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D.W. BUFFA CONDANNA SOMMARIA (Trial By Fire, 2005) A Ramona Wood "... ma Antonelli ero io stesso." NIETZSCHE 1 Albert Craven, uno dei soci originari che mezzo secolo prima avevano fondato lo studio legale, entrò nel mio ufficio per annunciare che ancora una volta ero stato fonte di infiniti problemi e dell'ennesima notte insonne. Posai il giornale del mattino e gli rivolsi un'occhiata dubbiosa. «A volte ti invidio per il fatto che hai a che fare con assassini, ladri e brava gente del genere», disse Craven sedendosi sulla poltrona imbottita di fronte alla mia scrivania. Malgrado avesse superato di un numero imprecisato di anni i settanta, sul suo viso roseo e tondo non c'era una ruga. «Sì, proprio così. Non ci avevo mai pensato, ma in realtà è questa la differenza essenziale fra quello che facciamo tu e io». Un sorriso di malizia si diffuse sulla sua bocca arcuata. «Tu hai a che fare con gente accusata di aver fatto qualcosa di male; io con gente che passa tutto il tempo ad accusare qualcun altro. Di rado è qualcosa di specifico, bada bene; è sempre una lagnanza più generale. E io, ovviamente, dovrei sistemare le cose. Dopo tutto sono il loro avvocato, e come non mancano mai di ricordarmi sono molti anni che danno lavoro allo studio». Si dondolò avanti e indietro, sforzandosi di non ridere della prevedibile stupidità del mondo. «Non c'è niente di più pietoso di un ricco... o di una ricca, se è per questo...», soggiunse con un deciso cenno del capo, «che non ottiene quello che vuole. Il che mi porta al motivo per cui ti dovevo parlare: Harry Godwin non è soddisfatto, non è per niente soddisfatto». «Chi è Harry Godwin?». Craven levò le mani al cielo. «Mio Dio, Antonelli! Non sai proprio niente?». Mi scoccò un'occhiata incredula. «Chi è Harry Godwin? È il nostro più importante cliente». «Il vostro più grosso cliente».
«Il più grosso cliente dello studio», disse con un gesto della mano. Si abbandonò all'indietro sullo schienale. «E tu fai parte dello studio, dopo tutto». Era la questione centrale, mai risolta e mai discussa sul serio. Craven mi aveva invitato a restare dopo la conclusione del caso che mi aveva portato a San Francisco. Invece della stanzetta che avevo occupato come visitatore temporaneo mi aveva dato un ufficio che in quanto a opulenza rivaleggiava con il suo, e il suo ufficio doveva essere uno dei più grandi e riccamente arredati della città. Accettavo i casi penali che volevo e mi tenevo i soldi che guadagnavo. Quando avevo accennato alla questione della mia partecipazione alle spese, lui l'aveva accantonata rispondendo: «Il palazzo è mio». Gli avevo rammentato che non possedeva la mia segretaria o tutti gli altri impiegati dello studio che sbrigavano gran parte del lavoro che un tempo facevo io stesso. «Non ha alcuna importanza», aveva replicato lui con quella che posso descrivere soltanto come allegra impazienza. Aveva cercato di giustificare la propria generosità ricordandomi che lo studio aveva talmente tanti soldi da non sapere che farsene. Quello che non mi aveva detto era che molti di quei soldi provenivano da Harry Godwin. «Si dà il caso che il nostro cliente, Harry Godwin, possieda il network televisivo che ti voleva come ospite in una delle sue trasmissioni, invito che per qualche motivo tu hai deciso di declinare. Harry vuole sapere perché. Mi ha chiamato stamattina da Sidney - alle due e mezza di stamattina, per essere precisi. Harry non pensa alla differenza di fusi orari, al fatto che l'Australia è un giorno avanti a noi. E visto che personalmente non dorme mai, pensa che non dovrebbero farlo nemmeno gli altri. In ogni caso, mi ha chiamato. Ti vuole nel programma». Ora ricordavo chi era Harry Godwin. Non possedeva soltanto uno dei network indipendenti via cavo più in rapido sviluppo del settore; possedeva stazioni radio, giornali, periodici e case editrici, e le possedeva ovunque. Non era ancora entrato nel cinema: un recente tentativo di assumere il controllo di una delle grandi case di produzione hollywoodiane era fallito, ma si diceva che fossero già cominciate le trattative per l'acquisto di un'altra. C'era sempre un vortice di voci attorno a Harry Godwin. Guardai Albert Craven come se fosse uscito di senno. «Non voglio andare in televisione». Ridendo fra sé, Craven scosse il capo. «Tutti vogliono andare in televisione».
Gli rivolsi un'occhiata velenosa. «È quello che hanno detto quando mi hanno chiesto di partecipare. Ho risposto che non volevo, e la loro argomentazione è stata che chiunque altro avrebbe voluto. Strana affermazione, quando l'unica risposta che conta è ciò che pensano gli altri». Craven si alzò e andò alla finestra. Fece scorrere lo sguardo lungo la stretta via fino alla baia, che si stendeva grigia come l'acciaio sotto la cupa pioggerella di un pomeriggio invernale. «Non può durare questo tempaccio. Il cielo grigio mi deprime». Si girò con la schiena alla finestra, ruotò il capo e con un sorriso malizioso mi fissò intensamente. «E se ti pregassi?». La sua occhiata speranzosa cominciò a raddolcirmi. «Non sapevo che fosse la stazione di Harry Godwin». Craven continuò a fissarmi, aspettando che accettassi. «La loro idea di un dibattito sulla pena di morte è trasmettere un'esecuzione in diretta», protestai, ma lui continuò a guardarmi nello stesso modo inerme. «Non mi starai davvero chiedendo di...? Come fa Harry Godwin a sapere che mi hanno chiesto di partecipare a no dei programmi del suo network?». Cominciai ad agitarmi sulla sedia. «Non è nemmeno in prima serata. E anche se lo sapesse», mi ostinai sentendomi sempre più con le spalle al muro, «perché dovrebbe chiamarti da Sidney per lamentarsi del mio rifiuto? Avrà di meglio da fare». Un'espressione segreta, segno di un pensiero privato e non nuovo, percorse le labbra lisce e rosee di Craven, che si staccò dalla finestra e tornò a sedersi in poltrona. Era sotto molti aspetti uno degli uomini più straordinari che avessi mai conosciuto. Dopo un'esistenza trascorsa in solitudine, interrotta di tanto in tanto da brevi matrimoni sbagliati, aveva preso l'abitudine d'interessarsi alle vite degli altri più che alla propria. Nella sua relativa solitudine pensava a coloro che conosceva, li esaminava da ogni punto di vista, da ogni singola prospettiva, finché non ne scopriva la caratteristica speciale, l'eccentricità che li rendeva unici. Vi era un che d'incorreggibile nella sua appassionata insistenza sulle infinite possibilità del comportamento umano. Qualcuno poteva essere noioso e incoerente, incapace di formulare una frase e ancor meno di condurre una conversazione, poteva essere una delle persone più stupide che tu avessi mai conosciuto, e Albert Craven riusciva a farti pensare che quel qualcuno fosse una delle persone più interessanti al mondo. Quando uno dei suoi cari e importanti amici era stato arrestato per una dozzina di viola-
zioni diverse delle leggi sui titoli azionari, Craven, invece di unirsi al coro ipocrita dell'indignazione, aveva espresso una certa ammirazione per l'intelligenza che stava dietro all'intricata malevolenza dell'operazione. E ora, con irresistibile esuberanza, cominciò a sostenere che Harry Godwin fosse uno dei personaggi più intriganti che avesse mai conosciuto. «Harry Godwin si è fatto da solo. È la storia di Horatio Alger, tranne che non c'è un lieto fine. Hai presente: diventare ricco, sposare una bella ragazza, sistemarsi e vivere presumibilmente fino all'età matura». I suoi occhi allegri si spostarono verso il caminetto di marmo grigio, che per quanto ne sapessi non era mai stato usato, e tornarono a esaminare la folta moquette della stanza. Esitarono un istante sul malinconico panorama fuori dalla finestra, poi guizzarono su di me. «Mi ha sempre fatto pensare, la parola "matura"». Le sue mani morbide si posarono sullo stomaco che nemmeno gli abiti di sartoria riuscivano a celare. «Mi sono sempre immaginato una pera che comincia a marcire». Si sporse in avanti, serrando le dita sui braccioli della poltrona. La sua espressione divenne malinconica e più seria. «Non succede mai agli uomini che si sono fatti da sé: di sicuro non agli uomini come Harry Godwin, individui che cominciano dal niente... letteralmente dal niente, nel suo caso. Harry Godwin era un orfano, abbandonato dalla madre alla nascita e cresciuto in un orfanotrofio dell'East End di Londra, uno di quei posti che sembrano usciti da Dickens, dove trattavano i bambini come se fossero figli del demonio e la loro unica possibilità di redenzione fosse scacciare a suon di botte l'istinto del male la prima volta che compariva. Botte, cibo cattivo e scarso, acqua fredda una volta alla settimana per farsi il bagno: questi furono i primi sei anni di vita di Harry Godwin. Fu allora che se ne andò: a sei anni, prese su e se la filò. Divenne un ragazzo di strada. Oliver Twist. Dio sa come abbia fatto a sopravvivere; Dio sa come ci riescano. «Non divenne un ladro, o se lo fece non durò molto. Divenne uno strillone. Lavorava per pochi penny al giorno, cominciando prima dell'alba. Una volta mi ha detto che non aveva mai dormito in un letto finché non aveva lasciato l'Inghilterra. Dormiva nei vicoli e negli androni, ovunque trovasse un po' di tepore e pensasse di essere al sicuro. Dopo un periodo che per qualcuno di quell'età doveva sembrare infinito, ma che in realtà non durò più di qualche mese, trovò lavoro come aiutante tipografo. Probabilmente i tipografi coperti d'inchiostro provavano simpatia per lui, un ragazzo così coraggioso; lo trattavano per quel randagio che era, gli dava-
no cose da fare, gli insegnavano a far funzionare i macchinari. Non avranno impiegato molto a capire che Harry Godwin non era un ragazzo come tanti altri. Un giorno mi ha detto che non appena aveva visto le macchine da stampa, i macchinari in movimento, lo sferragliare dei vari componenti, aveva capito che voleva imparare come funzionavano, cosa faceva ogni singola parte. Era il suo lavoro, ed era lì che viveva: in tipografia, su un letto di fortuna di legno con fogli di giornale come coperte». Gli occhietti franchi di Albert Craven fissarono un punto distante, la testa si inclinò all'indietro in una posa di profonda contemplazione. Era l'espressione di chi aveva vissuto abbastanza a lungo da aver conquistato una certa comprensione delle crudeltà riservate dal destino. «Io sono cresciuto nell'ambiente confortevole di una famiglia rispettabile e benestante», disse. «Non mi è mai mancato nulla. A volte mi chiedo cosa sarebbe stato di me in caso contrario: se avessi fatto la fame, se non avessi avuto un letto mio, se ogni notte avessi dovuto temere di non sopravvivere fino al mattino... se avessi avuto un'infanzia come quella di Harry Godwin. Mi chiedo come sarei adesso». Mi rivolse un'improvvisa occhiata interrogativa. «Te lo domandi mai? Intendo dire, se le cose all'inizio fossero state diverse, molto diverse da come sono state». Accantonò la sua domanda con un gesto della mano. Non aveva bisogno di una risposta. Era il genere di interrogativo che quando arrivi a una certa età si risponde da solo, o meglio che ti ricorda che molte delle domande che vanno al cuore di chi siamo non hanno risposta. «Harry potrebbe essere ancora a Londra, un vecchio tipografo che lavora per qualcun altro. Chissà come sarebbe andata? Ma scoppiò la guerra, e quando i tedeschi cominciarono i loro infiniti attacchi notturni, bombardando tutto quello che potevano, gli inglesi trasferirono tutti i bambini fuori Londra, per metterli al sicuro. Harry ovviamente non aveva famiglia, e non aveva intenzione di finire in un istituto di campagna insieme ad altri orfani della sua età. Aveva dodici anni, ma era abituato a lavorare con gli adulti e a vivere da solo. In qualche modo riuscì a farsi imbarcare su una nave con la quale un certo numero di famiglie inglesi stava mandando i propri figli dai parenti in Australia. Harry non aveva parenti, in Australia o da qualsiasi altra parte, ma riuscì a convincere qualcuno del contrario. Qualsiasi cosa disse, funzionò: lasciò l'Inghilterra, andò in Australia e tornò solo quando aveva già cominciato a formare quello che sarebbe diventato il suo impero mediatico ed era pronto a fare la prima acquisizione europea. Comprò il giornale che gli aveva dato il suo primo lavoro. E sai co-
sa fece a quel punto? Licenziò tutta la dirigenza e sciolse il sindacato». Con una lunga occhiata indagatrice, Craven mi fece sapere che se non poteva nascondere un certo riluttante rispetto per ciò che Harry Godwin aveva ottenuto, tale rispetto era oscurato, macchiato dai suoi metodi. «Non c'è mai stato un briciolo di sentimentalismo nelle azioni di Harry Godwin». Esitò, guardandosi di sottecchi le dita lisce e rosee mentre le schiudeva come a prepararle nel caso avesse deciso di elencare i modi in cui Harry Godwin aveva violato le regole non scritte secondo cui le persone corrette e benvolute avrebbero dovuto comportarsi. «Licenziò tutti perché voleva che tutti coloro che vi lavoravano gli dovessero il loro impiego, il loro sostentamento. Ma c'era un altro motivo, ancora più importante: era l'unico modo che conosceva per assicurarsi che tutti svolgessero il loro lavoro esattamente come voleva lui. Non come l'avevano fatto prima, non come erano stati addestrati a fare per generazioni, ma a suo modo». Con un breve movimento della testa piccola e rotonda si piegò in avanti, agitando il dito indice. Prese a sussurrare, come se quello che stava per dirmi fosse un segreto. «È come ti ho detto. Ha sempre dovuto conoscere ogni dettaglio. Non c'è niente di troppo piccolo. Per Harry Godwin non esiste una fine, non c'è un obiettivo, lontano fin che vuoi, ma pur sempre raggiungibile. Non c'è mai per individui di questo genere. Per lui, per quelli come lui, ciò che conta non è quello che hai: è sempre l'avere di più. «È come chiedersi cosa cerca di ottenere uno squalo, il perché di questa eterna caccia a qualcosa da uccidere, di questa costante sete di sangue. È questo che rende Harry Godwin così maledettamente interessante: non c'è niente che lui voglia in particolare, vuole semplicemente di più. Dev'essere il quarto o quinto uomo più ricco del mondo. Credi che cambierebbe qualcosa se diventasse il più ricco? Finché esisterà un solo giornale, una stazione televisiva o una semplice trasmissione radio che lui non controlla, penserà di essere in guerra; una guerra che se non farà attenzione, se non terrà d'occhio anche i minimi dettagli, potrebbe perdere». Si posò le mani sulle ginocchia e fissò la moquette, riflettendo su come proseguire. Rialzò gli occhi con un sorriso gentile e pensoso sulle labbra, poi si alzò e si trattenne accanto alla poltrona. «Qualsiasi cosa pensi di lui, Harry Godwin è un uomo notevole. Vedrai se non sarai d'accordo anche tu, dopo che l'avrai conosciuto. Ma nel frat-
tempo, fai un favore a un vecchietto: va' in televisione. Qualunque sia l'argomento di cui vorranno discutere, di sicuro con te il livello migliorerà». S'incamminò verso la porta, ed era giunto a metà strada quando soggiunse: «E se vogliono parlare della pena di morte, di' la verità, di' quello che hai detto a me una volta: che sei contrario, ma soltanto perché preferisci la tortura». Le sue spalle strette vennero scosse da una risata. «Com'è che dicesti? "Per quale ragione dovremmo punire i peggiori crimini immaginabili con un semplice sonno indolore?" Di' qualcosa del genere, e Harry Godwin ti offrirà una trasmissione tutta tua». 2 Diedi il mio nome alla receptionist e le dissi che ero lì per la trasmissione di Bryan Allen. Lei sollevò il telefono e annunciò il mio arrivo in tono di sommessa indifferenza. Mi sedetti, sfogliai una di quelle riviste in cui i testi, brevi, semplici e sgrammaticati, illustrano le immagini, poi tornai a gettarla sul tavolino. Ero di un umore che con un pizzico di generosità si poteva definire omicida. Ci stavo pensando fin dal giorno in cui Albert Craven mi aveva chiesto di partecipare alla trasmissione che Harry Godwin considerava così importante: come avrei reagito, quali risposte avrei dato a tutte le domande che avrebbero potuto rivolgermi, sentendo nella mia mente il dialogo infinito, lo scambio costante: la risposta, la domanda, ancora la risposta. Era come prepararsi a un processo, prevedendo (o cercando di prevedere, poiché in realtà riuscirci era impossibile) tutto ciò che poteva accadere, tutte le cose che potevano essere dette. Era peggio che prepararsi a un processo. In aula sapevo cosa facevo: da più della metà della mia vita affrontavo casi in cui qualcuno era accusato di un crimine. Per quanto me ne preoccupassi in anticipo, una volta che mi sedevo al banco degli avvocati, una volta che i dodici cittadini della giuria venivano fatti entrare, una volta che il processo aveva inizio ero io a condurre il gioco. Io facevo le domande, io decidevo come dovevano essere poste. Potevo tenere un testimone dietro il banco per ore, per giorni se necessario, facendogli una domanda alla volta, prima in una direzione e poi in un'altra, usando le risposte per dipingere il quadro che volevo mostrare alla giuria. Ma la televisione? Una trasmissione in cui qualcuno avrebbe rivolto a me le domande? Era tutto capovolto: sarei stato io il testimone, un teste chiamato al banco non soltanto senza alcuna preparazione ma anche senza che avesse la minima idea di cosa gli sarebbe
stato chiesto. Tutto quello che sapevo era che avremmo discusso dello stato del diritto penale, e che non sarei stato l'unico ospite. Non avevo nemmeno avuto la presenza di spirito di chiedere chi fossero gli altri. «Julian Sinclair. Sono qui per la trasmissione di Bryan Singer. A meno che lei non preferisca uscire a cena». Alzai gli occhi. Un giovane sulla trentina se ne stava addossato con noncuranza contro il muro accanto alla finestra scorrevole, le mani infilate in tasca, un piede accavallato sopra l'altro. Stava fissando la giovane receptionist, e lei lo fissava di rimando. Sorrisi fra me e me e spostai lo sguardo fuori dalla finestra sul marciapiede chiazzato di pioggia, rammentando con vaga nostalgia quella sensazione giovanile, la sicurezza e l'eccitazione di quando per puro caso ti trovi faccia a faccia con una bella ragazza e ti senti dire qualcosa che più tardi ti domandi dove avevi trovato il coraggio. «Joseph Antonelli! Sono Julian Sinclair. Ho sempre voluto conoscerla». Visto dal davanti era ancora più attraente che di profilo. Era alto come me, o forse più basso di un centimetro: la testa di capelli arruffati, di un castano chiaro che a una certa luce sembrava quasi biondo, rendeva difficile dirlo. I suoi occhi erano di un'intelligenza che ti colpiva, ma più ancora erano sinceri e pieni di vita. Sarebbe stato impossibile immaginare che ti potesse mentire a meno che lui non li avesse distolti, coprendoli come si coprono le orecchie di un bambino per non fargli sentire qualcosa che non dovrebbe. Ci stringemmo la mano, e lui mi disse che insegnava diritto penale a Berkeley. «L'unico motivo per cui ho accettato di venire», osservò accennando alle fotografie incorniciate delle celebrità televisive che ricoprivano le pareti dell'atrio, «è che mi hanno detto che ci sarebbe stato anche lei». «L'unico motivo per cui ho accettato di farlo è che mi hanno incastrato». La porta accanto alla receptionist si aprì e fummo convocati all'interno. «Gli altri sono già qui», disse il producer della trasmissione guidandoci in un lungo corridoio. Camminava con un'andatura strana, muovendo le spalle avanti e indietro in sincronia con lo scivolare dei piedi piatti e delle gambe leggermente arcuate. «Al trucco sono pronti per voi. Ci vorrà solo qualche minuto, poi saremo sul set. Bryan è sicuro che sarà una grande puntata». Aggiunse quest'ultima osservazione in tono rassicurante, inteso a fugare i nostri timori di non essere all'altezza, di fare la figura degli idioti sulla televisione nazionale di fronte a qualche milione di sconosciuti. La truccatrice mise un po' di cipria sul naso di Julian Sinclair, scherzan-
do sul fatto che non doveva fare praticamente nulla. Quando si mise al lavoro su di me divenne decisamente più seria. «Diventa nervoso, prima di una cosa come questa?», mi domandò Sinclair quando ci trovammo oltre la porta del teatro di posa, a osservare gli altri sul set. «Nervoso? Non esattamente. Circospetto». Mi scoccò una rapida occhiata di traverso. C'era un interrogativo nel suo sguardo, o meglio l'inizio di un interesse, il primo passo di una discussione che avrebbe potuto prendere decine di direzioni diverse. Fu allora che mi resi conto di quanto fosse svelto, di come in un attimo avesse visto tutte le diverse complessità del caso. Accantonò il pensiero, tenendolo in sospeso finché non ci fosse stato il tempo di riprenderlo in una conversazione più ampia. I suoi occhi si spostarono sulla tavola rotonda, dove un tecnico del suono stava sistemando i piccoli microfoni sui risvolti delle giacche delle altre due ospiti. «Sembra diverso quando lo si guarda in televisione, vero? Non immagineresti mai che non è altro che una piattaforma rialzata circondata da telecamere e cavi nel mezzo di un locale grande come un magazzino o un hangar e immerso nel buio tranne che per quel cerchio di luce al centro. È come cadere nel pozzo di una miniera e trovare un gruppo di minatori che giocano a poker in fondo a una caverna e sotto una mezza dozzina di lampade». I suoi occhi brillarono, illuminati da un pensiero fuggevole. Girò la testa verso di me e inarcò le sopracciglia. «Cosa pensa accadrebbe se portasse qui quelle persone, le facesse sedere attorno a quel tavolo per un'ora, ciascuna di loro ansiosa di dire qualcosa che milioni di persone potranno ricordare, e alla fine, alla richiesta del nastro della trasmissione, rispondesse: "No, non eravamo in televisione, volevamo soltanto parlare"?». Il producer si stava avvicinando con la sua andatura da papera. «Ma non ci sono molte probabilità che accada stasera», proseguì Sinclair con un sorriso disinvolto. «Le conosce quelle due?», domandò mentre c'incamminavamo verso il set. «Ne conosco una», risposi scuotendo la testa. Quanto ero stato stupido a non chiedere chi altri avrebbe partecipato. Nemmeno Albert Craven sarebbe stato in grado di convincermi a partecipare a una conversazione con la graffiante, vendicativa Paula Constable. Presi posto di fronte a Julian Sinclair. Alla mia sinistra era seduta una sottile brunetta con due occhioni da cerbiatta e un'ampia bocca. Guardando
davanti a sé, tirò indietro le spalle e sollevò il mento. Con un'espressione di profonda concentrazione cominciò una serie di esercizi di respirazione, come un'atleta che si stesse preparando alla gara successiva. A un'estremità del tavolo il conduttore, il famoso e discusso Bryan Allen, sfogliava con aria indifferente un mucchietto di schede più come se fosse parte di un rituale mandato a memoria che un elemento necessario per la sua preparazione. Il tecnico finì di applicarmi il microfono al risvolto della giacca. Controllai che la mia cravatta fosse dritta e che la giacca non facesse pieghe dietro il collo. Paula Constable aspettava con un sorriso scintillante di perfetta insincerità. Vestiva sempre di rosso, con un rossetto di un colore intenso e ciglia bistrate dello stesso nero dei lustri capelli. I due colori, rosso e nero, sottolineavano la durezza dei lineamenti di un volto la cui pelle si tendeva dagli zigomi sporgenti a un mento piccolo e puntuto. I suoi occhi, neri e impenetrabili, restarono su di me per un solo istante. Il sorriso divenne freddo, distante. Fece scorrere l'indice dall'unghia laccata su quella che sembrava una lista di cose da dire, di frasi che l'avrebbero fatta sembrare sveglia e decisa come voleva che tutti la vedessero. Rammentai le parole di un avvocato che un tempo l'aveva affrontata in aula: non dovevi mai temere che ti pugnalasse alle spalle, poiché provava troppo piacere nel guardare la tua espressione quando capivi che stavi per morire. Julian doveva aver notato il mio mutamento di espressione. Abbandonato all'indietro sulla sedia con un braccio appoggiato con noncuranza sullo schienale, aveva un ampio sorriso sulle labbra. Ebbi la strana sensazione che, come un chiaroveggente, avesse udito quell'osservazione sfuggirmi dalla mente. «Dieci secondi», annunciò il producer da qualche parte nel buio circostante. Una spia rossa si mosse lentamente dietro Julian. Una delle telecamere si stava mettendo in posizione per il primo piano di apertura su Bryan Allen. Facendo scivolare la pila di schede sul tavolo, Allen se le mise in tasca. Si sporse in avanti, i gomiti appoggiati sui braccioli della sedia. Si umettò le labbra, le premette, trasse un profondo respiro e lo trattenne. «Tre secondi, due...». «Buonasera, e benvenuti al "Bryan Allen Show". Sono Bryan Allen». Era la prima volta che sentivo la sua voce. Non ci aveva rivolto una sola parola. «Il paese sta seguendo con passione la vicenda dell'omicidio di Angela Morgan. Angela Morgan, la giovane donna sposata da meno di un anno e
uccisa, secondo la polizia che l'ha arrestato questa settimana dopo tre mesi di indagini, dal marito Steve. Angela Morgan, il cui corpo è stato fatto a pezzi e chiuso in una cella frigorifera, ancora secondo la polizia, dal marito Steve Morgan. Qui con me questa sera, per discutere gli ultimi sviluppi di un caso che tiene l'intero paese con il fiato sospeso, ci sono quattro persone che ne sanno quanto chiunque altro e ben più di molti. Cominciamo da Daphne McMillan. Daphne è sostituto procuratore qui a San Francisco, dove è stato commesso l'omicidio. «Daphne, lei ha seguito il caso fin dall'inizio. È stata spesso ospite di questa trasmissione. Non sarà stata sorpresa, quando questa settimana hanno arrestato il marito di Angela. Ha sempre sostenuto che l'avrebbero fatto». La McMillan non guardò Allen. Trovò la spia rossa, la luce che le diceva qual era la telecamera accesa. «Era il modo in cui si comportava, le cose che faceva», spiegò con una voce che la faceva sembrare ancora più giovane di quello che era. Non aveva alcuna intonazione, alcuna espressione; era piatta, esile, ripiegata su se stessa, la voce di una ragazza troppo bella per doversi preoccupare di rendere interessante ciò che stava dicendo. «Tre settimane dopo la scomparsa di Angela, lui ha venduto l'auto di lei. Non è il genere di cose che farebbe un marito in ansia per la moglie scomparsa. Sapeva che non sarebbe tornata. Lo sapeva perché l'aveva uccisa». Consapevole che la telecamera l'avrebbe spesso inquadrato mentre i suoi ospiti parlavano, Allen seguiva ogni parola con sguardo solenne, annuendo alle acute osservazioni di Daphne McMillan. Stava per rivolgerle un'altra domanda quando, di punto in bianco, Julian Sinclair si mise a ridere. Allen, che era in grado di mutare espressione in un istante, lo guardò sbalordito. «Sta cercando di dirci che non è stato Steve Morgan, che non ha ucciso sua moglie a sangue freddo?». Spostò immediatamente gli occhi sull'obiettivo. «Julian Sinclair è un insigne professore di giurisprudenza alla University of California. Bene, abbiamo un sostituto procuratore, una persona che opera là fuori in trincea e ha una diretta esperienza di ciò che sono realmente i criminali, che pensa che Steve Morgan sia colpevole. A quanto pare, il professor Sinclair, il quale non esercita la professione legale - vero professore? - la pensa diversamente. Ci dica, Julian, che cosa ha detto Daphne di così divertente da farla ridere? Alcuni, per esempio i genitori di Angela Morgan, potrebbero non pensare che l'omicidio sia qualcosa di
cui sorridere». Julian si sporse in avanti di scatto, piantò entrambi i gomiti sul tavolo e posò il mento sulle mani intrecciate. «Era la cosa più gentile che potessi fare». Con un gesto che aveva fatto infinite altre volte, un gesto che combinava confusione e disprezzo, Allen aggrottò la fronte, scrollò le spalle e ruotò le palme delle mani verso l'alto. «La cosa più gentile che potesse fare?». «Sì. Di fronte a un'argomentazione di schiacciante stupidità, è stata la cosa più gentile che potessi fare. Come fa Daphne McMillan - come fa chiunque - a sapere come un individuo, un individuo e non una media statistica, esprime preoccupazione o dolore? Morgan ha venduto la macchina di sua moglie e ha comprato un camioncino. Dev'essere colpevole. Tanto vale impiccarlo subito, senza prendersi il disturbo di fare il processo». «Sicché lei non pensa che sia stato lui? Ma se non è stato lui, chi è stato? E come spiega il fatto che pur essendo sposato da meno di un anno avesse già una relazione? Non è così?», domandò Allen rivolgendosi a Paula Constable. «Aveva una relazione con la sua cliente, Tracy Weathers, non è vero?». Allen alzò lo sguardo sopra di me, verso la telecamera che incombeva nel buio alle mie spalle. «Paula Constable è un celebre avvocato che ha ottenuto alcuni dei verdetti più importanti a favore dei diritti civili delle donne. Rappresenta Tracy Weathers, che verrà chiamata a testimoniare dall'accusa». La Constable si rivolse alla stessa telecamera. «Esatto, Bryan. Tracy è stata dichiarata una testimone chiave. Per sua sfortuna aveva avuto una relazione, seppur breve, con Steve Morgan. Non sapeva che fosse sposato». Ci fu una pausa sinistra. Gli occhi della Constable si fecero più vicini, il suo mento si tese in avanti. Era l'espressione di un atteggiamento, la sfida covata a lungo da chi troppo spesso era stato usato e abbandonato, ingannato e lasciato andare come se non fosse mai esistito. «Lui le aveva detto che era stato sposato, ma che la moglie era morta. Tracy ne aveva provato compassione, e lui ne aveva approfittato». Julian Sinclair fece un'altra risata. «E quale sarà di preciso la sua testimonianza? Non sarà questa - che lui le ha mentito, che le ha detto di essere solo quando non lo era. Non è pertinente, non ha niente a che fare con il caso. Non ha alcun valore probatorio. Anzi, è una prova per sentito dire, qualcosa che lui le ha presumibilmente detto. Non si può basare un caso su
questo; non si può accusare qualcuno di un crimine contro una persona perché ha mentito a un'altra... sempre che l'abbia fatto», aggiunse rivolgendo un rapido, dubbioso sorriso a Paula Constable. «Non puoi accusare qualcuno solo perché pensi che non avrebbe dovuto vendere l'auto che sua moglie guidava tre settimane prima di scomparire. Non sono prove, non sono nemmeno sospetti. Sono pettegolezzi, nient'altro». La sua voce non si fermò del tutto. Parve girare al minimo come un motore mentre lui raccoglieva le idee, decideva quale direzione prendere fra tante e ripartiva in quarta. Julian Sinclair aveva perso qualsiasi consapevolezza di sé. Noi lo guardavamo, nella nervosa attesa della nostra prossima inquadratura, osservati da milioni di spettatori e timorosi di commettere qualche stupido sbaglio, ma lui era completamente immerso nel momento, dimentico di qualsiasi cosa non fosse la sua argomentazione. Il suo sguardo era intenso, vivo, colpito dall'ironia o dalla serietà di ciò che stava dicendo. Ogni cosa in lui era appassionata e istantanea, senza tempo per la riflessione, per il ripensamento che stimola l'ironia o il dubbio. «A me pare che un avvocato abbia il dovere di spiegare la legge, di spiegare cosa accade quando qualcuno è accusato di una cosa così grave; di spiegare che la presunzione d'innocenza non è qualcosa che si può ignorare; che bisogna aspettare il processo per decidere se un individuo è colpevole di ciò che è stato accusato; che fare altrimenti, mettersi a dire a tutti che un individuo dev'essere colpevole perché... perché cosa, perché tutti dicono che lo è?... non è diverso dal prendere una corda e guidare un linciaggio». «Ciò che dice mi offende», esclamò Paula Constable. «Se sapesse quello che so io... Se sapesse quello che sa la mia cliente... Se sapesse quello che Morgan ha detto a Tracy...!». «Joseph Antonelli, lei che ne pensa?». Allen spostò lo sguardo da Julian Sinclair all'obiettivo. «Dopo una serie di cause celebri, Joseph Antonelli è forse il più noto penalista d'America». Allen aveva costruito la propria reputazione e si era guadagnato il suo enorme seguito dicendo quello che molti di coloro che lo guardavano avrebbero voluto dire. Se degli avvocati in generale non ci si fidava, gli avvocati difensori erano disprezzati. «Joe, si dice che lei non abbia mai perso un processo che avrebbe dovuto vincere», proseguì, irritandomi con il modo in cui dava per scontata un'intimità che suggeriva un'amicizia. «Ma ammetterà che se si occupasse di questo caso dovrebbe perdere. Quello che dice il professore va benissimo
in un'aula universitaria, ma lei frequenta ormai da molti anni le aule di tribunale. Sa quando qualcuno è colpevole. Molti di coloro che ha fatto prosciogliere lo erano, giusto? Se rappresentasse il marito di Angela Morgan, non cercherebbe di patteggiare per evitargli la pena di morte?». Allen era sulla cinquantina, con capelli castano rossiccio spruzzati di grigio intorno alle orecchie e due occhi azzurri taglienti che ti attraversavano da parte a parte mentre lui si concentrava sulla mossa successiva. Il suo modo di interrogarti aveva un che di artificiale, di marionettistico. Non voleva sapere cosa pensavi: voleva stimolare una risposta che avrebbe mostrato a tutti quanto eri lontano dalle normali, corrette opinioni della brava gente. Cominciai a rispondere alla domanda, a una delle domande che mi aveva fatto, ma lui m'interruppe con una mano. «Ma lasci che le chieda una cosa che ho sempre voluto sapere, e che molti dei miei spettatori vogliono sapere: com'è che una persona come lei, intelligente, istruita, in grado direi di fare praticamente ciò che vuole, com'è che una persona come lei decide di fare il penalista? Che cosa gliene viene? Perché tirare fuori dai guai i colpevoli? Per i soldi?». Era automatica, un riflesso, la replica immediata che avevo dato per anni, la risposta che non era una risposta a meno che non mi concedessi il tempo di rifletterci. «Quando una giuria emette un verdetto di non colpevolezza, significa proprio questo: non colpevole. Significa, signor Allen, che tutti coloro che ho, per usare la sua espressione, "tirato fuori dai guai", non erano colpevoli». Allen scrollò le spalle e levò le mani al cielo. «Mi faccia il piacere! Sta cercando di dirmi che tutti quelli che ha fatto scagionare erano innocenti? Allo stesso modo in cui è innocente Steve Morgan?». «Non è questo il punto», disse Julian Sinclair con un rapido, appassionato sorriso. «Non è questo lo scopo di un processo». «Non è stabilire se un individuo è innocente?», domandò Paula Constable rivolgendogli un'occhiata provocatoria. Julian la soppesò per un istante, come se cercasse di capire se intendeva davvero dire ciò che aveva detto o se, com'era più probabile, la sua fosse stata soltanto una frase a effetto. «Lei ha affrontato processi penali?». Irritata dall'insinuazione che potesse esistere qualcosa che lei non sapeva, la Constable rispose: «Ho affrontato ogni tipo di processo. Lei, invece...?».
Il sorriso si allargò sul volto di Julian. «Farò affidamento sulla sua esperienza. Qual è la scelta che viene data a una giuria sul modulo del verdetto in un processo penale?». La domanda la prese alla sprovvista. Che fosse stata la pressione del momento a provocarle un vuoto di memoria, oppure che fosse lei a non volersi trovare nella condizione di dover rispondere alle domande di Sinclair, Paula s'impuntò e la respinse. «Che differenza fa quello che dice il modulo del verdetto?». «Il modulo del verdetto ha due caselle: "colpevole" e "non colpevole"», intervenne rapida Daphne. «Ma le giurie possono sbagliare, specialmente quando l'avvocato difensore distorce il significato delle prove». «E l'accusa non è abbastanza abile da far vedere le distorsioni alla giuria», rispose Julian all'istante. Spostò lo sguardo in diagonale attraverso il tavolo, e la sua espressione tradì un sottile mutamento. Paula Constable era una donna di mezz'età, aggressiva fino alla bellicosità, il genere di avvocato che quando avevi vinto continuava a sostenere che in realtà avevi perso. Daphne McMillan poteva anche essere altrettanto determinata e altrettanto aggressiva, ma aveva meno di trent'anni ed era graziosa come poche. Julian Sinclair le sorrise con gli occhi. «Ma a parte questo», proseguì, «la giuria deve decidere se l'imputato è colpevole o non colpevole, giusto?». Daphne si dimenticò della telecamera e continuò a guardare Julian. «E il punto è proprio questo: colpevole o non colpevole. Non si tratta di stabilire se qualcuno è innocente, ma se non è colpevole. E c'è un motivo per questo, giusto?», domandò lui in un tono che sembrava suggerire che malgrado le apparenze erano d'accordo sulle cose più importanti. Daphne tradì l'ombra di un sorriso. Si trattenne, rammentando dov'era e come voleva essere vista, ma lo sforzo la fece esagerare. Quando rispose, la sua voce uscì aspra e secca, confusa e leggermente accalorata. «Non colpevole, innocente... significa comunque che la giuria ha deciso che l'imputato non ha commesso il reato, a volte anche quando è vero il contrario». Julian la guardò come si guarda qualcuno sapendo che ha detto qualcosa soltanto perché ha paura di quello che la gente potrebbe pensare se avesse detto la verità, quello che intendeva veramente, quello che direbbe se non ci fosse nessun altro ad ascoltarlo. «Cosa sta cercando di dire, professore? Pensa che quello che c'è scritto
sul modulo del verdetto faccia qualche differenza?», chiese Allen con una risatina bassa e derisoria. «Tutta la differenza del mondo», intervenni. Allen si volse verso di me, in attesa. «Alla giuria non si chiede - lo sa, vero? - di stabilire come siano andate veramente le cose. Alla giuria si chiede soltanto di stabilire una cosa: l'accusa ha provato al di là del famoso ragionevole dubbio che l'imputato ha commesso il reato? Non vede la differenza?», domandai sporgendomi verso di lui. «La domanda non è: pensate che l'imputato abbia commesso il reato? È: pensate che l'accusa abbia provato che l'ha commesso? L'argomentazione del signor Sinclair è andata dritta al cuore del problema. Lei sa cosa accade veramente in un processo penale, signor Allen? Ne ha la minima idea? A dodici persone viene chiesto di decidere se lo stato, con tutto il suo potere, è riuscito a fare qualcosa di più che accusare qualcuno di un crimine. Questo possono farlo tutti, che ne abbiano o meno le prove». Era come gettare sassolini contro un treno lanciato a grande velocità. Allen proseguì per la sua strada, inesorabile, inarrestabile, con lo sguardo vacuo e impenetrabile come l'obiettivo della telecamera. «È una risposta da avvocato, non trova? Il genere di cosa che si dice per mescolare le carte in tavola, per confondere le acque. Sappiamo entrambi che il processo riguarda l'imputato, il fatto che abbia o non abbia commesso il reato. La domanda è se Angela Morgan sia stata uccisa da suo marito. Perché non ci dite cosa ne pensate, invece di nascondervi dietro queste acrobazie verbali tribunalizie? Pensate che sia stato lui oppure no?». «Decidere al momento?», chiese Julian con un sorriso che, nella sua apparente innocenza, si prendeva gioco delle grossolanità di Allen. «Decidere come se fossimo la giuria e dovessimo emettere il verdetto: colpevole o non colpevole?». «Esattamente, professore. Esattamente». «Semplice: non colpevole». «Semplice? Lei cosa ne dice, Daphne: è semplice decidere che Steve Morgan è innocente, che non ha ucciso la moglie?». Daphne si sforzò di non guardare Julian. «Sarebbe più semplice, direi, concludere che è stato lui», disse, e cominciò a elencare metodicamente i moventi. «E non scordate», aggiunse Paula Constable l'istante in cui Daphne fece una pausa, «le cose che ha detto alla mia cliente, le promesse che le ha fatto, le...».
«Fino a che punto intendete spingervi per condannare qualcuno prima ancora che sia cominciato il processo? In questo paese linciavano la gente. Alcuni dei linciati erano colpevoli. Ma ciò la rendeva una cosa giusta? E quando erano innocenti, quando era stato qualcun altro, quando questo qualcun altro la scampava perché i linciatori non erano riusciti ad aspettare il processo? Cosa farete quando accadrà a voi? Quando uno di coloro che siete così sicuri sia colpevole sarà in realtà innocente, ma verrà condannato comunque perché dopo tutto il gran parlare, dopo tutte queste atteggiate certezze non si riuscirà più a trovare una giuria a cui non sia già stato detto quale dev'essere il verdetto?». Guardai Daphne McMillan, poi spostai lo sguardo su Paula Constable e infine lo riportai su Bryan Allen. «Vi piacerebbe essere accusati di omicidio, un omicidio che non avete commesso, e vedere che sono tutti convinti che siete stati voi per la semplice ragione che tutti, alla televisione, hanno detto che siete stati voi?». 3 Il producer mi fermò in corridoio. «È stato magnifico», osservò gettando una rapida occhiata alle sue spalle. Julian Sinclair stava parlottando con Daphne McMillan appena fuori la porta del teatro di posa. «Bryan vorrebbe che tornasse la settimana prossima». Lesse lo scetticismo nei miei occhi. «È stato magnifico», ripeté, convinto che qualsiasi dubbio avessi potuto avere riguardo all'idea di rifarlo fosse dovuto a una mancanza di fiducia in me stesso. «È andato meglio del previsto. Molti finiscono per lasciarsi intimidire. Arrivano convinti di avere qualcosa da dire, ma non appena devono dirlo in onda, non appena si trovano davanti lui, si bloccano. Lei non l'ha fatto: è stato magnifico, davvero magnifico!». Tornò a guardarsi alle spalle. Senza smettere di parlottare, Julian e Daphne si incamminarono nella nostra direzione. Paula Constable, che si era trattenuta nel teatro di posa per scambiare qualche parola in privato con Bryan Allen, aprì la porta con una spinta. «Ci pensi», riprese il producer quando non risposi. «Ci piacerebbe averla come ospite regolare. E non siamo i soli. Harry Godwin ha telefonato pochi minuti prima della fine. Ha detto di riferirle che è stata una delle migliori esibizioni che abbia mai visto». Scosse la testa e in un bisbiglio confidenziale mi chiese di rifletterci e di chiamarlo. «Domani, se può». Salutò gli altri con un allegro svolazzo della mano. «Ottima puntata. Siete stati tutti bravissimi, davvero bravissimi!»,
esclamò aprendo la porta del teatro di posa e scomparendo all'interno, nel buio. «Vuole offrirmi da bere?», chiese Paula Constable con un sorriso audace. La sua voce sembrava rauca e stanca. Si schiarì la gola, si portò la mano davanti alla bocca e diede due colpi di tosse. «Ne ho più bisogno di quanto pensassi», precisò scuotendo il capo con una punta di imbarazzo. Fu il momentaneo abbandono del suo atteggiamento brusco, quel lampo improvviso di vulnerabilità a farmi accettare. Quando cominciai a cercare una via d'uscita, un modo per evitare di dover passare un'ora da solo con una donna che dovevo sforzarmi di non detestare, era ormai troppo tardi. «Volete venire anche voi?», chiesi. Julian Sinclair e Daphne McMillan mi guardarono, poi si scambiarono un'occhiata. Ci fu un silenzio imbarazzato. Daphne consultò timidamente il suo orologio. «Temo di non potere», rispose. «Ho ancora del lavoro da sbrigare». «E io ho una lezione alle otto», mi spiegò Julian tirandomi in disparte per dirmi qualcosa in privato. «Mi chiedevo, uno di questi giorni potremmo vederci?». «Quando vuole». Scrissi il mio numero di casa sul retro di un biglietto da visita e gli dissi che poteva chiamarmi lì o in ufficio. Paula Constable conosceva un bar a pochi isolati di distanza, sul lato opposto di Market. A sentire la sua entusiasta spiegazione, molti giornalisti televisivi si ritrovavano lì ogni sera. «Fra quei due c'è qualcosa», disse dopo aver bevuto una lunga sorsata del suo martini. Pescò l'oliva dal bicchiere afferrando lo stuzzicadenti e cominciò a farla ruotare in una direzione e poi nell'altra, tracciando un lento cerchio e picchiettandola delicatamente sull'orlo del bicchiere. Sembrava più vecchia, più anziana di come era apparsa sotto le luci artificiali dello studio televisivo, ma i suoi occhi erano ancora taglienti, incisivi, implacabili. «Ha visto come sono stati attenti a non andarsene insieme? Be', buon per loro!». Rise levando il bicchiere e bevendo un altro lungo, lento sorso di gin e vermouth. Posò il bicchiere, vi ributtò dentro l'oliva sollevando un minuscolo spruzzo e parve studiare l'immagine riflessa del sorriso che le correva sulle labbra con una punta di malvagio divertimento. «Che senso ha sposarsi, se non si ha una relazione? Una ragazza ha bisogno di divertirsi, giusto?». Sollevò di scatto le pesanti ciglia nere e mi scoccò un sorriso abbagliante. «Ascolti, non si è offeso per quello che ho detto lì dentro, ve-
ro?». Era seduta direttamente davanti a me, e si sporgeva sul tavolo giocherellando con l'oliva nel suo martini allo stesso modo in cui una liceale avrebbe potuto giocare con la cannuccia della sua Coca alla ciliegia, tranne che ovviamente la liceale avrebbe avuto trent'anni di meno e non avrebbe dovuto preoccuparsi dell'illuminazione. C'era un che di triste nel modo in cui Paula Constable indossava minigonne aderenti e scarpe a punta con il tacco a spillo, si truccava con colori sgargianti e diventava una sorta di insegna al neon di se stessa. «Suppongo di invidiarla un po'. Essere così giovane, così bella, sposata con uno degli uomini più ricchi della città; avere una carriera, essere sempre richiesta... ormai parteciperà a tre trasmissioni alla settimana. Tutti la vogliono. Potrà anche sembrare un po' stupida; potrà anche non saperne più della tipica studentessa al primo anno di giurisprudenza, ma con quella faccia e quel corpo... Non la vogliono certo perché è F. Lee Bailey. Per quello hanno lei, Antonelli. Allora, si è divertito?». Rilassato all'indietro sul rigido divanetto di pelle, mi allentai il nodo della cravatta di quel tanto che bastava a slacciarmi il primo bottone della camicia e trassi un respiro profondo. «Non molto», risposi prendendo il bicchiere di whisky e soda dal tavolo. «L'impressione era che se la stesse spassando», disse lei da sopra il bicchiere. «Ma lei ha sempre quell'aspetto. L'ho osservata in aula. Sa sempre quello che fa». Non distolse gli occhi da me portandosi il bicchiere alle labbra; non li distolse ma non smise di muoverli, sondando, provando ad avvicinarsi, alla ricerca di qualunque segreto stessi cercando di nascondere. «Quanto meno, l'impressione è questa: sicuro di sé, padrone della situazione, come se sapesse già cosa accadrà». Posò il bicchiere. Le sue lunghe unghie laccate di rosso si strinsero attorno alla base fino a toccarsi. «Come se sapesse già come andrà a finire; e, ovviamente, l'unico modo in cui può finire, e il motivo della sua aria di sicurezza, è la sua vittoria». Abbassò gli occhi e fece scorrere la punta del dito medio sulle tracce di rossetto lungo il bordo del bicchiere. Le rughe sulla sua fronte, non tanto nascoste dal trucco quanto neutralizzate dal prevalere dei suoi occhi duri e brillanti e del costante, guizzante movimento delle labbra, si fecero più profonde e diffuse. «Non l'ho mai avuta quell'abilità di far credere a tutti che so qualcosa che loro non sanno, di far pensare a tutti che sono l'unica persona nell'aula, o se per questo da qualsiasi altra parte, di cui si possono fidare».
Una breve, mesta risatina le sfuggì dalle labbra. Nei suoi occhi lampeggiò l'autoironia. Si chinò in avanti, posò il mento sulla mano e compresse le labbra in un sorriso amaro. «E così faccio questo! Giro impettita come se non avessi un dubbio al mondo, mi vesto come un'adolescente con la gomma in bocca, cercando di pensare a qualcosa da dire che faccia più scandalo di quello che hanno detto gli altri, e tutto per far parlare di me. Che mi odino o che mi amino non ha importanza, basta che il mio nome sia là fuori, là fuori nel regno televisivo, perché è ormai l'unico modo in cui si conosce qualcuno. È così che mi procuro i clienti: perché sanno che sono in televisione. E siccome sono in televisione, sono importante. Ora, quando entro in tribunale, mi conoscono tutti, perfino i giudici». Staccò la mano dal mento e si massaggiò la tempia con le dita. Un sorriso agrodolce le storse la bocca. La fredda bellicosità scomparve dai suoi occhi come se non fosse mai stata altro che la maschera di un attore. La sua voce divenne pacata, sommessa, con una strana, misteriosa sensibilità, una sorta di commentario sulla falsa presunzione con cui era stata impiegata. «Ho studiato a Harvard, proprio come lei. Non lo sapeva, vero? Sa cosa volevo diventare? Un giudice, ma non un giudice di prima istanza. Un giudice della corte d'appello. Non certo della Corte Suprema, ma magari della corte d'appello federale, un posto in cui si prendono decisioni su questioni legali interessanti, su temi costituzionali, quelli veramente importanti. Ero fra gli studenti migliori del mio anno, ma non sono stata presa come assistente da un giudice federale, non mi hanno chiesto di unirmi a uno di quei prestigiosi studi legali di New York in cui hai la possibilità di discutere casi davanti alla Corte Suprema, dove puoi costruirti una reputazione, una seria reputazione nel campo del diritto costituzionale. A quei tempi non si assumevano molte donne. Oh, mi sarei potuta associare a uno studio qualsiasi, lavorare nell'amministrazione fiduciaria e diventare bravissima nel fare sempre la stessa, noiosissima cosa; probabilmente alla fine avrei guadagnato benino e sarei diventata una vecchietta dai capelli grigi, una delle prime donne a raggiungere la posizione di socia anziana di uno studio legale». Un sorriso, caloroso, amichevole e privo di amarezza, donò al suo viso un'allegria che non avevo mai visto prima. «Mi sarei vestita di blu e grigio, e sarei rimasta senza dubbio scandalizzata nel vedere donne, o quanto meno donne che volevano essere prese sul
serio, che vestivano di rosso». Scosse il capo in un tiepido gesto derisorio. «E forse, dopo tutto, non sarebbe stato così male». Bevvi un sorso di whisky e soda. Paula scostò il suo bicchiere e si appoggiò in avanti sui gomiti. «Ho lottato per tutto quello che ho ottenuto; ho preteso, ho fatto capire che non potevano ignorarmi e trattarmi come una stupida femmina che non sapeva stare al posto suo. Ho studiato di più, ho imparato la legge a menadito, ho passato il doppio del tempo della parte avversa a prepararmi su ogni caso e mi sono assicurata che lo sapessero tutti». Il ricordo la deliziava, le faceva venir voglia di dirmi di più. Un sorriso da cospiratrice le percorse le labbra. Si sporse in avanti. «E mi manca, mi manca la battaglia. No, non è questo: mi manca la sfida, la sensazione di fare qualcosa di importante, di poter contribuire a cambiare le cose, a far sì che le donne non vengano trattate diversamente dagli uomini, a far sì che quando finisci fra i primi del tuo corso a Harvard la gente pensi soltanto che ti sei guadagnata la possibilità di candidarti a un posto di assistente alla Corte Suprema o di essere assunta da uno studio legale di Wall Street». Mi guardò con quella sudata, stanca saggezza che si guadagna alla fine, quando si vede come le cose sono diverse da quello che si credeva e ci si chiede come sia possibile non averlo capito prima. «Ho vinto, abbiamo vinto, la guerra è finita. Le scuole di specializzazione in legge sono piene di donne: sono più numerose degli uomini. È soltanto questione di tempo prima che la stessa cosa accada nelle corti e nei grandi studi legali. E così eccomi qui, una vecchia guerriera che si rende ridicola in televisione perché non vuole essere dimenticata. C'è qualcuno che ricorda, no, c'è qualcuno a cui interessano le battaglie che ho combattuto? Stasera ha visto la risposta: Daphne McMillan. Pensa che lei le avrebbe combattute, o anche soltanto che avrebbe capito cosa riguardavano? Che allora sarebbe diventata un avvocato? Lei? Sarebbe diventata una segretaria legale e sarebbe andata a letto con il suo principale, un socio anziano con il doppio dei suoi anni che in un accesso di esuberanza e idiozia da mezz'età avrebbe divorziato dopo trent'anni di matrimonio, l'avrebbe sposata e probabilmente sarebbe schiattato a letto per lo sforzo. Adesso, invece, senza alcun ostacolo, diventa avvocato, si veste come una modella, batte le ciglia alla telecamera e con quella sua vocetta insipida ripete tutto quello che di politicamente innocuo le viene in mente». Si appoggiò all'indietro sulla sedia. Un sorriso pieno di nostalgia e rim-
pianto le ombreggiò la bocca piccola e tesa. «Daphne McMillan non è esattamente la "nuova donna" che alcune di noi avevano in mente». Si guardò intorno nel locale. Sinceratasi che nessuno fosse abbastanza vicino da udirla, si sporse in avanti e sussurrò: «D'altra parte, non lo è nemmeno quella furbetta che dovrei rappresentare. Dio, la gente farebbe qualsiasi cosa pur di andare in televisione!». Ne colse immediatamente l'ironia. «Lo so, lo so... ma non è la stessa cosa. Quella ragazza ha finito a malapena il liceo e fa la cameriera in una tavola calda. Vuole andare in televisione, vuole che gli altri parlino di lei. Lo nega, ma è così. Dice di voler soltanto essere lasciata in pace, e così mi chiama e mi chiede di aiutarla. Chiama una come me, un avvocato famoso, carissimo, una celebrità che ha visto alla tivù, non perché deve affrontare un'accusa penale, ma perché è andata a letto con un uomo processato per omicidio. Un uomo che le diceva che era solo ma che non le dava il suo numero di telefono e non le diceva dove abitava. Lei non penserebbe che forse c'è qualcosa di strano? Poi viene fuori che non solo è sposato, ma che sua moglie scompare e poi viene trovata morta. Lei è sorpresa, sbalordita che l'orda dei giornalisti le voglia tutt'a un tratto parlare. Decide che le conviene trovare qualcuno che l'aiuti. Non ha un soldo, ma le sue prospettive future potrebbero non essere così deprimenti. Fanno film, film televisivi su storie come queste, giusto? E la sua storia, la storia di come quest'uomo che tutti dicono abbia ucciso la moglie in uno dei modi più agghiaccianti che si siano mai visti ha approfittato di lei, non potrebbe essere una storia che vale la pena di raccontare?». Mi misi a ridere. «Davvero? Ha detto questo quando si è rivolta a lei?». «Sa che non posso rivelare nulla di ciò che mi ha detto un cliente. Ma una cosa gliela posso dire: è un tipetto tosto, furba come poche. La sua trasformazione, il nuovo look che tutti pensano sia stato una mia idea?». Paula batté i denti, poi atteggiò le labbra a un piccolo cerchio sprezzante. «Tracy sa quello che vuole, e pensa di sapere come ottenerlo. Se ci riuscirà non vedrò un dollaro, ma non importa. La pubblicità che mi sta facendo ne vale milioni. Ho una fila di gente lunga da qui a New York che farebbe qualsiasi cosa pur di avermi». Il suo sguardo traboccò all'improvviso di un segreto che non vedeva l'ora di rivelare. «Uno dei periodici nazionali, non posso dirle quale, sta preparando un articolo sugli "Avvocati televisivi". Uscirà fra due settimane». Si morse il labbro, gesto che aumentò invece di reprimere il piacere che le illuminava gli occhi. «Indovini chi sarà in copertina?».
Non dovevo aver reagito come sperava, o forse a un tratto pensò di aver detto troppo. La delusione nel suo sguardo era inconfondibile. Non era stata mia intenzione ferirla, e cercai di riparare. «È magnifico», dissi nella speranza che la parola non sembrasse artificiale come quando l'aveva usata il producer. «Davvero, è magnifico». «Non è male», ammise lei con un gran sorriso. Mi diede un colpetto sulla mano, poi si ritrasse. «Significherà altra televisione», soggiunse cominciando a calcolare i benefici. «Potrebbe addirittura procurarmi una trasmissione tutta mia. Vedremo. Ma c'è una cosa che voglio chiederle: accetterà il caso?». Avevo appena sollevato il bicchiere, scosso il ghiaccio e preso un sorso del mio drink. Mi arrestai, le rivolsi un'occhiata per dirle che non avevo idea di cosa stesse dicendo e terminai il mio scotch e soda. «Il caso Angela Morgan. Rappresenterà il marito? Si occuperà lei della difesa? L'avvocato che ha adesso non è in grado di affrontare un processo come questo. È un avvocato di celebrità, passa tutto il suo tempo in tivù». Levai le mani al cielo. «E chi non lo fa?». Paula mi rivolse un'occhiata vacua. «Non fa cosa?». «Passa tutto il tempo in televisione». Allungò la mano sul tavolo e mi afferrò la manica della giacca. «Mi ascolti», disse in un tono più che serio, quasi severo. «Io lo faccio perché devo, ma sono un avvocato, un penalista, e sono anche brava. Non so perché lei sia venuto stasera, ma sono felice che l'abbia fatto, perché è il migliore che ci sia. Morgan sa che il suo legale non è all'altezza. Gira voce che stia per licenziarlo e prendere qualcun altro. La voce che gira è che lo chiederà a lei». «Non l'ha fatto». «Lo farà, e quando lo farà lei accetti», disse con enfasi. «È un caso che può vincere». Mi soppesò con un'occhiata distaccata e soggiunse: «E potrebbe essere l'unico in grado di farlo». «Sembrava abbastanza sicura che fosse colpevole. Cos'è che ha detto? "Se sapesse quello che so io, se sapesse cosa mi ha detto Tracy"». «Quella era televisione», disse accantonando la cosa con un gesto della mano. «Cosa le ha detto Tracy?». Scacciò la mia domanda con lo stesso disprezzo. Quello che aveva dichiarato in televisione, quello che la sua cliente le aveva detto in privato e forse quello che diceva ovunque, non aveva importanza. Quello che era
accaduto ad Angela Morgan, che fosse stata assassinata dal marito o da qualcun altro, non aveva importanza. L'importante era il caso, il caso che aveva catturato l'attenzione del paese, il caso che ti avrebbe reso famoso, uno dei pochi avvocati il cui nome era noto a tutti. «A volte queste cose partono con la convinzione generale che sarà il processo del secolo», le rammentai, «finché un bel giorno succede qualcosa, un altro omicidio, un altro crimine, e tutti se ne lasciano coinvolgere al punto da dimenticarsi completamente del primo». «Non accadrebbe mai se lei fosse coinvolto. Non accetta più molti casi, e quando lo fa tutti sanno che è importante». Ora capivo qual era il suo obiettivo, e mi chiesi come avessi fatto a non arrivarci prima. Voleva una garanzia della sua stessa celebrità, un modo per tenere in vita la vicenda fino all'ultimo giorno del processo. «È per questo che mi ha chiesto di bere qualcosa con lei? Per convincermi ad accettare?». «Ascolti, la posso aiutare», disse con un'intensità tutta nuova. «Conosco qualcuno che conosce la famiglia. Non devo fare altro che accennare al fatto che sarebbe interessato...». Feci un sorriso largo da un orecchio all'altro. «Ne è passato di tempo da quando qualcuno si è offerto di aiutarmi a trovare lavoro. Ma la ringrazio lo stesso, continuerò ad arrangiarmi come posso». «Non intendevo...». «Non accetterò questo caso, nemmeno se me lo offriranno». «Ma perché?». «Perché non accetto più molti casi, e scelgo soltanto quelli che mi sembrano diversi, insoliti, casi che non ho mai visto in precedenza. Morgan non sembra particolarmente interessante, e sfortunatamente nemmeno quello che è successo alla moglie è così insolito. E perché, a essere sinceri, non voglio aver niente a che fare con il circo dei media. Quello che ho visto stasera mi è bastato». Esitai, indeciso se formulare a voce alta il pensiero che mi tormentava da quando avevo lasciato lo studio. «È stato magnifico», disse Paula con fare perplesso. «L'unico di noi quattro che si è comportato come credo si comporti sempre è stato Julian Sinclair. Quello che gli altri pensavano non gli importava; ha detto quello che voleva dire e voleva dire quello che ha detto. Se eri d'accordo, bene; in caso contrario... andava bene lo stesso. Mi è piaciuto. Mi è piaciuto molto».
Paula aveva estratto il rossetto dalla borsa. Guardandosi nello specchietto di un portacipria, aggiunse un altro strato alle sue lucenti labbra rosse. «Le è piaciuto perché si è rivisto alla sua età», disse facendo un ultimo controllo prima di richiudere il portacipria con uno scatto. «È uguale a lei, una versione più giovane. Intelligente, sicuro di sé, con quella bellezza impetuosa a cui le donne non sanno resistere». Cominciò a scivolare fuori dal séparé. «Devo vedere una persona», spiegò senza scusarsi. Una volta in piedi, si fermò all'angolo del tavolo e abbassò gli occhi su di me. «Sinclair è un tipo interessante, ha ragione; ma in parte ciò è dovuto al fatto che è ancora abbastanza giovane da consentirle di leggere nel suo futuro alcune delle cose che forse vorrebbe aver fatto nel suo passato». Mi posò una mano sulla spalla. «Lei è più generoso di me. Io ho guardato quella giovane ochetta di Daphne McMillan, e tutto quello che ho visto nel suo futuro è stato lo stesso egocentrismo che ho visto stasera. Una cosa gliela posso dare per certa: se anche dovessero arrivare ai cent'anni, non avranno mai vite interessanti quanto le nostre. Grazie per il drink». Mi voltai e la guardai allontanarsi. Prima ancora di avere fatto tre passi si stava rivolgendo a un producer fra la folla raccolta attorno al banco. «Se vuoi che ti salvi la trasmissione, Charlie, ti conviene muoverti. Stanno cominciando a prenotarmi con tre mesi d'anticipo!». 4 Il mattino successivo sul tardi Albert Craven passò dal mio ufficio per dirmi che aveva visto la trasmissione e che pensava che me la fossi cavata in modo egregio. Poi, come se l'avesse quasi scordato, aggiunse che l'aveva chiamato Harry Godwin. «Ha detto che sei stato magnifico, e...». «"Magnifico". È l'espressione che ha usato?» Perplesso, Albert inarcò le sopracciglia cespugliose. «Sì, perché?». «È quello che ha detto anche il producer, ed è quello che ha detto quell'idiota di Bryan Allen. Non pensi ci sia qualcosa che non va in un mezzo di comunicazione che trasforma un superlativo in un tiepido elogio?». Albert finse di trasalire. «Non arrabbiarti con me. Ti sto solo riferendo quello che ha detto Harry. E per quello che può valere, è raro che Harry elogi qualcuno, tiepidamente o no». Abbassando gli occhi sul tappeto per-
siano azzurro, fece scivolare una scarpa lucida davanti all'altra nell'atteggiamento indeciso di chi ha un interrogativo che non vuole formulare. «Digli che ho detto di no». Rialzò gli occhi, e un sorriso complice danzò agli angoli della sua piccola bocca tonda. «Ho fatto di meglio. Gli ho detto che farti accettare è stato come estrarti un dente. Harry sa cosa significa la parola favore. Ha risposto soltanto che spera cambierai idea, e che l'invito è sempre aperto». Il sorriso divenne trionfale. «Non pensavi che ci sarei riuscito, vero? Non credevi che avrei tenuto testa a Harry Godwin, il più importante cliente dello studio? Avresti dovuto sentirmi. Sono stato...». «Magnifico. Sì, lo so». Scoppiò a ridere e fece per andarsene. «Cos'hai davvero pensato, ieri sera?» «Di te?», chiese ruotando lentamente sui tacchi. «Quello che ti ho detto: non male». «Grazie», dissi rimettendomi a studiare la sentenza della corte d'appello che stavo leggendo. «È quello che ho pensato anch'io». «Julian Sinclair, al contrario, è stato davvero magnifico». Chiusi il volume di scatto e mi drizzai a sedere. «Sono d'accordo. Che cosa sai di lui?». «È un cervellone. Il migliore del suo corso. Non ha mai lasciato Berkeley. Ha svolto tutto il suo lavoro lì: l'università, la specializzazione, e adesso ci insegna. Sarebbe potuto andare ovunque. Da quanto mi hanno detto, i suoi risultati all'esame di ammissione al liceo erano superiori ai criteri stabiliti, e quelli dell'ultimo anno erano pressoché perfetti». Si guardò le scarpe e aggrottò la fronte. «Lo so perché faccio parte di una delle commissioni della facoltà di legge che valuta le possibili assunzioni. È insolito assumere qualcuno che si è laureato così di recente nello stesso istituto. Julian Sinclair è probabilmente quanto di più simile a un genio la facoltà abbia espresso». Un rapido sorriso malizioso gli guizzò sulle labbra. «Bada bene, non ho detto che è un genio; diciamo semplicemente che è uno dei giovani più dotati che abbia visto da un po' di tempo a questa parte. È una specie di confutazione ambulante di tutto quello che credevi di sapere in materia di genetica. O forse no», soggiunse con un'espressione leggermente confusa nei pallidi occhi azzurri. «È il motivo per cui non ha mai lasciato Berkeley, o quanto meno penso che lo sia. In quale altro modo lo si spiegherebbe?». Avevo imparato già da tempo a non aspettarmi di capire immediatamen-
te tutto ciò che diceva Albert Craven. I pezzi andavano al loro posto solo alla fine. Per lui era tutto logico, ed era sicuro che l'avresti pensato anche tu se soltanto avessi avuto pazienza e avessi lasciato che ti guidasse attraverso le varie complicazioni senza le quali non avresti mai potuto capire quello che voleva farti sapere. «Ogni storia ha un inizio, una metà e una fine», mi aveva spiegato una volta con paziente ironia quando avevo obiettato che più andava avanti meno capivo. «Ma prima di apprezzare l'inizio devi sapere qualcosa della metà». La verità era che ogni volta che cominciava a parlare ricordava immancabilmente qualcosa che avrebbe dovuto dire prima. Le storie semplici non esistevano. «Come si spiega il comportamento di uno che fin da giovanissimo sa che potrebbe andare ovunque, che potrebbe diventare qualsiasi cosa, che ogni singola università del paese l'avrebbe non soltanto ammesso, ma gli avrebbe concesso una borsa di studio completa? Era cresciuto a Oakland. Sarebbe potuto andare a Harvard, a Princeton, a Yale, ovunque; e invece è andato a Berkeley, a cinque chilometri da casa. Sì, certo, ci sono andato anch'io, so che è una grande università. Ma pur essendo il primo della sua classe alla maturità, pur avendo ottenuto risultati quasi perfetti agli esami attitudinali, Julian Sinclair non è partito per Harvard, Yale o Chicago; è rimasto dov'era. Sette anni di università a Berkeley; poi, un anno o due dopo aver ottenuto la specializzazione, di nuovo il migliore del suo corso, cosa fa? Fa domanda per un impiego in facoltà». Craven si sollevò sulle punte dei piedi, si posò entrambe le mani sulle reni e si stirò. «Poteva andare ovunque, poteva fare qualsiasi cosa, e invece è rimasto a casa». I tacchi delle sue scarpe tornarono a posarsi sul tappeto. Con un gesto teatrale tese il braccio destro. «Sua madre! Ecco perché l'ha fatto, perché non si è mai allontanato: sua madre. O meglio, la donna che l'aveva cresciuto; non la sua vera madre, ma l'unica madre che lui avesse mai conosciuto. Sinclair era un trovatello, letteralmente: era stato trovato da quella donna, ma non so se fosse stato lasciato sulla soglia di casa sua oppure abbandonato da qualche parte, sotto la panchina di un parco. Immagino che non lo sappia nessuno». Fece i pochi passi che lo separavano dalla poltrona e si sedette. Si sistemò i polsini della camicia facendoli sporgere dalle maniche della giacca, abbandonò le mani sulle estremità dei braccioli e accavallò le gambe. «Ecco cosa intendevo dire», soggiunse con un breve, elegante sorriso. «È la confutazione di tutto quello che credevi di sapere in fatto di genetica,
o forse no». Roteai gli occhi nel tentativo di farlo sentire obbligato a giungere al punto, e la cosa parve divertirlo. Le sue labbra tradirono un tremito, la sua testa si inclinò leggermente da una parte. Mi scoccò un'occhiata divertita. «Avrai pensato anche tu la stessa cosa». Ricambiai la sua occhiata. «Spesso», dissi nel tono più secco che potei. «Lo immaginavo». Craven mi fissò per qualche altro istante mentre un insopprimibile sorriso di generosità e benevolenza faceva crollare la maschera di stoica indifferenza. Con sorprendente agilità balzò in piedi e si avvicinò rapidamente alla finestra. Intrecciando le mani dietro la schiena, osservò la strada affollata più in basso. «È nato con quella sbalorditiva intelligenza, per forza. Ma da dove proviene? Dai suoi genitori, chiunque essi fossero? Ma quale genere di persona abbandona un neonato senza predisporre la sua adozione o fare i passi necessari a sincerarsi che stia bene? Qual è la prima cosa che ti viene in mente?», domandò girando su se stesso. «Una giovane sventurata, una senzatetto che vende il proprio corpo in cambio di droga o denaro, scopre di essere incinta e non è in grado di badare a se stessa: cosa potrà mai fare con un figlio?». Inclinò la testa verso il basso. «Ma che il figlio di questa ragazza sia Julian Sinclair? Pare impossibile. E il padre, con una ragazza come quella che stiamo immaginando? Sembra ancora più impossibile». La schiena appoggiata alla finestra, un piede sull'altro, sembrava inseguire un fuggevole pensiero tutto suo, una di quelle lontane possibilità che sono tanto più attraenti quanto più sono diverse da ciò che ci aspettiamo normalmente. «Avrebbe un senso, ovviamente, se sua madre fosse stata la bellissima figlia di un uomo ricco e potente che si era innamorata di un giovane di una classe diversa ed era stata costretta a rinunciare al neonato per paura di ciò che sarebbe potuto accadere al ragazzo che amava. È una vecchia storia, il figlio della famiglia nobile, abbandonato per salvarlo dalle ambizioni omicide di un re illegittimo, viene allevato dai pastori e diventa il salvatore del suo popolo». Si strinse nelle spalle. «Non so chi fossero i suoi genitori; ma so qualcosa della donna che l'ha cresciuto. È un miracolo che sia sopravvissuto. Lei doveva essere una donna di buon cuore: dopo tutto l'ha preso con sé e l'ha tirato su, o ha cercato di farlo, come se fosse figlio suo. Era alcolizzata, probabilmente non ha mai resistito due giorni di fila senza bere. Non so se si drogasse; ma quante probabilità ci sono che non lo facesse? Passava da
un uomo all'altro, mai per più di pochi mesi alla volta; molti di loro erano delinquenti recidivi, ubriaconi e tossici e ladruncoli, quelli che sembrano non imparare mai nulla salvo nuovi modi per farsi pizzicare. Ogni uomo con cui viveva la lasciava, e ognuno di quelli che la lasciavano badava bene a picchiarla prima di andarsene». Inarcò le sopracciglia con un'espressione turbata e pensosa negli occhi. «E malgrado tutto ciò, quello che abbiamo non è un assassino psicopatico o un altro tossico decerebrato, ma Julian Sinclair. Lui è rimasto qui, non se n'è andato. È rimasto perché ha dovuto farlo, perché senza di lui la donna che chiama sua madre sarebbe morta. È rimasto per prendersi cura di lei, per tenerla il più possibile lontana dal genere di individui che le avrebbe fatto del male. Penso che Sinclair sia, senza eccezione, il giovane più straordinario che esista, e non ho la minima idea di come lo si possa spiegare. Non esiste semplicemente alcuna categoria in cui lo si possa classificare». Ero seduto sulla sedia, le mani intorno al ginocchio, e osservavo Albert Craven sforzarsi di capire un mistero che nessuno di noi poteva risolvere. «È il dono, Albert, tutto qui». «Il dono?». «Il dono dell'esistenza, il fatto che non si può mai dire come sarà una persona». Mi drizzai a sedere e spostai lo sguardo alle spalle di Albert Craven, sulla finestra e sulla città al di fuori, la città che era troppo bella per concederti di avvicinarti a sufficienza da conoscerla. «Sarebbe davvero meno misteriosa, un'intelligenza come la sua, se sapessi tutto di lui, o credessi di saperlo? Se fosse stato cresciuto dai suoi genitori, se i suoi genitori fossero stati due borghesi istruiti? Quanti figli della grande borghesia americana sono diventati interessanti come Julian Sinclair?». A un tratto ricordai cosa mi aveva detto Craven parlando non di Sinclair ma di Harry Godwin. «Forse c'è un vantaggio, nel doversela cavare da soli. È ciò che ha dovuto fare Harry Godwin. Non è questo che hai detto? L'unica differenza è che Godwin doveva preoccuparsi soltanto di se stesso, mentre Julian doveva pensare anche a qualcun altro. Credi che sia stato questo a renderli diversi?». «Non ci avevo pensato», ammise Albert. «Forse sì. Julian di sicuro non ha la durezza di Harry, la sua risoluta devozione alla propria ambizione. A dirti la verità, non sono sicuro di sapere quale potrebbe essere l'ambizione di Julian Sinclair. Non è il denaro, questo è chiaro. Ma cos'è, cosa vuole veramente? Qualunque cosa sia, non è ciò che la maggioranza della gente
desidera o forse addirittura comprende. Che cosa vuole Julian Sinclair? Probabilmente parlare bene otto lingue, scoprire una civiltà perduta da qualche parte, scrivere un libro che sarà letto solo da dieci persone e capito dalla metà. Harry Godwin corrisponde a un tipo di persona; Julian Sinclair... non so cosa sia, ma non corrisponde a nulla». Diede un'ultima occhiata alla finestra e si diresse verso la porta. «Forse dovremmo chiedergli di associarsi al nostro studio», osservò dopo averla aperta. Parve soppesare il proprio suggerimento, osservarlo sotto una luce obiettiva come spesso analizzava un problema di cui gli era stata affidata la soluzione. L'errore era vederlo soltanto nel modo in cui volevi che si risolvesse, senza tener conto degli interessi dell'altra parte. «Probabilmente si annoierebbe a morte, non trovi?». Mi chiesi se avrebbe potuto. Era anche possibile che si annoiasse a insegnare sempre le stesse cose al genere di studenti che, se non erano cambiati dai tempi in cui avevo studiato io, sceglievano il diritto penale soltanto perché dovevano farlo e in gran parte non pensavano ad altro che a trasformare la professione legale in una carriera lucrosa. Era un interrogativo che valeva la pena di approfondire. Julian Sinclair aveva detto di volermi vedere, e ora avevo anch'io una ragione per vederlo. Attesi la sua telefonata per una settimana, e quando non arrivò lo chiamai io stesso. «Pensavo che non avrei dovuto chiamarla subito», disse. Mi parve una strana affermazione, e non sapevo bene come rispondere. «So quanto dev'essere occupato», spiegò in tono modesto e rispettoso. «Non volevo pensasse che non ero consapevole di quanto pressanti debbano essere i suoi impegni. Avevo pensato di aspettare un paio di settimane. È stato molto gentile a chiamare lei», soggiunse con giovanile esuberanza. Confesso che mi fece sentire un po' come una reputazione ambulante. Era un potente, sebbene involontario, promemoria del fatto che era più giovane di una generazione e che il futuro, qualunque esso fosse, apparteneva a lui. Decidemmo di pranzare insieme. Julian si offrì di venire in città, ma io suggerii di vederci a Berkeley. Avevo appena finito un processo e volevo una scusa per non dedicarmi subito al compito successivo. Avrei pranzato con Julian Sinclair e poi avrei passeggiato per il campus, riuscendo forse a percepire quanto, e se, la vita al college fosse cambiata. Ma il motivo principale era che volevo vedere quanto, e se, fosse cambiata la scuola di legge. Quando presi posto nell'ultima fila vuota dell'aula e ascoltai Julian Sin-
clair provare a duecento futuri avvocati che non sapevano quello che dicevano riguardo ai temi più importanti del diritto penale, mi parve di essere tornato indietro nel tempo. «Signorina Fairbanks», disse rivolto a una studentessa dall'aria intensa seduta centralmente in terza fila. «La sua argomentazione, se ho capito bene, non è che la pena capitale sia crudele e inusitata e che pertanto dovrebbe essere abolita su basi costituzionali, ma che sia immorale. È esatto?». Rammentai la prima volta che ero stato interpellato nel corso del mio primo anno a Harvard. Avevo detto qualcosa di insensato e incoerente, ma il fatto di essere riuscito ad aprir bocca mi era parso già una sorta di trionfo. La signorina Fairbanks non sembrava nervosa, e di sicuro non pareva riluttante a mantenere la propria posizione. «Esatto, è immorale», insistette. «Come si può giustificare che lo stato faccia quello che non permette all'individuo di fare?». Gli occhi di Sinclair si illuminarono. «È quello che sostengono in molti, giusto? Ma non può essere così, non crede?». La guardava fisso, dicendole che sbagliava, ma anche dicendole che era più intelligente di quelli che commettevano lo stesso errore, perché era in grado di capire qual era. «Lei non crede nella schiavitù, vero? Ciò malgrado, accetta che lo stato abbia il diritto, e non solo il diritto ma il dovere, di schiavizzare». «No, non lo accetto», rispose sbalordita la signorina Fairbanks. «Non vedo come chiunque possa...». «Lei è contro la pena di morte. L'alternativa che preferisce è, cosa? L'ergastolo? Ebbene, cos'è l'ergastolo, cos'è l'incarcerazione, se non una forma di schiavitù? Pertanto, se la schiavitù non è mai difendibile, alla stessa stregua dell'omicidio, come può permettere allo stato di fare quello che, come ha fatto giustamente notare, non permetteremmo mai all'individuo di fare? «Signor Hutchinson», chiamò Julian voltandosi di scatto verso il lato opposto dell'aula. «Ci aiuti. Quale altra argomentazione ci può essere contro la pena di morte?». Hutchinson alzò gli occhi dal suo computer portatile come se fosse stato colto in flagrante. «Il signor Hutchinson è impegnato in quello che mi sembra si chiami "multitasking". Un tempo era chiamata "schizofrenia", ma ciò accadeva prima che i pazienti si impadronissero del manicomio e l'incapacità di concentrarsi mentalmente su un argomento per più di pochi secondi diventasse
una virtù di cui vantarsi invece che una malattia curabile con un po' di aiuto e comprensione». Un sorriso guizzò sulle labbra di Sinclair. «Non si preoccupi, signor Hutchinson, torni a fare quello che stava facendo». Fece per rivolgersi altrove, ma proprio quando lo sventurato Hutchinson stava cominciando a rilassarsi gli domandò di punto in bianco: «E quale pena pensa la corte avrebbe comminato nel caso che le è stato assegnato oggi, il celebre caso inglese, la Regina contro Dudley e Stephens?». Hutchinson aprì la bocca, ma non riuscì a dire nulla. I suoi occhi erano sgranati dalla paura. Guardai Julian Sinclair mentre l'osservava. Era una delle cose peggiori che faceva la scuola di legge, insegnarti che non importava cosa dicevi a patto che dicessi qualcosa, qualsiasi cosa pur di mantenere vivo lo scambio. Prima ancora di imparare alcunché sul diritto, gli studenti dovevano parlare come se lo conoscessero da cima a fondo. Se venivi interpellato rispondevi, e peggio per lo sprovveduto che aveva l'onestà di ammettere la propria ignoranza. Non c'era da stupirsi che venissero fuori avvocati che non sapevano pensare e giudici che non sapevano scrivere. Continuai a osservare Sinclair, cercando di capire cosa significasse lo sguardo tetro con cui si avvicinava al giovane, paralizzato signor Hutchinson. «È stata esattamente questa la mia reazione la prima volta che ho letto il caso. Esattamente questa», disse in tono sbalordito, come se in Hutchinson avesse trovato un'anima gemella. «È incredibile, vero? Un naufragio con quattro sopravvissuti lontanissimo dalle rotte principali, nessuna possibilità di essere ritrovati. Niente cibo, pochissima acqua, il ragazzino in fin di vita. Due dei tre adulti decidono di dare una spintarella alle cose, perché se non lo fanno, se aspettano, sarà troppo tardi e moriranno tutti. E così lo uccidono, mangiano le sue carni e bevono il suo sangue, e quattro giorni dopo vengono ritrovati e salvati. Ma vengono messi sotto processo: omicidio e, ancora peggio, cannibalismo. E qual è la loro difesa?», domandò guardando Hutchinson negli occhi come se questi lo sapesse di sicuro. «La necessità. Il fatto che non avevano scelta, che avevano fatto quello che dovevano fare, e che soltanto compiendo quell'atto terribile erano riusciti a evitare il male peggiore, la morte di tutti». Sorrise a Hutchinson con una sorta di gratitudine, come se fosse stato lui a parlare invece di restarsene lì ammutolito, imbarazzato e pronto ad arrendersi.
«Lunedì cominceremo da qui, signore e signori», annunciò con un breve gesto della mano. «Dalla legge di necessità». Gli studenti si stavano alzando quando soggiunse: «E forse vorrete riflettere anche su questo: se foste condannati per omicidio, cosa preferireste: ricevere un'iniezione letale o trascorrere i successivi cinquanta, sessant'anni in gabbia come un animale dello zoo? Buon fine settimana». Era una domanda da scuola di legge, uno di quegli interrogativi con cui gli studiosi e gli studenti lottavano come se riflettendoci potessero capire cosa significava veramente quella tremenda alternativa. Coloro che si trovavano realmente davanti alla possibilità di una sentenza di morte in luogo di una vita in prigione vedevano di rado la questione come qualcosa che poteva essere valutato da un'altra prospettiva. Sceglievano sempre, o quasi sempre, di vivere. «Difficile sognare la fuga da morto», rispose Julian Sinclair quando gliene parlai a pranzo. Un sorriso incorreggibile gli increspò la bocca dritta e netta. Poi però, temendo di sembrare meno serio del dovuto, scostò il piatto semivuoto e incrociò le braccia sul tavolo. «Ma dopo un certo periodo, dopo che hai passato vent'anni in galera, dopo aver rinunciato a qualsiasi speranza di uscire, non pensa che...?». «No», ribattei pulendomi l'angolo della bocca con il tovagliolo. «Per gli ergastolani che ho conosciuto, per quelli che sono dentro da anni, la prigione diventa una casa, diventa il mondo. Rivolsi la stessa domanda, quella che lei ha fatto in aula, a una persona che conoscevo, che avevo rappresentato quand'ero ancora agli inizi. Quando lo conobbi era in prigione per omicidio, e vi si trovava da trent'anni. Gli chiesi se non avesse mai rimpianto che non l'avessero condannato a morte invece di rinchiuderlo per tutti quegli anni. Lui rispose che era la sua vita, quella a cui era abituato. E lo disse con solo una punta di rassegnazione. Era sincero: era davvero la sua vita, forse non la vita che avrebbe scelto, ma forse anche migliore di quelle vissute da alcuni di quelli che conosceva fuori dal carcere». Stavamo pranzando al club della facoltà, una vecchia costruzione di sequoia con un pesante tetto di assicelle e pavimenti di legno sbiadito che pendevano da una parte e scricchiolavano sotto i piedi. Un ponticello di assi di legno con balaustre ricavate da alberelli e alle cui estremità si vedevano chiaramente i segni dei colpi di accetta, attraversava il torrentello che si snodava fra le sequoie che circondavano gli edifici e facevano ombra. Era la Berkeley degli anni Venti, quando c'erano ancora più cavalli che automobili e il campus era un rifugio dal mondo. Allora v'insegnava George
Santayana. Mi chiedevo se ci fosse qualcuno che se ne ricordava. Julian mi aveva ascoltato con profondo interesse, il mento posato sull'incavo della mano. «Chissà...», cominciò. Scosse la testa e si abbandonò all'indietro sulla sedia con un sorriso triste e pensoso sul volto. «In realtà non è una grande alternativa, no? Quello che voglio dire è che se anche vieni condannato a morte non è la morte che ottieni. A San Quentin ci sono seicento detenuti nel braccio della morte. Il venti per cento di questi, e sono disposto a scommettere che la stima è bassa, è uscito di senno. Se non erano già pazzi al loro arrivo, vivere in quel modo, soli in una cella, tagliati fuori da tutto, lasciati uscire soltanto un'ora o due alla settimana... come si fa a restare sani di mente? Alcuni di loro vivono in questo stato per anni, in certi casi venti, venticinque anni. Sicché la differenza fra una condanna a morte e un ergastolo senza condizionale è meno netta di quanto pensi molta gente». Venne percorso da un brivido leggero. «Il solo pensiero... No, non ci riuscirei; non ce la farei a vivere imprigionato in quel modo. Mai». Era l'onesta supposizione, la sincera valutazione di chi sapeva che non sarebbe mai stato costretto a scoprirlo. «Ma ti fa riflettere, vero? Sul fatto che Bryan Allen e gli altri come lui siano tanto ansiosi di condannare qualcuno, di chiederne l'esecuzione o quanto meno la prigione a vita senza condizionale prima ancora che ci sia stato un processo. Lei cos'ha pensato?». Prima che potessi rispondere, si sporse in avanti di scatto. «Cosa pensa direbbe Allen se fosse lui a essere accusato di omicidio?». I suoi occhi brillavano di un'accesa malignità. «È quello che ha detto lei prima, no? Il modo in cui siamo così certi di qualcosa quando siamo dei semplici osservatori, quando non si tratta di noi. Che cosa farebbe Allen, cosa proverebbe riguardo a ciò che Paula Constable sta dicendo in televisione, che l'imputato non può che essere colpevole perché aveva una relazione? Siamo al linciaggio elettronico. Morte da opinione pubblica». Il suo umore si rallegrò all'improvviso. «Ma lei troverebbe il modo di sfruttare la cosa, vero? Sfruttare il fatto che tutti pensino che l'imputato sia colpevole, il fatto che tutti questi avvocati affamati di pubblicità vadano in televisione a denunciare la sua colpevolezza. Non è proprio questo il segreto? Trasformare quella che sembra la debolezza più grave nella forza più decisiva?». Per capire fino a che punto andava il suo interesse, gli girai la domanda. «Non ha mai pensato di diventare lei stesso penalista? C'è una differenza, sa, fra parlare della teoria del diritto, parlare di quello che una corte d'ap-
pello ha deciso che una corte di prima istanza avrebbe dovuto fare, e partecipare alla cosa, metterne insieme gli elementi, usare tutto il diritto che hai imparato nella tua vita per costruire una difesa. Glielo sto chiedendo per una ragione. Credo conosca Albert Craven. Craven pensa che lei sarebbe un grande acquisto per lo studio. E lo penso anch'io». «Diritto penale?». Il tono in cui lo chiese suggeriva che la considerava una limitazione. «Il diritto: penale, civile, ogni suo aspetto, oppure quello che vuole esplorare. E processi, come desidera e come si sente in grado di affrontare. O come si sente spinto a fare», soggiunsi con un'occhiata indagatrice. «Le cose andranno in questo modo. Ci sarà un caso che la coinvolgerà, un caso che non riuscirà a lasciar andare, che non mollerà la presa su di lei, e lo porterà in aula perché l'aula è l'unico luogo in cui risolverlo nel modo giusto». Bevvi un sorso del mio caffè, osservando il modo in cui lui assorbiva la cosa. Non vi fu alcuna traccia di quella falsa modestia che, coprendo la vanità, va alla ricerca delle lodi. Non aveva intenzione di insultare nessuno di noi due mettendo in dubbio di essere all'altezza. «Ho pensato all'idea di esercitare la professione legale invece che insegnarla. E ci ho provato: sei mesi, appena dopo la laurea, in procura; ma continuavo a fare sempre le stesse cose. Ti fanno cominciare con semplici casi di illeciti. Fu così che conobbi Daphne...». Mi rivolse una strana occhiata, quasi temesse di essersi tradito ma più ancora fosse irritato con se stesso per aver detto qualcosa che sentiva di dover tenere nascosto. «Daphne McMillan. Ci siamo conosciuti in procura. È per questo che ho fatto quell'osservazione, che ho definito "stupido" ciò che aveva detto. Sapeva che stavo solo cercando di far capire il mio punto di vista». «Il lavoro non le piaceva?». Parve grato del fatto che lo stessi riportando al discorso di prima, a quello che aveva voluto dire. «No, era noioso e peggio ancora disperato. Non facevamo che condannare le stesse persone per le stesse cose, con l'eccezione dei nuovi che ricevevano le loro prime condanne e inauguravano la loro fedina». Inarcò le sopracciglia. «Non era certo materia per un Clarence Darrow». «E così se ne andò, ma Daphne rimase. Ai tempi non si chiamava ancora McMillan, giusto?». Accavallò le gambe e si sedette di traverso sulla sedia. «No, non si
chiamava McMillan», ripeté aggrottando la fronte e osservando il proprio piede che ondeggiava avanti e indietro. «Si chiamava Della Rosa, Daphne Della Rosa. Bellissimo nome, bellissima ragazza. E sì, Daphne rimase. Ha sempre avuto bene in mente quello che voleva». Esitò con un sorriso riservato sulle labbra, poi alzò gli occhi. «Forse perché è sempre riuscita a ottenerlo». Consultò il suo orologio e parve sorpreso. «Non mi ero reso conto... Sono quasi le tre. Ogni venerdì alle tre e mezza ho lezione di scherma. Vuole accompagnarmi a piedi? Non è lontano, possiamo parlare mentre camminiamo». Fuori, mentre uscivamo dall'ombra degli alberi alla dolce luce di febbraio, mi disse che era molto interessato a quello che gli avevo detto e che gli sarebbe piaciuto approfondire l'argomento. Si chiedeva se avremmo potuto rivederci dopo che avesse avuto la possibilità di rifletterci. Decidemmo di incontrarci di nuovo la settimana dopo. Sarebbe venuto lui in città, e Albert Craven si sarebbe unito a noi a pranzo. «Ho cominciato a tirare di scherma alla fine dell'anno scorso», spiegò davanti alla palestra. «Mi ha insegnato di più sull'equilibrio e sulla concentrazione di qualsiasi altra cosa. Ci ha mai provato? Vuole imparare?», chiese con tale giovanile entusiasmo che per una frazione di secondo pensai quasi che avrei dovuto farlo. 5 Più ci pensavo, più sembrava logico. Tutto in lui, l'agilità aggraziata con cui si muoveva, il sorriso rapido e facile, la trasparenza cristallina dei suoi occhi, la certezza cartesiana della sua mente, dava l'impressione di qualcuno che si sentiva più vivo quando si trovava in situazioni limite. La scherma, anche se non faceva scorrere il sangue, ti ricordava che poteva farlo: che l'errore di un attimo, una reazione di una frazione di secondo troppo lenta, una stoccata che mancava il segno e ti lasciava scoperto per un istante avrebbe potuto, se tu non fossi stato protetto, costarti la vita. Non riuscivo a immaginarmi Julian Sinclair che giocava a scacchi. Il venerdì successivo venne in città come avevamo stabilito. Albert Craven aveva prenotato un tavolo al suo club privato, un luogo davanti al quale saresti potuto passare un migliaio di volte senza mai accorgerti della sua presenza. Si trovava in un vicolo pochi isolati a sud di Market. Non c'era alcun cartello, nulla che indicasse cosa si trovava dietro la spessa porta di
legno. Albert affidò le chiavi dell'auto a un custode che si materializzò dal nulla, si fermò davanti alla porta liscia e priva di finestre e suonò il citofono. «Buon pomeriggio, signor Craven», disse un uomo olivastro che avrebbe potuto essere libanese. Percorse il vicolo con una rapida occhiata come se stesse conducendo un'operazione illegale. In realtà non era affatto un club, nella normale accezione di un luogo i cui membri potevano andare a rilassarsi; era un piccolo ristorante con, se avevo contato bene, dieci tavoli al pianterreno e altri quattro a un livello rialzato sul retro, a cui si arrivava salendo due gradini. Non aveva nulla di opulento o grandioso; nulla di ciò che ci si sarebbe potuti aspettare sentendoci dire che si stava per pranzare nel club più esclusivo di San Francisco. Le tovaglie erano di lino bianco, le sedie erano quelle prive di braccioli che si trovano nelle spaghetterie a buon mercato illuminate da candele infilate in bottiglie di Chianti ricoperte di cera. Mentre ci sedevamo a uno dei tavoli in fondo alla sala, Julian si guardò intorno con un'espressione interrogativa nei luminosi occhi castani. «Cosa possiamo servirle oggi, signor Craven?», chiese lo stesso uomo che ci aveva fatto entrare. Indossava abito scuro e cravatta scura. La sua voce era bassa, confidenziale, discreta. Albert voleva che il suo ospite ordinasse per primo. Julian si sbottonò la giacca e guardò il nostro anfitrione. «Forse potrei vedere un menu?». «Temo che qui non ci siano menu». Julian tradì una scintilla di consapevolezza nello sguardo, cominciando a capire il motivo per cui quel locale, buio e lugubre come una qualsiasi tavola calda per automobilisti, era così privato ed esclusivo. «Bene, che cosa avete?», domandò inarcando un sopracciglio e sorridendo fra sé. La risposta fu noncurante, indifferente, data con il tipo di benevola negligenza che, come Julian sembrava aspettarsi, andava dritto al cuore di cosa significava essere ricchi. «Quello che vuole. Qualsiasi cosa». Durante quel pranzo parlammo di moltissime cose, dal diritto a quello che Julian desiderava fare, da quello che avrebbe fatto se si fosse associato allo studio a quello a cui avrebbe rinunciato abbandonando una carriera universitaria cominciata soltanto pochi anni prima, e fu solo gradualmente che mi resi conto che non aveva mai bisogno di riflettere su ciò che diceva. Non faceva mai una pausa, non tradiva la benché minima esitazione. Gli
facevi una domanda e la risposta arrivava chiara, immediata e ben formulata come quella di uno studente che si fosse procurato le domande di un esame in anticipo e si fosse scritto le risposte. Avevo osservato lo stesso fenomeno la sera della trasmissione televisiva e mi ero meravigliato di come riuscisse a uscirsene di punto in bianco con un'argomentazione concisa e perfettamente ragionata che faceva sembrare gli altri un branco di ignoranti. L'aveva rifatto, con più tatto e gentilezza, durante la sua lezione. Non era semplice disinvoltura: non cercava mai di aggirare una domanda. Era qualcosa di più sconcertante. Pur con tutta la sua calma e le sue buone maniere, pur con tutta la sua voglia, che sono sicuro fosse sincera, di essere d'aiuto come poteva, non esistevano affermazioni che lui non avesse già sentito, pensieri che lui non avesse già pensato. La gente gli piaceva, non era un misantropo che detestava il mondo intero, ma avevo la sensazione che gli piacesse meno di quanto potesse pensare e sperare. Poiché ero più anziano e avevo la reputazione di essere un avvocato che in aula sapeva quello che faceva, Julian mi vedeva come qualcuno da cui imparare. Ma ascoltandolo parlare in toni così confidenziali con Albert Craven, un uomo che aveva più del doppio dei suoi anni, capii che non sarebbe passato molto tempo prima che Julian cominciasse a concludere mentalmente le mie frasi e a domandarsi se avrei mai detto qualcosa di nuovo. Dopo averlo salutato ed essere rientrati in ufficio, Albert Craven mi disse che pur non essendo in disaccordo con il mio punto di vista, vedeva la questione sotto una luce diversa. Era seduto sull'orlo di una poltrona grigio tortora, dietro la scura, orribile scrivania vittoriana che era stata uno sgradito regalo di una delle sue mogli. «È stata la mia prima reazione alla mia stessa ipotesi. Ricordi? Che si sarebbe annoiato. Quello che ho scoperto oggi a pranzo è che ancora non lo sa, e non sapendolo è eccitato all'idea di fare qualcosa di nuovo. È stufo di insegnare, lo si è potuto capire dal fatto che non ha detto una parola su quanto potrebbe mancargli, ma si stancherebbe di qualsiasi attività, una volta che la imparasse e scoprisse che non basta. Ricordi cos'ha detto dei soldi? Niente, nemmeno una parola. Vuole farlo perché è ambizioso, forse più di chiunque tu o io abbiamo mai conosciuto». Un sorriso gli guizzò sul volto. Appoggiandosi al bracciolo sinistro della poltrona cambiò posizione fino a guardare fuori dalla finestra laterale. «Immaginati uno come Napoleone nato duecento anni troppo tardi. Julian Sinclair è questo: una mente che non riposa mai, un implacabile desi-
derio di conquistare il mondo, di fare qualcosa di grande. E cosa dovrebbe fare? Dov'è lo spazio per una cosa simile, in questa nostra età democratica in cui tutti sono uguali e nulla è più importante del resto? Julian Sinclair insegna diritto in una scuola di primo livello, e come sfoga l'energia repressa? Impara a tirare di scherma. Se vuoi scrivere la vita di Julian Sinclair ti conviene trovare un altro Cervantes, perché quello che abbiamo davanti è un altro Don Chisciotte». Ruotò il capo fino a incrociare il mio sguardo. «Anche se il suo atteggiamento nei riguardi dell'amore non è altrettanto nobile o etereo. Chisciotte, se ricordo bene, pensava che Dulcinea, una donna di ceto più umile, fosse nobile, casta e devota». Inarcò le sopracciglia e sospirò. «Julian Sinclair, invece, sembra trascorrere buona parte del suo tempo a letto con una donna sposata di quella che oggi passa per essere la classe dirigente. Non nobile, forse, ma decisamente ricca». «Daphne McMillan?». «L'hai saputo. Sì, la voce è questa. Non sono affari miei, ovviamente. Non sono affari di nessuno, in realtà; ma è un po' pericoloso». Mi rivolse un'occhiata da uomo navigato. «Non perché lei è sposata, ma per via dell'uomo con cui è sposata. I suoi amici lo chiamano eccentrico, ma se lo chiedi a me Robert McMillan non è del tutto sano di mente». «Magari non è vero», ipotizzai alzandomi. Erano quasi le sei meno un quarto e avevo ancora alcune cose da fare. «Per un certo periodo hanno lavorato insieme in procura. Sono amici». Albert Craven mi guardò con aria scettica. «Li hai visti insieme. È davvero quello che pensi? Ma che abbiano una relazione o no, dobbiamo comunque prendere una decisione. Lo vogliamo o non lo vogliamo con noi?». Conoscevamo entrambi la risposta. «Sarà un modo per impedire di annoiarci: fargli credere che ci vogliano anni per diventare bravi, per diventare grandi come noi». «E quanto a lungo credi che potremo impedirgli di capire che l'istante in cui ha varcato la soglia ne sapeva già più di noi?». Ma la verità era che ad Albert piaceva la prospettiva di creare l'accettabile illusione che vi fossero cose che il giovane, inesperto Julian Sinclair doveva ancora imparare, e che alcune di queste avremmo potuto insegnargliele noi. Non vedevo l'ora che arrivasse lunedì mattina, quando mi ero ripromesso di chiamare personalmente Julian. Probabilmente aveva cominciato a
pensare a come sarebbe stata la sua nuova vita nella professione legale mentre era ancora sul Bay Bridge, di ritorno a Berkeley. Aveva quel tipo di immaginazione grazie alla quale ogni scena del futuro era già vivida nella sua mente. Al suo arrivo a casa doveva aver già rivolto una dozzina di arringhe a una dozzina di giurie diverse, tutte con il fiato sospeso per la possibilità di fare ciò che lui aveva detto loro di fare se volevano ottenere giustizia, che era ovviamente quello che volevano. Quando mi svegliai, sabato mattina, decisi di non aspettare, di chiamarlo subito per dargli la possibilità di pensare a come voleva effettuare la transizione. Non poteva interrompere il corso a metà anno, ma avrebbe potuto associarsi allo studio e fare quello che poteva, rendendo in tal modo meno brusco il passaggio. Chiamai l'ufficio informazioni abbonati, ma il suo numero non era in elenco. Mi chiedo ora se ciò avrebbe potuto cambiare le cose; se avremmo deciso, parlando al telefono, di proseguire il discorso faccia a faccia, magari cenando insieme. Sospetto che le cose sarebbero andate allo stesso modo, che anche se gli avessi telefonato sabato invece di aspettare fino a lunedì il disinganno di Julian Sinclair nei confronti del mondo e di tutto ciò che esso conteneva avrebbe comunque avuto inizio quella notte e non, come Albert Craven e io avevamo sperato, negli anni a venire. Ero ormai abituato alle chiamate notturne di chi si trovava nei pasticci, ma una telefonata alle sei di una domenica mattina era qualcosa di nuovo. Lo riconobbi prima ancora che finisse di dire il mio nome; e seppi che era nei guai, in guai seri, l'istante in cui udii la sua voce. Lui parve sorpreso, come se udendola non fosse affatto sicuro che gli appartenesse. «Potrebbe venire? È successa una cosa terribile». Sembrava traumatizzato. Fu questo a spaventarmi, quel tono di voce come se fosse in trance, come se non sapesse bene cosa stava accadendo. «È ferito?», chiesi cercando di mantenere un tono calmo e rassicurante. «Vuole che chiami un'ambulanza?». Poi mi resi conto che probabilmente l'aveva già fatto. «Ha chiamato il 911? Cosa posso fare?». Lui ignorò le mie parole. Esitando ogni manciata di parole come se dovesse fermarsi per ricordarle, mi diede indicazioni per arrivare a casa sua. Viveva in cima alle colline di Berkeley. Una svolta sbagliata e mi sarei irrimediabilmente perso. «Mi dia il suo numero di telefono», dissi in uno sbotto d'impazienza. Poi riagganciai e cominciai a vestirmi.
La città era ancora addormentata. Lo strato di nebbia grigia e impenetrabile aveva cominciato a ritirarsi verso l'oceano. Le torri del Golden Gate Bridge rilucevano di un arancione carico sotto l'assalto del sole. Le strade deserte avevano l'aspetto sudicio e paziente di un bazar chiuso con un lucchetto. Dalla cima di Nob Hill raggiunsi il Bay Bridge in cinque minuti, e dieci minuti dopo l'avevo attraversato. Berkeley distava solo pochi chilometri. Cercai di non pensare a cosa vi avrei trovato. Sapevo cos'era accaduto, o quanto meno credevo di saperlo. Non era una questione di precognizione, la consapevolezza di qualcosa che non potevi conoscere perché non era ancora accaduta, ma era più di un'intuizione. Julian mi aveva telefonato alle sei di una domenica mattina. Era una cosa che si faceva soltanto quando si avevano notizie che non potevano aspettare. E poi c'era il suo tono di voce, desolato come la morte. Era morto qualcuno, e qualunque fosse la causa sembrava quasi certo che si fosse trattato o di un incidente o peggio, molto peggio, di un omicidio. La frase che aveva usato, "È successa una cosa terribile", avrebbe potuto suggerire la prima ipotesi; ma in tal caso, perché aveva chiamato me a quell'ora e non la polizia? Julian era nei guai, ed era abbastanza intelligente da saperlo. Guidai attraverso le colline di Berkeley finché non giunsi quasi in cima. Il numero della casa era segnato sul palo della cassetta delle lettere, all'inizio di un lungo, ripido vialetto che attraversava un intrico di edera fino alla casa di Julian Sinclair. Era una di quelle costruzioni anni Sessanta di legno e vetro, lunga e bassa, con una vista mozzafiato sulla baia. Guardai il Golden Gate e il lontano orizzonte al di là, dove l'acqua incontrava la luce. Guardai la città, radiosa e linda e magnifica, da cui la nebbia era svanita come il sogno della notte passata. Di fronte alla tettoia per le auto, sul lato più vicino alla casa, era parcheggiata una Jaguar decappottabile verde scuro con un cofano scintillante e le ruote schizzate di fango. Mi chinai davanti al finestrino del posto di guida e guardai dentro. Un foulard di seta era stato abbandonato con noncuranza sulla manopola del cambio, un rossetto nel posacenere. Sul sedile del passeggero c'era un cellulare. Non l'avevo mai vista al volante, ma sapevo chi era la proprietaria di quell'auto. Pestai il piede a terra e mormorai un breve, sommesso lamento. Non udii la porta che si apriva; non udii alcun suono. Non sentii più niente finché Julian non pronunciò il mio nome. La sua voce mi sorprese: il suo tono non sapeva più di morte. Era uguale a quello che era sempre stato nel corso della nostra breve conoscenza, tranne che durante la telefo-
nata di quel mattino. Julian sembrava normale, in possesso delle sue facoltà, come se non fosse accaduto nulla di male. Avevo frainteso? Avevo scambiato per omicidio o peggio quello che poteva essere niente più di un problema risolvibile? «Grazie di essere venuto», disse lui con un'occhiata formale che un estraneo avrebbe potuto non notare, ma che a me parve forzata e artificiale. Avvicinandomi vidi che il suo sguardo era teso, ansioso, traboccante di una stanchezza nervosa. Ce la stava mettendo tutta per non crollare. Teneva la porta aperta, ma non si scostò dalla soglia. «Che cosa è successo?», domandai cercando di sembrare calmo. Spostai gli occhi verso il salotto alle sue spalle. Dovette percepire lo shock e l'incredulità che mi diedero un attacco di nausea e mi fecero tremare le mani. Si chiuse la porta alle spalle e mi fissò con sguardo acceso. Serrò i denti finché la testa non cominciò a tremargli. Lo afferrai per entrambe le braccia e lo spostai dalla porta. «Resti qui! Non si muova! Mi aspetti!». Strinsi la maniglia, e per un istante non riuscii a fare altro. Quella rapida occhiata mi aveva mostrato già tutto ciò che avevo bisogno, o voglia, di sapere. La mano ancora sulla porta, chiesi a Julian quello che dovevo sapere. «È stato lei...?». La sua replica diede una risposta a quella domanda e anche a quella che gli avrei fatto subito dopo. «È quello che penserà la polizia. È la ragione per cui ho chiamato lei e non loro». Aveva recuperato un po' del suo autocontrollo. «Tutto è com'era quando mi sono svegliato. Stavo per chiamare il 911, ma poi ho capito: a meno che non ci siano prove materiali, ogni indizio punta contro di me». Mi passò davanti scostandomi dolcemente e aprì la porta. Avevo visto moltissimi luoghi in cui era stato commesso un delitto. Era spesso stranamente prosaico l'aspetto di una stanza dopo che vi era passata la polizia, il corpo era stato rimosso e l'unica traccia di violenza era forse una goccia di sangue rappreso dove si era trovata la vittima. Ma non avevo mai visto nulla di simile. C'era sangue dappertutto, schizzi sulle pareti del salotto, strisce che percorrevano dall'alto in basso lo specchio che andava dal pavimento al soffitto sul lato opposto a quello del caminetto di lastre di pietra, dietro il quale c'era la sala da pranzo. La sagoma di due mani si stagliava sullo specchio, due mani che poi erano scivolate verso il basso in
una scia irregolare, tracciando la caduta mortale della donna che giaceva sul tappeto con il vestito lacerato. Il sangue, che si era rappreso in grumi lungo il profilo delle mani, era ancora umido. Daphne McMillan giaceva raggomitolata sul pavimento con ciò che restava del suo vestito intriso di sangue, sventrata da ferite multiple di arma da taglio. Mi guardava con un'espressione perplessa negli occhi vacui. Potevo quasi udire la sua graziosa vocina domandare: «Perché io?». Qualunque cosa le fosse passata per la mente, qualsiasi preghiera di una tregua in extremis o anche soltanto di una pausa momentanea in quell'orribile, sanguinosa aggressione, le si era spenta sulle labbra. La sua gola era stata tagliata da una parte all'altra, in profondità. «Chiami la polizia! Subito!», ordinai a Julian. «Chiami il 911. Avverta che c'è stato un omicidio. Dica di venire subito. E poi mi racconti com'è andata, tutto quello che sa». 6 Nessuno gli credette. Non gli credette la polizia quando lo arrestò e lo condusse via. Non gli credette il procuratore distrettuale quando si presentò al gran giurì e ne uscì con un'incriminazione per omicidio. Non gli credette nessuno in televisione quando tutto quello che il pubblico voleva sentire erano i motivi per cui Julian Sinclair era colpevole e cosa si sarebbe dovuto fare di lui dopo il processo. Bryan Allen aveva il vantaggio di parlare per esperienza, non soltanto per quanto riguardava la vittima, la bella e dotata Daphne McMillan, ma anche l'assassino, il brillante, squilibrato Julian Sinclair. Poteva anche parlare dell'avvocato, Joseph Antonelli, che aveva costruito la propria reputazione aiutando i colpevoli a uscire di prigione e stava cercando di rifarlo. Allen li conosceva tutti. Avevano partecipato alla sua trasmissione, non soltanto individualmente ma tutti insieme, affrontando l'argomento di un omicidio che, ironicamente, somigliava a questo: una giovane moglie uccisa a sangue freddo. Ogni puntata del suo show era ormai dedicata interamente o in parte al raccapricciante omicidio di Daphne McMillan e alla perfidia omicida di Julian Sinclair. Quando non ne parlava nella sua trasmissione, ne parlava in quella di qualcun altro. Fu sbalorditiva la rapidità con cui le cose montarono fino al parossismo, e come le congetture si alimentassero l'una dell'altra. La voce di ieri diventava la certezza di oggi, il dato di fatto dimostrato che nessuno che volesse
ottenere giustizia per la vittima e per i suoi cari poteva mettere in dubbio. Julian Sinclair, un giovane poco più che trentenne con quella che una generazione precedente avrebbe definito bellezza da "divo del cinema", aveva frequentato numerose donne e, tranne forse con un'unica eccezione, una ragazza con cui era stato all'università, non aveva mai avuto intenzioni serie. L'invidiabile, interessante esistenza di uno scapolo che poteva passare il suo tempo con chi voleva veniva descritta come quella di un donnaiolo che aveva in mente una cosa sola. Senza badare alla coerenza, il fatto che si sapesse che Sinclair passava mesi interi senza alcuna compagnia, lasciando di rado il campus, restando vicino a casa, dimentico di qualsiasi cosa che non fosse l'argomento di studio che aveva catturato il suo interesse, veniva visto come la prova che vi fosse un che di insolito, di anormale, addirittura di perverso nel suo modo di vivere. Un donnaiolo che preferiva stare da solo, un pensatore solitario che si vedeva spesso in città; comunque lo si chiamasse, non c'era nessuno disposto a ritenerlo non colpevole, e questo, quanto meno a prima vista, era un potenziale ostacolo alla possibilità di ottenere un processo equo. L'omicidio era stato perpetrato sulle colline di Berkeley, e il processo si sarebbe tenuto nel tribunale della contea di Alameda, a Oakland, a pochi chilometri di distanza. Presentai una richiesta di cambio di sede, chiedendo che si tenesse altrove. Il giudice parve comprensivo, ma solo fino a un certo punto. L'onorevole Conrad H. Jarvis, un uomo dalle mani grosse e nodose e dal volto ampio e butterato, si era specializzato in legge dopo una breve carriera nel football professionistico disseminata di infortuni. Alla quinta operazione alle ginocchia si era arreso mentre era ancora in grado di camminare. Senza apparenti rimpianti, e senza quella nostalgia che rendeva molti degli altri giocatori dei vecchi trentacinquenni che ripensavano alle imprese della loro giovinezza, Jarvis aveva cominciato una seconda carriera con la stessa determinazione e lo stesso entusiasmo che aveva dedicato alla prima. Dieci anni in uno studio privato e altri dieci da giudice gli avevano guadagnato il rispetto di tutti coloro con cui aveva a che fare, non solo per la sua equità, ma perché tutti sapevano cosa aveva fatto in precedenza. Con i soldi che aveva guadagnato avrebbe potuto trascorrere le sue giornate a pescare o raccontare storielle con gli amici; invece aveva deciso di fare qualcosa che considerava importante. Ti piaceva prima ancora di conoscerlo, e quando lo conoscevi ti piaceva ancora di più. «Dove suggerisce di trasferirlo, signor Antonelli?», chiese con quella
sua voce roca e profonda, una voce che era in grado di riempire un'aula più di qualsiasi altra avessi mai udito. «Le concedo che ciò che dice è valido, che c'è stata un'enorme pubblicità prima del processo; le concedo anche che non è stata, come dire, né moderata né giusta; ma la sua richiesta, e la dichiarazione giurata che la sostiene, la definisce una pubblicità di portata nazionale». Appoggiandosi all'indietro sulla sedia con un movimento lento e rigido, Jarvis allacciò le mani attorno al ginocchio. Mi guardò con i suoi occhi color ruggine, in attesa. «In Cina, vostro onore», risposi serio. Gli angoli della sua bocca ampia e carnosa si piegarono all'ingiù. Cominciò ad annuire con fare pensoso. «In Cina. Sì, capisco il suo punto di vista. Probabilmente laggiù non si sarà parlato molto del caso. Ma mi chiedo, signor Antonelli, ha considerato il fatto che la lingua potrebbe essere un problema? Non potrebbe pensare a una soluzione un po' più vicina?». Incrociando le braccia sul petto, fissai un punto del pavimento. «L'Inghilterra», dissi rialzando gli occhi. «Ci sarebbe ancora qualche problema con la lingua, ma forse meno grave». «E perché non Parigi, così potremmo imparare tutti il francese?». Madelaine Foster - Maddy per chi la conosceva - scrollò le ampie spalle alzandosi a fatica. Alcuni ciuffi dei suoi folti capelli grigi, raccolti sulla nuca in una crocchia, le ricadevano attorno al collo. Mi guardò come un'insegnante avrebbe potuto guardare uno scolaro prediletto che aveva già provato un paio di volte lo stesso trucchetto. «Il signor Antonelli sta forse cercando di procurarsi qualche titolo, suggerendo di non poter ottenere un processo equo per il suo cliente e che tanto varrebbe andare in Cina?». «Io stesso non avrei potuto spiegarlo meglio di così, Vostro Onore. La signorina Foster ha illustrato il mio punto di vista. La nostra mozione, tuttavia, chiede che il processo venga trasferito a Los Angeles. Quanto meno lo sottrarrebbe alle grinfie dei media locali, che sono quelli che hanno concesso più spazio al caso». Jarvis si guardò le mani, e un'espressione pensosa e preoccupata si rifletté nelle rughe profonde sulla fronte. Sollevò la mano sinistra, quella più vicina al seggio, e allargò le grosse dita. «Se si trattasse soltanto dei media locali, se fosse una vicenda di interesse circoscritto, sarei incline a esaudire la richiesta e allontanare il più pos-
sibile il processo». Si fermò, gettò un'occhiata di avvertimento all'aula affollata di giornalisti per cui qualsiasi cosa fosse accaduta avrebbe fatto notizia. «Ed è precisamente a causa delle attenzioni che questo caso ha attirato che la corte bandisce di propria iniziativa le telecamere e i fotografi non soltanto dal processo, ma dall'intero tribunale». Tornò a rivolgersi a me. «Per quanto riguarda la richiesta di trasferimento della difesa, la mozione è respinta. Vorrei tuttavia mettere in chiaro che durante il voir dire, l'esame preliminare, alla difesa verrà garantita ogni ragionevole opportunità per capire se e fino a che punto i potenziali giurati si siano fatti un'opinione come risultato della copertura dei media». Non era una vittoria e non era nemmeno una sconfitta. Il processo non sarebbe stato trasferito, ma il giudice era consapevole dei pregiudizi esistenti ed era disposto a fare tutto il possibile per impedire che influenzassero il processo. Ma non c'era nulla che lui o chiunque altro potesse fare, quando l'unico modo per non essersi lasciati influenzare era non aver aperto un giornale o acceso la televisione nei mesi successivi alla morte di Daphne McMillan. Lo sapevo io e lo sapeva anche Maddy Foster, ma tutto ciò che lei disse ai giornalisti quando questi le chiesero se Julian Sinclair avrebbe potuto ottenere un processo equo era che l'accusa avrebbe fatto il suo lavoro così come, ne era sicura, avrebbe fatto la difesa. Non era il tipo di risposta che potesse guadagnarsi il telegiornale della sera; e di sicuro non era il genere di cosa di cui gli sciacalli televisivi volevano parlare. «Cina!», esclamò quella sera Bryan Allen aprendo la sua trasmissione. «Antonelli, lo scagnozzo di Julian Sinclair, ha il coraggio di presentarsi in aula, in un tribunale americano, e sostenere che il suo cliente non può ottenere un equo processo nel suo paese! Non è patetico? Be', suppongo di no, se si pensa che un equo processo significhi tirar fuori dai guai un omicida malgrado le prove dicano che dev'essere stato lui». Allen guardò nell'obiettivo, serrando la mascella e socchiudendo gli occhi freddi e determinati. Un secondo, due; continuò a fissarlo con fare serio, implacabile, facendo sapere ai milioni di persone che lo guardavano che era esattamente come loro: indignato, nauseato dall'impudente mancanza di rispetto per la correttezza e la verità dimostrata dal genere di avvocato che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vincere. Era il volto sullo schermo di cui ti potevi fidare, quello che ti avrebbe spiegato chi faceva cosa e come lo si sarebbe dovuto fermare. Era l'espressione di disprezzo e disgusto che diceva, più forte di quanto avrebbero mai potuto fare le paro-
le, che il problema del paese erano individui come quelli, e che prima ci si fosse occupati di loro meglio sarebbe stato per tutti. «Cosa pensa di ciò che ha fatto Antonelli? È stato un astuto tentativo di distogliere l'attenzione dalle prove a carico del suo cliente, o semplicemente quello che fanno gli avvocati difensori, una battuta da furbetto? Perché si è trattato di questo, vero? Non ci si permette un'uscita simile, non si abbassa il livello del processo in questo modo, se si possiedono elementi concreti per costruire una difesa». Allen si era rivolto a uno dei suoi ospiti, e ora tornò a guardare in macchina. «Paula Constable è una nostra ospite abituale. Era qui la sera in cui c'era anche Daphne McMillan. La stessa sera in cui c'erano Julian Sinclair e il suo avvocato». Riportò gli occhi su di lei. «Lei lo conosce, questo Antonelli. È uso a questi trucchi di bassa lega?». Prima che Paula potesse rispondere, soggiunse: «L'abbiamo invitato, affinché ci illustrasse il suo punto di vista. Ma lui non ci ha nemmeno richiamati. Suppongo che ciò vi faccia capire cos'ha in mano. Prego, Paula, cosa stava per dire?». Paula Constable doveva possedere un centinaio di giacche rosse, ciascuna diversa dalle altre eppure tutte uguali: vivaci e aderenti, con colletti corti e dritti che facevano sembrare severo e attento il suo volto truccato, pieno di energia e controllato. Le labbra rosse accennarono un rapido sorriso, le ciglia nere si sollevarono e gli occhi neri e avidi cominciarono la loro frenetica, meticolosa danza. «Joseph Antonelli lo conosco da anni, ed è uno dei migliori penalisti che abbia mai visto. Nessuno che abbia Antonelli come avvocato può lamentarsi di non avere un equo processo. Non so perché abbia detto che l'unico modo di ottenerlo sarebbe stato andare in Cina. Se dovessi indovinare, direi che l'ha fatto per ingraziarsi la corte, perché Antonelli non fa mai niente senza un buon motivo. E potrebbe esserci riuscito. Il giudice ha già cominciato a dire che gli concederà inusitate libertà nella fase preliminare». «Inusitate libertà!», gridai rivolto alla televisione. Solo nello studio di casa, feci seguire quell'esplosione da una torva, enfatica imprecazione. Sprofondai nel morbido angolo del divano e mi ascoltai ridere. In Cina? Avrei dovuto dire in Tibet. Il professore e il sostituto procuratore, il giovane brillante scolaro e la bella, giovane bionda, lo scapolo attraente e la moglie di uno degli uomini più ricchi e importanti di San Francisco: l'omicidio era diventato una dozzina di storie raccontate
tutte insieme, narrate con la franchezza esagitata che in televisione faceva passare per notizia tutto ciò che si diceva. Mi ero nauseato guardando i volti scioccati e le false vocette acute con cui ciascuno dei miei confratelli nel diritto, dopo aver giurato di mantenere alti l'onore e l'integrità della loro professione, parlavano dei perversi moventi che avevano spinto all'omicidio un uomo che non avevano mai conosciuto e deridevano non soltanto la tattica, ma anche le qualità e la condotta dell'avvocato difensore. Superiore e compiaciuto, un ex procuratore generale si era spinto a chiedersi se non fosse il caso di punire, forse addirittura con l'espulsione dall'albo, un avvocato che aveva visitato la scena del delitto prima ancora di chiamare la polizia. Quando un penalista aveva suggerito che non era affatto dimostrato che Antonelli sapesse che era stato commesso un crimine, gli era stato chiesto di spiegare per quale altro motivo Julian Sinclair l'avrebbe chiamato. Non c'era ovviamente alcuna logica nell'obiezione, ma la televisione è più visuale che verbale, e la palese incoerenza delle parole si era persa nella torva condiscendenza con cui erano state pronunciate. E così andò avanti, un giorno dopo l'altro, una sera dopo l'altra, un costante, implacabile fuoco di sbarramento di voci; uno stridente coro mediatico a ripetere di continuo che Julian Sinclair era colpevole di omicidio e che la pena avrebbe dovuto essere la morte. La televisione aveva trasformato l'intera nazione in una folla inferocita. Il processo, per quanto pubblico, sarebbe stato condotto fuori campo, come amavano dire ora; ma a quel punto sarebbe stato troppo tardi. «Ti spiace chiamare Sidney?», chiesi due giorni dopo ad Albert Craven. «Di' a Harry Godwin che accetto la sua proposta. Andrò in televisione a parlare del caso. Ma a una condizione: che sia un confronto a due. Nessun altro ospite, soltanto io». Albert posò le delicate mani sulla scrivania e intrecciò le dita. Le pesanti tende alle finestre erano scostate solo in parte e lasciavano cadere attraverso le tendine di mussolina una striscia sottile di fievole luce pomeridiana sul folto tappeto. «Harry ne sarà felice, ovviamente, ma sei sicuro che sia una buona idea? E se invece scegliessi uno degli altri network? Magari una delle trasmissioni della domenica, qualcosa di più tradizionale, dove almeno cercano di fare domande serie. Se lo fai... be', sei già stato a quella trasmissione, e hai visto cosa stanno facendo, le cose che dicono di Julian e di te... Cosa pensi di poter dire? Non sarà una conversazione; non sarà una discussione; sarà
una rissa». Mi guardò negli occhi, chiedendosi se ci avessi pensato bene. «Sei sicuro di volerti unire al circo, anche per un sola esibizione? Non rischi che la tua presenza lo legittimi più di quanto possa esserlo adesso? Julian che ne pensa? Oppure non hai ancora avuto la possibilità di chiederglielo?». «Julian è d'accordo sul fatto che dobbiamo fare qualcosa, che non possiamo permettere che continui così, giorno dopo giorno, senza replicare. Il processo comincerà soltanto fra un mese, ma se trovi qualcuno che non è convinto che sia stato lui, gradirei saperlo». Craven riconobbe la tragica verità con un sospiro. «Mi è dispiaciuto, quello che è successo all'università. Ho reso note le mie obiezioni, ovviamente, ma in tutta franchezza non penso che potessero fare molto altro. Anche se è una pessima lezione, e spero che in futuro avranno motivo di pentirsene». I suoi occhi si rabbuiarono in un'espressione intensa e implacabile. «Una scuola di specializzazione in legge, un corso di diritto penale e metà delle studentesse l'abbandona per protesta perché il professore che credevano così fantastico è stato accusato di un omicidio che sostiene di non aver commesso», soggiunse con disprezzo raggelante. «La presunzione d'innocenza, il ragionevole dubbio, il requisito di base che bisogna dimostrare un'accusa con le prove: apparentemente non sono cose importanti in confronto alla necessità di manifestare contro la violenza sulle donne. Be', tutto quello che posso dire è questo: buon per quelle che sono rimaste, quelle con abbastanza fegato da aver ragionato di testa loro». Una delle finestre era stata aperta per far entrare un po' d'aria. La tendina di mussolina leggera ondeggiò fra le tende più pesanti, poi si sgonfiò come un respiro esalato. In lontananza, il suono metallico di una campanella dava il tempo alla lenta ascesa del tram. «Probabilmente, tentare di finire il semestre non è stata una buona idea», dissi sperando di migliorare l'umore di Albert. «È già stato un piccolo miracolo che gli abbiano dato la libertà su cauzione. Non ha voluto accettare un permesso. Gliel'avevano offerto. Credo che sapesse come sarebbe andata; è troppo intelligente per non saperlo. Ed è stato per questo che l'ha fatto». Albert annuì con fare saggio. «Perché non farlo sarebbe sembrato un atto di codardia». «E probabilmente è lo stesso motivo per cui io andrò in televisione: per
cercare di chiarire alcune cose». Una telefonata, e l'unica domanda fu quando. Harry Godwin organizzò tutto mentre era ancora al telefono con Albert, gridando a un assistente che l'avvocato del caso Daphne McMillan aveva finalmente accettato. Tre sere dopo ero di nuovo in televisione, questa volta da solo. Bryan Allen aspettava con un sorriso compiaciuto sul viso mentre dietro di me due mani sistemavano il microfono. Dopo una breve introduzione formale, Allen attaccò con una domanda che era a dir poco depravata. «Capisco che lei è l'avvocato difensore e deve fare il suo lavoro, e capisco che l'imputato ha diritto a un processo equo; ma ci dica una cosa, come ci si può fidare di un avvocato quando il suo cliente, accusato di omicidio, prosegue a insegnare a Berkeley finché alcune studentesse non dicono basta, comunicando alla facoltà che se Julian Sinclair non se ne andrà lo faranno loro? Ma che uomo è questo? Tutte le prove dicono che l'ha uccisa, e lui pensa di poter continuare a insegnare? Ironico, non trova, che insegnasse diritto penale?». Drizzai le spalle e lo affrontai. «Julian Sinclair è stato accusato di omicidio. La parola d'ordine è "accusato". Lei potrà anche averlo processato in televisione, quasi ogni sera negli ultimi tre mesi, ma non è stato ancora giudicato da una giuria in un'aula di tribunale. "Accusato", signor Allen, non condannato. La legge lo presume innocente, e lo stesso dovrebbe fare chiunque altro, specialmente quelle studentesse, quelle la cui giustizia da linciaggio lei è così pronto ad applaudire. Persone che dovrebbero prendere sul serio il diritto, e che dovrebbero sapere che Julian Sinclair non è colpevole di nulla». La replica di Allen fu immediata, enfatica, bellicosa, sicura di far presa sui più elementari pregiudizi di tutti coloro che ci seguivano. «A lei piacerebbe che sua figlia avesse come professore un uomo accusato di aver assassinato una donna, accoltellandola a morte nel salotto di casa?». La mia risposta fu altrettanto rapida, ma non aveva, me ne rendevo conto, lo stesso grossolano effetto drammatico. «Sarei onorato di avere Julian Sinclair come professore dei miei figli». «Lei non ha figli, vero avvocato? Non si è mai sposato. Non è così? Se lo lasci dire da un padre di due femmine e di un maschio: lei non sarebbe così preoccupato dei diritti dei criminali, se i figli a cui potrebbero fare del male fossero i suoi. Ma passiamo ad altro. Ci dica, se non le spiace, perché le posso garantire che siamo in molti a non capire: se Sinclair è innocente
come lei dice, perché non ha chiamato la polizia? Perché ha telefonato a lei? È andata così, no? Ha chiamato prima lei, un celebre avvocato difensore». Era lui a fare le domande e io a dover rispondere, ma c'era un modo per rovesciare la situazione. «Perché ha chiamato me o perché ha chiamato la polizia? Ha fatto entrambe le cose». Allen mi rivolse l'occhiata che mi aveva già scoccato, l'occhiata che usava così spesso da essere diventata il suo marchio di fabbrica: l'espressione incredula che sembrava riderti in faccia. «Ha chiamato la polizia, ma prima ha chiamato lei. La domanda, signor Antonelli, è perché l'avrebbe fatto se era innocente? Perché avrebbe avvertito la polizia soltanto dopo aver convocato lei, dopo che lei era arrivato e aveva potuto guardarsi attorno e vedere che impressione avrebbe fatto la scena alla polizia?». «È sicuro che siano state quelle le ragioni per cui mi ha chiamato? È sicuro che io abbia fatto questo quando sono arrivato da lui? Oppure è soltanto un'altra di quelle cose che trova tanto facile presumere?». Allen ricambiò la mia occhiata; poi, come se il mio silenzio dimostrasse che aveva ragione, osservò con una smorfia furbesca: «Be', se non vuole rispondere...». «Oh, sì che voglio. Desidera sapere perché Julian Sinclair ha chiamato prima me? Mi ha chiamato perché era in stato di shock. Mi ha chiamato perché stava per associarsi al nostro studio e perché la prima cosa che chiunque farebbe in quelle circostanze sarebbe chiamare qualcuno di cui si può fidare. Lei crede che mi abbia chiamato perché pensava di aver bisogno di un avvocato?», domandai sfidandolo a dire di sì. «È lui stesso un avvocato, e uno dei più dotati che abbia mai conosciuto». «Può anche essere, ma...». «Le sfugge ancora qualcosa», lo interruppi. «La domanda che non ha fatto». Allen si impettì. Una smorfia minacciosa gli si affacciò sulle labbra. «Davvero? Be', avvocato, si accomodi, ci illumini. Di che domanda si tratta?». «Perché ha chiamato qualcuno? Se avesse ucciso Daphne McMillan come lei sembra così ansioso di presumere, perché mi avrebbe chiamato? Perché avrebbe chiamato la polizia? Se uno avesse ucciso qualcuno a casa propria, il suo primo pensiero non sarebbe stato come sbarazzarsi del cor-
po e delle prove di ciò che aveva fatto? Non avrebbe spostato il corpo, portandolo altrove invece di lasciarlo lì sul pavimento del suo salotto?». «Dicono tutti che lei sia praticamente il migliore, ma - e mi perdoni se mi esprimo in questi termini - quello che dice non è un po' come gettare sabbia negli occhi? Come avrebbe potuto trasportare il corpo? Come avrebbe potuto pulire tutto quel sangue? Voglio dire, avrebbe avuto moltissime ragioni per fare quello che ha fatto, per chiamare lei, il penalista che conosceva, invece che cercare di sbarazzarsi delle prove. Lo ammetta, avvocato, c'era troppo da fare! L'ha uccisa, e visto il modo in cui l'ha fatto doveva essere in preda a un furore omicida. Poi, a cose fatte, quando si è reso conto di aver lasciato tutte quelle prove, di non potersene sbarazzare, ha chiamato non la polizia, ma lei». «Non pensa che se fosse andata così si sarebbe quanto meno sbarazzato del coltello?». Allen annuì con forza. «Il coltello, l'arma del delitto, apparteneva a lui. L'ha ammesso». «Chiaro che apparteneva a lui. Era stato preso nella sua cucina. Ma di nuovo le è sfuggita la domanda più importante». Allen allargò le mani e attese. «Come mai non c'erano impronte sul coltello? Come mai era stato pulito?». Mi guardò come se fossi pazzo. «Andiamo, avvocato! È la prima cosa che farebbe qualsiasi assassino». «Quando si tratta di un coltello da cucina, un coltello che usi quasi ogni giorno? Quando è un coltello su cui la polizia si aspetterebbe di trovare le tue impronte?». Fu un errore. Mi ero spinto troppo in là. Avevo sottovalutato Allen, il quale era più intelligente di quanto pensassi. Approfittò all'istante, o cercò di approfittare, del varco che gli avevo aperto. «È abbastanza chiaro, no? Ha pulito le sue impronte per far sembrare che fosse stato qualcun altro a pulire le proprie». «Ha avuto la presenza di spirito di fare quel ragionamento, ma era troppo confuso per pensare di sbarazzarsi dell'arma del delitto? E c'è ancora quell'altro interrogativo, quello che fa a pezzi l'idea che Sinclair l'abbia uccisa ma poi non abbia avuto il tempo di rimuovere il corpo e sbarazzarsi delle prove. Secondo il medico legale, Daphne McMillan è stata uccisa fra la mezzanotte e le due del mattino. Se l'ha uccisa lui, signor Allen, cosa pensa che abbia fatto nelle sei ore fra il delitto e il momento in cui mi ha
telefonato?». Allen levò le mani al cielo. «Chi può sapere cosa passa nella testa di un assassino? Era notte fonda. Forse ha cominciato a cercare un luogo in cui fare quello che lei suggerisce, sbarazzarsi del corpo, seppellirlo da qualche parte. Forse è salito in macchina ed è partito, pensando soltanto ad andarsene il più lontano possibile. È quello che fanno gli assassini, no? Fuggono perché è la prima cosa che viene loro in mente. Poi, dopo che ha girato per un po', comincia a calmarsi. Torna a casa e decide cosa fare. Chiamare un avvocato, dirgli che sa che le apparenze sono contro, ma non è stato lui e si rende conto di avere bisogno di una difesa». Avevo la strana, inquietante sensazione di ascoltare la coscienza collettiva dell'America che si autoconvinceva di nuovo di ciò che già sapeva: che Julian Sinclair era colpevole, e che ogni tentativo di provare che non era stato lui a uccidere Daphne McMillan non faceva che dimostrare il contrario. C'era una spiegazione per tutto, una volta che cessavi di credere alla sua innocenza e convenivi con chiunque altro su quello che aveva fatto. Guardai Allen, domandandomi se sotto quella facciata grezza e arrogante vi fosse qualcosa oltre alla spietata ambizione di un truffatore, un ciarlatano che, senza sapere bene come, si era ritrovato a essere il preferito del momento di quei milioni di persone le cui conoscenze dipendevano quasi interamente dalla televisione. «E per quale ragione, signor Allen, Julian Sinclair avrebbe dovuto uccidere Daphne McMillan, una donna che conosceva da anni e che considerava un'ottima amica?». Allen sollevò le sopracciglia cespugliose. «Ottima amica, signor Antonelli? Avevano una relazione», disse in tono aspro e sprezzante. «Perché l'ha uccisa? Perché lei voleva mettere fine alla storia, voleva far funzionare il suo matrimonio. L'aveva detto a suo marito, aveva ammesso il suo sbaglio, aveva promesso che sarebbe finita e che voleva riprovarci. Ma il suo cliente non voleva lasciarla andare. Il movente? La gelosia di un individuo che non poteva sopportare l'idea che qualcuno potesse dirgli di no». Lo guardai negli occhi. «Daphne McMillan non ha mai detto a suo marito che aveva una relazione con Julian Sinclair. E come faccio a saperlo? Perché non aveva alcuna relazione con Julian Sinclair. Che cosa ci faceva quella notte sulle colline di Berkeley, a casa di Julian Sinclair? Le dirò soltanto questo: era una questione di sesso, ma non con lui». 7
Conrad Jarvis, un paio di occhialini rettangolari dalla montatura metallica appollaiati sulla punta del naso, distolse lo sguardo dai dodici cittadini che erano stati selezionati a caso per formare la giuria. «Signor Antonelli, proceda pure». Era piena estate, e il processo a Julian Sinclair aveva finalmente avuto inizio. Guardai i volti dietro il banco della giuria, passando lentamente da uno all'altro, percorrendo la prima fila e poi la seconda, sbalordito dalla torva sicurezza dei loro sguardi. «Non insulterò la sua intelligenza, signor Bristol», cominciai con il primo giurato, «chiedendole se si è fatto un'opinione su questo caso. Tutti in America si sono fatti un'opinione su questo caso, non è così?». Alto e sovrappeso, con uno sguardo lento, Bristol si agitò a disagio sulla sedia di legno. Cominciò a giocherellare nervosamente con le mani, non sapendo bene cosa dire. «Tutti sanno che l'imputato, Julian Sinclair, è colpevole. Di sicuro lei penserà la stessa cosa, no?». Il suo viso arrossì; il suo sguardo divenne vacuo. «Non sto cercando di metterla in imbarazzo, signor Bristol. Glielo assicuro. Ma è una questione molto seria. È in grado, malgrado ciò che pensa in questo momento, di ascoltare l'esposizione delle prove, seguire le istruzioni del giudice riguardo alla legge e... cambiare idea? È in grado, in altre parole, malgrado tutto quello che ha sentito in televisione e altrove, di essere equo e imparziale? Può basare il suo verdetto sulle prove, le prove presentate in quest'aula, e soltanto su quelle?». Disse di sì, e non dubito che la sua risposta fosse sincera; ma il pregiudizio era ancora lì, pericoloso e inestirpabile, dando forma e sostanza a tutto ciò che pensava. Mesi prima dell'inizio del processo l'onere della prova si era trasferito dall'accusa alla difesa. Non erano loro a dover provare che l'imputato era colpevole: ero io a dover provare che non lo era. Julian Sinclair era già sulla strada per la sua esecuzione non appena quei dodici giurati presero posto in quel banco. Da ciascuno di loro cercai di tirar fuori la stessa cosa, il modo in cui erano giunti alla medesima conclusione: che l'imputato era colpevole e che non soltanto con quel giudizio affrettato avevano compromesso l'intero concetto di equo processo, ma che condannando la persona sbagliata qualcun altro l'avrebbe fatta franca. «In quel caso sarebbe una doppia ingiustizia, non trova?», domandai al
quinto giurato, o forse era il sesto. Eravamo al secondo giorno di voir dire. L'ostilità, sulle prime esplicita e intensa, era scomparsa quasi del tutto. «Una doppia ingiustizia, signora Williams», ripetei sporgendomi verso di lei. «Un innocente viene condannato per un crimine che non ha commesso, e la vittima, Daphne McMillan, non ottiene la giustizia che merita». Madelaine Foster, la pubblica accusa, non mosse una sola obiezione, non cercò mai di sostenere che la difesa stava esagerando. Non adottò alcuno di quei trucchi dozzinali - balzare dalla sedia gridando la propria indignazione, levare le mani al cielo scandalizzata per le evidenti e calcolate violazioni delle regole - con cui troppi membri dell'accusa cercavano di macchiare la difesa dei crimini dell'imputato. Armata soltanto della propria calma, era l'incarnazione di quel tipo di sicurezza solida come la roccia che nulla può scuotere. Era intangibile ma reale, più reale di qualsiasi cosa avessi mai visto in un'aula di tribunale, quella coscienza di sé che ti spingeva a credere che qualsiasi cosa dicesse era vera, poiché mentire era l'ultimo dei suoi pensieri. «Credo che il signor Antonelli voglia quello che vogliamo tutti», disse in quel suo tono quieto e discreto. «Una giuria equa e imparziale. Se per un qualunque motivo, che sia quello che ha visto in televisione oppure quello che ha letto sui giornali, è giunta a una conclusione circa la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato, allora le posso assicurare che non la voglio in questa giuria più di quanto non la voglia lui. Ora lasci che le chieda, tanto per esserne sicuri: c'è qualche motivo per cui potrebbe non essere equa e imparziale, per cui potrebbe non basare il suo verdetto soltanto sulle prove presentate durante il processo?». La risposta era sempre la stessa. E ogni volta che veniva data Maddy Foster si apriva nel suo sorriso sicuro da nonna e approvava il giurato. Non c'era da stupirsi che nella sua lunga carriera di pubblico ministero avesse quasi sempre vinto, o che uno dei pochi casi che aveva perso l'avesse trasformata in una leggenda. Giunta a metà della testimonianza di un poliziotto, una testimonianza fondamentale per l'accusa, si era accorta di una contraddizione rispetto a ciò che questi le aveva detto durante la preparazione del processo. Era qualcosa che nessun altro, e di sicuro non la difesa, avrebbe mai notato, ma provava che il poliziotto aveva mentito e che la sua testimonianza era falsa. Maddy l'aveva sottoposto a quello che era a tutti gli effetti un implacabile controinterrogatorio, smascherando le contraddi-
zioni e le menzogne e dimostrando che aveva falsificato delle prove. Aveva concluso rivolgendo le proprie scuse alla corte e presentando una richiesta, che era stata immediatamente accolta, che tutti i capi di accusa ai danni dell'imputato venissero cancellati. L'aspra, brusca onestà di Maddy Foster era lo schermo perfetto per qualsiasi pregiudizio della giuria. Come poteva essere innocente Julian Sinclair, quando lei diceva che non lo era? Forse fu perché Julian Sinclair era un brillante studioso e poteva, anche nelle vesti di imputato, fungere da esemplificazione di quello che avrebbe potuto essere il diritto; o forse fu solo un disperato tentativo di trovare un antidoto al veleno che la televisione aveva riversato nelle menti dei giurati: fatto sta che nella mia dichiarazione di apertura cercai di far capire quale fosse il loro dovere mostrando quanto fosse cambiata l'idea stessa di processo. «Ci piace pensare che il processo con giuria sia l'unico modo equo e ragionevole di giungere alla verità, di decidere se un accusato sia colpevole o no. Anni fa, in Inghilterra, prima dell'arrivo dei normanni, quando gli anglosassoni crearono il diritto, questo era sotto alcuni aspetti più interessante di quanto lo sia oggi». Ero a qualche decina di centimetri dalla balaustra del banco del giuria e sorridevo fra me di quello che stavo per dire, guardandoli mentre mi osservavano. «Avevano il processo, ma non era come questo, con una pacifica giuria di cittadini. Lo chiamavano, nel loro linguaggio forte, processo per ordalia, e alle nostre sensibili orecchie l'ordalia sembra qualcosa di severo, difficile e strano. Ce n'erano quattro, e lasciate che confessi subito la mia ignoranza di come, o da chi, venissero scelte. L'elemento comune a tutte, comunque, era la convinzione che, di fronte all'accusa di aver commesso un atto contro la legge - o come dicevano loro contro la pace - in un caso troppo difficile per il confuso giudizio umano, l'unica alternativa era affidarsi al giudizio divino. «Per la prima ordalia si usava un ferro incandescente». A queste parole, alcuni dei giurati trasalirono. «Era semplice. L'accusato doveva compiere nove passi reggendo in mano un ferro rovente. La sua mano veniva poi bendata. Tre giorni dopo le bende venivano tolte. Se la ferita aveva suppurato, se si era formata una piaga, l'accusato era colpevole; in caso contrario era innocente e veniva liberato. La seconda ordalia era uguale alla prima, ma al posto del ferro incandescente veniva usata acqua bollente. Il braccio
dell'accusato veniva immerso nell'acqua fino a un livello che, curiosamente, dipendeva dalla gravità del crimine: il polso se si trattava di un crimine relativamente minore, il gomito, oppure l'intero braccio, se era accusato di qualcosa di terribile. «La terza ordalia vi sembrerà semplicemente ridicola e ingiusta. Non comportava l'uso dell'acqua bollente, ma dell'acqua fredda. L'imputato vi veniva gettato, e tutto dipendeva da ciò che sarebbe accaduto a quel punto. Se andava a fondo, se annegava, era innocente; se restava a galla era colpevole e doveva morire». Erano sconvolti, ma più ancora divertiti, dall'ignoranza e dalla barbarie di quello che avevano fatto gli anglosassoni. Dalle loro espressioni traspariva una sensazione di sicurezza e soddisfazione per il grado di civiltà che avevamo raggiunto. «Se nessuno fuggiva alla vista di quell'ordalia con indignazione e disgusto, dovete ricordare che tutti credevano in qualcosa di assoluto: Dio e una vita successiva a questa da trascorrere in paradiso o all'inferno. E se si crede a questo, esiste giustizia migliore del portare in paradiso un individuo che quaggiù è stato ingiustamente accusato di un crimine? «La fede in un giudizio divino attivo e rigoroso è altrettanto evidente nella quarta ordalia, una prova che senza quella fede, una prova che se venisse applicata oggi, renderebbe quasi impossibile qualsiasi condanna. Si chiamava "ordalia del boccone"». Posando la mano sulla balaustra ripetei la definizione, non facendo nulla per nascondere la mia meraviglia di fronte al potere della fede. «All'accusato veniva dato un pezzo di pane o di formaggio del peso di un'oncia e gli veniva detto di mangiarlo. Se lo inghiottiva era innocente; se non ci riusciva era colpevole». Feci una pausa e abbassai gli occhi a terra. «Ma c'era un'altra cosa», soggiunsi rialzando lo sguardo sui volti in attesa dei giurati. «Prima di essere dato all'accusato, al boccone veniva - parole testuali degli antichi trattati di legge - "fatto solennemente giurare di restargli in gola in caso di colpevolezza". Ha una sua logica, vero?», domandai cominciando ad avanzare verso l'estremità opposta del banco e facendo scivolare la mano sulla balaustra. «Se io sapessi di essere colpevole, se credessi - e intendo dire credessi in modo assoluto, senza riserve, senza il minimo dubbio - che Dio è al corrente di tutto ciò che faccio e che devo rendere conto a Lui, pena la condanna della mia anima immortale, non riuscirei a mandare giù quel boccone; in preda a una crisi di coscienza, nel timore di perdere qualcosa di più prezioso, di molto più prezioso della mia
stessa vita, non riuscirei a evitarlo: lo manderei di traverso!». Mi fermai alla fine del banco e mi voltai lentamente, quasi controvoglia. «Certo, in questi tempi più illuminati potremmo ridere di ciò che i lontani antenati del nostro diritto pensavano di dover fare con chi era accusato di un crimine. Sembra basarsi soltanto sulla superstizione, ma d'altra parte ogni credenza sembra una superstizione quando non è più la nostra». Avevo sempre considerato un errore leggere anche solo una parte di una dichiarazione di apertura o di un'arringa finale in un processo con giuria, o anche consultare una nota. Come potevi convincere chicchessia che credevi in quello che dicevi se eri costretto a consultare un testo scritto per ricordarlo? Ma questa volta volevo tutta l'autorità possibile, una fonte antica con cui sottolineare l'unico concetto che intendevo esprimere, quello che dovevo esprimere se volevo che Julian Sinclair avesse una possibilità. Raccolsi un vecchio libro dalla copertina malconcia dal banco degli avvocati, lo aprii alla pagina che mi ero segnato con una striscia di carta e lessi alla giuria un riassunto della sorprendente prima reazione all'abolizione del processo per ordalia. «"Vi era senza dubbio la netta sensazione che sottoporre qualcuno a un processo con giuria, quando questi non l'aveva espressamente richiesto, fosse profondamente ingiusto"». Con una scintilla divertita nello sguardo sollevai il volume, esaminandone la costa come per ricordare chi fosse l'autore di un'affermazione così sorprendente. «F. W. Maitland, Storia costituzionale dell'Inghilterra», lessi ad alta voce in tono solenne e pacato. «Uno dei più grandi studiosi del diritto che la Gran Bretagna abbia mai avuto. Il volume è una raccolta delle lezioni che tenne a Cambridge nel lontano 1887. Ora, qual è il motivo di questa "netta sensazione" che il processo con giuria sia "ingiusto"?». Voltai pagina e ripresi a leggere. «"L'accusato dovrebbe poter dimostrare la propria innocenza con prove soprannaturali in un processo come l'ordalia o il combattimento giudiziario; Dio potrebbe essere dalla sua parte malgrado i suoi simili siano contro di lui"». «Il "combattimento giudiziario", dovrei spiegare, era un'invenzione dei normanni. E se pare leggermente più imparziale di quelle quattro strane ordalie, in realtà era basato sulla stessa credenza. Se eri accusato di un crimine avevi il diritto di combattere fino alla morte con un avversario scelto dalla parte avversa. Veniva definito un "appello al cielo", poiché il
vincitore sarebbe stato stabilito dall'intervento divino». Chiusi il libro, lo gettai sul banco, feci tre passi verso la giuria e finalmente alzai gli occhi. «Cosa deve fare Julian Sinclair? Appellarsi al cielo perché i suoi simili hanno deciso che è colpevole? Scegliere una di quelle strane, selvagge ordalie per provare che tutte quelle facce compiaciute che in televisione sostengono sia colpevole si sbagliano? Quando testimonierà in propria difesa, e vi assicuro che lo farà pur non essendovi costretto, giurerà di non aver avuto niente a che fare con la morte di Daphne McMillan e di non sapere chi l'ha uccisa. Un tempo, centinaia di anni fa, un giuramento simile sarebbe stato sufficiente; erano tempi in cui, come disse Maitland in una delle lezioni di cui vi ho letto un passo, gli uomini credevano ciecamente in Dio e nell'eternità e per questo motivo "non spergiuravano, pur mentendo senza riserve". Si mentivano l'un l'altro, mentivano a se stessi ma mai, in nessuna circostanza, giuravano il falso, perché ne andava della loro anima immortale». Trassi un respiro e indietreggiai di mezzo passo. «Pertanto sì, ascoltate tutte le testimonianze e considerate con attenzione tutte le prove; ma quando assisterete alla deposizione dell'imputato, Julian Sinclair, chiedetevi anche se siete veramente convinti che si tratti di un individuo che, anche soltanto per salvarsi la pelle, prenderebbe mai in considerazione l'idea di mentire sotto giuramento». La cosa strana era che ci credevo, credevo che se Julian avesse ucciso Daphne McMillan l'avrebbe ammesso pur di non testimoniare il falso in tribunale o, se era per questo, da qualsiasi altra parte. Era superiore alla menzogna, e l'idea stessa suscitava il suo disprezzo. Era troppo sicuro della propria identità, troppo fiero di quello che era diventato, per fingere di essere quello che non era. Non era particolarmente religioso, e sinceramente non so se credesse in Dio. Forse ci credeva, anche se forse non nell'idea convenzionale di un essere supremo che pretendeva obbedienza e dava ascolto alle preghiere. Se credeva in qualcosa, era in quel Primo Motore di cui avevano scritto Aristotele e altri, una perfezione divina che attirava a sé coloro che trovavano in se stessi parte di quella stessa possibilità. In qualunque cosa credesse, Julian credeva nell'onore. E fino a che punto vi credesse sarei giunto a capirlo soltanto per gradi. Julian credeva nell'onore e io credevo in lui. Quella sera, guardando la televisione nel mio studio, capii chiaramente che non erano in molti a credere nell'una o nell'altra cosa. Julian era ancora colpevole, naturalmente, e
io, dopo la mia dichiarazione di apertura, venivo visto come un mattoide. Con un sorrisetto malizioso, Bryan Allen si sporse verso l'obiettivo e con la perversa semplicità di poche, caustiche parole accantonò quello che ci erano volute quasi due ore per esprimere. «Acqua calda, acqua fredda, processo per ordalia... L'imputato è innocente, e perché? Perché è pronto a giurare di esserlo. Non è fantastico quello che riescono a fare gli avvocati?». Non tutti gli avvocati, ovviamente. Alcuni facevano onore alla loro professione. Su un canale dedicato soltanto ai processi, un'inviata bionda dagli occhi azzurri e dallo sguardo inebetito e leggermente strabico non riusciva a parlare d'altro che della differenza dei nostri stili. «Madelaine Foster, nota come Maddy, è rimasta sull'argomento, ha parlato soltanto dei fatti. Gli istrionismi di Antonelli non l'hanno nemmeno sfiorata. È quello che dovrebbero essere tutti gli avvocati: tranquilla, calma, efficiente. Certo, bisogna riconoscere che, a differenza di Antonelli, i fatti sono tutti dalla sua parte». Cambiai canale e mi ritrovai a guardare facce diverse che dicevano la stessa cosa. Se la mia apparizione televisiva alla trasmissione di Allen aveva fatto qualche differenza, aveva soltanto dato a tutti la possibilità di tirare il fiato. La mia dichiarazione di apertura, come una profezia autoavverantesi, aveva soltanto dimostrato che la difesa era disperata e che Julian, come nessuno aveva mai seriamente dubitato, era colpevole. Non riuscivo a rammentare alcun processo in cui fossi stato altrettanto scoraggiato; preoccupato non soltanto per il mio cliente, ma anche da ciò che quella frenetica corsa al giudizio, quell'irragionevole insistenza sul fatto che si sapeva fin dall'inizio come sarebbe dovuta finire, significava per il paese e per quello che avevo sempre creduto fosse il suo fondamentale senso di equità. Furioso e imbarazzato, restio ad ammettere che avevo acceso la televisione soltanto per vedere cosa dicevano di me, la spensi e giurai di non guardarla più. Per un'ora o giù di lì cercai di concentrarmi sulla lista di testimoni che a partire dall'indomani mattina l'accusa avrebbe utilizzato per dimostrare la sua tesi. Era poco più di un esercizio per mettere alla prova la memoria, per vedere con quanta rapidità le informazioni che erano state raccolte e le cose che sapevo avrebbero occupato le loro rispettive caselle alla semplice lettura di un nome. C'erano voluti giorni, settimane per prepararsi per un controinterrogatorio che al massimo sarebbe durato pochi minuti. Tre anni di specializzazione e una vita di esperienza erano il bagaglio comune a tut-
ti i legali che affrontavano i processi, ma la maggior parte di loro non era in grado di controinterrogare un albero. Il trucco era affrontare il teste una domanda alla volta, prendere ogni cosa che diceva e usarla per raccontare una storia diversa dalla sua. Ciò significava essere pronto a qualsiasi risposta, e subito, perché non avresti avuto un'altra possibilità, senza distogliere gli occhi dai suoi, sparare la domanda successiva prima ancora che la sua voce diventasse un'eco nell'aula. E l'unico modo per riuscirci era non fare altro. Leggere, studiare, pensare a ciò che potevi fare con ogni singola dichiarazione del teste, e farlo per giorni, settimane, mesi. E arrivare quasi a impazzire a mano a mano che si avvicinava il processo; farlo così a lungo, con tale impegno che alla fine lo facevi nel sonno, sicché quando ti sentivi rivolgere la prima domanda al primo testimone sorridevi fra te per averla già udita chissà quante volte. Quando Julian chiamò a mezzanotte meno un quarto, ero ancora sveglio e al lavoro. «Immaginavo che fossi ancora in piedi». Nella sua voce non c'era alcuna traccia di tensione. Era calma e pacata come la prima volta che ci eravamo rivolti la parola, mentre aspettavamo di partecipare alla trasmissione di Bryan Allen. Aveva una strana richiesta da farmi. «Potrei chiederti in prestito il libro di Maitland? Non l'ho mai letto, e penso che dovrei farlo». Ma non era quella la vera ragione della telefonata. «Stavo pensando che quello che hai fatto oggi è stato straordinario. Non riesco a pensare a nessun altro avvocato che ci avrebbe provato». Fece una pausa, un silenzio imbarazzato che mi fece capire che aveva la mia stessa sensazione, che con quella giuria, forse con qualsiasi giuria, era una strada in salita. «I giurati hanno seguito ogni parola», riprese indeciso. «Hanno creduto a tutto quello che hai detto sulla legge e su ciò che significa». Esitò, restio a proseguire, forse temendo di spingersi su un terreno dove non aveva alcun diritto di mettere piede. Capiva, meglio di chiunque avessi rappresentato, che l'avvocato era solo, che la cosa migliore che il cliente poteva fare per contribuire alla propria difesa era rispondere sinceramente alle domande che gli venivano poste e mai, in nessuna circostanza, suggerire al suo legale cosa fare. «Sono convinti che tu sappia ciò che fai, ma non sono pronti a credermi, che io abbia giurato oppure no».
Lo sapevo, e lui sapeva che io lo sapevo. Negli ultimi mesi avevamo trascorso tanto di quel tempo insieme, parlando di ciò che era accaduto, di ciò che lui sapeva, che potevamo capire uno i pensieri dell'altro alle prime parole dette, e a volte anche meno. «Il marito di Daphne», dissi come se stessi osservando un fatto ovvio. «Per questo era venuta da me quella sera. Aveva una paura mortale di lui, di quello che avrebbe potuto fare, di quello che lo sapeva capace di fare». Robert McMillan, ricco, rispettabile, membro di ogni opera di carità di San Francisco, un faro dell'élite cittadina; ma sotto la facciata affabile di un uomo generoso vi era qualcosa di oscuro e proibito, di possessivo, di perverso, di mortale, di folle. Daphne McMillan ne era stata vittima - picchiata, maltrattata, rinchiusa per ore, a volte giorni interi, in sgabuzzini bui - e tutto a causa di un commento casuale e insignificante che gli aveva inspiegabilmente fatto perdere la testa. A volte era un'occhiata, un gesto in sé innocente che nell'immaginazione malata di lui assumeva l'aspetto di un'oscenità nei suoi riguardi. A volte era una singola parola rivolta a un altro uomo, e lei diventava all'improvviso quello che lui aveva sempre saputo che era: una puttana, una sgualdrina, una donna che sarebbe finita dritta all'inferno. McMillan era un pazzo, e io ero assolutamente certo che fosse anche un assassino. Non avevo alcun dubbio che fosse stato lui a uccidere la moglie, ma non potevo provarlo. Il mondo vedeva il marito addolorato di una donna assassinata, un uomo che era scoppiato a piangere durante l'unica intervista televisiva che aveva concesso. Anche sapendo quello che sapevo, avevo provato una certa comprensione per la sofferenza in quel volto in primo piano sullo schermo, finché non mi ero ricordato di ciò che aveva fatto e della falsità di quello che stava dicendo. «Dovrò farlo crollare in aula», osservai. «Sperare che mostri qualcosa di quello che è veramente. Daphne ti parlava di lui, ma...». Julian terminò la frase per me. «Aveva paura di dirlo a chiunque altro. Nessuno le avrebbe creduto. Era come Jeckyll e Hyde. Mi disse proprio questo, che a volte le sembrava che lui non ricordasse ciò che aveva fatto, che poteva andare su tutte le furie, fare cose irriferibili e il giorno dopo comportarsi come se non fosse accaduto nulla. Diceva che la sua mente era come due stanze diverse separate da una porta. Qualunque fosse la stanza in cui si trovava, era l'unica che conosceva. L'altra non esisteva». Ci salutammo e io rimasi a chiedermi come avrei potuto affrontare un
testimone che ero certo fosse un assassino, ma che era talmente malato da essere convinto di dire la verità quando sosteneva di non sapere niente del delitto. 8 Attenta e metodica, Maddy Foster si dedicò da esperta al compito di provare ogni singolo elemento del crimine. C'era stata una morte, un omicidio, lo sapevamo; sapevamo perché ci trovavamo lì, ma lei doveva ancora provarlo. «Ci dica, dottor Connor», domandò al medico legale della contea, «secondo la sua opinione professionale, qual è stata la causa del decesso?». «Ferite multiple da arma da taglio, una qualsiasi delle quali potrebbe averla uccisa». Non ci fu alcun mutamento nell'espressione di Maddy Foster; nessuna sfilata di emozioni moralistiche nei suoi occhi maturi e infaticabili. Faceva una domanda e poi un'altra, e ciascuna la conduceva con una sorta di inesorabile solennità a ciò che voleva dimostrare. «Multiple; sì, capisco. Sia più preciso, dottor Connor. Quante?» Connor, semicalvo e occhialuto, un ometto dall'aria goffa, mosse le labbra chiuse avanti e indietro. «Almeno diciassette, forse un paio di più». «E una qualsiasi di esse potrebbe averla uccisa?» Sotto lo sguardo serio e inquisitore della Foster, Connor precisò e ritirò parte della sua risposta. «Di sicuro una delle prime. Direi che è morta il momento in cui le ha squarciato la gola». Lei gli mostrò il coltello da macellaio, etichettato come prova, e gli chiese se corrispondeva alla natura delle ferite riscontrate sul corpo di Daphne McMillan. Non soltanto la lama combaciava con la profondità e l'ampiezza delle ferite, ma il DNA della vittima era lo stesso del sangue trovato sull'arma. L'accusa tenne Connor al banco per quasi due ore, io conclusi in meno di cinque minuti. «Dottor Connor, deduco dalla sua testimonianza, o meglio dal suo silenzio sull'argomento, che non ci può dire nulla riguardo all'ordine in cui sono state inflitte le ferite?». «No, ma suppongo...». «Temo che non le sia consentito supporre, dottor Connor. Ma può ri-
spondere a questo: è possibile, vero, che la prima ferita, in grado secondo la sua deposizione di causare la morte, sia stata quella alla gola? O era proprio questa la sua supposizione?». «Sì, intendo dire...». «Ora, se ricordo bene ciò che ha detto, quel taglio era così profondo che le aveva tranciato la laringe. E ciò significa che non sarebbe stata in grado di gridare, di chiamare aiuto, giusto? Non sarebbe stata udita, per esempio, da qualcuno che era profondamente addormentato in una camera in fondo al corridoio?». Tre testimoni e due giorni dopo, la Foster chiamò finalmente il detective responsabile delle indagini. Earl Duncan se ne stava seduto dietro al banco passandosi il dorso dell'indice lungo il bordo dei baffetti neri. Le sue risposte erano immediate, automatiche, sparate con la noncurante efficienza della ripetizione. Nulla lo sorprendeva, niente era in grado di farlo; conosceva a menadito la scena del delitto, aveva setacciato ogni centimetro quadro della casa. Descrisse con precisione clinica gli schizzi di sangue sul muro. Aveva visto sangue sulle pareti, sangue sul pavimento, sangue sulla vittima: sulle sue mani, sugli indumenti ridotti a brandelli, nei capelli, sulle unghie, ovunque. Ne parlò in un tono piatto e pignolo che non faceva che aumentare il raccapriccio, facendoti pensare che dovesse essere la norma, il modo in cui le cose dovevano andare ogni giorno nel suo lavoro. E una volta che ti rendevi conto di questo ti ritraevi, scioccato dalla facilità con cui si poteva essere risucchiati in quel mondo di violenza e omicidio così distante da te e dalla tua vita quotidiana. «E tutto il sangue apparteneva alla vittima?», domandò la Foster quando lui ebbe concluso. «Sì». «Non c'era sangue altrui?», insistette, dando l'impressione che fosse importante esserne certi. «No». «In altre parole, non c'era alcuna prova che la vittima fosse riuscita a ferire il suo aggressore?». «Esatto». «Niente sotto le unghie?». «No». «Segni sulle mani o sulle braccia? Tagli, qualcosa che indicasse che aveva cercato di resistere?». «No. Come ho detto prima, era chiaro che era stata sopraffatta, proba-
bilmente presa di sorpresa. La prima ferita di coltello, direi quella alla gola, andava da destra a sinistra». Duncan esitò, poi scosse il capo con aria contrariata. «Chiedo scusa, al contrario: da sinistra a destra. È stata presa alle spalle, e il coltello le ha attraversato la gola dall'orecchio sinistro a quello destro». La Foster guardò la giuria. «Sicché l'assassino dev'essere destrimano?». «Direi di sì». La Foster, vestita con gonna e giacca grigie, si avvicinò a un tavolo davanti al cancelliere. Raccolse lo stesso coltello che prima aveva mostrato al medico legale. «Questo coltello è stato identificato come l'arma del delitto. È stato lei a trovarlo?». «Sì». «Le dispiace dire alla giuria dove l'ha trovato e quando?». Gli occhietti sospettosi di Duncan tracciarono un arco regolare dalla Foster al banco della giuria alla sua sinistra. Reggeva il coltello per la lama, facendo penzolare l'etichetta all'estremità della cordicella. «Era sul pavimento, a una sessantina di centimetri dal corpo della vittima». «E a chi appartiene il coltello?». «All'imputato», disse ruotando il capo di quel poco che bastò per indicare Julian Sinclair, seduto accanto a me dietro il banco degli avvocati. «E come ha potuto determinarlo?». «Prima di tutto, dal blocco portacoltelli in cucina ne mancava uno, il più grosso, e questo corrispondeva alla perfezione. In secondo luogo, l'imputato ha ammesso che era suo». Maddy Foster abbassò gli occhi a terra avvicinandosi al banco della giuria. Afferrò la balaustra di legno e li rialzò, ma soltanto fino alle grosse nocche appuntite. Sembrava fissarle come se l'intensità del suo sguardo fosse necessaria per mantenere la concentrazione mentale. «Ha anche ammesso che si trovava lì, a casa propria, quando la vittima, Daphne McMillan, è stata assassinata?». «Sì». Raddrizzò la testa e staccò le mani dalla balaustra. Era corpulenta, con due ampie spalle, e si mosse con ferma autorità allontanandosi dal testimone e dalla giuria, diretta verso il banco degli avvocati sull'altro lato del mio. Giunta a meno di due passi dalla sua sedia, si fermò. Raddrizzò le spalle e si voltò lentamente.
«Un'altra cosa. L'unico sangue che ha trovato apparteneva alla vittima». Fece una pausa lasciando che le ultime parole echeggiassero e si spegnessero nel silenzio, poi, con rabbia torva e repressa, domandò: «E il sangue della morta è stato trovato su di lui?». Duncan afferrò e strinse i braccioli della sedia. «Su entrambe le mani. Aveva cercato di lavarsele, ma ce n'era ancora ed era quello della donna». Earl Duncan aveva fatto tutto ciò che avrebbe dovuto fare, rispondendo bene alle imbeccate. Non aveva mai cominciato a rispondere prima che lei avesse terminato la domanda, e si era sempre sincerato di guardare la giuria almeno per una parte della risposta. Ma non appena l'accusa ebbe finito di interrogarlo, il suo atteggiamento mutò. Mi guardava con disprezzo, e per mostrarmi quanto era preparato cominciò a dirmi quello che gli avrei chiesto. «Vuole sapere come mai, visto che ha ammesso che il coltello era suo, non c'erano le sue impronte? Vuole sapere per quale motivo l'avrebbe pulito invece di sbarazzarsene del tutto? Be', avvocato, la ragione è che...». «Vostro Onore, vuole, per favore, informare il teste che non deve rispondere alle proprie domande, ma alle mie?». Girandosi in modo che Duncan fosse costretto a guardarlo negli occhi, Conrad Jarvis risolse la questione con una sola, minacciosa parola: «Basta». Continuò a fissarlo per qualche altro istante, avvertendolo con gli occhi che faceva sul serio e che non l'avrebbe ammonito una seconda volta. Duncan annuì mansueto e seppellì il proprio risentimento; poi si abbandonò contro lo schienale della sedia e mi osservò con i suoi occhi scuri e implacabili. «Lei ha dichiarato che l'imputato ha ammesso che il coltello da cucina, l'arma del delitto, apparteneva a lui». «Sì». «Gliel'ha chiesto e lui le ha risposto così?». «Sì». «E questa conversazione ha avuto luogo a casa sua, dove lei era stato convocato dopo la segnalazione di un omicidio?». «Sì». «Tanto per mettere in chiaro le cose, la telefonata alla polizia era stata fatta da Julian Sinclair, non è vero?». «A quel che so», rispose con una scrollata di spalle che voleva essere irritante. Non mi mossi dalla mia posizione accanto al banco degli avvocati, diret-
tamente davanti a lui a non più di tre metri di distanza. Il banco della giuria distava un metro alla mia destra. «"A quel che sa"? Ha motivo di credere che la telefonata fosse stata fatta da qualcun altro?». «No». «Quando è arrivato sulla scena, Julian Sinclair l'aspettava fuori; è esatto?». «Sì», rispose Duncan agitandosi sulla sedia come se fosse talmente annoiato che aveva dovuto darsi qualcosa da fare. «È io ero con lui, giusto?». «Era lì». Le rughe gli incisero la fronte con più forza, e un'espressione di impazienza per quello spreco di tempo gli arricciò le labbra. «Di quante indagini di omicidio si è occupato nella sua carriera, detective Duncan?», domandai alzando la voce. «Una, due...?». La mia uscita non gli piacque, non gli piacque affatto. Tirò giù la gamba accavallata, piantò entrambi i piedi sulla pedana e i gomiti sui braccioli della sedia e si sporse in avanti. «Questa è l'ottantatreesima». Il suo tono era calmo, deciso, sicuro. «Ne ho altre tre ancora aperte, in tutto sono ottantasei». «Dunque sa bene che nessuno può essere costretto a parlare con la polizia se non vuole farlo. Conosce di sicuro, come li conosciamo tutti, quei famosi avvertimenti del codice Miranda che il poliziotto deve recitare a chiunque arresti prima...». «Lui non era in arresto. È stato arrestato soltanto più tardi, dopo che ha parlato con me sulla scena del delitto, a casa sua. C'era anche lei, sa benissimo...». «So che l'imputato ha risposto a ogni sua domanda, detective Duncan. Non è così?», chiesi fissandolo negli occhietti socchiusi e ostili. «Ora mi assecondi. L'imputato ha risposto alle sue domande: tocca a lei rispondere alle mie. O devo chiedere di nuovo al giudice di dirle cosa fare? Bene. Ora, mi dica una cosa: ammette che l'imputato aveva il diritto di non parlare con lei, che fosse in arresto oppure no?». «Sì». «L'imputato insegna diritto a Berkeley, alla Boalt Hall?». «Sì». «Insegna non soltanto diritto penale, ma anche procedura penale?». «A quel che so». «Probabilmente conosce meglio di qualsiasi altro avvocato, e forse addi-
rittura di qualsiasi poliziotto, il proprio diritto costituzionale di non parlare con la polizia. È d'accordo?». «Sì». «E, come ha già dichiarato, io ero lì accanto a lui. Ora, qualsiasi cosa possa pensare di me personalmente, o qualsiasi cosa possa pensare dei penalisti in generale, sarei troppo arrogante nel suggerire di essere anch'io ragionevolmente informato riguardo al diritto di un imputato di restare in silenzio e non rispondere alle domande?». «No, suppongo di no». «Tanto perché tutti capiscano: la sua testimonianza è che malgrado sapesse che non era costretto a parlare con lei, malgrado la presenza di un altro avvocato che avrebbe potuto consigliargli di non farlo, l'imputato ha parlato con lei. Non solo: ha risposto a tutte le sue domande. È esatto?». «Ha risposto alle domande che gli ho fatto. Non significa che le sue risposte fossero sincere, o che io gli abbia creduto». «Già, be', torneremo fra un momento a ciò che lei crede e al perché lo crede», dissi aggirando l'angolo e cominciando a camminare avanti e indietro davanti al banco degli avvocati. «Il sangue sulle sue mani, il sangue che, sostiene lei, l'imputato aveva cercato di lavare via». Mi fermai e alzai gli occhi su di lui. «È stato lui stesso a dirle di averlo fatto, no?». Prima che potesse rispondere gli feci un'altra domanda, subito seguita da una terza. «Le ha detto che si era svegliato e aveva trovato il corpo in salotto in un lago di sangue, non è così? Le ha detto che il suo primo, il suo unico pensiero era stato controllare se per qualche miracolo fosse ancora viva? Che le aveva tastato il polso, e quando si era accorto che il suo cuore non batteva più era stato travolto dal dolore, l'aveva presa fra le braccia e l'aveva stretta a sé? Che soltanto più tardi, quando aveva cominciato a riacquistare lucidità, l'aveva riadagiata a terra e si era lavato? Le ha detto tutto questo?». «È quello che ha detto». «Dunque la risposta è sì. Ora, detective Duncan, per quanto riguarda la domanda che voleva affrontare all'inizio, prima che io potessi rivolgerle la mia: l'imputato ha ammesso che il coltello era suo, e le ha addirittura mostrato, in mia presenza, il luogo preciso in cui veniva tenuto in cucina, esatto?». «Sì».
Mi ero spostato in fondo al banco della giuria, il punto più lontano dal testimone. «Il coltello, l'arma del delitto... non sono state rilevate impronte digitali, vero?». «Esatto. Era stato pulito». «Era stato pulito, dice lei, perché se l'assassino di Daphne McMillan avesse per esempio indossato un paio di guanti vi sarebbero state le impronte di chi l'aveva usato prima, esatto?». «Sì, esatto». Feci un passo avanti, facendo scivolare la mano sulla balaustra. «Non sarebbe stato difficile sbarazzarsi di quel coltello, non trova? Gettarlo via sulle colline di Berkeley, o lanciarlo nella baia?». «No, non sarebbe stato difficile». «Eppure il coltello, mi sembra lei abbia dichiarato, è stato trovato a una sessantina di centimetri dal corpo. Curioso, non crede? Lei ha indagato su quanti?... Ottantasei omicidi. Non lo trova un po' insolito uccidere qualcuno in quel modo a casa propria, ridurlo a brandelli in quello che dev'essere stato un accesso di furore omicida, e poi non soltanto lasciare lì il corpo ma anche il coltello? Lasciare lì il coltello ma togliere ogni impronta, le impronte che tutti si aspetterebbero di trovarvi visto che il coltello è suo? E poi fare cosa? Perché tornare a letto, dormire da mezzanotte, l'ora approssimativa in cui secondo il medico legale è stata uccisa Daphne McMillan, alle sei del mattino, e a quel punto, invece di cercare di nascondere le prove del delitto, chiamare la polizia e rispondere a tutte le domande? Ci dica, detective Duncan, in tutti i suoi anni alla Omicidi, fra gli ottantasei delitti su cui ha indagato, ha mai visto nulla di altrettanto straordinario?». Maddy Foster si era alzata dalla sedia. Invece di sbraitare la sua indignata obiezione, attese silenziosa e paziente che il giudice Jarvis alzasse una mano per fermarmi e la guardasse. «In un processo per omicidio la difesa gode, giustamente, di molte libertà nel controinterrogatorio. Non intendiamo muovere obiezioni su questo. Mi domando tuttavia se il signor Antonelli non si sia spinto un po' troppo in là?». La sua voce era calma, spassionata, la voce della ragione che non pensa mai al proprio vantaggio. Mi faceva fare la figura del fanatico, e per contrasto la faceva sembrare giusta. Jarvis non disse una parola: mi rivolse un'occhiata che non lasciava alcun dubbio sul fatto che pensasse che mi ero lasciato prendere dalla foga del momento e avevo scordato che mi tro-
vavo lì per fare domande e non comizi. Mi sbottonai la giacca, infilai le mani in tasca, raddrizzai le spalle e abbassai la testa. Fissai Duncan fino a far scomparire il sorrisetto soddisfatto dall'angolo delle sue labbra sottili. «Julian Sinclair le ha detto il motivo per cui la vittima era andata da lui quella sera? Le ha detto che Daphne McMillan era terrorizzata da suo marito, che lo stava lasciando e che non aveva intenzione di tornare da lui?». Earl Duncan inclinò il capo. I suoi occhi erano freddi, duri, cinici: era lo sguardo di un uomo convinto che nessuno dicesse la verità se prima non smascheravi la sua menzogna. «È quello che ha detto». «Le ha detto che era arrivata poco dopo le nove, spaventata e agitatissima; che avevano parlato fino alle undici e mezza circa e che a quel punto lui era andato a letto». «È quello che ha detto». «Le ha detto che lei avrebbe passato la notte nella camera degli ospiti, ma che aveva dichiarato di non voler andare a letto subito». «Avevano una relazione», scattò Duncan con sguardo rabbioso e intenso. «Perché avrebbe dovuto dormire nella camera degli ospiti? Perché lui avrebbe dovuto dormire solo?», domandò scoccando un'occhiata disgustata a Julian Sinclair, seduto impassibile sulla seconda sedia dietro il banco degli avvocati. «Avevano una relazione! E la prova di ciò quale sarebbe, detective Duncan? La deposizione del marito, l'uomo che lei aveva deciso di lasciare? Quando è andato a parlare con lui - perché ha parlato con Robert McMillan, non è vero? - gli ha domandato delle voci di abusi, di ciò che le faceva?». Duncan era scivolato in avanti sulla sedia. Gli pulsavano le tempie, e il sangue scorreva rapido nelle vene bluastre sul dorso delle mani con cui stringeva i braccioli. «Ha mai dovuto dire a un uomo che sua moglie è stata massacrata? Ha mai dovuto chiedere a qualcuno di seguirla all'obitorio per identificare un corpo dopo una cosa simile? Ma sì, gliel'ho chiesto. Gli ho chiesto per quale motivo sua moglie si trovasse a casa dell'imputato sulle colline di Berkeley a tarda notte. Lui mi ha risposto che il loro matrimonio aveva avuto qualche difficoltà, che avevano provato a separarsi e che lei aveva cominciato a frequentare Sinclair, ma che avevano deciso di riprovarci. Quella sera lei era andata da Sinclair a dirgli che era finita, che non l'avrebbe più
rivisto. Sarebbe tornata con suo marito, avrebbe messo fine alla loro relazione». Nei suoi occhi c'era una crudele espressione di rivincita, l'assoluta sicurezza di aver annullato qualsiasi possibilità avessi d'incolpare qualcun altro del delitto. «Dunque il marito sapeva che sua moglie era a casa di Julian Sinclair, sulle colline di Berkeley. Ma ciò significa che sapeva dove trovarla, non crede? Nell'ipotesi», soggiunsi prendendomi anch'io una piccola rivincita, «che a mentire sia stato lui e che Julian Sinclair le abbia detto la verità fin dall'inizio». Robert McMillan era l'ultimo testimone dell'accusa. Maddy Foster si assicurò che la giuria capisse che anche lui, come loro, aveva i suoi difetti e le sue debolezze. «C'era una considerevole differenza di età fra voi due, vero signor McMillan? Sua moglie aveva meno di trent'anni, lei più di cinquanta quando vi sposaste. Questo ha creato qualche problema nel vostro matrimonio?». Robert Mandeville McMillan andava fiero del proprio aspetto. Era un appassionato giocatore di tennis e un golfista a zero handicap, ed era in ottima forma. Aveva un naso dritto e un mento deciso, zigomi alti che conferivano al volto un aspetto leggermente arrogante, e gli occhi più imperiosi che avessi mai visto. Erano grigioazzurri, con un qualcosa di metallico che invece di attirare la luce la rifletteva. Fosse per questo oppure per come inclinava la testa ovale, riusciva a dare sempre l'impressione di guardarti dall'alto in basso. Era distante e inavvicinabile, ma talmente distinto e beneducato che impiegavi del tempo prima di convincerti che la tua prima impressione era quella giusta e che dietro quel fascino educato vi era un che di realmente malvagio. Di tutti i testimoni che ho affrontato in tribunale, Robert McMillan è stato il più difficile. Sapevo che aveva ucciso la moglie, ed entrambi sapevamo che non potevo provarlo. Provarlo? Non potevo nemmeno far sì che qualcuno lo pensasse possibile. Robert McMillan un assassino? Era troppo assurdo. Nessuno che l'avesse visto dietro il banco dei testimoni, che lo avesse ascoltato raccontare con voce spezzata i sentimenti che aveva provato quando gli era stato detto che sua moglie, la sua bellissima giovane moglie, era morta, che avesse visto i suoi occhi riempirsi di lacrime e l'espressione di lugubre determinazione con cui le aveva represse e si era controllato, avrebbe mai potuto credere che fosse capace di un gesto simile.
«Ha creato qualche problema nel vostro matrimonio?», ripeté Maddy Foster in tono sommesso e comprensivo vedendo che lui si limitava a fissare il pubblico con espressione confusa e turbata, come se non sapesse bene cosa ci faceva lì o a cosa poteva servire, ora che sua moglie non c'era più. «Sì, mi perdoni», disse McMillan battendo le palpebre. «Sì, c'erano delle difficoltà. Non sono sicuro che fossero dovute tutte a questo, ma alcune sì. A lei piaceva andare a ballare in locali con musica assordante e grandi folle; cose, temo, che a me non interessano molto. E avevo commesso l'errore di pensare che si sarebbe accontentata di farlo ogni tanto. Ovviamente, quello che per lei era ogni tanto per me era troppo spesso». Fece un forzato sorrisetto di scusa. «Cose del genere». «Al di là delle divergenze in fatto di divertimenti, c'erano differenze riguardo alle rispettive esigenze intime?». Per la prima volta, la facciata controllata parve cedere. Gli occhi grigi e impenetrabili si accesero di qualcosa di prossimo alla rabbia. La sua voce, tuttavia, rimase calma, malinconica come sempre. «Se si riferisce alla nostra vita sessuale, è stata sempre soddisfacente». Maddy Foster non mutò espressione, ma ebbi la sensazione che non fosse la risposta che si aspettava. McMillan le aveva detto che i problemi del loro matrimonio avevano anche a che fare con il sesso? Non poteva certo averle detto le cose che Daphne aveva raccontato a Julian e che poi Julian aveva riferito a me. «Ma a un certo punto sua moglie aveva intrecciato una relazione?». «Sì, con Julian Sinclair. A quanto pare, è andata avanti per diversi mesi. Io non ne sapevo nulla finché non me l'ha detto lei stessa. Ci eravamo separati per un certo periodo, ed era cominciata allora. Voleva che lo sapessi, mi ha detto, perché desiderava che ricominciassimo da zero, e questo significava che non dovevano esserci segreti. Mi ha detto che avrebbe messo fine alla relazione, e che l'avrebbe fatto subito, quella sera stessa». «E quando gliel'ha detto, di preciso?». «Quel giorno a pranzo. In seguito sono dovuto partire per lavoro e ho passato la notte a Los Angeles». Con una espressione cupa e angosciata, soggiunse: «Avevamo in programma di passare la settimana successiva nella nostra villa di Santa Barbara». Questo spiegava, o sembrava spiegare, come mai prima della telefonata della polizia non sapeva che quella notte sua moglie non era rientrata a casa. Ma era davvero così?
«Quel giorno, a pranzo, sua moglie le ha detto della sua relazione. Ho capito bene?», domandai alzandomi lentamente dalla sedia. McMillan sollevò il mento. «Sì». «La stessa conversazione in cui le ha detto che voleva rimettere in sesto il matrimonio?». Cercai di farla sembrare una domanda di routine, tanto per chiarire possibili ambiguità. Armeggiai con il bottone della giacca, riuscii finalmente ad allacciarla, alzai il capo e gli rivolsi un'occhiata dura e indagatrice. «Sua moglie le dice tutto questo, le parla della relazione a cui vuole mettere fine per ricominciare la sua vita insieme a lei e la prima cosa che lei fa è andare a Los Angeles e passarvi la notte? È un'indicazione di quanto fossero intimi i vostri rapporti?». Maddy Foster se ne accorse prima ancora che arrivasse; era qualcosa che aveva già visto. Balzò in piedi, e il dolce tono di ragionevolezza svanì dalla sua voce. «Obiezione!», esclamò infastidita e ferita. «Non è una domanda, è un insulto, e non dovrebbe essere ammesso!». Jarvis si piegò in avanti, concentratissimo. Tese il dito indice di fronte alle labbra appena socchiuse. «No, forse il tono è stato leggermente condiscendente, e in questo senso fuori luogo», disse scoccandomi una rapida occhiata di traverso, «ma la domanda in sé è giusta. Obiezione respinta», disse annuendo fra sé e ritraendo le braccia dal seggio. «Non le è venuto in mente, dopo quello che sostiene lei le aveva detto, che forse avrebbe dovuto cancellare il viaggio e restare con lei?», domandai in tono incredulo. Lui accantonò bruscamente la domanda, come se non valesse nemmeno la pena di parlarne. Nel mondo in cui viveva bisognava rispettare gli impegni. Era stata lei ad avere una relazione, era lei a voler ricominciare. Lui aveva un appuntamento, il resto poteva aspettare. «Era un importante incontro di lavoro. Non avevo scelta». «Di sabato?». «Sì». Ero al corrente dell'incontro: avevo controllato. «L'incontro è terminato alle sei». «Avevo altre cose da fare». «Lei era stato sposato già due volte?». «Sì».
«E il primo matrimonio era finito con un divorzio?». «Temo di sì». «Nell'accordo di divorzio c'era una clausola alquanto insolita, vero? Una clausola nella quale la sua ex moglie accettava di non parlare mai del matrimonio o delle cause del divorzio?». Fece mostra di indifferenza. «Qualunque fossero i termini del divorzio, se ne occuparono gli avvocati». «Capisco. Il secondo matrimonio non finì con un divorzio. La sua seconda moglie rimase uccisa in un incidente d'auto, mi sembra». Scoccò un'occhiata irritata al giudice Jarvis, come se si aspettasse che intervenisse. «Sì, è così. Morì in un incidente. Fu terribile». «Sono d'accordo. Precipitò da una scogliera, in pieno pomeriggio e senza alcun testimone». «Vostro Onore!». La Foster era di nuovo in piedi, entrambe le mani piantate sul banco davanti a sé. Ma Jarvis non fece altro che segnalarmi con la mano di sbrigarmi e giungere al punto, sempre che ve ne fosse uno. «Ha comprato a caro prezzo il silenzio di una donna, e la successiva è morta. Ma Daphne ha parlato. Ha parlato delle violenze, delle cose crudeli e irriferibili che lei le faceva, delle orribili perversioni che sono il suo unico modo di eccitarsi. Per questo la stava lasciando; per questo era corsa dal suo amico, da Julian Sinclair, l'unico uomo di cui poteva fidarsi: non per dirgli che con lui era tutto finito, ma per riferirgli che finalmente, qualunque sarebbe stato il prezzo, con lei aveva chiuso!». Robert McMillan balzò dalla sedia, furente, sbraitando i propri dinieghi mentre, dietro di me, Maddy Foster tuonava le sue obiezioni. «Ed è stato per questo che lei l'ha fatto, per questo l'ha uccisa, per questo l'ha massacrata a coltellate! Perché non poteva averla, e perché con quello che sapeva di lei avrebbe potuto rovinarla quando avesse voluto! Per questo l'ha assassinata!», gridai per sovrastare i colpi del martelletto e l'assordante fracasso dell'aula. «Perché aveva avuto il coraggio di lasciarla!». 9 Mi si era rotta una stringa. Era sorprendente quanto una cosa di così poco conto mi buttasse giù, peggiorando un umore già pessimo. Ero una creatura abitudinaria, mi vestivo sempre allo stesso modo ogni volta che dovevo indossare giacca e cravatta. I boxer, poi la camicia; e quando ave-
vo finito di abbottonarla sul davanti, cominciando sempre dal secondo bottone, mi allacciavo i polsini. M'infilavo le calze, prima la destra e poi la sinistra, quindi i pantaloni. Quando mi ero allacciato la cintura, passavo alla cravatta. Era facile, automatico; lo facevo da anni, avrei potuto farlo nel sonno: la cravatta, le scarpe, il cappotto. Infila la scarpa destra, allacciala; poi fai lo stesso con la sinistra. Ero seduto sul bordo della sedia, la caviglia sinistra posata di traverso sul ginocchio, e stavo stringendo le stringhe quando accadde, quando un'estremità si spezzò in due. Non ne avevo una di riserva: tutto quello che potevo fare era annodare i due pezzi, nascondere il più possibile il nodo e sperare che non si notasse. Continuai a imprecare contro la stringa, contro me stesso, per tutto il tragitto in ascensore e lungo il pavimento di cemento del garage, ben sapendo che se non fosse stata la stringa sarebbe toccato a qualcos'altro. Ero furioso; furioso con Albert Craven, anche se non aveva fatto nulla di male; furioso con Harry Godwin, il cliente più importante dello studio, malgrado non ci fossimo ancora conosciuti; furioso con la televisione, con il processo, con il mondo intero. Giunto davanti all'auto, tesi entrambe le braccia in avanti e sferrai un gran calcio alla gomma anteriore. Imprecando contro me stesso, cercai di strofinare via lo sbaffo di sporco che mi era rimasto sulla scarpa. Salii in macchina e a un tratto scoppiai a ridere. Era sabato sera ed ero diretto all'Hotel Four Seasons. Che male c'era se, invece che con una bella donna, avrei cenato con due uomini anziani? Risi e imprecai di nuovo. Harry Godwin era venuto fin da Sydney per vedermi. Non ci credevo, ma non era necessario che lo facessi. Era così che la cosa era stata presentata ad Albert Craven, il che non mi aveva lasciato una vera scelta. A quel punto ero comunque curioso di vedere com'era davvero Harry Godwin, se fosse l'uomo descritto da Thomas Hobbes nella sua citatissima definizione, colui la cui esistenza era la "ricerca di potere dopo potere che cessa soltanto con la morte", o se sotto quella superficie di calcolo incessante vi fosse qualcos'altro che valeva la pena di conoscere. Mi chiedevo se il fatto che Julian Sinclair, malgrado tutti i soldi che gli avevano offerto in cambio di una intervista esclusiva, continuasse a dire no l'avesse esasperato. Personalmente, ero esasperato dal fatto che nessun producer o dirigente, nessun editore o direttore di periodico, nessuno dei molti che rappresentavano i vari, differenziatissimi interessi di Harry Godwin sembrava in grado di capire che l'unico luogo in cui Julian Sinclair avrebbe raccontato la sua storia era il tribunale, in qualità di testimone del-
la propria difesa. Alla fine erano giunti a offrirgli una cifra con sei zeri, e quando lui l'aveva rifiutata si erano rivolti a me. «La risposta è no», dissi non appena Harry Godwin cominciò ad affrontare l'argomento. Il bar ristorante era invaso da gente di fuori città e da volti accesi e indaffarati, la solita clientela danarosa del Four Seasons. Il nostro tavolo era pronto, ma a Harry piaceva dov'eravamo seduti, a un tavolino seminascosto dal piano a mezzacoda su cui un musicista in smoking suonava una discreta melodia di Cole Porter. «Avremo bisogno di una mezz'ora», disse, licenziando il direttore di sala senza quasi alzare gli occhi su di lui. Reggendo amorevolmente il suo martini, ricambiò la mia occhiata. I suoi occhi erano azzurri come quelli di Albert Craven ma più chiari di almeno due gradazioni e privi dell'intensa curiosità di quelli di Albert. Fu questa la mia prima, sorprendente impressione, questa assenza di alcunché di insolito nel suo sguardo, questa sensazione che fosse una persona ordinaria, comune, prosaica. Harry Godwin non aveva alcun interesse, alcun serio interesse, per tutto ciò che non era la sua attività. Tutto era visto in quei termini. La musica, i libri, l'arte, il teatro, le arti in generale, erano una semplice risorsa necessaria per nutrire un insaziabile bisogno di intrattenimento. Se qualcuno avesse menzionato i dipinti di El Greco, si sarebbe immediatamente chiesto se il network avesse fatto una trasmissione su di lui e con quali risultati di ascolto. Ignorò la mia risposta, accantonandola con un sorriso da commerciante mentre ordinava un secondo martini, e cominciò a elencarmi le cose che era sicuro non capivo. «Ho guardato le sue due apparizioni, le ho riviste diverse volte. Lei porta una certa qualità che gli altri non possiedono. È difficile dire cosa sia. Abbiamo mostrato la registrazione anche a campioni di pubblico. La gente si fida di lei: forse per la sua faccia, i suoi modi, il suo portamento, il modo in cui dice ciò che dice. Gli spettatori non davano giudizi sulle parole degli altri: volevano prima sentire cosa avrebbe detto lei. Ciò non significa che fossero d'accordo, o che lo apprezzassero; ma lei possiede una sorta di autorità che loro rispettano». Gli erano rimaste ben poche tracce di accento; viveva in così tanti luoghi, trascorreva così tanto tempo in America che dovevi ascoltare attentamente per renderti conto che non era uno del luogo. Beveva, tuttavia, come soltanto un australiano è in grado di fare; lentamente, metodicamente, un drink dopo l'altro, per l'intera serata, e senza alcun effetto evidente. Non sarei stato in grado di bere una quantità d'acqua pari a quella del suo gin.
«E in quella seconda trasmissione, quella che ha fatto da solo con Bryan Allen, gli ha tenuto testa alla grande. Tenuto testa! L'ha demolito, quello stupido figlio di buona donna! Chiaro, lui è troppo idiota per rendersene conto, così come gran parte del suo pubblico. Per questo lo guardano, per questo lo mandiamo in onda: dice quello che la gente pensa, e la gente pensa più o meno quello che lui dice». Colse lo scetticismo nel mio sguardo, il dubbio che fosse davvero così semplice. «Non è una posa, lui è esattamente come sembra. Non siamo all'università, e Allen non è pagato per dare lezioni di fisica. Questa è l'America media, ed è la televisione. Non so perché certa gente pensi che dovrebbe, o che potrebbe, essere un'altra cosa. E poi è meno disperante di quanto lei creda». Mi rivolse un'occhiata che doveva aver usato infinite altre volte, l'occhiata che ti diceva che eri diverso e speciale. «Quello che vogliamo fare non è mai stato fatto prima d'ora, ma prima o poi succederà. E sono sicuro che Albert è d'accordo sul fatto», soggiunse con un'occhiata di traverso a Craven, che sedeva fra noi con un'espressione vacua sul volto, «che se cominciassimo con lei imporremmo lo standard qualitativo più alto». «Vuole che vada in televisione prima di rivolgere la mia arringa finale alla giuria e che la faccia in diretta, che illustri il mio caso alla tivù?». «La giuria sarà isolata, non lo saprà. E lei non sarebbe solo. Sarebbe come in tribunale. Lei presenta la sua argomentazione, spiega perché non è stato Sinclair, e l'accusa presenta la propria, spiegando perché è stato lui». Era più che un'aberrazione: era una follia. «Questo risolve la questione. Se anche fossi disposto a farlo, e non lo sono, Maddy Foster non lo farà. Non può». Harry Godwin posò sul tavolo il bicchiere affusolato. Si grattò il mento, inclinò la testa da una parte e parve riflettere. «Hanno controllato. Non è così chiaro che non possa. Non c'è alcuna norma specifica che lo impedisca». «Lei non lo farà». Ribadì che non aveva importanza. «Abbiamo una lunga lista di ex procuratori che muoiono dalla voglia di farlo. È un processo pubblico, lo stanno seguendo tutti. Ogni giorno mandiamo qualcuno in quell'aula. Non sarà difficile presentare il tipo di argomentazione che userebbe qualsiasi buon procuratore».
«In tale caso, potete fare lo stesso con la difesa». Lo dissi per rendere definitivo il mio rifiuto, pensando che Godwin si sarebbe reso conto che non aveva alcun senso e avrebbe lasciato perdere. Ma lui non batté ciglio: mi diede ragione, dicendo che potevano facilmente trovare qualcuno che prendesse il mio posto. «Ma preferiremmo avere lei, piuttosto che cercare qualcuno che interpreti il suo ruolo. Sarebbe più autentico, e come ho detto prima lei possiede una qualità che non hanno in molti. Tutti vogliono la realtà, e tutti stanno seguendo questo processo. Ci sono già trasmissioni che usano gente vera, avvocati, giudici, testimoni, giurie, e questo è semplicemente il passo successivo. È importante cavalcare la prima onda e arrivare il più in là possibile. Qualcuno lo farà; perché non lei? È tutto organizzato, tutto pronto. Gireremo in un'aula di tribunale uguale a quella del processo. Abbiamo la giuria, abbiamo il giudice; troveremo qualcuno che faccia la parte della Foster, e se necessario qualcuno che faccia la sua». «E a quel punto, dopo le arringhe finali? Farete decidere dalla finta giuria se Julian Sinclair debba vivere o morire?». A giudicare dall'impassibilità della sua espressione, era come se gli avessi chiesto che ora era. Non era altro che un dettaglio produttivo, in linea di principio non diverso dall'eliminazione di un personaggio che il pubblico non gradiva. «Ci saranno due numeri che il pubblico potrà chiamare: uno per assolverlo, l'altro per condannarlo. Si potrà anche votare su Internet. Annunceremo il vincitore, la difesa o l'accusa, e poi vedremo se corrisponde al vero verdetto. La partecipazione del pubblico è una trovata molto efficace. Non le piacerebbe sapere cosa ne pensa la gente?». Scoccai un'occhiata ad Albert Craven, ma lui stava esaminando attentamente il liquido ambrato nel suo bicchiere. «No, non mi piacerebbe», risposi più divertito che offeso da quella strana mania di dare al pubblico qualsiasi cosa pur di farlo tornare ancora più numeroso ad assistere a ciò che lui gli avrebbe mostrato. Avrebbe ridotto il più serio procedimento deliberativo pubblico - un processo in cui un cittadino era accusato dell'omicidio di un altro - in uno spettacolo della dignità e dell'importanza del wrestling o di una simile, sciocca distrazione. Ma ancora una volta, l'idea non lo turbava. Si limitò a ignorarla e ordinò un altro drink. «Dopo la conclusione del processo», riprese come se avessi detto sì e non no, «vorrei proporle qualcosa di più regolare. Abbiamo troppa gente
che parla di processi senza aver passato molto tempo in tribunale. Stiamo pensando a una serie sui processi famosi. Vorremmo proporle di darci una mano a metterla insieme, scegliendo i processi da ricreare, e di condurre la trasmissione. Uno dei processi a cui abbiamo pensato è uno dei suoi». Arrivammo alla fine della cena senza riprendere l'argomento della scena finale del processo che Godwin intendeva trasmettere prima ancora che avesse avuto luogo. Non sembrava turbato dal fatto che avessi declinato l'offerta, e ancora meno dal fatto che fossi stato enfatico nel mio rifiuto. Harry Godwin non s'infuriava mai; era troppo sicuro di se stesso e della propria capacità di capire in anticipo la direzione che avrebbero preso le cose per lasciarsi innervosire da coloro che presto avrebbero cercato di salire sul carro. «Quello che ha detto l'altro giorno», osservò quando eravamo ormai passati ai digestivi, «quando ha controinterrogato Robert McMillan. Pensa davvero che sia stato lui? Che abbia assassinato sua moglie?». L'espressione dei suoi occhi era seria, diretta. Non era una domanda a cui dovevo per forza rispondere: dall'occhiata che gli rivolsi capì che dicevo sul serio. Annuì, abbassò lo sguardo, bevve una lunga, lenta sorsata del suo drink e poi tornò a guardarmi. «Non mi sorprenderebbe. McMillan può essere violento... con le donne». Lo disse con profonda sicurezza, non come se stesse riferendo una voce che aveva udito ma come se ne avesse avuto esperienza diretta. «In passato abbiamo fatto qualche affare insieme», spiegò. Un tetro sorriso comparve brevemente agli angoli della sua bocca. «Venga a Sydney, dopo il processo. C'è una donna, nella mia organizzazione, che potrebbe dirle una cosetta o due su Robert McMillan». Lo stavo fissando in modo duro, intenso. Julian Sinclair stava rischiando la vita in un processo, ogni singolo commentatore televisivo (e nessuno con più moralistica indignazione di quelli del suo network) stava ripetendo al mondo intero che era colpevole, e Godwin mi veniva a dire in privato che a causa di quello che era accaduto a una donna che lavorava per lui non sarebbe rimasto sorpreso nel sapere che Daphne McMillan era stata uccisa dal marito? «È successo a Sydney, cinque anni fa. McMillan era lì per lavoro, per un incontro con qualcuno dei miei. Lei, la donna di cui le accennavo, l'ha portato fuori a cena. Era una cortesia professionale, nulla più. McMillan le ha fatto delle avance, lei ha opposto resistenza. A quel punto lui è andato su
tutte le furie e ha cominciato a malmenarla. La cosa è diventata seria. L'ha picchiata di brutto, le ha strappato il vestito di dosso, e l'avrebbe forse stuprata se non fosse intervenuto qualcuno». «Ma Harry!», protestò Craven. «Se Joseph l'avesse saputo prima, avrebbe potuto chiamarla a testimoniare!». Godwin non vedeva come. La donna viveva a Sydney; era australiana, non americana, e non c'entrava con il processo. E poi lui non si era reso conto che quello che McMillan le aveva fatto era parte di uno schema di comportamento, di una lunga storia di abusi, finché quell'argomento non era stato sollevato nel controinterrogatorio del giorno prima. «E quello che le ha fatto non sarebbe una prova ammissibile, giusto? Non è lui a essere sotto processo». «Sarebbe ammissibile per un'incriminazione», risposi. «Se negasse di avere mai usato violenza a una donna, potrei chiamare a testimoniare una donna in grado di sostenere il contrario». Gli domandai come si chiamava la sua collaboratrice, ma Godwin accantonò la mia richiesta asserendo con vaghezza che non c'era alcun motivo di coinvolgerla. Insistetti, e lui ribadì che in quanto cittadina australiana non avrebbe potuto testimoniare: una corte americana non avrebbe avuto il potere di costringerla, e di sua spontanea volontà lei non l'avrebbe mai fatto. Era una donna sposata, disse invocando la stessa moralità di cui il suo network si prendeva regolarmente gioco quando a farlo erano gli altri, e aveva diritto alla sua privacy. «Ma tutto questo è accademico, non è vero? Ho detto che non mi sorprenderebbe sapere che l'assassino è McMillan perché lo trovo capace di commettere un omicidio, ma questo non cambia gli elementi concreti del caso. E gli elementi concreti, sfortunatamente, indicano il suo cliente, giusto? Mi deve perdonare, ma per come la vedo io il suo signor Sinclair sembra in un mare di guai». «Quegli elementi», replicai sforzandomi per rispetto ad Albert di mantenere il controllo, «non significano niente in se stessi. Crede che se la giuria fosse a conoscenza anche solo della metà di quello che ha fatto Robert McMillan, se avessi potuto trovare anche una sola donna disposta a dire la verità su di lui, giungerebbe alla conclusione che è stato lui a uccidere la moglie? Lasciamo perdere se la donna che lavora per lei possa essere costretta a testimoniare oppure no; lei sapeva questo di lui, sapeva che l'aveva picchiata e che l'avrebbe violentata. Com'è che nessuno dei suoi zelanti giornalisti investigativi non ha mai indagato in quella direzione? Perché
hanno trascorso tutto il loro tempo a incolpare Julian Sinclair, invece di cercare di scoprire ciò che potevano su ciò che aveva fatto il marito di Daphne McMillan?». Non eravamo in aula, non vi era alcuna giuria; Harry Godwin non era costretto a rispondermi. Non rispondeva a nessuno. Con quel suo tipico, vuoto sorriso commerciale mi assicurò che in primo luogo, come aveva appena detto, era un collegamento di cui si era appena reso conto, e in secondo luogo che nel gestire le sue imprese non si occupava dello specifico quotidiano, non avendone il tempo. «Mi piacerebbe molto se ripensasse alla mia offerta. So che non lo farà», soggiunse con un'occhiata scaltra. «Voglio solo sappia che penso davvero che lei sarebbe fantastico. E dicevo sul serio, venga a Sydney quando questa storia sarà finita e parleremo con calma di quello che può fare. Sono aperto più o meno a tutto, per cui ci rifletta: pensi a quello che secondo lei dovremmo fare, a quello con cui si sentirebbe a suo agio. Ammetto che molti di quelli che usiamo per questo genere di cose sono ciarlatani se non peggio, idioti che non fanno altro che farsi pubblicità e da cui non mi farei rappresentare neanche per scommessa. Ma lei potrebbe migliorare il livello, ne sono sicuro. E non stavo mentendo qualche istante fa: è vero, non partecipo alla gestione quotidiana. Se le viene un'idea, la trasmissione è sua. Io non interferirò, e le posso assicurare che non lo farà nessun altro. Ci può contare. Lo chieda ad Albert: quello che Harry Godwin dice che farà, lo fa. Quindi, venga a Sydney. Avrò piacere di fargliela visitare». Ci alzammo da tavola e li salutai. Albert mi rivolse una strana occhiata e scoppiò a ridere. «Buon Dio, Antonelli, hai una stringa rotta. Fa' attenzione a non inciampare e romperti il collo». Giunto a casa presi l'ascensore dal garage, ma arrivato al mio piano cambiai idea e scesi nell'atrio. Fuori, l'aria fresca della sera mi schiarì le idee. Attraversai la strada, entrai nei piccoli giardini in cima alla collina, trovai una panchina libera e cercai di dimenticare tutto tranne ciò che udivo e vedevo intorno a me. Voci ridenti giungevano vaghe e voluttuose dai grandi alberghi, il Fairmont e il Mark Hopkins, a pochi isolati di distanza. Pur con tutta la sua eleganza, con tutta la sua magia e ricchezza, il sabato sera San Francisco era ancora il sogno ubriaco di un marinaio in franchigia, una donna vistosa e dallo sguardo fiammeggiante che avrebbe potuto prendergli tutti i soldi che aveva in tasca, ma anche farlo divertire come
non si era mai divertito in vita sua. La città era stata praticamente fondata su una totale assenza di inibizioni: gli uomini arrivavano da ogni dove per trovare l'oro e arricchirsi e poi spendevano i propri soldi nei bordelli e nei bar affacciati sulle prime strade di terra battuta. I locali erano più tranquilli adesso, e le donne che i ricchi desideravano non erano più tanto spesso quelle che si potevano pagare all'ora o per la notte. Le transazioni commerciali, la premessa non detta su cui si basava più di un matrimonio, erano più sottili e forse più astute. Daphne McMillan non aveva venduto il proprio giovane corpo per denaro, ma non aveva nemmeno sposato il più vecchio Robert McMillan per qualcosa di semplice e onesto come l'amore. Era una giovane di una bellezza mozzafiato, ed era anche ambiziosa. In una città come San Francisco, per non parlare di New York, le giovani belle e istruite potevano raccontare al mondo, e in certe occasioni anche a se stesse, che gli uomini più anziani che avevano fatto qualcosa nella vita erano più interessanti degli uomini che erano soltanto agli inizi e che forse, o forse no, avrebbero fatto qualcosa d'interessante nelle loro. Tutti avevano fretta di primeggiare; cosa c'era di meglio dei consigli di qualcuno che non solo ti amava, ma che sapeva qualcosa della strada che avresti dovuto percorrere e di chi ne avrebbe sorvegliato ogni cancello? Stava arrivando la nebbia. Sollevai il colletto della giacca e me lo strinsi alla gola. In lontananza, le luci di Berkeley si stendevano dalle acque nere della baia alle colline scure stampate sul cielo a oriente. Nei pressi della loro cima, le luci del luogo in cui Julian Sinclair avrebbe vissuto almeno per un altro po' luccicavano insieme alle altre. Mi chiesi quanto spesso Daphne McMillan avesse fatto vagare lo sguardo nella notte alla ricerca di quella luce indistinguibile dalle altre sul lato più lontano di Berkeley, sul versante opposto della baia. Non abitava lontano da dove mi trovavo, nei pressi della cima di Russian Hill, uno dei primi luoghi in città da cui si vedeva il sole del mattino. Mi chiesi cosa pensasse di Julian, cosa significasse per lei. Doveva esserne innamorata, ma Julian...? Non era un uomo del suo tempo; possedeva il tipo di galanteria che non gli avrebbe mai permesso di fare la corte a una donna sposata. Avrebbero potuto essere amici, e lo erano: amici migliori di quanto fossero molte coppie sposate. Potevano trascorrere la notte insieme, e a volte lo facevano, ma era sempre, se credevi alle parole di Julian, qualcosa di non soltanto innocente, ma quasi di meravigliosamente, inaspettatamente
casto. Condividevano il letto; lui la prendeva per mano, la stringeva a sé. Non si spingevano mai più in là. Lui avrebbe voluto farlo? Gli riusciva difficile, quasi impossibile trattenersi, controllarsi? Sentendo il modo in cui parlava dei momenti che aveva passato con lei, temevo quasi di chiederglielo. C'era un che di quasi osceno nel suggerire che non tutti si sarebbero comportati come lui. Non era che non fosse mai stato con una donna, o che avesse paura del sesso; non condivideva alcuno dei principi morali o religiosi che insegnavano che il sesso senza matrimonio era un vizio o un peccato. Sapeva tutto riguardo al fare l'amore con le donne, e ammetteva sinceramente che quando lo faceva gli piaceva. Era solo che non ci pensava molto spesso, e dopo che l'aveva fatto non ci pensava affatto. Equiparava il desiderio alla fame o alla sete, qualcosa che soddisfacevi per poi tornare a dedicarti a ciò che stavi facendo, a ciò che era davvero importante nella tua vita. C'era una differenza, ovviamente, fra la fame e la sete da una parte e il sesso dall'altra, anche se non era quella che sarebbe venuta in mente a molti. Il sesso, aveva acutamente osservato Julian, era un desiderio che, se ignorato, alla fine si sarebbe dileguato. Cosa pensava del sesso Julian Sinclair? Per la maggior parte del tempo lo ignorava. «Ho scoperto molto presto, per così dire all'inizio», mi aveva confessato in un accesso di sincerità durante una delle nostre prime conversazioni, «che non appena finiva volevo soltanto andarmene, restare da solo. Non è giusto, lo so, lasciare una ragazza con la sensazione che hai perso ogni interesse in lei nel momento in cui hai concluso. Ma il sesso è un bisogno, una sorta di tiranno dell'anima che quando gli hai concesso di prendere il controllo su di te non molla più la presa. È un po' come ubriacarsi: quando ti svegli, il mattino dopo, l'ultima cosa a cui pensi è bere. «Gli psichiatri, gli psicologi, quelli che non riescono a comprendere nessuno se non come l'esemplare di un tipo, ti direbbero che il mio atteggiamento indica un uomo prigioniero del dilemma angelo-puttana. Nessuno sembra rendersi conto che l'idea stessa del collegamento teoricamente profondo fra amore e sesso è del tutto artificiale. Il sesso come espressione d'amore? Ne dubito proprio. Amavo Daphne, e l'amerò sempre. Ma rimpiango di non aver mai fatto l'amore con lei? Nemmeno per un minuto. Sarei andato a letto con lei se non fosse stata sposata? Sì, senza dubbio, e immediatamente. E se avessi mai sposato qualcuno, avrei sposato lei. Ma era sposata con un altro, e ci sono certe cose che semplicemente non si fanno. Non passavo i giorni o le notti a sognare come sarebbe stata a letto,
ma ciò non significa che non dubitassi che sarebbe stata tutto ciò che desideravo e anche più. Era la mia migliore amica, l'unica amica che avessi; e adesso non c'è più, e mi manca, e nulla di ciò che non abbiamo fatto potrebbe farmela mancare di più. Forse avrebbe potuto, in qualche strano modo, farmela mancare di meno. L'amavo fino a questo punto, e lei mi amava fino a questo punto. Come lo esprimeva? Ogni volta che mi guardava, glielo leggevo negli occhi. Ero innamorato di lei?». Un sorriso triste e pieno di rimpianto era coraggiosamente spuntato sulle sue labbra. «Forse sì, o forse era qualcosa di ancora più profondo». Spostai di nuovo lo sguardo al di là della baia, perlustrando invano le colline lontane che sembravano brillare a lume di candela. Lei doveva aver fatto lo stesso ogni sera da Russian Hill, domandandosi forse se lo capiva davvero e se fra loro avrebbe mai funzionato. Le cose che voleva, l'ambizione che la muoveva, la ragione per cui aveva sposato chi aveva sposato: cosa c'entrava Julian Sinclair con tutto ciò? Daphne doveva aver capito che malgrado tutti i suoi incoraggiamenti, le cose che lei apprezzava per lui non avevano alcun significato. Una parte di lei l'avrebbe ammirato, il modo in cui era superiore alle cose per cui gli altri lottavano; ma un'altra parte doveva anche aver pensato che in un certo senso Julian la guardava dall'alto in basso. Era troppo moderna per non domandarsi quanto tempo sarebbe passato prima di cominciare a vedere come disprezzo quello che ora vedeva come distacco. Quando era con lui, quando erano soli e parlavano in toni sinceri e sommessi di come avrebbero potuto essere le cose, immaginavo che dimenticasse tutte quelle riserve, che stemperasse ogni pensiero sul futuro in ciò che provava, in quello che entrambi provavano in quel momento. O almeno così pensavo; ma come ricordai a me stesso tornando a casa, tutto quello che sapevo, o che credevo di sapere, era pura supposizione. L'avevo vista una sola volta, e non mi era piaciuta; mi era sembrata troppo disinvolta e ambiziosa, con il radioso sorriso con cui aspettava ansiosamente di fare una nuova, provocatoria osservazione. Chiedersi cosa avrebbe provato di fronte alla malriposta indignazione riservata all'uomo che amava, accusato ingiustamente di omicidio, sapeva un po' troppo di meschina vendetta; ma era più forte di me, e lo feci comunque. 10 «La difesa chiama Julian Sinclair».
Il silenzio in aula era grave, profondo; non si udiva un solo respiro. Si sarebbe detto che il pubblico che gremiva la sala stesse assistendo a un'esecuzione più che a un processo. Julian alzò la mano e prestò giuramento. Fece per dirigersi verso il banco dei testimoni, esitò, si voltò e fece scorrere lo sguardo per l'aula come se volesse imprimersi nella mente il momento in cui aveva inizio il suo processo. Gli altri testimoni, quello che avevano detto, i reperti ammessi come prove: erano tutte cose fatte da altri. Che avessero detto la verità o che, come nel caso del marito di Daphne, avessero mentito, ciò avrebbe condizionato il verdetto della giuria, ma non poteva condizionare quello che lui era e voleva essere. Non so se credesse che quello che aveva da dire potesse far cambiare idea a qualcuno. Tutto ciò che so è che non aveva importanza. Non poteva fare niente riguardo a ciò che credeva la gente, ma soltanto riguardo a ciò che lui stesso faceva. Prese posto al banco e si sedette in avanti a testa alta, attendendo che cominciassi. Iniziai con l'unica domanda che contava. «Ha ucciso o non ha ucciso Daphne McMillan?». «Non l'ho uccisa». Lo disse con una tale sicurezza, con una tale serenità, che fui tentato di fermarmi lì. Julian stava dicendo la verità, era evidente a prima vista: nessuno era in grado di mentire con quell'espressione sul volto. Forse avrei dovuto farlo, ma non mi fidai del mio istinto: il rischio era troppo grosso. Mi avvicinai, pronto a fare la domanda successiva. «Da quanto conosceva Daphne McMillan?». «Ci eravamo conosciuti quando lavoravamo entrambi alla procura di San Francisco». «Descriverebbe alla giuria la natura del vostro rapporto?». Mi feci da parte, osservando i volti dei cinque uomini e delle sette donne che presto avrebbero deciso se il giovane che si stava rivolgendo a loro fosse o meno un assassino. Sembravano confusi. Non era quello che si erano aspettati, anche se non avrebbero saputo dire di preciso cosa si aspettavano. Ma trovavano palesemente strano che un individuo accusato di quello che era a tutti gli effetti un massacro potesse guardarli negli occhi, senza mai distogliere lo sguardo, e parlare con tanta intelligenza dei propri sentimenti. Per la prima volta cominciai a pensare che Julian Sinclair avesse una possibilità. Esercitavo la professione legale da più di metà della mia vita; ero stato in più aule di quante fossi in grado di contarne; avevo visto, o al-
meno così credevo, tutto quello che c'era da vedere, ma non avevo mai assistito a nulla di simile. Julian li stava guardando, ma si stava rivolgendo a se stesso; li stava catturando, ipnotizzando mentre recitava il dialogo che si svolgeva nel suo profondo. Era come osservare un attore che domina la scena dal momento in cui esce sul palco. A pochi passi di distanza da lui, ero diventato un personaggio talmente secondario che sarei potuto uscire dall'aula, lasciando che le porte a battente si richiudessero alle mie spalle senza che nessuno (non il giudice, non il pubblico e di sicuro non la giuria) se ne accorgesse. Quando finalmente finì di spiegar loro come fossero stati amici fin dall'inizio e come quell'amicizia fosse gradualmente diventata amore, avevo quasi scordato il motivo della mia presenza in quel luogo. «Lei l'amava e Daphne amava lei, ma eravate soltanto amici? Non c'era nient'altro?». Julian si sporse in avanti. I suoi capelli castano dorato, lunghi sul collo, brillarono alla luce, facendolo sembrare ancora più giovane dei suoi anni. «Daphne era sposata. Finché lo fosse stata, non sarebbe successo nulla. La sua vita era già abbastanza complicata. Era importante, importante per lei, che non fosse costretta a mentire, che potesse dire la verità quando veniva accusata di infedeltà». Fece una pausa e assunse un'espressione triste. «Veniva spesso accusata di cose simili, e di peggio». «Dal marito?». «Sì», disse con una scintilla nello sguardo. «Voleva lasciarlo, ci aveva già provato. Quella sera, la sera in cui è morta, aveva già deciso che non sarebbe più tornata a casa. Era stanca di avere paura». «Paura? Ma era una donna intelligente e istruita; un avvocato, un pubblico ministero della procura di San Francisco. Se voleva lasciare il marito, perché non aveva semplicemente chiesto il divorzio? Se lui la minacciava con la violenza, di sicuro lei sapeva come ottenere un ordine della corte per impedirgli di avvicinarsi. Il marito ha già dichiarato che si erano separati per un certo periodo. Per quale motivo doveva aver paura?». Un sorriso amaro conferì un'ombra di tragicità alla sua espressione mentre scuoteva la testa in preda al rimorso. «È quello che le dicevo anch'io: che avrebbe potuto rivolgersi al tribunale, ottenere un ordine restrittivo e chiamare la polizia la prima volta che lui si fosse avvicinato troppo. Lei mi raccontava di tutte le donne brutalizzate da uomini soggetti a ordini restrittivi. Mi diceva che quando lui s'infuriava non c'era nulla che fosse in grado di fermarlo. Ero al corrente di alcune delle cose che le aveva già fatto, chiudendola negli sgabuzzini e lasciando-
vela per giorni interi, facendole credere che sarebbe morta lì dentro. Avrei dovuto capire che aveva ragione; che non l'avrebbe mai lasciata andare, che l'avrebbe uccisa come lei sosteneva avesse già fatto!». Il sordo vocio della folla cominciò ad aumentare, pronto a esplodere. Con una singola occhiataccia, Conrad Jarvis lo ricondusse a un fioco mormorio. I suoi occhi punteggiati di schegge rossicce si spostarono immediatamente su Maddy Foster, la quale, alta e paziente, attendeva di muovere la propria obiezione. «Sentito dire», pronunciò Maddy in un tono rauco reso tanto più efficace dal fatto di non andare al di là di un sussurro. «Stato d'animo», replicai con una rapida occhiata noncurante alle mie spalle. Era un sottile distinguo legale, e in quel caso tracciava la differenza fra ciò che Daphne McMillan credeva, il motivo per cui avrebbe potuto aver paura, e il fatto se fosse vero o meno. Jarvis vi rifletté. Poi si rivolse ai giurati e spiegò loro cosa avrebbero potuto e non potuto fare di ciò che avevano appena udito. «La dichiarazione del testimone riguardo a ciò che gli ha detto Daphne McMillan è sentito dire, qualcosa che una persona riferisce di avere udito dalle labbra di un'altra. La legge ammette il sentito dire come prova, ma soltanto quando rientra in una delle consolidate eccezioni alla regola. Una di esse è l'eccezione dello "stato d'animo". Ammetterò la dichiarazione che...». Si volse verso la stenografa di corte e le chiese di leggere la frase alla giuria. «"... che l'avrebbe uccisa come lei sosteneva avesse già fatto"». Tornò a guardare i giurati. «Potrete trattare questa dichiarazione come una prova soltanto riguardo a ciò che pensava la persona che l'ha fatta, a ciò che poteva temere. Non dovrete considerarla una prova che fosse la verità, poiché si tratta di una questione completamente diversa». Nel momento in cui Jarvis concluse, rivolsi a Julian una domanda che avrebbe reso praticamente impossibile ricordare quell'arida distinzione. «Che "l'avrebbe uccisa come lei sosteneva avesse già fatto". Cosa intendeva dire? Chi pensava che avesse ucciso?». «Sua moglie, quella che era precipitata da una scogliera con la sua auto. Mi raccontò che lui le aveva detto di averla uccisa, e che avrebbe fatto lo stesso a lei se l'avesse tradito o avesse provato a lasciarlo». Questa volta l'obiezione dell'accusa fu più enfatica. La Foster era furiosa con me per ciò che avevo fatto. Jarvis accolse l'obiezione appena lei la fece, ma ormai nulla avrebbe potuto cancellare quella frase dalla mente dei
giurati. «In altre parole», proseguii come se non fossi mai stato interrotto, «Daphne temeva per la propria vita. Cos'è successo quella sera, quella in cui è venuta a casa sua, quella in cui è morta? Il marito era andato a Los Angeles per affari: era per questo che Daphne aveva pensato di non correre rischi andandosene di casa?». Julian scosse la testa. «Le aveva detto che sarebbe andato a Los Angeles e che sarebbe rientrato soltanto il giorno dopo, ma lei non ci aveva creduto». I giurati lo stavano osservando con attenzione. Lui abbassò gli occhi sulle proprie mani, e l'espressione amara di poco prima gli ricomparve sulle labbra. «Lui aveva scoperto che ci frequentavamo. Daphne gli aveva detto che eravamo amici, che non avevamo una "relazione intima"». Alzò di scatto il capo e mi guardò sgranando gli occhi, ansioso di spiegarsi. «Per questo era importante quello che ho detto prima, che non fosse costretta a mentire, che potesse dire la verità. «Lui le aveva ordinato di incontrarmi quella sera per dirmi che non poteva più vedermi, che stava mettendo fine alla relazione, che aveva deciso di far funzionare il suo matrimonio. E Daphne sapeva che lui sarebbe stato a casa ad aspettarla quando sarebbe tornata». «Ma per quale ragione lo pensava? Cosa pensava che lui avrebbe fatto?». «Che si sarebbe vendicato, che le avrebbe fatto qualcosa di terribile per aver pensato di poterlo lasciare per un altro. Per questo quella notte era rimasta da me, per questo non era rientrata a casa». Prima che potesse finire, dalla sua gola emerse un lieve verso strozzato. «Le avevo detto che non poteva tornare a casa, che se l'avesse fatto lui avrebbe potuto ucciderla sul serio». I giurati, se leggevo nel modo giusto quelle dodici paia di occhi, erano ben disposti, pronti a credere, o quanto meno a considerare possibile, che Julian stesse dicendo la verità, che non fosse stato lui, che non l'avesse uccisa lui, che fosse stato qualcun altro, che l'avesse uccisa il marito. C'erano casi che venivano decisi da un'occhiata, una parola, un gesto, qualcosa che, per ragioni che a posteriori una giuria non sarebbe stata in grado di spiegare, faceva diventare credibile un testimone e non un altro. Ci eravamo vicini, lo avvertivo; qualche altra domanda e forse ci saremmo arrivati. «A che ora era arrivata a casa sua?». Abbassando la testa, feci i pochi
passi che mi separavano dal banco della giuria e attesi. «Poco dopo le otto. Abbiamo parlato per ore. Era così terrorizzata, così sconvolta». «Lei l'aveva convinta a non tornare a casa e a trascorrere lì la notte?», domandai alzando la testa di quel tanto che bastava a guardarlo con la coda dell'occhio. «Esatto. Le avevo detto che mi sarei occupato io di tutto, che tornare a casa non era sicuro. Lunedì mattina ci saremmo rivolti a un avvocato, alla polizia se necessario, per recuperare le sue cose». «Ma poi lei era andato a letto e Daphne era rimasta alzata». Feci scorrere lo sguardo sui volti dei giurati, dando loro il tempo di considerare in pieno l'importanza di ciò che veniva detto. «Quando è stata trovata quel mattino, quando è arrivata la polizia, lei era ancora vestita. Per quale ragione, se stava lasciando il marito e se sarebbe venuta a stare con lei», domandai guardando in faccia Julian senza staccare le dita dalla balaustra del banco della giuria, «per quale motivo, se era già stato deciso così, non era venuta a letto con lei?». «Perché non l'aveva ancora lasciato», rispose lui senza esitare. «Era ancora sposata, e tutto ciò che faceva», soggiunse con un'espressione di assoluta certezza, «dipendeva da quell'unico dettaglio. Sì, l'avrebbe lasciato; sì, non sarebbe tornata da lui; ma quella notte lo temeva come e più di sempre. Non riusciva a toglierselo dalla testa. E finché non l'avesse fatto, non sarebbe stata libera. Non poteva sapere, nessuno di noi due poteva saperlo, fino a che punto quello che provava per me fosse dovuto al fatto che la facevo sentire al sicuro da lui, o cosa avrebbe provato quando non fosse più stata oppressa da quella terribile paura». «Lei era andato a letto, ma da solo, e lei era rimasta alzata?». «Ero andato a letto alle undici e mezza circa. Avevamo parlato per ore. Lei era venuta con me e si era seduta sul bordo del letto, al buio, parlandomi con quella sua voce sommessa finché non mi ero addormentato». «Non si è mai svegliato durante la notte? Non ha udito alcun rumore?». «No, niente...». L'ombra di un dubbio gli balenò negli occhi. «Sì, forse... no, non lo so. Potrei aver sentito qualcosa. Ma forse stavo sognando, o forse a causa di quello che è successo, dello shock di trovarla ridotta in quel modo, di quello che le era stato fatto, forse ho cominciato a immaginare di aver udito qualcosa, di essermi svegliato, di non aver sentito più niente e di essermi riaddormentato. La risposta più onesta, suppongo, è che non lo so». I suoi occhi si assottigliarono in un'espressione di brutale autoaccusa.
«Avrei dovuto accorgermene; avrei dovuto svegliarmi; avrei dovuto salvarla!». Uno dei vantaggi di quando tratti qualcuno con imparzialità, muovendo obiezioni soltanto quando sei costretto a farlo e sempre in tono educato e rispettoso, è quello di facilitare il gioco quando si tratta di convincere una giuria che la tua prima esplosione di indignazione è sincera e sentita. Maddy Foster si fermò accanto al lato del banco degli avvocati, le grosse caviglie divaricate all'altezza delle spalle, gli occhi distanziati fissi in un'espressione decisa. Su ciascun lato della bocca serrata si stagliava una corta ruga perpendicolare, che conferiva alla parte inferiore del suo volto l'aspetto legnoso della mascella di una marionetta. Quando cominciò a parlare, la sua voce era dura e stridente, per nulla simile a quella di prima. «Ebbene, signor Sinclair, devo confessarle che ho trovato la sua testimonianza, e specialmente la parte riguardo al suo rapporto con la vittima, Daphne McMillan, incantevole, pittoresca e a dire il vero alquanto... incredibile. Per quale motivo non avrebbe dovuto dormire mentre lei veniva uccisa? A quanto sembra, aveva dormito anche mentre era viva». Fece un passo avanti a capo chino, guardandolo con fare ironico. «Eravate innamorati, o pensavate di esserlo, o qualcosa di simile. E passavate insieme il maggior tempo possibile, ma senza mai, come si dice, "fare niente"? Era, vuole farci credere, un rapporto completamente platonico?». Julian alzò la testa di scatto. I suoi occhi erano luminosi, intensi. «Non nel senso in cui generalmente s'intende quel termine». Maddy Foster stava ancora avanzando. Si arrestò sui suoi passi, e un sorriso storto e confuso le attraversò il viso. «Non nel senso in cui generalmente s'intende quel termine?». «L'assenza di qualsiasi cosa di fisico», spiegò Julian. «Non avevamo mai fatto l'amore, credo che sia a questo che voglia arrivare, ma non perché ci considerassimo superiori. Pensavamo di dover aspettare». La Foster annuì con forza, come se fosse precisamente la risposta che voleva. «Sì, esatto. Quanti anni ha, signor Sinclair? Trentadue?». «Trentatré il mese prossimo». «Trentadue. E Daphne McMillan quanti ne aveva, ventinove?». Ruotò il capo e rivolse un sorriso d'intesa alla giuria. «Veniva spesso a casa sua, non è vero?». «Non spesso. Più o meno una volta alla settimana».
«Lei ha detto che veniva ogni volta che poteva; ogni volta che, mi sembra si sia espresso così, pensava di non correre rischi. Mi lasci riformulare la domanda, visto che insiste nell'essere tanto preciso. Viene dalla sua formazione legale, suppongo, questa insistenza nel ridefinire qualsiasi cosa le chieda...». «Vostro Onore», obiettai levando le mani al cielo in un gesto di frustrazione. «Signora Foster...». «Sì, Vostro Onore», disse Maddy Foster senza alcuna traccia di pentimento, continuando a fissare il teste. «Veniva spesso a trovarla, giusto? Più spesso che poteva?». La risposta non le interessava, e non attese che lui gliela desse. «E c'erano occasioni in cui, invece di passare soltanto una parte della serata da lei, vi trascorreva l'intera notte. È esatto, signor Sinclair?». «Sì». «Nella camera degli ospiti», soggiunse con un sorriso che gli dava del bugiardo. «A volte sì, a volte no». «A volte sì, a volte no», ripeté facendogli il verso. Il suo sorriso si distorse in un dubbio rabbioso e sinistro. «Sicché a volte lei non dormiva nella camera degli ospiti; a volte dormivate insieme?». «Esatto». Incrociò le braccia sul petto. Le sue sopracciglia si inarcarono con fare solenne. «E non avete mai fatto l'amore!». «No, non l'abbiamo mai fatto». Levò il mento, poi, distogliendo lo sguardo da lui come se il ricordo di quello che era accaduto a Daphne McMillan fosse più di quanto potesse sopportare, cominciò a scuotere la testa. Tornò a passi rapidi al banco degli avvocati, dove prese un documento da una cartella. «Questa è la ricevuta di un albergo», disse porgendola a Julian. «È sua la firma, la carta di credito con cui è stato pagato il conto?». «Sì», rispose lui restituendola. «A fine autunno, lei ha trascorso un fine settimana di tre giorni in questo albergo di Carmel con Daphne McMillan. Ma non l'ha toccata, giusto? Perché era una donna sposata, e lei non voleva, cos'è che ha detto? Ah, sì, "non voleva complicarle la vita"?». Non lo lasciò rispondere, conducendolo rapidamente in un'altra direzio-
ne per cercare di coglierlo di sorpresa. «Ha trovato il corpo alle prime ore del mattino. La giuria ha visto le foto della vittima fatta a pezzi, massacrata, del sangue dappertutto. La trova in quello stato, e aspetta ore prima di prendersi il disturbo di chiamare la polizia?». «Un'ora», la corresse Julian. «Forse poco più». La Foster aveva fatto due passi verso la giuria. Girò su se stessa. «Prima ha chiamato il suo avvocato, giusto?». «No». «No?». «Non avevo un avvocato. Il signor Antonelli era un amico, una persona fidata. Ero fuori di me», gridò Julian raddrizzandosi sulla sedia. Il suo sguardo era acceso, intenso. «Trovarla così... non sapevo cosa fare. Era lì distesa, mi guardava con quegli occhi senza vita, la porta d'ingresso era spalancata. Non sapevo quand'era successo, se erano passate ore o solo pochi minuti. Sapevo che era morta, e mi sentivo impazzire di dolore. Ero per terra accanto a lei, la stringevo fra le braccia, le dicevo che sarebbe andato tutto bene, cullandola come se stesse semplicemente dormendo. Se ho chiamato la polizia? No, non ci ho nemmeno pensato; pensavo soltanto a lei. Era morta! Che importanza aveva quello che sarebbe accaduto? Non so quanto a lungo l'abbia tenuta fra le braccia: minuti, ore? Non lo so. Alla fine, per stanchezza, ho preso il telefono e ho chiesto al signor Antonelli se poteva aiutarmi». La Foster accantonò il racconto come la prevedibile invenzione di un assassino colto praticamente sul fatto. «Non nega che il coltello da cucina fosse suo? «Non nega che fosse ricoperto del sangue della vittima? «Non nega di aver atteso prima di chiamare la polizia? «Non nega di aver chiamato prima un avvocato?». Le domande vennero pronunciate con la rapidità e la forza di un fuoco di fila, così vicine fra loro che se Julian avesse provato a rispondere nessuno si sarebbe reso conto di cosa avesse detto. Non aveva importanza: la cosa importante non erano le risposte ma le domande stesse, l'assordante insistenza sull'innegabilità di ciascuno di quei dati concreti e sul fatto che ciascuno fosse la prova che lui era colpevole, che l'aveva uccisa, che non doveva esservi alcun dubbio in merito. «Avevate una relazione, e lei quella sera era venuta a casa sua per dirle che era finita, che avrebbe chiuso...».
«No, non è vero!». «Che avrebbe chiuso, che sarebbe tornata con suo marito, che non l'avrebbe più rivista...». «No, non è...». «E lei non poteva sopportare l'idea che la stesse respingendo, e per questo l'ha uccisa; ha preso quel coltello, l'ha seguita fuori, l'ha afferrata, l'ha trascinata in casa e l'ha pugnalata a morte, non è così?». «No!». «L'ha pugnalata diciassette volte, l'ha pugnalata finché non fu ricoperto del suo sangue e soltanto allora, finalmente, si è fermato! Poi l'ha lasciata lì, accasciata sul pavimento del suo salotto. Ma a quel punto non sapeva cosa fare. Ha cercato di lavare via il sangue, ma si è reso conto che non avrebbe mai funzionato, che c'era sangue ovunque, che non sarebbe mai riuscito a cancellarlo, che la polizia avrebbe saputo che era stato lei. Per questo non l'ha avvertita, per questo ha chiamato prima un avvocato: perché si era inventato questa storia, questa strana, incredibile storia che era stato qualcun altro, che il marito di lei era arrivato lì nel mezzo della notte, l'aveva uccisa mentre lei dormiva e senza che lei se ne accorgesse! Si era inventato questa storia perché visto il modo in cui l'aveva uccisa, dopo quello che le aveva fatto in preda alla furia omicida, era la sua unica possibilità. È così, non è vero? L'ha uccisa, l'ha assassinata a sangue freddo, questa bellissima, giovane donna che non poteva più avere!». «No, non l'ho fatto», rispose Julian stringendo i braccioli della sedia e ricambiando l'occhiata implacabile che lei gli stava rivolgendo. Un sorriso caustico e sottile s'insinuò lentamente sull'ampia bocca carnosa di Maddy Foster. «Nessuno le crede, signor Sinclair. Nessuno». Avevo tenuto Julian dietro il banco dei testimoni per l'intera mattinata, e lei per tutto il pomeriggio; ma Julian non aveva mai perso il controllo, e malgrado le provocazioni costanti la Foster non era riuscita a coglierlo in fallo. Osservando la giuria che lo guardava, tuttavia, mi resi conto che l'accusa aveva ottenuto il risultato che si era prefissa. La disponibilità a credere che avevo letto nei loro volti quando Julian li aveva incantati con il suo racconto di come lui e Daphne si erano innamorati e si erano accontentati di sfuggenti contatti era scomparsa, trasformandosi di nuovo in sospetto. Julian sosteneva di non essere mai andato a letto con lei, che non l'avrebbero mai fatto finché lei non fosse stata libera dal marito e dal matrimonio. Maddy Foster aveva giocato sulla cosa in tutti i modi possibili. Non erano soltanto le sue domande, ma le occhiate, i dubbi, l'ironico scet-
ticismo nel suo sguardo mentre attendeva che lui rispondesse a qualsiasi cosa gli chiedesse. C'è questa bellissima ragazza, sembrava dire, questa nuova stella dei talk show televisivi, che gli si offre passando con lui ogni serata che riesce a ritagliarsi, a volte trattenendosi per la notte, e non succede mai niente? Era ridicolo, inspiegabile. Julian Sinclair era giovane, intelligente, bello come il sole; eppure, chissà come, era ignaro o indifferente a ciò che chiunque altro avrebbe desiderato più di qualsiasi altra cosa. C'erano solo due alternative, sembrava dire la Foster con ogni occhiata di traverso ai giurati. O Julian Sinclair stava mentendo oppure stava dicendo la verità, ma in entrambi i casi non era una persona di cui si sarebbero potuti fidare. Perché se stava dicendo la verità, se malgrado quelle lunghe notti insieme, notti che a volte erano diventate interi fine settimana, non aveva mai fatto l'amore con lei, la sua condotta non era soltanto inspiegabile, ma anche anormale. Era il tipo di persona che non si poteva mai conoscere davvero, il tipo di persona che avrebbe potuto commettere un omicidio. Era insidiosa ed efficace questa idea che Julian fosse diverso da chiunque altro. Per quei dodici giurati, non c'era niente in lui che fosse comprensibile. Nel mio secondo interrogatorio avrei dovuto dimostrare che lo era. «La donna che l'ha cresciuta, l'unica madre che lei abbia mai conosciuto, è morta se non sbaglio due anni fa. Qual è stata la causa del decesso?». Erano quasi le quattro. L'accusa aveva appena concluso il suo controinterrogatorio. Julian era ancora concentrato. Aveva risposto a ogni domanda che gli era stata rivolta, ma nell'udire quella mutò atteggiamento. Abbassò gli occhi e si morse il labbro. «Arresto cardiaco, hanno detto. Ma io penso che fosse semplicemente sfinita». «Da cosa?». «Da una vita di droghe, alcol e abusi». «Che ne era stato di suo padre?». Julian si piegò in avanti. Le sue mani giunte gli caddero in grembo. «Non ho mai conosciuto i miei veri genitori. Mia madre... la donna che ho sempre chiamato mia madre... mi ha cresciuto da sola». «Ha parlato di alcol e droghe...?». «Da che ne ho memoria, se non era una cosa era l'altra... di solito entrambe». «Non si era mai fatta curare?».
«Non funzionava mai. Non per molto, almeno». «Non è forse vero che fin da piccolo lei si è mantenuto più o meno da solo? Che lavorava mentre andava a scuola, e che per tutta la durata del college e della facoltà di giurisprudenza ha fatto il possibile per prendersi cura di lei?». Con un'espressione desolata negli occhi, Julian lasciò che fosse il suo silenzio a rispondere e attese la domanda successiva. «Ha parlato di abusi...». «Mia madre aveva l'abitudine di lasciare che gli uomini si approfittassero di lei». «Ed è stata quell'esperienza, vedere gli uomini che entravano e uscivano dall'esistenza di sua madre, a farle decidere che lei non avrebbe mai fatto la stessa cosa a nessuno? Che non si sarebbe mai approfittato dei sentimenti altrui? È stato quello che è accaduto a sua madre che l'ha portata a trattare Daphne McMillan con... come si può definire?», domandai fissando la giuria. «Un rispetto e una correttezza all'antica?». 11 Albert Craven si accasciò sulla poltrona grigia. Sfregando i pollici fra loro, prese a fissare i palazzi chiazzati dal sole sul lato opposto della strada. «L'ho guardata. Non posso certo dire che sia stata la cosa migliore che abbia mai visto». Gli angoli della sua bocca si piegarono verso il basso, intensificandone l'atteggiamento pensoso. «Sarebbe stato più interessante se tu fossi stato con me». Una scintilla maliziosa gli accese gli occhi azzurro pallido. Ruotò la testa nella mia direzione. «Tranne che con tutte le tue imprecazioni non avrei sentito una sola parola». Riprese a guardare fuori dalla finestra, apparentemente affascinato dal modo in cui la luce cambiava colore a mano a mano che il sottile raggio di sole si allontanava. Trasse un gran respiro e poi lo liberò, un sospiro che aleggiò come un ultimo rimpianto nel silenzio di metà mattino. «È incredibile quante cose siano cambiate. Qualche anno fa nessuno avrebbe creduto possibile quello che hanno fatto ieri sera. Un uomo è sotto processo per omicidio, ma non è sufficiente! La gente deve vederlo alla televisione, suppongo, per considerarlo reale». Socchiuse gli occhi in un'espressione intensa, all'apparente ricerca del significato di tutto ciò. «L'ottantaquattro per cento dice che è colpevole», spiegai. «L'ho letto sui
giornali di oggi». Albert si drizzò a sedere sulla poltrona liscia come la seta. Lentamente, con riluttanza, distolse lo sguardo dalla finestra e dalla luce cangiante. «Di questi tempi tutti possono votare su tutto. Non ci sono più regole. Scordiamoci dei concetti di giusto o sbagliato. L'importante è solo quello che vuole il pubblico. Ecco cos'ha fatto la televisione. Cambiamo idea allo stesso modo in cui cambiamo canale: se non ci piace quello che vediamo, quello che qualcuno sta cercando di dirci, guardiamo qualcos'altro. Una cosa è certa: qualsiasi cosa tu stia guardando, non farai alcuno sforzo per capirla e non durerà più di una frazione di minuto». I suoi occhi scintillarono di una sorta di rimorso divertito, furenti per la sfacciata stupidità di ciò che stava descrivendo eppure divertiti dalla sua stessa esibizione. «È andata avanti per due ore, il che significa che togliendo la pubblicità, un processo giunto al suo secondo mese è stato compresso nello spazio di... quanto?... un'ora e un quarto, un'ora e mezza? Hanno fatto esattamente quello che Harry aveva detto avrebbero fatto. Ciascuna delle parti ha chiamato i propri testimoni nello stesso ordine che avete seguito tu e la Foster, e le parole, quanto meno per quello che sono riuscito a capire, erano le stesse. Ma che differenza, quando le cose vengono abbreviate in questo modo! Julian non ha ucciso Daphne McMillan, so che non l'ha fatto. Ma se non l'avessi conosciuto, se non fossi stato in tribunale, se sapessi soltanto quello che ho visto in televisione prima di ieri e ieri sera, sarei andato a letto con l'assoluta certezza che è stato lui e che tu, amico mio, stai combattendo una causa persa». «Se non altro, la giuria non l'ha vista. Grazie a Dio è isolata». Albert ruotò la testa di lato con un'espressione turbata negli occhi. Fuori la luce era diventata pallida e grigia mentre le nubi si sparpagliavano sotto il sole. «Peccato che non lo fosse il giorno dell'omicidio. Ho avuto l'impressione che la giuria non sappia cosa pensare di Julian. Io stesso non ho mai conosciuto nessuno come lui; cosa ne penserà quella gente?». Tornando a spostare lo sguardo sulla finestra, si grattò la gola. C'era qualcosa che lo tormentava, un pensiero ancora informe, una domanda che non sapeva come porre. «Oggi pomeriggio torni in aula?», chiese senza distogliere gli occhi dalla finestra. «Questa mattina Jarvis aveva altri impegni. Ricominceremo alle due».
«Julian legge i giornali? Guarda quello che gli fanno ogni sera in televisione?». Stava ancora guardando fuori e la sua voce era un sussurro basso e grave, come se le parole fossero già state pronunciate altrove e fossero un'eco. «L'ottantaquattro per cento», ripeté fra sé. «Ecco cosa ci è successo: ecco come decidiamo ogni cosa a seconda dell'opinione casuale e non informata del momento; tutti tranne Julian, suppongo, per il quale non significherebbe nulla». Uno strano, enigmatico sorriso si affacciò sulla sua bocca saggia ed esperta. I suoi occhi tornarono sui miei. «È questo che non capiscono di lui: che non si basa su ciò che pensano gli altri. È una delle grandi ironie della nostra epoca, non trovi? Il fatto che malgrado tutte le chiacchiere sulle diversità, sul rispetto delle differenze, l'unica cosa che non tolleriamo è che qualcuno non la pensi esattamente come noi». Feci per alzarmi dalla sedia, ma lui mi fermò. «Hai parlato con Julian di quello che vuole fare?». C'era un che di quasi tragico nella sua espressione, e mi diede un brutto presentimento. Sentii un nodo allo stomaco e quell'improvviso, terribile senso di vuoto che giunge con la consapevolezza che è accaduto qualcosa e che nulla sarà più lo stesso. «Quando la giuria non lo assolverà, quando l'unica alternativa rimasta sarà fra la morte e l'ergastolo. Faccio molta fatica a pensare che Julian Sinclair possa avere il benché minimo interesse in una vita simile». Mentre percorrevo il Bay Bridge in direzione di Oakland, la solenne affermazione di Albert Craven mi riecheggiava nella mente come la triste certezza di una morte annunciata. Per la prima volta cominciai a pensare seriamente a cosa sarebbe accaduto se Julian Sinclair fosse stato condannato per un omicidio che sapevo non aveva commesso. Il sole ammiccava attraverso le travate intrecciate fra il livello superiore e quello inferiore del ponte mentre il traffico avanzava lento, ogni automobilista intrappolato in una massa che si muoveva unisona. Albert aveva ragione: il mondo era cambiato. Senza che ci rendessimo conto di come era successo eravamo diventati tutti delle componenti prive di pensiero di un'enorme macchina priva di guida. E aveva ragione anche riguardo a Julian. Era difficile immaginarselo come un prigioniero, come un anonimo dato statistico nell'esistenza irreggimentata di un penitenziario di massima sicurezza. Cosa avrebbe fatto se avesse avuto la scelta fra morire e farla fi-
nita o invecchiare senza alcuna possibilità di tornare in libertà? Era stato così persuasivo, quando l'avevo udito sostenere che per opporsi alla pena di morte non esisteva motivazione più etica dell'ergastolo. Ma questa era la realtà, non era una questione accademica. Era la questione che metteva in ombra qualsiasi altra questione: se fosse meglio vivere o morire quando vivere significava schiavitù. Quel giorno non gliene accennai, e nemmeno il giorno dopo. Non chiesi nulla a Julian fino a quando la giuria non ebbe raggiunto il suo verdetto. L'accusa impiegò due ore e mezza per passare in rassegna con estrema precisione le prove che dimostravano, in modo "inequivocabile", secondo l'implacabile Maddy Foster, la colpevolezza di Julian Sinclair. Più che abile, il modo in cui espose il caso fu a dir poco magistrale. «Sappiamo che Daphne McMillan è stata assassinata. Sappiamo dove è stata uccisa e sappiamo quando è stata uccisa. È stata uccisa con un coltello, un coltello che l'imputato ammette fosse suo. L'omicidio rispettabile non esiste, ma certi omicidi sono più violenti di altri e, ve lo assicuro, non c'è mai stato omicidio più brutale di questo. Le ha tagliato la gola come se stesse macellando un animale, gliel'ha squarciata con quel coltello affondandolo fino all'osso. Ma questo è stato solo l'inizio. Era ancora viva, anche se solo per qualche secondo, quando l'assassino ha cominciato ad affondarle il coltello insanguinato nel ventre, non una o due volte ma a ripetizione, diciassette volte, prima di fermarsi, prima di aver finalmente esaurito la propria rabbia? Era ancora viva e cercava di gridare, ma non veniva fuori nulla, soltanto il gorgoglio del sangue dalla gola, era ancora viva quando lui ha affondato di nuovo il coltello? «Nessuno mette in discussione che Daphne McMillan sia morta così. Nessuno mette in discussione che sia stata assassinata nel salotto dell'abitazione dell'imputato. Le pareti, il tappeto, i mobili erano ricoperti di sangue. E nessuno mette in discussione che Julian Sinclair si trovasse lì quando è accaduto, intorno alle dodici della notte in cui Daphne McMillan era arrivata per quella che sarebbe stata la sua ultima visita». Maddy Foster si arrestò, immobilizzando la sua imponente figura. Il silenzio in aula era teso, profondo. Le sue labbra si distorsero nella sofferta certezza di una verità sconvolgente. «Era andata a dirgli che era finita, che non l'avrebbe più rivisto. Non sapeva che avrebbe trovato la morte». Sollevò il mento di una frazione di centimetro e ruotò il capo di quarantacinque gradi a destra. I suoi occhi erano freddi, insistenti, implacabili.
Guardò la giuria, levò il braccio e lo tese all'indietro verso il banco degli avvocati, dove Julian Sinclair sedeva accanto a me. Stava indicando entrambi. «Nel corso di questo processo c'è stato un tentativo calcolato di convincervi che Daphne McMillan era andata a casa dell'imputato perché era in fuga dal marito, e che per questo dev'essere stato il marito e non l'imputato a ucciderla. Lasciate che vi dica fin da subito che dal punto di vista strategico è stata un'idea brillante, e che è stata brillante, come sempre quando c'è di mezzo il signor Antonelli, anche a livello di esecuzione». Abbassò brevemente gli occhi a terra, avanzò di un passo parallelamente al banco della giuria, si fermò e rialzò lo sguardo. La sua espressione era ancora meno indulgente di prima. «Ma siamo qui per esaminare i fatti, non gli atti dell'immaginazione. Robert McMillan ha una reputazione immacolata, ma in privato è un mostro? Quali prove abbiamo? Cose che ci è stato detto la moglie avrebbe riferito all'imputato, cose che per qualche motivo non ha detto a nessun altro. Robert McMillan ha comprato il silenzio della prima moglie e ha ucciso la seconda. Come lo sappiamo? Ce l'ha detto l'imputato. Robert McMillan ha imposto a sua moglie di andare a casa dell'imputato e mettere fine alla loro relazione, poi l'ha seguita e l'ha uccisa. Dev'essere andata così, e perché? Perché lo dice il signor Antonelli. E quali prove produce per dimostrare la sua tesi, l'accusa che il povero marito della vittima è un assassino e un bugiardo? Nessuna, nemmeno una; niente di niente, neanche una briciola di prova che Robert McMillan si trovasse entro un raggio di cento chilometri dalla casa in cui è stato commesso l'omicidio!». Maddy Foster rivolse le ampie spalle alla giuria. Fredda, implacabile, sottopose Julian Sinclair a un'occhiata intensa, fulminante. «Perché l'ha fatto?», domandò in un tono che invitava i giurati che osservavano la scena alle sue spalle a porsi la medesima domanda. «Qual è il motivo per cui Julian Sinclair, un uomo così dotato e brillante, uno dei più intelligenti della sua generazione, ha commesso non soltanto un omicidio, ma un assassinio così orribile? Perché ha ucciso questa bellissima giovane donna che sostiene fosse una sua grande amica?». Lasciò aleggiare l'interrogativo nel vuoto come un oscuro segreto che aveva appena scoperto. «Perché l'ha uccisa quando lei è andata da lui quella sera, quando gli ha detto che fra loro era finita? Ve l'ha detto lui stesso, sempre che fosse sincero».
I suoi occhi divennero più accesi, più carichi di energia. Cominciò a muoversi più rapidamente, gesticolando con le mani. «Se stava mentendo, è tutta un'altra questione. Se ha mentito è colpevole, poiché ha giurato di dire la verità. Ma è colpevole anche se ha detto la verità». Si fermò con le braccia incrociate sul petto, stringendole. Un sorriso sottile, trionfale ed enigmatico, le danzò sulle labbra. Rimasi lì a guardarla come chiunque altro, incantato, sbalordito da quell'inaspettata giustapposizione, senza sapere quale sarebbe stata la sua mossa successiva. «Se è vero che non l'aveva mai toccata, se avevano trascorso tutto quel tempo insieme, se avevano condiviso lo stesso letto senza che accadesse nulla, se non avevano mai fatto l'amore perché - com'è che si espresso? lui la desiderava, ma non prima che lei fosse finalmente libera dal matrimonio e dal marito, cosa avrà pensato nel capire che dopo tutta quell'attesa, dopo tutti quei sacrifici di ogni normale impulso e desiderio, dopo tutto quel "rispetto e correttezza vecchio stile", non l'avrebbe mai avuta, nemmeno una volta? Lei sarebbe tornata con il marito, non sarebbe mai rimasta con lui! Cosa credete sia accaduto ai "nobili propositi" di Julian Sinclair, al suo senso di identità, quando lei gli ha detto questo? Deve essersi sentito uno stupido. Pensava che la loro vita fosse tutta poesia, e lei se ne torna con il vecchio riccone! Nella sua mente, in quel momento, Daphne meritava di morire. Nella sua mente, in quella mente brillante e dotata che non pretendo di capire, l'ha uccisa e ha pensato che stava facendo la cosa giusta. Lei non era l'angelo che gli era sembrata. Era una sgualdrina!», gridò Maddy Foster tornando a rivolgersi a Julian, seduto impassibile al suo posto. «È per questo che l'ha fatto, non è vero? La rabbia, la furia nello scoprire che era stato tutto inutile, che la donna che aveva messo su un piedestallo così alto lo stava lasciando per tornare nel letto di un altro uomo!». Mi lasciarono quasi senza parole, quei minuti finali dell'arringa di Maddy Foster. In tutte le notti insonni che avevo trascorso a immaginare quello che ognuna delle due parti avrebbe potuto dire, non avevo mai pensato a questo. E la cosa sbalorditiva era che, come qualsiasi storia ben raccontata, aveva una sua logica. Il rapporto che lei stessa aveva ridicolizzato nel controinterrogatorio, definendolo "platonico", una dichiarazione d'innocenza che era la prova migliore che Julian era un bugiardo, ora spiegava cosa l'avesse condotto all'omicidio. E colpì i giurati con tutta la forza di una rivelazione. L'unico interrogativo era come avessero fatto a non pensarci prima.
Tenni lo sguardo fisso sulle mie mani, consapevole che tutti gli occhi erano puntati su di me. Maddy Foster stava riprendendo posto dietro al banco, il giudice Jarvis attendeva che cominciassi. Le parole dell'accusa mi echeggiavano in testa. Cercai di concentrarmi, di pensare a qualcosa da dire. Uno strano sorriso apparve sulle labbra di Julian. «È sempre e solo il sesso», disse in tono solenne e così sommesso che impiegai un istante a rendermi conto che avevo udito bene. Un istante dopo ero in piedi. «È sempre e solo il sesso», annunciai in tono di sfida. «È tutto quello a cui pensiamo. È l'unica cosa che consideriamo importante. Il sesso è ovunque, non lo si può evitare. Provate a trovare un film in cui non si spogli qualcuno, un programma televisivo in cui il sesso non sia ciò di cui parlano tutti. Non molto tempo fa, nei film una coppia sposata doveva dormire in letti separati; ora le coppie, sposate o no, vengono mostrate nude senza nemmeno le lenzuola. Non molto tempo fa, in televisione era proibito dire parolacce; oggigiorno metà delle cose che vengono dette sono intrise di oscenità. Non sono qui per discutere le virtù o i vizi dell'assoluta, o irresponsabile, libertà di parola; sono qui per rammentarvi l'effetto che tutto questo ha avuto sul nostro modo di pensare e di agire e di prendere decisioni, come in questo caso, sulla vita o sulla morte di qualcuno. «Siamo diventati prigionieri dei nostri stessi impulsi, pilotati dai nostri stessi desideri, e tutto ciò che vediamo intorno a noi ci insegna che la cosa più bella che ci possa capitare è essere come una di quelle persone famose di cui leggiamo e che vanno a letto ogni sera con qualcuno di nuovo. Ovunque ci si volti è quello che si vede, è tutto ciò che si sente. Siate sinceri con voi stessi, quanto meno riguardo a questo: prima ancora che questo processo avesse inizio, prima ancora di mettere piede in questo tribunale dopo essere stati chiamati ad assolvere il vostro dovere di giurati, sapevate come tutti che questo caso era un assassinio e che la causa di questo assassinio era il sesso. Cos'altro poteva essere?», domandai sbottonandomi la giacca e piantandomi le mani sui fianchi. Mi fermai davanti alla giuria a gambe divaricate. «Una donna sposata, e non una donna come tante altre ma una bellissima ragazza che stava diventando una stella della televisione, che aveva una relazione con un uomo non sposato, viene trovata morta nella sua casa da scapolo sulle colline di Berkeley. Non c'è nessun altro sulla scena, e secondo i racconti più scabrosi si sguazza nel sangue. Voi siete entrati in quest'aula e avete giurato di essere imparziali; avete giurato di dare ascolto a tutte le prove prima di giungere a qualsiasi conclusione;
avete giurato di fare quello che la legge vi chiede di fare. Avete giurato di farlo ma nessuno crede che lo farete, perché nessuno crede che siate in grado di farlo. «Non potete essere imparziali; non potete essere equi. Nessuno potrebbe esserlo, dopo aver sentito ripetere per mesi che Julian Sinclair ha ucciso Daphne McMillan e che il suo omicidio era tutta una questione di sesso. Curioso, il modo in cui questa parola ci solletica e al tempo stesso ci spaventa. Ci viene scagliata addosso da ogni direzione, non possiamo evitarla; eppure rimane un piacere segreto e a volte colpevole. Vorremmo sempre saperne di più, quando ha a che fare con un estraneo; ne siamo indignati quando le voci riguardano noi stessi. È stato tutto quello che si è pensato di Julian Sinclair e Daphne McMillan, fin dal mattino in cui è stato reso noto l'omicidio. «"Avevano una relazione!". Era questa la premessa, nonché la conclusione, delle argomentazioni che tutti quei personaggi meravigliosamente imparziali si gridavano a vicenda in televisione. E tutti ci avete creduto». Mi portai in fondo al banco della giuria e mi voltai verso il pubblico che attendeva in un silenzio carico di aspettativa. Julian era seduto perfettamente immobile, e seguiva ogni mia parola più con lo sguardo dello studioso che con l'attenzione tesa e spaventata di chi stava rischiando la vita in un processo. Penso che fosse completamente dimentico di sé, che non pensasse ad altro che a capire l'argomentazione che stavo confusamente cercando di formulare. «Tutti ci avete creduto», ripetei tornando a guardare la giuria. «Avete creduto che Julian Sinclair fosse colpevole prima ancora che avesse inizio il processo perché era quello che dicevano tutti; e noi crediamo a quello che dicono tutti, non è vero? Tutti dicevano che aveva avuto una relazione con la vittima e che per questo era colpevole, e voi ci avete creduto. «Dapprima l'accusa ci dice che Julian Sinclair mentiva quando diceva che malgrado amasse Daphne McMillan, e malgrado lei amasse lui, non erano mai andati a letto insieme e non l'avrebbero fatto finché lei non fosse stata libera dal matrimonio e dal marito. Sinclair mentiva; lui e la vittima avevano una relazione, lei aveva voluto porvi fine e lui l'ha uccisa in un accesso di rabbia. Ma poi l'accusa viene a dirci che forse Julian Sinclair e Daphne McMillan non erano mai andati a letto insieme, ma che lei aveva comunque voluto mettere fine alla relazione. E lui l'ha uccisa perché, malgrado non fosse mai andato a letto con lei, era l'unica cosa che avesse desiderato veramente, e rendendosi conto che non l'avrebbe mai ottenuta ha
perso la testa. «Che sia andato a letto con lei oppure no, l'ha uccisa lui comunque, perché - capite? - in entrambi i casi è una questione di sesso. Deve esserlo. Senza il sesso non c'è movente, e senza un movente incolpare Julian Sinclair dell'omicidio di Daphne McMillan non avrebbe alcun senso, come l'accusa ben sa. Per questo l'accusa non può neanche ammettere la possibilità che quello che vi ha detto Julian Sinclair sia la verità. L'accusa trova inconcepibile che una persona possa amarne un'altra e desiderare soltanto quello che è meglio per lei; inconcepibile che Julian Sinclair potesse considerare prezioso ogni momento che trascorreva con la donna che amava senza vederlo come un sacrificio, un debito che poteva essere ripagato soltanto a letto. Lei gli doveva qualcosa, ma non ha voluto pagare; e quando ciò è accaduto, Sinclair, come Shylock, ha preteso la sua libbra di carne. Questa, in tutta la sua sgargiante eleganza, è la somma finale dell'argomentazione dell'accusa». Tornai a guardare Julian Sinclair. Non vi era alcunché di furtivo o reticente nei suoi occhi, nulla che suggerisse che potesse anche soltanto pensare di non dire la verità. Ma era anche vero che non avevo mai pensato a lui come a un assassino, e forse coloro che lo consideravano tale vedevano nei suoi occhi non l'onestà ma l'assenza di una coscienza. «Julian Sinclair ha giurato di dire la verità. C'è un momento in cui bisogna fidarsi di se stessi. Bisogna decidere se un testimone è qualcuno a cui si può credere. Ora non c'è più nessuno che possa deciderlo oltre a voi. Il coro assordante e stridulo che ha riempito l'etere con le sue opinioni qualificate prima ancora che venisse chiamato il primo testimone è ammutolito: la vostra è l'unica voce che conta. È facile chiedere una condanna, sostenere di sapere come sono andate le cose, quando non sei tu a dover decidere se qualcuno dovrà vivere o morire. «All'inizio di questo processo vi ho descritto quello che quasi mille anni fa veniva chiamato processo per ordalia. Ricordate? Un ferro rovente in mano, colpevolezza o innocenza determinate tre giorni dopo dalle condizioni della mano. Ricordate cosa avete pensato quando l'avete sentito, quanto vi è sembrato crudele e barbarico? Ma noi siamo davvero migliori? Loro credevano che ogni cosa fosse, o potesse essere, decisa da Dio; noi crediamo che ogni cosa sia determinata dai nostri istinti più bassi, in questo caso dal sesso. Ma esattamente come allora vi erano individui che non pensavano affatto a Dio quando cercavano di soddisfare i loro desideri carnali, oggigiorno esistono ancora individui convinti che l'essere umano
abbia qualcosa di più di quanto vorrebbe farci credere l'accusa. Voi l'avete visto, l'avete sentito, avete formulato un giudizio su di lui mentre lo ascoltavate: ve l'ho letto negli occhi. Pensate davvero che Julian Sinclair possa essere stato preso dal furore omicida perché Daphne McMillan gli aveva detto che sarebbe tornata dal marito e perché aveva perso qualsiasi possibilità di portarsela a letto?». Lanciai un'occhiata rabbiosa a Maddy Foster, seduta con aria fosca al banco degli avvocati. Lei inclinò la testa di lato, con un'espressione che mi sfidava a proseguire. «Daphne McMillan non è stata uccisa da Julian Sinclair. È stata uccisa da suo marito, Robert McMillan, il quale non poteva sopportare l'idea che questa donna che aveva sottomesso a furia di torture fosse innamorata di un altro. L'ha uccisa lui, e se voi non proscioglierete Julian Sinclair non manderete soltanto un innocente alla morte o in prigione, ma lascerete che il vero assassino se la cavi!». Alla fine, quando ebbi terminato e mi lasciai cadere esausto sulla sedia, non provai ciò che provavo di solito: il sollievo per il fatto che tutto era finito e che ormai non restava che attendere. Invece di avere la sensazione di essermi tolto un peso dalle spalle, il peso mi sembrava perfino più opprimente. Come una depressione sempre più profonda, più la combattevo più ogni cosa sembrava buia. Invece di essere io a cercare di consolare Julian, era lui che cercava di consolare me. Entro un certo limite, ovviamente. Julian non voleva alimentare false speranze. Sapeva bene quanto me, o forse meglio poiché malgrado fosse lui quello sotto processo la sua capacità di distacco era maggiore della mia, che il verdetto poteva prendere entrambe le direzioni. Fin dall'inizio aveva capito cosa si trovava di fronte. Non si faceva illusioni. Sapeva che anche con tutta la buona volontà del mondo nessuna giuria avrebbe mai potuto dimenticare tutto ciò che aveva visto e sentito. Non se n'era mai lamentato, non aveva mai insinuato che non fosse giusto. Nell'unica occasione in cui io l'avevo detto in sua presenza, mi aveva ricordato che dopo quello che era accaduto a Daphne non si aspettava di trovare molta giustizia al mondo. «È stata straordinaria», disse riguardo alla mia arringa finale dopo che Jarvis ebbe dato le sue istruzioni alla giuria e lui e io rimanemmo soli. «E l'hai fatto improvvisando, senza un appunto; hai preso quello che aveva detto l'accusa e per le successive due ore l'hai rivoltato come un guanto. Ma non stavi affatto improvvisando, vero? Mi ha fatto ripensare al caso
Whistler». Non sapevo di cosa stesse parlando. I miei pensieri erano troppo ingombri di tutte le cose che rimpiangevo di non aver fatto in modo diverso, cose che avrei voluto dire e cose che avrei voluto non dire affatto. «Whistler?», chiesi con espressione vacua. Sarei dovuto andare più a fondo con Robert McMillan dietro il banco, pensai. Mi sarei dovuto preparare meglio, scavare di più nel suo passato. Sarebbe stato utile se avessi avuto qualcosa di più concreto da usare contro di lui, qualcosa su cui avessi potuto dimostrare che aveva mentito. «Whistler, il famoso pittore. Era in causa per via del compenso che aveva chiesto per un dipinto. L'avvocato della parte avversa gli chiese se non considerasse la cifra eccessiva per un'opera che, come aveva ammesso lui stesso, aveva impiegato un giorno a realizzare. E Whistler rispose: "Un giorno di lavoro, ma anni di preparazione"». Lo udii a malapena. Continuavo a pensare al processo, tornando all'inizio e ripercorrendolo fino alla fine. Se avessi fatto tutto nel modo giusto, se fossi stato in grado di smascherare in modo inoppugnabile le colpe passate del marito di Daphne, sarebbe cambiata l'opinione che la giuria si era fatta di Julian Sinclair? Era il genere di domanda che poteva farti impazzire, il genere di domanda che non ti poni mai, perché non è necessario, quando sai che il tuo cliente è colpevole o quando sai di aver vinto. Sedevamo nella stanzetta priva di finestre riservata agli avvocati e ai loro clienti, al sicuro dagli sguardi curiosi ma assediati dalle nostre stesse paure. Dalle mie paure, non dalle sue. Julian continuava a lodare ciò che avevo fatto, spiegando l'effetto che aveva prodotto ed esaminando il modo in cui era stato fatto. Sembrava che dovesse sempre insegnare qualcosa, aiutare anche qualcuno poco disposto a imparare come me. Restammo lì un'ora, poi due, prima che l'ufficiale giudiziario venisse a bussare alla porta. «La giuria ha interrotto i lavori. Riprenderà domattina». Quella notte Julian restò a dormire da me. Il mattino successivo andammo nel mio ufficio in centro e attendemmo accanto al telefono. La telefonata non giunse né quel giorno né il successivo. La sera del terzo giorno venne finalmente raggiunto un verdetto. Fummo convocati in tribunale alle dieci del mattino dopo per l'annuncio. 12
Non potevamo cenare al ristorante, non potevamo uscire in strada. Il volto di Julian era ovunque, stampato sulle prime pagine delle ultime edizioni dei giornali, sparato su ogni televisione. La notizia aveva attraversato l'intero paese: la giuria del caso Daphne McMillan aveva raggiunto un verdetto e l'avrebbe annunciato l'indomani in aula. Restava soltanto una sera per le congetture intorno al verdetto. Il giorno dopo a quell'ora la televisione e l'attenzione pubblica si sarebbero spostate su un altro raccapricciante omicidio e su un'altra serie d'intensi dibattiti sulla possibilità che un individuo palesemente colpevole riuscisse a scrollarsi di dosso i capi d'accusa in tribunale. «Vuoi vedere cosa dicono di noi?», chiesi a Julian alla fine della cena che ci era stata portata in ufficio. Lui scosse il capo. «Non guardo spesso la televisione. Guardavo Daphne quando c'era, più che altro per prenderla in giro». Erano passate da poco le sette. Alla luce della sera di agosto, i palazzi grigi sul lato opposto della stretta strada cittadina rilucevano di una sfumatura oro rossiccio. Riversandosi dalle alte finestre, i raggi obliqui del sole al tramonto colpivano il lato del volto di Julian, donandogli un bagliore vibrante e giovanile. Per tutta la cena aveva a malapena aperto bocca, e io non avevo cercato di farlo parlare. Aveva trascorso quei giorni di attesa con me, e le notti nel mio appartamento di Nob Hill. Quella sera sarebbe tornato a casa, ed entrambi sapevamo che poteva essere l'ultima volta. «Daphne sapeva istintivamente quello che gli altri volevano che lei fosse. Non doveva pensarci, non c'era alcun calcolo premeditato, lo sapeva e basta. Succede quasi a chiunque: siamo tutti, in un modo o nell'altro, la creazione di ciò che crediamo pensino gli altri. È così che diventiamo ciò che siamo, no? Per imitazione. Modelliamo noi stessi sulla base di quello che vediamo fare agli altri. Quali altri? Quelli che sembrano essere coloro che tutti vorrebbero essere. È sempre stato così, ma la differenza era che fino all'avvento della televisione, e prima di allora del cinema, c'era ogni genere di modello, diverso a seconda di dove andavi. Ora ogni cosa è la stessa, e ciò», soggiunse Julian con un'occhiata enigmatica, «rende quasi impossibile diventare qualcosa di unico, di individuale. E su questo la prendevo in giro», disse in tono sommesso e malinconico. «E tu, Julian? Che modelli avevi? Chi cercavi di imitare?». I suoi occhi scuri, misteriosi, pieni di cose che non capivo, parevano guizzare ovunque senza mai staccarsi da me. Sembrava studiarmi, come se dopo tutto il tempo che avevamo passato insieme, dopo tutto ciò che ave-
vamo affrontato, vi fossero ancora cose di se stesso che pensava fosse meglio tenere nascoste. «Il passato», disse infine. «Abbandonare il luogo in cui sei nato e cresciuto, dove non avevi ragione di pensare esistesse modo di vivere migliore di quello, scoprire un nuovo modo di vivere così da avere qualcosa con cui confrontare: era così che le persone imparavano a pensare con la propria testa, a capire chi erano e cosa volevano essere. Ma lo spazio è collassato, i luoghi sono diventati tutti uguali. L'unica cosa che rimane è leggere com'era la vita un tempo, molto tempo fa in luoghi diversi. Ma soltanto», ammonì, «se ciò che si legge è scritto da qualcuno che ha capito cosa pensava la gente di quella stessa vita». Si spostò dalla luce che proveniva da fuori. Per un lungo istante non disse nulla. Ebbi l'impressione che fosse alle prese con quello che poteva accadergli a partire da due giorni dopo. Continuavo a pensare a ciò che aveva detto Albert Craven: che l'idea di Julian Sinclair rinchiuso in prigione e trattato come un animale privo di una sua intelligenza sembrava peggiore, più crudele, della morte. «Suppongo vi sia una certa ironia nel fatto che da piccolo la mia storia preferita fosse Il conte di Montecristo», disse con un sorriso coraggioso. «Non ho ucciso Daphne, e penso che tu lo sappia, ma è probabile che domani mattina venga giudicato colpevole e condannato a morte o all'ergastolo. Ti sarai chiesto quale delle due cose sceglierei. Ricordo ciò di cui abbiamo parlato quel giorno a pranzo, di quell'uomo che conoscevi che era rimasto trent'anni in prigione, che non aveva potuto scegliere la morte in nessuna circostanza». Con un unico, fluido movimento si alzò dalla sedia. «Se fossi colpevole dell'omicidio di Daphne e dovessi scegliere io la pena, sceglierei la morte, perché chiunque l'abbia uccisa merita di morire. Ma sono innocente e per questa ragione scelgo la vita, perché da morto è molto difficile fuggire!». Quella notte non chiusi occhio, e il mattino dopo ero stanco, svuotato, più preoccupato che mai. Il destino di Julian era stato deciso, e non c'era nulla che potessi fare. Era come attendere che il mazziere voltasse la carta, la carta che era già stata scelta, la carta che non poteva essere sostituita, la carta che avrebbe deciso se avevi vinto la fortuna che ti avrebbe cambiato la vita o avevi perso tutto ciò che avevi. Julian sedeva accanto a me con il suo completo blu scuro e una tale composta sicurezza che chiunque fosse entrato in aula in quel momento avrebbe pensato che lui fosse l'avvocato e
io l'imputato, e che qualunque fosse stato il verdetto l'indomani si sarebbe trovato in un'altra aula ad affrontare un altro processo. «La giuria ha raggiunto un verdetto?», domandò Conrad Jarvis dopo che i giurati ebbero preso posto dietro il banco. Avevo osservato i loro volti mentre entravano in fila indiana, alla ricerca di qualcosa nelle loro espressioni che mi facesse capire cosa avevano fatto. Erano entrati a capo chino, avanzando lentamente uno dietro l'altro. Nessuno di loro si era guardato intorno, nessuno di loro mi aveva rivolto un'occhiata. La portavoce della giuria si alzò dal suo posto in seconda fila. Era una laureata di mezz'età dai grandi occhi comprensivi e aveva mostrato più interesse nei riguardi di Julian di alcuni dei suoi compagni, guardandolo di sottecchi, forse per vedere la sua reazione, durante l'arringa finale dell'accusa. Ebbi un soprassalto di speranza. «Sì, Vostro Onore», rispose in tono fermo. Guardò il giudice e attese. «E per quanto riguarda il capo di accusa, omicidio di primo grado, qual è il verdetto della giuria: colpevole o non colpevole?». Obbedendo all'ordine del giudice, Julian e io eravamo in piedi, e fronteggiavamo la giuria. Istintivamente, feci scivolare la mano attorno al suo braccio. «Colpevole, Vostro Onore». Sentii che Julian contraeva il braccio e subito dopo lo rilassava. Ma quando si volse verso di me, non poté nascondere l'amara angoscia nei suoi occhi. «Hai fatto tutto quello che potevi. Non è colpa tua. Non pensare nemmeno per un istante che lo sia stata». Venne condotto in prigione e venne fissata una data per la proclamazione della sentenza. Fuori dal palazzo di giustizia cominciai a respingere con un gesto della mano le domande gridate dai giornalisti, ma poi ci ripensai. Volevano sapere cosa pensavo del verdetto. «Saranno contenti Bryan Allen e quelli come lui». «Contenti? Perché?». «Fin dall'inizio, fin dal giorno dopo l'omicidio di Daphne McMillan, hanno sostenuto che Julian Sinclair era colpevole. Ora possono dire di aver avuto ragione». «Lo dice come se fosse colpa loro, come se la responsabilità della decisione della giuria sia stata loro!». «Quando un numero sufficiente di persone dice che due più due fa cin-
que, dopo un po' potrebbe essere difficile trovare qualcuno disposto a sostenere che fa quattro». Una giovane donna dallo sguardo famelico mi piantò un microfono in faccia. «Si tratta di un caso che prevede la pena di morte. Proverete a ottenere l'ergastolo?». In quel momento rammentai le parole di Julian, ma invece di ripeterle diedi loro un'altra ragione per quello che avrei fatto. «Un giorno, il vero assassino di Daphne McMillan verrà catturato. E quando accadrà, a tutti voi che siete stati tanto pronti a condannare, così ansiosi di dire la vostra in televisione, conviene sperare che Julian Sinclair sia ancora vivo, perché se non lo sarà, cosa farete... vi accuserete a vicenda?». Disgustato, depresso, pronto ad abbandonare la professione legale piuttosto che veder condannare un altro innocente prima ancora dell'inizio del suo processo, rientrai in città e mi chiusi nel mio ufficio. Non risposi al telefono, ignorai chiunque bussasse alla porta. Per un po' rimasi seduto in silenzio, guardando nel vuoto e facendo di tutto per non pensare. Quello che era accaduto era così terribile, era un oltraggio che non ero stato in grado di impedire e che ora non potevo cambiare, che aveva fatto crollare l'ultima illusione che avevo: la convinzione che l'aula di un tribunale fosse l'unico luogo al sicuro dalla follia del mondo. Con sguardo torvo e depresso fissai la luce cangiante e ombreggiata del giorno, ricordando quanto le cose fossero sembrate migliori agli inizi, quando pensavo che se avessi mai perso un processo sarebbe stato soltanto perché l'imputato era talmente colpevole che lo sapevo perfino io. Avevo visto avvocati perdere casi che avrebbero dovuto vincere, avvocati pigri, incompetenti, inadeguati; avvocati a cui non importava ciò che accadeva a patto che venissero pagati. Avevo udito tutte le scuse tradizionali, le facili razionalizzazioni, le superficiali affermazioni che le corti penali erano piene di criminali e che se quello che rappresentavi non era colpevole del capo di accusa da cui lo stavi difendendo era colpevole di qualcos'altro, e che se per qualche miracolo lo facevi prosciogliere era soltanto questione di tempo prima che venisse ripresentato in aula con i polsi ammanettati dietro la schiena, in attesa di essere chiamato a giudizio per un altro crimine. Sapevo fin dall'inizio che non avrei mai potuto esercitare la professione in quel modo, che non avrei potuto vivere in quel modo. Non potevo banalizzare l'unica cosa che consideravo importante. Il diritto era il
collante universale, e l'avvocato che scordava che il suo ruolo era salvaguardarlo era peggiore di qualsiasi criminale. Com'era sembrato tutto nobile e grandioso nella mia svanita gioventù distorta dai sogni, in quei primi tempi in cui credevo ancora in ciò che gli avvocati e la legge erano in grado di fare; come sembrava tutto vuoto e falso ora che avevo perso un caso che avrei dovuto vincere e che Julian Sinclair era diretto verso la morte o qualcosa di peggio. Rabbioso, frustrato, fuori di me per il dispiacere, afferrai un libro che giaceva aperto sulla scrivania e lo scaraventai dall'altra parte della stanza. «Maledizione a tutti! Maledizione a me!», gridai. Poi, mentre udivo l'eco di quella triste e futile imprecazione, feci una cosa che non facevo da così tanto tempo che non ricordavo quand'era stata l'ultima volta. Mi misi a piangere, e una volta che ebbi cominciato non riuscii a fermarmi. Chino in avanti, i gomiti sulla scrivania, mi presi la testa fra le mani mentre lacrime calde scorrevano sul mio viso. Dopo i primi tentativi di farmi rispondere al telefono o aprire la porta venni lasciato in pace fino al tardo pomeriggio, quando Albert Craven bussò piano alla porta e chiamò il mio nome in tono sommesso. «Non è stata una gran giornata, vero, amico mio?». Mi diede una serie di colpetti affettuosi sulla spalla, poi si sedette su una delle due poltrone davanti a un tavolino all'estremità opposta dell'ufficio rispetto alla mia scrivania. In piedi in maniche di camicia, mi ficcai le mani in tasca, lo guardai per un istante, scossi la testa e distolsi gli occhi. «Non è stata colpa tua. Con te, se non altro, ha avuto una possibilità. La giuria ha impiegato tre giorni per decidere. In qualunque altra situazione, con tutte quelle prove a suo carico, non ci avrebbero messo più di un'ora». Mentre i miei occhi tornavano su di lui, Albert esitò prima di proseguire. «Siamo entrambi troppo vecchi, e ci conosciamo da troppo tempo, per fingere che ciò non abbia importanza. Ha un'importanza enorme. Sì, il verdetto non è cambiato; ma tu li hai costretti a pensarci bene. Nessun altro ci sarebbe riuscito, o ci sarebbe arrivato vicino. Ti ho visto in molti processi, ma non ti ho mai visto meglio. E se n'è reso conto anche Julian. Glielo si leggeva negli occhi. È stata la prima cosa che ti ha detto, vero? Dopo aver sentito il verdetto. L'ho visto rivolgersi a te. Non potevo sentirlo, ma è quello che ti ha detto, no? È tipico di Julian, pensare a te e a come l'avresti presa prima ancora che a se stesso. Sapeva, è troppo intelligente per non essersene reso conto, quale sarebbe stato il verdetto. Il modo in cui ha reagito... non so se sarei riuscito a farlo, è sembrato così... non indifferente,
ma impassibile. Di sicuro mi sbaglio, ma mi sono chiesto se non stesse quasi godendo nel dimostrare a se stesso, forse anche agli altri, come poteva sopportare la cosa peggiore che gli si potesse fare. Ho avuto la sensazione che si fosse preparato a lungo a quel momento, forse fin dal mattino in cui si è svegliato e ha scoperto che Daphne era morta. «Ricordi quella battuta dell'Enrico IV: "Come se in quel momento fosse stato in grado d'insegnare e d'imparare simultaneamente". Quello era Julian Sinclair», disse Albert in tono solenne alzandosi dalla poltrona. «Che perdita. Tu l'hai quasi salvato, e in un certo senso ciò la rende una tragedia ancora peggiore. È inutile ignorarlo. Ero venuto a consolarti, ma tutto quello che ho fatto è stato peggiorare l'umore di entrambi. Non possiamo farci niente. Usciamo insieme, tu e io. Se non riusciremo a ubriacarci, quanto meno avremo una cena decente». Senza protestare, privo in realtà di una qualsiasi volontà, seguii Albert Craven fino alla sua auto. Esausto, senza più alcuna emozione, mi sentivo un po' come un bambino o un vecchio stanco, conscio di quello che lo circondava e di poc'altro. Albert parlava e io ascoltavo, ma se me l'avesse chiesto non avrei saputo ripetergli cosa aveva appena detto. Le sue parole si mescolavano a formare un suono lungo e continuo, il linguaggio sconosciuto di un viso gentile e amico. Mi stavo abbandonando ai ricordi, a un passato che rammentavo vagamente. Avrei voluto ricominciare da capo, condurre la mia vita in modo diverso per non dover affrontare il fosco futuro di chi, per quanto avesse sfiorato il successo, aveva fallito. «Non penso che mi sarei sentito così male nemmeno se avessi raccolto quel coltello accanto al corpo di Daphne McMillan e avessi ucciso Julian con le mie mani. Parliamo tanto di affrontare la morte con coraggio, ma tutti vogliamo morire nel sonno. O almeno senza alcun preavviso, per poter sfuggire alla paura. Julian potrebbe passare cinquant'anni, è abbastanza giovane per farlo, nell'assenza di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sogno che non sia la fine della pena. E io dovrò vivere con questa consapevolezza ogni giorno della mia esistenza: la consapevolezza che era innocente, che io ero lì per difenderlo, per proteggerlo, e non l'ho fatto. Potrà anche essere l'ultima cosa che farò, ma proverò che non è stato lui e che l'ha uccisa McMillan». Chiunque altro al posto di Craven avrebbe cercato di consolarmi, mi avrebbe detto che avevo fatto del mio meglio, che era tutto ciò che mi si poteva chiedere; mi avrebbe detto che malgrado avessi il diritto di essere furioso e sconvolto, ogni tanto gli innocenti venivano condannati e tutto ciò
che si poteva fare era assicurarsi che non accadesse di nuovo. C'era molto di lodevole in quel genere di consiglio. Gli innocenti venivano condannati, ed era sicuramente importante fare di tutto per impedire che la cosa si ripetesse. Era anche pericoloso e controproducente lasciarsi ossessionare da qualcosa che ti era capitato al punto da non riuscire quasi a pensare ad altro. Non si dovrebbe sacrificare troppo del futuro al passato. Era tutto vero, ma per Albert Craven non significava più di quanto significasse per me, e lui lo sapeva. «Se fossi nei tuoi panni è esattamente quello che farei: provare che è stato McMillan e salvare la vita a Julian. Cosa può esserci di più importante? Farò tutto ciò che posso per aiutarti». Avevo molte ragioni per apprezzare Albert Craven, e ora ne avevo una di più. Eravamo entrambi abbastanza avanti con gli anni da sapere che le cose non andavano sempre per il meglio. Più ti avvicini alla fine, quando la morte cambia volto e invece di una vaga possibilità diventa una compagna quotidiana dei tuoi pensieri, più diventa facile afferrare in tutta la sua gioiosa pena il tragico significato di cosa vuol dire essere vivi. Alcuni individui, come Julian Sinclair, sembrano essere nati con quella consapevolezza, la coscienza che il tempo è fuggevole e che nulla dura in eterno; la maggior parte di noi lo scopre solo quando è ormai troppo tardi per vivere nel modo in cui avremmo sempre dovuto. Albert Craven aveva trascorso l'intera sua vita a San Francisco. Percorreva le strette, ripide vie cittadine con il tipo d'istinto che non era concesso a chi vi era arrivato di recente o ai visitatori. Senza smettere mai di parlare, gesticolando con le mani, guardando qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione al di là del finestrino, guidava la Mercedes nera nella calca del traffico del centro diretto verso gli agiati e per lui familiari dintorni dell'Hotel Four Seasons, qualche isolato a sud di Market. Il bar era affollatissimo. Le teste cominciarono a girarsi non appena facemmo il nostro ingresso, e fra di esse riconobbi i volti vagamente familiari degli inviati dei network che avevano seguito il processo. Due di loro posarono i bicchieri colmi di ghiaccio sul banco e s'incamminarono verso di me attraverso la calca. Ma Albert fu più rapido. Prima che ci raggiungessero venimmo accompagnati a un tavolo nell'angolo più lontano del ristorante, dove nessuno avrebbe potuto seguirci. Albert prese posto fronteggiando la sala e, più in là, il pianoforte e i tavolini sparsi della zona bar. Io mi sedetti volgendo la schiena a tutti, grato del fatto che soltanto Albert
poteva sapere quanto stessi male. Il bar era pieno in ogni ordine di posti, e risuonava di risate e saluti entusiasti e gridati per sovrastare il baccano. Il ristorante aveva appena cominciato a riempirsi. Qualche coppia elegante assaggiava il vino ordinato studiando il menu o sorrideva soddisfatta della scelta. «Ho voglia di champagne», disse Albert, «ma potrebbe essere frainteso». Spostò lo sguardo alle mie spalle, verso la folla del bar al di là della sala da pranzo. Il triste sorriso sulla sua bocca a petalo di rosa divenne allegro e provocatorio. «D'altro canto, peggio per loro. Che impazziscano pure a chiedersi cosa stiamo festeggiando!». Quando arrivò il cameriere, decisi che Albert aveva ragione. Mentre lui studiava la carta dei vini, ordinai una bottiglia del miglior champagne. «Sconcerto per i nostri nemici!», disse Albert in un brindisi dopo che la bottiglia venne stappata. «E libertà per Julian Sinclair», aggiunsi a voce più bassa. Bevemmo tre bicchieri in rapida successione, una corsa a chi raggiungeva per primo la fortezza contro la realtà che soltanto la follia può fornire. La situazione cominciò a sembrare migliore di quanto apparisse da settimane; il processo, il verdetto niente più che un momentaneo contrattempo, una sfida fatta apposta per essere vinta. La testa mi girava in preda al vago incantesimo dell'ineluttabilità da me stesso creata, alla tambureggiante certezza di una vittoria lontana, ma già a portata di mano; tutto ciò che era stato perso lo era stato soltanto perché potesse essere vinto. Se non avessimo smesso di bere e ordinato la cena, sarei uscito barcollando nella notte al suono dei miei applausi. «Non immagineresti mai chi è appena entrato», disse Albert con uno sguardo improvvisamente sveglio e tagliente. Avevamo quasi finito di cenare, e io avevo recuperato parte del mio autocontrollo. «Forse non ci vedranno. Il loro tavolo è dalla parte opposta, vicino all'ingresso», soggiunse speranzoso. Non riuscivo a immaginare di chi stesse parlando. «Harry Godwin», riferì lui sporgendosi in avanti. «E non è solo. Con lui ci sono Bryan Allen e un paio di donne. E c'è anche qualcun altro: Robert McMillan». I suoi occhi saettarono attraverso la sala. «Non ci hanno visti», disse con palese sollievo. «Forse non ci vedranno. Mi dispiace, davvero. Non ho pensato che ci potesse essere anche Harry. Pensavo fosse partito un paio di giorni fa». Mi voltai ed esaminai la sala finché non li trovai seduti al loro tavolo da cinque, intenti a godersi quella che sembrava una gran serata. Mi era rima-
sto mezzo bicchiere di champagne. Lo mandai giù, poi, inseguito da Albert, marciai fino al tavolo di Harry Godwin. Godwin non mi aveva visto arrivare, ma quando alzò gli occhi mi accolse con il calore di un amico ritrovato. «Joseph Antonelli! Che magnifica sorpresa! E c'è anche Albert!». Si alzò per stringerci la mano. «Ovviamente conosce già Bryan», osservò allegro mentre Bryan Allen annuiva sorridendo. «E penso conosca anche Robert McMillan», aggiunse in tono più formale. La sua voce tradiva una punta d'imbarazzo, un'ammissione del disagio che tutti dovevano provare. Bryan Allen non si era alzato, ma McMillan lo fece. Mi strinse la mano con forza; un po' troppo forte, mi parve, come se volesse fare colpo su di me, o forse intimorirmi. Non disse nulla e non tradì alcuna espressione, ma ciò malgrado nei suoi occhi si distingueva un che di crudele, come di qualcuno che fosse a conoscenza del tuo terrore segreto e fosse non soltanto disposto, ma desideroso di usarlo. Sottrassi la mano alla sua stretta e mi volsi rapidamente verso Harry Godwin. «Lasci che le presenti Marci, la moglie di Bryan», disse questi mentre io scambiavo un saluto con una donna che immaginavo avesse più o meno la stessa età del marito e, a giudicare da ciò che vedevo nei suoi dolci occhi grigi, almeno il doppio della sua intelligenza. L'altra donna, decisamente più giovane, lavorava per Godwin. Si chiamava Rachel, ma non riuscii a udirne il cognome. Aveva un accento australiano, e malgrado un aspetto per altri versi poco degno di nota, possedeva due inquietanti occhi scuri. «Abbiamo appena registrato la puntata di questa sera», spiegò Bryan Allen, la mascella sollevata alla stessa bellicosa angolazione che era così conosciuta in trasmissione. «Robert, il signor McMillan, era l'ospite. La potrà vedere più tardi, se vuole. Sulla East Coast viene trasmessa in diretta, ma qui è in differita. Abbiamo pensato che la gente sarebbe stata interessata a sentire le sue reazioni al verdetto, cosa prova avvicinandosi finalmente a una conclusione riguardo alla tragica morte della moglie». Guardai McMillan, seduto fra le due donne sul lato più lontano del tavolo. «Forse la guarderò. Cos'ha detto, signor McMillan? Cos'ha provato nel sentire il verdetto? Qual è stata la prima cosa che le è venuta in mente quando stamattina in aula ha sentito la parola "colpevole"?». McMillan mi guardò con un sorriso traboccante di sicurezza. «Cos'ha provato, sapendo di averla passata liscia? Sapendo di aver ucci-
so sua moglie, sapendo che qualcun altro pagherà per questo?». Il sorriso gli si raggelò sul volto; il suo era uno sguardo assassino, carico di avvertimenti. «Per l'amor di Dio, ha perso sua moglie», disse Bryan Allen con disgusto. Nessuno gli prestò attenzione. Tutti guardavano me e McMillan, chiedendosi cosa sarebbe accaduto a quel punto. «Vuole ancora che faccia una trasmissione per voi?», chiesi a Godwin. «Di sicuro ci piacerebbe parlarne...». «Che ne dice di un'intera serie dedicata agli assassini che l'hanno passata liscia, agli omicidi di cui sono stati accusati degli innocenti? Potremmo cominciare con l'assassinio di Daphne McMillan. Mostreremo i momenti salienti della trasmissione di stasera, in cui il marito ha raccontato al mondo intero quanto l'amasse e quanto lei amasse lui, e poi faremo vedere quello che ha fatto veramente». Mi voltai di scatto verso Godwin. «Invece di mettere in scena il processo, di mostrare prima ancora che incominciasse quello che tutti pensavano sarebbe stato, metteremo in scena il delitto. Ma non sarà finzione, mostreremo quello che è successo veramente: come ha seguito sua moglie fino a casa di Julian e come l'ha uccisa». Rivolsi un'occhiata ad Allen. «E scommetto quello che vuole che gli ascolti saranno molto più alti di quelli che avrà stasera con questo bugiardo assassino!». Prima che potessi dire altro, Albert mi afferrò per un braccio e mi condusse via, spiegando da sopra la spalla che era stata una giornata lunga e difficile. 13 I furgoni delle televisioni che avevano circondato il palazzo di giustizia durante le lunghe settimane del processo avevano cominciato ad andarsene il giorno in cui il verdetto era stato annunciato. Alla proclamazione della sentenza, gli unici giornalisti presenti erano quelli della stampa locale e delle agenzie. Il fatto che un condannato per omicidio venisse condannato a passare il resto della sua vita in prigione o ad aspettare la propria esecuzione per dieci o vent'anni nel braccio della morte non possedeva abbastanza suspense per interessare un pubblico televisivo a cui era stato insegnato ad aspettarsi qualcosa di nuovo e diverso ogni manciata di secondi. L'aula sembrava la sala da ballo di un albergo la domenica mattina, quando gli unici segni della febbrile eccitazione della sera prima sono
qualche festone penzolante e un pavimento coperto di polvere. La stenografa del tribunale muoveva le dita con fare vacuo e ripetitivo; l'ufficiale giudiziario fissava il vuoto davanti a sé, reprimendo uno sbadiglio. Due guardie scortarono Julian in aula con la stessa annoiata efficienza con cui avevano accompagnato migliaia di altri anonimi prigionieri. Maddy Foster, che si era espressa con tanta passione nella sua arringa finale, diede un'occhiata all'incartamento del caso, lo richiuse e si sporse in avanti sul banco. Prese una matita, picchiettò la gomma sul blocco di fogli gialli che aveva di fronte a sé, poi la capovolse e cominciò a fare lo stesso con la punta. Non era rimasto più nulla della tensione che era montata nel corso del processo e culminata con il verdetto, nulla di quella sensazione di un combattimento in cui le parole erano armi e soltanto il vincitore poteva sopravvivere. Era finita, la partita era stata giocata; solo ai perdenti interessava ciò che sarebbe accaduto a quel punto, e forse nemmeno a tutti loro. Con una stoica riservatezza che era tanto ammirevole quanto esasperante, la sera prima Julian Sinclair mi aveva detto: «Salvami, se puoi; ma se non puoi non ci pensare». In aula rifiutò di dire alcunché in sua difesa, ponendo invece un dilemma che metteva in discussione ciò che aveva fatto la giuria. «Se l'avessi uccisa, se fossi stato io, dovreste condannarmi a morte perché meriterei senza dubbio di morire; ma non l'ho uccisa io, e se ora voi ucciderete me, pensate a cosa dovrete rimpiangere quando alla fine lo scoprirete». Maddy Foster parve colta alla sprovvista dalle parole di Julian. Se fossero uscite dalle labbra di qualsiasi altro condannato sarebbero risultate provocatorie, irrispettose, un ultimo gesto di disprezzo per coloro che lo giudicavano. Ma Julian aveva parlato in un tono serio e stranamente comprensivo, come se si rendesse conto che tutti loro, il giudice, la giuria, la pubblica accusa, erano prigionieri quanto lui, costretti dalle circostanze a fare esattamente quello che avevano fatto. Mentre Maddy Foster lo studiava con attenzione in volto, credetti di scorgere l'ombra di un dubbio sorgere dalle profondità del suo sguardo. Si trovava lì per chiedere la pena di morte, e nulla poteva cambiare quella decisione. Ma lo fece con un certo, palese rimpianto, come se fosse un compito gravoso che avrebbe preferito non assolvere. Spiegai, o cercai di spiegare, che la vita di Julian avrebbe dovuto essere risparmiata poiché anche se la giuria avesse avuto ragione, anche se fosse stato colpevole di quel detestabile omicidio, era evidente a prima vista che si era trattato di un delitto passionale, che non era stato commesso con il
freddo movente del vantaggio personale o della vendetta. Secondo la tesi della stessa accusa non vi era stato alcun piano, alcun programma. Non c'era alcun motivo impellente per condannare a morte Julian Sinclair, e c'era più di una ragione per risparmiargli la vita. Julian ne aveva fornita una, io ne diedi un'altra. «Con una mente come la sua, chi può dire che anche nel corso di una vita in carcere non potrà fare del bene?». Facemmo entrambi il nostro lavoro, Maddy Foster e io; interpretammo entrambi i nostri ruoli fino in fondo. Ma nulla di ciò che facemmo produsse la minima differenza. La decisione riguardo a quello che sarebbe stato fatto di Julian Sinclair, se sarebbe vissuto o se sarebbe morto, era stata presa già da tempo. Sospetto che fosse stata presa il giorno stesso in cui era salito dietro il banco dei testimoni, il giorno in cui si era rivolto ai dodici giurati come se fossero seri e intelligenti quanto lui. Spesso, le cose più importanti che accadono in un processo non vengono affatto registrate. Julian Sinclair era diverso. Molti di coloro che avevano assistito alle udienze non avevano mai visto nessuno come lui. Sapevano tutti di cosa era accusato, e sapevano tutti, compresa quella giuria teoricamente imparziale, che quasi nessuno lo considerava innocente; eppure lui era diverso da quello che si erano aspettati. Sembrava troppo corretto, troppo intelligente per aver fatto una cosa simile. Non vi fu nulla di drammatico nel modo in cui venne pronunciata la sentenza. Conrad Jarvis non si esibì in alcuna di quelle aggressioni verbali che i giudici somministrano spesso ai condannati. Quando pronunciò le parole finali, nella sua voce non vi era nulla di vendicativo, bensì un senso di profondo rimpianto, come se fosse andato perso qualcosa di prezioso e promettente. «Ergastolo senza condizionale». Julian non s'irrigidì né sussultò. Non mostrò alcuna emozione. «Grazie, Vostro Onore», disse nello stesso tono formale di un avvocato alla fine di un procedimento. Per più di tre mesi non rividi Julian Sinclair. Passai settimane a studiare i voluminosi atti del processo alla ricerca di un errore a cui si potesse rimediare, di qualcosa che potesse formare la base di un appello. Ma era un'impresa inutile, lo sapevo fin dall'inizio. Un appello riguarda soltanto le questioni su cui ha deciso la corte. In tutte le decisioni importanti, Conrad Jarvis aveva favorito la difesa. Non ci sarebbe stato un nuovo processo. L'u-
nico modo per far uscire di prigione Julian Sinclair era provare che Daphne McMillan era stata uccisa dal marito, e non avevo idea di come sarei riuscito a fare una cosa simile. Nel mondo libero tre mesi non sembrano molti, ma a Julian Sinclair, rinchiuso a San Quentin insieme agli altri nuovi arrivati, dovevano essere parsi tre anni. Ero ansioso di vederlo, ma odiavo recarmi in quel luogo, nel carcere dalle mura alte e rossicce che si ergeva lungo la baia alla fine del ponte Richmond-San Rafael. Sembrava provocare i detenuti con il loro stesso isolamento, portarli alla follia con la vicinanza alla libertà e alla civiltà, a quell'autostrada usata da migliaia di persone a pochi metri di distanza. San Quentin ospitava più di seimila detenuti, seicento dei quali impazzivano nel braccio della morte. Me l'aveva detto lo stesso Julian. C'erano ottocento guardie e un personale di sostegno di altri cinquecento individui per tenerli a bada. Se quello stesso rapporto di circa quattro e mezzo a uno fosse stato adottato ai primi anni di scuola, chi poteva sapere quanti sarebbero finiti in carcere? I criteri di ammissione, quanto meno per coloro che avevano ucciso qualcuno, erano a loro modo severi quasi quanto quelli di una scuola esclusiva. L'omicidio in se stesso non era sufficiente. Dovevi essere stato condannato a morte oppure, come nel caso di Julian, all'ergastolo senza condizionale. Se ti trovavi a San Quentin per aver ucciso qualcuno, non ne saresti più uscito. «Gli ergastolani sono la vera e propria élite», spiegò Julian. «Non nel senso di quello che hanno fatto per finire qui. Non ha niente a che fare con quella che il mondo esterno potrebbe considerare una reputazione. Sanno che sono qui per sempre, e imparano in fretta a ottenere ciò che possono dall'esistenza che conducono». Eravamo seduti in uno stanzino privo di finestre, e gli unici mobili erano due sedie di legno e un tavolino quadrato. La doppia lampada al neon fissata al soffitto proiettava un bagliore verdastro e spettrale sulle scure pareti di cemento. Era un ambiente soffocante, claustrofobico; l'aria era umida, stantia, insufficiente. Julian sembrava cambiato. I suoi capelli castani erano corti, e i suoi indumenti mostravano la monotona uniformità della divisa carceraria, ma non era soltanto questo. Era dimagrito, il suo volto era diventato scavato; gli occhi si erano ritirati nelle orbite, dandogli un aspetto guardingo, distaccato e forse addirittura pericoloso. Probabilmente non era che l'intensificarsi dell'istinto di autodifesa, la reazione primitiva e necessaria a una
condizione di vita in cui non ti sentivi mai del tutto al sicuro. Qualsiasi cosa le autorità carcerarie cercassero di insegnare riguardo alla vita in prigione, quella doveva essere la prima lezione che ciascun detenuto insegnava a se stesso: che non ci si poteva mai rilassare, che non si poteva mai abbassare la guardia, che non ci si poteva mai fidare del tutto di nessuno. «La vita qui è diversa», osservò come se mi avesse letto nel pensiero. Aveva ancora quella sua intensa curiosità, quello stesso inesauribile desiderio di sapere tutto del mondo in cui viveva, anche se, o forse proprio per questo, era un mondo estraneo come quello. «Non è come essere in una di quelle squadre di condannati ai lavori forzati del Sud. Se sei qui per tutta la vita, hai libertà di movimento. Ci sono due uomini in ciascuna cella, e fai parte della popolazione generale. Tutti hanno un lavoro, tutti vengono pagati. La cosa curiosa è che perfino qui a San Quentin il sistema salariale obbedisce al grande principio americano dell'ineguaglianza economica. È sorprendente, se ci pensi, che due uomini che stanno scontando la stessa pena per lo stesso crimine debbano guadagnare paghe notevolmente diverse. Ignora per un momento il fatto che il salario più alto non arricchirà nessuno; considera soltanto l'enorme differenziale fra un salario di un dollaro l'ora e uno di otto centesimi. Penseresti che essendo tutti prigionieri, mangiando tutti le stesse cose alla stessa ora, essendo tutti soggetti alle regole altrui, siamo tutti pagati allo stesso modo, posto naturalmente che loro decidano di pagarci. Dopo tutto siamo prigionieri, schiavi. E invece c'è è un capitalismo rampante, dove ognuno è ansioso di guadagnare di più!». Si sporse in avanti sui gomiti, e i suoi occhi brillarono di piacere per aver afferrato il significato recondito di quello che a prima vista pareva un paradosso. «Quello che hanno fatto qui, non ha importanza se per caso o di proposito, è stato applicare i principi del mercato per tenere tutti in riga. Se non mi sbaglio, è l'essenza stessa della modernità. Come s'impedisce alla gente di ammazzarsi a vicenda, di impadronirsi di ciò che non le appartiene? Qual è l'incentivo a lasciare in pace il prossimo? La proprietà, o meglio la possibilità di acquisirla in pace. C'è bisogno della legge, e di qualcuno che la faccia rispettare, per garantire che nessuno rubi; ma se tutti sanno che la legge è presente, concentreranno le loro energie sul tentativo di accumulare di più. È la base dell'intera argomentazione, non trovi? Che libertà e capitalismo vanno a braccetto? Ma bada bene», proseguì con un sorriso malizioso, «le autorità carcerarie hanno capito una cosa che la gente fuori non vuole
ammettere: la cosa funziona altrettanto bene con gli schiavi; non c'è affatto bisogno della libertà. «Qui dentro ci sono migliaia di uomini, detenuti di un carcere, ma a eccezione di quelli nel braccio della morte hanno tutti un lavoro. Gli ergastolani, restando qui più a lungo, acquisiscono diritti di anzianità. Più guadagnano, più hanno da spendere. Possono fare acquisti allo spaccio; possono ordinare articoli da certi cataloghi; possono comprarsi una radio, una televisione. Sicché c'è un forte incentivo a fare bene il tuo lavoro e passare a qualcosa che ti faccia guadagnare ancora meglio, e la cosa geniale è che c'è un fortissimo incentivo a non creare problemi e a non permettere che altri lo facciano. Perché in quel caso, nel caso di una rissa o di una sommossa in cortile, tutti vengono rinchiusi in cella e i privilegi vanno perduti. E quando questo accade, gli ergastolani non lo gradiscono affatto. Curioso, vero, che in prigione siano gli assassini ad avere maggiore interesse per la legge e l'ordine?». Prese fiato, mi rivolse un vago sorriso di scusa, abbassò gli occhi e si mise a ridere in quel modo triste e incerto che è tipico delle persone sole e amareggiate. All'improvviso rialzò gli occhi e mi fissò con una strana intensità. «Non so se riuscirò a sopravvivere ancora molto». Nell'istante stesso in cui lo diceva si stava già rimproverando per la propria debolezza e irresolutezza. Si scostò dal tavolo e drizzò la schiena. Fece un sorriso coraggioso e, mi parve, leggermente spazientito. «Non darmi retta. È dall'ultimo giorno in tribunale che non parlo praticamente con nessuno». Doveva essersi chiesto quanto a lungo sarebbe riuscito a restare sano di mente, per quanto ancora sarebbe stato in grado di evitare che la sua affilata intelligenza venisse smussata e infine sconfitta dalla schiacciante, istupidente ripetitività della vita in prigione. «Ma la legge potrebbe ancora salvarmi». Sorpreso, cercai di nascondere il mio amaro disappunto. Avevo riletto gli atti del processo più volte di quante potessi contarne. Convinto che dovesse esserci qualcosa, qualcosa che mi era sfuggito, li avevo fatti riesaminare anche da altri due colleghi. Cominciai il discorso che avevo accuratamente provato. «Non ho trovato ancora niente. Ma farò...». Julian mi interruppe. «Te l'ho detto che non avresti trovato niente. Non ci sono stati errori giudiziari, di sicuro nessuno sbaglio che avrebbe potuto condizionare l'esito del processo. Pensi che sia colpa tua, vero? Pensi che
avresti dovuto fare qualcosa di diverso, qualcosa che avrebbe dato un risultato positivo». Vi fu un lieve cambiamento nella sua espressione. I suoi occhi, che non mi avevano mai abbandonato, parvero mettersi meglio a fuoco. «Non è stata colpa tua. Nessuno avrebbe potuto fare meglio. Ero condannato ancora prima dell'inizio del processo. È quel linciaggio mediatico di cui parlavo. Tu, quanto meno, li hai costretti a riflettere per qualche istante prima che andassero a prendere la corda». Sorrideva fra sé nel rammentare quando l'aveva detto per la prima volta, il giorno in cui ci eravamo conosciuti, quando si era divertito tanto a dire a Daphne in televisione che forse avrebbe fatto meglio ad aspettare il processo prima di dire a tutti quanto colpevole doveva essere l'imputato. «La legge potrebbe salvarmi». Lasciò cadere le mani in grembo e si rilassò all'indietro sulla sedia. «Il lavoro che voglio qui dentro, che penso mi daranno, è nella biblioteca giuridica. È diretta da una bibliotecaria in pensione, una donna che sa che insegnavo a Berkeley. Posso lavorarci come assistente, aiutando i detenuti con le loro questioni legali». Mi rivolse un'occhiata cupa e si strinse nelle spalle. «Non è esattamente come associarmi allo studio, ma quanto meno è il tipo di lavoro per cui ho studiato». Un sorriso enigmatico, l'espressione di chi ha un segreto che non può ancora rivelare, cominciò a formarsi sulle sue labbra. Sembrava sicuro di sé, noncurante del futuro come il giorno che era andato a lezione di scherma dopo il nostro pranzo al club della facoltà. «Ci sono alcuni aspetti legali che voglio capire più a fondo». Feci per dire qualcosa di ordinario, di banale; qualcosa sul fatto che faceva bene a tenersi occupato, a usare i suoi studi, a esercitare la sua mente. «Aspetti che devo capire per quando sarò finalmente fuori di qui». Non sapevo quali aspetti intendesse, ma credevo di sapere cosa lo portava a credere di poter tornare libero. «Non mi arrenderò», dissi con enfasi. Era importante che avesse una speranza a cui aggrapparsi, una ragione per vivere. «In un modo o nell'altro proverò che è stato McMillan a uccidere Daphne. Ho già cominciato. Sto...». «Lo so. So che non mollerai finché non ci sarai riuscito. Ma potrebbe volerci del tempo, più di quanto io possa aspettare». «E allora? Cosa suggerisci...?». Fu allora che glielo lessi negli occhi, e capii cosa aveva voluto dire. La mia prima reazione fu pensare che era impossibile, ma poi mi chiesi per
quale motivo lui lo considerasse fattibile. «La fuga? Da San Quentin? Ma come?». L'occhiata che mi scoccò mi fece pensare che fosse più divertito dalla possibilità che seriamente intenzionato a provarci. Era sempre stato un sognatore, un romantico. A cos'altro poteva pensare in prigione, se non a come fuggire? Ruotando sulla sedia, accavallò le gambe e afferrò con entrambe le mani un angolo della sedia. La sua espressione divenne ancora più enigmatica, più intensa. I suoi occhi dardeggiarono intorno nello spoglio, angosciante stanzino. Si sporse verso di me sopra l'angolo della sedia. I suoi occhi presero a seguire il movimento del piede, che tracciava un pigro semicerchio nel vuoto. «Nel braccio della morte c'è un certo Phillips. Lui usa il farmaco di un altro detenuto per procurarsi violenti malori. Verrà giustiziato, ma ciò non significa che possano lasciarlo morire. Sono costretti a portarlo in ospedale. Ce ne sono tre dove possono portarlo: uno a San Francisco, un altro su a Novato e il terzo, il più vicino, a San Rafael. Una guardia disarmata lo accompagna in ambulanza. Il prigioniero è incatenato, ovviamente. Il motivo per cui la guardia è disarmata è che il detenuto non ha alcuna possibilità di mettere le mani su un'arma. Una guardia armata è seduta davanti. Una squadra speciale d'assalto segue l'ambulanza. Quello che vuole Phillips, la ragione per cui continua a indurre quei malori, è far sì che i suoi complici in libertà sparino alle guardie e lo liberino. Non ha funzionato. Troppa potenza di fuoco, immagino». Un sorriso amaro lo rabbuiò. «Quella guardia, la guardia che sale con lui sull'ambulanza, se avesse una pistola e questa le venisse sottratta, non avrebbe alcuna possibilità. La regola qui è nessun negoziato. È quello che ti hanno detto quando ti hanno fatto entrare, no? Se vieni preso in ostaggio, loro non proveranno a negoziare il tuo rilascio. E fanno sul serio. Non puoi passare nemmeno una settimana in questo posto senza che ti venga raccontato cosa accadde negli anni Sessanta, quando George Jackson cercò di fuggire. Il suo avvocato, un estremista simpatizzante di Angela Davis e delle Black Panthers, era riuscito a fargli avere una pistola nascondendola nel registratore. Ricordi quant'erano grandi? Bene, l'avvocato è nella saletta dei colloqui insieme al suo cliente. Jackson nasconde la pistola nella parrucca afro. Ha la pistola in testa. Quando rientra nel suo braccio, afferra una delle guardie e comincia a sparare. Morirono due secondini. La storia viene raccontata a tutte le nuove guardie, seguita dalla raccomandazione, nel caso venissero prese in ostaggio, di buttarsi a terra quando cominciano
a volare i proiettili, perché questo è ciò che succederà se non verranno rilasciate all'istante. Lo sanno anche i prigionieri; e suppongo sia questo il motivo per cui da allora sono stati in pochi a riprovarci. «Prendere un ostaggio e mercanteggiare con la vita di un'altra persona... è giusto che ti sparino. L'unico modo di fuggire di prigione è andarsene e basta». Lo faceva sembrare così facile, così semplice, che per un attimo mi chiesi se si fosse scordato di dove si trovava. Julian vide la confusione sul mio volto e parve goderne. «C'era un prigioniero nell'unità H, giù dalla collina. La sua è stata una di quelle fughe che si vedono al cinema. Ha creato una fune con le lenzuola e si è calato dalla finestra. Il difficile è venuto dopo. Doveva superare due reti di filo spinato a quattro metri e mezzo una dall'altra e farlo fra due torri, ciascuna con un uomo di guardia. Ha usato la stessa fune di lenzuola per proteggersi dal filo spinato, ma non sarebbe mai riuscito a fuggire se una delle due guardie non si fosse addormentata. Strano che nessuno sembri essersi domandato come facesse a sapere che sarebbe accaduto», osservò con un sorriso ironico. «Non è mai stato preso. Non so cosa sia capitato alla guardia». I suoi occhi erano colmi di malizia e la sua voce di spirito di avventura. Era come ascoltare le fantasie infantili di un giovane ancora libero. «Ma il sistema migliore è quello che dicevo prima: andartene e basta. Qui accade più spesso di quanto tu non creda; più spesso di quanto la gente che gestisce questo posto gradirebbe farti sapere. San Quentin non è tutto un carcere di massima sicurezza. Ci sono diversi livelli. Il primo livello in realtà non ha alcuna sicurezza, soltanto il buon senso del detenuto. Alla fine della tua pena, quando non ti resta da scontare che un anno o giù di lì, vai a vivere in quella che qui chiamano la fattoria annessa. È dove il carcere coltiva parte delle sue provviste alimentari. I detenuti vivono in dormitori in mezzo ai campi. Se hanno voglia di fuggire, non devono fare altro che allontanarsi a piedi. Ovviamente, se lo fai e vieni preso dovrai scontare una pena aggiuntiva rispetto a quella prevista dalla tua sentenza. Ma alcuni lo fanno; di solito a causa di una donna, di qualcosa che è andato storto e che pensano di dover sistemare». Avrei dovuto rammentargli qual era la sua condanna, che il giorno del suo rilascio non sarebbe mai arrivato? «Ovviamente, non tutti possono andare a vivere nella fattoria annessa. Non ci puoi andare se hai precedenti violenti, o se hai già cercato di fuggi-
re da un carcere». Si rimise dritto sulla sedia e piantò entrambi i piedi sul pavimento di cemento. Prese a studiarmi negli occhi per vedere se avessi anche soltanto cominciato a capire. «Ammetto che queste potrebbero sembrare difficoltà insormontabili per uno che deve scontare un ergastolo senza condizionale, ma come entrambi abbiamo scoperto durante il mio processo il sistema perfetto non esiste. Forse un giorno mi ritroverò alla fattoria con soltanto un campo aperto fra me e la Highway 101 per San Francisco». Si alzò dalla semplice sedia costruita in carcere, e un sorriso triste gli percorse le labbra. «Sono successe cose ben più strane», disse porgendomi la mano per salutarmi. Gli dissi che sarei tornato, che l'avrei rivisto, che parlavo sul serio quando dicevo che avrei fatto tutto ciò che potevo per provare che non era stato lui ma il marito a uccidere Daphne McMillan. Lui era fermo davanti a me, lo sguardo limpido e determinato, le spalle dritte. Avrebbe potuto essere uno di quei giovani, valorosi tenenti britannici che ogni giorno si alzavano in volo contro i tedeschi quando la Gran Bretagna combatteva da sola. C'era in lui lo stesso discreto coraggio, la stessa spontanea disponibilità ad affrontare qualsiasi cosa il destino avesse in serbo. Ero stato bravo fino alla fine. Avevo trattenuto le emozioni, non avevo ceduto. Ma ora lo vedevo nella doppia veste del giovane giunto al termine di una vita che aveva mostrato incredibili promesse e del prigioniero all'inizio di una lunga, crudele cattività; un giovane che, dal punto di vista di ciò che avrebbe potuto avere, avrebbe probabilmente fatto meglio a morire; un giovane che avrebbe potuto diventare vecchio in prigione sognando i campi aperti che non avrebbe mai potuto attraversare. «Julian», dissi stringendolo per le spalle e cercando di fargli capire quanto mi sentissi male. «Mi dispiace, io...». Lui si scostò, allontanando le mie mani con dolcezza. «No, va tutto bene. Ma fammi un altro favore, se non ti dispiace. Non venire più a trovarmi, a meno che non ti scriva e te lo chieda io stesso. Questa è la mia vita, adesso. Devo accettarla. Devo imparare a vivere come se non conoscessi più nessuno fuori di qui. Molto tempo fa ho letto una cosa che non ho mai dimenticato: "Nella vita non conta quello che ti capita, ma come lo affronti"». Lasciai San Quentin quasi certo che non avrei mai più risentito Julian Sinclair. Era stato soltanto per non ferirmi che mi aveva chiesto di aspetta-
re che fosse lui a scrivermi invece di dirmi che stava voltando le spalle a me e a tutti quelli che conosceva. E chi poteva biasimarlo? Quasi tutti avevano voltato le spalle a lui. Le piogge novembrine erano cominciate, e l'aria era fresca, dolce e pulita. Quando raggiunsi il Golden Gate il sole fece capolino da dietro le nubi, inondando San Francisco di una dolce luce dorata. Sul lato opposto della baia, sulle colline di Berkeley, la casa in cui Julian Sinclair aveva vissuto e in cui era morta Daphne McMillan era immersa, come il loro ricordo, in una fitta nebbia grigia. 14 Robert McMillan divenne la mia ossessione personale. Ritagli di giornali, rapporti di investigatori, voci che raccoglievo in giro: archiviavo qualsiasi cosa potesse condurmi al tipo di prove di cui avevo bisogno per dimostrare ciò che aveva fatto. Riscossi favori un po' ovunque. Il padre di qualcuno che un tempo avevo aiutato mi procurò il rapporto sull'incidente che era costato la vita alla seconda moglie di McMillan. L'auto era precipitata da un dirupo lungo la strada tutta curve che percorreva la costa sul Pacifico a sud di Monterey. Non era rimasto nulla, né dell'automobile né di lei. Sulla strada non c'erano segni di pneumatici, il che era strano e avrebbe potuto far sospettare che l'auto fosse stata sabotata se la polizia non avesse scoperto che la donna aveva bevuto molto nella sua abitazione nei pressi di Pebble Beach e se n'era andata in preda alla rabbia quando le era stato detto che avrebbe dovuto smettere. Era stato questo che aveva detto Robert McMillan, e la polizia non aveva motivo di mettere in dubbio le sue parole. «Ti ho detto che quella che i suoi amici descrivono come eccentricità per me è qualcosa di più vicino a una vena di follia», mi disse Albert Craven una sera a cena, circa una settimana dopo la mia visita a Julian. «Ora ne sono sicuro. È pericoloso, forse l'uomo più pericoloso che abbia mai conosciuto. Ha ucciso almeno una donna, forse due, ed è capace di tutto». Si portò il bicchiere alle labbra e lo resse in quella posizione, lo sguardo serio e per nulla scoraggiato. «E ora temo che ce l'abbia con noi». Pensai che stesse drammatizzando. Che cosa poteva farci Robert McMillan? «Lo studio ha già perso tre clienti, e mi aspetto di perderne altri prima che questa storia sia finita». Albert tese la mano attraverso il tavolo e mi
strinse il braccio. «Non ti preoccupare. Io non lo sono», mi assicurò con espressione decisa. «È sempre un bene scoprire chi sono i tuoi veri amici, quelli su cui puoi contare e quelli su cui non puoi». «Harry Godwin?», domandai. «Lui ha...?». «Harry? Diavolo, no». Tese la mano per chiamare il cameriere e ordinò da bere per entrambi. «Harry non se ne andrà mai. È fedele fino al midollo. E poi dimentichi che ha costruito la sua intera fortuna sullo scandalo. Lasciare lo studio perché abbiamo detto che Robert McMillan ha ucciso la moglie? Se non fossimo già stati i suoi legali, avrebbe mollato chi lo era e sarebbe venuto da noi. A proposito: oggi ha chiamato. Vuole che tu vada a trovarlo come gli hai promesso». «Non gliel'ho mai promesso». «Ha rinnovato l'invito. Dovresti andarci. Dovresti allontanarti dalla città per qualche giorno. Un cambio di panorama ti farebbe bene. E se non mi sbaglio c'era qualcuno con cui volevi parlare, una donna che lavora per lui. E forse, dopo tutto quello che è successo, potresti rivalutare quel vecchio adagio sulla necessità di combattere il fuoco con il fuoco. Harry vuole proporti di fare qualcosa in televisione, qualcosa su cui eserciteresti un forte controllo. È un'offerta che puoi accettare oppure no, come credi. Ma parlarne non ti nuocerà di certo, e potresti goderti Sydney. Laggiù è estate, in questo periodo». «E i clienti che abbiamo perso per questa faccenda? Potrei lasciare lo studio. È assurdo che sia tu a pagare il prezzo di quello che faccio». «Il prezzo? Sono io che dovrei pagarti. Quegli stessi codardi, così ansiosi di essere nelle grazie di McMillan, sentono qualche lamento di passaggio su quello che gli è accaduto al processo e pensano che se non tagliano i ponti con noi lui potrebbe tagliarli con loro. Riesci a immaginare quanto sarà divertente dopo che avrai provato che Julian è innocente e McMillan è un assassino e un bugiardo, quando torneranno strisciando, sostenendo che è stato tutto un tragico malinteso? Riesci a immaginare la soddisfazione che proverò nel dir loro che siamo così presi che non posso nemmeno pensare di accettare nuovi clienti, e che se anche potessi preferirei morire piuttosto che macchiare il nome dello studio rappresentandoli? È uno dei motivi per cui, alla mia età, so che non sto per morire: perché non sarebbe giusto se non avessi la possibilità di mandarli a quel paese. Per cui non pensare nemmeno per un attimo di lasciare lo studio. Non puoi. Non prima che tu abbia provato che Julian è innocente e io mi sia tolto questa soddisfazione. Me lo devi. Mi devi questo», soggiunse con un sorriso malizioso,
«e la cena di questa sera, il cui conto sarà sicuramente scandaloso». Il dossier su Robert McMillan diventava ogni settimana più voluminoso e variegato; comprendeva di tutto, dalle relazioni finanziarie pubblicate dalle compagnie che controllava ai ritagli delle pagine mondane sulle serate a cui partecipava insieme al resto dell'élite affaristica e mondana della città. Nelle fotografie scattate nel corso dell'anno successivo alla morte di sua moglie non vi era nulla che tradisse un'ombra di dolore. Aveva sempre il solito volto aggressivamente attraente e lo stesso deciso, atletico sorriso. Nei suoi occhi non c'era alcuna traccia di introspezione, nulla che suggerisse che passava molto tempo a pensare al passato. Perfino in quelle istantanee sembrava dominare e attirare a sé tutto ciò che lo circondava. Aveva l'aspetto di un uomo convinto di essere il padrone del mondo. La cartella s'ingrossava, ma ogni giorno che passava le possibilità di smascherarlo, di provare quello che aveva fatto sembravano diventare più esili. Era un uomo privo di qualsiasi coscienza, un uomo che il rimorso non avrebbe mai spinto a confessare ciò che aveva fatto, nemmeno a qualcuno di cui si fidava. L'aveva confessato a Daphne, ma soltanto per dirle che quello che era successo alla sua seconda moglie poteva accadere anche a lei. Mi sentivo sconfitto, depresso, imprigionato in una battaglia che non potevo vincere e non potevo abbandonare. La determinazione che agli inizi era stata accompagnata da un sentito entusiasmo cominciò a diventare qualcosa di più simile a un senso di dovere, a un obbligo. Era la graduale, forse inevitabile transizione verso uno stato di osservazione passiva, di attesa circospetta, di speranza morente e rassegnazione. C'erano altri casi, altri processi, nuove responsabilità che richiedevano le mie attenzioni. Si avvicinava il giorno in cui Julian, più che una necessità urgente, sarebbe diventato un ricordo troppo doloroso da contemplare. Finché, due giorni prima di Natale, mentre stavo facendo gli acquisti dell'ultimo minuto, scorsi Robert McMillan in attesa a un semaforo. Era accanto a una donna elegante e bellissima. Tutti e due reggevano colorate borse di carta piene di pacchetti dorati e argentati. Lei era molto più giovane di lui, al massimo sulla trentina, con due gambe lunghe e sottili e un viso che gridava denaro. «Bisognerebbe fargli causa, al bastardo», commentò qualcuno nella calca alle mie spalle. Mi voltai e vidi due uomini d'affari dagli sguardi pungenti che annuivano camminando nella direzione opposta. Dal tono delle
loro voci immaginai che stessero parlando di qualcuno con cui avevano avuto entrambi a che fare. Il semaforo scattò e mentre la folla si rimetteva in moto rischiai d'inciampare cercando di avvicinarmi al punto dove sarebbero passati McMillan e la sua nuova amica. Giunto così vicino che se avessi voluto avrei potuto toccarlo, lo fissai, ma lui non mi vide. Era troppo concentrato sugli occhi giovani e splendenti della donna che gli camminava accanto. Me ne resi conto quando salii sul marciapiede all'angolo. Quei due perfetti estranei che parlavano con tanta divertita malizia di qualcuno che non conoscevo avevano ragione. Fare causa al bastardo: era il sistema americano, il sogno di qualsiasi avvocato. Una causa civile aveva regole molto diverse da quelle di un caso penale. Che importanza aveva se non fossi riuscito a provare al di là di ogni ragionevole dubbio che Robert McMillan era un assassino e Julian Sinclair non lo era? In una causa civile, l'onere della prova si riduceva a una semplice preponderanza evidenziale, il che significava che bastava accumularne una quantità leggermente superiore (il cinquantuno per cento, se le si voleva quantificare) a quella della parte avversa. Se fossi riuscito a trascinare McMillan in tribunale con una causa civile... ma come? Vi erano stati casi in cui individui prosciolti in processi per omicidio erano diventati imputati di una causa per "morte ingiustificata" intentata dai familiari della vittima, ma a essere condannato era stato Julian Sinclair. Anche se avessi trovato un parente disposto a fare causa per la morte di Daphne, la condanna di Julian sarebbe stata usata per annullare l'azione civile. Non avrei mai avuto la possibilità di usarla per cercare nuove prove. Doveva esserci un modo. Cominciai a camminare, seguendo la folla alla cieca. L'aria era fredda, pungente; era una perfetta giornata di fine dicembre. Le auto, gli autobus, i taxi e i camion strombazzavano scontrosi i loro clacson ed emettevano i loro suoni stridenti. A ogni incrocio, fra i tintinnii dei campanelli d'argento, voci chiare e distinte esprimevano gratitudine per ogni decino o dollaro donato, mentre coloro che li elargivano sorridevano di piacere per la triste allegria di un altro Natale da ricordare. Due isolati, tre, il passo regolare, luci dappertutto, mille suoni diversi che si traducevano in un'unica canzone, ma io non vedevo né udivo alcunché, soltanto quel discorso sgrammaticato che continuava a pulsarmi nella mente, qualcosa che sapevo e che avevo scordato. «Non fare causa al bastardo», dissi a uno sbalordito Babbo Natale dandogli un biglietto da venti. «Fare in modo che sia il bastardo a fare causa a
te!». «Buon Natale», disse lui con un'espressione di follia condivisa prima di voltarsi e scampanellare ai passanti in arrivo alle mie spalle. Mi ero tolto un peso dallo stomaco. Non riuscivo quasi ad aspettare il mattino successivo, quando avrei illustrato ad Albert Craven il mio piano per riportare McMillan in tribunale. Quella sera, a casa, trascorsi ore a studiare le leggi sulla diffamazione. Era una delle poche azioni civili a cui non si applicavano i normali calcoli su costi e benefici. Se qualcuno danneggia la tua reputazione, l'unico modo per ripararla è fargli causa e dimostrare che ciò che è stato detto era falso e premeditato, e che colui che l'ha detto è un bugiardo. Tutto quello che dovevo fare era rilasciare una dichiarazione in cui dicevo che Robert McMillan aveva assassinato sua moglie e aveva lasciato che un altro uomo venisse punito per il suo crimine. Se lui non mi avesse citato per diffamazione sarebbe stato come ammettere che era andata così. Albert Craven non era sicuro che avrebbe funzionato. Mi trovò in biblioteca, in fondo al corridoio del suo ufficio, intento a studiare i casi più importanti. Era la vigilia di Natale, e lo studio era chiuso per la settimana. Erano tutti in vacanza tranne noi. «Immaginavo che ti avrei trovato qui. Ieri sera ho ricevuto il tuo messaggio», spiegò lasciandosi cadere su una sedia sul lato opposto del lungo banco. Indossava uno dei suoi costosi abiti di sartoria. Fece scorrere lo sguardo sul labirinto di librerie che proseguiva fino agli oscuri recessi del cavernoso locale. Si accarezzò il piccolo mento, socchiudendo gli occhi in un'espressione di penetrante riflessione. «Forse dovremmo vendere tutto, l'intera baracca: libri, mobili, perfino il palazzo, e tornare all'inizio, quando eravamo solo in quattro e condividevamo due minuscoli locali in affitto in Montgomery Street. Ai tempi prendevo il tram fino al palazzo di giustizia e usavo la loro biblioteca. Ora la nostra è più grande di quella che allora aveva il tribunale, ha un suo bibliotecario e si trova a meno di trenta metri dal mio ufficio, eppure non ci vengo mai. Non so nemmeno se conosco metà degli avvocati che lavorano qui. Li ho conosciuti, ovviamente, ma non sono sicuro che li riconoscerei se li incontrassi per strada». Normalmente mi piaceva stare ad ascoltare Albert Craven quando faceva i suoi paragoni con il passato, ma oggi ero impaziente di sapere cosa pensava della mia proposta riguardo a McMillan.
«Ma tu hai preoccupazioni più pressanti», osservò guardando con un sorriso la pila di volumi aperti e la collezione di blocchi per appunti sparsi sul banco. Si raddrizzò dalla posizione rilassata che aveva assunto e si fece più serio e concreto. «Il problema è che quello che proponi di dire l'hai già detto. Gliel'hai rinfacciato durante il processo, ed è stato riportato da tutti i giornali. Se ricordo bene era la prima notizia al telegiornale della sera, o quanto meno la notizia di apertura del servizio sul processo». Feci per dire qualcosa, ma Albert alzò la mano sinistra e scosse il capo. «Certo, so che quello che si dice in aula nel corso di un procedimento penale gode d'immunità per quanto riguarda una causa per diffamazione. Ma se ti limiti a ripetere quello che hai già detto, McMillan può accantonarlo come la lamentela di un avvocato che non riesce ad ammettere la sconfitta. Dirà che non ha intenzione di sprecare il proprio tempo conferendo dignità alle tue affermazioni con un diniego che ha già espresso sotto giuramento al processo, lo stesso processo in cui il cliente di Joseph Antonelli è stato giudicato colpevole del crimine di cui si sta parlando». Mi lesse negli occhi il piacere della pregustazione. «Che c'è? Hai un altro asso nella manica, vero?». Ero lì dalle sette del mattino, ed erano ormai quasi le due del pomeriggio. Con il colletto della camicia sbottonato e le mani sporche d'inchiostro, mi sentivo un po' come uno studente di legge al terzo anno che si stava preparando per la settimana degli esami finali. «Hai mangiato, Antonelli?», rise Craven a un tratto. «Mio Dio, è la vigilia di Natale. Se hai in programma di restare qui fino a Capodanno, ti farò portare qualcosa. Di che si tratta?», domandò con un'occhiata intensa e vivace. «Cosa pensi di avere?». «Non dirò niente sull'omicidio, non direttamente. Lo accuserò di avere una lunga storia di abusi sulle donne». Appoggiai il braccio sullo schienale della sedia e sorrisi. «Mi è venuto in mente ieri sera, guardando le facce della gente che comprava i regali di Natale. Davanti alle vetrine di Neiman Marcus c'era una giovane coppia che parlottava eccitata di qualcosa che aveva visto; e a un tratto mi sono reso conto di quanta fiducia venga riposta in noi quando siamo con qualcuno che amiamo. Per questo il sesso senza amore è sempre una forma di tradimento. Puoi uccidere qualcuno e sostenere che l'hai fatto per autodifesa; ma se costringi, o cerchi di costringere, una donna ad avere un rapporto sessuale, o sei fai sesso con una donna quando dovresti essere
fedele a un'altra... che difesa puoi avere?». Calai entrambe le mani sul banco e mi alzai. Le mie giunture erano stanche per tutto il tempo che avevo passato seduto. Stirai le braccia, quindi presi a camminare avanti e indietro. «Se lo accusassi di nuovo di omicidio, sono sicuro che farebbe esattamente come hai detto: l'accantonerebbe come una questione già risolta. Ma se parlo pubblicamente di quello che ha fatto alle donne, che scelta può avere se non quella di farmi causa per diffamazione? E una volta che lo fa io posso costringerlo a deporre, vale a dire che posso interrogarlo sotto giuramento riguardo a quasi tutto ciò che voglio. E questo», soggiunsi girando su me stesso e stringendo lo schienale della sedia con entrambe le mani, «significa che saprò di lui molto più di quanto so adesso. E forse questo mi darà finalmente qualcosa che potrò usare per provare che ha ucciso Daphne!». Ma c'era un altro problema, e Albert me lo fece notare all'istante. «Nessun giornale pubblicherà la notizia. Non rischieranno di farsi citare anche loro per diffamazione... Ah, ora capisco: alla fine hai deciso di andare a Sidney. Vuoi che parli con Harry Godwin, perché in diretta televisiva puoi dire quello che vuoi». La sua espressione divenne furba, navigata. «E perché, se il network viene citato per danni, Harry ha qualcuno che lavora per lui in grado di testimoniare che hai detto la verità». Intrecciò le mani dietro la nuca e ridacchiò. «È quello che il mondo ha sempre sospettato: perfino la vigilia di Natale da qualche parte c'è un avvocato che pensa soltanto a come portare qualcuno a far causa a qualcun altro. A proposito», soggiunse mentre il suo sorriso si raddolciva. Si alzò dalla sedia e infilò la mano nella tasca della giacca. «Questo è per te. Buon Natale». Mi porse una scatoletta piatta e rettangolare chiusa con un nastro. Ero imbarazzato: io non gli avevo regalato niente. «È stato un gesto impulsivo. Sapevo che eri qui a lavorare, come facevo io un tempo e come probabilmente dovrei fare ancora, e mi sono ricordato... Insomma, aprila e vedrai». Era stato un acquisto tutt'altro che impulsivo. La scatola era di Cartier e la penna stilografica all'interno, con un serbatoio nero nervato dalle finiture in argento, era l'oggetto più bello nel suo genere che avessi mai visto. Il mio confuso balbettio fu un ringraziamento sufficiente per Albert, che sollevò le sopracciglia cespugliose e roteò gli occhi maliziosi verso le pagine macchiate d'inchiostro e piene dei miei illeggibili scarabocchi.
«Ho pensato che forse una nuova penna ti sarebbe stata utile», spiegò in tono ironico e con suo grande divertimento. Tre settimane dopo, a metà gennaio, m'imbarcai su un volo notturno da San Francisco. Quattordici ore e mezza dopo giunsi a Sydney ed entrai in un mondo diverso. Come molti americani, non dedicavo grande attenzione a un luogo in cui non ero mai stato. Gli australiani che avevo conosciuto negli Stati Uniti, con la possibile eccezione di Harry Godwin, riguardo al quale non ero ancora sicuro, erano tutti allegri ed espansivi, con una visione della vita semplice e accomodante, pronti alla conversazione e più che disposti a bere fino alle ore piccole senza alcuno sforzo apparente. Erano esuberanti avventurieri, gente tosta che di fronte al pericolo vedeva il proprio coraggio come qualcosa che nelle stesse circostanze avrebbe fatto chiunque. Era il minimizzare britannico senza il riserbo britannico. Era il popolo più piacevole del pianeta, e io non sapevo quasi niente del suo modo di vivere. L'Australia è più grande degli Stati Uniti. Delle ventidue ore di volo da Sydney a Londra, sei vengono impiegate ad attraversarla. È più grande degli Stati Uniti, ma con una popolazione che ammonta a poco più della metà di quella della California: diciotto o diciannove milioni di persone, delle quali una buona percentuale vive a Sydney o a Melbourne e gran parte delle altre nelle città della costa orientale. Gli australiani lo chiamano il paese fortunato perché, malgrado abbia combattuto alcune delle guerre della Gran Bretagna, non ha vicini ostili in agguato al di là di un mutevole confine in attesa di riprendersi una terra su cui hanno qualche dubbia rivendicazione. È un'isola, la più grande al mondo; un continente che galleggia nel temperato emisfero meridionale, dove l'aurora boreale spezza la solitudine dell'inverno e il Natale è un giorno estivo di dicembre. È il paese fortunato perché i primi che vi arrivarono, che fossero i detenuti in catene o gli ufficiali che amministravano la situazione a migliaia di chilometri da qualsiasi altra autorità superiore, costruirono una società senza gli oneri e i privilegi di un'aristocrazia terriera. Di sicuro era stato il paese fortunato per Harry Godwin, un orfano emigrato dall'Inghilterra che era arrivato via mare agli inizi della guerra ed era diventato uno degli uomini più potenti e influenti del mondo. La donna che venne a prendermi all'aeroporto mi parve vagamente familiare. «Ci siamo conosciuti a San Francisco», mi rammentò mentre cammina-
vamo verso la sua auto. «Era al Four Seasons a cena con Harry Godwin e Bryan Allen», dissi cominciando a ricordare. «Era il giorno del verdetto del processo Sinclair. Temo di non essere stato di ottimo umore. Ho detto cose che probabilmente non avrei dovuto dire, quanto meno non davanti a lei e a Harry». Rachel Burke sorrise. «Ha fatto quello che era necessario fare, e sono felice che l'abbia fatto. Stavo quasi per applaudire. Una volta il bastardo aveva cercato di violentarmi. Meritava tutto quello che ha detto, e se lo chiede a me molto di più». Lo annunciò in una sorta di allegro tono di sfida. Malgrado quello che le era successo, di sicuro non sembrava considerarsi una vittima. I suoi occhi erano fissi sulla piatta autostrada che stavamo percorrendo verso la città. Immaginavo che avesse intorno ai trentacinque anni. La sua non era una bellezza evidente o straordinaria, ma più le stavi accanto più sembrava graziosa, con una carnagione fine e delicata e due occhi notevoli per profondità e tranquillità. Notai che non portava una fede. Era sposata, stando a quello che mi aveva detto Harry Godwin, quando Robert McMillan l'aveva aggredita in un albergo di Sydney. Non avevo alcun diritto di chiederglielo, e avevo un'altra domanda più pressante da farle. «Come mai era lì? A quella cena? Sapeva che ci sarebbe stato anche McMillan? Oppure Bryan Allen se l'era portato con sé dopo la trasmissione?». Il tono incredulo della mia voce parve confonderla. «Intende dire per via di quello che aveva cercato di fare? Be', non aveva ottenuto quello che voleva, giusto? A volte gli americani non sembrano reggere bene l'alcol. Era stato volgare e fastidioso, mi aveva fatto delle proposte. Io gli avevo detto cosa pensavo del suo comportamento. Gli avevo detto che ero sposata... non lo sono più», aggiunse con una rapida occhiata di sbieco. «Gli avevo detto di smetterla, e questo gli aveva fatto perdere la testa. Aveva cercato di agguantarmi, strappandomi i vestiti e gridando cose, come dire, prive di qualsiasi immaginazione. E così io l'avevo fatto smettere. Non era successo altro. E quindi no, non m'importava che ci fosse anche lui a cena. In realtà avevo voglia di vedere cosa avrebbe fatto accorgendosi che c'ero anch'io, che Harry non era solo». Mi era sfuggito qualcosa. Quando aveva detto che l'aveva fatto smettere stava parlando dell'aggressione, del tentativo di stupro, ma l'aveva fatto sembrare semplice come riagganciare un telefono o declinare un invito scritto.
«L'aveva "fatto smettere"?». Sollevò il mento, e un sorriso di trionfo le brillò sulle labbra. «Ho una certa dimestichezza con l'autodifesa. Sono cresciuta con due fratelli. Ha mai notato come cambia in fretta lo stato d'animo di un uomo quando gli si dà una bella ginocchiata nelle palle? L'ultima cosa a cui il nostro amico Robert McMillan avrebbe voluto pensare era il sesso. Ma se lei vuole portarmi fuori a cena, sono libera», soggiunse senza nemmeno una pausa. Rise della mia espressione. «Non so se ha più paura di rifiutare o accettare. Fossi in lei, non mi preoccuperei troppo. Di solito sono ragionevolmente innocua», disse mentre il suo sguardo tranquillo e soddisfatto tornava sulla strada. 15 «L'America ha conquistato il mondo. Non ci sono più ideali, religioni, moralità. C'è soltanto la tecnologia». Seduto dietro il lungo tavolo rettangolare di cristallo che usava come scrivania, Harry Godwin mi scrutò con due occhi pigri e socchiusi. L'immenso ufficio d'angolo all'ultimo piano dava sul porto, dal famoso ponte di Sydney, dove un gruppo di coraggiosi turisti si stava arrampicando lentamente fino in cima, ai promontori color gesso che formavano lo stretto passaggio per il mare di Tasmania. «So cosa dicono tutti: che i responsabili della volgarizzazione della cultura e della corruzione della morale sono i tabloid, i network e tutto quello che noi produciamo». Godwin agitò la mano, divertito dalla finta bravata di un insetto che non sapeva di aver perso il pungiglione. «Di quale cultura parlino, non credo di saperlo. E corruzione della morale? Come? Dando alla gente quello che vuole vedere? Supponiamo che domani io chiuda il network. Pensa che ciò cambierebbe qualcosa? Non sono stato io a creare l'ossessione americana per il sesso, la violenza e la gratificazione istantanea: ho semplicemente imparato a capire dove stava andando - quello che la gente voleva - un po' prima degli altri». Roteò gli occhi. «Cultura! E a parlarne è gente che pensa che quella di un grasso teppista che inneggia in rima all'uccisione dei poliziotti sia un'espressione artistica, una creazione musicale non diversa da quelle di Mozart e Beethoven!».
Avevo trascorso tre giorni a discutere con Harry Godwin e alcuni dei suoi. Questa era una delle prime volte che parlavamo da soli. «E quanta musica classica possiamo aspettarci di vedere la prossima stagione sul suo network?», ebbi la temerarietà di chiedere. Harry Godwin era schietto, non aveva peli sulla lingua, ma era troppo potente, troppo importante perché la gente gli si rivolgesse allo stesso modo. Mi scoccò un'occhiata che doveva aver zittito più di una persona che aveva qualcosa da perdere dal suo malcontento, ma io lo ignorai. «Quanto Wagner, quanto Donizetti, quanto...». Balzò in piedi dalla sedia rotonda di acciaio e attraversò la stanza a grandi passi fino a una serie di scaffali di palissandro. Si sollevò in punta di piedi e prese un sottile volume dall'ultimo scaffale. «Non sono andato all'università», si sentì in dovere di dirmi mentre ne sfogliava le pagine. Si sedette sul grosso bracciolo di una squadrata poltrona di pelle nera che insieme ad altre tre circondava un tavolino di cristallo appena sotto le mensole piene di libri. «Non ho fatto un solo giorno di scuola in tutta la mia vita. Ma ho imparato a leggere molto presto. Me l'hanno insegnato i tipografi», soggiunse dopo aver trovato il punto che cercava. Nel rievocare la sua impresa giovanile si lasciò sfuggire una scintilla di orgoglio quasi infantile. «A quei tempi, molto prima della guerra, si componeva una lettera alla volta. Uno stampatore, anche se poteva aver cominciato come me, come un orfano privo di qualsiasi istruzione, imparava a fare una cosa che al giorno d'oggi gran parte delle persone presumibilmente istruite non solo non sa più fare, ma non considererebbe importante: leggere lentamente, con gran cura e precisione, non una parola ma una lettera alla volta. Conoscevo dei tipografi a quel tempo, uomini anziani che lo facevano da quaranta, cinquant'anni, in grado di ripetere a memoria interi brani, intere pagine di libri che avevano stampato anni prima, agli inizi della loro carriera. Li sentivo parlare delle loro letture, e se parlavano bene di un libro, e non succedeva spesso, lo cercavo e lo leggevo anch'io. Questo, per esempio». Rivolse una breve occhiata nostalgica al libro che reggeva in mano. «Uno di loro aveva composto la prima traduzione inglese. Sembra impossibile, vero?», soggiunse con un sorriso riflessivo. «Vivere così a lungo che qualcuno che conoscevi da ragazzo, un uomo che allora aveva probabilmente l'età che ho io adesso, potesse in gioventù aver composto un libro scritto da Tolstoj».
Aprì il libro alla pagina che aveva segnato con il pollice. «È questo che volevo che sentisse. È quello che volevo dire quando dicevo che non faccio che vedere dove sono dirette le cose, e che non sono responsabile del loro stato. È un brano scritto nel 1910, l'anno della morte di Tolstoj. «"La teologia medievale e la corruzione morale di Roma avvelenarono soltanto i rispettivi popoli, e pertanto solo una piccola porzione di umanità; oggi l'elettricità, le ferrovie e il telegrafo stanno corrompendo il mondo intero. Ognuno si appropria di queste cose, non può fare a meno di appropriarsene, e tutti soffrono alla stessa maniera, ugualmente costretti a cambiare il loro modo di vita. Ognuno viene messo nella situazione di dover tradire ciò che c'è di più importante nella sua esistenza, di tradire una concezione stessa della vita, di tradire la religione. Cosa dovrebbero produrre le macchine? Cosa dovrebbero trasmettere i telegrafi? Di cosa dovrebbero discutere le scuole, le università e gli accademici? Quali notizie dovrebbero essere trasmesse dai libri e dai giornali? Quale risultato dovrebbero ottenere milioni di esseri umani riuniti e soggetti a un potere superiore? A quale scopo gli ospedali, i dottori e i farmacisti dovrebbero prolungare la vita?..."». Dall'ombra di quella nicchia tappezzata di libri, Harry Godwin mi guardò attraverso la stanza lucida, sterile e soleggiata. «Tutti i libri, i libri seri, ne avevano parlato prima della Grande Guerra è quello che avevo imparato ascoltando i tipografi parlare dei libri che avevano letto lettera per lettera: il modo in cui la civiltà era stata cambiata dalla tecnologia e dalle macchine, il fatto che nessuno credeva più in nulla al di là dell'importanza dei beni terreni che era riuscito ad accumulare». Chiuse il libro e lo resse in grembo. Diede tre colpetti sulla copertina, attese un istante e poi ne diede un altro. «E guardi cos'è accaduto da allora, il modo in cui la tecnologia avanza nutrendosi di se stessa: il telegrafo rimpiazzato dal telefono; la radio seguita dalla televisione; la ferrovia praticamente esautorata dalle automobili, dai camion, dagli aeroplani, dai missili. Se la civiltà correva il pericolo di essere distrutta, se era già stata distrutta prima della Grande Guerra, cosa dovremmo dire adesso? Non lo so. Va al di là della mia comprensione. Tutto quello che so è che qualsiasi cosa sia stata scatenata sul mondo, ormai è troppo tardi per correre ai ripari. Il mondo pretende conforto, sicurezza, divertimento: tutto quello che Tolstoj pensava ci avrebbe reso meno umani. Forse aveva ragione. Lui era un grand'uomo, io no. Che sia qualcun altro a preoccuparsi di dove siamo diretti e di cosa significhi. Il mio lavoro
è semplicemente dare alla gente ciò che vuole, e se un giorno vorrà Mozart, Beethoven, Wagner e Donizetti, io glieli darò. Ma al momento vuole altri delitti e castighi, e se riusciremo a trovare un accordo io le darò lei». Rimise il volume di Tolstoj sullo scaffale più alto, dove l'avrebbe visto soltanto chi sapeva che era lì. «Venga con me», disse con noncuranza aprendo la porta e incamminandosi verso l'ascensore in fondo al corridoio. «La porto a pranzare nel mio posto preferito». Harry Godwin aveva un'auto molto costosa, una Bentley grigio perla, ma la guidava lui stesso. Non c'era alcuna limousine ad aspettarlo per portarlo dove voleva, nessun autista ad attendere di aprirgli la portiera. Quando visitava gli uffici di New York o San Francisco, sempre per lavoro, prendeva posto sui sedili posteriori di pelle e studiava alla luce di una lampada da lettura i dati di audience dei programmi e le proiezioni dei budget, i numeri cangianti che erano la linfa vitale della sua impresa, mentre qualcun altro guidava. Ma ora eravamo a Sydney, e Sydney era casa sua. Invece di dirigersi verso un ristorante nel centro finanziario della città entrò nel parco e seguì la strada tortuosa e costeggiata d'alberi fino a un promontorio, dove si fermò. Stringendo in mano un piccolo sacchetto di carta marrone, mi condusse lungo un sentiero fino a una cornice di roccia sotto l'ampio fogliame di un enorme albero con un grosso tronco attorcigliato su se stesso come una corda. «Mrs. Macquarie's Chair», spiegò Godwin dopo essersi seduto e aver aperto il sacchetto. Ne estrasse due panini avvolti nella carta oleata come ai vecchi tempi, il tipo di carta che, non essendo stata creata per aderire a ciò che copriva, si apriva non appena tiravi fuori il panino. «Può scegliere», disse in tono divertito. «Prosciutto e formaggio o prosciutto e formaggio». Diede un morso poco entusiasta al suo panino. Non si curava di cosa mangiava, a patto che non gli facesse perdere troppo tempo. «Si chiama "la sedia della signora Macquarie" perché qui, sul lembo estremo di terra affacciata sul porto, veniva a sedersi la moglie di Lachlan Macquarie, il governatore venuto dopo il capitano Bligh. Le dirò un segreto: è qui che venni anch'io quando arrivai a Sydney e per molto tempo anche in seguito. Fu la mia prima dimora australiana. Dormivo qui, tempo permettendo. Era molto meglio che passare le notti sul retro del vecchio magazzino di mattoni dove avevo trovato il mio primo impiego. E non dimentichi quanto fosse eccitante, per un ragazzo della mia età, negli anni
della guerra». Prendendo un altro morso del panino, indicò con il braccio l'insenatura che percorreva la costa alle nostre spalle sulla destra. Quattro navi della marina australiana erano ormeggiate alla lunga banchina. «Quella è Woolloomooloo. Allora c'erano molte più navi, americane, inglesi, che entravano e uscivano a ogni ora del giorno e della notte; e marinai ovunque. Vendevo giornali agli yankee che sbarcavano. Imparai in fretta ad annunciare le notizie dagli Stati Uniti». Lentamente, quasi fosse riluttante ad abbandonare i ricordi che gli erano rimasti del suo passato e delle sue origini, riportò lo sguardo non su di me, ma sulle acque placide e grigie che sciabordavano contro gli scogli sotto di noi. «Quando partii dall'Inghilterra non mi lasciai dietro nessuno. Non ho mai conosciuto mia madre o mio padre, non avevo parenti, ero troppo giovane e troppo povero per avere amici. Era tutta una grande avventura: venire qui, la guerra, la prima volta su una nave. Ma quando arrivai, mi sentii più solo che mai. Non c'era niente di familiare, nulla che conoscessi. Nella mia vita da orfano a Londra potevo anche non aver avuto molto, ma avevo imparato a farmi strada. Quando non hai genitori, quando vieni al mondo come un estraneo... non dico che lo consiglierei... ma ci sono certi vantaggi. Non hai aspettative, non ti passa mai per la mente che ci sia qualcuno su cui contare, e non pensi mai che qualcuno conti su di te. In questo senso, il mondo diventa una tua creazione: è quello che tu scegli di farne. «La signora Macquarie se ne stava qui seduta per ore. A cosa pensava guardando frangersi le onde dell'oceano, a quindicimila chilometri da casa e da tutto ciò che conosceva, sapendo che forse non sarebbe più tornata, che avrebbe dovuto passare il resto dei suoi giorni in questa terra piatta e inospitale circondata dall'acqua ma con pochissima acqua potabile, con un caldo torrido in estate e una quantità d'insetti e serpenti paragonabile all'Africa? È un miracolo che non sia impazzita, e forse l'ha fatto, anche se ne dubito». Mi guardò con un sorriso che, pur fingendo di imitare un'aria di superiorità, non era del tutto esente da un'intenzione più profonda. «Era una donna inglese, dopo tutto, e una donna inglese non si sarebbe mai concessa una tale autoindulgenza. Poteva anche essere sola, quaggiù, ma era pur sempre parte dell'Inghilterra». Terminò il suo panino, ripiegò con cura la carta oleata in un quadrato e la rimise nel sacchetto.
«È questa la verità, quello che voi americani fate così fatica a capire di noi. Avete dimenticato tutti i vostri antichi legami con la Gran Bretagna perché siete stati voi a reciderli. Ma noi non l'abbiamo mai fatto, e forse non lo faremo mai. Vede quel palazzo laggiù?», chiese indicando una grande casa bianca appollaiata sulle rocce sull'altro versante del porto, appena prima del Sydney Bridge. «È la residenza del governatore. Non è un museo. Abbiamo ancora un governatore, il rappresentante personale della regina. Eleggiamo il nostro governo, siamo una nazione indipendente, ma in un certo senso siamo ancora uno dei domini della regina. Le dirò la verità: se non fossi chi sono, se non dovessi occuparmi a tempo pieno di quest'impresa infernale, è il lavoro che mi piacerebbe: essere il governatore della regina, vivere in quella casa laggiù. Ne è passato di tempo da quando arrivai qui durante la guerra, quando Elisabetta era ancora una bambina e sul trono c'era suo padre, re Giorgio. «Io sono australiano, ma sono britannico fino al midollo. Quando arrivai qui mi sentivo solo, ma avevo ancora questo: la consapevolezza che ogni britannico, che fosse orfano o no, faceva comunque parte di quella famiglia. Amo la regina. Non per la pompa, o i palazzi, e nemmeno per la tradizione, anche se è una componente. È il fatto di avere qualcuno che ami e rispetti che ti insegna le cose importanti sul coraggio, sull'onore, sulla condotta corretta, sulle buone maniere, su come dovresti comportarti. Gli americani non ce l'hanno. Un tempo l'avevate, con alcuni dei vostri presidenti, ma ora non più. E il problema è proprio questo, non è così? Non avete alcun modello, nessuno che sia da esempio per tutti. È uno dei motivi per cui gli americani sono diventati così stupidi. Senza offesa», soggiunse senza alcun mutamento nel suo fare deciso ed equilibrato. «Ci sono le eccezioni. Ma nel suo insieme, a livello di quella che certa gente potrebbe ancora chiamare cultura, come la definirebbe se non stupidità istituzionalizzata? Ecco perché il mio network ha avuto tanto successo da voi», osservò senza scusarsi o rivelare il minimo segno che potesse trovarlo giusto. «Perché, secondo lei, c'è così tanta gente a cui piace guardare quello che noi le mostriamo? Perché la facciamo sentire a proprio agio riguardo a quello che è e a quello che pensa». Harry Godwin si alzò. Posandosi le mani sulle reni, si sollevò in punta di piedi come aveva fatto quando aveva preso quel libro nel suo ufficio. Rimase in quella posizione, tendendosi il più possibile verso l'alto, in equilibrio nel vento che soffiava dal porto e che faceva frusciare le foglie con il soffio secco dell'estate. Un sorriso storto e allusivo affiorò lentamente e gli
attraversò la bocca. «Ma pungolato da Albert, mi sono pentito. Invece di dare agli americani quello che gli americani vogliono vedere, questa volta proveremo a dar loro quello che dovrebbero sentire. Lei». Fece due piccoli balzi per vedere quanto in alto poteva arrivare, poi piantò i piedi saldamente a terra. «Albert era incavolato nero, ecco cos'era. Mi ha telefonato nel mezzo della notte, dannazione, per dirmi cosa pensava di quello che avevamo fatto. Ma immagino che lei lo sappia, no?». Le braccia incrociate sul petto, sferrò un calcetto a una radice dalle profonde nervature semisepolta nella terra. Rialzò il capo di quel poco che bastava per vedermi. Era sorpreso dalla mia espressione confusa, e si rese immediatamente conto che non avrebbe dovuto esserlo. «Non gliel'ha detto, vero? Avrei dovuto immaginarlo. Albert non andrebbe mai a raccontare una cosa simile a qualcun altro, specialmente quando ciò che ha fatto l'ha fatto per quel qualcuno. Mi ha chiamato subito dopo che Bryan Allen aveva cominciato i suoi attacchi quotidiani contro il vostro cliente, Sinclair. Mi ha detto che era maledettamente ingiusto, che il minimo che potessimo fare era darle la possibilità di illustrare il punto di vista dell'imputato. Ho pensato che fosse una buona idea. Il mio scopo non è condannare nessuno, innocente o colpevole che sia; il mio scopo è crearmi un pubblico. Se dare a entrambe le parti la possibilità di dire la loro contribuisce a farlo, sono favorevole». Mi tolse di mano la carta oleata, la piegò come aveva fatto con la sua e la infilò nel sacchetto. «Quella volta era arrabbiato, ma la sera della nostra cena, quando vi ho detto che avremmo prodotto una versione televisiva del processo che non ci lasciavano filmare, era addirittura furioso». «C'ero anch'io», gli rammentai, «e Albert non disse nulla. Ero io quello infuriato, ricorda?». «Temo di ricordare più di lei», replicò Godwin con l'aria di chi l'aveva scampata bella. «Dopo averla accompagnata, Albert è tornato all'albergo. Mi ha detto che il vostro cliente non era colpevole, e che se fosse stato condannato gran parte della responsabilità sarebbe ricaduta su gente come me. Ha detto che quello che stavamo facendo non era altro che un "linciaggio mediatico"... era una frase che avevo già sentito, ma non ricordavo dove. L'aveva detta lei? Era furioso, Albert. Ho temuto che potesse avere un infarto. Poi mi ha minacciato, e sapevo perfettamente che faceva sul se-
rio. Conosco Albert da quanti anni?... trenta, quaranta, e non l'avevo mai sentito minacciare qualcuno!». Albert non poteva aver fatto quello che diceva Godwin. Era l'uomo meno violento che conoscevo. E anche se fosse stato incline alla violenza, l'idea che alla sua età avesse potuto minacciare qualcuno era così assurda, così ridicola che non potei fare a meno di ridere. «Albert? Impossibile!». «Giuro su Dio. Ha detto che se non avessi provato a riparare mi sarei dovuto cercare un altro avvocato. Che in tutta coscienza non avrebbe potuto permettere che il nome del suo studio fosse associato al nostro. Il che mi ha ferito, glielo devo confessare, dopo tutti gli anni che abbiamo passato insieme». C'era un che di triste, di ironico e di un po' tragico nel pensiero che, avvicinandosi alla fine delle loro lunghe vite di uomini di successo, il denaro, dopo aver lavorato sodo per guadagnarlo, non significava niente al cospetto dei sentimenti feriti e dell'orgoglio amareggiato. «L'ha davvero minacciata?», chiesi sforzandomi di non ridere di nuovo. «È per questo che sono qui, perché voi due vecchi dissoluti possiate ridiventare amici?». «Ovviamente no. Lei è qui perché è una buona idea, una concreta possibilità commerciale. Se c'è un pubblico per uno come Bryan Allen, che pensa che chiunque venga arrestato sia colpevole, c'è un pubblico per Joseph Antonelli, che pensa che alcuni dei colpevoli non vengono arrestati e che dovrebbero essere loro a finire con il cappio al collo. È questo che vuole fare, no? Riaprire vecchi casi, a cominciare da uno dei suoi, rimettere in scena l'accaduto, le indagini della polizia, il processo, e mostrare come un innocente sia stato condannato e un colpevole se la sia cavata. Dia retta a me, se c'è una cosa che il pubblico gradisce più ancora del condannare qualcuno prima del processo è prendersela con chi ha sbagliato». Harry Godwin voleva parlare. Ci allontanammo dal promontorio e dalla sedia della signora Macquarie e seguimmo un sentiero che costeggiava l'acqua, solcata in entrambe le direzioni da decine di traghetti passeggeri diretti al teatro dell'opera e al ponte curvo d'acciaio. La baia era tranquilla, immota, serena, compresa nell'ampio cerchio di quella che dall'interno del parco verdeggiante pareva una laguna. Tagliammo attraverso il prato dei Giardini Botanici Reali e ci ritrovammo nel mezzo di quella che a un americano sembrava una strana vegetazione tropicale. Sopra di noi, appesi a testa in giù dai rami degli alberi spogliati dalla loro stessa voracità, pipi-
strelli marroni e pelosi, che non erano affatto pipistrelli bensì volpi volanti, sonnecchiavano indisturbati nel caldo pomeriggio. Il cartello appena dopo l'ingresso sul lato opposto invitava i visitatori, con un rovesciamento da Alice nel paese delle meraviglie, a camminare sull'erba. I giardini appartenevano a tutti coloro che vi entravano, e tu potevi usarli, amare i tesori che contenevano e farli tuoi con quel senso di amore e partecipazione. Era questo il messaggio del cartello, e sapendo ormai qualcosa della gente che viveva in quel luogo ci credevo. «È convinto che sia innocente questo giovane - e a sentire Albert brillante - Julian Sinclair? Ergastolo senza condizionale», soggiunse Godwin con palese disappunto. «Gli americani non conoscono limiti in niente, nemmeno, o forse soprattutto, nella vendetta. Siete peggio degli italiani! Chiedo scusa, non volevo offenderla», disse con fare concreto. Si fermò, sorrise e si voltò verso di me. «Un mio amico di Roma, un uomo che conosco quasi da altrettanto tempo di Albert... un giorno eravamo in un ristorante, e lui mi indicò una persona che aveva sempre odiato. Quando gli chiesi perché lo odiasse, lui non provò alcun particolare imbarazzo ad ammettere che, parole sue, lo odiava da così tanto tempo che non se ne ricordava più. In Australia non abbiamo la pena di morte, e sarebbe un evento raro se qualcuno venisse mandato in prigione senza la possibilità di uscirne». Riprese a camminare, avanzando all'andatura decisa che aveva assunto fin dall'inizio. Harry Godwin faceva ogni cosa con un'attenzione speciale all'efficienza. «Ed è sicuro che sia stato Robert McMillan? Abbastanza sicuro da volere che io le copra le spalle se la citasse per diffamazione? Non credo che lo farà. Sarà anche un americano, ma non è uno stupido. Non è per niente stupido. Non intenterà una causa che sa di non poter vincere. Ha cercato di violentare Rachel, e penso che sia sufficiente per parlare di abuso». Stavo cominciando a far fatica a stargli al passo. Faceva sempre più caldo, un calor bianco che diventava rapidamente debilitante, anche se a quanto sembrava non per Harry Godwin o per qualsiasi altro australiano che incrociavamo. Uomini di mezza età correvano a torso nudo, respirando a malapena. Donne a capo scoperto spingevano passeggini con bambini imberrettati. In un ampio prato si stava svolgendo una partita di cricket, e l'applauso educato di una dozzina di spettatori si levò quando un lancio con il braccio teso sopra la testa fece giungere la palla in porta con un rimbalzo. «Da quello che mi ha detto Rachel, non ha fatto molta strada».
Giunto sotto i rami estesi di un baniano con uno strano tronco ritorto come quello che sovrastava la vecchia sedia della signora Macquarie, Godwin trovò una panchina libera. I suoi occhi scrutavano il profilo della città, che incombeva su di noi a pochi isolati di distanza. La giacca, che aveva tenuto sul braccio mentre camminava, ora stava di traverso sulle sue ginocchia. «Da quello che le ha detto Rachel, probabilmente pensa che McMillan sia quello che ne è uscito peggio. Ma se l'avesse vista quella sera, la bocca piena di sangue, non ne sarebbe stato così convinto. Gli ha dato una bella ginocchiata, questo è vero, e ne va fiera, ma il maledetto bastardo gliel'ha fatta pagare. L'ha malmenata ben bene. Al momento non ci avevo pensato, ma dopo quello che lei mi ha detto, con il senno di poi immagino che se non fosse accorso qualcuno avrebbe potuto picchiarla a morte». Harry Godwin aveva quasi la stessa età di Albert Craven - se non mi sbagliavo, intorno ai sessantotto anni - ma in lui c'era una tenacia fisica che Albert non aveva mai posseduto. Era la differenza fra l'essere nati in una situazione di discreto agio e ragionevoli privilegi e l'essere nati con niente, costretti fin dal primo giorno a lottare per qualsiasi cosa. Era la differenza fra quello che ciascuno di loro avrebbe fatto se fosse capitato sulla scena e avesse scoperto cosa Robert McMillan aveva fatto a Rachel Burke. Albert Craven avrebbe chiamato la polizia e, se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe somministrato a McMillan il predicozzo più severo che avesse mai fatto; Harry Godwin l'avrebbe picchiato fino a fargli perdere i sensi, o sarebbe stato malmenato per averci provato. «Sono stato io a far sì che McMillan venisse a cena quella sera. Sarei dovuto tornare a Sydney, ma quando ho scoperto che Allen aveva fatto in modo di averlo in trasmissione quando la giuria avesse emesso il suo verdetto ho deciso di trattenermi qualche giorno in più. È stato a quel punto che ho fatto venire Rachel. Volevo vedere cosa avrebbe fatto McMillan, come avrebbe reagito, quando fosse entrato al Four Seasons aspettandosi di vedere solo me e trovandovi anche Rachel». Un cacatua strillò dai rami più alti dell'albero. Impassibile, un ibis bianco e nero proseguì ad affondare il suo lungo becco ricurvo attorno a un fico grigio e nodoso pochi metri più in là. Stirando le gambe in avanti, accavallai i piedi. Rividi il volto di McMillan, la provocazione silenziosa nei suoi occhi quando mi aveva stretto la mano. «Non ha reagito affatto, vero?», domandai osservando altri vocianti cacatua che si univano al primo in cima all'albero. «O non la ricordava nem-
meno, oppure ricordava appena di averla conosciuta». Harry Godwin sembrò soppesare le mie parole per qualche istante. «Ha ragione. Non c'è stata alcuna reazione, quanto meno non la reazione che mi sarei aspettato. Anche se ora che ne stiamo parlando non so bene che reazione mi aspettassi. Cosa avrebbe potuto dire? Cosa avrebbe potuto fare, tranne fingere che non fosse successo niente? Immagino che io avrei fatto così, se mai fossi stato così stupido da cacciarmi in una simile situazione. Ma c'era qualcosa che andava al di là di quello che lei descrive, e glielo devo dire, mi ha convinto che aveva ragione lei, che il suo cliente, Julian Sinclair, era innocente e che era stato McMillan a uccidere la moglie. Sulle prime, fu la strana espressione nei suoi occhi. Non riuscivo a definirla esattamente, tranne che mi sembrava bizzarra e fuori luogo. La giuria aveva appena emesso il verdetto, l'uomo accusato di avere ucciso sua moglie era stato giudicato colpevole. Credevo che la sua fosse fatica, l'aria febbrile che le persone assumono quando sono arrivate al punto estremo a cui le ha portate l'adrenalina. Prima il processo, poi il verdetto e infine l'intervista di un'ora: basterebbe a prosciugare le risorse interiori di chiunque. Ma già allora sapevo che non era così. Quando abbiamo finito di cenare, McMillan ha fatto una cosa incredibile: ha chiesto a Rachel se voleva andare a bere qualcosa con lui. Per l'amor del cielo! Aveva appena finito di dire al mondo intero che non aveva mai amato nessuno come aveva amato sua moglie Daphne, e che sapeva che non avrebbe mai più potuto amare tanto, e dal momento in cui vede Rachel tutto quello a cui riesce a pensare è come fare per portarsela a letto. Ecco cosa significava quell'occhiata. Era lascivia e qualcosa di più, qualcosa di profondo e inquietante che aveva a che fare con la sottomissione di una donna». «E cos'ha fatto quando Rachel ha detto di no?». «Non ha detto di no. Gli ha chiesto se pensava che gli sarebbe andata meglio "la seconda volta che avesse provato a violentarla"». «Buon per lei. E lui cos'ha risposto?». Un'espressione di disgusto attraversò il volto di Harry Godwin. «Ha sorriso, lo stesso sorriso, per quel che ricordo, che aveva rivolto a lei: sicuro di sé, come se avesse tutto sotto controllo. L'ha guardata in faccia, o meglio l'ha attraversata da parte a parte. "Non era quello che volevi?", ha chiesto con quel sorriso insopportabile ancora sulle labbra». Si alzò e si guardò a lungo intorno con espressione truce e determinata. «Torniamo in ufficio e diamo gli ultimi ritocchi al nostro accordo. Mi piacerebbe che lei facesse una trasmissione regolare invece che un episo-
dio ogni tanto, ma la faccia: forse dopo averne avuto un assaggio cambierà idea. Dica pure quello che vuole di Robert McMillan e di chiunque altro, ma specialmente di lui». Mi scoccò un'occhiata d'intesa. «E se ha qualche dubbio riguardo a fin dove potrà spingersi, può sempre usare Bryan Allen come esempio di ciò che il network pretende in fatto di moderazione». 16 Trascorsi tre settimane a Sydney, e vi sarei rimasto più a lungo se non avessi dovuto rientrare a San Francisco per un processo. Dietro l'invariabile allegria degli australiani c'era qualcosa di triste e misterioso che, in quanto estraneo, non capivo. Era forse l'assenza di quello che noi americani davamo quasi per scontato, un futuro di grandi aspettative e un passato che ci faceva lottare con le nostre stesse imperfezioni? Gli australiani sembravano vivere più nel presente, e forse per questo parevano godere maggiormente di ciò che avevano. Sarebbe stato difficile immaginare che gli stridenti, volgari talk-show televisivi che Harry Godwin aveva reso così popolari in America potessero trovare un pubblico nel paese che lui chiamava casa. «E adesso l'America avrà la fortuna di avere la trasmissione di Joseph Antonelli. E chi dice che Harry Godwin sta cercando di rovinare la civiltà americana?», scherzò Albert Craven illuminandosi in volto. Sprofondato nella soffice poltroncina imbottita dietro la sua enorme scrivania, le mani diligentemente giunte in grembo, guardava fuori dalla finestra mentre un raggio smorzato di sole penetrava la nebbia del mattino. «Quando comincerai?», chiese ancora sorridendo della propria battuta. «Prima dovranno trovare un titolo», risposi. «E se le discussioni che ho sentito fra quelli che chiamano i loro "creativi" sono un'indicazione, potrebbero impiegarci anni. E no, non si chiamerà "Antonelli Show". Non lo hanno detto, ma credo che lo trovino troppo siciliano. Vogliono qualcosa che stabilisca un collegamento immediato con l'argomento della trasmissione». «Qualche idea?». «Io? No. Ma la migliore che ho sentito l'ha suggerita una sera una del loro ufficio stampa mentre bevevamo qualcosa in un pub: "Quelli che li hanno fregati". Mi è parso che avesse un qualcosa», dissi mentre il viso di Albert, deliziato, si tingeva di un rosa acceso. «Ha detto davvero così? Con l'accento australiano? Come Eliza Doolittle
in My Fair Lady? "Quelli che li hanno fregati"! Fantastico!». «Harry e io apprezziamo le espressioni che sembrano quelle della gente reale», dissi scoccandogli un'occhiata di sbieco. «Harry e tu? La gente reale?». Albert rovesciò la testa all'indietro e inarcò le sopracciglia. Un'espressione di enorme divertimento gli riempì gli occhi mentre ruotava sulla sedia e mi fissava. «Con quanta rapidità abbandoniamo i nostri standard, quando si tratta di ottenere fama e fortuna in televisione». Si drizzò sulla sedia e cambiò espressione. Infilò la mano nel primo cassetto sulla destra e ne estrasse una busta già aperta. La picchiettò sulle dita. «Non avrei dovuto aprirla, ma è arrivata mentre eri via, e visto il mittente...». Senza aggiungere altro mi porse la busta. Proveniva da San Quentin. «Vuole vederti», spiegò. «Non dice perché. Ma usa una curiosa espressione, scrive che vuole vederti "un'ultima volta". Cosa intende dire, lo sai?», domandò con un'espressione preoccupata nei dolci occhi azzurri. Aprii la lettera e la lessi. A giudicare dal tono, mi parve che la risposta al quesito di Albert andasse cercata nella moralità e nell'educazione quasi arcaiche di Julian. Stava scontando l'ergastolo per un omicidio che non aveva commesso, e temeva di avermi ferito. Ripiegai la lettera, la rimisi nella busta e, visto che era indirizzata a me, l'infilai in tasca. «Julian teme di essere stato un po' brusco quando sono andato a visitarlo. Per quanto riguarda il resto, il fatto che mi voglia parlare di un'altra cosa, non saprei. Ma sono lieto che abbia scritto. Voglio raccontargli cosa ho fatto con Harry Godwin, cosa cercherò di fare per stanare McMillan. Chiamerò San Quentin e fisserò un colloquio per sabato, o appena me lo permetteranno». Di lì a meno di un'ora dovevo essere in tribunale. Ero quasi alla porta quando mi venne in mente una cosa. «Hai avuto modo di controllare il passato di McMillan a Stanford?». «Sì. Non c'è molto. Era quello che ci si poteva aspettare. Aveva troppi soldi per doversi preoccupare dei suoi voti. Erano leggermente superiori alla media, ma l'ultimo anno, quando si fidanzò, vi fu un notevole miglioramento. Sembra che facesse sul serio, e non c'è dubbio che quando Robert McMillan si concentrava su una cosa la faceva bene. È diventato un donnaiolo e poi un assassino, è vero, ma non è mai stato uno stupido. Ma c'è un'altra cosa», soggiunse Albert mentre tornavo a voltarmi verso la porta.
«Ha un elemento in comune con Julian: tirano entrambi di scherma. L'ultimo anno a Stanford, McMillan era il capitano della squadra. Ma Julian ha cominciato solo molto più tardi, no? Probabilmente mentre studiava non aveva tempo, essendo costretto a lavorare». Erano passati quasi quattro mesi dal giorno in cui ero ripartito da San Quentin quasi certo che non avrei più rivisto Julian Sinclair. Era ormai chiuso in carcere da più di mezzo anno. Ricordavo che quando ero giovane gli uomini più anziani mi dicevano che le giornate trascorrevano più in fretta quando te ne restavano di meno; che gli anni autunnali si spegnevano nella luce morente mentre la lunga notte invernale attendeva appena dietro con un gelido sole. Ma Julian Sinclair aveva ancora l'età in cui il futuro ti bisbigliava promesse d'immortalità all'orecchio, in cui tutto ciò che avevi sempre sognato, che avevi sempre desiderato, ti chiamava ancora con il sorriso del tuo successo. Più di mezzo anno in prigione: doveva sembrargli che fosse trascorsa una vita da quando era libero. Quando la guardia mi fece entrare nella biblioteca del carcere, Julian stava spingendo un carrello carico di libri. Si fermò dandomi la schiena e con lenti, precisi movimenti cominciò a riporre sugli scaffali una dozzina di grossi volumi. Presi posto a uno dei cinque o sei tavoli sparsi nello spazio aperto fra gli scaffali dei volumi di giurisprudenza a un'estremità dello stretto edificio e la sezione principale della biblioteca. La struttura dava sul cortile. Le finestre sul retro si affacciavano sul campo da baseball e, oltre le mura del penitenziario, su un'insenatura della baia. La costruzione in sé non era quella che ci si sarebbe aspettati di trovare in un carcere. Sei enormi travi di legno spesse quasi un metro e fissate alle estremità con tiranti di ferro davano al soffitto a spioventi l'aspetto di una baita di montagna o di una scuola rurale. Un murale di Yosemite di due metri e mezzo per tre e mezzo, dipinto da un detenuto ormai morto e dimenticato da tempo, decorava la parete più lontana. Un prigioniero con uno strano tatuaggio con tre lettere disse qualcosa a Julian, poi ascoltò la sua risposta con rispettosa attenzione. Altri due, entrambi ispanici, si guardavano con profondo, ostile sospetto aspettando il loro turno per chiedere qualcosa al professore di diritto diventato aiuto bibliotecario. Julian si rivolse a entrambi. Ero troppo lontano per udire quello che diceva, ma c'era una certa severità nella sua espressione, come quella di un genitore o di un insegnante di fronte a due piccoli lavativi. Debitamente rimproverati, i due abbassarono gli occhi a terra e alla fine della sua predica annuirono. Solo allora Julian diede ascolto alle loro domande.
Se l'avessi visto fuori da quel triste luogo l'avrei trovato stanco, distratto, come se avesse trascorso troppe notti in bianco al lavoro su un documento da finire. Ma lì, negli spazi ristretti del carcere, la sua espressione sembrava severa, ascetica, l'effetto di un cambiamento permanente. Non era l'espressione di chi si era rassegnato alla prigionia. C'era un che d'indomabile e invincibile dietro il suo sguardo. Mi scorse con la coda dell'occhio proprio mentre stava finendo di rivolgersi al secondo ispanico. Non sorrise, non mi rivolse un cenno di saluto né diede segno di avermi riconosciuto. Tornò a girarsi verso gli scaffali e ripose gli ultimi due libri. «Grazie di essere venuto», disse in tono stranamente formale quando, un minuto dopo, si sedette al tavolo davanti a me. Sulle prime non capii quella strana riservatezza, il modo in cui invece di guardarmi in faccia continuava a muovere gli occhi in ogni direzione. Sentii che cominciavo a irrigidirmi anch'io, assumendo il ruolo dell'avvocato che fa la sua doverosa visita in carcere, dimenticando che eravamo stati amici, e più ancora che lui era stato una delle poche persone che ammiravo e per cui, volendo essere sinceri, provavo una punta di invidia. Ma poi capii: era imbarazzato. La prima volta che ero andato a trovarlo non l'aveva mostrato, ma allora era appena arrivato. Non aveva ancora avuto tempo di rendersi del tutto conto delle implicazioni di ciò che era diventato. Era come ritrovare qualcuno che non vedevi da anni, qualcuno che quando l'avevi visto l'ultima volta aveva tutto ciò che un uomo poteva desiderare, e scoprire che era diventato un senzatetto. Sapevo che era meglio non dirgli che il cambiamento non era importante o pronunciare qualche altra parola di conforto o rassicurazione, parole che, pur con tutte le migliori intenzioni, non facevano altro che rammentare a chi era caduto quanto in basso fosse caduto. «Quel tizio con cui stavi parlando aveva uno strano tatuaggio: "NLR". Sono le sue iniziali?». Julian si ravvivò. Come se fosse sbalordito dall'idiozia del mondo, scosse lentamente la testa. «Se glielo chiedessi, ti direbbe che sono le iniziali di sua madre. Poi ti direbbe che il fatto che cento altri detenuti abbiano madri con le stesse iniziali non è che una coincidenza. NLR significa "Nazi Low Riders". E loro non sanno nemmeno cosa significa, tranne che sono bianchi, razzisti e orgogliosi di esserlo. Bizzarro, no? Aggirarti come un pavone per il carcere rivendicando la tua superiorità, e gli unici a crederci sono gli stupidi come
te. Ma non pensare che in prigione gli odi siano monotoni come il semplice razzismo. Hai visto quei due ispanici? Ho dovuto dire che se volevano che li aiutassi con i loro appelli avrebbero dovuto accantonare le loro stupide animosità. E non è facile come potrebbe sembrare», soggiunse mentre i suoi occhi diventavano sempre più svegli e incuriositi. «Hanno entrambi il dovere di prendersi a pugni o a coltellate ogni volta che entrano in contatto. Sono nemici giurati. E perché? Perché uno viene dalla zona nord di Fresno e l'altro da quella sud. È la linea di confine, non solo per Fresno ma per l'intera California. È come nella maggior parte delle dispute storiche: nessuno sa perché la linea è stata tracciata proprio lì, o anche soltanto perché è stata tracciata una linea. Probabilmente il motivo è che i detenuti bianchi e neri potevano odiarsi a vicenda, e che gli spagnoli si sentivano esclusi. Uno di loro magari si è detto: "E va bene, se non possiamo combattere contro di loro, combatteremo fra noi". Sono come ragazzini che si dividono prima di una partita: "Voi da quella parte, noi da questa"». «Ma si rivolgono tutti a te?», domandai osservando come la sua fervida intelligenza gli facesse scordare qualsiasi altra cosa. «Solo quelli che hanno qualche questione legale che pensano debba essere esplorata; quelli che non hanno un avvocato, o che non si fidano di quello che hanno». Stava cominciando a rilassarsi. Chiuse la mano destra sul braccio sinistro, massaggiandosi con il pollice. Mi guardò senza sentire il bisogno di distogliere gli occhi. «Molti di loro non dovrebbero nemmeno essere qui. Non nel senso che non abbiano fatto qualcosa per cui meritano di essere puniti», soggiunse liquidando l'argomento con un rapido gesto della mano. «Ma alcuni non avrebbero dovuto essere puniti con sentenze così severe. Giudici incompetenti e avvocati peggio di loro. È criminale», disse con deliberata ironia, «quello che succede là fuori in certi casi. Ti spinge a chiederti chi siano stati i loro insegnanti, vero?», proseguì divertito dalla duplice ironia della propria situazione. La luce rimase qualche altro istante nei suoi occhi, poi cominciò a spegnersi. La sua espressione divenne pensosa, seria, intensa. L'imbarazzo era scomparso, e non sarebbe più riemerso. «Quando ti ho scritto, non sapevo se saresti venuto». Fece una sorta di gesto disperato e impotente, come fosse diventato troppo consapevole di quanto era facile abituarsi alla disonestà. «No, non è vero. Sapevo che saresti venuto. Ma non sapevo se l'avresti fatto volentieri. Non avevo alcun
diritto di dirti le cose che ti ho detto l'ultima volta che ci siamo visti. Quando ti ho detto che non volevo che tu venissi più a trovarmi a meno che non te lo chiedessi io, credo tu abbia capito che pensavo di dover tagliare i ponti con l'esterno per poter sopravvivere qui dentro. Suppongo di aver sempre avuto la tendenza a drammatizzare». Un sorriso pensoso e pieno di una strana nostalgia gli percorse la bella bocca. Era l'espressione che spesso si vedeva sui volti di uomini molto più anziani mentre ripensavano agli anni della giovinezza, gli anni in cui si prendevano molto sul serio, e vi scorgevano gli inizi della triste commedia della loro vita. «Quando sei giovane, è facile sognare finali tragici...». Seduto rilassato sulla sedia, le mani giunte sul tavolo davanti a sé, Julian si guardò le lunghe dita affusolate. "Quando sei giovane": le parole echeggiarono nella mia mente, vuote, false, ridicole. Stava ripensando alla sua vita come se fosse vecchio, decrepito, come se il ricordo di quello che era stato fosse l'unico modo per ricordare chi era, e aveva poco più di trent'anni! Era questo il lato davvero infernale di quel luogo, del dover scontare un ergastolo senza condizionale: il fatto che tutti i giorni erano uguali, che non facevi che rivivere sempre lo stesso giorno, che l'unica cosa che eri in grado di ricordare era l'esistenza che si era interrotta il giorno in cui eri entrato? «Ti ho chiesto di venire perché ho bisogno di un favore», disse Julian sporgendosi in avanti. «Ho bisogno che qualcuno mi faccia da esecutore testamentario. Non ho parenti, non ho amici a cui chiederlo, e mi domandavo se tu sei disposto a farlo». «Il tuo esecutore testamentario? In caso di morte? È questo che mi stai chiedendo?». «Sì, esattamente. Temo di essermi già permesso di usare il tuo nome. Posso sempre cambiarlo», si affrettò a precisare. «Ma c'erano dei moduli che ho dovuto compilare. Abbastanza semplici, per la maggior parte: parenti prossimi, la persona da informare se ti succede qualcosa in prigione, se hai un'emergenza medica o se muori. Qualcuno dev'essere informato. Qualcuno deve poter decidere cosa fare delle spoglie, cose simili. Ti dispiace?». Si spostò sulla sedia, appoggiò il braccio più vicino sullo schienale e scosse la testa. «Il mio primo giorno nella sezione generale, il primo giorno in cortile, uno dei russi mi ha aggredito con una forchetta affilata. I russi hanno la re-
putazione di essere i più stupidi, qui dentro. Per mia fortuna, lui non faceva eccezione. Voleva dimostrare quanto era duro, quanto poteva essere cattivo, e così invece di pugnalarmi alla schiena mi ha aggredito di fronte. Non ho dovuto fare altro che aspettare che tirasse indietro il braccio e si lanciasse in avanti. Era così sbilanciato che quando mi sono scostato mi è passato accanto ed è atterrato di faccia. Non mi ha nemmeno sfiorato, e invece si è ficcato la forchetta nello stomaco. Deve avergli fatto un gran male. «L'avrebbero rinchiuso in isolamento, quella che qui chiamano segregazione amministrativa, e forse anche accusato di tentato omicidio. Ma io ho raccolto la forchetta e me la sono nascosta nei pantaloni, mentre due degli altri lo rimettevano in piedi e lo aiutavano ad allontanarsi. Cos'altro potevo fare? Lasciare che lo prendessero e lo mettessero in isolamento, che lo processassero per un altro crimine da aggiungere alla sua sentenza?». I suoi occhi si socchiusero, facendosi più intensi. «Lasciare che rimuginasse sul fatto che aveva fatto la figura dello stupido, che aveva cercato di uccidermi e aveva fallito? Lasciare che passasse tutto quel tempo a programmare la sua vendetta? Non aveva niente contro di me: non mi aveva mai visto in vita sua. Ero semplicemente il nuovo arrivato in cortile, qualcuno da usare per costruirsi una reputazione. E così l'ho salvato, e in questo modo ho salvato anche me stesso. Il motivo è assai semplice. Molti di quelli che sono qui hanno imparato già da tempo, nelle strade, che l'unica legge della sopravvivenza è uccidere chiunque abbia a sua volta cercato di ucciderti. Quello che invece hanno imparato da ciò che ho fatto è che nel mio caso le regole della vendetta non valgono. Che voglio soltanto essere lasciato in pace. Curioso, non trovi?», domandò con un'occhiata intensa e penetrante. «Anche fra i peggiori criminali vige un basilare senso di giustizia. Un uomo ha cercato di uccidermi. Invece di vendicarmi, io l'ho aiutato a nascondere il suo crimine. E adesso tutti, e specialmente quel russo, si sentono in dovere di proteggermi». Forse aveva ragione, ed era stato un senso di giustizia ad aver provocato quel cambiamento nel modo in cui veniva trattato lì dentro, ma io sospettavo che si trattasse di qualcosa di ancora più elementare. Julian era diverso. Dovevano essersene accorti l'istante in cui avevano visto come aveva reagito, come si era trasformato senza la minima esitazione in uno come loro, e migliore di loro, diventando per così dire complice del proprio omicidio. Dopo una cosa simile gli avrebbero affidato di tutto, specialmente le loro vite.
«Quando ho cominciato a prendere lezioni di scherma, non avrei mai pensato che mi avrebbero salvato la vita». Sulle prime credetti di non aver udito bene. «Le lezioni di scherma ti hanno salvato la vita?». «Equilibrio, agilità, anticipo della mossa successiva. Quando il russo mi si è lanciato contro, ho visto tutto al rallentatore. Era quasi divertente, quant'era maldestro. Una rotazione, un rapido passo indietro e lui è finito a faccia in giù. Penso che sia stato questo l'unico motivo per cui l'ho aiutato, per cui ho nascosto l'arma: era stata una sfida così impari. A proposito», soggiunse mentre gli brillavano gli occhi. «C'è una cosa che volevo chiederti. Ricordi l'inizio del processo? Credo che fosse la tua dichiarazione di apertura: ricordi quello che dicesti sul modo in cui veniva stabilita la colpevolezza o l'innocenza nel processo per ordalia? Afferrando un pezzo di metallo rovente e vedendo come guariva la piaga, o venendo gettato in acqua per vedere se ti dimostravi innocente annegando? Mi prestasti il libro di Maitland, ricordi?». Fece una pausa e si grattò la testa. «Te l'ho restituito, vero? Sì? Bene. Ma non ho mai avuto l'occasione di parlarti di una cosa in quel libro che aveva attirato la mia attenzione. C'era un altro tipo di processo per ordalia, un altro modo di "affidarsi al cielo". Ricordi il processo per duello? Se un uomo veniva accusato di un crimine, diciamo di omicidio, aveva il diritto di sfidare il suo accusatore, e cioè a volte il testimone, colui che sosteneva di sapere che era stato lui. L'accusatore gli dava del bugiardo, lo sfidava a lasciare che fosse Dio a decidere in suo favore e accettava la sfida, e i due combattevano fino alla morte. La mia domanda è questa: se avessi sfidato Robert McMillan, se avessimo combattuto fino alla morte, in un duello con le pistole o con...». «Era il capitano della squadra di scherma di Stanford», lo interruppi, coinvolto per un istante dal suo strano, travolgente entusiasmo. «Sì, lo so. Daphne me l'aveva raccontato». Guardò oltre le mie spalle, lo sguardo cupo e minaccioso. «Era una delle cose di cui gli piaceva parlare: quanto era bravo un tempo». Tornò a guardarmi. «Hai visto come l'ha pugnalata, la forza che ha impiegato. Non ha usato soltanto la mano e il polso, ma anche il braccio e la spalla. Quando l'ha uccisa, ha messo in pratica tutto ciò che sapeva». Non ci avevo mai pensato. Finché non me l'aveva detto Albert Craven, non sapevo che Robert McMillan fosse addestrato, e men che meno esperto, nel difficile uso di un coltello o di qualsiasi altro oggetto appuntito. Avrei potuto farne uso al processo, sostenendo che non aveva ucciso sua
moglie in preda a una crisi di rabbia bensì a sangue freddo, con vendicativa precisione? Perché Julian non me l'aveva detto? Non l'aveva considerato importante oppure non gli era venuto in mente? «La questione non è tanto se la legge lo permetterebbe, visto che il duello è considerato reato, quanto quale sarebbe la punizione se due uomini decidessero di loro spontanea volontà di combattere fino alla morte. Il sopravvissuto verrebbe accusato di omicidio volontario o colposo? O ancora più difficile», soggiunse intrecciando le dita dietro il collo e studiandomi con attenzione. «Supponiamo che Robert McMillan, colpevole di omicidio, combattesse contro di me e venisse ucciso. Lui ha assassinato Daphne, mentre io ero innocente; ma invece di proteggere me, la legge ha protetto lui. Sono ancora colpevole di omicidio volontario, o anche soltanto colposo, se dopo aver esaurito tutti i rimedi legali ho rivolto il mio ultimo appello, quell'appello al cielo un tempo così famoso? La giuria mi condannerebbe basandosi sui dati di fatto? Oppure pensi che, malgrado ciò che dice la legge, potrebbe decidere che esiste qualcosa di superiore?». Julian Sinclair era un prigioniero, condannato a passare il resto dei suoi giorni in carcere, eppure la faceva sembrare non solo una realistica possibilità, ma anche una bizzarra eventualità il cui verificarsi dipendeva soltanto da lui. Mi rammentai che era tornato in una biblioteca legale, anche se piccola e limitata come quella, e che aveva passato anni nelle aule da entrambi i lati della cattedra affrontando questioni legali che probabilmente non avrebbe incontrato nemmeno in due intere carriere legali. E così sorrisi e fornii la mia analisi accademica di quella remota, improbabile possibilità. «Immagino che una giuria sarebbe più che comprensiva». «C'è mai stato un caso simile?». «Non me ne viene in mente nessuno, anche se vi sono casi in cui l'imputato, dopo aver sopportato anni di abusi, viene prosciolto dopo avervi messo fine con quello che da qualsiasi altro punto di vista è un omicidio. Ma riguardo alla tua... ipotesi? Posso soltanto dire che sarebbe un processo interessante, senza precedenti». Julian sorrise e dissentì, educatamente ma con fermezza. «Ci saranno stati casi simili: in Francia, dove il duello era ancora praticato malgrado fosse illegale. Mi chiedo come lo affrontassero, quale fosse la pena, sempre che venisse punito». Indicò gli scaffali di libri alle sue spalle con un gesto della mano. «Non è una brutta biblioteca, per le sue dimensioni, ma ci sono soltanto casi americani. Qui non potrei mai trovare la risposta. Ma
a Berkeley potrei trovarla, ne sono sicuro». L'eccitazione nei suoi occhi mentre parlavamo delle minuzie di un'antica, dimenticata legge straniera cedette il posto alla composta consapevolezza delle sue attuali condizioni. «Ho sempre dato per scontato il fatto di avere a mia disposizione tutto quello di cui avevo bisogno: la scuola, la biblioteca, la gente con cui parlare. E ora la sera guardo in quella direzione...». «La puoi vedere? La tua cella è sul lato che dà sulla baia?», chiesi quasi allarmato da quella che mi pareva la crudeltà supplementare dell'inaccessibile vicinanza della libertà e della vita che aveva conosciuto. «Non dalla mia cella, ma dalle scale, quando salgo o scendo. Mi fermo sempre un attimo e guardo da quella parte. Mi fa pensare a tutte le cose che voglio fare. Sono all'ultimo livello della Sezione Nord, al quinto piano. Siamo in mille, duecento per piano, due uomini in ogni cella con un soffitto alto a malapena come me, larga un metro e mezzo e lunga a essere generosi due e mezzo. Io condivido la mia con un vecchio che è qui da quasi mezzo secolo e che non farebbe del male a una mosca. Ha ucciso la moglie in un momento di follia: un giorno è tornato a casa prima e l'ha trovata a letto con un altro. Aveva quel senso dell'onore all'antica, l'idea che una donna che aveva fatto una cosa simile al marito non meritasse di vivere. Avrebbero potuto rilasciarlo in libertà vigilata e non avrebbe più fatto del male a nessuno. Come ti ho detto prima, gran parte di quello che accade nel diritto penale è criminale. Ma lui è una buona compagnia, anche se passa metà della notte a tossire. È la vecchiaia, immagino. Ma sì, quando sono sulle scale riesco a vedere l'altro versante della baia. Vedo casa mia, o meglio il punto in cui si trova sul fianco della collina, quasi in cima. È troppo lontana per distinguerla dalle altre. È proprio questa vista a farmi andare avanti, la consapevolezza che là fuori ogni cosa è la stessa, che sta aspettando che io esca». Era quasi ora di andare. Gli promisi di nuovo che l'avrei fatto uscire di lì, poi gli riferii brevemente cos'era accaduto in Australia nel corso dei miei incontri con Harry Godwin. Julian lo apprezzò, come faceva sempre, ma mi resi conto che lo trovava inutile. «Robert McMillan non è uomo da farsi imbarazzare», disse conciso, e malgrado non volessi ammetterlo sapevo che aveva ragione. D'altra parte, si poteva soltanto tentare. «McMillan pensa di essere invulnerabile. Non si preoccuperà di quello che potrebbe accadergli. Se riuscirò a provocarlo, penserà soltanto a cosa
farmi. Ha pensato di poterci danneggiare convincendo i clienti ad abbandonare lo studio, ma non ha funzionato. Come reagirà quando farò in modo che tutti parlino di lui in televisione? Prima o poi dovrà venire in trasmissione per un confronto. Sappiamo entrambi che non sopporta anche solo l'impressione che il pallino sia nelle mani di qualcun altro». «Potresti avere ragione su di lui e sul suo modo di ragionare», obiettò Julian. «Ma qualsiasi cosa tu riesca a fargli dire in televisione di fronte a qualche milione di persone, non riuscirai mai a farlo confessare. E senza una confessione, io non uscirò mai di qui... non da vivo, quanto meno». 17 Bryan Allen si era preso qualche giorno di ferie, e il network pensò che sarebbe stata una buona idea affidare a me la conduzione del programma. Era la migliore esperienza possibile, insistettero, per prepararsi alla conduzione di una trasmissione tutta mia. Fu un disastro. Commisi tutti gli errori che ci si poteva aspettare da un novellino e altri ancora. Inciampai sulle parole, rivolsi le domande sbagliate agli ospiti sbagliati e, come mi spiegò pazientemente il producer di Allen, li lasciai parlare troppo. «È colpa nostra», insistette Erskine Rhodes dirigendosi verso l'ufficio con quel suo passo strascicato e leggermente arcuato. «Ma davvero, non è andata così male», soggiunse nel tono indulgente di chi ha appena assistito a uno dei più grandi fallimenti televisivi di tutti i tempi. «No, sul serio: domani andrà molto meglio. La prima volta è sempre dura, ma noi l'abbiamo resa ancora più difficile. Non ci avevo pensato. Lei è abituato al faccia a faccia. È quello che fa in tribunale, no?», domandò aprendo la porta del suo ingombro bugigattolo. Una pila di carte alta un metro copriva l'unica altra sedia nell'ufficio. Rhodes le gettò a terra, sotto una lavagnetta di sughero ricoperta di biglietti. Mi versò una tazza di un denso caffè nero da una lurida caffettiera, indicò la sedia che aveva appena liberato e si lasciò cadere dietro una scrivania che, contrariamente a ogni altra cosa nella stanza, era in perfetto ordine. Un blocco a spirale giaceva aperto accanto al telefono. Una penna a sfera e due matite appuntite tracciavano tre rette parallele che cominciavano un paio di centimetri a destra del blocco. Una tazza di ceramica con la scritta "The Bryan Allen Show" a lettere dorate in rilievo conteneva una mezza dozzina di matite, due penne a sfera e un paio di forbici. Era l'ordine circondato dal caos; era una stanza che corrispondeva alla schizofrenia di un
mondo diviso fra ciò che accadeva davanti alla telecamera e ciò che succedeva dietro. «Ascolti: quando chiama un testimone dietro il banco gli rivolge delle domande, giusto? E siete soltanto voi due. Non so niente di processi, solo quello che ho visto in televisione, ma non c'è mai un gruppo di testimoni, due, tre, quattro persone che cercano di parlare tutte insieme. Non deve mai interrompere uno di loro per sentire cosa pensa un altro di quello che ha appena detto il primo. È colpa mia: avrei dovuto pensarci e non l'ho fatto. Per domani sera sono previsti due ospiti. Il programma era quello di averli insieme, perché a Bryan piace mescolare le persone: tiene sempre alto il ritmo, specialmente quando ci sono due che si detestano, e lasci che glielo dica, i due di domani... Ma li metteremo uno dopo l'altro». Il suggerimento ferì la mia vanità. Feci per protestare, per insistere che malgrado quella sera non fosse andata molto bene avevo imparato la lezione e il giorno dopo sarebbe stato meglio. Rhodes inclinò la sedia all'indietro finché lo schienale toccò il muro. Incrociò le mani sulla fronte. «In realtà non è andata così male». Stortò la bocca da una parte, mordendosi l'interno del labbro mentre rifletteva su ciò che era accaduto e su ciò che voleva fare. «La trasmissione che comincerà quest'estate riguarderà la giustizia: assassini a piede libero, gente che è finita in prigione per omicidi che non ha commesso. Il network è eccitatissimo. È il genere di storie di cronaca nera e vita vera che la gente adora. Ma stasera non era niente del genere. Bryan non è specializzato in un argomento piuttosto che in un altro. Ci occupiamo di qualsiasi cosa abbia suscitato l'attenzione del pubblico. Certe settimane è un omicidio, certe altre è la politica. Forse non c'è una gran differenza. Stasera erano gli ultimi attentati in Medio Oriente. Mettendola in mezzo non le abbiamo fatto un favore. È colpa mia. Se avessi avuto il tempo di cambiare argomento, l'avrei fatto. Credevamo di avere il tempo per mettere insieme il pacchetto giusto, ma a un tratto Bryan ha un impegno e deve prendersi una settimana di ferie». Esitò, mi rivolse un'occhiata significativa e rise. «Probabilmente avrà conosciuto qualcuno e deciso di andarsene via per qualche giorno». Raccolse la penna a sfera e prese un appunto. «A cominciare da domani e per il resto della settimana ci occuperemo solo di questioni legali. Ci sarà pure un processo, un omicidio da cui poter cavare qualcosa». Gli venne in mente un'altra cosa e prese un altro rapido appunto. «La Constable. La conosce? Paula Constable? Ah, sì», disse prima che
potessi aprir bocca. «Ha partecipato a una puntata insieme a lei. Un anno fa, forse poco più. Il caso di quel tizio che si diceva avesse ucciso la moglie. Era sposato solo da qualche mese e l'aveva fatta a pezzi», continuò senza dar segno di considerare strano il fatto di ricordarsi una fra le migliaia di puntate della trasmissione a distanza di tanto tempo. «Chissà com'è finita?», osservò in tono indifferente mentre prendeva un altro appunto. «La Constable», ripeté alzando gli occhi con fare sicuro. «La conosce, ha partecipato a una trasmissione con lei, parlate la stessa lingua. Dovrebbe funzionare. Si fidi di me. Non si preoccupi di stasera: domani sarà magnifico». Si guardò intorno, apparentemente restio a incontrare il mio sguardo. La sua bocca malleabile fece un giro completo di smorfie. Tamburellò le dita sulla scrivania, si fermò, rimase seduto tranquillo per un istante e infine si decise a rivolgermi una timida occhiata. Ma un secondo dopo distolse di nuovo lo sguardo, sorridendo e grattandosi dietro l'orecchio. «Okay, ascolti: stasera non è stato molto bravo», ammise con un gran sorriso e uno svolazzo della mano grassoccia. Mi guardava negli occhi con espressione amichevole e sveglia. «Ma non è niente a cui non si possa rimediare. Lei è uno che impara in fretta, non le ci vorrà molto. Guardi quello che c'è in televisione. Perché dovrebbe pensare di non essere in grado di farlo? Le darò qualche cassetta da portare a casa. Le guardi. Non presti attenzione a quello che si dice. Anzi, potrebbe essere meglio guardare senza il sonoro. Be', no, meglio che non lo faccia, visto che il motivo principale per cui voglio che lei le guardi è che osservi la durata degli interventi». Annuì nel vedere la mia espressione vacua. Sapeva a cosa era dovuta la mia confusione. «Ha mai ascoltato i dibattiti in radio? No, certo che no. Perché dovrebbe? E invece dovrebbe, non per sentire cosa dicono perché non dicono niente, è puro rumore e atteggiamento. Ma è proprio questo il segreto, la chiave di tutto. Non sono discussioni, non sono riflessioni calme e ragionate; sono opinioni gridate da gente a cui piace gridare. Li fa sentire bene, li fa sentire importanti. È un atteggiamento, noi contro di loro. È questo che li eccita. Ed è sempre fatto di rapidi, brevi sbotti di parole. «Guardi le cassette. Metta un orologio sopra il televisore e osservi la lancetta dei secondi. Bryan non lascia mai parlare nessuno per più di venti, trenta secondi, ed è già raro che ci arrivi. Pensa che non sia molto? In televisione è una vita. Lei è abituato a leggere libri, e questo è un problema». Erskine Rhodes atteggiò le labbra come se stesse per fischiare, le man-
tenne in quella posizione per una frazione di secondo e poi le ritrasse in una smorfia severa e sbrigativa. «Io ho dovuto impararlo, e può farlo anche lei. Avevo una laurea in storia», dichiarò grattandosi dietro l'altro orecchio. Dondolò la testa da una parte e dall'altra, strinse le mani a pugno, le rilassò e tornò a serrarle. Sembrava che in lui ci fosse sempre qualche parte in movimento. Quando restava immobile, anche solo per un attimo, ti chiedevi cosa non andasse. «Un tempo, dopo il college, leggevo molto, ma ora non più. Ci vuole troppo tempo, e sono troppo preso», spiegò con un'espressione che non era di scusa, ma era l'inizio di un'osservazione più importante. «Sono tutti troppo occupati, hanno troppo da fare. Non mi chieda perché, so solo che è così. L'unico modo per conservare un pubblico è rendere ogni cosa breve ed essenziale. Guardi le cassette, le cronometri come le ho detto e vedrà. Bryan fa una domanda, un paio di secondi; l'ospite risponde, cinque, dieci secondi al massimo. Ma guardi anche qualcos'altro», soggiunse mentre un'espressione furba si formava in quei suoi occhietti da cui di rado era assente il calcolo. «Guardi quante volte l'inquadratura cambia mentre la stessa persona sta parlando. È una cosa che la televisione ha imparato dal cinema. Ricorda i vecchi tempi? Ha mai visto una delle trasmissioni che si facevano allora? Nessuno oggi guarderebbe quella roba: due o tre persone che parlano e hanno sempre lo stesso aspetto. Vada al cinema, o ancora meglio noleggi un film, se lo guardi a casa in modo da poter fare la stessa cosa con l'orologio. Un tempo volevo fare lo sceneggiatore, e ancora oggi ogni tanto scrivo qualcosa per la trasmissione. Quando si scrive una scena per il cinema, i personaggi parlano magari per due o tre minuti, ma quello che lo spettatore vede cambia ogni due secondi. È questo il problema dei libri: bisogna continuare a fissare le parole. Ci vuole troppo tempo per leggere, troppa concentrazione. La gente non ha tempo. La televisione non le chiede altro che guardare e ascoltare, ma soprattutto guardare. Il movimento è il messaggio, l'atteggiamento che il pubblico vede. Lei non sta lavorando di fronte a una giuria, una giuria che la deve ascoltare, che non ha scelta, che ha una seria decisione da prendere. In televisione lavora davanti a un pubblico composto di individui stanchi, probabilmente mezzo addormentati; la stanno guardando soltanto per distrarsi da tutte le cose nella loro vita che richiedono lavoro. Per cui domani, quando qualcuno comincia a dilungarsi più del dovuto, lo interrompa. Gli dica che lo trova uno stupido, faccia come Bryan: rivolga loro un'occhiata che dice: "Fammi il piacere, mi hai preso per un cretino?". Un gesto, un gesto qualsiasi, è sempre me-
glio delle parole». Malgrado mi sentissi un idiota nel farlo, seguii il consiglio di Erskine Rhodes e osservai come la televisione riduceva a brevi frammenti tanto le parole quanto le immagini. Guardai per ore, ipnotizzato, fino alle due o alle tre del mattino, misurando sempre più sbalordito quanto tutto fosse diventato veloce senza che me ne fossi accorto. Sembrava insidioso, il modo in cui le immagini in movimento dominavano la parola. E non avevo notato, pur avendo guardato la mia dose di televisione come chiunque altro, come ciò sconvolgesse ogni equilibrio. Dopo quello che era accaduto a Julian Sinclair, avevo capito qualcosa dell'effetto che la televisione poteva avere su ciò che la gente pensava di cose che non sapeva; ma non avevo cercato di riflettere sulle cause. Rammentai ciò che avevo sentito dire a un magistrato qualche mese prima, che i programmi televisivi nei quali un giudice benvestito risolveva vertenze avevano cambiato il modo in cui la gente si comportava nel suo tribunale, aveva diminuito il loro rispetto per le formalità legali. Ora tutti avevano qualche lamentela e sbraitavano di avere il diritto di essere ascoltati. Nessuno leggeva più libri seri, libri che richiedevano uno sforzo. Quello che leggevano, le cose pubblicizzate come il prossimo libro dell'anno, era scritto nello stesso stile abbreviato e frammentario che udivo berciare dallo schermo. E cosa stavo per fare, se non unirmi a tutti coloro che misuravano ogni cosa in termini di gradimento di massa? Per qualche motivo, Albert Craven lo riteneva divertente. «A dire il vero, la trasmissione di ieri sera mi è parsa molto meglio di qualsiasi cosa abbia mai fatto Bryan Allen. Tu almeno lasci parlare. E avevano entrambi cose interessanti da dire. Mi è piaciuto specialmente quello che il tizio che ha scritto quella storia del Medio Evo ha detto delle Crociate. È curioso come tutti, in Occidente, le vedano ormai come una guerra di conquista, il tentativo di strappare ai musulmani ciò che apparteneva a loro di diritto. Cos'è che ha detto? Ha citato Jacob Burckhardt, lui sì che è uno storico che varrebbe la pena di leggere, qualcosa circa... sì, ora ricordo: "La differenza fra le Crociate e le conquiste di Maometto... consisteva nel fatto che in questo caso non si trattava di una questione mondana, ma di un luogo sacro. La speranza non è essenzialmente diretta ai beni terreni... ma alla cura della reliquia più sacra. Perciò i crociati sono esaltati dal loro obiettivo, mentre, dopo una breve guerra santa e sacrificale, i musulmani vengono sviliti dall'avidità"». Albert Craven sorrise come uno scolaro che avesse capito la lezione.
«Te lo ricordi da ieri sera?», domandai, e se non mostrai più sorpresa era perché avevo imparato che la sua abilità di fare cose che non riuscivo nemmeno a immaginare non aveva limiti. «Ne sono rimasto così intrigato che ho trascorso metà della notte a sfogliare le mie copie di Burckhardt finché non ho trovato il brano. Dovresti leggerlo, Burckhardt. Ti dà una prospettiva molto diversa da quella a cui siamo abituati. Aveva previsto tutto, le macchine, la produzione di massa e gli effetti dell'industrializzazione: movimenti di massa di ogni genere, l'appello all'opinione pubblica, il carattere frenetico e insoddisfatto della vita moderna, il fatto che tutto sarebbe diventato, per usare la sua espressione, "provvisorio"». Era venuto a sedersi nel mio ufficio per tirarmi su il morale dopo la debacle della sera prima, ma non l'avrebbe mai ammesso. Era passato, mi disse, soltanto per dirmi quanto gli era piaciuta la trasmissione. «Sì, sì, so che pensi di averlo lasciato parlare troppo, che nell'istante in cui avesse cominciato a citare qualcuno, e specialmente una fonte oscura come le opere sconosciute di uno storico svizzero del diciannovesimo secolo, Allen l'avrebbe interrotto con uno sprezzante commento sul fatto che quello che qualcuno aveva detto così tanto tempo prima non importava a nessuno. Ma i tuoi due ospiti di ieri sera erano persone serie, e di sicuro ascoltare quello che avevano da dire non avrebbe fatto male a nessuno. Tu li hai lasciati parlare; Allen avrebbe cercato di farli litigare. Perché senti di aver fallito per il semplice fatto che non li hai interrotti, che non li hai costretti a ricorrere alle banalità del linguaggio in pillole che abbiamo insegnato a un'intera generazione?». Cortese, imperturbabile, capace più di chiunque altro avessi mai conosciuto di nobilitare una conversazione, durante una riunione dei soci dello studio come attorno a una tavola imbandita, Albert mostrava di rado irritazione e mai rabbia. Ma quando cominciai a elencare le ragioni per cui avrei dovuto accelerare le cose se volevo che il programma avesse qualche possibilità di successo, cominciò a spazientirsi. «Dannazione!», borbottò in una rara concessione a una esclamazione. Sollevò di scatto la testa. Del tutto confuso, mi guardò negli occhi. «Che differenza fa se il programma ha successo oppure no? Hai dimenticato perché lo stai facendo? Sei così preoccupato da quello che credi possa pensare qualcun altro, uno dei focus group di Harry Godwin, che invece di pensare a come porterai Robert McMillan a commettere l'errore che potrebbe salvare la vita a Julian sei concentrato su come diventare la grande novità te-
levisiva?». Scosse la testa, poi si concesse un sorriso di consapevole ironia. «Forse hai ragione, forse l'unico modo per provocare McMillan è trasformarti in un altro Bryan Allen, diventare un cretino come lui!». Il sorriso si ampliò e divenne più rilassato, più consono al suo normale, imperturbabile carattere. «Be', tutti abbiamo bisogno di qualcosa a cui aspirare. E tu hai cominciato bene», proseguì quasi allegro. «Nel giro di ventiquattr'ore sei passato da due seri studiosi che dissentono sui principi ma conservano una notevole cortesia a Paula Constable e altri due avvocati la cui attività, per quanto ne sappia, è ormai ristretta alla televisione. Non vedo l'ora». «Ma non hai sentito la cosa peggiore», scherzai mentre Albert si alzava per andarsene. «Un'ora in televisione, e nemmeno una donna ha chiamato la stazione per avere il mio numero». Mi scoccò un'occhiata faceta. «Penso che per ottenere una cosa simile dovresti essere molto famoso o molto giovane. E anche se riuscissi a diventare abbastanza famoso...». Ci guardammo da un capo all'altro dell'ufficio, ricordando per un attimo, ma senza troppi rimpianti, gli anni che avevamo perduto e che non avremmo mai potuto recuperare. «Il che, guarda caso, mi fa venire in mente che c'era un motivo per la mia visita, al di là del naturale desiderio di avere a che fare con un personaggio televisivo. Ho ricevuto una lettera di Julian. Questa era indirizzata a me», spiegò Albert riattraversando la stanza, accostandosi alla poltrona e posando una mano sullo schienale. «È la risposta alla mia lettera riguardo al suo patrimonio». Non dissi nulla, e Albert proseguì spiegando che, se non proprio delle complicazioni, c'erano delle questioni contingenti. Oltre a nominarmi suo esecutore testamentario, ruolo che non comportava alcuna responsabilità se non nell'improbabile eventualità che morisse, Julian Sinclair voleva che diventassi anche il suo amministratore fiduciario. Le responsabilità di una tale posizione sarebbero cominciate quasi subito. Non era niente di difficile, e Albert si affrettò a rassicurarmi che nella maggioranza dei casi se ne sarebbe facilmente occupato lui stesso. «Sono quello che gli inglesi chiamano solicitor. Si tratta - e lo dico perché gli altri, i barrister, non ne combinano una giusta - di un individuo che conosce il diritto a menadito, e che vi contribuisce non soltanto con la sua grande intelligenza, ma anche con una sbalorditiva erudizione. Noi siamo
quelli che preparano ogni cosa, che svolgono tutto il lavoro vero in modo che gli altri orgogliosi pavoni possano incantarsi a vicenda dando voce alle parole altrui. L'amministratore fiduciario, lo spiegherò lentamente perché anche un avvocato di tribunale lo possa capire, si occupa del patrimonio dal punto di vista degli interessi del titolare. Sì, so che l'hai studiato alla facoltà di giurisprudenza», soggiunse senza riuscire a frenare un sorriso, «ma sono passati tanti anni che è un miracolo che ricordi di aver frequentato il corso. Ora fa' attenzione: in questo caso è veramente assai semplice. Più che altro si tratta di preparare i moduli giusti, e lo farò volentieri io stesso, e pagare le tasse ogni anno». «Quali tasse?», domandai. «Julian non ha alcuna rendita. Voglio dire, otto centesimi l'ora per il suo lavoro in biblioteca?». Poi ricordai. «Ma certo, la casa. Ma cosa dovremmo farne? C'è un mutuo da pagare? Dovremmo venderla? E poi cosa faremmo dei soldi?». Albert si fece serio, come sempre quando c'erano in ballo gli interessi di un cliente. Le burle, gli occhietti scintillanti, il sorriso rapido e contagioso scomparvero dietro la meticolosa precisione di un uomo concentrato sul suo lavoro. Si sedette in posizione meno rilassata di prima, sul bordo della poltrona, severo e vigile. «La casa è pagata. Insolito, ma è così. È sua per sempre, finché continuerà a pagare le tasse. Non ha alcuna rendita, come hai fatto giustamente notare. Ha qualche risparmio, ma non abbastanza perché possa durare a lungo». Si piegò in avanti e socchiuse gli occhi in un'espressione che avevo già visto, ma soltanto quando parlava di Julian Sinclair. Era ammirazione, ma c'era anche qualcos'altro, una sorta di meraviglia. «È veramente un genio, e non solo nel modo astratto e teoretico che pensavo. È una combinazione notevole, davvero; non credo di aver mai visto nulla di simile. La casa, ricordi, non è particolarmente grande, ma la posizione, con quella vista... Non so come si sia procurato l'anticipo, ma le rate mensili dovevano ammontare a quasi tutto il suo salario di professore. Ma è riuscito a pagarla fino in fondo, più di mezzo milione di dollari, grazie a una serie di investimenti fatti su alcune di quelle società di alta tecnologia le cui azioni raddoppiavano ogni qualche mese e che adesso non valgono più di venti, trenta centesimi. Julian le ha vendute tutte quand'erano al massimo, e intendo dire quasi lo stesso giorno in cui sono arrivate al valore più alto e hanno cominciato a scendere. Voglio essere preciso: non si è trattato di una intuizione fortunata che avrebbe potuto avere chiunque. Ju-
lian l'ha fatto con le azioni di cinque diverse società nel corso di un periodo di sette mesi. Come lo sapeva? Come poteva sapere quello che nessun altro sapeva? Io ho perso una fortuna in alcune di quelle stesse società; mi sono tenuto stretto le azioni nella falsa speranza che il giorno dopo avrebbero ripreso a salire. E Julian, che non aveva mai investito in borsa prima di allora, ha guadagnato non una fortuna, ma soltanto quello di cui aveva bisogno. E quante persone conosci capaci di farlo? Quasi la cifra esatta. Ha saldato il mutuo; si è pagato la casa e con le poche migliaia di dollari rimaste ha acquistato buoni del tesoro. Straordinario. Davvero straordinario. In ogni caso, non vuole che vendiamo la casa e non vuole che l'affittiamo. Dice, leggi tu stesso quello che ha scritto, che quando torna la vuole esattamente uguale a come l'ha lasciata». Cercai di rifletterci, ma i calcoli economici non mi interessavano. Avevo un debito, e quello era un modo in cui avrei potuto cominciare a saldarlo. «Pagherò io le tasse. Deve avere la possibilità di pensare in prospettiva a quella casa, anche se mi sorprende un po' il fatto che voglia tornare nel luogo in cui è stata uccisa Daphne. Sarebbe probabilmente l'ultimo posto al mondo in cui io vorrei tornare. D'altra parte, cos'altro possiede che possa considerare casa sua? Forse quando uscirà cambierà idea». «Julian è disposto a lasciarcelo fare, a lasciarci pagare le sue tasse, ma soltanto sotto forma di prestito. Non ti sorprenderà sapere che ha già pensato a tutto. Noi paghiamo le tasse, e ogni anno applichiamo un interesse ragionevole. Quando uscirà ci ripagherà con il denaro guadagnato in prigione e il resto ce lo restituirà a rate». Albert inarcò le sopracciglia ed emise un lungo sospiro. «E se non uscirà, se morirà in prigione, vuole che la casa e tutto ciò che possiede siano tuoi». La sua mano schizzò verso l'alto. «No, su questo punto insiste. E ha il diritto di fare come vuole. Speriamo soltanto che non si arrivi a questo, che riusciremo finalmente a provare che è stato McMillan e che Julian è innocente». Tutti quei discorsi su quello che date le circostanze sembrava lo strano impegno a fare da amministratore fiduciario a un uomo che stava scontando l'ergastolo mi facevano sentire in modo più acuto quanto tempo era passato dalla condanna di Julian e quanto poco era stato fatto per ottenere il suo rilascio. E così, invece di aspettare l'estate, cominciai la campagna contro Robert McMillan quella stessa sera. Paula Constable si rivelò la controparte perfetta. Malgrado fosse abbastanza intelligente da nascondere la sua delusione (l'ultima cosa che voleva fare era mettere a repentaglio le sue future appa-
rizioni) non poteva mascherare fino in fondo la sensazione che affidandomi un programma il network avesse commesso uno sbaglio, poiché qualsiasi cosa pensasse di me come avvocato, in televisione non eravamo certo allo stesso livello. Era una lezione che cercò di insegnarmi fin da subito, e io non ne fui affatto dispiaciuto. Mantenendo fede alla sua promessa, Erskine Rhodes aveva trovato un'altra vittima di omicidio con cui tutti potevano simpatizzare e un accusato che tutti potevano odiare. Eravamo in onda da meno di trenta secondi, e avevo appena finito di presentare Paula Constable e gli altri due ospiti, quando lei si aprì in un sorriso smagliante e ci provò. «Dev'essere bello poter parlare di un omicidio e non dover difendere chi l'ha commesso». Rigida e immobile, attese la mia reazione. «La prima volta che ho partecipato a questo programma non stavo difendendo nessuno, la seconda volta difendevo un innocente». Il modo in cui non avevo esitato a fare quell'affermazione la prese alla sprovvista, ma solo per un istante. In televisione, se non attaccavi subito a parlare la telecamera andava a inquadrare qualcun altro. «L'"innocente" che difendeva sta scontando l'ergastolo senza condizionale a San Quentin, se non mi sbaglio». «Proprio quello che volevo dire», replicai immediatamente. «Ora, per quanto riguarda questo omicidio», soggiunsi voltandomi verso uno degli altri ospiti, sporgendomi in avanti e concentrando tutta la mia attenzione su di lui. «Lei ha rappresentato la pubblica accusa in numerosi casi importanti. Che prove ha lo Stato contro questa donna? È accusata di aver ucciso i due figli. Cosa si dovrebbe fare con un individuo in un caso come questo? O pensa che possa essere innocente?». «Ne dubito. In casi come questi...». «Ne dubita?», ripetei portando le mani verso l'alto. «Perché quando vengono uccisi due bambini la madre è la colpevole più probabile? Non la trova una logica un po' strana?», domandai a una sorpresa Paula Constable. «Una madre uccide i propri figli. Sembra così innaturale che dev'essere vero? È così che ragionate?». La Constable storse la bocca. I suoi occhi neri tradirono una fiammata di sfida, anche se non ero sicuro che avesse deciso chi o cosa sfidare. «Certo che è stata lei», disse il terzo ospite, una giovane donna che, come Daphne McMillan, aveva ambizioni superiori alla carica di viceprocuratore distrettuale. «Lo si è capito dal modo in cui piangeva. Non stava piangendo per i suoi figli; stava piangendo di paura, per quello che temeva
le sarebbe capitato». Con questo, Paula Constable si ritrovò con una decisione già presa. «La paura dei demoni dentro di lei che le avevano fatto fare ciò che aveva fatto». Ogni testa si voltò verso di lei, e la camera le seguì. «Nessuna donna sana di mente sarebbe capace di uccidere i suoi figli. La donna di cui stiamo parlando è profondamente religiosa. È stato qualcosa di diabolico, qualcosa che la psichiatria potrebbe spiegare come schizofrenia, una forza su cui lei non aveva alcun controllo, a farglielo fare». Non poté farne a meno: anche lei era spinta da forze tutte sue. «Il che rende quello che ha fatto decisamente più perdonabile dell'atto di un uomo che uccide una donna che non vuole andare a letto con lui». «Sta parlando del mio cliente, Julian Sinclair? Oppure dell'uomo che l'ha uccisa veramente, Robert McMillan? Il quale, dopo aver assassinato due mogli, secondo quanto leggo sui giornali ha in programma di sposarsi di nuovo?». La Constable, confusa, fece un rapido movimento laterale con la testa. Poi capì, o credette di capire. Sfoggiò un sorriso come se stesse facendo un regalo. «La nuova trasmissione! Quella che comincerà quest'estate. A proposito, congratulazioni. Non riesco a pensare a nessuno che sia in grado di farlo meglio. Riguarderà proprio questo, no? Innocenti condannati e colpevoli impuniti? È ancora convinto che Sinclair sia innocente. Ha del coraggio, Antonelli, glielo concedo. Potrà anche credere che è innocente, ma nessuno che io conosca l'ha mai pensato». La guardai negli occhi. «In tal caso lo dirò di nuovo: Robert McMillan ha ucciso sua moglie, e aveva ucciso anche la sua seconda moglie. Il signor McMillan ha alle spalle una lunga storia di abusi e di violenze sulle donne. E se vorrà venire in televisione a negarlo, chiamerò una donna che lo proverà!». La sera dopo, con altri ospiti, ripetei ciò che avevo detto di McMillan. Lo feci ogni sera finché non ebbi concluso la settimana alla conduzione del Bryan Allen Show. Nei mesi successivi, sostituendolo per uno o due giorni alla volta, non mancai mai di lanciare la stessa sfida e ripetere che il nuovo programma che sarebbe cominciato quell'estate avrebbe proposto come primo caso l'ingiusta condanna di Julian Sinclair. All'inizio di agosto, quando mancavano ormai meno di due settimane all'inizio della trasmissione, non avevo ancora sentito una sola parola da
chiunque avesse a che fare con l'uomo che avevo apostrofato in tutti i modi che mi erano venuti in mente, dandogli dell'assassino e di peggio. Temevo che Julian avesse avuto ragione, che McMillan fosse troppo furbo per lasciarsi trascinare in una disputa pubblica. La sua foto continuava ad apparire sulle pagine mondane, e sui volti sorridenti che lo attorniavano non si scorgeva nulla che potesse far pensare che fosse cambiato qualcosa. Nella cerchia in cui si muoveva, le accuse di un avvocato - di un avvocato che aveva perso - erano viste probabilmente come un attestato d'onore. Se quelle scintillanti serate in smoking erano un indizio, tutti i miei studiatissimi piani per una pubblica umiliazione, una sfida televisiva che l'avrebbe costretto a farmi causa per diffamazione non lo stavano danneggiando, ma gli avevano fatto un favore. Finché, due giorni prima di andare in onda, Robert McMillan mi mandò a dire che voleva vedermi. 18 L'ufficio di McMillan era al quarantesimo piano di uno dei palazzi più alti di San Francisco. La scrivania della reception era deserta, i computer spenti per la notte. Qualche luce isolata spezzava la penombra che invadeva i corridoi che si allontanavano in entrambe le direzioni. Presi posto in una delle moderne poltroncine imbottite schierate sui due lati di un tavolo quadrato di cristallo e attesi. Secondo l'orologio montato su una colonna rivestita di pannelli di legno dietro la reception, mancavano tre minuti alle nove. Controllai il mio orologio e scoprii che era indietro di un minuto oppure che quello dell'ufficio era avanti. Le finestre che andavano dal pavimento al soffitto offrivano una vista che spaziava dal Golden Gate al Bay Bridge, raggiungeva le colline di Berkeley dove Julian aveva vissuto e dove Daphne era stata uccisa e proseguiva oltre la sponda settentrionale della baia fino a Petaluma e oltre. Era una vista che si spingeva troppo lontano. Ti faceva scordare la cosa importante di San Francisco: la convinzione che al di là della città non esistesse altro. Era il confine che faceva lavorare la tua immaginazione romantica. Una vista come quella rovinava l'illusione. Facendo scorrere lo sguardo sui palazzi circostanti, tutti alti come e più di quello in cui mi trovavo, mi ritrovai quasi a sperare in un altro bel terremoto. Udii una voce, poi due che parlavano avvicinandosi dal lungo, buio corridoio. Due uomini sulla quarantina, ciascuno di loro armato di ventiquattrore, si diressero verso l'ascensore. Uno dei due premette il pulsante della
discesa, l'altro mi scorse con la coda dell'occhio. «Se ne sono andati tutti», disse con uno sguardo affabile. «Possiamo aiutarla?». «No, ho appuntamento alle nove con Robert McMillan». Diede un'occhiata all'orologio. Erano le nove e cinque. «Non lo vedo più o meno dalle quattro». La porta dell'ascensore si aprì e i due uomini vi salirono. «Sicuro che abbia detto alle nove?», domandò lo stesso di prima con una scrollata di spalle, tenendo la porta aperta un altro istante. «Sono certo che non c'è, e nessuno ha detto niente sul fatto che sarebbe tornato». La porta si richiuse davanti a lui e a un tratto mi sentii completamente solo, un idiota preso in trappola. Non ero soltanto claustrofobico, ma avevo anche paura delle altitudini. McMillan mi voleva lì, da solo e di sera, al quarantesimo piano senza un'anima viva nei paraggi. Il cuore cominciò a battermi all'impazzata, le mani a sudarmi. Disdegnando la mia stessa codardia, sfidai il buon senso. Invece di andarmene, invece di usare uno dei telefoni della reception per far sapere a qualcuno dove mi trovavo, m'incamminai nel corridoio buio alla ricerca dell'ufficio di McMillan. Lo trovai in fondo, in un punto con una vista d'angolo. La porta era chiusa; l'aprii ed entrai. La lampada sulla scrivania era accesa, l'unica fonte di luce nella stanza, ed ebbi la certezza che lui fosse lì ad aspettarmi. Mi sentii più a mio agio, ormai certo che non avevo nulla da temere. La lampada era accesa, ma la sedia dietro la scrivania era vuota. Mi guardai alle spalle e poi intorno, aspettandomi di udire da un momento all'altro la sua voce che si scusava di avermi fatto aspettare. Ma l'ufficio era deserto; non c'era nessuno. Feci per andarmene, ma la luce della lampada mi fece tornare sui miei passi. Sulla scrivania non c'era niente, solo un calamaio e un tampone di carta assorbente; ma un lungo mobile davanti alla finestra era ingombro di fotografie incorniciate. Sembravano sistemate in ordine cronologico, da sinistra verso destra, a cominciare dalle immagini di una fanciullezza passata all'aria aperta seguite dalla prevedibile progressione di una giovinezza privilegiata. McMillan faceva parte della squadra di football al liceo e di quella di scherma al college. Negli anni successivi alla laurea aveva apparentemente viaggiato ai quattro angoli del globo. C'era una foto che lo ritraeva intorno alla trentina in groppa a un elefante in India, un'altra scattata non molto tempo dopo di fronte alle piramidi d'Egitto. C'era un'immagine, anzi due, con una ragazza che immaginavo fosse la figlia, ma nessuna con
le mogli. La storia per immagini della sua vita saltava semplicemente gli anni di matrimonio. L'unica donna che sembrava voler ricordare era quella la cui foto campeggiava all'estrema destra, dove la sequenza si concludeva. Era la bellissima donna, ben più giovane di lui, con cui l'avevo visto il Natale precedente, la donna che avrebbe sposato in autunno. Udii un rumore e mi voltai. Niente, nemmeno un suono. La mia immaginazione stava alimentando la paura. Lo udii di nuovo, ne ero certo; era chiaro, distinto: un passo in corridoio. «C'è qualcuno?», chiamai imponendomi un tono sicuro. «Sto cercando Robert McMillan». Uscii dal suo ufficio e mi diressi verso l'ingresso, facendo correre lo sguardo da una parte e dall'altra. La porta dell'ascensore era aperta. C'era davvero qualcuno, allora. Udii lo stesso suono di prima, dei passi sulla moquette. Feci un passo verso l'ascensore, mi diedi del vigliacco, mi fermai e m'incamminai nel corridoio che si allungava nella direzione opposta. Vidi una porta aperta e una luce accesa. Sentii di nuovo i passi; ero sicuro che ci fosse qualcuno dietro la porta. Accelerai, deciso a scoprire cosa stava succedendo, cosa stesse cercando di fare McMillan. Ero giunto a un metro dalla porta quando qualcosa venne sospinto davanti a me. «Mi scusi», disse una donna anziana dal pesante accento. La donna delle pulizie mi guardò, temendo di essere nei guai per avermi quasi investito con il suo carrello. «Colpa mia», borbottai imbarazzato. «Non c'è nessun altro al piano?». Lei scosse la testa, poi, china sul carrello dei prodotti per la pulizia, lo spinse verso l'ufficio successivo. Dando un'ultima occhiata alle luci della città e alla baia al di là delle finestre, premetti il pulsante dell'ascensore e attesi. Che motivo poteva aver avuto McMillan per darmi appuntamento alle nove di sera nel suo ufficio e poi non presentarsi? Pensava forse che quel piccolo contrattempo mi avrebbe fatto pentire delle cose che avevo detto di lui e di ciò che aveva fatto? Potevo immaginarmelo fare qualcosa del genere, invitare qualcuno per poi non presentarsi, quand'era lo scolaro ricco e arrogante delle foto. Ma alla sua età? Non aveva alcun senso. La porta dell'ascensore si aprì e io feci un balzo indietro. «Mi scusi, non volevo spaventarla», disse una guardia. «Il suo nome è Antonelli? Ha chiamato il signor McMillan. Ha detto di riferirle che gli dispiace, ma è stato trattenuto. Ha chiesto se le andrebbe di raggiungerlo a casa sua».
«A Russian Hill?». «No, la casa sul mare a Marin. Mi ha dettato le indicazioni». Mentre scendevamo, diedi un'occhiata al foglio su cui la guardia aveva segnato le indicazioni. Anche se non ci fosse stato traffico, ci avrei impiegato tre quarti d'ora. Pensai di attendere fino al mattino e chiamarlo in ufficio, ma poi decisi che non volevo correre il rischio che cambiasse idea. Dovevo parlargli, dovevo vedere quanto vicino riuscivo a portarlo a una confessione quando eravamo solo noi due. Dieci minuti dopo ero sul Golden Gate Bridge, diretto verso la notte. A pochi chilometri da San Quentin uscii dall'autostrada e proseguii sulla strada serpeggiante che portava a Muir Woods e alla costa. La luna piena proiettava un'inquietante luce argentata sul Pacifico. Sulla strada non c'era nessuno. Era uno di quei momenti in cui la California era quello che era stata all'inizio, un luogo di solitudine e bellezza inviolato dalla confusione delle umane invenzioni. Mancava poco più di un chilometro e mezzo alla villa di McMillan. Potevo scorgere le luci che brillavano all'estremità di un alto promontorio roccioso affacciato sulle onde dell'oceano rischiarate dalla luna. A un tratto due fari invasero lo specchietto retrovisore. Un'auto si stava avvicinando a grande velocità. Accostai per farla passare, ma l'auto continuò a puntarmi. Mi era ormai giunta quasi addosso, e mi preparai all'impatto. La mia auto fece un balzo avanti e poi sbandò di lato, facendomi quasi lasciare la presa sul volante. Mi stavo avvicinando rapidamente allo steccato di legno bianco, l'unica barriera fra me e l'oceano trenta metri più in basso. Girai il volante con forza, ma era troppo tardi. Vi fu un altro impatto, un'altra violenta collisione da tergo. Con il terribile, stridulo suono di vetri che esplodevano e lamiere sventrate, l'auto sfondò la barriera e volò nel vuoto. Tutto cominciò a ruotare e a vorticare, poi si fermò, e io mi ritrovai a fluttuare privo di peso, gli occhi immersi nel buio, senza sentire più nulla. Una voce lontana continuava a ripetere il mio nome. Cercavo di rispondere, ma non riuscivo a formare le parole. Mi parve strano che la voce insistesse tanto, come se ci fosse qualcosa che avrei dovuto fare quando in realtà non avevo alcun desiderio di muovermi. «Joseph, te la sei cavata». Mi parve un'affermazione straordinaria. Mi sentivo benissimo, riposatissimo, rilassato, come se stessi galleggiando immobile in mare. Albert Craven torreggiava su di me, guardandomi con una strana, ansiosa espressione sul viso glabro e roseo.
«Dottore, ha aperto gli occhi». C'erano tre persone che incombevano su di me in una stanza dalle pareti bianche che non avevo mai visto. Albert Craven, vestito con uno dei suoi costosi abiti scuri, si ritrasse mentre un uomo con i modi controllati ed efficienti di un medico mi si avvicinò. Guardando con gli occhi socchiusi in uno strumento di acciaio, mi puntò un raggio di luce in un occhio e poi nell'altro. L'anonimo odore di antisettico accompagnò gli attenti movimenti delle sue mani. Un'infermiera si mise all'opera sul lato opposto, gonfiandomi attorno al braccio un bracciale per la misurazione della pressione. C'era uno sbaglio, si erano confusi, non mi ero mai sentito così bene in vita mia. L'unica cosa da fare era scendere dal letto per far vedere che era tutto a posto. Fu una sensazione stranissima, come premere un interruttore e chiedersi come mai le luci non si accendessero. Mi stavo alzando, lo sentivo: la mia spalla che ruotava da una parte, il movimento del fianco, le gambe e i piedi che uscivano dalle lenzuola; eppure non mi ero mosso, ero ancora supino, e ogni parte di me era immobile. Venni preso dal panico; cominciai a urlare, ma non accadde nulla nemmeno in quel caso: non riuscivo a muovere le labbra. «Ha avuto un incidente», spiegò il medico. «Un brutto incidente, temo. No, non cerchi di muoversi. Si è rotto la mascella. In realtà è stato fortunato; a dire il vero, dovrebbe essere morto. La sua auto è uscita di strada. A quanto pare ne è stato sbalzato fuori prima che andasse a sbattere sugli scogli e prendesse fuoco. Si è rotto qualche osso, il braccio sinistro ed entrambe le gambe, ma niente di più. Era pieno di ferite, per questo ha la faccia bendata, ma guarirà. Nel giro di un paio di mesi sarà come nuovo. In ogni caso», concluse dandomi una serie di colpetti sul braccio, «ora è fuori pericolo. Sapevamo che il coma era temporaneo, ma non si può mai sapere con certezza quanto duri». Quanto ero rimasto in coma? Quanto tempo era trascorso da quando ero quasi morto? Non potevo parlare; cercai di fare la domanda con gli occhi. «Quattro giorni, ma non si preoccupi, recupererà del tutto». Dopo che ebbe bisbigliato qualcosa all'infermiera, il dottore posò la mano su una spalla di Albert Craven e uscì insieme a lui. L'infermiera iniettò il contenuto di una siringa in un tubicino che portava a un ago fissato sul dorso della mia mano. «Morfina», disse con un sorriso gradevole. I lineamenti del suo viso cominciarono a confondersi e io presi a galleggiare in un vasto, immobile oceano che avevo già attraversato.
Ogni volta che aprivo gli occhi Albert Craven sembrava essere in attesa, finché finalmente, dopo qualche giorno, fui in grado di scrivere brevi messaggi su un piccolo blocco con la mano buona. La prima cosa che scrissi fu che non si era trattato di un incidente, che era stato Robert McMillan. «Non riuscivo a spiegarmi cosa ci facessi a tarda sera a Marin, su una strada costiera piena di curve. Grazie a Dio sei stato sbalzato fuori e non avevi nessun altro in macchina». Richiedeva tempo ed era frustrante scrivere con la mia mano lenta e maldestra mentre Albert aspettava. Mi sentivo come un telegrafista con la bocca imbavagliata intento a comporre un messaggio in codice Morse per qualcuno che gli stava davanti. Sarebbe stato ancora peggio se Albert non fosse stato così lesto a cogliere il senso delle poche parole che ero in grado di scribacchiare. «Qualcuno ha visto la macchina in fiamme e ha chiamato il 911. Nessuno ha assistito all'incidente. Nessuno ti ha visto uscire di strada. Non appena ho saputo cos'era accaduto, ho detto alla polizia dov'eri andato quella sera e che non credevo nemmeno per un istante che fosse stato un incidente. La polizia ha fatto qualche domanda, ma non la definirei un'indagine». Albert sapeva che stavamo pensando la stessa cosa. «Probabilmente è così che ha ucciso la sua seconda moglie; e proprio come allora non c'è alcuna prova che l'abbia fatto, niente di niente». Potevo anche non essere in grado di provare che Robert McMillan avesse cercato di uccidermi, ma non era difficile capire perché ci avesse provato. La cosa stupefacente era che non ci avessi pensato prima, che non avessi afferrato la semplice possibilità che McMillan decidesse che eliminarmi sarebbe stato meno rischioso di una causa in tribunale. Nella mia cieca determinazione a provare che McMillan era colpevole di omicidio avevo scordato che proprio perché avevo ragione, proprio perché aveva già ucciso due donne, sarebbe stato perfettamente capace di commettere un altro omicidio. Avevo detto al mondo intero che aveva ucciso Daphne McMillan e che aveva mentito sotto giuramento affinché Julian Sinclair andasse in prigione al posto suo, e ora stavo per lanciare una serie televisiva con la versione vera di ciò che aveva fatto. C'era un unico modo in cui poteva impedire che la trasmissione andasse in onda. "La trasmissione?", mi precipitai a scrivere non appena Albert arrivò il giorno dopo. Albert sfoggiava un sorriso radioso, segno che aveva fatto qualcosa di magistrale.
«Be', a dire il vero», cominciò, sbalordito dalla sua stessa conquista, «è stata un'idea tanto di Harry quanto mia. Saremo stati un'ora al telefono a provare le varie combinazioni. Il concetto è venuto in mente a me, ma Harry, che ovviamente ha più esperienza, ha aggiunto le sue migliorie». Non potevo parlare, ma potevo gemere di impazienza. «"Hanno cercato di fermare questo programma, ma non ci sono riusciti!". Attira l'attenzione, vero? È il titolo che stanno usando per la nuova campagna. "L'hanno fatto uscire di strada, hanno cercato di ucciderlo, d'impedire che la storia venisse raccontata. E ci sono riusciti...", nota come la frase ti riporta al punto di partenza, ti fa pensare che qualcuno ce l'abbia fatta, "... ma solo fino a settembre!". «Invece di quest'estate, comincerai in autunno. Non appena sarai in grado di parlare, Harry ti vuole davanti alla telecamera, nel tuo letto d'ospedale, e vuole che racconti com'è andata, come fossi andato a parlare con McMillan e lui abbia cercato di ucciderti. Non l'ho mai visto così eccitato». Il dottore aveva detto il vero. A fine agosto ero quasi come nuovo. La mascella mi doleva di tanto in tanto, e avevo ancora qualche difficoltà a pronunciare le parole che finivano in s, ma l'articolazione funzionava abbastanza bene. Il braccio rotto guarì, e così una delle gambe; ma a quanto pareva la caviglia sinistra non avrebbe mai più recuperato la normale mobilità. Malgrado non lo si notasse più di tanto, ora camminavo con una lieve zoppia. Non avevo bisogno di un bastone, e non faceva male; era semplicemente lì, un piccolo handicap, una lieve deformità di cui dovevo ringraziare la mia stupidità nel sottovalutare Robert McMillan. E c'era anche la questione delle ferite al volto. L'orbita sinistra si era rotta e la pelle squarciata, ma a ciò si stava riparando. L'osso era stato ricostruito, e con un altro piccolo intervento di chirurgia plastica sarebbe andato tutto a posto. Quello che mi sarebbe rimasto era la zoppia. Strano, quanto giunsi a odiarla. Ogni passo storto che facevo mi costringeva a ricordare che Robert McMillan era rimasto impunito per qualcosa di cui qualcun altro aveva pagato il prezzo. «Mendicanti a cavallo», commentò Albert Craven nel vedere la mia cupa espressione un tardo pomeriggio di settembre. «Mendicanti cosa?», chiesi alzando gli occhi dai documenti secondo i quali sarei diventato l'amministratore fiduciario dei beni terreni di Julian Sinclair.
«Mendicanti a cavallo. Viene da Shakespeare, credo dall'Enrico VI. "I mendicanti a cavallo fanno correre le loro bestie fino alla morte". Bisogna capire il contesto», osservò lasciandosi cadere sulla poltrona davanti alla mia scrivania. «"I mendicanti a cavallo", uomini non nati per governare che si ritrovano in posizioni di potere, "fanno correre le loro bestie fino alla morte", nel senso che non sanno come governare, che pensano soltanto al loro vantaggio e distruggono proprio ciò che volevano. Suppongo che sia per questo che leggiamo Shakespeare: potrebbe raccontarci la storia del mondo, o quanto meno di un regno, con una decina di parole ben scelte. "Mendicanti a cavallo"... potrebbe aver avuto in mente uno come McMillan. Ucciderà il suo cavallo, te lo garantisco. Non manca molto, ormai; avverte la pressione, sono settimane che non si fa vedere in giro. Quando girerai lo spot la prossima settimana, la promozione del programma, quando dirai a tutti che Julian sta scontando l'ergastolo per qualcosa che non ha fatto, quando racconterai come hanno cercato di impedirti di dire la verità, quando annuncerai che nel corso della prima puntata rivelerai il nome di colui che ha cercato di ucciderti... se non ti citerà per diffamazione si renderanno tutti conto che è un assassino e che Julian non lo è. Non si può ignorare una cosa simile». Stava cercando di tirarmi su, e quando fui costretto a dissentire mi sentii leggermente in colpa. «Il mendicante a cavallo», dissi con un cenno di gratitudine del capo, «potrei essere io; e la bestia che ho fatto correre fino alla morte è la lista sempre più lunga di accuse che non sono in grado di provare». Albert mi scoccò una breve occhiata solidale, poi batté le mani sulle cosce e si rimise in piedi. «Ero venuto per un motivo, e mi venga un colpo se riesco a ricordarlo!», rise. «Ma non ti preoccupare, alla fine si risolverà tutto». Feci per replicare, rammentandogli con gentilezza che entrambi avevamo visto abbastanza nelle nostre vite per credere che le cose finiscono sempre bene, quando squillò il telefono. «Sì? Va bene, me lo passi. Sì, sono Joseph Antonelli. Sì, sono l'avvocato di Julian Sinclair». Albert Craven si fermò davanti alla porta. I suoi occhi mi guardarono prima perplessi, poi allarmati mentre ascoltavo alzandomi lentamente dalla sedia. «Quando?», domandai guardando fuori dalla finestra e vedendo davanti agli occhi soltanto un'oscurità grigio ardesia.
«Come?», chiesi, e la mia voce era così flebile che ripetei la domanda, sicuro che nessuno avrebbe potuto udirla. Emisi un profondo, triste sospiro, riagganciai la cornetta e guardai Albert Craven, che me l'aveva già letto negli occhi. «Julian Sinclair è morto. È morto stanotte in un incendio, nella sua cella di San Quentin». 19 Julian Sinclair era morto in un incendio, era bruciato vivo nella sua minuscola cella insieme al vecchio con cui la condivideva. Gli incendi erano frequenti nei bracci di San Quentin, a volte originati da un detenuto suicida o impazzito che decideva di dar fuoco alla sua coperta, altre da una semplice scintilla nell'aria carica di polvere. Le fiamme che avevano ucciso Julian Sinclair avevano avuto origine nella sua cella, ma la loro causa (che fosse stato un gesto del vecchio impazzito dopo anni di prigionia oppure un incidente) non era il genere di interrogativo che le autorità carcerarie avessero tempo o voglia di esplorare. La morte di un detenuto significava soprattutto che si creava spazio per un altro. I resti carbonizzati dei due corpi vennero rimossi e la cella danneggiata venne immediatamente riparata e tinteggiata. Seppellimmo Julian a Colma, appena a sud di San Francisco, in un cimitero in collina, dove doveva trovarsi una buona metà di coloro che avevano vissuto a San Francisco. Se ne occupò Albert Craven. Prima di avere problemi con la legge Julian era troppo giovane per pensare alla morte, e men che meno a dove voleva essere sepolto; ma Albert, molto più anziano di lui, con il sentimentalismo di chi era nato a San Francisco aveva scelto una posizione che guardava verso la città. Julian venne sepolto lì, al posto suo. Soltanto altre quattro persone parteciparono alla cerimonia funebre nella piccola cappella di pietra del cimitero. Due erano ex studenti di Julian, ormai membri di importanti studi legali di San Francisco. Un vecchio chino su un bastone sedeva in silenzio in fondo alla chiesetta. Quando mi strinse la mano, alla fine della breve messa, mi disse che Julian aveva fatto qualcosa per suo figlio. Una donna sulla sessantina mi prese la mano e la resse con dolcezza nelle sue. Era la bibliotecaria del carcere. «Julian non avrebbe dovuto essere lì. Non aveva ucciso nessuno, vero? Penso di averlo saputo fin dal primo momento che l'ho visto, quando è venuto a lavorare in biblioteca. Non ho mai conosciuto nessuno come lui»,
disse con una lacrima negli occhi gentili e riflessivi. «Non riesco a credere che se ne sia andato». Pochi passi più in là, reggendosi sul bastone con entrambe le mani, il vecchio scosse la testa per ciò che aveva udito. Malgrado la schiena e le spalle curve aveva un aspetto notevole, con il suo groviglio di capelli bianchi e un naso fiero e adunco. Quando ti guardava, i suoi occhi brillavano intensi. «Ha salvato mio figlio. Il mio ragazzo stava scontando quindici anni di carcere per un delitto che non aveva commesso. Il vostro signor Sinclair, quando ancora insegnava a Berkeley, ha trovato le prove che alla fine l'hanno scagionato. Quando l'hanno accusato dell'omicidio di quella donna ho capito che era successo di nuovo, che avevano arrestato un altro innocente. Non c'è giustizia, vero, signor Antonelli? Soltanto nella vita che verrà. Sta meglio dove si trova adesso; in paradiso c'è un posto speciale per quelli come lui. Può starne certo, signor Antonelli. Io so che è così». Da parte sua, Albert Craven non era sicuro di nulla, se non del fatto che la vita era ingiusta. «C'è qualcosa di rasserenante, perfino di confortante in un funerale», disse in un tono gravido di pena e fatica, «quando le esequie sono quelle di un uomo della mia età o più anziano. Ma questo? Il funerale di un uomo così giovane e dotato? Va contro l'ordine dell'universo, spezza la grande catena dell'Essere. È quello che succede quando i padri seppelliscono i figli invece del contrario. Questo non è rasserenante, non è confortante; è osceno. È una morte priva di significato, un'uccisione senza senso, un omicidio. Non c'è nulla al mondo che possa porvi rimedio». La cruda ineluttabilità di quel giudizio non ammetteva repliche. La vita di Julian era finita: era morto e sepolto, e nulla avrebbe potuto riportarlo in vita; ma la questione se sarebbe stato ricordato come un assassino morto in prigione o come un innocente condannato ingiustamente era ancora aperta. Seduto al buio a casa mia, guardando dalla finestra le luci dorate che baluginavano lungo la periferia scura della baia, mi resi conto che nello schema generale delle cose non aveva importanza, che era un falso dilemma, la vuota eco della vanità e dell'orgoglio umani. Al suo funerale avevano partecipato sei persone, solo sei, una delle quali non l'aveva mai conosciuto e altre due avevano scambiato a malapena qualche parola con lui fuori dall'aula. Chi avrebbe ricordato, a chi sarebbe importato, se il suo nome fosse stato scagionato? Nessuno l'avrebbe ricordato; ma la stessa cosa si poteva dire di noi tutti,
e l'unica differenza era quanto tempo sarebbe passato prima che il mondo dimenticasse. L'importante non era che qualcuno ricordasse Julian Sinclair, o che sapesse che era morto vittima del crimine altrui; l'importante era che l'ultimo conto venisse saldato così da poter chiudere e riporre il libro che viene scritto su ciascuno di noi. Dovevo concludere quello che avevo cominciato. Andai in televisione per la prima puntata della nuova trasmissione e, come anticipato, rivelai il nome di colui che aveva cercato di uccidermi e che ora aveva praticamente ucciso un altro uomo. Esordii con le due parole che avevamo scelto come titolo del programma, titolo che avevo sfacciatamene rubato al famoso J'accuse di Zola. «Io accuso Robert McMillan di omicidio, non una, non due, ma tre volte! Lo accuso di avere ucciso la sua seconda moglie. Di aver fatto precipitare la sua auto da una scogliera fingendo che fosse un incidente. Lo accuso di avere assassinato la sua terza moglie Daphne, massacrandola a coltellate. E lo accuso di avere ucciso Julian Sinclair lasciando che andasse in prigione al posto suo, la prigione dove Julian è morto. Accuso Robert McMillan di avere cercato di uccidere anche me. Se non fossi stato sbalzato fuori dall'auto prima che andasse a sbattere sugli scogli, questa sera ci sarebbe stato qualcun altro al posto mio, ad accusarlo non di tre omicidi ma di quattro. Lo accuso di tentato stupro ai danni di Rachel Burke, una giovane donna che ha aggredito alcuni anni fa a Sydney, in Australia. E lo accuso di codardia per essersi rifiutato di accettare l'invito di questo network a venire qui e darmi del bugiardo davanti alle telecamere. «C'è stato un processo per l'omicidio di Daphne McMillan, e Julian Sinclair è stato condannato ingiustamente. Stasera, nel corso della prossima ora, cercheremo di rettificare la cosa. Non rifaremo il processo; non rimetteremo in scena ciò che è accaduto in aula. Ricreeremo l'omicidio stesso. Vi mostreremo ciò che accadde quella notte, a cominciare dall'arrivo di Daphne McMillan a casa di Julian Sinclair, da quello che lei gli disse e che lui rispose. Non useremo alcun teatro di posa: la casa che vedrete è quella in cui è accaduto tutto, l'abitazione di Julian Sinclair sulle colline di Berkeley. Le parole che Daphne e Julian si scambiano, i sentimenti che esprimono, i programmi che fanno provengono tutti dagli appunti presi nelle lunghe ore di conversazione che io stesso ho avuto con Julian Sinclair nei mesi fra l'omicidio e il processo. «Vi mostreremo Julian Sinclair e Daphne McMillan che si danno la buonanotte; e mentre lo fanno, vi mostreremo Robert McMillan che attende il momento giusto, all'esterno».
Feci una pausa, esitai; abbassai gli occhi sulle mani posate sul tavolo davanti a me. Poi tornai a fissare l'obiettivo. «Nel difendere Julian Sinclair ho commesso un errore. Non mi ero reso conto di quanto la televisione avesse reso praticamente impossibile un equo processo. Se poi sarei stato in grado di fare qualcosa è un'altra questione. È stata la televisione a condannare Julian Sinclair, e di questo siamo tutti in qualche modo responsabili. È troppo tardi per salvarlo, ma forse la televisione potrà aiutare a discolparlo e a far sì che venga ricordato per la persona corretta, onorevole e straordinaria che era». Nei giorni successivi il network dichiarò di aver ricevuto un numero di chiamate e di lettere senza precedenti. C'erano ovviamente quelle infarcite delle consuete oscenità, che insistevano sul fatto che Julian Sinclair fosse un assassino e che avesse meritato di morire in prigione, ma dopo ciò che mostrammo la stragrande maggioranza cambiò schieramento, in alcuni casi sostenendo di aver sempre saputo che Julian era innocente, in altri esprimendo la propria indignazione per il fatto che il vero assassino l'avesse scampata. «Forse abbiamo dato il via a un altro linciaggio», osservai con una risata amara mostrando ad Albert Craven una delle lettere più rabbiose. Albert diede un'occhiata alla missiva piena di errori di grammatica e ortografia. Le sue fini sopracciglia grigie si inarcarono sempre di più a mano a mano che leggeva. «Ce ne sono molte così?», chiese restituendomela. «A sufficienza», risposi. «Abbastanza da farti sospettare che il mondo sia completamente impazzito. Credevo di poter portare la gente a vedere le cose in un certo modo, come sono andate veramente la notte in cui Daphne McMillan è stata uccisa. È quello che faccio in aula, quello che faccio in ogni processo: mostro l'accaduto ai giurati facendolo diventare una storia. Lo faccio da anni, raccontandolo in modo che riescano a vederlo nella propria mente. Ma ora, invece che a una giuria, lo mostro a milioni di persone come una messinscena drammatica, una serie di immagini in movimento, in modo che loro possano vederle non mentalmente, ma davanti ai propri occhi; e invece di un dibattito, di una discussione, di ciò che una giuria fa o dovrebbe fare, la gente decide che McMillan è più colpevole di Julian e non desidera altro che mettergli il cappio al collo». «Be', è una prospettiva sulla quale non perderei il sonno», osservò Albert con un sorriso stanco. Aveva ragione, ovviamente: era inutile preoccuparsi per qualcosa che
non sarebbe accaduto e che, anche se fosse accaduto, non mi sarebbe dispiaciuto più di tanto. Nessuno avrebbe ucciso Robert McMillan per fare giustizia ai morti, anche se dovevo ammettere che in certi momenti mi trovavo a chiedermi come avrei difeso qualcuno che l'avesse fatto. Ricordavo ciò che mi aveva domandato Julian l'ultima volta che ci eravamo visti riguardo al vecchio processo per ordalia e per sfida. Eravamo davvero più civilizzati dei nostri antenati inglesi, violenti e timorati di Dio? McMillan aveva cercato di uccidermi, fallendo per pochissimo, e l'unica ritorsione che riuscivo a trovare era ripetere in televisione le stesse accuse che non avevano ancora sortito alcun effetto. Mi sarei dovuto presentare a casa sua e fare ciò che avrebbe fatto Harry Godwin: ridurlo in fin di vita a suon di pugni o farmi picchiare a mia volta per averci provato. E invece cosa facevo? Lo sfidavo? Sì, in un certo senso: a un duello a colpi di testi giuridici in un'aula di tribunale di sua scelta. Immaginatevi la mia sorpresa quando si decise finalmente a raccogliere la sfida. Il giorno dopo la trasmissione, a sentire i giornalisti, due terzi degli spettatori pensavano che Julian Sinclair fosse innocente e che l'assassino fosse McMillan; gli altri erano nella maggioranza dei casi indecisi. Il giorno successivo, dopo che si era tanto parlato di quella prima reazione, la percentuale di coloro che erano certi che l'assassino fosse McMillan, che avessero guardato il programma oppure no, era salita a più dell'ottanta per cento e c'era la possibilità che aumentasse ulteriormente. Era il genere di opinione pubblica al quale non si poteva resistere, e Robert McMillan era abbastanza intelligente da saperlo. Doveva essere stato un consulente della comunicazione, un pubblicitario superpagato a convincerlo di iniziare in tivù un'azione legale contro il suo accusatore. La mia trasmissione era andata in onda lunedì sera. Tre giorni dopo, giovedì alle 16,45, giusto in tempo per il telegiornale locale, Robert McMillan, seguito da due avvocati, un ufficiale giudiziario e le troupe di tutte le stazioni televisive cittadine, fece irruzione nel mio ufficio per denunciarmi come bugiardo. Mi rilassai sulla sedia e sorrisi. «I miei legali le spilleranno fino all'ultimo centesimo!», gridò McMillan con uno sguardo duro ed eccitato. Rispondendo all'imbeccata, l'ufficiale giudiziario, un piccoletto semicalvo e poco appariscente, fece un passo avanti, mi porse il foglio arrotolato di una citazione e poi tornò a scomparire fra la folla come se non fosse mai esistito. Gli operatori si avvicinarono, sgomitando per guadagnare la posizione migliore. McMillan e i suoi legali attesero con severa impazienza
che aprissi il documento che mi citava come imputato della causa. «E io che mi chiedevo cosa fare per la puntata della prossima settimana», osservai come per caso allungando una mano e premendo un tasto dell'interfono. «Le spiace portare qualche caffè per i nostri ospiti?», chiesi alzando gli occhi per vedere chi lo desiderava. «A quanto pare non ne vogliono, ma lo porti comunque nel caso cambino idea». Cominciai a leggere la denuncia, ma poi feci un rapido sorriso di scusa e indicai le due sedie vuote davanti a me. «Qualcuno si vuole...?». McMillan e i due avvocati mi guardavano con occhio torvo. Fissai prima uno e poi l'altro legale e tomai a indicare le sedie. «Siete pagati un tanto all'ora. Sedetevi, potrebbe richiedere del tempo. Volete che la legga, vero? E immagino vogliate un commento: per quale altro motivo ci sarebbero le telecamere? Ma un buon avvocato non vorrebbe mai che una persona facesse un commento su qualcosa che non ha letto... oppure non siete d'accordo?». La facciata di virtuosa indignazione, la maschera di chi era stato trattato ingiustamente, l'atteggiamento di innocenza ferita stavano diventando sempre più difficili da mantenere per McMillan. I muscoli della sua mascella si contrassero, e i suoi occhi divennero freddi, duri, maligni. «... Nella e per la città e la contea di San Francisco», lessi con una lenta occhiata di studio. «Di sicuro sembra che abbiate imbroccato la giurisdizione; anche se, quanto meno in teoria, suppongo che dopo una trasmissione nazionale non fosse necessario presentarla qui. D'altra parte...». Diverse telecamere si abbassarono per far riposare le braccia degli operatori; alcuni dei quali, imitati da qualche giornalista, cominciarono ad appoggiarsi con la schiena alla parete. «La sto citando per diffamazione!», sbottò McMillan in tono rabbioso e con voce strozzata. Alzai una mano, scossi la testa e mi sedetti in avanti. «Lei mi sta citando per calunnie», precisai, «non per diffamazione a mezzo stampa. Le verità che ho detto su di lei le ho dette in televisione. Ora, come possono confermarle i suoi legali, c'è un capo d'accusa per ogni volta che viene ripetuta la frase diffamatoria. Pertanto, visto che voglio essere il più equo possibile, lasciate che assicuri tutti i presenti in questo ufficio e tutti coloro che vedranno queste immagini più tardi alla televisione che non vi è stato alcun errore o malinteso, che intendevo dire esattamente ciò che ho detto di lei tre giorni or sono, che non mi sognerei mai di ritrattare una sola parola e che lo ripeterò un'altra volta in sua presenza: lei ha ucciso la sua seconda moglie e ha assassinato Daphne McMillan; ha mentito sotto giuramento e
ha mandato in prigione e alla morte un innocente, Julian Sinclair. E quest'estate ha cercato di uccidere anche me». Mi alzai dalla sedia e gli puntai contro il dito. «Robert McMillan, io l'accuso di essere un assassino e un bugiardo. E rispetto a questa citazione», dissi con un sorriso di sfida agitandogliela davanti al volto, «non potrei esserne più contento. È da molto tempo che aspettavo di riportarla in tribunale!». Se i suoi avvocati non l'avessero trattenuto, credo che avrebbe cercato di aggredirmi. «Lei è un bugiardo, Antonelli!», gridò lottando per liberarsi. «Non ho mai cercato di ucciderla! Non c'entro niente!». Si ricompose. Rivolse un'occhiata a ciascuno dei due avvocati, e loro lasciarono la presa. Inquadrato da tutte le telecamere, mi guardò e ribadì la sua innocenza. «Non ho mai ucciso nessuno», disse in tono calmo e sommesso. «Non ho ucciso la mia seconda moglie, non ho ucciso Daphne e di sicuro non ho cercato di uccidere lei. Lo giuro sulla tomba di mia madre. Posso capire come si sente. Un suo cliente, un uomo che lei ha difeso e che crede innocente, è stato mandato in prigione; ma non capisco come possa cercare di fare a me la stessa cosa che sostiene sia stata fatta a lui: condannarmi per qualcosa che non ho fatto processandomi in televisione. Potrà anche essere in grado di difendere le sue azioni, ma io temo di non poterlo fare. Mi dispiace che si sia giunti a questo, al fatto che debba citarla per difendere il mio nome; ma non mi ha lasciato altra scelta». Lo disse con tale angoscia, con tale sofferenza - la voce spezzata ancor prima che riuscisse a finire - che arrivai quasi a chiedermi se non mi fossi sbagliato. Si voltò verso le telecamere, rivolgendo a loro il suo sguardo innocente. La scorsi per un solo istante, la scintilla di trionfo, la certezza di poter far credere qualsiasi cosa a chiunque. Era colpevole, colpevole di tutto ciò che avevo detto e probabilmente anche di molto altro; ma provarlo sarebbe stato meno facile di quanto avessi sperato. Julian aveva ragione: Robert McMillan era troppo intelligente per commettere un errore, e men che meno per confessare. Per la prima volta dovetti considerare la possibilità che Robert McMillan, la parte civile, potesse vincere la causa in cui io ero l'imputato. «Cos'era tutta quella confusione?», domandò Albert Craven dopo che gli ultimi operatori e giornalisti se ne furono andati. Si chinò e raccolse un
pezzetto di carta dal tappeto, parte delle macerie lasciate sul campo dall'invasione. «McMillan è venuto di persona? Ce l'hai fatta, allora; l'hai costretto a fare la sua mossa. Soltanto un individuo disperato avrebbe potuto tentare una cosa simile». Sbirciò la citazione che giaceva ripiegata sulla mia scrivania. «È quella, la denuncia? Da chi ti facciamo rappresentare? Oppure ti rappresenterai da solo? Facciamolo insieme!». Sorridendo per il suo stesso suggerimento, si sedette in poltrona. Il suo modo di fare rilassato e sicuro sconfisse il mio inizio di depressione. Mi rammentò quanto e cosa avevamo atteso; mi ricordò che era la nostra ultima occasione per far sì che McMillan pagasse per i suoi crimini e per salvare il nome di Julian da un oblio ingiusto e crudele. «La prima cosa da fare è parlare con Harry Godwin. Ho bisogno di Rachel Burke». «Per il processo, certo», rispose Albert. Si chinò in avanti con espressione serissima. «In seguito, forse; ma al momento ne ho bisogno per la trasmissione». «È giovedì sera, venerdì pomeriggio a Sydney. Non abbiamo molto tempo. Non ti conviene aspettare una settimana o due, far sapere a tutti cos'hai in programma e ricordare quello che hai già detto, che hai una testimone, una donna che McMillan ha cercato di violentare?». Aveva ragione, come al solito. Sarei stato molto più efficace se avessi agito con calma, facendo montare la cosa fino alla sua conclusione, invece di precipitarmi a presentare l'unica testimone nonché l'unica prova che avevo. Dovevo fare attenzione; non potevo lasciarmi trascinare dalle emozioni. Non mi potevo permettere, non quand'ero arrivato così vicino al traguardo, di commettere uno stupido errore. «Perché non chiami Harry per raccontargli l'accaduto? Digli che nelle prossime settimane avrò bisogno che Rachel Burke si presenti in trasmissione. Poi domandagli, se non ti spiace, se è il caso che a Rachel lo chieda io o se è meglio che lo faccia lui». Durante il fine settimana, preparandomi per la trasmissione del lunedì, la seconda puntata di "Io accuso", cercai di non lasciar correre i pensieri troppo in là. Un'azione civile, una causa per diffamazione, si sarebbe potuta protrarre per anni. Gli avvocati guadagnavano fortune grazie ai ritardi. Cercavo di non proiettare troppo i miei pensieri nel futuro perché ogni volta che lo facevo mi veniva da chiedermi quanto sarei stato in grado di resistere prima che l'attenzione del pubblico si rivolgesse a qualcos'altro,
come sempre succedeva. Era meglio non pensare a cosa sarebbe potuto accadere, meglio concentrarsi su quello che potevo fare ora: continuare a esercitare pressione nella speranza che prima che il mondo perdesse ogni interesse in quella storia McMillan commettesse l'errore che l'avrebbe smascherato per l'assassino che era. Cercavo di non pensare troppo al futuro perché la mia vera paura, quella che mi assaliva nel mezzo della notte quando non riuscivo a dormire, era che Robert McMillan tornasse a uccidere prima che potessi fermarlo. Nel tardo pomeriggio di domenica finii di preparare la puntata di lunedì e mi vestii. Avevo in programma di uscire a cena con una vecchia amica. Ero quasi fuori dalla porta quando il telefono squillò. Pensai che fosse lei, che mi stesse avvertendo di un lieve ritardo, e mi affrettai a rientrare. «Sono Erskine... Erskine Rhodes». La sua voce era stranamente formale, esitante, come se non sapesse bene cosa dire. «Sì, Erskine, cosa posso fare per lei? Stavo per uscire. Riguarda la puntata di domani?». Ci fu un profondo silenzio. «Erskine? È ancora lì?». «Sì, mi scusi», disse lui. «Sì, riguarda la puntata di domani». Scivolò di nuovo nel silenzio, ma stavolta si riprese più rapidamente. «Mi dispiace chiederglielo con così poco preavviso, ma è davvero importante. Potrebbe venire immediatamente alla stazione? È successo qualcosa, e dobbiamo fare qualche cambiamento. Harry Godwin pensa che sia il modo migliore di affrontare la situazione. Ha detto di dirglielo». «Quali cambiamenti?», domandai quando fece una pausa. «Quale situazione?». «Domani non faremo la sua trasmissione, e potremmo non farla per un pezzo. Abbiamo bisogno, il signor Godwin pensa che funzionerà, che lei prenda il posto di Bryan Allen. Vogliamo che conduca la trasmissione ogni sera». «Ma perché? Che è successo? Di che situazione sta parlando?». Erskine Rhodes si schiarì la gola. Lo potevo vedere, i gomiti posati sulla sua scrivania pulitissima, intento a fissare davanti a sé in quella stanzetta quadrata e disordinata. «Bryan è stato arrestato, oggi nel tardo pomeriggio». «Arrestato? E per cosa?», domandai sollevato che non fosse niente di serio. Cercai di non ridere all'idea di Bryan Allen che veniva fermato dalla
polizia per guida in stato di ubriachezza. «Per omicidio». Non ci credevo; non potevo aver sentito bene. Era un errore. «Omicidio? E chi dovrebbe aver ucciso?». «La polizia lo ha arrestato per l'omicidio di Robert McMillan». 20 Non ero certo di cosa provavo per l'assassinio di Robert McMillan. Non mi dispiaceva che fosse morto, che fosse stato vittima di un omicidio; provavo semmai sollievo per non dovermi preoccupare di chi avrebbe ucciso in futuro. Non ero dispiaciuto per Robert McMillan, che aveva avuto ciò che meritava; ero dispiaciuto per me stesso. Mi era stata tolta la vendetta, ero stato lasciato a mani vuote. Ma poi cominciai a rendermi conto che forse ciò che era accaduto era ancora meglio della vendetta. Era una conclusione, una fine che nessuno più dello stesso Julian avrebbe apprezzato: McMillan assassinato e Bryan Allen accusato! Sembrava così perfetto, così appropriato, che il conduttore del linciaggio mediatico che aveva sottratto un equo processo a Julian e l'aveva mandato a morire in prigione venisse ora accusato di omicidio. Robert McMillan era stato ucciso e la polizia aveva arrestato Bryan Allen. Dal momento in cui lunedì sera entrai nella stazione televisiva e notai i bisbigli frenetici e sommessi e l'atmosfera di tesa aspettativa, mi resi conto che quanto era accaduto a Julian Sinclair era ormai storia vecchia. L'unico nome che tutti ricordavano era Bryan Allen, e l'unica cosa che tutti volevano sapere era ciò che aveva fatto. La sera prima passai diverse ore con Erskine Rhodes a ripassare tutto ciò che il network pensava dovessimo fare. Trattare Bryan Allen come se fosse un accusato qualsiasi, era l'ipocrita direttiva della dirigenza newyorkese. Ma cosa significava, quando l'accusato era uno dei nomi più noti d'America e il trattamento di cui parlavano gli sarebbe stato riservato dal programma che lui stesso aveva reso famoso? Dopo un breve silenzio, qualcuno disse quello che tutti stavano pensando nel corso della telefonata in conferenza: «Sarà grande televisione!». Mi sentii in dovere di rammentare a tutti che nessuno sapeva ancora com'erano andate le cose, che si sapeva solo che Allen era stato trovato sulla scena del delitto, la casa di McMillan a Russian Hill, ed era stato arrestato. Vi fu un istante di pausa, come se tutti stessero aspettando di vedere chi avrebbe parlato per primo; poi, con
quello che parve un gran sollievo generale dopo un momentaneo imbarazzo, si passò ad affrontare la questione più urgente del titolo del programma. «Pensa che dovremmo usare l'espressione "la recente tragedia" oppure "l'omicidio di ieri sera"?», domandò Erskine Rhodes con la matita pronta sopra un foglio di carta bianca. Mancavano meno di dieci minuti all'inizio, e il producer stava ancora lavorando sull'introduzione. Io ero in piedi con la schiena addossata alla porta e le braccia incrociate sul petto. Sempre più irritato, battei il piede sul pavimento di linoleum. «Avrei dovuto condurre una trasmissione alla settimana, e adesso dovrei farne cinque?». Rhodes aveva deciso. La sua mano attraversò il foglio apportando la correzione dell'ultimo minuto. «Non si preoccupi», disse esprimendo soddisfazione per il cambiamento con un lieve sorriso. «Sarà magnifico. È la stessa cosa che avrebbe fatto, con l'unica differenza che adesso la farà più spesso». Diede un'occhiata a ciò che aveva scritto. Annuì, prese il foglio e si diresse verso il teatro di posa con me alle calcagna. «Il programma è suo, non sostituisce più nessuno. Non si preoccupi. Sarà magnifico». Appena prima di arrivare sul set mi prese in disparte. «Ascolti, non ho idea di cosa sia successo, ma le posso garantire che c'è di mezzo una donna. Bryan era sempre coinvolto con qualche donna. Ricorda la prima volta che l'ha sostituito? La causa era una donna che aveva conosciuto. Lo faceva di continuo. Non aveva importanza che fossero sole oppure no. Io non le ho detto niente, va bene? Ma scommetto che è andata così». «La fidanzata di McMillan?». Si strinse nelle spalle. «Non saprei». «Ma se Allen aveva una storia con la donna che McMillan stava per sposare», obiettai sempre più confuso, «dovrebbe essere stato McMillan a volerlo uccidere. Per quale ragione lui avrebbe dovuto...?». C'incamminammo verso il set, scavalcando i grossi cavi neri che giacevano sul freddo pavimento di cemento. «Ma è la stessa cosa, non è vero?». «Chiedo scusa?», fece Rhodes con fare confuso. «Lo stesso movente che sostenevano avesse Sinclair, o quasi. In entram-
bi i casi qualcuno viene ucciso a causa di una donna che in teoria apparteneva a Robert McMillan». Presi posto all'estremità del tavolo e scambiai un breve saluto con ciascuno degli ospiti. Erano stati tutti chiamati con scarsissimo preavviso. Paula Constable, vestita in una delle sue sfumature di rosso, raddrizzò le spalline già dritte della giacca e si umettò le labbra. La giovane, graziosa viceprocuratore distrettuale di Los Angeles inarcò il collo e sollevò il mento con un'espressione di intensa concentrazione negli occhi castani e pieni di trasporto. L'ultimo ospite non era un avvocato bensì un consulente della comunicazione, ed era stato convocato per esprimere la sua opinione sui probabili effetti di un'accusa di omicidio sulla carriera di Bryan Allen. Non eravamo lì per tessere le lodi di Cesare, ma per seppellirlo. Il network era sicuro che i dati di ascolto avrebbero superato di molto quelli delle puntate più seguite del "Bryan Allen Show". «Buonasera», cominciai mentre la telecamera stringeva su di me, «e benvenuti al "Bryan Allen Show". Sono Joseph Antonelli, il conduttore di "Io accuso". Il motivo per cui stasera sono qui è che, come tutti già saprete, Bryan Allen è stato arrestato e accusato dell'omicidio di Robert McMillan. Questa sera discuteremo dei tragici eventi delle ultime ventiquattr'ore e di ciò che significano. Una delle questioni che intendiamo affrontare è se un individuo che è apparso in televisione così spesso come Bryan Allen possa avere un processo equo oppure se, proprio grazie alla sua celebrità, sia avvantaggiato rispetto ad altri. La giustizia è diventata forse una cosa per i pochi ricchi e privilegiati e un'altra per la grande maggioranza di noi che non è mai stata in televisione?». Non era quello che Erskine Rhodes avrebbe voluto che dicessi, ma a quel punto non ero più dell'umore di leggere quello che lui o chiunque altro aveva scritto. Non m'importava cosa pensava un dirigente newyorkese che non avevo mai visto in faccia riguardo a come fare della grande televisione. Avrei detto quello che pensavo e fatto quello che volevo. Ora che McMillan era morto non potevo fare altro che osservare ciò che accadeva, provando una punta di crudele piacere per la frequenza con cui l'arroganza diventava la rovina delle celebrità. Perché se l'arresto di Bryan Allen insegnava qualcosa, era l'antica lezione sulla rapidità con cui crollano le persone famose. Paula Constable ci informò che malgrado la polizia e la pubblica accusa mantenessero il massimo riserbo sul caso, le sue fonti le avevano confermato che le prove a carico di Allen erano inoppugnabili. Il movente, spie-
gò con un'espressione di esperta imparzialità, era esattamente quello che lei aveva sospettato. «Sapevo che doveva esserci di mezzo una donna. Non mi fraintendete. Quello che fanno le persone nella vita privata è un loro problema, non mi riguarda, ma Bryan era un libro un po' troppo aperto riguardo a certe cose; era un po' troppo disposto a correre rischi, non so se mi spiego. Donne sole, donne sposate... cosa posso dire? A Bryan piacevano tutte». «Mettiamo le cose in chiaro», mi inserii non appena si fermò per prendere fiato. «Sta dicendo che la polizia pensa che Bryan Allen abbia ucciso Robert McMillan a causa di una donna?». Le sue lunghe ciglia nere batterono in rapida successione, come un metronomo che dava il tempo ai suoi calcoli mentali. «Sì. Susan Lind, la fidanzata di McMillan. Lei e Bryan Allen avevano una relazione», riprese con una luce di trionfo nello sguardo. «Lo sapevano tutti», soggiunse con il furbo istinto di una donna che capisce che non si può influenzare la massa se prima non la si crea. «Lo sapeva l'intera città», insistette, facendo sentire escluso chiunque, me compreso, non frequentasse la cerchia in cui tutti erano al corrente degli amorazzi delle celebrità. «È un miracolo che una cosa del genere non sia successa prima. È per questo che l'ha ucciso», sostenne con un'occhiata feroce e decisa. «McMillan l'ha scoperto, ed è successo qualcosa». È successo qualcosa? Era tutto lì? «Ma cosa è successo?», chiesi sporgendomi verso di lei con un sorriso scettico sulle labbra. «Bryan Allen è stato arrestato sulla scena del delitto. Ma se aveva una relazione con la donna che McMillan stava per sposare e se McMillan era venuto a saperlo, perché avrebbe dovuto andare a casa sua?». «Forse McMillan aveva preteso che andasse da lui a dargli una spiegazione», disse Ellen Robinson, sostituto procuratore di Los Angeles, ansiosa di inserirsi nel dibattito. La sua voce era sommessa ma insistente. Mi voltai immediatamente verso di lei, e lo stesso fece la telecamera. «Il fatto che McMillan fosse furioso spiegherebbe il suo tentativo di uccidere Allen; ma perché Allen dovrebbe aver ucciso McMillan?». «Perché lei aveva intenzione di farla finita, aveva deciso di sposare McMillan!», insistette la Constable con sguardo fiammeggiante, calando il pugno ossuto sul tavolo. Aveva la risposta a qualsiasi domanda, e non si sarebbe arresa finché non l'avessimo ascoltata. «È la stessa cosa che disse di Julian Sinclair prima che venisse arrestato:
che aveva una relazione con la moglie di McMillan. E adesso ci sta dicendo che un altro uomo aveva una relazione con un'altra donna con cui McMillan era sposato o fidanzato? Cosa c'è, nelle donne di McMillan, che le porta sempre ad avere una storia con qualcun altro e a finire ammazzate?». Fece per ribattere, ma io glielo impedii con un sorriso teso e rabbioso. «Lei si è sbagliata, si è sbagliata di grosso, su Julian Sinclair; sicché dovrà perdonarmi, signorina Constable, se sono poco disposto a dar credito a questa voce che sostiene di aver sentito». Mi voltai verso l'altro ospite, il consulente della comunicazione, ma la Constable non aveva intenzione di rinunciare all'ultima parola. «Sbagliata su Julian Sinclair? Sbagliata sulla sua relazione con la moglie di McMillan? Se ben ricordo, non mi sono sbagliata su niente. Julian Sinclair è stato giudicato colpevole e rinchiuso a San Quentin. Sì, sì, lo so», soggiunse dandomi sulla voce, «lei ha sempre sostenuto che era innocente, che non aveva ucciso la donna con cui stava o non stava avendo una storia, che l'aveva uccisa McMillan. Ma non è mai riuscito a provarlo, non è vero? E ora che McMillan è morto, suppongo che non potrà mai farlo. Si fidi di me, Antonelli», declamò con uno sguardo acceso e battagliero. «Allen ha ucciso McMillan, e il movente è quella donna, Susan Lind, proprio come ho detto». «Fidarsi di lei? Si è sbagliata su Julian Sinclair e si sbaglia anche adesso! Bryan Allen non ha ucciso Robert McMillan. Perché? Perché la cosa non ha alcun senso; e perché, come ho cercato di far capire l'ultima volta che è accaduto qualcosa di simile, abbiamo il dovere di pensare che sia innocente, poiché in caso contrario saremmo soltanto una folla sediziosa vestita con abiti migliori. Aspettiamo il processo, lasciamo che sia la giuria a decidere. Non è quello che un avvocato ha giurato di fare?». La Constable rimase a bocca aperta per la rabbia; ma prima che potesse rispondere mi rivolsi al consulente della comunicazione. «Ma poniamo che Bryan Allen venga giudicato colpevole di omicidio. Che effetto farebbe su una trasmissione come questa? Gli spettatori comincerebbero a spegnere i loro televisori?». «No, non penso», rispose lui. «Probabilmente succederebbe il contrario. Potrebbe guadagnare in credibilità. È quello che Allen ha sempre detto, no? "La polizia sa quello che fa"». I dati di ascolto furono ancora migliori del previsto, migliori di quanto chiunque avesse osato sperare. Il giorno dopo, il network annunciò che il
"Bryan Allen Show" sarebbe stato ribattezzato "Giustizia per tutti, con Joseph Antonelli". E io avrei voluto mollare tutto. «Non puoi farlo», insistette Albert Craven in tono comprensivo. «Non puoi farlo a Harry. Sei in debito con lui per averti dato un programma con cui prendere di mira Robert McMillan. Gli siamo entrambi debitori. Non è colpa sua se McMillan è stato ucciso; e di sicuro non è colpa sua che l'abbia ucciso Bryan Allen. Ma perché vuoi mollare, fra l'altro? Sei un successone!». Mi rivolse un sorriso ameno e tornò a sedersi sulla poltrona imbottita dietro la sua orribile, gigantesca scrivania. Con i suoi scintillanti gemelli di onice e le sue scarpe morbide e lucide aveva l'invidiabile aspetto di un uomo che aveva tutto, compresa la consapevolezza di quanto poco ciò significasse. Craven aveva vissuto troppo a lungo per credere che cercare di cambiare le cose, di correggere le follie del mondo avesse un senso. Era la menzognera illusione dell'ignoranza e la nobile illusione della giovinezza, la convinzione che gli sforzi di chicchessia potessero fare una qualche differenza in ciò che aveva preso forma da tempo immemore. Che fossero i giovani come Julian, se ne esistevano altri come lui, a rifare il mondo in una nuova, più tollerabile immagine; Albert poteva soltanto augurare loro buona fortuna. Avrebbe assistito con il tranquillo distacco di un uomo che aveva imparato che gli unici cambiamenti che possiamo fare sono quelli in noi stessi. «Sono un impostore», ribattei, e in un certo senso ne ero fiero. «Sì», convenne Albert con un sorriso scaltro ed enigmatico. «Ma lo sei di proposito, il che ti rende diverso e spiega come tu abbia fatto a diventare tanto bravo e perché, anche se non lo dovessi a Harry, continuerai». «Davvero?», chiesi. Ora che gliel'avevo sentito dire ero sicuro che avesse ragione, ma ero riluttante ad ammetterlo troppo in fretta. «Sì. È la curiosità, non pensi? Il bisogno di vedere fino a che punto ci si può spingere. Per un po' dovrai proseguire. Per tutto il processo a Bryan Allen, suppongo. È una buona durata, sufficiente a farti capire come si svolgeranno le cose. Il processo, perché rivelerà tutto quello che riusciremo a scoprire su Robert McMillan, comprese forse le prove che è stato lui a uccidere sua moglie, dandoci la possibilità di fare qualcosa per Julian Sinclair. E al di là del processo in se stesso, la possibilità di vedere dall'interno come la televisione condiziona il nostro modo di vedere le cose e di pensare. Devi restare fino alla fine». Albert inarcò le sopracciglia e mi scoccò un'occhiata seria e indagatrice. «È l'unica possibilità che avrai di
assicurarti che almeno questa volta le cose vengano fatte nel modo giusto». Dopo quella conversazione, diverse cose mi divennero chiare. Sarei rimasto con Harry Godwin e il suo network fino alla fine del processo per l'omicidio di Robert McMillan, dopodiché avrei dato le dimissioni. Sarei ridiventato un avvocato che si occupava solo di casi da tribunale; e avrei fatto del mio meglio per accettare i numerosi modi in cui avevo mancato nei riguardi di Julian Sinclair. Malgrado avessi espresso il mio desiderio di mollare soltanto ad Albert Craven, Paula Constable rivelò una leggera e alquanto ironica sorpresa nel vedere che continuavo a condurre il programma. «Ha il mio nome», le rammentai con gentilezza qualche giorno dopo, mentre sedevamo sul set pochi minuti prima dell'inizio. Lei portava la stessa sfumatura di rossetto, ma la giacca rossa era leggermente più chiara di quella di qualche giorno prima. Mi domandai cosa si dovesse provare entrando nel suo armadio a muro: era come finire sotto una doccia di rose rosse o in un lago di sangue? «Sì, e volevo dirle che lo trovo fantastico. Sarà magnifico, meglio di quanto sia mai stato Allen. No», proseguì squadrandomi con una sorta di amichevole sospetto, «quello che intendevo è che ero quasi certa che lei sarebbe stato il primo a cui Allen avrebbe chiesto di rappresentarlo. Non l'ha chiamata?». «Bryan Allen?», chiesi per prendere tempo. Mi aveva chiamato due volte, ma io non potevo scordare che era stato lui, più ancora che qualsiasi testimone dell'accusa, a far condannare Julian Sinclair. La terribile verità era che speravo che fosse colpevole dell'omicidio di Robert McMillan e che venisse mandato in prigione come Julian. «Sì, Bryan Allen, chi altro? L'ha chiamata? Avevo sentito che aveva intenzione di chiederglielo». «Non accetto casi. Ho la trasmissione, non posso fare entrambe le cose. Anche se non esistesse un conflitto, non ne avrei il tempo». La Constable trasse un profondo respiro, poi cambiò argomento con un breve, meccanico sorriso, passando a un'amica famosa che aveva incontrato qualche giorno prima e che si era detta entusiasta del programma. Mi chiesi cosa significassero quel sospiro e quel sorriso, come mai sembravano esprimere sollievo. Poi, non appena la trasmissione ebbe inizio, cominciai a sorridere fra me nel vedere il modo in cui la Constable sembrava fare retromarcia, sostenendo di avere qualche dubbio sul fatto che la polizia avesse arrestato l'uomo giusto, di essere stata male informata e di avere tro-
vato fonti migliori. Era troppo presto per dire di preciso cos'era accaduto la sera in cui Robert McMillan era stato ucciso, ma era in possesso di "informazioni attendibili" riguardo al fatto che il motivo per cui la polizia si rifiutava di rivelare alcunché ai media era che al momento le prove a carico di Allen erano "puramente indiziarie". Era una meraviglia. Paula Constable era capace di partire sostenendo una posizione e a metà della prima frase cominciare a sostenere il suo opposto. Sarebbe stata in grado di cambiare direzione nel bel mezzo di una caduta. Le sue opinioni erano mutevoli come il vento, i suoi principi erano buoni soltanto per una stagione. La settimana successiva tornò in trasmissione, e senza avvertire nessuno, senza nemmeno darmi un indizio sulle sue intenzioni, annunciò che l'avvocato di Bryan Allen era stato sostituito e che da allora in poi se ne sarebbe occupata lei. Con un sorriso rapido e concreto ci assicurò, e tramite noi assicurò al mondo intero, che Bryan Allen era innocente e che lei non vedeva l'ora di provarlo in tribunale. «E poi, a processo finito», soggiunse inarcando un sopracciglio nella mia direzione, «Bryan ci inviterà nel suo programma e noi, o alcuni di noi, potremo spiegare perché eravamo tanto sicuri che fosse colpevole!». 21 Per essere una che aveva fatto carriera in televisione, Paula Constable si trasformò in una decisa oppositrice del primo emendamento e del diritto all'informazione del pubblico. Nel giro di pochi giorni dall'assunzione della difesa di Bryan Allen richiese un'ordinanza che impediva di parlare delle indagini a chiunque ne fosse a conoscenza. La procura si unì alla richiesta, che venne approvata dalla corte. Il silenzio stampa divenne totale; nessuno sapeva nulla oltre al fatto che Robert McMillan era stato ucciso e che Bryan Allen sarebbe stato processato. McMillan era morto per ferita d'arma da taglio. Si era dato naturalmente per scontato che l'arma fosse stata un coltello, ma il rapporto evitava quella parola. Se era stato usato un coltello, perché veniva usata l'espressione "strumento affilato a punta"? Era un segno di quanto tutti avessero un disperato bisogno di avere qualcosa da dire, il fatto che venissero prestate così tante attenzioni a quello che con ogni probabilità non era altro che l'ennesimo esempio di quanti danni l'amministrazione pubblica, in questo caso la burocrazia poliziesca, poteva fare alla lingua inglese. Paula Constable si rifiutava di venire in trasmissione e di parlare con la
stampa. Aveva l'ordine di non parlare del caso, ma l'ordine era stato emesso su sua richiesta. Il caso Allen era quello che aveva sempre desiderato, e che l'avrebbe resa uno dei legali più famosi d'America. Dopo tutti quegli anni di attesa, la sua occasione era finalmente arrivata; tutto ora dipendeva da ciò che avrebbe fatto in aula. Non vedevo l'ora che arrivasse il processo, non più soltanto per ciò che speravo avrebbe rivelato di Robert McMillan e di quello che aveva fatto, ma anche per vedere come lei se la sarebbe cavata. Finché, una settimana prima dell'inizio, mi telefonò. Erano le nove di sera appena passate. Disse che mi stava chiamando dal suo ufficio, e si chiedeva se ci potevamo vedere per un drink. C'era una cosa di cui mi doveva parlare, una cosa importante. Propose un locale di North Beach, un "posto per turisti" dove c'erano più probabilità di non essere riconosciuti. Disse che ci poteva arrivare in una mezz'ora. Mi aspettava in un séparé di legno nell'angolo dopo il banco affollato e chiassoso. Non portava rossetto e non era vestita di rosso. Aveva gli occhi cerchiati, la sua pelle era gonfia e macchiata, la bocca aveva una piega agli angoli. Aveva l'aspetto di chi non dormiva da giorni. Aveva già ordinato da bere. «Grazie di essere venuto», disse in un sussurro rauco mentre mi infilavo nel séparé e chiamavo il cameriere con un cenno. Aveva un aspetto disastroso, e io le rivolsi un sorriso solidale. «Non c'è niente come prepararsi a un processo per omicidio, vero? Giornate lunghe, notti insonni, sempre più domande e mai abbastanza risposte. Detesti ogni istante, ma quando è tutto finito ricordi che non ti sei mai sentito tanto vivo». Mi fissò con espressione vacua. Aveva troppi pensieri, era troppo coinvolta dal caso per afferrare il concetto che presto sarebbe finito e men che meno che vi avrebbe ripensato con nostalgia. «Ho bisogno di parlarle, ma in via ufficiosa. Deve restare fra noi. Solo più avanti, dopo il processo e il verdetto, potrà usare quello che le dico. D'accordo?». Mi sentii in dovere di rammentarle che l'ordinanza che lei stessa aveva richiesto significava che non poteva dirmi niente fino alla fine del processo. I suoi occhi tradirono una fiammata della loro vecchia insolenza. «Se non glielo dico adesso, più avanti non mi crederà. Ma non potrà usarlo, non potrà parlarne con nessuno finché non sarà tutto finito. Bryan Allen vuole testimoniare in propria difesa».
Attesi che proseguisse. Lei mi guardò come se avesse detto tutto il necessario e non riuscisse a capire come mai non ne afferravo l'importanza. «Gli ho detto che non dovrebbe farlo. Voglio che lei lo sappia: gli ho consigliato di non farlo, di non testimoniare. Ora ha capito?». Spostò leggermente il suo bicchiere prima da una parte e poi dall'altra sul tavolo. Continuava a mordicchiarsi il labbro inferiore. Non riusciva a smettere di battere le palpebre. «Gli ho detto che se testimonia non potrò fare niente per lui; gli ho detto che se lo farà verrà condannato. Lei mi è testimone. Potrà sostenere di averlo saputo da una fonte vicina alla difesa. Ma mi prometta che lo dirà; che dirà che è stata una decisione sua e che io ero contraria». Allen non aveva precedenti penali, non era un criminale con una lunga storia di violenze che poteva essere usata per incriminarlo se avesse testimoniato; non nascondeva alcun comportamento illegale che potesse far pensare a una giuria che doveva averlo fatto di nuovo solo perché l'aveva già fatto una volta. Se era stato arrestato per una multa stradale, nessuno ne era al corrente. Come mai, allora, il suo avvocato si stava assicurando di avere qualcuno che potesse confermare che si era opposto alla decisione di testimoniare sotto giuramento da parte del suo cliente? Potevo pensare a una sola ragione. «Deve ritirarsi. Non può rappresentarlo. Avverta la corte che ha un conflitto etico; il giudice dovrà accogliere la sua mozione». La Constable mi scoccò un'occhiata perplessa e spazientita. «Di cosa sta parlando? Quale conflitto etico?». «L'imputato ha il diritto di difendersi», cominciai, stupefatto di doverle ricordare una cosa così semplice. «Se decide di testimoniare non glielo può impedire, ma non può nemmeno portare dietro il banco un teste sapendo che mentirà. Se Allen le ha detto di essere stato lui, di essere colpevole, e ciò malgrado rivendica il diritto a testimoniare, lei è in conflitto e si deve ritirare». Mi rivolse uno sguardo navigato, divertita dalla mia perdonabile ignoranza. Le stavo dando dei consigli da libro di testo per una situazione che non aveva precedenti. «Se sapessi che ha intenzione di mentire, non sarei così preoccupata», osservò con un'occhiata dolente. «Il problema non è lo spergiuro: il problema è che vuole dire la verità. Il che potrebbe anche andare bene, se non fosse per il fatto che una menzogna, una menzogna qualsiasi, sarebbe più credibile».
«Ma perché?», domandai. Ero interessatissimo. «Cosa è successo con McMillan? Non è stato Allen a ucciderlo?». Paula Constable si portò il bicchiere alle labbra, guardandomi come se avesse voluto farmi una domanda ma non sapesse se fosse il caso di porla. «Le ho già detto più di quanto avrei dovuto», rispose con fare circospetto. «Allen si è dichiarato non colpevole, e andremo al processo. Lui testimonierà, e racconterà qualcosa di inaudito; e l'unico dubbio sarà se la giuria aspetterà di ritirarsi prima di condannarlo». «Sta semplicemente passando quello che io passo prima di ogni processo: pensa di non poter vincere in alcun modo, ma dopo qualche giorno sarà convinta che nessun giurato sano di mente potrebbe mai condannare l'imputato». Sorrise, si sporse in avanti e mi posò la piccola mano sul polso. «Vorrei poterle raccontare quello che mi ha detto Allen, quello che dirà in aula; perché se potessi farlo, la sua stessa reazione proverebbe che ho ragione». Finì il suo drink e scostò il bicchiere vuoto. Mi fissò dritto negli occhi con un'occhiata di deliberato calcolo. Poi scosse la testa come se avesse deciso che ciò che stava pensando era assurdo, che non aveva senso, e che il solo fatto di accennarne si sarebbe ritorto contro di lei. «Cosa?», domandai, incuriosito da una reazione che potevo solo sospettare riguardasse più me che un qualsiasi aspetto del processo. «Julian Sinclair». Fu tutto ciò che disse, e nella sua espressione non vi era nulla che potesse spiegarmi cosa intendeva. «Ha scoperto qualcosa? Qualche prova che collega McMillan all'omicidio di Daphne?». Non ci fu alcuna reazione, soltanto la stessa occhiata neutra. «È stato tragico quello che gli è successo, vero?». Non mi stava chiedendo cosa provavo, cosa aveva significato la sua morte; stava stabilendo un dato di fatto, una premessa. «Morire in un incendio in carcere. E lei ha dovuto seppellirlo. Dev'essere stata dura. So che gli voleva bene, che per lei non era un cliente come tanti. Non aveva mai dubitato della sua innocenza. Tutto ciò che è accaduto dalla fine di quel processo fino a ora è dipeso da quello, no?». Non sapevo dove stava cercando di andare, perché continuava a guardarmi negli occhi. «Se non fosse morto, se fosse ancora vivo, pensa che si sarebbe scagliato con la stessa violenza contro McMillan? L'ha costretto lei a farlo, lo sa?».
«Costretto chi? McMillan? Costretto a fare cosa?». Cominciava a sottopormi a un esame che stava diventando sgradevole. «Ho costretto McMillan a farmi causa, l'ho costretto a sfidarmi in un pubblico faccia a faccia, ma non sono sicuro che sarei riuscito a costringerlo a commettere il tipo di errore che avrebbe salvato Julian». «Salvato Julian?». «Salvato la sua reputazione», risposi irritato da quelle implacabili richieste di spiegazioni a domande che lei rifiutava di fare. «Cos'è che vuole? C'è qualcosa che crede io sappia di Julian che potrebbe aiutarla nel suo caso?». Mi guardò con una strana immediatezza, come se fossimo giunti al punto decisivo in un dialogo che non potevo pretendere di capire. «È così? C'è qualcosa di Julian Sinclair che dovrei sapere?». «È stato condannato per un crimine che non aveva commesso ed è morto in prigione; al di là di questo, temo di non poterla aiutare. Perché? Cosa c'è riguardo a Julian che potrebbe essere d'aiuto alla difesa?». «Lei seguirà il processo, vero?», domandò con un sorriso che non fece che accrescere il mio profondo disagio. «Vedrà». Ci salutammo all'incrocio fuori dal bar. Prima di andarsene, la Constable mi fece promettere di non dimenticare ciò che mi aveva detto riguardo alla sua energica opposizione alla decisione di Allen di testimoniare al proprio processo. «Tutti i processi riguardano i morti», osservò con espressione intensa. «Questo forse più di qualunque altro». Quando m'incamminai mi richiamò: «Lei crede nei fantasmi, Antonelli? Allen sì». Fantasmi? Di cosa stava parlando? Cosa aveva visto Allen? O forse, più di preciso, cosa pensava di aver visto? Perché, dopo tutti i mesi che aveva passato in prigione in attesa del processo, non sarebbe stata una sorpresa se fosse stato affetto da un inizio di demenza. Isolato dal mondo, privato di una conversazione normale e intelligente, circondato da tossicomani folli e predatori dallo sguardo vacuo che diffondevano strane voci su ancora più strani complotti... Dio solo sapeva a quali assurdità aveva cominciato a credere. Ma io non avevo tempo di preoccuparmene. Allen era un problema di Paula Constable, non mio. Avevo ancora i miei fantasmi da affrontare. Malgrado fosse più una speranza che un'aspettativa, ero molto interessato a ciò che il processo avrebbe potuto rivelare che potesse aiutarmi a scagionare Julian Sinclair dall'omicidio di Daphne McMillan. In un certo sen-
so, lo sapevo, era inutile; ma se mi ero rassegnato ad accettare il fatto che il mondo aveva bisogno di andare avanti, ero anche abbastanza testardo da pensare che valesse la pena ottenere anche un minimo di giustizia, seppure tardiva. E così, la settimana prima dell'inizio del processo Allen, andai in televisione e rammentai a tutti quello che era accaduto a Julian Sinclair e la deplorevole catena di eventi che aveva portato al processo di un uomo accusato di avere ucciso la persona che ero convinto ne avesse assassinate diverse altre e che aveva cercato di eliminare anche me. Promisi che ogni sera, per tutta la durata del processo, avrei espresso una franca valutazione dei punti di forza e debolezza dell'accusa e della difesa; poi, non riuscendo a trattenermi e pensando di avere un debito con Harry Godwin e di dover fare il possibile per aumentare gli ascolti, usai quello che mi aveva detto Paula Constable per promettere almeno una rivelazione. «Ogni imputato ha il diritto di non autoincriminarsi. Nessuno può costringerlo a testimoniare. Soltanto lui può decidere di volerlo fare e dare la sua versione dei fatti. Bryan Allen non si nasconderà dietro i suoi diritti. Testimonierà, e la sua deposizione conterrà alcune delle affermazioni più sbalorditive mai fatte da un imputato nel corso di un processo per omicidio». Malgrado fosse rinchiuso da mesi, isolato dal mondo, quando ebbe inizio il processo Bryan Allen non sembrava affatto cambiato. L'unica vera differenza era più a livello di atteggiamento che di aspetto. Il suo sguardo restava a fuoco più a lungo, mentre osservava la Constable e l'accusa che esaminavano a turno i possibili giurati. I suoi rapidi cambi di espressione erano stati rimpiazzati da una sorta di regolare, controllata impazienza. Era la castigata premura di un uomo che aveva imparato ad aspettare, e a cui, cosa ancora più importante, era stato insegnato a concentrarsi. Il voir dire durò molto meno di quanto mi fossi aspettato. Le domande furono brevi, superficiali, come se entrambe le parti avessero deciso che era una perdita di tempo, che una giuria valeva l'altra e che l'unica cosa che contava era la loro abilità di costruire un caso. Harrison Mills, l'accusa, sembrava così ansioso di finire che a un certo punto smise del tutto di fare domande. Tre giurati di fila vennero accolti e accettati con il sorriso e gli occhi vitrei di un bigliettaio; ciascuno di loro, nel linguaggio giuridico della fase di selezione della giuria, venne "approvato con motivo". La dichiarazione di apertura dell'accusa fu altrettanto succinta. Harrison Mills era un procuratore vecchio stampo. Magro, scomposto, spettinato e disordinato nel vestire: una camicia portata così spesso nel
corso di un processo che ti faceva sospettare fosse il calendario di un prigioniero che contava i giorni con ogni nuova sfumatura di grigio; scarpe non lucidate e con stringhe quasi a brandelli; calze con buchi rammendati così spesso che la trama del tessuto aveva cominciato a disfarsi; pantaloni che se si avvicinavano abbastanza al colore della giacca venivano considerati l'altra metà di un abito. Aveva i modi nervosi e preoccupati di chi la notte si addormentava spesso in poltrona con un libro aperto e poi dimenticato fra le mani. Harrison Mills pensava che i criminali dovessero essere perseguiti per i loro crimini, e ci credeva con una sorta di virtuoso fervore. Non si sarebbe dato alla carriera privata nemmeno per tutto l'oro del mondo. Per lui sarebbe stato l'estremo imbarazzo, il fallimento, la disgrazia della vita, trovarsi anche una sola volta dall'altra parte a chiedere clemenza per chi aveva infranto la legge. Viveva in un mondo di assoluti morali ed era onesto fino all'eccesso. Era totalmente incorruttibile, e se si fosse candidato alla carica di procuratore distrettuale avrei votato per lui senza pensarci due volte. Per quanto potevo giudicare, Mills espose gli elementi dell'accusa senza una sola domanda superflua. Severo, implacabile, passava da un testimone all'altro e si sporgeva in avanti con la massima attenzione mentre la Constable svolgeva i suoi controinterrogatori. Qualunque cosa pensasse in quelle occasioni, non lasciava trasparire nulla. Non era più espressivo di un boia, e la sua espressione non cambiava mai, o quasi mai. L'unico segno di sorpresa che scorsi in lui non comparve durante un controinterrogatorio ma all'inizio del suo interrogatorio dell'ultimo testimone dell'accusa. Quando Susan Lind fece il suo ingresso in aula, tutti gli occhi si voltarono verso di lei. Bionda e bellissima, teneva il mento sollevato nel classico, irresistibile atteggiamento di tranquilla, provocatoria indifferenza. Dopo una serie di domande preliminari, Mill le chiese come mai, pur essendo fidanzata con un uomo, avesse cominciato a frequentarne un altro. A tradirla fu il sorriso, il sorriso dolce, seducente che non riuscì a nascondere del tutto. E la risposta sottolineò ciò che il sorriso aveva già detto in silenzio. «Perché lo volevo». L'affermazione arrestò il povero Mills sui suoi passi. Che fosse sposato o vivesse da solo, non aveva mai conosciuto una donna come quella. E pur con tutta la mia noncurante irrequietezza, rimasi io stesso colpito, quasi sconvolto dalla portata del suo egoismo e da quanto poco si sforzasse di nasconderlo. Era lì, scritta nei suoi occhi freddi e luminosi, la scarsa im-
portanza che aveva per lei il fatto che l'uomo con cui stava condividesse il piacere che lei insisteva a riservarsi. Era il genere di donna che avrebbe preferito fare l'amore con un uomo che parlava una lingua che lei non conosceva; qualsiasi cosa, pur di essere lasciata in pace con ciò che provava. Avrebbe fatto impazzire chiunque, specialmente uno come Robert McMillan. E non sembrava avere alcun dubbio sul fatto di aver avuto lo stesso effetto anche su Bryan Allen. «Perché lo voleva?», ripeté Mills, ancora confuso. «Sì, lo volevo. Bryan era famoso, Robert era ricco. In quel senso erano entrambi attraenti». Mills accantonò tutte le domande non pertinenti e tornò all'unico punto che contava. «Lei ha intrecciato una relazione con il signor Allen mentre era ancora fidanzata con il signor McMillan. Poi ha deciso di mettere fine alla relazione, e il signor Allen ha reagito male. È andata così?». «Frequentavo Bryan Allen, è vero», rispose lei senza alcuna emozione. «Ed è vero anche che lo vedevo mentre ero fidanzata con Robert. Ho detto a Bryan che non avrei più potuto vederlo, e sì, lui non l'ha presa molto bene. Ma se questo c'entri qualcosa con quello che è successo quella domenica, il giorno in cui è morto Robert, non saprei proprio». «Che lei sappia, il signor McMillan aveva scoperto che lei frequentava il signor Allen?». «Sì, lo sapeva. Gli dissi che avevo una relazione con Bryan, che prima di sposarmi volevo essere sicura di quello che provavo, e che ora lo ero». Nel controinterrogatorio, la Constable mi sorprese. Aveva sostituito i suoi vistosi completi rossi con qualcosa di più semplice e posato, giacca e gonna grigie e scarpe scure. Si alzò da dietro il banco degli avvocati ma non fece un passo. «Prima della sua morte, Robert McMillan era stato accusato da qualcuno di avere assassinato due delle sue tre mogli. Non è per questo che lei aveva cominciato a frequentare l'imputato, Bryan Allen? Perché non era sicura di non essere in pericolo, non era sicura che ciò che era accaduto alle altre non potesse succedere anche a lei?». «No, non è...». «Nega di aver confidato a Bryan Allen che era preoccupata, che Robert McMillan aveva un carattere violento, che già una volta aveva cercato di aggredirla ma che lei era riuscita a sfuggirgli?». «No, non è vero», rispose Susan Lind, ma senza la stessa sicurezza di
prima. «È un'esagerazione. Mi riferivo a quello che era successo una sera che Robert aveva bevuto troppo. Mi voleva, ma in quello stato ero io a non volere lui. Non avevo corso alcun pericolo». La Constable la guardò in tralice. «Lei è sotto giuramento. Ha intenzione di testimoniare che non si è mai sentita minacciata, che non si è mai sentita in pericolo a causa della vittima, Robert McMillan?». Se c'era una cosa che Susan Lind aveva imparato in una lunga vita di conquiste era non battere mai in ritirata. L'unica cosa peggiore di una menzogna era ammettere di aver mentito. «Non mi sono mai sentita in pericolo», rispose scegliendo con cura le parole. «Ma pensava che sarebbe potuto accadere?». «Non ho detto questo». «Ripeterò la domanda: pensava di potersi ritrovare minacciata dal comportamento violento di Robert McMillan?». «No. Perché avrei dovuto?». La Constable si strinse nelle spalle. «Non lo so. Ma se non pensava che era un violento, se non credeva che ci fosse qualcosa di vero nelle accuse ai suoi danni, se credeva che fossero calunnie come lui sosteneva nella sua denuncia, forse potrebbe spiegarci come mai tre giorni prima che lui venisse ucciso, e solo poche settimane prima di sposarlo, lei acquistò una pistola?». 22 Pezzo per pezzo, come un metodico mastro artigiano, Harrison Mills istruì un caso che, a meno che la difesa non avesse presentato qualche sbalorditiva rivelazione, non lasciava adito a dubbi. Il medico legale dichiarò che la morte di Robert McMillan era stata causata da una ferita di arma da taglio alla gola. «E la ferita è stata provocata da un coltello?». Sembrava una strana domanda, ma la risposta fu ancora più strana. «No, non nel senso classico». Harrison Mills disse al cancelliere di porgere al testimone una confezione lunga e sottile, che il medico legale aprì con cautela. «Potrebbe essere stata quest'arma a causare la ferita che lei ha riscontrato sul corpo di Robert McMillan?», domandò Mills sovrastando i sussulti del pubblico.
Quando vidi cosa reggeva in mano il testimone, spalancai la bocca per la sorpresa. L'arma del delitto era un fioretto da scherma. Ebbi la strana sensazione che avrei dovuto saperlo, che in un certo senso lo sapevo. Mills chiese al medico legale di descrivere l'esatta natura della ferita mortale. «Il fioretto è penetrato nella gola dal davanti ed è uscito dalla parte opposta». «Attraverso la laringe?». «Sì». «Dall'angolo di penetrazione, misurato dal foro di entrata sul davanti al foro d'uscita sul retro del collo, può stabilire la posizione della vittima al momento in cui è stato inferto il colpo?». Il medico legale, un uomo pesante e semicalvo, annuì. «Il colpo aveva una traiettoria leggermente obliqua, dall'alto in basso. La vittima è stata trovata su una sedia. Data la lunghezza del fioretto, l'assassino doveva essere in piedi, a qualche decina di centimetri di distanza dalla vittima». Mills fece per voltarsi, ma poi si fermò come se avesse ricordato qualcosa. «Un'ultima cosa, dottor Thompson. Oltre a quella alla gola, ha riscontrato altre ferite sul corpo della vittima?». «Sì, alla mano destra». «La mano destra?». «La parte interna era bruciata e piagata». «Ed è in grado di determinarne le cause?». «Non posso averne l'assoluta certezza, ma a giudicare dalla forma delle ustioni e dal tracciato delle piaghe sembrava che il signor McMillan avesse stretto in mano un pezzo oblungo di metallo rovente». «Potrebbe essersi trattato di un incidente? Qualcosa che poteva essere successo quello stesso giorno, come per esempio il fatto che non si fosse reso conto che il fornello era acceso e avesse preso in mano il bollitore?». «No, non era stato un incidente. Le ustioni erano troppo profonde. Aveva retto qualcosa in mano, l'aveva stretto a lungo fra le dita. Dovevano averlo costretto a farlo. Il dolore deve essere stato atroce». Dopo il medico legale Mills chiamò a testimoniare il poliziotto responsabile delle indagini, il quale dichiarò che il fioretto apparteneva a Robert McMillan e che a quanto sembrava l'assassino l'aveva preso dalla mensola sopra il caminetto dove si trovava abitualmente. Sulla impugnatura c'erano
due serie di impronte. Una apparteneva a McMillan, l'altra a Bryan Allen. «Ci dica cosa ha visto al suo arrivo». «La vittima, Robert McMillan, era su una poltrona in salotto. La spada», soggiunse il detective indicando il fioretto, «gli trapassava la gola». «Gli trapassava la gola?». «Sì, da parte a parte, e affondava nello schienale della poltrona. Era stato un colpo fortissimo». Mills gli chiese della mano di McMillan, se fosse stato in grado di determinare la causa delle ustioni. «Un pezzo di ferro di dieci centimetri per due e con uno spessore di circa mezzo centimetro. Era per terra accanto alla poltrona». Il detective identificò il reperto presentato come prova. «Era stato arroventato nel fuoco. Al nostro arrivo era ancora caldo». «Cos'altro avete trovato al vostro arrivo?». «Lui», disse indicando il banco degli avvocati, «l'imputato, Bryan Allen». L'istante in cui Harrison Mills ebbe finito, Paula Constable balzò in piedi con un gran sorriso. «Di sicuro non è rimasto sorpreso nel trovare Bryan Allen, vero detective Lawrence?». «Non so cosa vuol dire». Scosse la testa. Il suo sorriso era diventato furbo, malizioso. «Non sa cosa voglio dire? Ma se era lui il motivo per cui vi trovavate lì! È stato lui a farvi trovare il corpo! È stato Bryan Allen ad avvertire la polizia. Non è così, detective Lawrence?». «Ha chiamato il 911». «Ha chiamato la polizia, e ha aspettato che arrivaste. Esatto?». «Sì». «Ha aspettato che arrivaste e poi vi ha detto chi era l'assassino, non è vero?». Lawrence accantonò la questione con un gesto della mano. «Ci ha detto una cosa impossibile, ecco cosa ci ha detto». «Vi ha detto che era stato qualcun altro a uccidere Robert McMillan. Vi ha detto che lui era innocente!», insistette la Constable. Non c'era nulla che potesse fare. Dopo che l'accusa ebbe finito di esporre il suo caso, Paula Constable fu costretta a chiamare Bryan Allen a testimoniare e, qualunque cosa pensasse della sua storia, lasciare che la raccontas-
se. Le tremavano le mani quando chiamò l'imputato. La voce le si spezzò quando gli chiese nome e cognome. La bocca le si contrasse agli angoli, la testa si chinò in avanti, le rigide ciglia nere le coprirono gli occhi. Infuriata con se stessa, pestò il piede a terra e con un tempismo perfetto lanciò un'occhiata rivelatrice alla giuria. «A proposito di cominciare bene!». Si schiarì la gola, picchiettò le nocche sull'angolo del banco degli avvocati e si allontanò di qualche metro con passo deciso, portandosi davanti al banco degli imputati. «Ora ci dica, dica alla giuria», enunciò in tono sicuro, «dica a tutti cosa accadde la domenica pomeriggio in cui Robert McMillan venne ucciso. Ma prima di tutto», si affrettò a soggiungere, «per quale motivo era andato da lui? Era stata una sua idea?». «No, mi aveva chiamato McMillan». Allen si chinò in avanti intrecciando le dita. Spostò lo sguardo sul pubblico alle spalle della Constable. «Mi disse che voleva vedermi. Che voleva confessare». La si poteva avvertire, l'intensa aspettativa nell'aula. Mi sporsi in avanti cercando di vederlo meglio, di vedere se la concentrazione negli occhi di Allen non tradisse quanto meno una punta di rivendicazione. Ora, dopo mesi di attesa in silenzio, poteva dire a tutti com'era andata veramente. La Constable si volse verso la giuria con un'espressione significativa negli occhi. «Confessare?». «Mi chiamò dicendo che voleva dire la verità sull'omicidio di sua moglie, Daphne McMillan, e che voleva dirla a me. E non solo sul suo omicidio, ma anche su quello della sua seconda moglie e sul tentato omicidio di Joseph Antonelli, l'avvocato. Disse che aveva messo tutto per iscritto e che mi avrebbe dato la sua confessione firmata. Ma disse che dovevo andare immediatamente da lui, che se non l'avessi fatto l'avrebbe data a qualcun altro». «E questo è il motivo per cui quel pomeriggio lei si recò a casa sua?». «Ero un giornalista, avevo un programma televisivo. Una storia come quella? Naturale che ci andai!». «Dica alla giuria cosa accadde quando arrivò, da quando bussò alla porta». «Bussai. Nessuno venne ad aprire, ma udii dei rumori come di lotta. Poi,
un attimo dopo, sentii McMillan chiamare aiuto. Provai la porta e vidi che non era chiusa a chiave. L'aprii. Udii un rumore di passi, qualcuno che fuggiva dal retro. Poi vidi McMillan seduto su quella poltrona in salotto, infilzato dalla spada e coperto di sangue». «Era morto?». «No, non ancora. Pensai di poterlo salvare. Lui emise un verso gorgogliante e cercò di alzare le mani. Voleva che gli estraessi quell'affare dalla gola. Feci per farlo, impugnai l'elsa, per questo ci sono le mie impronte, ma poi decisi che era meglio di no, che avrei solo peggiorato le cose. Chiamai il 911 e dissi di accorrere al più presto, che c'era un uomo in fin di vita». «Quindi era andato da lui perché McMillan l'aveva chiamata dicendole che voleva confessare un omicidio?». Carichi di nervosa eccitazione, gli occhi di Allen percorsero tutta l'aula. «Voleva confessare tutto, come ho detto: l'omicidio di Daphne McMillan, l'omicidio della seconda moglie, il tentato omicidio di Antonelli». La Constable gli rivolse un'occhiata indagatrice. «Non le sembrava un po' strano che tutt'a un tratto le avesse telefonato con una storia simile? Non ha pensato che forse le stava dicendo di andare da lui con l'intenzione di farle qualcosa perché era andato a letto con la donna che stava per sposare?». «L'avrei pensato, se non avessi udito la sua voce». «La sua voce?». «Era diversa dal solito, terrorizzata. Pensai che fosse dovuto a quello che aveva deciso di dirmi, che fosse teso per la confessione. Fu soltanto quando arrivai da lui che capii che temeva per la sua vita, che mi aveva chiamato perché qualcuno gli teneva premuta quella spada alla gola e perché se non l'avesse fatto sarebbe morto». «E lei sa chi era quel qualcuno? Chi l'aveva costretto a chiamarla? Chi l'ha ucciso con quella spada?». «Me l'ha detto appena prima di morire. Riusciva a malapena a emettere un suono, quel tremendo gorgoglio. Ho dovuto piegarmi per sentirlo». «Chi è stato? Chi l'ha ucciso? Che nome le ha fatto Robert McMillan?». «Julian Sinclair!». Fu come se tutti i presenti nell'aula fossero improvvisamente ammutoliti. Nessuno emise un suono. «Julian Sinclair», ripeté Allen con una tetra scintilla di sfida negli occhi. «Non ci credevo neanch'io».
«Non ci credeva?». «Sinclair è morto in prigione. Doveva essere stato qualcun altro. McMillan stava cercando di dirmi che qualcun altro aveva deciso di vendicare quello che lui aveva fatto a Sinclair. È l'unica spiegazione sensata. McMillan stava morendo, e lo sapeva. Come sia riuscito a tirar fuori quelle due parole, non lo saprò mai». La Constable si volse verso la giuria. «È stato qualcun altro a uccidere Robert McMillan? Non è stato lei a torturarlo con un pezzo di ferro rovente e a trapassargli la gola con un fioretto?». Allen aveva ormai trascorso abbastanza tempo dietro il banco dei testimoni da sentirsi a proprio agio. La giuria e il pubblico nell'aula erano diventati un'audience come tante. Reagì alla domanda come aveva reagito alle migliaia di idiozie che aveva sentito nella sua trasmissione. Scrollò le spalle, alzò le mani al cielo, inclinò la testa, premette le labbra e socchiuse gli occhi. Era il suo marchio di fabbrica, il gesto che l'aveva reso famoso, la replica a colpo sicuro a ogni menzogna che chiunque avesse cercato di propinargli, l'espressione che diceva a chiunque stesse guardando che lui stava lottando per loro contro i criminali, gli assassini e gli avvocati corrotti pagati per difenderli. «Andiamo! Pensa che potrei fare una cosa simile? Con una spada? Le sembro il tipo capace di tirare di spada, o come diavolo si chiama quell'affare? Certo, ci sono sopra le mie impronte. Le ho spiegato com'è andata. Ho cercato di salvargli la vita! Ho chiamato il 911!». A capo chino, la Constable avanzò lentamente e fece scorrere la mano sulla balaustra del banco della giuria. «E lui le ha detto, o ha cercato di dirle, chi era stato a ucciderlo?». «Sì, ma è riuscito a dire solo "Julian Sinclair"». Tornò al suo posto dietro il banco degli avvocati e fissò impassibile davanti a sé. Bryan Allen si guardò intorno, come se fosse alla ricerca di un volto amico o quanto meno di un segno che qualcuno gli avesse creduto. Diversi giurati abbassarono gli occhi sulle proprie mani, altri cambiarono silenziosamente posizione sulla sedia. Con una sorta di fatale inevitabilità, Harrison Mills si alzò lentamente. Si fermò davanti al banco degli avvocati, posando le dita della mano destra sul bordo, e studiò il testimone con un'occhiata fredda, penetrante. «Lei andò a casa del signor McMillan perché lui stesso l'aveva chiamata e le aveva detto di voler confessare. È questa la sua testimonianza?», chie-
se in tono concreto. «Sì». «Confessare non uno, bensì due omicidi?». «Sì». «E non soltanto due omicidi, ma anche un tentato omicidio?». «È quello che ho detto; è quello che mi disse». «Ammette che aveva una relazione con la donna che sarebbe diventata sua moglie?». «Sì, l'ho già ammesso». «Ma non era questo il motivo per cui andò a casa sua?». «No. Perché avrei dovuto farlo?». «Perché la signorina Lind stava mettendo fine alla relazione; perché lei non riusciva a sopportare l'idea che tornasse con lui». «Non ne ero innamorato, non m'importava cosa faceva». «La signorina sembra pensare il contrario». Allen fece per alzare le mani al cielo nel suo tipico gesto, ma Mills lo interruppe. «È rimasto sorpreso, quando McMillan le ha detto che voleva confessare?». «Che intende dire?». «L'ha sorpresa? Oppure aveva sempre pensato che avesse ucciso Daphne McMillan?». «No, io non...». «Non aveva mai detto alla signorina Lind che se non avesse lasciato McMillan avrebbe potuto essere in pericolo?». «Potrei averle riferito certe voci». «La signorina Lind non le aveva mai detto di sentirsi in pericolo? Non le aveva mai detto che il signor McMillan era un violento e che aveva addirittura cercato di farle del male?». «Sì, me l'aveva detto». «Perciò non era sorpreso dal fatto che McMillan volesse confessare?». «Certo che lo ero». «Ma non era sorpreso dalla confessione in se stessa, e cioè che avesse ucciso la sua terza moglie, Daphne McMillan, e anche la seconda?». «No, suppongo di no». «E quindi tutto ciò che aveva detto di Julian Sinclair durante il suo processo... cos'era? Qualcosa che aveva fatto soltanto per l'indice di ascolto?». «Obiezione!», gridò la Constable. «Lasciamo perdere. Torniamo alla confessione di McMillan. Dov'è?».
Allen si strinse nelle spalle. «Dov'è cosa?». «La confessione. Lei ha dichiarato - vuole che glielo faccia rileggere dalla stenografa? - che al telefono McMillan le disse che aveva scritto e firmato la sua confessione e che gliel'avrebbe data al suo arrivo. Dov'è, signor Allen? Dov'è la confessione che Robert McMillan ha firmato in esclusiva per lei?». «Non c'era. Deve averla presa l'assassino». «L'assassino? Sì, la persona che voleva vendicare Julian Sinclair. Ha preso la confessione invece di lasciarla per la polizia? Ha preso la confessione che secondo la sua testimonianza doveva aver costretto McMillan a scrivere? E questo come avrebbe aiutato a discolpare Julian Sinclair?». «È la verità, è tutto quello che so». Mills non si era mosso. Era rimasto nella stessa posizione, una mano posata sul banco, l'altra stretta sul risvolto della giacca, una spalla abbassata, intento a misurare la minima reazione di Allen con la tenacia di un occhio determinato e implacabile. Ora, per la prima volta, abbassò lo sguardo. Annuendo lentamente fra sé, percorse con fare pensieroso il fronte dell'aula finché giunse abbastanza vicino al banco della giuria da poterlo toccare. «Ma non è questo che ha detto alla polizia, vero?», domandò rialzando la testa mentre si voltava verso il teste. «Alla polizia non ha detto niente riguardo alla presunta confessione di Robert McMillan. Non ha mai detto a nessuno che aveva ammesso di avere ucciso sua moglie e mandato in prigione un innocente. Non ha detto alla polizia, non ha detto a nessuno che era andato lì a prendere una confessione scritta. Non ha detto che quando è arrivato la confessione non c'era. Per quale motivo, signor Allen? Perché ha aspettato fino a ora, fino al suo processo per omicidio, per raccontare questa storia? Perché non l'ha detto alla polizia quando è arrivata? Può essere che al momento non ci abbia pensato? Può essere che ci abbia pensato solo quando ha deciso che la sua unica possibilità era dare una versione a cui una giuria avrebbe potuto credere perché nessuno inventerebbe una storia così bizzarra, così stravagante, così ridicola?». Non c'era nulla che Paula Constable potesse fare, che chiunque potesse fare. Mills aveva ragione; la storia era bizzarra, stravagante; era tutto ciò che aveva detto e anche di più. Allen non l'aveva mai rivelata a nessuno perché nessuno gli avrebbe creduto, e la stava rivelando ora perché era disperato. Quando ritornò al banco degli imputati, mi lanciò un'occhiata spaventata e implorante. Voleva che gli credessi, e la cosa strana era che gli credevo. Credevo a ogni parola che aveva detto; non perché mi fidavo di
lui, ma perché sapendo quello che sapevo su ciò che era accaduto a Julian Sinclair, un finale come quello sembrava troppo giusto, troppo appropriato. Era come se il fantasma di Julian avesse orchestrato tutto fin dall'inizio. Forse i fantasmi esistevano, il genere di fantasmi che infesta le coscienze. Forse, in quei lunghi mesi di isolamento, Bryan Allen aveva cominciato a riflettere su quello che era accaduto a Julian Sinclair e a pensare che in parte era colpa sua. Dovevano aver avuto effetto sulla sua mente, quei giorni e quelle notti in cella, finché la cosa non era diventata così reale che quando si era presentato in aula e l'aveva raccontata, ci credeva fino in fondo. Quella era una spiegazione, ma ce n'era anche un'altra: che fosse andata esattamente come diceva lui, che qualcuno avesse deciso di vendicarsi su Robert McMillan in un modo che soltanto Julian avrebbe potuto approvare. Ma chi poteva aver fatto una cosa simile? Nessun altro credette a Bryan Allen, e di sicuro nessuno della giuria. Fu meno peggio di come aveva predetto Paula Constable, ma andò male comunque. La giuria non emise il suo verdetto senza nemmeno lasciare il banco; arrivò fino in camera di consiglio e discusse per quasi una giornata intera, non molto per un caso di omicidio. Mentre aspettava che il giudice leggesse il verdetto prima che il presidente della giuria lo annunciasse, Allen sembrava nervoso e confuso. Ebbi la sensazione che non stesse pensando tanto al verdetto quanto a come poteva essere accaduto tutto ciò, e che il verdetto che lo giudicava colpevole di omicidio lo turbasse meno della sua incapacità di capire, perfino ora, perché e da chi era stato incastrato. 23 Bryan Allen venne condannato all'ergastolo senza condizionale. Non aveva il tipo di intelligenza riflessiva che avrebbe potuto spingerlo a chiedersi cosa doveva aver provato Julian Sinclair nel corso del suo stesso tragitto per San Quentin. Non ebbe pensieri per Julian, e dopo che venne condannato io non ebbi troppi pensieri per lui. Pensavo a poco altro che non fosse cercare di riprendere la mia vecchia routine e la vita di un tempo. Lasciai il network, abbandonai la trasmissione e mi dissi, senza crederci troppo, che avevo fatto del mio meglio, che avevo provato in ogni modo a riparare al mio fallimento nel cercare di salvare prima la vita e poi la memoria di Julian Sinclair. Robert McMillan era morto, e in questo se non altro c'era un minimo di giustizia. C'era anche una certa giustizia nella con-
danna di Bryan Allen, anche se il fatto che la motivazione della sua prigionia fosse un omicidio che aveva commesso oppure un uomo innocente che aveva contribuito a far rinchiudere in carcere era una questione che richiedeva una sensibilità etica più elevata della mia. Tornai a dedicarmi al diritto, e come avevo fatto per gran parte della mia vita scordai ogni cosa tranne il caso successivo, il processo successivo e quello che avrei dovuto fare per vincere. Passai un'altra stagione, e un'altra ancora, a discutere casi e a prendere la vita come veniva. A volte, quando facevo vagare lo sguardo sulla riva opposta della baia e vedevo le luci sulle colline di Berkeley, mi ritrovavo a chiedermi cosa sarebbe potuto diventare Julian, quali grandi cose avrebbe potuto fare. A volte pensavo a lui di proposito, convinto che finché qualcuno l'avesse ricordato una parte di ciò che era stato sarebbe rimasta viva. Mi sembrava un gesto naturale e decoroso. Era la prima settimana di ottobre, una di quelle giornate autunnali color bruciato in cui l'aria è secca e calda e senti sul volto il tepore del sole basso, quando arrivò la telefonata di Frank Sutton. Non era una giornata da passare al chiuso, ed ero ansioso di uscire dall'ufficio quando ancora potevo godermi parte del pomeriggio. «Non conosco nessun Frank Sutton. Dica all'operatore che non accettiamo la chiamata», istruii la mia segretaria chiedendomi perché l'avessi fatto. Un istante dopo l'interfono tornò a ronzare. «Dice che è stato Julian Sinclair a dirgli di telefonare». «Signor Sutton, sono Joseph Antonelli. Cosa posso fare per lei? Julian Sinclair le ha detto di telefonarmi?». Era difficile capire quanti anni avesse Sutton, ma a giudicare dalla sua voce non era giovane. Parlava lentamente, fermandosi a ogni manciata di parole come per sincerarsi che avessi capito perché aveva telefonato e perché era importante. Disse che aveva conosciuto Julian e che Julian gli aveva chiesto di darmi qualcosa. Non volle dirmi cos'era, né perché avesse atteso tanto a lungo per mettersi in contatto con me. Se avessi voluto fargli visita a San Quentin sarebbe stato lieto di vedermi, ma non avrebbe parlato di queste cose al telefono. Mise bene in chiaro che se non avesse avuto l'alta opinione che aveva di Julian non avrebbe mai telefonato. Due giorni dopo percorsi la stretta strada che costeggiava la baia, diedi il mio nome alla guardia all'ingresso del carcere e parcheggiai nel piazzale dei visitatori. Fuori dalle mura del penitenziario alcuni detenuti in divise
kaki verde chiaro stavano rastrellando le foglie secche dalle aiuole. Dopo che ebbi firmato il registro, un corpulento secondino controllò la mia patente, mi timbrò il dorso della mano con un segno che si poteva vedere soltanto alla luce ultravioletta e mi fece superare una doppia serie di cancelli di ferro. La porta si chiuse alle mie spalle e mi trovai in cortile, dove la fontana piena d'acqua non funzionava e un'alta palma piegata dall'età creavano l'effetto di un'oasi prosciugata. La biblioteca, dove avevo trovato Julian l'ultima volta che ero stato in quel luogo era davanti a me, sul lato opposto. Svoltai l'angolo a sinistra e trovai Frank Sutton seduto su una panchina di legno addossata al muro di un braccio della prigione. Aveva accavallato le gambe magrissime e volgeva gli occhi socchiusi al sole del mezzogiorno. Seduto accanto a lui, a quella che sembrava una rispettosa distanza, un altro detenuto, anch'egli vestito di blu, gli rivolgeva sommessamente la parola. Quando mi videro l'altro uomo si alzò ma non si mosse finché Sutton non gli disse che andava tutto bene, che avrebbero potuto proseguire più tardi. «Si sieda», mi disse Sutton con le braccia ancora incrociate sul petto. Non accennò ad alzarsi e non mi porse la mano. Dalla sua voce al telefono avevo capito che non era giovane, ma non mi aspettavo che fosse così vecchio; doveva avere poco meno di ottant'anni, e forse, poiché in prigione ogni cosa rallenta, era ancora più anziano. «Ho sentito parlare di lei», disse. «Anche prima di quello che mi ha detto Julian». Intrecciò le dita dietro la nuca. Si rilassò all'indietro con un'espressione distante e pensosa sul volto raggrinzito. «Qui è dove stavamo», osservò con un cenno noncurante del capo verso la sua sinistra, dove a una trentina di metri di distanza una porta di acciaio dava su un edificio di cemento alto sei o sette piani. «Braccio Nord. Julian stava al quinto livello, io a quello sopra». «Credevo che ci fossero solo cinque livelli, e che la cella di Julian fosse all'ultimo». «Non le sfugge quasi nulla, vero?», disse con un'occhiata sagace. «Ha ragione, il Blocco Nord ha cinque livelli. Mai stato dentro? No? Be', lasci che gliene faccia una breve storia. Se supera quella porta, ne vede un'altra. Sembra uno di quei portelli sporgenti che si vedono sui sommergibili. È la porta della camera a gas. Ai vecchi tempi, prima che la pena di morte diventasse così popolare e prima che cominciassero a ritardare le esecuzioni
di quindici, a volte vent'anni a furia di appelli, il braccio della morte era all'ultimo piano, sopra il soffitto dei cinque piani regolari. Mi segue? Sessantasei celle non erano sufficienti, e così hanno spostato il braccio della morte. Ma il fatto è che quelle erano le celle migliori: finestre che si aprivano, vista sulla baia. Una specie di Nob Hill del carcere, non so se mi spiego. E anche qui vale l'anzianità del denaro», proseguì divertito dall'analogia con la vita al di fuori. «Non accettiamo i nuovi ricchi, devi avere almeno vent'anni sul groppone prima di essere preso in considerazione». Il sorriso sulle labbra di Frank Sutton era furbo, sagace, ma i suoi occhi tradivano qualcosa di più serio e, curiosamente, di più affabile. «Lei conosceva Julian. Pensa di averlo conosciuto meglio di me?». Prima che potessi rispondere scosse la testa canuta e ritirò la domanda. «Che stupidaggine. Lo conoscevamo entrambi, forse in modi diversi. Lui le voleva bene, a proposito. Non l'ha mai detto. Perché avrebbe dovuto? Ma da quello che diceva si capiva che per lei non aveva altro che rispetto. Non parlava mai di nessun altro in quei termini». Si drizzò a sedere, poi si piegò in avanti sulle ginocchia nodose. Si voltò e lanciò un'occhiata dura e sprezzante verso un gruppo attentamente sorvegliato formato prevalentemente da giovani neri e ispanici che venivano divisi ai due lati di un'area simile a un capannone con un tetto di lamiera e i lati aperti. Erano tutti vestiti di arancione. «I nuovi arrivi, trasferiti da un altro carcere in modo che si possano combattere qui dentro. Pensano di essere dei duri, pensano che nessuno potrà fare il prepotente con loro. Impareranno». Rivolse un cenno a un nero di mezz'età con un collo corto e grosso e due occhi freddi e torvi. Gli sussurrò qualcosa all'orecchio. «Ci penso io, Frank», disse questi, e i suoi occhi si ravvivarono. «C'era una cosa che dovevo fare», spiegò Sutton. «Non sapevo bene a che ora sarebbe arrivato». Mi studiò per un istante, poi mi chiese con quella che sembrava semplice curiosità: «È stata la prima volta che le è successo? Deve accadere a molti avvocati, visto che quasi tutti quelli che ho conosciuto non erano un granché, ma lei è uno dei migliori. Julian è stato il primo?». Non avevo bisogno di chiedergli cosa intendeva. «Tutti, qui dentro... be', forse non tutti, ma molti, sostengono di essere stati incastrati, di essere innocenti, che la polizia ha commesso un errore o ha falsificato le prove, che un testimone ha mentito, che il loro avvocato non sapeva quello che faceva. Sono tutti innocenti, e sono tutti colpevoli
come l'inferno. Julian non ha mai detto che era innocente, ma tutti, e intendo tutti, dalle guardie al direttore alla donna che lavora in biblioteca, sapevano che non era stato lui. Lasci che le dica una cosa: se non fosse successo quello che è successo, Julian avrebbe finito per dirigerlo, questo posto». Sutton si rese conto dell'interrogativo che era rimasto nel mio sguardo. Rise, facendo tremare le spalle da spaventapasseri. «Sì, me compreso. Sono colpevole come l'inferno, esattamente come tutti gli altri. Omicidio era il capo d'accusa, ergastolo senza condizionale la condanna. Sono colpevole, secondo un'interpretazione della legge che definirei rigida». Ruotò la testa da una parte all'altra. «A mia discolpa, bisognerebbe dire che c'erano quelle che un avvocato della sua abilità ed esperienza definirebbe "circostanze attenuanti"». Coinvolto dal suo tono, domandai: «Attenuanti?». Lui aggrottò la fronte, si morse il labbro e scrollò le spalle. «Rispetto all'omicidio che la maggior parte della gente crede di conoscere, ma non a quello del capo d'accusa. Io non ho ucciso nessuno; è stato qualcun altro a farlo». «Durante la perpetrazione...». «Esatto, di un crimine; e non di un crimine qualsiasi: di una rapina in banca». Nei suoi occhi anziani c'era un gelido bagliore, una sorta di allegra sfida a proposito di quello che aveva fatto. «E non una rapina come le altre; era stata...». Frank Sutton. Ora ricordavo il suo nome. Aveva ragione, non era stata una rapina qualsiasi; era stata una delle più grandi rapine in banca della storia americana. Era accaduto quando io avevo finito da poco la facoltà di giurisprudenza. «Rubò milioni di dollari!». Sutton mi guardò come un artista avrebbe potuto guardare qualcuno che era interessato soltanto alla cifra a cui sarebbe stato venduto all'asta il suo dipinto più famoso. Che differenza faceva quanto aveva rubato? Era il grado di difficoltà che faceva il ladro. Lui aveva compiuto un'impresa che avrebbe dovuto essere impossibile, era penetrato in un caveau con chiusura a tempo costruito per resistere a tutto tranne che a un'esplosione nucleare e l'aveva fatto in un modo che aveva lasciato perplessi tutti gli esperti. Che il caveau contenesse metà dei contanti allora in circolazione o che fosse vuoto non aveva nulla a che fare con il risultato ottenuto. Il che non voleva dire che Sutton non comprendesse come ragionava la gente. Quando il giudice che l'aveva condannato gli aveva chiesto quanto aveva rubato e cosa
avesse fatto del denaro, lui aveva dato la sua celebre risposta: «Non ho avuto il tempo di contare. Tutto quello che posso dirle è che ho dovuto scavare tre buche». «"Tre Buche Sutton"», dissi a voce alta ricordando il soprannome che gli avevano dato i giornali. «C'è gente che ha passato anni alla ricerca di quei soldi». «E alcuni li stanno ancora cercando. Continuo a ricevere lettere in cui mi si chiede di rivelare il nascondiglio, o almeno di fornire un indizio. Anche quando dico loro la verità, e cioè che mi ero inventato tutto e che il denaro non è mai stato sepolto, non mi credono. Pensano che stia soltanto cercando di disorientarli». Sutton fece una pausa e si pulì i denti con un'unghia. «Quattro milioni e mezzo. E sa cosa ne ho fatto? Ho comprato buoni del tesoro. Non tutti nello stesso posto: in diverse banche e in diverse città. Quattro milioni e mezzo in buoni del tesoro alla scadenza, dopo venticinque anni, valgono molto di più. Buoni del tesoro, non azioni; non ho mai creduto negli investimenti rischiosi. È il problema di quelli che cercano sempre di ottenere qualcosa con niente: hanno sempre troppa fretta. «"Tre Buche Sutton"», disse scuotendo la testa ripensando al mito che aveva creato. «E tutto a causa di quella rapina, la migliore che abbia mai fatto, pianificata al secondo; e poi quell'idiota rovina tutto sparando a una guardia. Ce l'avremmo fatta, non ci avrebbero mai presi. Sarebbe stata la più grande rapina in banca di tutti i tempi, e a un tratto questo ragazzo che conoscevo appena, un rimpiazzo dell'ultimo minuto che non avrebbe dovuto fare altro che assicurarsi che nessuno sul davanti facesse una mossa stupida, si innervosisce. Io non ho mai sparato a nessuno in vita mia. Ci presero tutti e quattro, ma i soldi non li hanno mai trovati. Ci avevo pensato io. Quei buoni del tesoro valgono quasi dieci milioni di dollari. So che Julian li spenderà bene». «Julian? Ma è morto». Frank Sutton si accarezzò il mento studiandomi con occhi furbi. «Deceduto nell'incendio della sua cella», disse ripetendo la formula ufficiale mentre si alzava lentamente. Lo seguii fino al filo spinato che partiva dall'estremità della biblioteca. Più in basso, il campo da baseball e la pista di atletica si allungavano in lontananza, e più oltre si vedevano le officine e i capannoni della manutenzione. Una torre di guardia di legno, solitaria e decrepita, si ergeva al confine della piccola lingua di terra che si protendeva nella baia.
«Vede quegli edifici laggiù ai confini, sull'altro lato della rete? È quella che chiamano la fattoria annessa. È lì che vai a stare alla fine della pena se non hai mai cercato di fuggire e se non hai precedenti di violenza. Si occupano di giardinaggio e architettura del paesaggio. E spengono gli incendi». Infilò le dita di entrambe le mani nella rete metallica. Un sorriso enigmatico gli si affacciò sulle labbra secche. «Sono i vigili del fuoco di San Quentin: ciascuno di loro è un detenuto di livello uno, quelli che potrebbero andarsene ma non lo fanno perché hanno quasi finito di scontare la loro pena. Il capo non è un detenuto, viene da fuori, ma gli altri... Ci sono voluti anni prima che mi rendessi conto di cosa significava, prima che ci arrivassi». Si voltò di quel poco che bastava per incrociare il mio sguardo. «Alla fine è sempre tutto semplice. L'avrà notato anche lei, che le complicazioni arrivano solo all'inizio, che più si va avanti meno problemi ci sono. E in questo caso, in realtà, era solo una questione di ingegneria a rovescio: si penetra in una banca, si fugge da una prigione». Fece un ultimo gesto verso il limitare del carcere e la libertà in attesa là fuori, dall'altra parte. Poi, sorridendo fra sé, tornò alla panchina. «Avevo studiato ogni cosa, il modo in cui farlo, il modo di uscire di qui. Non soltanto fuggire, badi bene, ma farlo in modo che nessuno l'avrebbe mai saputo. È quella la parte migliore, la ragione per cui mi attirava tanto. È il crimine perfetto, ma è anche di meglio. Non è il crimine per cui qualcuno se la cava, è il crimine che nessuno sa che è stato commesso. Ebbene, come le ho detto, alla fine ci ero arrivato. Mi dava qualcosa da fare, mi teneva occupato», osservò tornando ad addossare la schiena alla parete di cemento e allacciando le mani attorno a un ginocchio sollevato. «Ma poi è arrivato Julian, e ho cominciato a pensare alla mia età». «Sta cercando di dirmi che Julian non è morto? Che non è morto in quell'incendio? Che è fuggito?». Fece un cenno di assenso con il capo per farmi capire che aveva sentito la domanda, ma che non era pertinente: c'era qualcosa di più interessante del fatto che qualcuno fosse vivo o morto. «Non avevo mai conosciuto nessuno come lui. E lei?», domandò, sicuro che Julian avesse avuto lo stesso effetto su di me. «Era diverso da tutti gli altri. Aveva qualcosa da offrire, capisce?», soggiunse con un'espressione improvvisamente timida negli occhi. «Era quello che mi sarebbe piaciuto essere se avessi saputo all'inizio ciò che ho imparato alla fine. Non sono abbastanza istruito da poterlo descrivere; ma ti rendevi conto che lui sape-
va che nell'universo c'è qualcosa, una forza, un potere, non lo so, qualcosa che gli dà un senso. Ti rendevi conto che Julian capiva che l'unica cosa veramente importante è vivere in te stesso, essere quello che sei nato per essere e non quello che qualcun altro ti fa credere di dover diventare. E tu lo capivi fin dal primo istante che lo guardavi negli occhi. C'era un che di consolatorio, in tutto questo». La bruciante intensità del suo sguardo, che aveva fatto sembrare tutto ciò che diceva così vivido e reale, cominciò a dissiparsi. Il suo sguardo si spostò sul capannone aperto in cui la massa di nuovi prigionieri era stata schierata in fila indiana e veniva perquisita. «Gli occhi di gran parte di questa gente sono morti. Non sono morti qui dentro, ma prima ancora di aver vissuto. Tranne forse i religiosi, anche se molti di loro sono pazzi. Ma Julian! In lui c'era qualcosa che non si vede mai; non solo qui dentro, ma anche fuori». Fece una pausa, riflettendo a fondo per un istante. Nei suoi occhi si accese una scintilla. «Lui era quello che avresti voluto essere senza saperlo, finché non lo incontravi e te ne rendevi conto. È così, non crede? Quando lo conoscevi, quando vedevi quella luce nei suoi occhi, in quel momento capivi cosa voleva dire essere vivi. Sto dicendo assurdità?». Con una modesta scrollata di spalle mi fece capire che era il massimo che poteva fare. Sapeva che avevo capito perfettamente cosa intendeva, e che avendo conosciuto Julian ero d'accordo con lui. «È stato allora che ho deciso», disse abbandonandosi contro il muro di cemento. «Deciso?». «Che era meglio che uscisse lui al posto mio. Non mi fraintenda», soggiunse come chi non voleva essere considerato nobile o gentile. «Fossi stato più giovane, sarei scappato senza pensarci due volte. Ma ho ottant'anni la prossima primavera, sono qui dentro da quand'ero un ragazzo di cinquantadue anni», disse con un sorriso burbero. «Cosa avrei fatto là fuori? Mi sarei reso ridicolo correndo dietro a donne più giovani, cercando di portarmele a letto? Stare qui non è così male. Il cibo è accettabile, la notte dormo bene, faccio esercizio, ho una bella vista sulla baia. Faccio quello che farebbe qualsiasi altro uomo della mia età: guardo i Giants in primavera e in estate e i 49ers in autunno. E posso fare quello che a qualsiasi altro vecchio piace fare nel crepuscolo della sua vita: mi posso crogiolare nella consapevolezza delle mie buone azioni, e la soddisfazione è tanto maggio-
re per il fatto che sono così in pochi a sapere quali sono. Julian è uno di quelli che sanno, e adesso lo è anche lei. Vuole che le dica come ci siamo riusciti, come l'abbiamo fatto scappare in modo che nessuno potesse mai sapere che era fuggito?». L'avevo ascoltato con un'eccitazione crescente, e più ancora con un indescrivibile sollievo. Mi sentivo come una di quelle anime perdute nel braccio della morte che trascorreva le interminabili giornate in attesa della propria esecuzione e che un bel giorno si sentiva dire che era stata assolta e che di lì a poche ore sarebbe stata rilasciata. Julian era vivo. Non era morto in quell'incendio. «Ma l'abbiamo sepolto, abbiamo fatto un funerale», cominciai a obiettare. «La bibliotecaria mi ha detto che è stata una bella cerimonia», disse Sutton, abbagliato dal suo stesso successo. Aveva progettato la fuga perfetta, quella di cui nessuno avrebbe mai saputo nulla, quella che era finita in un cimitero dove coloro che volevano bene a Julian avevano pianto la sua scomparsa. Il tributo finale, la conferma del suo trionfo fu la scintilla di rabbia che scorse nei miei occhi per il modo in cui ero stato non soltanto ingannato, ma anche usato. «Il problema principale era che avevamo bisogno di due corpi. Non che ce ne volessero due, ma chi sarebbe stato l'altro. Era questo che lo rendeva interessante. L'uomo che condivideva la cella con Julian stava morendo. Era vecchio, quasi come me. Un fumatore incallito, tossiva di continuo. Le sigarette uccidono. Lei non fuma, vero? Bene. Avremmo dovuto farlo il giorno in cui lui fosse morto. Ma capisce, alla fine avrebbero dovuto esserci due corpi nella cella, entrambi morti e carbonizzati al punto che sarebbe stato impossibile riconoscerli. E uno dei due avrebbe dovuto avere più o meno la stessa età e la stessa taglia di Julian». «Avete ucciso qualcuno per...?». Sutton sollevò un piede sulla panchina e tese la mano per bilanciarsi. Raggrinzì il viso pensando al modo migliore di spiegare. «Si potrebbe dire che si è ucciso da solo. Ha presente quelle persone che proprio non si vorrebbe avere intorno? Fuori, non le si invita e basta; ma al fresco bisogna essere un po' più inventivi. Quel tizio era uno stupratore, uno a cui piacevano i ragazzini. Credeva che non lo sapessimo, ma noi lo sapevamo. «L'incendio ha avuto origine nella cella di Julian. Era solo fumo, ma ha fatto scattare gli allarmi. I pompieri, che come vede non distano più di un
paio di centinaia di metri, accorrono con le loro divise: i caschi che nascondono quasi completamente la testa, le voluminose giacche di gomma, gli stivaloni. Con quella roba addosso sembrano tutti uguali. La prima cosa che succede quando scoppia un incendio è che le guardie, nel braccio ce ne sono solo due, devono far uscire tutti i prigionieri. In tutto quel fumo e quella confusione, non è stato difficile. Due dei pompieri hanno portato degli indumenti in più: una giacca, un paio di pantaloni, stivali e casco, la divisa al completo. Julian l'ha indossata, il secondo corpo è stato lasciato sul pavimento e invece di spegnere l'incendio quelli che sono accorsi hanno usato qualcosina per aiutarlo a divampare sul serio. Hanno bruciato il volto e le mani di quel tizio per impedire di identificarlo, quindi hanno spento l'incendio. E poi...». «I pompieri sono rientrati alla stazione», dissi inserendomi nel racconto come se l'avessi giù udito fino alla fine e potessi narrarlo io stesso. «E Julian era con loro. Da lì sono rientrati ai loro alloggi nella fattoria annessa, e da lì Julian si è limitato ad allontanarsi attraverso i campi fino all'autostrada». Sutton sapeva a cosa stavo pensando: ai rischi corsi da tutti i complici, da coloro che, se fossero stati scoperti, avrebbero scontato anni supplementari di prigionia invece dei pochi mesi che restavano. «Julian aiutava chiunque; non importava cosa avesse fatto, perché fosse qui. Trattava tutti con lo stesso rispetto. E non aveva mai chiesto niente in cambio. Sapevamo tutti che era diverso, che non era soltanto più intelligente, ma migliore. Tutti provavano la stessa sensazione, con lui: che fosse il migliore che avessimo mai conosciuto. Avrebbe dovuto vedere la luce nei loro occhi, negli occhi di quelli che avevano dato una mano a realizzare il piano, il giorno dopo la sua fuga. Era l'espressione che vedi nel volto di chi è appena diventato padre, che ti dice che le cose adesso hanno un significato, che c'è un futuro, che c'è una ragione per sperare. Non male per un mucchio di individui che in teoria non avrebbero dovuto saper fare niente di buono». Avevo più domande di quante potessi contarne, ma soltanto una a cui credevo fosse in grado di rispondere. «È passato più di un anno. Perché proprio adesso? Perché ha aspettato fino a ora per dirmi che Julian non era morto?». Frank Sutton si alzò e infilò le mani in tasca. Il suo sguardo vagò per la desolata rete metallica dell'unico luogo che poteva chiamare casa. «Non glielo so dire. Tutto quello che so è che Julian mi aveva chiesto di
dirglielo e mi aveva detto che mi avrebbe avvertito quando. Che mi avrebbe scritto e me l'avrebbe fatto sapere. Loro aprono tutta la posta, ma aveva un codice. Questa è arrivata il giorno della mia telefonata». Mise la mano sotto il giubbotto di jeans e ne estrasse una cartolina. «Dev'essere un bel posto», disse guardando la fotografia prima di porgermela. Era un'immagine della campagna francese. Lessi le poche parole scritte in un ordinato stampatello sul retro e sorrisi. «"Lo zio Frank"? "Tuo nipote J"?». Sutton annuì. «Il significato della cartolina era che avrei dovuto mettermi in contatto con lei e dirle com'era andata. Non ho capito la parte in cui parla di dov'era stato o dove sarebbe andato; forse era destinata a lei». Rilessi il testo e gli restituii la cartolina. "Visitato Château d'If", diceva. "Ora torno a casa. Aspetto un vecchio amico". 24 Percorrendo le colline di Berkeley, potevo scorgere le luci da mezzo chilometro di distanza. Erano cominciate a cadere le prime foglie dell'autunno e il vialetto non era stato rastrellato. Un vento tiepido, fantasma dell'estate, si aggirava come un alito fra gli alberi. In lontananza, attraverso la baia, il Golden Gate Bridge si stagliava scuro, romantico e misterioso nella sera violacea e scarlatta. Le note delicate e seducenti di un piano jazz arrivavano dalla porta scostata di quel tanto da farmi capire che sarei dovuto entrare. Non era cambiato nulla; ogni mobile era nella medesima posizione di prima. Le pareti erano state ridipinte ormai da tempo, la moquette sostituita; non restava alcunché di tangibile degli ultimi istanti di terrore di Daphne McMillan, non restava alcunché della morte. Al centro del tavolo da pranzo c'era un vaso di fiori; una fruttiera piena campeggiava sul banco della cucina. Nell'aria si sentiva il profumo gradevole che resta dopo che il forno e i fuochi della cucina sono stati spenti, quel pacifico, domestico aroma di vita quotidiana. La musica, un'incisione di Dave Brubeck, proveniva da una radio su uno scaffale in salotto. Dalla finestra potevo scorgere la città vestita da sera, le luci dorate e argentate che arrivavano fino a Russian Hill, da dove Daphne McMillan volgeva lo sguardo verso il punto in cui ora mi trovavo. Sembrava passato molto tempo, un'intera vita in cui erano cambiate molte cose.
Ora che sapevo com'era andata, non ero sorpreso che lui fosse rimasto lì, o che non se ne fosse mai andato. La cartolina era francese ma il timbro postale era americano, ed era stata spedita da lì. Era sempre stato lì, nell'anonima sicurezza di chi era creduto morto, conducendo la stessa esistenza isolata e autosufficiente che aveva sempre condotto. Non era ricercato dalla polizia, ed era stato dimenticato da quasi tutti gli altri. Chi avrebbe dovuto notarlo? Chi nota quello che non si aspetta di vedere? Era sempre stato lì, fin dalla notte in cui se n'era andato da San Quentin. Dove altro sarebbe dovuto andare? Aveva sempre vissuto da solo, circondato dai suoi libri, intento a parlare con se stesso in quel dialogo interminabile che si svolgeva nella sua mente. Mi sedetti in poltrona, posai i piedi sull'ottomana, accesi la lampada a stelo e cercai di immaginare cosa aveva provato la sera, guardando i servizi televisivi sul processo di Bryan Allen. Potevo quasi percepire le sue sensazioni mentre osservava il modo in cui la stessa storia veniva raccontata un'altra volta, con Allen chiaramente colpevole dell'omicidio di McMillan allo stesso modo in cui lui era stato presunto colpevole dell'omicidio della moglie di McMillan. Le risate sembravano ancora echeggiare nella sala. Ma era, o era stato, l'umorismo cupo e macabro di chi conosceva l'amara verità e se ne rammaricava, o era stata la risata distaccata di chi vedeva e capiva il modo in cui tutti i responsabili, nessuno escluso, avrebbero subito la giusta vendetta? Fu allora che mi chiesi cosa aveva pensato della parte che io avevo svolto, se aveva soddisfatto le sue aspettative. C'era un motivo per cui mi aveva condotto lì, e un motivo per cui non aveva voluto che ci andassi prima. C'era ancora una cosa da fare, un ultimo capitolo prima che il libro che aveva scritto venisse chiuso e riposto per sempre. Me n'ero vagamente reso conto fin dall'istante in cui Frank Sutton mi aveva detto che Julian non era morto. Mi alzai ed entrai nella stanza tappezzata di libri che era stata il suo studio. Accanto alla lama scintillante di un fioretto c'era un pacchetto a mio nome. Fu sorprendente quanta poca emozione tradì Albert Craven il mattino dopo, quando gli raccontai cosa avevo scoperto. Ma Albert apparteneva a una generazione che, ancora più della mia, era stata educata nella convinzione che vi fossero poche cose più importanti dell'autocontrollo. «Julian è vivo! Straordinario!», fu più o meno tutto ciò che disse prima che gli mostrassi la videocassetta che avevo guardato e riguardato per l'intera nottata.
Tutto ciò che Bryan Allen aveva detto al processo era vero. Quello che Allen non sapeva era che era stato filmato. Julian aveva catturato tutto su nastro: McMillan con una spada puntata alla gola che telefonava ad Allen; la confessione degli omicidi che aveva commesso e di quello che aveva cercato di commettere. La confessione scritta e firmata da lui stesso era stata inclusa nel pacchetto insieme alla cassetta. Anche dopo aver visto tutto, Albert aveva lo stesso interrogativo che io avevo rivolto a Frank Sutton. «Perché proprio adesso? Perché ha aspettato?». «Ho fatto un piccolo calcolo», risposi. «Fino a ieri, Bryan Allen era rimasto a San Quentin lo stesso numero di giorni che vi aveva passato Julian». Albert si abbandonò sulla sua enorme poltrona, girandosi verso la finestra e il sole. Aveva l'espressione di chi ha vissuto abbastanza da sapere che di rado le cose finiscono bene come dovrebbero e che quando ciò accade è una specie di trionfo. Spinse ancora più indietro lo schienale mentre un sorriso gli si stendeva sulla piccola bocca da cherubino. «Con la cassetta e la confessione scritta non ci sarà più alcun dubbio sull'innocenza di Bryan Allen, sul fatto che abbia detto la verità. Suppongo che potremmo fare i bravi cittadini e consegnare le nuove prove alle autorità. D'altro canto», proseguì ruotando lentamente fino a sporgersi in avanti sulla scrivania, «potremmo anche fare quello che nelle circostanze mi sembra più appropriato. Chiamerò Harry e vedrò se mi darà ragione. Lo farò nel pomeriggio, quando da loro è mattina». Erano quasi le cinque quando Albert entrò nel mio ufficio con un'espressione divertita negli occhi. «Puoi immaginare cos'ha detto Harry!». «Che sarà "grande televisione"». «E ha ragione. Lo trasmetteranno fra tre giorni». «Tre giorni? Ma non si rendono conto che Allen è ancora in prigione?». Si strinse nelle spalle. «Hanno bisogno di tempo per la promozione». «Gli hai detto come l'abbiamo avuto? Gli hai detto che Julian non è morto?». «No. Harry mantiene sempre la parola, ma un segreto simile... No, sarebbe una notizia troppo scottante, una tentazione troppo forte. Tutto quello che Harry sa è che la cassetta ci è arrivata anonimamente». Decidemmo che la sera della trasmissione saremmo usciti a cena e poi l'avremmo guardata insieme. Proseguimmo a parlare di Bryan Allen, di come sarebbe stato se fosse tornato a fare televisione: se avrebbe trinciato
giudizi come in passato o se sarebbe diventato una persona diversa, vittima di una conversione religiosa o fanatico sostenitore delle riforme. Non si poteva mai sapere cosa avrebbe potuto fare a una persona un'esperienza come quella che aveva vissuto: rinchiuso in prigione quando avrebbe dovuto essere libero e liberato quando ormai non aveva più alcuna speranza. Albert e io parlammo di molte cose, ma specialmente di cosa sarebbe potuto succedere a Julian e della possibilità di rivederlo ora che era tutto finito. «Se scoprissero che è vivo, sarebbe un evaso. Strana situazione, vero?», osservò Albert alzandosi per andarsene. «Innocente dell'omicidio di Daphne McMillan, e ora lo si saprà; ma colpevole di evasione, e cioè di un reato, se si scoprirà che non è morto». «E colpevole dell'omicidio di Robert McMillan», gli rammentai. «Non importa quanto meritasse di morire. Mano piagata o no, qualunque sia stata la decisione divina, temo che i processi per ordalia siano finiti ormai da mille anni». «In tal caso, spero di non rivederlo più», disse Albert. «Spero si trovi dove non potranno mai trovarlo, dove nessuno penserà mai di cercarlo. Merita di avere una vita». Si voltò e si diresse verso la porta. A un tratto si fermò e mi chiese un favore con un'occhiata imbarazzata. «Dimenticavo», disse controllando l'ora. «Sono quasi le sei meno un quarto, e ho un impegno per cena. È la faccenda della biblioteca, te ne ho accennato la settimana scorsa. La bibliotecaria che avevamo, una strana vecchietta, è andata in pensione, e dobbiamo sostituirla. Ho già fatto quattro o cinque colloqui, e c'è un altro candidato in attesa. Quanto meno, credo che stia ancora aspettando. Doveva venire alle cinque. Ti dispiace? Io non posso». M'infilai la giacca e presi la cartella con il lavoro che avrei sbrigato più tardi. Era inutile tornare in ufficio dopo i pochi minuti che immaginavo di dover dedicare al colloquio. Mi recai in biblioteca e trovai l'ultimo candidato seduto in fondo al lungo bancone, chino su un libro. Di sicuro aveva l'aspetto di un bibliotecario: logori capelli castano grigiastro, folte sopracciglia grigie e baffi grigi. I suoi occhiali erano di uno spessore sorprendente. Era uno di quei tranquilli ometti dalle spalle curve e dagli occhi stanchi, il tipo d'uomo che si vede sui treni affollati intento a leggere il giornale mentre affronta il lungo viaggio verso casa dopo il lavoro, il tipo di volto che si vede ogni giorno e non si riesce mai davvero a ricordare. «Mi spiace, il signor Craven aveva un impegno. Mi chiamo Joseph An-
tonelli. Temo che nessuno mi abbia detto il suo nome». Era sul lato opposto del tavolo, a sei metri di distanza. I suoi occhi non si staccarono dalla pagina. Mi chiesi se oltre ai problemi di vista non fosse anche un po' sordo. «Che cosa sta leggendo?», domandai avvicinandomi. «La Storia costituzionale dell'Inghilterra di Maitland», dissi scorgendo il titolo quando lui chiuse il volume. «È interessato ai vecchi trattati di giurisprudenza? Questo probabilmente è più letto dai bibliotecari che dagli avvocati», soggiunsi cercando di metterlo a suo agio. Annaspò con gli occhiali cercando di piegare le stanghette e infilarseli in tasca. Tutto in lui era goffo, maldestro, brusco. «Sono interessato al diritto antico», disse a voce così bassa che lo udii a stento. «In particolare a quello che chiamavano appello al cielo, o processo per ordalia». Lo guardai meglio, confuso dalla strana occhiata che mi stava rivolgendo. «Sono Joseph Antonelli», ripetei osservando il modo in cui i suoi occhi sembravano ravvivarsi. Mi strinse la mano, una stretta più forte e decisa di quanto mi aspettassi. Parve raddrizzare le spalle e sollevare il mento. «So che è passato del tempo», disse con una voce che non avevo mai dimenticato. «Ma speravo che nello studio ci fosse ancora posto per me». FINE