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KATHE KOJA DEGENERAZIONE (Bad Brains, 1992) A Rick Per sempre Desidero ringraziare Alan Clark e Wayne Allen Sallee per la loro disponibilità e il loro aiuto E, come sempre, il mio amore e il mio grazie a Rick Lieder, per tutto. 1 Non vide che metà universo, colui al quale non fu mai mostrata la casa del dolore. Emerson Un doccione benedicente, al di sopra del suo capo, mentre faceva colazione. Colori a olio, sensuali come il sangue, in una cornice rossa, una sagoma simile a una sfinge sdraiata, dipinta in tutte le sfumature del nero. Una testa di ariete sul corpo dell'essere incantato, due occhi maligni. Era la preferita, Criosfinge, l'ultima — e la migliore — delle opere che aveva creato, e Austen la teneva in cucina, in modo da poterla vedere sempre, come allora, mentre mangiava o leggeva il giornale, in qualsiasi momento lo desiderasse. Peter la considerava morbosa. Peter considerava lui morboso, assuefatto a vivere nella sua casa in legno sulle cui pareti, dagli sguardi lascivi, erano appesi quadri invenduti per un valore doppio rispetto a quello delle opere esposte in una galleria, ossessiva testimonianza della sua incapacità di dipingere ritratti accettabili. Austen non cercava di correggerlo, lasciava che pensasse quello che voleva. Emily aveva sempre considerato Peter una sorta di imbecille; era, tuttavia, un imbecille cordiale, e permetteva ad Austen di frequentare la galleria. "Sei tu lo spettacolo," era solito commentare Peter e, soprattutto, non faceva mai domande a cui Austen non potesse rispondere con una battuta, una scrollata di spalle o un mezzo sorriso che sembrava carico di significato, pur non essendo altro che una timida autodifesa. Emily diceva sempre che era facile ingannare Peter, e aveva ragione. Emily aveva ragione su molte cose.
L'uovo alla coque aveva un sapore cattivo, come se si fosse guastato durante la fecondazione. Negli ultimi tempi non aveva appetito. E, tornando al quadro: che cosa alimentava le sfingi? La carne dell'uomo, i suoi sogni, la dolce musica delle grida umane? E da dove proveniva? Emily, certo, lo avrebbe saputo. Ex moglie; un'espressione stupida. La desiderava ancora, gli mancava, guardava ancora le sue fotografie — una di esse stava infatti proprio di fronte a lui, attaccata alla parete con una puntina da disegno, accanto alla caffettiera: lei, in mezzo ai rami, su una fredda spiaggia da vacanze, l'espressione seria. E guardandola, ogni tanto, quando si sentiva particolarmente affranto, si masturbava persino, per ristabilire tramite il suo corpo derelitto un legame con il passato. Presente, quella era la parola, e intensa: nella sua mente lei era intensa come un profumo. Nei primi mesi, dopo che se n'era andata, aveva setacciato tutta la casa a caccia di qualche oggetto da lei dimenticato, un guanto spaiato, un reggiseno smesso. Li raccoglieva, li teneva in mano, li annusava per trarne conforto, ma lo faceva spinto da un comportamento compulsivo, tanto che, molto spesso, il loro profumo svaniva inevitabilmente nell'oblio del suo odore, lasciandolo ancora una volta a mani vuote. Non c'erano contatti fra loro: lei aveva fatto del suo meglio per chiudersi quella porta alle spalle, ma non ci sarebbe voluto molto per rivederla, non sarebbe stato necessario attraversare continenti. Sapeva dove si trovava. L'espressione seria. No. Le veneziane erano inclinate: una striscia di sole colpiva di traverso il dipinto col doccione; alla luce i colori si mescolavano come acque agitate. Era già mattina inoltrata, ed era già in ritardo, ma era così bello rimanersene lì seduto nella cucina vuota, il caffè tiepido e l'ultimo beignet del negozio di alimentari, a guardare il quadro. No, Peter aveva certamente ragione, non era un'opera commerciale, ma era comunque un ritratto; l'immagine strappata, filtrata e contorta, come se l'anima, al pari della cera, fosse duttile sotto tortura. Non era ciò che aveva inteso fare, ma in quel periodo era ciò che faceva meglio; ciò che ti è congeniale, alla fine, ti sceglie. Un evento felice: proprio quello aveva condotto Emily da lui. Gli amici di lei trovavano i suoi quadri peculiarmente disgustosi, così era andata a un vernissage alla galleria di Peter, per vedere di persona. E aveva visto anche lui. Che direbbe, se lo vedesse ora? Capo cuoco, prima, e tuttofare in seguito
in un negozio sull'orlo del fallimento, per clienti che sapevano a malapena leggere le scritte sulle magliette che comperavano. Più che aver perso il lavoro, questo si era via via esaurito, era fluito via come una strana linfa, come una luna uscita dalla sua orbita. Non cercava un nuovo lavoro da mesi e non aveva in animo di ricominciare a farlo. Si allontanò dalla tavola, dalla Criosfinge; in camera, alla ricerca di una T-shirt da indossare (senza scritte), in bagno, per pettinarsi, poi le chiavi e via. La porta chiusa, con un colpo secco, la cucina vuota, la casa vuota, le molte facce oscillanti di fronte a lui, messe a fuoco nell'istante in cui le distingueva meglio. Era come Prometeo, nel momento dell'incontro con il fuoco. La giornata era calda, e lo diventò ancora di più con il passare delle ore. Tre persone entrarono nel negozio, ma nessuna di loro era un cliente. Seduto dietro il bancone, scorreva una rivista di spettacolo vecchia di due settimane, immaginandosi i volti che vedeva come li avrebbe dipinti, in un ritratto. Che smorfie viventi, che semplici, incredibili incanti. Peter chiamò, per dirgli di una festa: vai, esclamò, esci da quella tomba per una sera. Si ravviò i capelli sudati. Di nuovo qualcosa non andava con il condizionatore. "Il tuo problema," disse con tono gentile, "è che non apprezzi il fatto di stare solo." "No, a meno che voglia masturbarmi. Vacci, d'accordo?" D'accordo. Una festa, o quello che oggi si intende come tale: un mucchio di gente, amici occasionali, per nulla speciali, che bevono fino a instupidirsi nel frastuono di qualche gruppo musicale. Qualcuno potrebbe portare un'amica, una faccia nuova; potrebbe fare qualche avance, magari pure scopare, anche se, negli ultimi tempi, nella sua macchina i preservativi erano diventati un fastidio più che una promessa. Pensava spesso, mentre ne tastava l'involucro sottile e lucido: ne ho veramente bisogno? Meglio bere fino a stordirsi, seduto in silenzio, preferibilmente senza pensare, rimanere così per l'intera serata, in mezzo al guazzabuglio di suoni, e addormentarsi sul divano, sul sedile anteriore dell'automobile, per risvegliarsi pesto e vuoto, in preda al mal di testa mattutino, per guidare fino a casa. Ma Peter era insistente, Peter gli fece dire di sì, a forza di rimproveri e punzecchiature; compra della birra, gli disse, ti rifonderò. E allora: il parcheggio del negozio di bevande e stuzzichini, pregno della calura e del languore estivi, pieno di chiazze scivolose di olio di motori e di Coca Cola, detriti degli sprechi di una notte, di centinaia di notti. Due ragazze, top fluo
e trucco sfatto dal sudore, vocianti da una parte all'altra di un Toyota blu. Un uomo bianco, grasso, che svuotava il posacenere della sua macchina. Il ronzio indistinto di un'autoradio svanì nel nulla e lui, shorts scoloriti a macchie e una T-shirt senza maniche, madido di sudore nonostante fosse passato da casa a cambiarsi, si fece strada all'interno, alla ricerca di quell'infetta penombra che ben si fondeva con l'ambiente del negozio, l'odore di un frigorifero grande e sporco, troppe volte aperto. Scelse senza pensare una confezione da dodici di Budweiser, la sollevò con una mano con nonchalance e prese una confezione accartocciata di stick, una ben misera idea per un antipasto. Ma era più che sufficiente. Questo era più o meno il suo motto, concepito del tutto candidamente: dopo aver vissuto una stagione d'oro, vale il principio del "più che sufficiente". "Qualcos'altro?" chiese la commessa. Aveva un seno spropositato e un'espressione per nulla gioviale. "No." La radio alle spalle della donna urlava la Top 40, ed egli dovette ripeterlo due volte. Mentre lei batteva sul registratore di cassa, sentì la birra venirgli su. Ne aveva già bevute tre della confezione da sei acquistata la settimana precedente, per una festa che non si era poi concretizzata, e lasciata congelare in frigorifero, avanzo di una pessima serata. "Niente di più piccolo?" domandò la commessa. Egli scosse il capo. Non aveva niente di più piccolo e niente di più grande; anzi, non aveva nulla di nulla, se non un assegno non ancora incassato, arrotolato e dimenticato nella piega sagomata del portafoglio. Al di sopra dei bigi frigoriferi rivolti verso l'entrata, c'era la telecamera di controllo, tozza e squadrata, il lucore rossastro e dozzinale del suo occhio indagatore. Austen vide, osservò per alcuni secondi. Io Sono il Tuo Cliente. Ritratto per un pubblico differente. "Dica quel cheese del cazzo," mormorò. La commessa lo guardò fisso. "Le ho chiesto: non ha nulla di più piccolo?" In fila dietro di lui due uomini, già infastiditi, lo divennero ancora di più, l'aria impaziente e i sacchetti frusciami di chips di mais in mano. "No," e sollevò le mani sopra il bancone, come un mago che si esibisce a una festa di compleanno. "Le ho già detto di no." "Beh, lo dica a voce più alta la prossima volta." "Riusciremo a schiodare il culo di qui, stasera?" Una voce fonda, direttamente alle sue spalle. Austen raccolse il resto e la birra; infilò il pacchetto di stick nella maniglia di cartone della confezione di birra e uscì nella
morsa di calura, lateralmente, facendo un cenno con il capo in direzione della telecamera, della cassiera. Lei disse qualcosa, le labbra piegate scontrosamente in una smorfia mentre la porta si chiudeva. Austen sorrise, ricordandosi per un istante uno scherzo che faceva con Emily; preso da quel ricordo, fece un inchino esagerato; la birra non gli impediva i movimenti ed egli, quasi a passo di danza, arretrò, e arretrò, stupido buffone, per poi fare una piroetta e voltarsi verso la macchina. E inciampò pesantemente, nel cordolo del marciapiede alto dodici centimetri. Fu come se il terreno gli fosse stato tolto subdolamente da sotto i piedi, come se si fosse verificata una sorta di scaltra trasformazione dei solidi e dei gas. La spinta in avanti, la confezione da dodici scaraventata in aria, come un blocco di cemento, da braccia che ora, frenetiche, cercavano solo di mantenere l'equilibrio. Tutto assunse per un attimo un tono da farsa, poi la sua fronte batté sul marciapiede con un rumore netto, di carne pestata. Una lenta espirazione. Poi, inspirò tenebra. Era estremamente stanco, in un luogo al di là di ogni sensazione. "Accidenti al 911," disse qualcuno. Si risvegliò dolorante, molto dolorante. Un odore simile a plastica gli pervadeva il naso e la bocca. Tentò di parlare, di comunicare con qualcuno, presupponendo illogicamente che vi fosse qualcuno attorno a lui. Aiutatemi. Aiuto. Ospedale. Aveva la testa immobilizzata. C'erano dei tubi che entravano dentro di lui, nel braccio, nel naso; uno gli usciva dal cazzo. In un momento di rabbia Emily aveva dichiarato che i suoi migliori pensieri gli uscivano di lì. Forse glieli stavano aspirando, gli stavano succhiando le sue impressioni del dramma. Aiuto. Aiutatemi. Una voce di donna, vocali indistinte. Speranza, intensa e luminosa: Emily? Poi, la presa di coscienza, nello squallore e nella vergogna, che si trattava di un'altra, di un'infermiera: che non assomigliava per nulla a Emily, e non aveva per nulla la sua voce. Idiota. Una cordiale, impercettibile efficienza: gli controllavano i tubi, lo tastavano dappertutto, gli guardavano negli occhi con la penna luminosa, il cui fascio di luce circolare colpiva in particolare, presumibilmente, la sua apatica pupilla sinistra. Stia attento ai cordoli dei marciapiedi. Non vada in gi-
ro, se ha bevuto. "Posso prendere un'aspirina o qualcosa del genere?" chiese, scoprendo tristemente all'istante di avere una voce nuova, impastata, come se parlasse con la bocca piena di merda. L'infermiera gli toccò il braccio e gli parlò direttamente in faccia, in un dialetto incomprensibile. Le sopracciglia arcuate, le labbra che si muovevano più lentamente, tentò di nuovo di comunicare. Ma le sue parole erano inintelligibili. "Mi fa male la testa," disse Austen, muovendo la mano per indicare l'area dolente, e incontrò invece una parte imprigionata, fasciata, le cui dimensioni lo spaventarono. La paura crebbe ancor più di fronte al borbottio insistente dell'infermiera, che pareva parlare una lingua sconosciuta sulla terra. Sulla targhetta di identificazione si leggeva il nome ANNA. "Anna," esclamò, cercando di essere il più calmo possibile, mentre il dolore che provava alla fronte gli rendeva pressoché impossibile evitare di gridare. "Non so che cosa stia dicendo. Parla inglese?" Molto lentamente, lei annuì. "Anch'io," e quindi si mise a piangere, piccole lacrime grigie nel mare immenso del suo terrore. Tentò di stringere la mano di Anna con le sue dita rigonfie e informi come un guantone da pugile, ricercando il suo contatto, come un bambino nel buio. Aiutami. E quando lei se ne andò, dopo avergli dato alcuni colpetti affettuosi con la mano e pronunciato parole strane come quelle degli yahoo, rimase disteso, senza fiato, il panico a gravargli sul petto come un doccione, come una criosfinge dalla lingua indiscreta, impudente come i nuovi tubi, il suo mezzo di nutrizione, la facoltà di linguaggio perduta, ridotto allo stato primordiale. Lui e il panico, nella stanza bianca e blu che non divideva con nessuno. Le gambe e le braccia tremanti in quel letto sconosciuto, il gocciolio dei liquidi e lo scorrere del tempo. Con la fronte imprigionata in bende da mummia, aveva paura di dire anche una sola parola, paura di parlare per quello che poteva uscire. D'un tratto ebbe paura di tutto, una sensazione di terrore tanto intenso che si risvegliò in lui l'antico cervello rettiliano; cercò di muoversi, di alzarsi per scappare via. Ma, immediatamente dopo, percepì un senso di profonda dissociazione crescere nel suo animo, come schiuma che sale alla cresta di un'onda. Gli pareva di provare il terrore di un altro, come se lui stesso sedesse a gambe incrociate all'interno del suo petto, e stesse lì a guardare. Con lo sguardo calmo e imperturbabile di un osservatore attento, di un voyeur, di un artista.
Nell'angolo della stanza più vicino a lui, in prossimità della porta, percepì un movimento, un vortice, liquido, mucillaginoso, argenteo, quasi fosse provvisto di squame, sottile come la pelle dei pesci. Si protendeva esternamente, si allungava. Verso di lui. Osservava, osservato. Non una sagoma umana. E lui ricambiava lo sguardo senza parlare, in maniera altrettanto fredda e inumana, incapace di provare paura come di volare, mentre la cosa si faceva bizzarramente più compatta e si ritirava, sgusciando, nell'angolo retto privo d'ombra, nell'angolo vuoto della stanza vuota. Poi ebbe di nuovo la percezione di se stesso: matasse di tubi in cui gocciolavano continuamente dei liquidi, il dolore che, come un tappeto srotolato gradatamente, lo riportava all'interno del suo corpo, lo spettacolo mirabile delle sue crepe e delle sue fenditure infinite, tutta la sua insospettabile fragilità e il suo sgomento. Ecco come un uomo può cadere come un clown, mentre fa lo stupido, e risvegliarsi in agonia, incapace persino di gridare nel timore di udire il suono della sua stessa voce. Per tutta la notte. Il neurologo aveva una strana pelle maculata, simile a quella di un vecchio paio di scarpe di coccodrillo, e maniere fredde, ma non arroganti, che Austen trovava talora divertenti, talora offensive. Intubato, tremante sia per la fame, sia per un'autentica debolezza, riusciva ora a comprendere, se non tutte, buona parte delle parole; se non tutte le sfumature, almeno una sì e una no. Il conforto che questo gli procurava era indescrivibile; ma lungo quale linea sottile aveva camminato, lungo quella stessa linea che ognuno dà per scontata e che rappresenta la semplice capacità di comprendere. Quando la testa avesse smesso di fargli un male cane, avrebbe senz'altro riflettuto sulla questione. "Lei soffre di epilessia temporale." La luce della penna puntata nei suoi occhi. "Chi è il nostro presidente?" Test, di natura estremamente semplice: riesce a sentire questo? E questo? Qui? Guardi verso l'alto, poi verso il basso. Inarchi le sopracciglia. Vediamo un po' come batte le palpebre. Alle sue spalle c'era Anna, l'infermiera, con un leggero sorriso sul volto. "Le prescriverò il Tegretol," disse infine il neurologo. "La farà stare tranquillo. Il Demerol è per il mal di testa. Più in là faremo altri test. Non lasci la città." Va bene.
Quando il neurologo se ne fu andato, il sorriso di Anna si fece più disteso. Indugiava. "Lei è molto fortunato," esclamò. "Il dottor Vickers è un bravo medico." "Di che..." Avrebbe desiderato muoversi, rotolare su un fianco, alleviare, se non eliminare, il dolore persistente alla spalla sinistra. "Di che test sta parlando? E che cos'è il Tegretol?" Il Tegretol, rispose la donna, intenta a verificare per l'ennesima volta i tubi, le sue orecchie e i suoi occhi, in modo da identificare eventuali indizi di perdite di liquor, a controllare la presenza di eventuali edemi e infezioni, con le sue mani insolitamente fredde e con le punte delle dita quasi sgradevolmente umide, è un farmaco antiepilettico, un anticonvulsivante. Per quanto riguardava gli esami, avrebbe fatto la TAC, forse la PET e forse anche la risonanza magnetica, vari elettrocardiogrammi e molte, molte radiografie. "Allora è un bene che abbia pagato i premi dell'assicurazione." Anna sorrise di nuovo. Qualcosa gli era sfuggito ed egli aprì la bocca per chiederle di ripetere, quando, nelle sue narici, il vago odore di medicinali si tramutò in quello, intenso e persistente, del vomito. Improvvisamente non fu più nessuno, non fu più una persona specifica, ma una moltitudine di cellule pulsanti, tenute insieme da materiale plastico. L'odore, seppur attenuato, era l'unico aggancio con il momento appena trascorso. Batté le palpebre in direzione di Anna, lievemente, come se volesse dire O, Dio, eccone un altro, ma anche l'elaborazione di quel pensiero, la sua semplice formazione, sembrava appartenergli ancor meno dei gorgoglii e del pulviscolo in movimento, delle desquamazioni cutanee, delle impercettibili folate create dal passare e dal ripassare della morte. Che luogo affollato è quest'ospedale. E, di nuovo, il terrore che, prendendo corpo, si insinuava, un passo dopo l'altro, come una danza rituale. Austen, pronto ad apprendere, guardò istantaneamente l'angolo in cui l'argento tremolante, la massa mucillaginosa, l'essere squamato era apparso. Ma era già scomparso. Non senza, tuttavia, lasciare traccia: guarda là, nello specchio del bagno, vagamente visibile nell'ultima coda dell'occhio, là era riflessa la sua quasi allettante contorsione. Guardala, guarda bene. E nel riflesso vedrai un lampo di riconoscimento, perché anch'esso ti vede. Una pletora di attacchi.
Uno dopo l'altro, tutti caratterizzati da una serie infinita e spaventosa di immagini, odori, visioni. Aveva la sensazione di essere nessuno e di essere persone diverse; si vantava a voce alta di cose che non aveva mai fatto, confessava fatti scabrosi. Raccontò ad Anna di aver ucciso una ragazza quando era all'ultimo anno delle superiori. Raccontò ad Anna di essere una donna di nome Clare; le disse che sua moglie era morta e che, talora, ne sentiva la mancanza al punto da desiderare egli stesso di morire. Affermò di non essere più in grado di dipingere, e che comunque non gli interessava. E la serie infinita di mal di testa, associata all'impulso pressante di cavarsi gli occhi dalle orbite. Cercava di pianificare il modo migliore per farlo, di elaborare un metodo che richiedesse scarsa abilità e poco tempo; se lo avessero visto, infatti, avrebbero tentato di fermarlo. Osservava il groviglio di tubi flessibili, chiedendosi quali entravano e quali uscivano dal suo corpo. Se ne avesse schiacciato uno con le dita, che cosa sarebbe successo? Il Demerol. E il Tegretol. Doveva orinare in un recipiente di plastica color azzurro cielo, i cui bordi erano stati deformati e corrosi da generazioni di pisciatori. Se la faceva addosso, rivoli di urina calda lungo le cosce. Nel momento di passaggio fra una cefalea e un attacco, simile a una sorta di vestibolo, si facevano strada le sensazioni: non erano, come aveva suggerito il terapeuta che ogni tanto faceva capolino nella stanza, di mutevolezza, di afflizione, della cosiddetta depressione post-attacco - o, per lo meno, non erano esattamente tali. Erano venate, permeate da un odio cieco nei confronti di se stesso, dalla vergogna di un uomo che, per una sciocchezza, si rovina la vita, di un uomo che, procedendo a ritroso verso la macchina per avere una vista migliore, incespica e cade, a bocca aperta, in un abisso impietoso, come un cartone animato. Fino a quel momento non aveva raccontato a nessuno l'esatta causa della sua lesione: si era limitato a dire che, mentre camminava, era caduto, stupidamente. Tanto stupidamente da farsi un buco in testa. Forse, tanto stupidamente da essersi fatto un buco permanente in testa. Il letto non era male, ma il sistema di contenzione del capo, più che essere di conforto, metteva a dura prova la sua pazienza. Lo tenevano pulito, rispondevano alle sue domande, lo curavano nella maniera più rigorosa possibile. Si lamentò perché aveva sete; gli spiegarono che nel suo caso l'assunzione di liquidi doveva essere limitata, per evitare eventuali edemi. Che cosa sono? L'edema è una ritenzione idrica, nel capo, nel cervello, un rigonfiamento. Ah, ho capito. E il giorno seguente, o l'attimo seguente, a-
veva di nuovo sete e si ricordava solo in ritardo perché. Che razza di rompiscatole devo essere! Era incredibilmente spaventato. Peter venne a trovarlo, ovviamente nervoso; gli portò dei crisantemi gialli, il cui profumo gli scatenò un altro attacco, dal quale si riebbe in lacrime, le mani che si serravano ritmicamente, come le chele di un granchio terrorizzato in fuga, solo, tranne che per la presenza, lontana e ammiccante, della cosa argentea, che scomparve nell'angolo come un fazzoletto sventolato in segno di saluto. Ci rivedremo presto. Gli aumentarono la dose di Tegretol. Austen credeva di sentire l'odore della ferita profonda al capo: suppurava, ma non determinava putrefazione, bensì un'attività selvaggia. Pareva che, da un momento all'altro, dalla sua fronte potessero spuntare fiori, animali, pesci o, persino, Atena. Raccontò ad Anna che sua madre era un'artista famosa a Parigi e che egli era quasi un asso del motocross. Passava quelle che gli sembravano intere giornate a piangere pensando a Emily, la supplicava di venirlo a trovare, solo per un minuto. Non sarebbe stato necessario parlare. Siediti, diceva rivolgendosi allo spazio che lo sovrastava, al soffitto illuminato di luci che nessun altro poteva vedere, siediti solamente, laggiù, lascia che ti guardi. Peter ritornò e lo trovò in stato di lucidità, il capo non più bloccato dal sistema di contenzione. "Hai un bell'aspetto," esclamò, avvicinando al letto, simile a una sorta di altare sopraelevato, l'unica sedia della stanza. "Tornerai presto a casa, vero?" "Forse me lo avranno anche detto," rispose. Era tanto stanco. "Ma non credo." Peter gli parlò della galleria: stava allestendo una mostra il cui tema ricordava Klee, i suoi primi lavori. Vi partecipavano sei pittori, con i quali era impossibile lavorare, i tipi più schifosamente narcisistì e meno cooperativi che avesse mai incontrato. Gli occhi di Austen si chiusero senza il suo permesso. "Puoi passarmi quella tazza? Quella là, sì. Grazie." La sua bocca era sempre secca; ora però gli consentivano di succhiare cubetti di ghiaccio. Doveva attendere esattamente trentuno minuti per l'iniezione successiva. "Coraggio," disse a Peter, cercando di sorridergli. Sapeva di avere l'aspetto di una cacca calpestata, ma si preoccupava solo dell'effetto che questo aveva sugli altri. "Forse morirò, e tutta la mia roba invenduta andrà alle stelle." "Oh, sei veramente divertente." Peter schizzò dalla sedia, più impaziente che mai. "Ti rimetterai. Le infermiere mi ripetono in continuazione che il
tuo neurologo è un Einstein, che sicuramente starai meglio." L'Einstein dei neurologi lo visitò anche quel giorno. Ne notò la presenza proprio alla fine di un attacco, la cui entità era stata tanto violenta da fargli desiderare, per lunghi istanti, che esso non terminasse mai. Osserva il modo in cui il sangue fluisce sotto la pelle, osserva la gelida separazione dell'ignoto dal noto mentre la cosa argentea scivola fuori dall'insulso biancore del muro, come un rivolo d'acqua in un canale. Era evidentemente lì da tempo, lo osservava. Lo aspettava? Era il frutto degli attacchi o aveva implicazioni più profonde? Non lo sapeva; rimaneva disteso come un animale, emetteva gemili dalla bocca, era di nuovo nessuno, era vuoto. Veniva delineato, abbozzato da una sensazione di terrore straordinariamente intensa e potente, simile a quella che si prova in chiesa, in punto di morte o quando si supera il limite e si giunge nel vuoto. Si trovava nel vuoto, allungato e disidratato come una carcassa pronta a essere spolpata, e aveva come unico sole la luce artificiale proveniente dal soffitto, che si trasformava di volta in volta, timidamente, in una penna luminosa, in un viso arcigno, nel dottor Vickers e nel suo alito, che sapeva vagamente del cibo ingerito durante il pranzo. "Si rimetterà molto presto." Borbottò poi qualcosa rivolgendosi esclusivamente ad Anna, o ad una persona che le assomigliava molto, con l'alito dello stesso odore. Il personale ruotava in continuazione, ma era sempre competente e rispondeva in maniera appropriata e gentile. "Una delle nostre infermiere dice che lei è pittore. È vero?" No. "Sì." Quell'eterno mal di testa, quel dolore al petto. Respirare gli procurava dolore. "Lo ero." "Ora non lo è più?" "Ho smesso." "Chiederò al dottor Stella di darle un'occhiata." Non ci fu un'effettiva risposta all'affermazione, così Austen lasciò che gli occhi gli si chiudessero, e si ritrovò quasi subito immerso nel sonno, in quello vero. Era un dono talmente grande che vi si abbandonò, colmo di gratitudine, vi si abbandonò, immobile, per ritrovare nei suoi meandri più reconditi la ricompensa più desiderata: Emily, sdraiata accanto a lui, a piedi nudi, con un paio di jeans e una felpa da uomo di taglia enorme, nera con una scritta bianca, che egli tuttavia non poteva leggere. Il suo corpo emanava tepore; la toccò, percepì l'odore dei suoi capelli, un odore pungente, molto particolare. Reale o irreale che fosse la sua presenza, non aveva importanza; dopo tutto, il nirvana è reale? E il satori? Sognò che le
parlava e che lei gli posava decisamente un dito sulle labbra; felice di obbedirle, egli lasciò allora che calasse il silenzio. Era così bello tenerla fra le braccia; era tanto contento che fosse ritornata. Si risvegliò dopo quindici minuti, senza nessuno al fianco. Poi, il tipico odore, il bagliore nell'angolo estremo dell'occhio, prima del punto cieco; un altro attacco in arrivo. Ebbe appena il tempo di farsela addosso che esso si manifestò effettivamente. Per sempre. Lo sapeva. Il "tunnel" del pomeriggio lo attendeva. Per il resto della sua vita avrebbe dovuto sostenere una serie di prove rigorose, come per un diffìcile spettacolo teatrale, sarebbe stato prigioniero del suo cervello mutilato, tormentato e stretto nella morsa degli attacchi che i farmaci non riuscivano a controllare adeguatamente. Aveva gettato via la vita e la libertà per un momento di idiozia, e non era stato nemmeno divertente, neppure un po'. Un attacco di panico dopo l'altro, un muro di disperazione che cresceva, mattone dopo mattone; si propose di non comunicare niente a nessuno, ma dubitava di riuscirci. Di solito non c'era nessuno con cui comunicare, fatta eccezione per Stella e Vickers, i quali non riteneva gli prestassero molta attenzione, e le infermiere, troppo occupate ad assisterlo per poter ascoltare le sue farneticazioni. Per un certo periodo, ossia una settimana, ebbe un compagno di stanza, un uomo bianco incredibilmente magro, con lunghe ciocche di capelli giallastri che gli ricadevano sugli occhi perennemente chiusi. Aveva un odore tanto nauseante che, dietro le tende chiuse, Austen pensò si trattasse dei prodromi di un ulteriore attacco. Dopo la prima notte l'uomo prese a gridare incessantemente per avere il Demerol: l'iniezione, fatemi l'iniezione, ho bisogno dell'iniezione, infermiera! Insisteva, senza dare tregua, era quasi peggio del mal di testa. A un certo momento Austen chiamò l'infermiera con il campanello e le chiese: "Può per cortesia fargli un'iniezione?" "Non è previsto," rispose la donna, il viso simile a quello di un gatto abissino. "Non si può farlo tacere, allora?" L'infermiera lo guardò come se fosse meno importante di un gonfiore. "Qui non curiamo per interesse," rispose. "Né per il nostro, né per quello altrui." Vai a farti fottere, pensò Austen. Tu non devi stare qui ad ascoltarlo. Pareva che anche nell'oblio e nel clamore degli attacchi riuscisse a sen-
tirne i lamenti, che costituivano una sorta di vortice rosso opaco nel paesaggio più ampio della stanza, un piccolo tornado di esigenze insoddisfatte. La cosa argentea, pur essendo essa stessa un vortice, non sembrava preoccuparsene o prestarvi particolare attenzione; perché era una creatura dei sogni, un'entità immateriale. Ogni tanto, nei momenti in cui gli attacchi epilettici gli consentivano una maggiore lucidità, Austen si chiedeva se dovesse esserne spaventato, spaventato quanto meno dal numero delle sue apparizioni. Solo il suo cervello capiva la segreta onnipresenza di quell'essere danzante, color mercurio, ricoperto di squame; ma ormai il suo cervello non era più attendibile, il che probabilmente era il fatto più spaventoso. I lamenti del malato cessarono con la fine della sua permanenza: la mente offuscata dal Demerol, fu trasportato in un'unità di terapia specialistica. Nessuno occupò il suo letto. Forse nessuno vuole dividere la stanza con me perché sono pazzo, pensò Austen, sorridendo leggermente alla stanza vuota. Era contento che la stanza rimanesse vuota, non voleva un altro gemebondo, né qualcuno sufficientemente cosciente da porgli domande quali "Che cosa ti è successo?", come fanno tutti i malati, nei corridoi e negli ambulatori. Riusciva sempre a evitare domande simili, chiudendo semplicemente gli occhi e facendo il morto finché i pazienti che, come lui, erano in attesa di essere sottoposti alla risonanza magnetica o ad altri esami lo lasciavano stare; comunque, non suscitava certamente molto interesse, con la sua fasciatura, che si riduceva gradatamente con il tempo, e il suo fisico da cadavere. Per di più, avevano già di che preoccuparsi. Un compagno di stanza, però, non si sarebbe forse accontentato del silenzio, avrebbe voluto instaurare un rapporto di stretta amicizia; per quanto il cervello gli si stesse disintegrando, Austen non voleva assolutamente confessare la meccanica del suo incidente. Era una cosa troppo stupida; e i drammi non dovrebbero far ridere. Gli attacchi, che erano ormai divenuti lo sfondo ineluttabile delle sue giornate, continuarono, raggiungendo un plateau di una decina al giorno; poi, con rinnovato e improvviso vigore, nell'arco di due giorni aumentarono spettacolarmente di frequenza e intensità. Il dottor Stella, che risultò essere una versione più alta ed esponenzialmente meno divertente del dottor Vickers, li attribuì - spiegando il fatto ad Austen nei momenti, sempre più rari, in cui questi era lucido - a impedenza dell'attività elettrica, causata ovviamente - ovviamente - dal suo balletto nel parcheggio del 7-Eleven. Anna diceva che talvolta le cose, prima di migliorare, peggiorano. Da un
punto di vista filosofia), era d'accordo con lei; in più, Anna non gli faceva mai male quando cambiava le bende. "La testa sta migliorando," gli ripeteva ogni volta. "Sta guarendo veramente bene." Ed egli, come se fosse pienamente cosciente - di lei, dell'ambiente circostante, di se stesso in quanto tale, non in quanto osservatore distaccato di un povero imbecille, il cui capo fratturato veniva aiutato a guarire grazie alla dolce combinazione del tempo e dell'equivalente medico di un attaccatutto - assentiva, ma non con un cenno della testa. Anna gli aveva infatti raccomandato di tenerla ferma mentre lo medicava. Sì, certamente, all'esterno stava guarendo; poteva guardarsi allo specchio: non aveva più l'aspetto di un idiota incidentato. All'interno, tuttavia, era tutt'altra questione. E così, continuarono con gli esami. Era diventato un esperto conoscitore delle tecniche di manipolazione, di posizionamento, del gergo, dei piccoli espedienti per mettere a loro agio i pazienti, espedienti che nel suo caso non usavano più perché... che motivo c'era? Egli era ormai insensibile all'umorismo e, comunque, gli attacchi gli davano ampio modo di farsi quattro risate. Il suo passatempo preferito (aveva sempre tempo: nonostante le pianificazioni, c'erano sempre ritardi. I malati erano tanti! Non se lo sarebbe mai immaginato) era stare seduto, o disteso, sul mezzo con cui lo trasportavano e ascoltare a occhi chiusi le storie che venivano raccontate nelle vicinanze. C'era sempre qualche storia, la gente amava parlare, anche in punto di morte. Forse la lingua era l'ultimo organo ad andarsene. "...sorella, che è del Tennessee, ebbene, il suo medico ha studiato il mio caso e le ha detto 'Dovrebbe far dimettere subito suo fratello da quell'ospedale.' Subito, le ha detto, perché..." "È solo che sono sempre stanco. E odio il modo in cui..." "...sedici mesi, dall'inizio alla fine. I medici hanno detto che..." . "...sotto le ascelle e sulla schiena. Sento come degli aghi, sa? Che mi oltrepassano. Ho detto a mio marito..." E lui, senza marito, senza moglie, giaceva nella sua tana silenziosa e priva di storie, in attesa di essere chiamato e trasportato all'interno della stanza, dove ogni giorno affrontava quanto la sorte gli aveva riservato: il tecnico che a causa del suo nome lo chiamava Tex; la donna che aveva un odore di arachidi non sgusciate con la sua marcata pronuncia nasale del sud; il ragazzo che portava, acconciati sulla nuca in una borsa rasta, i suoi riccioli finti. Lo trattavano come fosse un hamburger, lo legavano, lo slegavano;
era quasi una danza, o un esercizio, le loro mani si muovevano armonicamente, sembravano eseguire una sorta di microginnastica. A volte sembravano stanchi, a volte nervosi, anche se, con lui, ciò accadeva di rado. Era infatti un buon paziente: stava zitto e faceva ciò che gli veniva detto. Il dottor Stella divenne una presenza più frequente del dottor Vickers: camice bianco sgualcito e cipiglio, l'abitudine di battere l'unghia del pollice contro quella dell'indice, che era persino più fastidiosa dell'odore delle sue mani, che ad Austen ricordava quello sgradevole del sapone dei ristoranti. Pareva che anch'egli trovasse Austen irritante, vittima com'era di una serie incessante di attacchi e fiaccamente rassegnato nei confronti della sua condizione. Il Tegretol avrebbe dovuto produrre effetti più significativi; ma forse ciò era attribuibile alla peculiare fisiologia del malato, che ne inibiva l'azione. Lo avevano allora sostituito con il Mysoline, che aveva reso Austen simile a una larva, senza tuttavia eliminare gli attacchi; erano quindi passati a una combinazione di entrambi, il che si dimostrò la soluzione peggiore di tutte, per poi ritornare a somministrargli il Tegretol. In seguito avrebbero forse optato per zampe di lucertola, oppure per sangue di gallina bianca immacolata. "Ehi," gli disse Austen, "almeno il Demerol funziona ancora." Era un piccolo piacere irritare il dottor Stella, con i suoi tic e le sue mani dall'odore sgradevole. Se Vickers era un Einstein, Stella che cos'era? Un nuovo Freud? "Il dottor Vickers mi ha riferito che lei è un artista." Peter gli aveva mandato altri fiori, finti tulipani di serra, di un rosso psichedelico, quasi come quello dei papaveri. Austen evitava di guardarli; preferiva avere il prossimo attacco in privato, se possibile, non sotto lo sguardo irritato di Stella. Non riusciva ad annusare l'odore dei fiori, ma lo visualizzò, un movimento ipnotico nell'aria, simile al tremolio deformante delle vampate di calore. "Lo ero," rispose. "Molto tempo fa. Gestisco un negozio di T-shirt, ora." "Ci stavamo chiedendo," continuò Stella, senza guardarlo direttamente in faccia, "se il suo talento artistico sia stato in qualche modo compromesso dagli attacchi. Vorremmo che provasse a dipingere qualcosa." Oh, splendido. "No," replicò Austen. "Non credo sia assolutamente una buona idea." Il profumo aveva ora acquisito una forma definita e aveva distolto la sua attenzione dal medico; fluttuava nello spazio sovrastante il letto, con le sue curve pronunciate, che ricordavano quelle di una campana. Al suo interno
un battaglio prese a oscillare, con un movimento lievemente più sensuale che ritmico, simile all'oscillazione dei fianchi e delle gambe di una ballerina. "Non verrà esposto al Louvre," commentò Stella, divenuto d'improvviso impaziente. "Vogliamo essere..." E piombò dall'alto su di lui, con l'impeto e il bagliore di una tempesta, lo avvolse nel suo odore penetrante, in un profumo indistinto. Egli rimase a osservare, lo sguardo fisso, un freddo interesse, l'avvento della cosa argentea, i movimenti leziosi delle sue squame che si piegavano sinuosamente e avanzavano, come una timida Salomè, verso la parte centrale del suo campo visivo, fino a mostrarsi quasi per intero, vicinissima. Vicina al punto da poterla toccare. Se l'avesse fatto - il terrore lo avvolgeva ora come un sudario, era una sorta di dito nero, familiare, che non lo toccava in nessun punto terribile - la sua mano sarebbe passata oltre la cosa, come attraverso la tenda di un sogno? O si sarebbe ritratta umidiccia, viscida a causa delle secrezioni, pregna di un odore muschiato, la cui origine non avrebbe mai potuto individuare né immaginare? E, nel caso, quale delle due ipotesi ne avrebbe provato l'effettiva esistenza? Sentì che i muscoli avevano deciso prima della sua mente; in preda all'eccitazione una mano si stava portando verso l'alto, come un relitto giunge dal profondo del mare, fino in superfìcie, si stava protendendo. Davvero? L'avrebbe toccata? E lei, si sarebbe lasciata toccare? Ogni battito del suo cuore era come il tonfo ben distinto di un martello che colpisce un pezzo di carne. Si muoveva con precisione dolorosa, studiata; guardare e non guardare. Ma lei sapeva e, con un guizzo, come un cervo che scappa, giunse ai margini del campo visivo e li superò; ora era al di là di essi, dove persino il suo sguardo più concentrato non avrebbe mai potuto giungere. Era così bello. La testa gli faceva tanto male. "Il dottor Stella dice che non coopera." Che cosa volevano ancora? Il mattino era stato sottoposto, esausto, a un'altra TAC e aveva dovuto attendere a lungo, molto a lungo, in corridoio, per il Demerol. Gli avevano da poco tolto gli ormeggi, lasciandolo andare; non gli era facile stare a galla ma, per lo meno, era quasi libero. Non voleva parlare a Vickers di Stella, né voleva assolutamente parlargli di pittura.
"Sto cercando di cooperare." Bugiardo. Prese la cannuccia flessibile fra i denti, come fosse un capezzolo; un sapore di ginger ale, che non si sposava per nulla con l'odore intenso di vomito che veniva dalla lingua e dal palato. Per quel mattino non ci sarebbe stato niente da fare, non l'avrebbe potuto eliminare; era però un miracolo che fino a quel momento non avesse ancora avuto un attacco. Evidentemente, quel giorno l'odore non fungeva da messaggero. Bene. L'ultimo attacco aveva raggiunto il picco dell'incredibile: egli aveva toccato l'essenza di quanto precede la quiete, la gelida dissociazione, si era convinto che la cosa argentea non solo poteva essere toccata, ma poteva benissimo essere reale. Questo rappresentava un effetto collaterale a cui non voleva nemmeno pensare, era un delirio troppo elaborato per i suoi gusti. Non voleva avere deliri, non voleva un souvenir permanente. Cadi, batti la testa, vai all'ospedale e guarisci, un passo dopo l'altro, come in un ballo. Aveva compiuto i primi tre, dando il meglio delle sue capacità; ora si era messo - al di là di ciò che quel coglione di Stella poteva pensare - di buzzo buono per fare il quarto: andare a casa. Avrebbe comunque dovuto farlo presto, migliorato o non migliorato che fosse: la sua assicurazione aveva un tetto massimo, che egli aveva già quasi raggiunto, se non addirittura oltrepassato. I soldi oggi sono un problema. Vickers lo stava ancora osservando. "Perché Stella, il dottor Stella, dice che non coopero?" "Vuole che lei dipinga. Vogliamo verifìcare se questi continui attacchi abbiano un'influenza su..." "Non dipingo da quasi un anno," ribatté, più duramente di quanto volesse, a voce alta rispetto ai rumori smorzati della stanza. Un lieve schizzo di ginger ale sul camice sgualcito e spiegazzato. "Non vi servirebbe a nulla." Si accorse che le mani gli tremavano; non del lieve tremore dell'agitazione, ma di un movimento netto, quasi simile a quello di un paralitico. Le spinse verso il basso, sulle cosce, cercò di concentrarsi, augurandosi che non si trattasse di una nuova manifestazione degli attacchi, a livello muscolare. Prima gli odori, ora il tremore! "Non so nemmeno se sono in grado di dipingere." Vickers si strinse nelle spalle e guardò la cartella clinica. Movimenti dilatori, che ad Austen andavano bene: anche lui aveva bisogno di un po' di tempo. Fuori pioveva. Una coltre argentea sulle finestre: era come se la cosa stessa tentasse di entrare. Non cominciare. Da quanto non si interessava del tempo? Da quanto si trovava in quel posto? Si vergognava di non sa-
perlo. Vìckers mise da parte la cartella. "La sua fronte è già perfettamente guarita," commentò. "Come si sente?" "Bene." Il tremore si era in parte ridotto; forse si trattava solo di una reazione ansiosa alla richiesta che gli avevano fatto di dipingere. Certamente. Ehi, Peter, è normale provare ansie simili? Ehi, dottor Vickers, penso di essere in stato ansioso; comunque, lei crede che avere l'allucinazione di un mostro argenteo simile a una grossa corda mucillaginosa sia indicativo di qualcosa? Forse di un deterioramento della salute mentale? Che cosa intende, dicendo che è correlata all'area? "Che cosa?" chiese, con un tono di voce follemente alto. "Che cosa ha detto?" "Ho detto, è correlata all'area, l'epilessia temporale," ripeté, ovviamente, dato che parlava con un idiota. "Ma i suoi disturbi sono andati oltre." "Non vedo," replicò, in grado ormai, di muovere lievemente la mano senza farla tremare, prima a destra, poi a sinistra, inventandosi piccole operazioni da compiere, come grattarsi il naso, strofinarsi gli occhi. Attento, però, Vickers potrebbe diagnosticarti un Tourette... "Non capisco come lei possa ritenere che dipingere mi aiuti." "Ebbene, è importante che lei capisca l'importanza di cooperare con i suoi dottori. Non possiamo obbligarla a migliorare." "Giusto." Il tremore era quasi scomparso del tutto. "Mi ascolti. Io..." attento, ora, non fare passi falsi, "io cercherò di pensarci, va bene?" Ovviamente, non era sufficiente. Vickers, palesemente infastidito, fece una breve annotazione sulla cartella, poi la riappese con un click ostentatamente marcato. Non ci fu alcun cenno di saluto. Giaceva disteso, muto dopo la dose di Demerol. Il temporale mattutino si era trasformato in una vera tempesta; il suo strepito era però una sensazione, più che un rumore, un colpo violento sui tessuti sensibili dei suoi timpani. Il lenzuolo sotto di lui era un paesaggio fragile e remoto come la coltre di pioggia. Pensò al negozio di T-shirt, a Peter, ai conti dell'ospedale; tutto gli appariva assolutamente lontano, come le correnti atmosferiche sulla luna, la paura degli squali, il panico generato dagli insetti. Pensò a sua madre, che non vedeva da quasi quindici anni: non era, come aveva millantato durante un attacco, parlando con Anna, un'artista che viveva a Parigi, ma una delle tante anziane che ricevevano una pensione di invalidità a - ne era quasi sicuro - Wichita Falls, Texas. Si ricordò dell'ultima volta che l'aveva vista: l'aveva lasciata stanca, in preda a una rabbia tanto
antica da provocargli quasi un senso di nostalgia; ma no, non in quel momento, non era proprio così, non esattamente. Quando lo avevano ricoverato in ospedale, gli avevano chiesto se avesse parenti e chi fossero quelli più stretti, se ne avesse purchessia. "Nessuno," aveva risposto. "Non ho famiglia." "Ha dichiarato di essere coniugato, qui, sul modulo," avevano replicato, mostrandoglielo. "Non mi troverei qui se il mio cervello funzionasse bene," aveva ribattuto, pacatamente, come se avessero dovuto sapere esattamente come stavano le cose. Allora, lo avevano lasciato in pace. Dio sa che cosa avevano scritto sui loro moduli. La pioggia sui vetri era aumentata. Dopo un pesante tonfo di porta, qualcosa di rotolante cessò di colpo il suo moto. Gli prudeva la mano sinistra e voleva grattarsela, ma era un gesto troppo faticoso, un compito troppo complicato da eseguire. Forse, lo avrebbe fatto più tardi. Quando non avesse piovuto tanto. Per lo meno, la testa non gli faceva male; per lo meno, il Demerol faceva ancora effetto. Per il momento. "Sto per morire?" si chiese. Emily. Voleva Emily. La voleva al punto da aver voglia di urlare, anche allora, nel suo mondo distaccato, simile a quello acquatico, generato dai farmaci e dagli attacchi, al triste e continuo stupore del suo stato di coscienza - talora doveva bloccarsi e concentrarsi, accertarsi di essere lì e non altrove - voleva che tornasse, che, semplicemente, si sedesse e lo toccasse. Che gli tenesse la mano, forse, o che gli toccasse l'avambraccio. Voleva la melodia bassa e impaziente della sua voce, voleva che trattasse sdegnosamente i dottori e cordialmente le infermiere, voleva che cambiasse rapidamente i canali della TV posta sul supporto mobile, quella TV che lei non guardava mai. Voleva sussurrarle all'orecchio che aveva paura, ogni minuto del giorno, che i farmaci non facessero effetto, che lo obbligassero a rimanere in quel posto per sempre. Di non poter più dipingere, mai più; non ho intenzione è molto diverso da non posso. Di non rivederla più, degli attacchi stessi, di ciò che vedeva, della cosa argentea e del fatto che le sue allucinazioni potessero essere reali, di risvegliarsi e di provare vergogna, come chi ha bevuto troppo, imbarazzato di fronte a quei pensieri che, prima, gli erano sembrati inevitabili e giusti. Aveva paura di essere pazzo, di morire lì, di cadere preda di un attacco senza fine, per poi riprendere coscienza, sbattere attonito le palpebre e ritrovarsi, stordito e avvolto di luce, a vivere un
minuto lungo, eterno. Voleva che gli dicesse che non sarebbe morto, di non essere tanto stupido, di non avere paura, perché lei era là. Ti voglio bene. Scoppiò a piangere. La gola gli doleva, le lacrime gli salivano agli occhi; eppure, nonostante fosse cullato dalle amorevoli braccia del Demerol, era conscio del baluginio persistente della cosa argentea, che stava scivolando via dalla sua astuta postazione sul vetro della finestra, bagnato di pioggia. Non avrebbe potuto avvicinarsi di più, cosicché l'avrebbe vista pressoché faccia a faccia. Era silenziosa, ed egli non aveva sentito alcun odore, non aveva nemmeno avvertito l'arrivo dell'attacco. Le lenzuola erano ruvide, il battito della pioggia si era ora trasformato in un rumore monotono, in un cupo latrato. Tutti i suoi sensi si accordarono su un tono, si attivarono al massimo, come per recepire un messaggio indicibile. Il suo emisfero cerebrale vagava, ferveva, traboccava di vitalità come le lande ignote dei suoi lobi temporali. Là dove apparentemente la cosa argentea compiva la sua incredibile caccia, là dove la cosa tremolante dimorava, nell'estrema periferia. Guardala, ora, studia entro i limiti del campo visivo come si muove, il movimento rapido o lento di quelli che potrebbero essere arti. Come sarà nella pioggia? E sott'acqua? E al buio? In base a quale deformità interiore il suo cervello aveva creato quell'entità e - fatto ancora più importante, anzi estremamente importante - era reale? Chiediglielo, pensò, chiediglielo a voce alta. Il suo colore assoluto, argento puro, il luccicore. Iridescente, così si dice? Il colore di un prisma, di un prisma assolutamente incolore. O, Dio mio, sto diventando pazzo. Chiediglielo. "Sei reale?" Un sussurro, che ricordava il rumore secco di carne essiccata, deformata, che si spacca. Fuori, finalmente, tuonava. Nei corridoi le infermiere facevano commenti sul pomeriggio, che si stava rivelando estremamente tranquillo. "Evidentemente," osservò Stella con un sorriso che, dopo tanto, era quasi sconcertante, "il Tegretol sta iniziando a fare effetto." Anche la fedele Anna sorrideva e gli dava colpetti affettuosi sul ginocchio, coperto dal lenzuolo. "Lei è un tipo testardo, vero?" Sorrise in risposta, fingendo di essere d'accordo, le labbra di gomma; si strinse nelle spalle, come un clown che recita coscienziosamente la parte.
Non voleva rivelare che, del periodo dall'ultima iniezione fino a una, due ore prima, non ricordava assolutamente nulla. Si era ritrovato all'improvviso di fronte a una specie di cena, intento a mangiare. Quanto era stato in quella condizione? Non voleva rovinare la festicciola. Era tanto tardi. Si erano attardati solo per lui? Le finestre erano cieche nelle tenebre della notte e la luce fluorescente dell'ospedale sembrava una sorta di strano cuore luminoso. Un nucleo. Un centro, un centro molle come una crema, come il suo cervello. Che tutti ritenevano fosse migliorato letteralmente in una notte, in una notte che, da quelle parti, consisteva di due giorni. O tre? "Nessun attacco in più di trenta ore." Stella era molto orgoglioso di se stesso, probabilmente a ragione. "Manterremo i controlli a ogni ora, ma le cose stanno effettivamente andando meglio." "Grazie," disse, incerto se fosse la risposta adeguata. Comunque, sembrarono contenti. Riuscì ad attirare l'attenzione di Anna, le fece cenno di rimanere un minuto in più, dopo che il dottor Stella se n'era andato. Accanto al suo letto, l'altro, vuoto, le lenzuola piegate a rettangolo. Che cosa era poi successo al tizio del Demerol? Era a casa, ora? Era morto? "Ehi." Sorridile, non dimostrare panico né confusione. "Qual è la verità vera?" "La verità vera è," rispose lei, contraccambiando il sorriso. Aveva le borse sotto gli occhi, non lo aveva mai notato prima. Si concentrava meglio sull'ambiente circostante, ora: era un buon segno? "Che lei sta migliorando. Il dottor Stella è riuscito a bloccare il ciclo di attacchi con un particolare dosaggio di Tegretol." "Che dosaggio?" "Milleduecento milligrammi al giorno. Sembra molto, ma in realtà non lo è." Anna si alzò dal letto, lo stetoscopio dolcemente oscillante nella mano, un'abitudine inconscia, come il tic delle unghie di Stella. Anche questo, prima, non lo aveva notato. "Ci si abituerà." Scosse il capo, per indicare che non capiva. "Beh," affermò lei, "il dottor Stella le prescriverà una terapia di mantenimento, quando lei lascerà l'ospedale." "Che cosa significa?" "Significa che dovrà prendere medicine e fare check-up regolari, nient'altro. Nulla di grave." "Per quanto tempo?" "Dato il tipo di attacchi, probabilmente per sempre." "Per sempre?" "Ehi, ehi," rispose dandogli nuovamente colpetti affettuosi. "Si tratta so-
lo di poche pillole al giorno. Non è una gran cosa. Dopo quello che ha passato qui, le sembrerà una passeggiata. Comunque, non dovrei nemmeno parlarle così. Faccia finta di non sapere nulla quando il dottor Stella gliene parlerà. D'accordo?" Far finta di non sapere. "Certo." Le sorrise. "Grazie, Anna." "Non c'è problema." Un'oscillazione dello stetoscopio; un attimo dopo, era già scomparsa. E lui, sorpreso del fatto di essere assolutamente cosciente, ebbe la sensazione di inalare ossigeno puro e nient'altro, di attendere, disteso, il mal di testa, il terrore, gli odori e la presenza dell'altro. L'argento. Mentre giaceva nel letto, mentre inspirava ed espirava regolarmente, mentre le luci della sua stanza venivano abbassate per la notte, si chiese: sto meglio, ora? Sono quasi guarito? Ma allora, perché non provo gioia, né sollievo, perché Stella e Anna sono più contenti di me? Sarebbe stato contento, se avesse saputo dov'erano finiti quei due giorni. Si era alzato in piedi, seduto, aveva parlato, si era sottoposto ai test, si era fatto trasportare nei vari reparti per essere visitato e non ricordava nulla. Perché? Non dir loro che cosa è successo, domanda solo che cosa accadrebbe se... Lo sapeva. Mmm, avrebbero detto, è il tessuto di cicatrizzazione del suo cervello: dà più problemi di quel che pensavamo. Dovremo fare qualche indagine: dovrà restare un po' più a lungo. No. Non ne avrebbe parlato. Del resto, non era successo nulla di brutto: si trattava semplicemente di una perdita del pieno stato di vigilanza. Era un blackout, ma nessuno se n'era accorto. Forse, era solo un effetto collaterale del Tegretol, che faceva finalmente il suo lavoro, o forse si trattava di una disperata fantasia pirotecnica del suo cervello in fase di guarigione, che si stava riassestando come un giroscopio, mentre il farmaco ne assumeva il controllo, per sempre. Se succederà ancora, fece una promessa a se stesso, lo dirò. Ma non ora. Ora voglio solo andare a casa. Impiegò molto ad addormentarsi. Sentiva i rumori dell'ospedale: erano rumori prolungati, come il respiro di una grande macchina dormiente. Scoprì di essere in attesa. Del dolore? Di un attacco? Nessuno dei due si manifestò. Disteso sulla schiena, libero di muoversi e di guardare il soffitto, pensò che non avrebbe più potuto sapere se la cosa argentea fosse reale. Bene.
Dormì tutta la notte; quando si svegliò, si sentiva bene. Non in splendida forma, ma bene, il che, nelle sue condizioni, equivaleva a una cosa meravigliosa. Anche Stella era d'accordo, come del resto Vickers. Questi, passando, si fermò nella sua stanza. "Pare che presto lascerà questo bell'albergo," gli disse. "Bene. Eravamo stanchi di averla qui," aggiunse, ammiccando. Era un gesto di complicità o, semplicemente, il suo tic, come lo stetoscopio per Anna e le unghie per Stella? Austen ricambiò il sorriso; si sentiva coraggioso, poteva permettersi una battuta. Ah ah ah. Essere sempre cosciente e responsabile avrebbe necessitato un po' di riassestamento. "Sospenderà comunque il Demerol. Non voglio mettere in circolazione nessun drogato." Che sorpresa! Non lo aveva minimamente considerato. Non più dolore, non più farmaci: che cosa c'è di meglio? Eppure, si accorse di sentire la mancanza del Demerol, a livello fisico, in maniera spasmodica; sentiva la mancanza del contatto ovattato, del piacere che non c'era. Dell'assenza di piacere. Esisteva forse una parola per definire una sensazione che era meno di un vero sentimento e più della mera assenza di dolore? Oltre alla blanda disintossicazione c'era la FT, la fisioterapia, che rappresentava una garanzia - del fatto che si ricordasse ancora come camminare, come sedersi e alzarsi da una sedia, come oltrepassare una soglia - e un metodo per identificare eventuali problemi di equilibrio o deficit dell'andatura. Ritornò camminando nella sua stanza e si sedette, non si mise a letto. Avvicinò la sedia alla finestra e prese a osservare gli alberi, le automobili che oltrepassavano l'ospedale o che entravano nel suo parcheggio, il benzinaio e il mercato ortofrutticolo, situati ai due angoli opposti. Frutta: avrebbe voluto qualche arancia, un kiwi. Costavano troppo, però. Sentì l'acquolina in bocca; sarebbe stato bello riprendere a mangiare cibi veri, cibi scelti da lui. Chiamò Peter: per la prima volta da quando era stato ricoverato usava il telefono. Provava una strana sensazione nel fare di nuovo qualcosa che prima compiva ogni giorno senza badarci. "Dicono che posso andare a casa domani," affermò, con un tono di voce volutamente sommesso. Temeva forse che l'autorizzazione potesse essergli revocata? Ci scusi, c'è stato un errore. "Puoi venirmi a prendere? Verso mezzogiorno?" E, con voce ancora più calma: "Puoi portarmi qualche vestito?" "Certo," rispose Peter. "Va meglio, ora, eh? Te l'avevo detto."
Gli diedero una serie di istruzioni: prima di tutto, in rosso, a lettere maiuscole, NON INTERROMPERE LA TERAPIA. Poi, c'erano le cose che doveva aspettarsi, i sintomi neurologici che segnalavano l'inizio dell'apocalisse. Poi, lo aiutarono ad abbottonarsi la camicia; c'era un'infinità di bottoni, e le sue mani erano talmente goffe, come quelle di un bambino. Una volta pronto, tremava leggermente. Era strano indossare di nuovo vestiti veri, vestiti fatti di capi distinti: jeans, T-shirt, scarpe da ginnastica. Forme vere, materiali veri. L'intera esperienza era strana, quasi melodrammatica: era un insieme ordinato di fatti, un elenco di cose da fare e non fare, di mani lievemente tremanti, di ricette che doveva presentare alla farmacia dell'ospedale, al piano di sotto, non appena dimesso. Peter lo osservò mentre firmava il modulo di dimissione e mentre abbracciava, rapidamente e timidamente, Anna, l'infermiera; quindi, lo aiutò a raggiungere l'auto. Non aveva nulla da portare via, né aveva lasciato alcunché all'ospedale; la maglietta e gli shorts imbrattati di sangue, che indossava il giorno del ricovero, erano stati da tempo eliminati dal personale del pronto soccorso. Aveva solo una cicatrice sulla fronte e una tendenza a camminare un po' più lentamente, consapevole, ormai, del modo in cui il terreno cambia in relazione al movimento dei piedi. Peter pareva guidare a velocità molto elevata. Era bello. Non era una bella giornata, ma Austen la recepiva come tale. Era ancora estate, ed egli chiuse gli occhi, sprofondandosi nel sedile. "Ehi," esclamò Peter, "ti va di mangiare qualcosa per pranzo? Offro io." "Volentieri." A occhi chiusi, vedeva in controluce la fragile pelle delle palpebre stanche, l'intreccio rosso chiaro delle vene e delle arterie. "Che ne dici di prendere qualcosa da portar via?" Il posto non era molto distante, ancora un paio di svolte a sinistra e, mentre il suo corpo veniva cullato dal movimento, Peter affermò: "Ti piacerà. È il Drive-in Thai. Fanno cucina thailandese: brucia più del fuoco. È proprio quello che ci vuole dopo quella merda che ti davano all'ospedale." E, fatto più strano di tutti, dopo meno di dieci minuti di macchina, si ritrovò a casa. Peter prese i sacchetti di carta bianca leggermente macchiati di salsa, o di unto, o di qualcos'altro, e aprì la porta. Entrarono in casa: nulla era stato apparentemente toccato. C'era odore di muffa, tipico delle case disabitate, e anche un debole ricordo di stantio. Gli odori gli parvero comunque forti; per un attimo Austen pensò che potessero essere il preludio di un attacco e fece appello a tutte le sue forze per dirlo a Peter, per dirgli: "Portami indietro." Ma era semplicemente puzza, nient'altro che puzza,
proveniente da un lungo sacco di plastica, che sigillò con un apposito legaccio. Nessun messaggio in segreteria; Peter aveva provveduto ad ascoltarli, come pure a ritirare la posta, che ora giaceva, legata con un elastico, sul tavolo in cucina, sotto la Criosfinge eternamente accucciata, uno scarno pacchetto, in attesa di quando infine Austen l'avrebbe controllato. Pranzarono in soggiorno, direttamente dai sacchetti. Nel frigorifero c'era ancora della birra... tra l'altro, chi si era bevuto la Budweiser che aveva abbandonato nel parcheggio? Ne bevvero due ciascuno. Attento con l'alcool, gli aveva raccomandato Stella, fa male se mescolato a questo farmaco. Peter pulì le briciole con il suo secondo tovagliolo. "E allora, com'erano?" "Che cosa?" "Gli attacchi, naturalmente. Era come farsi dell'acido?" "No," rispose, guardando il ritratto alle spalle di Peter, un nudo enorme: una matrona muscolosa, che pareva quasi la guardiana dell'inferno, dipinta in tutte le tonalità del grigio antracite e del rosso sangue; aveva ossa che sembravano di cemento armato e, nella casa del dolore, era sovrana. Il minuscolo reggiseno metallico dava forma a facce stravolte dal desiderio, che stavano attaccate come sanguisughe ai suoi spessi capezzoli gommosi. Lei stessa indossava una maschera bondage, senza fessure per gli occhi. "Non era come quando si prende l'acido." Masticando, Peter incalzò: "Com'era, allora?" Come quando si annusano le cose, come quando si è spaventati, come il terrore. Significa essere all'interno del tuo corpo, ma non della tua anima, significa avere dolore, mal di testa, tubi infilati nel cazzo, vedere cose, avere allucinazioni. "Non è divertente." E. mentre prendeva nuovamente la forchetta, aggiunse: "E buono." "Il cibo dell'ospedale, che schifo. Senti, che ne dici di fare un salto alla galleria, domani? Peccato che non ci sia più quella mostra di Klee, quei quattro coglioni di imitatori. Ti sarebbe piaciuto. Avresti dovuto esserci all'inaugurazione: non crederesti mai come questa gente pensi che con un po'..." Eccetera, eccetera. Era bello ascoltare Peter: era come osservare le simpatiche capriole di una scimmia particolarmente abile. Eppure, ciò che desiderava maggiormente era stare solo e, dopo qualche tempo, Peter lo capì. Raccolse i sacchetti e le lattine vuote; poi, davanti alla porta d'ingresso, esclamò: "Chiamami, se hai voglia di venire. Anzi, chiamami comunque." Dal vialetto d'accesso lo salutò con la mano e, salito in macchina, si allon-
tanò. Austen rimase solo. Stanco, si distese lì dove si trovava, sul pavimento del soggiorno; guardando le lievi crepe del soffitto, simili a rughe, si mise a ridere, al pensiero che anch'egli aveva crepe, sul soffitto della sua testa. Il pavimento era duro, ma ne aveva abbastanza di stare a letto. Si mosse solo una volta, per prendere un cuscino dal divano. Sopra di lui, sulle pareti, le varie facce che lo osservavano, sofferenti, silenziose o arrabbiate, i colori sgargianti, flagellazioni e sconfitte della sua galleria personale, la sua esibizione eterna. Non sufficientemente buona, ma sufficientemente buona per lui. Al sicuro e in silenzio, giaceva disteso sotto le sue facce, tutte forme che poteva controllare, e si addormentò, rannicchiato vicino al cuscino, gli occhi chiusi e fiduciosi. E, nella cucina vuota, la Criosfinge, che pareva andare alla deriva nelle ombre progressivamente più cupe della sera; sulla sua superficie, imperiosa e decisa, come un dolore prolungato, fece la sua comparsa una chiazza argentea, simile a mercurio, simile a muco, simile a pioggia. Furtiva, ma risoluta. 2 Essere malati è un affare costoso; persino le sue pillole costavano più di quanto avesse immaginato. Aveva scherzato sul pagamento dei premi della sua assicurazione, ma c'erano tetti e limiti contro i quali aveva finito per cozzare. Di nuovo con le spalle al muro, di nuovo al lavoro. Il che, a suo modo, era un bene. Ci si adattava, come ci si adatta a una posizione scomoda, ma familiare. Poteva lavorare quando e fino a quando voleva, così scelse l'orario dal mattino alla sera. A pranzo e a cena consumava cibi pronti dietro il bancone, la musica anonima emessa dalla radio coperta dal rumore del condizionatore e, ogni tanto, dallo stridio della porta. Gente che chiedeva la strada, gente che chiedeva di usare la toilette, acne e grandi tette, acne e braccia scarne, coppie innamorate che compravano magliette con stampati i propri nomi. TINA e JAMES. Ma che cosa accadrà fra cinque anni, fra cinque mesi? Domani mi amerai ancora? Questo fine settimana mi amerai ancora? Aveva ogni tanto l'impulso di chiamare Emily, di dirle Indovina che cosa mi è successo?, ma fino a quel momento era riuscito a controllarlo. Emily non aveva mai avuto un grande senso della pietà e, in ogni caso, non era pietà che desiderava da lei. Seduto, in posizione semiaccasciata, con i gomiti sul bancone, notevol-
mente accaldato, fece mentalmente un ozioso calcolo: dalle dieci del mattino alle otto di sera, sei giorni la settimana. Con quello che guadagnava, avrebbe lavorato in quel posto fino alla fine. Ma, ovviamente, ciò non faceva alcuna differenza: che cos'altro doveva fare? Andare a casa a contemplare la Criosfinge per la milionesima volta? Gironzolare per la galleria insieme a Peter e osservare le brutte copie in cartapesta dei personaggi di vignette di serie B, che venivano vendute per una cifra doppia rispetto a quella che guadagnava in un mese? O, cosa ancor meno probabile, ripescare le tele e mettersi a dipingere quadri che in fondo piacevano solo a lui? Non gli bastava più lavorare in quel modo; inoltre, come era solito dire scherzosamente a Peter, stava esaurendo lo spazio disponibile sulle pareti. "Ti stai buttando via," diceva Peter. Un'altra cena a base di cibi comperati in un negozio per asporto, un'altra lezione. Se non ci fosse stato Peter, nessuno sarebbe andato a trovarlo: sarebbe forse stato un male? I piedi appoggiati sulla sedia, Peter aggiunse: "Sai quanti poveri coglioni conosco che sarebbero pronti a uccidere per essere capaci di fare quello che fai tu?" "Che cosa, lavorare in un negozio di T-shirt? No, sarò serio," rispose, chinandosi in avanti, le braccia poggiate saldamente sui bordi del tavolo. Sentiva il suo cuore, simile a un maglio di carne, battere al galoppo, al galoppo di un vecchio cavallo. "Ho conti dell'ospedale da pagare fin sopra i capelli, Peter. Non posso permettermi l'arte per l'arte." "Ci sono persone che possono farlo." "Chi, i tuoi Medici?" Diede un colpetto a un chicco, poi a due, a tre chicchi di riso e li allineò, tre larve fredde e obbedienti una accanto all'altra. "Non voglio essere l'artista prediletto di nessuno." Quattro chicchi, sei. "Non voglio essere il cocco di nessuno." "Tranne che di Emily." Tutti i chicchi erano ormai annegati nella salsa, inerte come il sangue che si raffredda. "Scusami," affermò, non proprio sorridente, alzandosi. "Devo prendere le pillole." In bagno, il tozzo bicchiere di plastica e il gocciolio dell'acqua tiepida. Doveva sistemare quel rubinetto. Ma si ricordava ancora come fare? Dottore, non credo di ricordare quale estremità della chiave inglese devo tenere e quale devo usare per avvitare. Gli avevano raccomandato di riferire qualsiasi problema avesse avuto con la memoria, con gli odori, con tutto ciò che era elencato nella lista. La sua lista aveva dei blackout; fino ad allora, tuttavia, non era accaduto nulla. Era stanco, sì, ma era normale, no? Aveva subito una brutta lesione, la testa spaccata in due, il suo cervello
ammaccato era rimbalzato come una caramella contro le pareti scivolose del cranio, il suo... L'argento. Un rivolo, misto ad acqua, tanto sottile che stentò a vederlo. Poi, non poté più fare a meno di vedere. Sentì l'intestino torcersi, preso in una morsa, contrarsi come le mascelle irte di denti di una fiera. Il flusso miscelato formò una cascatella, ed egli lasciò andare la presa del bicchiere. Un suono di plastica vuota, le sue mani vuote strette a pugno. Qualcosa cadde. Attraverso il riflesso del suo volto nello specchio, una patina argentea allungata, stupenda, orribile, visibile a metà, simile a pioggia. Ed egli era là, obbligato a osservare, senza avere nemmeno l'appiglio della dissociazione, il terrore umano dei suoi occhi nudi mentre la cosa luccicava e si contraeva in maniera strana, parodistica. Ora la vedi, ragazzo, ora non la vedi più. Peter bussò vigorosamente alla porta. "Ehi! Va tutto bene lì dentro?" Le mani alla bocca, il grido di Munch. L'adrenalina gli contrasse i muscoli della schiena. Nello specchio non c'era assolutamente nulla. "Austen. Stai..." "Bene," rispose questi. Il suo corpo era interamente ricoperto di sudore, gelido come orina. Forse se l'era anche fatta addosso. "Mi è caduto il bicchiere." Le pillole erano a fianco del water, disposte tanto ordinatamente che sembravano essere state collocate volutamente in quel modo. Si chinò per raccoglierle ed ebbe un capogiro, violento come un'ondata. O, per favore, no. Peter, in corridoio, non si sforzava certo di non guardare. "Sei sicuro di star bene?" Con passo lento uscì e si chiuse la porta alle spalle, risparmiando educatamente all'ospite una squallida visione di vita domestica. "Sì, sto bene. A volte, sai, le piccole abilità motorie..." Era in piedi, a disagio; stava di lato, quasi per impedire a Peter di vedere la parte bagnata dei vestiti, e buttava lì qualche parola tecnica, come se ciò avesse senso. Quando se ne andò, Peter aveva ancora quello sguardo sul volto, uno sguardo quasi divertente: sei pazzo tu o lo sono io? La culona dominatrice osservava con sdegno, empia protettrice dalla maschera nera, santa patrona, ed egli, nella sua ombra, osservava i fanali di coda dell'auto di Peter. Chiusa la porta, fu assalito da una stanchezza tanto intensa che dovette sedersi immediatamente, proprio lì dove si trovava; le gambe gli cedettero ed egli, come un castello di carte,
si accasciò a terra, dove rimase, sagoma informe. Aveva mal di testa. Era stato così in ospedale? Lo stesso pulsare, lo stesso sfrigolare contro le pareti del guscio d'uovo? Erano i postumi di un attacco? O il preludio? E perché non aveva sentito alcun odore? Rimase seduto finché non ne poté più; si distese completamente, lì, sul pavimento, al buio, gli occhi chiusi nell'antro del dolore, della tensione e della paura, stanco, tremendamente stanco. Pensò di mettersi a dormire dove si trovava; sarebbe stato un sonno profondo, come quello di un insetto narcotizzato. Poi, al risveglio, avrebbe scoperto di essersi tramutato in argento: inzuppato fino agli occhi melliflui, viscido, membranoso, incapace di muoversi. Sopra di lui, il vago sogghigno di una bocca assolutamente inumana. Che cosa è peggio: l'allucinazione o la realtà? Sta iniziando di nuovo. Vai a letto, coglione. Eppure, gli ci volle un lungo minuto per riprendersi e alzarsi. Accese la luce in corridoio, diretto in camera, e, mentre vi passava accanto, non aprì la porta del bagno. Il mattino dopo tutto gli apparve beatamente stupido, dall'uovo alla coque al fatto di alzarsi presto, e così fu per l'intera settimana. Le domande di Peter - gli attacchi sono come prendere l'acido? - beh, forse le loro manifestazioni erano più simili a quelle della droga di quanto non sapesse. Ma quello era stato un flashback, o qualcosa di simile, semplicemente un'eco nel suo cervello in fase di guarigione, stimolato dai nervi e dall'immaginazione; non era nulla di preoccupante. Assolutamente nulla per cui chiamare il dottore. La settimana seguente si sarebbe sottoposto a un check-up e, se avesse avuto ancora problemi, allora... Allora. Quel venerdì alla galleria di Peter c'era un vernissage, una donna che dipingeva acquarelli. Vi fece un salto tardi, dopo il lavoro; si aggirò per il locale, tenendo in mano un bicchiere di plastica contenente una sostanza rossastra e oleosa, ed evitando di fare conversazione. Non c'era nessuno con cui voleva parlare. Peter era occupato, ed egli si sentì ancor più tristemente fuori posto che nel peggiore dei corridoi d'ospedale, costretto sulla sedia a rotelle vicino a malati indeboliti, che borbottavano fievolmente, che parlavano, che osservavano compulsivamente; per lo meno, avevano qualcosa da osservare. Si sistemò, non in un angolo, ma presso la porta, tenuta aperta da un blocco di cemento armato su cui era inciso il nome del-
la galleria. C'era una brezza, una brezza sgradevole nell'ansito immenso di una tarda e umida serata estiva. Non era sera per esser là. Non era sera per essere da nessuna parte. In serate simili era solito stare sul tetto con Emily, a bere birra e a parlare, a guardare le stelle attraverso la buia cappa di umidità. Una volta lei aveva voluto fare l'amore lassù; Austen aveva però paura di cadere e, imbarazzato all'idea di dirlo, era rimasto muto. "Allora?" aveva chiesto Emily, la cerniera degli shorts già aperta. Al di sopra degli slip si intravvedeva una sottile striscia di pelle non abbronzata. Con le mani fra le gambe di lui, aveva quindi sussurrato, alitandogli leggermente sul collo e sull'orecchio: "Perché no?" "No." Lei gli dava una sensazione stupenda. "Qualcuno ci può vedere." Una lunga stretta, i suoi denti gli avevano sfiorato la mascella, dirigendosi verso la bocca. "Chi?" "Non so." La risposta non era stata convincente. "Gli aerei." "Se non hai voglia di scopare, non hai che da dirlo." Su tutte le furie, si era scostata, era arretrata e si era comunque tolta il top; poi, si era distesa, in silenzio, a guardare le stelle. O gli aerei. Austen aveva cercato di parlarle, ma lei lo aveva ignorato. Alla fine era strisciato in casa, sconfitto, a piedi nudi, attraverso la finestra dell'attico, mentre Emily era rimasta lassù. Il sudore le imperlava il bellissimo addome concavo come se fosse uno strano ornamento. Quella notte non era venuta a letto. Era stato per quello che lo aveva lasciato? Il fatto cioè che lui avesse troppa paura? Troppa paura delle cose che lei desiderava? Era così? Due donne, una vestita di rosso, l'altra no, gli si avvicinarono. Erano eccessivamente chiassose - quanti bicchieri di plastica avevano vuotato? "Ciao!" esclamò, felice, la più alta, come se lo conoscesse da tempo. Aveva denti grandi e splendenti. Muto, con un sorriso falso sulle labbra, le salutò alzando il suo bicchiere semivuoto. "Ciao!" disse di nuovo la donna, con maggiore insistenza. "Ciao." Il vino gli andò giù come fosse una medicina. Se voltava leggermente la testa verso sinistra, riusciva a vedere dentro la camicetta della più bassa; uno sforzo simile non era tuttavia necessario. Entrambe gli sorridevano. Non gli veniva in mente nulla da dire. "Vi piace la mostra?" "Oh, è magnifica. Sono lavori veramente buoni. È un'artista che farà strada." La rossa deve essere una collezionista. "Sai, ha fatto qualche nudo qua e là, ma mai nulla che avesse questa profondità." Profondità, giusto. Una tetta delle dimensioni di un parafango. Bevve il vino rimanente. Da sopra la spalla della Rossa riusciva a vedere Peter che
rideva e che strizzava il gomito a una donna. Quasi un terzo dei dipinti aveva a lato l'adesivo rivelatore, un cerchio rosso per indicare che il quadro era stato venduto. "Conosci," di nuovo, o ancora, la Rossa, "le sue prime opere?" Madame, preferirei bruciarmi gli occhi con le sigarette. "No," rispose, mentre con le dita schiacciava il bicchiere vuoto. "No, non le conosco." "Ha studiato con John Boston," affermò l'amica, guardando la Rossa in cerca di una conferma. "Per molti anni." "Aah." Austen si voltò per osservare nuovamente l'enorme tetta dipinta ad acquarello, i suoi margini alterati, le rugosità irregolari dei capezzoli, simili a due Everest dalla sommità cromata, una sostanza argentea fusa secreta, ehi, signora, farebbe meglio a considerare quest'ultimo. Ehi, signora l'argento si mosse. La sua percezione era stata stimolata. Il quadro stesso sembrava spostarsi; era come se, nel suo sonno artificiale, la donna nuda, gigantessa disturbata, si muovesse. Guarda, là, lo strisciare furtivo, il tremito sottostante la superficie reale, impercettibile come un trombo in una vena, il bagliore serpeggiante. Le due lo stavano proprio guardando. Forse non lo vedevano? Era proprio là. Cercava di uscire dal quadro. Gli voltò la schiena con un dietro-front; il pavimento era freddo sotto i suoi piedi. Le oltrepassò, si precipitò fuori dalla porta, direttamente verso l'auto. Vi entrò e vi si sedette, i finestrini tirati su e le porte chiuse con la sicura, tremante. Nella calura. Non sentiva nessun odore, se non quello amaro del bordo del bicchiere vuoto e uno, lieve ma persistente, di benzina e di gas di scarico. Non aveva mal di testa, ancora; si sentiva solo esaurito, tre volte peggio della volta precedente. Stava succedendo di nuovo. Oh, Dio, ti prego. Guidava con prudenza - anche se legalmente non avrebbe ancora potuto farlo - i finestrini abbassati per fare entrare la notte afosa, e pensava di nuovo a Emily, la desiderava disperatamente, al punto di aver voglia di piangere. Sarebbe stato disposto a stare nudo su una parete perfettamente verticale per poterla abbracciare, per poter posare la guancia sulla sporgenza della sua clavicola, per potersi nascondere nel suo corpo fino a non vedere nient'altro. La casa era umida come l'interno di un guanto, vuota. Le lenzuola cupe del suo letto e, al di sopra di esse, uno scuro bagliore alcaloide: La Creatrice, l'arcimoglie, personificazione del rigore, una visione da incubo, con i
suoi ceppi per i piedi e il suo scettro, i vestiti fatti di pezzi di pelle, ornati di ossicini lungo le cuciture, minuscoli come quelli delle mani di neonati. La cliente che lo aveva commissionato si era poi rifiutata di acquistarlo e aveva preteso la restituzione dell'anticipo. Gli aveva chiesto perché. Perché ha fatto questo? continuava a ripetere. Perché mi ha fatto questo? Lo toccò, delicatamente, un dito che scorreva sui piccoli rilievi della pittura. Tutti verdi e gialli marci, i colori di un campo da tempo non coltivato, una parabola chiara e impudica della decadenza. Sì. E nulla lì si sarebbe mosso senza che ne fosse a conoscenza, nulla avrebbe brillato di luce significativa e crescente. Per gran parte della notte rimase disteso senza chiudere occhio, aspettando che accadesse qualcosa; il sudore gli correva sulla fronte, lungo le ascelle, lungo le tempie e le costole. Aspettava che gli attacchi si ripresentassero, con un crescendo, con l'intensità di martelli pneumatici che quella volta gli avrebbero spaccato il cervello a metà. Aspettava di risvegliarsi in ospedale, legato, o forse no, e di dovervi rimanere per giorni, ma anche no. Aspettava, assediato, che Emily chiamasse. "Come sta, Austen?" L'ambulatorio di Stella, ma non era Stella; era la sua collega della quale ignorava il nome. Non portava targhette sul camice attillato, tagliato per non sembrare tale, di un innocuo color avorio, meno "clinico" del solito bianco. Mi chiami Dottore. Le sue mani erano incredibilmente fredde; forse aveva problemi di circolazione. "Va bene," disse Austen. A piedi nudi sul lettino, ogni minimo spostamento annunciato dal crepitio del lenzuolino di carta. Era stato sottoposto a quelle visite tante volte che avrebbe potuto ripeterne le procedure, danzando, a occhi chiusi. Fu accurata: considerò ogni fattore elencato sulla lista, esattamente come si trattasse di un paziente nuovo. Dapprima i nervi cranici; l'oscillazione del cerchio luminoso per verificare la capacità dei suoi occhi di seguire i movimenti. Poi, la litania: guardi su, guardi giù, a sinistra, a destra, bene. Chiuda gli occhi, sollevi le sopracciglia. Le sollevi ancora. Tiri fuori la lingua, la muova, chiuda la bocca. Tocchi con il mento la spalla destra, la sinistra. Bene. Le mani fredde giunte in grembo, lo guardava dal basso, dalla sua sedia di plastica rossa a lato del lettino. "Prende ancora il Tegretol?" Annuì. Tutto l'ambulatorio aveva l'odore dei suoi attacchi, un odore però troppo reale. Erano le zone-limite quelle da tenere sotto controllo. "Problemi con il dosaggio?"
Come faccio a saperlo? "No." "Qualche problema in generale? Mal di testa o disturbi simili?" Beh. La sua pausa, lunga e imbarazzante, quasi quanto un brivido lungo i fianchi, lo tradì; doveva rispondere qualcosa. "Ehm, ho avuto un paio di attacchi di mal di testa," e, toccandosi la fronte, aggiunse "qui e qui." Con la punta di due dita si sfiorò quindi le tempie. "Altri disturbi? Anomalie?" Questo dipende da ciò che ritieni normale, o no? "Beh," anche in questo caso, vacci piano. "Sono un po', un po' preoccupato. Credo di aver avuto un..." piano. "Una sorta di pre-attacco." La sua penna scattò come un falco. "Che cosa intende?" Austen non la guardò. Guardò invece la parete alle sue spalle, rivestita di orribili pannelli color noce. Ma i neurologi non sono ricchi? Vicino a lei c'era una stampa insulsa raffigurante un mulino ad acqua e, accanto, un uomo che presumibilmente stava fantasticando; o, forse, avendo un preattacco. Qualsiasi cosa significasse. "Beh," fece. "È difficile descriverlo." Vedo cose, Dottore. "Per favore, cerchi di farlo." I suoi capelli erano quasi della stessa tonalità delle sue scarpe. "Una o due volte ho pensato che stavo... che stava per accadere di nuovo. Mi sono sentito esattamente come se stesse succedendo." La donna annotò qualcosa. Aveva una grafia piccola e un modo di scrivere duro; quasi certamente forava la carta con la penna. Austen aveva le mani sudate e se le asciugò sulle cosce. Sentì improvvisamente di avere la vescica piena. "Ha sentito strani odori? Ha avuto visioni come di essere in un tunnel?" No e no. Poi, la domanda da un milione di dollari. "Allucinazioni?" Argento elusivo, incorniciato in uno specchio, che si allungava, sfuggente, fra macchie e acqua; no. "No," rispose, la voce secca mentre mentiva. "Nulla di simile. È difficile da spiegare, ma so quando accade." Lei prese un appunto breve e veloce, si appoggiò allo schienale della sedia, accavallando le gambe. Aveva ginocchia squadrate, come quelle di un calciatore. Quindi lo informo della sindrome postcommotiva, dei sintomi post-traumatìci provocati da una seria lesione al capo: insonnia, cefalee, vertigini, letargia, depressione, li avrebbe avuti tutti. "Sicuramente i suoi sintomi sono tali da essere presi in considerazione," affermò, rimettendo il cappuccio alla penna con una leggera pressione. "Ma non si preoccupi ec-
cessivamente." Aspettò, le mani di nuovo sudate. "Che cosa devo fare se capiterà ancora?" "Beh, per ora le farò fare alcuni test, a scopo prevalentemente cautelativo. Non credo si tratti di nulla di serio, ma è meglio esserne certi." Ovviamente, lo è. "Faccia sapere a me o al dottor Stella se le accade qualcos'altro." Un sorriso, una stretta di mano - la sua era asciutta e fredda come non mai - e uscì dalla stanza. Calze e scarpe, una stanchezza nei movimenti, peraltro non alimentata dall'ansia fluttuante di un attacco in arrivo. Era solo stanco. Quando arrivò a casa, si distese sul divano e dormì per tre ore, svegliandosi a bocca aperta, con il cuore che batteva nervosamente, ascoltando il click del frigorifero che periodicamente si ricaricava. I risultati dei test furono negativi, puliti, o comunque si voglia. Era di nuovo seduto di fronte alla dottoressa Senza Nome, annuiva col capo, sorrideva. Sì, buone notizie, sì, fantastiche. Va bene. Prenda nota dei sintomi post-traumatici; alcuni pazienti preferiscono a tale scopo tenere a portata di mano un quaderno a spirale. No, niente Vafium: era in grado di controllare da solo la sua ansia ragionevolmente bene. Grazie, comunque. E, fuori dalla porta, senza fiato nella calura, i finestrini dell'auto aperti durante la lunga strada che lo riportava al lavoro. Nulla di strano. Va bene. Peter passò a trovarlo, due bottiglie di vino caldo in un sacchetto di plastica. Austen era seduto nel giardino davanti casa, su un prato di erba secca, dai fili sottili e puntuti, l'alluce in un formicaio, nuovo, innocuo ostacolo per le stupide, industriose creature. Occhiali da sole e T-shirt strappata a livello dei capezzoli, la pancia come un'asse da bucato, troppo bianca per la stagione estiva. Sui suoi pantaloncini da ginnastica si leggeva NEW HORIZONS. "Ehi," gridò a Peter, che sbucò fuori, fresco e asciutto, dal grembo protettivo della sua auto, munita di aria condizionata, simile a un nuovissimo piccolo elettrodomestico che venisse estratto dalla confezione ermetica. I suoi shorts avevano una leggera sgualcitura lungo i fianchi. "Ciao. Hai del ghiaccio?" "La porta è aperta."
Entrò e riuscì, sbattendo la porta, portando due bicchieri da whisky di plastica contenenti quattro cubetti di ghiaccio ciascuno e il vino dall'aspetto pessimo, color porpora come una gelatina di marca scadente. "Che giornata del cazzo. Ahi. Che diavolo ha l'erba del tuo prato?" "Niente." "Beh, annaffiala ogni tanto, no? Merda. Conosci una donna di nome Gina?" Due formiche avevano intrapreso una corsa ad ostacoli alla cieca sul suo dito mignolo sinistro e sarebbero presto giunte caparbiamente in collisione. "Perché non bevi mai birra?" "Mi dà troppo alla testa. Ascolta: c'è in programma quella festa, a casa di Mike Miguel. Tu lo conosci." Non lo conosceva, ma annuì comunque. "E questa Gina continua a chiamare, chiedendo se ci sarai anche tu. Dice che ti vuole parlare per acquistare alcuni dei tuoi quadri." "Davvero?" Bevve ancora vino; aveva le dita viscide per la condensa. Il sole venne oscurato da una nube. "Pensi abbia intenzione di farlo?" Peter si strinse con noncuranza nelle spalle, sollevando le sopracciglia molto al di sopra degli occhiali da sole dai riflessi iridescenti. "Chissà! Certo è che continua a chiamare." Passò una macchina scura, simile a quella che aveva Emily. Le formiche avevano lasciato il suo piede. Peter sembrava in attesa di una risposta definitiva, cosicché Austen si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso. "A che ora è la festa?" Mike Miguel aveva un terreno di mezzo acro e una casa con tredici stanze, gran parte delle quali rimaneva chiusa. I gradini delle scale che portavano alla porta d'ingresso erano privi di alzata, due delle finestre erano rotte, una tanto da consentire all'aria pesante della notte di entrare nell'edifìcio. Austen si fermò sulla veranda posteriore, una confezione da dodici lattine in mano, a sbirciare in cucina, dove pareva esserci un flusso continuo di gente che beveva, rovesciava bevande per terra o teneva in mano bicchieri vuoti accartocciati. Nessuno aveva risposto quando aveva bussato, più che altro per educazione. Peter si era offerto di passarlo a prendere in macchina, ma Austen aveva insistito per venire da solo, tardi, nella speranza che ci fossero abbastanza invitati per poter passare il più possibile inosservato: è facile nascondersi in una sala piena di ubriachi. Entrato, si rese conto di non ricordarsi che aspetto avesse Mike Miguel.
Pertanto: cerca Peter, muovendoti lentamente, sorridendo da dietro la lattina di birra, che sapeva di saponata calda. L'ultima volta che aveva bevuto la Budweiser, che aveva cercato di berla, era stato il giorno dell'incidente. Presagi, presagi. Non credeva ai presagi, o alla fortuna, buona o cattiva. La fortuna te la crei tu, altrimenti lo fa la vita al posto tuo. Qualcuno cambiò la musica, che era ora forte e aveva un che di grossolano. Peter stava seduto sul bracciolo inclinato di una sdraio color cacca, sorridente, intento a guardare l'incavo fra i seni della donna che vi stava seduta. Austen attraversò la stanza, per lo più obliquamente, e diede due colpetti a Peter sulla spalla con la lattina di birra. La donna sollevò lo sguardo. "Ciao," disse. Aveva i denti leggermente marrone, sui canini c'era una lieve macchia di cacao. Che cosa hai mangiato, ragazza? Portava un distintivo con la scritta HO CERCATO DI ENTRARE IN CONTATTO CON ME STESSA, MA HO SEMPRE TROVATO LA MIA SEGRETERIA TELEFONICA. "Hai assaggiato quelle piante di mare? Sono veramente buone." "Ehm, no." Peter scoppiò a ridere; Austen vide che era già alquanto ubriaco. "Intende dire frutti di mare. C'era del granchio o roba simile in cucina. Sui cracker." "Perché non li offri ai tuoi vernissage?" chiese la donna, inclinandosi lateralmente per guardare Peter, verso l'alto. Austen ne vide i seni, grossi e cadenti, bevve ancora un po' di birra e si ritrovò con la lattina vuota in mano. Con che velocità è finita. "È meglio di quel disgustoso popcorn confezionato che servi." "Ma a me piace quel disgustoso popcorn." Prese una bottiglia posata a fianco della sedia, vino rosso anche questa volta, ma di qualità migliore rispetto a quello che aveva portato ad Austen. Ne versò alla donna, ne prese per sé e, facendo un cenno con la bottiglia, chiese ad Austen: "Ne vuoi anche tu?" "No," rispose questi, indicando la lattina di birra. "Penso che prenderò un'altra birra." La cucina era vuota. Posò la lattina sul lavandino, già sommerso di bicchieri, sacchetti di patatine schiacciati, piatti malamente accatastati su quelli che dovevano essere stati i cracker al granchio, una pasta densa di color rosa, simile a quella che si usa per le impronte dentali. Il volume della musica crebbe ancora, alterandola. Al piano superiore qualcuno gridò; ci
fu un tonfo e, per un attimo, si udì una risata. Una donna entrò in cucina portando un piatto vuoto e un bicchiere di carta: capelli molto corti, di un rosso innaturale, gambe e braccia lunghe e sottili, orecchini grandi e brillanti come palle dell'albero di Natale. Prese una birra d'importazione dal frigorifero strapieno. "Mike ha sempre buona birra," affermò, infilando la mano nel caos del bancone ed estraendone miracolosamente l'apribottiglie. "È avanzato del granchio?" "Non so." Guardò attorno, cercando di sembrare utile. "Forse ci sono patatine o qualcosa del genere." "Tu sei Austen, non è vero," disse lei, sorridendo, con un tono che non era assolutamente di domanda. "Io sono Gina Fisk." "Oh, sì, ciao," rispose, porgendole la mano. "Peter mi ha detto che saresti venuta." "Ti ha anche detto quanto sono stata insistente?" La sua stretta di mano era fiacca, insulsa; però gli strinse le dita, mentre le lasciava andare. "Volevo parlarti dei tuoi lavori. Mi ricordo che di solito esponevi alla galleria di Peter." "Sì. Un bel po' di tempo fa." "Ma ora non più, vero?" Scosse il capo e bevve una sorsata di birra. "Peter mi ha detto che sei stato male." Grazie, coglione. "Beh, sì, ma non è la ragione per la quale non espongo più." Due argomenti di cui non voleva parlare; poi, alcuni invitati entrarono in cucina discutendo, a voce alta, della preparazione di un particolare drink. Un uomo continuava a dire: "No, c'è bisogno del lime," sopra gli altri. Gina gli fece un cenno con la bottiglia di birra. "Andiamo." Non c'era altro posto per sedersi che le scale, in mezzo a chiodi piegati, pezzi di intonaco e ad un vecchio numero del New Art Examiner. Gina si sedette, plop, su quello che pareva un mucchio di trucioli di legno, ma non sembrò curarsene; Austen scelse così il gradino inferiore e si sedette, disponendosi lungo di esso e finendo per battere la testa sul corrimano - un lungo tubo di ferro tenuto precariamente da grossi chiodi da cemento armato, indubbiamente più adatti per crocifissioni. Si sistemò quindi immediatamente accanto a lei, e la guardò. "Peter dice," facendo una pausa per bere, "che sei stato molto male." "Peter dice molte cose." "Dice che eri in ospedale." Riusciva a vedere i suoi capezzoli attraverso la T-shirt chiara che indos-
sava, due sporgenze scure. Quando parlava, gli orecchini-palle d'albero di Natale oscillavano, percorrendo una traiettoria allarmante; se avesse gridato o annuito vigorosamente, avrebbero potuto colpire qualcuno. Gina aveva poggiato molto delicatamente la gamba sinistra contro il braccio destro di lui. "Ho avuto un incidente," disse Austen. "Ma non è un argomento di cui amo parlare." Lei poggiò più decisamente la gamba contro il suo braccio. "Allora non ne parleremo." Chiacchierarono o, meglio, chiacchierò prevalentemente lei; Austen ascoltava e beveva. Parlò del lavoro, dei corsi che frequentava, dell'ex fidanzato che ora si vedeva con un uomo. Per ore. Doveva essere molto tardi ed egli si ritrovò ubriaco, molto ubriaco, sempre seduto sui gradini con un mucchio di lattine vuote sulle alzate dei gradini, sopra e sotto di lui. Si ricordava di aver parlato a Peter, di un'assurda discussione in cucina fra Peter e Gina, di aver cercato di orinare e di non essere riuscito a chiudere bene la porta del bagno. Ora ne sentiva di nuovo il bisogno. Aveva il sedere intorpidito e dolente. Gina sedeva fra le sue gambe, la testa liberamente appoggiata sulla sua coscia; era persino più ubriaca di lui. Si piegò per dirle qualcosa e lei, sollevato il braccio, lo afferrò per la testa, lo avvicinò a sé e gli infilò la lingua in bocca, viscida e sgusciante come un pesce rosso. "Devo pisciare," affermò Austen, non appena fu libero di parlare. "Vengo con te." Ebbe enormi difficoltà ad alzarsi in piedi ma, quando vi riuscì, si dimostrò molto più agile di li. Nel bagno insistette per aprirgli la zip dei pantaloni e per prendergli il pene. Pisciò su tutto il pavimento; le mani di lei non erano una buona guida. Iniziava ad avere un'erezione. "Anch'io devo far pipì," disse lei, sollevandosi la gonna aderente. Aveva un paio di slip di uno strano verde fluorescente, che lo stupì, e i peli del pube molto scuri. Mentre orinava, si protese verso di lui e, afferratogli il pene, iniziò a masturbarlo. "Ehi," piegando la testa all'indietro, gli occhi chiusi, "non qui." Il bagno era molto caldo, pregno di odori: un odore dolciastro di shampoo, uno acre di muffa e di umido. Quando riaprì gli occhi, lei stava iniziando a togliersi la T-shirt. "Aspetta," esclamò Austen. Qualcuno bussò alla porta, chiamò attraverso l'apertura. Gina premette il pulsante di scarico del water, ma fallì la mossa; mentre si udiva il gorgoglio anemico dello scarso flusso d' acqua, egli riuscì a chiudersi i pantaloni e ad aiutarla a sistemarsi la maglietta.
Provava una sensazione precisa e quasi piacevole di ronzio nell'area retrostante gli occhi. Lo condusse di nuovo in cucina, anch'essa calda, piena di gente urlante. Il volume della musica pareva straordinariamente alto. Fuori era molto meglio, più fresco, più calmo. In fondo al cortile c'era un tavolo da picnic, il lungo sedile della panca fessurato a metà, simile a una scheggia pericolosa. "Qui," disse lei e gli passò una birra. Egli ne bevve una sorsata simbolica. "No, questo," e sentì al tatto la sagoma quadrata di un preservativo. "Guarda," esclamò lei e, nonostante fosse buio, Austen cercò di farlo: aveva qualcosa in mano, sul palmo, una strana palla raggrinzita. Guarda, avrebbe potuto dire, il mio fegato! Era verde. Erano i suoi slip. Li posò sul tavolo e si avvicinò a lui, lo baciò, gli prese il pene in mano. Austen dava la schiena alla casa e alle finestre illuminate. Lei aveva in qualche modo srotolato il preservativo e glielo stava mettendo. Ora gli era sopra, la gonna sui fianchi, le magre cosce a cavalcioni, e teneva la testa abbandonata di lui appoggiata contro di sé. Egli le tirò la maglietta e Gina, di conseguenza, la sollevò, per evitare che desse fastidio. Aveva due capezzoli spessi, grossi, sproporzionati per il suo seno piccolo. Gemeva, attraverso i denti emetteva una sorta di fischio. I suoi seni gli rimbalzavano sul viso. Austen pensò agli orecchini, che oscillavano nello stesso modo. Ne aveva ancora uno addosso, che rimbalzava e vibrava come il suo corpo, come se fosse una parte anatomica, non un oggetto fatto di vetro, di plastica o d'argento ed egli si rese conto di essere prossimo a venire, anzi, stava venendo, là, nel buio, le mani di lei aggrappate saldamente alle sue spalle, le tette sudate schiacciate sul suo viso. In quel momento vide l'orecchino diventare più luminoso; un'oscillazione rapida, disinvolta e, al di sotto della sua superficie, lo sguardo astuto, particolare, argento puro, che si trasformava, mentre lei assumeva una forma analoga a quella di un cuore umano. Oscillava pericolosamente, fin quasi a toccargli il volto, la pelle, ed egli gridò, la spintonò brutalmente, ma la sua presa era salda, le sue gambe lo tenevano bloccato, come durante un crampo. La forma mutò ancora, in qualcosa di simile a un cervello spiaccicato, strisciante, pieno d'insetti, di abominevoli esseri con zampe mobili, bolla schiumosa di sangue argenteo. Anch'egli strisciava, lontano, nell'erba, il preservativo che penzolava piccolo e gonfio dal suo cazzo raggrinzito. Poi il vomito, il vomito e ancora il vomito. Qualcuno lo scosse. "Ehi."
Quelli del pronto soccorso? No. Peter. "Ehi, coglione, tirati su," esclamò, con tono comunque gentile. Gentile era anche il braccio che lo fece alzare. Su un fianco era tutto bagnato, orina o umidità, difficile a dirsi. Sentiva il braccio destro intorpidito. Ricordava poco e si sentiva ancora male; aveva un sapore in bocca come se avesse mangiato merda. Forse lo aveva davvero fatto. Era mattina, o quasi: riusciva a vedere chiaramente la casa, le macchine ancora parcheggiate nel viale d'accesso. "Andiamo dentro, va bene?" Mentre Peter lo conduceva verso l'edificio, sorreggendolo come i medici con i feriti nei film di guerra, vide nella luce del sole appena nato l'orecchino, acquattato come un serpente nell'erba, lontano dal tavolo da picnic. La sua superficie era verde, a causa del riflesso dell'erba ma, mentre lo guardava, cambiò, assumendo immediatamente un bagliore intenso, simile a quello iridescente dell'olio in una pozzanghera. L'argento, l'argento, che lo scrutava mentre egli camminava. Questa volta non ci furono trasformazioni di organi, ma uno shock più sottile: il sorriso fra due amici. L'addetta alla reception parlava come se avesse il raffreddore, o forse era solo il telefono. "Non è previsto alcun check-up per lei." "Lo so," rispose Austen. Il condizionatore del negozio era rotto, come del resto una delle finestre. Sul soffitto volavano lentamente due mosche grasse. Gratta, gratta, un'unghia sulla lesione di una nocca. Gratta fino a sanguinare. "Ha sintomi?" La festa. Ubriaco, lo eri, non dimenticartelo. "Qualcosa del genere, sì. Vorrei solo vedere il dottore." "Vediamo un po' la disponibilità." Silenzio. Un grumo di sangue marrone sotto l'unghia. "Non posso darle un appuntamento se non fra due giovedì, non dopo questo, ma dopo il prossimo giovedì" come se ci potesse essere qualche confusione, "Il ventotto. Alle nove e un quarto." "Va bene. Il mio cognome è Bandy," disse, facendone lentamente lo spelling. Dopo aver terminato la telefonata, compose altrettanto lentamente un altro numero, quello della compagnia d'assicurazione: per scoprire che i premi erano aumentati e venire duramente ammonito perché non richiedesse viste o esami superflui. Gli apparecchi costano, come pure i tecnici. Lo so. E, andando a casa in macchina, le mani desolatamente posate sul volan-
te, si accorse di essersi dimenticato di ricontrollare la riparazione della finestra: stava venendo un temporale e tutte le T-shirt CAN FULO si sarebbero bagnate. Nell'aria un odore di polvere, troppo fine per essere vista o sentita; l'estate stava durando in eterno. Si ritrovò a desiderare l'autunno con un'impazienza sfrenata, illogica, come se il cambio di stagione potesse indurre un cambiamento in lui. Il passaggio dalla calura tetra e sensuale al freddo, capace di sterilizzare, congelare, stringere nella morsa dei zero gradi l'argento beffardamente mobile, liquido come sperma, come sangue, come il fluido chiaro che denota morte cerebrale... Dal disastro della festa - e no, non aveva chiamato Gina Fisk, provava troppa vergogna alla sola idea di sentire la sua voce - non c'erano stati altri shock, altre manifestazioni. La settimana era passata liscia, senza avvenimenti di sorta. Ma ora Austen avvertiva l'inizio dell'assedio, stava assumendo l'atteggiamento "guardati alle spalle", aspettandosi, in ogni momento, il peggio. E inoltre: come prepararsi per l'inconcepibile? Ammettendo di credere a ciò che gli occhi comunicano? Affidandosi allo smarrimento e allo sconvolgimento della paura? È meglio o peggio, più sicuro o più pericoloso, più chiaro o più scuro? È pazzia o no? Stava stancandosi della domanda, dell'interrogarsi ogni minuto. Sul sedile posteriore della sua auto, disposti solennemente vicino alle lattine vuote di bevande analcoliche, che sbattevano l'una contro l'altra, e la massa scomposta, vagamente simile a quella di un cane, di una vecchia giacca a vento senza maniche, c'era la sua provvista di munizioni. Sempreché la conoscenza significhi potere. Libri dai titoli Come affrontare i problemi neurologici, Il cervello: nozioni di base, Il potere del cervello. Manuali per infermieri, resoconti ingenui, chiacchiere delle persone comuni, la Mia Testa Malata contrapposta a testi tanto tecnici; persino gli indici analitici erano al di là della sua portata. Ciononostante li lesse, tutti, senza un criterio preciso. Imparò molto, ma in maniera caotica: afonia, afemia, afasia, atassia, aprassia, nomi come quelli delle dee greche, un elenco delle regine della malattia, dei custodi del cervello, Nyx e Nox e la regione della notte. Lesse della meningite e della sclerosi a placche, della pressione intracranica, della sindrome di Guillain-Barré, dell'epilessia; in maniera ossessiva lesse dei pazienti con lesioni cerebrali e con epilessia temporale. Tutto quello che poté trovare, in biblioteca, in libreria. Nell'ambulatorio di Stella aveva chiesto una lista di letture consigliate e la ottenne, insieme a una serie di taciti giudizi, in base ai quali capì che, secondo alcuni, prendeva la sua malattia troppo personalmente. Nessuno era ancora uscito a
parlare di ipocondria, ma in effetti poco gli mancava per arrivarci: una o due visite ambulatoriali, uno o due test negativi effettuati allo stesso scopo. Mentre svoltava nel vialetto d'accesso, il primo fulmine tagliò rapidamente il cielo a occidente. Corse in casa, i libri sotto braccio, a chiudere le finestre della cucina. Una mosca si precipitò, stoltamente ma con determinazione, contro la zanzariera: voglio uscire, voglio uscire, voglio uscire. Austen l'aprì - vai, idiota - ma l'insetto continuò a zampettare su e giù, incerto, lento, finché Austen lo scacciò con le dita: vai, e la mosca se ne andò. Poi, velocemente, rientrò in casa. "Bene." Sorrise. La scacciò con maggior decisione, per assicurarsi che trovasse davvero la libertà. Fraternizzare con un'enorme larva. Quanto in basso puoi cadere. In frigorifero c'era della birra, ma preferì un po' d'acqua fresca, cangiante, resa argentea dalle scaglie di ghiaccio rimaste sul fondo del secchiello. Il temporale se la stava prendendo comoda, sarebbe scoppiato presto, ma non prestissimo. Cupi e poderosi tuoni prima della grande esplosione. Prese l'acqua e andò a sedersi sul prato antistante la casa. I fili d'erba pungevano più che mai, piccole lance irte contro le sue cosce stanche. Era troppo secco. Beh, il temporale avrebbe provveduto. Bevve; l'acqua era fredda tanto da provocargli dolore. Gocce di sudore sulla sua fronte; ora faceva più caldo, era come se il temporale avesse bisogno di una determinata temperatura per poter scoppiare e come se la natura non volesse adattarvisi, agendo a suo modo. Le nubi avevano un'inclinazione suggestiva, in certo qual modo, della fase precedente un attacco, simile a una fuga musicale, una certa distorsione tipica di quella sottile linea di confine che divide il comune stato di coscienza, pregno di dolore, da quello eterico, fatto di squame e di odori e di paura, la terra in cui vive la cosa argentea. Sempre che viva. Non cominciare. Di nuovo la depressione, l'idea della differenza ormai radicatasi per sempre, la paura che si manifestava con i suoi tremori, nei momenti più strani, il disgusto per il suo comportamento alla festa, il modo in cui potrebbe in ogni attimo comportarsi; il tutto tristemente unito al fatto schiacciante di dover credere o non credere: accettare il verdetto di guarigione dei medici era accettare la follia. E, nel caso contrario, quale era l'alternativa? Sopra la sua testa il borbottio gradualmente più intenso di un lampo, che pareva prodotto da un generatore divino, le prime gocce calde e su, in piedi, rapido, con il bicchiere vuoto in mano. Attraversò il prato, la testa chi-
na; corri, corri, prima di vedere nel lampo l'inconfondibile sfrigolio argenteo. "Che tipo di sintomi avverte esattamente?" Stella di mattina, in una cattiva mattina, non particolarmente felice di vederlo né particolarmente attento a mascherare tale sentimento, dava sfogo ai suoi tic, leggendo la cartella di Austen come un romanzo che non gli fosse piaciuto già la prima volta. Sotto il camice bianco da medico aveva una felpa rossa; per qualche ragione sembrava importante si leggesse la scritta su di essa. "I suoi ultimi test," disse Stella, tamburellando con le dita sulla cartella. "Lo so." Hai intenzione di dirglielo? si chiese. Come? Immagina: Ehi, dottor Stella, sa cosa? Continuo a vedere la maledettissima cosa, non so se siano allucinazioni o no, ma è fottutamente strano. Bene. Stella incrociò le braccia. Il camice ondeggiò, allettante, al di sopra della scritta, meno bianco, sbiadito, forse, da numerosi lavaggi. Chi le fa il bucato, dottore? "Perché è venuto qui?" Poteva anche essere sincero. "Non sto ancora bene." "Tutti questi esami dicono il contrario." "Allora sono sbagliati." "Ci sono altri fattori. Prende le medicine?" Austen annuì. "Regolarmente?" Annuì ancora. Il tic di Stella sembrò peggiorare, forse perché era seccato. "L'alcool può ridurre l'efficacia dei farmaci," affermò, con lo stesso tono dei libri che stavano sul sedile posteriore della sua automobile. "Ha mal di testa? Vertigini? Vista doppia oppure offuscata? Altri problemi di vista?" "No." "Austen, lasci che le dica una cosa." Posò la cartella; oho, ecco che è venuto il momento del Discorso. "Il Tegretol è un farmaco molto efficace, se preso secondo le prescrizioni. Se lo sta usando correttamente e non ha attacchi o altri sintomi indicativi e i risultati di tutti i test sono normali, allora..." Pausa. Era consuetudine inspirare profondamente prima di annunciare che il tuo paziente è un classico ipocondriaco bisognoso di attenzione? Era
consuetudine anche per il paziente? Il silenzio iniziava a essere imbarazzante. Vai avanti, pensò Austen, evitando deliberatamente di infierire sulla ferita alla nocca; lui non poteva avere tic. Dimmi che è tutto nella mia testa. "Allora," un altro respiro, "devo ripeterle ancora una volta che non c'è nulla che non va. Lei ha subito una grave lesione al capo, un trauma seguito da attacchi epilettici. Ma ora è tutto finito." Austen non disse nulla. In corridoio qualcuno rise, il condizionatore si accese nuovamente. "Austen, forse ha bisogno di assistenza a livello psicologico." Quella notte sognò ripetutamente di Emily: il movimento dei capelli, le dita che tenevano saldamente quelle di lui, il lungo, raro sorriso. Si svegliò sudando, le lenzuola strettamente attorcigliate, che gli avevano imprigionato le gambe come fossero ceppi predisposti da un'abile mano. Aveva voglia di piangere. Aveva voglia di chiamarla. Aveva un'immensa voglia di chiamarla e di dirle: ho bisogno di aiuto. Vieni? Invece rimosse le lenzuola, andò in bagno, orinò e bevve un po' d'acqua. Nessuno sguardo nello specchio a mezzanotte, per favore. Ritornato a letto, pensò che sarebbe rimasto sveglio; viceversa, si riaddormentò subito, piombando in un sonno profondo, e sognò Emily, in piedi nel giardino antistante la casa, con una cassetta degli attrezzi in mano. Che cosa fai? le chiese. Che cos'è quella? È una cassetta degli attrezzi, Austen. Lo stesso mezzosorriso risoluto. Dio, com'era bella. Indossava una T-shirt senza reggiseno e un paio di vecchi jeans neri. Già che ci siamo, disse, perché hai scopato con quella donna? È assurdo, con quale donna? Ma, in qualche modo, era entrato in possesso di quegli stupidi slip verdi che teneva proprio lì, in mano. Lei si protese per afferrarli e li scosse con un'aria intransigente sul volto, come se lo avesse scoperto a guidare senza olio nel motore. È meglio che tu stia attento. Un paesaggio tempestoso alle sue spalle, come quelli che si vedono all'improvviso d'estate. Pioggia sul marciapiede, macchie nere sul cemento armato grigio cotto dal sole. Iniziò a discutere, per farla entrare in casa: era stupido stare fuori nella pioggia. Per amore di Dio, lei teneva in mano una cassetta degli attrezzi metallica. I suoi capelli vennero gettati all'indietro dal vento, che si stava alzando.
Oh, smetti di preoccuparti, disse lei. Per di più - con quell'altro suo sorriso, quello malvagio - è solo una tempesta elettrica del tuo cervello, non è vero? Non è vero? Quando si risvegliò, piangente, ebbe un'erezione, mentre le lenzuola lo stritolavano come una garrotta e il telefono suonava. Suonava. "Pronto?" esclamò in lacrime, cercando di mettersi a sedere. Il sudore gli ricopriva l'intero corpo. Una voce ispessita, quasi da ubriaco: Gina Fisk. In sottofondo il rumore di una festa o di un bar. "Tu, pezzo di merda," disse lei. Lentamente, Austen posò il ricevitore. Il telefono non suonò più. Aveva ragione lei, ovviamente. Giorno lavorativo. Quaranta ore la settimana, gli ultimi scarni guadagni svaniti con l'ultima parcella di Stella. Peter si fermò al negozio per dirgli che lavorava troppo. "Smetti di pensare tanto," osservò, appollaiato sul bancone, mentre oscillava incongruamente le gambe. Peter non era tipo per cose simili, soprattutto in quel momento, nella sua veste di direttore della galleria, pantaloni di lino nero e camicia blu stropicciata, com'era di moda. "Sai che cosa dovresti fare?" "No, ma tu sì." "Ah, ah. Il fatto è che io lo so davvero." Austen si girò per prendere uno scarno pacchetto di fatture, per fortuna era arrivato quell'ordine per una squadra di calcio, che riusciva a coprire ampiamente il suo stipendio della settimana. E se gli ordini si fossero ridotti ulteriormente? "Devi smetterla di pensare tanto. Esci di più." "Sì," rispose, timbrando la prima fattura. Aveva una macchia d'inchiostro sul lato della mano, traccia del test di Rorschach. "Come ho fatto la sera di quella festa." "Ti sei ubriacato, va be', e allora?" Il tentativo non era proprio riuscito, lo sapevano entrambi. "D'accordo, non hai voglia di andare alle feste. Non c'è nessun problema. Ci sono molte altre cose da fare oltre a stare a casa seduti al buio." "Peter, ho la ferma intenzione di tenere le luci accese." Peter lo toccò, molto gentilmente, una mano cordiale sulla spalla. Aveva mani insolitamente piccole, Austen non lo aveva mai notato. Piccole e con
i palmi duri. "Austen," affermò, con una gravita sottolineata ancor più dal fatto di pronunciare ogni parola senza accompagnarla con un sorriso - Peter sorrideva sempre - "ascoltami. Io sono tuo amico e posso dirti cose simili." "Quali, ad esempio?" "Ad esempio, che hai un aspetto di merda. Avrai perso circa dieci chili e, credimi, non puoi permettertelo. Come non puoi permetterti le parcelle dei medici, ma continui a richiedere visite lo stesso. Perché?" Austen non rispose, ma non allontanò lo sguardo. Dirlo a Peter? Parlarne sarebbe stato un sollievo, anche se piccolo. Avrebbe potuto, forse, non trovare una spiegazione, ma un senso, seppur tardivo, qualcosa. Ci fu un silenzio in cui avrebbe potuto parlare, buttare lì le prime parole, un silenzio fatale. Peter proseguì: "Hai l'aria malata, ti comporti come un malato, non vuoi uscire di casa. Sai che cosa penso? Penso che tu debba lavorare, e non intendo," fece una pausa, indicando con un movimento sprezzante del braccio tutto l'insieme, la volgarità delle insegne e delle magliette, il linoleum incrostato, le inferriate antiladro alle finestre, "in questa merda. Tu ha bisogno della tua arte, ragazzo." Austen non parlò. La mano di Peter era ancora sulla sua spalla, e ora stringeva, leggermente, lo scuoteva delicatamente, avanti e indietro. "Perché non lavori? Non può essere ancora a causa di Emily." Austen si strinse nelle spalle; era in certo qual modo imbarazzante essere considerato qualcuno che porta una fiaccola, qualcuno che non può mollare. Devozione cieca, stupida. Desiderava che entrasse un cliente, che Peter semplicemente smettesse di parlare. "Vediamola punto per punto," le mani ora erano aperte davanti a lui, dita oneste. "Volevo bene a Emily. Ma non puoi lasciare che lei uccida la tua arte, ragazzo. Nessuno vale tanto." Austen si rifugiò una seconda volta in un'alzata di spalle. Emily non aveva fatto nulla per danneggiarlo. Non doveva discutere di tale questione, né con Peter, né con altri, nemmeno con se stesso o con Emily. "Non hai fatto più nulla da... quanto? Un anno? Dalla serie delle Sfingi, giusto?" "Giusto." Criosfinge, Androsfinge, lerosfinge; l'ariete, l'uomo, il falco. Non erano piaciuti a nessuno. "Guarda." Le mani di Peter erano ora poggiate sul bancone; era tempo di darsi da fare. Vedere una volta quel gesto di Peter equivaleva a vederlo
sempre. Ora quasi sorrideva: sapeva ciò che sarebbe seguito. "Fanne uno per me. Va bene? Ti pagherò come fossi un pittore qualsiasi. Ma fammene uno." A quel punto doveva sorridere. Scosse il capo, ma non in segno di rifiuto. "Va bene. Di chi?" "Non so," disse, ricambiando il sorriso, "di chiunque tu voglia. Di te stesso, di Emily, di qualsiasi persona." "Ci penserò." E così fece: seduto nel negozio vuoto, durante le ultime ore di lavoro, in cui arrivarono solo tre chiamate, andando a casa in macchina, preparandosi la cena - pollo e cracker congelati recuperati in fondo al freezer, cotti nel microonde. Ci pensò tanto intensamente che finì col salire di sopra e togliere la plastica dal cavalletto - una tavola da disegno assurta a tale ruolo, che era però sempre servita bene allo scopo. Non le aveva mai dato un addio solenne. Le cose erano ancora al loro posto, conservate accuratamente; non poteva permettersi di sprecare, in nessun senso, le sue scorte. Gran parte dei pennelli era di pelo di cammello, dai manici scuri e levigati. Un anno, a Natale, Emily gli aveva comperato una serie di pennelli costosi; era stata una spesa enorme - quell'inverno vivevano con il sussidio di disoccupazione di lei. Stravaganze dell'amore, ed Emily era rimasta stupefatta al punto da arrabbiarsi quando lui li aveva restituiti. Era seduta al tavolo di cucina, fredda, quando Austen era rientrato a casa, la neve sul cappotto, terrorizzato all'idea di guardarla. "Emily." Non si era voltata, non lo avrebbe fatto. Si ricordava il lungo arco della sua colonna vertebrale; stava seduta come un soldato. "È meglio che non sia qualche merdosa storia alla O. Henry," aveva detto. Austin aveva negato precipitosamente, no, ho solo comperato qualcosa nel negozio di alimentari, messo un po' di benzina nella macchina. Le sue collere lo avevano sempre spaventato leggermente, innervosito: in esse c'erano delle potenzialità. Era come stare in piedi di fronte a una porta di ferro, priva di caratteristiche particolari, lievemente calda al tatto: che cosa succede se l'apri troppo? Bene, lo aveva scoperto, non era così? Ma, per lo meno, quella sera si erano riconciliati, avevano fatto l'amore nella loro camera da letto fredda, la caldaia abbassata per risparmiare denaro, e lei si era addormentata con le coperte sopra la testa. Il Natale passato, ubriaco e in preda alla depressione, l'aveva chiamata: stava seduto e attorcigliava il filo come un adolescente. Non era a casa e
non gli ritelefonò mai. Quest'anno, forse, un ospedale lo avrebbe fatto per lui. O, smettila. Si sedette sulla sedia pieghevole di fronte al cavalletto con alcune tele quadrate irregolari, vi rimase per quasi mezz'ora, senza far nulla se non semplicemente guardare. Quindi, lo ricoprì con la plastica e scese le scale. Prima di andare a letto, la bocca macchiata di dentifricio, si guardò allo specchio: Peter aveva detto che aveva un aspetto di merda. Era vero? Osservandosi, osservandosi veramente, non come quando si radeva, vide un segno nero, lieve, sotto gli occhi. E allora? Gli zigomi induriti, i capelli più grigi. Doveva tagliarsi assolutamente i capelli. Che importa. A Gina Fisk pareva piacessero i suoi sguardi, ma non voleva pensare a lei mai più, se possibile. Accese la radio, alzò il volume in modo da evitare di farlo e, invece, si ritrovò a pensare a Emily, all'idea di farle il ritratto. Persino Peter poteva avere ragione, ogni tanto. Aveva abbastanza foto di lei a cui fare riferimento, se era quello di cui necessitava. Le tirò fuori: erano in una busta di carta grezza molto usata. Le scorse, dapprima velocemente, poi lentamente: un crollo quasi doloroso sul suo tavolo mezzo rotto: Emily, impassibile, con un orrendo cappello da sci rosso, Emily con la sua amica, come si chiamava: Sara? Sharon? Emily mentre mangiava, nella cucina di qualcuno. Emily su una spiaggia, che si riparava con una mano dalla luce. Emily a Natale. Emily con una T-shirt talmente sottile che si poteva quasi guardarvi attraverso; anzi, riusciva proprio a vedere la dolce, indimenticabile curva dei seni e del torace. Se inclinava la foto, pareva essere così; fingeva di vederli, con l'occhio della memoria, di percepire il peso e la morbidezza della pelle sottostante. I suoi piccoli capezzoli in bocca, delicati; altrettanto delicatamente i suoi denti si muovevano avanti e indietro, sfregandoli appena. Lei poggiava di solito le mani ai lati del suo capo e emetteva quel lieve whuff, whuff, come se fosse senza fiato, come se il piacere le rendesse difficile respirare. Inutile, certo: però ricordava, sentì il pietoso stimolo dell'eccitazione e si masturbò, in modo da venire presto, per farla finita. Rimase seduto, stanco, stanco, troppo stanco per alzarsi; eppure lo fece: si alzò e andò a letto. Dormì profondamente, tanto da sognare di avere cicatrici, grandi come chiodi, sulla fronte e sulla schiena. Si vide disteso, quasi nudo, su una strada che portava a casa di sua madre, una casa in cui non era mai stato, un luogo che conosceva solo in base all'indirizzo. Giaceva con gli occhi spalancati, mentre un liquido chiaro gli fuoriusciva costantemente dal naso e dalle orecchie, cadendo sciropposo sull'asfalto, rosaceo, poi rosso, di un
rosso vivo, pericoloso. Infine, diventava tutto nero. Dall'altra parte della strada, come un'ombra terribile, sopraggiungeva scompostamente la cosa allungata: l'argento, la sua gobba esagerata e la sua danza grottesca, veniva a prendere ciò di cui aveva bisogno, ciò che voleva avere; per dare inizio a un'era di sangue. E si svegliò, scoprendo che ogni finestra, ogni pannello quadrato era rivestito d'argentee increspature viventi, di bagliori, di rumori di fanghiglia calpestata, di tessuti che respirano. Austen gridò, si sedette sul letto e continuò a gridare come un bambino spaventato dal buio, ma nessuno udì, nessuno accorse. 3 GILLESPIE, Pagine Gialle, ci vorrebbe un elenco dell'Ordine dei Medici americano, ma fai con quello che hai: GILLMORE; GILMON. A quanto pare, i neurologi non hanno un grande bisogno di farsi pubblicità, forse l'attività sta fiorendo dappertutto. Si sta diffondendo, come un violento ematoma. C'era una clinica neurologica a Trenton, a più di sessanta chilometri di distanza. Avrebbe dovuto prendersi qualche giorno di ferie, e non poteva permetterselo. La cucina era fresca, molto più fresca di quanto non lo fosse stata negli ultimi giorni; l'estate stava terminando, finalmente, e si avvicinava l'autunno, con le prime tenebre. Austen afferrò la caffettiera, ne inclinò leggermente la parte superiore di lato e pose la tazza in linea con il rivolo di caffè che ne usciva. La bevanda gli bruciò lievemente la bocca, in corrispondenza della lesione rilevata all'interno della guancia, che si era mordicchiato violentemente la notte precedente durante... che cosa? Durante chissà cosa. Ricontrollò il numero prima di chiamare. Non potevano riceverlo, lui, il signor Bandy dalle misteriose, ricorrenti cefalee, prima di due settimane e mezza, alle quattro del pomeriggio. Al lavoro, una sorpresa. Il proprietario del negozio, un uomo dal volto tristemente anonimo, tanto da ricordare quelli delle pubblicità dell'aspirina, lo stava aspettando, curiosamente, in piedi, dietro il bancone, come se Austen fosse il padrone e lui l'impiegato. Agitò una manciata di carte, presumibilmente ordini, a mo' di saluto, e li sbatté sul bancone. "Pare che questi tre mesi siano andati male," affermò.
Da quel momento le cose precipitarono. Austen lo ascoltò, in silenzio, mentre annunciava che il negozio sarebbe rimasto chiuso il lunedì fino a contrordine, il che era un modo educato per dire per sempre. "Così, niente più straordinari, vero?" chiese, con non recepita ironia, mentre il proprietario scuoteva il capo e lo esortava a tener su (Che cosa? L'attività? Il suo uccello?). Poi, se ne andò, quasi fosse inconsciamente traumatizzato dallo squallore del suo stesso negozio. Era passata quasi un'ora quando squillò il telefono: una donna era interessata ad avere T-shirt e portachiavi a catenella uguali per la sua squadra di bowling. "Ho sentito che avete prezzi bassi," disse, parlando come se avesse la bocca piena di muco. "A-ha," rispose Austen. La sua penna scalfì il buono d'ordine senza lasciarvi nessuna scritta.. "Abbiamo prezzi bassi, è vero," confermò. Strade con alberi già morenti, foglie indebolite su rami resi vischiosi da qualche malattia. Aveva lasciato il lavoro alle tre e mezza, speculando sul fatto che il proprietario non facesse una delle sue rare telefonate, guidò (sempre illegalmente: dovevano trascorrere ancora quasi tre mesi perché potesse farlo) a una velocità costante di trenta chilometri circa finché giunse a distanza tale da poter scorgere nomi e numeri delle vie. Non si era vestito adeguatamente per il nuovo clima; quando entrò nella clinica, in maglietta e jeans, stava tremando. Ambulatorio. Di qualsiasi cosa fosse fatto, mattoni grigio-gialli, era sinceramente la peggiore collezione di arte da sala d'aspetto che avesse mai visto. Cercò di leggere una copia del Time per la quale non aveva alcun interesse, quindi, People, Medicine, the Arts. Nel New Jersey un tipo aveva apparentemente colpito l'immaginazione di gran parte dei galleristi newyorkesi con la sua nuova tecnica microdivisionista. Era magro e d'aspetto allegro; e perché non dovrebbe essere contento, in fondo. Austen si domandò se avesse mai fatto ritratti. "Il signor Bandy?" Al di là delle porta in finto noce, un corridoio rivestito di pannelli analoghi, poi, un ambulatorio con due brutte fotografìe in bianco e nero in una cornice rossa, sulle pareti opposte. L'infermiera lo pesò, registrò i suoi parametri vitali, si indispettì vagamente quando Austen le chiese come andassero. "Perché non ne parla con il dottore?" chiese. Austen sorrise, in maniera vacua e forzata. "Beh, vorrei controllare personalmente." Coglione. La pressione del sangue era elevata, il battito car-
diaco lievemente aumentato. Nervi. Sta attraversando un periodo particolare di stress, signor Bandy? Ci vollero circa venti minuti prima che il medico arrivasse. Era molto magra, quasi emaciata, e molto bionda. Aveva denti simili a quelli di un bambino, grandi, squadrati, storti, molto bianchi, bianchi come il camice. "Austen," esclamò. "È un nome inusuale." Un altro sorriso forzato. Aspettava che venisse al sodo. "Così lei soffre di cefalee," affermò. Non aveva consultato la cartella clinica più di una volta. "Forti?" "Abbastanza," rispose, annuendo. Le mani gli tremavano lievemente. Nervoso? "Problemi di vista? Vista doppia, offuscata? Ha nausea, arrossamenti, sudorazione notevole?" e così via. Ma era un po' troppo meccanico, un po' troppo rapido a rispondere; lo lesse nel volto di lei. Cercò di agire più tranquillamente durante l'esame obiettivo, di cooperare. Guardi a destra, guardi a sinistra, dove la sto toccando, ora? Le fa male? Quando terminò, gli disse: "Lei ha già effettuato visite analoghe, non è vero?" Assumi l'espressione che Emily odiava, quella che definiva faccia inoffensiva. "Voglio solo che il mal di testa sparisca." Non era un grande attore, ma forse non avrebbe avuto importanza. "Le prescriverò degli esami," affermò la donna. "Ha un'assicurazione?" No. "Sì." "Schuyler Hospital," continuò; altri buoni quaranta minuti. "Sa dov'è?" Fuori la temperatura era scesa ulteriormente; in auto, Austen accese il riscaldamento al massimo. Un'ondata di aria secca, ma aveva ancora freddo. La dottoressa si era resa conto dell'entità delle sue menzogne, vi aveva effettivamente dato peso? Non era certo uno di quegli ipocondriaci noiosi, era semplicemente un uomo tranquillo e infelice, che presentava un problema di cefalee, pressione leggermente elevata e che aveva perso molto peso; insieme a molte altre cose, in generale. Che cosa avrebbe detto quando avesse visto il tessuto cicatriziale nel suo cervello? E che cosa le avrebbe risposto? Non pensarci ora. Alla radio una canzone idiota, sentimentale solo per lui, aveva le lacrime agli occhi mentre guidava, il traffico sempre più intenso, la temperatura sempre più bassa. Il mercurio scendeva. L'argento. Lo Schuyler era un ospedale nuovo, contrassegnato da indicazioni rosse
e blu, linee dipinte sul pavimento per evitare ai pazienti, che già si sentivano persi, di perdersi realmente. Oltre al consueto odore di decadenza medicata, ne aveva anche uno del tutto nuovo, di un disinfettante aromatizzato, che si solidificò nella gola di Austen e gli impastò la lingua come una caramella che non si scioglie mai. Persino la tecnica della risonanza magnetica ammise di esserne disgustata. "Non so dove lo hanno preso," disse, il volto magro, simile a un chicco d'uva passa, accigliato. Era svelta, sempre in movimento. "Ma scommetto che l'hanno pagato poco. Vede, per questo esame," le mani calde, di color marrone come piccoli biscotti, piccoli panini dolci, ricordi culinari della mamma, ricordi che però Austen non possedeva, "è importante che non si muova assolutamente, che non sposti nulla, nemmeno la testa. Stia perfettamente immobile, okay?" "Okay." Lei fece il suo sorriso vero, più che mai raro in quei giorni; stando disteso il più possibile senza muoversi nell'apparecchio a forma di cannolo, si chiese se, mentre vi era dentro, i suoi pensieri fatti a occhi chiusi potessero modificare l'immagine, rendendola più amara o più serena, il lento gocciolio della preoccupazione o lo spruzzo violento del terrore, riflessi come inchiostro nell'acqua, forse, come sangue in un bicchiere vuoto. Intorno a lui persone malate, persone morenti; quell'ospedale aveva sei piani e, fatta eccezione (ma non sempre) per la maternità, c'era sofferenza dappertutto. E per coloro che erano prossimi a morire, la sofferenza era incurabile. Se non facendo un passo al di là di una linea, al di là del limite. Venti minuti e il test fu terminato; la tecnica gli rivelò che si era comportato bene. "Veramente bene," disse, continuando a scrivere, senza guardarlo. "Proprio come un veterano." "Grazie," disse, maldestro. Maldestra fu anche l'uscita; in certo qual modo voleva dire di più. Fuori, impiegò quasi cinque minuti per trovare la sua auto e, al cancello, scoprì che il parcheggio era più caro di quanto avesse previsto. Pioggia, i suoi tergicristalli inadeguati, acqua a scrosci sui finestrini. Una donna con un Toyota bianco nuovissimo gli tagliò la strada, sterzando bruscamente, senza prestare attenzione, a un semaforo che stava diventando rosso. Austen le gridò dietro, pigiando simultaneamente i freni ed il clacson, gridò ancora, e si meravigliò della sua reazione esagerata: era solo una stupida, che differenza faceva? Eh? Sentì di avere di nuovo voglia di gridare. Più violentemente. Più forte.
Non voglio essere malato. Non voglio essere malato. La casa era molto fredda; evidentemente aveva dimenticato di accendere la caldaia. Camminava trascinando i piedi, il cappotto ancora addosso. Non c'erano messaggi; la posta, solo conti. Si preparò il caffè e ne prese una tazza, che si portò di sopra; si sedette di fronte al telo di plastica che copriva come un sudario il cavalletto; si sedette, ma non pensò. Una lunga giornata vuota sul posto di lavoro, Peter importuno al telefono. Non chiamò nessun altro, tranne una persona che aveva sbagliato numero e una donna che cercava un negozio di costumi. Quando arrivò a casa, trovò un messaggio: era l'ambulatorio del dottor Gilmon, gli comunicavano che dovevano parlargli in merito all'assicurazione e che i risultati dei suoi test erano negativi. 4 Prendiamo, per esempio, il Tegretol. Uno scudo contro il terrore, un sollievo, una panacea che poteva tenere in mano. Milleduecento milligrammi di isolamento dalle scariche elettriche, dagli attacchi diretti del suo cervello permanentemente disturbato. Quel giorno non avrebbe preso le pillole. Era a letto, la schiena irrigidita, il braccio sinistro sotto il capo, piegato malamente e intorpidito. Un raro giorno libero: tutto da sperimentare. Fuori dalle scadenti coperte rosse faceva freddo. Via, di corsa in bagno, le dita dei piedi rattrappite a contatto con le piastrelle di ceramica verde intenso. Disegni biblici, il mosaico originario, si ricordò di averlo fatto notare a Emily quando acquistarono la casa. Guarda, tesoro, il pavimento: è arte. Lei non ne rimase colpita, come spesso accadeva. Le pillole, là sul lavandino, un piccolo contenitore arancione da farmacia con il suo nome scritto sbagliato. Si lavò i denti, schiuma e saliva insanguinata, le gengive gli facevano male. La notte passata si era svegliato da un sogno, da un incubo in cui aveva denti enormi, ingrossati: erano giganteschi e non solo si allungavano a notevole distanza dalla sua bocca, ma si flettevano anche, come se fossero articolati, si piegavano internamente ed esternamente come le mandibole di una scavatrice, incuranti di tutto, macinando il terreno e con esso ogni cosa, al di là della sua volontà e del suo controllo. Si era agitato nel sonno e, quando si era svegliato, aveva portato le mani
alla bocca. Un tocco attento e, nel tastare, qualcosa di strano, qualcosa non andava. Aveva ritratto le mani, il cuore pietrificato, terrorizzato all'idea di accendere la luce, di vedere sangue. Invece, aveva visto argento. Dappertutto. Schizzi e grumi, freschi, come se l'avesse vomitato, su viso, mani, petto, sul cuscino, sulle lenzuola. Aveva emesso un gemito, aveva avuto un conato di vomito; o Dio, è nella mia bocca, era corso in bagno e aveva sputato violentemente nel lavandino. Anche dopo aver aperto totalmente il rubinetto dell'acqua calda, la cosa aveva impiegato un po' di tempo a scivolare nello scarico. E, nello specchio di mezzanotte, ogniqualvolta distogliesse lo sguardo, uno sciaguattio, un risolino, un gocciolio, una traccia, lo vedi? Ora? E ora? Non ti sforzi a sufficienza. Tornato a letto, si era addormentato sopra il copriletto, la luce del comodino accesa, per risvegliarsi nel panico, un'ora dopo: la luce era ancora accesa, il letto asciutto, pulito. Ma era veramente successo? Anche solo una parte? Così, quella mattina, niente Tegretol. Vuoi venire fuori, allora fallo. Guardava oltre la sua immagine nello specchio, mentre si lavava la faccia, con vigore. Con troppo vigore. È il tipo di cosa che va via lavando? La radio accesa, a volume alto, sarebbe stato maledettamente freddo la prossima settimana, senza tregua. Nessun autunno da depliant, niente foglie secche accartocciate né aria pungente. I cieli cupi e carichi di pioggia, di che? D'argento? L'idea lo fece sorridere appena, con amarezza. Sei tu a passare per stupido. Si preparò la colazione; i mirtilli che farcivano le frittelle erano così abbondanti che gli ricordarono un'eruzione cutanea. Sotto la Criosfinge mangiò e lesse il giornale, l'occhio nervoso. Che cosa esattamente si aspettava accadesse? Follia improvvisa? Che la sommità della sua testa schizzasse contro il soffitto? Era stato attentamente avvisato di non fare quello che stava facendo, ma sotto quali aspetti ciò aveva veramente importanza? Secondo loro non c'era nulla che non andasse in lui. Aspettò, ciondolando per casa dopo colazione, un nervoso far nulla che cessò quando si accorse che non ci sarebbero state manifestazioni tali da dover reagire. Se la situazione da negativa fosse diventata tragica, si sarebbe probabilmente accasciato sul pavimento di cucina, privo di sensi, come una rana, e non avrebbe visto nulla di inopportuno, finché i paramedici fossero arrivati per cacciarlo in un sacco. E allora lavora: c'erano molte cose da fare, da tempo rimandate. Le grondaie, piene di foglie morte, da stu-
rare; il mucchio degli attrezzi estivi da pulire e riporre. La casa non aveva garage, ma solo un piccolo capanno per gli attrezzi, dalle porte scorrevoli tanto arrugginite che non si muovevano per più di trenta centimetri in entrambe le direzioni. Fuori, con il tubo di gomma avvolto accuratamente e strettamente su un braccio, lottò, cercando di spingere la porta con la gamba e l'altro braccio. Spinse più forte, ancora di più. Merda. Ora sentiva veramente male per lo sforzo, dai, rammollito, ce la puoi fare. La porta si liberò, vibrando, e si mosse di un paio di centimetri. Forse, quattro. Ancora, più forte, ed essa cedette, di un'ulteriore trentina di centimetri, ed egli ne fu felice. Era quasi penoso essere felici per qualcosa del genere, eppure Austen lo era. Le mani nude, fredde, fuori dalle tasche; era intento a pulire le cesoie per la siepe, a strofinarne le lame. Non le usava più molto spesso, comunque. Una volta aveva inseguito Peter lungo il vialetto d'accesso con quelle in mano, urlando qualcosa a proposito di una stupida mostra alla galleria, mentre Emily, sulla veranda, con in mano una birra, gridava: "Tagliagli il cazzo." Deve essere tutto un santuario per lei? Sì. Il tubo di gomma aveva il suo posto, un paio di ganci di plastica, atti a tenerlo sospeso dalla soletta di cemento crepata; chiunque l'avesse costruita, non sapeva che cosa faceva. Il tagliaerba era già nel capanno, fili d'erba secchi e appiattiti, ancora incrostati sulla sua superfìcie rossa lucente, a tratti rovinata; rastrello, vanga, pala per la neve con manico storto, un vecchio secchio per i rifiuti dal fondo marcio e ormai ridotto allo spessore della filigrana, che aveva messo da parte per qualcosa. Alcune foglie erano state portate all'interno dal vento, sagome contorte e complesse sul cemento, sulle pareti arrugginite qua e là del capanno stesso. La pioggia gli batteva come neve sul collo, ondate di umidità sul viso, quando il vento mutava direzione. Ci doveva essere un paio di guanti da giardinaggio da qualche parte. Forse Emily li aveva buttati via. Stanco, la testa appoggiata alla porta, riposò un attimo, solo un attimo. Che cosa accadrebbe se la chiamasse e le dicesse, dicesse solo: Ciao, come stai? Io sto bene. Ho veramente paura, Emily, nessuno pare voglia dirmi ciò che so essere vero: sono malato. Sono malato e non miglioro. Anzi, penso che potrei peggiorare. Prendo queste pillole; solo che adesso non le prendo, perché qualcosa devo fare. Perché qualcosa va fatto. Non riuscì a trovare i guanti da giardinaggio. Le mani intirizzite fino a risultare inutilizzabili, lottò per richiudere le porte del capanno e, in un
empito di rabbia, sferrò un calcio violento, che le fece vibrare con un rumore di lattine vuote. Le lasciò aperte; che marcisse tutto quanto, chi se ne frega. Di nuovo in casa, nella casa vuota, il cavalletto vuoto, seduto, nel maledetto buio. Si addormentò là, in posizione scomoda, di fronte al cavalletto, e si svegliò tremando, per andare a orinare, a bere un po' d'acqua e a mangiare qualcosa. Un paio di manciate di cereali dalla scatola; era veramente stanco, veramente stanco, forse perché aveva smesso di prendere le pillole. Seduto sul divano, pensò vagamente di rimanere alzato, di cercare di leggere, il giornale della scorsa settimana, intonso, con la fascetta ancora intatta. L'intera casa sembrava abbandonata, una casa di fantasmi. Non dirlo. Di nuovo a dormire, sul divano, raggomitolato in una strana posizione fetale, le mani a cuscino sotto la guancia. Buio in casa, bui la cucina e il bagno, buie le scale. Buio vicino a entrambe le porte. E su ogni superficie liscia, sulle ante degli armadietti e sul pavimento della cucina, sulle sagome cubiche degli apparecchi elettrici, che parevano accovacciate, sullo specchio del bagno, sulle pareti e su ogni finestra lo sciaguattio e lo zampillio della cosa argentea, rapidi, quasi giocosi. In sagome ovali, in semicerchi, simili a mezzelune. A falci. A sorrisi. Nei suoi sogni un gocciolio, come di un dolce veleno; soffocamento; dappertutto. Si svegliò, infine, non urlando, ma in silenzio, i muscoli contratti come se avesse subito uno shock, sudava. Terrorizzato. Terrorizzato. La bocca spalancata, corse in bagno, il volto completamente bagnato, aveva male, accese la luce e vide sangue, sangue su tutta la faccia, sul mento. Era come un ingordo che s'abboffa, uno zoticone che si rimpinza. Con cautela per il dolore, estrasse la lingua, vide lo squarcio, grande. Aveva letto del fenomeno: persone che durante un attacco si erano morse la lingua. Un ragazzo l'aveva addirittura tranciata a metà. Dunque doveva aver avuto un attacco, mentre era lì disteso e pensava di sognare; ne aveva avuto uno e non se n'era accorto. Come un clown, là, allo specchio, i capelli in parte ritti, in parte piatti sul cranio, la faccia bianca, la bocca aperta, come un cane bastonato, appiccicaticcia, con una smorfia grottesca. Era un po' troppo presto per la dose serale, ma la prese lo stesso. Era troppo esausto per provare imbarazzo. Inghiottiva sangue. Questa volta, nessun neurologo. Il dottor Holly era un medico generico, grande e grosso, che aveva un vago odore di sigaretta e una rassicurante
serie di cicatrici da acne su entrambe le guance. Il suo ambulatorio era a solo dieci minuti di macchina dal lavoro. Inoltre, chiedeva una cifra adeguata. "Si è morso la lingua, eh?" Annuì ed emise un borbottio indistinto. Il suo labbro inferiore era leggermente gonfio. "Sono caduto sul ghiaccio." Era in certo qual modo più facile mentire a lui; snobismo medico? I medici generici sono forse una casta inferiore rispetto ai neurologi? Non dimenticarti, sei nato con l'aiuto di un veterinario: era uno dei detti di sua madre. E che cosa avrebbe detto lei di tutta questa faccenda? Meglio non saperlo mai. "L'infermiera dice che soffre di mal di testa." Un immediato cenno di assenso. Austen infilò le mani nelle tasche del cappotto e sentì che vi era un fazzoletto di carta secco e spiegazzato, su cui aveva annotato l'indirizzo del dottor Holly. Non c'era stato da attendere due settimane: gli aveva trovato uno spazio il giorno seguente. Dio ti benedica, dottor Holly. Gli cucì la ferita alla lingua; le sue mani, grandi e grassocce, erano molto abili e sicure. Austen sentiva un leggero sapore di gomma in bocca. "Per il dolore, può prendere della semplice aspirina. Ma avrà bisogno di qualcosa contro l'infezione. La ferita è piuttosto brutta. Prende altre medicine?" Un lento cenno di assenso. "Il Tegretol." Dovette ripeterlo due volte; odiò l'occhiata che ricevette in risposta. "Epilessia?" chiese il dottor Holly, togliendosi i guanti. Sembrava che stesse per poggiarsi sullo schienale della sedia e per accendersi una sigaretta. "No." Era più facile che mai mentire mentre egli scriveva su un blocchetto con la scritta SQUIBB a pie' di pagina: Danno neurologico. Attacco epilettico. Cefalee da quel momento in poi. "Si sarà rivolto a un neurologo." Annuì, cercando di far capire con una scrollata di spalle che non era rimasto per nulla colpito dal trattamento ricevuto. La lingua cominciava a fargli male di nuovo, l'effetto dell'iniezione stava scomparendo. Gli aveva fatto davvero un male cane la notte passata, lo aveva tenuto sveglio, con gli occhi puntati alle pareti, a caccia della cosa argentea. Forse la volta successiva si sarebbe morso a sangue la gola. "Talvolta i sintomi post-traumatici possono durare parecchio." Il blocchetto delle ricette in mano. "Credo veramente che lei debba andare da un neurologo. Se non è soddisfatto delle cure ricevute, l'infermiera al banco le
potrà dare un elenco con gli indirizzi di alcuni medici. Glieli raccomando tutti vivamente." Grazie. Tornando al lavoro, guidò lentamente: c'era ghiaccio - il suo alibi per ben due volte in una sola giornata - dappertutto. Evidentemente l'autunno non c'era stato, ed era diventato subito inverno. La pioggia della notte precedente ricopriva ancora i marciapiedi e le strade, rendendoli scivolosi, e aveva formato numerose pozzanghere, acqua e cemento. Quando il freddo sole le illuminava, esse risplendevano di deboli riflessi color peltro, di un lucore opaco, venato di minaccia. Semplicemente, acqua e cemento. Parlava con voce impastata, tanto che dovette attivare la segreteria telefonica in negozio, il che, comunque, poco importava. C'erano così poche chiamate. Chi voleva T-shirt in inverno? Naturalmente l'anno precedente avevano fatto una promozione natalizia speciale, Indossa la Tua Foto con Papà Natale, era incredibile la brutalità imposta ai bambini in nome della tradizione. Probabilmente, avrebbero fatto lo stesso quest'anno; a quanto pareva, alla gente l'iniziativa era piaciuta. La gente era per lo più incomprensibile. Di nuovo a casa, dopo una giornata vuota, sul divano, con i libri sul cervello. Quello che leggeva era scritto da un neurologo; in realtà non era granché come scrittore, ma descriveva fenomeni affascinanti. Un capitolo, in particolare, era dedicato al caso di una donna con epilessia temporale, esattamente il suo caso, fatta ovviamente eccezione per la cosa argentea. Le avevano prescritto Tegretol e Mysoline, ma aveva ancora attacchi. "Jan mi guardò in faccia. ''Dottore,' disse, 'quando starò meglio?' "Che cosa potevo dirle? Che risposta potevo fornirle? La medicina è una scienza ma, come tutte le scienze, ha limiti e misteri. "'Jan,' le risposi con tono grave, 'non lo so.' " Ehi, Jan, pensò Austen, sono con te. Il giorno seguente sospesero Tegretol e Mysoline e passarono al Luminal; dal momento che, prima della fine del capitolo, c'erano solo due pagine, esso rappresentò probabilmente la soluzione del problema e la fine felice della vicenda. Proprio quella era una ragione di fastidio in merito a quei libri: ogni storia aveva una fine. Lesioni, ictus, malattie, tutti con una fine, forse infelice, ma comunque una soluzione. Come il ragazzo dell'ultimo capitolo, Ronald, morto a causa di cinque diversi tumori maligni, quattro dei quali al cervello. Aveva anch'egli avuto attacchi epilettici ma, nelle condizioni in cui si trovava, aveva smesso di prestare attenzione a
eventi di minore importanza come i medesimi. Considera i doni che hai, era un'altra cosa che sua madre soleva ripetere. Perché la pensava tanto spesso di recente? Che pensasse a Emily era comprensibile, ma non a sua madre. Sono malato, voglio la mamma. Cyndee. Dio. Come una bambola, o come uno di quei buffi e tozzi pupazzi che si mettono a Natale sul prato di casa: i movimenti, i sorrisi, i cenni, le occhiate sono naturali, ma dentro c'è il vuoto. Si ricordò di quando era andata a trovare qualcuno in ospedale, un'amica o chissà chi, niente baby-sitter, se l'era trascinato dietro; all'epoca lui doveva avere sette, otto anni. Cyndee si era appollaiata sul bordo del letto, le gambe accavallate, vestita con un completo pantalone beige dalle cuciture blu. Aveva comperato un cesto di frutta, avvolto da un cellophane spesso di color giallo, fermato con un fiocco rosso. L'intera stanza puzzava. Lui, annoiato e di cattivo umore, giocava con le veneziane, cercava di farle schioccare una dopo l'altra, stecca dopo stecca. Thunk, thunk, thunk. Fuori vedeva il traffico, un negozio di alimentari al di là della strada, mucchi di neve sporca che si stavano sciogliendo. E il cicaleccio di Cyndee, non tanto rapido, quanto infinito, andava avanti come una stupida macchina che non puoi bloccare. Tutte le storie mediche d'orrore che aveva sentito, da fonti impensabili: la TV, le riviste, la gente in ascensore, un violento rigurgito, chissà che cosa aveva pensato l'amica, ma le sue chiacchiere erano riuscite a far star male anche lui. Se n'erano andati quando era giunta l'ora dell'iniezione, della terapia o di qualcosa del genere. Lo teneva per mano. Le sue mani erano sempre troppo calde. "Quella povera donna," aveva osservato. Egli non aveva risposto, fingendo di schiacciare tutti i tasti dell'ascensore. Uno, due, tre, Seminterrato. Era là che tenevano i morti? Non ne aveva mai visto uno, se non il nonno, che non contava. Aveva addosso un chilo di trucco e non sembrava assolutamente più lui, non sembrava più assolutamente umano. Come allo zoo, quando vestono le scimmie con abiti da bambino. "Non vivrà molto," aveva affermato Cyndee, con l'aria di chi aveva sempre avuto ragione. "Com'è ingiusto." "Dove la porteranno?" Cyndee lo aveva guardato, gli occhi sgranati, l'ombretto non più uniforme, ma disposto a piccoli semicerchi. Le sue palpebre erano dipinte di un blu che non assomigliava a nessun colore noto. "Di che cosa stai parlando?"
"Lo sai." Si era voltato leggermente, imbronciato per l'imbarazzo; non si era aspettato una sua reazione, metà delle volte non ascoltava quello che diceva e, se lo faceva, non rispondeva. "Quando lei, quando la gente muore. Dove la portano?" "Che domanda terribile." Era veramente sconvolta? Pareva di sì. Perché era una domanda tanto terribile? Lo trascinava per un polso attraverso il parcheggio rettangolare asfaltato; aveva cercato di liberarsi, ma lei lo aveva tenuto sempre più stretto, fino a fargli male, e Austen vi aveva infine rinunciato. Mentre ritornavano a casa, aveva soffiato nuvole di vapore sui finestrini, per disegnarvi con la punta del dito parole, cerchi, piccoli gatti, alberi e automobili. Cyndee guidava come un uccellino che zampetta veloce sul ghiaccio, entrambe le mani sul volante, guanti rosa con piccoli pompon soffici ai polsi. Per il resto della giornata non gli aveva più parlato, se non per dargli ordini - mettiti il pigiama, basta TV, spegni quella luce. Forse, ora sorrideva al ricordo, quello era stato l'ultimo vero dialogo che aveva cercato di instaurare con lei. Non ce ne sarebbero stati altri. Aveva alzato il riscaldamento; quella sera non voleva congelare. L'aspirina aveva eliminato il dolore più intenso, simile a un cupo ruggito, ma probabilmente la combinazione di aspirina, antibiotico o comunque del farmaco per l'infezione e di Tegretol — santo cielo, se quell'esperimento non fosse durato a lungo - lo faceva sentire stupido, o forse semplicemente più stupido del solito. Continuò a leggere il libro sul cervello, ultimò la storia di Jan, che se ne andò a casa con il suo Luminal, fine positiva ed edificante della vicenda, sbirciò abbastanza del capitolo successivo per capire che trattava di Louis, affetto dall'Huntington, e che era decisamente troppo per una serata tranquilla a casa. Andò in cucina, l'ora della cena era ormai passata, diede un'occhiata alla segreteria: Peter aveva lasciato un messaggio, che non aveva trovato risposta. La luce lampeggiava ancora, piccolo occhio cieco. Austen sapeva di che si trattava: il ritratto. Ci stai lavorando? gli chiedeva sicuramente Peter. Stai pensando di farlo? No e no. Comunque, ho tolto il telo di plastica dal cavalletto, l'altro giorno; che ne dici? L'idea di lavorare non lo faceva sentire stanco, ma esausto, non voleva provare la sensazione del pennello fra le dita, pensare al modo in cui la pittura avrebbe aderito alla tela e si sarebbe distribuita su quest'ultima, né considerare il risultato: un fallimento, sì, ne era quasi certo, ma non era
quello a spaventarlo, a dargli un senso di disgusto e di disagio. Era il modo o, meglio, erano gli aspetti sotto cui avrebbe fallito. Non si trattava di ragioni tecniche - senza superbia, sapeva di avere un'ottima tecnica, non aveva lavorato tutti quegli anni per niente - ma inerenti un fattore più importante, la cui mancanza implicava conseguenze estremamente gravi. Gli mancava l'iniziativa, era vuoto. Vuoto. L'abbandono di Emily non era stato la causa, come riteneva Peter, né il catalizzatore, come una volta egli stesso aveva tortuosamente pensato. Forse era la mancanza in sé, percepita in maniera indistinta, che aveva spinto Emily ad allontanarsi e che lo aveva portato sia ad avvertire la disperazione del vuoto, sia ad avere la banale certezza di averla evitata. Come è possibile temere il vuoto quando il vuoto è dove vivi? In piedi in cucina, era quasi come se stesse tornando in sé, un cucchiaio in mano. Stai per avere un altro attacco? No. Sei solo assente. Non ti concentri. Ora: zuppa di pomodoro, acqua, basilico del supermercato, fai rosolare uno spicchio d'aglio, in modo che galleggi come un crostino. Emily diceva sempre che lui dava il meglio di sé con i cibi più economici, le minestre di peggiore qualità e gli hamburger in offerta. Era vero: riusciva a fare molto con nulla, per lo meno così era in passato. Una volta pronto, il cibo era anche abbastanza buono: persino il sapore metallico della latta era scomparso. La minestra lo riscaldò internamente, lo rinfrancò; pose entrambe le mani sulla scodella, per assorbirne delicatamente il calore. Tornò ai fornelli per prendere altra minestra; sulla superficie si era formata una sottile pellicola, ed egli la rimosse attentamente con il cucchiaio. Era più spessa di quanto sembrasse, rimaneva spiacevolmente attaccata come una crosta sulla pelle e, mentre la rimuoveva con difficoltà, comparve al di sotto di essa qualcosa di grottesco, di terrificante, simile a una serie di gangli esposti durante un intervento: una spuma argentea che andava alla deriva e che vorticava attorno al cucchiaio, rapida, insetti brulicanti sotto i sassi, bolle indolenti, come quelle di grasso messo a bollire, che esplodevano, liberando argento cupo, liquido, che gli schizzò sulla mano. Gettò via il cucchiaio, il tintinnio prodotto in sottofondo dalla sua caduta coperto dalle sue grida, "Cazzo cazzo cazzo"; era come un cane che abbaia furiosamente per scappare via, che lacera, lacera, lacera le sue carni, le sue stesse zampe, per potersi liberare. "Cazzo!" Mentre urlava, rovesciò la pentola e si ustionò il polso; odore di gas senza fiamma, la minestra sparsa e, dappertutto, argento puro, che colava lungo i lati del fornello, della cucina e che, da fanghiglia terrifican-
te, si trasformava in dita semoventi, poi in mani, in mani enormi, che si aggrappavano a entrambi i lati della cucina come se, con un movimento bizzarro, volessero staccarla dal pavimento, far sì che i tubi rigidi sputassero gas come serpenti tagliati a pezzi, per poi girarsi verso di lui e dietto la cucina, scivolando sulla parete leggermente untuosa, l'argento vivo si formò immediatamente, fulmineamente, come brina, dando vita a un non-volto, con lo stesso ghigno sinistro dell'ospedale, ma grande, oh Dio, quant'era grande. Si mostrava. Austen urlò di nuovo, senza parlare. C'era solo rumore, un rumore simile a quello di un moribondo, a quello di un cervello vivo strappato via dal cranio, libero e contento dell'esperienza vissuta. E Austen continuava a urlare, ah, ah, ah, come una vittima in attesa dello shock che la annienterà. Urlò ancora e ancora, poi tacque. Seduto al tavolo di cucina, la bocca semiaperta, respirava più lentamente. La minestra rossa non somigliava più a sangue, ma si era raggrumata, ispessita, raffreddata, assumendo forme che non erano più di tumori, ma quelle del loro contenuto. La pentola era ancora sul pavimento, nel punto in cui l'aveva rovesciata. Niente argento, da nessuna parte. Sul suo polso un'ustione profonda; pianse, seduto al tavolo di cucina. Pianse senza speranza, poiché era disperato. Pianse perché non c'era nessuno con cui piangere, nessuno a cui rivolgersi e chiedere: Hai visto anche tu? Hai mai visto una cosa simile? Sono tanto stanco di vederla. Sono tanto stanco di essere malato. Ho tanta paura di essere pazzo. Rimase lì seduto, immaginando di dormire - forse lo fece davvero — accennando di no con il capo, in realtà, con la testa che gli girava, una caduta incorporea nel regno, non dei sogni, né degli incubi, una caduta grave al di là del limiti invisibili, nel vasto e cupo regno della follia. Immaginò, nel suo incedere progressivo, di camminare lentamente, trascinando i piedi, e di guardarsi attorno con espressione intensa, meravigliata. Che cosa sarebbe accaduto se ciò che egli bramava non fosse stato altro che un semplice passaggio, un passaggio oltre l'antico limite dell'insanita. La seduzione, la promessa dell'arpia: vedere i luoghi sconosciuti, conoscere. La promessa di avere non solo la vista, ma anche la vista interiore, di poter aprire le porte che stavano dentro di lui, di poter mostrare con lo sguardo fermo e im-
pietoso dell'assoluto ciò che assolutamente esiste. Si svegliò, "Hunh!" spaventato, e si lasciò cadere stancamente sulla sedia, la bocca aperta; l'ustione sul polso gli doleva in maniera atroce. Era ormai passata l'ora della medicina. Aveva paura a lasciare la cucina. Aveva paura a guardare in uno specchio. Non hanno forse tutti gli specchi un fondo d'argento? Scrisse invece a Emily. Prese un pennarello blu, attento a che il polso ustionato non toccasse il tavolo, e un foglio accuratamente piegato, sul cui retro vi era la scritta PAZZA PIZZA!! ANTIPASTI SPECIALI!! in inchiostro rosso, di un rosso acido e sporco, come la minestra rovesciata sul pavimento. Cara Emily. Le cose sono cambiate da quando te ne sei andata. Ho avuto un incidente e ora niente va bene. Ti stavo pensando, lo stavo facendo per te, quando sono caduto. Questa sera quella cosa era dappertutto, credevo volesse staccare la cucina dal pavimento. Non sto scherzando. Forse la casa sarebbe esplosa? Era tutta mani, come quei disegni di Coye che a te piacciono, grandi abbastanza da camminare, cinque gambe per lato. E poi ha mostrato il suo volto, un po'; era come una grande macchia. Una chiazza. Avevo paura a dirlo in ospedale, tutto quello che volevo era uscire di là, tornarmene a casa. Pensavo fosse semplicemente parte di un blackout, o di qualcosa di simile. Non sapevo che sarebbe peggiorato in questo modo. E continuano a dirmi che non c'è nulla che non va, questa è la cosa che mi lascia veramente perplesso, continuano a dirmi che sto bene e io li pago, Emily, con soldi che nemmeno ho, lavoro in un negozio di Tshirt, Emily, ci pensi? Non ho dipinto più nulla dalla Criosfinge. Non faccio altro che andare al lavoro, dai dottori e tornare a casa, una cosa dopo l'altra, la stessa cosa ripetuta ossessivamente, all'infinito. Ho veramente paura. Ho una paura tremenda e se non Non c'era più spazio sul foglio. In cucina non riuscì a trovare altro su cui scrivere se non un volantino pubblicitario dei supermercati K-mart e il pennarello non aderiva sulla sua carta patinata, l'inchiostro sbavava. Non c'era altro da fare, dunque, se non star lì, seduto. Si faceva sempre più tardi; ora, in cucina sentiva freddo, il pavimento era ancora sporco, il polso era tutto un dolore lancinante, e gli dava fìtte a un ritmo ben più intenso di quello regolare della sua lingua ricucita con punti neri. Sedeva e aspettava. Doveva decidersi a fare qualcosa. Ma non fece nulla. La sua ultima visita, motivata in certo qual modo da un attacco di dispe-
razione inutile, e rispettata, ma per quale ragione? Educazione? Obbligo? La speranza eterna, che suggerisce che questa potrebbe essere la volta, la volta buona, quella in cui avverrà qualcosa di più del solito rito - l'esame, il dialogo, lo scuotimento di cranio, la stretta di mano - questa volta si capirà, si ammetterà che, sì, in effetti c'è un problema, annidato al caldo sopra le sue orecchie, incapsulato come una bomba, i lobi temporali simili a un elmetto di sogni. Banda ed elmetto, foglia d'alloro, la fronte cinta non di gioia, ma di castigo. Aiutatemi. Aiutatemi. Il dottor Moyo: avrebbe ricordato sempre quel nome. L'ultimo appuntamento della giornata, gli disse l'addetto all'accoglimento; avevano fretta, volevano andare a casa. Alcuni se ne andarono effettivamente, ne udì i saluti mentre stava seduto sul lettino ricoperto dal lenzuolo di carta, di nuovo in attesa, le gambe a penzoloni come un bambino su una sedia troppo grande, le mani giunte fra le ginocchia, per controllare il tremito, lungo le braccia, lungo i muscoli, quasi fosse causato da un virus misterioso. Perché doveva dirlo. Era troppo, quell'ambulatorio, il nono, un vecchio tappeto blu, un odore tale che sembrava avessero lasciato evaporare tutte le boccette di medicinali del mondo. Era troppo caldo, nell'ambulatorio dovevano esserci poco meno di trenta gradi. Sudava copiosamente, in maniera imbarazzante, ma ne aveva il diritto. Era livido di paura; era un inizio sbagliato, ma doveva iniziare da qualche parte, no? Se davvero voleva iniziare. Così disse al dottor Moyo - alto, corpulento ma non grasso, camicia rossa abbottonata fino al collo, proprio fortunato, bloccato alla fase anale dello sviluppo, e, guarda, com'è bianco quel camice, com'è asettica quella testa calva, marrone, squisitamente lucida - qualcosa, poche cose: dell'incidente, dell'ospedale. Degli attacchi e dei continui cambiamenti di farmaci. Tegretol e Mysoline e, nonostante ciò, ancora la frenetica danza. Sudava. La sua voce si faceva più incalzante, come un'automobile che sta per entrare in collisione con un'altra. La locomotiva del destino. Il dottor Moyo aveva la faccia di un giudice televisivo, serena e compassionevole. Probabilmente, quando era solo, scoreggiava, si infuriava con i figli, si masturbava sotto la doccia, ma con quel volto avrebbe potuto essere Dio, con quegli occhi michelangioleschi e quelle narici graziosamente arrotondate. Ovviamente, c'era però la camicia tutta abbottonata, non dimentichiamolo, poteva essere più significativa di quanto non si immagini. "Poi la aumentarono a milleduecento milligrammi e finalmente funzionò. Così mi mandarono a casa."
Silenzio. Gli occhi di Dio posati su di lui. Fuori, in corridoio, una porta si chiuse "Ma ho ancora... sintomi." "Ha ancora attacchi?" Una voce lenta, piatta, non drammatica. Prenditela comoda. Abbiamo tutto il tempo del mondo. Erano le cinque e quarantacinque e fuori era già buio, il buio entrava dalla finestra quadrata, piccola come quelle di una prigione. "Non, io, io non so che cosa siano." Era tanto difficile parlare, produrre fisicamente i suoni. Per favore, fa' che capisca, per favore, non l'espressione di chiusura, lo sguardo che significa So qual è il tuo problema, ragazzo. O, peggio, l'espressione che precede la domanda Ha pensato di consultare uno psicologo? Le mani scivolose come sapone fra le ginocchia, le ginocchia tremanti. Lungo la colonna vertebrale sentiva un tremore, era come se una piccola bestia vi stesse camminando. "Vedo cose." Nessuna risposta. Faceva così caldo nella stanza. Era più buio che mai, fuori dalla finestra. Per favore, fa' che qui niente si trasformi in argento. O, no: il contrario, il contrario, cosicché io possa voltarmi e gridare, L'ha visto? E se la reazione fosse una scrollata di capo, una faccia accigliata per la sorpresa, avrebbe finalmente avuto una risposta definitiva. Ancora silenzio. Il dottar Moyo si spostò leggermente, le gambe muscolose infilate in un paio di pantaloni larghi di colore grigio scuro. "Che cosa intende?" "Vedo," la voce gli tremava, vai avanti; vai avanti. Buttati. "Cose, questa cosa, è simile ad un colore. All'argento. La vedo negli specchi, sui fornelli, l'ho vista sui fornelli e..." Il volto che gli stava di fronte era pensoso e tranquillo, come quello di un prete a un funerale, di un avvocato che legge il testamento di un disgraziato. Il nulla. Il nulla dietro l'interesse professionale di un professionista. Ammesso che ci fosse almeno quello. Lottò più duramente; sentiva il sudore diventargli gelido, era come se, guardando il luogo in cui pensava di trovare la salvezza, scoprisse che non era altro che il mero riflesso del vuoto. Il nulla. Ma come fermarsi, una volta che si è iniziato, come evitare di dire: sono malato, mi aiuti? Qui, qui sta il mio problema, il mio male, il punto ferito; lo guarisca, per piacere. Per piacere, lo faccia per me. No, aspetti, stavo scherzando, non intendevo dire questo, dopo tutto.
Il dottar Moyo si piegò in avanti ed estrasse la penna. "Quando dice che vede questa cosa..." "Senta." In piedi, la carta sul tavolo, con un sospiro secco, uniforme, si asciugò con gesti rapidi le mani umide sulle gambe. Lacrime, premevano per sgorgare contro le pareti della sua gola; un improvviso ricordo di scuola, di tanti, tanti anni prima, di un momento in cui aveva cercato di non piangere. Di che cosa si trattava? Gli occhi offuscati, il banco beige di forma quadrata che si allontanava, un dolore simile a quello provato dal primo bambino venuto al mondo; piccoli problemi, ora quasi dolci, nostalgia, o Dio, per piacere, lasciami uscire da questo ambulatorio prima che inizi a piangere. Non voglio piangere davanti a quest'uomo. "Senta," ripeté, a voce più alta. "Soffro di mal di testa e roba simile, credo di avere problemi, problemi agli occhi, alla vista, sa? La vista cattiva mi fa vedere cose, ogni genere di cose." Per gentilezza - era così? - accettò la menzogna, scrisse qualcosa su un pezzo di carta, un pamphlet di qualche tipo. Era uno scrittore terribilmente lento. Austen, in piedi, il cappotto di nuovo indosso, abbottonato, una mano sulla maniglia della porta, era stato un inizio sbagliato e ora se ne andava come un cane bastonato; quando il dottore si avvicinò per dargli la carta e gli disse qualcosa, non capì niente, tutto ciò che voleva era uscire. In macchina, pianse, le mani sul volante, guidando senza meta. Il pamphlet sul sedile a fianco, COME SCEGLIERE L'OCULISTA. Un altro parcheggio, o Dio, o Dio, Il polso ustionato gli faceva male, la lìngua gli faceva male, la testa gli faceva male per la sofferenza e il dolore mostruoso, o Dio, voglio solo che tutto questo finisca. Buio attorno alla macchina, e le luci della strada oltre il parcheggio, gente che andava di qua e di là, i semafori e i lampioni, a fare varie cose. Quanto tempo passavano nei parcheggi, negli ambulatori medici, quanto al tavolo di cucina, a chiedersi se avrebbero fatto prima a finire in bolletta o a trovare la cura per la loro malattia? Indovina. La loro follia. Chiediti: Quanto? Il tempo passato a camminare lungo un limite ineffabile, tra il qui e ora e il mai, fra i colori quodidiani della vita e l'argento, evidente, della coscienza, tanto austera da permettere solo un'interpretazione, e il tremolio, sfuggente, danzante, dell'insanita; quanto tempo ci vuole per diventare pazzo? E quanto tempo si può resistere? Rimase seduto in auto per quasi un'ora. Nell'ambulatorio del medico le luci si spensero, una macchina chiara si allontanò. Sedeva, calmo, soffian-
dosi il naso in un fazzoletto della Dairy Queen; il freddo della notte non era più un intruso, ma una parte di lui, come le dita o il dolore alla lingua. Stava semplicemente seduto. E infine si chiese, sentendosi insensibile come se fosse stato frustato a sangue e senza fiato cercasse di respirare come meglio poteva, perché dopo i picchi - di dolore o di angoscia, o di terrore - non c'era mai una valle in cui riposare o finire, ma solo pianura: Vai avanti. Vai a casa. Torna là da dove sei venuto. C'erano quattro messaggi: uno della compagnia di assicurazione, uno dell'ambulatorio - era clinicamente promiscuo, non ricordava più esattamente chi fosse il dottor Keeter — e due di Peter, il secondo dei quali perentorio, ai limiti della scortesia: Ehi, ragazzo, non mi hai mai richiamato, fallo almeno ora. Capito? Ora. No. Tremava, ma di un tremito normale, naturale, dovuto al freddo, semplicemente al freddo, non al dolore, al terrore, allo shock o ad un esaurimento. Un semplice tremito. In casa faceva di nuovo freddo. Forse si era dimenticato di pagare la bolletta del gas. Il termostato era regolato sui diciassette gradi; freddino, vero? Prendi il Tegretol. Prendi le aspirine, non troppe ora, non si fa così. Non c'è una ragione precisa, comunque non lo fare. Si appoggiò al lavandino del bagno, alleviando il dolore al polso sul suo bordo freddo di ceramica. Guardati. Come le scimmie di laboratorio, le scimme rhesus, testa rasata e sguardo invecchiato per le torture, capaci di comprendere solo una sofferenza eterna. Lo specchio era sporco, pieno di chiazze di sputacchi di dentifricio verde, il che gli suscitò un ricordo, uno scherzo fatto a Emily: si trattava di un dentifricio finto che, messo in bocca, doveva diventare di colore rosso, come fosse sangue. Si era nascosto in cucina, con aria noncurante, in attesa che lei urlasse; invece, fu sorpreso nel vederla precipitarsi in cucina e quasi travolgerlo, tutta sporca di nero, sbraitando, "Guarda un po' questa merda!" Il dentifricio era probabilmente vecchio, o aveva un'etichetta sbagliata: non era rosso sangue, ma nero liquirizia, le aveva imbrattato tutti i denti, la bocca e anche le mani, a chiazze, visto che aveva tentato di pulirsi, ed era scomparso solo dopo giorni. "Che coglione," gli aveva detto dopo, ma con affetto, non era rimasta arrabbiata a lungo. Emily stava agli scherzi, a gran parte degli scherzi. A let-
to, al suo fianco, la luce della testata del letto accesa, si era guardata in uno specchio da borsetta. "Guardami, sono orribile." "Sei stupenda," ed era vero. Aveva un'aria stranamente sensuale. Le si era avvicinato, mordicchiandole le labbra dalla colorazione esotica, e si era ricordato all'istante di una ragazza con cui usciva alle superiori. In realtà, non uscivano insieme, si vedevano a casa di sua sorella, quando lei era via: una serie di strofinamenti e gemiti "a petto nudo". I suoi capezzoli avevano quasi lo stesso colore, quel color carne scuro. Ora, entrambi i ricordi, la ragazza ed Emily, un'erezione, ma dopo tutto era troppo stanco, decisamente troppo stanco. Era troppo per un solo giorno. Rimase disteso, immobile, vestito, sopra le coperte, con i quotidiani di alcuni giorni accanto; cercò di leggere la pagina dei commenti del più recente, ma si addormentò senza aver nemmeno finito il primo pezzo moderatamente critico. Iniziò a sognare. Emily, nuda, sdraiata al suo fianco, le labbra e i capezzoli tutti neri. "Ti piace?" gli chiese, sogghignando, palesemente compiaciuta. Continuava a toccarsi i capezzoli, ammirando il contrasto fra i medesimi e le punte delle dita bianche. I suoi denti parevano eccezionalmente bianchi. "L'ho fatto fare la scorsa estate," affermò lei. "Poco prima dell'incidente. Guarda, l'hai anche tu." Con sorpresa vide che il suo pene era nero, come il ferro, come una roccia dipinta, di un colore lucido. Lei iniziò a toccarlo, e in un istante lo sentì duro, ebbe voglia di entrarle dentro. Non accadeva da tanto tempo, ma Emily disse no. Scosse la testa, i capelli ondeggiarono sulle spalle, no. Facciamo così. Lo toccava. Era così bello vedere il suo sorriso, con quelle labbra nuove, strane. Il respiro di Emily accelerò, ed egli lo sentì caldo sul viso. Caldo. Era calda come un forno, ansava tanto forte che i seni le oscillavano, ah ah ah, seguendo il ritmo insistente delle sue mani esigenti, ah ah ah, come una cantilena e si svegliò nel momento in cui veniva, "Ah!", come l'ultimo verso di una poesia, ancora per metà nel sogno, disteso sulla schiena. Gli girava quasi la testa, era bagnato; indossava ancora i jeans, sentì lo sperma caldo, molto caldo, e molto abbondante. "Merda." Stancamente, si mise a sedere con lentezza, per toglierseli, la mano pigra sulla zip. Alla luce della testiera del letto risplendeva leggermente, si rifletteva sulle sue dita mentre la apriva. Risplendeva d'argento. Argento su tutto il suo corpo. Lo toccò, sentì, era tiepido, caldo, era dappertutto, si strappò i jeans di
dosso, se li tolse e ne trovò di più, era scivolato lungo le gambe e si era raggrumato, tanto velocemente, tanto velocemente, una parte, molto brillante, si era raggrumata in cima al pene, merda, oh merda, oddio. In piedi nella vasca, senza emettere alcun verso, si strofinò selvaggiamente con un asciugamano, abradendo la pelle, facendosi male. Solo acqua calda, le gocce sul polso ustionato erano come acido, acqua calda per farlo andare via, eppure, si rapprendeva e gorgogliava nello scarico, schiuma fluttuante che girava, girava come un vortice infinito. Si strofinò finché sentì le braccia indolenzite, finché i muscoli gli bruciarono. E strofinò ancora. Infine uscì, le gambe tremanti, nello specchio una screziatura, uno scintillio, solo per un istante, solo per un secondo, non è divertente? Ora lo vedi. Non è divertente? "No!" Urlò. L'aria carica di vapore, la pelle delle cosce rossa, come piagata. "No!" "No!" Gettò i jeans nel secchio delle immondizie, strappò il copriletto e lo appallottolò, accuratamente, con tutte le sue forze, e lo gettò nel seminterrato, dove rimase, in parte poggiato sugli ultimi due gradini, flaccido come la pelle di un animale ammazzato. Grazie alla luce sovrastante intravide, vagamente, nel centro, uno strato lucente, come un cioccolatino avvelenato nascosto in una scatola innocente. Sotto il letto c'era una valigia, vecchia e grande, con la chiave ancora nel lucchetto. La estrasse e la sistemò accanto al letto. Era quasi mezzanotte, ma chiamò ugualmente Peter. "Ehi." Peter pareva ben sveglio, leggermente irritato. "Austen?" "Sì." Sedeva sul bordo del letto, con il cuore che gli batteva. "Ascolta. Devo andare via per un po'." "Dove? Dove sei ora?" "A casa." Il rossore sulle cosce stava scomparendo; in quella valle abrasa giaceva il suo pene, piccolo e raggrinzito come un arto rattrappito. "Devo andare da qualche parte." "Questo lo hai già detto. Ascoltami, ragazzo, stai bene?" Ora Peter sembrava preoccupato e stanco. "I tuoi attacchi..." "Sto bene." Una mano sulla fronte. Aveva tutte le dita sfatte dall'acqua; vedi che aspetto avrai quando sarai morto. "Sono... devo andare a trovare mia madre."
"Tua madre? Perché, c'è qualcosa..." "Mi ha chiamato, non so che cosa stia succedendo. Mi ha chiamato e mi ha detto di andare da lei." Finalmente, Cyndee aveva un'utilità. Si guardò attorno più volte, per decidere che cosa portare con sé e che cosa lasciare. "Potrei star via per un po', non so esattamente per quanto. Puoi prendere i miei quadri? Tenerli alla galleria o in qualche altro posto?" "Sì, credo di sì." Era meno scettico, ora. "Certamente. Quanto tempo pensi di star via?" "Mia madre, merda. Chi lo sa?" Cielo, come sembrava tutto naturale. Molto bene. "Almeno un mese o due." "Hai bisogno di aiuto, per chiudere casa o altro?" E, prima che potesse rispondere: "Così, all'improvviso, eh? E una situazione d'emergenza o che?" "Come ho detto, con mia madre non si sa." Respira, respira. "Se vuoi passare domani, mi farebbe piacere, se puoi. Devo chiamare..." il lavoro, che cosa avrebbe detto? Nulla, era più che probabile. Persino tenere aperto il negozio era diventato un fastidio, un qualsiasi impiegato a stipendio ridotto avrebbe potuto sostituirlo benissimo, o forse anche meglio. "In ogni caso, vieni domani, se puoi. Preparerò la roba." "Va bene. Che dici, alle..." guardò qualcosa, un calendario da tavolo, un'agenda. Dopo tutto, Peter era un uomo occupato. Austen annotava i suoi appuntamenti, tutti rigorosamente con medici, su un calendario della città che trovava appeso, gratuitamente, sulla maniglia della porta di casa ogni Capodanno. "Alle tre e mezza? Vuoi che andiamo a mangiare un boccone, anche se è tardi per pranzo?" "No. Io, io... grazie. No." "Va bene. Alle tre e mezza domani." "Sì. Peter... grazie. Grazie mille." Proprio quando posò il ricevitore, la lampada della testata del letto si spense. Uno schiocco sonoro, poi il buio. Rimase seduto, gli occhi chiusi per un momento, distaccato, chiedendosi quali superfici sarebbero risultate differenti quando avrebbe acceso la lampada del soffitto, quali sarebbero state sicure, toccabili, quali alterate dal tremolio furtivo, zingaresco, di un colore che non avrebbe più voluto vedere. Erano le tre e trentacinque quando Peter arrivò; aveva una giacca nuova di pelle grigia e uno strano paio di guanti senza abbottonatura, niente fermagli, niente automatici, né velcro, si doveva solo "premere", come gli di-
mostrò, sorridendo. Peter amava i suoi gadget. "Vedi? Si adattano a qualsiasi forma della mano." "È vero," disse Austen, annuendo, incerto sul commento da fare. "Benone. Ascolta," le mani sulle enormi sagome impacchettate della Criosfinge e degli altri lavori, poggiati al tavolo di cucina, "Li ho ben imballati." "Sì, vedo." Un'aria leggermente professionale, le mani da gigolò poggiate sui quadri. "Hai fatto un elenco o qualcosa di simile? Bene," aggiunse, ricambiando il cenno di Austen. L'elenco era sul tavolo di cucina: titoli svolazzanti su un pezzo di carta qualsiasi, litania dell'invenduto. "Li terrò alla galleria, come abbiamo detto." Fece una pausa per leggere l'inventario. Senza guardarlo, gli chiese: "Hai qualcosa in contrario se ne appendo qualcuno? Se li espongo?" "No," disse Austen tristemente. "Fai quello che vuoi." La maratona notturna - impacca, chiudi casa, chiudi tutto perché cessi l'attività - lo aveva lasciato dolente e stanco, gli pareva di avere sabbia nelle articolazioni e nelle orbite tanto era il bruciore. Il bruciore. Tanto c'era da fare, e lo aveva fatto. Ricordati di chiudere tutte le finestre, ricordati di chiudere l'acqua. Il cibo che non sta nel congelatore, buttalo. Comunica alle varie aziende di servizio pubblico di chiudere le utenze. "Ecco," affermò, mettendo nella mano di Peter, protetta dal guanto tecnologico, un mazzo di chiavi strettamente legato. "Sono quelle di riserva, se devi entrare in casa o per altre esigenze." Chiama il posto di lavoro, per dire che hai bisogno di un congedo, problemi familiari; nessuno aveva fino a quel momento ritelefonato. Vai al drugstore, per procurarti una scorta di Tegretol per due settimane; il commesso lo aveva guardato in maniera strana, o forse no, era tutta immaginazione. Come prima cosa, quel mattino aveva praticamente chiuso il suo conto corrente, ritirando tutto tranne una somma simbolica, necessaria a mantenerlo acceso. Non ci sarebbero stati assegni a vuoto, tutti erano già stati incassati. Erano rimasti solo conti. Si lasciava alle spalle una fastidiosa schiera di dottori irritati, incontrati una sola volta e poi mai più, le sue vittime. Curati, rimuovi tutto. Molte cose da ricordare; molte, come avrebbe scoperto in seguito, ne aveva probabilmente dimenticate. Malgrado il suo stato, riusciva a pensare a tutto. Dall'ultimo... episodio? allucinazione? non c'erano state altre manifestazioni tangibili, assolutamente nessun segno visibile. Non il sobbollimento e il vomito del confronto diretto, ma, ancora una volta, la ritirata in periferia, verso i limiti tormentosi e ambigui dei sogni e della paura. È peggio quando non vedi il mostro? Lui è ancora là.
Preparò la valigia, che gli sembrò più piccola di quanto ricordasse. C'era spazio, ma non sufficiente. Jeans, camicie, magliette, articoli da toilette in una busta di similpelle screpolata. Le foto di Emily. Un paio di scarpe in più. Una copia della cartella clinica, le carte dell'assicurazione - che sarebbero presto servite solo per una truffa, dato che il primo del mese successivo era alle porte e che il premio non era stato pagato. I libri sul cervello; creavano problemi, per cui li lasciò sciolti, erano tanti, ma aveva bisogno di portarli tutti, anche quelli della biblioteca. Perdona il bisognoso che ruba perché non vede altra via. Pensa, pensa. Che cos'altro? Aveva lasciato l'arte per ultima, perché era più facile, perché, una volta sistemato tutto, una volta partito Peter, anch'egli sarebbe stato pronto ad andarsene: l'ultima mansione ingrata era una sosta alla stazione di servizio per la benzina, e poi, dove? Sulle orme della menzogna, in Texas, da sua madre? In uno dei libri sul cervello aveva una lista di tutte le mecche neurologiche del paese. Una volta l'aveva venerata come una mappa del benessere, ma ora sapeva che per lui i totem della medicina simboleggiavano solo tristezza, assenza di magia. Se non si comprendevano le cause, non ci sarebbe mai potuta essere una cura; non è possibile compiere un passo, se non si vede la strada. Dunque. Doveva trovare altri dèi, i cui metodi ammettessero l'esistenza, nel cervello umano, di aree che la tomografia a emissione di positroni, le tecniche di imaging, la risonanza magnetica non potevano svelare né, in definitiva, raggiungere, per le quali non era sufficiente disporre di un altro tipo di luce, ma era necessario un altro modo di vedere, una nuova vista. Erano necessari nuovi visionari. Qualcuno che lo prendesse per mano e dicesse, molto gentilmente, molto semplicemente: Sì. La vediamo anche noi. "...madre?" Peter lo stava guardando, intensamente. "Che cosa?" Era leggermente agitato. "Scusami, ero... ho tante cose per la testa." "Ho detto," parlava lentamente, una mano sullo spigolo della Irosfinge impacchettata, "sei sicuro che vai da tua madre?" "Sicuro," rispose, altrettanto lentamente, incerto della domanda che gli era stata effettivamente posta. "Perché?" "Beh, non ne ero sicuro." Peter sorrise e distolse lo sguardo, in certo qual modo imbarazzato. "Intendevo... pensavo che potresti, sai, andare a trovare Em. Tu sai dove vive, vero?" L'idea gli giunse nuova ma, non appena Peter la espresse, si trasformò in
esigenza. Sì. Emily. Emily avrebbe capito. Un'occhiata diagnostica... "No," replicò, scuotendo il capo, a se stesso più che a Peter. "No. Voglio dire, sì, so dove vive, ma non vado da lei." "Bene, questo è veramente bene. Non credo sia Em quello di cui hai bisogno ora." Per qualche ragione, forse per la percezione farsescamente aumentata che aveva della sua terribile stanchezza, ciò gli parve buffo. "Beh, ovviamente, no." Rise debolmente. "Ovviamente, no," ridendo più forte. Peter non fece altri commenti, ma lo osservò, immobile; non c'era riso in quegli occhi indagatori, ma egli non poté smettere di ridere, Non credo sia Em quello di cui hai bisogno ora e, forse, faresti meglio ad andare cauto anche con l'ossigeno. Va bene? Va bene? "Scusami," disse, ansimando leggermente e calmandosi gradualmente. Peter aveva smesso di sorridere almeno trenta secondi prima. "Sono veramente stanco." "Lo vedo." Austen toccò i quadri, con cautela. "Vuoi che ti aiuti a caricarli?" Insieme, con attenzione, li sistemarono nella macchina di Peter, accuratamente dotata di coperte, un nido soffice per uccellini implumi rimasti orfani. Peter controllò la sistemazione di ogni dipinto, assicurandosi che non vi fosse possibilità di spostamento o di abrasione. Quando si ritenne soddisfatto, chiuse le portiere con la sicura e aprì quella del guidatore; poi, si infilò nuovamente i guanti senza abbottonatura. "Sicuro che non vuoi mangiare qualcosa per pranzo?" "No. Mi fa venire il mal d'auto." Due sorrisi. Il sole fu coperto da una nube; l'aria, divenuta grigia, preannunciava l'arrivo del vento. Non di un temporale, né di una tempesta, ma di qualcosa. Di qualcosa che si stava avvicinando. "Allora, credo che scapperò via," affermò Peter, e gli strinse la mano. "Prenditi cura di te, ragazzo. Chiamami, quando arriverai laggiù." "A carico tuo." "Certamente." Sorrideva di nuovo. "Se vuoi. Ti farò sapere, se venderò qualcosa." "Non starò col fiato sospeso." "Ehi, non si sa mai!" Un'altra stretta di mano, poi, un balzo in macchina. Il finestrino si chiuse, potere invisibile dell'elettricità. È più grande di quanto non sembri. Lo salutò con la mano finché Peter non lo ricambiò con una vivace suonata di clacson e scomparve. Ed egli entrò di nuovo in
casa, a prendere le ultime cose, a dare l'ultima occhiata in giro. Aveva lasciato la segreteria inserita fino all'ultimo, ma non erano arrivati messaggi dal lavoro; allora consideralo come una fine volontaria. Forse avrebbe potuto provare a chiamare da un telefono pubblico; non dimenticarti, questo è un monito, di prendere il numero. Che cos'altro? Che cosa resta? Un'ultima occhiata alle stanze, le finestre sbarrate, il gas di cucina chiuso, la consegna della posta e dei giornali bloccata; è sorprendente la quantità di cose che riesci a portare a termine quando vai di fretta. Quando sei motivato. Ma ora la tentazione stava recuperando terreno, leggermente: avrebbe dovuto mettersi in strada molto velocemente, altrimenti l'impulso di dormire un'altra notte in quella casa sarebbe stato troppo forte. E sarebbe stato un errore. La motivazione era in questo caso molto importante, doveva preservare, preservare quello slancio. Va', e pensa alla destinazione solo più tardi. Al di là del Texas -o, forse, all'interno dei suoi confini, era un posto vasto, dopo tutto - avrebbe trovato quelli che potevano capire, quelli che avrebbero ammesso che, sì, stava realmente accadendo. Per quella salvezza sapeva che non doveva arrivare vuoto, doveva fare la sua parte di lavoro, prima, i compiti a casa. Un lavoro di testa. Per quella ragione, nel pomeriggio silenzioso, prima dell'arrivo di Peter, era salito su per le scale, lentamente, per prendere il cavalletto pieghevole e i colori. Pensoso, l'urgenza del suo impeto non repressa, ma in certo qual modo controllata, per la cura che ora doveva porre: pennelli di poco prezzo, sì, una manciata di colori, non avrebbe avuto bisogno di molto. Non di molto, ma avrebbe dovuto assicurarsi di avere il necessario. Avrebbe avuto bisogno pure dell'argento, ma in proposito avrebbe dovuto stare estremamente attento. Avrebbe usato il bianco in sostituzione, non avrebbero dovuto esserci errori, nessuna perdita di controllo. Che cosa sarebbe accaduto se avesse dipinto un ritratto della cosa argentea? Sarebbe servito da esorcismo? o da richiamo? Era giunto il momento di scoprirlo? Era un'idea spaventosa, non solo sotto il profilo astratto della magia - scrivi il nome del diavolo con troppa convinzione e questi certamente finirà per apparire - ma sotto quello meramente tecnico della difficoltà, sarebbe stato molto difficile realizzare il progetto. Ne era all'altezza? C'erano altre alternative oltre a quella di scoprirlo? Ora: carica l'auto; questo era facile, c'era talmente poco. La caffettiera,
una volta staccata la spina, produsse un'ultima tazza, piena fino all'orlo, di caffè freddo, nero. Controllò ogni porta due volte ed ebbe un impulso assurdo di buttare via le chiavi. No, era una cosa stupida. Sarebbe ritornato. Forse, presto. E allora: vai. Mentre usciva, indietreggiando, verificò altre volte, fino al paradosso: sulle finestre desolate, ci sarebbe stato un tremito, un lucore, una fredda luce d'addio? No. Solo finestre, solo la porta principale, una casa chiusa. Chiusa per sempre? Certamente no. Si allontanò in macchina, senza più guardarsi indietro. Sul sedile posteriore, protetti dalla parete verticale della valigia, i colori, attentamente sistemati: una piccola borsa aperta contenente i tubetti ammassati, grassi come larve d'insetti. Al loro fianco, le pile pesanti dei libri di neurologia, dei manuali per infermieri, dei testi di consigli pratici. Mentre Austen guidava, con gli occhi stanchi, cantando con lievi stonature le canzoni trasmesse alla radio, i tubetti iniziarono, uno dopo l'altro, a liberare un secreto, lento, costante, sommesso come il respiro, un secreto chiaro come il veleno nel sangue. Tubetto dopo tubetto, il flusso vischioso raggiunse infine, come un insieme di dita bramose, di mani allegre e felici, i libri e vi penetrò, marcando i luoghi del suo passaggio, mostrando il cammino ineluttabile. 5 Guidò per quasi tre ore prima di fermarsi, esausto, nel parcheggio di un McDonald's, nei pressi del confine. Voleva mangiare semplicemente qualcosa per poi proseguire ma, dopo il pasto — il cibo era ricco, pesante nello stomaco, come gomma liquida raggrumata - si sentì più stanco che mai; così dormì, le mani fredde nelle tasche, la testa reclinata sul sedile. Non era tanto tardi, ma era già buio, ed egli riuscì a sonnecchiare per un'ora, inosservato, prima che un impiegato, giovane e nervoso, battesse sul suo finestrino di derelitto e gli dicesse che non era permesso sostare a lungo nel posteggio. Se avesse dormito nei motel, sarebbe finito in bolletta ancor più velocemente; la prima cosa di cui si era dimenticato era, ovviamente, una coperta. Il buio totale al di là delle vetrine di un negozio di ferramenta provvisto di sbarre anti-ladro, l'orario di lavoro nove-cinque rigorosamente rispettato, secondo quanto indicava il cartello; dormì là, di fronte, tremando, cadendo in preda all'ansia durante il culmine del sogno e, quando si svegliò,
vide una coltre bianca sulla parte interna dei finestrini: il suo respiro si era congelato lentamente durante il sonno. Era ormai troppo sveglio per potersi riaddormentare, era troppo tardi per fare qualsiasi altra cosa se non guidare. L'autostrada, la schiena dolente, il Tegretol ingurgitato senz'acqua, fra i camion di mezzanotte. Alla radio davano canzoni che non aveva mai sentito, nenie sinuose, simili a jazz, cantate da voci minacciose, canzoni di piacevoli tormenti. Fino al momento in cui perse inevitabilmente la sintonia, non udì alcun segnale di chiamata, né la voce di un DJ, nulla se non quella lunga, sinistra cantata di disperazione e di squallore. Solo all'estremità della scala di ricezione sentì qualcosa, la voce di un uomo, le cui parole vennero però sommerse dai segnali fluttuanti. Girò la manopola della sintonia con una mano, ma riuscì unicamente a captare l'innaturale lamento delle trasmissioni notturne. La stazione era scomparsa. Giunse ad una diramazione e, senza pensare, svoltò a sud-ovest: Texas. Era evidentemente spinto in maniera inesorabile ad andare da Cyndee. Bene. Forse le cose non vanno mai tanto male da non poter peggiorare. Che cosa le avrebbe potuto dire, come avrebbe potuto spiegare la sua visita? Ciao, mamma: sono pazzo e senza soldi, e sono tornato. Nella tasca del cappotto aveva le indicazioni schematiche che lei gli aveva mandato quando aveva traslocato: dieci, no, tredici anni prima? Tanto tempo prima. Un piccolo, triste miracolo il fatto che avesse conservato il biglietto. C'era forse una parte di lui che la voleva, che desiderava, se non la sua comprensione - la sola idea di averla era chiedere troppo, per non parlare del fatto di domandarla effettivamente - la sua commiserazione, il suo conforto? L'amore materno, le braccia materne, che potevano stringerlo? Ricordo di Cyndee, la bocca aperta, come quella famosa smorfia, mentre diceva Non dimenticarti, sei nato con l'aiuto di un veterinario. No: ricordati, non c'è scopo ad andare da lei, alcuno scopo. Gli occhi puntati indefessamente sulla strada, oltrepassò una serie incalcolabile di insegne di stazioni di servizio, di motel di varie catene, di ristoranti aperti ventiquattro ore su ventiquattro, tutte le sfumature della pausa temporanea. C'era una sorta di aura volgare, malsana, in quei luoghi di sosta, forzosamente abbelliti, con negozi e pompe di benzina, bagni completi di sapone appiccicaticcio e di distributori di profilattici rotti, ristoranti che servivano sei tipi di piatti, tutti egualmente immangiabili. Alcune persone, turisti, famiglie, le inesorabili coppie di anziani con le loro case mobili di quasi trenta metri, si muovevano in queste oasi, anch'essi con la loro aura
peculiare; altre, invece, recavano solamente un senso di intensa stanchezza, di esaurimento, di detriti sporchi conficcatisi nel tessuto della vita tanto profondamente da guastarlo per sempre, da ingrigirlo lentamente, al punto che nessuna gioia futura avrebbe mai potuto rimuovere. E, per quanto riguardava lui, beh: in quel momento non era altro che movimento, pensava a malapena alla strada da seguire, a dare un'occhiata all'indicatore della benzina, a fermarsi per orinare. Di pensare ne aveva avuto abbastanza negli ultimi tempi e, per quanto non avrebbe mai voluto arrivare a dire: Che bello non doverlo più fare! - in ospedale aveva incontrato persone che provavano tale desiderio e che l'avevano visto esaudirsi — si sentiva quasi in pace, mentre cavalcava in preda all'impeto, mentre veniva cavalcato, mentre sentiva che a ogni chilometro raggiungeva una certa tappa, faceva qualcosa per il problema, per il problema che aveva in testa, per quel suo cavaliere, se così lo si vuole chiamare. Quando decise di dormire, era a due stati di distanza da dove era partito; si fermò in un'area di sosta, una ufficiale. Era a sud, ma faceva ancora troppo freddo; si era comunque fatto furbo: aveva indossato una camicia e una felpa e aveva preso una giacca da utilizzare come coperta. La testa su uno dei libri sul cervello, uno spesso manuale per infermieri, non rilegato. Fa' in modo di garantire il comfort del paziente. Pensò di aver difficoltà ad addormentarsi ma, dopo alcuni attimi in cui era rimasto a occhi aperti, piombò nel sonno, dimentico del brontolio anonimo dei mostruosi tir, delle dubbie capacità notturne di parcheggio dei guidatori della domenica, del vento che gradatamente si quietò, della pioggerella che batteva sui finestrini e che, alla luce dei pochi fari che li illuminavano, assumeva uno strano, gradevole colore, una sfumatura argentea, simile a quella della brina, di una delicata rugiada metallica. Il mattino si annunciò con un brusco aumento del traffico sull'autostrada interstatale; oh, era tutto indolenzito. Che dolore, quella seconda notte gli era costata parecchio; si era dimenticato il Tegretol, ma lo buttò giù comunque, bevendo un po' d'acqua dal rubinetto della toilette. Era piuttosto sicuro di puzzare: si lavò vigorosamente le ascelle e due volte i denti. Indossò una camicia non ancora usata, tutta stropicciata, vista la noncuranza con cui aveva fatto la valigia. Ma, al di là di tutto, l'aveva fatta, l'aveva preparata: aveva mantenuto lo slancio, era fuggito. Da ciò di cui era insicuro, forse, dalle pericolose sabbie mobili dell'apatìa e del terrore, capaci di produrre sinergicamente uno stato ipnotico, simile a quello del condannato di fronte alla mannaia: Eccola, arriva.
Nulla gli era apparso fino ad allora, niente argento; ma era sufficientemente saggio da sapere che ciò non significava guarigione, svolta, né remissione. La cosa aspettava. Per quanto tempo lo avrebbe fatto, non aveva idea. Era assopita dal lento movimento, o era lui a esserlo? Attento. Stai attento, ora. Ieri, il primo giorno di guida, ti sei chiesto se potesse decidersi a fare una mossa, le mani salde e gli occhi aperti, per paura che si manifestasse mentre guidavi. Guardami, mentre afferro il volante. Prima pensavi di avere problemi, eh? Ora ti è stato assegnato un corpo, hai avuto una lesione al cervello: ora siamo io e te, un dolce, accattivante isolamento, noi due, tutti soli: Eccomi, arrivo. La colazione della borsa-frigo: una mela quasi marrone, avanzi di pane spalmati con un esiguo strato di burro d'arachidi, caffè di una macchinetta. Aveva ancora fame, così finì il burro d'arachidi rimasto, grattando il fondo del vaso con il coltello, mentre osservava il flusso del traffico, simile a una fila di formiche. Sempre tanta fretta. Perfino la gente in vacanza andava di fretta. Una volta aveva progettato con Emily una vera vacanza, aveva elaborato un itinerario, fermiamoci qui e facciamo questo, se il giorno seguente guidiamo per mezza giornata, ci fermiamo là e facciamo quest'altro. Non erano mai andati più in là delle valigie: avevano trascorso le giornate libere su una coperta, distesi sul prato dietro casa, a bere birra e a leggere riviste. Il ventre nudo di Emily scottava come febbre al sole, e occhiali neri, austeri come quelli protettivi di un saldatore. Lui aveva cercato di infilare un dito sotto l'elastico del top. La calura gli dava le vertigini. Più tardi, ubriaco nella cucina rovente, aveva mangiato un po' d'uva congelata - l'aveva messa nel freezer per raffreddarla, e se n'era dimenticato. Ne aveva fatto rotolare un acino lungo il seno di Emily e l'aveva mangiato direttamente da lì. Ah, Dio. Ricorda i brutti momenti, si disse, per favore; ce ne sono stati parecchi. Verso mezzogiorno il riscaldamento dell'auto si rifiutò di funzionare correttamente; il parabrezza veniva offuscato dal suo respiro, tanto che doveva tenere un finestrino leggermente aperto. Faceva freddo, freddo. Guidò finché non si rese conto che andava avanti per inerzia; si fermò a un distributore di benzina mentre le ultime luci del giorno calavano bruscamente, come una colonnina di mercurio, al di sopra delle pompe. Fece il pieno e pagò con una carta di credito. Era illecito, dato che non era certo di poter coprire le spese di quel mese? Mangiare o continuare? Un inventario mentale del contenuto ripugnante
della borsa frigo: formaggio, un'altra mela, mezza scatola di cereali vecchi. Voleva qualcosa di caldo, che costasse pochi soldi, qualsiasi schifezza. In quell'oasi c'era un McDonald's e un Red Hen; scelse quest'ultimo. Quando sei in dubbio, opta sempre per la cucina locale. Era caldo e umido per i vapori della cucina e il sudore, tutto color arancio e marrone, e una gallina rossa che covava. Donne enormemente grasse con bambini grassi e imbronciati; giovani famiglie, alcune vivaci, altre stanche; ragazzi con berretti e giubbotti pesanti, in piedi, la stanchezza professionale dei camionisti addosso. Le soste non erano soste, esisteva solo la strada. Alcuni pensavano ancora che ciò fosse romantico... Alcuni non hanno mai avuto le emorroidi. Anche Austen non le aveva mai avute, ma la nuova sagoma appiattita del suo sedere gli aveva fatto pensare a tale eventualità. Quando, infine, raggiunse il bancone, un piano argenteo opaco lungo come un'autostrada, ordinò, evitando di appoggiarvisi, pollo, fiocchi d'avena e caffè. Un cartello scritto a mano con un pennarello lo informò che quest'ultimo era GRANDIOSO, cosicché ne ordinò uno grande. Vide che non c'erano tavolini singoli liberi, quindi: un tavolo da otto posti. Si sedette lentamente sullo sgabello circolare vagamente unto e aprì il sacchetto contenente le posate di plastica; cercò di bere il caffè, ma era troppo caldo. All'altra estremità del tavolo c'era una famiglia, genitori, due ragazzini e un bambino molto piccolo; quest'ultimo, di sesso indefinibile, era decisamente brutto e aveva varie incrostazioni di muco sotto il naso. Anche i due ragazzini avevano problemi analoghi, anche se di minore entità; forse, giova sapersi soffiare il naso da soli. Sembrava un altro dei detti di Cyndee: In questa vita devi saperti soffiare il naso. La madre stava mangiando patatine fritte con aria svagata e assente, facendo periodicamente delle pause per verifìcare i progressi dei figli e per rimproverarli se, dall'ultimo controllo, non avevano mangiato nulla. Il padre mangiava rapidamente e metodicamente, senza concedersi pause per nessun motivo. A metà cena Austen si rese conto di non avere particolare appetito; tutto di nuovo nel contenitore per asporto, non si spreca nulla. La famiglia se n'era andata, lasciando solo un gran disordine; il tavolo era vuoto. Gli avrebbero rubato gli avanzi se fosse andato a orinare? Probabilmente. Portateli dietro; così fece, meditando sui meriti igienici del lavandino orlato di grigio della toilette e del distributore di sapone, abbondantemente incrostato, come il naso del neonato. Il cibo era pesante; gli ci volle un minuto per aprire la cerniera lampo dei pantaloni, anche la sua mano era pesante. Un capogiro lento, inaspettato; chiuse gli occhi e li riaprì di fronte all'appari-
zione improvvisa, vertiginosa, argento puro che fluiva come sangue dal fondo dell'orinatoio, formando un gorgo, un'acquerugiola vischiosa, sottile, che dal basso saliva lungo la sua gamba, strisciando come un ragno fin sui peli tremanti dell'inguine. In preda a un panico nero e silenzioso, l'afferrò, afferrò quella piccola scintilla sfuggente ed essa, all'istante, scomparve. Così, semplicemente. Sparì dal suo corpo, completamente. Era bravo, sì, e lo stava diventando ogni giorno di più. Ansimava. Calmo, si disse, respirando dalla bocca. È arrivato così velocemente. Dove sei? Nulla. Pareti blu, pavimento blu, lavandini, orinatoi e specchi sporchi, un unico water dietro una porta chiusa; in nessun modo sarebbe entrato lì dentro. Tre grandi passi nella stanza, la mano protesa verso la maniglia della porta; prima toccare, poi vedere, rapido, quel lucore freddo, sospetto; oh, bene, proprio bene. Lo osservò. Continuò a osservarlo, attese un ulteriore cambiamento, una scintilla più grande, qualcosa. Lo osservò finché non si accorse che la luce del soffitto cadeva con un'angolazione tale da illuminare la maniglia, facendola brillare. Coglione. L'area ristorante sembrava insopportabilmente luminosa. Le due coppie al tavolo vicino alla toilette lo stavano guardando. Avevano visto Caino, un uomo sospetto, uno squarcio argenteo sulla sua fronte, che sanguinava malignamente come un terzo occhio? O, semplicemente, un pazzo? Comunque, lo stavano guardando, certamente, lo guardavano. Aveva dimenticato gli avanzi della cena; erano ancora là, sul bordo del lavandino sudicio. Pazienza. Fuori dalla porta, nella notte squamosa, le luci parevano scagliose a causa dell'acquerugiola; faceva troppo caldo perché si tramutasse in neve, troppo freddo perché piovesse. Un tempo-limite. Salì in macchina e guidò come non aveva più fatto dall'adolescenza, sconsideratamente, senza mai guardare indietro. Ascoltando tutto quello che c'era alla radio, cantando a voce alta. All'ora giusta prese il Tegretol con una mano e, con qualche colpetto, ne estrasse la dose, ponendola sulla coscia. Continua ad andare avanti. Nel sogno, non l'avvento, ma la minaccia, il lungo silenzio che sussurrava, Ti vedo.
Eccomi, arrivo. Si svegliò, tremando, il corpo ricoperto di sudore. In macchina faceva freddo. Gocce di sudore piccole come lacrime sui rilievi ossuti degli zigomi, sulla sporgenza sempre più fredda del mento. L'orologio del cruscotto aveva da tempo cessato di funzionare. L'area di sosta era vuota, i camion enormi simili a ombre, squadrate come cassettoni, nell'oscurità più vasta. Carburante diesel. Il riflesso inosservato degli scarichi. Era tanto stanco, là, nella sua auto. Che cosa gli era successo, perché si ritrovasse in quelle condizioni? Come poteva un uomo cadere e continuare a farlo all'infinito? Qualcuno doveva saperlo. Texas, il Grande Culo. Cielo grigio, e guidava veloce, visto che, a quanto pareva, era non solo necessario, ma anche opportuno, diretto a Wichita Falls. Sua madre viveva nei pressi della base aeronautica, a Sheppard o Sheffield, o qualcosa del genere, vicino ad alcune cittadine chiamate Thrift, Petrolia, Oklaunion, Burkburnett. Non era mai stato in Texas prima, ed era incerto sul suo fascino: tutto gli sembrava molto piatto, quasi surreale. O forse era solo l'effetto di tornare a casa da Cyndee. Aveva passato l'ultima mezz'ora a ricordare malvolentieri il loro ultimo incontro, la discussione che aveva posto fine alla visita: lo stanco aroma delle sue antiche collere, la sua altrettanto stanca risposta, che in realtà non era una vera risposta: aveva sempre avuto un talento particolare in proposito, una dinoccolata scrollata di spalle, un'occhiata obliqua che non diceva nulla, per lo meno, in presenza di lei. Con Emily, per esempio, era invece un fascio di nervi ambulante, che scattava e che sprizzava, gioia o dolore, incapace di non reagire. La calligrafia di Cyndee, i suoi ghirigori a pennarello, da adolescente, sbiaditi dal tempo - proprio come lei stessa, ma che figlio era per pensare questo - indicavano di svoltare a destra, in una via chiamata Rubens, segnalavano il suo indirizzo. Le case sembravano tutte uguali, quasi tutte dipinte di un colore bianco arido, "guscio d'uovo", ripugnante al suo occhio d'artista; bell'artista: i suoi pennelli erano pigiati sul sedile posteriore per la velocità e la presenza dei libri sul cervello, i tubetti di colore giacevano altrettanto abbandonati. Non pensarci, ora. Su un prato c'era una statua della Vergine Maria, rosa e azzurra, come d'obbligo, su un altro, una ninfa dall'espressione disgustosamente sdolcinata; con le braccia sollevate reggeva una vaschetta per uccellini, sporca. Aveva la faccia corrosa da un'insidioso
cancro della plastica; qualcuno aveva cercato di ridipingerla, ma non era il genere di malattia che la cosmesi può curare. La Vergine e la Dea del Mondo. Ricontrollò il numero e scoprì che l'indirizzo della dea era anche quello di Cyndee. Figuriamoci se non era dalla parte dei pagani. Dio, che casa. La superò, ci girò attorno, DIVIETO DI SOSTA scritto in rosso sul cartello, dall'altro lato della strada. Dipinta di grigio e di un blu troppo sgargiante, il tetto privo di numerose tegole, il cemento armato del vialetto d'accesso frantumato qua e là e ridotto in polvere. Un paio di cespugli anonimi a fianco della zanzariera della porta d'ingresso, mezza sghemba: dietro ad essa, uno strano addobbo, simile a un feticcio, che dondolò leggermente quando egli bussò. Le mani gli tremavano. Bussò ancora, poi cercò di guardare attraverso la finestra, ma rimase sconfìtto dalle tendine di fìnto pizzo. Bussò più forte e sentì, anche se debolmente, una voce che parlava spagnolo, la voce di un uomo irritato. Sollevò il braccio per bussare di nuovo e la porta si aprì, semplicemente. Una parlata spagnola più forte, in sottofondo. "Sì?" Invecchiata, Dio, molto invecchiata, lo sguardo stanco; lo stesso ombretto blu. Camicetta rosa a quadretti. I capelli mezzi biondi, tirati indietro e raccolti in una coda di cavallo da ragazza pon-pon. Parecchio rossetto. Lo aveva davvero riconosciuto? Per un attimo sorprendentemente terrificante, immaginò che scuotesse il capo e che lo mandasse via. Non ho figli. Mio figlio è morto. "Mamma." Gli occhi socchiusi e poi, non un sorriso, ma un raddolcimento generale, il riconoscimento, che si diffuse come un'onda. Guardò attraverso la zanzariera e disse: "Bene. Sei tu," tenendo la porta aperta. Entrò nello spagnolo e negli odori, di cucina, di polvere, della falsa freschezza di deodorante per l'ambiente. La stanza era talmente piena di mobili che era difficile decidere dove, e se, sedersi, e dove mettere i piedi nel caso fosse stato necessario spostarsi. Tutto era più grande di quanto dovesse, e dozzinale. Forse era davvero in bolletta. Un tempo riceveva una pensione di invalidità, così almeno Austen ricordava, ma questo era tanto tempo fa; che cos'aveva? Problemi alla schiena? Una volta lavorava in una fabbrica, industria leggera, la chiamavano. Cyndee avrebbe avuto bisogno di un'industria quasi volatile. Era nervoso, molto nervoso; sarebbe stato divertente, se fosse capitato a un altro. Scelse un divanetto da innamorati di un azzurro turchino stoma-
chevole, per nulla stupito dal cattivo gusto che dominava dappertutto; per lo meno, lei era coerente. Cyndee era andata presumibilmente in cucina. La voce spagnola si era nel frattempo quietata. Ne uscì con un bicchiere da whisky di plastica in mano; c'era una scritta, PRIMA DI TUTTO, LA FEDELTÀ, a caratteri rossi sbiaditi, e, sotto, un'aquila dall'aspetto superbo. Era forse uno strano slogan dell'aviazione, come il Semper Fi dei marines? Al di sotto dell'aquila, un'altra parola, sbiadita dai lavaggi. Si sedette su un divano rivestito di una stoffa dorata e pose la bibita in equilibrio sul bracciolo. Era pieno di semicerchi, quel bracciolo, di macchie a forma di mezzaluna; evidentemente, si sedeva spesso in quel posto. "Bene." Sorseggiava ancora le bevande come un colibrì. Il liquido del bicchiere era molto scuro. "Allora, sei venuto a trovarmi?" "Sì. Per un po'." Scrollò le spalle: di già? "Se ti va bene." "Avrei preferito che chiamassi, prima." "Se non ti va bene, mamma, dillo, d'accordo?" "Va bene. Solo, avrei voluto saperlo prima." Si alzò di scatto e uscì dalla stanza, questa volta diretta in un altro locale. Mentre aspettava, Àusten fece un lento inventario della stanza: nessun libro, solo riviste: La tua salute, Prima le signore. Una grande TV di fronte al divano dorato. Un trio di scaffali di noce leggermente arcuali, con l'evidente funzione di alloggiare una collezione di piccole porcellane, signori e signore eccessivamente sofisticati; prima le signore. Un chiaro fruscio di poliestere; era di ritorno. Sorso, sorso. "Così, sei qui in vacanza?" Una scrollata di spalle. "Ho pensato, non so, fermati a salutarla." Bugiardo. "Vivi ancora lassù al nord?" "Sì." Dalla cucina giunse della musica jazz, più forte rispetto alla voce udita in precedenza. ^Che cos'è?" "La radio." Sorseggiò dal bicchiere e si chinò in avanti. "Austen." Egli si piegò inconsciamente all'indietro."Che cosa?" "Non hai un bell'aspetto." Nemmeno tu, ma non aveva intenzione di dirglielo. "Sono stato male, un po' di tempo fa. Nulla di serio." "Che cosa è successo?... Aspetta un attimo," e su, di nuovo; in un secondo era già sparita. In sua assenza, passò in rassegna le più plausibili fra le varie, tristi menzogne. Comunque, dove diavolo andava continuamente?
Poi tornò. "Dove diavolo vai continuamente?" Lei si accigliò, furiosa. "Ho un'infezione alla vescica." "Che cosa?" "Infezione alla vescica. L'ho presa dall'asse del water di un cinema." Toccò il suo bicchiere di plastica. "Succo di mirtillo. Il dottore mi ha dato queste pillole da prendere, ma non sono servite a niente. La Candida, lei è la vicina della porta accanto, sempre in agguato, così mi ha detto, Beva succo di mirtillo." "Oh." Per qualche ragione ebbe voglia di sorridere. La sensazione svanì, comunque, quando lei aggiunse: "Allora, che cosa è successo?" "Nulla. Ho avuto un incidente in macchina, in un parcheggio. Mi sono ferito." Con un grosso pezzo di cemento armato. Annuì. "Sono spesso i peggiori, i posteggi. La velocità." Evidentemente, Àusten risultava ora più interessante a causa del suo dramma. "E l'altro? Puoi fargli causa?" "Non c'è colpa, mamma. Non si può far causa." Non aveva realmente idea se fosse vero o no. Indicò il bicchiere con un cenno del capo. "Ne posso avere un po'?" Lei balzò di nuovo in piedi. "Prendi quello che vuoi." Scomparve ancora una volta nel corridoio. Era un corridoio molto piccolo, più simile a quello di una casa mobile che di una reale. La cucina era grande, ma stipata di oggetti, nella sala da pranzo c'erano sei sedie, due delle quali era talmente sommerse di giornali, sacchetti di carta e delle cose più strane, che era impossibile immaginare di sedervisi. Due calendari alla parete, uno con vari cuccioli di animali, l'altro con i famosi Paesaggi Storici del Texas. A Cyndee piacevano, a quanto pareva. Un frigorifero mastodontico, a due porte; l'interno fu tuttavia una delusione: succo di mirtillo, in grande quantità. Acqua minerale. Latte. Scovò una birra, una Miller. Lei gli venne alle spalle, mentre stava aprendola. "Prendi un bicchiere." "Va bene così. Non ho bisogno di bicchieri." Lei gliene diede comunque uno. All'interno Austen vide alcune deboli tracce circolari di latte e lo posò sul bancone, in mezzo al groviglio generale. "Posso usare il telefono?" Lei annuì, indicando genericamente la direzione degli armadietti. Gli ci volle un attimo per individuarlo e, dopo, si chiese perché: era probabilmente il telefono più elaborato che avesse mai visto, talmente rococò da
sembrare ridicolo in mano. Chiamò Peter, lasciò un messaggio sulla segreteria, il numero di sua madre. Va tutto bene. Mi farò vivo presto. "Hai fame?" chiese lei, e per un breve istante egli sentì una tristezza, antica e spaventosa; dovette distogliere lo sguardo, guardare fuori dalla finestra dalle tendine rosse, tristi, simili a plastica. Lei non aveva idea di che cosa dirgli, di come trattarlo più di quanto non ne avesse lui. Non ci sarebbero state vere domande, nessuna richiesta, nessuna spiegazione. Che errore. Che errore essere venuto. "Sì. Sì. Stavo per..." "Posso preparare qualcosa, qualche sandwich, o una minestra." Si voltò, palesemente in agitazione, le mani protese verso le ante della credenza. Su una di esse c'era una targa, QUE SERA!, con sotto quello che pareva essere un procione sorridente: se era una battuta, egli di certo non la capì. All'improvviso tutto ciò che desiderò fu uscire da lì, andarsene; era un impulso di vecchia, vecchissima data, che in quel momento seguì più ciecamente che mai. La birra in mano, si girò per uscire dalla cucina. "Andrò un attimo a prendermi qualcosa." Frugò, in cerca delle chiavi, con la stessa vecchia premura. "Hai..." ma la sua vescica si fece sentire, l'insistente richiamo del succo di mirtillo. Fece un ultimo frettoloso commento mentre si avviava verso il corridoio, ma egli non lo ascoltò. Via, con decisione, la birra in equilibrio fra le ginocchia mentre usciva in retromarcia dal vialetto d'accesso; ci si sarebbero potuti trasportare fucili, ma non lattine aperte di birra. Non aveva idea di dove stesse andando. Pareva che potesse iniziare a piovere da un momento all'altro. Scelse la direzione da cui era venuto, quella dell'autostrada, e trovò un McDonald's a meno di un chilometro da casa. Ma gli sembrò troppo facile. Continuò a guidare; le prime avvisaglie di un acquazzone terribile e molto, molto traffico per quella che sembrava essere una piccola cittadina di periferia; forse si spiegava con la presenza della base dell'aviazione. Forse gli abitanti erano costituiti dai piloti e dalle loro famiglie. Guidò ancora e trovò Silly's, lo Stupido; il nome in sé bastò ad attirarlo, e si fermò. Bevve la birra d'un sorso, il che gli provocò gas nello stomaco. Mentre era in fila, ruttò, ma nessuno sembrò accorgersene. Fagioli rossi e riso. La ragazza dietro il banco aveva un seno piccolo e morbido, che risultò ben visibile quando si piegò per prendere l'ordine. Mentre guardava, sorridendo, Austen pensò a come sarebbe stato fare di nuovo l'amore con una donna, non con Emily, ma semplicemente con una donna, una qualsia-
si. Parlarle, farla parlare, tenerla fra le braccia, molto stretta. Era passato molto tempo da quando aveva fatto tutto ciò l'ultima volta; il ricordo di Gina non gli suscitò altro che un fugace tremito di vergogna, e prima di lei c'erano state altre storie, non simili, ma non serie. Non aveva più fatto veramente l'amore con nessuna dopo Emily. Il cucchiaio a mezz'aria, sopra il riso, si chiese: Trattiamo chi amiamo in maniera diversa da chi incontriamo per una notte sola? C'è una distanza implicita nella carne, un tocco che dice non sono qui per restare? E a questo punto: ha ancora importanza? Mangiò lentamente, la Coca era troppo dolce, e lasciò il bicchiere mezzo pieno. Fuori, di nuovo in movimento. Si poteva pensare che fosse stanco di guidare, e a ragione, ma non c'era effettivamente nient'altro da fare, poiché non c'era un posto dove andare. Avrebbe trascorso la notte, alcune notti da Cyndee, ma non le avrebbe parlato, non le avrebbe spiegato che cosa in realtà non andava. Come dirglielo: Mamma, sto diventando pazzo? Mamma, vedo cose? Una cosa, in particolare. Perché sei venuto qui? Svoltò casualmente a destra. Perché preoccupartene? Forse, con l'idea di frugare negli armadi di casa, a caccia di qualche scheletro "neurologico": ehi, mamma, abbiamo qualche parente matto? Quella poteva essera una domanda accorta da fare, se fosse riuscito a indurla a parlare dell'argomento. Una volta datole l'avvio, non avrebbe avuto alcun problema ad ascoltare ciò che c'era da sentire, anche se sarebbe stato, ovviamente, filtrato dai sensi particolari di Cyndee, dalle sue esagerazioni, dalla sua memoria artìstica, che sembrava capace di selezionare solo il peggio. Forse. Forse domani. Guidò per la cittadina, in quella che pareva essere una cittadina, sempreché, tra l'altro, esistesse ancora un luogo definibile come tale. Ogni posto era identico all'altro, forse era addirittura lo stesso, e si distingueva solo per la topografia sottostante, ovvero pianura, palude o colline avvolte dal ghiaccio. Era tutto un cliché; ma, dopo tutto, che cosa voleva, una varietà sorprendente come un puzzle infinito? Sarebbe stato peggio che mai. Grazie a Dio esistevano le autostrade e i McDonald's, la vera salvezza dei disperati e dei disorientati. Ma, in realtà, che differenza faceva? La pioggia era pioggia, i suoi tergicristalli non funzionavano bene e i bar erano aperti in qualsiasi momento ne avesse bisogno, come ora, ad esempio. L'unica scritta era BAR, neon rosso offuscato dalla pioggia; un'immediatezza che parve giusta: Vai in un BAR e bevi. Avrebbe preferito comprarsi una confezione di birra da sei, ma non sapeva dove andare: da Cyndee, escluso, e non voleva bere in macchina.
Dentro faceva caldo. Odore di sigarette e videogames con cui nessuno giocava. C'erano cinque persone nel locale, incluso il barista, magro e dall'aspetto bisunto, come se passasse la maggior parte del suo tempo a riparare automobili. Era buio, anche rispetto alla relativa oscurità esterna, visto il cupo rovescio di pioggia del tardo pomeriggio. Nel bar prese la birra che gli veniva servita con piacevole riluttanza; non era probabilmente una grande idea, ma si sentiva incredibilmente stanco. Una o due birre, poi da Cyndee, a dormire, fino al mattino seguente. Forse, avrebbero potuto fare colazione insieme, ed egli avrebbe potuto chiederle, avrebbe potuto, forse, forse, scoprire. Qualcosa. E se gli avesse detto che non c'era nulla del genere nella loro famiglia, o peggio, che c'era invece una lunga connessione, come un'infinita colonna vertebrale, che si perdeva nei tempi del tempi e che, a ogni spasmo e a ogni attacco, si formava una sacca di follia? Che cosa avrebbe fatto se gli avesse detto questo? Eh? Forse aveva sempre saputo che avrebbe avuto un episodio epilettico, forse, se non fosse stato il posteggio, sarebbe stato qualcos'altro, qualcosa del tutto spontaneo fuoriuscito dalla tenebra della coscienza come un lungo treno merci d'argento: eccomi, sono in perfetto orario. "Un'altra birra?" "Sì," rispose, sorpreso alla voce del barista, senza pensare. "Grazie." "Faceva cenni con la testa," aggiunse il barista. "Ho pensato che mi chiamasse." "Sì. Grazie." Alla fine bevve sei birre, una confezione da sei; impiegò quasi due ore e, quando si alzò, capì di essere ubriaco. Bene. Una bella trovata. Cyndee sarebbe stata al lavoro al momento del suo rientro?... Lavorava, poi? Aveva dimenticato di chiederglielo. Sarebbe stato imbarazzante entrare in casa incespicando, e distogliere lo sguardo quando lei gli fosse venuta incontro per osservarlo? Un formicolio al capo, di lato, stava forse covando un mal di testa; le dita impacciate sul cappotto, si sarebbe ancora presa la briga di osservarlo? Ne avrebbe avuto il tempo, tra una puntata e l'altra in bagno? L'idea lo fece ridere, e il riso lo stimolò a muoversi, a scendere dallo sgabello e ad uscire. Batté le palpebre sotto la pioggia; ora era diventato veramente buio, era notte e per un attimo non ricordò più esattamente dove avesse parcheggiato l'auto. Dovette sbattere la portiera due volte per farla chiudere, ma l'auto partì al primo tentativo; il gas di scarico uscì violentemente ed egli ne sentì ap-
pena l'odore penetrante, che gli parve depositarsi sui suoi polmoni come una pellicola sottile. Guidando con la lentezza e la circospezione di uno squilibrato, ritrovò la casa di Cyndee, parcheggiò quasi perfettamente, armeggiò, cercando le chiavi per qualche tempo, prima di rendersi conto che non aveva le chiavi di quella casa. Cyndee venne ad aprire alla terza - quarta? — bussata; forse l'aveva disturbata mentre era alla toilette; forse stava dormendo. Che ora era, tra l'altro? Gli diede una sola occhiata, sembrò sufficiente. Tentò, vecchi istinti dei tempi delle superiori, di voltare la faccia ma, probabilmente, lei si era fatta più furba, o lui era diventato più stupido. Tutto era possibile, in un mondo che riservava tali sorprese, e con un cranio sorprendente come il suo. "Austen," lo stesso tono acido. "Che cosa hai fatto, hai bevuto?" Non parlare. Andò in cucina, ma capì che era una mossa sbagliata. Avrebbe dovuto dirigersi in gabinetto. Lei gli era alle spalle; non voleva proprio guardarla in faccia; talvolta, quando è troppo è troppo. "Malato come sembri," in frigorifero non c'era nulla, se non succo di mirtillo, acqua e latte, niente più birra; un vago ricordo di aver già fatto una scoperta simile, "la prima cosa che fai è andare fuori a bere. Non hai proprio cervello?" Cercò di non ridere, percepì lo stimolo all'addome, a livello del diaframma, ma questo era troppo, era l'inizio perfetto. Ora avrebbero avuto un piccolo incontro, con il cuore in mano. Il cuore in mano, il cervello in mano, mamma, dài, parliamo! Si accasciò contro il frigorifero ancora aperto; lei disse qualcosa, lui non ascoltò, aveva un sorriso incerto sulle labbra. Lei si voltò, presumibilmente disgustata; era una reazione di vecchia, vecchissima data, le veniva indubbiamente spontanea. Nel momento in cui pensò di chiudere il frigorifero, sentì lo sciacquone del water, una sorta di lieve ruggito in lontananza, poi una porta che si chiudeva. Ritornò nel soggiorno stile bric-a-brac, trovò un posto sul divano color turchino e si addormentò, rapidamente, tranquillamente. Un'altra porta si chiuse mentre sugli scaffali incurvati ebbe inizio una danza; gli occhi dei signori si fecero trasparenti come acqua e, uno dopo l'altro, i vestiti di vetro delle signore assunsero gradatamente un equivocabile colore argenteo, freddo e luminoso come i nastri nei loro capelli. E Austen dormì, anestetizzato, senza sognare; senza colori, senza dolore, senza cercare la fine del dolore. Semplicemente, niente. Semplicemente, il buio.
Mattina. Una sensazione orribile: non era nemmeno sentirsi male, il che sarebbe stato meglio. Che sei birre potessero fare tanto danno, era incredibile. Era stato fortunato, visto che non si era risvegliato nel lago del suo cervello liquefatto. Camminava strascinando i piedi, uno strano dejà vu in quel posto in cui non era mai vissuto; era forse la presenza di Cyndee in sé, la sua essenza, a rendere quella casa sconosciuta cupa come quella di cui si ricordava. Nel bagno, la sua inevitabile traccia. Schiere di trucchi e di creme, di prodotti per il viso Per Una Pelle Più Giovane. L'Olio della Vecchia, lo chiamava Emily, ammettendo con una risata che anche lei, un giorno, lo avrebbe probabilmente usato. Tutto per i capelli, almeno sei pettini di colori diversi. Niente asciugamani, però, ovviamente oltre a quello rosa per le mani che, vista la sua soffice, atavica polverosità, era lì esclusivamente per bellezza. Ce n'era uno a strisce, mezzo logoro, appeso dietro alla porta; usò quello. Quando uscì dal bagno, lei era sveglia. Evitò il dialogo, come faceva sempre, preferendo ignorare i suoi borbottii senza sbuffi, il suo linguaggio fatto di porte sbattute e di cucchiai tintinnanti. Bevve una tazza di caffè solubile, frugò in un sacchetto leggermente unto ed estrasse un croissant al formaggio. Era buono. Dopo un po' lei accese la radio, una combinazione dal ritmo incalzante di anglospagnolo e di canzoni; riusciva a capire gran parte delle parole, ma non tutte. Tutto sommato, per quanto riuscisse ad assorbirlo, l'operazione era stancante; non notò quasi che Cyndee si era seduta davanti a lui e aveva iniziato a fissarlo. "Allora?" esclamò infine, incontrando il suo sguardo, di colpo irritato. Comprimendo a forza le briciole del croissant contro le finte venature del tavolo, aggiunse: "Se hai qualcosa da dire, perché semplicemente non la dici, lasciando stare tutti i tuoi sbattimenti di porte di merda?" Dalla sua tazza di caffè saliva un filo sottile di vapore, la radio diffondeva un suono di ottoni, su un ritmo hip-hop. "Non ho bisogno che tu venga fin qui, se devi ubriacarti." "Oh, dai." "È proprio quello che penso. Non ti vedo da non so quanto, non mi chiami né rispondi alle mie lettere..." "Tu non hai scritto nessuna lettera, tu non..." "...arrivi qui e la prima cosa che fai è ubriacarti. Austen, ho sessantadue
anni e..." "Vado," esclamò, spingendo indietro la sedia. "Vado a cercarmi un motel, o qualcosa di simile." Spreco di denaro. Cyndee che dice no; e che manovra infantile, si derise da solo, sii buona con me o me ne vado. Dio. "Bene, se hai intenzione di ubriacarti, è probabilmente la cosa migliore." Poi, un attimo dopo. "Hai un'aria tanto malata." Ecco il freddo mormorio del buon senso, ecco l'avvio giusto. Approfittane. Non era abile in queste cose, non molto; gli ci volle un istante per trovare la via. "Sì, sono malato. Intendo dire che ho ancora problemi a causa dell'incidente." Quindi, aggiunse velocemente: "Mamma, qualcuno nella nostra famiglia, qualcuno ha mai avuto disturbi neurologici?" La frase non la colpì. Tentò di nuovo. "Voglio dire, qualcuno ha mai avuto problemi al cervello? Papà, o qualcun altro?" "Intendi dire se era pazzo?" Offesa, come se le avessero detto un'oscenità. "Tuo padre? Tuo padre era l'uomo più intelligente che abbia mai conosciuto." Questo ti dice veramente molto. Papà, che aveva problemi a compilare un modulo per una visita medica, ma che sapeva elencare tutti i presidenti fino a Nixon. Inutile. "Non ha necessariamente a che vedere con questo," rispose, ma la stava già perdendo, lei si stava allontanando dal tavolo. Scuoteva il capo, vigorosamente. "Non intendo pazzia, intendo problemi al cervello, come mal di testa, come..." Troppo tardi. Ormai aveva attaccato a parlare di suo padre, non ci sarebbe stato modo di farla tornare indietro, della sua memoria sorprendente, del fatto che aveva sempre ragione. La radio trasmise una pubblicità di una catena di stazioni di autolavaggio, Più Pulito del Pulito! Tutto il resto era in spagnolo, il che, pensando a Cyndee, era alquanto bizzarro. Gli venne voglia di chiederle se quel genio di suo padre le avesse insegnato la lingua prima di levare improvvisamente le tende e di andarsene nell'aldilà. Ma no, risparmiala, risparmiala. Non ha senso parlare ora. Infine, stanco, si alzò dalla sedia, sommerso dalla gragnuola dei suoi lamenti. Che cosa sarebbe successo se si fosse rivolto a lei e le avesse semplicemente urlato: Allucinazioni, mamma, o peggio, è questo ciò che vedo, vedo il diavolo nella tua zuccheriera, vedo gli alieni nella tua carta da parati in bagno, papà non è pazzo, mamma, sono io il pazzo. Fin dall'inizio, io, io, io. Adesso, vuoi stare zitta? Per arrestare il flusso, per dare una svolta, sollevò una mano, come un
vigile urbano che dirige il traffico. "Non devi andare al lavoro o da qualche altra parte?" Dal lavandino lei si voltò nella sua direzione. Come appariva vecchia in quella luce, le rughe non tanto profonde, quanto infossate, l'intero volto come raggrinzito al centro. "Tu sei quello che dovrebbe andare al lavoro, dovevi diventare un artista e," o, cielo, non doveva darle quello spunto. Si era dimenticato dove stavano le varie mine, questo era il problema. Forse l'avrebbe calmata sapere che si portava effettivamente dietro l'occorrente, stipato sul sedile posteriore, esattamente come altri avevano sempre dietro una riserva di bottiglie di birra. Per quanto ne sapesse, lei non aveva mai visto nessuno dei suoi lavori; non gli aveva mai chiesto di vederli, e anche in tal caso non glieli avrebbe mostrati. Ora: fai un tentativo. Guardala. Fai ancora un ultimo tentativo. "Mamma. Aspetta un minuto, va bene? Aspetta. Prima, non intendevo dire pazzo. Non intendevo proprio nulla di simile." Lei lo osservava come se fosse uno sconosciuto venuto a farle domande, a chiederle cose che non c'era modo di raccontare. Increspò le labbra come un pesce preso all'amo. "Be', allora non capisco che cosa intendevi dire." "Intendevo problemi al cervello. Neurologia, capisci?" sapendo che non capiva. "Mal di testa. Allucinazioni. Emicranie. E cose simili." Non sei un bravo ragazzo, non sei veramente in gamba a indorare la pillola fra tante afflizioni? Questo era il tipo di argomento che faceva presa su di lei, su Cyndee, sulla sua memoria suscettibile alle tragedie, ai casi disperati, irrecuperabili, spaventosi. E invece no; era troppo tardi. L'aveva persa, parlando di papà. "Nessuno in famiglia," rispose, fredda, mentre sciacquava la tazza, "ha mai avuto problemi simili. E se tu li hai," ora aveva un tono minaccioso, "te li sei procurati da solo." "Sì?" Attento. "Hai mai sentito di incidenti?" "Con te è sempre la stessa cosa." Un urto violento, la tazza nello scolapiatti, di un colore azzurro nauseabondo, come lo stupido divano in soggiorno. "Tu hai sempre incidenti, li hai sempre avuti. Sempre. Anche da bambino." Rimase sorpreso. "Oh, palle." Fu scosso da un improvviso sussulto. Era vero? La sua memoria non gli dava informazioni in merito, nessun particolare episodio di autopunizione. "Adesso mi dirai che io stesso sono stato un incidente." "Beh, sei nato con l'aiuto di un veterinario, posso dirtelo tranquillamen-
te." Lo oltrepassò, sbatté il portello del frigorifero e si riempì completamente l'enorme bicchiere PRIMA DI TUTTO, LA FEDELTÀ. La cantilena incessante della radio sembrò aumentare di tono, il che gli fornì un buon motivo per irritarsi ulteriormente. "Perché ascolti questa merda?" esclamò, stizzito, a voce alta. "L'unica parola spagnola che conosci è burrito." Il suo sguardo, la pelle cascante sotto gli occhi più scura in quella luce; sul bicchiere la mano dalle unghie più lunghe che le avesse mai visto, lunghe, rosa e fìnte. Il suo sguardo di risposta era meno sicuro, e ancor meno lo era la sua posizione; era prevedibile, in realtà, da parte di un uomo che aveva visto le bizzarrie di cui la terra è capace, visto e avvertito a livello profondo le loro conseguenze. Si fissarono per tutta la durata di un annuncio pubblicitario di un fiorista drive-in, poi, come liberata dallo stacco musicale, lei uscì impettita dalla cucina. Austen sentì il rumore della porta del bagno e, quasi immediatamente dopo, il gorgoglio dello sciacquone. Che idiota era stato, fare tutta quella strada per sentire sua madre pisciare. Ma ancora una volta, non c'era altro posto dove andare. Non riusciva a trovare il BAR. Pioveva, una pioggerella costante, che era iniziata mentre lui e Cyndee dividevano, in silenzio, un pranzo a base di frittelle ripiene di formaggio cotte nel microonde e di succo di mirtillo. L'aveva irritata perché l'aveva bevuto con lei, perché le aveva esaurito le scorte. Così, durante quella piacevole visita, Cyndee era stata probabilmente costretta a uscire, per andare a comprarne dell'altro. Adesso il frigorifero ne era tanto pieno che c'era spazio a malapena per il cibo; e, freudianamente, anche per lui. Dopo pranzo uscì, girovagò in macchina senza meta per un po' finché, stimolato sempre più incessantemente dal potere diuretico del succo, si trovò a dover orinare con urgenza. Questo faceva a sua madre, cioè aumentare quel senso totalizzante di impellenza: orina o muori? Forse, quando sarebbe rientrato, avrebbero potuto bere, lui birra, lei succo, chiudere a chiave la porta del bagno e vedere chi esplodeva per primo. Come era riuscito a tornare a casa dal BAR, al buio, ubriaco, e ora, di giorno, seppur sotto la pioggia, non era capace di trovarlo? Era nei pressi del 7-Eleven, di fronte a questa lavanderia automatica, SUDSIE'S, le cui vetrine anteriori, interamente ricoperte da una fitta condensa e da fumo di sigaretta, sembravano enormi polmoni visti dall'esterno? Emily aveva sempre odiato le lavanderie automatiche; a lui erano indifferenti, così era
compito suo andarci. Di solito rimaneva seduto, dimentico di tutto, leggendo un libro, o una delle sue rare riviste o, in casi eccezionali, le riviste fornite dal negozio (lasciate, ne era certo, come esca da qualche perfido studioso, interessato a scoprire fino a che punto si poteva cadere in basso), in attesa che il bucato fosse pronto. Osservalo, mentre gira: era Zen. Non era altrettanto Zen ascoltare il gorgo invadente delle chiacchiere. Alcune persone dovevano parlare anche se nessuno le ascoltava. Austen cercava sempre di sedersi dove nessuno potesse venirgli vicino. Non aveva voglia di mangiare. Il riscaldamento dell'auto gli soffiava aria tiepida e umida in faccia, comunque orientasse i bocchettoni. Rabbrividiva sotto il cappotto; non doveva far caldo in Texas? A sud del confine. Stava gelando, con due camicie e una T-shirt, l'ultimo, sarcastico ricordo del negozio (ci aveva realmente lavorato? Come gli pareva stupido ora; non era tanto un ripiego, quanto un lurido sogno): SETTE VOLTE. Era il motto più oscuro del negozio, rimanenza di una vecchia ordinazione che era stata tale finché lui, perplesso, non l'aveva reclamata. Sette volte. Non trovò il BAR, ma un bar, che a quel punto andava bene lo stesso. All'interno, post-pipì, si sentì pronto a osservare. Lo trovò incredibilmente affollato, pieno di quelli che i suoi vicini avrebbero definito topi di negozio, ragazzi che lavoravano dieci ore al giorno, iniziando prima del sorgere del sole, in magliette intrise di sudore e di fumo di sigaretta, ragazzi che ordinavano caraffe di birra, che discutevano animatamente di sport. Austen trovò un posto a sedere al banco, un posto infelice, vicino allo sporco lavandino, pieno dei bicchieri vuoti raccolti via via dai tavoli. Ordinò una birra. Due tizi ad alcuni sedili di distanza stavano discutendo, l'aria cupa e il tono monotono del disaccordo destinato a perdurare; uno dei due non pareva nemmeno intenzionato a finire in modo conciliante o, forse, non voleva per nulla concludere la polemica. Vicino a loro, e ad Austen, c'era un uomo che, pur sembrando accompagnarsi ai due litiganti, non partecipava alla contesa. In effetti non prestava loro attenzione, limitandosi a dare il suo contributo per ogni caraffa ordinata. Bevevano velocemente. Osservandoli, anche Austen prese a bere velocemente. Sentì di nuovo il bisogno di orinare e, quando ritornò, i due erano sul punto di sedersi a un tavolo. "Dai, vieni," dissero con tono irritato al terzo, che continuava a ignorarli, finché, con una scrollata di spalle, se ne andarono. Austen bevve la sua birra; era sgasata, insipida già alla seconda sorsata. Tutte le TV del bar erano sintonizzate su diversi canali che trasmettevano
sport: football, ancora football, minuscole figure che si combattevano, vestite di rosso e di blu sgargianti. La TV più vicina a lui trasmetteva le stesse immagini spettacolari in replay all'infinito, un attacco da 100 metri che superava i difensori brulicanti, goffi come formiche. Diede un'occhiata di lato all'uomo seduto accanto a lui; occhi neri, serio, ricambiò lo sguardo. Imbarazzato, Austen fece un cenno allo schermo e affermò: "Piuttosto stupefacente!" "Se ti piace quella merda, sì." La sua voce era, come dire?, non aspra, ma tenebrosa, come se fosse abituato a parlare a voce alta, oppure a non parlare affatto. Aveva un accento del Texas, per quanto lieve; lo aveva probabilmente acquisito vivendoci, non c'era nato. "Personalmente, non me ne frega un cazzo." Nessuna sfida, nessun disprezzo, solo un dato di fatto. "Be'," fece Austen, sempre imbarazzato, spostandosi leggermente. "In realtà, neanche a me. Guardavo ogni tanto il baseball, ma ho mollato. Mi sembrava una perdita di tempo." "Giusto. Non c'è abbastanza tempo nella vita così com'è." Il barista passò in quel momento e Austen gli fece un cenno, indicando il bicchiere. "Uno anche per me," disse l'uomo che gli sedeva accanto. Austen sentì schiudersi in lui il piccolo fiore brillante dell'ubriacatura, e si chiese se stesse prendendo l'abitudine di bere durante il giorno. Forse, era solo il Texas. O sua madre. "Mia madre vive da queste partì." "Sì? La mia no." Arrivarono le birre; l'uomo sollevò il bicchiere e brindò con Austen. "Mi chiamo Russell," affermò. "Austen Bandy," rispose, ricambiando il brindisi. Il bicchiere era fresco, non freddo, tra le sue mani iniziava a formarsi la condensa. Era tanto facile bere. Antìdoto alla memoria, non smussava, bensì rimuoveva temporaneamente con dolcezza le spine nel fianco, i pensieri dolorosi. Vicino a lui Russell sedeva composto, abituato ad assumere quella posizione, i gomiti poggiati esattamente sul bordo del banco. Austen bevve un altro po' di birra, di tanto in tanto poggiava il suo bicchiere sul sottobicchiere tondo, impregnato di birra. Il fondo del bicchiere era sporco, difficile a dirsi se internamente o esternamente. Alle loro spalle mezzo bar esplose in un boato di fronte a un replay, risa sguaiate, opinioni espresse l'una dopo l'altra, come onde, come mattoni. Austen bevve ancora. Avrebbe avuto bisogno di ulteriore argento
sul fondo del bicchiere. Doveva spostare lo sgabello del bar leggermente all'indietro, solo leggermente. L'argento brillava nel bicchiere; mentre lo osservava, esso prese a sollevarsi, imitando il mercurio, strisciando lungo il vetro del bicchiere, diretto verso la sua mano. Con la massima cura possibile posò il bicchiere. Le mani gli tremavano già, era il riflesso della paura, della carne, del midollo. Smetti di guardare. Smetti di guardarlo. Russell stava parlando, stava dicendo qualcosa in merito alla partita di football. "...qualcosa? Tipi che non vedranno mai un milione di dollari nella loro vita che acclamano tipi che lo guadagnano in un giorno, o quasi. La gente è pronta ad applaudire qualsiasi cosa si muova, basta che lo faccia abbastanza velocemente." Poi bevve la sua birra; qualcosa stava nuotando, là, dentro il suo bicchiere? Ovviamente no. No. Figurati se c'è. L'argento aveva ormai raggiunto i margini del bicchiere e stava debordando, gorgogliando come la pozione dello scienziato pazzo. Nessun altro lo vedeva, bene; ma gli altri vedevano lui? Si ricordò della galleria, del vernissage: aveva visto la cosa argentea che cercava di uscire dal quadro, ma non aveva pensato alla gente che lo osservava in quel momento, era semplicemente fuggito via. Doveva farlo anche ora? Oppure, ingurgitare il sapore complesso della paura, i gusti differenti, ma comunque amari; doveva rimanere? L'argento stava avanzando lungo il bancone, a gobbe, schivo come un bruco dei cartoni animati. Aveva forse il senso dell'umorismo? Le allucinazioni potevano avere il senso dell'umorismo? Il divertimento del pazzo. Aveva la vescica piena al punto da fargli male; come un bambino che ha aspettato troppo a lungo, avrebbe potuto da un momento all'altro fare una pipì interminabile, lì, vicino al bancone. Smetti di guardarlo! Di lato, una voce lontana. "Ne vuoi un'altra?... Ehi?" la voce ora era diversa. Una mano sul suo braccio. "Stai bene?" Viscido e luccicante, era molto vicino, ora, si dimenava come uno spermatozoo frenetico. Corro via? Molto lentamente spostò il braccio tremante ma, come se ciò fosse parte di un gioco, esso rimbalzò, schizzò verso l'alto e atterrò, splash!, sul suo polso, iniziando una rapida e disinvolta scalata, lungo l'avambraccio, oltre il il gomito irrigidito meglio ancora, dentro l'orecchio ed egli lo colpì, lo colpì come fosse stato un insetto. L'argento schizzò di nuovo, tanti piccoli spruzzi brillanti dappertutto, un esercito di insetti, di insetti intelligenti, tutti striscianti, tutti in marcia verso di lui. Era troppo:
scostò lo sgabello e per poco non cadde; mentre camminava all'indietro, barcollando, una mano lo afferrò all'improvviso, era quella di Russell. "Vieni fuori." Gli occhi gli roteavano furiosamente, come quelli di un cavallo, ed egli vide lo strato argenteo tintinnante ricoprire l'intero sgabello e, simile a lava, scendere saltellando sul pavimento. Fuori, nella pioggia sempre più rada, respirò con fatica, con molta fatica, le mani sulle ginocchia, come se avesse corso per più di un chilometro sul fuoco. Sentì l'odore pungente del sudore sotto le ascelle. La schiena poggiata contro la facciata di mattoni del bar, desiderò rimanere a occhi chiusi per sempre. Non voleva rientrare, non voleva spiegare nulla a quell'uomo, inspiegabile salvatore. Che cosa significa per te? Russell pareva attendere, scegliere il momento giusto, come un uomo che debba attraversare un torrente dalle acque impetuose. "Sei epilettico?" chiese. Scosse il capo, no. "No." Si raddrizzò e, senza volere, diede un'occhiata alla soglia della porta del bar. Nessun inseguimento. Buon lavoro, fifone. "La ragione per cui te lo chiedo è che mio padre era epilettico. Vedeva cose. Molte cose. Di solito, me le raccontava. Mi diceva delle sfìngi, ad esempio, sai? In Egitto? Sono state costruite da epilettici, da sognatori, da uomini che vedevano." Un silenzio di delicatezza. "Sei sicuro di non essere epilettico? Non c'è nulla di cui vergognarsi, se lo sei." "No," rispose, questa volta sorridendo appena. Era stanco. "Ho degli attacchi, però," aggiunse con lo stesso tono calmo con cui avrebbe potuto dire Mi piace la birra o Ho una Ford. "Sei in cura? Hai saltato una dose o cose simili?" Si passò una mano sul viso e, lentamente, disse: "No." "Avevi un aspetto molto brutto là dentro." Austen sorrise di nuovo; era stanco. "Immagino proprio di sì. Ascolta, mi spiace. Grazie per avermi portato qui fuori. Non, non," com'era strano, gli diceva la sua mente, una voce fredda che parlava senza parole dal profondo della testa, com'era strano parlare a uno sconosciuto, a un uomo che non aveva mai visto prima, "non capitano di solito in posti pubblici." "Che cosa, i tuoi attacchi? Cazzo. Una volta il mio vecchio lanciò un bastone nel mezzo di un negozio di alimentari. Ha fatto cacare sotto le cassiere ma, quando si risvegliò, disse di aver visto il dito mignolo di Dio. Disse che aveva la forma di un parafulmine." Sorrise, allegro, come se avesse raccontato una storia importante. Poi, con tono vivace, aggiunse: "Sentì. Se vuoi bere ancora qualcosa, conosco un posto migliore."
Russell aveva un'auto color antiruggine, a quattro porte, di marca indefinita; la guidava come un Land-Rover, come un mezzo cingolato sulla luna. Non era facile stargli dietro, ma era divertente; era divertente divertirsi, non gli accadeva da un pezzo. Niente pioggia; il finestrino aperto quel tanto che bastava a far entrare una fredda nebbiolina: vino bianco e soda, bevanda degli dèi, sì, era così. Il mignolo di Dio, che lo solleticava sotto il mento. Che cosa ci trovi di tanto divertente, coglione? Rimbalzò contro il sedile; su quello posteriore, negli angoli, i libri produssero un rumore attutito ma solenne; per quella sera poteva ignorarli, per quella sera poteva ignorare molte cose. Svoltò bruscamente a una curva, non la mancò solo per poco. Quando si fermò, improvvisamente, Russell stava parcheggiando. Quindi uscì dalla macchina davanti alla vetrina di un locale che pareva chiuso. Illuminato dai fari di Austen, sembrava secco come un manico di scopa, la coda castano-ramata, le mani cacciate nelle tasche del giubbotto nero. "Eccolo," disse. "È lo Spaventapasseri, talvolta ci suonano gruppi piuttosto in gamba. Ascolti mai hardcore?" Le finestre erano annerite, la porta dipinta di un verde militare repellente, vernice spessa, incrostata in più punti da ulteriori strati, ancora più spessi; pareva fatta unicamente di vernice. All'interno non c'era nessuna band, ma un jukebox collegato con altoparlanti disposti in tutto il locale, e forse una ventina di persone, nessuna delle quali interessata ai nuovi arrivati. Si sedettero a un tavolo; Russell ordinò una caraffa. "La prossima sta a te," disse. "Certo. Grazie." Inclinò delicatamente il bicchiere, affinchè potesse versargli la birra; ne osservò le bollicine con attenzione, pur sentendosi ormai sicuro. Perché? Perché quella sera era già accaduto? Perché stava bene, in quel momento, per una volta? Il jukebox emise un suono metallico, di feedback. "Tuo padre è, tuo..." "Mio padre è morto. Di un attacco cardiaco, quasi otto anni fa." "Mi dispiace." "Anche a me." Russell bevve mezzo bicchiere di birra. "Sempre bicchieri di plastica." "Ascolta." Una sensazione di calore al collo, sulle guance magre e piatte, ma doveva chiederlo. "Come sapevi che era un attacco? Intendo dire, là, nell'altro bar? A causa di tuo padre?" Russell si strinse nelle spalle. "Avevi uno sguardo strano. Mio padre aveva il grande male e, qualche volta, andava fuori di sé. Te la fai sotto, se
ci arrivi troppo vicino. Tu avevi proprio quell'espressione, con tutto quell'altare le braccia, quel dar pacche e tutto." Agitare le braccia, dar pacche e tutto: la sua vita post-ospedaliera in sintesi. "Vivi qui?" chiese a Russell. "Sì, per ora." Una casa su due piani in affìtto, un lavoro insignificante, una ragazza che, la settimana prima, aveva raccattato la sua biancheria ed era partita per Fort Worth. "Vuole trovare lavoro là, capisci? Vuole ballare, o fare qualcosa di simile. Prima ballava in topless, ma di recente si è un po' inflaccidita, sai che cosa intendo?" Dal jukebox provenivano le note di Planet Distortion. La birra era gialla, giallo-piscio, la sua pelle grigio pallido. "Alcune di quelle ragazze fanno un sacco di maledetti soldi. Chiaro, non è il lavoro che tutte vogliono, capisci? A meno che non tu non sia come Deanie." Austen ordinò un'altra caraffa. Quando questa fu a metà, si ritrovò a parlare dell'ospedale, dell'uomo del Demerol e di tutti gli uomini del Demerol nei corridoi, dell'intera arena di tortura e di malattia che lui, preso felicemente, ma sbadatamente, dalla routine dell'essere sano, non aveva mai considerato: la città dei dannati vivi, proprio sotto il suo naso. "Non l'avrei mai detto," disse, meravigliandosi ancora, in quel bar, a quel tavolo con quello sconosciuto cordiale, era quello il modo in cui il diavolo fa amicizia? "La gente è così piena di casini. Capisci?" Russell annuì più lentamente, ora, pareva ubriaco. La sua voce si fece, non più impastata, ma più acuta; non tanto per affettazione quanto per il semplice sforzo di parlare chiaramente. Forse, era anche più ubriaco di quello che sembrava. "La gente è piena di casini, è vero. Ma non di quelli giusti. Non come te. Così è questa cosa che dici di vedere continuamente?" Dio. "Vedo doppio," si corresse, elusivo. Cercò di alzarsi in piedi; anch'egli era più ubriaco di quello che sembrava, ubriaco al punto da parlarne, forse quello era proprio il diavolo in cerca d'amicizie. "Devo pisciare." Nella toilette degli uomini, dopo aver barcollato per alcuni ansiogeni istanti davanti all'orinatoio, cercando di farsi venire lo stimolo, si chiese, troppo ubriaco per avere proprio un attacco di panico, che cosa avesse detto esattamente a Russell. Al lavandino si spruzzò un po' d'acqua sul viso, si asciugò con una salvietta di carta marrone cupo e si ricordò dei suoi sguardi da adolescente sbronzo, cercando di stabilire se fosse effettivamente pieno come sembrava e se il suo sguardo sarebbe stato smascherato da Cyndee. Il suo volto era simile a quello di un teen-ager, guance scarne e occhi obliqui, un mezzo sorriso, un subdolo istinto di far baldoria qualche attimo
prima di cadere inevitabilmente in un doloroso stato di incoscienza. Forse era ora di andare a casa. Russell era seduto al tavolo. "Hanno appena annunciato l'ultimo giro prima della chiusura," affermò, prima che Austen si accasciasse sulla sedia, il che era il massimo che si riteneva in grado di fare. "Andiamo." In strada, l'aria era pesante, umida, forse non avrebbe mai smesso di piovere. "Non riesco a guidare," disse a Russell; in effetti, non trovava nemmeno le chiavi, né distingueva il metallo della maniglia dalle sue cosce intorpidite. Pure le dita delle sue mani erano intorpidite. "Non riesco a guidare," ripeté. "Be', neanche io, ma non abito molto lontano di qui. Vuoi dormire da me e recuperare la macchina domani?" La tenebra rosicchiava l'estremità del suo campo visivo. Non era stato tanto ubriaco da quella festa terribile. "Sì," rispose, a occhi chiusi, mentre tutto internamente continuava a girare. Da quando aveva orinato, era iniziata la fine. La capacità di guida di Russell non sembrava compromessa dall'alcool, anche se quella sensazione poteva essere semplicemente il frutto della sua percezione alterata; fu comunque un percorso breve, un percorso molto breve, a meno che, durante il medesimo, non avesse perso conoscenza una o due volte. Russell ebbe qualche problema a infilare la chiave nella toppa. Dentro, la casa a due piani era molto calda; Austen sentì il sudore scendergli sulla nuca. Poco oltre la soglia inciampò in qualcosa di soffice, di materiale plastico. "Deanie ha lasciato le sue merde dappertutto," borbottò Russell, dirigendosi presumibilmente verso il letto. "Il divano è là." Sotto un cappotto, alcuni giornali, la sagoma oblunga di tweed logoro. Austen vide la cosa in cui era inciampato, una borsa da viaggio di colore viola stomachevole che emanava un odore di cosmetici o di profumo. PRETTY LADY diceva la scritta sulla parte anteriore, a lettere maiuscole allungate e oblique come un fulmine, come un riverbero di fari sull'acqua. Con un piede, attentamente, gli parve importante farlo attentamente, la spinse sotto il divano. Quest'ultimo puzzava di cane. C'era un cane in casa? Sperò che il divano non fosse la sua cuccia. Su un ginocchio, risistemò i cuscini e per poco non cadde, il braccio molle, le dita intorpidite. La cucina si trovava di fronte a lui, e più in là, oltre il cortile, c'era la casa vicina, a distanza tale che egli riusciva a vedere, attraverso le finestre della cucina, le luci della veranda, chiazze giallo umide nella pioggia. Mentre le osservava, si addormentò, un
braccio piegato sotto la testa, il giubbotto abbandonato di Deanie a mo' di coperta, una tenda, una protezione in denim contro l'oscurità, nella casa di uno sconosciuto. Aveva probabilmente dormito due ore, forse tre; era ancora buio e la testa gli doleva atrocemente; aveva sete e bisogno di orinare. Il bagno non poteva essere lontano; in quel momento, in piedi, gemendo, si pentì di non aver prestato attenzione al luogo in cui Russell era scomparso troppo presto. I bagni erano in genere alla fine dei corridoi. Tastando con una mano, che gli serviva da guida, trovò una porta aperta che dava in una stanza apparentemente piccola; cautamente, cercò un interruttore. Sulla parete, qualcosa di lievemente appiccicoso e, in certo qual modo, fresco. Là, vicino al pavimento, un bagliore lo stava sbirciando, una minuscola lampada da notte, una di quelle che si inseriscono nelle prese. Bene. Orinò e orinò, un fiume di birra consumata, che recava a malapena i segni dell'usura, orinò ancora un po' e tirò lo sciacquone. Bevve dal rubinetto, un'area fredda, intorpidita sulle sue labbra. Si lavò il viso con un po' d'acqua; si sentiva sporco dappertutto, sudicio e disidratato. Il mattino dopo sarebbe stato meglio. Il suo volto allo specchio, gli occhi pesti; persino nella debole luce riusciva a vederlo. Guardò un viso non più vecchio, ma molto, molto logoro. Guardò e vide un gocciolio, qualcosa, un liquido, uscirgli dall'orecchio destro. Oh, Dio. Una sensazione di bagnato nel naso. Accese la luce. Era troppo intensa, ma doveva vedere. Oltre le macchie di dentifricio e gli adesivi strappati via per metà, FEMMINA SEXY, in lettere rosse, iridescenti, volgari, osservò il fluido che gli fuoriusciva lentamente dall'orecchio. Scendeva lungo il collo. Un'unica, lunga goccia da ogni narice, arginata nel suo percorso dal labbro superiore. Il liquor è chiaro, a meno che non sia misto a sangue. Quello non lo era; all'inizio, era di colore grigio opaco, poi, in un attimo, come per magia, come per incantesimo, diventò d'argento. All'istante. Sembrava quasi che il suo volto si stesse trasformando; non diventava proprio trasparente, ma era come se riuscisse a guardare dentro la sua testa riflessa nello specchio, piegata per un attento esame. Lo sguardo fisso del terrore, austero, capace di sottigliezze stupefacenti Sono qui in piedi, a guardarlo, lo sto vedendo e si tolse la sommità del cranio
dove sta il cervello e, dentro, la più delicata contorsione, ogni lobo sottile come filigrana, venato e avvolto dalla morte argentea con tutte le sue maschere e le sue manifestazioni, in tutte le sue forme immutabili: la pulsazione elegante di un aneurisma, una nidiata stravagante di tumori, nascosti come perle nelle ostriche, grumi, simili a caviale modellato, dei quali ogni molecola bruciava, illuminando di luce argentea i frammenti ossei irregolari e il sangue, sede vorticosa di una dubbia festa; e, annidati come uova nel dovizioso centro, gli occhi. Acuti, allungati, c'erano e non c'erano. La sua mano intorpidita si sollevò, non vista, per bloccare il liquido, argento sulle sue dita, liquido argenteo, come i torrenti che scorrevano all'interno del suo cranio. I lati dell'aneurisma riflesso nello specchio iniziarono, molto lievemente, ad aumentare di volume, a ritmo, a un ritmo dolce come quello di un valzer, poi gradatamente più veloce, tanto da fondersi con quello che gli pareva essere il battito cardiaco, il tutto mentre egli stava in piedi a guardare. Un dolce tremito dei frammenti ossei, che parevano galleggiare, simili a una gragnuola di piccole frecce, di dardi minuscoli tanto acuminati da risultare pressoché indolori, iniezioni praticate da un'infermiera esperta, come avveniva in ospedale, quando era iniziata la lunga danza. I tumori, fino ad allora oziosi, divennero più pronunciati, i grumi gelatinosi, più sensibili alla tensione superficiale. Gli occhi interiori parevano diventare più scuri, dal cromo al peltro, parevano chiedere: Non è divertente? Non ti pare? Ora lo vedi interamente, non lo devi più immaginare. Era comparso un altro volto accanto al suo: Russell. Guardava fisso, con i grandi occhi quasi comici, i capelli untuosi e la barba ispida. Le labbra si mossero quando parlò. Un movimento silenzioso. L'intera immagine viva, là nello specchio, i suoi occhi roteanti, terrorizzati, mentre quelli interiori scomparivano. Nessuna radiografia dell'argento, ora, nessuna mappa dell'angoscia in gestazione, ma solo il suo volto, la bocca leggermente aperta, le mani che si sollevavano verso i lati del capo, per seguire, lungo le tempie, il percorso del liquido, indiscutibilmente reale, che non era chiaro, né mescolato a sangue. Dentro di lui una sensazione di dolore ritardato, come se l'amnistia concessa per il momento dell'osservazione venisse ora atrocemente revocata, e la danza gelatinosa a cui aveva assistito dovesse ricominciare, più vivace e reale. Una certezza, netta e dolorosa, di sofferenze inimmaginate, ancora
da venire. Si chiese in che modo l'avrebbe ucciso, quando la banda funeraria avrebbe iniziato a suonare. Voleva piangere, piangere disperatamente. Russell, alle sue spalle, non svanì. Russell era reale. "L'hai..." Ci volle un secondo, tutta la saliva che aveva in bocca era scomparsa. Era come parlare direttamente con la carne disidratata. "L'hai vista?" Russell si passò le mani sulla bocca, come se avesse un sapore sgradevole sulla lingua. "No," rispose. "Ma ho visto che l'hai vista." Silenzio. "Vedi sempre cose?" "Non sempre," com'era facile, ora, dire la verità. "Ma spesso." "Come..." Indicò lo specchio. "Come quella che hai appena visto?" "Non è sempre così brutto. Ma è sempre la stessa cosa." Avrebbe certamente urlato, se non avesse smesso di parlare; fece un gesto con la mano a Russell e si sedette sul water, una mano sugli occhi. Questi uscì dal bagno. Lacrime, piccole e tiepide, in certo qual modo confortanti, gli scesero lungo le guance; erano reali, erano umane. Lacrime umane. Qualcosa di freddo sulla spalla, sobbalzò e cadde quasi dal suo sedile: era Russell, che gli offriva una birra. Ne aveva una anche per sé. Indicando lo specchio con la bottiglia, domandò pacatamente: "Non ne parli spesso, vero?" Piangeva. Non voleva farlo. "No." La birra in mano, la condensa sulle sue dita, appiccicose come cera sul vetro. "Non l'ho mai detto a nessuno. Ho cercato, una volta, ma il dottore, io..." La mano libera sugli occhi, si asciugò il volto, una volta, più volte. "Ho pensato che sto diventando matto, ho pensato che chi vede cose simili deve essere pazzo." Russell beveva, sorsate lunghe, meditabonde, una, due, tre. "Non hai mai pensato," chiese, poggiandosi al lavandino — odorava di sigarette e di sudore vecchio — "di parlare ad altri dottori?" Austen sorrise, una lieve contorsione. "Sono stato da tanti fottuti dottori, neurologi, che non sono nemmeno più in grado di pagarli. E tutti dicono la stessa cosa, che non c'è nulla che non va in me. Nulla." Un'aria incredula. "Mi credi?" "Certo. Posso credere a qualsiasi cosa. Di solito non lo faccio, però." La birra era finita; Russell posò la bottiglia vuota sul lavandino. "Torno a letto," disse. "Se hai bisogno di aiuto, grida." Austen si asciugò il viso con l'asciugamano logoro. Portò la birra con sé, presso il divano. Non vedeva più le luci della veranda dei vicini.
Fuori era chiaro, albeggiava. Bevve la birra come se fosse l'ultima acqua sulla terra e si distese, sotto il giubbotto di denim. Odorava di lavanda da pochi soldi, delle braccia di una donna della quale non ci si cura di sapere il nome, ma sul cui petto si riposa a lungo, soddisfatti, come se fosse la madre della Notte, dalle cui mani attingere le pozioni beneficile che recano conforto e la tenerezza indescrivibile del sonno. Non dormì a lungo. Si svegliò con un mal di testa diffuso, come se avesse fasce di dolore avvolte sul suo capo. Ma in ciò non c'era nulla di sinistro, no, era solo la birra alla spina. Una doccia sarebbe stata di grande aiuto. Sul portasciugamani c'erano due asciugamani, uno umido e uno asciutto; il sapone si era ridotto a un grumo. Era quasi spaventato all'idea di toccare lo specchio, di rimuovere il vapore formatesi a causa della doccia, ma lo fece, e non accadde nulla. Nell'armadietto dei medicinali c'era una varietà sorprendente di boccette, colluttori, Midol, supposte strane, solvente per unghie; non se la sentì di esplorarlo in cerca di aspirine. Nemmeno per idea. La testa avrebbe smesso di fargli male da sola. Sentì Russell in cucina, sentì le scariche statiche di una radio scadente a volume troppo alto. "Ehi." Era vicino ai fornelli, intento a preparare qualcosa da mangiare. Jeans e piedi nudi, i capelli ancora bagnati e tirati indietro, come un detenuto. Salsa sulla tavola. "Ne vuoi un po'?" In un piatto dai bordi sbreccati c'erano uova e tortilla schiacciata, cosparse abbondantemente di salsa. In sottofondo, lo stridio della radio. "Ti porto io alla tua macchina," disse, agitando la forchetta, "dopo. Va bene?" "Va bene." Quell'uomo, adesso stranamente timido, lo aveva visto al suo peggio, singhiozzare in bagno, piangere per il suo cervello impazzito e per il fatto che il medico non lo avesse capito. Il gorgoglio di un succo di colore biondo nel suo bicchiere di plastica; non propriamente di mela. Lo bevve lentamente. La testa stava migliorando leggermente. "Sai," osservò il suo ospite, con la bocca piena di cibo, "a te questo sembrerà piuttosto strano, giusto? Tu non sai un accidente di me." Russell protese il braccio, un lungo braccio su cui spiccavano appena i fasci muscolari, verso le due mensole di fìnta quercia, a lato della tavola, prese una foto contornata da una sottile cornice di colore marrone e gliela porse. "Questo è Horace," affermò. "Mio padre." In piedi, a torso nudo come il figlio, vicino a un 4x4 sporco, Horace sembrava piccolo di statura, paffuto e irritabile, come un piccolo ghiottone
capace di mangiarsi un orso. Austen glielo disse e Russell rise, palesemente divertito dal paragone. "Sì, hai ragione." Il resto della colazione fu tutto un raccontare di Horace, delle sue risse, dei suoi scherzi; era chiaro che Russell lo adorava, così come era evidente il fatto che riservasse il suo veleno più potente per coloro che, a causa dell'epilessia, avevano trattato Horace come un mostro, quelli che lo imitavano, fingendo di sbavare e di sputare, o roteando gli occhi al suo passaggio. "Si trattava solo dei vicini, sai, e della gente sul lavoro, ma riuscivano veramente a farlo sentire una merda. Un pazzo. Ripeteva sempre che non gli importava, di non preoccuparci per questo. Lo disse anche in punto di morte." Pulì il piatto. La sua forchetta si accanì come un coltello contro i segni delle crepe. "Il cervello è un organo, ragazzo, come tutti gli altri, come il cuore, i polmoni. Qualcosa può non funzionare... ovviamente, questo lo sai già, vero?" Austen sorrise, ricordando l'argento che gli gocciava dal naso. "Grazie ancora," esclamò Austen. Fece una pausa, tenendo la portiera del guidatore aperta. "Per avermi ospitato, per tutto." "Starai molto da tua madre?" Austen scosse il capo. "Non tanto. Ci diamo sui nervi l'un l'altro." Russell annuì. Aveva un paio di occhiali scuri da aviatore, sembrava un poliziotto delle squadre antiterrorismo. "Perché non mi chiami prima di tornare a casa?" "Lo farò." Si strinsero la mano; poi, quando Russell si avviò, rombando, Austen chiuse la portiera. Per un istante si appoggiò allo schienale del sedile, gli occhi chiusi; il mal di testa era quasi scomparso e, dentro: la calma assoluta del sollievo, come se un nervo tormentato da un dolore cronico fosse stato placato, come se un tumore enorme fosse stato rimosso senza dolore. Russell aveva parlato di suo padre e Austen aveva parlato di sé, di tutto, dell'intera storia, non aveva omesso nulla. E Russell non era parso per nulla disgustato, spaventato e nemmeno sorpreso; così è, sembravano dire i suoi cenni decisi. Così è, nel tuo cervello. Era strano raccontare tali segreti a uno sconosciuto? O lo era il fatto che nessuno oltre a lui sembrava volerli ascoltare, affrontarli schiettamente, così com'erano, dire, in sostanza: Sì. Niente di più: semplicemente: Sì. Aveva immaginato di raccontare la sua storia, di sciogliere i suoi piccoli nodi interiori infinite volte, a un numero infinito di interlocutori sensibili e ricettivi, ma non aveva mai considerato la semplicità con cui ciò era effet-
tivamente accaduto, in una cucina, dopo una notte passata a bere e un attacco che gli aveva procurato una visione talmente intensa da suscitargli un terrore profondo, quasi intollerabile per il suo cervello stanco. Non aveva mai considerato di raccontare la sua storia a questo sconosciuto che era già diventato quasi un amico. Guidò senza problemi, stava reggendo piuttosto bene la situazione. Al suo arrivò, trovò Cyndee irritata. Avresti dovuto avvisarmi e cose del genere. Sentì meno della metà dei suoi discorsi; la sua casa gli sembrò ancor più antiquata di prima, forse confrontandola con quella da scapolo, seppur squallida, di Russell. Pensa, i piedi sollevati sul tavolo, la stanchezza del giusto: questo viaggio non si è rivelato per nulla una perdita di tempo, quello che non hai avuto da Cyndee lo hai certamente ricevuto da Russell, un'opportunità di parlare, un orecchio pronto ad ascoltare e a capire. Non era una spiegazione, ma forse questa sarebbe venuta con la possibilità di parlarne un po', un po' di più. "Presto me ne andrò," disse a Cyndee. Lei alzò lo sguardo dal giornale. Le notizie non parevano buone. "Per andare dove?" "A casa, dove se no?" Anche se non era vero. Aveva la sensazione di dover andare da qualche altra parte, ma non era del tutto certo del luogo. Lo avrebbe intuito, comunque, proprio come aveva intuito di dover venire lì. Cyndee riprese a leggere il giornale, per nulla colpita dalla sua risposta. Austen andò in cucina e chiamò Russell. "Così, porta il nome della città o di che cosa?" Russell, con indosso una camicia pulita di colore blu, beveva succo di mirtillo in soggiorno. Dall'altra parte della stanza, nella sua posa perennemente scomposta, la posa che solo Cyndee pareva capace di evocare, sedeva Austen, per metà infastidito, per metà divertito dalla capacità di Russell di affascinare la sua ben poco affascinante madre. "No, oh no." Cyndee rise rumorosamente, le maniche della camicetta si mossero come ali d'uccello. "Gli ho dato quel nome da quel libro famoso, lo conosce, Jane Austen? In realtà, volevo chiamarlo Bront, ma quello non era un vero nome, non le pare?" Austen scosse il capo, una lieve, lievissima oscillazione, per nulla sorpreso. Ovviamente non sarebbe stata in grado di pronunciare Brontë, era quasi un miracolo se riusciva a farsi strada fra i libri, edizioni ridotte, nella
maggior parte dei casi. Dalla radio in cucina, a volume abbastanza alto, provenne l'ennesima squillante cantilena anglospagnola. Cyndee andò avanti a parlare, senza sosta, era sempre stata una lettrice avida, leggere è il miglior modo per farti una cultura. "È così," commentò Russell. "Mio padre lo diceva sempre." Il padre di Austen era un grande lettore, sì, avanti, senza sosta, mentre Austen si chiedeva da dove provenisse tutta la sua erudiziene. L'uomo che ricordava non leggeva se non riviste di caccia e, probabilmente, Playboy, anche se questo era un vizio che non divideva con il figlio. Austen doveva comprarsi le sue copie e, comunque, aveva una preferenza per Penthouse. Russell non pareva badare alle sue chiacchiere. Austen cercò di ignorarle finché non finirono, bruscamente, quando Russell si alzò in piedi e le tese la mano. "Grazie ancora, signora Bandy," esclamò stringendole la mano, rapidamente ed energicamente. "Mi ha fatto veramente piacere incontrarla." Cyndee sorrise, era ridicolo, si stava comportando come una madre frustrata. Forse il suo era un desiderio antico, da sempre represso; forse aveva sempre desiderato segretamente conoscere i suoi amici. Giusto. Le sorrise gentilmente, come se si trattasse della madre di uno sconosciuto, e si precipitò fuori dalla porta, nell'aria pregna del gas di scarico dell'auto di Russell. "Pensavo, se te ne vai presto," disse questi, facendo rapidamente retromarcia, dopo aver dato appena un'occhiata nello specchietto retrovisore, "che dovresti pensare a divertirti un po', prima della lunga guidata che ti aspetta. Giusto?" Austen annuì; naturalmente, naturalmente. Sul finestrino, rivolto internamente, c'era un adesivo con la scritta MIA MAMMA È IN PARADISO E MI GUARDA FARE IL DIAVOLO A QUATTRO. Lo indicò a Russell e gli chiese: "È vero?" "Noo, c'era già quando ho comperato l'auto. Mia mamma sta a Pensacola." Tornarono allo Spaventapasseri, dove un gruppo con due amplificatori grandi come Chevrolet cantava l'angoscia che comporta il vivere all'estremo. Russell non ne rimase colpito, ma ad Austen piacquero: erano giovani, spontanei e talmente inconsapevoli dei limiti estremi, quelli veri, lungo i quali camminiamo con passo malfermo, ogni giorno, senza immaginarne l'importanza, la vicinanza né lo scopo. Quanto facilmente il mondo scivola via, quanto penosa è la caduta, quanto atroci l'atterraggio e, infine, l'impat-
to. Austen andava cauto con la birra, mentre Russell beveva smodatamente e, quanto più beveva, tanto più alzava il tono di voce, parlando di Horace e dei torti che aveva subito; di Austen e del significato della sua malattia. O stato. O dono. "La puoi chiamare," affermò Russell, "come vuoi. Maledizione, chiamavano il mio vecchio malato, pazzo, ma quello che non hanno mai saputo è che era un dannato veggente, un veggente, ragazzo. Sai che cosa significa?" Austen annuì. Era ipnotico osservare Russell pensare, ragionare avvolto nella nebbia, nella cappa, nel manto dell'alcool, nei suoi fumi liberatori che davano sfogo alle emozioni e alla bile; era il suo pilastro personale di nebbia. Gli occhi di Russell si erano ora fatti molto piccoli, socchiusi, come se si trovasse in mezzo al fumo del fuoco nemico. Sul palco grande quanto un fazzoletto il gruppo cantava di bellissime bionde morte. "Significa essere profeta. E visionario. Sai che cos'è la vista, vero? Vedere? È quello che puoi fare, come hai fatto a casa mia, giusto?" Ancora una volta, rapido, con la cadenza di un metronomo, Austen annuì, più per incoraggiamento che in segno di assenso: Vai avanti. Aveva la sensazione di essere molto vicino, oh, tanto vicino al punto in cui avrebbe potuto cominciare, non a conoscere, ma a pensare di conoscere. Era come se sbirciasse attraverso i cancelli, non del paradiso, ma del suo più piccolo satellite, se vedesse, non il sancta sanctorum, ma la porta della sua sala esterna. Vai avanti. "I romani credevano che l'epilessia fosse un segno divino, sai? Era come se Dio ti rimescolasse il cervello. Giulio Cesare," e scoppiò a ridere, sembrava un piccolo corvo, "capisci: Giulio Cesare, aveva l'epilessia. Che è simile a quello che hai tu. Le pillole non ti aiutano molto, vero?" "No," ribatté prontamente, come se inserisse il comando giusto. Vai avanti. Si piegò in avanti, sui gomiti, Apri la porta. "Non la pensano così. Voglio dire, la maggior parte della gente pensa: Ehi, che c'è di male a prendere un paio di pillole al giorno per rimanere in buona salute, non è molto rispetto a quello che devono sopportare tanti altri. Ma, come sempre, non sanno una merda, non sanno che quelle pillole non significano un gran che perché... non voglio farmi gli affari tuoi, ragazzo, sai?" Vai avanti. "Certo, lo so." "Beh, credo sia perché anche tu sei un veggente."
Silenzio. Il fracasso del gruppo musicale riprese all'improvviso; il basso sembrava un treno. Austen fissò Russell, lo fissò al di là del tavolo, nella corrente d'aria che entrava da una porta aperta. Veggente. Per Russell era più di un fatto meramente fisico, era metafìsico, la via e la chiave nel contempo: egli credeva con la stessa sicurezza estatica che anche l'epilessia del padre fosse stata tale. Come per gli uomini che costruirono le piramidi, come per gli uomini che fissarono nell'argilla l'espressione perennemente meditabonda della Sfinge; come ne L'idiota di Dostoevskij, il fuoco ardeva per brevi istanti, la fiamma e la passione fraintese dalla stupidità del mondo esterno per idiozia, per insania. Invece, nel profondo, c'era la luce. Una luce che ardeva, in continuazione, che liberava una furia tale da ricordare quella di un uragano, l'uragano della verità, che gli mostrava: che cosa? Come vedere. Gli venne in mente il ricordo, vivido come un sapore, sia della sua prima visione dell'argento, quand'era in ospedale, in stato comatoso, sia dell'ultima, terrificante apparizione, i grumi trasparenti come filigrana nello specchio e l'occhiata fluida degli occhi. Gli venne in mente che, al di là della paura, al di là della morsa vertiginosa della follia o delle sue gelide potenzialità, al di là di tutto, era splendido, in ognuna delle sue manifestazioni, in ognuno dei suoi poteri, era splendido. Aveva permesso al terrore di chiudergli gli occhi? Di annebbiargli la vista? Di oscurare ciò che avrebbe dovuto essere, ciò che dovrebbe essere il suo obiettivo supremo come artista: la capacità di vedere? Russell lo stava fissando, la bocca leggermente aperta. Il gruppo passò direttamente a un'altra canzone, con il ritornello simile a un rag molto incalzante. Austen avvertì un incredibile formicolio al capo, per nulla fisico; era come se i lobi e i segmenti del suo cervello venissero allungati, divisi e tastati da dita maligne e pure, nel contempo, da mani non viste eppure presenti, come lo era il sangue che portava nutrimento, come l'elettricità che fluiva lenta e costante nella rosea e molle tenebra cerebrale. Era in preda alla massima agitazione. "Puoi vedere Dio," disse Russell, "non è vero?" La voce pareva giungere fino a lui da un tunnel. Era entrato nella stanza, ora, in quella stanza esterna; non era ancora una liberazione, era ancora così buio che dovette spezzare il suo cuore in due per entrare. Ma adesso sapeva dove andare. "No," rispose. Era in piedi. Non ricordava di essersi alzato dalla sedia. Russell, sempre seduto, teneva il suo bicchiere di birra leggermente di lato,
come se dovesse ricevere senza preavviso un nettare, o un veleno, il succo inesorabile della carne necrotizzata. "No," ripeté Austen. Alle orecchie la sua voce giunse secca, ma non la ascoltò quasi. Stava vedendo. Era un'unica visione, le affermazioni di Russell e la sua vecchia e quasi scartata idea di dipingere la cosa argentea erano tutt'uno: qui sono il luogo e il tramite; dallo slancio purpureo al perché nascosto. Questa è la cosa che esiste per essere vista; questa è la tua funzione. Se vuoi. Il gruppo continuava a suonare all'infinito, come se non potesse stare in nessun altro posto del mondo, come se non valesse la pena produrre altri suoni sulla terra, come se non valesse la pena vedere altro che Russell, seduto, lo sguardo fisso, e Austen, in piedi, muto, totalmente rapito dall'invenzione che stava davanti ai suoi occhi grandi e familiari. 6 Sua madre gli avrebbe prestato solo metà della somma che le aveva chiesto, ma sembrava, a modo suo, dispiaciuta di vederlo andar via. Insisté per dargli una borsa piena di provviste, crackers, barrette dolci ricoperte di cioccolato, due lattine giganti di succo di frutta, un pesante blocco di formaggio leggermente rinsecchito e un coltello da frutta. "Questo verrà buono," disse, tastandolo. Aveva la lama eccezionalmente consumata. "Quando parti?" "Domani mattina." Quella sera guardò la TV con lei, i suoi spettacoli preferiti; a lui parvero stupidi, ma lei conosceva i nomi di tutti i personaggi, tifava per loro, rideva per le loro buffonate, per le loro complicazioni assurde. "Quello è il suo ex marito," confidò ad Austen, "era un poliziotto. No, quella là, con il seno grosso. È lei." Austen annuì gravemente, come se si trattasse di persone reali; per Cyndee lo erano, forse erano addirittura iperreali, dato che abitavano su quel palcoscenico benedetto, molto più ricco e prezioso della vita stessa. Nella vita reale qualsiasi cosa può andare male, la gente non parla per battute o aforismi, la morte avviene raramente per buoni motivi, i figli vanno e vengono come infezioni alla vescica. In quella sorta di ipervita lei pareva divertirsi. Per Austen era noioso ma, in fondo, sicuro, anche se credette di vedere una piccola infiltrazione argentea - il che era molto strano — durante uno spot di un prodotto per l'igiene personale, un'infiltrazione subdola, certamente non voluta dallo sponsor.
Non appena iniziò il telegiornale, il telefono squillò, Cyndee gli fece cenno, agitando il ricevitore. Pensò fosse Russell, in realtà era Peter. "Come stai?" chiese questi. Attraverso il mostruoso telefono di cucina la sua voce sembrava roca. "Bene. Non ti sento in forma, comunque." "Ho il raffreddore. Ascolta, pensavo di utilizzare un paio dei tuoi pezzi per una mostra che sto preparando." "Sì? Quali?" "La serie delle Sfingi. L'intera mostra ha un tema vagamente egizio e ho pensato che i tuoi lavori potessero andar bene." Silenzio. Solo il ronzio della linea. "Sei d'accordo?" "Certo," rispose, incapace, in certo qual modo, di visualizzare una mostra in cui la Criosfinge e le sue sorelle potessero trovare una collocazione armonica; comunque era Peter quello che aveva l'occhio per gli affari. "Fammi sapere come va," il che sarebbe stato, pensò, alquanto difficile, ma non aveva scopo dirglielo in quel momento. "Come vanno le cose? Come sta tua madre?" "Bene," replicò, ricordandosi appena in tempo la battuta finale più opportuna, "è tutto a posto." Sì, corri al capezzale della madre, emergenza rientrata; Cyndee l'avrebbe disprezzato, se se ne fosse accorta. "Davvero, siamo seduti qui, a guardare... ehi," esclamò a voce alta, a una Cyndee dimentica di tutto, di nuovo di fronte alla TV, "che cosa stiamo guardando? Mamma? Non so," disse, di nuovo al telefono. "Un qualche spettacolo. Lei li guarda tutti." Parlarono per qualche minuto ancora. Peter gli riferì della sua casa (a mo' di portiere? Era solitaria come una landa desolata o semplicemente polverosa? Polverosa, sì), riferì qualche pettegolezzo e qualche notizia. Austen tentò di ridacchiare, tentò di comportarsi come se si ricordasse perché tutto ciò era divertente. Era grato a Peter perché gli teneva i quadri e glielo disse, glielo ripeté due volte. "Ti sono debitore." "Pensa solo a lavorare," rispose Peter. "Lo farai? Puoi farlo, laggiù?" "Posso provarci." "Quando torni?" "Non so." Guardò fuori, al di là delle tendine di plastica di cucina, pioveva ancora, pioveva da un'eternità in quel luogo. Forse dopo la sua partenza il sole avrebbe iniziato a splendere. "Presto, credo." Abbi cura di te, si dissero reciprocamente, intendendo cose completamente diverse e, ciononostante, animati dallo stesso, semplice desiderio:
fai quello che devi, non correre rischi. A presto. Quando riattaccò, Cyndee era mezza addormentata, una mano sul telecomando. Invece di seguirne l'esempio, scese di sotto e andò nell'asciugatoio a prendere i suoi vestiti freschi di bucato, per preparare la valigia. Il mattino seguente faceva freddo, il cielo era grigio, ma non pioveva. Per mezzogiorno aveva già caricato l'auto, la borsa con le cibarie e tutto il resto; i suoi colori erano ora alloggiati in un sacchetto di carta resistente, dotato di manici ancora più resistenti, con scritto MASTRONIO'S in lettere maiuscole a bastone. Sulla veranda, le mani in tasca, Cyndee, curva, guardava all'insù, verso il cielo, come una madre di frontiera che mandava il figlio all'ovest. Ma Austen non andava all'ovest. "Guida con prudenza," fece Cyndee. "Va bene." "Potresti tornare a trovarmi." Mentì. "Ma certo!" Improvvisamente lei sorrise: sapeva che stava mentendo. Era umiliante e comico nel contempo; agitò la mano in segno di saluto, contraccambiando il sorriso, vergognandosi, dal finestrino aperto dell'auto. "Ci vediamo," gridò Cyndee, e chiuse prima la porta-zanzariera, poi la porta interna, lasciandolo solo con la Afrodite corrosa sul prato antistante la casa. Stava uscendo dal vialetto quando apparve Russell; l'auto sembrava quasi scomparire, avvolta com'era nel fumo del suo scarico. Al volante c'era un ragazzo con un paio di occhiali da sole, i capelli sporgenti come un'insalata esotica dal fazzoletto troppo stretto, sulla sommità del capo. Russell era ubriaco; aveva lo stesso odore di una casa dopo una festa e riusciva a malapena a stare in piedi. Le braccia poggiate sul tetto della macchina di Austen, inspirava e parlava con tono piatto ma come nervoso. "Non ho un cazzo che mi trattiene in questo posto. Un lavoro di merda, Deanie se n'è andata e comunque non me ne fregava niente. Posso pagarmi il viaggio e alternarmi con te alla guida." Austen non disse nulla. Infine, come se ammettesse una colpa, affermò: "Non ho una meta." "Davvero? Bene, io sì." Quand'era ubriaco, era più acre, o forse l'acredine del suo carattere era più evidente, forse la sua copertura esterna veniva corrosa dall'alcool. Stava in piedi come un angelo a una diramazione, indicando la via. Austen si sporse in avanti per aprire la sicura della portiera del lato del passeggero. "Allora, andiamo."
"Va bene," replicò Russell, con una sorta di cupa soddisfazione. Per poco non cadde, quando aprì la portiera, poi esclamò: "Aspetta un minuto." Tornò alla sua macchina e, dal sedile posteriore, prese una borsa da ginnastica. Spostatosi sul sedile anteriore, borbottò qualcosa al guidatore, che annuì due volte, annoiato, e partì sgommando prima ancora che Russell finisse di sistemarsi al suo posto. "Gli hai dato la tua macchina?" "La terrà in custodia. Finché non torno. Non importa quando." I colori sbatacchiavano nella loro borsa sul sedile posteriore. Prima che raggiungessero l'autostrada, Russell si era già addormentato; più che accasciato, stava accucciato sul sedile, privo di sensi. Iniziò a piovere. Austen prese la rampa d'accesso diretta verso est, in una curva calma e continua, e accese la radio per sentire un'ultima volta la stazione anglospagnola di Cyndee. Nel tardo pomeriggio Russell si svegliò, loquace e affamato. "Fermati alla prossima area, ragazzo," disse, frugando nella sua borsa. "Offro io." Ignorò l'esitazione di Austen; pagava lui, e basta. E basta. Mentre mangiava pollo e crackers, tenendo delicatamente il tovagliolo di carta in mano come se si trattasse di un uccellino, parlò di Deanie. "Un anno e mezzo," disse, parlando con la bocca piena, anche se non mangiava disordinatamente. "Tira e molla. Quasi come essere sposati. Sei mai stato sposato?" "Sì." "Lo sei ancora?" L'odore del cibo ora gli dava fastidio; era un dolore tanto vecchio. "No." Russell rimase in silenzio per un po'. Dall'altra parte dell'area di sosta una donna scoppiò a ridere, era una sorta di verso alto e rauco, poderoso, profondo, come il latrato di un cane. "Deanie aveva una strana risata," osservò. "Talvolta rideva mentre facevamo l'amore, è una cosa che ti stronca fin da principio, sai? Una volta mi ha fatto mettere un po' di dentifricio sul cazzo, prima che glielo mettessi dentro." "A che scopo?" Austen sorrise, stirandosi. Lo stava prendendo in giro? "Avevate finito lo spermicida?" "No. No. Così. Diceva che era fresco. Era il Crest al mentolo, o qualcosa del genere, e lei diceva che era eccitante, caldo dentro e poi fresco. Questa era Deanie, ragazzo." Finì di bere. "Come si chiama la tua ex-moglie?" "Emily"
Schiacciò il bicchiere di plastica. "Lo dici come se fossi triste." "Lo sono." Russell insisté per guidare, e Austen cedette, non fece nemmeno simbolicamente resistenza; era stanco, inspiegabilmente stanco morto, come se avesse corso per chilometri o lavorato duramente. La radio a basso volume, avevano guidato fin oltre la pioggia; ora i raggi obliqui del sole illuminavano gradatamente la terra alle loro spalle. Russell non lo aveva ancora informato della destinazione, ed egli non l'aveva chiesta; in fondo, non gliene importava. Ci sarebbero arrivati; non era Zen, né un miracolo, ma solo ciò che doveva essere. A occhi chiusi, la lieve pulsazione di un vago mal di testa, ascoltava la voce di Russell, leggermente più alta della radio; dall'anglospagnolo erano passati a una sorta di Mozart cajun dai ritmi spezzati, delizioso e strano. "Alcune persone," diceva Russell, "sono vuote. Tu sei pieno di cose. E nemmeno lo sai. C'è un significato in tutto questo, ragazzo. Devi smettere di combatterlo e cercare il significato. Tu vedi, merda, e allora questo che cosa significa? "Il mio vecchio c'era vicino. Non credo lo abbia capito fino in fondo, ma c'era quasi arrivato. Gli stava proprio di fronte." Da un languore che non era ancora sonnolenza, Austen chiese: "Che cosa gli stava di fronte?" Silenzio. Il suono delicato di una fisarmonica, in sottofondo, quello di un violino, simile al rumore di sassolini mossi dall'acqua. "Non so," rispose, con un tono triste di ammissione. "È un grande segreto. Non so. È morto tanto tempo fa." Ancora silenzio. Poi, con la sicurezza di un carroarmato, aggiunse: "Ma quando ti ho visto al bar, mentre avevi quell'attacco, ho capito. Per questo motivo ti ho aiutato." Ancora più lentamente, Austen domandò: "Capito che cosa? Che avevo attacchi, come tuo padre?" "No." Non disse altro, per parecchio tempo, tanto che Austen si stava addormentando; era sul punto di sognare, una serie complessa di immagini, visioni, impressioni, l'odore dell'auto. Poi, la voce di Russell, calma, come facesse parte di un miraggio: "Tu sapevi." Nient'altro, per chilometri, nell'oscurità, verso est, verso il sole. Si trovarono bene come compagni di viaggio, Austen ne fu quasi sorpreso, ma così era. Parlarono, come durante una lunga passeggiata senza meta. Russell gli raccontò dapprima del lavoro, che aveva lasciato senza pre-
avviso né scrupolo: "Ero un fottuto addetto al cambio dell'olio, in una di quelle stazioni dove ti fanno il servizio in dieci minuti. Il mio vecchio avrebbe vomitato alla sola idea." Aveva l'ultimo assegno ancora non incassato in tasca. Austen, più lentamente, ammise, con la timidezza di un bambino ambizioso, che aveva lasciato il suo lavoro in un negozio di T-shirt e che, in realtà, era un artista. "Sì." Indicò con un cenno del capo il sacchetto di carta colmo di tubetti piegati, simili a larve. "Ho visto la roba. Sei un pittore." "Ritratti," spiegò Austen, sorprendendosi per l'orgoglio racchiuso in quella parola; era positivo, sì, anche ora che le cose andavano come andavano. "Era quello che facevo un tempo." "Perché hai smesso?" La risposta più semplice. "Non piacevano a nessuno." Russell parve colpito, dall'onestà, più che altro. "Perché, ci mettevi i doppi menti o i brufoli, o che?" "Dipingevo," ripose lentamente, era un terreno che gli era diventato meno familiare con i mesi, da quando aveva iniziato a esplorarlo; i pensieri che un tempo faceva ripetutamente si erano fatti meno frequenti e, infine, erano scomparsi, "come desideravo dipingere. Gli altri volevano qualcosa di diverso." E gli raccontò di Peter e della sua galleria, delle mostre abortite, delle commissioni rivelatesi una perdita di soldi, di tempo. Che? Non erano state una perdita, anche se, ogni volta che un suo ritratto veniva rifiutato, egli avrebbe potuto cogliere l'occasione per impiegare meglio il tempo, per cercare, per esempio, di scoprire quella via di mezzo mediante cui sposare le sue aspirazioni e il senso pratico, fotografico dei suoi cosiddetti clienti. Non l'aveva mai fatto, ma non aveva alcun rimpianto in proposito. Tutto ciò che rimpiangeva era quella perdita, la più tragica, quella per cui era rimasto - non sapeva neppure lui quanto - amaramente colpito: la perdita di Emily. Che, quell'ultimo giorno, aveva indugiato, o così pareva, (com'era vivido, ora, il ricordo, era come se rivivesse la dolcezza dell'ultimo respiro esalato da un morente), le mani sul cassettone, intenta a risistemare le sue cose. Devi fare il tuo lavoro, aveva detto, non ho nulla da obiettare a questo proposito, ma non sono la tua musa. Non voglio essere la musa di nessuno. Ed egli (ricorda, ora, stancamente, ma con precisione: quella cecità di fronte al precipizio prima di una lunga, lunga caduta), aveva ribattuto, incapace di spiegare che lei era qualcosa di più, molto di più, era il fondamento. Ma quell'ultima dichiarazione l'aveva infastidita, l'aveva fatta infu-
riare: non ne volle più parlare, non volle più parlare di nulla. E, dopo poco, Emily non era più lì, né per parlare, né per ascoltare; chiamava dallo studio del suo avvocato, era sbrigativa e rapida. Quell'ultimo giorno lei si era recata in tribunale; Austen, no: sapeva che non ci sarebbe stato modo di farle cambiare idea, nessuna supplica di grazia l'avrebbe smossa. Era quindi meglio non affrontare il boia, ricevere la mannaia sotto forma di lettera, con la posta, un plico spesso che recideva il passato dal presente, lei da lui, l'oggetto di un tenero amore da colui che era diventato squallido e insopportabile. Quel giorno aveva pianto finché non ne era stato più capace; poi era rimasto seduto, emettendo suoni meno umani di quelli prodotti dalle singole cellule in un cadavere che lentamente si svuota: Questa è la fine. Di tutto ciò non raccontò molto a Russell, ma comunque abbastanza, ed egli sembrò, se non capire, rendere omaggio a tali sentimenti. "Deve aver rappresentato qualcosa di importante," osservò spontaneamente Russell, nel modo in cui, dopo il fatto, si contempla il morto, ormai in pace, avvolto da un alone di sacralità. Austen sorrise. "Lo rappresenta ancora." Sorpreso, chiese: "Sai dove abita?" "So dove abita, sì. Non la vedo da allora, da quell'ultima volta, a casa nostra." La chiamava ancora "casa nostra". Poi, stringendosi nelle spalle, aggiunse: "Non amo perseguitare la gente." "Nemmeno io." Una dolce sterzata per evitare una lingua di ghiaietta, che piroettò in aria in più direzioni, formando una pioggia rumorosa di sassolini minuscoli. "Quando se ne vanno, se ne vanno." E Austen, che non aveva assolutamente inteso dire quello, annuì. Parlarono ancora, non di Emily, ma di donne, di altre donne amate o, semplicemente, di cui si erano interessati, o per le quali non avevano avuto alcuna attenzione. La lista di Russell superava in lunghezza quella di Austen, secondo il quale l'immoralità significava esclusivamente essere crudele. E che, non va dimenticato, si era ubriacato come un idiota, aveva scopato una sconosciuta ed era strisciato via, per poi vomitare, nell'oscurità. Sì. La loro conversazione procedeva con un suo ritmo, faceva da contrappunto, non alla strada in sé, alla brutalità dei chilometri e dei segnali, ma alla sensazione del moto. Il viaggio come intrinseca ricompensa, un senso di sospensione, di essere al di fuori del tempo, assistito e servito dagli altri, costretto solo da quella atemporalità peculiare propria del viaggio, senza programmi né limiti. A Russell piaceva guidare, poteva farlo, così diceva, per sei, otto, dieci ore senza fermarsi. Amava la sensazione della
strada, l'idea che il cemento armato si snodasse sotto di lui, affinchè potesse viaggiare. "Mi è sempre piaciuto viaggiare in macchina," affermò. "Anche da bambino. Non andavamo mai molto lontano perché mia madre odiava guidare e mio padre poteva, in teoria, farlo solo per andare al lavoro, sai, a causa degli attacchi. Così facevamo gite brevi, salti, le chiamava mio padre. A me non andava l'idea di saltare. Io volevo correre." "Io non amo guidare," precisò Austen. Con tono dolce, Russell replicò: "Questo perché sei un coglione." Non discussero mai di quando fermarsi; per mangiare, per orinare. Austen non chiese mai dove stessero andando; come spiegazione, verso est gli era sufficiente. Poteva del resto vederlo, guardando fuori dal finestrino. Il tempo trascorso in qualità di passeggero gli fu più che utile, era come se fosse stato prestabilito: stava iniziando, a poco a poco, a fare di nuovo degli schizzi. Non si trattava della cosa argentea in sé, no, persino Austen era troppo intelligente per fare una cosa simile. Forse a causa del suggerimento di Peter stava rielaborando le sfìngi, aveva cominciato a pensare ai quei sognatori epilettici che, come aveva detto Russell, avevano costruito le piramidi; il fatto che fosse tanto falso lo rendeva piacevole. I loro occhi, enormi come l'ansa infinita del grande fiume, che cosa nuotava in quegli abissi più pericolosi dei lucertoloni del Nilo e del loro tenero ingrossarsi. Costruiva triangoli, puntati verso: che cosa? Le costellazioni? La febbre dello spazio profondo? L'Occhio di Dio, alla deriva in un punto al di là della creazione, tanto immenso da andare oltre il terrore o il dolore? Che cosa vedi, quando guardi nella tenebra delle tue pupille? E così: sosta per la colazione. Russell guidava da prima dell'alba, chilometri di silenzio che Austen aveva passato ricurvo sul suo schizzo. "Vado a rinfrescarmi un po'," gli disse Russell. Fece una pausa e si stirò i muscoli della schiena, flessibile come una striscia di cuoio per affilare i rasoi. "Guidi tu, dopo. Va bene?" "Va bene." Chiusero l'auto, camminarono lentamente; anche Austen doveva rinfrescarsi, sentiva le ascelle appiccicaticce per il sudore di più giorni; il riscaldamento della macchina, imprevedibile, aveva deciso da poco di funzionare al massimo. Il suo respiro, sbuffi delicati, come quelli emessi dalle narici di un cavallo, di nuovo a contatto con il freddo, aderiva alle gelide piastrelle del bagno; due gambe di uomo in un gabinetto chiuso, Russell.
I rubinetti del lavandino più pulito erano inservibili, così, cautamente, con l'aiuto di una salvietta di carta marrone, si lavò nel secondo, ostruito. Se la sfregò, fredda e pulita, sul viso, e ne usò un'altra per le ascelle e il collo. Aveva bisogno di una doccia. Forse sarebbero arrivali dove erano diretti in tempo affinchè potesse... Dal gabinetto chiuso, alcuni colpi di tosse. Una tosse violenta, liquida, come quella di un brutto raffreddore. Austen si accigliò: quando era iniziata? "Russell?" La tosse si fece ancora più violenta; pareva accompagnata da lievi conati di vomito. Un suono nauseante, che significava bisogno d'aria. "Russell," chiamò Austen, bussando alla porta, notando che i jeans e le scarpe da ginnastica, per quanto familiari, non erano quelli di Russell - le scarpe da ginnastica soprattutto, nere e logore - ma la tosse continuò. Era tanto implacabile che Austen esitò; non gli sembrava giusto lasciare nessuno in preda a un attacco simile. Bussò ancora. "Stai bene? Hai bisogno d'aiuto, là dentro?" Stupido: se non riesce a respirare, non riesce nemmeno a parlare. Devo trovare Russell. Suoni strozzati, i suoni emessi da qualcuno senza dubbio prossimo a soffocare. Senza pensarci Austen spinse la porta del gabinetto, la spinse forte contro il corpo che, dall'interno, la bloccava, la spinse finché questa non cedette e si aprì. L'interno del gabinetto, il water, il rotolo di carta igienica esaurito - com'erano stupendamente minuziose le sue osservazioni, quella chiarezza isterica, che pareva incisa all'acquaforte e che la mente non potrà mai cancellare - soprattutto, l'uomo stesso, giovane, i jeans e le scarpe da ginnastica e le sue mani che tentavano di aggrapparsi a qualcosa, tutto era imbrattato di argento, oleoso, denso, viscido, più spaventoso del sangue. Si graffiava il volto con le mani, che si indebolivano gradualmente con il movimento, tossiva ancora, colpi lunghi, da soffocamento e, quasi per contrappunto, pestava con una gamba il pavimento con un ritmo lento, patetico, il riflesso di un animale morente. "Oh, Gesù," esclamò Austen, ancora poggiato alla porta, immobile, la bocca spalancata, "oh, mio Dio." Tremava al punto da non riuscire a stare bene in piedi, sentiva le gambe che gli cedevano. Poi, incespicò a causa dello slancio; doveva evitare di cadere a terra. Il giovane emise un verso, simile a quello di una rana, un verso talmente strano, forte e comico, segui-
to immediatamente da un'immensa quantità di vomito, argento gelatinoso che fuoriusciva dal volto ottenebrato. E Austen gridò, era tutto infernale, era humour infernale, surreale, e il giovane infine si accasciò nel vomito, a faccia in giù, forma ovale raggomitolata, senza più muovere nessuna parte del corpo. Stette un po' di tempo a osservare, semplicemente; poi, non poté più star lì a studiare. Russell: doveva trovarlo. Era in fila per la colazione, era il secondo. Austen lo afferrò, lo trascinò via mentre quello, allarmato, esclamava: "Non ti capisco, ragazzo!" Per un attimo la sensazione infausta di un nuovo terrore: aveva di nuovo perso la capacità di parlare, come in ospedale, quel primo, orrendo giorno? "Calmati." Russell lo bloccò, saldamente, le spalle gli dolevano per la stretta. "Calmati, ragazzo." Un'ulteriore stretta. "Cerca di respirare. Cerca solo di respirare." Infine, sentì di avere aria a sufficienza per parlare. Era grondante di sudore, le mani troppo fredde per riuscire perfino a piegare le dita. Cercò di sfregarsi la bocca. "Tranquillo," gli fece Russell e Austen, con voce rotta, disse: "Nel bagno." "Che cosa c'è? Che cosa è successo?" "Solo..." Si voltò e corse via, Russell dietro di lui, incitato dalla sua fretta. Austen spalancò la porta del bagno degli uomini e la tenne aperta, facendo passare Russell. "Che cosa c'è?" Nel bagno non c'era nulla. Austen aprì la porta del gabinetto, guardò, girò su se stesso per cercare tracce dell'argento, in qualsiasi punto, in qualsiasi zona. Niente. "L'ho visto," urlò Austen. Il tremore indotto dalla reazione era già iniziato. Tremava al punto di non riuscire a gesticolare né ad indicare, pura paralisi. "L'ho visto, Russell! Quel ragazzo, era su tutto il suo corpo, era su tutto il suo corpo!" "Che cos'era?" Anche Russell stava gridando. Se ne rese conto e si calmò di colpo. "Che cosa era su tutto il suo corpo? Vieni," disse, trascinando Austen, dapprima gentilmente, poi, quando questi fece resistenza, con più decisione. "Me lo dirai fuori. Questo posto puzza." "Ha iniziato a tossire," disse Austen, imponendosi di calmarsi, di raccontare l'accaduto. "All'inizio ho pensato fossi tu, ho pensato fossi entrato prima di me. Ho visto i jeans e..." scarpe da ginnastica nere. Jeans e scarpe da ginnastica nere con vecchie
stringhe, vecchie, sbiadite, senza punta proprio come le sue. Entrò di nuovo nel gabinetto, sbattendo la porta, guardò, Russell dietro, che diceva qualcosa che non sentì né capì, e nel water, come una rosa perfetta, una bolla, una goccia di mercurio che non seguiva alcuna corrente se non la propria, che si muoveva in circolo, un giro, due giri, tre giri. Nella sua gola, una sensazione simile a una convulsione, ma non riuscì a vomitare, non aveva nulla nello stomaco. Russell lo trascinò fuori dal gabinetto, dal bagno, lo trascinò fino nel corridoio che portava alla sala da pranzo dato che non respirava, disse, gli mancava aria. Era in piedi, tranquillo, ma non immobile, i piccoli muscoli del volto e delle mani si erano improvvisamente sovraeccitati, forse il suo cervello stava impartendo istruzioni, forse si trattava di una reazione normale. Mentre aspettava nel corridoio, alcune persone gli passarono davanti, dirette in bagno, ed egli non le guardò, voltando deliberatamente il viso. I postumi erano più gravi, ora, analoghi a quelli di uno stupefacente, la sua resistenza diminuiva ogni volta di più. Stai tranquillo. Aspetta. Aspetta, non Russell, ma ciò che Russell porterà: il movimento, il senso dello slancio. Sul sedile del passeggero, la colazione di Russell confezionata per l'asporto. Russell iniziò a mangiare non appena Austen avviò l'auto. Una retromarcia brusca e via, di corsa. La luce del mattino, intensa attraverso il parabrezza, oscurata solo da sagome sporche in lontananza, camion che trasportavano mobili, sostanze chimiche, pezzi di ricambio per auto. Gli occhi di Austen erano spalancati, come se tutto quello che riuscisse a vedere fosse quel bagno: "Russell," chiese, con tono piatto e aspro, "dove siamo diretti?" "A Louisville," rispose questi, parlando con il cibo in bocca. Non guardò Austen direttamente in faccia, ma nemmeno distolse del tutto lo sguardo: Che cosa hai visto? Era come l'uomo che aveva visto il sorriso della Medusa. "Non ti preoccupare, continua a guidare." Il Kentucky era uno stato che Austen aveva visto solo di passaggio, in macchina; d'inverno era di un grigio intenso, implacabile, tutto neve sporca e cemento armato. Un'autostrada, del resto, non è un metro di paragone adeguato per valutare il fascino potenziale di un luogo. Guidava da ore ed era molto stanco, ma non avrebbe mai fatto una sosta né lasciato che guidasse Russell. Aveva bisogno di vedere: il traffico, i segnali, le fabbriche e i motel che superavano, la perenne monotonia, la quotidianità opprimente.
Adesso non voleva fare schizzi, non voleva immaginare, non voleva vedere altro che ciò che gli stava davanti agli occhi. "Dove stiamo andando?" chiese, questa volta con un significato differente. Si muovevano nel traffico diurno, che stava diminuendo dopo l'ora di punta. Le sue mani erano incollate al volante, era una sensazione predeterminata, come se, per rimuoverle, avessero dovuto tagliargli le braccia. Sì. Le sue braccia erano pesanti, come se avesse lavorato duramente tutto il giorno, lanciato sacchi di cemento o balle di fieno. Non aveva mai lanciato balle di fieno in vita sua. "C'è un'uscita da queste parti." Russell, l'espressione nuovamente accigliata, osservava la mappa stropicciata, piegata in modo da evidenziare la zona d'interesse. "Non dimenticarti che ci sono stato solo una volta... Va bene, dev'essere questa," annunciando il numero dell'uscita con il sollievo e l'orgoglio con cui un medico enuncia una diagnosi corretta. "Un paio di chilometri più in su." Austen curvò lentamente verso l'uscita, passando davanti a un grande furgone rosso dotato di pianale. "Propongo un motel per questa notte." "Approvato." Russell sprofondò nel sedile, lasciandosi andare a un lungo sbadiglio, come un gatto. "Ho bisogno di lavarmi. E soprattutto tu: dovrai essere pulito per il dottore." Dopo l'uscita, trovare l'ambulatorio fu incredibilmente facile. Era vicino all'autostrada, piccolo, dai mattoni rossi, lindo; piccolo e lindo era anche il cartello con gli orari, appeso all'ingresso. "Chissà se si ricorda di me," disse Russell mentre se ne allontanavano. "È passato molto tempo da quando mio padre c'è stato." "Sei certo che sia un bravo medico? Mi ascolterà?" Deciso: "Il mio vecchio diceva che è il migliore." Un motel Quality Inn. Russell flirtò con l'addetta alla reception. Fecero testa o croce per stabilire chi dovesse fare per primo la doccia e Austen perse. "Guarda la TV," suggerì Russell. "Potrei impiegarci un paio d'ore." Poi, da dietro la porta, aggiunse: "Guarda se c'è qualche canale porno." Austen si distese sul letto, di traverso; non ricordava di aver mai raggiunto un livello simile di stanchezza da molti, molti anni, era una stanchezza che aveva colpito ogni cellula del suo corpo. Il ricordo meno remoto risaliva a un giorno in cui aveva corso, nel tentativo di evitare un temporale d'autunno, finché tutti i muscoli non gli bruciarono, finché i polmoni non protestarono, ormai incapaci di espandersi completamente. Poi, si era accasciato sul pavimento del soggiorno e Cyndee si era arrabbiata: era
sporco, i piedi ricoperti di fango e di foglie. Foglie nei capelli. Be', era sporco anche in quel momento. Avrebbe dovuto fare qualche schizzo. Avrebbe dovuto ripulire l'auto, infestata di sacchetti vuoti per alimenti, lattine di bibite gassate e vestiti sporchi. Avrebbe dovuto fare qualcosa oltre a stare lì, disteso, senza nemmeno fissare la parete. Ma era troppo stanco. Senza volerlo, senza rendersi conto di attraversare quel particolare limite, si addormentò e, immediatamente, sognò. Era nell'ambulatorio di un medico e cercava di concentrarsi su una rivista mentre l'infermiera e Russell chiacchieravano del padre di quest'ultimo. "Era proprio un signore," diceva l'infermiera. "Aveva venti attacchi al giorno," sottolineava Russell quasi con vanto. L'articolo della rivista riguardava, incredibilmente, Emily: era da poco diventata vicepresidente della sua compagnia, della quale Austen non riusciva a leggere il nome. Aveva qualcosa a che fare con le apparecchiature sanitarie. Il servizio era costituito quasi esclusivamente dal testo, ma c'era anche una piccola foto: Emily tutta in bianco, austera e serena, di fronte a un enorme anello metallico, che pareva un collare da Frankenstein, medioevale, spaventoso. "Non lasciare che lo usino su di te, Austen," gli diceva Emily. "Ho visto come funziona." Non voleva rispondere a un'immagine di una rivista o, per maggiore precisione, non voleva che lo vedessero mentre lo faceva. Con aria circospetta al punto da attirare l'attenzione, si era curvato e aveva sollevato la rivista in modo che nascondesse metà del suo volto; poi, con molta tranquillità, aveva affermato: "Devo fare tutto quello che posso per stare bene." Lei si era infastidita. "Non essere stupido," aveva replicato, voltandogli la schiena. La sua fotografia si era trasformata in quella di una scimmia in gabbia, berciante, in stato di palese tormento, con al collo un collare di dimensioni più piccole. Ora il titolo dell'artìcolo era PIÙ VANTAGGI CHE SVANTAGGI NELLA SPERIMENTAZIONE. Gli occhi dell'animale erano di un argento smorto e roteavano, come quelli di un giullare, avantiindietro, avanti-indietro. Mentre Austen osservava, una minuscola bolla di vomito era fuoriuscita dalle labbra della scimmia, attraverso i denti, simile a una perla autentica. "Ehi!" Russell gli stava indicando la porta dello studio del medico. "Sbrigati, ragazzo. Ho fame. Austen?" "Arrivo," aveva risposto questi, senza poter distogliere lo sguardo dalla
fotografìa della scimmia, che aveva ora due perle, poi, tre, sei, aumentando esponenzialmente fino a riempire la foto, la pagina stessa e iniziando poi a cadergli in grembo, dove bruciavano, sfrigolando, creando buchi nei jeans e lasciandogli leggeri segni sulla pelle delle gambe. "Austen." "Arrivo." Sentì una delle bolle sul viso, era umida e fredda, balzò in piedi con uno scatto e si ritrovò Russell, quello in carne ed ossa, chino su di lui. "Tocca a te," esclamò. "E sbrigati, mi raccomando. Voglio andare a mangiare." Il bagno era pieno di vapore, pregno dell'odore dolce di shampoo. L'acqua calda, molto calda, calda il più possibile, gli batteva sui muscoli contratti e tesi, sul collo e sulle spalle, sulle braccia stanche per essere state a lungo sul volante. Quando uscì dalla doccia, si sentì come se avesse perso cinque chili di troppo. Sfregò lo specchio per rimuovere il vapore; l'intera stanza ne era pregna ed egli sfregò ancora. Invece di pulirsi, lo specchio si sporcò; sulla sua superfìcie il vapore si era condensato in piccole gocce, in piccole sfere di mercurio, conferendogli un aspetto spettrale, ed egli, impaziente, vi passò sopra un asciugamano. Per vedere infine, al di là della condensa, un sorriso, un sorriso da Stregatto, e per avvertire un rumore, seppur lieve, seppur coperto da quello del ventilatore del soffitto, di conati di vomito. Poteva essera la sua voce. Chiudi gli occhi, fatti animo. Pulì di nuovo lo specchio. L'asciugamano si appallottolò e si fece pesante nelle sue mani. Lo lasciò cadere e si voltò immediatamente per uscire. Rimase in piedi, bagnato, tutti i peli delle braccia ritti, tremava, mentre il calore fuoriusciva lentamente dalla porta aperta del bagno. Russell era sul letto, semi-vestito e si pettinava, guardando quelle che parevano essere due donne a seno nudo in una decappottabile. "Nata per correre," annunciò senza guardare Austen. "L'hai visto?" "No," rispose questi. Senza volerlo, voltò la testa per dare un'occhiata alle sue spalle, allo specchio. Rifletteva, innocente, il portasciugamani, l'asciugacapelli a muro, un lato della porta. E il suo volto, dall'aria abbandonata, che denotava inettitudine a reagire, a dimostrare alcunché, che recava il tenue segno della paura ancora in embrione. All'ambulatorio fu palese che non si ricordavano per nulla di Russell, ma avevano ancora la cartella clinica e la documentazione di Horace. L'infer-
miera non riusciva a credere che avessero fatto tutta quella strada dal Texas. "Tutta quella strada," continuava a ripetere. Aveva i capelli biondi e un naso piccolo e rincagnato. Per Austen non aveva assolutamente l'aspetto dell'infermiera ideale. Ovviamente, Emily non compariva in nessuna delle riviste ma, altrettanto ovviamente, Austen controllò, furtivo. Con tutto il suo sfogliare diede verosimilmente a Russell l'impressione di essere nervoso. "Stai calmo," continuava a ripetere. "Veramente, stai calmo." Sotto la sua sedia giaceva, come un animale domestico silenzioso - in certo qual modo, lo era davvero - la nutrita cartella clinica, rilegata in plastica, con tutti i referti. Il medico era un uomo piccolo e grasso, con i capelli unti pettinati di lato e un'espressione che significava "bando alle sciocchezze". Si chiamava Barnes. Portò Austen, non nell'ambulatorio per la visita, ma nel suo studio, gli strinse la mano con fare sorprendentemente aggressivo e lo fece accomodare su una poltroncina accanto a un tavolo ricoperto di riviste e di opuscoli, sul primo dei quali stava scritto "Numero anomalo di spermatozoi". "Qual è il suo problema?" chiese il dottor Barnes. Grazie all'economia verbale che gli proveniva dalle numerose recite effettuate in passato, Austen riuscì a raccontare tutta la sua noiosa storia rapidamente e senza dettagli superflui, dal parcheggio all'ospedale, dalla serie infinita di sale d'aspetto a quella, altrettanto infinita - e questa fu la parte più dura - degli attacchi simil-epilettìci, fino al Texas. Fino a quel luogo. Parlò tenendo le mani in grembo, con tono quasi monotono; se fosse stato considerato isterico, la diagnosi sarebbe stata formulata solo in base al suo racconto. Cercò di non essere nervoso, cercò di non immaginare ciò che il medico stava pensando e, soprattutto, cercò di non fare congetture sugli esiti, di non prefissare nulla, di non avere speranze né premura. Era decisamente stanco di continuare a cadere verso il basso. Quando ebbe finito, il dottor Barnes non disse dapprima nulla; quindi, sospirò. "Non ha un'assicurazione, vero?" "No," rispose Austen e, con tono piatto, aggiunse: "Non più." "Mi sarebbe di molto aiuto," continuò il medico, "avere la sua cartella clinica." "Ho alcuni referti da mostrarle. Non sono tutti, ma..." "Li prenda." "Li ho qui," affermò, porgendogli il fascicolo. Destava un certo imba-
razzo: era come una cartella dello schedario della polizia, testimonianza permanente di una triste incorreggibilità. "Ho bisogno di esaminarli," spiegò, quasi già ignorando la sua presenza. Aveva l'aria di chi si accinge a leggere un romanzo piccante. "Mi chiami domani." "Va bene," rispose Austen, chiedendosi se fosse giunto il momento di andarsene. Il dottor Barnes stava leggendo e non alzò lo sguardo quando Austen uscì dallo studio. Fuori, Russell gli domandò: "Allora?" Si strinse nelle spalle. "Devo fissare un altro appuntamento,'' spiegò all'infermiera, che gli disse di venire il giorno seguente, alle dieci. Nel parcheggio Austen raccontò rapidamente com'era andata e Russell annuì. "Mi sembra molto bene," commentò. "Non ti pare?" Al cenno affermativo di Austen, chiese: "Vuoi star fuori un po'?" Il vento stava calando. Dalla strada e dall'autostrada proveniva un odore rancido dei gas di scarico di tutti i viaggiatori già passati. "No," replicò, scivolando sul sedile del passeggero, le mani in tasca come per proteggersi. "Resterò in camera." Quando Russell se ne fu andato, spense la TV, si sedette con tutte le luci accese, compresa quella del bagno, e iniziò a fare schizzi. Sfingi con fauci lunghe, predatrici, una linea scolpita di mattoni rotti, che suggeriva di una decadenza incommensurabile, i venti vagabondi del tempo, che soffiano, erodendo col loro soffiare tutto quanto è solido e saldo. L'arte antica dei dottori, la chinirgia cerebrale, la rimozione della pietra della follia. E la gente era sopravvissuta a tutto ciò; quello era il fatto più sorprendente di tutti. Fece parecchio lavoro, nulla di definitivo, ma comunque tale da fargli provare la sensazione. Era una sensazione di felicità, un dimenticare se stesso che era di per sé purificante, no: rinfrescante. Ne uscì in effetti rinfrescato. Quando si addormentò, si ritrovò nelle stanze vuote del sogno puro e semplice e, quando si risvegliò, fu a causa di Russell che rientrava, tardi, cercando, come fanno gli ubriachi, di non fare rumore. Sorrise lievemente a se stesso e riprese a dormire. "Dunque," disse il dottor Barnes. Sulla sua scrivania c'era una tazza da caffè con una scritta rivolta all'esterno: HAI GIÀ ABBRACCIATO IL TUO DOTTORE OGGI? Le mani di Austen erano fredde e sudate; nemmeno stropicciandole riusciva ad asciugarle e a riscaldarle. "Potrei dirle
che ha allucinazioni dovute a una causa non organica, in base alle tomografie computerizzate e alla risonanza magnetica e a tutto quello," aggiunse, picchiettando il dito sulla cartella clinica, "che ha qui. Vorrebbe sentirsi dire questo?" Austen scosse il capo, molto lievemente. "Allora, potrei dirle," continuò, appoggiandosi allo schienale della poltrona e allontanandosi dalla cartella, "che lei è un ipocondriaco e che sta facendo un gran caos per avere un po' di attenzione. E, francamente, chiunque guidi fin qui dal Texas solo per vedermi ha qualche problema, glielo assicuro." Scoppiò in una risata confortante. "Ma, probabilmente, non vuole sentirsi dire nemmeno questo, vero?" Austen scosse di nuovo il capo. Una lieve ondata di rabbia fu l'unica sensazione di calore che provò. Le luci dell'ambulatorio avevano un colore particolare, o meglio un non colore. "Allora, potrei dirle, in base alle sue descrizioni e alla cartella, che ha avuto a che fare con una manica di semiimbecilli incompetenti, che dovrebbero essere banditi dall'ordine dei medici, ma lei non ci crederebbe e nemmeno io lo farei. Così, non lo dirò. E non dirò neanche ciò che penso lei voglia sentire, cioè che sono convinto che esista una soluzione concreta per il suo problema. Perché non lo credo." Fece una pausa; poi, lentamente, aggiunse: "E mi spiace di non crederlo. Lei si è chiaramente preoccupato e tormentato molto per questa faccenda e, mi creda, so quanto frustrante sia andare a caccia di una diagnosi, anche dal punto di vista del paziente. Una volta mia moglie prese un'infezione vaginale che non andava più via... ma a lei non frega un accidente di questo, e nemmeno a me." Suo malgrado, Austen sorrise, e il dottor Barnes lo ricambiò. "Migliorò spontaneamente," spiegò. "Fece anche incazzare il suo ginecologo. Ma non penso che a lei questo succederà." Rimase paralizzato. Un attimo per reagire e poi domandò: "Non... non migliorerà?" "È importante che la veda nell'ottica giusta. So che suona come l'inizio di una serie di stronzate, ma è un dato di fatto." "Di che ottica," chiese lentamente, senza nemmeno accennare a fare un passo, "sta parlando?" "Di un'ottica psicologica, e aspetti un secondo prima di arrabbiarsi perché non sto dicendo che lei è pazzo. Glielo ripeto, se vuole: lei non è pazzo. Ma quello che le succede ha a che vedere più con la sua mente che con il suo cervello. Mi segue?"
Il danno ai tessuti cerebrali era irreversibile, affermò il dottor Barnes, sotto le sue luci che ricordavano quelle di una specie di clinica sotterranea, ma il Tegretol che aveva placato gli attacchi in ospedale aveva avuto effetto: "Non sono un neurologo, è vero. Ma quei farmaci sono veramente efficaci." Ora, dato che gli attacchi, gli pseudoattacchi, si manifestano ancora, doveva esserci un'altra causa, qualcosa di non organico. Qualcos'altro. "Potremmo chiamarla idiopatica, se la fa sentire meglio; causa sconosciuta. Ma penso comunque sia di carattere psicologico. Qualche trauma latente, che nel suo caso sarebbe del tutto normale e spiegherebbe anche perché gli attacchi paiono intensificarsi. Ma lei non mi sta ascoltando, vero?" L'espressione immutata, come quella della sfinge dello schizzo, non sorrise né negò; erano le solite vecchie panzane con una patina casereccia in più, aveva guidato per centinaia di stupidi chilometri per sentire un altro risvolto della storia infinita. Ma era realmente infinita? No. Doveva esserci, c'era qualcuno che sapeva come togliergli quel fardello, come fargli attraversare quell'anticamera, ma questi non era in nessun caso il dottor Barnes. Di nuovo vuoto per la delusione, gli strinse la mano, fece un assegno e lasciò l'ambulatorio. Al motel trovò Russell sveglio. Dopo che ebbe dato un'occhiata alla faccia di Austen, questi chiese ben poco, pur manifestando palesemente il suo sconforto. Non era stato il fattore responsabile, né lo aveva portato a una guarigione, a una svolta definitiva. "Faccio le valigie," annunciò Austen. "Dove andiamo?" "Be'." La testa piegata, gli occhi quasi stupidamente vitrei. "Non so." Seduto sul letto senza camicia, come lo scolaro più ottuso della classe, quello che non sa mai la risposta, aggiunse: "Devo dirtelo, comunque, Austen: mi sento molto in colpa per tutto questo." "Lo so," rispose, senza peraltro compassione. Tutti si sentivano così, tutti; e nessuno capiva. Le mani di Russell tenevano mollemente il volante; una stanghetta dei suoi occhiali da aviatore era piegata verso l'alto, come un arto fratturato. Disse che avrebbe guidato fino a destinazione, qualunque essa fosse. Invece di elucubrare, Austen impiegò il tempo per fare schizzi; quello, almeno, c'era, non era buffo? No, non possono portarmelo via. La la la. Talvolta si chiedeva se non fosse meglio essere davvero pazzo. La radio era sintonizzata su una qualsiasi stazione rock-and-roll; il vo-
lume era troppo alto per lui. Russell cantava, con una sorta di raglio nasale; aveva una orribile voce da adolescente. Passarono un altro giorno di freddo, nel grigiore, nello squallore di un paesaggio piatto. "Dove hai detto che vive la tua ex, ragazzo?" "Mi auguro," replicò lentamente, la matita diritta fra le dita sporche di grafite, mossa ancora dalla vibrazione, "che non..." "No, no no. Mi chiedevo solo." Aveva gli occhi di nuovo puntati sulla strada. Austen sollevò la matita da disegno e valutò il movimento e il portamento della figura che gli stava davanti, figlia non della sfinge né, tanto meno, delle sue sfingi, ma di un mostro totalmente diverso, di una cosa profondamente, visceralmente immonda, una cosa capace di contaminare chiunque la toccasse. Avrebbe dovuto provare una sensazione di paura nei suoi confronti; rimase in certo qual modo depresso quando scopri che, osservandola, non gli suscitava altro che uno squallido orgoglio dovuto a motivi tecnici: aveva fatto un buon lavoro. Era forse perché, provato da quanto aveva visto, ciò che era semplicemente orribile non esercitava più alcun fascino su di lui? O invece perché era diventato sotto ogni profilo insensibile a tutto, tranne che agli attacchi? Quegli attacchi che, con sua tacita costernazione, Russell aveva iniziato a chiamare visioni. Avrebbe dovuto parlargli a questo proposito. Presto. Non appena fossero arrivati a destinazione. Il grigiore aumentò. Strinse la matita fra le dita per compensare gli scossoni dell'auto. Russell si sintonizzò su un'altra stazione, canticchiando la fine dell'ultima, brutta canzone. Al di là del suo braccio Austen vide il contachilometri girare lentamente, ma volutamente non si concentrò sui numeri; una volta arrivati a destinazione, sarebbe venuto il momento per contare, per effettuare la lunga sottrazione con un cervello nuovo, tranquillo, per valutare la durata della vicenda. 7 Aveva smesso di leggere i libri sul cervello. Aveva iniziato a pensare che fosse estremamente negativo, nonché inutile, continuare a esplorare un vicolo cieco. Ma per Russell era tutto nuovo. "Guarda qui," gridava con ilarità, indicando un punto del libro, come se Austen potesse vedere, "il braccio di questo tizio è impazzito. Il braccio sinistro. Ha iniziato ad afferrare le tette delle infermiere, a cercare di strappar loro i vestiti di dosso. 'No, merda, Infermiera, non sono io, è il mio braccio!' Che canaglia!"
"È stupido," osservò Austen con tono amaro, rasentando, nel sorpasso, l'ennesimo, interminabile camion che trasportava ghiaia, simile a un millepiedi: aveva un numero tale di ruote da creare un effetto ipnotico su chi le guardava. Ma non c'era nessuna legge contro autocarri così grandi? "Che cosa, il racconto?" "Il libro," replicò Austen, ritornando nella corsia centrale. Il traffico era intenso. Meno di un'ora prima aveva iniziato a nevicare, fittamente e pericolosamente, e gli automobilisti avevano, a quanto pareva, perso ogni capacità di controllo. Lui riusciva ancora a conservarla, come del resto ad affrontare quel faticoso e lento viaggio senza meta, verso nord; Russell, invece, si era arenato. Come consigliere era inutile, quanto quei fottuti libri, come tutti i dottori incontrati durante il lungo, vano cammino. "Merda," esclamò Russell, quasi a disagio, mentre con il dito segnava il suo percorso attraverso quella serie di bizzarrie e di mostruosità, attraverso la corporazione delle malattie e delle perdite atroci di fronte alle quali i sani, coloro che non hanno mai subito alcun danno, possono ridacchiare impunemente, avere la loro dose di divertimento. Avrebbe trovato la cosa altrettanto maledettamente divertente se il suo famoso papà fosse stato uno dei casi lì descritti? Un'altra sterzata, questa volta retta solo in parte dal fondo stradale scivoloso. "Stai calmo, ragazzo," fece Russell, innervosito. "Vuoi che guidi io?" "Che cos'hai? Fretta? Il tuo turno viene fra un po'... stronzo!" gridò, dando una manata sul cruscotto, mentre un camion di una ditta di catering di nome BOB'S gli tagliava la strada. "Ehi, Bob, vai a farti fottere!" "Austen, ragazzo, perché non..." "Russell, ragazzo, perché non chiudi la bocca, eh? Sto guidando, e se non ti piace come lo faccio, posso sempre accostare, farti scendere e tornare a piedi a Città del Cazzo, Texas, va bene? Va bene?" Ogni parola si alimentava della rabbia contenuta in quella precedente, come i piccoli avidi di un uccello demoniaco; non si era mai arrabbiato tanto, gli pareva, in maniera così improvvisa. Aveva subito molte provocazioni, dopo tutto, e forse questo era il culmine, era un organo malato che esplodeva. Come potrebbe essere l'organo della rabbia? Rosso. Rosso e nero, rivestito di una membrana spessa che, al momento dello scoppio, avrebbe proiettato una serie di brandelli, simili a shrapnel dappertutto, come denti di coccodrillo, denti di un dragone disseminati ovunque per uno scopo malvagio. Le sue mani a contatto con il volante erano calde; sterzò di nuovo, bruscamente, e per poco non finì contro il camion di catering, tanto che l'autista lo insulto,
gesticolando con il braccio. Austen lo vide e gli sorrise, facendogli con il dito il gesto di andare a farsi fottere. Fottiti, ripeté, sterzando ancora. Al suo fianco Russell disse qualcosa di incomprensibile. Il parabrezza si stava offuscando, era di nuovo il riscaldamento, quello stupido riscaldamento, quella stupida macchina, uno schifo, schifo, schifo. Tutto era uno schifo per un uomo che faceva schifo, per un uomo che aveva un cervello da schifo e il parabrezza offuscato, Dio, riusciva a stento a vedere, sfregò una mano sul vetro e la condensa venne via, appiccicaticcia e argentea. Oh. Avrebbe anche potuto dirlo a voce alta, "Oh," capisco. Così è. "Suscettibile, sensibile." Le ultime due parole le disse effettivamente a voce alta, se ne accorse, sentì il suono sgradevole della sua voce e con una mano chiusa a pugno colpì il vetro, violentemente, con tutta la forza di cui era capace, lo colpì ancora e ancora, mentre con l'altra sterzava mollemente. La macchina slittò a causa della neve e Russell emise una lieve imprecazione, ma tenne tutto per sé, sapendo, intuendo con certezza che a quel punto una parola, una sola parola e chi poteva dire dove sarebbe finita l'auto? In un fosso? Contro un albero? Contro un pilastro che dopo tutto non era molto distante. Non riusciva comunque a vedere attraverso il parabrezza, non riusciva assolutamente a vedere dove stesse andando, assolutamente, assolutamente e, ora, non importava che al di là della foschia lucente sul parabrezza ce ne fosse un'altra, più fitta, che si raccoglieva in un'area, esattamente come aveva fatto in ospedale, tanto tempo fa, quando la sua più grande preoccupazione era solo andare a casa. Non importava che fosse tutto una coltre spessa, luminosa, in fase di coagulazione, che fosse tutto un volto, quello che poteva passare per un volto, il volto del diavolo all'inferno perché era splendido. Nulla sulla terra né nel suo gracile cuore gli stava alla pari, era splendido al punto che ebbe il desiderio di gridare, di fracassarsi la testa contro quello splendore e di mandarlo in pezzi, di far sì che, come tanti frammenti di un parabrezza, si conficcasse nel suo cervello stanco e sofferente perché ora ne aveva abbastanza ne aveva proprio abbastanza e sentì un forte dolore alla tempia destra. Fra le sue mani il volante era come un giocattolo strappato di mano a un bambino che non lo meritava. Si accasciò di lato, verso la portiera, la testa sul parabrezza offuscato. Suoni di clacson, centinaia di clacson, il suono metallico di uno strappo. Era come se fosse stato strappato un foglio di carta, come se fosse stato strappato un lenzuolo con i denti per farne strofinacci, una volta aveva visto Emily farlo, i suoi piccoli canini da belva che laceravano un lenzuolo logo-
ro... "...figlio di put-tana." Era la voce di Russell, ansimante. "Stai bene?" Stava bene? Sul parabrezza c'era del sangue. Una lenta valutazione, per svolgere quel compito aveva forse tempo tutta la vita. Se riusciva a vedere il sangue, riusciva a vedere. Poteva dirlo senza farsi alcuna concessione. La tempia gli faceva ancora male, ma meno intensamente. Sentiva il collo rigido, poi percepì le braccia e le gambe. Si voltò e vide Russell con gli occhi sgranati come un gufo; sulla sua guancia sinistra qualcosa era stato leso e si stava già gonfiando. "Stai bene?" chiese nuovamente Russell. "Credo di sì," rispose, prendendo confidenza con la sua capacità di parlare. Non riusciva però a orientarsi, né a orientare l'auto o, più esattamente, a trovare il suo posto in quest'ultima, che pareva inclinata verso l'alto. "Non volevo picchiarti, ragazzo," spiegò, con tono di scusa. "Ma ho dovuto farlo, stavi pigiando l'acceleratore e ho pensato che finissimo contro quel fottuto camion di catering. Dovevo strapparti il volante di mano." Lentamente, Austen domandò: "Mi hai picchiato?" "Sì, ti ho dato un pugno in testa." Guardò di sottecchi il sangue. La macchina pareva inclinata, pareva andare all'indietro, procurandogli così un senso di nausea; vide che erano effettivamente inclinati verso l'alto: si trovavano a metà del costone erboso dell'autostrada ed erano il centro dell'interesse di una falange di auto che avanzavano lentamente, quasi strisciando. Tutti allungavano il collo, guarda, hai visto? Sono quasi finiti contro quel camion, quel pilastro. Guarda, per poco non si ammazzavano. Guarda. "Ascolta," disse Russell concitato. Certamente non aveva perso la testa; ovviamente, aveva una testa che non meritava di essere persa, ah, ah. Che cosa stava dicendo, comunque? "...bene? Perché non hai nemmeno una patente valida, non è vero?" "No," rispose stupidamente. "Non lo so." "Allora, spostati... Oh, merda, stanno già arrivando. Stai zitto, d'accordo? Lascia parlare me," esclamò, chinandosi su Austen, simile al pupazzo di un ventriloquo, e protendendosi per abbassare il finestrino. "Voi due, state bene?" Era un uomo bianco, grosso e grasso, con circa quattro pance, tre delle quali gli fuoriuscivano a rotoli dai jeans. "Che cosa diavolo è successo?" "Stiamo bene." Stranamente, pensò a Cyndee. Perché proprio in quel
momento? Aveva forse avuto un incidente automobilistico insieme a lui? No, era l'eco, Russell aveva la stessa voce di quando era stato a casa di Cyndee, affascinante, sostanzialmente falsa. Cordiale. "Mio fratello ha guidato troppo, sa? La neve e tutto il resto." "Lei sanguina," annunciò l'uomo ad Austen. "Sì, ha picchiato il naso sul volante. Mamma... nostra mamma si agiterà," spiegò, inducendo l'uomo a sorridere, cosa che questi fece. Non aveva idea di essere manipolato, vedeva ciò che Russell voleva vedesse. L'auto partì e Austen sobbalzò, lievemente, mentre Russell diceva: "Grazie mille, signore," e, quindi, rivolgendosi bruscamente a lui: "Ora spostali, cazzo, prima che venga qualcun'altro." Era una manovra complicata che, in quell'occasione, non si sentiva del tutto in grado di compiere; comunque, riuscirono a scambiarsi di posto, scivolando, e Russell si immise nuovamente nel traffico, abbandonando il luogo del delitto. Austen si appoggiò mollemente al finestrino, dalla parte del passeggero, la testa non gli doleva più, ma il naso gli faceva ancora male; forse, lo aveva davvero picchiato sul volante e, con suo disgusto, si sentì quasi sul punto di piangere. "Ehi," disse, senza guardare Russell. "Mi spiace." Mi spiace, per poco non ti uccidevo. In realtà, il bersaglio ero io. "Io, è..." Si strofinò il volto, chiudendo gli occhi in presenza di un leggero dolore. Guardò Russell; sul suo viso era comparso un bernoccolo violaceo grande quanto metà del naso. "Va bene. Stavi avendo un attacco." Ma c'era un'ombra di dubbio nella sua voce? Era forse un po' incerto? La macchina produceva un nuovo rumore, secco, qualcosa di rotto da qualche parte. "Non è cambiato nulla, ragazzo. Tranne che da ora in poi guiderò io, va bene?" "Va bene," rispose, grato, sprofondando nel sedile. Il prurito del sangue che si essiccava e lo sciaguattio della neve sciolta sull'asfalto. Russell aveva azionato i tergicristalli. Avanti-indietro, avanti-indietro, in direzione nord, verso nevicate più fitte, verso il calare delle tenebre, verso l'argento, sciaguattante, ghiacciato, dentro i confini di un volto fluido che lo conosceva, come un compagno, come una madre, come un bambino, come il ghigno di un'amante trascurata per troppo tempo, che sapeva, forse, ciò che egli desiderava più esattamente, più spietatamente di quanto egli stesso non sapesse. Sarebbe stato bene dormire, ma dormire era impossibile. Si protese verso il sedile posteriore e, con le mani tremanti per la reazione, prese lo schizzo. Andò quindi a caccia della matita e iniziò di nuovo a incorporare
lentamente il dolore al pensiero raffigurato graficamente, la deformazione del ricordo alla deformazione del sogno corporeo. Sull'autostrada interstatale 75 dormì, grazie a un sonnifero qualsiasi. Ogni confezione aveva venti pillole. Russell lo svegliò due volte per mangiare, ogni volta mostrandosi apparentemente distaccato, ma forse non era vero. Aveva dormito come mangia un uomo sul punto di morire di fame, aveva sognato furiosamente. Era come una vacanza, una vacanza inconscia; nel sonno il suo cervello aveva operato considerevolmente e, quando si risvegliò, non provò la stanchezza persistente e malsana spesso provocata dai farmaci, ma una calma tanto grande da sembrare quasi una condizione fisica. Si preoccupò, remotamente, del fatto che non disegnava quanto avrebbe dovuto, ma anche questo non era del tutto vero: talvolta, mentre lavorava su un ritratto, aveva dormito e aveva sognato come dare gli ultimi tocchi. Forse sarebbe accaduto lo stesso, forse l'intera idea gli si sarebbe presentata davanti, già elaborata, pronta. Forse durante una delle tante soste avrebbe dovuto svegliarsi e chiamare Peter, dirgli che, sì, stava di nuovo lavorando, finalmente, sì. L'idea di Peter, della casa lasciata vuota, della sua vita arenatasi nelle varie strozzature del suo corso, aveva così poca importanza per lui che riusciva a malapena a trovare le energie mentali per riflettere su ognuno di tali aspetti. Solo la sua arte, immagazzinata, paziente come un prigioniero, aveva il potere di suscitare quanto di più affascinante ci fosse rispetto a un sospiro mentale. Aspettami, pensò, senza sorridere di fronte al melodramma, aspettami e ti porterò un re. Si svegliò e scoprì che erano fermi nel parcheggio di una banca. Russell, infreddolito, era chino su uno sportello automatico. Quando ritornò nell'auto iperriscaldata, Austen, curioso ma ancora insonnolito, chiese: "Che cos'hai preso?" "Soldi," rispose Russell, infilandoli in un portafoglio tutto piegato, come uno strano organo, come un tumore carnoso cresciuto sul suo fianco. "Siamo un po' scarsi." "Quanto..." Era una domanda imbarazzante, in certo qual modo; era, dopo tutto, la sua avventura. Per continuare dovette mettersi a sedere. "Intendo, quanto hai?" "Era la carta di Deanie." Poi, nel silenzio che si era creato, aggiunse, a mo' di giustificazione: "Merda, mi doveva quasi sei mesi di affitto, ragazzo, sono tanti soldi. Questa è solo una briciola, d'accordo?" "D'accordo." Perché, alla fine, suppose lo fosse e, anche in caso contra-
rio, non spettava a lui criticare. Non aveva preso denaro da sua madre, senza avere alcuna idea di restituirglielo? E quello era rubare, esattamente come lo era ciò che aveva fatto Russell. Quindi, ora, erano entrambi ladri. Ripartirono, un chilometro dopo l'altro. Per cambiare discorso, Austen domandò: "Quanto ho dormito?" "Non ti sei perso nulla, se questo è quello che vuoi sapere." "Mi chiedevo, semplicemente." Gli venne in mente un'altra domanda, e la fece: "Che cosa pensi accadrà, quando arriveremo dove stiamo andando?" "Sei tu quello che ha le visioni," ribatté l'altro, superando con una sterzata sull'asfalto viscido un camion che trasportava sostanze chimiche, cilindrico come un proiettile privo di punta. "Tu me lo devi dire." Sogni da febbre: magnifici come il tumulto mentale che precede l'orgasmo, calore bianco nei dubbi corridoi scivolosi del suo cervello, le cicatrici del danno simili ai crateri provocati dalle bombe. O erano invece incurvate, come vecchie testuggini malate di cancro, spesse come croste terrestri? Non era necessariamente importante; l'effetto era lo stesso e, dopo tutto, questo era tutto ciò che perseguiva: l'effetto. Ingobbito sul sedile anteriore come un vampiro, Russell era instancabile; ma forse tutto stava accadendo nello stesso giorno. Quello era certamente molto più che un sonnifero. Sulle labbra aveva un farmaco; canfora e mentolo penetravano nei tessuti come un veleno, come avveniva nel Medioevo a quelle donne che venivano uccise dai loro cosmetici. Erano l'equivalente mediceo del dimetisolfossido. Persino nel suo sonno infinito riusciva a sentirne l'odore. Dato che si ricordava di aver conversato con Russell, a lungo, per certi periodi era stato evidentemente sveglio: Dove sei cresciuto? E Russell che gli parlava della sua infanzia, di Horace, sempre di Horace, il Re dei Padri, dal cervello sconvolto, che visse per raccontare la sua esperienza finché il cuore non lo stroncò. Era come un racconto popolare, in cui l'eroe moriva a causa del suo cuore. Gli parlava di quando si era trasferito in Arkansas e poi in Texas, gli parlava delle sue ragazze, chiedeva di Emily. Faceva molte domande su Emily, ma forse era solo una sua impressione: quelle pillole erano fantastiche. Sognò: bocche, echi, dita che percorrevano abilmente e furtivamente le parti piane del suo corpo, come lucertole nel buio, che lo toccavano, che lo toccavano, e si risvegliò una volta in preda a un'estasi gelida e si accorse che stava sbavando. Russell era addormentato accanto a lui, si trovavano in un'area di sosta, da qualche parte. In macchina faceva molto freddo; ma
dove diavolo si trovavano in quel momento? Non c'era altro che l'autostrada anonima, nessun indizio utile. Sopra la sagoma tozza e squadrata della costruzione solitaria c'era una luce verde pallido, dello stesso colore delle alghe marine. Nel parcheggio solo la loro auto e, a una certa distanza, alcuni camion, con il motore al minimo, scossi da leggere vibrazioni, pronti a solcare la strada. Aveva bisogno di orinare, si sentiva stanco come piombo fuso e, quando si alzò in piedi, la testa gli girò tanto violentemente che per un momento gli fu impossibile vedere. Si muoveva tutto; chiuse gli occhi e li riaprì nell'oscurità verde. Andò lentamente verso i bagni, chiudendosi alle spalle la porta a vento dal colore, sgargiante che dava sul vuoto. Le piastrelle del pavimento e delle pareti erano indubbiamente refrattarie al calore, data la temperatura gelida dell'ambiente. Forse lo stato non si occupava più del mantenimento di quell'area di sosta, forse non si trattava nemmeno di un'area di sosta. Solo Russell sapeva dove si trovavano e, in quel momento, non parlava. Fuori faceva altrettanto freddo. Mentre ritornava alla macchina - fu un percorso veramente diffìcile - si rese conto che non stava indossando il cappotto e che non si ricordava quando avesse preso per l'ultima volta il Tegretol. Aveva evidentemente smesso di osservare la luce verde, fredda come quelle fluorescenti, forse la sua mente aveva deciso che era giunta l'ora di morire per congelamento. Non era una brutta morte, ma non era del tutto pronto per andarsene. Lo era invece per ritornare in macchina, aveva elaborato una della sue freddure, stava tremando, faceva molto freddo. Aveva le mani lungo i fianchi e non era più in grado di muoverle, ma la luce era splendida. Guarda, lungo il palo, avvolte come decorazioni dell'albero di maggio, le stelle filanti d'argento. Stava riversandosi fuori dalla luce, come aveva potuto non notarlo prima? La vista superiore alla parola, superiore alla visione, stava venendo da lui, ora, stava venendo per lui. Dopo tutto, non sarebbe stato meglio andare, andare semplicemente a vedere? Immagina le possibilità, le cose che non avresti mai sperato di poter sognare. Stava avvolgendosi ai suoi piedi, stava salendogli su per le gambe, perché gli stava toccando il pene, accidenti, era freddo come un'emulsione, era distillato e Austen si chinò, immergendosi in esso, nel modo in cui un pedone si incurva per affrontare un forte vento, procedendo passo passo, lottando contro la sua resistenza, ma la resistenza stessa venne dall'interno, la co-
piosa infiltrazione del terrore, denso come miele, corposo come sangue, quel passo interminabile, quel momento di sospensione sopra un abisso mentre, flessuoso e sinistro, assumeva la forma di una figura dotata di arti, simili a forconi squisitamente ricurvi e Russell lo colpì, lo colpì violentemente, doveva trattarsi di Russell poiché ne vide il volto, stravolto e spaventato, forse più che spaventato, forse spaventato a morte, ma era difficile a dirsi, visto che uno dei suoi occhi era chiuso. Russell stava gridando e lui, stupito, esclamò: "Mi hai picchiato." In risposta Russell gli urlò selvaggiamente: "Sali in quella fottuta macchina!" e lo gettò sul sedile posteriore, come se fosse stato un sacchetto della spesa, lo colpì con la portiera, che gli portò via una lunga striscia di pelle dalla caviglia dalla sua caviglia nuda. Sui piedi, sangue, denso, sembrava fìnto come quello dei film, altro sangue sulle mani. Oltrepassando con una sbandata i camion addormentati, si diressero verso l'autostrada. Scrollò il capo, lo scrollò di nuovo e si sfregò il viso con i palmi delle mani; anch'essi erano insanguinati. Senza voltarsi verso di lui Russell disse: "Basta con quelle fottute pillole, ragazzo." Il dolore ai piedi e alle mani iniziò a farsi sentire più di quella che avvertiva come una sensazione di freddo atroce. Solo quando Russell diminuì la velocità, stabilizzandola sui centoventi chilometri l'ora, chiese mitemente un sunto dell'accaduto. "Mi sono svegliato," spiegò, parlando tra i denti, "e la fottuta portiera era aperta e tu non c'eri più. Così mi sono alzato e ti ho visto arrampicarti su per il fottuto lampione. C'era sangue dappertutto e ho pensato, che cos'è questa merda e tu mi hai assalito, ragazzo, proprio come un fottuto cane impazzito e..." "Mi hai picchiato," osservò Austen, senza risentimento, riferendo solo quella parte della storia che era certo di conoscere. Ora i piedi gli facevano molto male, li toccò con le dita ferite, carne fredda su carne fredda. "Puoi essere fottutamente sicuro che ti ho picchiato! Ti ho picchiato tre volte, in effetti, ma non sembra che tu abbia sentito i primi due colpi." In quel momento gli diede un'occhiata, non era tanto offeso quanto furioso per la sorpresa. "Intendo dire, non credo fossi realmente tu, ma dovevo fermarti, ragazzo, ti stavi rendendo fottutamente ridicolo. Mi stavi puntando, ragazzo." Era come se lo informassero delle idiozie compiute in stato di ubriachezza a una festa. "Mi spiace," dichiarò, pentito, ma solo formalmente:
non ricordava infatti nulla dell'accaduto. Tranne che lo splendore e il freddo, e la profonda stilettata dell'argento. Era stato splendido al punto che non poteva ammettere di essere pentito. Russell parlava ancora, diceva qualcosa a proposito del sonnifero. Austen non voleva rivelare di aver inghiottito le ultime tre pillole in quello stesso istante, le ultime tre, annidate, minuscole e umide come sassolini, nella sua mano goffa e congelata. Era un brutto momento e, comunque, avrebbe potuto dirgli più in là che non era il caso di preoccuparsi, le pillole erano finite. Quando si svegliò, era solo in macchina; tutte le portiere erano chiuse. Fuori c'era luce, una luce pallida. Aveva male dappertutto ed era ancora appiccicaticcio a causa del sangue. Camion fermi, grandi insegne che indicavano il distributore di benzina e il ristorante, una gran quantità di camion e di movimento. Russell si intravvedeva a malapena in una cabina telefonica, una mano in tasca, il corpo irrigidito e stanco. Quando ritornò alla macchina, diede un'occhiata circospetta al sedile posteriore. Al suo avvicinarsi, tuttavia, Austen si era raggomitolato in posizione fetale, appallottolandosi come quegli insetti che, se toccati, assumono la forma di minuscole sfere. Ovviamente quando hanno paura. Al successivo risveglio era sempre imbrattato di sangue. Erano in Michigan; un altro confine oltrepassato in stato di incoscienza. Quando lo fece notare, la sua vocina proveniente dal sedile posteriore suonò come quella, flebile, di un bambino interdetto. Russell replicò: "Andiamo in un posto diverso. Te lo dirò quando ci arriveremo." Perché? Lo aveva quasi urlato. "Perché," Russell parlava ora con tono non seccato, ma molto stanco, "abbiamo bisogno di una mano." "Che cosa vuoi dire?" domandò, cercando di mettersi a sedere. "Perché?" Passò un'auto senza marmitta, rumorosa come un jet. "Se vai troppo oltre, io riesco ad afferrarti, giusto?" Silenzio. "Ma chi afferra me?" Russell non parlò più e Austen non insistette. Aveva la sensazione di nuotare in acque troppo profonde perché potesse intravvedere il fondo, sotto di lui non c'era altro che acqua ed acqua, acqua fino alla fine del mondo, e tutta, più che mai, argentea. Nessun limite; nessuna salvezza, né dentro né fuori. Si fermarono per mangiare e perché Austen potesse lavarsi. Sgattaiolò
nella toilette dell'area di sosta come un criminale, come un killer con ancora addosso le prove del reato. Gli ci vollero alcuni dolorosi minuti per ripulirsi; quando ebbe terminato, vide i solchi sul suo corpo: aveva i piedi graffiati in cinque o sei punti. Non c'era dunque da meravigliarsi se aveva sanguinato tanto abbondantemente. Russell entrò mentre si stava asciugando, il crepitio delle salviettine di carta marrone, un odore pungente, antico come quello delle scuole elementari. Salviettine di carta bagnate appallottolate e conficcate nel soffitto del bagno dei ragazzi, simili ai bozzoli di falene predatori. "Non posso più fidarmi di te, quando sei al cesso," disse, ed entrambi sorrisero, anche se non si trattava di uno scherzo. "Si può mangiare qui oppure in uno dei fast-food lungo la strada." "Va bene," rispose, infilandosi un paio di calzini usati una volta sola. "Scegli tu, a me non importa." Mentre ritornavano alla macchina, Russell si fece improvvisamente serio, ma non si fermò. Austen, viceversa, lo fece. Fu una pausa istintiva: stava arrivando qualcosa. Russell gli si mise di fronte. Sotto gli occhi due segni neri, l'aspetto stanco di un uomo sempre intento a fare la guardia. Austen si sentì colpevole, ricordando i primi giorni con la cosa argentea, la solitudine della paranoia, il perfido esaurirsi delle forze; immagina: una bestia dotata di coscienza. (E quando, chiese la sua mente, tutto ciò è cambiato, quando l'idea di muoversi continuamente aveva cessato di turbarlo del tutto, quando è diventato facile? Non è mai facile, giunse amara la risposta. Le cose peggiorano solo. Ma puoi ben esser stanco. Ci vuole energia per tenere tutto sotto controllo.) Russell lo guardò, gli occhi socchiusi, lo sguardo luminoso. "Che cos'hai visto?" chiese, con tono non tanto timido, quanto cauto. Forse era una domanda alla quale sarebbe stato più sicuro non rispondere; ma in essa c'era pure la bramosia di sapere. "Che cosa stavi vedendo quando ti ho menato?" "È, è diffìcile..." Bloccato dalla sua stessa capacità di articolare un discorso, non si ricordava di aver visto, quanto di aver toccato, di aver sentito il liquido strisciargli addosso, arrampicarsi sul suo corpo: come spiegare la luminosità, la scena del miraggio che diventava reale, l'ondata di terrore e di sangue, l'approccio folle, quasi marziale, al gioco del mostro. Fece del suo meglio: ne uscì un racconto scarno, che non era né l'ombra del sogno né, tanto meno, della realtà. Non era soddisfacente, ma Russell non chiese altro.
"Va bene," osservò. Ripresero a camminare, entrarono in macchina, e Austen dovette chiudere due volte la portiera: aveva le braccia talmente deboli che gli sembrava pesasse centinaia e centinaia di chili. "Perché so che stavi vedendo qualcosa di terribilmente brutto, chiunque lo avrebbe capito." Con enorme diffidenza, fissava diritto davanti a sé, attraverso il parabrezza, come se un occhio incauto potesse venire istantaneamente e brutalmente accecato. "Vedi mai cose? Sai, cose orribili?" "No... Sì." Il rumore del motore. "Vedo te." Silenzio. "Lavorerò un po'," annunciò Austen, stando sempre attento a non vedere nulla; si allungò per afferrare gli schizzi e, immediatamente, con grande perplessità, si rese conto che ce n'erano più di quanti pensasse; c'erano molti, molti schizzi, ed egli li scorse velocemente, superficialmente, prima le sfingi, poi uomini con le parti posteriori e i genitali di cane, donne con la testa di alligatore, bambini che creavano melodie soffiando nelle ossa delle loro madri e che avevano spine di pesci morti fra i capelli, e cose ancora più selvagge e ancor meno definibili, cose che sfidavano qualsiasi tipo di classificazione, cose che avrebbero potuto provenire da luoghi in cui, come unici elementi, regnavano il sangue e l'acido, in cui il fuoco era l'aria e l'aria un mezzo infido da modellare, da comprimere o da eliminare a piacimento. Non ricordava alcuna di quelle creature, assolutamente nessuna di esse, con i loro occhietti obliqui e le loro ganasce sorridenti, nessuna. Ma erano tutte sue, indiscutibilmente; lo vedeva da ogni linea febbrile, da ogni squama realizzata a tratteggio incrociato. Nessuno poteva imitarlo e, anche se fosse stato possibile, lì non c'era nessuno, fatta ovviamente eccezione per Russell. Che lo osservava guardare, frugare selvaggiamente fra i disegni e che, infine, esclamò: "Beh, una cosa si può dire di quelle pillole: ti hanno fatto certamente lavorare come un maledetto pazzo." Austen non rispose. Gli era diffìcile respirare e impossibile parlare. "Ti va di andare da McDonald's?" Annuì, il sole attraverso il finestrino gli feriva gli occhi. Di nuovo, il terrore dell'ospedale, ma, questa volta, dall'alto; era un altro ordine di grandezza rispetto ai primi timidi, freddi accenni, che ora non gli suscitavano altro che nostalgia. Sarebbe stato bello essere spaventati esattamente come allora e nulla di più. Si sedette, svuotato di tutto quanto avesse minor peso della paura: oppresso, ora, ancor più violentemente, la bile secca a contatto
con la superficie porosa dei suoi denti, prigioniero com'era, in ceppi e in fiamme, in fiamme, completamente incenerito. Quando deglutì, emise un suono forte come un colpo di tosse; Russell gli diede un'occhiata, penetrante, poi distolse lo sguardo. Fecero la fila in macchina per ordinare il cibo; Russell ne divorò una quantità enorme. Ad Austen l'odore fece venire la nausea; cercò comunque di mangiare quello che poteva; non si sarebbero infatti fermati di nuovo, se non dopo molto tempo. Russell gli gettò un pezzetto duro di una patatina fritta, abbozzando un sorriso canzonatorio, ma sapevano entrambi che era forzato, qualcosa era cambiato. "Hai intenzione di lavorare?" chiese, pulendosi la bocca. Nella piega gli era tuttavia rimasta una gocciolina di salsa, sembrava una sorta di strano pus, la secrezione di una piccola, singolare ferita. "Non so." Sì, lo sai. "Forse. Probabilmente." I disegni, frammenti di pelle di una bestia priva di coscienza dopo la muta. Le sue dita menzognere abbandonate su un contenitore pieno di bastoncini di pollo, con una chiazza circolare oleosa di salsa, ed egli intingeva e mangiava, intingeva e mangiava, masticando lentamente, come se potesse avere conati di vomito mentre Russell parlava di scopare e di come da troppo tempo non lo faceva, e aveva il cazzo duro come una mazza da baseball. Un mezzo sorriso, forzato tanto quanto il suo deglutire meccanico, il cibo dal sapore di lardo rancido. "Non guardarmi." "Non ti preoccupare, non vale la pena di farlo. Intendo dire, la prossima volta che ci fermiamo, dobbiamo recuperare qualche fica. Che ne dici?" e avanti ancora, sogghignando, quand'è stata l'ultima volta che l'hai fatto, lo stai risparmiando per la tua ex-moglie o per chi? Sembrava ridicolo quando lo diceva e, tra l'altro, non era vero, non del tutto; al di là di pochi incontri e di quell'ultimo, vergognoso appuntamento con, come si chiamava? Gina, da quella volta con Gina, non l'aveva più fatto. In quel momento non ne aveva la minima voglia; di ciò erano più che probabilmente responsabili i farmaci, la depressione, il peso stesso della follia, che superava i confini di qualsiasi stato. Annichilante era anche l'oscurità infinita della paura. Ma l'idea aveva, nel suo insieme, un che di promettente, di allettante, sì, accennò di sì con il capo. Forse era qualcosa a cui pensare per il futuro, oltre ai disegni che non riusciva a spiegarsi e alle manifestazioni di cui non si ricordava, non perfettamente, non più; oltre alla lenta contemplazione suicida di ciò che era diventato. Doveva ancora conferirvi un nome, ma il
nome, lo sapeva con tremendo rimpianto, era già decisamente pronto. Attraversarono Detroit e la superarono, prendendo l'interstatale 95. Austen era sorpreso. Andavano verso ovest, non si erano ancora realmente fermati, avevano dormito in macchina durante la notte. Era calmo, in quanto privo di visioni, privo di sangue, sano. Non più nuovi disegni, ma l'inizio del ritratto, di quello vero. Lavorava con colori a olio densi, usandoli in piccole quantità; quando erano tanto densi impiegavano un'eternità ad asciugarsi, ma per il momento era stanco di fare schizzi. Jackson era una città con una prigione statale e cartelli che dicevano VIETATO DARE PASSAGGI AGLI AUTOSTOPPISTI. "Soprattutto in pigiama a strisce," osservò Russell. La neve schizzava sul parabrezza, tranquillamente, come se stesse arrivando una seconda era glaciale e questa avesse tutto il tempo del mondo per seminare morte. "Vuoi fermarti qui o andare avanti ancora un po'?" "Se mi dicessi dove stiamo andando," rispose, valutando cautamente i colori, un nero intenso, come il lucido da scarpe, "ti potrei rispondere meglio." Non avrebbe usato l'argento; era artista al punto da poterne fare a meno, almeno così pensava e, comunque, se anche si sbagliava, che importanza avrebbe avuto? Solo i disegni sulle pareti di casa sua e forse Peter lo avrebbero visto; ma era significativo come gli altri suoi lavori non erano mai stati, c'era una forza, della cui natura era incerto, ma sarebbe sicuramente stato... "...sei? Nemmeno una fottuta parola." "Che cosa?" Uno sguardo idiota, come quello di un bambino stupido che si aspetta quasi sempre una sculacciata. "Non ho sentito." "Lo so," rispose, spazientito e brusco. Ma su quale linea stava camminando Russell? E quanto a lungo avrebbe potuto farlo? "Ho detto, andiamo avanti ancora un po', poi ci fermiamo per la notte. Va bene?" "Certo." Lo sguardo di nuovo sul dipinto. Il seme, i primi contorcimenti, i primi spasimi della vita nel vuoto, il primo e solitario spermatozoo al mondo. "Come vuoi." "Cazzo!" La rabbia di Russell tanto inattesa che Austen, letteralmente, sobbalzò, sballottando il quadro. Una minuscola macchia di colore sporcò indelebilmente la maniglia sudicia del finestrino. "E tutto quello che sai dire? È come stare con un fottuto fantasma. O dai fuori di matto e cerchi di uccidermi o lavori su un nuovo quadro oppure sei del tutto assente! Parla
un po', qualche volta, eh? Del fottuto tempo. O canta una canzone che danno alla radio o fai qualsiasi altra cosa, ma fai ogni tanto rumore in modo che io sappia che sei ancora vivo!" Il silenzio dopo la tempesta. Poi, "Mi dispiace." Era Russell. Non sembrava sincero: era dispiaciuto solo per il fatto di aver parlato. E che cos'altro non era stato detto? "Dimentica le mie parole, d'accordo?" "D'accordo." Reso doppiamente muto dall'invito perentorio a parlare, non disse nulla; era diffidente in merito al fatto di riprendere a lavorare. Ma visto che non venne detto nient'altro, cautamente, lentamente, iniziò ad aggiungere, in un angolo, con meticolosità, un rosso denso: il sangue. C'era un bar simile al BAR, con la differenza però che il fumo era meno denso e più insidioso e che la toilette degli uomini puzzava maggiormente di rancido e di stantio. Meno di dieci persone sedevano ai tavoli e al lungo banco scivoloso, ma non erano neanche le otto. Russell si sedette e bevve vari bicchierini di vodka, ma il suo umore non migliorò. Al suo fianco Austen era cupo, giocherellava con una birra, della marca alla spina più scarsa. Non avrebbero dovuto sprecare soldi nei bar, ma non avrebbe detto nulla in proposito, non avrebbe detto nulla che non fosse piacevole, frivolo o entrambe le cose. "Fa caldo qui dentro," commentò. "È una fottuta bettola, ecco quello che è," replicò Russell, fissando la TV che mostrava, apparentemente senza interruzione, i momenti di maggior interesse e gli errori di numerosi incontri sportivi. "Fammi finire questo, e poi andiamo." La birra aveva un sapore pessimo, di saponata; era come se il bicchiere fosse stato lavato, ma non sciacquato. Cercando di assumere un tono allegro o, quanto meno, partecipe, Austen chiese: "Dove?" "Fuori di qui," rispose Russell, allontanandosi dal banco. Austen lo seguì in strada, nella fanghiglia mista a neve. In macchina faceva freddo; Austen voleva controllare la pittura, verificare se si fosse asciugata un po'. Non lo fece. "Mentre pisciavi," disse Russell, girando mollemente il volante per fare una veloce retromarcia e poi ripartire, sbandando, con un'ampia curva, "o facevi quello che facevi là dentro, ho cercato sulle Pagine Gialle e ho trovato un topless-bar. Si chiama Carol's. Non deve essere lontano da qui." "Ci sono i topless-bar sulle Pagine Gialle?" chiese Austen stupito. "Sicuro. 'Divertimenti per adulti'. Tu sei adulto, vero?" KAROL'S, un'insegna grande e RAGAZZE IN TOPLESS, un'insegna
ancora più grande. Il parcheggio era pieno; c'era una breve coda per entrarci. Tre o quattro ragazzi dall'aria idiota stavano ridendo a voce alta: erano giovani, notò Austen, forse nemmeno ventenni: carta d'identità falsa e una serata trascorsa a fissare ragazze che non avrebbero rivolto loro la parola a meno che non avessero ordinato da bere. Russell gli fece cenno affinchè pagasse il dovuto per un tavolo; la cifra era maggiore di quanto pensasse, ma non disse nulla. Gli unici posti a sedere che riuscirono a trovare erano molto lontani dal bar, presso un tavolino tanto piccolo che non avrebbe potuto reggere nulla che pesasse più di venticinque chili. Russell ordinò altra vodka alla barista, body sgambatissimo in pizzo elasticizzato e sorriso asciutto e deciso. Austen prese una birra. Il solo fatto di trovarsi in quel luogo sembrò consolare Russell; parlava meno e sorrideva di più. Tre ragazze ballavano, due bionde e una dai capelli castani ritti, impiastricciati di gel in quantità tale da evocare la cresta di un dinosauro. Russell le si avvicinò e le sussurrò qualcosa, le passò una banconota, le disse ancora dell'altro e lei sorrise, un autentico sorriso. Iniziarono a trasmettere una vecchia canzone dei Rolling Stones e la ragazza, mentre danzava, muoveva le labbra, ripetendone silenziosamente le parole, come se la canzone fosse una delle sue preferite. Quando questa finì, balzò giù dal palco, agile come un bambino, e rimase davanti al banco, in attesa di un cenno di Russell. Anch'egli sorrideva, era tutto denti, come il lupo cattivo. Austen si ricordò di aver una volta irritato Emily, cercando di convincerla ad andare insieme ad alcuni amici in un topless-bar, in un bar dove ballavano ragazze nude, di cui non ricordava il nome. Emily aveva riso e aveva risposto che se voleva vedere una donna nuda non doveva fare altro che guardarsi allo specchio. Quella notte aveva fatto l'amore con lei e, per tutto il tempo, l'aveva immaginata mentre danzava nuda, non in un bar, ma nel vuoto, in un luogo in cui solo i suoi occhi la vedevano. Aveva gridato quando era venuto e quando, ancora ansimante, aveva aperto gli occhi, aveva visto il suo sorriso freddo e ironico. Sapeva ciò che stava pensando? Lo stava deridendo? Russell disse qualcosa, ma la sua voce venne coperta dalla musica; scoppiò quindi a ridere, e Austen sorrise, sollevando il bicchiere per brindare con lui. A che cosa brindavano? Ai seni nudi? Probabilmente. Si ricordò che Russell gli aveva raccontato che Deanie, la sua ex-ragazza, ballava in topless. Il bar chiudeva alle due; a quell'ora Russell era ubriaco tanto da non riu-
scire quasi a parlare e si era accasciato sulla sedia, come se gli fossero state sottratte di soppiatto due vertebre. Aveva bevuto, quanto? Impossibile a dirsi. In quel locale portavano via i bicchieri vuoti con la stessa velocità con cui uno li vuotava, non era nel loro interesse che il cliente sapesse esattamente quanto stava spendendo. Con la sua birra volutamente cincischiata, Austen era stato invece oggetto di un muto disprezzo: niente di peggio di un cliente avaro. Una delle cameriere si avvicinò e disse loro che era il momento di andarsene. "Andate a casa," esclamò, il che suscitò in Austen la voglia di sorridere. Russell borbottò qualcosa a proposito della sua bellezza e cercò di toccarle il seno; lei lo evitò con un movimento laterale pieno di spensierata eleganza, che le proveniva dalla lunga esperienza; ogni notte qualche ubriaco cercava di toccarla, e ogni notte lei evitava la presa. Nel parcheggio Russell cadde due volte, si rialzò, imprecando, per ricadere di nuovo. "Vieni," disse Austen, sollevandolo, "lascia che per una volta ti sorregga io," ma Russell non era più in grado di capire una battuta, era in quell'aspra e grigia terra di confine fra l'ubriachezza e lo star male. Prima di spingerlo sul sedile posteriore, Austen prese le chiavi della macchina; in mano sua erano strane, era tanto che non guidava la sua auto. Ora. Un Red Roof Inn da qualche parte nei paraggi; Russell ne aveva fatto menzione, passando; quella notte non dovevano dormire fuori: ipotermia, congelamento da stato di ebbrezza e, in ogni caso, avevano scialato tanto denaro che avrebbero potuto scialarne ancora un po'! Si presentò alla reception da solo, chiese una stanza al piano terra e vi entrò; poi ritornò alla macchina, dove scoprì che Russell se l'era fatta addosso. Una macchia fredda sul sedile posteriore. Lottò per metterlo in piedi e lo trasportò lentamente sul terreno ghiacciato; trascinava un peso morto, che gemeva e tremava mentre passavano dal buio alla luce marrone chiaro e alla freddezza scostante di una camera non abitata da tempo. Sbatté la porta e il rumore echeggiò sulla parete opposta, buttò il compagno violentemente sull'unico letto, andò in bagno a orinare, lievemente stordito a causa della birra. Erano le due e trenta. Gran parte della pittura si era asciugata; poteva lavorare per un po', non era stanco. Russell dormiva, la bocca aperta; emetteva suoni aspri, sgradevolmente simili a quelli di soffocamento dell'uomo nel bagno, dell'uomo strangolato dall'argento. Non pensarci. Nella camera la luce era smorta, insufficiente; si trasferì in bagno, dove
la luce al neon fluorescente, quasi sottomarina, conferiva a tutti i suoi colori una tonalità verde. Era un colore malsano, il colore dell'infezione, della decadenza, della carne resecata, offerta all'avanzare della lama, gentile, cauterizzante. Bisturi. Laser. Una dissezione netta. Si era appoggiato con la schiena alla vasca, non era una posizione naturale, ma non avrebbe provato alcun disagio. Stava facendo del sangue un ornamento, l'intenso verderame di una carne irreale, del metallo, del suono che il cervello produce quando viene afferrato da mani accorte e strizzato, strizzato violentemente, frutto rosaceo che assume un colore purpureo in una marea di grigio peltro, fiotti e schizzi, come la fontana della conoscenza: sarai in paradiso. Una figura, un edificio. La luce non era come doveva essere, ma era perfetta: in essa vide ciò che non avrebbe potuto vedere. Le mani gli tremavano. Uno zampillo di luce percorse il pennello, che fungeva da tramite, e risalì boriosamente lungo la carne del suo braccio, molecole gemelle che sciamavano nel chiarore, davanti ai suoi occhi, come i bagliori boreali prima di svanire. Adesso rivestiva la sua mano come fosse un guanto. Aveva messo da parte il quadro, affinchè si asciugasse? Non ne era sicuro. Le sue mani ne erano ricoperte ma, in certo qual modo, non era spaventoso, né fastidioso; era semplicemente, decisamente giusto, era esattamente come avrebbe dovuto essere fin dal principio. Le sue dita avevano forse generato nuove articolazioni, ricurve e strane come quelle delle mantidi; era straordinario vederle flettersi e tremare mentre cercava di raccogliere, sì, il pennello dal pavimento; evidentemente, lo aveva lasciato cadere. Lo specchio gli rivelò ulteriori mutazioni, una lucentezza della pelle che non aveva mai notato e ora, sotto entrambe le orbite, un strano, lieve strato di colore, rosso intenso. Sembravano i segni che i guerrieri si dipingevano sul volto per incutere paura e per trionfare in battaglia; lo facevano apparire molto diverso, non gli era mai parso di essere una figura minacciosa, ma ora ne aveva effettivamente l'aspetto. Andò, o venne mandato, non ricordava di aver iniziato il movimento, ma si ritrovò nell'altra stanza, nella stanza con il letto. Russell vi giaceva trasversalmente, raggomitolato, sofferente, aveva vomitato sul copriletto e aveva gli occhi ancora chiusi. "Russell?" Aveva parlato ad alta voce? Com'era strano guardare verso il basso e vedere quelle dita deformi, che spuntavano a guisa di antenne o di erbacce in un giardino; era qualcosa di cui avrebbe dovuto spaventarsi, ma era tanto interessante. Tutta la sua pelle aveva ora quello strano colore. Pulsazioni in
qualche punto attorno alle ossa dei polsi, come tanti piccoli orologi che battevano sotto il manto discreto della pelle. Sollevò le braccia per mostrarle a Russell, per dirgli: Ehi, non è magico? Guarda. Guarda. Guardami. Gli occhi di Russell si aprirono stancamente, poi, con un fremito, si richiusero, come se non potesse sopportare quella vista, come se non potesse sopportare l'idea di verifìcare con un'altra occhiata. "Guarda, Russell," disse Austen, con tono quasi giocoso, "io..." E si ritrovò sul pavimento, come era successo? Russell, sopra di lui, vomitava dal lato del letto, emetteva suoni sgradevoli. Si mosse per aiutarlo ma scoprì di non poterlo fare, di essere appiccicaticcio e legato; quando aprì la bocca, non riuscì a parlare. Una cosa simile a gelatina, quando muoveva i denti riusciva a sentirla, una sensazione orribile, la sua bocca riempita a forza. Era piena, e Russell stava cercando di alzarsi, ora, cercava di raggiungere la porta. Dove pensava di andare? Doveva rimanere e dargli una mano. "Aiutami," tentò di dire Austen, ma trovò che le sue nuove, bizzarre dita erano di maggiore aiuto; afferrò Russell, intrappolò una gamba vacillante e la bloccò. Russell parlava, ma Austen non riusciva a capire; sollevò le mani per pulirsi le orecchie, per strofinarsi il viso e se le ritrovò imbrattate di sangue, erano un silenzio assoluto, come se tutti i rumori fossero stati risucchiati da una forza immensa al centro della stanza e il vortice della coscienza che trascinava all'indietro, era come svegliarsi nel mezzo di una guerra, di un incendio, era come vivere l'attimo dopo un incidente, di fronte alle ruote che ancora girano e Austen gridò e Russell, privato dell'equilibrio, cadde all'indietro sul letto, Austen gridò di nuovo perché ora era sveglio, poteva vedere, un occhio era a posto. Era ricoperto d'argento, c'era argento nella sua bocca, oh Dio, e sangue, sangue su tutte le mani, e adesso qualcuno batteva sulla porta, furiosamente. Urlava qualcosa. Oh Dio. Oh Dio. Russell cercò di mettersi a sedere e Austen, strisciando come un granchio, tentò di nascondersi da qualche parte, nel bagno, di chiudere la porta. "Aiutami!" esclamò istericamente, ma Russell non era più in grado di aiutare nessuno, gli era già impossibile aiutare se stesso. Quando Austen cercò di camminare, ebbe la sensazione che le gambe fos-
sero prive di ossa e le sue mani, oh Gesù, le sue mani, erano rotte, deformate in un modo che, se avesse dovuto esaminarle precisamente in quel momento, avrebbe potuto mettersi a urlare e non smettere più fino all'ospedale, era... "Ehi!" si sentì da fuori. "Sta arrivando la polizia, ho chiamato la polizia! Parlerete con loro!" Era una donna; aveva la voce stridula, spaventata. Che cosa era accaduto lì dentro? Era più facile muoversi; utilizzando quelle nuove, grottesche dita si tirò su, in piedi, avanzò a stento - la stanza sembrava grande quanto una sala da ballo, gli parve di impiegare un'eternità ad attraversare il tappeto - arrivò fino al bagno, si chiuse la porta alla spalle e bloccò la maniglia e la stanza era tutta insanguinata. La tenda della doccia non esisteva più, ammucchiata in vari pezzi, i residui buttati nel water, i due scarichi tappati, come per impedire ogni possibilità di uscita, gli asciugamani ammucchiati nella vasca, rossi. L'asciugacapelli a muro in frantumi, come un'offerta rifiutata, davanti allo specchio, anch'esso rotto in un punto preciso, come se fosse stato colpito con una forza tremenda da qualcosa di molto denso e reale. Nello specchio vide il suo volto. Sangue e argento, un occhio gonfio e chiuso. Un angolo della bocca era piegato, notevolmente, come se la smorfia fosse intenzionale, come se fosse dovuta a un ictus. Argento e sangue dal naso e, cosa ancor più sinistra, dalle orecchie. Non riuscì a guardarsi di nuovo le mani. Pareva che Russell stesse nuovamente vomitando, vicino alla porta, eruzioni e rigurgiti irregolari e, nella sua mente, nessun pensiero, nulla, se non un ampio, vuoto dolore. Qualcuno bussò alla porta d'ingresso. La polizia li trattenne tutta la notte, o per quello che rimaneva di essa; infine, ebbero il permesso di andarsene. Nessuno avrebbe sporto denuncia contro l'altro e nella faccenda non erano state coinvolte altre persone. La polizia continuò a insistere che si trattava di una lite violenta e che avrebbero dovuto pagare i danni al motel ma, anche mentre lo facevano, continuavano a guardare, a guardare, soprattutto Austen, a petto nudo, cieco da un occhio, la camicia gettata dietro le spalle curve. Le mani sotto le ascelle, la bocca triste come quella di un clown. Russell aveva un aspetto peggiore, i capelli per metà ritti, un odore di vomito addosso, gli occhi socchiusi mentre parlava, come se gli facesse male la luce. Ma c'era qualcosa
di irrimediabilmente compromesso in Austen, qualcosa di rotto; persino i poliziotti lo percepivano. "Faresti meglio a cercare aiuto, ragazzo." Con tono disgustato, aggiunsero: "Sei l'essere più bizzarro di cui abbia mai dovuto occuparmi." Li riportarono al motel dove scoprirono che, dopo tutto, la tenda della doccia e l'asciugacapelli erano sostituibili. Lo specchio non aveva subito danni; Austen si ricordava il contrario, si ricordava che fosse rotto, ma non disse nulla. In fondo la scena non era poi apocalittica come gli era inizialmente sembrato: gli asciugamani potevano essere lavati, il copriletto, pulito a secco. O bruciato. Una borsa di plastica in mano. "Ecco la vostra roba," disse l'impiegato della reception; non era quello della sera precedente e pareva dispiaciuto di aver perso lo spettacolo eccitante di due pazzi che sfasciavano una stanza. Russell prese la borsa, aveva ancora un odore terribile, anche per Austen. "Andatevene," intimò il poliziotto. Aveva un salsicciotto di grasso sotto la tesa bassa del cappello che lo faceva sembrare accigliato. "Se volete picchiarvi, fatelo da un'altra parte." Aspettò che salissero in macchina e quindi si allontanò. Tranquillo, Austen inspirava ed espirava. L'occhio gli faceva molto male. Alla stazione di polizia gli avevano dato un'aspirina. Ora inghiottì, senz'acqua, un Tegretol, chiedendosi se ne valesse ancora la pena. Non ne rimaneva molto, comunque; una cosa di meno di cui preoccuparsi. Prese la borsa che stava ai piedi del sedile: niente pennelli, ma c'era il quadro. Lo sollevò, le mani erano normali ora, e dolevano come se ogni singolo osso e ogni brandello di pelle fossero stati volutamente allungati e torturati. Ma avevano riacquistato la loro forma ed egli ne era tacitamente contento. Forse, come lo specchio, non erano mai andate incontro a mutazioni. Il quadro, nelle sue mani. Rosso, e un verde-trench, freddo. Uno strato spesso color peltro, quasi nero. Era astratto, di primo acchito, ma, a ogni esame successivo, una variazione, la comparsa di una figura, ancora oscura ma dotata di una forza enorme, onnivora. Lo voltò da una parte e dall'altra: bordi differenti, sfaccettature osservabili sotto luci diverse, luci che vivono sotto terra, costrette, sotto pressione, come i tipi di gas più rari, instabili. "Ascolta." Russell si sfregò il viso. "Mi sento di merda, ho bisogno di lavarmi." "Anch'io." La bocca era ancora piegata, era in certo qual modo diffìcile parlare; sorridere, lo sarebbe stato ancora di più, ma non aveva comunque alcuna voglia di farlo. "Credi che ci daranno un'altra stanza?"
Russell gli diede un'occhiata. "Mi sento di merda," ripeté, avviando il motore dell'auto. "L'ho già detto?" Un'altra occhiata. "Tu hai un aspetto peggiore del mio. Stai bene?" "Non proprio," il gonfiore della bocca dolente, il gusto indistinto del muco caldo. Trovarono un McDonald's, andarono nella toilette, da cui uscirono rinnovati, come due personaggi di un film comico. Russell mangiò; Austen bevve un caffè, sorseggiandolo lentamente con le sue goffe labbra; alla fine, vi rinunciò e prese una cannuccia. "Domani," annunciò Russell, con un pezzetto di lattuga ciondolante dal labbro superiore non rasato, "ci fermeremo per un po'." Fra le varie domande che voleva porgli, fece la prima. "Che cos'è domani?" "Il giorno in cui ci fermiamo." "Perché non oggi?" "Ho una roba da fare oggi." "Che roba?" "Andare a trovare Crystal." "Chi è Crystal?" Ma, prima che finisse la domanda, capì; era la donna dai capelli ritti del bar. Succhiò il caffè con la cannuccia, mentre Russell gli spiegava che le aveva parlato e che le aveva detto che sarebbe tornato da lei quel giorno. "Le hai parlato in tutto per circa venti minuti." "E allora?" osservò compiaciuto. "Conoscevo Deanie da appena un'ora e già mi succhiava il cazzo." Aspirò a lungo la bevanda, producendo rumori esagerati. " Dai, ragazzo. Vieni a vedere come si fa." Perché no? Il caffè aveva un leggero sapore di sangue. Perché no. Lei venne, lo incontrò al bar, nel parcheggio di KAROL'S, battuto dal vento; suonò il clacson quando Russell uscì dalla macchina. Giacca di pelle marrone, jeans elasticizzati, stivali, uno dei quali aveva un tacco rotto. Camminava con un'andatura compensatoria, da polka. "Seguici," urlò Russell, e si avviarono. Un negozio di alcoolici, una drogheria, un centro di riparazioni TV e una breve serie di abitazioni a due piani; il suo appartamento era al piano terreno, all'estremità della piazza. Gli lasciarono la porta aperta.
Lei stava dicendo qualcosa, ridendo come un personaggio dei cartoni animati. La voce di Russell pareva differente, le parole più strascicate. Forse quello era il suo volto da farabutto, il cattivo che parlava della sua faccia ammaccata. Quando Austen entrò, sentì un odore di cannella; era incerto, Russell aveva già aperto una birra. Con una mano le stava toccando il fianco. Sulla T-shirt rosa di lei c'era scritto LE RAGAZZE SEXY SI DIVERTONO DI PIÙ. "Questo è Austen," disse Russell. "Ciao." Aveva un ampio sorriso, che mostrava tutti i suoi denti storti. "Io sono Crystal." La mano di Russell intercettò un seno e lei squittì, come un giocattolo di gomma. "C'è della birra in frigo, se vuoi." "No, grazie." Un telefono rosso, alla vista unto, nel cucinino. D'impulso, chiese: "Posso usare il tuo telefono?" Poi, seppur tardivamente, la bugia: "È una chiamata urbana," ma lei aveva già capito o era solo stanca di starlo a sentire. Annuì, gettandosi nella braccia di Russell. Iniziarono a baciarsi. Il movimento della bocca di lei gli ricordò la sua nuova deformità e, a disagio, si voltò. Scomparvero in camera da letto; Austen udì lo schiocco deciso della serratura della porta. Stanco, seduto al tavolo laminato, orrendo, una delle sedie aveva una crepa. Prese il pezzetto di carta intatto con il numero di Peter e lo fece. Due squilli. Quattro. Cinque, era pronto a riagganciare. Poi, la voce di Peter, infuriato. "Pronto?" "Ciao," disse, quasi vergognoso, la voce flebile. "Sono Austen." "Austen," esclamò, con un tono nuovo, che gli fece rimpiangere immediatamente l'idea di aver chiamato. "Ehi, che diavolo ti è successo, ragazzo? Ho chiamato tua mamma, mi ha detto che tornavi a casa ma questo è successo..." "Sì, lo so, le ho detto che tornavo a casa, ma non era così, voglio dire, ho cambiato idea." Menzogne, tagli, omissioni in merito agli attacchi, o allucinazioni, o episodi, un buon termine, episodi, medico e vago. Non ragguagliò Peter, ma lo portò a credere che, se le cose non andavano del tutto bene, erano almeno quasi normali. Gli ci volle un po' di tempo per raggiungere lo scopo; eppure, nonostante tutto, Peter pareva ancora incerto. "Dove sei ora?" "Con amici." Bugiardo. "Vuoi il numero?" leggendolo sul telefono con una tranquillità che, almeno alle sue orecchie, parve convincente. "Senti," disse Peter, sempre con quel nuovo tono di voce. "È successo qualcosa alla tua roba."
Dalla camera provennero alcuni gridolini. La testiera batté contro la parete. "Che cosa intendi dire?" Aveva alzato la voce, raddrizzato inconsciamente la colonna vertebrale, nella migliore posizione per parare un colpo. "Che cosa è accaduto?" "Non è danneggiata, né altro, non proprio, per lo meno." Austen non parlava. "È come, è... è veramente difficile da spiegare." Sentì il respiro di Peter attraverso il ricevitore. "È come se fosse mutata," osservò, riluttante, "spontaneamente." Chiuse gli occhi. Nella mano il telefono gli sembrò per la prima volta strano, era un apparecchio che non sapeva come usare correttamente. "Ho portato i tuoi lavori alla galleria, sai, come avevamo detto, e ne ho esposti alcuni alla mostra, sai, le sfingi, il Nilo? Il trittico con la Criosfinge. Li ho appesi con il resto dei quadri. Poi mi hanno detto qualcosa a proposito dei colori, che sembravano diversi a seconda della luce. Ho controllato e avevano ragione: mutavano. Austen, non so che cos'altro dirti, mutavano spontaneamente. Ho pensato che si trattasse solo della luce, ho pensato che..." e proseguì, parlando della luce artificiale, di quella naturale, della posizione dei dipinti. Aveva cambiato la disposizione dei lavori dell'intera mostra per poter appendere il trittico su tutte la pareti, e quest'ultimo aveva continuato a mutare. "A mutare, come?" Udendo la sua voce, ad Austen parve di essere sul punto di svenire. La sua fronte era sudata e gli pareva di avere la bocca piena di piombo. "Sono diventati più scuri. I colori, sai, sono intensi. Ma sono diventati più scuri, come se qualcuno ci avesse aggiunto del nero, ma non uno strato superficiale. Non so come spiegarlo." Austen non disse nulla. "Ma ascolta questo, che è la parte più eccitante." Le parole, ora, gli uscivano rapidamente di bocca. "L'hanno comperato! Conosci Laurence e Jeannetta? Vendono automobili, hanno una... beh, non importa. Se ne sono innamorati. Non smettevano di parlarne." "Hanno comperato la Criosfinge?" "Hanno comperato l'intero trittico. E per una bella somma," e Peter la citò. Austen chiuse gli occhi; quando li riaprì, stava piangendo. Peter parlava ancora ed egli lo interruppe: "Non ti ho mai detto che potevi venderlo." "Che cosa?" "Ho detto, non ti ho mai detto che potevi venderlo! Ti ho detto che potevi appenderlo, ti ho detto..." "Ehi, Austen, non iniziare a dire a me stronzate simili, perché tu sai e io
so che..." "Non ti ho mai detto che potevi venderlo!" Piangeva, il muco umido gli colava sul labbro superiore ed egli se lo pulì, casualmente, con la manica. "Non so nemmeno che cosa sta accadendo ai quadri e tu vai e li vendi a due fottuti concessionari di automobili? Che cazzo ti sta succedendo, Peter?" "Sei veramente un fenomeno, ragazzo, sai?" Adesso anche Peter stava urlando. "Ho conservato gratis in magazzino le tue fottute opere per tutto questo tempo, me ne sono preso cura, con scrupolo, e tu mi hai detto che potevo appenderle, te l'ho chiesto e tu mi ha risposto sì. Fai pure, mi hai detto. E ora sei..." Piangeva troppo intensamente per poter parlare, tentò di muovere le labbra massacrate, ma vi rinunciò. Peter continuò, senza sosta, poi, alla fine, vista la mancanza di risposte, rallentò il ritmo. "Ci sei ancora?" chiese con tono imperioso, ma anche preoccupato; pareva quasi si aspettasse di udire, come primo rumore, quello di uno sparo, l'ultima ripicca di Austen. "Ci sei ancora?" "Sì," rispose Austen, in un sussurro. Si asciugò il volto, la manica era ormai inzuppata. A portata di mano c'era un sudicio strofinaccio per i piatti ed egli lo prese. Gli occhi gli dolevano, come se le lacrime che aveva versato fossero state di sangue rosso ramato. "Ti chiamo domani," e riattaccò, asciugandosi nuovamente il viso. Udì in quel momento provenire dalla camera una musica stemperata, un suono di chitarra scordata, amplificato da casse scadenti. Dopo qualche istante la porta si aprì. "Che cazzo," esclamò Russell, a petto nudo, l'aria assonnata e serena. "Perché gridavi in quel modo là dentro?" Alle sue spalle, Crystal con la sua T-shirt rosa, il sedere nudo, le braccia strette attorno a Russell in un abbraccio amichevole. "Un mio amico," spiegò Austen. "Be', non aveva tanto l'aria di essere un amico," commentò Crystal, con tono di tenera disapprovazione, prendendo tre birre dal frigorifero e posandone una sul tavolo direttamente, davanti a lui, una medicina che non poteva ignorare. "Per te è una brutta giornata," disse. "Devi distrarti un po'. Cerca di non pensarci." Austen cercò di ricambiare il suo sorriso. Pensava alla Criosfinge, mutata e ancora in fase di mutazione, pensava al fatto di non pensare e Crystal, allegra, determinata: aveva la serata libera e avrebbe chiamato un'amica, così si sarebbero divertiti tutti insieme. "Si chiama Shasta," affermò
Crystal. "È veramente simpatica." "Anche Austen è simpatico," osservò Russell. Alla luce della lampada del soffitto il suo volto non rasato sembrava caprigno e scaltro. "Siamo tutti simpatici." Dovettero passare a prenderla in macchina al bar, dato che, come aveva detto Crystal, seduta coscia contro coscia con Austen sul sedile anteriore, l'auto di Shasta era in carrozzeria. "Che tipo di macchina ha?" domandò Russell, e Crystal si strinse nelle spalle. Non era proprio la sua auto, era un'auto che usava ogni tanto; era quella del suo ragazzo, Austen lo aveva capito, ma aveva importanza? Crystal entrò per andare a prendere l'amica, nemmeno il forte vento riusciva a scompigliarle i capelli di plastica. Austen si sentì momentaneamente a disagio per il labbro e l'occhio ancora gonfio ma non voleva guardarsi allo specchio davanti a Russell. "Carina," commentò Russell, indicando la porta con un cenno del capo. Teneva la birra fra le gambe. Ne bevve un po', lentamente; poi, aggiunse: "Non ti avevo detto che in questa tappa avremmo scopato?" "E domani?" "Che sarà?" Crystal era di ritorno, con l'amica al seguito. Shasta: giaccone di vinile nero che le copriva a malapena le cosce, trucco vistoso, sorriso ampio e cordiale come quello di Crystal, ma denti più dritti. Aveva i capelli gialli. Austen, sempre gentiluomo, sgusciò fuori dall'automobile e le aprì la portiera posteriore. "Ciao," esclamò la ragazza, come se avesse effettivamente piacere di conoscerlo, chinandosi per prendere posto sul sedile. Attraverso il giaccone chiuso dalla lampo Austen intravvide l'oscillazione dei suoi grossi seni e avvertì un desiderio insistente crescergli rapidamente dentro. Le due ragazze parlarono tra loro per tutto il tragitto del ritorno; Russell ascoltava la radio. Austen, silenzioso come un adolescente, si vergognava di ammettere di non sapere esattamente come comportarsi. Che cosa avrebbero fatto, una volta giunti nell'appartamento? Sarebbero subito andati a letto? Avrebbero conversato brevemente? Mentre entravano nel parcheggio della casa, Shasta gli posò una mano sulla coscia, molle e leggera, e gliela strinse delicatamente. Austen mise la mano sulla sua, era fredda, aveva troppi anelli. La radio, ad alto volume, e la birra; nell'appartamento faceva troppo caldo e c'era ancora quell'odore nauseabondo di cannella. La lattina in mano, si sedette sul sofà. Shasta aprì la lampo del giaccone; sotto, indossava un
top, fìnto denim sottile e fìnti fiocchi di satin, abbinato a una gonna, anch'essa in finto denim. Si sedette molto vicina ad Austen, gli disse che secondo lei aveva un bel nome, "proprio come la città!", e gli confidò che una volta suo padre l'aveva portata in Texas, tanti anni prima. "Per andare a trovare mia mamma," spiegò. Sotto il trucco il suo sguardo era grave, come quello di un'attrice, come quello di un clown. "Aveva, come si può dire, un cancro al cuore?" disse, leggermente incerta sulla terminologia, "là c'è quell'istituto per il cuore, con gli specialisti e tutto, sai?" "Ne ho sentito parlare," rispose. Non aveva idea di quello che Shasta stava dicendo. Aveva gli occhi nocciola. Continuava a toccarlo con le mani fredde e a parlare. Che cosa fai? Lei aveva lavorato in un ristorante, "Non ti immagini che schifo era!" Annuì, con fervore; era terribile, quanta merda dovevi ingozzare per avere una paga minima. "Credevo che a mio padre venisse un colpo quando scoprì che ballavo." Le mani si Shasta su di lui, la lieve oscillazione dei fiocchi di satin. "Invece disse semplicemente, 'Be', sei tu il miglior giudice e, se giochi bene le tue carte, puoi fare soldi a palate.' E aveva ragione," aggiunse, con tono enfatico, finendo la birra. "Faccio dieci volte più soldi di quando lavoravo in quello stupido ristorante e non devo mangiare tutta quella merda. Scusami." Si alzò, lo oltrepassò, piegandosi leggermente per evitare il tavolino. Austen protese la mano per aiutarla a non cadere e le toccò inavvertitamente il sedere; era caldo, attraverso la gonna. Caldo. Dall'altra parte della stanza Russell e Crystal avevano cessato di parlare; la gamba di lei era posata per metà sul corpo di lui, le mani di lui le stavano tirando e sollevando la gonna. Shasta, di ritorno dal bagno, con due birre in mano, sogghignò guardando Russell e Crystal. "Scusateci," disse, ma non stavano ascoltando. In realtà si era rivolta ad Austen. Egli si alzò, protese le mani per prendere le birre e lei lo baciò; era un bacio aromatico, oleoso, ed egli capì che era andata in bagno a mettersi ancora un po' di trucco. Seguirono il corridoio. Le lenzuola del letto erano attorcigliate, l'intera camera era orribilmente in disordine, opprimente. Lei fece scivolare via la gonna, portava i collant, ma non le mutande. Si era slacciata il top. Aveva i capezzoli di un sorprendente color cioccolata. "Non sei venuto a vedermi ballare, vero?" chiese, mentre egli scuoteva il capo in segno di negazione, no, in piedi, stupidamente, presso la porta, la birra in mano. Gli diede una spinta leggera sul petto: siediti. Vicino al letto c'era una radiosveglia; lo stesso piagnucolio metallico che
aveva sentito prima, lei stava danzando al suo ritmo, gli occhi leggermente socchiusi, i seni in mano, in modo che i capezzoli fossero puntati direttamente verso di lui, i fianchi che ondeggiavano in maniera del tutto naturale. Iniziò a cantare, Austen non conosceva la canzone, ma le parole gli erano familiari: amore, amore. Non posso farcela senza di te. Sempre canticchiando, tra sé e sé, si avvicinò per aprirgli i jeans e mormorò qualcosa. Era molto duro; si aprì da solo la cerniera. Nel cassetto del comodino c'erano alcuni profilattici; Shasta gliene infilò uno con la calma e la cura di un venditore di scarpe, lo fece distendere e gli si mise sopra a cavalcioni. Non durerò molto, voleva dirle, ma quella bocca aromatica era già nuovamente sulla sua, la lingua di lei si muoveva fulminea. Sentì i suoi freddi anelli premergli fortemente sulle spalle; la fece rotolare sulla schiena e, durante il movimento, venne, un lungo sussurro attraverso la bocca afflitta, oh e lei stava ancora su di lui, i piccoli fianchi duri battevano ancora contro il suo corpo. Così Austen rotolò di nuovo, attentamente, sulla schiena. Il suo volto era molto serio, gli occhi chiusi. Quando Shasta venne, tremò tutta, come se si fosse gettata nell'acqua fredda, poi aprì gli occhi e fece un ampio sorriso senza fiatare, come se avesse terminato un difficile e spettacolare gioco di abilità. Era tanto stanco. "Mmm," e gli baciò il collo, di lato, "sai di buono." E voleva parlare, fare domande, su di lui, su Russell, Crystal dice che vi siete cacciati in un guaio ieri sera. Gli occhi chiusi, sorrise lievemente all'idea di spiegare ciò che era di per sé inspiegabile; e rispose che no, non era nulla, in realtà, non era nulla di grave. Aveva la gola e la bocca molto secche. Era difficile bere con lei che gli stava sopra in quel modo. Un ricordo fulmineo: Emily, nella stessa posizione, mentre teneva in mano una tazza di porcellana piena d'acqua; lunghe ciocche di capelli aggrovigliati, il volto serio come quello di una dea: bevi; e bellissima, oh, come quella ragazza non avrebbe mai potuto essere. Rimasero distesi per un po', la radio sempre accesa. Russell bussò. "Ehi, voi due." Crystal disse qualcosa a proposito di uno scambio di camere e della proprietaria di quella stanza. Shasta si alzò, disinvolta, e Austen la seguì, infilandosi rapidamente gli slip mentre la porta si apriva. Si voltò per dare un'occhiata al letto, lenzuola rosa scure e le macchie di sperma ancora più scure, come fossero state di sangue. Non riusciva a immaginare chi potesse desiderare di entrare in quel letto, ma nessun altro pareva preoccuparsene. Le due ragazze parlarono fra loro presso la porta, velocemente; un sorriso e Shasta lo condusse con un cenno verso un divano letto, o
qualcosa del genere, c'erano alcune lenzuola nell'armadio della biancheria. Altra birra, altre chiacchiere; sulla danza, sulle mance, sugli uomini che volevano infilarle cose nel perizoma, sugli uomini che urlavano. Rimase molto colpita quando scoprì che era un artista, anche se di quelli che non vendevano molto. Le avrebbe forse fatto il ritratto? Non aveva mangiato nulla da quando erano stati da McDonald's, cioè da molto tempo, e aveva una sensazione di vuoto e di bruciore allo stomaco che la birra non riusciva a eliminare. Shasta gli spiegò il significato di tutti i suoi anelli: il topazio era la fede; l'occhio di tigre, la prosperità; l'oro, la fortuna; il rubino, l'amore. Di questo ne aveva due. L'argento per le "sorprese", aggiunse, sorridendo, "ma non sono veri. Sono belli lo stesso, però, non è vero?" Le dita aperte, erano tre per mano. Era tanto stanco e più che leggermente ubriaco. Le lenzuola avevano un disegno rosso e giallo di cattivo gusto, un disegno molto brutto, dai profili marrone. Su quello sfondo le lattine di birra erano di un freddo color argento. Argento; per le sorprese. "Sono molto belli," commentò Austen e lentamente, ma con stupore, sentì di avere un'altra erezione. Lei non ne fu sorpresa, sorrideva. Dalla borsa, posta sul divano, prese un preservativo mentre egli, dopo averle aperto le gambe con le mani, seguiva con le dita il lieve sentiero. Aveva una strana, gradevole sensazione, era come toccare di nascosto ali di carta, ali di falene morbide e congelate. Si svegliò una volta durante la notte, sentiva la vescica terribilmente piena. Quando ritornò, la vide raggomitolata, strettamente, saldamente, al centro del divano letto, le braccia attorno ai cuscini improvvisati. Il mascara le era colato sotto gli occhi. Di nuovo nel tepore: era bello dormire con una donna, con un corpo tiepido di donna, dormire e sognare un momento appagante che poteva essere, poteva essere ancora Emily. Era mattina; gli occhi gli facevano male, entrambi, ma la bocca era notevolmente migliorata. Il sesso era un toccasana, anche se non gli aveva curato il mal di testa. Lo scroscio della doccia. L'appartamento per il resto era vuoto, il giubbotto di Russell, scomparso. Aveva detto che quel giorno doveva fare qualcosa; di che si trattava? Era uscito per quel motivo? Shasta lo trovò in cucina, mentre sbirciava nel frigorifero. Era avvolta in un asciugamano, ma già truccata, occhi e tutto. Lo baciò con le sue labbra lucide. "Crystal non ha mai niente di buono da mangiare," osservò. "Sono probabilmente andati fuori, da qualche parte." Un attimo di pausa, poi, con
tono vivace, chiese: "Vuoi uscire?" "Io, sì, ma forse è meglio che rest..." "Offro io," aggiunse, sempre allegramente, intrecciando le dita con le sue; oscilla, oscilla. Aveva alcune goccioline d'acqua sviile spalle. "No, io..." "Non ti preoccupare, andremo al Golden Harvest, dove lavoravo. Conosco tutti, lì," il che risultò essere vero, conosceva effettivamente tutti e tutti conoscevano lei. La chiamavano Shelly. "Shasta è il mio nome d'artista," sussurrò in modo appena percettibile, come in palcoscenico, mescolando il caffè. Tre confezioni di crema, tre di zucchero. "Ehi, Janine!" gridò a voce alta, quasi esagerata. "Janine è quella di cui ti ho parlato," spiegò, mentre la donna ricambiava il saluto. Èra massiccia, capelli neri corti, quasi rapati a zero, come i carcerati. Austen non si ricordava di averne sentito parlare, non ricordava molto di quanto era successo dopo il secondo attacco di voglia erotica. Molti discorsi, non tutti iniziati da lei, molta birra e, infine, il sonno. Janine li servì e, accendendosi una sigaretta, si sedette di fianco a Shasta. "Janine, ti ricordi," iniziò a chiedere, dando una vigorosa forchettata alle uova e sversandone fuori parte del tuorlo, "il nome di quel predicatore? Quello da cui è andata Norrie?" "È il dottor qualcosa," rispose, emettendo una boccata di fumo. Si chinò sul tavolo, nel movimento i suoi seni grossi divennero tutt'uno col grosso addome. Avvicinando a sé il portacenere sporco, aggiunse: "Il dottor Prescott, credo. Glielo posso chiedere, se vuoi. Perché?" "Austen," spiegò, indicandolo con la forchetta, "ha bisogno di parlare con qualcuno." Austen non sarebbe rimasto maggiormente sorpreso se gli avesse tirato il piatto in faccia. Non riuscì a pensare a ciò che doveva fare come prima cosa: negare, essere costernato, che diavolo le aveva raccontato la notte prima? "È veramente in gamba," affermò risolutamente Janine. Spense la sigaretta e si alzò faticosamente dal tavolo che, al movimento, parve sollevarsi. "Norrie è rimasta incinta in quella maniera." "È sull'elenco del telefono?" Quando Janine si fu allontanata, Austen scostò il piatto e, le mani sul tavolo, si preparò a fare un discorso. Ma lei era già pronta. Gli sorrise, pose le mani sulle sue. "Austen, va tutto bene. Non devi vergognarti." Aveva un piccolo pezzetto d'uovo sul labbro inferiore. "È come andare in chiesa, niente di più. Tranne per il fatto che paghi, quando entri."
Mangiava e parlava, pulendo il piatto con la crosta del pane tostato; gli spiegò di Norrie e del dottor Prescott, della guarigione dovuta alla fede, in termini generali e teorici. Austen terminò infine di mangiare, lentamente, ogni cosa sapeva di unto. Lei era già vicina al telefono, scorreva le Pagine Gialle, faceva un numero. Che cosa stava succedendo? Silenzioso, seduto al suo posto: doveva essergliene grato? Era pronto a dirle qualcosa, a farle un cenno con la mano, ma lei lo aveva visto guardare e gli stava sorridendo, gli anelli le brillavano, illuminati dai flebili raggi di luce che penetravano obliqui dalle vetrine rovinate. Gli sorrise e gli fece un gesto di augurio, tenendo il pollice verso l'alto. Austen frugò nel mucchio spiegazzato di banconote che aveva in tasca e lasciò una mancia, mentre si avvicinava a Shasta, alla luce, all'aria fredda e al sole pomeridiano. "Non devi vergognarti," gli ripeté; in quella luce sembrava più vecchia, più insistente. "La gente si ammala, è normale, e..." "Io non sono malato!" Urlò. Non ne aveva l'intenzione. "Non sono malato e non sono pazzo, e non andrò da nessun fottuto guaritore che cura con le preghiere, va bene? Va bene?" "Austen?" esclamò lei, ed egli la oltrepassò, placche scivolose di neve sotto i suoi piedi fino alla macchina. Alla sua macchina. Alla macchina del suo ragazzo, lei era la ragazza di lui, e Austen non aveva niente a che fare con tutto ciò, niente. Shasta lo seguiva, in silenzio; sapeva quando era meglio tacere. Avviò l'auto, fece lentamente retromarcia, Austen sedeva al suo fianco, una mano fredda sugli occhi. "Vuoi," sapeva pure quando era meglio agire con cautela, "tornare da Crystal?" "Sì." Era stanco, la rabbia inspiegabile stava svanendo: non era colpa di lei se era un coglione. L'appartamento era ancora vuoto. Forse Russell aveva levato le tende, l'auto e Crystal erano entrambe scomparse. Shasta riappese accuratamente la chiave di riserva e gli sfiorò delicatamente la mano con una birra. "Giù," disse, ed egli non capì, aveva la nausea. La colazione del Golden Harvest gli sembrava piombo e, quando guardò Shasta, vide il seno nudo, gli slip che scendevano, era già quasi nuda. Quella era l'unica sua risposta, ma chi era lui per criticare, aveva certamente preso tutto quello che lei gli offriva e lo stava prendendo anche in quel momento, che per lei era difficile. La fece chinare sul divano, si sentiva male e aveva la testa che gli ronzava, l'odore di lattice del profilattico era simile a quello disgustoso di un profumo da pochi soldi. Shasta emetteva versi lievi, parole, ma lui non l'ascoltava quasi; la teneva per le anche e, di tanto in tanto,
ne osservava a occhi semichiusi l'oscillazione dei seni. Non pensava, perché non ne poteva più, stava male ed era stanco e assurdamente stava già venendo, aveva la resistenza di un quindicenne, ma non voleva pensare nemmeno a questo. Crollò su di lei, quasi incapace di stare in piedi, e per la prima volta fissò il suo quadro, quello nuovo, poggiato disinvoltamente sul mobiletto della TV. Lo aveva messo lì Shasta? O era stato lui? Nessun ricordo. L'argento, per le sorprese. Shasta, muta, stava in ginocchio sul divano ed egli le si accasciò accanto, sudato e stordito. "Devo sedermi un attimo." Il mal di testa gli si concentrò nell'area retrostante gli occhi; era quello che Cyndee chiamava di solito un mal di testa di stomaco, associato cioè a nausea, a una nausea intensa come il grasso di una pietanza. L'intera stanza aveva un odore caldo, stantio, come di vestiti sporchi dimenticati troppo a lungo in una valigia o cacciati sotto il letto, meno rancido, tuttavia, di quello particolare di un corpo non lavato. I capelli ispidi di Shasta sulla sua spalla, le mutande alle caviglie, come quei personaggi idioti dei film. E la porta si aprì, non aveva assolutamente sentito la chiave; Shasta sollevò la testa come un animale curioso e Russell disse: "Vieni, entra." In risposta, una voce di donna, che non era Crystal; incalzante, leggermente rauca, molto sicura: "Allora, dov'è?" Emily. 8 Urlò, rise, diventò rosso, corse fuori dalla stanza, non aveva idea di che cosa fare. La fissò, il cuore frenetico nel petto, le dita, altrettanto frenetiche, chiusero la zip dei jeans, che quasi si impigliò nei peli, carne flaccida e umida. Lei gli si avvicinò e si sedette amichevolmente sul divano, accanto a Shasta, sempre nuda. "Non ha un aspetto malato," disse a Russell, la bocca aperta, l'aria seria, un tono neutro, freddo, che poteva essere interpretato in diversi modi. Aveva una giacca nera di taglio maschile e i capelli lucidi, di un colore castano comune, raccolti in una sorta di chignon elaborato. Le lunghe mani sulle ginocchia, prive di anelli. Shasta, che si era nel frattempo infilata una maglietta, non aveva certo potuto non notare la spettacolare manifestazione di panico di Austen. Mentre lentamente si rivestiva, chiese: "Chi sei?" "Sono Emily Bandy." Austen era perplesso, meravigliato, grato: dopo
tutto, aveva mantenuto il suo cognome. Anche in quello stato di stupidità era quasi incredibilmente felice di vederla; la sua presenza dominava l'intera stanza. Stava in piedi, voleva toccarla, abbracciarla, fare qualcosa; invece, finì di vestirsi, si abbottonò la camicia e alzò lo sguardo, notando che lo stava osservando. "Vieni un attimo qui," disse lei, girandosi verso Russell. Aveva uno sguardo diverso, ora; se ne andarono in corridoio e Austen sentì il mormorio infuriato di Emily; cercò di udire qualcosa di più ma Sbasta, irritata, lo toccava, voleva sapere se sarebbe venuto a vederla ballare, come aveva promesso, come aveva detto. "Non posso," rispose, stando a malapena ad ascoltarla. Emily stava dicendo qualcosa a proposito di alcune chiamate a carico, Shasta si voltò, raccolse gli slip e la borsa e se ne andò, oltrepassandolo. Momentaneamente solo nella stanza, egli cercò di pensare, dove, come era arrivata fin lì e, oh, arrivare proprio in quell'istante, nell'istante in cui aveva appena finito di scopare. Possibile che per lui ogni cosa dovesse essere una variante di una tragedia degli equivoci? Dio. Era ancora così bella, così terribile e cara. Ritornò nella stanza. Egli si stava ravviando i capelli, stava cercando di sistemarli in qualche modo, quando giunse il suo brusco cenno, andiamo. L'aria esterna penetrò all'interno della casa; frugò alla ricerca del cappotto e delle scarpe, un ordine imperativo di ogni cellula del suo corpo gli intimava di non perderla di vista. Il motore della sua macchina tossì brevemente, ancora caldo, e si avviò, con un rapido colpo di clacson. "Allora, dove andiamo a bere un caffè?" chiese, con un sorriso secco, a denti stretti, le mani poggiate sul volante. Una tentazione idiota: andare al Golden Harvest. Disse invece qualcosa a proposito di un fast-food e poi formulò la domanda incontrollabile: "Come sapevi dov'ero?" "Proprio come in un film, vero?" replicò lei, ma senza sorridere. "Be', il tuo amico è molto preoccupato per te e non mi avrebbe mai lasciata in pace. Sei mai stato tormentato da un emerito sconosciuto? È un'esperienza unica," affermò con tono tranquillo, a un semaforo rosso. "All'inizio ho pensato di chiamare la polizia. Ma lui continuava a ripetere quella parola magica." Austen aveva paura di chiederle quale fosse quella parola magica. Portava un paio di occhiali da sole che non aveva mai visto prima, pesanti e neri, come quelli di uno sbirro o di una star cinematografica. I suoi orecchini, lunghi e appuntiti, erano di un metallo abilmente annerito e placcato d'ar-
gento, apparivano scuri contro la sagoma allungata e chiara della mascella. "C'è un McDonald's," esclamò inutilmente Austen; Emily aveva infatti già messo la freccia. Parcheggiò e scese rapida dall'auto; lui avrebbe voluto un momento di privacy, ma lei era già a metà posteggio. Si era dimenticato della velocità con cui camminava. Il caffè, caldo, ribollito. Le mani gli tremavano; le pose in grembo, come si fa con un animale domestico indisciplinato, ma lei aveva già visto. Sapeva. "Ascolta," iniziò, con tono grave, le mani poggiate sul tavolo. Basta con le menzogne. "Quel tipo è un artista della panzana, lo so, ma tu non hai in effetti un bell'aspetto, Austen, assolutamente. Che cosa ti sta succedendo?" Oh, la scena, la scena stupenda, esattamente come l'aveva immaginata, o quasi, e la sua saga che si riversava, copiosa e irritante, come umore vischioso. "Bene," era il peggiore inizio possibile, deglutisci, deglutisci, occhi lucidi, oh, per amor di Dio, sei un coglione, sei un coglione, ma ancora una volta lei lo prevenne, cambiando argomento. Bene, me lo dirai dopo e, appoggiandosi allo schienale, iniziò a raccontargli senza alcun nesso logico quello che faceva in quel momento. Scriveva racconti a soggetto per una rivista locale, non era un vero lavoro ma, per qualche strana ragione, le permetteva di guadagnare abbastanza bene. Inoltre, si occupava della sua famosa attività collaterale, la consulenza professionale. "È la più grande barzelletta della terra," affermò con un sorriso scontento, "ma alla gente pare piaccia. E per di più funziona." Cercava di suscitargli una reazione di stupore, ma lui non riusciva a guardarla direttamente in faccia e lei parve notare anche questo. Bevve il caffè, facendo una pausa, lunga, che peggiorò le cose ed egli sputò fuori: ho avuto un incidente, ho avuto, ho avuto problemi neurologici. Li ho ancora. Lei socchiuse gli occhi all'istante, dimenticando il caffè. "Questo è ciò che mi ha detto. Il tuo amico. Mi ha anche detto che hai l'epilessia. È vero?" "Non è epilessia. Si chiamano attacchi epilettici temporali, ma adesso non si tratta più nemmeno di questo." "E di che cosa, allora?" "Adesso è peggio." "Peggio, come?" Per questo doveva guardarla in faccia. "Vedo cose." Lei non capì. Perché avrebbe dovuto? "Non sono allucinazioni," spiegò, cautamente. Lei doveva capire, semplicemente, tutta la verità e nient'altro.
"Brutte cose. Talvolta io, talvolta essi... ho ferito Russell," riuscì a dire, "ho quasi sfasciato la macchina. Mi ha detto che ho cercato di ucciderlo. Poi noi... io ho distrutto la camera di un motel. Ci hanno messo dentro per una notte." Lei non parlava. Al tavolo dietro di loro due ragazze scoppiarono a ridere; una gettò una bustina di zucchero all'altra, la mancò, ne tirò una seconda. "Sei stato da un medico?" La sua voce si era fatta più piatta, forse quello che aveva sentito non era esattamente ciò che si era aspettata. Quanto tempo aveva ancora prima che si alzasse dal tavolo e se ne andasse dal locale, lasciandolo di nuovo a bocca aperta, come una rana sul tavolo settorio, nuda di fronte alla lama inesorabile? Cercò di dirle che gli dispiaceva, che non era stata una sua idea, assolutamente, ma lei non lo stava ascoltando, non voleva sentir parlare di quell'argomento. "Sei stato da un medico." "Da molti medici." "Neurologi?" "Sì, neurologi, e specialisti, e medici generici, e da un ciarlatano, ho una cartella clinica che è spessa quindici fottuti centimetri." Le ragazze alle spalle di Emily smisero di gettarsi bustine di zucchero e presero a succhiare le loro bevande con le cannucce, in origliarne silenzio. Anche Emily era rimasta in silenzio, aveva quel particolare sguardo, fisso, cupo, che significava oh, davvero? "Ho fatto tutto quello che mi è venuto in mente, ora non mi viene in mente più nulla che possa fare." Misurata, filtrata dallo sguardo, giunse la domanda: "Sei mai stato da uno psicologo?" "Non sono pazzo." Lasciò correre. "Che cosa hai intenzione di fare, allora? Che cosa vuoi che faccia?" "Tu non devi fare assolutamente nulla, per quanto mi riguarda. Niente di tutto questo è una mia idea." Mescolò fiaccamente il caffè, il bastoncino di plastica si piegò fra le sue dita. Non aveva ancora considerato quell'aspetto della sua apparizione improvvisa, da genio della lampada: la doppiezza garbata di Russell. Fin da principio, ogni svolta mistica, ogni maledetto passo aveva portato a questo. Forse sarebbe servito a qualcosa non essere, come invece era, facilmente ingannabile, ma di questo chi aveva colpa? "Secondo Russell..." "Secondo Russell, tu sei già per tre quarti pazzo. E comunque: dove lo hai raccattato?"
Ci siamo. "Da mia madre." "Sei andato a trovare Cyndee?" Era divertita, nonostante la rabbia, il suo sguardo tagliente si addolcì un po'. Cyndee non era mai stata uno dei suoi personaggi prediletti, ma era un'impagabile fonte di divertimento. "Devi essere disperato." "Be', lo sono." Approfitta del suo disgelo, almeno un po', solamente un po'. "L'ho conosciuto mentre mi trovavo da lei." "È un suo amico?" "Beh, non proprio." Vai avanti. "L'ho conosciuto in un bar." "In un bar?" "Sì, è così." Tu non sei mia madre, non mi guardare in quel modo. Il disagio lo assalì come una massa di formiche brulicanti, ma riuscì a sostenere il suo sguardo, a mantenere la testa diritta; almeno quello era ancora in grado di farlo. "Lo hai conosciuto in un bar del Texas e adesso lui ti gestisce la vita." "Non mi gestisce la vita, è solo..." "Be', lui dice di sì, dice che gran parte del tempo sei piuttosto fuori e che qualcuno deve sorvegliarti, guidare la macchina, pagare i conti. Con che cosa, non so. Non mi sembra del tutto in grado di farlo." Con la carta di credito di un'altra persona, con il prestito di Cyndee. "Ci arrangiamo." "Questo è bene. Questa è una buona notizia, in quanto significa che non hai per nulla bisogno di me e, per dirti la verità, Austen," la sua voce si stava facendo più bassa, più dura, nei suoi occhi c'era uno sguardo che sottolineava la distanza presente fra loro, una distanza che non avrebbe mai potuto colmare, "non mi piace niente di questa faccenda. Non mi piace il fatto di essere stata portata qui con l'inganno, non mi piace..." "Ehi, io non..." "No, tu non fai mai niente, vero? Con te è sempre così." È suo tono gli fece ricordare di colpo il triste ritornello delle loro discussioni. Le ragazze del tavolo alle loro spalle se n'erano andate, nei paraggi non c'era nessuno, tranne un'esile adolescente dall'aria sconsolata che raccoglieva lentamente le briciole dai tavoli. "Be' non ho intenzione di tirarti fuori dalla merda in cui ti trovi, di qualsiasi tipo sia. Non te lo devo. Non ti devo niente." Era dura. "Non siamo più sposati, non siamo più niente. Non siamo nemmeno amici. E mi sento veramente offesa per essere stata trascinata in questa faccenda da un imbroglione di merda che hai scovato in qualche lurido bar, per esser costretta ad ascoltare storie incredibili sulla tua disintegrazione
minuto per minuto, sul fatto che sono la sola che possa salvarti. Non ho bisogno di tutto ciò, Austen. Non ti ho più sulla coscienza e voglio che le cose restino come sono." Con due lunghe sorsate finì il caffè, quindi chiuse la borsa, gesti entrambi indicativi di una conclusione definitiva, li aveva visti in passato e, vedendoli, aveva provato, come in quel momento, una terribile sensazione di ripiegamento, il farsi piccolo prima del colpo. "Se sei malato," disse, cercando visibilmente di star calma, di parlare con calma, "dovresti andare da un medico." "Sono stato da molti medici." "Da uno psicologo, allora, ci sono cliniche dove paghi in base alle tue possibilità. Ce n'è, anzi, una..." "Te l'ho già detto, non sono pazzo. Tu devi..." "Io non devo fare nulla, se non riportarti a casa della tua amichetta. E non cominciare," aggiunse, lasciando Austen a bocca aperta. Era un'obiezione che non avrebbe gradito. "Non mi interessa chi sia, non sono affari miei, grazie a Dio." Ed egli provò un istante di tristezza, povera Shasta, l'aveva del tutto dimenticata. Avevi detto. Le aveva detto molte cose. Lei estrasse le chiavi da una tasca della giacca, si rimise gli occhiali da sole, quasi fossero un dispositivo per acuire la vista, per vedere più chiaramente, dentro e fuori. Riusciva a vedergli dentro, ora? "Andiamo." Il ritorno apparve stranamente rapido, finì prima ancora di iniziare. Lei non lo guardò neanche una volta. Come si erano scontrati facilmente! Tutte le vecchie, cattive abitudini erano rimaste, come se il tempo non fosse passato. Ma lui doveva essere punito per non aver cancellato quelle antiche colpe? La stava perdendo di nuovo e, nel ripetersi dell'evento, lei era due volte preziosa, tutto ciò che la riguardava era come l'aureola di un santo. Su di lui scendeva lentamente il nembo della frustrazione e del desiderio. Mentre, al culmine della scena d'addio, il bis subiva una pausa, egli provò un bisogno urgente, disperato di piangere, di essere dispiaciuto, di dire che lo era. Non fece nulla di ciò; nulla si sarebbe rivelato utile. Parcheggiò sbadatamente, e Austen uscì dall'auto prima ancora che spegnesse il motore. Non sbatté la portiera. Non voleva guardarla di nuovo, né pensare o parlare finché non se ne fosse andata. Russell in casa, la porta oculatamente aperta; era seduto sul divano, una birra a portata di mano. Sobbalzò, smanioso: "Allora?" chiese, sorridendo, l'aspettativa frustrata dall'andatura da Gestapo con cui Emily aveva fatto il suo ingresso. Austen, triste e sbigottito, non pensava che l'avrebbe seguito in casa. Non lasciare
che la situazione si trascini spiacevolmente. Ma il pensiero svanì non appena si accorse che era venuta solo per mettere in chiaro la situazione con Russell, che non aveva alcuna intenzione di parlargli. "Ho bisogno di parlarti, coglione," esclamò, in piedi, stando tanto vicina a Russell, seduto sul divano, che questi non avrebbe potuto alzarsi senza farla indietreggiare. Le mani sulle cosce, come un pistolero, le labbra piene piegate verso all'ingiù. "Mi hai mentito." "Come, ti ho mentito?" ribatté Russell, spostandosi di lato, in modo da non doverla guardare direttamente dal basso verso l'alto, con un'aria non tanto innocente quanto di persona offesa nella propria dignità. Hai mentito anche a me, ma Austen non glielo avrebbe mai detto; anzi, non sarebbe nemmeno rimasto in quella stanza. Imboccò il corridoio, nascondendosi nel bagno, assurdamente, come un bambino, dietro una porta chiusa. Sul lavandino c'era una pezzuola usata di colore rosa e una spazzola unta, dalle setole mancanti, con alcuni capelli impigliati. Sentì Russell alzare la voce, in tono difensivo, diceva in piccola parte cose logiche e per lo più bugie: Austen è malato! Non sto inventandomi tutto! Quando la verità era che non solo era malato, ma soprattutto che non sopportava più tutte le persone che sapevano che cosa avrebbe dovuto fare. Era stato sgarbato con la povera Shasta, quando in realtà ognuno si faceva promotore della propria fede: Shasta credeva nella guarigione tramite la preghiera; Emily, nella psicologia; Russell, nel culto del padre; fino all'ospedale, ai dottori alla loro fede totalizzante nel Tegretol e nella tomografia computerizzata assiale. Nessuno sembrava colpito, come lui, dal puro, terribile splendore degli episodi, dal fatto che erano, nel contempo, magnifici e spaventosi. Dal fatto che avesse visto quelle cose con i suoi occhi, i suoi occhi; non si trattava di allucinazioni, né di proiezioni, niente del genere: l'argento esisteva ed era reale, ed egli l'aveva visto. E, indipendentemente dalla cura e dal momento, l'avrebbe visto ancora. Forse in quell'istante. Là? Un brillio nell'angolo, vicino alla tenda della doccia, il raggrinzirsi della plastica mentre l'apriva, l'oasi di muffa, capelli nello scarico, cento boccette di shampoo e là, scivolosa sulla vernice rosso bruna, una macchia in superficie, elegante. Così poco visibile, questa volta. Ma comunque abbastanza. Un lungo abbozzo di membra, e lui si ricordò il sogno dell'allungamento, di aver sognato la strada che portava da Cyndee. Persino in quel momento si allungava, diventava, non più densa, ma più ampia, sfiorava la superficie del soffitto con la delicatezza innata di una ragnatela. E lui, sot-
to, la bocca spalancata, mentre con estrema precisione iniziava a gocciargli in faccia. Sulla fronte, come fosse l'olio della conoscenza, come fosse un'unzione, una goccia vicino alla bocca, sulle labbra aperte, due, tre, al contatto pareva essiccarsi, come una medicina, come vernice, una goccia direttamente nell'occhio, nell'occhio destro, che si offuscò all'istante. Non riusciva a vedere niente se non forme e una sagoma che gli mostrava un ghigno attraverso la sfumatura di colore, attraverso l'amnio, gli sogghignava con gioia incredibile, precisa e primordiale, infrastruttura non di ossa, ma di ciò che forma il tessuto osseo, non cranio, ma pensiero in esso contenuto e tutti i suoi pensieri diventarono di un nero così cupo e venne sbattuto contro la porta con forza tale da rimanere senza fiato, ah ah ah, come un pesce, come un essere dagli occhi d'insetto, e venne sbattuto ancora, usò l'occhio sinistro per vedere e vide che le gocce sulle mani e sul viso non erano d'argento, ma di color marrone, come di sangue secco, di sangue vecchio. E venne sbattuto di nuovo e sentì qualcosa rompersi, sperò fosse la porta, il legno della porta. La voce di Emily dall'altra parte, che gridava il suo nome. "Austen!" Era robusta, cercava di apire la porta, e il suo occhio destro si offuscò completamente. "Austen!" Udì Russell grugnire. Quando facevano forza sulla porta, era come se la stessero facendo su di lui, come se gli stessero cavando le ossa, tentò di dir loro di smettere ma, con l'unico occhio residuo, vide uno splendore insostenibile, in tutta la stanza, sulle pareti, sul pavimento, sul water, dappertutto, il lavandino sporco adorno di rune, di geroglifici folli talmente complessi che formavano, oh, sì, il volto nel nucleo dell'argento e venne sbattuto ancora molto violentemente. "...dovrebbe gonfiarsi." Russell stava parlando, a voce alta, in preda al panico, a un panico più intenso rispetto a quando per poco non si erano schiantati in macchina. "Sulla nuca ha un punto molle, riesci a vedere..." "Sì, lo vedo." Emily, la sua voce rauca. Emily era ancora lì. Erano le sue mani a toccarlo? Le sentiva a malapena. Aprì gli occhi. "Austen," sì, erano le sue mani. Le sue mani tremanti. "Stai disteso, tranquillo, va bene? Adesso chiamiamo un'ambulanza, adesso..." No. Cercò di scuotere il capo. "No." Cercò di mettersi a sedere. "Non lo fate. Sto bene."
Sempre a voce alta, Russell esclamò: "Tu non stai bene, hai la testa..." "Fracassata, lo so. Ma non tanto," disse, toccandosela, sangue e capelli. "Non fa neanche male." Mentì, ma non del tutto, non gli faceva in effetti molto male. "Solo, voglio solo stare disteso per un po'. Sul divano." Un sorriso vertiginoso e il braccio di Emily attorno alla sua vita, per aiutarlo ad alzarsi. A metà strada dal divano la sua vista si annebbiò, non vedeva nulla, nemmeno il buio, ma solo un grigiore caldo, umido. Non disse nulla, Emily gli stava da un lato, Russell dall'altro. Se posso stendermi per un minuto, solo per un minuto. Quando si fu steso, si sentì meglio; gli avevano messo un asciugamano arrotolato sotto il capo, per assorbire il sangue, che sgorgava meno intensamente, adesso. "Sembra che ti sia tagliato il cuoio capelluto," osservò Russell. Di ritorno dal bagno Emily, cupa, disse: "C'è sangue su tutta la porta." Con una pezzuola pulita, si chinò su di lui, le mani ancora tremanti, ed egli voleva dirle: Rilassati, non è poi tanto grave, avrebbe potuto essere molto peggio, avrebbe potuto essere l'argento, la pezzuola. Incurante, lei lo lavava nell'argento. Lui cercava di respingerlo, di fuggire, ma lei non sapeva, non poteva vederlo; ora era sul suo volto, lui poteva vederlo, dentro, nella trama della pezzuola da pochi soldi, quell'eleganza spietata, era come una folla di dita ricurve che chiamavano il capotribù, il manto che rivestiva il mondo intero e il suo corpo, il freddo ziggurat dell'etere. L'argento si allargava come olio sul suo volto, gli ricopriva le labbra, gli penetrava nelle narici, gli strisciava, livido, in gola. Capì, mentre fluiva nel suo corpo come sangue, che era sempre stato lì, era una parte di lui più della fame, del bisogno, del tambureggiamento costante dei polmoni che respiravano, era il respiro, era l'aria, la sua aria, respirala o muori. Il panno immobile sul suo volto. Respirala o muori. La voce di Emily, aspra; aprì gli occhi, vedeva perfettamente da entrambi. La nuca gli doleva come se fosse stato picchiato con una mazza da baseball; anche il collo gli doleva, ma a causa della posizione scomoda. La testa reclinata sulle cosce di Emily, per metà poggiata sul suo grembo. Gli aveva ficcato un cucchiaio in bocca e gli teneva giù la lingua, cosa che gli faceva venir voglia di vomitare. Scosse il capo in segno di protesta e lei abbassò lo sguardo; quando vide i suoi occhi rianimarsi, gli tolse immediatamente il cucchiaio di bocca.
"Dobbiamo andar via di qui." Russell afferrò giacche e cappotti e si infilò le scarpe, trascinando i piedi. "Crystal sarà di ritorno molto presto." Le lacrime di Emily sembravano una cosa a parte; le sue mani erano ferme mentre gli puliva il viso, il tessuto, la pezzuola erano scomparsi. Una nuova alterazione del respiro, accompagnata da uno stridore: la bolla dell'annegamento. Non disse nulla, guardò e vide il suo sangue sul risvolto della giacca di Emily, una macchia sgradevole, a forma di coniglio. Spostò le gambe, leggermente, sotto di lui, e chiese: "Chi è Crystal? Quella bambola che era qui prima?" "No," rispose, perplesso, "è la sua amica. Questa è casa sua. Ascolta, io pulirò il bagno in un baleno, ma dobbiamo andarcene. Perché tu non..." "Perché non chiudi la bocca, invece, non ho bisogno che tu faccia nulla per me." Fra loro calò il silenzio dell'ostilità. "Aiutami solo a metterlo in macchina." Lo sistemarono sul sedile posteriore, Russell gli piegò le braccia ed egli si sentì assurdamente come un cadavere, un morto con il ghigno sulle labbra. Emily ritornò e accese il motore, Russell le gridò qualcosa, ma lei si allontanò, ignorandolo. "Non mi frega un accidente di ciò che dice quel coglione," affermò, tesa, quasi non vedendo lo stop all'uscita del posteggio. "Ti porto in ospedale." Cupo, dalla sua tomba di stoffa, Austen replicò: "Non ho un'assicurazione," ma lei non si preoccupò nemmeno di voltarsi e ignorò anche lui. Perché no. L'ospedale si chiamava Comunità della Misericordia, un nome adatto. Si sedette, stordito e ancora sanguinante, su un enorme divano di finta pelle, con cuscini grandi come i riquadri di cemento dei marciapiedi. Emily prese a discutere con un giovane bianco dietro il bancone, la cui secca indifferenza cedette di fronte alla rabbia crescente di lei. Apparve quindi un lettino a rotelle e Austen venne portato via da un'infermiera grassa, che aveva riflessi iridescenti sulla targhetta di riconoscimento e un paio di scarpe scricchiolanti. Aveva un profumo delizioso di caffè, di caffè dolce e molto caldo. "Ha un profumo buonissimo," osservò, la testa rigida nell'imbragatura; lo avevano legato per evitare che si ferisse ulteriormente, incuranti del fatto che aveva passato gli ultimi venti minuti seduto in una sala d'aspetto. "C'è un po' di caffè qui?" "Che cosa le è successo?" La destinazione era prossima. Era interesse professionale, o forse solo un modo per passare il tempo. Le raccontò che
aveva perso un combattimento con una porta, ma lei aveva apparentemente smesso di ascoltarlo e si ravvivò solo quando le chiese: "Niente risonanza magnetica?" "Non l'abbiamo," rispose la donna; poi, curiosa, domandò: "Ha già avuto esperienze simili?" Si riunì infine a Emily. Le radiografìe pronte, istantaneamente. Il medico parlò dapprima con lei, ignorandolo. Perché no. La sentì dire qualcosa a proposito di uno psicologo. Il medico si strinse nelle spalle, con atteggiamento di rifiuto: non gli interessavano gli strizzacervelli, voleva esaminare a fondo quelle radiografie. Il lungo sospiro di Emily, incalzante, impaziente; si mordeva il labbro con i denti, ma non disse nulla. C'era anche Russell, visibilmente assorto in un'affascinante conversazione con una donna che aveva un turbante rosso e un paio di sandali e che guardò in faccia Austen non appena lo portarono nella sala d'aspetto, con una sedia a rotelle, questa volta. Il lettino serviva per trasportare altri malati, in condizioni peggiori delle sue. Aveva gli occhi allungati, castani, stranamente vuoti. Russell lo strappò dalle mani dell'inserviente e lo spinse bruscamente vicino alla donna. "Questo è Austen," le annunciò e lei lo guardò con i suoi occhi vuoti e disse, porgendogli la mano: "Sono la signora Olivia. Se vuole venirmi a trovare, può farlo." Perso, cercò istintivamente Emily, ma lei era in riunione con la Scienza Medica; stava indicando con il dito le radiografie mentre egli era là, solo, con la magia, la fitoterapia, la guarigione mediante la preghiera per chi non pregava. Le strinse la mano, marrone e molle, con unghie prive di smalto talmente lunghe che si incurvavano leggermente ai bordi, jeans multicolori con fiocchi alle caviglie e un paio di sandali vecchi e sporchi, di gomma simile a quella dei pneumatici. Ma chi porta sandali con un freddo del genere? "Il suo amico dice che lei ha un sacco di problemi," fece la donna, con aria disinteressata. "Dice che lei vede cose. Anch'io vedo delle cose, ma per gli altri; lei, invece, solo per se stesso. Giusto? Giusto. Quindi, mi venga a trovare." Aveva un odore come di sigaretta, un odore acre. "A che scopo?" "Per aiutarla, se vuole," rispose, stringendosi nelle spalle. "I dottori non possono aiutarla. I dottori non possono aiutare nessuno." "Allora, perché è qui?" Russell si accigliò, mandandogli un segnale. La signora Olivia si limitò, comunque, a stringersi ancora una volta nelle spal-
le. "Mia sorella," spiegò. "Si è tagliata. Stava disossando il pollo e per poco non si portava via il pollice." "Quale?" "Il destro," rispose sorridendo; la sua stupida osservazione l'aveva divertita. "Lei è probabilmente più in gamba di quanto sembri, giusto? Perché ha un aspetto alquanto idiota." "No," replicò Austen, seguendo il suo ritmo serrato, "più idiota. Più idiota di quanto sembri." Il cipiglio di Russell divenne ancora più marcato: Emily gli era alle spalle. Posò le mani sulla sedia a rotelle ed esclamò: "Andiamo." Marcia indietro, la signora Olivia si ritirò, tranquillamente, Russell si alzò di scatto, risentito, e uscì nel posteggio. Questa volta Austen scelse il posto anteriore ed Emily lo aiutò ad allacciarsi la cintura. "Non ti porterò a casa." Immediatamente Russell le chiese dal finestrino dove diavolo stessero andando ed Ernily replicò aspramente, Che ne dici di un motel, spendaccione, ti va bene? Eh? "Dividerò la spesa con te." "Tu puoi dormire in quella fottuta macchina, per quel che m'importa." Si fissarono torvamente, ed Emily pigiò l'acceleratore, come se volesse investirlo. Austen cadde all'improvviso preda di una stanchezza immensa, che gli bloccava quasi il respiro. Svenne? Non ne era sicuro. La cosa pose comunque fine alla discussione. Si risvegliò su un copriletto di un freddo color borgogna; di fronte a lui, una macchia di luce: un gruppo di peonie, rappresentate goffamente, in un campo dorato. Un motel. Emily sedeva a occhi chiusi su una poltrona dello stesso color borgogna. "Ehi," disse Austen dolcemente, nel caso stesse dormendo, ma, se anche così era, Emily si svegliò all'istante, si alzò e si chinò su di lui. "Che cosa c'è?" "Niente." La testa gli doleva atrocemente, aveva nuovi punti, di colore nero. "Sto bene." "Ottimo," rispose lei, afferrò la borsa e aggiunse: "Vado a prendere qualcosa da mangiare." E uscì. Senza aggiungere altro. Erano forse passati venti minuti quando Russell rientrò, dopo aver cenato, tenendo furtivamente in mano una confezione da sei birre. "Se n'è andata?" Al cenno affermativo del capo di Austen, la estrasse dal sacchetto e
apri due lattine. "Ragazzo, che stronza. Quanto tempo sei stato sposato con lei?" "Non abbastanza a lungo." Si spostò, sempre rimanendo sul letto, e risistemò con cura il quadro; era un miracolo che fosse sopravvissuto. Era stato comunque danneggiato: era graffiato, o qualcosa di simile, in corrispondenza dei bordi della figura. Aveva tentato di dipingere, ma l'odore gli aveva fatto girare la testa al punto da impedirgli di vedere, e aveva reso il suo respiro, per altro già affaticato, ancora più debole. "Siediti, va bene? Ti vorrei parlare." Le gambe incrociate sul bordo della poltrona, aveva un odore di unto, di cibo unto e di birra. Deglutì, in segno di autocommiserazione. "Oh, merda, anche tu." "Ehi, ha ragione a essere incazzata." Raddrizzò la schiena: era un posizione migliore per combattere. "Hai mentito a entrambi, Russell." "Che cosa avrei dovuto fare, dimmi? Non avresti mai lasciato che lo facessi e, te l'ho anche detto, dovevo cercare aiuto." "A che scopo?" "Perché ho paura, ecco perché. Non dovrei ammetterlo, vero? Cerchi di accettarlo, per un po'." Aveva alzato la voce, guardava il pavimento, distoglieva lo sguardo. "Per metà del tempo ti comporti come un pazzo fottuto." "Allora, perché non ne esci?" "Non posso." Era arrabbiato, ora. "Non posso!" "D'accordo." Non poteva: non perché si interessasse a lui o si preoccupasse, il sorriso amaro di Austen, il sorriso di chi sapeva, per Russell ciò che era stato iniziato con Horace poteva essere probabilmente terminato con lui. "Perché devi vedere come va a finire la farsa, vero?" "Pensa quel diavolo che vuoi. E, mentre pensi," rispose, palesando la sua amarezza, "perché non consideri chi ti ha salvato il culo in quel posteggio, e quando per poco non ti schiantavi con l'auto, e quando hai cercato di farmi fuori, e tutte le altre volte. Riflettici un po'." Silenzio. Austen inclinò il ritratto. Un'ondata di luce diffusa e, di nuovo, vide cose che non aveva inteso vedere, se mai avesse desiderato farlo. In un altro stato d'animo avrebbe potuto ridere. O urlare. Russell accese la televisione, tracannò una birra dopo l'altra, cupamente. Ad Austen era venuta fame, si sentiva totalmente vuoto; stava attento a non poggiare i punti ancora sanguinanti sul cuscino sottile. Il ritratto era al suo fianco. Dormì, infine, un sonno breve e leggero che finì con il ritorno di Emily: una voce alta, un rumore secco di sacchetti tenuti in mano, un odore come di zuc-
chero bruciato e di carne. "Ecco," disse, sbattendo i sacchetti sul comodino e accendendo la lampada fra i letti. "La cena." Si chinò su di lui, gli controllò bruscamente gli occhi, sollevandogli le palpebre, esaminò le pupille, per identificarne l'eventuale, indicativa dilatazione. Aveva un leggero odore di cibo ma, al di là di questo, c'era il profumo della sua pelle, il profumo che era Emily. Se ne riempì i polmoni, ormai liquidi, inspirando tanto a lungo da provare dolore e da avere un'erezione: era un trucco brutale del profumo e dei ricordi che quest'ultimo evocava, sulle sue mani, nella sua bocca, lei sapeva quello a cui stava pensando? Anche lei ricordava? "Il dottore dice," affermò, sedendosi sull'altro letto, fissandolo. Ma, prima che potesse continuare, Russell iniziò a biascicare: "Controlla la cartella, pupa, i dottori hanno detto un sacco di stronzate. Un sacco." Austen annuì simultaneamente, indicando con un cenno del capo la cartella in questione, infilata in un sacchetto di un negozio di alimentari con il disegno di un orso sorridente, munito di un cappello da agricoltore e di una zappa: "Te l'ho detto, sono stato da un sacco di dottori." Senza parlare la recuperò, si sedette a gambe incrociate sul letto per leggerla, tutta. Austen, nel frattempo, si mise a sedere, borbottando leggermente a causa del dolore pungente al capo, aprì i sacchetti di carta e vi trovò minuscole confezioni di cartone e di polistirolo espanso. Con un rozzo cucchiaio di plastica, le pulì fino in fondo. Dal programma sportivo si passò al telegiornale. Emily mise da parte la cartella, un referto posto lateralmente a mo' di segno. "Vorrei chiederti una cosa," disse, cambiando lievemente posizione, spostandosi come se le facesse male la schiena. "Che cosa è successo in bagno? Nell'appartamento di quella donna?" Metteva a disagio, il suo sguardo, così genuino e così genuinamente severo. Non voleva guardare altrove, non voleva sostenere lo sguardo. "Io, io l'ho visto. Ho visto quello che vedo sempre." "Come hai picchiato la testa? Avevi le convulsioni?" "Non l'ho picchiata." "Austen, hai nove punti su..." "So che mi sono ferito, ma non è questo che intendo. Voglio dire, non mi sono ferito con le mie mani." La TV, battute amichevoli, il sibilo di un'altra lattina di birra. Emily si piegò in avanti, i palmi delle mani rivolti verso l'alto, in un atteggiamento inconscio di supplica: dimmi la verità. "Tu eri là da solo, Austen. Non c'era nessun altro."
"Lo so." Lo sguardo di Emily si fece triste, si posò di nuovo sull'incartamento, quindi si alzò di nuovo. "Prendi le medicine come ti è stato prescritto?" Invece di rispondere, di difendersi, egli voltò il nuovo ritratto verso di lei, lascia che sia un piccolo sole e che la illumini a suo tempo. E chiuse gli occhi. Dormì, la bocca secca, forse per il cibo, non sapeva. Il suo attacco era stato prostrante, Si svegliò e vide Emily, completamente vestita, le scarpe ai piedi, rannicchiata sul letto accanto, a una distanza che allo sguardo gli parve un abisso. Russell dormiva su due sedie accostate malamente, respirando rumorosamente dalla bocca. Austen non si sentiva in grado di respirare a fondo, di espandere quei sacchi flosci, renitenti, in modo che succhiassero ciò di cui avevano bisogno. Nel bagno gelido bevve acqua, e ancora acqua, come un uomo a un ruscello, l'acqua sulla sua bocca, piena, ricca di doro. C'era un minuscolo orologio incassato nella parete, accanto al contenitore di fazzolettini di carta: le tre e quarantanove. Pensa: Emily, che dorme nella tua stessa stanza. Mentre la fissava, quasi inciampò. Dormiva nella stessa posizione raggomitolata, fetale, da soldato. Toccala e, probabilmente, schizzerà in piedi come una trappola a molla: ah! I capelli folti e scompigliati, il mento lungo, marziale, addolcito dallo stato di incoscienza. Non c'erano nuove rughe, nuovi segni scavati dalla preoccupazione o dalla tristezza. Se era cambiata, era cambiata in meglio. La loro separazione le aveva ovviamente fatto bene, e c'era forse qualcosa di più triste di questo? Naturalmente, lei non la considerava una separazione; Austen era stato escluso per sempre, non faceva più parte della linea che era la sua vita. Austen si sedette sul letto, di fronte a lei, i piedi freddi divaricati sullo scendiletto di plastica zigrinata, e pianse in silenzio, soffrendo, calde lacrime sulla superficie immobile delle guance, del mento e delle labbra che non avrebbero parlato. Emily. Emily. Emily Bandy, che cosa significava il fatto che avesse conservato il suo cognome? Nulla? Nulla. Forse, era semplicemente più comodo, nessun documento da modificare, nessuna patente da rifare. Forse, era l'unica parte di lui che riusciva a conservare, un souvenir gradevole e indolore. Forse, le piaceva di più del suo cognome da nubile, Moffett. La piccola signorina Moffett, odiava quel nome, certo. Si addormentò così, seduto, e rimase in tale posizione finché non si accasciò, con un rumore attutito. Continuò a dormire, nel buio, mentre sui tre
corpi immersi nel sonno scorreva, con movimenti rapidi e complicati, l'argento, ricordo del dolore ancora da venire e della sofferenza ancora in embrione, era come la luce oscillante della sfera sfaccettata di specchi di una vecchia pista da ballo, una luminescenza brillante e mostruosa. Era come una fila di denti di squalo, di denti sottomarini, il filo giustiziere della lama, il sanctus che si librava, in silenzio, la fredda totalità del divoratore e del divorato e la deriva spaventosa delle ossa sotto un ponte, un monumento, immenso e raffinato, alla triste capacità, immensa essa stessa, dell'uomo di commettere il peccato mortale e di restare ironicamente incredulo. Il mattino seguente erano tutti irritabili, Emily imprecava nel bagno, non aveva vestiti puliti da indossare, Austen faceva lo stesso, in silenzio. Russell aveva mal di testa, e mal di stomaco, e un programma per la giornata che fece urlare Emily dal bagno. Uscì, brandendo l'asciugamano, la lunga camicia malamente abbottonata nella fretta di opporsi, la loro monotona discussione era già di nuovo in atto. Chiuse la porta, pulì lo specchio, si spazzolò i capelli. Esitava, non voleva mettersi subito in mezzo; eppure, avvertì lo strano senso di inevitabilità che aveva provato tanto spesso, guidando, con Russell, era come un déjà vu: la strada aveva una fine. Non era qualcosa che riusciva a comunicare in maniera adeguata, ma doveva comunicare per convincere? Ed era importante convincere? Dopo tutto, era il suo cervello. Emily aveva abbassato la voce, il che era un segno terribilmente brutto. In piedi accanto al letto, la borsa in mano, esclamò: "Va bene," con finta calma. "Ti dirò che cosa ho intenzione di fare. Me ne vado, in questo momento, così voi potrete continuare senza di me la vostra stupida farsa, d'accordo? Potrai portarlo dai guaritori religiosi, dagli stregoni e fare qualsiasi balla magica..." "Non sono balle! Tutto quello che non vedi sono balle per te? Che pensi delle persone che..." "Austen," disse, voltandosi quando egli fece il suo ingresso, una valutazione lampo, che gli diede un lieve brivido, oh, era in gamba, Emily, era difficile farle bere alcunché. Persino ciò che non vedeva. "Austen, Russell pensa che la professione medica non abbia nulla da offrirti e che sia tempo di provare qualche metodo per gonzi. Francamente, sono contraria all'intera idea, ma è una scelta tua. Non è così?" "Austen, ragazzo, sta distorcendo..." Sollevò le mani, in silenzio, guardingo. Aspettate un minuto. Il petto gli
bruciava, come se avesse inalato fuoco. Non c'era modo di dire ciò che lei voleva sentire. "Emily," disse lentamente, "non posso più andare da nessun dottore." "Bene," replicò lei all'istante; era esattamente ciò che si era aspettata. "Allora, addio. Non ho intenzione di restare, in attesa della fine infelice della storia. E non chiamatemi dall'ospedale, d'accordo? Austen, non mi chiamerai, vero, dal pronto soccorso? E nemmeno tu?" affermò, sprezzante, guardando a malapena nella direzione di Russell. "Ammetto che abbiate dei problemi, ma non li risolverete in questo modo. Quindi, non chiamatemi più, d'accordo?" "Emily, tu..." "Ho detto non chiamatemi più!" infilandosi in qualche modo la giacca. Vide che le tremavano le mani; ne avvertì il tremito molto più intensamente del dolore che provava ai polmoni, era triste, insopportabile, ancora una volta il suo fallimento l'aveva ferita. "Lasciami in pace d'ora in poi, Austen, parlo sul serio! E se ti farai vivo tu, coglione," aggiunse, lanciando uno sguardo tagliente a Russell, che la fissava, freddo, dall'altra parte della stanza, "chiamerò immediatamente la polizia, e quando lo farò mentirò, è chiaro? È chiaro?" "Perché non ti limiti ad andartene, se è quello che vuoi fare?" Austen, impotente, non poté piegarsi, nemmeno per lei, a ciò che sapeva essere, nella migliore delle ipotesi, solo una serie di guai e di ritardi dispendiosi e, nella peggiore, un modo per rimestare il letame e per farlo vorticare a una velocità insostenibile; aveva poche certezze, ma una di queste era la consapevolezza che quella non era la maniera per trovare una soluzione. Sollevò una mano, movimento inutile, lei stava già andandosene, era già fuori dalla porta. Non la sbatté. Austen, del resto, non si aspettava che lo facesse. "Non ti preoccupare, tornerà." Russell fece un cenno di superiorità da dietro gli occhiali da sole, mangiando il secondo dei due hot dog al chili, raccomandabili solo per il costo incredibilmente basso. Le cipolle erano nere come croste. "Te lo dico io, ragazzo. Tu non mi credi, ma io ho ragione." Austen non disse nulla. Non aveva quasi parlato da quando Emily se n'era andata; il silenzio dell'amputazione. Era pomeriggio inoltrato, e il lungo bagliore lo aveva quasi instupidito, chiuso nella sua muta malinconia, ingobbito sul sedile anteriore della sua macchina che, dopo esser stato nel-
l'auto di Emily, aveva un odore molto simile a quello di un camion dei rifiuti, di muffa e di umido. "Voglio trovare una lavanderia automatica," affermò. "Perché?" chiese Russell, con il chili in bocca. "Sono stufo di essere sporco, ecco perché." Di fronte a lui il suo pasto, intatto, il chili scuro raggrumato nel contenitore cilindrico di cartone, organi sacrificali, pelle contorta. Lo spinse lungo il cruscotto impolverato verso Russell. "Non lo voglio," esclamò, incapace di mangiare, di pensare chiaramente; lavorare, quello voleva, con una rabbiosa eccitazione viscerale. Avrebbe potuto decidere di eliminare quei graffi, o forse anche no; forse, erano in certo qual modo necessari. Forse in ogni cosa c'era un aspetto necessario più di quanto immaginasse, o di quanto avrebbe potuto immaginare. Forse era un idiota; no, quello era certo. "Ascolta," affermò Russell, con la bocca piena. "Vado a sondare quella signora, va bene?" Deglutì, sogghignò. "Per vedere quanto sia rimbambita. Hai voglia di tornare al motel?" "Sì. Ho intenzione di lavorare per un po'." "Certo," rispose, avviando il motore. "Abbiamo la stanza pagata fino a domani." Sul finestrino c'era una nebbiolina sottile, alito o vapore, effimera, un dito avrebbe potuto eliminarla, ridurla in goccioline, piccole e tristi come stupide lacrime. All'interno, nella stanza, immaginò Austen, c'era ancora il profumo di Emily. Toccò il letto rifatto dove lei aveva dormito, estrasse il cuscino dall'orrido copriletto e lo annusò. Tracce inconfondibili del suo profumo, tracce che si tramutarono per lui in effettivo dolore, in un dolore al petto. Fu costretto a riporre il cuscino. Prese il quadro da terra, lo portò vicino alla finestra, dove poteva esaminarlo, e un'ondata di luce sensuale si riversò su tutti i suoi anfratti. Era un buon lavoro, stupefacente, veramente buono, al di là della confusione. Frenetico, il che rappresentava una delle sue qualità, toglieva il fiato, ed egli non poté che sorriderne. Toglieva il fiato, sì. Decise di lasciare i graffi dov'erano. Aveva solo alcuni tubetti di colore, il nero e un verde carico; scioccamente, non aveva preso gli altri dal sedile posteriore dell'auto. Bene. Lavorerai con quello che hai. E così fece: davanti alla finestra, non in piena luce, ma nel suo pallido riflesso, piccoli tocchi, lenti, e altri più scuri, più scuri, pesanti come carne gonfia d'acqua e i graffi in certo qual modo più luminosi, più semplici, e più semplicemente crudeli. Lavorò a lungo, senza badare al tempo; né ai
fastidiosi brontolii del suo stomaco vuoto; né alla sua respirazione, lenta, irregolare, come un motore che perde colpi; né allo sguardo tenero e furtivo dell'argento, da dietro la porta del bagno. Bussavano, in maniera impaziente, violenta: che Russell avesse perso la chiave? Si alzò, sorpreso per la rigidità delle sue gambe. Vide che fuori la luce era scomparsa, e che quelle della camera erano accese; forse aveva fatto in modo di finire in quel posto dove non c'era nient'altro da vedere. La mano molle poggiata sulla porta, aprì senza guardare. Emily. "Ho parlato con Peter," disse, senza preamboli, buttando la borsa sul letto più vicino. "... se n'è andato quel coglione? Bene." Parve notare di colpo lo stupore di Austen. "Stai lavorando?" chiese, sorpresa. "Posso..." "No, posso fare una pausa, è già un po' che ci lavoro," rispose, richiudendo i tubetti, timido, aveva paura di mostrarle quello che stava facendo. Rivolgendosi nuovamente a lei, disse, nell'unico modo in cui poteva dirlo, ad alta voce: "Non pensavo saresti ritornata." "Nemmeno io," replicò, sorridendo, molto lievemente. "Ma ho parlato con Peter circa un'ora fa e mi ha fatto cambiare idea." "Peter?" Fece una faccia da cartone animato così comica che Emily rise, sapevano entrambi che lei non aveva mai rispettato le opinioni di Peter in merito a qualsiasi questione. "Come è riuscito..." "Mi ha detto di aver venduto il tuo trittico." La faccia di Austen, impenetrabile, contratta come se volesse mordere; Emily era impaziente. "Non voglio parlarne, so che pensi sia una catastrofe enorme, ma..." "Hai ragione." Nella mano i pennelli gli tremavano. "Non parliamone." "Va bene. D'accordo. Comunque, ho parlato con Peter, che ti ha chiamato dalla tua amichetta..." "Ti ho già detto..." "Lo so, lo so. Chiunque fosse. Ti cercava. Mi ha detto di aver persino lasciato un paio di messaggi nella mia segreteria." "Che cosa vuole?" chiese, brusco, spaventato. "Dice che non si tratta solo del trittico. Ma di tutti i quadri. Stanno mutando." Nulla. I pennelli immobili, all'improvviso. "All'inizio ho pensato che fossero solo sciocchezze," gli spiegò come era giunta a credegli, senza sapere ciò che egli sapeva. Tagliò corto, con tono brusco. " Ma, poi, ho pensato: Peter non ha la minima immaginazione, è
fatto così, non avrebbe mai potuto inventarsi tutto. Mi ha detto," aggiunse, il volto notevolmente accigliato, cercava di ripetere le parlo esatte, "La consistenza dei colori è completamente cambiata. Mi ha detto, non mi ricordo esattamente... no, aspetta," quando lo vide, prevedibilmente, afferrare il telefono. "Non è più a casa, sta andando alla galleria. Gli ho detto che l'avresti chiamato là." Tutto mutato; come? In che modo? Disintegrazione? Degradazione cospicua, spettacolare? Il tutto trasformato in argento primordiale, suppurante, come una ferita non trattata? Il suo respiro peggiorò ancora, era un piagnucolio acuto, come il rumore di una trasmissione. "Era... ha detto com'era?" "Non lo sa. Non sa se sia permanente, dice che i mutamenti sono impercettibili al punto che, talvolta, non sa nemmeno se vi sia qualcosa di diverso. Dice che li controlla ogni giorno." Il suo labbro superiore era piegato in una lieve smorfia di scherno e di incredulità nei confronti dell'affidabilità di Peter. "Ma è comunque in meglio, continua a ripeterlo." Austen si immaginò quelle parole in bocca a Peter: per lui tutto è in meglio, Guardate i Quadri Mutanti! O, meglio ancora, Comperate i Quadri Mutanti. È ingiusto, gli disse una parte di sé. Peter ti è amico. Un'eco misterioso. "So che è un grande coglione, ma Peter ti è molto amico. Soprattutto in questo momento." Si sedette sul letto, accasciandosi, come se fosse molto stanca; forse lo era. Come aveva dormito la notte precedente? Profondamente? O superficialmente? Voleva chiederglielo, dirle semplicemente: Come stai? Come ti senti? Poi, con un brusco balzo: Peter ha venduto qualcos'altro? Mutato, come? "Quando ha detto..." "Fra circa un'ora, ha detto che doveva fermarsi in un paio di posti, prima." Guardò l'orologio. "È già passata circa mezz'ora." Russell, allegro, la birra in mano, esclamò: "Ehi, ascolta..." La mano sulla porta gli divenne immediatamente fredda. "Pensavo te ne fossi andata." Lanciò uno sguardo ancora più freddo ad Austen, sospettato di aver fatto stupidamente il doppio gioco. Si rivolse a Emily: "Tornata a prendere le mutandine, o che?" "Cerca di non essere più stronzo di quello che sei," replicò Emily, risentita e infastidita. Austen li sorprese tuttavia entrambi, scagliandosi su Russell e afferrandolo con due mani alla gola. "Smettila, la devi smettere!" gli urlò. Russell si liberò facilmente dalla presa ma, per tutto il tempo, guardò Austen negli occhi con aria circospetta, come un uomo che valuti l'indole
di una bestia. Austen si spaventò, si placò e si schiarì la mente. "Sto bene," affermò, allontanandosi, ai vostri angoli, prego. "Non sto avendo un attacco, d'accordo? È solo che tu... mi sono solo incazzato, va bene? Mi dispiace." Si sfregò gli occhi, lui stesso imbarazzato per la sua reazione, stupida e infantile: voleva difendere l'onore della dama. Persino Emily pareva imbarazzata. "Mi dispiace," ripeté. "Certo." La birra di Russell si era rovesciata per terra, una macchia brillante che spariva nella tenebra del tappeto. "Va bene... Ascolta," ribadendo le notizie che portava, "le ho appena parlato e mi ha detto che possiamo andare da lei. Mi ha detto di andare ora." Austen, la bocca leggermente aperta, non riusciva a ricordare di chi Russell stesse parlando; poi, precipitosamente, disse: "Sì, io, io non posso andarci, ora." "Oh! Cazzo, ragazzo," gli rispose Russell, con il disgusto che nasceva dal fraintendimento. Emily, secca: "Qualsiasi sia la cosa di cui stai parlando, non ha nulla a che vedere con me." "Oh, giusto." Poi, l'eccitazione di Austen. "È successo qualcosa ai miei quadri, Russell, devo scoprire che cosa!" Era troppo. Gli sembrò che la sommità del cuoio capelluto gli strisciasse via dal cranio. I punti gli dolevano, come se fossero stati sostituiti di nascosto da filo di ferro. Si sedette dove si trovava, crollando brutalmente contro la porta chiusa del bagno, le mani molli, sul pavimento, come cose esauste, esauste come lui. Suo malgrado solidale, Emily esclamò: "Perché non provi ora?" Balzò su, in piedi, prese il telefono e il numero che gli diede. Uno squillo, più squilli, la segreteria della galleria, che informava degli orari, delle mostre in corso, poi, l'improvvisa esplosione della voce di Peter. "Pronto!" "Peter, sono io," rispose, non sentendo, in quel momento, altro che una stretta. "Che cosa è accaduto ai miei quadri? Emily ha detto che sono tutti mutati, lei..." "Sì, sono mutati, è vero, e non smetteranno di farlo." Peter dimostrava una stanchezza inusuale, era in una situazione in cui non si era mai trovato. Austen era troppo agitato per rendersene pienamente conto, ma più tardi avrebbe riflettuto sulla monotonia, sull'aridità della sua voce. "Li ho sistemati dove posso tenerli d'occhio e, ti dico, Austen, ho visto cose strane prima, ma questa è assolutamente da palma d'oro." Ascoltò, la complessa pavana, Peter che elencava: i singoli pezzi, il momento del giorno, la qualità della luce, la natura presunta di ogni muta-
mento ma, in tutto, c'era una costante: il gocciolio incessante di un colore tanto chiaro da risultare indefinibile. Se, tuttavia, avesse dovuto definirlo, Peter disse che avrebbe detto che era argento. Era a malapena visibile e, nonostante ciò, era potente, talora si mescolava agli altri, talora rimaneva in superficie, come vernice trasparente. Era inconfondibile. Il volto attento di Austen divenne insondabile, come una ferita suturata. Si appoggiò alla testata del letto, conscio solo del telefono che teneva in mano; la voce di Peter era anch'essa uno strato superficiale, raffinato e spaventoso; una vernice trasparente, sì, no, osa dare ancora un'occhiata a ciò che hai fatto, oggi, al ritratto. Era mutato? Dolore, ansia, un empito vago, ridicolo di curiosità (mutato, come, esattamente? Nessuno poteva dire nemmeno con mille parole ciò che i suoi occhi vedevano con un mezzo sguardo). E la rabbia, una nota obbligata: come osa, come osa qualsiasi cosa interferire con il suo lavoro? La fredda nozione, aveva rinunciato al controllo, non era forse così, in quei cari giorni delle T-shirt, ormai sepolti? Era ricettivo come un campo arato. Era quello l'elemento che aveva aperto la porta a tutto cio? Peter stava dicendo qualcosa, Austen strizzò gli occhi e cercò di ascoltare, "...diventare cieco nel tentativo di star dietto a questa cosa." "Solo, non venderli." "Lo hai ripetuto venti volte, Austen, lo sai? Non li venderò, te lo prometto, lo giuro sulle mie palle, d'accordo?" Sospirò. "Lasciami parlare ancora con Emily, d'accordo?" Le passò il telefono come fosse uno strano strumento, È per te. Russell, importuno, chinato verso il suo stanco orecchio, caricatura della coscienza. Avrebbe forse dovuto avere un paio d'ali? O un paio di corna? "Quando le ho parlato, mi ha detto che dovremmo andarci subito. So che questa merda di arte è importante per te, ma forse ti può aiutare, capisci? È una vecchia fottutamente strana, questo è certo." Emily alle loro spalle riagganciò il telefono. Rivolgendosi ad Austen, che si era voltato con aria da cane bastonato: "Si terrà in contatto con noi." Poi, fredda, guardando Russell, aggiunse: "Dovunque andiate, non mettetemi nella condizione di dovervi fermare." "No," esclamò Austen. "Vieni con noi, per favore." "Dalla strega?" chiese, senza sorridere. Quindi si alzò, prese la borsa e aprì la porta che dava sul buio. Austen rimase senza parole; poi, seguito da Russell, in preda a un amaro scontento, disse: "Sì, perché no?" Il click della serratura, il click delle chiavi. "Forse imparerai qualcosa."
9 Nessun feticcio, nulla di misterioso: la sua casa poteva essere quella di Cyndee. Color verde bosco sbiadito, assicelle mancanti ed erba morta, una Vergine di plastica fissata rozzamente a un piedistallo inclinato. Un cenno di invito a entrare in cucina, a oltrepassare la porta di servizio, un mobile a rotelle attaccato dalla ruggine con barattoli e buste di minestre e di bevande in polvere, sfatte come stracci, piatti nel lavello, un tavolo da gioco rovinato con il disegno di alcune carte. C'erano sei sedie pieghevoli; Russell si sedette immediatamente, Emily subito dopo, sulla sedia di fronte. Dopo aver armeggiato per un po', Austen si sedette accanto a lei ed ebbe, per un istante, il doloroso impulso di prenderle la mano. Le sue erano tanto fredde che non riusciva a sentire le dita, sembravano due pezzi di carne squadrati e ripiegati. Attraversò la stanza per sedersi fra Emily e Russell. La signora Olivia indossava jeans e turbante e una felpa assurdamente grande per la sua taglia, con il disegno di un bulldog: "Hoyas," disse, sfiorando la scritta con un dito. Poi, notando che gli ospiti non capivano, aggiunse: "Georgetown. Ci va mio nipote." Si accese una sigaretta e avvicinò il posacenere. Guardò tutti, Emily, tesa e fredda, le braccia incrociate, Russell, con le mani in tasca, e Austen, il gelido vertice, il nucleo privo di centro. Che cosa aveva capito di lui? Era in attesa che parlasse, conscio della sua inquietudine; di nuovo, quel terrore infantile, anche gli altri lo avvertivano? Emily, mai; Russell? Forse, ma aveva già parlato con la signora Olivia, organizzato quel tête-à-tête, quell'intervista. Per lui tutto era interessante, eccitante, come compiere un atto di coraggio. E naturalmente nessuno gli avrebbe cacciato unghie ricurve nel cervello. Aveva una voce mite, leggermente rauca. "Vi piace la mia casa?" Emily non disse nulla. Austen annuì, stupidamente, e Russell sogghignò. "Quella statua, là fuori. Ci crede?" "Ero cattolica," rispose la donna. "Adesso lo sono solo qualche volta." "Davvero?" Il sogghigno di Russell si fece più marcato, e il sorriso di lei più secco. "Lei non va in chiesa? È forse un piantagrane?" "Pianto più grane io di quelle che le grane piantano a me," replicò, disinvolto. Emily roteò gli occhi, disgustata, con l'intenzione di farsi vedere dalla signora Olivia che, invece, scosse il capo, no. "No, non lo è," osservò. "Lei è solo un piccolo rompiballe, questo è lei," aggiunse, con fare
troppo desolato per essere ironico. Emily approvò all'istante, abbozzò un sorriso largo come quello, immutabile, dei gatti. Austen si sedette, il suo sguardo sembrava seguire una partita di tennis, lanci a tre, ora era a disagio Russell, ora Emily, ora la signora Olivia. Che lo osservava. Con tono ancora più secco: "Lei ha bisogno di un medico." Russell ribatté fulmineamente: "Gliel'ho detto, abbiamo già provato questa via," ma lei lo zittì, mm mm mm, so, so. "Non parlo di un medico ufficiale. Ma di un brujo o di qualcosa del genere. Sa che cos'è?" Di nuovo Russell, a interrompere il silenzio, il ronzio del frigorifero un incantesimo senza fine. "È una strega. Anzi, uno stregone." Un breve sorriso furbesco. Si accese un'altra sigaretta con un accendino su erano incise le iniziali BBJ. "Ha ragione solo a metà, perché è un dottore solo a metà. Non del tipo però che ti dà cinquanta test cinquanta volte e non ti dice nulla. Può metterti a posto." Aveva gli occhi puntati su Austen. Muoveva la sigaretta come un indicatore. "Può mettere a posto chiunque. Anche lei," esclamò bruscamente, rivolgendosi a Emily, il cui volto si contrasse, sotto una patina di calma forzata, precaria. "Lei non ha paura nemmeno del diavolo all'inferno, ma io conosco bene il suo tipo." Anche Austen la conosceva, il respiro veloce che denotava rabbia, le mani immobili, erano fredde come le sue? Dopo il rimprovero, non rispose nulla, il viso imperturbabile; nell'aria dell'ambiente che sapeva di cipolla c'era un profumo, lieve e dolce come lavanda, un profumo antiquato. "Non girerò le carte per lei," disse con sdegno, "perderei solo tempo." Concluso rapidamente il discorso con Emily, si rivolse nuovamente ad Austen, al paziente più celebre di tutti: "Ma lei, adesso, lei deve trovare qualcuno che l'aiuti al più presto. Sente anche lei di doverlo fare, vero? Nel petto." Si batté delicatamente il suo e il grigio bulldog della felpa si increspò. "Vada dal dottore. Non riceve chiunque. Ma lei dica che la mando io." Il profumo di lavanda era più intenso, quasi chimico. "Come." La sua voce non si era ancora bene abituata a parlare. Prova ancora. Le mani fredde al punto da fargli male. La cucina sembrava più piccola, ora. "Come si chiama?" Silenzio. Il fumo di sigaretta sul suo volto, il profumo di lavanda, più amaro, ora, fastidioso; se si sfregava le dita poteva sentirlo, era oleoso. La signora Olivia tossì, una tosse da fumatore, una tossa catarrosa. "Si fa chiamare dottor Quiete. Le darò il suo numero." disse, prendendo dietro di sé un sacco di fìnto patchwork, la borsa. Che cosa tiene una strega nella sua borsa?... Era come un gioco per bambini. Si sentì di colpo estremamente
spaventato, sentiva che avrebbe potuto farsela addosso, era il terrore causato dal profumo della lavanda che si impadroniva del suo respiro e dalla sinuosità dei punti che, come seguendo un loro ritmo malefico, si tendevano per poi scivolare via, sorpresa! ecco il tuo cervello. Hai provocato una perdita! E le sue dita, quelle unghie, che lo toccavano leggermente, tenendo un pezzetto di carta strappato. "Lo prenda," esclamò e, mentre Austen esitava stupidamente, si fece avanti la mano impaziente di Russell. Lei però ritrasse la mano, rapidamente, provocata, incollerita con lui. "La smetta! Lo prenda!" ripeté ad Austen. Evidentemente doveva farlo lui stesso. Devi essere tu a desiderare di cambiare, un'altra barzelletta. La carta stessa aveva un puzzo tanto intenso che riusciva a stento a fidarsi a tenerla fra pollice e indice. Eppure, lo fece. Emily era imperscrutabile, Russell aveva lo sguardo fisso. La signora Olivia era calma, come una malattia latente del sangue. Quando si accese un'altra sigaretta, emise un brontolio, dovuto alla tosse umida di cui soffriva. Mentre sistemava il pezzetto di carta in una tasca, Austen lo sentì muoversi fra le dita, come un brandello di carne viscida, virulenta e viva. Un baluginio, una traccia sfuggente dell'argento che ne orlava i bordi irregolari. Si precipitò fuori dalla casa, immediatamente, sbattendo la porta di servizio, e strisciò sul sedile posteriore freddo; l'odore della carta aveva invaso l'intera auto: solo lavanda, niente più aria da respirare. Aprì tutti i finestrini e udì Emily, esasperata, che lo richiamava. Emily, che sapeva reagire in ogni occasione, anche se confusa o difficile. Emily, per la quale egli non era tanto un problema che non riusciva a risolvere quanto un rompicapo di cui non accettava la soluzione; il gioco più antico di tutti, che cosa vedeva in lui? Si rese conto di parlare a voce alta, era un balbettio incessante, che lo privava di metà scorta d'aria; la signora Olivia era forse un genio sconosciuto dei polmoni e lo stava strangolando tramite la sua stessa paura? Tossì, con un rumore peggiore di quello che lei aveva emesso, una tosse liquida. Coprì con la mano la bocca traditrice dalla quale fuoriuscì qualcosa di umido e di scintillante. Ritrasse la mano, in preda al terrore, e la cosa si allungò per raggiungere il suo volto. Iniziò a scagliarsi contro il sedile, come fosse una frusta, con i talloni cercava di toccare il pavimento, aiuto, aiutatemi, un lieve tonfo sulla carta. Si portò il pezzetto alla bocca, lottava contro le sue stesse mani, AIUTATEMI, le mani bagnate, troppo buio per vedere qualcos'altro oltre a un brillio, qua e là, la carta si trovava ora disinvoltamente nella sua gola, un lucore. Dove-
vano averlo sentito. Stavano arrivando, di corsa, tutti e tre, Emily in testa. "Austen!" Aprirono la maniglia della portiera. Sentì le braccia di Russell cingergli saldamente il petto e, tra un borbottio e l'altro, trascinarlo fuori. Boccheggiava, ah ah ah, stava soffocando su un prato privo d'erba, c'era un corpo su di lui, c'erano due mani nella sua bocca, era la signora Olivia, aveva le sue unghie in gola, oh Dio, era inerme. Cercò di scrollarsela di dosso, di rotolare via e, d'un tratto, lei si alzò in piedi, si scostò da lui, tenendo qualcosa in mano. Lui rotolò sul fianco e rigettò, non era argento, né sangue, ma semplice vomito. Rigettò a lungo, finché si accorse di poter respirare. I polmoni gli dolevano, una sensazione nefasta, di bruciore, gli sembrava di avere i muscoli del petto lacerati. Respira. La voce di Emily, troppo alta. Era china su di lui, come un'infermiera del tempo di guerra. "Austen! Stai bene?" Le strinse la mano con la sua, ancora viscida; cercò debolmente di pulirla sull'erba. Era sporca. I punti gli sanguinavano. Russell disse qualcosa alla signora Olivia, che si strinse nelle spalle e quindi gli mostrò ciò che teneva in mano. Il pezzetto di carta, tutto imbrattato. "Lo chiamerò io," disse. Poi, rivolgendosi ad Austen, dichiarò: "Dormirà seduto questa notte, d'accordo? Mi capisce? Non dorma disteso." E se ne andò di nuovo in casa, presumibilmente a telefonare. Russell lo aiutò a mettersi a sedere. Aveva la camicia macchiata di vomito e i muscoli della schiena deboli e tremanti. "Dov'è Emily?" chiese, scrutando la luce diffusa della veranda, "dov'è?" tentò di alzarsi, ma Russell lo fermò, gentilmente, molto gentilmente. "Tornerà subito, è andata a prendere dei tovagliolini di carta." Ed ecco che ritornava, che gli lavava il viso, che lo aiutava a ripulirsi. Austen piangeva. Da molto tempo? "L'indirizzo è scritto qui." Ed ecco che ritornava anche la signora Olivia. Tutti parevano apparire e scomparire con facilità disarmante. Si era rivolta a Emily, adesso, riconoscendo istintivamente la persona con cui doveva trattare; le porse un nuovo pezzo di carta. "Mi ha detto che vi aspetta verso mezzogiorno. Tenetelo d'occhio ora... Dorma seduto," aggiunse, parlando ad Austen, caricato in macchina, sul sedile anteriore questa volta, "si ricordi." Sentiva lo stomaco rimescolarsi irrimediabilmente, era vuoto e dolente. Aveva la camicia bagnata, attaccata alla pelle, e presumibilmente il puzzo del vomito addosso. Cercò di scostarsi da Emily, ma alla fine vi rinunciò. L'intera auto puzzava di vomito. Persino con i finestrini aperti. Con l'aiuto di entrambi raggiunse la stanza del motel e poi la doccia.
Russell rimase seduto sul water, per essere sicuro che non si accasciasse a terra sotto il getto dell'acqua. "Ci hai spaventato tutti, questa sera," esclamò a voce alta, per sovrastare lo scroscio. "Mi sono spaventato anch'io," replicò, ma non fu udito, sotto la cortina d'acqua, calda e incolore, dietro la tenda di colore marrone chiaro, industriale. Il sapone gli irritava tutti i punti in cui la pelle era abrasa. Avvertiva una difficoltà maggiore, ora, a ogni lieve, faticoso respiro e teneva deliberatamente le labbra serrate, come la cella di un carcere: non voleva sentire l'acqua penetrargli in bocca. Pensava di non essere in grado di dormire seduto; ma si addormentò non appena toccò il letto, o forse si era già addormentato sotto la doccia, non ricordava. Si risvegliò alla luce della lampada del comodino, schermata da un asciugamano; Emily era ben sveglia. Lo guardava. Sull'altro letto, Russell disteso scompostamente, in maniera curiosa, come se fosse privo di peso, semi-mummificato dal copriletto. Nella stanza faceva freddo. "Ehi." Si sentiva la gola gonfia, carne secca e spessa. Lei sedeva con le ginocchia piegate, bloccandolo contro la parete. Un letto a sbarre, come quelli del bambini, una persona che lo sorvegliava, era regredito al punto che gli altri erano responsabili della sua incolumità? Sì. E allora? "Come stai?" "Ho i vestiti sporchi," disse lei, dolcemente, senza un tono particolare. "Non è buffo pensare a questo fatto? A questo e alla posta. Devo andare a prenderla. E a sentire se ci sono messaggi." "Mi dispiace," rispose, guardandole non il viso, ma le mani, disgiunte, in grembo. Tutto in lei era così grazioso, proporzionato, come uno strumento, uno strumento sofisticato, costruito per vari scopi. Per quello di essere toccata. Toccale la mano, prendila, sentila, fra le tue. Lei, che cosa farebbe? A occhi chiusi, emise un respiro profondo, che indicava molto più di uno stato di sfinimento. "Non so che cosa fare con te, Austen. Veramente, non so." Aiutami. Amami. Torna da me. Tutte cose mostruosamente egoistiche, ma egli le voleva, tutte, le avrebbe dette a voce alta, se avesse pensato di avere la minima possibilità di essere ascoltato. "Non so nemmeno io." Voleva appoggiarsi a lei, sulla sua spalla forte, sprofondare nella sua forza e nascondervisi. Guardò Emily e vide che lei sapeva esattamente ciò che stava pensando e se ne dolse: una parte di tutta quella vicenda atroce, il fallimento di quel momento era come un'ennesima foglia staccata dall'albero
che affondava le sue radici, in profondità, nel terreno del loro declino come coppia. Lei era conscia del dolore causato dal logorio di ogni bordo, di ogni venatura minuscola, particolare; e lui, idiotamente, cercava di indovinare, è verde? nera? bianca? È più grande di un contenitore per il pane? Voleva, con un'insistenza bruta, secolare, inflessibile anche nei confronti della ragione, rimuovere l'albero stesso. Ricominciare. Far sì che si amassero di nuovo. "Ti amo." "Lo so." "Emily, mi dispiace." "A te dispiace sempre," replicò senza rancore, senza amore. "Cerca di dormire," aggiunse, alzandosi in piedi. Con passo silenzioso andò in bagno e chiuse la porta. Cercò di attendere il suo ritorno, ma non vi riuscì; dormi, facendo sogni complessi, mani protese e collari di piombo liquido, colpi di ossa robuste, angosciose. Si risvegliò a metà sogno, con un sobbalzo, e notò che Russell gli stava accanto, appollaiato, con aria minacciosa, nel buio che stava diventando meno fitto; dormiva, un braccio puntato sul ginocchio per sostenere la mascella, come se questa, cadendo, potesse azionare un allarme, in caso di bisogno. Emily dormiva nell'altro letto, i capelli aggrovigliati, un piede nudo fuori dalla coperta, dal manto protettivo, che, mentre egli guardava, si piegò, come al culmine di un tentativo tarpato di volare. Quartiere-limbo, pensò, senza sapere da dove gli era venuta quell'espressione; in ogni caso, era adatta alla zona, ai magazzini, agli edifìci vuoti, ai piccoli negozi fatiscenti, lasciati all'incuria e al degrado. Le poche case erano state dotate alla meglio di sbarre antiladro, che conferivano loro un bizzarro aspetto a scacchiera. Seduto al suo fianco, Russell strizzava gli occhi per ripararsi dal sole luminoso, ma senza calore, esaminando ogni costruzione che oltrepassavano. "È questa, credo," disse, rallentando fino quasi a fermarsi. "Sembra una casa di tossici, non è vero?" "No." Aveva memorizzato l'indirizzo, che cos'altro poteva fare in quel viaggio silenzioso? L'allegria di Russell si era spenta prima che lasciassero il posteggio del motel, e il suo cupo terrore era andato aumentando a causa dell'immediata e tacita disapprovazione di Emily. "È quella dopo, a due piani. Quella di mattoni," anche se quest'ultimo commento era dettato più dalla cortesia che da altro: dei mattoni, ne rimanevano infatti solo alcuni, inseriti qua e là, come croste, nella facciata di un color grigio tenue, sgra-
devole, come quello di un nido di vespe. Alle loro spalle Emily suonò impaziente il clacson; aveva parcheggiato prima della casa. Aveva insistito per andare con la sua macchina, perché?...Per prendere le distanze, certamente, ma in più sensi? Alla fine di quel colloquio, di quella visita, di quella diagnosi frettolosa, sarebbe partita verso una direzione senza ritorno? Al motel, al momento di lasciare le stanze, non aveva nemmeno una volta ricambiato i suoi sguardi. Quel mattino lo specchio gli aveva mostrato un volto indegno di essere studiato attentamente, con i neri punti di sutura ben evidenti, nell'area in cui gli erano stati rasati i capelli e i segni, più sottili, della malattia e della fatica; la sua pelle aveva una tonalità grigia di morte, come quella casa. Le finestre del piano inferiore erano contornate da lunghe volute di carta marrone, logore ai lati, per rivelare, che cosa? Nulla. L'interno era buio, ma non si trattava del buio di una casa vuota. Sul marciapiede, sollevarono attentamente il ritratto avvolto in un asciugamano, e Austen si accorse che stavano aspettando che si facesse avanti per primo. Il che era giusto. C'era un campanello all'estremità di un filo ritorto rivestito; un filo scoperto era stato invece utilizzato per tenere chiusa la porta che, in teoria, avrebbe dovuto essere munita di zanzariera e che invece ne era priva. Quando bussò, l'intera intelaiatura tremò. Nessuno rispose. Russell, sportosi dalla ringhiera della veranda, annunciò: "Ci sono le scale di servizio." Austen si piegò per osservare, poi si voltò e vide un viso al di là della porta. Era una donna bianca; la sua pelle giovane, ma itterica, le conferiva un aspetto infido, una parrucca dello stesso colore giallastro le pendeva farsescamente sul capo ossuto. "Vuole il dottore?" chiese, con una voce che aveva da tempo perso il contatto con il mondo che stava oltre la porta. Quando Austen annuì, lei ricambiò il gesto. "Prenda le scale," disse, e la porta interna si richiuse. Un puzzo di rifiuti lasciati a lungo a decomporsi, di polvere mista a sporcizia incommensurabile, il disgusto di Emily, che non era dovuto a schifiltosità né a un'offesa, ma a una ripugnanza ben più profonda, per tutto quanto, forse soprattutto per il fatto di essere presente; di nuovo, per Austen, la consapevolezza del fallimento, la sua presenza rendeva obbligatoria quella di lei. Voleva dirle che gli dispiaceva, ma lei si era già voltata da un'altra parte. Erano scale metalliche, prive del frontalino ai piedi, il che rendeva il primo passo particolarmente lungo. Ancora una volta giunse per primo; si
fermò sul pianerottolo abbastanza a lungo da riuscire a leggere il cartello applicato alla controporta in modo tale da lasciare libero lo spioncino: SOLO SU APPUNTAMENTO. Quando bussò debolmente, esitante, il legno bianco della porta interna produsse un suono attutito. "Chi è?" Era una voce chiara. Una voce d'uomo. "Austen Bandy," rispose, scostandosi dallo spioncino. "La signora Olivia ha detto..." Gli scatti delle serrature, il movimento della porta che si apriva. "Entri." L'odore della casa si riversò all'esterno, un odore caldo. La stessa voce chiara, un sorriso senza età, denti in via di ingiallimento, denti da fumatore; l'uomo arretrò per consentire a tutti e tre di entrare. "Sono il dottor Quiete." Anche la sua mano era calda, e molto grande, un profumo di talco, come il bebè più grande del mondo. "Olivia ha appena chiamato. Era preoccupata che non riusciste ad arrivare puntuali." Pelle color seppia, una ciocca di capelli brizzolati, simile a un fregio, stetoscopio con auricolari rivestiti di gommaspugna al collo. Forse cinquant'anni, forse più, eppure non presentava nessun segno di quell'esitazione fisica tipica dell'età. Anzi, in lui non c'era alcuna esitazione. "Dovete piacerle," osservò, con il medesimo sorriso. "Si sieda," disse ad Austen e, rivolgendosi a Emily e Russell, che era rigido come una guardia del corpo, fece un cenno, invitandoli a fare lo stesso. La stanza era grande, ricavata bizzarramente da due più piccole, e aveva due porte che conducevano, probabilmente, in camera da letto e in bagno. Le pareti erano ricoperte da tavole anatomiche, inserti pieghevoli, radiografie, fotografìe, appese con puntine direttamente nell'intonaco brunastro. C'erano delle sedie pieghevoli, sui cui schienali era stampato in nero TIPISTRANI, un tavolo lungo, ricoperto di un lenzuolino di carta sterile di colore chiaro, una serie di piccoli strumenti argentati su un vassoio che raffigurava una famiglia di germani dall'aria solenne, una TV e due videoregistratori. Una caffettiera e bicchieri di plastica, un po' di zucchero rovesciato. Un altro tavolo lungo, ricoperto con un panno rosso vivo, come la cappa di un matador, rivestito, Sheherazade: Libri dei Sogni Fausti, Cubi dei Numeri Magici, candele verdi e porpora, alcune accese, altre no, una serie infinita di boccettine - "Vete de Aqui", "L'Olio del Danaro" - e pacchetti quadrati contenenti polveri varie. Olografìe di santi, san Sebastiano, santa Dymphna, colti nel culmine della loro agonia in technicolor, basta inclinare la cartolina in questo modo e vedi l'ascensione dell'anima, un vapore iridescente, effimero come i fumi sacri. Il tutto, visto con eccitazione alluci-
natoria, era di una chiarezza tanto vivida che Austen sentì di poter leggere, come fossero rune, le sottili venature dell'intonaco che stava cadendo a pezzi, prevedere il futuro in base agli odori fluttuanti dei pazienti, dei supplici che l'avevano preceduto, con il capo cosparso di cenere, e si rese conto che tutti lo stavano fissando e che il dottore lo aveva chiamato per nome, forse più di una volta. "Austen," disse, con quell'inconfondibile, ma sempre affabile, sguardo da medico, "mi senti?" "Sì... mi dispiace, non stavo ascoltando," rispose e si sedette goffamente sulla sedia, le mani fra le ginocchia, tremante, guardandosi costantemente intorno. "Che cosa ha detto?" "Le ho chiesto se ha dormito bene la scorsa notte." "Sì. Bene. Ho dormito bene." Ancora quel tavolo lungo, così dolcemente ricoperto dal panno. Il ritratto poggiato sul suo ginocchio, lo aveva messo lui lì? Non lo faceva sentire a suo agio, ma era indubbiamente giusto che stesse là. "Vorrei partire da una visita generica, d'accordo?" Emily, pronta, ribatté: "Ha tutti i referti medici possibili," evitando volutamente di pronunciare il suo titolo, non lo avrebbe mai chiamato dottore. "Vuole vederli?" Austen, turbato, esclamò: "No, non li ho portati, li ho lasciati..." Lo sguardo gelido di Emily. "Li ho io, nella mia macchina." "No, grazie." Il dottore spostò verso il basso, con un movimento autorevole della mano, una lampada pensile con una decorazione vistosa. "Si sieda qui, per favore." Austen si mosse verso la poltrona indicata, una vecchia poltrona odontoiatrica, portandosi dietro il ritratto, per tranquillità, per sicurezza; era assurdo. Inclinò la testa verso la luce. "Apra gli occhi," e sopraggiunse il fascio mobile di luce della penna luminosa. Ma l'esame fu molto più lungo, il dottore stava forse scrutando, attraverso le pupille, le fibre semifunzionanti del suo nervo ottico, fin su, fino alla corteccia visiva, nel profondo del suo cervello? Le dita sulle sue palpebre, come una soffice garza, per chiudergli gli occhi. "Lei lavora con gli occhi," osservò dolcemente, ma Emily udì le sue parole. "È un artista," commentò, con voce piatta. "Questo lo so," fu la piacevole replica del dottore, che toccò nuovamente le palpebre di Austen. Guardava a occhi socchiusi, ora, e quelle stesse mani si stavano protendendo per afferrare il ritratto. "Posso dare un'occhiata?" Aspettò un cenno di Austen per togliere l'asciugamano del motel, poi collocò il quadro esattamente sotto la luce.
Dopo un lungo e complesso esame, durante il quale egli immaginò che le sue motivazioni e le sue isterie venissero messe a nudo di fronte a quello sguardo dotato di una capacità percettiva non umana, il dottor Quiete osservò: "È ancora umido in alcuni punti," e Austen sorrise, sollevato. "I colori a olio impiegano molto tempo ad asciugarsi." "Quanto?" "Giorni, alcune volte. O anche più. Dipende dallo spessore." Dopo essere stato riavvolto accuratamente nell'asciugamano, il ritratto venne appoggiato, inclinato, a un Physicians' Desk Reference del 1983. "Lei è un grandissimo artista," commentò il dottor Quiete. "Vorrei vedere altri suoi lavori." "Ha qualche esperienza in campo neurologico?" chiese Emily, aspramente, a voce alta, tanto da suscitare imbarazzo: persino Russell, stranamente tranquillo, parve sorpreso. Quindi, Emily scattò su dalla sedia, come un pugile, come un lottatore. "Non fìnge nemmeno di essere un dottore," osservò, sprezzante, ma pur sempre tremando. Austen notò il tremito delle sue mani che afferravano la borsa ed estraevano le chiavi. "Emily," esclamò, alzandosi dalla sedia, avvicinandosi a lei, la stanza era troppo piccola per avere un po' di privacy, ma egli riuscì comunque a parlarle all'orecchio, con tutta la calma che gli fu possibile. "Per favore," la mano dolcemente appoggiata sul suo avambraccio, "per favore, vediamo che cosa può fare, va bene? Per favore?" "Tutto questo è stupido," esclamò, tanto infuriata da avere le lacrime agli occhi. "Non ho intenzione di parlarti qui dentro." Uscirono fuori, sul pianerottolo. Guardò giù, i gradini metallici. Si immerse nel freddo, il vento sul suo viso, sulle sue mani nude. "Allora?" chiese con voce crudele, e si chinò verso di lei, cercando di pensare che cosa fosse meglio dire e un'ondata d'argento come una vertigine, poi scomparve. "Emily," ma lei replicò: "Tu non mi ascolti," con un tono velenoso che non aveva mai udito, nemmeno nei momenti peggiori. "Non ho intenzione di buttare via il mio tempo a guardarti giocherellare con uno stregone, quando invece dovresti trovarti in un ospedale." Quando egli, impercettibilmente, scosse il capo, aggiunse: "Non dai alcuna importanza a ciò che ti dico. Non devo rimanere qui, io ho un lavoro, Austen, ho varie faccende che mi aspettano, ho una vita e non ho bisogno di cose che mi facciano impazzire." Urlava, ora, urlava, con gli occhi pieni di lacrime. "In te tutto è pazzia, tutto!" "Dammi solo un po' di tempo," supplicò, trattenendole la mano con le
chiavi, che sporgevano come punte fra le sue dita, facendogli male. "Una settimana. Per favore, Emily, lo giuro su Dio, se in una settimana non accade nulla..." di nuovo l'ondata, più densa, come olio che offuschi la vista, per un attimo non vide più il suo volto, il pianerottolo, non vide più nulla, sentì che sarebbe potuto cadere giù, come uno stuntman, verso una goffa morte non prevista dal copione "...smetterò. Va bene? Smetterò." "E andrai in ospedale?" "Sì." Mentì, tenendole entrambe le mani. "Va bene?" Lei non rispose e, per un istante, lui si spaventò della propria inusuale doppiezza. Emily l'aveva subodorata? Sapeva? Si chinò verso di lei, pronto a escogitare qualcosa, ulteriori, disperate spiegazioni, ma lei annuì e liberò la mano priva di chiavi dalla sua per asciugarsi il viso, gelato dal vento fastidioso nei punti in cui le lacrime lo avevano rigato. "Allora, va bene," affermò, con voce stanca, "una settimana." Aveva liberato entrambe le mani. "Devo andare a fare alcune telefonate, per lavoro." Di nuovo quel sospiro. "Chiamerò Fran e vedrò se lei o Stuart possono dare un'occhiata alla casa. Adesso resti qui?" "Sì," non sicuro di aver capito che cosa intendesse per restare, ma sapendo ciò che lui stesso voleva. Restare. Sì. "Quando tornerai?" "Quando potrò." Le lacrime ormai scomparse, scese le scale, senza voltarsi indietro o guardare. Rientrò faticosamente in casa, le mani fredde al punto che non si piegavano più, irrigidite come rami congelati durante l'inverno. Russell stava sfogliando un grosso libro con una copertina nera opaca. Il dottor Quiete, chino sulla caffettiera, stava raccogliendo i fondi con la meticolosità di un esperto di veleni del Rinascimento. Quando vide Austen, sorrise e, rivolgendosi a Russell, disse: "Devo procedere all'esame, ora." E questi, leggermente turbato, mise da parte il libro. "D'accordo. Vado a mangiare qualcosa per pranzo, va bene?" Poi, con cautela, domandò: "Tornerà Emily?" "Più tardi." Il caffè cominciò a gocciolare. Il dottor Quiete stava preparando la tavola; le sue mani si muovevano rapide e sicure, riproducendo una danza ben nota, gesti ripetuti molte volte. "La vedrò dopo, immagino." "Certo," ripeté Russell, e se ne andò. Quando chiuse la porta, il vento sospirò silenziosamente. Austen si sedette sulla sedia di Russell, senza bisogno di muoversi, di fare nulla se non aspettare, calmo, in mezzo a quella
mostra di radiografie, di tavole della circolazione vascolare, di carne rappresentata graficamente e delle meditazioni dei cartografi, nel silenzio, o quasi, della quiete del dottor Quiete, elegante sciamano clandestino. Ed egli, passivo, paziente del paziente, giunto infine a riposare sotto lo sguardo distrutto, stereotipato, delle ossa e degli occhi febbrili dei santi. "Sogna?" "Talvolta." Aveva freddo e sonno. C'era un odore di mentolo. Via la camicia, via le scarpe, disteso sul familiare lenzuolino di carta crepitante. Due grosse mani nei guanti di lattice che gli toccavano la fronte. Sul soffitto, le ombre, simili a ragnatele, gettate dalla pallida luce solare, e molte più crepe, i cui tracciati non ebbe, tuttavia, la pazienza di seguire completamente. Avvertiva un prurito acuto sulla parte posteriore del collo, ma era troppo stanco per muoversi. "Sapeva," non era una domanda, la voce era gradevole, senza accento, bassa, "che in latino 'limbico' significa 'pertinente al limite'? Ho studiato molto il cervello." Anch'io, ma non lo disse. Era gelido, come se fosse stato messo sotto il ghiaccio e lasciato congelare, lasciato morire. Sarebbe morto? Il riflesso dei mammiferi nell'acqua, funzionava solo per i bambini? "È mai stato a New Orleans? O a Seattle?" Era come uno dei suoi sogni, ma non disse nemmeno questo; la stessa logica priva di senso, il modo in cui i profili delle cose tendevano a fondersi gli uni con gli altri. Speriamo che anche questo tizio non si trasformi in argento! Tossì per non ridere di quel risolino sciocco da bambino di dieci anni che guarda foto di donne nude. "Non sono mai stato da nessuna parte, se non nel regno della malattia." "La malattia," osservò, prendendo uno strumento di plastica formato da un cerchio provvisto di manico e premendoglielo prima su una tempia, poi sull'altra, "è un luogo importante. Ha mai sentito l'espressione 'pietra della follia'?" "No." Bugiardo. Lo strumento si fermò. "Si riferisce a un intervento effettuato nel Medioevo e, presso alcune culture, anche più anticamente. In sostanza," proseguì, toccandolo, toccandolo ancora, "praticavano un'apertura quadrata nel cranio di un uomo. Batta le palpebre. L'occhio destro, bene, ora il sinistro. Bene. Lei dipinge quando ha gli attacchi?" "No." Poi, ricordandosi di Russell, aggiunse: "Non so. Forse l'ho fatto.
Non mi ricordo." Era contento, provava un sollievo immenso a dire la verità, semplicemente, a raccontare tutto. "Mi può aiutare?" Per un istante non ci fu risposta. Quindi: "Intendo farlo. Vede, curo da anni le stesse malattie, gli stessi peccati: l'avidità può manifestarsi sotto forma di ulcere, o di emicranie, o di una spaventosa obesità, l'orgoglio può causare eiaculazione precoce. La pigrizia, bronchite o stipsi cronica... la stupidità, qualsiasi cosa, capisce quello che voglio dire? Ma qui le cose sono diverse." Con un tampone gli applicò sulle tempie una pasta che aveva ottenuto aspirando e aggiungendo varie sostanze. Un cigolio di rotelle e un piccolo apparecchio, vernice grigia su metallo puro, venne avvicinato al suo capo orizzontale. La parte anteriore era simile a quella di un voltmetro, aghi normali, un paio di manopole. Due elettrodi, uno per tempia. "Ora," disse con tono amabile, "voglio che guardi un film insieme a me." Il telecomando in mano, azionò il video posto più in alto e si udì il rumore della videocassetta che iniziava a scorrere: uno sguardo immediato negli occhi più rossi che Austen avesse mai visto. La visuale si allargò lentissimamente, e venne inquadrato l'intero volto, il volto di una donna, di una ragazza, la sua pelle non era più pelle, ma un milione di bocche: squarci, solchi; la visuale si allargò ulteriormente, a mostrare che il danno non era assolutamente casuale, ma seguiva un pattern preciso: come vermi deformi, come le braccia contorte di un dio famelico. "Se li è fatti lei," spiegò il dottore. "Con la punta di un apriscatole. Le ci è voluto circa un mese." La pazienza che aveva richiesto la cosa, incredibile: e quegli occhi, rossi, così rossi. "Che cosa," domandò, sentendo infantilmente un bisogno urgente di sfregarsi gli occhi, "che cosa le è successo?" "È in un ospedale psichiatrico a Coldwater." L'immagine svanì e ne comparve un'altra, statica, di un uomo, nudo, con vari rotoli di grasso cascante, sul mento, sul ventre, sullo scroto, cosce grosse, quasi da donna. Una lenta rotazione davanti alla videocamera, per mostrare ossa scoperte, grottesche, sotto le spalle arrotondate, ossa tanto bianche da sembrare finte. Ossa come ali, sporgenti, desiderose di volare. La videocamera si avvicinò per riprenderne ogni centimetro lucente; poi, bruscamente, inquadrò il volto dell'uomo, mentre questi si girava, obbediente a un comando fuori campo. Il suo volto: gli occhi che scrutavano da sotto gli occhiali squadrati, la tipica posizione curva. Un uomo alato. "Questo è John," affermò il dottore, scuotendo il capo, con rincrescimento professionale. "Interessante, in ogni caso, non è vero?"
Austen non disse nulla. John se ne andò e apparve una donna di mezza età, calva, che parlava francese e che si tormentava incessantemente l'orecchio sinistro, nascondendo incongruamente la mano sinistra intenta a tale operazione con quella destra, a coppa. Quando, imbronciata, le spostò, rispondendo a un ordine impartitole da una voce fuori campo, divenne visibile il meato privo di orecchio, con un brandello di carne semi-infetta e quelli che parevano essere i resti di un tatuaggio a forma di fiore. "Voci schizofreniche." Il commento del dottor Quiete fu analogo al precedente; ora sedeva su una sedia pieghevole, a fianco del tavolo, le gambe da mantide incrociate sul poliestere nero. "In realtà, cercava di asportarsi il timpano. È un caso alquanto estremo di OCD." Tormenta, tormenta, tormenta, con quelle dita terribili, sempre all'opera. Alquanto estremo. "Che cos'è I'OCD?" domandò, chiudendo gli occhi, il dottore lo avrebbe notato? "Sono i disturbi ossessivo-compulsivi. Comportamenti ripetitivi, in sostanza. In alcuni soggetti si manifestano con l'atto di lavarsi le mani, o di verifìcare una porta cinquanta volte per accertarsi che sia chiusa a chiave." Poi, con tono gentile, aggiunse: "Per cortesia, tenga gli occhi aperti. Sto monitorando le sue reazioni." La cassetta durò quasi un'ora; Austen tenne gli occhi aperti. Un uomo che si era conficcato chiodi nelle gengive, al posto dei denti che egli stesso si era accuratamente estratto; una donna che interrompeva il suo cicaleccio circospetto, con un'aria da insetto, solo per mostrare la sua lingua nera e biforcuta; due uomini, gemelli, capaci di fare fuoriuscire sangue dalle mani vuote, congiuntamente e separatamente, a loro discrezione. Persone che erano in grado di levitare, che erano state al centro della terra, che sostenevano di aver visto Dio, il diavolo, che erano convinte di essere l'incarnazione di entrambi. O, al contrario, di dèi e di demoni più sanguinari e oscuri, persone che si appendevano a elastici per parecchie ore alla volta, che si martoriavano e laceravano il corpo, in cerca dell'illuminazione, del castigo, dell'oblio brutale; andava avanti, all'infinito, gli occhi di Austen erano aperti, e la cassetta andava avanti, all'infinito. Infine terminò, la benedizione di un'immagine statica e il videoregistratore si spense. Gli elettrodi si ritrassero, quasi risucchiati, scivolando via; ebbe l'impulso irresistibile di toccare i punti in cui erano stati posizionati: c'erano due piccoli cerchi pruriginosi ed egli se li grattò, provando un dolore incredibilmente intenso, ma breve. Si sedette lentamente, avvertendo, nel movimento, un senso di
vertigine. Si appoggiò sui gomiti. Il dottor Quiete stava evidentemente trascrivendo le sue risposte, scribacchiava velocemente, in silenzio: poi alzò lo sguardo verso Austen, e gli sorrise. "Si versi del caffè, se vuole. Ho anche della Coca Cola in frigorifero." "Grazie," lentamente, tranquillamente, attraversò la stanza; quando protese le mani per versarsi il caffè, scoprì di non poterle quasi usare a causa della reazione: era stato come presenziare a un sacrificio, il ricordo di quelle persone era incancellabile. Bevve il caffè in piedi, cercando di stare calmo, di non tremare, La tazza era di ceramica bianca pesante, da ristorante, calda nelle sue mani. "Austen." Ritornò al tavolo. Teneva il suo quadro. "Le spiace se lo riprendo con la videocamera?" "No," rispose, senza pensare; poi ebbe un lieve fremito interiore, ma era troppo tardi; a quanto pareva, la videocamera era sempre pronta. Una lenta, voluttuosa panoramica, un'ispezione ravvicinata, quasi da miope, di ogni centimetro di colore ispessito, poi su e giù, su e giù, di nuovo. L'intero processo richiese almeno cinque minuti: molti, per esaminare un quadro. "Non è finito." In risposta giunse un cenno, sì, lo so. Un'ultima panoramica e la luce rossa si spense; la videocamera ritornò nella sua borsa perennemente aperta, eternamente vigile. "Deve essere affamato," affermò il dottore. "I suoi amici la vengono a prendere per cena?" "Credo di sì, sì." Per una volta nella vita aveva dimenticato Emily. Era turbato, ma la domanda gli bolliva dentro, doveva farla. "Quelle persone, del video... erano tutti suoi pazienti?" "Quasi tutti lo erano." "Li ha," ora gli tremava anche la voce; posò la tazza in un posto qualsiasi, sullo zucchero rovesciato. "È stato in grado di aiutarli? Un cenno calmo, come fosse di uno zio. "Alcuni sì." Incrociò le grosse mani, il professore aveva un nuovo studente e, per l'ennesima volta, rispondeva ai quesiti fondamentali. "Alcuni non hanno voluto essere aiutati, nel senso che intende lei." "E allora, che cosa volevano?" "Documentazione." La borsa della telecamera, leggermente aperta. Il suo ritratto, inclinato appositamente affinchè prendesse l'ultima luce; il pomeriggio era finito. "Può aiutarmi?" e la domanda risuonò nelle sue orecchie ancor più pietosa,
ancor più vergognosa: per favore, non voglio essere come loro. Chiuse gli occhi e vide, al di sotto delle palpebre, l'argento ossessionante; li riaprì subito e il dottor Quiete annuì, la testa lunga, le palpebre lunghe aperte nell'oscurità, gli occhi perspicaci. "Non deve preoccuparsi. Sono certo che insieme potremo fare molto." Si pulì le mani con una salvietta di carta; un rumore di un apparecchio, nelle vicinanze. Forse in camera da letto. "Le dirò, comunque," proseguì, sorridendo di nuovo, "sta venendo fame anche a me. Se i suoi amici dovessero tardare, mi farà piacere se cenerà con me." "No, no, grazie, sono sicuro che arriveranno." "Allora, per cortesia, mi scusi un attimo." Scomparve in quella stanza e si udì il prudente rumore di una porta che veniva chiusa. Trovò il suo caffè, lo finì, guardò fuori dalla finestra, nel buio, e vide due fari, davanti alla casa: l'auto di Emily. Si alzò, si mise il cappotto e chiamò, impacciato: "Dottor Quiete?" Il nome gli parve stupido, come uno pseudonimo. "Dottore? Vado via." Ma, al di là del rumore dell'apparecchio, non udì risposta. Se ne andò, chiudendosi la porta alla spalle, girando la maniglia per accertarsi che fosse chiusa. Erano entrambi in macchina, Emily, glaciale, Russell, teso, ed erano entrambi ansiosi di sapere che cosa era accaduto: lo stesso cereale per due mulini diversi, come fare a spiegare? Si fissò le mani, evitando il contatto visivo con ambedue. "Sono stanco." Una nebbiolina sulle superfìci opache dei finestrini; non l'aveva vista salire. "Va bene? Sono veramente stanco." Non servì. "Che cosa è successo?" La rabbia di Emily era attutita, ma Austen la percepiva ancora, la vedeva dal modo in cui teneva le mani sul volante. "Ti ha visitato?" "Sì. In parte." Oltrepassarono ulteriori edifici in rovina, un negozio di bevande insolitamente allegro, con l'insegna LOTTO, grande e luminosa, sopra la porta. "La solita roba." Che bugiardo stava diventando. "Mi ha mostrato un video." "Ha chiesto di vedere i referti dell'ospedale?" Sapeva che non stava facendo una domanda; la vide girare il volante e imboccare la strada principale, per andare verso una destinazione incongrua, nella pioggia che cadeva in più direzioni. ANDY BEE'S, una steak house, due o tre macchine nel posteggio. Senza alcuna grazia, Emily frenò e uscì dall'auto sbattendo la portiera, senza darsi nemmeno la pena di guardarli. "È incazzata," precisò inutilmente Russell. Poi, bramoso, chiese: "Allora, che cosa è accaduto, ragazzo? Non appena siamo entrati là dentro, ho
pensato che a mio padre sarebbe piaciuto quel tizio! Che cosa ha fatto, comunque? Ti ha veramente visitato..." In un'altra auto, un altro momento di buio. "Tu sapevi." Il ricordo di Austen si allargava, come i punti che aveva in testa, abbracciando pure l'eccitazione nascosta di Russell, quella sera, al BAR, frenata forse dalla lunga, spaventosa, imprevedibile serie dei suoi episodi, qualcosa di nuovo ogni volta, ma sempre negativo. Pensò: non so niente. Non voglio nemmeno sapere niente. A voce alta, rispose: "Ne saprò di più domani." Quindi si chiese, senza pregustare alcunché, se quella fosse realmente una menzogna. La cena fu deprimente, un disastro; il ritorno in macchina, anche peggio. Non girarono a sinistra, ma a destra, e Austen si domandò dove stessero andando, se non erano diretti nuovamente al motel. Poi, una sterzata nella tenebra inaspettata, e una piccola insegna con la scritta: PAGAMENTI SETTIMANALI. Era il nuovo alloggio. Tappeto vecchio, color zuppa di piselli, rotolo di carta igienica a brandelli nel bagno, nessuna speranza di averne un altro fino al giorno seguente. Odore di muffa, freddo palpabile quando Austen scoprì le lenzuola. Russell era davanti alla TV, i piedi incrociati, con addosso un paio di calzini puzzolenti; si trastullava con una birra ed era già mezzo addormentato. Emily, in bagno, una T-shirt bianca malfatta e gli occhi rossi. Per un attimo Austen non pensò alle sue lacrime, ma a quegli occhi del video, a quel volto sfregiato e sprezzante. Che disciplina è necessaria per una simile mutilazione, un mese di lavoro con un apriscatole: al di là di ogni immaginazione. Si chiese che cosa avrebbe detto Emily se le avesse rivelato la verità, se le avesse raccontato senza esagerazioni né contraddizioni ciò che aveva visto; stupido. Sapeva esattamente che cosa avrebbe detto. Ora: un lungo cuneo di lenzuolo li divideva. Si sedette maldestramente, una gamba per metà sul letto. Giunse la voce di Emily, assolutamente asettica: "Puoi dormire qui anche tu. Solo, non mi toccare." Si sistemò sul fianco, poi si girò: "Nemmeno per caso." Si voltò ancora; respirava irregolarmente, il ritmo veniva interrotto, forse da altre lacrime, ma Austen non osò verifìcare. Non osava voltarsi verso di lei, anche se tutto ciò che desiderava al mondo era prenderla fra le braccia, sentire quelle di lei attorno al suo corpo e piangere con lei, piangere fino a non emettere più alcun suono e poi dormire, per svegliarsi e correre via, lontano, molto, molto lontano. Fino in cielo, nel passato, in una favola; era troppo stupido per essere vivo. Si addormentò, afflitto per la propria idiozia, e sognò un silenzio di cui non aveva memoria, un luogo sconfinato, vuoto, dove il dolore non rappre-
senta il tributo che si deve pagare per provare un sentimento e dove il solo argento è la luce che brilla dietro agli occhi che non vedono nulla, assolutamente nulla. Il mattino dopo. Soffiava un forte vento. Russell al volante, stavano andando dal dottor Quiete. Trovarono la casa vuota, la porta chiusa a chiave, nessun cartello, nessun avviso se non quello, di sei centimetri per quindici, che diceva SOLO SU APPUNTAMENTO. "Avremmo dovuto chiamare," la frase era stata ripetuta per l'ennesima volta. Austen si era afflosciato, sconfìtto, contro la ringhiera e Russell guardava furtivamente dietro di sé, giù per le scale. "Chiediamo alla ragazza." Quella pelle gialla, dispeptica, quella parrucca, quella voce. Degne del video. "Chiedi tu." Russell ghignò. "Merda, va bene." Scese disinvoltamente le scale, Austen lo seguì, più lentamente. Quando giunse al piano terra, lei era già sulla porta, la teneva aperta. Russell entrò, senza esitazioni. Passò un'auto, i finestrini vibranti a causa dei toni bassi dell'autoradio. "Viene anche lei?" domandò la ragazza, senza interesse; il suo braccio poteva essere di plastica, vista la sua lucentezza malsana. Annuì, imbarazzato per il fatto di obbligarla a tenere la porta aperta, per il fatto di essere là, ed entrò. Fumo di sigaretta, tutto aveva tonalità diverse, contrastanti, di rosso, blu, marrone, verde vomito, tutte le finestre erano oscurate da coperte, la porta era rivestita di carta, di carta marrone. Austen provò un folle impulso di strapparle e di disegnarvici sopra, di scrivervi il suo nome in lettere maiuscole enormi, fluorescenti, di dargliele e di dirle: Sono un artista famoso, sai, dalle a Peter e vediamo se mutano. Avrebbe dovuto chiamare Peter tra breve. Avrebbe dovuto... "Austen, ehi. Sto parlando con te." Ed egli sobbalzò, sentendosi colpevole; alzò lo sguardo. La ragazza lo stava guardando, per nulla sorpresa, con occhi da geco. "Dice," come se ci fosse necessità di un interprete, "che il dottore se n'è andato presto questa mattina." "Sa quando ritornerà?" chiese, rivolgendosi a quegli occhi indifferenti, che si erano ritratti in un abisso che nemmeno lui, nel suo degrado argenteo, poteva sperare di raggiungere. "Ha..." "No," rispose, dandogli un'occhiata, quindi distogliendo lo sguardo. Un secondo dopo, all'improvviso, osservò: "Lei è quello che ha il problema, non è vero?"
Aveva la bocca lievemente spalancata; la chiuse, per annuire, sì. Lo ammise. L'avidità di Russell si risvegliò: un nuovo fenomeno da baraccone, insospettato. Questa, che cosa poteva fare oltre ad avere un aspetto strano? Per un istante Austen provò pena per lei, incurante com'era della natura disumana e bizzarra della sua posizione, del suo tono, di tutto ciò che avrebbe potuto renderla oggetto persino di un falso senso di pietà, di empatia, ma no: non aveva l'aria di curarsene minimamente. Forse li osservava con occhi compositi, chissà? "È un profeta," affermò la ragazza. Austen non disse nulla. "Alcuni pensano che sia un indovino," proseguì, accendendosi una sigaretta, il labbro inferiore molle e umido, mentre inalava. "Sa la differenza? Un indovino non crede in Dio." Era imbarazzato, conscio della debolezza e della vaghezza della sua religione che, sino a quel momento, era stata rappresentata da Emily e dall'arte, insieme; Cyndee andava in chiesa esattamente come altra gente va al ristorante, ma lo aveva portato di rado con sé. "Non so in che cosa credo." Ma a lei quello importava ancor meno di altre cose; avrebbe potuto riferirsi a una fotografìa o a uno spuntino consumato a metà. La ragazza si appoggiò allo schienale sventrato di un divano scozzese, la sigaretta che le pendeva dalle dita come un ramoscello, piegata rispetto alla bocca. "Non c'entra quello in cui lei crede. Lui crede. Lui sa. Lui è espiritismo." "Che cos'è?" chiese Russell, ma lei lo ignorò; a quanto pareva, aveva cessato di parlare; aveva probabilmente esaurito la sua razione di chiacchiere giornaliere. Si sedette sulla parte del divano che poteva utilizzare, senza aprire gli occhi, e continuò a fumare; quando la sigaretta stava per terminare, ne accese un'altra con il mozzicone della prima. Russell lo richiamò. "Che cosa vuoi fare?" "Non so. Aspettare, credo." Il fumo gli stava facendo lacrimare lievemente gli occhi. Lacrime illogiche. "Tu puoi andartene, se vuoi." "Resto per un po'." E così fece. Rimasero seduti insieme nella macchina. E Russell cercava di ottenere informazioni: che cosa era accaduto? Che cosa pensi accada oggi? Austen non sentiva alcun bisogno urgente, come invece aveva provato con Emily, di parlare del video, rispondeva ai limiti della scortesia, non diceva nulla che valesse la pena di essere ascoltato. Andò avanti così finché un'utilitaria scattante di colore nero, le cui cromature erano tanto graffiate da lasciare scoperto il metallo, svoltò attorno al cordolo del marciapiede e scomparve oltre il prato di erba congelata, in
cerca di un posteggio. "Dev'essere lui," esclamò Russell, e Austen lo seguì. Il dottor Quiete, illuminato dalla luce del sole, con un piccolo sacchetto di carta marrone. Quando li vide, agitò la mano; un movimento rapido, che ricordava un saluto e nel quale Austen vide, per un istante, il bagliore dell'argento. L'attimo dopo era scomparso, come se dalla mano fossero svaniti di colpo più anelli, simbolo di promesse mantenute solo temporaneamente. "So che è di fretta," affermò, sfregandogli la pasta sulle tempie, una pasta diversa, questa volta, "così dovremo accorciare un po' i tempi rispetto a quanto sono solito fare. Non che non rimarrà soddisfatto del trattamento, però." Nella stanza c'era odore di cucina, ma non di cibo. Le mani di Austen erano tanto fredde, e tremanti. Russell era stato mandato via: una grande cortesia da un lato, una grande riluttanza dall'altro, si erano sorrisi reciprocamente mentre Austen se ne stava in disparte, fissando il tavolo, vistoso bazar di strumenti che nulla avevano a che fare con la medicina. Era solo, ora, e guardava preoccupato la televisione; il dottore se ne accorse, con quegli occhi pronti a intercettare ogni cosa. "Niente cassette, oggi," disse, gentile. Era gentilezza? "Devo farle alcuni test. Non ci vorrà molto." In effetti fu così, anche se ad Austen non parve: gli sembrò di aver fornito risposte senza senso per ore, la testa collegata a un altro apparecchio quadrato costruito alla bell'e meglio mentre varie schede preparate artigianalmente gli venivano fatte scorrere davanti agli occhi. "Vicino. Blu. Un uccello, no, un papero. Lontano. Lontano." Era una sorta di poesia mutante, attributi casuali scelti dal dottore, c'erano categorie precise a cui attenersi, un ordine. Quando il test fu ultimato, il dottore preparò il caffè, e il suo profumo si mescolò con quell'altro, senza tuttavia coprirlo. Che cosa si stava cucinando? Lo disse quasi a voce alta. "Lei continua a guardarsi attorno," osservò il dottor Quiete. "È nervoso?" "No." Non mentì neppure. Non si sentiva tanto nervoso, quanto... che cosa? In allarme? Forse. Nella sua bocca il caffè era pesante come un sugo. Deglutì, sorrise. Il sole che filtrava dalle finestre faceva risplendere come gioielli le boccette poste sul tavolo. "Voglio mostrarle qualcosa," annunciò il dottore. Attraversò la stanza, per aprire la porta della camera da letto: quegli arti immobili da giovane paziente, e quell'odore di cucina, ancora una volta, di carne, di forno, di qualcosa. Mentre Austen si avvicinava alla camera, peggiorò, si mescolò a quello di una sostanza chimica bruciata ed egli non voleva entrare là dentro, non voleva vedere ciò che produceva quell'odore.
"L'atmosfera dell'inferno," disse con un sorriso. Austen non era certo di aver sentito bene e, nell'attimo di sconcerto, lasciò che il dottore rimanesse indietro, lo oltrepassò e, stupidamente, come fa il bestiame spinto nei recinti, entrò in quell'odore. La porta si chiuse, senza alcun click, senza scatto di serrature, senza vibrazione, e sul letto, oh. Un letto d'ospedale, pulito e, su di esso: una parte di un uomo. Calvo, senza gambe, intubato e pieno di fili inseriti con sapiente precisione, carne sudore formaldeide e la deformazione muscolare di un paziente affetto da ictus, un occhio perennemente aperto: lo sguardo fisso del sonnambulo, il cadavere professionale. "La festa del sonno," esclamò allegramente il dottor Quiete, controllando la piccola e disarmonica serie di monitor. Austen aveva già visto quegli apparecchi. "Così siamo soliti chiamarla. Alcuni si fanno anche settanta sonnellini al giorno, sapeva? Uno degli altri interni li chiamava gatti. Perché sonnecchiano come gatti." La sua assistenza si era fatta meno medica, ora, spruzzava acqua, palpava scioccamente i monconi e la pelle sfatta. "È in queste condizioni da parecchio tempo." "Che cosa," l'odore in gola, respirò con la bocca, ma non ne ebbe alcun beneficio. Guardò oltre il letto, lo sguardo terrorizzato, vacuo, era molto peggio di tutto quello che aveva visto in ospedale, quell'uomo doveva essere morto già da tempo. "Che cosa non va in lui?" "Molte cose." Quattro flebo distinte, due per braccio. "Vorrei che mi guardasse, per favore." Estrasse una penna dalla tasca, prese la mano di gomma del malato e la premette contro l'unghia del pollice, con forza tale che sul suo volto, dagli occhi semichiusi, comparve una smorfia. La usò, quindi, per picchiettare le guance e la fronte, gli soffiò nell'occhio spalancato, toccò entrambi gli occhi con la punta di un tampone di cotone. Dopo avergli posto il palmo della mano sulla fronte, gli voltò il capo da una parte e dall'altra: "Riflesso oculocefalico," disse, voltando leggermente il capo indietro. "Occhi di bambola." Aveva una grossa siringa in mano, ne schizzò il contenuto violentemente nell'occhio sinistro, poi nel destro e, vedendo la palese contrazione di Austen, spiegò: "È solo acqua gelida. Comunque, non la sente." Tamburellò il dito su uno degli apparecchi grigi. "E attaccato al respiratore. Il suo elettroencefalogramma è piatto. Da molto tempo. Non ha riflesso faringeo, né risponde al dolore intenso. Le sto mostrando tutto ciò perché lei capisca, perché sappia com'è. È interessante. Stan ha avuto un incidente molto simile al suo, solo che a lui è capitato in casa." Abbozzò un lieve
sorriso; era incredibile. "Lei sa che cosa dicono degli incidenti domestici..." Austen aveva timore di chiedere quanto tempo prima era accaduto, di guardare quella massa di carne tenuta a stento in vita lì, sul letto. Oh Dio, oh Dio, quello avrei potuto essere io. E ancora l'odore, non riusciva ad abituarcisi, sentiva che avrebbe vomitato, presto, molto presto. Aveva il labbro superiore sudato e un impulso infantile di scappare via. "Vedo che è sconvolto dalle condizioni di Stan. La farebbe sentire..." Dalla narice di Stan, in cui da tempo l'aria non passava più, il viscido gocciolio dell'argento. Filamentoso, come muco, iniziò a scorrere, a fluire, da entrambe le narici, ora; fuoriusciva dalle sonde che le occludevano. La bocca che da tempo non lo sfamava più si spalancò, ne era piena, fino in gola, era su tutto il letto Da lontano, dal fondo del ghiacciaio, una voce: "Austen, lei..." dappertutto, non appena venne a contatto con l'aria, divenne frenetico, strisciava, scivolava, imitando un essere vivo. Attraversò lo spazio che li separava, a balzi, come un animale domestico festoso, e si gettò su Austen, ricoprendolo interamente. Ne usciva ancora dalla carcassa sul letto, con le mani cercava di proteggersi la bocca e gli occhi, ma era troppo tardi, stava fuoriuscendo anche da lui uno strano sapore, dappertutto, urlò, nel tentativo di respirare la sensazione di come doveva essere, di come doveva essere stare dentro Stan, essere Stan, morire continuamente senza morire mai, quello strano, incredibile limite superato, ora, dalla pulsazione incessante, argento, argento, che ostruiva i tubi, che faceva schizzare le lancette nell'area rossa e il dottor Quiete, che lo gettava di lato, la mano protesa, pronta a intubare, pensava probabilmente che Austen stesse soffocando? Sì? L'argento raggiunse il livello massimo, per cedere poi il passo a un'ondata immensa di puro e semplice vomito, ed egli poté finalmente respirare, aria aria aria. Si strofinò gli occhi, per riuscire a vedere, sbuffando, e, dal luogo dove giaceva, sul pavimento, al di là delle gambe del dottore che lo bloccavano, notò il volto di Stan. Aveva entrambi gli occhi aperti, ora, entrambi completamente ottenebrati dall'argento. E un penoso gocciolio dall'angolo della bocca. Pianse per un po', per reazione, tra il muco e i residui argentei che stavano svanendo; quindi guardò e vide il dottore che puliva il viso di Stan, che gli chiudeva la bocca. Infine si voltò verso Austen e gli tese la mano, per
aiutarlo ad alzarsi. "Venga, si distenda," affermò il dottor Quiete, le braccia ferme, pronte ad accogliere il peso di un Austen spaventato. Lo depositò su una branda, dall'altra parte della stanzetta. Lenzuola pulite, un cuscino basso, da ospedale. Aveva paura di chiedere, aveva paura che gli venisse chiesto ma, negli occhi del dottore, c'era sbigottimento, una conoscenza obbligata, lo sguardo fìsso sull'altro aspetto di una grande confusione o di un grande dolore. "Nessuno ha mai," disse, guardando non Austen, ma l'ammasso sull'altro letto, "provocato una reazione in Stan." "Un fotografo," affermò il dottore. Si trovava nell'altra stanza, ora, ripulito, e sorbiva una minestra riscaldata nel microonde. Austen riusciva a controllare meglio le mani mentre mangiava. Il dottore gli aveva tolto i punti deformati qualche minuto prima, e ora si stava lavando nel lavandino di acciaio inossidabile, pelle marrone e una chiazza opaca di schiuma rosa. "Era arte vera, non si trattava di lavori commerciali. Molto, molto buona. Le mostrerò qualcosa che la lascerà semplicemente sbalordito. E, un pomeriggio, la moglie lo trovò accasciato nella camera oscura. Pensò avesse avuto un ictus." Calda e salata, come le lacrime di un gigante. La tazza col manico simmetrica, perfettamente nera. "Lo abbiamo trattato per l'ictus, ma il suo non era un vero ictus. Era la conseguenza di un confronto, di un incontro molto impegnativo. Con duende." Fece una pausa, valutando, registrando il silenzio di Austen. "Non sa che cosa sia, vero?" "Espiritismo," rispose Austen, turbato, sapendo di sbagliare, ma non sapendo che cos'altro dire. "È ciò che ha detto quella ragazza, quella donna al piano di sotto. Ha detto che lei è un espiritismo," impappinandosi ancora una volta mentre pronunciava quel termine, e il dottore sorrise. "No. L'espiritismo è una sorta di religione. Duende è una sorta di Dio." Con un tono più calmo, aggiunse, sorridendo: "Potrà lavorare qui d'ora in poi." "No," replicò immediatamente. La minestra gli stava bruciando le labbra. "No. Io non, io voglio..." "Anch'io lo vedo, Austen. Nella stanza, tutto quell'argento. L'ho visto." Silenzio. Il battito del cuore. Dal suo volto, dalle sue mani il sangue defluì, come l'acqua da un bicchiere, lasciando il gelo al suo posto. Si sentì
girare la testa, ebbe la sensazione di stare per cadere dalla sedia. Semplice. Come il fruscio di un serpente nell'erba, semplice. "So quello di cui ha bisogno," affermò il dottore. "Posso aiutarla, se me lo permette." L'argento schiumava sulla superfìcie della minestra, il brillio più puro, la sfiorava, come una macchia d'olio sull'acqua il cui riflesso, simile ai colori dell'arcobaleno, viene alterato dal tocco scherzoso di un dito. Il tremore delle sue mani si trasmise al cucchiaio; lo posò sul vassoio, sul muso di un germano dalle ali austere. Aveva una tonalità di colore particolare, il verde della testa era tenue come quello del cappello del cobra omonimo. Dall'altra stanza proveniva un odore di carne. La porta venne chiusa a chiave, dall'interno. "Che cosa?" Lo sguardo di lei fìsso su di lui. Ed egli abbassò gli occhi, trasalendo, lo sapeva; inerme, uscì sulla veranda, il vento colpì la sua giacca aperta, la gettò indietro come una bandiera. Nella luce che stava scemando, il volto di Emily appariva sciupato, freddo come quello di una strega e stanco; i capelli al vento, le mani in tasca, mentre alcuni granellini di neve, troppo piccoli per essere considerati fiocchi, cadevano, uno alla volta, come sassi dal balcone di Dio, la barzelletta più assurda del mondo. "Che cosa hai detto?" A voce alta: si ritirò nella quiete. "Ho intenzione di rimanere qui per un po'." "Vieni alla macchina." Si girò, quasi volteggiando, troppo arrabbiata per scendere i gradini normalmente. Li discese, infatti, a passi pesanti, e ogni passo un divieto. "Non parlerò con..." "Emily, no." Manteneva la sua posizione. Stava congelando. "Devo riprendere a lavorare." "Lavorare?" Con quell'espressione di disprezzo il suo volto appariva brutto. "Lavori lì dentro? Di che cosa ti occupi? Di magia nera?" Stan gorgogliava in silenzio, emettendo argento. Il cavalletto era improvvisato, ma riusciva a lavorare con poco o nulla, aveva il nero, il verde e il rosso, aveva due pennelli e una tavola di masonite. La schiena gli doleva in un punto preciso, era stato chino per ore, instancabilmente, in posizione accovacciata; la vescica, da poco svuotata, gli sembrava flaccida come un palloncino sgonfio. Puzzava da capo a piedi, non l'avrebbe mai
incontrata all'interno. Anche in quel momento le mani gli prudevano, sentiva una trazione invisibile nella carne, come se la pelle stessa si allungasse per un suo scopo. Era stato chiuso a chiave con Stan tutto il giorno. A lavorare. "Lui sa che cosa non va in me." Le mani sulla ringhiera, un gonfiore lucente, quasi invisibile, sulla carne stanca dei suoi occhi. Come farle capire. E rapidamente. C'era lavoro da fare. "Lui riesce a vedere quello che io vedo." "Certo che ci riesce." Il tono acido, incredulo. "Scommetto che vede tutto ciò che gli racconti." Non è così, non è così. Le sue mani, due sagome triangolari nelle tasche della giacca, il suo sguardo opaco. Stava ancora ascoltando? "Emily, tu capivi, tu mi ascoltavi quando ti parlavo di pittura. Ricordi? Di arte, ci dicevamo tutte quelle cose, parlavamo dell'ispirazione e di come..." "O, per favore..." "Aspetta, ascolta. Ti ricordi, dicevamo sempre che l'ispirazione non è solo qualcosa che fa parte di te, ma qualcosa di più grande di te, che ti avvolge, che entra in te, è una forza che..." "Come fai a essere così idiota." Aveva la neve in faccia, ora, urlava. "Ti dice quello che vuoi sentirti dire, coglione, ecco perché ci stai cascando!" "No," rispose, accalorato, chinandosi in avanti. Debole com'era, tremava, i muscoli delle gambe dovevano compiere uno sforzo molto intenso per sostenere il suo peso vacillante. "Ha ragione, ha," come spiegarle, oh Dio, "è come una forza che ti governa, ti prende e..." "Oh Dio, Austen, non c'è da meravigliarsi se bevi queste stronzate. È la solita vecchia storia, non ricordi?" Socchiuse gli occhi per il vento, erano occhi crudeli. Austen sentì le lacrime sgorgare dai suoi, faceva sempre più freddo, di minuto in minuto, lo sguardo di lei era tagliente come il bordo di uno scoglio. "Abbiamo parlato di questo dieci anni fa: la tua arte, che ha perso la strada e che, nel contempo, mantiene un posto di comando. Tu sei un uomo che viene comandato. Sono le solite, vecchie stronzate, da cui pensavo ti fossi tirato fuori. Non sarai mai in grado di assumerti la responsabilità di qualcosa? Mai?" Freddo. "Oh, Emily," per favore. Per favore. Russell era comparso ai piedi della scala e guardava su, socchiudendo gli occhi, nella tenebra calata da poco. "Venite a mangiare o che?" Ma Austen vide che lei non era più in grado di sentire, sapeva già e si stava allon-
tanando. Oltrepassò Russell e si infilò in auto, la sagoma del suo capo contro il poggiatesta. Russell urlò di nuovo, ma Austen non riteneva di dovergli una risposta e rientrò in casa, chiudendo la porta. La porta venne chiusa a chiave, dall'interno. "Violatore. Estensore. Costrittore. Dominatore. Questi sono i quattro stadi," spiegò il dottore, "le quattro manifestazioni del duende. E la paura è il limite." Colori a olio, un odore di unto. Mangiò una manciata di noci secche, vecchie come insetti mummificati, che non sapevano assolutamente di nulla. Acqua in un bicchiere di carta. "E oltre il limite," continuò, passando dietro il letto di Stan, per sistemare con inconscia delicatezza, ma anche con determinazione, un tubo che si era leggermente contorto, "oltre quel limite è il duende." Immaginalo, una noce contro la gengiva, dura, grossa come un ascesso. La terra grigia e desolata, la terra di confine e, oltre il limite, la terra di nessuno, la capanna e il palazzo in fiamme, il canale, il luogo in cui tutti i colori bruciano e diventano neri. L'allungamento, l'estensione fatale. Il luogo dove la testa ti viene bendata, come quella di una scimmia urlante. Il luogo in cui ogni cassetta degli attrezzi è vuota, in cui l'unico attrezzo è la presa del cavernicolo, priva di dolore e di rabbia, ma colma di un desiderio tale da spezzare le mani che la usano, sì. Oltre, c'è il lavoro. Oltre, c'è il gemito limbico, il battito cardiaco dell'anima sotto la pioggia, che è sempre argento, argento e assenza totale di colore. Il luogo in cui il dolore è il mezzo d'espressione e il lavoro è più del lavoro. In cui ogni vero creatore vuole essere. Sul letto Stan non aveva emesso alcun suono, ma entrambi si voltarono, come se lo avesse fatto. "Puoi andarci. Puoi viverci, se vuoi." Silenzio. "Non tutti possono farlo. Ma tu sì. Lo vedo qui," aggiunse, muovendo il dito nell'aria, davanti al nuovo quadro in embrione, una macchia di colore nero, come merda, come feci sanguinanti, evacuate da un intestino malandato. "L'ho visto sul tuo volto, quando hai avuto quell'attacco. Voglio vedere," disse, reclinando il busto, "tutto quello che tu vedi." Un mormorio. Spostò la noce che aveva in bocca. "Anche Russell." "Chi? Il tuo amico? No," replicò, scuotendo il capo. "Non vale niente. Tua moglie, lei è una storia diversa," affermò, sogghignando, rivelando i
denti lunghi, illuminati dal debole alone di luce dei monitor, il buio idiota, "lei è un intero libro, un libro diverso. Mi piacerebbe molto fare amicizia con lei, ma." Si strinse nelle spalle, come per dire: questo però è impossibile. "Quanto siete stati sposati voi due?" "Otto anni." "E da quanto avete divorziato?" "Quasi due anni. Saranno due anni a marzo." "È una donna eccezionale. Scopavate molto, quando eravate sposati?" Sorpreso, provò un imbarazzo che aveva da tempo scordato, un imbarazzo giovanile. Si guardò le unghie, spezzate, masse opache incrinate come se venissero periodicamente martellate. "Sì, noi... sì. Certo." "Anche il sesso è un tramite, o può esserlo. Hai mai sentito dei Figli Bramosi di Haiti? E un ordine messianico, il cui credo è 'Sesso e potere tramite la fratellanza.' Ne sono stato membro per un certo periodo di tempo." Un rumore di noci contro la parete del barattolo. Poi, ancora silenzio. "Perché lo hai lasciato?" "Non volevo essere il fratello di nessuno." Questa volta, non c'era dubbio: da quel torso tenuto in vita su un letto silenzioso era fuoriuscito un borbottio sovrannaturale. Il dottore sorrise, senza mostrare assolutamente i denti. Austen si alzò. Tornò al lavoro. 10 Il sollievo gli dava i brividi, le sue mani tremavano, quando lavorava aveva un ritmo allegro, frenetico. Lavoro lavoro lavoro. Solo con Stan nel cuore della notte, il dottore era presumibilmente andato a cercargli altri colori, a crearli, a estrarli urlanti come radici dalla terra maledetta, ma ora non faceva differenza, perché doveva lavorare. Perché capiva. Ah, Dio, che stato di benedizione: come la santità, come il martirio, il vortice del satori e lui beato nel suo occhio, lo sarebbe stato anche se si fosse fermato a osservare; era anche furioso, ma nemmeno per questo aveva tempo. C'era solo il lavoro. Era drogato da una circostanza resa ancora più stimolante da uno stato raro, al di là di ogni sensazione, la stanza non lo turbava più, né per la scarsità di spazio, né per gli odori; c'erano molti odori. Il silenzioso gorgoglio di Stan. Il pennello tra le dita, la grana del materiale sottile come un osso levigato. Si sentiva la camicia leggermente
incrostata e il collo ricoperto di più strati di sudore. Aveva gli occhi asciutti. Guarda il colore, così spesso in alcuni punti che non si asciugherà per giorni. Aveva senso, ora, era come uno stampo, come la legenda per una mappa del tempo, fra passato e presente. La malattia e gli attacchi si ritiravano, ora, nel nulla, nell'assenza di scopo. Aveva provato disperazione in quegli ultimi, veri giorni di lavoro: erano ritratti che nessuno voleva, opere che nessuno accettava né poteva accettare. Neanche lui, perché lui sapeva: erano tutti ritratti, non di soggetti, ma del suo brancolare, cieco, stoltamente interrotto, verso il duende. Era inutile e stupido pensare di potergli sfuggire, di interporre fra loro i chilometri di una distanza artificiale oppure una condizione di inattività. Perché: vedi: alla fine implode, attraverso il dolore e i farmaci. Il confronto obbligato: ti inchioderò al suolo, figlio di puttana. Per quanto potrai scappare? A certe cose non si può sfuggire. La vista. Guardami. Aveva senso, era talmente vero che gli faceva male, ora, sapere di non averlo capito per tutto quel tempo. Tutto quel tempo! Che spreco terribile. Ma ora aveva finito con gli sprechi. Se il sacrifìcio era il confine, bene: l'aveva già attraversato; adesso si stava dirigendo verso il limite. Nero. Un colore denso, verde cipresso. Il suo braccio dava pennellate vigorose, le macchine di Stan continuavano incessanti a funzionare, alimentate dall'energia. Luce artificiale: non c'erano finestre in quella stanza. Il lavoro rinnegato doveva trovare la via per uscire allo scoperto, come un'infezione, come il sangue che filtrando si accumula nel cervello pronto a esplodere. Trovare, o creare, il suo viale d'accesso. Il dottor Quiete lo sapeva, sarebbe stato capace di esprimerlo semplicemente, facilmente, come se parlasse del tempo o di una tazza di tè, una coincidenza perfetta, più di un miracolo; un segno. Il suo tentativo di dipingere la cosa argentea era un altro segno; la parte di lui che sapeva, cercava di istruire la parte di lui che era ignara. Duende, una parola per ciò che non poteva essere adeguatamente definito; ma lui sapeva. Emily o no, ne era certo, ora. Poteva far sì che anche lei ne fosse certa, lo sapeva. C'era moltissimo lavoro, non aveva forse tempo sufficiente, ma egli era bravo, ora, più bravo che mai, più bravo di quanto non lo fosse stato prima, perché sapeva ciò che faceva, il velo era stato strappato. Se ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto convincerla; non era un concetto nuovo. Lei gli parlava spesso di cose del genere, delle finalità di un buon lavoro, di un lavoro svolto con il
massimo impegno. Della lotta. Se l'arte vera è confronto, allora la guerra è l'unica possibile fonte del sublime. Quando tutto fosse finito, l'avrebbe fatta sedere e le avrebbe spiegato. Forse - si fermò per orinare, in una lattina vuota di caffè incrostata di ferro e di minerali meno reali, il pene in mano, un flusso debole, era impaziente di ritornare al lavoro - forse poteva apparire squilibrato, sconclusionato, ciò che stava facendo là, chiuso in quella stanza, come un insetto in un barattolo, sudava, dipingeva, a stretto contatto con un uomo che era ormai ben oltre la morte. Era presumibilmente entrato in un periodo intenso, in un'ipervita, o in un'ipermorte; ma la capacità di dimostrare la fondatezza della sua eventuale follia non era forse la prova che non era pazzo? (E, al di là di ciò, nel buio sogghignante, nel buio di Stan, questo aveva importanza? In questo luogo che cos'era importante?) Se solo avesse potuto far sì che Emily capisse la pace, il sollievo di aver finalmente, finalmente trovato l'unica persona che non si dimostrava intimorita né incompetente nei confronti del suo nuovo stato, che poteva, e voleva, aiutarlo. Il luogo, la premonizione, alla fine di tutte le strade, se fosse riuscita a capire veramente, sarebbe stata felice per lui. Felice. Il dottor Quiete, alle sue spalle, lo osservava. Chissà da quanto. "Ecco." In mano aveva un grosso sacchetto da drogheria. Dentro, presumibilmente, c'erano i colori. "Hai fame?" "No." Aveva fame? Non c'era tempo. "No, riprenderò, ho intenzione di riprendere a lavorare." Si rese conto tardivamente che era già tornato al cavalletto, alla sua tavola di masonite. "È stupendo," esclamò il dottore, indicando con un dito le lunghe strisce di colore denso, c'era qualcosa là, nel ventre, qualcosa di indubbiamente molto brutto: "Questa è violenza," commentò poi, con un tono secco di approvazione. "Credimi. Lì c'è violenza." Fece una pausa. "Una volta ho curato un uomo che aveva cercato di uccidere una diciassettenne che consegnava pizze a domicilio con la canna dell'acqua del giardino. Il suo avvocato difensore ha adottato la tesi del cervello rettiliano: si è, in sostanza, presunto che un'anomalia biochimica abbia reso l'uomo temporaneamente violento, agendo sul suo sistema limbico. Limbico significa 'pertinente al limite' in latino, sai?" Violenza, in nero e verde scuro; colori bituminosi. Il dottore si protese, come per toccare, ma saggiamente non lo fece. "C'è violenza in ognuno di noi. Tu vuoi fare molte cose, solo, hai paura." I colori. "Non avere paura."
Nel sacchetto Austen trovò i rossi, di varia tonalità, il blu cobalto. Il nero. "Tutto qui?" "È un bel po' di roba." Sospirò di fronte al silenzio prolungato di Austen. "La prossima volta ne prenderò di più." Valutò professionalmente la posizione di Stan, controllò le flebo; un albergatore si prende cura di tutti i suoi ospiti. Austen in parte guardava, in parte meditava: che cosa sarebbe successo se l'argento fosse fluito in tutti quei tubi, all'improvviso? Lo avrebbe svegliato? Come sarebbe stato Stan, da sveglio? Il rosso sulla sua tavolozza improvvisata. C'era un pezzetto di masonite, con una crepa lungo la superficie: sembrava un solco in un lembo di carne disidratata. L'orologio digitale su uno dei monitor di Stan indicava le 2:42 del mattino. "Ti lascio solo, ora," disse il dottor Quiete. Si girò, la testa era già voltata, il pennello già intinto, leggermente, in un rosso carico. "Puoi..." spinto da qualcosa, che per ora non aveva nome. I colori erano famelici. "Qual è il suo vero nome?" Il dottore sorrise. La porta, chiudendosi, non fece alcun rumore. "Austen." Lo chiamava, attraverso la porta. "Telefono. È la tua ex moglie." Si era incredibilmente irrigidito; quando tentò di muovere le ginocchia, per poco non rimase ucciso dal dolore che l'atto gli provocò. L'orologio segnava le 9:55. Come quando lavorava in macchina: tutti quegli schizzi, e il tempo passava senza che egli ne avesse ricordo. "Aspetta." Le ginocchia gli scricchiolavano. "Le parlerò, aspetta un minuto." Si mosse ed ebbe un capogiro, tese la mano per riequilibrarsi e la poggiò sul corpo molle di Stan, su quella carne che respirava senza respirare affatto. Sfiorò il telefono, sentì ancora quell'impronta, quel tocco capace di penetrare in profondità. Fratello nella trasformazione, dovuta a un insulto cerebrale grave. Non voglio essere il fratello di nessuno. "Pronto?" Aveva la voce in certo qual modo impastata. Emise un suono stridente quando cercò di schiarirla. "Emily? Dove sei?" "Vado a casa." Il crepitio di un telefono pubblico, la sua voce già distante. "Non... mi rifiuto di stare ad aspettare che succeda la tragedia, vado a casa. Non chiamarmi. Non lasciare che quel coglione mi chiami o che lo faccia quell'altro coglione di dottore, non dare il mio nome come parente più prossima..." Stordito, replicò: "Mi hai promesso che avresti aspettato una settimana, mi hai detto..."
"Non posso aspettare una settimana. Non posso più aspettare. Seduta da McDonald's o in quella stanza orribile, con quello stupido bastardo che mi hai affibbiato, Austen, voglio andare a casa." "Allora," presto, presto, pensa a qualcosa, presto, "allora va' a casa. Aspettami là." Un rumore secco. Aveva riso? "No." Un rumore, come di traffico, di camion e auto, le attività quotidiane di un mondo dal quale si era distaccato al punto da averne dimenticato l'aspetto lavorativo, da considerarlo bizzarro e capace di sostentarsi in maniera bizzarra. "No. Io vado a casa mia. Spero tu possa migliorare, veramente. Non credo succederà, ma lo spero." Il sangue alle tempie. Emily, per favore, non farlo. "Emily!" Il telefono muto. Premette la bocca, violentemente, sul ricevitore di plastica, caldo per il suo respiro disperato. "Emily, oh," un lamento, simile a quello emesso, il secondo dopo l'investimento, da un animale morente. Chiuse gli occhi per un istante, per riaprirli e vedere l'argento. Ma, questa volta non gli importava, non si sarebbe tirato indietro né sarebbe scappato, che venga pure. Che venga, privo di una fonte precisa, viscido sotto i suoi piedi, che si arrampichi su per le sue gambe dolenti, come fossero un graticcio, sottili nastri striscianti veloci come quei rampicanti giapponesi kudzu e lui, il Colosso malato, con gli occhi aperti, spalancati, questa volta, vide il dottore dall'altra parte della stanza. Lo fissava, lo fissava mentre la cosa si innalzava, l'idra fino alla sua bocca ed egli la morse, violentemente, ti morsicherò, ti farò a pezzi, fottuta, ti mangerò viva. La masticava, era scivolosa come carne viva, ma meno corposa, era come rosicchiare la carne dei sogni. Le mani cercarono di raggiungere il volto, ma non toccarono nulla; nella sua bocca, non strisciava più, ma fluiva, giù, oltre la gola, nei polmoni, che ne erano ormai rivestiti, splendore splendore splendore. E salì all'interno dei suoi occhi, ne assunse il controllo, erano come due lampadine di vetro che si riempivano di mercurio prezioso, di platino, puro. Lottò contro la mancanza d'aria, strisciò egli stesso verso l'altra stanza, la stanza di Stan, travolgendo vari oggetti, rovesciando sbadatamente il vassoio con i germani, che lo colpì sulla schiena. Giunse alla porta della camera. Davanti ai suoi occhi il rosso si stava mescolando all'argento. Era come guardare in alto dal fondo dell'oceano, dal fondo di una trincea su
cui, larga e placida, si apriva la porta di servizio dell'inferno, in attesa, in attesa. Ma lui aveva finito di aspettare. Al cavalletto. Una spinta lieve e la porta rimase aperta, era sul pavimento, oltre l'altare ricoperto con il lenzuolo, nell'angolo ospedaliero, gorgoglii e fili e Stan, seduto, a letto. Il dottore lo seguiva, gli stava alle spalle, presso la soglia, con le sue orecchie fini Austen aveva udito un grido, ma non aveva tempo per ascoltare. Si alzò davanti al cavalletto e picchiò con tutta la sua forza la testa contro la masonite, contro la ferita nera e rossa, il suo volto sempre più imbrattato oscillava avanti e indietro. Non riusciva assolutamente a respirare, non c'era aria in quei polmoni che si stavano coagulando, la pittura sulla sua bocca era amara come sangue, stava scivolando con il suo corpo moscio verso un soffocamento silenzioso e là era atteso da due occhi. Spalancati come i suoi. Fu risvegliato dal dottor Quiete, c'era un dottore in casa? Sì? Chi curiamo prima, il morto Stan o il morente Austen? Voleva sorridere, che posti fortunati aveva sempre scelto per i suoi tentativi abortiti di uccidersi. Il tubo che aveva nel naso era uno dei soliti, vecchi amici. "Austen?" Era cieco da un occhio. "Austen, riesci a parlare?" Era una voce diversa, ora, anzi, due volte diversa: il tono piatto, professionale, esteriore, mascherava l'eccitazione sottostante, come uno strato di burro di cattiva qualità spalmato su un pezzo di pane greve. Le mani erano comunque calme e indaffarate, il loro tocco era quello delle mani delle infermiere dell'ospedale, di tutti i medici di tutti gli ambulatori inutili e di tutti i lettini freddi e squallidi. Era sulla branda accanto a Stan, che risultava, come sempre, più o meno morto. Con l'occhio destro vide il dottore che legava Stan ai bordi del letto d'ospedale per i polsi, che non opposero alcuna resistenza; argento opaco su argento opaco e, in mezzo, un segmento pietoso di carne giallastra. "Ti sento," disse Austen. Cercò di mettersi a sedere, ma venne immediatamente trafìtto da un dolore al capo, tanto violento da spaventarlo. Se soffriva in quel modo, c'era effettivamente qualcosa che non andava. "Mi fa
male la testa." "Lo credo," rispose il dottor Quiete, allontanandosi da Stan, lascia che i morti seppelliscano i loro morti, per controllare quella che pareva essere una cartella clinica improvvisata appesa alla branda, "abbiamo a che fare con un infarto." "Ictus?" Mosse l'occhio cieco, forse non sarebbe rimasto permanentemente così, forse se lo era ferito in qualche modo, quando era finito contro il quadro. Che, dal luogo in cui si trovava, non riusciva a vedere. Che ironia. Che cos'era accaduto pochi minuti prima? Trombo, embolo, infarto, emorragia, il rosario della morte ematica. Conosceva i termini e i sintomi, avendo tempo, avrebbe potuto disquisire su ognuno di essi, come se dovesse commentare il quadro mitologico greco tradizionale, qui ci sono il cigno, la caraffa, la grotta della triste conoscenza. Qui c'è il fiume di sangue, qui la diga, qui la morte pallida che viene dalla fonte del pallore stesso. "Hai male alla testa?" Un lungo ghigno, era mezzo pazzo, il dolore gli faceva lacrimare persino l'occhio cieco. Era pittura quella che sentiva sui denti? "Un male fottuto, sì." E rise, in maniera del tutto inadeguata, boccheggiò per respirare un po' d'aria, e alla fine ci riuscì. "Come va la vista?" "Vedo a metà." "Riesci a vedermi?" "Solo il tuo lato buono." Senza preavviso, un fremito violento e l'argento gli salì in gola, come un serpente, sentì i muscoli tendersi, indipendentemente dalla sua volontà, per il terrore, sentì la testa pulsare debolmente, non fece alcun tentativo di fuga e, al di là di tutto, sopraggiunse la valanga pietosa del dolore, che lo portò oltre l'argento, fin nella tenebra. "...so che cos'è." Il dottore. Parlava. A lui? Al telefono? Il telefono. No, la porta. "Ora sta dormendo. Gli ho fatto un'iniezione circa un'ora fa e dorme ancora." Emily? Gli faceva male tutto, si sentiva pesto soprattutto a livello del petto, quante volte ancora sarebbe accaduto senza che si instaurasse qualcosa di permanente? Ma il terribile mal di testa se n'era andato. Il quadro stava di fronte a lui, appoggiato grottescamente contro Stan.
Con entrambi gli occhi vide una macchia enorme in quell'area centrale scura, viscosa come tessuto, bagnata come plasma e dolce; parlava, in modo aspro, ma sottile, di profondità e di distanze inaudite; era brutale e inspiegabile, era qualcosa che non si sarebbe mai ritenuto capace di creare. Eppure, se mai esistevano i ritratti, questo lo era: il suo soggetto, il duende, ciò che alimenta il motore che dà energia all'anima. La voce di un uomo, in parte infuriata, in parte lamentosa, e quella del dottore, un po' più alta: "Non ancora. Ritorni fra un'ora. O due. Vuole che sia abbastanza sveglio da poter parlare, vero?" Una risposta indistinta. "Va bene, allora." E la porta si chiuse. Click. Si aprì la porta della stanza da letto. "Austen," una ripetizione meccanica del suo nome, come se non si attendesse risposta. "Sì." Non voleva mettersi a sedere, né muoversi. Le cose andavano bene com'erano. "Sono sveglio. Chi era?" "Il tuo amico Russell. È venuto su dal piano di sotto per vederti." Rimase turbato; aveva la lingua e la gola secche, molto secche, come fossero di carta. "Dal piano di sotto?" "Sì. Sta lì," spiegò il medico. "È con Elaine ora." Scoppiò in una risata, breve, compiaciuta, come se avesse udito una strana battuta di spirito. "Desiderava molto entrare qui dentro e vedere quello che stai facendo. Penso che quello che realmente voglia sia essere te. Senza i casini, però." Casini, aveva ragione. Fece un inventario del suo corpo. La sensazione di secchezza. I cateteri endovenosi, i tubi nasali. Il dottore aveva piratescamente sottratto l'attrezzatura al povero, vecchio Stan? L'ultima volta in cui l'aveva visto stava seduto a letto. "Come sta Stan?" chiese, e l'attimo dopo si sentì turbato anche dalla domanda che aveva fatto. "Stan è morto," rispose tranquillamente. "L'ho staccato dal respiratore. A dire la verità, ho pensato che ne avrei avuto bisogno per te." Il polso bloccato dalla cinghia di Stan, uno strano, languido senso di colpa. Il dottor Quiete sembrava sapere: "Non sentirti in colpa. Era comunque un cadavere." Si chinò su di lui, la penna luminosa in mano, ecco che arriva l'esercizio. "Sai quello che devi fare," disse. "Che cosa mi è successo?" domandò, mentre le sue pupille si allargavano e si restringevano, presumibilmente secondo un ordine e un comando adeguati. Mentre reagiva, se non uniformemente, per lo meno, al di là di qualche esitazione, correttamente all'intera gamma di sensazioni, un formicolio qui, un prurito là, lo stimolo della luce, uno stimolo doloroso, assenza totale di stimoli. "Ha detto che ho avuto un ictus."
"Austen," disse, infine, allontanandosi. "Non sono un neurologo. Ma le persone non migliorano come hai fatto tu e, di certo, non tanto rapidamente solo grazie a un analogo della morfina di grado Z e un po' di assistenza. Poco più di un'ora fa eri cieco da un occhio e lamentavi un dolore intenso alla testa, eri..." il suo corpo sobbalzò leggermente, era come se avesse preso una scossa mettendo le dita in una presa, entrambi gli occhi si velarono d'argento in men che non si dica. Non era tuttavia un colore paralizzante, né accecante, riusciva a vedere, ma in maniera differente, obliqua, deformata, era come guardare dall'interno di un globo oculare senza cristallino, la faccia del dottore era un puzzle acquoso di angoli, di superfìci, di occhi dallo sguardo alieno e di labbra in movimento era come respirare sott'acqua. L'argento di quell'istante, era sempre stato presente. Inutilizzato. Era quello lo scherzo? E pensò, Oh. Questa è la volta buona, un'oppressione al petto, le costole si contorcevano come se il midollo stesso, impaziente, si fosse animato. Si mise a sedere, niente dolore, niente aria, ma che cosa rimaneva nei suoi polmoni che si comprimevano, è questa la volta in cui muoio soffocato come quel tipo nel gabinetto, è così? È così? Scese dal letto. Trascinandosi dietro i fili. Da un tubo fuoriuscì uno zampillo. La sua nuova vista era enormemente migliorata; stava ora di fronte al quadro, lo prese dal cavalletto, che era Stan, e ci si premette contro, a forza, spingeva, provava dolore al petto. La voce metallica del dottore che gridava si alzò in piedi, sollevando anche il quadro, e con esso si scagliò giù, con una forza indicibile, nella pace silenziosa di Stan, gli fracassò il cranio morto, fluidi, la vibrazione di ossa maleodoranti che rimbalzavano sulla superficie del dipinto, colori a olio intensi e il colore vivo dell'argento e mise la bocca al centro del disastro e urlò e urlò e urlò per avere un po' d'aria gli occhi aperti, forzatamente, l'abile contorcimento delle ossa nel suo petto ancora più livido, vedeva con la nuova vista la vita degli occhi, rispondeva, non aveva fame, ma era il dio della fame, non aveva desideri, ma era l'oggetto dei desideri. Continuò a urlare. Altri tubi, questa volta, un dolore maggiore e pochissimo fiato. La vista era debole, ma era la sua. "Sei un figlio di puttana molto forte," disse il
dottore, senza ammirazione, fissandogli nuovamente al polso molle il catetere endovenoso che tendeva a spostarsi; era nel letto di Stan, adesso. "C'è'," stava quasi per chiedere di Emily, ma si ricordò in tempo. Dio, che caldo lì dentro, tutto puzza di più quando fa caldo. "C'è Russell?" "È venuto su un po' di tempo fa. L'ho mandato a comperare del pollo e della birra. Puoi bertene una, se smetti di cercare di uccidermi." Controllò delicatamente il catetere e rimase soddisfatto. "Dai un'occhiata al quadro," esclamò, scostandosi. Non ebbe bisogno di sedersi; era già in posizione: una mossa accorta. All'inizio la stanza affé spalle del dottore era fosca, i suoi occhi stavano nelle loro vecchie orbite ma probabilmente erano pigri; poi lo vide, sentì la mano con il catetere serrarsi e fa lieve vibrazione di quest'ultimo quando ebbe una pulsazione violenta. Mordendosi il labbro, lo fissò, a lungo. I colori, umidi, spenti, nero e rosa cervello, degni di un maelstrom, un disgustoso color carne e un grigio, orribile; la pura geometria della fine e di ciò che viene dopo, l'istante dopo l'ultimo, grande salto, ciò che sta prima del limite, e digrigna i denti. La ritrattistica, incalzante come la guerra. Il passo al di là dell'arte. Fissò ancora. Aveva il labbro sudato, ora; non del tutto coscientemente afferrò con la mano rapace la sbarra di acciaio. Stan l'aveva mai afferrata in quel modo? La testa di Stan aperta, fracassata, appiccicosa sulla masonite, si ricordava la forza dell'urto, non l'urto in sé. Il suo sudore aveva un sapore strano, insipido, come plasma, come lacrime innocenti, come le lacrime versate da un quadro piangente. Nell'angolo della stanza, nera e piccola, sistemata sul cavalletto di fortuna per il dipinto, la videocamera, l'occhio rosso spento e il muso puntato discretamente verso il basso. Per quel momento. Niente pollo, niente birra, niente Russell. Niente dottore che lo esaminasse, niente, fatta eccezione per la stanza. Si domandò in quale posa contratta se n'era andato il povero Stan, tra il disagio dei cateteri, il dottor Quiete non era abile come le infermiere dell'ospedale. Aveva un bisogno sempre più urgente di orinare e, infine, si tirò su, vacillando. Trovò a portata di mano una padella: il bordo spesso e il colore azzurro la rendevano spaventosamente identica a quella dell'Accampamento Cervellopatici. Ma non sarebbe mai cambiato nulla in modo definitivo? Abituati. Era lui particolarmente testone o era semplicemente stupido? Mentre orinava, barcollò e l'orina finì in parte sul pavimento, dove formò una pozza limpida come
un desiderio, ma egli non desiderava nulla. Per lui quello era il quadro che avrebbe segnato la fine di tutti i quadri, quella nera liberazione era più potente di qualsiasi linfa vitale. Bene. Forse, quella era la fine della vicenda, la dottrina del duende era stata divulgata e, forse, ora aveva estratto quanto di meglio era possibile ricavare da lui, sarebbe stato libero finalmente di andare. Da nessuna parte, se non giù. Emily lo avrebbe definito tipico disfattismo. Anche Emily se n'era andata, il giorno prima? Due giorni prima? La sua memoria non aveva più struttura, era insicura come una lastra di ghiaccio che si scioglie, non c'era nessun posto dove poter poggiare i piedi e poter dire, Qui è sicuro. Forse, metà delle cose che ricordava rappresentava meno della metà di ciò che era effettivamente accaduto. Forse, su quella tavola di masonite erano incrostate più cose di quelle che si sognano, la terra e il cielo nelle fantasticherie di ogni uomo. Com'era andata, nemmeno questo si ricordava. C'era l'argento negli angoli delle pareti, negli angoli segreti, come le pieghe di un sorriso sgradevole. Rimase disteso, in attesa di una sua mossa, e si addormentò, respirando a fatica, inconsapevole del rumore del respiratore e del gocciolio del sangue nelle sue vene sempre più stanche. Si svegliò di nuovo. Il dottor Quiete gli dava la schiena; parlava sommessamente in un minuscolo registratore, riparandosi la bocca con una mano. Sembrava una vecchia strega al capezzale di un uomo, le ginocchia esili sotto i pantaloni sformati di denim, i capelli intricati come rovi, spettinati. Su un ginocchio teneva in equilibrio un videoregistratore, pareva non si fidasse a porlo lontano dalla sua portata. "Dov'è Russell?" Era senza voce. Il quadro era scomparso, per lo meno dalla sua vista. Tentò di nuovo. "Dov'è Russell?" Il dottore trasalì, era stato interrotto da un morto; poi, scosse il capo. Aveva gli occhi rossi e un sorriso spazientito. Chiudi la bocca, così posso riprendere a lavorare. "Non so. Non si è mai fatto vivo." "Hai detto che tu," continuò, preoccupato per l'infido fluire dell'argento, diluito, opaco, quasi lattiginoso, attraverso i cateteri che aveva nel braccio e i tubi, piccoli e vivi, che gli fuoriuscivano dalle narici irritate, "hai detto che era, che aveva intenzione di... che cazzo c'è, adesso?" Usando le unghie, si strappò via i tubi con una facilità estrema, gli era in effetti facile muoversi, si sentiva solamente stanco, niente di più, si sentiva in certo qual modo bene. Bene. Stupendo. Gettò i tubi in mezzo alla stanza e si sedette sul letto, mentre l'argento gli colava fastidiosamente dal naso, come muco. Ottimo. Il dottore disse qualcosa che lui non sentì, gettò le gambe di lato,
oltre le sbarre che lo bloccavano, e si alzò in piedi. "Voglio lavorare," affermò. "Dove sono i miei colori?" "Credo tu debba solamente..." "Ho detto, dove sono i miei colori?" Trovò che gli era facile anche arrabbiarsi, dare un colpo secco al registratore che il dottore teneva in mano, puntargli un dito negli occhi rossi. Negli occhi spalancati. "Mi sento bene," esclamò, non volendo sembrare sgarbato, né pazzo, ma questa volta il dottore lo fissava come se fosse completamente ammattito. Talvolta Russell lo aveva guardato in quel modo, ma mai con tale intensità. Dov'era Russell, in ogni caso? "Dov'è Russell?" Silenzio. Lo sguardo fisso, esaminatore del dottor Quiete. Nella stanza c'era un odore come di linimento dei vecchi tempi, forte, aromatizzato alla menta e disgustosamente dolce. "E, a proposito," proseguì, com'era denso il sangue che gli scorreva nelle vene, com'era impetuoso il flusso argenteo che gli fuoriusciva dal naso, era impossibile tamponarlo. Evidentemente qualcosa gli usciva anche dalle orecchie, aveva una sensazione di calore alla mascella, avvertiva un gocciolio sul collo. "Dov'è Stan?" Niente. Nessuna risposta, niente, come se non avesse parlato. "Ho detto, dov'è Stan?" Si udì la voce flebile del dottor Quiete. Si era poggiato sullo schienale della sedia, come se avesse paura. "All'obitorio." "Che cosa hai fatto, te ne sei liberato, buttandolo là?" "No, non era..." La sua voce era metallica; in sottofondo si udì il rumore di una portiera, di una radio, suoni bassi. Il mondo esterno. Immagina. "Austen, credo veramente che tu debba almeno..." "Che giorno è?" domandò, rendendosi conto che qualsiasi risposta era priva di significato; giovedì diciotto, sì. Sì. Trovò i colori sotto il letto. La masonite non c'era più. Molto bene, avrebbe dipinto sulle pareti. Peter ne sarebbe stato fiero, indubbiamente. Lo doveva chiamare uno dei prossimi giorni, per portarlo lì, per fargli conoscere il Periodo Murale di Austen. Se esauriva i colori, poteva intingere il pennello nelle sue narici. Gli faceva male la parte posteriore del collo. Cominciò, come sempre, con il nero; il dottore gli stava accanto, accigliato. "Hai bisogno di..." ma Austen lo interruppe. "Taci." E lo spinse, ma non troppo violentemente, il dolore al collo si acuì leggermente con il movimento, e il flusso che gli usciva dalle narici diminuì paradossalmente; un
po'. Un po'. Il telefono prese a suonare, era uno strano, sommesso ronzio, simile a quello di una sirena. Il dottor Quiete, perplesso, non sapendo in quale direzione muoversi, prese il videoregistratore, ma lasciò la videocamera. Austen ne dipinse l'obiettivo in nero, poi lo pestò contro la parete. Leggermente. Senza spreco di forze. Una parte di lui urlava, in preda a un terrore cieco, a uno di quei terrori per cui un uomo potrebbe farsela addosso, niente di tutto ciò è parte di te, niente di tutto ciò fa ormai parte di te, ma in realtà non aveva tempo per queste cose, la preoccupazione porta via tempo e c'erano modi migliori per impiegarlo. Non stava ringiovanendo, comunque, aveva del lavoro da fare. La sensazione piacevole del pennello in movimento. Una stanza piccola, dalle pareti piccole, c'era troppa porcheria, là dentro: scatole di liquori contenenti vecchie riviste mediche, un sacco di bende ingiallite ancora avvolte nella loro confezione con la croce rossa, boccette vuote per campioni nelle loro scatole di plastica verdastra. Spostò il tutto a calci, tolse tutto dal suo cammino, sacchi e scatole, calpestando con i piedi nudi del materiale plastico. Qualcosa gli si conficcò nel tallone, una puntura breve, ma egli la ignorò, come ignorò il dolore al collo che si stava acuendo e che gli ottenebrava la vista già in parte annebbiata. I colori, ora poteva fare tanto con molto poco. Guarda, la struttura dei materiali e tutte le tonalità di nero, di puro e semplice nero, forte come il suo braccio dolente. Ardeva internamente. Senza fumo né odore né sostanza, ardeva, senza però distruggersi, ardeva come il dolore che gli diceva che non sarebbe vissuto in eterno, che c'era lavoro da fare, ma che non l'avrebbe mai fatto. Nel palazzo del duende c'è lo splendore che arde fino a diventare nero e tu non lo vedrai mai, non lo toccherai mai, non verrai mai visto né conosciuto in modi che risultano inconcepibili per la mente umana. Ti potrebbe bruciare vivo, ma non ti avvicinerai mai abbastanza al suo calore. Mai. Perché, per giungervi, è necessario compiere passi risoluti e i tuoi piedi sono troppo delicati, le tue sofferenze troppo lievi. La grande sofferenza è il tributo da pagare per entrare in quel regno, per superare il limite oltre il quale l'aria stessa è vetro fuso annerito, oltre il quale ogni movimento è il frutto di una distillazione tanto meticolosa che il mero fatto di essere presente ti richiede uno sforzo superiore a tutti quelli che hai fatto: non solo devi vivere e morire per la tua arte, ma devi diventare la tua arte, superarla, mangiarla, viva, sanguinante, e ricrearla, per poi divorarla nuovamente, e continuare il ciclo, come Crono che mangiava i suoi figli, ignorandone le grida, perché ciò che è è
ciò che dev'essere, e perché in tutte le stanze della casa dell'arte c'è solo un altare, un sacerdote d'argento visibile a metà e una richiesta il dottor Quiete rientrò nella stanza, con lo sguardo di un bambino che cerca il suo cucciolo. "Coglione! Coglione!" gemeva, gemeva, soffrendo per la videocamera, anzi, cullandola fra le sue braccia. Tecnofilo. I vecchi metodi erano i migliori. Austen lo colpì, ma sempre leggermente, con il pennello, gli diede un rapido colpo di rimprovero sul dorso del naso. Scosse lievemente il capo alla vista del sangue, che femminuccia, lo aveva appena toccato. Appena. E, guarda, la parete, quello che aveva fatto, osserva la corrosione, il raggrinzimento e tutto lo splendore che aveva creato, uno splendore senza precedenti, gli occhi in preda a un terrore vagabondo, non aveva vagato inutilmente, lì doveva arrivare. La fine della strada. Uccidi o guarisci. O entrambe le cose. La testa del dottor Quiete era finita in qualche modo sotto il suo ginocchio: una posizione accorta. Il dottore forse era stato meno accorto. La bocca da pesce, e Austen solidale, seppure in maniera distaccata, lui fra tutti riusciva a capire che cosa significava vivere senz'aria, era una sensazione unica. Russell, entrato come una valanga, lo stava fissando dalla soglia, lo sguardo sconvolto: era come se lo avesse sorpreso mentre faceva l'amore. Invece stava facendo la guerra. Austen si voltò verso di lui, la sua bocca famelica pareva volergli chiedere: Ne vuoi un po'? Aveva la camicia completamente imbrattata d'argento. I muscoli del braccio erano contratti, sporgenti e gli bruciavano. "Figlio di put-tana." Russell aveva gli occhi sgranati, farsescamente, come di fronte a uno spettro. Le mani sull'intelaiatura della porta, si era sorretto al momento di entrare. "Austen," esclamò, la voce acuta, "fallo alzare, ragazzo." "Perché?" "Perché credo stia soffocando." C'era qualcosa sul soffitto, sbuffi semoventi, fumi d'argento. Una nuova manifestazione? Un'infestazione? Perché no? "Mi ha detto che te n'eri andato. Mi ha detto che eri uscito a comprare della birra e che non eri più tornato." "È uno stronzo," replicò, con quegli occhi sgranati, lo stesso sguardo con cui lo aveva fissato in macchina. "Austen, merda! Fallo alzare!" In silenzio, sollevò il ginocchio, che gli parve leggero come un pezzo di legno di balsa, era come se non appartenesse ad alcun arto umano, perché
tutta quella confusione? "Come ti sembra?" chiese a Russell, che era inspiegabilmente in pensiero per il dottore, ancora steso a terra. Se desiderava tanto alzarsi, perché semplicemente non lo faceva? Coglione. "Ce l'ha con me," disse, disegnando un ampio cerchio rosso, sbavato, "perché gli ho rotto la videocamera." "Perché lo hai fatto?" "Non so." Davvero non lo sapeva? "Non volevo che mi riprendesse quando sono pazzo. Come ha fatto con tutti quegli altri." "Quali altri?" chiese e, senza alcuna pausa, proseguì, "Austen, ragazzo, hai un aspetto fottutamente orribile. Sul serio. Che cosa diavolo sta succedendo? Da due giorni cerco di entrare qui dentro, Emily se n'è andata, era incazzata a morte, e quella ragazza qui sotto, Elaine, ha iniziato a..." "Ha detto" - indicando il dottore, ancora a terra di schiena, contratto come un granchio - "che eri andato via e che non eri più tornato. Il che, ritengo, prova che è un bugiardo." Ebbe di nuovo voglia di colpirlo, ma si rese subito conto che era preferibile riprendere a lavorare, il tempo stava scadendo. Perché? Non stava ringiovanendo. "Ascolta, Russell, devo veramente tornare al lavoro." Aveva un pennello in mano. "Puoi tornare fra un po'?" Il dottor Quiete, rialzatosi, comminava come un vecchio; era un vecchio, notò Austen, anche se indubbiamente molto energico. Era il momento di bere un po' del suo tonico, acqua della Florida, Vete de Aqui; era meglio vivere in fratellanza. Ma non voleva essere il fratello di nessuno, non era così? Tremava. Fece un cenno a Russell e Austen annuì, sì, una buona idea. "Portalo con te," esclamò, non sapendo bene a chi stesse parlando. "Toglietevi entrambi dalle palle. Ho da fare da fare da fare." E lavorò. L'odore dei colori, la stanza estremamente calda, pregna dell'odore della fame, dell'odore di carne smembrata. L'argento umido sotto le sue unghie che si stavano sfaldando. Quando orinò, vide che perdeva sangue. Aveva un dolore alla schiena, simile a un battito, lento e continuo, bum bum bum. Ma attutito. Le pareti erano ora la sua tela, per dipingere il terrore e gli elementi del sogno: dei suoi sogni: la cassetta degli attrezzi di Emily, il suo pene annerito nel sogno, la testa di scimmia strizzata in uno strano morsetto chirurgico, l'allungamento in un ambiente desolato, terre piatte, terre di calanchi, terre di confine, il paese del duende. Era avvicinabile, pensò, persino per lui, forse specialmente per lui, malato, distrutto, alienato, esiliato nella ca-
sa di uno sconosciuto, per lui, che stava perdendo tutto, che aveva condizionato tutto in funzione di quell'ultimo sforzo. Lo aveva obbligato mediante la sofferenza a lavorare, lo stava ancora obbligando, mediante una sofferenza maggiore, a eseguire un lavoro più grande. Sì. Aveva dipinto metà parete quando cadde, rimanendo a terra, la testa poggiata sul coperchio di una scatola di cartone, il collo paralizzato all'istante da un dolore tale da impedirgli di voltare il capo; eppure lo girò, obbligando i muscoli a muoversi, obbligando i suoi occhi asciutti, ma contenti, a roteare per vedere ciò che aveva compiuto. Poi finalmente sgorgarono le lacrime, piccole lacrime umane sulla sua mano, tanto irrigidita per lo spasmo che non poté nemmeno aprirla per asciugarle. Le sue gambe erano insensibili, come due pezzi di carne in un congelatore. Il naso gli faceva male, in corrispondenza dei punti in cui gli erano stati inseriti i tubi, come pure la gola. Nelle aree dolenti, retrostanti gli occhi lucidi, si stava accumulando una certa pressione, ed egli pianse anche per questo; tra la sporcizia del pavimento le sue lacrime erano argento, erano cromo, erano dolci, alienanti, poiché il limite era in vista, e continuava a bruciare nel buio oltre i suoi occhi. Si risvegliò, senza però avere la certezza di aver dormito; era come se si riprendesse da un attacco; la stessa cosa. Il dottor Quiete era là, anche quella volta, ma a una distanza di sicurezza. Un paio di tazze sul vassoio con i germani, una lieve nube di vapore. Con il suo lavoro la parete risultava davvero incredibile. "Ehi." Austen non se la sentì di guardarlo come niente fosse. Il dottore aveva un cerotto sul naso, proprio sul dorso. Stava peggio di quando era in ospedale, riusciva a stento a dar credito al concetto, seppur relativo, di benessere. "È ancora qui Russell?" Era un argomento sicuro, o così gli sembrava, per lo meno finché la memoria non gli avesse dato indicazioni diverse. "È di sotto," rispose con voce piatta il dottore. "Gli ho detto di andarsene. Vuole chiamare la tua ex moglie e cercare di convincerla a tornare." Prese una tazza, una di quelle con il manico, decorata con fiori e piante rampicanti di color rosa pallido. La porse ad Austen dicendo: "È meglio che mangi. Continui a strapparti via i cateteri endovenosi." "Grazie." Il collo gli faceva ancora male, ma non disse nulla, la tazza in mano, con una cannuccia flessibile. Per qualche ragione lo intristì. Un vago sapore di brodo, caldo e salato, un debole profumo di carne, di una carne indefinibile. "Sei molto più forte," osservò il dottore.
No, non lo sono, sarò fortunato se uscirò di qui tutto intero e sano di mente. Ma non disse nulla di ciò e succhiò il brodo con la cannuccia, come un bravo ragazzo. Al suo passaggio nell'esofago provò una nausea immediata, stai indietro, voleva dirgli, sto per vomitare. Avvertì una sensazione di calore fra le gambe, abbassò lo sguardo e vide che indossava uno strano paio di pantaloncini. Erano bagnati; ne scostò l'elastico per dare con disgusto un'occhiata all'interno: sangue. Piscio sangue, stava quasi per dirlo, ma non lo fece. "Me la sono fatta addosso," esclamò invece, e il dottore si alzò per porgergli un rotolo di salviettine di carta, decorate con mulini a vento blu e ragazzini olandesi dallo sguardo idiota. Cercò di pulirsi, ma finì per macchiarsi ulteriormente. "Dottore," esclamò, la salvietta appallottolata in mano, le dita appiccicose. "Ascolti..." "Stai diventando molto pericoloso," affermò, non si trattava di una risposta né di una reazione. Aveva il tono che si adotta di solito quando si deve comunicare che il male è inoperabile. "Ora non posso venirti vicino nemmeno per i nastri." Stava parlando della videocamera o delle cinghie con cui lo legava? "Il lavoro che stai facendo è stupefacente, ma non è sicuro starti accanto. Si sta verificando un processo che è, per sua natura, in parte medico... credo però in minima parte. Pensò che abbia a che vedere con il tessuto cicatriziale che si è formato dopo la lesione. C'è un pattern di comportamento che..." senza alcun preavviso il vassoio piroettò in aria, il brodo caldo schizzò dappertutto nella stanza, il dottore trasalì e lanciò un'imprecazione. E Austen si alzò in piedi sul letto, le gambe flesse, le cosce insanguinate e gli occhi spalancati, riusciva a vederlo, non era un attacco, riusciva a vedere la cosa argentea, le squame, gli occhi allungati, il suo estendersi, il suo ingobbirsi, i suoi movimenti che non creavano ombre, come la traiettoria della luce nell'acqua, il lucore della superficie. Era proprio là, era proprio là si mostrava sull'estremo limite e quando fece un passo per andarle incontro, si gettò prontamente verso il basso. I piedi impacciati, bloccati dalla coperta, cadde picchiando la fronte sulla struttura metallica del letto; ora aveva gli occhi insanguinati, non vedeva le stelle, ma i componenti freddi e semplici del suo sistema astrologico, uno zodiaco in cui le figure erano un tutt'uno, un tutt'uno che non veniva creato da occhi esterni, ma solo dai suoi.
Lentamente, cercò di alzarsi. Era ancora ostacolato nei movimenti. Sanguinava. Dal naso e dalle orecchie gli usciva ogni sorta di schifezza, perdite strane, in ospedale lo avevano avvertito di ciò. Lo avevano avvertito di non smettere di prendere le pillole ma quale freno poteva offrire la farmacologia per bloccare quella cosa, se c'era una gabbia, chi avrebbe potuto tenerne la chiave? Non lui. Lui era un contenitore, non un carceriere, non avrebbe del resto mai potuto esserlo. Il dottor Quiete borbottava o piangeva, sedere a terra. Aveva una macchia, una zona scura a livello del cavallo e dell'inguine, forse era orina, forse il brodo. Forse si era ustionato. Sul suo volto un'espressione che comunicava quanto già espresso con i borbottii. La porta, gente, nella sua liquida pazzia riusciva a malapena a capire se fosse al piano di sotto o a quello di sopra, dentro o fuori. Persino i suoni emessi dal dottore non gli parevano reali. Aveva la bocca aperta; c'era qualcosa che non era saliva, né sangue, né propriamente argento. La cosa argentea era ancora accucciata, lungo i suoi lati si vedeva ora un'ombra, come il paese che si apre alle spalle della sentinella; con sofferenza enorme, avrebbe potuto raggiungerlo se l'avesse oltrepassata se avesse avuto la forza di fare il sacrificio Voci, all'interno della stanza. La voce di Emily. Il suo nome sulle labbra di lei, come fuoco, Emily stava urlando qualcosa, una mano sollevata, e, alle sue spalle, vide di nuovo il volto farsesco di Russell, che lo fissava. Li guardò entrambi, infuriato, perché adesso, perché così vicino, non voleva essere costretto a fermarsi per loro, nemmeno per lei: per spiegare, discutere, lottare, era così vicino, ora, non vedevano il lavoro sulle pareti? Uscite. "Uscite di qui!" Ma era troppo tardi, la cosa argentea stava voltandosi nella direzione da cui proveniva la voce di Emily e, sebbene ci fosse qualcosa di quasi malefico nel suo movimento, sapeva che non c'era da preoccuparsi, avrebbe fatto di certo in modo che non le accadesse nulla di brutto, l'avrebbe salvata dal maelstrom, dalla strada che conduceva alla carneficina, da quella strada sottocutanea che tutti percorrono, ma che solo l'artista può vedere, con i suoi occhi "Austen!" Il dottore, davanti a lui sulla strada che portava da Emily, lo spingeva, lo colpiva, lo colpiva con la videocamera, cazzo!, smettila, e Austen lo picchiò, violentemente, una sola volta.
L'argento eterno. Il dipinto sulla parete era vivo. Non riusciva più a vedere Emily come figura, come un'entità a se stante, come un essere umano, sentì le sue grida levarsi nel dilagare del liquido: era tutto bagnato, il suo corpo era come un sacco che si stava per rompere. Per alcuni istanti non vide assolutamente nulla, come era accaduto in precedenza in ospedale, anche se, in quel momento, il blackout fu più breve: tutti quei giorni di assenza racchiusi in quei minuti di assenza e poi ritornò fra le grinfie voraci del liquido. Si voltò finalmente verso la cosa argentea, si chinò e si allungò davanti al dipinto murale, a quello sfondo vivo, che si contorceva; protese le mani esternamente, la bocca aperta, mangia o sarai mangiato, o entrambe le cose insieme, all'istante. Scopa con me. Ora. Era come passare attraverso l'acqua. Attraverso l'oceano dei desideri. Caldo e umido come il sangue materno, il sangue di colei che si ama, come la folle passione incorporea della creazione, di fronte alla quale nulla conta, nulla esiste, se non il lavoro. Iniziò la nuova esistenza, a spese di tutto. Ne era valsa la pena, ogni secondo, ogni goccia di sangue fremente. Tutto. Perché non ci può essere nient'altro. Perché non c'è nient'altro. Un uomo, il dottore o Russell. Lo toccava? Aprì gli occhi e vide un volto chino su di lui, dalla pelle intensamente, stranamente grigia. I capelli di Russell parevano congelali in una posa che l'occhio umano non sarebbe stato in grado di rappresentare. Grigio, e bianco lungo le ossa, gli angoli, a ogni movimento cambiava, stiletti e superfici scivolose nella gamma infinita dell'argento e del grigio-argento. Russell lo toccò una volta, cautamente. Osservare era tutto quello che poteva fare per evitare di ridere di piacere e sorpresa. Lo toccò e lo lasciò dov'era. Fissava tutto. Un odore acre di urina fredda, uno, penetrante, di medicine rovesciate e quello, pungente, del sangue. Sentiva un lieve fastidio alla bocca, come se vi fossero dei capelli. Erano i capelli di Emily. C'erano altri capelli di Emily, ammassati, appiccicosi, sulla cartella clinica appesa al letto e sul bordo grosso della branda. La stanza era distrutta, il letto rovesciato, nell'angolo si trovava un mucchio bagnato, informe, simile a un corpo floscio. Frammenti di porte e di mobili dappertutto, il paesaggio dopo una piccola
guerra. Il campo di battaglia. Aveva certamente vinto; ne era sicuro. Guardò Russell e lo vide pulirsi il viso. Era imbrattato di sangue. Lacrime. Qualsiasi cosa fosse accaduto, doveva essere terminato da poco. Russell era chino sul dottore, gli parlava all'orecchio. Per il muco e la concitazione parlava con un ritmo alterato. "Era tornata," ansimava, aveva la bocca aperta come un bambino, e piagnucolava, "era tornata per dirgli dei quadri. Di quel tizio, tutto è diventato un unico, grande quadro, tutto rappresenta la stessa, fottuta cosa. La stessa cosa, lei era tornata, o Gesù." Sembrava non udire le parole che diceva, balbettava per lo shock e guardava indietro, l'occhio sgranato, come se non vedesse assolutamente Austen. "Russell," chiamò, con il tono con cui si parla a un cane impaurito, a un cagnolino, vieni fuori da sotto l'auto. "L'ho visto, Russell. Quello che vedeva tuo padre." Ma Russell non stava ascoltando. Stava dietro al dottore, gli diceva parole che non avevano senso. "Russell!" a voce alta, e Russell si girò, facendo letteralmente perno sui talloni. Lo guardò direttamente in faccia. "L'hai uccisa," disse, con quel suo strano balbettio, ansimando, "fottuto bastardo, l'hai uccisa, miravi esattamente a lei, miravi esattamente..." Piangeva veramente, ora, "Oh, cazzo," e Austen concentrò lo sguardo vagante sul dottore, passava molto tempo disteso sul pavimento, vero? Stava quasi per fare tale commento a voce alta, ma Russell lo stava già sollevando, senza avere apparentemente alcuna difficoltà. Senza particolare curiosità Austen notò che, nelle orbite, l'uomo non pareva avere più occhi, ma solo gelatina, solo del materiale indefinibile. Era strano, o forse non lo era per niente, certamente non tanto quanto le stupide accuse di Russell. Comunque, non c'era tempo per le speculazioni, le avrebbe potute fare in seguito; aveva tutto il tempo di cui aveva bisogno, e l'avrebbe impiegato tutto. Perché c'era lavoro da fare, parecchio: tanto per cominciare, non trovava i suoi colori. E i suoi pennelli. Forse non era importante; però doveva accertarsene. Inoltre, doveva trovare il modo di gestire la sua nuova vista, intendeva già da tempo accennarne a Russell, forse poteva ancora farlo. Il confronto, o qualunque cosa fosse stato, l'esplosione argentea prodotta dall'incontro essenziale pareva aver distrutto ciò che rimaneva della sua vecchia vista e avergli lasciato un dono. Non come quello di cui era stato beneficiato il dottore; si trattava di due occhi completamente nuovi. Strisciò sul pavimento. Era complicato stare in piedi, in quel momento, ma le cose sarebbero migliorate. Ciò che risultava particolarmente, e me-
ravigliosamente, difficile era gestire quei nuovi occhi, che riproducevano qualcosa di familiare, un processo, c'era un nome per definirlo. Sì. Solarizzazione, la tecnica fotografica mediante cui i bordi dell'immagine vengono alterati durante lo sviluppo e tutto diventa argenteo: caotico, imprevedibile, bizzarro. Anche i suoi bordi erano stati alterati, anzi, cancellati, annientati, sì, da un processo di sviluppo. Dal suo sviluppo finale, forse avrebbe dovuto fare il fotografo invece che il pittore. Ma ora poteva essere tutto ciò che voleva. Poteva persino essere la cosa argentea. Voleva chiedere a Russell di Emily, obbligarlo a ragionare: lì non c'era alcun morto, era stupido, stupido e crudele dire una cosa simile. Raggiunse l'altra stanza, ma Russell se n'era evidentemente andato con il dottore, lo aveva portato all'ospedale, ah ah. La borsa di Emily era ancora sul pavimento, la TV predisposta per l'inserimento di una cassetta emetteva un ronzio incessante, una chiazza dall'odore dolciastro, il vomito di lei, ne sentiva il puzzo a distanza. Con i suoi nuovi occhi vide sulla superficie di vinile opaco della borsa tutte le impronte digitali, la complessità dei disegni a spirale: tutte erano il segno del suo amore per lei, un amore che lui percepiva in ogni cellula del corpo di Emily. Lei lo amava? Lo aveva mai amato? Ma era poi importante? Dov'era lei, adesso? Il suo cappotto, laggiù. Guarda nel tessuto strappato da poco il dolce intreccio della tua devozione, guarda nelle misteriose macchie di sangue il rebus che parla dell'affetto che provi per lei. Dov'era andata senza il cappotto? Avrebbe avuto freddo. Gliene avrebbe comperato un altro, l'avrebbe vestita d'argento. Avrebbe baciato il suo argento, dentro e fuori. I suoi movimenti gli sembravano gli stessi, forse però erano più cauti, visto che quegli occhi nuovi erano infidi, egli preferiva fermarsi e osservare ogni cosa. Fuori, dal piano di sotto, come un testimone, Elaine guardava attentamente verso l'alto: quando lo vide, urlò, quel volto inespressivo aveva finalmente comunicato un sentimento umano, un sentimento di panico. Sbatté la porta come fanno nei film coloro che vanno a caccia di mostri; era un pesce troppo piccolo per richiamare la sua attenzione; non aveva alcuna curiosità nei suoi confronti, non gli interessava sapere com'era. Fuori era quasi buio. E faceva estremamente freddo. In strada i lampioni emanavano una luce negativa, che si rifletteva sul cofano dell'auto di Emily; perché l'aveva lasciata lì? Era incredibile, voleva dipingere tutto ciò che vedeva e vedeva tutto.
E in questo mondo c'è molto da vedere. Era possibile guidare? Si rispose da solo, con la vista qualsiasi cosa è possibile. La macchina di Emily era aperta, le chiavi ancora sul cruscotto; il suo profumo su ogni superficie, su ogni interruttore e su ogni delicata manopola. Le sciocchezze che aveva detto Russell gli risuonavano nelle orecchie: l'hai uccisa. No. C'era una macchiolina scura nella sua memoria che si rifiutava di venir via, riguardava lei i capelli di Emily nella sua bocca roteò un occhio, lei aveva uno sguardo vitreo, come un cavallo, un sguardo reso disumano dalla paura il volto di lei così vicino al suo Ogni uomo uccide la cosa che ama, per la cosa che ama di più. Era questo il passaporto? I capelli di Emily nella sua bocca. Girava come un ubriaco, lo sguardo vacuo, e sentiva la passione del bambino e del genio, del maniaco e del re. Non c'era nulla di simile, nulla. Voleva dire a tutti che vedeva quello che vedeva, voleva mostrarlo a tutti. Soprattutto, voleva dirlo a Emily, mostrarglielo; sarebbe stata di nuovo fiera di lui. E così, se n'era andata. Forse, al di là del limite, l'avrebbe ritrovata, nel luogo in cui tutte le controversie si risolvono, le avrebbe spiegato che esistono cose, momenti più grandi del bene dell'umanità; in quell'occasione lei avrebbe capito. Lo specchietto retrovisore, la sua vista dipendeva ancora da strumenti simili? Controlla. Lo sistemò accortamente e, nel suo riflesso, vide la cosa argentea, sorridente, visibile, finalmente era molto più che un mostro, molto più che piacere, era il lavoro stesso, lo stimolo artistico, il saccheggiatore della devastazione, il dispensatore della sofferenza, della sofferenza necessaria per giungere a un bene superiore. Perché lui? Nel suo stupido, misero dolore, un desiderio privo di ambizione, perché aveva donato proprio a lui l'argento? Perché era vuoto? Perché poteva essere riempito? Il dio: viene mascherato, sotto forma di malattia, di movimento, di colore. L'argento, il colore del coltello che guarisce. Pensò di sapere com'era lo sguardo della Criosfinge, il muso proteso verso la luna nascente, là, nelle tenebre di quel piccolo sedile posteriore, pensò di vedere altre sagome e altri movimenti, tutti i ritratti potevano ora animarsi, liberati dalla limitatezza della mediocrità; che cosa aveva detto Russell? Tutto rappresenta la stessa cosa. Questo da sempre, solo che ora
essa era libera. Il dolore alle braccia che, tremanti, tenevano il volante ubriaco, era un piacere, non aveva bisogno di voltare la testa per vedere, da quel momento in poi avrebbe visto tutto, per sempre, attraverso il velo strappato di quella magia che era stata per lui un'epifania, quella magia che era tale solo per lui. Sulla sua spalla c'era qualcosa di umido, che non era sangue né argento. Sentiva una pressione dentro la testa, dolce, sempre più forte, si accumulava, come gli anni di lavoro, la torsione insistente del sogno imposta alla pelle rognosa della realtà. Sangue dalla bocca. Sangue nero dalle orecchie. Emily, dimenticata, il suo corpo, dimenticato anch'esso; sì. Che differenza faceva? L'unica cosa di cui aveva bisogno erano i suoi occhi e, se la vista fosse sopravvissuta a essi, non avrebbe più avuto bisogno di niente, assolutamente di niente. Guidò per circa un isolato e mezzo prima di oltrepassare effettivamente il confine. Il duende non giunge mai a meno che non veda che la morte è possibile. Federico García Lorca Da forme invisibili il loro inno funebre viene cantato. William Collins FINE