COSE DA SALVARE IN CASO DI INCENDIO
Romanzo di HALEY TANNER
Traduzione di SILVIA PIRACCINI LONGANESI
ISBN 9788830427...
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COSE DA SALVARE IN CASO DI INCENDIO
Romanzo di HALEY TANNER
Traduzione di SILVIA PIRACCINI LONGANESI
ISBN 9788830427785 Titolo originale: Vaclav & Lena
Gavin, mio complice, mio incantevole assistente, mio compagno, nonché miglior marito che una ragazza potesse avere, sei sempre il mio astro nascente. Ogni giorno mi riempi la vita di gioia, meraviglia e possibilità. Sei in ogni pagina di questo libro e ora sei anche parte del grande, pazzesco, magnifico universo. So che là ti stai divertendo, lo sento. Ti amo.
[eBL 028] Haley Tanner - Cose da salvare in caso di Incendio [by Pico & Katniss]
INSIEME
Niente assistente, niente mago « Ecco, io provo, tu provi. Ahem. AH-em. Io sono Vaclav il Magnifico e compio gli anni il sei di maggio, il giorno famoso in cui le generazioni festeggiano e si rallegrano, un giorno che negli anni futuri eclisserà Natale, Hanukkah, Ramadan e tutte le feste pagane; sono nato in una terra lontana lontana, una terra di segreti antichi e magnifici, una terra di conoscenze magiche tramandate dai tempi e dagli antichi, una terra di illusione (Russia!), nato là in Russia e riapparso qua, in America, a New York, a Brooklyn (che è un distretto amministrativo), vicino a Coney Island, che è un famoso posto di magia nella grande terra delle opportunità (che ovviamente è l'America), dove tutti possono diventare qualcuno, dove un vagabondo oggi è un manager in giacca e cravatta domani, e un manager ieri è un vagabondo oggi pomeriggio, Vaclav il Magnifico, al quale indubitabilmente sarà chiesto di praticare i suoi potenti atti di incantamento per duchi, presidenti, zar, ayatollah, unendoli tutti in sconcerto e sbigottimento, e così, un giorno degli anni futuri, annunzierà una nuova era (che è un pezzo di tempo) di pace sulla terra. Signore e signori, vi offro, vi presento, preannunciandovi il suo arrivo perché così potrete chiudere gli occhi e mettere le mani sulla faccia se avrete paura, Vaclav il Magnifico, Mago-Bambino. » « Eh » brontola Lena. « Lena, questa qui è un'introduzione perfetta al numero. E lunga, perfetta e fatta soltanto delle parole migliori e più complesse del dizionario dei sinonimi » dice Vaclav. « Dopo terza frase tu deve dire: 'La magia è arte per controllare eventi con poteri soprannaturali' » gli suggerisce lei. E la frase preferita di Lena l'ha imparata sull'Almanacco del mago, che è un vecchio librone con le pagine dal bordo dorato, tutto sulla magia, i trucchi e l'illusionismo. Siccome Vaclav prendeva continuamente in prestito l'almanacco in biblioteca, l'anno scorso Lena se lo infilò nello zainetto e lo portò a casa per regalarglielo il giorno del suo compleanno, così sarebbe stato loro per sempre.
« Bello, ma non c'entra con il numero. Te l'ho già detto. L'introduzione è questa, completa. Adesso sigillala con la candela magica del compleanno. » Vaclav arrotola la pagina di quaderno su cui c'è scritta l'introduzione al numero e la porge a Lena. Lena non la prende in mano. Con la sinistra regge la candela magica del compleanno, di cui strofina i rilievi a spirale con il pollice. Nella destra impugna l'accendino con cui accendere la candela. La sigillatura a cera è un momento importante, quando Lena e Vaclav scrivono qualcosa, ed è compito di Lena, esclusivamente suo, accendere la candela magica del compleanno, sollevarla bene in alto e poi far colare la cera sulla pagina arrotolata, sigillandola per sempre. Sotto il letto di Vaclav, accanto a un calzino dimenticato, in mezzo a un'accozzaglia di oggetti coperti di polvere e lanugine, c'è una scatola di scarpe piena di fogli di quaderno arrotolati e sigillati con la cera di Lena. Le cose scritte lì sono importanti dichiarazioni, patti, elenchi e altre testimonianze della vita dei due piccoli maghi. « Adesso scriviamo e finiamo, Lena, e stasera chiederò il permesso di fare uno spettacolo. » « Impossibile » dice Lena. « Possibile, invece. Posso farlo succedere. Forse non stasera, ma presto. Quindi sigilliamo l'introduzione: significa che possiamo cominciare il numero. Quando avremo il permesso, faremo l'esibizione. Accendi. Sciogli. Fatto. » «Srotola. Scrivi. La magia è arte per controllare eventi usando poteri soprannaturali. » « Non scrivo, Lena, no. Questa non è una parte dell'introduzione; non c'entra. E in buon inglese, ma non c'entra. L'introduzione è questa e dobbiamo sigillarla, così sarà l'introduzione e potremo cominciare a fare le prove per lo spettacolo. » Lena guarda l'accendino che ha rubato dalla tasca della vestaglia della zia. Sa che rubare non è giusto a meno che si abbia un bisogno disperato di una cosa e la persona non c'è e non si accorgerà nemmeno che quella cosa è sparita. Rubare l'accendino le ha fatto paura, ma è anche stato bello e l'ha fatta sentire corag giosa. Lena si sente molto coraggiosa con l'accendino in mano, molto grande. « Perché tu sei il capo sempre? » chiede Lena.
« Per esempio perché io sono il mago e tu sei l'assistente. L'assistente viene dopo il mago. Non c'è assistente senza mago » risponde Vaclav. « Senza assistente, non c'è mago » replica Lena. « Io ho un anno più di te » dice Vaclav. « Dieci è soltanto po' più di nove e undici mesi » torna alla carica Lena. «Il mago è più importante dell'assistente perché...» dice Vaclav, preparandosi a ribattere qualcos'altro per dimostrare la sua autorità su Lena. In questa discussione vuole avere la meglio, pur sapendo che torneranno sull'argomento. E una cosa su cui litigano continuamente. E come la famosa questione dell'uovo e la gallina, quale dei due viene prima e quale dei due è migliore e più importante dell'altro. E una discussione che non avrà mai fine, perché è impossibile dimostrare quale dei due viene prima e quale è migliore e più importante, dal momento che in realtà sono tutti e due la stessa cosa. Bussano. Lena e Vaclav guardano la porta con gli occhi sgranati e pieni di terrore. Arrivano tre colpi forti, dopodiché il pomello gira ma senza aprire la porta, perché è chiusa a chiave. Vaclav si pente di quel che ha fatto. Chiudere a chiave è stata una bruttissima idea. La porta chiusa a chiave può far pensare a sua madre che nella camera da letto del piccolo mago stiano succedendo fatti illeciti. « Vaclav! Apri subito la porta o io apro! Vuoi complicazione? » Lena e Vaclav spingono sotto il letto l'armamentario magico, lo nascondono dietro la balza perforata di occhielli. «Arrivo, arrivo!» dice Vaclav, scattando in piedi. Non fa in tempo a girare la chiave che la porta si spalanca di botto, spingendolo indietro. Gli occhi di Rasia perlustrano la camera. Rasia non sa cosa sta cercando, ma è sempre preoccupata. Tutti i giorni alle cinque e dieci corre a casa più in fretta che può, perché suo figlio cresce e cambia di secondo in secondo e lei ha soltanto quelle ore per plasmarlo come argilla. Ha soltanto quelle ore per mostrargli che è importante fare i compiti, cenare tutti insieme, non drogarsi, non rubare, non essere pigri, non imbrogliare la gente. Deve proteggerlo dai pedofili, dagli estranei, dai prepotenti, dalle armi e dall'avvelenamento da monossido di carbonio. È preoccupata perché lui, quando torna a casa da scuola, non trova nessuno; è uno di quei ragazzini con la chiave al collo e lei è una madre che lavora, e abitano in una grande città, e Vaclav frequenta una
scuola pubblica affollatissima, e questi sono tutti ingredienti di un disastro: basta seguire l'attualità, cosa che lei fa, attenta, vigile, per sapere sempre qual è la prossima minaccia da temere. «Non mi piace cosa vedo qui. Che succede quando non ci sono? » « Niente! Non facciamo niente! I compiti. Facciamo i compiti e basta » dice Vaclav. « I compiti basta per tre ore? Questo non credo. Dopo cena voglio vedere tutti compiti. » Rasia indietreggia verso la porta, tenendo d'occhio Lena. È preoccupata per Lena per via della ben nota professione della zia. È ingiusto e nello stesso tempo giusto. « Vabbè, i compiti e basta più magari qualche piccola prova dello spettacolo di magia » dice Vaclav. Rasia rientra nella stanza. « Più magari qualche piccola prova dello spettacolo di magia? » « Si, in effetti stiamo provando lo spettacolo di magia » dice Vaclav, cercando di assumere Un'aria grave. «E magari, se sei d'accordo, visto che abbiamo fatto tutti i compiti, magari... » Vaclav guarda in su verso sua madre e Rasia guarda in giù verso suo figlio, verso il suo balletto attorno a quel che vuole, verso le scarpe da ginnastica chiuse col velcro che scavano nervosamente dei cerchi nella moquette. « Magari cosa? » « Magari prima di cena... » « Finisci la frase » dice Rasia, assottigliando gli occhi. « Io e Lena possiamo farvi uno spettacolo di magia, in soggiorno, prima di cena? » chiede Vaclav, in fretta, tutto d'un fiato. « Tutti compiti sono finiti? » chiede lei. « Sì, tutti finiti » risponde Vaclav, anche se i suoi sono soltanto quasi finiti. « Lena, rimani a cena? » chiede Rasia. « Da » risponde Lena. « In inglese! » l'ammonisce Rasia. « Sìììì » dice Lena, in un brontolio. « Prima di qualsiasi magia bisogna che la tavola è apparecchiata. E compiti devono essere finiti » dice Rasia. Vaclav sorride, perché sa che questo è il suo modo di dire di sì. Rasia guarda torva la camera ancora un minuto, tanto per estirpare eventuali affari loschi, e poi, soddisfatta, esce finalmente dalla stanza tirando la porta,
che quasi si chiude. Non fa in tempo ad andarsene che Vaclav e Lena si sono già messi a saltare di gioia, dopodiché cominciano a darsi da fare freneticamente per la preparazione del loro magnifico numero. Signora e signore Vaclav e Lena spengono il televisore a maxi schermo del soggiorno. Spingono il tavolino contro la parete; è un palcoscenico perfetto, nero, solido e lucente. Hanno spostato il tavolino in questo stesso modo molte volte; è facile spingerlo sul grande, consunto tappeto persiano. Vaclav e Lena sono in scena, ad aspettare che il pubblico prenda posto. « Papà » grida Vaclav, « sbrigati, noi siamo pronti! » Rasia è già seduta sul grande divano di pelle nera, in attesa che cominci lo spettacolo. Il padre di Vaclav entra con in mano un bicchiere di vodka e sprofonda nel divano. « Eccomi. Cosa guardiamo? Cosa fate? » chiede il padre di Vaclav. « Guardate e basta, okay? » Vaclav ha addosso i vestiti della scuola, jeans e una Tshirt verde, con il papillon al collo e il cilindro da mago in testa. Lena indossa i vestiti normali, jeans e maglioncino, perché non si è ancora fatta il costume. «Anzitutto benvenuto, mio meraviglioso pubblico intellettuale. Signora e signore, vi aspetta una grande sorpresa. Io sono Vaclav il Magnifico e questa è la mia assistente, l'Incantevole Lena. » Vaclav, con un ampio movimento del braccio sinistro, indica Lena, che si produce in un lungo, profondo, grave inchino. Vaclav e il suo pubblico aspettano in silenzio che lei torni in posizione eretta. « Stasera abbiamo per voi un evento speciale che vi meraviglierà e strabilierà. Posso chiedere se, nel pubblico, qualcuno desidera avere l'onore di offrirmi un quarto di dollaro da usare in un numero di magia? » « Questa è una truffa » dice il padre di Vaclav. « Papà! » dice Vaclav. « Oleg, dagli » ringhia Rasia e lui, fra proteste e mugugni, si mette la mano sotto il sedere, la infila nella tasca e tira fuori un caldo quarto di dollaro che consegna al figlio. « Grazie, gentile signore. Sono grato. » Vaclav esibisce la moneta tra il pollice e l'indice perché il pubblico la esamini.
« Lena, per favore, il foglio. » Lena fa spuntare un foglio di carta da dietro la schiena. Fa un passo avanti e lo mostra al pubblico, fronte, retro e bordi. Lo solleva verso la luce e poi indietreggia. « Come la mia incantevole assistente vi sta mostrando, si tratta di un normale foglio di carta senza buchi, senza strappi, senza tagli. Normalissima carta. Grazie, Lena. » Lena annuisce. « Per favore, osservate bene. Ora avvolgo la carta attorno alla moneta. » Vaclav avvolge la carta più volte, in modo che alla fine la moneta è come contenuta in una busta. Rasia si sporge un po' in avanti sul divano, seguendo l'istruzione del figlio di osservare bene. Oleg incrocia le braccia. Ha sulla faccia e sul collo i segni del sonno, simili a profonde cicatrici, e la camicia trabocca di peli. « Come vedete, la moneta è completamente sigillata nella carta. » Lena si avvicina a Vaclav e sporge le mani di lato per indirizzare l'attenzione del pubblico sulla misteriosa moneta avvolta nella carta. Concentrandosi bene, Vaclav trasferisce la moneta avvolta nella carta dalla mano sinistra alla destra. Non dà spiegazioni. Lena solleva rigidamente le braccia e comincia a ruotare, ruotare, ruotare, avvicinandosi pericolosamente al bordo del tavolino. Rasia trattiene il fiato nel timore che cada. « Ora, usando la mia bacchetta magica, farò sparire la moneta nel nulla » annuncia Vaclav, tenendo rigidamente nella destra il pacchetto con la moneta e infilando con un certo nervosismo la sinistra nella tasca posteriore. Lena cerca di esibirsi in uno shimmy, scuotendo le spalle ossute avanti e indietro. Per un momento, mentre Lena scuote le spalle, Vaclav tiene in tasca la mano, poi la sfila, sorridendo, e mostra al pubblico la bacchetta magica. La bacchetta magica di Vaclav è una delle sue cose più speciali. È una bacchetta magica vera, di un vero negozio di articoli per maghi di Manhattan. Ce lo ha portato sua madre e per arrivarci hanno dovuto prendere la metropolitana, mettendoci più di un'ora. Nel negozio hanno chiesto al titolare di aiutarli a scegliere la bacchetta migliore, dopodiché hanno pranzato al ristorante e Vaclav si è sempre tenuto la bacchetta sulle ginocchia. Vaclav batte tre volte quella stessa bacchetta sul pacchetto di carta. « Abracadabra! » dice, con un ultimo colpetto. « La moneta è scomparsa! » Poi aggiunge: « Lena, mia incantevole assistente, sii gentile, prendi questa busta di carta e strappala in due pezzi completi ». Lena prende il pacchetto di
carta dalla sua mano e lo strappa senza sforzo in due. Poi mostra al pubblico i pezzi di carta e, quando il pubblico ha avuto sufficiente prova della scomparsa del quarto di dollaro, lancia i pezzi di carta in aria per creare un effetto teatrale. Vaclav e Lena si inchinano perché il pubblico sappia che è il momento di applaudire. « Fantastico! » dice Rasia, anche se non ha capito bene quale parte del numero era il trucco. E quasi certa che non avrebbe dovuto vedere Vaclav fare uscire la moneta dal pacchetto di carta e trasferirla nel palmo e che non avrebbe dovuto vederlo mettersi in tasca la moneta quando ha tirato fuori la bacchetta. Vaclav e Lena fanno un altro inchino. « Bravi! » dice Rasia. Vaclav e Lena scendono dal tavolino. « Dov'è il mio quarto di dollaro? » chiede Oleg. « Un mago non rivela mai i segreti » dice Vaclav. « Oleg » dice Rasia al padre di Vaclav, in un tono che significa: non chiedergli più il quarto di dollaro. « Grazie » dice Vaclav. « Sono contento che vi è piaciuto. Io e Lena faremo questo spettacolo sabato per i fan del lungomare di Coney Island. » Vaclav è raggiante. « Vaclav. » Rasia tira un respiro profondo. E da un po' che cerca di non pensare allo spettacolo a Coney Island, ma Vaclav non se lo scorda. E troppo tenace. Non sa che è una pessima idea. « Non è una bella idea » dice. « Perché? » chiede Vaclav. « Perché non è una bella idea. » Come fa a dirgli la verità? Mica può dirgli che gli ubriaconi e i ragazzi di Coney Island rideranno di lui. Non può dirgli che finirà con l'umiliarsi. Non può dirgli che nessuno applaudirà, che nessuno griderà oooh, aaah. « Perché? » ripete Vaclav. « Non è prudente. » Probabilmente è una risposta quasi sincera, pensa. Non è prudente, per Vaclav, starsene fuori nel mondo, con gli occhi aperti su tutto e il cuore sulle labbra, con i sogni in mano, pronto a mostrarli e a parlarne. « Non è giusto! Noi dobbiamo fare le prove per esibirci davanti a un pubblico vero! » strilla Vaclav. Benissimo, pensa lei, la consideri pure la persona più
cattiva del mondo. Creda pure che lei non voglia fargli fare il suo numero di magia. « Fine di discorso. Niente discussioni » dice. « Non ci posso credere! » protesta Vaclav. « Va' a lavarti le mani e prepara per la cena » riprende lei. « Anche tu, Lena. » Rasia è accanto alla porta quando Vaclav e Lena sfilano per andare a una cena che non è la cosa di cui hanno fame. Cena Nella cucina della casa di Vaclav fa molto caldo e l'aria è pesante. Inalarla è come succhiare un milkshake da una cannuccia. Lena, quando arriva in cucina, si sente già sazia, come se l'odore le riempisse la pancia da cima a fondo. A casa di Vaclav, le cene sono sempre così. Basta l'odore: non c'è nemmeno bisogno di mangiare. « Cosa c'è per cena? » chiede Vaclav. « E uno scherzo? » dice Rasia, dal momento che suo figlio dovrebbe sapere cosa c'è per cena. L'odore del boršč, in casa, è tanto forte che ci si aspetterebbe quasi di vedere l'aria tinta di un tenue rosso porpora; ci si aspetterebbe di vedere una condensa di boršč ricoprire il soffitto, le pareti e i vetri delle finestre. Lena apre un cassetto accanto al punto in cui il se derone di Rasia ondeggia al ritmo delle mestolate di boršč. Tira fuori quattro forchette e quattro cucchiai, abbinando mentalmente ciascuna posata a un nome per essere sicura che ce ne siano per tutti. Cucchiaio madre, cucchiaio padre, cucchiaio Vaclav, cucchiaio io. Dice mentalmente madre e padre, ma pensando alla madre di Vaclav e al padre di Vaclav. Non è una cosa che le crea confusione, perché il suo cervello non confonderebbe mai la madre di Vaclav con la propria, perché Lena non vede sua madre da prima ancora che potesse ricordarla. Lena pensa alla propria madre in un modo molto diverso da come pensa a Rasia. Rasia ha un odore che sembra un profumo molto forte. E un donnone con un gran sedere che porta vestiti sbiaditi e consumati e pantofole di pelle, una che prepara e rimesta zuppe puzzolenti, una che fa scricchiolare la sedia quando ci si siede sopra. La madre di Lena, invece, è un'astrazione. La madre di Lena è un mistero.
Lena mette in tavola le posate e si siede al suo solito posto, accanto a Vaclav, di fronte al padre seduto accanto alla madre. Vaclav sbriga velocemente il suo compito, quello di disporre i tovaglioli e mettere un bicchiere per l'acqua davanti a ciascun piatto. Lena si mette a sedere mentre Vaclav riempie il bicchiere prima a lei, poi a Rasia, poi a se stesso. E guarda Vaclav riempire di vodka il bicchiere di Oleg. Poi Vaclav e Oleg si siedono. Vaclav silenziosamente, Oleg con un gorgoglio profondo e imbarazzante. Rasia non si siede ancora; resterà in piedi finché non avrà servito a tutti il boršč con la carne: solo allora si siederà. Rasia tiene la pentola del boršč con due mani contro il fianco, con sopra l'ascella scura scoperta. Mette rumorosamente la pentola sul treppiedi d'acciaio a forma di gattino posato sul tavolo, poi immerge il mestolo nel boršč lo solleva come uno stantuffo. Il mestolo è bianco, macchiato di marrone. Il boršč ha il colore della moquette della biblioteca scolastica, pensa Lena. Rasia riempie il piatto a suo marito. Il boršč ha il colore dei fiori. Rasia immerge di nuovo, più volte, il mestolo nella minestra per servire Vaclav. Il boršč ha il colore di un vestito che potrebbe indossare una principessa. Il boršč inonda il piatto di Lena. Il boršč ha il colore del sangue. Il boršč ha il colore del sangue e dentro non ci sono pezzi di carne ma nèi caduti dai tanti menti di Rasia. Quando i pensieri prendono questa piega, Lena non riesce più a fermarli. Rasia si siede pesantemente sulla sedia. Si sistema la grande pancia sopra la cintola dei collant. Tiene il cucchiaio sospeso sopra il piatto e china la testa, ma prima di sorbire il boršč dà un'occhiata a Lena. L'aria in cucina è umida e pesante. Ogni respiro tirato da Lena è un respiro di boršč, del punto sudato tra le pieghe della pancia di Rasia, fiato che arriva dai molari neri di Oleg, fiato dei pezzi di neo che galleggiano nella minestra. « Mangia! Lena, mangia! » Rasia è concentrata su Lena. Lena abbassa il cucchiaio nel boršč. Lo inclina per cercare di prenderne una cucchiaiata senza nèi. «Che problema c'è? Ti serve invito personale?» L'urlo scuote Lena, che affonda il cucchiaio nel boršč. « E magra come i bambini nelle strade di India. Non è bella, questa pelle e ossa! » dice Rasia, dopodiché sorbisce rumorosamente il boršč.
La roba calda che Lena ha nello stomaco le sta risalendo in gola, riempiendole la bocca. Lena si alza da tavola, pensando che forse riuscirà ad arrivare in bagno, dove senza essere vista da nessuno si sciacquerà la bocca per poi tornare a cena, magari con le guance un po' arrossate, ma per il resto nessuno si accorgerà di niente. Sta pensando che il bagno è tanto vicino, il bagno è tanto vicino e, se appena appena riuscirà a tenere chiusa la bocca, tutto filerà liscio. Ma poi arriva un altro conato caldo, un altro gorgoglio, e al contrario del previsto non riesce a trattenerlo in bocca: zampilla fuori, sulla sua maglietta e per terra, dopo che si è allontanata dal tavolo di appena tre passi. Rasia si precipita da lei mentre Oleg getta sul tavolo il tovagliolo e spinge indietro la sedia. Quando Rasia cinge Lena con il suo braccione molliccio, le si ammorbidisce la schiena; poi accompagna in bagno la bambina tremante. Oleg prende il suo bicchierone e va a sedersi sul divano del salotto a guardare delle soap russe al maxi schermo della tivù. Quando avrà finito il bicchiere comincerà a russare e russerà sul divano finché sarà ora di russare in camera da letto. Vaclav solleva i piedi sulla sedia per allontanarli dal vomito e guarda per terra. Il vomito di Lena non è come il suo. Il suo, dietro le altalene della scuola, quando ha mangiato troppo ed è andato troppo in altalena, è consistente e ha spesso il colore del boršč. Il vomito di Lena sembra invece spuma di mare sulla spiaggia di Coney Island, è schiumoso, rancido e non così giallo come la pipì. Vaclav si alza dalla sedia, stando attento a non mettere i piedi nell'incantevole vomito della sua incantevole assistente, e prende uno strofinaccio con cui pulire l'eccessivamente piccola sporcizia di Lena. Nel bagno, Rasia le tampona il viso con una spugna umida. Lena ha davvero gli occhi così enormi e scuri, si chiede Rasia, o è solo un'impressione perché ha la pelle tanto chiara e la faccina tanto minuta e delicata? Lena è seduta sul coperchio del water, con la maglietta sporca di vomito appallottolata in mano. Rasia, pulendole la faccia spaventata, decide di lavare e asciugare la maglietta e tacere l'episodio alla zia. Chissà, pensa, se qualcuno ha mai parlato a Lena delle cose femminili di cui lei parlerebbe a una figlia, se ce l'avesse. Chissà se un giorno Lena dovrà chiedere alla zia un reggiseno da adolescente per aiutare il seno a fare quel che deve o invece metterà da parte i soldi della paglietta e andrà al grande
magazzino da sola. Si chiede se Lena sente la mancanza di una madre e poi si rende conto della sciocchezza. E naturale che la senta. E difficile collocare Lena mentalmente; è difficile sapere cosa fare di tanta compassione. Rasia dice a Lena di aspettare in bagno mentre va a prenderle una maglietta pulita. Lena è seduta sul water, a torso nudo, con le braccia incrociate contro il torace, a fissare le piastrelle. È difficile Quando Rasia accompagna Lena a casa, si accorge che lei le stringe la mano più forte del solito. Forse è solo un'impressione. Le sembra anche che Lena sia più magra del solito, ma con i bambini è difficile capirlo. Quando apre la porta per farla entrare, e accende la luce e si guarda attorno, vede che tutto è esattamente com'era la sera prima. Riesce solo a pensare che la zia non è stata a casa, non è stata lì a pulire né ad aggiungere sporco allo sporco. Lena è stata lasciata sola. Nella mente di Rasia non c'è dubbio che quello non sia un posto adatto per una bambina. Ne è certa, e questo, be', questo è difficile capirlo. Vaclav fa ottime riflessioni nel bagnoschiuma Vaclav si alza di buon'ora, senza l'aiuto della sveglia. Stamattina ha il fermissimo, granitico proposito di vincere la campagna per il permesso di esibirsi in uno spettacolo di magia sul lungomare di Coney Island. Ancora in pigiama, si siede alla scrivania della sua camera, tira fuori il dizionario dei sinonimi e comincia a stilare un elenco. PROVE PER GENITORI DELL'AFFIDABILITÀ DI VACLAV PER OTTENERE PERMESSO DI ORGANIZZARE SPETTACOLO DI MAGIA SUL LUNGOMARE DI CONEY ISLAND: 1. Pulizia camera 2. Faccende domestiche 3. Apparecchiatura tavola 4. Compiti finiti 5. Risultati a scuola 6. Risultati nelle attività extrascolastiche 7. Dedizione alla professione di mago
Ripone la matita nel portamatite, per il momento soddisfatto dell'elenco. Poi va con passo felpato in bagno a lavarsi i denti, stando attento a non svegliare il padre e la madre, che russano. Fa correre l'acqua per il bagno, un bagno con il bagnoschiuma, perché è nel bagnoschiuma che fa ottime riflessioni sulla magia. Si corica, immergendosi fino alle orecchie, e ascolta nell'acqua i rumori del proprio corpo, i rumori della casa. La pulsazione del cuore è uguale al battito che arriva dall'asciugabiancheria della signora Ruvinova del piano di sopra quando c'è dentro qualcosa di troppo pesante e duro. Il gorgoglio della pancia è uguale al gorgoglio delle tubature nel muro. Vaclav chiude gli occhi e il boato nelle sue orecchie è il boato di una folla entusiasta. Ora è grande e grosso, un uomo. Indossa un frac che brilla di nero e blu sotto le luci della ribalta. Alle sue spalle si alza un sipario scoprendo Lena, anche lei nel suo futuro corpo di adulta, legata a una ruota girevole per il numero del lancio dei coltelli. Il pubblico trattiene il fiato. Vaclav fa comparire dal nulla una manciata di coltelli affilati. Li apre a ventaglio come carte da gioco e li mostra agli spettatori per accrescere in loro l'ansia. Per provare che si tratta di coltelli veri, affilati, pratica uno squarcio nel sipario alle sue spalle. Per indurre il pubblico a immaginare l'orrore di vedere quella lama trafiggere la bella pelle di Lena, lancia in aria un pomodoro e lo taglia in due. Lena, che gira sulla ruota, ha l'aria spaventata, ma in realtà non lo è. In realtà si fida di Vaclav, si fida della precisione, della perfezione del numero, dal momento che lo hanno messo a punto esercitandosi insieme per tanti anni. Tuttavia, Lena è completamente, assolutamente ricettiva nei confronti della minima vibrazione muscolare di Vaclav, di ogni suo batter di ciglia. Qualsiasi segnale, anche invisibile, lui invii alla sua mente, lei lo recepisce come una radio capta le mute canzoni nell'aria. Qualcuno bussa forte alla porta del bagno. Spesso, la mattina, a Oleg scappa improvvisamente la pipì, perché i bicchieroni di vodka non se ne stanno volentieri nel serbatoio di un cinquantenne. Vaclav ripete sempre a suo padre che si dice vescica e suo padre gli risponde sempre che non ha fatto tanta strada dalla Russia per imparare a dire piscia e merda in un'altra lingua. Lui è arrivato dalla Russia, ripete sempre a Vaclav,
perché Vaclav impari tutto sul mercato azionario, sui dollari, sull'imprenditoria americana e compri un giorno a suo papà una vasca idromassaggio piena di cameriere americane di Hooters. Vaclav esce dalla vasca e posa sul tappetino un piede gocciolante, con una mano gocciolante gira la chiave della porta e con l'altra, sempre gocciolante, si copre quel che c'è da coprire, così suo papà non lo prenderà in giro. Non appena gira la chiave, Oleg piomba dentro, senza dare il tempo a Vaclav, tutto viscido, di tornare a nascondersi nell'acqua e nelle bolle. Vede suo figlio tenersi con la mano quel che non dovrebbe tenersi con la mano ed emette una risata fragorosa. Vaclav si rituffa nella vasca e si immerge mentre Oleg, gemendo di sollievo, fa pipì. E mette la testa sott'acqua per sfuggire all'odore giallo che c'è nel vapore, che è dappertutto. Oleg finisce di fare pipì e mette via tutto nei pantaloni del pigiama. Poi guarda la vasca, guarda suo figlio sott'acqua, con gli occhi strizzati. Fa un versaccio ed esce dal bagno, ma non chiude la porta. Non è facile per Vaclav tornare alla sua visione del futuro, ma la trattiene nella mente, in un angolino della mente, perché il sogno non si allontani troppo. Si asciuga e si avvolge in un grande telo da bagno, poi percorre il corridoio con passo felpato, lentamente, all'erta, con le orecchie tese. Suo padre si è già riaddormentato: sente i genitori russare insieme in camera da letto. Bene. Avrà il tempo di buttare giù le basi del piano. Meticolosamente si pettina, infila la maglietta nei pantaloni, si veste per la scuola in un modo che a sua madre piacerà. Va in punta di piedi in cucina e, senza accendere le luci, apparecchia silenziosamente la tavola. Addirittura riempie il bollitore, lo mette sul fornello e accende il fuoco, con prudenza. Siccome sua madre gli ha insegnato che può capitare di girare la manopola del fornello e lasciare uscire il gas senza che la fiamma lo consumi e che così la casa esploderebbe come Černobyl', si assicura che il sibilo del gas sia accompagnato dallo snap-snap-snap che fa il fuoco per scaldare l'acqua del tè. Vaclav affetta perfino il pane e lo mette a tostare, poi dispone ordinatamente le fette tostate sui piatti e mette in tavola la marmellata preferita di sua madre per la colazione. Poi si siede e aspetta.
Sente squillare la sveglia nella camera dei genitori, poi i rumori di sua madre che si sposta qua e là nel bagno e infine la tosse mattutina di suo padre: capisce così che non dovrà aspettare molto. Quando entra in cucina, Rasia abbraccia ogni cosa con lo sguardo. Vaclav la vede catalogare tutto quello che c'è nella stanza e la vede cominciare a sorridere. Ma fin dall'inizio è un sorriso sbagliato. Non è un sorriso allegro, è un sorriso nervoso, un sorriso che le attraversa la faccia piatto, invece di curvarsi all'insù. «Vaclav, dobbiamo parlare di cosa succede in bagno » dice sua madre. Vaclav capisce di aver sbagliato sicuramente qualcosa, anche se non sa cosa. Di colpo è imbarazzato e inquieto, perché Rasia lo guarda fìsso, agitata, e non è buon segno. «Adesso ho capito perché fai bagno a quell'ora» gli dice, cercando di usare toni lievi e gentili. Vuole fare con suo figlio un discorso franco e ricco di comprensione, perché tutti dicono che, con i bambini, bisogna parlare di queste cose senza segreti e senza vergogna. Vuole che lui la senta vicina e libera da preconcetti ma schietta. Come Oprah. «Vai lì di notte per non fare sapere a nessuno? E questo che succede ogni notte?» Rasia si rende conto di non avere il tono di Oprah. Ora Vaclav ha capito a cosa si riferisce e sa che non stava facendo quella cosa lì, nella vasca. Ora ha capito che, quando suo padre è entrato in bagno e lui si è coperto il mekki con la mano perché lo imbarazzava che suo padre lo vedesse, suo padre ha pensato che si stesse masturbando nella vasca. Vaclav queste cose le sa perché ne ha parlato con i compagni di scuola che le hanno imparate dai fratelli più grandi o dai canali televisivi che vedono a casa. Rasia tira un respiro profondo e ci riprova. « Dove hai imparato questa cosa? » Le intenzioni sono ancora buone, ma a uscirle di bocca sono solo parole sbagliate: sembra un comandante del KGB, più che una disinvolta madre americana. Non vuole che Vaclav, da grande, diventi come lei, una convinta che basti toccarsi o anche appena grattarsi perché il buhgughie marcisca, cada a terra e avvizzisca come una patata vecchia. Vaclav sa che, qualsiasi cosa dirà, lei non gli crederà e che, se lui controbatterà, lei rincarerà la dose, gli farà altre domande e lui morirà di imbarazzo. Se negherà, lei lo crederà un bugiardo, oltre a uno che si masturba
nella vasca da bagno di notte. Vaclav sa che la cosa migliore da fare è starsene fermo e zitto. « Vaclav, possiamo parlare di questo; puoi dirmi. » « Okay » risponde Vaclav e, prendendo su lo zainetto, si precipita alla porta senza nemmeno sollevare l'argomento del permesso di fare lo spettacolo sul lungomare di Coney Island. « Buona giornata! » gli grida lei, grata della sua fuga.
Americani famosi Soltanto dopo che Vaclav è uscito di casa Rasia si accorge che le ha preparato il pane tostato, ha apparecchiato tanto bene, le ha messo in tavola la sua marmellata preferita e ha perfino fatto scaldare l'acqua per il tè. Spegne il fornello e si siede al tavolo. Sulle prime le viene il panico perché pensa che l'elenco sia un compito dimenticato da Vaclav e sta quasi per correre alla porta per darglielo, ma poi vede le parole genitori e spettacolo di magia. Legge l'elenco, tutte le ragioni per cui dovrebbe lasciargli fare uno spettacolo di magia. Vorrebbe che la lasciasse perdere, la magia, sempre la magia. Ma capisce. Aspettarono un pezzo, prima di venire in America. E per un pezzo lei aspettò di far nascere Vaclav, perché la situazione era terribile, e poi ci fu la glasnost', e proprio quando Rasia pensava che le cose stessero migliorando, invece peggiorarono e tutto si sfasciò. Incinta di Vaclav di otto mesi, andò a fare la fila per mettersi sulla lista d'attesa di chi voleva emigrare in America. Oleg aveva un buon posto di lavoro, faceva l'architetto, e non voleva partire, ma disse che, se lei era disposta ad aspettare in fila per iscriverli, a lui stava bene. A quei tempi Rasia non lo aveva capito, perché era ancora giovane e innamorata, ma lui era lo stesso di adesso, con il tuchas perennemente incollato sulla sedia, per scomoda che fosse. Le dissero che l'America poteva accogliere un numero limitato di ebrei russi, che ci sarebbero voluti forse degli anni. Le dissero che già la settimana dopo avrebbero potuto metterla su un aereo diretto in un altro paese. Lei li ringraziò e rispose che avrebbe aspettato. Nacque Vaclav, e Oleg perse il lavoro, come tutti, e come lei aveva previsto. Oleg era ormai un neopadre
senza i soldi per i pannolini del figlio e se ne stava fuori tutto il giorno a lamentarsi con gli altri uomini. Quando tornava a casa puzzava di vodka, ma Rasia pensava che se fosse riuscita a portarlo via di lì, se fossero riusciti ad arrivare in America, tutto si sarebbe aggiustato e lui sarebbe tornato dolce come prima e avrebbe ripreso a scherzare. L'economia peggiorava e Vaclav cresceva, e loro continuavano ad aspettare. Intanto lei comprò libri e cassette per imparare l'inglese e insegnarlo a Vaclav. Non voleva che l'idea di lasciare il suo paese lo spaventasse quanto spaventava lei, voleva che si esercitasse a essere americano. Spese una piccola fortuna per comprare dei libri in inglese per bambini sul mercato nero, libri che parlavano di americani famosi, Abramo Lincoln, Rosa Parks, George Washington Carver e Molly Pitcher, ma il preferito di Vaclav, quello che le chiedeva sempre di leggergli, tutte le sere, era il libro su Harry Houdini. A Vaclav piacevano soprattutto i punti in cui si raccontava dell'arrivo di Houdini in America, all'età di quattro anni, la stessa età di Vaclav, e di quando era diventato un illusionista famoso, di quando aveva strabiliato il presidente Theodore Roosevelt con la sua magia e si era esibito alla Fiera internazionale, della sua capacità di liberarsi di pesanti catene, di saltare giù dai ponti ammanettato. Gli piacevano i punti in cui Houdini si impegnava tanto per riuscire nei suoi numeri, quelli in cui si esercitava senza mai arrendersi. Rasia pensava che probabilmente quell'Houdini aveva portato la madre alla tomba prima del tempo, con tutte le preoccupazioni che le aveva dato sfidando la morte e sottoponendosi alla tortura cinese dell'acqua, e che Vaclav non avrebbe dovuto interessarsi tanto a uno come lui. Ma Vaclav voleva sentire la storia di un ragazzino che, arrivato in America, diventava un uomo coraggioso, un grande mago, e questo lei lo capiva. Tutte le sere leggeva a Vaclav il libro su Houdini, finché lui lo imparò a memoria. Quando finalmente arrivarono i documenti e Rasia disse a Vaclav che si sarebbero trasferiti in America, lui sapeva già tutto del posto in cui sarebbero andati a vivere: Brooklyn, la casa a Coney Island, dove Harry Houdini si era esibito per la prima volta. Fu solo una coincidenza - Rasia conosceva una persona a Brighton Beach in grado di offrirle un buon posto di contabile e di aiutarli a trovare una casa - ma per Vaclav fu un segno del destino.
Per Oleg, in America le cose peggiorarono. Là, la sua abilitazione all'esercizio della professione di architetto non valeva nulla, così sarebbe dovuto tornare a studiare e sostenere degli esami per dimostrare di sapere quel che già sapeva. Le disse che avrebbe fatto il tassista finché avesse raggranellato i soldi per studiare, ma poi i soldi finirono tutti nell'antenna satellitare che montarono sul tetto per vedere i canali russi e nella vodka che beveva guardandoli. Uscire di casa era un supplizio; era un supplizio sentire i commessi trattarlo da imbecille perché non sapeva come si diceva sturalavandini o ovatta. Rasia ripensava all'Oleg di cui si era innamorata, un uomo affascinante, un uomo famoso, nel suo piccolo, uno che faceva il galante con le vecchie signore, uno che distribuiva sempre giocattoli e gomme da masticare ai bambini, uno che cantava canzoni per farla ridere. Adesso sapeva che probabilmente quell'Oleg non lo avrebbe riavuto mai più. Lena e in vena di ridere Vaclav conta i passi camminando per Avenue U, dalla Tredicesima Strada, alla Dodicesima, all'Undicesima, fino alla Settima, dove svolta e vede Lena seduta sul bordo della sua veranda, a dondolare le lunghe gambe magre. Lo emoziona sempre vederla, ma oggi è particolarmente emozionato perché ha un grande piano di cui parlarle. Vaclav sorride e agita la mano e, proprio quando è davanti a lei, quasi inciampa, ma non cade. Lena si trattiene, ma poi scoppia a ridergli in faccia, una risata fragorosa. Vaclav è contento che Lena sia in vena di ridere, perché significa che gli sarà più facile convincerla dei nuovi, grandi progetti. « Hai ottenuto il permesso? » gli chiede Lena, saltando giù dalla veranda. « Ottimo inglese, Lena! » dice Vaclav. A questo complimento, Lena alza gli occhi al cielo, poi gli mette in mano una pila di libri e insieme si incamminano verso la Scuola pubblica 238. « Okay, okay. Uffa, che pubblico diffìcile. Ottenere il permesso non è il modo migliore. Per questa cosa non si ottiene il permesso. Questa cosa è parte del destino. Non serve il permesso. » « Non hai ottenuto » borbotta Lena. « Potrei ottenerlo, volendo, ma non è questo il modo. Questa è una prova, l'universo che ci mette alla prova, e noi dobbiamo affrontarla e superare questa avversità. Dovremmo ringraziare il cielo, di questa avversità, di avere
l'occasione di forgiare le nostre forze, come Houdini, che non si è mai arreso e nei suoi numeri di escapologia continuava ad aggiungere catene e lucchetti. » Lena alza di nuovo gli occhi al cielo, perché Vaclav parla in continuazione di Houdini, delle avversità e del destino. « Facciamo da soli. Meno problemi. Meglio così, va bene? » Vaclav si ferma e implora Lena con gli occhi. Lena si pianta le mani sugli esilissimi fianchi. «No. Tua madre deve dare permesso.» « Lena! » « Io non faccio senza permesso. Sono guai » dice Lena, e si allontana da Vaclav battendo i piedi. « Lena, non saranno guai, nessun guaio » la implora Vaclav. « Faremo i nostri piani per conto nostro. Nessuno lo saprà. Daremo uno spettacolo segreto, a Coney Island, con numeri segreti, e programmeremo tutto in segreto. Nessun guaio. Nessuno. » A Lena piace avere dei segreti, Vaclav lo sa. Rallenta il passo e inclina appena la testa. La luce del sole risplende attorno alla lanugine nera sfuggita dalla treccia alla francese. « Lena, ovviamente, visto che come tieni tu i segreti non li tiene nessuno, soprintenderai alla programmazione segreta dello spettacolo segreto. Sarai il capo. » Vaclav sa che a Lena farà piacere, che la chiave è questa. E sa anche che il capo del piano segreto sarà lui. « No. » « Cosa? » « Tu pensi che sei ancora capo. No, è bugia, non farò. » Vaclav allunga il passo, riflettendo sulla peggiore delle ipotesi. Questo è un elenco che non ha messo sulla carta ma soltanto composto mentalmente. PEGGIORE DELLE IPOTESI: 1. Permesso di fare spettacolo su lungomare non ottenuto E 2. Lena non vuole fare spettacolo senza permesso genitori Vaclav prende in considerazione la possibilità di esibirsi senza Lena, ma senza Lena lo spettacolo non funziona proprio, anche se the show must go on. Non c'è spettacolo, senza Lena. Lena è necessaria per tutti i numeri; sono riusciti a fare tante cose insieme. Lena è insostituibile. E anche se fosse
sostituibile, nessuna compagna di scuola la sostituirebbe; a lui le ragazze non rivolgono nemmeno la parola, nemmeno lo guardano, nel corridoio. « Piano non va bene, Vaclav... » dice Lena, cercando di essere gentile, ma di fatto interrompendo le riflessioni di Vaclav. «Adesso non pensarci. Ne parliamo dopo. Basta parlare » replica Vaclav. Lena emette un brontolio in fondo alla gola e tutti e due riprendono a camminare nella Settima Strada, verso Avenue P, verso la scuola. Come stanno le cose a scuola La Scuola pubblica 238 è stata costruita molto tempo fa, con grandi mattoni e porte e finestre enormi. Nella facciata principale c'è una porta grandissima, dalla quale possono entrare genitori, insegnanti e ospiti vari. Gli studenti, compresi Vaclav e Lena, devono utilizzare le porte secondarie. Tutte le mattine, gli studenti giocano nel cortile laterale, che è una semplice spianata di cemento con sopra un mucchio di righe, tirate in vari punti, per il gioco della campana, la pallacanestro, le bilie. I bambini giocano anche a carte, seduti sull'asfalto caldo. Quando suona la campanella, i maschi si mettono in fila davanti alla porta dei maschi e le femmine si mettono in fila davanti alla porta delle femmine. La porta dei maschi è sulla destra e sopra c'è una targa di pietra che dice MASCHI. La porta delle femmine è sulla sinistra e sopra c'è una targa di pietra che dice FEMMINE. Da anni, ormai, gli ingressi separati non sono più utilizzati ufficialmente, ma i maschi non entrerebbero mai dalla porta FEMMINE, né le femmine entrerebbero mai dalla porta MASCHI, anche se, ridacchiando, si sfidano a farlo. Stamattina, al loro arrivo, Lena e Vaclav si sono persi i giochi in cortile perché durante il tragitto si sono attardati a parlare dello spettacolo di magia. Vaclav si mette in coda dietro i maschi e Lena si mette in coda dietro le femmine. In fila indiana, i bambini e le bambine entrano nell'edificio. Vaclav e Lena si guardano i piedi. Lena non ha una compagna con cui parlare e Vaclav non ha un compagno con cui parlare. Dentro, tutti e due salgono due rampe di scale per arrivare al secondo piano. Vaclav va nell'aula del signor Hunter e Lena in quella della signora Walldinger. SÌ rivedranno soltanto a fine giornata, quando entrambi scenderanno le due rampe di scale per andare alla lezione di inglese per
stranieri al pianterreno, insieme a tutti gli altri bambini che mangiano roba puzzolente. Nell'aula del signor Hunter, Vaclav è l'unico mangiatore di puzza del suo tavolo verde. L'altro bambino è Ulysses e le due femmine sono Nachalie e Genesis. A ciascun tavolo ci sono due maschi e due femmine; a nessun tavolo c'è più di un mangiatore di puzza. Sul tavolo c'è un compito da fare, una fotocopia con su scritto « Da fare SUBITO ». Su ciascun tavolo ci sono sempre quattro compiti « Da fare SUBITO » e i bambini devono mettersi al lavoro appena entrati in classe. Vaclav pensa che probabilmente quello è il momento migliore della giornata, per il signor Hunter. E il momento in cui il signor Hunter se ne sta sulla porta dell'aula, un piede dentro e uno in corridoio, a vedere se qualcuno è rimasto fuori, anche se tutti gli alunni sono già seduti in classe. Alla porta accanto, anche la signora Troani è sulla soglia, una gamba di qua e una di là, e i due si parlano come quelli della tivù, con battute, gesti, ammiccamenti, risate. Vaclav cerca di concentrarsi, facendo di tutto per non pensare a Lena o al permesso che non ha ottenuto, e legge il compito da fare SUBITO. C'è un branetto sugli incendi. Poi ci sono delle domande sulla sicurezza antincendio. Poi si chiede ai bambini di discutere con il loro gruppo su che cosa metterebbero in salvo, a casa loro, se scoppiasse un incendio. Vaclav sa che cosa si porterebbe via, e questo non lo aiuta affatto a distoglierlo dal suo problema con Lena. « Ehi, V! Tu cosa porteresti via? » I compagni di classe di Vaclav non pronunciano il suo nome per intero, ma solo la prima lettera. Vi. Vaclav non capisce bene se lo fanno per amicizia, per confidenza, oppure se è una cosa brutta che fanno per cattiveria. Non gli sembra bruttissima, ammesso che sia brutta. Decide di dare una risposta falsa, perché lo imbarazza dire che cosa salverebbe davvero da un incendio. La cosa che davvero salverebbe in caso di incendio è Lena. « La serie di video di David Copperfield, salverei. È chiaro. » Gli sembra una risposta priva di rischi, perché tutti gli altri bambini parlano di video. Capisce immediatamente di aver ragione, perché tutti sorridono. « O il mio libro preferito, Harry Houdini: un americano famoso. » « Credevo che dicesse qualcosa, non so, di polacco » commenta Genesis.
« La mia famiglia non viene dalla Polonia. La mia famiglia viene dalla Russia » dice Vaclav. « Forse ti confondi perché ho un nome polacco, perché mi hanno dato il nome del mio bisnonno, che era polacco e si chiamava Vaclav. Ma sono russo. » « Scusami. Russo, polacco. E lo stesso, no? » dice Genesis. « No... » comincia a dire Vaclav, ma poi la voce gli si spegne, perché Nachalie lo sta già interrompendo per prendere le sue difese. « Genesis, è come quella volta che quel bambino ti ha detto che eri messicana e ti sei messa a piangere perché solo tuo papà è messicano, ma tu sei dominicana come tua mamma, no? E poi, tipo, siamo tutti americani, no? » dice Nachalie. « Chi è David Copperfield? » chiede Ulysses. « David Copperfield è il più strabiliante illusionista americano vivente dai tempi di Harry Houdini» risponde Vaclav, tutto orgoglioso. « Secondo me David Blaine è più forte. David Copperfield non è uno vecchio? David Blaine si è congelato nel ghiaccio. E pazzesco. Anch'io lo saprei fare, volendo, soltanto che non vorrei mai » dice Ulysses. « E questo che vorresti fare? Congelarti nel ghiaccio? Mia mamma dice che è uno schifo. Tipo che vuole solo fare scena, cose così » dice Nachalie. « No, io pratico la magia e l'arte dell'illusionismo. » Vaclav guarda i compagni di banco, li scruta intensamente spiegando l'arte della magia, l'arte dell'illusionismo, e si anima e si invigorisce, e decide di fare una cosa che non ha mai fatto: di fronte a quei bambini, i suoi primi possibili fan, decide di rischiare. « Questo » dice Vaclav, aprendo la cerniera dello zainetto « è il video del famoso spettacolo di illusionismo e magia di David Copperfield. » Con un gesto teatrale mette il video al centro del tavolo. Ce l'ha con sé perché è una novità che non si è ancora consumata; Vaclav continua a entusiasmarsi alla vista di quel video nello zainetto, anche se ce l'ha da mesi. Certe volte, durante la lezione, gli piace infilare la mano nello zainetto e tastare la custodia di plastica. Nachalie ride. Genesis ride, ma senza sapere perché. Ulysses prende in mano la custodia, la apre e tira fuori il disco. « Ma è un video pirata! » Ride.
Vaclav gli strappa di mano il disco e cerca di afferrare la custodia, ma Ulysses allontana la mano. Ulysses gli lancia uno sguardo come per dire: Ehi, un po' di pazienza! Come se Vaclav non avesse ragione di essere almeno un filino arrabbiato, come invece è. Tenendo la custodia lontano da Vaclav, Ulysses la apre e la mostra alle bambine. Indica l'etichetta. « Guardate, questa etichetta è scritta a mano! Non ce n'è, è proprio un DVD pirata. » E restituisce la custodia a Vaclav. « Cos'è questo pirata? » chiede Vaclav. « Ma sì, come quando in metropolitana vai alla linea B e vedi quel tipo con una coperta per terra e, sopra, tutti quei DVD... » « Guattro a cingue dollari! » dice Genesis, imitando il richiamo dell'uomo, l'uomo della metropolitana, il venditore di video. Sì, pensa Vaclav, quell'uomo lì l'ha visto, in metropolitana, andando a Coney Island. Come con tutti gli adulti che incrocia in metropolitana o in autobus, anche con lui si comporta secondo le istruzioni di sua madre: puntare gli occhi a terra e tirare dritto per la propria strada, senza mai fissare nessuno e rimanendo sempre lucido, mai, mai perdere la lucidità. « Questo qui arriva da quel tizio, o da un altro come lui » dice Ulysses. Il signor Hunter dà un colpetto di tosse; la lezione comincia. Ulysses abbassa la voce e dice in un sussurro: « Copiano quello originale e poi lo vendono a pochissimo, tipo per strada, in giro ». « Ma me lo ha comprato mio padre... » dice Vaclav. « Sì » replica Ulysses, « te lo ha comprato dal venditore pirata.» Vaclav si ripromette di fare un bel po' di ricerche per andare a fondo, andare a fondo di questa questione del DVD pirata, visto che non si fida di Ulysses, e di scoprire perché si possa abusare così del grande mago David Copperfield. Ma nel frattempo, Vaclav deve arrivare a fine giornata. Deve cercare di zittire i pensieri su Lena e sul suo grande no, i pensieri su sua madre e su quel terribile discorso che gli ha fatto e soprattutto i pensieri su suo padre, che fa la spia contro suo figlio invece di parlare delle cose o di essere paterno e condividere i segreti dei grandi come fanno i padri americani alla tivù. Ma la cosa più difficile è smettere di pensare al fatto che il video avuto in regalo da suo padre possa non essere un video originale e possa addirittura essere stato praticamente rubato al signor David Copperfield, cosa, questa,
che un mago non può fare e che inquieta molto Vaclav, perché lui dovrà girare il mondo per guadagnarsi ogni cosa, per guadagnarsi un giorno la fiducia e la stima della nazione e dei numerosi fan; e poi questo video, che probabilmente è una cosa terribile, finora era la cosa migliore che suo padre avesse mai fatto per lui in tutta la sua vita, oltre ad avergli dato l'opportunità di venire al mondo come essere umano e di esistere, anche se, di questo, Vaclav non si sente in dovere di essere particolarmente grato, perché che altro avrebbe potuto fare? Mangiatori di puzza Vaclav è emozionato all'idea di vedere Lena all'ora di inglese per stranieri, di dirle del DVD pirata, perché lei lo farà sentire meglio, o dicendogli qualcosa di intelligente sul DVD o semplicemente ascoltandolo. È questo l'effetto che ha Lena su Vaclav: basta la sua presenza per migliorare le cose. E Vaclav ha la speranza di avere lo stesso effetto su di lei. Sulla porta dell'aula di inglese per stranieri c'è un cartello che dice BENVENUTI in molte lingue diverse, comprese certe, come il russo, il giapponese, il cinese, il coreano, l'arabo, che usano i loro particolarissimi caratteri. Quando Vaclav entra nell'aula, vede scritto alla lavagna: Benvenuti! Prendete il compito e confrontate le vostre risposte con quelle di un compagno. Di colpo a Vaclav viene in mente una cosa bruttissima. Non ha finito il compito. Non è da lui: lui li finisce sempre, i compiti. E una mezza verità, o una bugia, dire che Vaclav non ha finito il compito. La verità completa è che Vaclav non lo ha nemmeno cominciato, il compito di inglese per stranieri, e quindi non l'ha finito. La verità è che Vaclav si è completamente dimenticato del compito di inglese per stranieri. Quando sua madre gli ha chiesto se i compiti erano tutti finiti, lui ha falsificato un tantino la realtà e ha risposto di sì, anche se doveva ancora fare una cosa: il compito di inglese per stranieri. Si era ripromesso di farlo dopo, ma poi sono successe tante cose e gli è sfuggito di mente. Adesso, l'orribile pensiero di aver dimenticato di fare il compito si mescola all'orribile pensiero del video pirata e all'orribile pensiero del no di Lena e all'orribile pensiero del terribile discorso che gli ha fatto sua madre, e questi pensieri, tutti mescolati, gli stanno spingendo le lacrime fuori dagli occhi. « Su, prendete posto » dice la signora Bisbano.
Questa frase, che la signora Bisbano usa spesso, è una frase che confonde Vaclav, perché lui sa che cosa vuol dire: vuol dire che gli studenti devono sedersi al loro posto, non che gli studenti devono prendere un posto, perché, fra l'altro, dove dovrebbero portarlo? Adesso Vaclav non ha il tempo di dire a Lena del video pirata. E poi vorrebbe dire alla signora Bisbano, sottovoce, in privato, di essersi dimenticato, per la prima volta in un anno intero, di fare il compito e vorrebbe anche dirle che glielo porterà domani, ma ormai è troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Lena entra in classe con Marina e Kristina, le uniche bambine ammirate da tutti nella classe di inglese per stranieri. Hanno i capelli biondi raccolti in modo identico in una coda su un lato della testa come se dovesse ribaltarle. Marina e Kristina stanno parlando con Lena e Lena sta sorridendo. Vaclav la saluta con la mano perché lei lo veda e si avvicini: vorrebbe tanto parlarle del DVD pirata prima che cominci la lezione. Vorrebbe anche che si sedesse accanto a lui, oppure davanti, o dietro, come fa di solito. Lena guarda Vaclav di sfuggita, ma è come se il segnale che lui le ha lanciato fosse troppo debole e il richiamo di Marina e Kristina più forte, perché Lena le segue e poi si siede accanto a loro. Vaclav sta ancora guardando Lena sedersi dall'altra parte dell'aula, lontanissimo, quando la signora Bisbano gli si avvicina da dietro. «Vaclav, dov'è il tuo compito?» Lo dice in tono neutro, come se non fosse la cosa più spaventosa da dire, la più spaventosa del mondo. « Mmmmm... » dice Vaclav, anche se non è propriamente una cosa che si dice, ma piuttosto un verso che si fa. « Dov'è il tuo compito, Vaclav? » Vaclav fa per scusarsi con la signora Bisbano, fa per dirle che si rimetterà in pari al più presto, che per rimettersi in pari salterà l'intervallo del pranzo, ma quando cerca di aprire la bocca per dire queste parole, gli esce solo pianto. La signora Bisbano si china verso di lui e dice: « Calmati. Va' in bagno a soffiarti il naso; possiamo parlarne quando la lezione è finita ». Vaclav vorrebbe dire che sì, adesso è calmo, ma è interrotto da altro pianto che cerca di venirgli su per la gola. Dà un'occhiata a Lena, ma lei sta guardando da un'altra parte. Tutti lo guardano. Lena guarda da un'altra parte.
Eschimologia Quando Vaclav è tornato in aula dopo essere stato in bagno, la signora Bisbano gli ha detto che, se avesse portato il compito l'indomani, poteva considerarsi giustificato, dal momento che non aveva mai saltato un compito, e Vaclav si è sentito subito molto meglio. Con Lena non è riuscito a parlare perché non era nel suo gruppo di lavoro e anche perché, dopo la lezione, è uscita subito con Marina e Kristina, prima ancora che Vaclav potesse mettere via matite e gomme. Il resto della giornata procede con grande lentezza e, anche se Vaclav cerca di seguire la lezione, lo sguardo continua a posarsi sull'orologio alla parete. Quando finalmente è ora di andare a casa, Vaclav aspetta Lena fuori. Si piazza in un punto dal quale possa vedere gli alunni uscire da entrambe le porte e loro possano vedere lui. Sa che da lì vedrà Lena, quando uscirà. Vaclav la aspetta sempre davanti a casa la mattina e fuori da scuola di pomeriggio, e lo fa per essere sicuro di andare e tornare da scuola con lei tutti i giorni. Adesso, per un attimo, gli viene un dubbio: Lena lo aspetterebbe, se lui non l'aspettasse? Ma sa che è un dubbio stupido: è chiaro che lo aspetterebbe. Vaclav se ne sta lì, ad aspettare, e pensa al cortile. D'inverno, quando fuori fa molto freddo e dappertutto c'è neve sporca, mista a sassi e mista alla terra ghiacciata che c'è sotto, gli viene sempre in mente la prima cosa che fa sua madre quando prepara un dolce, quando mescola zucchero, vaniglia, zucchero di canna, un po' di burro e un uovo. Così la neve sporca sembra una cosa buona e meravigliosa e gli dà un po' di calore, anche se fa freddo. Vaclav pensa che certe volte, anche quando fuori fa freddo, puoi sentirti al caldo perché ci sono persone o pensieri capaci di scaldarti come il fuoco, o capaci di farti sentire un eschimese, uno che non si lascia intimorire dal freddo estremo nemmeno quando lo sente, il freddo estremo. Altre volte puoi avere la sensazione che, per una ragione o per l'altra, tutte, ma proprio tutte, le cose del mondo siano fredde e che siano fredde soltanto per te, mentre vedi che tutti gli altri hanno un fuoco al quale scaldarsi, e hai la sensazione che il freddo, per te, non finirà mai. Certe volte hai un freddo così anche d'estate. Adesso invece è autunno e c'è una brezza gelida, ma Vaclav sta aspettando Lena e sente il sole in faccia, e non ha freddo.
Ma poi aspetta, aspetta, aspetta e il freddo aumenta, soprattutto quando guarda gli altri bambini uscire da scuola e alcuni sono fratello e sorella che si amano e si odiano e altri sono amici che ridacchiano fra loro e altri ancora sono amici che corrono fuori a giocare a palla sull'asfalto e altri ancora sono bambini guatemaltechi con le mamme che gli stanno già comprando dalla signora all'angolo dei caldi churros avvolti in zucchero croccante. Poi, all'improvviso, ecco Lena con quattro bambine della sua classe. Guarda dritto verso Vaclav, dritto negli occhi, poi una compagna dice qualcosa e lei apre la bocca e ride fragorosamente, dopodiché tutte e cinque si girano e si incamminano verso la strada come se Vaclav non fosse nemmeno lì, ad aspettare nel punto più centrale, dove lui può vedere tutti e tutti possono vedere lui. Vaclav, guardando soltanto il marciapiede sotto di sé, segue Lena e le sue nuove amiche da Avenue P a Avenue U fino alla Settima Strada. Quando arriva alla casa della zia di Lena, vede Lena staccarsi dal gruppo, gettare indietro i capelli, fare di corsa i gradini fino alla porta d'ingresso e sbatterla alle sue spalle senza nemmeno girarsi a guardare Vaclav, che è lì solo, al freddo. Kebab famiglia felice Vaclav lascia cadere lo zainetto sul marciapiede e apre la tasca esterna per controllare che, in mezzo a tutte le briciole, le matite e le carte di caramella, ci siano spiccioli per un dollaro, e ci sono; così, percorrendo due isolati, va al Kebab Famiglia Felice a prendersi una bibita e ideare un piano per l'immediato futuro. Il Kebab Famiglia Felice è proprio di fianco al supermercato russo in cui sua madre va ogni tanto a comprare qualcosa di buono, per poi osservare immancabilmente che è una truffa e che lei quelle cose le saprebbe fare meglio anche con una mano mozzata. Il Kebab Famiglia Felice ha una pannellatura di legno e un ampio bancone di vetro pieno di grandi vassoi di pietanze: kebab sotto uno strato di pellicola, cavoli ripieni gratinati, salsicce di agnello con la cipolla fatte in casa, di un rosa acceso perché te le friggono al momento. Vaclav apre il frigorifero delle bibite, tira fuori una Dr Pepper e la mette sul banco.
« Un dollaro tondo tondo » dice Zev, il proprietario, e Vaclav mette sul banco un dollaro tondo tondo tutto in spiccioli. Di solito gli piace chiacchierare con Zev, soprattutto quando Zev prova nuove parole inglesi con lui, ma oggi Vaclav non è in vena. Zev prende la lattina di Dr Pepper, la infila in un sacchetto di carta marrone che ha le dimensioni perfette per contenere una lattina e la consegna a Vaclav, che porta la Dr Pepper a uno sgabello accanto alla vetrina. Rimane seduto lì un bel po' a dispiacersi, pur essendo allo stesso tempo molto contento di starsene beato nella sua giacchetta a bere la Dr Pepper dalla cannuccia e a guardare fuori dalla vetrina la gente che cammina sul marciapiede, e, anche se quella bibita costa quasi la metà di un eventuale viaggio a Coney Island per andare a vedere il Sideshow, pensa che a volte uno capisce quanto è lunga la strada per diventare un mago famoso e allora bisogna pur spenderlo, l'ultimo dollaro, per comprarsi una bibita e avere qualcosa di cui esser grato quel giorno, anche se dura un momento brevissimo. Tira un respiro profondo e cerca di ricordare che, nel grande disegno universale, questi sono problemi piccolissimi. Cerca di ricordare che nell'universo ci sono cose che appartengono al destino. Certe volte un giovane mago deve ricordare che i suoi sogni sono scritti nelle stelle. Vaclav tira fuori la lattina dal sacchetto e appiattisce il sacchetto sul tavolo. Con una matita presa dallo zainetto comincia a scrivere un importante elenco sulla carta marrone. LE COSE CHE SONO: 1. Il fatto che un giorno sarò un mago famoso 2. Il fatto che Lena e un'incantevole assistente 3. La perseveranza per raggiungere questi obiettivi nonostante tutti gli ostacoli possibili e immaginabili Cascasse il mondo Vaclav sa cosa farà. Tutti i santi giorni, aspetterà Lena davanti a casa sua prima della scuola e l'aspetterà dopo la scuola, e l'accompagnerà, le parlerà, le farà mille offerte per convincerla, in un modo o nell'altro, a preparare lo spettacolo, con o senza il permesso dei genitori. Vaclav esce tutto saltellante dal Kebab Famiglia Felice sentendosi di nuovo come un eschimese che riesce a fare chilometri e chilometri al freddo e corre per i quattro isolati che lo
separano da casa, con lo zainetto che gli sobbalza sulla schiena per tutto il tragitto. Vuole assolutamente sbrigare in fretta i compiti per avere il tempo di riflettere e pianificare. Al pensiero dei compiti gli viene in mente che cosa offrire a Lena e capisce subito che funzionerà al cento per cento. L'indomani mattina è davanti a casa di Lena ad aspettarla per andare con lei a scuola e farle l'offerta che di sicuro non rifiuterà. Lena, quando apre la porta e vede Vaclav, si blocca con la mano ancora sulla maniglia, rimane lì a guardarlo e poi alza i grandi occhi marroni al cielo. Si è fatta la coda di cavallo sul lato della testa, una pettinatura che non si era mai fatta prima. Emette un sospiro sonoro e poi, con passo deciso, scende i gradini che portano al marciapiede e si incammina verso la scuola senza fermarsi a parlare con Vaclav. Vaclav si sente sicuro; le trotterella dietro e dà inizio all'opera di convincimento. « Lena, ho un'idea da proporti. Continueremo a preparare lo spettacolo. Continueremo a darci dentro per avere il permesso di fare lo spettacolo senza guai. » Lena non smette di camminare. Vaclav riprende il discorso. « Ma se necessario faremo lo spettacolo senza permesso, di nascosto. » Ma Lena ancora non rallenta, né si gira, neppure per dirgli di no. Continua a camminare e a far finta che lui non ci sia. Per non farsi tirare sotto dalle macchine, Lena si ferma all'angolo fra l'Ottava Strada e Avenue R: è un incrocio molto trafficato. Così è costretta a stare ferma accanto a Vaclav, anche se ha sempre la faccia dura e non vuole saperne di guardarlo. « Ti farò i compiti » dice Vaclav, e vede nel suo profilo che un sopracciglio si solleva alto alto e forma delle piccole grinze accanto alla lanugine dei capelli. «Tutti» aggiunge, e il sopracciglio rimane alto. « Tutti i giorni. » Il sopracciglio si abbassa. « Inglese per stranieri? » « Anche inglese per stranieri. » Lena tira un respiro profondo e lo guarda negli occhi. « Da » dice. « Ma solo nascosto. Le mie amiche non sanno e noi non parliamo a scuola. » Guarda da una parte e dall'altra e, accertatasi che non ci sia nessuno, aggiunge: «Ci vediamo a casa tua dopo la scuola. Non fuori. E niente andare a scuola insieme ».
« Okay! Siamo d'accordo. Qui. Dopo la scuola. Cominciamo a esercitarci. » « Prima compiti » dice Lena. « Poi cominciamo. Ciao! » Poi riparte, tanto spedita che Vaclav rimane all'angolo a guardar sfrecciare le macchine. L'emozione di avere di nuovo la sua assistente, volente o nolente, è così forte che non gli passa nemmeno per la testa di sentirsi offeso o triste. Non gli passa nemmeno per la testa che Lena, la sua unica amica da quando erano piccoli, non vuole essere vista con lui. Pensa che lei sarà la sua incantevole assistente per sempre e che un giorno sarà sua moglie. Oggi, il giorno in cui smette di andare e tornare da scuola con lei, il giorno in cui lei gli dice di non metterla in imbarazzo davanti alle nuove amiche, oggi Vaclav non è triste. Essere per lei un posto dove andare Dopo la scuola, Vaclav fa esattamente come richiesto da Lena. Quasi esattamente. Sì, alcune cose che fa non sono tra quelle che Lena voleva. L'aspetta davanti a scuola, sì. Sì, prepara lo zainetto ancora prima che la lezione finisca per poter correre fuori non appena suona la campanella. Sì, rimane seduto in attesa, un fascio di nervi pronto a scattare al suono della campanella. Sì, quando suona la campanella si precipita fuori. Sì, nel corridoio si mette a correre, ignorando i passati avvertimenti di non correre nel corridoio. Sì, scatta fuori e va ad appostarsi furtivamente dietro un albero, da dove può vedere la porta dalla quale Lena uscirà. Sì, la segue fino a casa a breve distanza, abbastanza breve per sentirla ridere con Marina e Kristina. Però, però si mette dietro i cespugli, dietro le cassette postali e dietro le macchine perché Lena non si accorga della sua presenza e non sappia che lui la sente. No, non la lascia in pace fino al momento delle prove. No, non va dritto a casa ad aspettarla, come lei gli ha chiesto. La segue invece fino alla casa della zia. E ha fatto bene a seguirla, perché così lei non è mai stata veramente sola. Secondo Vaclav è una bella cosa esserci sempre, anche se non è esattamente quel che vuole Lena. Vaclav, dalla strada, osserva, ma non capisce bene che cosa sta facendo Lena. Sta andando a casa con Marina e Kristina, adesso le saluta sul marciapiede, poi ride, poi sale di corsa gli scalini per entrare in casa della zia e mette la mano sul chiavistello della porta a zanzariera per entrare nella casa della zia,
ma poi non entra. Vaclav, spiando da dietro una grande cassetta postale blu sull'altro lato della via, vede Lena posare la mano sulla porta, la vede guardare Marina e Kristina che svoltano all'angolo. Non appena hanno svoltato, Lena, invece di entrare nella casa della zia, scende di corsa i gradini. Vaclav sbuca da dietro la grande cassetta postale blu, sorride e agita la mano. Lena smette di correre. Vaclav capisce che Lena è arrabbiata, perché adesso fa una faccia che è una faccia di rabbia, non la sua solita faccia sciocchina di concentrazione, e perché tira un respiro profondo e ha gli occhi grandi grandi che lo fissano. Vaclav sa di non aver fatto esattamente come Lena gli aveva chiesto. Però non capisce bene perché è arrabbiata con lui. Loro fanno sempre tutto assieme. Non prende nemmeno in considerazione la possibilità che Lena voglia stare senza di lui, voglia dire, pensare e fare cose senza di lui, voglia fare quelle cose con altri e non con lui. Vaclav sta pensando semplicemente che Lena non ha amiche e che questo è il momento dell'amicizia tra femmine e che è una cosa naturale, com'è naturale per lui guardare la televisione. Pensa che Lena sarà felicissima di vederlo non appena il momento dell'amicizia tra femmine sarà finito, sarà felicissima che lui vada da lei e faccia con lei la strada da casa della zia a casa di Vaclav, sarà felicissima di mettersi subito, senza sprecare tempo, a fare con lui le prove per lo spettacolo. Vaclav sa che Lena ha bisogno di essere aiutata nei compiti, ma non sa niente di quel che si agita in lei al pensiero di non avere un posto dove andare. Non conosce le ragioni per cui Lena non entrerebbe mai nella casa della zia, nemmeno per un secondo, nemmeno per posare lo zainetto, bere un goccio d'acqua, andare in bagno. Vaclav conosce solo la lettera, non lo spirito, della legge della vita di Lena, e certe volte nemmeno tutte le lettere. Vaclav non sa di essere per Lena un posto dove andare invece di non andare da nessuna parte. Se lo sapesse, forse sarebbe contento di essere il suo posto dove andare, ma non lo sa. Non essere da nessuna parte Fino al momento preciso in cui ha scoperto che Vaclav la seguiva, Lena si era divertita. Le bambine ammirate da tutti, che l'avevano sempre ignorata, l'avevano sempre tagliata fuori e non l'avevano mai invitata alle feste di
compleanno, a pranzo le hanno chiesto se voleva sedersi al loro tavolo e hanno parlato di un mucchio di cose, in inglese e a una velocità supersonica, e lei non è intervenuta quasi mai, anche se ha riso e annuito. Lena, in generale, sta zitta, perché non parla l'inglese abbastanza bene. Marina e Kristina, a fine giornata, frequentano la stessa lezione di inglese per stranieri che frequenta Lena perché nemmeno loro parlano bene l'inglese. Anzi, lo parlano peggio di lei. Solo che Marina e Kristina, al contrario di Lena, non se ne vergognano, perché sono arrivate dalla Russia appena due anni fa. Quando qualcuno chiede alle due bambine da quanto tempo sono qui, in America, e loro rispondono « Da due anni », tutti, genitori, insegnanti e anche altri bambini, ne rimangono colpiti e dicono che sono state proprio brave e di continuare a studiare e che sono bambine in gamba. Lena arrivò dalla Russia che era ancora piccolissima. Nei primi tempi viveva nell'appartamento della sua babuška e conosceva soltanto la babuška, e la babuška parlava con lei nell'unica lingua che conosceva, il russo, e così quella diventò l'unica lingua che Lena conoscesse. Quando cominciò ad andare alla scuola materna, Lena parlava solo il russo, così per mezza giornata andava alle lezioni di inglese per stranieri, lezioni per studenti che non parlano bene l'inglese o non lo parlano per niente. E Lena era timida, aveva sempre paura di far sentire la sua voce e di mettere in pratica l'inglese che stava studiando; e poi, quando tornava a casa, nessuno in famiglia sapeva una parola di inglese, solo il russo. A casa era così bello dire quel che voleva e andare in bagno esattamente quando voleva, invece di alzare la mano e cercare di farsi venire in mente cosa bisognava dire quando si voleva andare in bagno o, peggio ancora, dire una cosa sbagliata quando si rivolgevano a lei. Il peggio che potesse capitare era che Lena, dicendo qualcosa, facesse ridere tutti, senza nemmeno capire perché. Quando le chiedono da quanto tempo è qui, in America, e lei risponde: «Da quando ero piccolissima », nessuno le dice quant'è brava o « Continua a studiare» o cose del genere, perché tutti pensano che di tempo per imparare l'inglese ne ha avuto un bel po' e che forse per lei ci vorrebbe altro che l'inglese per stranieri. Così, anche se Lena, dentro, è frizzante e molto spiritosa, molto in gamba, canta canzoni e le vengono dei pensieri scatenati, fuori appare timida e taciturna.
Nessuno sa quanto è in gamba Lena, perché in classe non risponde alle domande ed è sempre l'ultima a finire il compito, e gli insegnanti la guardano sempre con disapprovazione. Nessuno si rende conto che, anche se i numeri sono gli stessi in tutte le lingue, è difficilissimo capire le divisioni in colonna quando chi ti spiega cos'è un quoziente, cos'è un divisore e cosa fare con il resto di uno ti parla in una lingua che non capisci. Tutti si sono fatti un'idea sbagliata di Lena, tutti tranne Vaclav. Ma oggi è stato diverso; oggi ci sono state novità. Oggi, a pranzo, Lena si è seduta al grande tavolo delle bambine ammirate da tutti, invece che da sola con Vaclav nell'angolo delle lattine vuote. Non si è sentita strana o tagliata fuori perché era l'unica bambina senza amiche. Era felice, perché al tavolo nessuno sembrava accorgersi che lei non parlava. Anzi, le altre bambine sembravano felici che ci fosse anche lei, che lei ridesse e annuisse a tutto quel che dicevano. Le sembrava che al tavolo ci fossero bambine che dovevano parlare e altre che non dovevano parlare. E se al tavolo erano desiderate anche le bambine che non dovevano parlare, Lena era ben contenta di essere desiderata. Lena ha capito di essere desiderata perché era carina e taciturna. Poi ha visto Vaclav sorridere e agitare la mano dall'altro lato della via, nascosto dietro una cassetta della posta, ed è stata la fine. Non si sentiva più carina e non si sentiva più nemmeno taciturna. Si sentiva arrabbiata e stupida. Si sentiva brutta, come una che ha un solo amico ed è tanto brutta che gli altri sono cattivi con il suo unico amico. Lena vorrebbe soltanto trovare un suo spazio, tra Vaclav e le bambine ammirate da tutti, tra quello che vuole e quello di cui ha bisogno. Non vuole ferire nessuno e pensa di aver forse trovato un sistema. Bisticci, morsi, calci e urla « Ciao, Lena! Sorpresa! Ti stavo aspettando! » dice Vaclav, e capisce che Lena è inferocita, ma pensa che forse, se ci metterà tutto il suo buonumore, se le dirà parole confortanti, la rabbia passerà, Lena dimenticherà di essere arrabbiata e sarà ben contenta di andare da lui a fare le prove per lo spettacolo. Vaclav non ha paura di bisticciare con Lena. Sono amici da quando lui aveva cinque anni, quindi è normale che bisticcino. Quando c'è una persona che è il tuo destino, quando c'è una persona a cui vuoi bene più che a tutte le altre,
certe volte la tratti male e hai voglia di ferirla. E naturale che ogni tanto si bisticci, quando c'è qualcuno che è l'unica altra persona che si ha, quando non c'è possibilità di scelta, ed è per questo che fratelli e sorelle bisticciano, si mordono, si tirano calci e urlano continuamente. Lena, in piedi sui gradini della casa della zia, guarda Vaclav in cagnesco. Vaclav, sul marciapiede in fondo ai gradini, guarda sorridente in su verso Lena. Un passante la prenderebbe per una scena molto romantica, alla Romeo e Giulietta. Ed è proprio questo che Lena vuole evitare: non vuole far sapere a nessuno del tempo che trascorre con Vaclav, del tempo che trascorre a casa di Vaclav a fare cose stupide e imbarazzanti. Non vuole far sapere a nessuno che lei e Vaclav si dicono che un giorno saranno marito e moglie. La imbarazza pensare di avergli chiesto di prometterglielo, di avergli chiesto tante volte se erano tutte cose vere, tante, tantissime volte, finché lei ci ha creduto e lui pure. «Vai» dice Lena. « Dove? » le chiede Vaclav. «A casa. Non guarda.» « Dove non devo guardare? » « Dietro » risponde Lena. « Non guarda dietro. » Così Vaclav le volta le spalle e si incammina verso casa, allontanandosi dai gradini della casa di Lena, senza mai guardarsi indietro. Lena aspetta e, non appena Vaclav svolta, si mette a seguirlo, a un isolato di distanza, mai nello stesso isolato ma pur sempre insieme. Lui sa, senza chiederle niente e senza guardare, che lo sta seguendo. Sa che è stata Lena a fargli promettere, tante, tantissime volte, di diventare un giorno suo marito, cascasse il mondo, così non si preoccupa. Arrivato a casa, Vaclav entra senza guardarsi indietro e, come prevedibile, due minuti dopo Lena entra direttamente senza suonare né bussare. Anzitutto niente poi compiti A casa di Vaclav non c'è nessuno. Oleg è ancora al lavoro, perché fa il tassinaro (è una parola che a Vaclav piace più di tassista) e di solito il suo turno va dalla mattina presto a prima di cena. Anche Rasia è ancora al lavoro, all'azienda di prodotti sanitari in Kings Highway, dove risponde e chiama al
telefono e si occupa di archiviazioni, inventari e altre cose che Vaclav trova noiosissime, quando lei ne parla. La famiglia di Vaclav abita nella metà inferiore di una casa. La casa sembra un'unica, grande abitazione, ma ci sono scale che salgono alla porta d'ingresso della signora Ruvinova e c'è una porta anche ai piedi delle scale, che è quella di Vaclav. Siccome l'appartamento di Vaclav è sotto un altro appartamento, certe volte ha la sensazione di starsene nascosto nel suo bell'angolino, una specie di tana della volpe, mentre altre volte gli sembra di essere in metropolitana, per il baccano che c'è e per l'atmosfera soffocante. Sente tutte quelle persone sopra il soffitto di casa sua, che è poi il loro pavimento, e, anche se la sua abitazione è grande quanto l'altra, ha l'impressione che sarebbe meglio essere quelli con il pavimento che è il soffitto di qualcun altro, piuttosto che quelli con il soffitto che è il pavimento di qualcun altro. E ha anche l'impressione che sarebbe meglio essere quelli che dalle finestre vedono un po' di alberi, invece di un po' di interrato e un po' di foglie morte. Vaclav e Lena attraversano il soggiorno, che è la stanza dove fra poco Oleg russerà guardando i programmi della televisione russa, oltrepassano il bagno, la porta della camera di Vaclav e la porta della camera dei genitori di Vaclav ed entrano in cucina, dove tutti e due buttano rumorosamente gli zainetti per terra. Lena si siede al tavolo e Vaclav va al frigorifero. Vaclav rimane sempre con la mano sulla maniglia del frigo per chinarsi a guardare cosa c'è dentro, esattamente come fa suo padre, anche se Vaclav è basso e quando si china non riesce a vedere metà dell'interno. « Anzitutto, merenda. Da bere abbiamo acqua Brita, abbiamo succo di pompelmo e abbiamo cocktail di frutta. Tu cosa vuoi bere, Lena? » Vaclav comincia a tirare fuori il cocktail di frutta per sé e rimane al frigo ad aspettare la risposta di Lena, pur sapendo che Lena non vorrà niente, né da mangiare né da bere. Anche se certe volte, quando i genitori di Vaclav non sono ancora a casa, Lena dice che deve andare in bagno e poi invece va in cucina e, di nascosto, prende dal frigo qualcosa da mangiare, o addirittura qualche volta prende qualcosa dalla dispensa e se lo mette nello zainetto. Vaclav se ne accorge, ma tace.
«Anzitutto niente. Poi compiti. Finire compiti. Poi merenda, poi prove » dice Lena. Vaclav sa che Lena non farà merenda, dopo aver finito i compiti. Capisce che ha fretta di sbrigare subito i compiti. E sente dentro una cosa non bella, un filino di rabbia nei confronti di Lena, sente che non gli piace che Lena gli metta fretta, ma se la fa passare; chiude il frigo, versa il cocktail di frutta in un bicchiere che in realtà è un vasetto della gelatina, ne beve una bella sorsata e poi riempie di nuovo il bicchiere. Quando si siede accanto a Lena e posa il bicchiere sul tavolo, sembra che sulle labbra si sia messo del rossetto al cocktail di frutta e che abbia dei baffi al cocktail di frutta. « Prima cosa vuoi fare? » chiede a Lena, prendendo il raccoglitore dallo zainetto per metterlo sul tavolo. «Matematica» risponde Lena, e dal fondo del suo zainetto tira fuori una scheda col compito per la lezione di matematica, che è la lezione di matematica del livello più basso. Vaclav invece frequenta il grado più alto. I livelli di matematica, però, non si chiamano « più basso » e « più alto » o « per gli asini » e « per i geni » o « per i più scarsi » e « per i più bravi »: si chiamano « livello giallo », « livello rosso » e « livello verde », anche se tutti sanno che nel giallo ci sono più bambini di inglese per stranieri e più figure nelle schede dei compiti a casa. La scheda che Lena tira fuori dallo zainetto sembra la parte inferiore di un ventaglio decorato, perché sotto i libri si è schiacciata tutta. Il compito è sulle divisioni in colonna, che Vaclav ha studiato l'anno scorso e che quindi può spiegare a Lena. Forse, pensa Vaclav, dovrebbe dirle che il suo problema principale è la mancanza di organizzazione: se fosse più organizzata, se avesse quaderni ed etichette, forse anche la testa sarebbe più organizzata e, se non spiegazzasse e accartocciasse le schede e i quaderni, probabilmente terrebbe di più a fare i compiti e prenderebbe voti migliori. Ma capisce che Lena non ha voglia di sentirle, queste cose, che fra loro c'è un'atmosfera strana, perché, anche se Vaclav sta facendo una cosa bella per Lena, oggi deve comportarsi con lei in modo eccezionalmente bello, perché si sente in dovere di ringraziarla o di farle un regalo, e questo gli fa provare di nuovo quel senso di rabbia, che però fìnge di non provare.
« Allora, qui » dice Vaclav, indirizzando lo sguardo di Lena sul primo problema «ti chiede quante volte sta il due nel seicentoventisette. » « Cosa vuol dire 'sta'? » vuole sapere Lena. « Vuol dire quanti due ci sono nel seicentoventisette » le spiega Vaclav. « Uno » dice Lena, indicando il due del seicentoventisette. « No, è così: tu sei uno, io sono uno, insieme siamo due, okay? » « Da » dice Lena. « Noi due insieme siamo VacLena, una cosa sola. Ma occupiamo due spazi... due sedie» dice Vaclav, formulando mentalmente la spiegazione. « Se ci sono seicentoventisette sedie, quanti VacLena possono sedersi? » « Non so. » « Ricordati che ogni VacLena ha bisogno di due sedie e non possono separarsi. » « Perché non possono? » « Perché no » risponde Vaclav, « perché se no c'è il resto, che è la prossima cosa che faremo. » « Cosa vuol dire 'resto'? » chiede Lena. «Il resto è quando dividiamo VacLena e rimane, mettiamo, un solo posto... una sola sedia. Allora c'è o solo Vaclav o solo Lena. » « E questo è impossibile » conclude Lena. « Bell'inglese, Lena » dice Vaclav. Il tempo passa svelto e lento Vaclav ci mette un'ora piena a insegnare matematica a Lena, poi bisogna fare anche il compito di inglese per stranieri, poi bisogna fare anche un esercizio di scrittura per la scuola normale. Quando arrivano all'esercizio di scrittura, Rasia è già tornata a casa, fuori è buio e il bicchiere di Vaclav è stato riempito e svuotato più volte. Quand'è il momento di fare l'esercizio di scrittura, Lena crolla sulla sedia, tanto che a Vaclav sembra che abbia gli spaghettini cinesi al posto delle ossa. Anche la testa le crolla in avanti e, quando Vaclav le chiede di guardare bene una frase che hanno scritto o l'ortografìa di una parola, lei sospira e appoggia il braccio sul tavolo, poi appoggia la testa sul braccio e a malapena tiene aperti gli occhi. « Devi usare questa penna e scrivere la frase, Lena! Io posso aiutarti, ma se c'è la mia calligrafìa la maestra se ne accorgerà! » dice Vaclav. Lena tira un sospiro, profondo e sonoro, buttandolo fuori in un sol colpo da tutto il corpo.
Rasia fa rumore in cucina, così Vaclav fatica a concentrarsi, e poi Lena sembra un sacco di spaghettini che grondano giù dalla sedia, e poi di sopra, in casa della signora Ruvinova, stanno guardando un film pieno di urla e strepiti, spari di pistola e rumori di scontri. Probabilmente a guardare il film non è la signora Ruvinova ma i suoi figli, che sono grandi, hanno i capelli che sembrano sempre bagnati, profumano come le pagine profumate delle riviste e portano un giubbotto di pelle che non tolgono mai e che fa uno strano rumore sui divani di pelle della signora Ruvinova. Vaclav ha visto i figli le volte che è andato di sopra dalla signora Ruvinova a chiedere dello zucchero, della farina, della vodka. Non sa quanti sono, perché si assomigliano tutti. Lo fanno sentire in imbarazzo e in pericolo, perché quando va al piano di sopra e aspetta che la signora Ruvinova gli porti la tazza di zucchero, i figli sono seduti sul divano e non lo salutano. Vaclav sta pensando ai figli della signora Ruvinova, ai rumori e agli odori che fa sua madre cucinando e a quello che sta cucinando, che per ora è una cosa con dentro cipolle e cavolo, una cosa che fa un mucchio di fumo e vapore. Fa molta fatica a pensare a quel che Lena deve scrivere nel compito sulla Rivoluzione americana, soprattutto perché Lena non collabora minimamente: se ne sta lì, sulla sedia accanto, come un bitorzolo a forma di Lena. «Via il compito dal tavolo e apparecchiate, se no guai » dice Rasia. Lo dice con voce dolce, calda, anche se le parole usate sono cattive, perché lei ha imparato l'inglese guardando tutte le sere puntate piratate di Law & Order quand'era ancora in Russia ad aspettare i documenti, i bolli, le cartoline e le lettere con cui poter trasferire in America la sua famiglia. Vaclav chiude il suo raccoglitore e chiude il quaderno dei temi di Lena, poi sgombra il tavolo da gomme, matite e libri. Lena trascina giù dalla sedia il suo corpo di spaghettini per andare a contare le posate e Rasia le chiede: « Lena, rimani a cena? » « Da » risponde Lena. « In inglese! » dice Rasia. « Sìììì » dice Lena con un brontolio, come fa tutte le volte, perché non è cambiato niente anche se qualcosa è cambiato. Vaclav deve raccogliere tutti i compiti e metterli via, e sta malissimo perché i suoi non li ha neanche iniziati ed è già ora di cena, cioè tardissimo. Comincia
a capire che non ci sarà il tempo di finire i suoi e quelli di Lena e poi fare le prove dello spettacolo di magia. Allungando la mano verso l'alto per prendere i piatti, sfiora Lena e lei gli bisbiglia: « Niente finire compiti, niente prove » con una voce che sembra quella di un gattaccio cattivo. E Vaclav capisce che tutte le sere, d'ora in poi, farà i compiti di Lena senza insegnarle niente. Le dirà esattamente cosa scrivere nel tema senza nemmeno chiederle cosa pensa della questione per esempio, se a quei tempi sarebbe stata una lealista o una rivoluzionaria e perché , le farà il compito e basta, senza la sua collaborazione, perché questo bisogna fare, perché è questo che vuole Lena. E Vaclav vuole quello che vuole Lena, perché loro sono VacLena senza resto. Otto Vaclena col resto di una Lena Il giorno dopo, Vaclav e Lena tornano a casa da scuola esattamente come pianificato. Vaclav va a casa da solo, mentre Lena va con Marina e Kristina alla casa della zia e fa fìnta di entrare. Poi si trovano a casa di Vaclav, dove Lena non suona il campanello: entra direttamente, attraversa il soggiorno con il suo tappeto morbido e il grande, gigantesco televisore ed entra in cucina, dove Vaclav ha già cominciato a lavorare forsennatamente ai propri compiti per poi avere il tempo di provare lo spettacolo. Lena mette lo zainetto sul tavolo della cucina e va al frigo. Oggi Vaclav le farà i compiti, tutti, dall'inizio alla fine. Oggi proveranno lo spettacolo. Lei non si sentirà in colpa e non si sentirà cattiva. Sentirà di essere a posto con i compiti, sentirà di essere amica di Marina e Kristina e anche di Vaclav, perché proveranno lo spettacolo. Vaclav sta facendo i suoi, di compiti, e non le dice niente, non le offre la merenda, non le dice ciao. Ma va bene così. Oggi Lena vuole fare merenda. Lena apre il frigo, tira fuori del formaggio, si siede accanto a Vaclav al tavolo della cucina e lo mangia pezzetto dopo pezzetto mentre Vaclav, mormorando, fa velocemente il compito di matematica di Lena. Vaclav non le nasconde quant'è svelto a fare il compito che ieri a lei ha portato via tante ore. A Lena dispiace molto di non capire la matematica, ma è abituata ai dispiaceri come questo e comunque è bello vedere che lui è tanto
svelto a fare una cosa che lei non riesce a fare, perché la fa sentire sicura senza bisogno di far domande, senza avere dubbi. Lena fa merenda Lena rimane seduta al tavolo della cucina finché ha finito il formaggio e poi va a buttare via la confezione, poi prende un grande bicchiere, lo riempie di latte freddo di frigo, lo vuota tutto e lo mette nel lavandino, poi tira fuori il pane Wonder dalla cassetta del pane, ne prende tre fette e comincia subito a mangiarne una staccandone dei bocconcini piccoli piccoli con le dita, cerca nel frigorifero qualcosa da mettere nel panino ma poi rinuncia e spalma di senape le due fette di pane, le mette l'una sull'altra, va a sedersi accanto a Vaclav al tavolo e mangia il panino alla senape mentre Vaclav le fa i compiti; poi, quando ha finito di mangiare il panino alla senape, si alza, va al frigorifero, tira fuori il burro di arachidi, prende un cucchiaio dal cassetto delle posate, lo immerge nel burro di arachidi, ne tira fuori una bella cucchiaiata, torna a sedersi accanto a Vaclav al tavolo, lecca il burro di arachidi e poi lo mangia, poi torna al vasetto di burro di arachidi a prenderne un'altra bella cucchiaiata e stavolta lo mangia in piedi, poi ne mangia un'altra cucchiaiata in piedi e poi un'altra ancora finché il burro di arachidi è quasi tutto finito, poi sente Rasia aprire la porta di ingresso e allora rimette in fretta il coperchio sul vasetto di burro di arachidi e, senza neanche avvitarlo completamente, lo spinge in fondo al frigo e va a sedersi accanto a Vaclav a fingersi molto interessata a quel che lui sta facendo, annuendo, addirittura. Rasia non se la beve Rasia ha visto Lena allontanarsi in fretta e furia dal frigorifero. Certe volte essere mamma è un po' come quando si accende la luce e tutti gli scarafaggi scappano a cercarsi un nascondiglio: se guardi bene per terra con l'idea di vedere il fuggi fuggi, allora lo vedrai, ma se stai pensando a cosa mangiare a merenda o stai guardando il ventilatore al soffitto cercando di ricordarti quand'è stata l'ultima volta che l'hai spolverato, allora il fuggi fuggi non lo vedrai. Rasia, tutte le volte che entra in casa, guarda subito in cucina, ed è come per gli scarafaggi: anche se non hai visto cosa stavano facendo prima del fuggi fuggi» capisci lo stesso dov'erano, dove si sono nascosti e da dove sono scappati, così puoi farti un'idea di che cosa sta succedendo.
Rasia ha visto anche che Lena finge interesse per il compito che sta facendo Vaclav, così si avvicina al tavolo e vede che Vaclav sta scrivendo su un foglio con sopra scritto, in alto, il nome di Lena. Poi Rasia apre il frigorifero e vede il vasetto del burro di arachidi con il coperchio storto; ci guarda dentro e vede i piccoli scavi del cucchiaio, non le volute lasciate dal coltello quando si spalma il pane di burro di arachidi. Oggi Rasia è particolarmente in allerta per via dello strano comportamento delle ultime sere. Uno strano comportamento che si rimugina in testa come un detective. Prima Lena che vomita. Poi torna a casa e trova Vaclav ancora in cucina a fare i compiti, con Lena stravaccata accanto a lui, al tavolo. È segno che qualcosa non va, perché non è normale. Normale sarebbe tornare a casa e trovare Vaclav e Lena tutti presi con le prove dello spettacolo di magia nella camera di Vaclav, anche se con le luci accese, la porta aperta e i piedi per terra perché la sua è una casa con dei principi morali. La sera prima, a cena, si è accorta del malumore di Vaclav, un malumore come quando si perde a una lunga e diffìcile partita a csyak svoi kozyi. E adesso la piccola Lena che di nascosto prende da mangiare dal frigo e vorrebbe far credere a Rasia di aiutare Vaclav a fare i compiti quando non è vero. Rasia vuole sapere con precisione che cosa succede e, sempre con precisione, perché. Stasera dev'essere sera di prove Per cena, Rasia ha preparato lo šči. Quando è arrivata in America, ha scoperto che, con poca spesa, la mattina poteva riempire di carne e cavolo la pentola per la cottura lenta e la sera, al ritorno, trovare pronta una cena tradizionale russa. Lena, di solito, invece di mangiare sposta qua e là nel piatto la carne grigia finché è ora di sparecchiare; stasera invece ha finito tutto il suo šči prima ancora che Rasia sia riuscita a prendere in mano il cucchiaio. Intanto Vaclav, con la forchetta, sta dividendo dal resto tutte le parti che non gli va di mangiare: pezzetti di cavolo bruciacchiati sui bordi, pezzi di pomodoro con il buchino in cui era attaccato il picciolo. Rasia guarda il marito, che tiene una mano sul bicchiere di vodka per poter prenderne un sorso tra un boccone e l'altro.
E con la coda dell'occhio guarda Lena: sta grattando il cucchiaio sul fondo del piatto come se lo šči fosse l'ultima cosa da mangiare rimasta sulla Terra. « I compiti sono tutti finiti? » chiede. « Tutti. Tutti finiti, così io e Lena, dopo mangiato, possiamo andare a fare le prove per il nostro spettacolo, grazie. » «Prego» dice Rasia, sempre guardando Lena, che non ha distolto lo sguardo dallo šči, nemmeno mezzo secondo. « Lena, mangi così in fretta che starai di nuovo male. Rallenta; puoi prendere ancora. » Lena tira su gli occhi per guardarla, imbarazzata. « Vaclav, riempi il piatto a Lena » dice Rasia. « Stasera fate dei numeri? Un po' di magia? Truffe? » chiede Oleg a Lena. Lena ha paura di Oleg, perché ha la faccia brutta e coperta di buchini, e poi perché puzza e perché ha sempre un pezzetto di pancia pelosa che spunta dalla camicia, e anche perché lui non parla: urla. Vaclav non ha voglia di rispondere a suo padre e neanche tanto di mangiare, e non ha più voglia di stare seduto a tavola. Non ha voglia nemmeno di fare le prove per lo spettacolo. Quando Vaclav è giù di morale, gli piace leggere il suo libro su Houdini e ricordare che Houdini dovette affrontare mille difficoltà prima di diventare famoso, e che era convinto che la perseveranza e la determinazione fossero le qualità più importanti che si potessero avere. Houdini sgobbò per molti anni, senza soldi e senza fama, e fu allora che imparò a fare tutte le cose importanti che sapeva fare. Pensando a Houdini, si ricorda che combattere e perseverare è importante per forgiare il carattere e si ripete che forse un giorno rin grazierà Lena di averlo messo di fronte ai guai e alle difficoltà di adesso, perché faranno di lui un grand'uomo. Questo si ripete Vaclav, continuamente, per non dimenticarlo. Tuttavia, Vaclav è giù di morale per via del tempo che sta passando a fare i compiti di Lena e oltre a questi i suoi, perché questa montagna di compiti toglie tempo alla magia che dovrebbe praticare per diventare il mago più famoso e di maggior successo. E gli viene di colpo nostalgia di casa, una nostalgia per un posto che non esiste. « Scusate, posso andare? » chiede Vaclav, guardando sul tavolo lo stufato marrone di cavolo mezzo mangiato nel proprio piatto.
«Certo» dice sua madre, mentre suo padre butta fuori una risata cavallina che potrebbe essere una risata di affetto oppure una risata cattiva. Vaclav si alza da tavola e mette nel lavandino il suo piatto di šči, mentre Lena ingurgita le poche cucchiaiate rimaste del suo secondo piatto di šči per poi seguire a ruota Vaclav, terrorizzata all'idea di restare da sola con i suoi genitori. Guanti Vaclav si siede subito alla scrivania e comincia a buttar giù rabbiosamente un nuovo elenco. « Primo numero per prova: cassa di sparizione. Credo » dice Lena. Vaclav, invece di risponderle, inizia a scrivere l'elenco: COSTUMI « No? » dice Lena. Vaclav, invece di risponderle, inizia un altro elenco: ELENCO DELLE COSE NECESSARIE PER COSTUMI PER SPETTACOLO A CONEY ISLAND « O carta. Trucchi con carta » dice Lena, guardando sopra la spalla di Vaclav. «Trucchi con le carte» la corregge lui. « Okay! » dice lei. Lena comincia a preoccuparsi che ' di sia qualcosa che non va, che il suo piano di fare felice Vaclav, di trovare un equilibrio fra dare e avere, non funzioni. « No, non sì ai trucchi con le carte, sto solo dicendo che non si dice con carta, al singolare e senza articolo, ma con le carte, al plurale e con l'articolo » dice Vaclav. « Cosa non va? » chiede Lena, anche se un po' l'ha Capito, cosa c'è che non va. Vaclav, invece di risponde, continua l'elenco come se non avesse sentito: le, ELENCO DELLE COSE NECESSARIE PER COSTUMI PER SPETTACOLO A CONEY ISLAND Cilindro Mantello Frac Vaclav sa che andrebbero messe altre cose nell'elenco, ma di colpo non si ricorda più qual è l'equipaggiamento di un mago, anche se ce l'ha in mente da molti anni. Capisce che i pensieri su Lena e i sentimenti che prova gli stanno
scombussolando la mente. E colpa di Lena se non se lo ricorda più ed è colpa di Lena se non hanno provato a sufficienza il numero. « Come si vestono i maghi? Non mi viene in mente come si vestono i maghi! » dice Vaclav, e vorrebbe fare una semplice domanda, ma insieme esplode la rabbia che prova per le colpe di Lena. « Cappello » risponde lei, spaventata. « Quello c'è già! » dice Vaclav. « Mmmm, quello lungo, su spalle, lungo... » Lena sta cercando le parole, così, anche qui, Vaclav deve aspettare e si arrabbia. «Mantello? Anche quello c'è già» dice Vaclav, e sa di spaventare Lena, con quella voce, sa che le sta facendo scappare le parole per la paura. « Mmmm...? » fa Lena. « Allora? » dice Vaclav. « Sto aspettando. » « Mmmm » ripete Lena, con un mmmm ancora più incerto. «Lascia perdere» dice Vaclav, e torna a scrivere il suo elenco. « Mmmm » fa Lena, e adesso il mmmm sembra un vibrato di violino. « Lascia perdere! » ripete Vaclav. Poi Lena si siede per terra, dietro la sedia di Vaclav, dove lui non può vederla, per nascondere le lacrime che dagli occhi si stanno riversando sulla faccia, e dice: « Guanti ». Lo dice a voce troppo bassa, con il dittongo troppo breve e la n troppo lunga, ma Vaclav sente il suo dittongo e la sua n dal sapore russo, e anche il risuonare della t, e anche la i, una piccolissima esplosione d'aria dalla bocca, e capisce, e sa esattamente di quali guanti sta parlando. Vaclav non si accorge che Lena sta piangendo. Prova una felicità incredibile perché i guanti bianchi da mago completano il quadro di come vuole presentarsi allo spettacolo sul lungomare di Coney Island. È felice perchè riesce a immaginarsi con un aspetto da mago professionista. Gli servono i guanti bianchi, guanti di un bianco sparato che daranno risalto a ogni suo gesto e indirizzeranno l'attenzione del pubblico sulle sue mani: così sarà un po' come avere i loro globi oculari a una lenza attaccata alla punta delle dita. E molto importante, nella magia, avere i globi oculari del pubblico appesi alla punta delle dita, perché certe volte il mago agita la mano e dice: guardate, il trucco sta qui, mentre in realtà il trucco è da un'altra parte. È una cosa che Vaclav ha imparato dall'Almanacco del mago, dove si dice che se vogliamo capire come fa un mago a fare i suoi giochi di prestigio, quando
dice: «Guardate bene cosa faccio qui », dobbiamo guardare bene da un'altra parte, perché sta cercando di distrarci. «Tu come vuoi vestirti per lo spettacolo a Coney Island? » chiede Vaclav, perché l'aspetto dell'incantevole assistente è importantissimo nell'arte della magia, esattamente come i guanti bianchi che fanno attaccare , gli occhi del pubblico alla punta delle dita come se ci fosse una lenza. L'assistente c'è perché così, mentre il mago crea un'illusione, tutti guardano bene da un'altra parte. Certe volte l'altra parte è l'assistente. « Secondo te come dev'essere il tuo costume? » chiede Vaclav, di nuovo. Lena smette di piangere e tira dei respiri profondi. Comincia a dimenticarsi di essere turbata, perché adesso è emozionatissima. Lena indosserà il bikini dorato a frange di Heather Holliday. La prima volta che ha visto Heather Holliday, Lena aveva appena cinque anni ed era anche la prima volta che vedeva il famoso Sideshow di Coney Island, ed era la prima volta che vedeva l'oceano, ed era la prima volta che vedeva un ottovolante, ed era la prima volta che sentiva l'odore di un hot dog, ed era la prima volta che andava a casa di Vaclav, ed era la prima volta in assoluto che aveva un amico. Come fu che Vaclav conobbe Lena La zia di Lena, Ekaterina, brontolava sempre perché doveva badare a Lena e si perdeva i turni migliori, quelli che fruttavano più mance, perché doveva andare a prendere Lena, o a mettere a letto Lena, o a dare da mangiare a Lena. Una delle persone con cui la zia brontolava era il suo fidanzato, che di lavoro sollevava scatoloni e se ne stava fuori a fumare in maglietta, e questo lavoro lo faceva per l'azienda di prodotti sanitari di Kings Highway in cui Rasia lavorava alla reception. Il fidanzato della zia conosceva la mamma di Vaclav e sapeva che aveva un bambino più o meno di cinque anni, la stessa età di Lena. Il fidanzato era stufo di sentir brontolare la zia ed era stufo che la zia guadagnasse una miseria, e anche che Lena ciondolasse in casa e desse fastidio con i suoi silenzi, soprattutto da quando la scuola era chiusa per le vacanze estive e lei era sempre a casa; così parlò con Rasia e si misero d'accordo per farli giocare insieme.
Come fu per Vaclav Rasia era molto contenta che suo figlio avesse qualcuno della sua stessa scuola con cui giocare, perché lì era nuovo e, siccome era appena arrivato dalla Russia, non aveva molti amici. Anzi, da quando erano partiti dalla Russia, nessuno era mai andato da lui a giocare, così Rasia era tanto emozionata che corse a casa a dare la notizia a Vaclav. «Vaclav. Spegni tivù. Posso dirti una cosa.» Non era ancora abituata a parlare con suo figlio soltanto in inglese. La decisione di passare all'inglese, di parlare esclusivamente in inglese, in casa, era stata facile, ma la cosa difficile era parlare con suo figlio in una lingua che non era la sua. Non avere sempre le parole per dire le cose che voleva dire: era soprattutto questo il problema quando cercava di parlare di cose per le quali probabilmente non avrebbe avuto le parole neanche in russo, e neanche in arabo, se lo avesse parlato, e neanche nella lingua clic che parlano in Africa sul National Geographic Channel. Nemmeno se avesse saputo tutte le lingue del mondo alla perfezione sarebbe riuscita a spiegare a suo figlio quel che provava. E quel che provava era più o meno, ma non esattamente, questo: Mi dispiace tanto che tu sia solo, senza amici, e che gli altri bambini ti credano uno strano, è una cosa che mi fa male come se mi strappassero la pelle e ci buttassero sopra l'acido, ma abbiamo fatto una cosa che alla fine risulterà per te la migliore del mondo e, anche se tu non dovessi saperlo mai, noi invece lo sapremo e, quando ci guarderai e te la prenderai con noi perché abbiamo scelto per te una cosa difficile, noi lo sapremo, e quando ci guarderai e te la prenderai con noi perché siamo i tuoi genitori, anche allora lo sapremo. « È un video. Posso mettere in pausa » disse Vaclav, che sollevando gli occhi puntò il telecomando verso lo schermo del grande televisore e fermò David Copper fìeld a mezz'aria, mentre veniva abbassato dal soffitto di un auditorium gigantesco. Rasia si sedette delicatamente sul grande divano. Poi batté la mano sul posto accanto e Vaclav si alzò da terra, dove stava guardando il video. Vaclav era seduto a circa mezzo metro dallo schermo, per poter vedere bene e capire i segreti che c'erano dietro i trucchi di David Copperfield. « Oggi ho conosciuto una donna con una figlia di stessa età tua. » Rasia si interruppe e guardò Vaclav, che alzò un sopracciglio. Scettico. Bene, pensò Rasia, almeno non e arrabbiato.È interessato.
«Questa bambina ha arrivato da Russia quando è stata piccolissima, mamma e papà non sono con lei e è molto timida. » Vaclav non la interruppe, così lei proseguì. « Non ha molti amici e non parla bene inglese, così spero che giocherai con lei, che magari l'aiuterai in inglese, che magari diventerete anche amici. » Vaclav sollevò gli occhi al cielo per il disgusto, l'indifferenza e la scocciatura, tutto insieme, e poi chiese: « Come si chiama?» « Yelena. La chiamano Lena » rispose Rasia. «Okay» disse Vaclav. Sapeva chi era quella bambina, la bambina timida del corso di inglese per stranieri, ma lei non gli aveva mai rivolto la parola, né a lui né a nessun altro che conoscesse. « Viene sabato per giocare » disse Rasia. « Magari per attività andiamo a Coney Island. » Come fu per Lena Lena si svegliò un sabato mattina ed entrò in cucina. Ekaterina, sua zia, era seduta al tavolo, in vestaglia, a prendere il caffè e fumare una sigaretta sfogliando il giornale. Anche se era mattina presto, in realtà la zia era appena tornata dal lavoro e non era ancora andata a dormire. La zia guardò Lena ma non disse niente, e neanche Lena disse niente, ma si ricordò di far piano. Di mattina la zia non stava mai bene: la mattina le dava il mal di testa e non sopportava che Lena facesse il minimo rumore. Lena cercò qualcosa per fare colazione, ma non c'era granché: né cereali, né il preparato per i pancake, niente del genere, e in frigorifero non c'era latte né succo d'arancia né uova né formaggio. L'unica cosa che c'era in frigo era lo Slim-Fast e l'unica cosa che c'era nel freezer era la vodka, e l'unica cosa che c'era nella dispensa era roba in scatola che in realtà non era buona da mangiare, soprattutto quando non si è molto esperti con l'apriscatole. Lena chiuse delicatamente la dispensa per non fare il minimo rumore. Stava pensando di rinunciare e magari tornarsene a letto, cercare di dormire un altro po' tanto per passare il tempo. Aspettava che la zia andasse a letto per poter prendere una banconota da un dollaro dal suo borsellino e andare a comprarsi qualcosa da mangiare al negozio sotto casa, qualcosa con cui bere uno degli Slim-Fast che c'erano in frigo, se ce n'erano a sufficienza perché la zia non si accorgesse che ne mancava uno e non la sgridasse.
« Vestiti. Vai a casa del tuo amico » disse la zia. Lena era confusa, perché di amici non ne aveva. Ma Lena capì anche di non avere scelta, perché la zia glielo aveva detto senza ammettere repliche, come le diceva quasi tutto. Così Lena andò in camera a vestirsi e mettersi le scarpe, per essere pronta per andare a casa del suo amico. Sabato mattina Vaclav si svegliò molto presto e sua madre si era già alzata: sentì odore di cera per i mobili, limone e candeggina, e insomma la casa aveva il solito odore che aveva la mattina quando doveva arrivare qualcuno o il primo giorno dell'anno in cui il tempo è abbastanza bello per aprire tutte le finestre e c'è elettricità dappertutto. Avevano stabilito insieme un programma. Rasia avrebbe portato Vaclav e Lena a Coney Island in metropolitana e loro avrebbero giocato al parco divertimenti, poi sarebbero tornati tutti a casa a mangiare qualche panino per pranzo. Vaclav e sua madre, sapendo entrambi che lui avrebbe avuto una nuova amica e sapendo entrambi di fare una bella cosa per Lena, erano molto contenti del programma. Non potevano sapere che quella giornata avrebbe portato, insieme alle cose belle, anche cose molto brutte. Non sapevano che le cose belle che sarebbero successe avrebbero interagito come elementi chimici con le cose brutte e le avrebbero peggiorate, come pure il contrario. Non sapevano che Vaclav e Lena, passando per caso davanti al famoso Sideshow di Coney Island, avrebbero visto per la prima volta dei trucchi di magia e Heather Holliday con il suo bikini dorato a frange. Non potevano sapere che quello sarebbe stato il principio di tutto. Din don buongiorno Ekaterina accompagnò Lena alla porta di ingresso della casa di Vaclav; Lena era confusa e agitata perché non voleva che la zia la lasciasse lì, ma anche perché non voleva che vedessero la zia ancora tutta truccata per il lavoro. Purtroppo non poteva farci niente. La zia le stringeva forte forte il polso, e glielo teneva anche un po' troppo in alto, tanto che Lena dovette contorcersi tutta per non sentire male alla spalla, e arrivarono lì e suonarono alla porta. Non appena il campanello squillò, Lena sentì del movimento dietro la porta.
Dall'altra parte della porta, sia Vaclav sia sua madre erano seduti sul grande divano, con la casa tutta lustra e il televisore spento, e non parlavano di quanto erano emozionati. Quando squillò il campanello, tutti e due si alzarono dal divano e Vaclav scappò in camera con il pretesto di aver improvvisamente bisogno di una cosa, sopraffatto dall'emozione e dall'agitazione e non volendo farsi vedere lì come se aspettasse solo l'arrivo di Lena. Rasia aprì la porta e rimase a guardare Ekaterina, che, proprio mentre la porta si apriva, stava per suonare una seconda volta. Ekaterina aveva i capelli che partivano marrone scuro alle radici, poi per un attimo diventavano arancione e infine di un biondobianco brillante, appiattiti ben bene all'indietro e raccolti in una coda che cominciava in cima alla testa. Portava una di quelle tute intere rosa pelosine che portavano tutte le giovani madri, una cosa che diede a Rasia l'impressione che ci fosse un club del quale lei non era socia, e aveva ai piedi delle grosse scarpe col tacco a spillo fatte di plastica trasparente. Ogni parte della faccia era dipinta come se fosse stata creata da zero: grosse sopracciglia nere che non si intonavano a nessuno dei colori che aveva sulla testa, spesse righe scure attorno agli occhi, spesse righe rosa attorno alle labbra e perfino, attorno alla ma scelia dove la faccia finiva, una spessa riga che non sfumava nel collo. Rasia guardò Ekaterina e poi guardò Lena, aggrappata alla mano di Ekaterina con un'espressione terrorizzata, e le si spezzò un po' il cuore, sulle prime perché lei di figlie femmine non ne aveva e poi, un attimo dopo, per quello che aveva saputo della storia di Lena e i pettegolezzi che aveva sentito sul lavoro di Ekaterina, e le venne voglia di prendersela in braccio, quella bambina, di imboccarla, di stringerla a sé e tenerla al sicuro. « Zdravstvujte » disse la zia. «Zdravstvujte, piacere» rispose Rasia, passando all'inglese. La zia le lanciò un'occhiataccia. «Adesso devo andare. Vengo a prenderla stasera» disse la zia. « Sì, certo » disse Rasia, imbarazzata di rendersi conto di aver pensato che Ekaterina si sarebbe seduta, che avrebbe preso il tè già in infusione in cucina, che Lena sarebbe corsa via a giocare con Vaclav e che lei ed Ekaterina avrebbero parlato di Lena e Vaclav, della vita di genitore, del vicinato, delle difficoltà di trovare una buona sistemazione per i figli dopo le ore di scuola,
delle difficoltà di vivere in questo paese, e che sarebbero diventate improbabili amiche. Rasia era sorpresa e imbarazzata di sentirsi tanto sola. Le era già capitato, qualche volta: la solitudine che l'assaliva al negozio di alimentari o in autobus, spiazzandola. « Do svidanija » disse la zia di Lena, voltando le spalle per andarsene sul marciapiede sgretolato, deformato, con le sue scarpe di plastica a tacco alto, senza dire nemmeno una parola a Lena, come « A dopo » o « Divertiti » o « Ti vogliobene » o « Fai la brava » o « Non me ne importa niente se non ti vedo più; ti odio » o « Divertiti sul Cyclone e goditi per la prima volta l'oceano ». La zia, semplicemente, voltò le spalle e piantò lì Lena. Rasia si accorse che Lena aveva gli occhi ancora un pochino incrostati di sonno e il cuore le si spezzò un po' di più. Rimase lì, sulla porta aperta, a guardare sbalordita la zia che se ne andava a grandi passi, accendendosi una sigaretta senza fermarsi. « Do svidanija » disse Rasia, anche se Ekaterina era già troppo lontano per sentire. Vaclav fa un magnifico ingresso «Lena, entra, bello che sei venuta... Togli scarpe qui, per favore» disse Rasia, indicando accanto alla porta la fila delle scarpe della famiglia: le sue ciabatte, le brutte scarpe da lavoro di suo marito e le nuove, specialissime scarpe di Vaclav con le lucine sul tacco e il velcro dappertutto, perché in America nessuno, nemmeno i bambini piccoli, ha il tempo di allacciarsi le scarpe e tutto deve avere delle luci che lampeggiano. Lena si avvicinò alla fila e mise i piedi allineati accanto alle scarpe vuote. Portava un paio di scarpe da ginnastica di tela e, senza abbassare le braccia né cambiare minimamente la posizione del busto, usò l'alluce del piede sinistro per sfilarsi la scarpa destra. Così si tolse le scarpe senza muoversi granché e senza mai scollare gli occhi di dosso a Rasia. Vaclav, spiando dal corridoio, vide cos'aveva fatto Lena, vide che si era tolta le scarpe con uno sforzo minimo, piazzando i piedi nel punto preciso in cui voleva che fossero le scarpe, per non doverle spostare dopo essersele sfilate dai piedi. Sorrise un po', dentro di sé, e si avvicinò per presentarsi.
« Ciao. Io sono Vaclav. Piacere di conoscerti. Benvenuta nella mia casa. Posso offrirti qualcosa da bere? » disse, sforzandosi il più possibile di non farlo sembrare un discorso preparato. Lena abbassò gli occhi, imbarazzata. «Okay» disse Vaclav. Anche Vaclav cominciava a sentirsi in imbarazzo, chiedendosi come mai Lena non rispondeva, come mai guardava per terra, imbarazzata. Le aveva detto: « Piacere di conoscerti », ma naturalmente non era la prima volta che la vedeva, dal momento che andavano nella stessa scuola e là frequentavano tutti e due il corso di inglese per stranieri. Vaclav si sentì paonazzo. Era preoccupato, ma poi vide che anche Lena aveva la faccia paonazza e preoccupata. Tutti e tre, la madre, il giovane mago e la bambina, se ne stettero lì, in silenzio, a guardare il tratto di pavimento fra loro. « Qualcuno deve andare in bagno, prima di uscire? » chiese Rasia. « No » rispose Vaclav. « Io sono già andato. » Guardò Lena, ma lei non disse niente. «Okay, io faccio pipì e poi usciamo» disse Rasia, che si girò per andare in bagno, lasciando lì Vaclav e Lena a guardare insieme il pavimento. Bambini sotto il metro e dieci Sulla via per andare alla stazione della metropolitana, Vaclav e sua madre fecero lo strano sforzo di parlare in un inglese chiaro e semplice di argomenti che potessero essere di interesse per Lena, di modo che lei potesse ascoltare e non si sentisse esclusa, ma senza sollecitare minimamente un suo intervento o sue risposte. Parlarono del fatto che a fine estate avrebbero cominciato la prima elementare, dei programmi televisivi che piacevano a Vaclav e del caldo che faceva, ma Lena non intervenne. Per tutta la Sedicesima Est e l'Avenue U, e poi per tutto il tragitto fino alla stazione della metropolitana e sulle scale che portavano alla banchina, Vaclav e sua madre fecero un balletto attorno a Lena nel tentativo di tenerla sempre fra loro due, ma lei andava adagio, guardando soltanto per terra, così Vaclav e sua madre continuavano a fermarsi per starle vicino, per alimentare l'illusione che tutti e tre si stessero godendo quella mattinata insieme. Lena non sapeva bene cosa fare. Non era mai uscita con nessuno: solo con la babuška e la zia. Quando la babuška era viva, non uscivano quasi mai, perché la babuška era debole e i pasti le arrivavano gratis dai simpatici volontari di
Meals on Wheels, e la sua babuška li divideva con lei. Così, in generale, uscivano soltanto per andare al negozio sotto casa a comprare la carta igienica o i sacchi della spazzatura, e anche questo molto di rado. In più, Lena non aveva mai preso la metropolitana ed era spaventata perché non aveva soldi. Il suo modo di vedere le cose era diverso da quello di Vaclav, che poteva contare sul fatto che, di qualsiasi cosa avesse avuto bisogno, sua madre gliel'avrebbe data, avrebbe saputo cosa fare e lo avrebbe preparato. A Lena capitava spesso di aver bisogno di soldi, ma la zia non gliene dava mai. Gliene aveva chiesti una sola volta e da allora non lo aveva fatto mai più. Mentre si avvicinavano alla metropolitana, Lena pensava con apprensione che prima o poi qualcosa avrebbe dovuto sborsare e che si sarebbe sentita in imbarazzo e avrebbe dovuto chiedere soldi a Vaclav o a sua madre; e in ogni caso, anche se avesse avuto i soldi, non aveva idea di come funzionassero le cose in metropolitana, non sapeva come si faceva a pagare per salire a bordo e insomma era terrorizzata. Quando furono alla stazione, Lena si fermò e non volle saperne di proseguire, perché non sapeva dove andare, in quell'intrico di ingressi che sembravano gabbie, e vedeva la gente far passare un cartoncino giallo nella macchina, e lei non ce l'aveva, il cartoncino giallo. Vaclav si mise accanto a lei e, da dietro le grandi gabbie di metallo, fece segno all'uomo seduto dall'altra parte, nella cabina. Indicò la propria testa e poi Lena, dopodiché sollevò due dita. Il tornello emise un ronzio e Vaclav la prese per mano dicendo: « Vieni, entriamo insieme! » e poi, per essere sicuro che Lena non si sentisse in imbarazzo, aggiunse: « È più divertente entrare insieme ». Lena era meravigliata che Vaclav conoscesse l'uomo nella cabina, era meravigliata che conoscesse quel segnale della mano al quale l'uomo aveva aperto il complicato cancello per farli entrare tutti e due gratis. Ancora non sapeva, come Vaclav le avrebbe detto in seguito, che i bambini dal metro e dieci in giù viaggiavano gratis se accompagnati da un adulto pagante e, quando glielo disse, il mistero della metropolitana se ne andò e prese il suo posto un incredibile senso di libertà, ma il senso di sicurezza che provò quando Vaclav la tenne per mano non se ne andò mai.
A bordo del treno, Vaclav mostrò a Lena il posto migliore dove sedersi (in fondo, nella direzione contraria a quella del treno, accanto a un finestrino) e Rasia si sedette di fronte a loro, con la borsetta sulle ginocchia, a guardare Lena che guardava tutto e Vaclav che guardava Lena. Il viaggio sul treno Q In treno, Lena vide: una signora bianca con una grande borsa di pelle, grandi stivali di pelle e una grande capigliatura crespa che parlava a un uomo nero che parlava da solo; una bottiglia di vetro mezzo piena di succo che rotolava per terra qua e là, urtando i piedi di tutti; un uomo in giacca e cravatta che raccolse da terra un giornale e se lo mise sotto il braccio per portarselo via al momento di scendere; un uomo con un braccio solo; una signora che portava i guanti come un dottore; una signora magra magra che mangiava del pollo da un vassoietto di cartone; tre ragazzine che si truccavano a vicenda; due vecchie signore che si tenevano per mano; un ragazzo con dei baffi piccolissimi e delle cuffie enormi; una signora con un sacchetto di plastica pieno di sacchetti di plastica; tre uomini tutti con un grande cappello nero e dei riccioli che ricadevano da un Iato e dall'altro della faccia; tre signore tutte con la stessa, identica pettinatura e dei bambini in carrozzina; un uomo che dormiva in ginocchio; una donna che allattava un bambino da sotto la camicia; una donna che piangeva dietro un paio di occhiali da sole; e due bambine in camicia bianca e gonna rossa che ridevano e bisbigliavano. Vaclav vide Lena guardare tutto quanto. Quando viaggiava in metropolitana, per lo più guardava fuori dal finestrino, e ci voleva qualcosa di molto speciale, per esempio un senzatetto scalzo e vestito come un alieno o qualcuno che cantasse fortissimo, per attirare il suo sguardo. Quando Lena ebbe visto tutto quello che c'era sul treno, guardò fuori dal finestrino. Fuori dal finestrino del treno, Lena vide: case che avevano sul retro dei cortiletti microscopici e pieni di giocattoli, corde del bucato e altre corde del bucato, graffiti dai colori sgargianti, spazzatura dall'aria familiare e poco familiare, i tetti degli edifici, spazi per le affissioni dimenticati, spazi per le affissioni con sopra scritto un nome in vernice spray nera, il cielo, piccioni sugli alberi, la fermata di Neck Road, la fermata di Ocean Parkway e, finalmente, il cartello di Coney Island / Stillwell Avenue, cioè la fermata alla quale dovevano scendere.
II mondo, colorato Quando fu il momento di scendere, Vaclav prese di nuovo Lena per mano e le indicò lo spazio vuoto fra il treno e la banchina per avvertirla di stare attenta. Percorsero insieme la banchina fino alle scale, con Rasia alle calcagna. Vaclav sapeva come si arrivava all'uscita, perché era già stato a Coney Island, ma si girò a guardare per essere sicuro che sua madre li seguisse ancora. Sulle scale, scendendo dalla banchina soprelevata, soffiava un vento caldo e ai margini del vento Lena sentì un odore come quello in fondo al supermercato, dove c'era il pesce. Quando attraversarono Surf Avenue, Lena e Vaclav videro il Cyclone snodarsi sopra i baracchini degli hot dog e la signora che faceva i tarocchi e i bambini e le signore in pantaloncini di jeans attillati. Fra le vie, oltrepassati il Cyclone, gli hot dog e la gente, Lena vide la spiaggia e, al di là di quella, l'oceano. A Lena, che era cresciuta in un piccolissimo appartamento grigiomarroncino, con la sua piccolissima babuška grigiomarroncina, e che per andare a scuola aveva percorso strade di cemento, sembrò che avessero colorato il mondo. Insieme, zigzagarono velocemente fra le attrazioni e le bancarelle che vendevano cappelli e T-shirt e fra le cose più assurde e la gente più assurda e i cibi fritti. Sembrava che tutti gli tagliassero la strada e Vaclav aveva già l'impressione di perdere tempo. Lena, con la mano ben stretta alla sua, non guardava la gente che li circondava come aveva fatto in metropolitana. Scavalcava con lo sguardo tutte le cose che aveva davanti senza mai staccarlo dal grande oceano blu. Tra spinte e « mi scusi », riuscirono a farsi strada e ad arrivare in fondo, sulla calda passerella di legno, dove a ogni passo le assi si sollevavano un po' come i tasti di un pianoforte. Rasia arrancò fino a una panchina e si sedette. « Un minuto » disse. « Ci riposiamo. » Faceva troppo caldo; Rasia sudava da ogni poro e la sciatica le massacrava la gamba. « Dai, mamma, andiamo alle giostre » disse Vaclav. « Un minuto » ripeté Rasia. «Uno uno uno, due due due, tre tre tre, quattro quattro quattro... » cominciò Vaclav, contando i secondi per arrivare a un minuto. « Ehi, Mr Fuocosottosedere, guarda che non volevo dire un minuto esatto: volevo dire che ci riposiamo un po' » disse lei. Vaclav fece una faccia come se stesse per scoppiare.
« Dai! » disse. « Il tempo fugge! Ci stiamo perdendo le giostre! » Non riusciva a contenersi. Lei guardò in su verso la gigantesca Wonder Wheel che li sovrastava. Dal punto in cui era seduta, vedeva i cestelli e la cima delle teste della gente che c'era dentro. Non le sembrò affatto veloce. « Dai! » ripete lui. « Dai dai dai! » « Va bene, senti » disse lei. « Voi ora andate alla Wonder Wheel, fate un giro e poi tornate subito qua. » E diede a Vaclav dieci dollari in biglietti da uno. Aveva parlato a lungo con Vaclav delle regole da rispettare per impedire che a suo figlio succedessero tutte quelle cose orribili che vedeva ogni settimana alla televisione americana. Lui sapeva di dover evitare di parlare con gli sconosciuti, sapeva chiedere aiuto a un poliziotto, sapeva strillare se qualcuno lo importunava e sapeva di dover rimanere fermo dov'era se si perdeva. Per cinque minuti se la sarebbe cavata benissimo. « Sì! » disse Vaclav. « Lena, andiamo! » Guardandolo inoltrarsi nella grande folla americana, sotto il grande ottovolante americano, sentì il mondo allontanarsi vorticando all'impazzata e rimase lì a piangere, perché era felice e triste che lui non si fosse voltato a guardarla, perché amava tanto quel suo corpicino e quella sua strana testa di riccioli ribelli e quel torace minuscolo, e il fatto che sapesse già prendere per mano una bambina se lei aveva paura. Bambini sotto il metro e dieci ma sopra gli ottantacinque centimetri Vaclav e Lena attraversarono la passerella lasciandosi l'oceano alle spalle, con Vaclav che trascinava Lena per mano dietro di sé perché lei continuava a girarsi per vedere se l'oceano si muoveva : sembrava andare verso di lei, prima avanti e poi indietro, e lei temeva che potesse montare o aggredirla di colpo e travolgere tutto. Vedeva già l'acqua inondare tutte le bancarelle e le giostre; vedeva già tutto ricoperto d'acqua; si vedeva già fluttuare sul pelo dell'acqua, seduta in cima alla ruota panoramica. « Prima andiamo sulla Wonder Wheel! Non c'è la fila! » disse Vaclav, e tirò Lena verso l'ingresso, di corsa per battere le orde immaginarie. Vaclav e Lena aspettarono al cancello che arrivasse l'uomo a prendere i soldi. Il cancello era dipinto di azzurro e nei punti in cui la vernice era scrostata si vedeva che prima era stato dipinto di verde, di arancione, di nero, e giù in fondo era rosso e arrugginito.
L'uomo disse: « Ehi, bambina, tu non sei abbastanza alta per andare su questa giostra » e indicò un clown di compensato che aveva un braccio allungato in fuori, col palmo in giù. Sulla pancia del clown c'erano dipinte le parole PER SALIRE SULLA GIOSTRA DEVI ESSERE ALTO COSÍ. L'uomo aveva parlato a Lena a voce alta e lei non aveva capito cos'aveva detto, così guardò Vaclav, spaurita. Vaclav prima guardò il clown e poi Lena, e capì che era impossibile far credere a quell'uomo che Lena fosse abbastanza alta, nemmeno facendola sollevare sulle punte. « Fa niente. Tanto non è divertente » disse Vaclav. Lena non capiva cos'era successo, non capiva il clown né le parole che c'erano scritte sopra; capiva soltanto che non le avevano permesso di andare sulla giostra ma che Vaclav l'aveva perdonata. Vaclav e Lena tornarono alla panchina di Rasia. « Su quella giostra non ci possiamo andare; non ci lasciano» disse Vaclav. «Andremo su un'altra giostra... » Si girò e puntò il dito verso il Cyclone. « Quella» disse. « D'accordo, andate su quella giostra e poi tornate subito » disse Rasia, ma all'ingresso del Cyclone un altro clown diceva che stavolta nessuno dei due era abbastanza alto. Vaclav pensò che sua madre non avrebbe avuto niente in contrario se avessero cercato un'altra giostra. Camminando fra le bancarelle, Vaclav e Lena videro molte, molte altre giostre, tutte presidiate dal clown che diceva DEVI ESSERE ALTO COSÌ. Quando pensavano di aver individuato una giostra senza clown, improvvisamente qualcuno si spostava mostrando che il clown in realtà era sempre stato nascosto lì. Vaclav, tuttavia, non si diede per vinto: trascinò Lena fra la gente e le giostre fin dall'altra parte/così si ritrovarono quasi in Surf Avenue e Lena non vedeva più l'oceano. Sarebbe bastato andare nella direzione opposta per trovare le giostre per i piccoli, ma non ci andarono. Vaclav e Lena erano all'angolo, con le giostre alle spalle e la metropolitana, tutta Brooklyn, tutta Manhattan, tutti gli Stati Uniti davanti a loro. Non lo sapevano ancora, ma erano esattamente di fronte al teatro del Coney Island Sideshow.
Il teatro del Coney Island Sideshow, famoso in tutto il mondo « Solo cinque dollari. » Si girarono e videro un uomo in frac e cappello nero in piedi su un piccolissimo palcoscenico davanti a un edificio dipinto di colori pazzeschi. La facciata era ricoperta di cartelloni che dicevano SPETTACOLO DI MOSTRI e BIRRA, due cose che, aggiunte all'ingresso molto buio, fecero pensare a Vaclav che, anche qui, lui e Lena erano troppo piccoli per entrare. « Uomini, donne, bambini! Esseri umani di tutte le età, forme e misure, venite! Entrate! » strillava l'uomo. L'uomo aveva detto « tutte le età, forme e misure », ma ciononostante Vaclav pensava che lui e Lena dovessero starne alla larga, perché quel posto gli faceva una strana impressione, gli ricordava il Video Palace in cui gli era permesso di guardare qualsiasi video e DVD nella parte frontale del negozio, ma la volta che era capitato per caso dietro una tenda nera, non per curiosità ma, appunto, per puro caso, il commesso gli aveva sbraitato contro e lui si era imbarazzato, spaventato, accaldato e arrabbiato. Vaclav avrebbe voluto che succedesse qualcosa di bello per far felice Lena, ma le giostre erano finite. Così decise di rischiare. Tirò fuori i suoi biglietti da un dollaro e li mise nelle mani dell'uomo che strillava: « Entrate! » L'uomo si inclinò un po' all'indietro per infilarsi nella tasca posteriore i dollari di Vaclav e poi gli tese la mano. Vaclav gliela strinse, ancora col timore che quell'uomo li mandasse via e per punizione si tenesse i soldi. L'uomo gli scrollò la mano su e giù. « Bella scelta, ragazzo! Lo spettacolo sta per cominciare, forza, entrate! » Lasciò andare la mano di Vaclav e loro via, entrarono, entrarono in un corridoio buio. In fondo al corridoio c'era un'insegna che diceva a colori sgargianti FAMOSO TEATRO DEL CONEY ISLAND SIDE SHOW, con sotto una grossa freccia puntata verso una porta dipinta di nero e cosparsa di pedate di polvere. Vaclav aprì la porta e, quando misero piede in sala, un formicolio li attraversò dalla cima della testa giù giù fino alle dita dei piedi dentro le calze e le scarpe da ginnastica e tutti e due trattennero le esclamazioni, che erano respiri strozzati, risolini, grida, ma le esclamazioni premevano dentro la testa e, più premevano, più gli occhi si ingrandivano e, più gli occhi si ingrandivano, più erano le cose che loro vedevano di tutte quelle che c'erano
da vedere. Per non far stare troppo in pensiero la madre di Vaclav, dovettero andarsene a metà spettacolo, ma le cose che videro bastarono per cambiare tutto. Dopo lo spettacolo, Vaclav e Lena tornarono subito da Rasia, che avendoli persi di vista da un po' iniziava ad agitarsi. Senza nemmeno parlarne sapevano che quell'esperienza l'avrebbero tenuta segreta. Se una cosa la senti vicino alle viscere, capisci che dovrai tacerne, perché se la raccontassi e qualcuno ne parlasse male o, peggio, ne ridesse, ci soffriresti molto. E poi Vaclav sapeva di non aver seguito fino in fondo le regole, sapeva che quello spettacolo non era esattamente una giostra e che dicendolo alla madre rischiava di mettersi nei guai. Così diventò un segreto. Quando Rasia chiese com'era andato il giro in giostra, Vaclav rispose che era stato bellissimo ma che si poteva tornare a casa, perché faceva troppo caldo e perché le altre giostre erano stupide e noiose. Arrivati a casa, Vaclav e Lena andarono subito in camera di Vaclav per starsene da soli con quanto avevano visto. La primissima cosa che fecero fu buttare giù un elenco degli artisti del Sideshow, dei trucchi che avevano fatto e di tutti gli oggetti che avevano usato. Cinque anni dopo, un'altra cosa diventò un segreto « Il bikini dorato con frange di Heather Hollyday » dice Lena. Lo dice a voce bassa, come se respirasse le parole, come se le dicesse non a Vaclav ma all'universo, come se recitasse una preghiera. Lui, dall'alto della sedia, guarda giù verso Lena. Lena gli legge in faccia la preoccupazione, soprattutto nelle sopracciglia e un po' anche attorno al naso. « Il bikini dorato con frange di Heather Hollyday » dice Lena « è perfetto. » Vaclav sa che quel bikini non va bene per Lena e sa anche che Lena vorrebbe tanto indossarlo. « Okay » dice, « andata. » Lena sorride e comincia a pensare a come copiare il costume più incredibile mai indossato da qualsiasi assistente di mago del mondo. « Stasera cominciamo a progettare Io spettacolo. Cominciamo con i nostri elenchi » le dice Vaclav, e Lena si mette a pancia in giù accanto al letto e si allunga tutta estendendo le braccia e le gambe per arrivare bene in fondo
sotto il letto e con la punta delle dita tocca e tira la scatola della magia con dentro gli elenchi e i progetti per il loro spettacolo di magia da fare insieme, il primo in assoluto. Vaclav si mette per terra davanti a lei con il bloc notes e la penna, pronto a compilare altri elenchi. Lena, delicatamente, cerimoniosamente, solleva il coperchio della scatola, facendo attenzione a non disturbare la magia che potrebbe ribollire dentro. Per cominciare, dissigillano l'uno dopo l'altro i numerosi elenchi arrotolati e l'uno dopo l'altro li leggono meticolosamente. Iniziano da quelli fatti il giorno che si conobbero, quando tornarono da Coney Island e Vaclav annotò tutto quel che avevano visto e tutte le cose che il presentatore aveva detto degli artisti. SPECIALITÀ DEL GRANDE FREDINI1 1. Peggiore mago del mondo 2. Testa di legno umana 3. Mangiatore di spade 4. Ventriloquo 5. Metamorfosi, giochi di prestigio e levitazione 2 COSTUME E ASPETTO FISICO DEL GRANDE FREDINI Secondo la stima di Vaclav, il Grande Fredini è alto più o meno due metri e pesa più o meno un quintale e mezzo. Indossa una vasta gamma di costumi, fra cui: 1. Marsina zebrata e con paillettes 2. Frac 3. Costume tipo di Aladino SPECIALITÀ DI HEATHER HOLLIDAY 1. Mangiatrice di spade 2. Mangiatrice di fuoco 1Il grande Fredini non è il miglior mago vivente nel mondo,che è invece David Copperfield. Non è nemmeno il più grande mago di tutti i tempi,che è invece Henry Houdini,che è morto. Non è nemmeno,certissimamente,il peggiore. Si tratta in realtà di uno sketch comico e la comicità sta nel fatto che lui in realtà è un bravo mago,che fa trucchi e giochi di prestigio eccellenti.
2La parte preferita di Vaclav
COSTUME E ASPETTO FISICO DI HEATHER HOLLIDAY 3 Heather Holliday indossa alcuni costumi esclusivi fra cui: 1. Il bikini dorato a frange. Vaclav dà una scorsa agli elenchi, che sono di grande bellezza, nella calligrafia di Vaclav e con i disegni di Lena, e che un giorno, quando Vaclav il Magnifico e la sua assistente, l'incantevole Lena, saranno maghi molto famosi e riempiranno ancora più teatri di David Copperfield, saranno venduti a un'asta così: « Venduti! Per un miliardo di dollari americani! » Ci sono altri elenchi. ELENCO DEGLI ELENCHI Costumi Necessario per costumi Posti in cui trovare il necessario per costumi Giochi di prestigio Necessario per giochi di prestigio Posti in cui trovare il necessario per giochi di prestigio Il programma Cose da fare Cose da far apparire Cose da far levitare Cose da far scomparire Cose da trasformare in colombe Colombe da trasformare in cose Questi sono gli elenchi.
3Secondo Lena,le cose importanti da dire su Heather Holliday sono che è la più giovane mangiatrice di spade al mondo,che è incantevole e che è scappata di casa perché appartiene ad una famiglia di mormoni,cosa che sembra brutta. Inoltre, è stata colpita da un fulmine. Basta. Secondo Lena,ha una certa importanza sapere che Heather Holliday è stata colpita da un fulmine ed è evidente che il fulmine le ha dato qualche potere magico.* *Questa è una bella cosa da sapere,per Lena,perché anche lei sta aspettando i suoi poteri magici;Vaclav invece ha già i suoi,perché ci è nato,con i poteri magici. Ha incontestabilemente dei poteri fin da neonato, ed è la verità.
Trucco per confondere A Vaclav è chiaro che le prime cose da progettare sono i giochi di prestigio, così prende l'elenco intitolato « Giochi di prestigio » e comincia a leggerlo. Nell'elenco ci sono molti giochi di prestigio tra cui scegliere. C'è quello sorprendente della bambina che rimpicciolisce, quello della colomba fatta in quattro e infine quello incredibile del pubblico che scompare. « Lena, per il primo spettacolo sul lungomare proveremo questi tre giochi di prestigio. Mi viene in mente che ci serve anche un elenco di nomi tra cui scegliere quello per lo spettacolo. Nell'elenco degli elenchi aggiungerò 'Possibili nomi per lo spettacolo sul lungomare' e poi cominceremo a fare l'elenco. Il primo nome possibile sarà 'Lo spettacolare spettacolo del lungomare di Coney Island', poi ne aggiungeremo molti altri. Quando avremo provato e affinato i tre giochi di prestigio, potremmo aggiungere una sparizione e una levitazione, magari mettendo la sparizione a fine spettacolo. Farò un elenco con l'ordine dei numeri all'interno dello spettacolo e lo aggiungeremo all'elenco degli elenchi. » Mentre Vaclav aggiorna gli elenchi e l'elenco degli elenchi, Lena si crea il suo. FACCIMENTO BIKINI DORATO Comprare bikini dorato Prendere stoffa dorata segreto Colla Frange Vaclav, sbirciando l'elenco di Lena da sopra la sua spalla, comincia ad agitarsi e si agita sempre più, ancora di più della prima volta che Lena ha nominato il bikini dorato a frange, preoccupato che, con quella sua ossessione per il bikini, possa capitarle qualcosa di molto brutto. Riflette di nuovo che non è un costume adatto a lei, un bikini con due pezzi e niente in mezzo, ma Lena si è innamorata di questa sua idea. « Lena, facciamo le prove, prima: ai costumi penseremo dopo » dice Vaclav, e Lena si dice d'accordo, ma solo perché ha già finito il suo elenco ed è soddisfatta del progetto. Insieme si mettono a provare il trucco della moneta che scompare, con Vaclav che espone e ordina agli spettatori, pazienti e affascinati, di guardare qui e stare attenti là, mentre Lena assiste e studia e perfeziona il modo corretto di inclinare i polsi per attirare l'attenzione sul posto giusto e sviarla da quello sbagliato.
Lo spettacolo deve rimanere segreto. Decidono che magari la cassa delle sparizioni possono costruirla nella camera di Vaclav e nasconderla nel suo armadio. Poi basterà portarla fuori di casa senza farsi vedere da Rasia. Lena approva questo piano, perché una delle cose che fa Heather Holliday al Coney Island Sideshow è scomparire nella cassa delle sparizioni, e Lena vuole essere in tutto e per tutto come Heather Holliday. Le prove vanno avanti fino a tardi, perché fortunatamente Rasia si addormenta davanti alla tivù e va a interromperle quando sono già quasi le dieci. « Lena, ha chiamato tua zia: mi chiede di portarti a casa» dice Rasia. Lena va a letto Vaclav sa che sua madre ha detto una bugia, e anche Lena lo sa, e ovviamente lo sa anche Rasia, perché è stata lei a dirla, la bugia, ma tutti fingono che la zia di Lena abbia telefonato davvero, e sono bravi a fìngere, perché fingono tutte le sere. Lena prepara lo zainetto, contenta di mettere via i compiti per domani finiti e giusti al cento per cento, e si allaccia le scarpe mentre Rasia si infila i mocassini. Poi, insieme, si incamminano verso casa di Lena. Al primo incrocio, Rasia prende Lena per mano: lo fa solo per farle attraversare la strada senza pericolo, ma poi per il resto del tragitto non gliela lascia più andare. Tutte le sere che Ekaterina non viene a prendere Lena, tutte le volte che Ekaterina si mostra irresponsabile, inaffidabile, disamorevole, Rasia si sente rafforzata nel diritto di voler bene a Lena quanto gliene vuole, cioè moltissimo. Lena sale i gradini uno alla volta, lentamente, per non lasciare indietro Rasia. Apre la porta a zanzariera e la tiene aperta per far entrare Rasia, poi apre la grande, pesante porta di ingresso ed entra nell'appartamento buio. Rasia la segue in casa, borbottando che deve accertarsi che Lena sia al sicuro, che in casa non ci sia nessuno, che tutto sia a posto. Sono cose che borbotta tutte le sere che accompagna a casa Lena. Stasera Lena accende la luce dell'ingresso e Rasia vede che tutt'intorno c'è lo stesso disordine di ieri.
Rasia dà il tempo a Lena di entrare nella stanza in cui dorme, una stanza che mai e poi mai riuscirebbe a considerare una camera da letto: per lei è solo la stanza in cui dorme Lena, perché non è una vera e propria camera da letto, non la camera da letto che Rasia avrebbe allestito se Vaclav fosse stato una bambina. Rasia aspetta di udire i rumori di Lena che si prepara, che sono questi: Il rumore di Lena che apre e chiude dei cassetti. Il rumore di Lena che abbassa il materasso messo in piedi contro la parete. Il rumore dell'aria che esce dallo spazio fra il materasso e il pavimento di modo che il materasso, con un tonfo, può cadere a terra. Dopo aver sentito tutti questi rumori, Rasia entra nella stanza in cui dorme Lena e, senza dir niente, va a prendere la coperta nell'angolo, una coperta lisa e infeltrita color pesca con delle macchie gialle e la seta ai bordi, mentre Lena è seduta sul letto ad aspettare. « Bene » dice Rasia. « Facciamo questo letto. » Lo dice tutte le volte, fin dalla sera che Lena conobbe Vaclav e vide il bikini dorato a frange di Heather Holliday. Rasia, accanto al materasso, tiene la coperta per due angoli. Sollevando agilmente le braccia, apre la coperta facendola gonfiare sopra Lena e poi la lascia ricadere delicatamente sopra tutto il letto, anche sopra la testa di Lena. La prima volta fece così perché era così che faceva con Vaclav tutte le sere: era parte del rituale quando lo metteva a letto. Lui si sdraiava e stava assolutamente immobile, mentre lei fingeva di non vederlo, fìngeva che lui fosse lì solo per caso mentre lei rifaceva il letto, fìngeva di essere molto seccata per quel misterioso bitorzolo e alla fine gli raccontava una storia nella speranza che la storia potesse in qualche modo fare andare via quel bitorzolo ostinato. La prima sera, Rasia fece con Lena esattamente come faceva con Vaclav perché non sapeva che altro fare, dopo aver aspettato che qualcuno venisse a prendere la bambina, dopo aver deciso, alla fine, di accompagnare la bambina a casa, dopo aver aspettato per un'eternità che Ekaterina venisse ad aprire, dopo averci messo troppo a scorgere la paura e la vergogna sul viso della bambina, dopo essersi fermata troppo a lungo nell'ingresso, a fissare troppo a lungo i portacenere strapieni, i bordi taglienti del tavolino di vetro, i vestiti sparsi dappertutto. Era impietrita, non sapeva cosa fare, così fece
l'unica cosa che sapeva. Disse a Lena di mettersi a Ietto. Lena, seguendo gli ordini, andò difilato nella sua camera. Rasia la seguì. La stanza era spoglia: c'era solo un materasso nudo buttato per terra. Rasia rimase lì a guardare finché si rese conto che Lena stava aspettando con ansia che lei uscisse per svestirsi e mettersi il pigiama. Rasia aspettò qualche minuto in corridoio e poi tornò dicendo: « Mettiti a letto » e Lena così fece, dopodiché Rasia fìnse che Lena non fosse a letto. Durante il rituale della buonanotte, quando Rasia diceva: « Facciamo questo letto » o « Ma da dove diavolo è spuntato questo bitorzolo?», Lena non ridacchiava come faceva Vaclav. Lena dava l'impressione di accondiscendere, di accettare volentieri il rituale, ma non sorrideva mai. Tuttavia, Rasia non aveva mai preso in considerazione la possibilità di cambiare o omettere nemmeno una parola o un gesto. Stasera, Rasia ha fatto con Lena questo gioco perché è il gioco che fanno tutte le sere da cinque anni. Così, ha fatto i suoi vani tentativi di spianare il bitorzolo, tirando bene la coperta, lisciandola vicino, sopra e attorno al bitorzolo, e poi ha detto: «Okay, bitorzolo. Hai vinto tu. Raccontiamo una storia. Quando non si riesce a togliere di piedi una cosa o una persona, per farla andare via bisogna sempre raccontare una storia lunga e noiosa». La storia lunga e noiosa Rasia è seduta in fondo al letto di Lena, che in realtà è semplicemente il materasso di Lena messo per terra. « Okay, la storia. » Rasia le racconta la storia in russo, anche se in tutti gli altri momenti il russo è severamente vietato. Lo fa per Lena, perché non debba sforzarsi di capire, ma lo fa anche per se stessa. « C'era una volta, in una terra lontana che si chiamava Mosca, una principessa. Tanto perché tu lo sappia, nel caso ti fossero giunte voci, oggi Mosca è molto diversa da com'era a quei tempi. La Mosca di questa storia è bellissima. La Mosca di questa storia non è piena di povera gente, ma solo di persone che vanno dal fornaio a comprare pane fresco con soldi veri, non con soldi che valgono meno della carta con cui sono stampati. Un tempo, a Mosca, si poteva camminare per strada senza incrociare uomini seduti sui marciapiedi che quando passi urlano e ti mostrano le dita che hanno perso nel gulag.
«Bene, allora, dov'eravamo? C'è una principessa, una principessa alla quale piace gironzolare nei mercati vestita di una shmata e brutti calzoni da contadino, perché come quasi tutte le principesse delle fiabe non sopportava di essere una principessa e non sapeva quant'era fortunata. Le piaceva fìngere di non essere una principessa, perché così si sentiva una ragazza come le altre. «Un bel giorno di sole, stava gironzolando in un mercato quando si imbatté in un ragazzo. Anzi, gli andò addosso, tanto era presa a guardare la vecchia cieca che vendeva uova sode da un paniere, perché era disgustata al pensiero che qualcuno comprasse le uova toccate dalle dita sudice e nodose della vecchia. Cadde e, proprio in quel momento, stava arrivando un carretto tirato da un cavallo: per un soffio non le passò sopra la testa spaccandola come un melone, ma il ragazzo, il ragazzo l'afferrò per la mano e la tirò a sé, salvandole la vita. Ovviamente lei svenne nelle sue braccia. « Quando la principessa si risvegliò, il ragazzo era in ginocchio accanto a lei, con il viso che le sfiorava il naso, e lei per un attimo ebbe paura di lui, e l'attimo dopo si chiese come si chiamava, e l'attimo dopo si chiese tutto di lui, e l'attimo dopo si spaventò al pensiero che lui se ne andasse per sempre e lei potesse perderlo. Si era innamorata di lui e in più lui le aveva appena salvato la vita. Anche lui si era già innamorato di lei, perché era una principessa, benché non lo sapesse. Succede sempre così con le principesse: i ragazzi si innamorano di loro senza una ragione. « Poi la principessa e il ragazzo fecero quello che tutti fanno quando si innamorano: seduti su secchi rovesciati, qualcosa del genere, in un freddo vicolo malfamato vicino al mercato, e senza pensare alla fame, alla sete, alla stanchezza e alle loro madri, che si chiedevano dove fossero, si dissero l'un l'altra tutte le cose che sapevano, tutte le cose che gli piacevano e non gli piacevano, tutti i colori e i libri preferiti e che genere di pioggia prediligevano, se qualche spruzzata o gli acquazzoni. «Poi la principessa svelò al ragazzo di essere una principessa e lui le disse una cosa che lei aveva già capito dai suoi vestiti laceri: che era un contadino. « In lacrime, lei gli disse che doveva tornare al castello. « Con un tremendo nodo allo stomaco, gli disse anche che non potevano frequentarsi, che suo padre, un vecchio re cattivo, non lo avrebbe permesso. « Lui le rispose: 'Non preoccuparti. Scapperemo insieme'.
« Lei era confusa, perché da una parte lo amava, ma dall'altra amava anche essere una principessa, e voleva bene alla madre e alle sorelle, ed era sempre vissuta nel castello, e non era sicura di poter scappare via per sempre. « Lui le disse che aveva un po' di tempo per pensarci. « Le disse che tutte le notti, per cento notti, sarebbe andato sotto la sua finestra, ai piedi del castello, ad aspettarla e che, se una di quelle notti lei fosse uscita, sarebbero scappati insieme. Se dopo cento notti di attesa lei non fosse uscita, lui avrebbe avuto la risposta e l'avrebbe lasciata in pace. «La principessa tornò al castello. Quella notte lui aspettò sotto la sua finestra. « E lei non arrivò. « La notte dopo, di nuovo aspettò sotto la sua finestra. « E lei non arrivò. « Tutte le notti, per novantanove notti, lui aspettò, accoccolato sotto la finestra come un ragno nel buco, e lei non arrivò. « La centesima notte, l'ultima, non aspettò sotto la finestra pensando che non avrebbe mai sopportato di scoprire che la principessa non sarebbe mai stata sua, che non lo amava abbastanza, non quanto lui amava lei. Era meglio non saperlo, pensava. « La centesima notte, la notte in cui non aspettò sotto la sua finestra... » Lena interrompe la storia russando sonoramente da sotto le coperte. A quel rumore Rasia si riscuote: era tanto impegnata a raccontare la storia da non essersi accorta che Lena si era già addormentata. Lena dorme Rasia rimane seduta per molti minuti a guardar Lena dormire, a guardare la sua schiena sollevarsi e abbassarsi, a guardare la sua bocca fare quei piccoli movimenti da neonato che la nostra bocca ricorda solo quando dormiamo. Quando Vaclav dorme, lei sente il bisogno di guardarlo e sa che nessuno sente lo stesso bisogno di guardare Lena. Dopo aver guardato Lena dormire per molti minuti, si alza, va cautamente alla porta e spegne la luce. In cucina, attorno ai piatti nel lavandino, c'è uno sciamare di moscerini, piccolissimi. Rasia pensa a Lena, che di notte potrebbe svegliarsi assetata e non trovare una tazza pulita, non aver modo di riempire d'acqua un bicchiere pulito. Trova sotto il lavandino un flacone di Ajax con dentro ancora un po'
di liquido giallo. Riempie il lavandino di acqua calda saponata e lava i piatti finché non ne rimangono più. Raccoglie dallo scarico dei vecchi mozziconi di sigaretta e li butta via, poi pulisce il lavandino fino a farlo brillare. Sul ripiano accanto al lavandino c'è uno scolapiatti con delle macchioline di muffa nera tra le giunture e le scanalature. Rasia lo pulisce finché la muffa non c'è più Quando i piatti sono asciutti, non c'è un posto dove metterli, perché gli scaffali degli armadietti sono impolverati, appiccicosi e pieni di schizzi, così, con una spugnetta umida, Rasia pulisce tutti gli interni. La cucina è pulita (non pulita come la sua, però molto migliorata), ma Lena, se dovesse alzarsi di notte, andando verso la cucina potrebbe inciampare nei vestiti per terra. Potrebbe inciampare e andare a sbattere col ginocchio contro il tavolino. Potrebbe buttare giù un portacenere pieno di mozziconi, fiammiferi e gomme da masticare. Potrebbe calpestare una delle scatole per la pizza che ci sono per terra, piene di pezzi di mozzarella ammuffita. Lena, andando assonnata verso la cucina, potrebbe mettere un piede su una delle bottiglie vuote di Stolicnaja sparse per terra. Rasia vuota i portacenere; porta fuori le bottiglie, le butta nella campana del vetro sul marciapiede; va a gettare nel cassonetto le scatole della pizza. Lava i portacenere. Butta via i bicchieri di cartone del fast food che ingombrano il tavolo, le scatole degli hamburger, le lattine di Diet Coke. Prende su una bracciata di vestiti di Ekaterina, vestiti impregnati di fumo e profumo. Varca la porta aperta della camera di Ekaterina per andare a cercare il cesto del bucato. Con una mano accende la luce. Sta solo cercando il cesto del bucato. Non c'è nessun cesto del bucato. Guarda meglio, per sicurezza. Sul comodino, accanto al materasso nudo, ci sono cucchiai, carta stagnola e cannucce, ma di cesti del bucato neanche uno. Ci sono delle bustine trasparenti, ma nessun cesto del bucato. C'è sporcizia ovunque, ci sono boccette e contenitori vuoti sparsi, ma nessun cesto del bucato. Ci sono bombolette di lacca e cartacce di ogni genere, ma Rasia non ha proprio intenzione di pulire questa stanza, assolutamente no. Questa stanza è fuori dal giro che deve fare Lena per andare a prendere un bicchiere d'acqua.
Tornando a casa, alla sua, a quella di suo figlio e di suo marito, Rasia riflette bene su Lena, come ha già fatto tante volte. Pensa allo strano comportamento di Lena e Vaclav; pensa a Ekaterina. Rasia non è stupida: sa come va il mondo. Conosce la storia di quei cucchiai, quella stagnola e quelle cannucce. Non sa cosa fare. Oleg dice che dovrebbe farsi gli affari suoi. Non sa cosa fare. Il sarcofago egizio del mistero A scuola, Lena è sempre insieme alle nuove amiche e ignora Vaclav. Dietro porte chiuse, Vaclav e Lena provano lo spettacolo tutti i giorni dopo la scuola, nelle ore rubate fra i compiti e il momento di andare a letto. Vaclav si sbriga il più possibile con i compiti di Lena, macinando lunghe divisioni, sfornando frase dopo frase in un inglese dagli accenti perfettamente leneschi. Vuole essere sicuro di avere il tempo di provare e riprovare. Sia Vaclav sia Lena pensano continuamente allo spettacolo. Pensano allo spettacolo la mattina al risveglio, sotto la doccia, durante l'appello in classe, a ricreazione, durante l'ora di ginnastica e all'ora di dormire, quando tutti e due ascoltano la stessa storia raccontata dalla stessa mamma. In camera di Vaclav, consultano L'almanacco del mago per sapere come si costruisce una cassa per le sparizioni. « Leggi ancora » dice Lena, camminando avanti e indietro. «Apparentemente il sarcofago è una cassa sigillata provvista nella parte anteriore di un'anta incernierata. Invisibile al pubblico, e fondamentale per il numero, c'è un doppio fondo che contiene un piccolo scompartimento in cui il mago si nasconde » legge Vaclav. « Mmm » fa Lena. « Non capisco » dice Vaclav. « Dov'è che vado quando scompaio? » « Vai dentro, chiudi porta, come un armadio. Poi infili dietro parete dietro, che non è vera parete dietro, è un'altra porta, e poi apri la porta davanti e il pubblico vede che non ci sei più, ma in realtà sei dietro questa seconda porta. Semplice » dice Lena. « Semplice, ma per costruire la cassa, guarda... » Vaclav solleva il libro per mostrarlo a Lena. Le istruzioni per costruire il Sarcofago egizio del mistero sembrano complicatissime; sono piene di numeri e simboli.
« Mmm » fa Lena. «Dov'è che prendiamo tutta questa roba?» chiede Vaclav. Lena ci pensa. « Questa è una cosa che per costruire vuole molto tempo. Troviamo questo pezzo di legno sul marciapiede, qualcuno butta, noi prendiamo. Poi dopo troviamo qualcuno che ha legno in più in casa e prendiamo. Poi, quando avremo abbastanza, costruiremo.» Sospira. « Quindi non faremo in tempo. Per spettacolo. » Vaclav sa che ha ragione, che ci vorrà un sacco di tempo per raccogliere tutto il materiale necessario per costruire questo sarcofago. Fa un'orecchia alla pagina per ricordarsi poi di guardare che cosa serve raccogliere, cosi, quando arriverà il momento in cui la gente si sbarazza dei divani e dei vecchi armadietti della cucina, potranno rovistare nelle cataste sul marciapiede. Sfoglia l'almanacco, cercando un nuovo numero da aggiungere. Lena prova lo shimmy per il trucco della moneta che scompare. Quando Vaclav e Lena non sono insieme, Vaclav è emozionato all'idea di dire a Lena cosa pensa dello spettacolo. Gli piace parlarle di tutti i problemi che lo preoccupano. Sa che, quando le parlerà di un problema, lei lo guarderà come se lui fosse una tartaruga un po' stupida, perché, come lui avrà visto subito il problema, lei vedrà subito la soluzione. E poi, ovviamente, gli piace raccontarle tutte le sue nuove idee per i trucchi che di sicuro riusciranno. Quando Vaclav e Lena non sono insieme, anche Lena pensa emozionata allo spettacolo, ma è anche preoccupata che le sue nuove amiche possano considerare lo spettacolo una stupidaggine e sa che sullo spettacolo la zia la prenderebbe in giro, ancora di più di quanto la prenderebbero in giro i ragazzi a scuola, e in un modo ancora più brutto. Quando Vaclav pensa allo spettacolo e al fatto che la magia è un segreto tra lui e Lena, si emoziona. Lena ha vergogna, perché lei, questo segreto, lo mantiene per altre ragioni. Il giorno prima dello spettacolo Il giorno dello spettacolo sarà sabato. Vaclav sa che sabato è il giorno in cui c'è più gente sul lungomare di Coney Island, perché è il giorno in cui c'è più gente a casa dal lavoro o da scuola. Le eccezioni sono sua madre e suo padre, che devono lavorare nel fine settimana, e le persone che lavorano nei ristoranti, le persone che guidano i treni della metropolitana e le persone che
lavorano negli ospedali, perché tutte queste cose non chiudono nel fine settimana. E anche, ovviamente, i maghi. I maghi possono fare le magie tutti i giorni della settimana. Anche se è autunno, fuori fa ancora caldo e il lungomare sarà affollato di gente che si gode le ultime briciole d'estate prima che faccia troppo freddo. Il giorno prima dello spettacolo, venerdì, Vaclav si sveglia presto ed è insopportabilmente agitato. Si lava i denti e sente che ogni momento è insieme breve e lungo. Sente un fremito allo stomaco: farfalle che battono le ali tanto forte da rischiare di finire in uno sbuffo di fumo magico. Vaclav non vede Lena andare a scuola, sul marciapiede, come invece succede di solito. E non la vede davanti alla scuola a parlare con Marina e Kristina. È preoccupato che arrivi in ritardo e che per questo finisca nei guai. Per tutto il giorno, Vaclav non riesce a concentrarsi sulle lezioni, perché continua a pensare al suo spettacolo, ed è come tenersi in bocca una caramella cercando di non mangiarla. E emozionante come quando si esce da scuola in anticipo per andare dal dottore, sapendo tutto il giorno che la mamma verrà a prenderti e addirittura ti porterà delle merendine da mangiare in sala d'aspetto. E come il giorno del compleanno, quando tutto, per tutto il giorno, è speciale e chiunque incroci per strada e in pizzeria, tutti quanti nel mondo partecipano al tuo compleanno, anche se loro non lo sanno. Vaclav si preoccupa ancora di più quando arriva nell'aula di inglese per stranieri, perché Lena non c'è, mentre di solito arriva prima di lui. Tiene bene d'occhio la porta, guarda ogni bambino che entra, maschio o femmina che sia, per controllare se è Lena e, anche quando è chiaro che non è Lena, pensa che avrebbe potuto esserlo per una brevissima frazione di secondo. Quando Colin entra in classe, per un attimo Vaclav pensa che Colin possa essere Lena, anche se Colin è un maschio e viene da un paese africano che si chiama Costa d'Avorio, in cui parlano il francese, e che in francese si dice codavuar, e lui non assomiglia minimamente a Lena. In più, Colin è un po' cicciotto, mentre Lena è magra come una cavalletta. Ma lo stesso, la mente tira a Vaclav uno scherzo e per un attimo il braccio scuro di Colin è la treccia scura di Lena, poi tutto finisce e il bambino è Colin. A ogni bambino che entra nell'aula di inglese per stranieri, il cuore dà un po' di speranza al cervello, finché entrano Marina e Kristina e la lezione comincia senza Lena, e allora la speranza finisce.
« Bene, cominciamo. Su, prendete posto... Chi manca? Lena non c'è? » chiede la signora Bisbano, dopodiché dice una cosa che, pur senza volere, ferisce Vaclav nei sentimenti. «Marina... dov'è Lena?» « È malata, forse » risponde Marina. Vaclav è triste perché non è stato chiesto automaticamente a lui dove potesse essere Lena. Questa tristezza si trasforma subito in felicità, perché Vaclav pensa che lui e Lena sono più amici di quanto Marina, Kristina e la signora Bisbano sappiano. Sorride perché pensa a tutti i segreti che hanno lui e Lena e che sono dei segreti per Marina e Kristina. Non immagina segreti che Lena potrebbe avere con Marina e Kristina, segreti di cui lui potrebbe non sapere nulla. Per Vaclav, questo è impossibile. Vaclav non è per niente preoccupato per Lena, perché probabilmente ha un semplice raffreddore o fa solo finta di essere malata senza nemmeno esserlo. Certe volte anche Vaclav fa così, si finge malato, e sua madre finge di non accorgersi che lui finge e lo lascia a casa da scuola: bellissimo. Inoltre Vaclav è certo che Lena, anche se è malata, si esibirà comunque nello spettacolo sul lungomare di Coney Island, perché lei è la sua devota assistente e the show must go on. Vaclav lo farebbe a tutti i costi, questo spettacolo, pure se gli mozzassero un braccio e gli uccelli glielo mangiassero e non ci fossero speranze di farselo ricucire alla spalla. Probabilmente Lena non aveva voglia di andare a scuola. Probabilmente dopo la scuola andrà da lui a farsi fare i compiti, mangiare qualcosa e fare le prove generali. Molto probabilmente. Molto probabilmente no Quando Vaclav arriva a casa, Lena non c'è. Solleva il telefono e compone il suo numero di casa, aspetta che faccia uno squillo e riappende. È un loro segnale segreto, suo e di Lena: si fa il numero e si lascia squillare una volta; significa: Se puoi, chiamami! Così Lena può chiamare Vaclav senza dover parlare con i suoi genitori e Vaclav può chiamare Lena senza far arrabbiare la zia. Vaclav aspetta accanto al telefono per molti minuti. Il telefono non squilla. E preoccupato per Lena, ma sa che the show must go on e sa che anche Lena lo sa e che loro si pensano sempre un po'. La prossima cosa da fare, in base
all'elenco intitolato « Progetto », è una prova generale. Vaclav indossa il costume, che è: Tshirt di David Copperfield dello spettacolo di David Copperfield al Madison Square Garden Vecchia giacca ormai un po' stretta ma in cui ci si può stare, tutta decorata con i lustrini e la Pujfy Paint Normali pantaloni neri Scarpe con sopra carta stagnola per sembrare scarpe d'argento Guanti da dottore opachi che arrivano dalla ditta dove lavora sua madre, a imitazione dei guanti bianchi da mago Manca ancora: un cilindro magico da mago Vaclav sta progettando di farsi il cilindro magico da mago con del materiale trovato in giro, tra cui alcune scatole per camicie prese al grande magazzino, nastro adesivo e vernice nera presa in prestito a scuola. Vaclav spera che a casa, in segreto, Lena stia preparando tutta felice il bikini dorato a frange di Heather Holliday. È malata, forse Rasia entra in casa con molti sacchetti della spesa, oltre alla borščtta, che è molto pesante, e in più le scappa la pipì. Sulla soglia molla tutto per terra, si libera del cappotto e corre in bagno. Ogni giorno si sente più vecchia e ogni giorno si sorprende che certe cose perdano mentre prima tenevano. Andando in bagno vede che la porta di Vaclav è chiusa. Mentre fa la pipì decide che, dopo aver messo la cena a scaldare, andrà nella camera di Vaclav a interrompere qualunque cosa stia succedendo. Non crede che Vaclav e Lena stiano facendo necessariamente cose brutte, ma sa che stanno facendo qualcosa in segreto e secondo lei le cose fatte in segreto potrebbero essere sulla strada buona per diventare cose brutte. Anzitutto la cena. Rasia porta in cucina i sacchetti della spesa e prende dal freezer un Tupperware macchiato e pesante. Fa correre l'acqua calda sul Tupperware finché il boršč congelato è pronto per uscire dal contenitore, poi lo scuote per staccarlo finché cade rumorosamente nella pentola sul fuoco. Mentre il blocco ghiacciato comincia a sciogliersi sul metallo caldo, decide di bussare alla porta di Vaclav per informarsi se Lena si ferma a cena e poi chiedere a tutti e due di aiutarla a mettere via la spesa. Con questa mossa li stanerà dalla camera da letto, interrompendo quel che stanno combinando, e
in più si farà dare una mano con la spesa, e questo è un sollievo, perché è stanchissima, è stanca fin dentro le ossa, nello stomaco e in fondo alla gola. Davanti alla porta chiusa della stanza del figlio, Ra sia sente delle vocine sottili perfettamente ritmate, un piccolissimo botta e risposta, la voce di lui alta e stridula, quella di Lena dall'intensa, sonora coloritura russa. Senza bussare, Rasia apre la porta del figlio e si sorprende molto di quanto vede. Vaclav è in ginocchio per terra, completamente assorto nel suo progetto, circondato di pezzetti di nastro adesivo nero da elettricista e di cartone. Non si accorge che sua madre è entrata e continua a parlare da solo, proseguendo una conversazione con una Lena immaginaria. Rasia è tanto sicura di aver sentito da fuori la voce di Lena da non riuscire subito a capacitarsi che Vaclav sta recitando tutt'e due le parti. « Dov'è Lena? » chiede, spezzando l'incantesimo della concentrazione del figlio. Vaclav, trasalendo, solleva lo sguardo e cerca di nascondere dietro la schiena il progetto segreto al quale sta lavorando, chiedendosi se sua madre l'ha sentito provare il numero con l'invisibile Lena. « È malata, forse » risponde. « È venuta a scuola? » « No. » « No? » « Probabilmente è malata » dice Vaclav. « Probabilmente è malata » ripete Rasia, e riflette un momento. « Vado da lei a vedere come sta. Torno subito » dice, poi afferra la borsetta e corre fuori di casa prima ancora di aver infilato il cappotto. Per Vaclav è un sollievo che sua madre stia andando a vedere come sta Lena. Per un attimo vorrebbe poter andare con lei, ma c'è così tanto da fare per lo spettacolo. Vaclav torna a occuparsi del cilindro. A quanto pare sua madre non si è accorta dei segretissimi preparativi per lo spettacolo, ed è una fortuna. Per un momento, quando è entrata, ha temuto che scoprisse cosa stava preparando, mandando in fumo lo spettacolo. Mezz'ora dopo, quando Vaclav va a investigare sul puzzo terribile che arriva dalla cucina e trova sui fornelli il boršč che brucia, capisce che sua madre non è ancora rientrata.
Oleg torna a casa, e questo significa che è quasi ora di cena, ma Rasia non c'è ancora. Vaclav telefona a casa di Lena, ma non risponde nessuno. Insieme al padre, aspetta un'ora. Poi ritelefona a casa di Lena: di nuovo, nessuna risposta. E molto preoccupato. « Dov'è la mamma? » chiede. « Non lo so » risponde Oleg. « Cos'ha detto quando è uscita? » « Ha detto che andava a vedere come stava Lena. » « Allora sta andando a vedere come sta Lena. » Più tardi, Oleg porta in soggiorno due scodelle di boršč freddo e bruciato e insieme cenano guardando la tivù russa. Fuori è buio e niente è come dovrebbe, e Vaclav comincia ad avere una bruttissima sensazione. Oleg non gli dice di andare a letto. Questo forse significa che Oleg gli vuole molto bene, oppure che Oleg si è dimenticato di lui. In un caso o nell'altro, Vaclav sa che non potrebbe mai andare a letto, date le circostanze, e le circostanze sono che Lena è sparita, sua madre è sparita e mancano poche ore al grande giorno dello spettacolo sul lungomare di Coney Island. La sera prima del grande spettacolo, il giovane mago si addormenta tardissimo, accanto a suo padre. La faccia, premuta sulla pelle nera del divano, è illuminata dalle sitcom russe che suo padre guarda alla televisione satellitare, arrivate lì dall'altra parte del mondo. Segretamente è sveglio A notte fonda, tanto tardi che in realtà è quasi mattina, Oleg si sveglia, ancora sul divano, e constatando che il televisore è ancora acceso e lui e suo figlio stanno dormendo sul divano, capisce che sua moglie non è ancora tornata. Se fosse tornata avrebbe schioccato la lingua in segno di disapprovazione, avrebbe portato a letto il loro figlio e spento la tivù, e lui, fingendosi seccato, si sarebbe trascinato nel corridoio per rimettersi a russare a letto. Se fosse tornata, lui si sarebbe finto seccato per l'interruzione, ma in realtà non sarebbe stato affatto seccato. Come si sente solo, svegliandosi sul divano davanti alla tivù senza la moglie che schiocca la lingua in segno di disapprovazione.
Oleg anzitutto spegne il televisore e poi fa una cosa che da molti anni non riusciva a fare, una cosa di cui non credeva di sentire la mancanza. Prende in braccio suo figlio, lo porta ancora addormentato nella sua camera e gli rimbocca le coperte. Segretamente, Vaclav è sveglio. Ma anche lui sentiva la mancanza di essere portato in braccio nella sua camera, così finge. Il giorno dello spettacolo Rasia, dopo essere stata alla polizia, arriva a casa alle cinque del mattino, proprio mentre suo marito sta uscendo di corsa per andare al lavoro. « Dov'eri? » le chiede. « Ero preoccupato. » « Non ci crederesti mai » dice lei. « Sono già in ritardo; ne parliamo dopo. » Le dà un bacio sulla fronte e fa per infilare la porta, ma poi si ferma e le dà un altro bacio. « Si aggiusterà tutto » dice, poi esce. Lei va a controllare il figlio che dorme, tanto per ricordarsi che nella sua famiglia è tutto a posto. Più tardi, quando lui si sveglierà, dovrà raccontargli cos'è successo a Lena, e non sa cosa dirgli, quali parti brutte omettere, quali parti belle aggiungere. Quando Vaclav si sveglierà, gli preparerà dei pancake e parleranno. Rasia entra nella propria camera da letto, si toglie le scarpe e si addormenta subito sopra le coperte. Quando si sveglia sono le undici: da anni non faceva tanto tardi. Si aspetta di trovare Vaclav che mangia una ciotola di cereali davanti alla tivù, o nella sua camera a preparare i numeri di magia. Invece, quando si tira su a sedere nel letto, regna il silenzio. Si alza in fretta e attraversa di corsa la casa. Vaclav non è in cucina e nemmeno in soggiorno. Controlla in bagno, aprendo la tenda della doccia, e infine in camera di Vaclav, nell'armadio, sotto il letto, ma lui non c'è. Rasia sa che suo figlio le ha tenuto nascoste molte cose ma le ha mentito una sola volta, e adesso ripensa a quella volta e capisce esattamente dov'è andato. Signore e signori Quando Rasia compra un biglietto per il famoso Coney Island Sideshow, si sorprende di quanto sia diventato familiare il piccolo biglietto rosso, di quanto le sembri un oggetto personale, benché veda il bigliettaio strapparlo
da un grande rotolo dì centinaia di biglietti identici. Le viene in mente il primo giorno con Lena a Coney Island, il giorno in cui scoprì che suo figlio le aveva mentito, il giorno in cui Lena diventò la persona più importante nella vita di suo figlio. Ricorda di aver guardato nelle sue piccolissime tasche, quella sera davanti alla lavatrice, e di aver trovato i biglietti rossi, ricorda di aver letto le parole. Ricorda il tuffo al cuore quando, dopo che lui le aveva detto che erano stati su una giostra, aveva trovato nella sua tasca due biglietti per il Sideshow. Il Sideshow! Adesso, entrando nel teatro del Sideshow e poi camminando nel corridoio buio e varcando la porta nera, spera che lui ci sia e che non ci sia, e cerca di respirare un po' nello spazio che circonda la cosa orribile che deve dirgli. Heather Holliday Nella sala del Sideshow c'è un pubblico composto di una sola persona, un giovanissimo mago. Indossa il cilindro di cartone e nastro adesivo nero da elettricista, ha coperto le scarpe da ginnastica di carta stagnola e ha le mani, dentro i guanti bianchi da mago, educatamente intrecciate sulle ginocchia. Quando vede sua madre entrare nella sala, prima è sorpreso e si chiede come abbia fatto a trovarlo lì, poi teme di essere nei guai, ma soprattutto prova sollievo. E stato orribile, terrificante, starsene da solo nel teatro buio, sapendo che a Lena è successo qualcosa di brutto, qualcosa di tanto terribile da impedirle di arrivare il giorno dello spettacolo. Non è preoccupato di avere guai con sua madre per essere uscito di nascosto da casa. E ci ha azzeccato: oggi è il giorno in cui non può avere guai per aver fatto una delle cose che normalmente portano guai. Rasia va a sedersi accanto a Vaclav, lo abbraccia e lui scoppia a piangere. Le luci si abbassano: lo spettacolo sta per cominciare. « Vuoi andare a casa? » sussurra Rasia. « No » sussurra Vaclav. « Voglio rimanere. » Rasia è contenta, perché non sa ancora bene cosa dire a Vaclav e il Sideshow la incuriosisce. Vaclav vuole rimanere a vedere lo spettacolo perché ha paura dell'avanzare del giorno e sa che presto il giorno si trasformerà in un altro tempo, e il tempo precedente, quello trascorso in solitudine nel teatro, senza sapere nulla, passerà e lui saprà una cosa. Quando sai una cosa non puoi più tornare indietro, perché da quel momento in poi la saprai per sempre.
Insieme, guardano Insectavora salire la scala di spade, poi guardano il mangiatore di vetro mangiare il vetro e guardano la testa di legno umana piantarsi dei chiodi nel naso. Vaclav se ne sta accoccolato sotto il braccio di Rasia e, anche quando il Grande Fredini entra in scena e si esibisce in un numero di magia che è insieme sbalorditivo ed esilarante, Vaclav non riesce a trattenere le lacrime. Quando in sala le luci si abbassano, appena prima dell'ultimo numero, Vaclav sa a chi tocca adesso. Heather Holliday è abbronzatissima, non di quell'abbronzatura che si prende al sole, ma come se fosse nata con la pelle già scura, e ha i capelli di due colori diversi, biondo chiaro e nero, pettinati nello stile delle signore della televisione in bianco e nero. Ha guance di bambina e un anello d'argento al naso. Sorride senza mostrar denti e il sorriso è come un occhiolino. Indossa il bikini dorato. C'è qualcosa, nel bikini dorato di Heather, che a Vaclav fa pensare con tristezza a Lena. Il bikini di Heather Holliday è piccolissimo e si vede molta pelle, ma lei non sembra affatto nuda. La pelle che si vede, la pelle della pancia e della parte superiore delle cosce, non sembra pelle intima. Le gambe sono ricoperte da calze nere a rete e sembrano forti, come quelle di un supereroe, non come le gambine sottilissime di Lena. Inoltre Heather porta scarpe a tacco alto, ma l'impressione è che possa correrci, in quelle scarpe, che possa farci di tutto. I piedi di Lena invece sono timidi: cercano sempre di nascondersi l'uno dietro l'altro, anche nelle scarpe da ginnastica. La cosa più bella di Heather Holliday è la disinvoltura con cui le braccia ricadono lungo i fianchi, come se tenesse per mano qualcuno o reggesse un sacchetto della spesa con dentro una sola caramella, mentre in realtà sta portando due grandi e lunghe spade luccicanti, come un cavaliere del Medioevo. Guadagna il centro del palcoscenico e lì si ferma, con il suo grande sorrisoocchiolino e i piedi calzati nelle scarpe bianche a tacco alto, con la punta leggermente all'indentro. Sulle prime Rasia inorridisce: quella ragazza non può avere più di venticinque anni ed è praticamente svestita, e ha nel naso un anello che sembra un toro disgustoso. Però, per come arriva nel centro del palcoscenico
e si inchina e per come sorride, è elegante. Quando solleva il mento e rovescia la testa all'indietro, Rasia vorrebbe correre sul palcoscenico per impedirle di farsi male al delicato collo scoperto, per dirle che quelle non sono cose per una ragazza carina come lei e che potrebbe trovarsi un impiego da segretaria; Rasia potrebbe aiutarla. Heather spalanca la bocca e Rasia trova terrificante tutta l'esibizione, ma non riesce a distogliere lo sguardo. Quando poi Heather ingoia effettivamente la spada, dà l'impressione che sia una cosa facile da fare. Rasia si sorprende che il numero della spada le piaccia e che, quando Heather la tira fuori, sembri che non le faccia alcun male. Credeva che sarebbe stato disgustoso e invece, a parte un po' di bava sulla spada quando la tira fuori, in effetti è carino. Heather ingoia altre tre spade e poi esce di scena all'improvviso, senza fare inchini, ma un istante dopo torna con l'uomo che si è piantato i chiodi nel naso. Heather spinge sul palcoscenico una cassa con le rotelle. L'uomo spiega che lei, contorcendosi, si infilerà nella cassa e che poi lui trapasserà ogni lato della cassa con le spade. Chiede al pubblico silenzio e massima attenzione, perché si tratta di un'esibizione estremamente pericolosa. Vaclav non ha mai visto questo numero, ma ne ha letto sull' Almanacco del mago, così gli interessa molto. Pensa che potrebbe essere il numero perfetto per lo spettacolo di magia e che Lena, così piccola, sarebbe l'assistente ideale per questo numero. L'uomo con i chiodi nel naso aiuta Heather a entrare nella cassa e la guarda piegare le gambe e i piedi sotto il corpo, poi lei si sistema e risistema, si schiaccia sul fondo finché è entrata tutta nella cassa. Senza preavviso, l'uomo infila la lunga spada di Heather Holliday nel fianco della cassa. Rasia emette un verso strozzato e a Vaclav sembra di aver sentito arrivare dalla cassa un gridolino che aveva la voce di Heather Holliday. Le ha fatto male, pensa Vaclav. Sua madre gli prende la mano e gliela stringe forte. L'uomo con i chiodi nel naso sembra non essersi accorto di niente e affonda un'altra lunga spada nel fianco della cassa, perpendicolarmente alla prima. Rasia si aspetta di vedere da un momento all'altro colare sangue sul palcoscenico dal fondo della cassa e, quando l'uomo solleva un'altra spada e si prepara a trafiggere la cassa, di nuovo combatte l'impulso di correre sul palcoscenico. Da una parte è convinta che Heather Holliday stia morendo
poco a poco dissanguata, in quella cassa così piccola, e dall'altra è altrettanto convinta che faccia tutto parte del trucco. Vaclav non vuole più pensare di fare questo numero con Lena. L'uomo si rivolge agli spettatori per annunciare che, in via del tutto eccezionale, li inviterà a salire sul palcoscenico per sbirciare nella cassa. Apre i chiavistelli del coperchio e sbircia dall'alto, e Vaclav e Rasia trattengono il fiato, perché sono convinti che Heather Holliday sia morta, impalata nella cassa, ma lui si limita a sorridere e poi fa segno al pubblico di salire sul palcoscenico. Vaclav e Rasia si alzano lentamente dalle poltroncine. Si emozionano subito all'idea di andare a sbirciare dentro e vedere i segreti, ma si sentono anche in colpa di volerlo fare. Vaclav è agitato al pensiero che sarà tanto vicino a Heather Holliday e la guarderà nella cassa. E Vaclav il primo a salire sul palcoscenico, una scarpa ricoperta di stagnola dopo l'altra; poi si gira ad aiutare Rasia a salire. Il palcoscenico è alto poco più di trenta centimetri e per Vaclav è facile salirci sopra, come fare i gradini due alla volta, ma per Rasia, che è più vecchia e grossa di altre mamme ed è acciaccata per i cambiamenti climatici subiti nella vita, salire è difficile. Vaclav le prende saldamente la mano nelle sue, lei si concentra per tenere la borščtta e mettere un piede sul palcoscenico e tutti e due danno una piccola spinta finché lei è salita, due piedi, due caviglie e due scarpe dalla suola spessa. Entrambi sentono sotto di loro il guscio vuoto di compensato del palcoscenico; entrambi lo sentono meno solido di quanto vorrebbero, meno solido di quanto credevano. Si avvicinano alla cassa, sempre tenendosi per mano. L'uomo con i chiodi nel naso li invita a guardare bene. Tutti e due, piano piano, si avvicinano. La cassa è molto piccola e Heather è raggomitolata dentro come un bebé, se non fosse che ha le braccia sopra la testa invece che lungo i fianchi. Attorno a lei ci sono spade che vanno in tutte le direzioni. Ce n'è una che le sfiora il centro del corpo, dove la pancia digrada dalle costole per poi risollevarsi verso i fianchi. Ce n'è un'altra stretta fra le cosce. E c'è un'altra spada sopra lo zigomo, che le impedisce di girare la testa. Vaclav e Rasia non riescono a mettere a fuoco le spade e il modo incredibile in cui Heather Holliday ci si è contorta attorno. Cercano maldestramente di
mostrarsi a loro agio guardando un essere umano in bikini dorato ficcato dentro una cassa. Pur non potendo girare la testa, Heather Holliday li guarda con la coda dell'occhio e ha ancora in faccia il sorriso che assomiglia a un occhiolino. Vaclav non riesce a smettere di fissare l'ascella sinistra scoperta di Heather Holliday. C'è una sottilissima barbetta nera e delle righe bianche incrostano le pieghe della pelle. Vaclav ha la sensazione che quella sia la parte altrui più intima che abbia mai visto finora. Nemmeno Heather Holliday riesce a vedere quel punto del corpo di Heather Holliday. Per molti secondi rimangono lì a guardare nella cassa mentre l'uomo con i chiodi nel naso guarda loro e Heather Holliday guarda attorno a sé e su verso il soffitto, come se fosse sulla poltrona del dentista e il dentista avesse la mano nella sua bocca. Vaclav cerca un bel punto da guardare, ma, tra il bikini dorato, la pelle, la rete delle calze e l'ascella, non sa cosa fare. «Bellissimo» dice Rasia, con la sua voce pesante, grave, sorprendendoli tutti. Fuori, la luce Dopo lo spettacolo, Vaclav e Rasia escono dal teatro e sono assaliti dalla luce del sole, dall'odore e dal viavai del traffico che ci sono fuori. Si incamminano verso la metropolitana, tenendosi per mano, ma non parlano. Quando arrivano a casa, Rasia gli dice di cambiarsi e va in cucina, versa del succo di frutta in due bicchierini che mette sul tavolo e poi si siede. Sente i rumori di Vaclav che si mette i vestiti di tutti i giorni; sente cassetti aprirsi e chiudersi. Quando Vaclav si siede di fronte a lei al tavolo della cucina e la guarda, pieno di paura e preoccupazione, lei tira un bel respiro e comincia. « Tu sapevi cosa succedeva a Lena? » chiede. La faccia di Vaclav le dice che non capisce di cosa parla. « Sapevi quelle cose non belle che stavano succedendo a Lena? » « No » risponde Vaclav, pensando: Forse. « Sapevi che la zia di Lena non badava a lei? » « No » risponde Vaclav. « Io non ero sicura. Forse, pensavo. Così ho dovuto dire qualcosa, perché ero preoccupata per Lena. » Rasia capisce che il discorso ben si adatta alla realtà
concreta della cucina, capisce che parlare di queste cose sta diventando più facile. « Che cosa hai dovuto dire? » chiede Vaclav. « Ho dovuto dire delle cose alla polizia. » La risposta fa pensare a Vaclav che sua madre dev'essere matta ad andare a raccontare queste cose non belle alla polizia. Vaclav pensa alle cose non belle che succedono in continuazione a scuola, per esempio quando l'istruttore di ginnastica urla a tutti di salire più velocemente sulla fune, o quando i bambini si spintonano a vicenda per andare alla fontana. Si immagina le grandi squadre del corpo speciale, come quelle alla tivù e ai telegiornali russi, correre avanti e indietro per i corridoi della sua scuola cercando di impedire tutte quelle cose non belle. « Perché l'hai fatto? » chiede Vaclav. «Così, se succedono delle cose, loro non le fanno più succedere.» Questa risposta fa pensare a Vaclav che, in realtà, forse le cose non belle sono molto gravi, tanto da interessare alla polizia. « Adesso anche la polizia pensa che stanno succedendo delle cose non belle. Così porta via Lena. » « Eh? » « La proteggono. » « Dov'è? » « Non so. Non sono della sua famiglia. Non mi dicono. » « Come faremo a sapere dov'è? » « Non so. Posso chiedere alla polizia. Non so. Non so se mi diranno. Dicono che la mettono in un posto sicuro. » « Chi c'è con lei? » « Nessuno. » « Nessuno? » « Io non posso andare perché non sono della sua famiglia. » «E io...» « E tu non puoi andare perché non sei della sua famiglia. » « Con lei c'è sua zia? » « No. » « Perché? » « Lei non badava a Lena. » « È da sola! » « Sì. »
« Chiama sua zia e chiedile dov'è! » « Neanche sua zia sa. Nessuno sa dov'è perché così è al sicuro. » « Lena vorrebbe che io lo sapessi! Perché non posso saperlo? » « Nessuno può saperlo. » « Io non sono mica nessuno. » « Lo so. » « Chi parlerà per lei? » « Cosa? » « Chi parlerà per lei? Chi si assicurerà che sta bene? » « Ci sono persone. » « Che persone? » « Non so. » « Dov'è? Devo andare da lei. È sola, avrà paura. Devi dirmelo! » « Non so, non so. Mi dispiace! Mi dispiace! » E adesso Rasia capisce di aver sbagliato a prevedere i punti del discorso per cui preoccuparsi. Come qualsiasi mamma, temeva di mettere in imbarazzo sia il figlio sia se stessa, di non dargli tutte le informazioni giuste oppure dargliene troppe, spaventandolo. Quello che non poteva prevedere era che Vaclav non si sarebbe concentrato sulle cose brutte fatte a Lena da persone più grandi e più potenti di lui. Si sarebbe concentrato sulla cosa bruttissima che aveva fatto Rasia, cioè portargli via la sua unica amica. Uguale ma orribile Lunedì, quando Vaclav è arrivato a scuola, nessuno sapeva niente di quel che era successo nel fine settimana. Nessuno sapeva niente di Lena né delle cose non belle né della zia né di Rasia che aveva rovinato tutto e chiamato la polizia. Nessuno sapeva niente e tutto era uguale ma orribile. La signora Bisbano ha chiesto di nuovo a Marina e Kristina dov'era Lena e loro non lo sapevano, anche se non sembrava che gliene importasse molto. Vaclav pensava che magari sarebbero venute a parlargli, a chiedergli se era successo qualcosa a Lena, e invece niente. Certe volte ci sono bambini che smettono di andare a scuola così, da un giorno all'altro. Come la sorellastra di Genesis, che prima veniva a scuola ma adesso vive quasi sempre a Portorico e torna solo d'estate.
Lena non c'è più, e questo per colpa di Rasia, che non sa niente dell'America e della polizia americana, a parte quel che vede in Law & Order, e che ha fatto uno sbaglio enorme dicendo certe cose alla polizia, probabilmente nemmeno quelle giuste - probabilmente non l'hanno capita, con quel suo vocione rimbombante e i suoi discorsi sconclusionati e - con la sua stupidità ha fatto portare via Lena; ha fatto portare via Lena. Vaclav è come una persona vuota, perché non ha niente. Vaclav non ha niente, solo rabbia. Contro sua madre. La rabbia cresce tutto il giorno e fabbrica nuova rabbia, e gli brucia in fondo alla gola. Tutte le mattine si sveglia pensando che Lena potrebbe tornare. Tutto il giorno, a scuola, aspetta che lei varchi la porta. Dopo la scuola, Vaclav torna a casa e va dritto in camera, e non esce per cenare e non esce quando lo chiamano e non esce né apre bocca quando sua madre si mette seduta davanti alla porta a piangere silenziosamente dicendo: « Per favore, per favore ».
DIVISI: VACLAV
Un mago, una madre, una ragazza americana « Toc toc. Sto entrando » annuncia Rasia ad alta voce, rivolta alla porta chiusa della camera di Vaclav. Rasia ha preso l'abitudine di bussare dicendo che sta bussando. E un'abitudine nuova, nata quando Vaclav è diventato più alto di lei, uno che canta sotto la doccia con la voce tanto bassa che certe volte Rasia, sentendola, pensa: Oh, no, nella nostra casa si e introdotto un uomo che adesso fa la doccia nel nostro bagno, un serial killer come quello di Special Victims Unit, che deve compiere il rituale della pulizia prima di uccidere brutalmente le sue vittime, e quest'uomo adesso uscirà dalla doccia e verrà ad ammazzarmi. Vaclav la stupisce. Quand'è che ha compiuto diciassette anni? Sembrava destinato a rimanere piccolo per sempre e adesso, di colpo, è grande come un uomo e ha la ragazza. Rasia è preoccupata: perciò bussa e perciò entra nella sua camera tanto spesso. « Mamma! Entra! Voglio farti vedere una cosa » grida Vaclav. Rasia riesce a cogliere nella sua voce d'uomo la dolcezza e l'insistenza del bambino che ha sempre bisogno di mostrarle questo e quello. E un bisogno che non è passato, per il momento. Rasia apre la porta e si sente sollevata perché il letto è fatto e non ha neanche una piega, e il suo bambino e la bella ragazza americana non sono a letto aggrovigliati insieme come temeva. Suo figlio è in piedi e ha in mano molti biglietti da un dollaro. Sono per il nuovo trucco di magia, che consiste nel far scomparire i dollari. Perché mai lui voglia imparare questo trucco, perché mai tutti vogliano vedere questo trucco, Rasia non lo capisce. La bella ragazza americana è seduta per terra, con le gambe tese una di qua e l'altra di là come una ballerina che fa stretching. Questa ragazza americana, con un nome che a Rasia sfugge sempre di mente, non si siede mai su una sedia. È sempre seduta per terra con le gambe per tutta la stanza, oppure attorcigliate come gli indiani dell'India, o è seduta sulla scrivania, o sdraiata per terra a pancia in giù, a leggere un libro per compito. Chi è che fa i compiti così, per terra a pancia in giù come un serpente o un coltivatore di patate? Perché a Rasia sfugge sempre di mente il nome di questa ragazza? Perché è un nome da maschio, qualcosa come Fred o Bob. Non ha senso.
Un'altra cosa non ha senso: chi sono questi genitori che vivono in una sciccosissima brownstone ma non insegnano alla figlia a sedersi da persona civile su una sedia? Chi sono questi genitori che non possono spendere soldi per comprare alla figlia dei blue jeans nuovi che non siano pieni di buchi sulle ginocchia e appena sotto il didietro? Perché non comprare a questa ragazza una bella gonna e un paio di collant e non insegnarle a sedersi su una sedia? Rasia guarda Vaclav, che ha in mano quei dollari e in faccia il suo sorriso un po' sciocco. Di solito la gente non sorride per sorridere. Di solito i sorrisi della gente sono una bugia, o un trucco, o una promessa. Invece il sorriso di Vaclav è solo un sorriso, e lui sorride sempre per sorridere. La ragazza è seduta per terra a guardare Vaclav e non sembra avere la minima intenzione di alzarsi in piedi per salutare Rasia. « Forse, se non ti siedi così, con le gambe in fuori a rinfusa, non ti servono tutte quelle toppe che hai sui jeans. No? » dice Rasia alla ragazza. La ragazza fa un sorrisone, scoprendo tutti i denti. Una ragazza non dovrebbe sorridere così, senza un briciolo di pudore. « Mamma! A Ryan piacciono i buchi nei jeans » dice Vaclav, e Ryan ride, perché per Ryan tutto può essere uno scherzo. « Sì! In effetti mi piacciono. » Ryan sta ancora sorridendo a Rasia come una soubrette o un cavallo. Rasia la guarda dall'alto. Tutt'intorno alle sue lunghe gambe di denim ci sono dei piccolissimi pezzetti di carta. Nello spazio a forma di V che Ryan ha creato con le gambe ci sono colla, nastro adesivo, forbici e grossi pennarelli neri. Ryan sta facendo un gran disordine nella camera di Vaclav, un disordine enorme, e Rasia può garantire che non sarà la ragazza a raccogliere quella roba. Sarà Vaclav, il ragazzo, a raccogliere la roba lasciata in giro da lei. Non è così che si fa. A Rasia non fa piacere raccogliere la roba lasciata in giro da Oleg, no, non le fa piacere, e quante volte ha pensato: Se lava un piatto, anche un solo piatto, non lo lascio, e invece è sempre lì, a lavar piatti finché li ha lavati tutti mentre lui è seduto sul divano senza alzare un dito, e lei non lo ha ancora mollato. Oppure ha pensato: Se lascia un'altra volta le mutande sul pavimento del bagno, divorzio, ma lo prende in mano, il telefono, per chiamare l'avvocato e divorziare? No che non lo prende in mano. Prende in mano le mutande umidicce e le porta nel cesto del bucato, ed è ancora sposata con lui perché la
gente di solito non divorzia per un paio di mutande sporche. Il matrimonio è così: si raccoglie roba, si mette via roba e si perdona un bel po', e va bene così. Perché, invece, non deve andar bene per questa ragazza che non sa sedersi su una sedia? È giusto che faccia raccogliere la sua roba a un ragazzo? È giusto aspettarselo? Perché questa ragazza con i buchi nel didietro dei pantaloni dovrebbe essere servita e riverita? L'unica cosa che Rasia capisce è che tutte queste belle ragazze vogliono essere le ragazze di Vaclav, così alto e slanciato (che sorpresa! Guardate suo padre! Guardate sua madre! Due carri armati sovietici. Provate a rovesciarne uno. Impossibile) e con tanti capelli, e con le sopracciglia che sono sopracciglia da star del cinema. È tanto bello e affascinante che come si fa a darle torto, a questa ragazza? Ecco una cosa da apprezzare, in lei. Il buon gusto. E bello vedere Vaclav con questa ragazza americana? Questa ragazza con la faccia lentigginosa e i capelli un po' biondi e un po' rossi? Questa ragazza che è sempre lì a mettersi il lucidalabbra e che sorride come una pazza e ride così forte? E bello, questo? No che non è bello. Ma che altro si aspettava Rasia? Perché venire qui, in questo folle paese delle opportunità, se non perché suo figlio avesse una ragazza bionda americana che sembra arrivata da Marte, tanto è diversa? Perché, se no? Un albero di Natale alla finestra di una casa elegante e i genitori che non si presentano. E che cosa fanno quelle persone che abitano in un posto così chic? I consulenti. « Mamma, fanno i consulenti » dice Vaclav. Mica è un lavoro, dare consigli a gente ricca che può permettersi di pagare i consigli. « Questo cos'è? Progetto per la scuola? » Punta il dito perentoriamente verso un foglio al quale Ryan sta lavorando. Si ripropone sempre di assomigliare di più alle madri della televisione, più gentili nei toni e più gentili nelle movenze, ma poi risulta sempre troppo aspra, esagera a spingere l'aria con le braccia, con le corde vocali; si sorprende sempre quando sfonda questa dolce aria americana. « No, non è per la scuola. Sto solo facendo un volantino per la mia band... La prossima settimana suoniamo da Ozzie's. » Ryan solleva il volantino per mostrarlo a Rasia. « Dovrebbe venirci! » Il volantino è tutto ricoperto di fotografIe di chitarre fotocopiate e nastri di cassetta tagliati e attaccati con lo scotch, e c'è scritto, in una scrittura bruttissima: PINK FLAMINGOS GIOVEDÌ H 19 OZZIE'S COFFEE SHOP GRATIS GRATIS GRATIS!
« Perché non usi il computer e la stampante di Vaclav? Puoi abbellirlo con le figure e stampare le parole, così è più bello. E così la gente viene a vedere la musica e non pensa che siete matti. Okay? Lo rifai al computer » dice Rasia. Vorrebbe solo darle un suggerimento, ma le parole le escono di bocca a raffica, bum bum bum, e come sempre sembrano un ordine. «Ah, grazie. Lo so, è un po' sciatto, ma l'idea è proprio questa. Sì, cioè, così è più attuale. E un movimento, nel senso, un'estetica, tipo fanzine amatoriale, come i vecchi ciclostilati, no? » dice Ryan, e Vaclav sorride sapendo che Ryan dovrà spiegare e rispiegare tutto quel che ha appena detto, perché Rasia vorrà sapere cosa significano tutte quelle parole e Ryan, per spiegargliele, dovrà usare altre parole nuove: e vedere Ryan che, tutta seria, cerca di far capire a Rasia perché il volantino della sua band ha l'aria di un volantino fatto in casa, per una ragione o per l'altra è una delle cose che gli piacciono di più di Ryan. « Cos'è fanzine amatoriale? » chiede Rasia. « La fanzine è una rivista e amatoriale vuol dire fatta da dilettanti è una piccola rivista indipendente fatta in casa e siccome è fatta in casa, non ha l'aspetto delle grandi riviste patinate, è più attuale » dice Ryan. « Okay. Ma usare il computer non è fare in casa? » chiede Rasia. « No, farlo al computer vorrebbe dire farlo in casa, sì, ma non sarebbe attuale » risponde Ryan. «Ma il computer è la cosa attuale del momento. Tutti lo dicono. Il prossimo dovresti fare al computer, mostrare a tutti come può essere bello; così è più attuale » replica Rasia. « Be', sì, esatto » comincia a spiegarle Ryan. « L'idea è proprio di reagire alla lisciatura massificata delle...» «Mamma, voglio farti vedere questo nuovo trucco che sto preparando » interviene Vaclav, per salvare Ryan da se stessa. « I compiti sono finiti? » chiede Rasia. «I compiti sono finiti! Li facciamo sempre appena arrivati a casa » risponde Vaclav. « Questo non credo » dice Rasia. « No, è vero! » dice Ryan. « Io non riesco a concentrarmi su nient'altro, finché non ho finito i compiti e non me li sono tolti di mezzo. Non riesco a rilassarmi, penso soltanto: Devo fare i compiti. »
Rasia le sorride, senza dire niente, poi torna subito a guardare Vaclav. « Tutti fatti? » «Okay, forse ho lasciato qualcosa per dopo» ammette Vaclav. « Non è importante. » « Ach! Lo sapevo! La magia viene dopo compiti » dice Rasia. Rasia porta avanti la sua crociata dei compiti fin da quando Vaclav era molto piccolo, perché, se è partita dalla Russia, lasciando là la madre e la nonna Lidia, che non vedrà mai più in questo mondo, mica lo ha fatto perché suo figlio diventasse un mendicante, che è proprio quel che diventerà, si direbbe, con questa storia della magia. Così continua a fargli fare i compiti, ogni santo giorno, nella convinzione di fargli ottenere questa cosa magica che si chiama istruzione, ossia la chiave per il successo nel nuovo paese. Vaclav andrà all'università, prenderà la laurea e avrà l'istruzione intessuta nella vita, così diventerà un uomo in gamba e affermato. Vaclav ride e abbraccia sua madre, la bacia sulla guancia. Per farlo, adesso, deve chinarsi, e sa che così sua madre sente che è un uomo fatto e allo stesso tempo il suo bambino, e sa che questa sensazione la riempie di gioia. Lei fìnge di essere seccata, ma lui sa che, dopo che l'ha abbracciata così, non può più essere seccata. Adesso la mamma si è sciolta tutta e non può più essere arrabbiata con lui. « Lo guardi, il mio trucco? Per favore, per favore, per favore. Ti siedi sul letto, per favore? » Prende Rasia per mano, la conduce verso il letto e passa la mano sulle coperte come per spolverarle una sedia, e lei si lascia affascinare come una ragazzina. Quand'e che mio figlio e diventato così affascinante? si chiede. Quand'e che ha cominciato a portare i blue jeans nello stesso modo in cui li portano i ragazzi americani, cioè non come vestiti che coprono il corpo ma come vestiti che sono parte del corpo? Anzi, parte della personal Quand'e che è successo? E da quand'e che ha quella massa arruffata di capelli come i ragazzi americani? Quand'e che ha smesso di pettinarsi? E quandi e che e diventato così alto? Come ha fatto, con un padre e una madre alti poco più di un metro e mezzo, come ha fatto ad arrivare al metro e ottanta e avvicinarsi tanto al soffitto? Dev'essere questo cibo americano di cui si rimpinza; mangia in continuazione. «D'accordo, d'accordo. Guardo. Che trucco è?» chiede Rasia. Vaclav la guarda dritto in faccia, con gli occhi negli occhi di lei, e con tutto se stesso ruota
attorno a quest'unico punto di contatto, e si trasforma, diventa Vaclav il Magnifico. A guardarlo si direbbe che si fosse cambiato d'abito, che si fosse messo magari un frac, con le code, e invece vi stupireste di constatare che indossa ancora gli stessi jeans e la stessa Tshirt. Si avrebbe la sensazione, irrazionale, che fosse diventato di colpo più alto. Si cercherebbe la trasformazione fisica e si tenterebbe invano di individuare la differenza. Non c'è niente di diverso, eppure tutto è diverso. È diventato Vaclav il Magnifico: non è più Vaclav, il figlio, il fidanzatino, il vicino di casa. E un mago, e un mago ha bisogno di un palcoscenico. La sua presenza invade l'aria e occupa quasi tutta la stanza, tanto che appare imprigionato, intrappolato, mentre appena un istante prima sembrava perfettamente a suo agio. « Ah, mamma. E il trucco più incredibile mai visto finora. Adesso, sotto i vostri occhi, leviterò. Sì, io, Vaclav, di fronte a queste due bellissime signore » Vaclav fa un cenno della testa in direzione di Ryan e Rasia - « mi solleverò, solleverò tutti i miei novanta chili » Ryan e Rasia scoppiano a ridere - , « mi correggo, mi correggo. Il pubblico ha ragione di ridere, di fronte a tale esagerazione. Tutti i miei settantacinque chili di carne umana si solleveranno da terra, senza sostegni esterni, senza corde, niente, grazie alla pura e semplice forza di volontà. Sono certo che un pubblico come questo, tanto dedito alla verità, mi aiuterà a verificare che nella stanza non ci siano corde né altri congegni. » Il pubblico acconsente. « Ora devo chiedervi gentilmente un momento di silenzio. Ho bisogno di silenzio poiché questa impresa richiede la massima concentrazione» dice Vaclav il Magnifico. Rasia guarda Ryan, che sta guardando Vaclav con gli occhi sgranati e le sottili labbra rosa appena socchiuse, con adorazione assoluta. E questo che vuole Rasia per suo figlio: qualcuno che lo adori, qualcuno che lo guardi come se lui risplendesse. Vuole che dall'altra parte ci sia tutto il peso dell'amore. Rasia stabilisce che non importa se Ryan, o qualsiasi altra ragazza, le piace o no. Che importanza ha, per una donna che ha vissuto più di cinque decenni, se le piace o no una ragazza che tocca suo figlio dappertutto con quelle mani di bambina? Non è necessario che questa ragazza di suo figlio le piaccia, ma è necessario che la ragazza lo adori.
Vaclav è in piedi in un angolo della stanza, un po' di lato, di modo che Ryan e Rasia lo vedono di profilo. Ha lo sguardo rivolto a terra e respira profondamente, molto profondamente, tira quattro bei respiri, poi, di colpo, respira come se avesse appena fatto molti chilometri di corsa o molte rampe di scale. Sembra che gli stia succedendo qualcosa, che il cuore stia per esplodere o i polmoni stiano per andare in mille pezzi per lo sforzo. Rasia comincia a preoccuparsi per questo numero. Non è una novità. Si preoccupa sempre per i numeri di Vaclav. Ovviamente sa bene che è solo un trucco, che non è reale, ma sa anche che potrebbe non riuscirgli, e fa male vedere una persona a cui vuoi bene non riuscire a fare una cosa alla quale tiene tanto, quando l'unica cosa che abbia mai desiderato in tutta la sua vita, da quando sa camminare e parlare, è diventare un grande mago famoso. Rasia è un po' preoccupata anche perché pensa che forse, in realtà, nel numero c'è un po' di ma già, e chissà cosa può succedere quando ci si cimenta ' con la magia: ci si potrebbe far male. 1 Vaclav ha l'aria terrorizzata. La faccia è ancora china, ma i pugni sono chiusi e dal collo sporgono le vene, vene che stanno lavorando troppo, che stanno facendo troppe cose. Solleva un po' le mani e non succede niente. Le fa ricadere lungo i fianchi e la faccia, la faccia sembra sconvolta. Poi tira il respiro più profondo del mondo e solleva un pochino le mani, staccandole di appena un paio di centimetri dai fianchi, ed ecco che di colpo si solleva in aria, lentamente: le mani si sollevano, la testa si solleva e i piedi, sì, anche i piedi si sono staccati di due centimetri da terra. Rasia, rimasta senza fiato, getta le braccia attorno a Ryan, perché è un suo riflesso condizionato da quando è nato Vaclav: tutte le volte che è sorpresa, come quando la macchina le si ferma di colpo, getta le braccia attorno al bambino che ha accanto per proteggerlo. Il gesto spaventa Ryan, che emette un gridolino e poi comincia a ridacchiare, a ridere fra sé, dopodiché Vaclav, con un inelegante tonfetto, posa i piedi a terra e per un attimo sembra rimettersi in equilibrio, di nuovo sulla terra dopo aver sfidato la gravità e aver levitato, anche se di soli due centimetri, nell'atmosfera. « Come fai? Cos'è? Cos'hai fatto? » Rasia ha un tono arrabbiato, ma non è arrabbiata, non lo è affatto. Ryan batte forte le mani, tanto è rimasta colpita, tanto è orgogliosa. Lei sa benissimo dove sta il trucco; ha anche aiutato Vaclav a esercitarsi, lo ha aiutato a trovare l'angolatura giusta, lo ha aiutato a nascondere il piede àncora, quello che rimane a terra dietro il piede in primo
piano, e pazientemente lo ha guardato provare e riprovare finché il corpo ha imparato i movimenti. Che cosa c'è di tanto meraviglioso, per Ryan, in questo numero, questo numero che ha visto tante volte? C'è l'esibizione di Vaclav, la sua esibizione così convincente, con gli effètti teatrali, la respirazione profonda, la concentrazione, che non ha provato né discusso con lei. Sono cose che lui fa istintivamente, e il risultato è così straordinario che, è chiaro, un giorno sarà un mago molto famoso. Ryan, seduta sul letto, è molto orgogliosa di se stessa, di stare con un ragazzo tanto in gamba e tanto bello, uno che un giorno avrà tanto successo in una pratica unica come quella. Vaclav, senza rispondere alle domande, fa un profondo inchino. « Siete state un bel pubblico davvero un bel pubblico e non è una cosa che dico spesso. Grazie. Senza di voi, io non sono nulla. » Fa un altro inchino, ancora più profondo, ricevendo un applauso ancora più forte. « Tutto questo, lo faccio per voi per i miei fan. » Si inchina un'ultima volta e a questo punto è chiaro, per Rasia e Ryan, che lo spettacolo è finito e che lui ora non è più Vaclav il Magnifico ma è tornato il Vaclav di tutti i giorni. « E stato incredibile! Portentoso. Quando ti esibirai in questo numero? » chiede Ryan. « Io potrei essere pronto per il mondo, ma il mondo sarebbe pronto per Vaclav il Magnifico? » dice Vaclav, e Ryan gli sorride radiosa. Il sorriso di Ryan è civettuolo e Rasia ricomincia a pensare cose non belle di questa ragazza, che è troppo magra, come se sua madre non le desse da mangiare, questa madre che non si è presa nemmeno il disturbo di alzare il telefono per chiamare Rasia, e comincia a pensare che forse, proprio su quel letto, tutti i pomeriggi dopo la scuola, questa ragazza fa sesso, o magari anche solo delle cosacce senza vestiti, con il suo bambino. Sta pensando quanto vorrebbe riuscire a parlare con Vaclav di certe cose, cose intime, e si sente in colpa perché dopo essersi ripromessa tante volte e in tutti i modi di parlargli, a queste cose non è ancora riuscita a dare voce. Oggi, in ufficio, Pamela, della contabilità, ha detto che non occorre scendere nei particolari «tecnici». Ha detto che basta fissare qualche regola, tanto per assicurarsi che lei e Vaclav siano sulla stessa lunghezza d'onda. Ha detto che
lei, a suo figlio, ha detto una sola cosa: « Che io ci sia o no, rispetterai la mia casa: porta aperta e piedi sul pavimento. E quando sei nel parcheggio dietro il supermercato, pacco chiuso ». Tutti hanno riso, ma Rasia non ha capito la battuta ed era troppo imbarazzata per chiedere cosa significava e perché faceva ridere, Jessica, delle risorse umane, ha detto: « Oggigiorno tutti i ragazzi fanno sesso. Il problema non è se lo fanno o no, ma se fanno sesso sicuro o no. Non possiamo impedirgli di farlo, possiamo però dargli tutte le informazioni che servono ». Ma lei quali informazioni aveva da dare a Vaclav? Cosa poteva dirgli? Cosa voleva che sapesse? Ryan e Vaclav stanno ancora parlando del concerto di Ryan e di questo Ozzie. « Chi è questo Ozzie? » chiede Rasia. Lo dice come se fosse certa che Ozzie è uno spacciatore di droga, o uno con gli orecchini in faccia, o una prostituta, una persona cosi. Lo dice come chiedendosi quale di queste cose è il misterioso Ozzie, ma è certa al cento per cento che, chiunque sia Ozzie, il suo locale è un posto in cui i ragazzi non dovrebbero andare. « Mamma, Ozzie's ti piacerebbe molto. E un locale di Park Slope, indipendente, dove fanno migliaia di varietà diverse di tè. E di sera ci fanno dei piccoli concerti: ci sono poltrone e divani e la gente può starsene lì ad ascoltare, leggere eccetera... Hanno degli ottimi biscotti. E i rugelach!Hanno dei rugelach meravigliosi. » Il figlio di Rasia dice rugelach come i ragazzi americani. Come se fossero una cosa straniera. E capisce che quel posto di sicuro non le piacerebbe, quel locale pieno di madri che hanno vent'anni meno di lei, con i loro passeggini di lusso, un posto dove non saprebbe quali sono le parole giuste da dire - mocha di qui, venti di là - di cui non conosce le regole — dove ordinare, dove pagare, dove sedersi - e in cui entrerebbe come entrerebbe un bisonte: tutti la guarderebbero e la metterebbero in imbarazzo, e intanto lei sborserebbe quattro dollari per bere una cosa che butterebbe via, tanto farebbe schifo. « Ci sono alcolici, lì? » chiede. « Ma no. Servono tè. Non ce l'hanno nemmeno, la licenza per gli alcolici. » « Okay. Non conosco questo posto » dice lei. Vaclav capisce. Quand'era piccolo, i posti li scoprivano insieme. Magari gli altri bambini avevano la mamma che gli spiegava le cose: qui si compra il
biglietto della metropolitana, qui si dà la ricetta al farmacista e là si ritirano le medicine, qui ci si mette in coda per spedire un pacco; Vaclav e Rasia, invece, quando arrivarono in America impararono insieme. Adesso che insieme fanno molte meno cose, lui va sempre in posti che lei non conosce. E una cosa che può ferire una madre, ma Rasia si dice che la situazione non è poi tanto diversa da quella delle madri dei normali ragazzi americani. Anche se sa che un po' tanto diversa lo è. «Sai una cosa, mamma? Dovresti venirci anche tu. Vieni da Ozzie's, così potrai vedere la band di Ryan e anche il mio numero » dice Vaclav. « Va bene. Vediamo. Non so » risponde Rasia. Non vorrebbe, ma la spaventa l'idea di andare a vedere il numero di Vaclav da Ozzie's, dove si sentirà tanto fuori posto. La stanza si gonfia di un silenzio triste, perché tutti e tre, Rasia, Vaclav e Ryan, sanno che Rasia non ci andrà. Ryan si ritrova a non sapere dove mettere le mani, si ritrova a scusarsi. A uscire di scena. « Oh, devo essere a casa per cena. Grazie mille dell'ospitalità » dice. Ryan si ferma raramente a cena da Vaclav. Dice che sua madre la vuole a casa per cena, e lui capisce che è sì la verità, ma non tutta. Non che a Ryan non piaccia quel che si mangia a casa di Vaclav. Non le piace stare così attenta a tutto quel che fa: le sue mani, i suoi piedi che si muovono al rallentatore, il modo in cui allunga il braccio per prendere qualcosa sul tavolo, il suo modo di usare la forchetta e il coltello, i suoi « per favore » e « grazie ». Non le piace che Rasia serva tutti quanti invece di lasciare che ciascuno attinga alla zuppiera sul tavolo; non le piace che questo la renda tanto consapevole della quantità di cibo che Rasia le serve, della quantità che effettivamente riesce a mangiare e dell'enorme divario fra le due. E non le piacciono i condimenti insoliti. Ma queste sono piccole cose. La cosa grossa è che, parlando con Rasia e soprattutto con Oleg, è attenta a ogni parola che dice e non dice. È ipercontrollata, nell'uso delle parole: il gergo, il tono di voce; non sa mai bene quanto capiscono; teme di risultare compiacente parlando troppo spedita o troppo piano. A Ryan piace molto, invece, ospitare Vaclav a casa sua. Le piace esibirlo, le piace che faccia dei trucchi di magia alle sue sorelle e degli altri trucchi ai suoi genitori, che li affascini. Le piace che suo papà dica: « Be', questa è proprio bella! » e poi si metta a parlare con Vaclav di fisica, che è il suo argomento
preferito insieme alla magia, oppure di baseball, che il papà di Ryan crede che a Vaclav piaccia. Ma è raro che Vaclav possa fermarsi a cena da lei. Rasia lo vuole a casa tutte le sere. E Vaclav non discute mai: torna a casa e basta. La irrita che lui non combatta con Rasia per lei. Così declina gli inviti a cena e si fa accompagnare da Vaclav alla linea Q, e con due fermate di metropolitana può tornarsene a casa a cenare con la sua famiglia senza dover pensare a come tenere in mano il coltello. Secondo Rasia, Ryan non vuole fermarsi perché nonle piace mangiare cibi strani e, anzi, per dirla tutta, non le piace proprio mangiare basta guardarla: lo dimostrano i suoi polsi; è tanto magra. Le sere in cui Rasia è sicura di cucinare cibi assolutamente normali e americani, e sani, lo annuncia a Ryan a gran voce. « Sei invitata a cena, se vuoi. Pollo alla griglia. Sano » dice Rasia, ma Ryan la ringrazia, dice di no e si mette a preparare lo zaino. Questa sana cena americana compare in tavola sempre più spesso, dal momento che il dottore ha detto a Rasia che è troppo grassa, che deve mangiare meno carne e più verdura e dimagrire un bel po'. Rasia crede molto nei dottori, soprattutto i giovani dottori americani, con quegli ambulatori simili a stazioni spaziali, così quando il dottore le ha detto che doveva perdere peso (almeno venticinque chili!), gli ha chiesto subito di entrare nello specifico, di elencare esattamente per iscritto le cose che doveva fare. Quando il dottore, con una risatina, le ha detto che sarebbe bastata qualche cena alla settimana a base di carni magre e verdure, per esempio pollo alla griglia con asparagi o spinaci, o un'insalata con pollo alla griglia, e camminare una ventina di minuti al giorno a passo spedito, Rasia ha annuito tutta seria e gli ha chiesto che cosa voleva dire «qualche». Il dottore ha risposto di aver sempre pensato che « qualche » significasse tre. Tre sere alla settimana, Rasia prepara pollo alla griglia con asparagi e spinaci, e tutti i giorni, quando torna dal lavoro, si mette le scarpe da ginnastica e per venti minuti cammina nell'isolato. Oleg non l'accompagna a camminare né è entusiasta del pollo alla griglia con gli asparagi e gli spinaci, e vive per i giorni, soprattutto il venerdì sera, in cui ci sono il boršč, la challah, grossi pezzi di carne nel boršč, un grosso pezzo di carne nel suo piatto e una ciotolona di gelato a fine cena.
Ora Vaclav accompagna Ryan alla porta, le prende il cappotto, si mette in spalla il suo zaino. Fuori non è ancora buio. Il sole se n'è andato, ma è rimasta un po' di luce: è il momento della sera in cui la luce sta per svanire. E autunno e fa ancora caldo, anche quando il sole è al tramonto. Mancano quattro settimane a Halloween e una al momento in cui l'aria comincerà ad avere l'odore, tutte le sere, di foglie bruciate. Baciologia Vaclav aspetta di aver svoltato l'angolo e poi si ferma a baciare Ryan. Insieme alla magia, per lui il bacio alla francese è la cosa più bella del mondo e in questo periodo, a scuola, pensa più ai baci a Ryan e meno alla magia. Per quante volte baci Ryan, prova agitazione e benessere, come essere in cima alla prima grande discesa del Cyclone. A Vaclav piace baciare Ryan all'angolo, ma continua a pensare anche a tutto il resto, a tutte le cose che un ragazzo e una ragazza potrebbero fare insieme e a come si potrebbe farle, e a quante di quelle cose potrebbero scoprire insieme se per un pomeriggio avessero un letto, una stanza, una coperta, dei cuscini. Se avessero una notte intera, una notte tutta per loro, be', è incredibile quante di quelle cose potrebbero fare, lui e Ryan. Quando la bacia sente tutte queste cose accenderglisi dentro: ecco perché questi baci gli piacciono più di tutto. Quando bacia Ryan, prende tutti i suoi pensieri sulle cose che potrebbero fare se avessero il tempo e il posto in cui farle e li mette nel bacio. Con l'aria che ha nel naso li soffia dentro di lei, con la lingua le mostra l'impeto, l'umidore, l'intensità di quelle cose. Quando bacia Ryan, le mette tutte nel bacio. Ryan è diversa. Lei vorrebbe che il bacio fosse solo una tappa nel cammino che porta a tutte le altre cose. Vaclav lo sa perché lei glielo ha detto, ma anche perché quando si baciano lei non gli sembra felice, ma disperata, e si preme troppo forte contro di lui, e respira troppo forte, e con le unghie gli scava un po' la pelle, e lo tira troppo forte a sé. Quando lei fa così, Vaclav si sente come quando la metropolitana è troppo affollata e tutti devono stare attaccati l'uno all'altro; non vede l'ora che le porte si aprano per tirare una bella boccata d'aria, dare qualche bella falcata in libertà, con le braccia che vanno avanti e indietro, e andare dove vuole. Arrivano fino all'altro incrocio e si fermano a baciarsi, poi arrivano all'altro incrocio e si fermano a baciarsi, poi accelerano un po' perché Rasia sa che non
ci vuole mezz'ora per fare due isolati e che all'ora di punta c'è un treno della linea Q ogni otto minuti. Quando arrivano alla banchina della metropolitana e hanno un po' di tempo prima che il treno venga a portarsi via Ryan, si baciano sempre più forte, perché il tempo passa e da un momento all'altro potrebbero arrivare le luci del treno a illuminare i binari, e allora sapranno che il tempo sarà agli sgoccioli. Ryan fa un passo avanti e preme appena il corpo contro quello di Vaclav, e Vaclav indietreggia un po', ma lei fa un altro passo avanti e gli si preme contro con un'aggressività sorprendente, poi ha il seno schiacciato contro di lui e lui indietreggia ancora, e lei avanza, finché lui ha le spalle al muro e non può più indietreggiare e lei, lì sulla banchina della metropolitana, gli si preme contro sempre più, e lui comincia a sentire fra loro un movimento oscillatorio, come di un cuore che batte o di onde che vanno avanti e indietro, e non capisce se si stanno muovendo davvero o insieme stanno solo creando l'impressione di un movimento, finché, con una folata di aria fredda, arriva il treno, separandoli. Ryan abbraccia Vaclav, poi sale sul treno e quando le porte si chiudono lo saluta con la mano. Lui rimane a guardare il treno partire, lo guarda snodarsi fra gli edifici, i cartelloni pubblicitari e le cime degli alberi. Se ne sta lì, sulla banchina, appena al di sopra dei tetti di Brighton Beach, e riesce a vedere giù i cortili dietro le case che vivono addossate alla cicatrice delle rotaie, e in quelle case ci sono famiglie che si amano in russo, in ceco, in spagnolo e intanto guardano il telegiornale, e in quelle case, ai fornelli, le madri preparano cavolo ripieno, pasta, passata di spinaci e hanno il forno acceso a 190 gradi per trasformare in appena trenta minuti gli apple pie surgelati del supermercato nel profumo della vera casa americana, e il vento dell'Atlantico, che è l'unica cosa che si frappone tra qui e là, tra l'adesso e l'allora, tra il nuovo e il vecchio, porta nelle fine l'odore di brodo di vongole di Coney Island. Fare la domanda inespressa, ovvero la punta dell'iceberg Scendendo le scale che dalla banchina soprelevata della metropolitana portano alla strada, Vaclav ammette a se stesso di non volere altro da Ryan. Un pochino, pensa, un pochino è contento che lei se ne vada. Sono stati
insieme il tempo che basta ed è bene che lei vada a casa. Può dirglielo, questo? No, non può dirglielo. Non vuole stare di più con lei. Non vuole un coinvolgimento maggiore con il corpo di lei. Lei vorrebbe di più, più tempo, più coinvolgimento, un legame più forte. Vaclav allunga il passo. Affonda le mani nelle tasche. Io voglio meno Ryan perché lei vuole più Vaclav? Lei vuole di più forse perché io voglio di meno? I sentimenti di chi hanno la precedenza? I sentimenti dipendono gli uni dagli altri? Forse io vorrei comunque quel che voglio e lei lo stesso. E un ping-pong mentale molto frustrante, che non lo diverte. E c'è un altro pensiero che comincia a prendere forma. Forse è sempre così. Forse c'è sempre uno dei due che vuole di più. Forse arriva per tutti il momento in cui ci si rende conto di aver involontariamente mentito dicendo ti amo, mi manchi, sei bella, sei la più bella, non vorrei mai che te ne andassi. Forse quel momento passa e tutto torna vero, vero quanto hai sempre pensato che fosse. O forse non passa. Se il momento passa, sarebbe saggio decidere di aspettare con calma. Se non passa, allora forse non bisognerebbe aspettare: bisognerebbe trovare un'altra persona alla quale si possano dire quelle cose senza mentire. Ma forse succede sempre, chiunque si cerchi di amare, nel qual caso si può benissimo restare dove si è, perché con chiunque altro si ripeterebbe lo stesso processo. Vaclav sta camminando nel quartiere in cui vive da quando si trasferì in America tredici anni fa. Il marciapiede è sempre più accidentato, di giorno in giorno più infido, e lui si rende conto che da quando vive lì non è mai stato riparato. Dalla via la luce se n'è quasi andata, quando Vaclav apre la porta di casa e sente l'odore della cena prima ancora di staccare la mano dalla maniglia. « Vaclav? » sta gridando Rasia. « Siediti! Stiamo aspettando! La cena diventa fredda. » « Credevo che ci fosse l'insalata » le grida Vaclav di rimando. « C'è insalata. Sì, insomma, diventa meno fredda » dice. Adesso Rasia usa «insomma», una parola che ha odiato la prima volta che l'ha sentita alla televisione e che odiava di più quando usciva dalla bocca di suo figlio, finché anche lei ha cominciato a usarla, e con che facilità la parola si è inserita nel suo lessico. È una parola molto utile, pensa adesso Rasia. Dice tutte queste cose in una volta: Non me ne importa
Va&*#@?§A% Sei troppo stressato Io sono libera e rilassata Non mi sottometto al tuo stress A Rasia piace cambiare le carte in tavola in modo che quello stressato sia suo figlio. « Scusami, mamma » dice Vaclav. Ha capito che la fretta di andare a tavola non dipende dalla temperatura del cibo, alta o bassa che sia, ma solo dalla felicità con cui sua mamma gli ha preparato la cena e dall'incredibile scorrettezza di lui nel farle aspettare di servirgliela. E una visione delle cose un po' egocentrica, ma è stato provato più volte che sua madre esiste solo per lui. Tutto quello che fa, in un certo senso lo fa per lui e tutto quello che vuole, in un certo senso lo vuole per lui. Vaclav stabilisce che adesso può farle la domanda che vorrebbe farle da stamattina. Si siede al suo posto al tavolo della cucina. Quel tavolo è sempre stato il loro tavolo della cucina, a quanto ricorda Vaclav, come il marciapiede è sempre stato il marciapiede, lo stesso, da sempre. L'estensione della sua memoria le fa sembrare cose vecchissime, il tavolo e il marciapiede, ma tredici anni non sono molti per un marciapiede mai riparato, e nemmeno per un tavolo. Non sono molti per chi da tredici anni vive in un paese: sono pochissimi. E tuttavia, per altri aspetti possono essere molti. Possono essere molti per chi da tredici anni è lontano dal suo paese, da casa. E molto anche un solo anno, quando si è lontano da qualcuno cui si pensa ogni giorno. Lena è lontano da sette anni e Vaclav ne sente la mancanza, tutti i giorni. « Mamma » dice Vaclav, mentre Rasia serve a Oleg l'insalata di pollo ammosciata, « tu pensi mai a Lena? » La domanda rimane sospesa nell'aria, cambiando tutto. Nella sua famiglia c'era una domanda inespressa, era questa, e adesso è stata espressa, e la stanza si è svuotata di tutta l'aria che c'era. Rasia continua a mettere insalata di pollo nel piatto del marito. Vaclav sa da molti anni che è una domanda da non fare, una domanda che in realtà è la punta di un iceberg: l'etichetta dell'iceberg potrebbe essere LENA, O magari COS'È SUCCESSO A LENA, O COS'È SUCCESSO A LENA A QUEI TEMPI E DOPO, O TUTTA LA STORIA DI LENA. Due volte, da quando Lena è sparita, Vaclav ha provato a fare questa domanda. Una volta in cucina dopo che Rasia lo aveva trovato al Sideshow e
un'altra due anni dopo, quando Vaclav ne aveva dodici. La seconda volta, Vaclav chiese a Rasia: « Adesso dov'è Lena? » e lei lo guardò tanto male che lui capì subito di aver sbagliato a fargliela. Rasia disse: « Come faccio a saperlo? » e se ne andò, e a Vaclav fu chiaro di averla fatta arrabbiare, anche se non sapeva bene perché. Benché non avesse più chiesto, e Rasia non ne avesse mai parlato, la domanda era rimasta nell'aria. L'iceberg era sempre lì, in cucina. « No » dice Rasia. E una bugia. Lo sa Vaclav, lo sa Rasia e lo sa anche Oleg. « Io sì » dice Vaclav. Vaclav augura a Lena la buona notte da quella sera che lei se ne andò. Usando la voce. In un sussurro. All'occorrenza, quando dorme da amici, le dà la buona notte nel bagno tirando lo sciacquone, per non farsi sentire. Non perché abbia vergogna, ma perché quelle parole sono per Lena e nessun altro; sprecarle per orecchie che non siano di Lena potrebbe usurparne il potere. E un grande potere quello della buona notte, pronunciata tutte le sere. La sera che Lena scomparve, Vaclav le augurò la buona notte, mise la buona notte nella solitaria, spaventosa oscurità pensando bene a ciascuna parola. Buona notte. Buona notte. Voleva che Lena trascorresse una buona notte. Non una notte di paura. Non una notte di pericolo. Non una notte fredda o di solitudine o piena di incubi. Riempì le parole di tutto il suo amore, il suo affetto, la sua preoccupazione per Lena e gliele lanciò, confidando che come piccioni viaggiatori l'avrebbero trovata e sentì, quella sera, che le sue parole l'avrebbero protetta, che, se lui avesse pensato a lei, le avesse voluto bene e lo avesse mostrato all'universo, non le sarebbe successo alcun male. Vaclav non stava chiedendo a un dio onnipotente di esaudire un suo desiderio. Stava risvegliando in sé le sue vere emozioni, i suoi sentimenti puri, e li spingeva fuori, li consegnava all'universo, metteva le ali a un'energia potente che, ne era certo, avrebbe fatto quello che lui da bambino non aveva avuto il potere di fare. Da quella volta tutte le sere, meticolosamente, ha mandato nell'universo la sua buona notte per Lena, sempre sapendo, da allora, che se non avesse preso questa precauzione, che se se ne fosse dimenticato o l'avesse trascurata o l'augurio non fosse stato sincero o non fosse stata sincera la mente o non fosse stato sincero il cuore, forse la buona notte non sarebbe arrivata a Lena e
questo avrebbe significato che forse Lena avrebbe trascorso una brutta notte, e questo avrebbe significato che forse la sua vita sarebbe stata in pericolo. « Sai che cosa le è successo? » chiede Vaclav. « No » risponde Rasia. Questo è vero e non lo è. Rasia si è fatta un'idea di quello che successe e stava succedendo a Lena allora, ma non sa che cosa le è successo dopo. Sa che Lena è stata portata via dai Servizi di protezione per l'infanzia, ma non sa dove. E non sa nemmeno che cosa significa essere portati via dai Servizi di protezione per l'infanzia, oltre a quello che ha visto alla televisione. « Che cos'è successo quella notte? » chiede Vaclav. « Questo non so » risponde Rasia, e abbassa lo sguardo sulla sua insalata con in cima i pezzi di pollo alla griglia. Non vuole rispondere a queste domande. Ha sempre immaginato il momento in cui Vaclav avrebbe voluto sapere cos'era successo a Lena: lei seduta tranquillamente in una casa per anziani. (E Oleg? Morto, ovviamente. Non è cattiveria, ma realismo. E questo che fanno gli uomini: muoiono, molto prima delle donne. Ed è giusto così: almeno le donne possono finalmente riposarsi.) Un bel giorno di primavera, Vaclav sarebbe venuto a trovarla portandole i nipotini e insieme, in spiaggia, li avrebbero guardati giocare con la sabbia (ovviamente la casa per anziani sarebbe stata quella bella sulla spiaggia di Coney Island) e Vaclav avrebbe detto: « Mamma, so che è passato molto tempo, ma pensi di potermi dire cosa successe a quella bambina con cui giocavo da piccolo? » E lei si sarebbe detta sorpresa che lui lo ricordasse ancora: quanto tempo era passato! Era nonna, adesso! E la bambina, gli avrebbe ricordato, si chiamava Lena, e avrebbe potuto raccontargli la storia con una dolcezza velata di lacrime perché erano fatti successi tanto tempo prima in un posto tanto lontano. Adesso, invece, è troppo reale. Il posto è lo stesso, lo stesso quartiere, da allora non è successo niente, nessuna ferita si è rimarginata, è ancora una cosa brutta e parlare delle cose brutte non fa bene. « Mamma, non vuoi dirmi cos'è successo quella notte? » chiede Vaclav. « Non ricordo quella notte » risponde lei. « Okay, ma mi piacerebbe che ricordassi » dice Vaclav, nel tono più gradevole che può. « Senti » dice lei. « Non importa. »
« Ci stai pensando solo perché oggi è suo compleanno e fra tre giorni non ci penserai più » dice Rasia, e beve un lungo sorso d'acqua. Vaclav sorride, perché queste parole sono un'affermazione e una promessa. E evidente che Rasia ricorda. « Okay, va bene » dice Vaclav. E aspetta, tre bocconi. « Com'è andata al lavoro, oggi? » « Och » dice Rasia. « Och. » E scuote la testa come per dire: « Oggi è stata la giornata peggiore che sia mai capitata a chi lavora in un ufficio. Non puoi immaginare quali atrocità ho visto, ma ti racconterò un breve momento della giornata perché tu sappia «quanto è stata tremenda, e tieni presente che ometterò le parti peggiori, e questo per risparmiarti il dolore che io conosco fin troppo bene». «Barbara... sai Barbara, che si prende sempre giorni di malattia e poi torna al lavoro con una scatola di fazzoletti di carta e i capelli con permanente nuova? Oggi arriva e ieri doveva fare moltissimi ordini, ma tutto ieri la sento al telefono, chiacchiera, chiacchiera, chissà con chi, ma probabilmente con uomini del sito che dice sempre, quello per incontrare uomini ebrei, non che è una cosa brutta, ma tutti sanno che su Internet ci sono troppi pervertiti. Comunque, non fa nemmeno un ordine... » Mentre Rasia parla, parla, parla, Oleg si appisola a tavola, russando dal naso; l'aria, lentamente e senza far rumore, torna nella stanza e tutto sembra normale, se non fosse per la nuova tenerezza che Vaclav e Rasia provano l'uno per l'altra, perché lei, anche se era difficile e non voleva farlo, lei gli ha detto che a Lena pensa ancora, si ricorda del suo compleanno, e così non solo ha detto a suo figlio che si ricorda di Lena, che pensa a lei, che proprio oggi ha pensato a lei, ma ha promesso che al momento giusto, al momento opportuno, gli racconterà tutto. Vaclav si sente particolarmente vicino a Rasia anche perché ha scoperto di avere nel cuore una cosa grande che anche lei ha nel suo. Un elenco del dopocena Dopo cena, Rasia e Oleg stanno guardando la tivù satellitare russa in salotto, sul grande divano di pelle nera. Vaclav è seduto per terra con le gambe allungate in avanti e il quaderno di scuola sulle ginocchia. Sta preparando la prova di fisica, ma sa di conoscere bene la materia, così dà solo una ripassata
alle formule che gli servono, ma sarà solo una messa a punto, tanto per sicurezza. Ha una media perfetta, in fisica; è la sua materia preferita. Si mette alla prova scrivendo su una pagina a righe le formule memorizzate per l'esame. Intanto, con la mente torna in continuazione a Lena. Ha bisogno di andare in camera, di essere solo e pensare a lei, e gli sembra una cosa bellissima - come quando si sta leggendo un poliziesco e non si riesce a concentrarsi sulle normali attività quotidiane: si vorrebbe soltanto tornare al proprio libro, si vorrebbe soltanto stare nel mondo di quel libro per vedere cosa succede. In camera, Vaclav si sdraia tutto vestito sul letto, sopra le coperte, una cosa speciale, si rende conto, perché la fa raramente. Gli sembra un lusso, è perfetto starsene a letto, sopra le coperte, a pensare a Lena. Pensa all'aspetto che potrebbe avere. E difficile, perché non ricorda bene nemmeno che aspetto aveva quando si frequentavano. Pensa alla voce che potrebbe avere, ma è difficile ricordare la voce di Lena. Forse, pensa, perché Lena parlava pochissimo, quando si frequentavano. Si ricorda di quando diceva qualcosa, ma non riesce a sentirne la voce. Oggi Lena compie diciassette anni. Sarà cresciuta. Vaclav si chiede se è bassa o alta; quando si frequentavano era bassa, molto più bassa di altri bambini della loro età. Potrebbe essere ancora bassa. Si chiede come porta i capelli. Potrebbe avere la coda, o portarli corti, o avere la frangia. Gli viene in mente che potrebbe avere il piercing al naso o i capelli ossigenati e tinti di rosa. Potrebbe essere grassa, potrebbe portare gli anfibi, o potrebbe portare canottiere con la scritta « principessa » e adesso gli viene in mente che molti anni li separano e potrebbero ormai essere molto diversi fra loro. Lena potrebbe essere il tipo di ragazza a cui non vorrebbe mai rivolgere la parola, una che ascolta brutta musica, una che parla solo di giocatori di football, o una di quelle ragazze che vanno fuori a fumare nell'intervallo per il pranzo. L'ha cercata su Facebook, ma l'ultima volta che ha controllato c'erano decine e decine di ragazze che si chiamavano Lena e nessuna con il suo cognome. Quando ha capito che poteva aver cambiato cognome, ha rinunciato: non poteva cercare una ragazza con un nome, nessun cognome e residenza chissà. Lena potrebbe guidare la macchina. Potrebbe avere un ragazzo. Probabilmente parla l'inglese molto meglio. Probabilmente ha le tette. Vaclav
si rende conto di aver sempre pensato, in questi sette anni, a Lena piccola: le ha attribuito la stessa età di allora; adesso invece, il giorno del suo diciassettesimo compleanno, finalmente l'ha fatta crescere, e lei si sta allontanando. L'unica Lena rimasta a Vaclav è quella dei suoi ricordi; la Lena reale è una sconosciuta, una persona che potrebbe non piacergli. Sdraiato sul letto, sente che Lena gli sfugge e, per la prima volta, pensa che stasera magari non le darà la buona notte. Una possibilità che improvvisamente lo spaventa, lo appaga e gli dà un senso di liberazione. Cerca di pensare a cosa potrebbe comportare il fatto ' di non dare la buona notte a Lena. Scrive un elenco: NON DARE LA BUONA NOTTE A LENA: PENSIERI Do la buona notte a Lena da sette anni Significa che dovrei continuare. Significa anche che dovrei smettere. Cosa succederà se smetterò. Forse niente. Forse Lena morirà. Quest'ultima riga dell'elenco lo sorprende, perché non ha mai voluto ammettere, né a se stesso né ad altri, di pensare che Lena morirà se non le darà la buona notte. È sciocco pensarlo, ma Vaclav si chiede se senza la sua buona notte Lena morirà davvero. Non ne è sicuro. Poi si rende conto che non saprà mai se la sua buona notte avrà avuto degli effetti, perché con ogni probabilità non la rivedrà mai più e, anche se la rivedesse, non avrebbe mai la prova che la sua buona notte l'abbia mai protetta. Lena è inconoscibile Vaclav sta ancora cercando di decidere se darle o non darle la buona notte e capisce che, se stasera gliela darà, significa che dovrà dargliela per tutta la vita, perché se decide di dargliela stasera, non riuscirà più a smettere, perché smettere significherebbe essere responsabile delle cose brutte che potrebbero succedere a Lena. Se stasera non le darà la buona notte correrà un grosso rischio, ma poi la buona notte non gliela darà mai più. Inoltre, da una
parte teme che non dargliela stasera significhi staccarsi da Lena, ma dall'altra capisce che se pensa tanto a lei è perché si sono già staccati. Vaclav si cambia, si mette un paio di pantaloni della tuta. Piega i jeans e li ripone nel cassetto, poi si guarda allo specchio. Decide di mettersi sotto le coperte e non dare la buona notte a Lena. Il letto è freddo e Vaclav sente che il proprio corpo, lentamente, lo scalda, scalda il piumone e il cuscino sotto la testa. Si chiede quando questa diventerà la prima sera che non ha dato la buona notte a Lena, perché farebbe ancora in tempo a dargliela. Conterà il momento in cui si addormenterà o solo quello in cui si sveglierà la mattina senza avergliela data? Per un attimo ha paura di dirlo per sbaglio: ha paura di dire mentalmente buona notte solo perché ci sta pensando e che possa valere. I suoi occhi vagano per le pareti della stanza come se fosse una stanza nuova, mai vista prima. Li chiude, anche se non ha un briciolo di sonno in questa stanza nuova, dove tutto sembra diverso. Vaclav non dà la buona notte a Lena, ma si interroga. Rimane lì a interrogarsi su una cosa che gli sembra ai confini dello spazio o il volto di Dio. No, non il volto di Dio, che si potrebbe anche provare a immaginare. Adesso, per Vaclav, Lena è inconoscibile come la pelle dietro le ginocchia di Dio, ammesso che Dio abbia le ginocchia, cosa che ovviamente nessuno può sapere. Lena è per Vaclav un concetto inconcepibile. Lena è l'infinito. Lena è l'universo in espansione. Lena è il punto più profondo dell'oceano, dove mai c'è stata luce.
DIVISI: LENA
Lena e nel gabinetto Lena non ha la sensazione di compiere diciassette anni. Ha sì la bella sensazione che sia un compleanno, come se la giornata avesse un odore diverso da quello di stantio dei giorni normali. E una giornata che odora più di sole, di colori, di nitore, di luce, ma Lena non si sente una ragazza di diciassette anni, non si sente come vede le amiche sentirsi il giorno del loro diciassettesimo compleanno. Lena non si entusiasma per le cose tipiche dei diciassette anni: guidare, avere davanti un solo anno prima di poter comprare le sigarette, i biglietti della lotteria, andare a vedere dal vivo una puntata del David Letterman Show, votare, prendere il diploma delle superiori e diventare adulti. L'ultimo compleanno che ha sentito davvero come un compleanno è stato il nono: dopodiché ha cominciato a girare su una giostra impazzita, reggendosi a malapena, e pur avendo il ricordo di aver girato, girato, girato, di aver trascorso un anno e poi un altro e poi un altro ancora, ha la sensazione di avere ancora nove anni e di non essere arrivata dove avrebbe dovuto. Oggi ha già ricevuto molti regali, compresi questi: Nuovi diari da Em Buoni per andare al cinema dai nonni con biglietto di auguri decorato di lustrini Calze nuove da Em Dieci album « necessari » per migliorare il gusto musicale da Em Braccialetti comprati in un negozio che vende roba tibetana da Olivia Biglietto firmato dal consiglio degli studenti Maglietta di compleanno decorata con Puffy Paint da Perri e Faye Franny e Zooey di J.D. Salinger, vecchia edizione di seconda mano, con dedica: «Alla mia Franny della vita reale, per il suo diciassettesimo compleanno », dal fidanzato di Em, Allen Un mucchio di biglietti d'auguri da personaggi romanzeschi, in realtà da Em Scatola di materiale da disegno, comprese gomme pane e penne a punta finissima dai soci del circolo artistico
Oltre a questi regali, il compleanno di Lena ha comportato molti festeggiamenti, palloncini appesi al suo armadietto, una torta con le candeline a pranzo e un annuncio all'altoparlante durante la prima ora di lezione. Lena non ha la sensazione che oggi sia il suo compleanno perché oggi non ha la sensazione di essere una persona. Non è una sensazione nuova: c'è sempre, anche se affiora e risprofonda come il suo dente del giudizio. Nelle giornate no, Lena ha difficoltà a parlare con gli altri. In particolare quando deve presiedere il consiglio degli studenti o il circolo artistico, o radunare le compagne di squadra per gli allenamenti di calcio, ma alla fine se la cava, un minuto alla volta, fingendo. Certe volte è solo un senso di fastidio, come quando vai a una festa in cui non conosci bene nessuno e devi continuare a farti venire in mente qualcosa da dire. Altre volte quei giorni fanno molto male. E oggi fa molto male. Per tutto il giorno c'è stato qualcuno che voleva farle gli auguri di buon compleanno e, per tutto il giorno, parlare con ciascuno di loro è stato per lei come toccarsi un livido persistente dentro il cranio. Per tutto il giorno quelle brevi conversazioni in corridoio le sono andate di traverso, le sono salite nel naso, è stato come prendersi una storta dopo l'altra atterrando male sul tappeto elastico. Squilla l'ultima campanella della giornata, la fine di venerdì, la fine della settimana, e Lena, anche se dovrebbe uscire a festeggiare con molti amici che hanno mendicato ai genitori i soldi per andare tutti a un sushi e offrirle la cena, si rifugia in un bagno, un brutto bagno, com'è noto, un bagno nel corridoio vecchio della scuola, nella parte di edificio non ancora ristrutturata, un bagno che Lena e le sue amiche evitano di usare. Nel corridoio, tutti corrono verso il fine settimana, verso una serata che è ancora calda come le sere d'estate. E venerdì e il fine settimana sembra ancora in espansione, come un grande oceano che si estende all'infinito. In questo bagno ci sono soltanto due gabinetti. Quello in fondo, per gli handicappati, è già occupato, così Lena entra in quello più piccolo, dove lascia cadere per terra il pesante zaino e si siede sul water. La scritta LENA ricamata sullo zaino le sembra estranea e assolutamente arbitraria. Il suo nome, la sua identità, ricamata in bianco su un fondo blu marina. Come fa a essere semplice come una scritta ricamata su uno zaino? Quella sarei io?
Conta quattro piedi nel gabinetto accanto e capisce, sia dall'odore sia dal silenzio calato di colpo quando è entrata, che le due ragazze stanno fumando. Si prende la testa fra le mani e guarda dritto a terra. Per un attimo trova conforto in una nuova scoperta: qualsiasi cosa succeda, i bagni ci saranno sempre e saranno sempre posti tranquilli in cui rifugiarsi. Si dice mentalmente che potrà stare nel gabinetto per sempre. Si dice: Lena, da questo gabinetto puoi anche non uscire mai. Lena è divisa in due. C'è la Lena che ha trovato conforto nel sentirsi dire che può anche non uscire mai da quel gabinetto e c'è una seconda Lena che ha detto le parole di conforto, che ha detto: Puoi anche non uscire mai di qui. Lena decide di conversare direttamente con la Lena numero due. Questa Lena che conforta crede che la prima Lena, una volta confortata, sarà disposta a uscire dal bagno? Sì. Una volta tranquillizzata, la prima Lena sarà disposta ad affrontare il mondo che c'è fuori dal bagno. La seconda Lena deve dunque restare separata dalla prima, che non vorrebbe mai uscire dal bagno. Poi ce una terza Lena, la Lena numero tre, che è in grado di fare domande alle altre due e tirare le conclusioni, e poi un'altra ancora, in grado di osservare tutto quanto. Lena sente moltiplicarsi i suoi io, come quando guardando in specchi paralleli si vede la propria nuca, sorprendentemente estranea, ripetersi all'infinito. Lena guarda una macchia sul pavimento, tra le sue scarpe. Le piace. E ambigua, e lei si sente affine a quella macchia. O è una macchia di sporco sulla piastrella o fa parte delle screziature della piastrella, fatte apposta per nascondere lo sporco. Ma non lo nascondono: e questo getta ambiguità sullo sporco. Quella macchia è sporcizia o una macchia? La piastrella non ha ingannato Lena, non le ha fatto credere che il pavimento sia pulito, niente affatto. Il pavimento le appare sporco e anche brutto. Chissà, pensa Lena, se ricorderà per sempre quella macchia. Le sembra la macchia più importante che abbia mai visto. Si interroga sulla macchia. Chiude gli occhi e cerca di visualizzarla. Si chiede che cosa la renda tanto meravigliosa da aver attirato il suo sguardo, che cosa faccia spiccare quella macchia in mezzo a tutte le altre. Riflette che forse lei è stata la prima ad accorgersi di quella macchia, a riconoscerla, a percepire quella macchia in tutta la sua specifica macchiosità. La macchia è consapevole di essere una macchia? No, decisamente no. L'aspetto che le piace, stabilisce Lena, è l'inconsapevole specificità della macchia. Sente il bisogno di annotarsi questa frase; le sembra tanto azzeccata,
le sembra esprimere una cosa che da tempo voleva esprimere. L'inconsapevole specificità della macchia. Anche se la frase le si staglia perfettamente tra gli occhi e le illumina nuove ed eccitanti zone del cervello, non è sicura di ricordarla in futuro. Chissà perché, pensa, a sedici anni non si fida della sua memoria. Diciassette. Ha diciassette anni. Stabilisce che invece si fida della sua memoria. Ricorda tutte le funzioni di trigonometria, la differenza tra meiosi e mitosi, tutte le preposizioni della lingua inglese. Di, a, da, in, con eccetera. Il problema non è la memoria. Il problema è l'enorme divario fra le molteplici Lene. Ha il timore di perdere la Lena che ha osservato la macchia. La prossima volta che parlerà, quando uscirà dal gabinetto (no, non pensarci, ssst), perderà quella Lena e con lei la macchia. Di sicuro ci sono stati altri momenti come questo, altre macchie, più o molto meno speciali. Ricorda vagamente di aver pensato di vivere un momento importante, di aver avuto un intimo legame con un certo scenario. Ha anche il confuso ricordo di essersi ripromessa di ricordare. Non ricorda invece delle macchie particolari. Decide, d'ora in poi, di ricordare tutte le macchie della sua vita, a cominciare da questa. Stabilisce che le macchie sono la chiave per vivere da soggetto intero, non da persona divisa in tanti tasselli come un puzzle, fatta di tante persone diverse che cercano di travestirsi da una sola persona. Apre la cerniera dello zaino per cercare un foglio su cui scrivere questo suo proposito. « Lena? » Una delle due ragazze nel gabinetto per gli handicappati sta dicendo il suo nome. « Lena? » Lei dovrà rispondere, perché fa parte della finzione di essere una sola persona e non tanti io che guardano una macchia. Non rispondere significherebbe svelare in che situazione si trova. Una Lena sta chiedendo ad altre Lene: « In che situazione siete? » L'agglomerato di io non sa esattamente in che situazione si trova, ma sa per certo che l'incapacità di formulare una risposta dimostra che i vari io non stanno funzionando come un tutt'uno, non abbastanza per fingere. Almeno una Lena, però, teme che, se non risponderà, le ragazze che fumano possano preoccuparsi per lei. Un'altra Lena pensa che lasciarle preoccupare della situazione in cui Lena si trova possa essere una bella mossa. Un'altra ancora è presa dal panico a quest'idea e raccoglie un forte contingente di io pro risposta, pro finzione. Altre Lene assistono al trambusto.
« Lena? » Lena è certa che gli altri non hanno tanti io. E spaventata all'idea di non avere un io centrale, una Lena fondamentale. Ha la sensazione di averla avuta, ma poi di averla persa, che a un certo punto sia rimasta sepolta, sia soffocata e morta, perché quando guarda sotto il vociare delle varie Lene, non c'è niente. Forse il senso di frantumazione sta avendo la meglio perché in lei è morto qualcosa, è morto o si è perduto. « Lena? » Di nuovo la voce. Lena comincia a parlare piano tra sé: « Se siamo in grado di decidere se rivelare la nostra situazione o no, allora non è questo il momento di stabilire qual è la situazione contingente. Insomma, se siamo in grado di decidere, significa che abbiamo ancora potere su noi stesse e che quel potere dobbiamo esercitarlo ». « Lena? Sei tu? Tutto bene? » Lena sente di nuovo lo specchio dietro la nuca e vede l'infinito moltiplicarsi dei suoi io: è una sensazione sgradevole. Lo specchio dietro la nuca, pensa, mi sta confondendo i pensieri. Ce li hanno tutti, così tanti io? Cosa fanno, gli altri, li allineano artificialmente? Se si sta dritti in piedi e si guarda avanti, gli infiniti riflessi di sé nello specchio non si vedono, perché la testa li oscura. E questa la soluzione, oppure la soluzione sono i tanti io? « Lena? » Stavolta la parola Lena (il suo nome? Che strano avere un nome! Essere Lena!) è pronunciata da labbra, labbra in una faccia, e questa faccia fluttua su una testa fluttuante che non è attaccata a un corpo, una testa che è comparsa capovolta sotto il divisorio tra il gabinetto di Lena e quello adiacente. « Ciao, Serena » rispondono alcune Lene, mentre le altre si allineano dietro di loro e tutto comincia a normalizzarsi un po'. Serena è china a guardare nel gabinetto di Lena. Poi si rialza e torna a essere due piedi. Lena aspetta. « Sì, è lei » dice Serena all'altro paio di piedi nel suo gabinetto. Poi riappare la testa sotto il divisorio. « Stai bene? » Lena guarda la faccia di Serena. Serena ha la testa molto più in basso del cuore. Chinata in quel modo, con gli occhi che guardano in su verso Lena, fa fare strane cose alla faccia. Sulla fronte sporge una grossa vena e si è messa
l'eyeliner scuro tutt'intorno agli occhi. Ci sono persone che si mettono l'eyeliner per ottenere un effetto, per abbellire gli occhi o cose del genere, per avere un'aria sexy; Serena, invece, pare che se lo metta solo per mettersene un bel po'. Forse vuole solo sembrare più grande. « Stai bene? » chiede di nuovo Serena. Lena è ammirata dal coraggio di mettersi tutto quell'eyeliner tanto per fare una cazzata. Si rende conto che lei non fa niente tanto per fare una cazzata ed è delusa da se stessa. Lena raramente pronuncia la parola cazzata. « Quella vena che hai sulla fronte mi preoccupa » dice. E tanto vero che non si era accorta di avere questa preoccupazione: com'è emersa, l'ha espressa. « Ti preoccupa la mia vena? » chiede Serena. « State fumando sigarette, lì dentro? » Non la mette a disagio la rigidità con cui pronuncia sigarette, una parola che di solito dice con imbarazzo. Forse in questo momento riuscirebbe a dire anche mestruazioni, vagina, pubertà e ombelico. « Sì. Scusa. Ne vuoi una? » « Sì. Grazie. » Di nuovo, ha risposto sinceramente, senza pensarci, senza sotterfugi. Lena non è abituata a dire precisamente quel che vuole dire senza calibrare, e non ha mai fumato una sigaretta. «Vuoi venire qui? C'è un sacco di posto. E il gabinetto per gli handicappati. » « No » risponde Lena. Serena le passa una sigaretta sotto il divisorio e poi le passa un accendino. « Non so come si fa » dice Lena, senza vergognarsi, anche se è consapevole che è da sfigati. « Togli il chiavistello » dice Serena. Lena allunga la mano per cercare il chiavistello, sempre tenendo lo sguardo fìsso sulla macchia. Con la coda dell'occhio vede arrivare i piedi di Serena, li vede entrare, poi il sedere di Serena atterra, poi con la coda dell'occhio vede tutto il corpo di Serena. Lena fissa nel ricordo le coordinate della macchia. È lì. Nell'angolo della piastrella di linoleum. Non quella a metà fra questo gabinetto e quello accanto. La prima piastrella da sinistra, che appartiene soltanto a questo gabinetto. Lena sposta lo sguardo dalla macchia alla faccia di Serena. Serena le toglie di mano la sigaretta e l'accende, poi gliela restituisce. «Aspira un po', ma poco» dice Serena. « Non la fumo. Voglio solo tenerla in mano e scrollare la cenere. »
« Okay. » Lena guarda la faccia di Serena. E piena di cose. C'è l'eyeliner, che è nero, e la pelle è truccata in modo da sembrare molto più pallida di quanto non sia. I capelli sono raccolti in codini, ma ci sono anche molte treccine minuscole e molti fermaglietti un po' dappertutto. E le sopracciglia sono volutamente sottilissime. Per il resto, ha la stessa, identica faccia che aveva la prima volta che Lena è andata a scuola, quando aveva nove anni, quando Serena portava gli stessi stupidi jeans modaioli che portavano tutti prima di diventare persone, quando tutti cercavano soltanto di imparare la matematica e non bagnarsi i pantaloni. Lena vorrebbe dire queste cose a Serena, dirle che la sua faccia non è cambiata, perché è un fatto interessante, ma ha paura di darle un dispiacere, ha paura che la prenda male, visto che vorrebbe sembrare più grande. Improvvisamente Lena non è sincera: non dice tutto quel che pensa. E, di colpo, prova una straordinaria tristezza per questo vuoto fra loro, fra tutte le persone. Tutti sono preoccupati, tutti indossano qualcosa con uno scopo, ma nessuno vuole che gli altri lo sappiano e nessuno vuole che gli altri ne parlino. Tutti vogliono andarsene in giro come se fossero dei fantastici supereroi, venuti al mondo bell'e che fatti; nessuno vuole riconoscere che sono loro, deliberatamente, a creare di giorno in giorno se stessi, e invece è proprio così. Tutti, pensa Lena. « Allora? Come mai 'sta paranoia? » « Credo che sia questa macchia per terra. E inconsapevole e specifica. » « Già » dice Serena, annuendo. Lena è sorpresa che Serena mostri di capire. Poi pensa che probabilmente le sta dando ragione solo per farle piacere e che c'è forse il cinquanta per cento di probabilità che abbia capito davvero; poi pensa che nemmeno lei è sicura al cento per cento di capire la macchia, ma pensa anche che le ha fatto piacere che Serena si sia limitata ad annuire dicendo: « Già ». D'altra parte, forse l'inconsapevole specificità era evidente a tutti: forse Serena se n'è già resa conto da un pezzo e lei invece se ne accorge soltanto adesso. Non sarebbe la prima volta che Lena si sorprende di scoprire una cosa di cui tutti hanno sempre saputo. «E poi» dice Lena, rendendosi conto che c'è un e poi soltanto quando quelle due parole vibrano nell'aria del bagno, « è il mio compleanno e non so niente della mia nascita. »
Capisce di dover dare delle spiegazioni, di dover fare uno sforzo e raccontare a Serena la cosa grossa, quella che sintetizza tante altre cose ma che in generale potrebbe intitolarsi «Io non sono come tutti gli altri e il primo periodo della mia vita è un grandissimo, dolorosissimo casino». «Sono stata adottata a nove anni... » esordisce Lena. « Lo so » la interrompe Serena. « Scusami, va' avanti. » « Lo sanno tutti? » chiede Lena. Sa che tutti i suoi amici lo sanno, ma è sorpresa che lo sappia anche Serena, che è solo una presenza marginale nella sua cerchia di amicizie, una con cui Lena, fino a questo momento, non ha mai fatto discorsi importanti. Ora però Lena pensa: Ma certo, pensa che anche a lei sono arrivate strane notizie sugli altri, notizie trasmesse da una mamma all'altra; non c'è niente da fare: queste notizie circolano. Ragazzi con un fratello autistico, o col papà che una volta ha tradito la mamma, o con la mamma che da giovane faceva la modella, o con uno zio suicida: sono cose che tutti sanno. « Sì, credo di sì. E abbastanza una figata, no? Ti dà un'aria interessante, misteriosa. » Mentre Serena parla, Lena comincia a pensare ai misteri della sua vita, che sembrano inestricabilmente legati al suo io perduto. Forse avere tante lacune nella propria storia, lacune che ha sempre avuto paura di colmare, è la chiave per scoprire la parte di lei che è andata perduta, si è addormentata, è morta o peggio. « Sì, misteriosa, direi. Tutto il primo periodo della mia vita è un mistero» dice «e credo di non voler più che sia un mistero. » I genitori scomparsi e la bambina che non voleva scomparire Lena non sa dov'è nata. A Mosca, in una casa occupata? A Brighton Beach, in un caseggiato di cemento? Qualcuno lo sa di sicuro i suoi genitori, chiunque siano, lo sanno ma lei no, non lo sa. Lei sa soltanto di essere arrivata a Brooklyn molto piccola e senza genitori. Come sia finita a Brighton Beach è un mistero. Lena cerca di immaginare cos'è successo. I suoi genitori venivano dalla Russia e lei è nata a Brooklyn, oppure è nata in Russia e loro l'hanno portata in America. Poi, o loro sono tornati in Russia lasciandola lì, oppure sono ancora in America, chissà dove. In un caso o nell'altro, lasciano Lena a Brighton Beach e scompaiono. Lena invece non scomparirà. Lena è la
bambina che non scomparirà: rimarrà miseramente lì, come una macchia triste. I genitori di Lena se ne vanno e lei, la lasciano lì. Con una baby-sitter? Me la guardi per qualche ora, per favore? Dai Davanti a una porta di casa? In un atrio? Da un portiere? Forse volevano portarla con sé, misero tutto in una borsa, tutte quelle cose piccolissime e noiosissime che ci vogliono per i bambini, pannolini, biberon, latte artificiale, vestitini minuscoli, libri per la nanna, e troppo tardi, mentre l'aereo planava sopra il grande Atlantico puzzolente, si diedero comicamente una pacca sulla fronte dicendo: « La bambina! Abbiamo dimenticato la bambina! » Lena cerca di comporre un quadro d'insieme; cerca di immaginare com'è arrivata lì, quando ci è arrivata. Forse era successo qualcosa ai suoi genitori, neoimmigrati, e loro avevano cercato disperatamente qualcuno che badasse a lei. Immagina che ci fossero parenti un po' dappertutto. Forse i nonni erano ancora in Russia. I parenti, tanto pronti a condividere vodka e notizie, a stringere legami (siamo cugini di terzo grado, ma siamo cresciuti come fratelli!), cominciarono a prendere le distanze (cugini di quarto grado. Soltanto acquisiti, e il matrimonio non è durato. Tecnicamente non siamo neanche parenti, se no la bambina la prenderei, assolutamente, ma visto come stanno le cose, coi prezzi che girano, crescere una bambina che non è neanche una parente, e poi dov'è la sua famiglia? Dovrebbero assumersi le loro responsabilità!) e nessuno la volle. Lena passò da una casa all'altra e capì di essere un peso, così imparò a stare zitta, a rimanere nello sfondo, a guardare e non dare fastidio, e tutto questo non la rendeva attraente, e il suo silenzio era per tutti un rumore, e la sua piccola, vaga presenza e la sua faccia seria erano per tutti un peso sullo stomaco, così nessuno la voleva. Lena non sa come alla fine fu affidata alle cure di una donna con cui non aveva legami di parentela, ma nei suoi primi, gelatinosi ricordi abita nella casa di Radoslava Dvorakovskaya, che lei chiama nonna ma che non è sua nonna. Lena è una macchia nella vita di Radoslava Dvorakovskaya L'estate prima di compiere cinque anni, Lena aveva vissuto con Radoslava per il periodo più lungo che riesca a ricordare. Era intrappolata in un piccolo caseggiato pieno di piccoli appartamenti pieni di piccole vecchiette del quartiere russo che si chiamava Brighton Beach, che era pieno di russi e si
trovava a Brooklyn, che era pieno di immigrati. Le vecchiette si assomigliavano tutte; erano variazioni su un tema, con i loro copricapi, i loro trabiccoli sanitari per andare lentamente, dolorosamente, al negozio di alimentari a prendere le numerose borse per la spesa necessarie. Necessarie per cosa? Necessarie per dare uno scopo alle giornate. Necessarie per andare a comprare le cipolle alla bancarella all'angolo di Ocean Avenue, le stesse del supermercato ma a pochi centesimi in meno al chilo. Un delitto non comprarle, quando poco più in là vendono delle cipolle decisamente buone a qualche centesimo in meno. Chi si credono di essere, quelli dei supermercati? Mica le imbrogli, le vecchiette. Le vecchiette vanno alla bancarella a prendere buone cipolle e poi tornano indietro. Il giorno dopo vanno dal macellaio. Tutte, per andare dal macellaio si mettono in ghingheri. Si stendono sulla faccia un fondotinta di un colore che non si accorda con niente o che forse si accorda con la tonalità della pelle in una fotografia del 1934. Poi ci spolverano sopra del fard e si spalmano il rossetto più o meno nella zona delle labbra, un rossetto che riesce sempre a fuoriuscire dal luogo deputato e insinuarsi nella faccia attraversi fonde incisioni che circondano la bocca. Per il macellaio, certe donne arrivano perfino a togliersi i bigodini. Per il macellaio sono vestite, tirate a lucido e profumate con un profumo che dice: « Mi sono messa il profumo; è un profumo in bottiglia; l'ho messo stamattina, sia prima sia dopo aver infilato le calze elastiche ». Radoslava diceva sempre a Lena che il macellaio era come tutti gli altri uomini del mondo. Il macellaio,diceva, ha quel che ti serve, sa che pagherai. Sa che hai fame ma che fingerai di non averne. Ti sorride e ti chiama amabilmente per nome, e il tuo nome ti sembra tanto bello, nella sua bocca mascolina forte e dolce, ma se non starai attenta lui ti deruberà e darà a un'altra quel che è tuo, quindi devi stare attenta. Come con tutti gli uomini! Ma se vuoi quel che è tuo, devi sorridergli, mostrargli che sai tutto della carne, che non sei aggressiva, che ti fidi di lui (ma non fidarti mai di lui). Chiediti, diceva Radoslava a Lena: me ne sta forse dando un etto in più senza farmelo pagare? Mi sta dando la parte più magra? E roba fresca o sono gli avanzi di ieri, tutti rinsecchiti? E se non sta dando la parte migliore a me, a chi la dà?
Radoslava assomigliava a un milione d'altre vecchiette che gironzolavano sui marciapiedi di Brighton Beach con la shmata in testa, facendo commissioni, aspettando di morire nel nuovo mondo, dove le loro figlie approfittavano del sano, fiorente mercato capitalistico e si decoravano le unghie acriliche con brillantini di plastica. Radoslava Dvorakovskaya sentiva con piacere di essere speciale, perché lei era una delle persone che soffrivano di più. Le sembrava importante uscire di casa il meno possibile. Alle sue amiche, le altre signore che andavano da lei a prendere il tè coi biscotti, diceva di essere terrorizzata all'idea che un nero l'aggredisse per derubarla. Un nero o addirittura uno dei loro figli, che portavano così poco rispetto e commettevano tanti crimini che non si sapeva più di chi fidarsi. O di essere terrorizzata all'idea di cadere e rompersi l'anca come la signora Galipova, che non riusciva più a badare a se stessa e così i suoi figli e le sue figlie l'avevano messa in quell'ospizio dimenticato da Dio, che era peggio dell'inferno. O di essere investita e ammazzata da uno di quei tassisti pazzi. Queste erano le ragioni. Ma la vera ragione per cui Radoslava Dvorakovskaya non usciva di casa era che era pigra e grassa e camminare non le piaceva. Era sempre stata così; era sempre stata una donna acida e mal disposta; da piccola era pigra e dispettosa, e l'età le aveva regalato dei pretesti per fare esattamente quel che aveva sempre voluto. Si lagnava energicamente di quanto fosse brutto e umiliante essere vecchi, si piangeva addosso perché era orribile badare a se stessa, ma in realtà la vecchiaia era stata la realizzazione del suo sogno. E poi c'era Lena. Lena aveva rovinato tutto. Non era un segreto. Radoslava Dvorakovskaya urlava in russo alla bambina: «Yelena! Io sono vecchia e moribonda e tu hai rovinato i miei ultimi anni di pace». Di solito c'erano altre persone in casa, dal momento che Radoslava Dvorakovskaya aveva spesso ospiti. Lena c'era sempre. Lena era schiva e taciturna e non faceva amicizia con gli altri bambini del grande caseggiato e della via. Era terrorizzata da quei bambini, che si conoscevano già fra loro e correvano, strillavano e facevano un gran baccano. Non ci si vedeva proprio, con loro. Quando lei e Radoslava Dvorakovskaya si avventuravano fuori dal caseggiato per andare a fare la spesa, o alla lavanderia, o a spedire o ritirare la posta, Lena si attaccava alle gambe di Radoslava, stringendo il vestito nei pugni, stando ben
vicina ai suoi fianchi larghi e morbidi. E Radoslava Dvorakovskaya la scacciava come una mucca scaccia le mosche con la coda. Il ricordo più nitido della prima volta che Lena ha sentito parlare di sua madre risale a un giorno che stava giocando per terra. Era sdraiata a pancia in giù sulla moquette, che era verde a pelo lungo, facendo fìnta che fosse una fìtta foresta, o una giungla, e faceva camminare le dita nella giungla di pelo, minuscoli esploratori pallidi e rotondetti in una distesa filacciosa. Le dita conversavano fra loro, oppure esploravano e basta, evitando i pericoli in agguato. Di sicuro c'erano delle tigri! O addirittura dei leoni! O magari quei gattopardi neri! Mentre Lena giocava con la moquette, Radoslava Dvorakovskaya era seduta a una certa distanza, al tavolo della cucina, con le amiche che erano venute a farle un po' di compagnia e commiserarla. Fumavano, bevevano tè, mangiavano svogliatamente i pasticcini disposti al centro del tavolo, chiacchieravano e si lagnavano in russo. « Perché non la dai a qualcun altro? Perché devi portarti un peso così? » Questa era la signora Yablokov, che quel giorno era seduta al tavolo con Radoslava Dvorakovskaya; aveva il marito ancora vivo e dei bei figli che andavano alle superiori e che secondo la signora Yablokov avrebbero studiato medicina. La signora Yablokov non lavorava, un fatto raro, questo, ma girava tutte le case per raccontare le storie altrui e farsi sangue amaro. Una vita molto difficile, la sua, e lei sentiva tanto forte il dolore degli altri da doverlo sempre condividere con tutti, così si prendeva un pezzetto del dolore altrui e parlava, parlava, parlava, per assicurarsi che tutti sapessero sempre quanto gli altri soffrivano. Se cadevi e prendevi una storta alla caviglia, lei ti raccontava della vicina di casa morta nel sonno. « Ti sembra grave? Dovresti vedere Malka. Non può muoversi dai dolori! Una storta alla caviglia, che fortuna. Ecco cos'è il dolore. Ecco cos'è la vita. Non è terribile? Sì che è terribile. Ah, non ce la faccio più, è terribile. Riesci a vestirti da sola? Mi sa di no. Ah, è terribile, mi dispiace tanto per te. Che situazione. » La signora Yablokov ti faceva sentire peggio. Ti faceva sentire peggio in questo paese nuovo, con i suoi pericoli e i suoi misteri, e ti faceva sentire peggio al ricordo del vecchio paese che ti eri lasciato alle spalle, il paese di cui
sentivi la mancanza come di un marito violento, perché con lui almeno sai cosa aspettarti ogni sera. « Guardala lì. Cosa sta facendo lì per terra? Forse è ritardata di mente » disse la signora Yablokov, così Lena si mise ad ascoltare, perché parlavano di lei. « Chi lo sa. Chissà che droghe prendeva sua madre. O il padre! Chissà. » Lena non sapeva cos'erano le droghe. In effetti faceva una gran confusione sulle droghe, perché aveva visto dei manifesti che dicevano in russo di non drogarsi e mostravano le immagini di persone sconvolte, o molto malate, o che rubavano. Da com'erano disegnate si capiva che erano persone cattive. Così le droghe erano per le persone cattive. Però lei e Radoslava Dvorakovskaya andavano spesso dal droghiere, dove Radoslava Dvorakovskaya evidentemente comprava delle droghe e l'uomo che c'era dentro le vendeva, e la situazione non sembrava la stessa del manifesto, cioè che quell'uomo fosse cattivo o che Radoslava Dvorakovskaya fosse cattiva. Forse non c'era niente di male nel drogarsi, se si era vecchi, mentre era un male per i giovani come Lena. Così il discorso quadrava. La madre di Lena si era drogata e aveva sbagliato perché era giovane. «Così giovane!» borbottava Radoslava Dvorakovskaya. « Bambine che partoriscono bambini! E terribile. E nemmeno sposata. Non c'è da stupirsi. » Così Lena non capiva più niente di sua madre, che era una bambina e si drogava, che non era sposata e adesso non c'era più. Era morta? Lena non lo sapeva. Aveva paura di chiederlo. « Lena! Il tè è freddo. Fanne dell'altro. E stavolta non così carico. Io sono debole e non posso affaticare tanto il cuore. » « Sì, babuška » disse Lena. Lena aveva sempre chiamato babuška, nonna, Radoslava Dvorakovskaya. Era l'unico nome con cui la conoscesse, anche se non credeva che Radoslava fosse veramente la mamma di sua mamma. Se Radoslava fosse stata la mamma di sua mamma, non ne avrebbe parlato così. « Come un cane randagio, è stata tirata su come un cane randagio. Quindi cosa c'è di strano se si accovaccia, partorisce questa bastarda in questo paese di bastardi e poi scappa? Yelena! Il mio tè diventa freddo. E il minimo che si possa fare, non credi?» Lena andò a prendere il tè e pensò: Ah, la bastarda sono io. Chissà cos'è, una bastarda. Mia madre e il cane randagio che e scappato. In che senso questo e un paese di bastardi? Che cos'è un bastardo? Questa donna, pensava
Lena, non è la madre di mia madre, se no non direbbe che mia madre è stata tirata su come un cane randagio. Lena, a quattro anni, era brava a fare il tè alla sua babuška. Scostava una sedia dal tavolo e la spingeva contro i fornelli, dove prendeva il bollitore, lo riempiva d'acqua, lo rimetteva sul fornello tutto incrostato, accendeva il gas, si sedeva sulla sedia e aspettava che il bollitore fischiasse. La cosa più difficile era versare l'acqua, perché il bollitore era pesante e spesso la prima acqua che usciva dal beccuccio, invece di entrare nella tazza, le finiva sugli stinchi o le spruzzava la punta dei piedi. Lena portò il tè alle signore, così loro si ricordarono di lei. « Dov'è tua madre? Dov'è tuo padre? Non hai nessun altro parente? A lei dovrà badare di sicuro qualcun altro, con te che non riesci nemmeno a fare tre isolati a piedi per andare a fare la spesa... Che situazione. » La signora Yablokov sembrava contentissima che Radoslava Dvorakovskaya non potesse fare tre isolati a piedi per andare a fare la spesa. « La madre e il padre non ci sono più. O sono morti o sono tornati indietro. Se fossero qui, mi starebbero buttando giù la porta per avere dei soldi, per usare il telefono, farsi un bagno, dormire sul mio divano, come se io vivessi nel lusso e avessi tanto da dare! » La signora Yablokov accettò questa spiegazione come se fosse una prova ulteriore della mancanza di rispetto e dell'irresponsabilità dei giovani. « Non c'è nessun altro? » chiese. « C'è la sorella della madre, quella che ha lasciato qui la bambina » rispose Radoslava, e alla signora Yablokov brillarono gli occhi. « E perché non se la prende lei, la bambina? » « Non vuole. Gliel'ho chiesto, l'ho implorata di togliermi questo peso, per il bene di Lena. Lei mi ha messo giù il telefono e poi ha cambiato numero. Quando la vedo per strada la chiamo, ma lei scappa via, da me, da una vecchia come me. » A questo punto la signora Yablokov scosse la testa. Terribile. Terribile. E intanto Lena, per terra, ascoltava tutto. Siccome stava zitta, gli adulti si dimenticavano che c'era e lei aveva acquisito un superpotere che tanti bambini avrebbero sempre desiderato: diventava invisibile. Restandosene zitta e ferma, riusciva a sapere tutto quello che succedeva e si diceva. Aveva sempre pensato che gli adulti fossero come gli animali: se stavi fermo, loro si dimenticavano che c'eri. Per una bambina piccola come Lena era difficile
rimanere ferma per tanto tempo. Ma adesso rimaneva ferma, perché stava raccogliendo queste informazioni, sui suoi genitori, sulle altre persone che potevano volerla, sulla sua vita. « Posso dirti una cosa? Ma che rimanga fra noi » disse Radoslava, abbassando la voce. « Ma certo, Rada. Con me puoi confidarti tranquillamente. Dimmi. » « La sorella lavora al night club. » La signora Yablokov fece tanto d'occhi, perché questa qui era ancora più bella che non essere in grado di vestirsi da soli. Per le donne, lavorare al night club aveva un significato un po' fumoso, ma più o meno significava ballare, spogliarsi, servire alcolici agli uomini, farsi fotografare nude, fare sesso a pagamento. Lavorare al night club significava tutte queste cose e altre ancora. Per Lena la parola club evocava meraviglie: come i club che aveva visto alla televisione, dove potevi avere un cappello con sopra il tuo nome, un gruppo di amici, una parola d'ordine segreta e una chiave segreta della sede di un club. Anche Lena avrebbe voluto lavorare in un posto così, e avrebbe voluto essere quella donna che sembrava l'opposto di Radoslava. Il sogno della signora Yablokov si realizza: Radoslava Dvorakovskaya schiatta Due settimane dopo che Radoslava Dvorakovskaya si era incontrata con la signora Yablokov e aveva parlato dei genitori di Lena, di sua zia, del night club e del ritardo mentale di Lena, Lena si svegliò mentre Radoslava Dvorakovskaya era sotto la doccia. Sentì scorrere l'acqua in bagno. Piegò in fretta le coperte e le ripose nell'armadio della biancheria, sistemò i guanciali sul divano su cui dormiva e poi si sedette davanti alla televisione, accese e guardò il cartone animato di una capra in Sesamo apriti. Sesamo apriti le piaceva perché si capiva cosa succedeva anche senza capire l'inglese, e poi le piaceva il verso buffo che faceva la capra quando il cane le tirava la barbetta. Finito Sesamo apriti, Radoslava Dvorakovskaya era ancora sotto la doccia e a Lena scappava la pipì. Andò alla porta del bagno ad ascoltare i rumori. Tornò davanti alla televisione e guardò degli altri cartoni di Sesamo apriti. Anche questi le piacevano, ma l'annoiarono presto perché non capiva le battute dei personaggi. Avrebbe potuto guardare il canale russo, ma era per grandi e non aveva delle figure divertenti.
A Lena scappava ancora la pipì e ormai faceva una gran fatica a rimanere ferma: anche se stava seduta per terra muovendo avanti e indietro la caviglia le si schiacciava l'inguine. Non riusciva più a guardare i cartoni, a concentrarsi sulla tivù; riusciva a concentrarsi soltanto sul bisogno di fare pipì e sullo sforzo di non bagnarsi il pigiama. Se si fosse bagnata il pigiama, Radoslava Dvorakovskaya si sarebbe arrabbiata molto, perché ci sarebbe stato del lavoro da fare (che avrebbe fatto Lena) e Radoslava Dvorakovskaya avrebbe pensato bene di raccontare a tutte le sue ospiti che Lena si bagnava ancora i pantaloni. Lena, stringendo le gambe, tornò davanti al bagno e si mise in ascolto. L'acqua della doccia correva ancora. Era strano, perché di solito l'acqua calda si esauriva e, quando Lena faceva il bagno, Radoslava Dvorakovskaya andava davanti alla porta a gridarle di non usarla tutta. Sentire l'acqua fu troppo, per Lena, così, sempre stringendo le gambe e cominciando a perdere qualche goccia, andò in cucina, prese una ciotola e la mise sul linoleum sotto il tavolo per non farsi vedere subito da Radoslava Dvorakovskaya caso mai fosse uscita dal bagno. Si accovacciò sopra la ciotola e fece la pipì e, anche se la ciotola era grande, un po' di pipì finì per terra e, quando Lena si spostò per cercare di centrare meglio la ciotola, la situazione non fece che peggiorare. Quando ebbe finito non si sentì molto meglio, vedendo la ciotola calda piena di pipì e la pipì per terra e temendo di essere colta sul fatto e sentirsi in imbarazzo. Cosa avrebbe detto Radoslava se avesse scoperto che Lena aveva fatto la pipì in una ciotola? Avrebbe detto a tutti che bambina stramba e cattiva era Lena. Lena trascinò in fretta una sedia verso il lavandino, sollevò la ciotola, che era più piena di quanto credeva, e cercò di salire sulla sedia senza rovesciare pipì. Tirò su una gamba sulla sedia e poi l'altra, ma quando fu diritta traballò un pochino, appena appena, e della pipì andò a finire sul davanti del pigiama, sopra la pancia: un fatto impossibile da spiegare. Come si fa a spiegare una macchia di pipì sulla pancia, che non è il posto da cui esce la pipì? Buttò il resto della pipì nel lavandino e lo sciacquò. Poi mise del detersivo su una spugnetta e pulì bene dappertutto togliendo ogni goccia e infine passò la spugnetta sul davanti del pigiama. Capì che così era meglio; poteva dire a Radoslava Dvorakovskaya che si era rovesciata addosso dell'acqua. Poteva
dire anche che aveva rovesciato dell'acqua cercando di fare il tè. Decise di pulire tutto e poi di fare il tè, così avrebbe mentito meno. In bagno, l'acqua della doccia correva ancora. Anche se si fosse chiusa in quel momento, avrebbe avuto tutto il tempo necessario, visto che Radoslava ci metteva un secolo a uscire dalla doccia e a incipriarsi. Ma perché Radoslava Dvorakovskaya era ancora sotto la doccia? Lena aveva paura di bussare. Tutto era pulito. Il pigiama era solo un po' umido sulla pancia. Lena si cambiò prendendo i vestiti da un mucchietto accanto al divano su cui aveva dormito. Quando fu vestita, si risedette davanti alla televisione e passò in rassegna l'appartamento. Tutto era pulito e asciutto, quindi non c'erano prove che fosse stata usata la ciotola, né che fossero stati usati gli stracci della cucina per asciugare tutto. Neanche una prova. Ma perché Radoslava Dvorakovskaya era ancora sotto la doccia? Alla tivù c'era un altro episodio di Sesamo apriti. Lena cercava di imparare le lettere dell'alfabeto e i numeri dal conte. Tre pipistrelli che volavano. Ah, ah, ah, ah, ah. Che cos'erano questi versi che faceva il conte? Era lui che rideva. Che cosa sono queste cose che volano, queste cose nere? E qui, Lena non ne aveva idea. Finito Sesamo apriti, Radoslava Dvorakovskaya era ormai sotto la doccia da troppo tempo. Lena calcolò che, da quando si era svegliata, c'erano stati quattro programmi: troppi, perché Radoslava fosse ancora sotto la doccia. Lena aveva fame, e anche questo era indicativo. Troppo tempo. Pensò a cosa poteva fare. Poteva bussare alla porta, caso mai ci fosse qualcosa che non andava. Ma non era una bella idea, perché se Lena avesse interrotto la doccia, Radoslava si sarebbe arrabbiata molto. Lena guardò lo spot di una bambola grande quanto una bambina vera: potevi prenderla per mano, potevi fare un sonnellino con lei strìngendotela al petto. Si alzò, andò davanti al bagno e premette la faccia contro la porta, stando attenta a non farla battere nella cornice, perché il rumore avrebbe fatto capire a Rado slava che lei era lì a origliare e si sarebbe arrabbiata. Lena non sentì rumori, oltre all'acqua della doccia. Sollevò il pugno e bussò tre volte. Nessuna risposta. Aveva bussato troppo piano, come se non avesse nemmeno bussato. Poteva tornare davanti alla tivù e far finta di non aver mai neanche pensato di bussare. Fece due passi indietro. Poi si girò di scatto e fece due
passi veloci, il secondo quasi un salto, e andò a sbattere fragorosamente contro la porta. Si fermò. Rimase in ascolto. Niente. Bum, bum, bum, di nuovo. Niente. Uno, due, tre bum pensò Lena. Ah, ah, ah, ah, ah. È morta nella vasca, pensò Lena. Un pensiero che non la sconvolse granché, perché non sapeva bene che cosa significava. Lo pensò perché Radoslava l'aveva ripetuto mille volte. « Un giorno o l'altro mi troveranno morta nella vasca. » La parte della frase un giorno o l'altro, Lena non l'aveva capita, ma in quel momento ne capì un'altra. Quelle persone di cui parlava, quelle che l'avrebbero trovata morta nella vasca, era lei. Ci aveva già pensato: Chi sono queste persone, questi gruppi di persone che se ne vanno in giro e trovano persone morte, o trovano delle persone e le rinchiudono, o vanno a derubare la gente? Chi sono? Visto che Radoslava era morta, pensò Lena, non poteva essere arrabbiata. Così aprì la porta del bagno. L'acqua scorreva. Faceva freddo in bagno, mentre di solito c'era caldo grazie all'acqua calda. C'era una tenda della doccia color pesca, ma con una patina marrone che saliva dal fondo, così Lena non riusciva a vedere dentro la vasca. Lo specchio non era appannato. Si appanna quando l'acqua è calda, pensò Lena. Chiuse la porta del bagno. Si mise a quattro zampe accanto al bordo della vasca. Con un dito, molto, molto cautamente, senza fare il minimo rumore, scostò la tenda, creando un piccolissimo spiraglio dal quale sbirciare. Spostò piano piano la testa verso lo spiraglio. Stava molto attenta caso mai Radoslava non fosse morta sotto la doccia, caso mai fosse viva; non voleva ferie sapere che l'aveva spiata sotto la doccia. La prima cosa che vide furono i capelli di Radoslava, che erano grigi e lisci e lasciavano scoperto a chiazze il cranio. Sulle prime pensò che quella che vedeva fosse la nuca di Radoslava, che Radoslava fosse a faccia in giù sul fondo della vasca, ma poi capì che quella era la faccia, con i capelli schiacciati sopra perché erano bagnati. Gli occhi erano aperti, ma non guardavano Lena ed erano coperti di capelli, così Lena fu certa che Radoslava non la vedeva. Rimase a lungo a guardarla. Radoslava non batteva le palpebre né respirava. Dopo molto tempo, Lena fece un piccolo verso di gola. Radoslava non sembrò sentire. Lena scostò un po' di più la tenda e allora capì che Radoslava non poteva vedere né sentire niente di quello che lei faceva.
Lena, dall'alto, guardò Radoslava. Non avrebbe dovuto. Lo sapeva, perché Radoslava Dvorakovskaya era nuda, ed era morta. La babuška di Lena giaceva nella vasca a gambe aperte e Lena vedeva i peli scuri che andavano dall'interno delle cosce verso la pancia e le pieghe della pelle tra le gambe, e quella pelle era violacea, o marroncina. Era la cosa più brutta che Lena avesse mai visto. Guardò di nuovo la faccia di Radoslava, che non era cambiata. L'acqua scendeva su di lei e batteva sulla pancia e sul petto, nel punto in cui cominciavano i seni e subito si divaricavano, da una parte e dall'altra, con i capezzoli grandi e viola come gli occhi dei personaggi di Sesamo apriti quando facevano gli sciocchi e guardavano contemporaneamente in due direzioni diverse. Dalla vasca arrivava puzza di gabinetto e Lena capì che doveva esserci stata della cacca, anche se l'acqua l'aveva portata nello scarico, tutta tranne qualche pezzo più grosso che non passava. Di sangue non ce n'era e, siccome alla televisione, quando si moriva, c'era sangue, Lena aveva le idee confuse. Pensò che forse doveva chiudere il rubinetto, ma pensò anche che se lo avesse chiuso Radoslava, in un modo o nell'altro, si sarebbe svegliata e così, in un modo o nell'altro, avrebbe saputo che Lena le aveva guardato i peli che le andavano dalle cosce alla pancia. E Radoslava lo avrebbe detto alle vicine, mettendo Lena in imbarazzo. Lena uscì dal bagno e chiuse la porta. Alle quattro, quando la signora Yablokov si presentò per il tè, Lena era di nuovo davanti alla televisione, troppo vicino allo schermo. La signora Yablokov entrò senza bussare e, vista Lena, disse: « Dov'è Radoslava? » « Ona mjortvaja v duše » rispose Lena. « È morta sotto la doccia. » Queste persone potrebbero essere loro Ecco cosa successe dopo: la signora Yablokov cacciò un urlo, corse in bagno e in bagno urlò un bel po' e chiuse l'acqua (che spreco!), poi chiamò l'ambulanza dal telefono di Radoslava e poi chiamò tutti quelli che conosceva. Mentre la signora Yablokov urlava e chiamava, Lena continuò a guardare la televisione. Alla fine la signora Yablokov uscì dal bagno, si mise in ginocchio per terra accanto a Lena e disse: « Poverina » e l'abbracciò, la
coccolò e gridò in russo: « La tua babuška , la tua babuška è morta! È morta, per sempre! Non hai più nessuno. Non hai nessuno! » Schiacciata contro il petto profumato della signora Yablokov, Lena si sentiva in trappola. Voleva che la lasciasse andare per poter vedere la televisione. « E adesso dove andrai? Cosa farai? » gemeva la signora Yablokov. Lena intanto, cercando di ignorarla, guardava la televisione, che trasmetteva in una lingua che non capiva. A quanto pareva la signora Yablokov credeva che l'ambulanza arrivasse subito e, piangendo al telefono con le vicine, guardava dallo spioncino per vedere se i paramedici arrivavano e ogni tanto apriva la porta per vedere se erano fuori sul pianerottolo. Passò molto tempo anche a raccontare l'accaduto alle persone che si erano raccolte sul pianerottolo e a dirgli che era stata lei a trovare Radoslava, dal momento che loro due erano tanto amiche. Quindici minuti dopo la signora Yablokov cominciò ad agitarsi. Iniziò un nuovo giro di telefonate. « Sai una cosa? Non sono ancora arrivati a portare via il corpo. E lì a marcire in quella vasca. Da un quarto d'ora. E orribile. Che vergogna. » Dopo trenta minuti non era ancora arrivato nessuno. « No, in casa con il corpo, lì per terra, ci siamo solo io e la bambina. No. Non credo che capisca fino in fondo cosa sta succedendo. No, sta guardando la televisione. Potrebbe risentirne, credo. Intrappolata qui con la morta, non può farle bene averla là dentro a marcire. A marcire! No, è troppo. » La signora Yablokov lo disse in russo, con Lena perfettamente a tiro d'orecchio. Due ore dopo, il fatto che il corpo fosse ancora in casa la agitava troppo. Al telefono disse che potevano esserci delle malattie nell'aria. E anche che sentiva odore di putrefazione. Lena non sentiva nessun odore. La signora Yablokov, sempre al telefono, disse che le stava venendo un attacco di nervi, che era stata una giornata troppo traumatica. Dopodiché se ne andò. Tre ore dopo, quando l'ambulanza arrivò, Lena andò ad aprire e indicò il bagno ai paramedici. Poi andò nella camera da letto di Radoslava a tirare fuori la busta dal primo cassetto del comodino. La busta conteneva il testamento di Radoslava. Radoslava glielo aveva detto mille volte: «Quando finalmente morirò, quando smetterò di soffrire, dallo a loro ». Lena pensò che queste persone potevano essere loro, quelli che arrivano e ti trovano morto. Pensò che forse non avrebbe dovuto trovare lei Radoslava, perché questi
uomini sapevano cosa fare, parlavano molto, erano attrezzati e avevano un letto di metallo con le rotelle. Quando Lena porse la busta a uno di loro, lui stava parlando al telefono e disse dentro il microfono: « Aspetta un attimo ». « Come ti chiami, piccolina? » Lo disse in inglese, così Lena rimase a fissarlo e poi guardò per terra, perché non capiva. L'uomo riprese a parlare al telefono. « Non parla. Direi cinque, forse quattro. E piccola. No. E sola in casa. D'accordo. Noi intanto restiamo qui? D'accordo. » Poi chiuse la telefonata e sorrise a Lena. « Adesso arriva qualcuno a parlare con te, piccolina » disse, sorridendo. Poi tornò nel bagno affollato di altri due uomini e Lena si sedette davanti alla televisione. Sentiva i rumori che facevano gli uomini in bagno. Si chiese come facevano a portare fuori dalla vasca Radoslava Dvorakovskaya, non perché fosse grossa, morta e bagnata, ma perché era nuda. Lena non riusciva a immaginare che qualcuno potesse toccare una persona nuda. Gli uomini parlarono a lungo e Lena sentiva le loro voci arrivare dal bagno. C'erano tre uomini e certe volte uno usciva per andare a prendere qualcosa nella borsa rossa che avevano lasciato sul pianerottolo. Dopo un po' i tre uscirono dal bagno e quello che prima si era rivolto a Lena le parlò di nuovo. «Torniamo subito, okay? Non preoccuparti. Torniamo subito. » Lo disse lentamente, poi i tre uomini uscirono dall'appartamento e si chiusero la porta alle spalle. Chissà cos'aveva detto, pensò Lena. Quando la porta era stata aperta aveva visto che sul pianerottolo c'era un mucchio di gente e che tutti guardavano i paramedici con l'aria molto eccitata. Nessuno entrò nell'appartamento e nessuno bussò. Lena tornò in bagno a vedere cos'avevano fatto. Radoslava Dvorakovskaya era ancora nella vasca, esattamente come prima ma diversa. La pelle aveva un colore sbagliato ed erano cambiate anche altre piccole cose. L'uomo le aveva chiuso gli occhi, così Radoslava non guardava più verso il soffitto. Inoltre le labbra sembravano sul punto di scomparire e i denti si vedevano meglio. Lena guardò dall'alto Radoslava Dvorakovskaya e di nuovo si chiese come avrebbero fatto a tirarla fuori di lì. Sentì che bussavano alla porta, poi che l'aprivano, poi sentì una voce d'uomo che diceva: « Paramedici » e Lena corse fuori dal bagno, perché non voleva far sapere a quegli uomini che era
stata lì dentro. Aveva la sensazione che non avrebbe dovuto guardare la sua babuška morta, nuda, bagnata, con gli occhi chiusi e i denti in mostra. Gli uomini non la videro uscire dal bagno - non videro da dove arrivava perché erano tutti impegnati a portare in casa un letto di metallo. Lo portarono nel soggiorno, lo spinsero e il letto, spostandosi sulle rotelle, lasciò dei segni profondi nella giungla di moquette. Sul letto c'era un'asse con sopra dei cuscini rossi: la tolsero dal letto e in bagno portarono solo quella. Anche dal soggiorno, anche con il televisore acceso, Lena sentiva i rumori della pelle bagnata di Radoslava che sfregava contro la vasca. Sentiva gli uomini e i loro sbuffi, il loro respiro. Sentì l'asse di legno sbattere sulle piastrelle del pavimento e poi contro la vasca, poi sentì uno stridio: probabilmente la pelle di Radoslava aveva sfregato un po' più forte contro la vasca. Anche Lena, con il corpo, faceva quel rumore quando si spostava sul fondo della vasca, perciò conosceva quello stridio. I rumori che arrivavano dal bagno erano rumori di cose bagnate e di cose dure. Lena voleva vedere. Capiva che era una giornata diversa dalle altre e che le regole di tutti i giorni erano sospese. La babuška non poteva vederla. Lena poteva guardarla nuda nella vasca a sua insaputa e voleva vedere cosa facevano gli uomini e capire che rumori erano quelli. Camminò piano piano sul linoleum del corridoio con i piedini infilati nelle calze, senza che il pavimento facesse il minimo rumore. La porta del bagno era aperta e Lena diede appena una sbirciatina per vedere se gli uomini guardavano, se gli uomini potevano vederla. Erano tutti di spalle alla porta. Si sporse un po' di più, sbirciò ancora, poi si mise sulla porta. Loro continuarono a non vederla. Lei guardò. Gli uomini avevano ruotato Radoslava Dvorakovskaya su un fianco, così adesso era girata verso di loro. La reggevano in due: uno la teneva per le spalle e l'altro per le gambe appena sotto il sedere. Allungata sul fianco in quel modo, aveva un aspetto peggiore agli occhi di Lena, faceva più paura. La pancia, davanti, non sembrava abbastanza attaccata al corpo ed era ricoperta di rughe, e l'ombelico era un brutto buco scuro. I seni, lo stesso: tutti coperti di rughe. II terzo uomo, quello che aveva parlato a Lena, mise poi l'asse dietro Radoslava e i due uomini inclinarono Radoslava all'indietro per appoggiarla
sull'asse. Lena capì che, per tirare fuori dalla vasca Radoslava, adesso potevano tirare su l'asse, invece di sollevare il corpo scivoloso. Attaccarono delle cinghie nere all'asse e poi uno degli uomini disse: «Uno, due, tre». Appena tirarono su l'asse, Lena si accorse che era difficile tenerla dritta, perché gli uomini avevano le braccia che tremavano parecchio e dovettero appoggiarsi alla vasca piegando un po' le ginocchia. Erano tutti uomini forti. Quando, con Radoslava sull'asse e l'asse in mano, andarono verso la porta, uno dei due uomini che non avevano parlato con Lena la vide sulla porta e, siccome non si aspettava di vederla lì, fece un verso strozzato. « Cristo santo! » disse. « Merda » disse l'uomo che aveva parlato con Lena. « Tesoro, non dovresti stare qui. Perché non vai a vedere un po' di tivù? » L'uomo aveva una voce gentile; non era arrabbiato. Lena non capì il suggerimento di andare a vedere la televisione, non capì che l'uomo voleva che se ne andasse di lì, dove stavano facendo un lavoro difficile. Non pensava di dover andare via, soprattutto perché l'uomo stava parlando con lei, e con tanta gentilezza. Lena si fece da parte perché gli uomini potessero portare la babuška fuori dal bagno e li seguì nel soggiorno, dove trasferirono Radoslava sul letto con le rotelle e la coprirono con un lenzuolo bianco, tutta quanta, comprese la testa e la faccia. A Lena sembrò una bella cosa. L'uomo che aveva parlato tenne aperta la porta d'ingresso per far passare gli altri due, che portarono Radoslava sul pianerottolo, passando davanti a tutte le persone che erano lì ad aspettare proprio quel momento di essere accanto a Radoslava Dvorakovskaya, morta nella vasca da bagno, e di vedere, sulla barella, un vero morto. L'uomo che aveva parlato rimase indietro con Lena, chiuse la porta, la guardò e sospirò come se fosse stanchissimo. « Aspetterò con te che arrivi l'assistente sociale. Probabilmente ci metterà un po'. Hai bisogno di qualcosa? » Aveva ancora la voce gentile e non sembrò deluso dal fatto che Lena non rispondesse. « Che giornata per te, eh? Vuoi qualcosa da mangiare? Qualcosa da bere? » Lena avrebbe tanto voluto capire, perché quell'uomo le era simpatico, e sperò che continuasse a parlare. « Be', io vado a prendermi un bicchiere d'acqua. Ne porto uno anche a te. Tanto vale mettersi comodi, no? » Lena guardò l'uomo andare in cucina, lo
guardò sollevare le braccia forti per aprire gli armadietti, l'uno dopo l'altro, in cerca di qualcosa. Trovò due bicchieri e li riempì sotto il rubinetto, ne porse uno a Lena e poi si sedette sul divano. Lena prese il bicchiere e anche lei si sedette sul divano. L'uomo prese il telecomando e accese il televisore. « Come mi piace questo programma » disse. Era Sesamo apriti. « Lo guardo sempre coi miei figli. » Sorrise e guardò la televisione. A Lena piaceva molto Sesamo apriti e capì che anche a quell'uomo piaceva molto: il suo sorriso lo dimostrava. Lena, seduta accanto a lui, pensò: Forse e venuto a badare a me. Era arrivato in casa proprio quando Radoslava Dvorakovskaya se n'era andata. Era entrato spedito e aveva cercato i bicchieri come se gli armadietti fossero quelli di casa sua. Si comporta come se abitasse qui, pensò. Forse adesso ci abita, qui. Per Lena era un'emozione essere sul divano con quell'uomo gentile e dalla voce gentile che rideva guardando Sesamo apriti. Bert ed Ernie presentarono un cartone in cui c'erano un bambino e una bambina e una pianta. La pianta aveva l'aria molto triste. A Lena piaceva quel cartone perché lo capiva. C'erano, sì, delle parole inglesi, ma lei capiva lo stesso che cosa succedeva. Prima il bambino chiamò la bambina e le indicò la sua pianta, che era triste. Si capiva che era triste perché aveva le grandi foglie verdi tutte all'ingiù. Poi la bambina guardò la pianta e non disse niente, e il bambino tornò con una sveglia. E la sveglia fece un rumore da sveglia. Poi i bambini si dissero qualcosa e lui se ne andò e tornò con un cane. Il cane si mise a sbavare e ad abbaiare alla pianta. Poi il bambino e la bambina si dissero altre cose e il bambino corse via; tornò con un annaffiatoio e annaffiò la pianta, e la pianta si mostrò felice, e anche il bambino e la bambina erano felici. Anche a quell'uomo piaceva il cartone e alla fine risero tutti e due, Lena e l'uomo gentile. L'uomo gentile rispose diverse volte a un telefono che teneva in tasca e ogni volta a Lena sembrò un po' triste, ma quando finiva la telefonata sorrideva e le parlava in tono delicato. L'uomo preparò anche un piatto di biscotti, con i biscotti che c'erano nella dispensa. Versò un bicchiere di latte per sé e uno per Lena e le insegnò a intingere il biscotto nel latte prima di mangiarlo. Lena non aveva mai messo un biscotto nel latte: le sembrò la cosa più meravigliosa del mondo e pensò
che quell'uomo gentile probabilmente ne conosceva un sacco, di cose tanto meravigliose. Faceva un bel calduccio, lei stava bene e si addormentò. Toc toc addio Lena non si svegliò perché bussavano alla porta: si svegliò perché l'uomo gentile si alzò dal divano. L'uomo gentile si alzò dal divano e andò alla porta, l'aprì e Lena aprì gli occhi e avrebbe voluto che lui tornasse. Le piaceva dormire con l'uomo seduto accanto, sveglio. Le era piaciuto fare un sonnellino in quel tardo pomeriggio caldo, rannicchiata sul divano con il televisore acceso, anche quando l'uomo aveva cambiato canale per vedere il telegiornale. Quando aveva cambiato canale, lei un po' si era svegliata, solo un pochino, ma aveva finto di essere ancora addormentata per non far finire mai quel momento in sua compagnia. La donna alla porta parlò con l'uomo per qualche minuto, poi entrò e andò a sedersi accanto a Lena, sul divano. L'uomo gentile, in piedi, le sovrastava. « Parli inglese? » La voce della donna era gentile come quella dell'uomo. Lena non capì, così non rispose. « Parli russo? » chiese la donna, in russo. Lena capì. « Da. » « Come ti chiami? » « Yelena » rispose, dicendole il nome completo come faceva sempre con i grandi. « Yelena, io mi chiamo Anna e adesso ti farò qualche domanda, ma non ci saranno risposte giuste o sbagliate. » L'uomo gentile stava infilandosi il cappotto. « Abiti qui? » chiese la donna. Lena non capiva perché le facesse questa domanda. Dove poteva abitare, se no? E non le piaceva che l'uomo avesse addosso il cappotto. Lo guardò bene, preoccupata. Voleva che Anna smettesse di parlare perché l'uomo restasse. « Dove dormi? » chiese Anna. « Qui » rispose Lena, indicando il divano. La donna annuì e poi guardò in su verso l'uomo gentile. «Mark, ti ringrazio molto. Adesso posso occuparmene io. » Mark sorrise e annuì, poi si chinò per rivolgersi a Lena. « Vedrai, piccolina, che andrà tutto bene. Okay? » Le diede qualche pacchetta sulla testa e poi si
girò per andare alla porta, l'aprì e uscì. Lena si chiese quando sarebbe tornato. Presto, sperava. Anna le fece qualche altra domanda, poi l'aiutò a mettere le sue cose in una borsa, si presero per mano, uscirono sul pianerottolo deserto e andarono a prendere l'ascensore per scendere nel garage, dov'era parcheggiata la sua macchina; poi la donna la portò via da quella casa per condurla in un posto nuovo. Lena non voleva andare, perché come avrebbe fatto l'uomo gentile a ritrovarla? E cominciò a preoccuparsi che lui tornasse per vedere Sesamo apriti e lei non ci fosse. Buon giorno, raggio di sole A bordo dell'auto di Anna, Lena si addormentò e al risveglio la macchina era parcheggiata davanti a una grande casa. Anna portò Lena dentro, dove c'era buio e silenzio perché era notte, e la mise a letto in una camera tutta sua, dove Lena si riaddormentò subito. Si svegliò presto ai rumori della casa, rumori di un mattino in piena attività, rumori di bambini assonnati, rumori di bambini vivaci. C'erano bambini che correvano avanti e indietro per il corridoio; c'erano bambini che strillavano. Non era mai stata in mezzo a tanti bambini. Nella camera accanto, qualcuno aveva la radio accesa e cantava sopra una canzone, e qualcun altro cantava sopra quello che cantava sopra la canzone. A Lena scappava la pipì, ma non voleva uscire dalla sua camera ed era sicura che avrebbe fatto qualcosa di stupido, anche se non sapeva cosa: era sicura che bisognava sapere cos'era permesso e cos'era vietato e che gli altri bambini l'avrebbero presa in giro, così non voleva parlare con loro né vederli. Aspettò che tutti i rumori scendessero al piano di sotto e poi uscì dalla stanza, piano piano, cautamente, e corse in bagno a fare pipì. Il bagno era vicino alle scale, da dove salivano profumi di cucina. Era un profumo familiare pane tostato e lei aveva fame, ma non aveva il coraggio di scendere al piano di sotto. Tornò in camera e si sedette sul letto in cui aveva dormito, quello con i fiori azzurri, e aspettò, in silenzio. Cominciò ad aver paura che, quando fosse entrato qualcuno, quel qualcuno si chiedesse perché lei aspettava in silenzio o capisse che era troppo timida per andare a parlare con gli altri e farsi vedere
dagli altri, e questo lei non lo voleva, perché aveva vergogna di essere timida, di non capire quello che dicevano gli altri e di non saper parlare. Si rimise a letto e finse di dormire. Udì dei passi nel corridoio e cercò di tenere gli occhi ben chiusi e di stare assolutamente immobile. I passi si fermarono davanti alla porta, che con un cigolio si aprì. « Qui c'è del pane tostato, se hai fame. » Lena udì le parole ma non le capì, e tenne chiusi gli occhi sperando che quella persona, vedendola dormire come una principessa delle fiabe tanto era stanca, non la svegliasse e andasse via. «Anna mi ha detto di portarti del pane tostato, nel caso avessi fame; quindi dovresti svegliarti e mangiare » disse la persona, a voce più alta. Lena cominciava a odiarla, quella persona. I passi e il profumo di pane tostato - era spalmato di burro! - entrarono nella stanza e cominciarono ad avvicinarsi a Lena. II piatto con dentro il pane tostato fu messo sul parquet, emettendo un bel suono sordo, poi la mano della persona le scosse la spalla. Lena ormai non poteva più fingere di dormire. Ruotò sul fianco per girarsi a guardare la persona. E la persona era una ragazzina, un po' più grande e molto più alta di Lena. Era nera e portava le treccine, ciascuna con un fermaglio in fondo. I fermagli erano a forma di farfalla, ciascuno di un colore diverso. « Non dormivi per davvero » disse. « Tu non parli? » Per Lena era imbarazzante non capire e sperava che la ragazzina smettesse di parlarle. « ¿Hablas espanol? » chiese la ragazzina. Lena non disse niente. « Okay, benissimo, non parli. Fa' come vuoi. Il pane puoi mangiarlo o no. Ma verrai mai giù al piano di sotto? Là c'è la tua signora. » Lena non disse niente; non capiva. Quella ragazzina, al contrario di Anna e dell'uomo gentile che aveva parlato con lei, non sembrava contenta di parlare senza ricevere risposte e di certo non era gentile come loro. La ragazzina se ne andò e Lena mangiò il pane tostato. Decise che quel piatto era una ragione sufficiente per scendere al piano di sotto. Non poteva tenersi in camera quel piatto sporco e sapeva che era più gentile, che era la cosa giusta da fare, portarlo giù, metterlo nel lavandino e lavarlo. Quello lo sapeva fare. Uscì dalla stanza e si ritrovò nel lungo corridoio. Alcuni bambini erano tornati nelle loro camere e tutte le porte erano aperte. In ogni stanza c'erano
uno o due letti. In alcune c'era un sacco di roba, animali di peluche e poster, e in altre niente, come in quella di Lena. Dentro le camere, c'erano bambini che piegavano i vestiti, leggevano, parlavano fra loro, giocavano. Lena, scendendo le lunghe rampe di scale, udì la voce di Anna. Stava parlando con un'altra signora e tutt'e due avevano lo stesso tono serio del giorno prima, quando Anna aveva portato Lena nella casa. Lena seguì le voci. Erano sedute al tavolo della cucina e Anna stava par landò al cellulare. Avevano davanti dei fogli e Anna stava scrivendo sul suo molte cose. Anna vide Lena entrare in cucina. Scattò subito in piedi. « Ehilà! Buon giorno! » Prese il piatto dalle mani di Lena e lo mise su una pila di stoviglie accanto al lavandino. Lì c'erano due bambini, che insieme lavavano i piatti e intanto parlavano e si davano delle sederate perché l'altro si schizzasse d'acqua o di detersivo. Ridevano. Non ridevano l'uno dell'altro: ridevano perché insieme si divertivano. Anna portò Lena in una stanza adiacente al soggiorno. « Questa è la stanza dei giochi, la stanza in cui si disegna, si costruiscono oggetti, insomma, in generale la stanza in cui si gioca » disse in russo. « Qui puoi fare quello che vuoi. » Lena si guardò attorno. C'erano scaffali a tutte le pareti, con sopra giocattoli e libri, e c'erano dei tavoli con sopra scatole di matite colorate e grandi, enormi fogli bianchi. Per terra, su un tappeto dove erano disegnate strade e case, c'erano dei bambini della stessa età di Lena che giocavano con le macchinine. « Ti piace colorare? » chiese Anna. « Vieni, coloriamo. » Le scostò una sedia da un tavolo al quale c'era un'unica altra bambina che colorava. Sembrava più grandicella di Lena, ma non quanto Pane tostato. Quando Lena e Anna si sedettero, non sollevò lo sguardo. Stava colorando di blu un oceano attorno a un minuscolo pesciolino rosa, cercando di avvicinare sempre più l'oceano al pesce senza colorarci sopra. « Janelle, ti presento Lena. » Janelle non disse niente. Anna mise un grande foglio davanti a Lena e poi ne mise un altro davanti a sé. Poi prese una matita marrone e cominciò a disegnare un grande fiore al centro del foglio. Aveva i petali perfettamente affusolati e, dopo averne disegnato il contorno con la matita marrone, cominciò a colorarli di arancione.
Poi Anna allungò la mano verso la scatola delle matite, ne prese una rosa e la diede a Lena. Lena, lentamente, cautamente, ne posò la punta sulla carta, come se il gesto innescasse una reazione chimica. Poi, guardando bene la matita e non il foglio, la spinse sulla carta, lasciando un segno quasi invisibile. Mise la matita in orizzontale e la spinse sulla carta in quella posizione. La spostò avanti e indietro imitando come meglio poteva il movimento di un lombrico. Pensava a come li aveva visti strisciare, contraendo e poi allungando il corpo, e cercava di riprodurre con la matita quel loro procedere a singhiozzo. Pensava alle proprie dita nella moquette e al nuovo tappeto di quella casa, e a come sarebbe stato bello starci sopra da sola, far camminare le dita nelle sue vie, percorrere le autostrade con le mani. Quell'attività le piaceva,non bisognava parlare e le piaceva starsene lì a concentrarsi in silenzio mentre altri si concentravano in silenzio. Voleva fare dei segni sulla carta come facevano gli altri le sembrava una bella cosa —, ma le piaceva anche il suo sistema per colorare. Con il sistema di Lena si poteva colorare all'infinito senza mai finire la carta né le matite. Come Lena diventò una macchia nella vita della zia Le persone che si presero cura di Lena in quelle strane ore dopo la morte di Radoslava Dvorakovskaya, con la loro faccia gentile, le loro procedure, i loro documenti e le loro migliori intenzioni, esaminarono il testamento lasciato nel comodino da Radoslava Dvorakovskaya. Radoslava aveva espresso chiaramente la volontà che Lena fosse affidata alla zia, Ekaterina. Tuttavia Radoslava non aveva la tutela legale di Lena e dunque non aveva alcuna autorità per decidere di affidarla a Ekaterina o a chiunque altro. A complicare le cose, non era a conoscenza di alcun documento che suggerisse a chi dovesse essere affidata. Da quando i genitori erano scomparsi, nei registri ufficiali si erano perse le tracce di Lena. Anzi, non era nemmeno chiaro se Lena ci fosse mai stata, nei registri ufficiali: la mancanza di un certificato di nascita americano faceva pensare che fosse nata in Russia; la mancanza di un permesso di immigrazione faceva pensare che fosse nata in America. Il testamento di Radoslava Dvorakovskaya, in cui Ekaterina era identificata come zia di Lena, era l'unico documento che certificasse anche soltanto l'esistenza di Lena. Dopo molte ricerche e discussioni, fu stabilito che
Ekaterina era il miglior tutore legale per Lena. Il legame di parentela era stretto; i genitori di Lena erano irrintracciabili, scomparsi; ed Ekaterina era disposta a prenderla. Alla fine. « Quanti anni ha? » chiese Ekaterina. « Cioè abbastanza per andare alla scuola pubblica? » « Col lavoro che faccio non sono ricca: come faccio a pagare tutto? I libri di scuola, i vestiti, da mangiare e tutto il resto? » « Indennità? Cos'è? » « Il primo assegno quando arriva? » Così Lena andò a vivere dalla zia. Questo è quanto ricorda. Troppo chiaramente e non abbastanza chiaramente: così funziona la memoria. Furono parecchi i giorni dei colori con Anna, prima che la zia andasse a prendere Lena. Nei ricordi di Lena, quelli furono i giorni dei colori perché li trascorse a colorare: colorava quanto voleva, tutti i fogli che voleva, con tutte le matite che voleva, e lei ci si abbandonò, a quelle ore dei colori, e arrivarono pranzi, merende, cene, e in qualche caso mangiò e in altri no, a seconda di chi la guardava e di quanto si sentiva coraggiosa. Per lo più la lasciavano colorare tutto il giorno e la seconda sera, quando fu il momento di andare a dormire, lei sapeva in che stanza andare, sapeva che nessuno l'avrebbe disturbata e che poteva dormire in un letto vero, e sapeva che poteva andare in bagno quando voleva e che al risveglio avrebbe potuto rimettersi a colorare. Il terzo giorno cominciava ormai a stare molto bene, cominciava a non veder l'ora che arrivasse l'indomani per colorare, per perdercisi, nei colori, finché le fossero bruciati gli occhi e le mani. Tutte le cose di quella casa che l'avevano spaventata, adesso le capiva. Sapeva dove mangiare, dove mettere la tazza dopo averla usata. In più era arrivato un bambino nuovo, più piccolo d'età ma più alto di lei e con la testa tondissima, la più tonda che avesse mai visto in un bambino, così lei non era più quella nuova, era la bambina che conosceva il posto, che ci stava bene, che abitava lì, ed era consapevole che il bambino, vedendola, avrebbe provato insicurezza e paura e avrebbe pensato che lei sapesse tutto, e infatti era così. Poi arrivò la zia. Lena non l'aveva mai vista, ma ne aveva sentito parlare, da Radoslava, e per la prima volta da quando aveva trovato Radoslava Dvorakovskaya morta sotto la doccia, pensò a Radoslava morta, andata, e pensò ai bei giorni trascorsi da quando Radoslava Dvorakovskaya era morta,
con i colori, le cose da mangiare e tutte quelle persone gentili che giocavano e la lasciavano in pace, e pensò che era contenta che la babuška fosse morta, e pensò che con la zia, di cui aveva sentito parlare, le cose sarebbero andate ancora meglio. Da Radoslava, Lena aveva saputo che la zia ballava, si truccava e amava stare fuori a divertirsi fino a tardi. Quando la zia arrivò, Lena si fece timida timida; avrebbe voluto dire qualcosa per piacere alla zia, ma non riusciva a dire niente perché non sapeva cosa dire. Quando la zia arrivò, Lena stava colorando e il modo in cui la zia guardò i disegni colorati la mise in imbarazzo; le fece venir voglia di smettere di colorare e di coprire i pallidi cerchiolini che aveva fatto perché nessuno li vedesse. La zia non si comportava come Lena aveva previsto. Non si comportava come se fosse emozionata; non sorrideva a Lena; quasi non l'aveva salutata, non faceva niente di carino. Lena pensò di aver fatto qualcosa di male; si chiese come aveva fatto a infastidirla, a farla arrabbiare. Pensò che sarebbe stato proprio bello vivere con la zia, ma che adesso aveva rovinato tutto. Avrebbe voluto farle un mucchio di domande, ma adesso capiva che non poteva fargliele. Avrebbe voluto sapere chi era la zia per lei, come si faceva a diventare zia di qualcuno. Ricordando quel che aveva detto Radoslava, pensò che la zia forse sapeva qualcosa di sua madre. La zia e Anna fecero delle cose insieme: la zia compilò una sfilza di moduli e firmò vari documenti; Anna parlava e annuiva, e sorrideva anche quando la zia non ricambiava il sorriso. Poi la zia si avvicinò a Lena e le rivolse qualche parola in russo: fu un sollievo, perché Lena temeva che la zia parlasse solo l'inglese. « Sei pronta per andare? Hai preso tutto? » Lena annuì. La zia la prese per mano e insieme andarono alla porta d'ingresso; Anna sorrise e Lena ebbe la sensazione che Anna fosse un po' tesa, un po' agitata, così anche Lena si agitò un po'. La zia aveva la macchina, che era parcheggiata davanti alla casa. Radoslava Dvorakovskaya non aveva mai avuto la macchina e quella della zia era nuova e lucente (era color argento! E piccolissima! Solo per due persone!), sembrava
proprio una macchina di lusso e Lena concluse che la zia doveva essere ricca e avere molte altre cose belle, oltre a quella macchina. Lena non capiva ancora niente di auto, leasing, fidanzati e frodi assicurative. La zia andò al posto di guida e Lena andò dall'altra parte, aprì la portiera e vide che, dentro, la macchina non era come si era aspettata, perché era piena di cartacce e altra roba. C'erano vestiti dappertutto e lattine per terra, si sentiva un odoraccio, il portacenere traboccava di mozziconi, c'erano ed per terra e roba di ogni genere dappertutto, sul fondo e sui sedili. Dietro, il sedile era piccolissimo: una cosa che Lena non capiva. (C'erano soltanto due portiere? Come si faceva a salire dietro?) E anche quel sedile era pieno di vestiti e altra roba. Anche il sedile su cui doveva sedersi Lena era ricoperto di roba, così lei non sapeva cosa fare. Si sedette sul bordo per non schiacciare o rovinare le cose della zia. Sapeva di doversi allacciare la cintura di sicurezza, ma l'idea di muoversi, di spostarsi dal suo quadratino ricavato sul bordo del sedile, la spaventava. Non si mosse dal bordo estremo del sedile per tutto il viaggio, un viaggio pieno di sobbalzi e scossoni, pieno di curve, pieno di musica a tutto volume. Lena cominciò ad aver fame ma allo stesso tempo una forte nausea, cominciò a non stare bene. E cominciò ad aver paura di andare a casa della zia, e cominciò a sentire la mancanza di Anna e perfino di Pane tostato. Una come Lena che cosa poteva fare in quella situazione? Che cosa puoi fare, quando sei così piccolo? Quando possiedi soltanto i vestiti che indossi e il fermaglio che hai nei capelli, che continua a scivolare giù e a bloccarsi nei nodi dietro le orecchie? Quando non hai il telefono e nemmeno dei numeri di telefono a cui chiamare? Anche pensando che ci sia una persona, come Anna, capace forse di aiutarti e farti stare meglio, anche se fosse davvero così, come fai a chiamarla? Come fai anche soltanto a pensare di escogitare un piano per uscire da una situazione che ti fa stare tanto male? Anche se, nell'auto della zia, cominci a capire che preferiresti essere ovunque ma non lì, che non vuoi andare dove stai andando, che cosa puoi fare? Benvenuta a casa, Lena La zia parcheggiò in una via molto carina. C'erano molti alberi con le foglie di mille colori, un marciapiede, un praticello accanto al marciapiede e auto parcheggiate dappertutto. La casa della zia era divisa in due, un sopra e un
sotto, e la zia (e adesso anche Lena) viveva nella parte di sopra, così bisognava salire delle scale, su su fino alla porta d'ingresso. Per un secolo la zia, stretta fra la zanzariera aperta e la porta vera e propria, senza mai smettere di brontolare, cercò le chiavi nella borsetta e alla fine pescò un pacchetto quadrato di sigarette. Lena sapeva che cos'erano le sigarette perché delle amiche di Radoslava, quando andavano a trovarla, fumavano e sapeva anche che erano una brutta cosa e non erano adatte ai bambini, perché Radoslava Dvorakovskaya le aveva proibito di toccarle e anche di maneggiare quei pezzetti di sigaretta sporchi e bruciati che le amiche lasciavano nelle tazze e nei piattini di vetro messi sul tavolo da Radoslava Dvorakovskaya. « Reggi qua » disse la zia, mettendole in mano il pacchetto di sigarette. Lena si sentì strana, perché non avrebbe dovuto tenere in mano delle sigarette, ma era contenta che la zia le chiedesse di fare qualcosa, che le parlasse era una bella cosa e che si fidasse a darle le sigarette, senza pensare che lei ci avrebbe fatto qualcosa di male. La zia trovò le chiavi e aprì la porta. Poi entrò e Lena la seguì. Lena fece due passi e si fermò. Ekaterina fece molti passi, mollò la borsetta sul divano, entrò in una stanza e chiuse la porta. Lena rimase ferma a guardarsi in giro perché non sapeva cosa fare. Tutto era esattamente come nella macchina della zia. C'era roba dappertutto. Certa roba era troppa e altra troppo poca. C'era una moquette bianca e molto morbida che ricopriva il pavimento. Sulla moquette c'erano molte macchie: chiazze di liquidi e solidi rovesciati e buchini grigio-neri dal contorno indurito. C'era un grande divano di pelle con degli strappi da cui usciva un po' dell'imbottitura bianca. Davanti al divano c'era un tavolo con il ripiano di vetro, che però era quasi tutto coperto di schifezze: lattine, bicchieri, portacenere e scatole bianche usate per mangiare. La cucina era separata da quella stanza principale soltanto da mezza parete, non da una parete intera, e anche dentro la cucina c'era roba dappertutto, dappertutto scatole, lattine, cartacce, ma a un armadietto mancava l'anta e Lena vide che quello era completamente vuoto. Poi la zia uscì dalla stanza: indossava un costume da bagno, un bikini. Aveva la pelle arancione, o quasi arancione, e dall'ombelico spuntava un orecchino.
Raccolse un paio di jeans dal pavimento, se li infilò e li abbottonò, facendo tutto in fretta, come se fosse arrabbiata con le proprie gambe. Lena era ancora lì, in piedi, ad appena due passi dalla porta d'ingresso, e la zia faceva come se lei nemmeno ci fosse. La cosa che fece la zia subito dopo fu la più strana di tutte. Prese un vasettino di rossetto rosa lucido e prima se lo spalmò sulle labbra, poi, spostato un triangolo del bikini, se lo spalmò sul capezzolo, si pizzicò il capezzolo, tre volte, e poi ci rimise sopra il triangolo, dopodiché ripetè l'operazione dall'altra parte. Infine raccolse dal pavimento una maglietta e se la infilò. «Vado a lavorare» disse, poi prese su la borsetta e bum, la porta si richiuse alle sue spalle: se n'era andata. Per Lena fu un sollievo che fosse uscita. Aveva anche fame. Guardò in cucinar non c'era niente che assomigliasse a cibo vero. Mangiò del riso trovato in un contenitore in frigorifero. Era freddo, bianco e a chicchi grossi, ma lo mangiò tutto. Andò sul divano, si ricavò un po' di spazio tra vestiti e riviste e si addormentò. Quando si svegliò, fuori era buio e Lena non sapeva che ore erano, né sapeva come si accendeva la tivù per ridurre un po' la paura, né sapeva dov'erano gli interruttori della luce, così rimase sul divano trattenendo le lacrime, perché aveva paura di mettersi a piangere. Il gabinetto è sempre un gabinetto Lena pensa ai giorni trascorsi da sola nell'appartamento della zia e al giorno in cui conobbe Vaclav. Non ha voglia di dir niente di Vaclav a Serena. Vaclav, se lo tiene ben chiuso nel petto, dentro la cassa toracica, nascosto fra le delicate costole e il cuore pompante: le è tanto caro, tanto sacro, che le sarebbe insopportabile anche solo pronunciarne il nome in presenza d'altri; Vaclav è un segreto che porterà con sé per sempre; è una specie di sacro talismano dell'infanzia che non potrebbe mai far toccare a nessuno, nemmeno con le orecchie. Ha paura di toccare il ricordo perfetto che ha di Vaclav. Su di lui si è posta delle domande, soprattutto negli ultimi anni, ma l'ha sempre spaventata l'idea di tirarlo fuori dai ricordi e rischiare di farselo sottrarre dalla vita reale.
Lena ripensa alla storia che la mamma di Vaclav le raccontò per farla addormentare. La ricorda, quasi parola per parola. Pensa al finale, a quando il ragazzo, l'ultima sera, non ce la fa ad andare alla finestra del castello, quando preferisce rinunciare all'ultima possibilità e continuare a non sapere. Pur spaventata all'idea di rovinare il ricordo perfetto, non vuole perdere Vaclav e darla vinta a una rassicurante ignoranza. Vuole chiamare Vaclav, subito, e vuole trovare i propri genitori. « Sì, be', essere adottati a nove anni è affascinante » dice Serena, interrompendo i suoi pensieri. «Com'è stato avere improvvisamente, tipo, una mamma nuova? » le chiede. « Mah, ero spaventata, direi, ma anche molto felice » risponde Lena. Lena ricorda i primi giorni trascorsi con Emily come i più belli della sua vita. Ricorda che Emily le mostrò la propria casa dicendole che sarebbe stata anche la sua casa. Ricorda che Emily le disse che sarebbe stata la sua casa per sempre, che non avrebbe dovuto cambiarla né andarsene mai più. Ricorda la prima volta che vide la propria camera, con un letto tutto suo, un grande letto a baldacchino con le coperte e un mucchio di cuscini. Ricorda che c'era un grande armadio, pieno di grucce vuote, e Emily disse che le avrebbero comprato tutti i vestiti che voleva da appenderci sopra. Per Lena era tutto perfetto, un sogno che si realizzava. Emily, invece, ricorda le cose in un altro modo. Che cosa ricorda Emily Emily era terrorizzata. Fece fare a Lena il giro della casa, insegnandole a usare il microonde, chiudere il tappo della vasca da bagno e accendere e spegnere la tivù perché non sapeva che altro fare. Lena non diceva niente, aveva la faccia inespressiva. Emily aveva temuto che Lena fosse spaventata, o timida, o scontrosa, e invece sembrava completamente assente, assolutamente chiusa. Aveva letto di genitori che avevano adottato bambini abbandonati degli orfanotrofi rumeni, di come quei bambini non si affezionassero, non arrivassero mai alla normalità, di come alcuni diventassero addirittura so dopatici. Aveva letto di genitori che, dopo anni di sforzi, alla fine avevano stabilito che ai loro figli serviva più di quanto non fossero in grado di dargli, che dovevano mandarli via, metterli in un istituto.
I giorni passavano e Lena non parlava. Emily la portò in psicoterapia, da una donna meravigliosa che aveva uno studio pieno di giocattoli e che, dopo un'ora di seduta a tu per tu con Lena, chiamò Emily e le disse che Lena aveva bisogno di fare ore di test e di una terapia intensiva. Emily guardò Lena che, seduta sulla sua seggiolina, aveva l'aria più spaurita che mai. La psicoterapeuta disse a Emily di riportarle Lena la settimana dopo, così avrebbero cominciato a fare i test, e che a Lena occorrevano da tre a quattro sedute alla settimana. Emily portò Lena a casa e Lena, al tavolo della cucina, rimase a guardare Emily preparare dei panini al formaggio alla griglia. « Là non ci torneremo più e tu non sarai più costretta a parlare, se non ti andrà » disse Emily, « ma, visto che ti ho preparato questo panino al formaggio alla griglia, che è decisamente il più buono di tutta la Tri-State Area, sarebbe molto bello che mi dicessi grazie. » E le mise davanti il panino. « Grazie » disse Lena. « Prego » rispose Emily, allibita. Nei giorni che seguirono Lena cominciò a parlare, fare domande, perfino sorridere quando guardava la tivù. Non parlava mai della zia, di quello che era successo prima. Era come se fosse nata a nove anni, come se non avesse ricordi. Le interessava solo quel che aveva davanti: chiedeva a Emily se i piccioni avevano dei nomi, di che cosa erano fatti i marciapiedi e come si ottenevano le vernici colorate. In generale, Emily rispondeva meglio che poteva e Lena sembrava soddisfatta. La scuola, invece, fu tutta un'altra storia. Ogni volta che Emily la nominava, Lena si agitava. Un giorno che andarono a comprare l'occorrente per la scuola, Lena fece il diavolo a quattro: siccome Emily non capiva che genere di matite voleva, lei rovesciò un banchetto di lavagne bianche. Uscirono dal negozio senza aver fatto acquisti. Niente di quanto fece Emily per preparare Lena sembrò funzionare. Andarono a piedi a scuola, incontrarono gli insegnanti di Lena e fecero il giro dei corridoi, della biblioteca, della palestra. Ma la mattina del primo giorno di scuola, a colazione, a Lena tremavano le mani. Emily rimase tutto il giorno seduta su una panca vicino alla scuola, a cercare di leggere. A fine giornata accompagnò Lena a casa. Lena non volle saperne di parlare: non rispose neanche a una delle sue domande sugli insegnanti, sugli altri bambini, sui libri che stavano leggendo in classe.
Dopo il terzo giorno di scuola, Emily fu convocata per un colloquio. « Fa le bizze tutti i giorni » disse la signorina Rhys. Emily era seduta scomodamente in una delle seggioline dei bambini, con la borščtta sulle ginocchia. « Mi sorprende » replicò Emily. « Ah, sì? » disse la signorina Rhys, sollevando un sopracciglio. «A casa, be', parla, si esprime... » « Si arrabbia, a casa? » chiese la signorina Rhys. « Si innervosisce » rispose Emily, restia ad ammettere che, quando si mettevano a fare i compiti, Lena era piena di rabbia. « Be', per la classe è un fattore di disturbo: batte sul banco e è difficile spiegarlo fa un verso. Uno strillo molto acuto. » Emily sapeva esattamente che verso era: un grido aspro e soffocato che Lena produceva in fondo alla gola. « Gli altri bambini sembrano aver paura di lei. » In un certo senso fu un sollievo per Emily: era preoccupata che la prendessero in giro o facessero i prepotenti. « Senta » disse, « Lena ha bisogno di abituarsi... » Era spaventata all'idea che l'insegnante la facesse espellere dalla scuola. « Lei capirà bene che non posso permettere che un'alunna minacci la sicurezza dell'ambiente scolastico... » Emily la interruppe; non voleva sentire la fine di quella frase. « Capisco. La situazione migliorerà, vedrà. La ringrazio della sua grande comprensione. » Emily se ne andò furibonda: la faceva arrabbiare il fatto di dover difendere Lena di fronte alle minacce di un'espulsione quando non era ancora finita la prima settimana di scuola. Tornando a casa, dove Lena era accudita dalla nuova babysitter, la figlia di una delle migliori amiche di Emily, pensò alla delusione che le aveva dato quella donna, quella scuola. Tutti avevano giurato e spergiurato che quella scuola era un posto sicuro e accogliente, un sostegno per le diversità, che lì Emily avrebbe trovato degli alleati per la buona riuscita di Lena. Invece la signorina Rhys non aveva avanzato alcuna proposta per aiutare Emily, per aiutare Lena, e adesso Emily doveva andare dal direttore: doveva descrivergli i modi sottili in cui nel colloquio le era stato chiarito che Lena non era accettata né aiutata.
Emily era furibonda, ma quando arrivò a casa tirò un bel respiro. Non voleva far capire a Lena di essere arrabbiata. Quando lasciò cadere le chiavi nella ciotola all'ingresso, sentì arrivare lo strillo di Lena che faceva i compiti. In cucina, Lena, con la testa tra le mani, si tirava i capelli. Amy, la babysitter, era seduta pazientemente accanto a lei e aveva l'aria distrutta. Quando vide Emily si scusò con lo sguardo ed Emily disse subito: « Amy, non preoccuparti. Mi dispiace tanto. Adesso ti pago così puoi andare a casa ». Le diede venti dollari, molto più del dovuto. Quando Amy fu uscita, Emily si sedette al tavolo con Lena. « Lena, smetti di tirarti i capelli » le disse, ma lei non diede segno di aver sentito. « Lena, smettila. Smettila. » Sentiva montarle dentro la rabbia, la rabbia che aveva cercato invano di lasciare fuori dalla porta, la rabbia contro Lena che si faceva male, contro l'insegnante, contro tutto. « Smettila!» urlò. « Sei nervosa, sei arrabbiata, e hai ragione di essere arrabbiata, è naturale che tu lo sia. Ma sei brava. Più brava di tutti i tuoi compagni di classe; sei più brava della tua maestra. Il fatto è che non sai abbastanza parole, e non è colpa tua. Non è colpa tua, non è colpa tua. » Lena si mise a piangere. «D'ora in poi non combinerai più guai, a scuola. Questa è la regola. Niente urla. Niente strilli. È la regola. » Non sapeva che altro dirle, ma aveva la sensazione che a Lena piacessero le regole. « A casa puoi strillare; qui puoi fare quello che vuoi. Ma a scuola no. » Lena annuì e si asciugò gli occhi, con il labbro che tremava ancora. Emily si avvicinò un po' di più e cominciarono a fare i compiti. Il giorno dopo, all'ora in cui i bambini, come sapeva, facevano ricreazione, Emily telefonò alla scuola e chiese di parlare con la signorina Rhys. Nell'attesa, si mise a camminare avanti e indietro in cucina. « Pronto? » La signorina Rhys era chiaramente seccata di essere disturbata durante il pranzo. « Buon giorno, sono Emily, la mamma di Lena. Mi scusi se la chiamo a quest'ora poco felice. Volevo solo sapere se oggi, finora, Lena si sta comportando meglio. » Erano solo le undici e mezzo. « Se n'è stata buona al suo banco tutta la mattina » rispose la signorina Rhys. « Stupendo. Proprio quello che volevo sentire. »
« C'è qualcos'altro? » chiese la signorina Rhys. «No, no» rispose Emily. Adesso sapeva che Lena stava seguendo le regole e che la sua sensazione era giusta. Lena era terrorizzata all'idea di infrangere le regole. Lena continuò ad andare a scuola e tutti i giorni tornava a casa con l'aria ferita. Emily la faceva sedere e facevano insieme tutti i compiti, dalla prima parola all'ultima. Quand'era il momento di farli, Lena piangeva e certe volte piangeva dall'inizio alla fine. Ci volevano ore. In matematica era un disastro: sembrava che non avesse mai imparato nemmeno le basi. Lena diceva a Emily che si sentiva idiota, che quando parlava sembrava stupida, che tutti la prendevano in giro alle sue spalle. Emily, dalle frequenti telefonate alla signorina Rhys, sapeva che non era vero. Lentamente, le cose migliorarono. Lena cominciò a capire sempre di più sia i compiti sia le lezioni. Si calmò. Un giorno finirono i compiti che era ancora giorno, così uscirono a fare una passeggiata e a Prospect Park trovarono un uovo di pettirosso sul prato. Lena lo portò a casa e se lo mise sul comodino. Il giorno dopo le cose migliorarono ancora un po'. Alla fine, passavano meno tempo a fare i compiti che a passeggiare e raccogliere le cose che trovavano. A metà anno scolastico, i suoi insegnanti erano entusiasti dei miglioramenti e i voti erano bellissimi. Lena leggeva voracemente e il vocabolario si ampliava. Un giorno, a dodici anni, tornò a casa e disse a Emily che lei e un gruppo di amiche sarebbero andate a una cena di compleanno a Manhattan, da sole, in treno. « No, assolutamente no » disse Emily. « Cosa? » fece Lena, con l'aria incredula, anche se avrebbe dovuto immaginare che Emily non l'avrebbe mai lasciata andare. « Non puoi andarci, Lena, punto e basta. » « Perché? » chiese Lena, calma. « Perché sei troppo piccola, è pericoloso. » « Non ti fidi di me? » « Certo che mi fido di te. Tu non c'entri, Lena: non mi fido del resto del mondo. » « E allora cosa c'entra la mia età? » chiese Lena. « Se io non c'entro ed è il mondo a essere pericoloso, allora non dovrei mai andare da nessuna parte da sola, no? Dovrei stare a casa per sempre. » «No» disse Emily. «Un giorno sarai abbastanza grande. » «Ma hai detto che io non c'entro.»
«Non puoi» ribatté Emily. «Fine della discussione. » Era la prima volta che Emily si rendeva conto della capacità di Lena di spiazzarla con un'argomentazione, e non fu l'ultima. Lena stava scoprendo il potere del proprio intelletto, il potere delle parole, e spesso Emily doveva cercare di ricordarsi che aveva a che fare con un'adolescente. Dopo aver cominciato a parlare a scuola, Lena fece presto a stringere amicizie. Emily capiva che le sarebbe stato facile riscuotere ammirazione, perché tutti i bambini avevano già paura di lei. Era intelligente, dispotica e spiritosa, e tutti i fine settimana una banda di amiche si fermava a dormire a casa sua. A diciassette anni, Lena era nel consiglio degli studenti e i professori dicevano che nei dibattiti in classe spiccava, ma era ancora tormentata, ancora fragile. I compiti a casa erano un campo minato, anche se diverso rispetto agli anni prima. Lena rimaneva per ore, a volte fino a notte, a scrivere e riscrivere, controllare e ricontrollare. Era arrivata a padroneggiare la lingua inglese grazie alla pura forza di volontà, a quanto pareva, memorizzando meticolosamente le regole grammaticali e le espressioni idiomatiche. Era stata spronata dal timore di apparire stupida e di dover subire la derisione dei compagni a ogni suo errore. Nemmeno quando cominciò a parlare un inglese perfetto riuscì ad abbandonare quella diligenza severa, quel rigore. Quando cominciava i compiti era calma, ma spesso al minimo intoppo si innervosiva, si tormentava. Qualunque cosa poteva scatenare la crisi: un'equazione che non riusciva a risolvere subito, la blanda critica di un professore su un compito che Lena aveva affinato per ore. Lena sembrava proprio la classica adolescente, ma Emily aveva la sensazione che si trovasse nell'occhio di un ciclone. Addio, macchia « Ma non sai niente dei tuoi veri genitori? » chiede Serena. « Con chi hai vissuto prima di essere adottata e venire qui? » « No, non so niente di loro » dice Lena, scegliendo di non rispondere alla seconda parte della domanda. Comincia a essere stanca di parlare con Serena, è stanca di dover mettere insieme tutti i tasselli e poi nasconderli, e non ha voglia di spiegare altro - non le piacciono tutte queste ombre nella storia della sua vita, quando le storie degli altri sono invece nette, variopinte e felici come
cartoline. A Lena non piace cancellare le macchie di marcio; non le piacciono i momenti che ricorda a malapena, né le cose sulle quali ha ricevuto solo informazioni frammentarie, dopo che erano passate di bocca in bocca, e soprattutto non le piacciono le enormi lacune tra l'una e l'altra, così le sembra pericoloso pensare ai tanti giorni che hanno portato al presente. Una volta ha parlato con Em di questa sensazione, del fatto che non le piacesse pensare al passato nel timore di incappare su una lastra di ghiaccio invisibile, o in una pozzanghera, o in una zona morta, ed Em le ha detto che molti adulti provano spesso la stessa sensazione. Lena le ha chiesto se qualcuno provava la stessa sensazione da giovane ed Em ha risposto che no, quasi tutti hanno alle spalle una bella infanzia, piacevole da ricordare, e soltanto con l'andare degli anni, quando si comincia ad accumulare sbagli, rimpianti e motivi di tristezza, si smette di ricordare con piacere, di ripensare al passato con piacere. Quasi tutti, ha sottolineato Em, non tutti. Invece di ripensare al passato, ha detto, si guarda avanti alla propria felicità, tutto qui. Lena non vuole guardare soltanto avanti e mai indietro. Lei vuole colmare le lacune. « Voglio colmare le lacune » dice a Serena. « Dai, allora » replica Serena con convinzione. Lena decide di colmare le lacune. Troverà Vaclav. Lui l'aiuterà a cercare i genitori. Aveva pensato di chiedere a Em di trovarglieli, ma aveva subito scartato l'idea. Non che i suoi rapporti con Em siano delicati o che Em non glieli lascerebbe cercare; non saprebbe spiegare perché, ma non sopporterebbe di vedere Em preoccupata, o ferita, o delusa. Non vuole nemmeno pensarci. « Grazie » dice a Serena. « Ma figurati. Non c'è di che » replica Serena, e di colpo Lena è pronta (tutti i suoi io sono pronti) per uscire nel corridoio e tornare alla sua giornata. Solo quando è nel corridoio e sta andando dai suoi amici per la cena di compleanno le viene in mente la macchia e la sua inconsapevole specificità: si è dimenticata di dirle addio, di fissarsela bene in mente per ricordarla, e adesso è certa che sbiadirà come tutte le altre.
DI NUOVO INSIEME
Nello stesso, preciso istante A cena con gli amici tutto è niente; in taxi, tornando a casa, tutto è niente; a casa con Em tutto è niente. Lena è tanto emozionata, tanto agitata, tanto congestionata di adrenalina che ogni istante le sembra un'ora, ogni ora si gonfia all'inverosimile e il tempo non passa mai. Ma ovviamente il tempo passa; è una delle verità dell'universo: per quanto si soffra, per quanto si gioisca, per quanto si sia agitati o ansiosi, per quanto si ami o si abbia paura, per quanto prurito si senta, per quanto ci si gratti, per quanto sia alta la febbre, per quanto si cada, il tempo passa. Così il fatto impossibile di colpo è lì, a incombere su di lei, e allora quelle ore, anche le ore che prima sembravano fatte di millenni, col senno di poi sembrano ripiegarsi su se stesse e l'attesa pare trascorsa impossibilmente presto, e quelle ore sembrano non essere mai esistite. E questo che prova Lena quand'è finalmente sola nella sua stanza, alle dieci e mezzo di sera del suo diciassettesimo compleanno, e prende in mano il telefono per chiamare Vaclav. Lena sa che nello stesso, preciso istante Vaclav sta pensando a lei (anzi, sta pensando di non pensare a lei)? Chiude la porta a chiave e si siede accanto al telefono. Compone il numero di Vaclav senza esitazione. Un numero di sette cifre rimasto sepolto da quando aveva nove anni, composto da un angolo della mente potente ma silenzioso, come l'equilibrio, come il respiro, come i brontolii dello stomaco, una cosa che il corpo conosce. Le dita sanno cosa fare. E così che succede, quando il numero è quello di un ragazzo che ami. Che hai amato. Che amerai. Comunque sia. Mentre il telefono squilla, Lena prende in considerazione la possibilità che risponda qualcun altro. Sono le dieci e mezzo. Un'ora poco opportuna per una telefonata. Poi, calma, lascia squillare, perché sa chi risponderà. In un modo o nell'altro sa che lui sta aspettando la sua telefonata.
Vaclav si è appena addormentato per la prima volta senza dare a Lena la buona notte quando il telefono accanto al letto si mette a squillare. Lo solleva e, ancora prima di dire pronto, il cuore gli sta battendo all'impazzata. « Pronto? » dice, ma tutti e due sanno già chi c'è all'altro capo del filo. «Sono Lena» dice lei. Chi altro? « Io sono Vaclav » dice lui. Chi altro? «Come stai?» Lei sta facendo un sorriso grande, enorme. « Io bene! Tu? » E come se la conversazione procedesse su un binario che nessuno dei due può vedere: tutto si sta dicendo da sé. «Anch'io sto bene. E il mio compleanno.» « Lo so. Lo so. » « Sì? » « Sì. Certo. Sì. » Vaclav e Lena si sono appena comunicati la cosa essenziale, quella che tutti e due volevano sapere ma non potevano chiedere: Ti sei sempre ricordato (ricordata) di me? Sono stato (stata) importante per te come tu lo sei stata (stato) per me? Ho ricordato da solo (sola)? 0 sei sempre stato (stata) con me? Certo che sono sempre stati insieme. Anche quando non guardavano; non c'era bisogno di controllare. Lei c'è sempre stata; lui c'è sempre stato, Fuori dalla camera di Lena, in un punto imprecisato del buio, come la luna. « Dove sei? » chiede Vaclav. A Lena sembra una domanda strana. « A casa. » Si rende conto che lui non sa niente: non sa dove abita, niente. « Park Slope » dice. Lei sa dove abita lui. « Abiti ancora a Brooklyn? » dice Vaclav, sbalordito che lei possa essere tanto vicino. « Sì. » «A che scuola vai? » «Alla Berkeley Carroll, hai presente? È piccolissima » dice lei, scusandosi in anticipo perché lui non la conosce: non vuole creare vuoti, non vuole increspature in questa conversazione. Invece Vaclav conosce quella scuola. Ha molti amici che abitano da quelle parti e lui passa molto spesso di lì per andare nei locali della zona. « La conosco. Ci passo sempre - Ozzie's è da quelle parti. E incredibile che non ti abbia mai incontrata» dice, incredulo di essere sempre stato a pochi isolati da Lena, di aver camminato sul marciapiede della sua scuola mentre
lei era dentro a leggere, fare ginnastica, imparare la matematica. Era sempre stata lì a un passo. « Io vado sempre da Ozzie's » dice lei, chiedendosi se l'abbia mai incrociato senza rendersene conto, anche se le sembra impossibile. « E tu a che scuola vai? » « Al Brooklyn Tech. » «Però! Che bravo» dice Lena, perché il Brooklyn Tech è una scuola di grande attrazione e l'ammissione è molto difficile. E una scuola pubblica per i geni delle scienze e Lena, adesso che ci pensa, non si sorprende che Vaclav vada a scuola lì. «Oh, grazie. È un po' lontana da casa, ma mi piace. » « Ti va di vederci? » chiede lei. « Sì. » « Lunedì dopo la scuola. Tre e mezzo? » « Va bene. » «Ci vediamo vicino alla tua scuola. Sull'altro lato della via, a Fort Greene Park.» « Bene. » « Bene. » « Lena » dice lui, e pronunciare il suo nome è come fare un salto mortale. « Vaclav » dice lei, e pronunciare il suo nome è come cantare in pubblico. « Sono molto contento che tu abbia chiamato. » « Anch'io. » «Anch'io. » « Bene, allora ciao. » « Ciao. » E tutti e due rimangono immobili nelle rispettive stanze, ad aspettare che il cuore smetta di battere o esploda, e si chiedono perché non vedersi subito, di notte. Perché no? Tutto, tutto può essere. Il mondo si è diviso, si è ricomposto e si è diviso di nuovo. Il mondo sta battendo contro se stesso come due cembali. Sbam, sbam, sbam, sbam. E dura dormire, con tutto quel rumore nell'universo. Sbam, sbam, sbam, sbam. L'indomani mattina, a colazione con le rispettive madri, madri fra loro diverse come il giorno e la notte, grassa e magra, mora e bionda, pesante e leggera, Vaclav e Lena se ne stanno seduti senza dir niente della Telefonata né all'una né all'altra madre e senza nominare il Progetto di Incontrarsi.
Perché? Perché mentire a queste madri? Perché tenere segreta una cosa che non ha bisogno di rimanere segreta? Vaclav e Lena non lo sanno. Ma tengono il loro segreto al sicuro tra i palmi giunti, per custodirlo, con il desiderio di proteggerlo come se fosse una piccolissima rana lucente trovata nell'erba umida ma insieme di mostrarlo, di mostrare e condividere una novità tanto emozionante. Con la mente tornano e ritornano sempre alla stessa cosa, irresistibilmente; recitano tra sé le parole: Indovina con chi ho parlato stanotte? Non puoi neanche immaginare con chi ho parlato stanotte. Senti questa: sai cos'ha detto Lena? Ma sono parole che non dicono: se le tengono tutte per sé. Vaclav pensa forse di raccontare a Ryan, la sua ragazza, questo grande evento? No, non lo pensa. Vaclav riesce a pensare soltanto all'incontro di lunedì con Lena. Non pensa affatto a Ryan. Lena comincia a elaborare il suo progetto. Vaclav è più alto di tutti di una spanna Lena non bigia mai, ma lunedì mattina capisce che l'idea di restare a scuola è insostenibile. Dichiarare che l'idea di restare a scuola è insostenibile la calma: a Lena piace la categorizzazione, la categorizzazione in sé; oggi la scuola non può essere assolutamente tollerata. L'idea di restare, di fare matematica, oggi è insostenibile. Per tutto il fine settimana l'ansia è cresciuta in modo esponenziale. Continuava a pensare alla voce di Vaclav al telefono e a rimanere senza fiato. Insostenibile. Lena esce da scuola e prende due autobus per andare a Fort Greene, per andare a sedersi su una panchina di fronte alla Brooklyn Technical High School, per restare seduta tre ore ad aspettare Vaclav. Guarda il palazzo; conta i piani, le finestre, le porte. Vaclav è dentro quell'edificio, in un'aula, seduto su una sedia, ad ascoltare un professore; è lì dentro. È vivo. È una persona reale. Probabilmente è agitato all'idea di vederla. È un pensiero che l'aiuta a calmarsi i nervi? Be', no. È una giornata autunnale, decisamente autunnale, ma calda. L'aria non è quella frizzante dell'autunno; è una giornata che cuoce a fuoco lento. Le foglie cominciano appena a cambiare colore: sono tinte d'arancio soltanto sulla punta, hanno perso appena un po' di verde, niente di violento, niente di sensazionale. Sul marciapiede cominciano già a passare gruppetti di ragazzi, anche se non è ancora ora di uscire da scuola. Avranno delle ore buche, oppure se ne
vanno prima, o stanno bigiando una lezione. Ma per lo più, quei ragazzi sembrano semplicemente una perdita, come se da una scuola delle dimensioni del Brooklyn Tech dovessero stillare ragazzi sul marciapiede vicino. La panchina di Lena è sotto un acero che manda giù degli elicotterini, dei piccoli oggetti volanti marroni a due ali, come se la natura si stesse divertendo, come se stesse progettando alberi dai quali i semi scendano a vite. Lena ne raccoglie uno e lo divide in due, piega una metà d'ala pensando cotiledone, una parola che ha imparato a biologia, pensando che quella cosa appartiene a una pianta dicotiledone, ma senza ricordare che cosa comporti il fatto di essere dicotiledone o monocotiledone. Nella scuola squilla una campanella, e squilla tanto forte che Lena la sente. Qualche secondo dopo, le porte si spalancano di colpo e i ragazzi si riversano nella via. Lena si agita. Ci sono troppi ragazzi. Sarà impossibile trovarsi: lui non la vedrà mai e lei non vuole starsene lì ad allungare il collo per cercarlo ansiosamente tra la folla, tirando a indovinare. Vuole che lui la trovi e basta, che ci sia e basta. I ragazzi fanno un baccano incredibile; alcuni sembrano urlare solo per usare la voce dopo una giornata di silenzio forzato; tutti parlano forte, ridono forte, si lanciano grida, strepitano. Ci sono ragazzi che in effetti si lanciano gridi come uccelli selvatici. Lena non ricorda un momento in cui alla sua scuola qualcuno abbia urlato tanto. Forse, pensa, quando fai chiasso anche tu, non ti sembra tanto forte. La scuola di Lena è piccolissima, stupenda, privata e silenziosa. Sul marciapiede della scuola ci sono vari gruppetti di ragazzi, tutti vestiti in modi estremi. Non sembrano semplicemente persone con addosso vestiti e accessori, ma in costume, ed è troppo. Pensa compiaciuta alla sua piccola scuola, dove tutti sono come sono e basta, e di colpo si sente... privilegiata? Fortunata? E un sentimento che non le è familiare. Una scuola come quella, in cui bisogna gridare e darci dentro per forza, la sfiancherebbe. Le farebbe male. In un gruppetto nota un ragazzo più alto di tutti gli altri. E più alto di una spanna, forse addirittura di trenta centimetri, e spicca sopra la massa. Si gira a parlare con qualcuno e Lena lo vede in faccia. E inequivocabilmente Vaclav, ma sembra tutto diverso. E un uomo, un adulto, con il sorriso di Vaclav. Non l'ha ancora vista. Lena si meraviglia della coincidenza di aver posato lo
sguardo proprio su quel ragazzo, su quella nuca, per poi scoprire che quella nuca era di Vaclav, ma è anche vero che è un ragazzo alto e chiunque lo avrebbe notato. Chi avrebbe mai detto che Vaclav fosse così alto? E d'altra parte, non era prevedibile che proprio la persona che Lena stava cercando, proprio quella persona per lei tanto speciale, e tanto speciale per l'universo intero, troneggiasse sopra tutti gli altri, che fosse così evidentemente spettacolare, luminosa, affascinante e magica? Mentre è lì, seduta, a chiedersi se nello stesso modo Vaclav la riconoscerà, lui comincia ad attraversare la strada, avanzando sulle strisce pedonali dritto verso di lei. Ha i capelli tanto scuri come quelli del Superman dei fumetti che lei si aspetta quasi di vederli circondati di scintille blu elettrico. Sono pazzeschi, come se per tutto il giorno li avesse attorcigliati a forma di corna. I suoi capelli la sconcertano, ma soprattutto non riesce a staccare gli occhi dalle sopracciglia. Vaclav ha grandi sopracciglia scure, ma in mezzo si separano, non sono fuse insieme, non affondano l'una sotto il peso dell'altra. Sono pesanti e folte, ma in un certo senso anche leggere, delicate, come il carbone ma più luminose, più vivaci. Fiammeggianti? Possono essere fiammeggianti? Vaclav sta sorridendo con tutta la faccia, un sorriso che continua ad allargarsi anche quando ha raggiunto l'espansione massima, il suo sorriso si allarga in un modo impossibile e anche lei sta sorridendo, e si sta alzando dalla panchina, perché lui è lì, davanti a lei, e lei non sa bene se si abbracceranno o no, ma poi sì, si abbracciano, e poi sì, lei è in braccio a lui, ha i piedi staccati da terra e la faccia di lui fra i capelli, e ride, ride, ride, e lui fa un verso che assomiglia a uno di quegli strilli che si fanno scendendo lo scivolo acquatico più ripido del parco, e restano così per sempre. No, non restarono così proprio per sempre. Ma non ci sono momenti che sembrano eterni? Vaclav sapeva già che lei era seduta lì prima ancora di vederla. Ha sentito il suo sguardo su di sé. Sapeva che era lei, doveva essere lei, perché di colpo ha avuto l'impulso di girarsi e guardare la panchina, guardare verso di lei, come se negli occhi avesse delle calamite e lei fosse un pezzo supermagnetico di un altro pianeta appena caduto sulla Terra.
Lena è ancora piccola, ancora scura, negli occhi ha ancora qualcosa di inquietante, ma tutte le parti del viso hanno cominciato a farsi aggraziate. Ha una massa di capelli tanto ricci, tanto crespi, tanto ribelli da sembrare una criniera attorno alla testa; sembrano parte di lei come il collare che hanno quelle lucertole, quelle a cui si infiamma il collo quando devono combattere fra loro. Per il resto il viso mostra maggiore sicurezza di sé. Guarda qua! Sono un naso, sono una bocca; faccio così. Tutto sprigiona padronanza di sé; tutto sembra nella sua giusta collocazione. Vaclav non avrebbe potuto immaginare che lei fosse così, ma adesso che l'ha vista non potrebbe immaginarla diversa, non potrebbe mai immaginarla diversa. E poi avrebbe voluto soltanto abbracciarla, ma quando si è chinato e lei si è protesa verso l'alto, era come se lei non avesse peso, e un istante dopo ce l'aveva in braccio, anche se non era affatto nei suoi programmi, e si è preoccupato, perché quando poi l'avrebbe rimessa a terra ci sarebbe stato un momento di imbarazzo: sente già l'imbarazzo mordicchiare le caviglie, premere, premere per diffondersi. Quando la rimette giù, sul marciapiede, ci sono passanti che cercano di evitarli, ed è un fatto che lo sorprende. Un attimo fa, quando lei era sollevata da terra, fra le sue braccia, gli sembrava che non ci fosse nessun altro al mondo. Lei solleva il viso per guardarlo e sorride, un sorriso tutto denti e un po' sciocco, ma le labbra sono bellissime e Vaclav ricambia il sorriso. « Voglio che tu venga in Russia con me » dice lei. « Certo. » « Sul serio » dice lei, sorridendo. « Lo so. » « Vuoi andare da qualche parte? » « Credevo che andassimo in Russia » risponde lui. Lei si posa le mani sui fianchi e fa la faccia severa, un sopracciglio su e uno giù, il mento imperativo: la stessa faccia severa che gli fece l'ultima volta che si videro. « Parlavo di adesso » dice. « E in Russia quando ci andiamo? » « Presto. » « Oggi pomeriggio? » « No. » « Bene, perché non ho fatto la valigia. » « Dico sul serio. »
« Quando? » « Vedremo. » « E adesso dove andiamo? » chiede lui. « A mangiare qualcosa, magari? » « Bene, perfetto. Perché ho proprio fame. » « Io no. » « Io ho sempre fame. » « Devi crescere. » «Dici? Possiamo andare a mangiare una pizza. Ti piace la pizza? » chiede lui. Che strana domanda da fare alla persona segretamente più importante della propria vita, ma deve farla per forza: non lo sa. Non ha mai visto Lena mangiare la pizza. « Io non ho fame » risponde lei, « ma ti accompagno. Abbiamo molte cose da dirci. » « Cazzo se ne abbiamo! » dice lui. Lei è sorpresa di sentirgli dire una parolaccia, ma è anche emozionata perché la parolaccia le ricorda che ormai sono tutti e due grandi. Lui che dice cazzo rende possibile la Russia. Quello della Russia è un progetto che ha in mente, e lo sfruculia, come un dente che balla, per vedere se è realistico. Certe volte lo è e altre no. Certe volte la fa star bene e altre molto male. Oggi la fa stare molto bene. È realisticissimo. Si incamminano insieme sul marciapiede, fianco a fianco, guardandosi i piedi. Non sono più abituati a camminare insieme sul marciapiede; non hanno il ritmo giusto per camminare insieme, come fanno le coppie in città, come fanno i vecchi amici. Vaclav va piano per adeguarsi al passo di Lena. Per superare lampioni e gruppi di gente si stringono goffamente e quando attraversano la strada si sentono altrettanto impacciati. « Allora? Cos'hai fatto in questi anni? » chiede Vaclav. Lena gli sorride maliziosa. « Un sacco di cose. E tu cos'hai fatto? » Com'è strano chiedergli cos'ha fatto. Come incontrare il presidente e dirgli: « Salve, come va? » « Le solite cose » risponde lui, intendendo dire le solite cose che facevo quando te ne sei andata, intendendo dire faccio ancora i trucchi di magia, cerco ancora di occuparmi mentalmente di te, cerco ancora di dominare gli eventi utilizzando poteri soprannaturali.
Una missione segreta È incredibile, per Lena e Vaclav, essere in una pizzeria, seduti l'uno di fronte all'altra, a ordinare la pizza come se niente fosse, come se tutto fosse normale. Fortunatamente per tutti e due, il fatto che Vaclav non possa parlare mangiando, lui Io dà per scontato e lei non lo mette in discussione. Vaclav mangia come un maiale. Lena teme che possa schizzarla di salsa di pomodoro, che possa scottarla buttandole addosso della mozzarella fusa. Mentre Vaclav mangia i primi tre tranci, Lena stacca la mozzarella da una fetta e gli illustra il progetto Russia. « Voglio trovare i miei genitori » dice. « I miei genitori biologici. Adesso ce l'ho, una mamma, una mamma effettiva, la mia vera mamma. Mi ha adottata. E io le voglio bene. Voglio solo sapere qualcosa dei miei veri genitori. » Quando Lena parla della sua nuova mamma, quella vera, Vaclav coglie la calma impressionante della sua voce. « Voglio che venga anche tu. Sarà difficilissimo trovarli. Non so ancora come, ma sono sicura che ci riusciremo. Perché, insomma, mica sarà impossibile. Sono sicura che sono là, quindi basta capire come fare a trovarli. Attraverso i documenti e tutto il resto. » Vaclav smette di mangiare, solo temporaneamente, e solleva gli occhi per guardarla: vorrebbe farle una domanda, ma ha la bocca piena e lei non smette di parlare. « Prima di partire faremo tutte le ricerche possibili qui e magari riusciremo a scoprire qualcosa, ma sono sicura che prima o poi arriveremo a un punto morto e ci serviranno delle informazioni che potremo ottenere solo andando là. Forse dovremo andare a bussare a qualche porta e fare delle domande o, non so, cercare documenti chissà dove. » Vaclav comincia presto a capire che il progetto di Lena si ispira in gran parte ai programmi della tivù. Ma è anche vero che l'audacia del progetto si fonda soprattutto sulla sicurezza di sé che nutre lo studente modello, sulla certezza che con la diligenza, la fatica, la dedizione, la ricerca a tappeto, le domande, la pianificazione, si possa sempre ottenere un risultato. Anche Vaclav è un seguace di questo stile di vita. E proprio per questo è certo che un giorno sarà un mago affermato. « L'unico problema è come arrivare là nello specifico, i soldi per arrivare là. Ma si tratta solo di un numero: i numeri si contano uno per volta. Un dollaro per volta » dice Lena.
Anche questo è il ragionamento di una persona abbastanza intelligente per sapere di essere intelligente e per sapere che, anche in un mondo grandissimo, nessuno è significativamente più intelligente di lei e che quindi potrà riuscire in qualsiasi impresa. In fondo non c'è niente di infantile nel desiderio di trovare i propri genitori. Dev'essere un'esigenza innata, pensa Vaclav, naturale, senza tempo. Lena è come un piccione viaggiatore, un boomerang. Dentro di lei c'è un motore che li cerca continuamente. Non ha finito di parlare. « La cosa più importante sai qual è? Che se decideremo di partire, arriveremo. So che capisci: basterà decidere di farlo e lo faremo. Sarà fatta. Più o meno. » « Sai cosa diceva Houdini? Diceva: 'Se ho fatto cose che in realtà non avrei potuto fare è perché mi sono detto: Devi. '» « Mi piace. » « Lo immaginavo » dice lui, ed entrambi arrossiscono. «Prima di tutto» prosegue Vaclav, «sì, naturalmente verrò con te. » Lena non ha mai dubitato che Vaclav non l'avrebbe accompagnata. Annuisce. « Quindi su questo punto voglio subito sgombrare il campo, perché ovviamente lo farò. Voglio solo farti qualche domanda sul progetto e dirti qualche mia idea, ma non devi preoccuparti che io non sia d'accordo, perché lo sono, davvero » dice Vaclav. « Prima di tutto, sei assolutamente sicura che siano in Russia? » « Sì. » « Perché? Se non sai dove sono, come fai a essere sicura che non siano qui? » « Se fossero qui, in America, si sarebbero fatti vivi. Mi avrebbero trovata. Prima o poi. » Lena lo dice come se fosse un dato di fatto. Vaclav ne è meno certo. « Come fai a sapere che sono ancora vivi? » le chiede, e subito dopo si chiede se era una domanda da fare. Gli sembra una domanda crudele, una domanda orribile. « Non fa niente. Se li troverò morti, li avrò sempre trovati. Io voglio solo colmare le lacune. Non voglio niente da loro. Voglio solo sapere. Voglio sapere perché sono venuti qui e perché mi hanno abbandonata. Chiunque vorrebbe saperlo, credo. » Vaclav pensa che anche i propri genitori sono venuti
in America e l'hanno portato qui. E che non ne parlano granché, non ne parlano da anni. Non ha mai chiesto a sua madre o a suo padre com'era la loro vita in Russia, perché sono partiti, niente. A tavola si parla di scuola, di politica, di tutto il resto. Ricorda qualcosa della sua vita in Russia, quand'era piccolo: ricorda la volta che giocò con un altro bambino davanti al loro grande caseggiato e un piccolo astronauta a molla per il quale pianse quando, atterrato in America, si accorse di averlo dimenticato in Russia. Ricorda di aver portato con sé in aereo il suo libro di Houdini. Sono solo ricordi vaghi di quando era piccolo; della vita prima di Vaclav non si parla mai. Vorrebbe dirlo a Lena, dire qualcosa come: « I miei vivono nella mia stessa casa e, queste cose che secondo te quasi tutti sanno, io non le so ». Ma non glielo dice. Io, volendo, potrei saperle, pensa, ecco qual è la differenza. «Hai intenzione di parlarne con i tuoi genitori?» chiede, rendendosi conto, di nuovo, di quanto potrebbe essere lungo l'elenco delle cose fondamentali che ignora di Lena. «Genitore. C'è solo mia mamma. No, non le dirò niente, perché non mi lascerebbe mai fare il viaggio da sola. Ti rendi conto? Da sola in Russia? Mai. Deve restare un segreto. » È una missione. Vaclav capisce le missioni, capisce l'esigenza di tenere segreta una cosa quando è tanto importante. «Neanch'io dirò niente a mia mamma: andrebbe fuori di testa. » Sentendo nominare la mamma di Vaclav, Lena vorrebbe scomparire e si chiede perché. Perché sentir nominare la mamma di Vaclav la agita tanto? Certe volte ha il cervello pieno di buchi. Essere lì con Vaclav è bello, ma è come se lui stesse rovistando in posti oscuri e cedevoli. Non pensava che sarebbe stato tanto difficile rispondere alle sue domande, che sarebbe stato tanto difficile anche solo sentirle: è come se lui premesse su muscoli atrofizzati. « Sì » dice Lena. « La cosa migliore è che nessuno lo sappia, credo. Sarà più facile. » « D'accordo. » A Vaclav piace tanto l'idea di condividere un segreto con Lena che non si chiede nemmeno perché debbano andarci da soli e quindi perché la cosa debba rimanere segreta. Escono dalla pizzeria e Lena gli dice che deve andare, ha una riunione. Consiglio degli studenti. Sì, è noioso. Lei è il presidente ed è noioso lo stesso.
Sì, così avrà un punto in più per l'ammissione al college, gli dice. Questa conversazione, queste chiacchiere di politica scolastica sono solo parole pronunciate per riempire l'aria mentre Vaclav e Lena si guardano. Non vorrebbero mai rinunciare alla compagnia l'uno dell'altra e non sanno come congedarsi. « Ah, aspetta! » dice Vaclav. « E tua zia? Non potrebbe aiutarci? Abita ancora nella Settima?» « Si è trasferita » risponde Lena. « E tornata in Russia. » «Ah, che peccato. Lei probabilmente sa tutto, vero? » « Già. Mi piacerebbe chiedere a lei, ma se n'è andata. » Segue una pausa, che Vaclav colma con « Possiamo vederci domani? » e Lena si avventa sul domani con il suo si. Qui, dopo la scuola. Okay, dicono, troppe volte, okay, okay, okay, sorridendo, sfiorando la stupidità. Sono sul punto di andarsene semplicemente voltandosi le spalle, senza avere idea di come congedarsi, di cosa bisognerebbe fare, poi avanzano l'uno verso le braccia dell'altra e così facendo capiscono che è l'unica cosa ragionevole da fare. Due amici che dopo una lunga separazione si abbracciano. E ragionevole. Sennonché il contatto fra un collo e l'altro, nella morbida intersezione di collo e mascella, è eccessivo; c'è troppo poco vigore per essere un saluto fra amici e troppo silenzio che cala sul mondo, mentre si abbracciano. A Vaclav, quando si allontana, viene in mente che avrebbe voluto raccontarle del suo ultimissimo trucco di magia, l'Antico Sarcofago Egizio del Mistero. Lei si sarebbe entusiasmata, perché da piccoli sognavano tanto di costruirlo insieme e lui finalmente c'era riusci to. E un numero da fare in due e non ha ancora potuto provarlo. Stava aspettando Lena. Il giorno dopo Sono seduti sotto un albero a Fort Greene Park. Sono seduti per terra e fanno correre le dita fra l'erba. E un bene che ci sia l'erba: così hanno qualcosa da tormentare, da strappare, qualcosa su cui posare gli occhi parlando. Lena sta guardando l'erba e Vaclav sta guardando lei. Gli sembra incredibile che lei sia lì, accanto a lui. Lena gli dice che vuole raccontargli tutto e gli racconta quasi tutto. Gli racconta quel che sa del periodo prima che si conoscessero, di cui non hanno mai parlato quando aveva nove anni. Gli racconta di Radoslava
Dvorakovskaya e del giorno in cui la trovò morta nella vasca da bagno. Gli dice che non sa dov'è stata prima di andare da Radoslava, né come arrivò da lei. Gli racconta di quando aspettò la zia, dei disegni colorati, di quando non sapeva parlare. Vaclav è contento, è felice che lei gli stia raccontando tutto. Le chiede che cosa ricorda di quando fu portata via. Lei gli racconta dei Servizi di protezione per l'infanzia, di quando andò a vivere da Em. Gli racconta del giorno in cui Em le annunciò che l'avrebbe adottata, il secondo giorno che abitava da Em. Gli racconta di quando lei ed Em decisero come lei avrebbe chiamato Em, gli spiega che Em sono le prime due lettere, la prima sillaba del nome, Emily, e anche la prima lettera della parola mamma: un modo per chiamarla Emily e mamma senza pronunciare né l'una né l'altra parola. Vaclav si accorge che Lena sta saltando alcune parti. Ha saltato l'episodio di sua mamma che chiama la polizia. Probabilmente, ragiona, lo ha saltato perché parlarne è imbarazzante, dal momento che Lena è stata portata via per colpa di sua mamma. Lui ha sempre dato la colpa a sua mamma e immagina che anche Lena abbia sempre dato la colpa a lei. Ovviamente Vaclav non è più arrabbiato: sa che sua madre era convinta di rendersi utile quando reagì in quel modo eccessivo, quando rovinò tutto e fece portare via Lena. Chiamò la polizia solo perché Lena era spesso a casa da sola, solo perché sua zia era una spogliarellista e tutto il resto. E molto contento che Lena sia stata più felice con Em, che tutto alla fine sia andato per il meglio. Chissà perché, aveva sempre pensato che per Lena le cose fossero peggiorate, da quando se n'era andata: forse perché la situazione era peggiorata tanto per lui. Il sole sta tramontando e comincia a rinfrescare. Vaclav dà a Lena la propria felpa: lui non potrebbe mai aver freddo. Continuano a parlare finché è buio e il parco sta per chiudere. Si alzano da terra e vanno alla metropolitana, e lui le dice che non vede l'ora di rimettersi a lavorare al numero di magia. Le dice che non ha mai trovato un'assistente che la sostituisse. Lei gli sorride e dice che non vede l'ora di organizzare il loro viaggio in Russia.
Quando ti innamori ti sembra di galleggiare Lena e Vaclav passano il tempo insieme rapiti. Hanno lo sguardo stralunato come cani affamati, come neoconvertiti. A scuola, tutti e due procedono per forza d'inerzia, come zombie, e nessuno se ne accorge. Lena, per la prima volta, fa i compiti nel corridoio con il quaderno appoggiato a un armadietto dieci minuti prima che cominci la lezione, invece che meticolosamente a casa, al tavolo della cucina, il pomeriggio dell'assegnazione, con Em che le tiene compagnia, che veglia su di lei come una sentinella sulla torre di vedetta. Finora i compiti erano sempre stati un brutto momento. Una zona contaminata, un festival del massacro, una carneficina a oltranza. Un mucchio di matite rosicchiate e mine spezzate. Un mucchio di fogli strappati. Lena è sorpresa di riuscire a cambiare carattere. Anche Em è contenta. Fare i compiti per ore al tavolo della cucina, completamente assorta, ossessivamente assorta, era meglio che urlare e strepitare, ma era solo una manifestazione diversa dello stesso squilibrio. Vaclav, adesso, si presenta agli esami senza studiare; all'ora di pranzo non racconta barzellette, non intrattiene gli amici, non si esibisce in giochi di prestigio. E tutto preso a scrivere biglietti, da leggere a Lena, da dare a Lena, biglietti che dicono quanto pensa a lei, che sentimenti incredibili prova. Ed è tutto preso a stilare elenchi, a organizzare il viaggio in Russia. Sta escogitando sistemi per raccogliere soldi, sta trovando risposte a domande, posti in cui cercare. La sua nuova idea preferita è quella di raccogliere soldi con gli spettacoli di magia. E un'idea perfetta, un cerchio che si chiude. Lui e Lena sono di nuovo insieme - ed era inevitabile che tornassero insieme, lui il mago famoso e lei l'incantevole assistente. Un ciclone con molti occhi Vaclav entra a scuola con la mente annebbiata. Non ha dormito neanche un'ora; è stato tutta la notte al telefono con Lena. Tutta la notte a fare progetti. Ha cominciato a immaginare di salire davvero a bordo di un aereo con lei, decollare, volare in un posto in cui non sono mai stati. Sa che possono farlo, perché possono fare qualsiasi cosa. Vaclav non vede subito Ryan, tanto è stanco; e sta ancora pensando a Lena, a quanto è stato facile stare al telefono con lei otto ore. Ryan lo sta guardando
avanzare nel corridoio verso il suo armadietto e non è sola. Con lei, a guardare, ci sono tutte le sue amiche. «Ciao» dice Vaclav, e capisce subito che qualcosa non va. « Non sei venuto al concerto » dice lei. «Mi dispiace tanto» dice lui, rendendosi conto di essersi completamente dimenticato di lei. « Lindsey ti ha visto. » « Eh? » « Lindsey ti ha visto con quella ragazza. A Fort Gree ne Park. » « Cosa? » « Ti ha visto con quella ragazza coi capelli crespi. » Solo adesso a Vaclav viene in mente che Lena e Ryan potrebbero escludersi a vicenda. Ryan ha le lacrime agli occhi. «È solo un'amica...» comincia lui, ma Ryan si sta già allontanando. Quando ti innamori ti sembra di cadere All'improvviso Vaclav si sente terribilmente in colpa per Ryan. La verità è che non ha pensato neanche un secondo a lei, da quando Lena è tornata. Adesso ha lo stomaco sottosopra e un tarlo nel cervello, due cose decisamente poco producenti, e sente di poter parlare con Lena di qualsiasi cosa, così solleva l'argomento. Lo solleva quando la rivede, mentre sono seduti al parco sotto lo stesso albero, che diventa l'albero più bello, il più speciale del mondo nel momento in cui si siedono sotto i suoi rami e si mettono a giocherellare con le ghiande. « Hai notato che da quando ci siamo... ci siamo ritrovati, praticamente non abbiamo fatto altro che vederci? » le dice. « Sì » risponde Lena, con gli occhi che brillano, tutta emozionata. « Pazzesco, eh? » « Io non ho più toccato un libro di scuola. » « Neanch'io! Incredibile. » Lena cerca di farsi venire in mente un esempio, un esempio da offrirgli, da regalargli. « Ieri ho consegnato una relazione dopo averci lavorato tipo dieci minuti in corridoio. Appena prima della lezione. » La faccia le si accende tutta come se avesse una lampadina nel cranio e lei ha quasi la sensazione che la luce le esca dagli angoli degli occhi.
« Io non ho detto niente a mia mamma; non sa niente neanche di te. Non sa che sei tornata» dice Vaclav. « Già, neanch'io, anzi, io con mia mamma non ho quasi parlato. Non me la sentivo. » A lui sembra una dichiarazione incompleta. Ma ci sono ben altri segreti, nel loro rapporto, e tutti e due lo sanno. « Sì, pensa che oggi ho parlato con la mia ragazza per la prima volta dopo una settimana » dice Vaclav e, non appena le parole si levano in aria, le sente e capisce che impatto avranno, così cerca di dirle come se stesse gettando un piccolo marshmallow in una tazza di cioccolata, e invece arrivano come se fossero il macigno che sono. «Già. Non sapevo che avessi la ragazza» dice lei. Trattenendo le lacrime? I pugni? Non lo sa. Sa solo che deve cercare di controllarsi, di tener duro. « Sì, scusami. Forse avrei dovuto dirtelo. » « Si. Forse avresti dovuto dirmelo. » È arrabbiata. E una cometa che si schianta sulla Terra. Sta cercando di non esplodere, lui lo capisce, ma sta per schiantarsi. « C'è altro che non mi hai detto? » Lena è furiosa. Le parole le raspano in gola. « Be', scusami se non ti ho detto niente della mia ragazza, non sapevo che fosse così importante, se l'avessi saputo te lo avrei detto. » « Be', allora non è importante. Hai detto che non è importante, no? Certo. Benissimo. » Ma è arrabbiatissima. « No, no, è importante. Cioè, tu sei importante. Sei così importante che da quando ti ho vista su quella panchina non ho più fatto trucchi di magia... » dice Vaclav. « È incredibile... » dice lei con un sorriso, poi si blocca. « Che cosa? » « È incredibile che tu voglia ancora fare il mago. » Si interrompe. « Cresci, una buona volta. » Lo dice come se fare il mago fosse insieme divertente e patetico. Vaclav riesce solo a scuotere la testa. Lena si alza in piedi, aspetta. « È incredibile che tu dica così. Sei sempre la stessa » dice lui. Come faccio a essere sempre la stessa, pensa lei, se non ho mai saputo minimamente chi sono né chi ero?
« Pensi solo a te stessa, alla tua vita incasinata. Al tuo viaggio in Russia, ai tuoi genitori. Di me non te ne importa niente. » « Come fa a importarmene di te se tu non mi dici niente della tua vita? Non mi dici che hai una ragazza, non mi dici niente. Come faccio io a sapere? » Prende su la sua borsa e si allontana. Nell'istante preciso in cui ti ho rivista mi sono dimenticato completamente di lei e di tutto il resto, pensa Vaclav. Ti amo, verrò con te in Russia, verrei con te in capo al mondo, non ti ho mai lasciata, ti ho sempre aspettata, farei qualsiasi cosa per te, e sempre stato così, pensa, ma lei se n'è già andata. Lena non ha idea di dove andare, di cosa pensare, e sta pensando tutto. Sta pensando: Lo amo, lo odio, come ha potuto non dirmi niente della sua ragazza, la odio, ma perché la odio se non la conosco neanche, non posso credere di avergli dato l'impressione di pensare che fare ancora trucchi di magia sia stupido, e chiaro che non lo perno, no? O forse invece lo penso. E ha ragione lui? Ha ragione su com'ero? Come fa a dire queste cose? È una rabbia nuova, a lei sconosciuta, e la confonde. Corre giù per le scale della metropolitana e i gradini di cemento le fanno uno strano effetto sotto i piedi. Anche la metropolitana le sembra strana, come se fosse un posto nuovo. Ha ancora la mente in subbuglio e non le piace essere lontano da Vaclav. E passato appena un minuto e mezzo e le sembra già troppo. Vorrebbe tornare indietro, ma non torna. Vaclav rimane seduto ancora un po', caso mai lei tornasse. Poi va alla stazione della metropolitana, scende piano le scale e si lascia cadere su un sedile. Guarda per terra, guarda il finestrino. Non si sente così solo dalla prima volta che perse Lena. Cadute e ricadute Rasia si è già accorta che Vaclav è cambiato e la cosa più importante di cui si è accorta è l'assenza della sua ragazza — com'è che si chiama? E questo è un bene. Non è una cosa su cui si interroga. Negli ultimi tempi Vaclav si ferma a scuola fino a tardi e quella storia dei compiti con la sua ragazza in camera da letto prima che Rasia torni dal lavoro è finita. Ovviamente Rasia teme che lei lo abbia lasciato e lo abbia ferito nei sentimenti. E questo sarebbe inaccettabile. Sente che sarebbe capace di sbranarla, quella ragazza, sputando fuori quelle sue quattro ossa.
Anche Em si è accorta che qualcosa è cambiato. Lena è più felice, più allegra. Sorride. E meno ossessionata dai compiti, dalla scuola, dal consiglio degli studenti. Arriva perfino tardi a scuola e sta fuori di più con gli amici. A Em fa sempre piacere vederla più socievole. Sempre. Quella sera, quando Vaclav e Lena arrivano nelle rispettive case prima del solito e sbattono la porta, si rifiutano di mangiare, non ricevono telefonate, non guardano la televisione, le due madri attribuiscono tutto agli sbalzi ormonali tipici degli adolescenti. Nessuna delle due intuisce che proprio quel giorno suo figlio, o sua figlia, ha imparato che un universo bello, luminoso ed emozionante può di colpo sfasciarsi irreparabilmente. Lena corre di sopra nella sua camera e si siede per terra, sulla morbida moquette, e con le dita affondate nel pelo e le gambe piegate sotto di sé piange a denti stretti, con la gola che brucia. E tanto sconvolta da non riuscire a pensare di poter mai riprendersi, di poter mai vivere felice in questo mondo, in cui tutte le cose belle possono sbriciolarsi e sparire, in cui succedono cose terribili che non possono essere cancellate, in cui, dopo queste, succedono altre cose terribili e in cui solo nel finale si capisce se una cosa è bella. Lena pensava che Vaclav fosse innocuo e invece non lo è stato. Vaclav entra a passi pesanti nella sua camera. Sbatte la porta e si mette a camminare. Avanti e indietro. Cercando di capire e cercando di pensare al da farsi. Vorrebbe fare un elenco, ma le cose che gli vengono in mente non riesce a scriverle. Ci prova, ma poi si blocca sempre sulla stessa frase: Come faccio con Lena? Come faccio con Lena? Come faccio con Lena? Cadere giù e contemporaneamente su Lena è sdraiata per terra, a faccia in giù e con gli occhi a mezz'asta, con la moquette che le irrita la guancia, a godersi, godersi sul serio, la stanchezza che la pervade, l'umido che sente negli occhi, le lacrime sulla faccia. Si sente soddisfatta e si addormenta per terra. Al suo risveglio è tardi, ma la stanchezza è passata. Si sente bene. Comincia ad avere la sensazione che le cose si aggiusteranno, o andranno meglio. Vede uno spiraglio, una possibilità. Compone il numero di Vaclav.
Quando Lena gli telefona, Vaclav quasi si dimentica di come stava male un istante prima. Quando lei si scusa, la rabbia sembra dissolversi e Vaclav non pensa più a quanto lei lo ha ferito insultando la sua magia. « Non avrei mai dovuto arrabbiarmi. » « Non fa niente, capisco. » « Non voglio più litigare con te. Non voglio arrabbiarmi mai più con te. » « No, neanch'io. È stato orribile. » Lena vede, vede chiaramente al di là dell'episodio, che c'è una possibilità. Se si litiga e si fa pace vuol dire che c'è spazio, c'è movimento, c'è fluidità. All'improvviso hanno la possibilità di dire cose che prima non dicevano. « Ti amo » dice lei. « Anch'io ti amo » dice lui, con la sensazione di cadere giù e contemporaneamente su. « Ti amo davvero. » «Lo so. Non c'è bisogno di spiegarlo. Lo so. Io provo la stessa cosa. » « Non so perché, ma voglio che tu non stia con nessun altro. » Lui tace. « Lo so che è stupido, ma è così. » « Non è stupido » dice lui. « Non è stupido. » Il modo in cui Lena gli sta parlando rende Ryan attraente e importante più o meno quanto il libretto di istruzioni di un gioco che non si ha più, un gioco che non si capisce più come facesse a divertire qualcuno. Vaclav si è dimenticato che fino a un attimo prima era certo di non aver fatto niente di male, che la rabbia di Lena per la storia di Ryan fosse ingiusta. E vero che avrebbe dovuto dirle di Ryan, ma non ha cercato di nascondergliela o di mentire, se n'è solo dimenticato. «Mi dispiace» dice. «Io voglio stare soltanto con te. » Lena sorride e non dice niente. «Voglio vederti subito» riprende Vaclav. «Adesso vengo da te. » « Ma è notte. » « Dico sul serio. Voglio stare da solo con te. » « Non posso. » « Allora vengo da te domani. » « Mia mamma sarà a casa tutto il giorno. » « Verremo qui da me. Mia mamma non arriva prima di cena. Vieni a prendermi a scuola. »
«D'accordo» dice lei, poi riaggancia provando un sorprendente senso di calma, come se avesse sempre saputo che sarebbe andata così, come infatti sapeva. Cercare di non dirlo alla mamma a colazione Fuori dalla finestra, il sole sanguina nel cielo e gli uccelli si svegliano. In casa tutto è silenzio tranne che per l'acqua della doccia e il bum, bum, bum del cuore che Vaclav sente nelle orecchie. La sveglia suonerà fra un'ora, ma non gli servirà: l'adrenalina che gli circola in corpo, che gli stordisce il cervello, non lo fa dormire. Vaclav è tanto emozionato all'idea di essere solo con Lena da non riuscire a pensare ad altro e a colazione ha una paura matta di lasciarsi sfuggire tutto con sua mamma. Quando lei gli chiede che cosa farà dopo la scuola, lui deve sforzarsi di non dire la cosa che ha costantemente sulla punta della lingua. Durante l'ora di fisica, con la mente rivolta a Lena, Vaclav si rende conto che c'è ancora il problema di Ryan. Ryan è seduta lì, col muso lungo, due file davanti a lui. Com'è che Lena, nel giro di una notte, si è trasformata da desiderio in droga? E come se si fosse piantata nella vita di Vaclav e, quasi istantaneamente, senza che lui se ne accorgesse, si fosse messa a germogliare e da seme piccolissimo si fosse trasformata in una giungla. Percorrendo il corridoio, capisce di non essere perfettamente in sintonia con i suoi amici: stanno parlando della lezione di etica di quella mattina, che Vaclav ha passato praticamente dormendo. Discutono animatamente su un programma televisivo che lui non ha visto e non gli interessa vedere. Non capisce come facciano a entusiasmarsi per queste cose; vorrebbe raccontargli la sua grande, eccitante novità, ma sente che anche loro, come tutto il resto, sono lontani. Lena si sveglia felice, emozionata. Tutto il giorno, a scuola, per un attimo si concentra sulla coniugazione dei verbi o su una tabella cronologica e poi arriva di colpo il pensiero di Vaclav, ubriacandola di trepidazione. Con l'avvicinarsi del momento in cui si incontreranno, si baceranno, si abbracceranno, entrambi cominciano a dimenticare tutte le cose che potrebbero essere spiacevoli. I minuti passano lentamente e tutto il resto, piano piano, perde importanza.
Dopo la scuola Lena corre da Vaclav e tutti, sul marciapiede, sembrano vecchie signore che tormentano il cemento con il bastone e avanzano lentissime, ostacolandola. Lena è tanto ansiosa di vedere Vaclav che le manca il respiro e procede a scatti zigzagando tra la folla per arrivare da lui. Vaclav, vedendola, cerca di moderare l'andatura come quando si trattiene una risata in classe, uno starnuto a un funerale, ma quando arriva da lei gli scappa una corsetta e fa quasi un balzo, ma non gliene importa; la prende per mano e dice: « Dai, andiamo, mia mamma non torna prima delle sei ». Questo posto me lo ricordo Ogni tanto, per l'uno, l'altra o tutti e due tenersi per mano è troppo, così si staccano, lasciano ricadere la mano e rimangono seduti in silenzio in metropolitana, come due ubriachi che cercano di mettere ordine nei pensieri. Quando arrivano alla fermata di Vaclav, entrambi stanno già provando una buona dose di stress e di ansia, con la pelle incapace di contenere i nervi, di frenare la continua espansione delle galassie del desiderio. Quando poi scendono dalla metropolitana, Lena si accorge di camminare su un marciapiede familiare, in una via familiare. Ha la sensazione di essere in un posto ostile, come in un brutto sogno, e le orecchie cominciano a scaldarsi, come quando il dottore le preleva il sangue per le analisi. In più non ci sente, le sembra di no, anche se in realtà forse non è così: sente passare una macchina e poi più niente, come se qualcuno le avesse messo le mani sopra le orecchie. Vaclav la guarda e lei ha la certezza che lui, vedendola verde in faccia, capirà che il sangue le si sta trasformando in alcol, leggero e aspro nel cervello, e che sta per svenire. Lui la guarda e sorride, un sorrisone sincero, e dice: « È incredibile che tu sia di nuovo qui, eh? » « Già. » Lena sente la propria voce arrivare da lontano. Si chiede se è una risposta sufficiente; poi apre la bocca e aggiunge: « Già, è incredibile ». È sorpresa di riuscire a parlare; la voce non ha il solito suono. Ed è sorpresa che Vaclav sembri pensare che lei stia bene, che sia tutto a posto, e per un po' ha quasi l'impressione di star bene, in effetti, mettendo un piede davanti all'altro su quel marciapiede familiare. Un passo, poi un altro, poi un altro: se non guarda in su, verso gli alberi, verso quelle case familiari, può continuare
a camminare, passo dopo passo dopo passo. Si guarda i piedi che si muovono sul cemento al loro ritmo strano. Camminando nel quartiere, Lena ha la sensazione di tornare nel luogo della propria morte. E strano e paradossale per un essere umano, per un essere che vive e respira, guardare e dire: Ah, sì, questo posto me lo ricordo. È qui che sono morta. È meno paradossale per Lena che, dopo tutto, da un po' di tempo ha la sensazione che le manchi qualcosa, che un pezzo di lei si sia putrefatto, che sia morto, forse? Si. Per Lena è un po' meno paradossale. Negli ultimi tempi ha scoperto che qualcosa in lei è morto e adesso, inaspettatamente, è arrivata sulla scena di un delitto. Per lei ha senso. Vaclav la sta trascinando verso una porta. Ora Lena deve sollevare lo sguardo, guardare la casa, gli stessi mattoni, le stesse finestre, la stessa cassetta della posta. Tutto uguale, ma davanti agli occhi è tutto più nitido che nei fumosi ricordi. La casa, con il suo portamento odioso, i particolari che sembrano vivi, la malta fra i mattoni, la porta del garage, la schiera di scarpe all'ingresso, tutto come nei ricordi, sembra dichiarare la propria esistenza, la propria concretezza, la propria realtà. Oggi Lena non è pronta per rispolverare quest'angolo di mente. Non è pronta per le sensazioni che prova. Mentre Vaclav armeggia con le chiavi, si rende conto di essere spaventata all'idea di entrare in casa. È una casa che le sembra cattiva; come quando ci si taglia con un coltello: da allora in poi, quel coltello non sarà mai più lo stesso. La caduta degli imperi Lena varca la porta di ingresso con Vaclav e tutto è esattamente, precisamente come prima. La casa è sempre rimasta lì: non era soltanto un ricordo. Non era soltanto un grande ricordo fumoso, oscuro e putrescente, ma un posto reale e, per quante siano le cose che Lena ha dimenticato, quel posto è sempre lì, più grande e potente che mai. I genitori di Vaclav sono persone frugali, immigrati, ex comunisti. Sono profughi arrivati da un paese e da un tempo in cui nessuno aveva niente, in cui si litigava con la vicina di casa per una patata, per farinosa che fosse. Non era proprio così, ma in fondo era così. Certo è che i suoi genitori sono stati cittadini di un grande impero e l'hanno visto crollare. Si sono sentiti sfilare il tappeto da sotto i piedi. Così, anche in America risparmiano ogni centesimo, incollano i piatti rotti,
rammendano gli strappi nel divano e mai, mai e poi mai butterebbero via un buon tappeto. Siccome Vaclav è nato da questi due profughi sovietici, che risparmiano su ogni cosa e non comprano niente, la casa in cui entra Lena è identica a quella da cui uscì quell'ultima sera, la sera prima che se ne andasse da questa vita. Sta osservando ogni particolare, con gli occhi sgranati, cercando di respirare, temendo di essere sul punto di perdere il controllo, quando Vaclav la afferra e la bacia, e lei vorrebbe spingerlo via e dire: « No, qui non posso », ma le parole non le escono di bocca. Le cedono un po' le ginocchia e Vaclav, prendendo il gesto per un avvicinamento, l'abbraccia e la bacia di nuovo. Lena sente odori del passato fluirle nel naso, immagini invaderle la mente. L'odore del detergente per il cuoio sul divano. L'odore dell'ammoniaca in cucina. L'odore della vodka nel bicchiere di Oleg, e Rasia, il suo profumo, la sua faccia, i suoi menti, il suo neo. Dirsi che sta succedendo Lena va a sedersi sul divano perché sa di essere lì lì per svenire. Vaclav si avvicina e lei apre la bocca per dire qualcosa, ma non fa in tempo a parlare: Vaclav è già sopra di lei, con le mani sul divano da una parte e dall'altra della testa di Lena, i piedi ancora saldi per terra. E sopra di lei come per fare i piegamenti sulle braccia e la bacia, forte, poi si appoggia sulle ginocchia, a cavalcioni sopra i suoi fianchi. E accovacciato sopra di lei e la bacia, la bacia, ed è bellissimo, e non è mai abbastanza forte, e non riuscirà mai a baciarla abbastanza, ed è una tortura. Poi Vaclav si stacca, si siede accanto a lei sul divano, tira dei grandi respiri, dei bei respiri atletici, per poi mettersela sulle ginocchia e baciarla ancora, ancora, ancora. Si alza in piedi e dice: «Andiamo in camera mia». Allora anche lei si alza, stordita, e lo prende per mano rammentando a se stessa di aver sempre saputo che sarebbe successo e che era questo che voleva. Lena segue Vaclav nella sua camera e ci si ferma in mezzo, a osservare bene tutto quanto. Sopra il letto c'è ancora il poster di David Copperfield attaccato alla parete con la gommina adesiva. Ci sono grandi fotografie in bianco e nero, incorniciate, di Vaclav in cilindro e T-shirt che tira fuori un coniglio da
un cappello. Lena si chiede chi le ha scattate. Sulla scrivania riconosce L'almanacco del mago, che lei gli regalò quando lui compì otto anni, e il libro su Harry Houdini. Sopra la scrivania, fissato al muro, c'è un sacchetto di plastica marrone. E sul sacchetto, scritto nella calligrafia ordinata di Vaclav, c'è un elenco. LE COSE CHE SONO: 1. Il fatto che un giorno sarò un mago famoso 2. Il fatto che Lena è un'incantevole assistente 3. La perseveranza per raggiungere questi obiettivi nonostante tutti gli ostacoli possibili e immaginabili Nell'angolo c'è una cassa di legno alta più di un metro e ottanta e verniciata d'oro. L'Antico Sarcofago Egizio del Mistero. Lena sa che cos'è: ricorda quando, da piccoli, seduti per terra, progettavano di costruirla, leggendo e rileggendo le minuziose istruzioni sull'Almanacco del mago, e adesso ecco qui: Vaclav l'ha costruita davvero. Vorrebbe fargli delle domande sulla cassa, rallentare tutto, parlare e basta, ma Vaclav si china a baciarla, facendo correre le mani dalle spalle alle braccia e poi sui fianchi. Ogni volta che la tocca, Lena cerca di capire che ef fetto le fa. Continua a ripetersi: Che effetto mi fa? Non ottiene risposta. Da qualche parte c'è del panico; dentro di lei, in un punto imprecisato, sta gridando a se stessa di stare attenta, di fare mente locale, perché sta succedendo qualcosa di grosso, ma da quell'importante punto imprecisato non arriva risposta, un telefono che squilla a vuoto, nessuna risposta a questa domanda fondamentale. Tutti i suoi io sono fuori a pranzo. Vaclav le sfila velocemente la maglietta da sopra la testa. Per Lena, in piedi a torso nudo, è come se avesse appena stupito se stessa tuffandosi di piedi in un lago freddo dopo aver contato fino a tre. E sorpresa di quello che sa fare il suo corpo, anche quando la mente è indietro di tre passi. O di cinque. O non c'è neanche. Adesso è ancora più stordita. E come se gli odori della casa le salissero dalle orribili viscere putrescenti, odori grandi, vergognosi, imbarazzanti. Guarda giù, aspettandosi di vedere le esalazioni spandersi dal suo ombelico. Lena ha soltanto sensazioni. Le mani di Vaclav la toccano dappertutto, in un modo decisamente piacevole, come se Vaclav vedesse in lei una qualche
meraviglia della natura, una qualche creatura perfetta. C'è soggezione, nelle sue mani, ed è lei a incuterla. Lena non si sente nuda. Dalle finestre arriva una corrente d'aria. Vaclav è alto. Lui è vestito da capo a piedi e lei è spogliata. Lena sta cercando di pensare, ma si sente ubriaca e ha il naso pieno di un odore strano. E l'odore del suo pezzo mancante, putrefatto, morto. Come se lo avesse trovato, o fosse lì a un passo, puzzolente. Questo posto, che come sta scoprendo oggi è un posto reale, un posto reale in cui un pezzo di lei marcisce da tanti anni, sta risvegliando altri ricordi, sta riaccendendo altre sinapsi sepolte, e tutto comincia a tornarle in mente. Vaclav la porta a letto. Ci sono altri baci, tutti e due si coricano e Vaclav sembra rallentare. Adesso la bacia piano e le mani indugiano di più, ma non per prudenza, non per delicatezza. A Lena sembra di essere sull'ottovolante, non nel tratto folle delle discese ripide, ma in quello lento in cui si sale, ciuf ciuf ciuf, quando si comincia ad aver paura e ci si rende conto che non c'è via di fuga. Lena sta ancora cercando di mettersi in contatto con le parti di lei lontane, ma loro non rispondono. Vuole farsi una domanda importante: Voglio farlo, questo? Sto dicendo di sì? Sto dicendo di sì a questa cosa tanto grossa? Tornate al più presto, ho bisogno di una risposta. Alla televisione, nei film e nei libri, le ragazze sembrano sapere sempre se sono pronte per la loro prima volta. Lena invece non lo sa. Non nel senso che è incerta, ma nel senso che, intesa come persona che vuole e non vuole le cose, lei non esiste. Come se in lei mancasse l'organo che sovrintende a questa decisione. Quando si aggrovigliano, ormai tutti e due svestiti, e le esplorazioni di Vaclav li spingono sulla china, lei è costretta a dirsi: Sta succedendo, guarda, sta' attenta, sta succedendo. Per Vaclav è la cosa che da tanto tempo il suo corpo sogna senza il suo permesso. E il tassello mancante, oppure è lui il tassello mancante e ha appena trovato il suo puzzle. E perfetto, meraviglioso e, nonostante tutte le poesie, le canzoni, i dipinti dedicati all'argomento, incredibilmente sottovalutato, pensa. La sensazione, in effetti, è tanto meravigliosa che Vaclav si sente nel proprio corpo come non ci si è mai sentito; è impossibile pensare, deviare dalla pura meraviglia fisica; le emozioni che prova sono soltanto sue e Lena, Lena è un altro pianeta, e lui è una stella che sfreccia nel cielo freddo e
nero. Le tiene la testa nella mano e la ama tanto che arriverebbe a farle da scudo per proteggerla da un meteorite, e cerca di essere delicato, e le chiede se va tutto bene. Non va tutto bene. Lena sente qualcosa, finalmente, ed è una cosa brutta. È come se avesse aperto una lampo tra l'ombelico e la gola e dentro non avesse trovato niente. E come allungare il braccio per cogliere un'arancia e scoprirla vuota, marcia, disgustosamente cedevole sotto le dita. Basta Lena afferra Vaclav per la spalla. « Basta » dice, cercando di non gridare, ma a uscirle di bocca è appena un sospiro e lui non sente. « Basta » ripete, più forte, « per favore » e lui si ferma, ma non ha sentito neanche stavolta. « Vaclav, devo andarmene di qui. Devi portarmi fuori di qui. Sta succedendo una cosa orribile, devo andare dal dottore, o in ospedale, devo andare a casa, quindi per favore portami a casa. » Parla più in fretta che può, anche se non sente la propria voce. Si sforza di gridare, anche se non è sicura che le esca di bocca qualcosa. Parla più in fretta che può anche se nelle orecchie le arriva un suono sempre più fievole, nei polmoni sempre meno aria, nei globi oculari sempre meno luce, e le entrano in testa cose spaventose, tremende. Vaclav è come impietrito: non si muove né dice nulla. Lei è bloccata sotto di lui. È nel panico, è intrappolata e, quando si gira per cercare di sgusciare via, di liberarsi, vede la stessa cosa che vede lui: Rasia, sulla porta. Quel che Rasia sente e vede Al lavoro, per tutta la mattina è suonato un allarme antincendio nel magazzino. In continuazione, un allarme difettoso. Così forte che ti faceva scappare tutti i pensieri di mente. Per scollegare l'allarme e aggiustare il guasto che lo faceva suonare anche se non c'era niente, nessun incendio, sono dovuti venire i vigili del fuoco. Il capo ha detto: «Andate a casa, la giornata è persa». Quel che sente Rasia quando entra in casa è la cosa che ha sempre temuto di sentire. Movimenti nel letto e voci sommesse. Ryan e tornata, pensa. Quella batoncik è tornata. E così. E questo che pensa. Non le piace, non le piace pensare così di quella ragazza, ma è questo che pensa. Attraversa la casa
senza far rumore; non che abbia intenzione di avvicinarsi di soppiatto: ha solo paura di metterli in imbarazzo, o meglio di mettere in imbarazzo Vaclav, e poi vuole una conferma che quel che crede stia succedendo stia succedendo davvero. Così, nel corridoio, si avvicina un po', poi un altro po', muovendo quel suo corpaccione senza far rumore. Davanti alla porta della camera di Vaclav sente parlare una ragazza: non è il vocione equino della ragazza americana. Niente affatto. La sente parlare, quella ragazza, ed è un suono familiare e spaventoso come di ladri di notte. Quella non è Ryan. Rasia spinge la porta della camera di Vaclav, appena socchiusa perché lui non si aspettava il suo arrivo, e vede suo figlio nudo sopra una ragazza che ha in testa un'esplosione di capelli tanto scuri da non aver colore, come il buio nero di una caverna. Chi è questa ragazza che Vaclav ha portato a casa? Preoccupata, assorta com'è, Rasia si è dimenticata di nascondersi e ha spalancato la porta. Se ne sta sulla soglia, a bocca aperta, con il cuore che batte forte, e Vaclav la vede e gli sguardi si incrociano. La ragazza sembra agitata e, cercando di sfilarsi da sotto di lui, gira la testa e Rasia vede (come in un sogno in cui tutti hanno la faccia sbagliata e si aprono delle porte su cose sbagliate e il nonno è ancora vivo ma è un cavallo) che quella ragazza è una creatura resuscitata dai morti, tornata da un altro mondo, da un altro tempo. Rasia è arrabbiata e ha paura. Lena, per il suo bene, dovrebbe essere lontano mille miglia da lì, lontano da ricordi sicuramente spaventosi per lei, tanto sono brutti per Rasia, che è una donna grande e grossa e forte come se fosse fatta di patate surgelate. Eccola lì, la bambina cui vuol bene come a una figlia, e che vorrebbe prendere in braccio, cullare, proteggere, alla quale vorrebbe raccontare storie. Eccola lì, la piccola Yelena, tornata dallo spazio siderale, dalla morte, dall'altra vita, dalla terra che non c'è, dal posto, chissà dove, in cui lei l'ha mandata. Lena ricorda Quando vede la faccia di Rasia, tutto si ricompone. Ricorda. Ricorda e non riesce a rivestirsi abbastanza in fretta, e corre. Vaclav la insegue, ma lei è troppo veloce. Quando lui arriva alla porta, se n'è già andata.
Il pianeta e la polvere Vaclav non vede dov'è andata Lena. Fa di corsa tre isolati in una direzione e poi, temendo che sia andata dalla parte opposta, ne fa di corsa tre nell'altra direzione. È sparita; l'ha persa. Corre più forte che può. Corre per un altro isolato, un altro isolato con le lacrime che gli bruciano negli occhi, finché non ce la fa più. Quando torna, Rasia è seduta al tavolo della cucina, ad aspettare. Non sanno cosa dirsi. Rasia è confusa: da dove cominciare? Bisogna parlarne. Vaclav non è uno che non parla. Perché è americano; non può non parlare di una cosa: lui deve parlare di tutto. Rasia può non parlare di qualsiasi cosa. Ma per il bene del figlio sta cercando di fare la madre americana. Una madre americana per un figlio americano. Lui vuole così e ha bisogno che sia così. Parlare di questo, però, è troppo. Prima incrociano gli sguardi. Lei resiste più di lui. Lui non resiste neanche un po'. Abbassa gli occhi ed emette un verso, un piccolissimo verso che Rasia sente a malapena. A Rasia comincia a spezzarsi un po' il cuore, perché è un verso che le ricorda quelli che fanno i bambini quando sanno solo fare versi invece che dire parole. Poi Vaclav dice: « Non credo di farcela, mamma » e a questa parola, mamma, comincia a tremargli il labbro e lei gli legge negli occhi che sta per mettersi a piangere, una cosa che non gli vede fare da un pezzo. Non ricorda da quanto tempo. Di sicuro da prima che diventasse troppo grande per sbucciarsi le ginocchia. «È troppo per me» dice adesso Vaclav, e Rasia è d'accordo. Lena era troppo anche per lei. Avrebbe dovuto saperlo che, quando Lena fosse tornata, lo avrebbe fatto in segreto, ci sarebbero stati sotterfugi e bugie. Con quella ragazza era sempre stato così: sotterfugi e bugie. Sempre. Non era colpa sua: con una vita come quella, piena di vergogna e tristezza, cos'altro poteva fare se non mentire e far le cose di nascosto? Un continuo rubacchiare roba dal frigo di Rasia, un continuo tentar di mettere le mani sulle cose — cose utili - che c'erano nel bagno, nella camera di Vaclav, nell'armadio della biancheria, dappertutto. Ogni volta che Rasia, di sera, portava a casa Lena per metterla a letto, dopo che lei si era addormentata frugava nello zainetto e vedeva i compiti che le
faceva Vaclav, la carta igienica rubata da casa, le cose da mangiare, un tubetto di dentifricio, un quaderno, un pezzo di pane. Per aiutarla usava lo zainetto come lista della spesa. Le lasciava della carta igienica, il dentifricio, uno spazzolino nuovo, delle merendine per la scuola, dei panini in più. Lasciava tutte queste cose a casa di Lena quando lei si addormentava e le lasciava a casa propria, in bella vista, perché Lena le prendesse. Eppure Lena continuava a rubacchiare e fare le cose di nascosto. Forse perché la lista delle cose che le servivano era infinita, o forse perché in lei c'erano già la vergogna e l'istinto di sopravvivenza. Forse non avrebbe mai smesso con i fur tarelli, le bugie e la connivenza. Eppure Rasia è sorpresa. Non credeva che Lena fosse più potente di Vaclav. Invece lo è. Lena è come un pianeta e Vaclav come un granello di polvere. Lena è un toro e Vaclav è una corda legata al collo del toro. Vaclav è un pezzetto di vernice scheggiata sui fianchi esterni dello Sputnik. Rasia si dice che Lena ha questo potere su Vaclav perché lei è una ragazza e lui un maschio adolescente. Ma aveva lo stesso potere su di lui anche quand'era piccola e secca e Vaclav aveva occhi solo per David Copperfield. Questo potere che ha Lena su un bravo ragazzo come lui le deriva dal modo in cui ha imparato a ottenerlo da piccola. Vaclav è un bravo ragazzo che non combatte mai. Lena invece ha imparato presto a prendersi il potere. E colpa sua? Rasia sarebbe la prima a dire che no, non è colpa sua. Rasia ha visto con i suoi occhi che non è affatto colpa di quella ragazza. Ma questo, cioè il fatto che non sia colpa sua, implica forse che Rasia voglia che quella ragazza (ora ancora più forte, più potente, più pericolosa, armata di seno, fianchi, labbra e di occhi che sembrano macchie d'olio in una pozzanghera) giri attorno a suo figlio? No. Eppure quanto voleva bene a Lena. Come a una figlia. Questi pensieri, tutti insieme, le affollano la mente, ed è solo l'inizio. Intanto suo figlio è accanto a lei, sconsolato, distrutto dal pianto, col moccio che cola su una bella maglietta pulita. Non c'è punizione Rasia capisce di non poter più dare niente per scontato, quando si tratta di Lena e suo figlio.
« Che stavate combinando voi due? » gli chiede. Le sembra una bella domanda, una rete bella grande. Vaclav la guarda come per decidere cosa raccontarle. « Sta' a sentire » gli dice Rasia, « nessuno è arrabbiato con te, non sei nei guai, non c'è punizione. Smetti di fare strategie, smetti di pensare come lei. Dimmi cosa sta succedendo e basta. » La faccia di Vaclav mostra che la sta cercando, una strategia, sta cercando di portare la corazzata in acque meno pericolose, se le trova. « Smetti di pensare come lei in che senso? » le chiede. Non piange più e adesso sembra arrabbiato, arrabbiato con Rasia. « Con le strategie e la complicità! Con le bugie, i furti, i sotterfugi e questo e quello fatto in segreto! Segreti! Vaclav, apri gli occhi! Lei è come uno scoiattolo, sempre lì a nascondere un segreto marcio sotto questo sasso, sotto quell'albero, sotto il letto, nella federa del cuscino! Non si fa così! » « Ma cosa dici, mamma? » « Da quanto tempo è tornata? » « Non è tornata, è sempre stata qui! È sempre stata a Brooklyn, non se n'è mai andata. » Lo dice come se Rasia fosse un direttore di prigione, come se gli avesse sempre tenuta nascosta Lena in galera. «Stai evitando di rispondere. Non fare lo stupido. Ti ho appena trovato nella mia casa, intrufolato qui quando credevi che ero al lavoro, a fare sesso, una cosa che non posso credere, e con Lena, che stavi vedendo senza dire niente! Non fare lo stupido. Adesso rispondi. Da quanto tempo? » « Non lo so, un po' » dice lui, guardando giù verso il tavolo. « Mi hai detto bugie. Mi hai nascosto cose, e perché? Io chiedo: oggi com'è andata, figlio mio caro, e tu non dici niente, razza di bugiardo che più bugiardo non si può! Perché nascondere a me? » «Perché ti serve saperlo? Vorresti tutti i giorni un rapporto completo su chi vedo, come il Grande Fratello? » E un riferimento che su Rasia non ha alcun effetto. Ha effetto, invece, il tentativo di Vaclav di arrabbiarsi, il suo tentativo di ribellione adolescenziale. Lo gestisce male, con imbarazzo, con goffaggine. Rasia decide di ribattere con una cosa che lei gestisce altrettanto male, il vittimismo, la tristezza. « 'Serve saperlo'? Oh, Vaclav. Credevo che eravamo legati; credevo che potevi dire tutto a me, perché sai che il mio amore per te è più grande dell'oceano
che ho messo fra me e mia madre per darti questa vita. Credevo che tu, il mio unico figlio... Credevo che eravamo legati. Non sapevo di sbagliarmi tanto... » Vaclav smette di fare la faccia arrabbiata e gli occhi gli si riempiono di nuovo di lacrime. Rasia è contenta di aver fatto piangere Vaclav? No, ma è contenta che lui abbia smesso di fare l'arrabbiato con lei, di schivare tutte le sue domande con una furia mal posta. «Com'è successo?» chiede. Lascia passare qualche istante, perché sa che lui vorrebbe dirglielo ma ha paura. « Non so, mi ha telefonato. Ci siamo visti dopo la scuola. » « E Ryan? » chiede lei, ricordando il nome, pronunciandolo alla perfezione. Sapendola fuori campo, per così dire. Vaclav non fa che piangere più forte. A Rasia dispiace molto per Ryan, perché succede fin troppo spesso che ragazze simpatiche, dolci e gentili si facciano maciullare il cuore come polpa di pomodoro da ragazzi che le mollano per delle matte scatenate che saltano sul letto dicendo: « Forza! Diamoci dentro! » « Allora mi dici perché l'hai nascosto da me? » chiede Rasia. «Me l'hai nascosto, mamma. Si dice 'me l'hai nascosto'. » « Senti » ribatte Rasia, « è una verità che tieni lontano da me, quindi io dico 'da me'. E basta con la lezione di inglese, Mr American, ti chiedo una cosa. Perché questo segreto? Pensi che non approverei? Mi odi tanto? » « È chiaro che non ti odio. Lei voleva che nessuno sapesse niente dell'idea di andare a cercare i suoi e tutto il resto, e non so, non so perché doveva essere un segreto, è così e basta. » Non ricorda più perché ha accettato di tacere il fatto a sua mamma né come ha cominciato a mentire. « 'Andare a cercare i suoi genitori' in che senso? » Rasia abbassa la voce e molto, molto delicatamente dice: « Dove volevate cercare i suoi genitori? » Vaclav è troppo stanco per mentire. « In Russia » risponde. Rasia tira un bel respiro, cerca di calmarsi, si ricorda di dover essere contenta che Vaclav glielo abbia detto. Tuttavia è come se, aprendo il freezer, avesse trovato sul vassoietto del ghiaccio una mina, che adesso sta portando cautamente fuori di casa. « In Russia? » chiede Rasia, in tono delicato, pacato. « Sì. »
Rasia pensa al paese da cui se n'è andata, a quel che ha passato per andarsene, a tutte le cose orribili, specialmente a tutte le decisioni difficili che ha dovuto prendere, e poi pensa che a quella ragazza sono bastati pochi giorni per trascinare suo figlio in una fossa di serpenti fatta di bugie e sesso e per giunta, per giunta, sta architettando di portarlo con sé in Russia per mettersi alla ricerca di due dispersi, due che hanno abbandonato la loro figlioletta, e andare a sfruculiare la pancia a un gigantesco mostro ex sovietico. « Tu volevi andare con lei? In Russia? Quando? » « Non lo so, mamma, i biglietti non li avevamo ancora comprati. » « E quando avevi intenzione di dirmi? » « Dopo » risponde Vaclav, e la voce gli si spegne, perché, adesso che ci pensa, nei piani di Lena non c'era nessun « dopo glielo diremo ». Nei piani di Lena c'era, non esplicitamente ma c'era, l'idea che le due mamme, le due famiglie, non dovessero sapere, perché quel progetto non glielo avrebbero fatto realizzare, e invece il progetto doveva essere realizzato, quindi bisognava mentire alle due famiglie. Adesso capisce che cosa voleva fargli fare Lena: scappare, prendere un aereo, non dirlo a nessuno, sparire. Non avrei mai potuto far questo a mia mamma, pensa, e intanto si spaventa perché stava proprio per farlo e lo sa. « Neanche lei voleva dirlo a sua mamma » aggiunge, per ammorbidire le cose. « Ha una mamma? » dice Rasia, morendo di gioia e di tristezza perché Lena ha una mamma che non è lei. « E stata adottata. Sua mamma le piace molto. » Vaclav tira un respiro profondo. « Non so cos'è successo. » E chiaro che non lo sa. Lena torna, gli sussurra parole che lo fanno star bene, ha dei segreti, dei progetti, mistero, potere. Rasia si chiede, però, se Lena si rendesse conto di cosa succedeva. Lena è una ragazza ferita. E una ragazza triste. Nel cuore di Rasia c'è un intero scomparto dedicato alla tenerezza per lei. Rasia sa - be', forse non lo sa per certo, ma le sembra la cosa più plausibile che neanche Lena aveva idea di cosa stesse succedendo. Non si era prefissa di andare a prendersi Vaclav, sconvolgerlo, mentire e tutto il resto.
È una ragazza che si è persa e sta cercando qualcosa. Forse pensa che Vaclav possa aiutarla a trovare quel qualcosa. E in più, Lena sta facendo funzionare la macchina senza avere le istruzioni complete. Il papa ne sa più di tutti Vaclav mette la testa sul tavolo. Cerca di capire perché Lena sia scappata via. Non ci riesce. Lui non potrebbe mai scappare via da lei. Quando la porta si apre, Vaclav sa chi è. Non tira su la testa. Suo papà torna a casa tutti i giorni alla stessa ora. Oleg, entrato in cucina, si accorge che nessuno sta preparando la cena e che Vaclav e Rasia hanno la faccia di chi ha pianto. « Che c'è? » dice, guardandoli, poi va al freezer a prendere la vodka. Nessuno risponde. « Cosa c'è? Che tragedia c'è stata? » « È tornata Lena » dice Vaclav, tra lacrime e moccio. « Lena? » ripete Oleg, come se lei non fosse al centro dell'universo. « Sì, Lena » dice Vaclav. «Ah, quella bambina con il ragazzo della zia che la toccava? Quella lì? Quel tizio era uno schifoso. In galera lo ammazzeranno. » Rasia ha la faccia impietrita. Vaclav ha la sensazione che la propria si stia staccando dal teschio. Oleg guarda Rasia e capisce di aver detto una cosa che non avrebbe dovuto dire. « Be'? » « Lui non doveva saperlo » dice Rasia, a bassa voce. « Non voglio che sa. » «E perché?» dice Oleg. «È abbastanza grande per capire. » « Oleg » dice Rasia. « Basta. » « Mamma, è vero? » chiede Vaclav, piano, cautamente. « Hai detto che avevi chiamato la polizia perché sua zia non si occupava di lei. » « Ho chiamato la polizia per le cose che avevo visto. » « Le cose che avevi visto? Quali cose? » « Non che avevo visto: che sapevo. Sapevo da tanto tempo » dice lei, poi china la testa perché sta per piangere. « Sapevo e poi ho visto. E allora non ho più potuto fare fìnta di niente. »
« Che cosa sapevi? » chiede Vaclav. Lo chiede perché sta cercando di non credere a quella storia del tizio che la toccava. Vuole che non sia così. Vuole che sia qualsiasi altra cosa, ma non quella. « Sono cose indicibili! Lo sai cosa. Vaclav, non punirmi, non farmi dire. Mi dispiace, dovevo fare quello che ho fatto. E una cosa difficile da portarsi dentro e Dio sa se io ho provato. » Adesso stanno piangendo sia Rasia sia Vaclav, mentre Oleg ha la faccia di uno che sta guardando una soap in una lingua straniera. «Che cosa sapevi?» chiede Vaclav, a bassa voce. « Che cosa hai visto? » Si rifiuta di crederlo. Si rifiuta di capire. Vaclav è il silenzio prima che scoppi la bomba. Sta ticchettando prima dell'esplosione. « Era una bambina, Vaclav, e non aveva nessuno che badava a lei; era una brutta situazione. Cosa vuoi che ti dico? » « Che non è così. » « Adesso cosa importa, Vaclav? » dice Rasia. « Devi dirmelo. Quando è sparita hai voluto far finta che non fosse mai esistita, ma io ero un bambino e avevo il cuore a pezzi. » Vaclav sta gridando, perché è più forte di lui. Senza fiato urla: « Lei non c'era più e avevo il cuore a pezzi. Devo sapere; prima era qui e poi non c'era più, e non c'è stata più per tanto tempo, ma io non ho mai smesso di pensare a lei, mai, poi è tornata e adesso è sparita di nuovo e io non ce la faccio. Per favore, mamma, per favore, mamma, per favore... » La voce gli si spegne perché ha esaurito l'aria. Le sta chiedendo che cosa è successo, ma sa cos'è successo. Glielo sta chiedendo perché non sia vero. « Vaclav. » « Per favore, dimmi cos'è successo. » « Ti ho detto. » « No. » « Quell'uomo... le ha fatto cose terribili... » « No. » «Avevo sospettato. » « No. » « Non ero sicura. Lei era a casa da scuola, malata, e io ero preoccupata per lei, era così magra e non mangiava come si deve. Ti ricordi? Non mangiava niente e quel giorno aveva mangiato tutto. Ho pensato che forse qualcosa non
andava, e poi nessuno si occupava di lei, così sono andata a controllare, sono entrata e ho visto » dice Rasia. « No. » « Ho visto lui. » Sceglie meticolosamente le parole, atterrita. « Colto sul fatto. » « No » grida Vaclav. « No. No. No. No. » Le grida diventano strilli e gli strilli diventano fulmini che abbattono alberi secolari e i fulmini diventano continenti che si squarciano e gli squarci diventano la terra che si spacca in due e il cielo che si stacca dalla terra, il buio dalla luce. Vaclav esce di corsa dalla cucina per andare in camera, lasciandola lì con il padre, lasciandola seduta lì, sola. Oleg è seduto accanto a Rasia al tavolo e le prende la mano. « Ho fatto meglio che potevo » dice Rasia, alla stanza, a suo marito, a se stessa. In-dimenticare, ri-ricordare, ri-dimenticare, s-ricordare Lena non riesce a riprendere fiato. Lena non riesce a non vedere quel che vede. Lena, in treno, decide che non lo dirà mai a nessuno. Non vuole dirlo a Vaclav, anzi, non vuole parlare mai più con lui. E comunque dirlo a qualcuno sarebbe impossibile: non riuscirebbe mai a dare ali alle cose che vede mentalmente unendole alle parole, liberandole. Decide di dimenticare. Decide di ridimenticare. Vorrebbe spegnere il cervello. Cerca di non pensare, di non pensare a niente di niente, ma la sensazione delle mani che la tengono giù, le allargano le ginocchia, è nel suo corpo e non se ne va. Lena continua a vedere la faccia di Rasia, non la sua faccia di oggi, ma la sua faccia sulla soglia della casa della zia, quando Lena aveva nove anni. Sapeva che Rasia era lì, adesso lo ricorda, era lì per salvarla, e ricorda che l'orrore sulla faccia di Rasia la spaventò a morte. Prova una sensazione familiare, come se avesse fatto una cosa brutta. Cerca di dirsi che non ha colpe. Non è colpa sua se Rasia sapeva che lei era sola in quella casa, con Ekaterina, con quelle persone che Ekaterina frequentava, lei vulnerabile e indifesa, notte dopo notte. Non è colpa sua se Lena è nata Lena. Se n'è stata alla larga da quel mondo, da quel posto, da quei tempi, da tutto quel dolore, quello schifo, alla larga da Vaclav, da Rasia, che con la sua faccia è parte della disgustosa spirale che le si avvolge in testa; Rasia non fa che
ricordarle tutto. Deve stare con Em e andare allegramente verso il futuro. Con la camomilla e le amiche di Em, che portano buona frutta e verdura. Con le amiche di Em, sedute fuori a guardar le stelle, bere vino e lamentarsi degli uomini. Con la stupenda musica di Em, con i solidi mobili di legno amicato da cascina francese, con le trapunte e i lampadari a corona. Lena, in treno, sta andando verso il meglio e comincia già a dimenticare. Emily è una dea venuta in terra a salvarla. E il sole attorno al quale Lena orbiterà per il resto dei suoi giorni. E il centro della nuova cosmologia di Lena. I genitori di Lena non esistono. Vaclav non esiste; Rasia non esiste. Sua zia non esiste e l'uomo non esiste. Emily è un baluardo di affidabilità, di calore, di sicurezza, lo è sempre stato e sempre lo sarà. Lena rinasce e, avanzando verso il sole a bordo del suo treno sotterraneo, non prova niente. Quando arriva e apre la porta, l'odore di casa la investe, ed è fresco e pulito, come le finestre spalancate e lo shampoo. Lena trova Em in cucina. A leggere sul sedile della finestra. C'è una pentola sul fuoco: minestra di verdure, non minestra in scatola, non una pesante minestra invernale, non il boršč, ma una minestra leggera di verdure, che sarà dorata e perfetta e avrà dentro carote, zucca, zucchine verde brillante, ed Em, hippy com'è, la metterà in una grande zuppiera di coccio e porterà in tavola del pane croccante, e ci sarà il vino, che Lena può assaggiare. La tavola è apparecchiata e ci sono anche i fiori. Non normali fiori recisi, ma un ramo fiorito preso da un albero. Em solleva lo sguardo dal libro e vede Lena che guarda i fiori. « Oggi ho fatto una passeggiata e quando li ho visti non ho resistito. Non sono pazzeschi? Ho preso il ramo dall'albero e subito dopo ho pensato: Be', se tutti facessero così non ci sarebbero fiori per nessuno, ma vabbè. Avevo così paura che l'ho tenuto nascosto nella borsa della spesa fino a casa, come se potessero arrestarmi. » Em vede l'espressione di Lena e si alza in piedi. Nell'istante in cui chiede « Cos'hai? » Lena, come un uovo che cade per terra, si disfa completamente. Drin, drin Nella sua camera, Vaclav compone un numero al telefono. La persona che risponde all'altro capo del filo sta ridendo con qualcun altro. Dice pronto: ha la voce morbida e calda; nel sottofondo c'è della musica.
« Salve, disturbo? » dice Vaclav. Non è così che bisognerebbe parlare al telefono. Non è questo che voleva dire. «No, no» risponde la signora, «ci siamo appena messe a tavola! Nessun disturbo. Dica pure. » « Mmm, sono Vaclav e vorrei parlare con Lena, per favore, se è possibile » dice lui, ma la signora non risponde; non ha sentito. « Scusi, chi parla? » « Mi chiamo Vaclav. » «Lena non può venire al telefono» dice lei, assumendo di colpo un tono serio, ma poi aggiunge dolcemente: « Mi dispiace » e mette giù. Soltanto dopo che lei ha messo giù, a Vaclav viene in mente che quella era sicuramente la voce della mamma di Lena, la sua nuova mamma, la sua mamma vera, la mamma adottiva, insomma, quel che è. Vaclav è arrabbiato con lei per non averlo lasciato parlare con Lena. Deve ricordarsi che è la mamma di Lena da sette anni e probabilmente la conosce meglio di lui, un pensiero che lo rattrista. E di colpo tutto lo rattrista: la sua camera, buia e solitaria, sua mamma che piange in cucina, la crudele allegria in casa di Lena, il buio fuori, tutto gli sembra malinconico, troppo, troppo malinconico. Emily torna da Lena, che è avvolta in una coperta sul divano. Anche se le si è spezzato il cuore quando Lena le ha detto che non sopportava quel che aveva ricordato e non poteva continuare a vivere, sapeva che Lena in realtà poteva continuare a vivere, che finalmente poteva cominciare a vivere. Andare a Mosca per sapere L'indomani mattina Vaclav si alza presto e si veste in camera. Decide di non lavarsi i denti, di non fare la doccia e nemmeno la pipì. Non vuole parlare con Rasia. Se scenderà le scale per andare in bagno, lei lo sentirà, capirà che è in piedi e si sta preparando e cercherà di fermarlo. Farà la pipì al McDonald's, pensa; comprerà un pacchetto di gomme da masticare. Andrà da Lena: niente lo fermerà. Quando apre la porta della sua camera, lei è lì, come un muro, sua madre. « Stai uscendo di nascosto » gli dice. Ha la voce più russa che mai, come una del KGB. Lui si limita a guardarla in cagnesco. « Stai pensando di andare di nascosto a casa di Lena, a parlare con lei. »
« Dai, mamma, lasciami andare. » « Ascolta, aspetta. Dico solo che qui i problemi sono tutti aggrovigliati insieme. Tu, io, Lena, la sua famiglia, è un pasticcio. Quindi non pensare che il problema è uno. Solo questo volevo dire. » « Spostati. » «Aspetta. Aspetta. Lena vuole sapere dove sono i suoi genitori, no? Non serve andare in Russia per questo. Noi praticamente viviamo a Mosca, Vaclav. » « Mamma, perché parliamo di queste cose? Vado a parlarne con Lena. » « Perché andare in Russia è stupido, visto che sono tutti qui. » « Non sto andando in Russia, hai capito? Sto andando in Park Slope. » « Se Lena vuole sapere dei suoi genitori, deve chiedere a sua zia. » « Eh? » « La zia di Lena, Ekaterina; abita nella Settima Strada. » « Questo lo so. Andavo tutti i giorni a prendere Lena per andare a scuola. Ma scusa, abita ancora lì? » « Sì. Certo. » Rasia lo dice come se nessuno si trasferisse mai. Come se Vaclav le avesse chiesto se la zia aveva ancora la stessa testa o l'aveva barattata per una più bella. «Ma Lena ha detto che se n'era andata... Lena ha detto che era in Russia. » « Lena. Lena ha molti problemi » dice Rasia. Capisce che Vaclav comincia a sentire puzza di bruciato. Ha la faccia addolorata. « Mi ha mentito » dice. « Andrò a parlare con Ekaterina. » « D'accordo » dice lei, senza spostarsi. « D'accordo.Sì, voglio che vai, voglio che trovi la verità e capisci. Non ti fermerò» dice lei, fermandolo. «Voglio solo che fai un bel respiro e pensi a cosa chiedere, di cosa parlare, cosa vuoi dire. Perché parlare per rabbia non va bene. » « D'accordo. » «Voglio che sai che qui non c'è rimedio. Non c'è una soluzione magica. Lena ha molti problemi. Non potrai... » Lui taglia corto. « Lo so, mamma » dice, per poi aggiungere, dopo una pausa: « Grazie ». Vaclav la spinge da una parte per passare e le sue lunghe gambe lo portano all'ingresso e poi fuori nel mattino prima di quanto lui stesso si aspettasse.
Andando verso la casa della zia, vorrebbe che ci fosse più strada da fare. Vorrebbe non ricordare di preciso dov'è. Vorrebbe tante cose. Vorrebbe essersi accorto che erano solo le sette e mezzo del mattino. La stessa domanda continua a sfuggirgli da sotto i piedi come in un giro sull'ottovolante: Perché non ha cominciato dalla zia? Perché mentire? Perché il viaggio in Russia? Quando inala l'aria del mattino e pensa a quel che sa adesso, tutto quadra. Per Lena sarebbe orribile andare dalla zia; sarebbe difficile parlare con lei, farle delle domande. Ha senso, ha assolutamente senso che Lena non voglia tornarci. La bugia di Lena gli bucherella il cervello come vermi, trasformando tutto in cacca di verme, trasformando le solide cellule cerebrali in pozze di gelosia, diffidenza, sospetto. Si chiede se Lena gli abbia mentito altre volte. Come si fa a sapere le cose, a fare le cose, quando non si conosce la verità? Lui non ha mai mentito a Lena. Lena lo ha indotto a mentire per lei. Lo ha indotto a mentire a sua madre e forse altre volte. Forse. Difficile a dirsi. Quando le bugie cominciano a trasformarti il cervello in cacca di verme, diventa difficile raccapezzarsi. Vaclav non sa cosa pensare, ma ha la sensazione che se riuscirà a mettere insieme i pezzi del puzzle, il puzzle di Lena, il puzzle della propria mamma, la situazione migliorerà. A dire il vero non pensa nemmeno che migliorerà. Pensa soltanto che qualcosa cambierà, e già sarebbe un bene, perché non sopporterebbe che la situazione restasse com'è. La scoperta della verità impedirà quella grande ricerca fasulla, fiaccherà il suo sforzo di arrivare in Russia. Russia. E diventata una parola... un po' disgustosa. Stupida e disgustosa. E bello camminare la mattina presto, proprio come sarà bello, Vaclav ne è certo, parlare con la zia di Lena. La sensazione è quella di sanare a Lena una ferita, di chiudere una porta. Non gli sembra di commettere un'enorme intrusione, una straordinaria violazione. Lena voleva una cosa e lui vuole che lei ce l'abbia. Non gli sfiora la mente di poter essere forse un pochino, o completamente, fuori strada su quello che Lena voleva. In più sa, forse, che se farà così Lena parlerà con lui, decisamente, cascasse il mondo.
Vaclav sale a tutta velocità le scale che portano alla casa della zia di Lena e batte forte alla porta. Per un po' nessuno viene ad aprire. Vaclav controlla che ore sono e poi bussa di nuovo. Decide di aspettare due minuti e poi di riprovare. Quando bussa per la terza volta, dopo sei minuti, arriva un tramestio di tende accanto alla finestra. La porta si apre appena e la zia si infila nello spiraglio, ci passa dentro come un gatto. Guarda Vaclav dritto negli occhi: non guarda i suoi occhi, ci guarda dentro, troppo in fondo. Il modo in cui lo guarda gli fa capire che farebbe sesso con lui in quel preciso istante. Non c'è altra maniera di descrivere quello sguardo. Non lo saluta: gli lancia quello sguardo e basta. Lui è spiazzato. Vorrebbe parlare. Vorrebbe scappare. Gli ci vuole un momento. « Posso parlarle? » chiede. « Parla » risponde lei. « Io la conosco. Conosco Lena. » Segue una pausa gigantesca. Una pausa come se Superman stesse tenendo fermo il mondo. « Entra » dice lei, poi si gira per entrare. Trina Vaclav la segue in casa. Non ci era mai entrato, nemmeno quand'era piccolo. Dentro è buio e l'aria è viziata. Regna il disordine: ci sono piatti sporchi, vaschette del takeaway, pacchetti di sigarette vuoti dappertutto. « L'ho svegliata? Mi scusi, lo so, è prestissimo. » Va clav si è fermato a poca distanza dalla porta e la zia di Lena sta armeggiando in cucina. Mette su il tè. Lui non sa che altro dire. « Svegliata? No. Non sono ancora andata a letto. » Ha in faccia uno spesso strato di trucco, trucco pesante da sera, ma è sfatto, come se ci avesse dormito, con quel trucco. Anche i capelli sembrano quelli di una che si è appena svegliata. Indossa un paio di pantaloni grigi della tuta con sopra delle grosse macchie di candeggina orlate di giallo e una maglietta attillata con degli inserti di rete che le scoprono la parte bassa della schiena, un po' di pelle sopra l'ombelico, l'incavo tra i seni. Emana un puzzo orrendo, come di latte rancido e sigarette. « Vuoi un tè? » chiede. « Sì, grazie, signora » risponde lui.
« Fanculo signora. Chiamami Trina » dice lei, dalla cucina. «Siediti» aggiunge, in tono arrabbiato. Vaclav si siede sul divano con un senso di inadeguatezza. Le mani non sanno dove andare: non sa dove metterle. Lei gli porta il tè e si siede all'altra estremità del divano. Piega le gambe sotto di sé nello stesso modo complicato in cui lo fa Lena. La tazza di Vaclav è sporca, ma lei lo sta guardando, così lui beve. Non c'è un posto in cui mettere la bustina del tè. Lei prende una sigaretta e se l'accende, e Vaclav è ben conscio del fatto che non ci sono finestre aperte, non c'è un ventilatore, niente. Vorrebbe fumare una di quelle sigarette, prenderla senza chiedere, per mostrarle di essere un uomo,non un bambino, e che non ha paura di lei. Guarda fisso il pacchetto di sigarette. No, non può. Lei butta la sua bustina del tè in un portacenere, un portacenere in cui ci sono già altre bustine rinsecchite. « Allora? Cosa vuoi? » dice, guardandolo male. E come un gatto: i suoi occhi non lo mollano mai. « Voglio sapere di Lena » risponde lui. Lei rimane a lungo a guardarlo. Molto a lungo. E come un computer pieno di memoria che carica informazioni. Smista i file. Lei sa tutto quello che voglio sapere, pensa Vaclav. «Non so niente» dice lei. «Non la vedo da anni. » «Questo non mi interessa. Mi interessa prima. Quando Lena viveva con lei. » « Di questo non parlerò. » Vaclav capisce che la cosa di cui non parlerà è l'uomo, il fidanzato. « Prima di quello » dice. « Prima che Lena andasse via. Quello non mi interessa. Voglio sapere che cos'è successo ai suoi genitori. A sua madre. A suo padre. Com'è arrivata qui. » « Perché vuoi saperlo? » « È lei che vuole saperlo » tenta di correggerla Vaclav. « È Lena a volerlo sapere. » « E tu le dai quello che vuole. » Ma com'è che queste persone, prostitute, matti di strada, senzatetto che vivono nelle metropolitane, pensa Vaclav, certe volte riescono a capire subito la verità, per quanto sia difficile? «Perché non viene lei a trovarmi?» chiede Trina. Ma come? Non è chiaro a tutti il motivo per cui Lena non tornerebbe mai qui? « Lei non sa che sono venuto. » La zia annuisce. A quanto pare i requisiti perché racconti la storia, lui ce li ha. E lei ha deciso di raccontargliela, ma lo
farà aspettare. Vaclav capisce che una parte di lei vuole raccontarla, ma che la racconterà soltanto come e quando vorrà. Trina, grazie agli spogliarelli, conosce la contrattazione, conosce la lotta di potere. Sa dare a un cliente tutto quel che vuole di modo che, non appena glielo dà, lui voglia già renderglielo. Si accende un'altra sigaretta, allunga e riarrotola il corpo sul divano, si sistema i capelli ossigenati in cima alla testa. Cerca di metterlo a disagio. Ci sta riuscendo. Lui decide di parlare. « Dove sono i genitori di Lena? » chiede. « Morti » risponde lei, senza esitare. Lo dice a voce alta, e cattiva, e lui si spaventa. « Dove? » «Come, 'dove'?» dice lei, trovandoci dell'umorismo. « Sono morti! Non c'è un posto, non è geografìa, ti pare? Quando sei morto non sei da nessuna parte, sei dappertutto, no? » « Chiedevo dove sono morti. Qui? A Brooklyn? » Lei sorride. « Non sai proprio niente » dice. E come farebbe a sapere qualcosa? E naturale che non sappia niente. Lei lo sta punzecchiando e lui la odia. « Non ci sono mai venuti, qui. Sono morti in Russia. Tutti e due. » « Com'è successo? Sono morti insieme? » « Senti, se vuoi Romeo e Giulietta, scordatelo. Non sono mai stati insieme. Scopavano. Abbastanza per fare Lena e sporcare un po' di lenzuola. Lei non sapeva nemmeno come si chiamava lui di cognome. » « Non erano innamorati? » dice Vaclav, annaspando. Molte cose che ha dato per scontate sono sbagliate. Questa soluzione, questa storia da portare a Lena, incartata come un regalo di San Valentino, si sta già sgretolando. « Erano sballati. » « In che senso? » « Tossici, sai cosa vuol dire? Erano delinquenti. Drogati. E rubavano, lei rubava. Per questo l'hanno uccisa. Il marciapiede. » « E stata uccisa sul marciapiede? » « E stata uccisa in prigione. » «Mi dispiace» dice Vaclav, odiando il suono di quelle parole, perché avrebbe voluto interrogarla come fa la polizia alla televisione, come se le informazioni in suo possesso appartenessero a lui; avrebbe voluto pestarla a sangue. E invece è lì a vezzeggiarla, a fare il carino, a scusarsi, un atteggiamento proprio suo tipico. « Per favore, mi racconti la storia dall'inizio alla fine. Mi serve sapere tutto. La prego. » Lei annuisce.
« Va bene, d'accordo, è giusto. Comincio dall'inizio. In Russia le cose andavano male. Era il... vediamo... il '91? No, Lena è nata nel '93. Il paese perdeva pezzi ogni giorno, il governo crollava. Era tutto un casino. Non c'era da mangiare, non c'era lavoro, c'era delinquenza dappertutto e con il razionamento tutti erano... come si dice... sporchi? Per avere questo devi pagare: paghi con la vodka, con una scopata, quello che vuoi. Capito? » « Corrotti » dice Vaclav. « Esatto. Così, non c'era niente. Nella nostra famiglia c'era tristezza e debolezza e nostro padre non poteva lavorare, se ne stava lì con gli altri a bere. Non era cattivo. Era la situazione. Come la vostra depressione in questo paese. Trasforma gli uomini in niente, in cani o delinquenti o donnette. Nostro padre era così. Non era niente. « C'era delinquenza dappertutto. Era pericoloso uscire, andare a scuola. La madre di Lena aveva lo stesso nome di Lena, ma lei la chiamavamo Yelena Yelena aveva dieci anni più di me. Fra noi c'era un fratello morto piccolo, un maschio. Era nato troppo presto. Mia madre gridava il suo nome e offriva noi, le figlie, in cambio di lui. Un pezzo di carne che non aveva mai detto una parola, mai fatto un pianto e neanche la cacca, ma lei avrebbe barattato noi due figlie per uno con il pisello. Diceva: 'Signore, sarei disposta a darti queste due bambine, pur di riavere il mio Alek'. «Per lei, Yelena, la situazione era brutta. C'erano bambine che avevano tutto, vestiti e da mangiare. E posti belli dove andare e dove tutti erano tanto contenti di vederle. Invece a casa era come ho detto prima. E poi c'ero io. Io ero a casa e, quando c'era Yelena, la mamma le diceva di badare a me mentre lei beveva fino a dormire come la morte. Yelena faceva quello che poteva per farmi contenta; mi costruiva bambole, giocavamo e ci divertivamo, ma era triste. Anche se ero piccola lo capivo. Se è tua sorella, lo capisci. » Trina tira un respiro profondo. « Così è andata con le ragazze. » La zia lo dice come se fossero le sue ultime parole sull'argomento come se non ci fosse altro da dire. Vaclav aspetta che riprenda il discorso, ma lei non lo riprende: si limita a fumare e guardarsi le unghie. « Mi scusi ma non capisco. Cosa vuol dire? » chiede Vaclav. « Ha smesso di andare a scuola; è andata sul marciapiede con quelle ragazze, a vendere la passera per soldi, per comprarsi le cose belle. Devo sillabare? »
sbraita la zia. Non è facile dire che tua sorella e diventata una puttana, ragiona Vaclav. «Mi sembra di capire che non avesse scelta» dice Vaclav, tanto per ammorbidire un po' la situazione. A Trina non piace neanche questo: fa una faccia come se nella stanza sentisse puzza di cacca di cane ma non la vedesse. « Si può sempre scegliere » gli soffia. « Quando ha cominciato a drogarsi? » « Quando vendi la passera, la droga fa parte del gioco, no? » Lo dice come se Vaclav dovesse avere familiarità con la situazione. Vaclav, che non ha mai sentito la parola passera pronunciata da una donna vivente in sua presenza. Mai. La zia la pronuncia paasera. « Le ragazze hanno bisogno della droga per vendersi, poi un giorno cominciano a vendersi solo per la droga. » A Vaclav viene un pensiero orribile. « Il padre di Lena era uno di quegli uomini? La pagava per... » « Per la passera? Probabilmente le dava droga, non soldi. Era uno spacciatore, un delinquente di una banda. Forse non le dava niente. Forse prendeva e basta. » « Quindi non erano fidanzati. Non stavano insieme, niente? » « No. » « Ho capito. E lei lo ha conosciuto? » « No. Solo al processo e quando li hanno arrestati. » « Li hanno arrestati insieme? » « C'è stata una retata antidroga. Lui c'era e c'era anche lei. C'era stato un omicidio. Una ragazza ricca, la figlia di uno importante. Li hanno arrestati tutti e due per l'omicidio. » « L'avevano uccisa insieme? » « Qualcuno l'aveva uccisa. Chi lo sa. Forse loro. Yelena diceva che non c'entrava niente. Posto sbagliato nel momento sbagliato. Ha pianto per tutto il processo, ma non ha mai aperto bocca. La polizia diceva che l'avevano ammazzata loro due per soldi. Aggressione a scopo di rapina. » Vaclav è confuso. Ha l'impressione che la zia non voglia rispondere chiaramente alla domanda se la madre di Lena abbia ucciso quella ragazza, se fosse innocente o colpevole, una cosa che per lui ha un'importanza enorme. Ogni particolare sembra a un passo da quello che avrà un senso, che chiuderà il caso, che farà quadrare tutto. « Un attimo... Quindi era innocente? E l'hanno giustiziata? » Vaclav ha gli occhi stravolti dalla paura che una cosa del genere possa succedere in
qualsiasi parte del mondo, sempre. Trina è abituata a vedere espressioni così in faccia agli americani. Ed è stanca di vederle, non ne può più. «No, non giustiziata... Non importa. Aveva commesso molti reati. Prostituzione, furto, droga. Potevano processarla per una qualsiasi di queste cose. Era una criminale; per loro non contava niente. Non aveva importanza. » « Lei c'era? Al processo? » « Sì. Ci sono andata perché mia madre non voleva andarci. Per lei Yelena era già morta. » Trina si alza in piedi e guarda Vaclav dritto negli occhi, e lui non capisce come, ma il suo sguardo gli dice che non risponderà ad altre domande sul processo, che lì c'è ancora una ferita. « Vuoi un tè? » gli chiede. « Ce l'ho già, da prima » risponde lui. Guarda il proprio tè ormai freddo. Lei prende un piatto dal lavandino, ci fa scorrere sopra l'acqua e lo rimette giù. «Allora, al processo, non sapevo che era incinta. Non mi lasciavano parlare con lei. » « Quindi dopo il processo è andata a trovarla in prigione? » « No. C'è stato il processo, era colpevole, e dopo mi hanno detto di andare a casa, ma la sentenza non c'è stata. Hanno detto che c'era dopo. Adesso so che aspettavano solo la nascita del bambino. Ha partorito in prigione e poi l'hanno uccisa. » « Un attimo, cosa vuol dire? Quand'è che ha preso Lena? » « Sono stata chiamata in prigione. Pensavo che Yelena aveva chiesto di vedermi. Entro, aspettandomi di trovare Yelena, e invece mi danno questa bambina. 'Cos'è questo bambino?' faccio io. 'E dov'è Yelena?' E loro mi dicono: 'Questa è sua figlia; lei è in ospedale'. Chiedo di vederla e loro mi dicono che non è possibile. » « E le hanno dato Lena così? » « Yelena aveva chiesto di consegnare a me la bambina. Io non sapevo neanche che c'era, una bambina. » « E poi l'hanno uccisa? Yelena? » Vaclav sta cercando disperatamente di mettere gli eventi nella giusta sequenza. « Sì, so che lo hanno fatto. Sei settimane dopo arriva una lettera che Yelena è morta di tubercolosi. Ma quel giorno in prigione, quando mi hanno dato la bambina dicendo che no, non posso vedere Yelena, capisco che è già morta. »
« Crede che qualcuno l'abbia uccisa, un'esecuzione, diciamo? E abbia mentito? » « Io credo che è morta. Di parto, di tubercolosi, con una pistola alla testa, non importa. La volevano morta; è morta. Dicevano che allora c'erano detenuti che morivano di tubercolosi e forse è anche vero che in prigione non ci fanno niente e non danno medicine. In ogni modo, qualcuno li voleva morti e loro sono morti. » « E lei cos'ha fatto? » « Ho portato a casa la bambina. » Rimane a guardare Vaclav, sfidandolo a fare altre domande. « Quindi il padre non la voleva? » « Quell'uomo che è stato processato con Yelena, chi lo sa, forse non era nemmeno suo padre. E comunque a suo padre, quell'uomo o un altro magnaccia spacciatore, mica gli potevi dare un bambino, ti pare? » « Già. » « Lascia perdere il padre. Quello è una pezza da piedi, non è niente. Morto. Un criminale. Un niente. Non pensare a lui. » «E poi com'è arrivata qui?» chiede Vaclav, senza promettere di non pensare al padre di Lena. « Mia madre non voleva guardarla, la bambina, non la toccava, non la prendeva in braccio, niente. Capivo che voleva solo dimenticare Yelena. Quella bambina era troppo per lei, non la voleva. Io compravo latte in polvere e cercavo di badare a quella bambina e intanto lavorare, e facevo venire delle amiche a badare a lei: mia madre non faceva niente. « Un giorno mi dà un passaporto con sopra il nome di Yelena, documenti falsi per la bambina e i biglietti per l'aeroporto internazionale John F. Kennedy di New York. Mi dice di fare le valigie e partire la mattina dopo. I biglietti non li aveva pagati lei. A Brooklyn vivevano già dei parenti, uomini intrallazzati che importavano o esportavano, non so droga e ragazze e vendevano merce rubata. Con alcuni eravamo in contatto. Mia madre li sente e gli dice che ha una ragazza e una bambina da mandare in America, che gli faremo comodo, così ci mette su aereo per l'America e arriviamo qua. » « Perché sul passaporto c'era il nome di Yelena? » « Glielo stava preparando nostra madre, credo, prima della prigione e della morte. Le stava organizzando la fuga negli Stati Uniti. » « Cercava di salvarla? » chiede Vaclav, smarrito. « Cercava di venderla » dice la zia, « come ha venduto me. » « L'ha venduta? »
« Mi ha mandata qui a lavorare per quegli uomini e la bugia è che lavori per ripagarli dei soldi che hanno speso per farti venire qui, i soldi spesi per il passaporto falso e i biglietti dell'aereo, e ti sistemano in un appartamento, ti pagano la green card e fanno imbrogli di ogni tipo in nome tuo, così ti tengono in trappola e non puoi andare dalla polizia né scappare. Ti fanno una carta di credito a tuo nome e un prestito a tuo nome per una macchina, perché tu di credito non ne hai e senza di loro non puoi permetterti queste cose, e ti dicono che per queste cose gli devi i soldi e i soldi aumentano ogni giorno. Certe ragazze pensano che lavorando pagheranno il debito, ogni giorno contano i dollari pensando che con il lavoro riusciranno ad avere la libertà, ma alla fine tutte si rassegnano a essere per sempre le schiave di quegli uomini e, invece di sognare di scappare, cominciano a pensare che la loro vita sarà sempre così, così si mettono con uno di quegli uomini, cominciano a drogarsi e si lasciano rovinare la vita da quelli lì. » Vaclav sa che questa non è la storia di una ragazza qualsiasi: è la storia di Trina. « L'uomo con cui stavo io non è quello che toccava Lena. » « Cosa? » dice Vaclav, confuso, frastornato. « Un suo amico, un delinquente ubriacone del night. Quel giorno viene a cercarmi; io non ci sono e trova Lena. Cercavo sempre di tenerla alla larga da casa, ma quel giorno era malata, io non lo sapevo. Comunque, arriva tua madre, vede, se ne va zitta zitta e chiama la polizia. Quando la polizia arriva, lui è già andato via. Così poi, quando mi chiedono chi è stato, io gli faccio il nome del mio ragazzo, l'uomo del mio debito. E dico che ci picchia sempre e tocca sempre Lena. » « Cosa? Ha detto il falso? » chiede Vaclav. «L'uomo visto da tua madre se l'è cavata. Quello con cui stavo l'hanno messo in prigione, così sono libera, e Lena l'hanno portata via, così mi sono liberata anche di lei. » « Ma lui non aveva mai toccato Lena? » « No. Non lo farebbe mai. Io non glielo lascerei mai fare; è successo una volta: quell'uomo era piombato qui ubriaco per cercare me. Ma sapevo che se dicevo che il mio ragazzo la toccava sempre e vedevano le prove su Lena e tua mamma diceva cos'aveva visto, lui andava in prigione per sempre e tutt'e due eravamo salve. » «Ma l'altro... l'ha fatta franca?» dice Vaclav, arrabbiato.
« Quel giorno ha evitato la polizia, sì. Ma adesso è morto » risponde Trina. Vaclav si sforza di capire. « Cercavo sempre di far mangiare Lena e mandarla a scuola, senza farle vedere queste cose che mi succedono, che ci succedono. Quando siamo venute in questo paese, l'ho data alla vecchia, ma poi la vecchia è morta. Io non volevo Lena. Non volevo che vedeva o era vista da quegli uomini, quegli schifosi, che vedeva queste cose, il night dove lavoravo, la droga, i delinquenti e tutto il resto. Volevo andare via con lei da questo posto orribile dove mia sorella ci ha fatte andare. » Trina si interrompe; si riaccende la sigaretta già accesa. « Io voglio bene a mia sorella. Voglio fare qualcosa di buono di lei, per lei. » Vaclav la lascia tranquilla un momento. Distoglie lo sguardo mentre lei si asciuga gli occhi con il dorso delle mani. « Quando portano via Lena, so che poi alla fine sarà felice. Vivrà in un posto pulito. Sarà al sicuro, lontano da me e dalla mia vita; sarà al sicuro lontano da quegli uomini e da questo modo di vivere. E questo che ho sempre voluto per lei. Sono contenta che è successo, capisci? « Poi quell'uomo va in prigione e io mi sono liberata di lui. Adesso vado a scuola per diventare infermiera. Ballo solo per pagare la scuola; è l'unico modo. E quella sarà la mia libertà, quando sarò infermiera e avrò lo stipendio, i benefit e tutto quanto. Manca solo un anno. Le infermiere guadagnano bene. Poi, quando sarò una brava persona, vedrò Lena. Quando sarà grande e al sicuro. Ecco. Ti ho detto tutto; adesso conosci tutta la storia. » Vaclav non sa cosa dire. «Tu vuoi andare a raccontare tutto a Lena e io ti chiederò una sola cosa, poi fai come vuoi. Lo so, sei un ragazzo, con le tue idee, e farai la cosa che credi più giusta. » Fa una pausa e fuma. « Ma la cosa è questa. Lena non sa niente di questa storia. Lei è protetta da tutte queste cose orribili. Io l'ho protetta. L'ho allontanata da queste cose. E adesso tu gliele porterai. Secondo me sai che non è pronta. È ancora delicata, non è un'adulta felice e pronta. Ma non so. Io non l'ho vista. Tu sai meglio di me. Forse è pronta. » Vaclav la scruta in viso e capisce che lei sta un po' giocando, che vorrebbe che lui facesse o non facesse qualcosa ma che non glielo dirà.
« Pensavo... visto che qui ci sei tu e non lei, è segno che, decisamente, non è pronta. Adesso esci da casa mia. Ho finito di parlare con te. » Gli volta le spalle e va in cucina, fa scorrere l'acqua. Poi si gira, guarda Vaclav e cerca di ammorbidirsi. « Sono molto stanca. Ciao. » Brooklyn è solo un distretto Vaclav si incammina verso casa di Lena. È lunga andare fin là: in mezzo c'è Brooklyn. Ma Brooklyn è solo un distretto, non un paese intero. La casa di Lena è a quasi dieci chilometri di distanza e Vaclav può farli tutti. Deve mettere giù un piede e poi l'altro e spingersi alle spalle il marciapiede; deve spostarsi sul terreno e sentire di solcare il mondo. Prima percorre Ocean Parkway e attraversa tutta Midwood, fendendo branchi di ragazze cassidiche in gonna blu marina, incrociando madri con il loro passeggino e i loro capelli intonati. Attraversa Ditmas Park, dove un lato della via è tutto di grandi ville vittoriane che ostentano fieri ingressi e prati dalla manicure perfetta e l'altro è tutto di piccole drogherie, con le loro insegne ridipinte almeno otto volte. Attraversa Prospect Park, dove gli alberi stanno esplodendo di colore e, sotto, la gente che corre o è fuori con il cane o parla al cellulare non sembra farci caso. Vaclav cammina, cammina e cammina ancora un po'. Quando arriva alla casa di Lena, ha capito cosa fare. Il quartiere di Lena è bello di una bellezza che il quartiere di Vaclav non ha. Gli edifìci sono grandi, alte case a schiera, e hanno altrettanto grandi, imponenti finestre che assomigliano a vecchi occhi saggi. Sono case antiche e sapienti. Solide e belle. Non sono piccole e schiacciate, non assomigliano a denti storti e troppo fìtti come le case del quartiere di Vaclav. Qui ci sono alberi, alberi perfetti che si inarcano sopra la via formando un baldacchino. I piedi di Vaclav non si posano sul marciapiede nudo ma su un tappeto di perfette foglie cadute. La casa di Lena ha raggiunto la serena americanità che la sua non ha mai raggiunto. La sua ha sempre avuto l'odore sbagliato, lo zerbino sbagliato, il portamento sbagliato. Il campanello fa uno squillo meraviglioso, un suono profondo, come di una campana vera, fatto di due lunghi, lenti toni superbi,
ding, dong. Ding, dong. Dentro si ride; dentro si grida. « Vado iooooo! » Ridendo fino alla porta. Una donna apre con grande fatica: è una porta pesante. Dentro, la casa è piena di luce calda, come se la mamma di Lena avesse imparato magicamente a ricavare lampadine dai mandaranci. La mamma di Lena è piccolina, forse della stessa statura di Lena, di sicuro più bassa di Vaclav. Ha i capelli lunghi, grigi o biondi, o di un biondo ingrigito, ma ha un aspetto giovane; il mento è giovane e la fronte è tagliata di netto da una frangia. Ha gli occhi che si increspano agli angoli, come se sapesse delle cose, ma sembra lo stesso giovane. Indossa un vestito nero che le lascia scoperte le braccia e una specie di sciarpa anche se è in casa. Porta dei braccialetti, molti braccialetti, quasi un'armatura, dai polsi fino a metà avambraccio. Ai pollici ci sono degli anelli. Gli sta sorridendo, si rende conto Vaclav, e sa chi è: lo prende per le spalle, lo abbraccia e lo trascina in casa. «Vaclav» dice, come se lo stesse aspettando. Lo prende per mano e lo porta dentro. Vaclav capisce che Lena deve averle raccontato tutto. « Vieni » dice Emily, « vieni. » Gli fa strada in casa, che è strana e allo stesso tempo normale. E una casa che non cerca di essere normale: ci sono cose strane da ogni parte. C'è stoffa colorata dappertutto e niente che si intoni col resto, e i quadri alle pareti sono così tanti che non c'è neanche uno spazio vuoto, eppure è una casa più bella della sua. La cucina è tutta diversa dalla sua cucina. E grande, ci sono pile di libri sul piano di lavoro, tre diversi mazzi di fiori in tre vasi diversi e pentole che pendono dal soffitto. Lena è seduta al tavolo, a leggere. Quando vede Vaclav, le si impietrisce la faccia. «Lena» dice Emily. «Non drammatizziamo, non facciamo una telenovela. Facciamo le persone normali. Lui è qui perché ti vuole bene. Non c'è nessun problema, possiamo parlare e basta, no? » Guarda Vaclav. Lui esita, guardando fisso Lena. Lena ha addosso un paio di pantaloni scozzesi rosa del pigiama e nasconde le braccia dentro un enorme maglione da pescatore. Sembra più piccola che mai, tutta raggomitolata al tavolo. « Sì » le dice Vaclav. « Voglio raccontarti la verità. » Lena non riesce ad aprir bocca. « Sui tuoi genitori » continua lui. « Io so. » Lena guarda sua mamma, come un
bambino subito dopo essere stato punto da un'ape, quando comincia a bruciare e far male. « Vaclav » dice Em, « perché non ti siedi? » Vaclav si siede: sulla sedia si sente impacciato, come se non sapesse cosa fare con la faccia, con le mani, con tutto. Nessuno parla. « Sono venuto a raccontarti la verità sui tuoi genitori » dice Vaclav, e Lena lo guarda dritto negli occhi. « Sono andato da tua zia, la sorella di tua mamma. Quella con cui hai vissuto quand'eri piccola. Abita ancora nello stesso appartamento. Adesso mi ricordo com'ero agitato quando andavo lì. Mi ha raccontato tutto di tua mamma e tuo papà. » Le sopracciglia di Lena gli comunicano tutto il desiderio ma anche tutta la paura che ha di sapere. Emily si siede accanto a Lena, al tavolo, e fa un cenno di assenso a Vaclav. « So che non volevi andare da lei e so anche che non avresti voluto che ci andassi io. Capisco perché non me ne hai parlato e va bene così. Comunque sono andato ed è tutto a posto. » Vaclav tira un respiro. La verità Studiavano. Sia tua mamma sia tuo papà erano dottorandi all'Università di Mosca, tutti e due con una borsa di studio, tanto erano bravi. Tua zia dice che tutti sapevano che erano i migliori, tutti ne parlavano. Lei era una scienziata, lui un poeta. Si innamorarono a prima vista alla mensa dell'università. Si videro da un capo all'altro della sala e, semplicemente, si trovarono. Lo capirono subito. Uscirono dalla mensa insieme, in silenzio, e tutti e due, per la prima volta in assoluto, videro il cielo, gli alberi, l'erba, le cupole sopra le case. Per il primo mese si tennero soltanto per mano, non per dovere o per rispetto o per un ideale o per una religione o per fare astinenza, ma perché sapevano che qualsiasi altra cosa sarebbe stata eccessiva e affrettata, li avrebbe distrutti, li avrebbe uccisi, gli avrebbe fatto scoppiare il cuore, il cranio, la punta delle dita. Naturalmente l'attesa non durò per sempre. Là, a quei tempi, c'erano proteste. Proteste studentesche, rivolte, contro il governo, contro la tirannia, contro le code per il pane, il cemento, il grigiore del cielo. Contro l'architettura oppressiva, terribile, di tutti gli edifìci.
Andarono insieme a protestare, con gli altri scrittori, poeti, scienziati e scultori di talento, scrittori di saggi ed esploratori di cose nuove, di nuove idee, nuove teorie. Andarono in piazza con gli striscioni, sfilarono e cantarono canzoni, meravigliose canzoni edificanti sulla forza e la bellezza del mondo. Finirono in un rastrellamento e furono picchiati dalla polizia. Furono messi in carcere per le cose in cui credevano, per i loro ideali, per la pura e semplice bellezza delle loro idee. Devi capire che, a quei tempi, chi aveva idee sbagliate scompariva. Il governo ti faceva scomparire. Ti gettavano in galera senza un giusto processo né niente del genere. Lei, in prigione, gli mandò un ultimo messaggio per dirgli che era incinta, di te. Il messaggio diceva: Saremo insieme, nelle stelle, nell'erba, nel cemento, nel suono degli alberi di notte, in nostra figlia. Lui le mandò un ultimo messaggio. Diceva: Ti amo. Ho vissuto la vita più bella che si potesse mai vivere. Loro non possono portarci via niente; abbiamo avuto tutto. Lui ricevette il messaggio di lei il giorno prima di essere giustiziato. Lei ricevette quello di lui il giorno prima di partorire. Alla tua nascita, la portarono via e consegnarono te a sua sorella. Ti diedero il nome di tua mamma, un nome bellissimo, Yelena. Luce. Tua zia ha fatto come meglio ha potuto. Ti ha portata qui; i tuoi nonni l'hanno aiutata a portarti sana e salva in America. Era giovane; ha fatto del suo meglio. E stata dura; tu le ricordavi la sorella perduta: in te ci sono la sua bellezza, la sua bravura. Sapeva di non poter accudirti come si deve ed è per questo che per un po' ti ha lasciata da quella vecchia signora. Adesso è felicissima che tu sia al sicuro. Ti vuole bene, ha sempre il cuore spezzato. Qualcuno sapeva che mentiva La vera mamma di Lena, Emily, sapeva che questa non era la verità, ma sapeva anche che Vaclav non stava mentendo. Vaclav sapeva di dire la verità. Lena sapeva che era una bugia, ma le piaceva tanto e ci credette, come se fosse stata una favola, una canzone, una storia della buona notte, un trucco di magia. Amò Vaclav finché diventò verità, e verità fu. [eBL 028] Haley Tanner - Cose da salvare in caso di Incendio [by Pico & Katniss]
Ringraziamenti Grazie, anzitutto e soprattutto, ai miei genitori, i migliori dell'universo, nessuno escluso. Mi avete dato tutto. Colin. Sei il mio migliore amico, il mio braccio destro e il posto più sicuro in cui potessi capitare. Grazie, fratellino. Lindsey. Ti ringrazio per tutte le cose che sei. Ti ringrazio di sostenermi sempre, anche quando mi comporto da sciocca. Ti voglio un mondo di bene. Grazie, sorellina. Grazie ai miei nonni, che mi hanno insegnato che cosa significa amare qualcuno per l'eternità. E uno dei grandi segreti dell'universo e gliene sarò sempre grata. Un ringraziamento enorme a Molly Friedrich, Lucy Carson e Paul Cirone per il loro incredibile entusiasmo, i loro splendidi suggerimenti e la loro pazienza infinita. Susan Kamil e Noah Eaker hanno contribuito alla riuscita migliore cui questo libro potesse aspirare. Per qualsiasi imperfezione rimasta, la responsabilità è mia. William Tapply mi ha insegnato a scrivere e mi ha detto di farlo; il ricordo di lui mi accompagna ogni volta che poso la penna sulla carta. Spasibo a Sebastian Schulman per le traduzioni in russo dell'ultimo minuto. Julie Sarkissian ha letto questo libro prima che fosse un libro ed è solo grazie a lei che sono sopravvissuta alla stesura. E la mia migliore amica, la mia anima gemella e per mia fortuna anche una bravissima scrittrice e lettrice. A tutti voi amici di Brooklyn, con le vostre belle menti e i vostri bei cuori, e alla mia famiglia allargata del Tennessee, le persone migliori del mondo: mi avete fatto ballare e ridere e mi avete circondata d'amore. Grazie. Infine, per i fatti di Coney Island mi sono concessa alcune libertà. Invece di elencarle qui, vi incoraggio a prendere il treno Q per Coney Island, fare un giro sulla Wonder Wheel, guardare l'incantevole e talentuosa Heather Holliday esibirsi al Sideshow e scoprirle da voi.