rimbeccò lei. E afferrò la donna per le spalle, rigirandola. I capelli di Linda Taylor ricaddero da parte denudando il collo. La corda da pianoforte era ancora lì. «Mio Dio!» L'urlo di Anne lacerò la casa. Lei fissò la forma priva di vita, poi guardò Mark. Gli occhi di lui avevano una luce di follia che non aveva mai notato prima. «Carina, eh?» disse Mark. «Perché?» balbettò Anne. «Oh, Mark, perché... perché?!» Lui non rispose. I suoi occhi sfrecciarono intorno alla stanza in cerca di un'arma. Doveva ucciderla ora, subito. Niente ritardi, nessuna messinscena alle Jersey Palisades. La pistola era rimasta nella Jaguar, perciò Mark corse in cucina a prendere un coltello. Pur terrorizzata e confusa Anne capiva che doveva scappare. Si precipitò verso la porta di servizio, ma Mark uscì dalla cucina e le bloccò il passo brandendo il coltello davanti a sé. «No, ti supplico!» gridò Anne. «Sono io... Ti prego, Mark!» Corse a rifugiarsi dietro una poltrona. Lui la inseguì. Allora Anne sfrecciò fuori dal soggiorno e vide la porta dello scantinato aperta. Disorientata credette che fosse l'uscio sul retro della casa; vi si di-
resse, ma si fermò di colpo vedendo la scala che scendeva in cantina. Mark era dietro di lei. Non aveva scelta. Scese le scale di corsa e sentì i passi di lui che la seguivano. Anne vide un'altra porta. Mark l'aveva lasciata aperta perché dpveva fare un lavoro nella stanza. Lei corse verso la porta e spense la luce nello scantinato, prima di chiudere l'uscio. Avanzò tentoni. C'erano dei mobili. Doveva essere un ripostiglio. Ma c'erano altri oggetti oltre i mobili. Anne non riuscì a capire che cosa fossero. Sentì Mark aprire la porta. «Ti ho preso!» sibilò lui nel buio. Lei non fiatò e si fece strada piano piano attorno agli oggetti ammassati. Intuiva dov'era la porta e cercava di avvicinarvisi senza farsi notare. Chaney aveva altre idee. Accese la luce. Per un istante Anne rimase accecata dal bagliore improvviso. Poi si guardò attorno. E urlò più forte di quando aveva visto Linda Taylor sul divano. Quella era una stanza degli orrori, una specie di macabro museo. Imbalsamate e perfettamente conservate c'erano tutte le vittime di Mark Chaney. Una psicologa seduta in cattedra. Un giudice in toga al suo seggio in tribunale. Un insegnante di matematica davanti a una lavagna zeppa di formule e di numeri. Un preside davanti a una bacheca dov'erano esposti riconoscimenti e premi. E altri ancora. Ma c'era ancora spazio per Linda e Ralph Taylor. E in mezzo ai morti imbalsamati una persona viva che si muoveva. Mark Chaney avanzò in direzione di Anne, muovendosi lentamente attento a non urtare i suoi ospiti. Lei andò a rifugiarsi dietro il giudice. Chaney continuò a venire avanti anche quando la donna si spostò a sinistra, dietro un vecchio banco di scuola. Lui stringeva il coltello nella mano destra. Anne teneva d'occhio la porta. Avanzò di qualche centimetro, ma lui stava per scattare. E allora Anne afferrò miss Burnette per una spalla e la scagliò contro il suo inseguitore. La salma cadde proprio ai piedi di Chaney che inciampò e lasciò cadere
il coltello. Lui fece per rialzarsi, ma scivoltò sugli occhiali che erano caduti in frantumi dalla sagoma imbalsamata. La donna scattò, si precipitò su per le scale e sbatté la porta dello scantinato, volò fuori dalla casa, attraversò la strada. Era troppo atterrita per gridare. Entrò in casa sua guardandosi alle spalle. Chaney non si vedeva. Esausta, Anne cercò di riprendere fiato; poi andò al telefono. Il numero della polizia su un foglietto vicino al telefono non c'era più. Non riuscì a trovarlo e allora compose freneticamente il numero del centralino. Dopo essersi fermato un momento a prendere la pistola dalla Jaguar, Chaney attraversò la strada fino alla porta d'ingresso della villetta di Anne. Da buon professionista sapeva che stava tentando di chiamare la polizia. Al buio cercò il terminale che collegava la linea telefonica alla casa e lo strappò. Angelo Garibaldi era di turno al commissariato di polizia di New Rochelle. Stava esaminando una nota spese per la manutenzione di un'auto di pattuglia quando un giovane agente si precipitò nel suo ufficio. «Signore, sta succedendo qualcosa a casa della Seibert.» «Come lo sai?» «Aveva appena chiamato, era in linea. 'Mi dia...' stava dicendo, quando la comunicazione si è interrotta.» «Mi dia chi?» ragionò a voce alta il capitano. «I pompieri? Un'ambulanza? Noi?» «Non lo sappiamo, signore. Ma lei era molto agitata.» «Allora andiamo.» Garibaldi prese con se tre uomini, salì in macchina e a velocità folle si diresse verso la casa di Anne. In preda al panico la giovane donna seguitò a premere il tasto dell'apparecchio telefonico. Muto. «Pronto? Pronto! Centralino...» Finalmente capì che non poteva telefonare. E immaginò il perché. Era sola, isolata, impossibilitata a mettersi in contatto con il mondo esterno. E non poteva scappare altrimenti Mark l'avrebbe intrappolata come
un animale in gabbia. Lo sentì che trafficava con la serratura della porta d'ingresso. Con le mani che tremavano e il sudore che le colava sul collo fece per andare a prendere la pistola. Poi si fermò, ricordando. Aveva comperato le munizioni, ma a casa si era accorta che non andavano bene per la sua pistola. E dopo si era dimenticata di farsele cambiare. Stupida. Era disarmata. Sentì Mark far scattare la serratura. Stava aprendo la porta. 24 Anne spense la luce in soggiorno e in camera da letto facendo piombare la casa nell'oscurità assoluta. Sentì entrare Mark. Lui lasciò la porta socchiusa preparandosi così una rapida fuga. Anne sgusciò nello studio e si acquattò dietro una sedia, cercando di trattenere il respiro. Ora sentiva solo il picchiettare della pioggia che scrosciava. Mark si abbassò lentamente sulle ginocchia, impugnò la pistola e fece scattare la sicura. Lei era là dentro, lo sapeva. L'avrebbe uccisa per eliminare definitivamente la minaccia che era cominciata con quella lampada accesa accanto alla finestra. Ma prima doveva sapere se la donna aveva fatto in tempo a prendere la sua pistola o se l'arma era ancora nel comodino da notte. Avanzando lentamente si fece strada verso la camera di Anne. Ma lei poteva essersi nascosta là dentro. E se aveva la pistola gli avrebbe sparato immediatamente. Si allungò sullo stomaco e avanzò strisciando come un marine. Non si sentiva nessuno in camera. Raggiunse il comodino dove Anne teneva l'arma. Ma come accertarsi se era ancora lì? Il minimo rumore avrebbe messo in allarme la ragazza. All'inferno! decise finalmente. Afferrò il bordo del comodino e lo rovesciò. Il mobiletto rimbalzò sul pavimento, una lampada si fracassò contro la parete.
Anne, nello studio, pensò che lui doveva aver inciampato in qualche cosa. Mark aspettò. Nessuno sparò. Probabilmente lei si trovava in qualche altra stanza. Silenzioso strisciò lentamente verso il comodino e tastò il cassettino. Era quasi fuori. Lui mise dentro la mano. La pistola era ancora lì. Bene. Dunque lei non era armata. Fra poco tutto sarebbe finito. Angelo Garibaldi e i suoi uomini si fermarono nella via. Strano, la casa era avvolta nel buio. E la porta d'ingresso socchiusa. Il capitano era pratico di queste cose, perciò non si precipitò nella villetta. Ordinò ai suoi uomini di controllare le finestre, e cercare di vedere che cosa succedeva nell'interno. Sotto la pioggia battente lui si diresse verso il retro. Mark sgusciò di stanza in stanza tendendo le orecchie ad ogni suono, sebbene fosse difficile sentire con quella pioggia. Tastò i mobili uno per uno, con la speranza che Anne si decidesse a muoversi. Entrò nella camera degli ospiti, ma lei non era neanche lì. Restava soltanto il piccolo studio. Doveva essere là, insieme con il famoso orologio a cucù. Tornò strisciando nel corridoio e proseguì verso lo studio. A un certo punto un bottone della sua camicia sfregò contro il muro. Anne sentì il rumore. Era finita, lo sapeva. Dopo quanto aveva passato, tutto finiva in quel modo terribile. Lui era sulla porta, ormai. Anne rimase accucciata, aspettando. Odiava l'idea di morire senza lottare. Ma come lottare senza armi? E come si lotta contro un uomo che ammazza la gente per hobby? Poi ebbe la certezza di sentire qualcosa muoversi all'esterno. Probabilmente un cane o un gatto. Tanto, che importanza aveva? La pioggia scrosciava, i lampi si inseguivano guizzando nel cielo. Da dietro la sedia Anne poteva vedere i contorni della figura di Mark che strisciava nella stanza. Fa' qualcosa.
In preda alla disperazione si drizzò di colpo pronta a sfrecciare verso la porta. Rovesciò la sedia. Anche Chaney balzò in piedi. In quel momento, come se anche la natura si schierasse contro la giovane donna, un lampo serpeggiò nel cielo, il suo chiarore riempì la casa. Mark vide esattamente dove si trovava Anne. Il capitano Garibaldi era davanti al piccolo studio. E nel bagliore accecante del lampo vide tutto ciò che doveva vedere: un uomo, una donna. L'uomo teneva puntata una pistola. Tutto avvenne in un istante. Il poliziotto estrasse la sua pistola. Un tuono assordante. Anne vide la vampata della pistola di Mark. E poi silenzio. Buio assoluto. Ma Anne era ancora viva. Incolume. La vampata che non aveva visto era partita dall'arma di Garibaldi... una frazione di secondo prima che l'altra pistola abbaiasse. Mark Chaney scivolò sul pavimento. Non una parola, non un suono. Era finita per lui. Il capitano avanzò nella casa e accese tutte le luci, compresa la piccola lampada accanto alla finestra che Chaney, una notte non lontana, aveva notato per la prima volta. Per Anne Seibert il terrore cominciato con l'insonnia e con quella luce alla finestra era giunto alla fine. Epilogo Ma era davvero finita? Anne tornò al suo lavoro e cercò di dimenticare quell'incubo. Ma l'insonnia persisté e in un certo senso peggiorò. Ora lei aveva la certezza che l'unica cosa capace di ricondurla a una vita normale era una relazione sentimentale stabile e sincera. E temeva che questo non sarebbe mai accaduto. Dovette rispondere a un'infinità di domande della polizia. Gli investigatori le dissero che probabilmente Mark Chaney aveva agito da solo, che
nessun altro era coinvolto in quella orrenda catena di omicidi. Le chiesero anche di riferire sui viaggi notturni di Mark, sui suoi interessi, sul suo stile di vita. Ma lei non sapeva granché. O forse sapeva troppo. E costituiva tuttora un pericolo. Qualche mese dopo la morte di Mark, Anne sentì dire che la sua casa era stata venduta. Lei non sapeva niente del nuovo proprietario, tranne che era uno scapolo. E doveva ammettere, piuttosto imbarazzata, che il proprio interesse andava oltre la semplice curiosità. Un sabato arrivò la squadra di una ditta di traslochi a portar via la roba di Mark. E poco dopo arrivò un camion con i mobili del nuovo proprietario. Anne uscì in strada per vedere il suo nuovo vicino. Vide soltanto l'agente immobiliare, che conosceva. Stavano chiacchierando quando dall'interno della casa di Mark risuonò un rumore di passi. L'agente sorrise. «Anne, ora le presento il nuovo inquilino, il signor Ron McCann.» La porta d'ingresso si spalancò ed Emil Welder uscì. Anne non lo conosceva, lui si era sempre tenuto nell'ombra. «Molto lieto», disse Welder facendo tremolare il triplo mento. «Mi dicono che ha passato dei guai.» Anne rise ironicamente. «Già», rispose. «Ho passato dei grossi guai.» «Bene, d'ora in poi può stare tranquilla. Veglierò io su di lei», promise Emil. In un certo senso Anne si sentì sollevata. Dopo lo choc tremendo, dopo tutto quello che aveva passato, finalmente qualcuno che l'avrebbe protetta. FINE